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Domenica La di DOMENICA 28 AGOSTO 2005 Repubblica la scienza Londra, la fascinosa macchina del sorriso ELENA DUSI, ENRICO FRANCESCHINI e MARCO LODOLI il racconto Le badanti italiane in Egitto ILVO DIAMANTI e PAOLO RUMIZ Calciatore Facce e vita da star, poca attenzione ai libri, una passione per Internet e la beneficenza. Corpi scolpiti in palestra e curati nei laboratori: è l’identikit dei campioni che da oggi ritroveremo negli stadi EMANUELA AUDISIO EMILIO MARRESE l calciatore oggi. La squadra ieri. Lui ora conta di più. E lui cambia, si adatta, si trasforma. Più sexy, più erotico. Con gli occhi neri e il tuo gioco micidiale, cantava la Nannini. Hollywood a centrocampo. Le facce di una volta: Burgnich, Boninsegna, Benetti, Combin, volti da una notte in commissariato. Missing. Ora ritratti da copertina: barbetta, pizzetto, frangetta, sopracciglia rifatte. Più Saint-Tropez che San Siro. Accessoriati, con cuffiette, anche quando scendono dal pullman. Papà non li manda mai soli: iPod a gogo. Il glamour come collagene. Siti Internet per tutti: Totti, Maldini, certo, ma anche Giannichedda, Negro, Ventola, Zaccardo. Rinascesse Lodetti, avrebbe diritto ad una home page mostruosa. I peli di una volta, niente. Quasi tutti si depilano. Muscoli non più coperti da foresta. Aspetto meno macho. Il calciatore oggi: più alto, più pesante. Resiste la prevalenza dei nati al nord, il 43,18% contro il 26,51 del sud. Il corpo meno sacro. Anzi molti tatuaggi, anelli, orecchini. Dio dello sport, ti offro i miei centimetri: che vogliamo scriverci? I gesti di una volta, minimi. Destinati al color seppia. Q I (segue nella pagina successiva) con un articolo di GABRIELE ROMAGNOLI FOTO CORBIS Repubblica Nazionale 25 28/08/2005 il le storie uattrocentosettantatréore di allenamento per toccare il pallone un paio d’ore in tutto, da qui a luglio. A questo si riduce un anno da calciatore, leggendo la radiografia statistica di un titolare, uno di quelli che giocano almeno 45 partite ufficiali a stagione. Due minuti e mezzo con la palla al piede sui 90 di ogni gara, hanno calcolato: 150 secondi a testa per fare la differenza divisi in azioni da due secondi l’una, perché è finito il tempo in cui col pallone passeggiavano sul prato come col gelato sul lungomare. Era un calcio in bianco e nero che trent’anni fa potevi giocare anche se eri un maggiolino e non una formula uno: bastavano cosce grosse e cervello fino a quei centauri, metà calciatore e metà impiegato. O abatino. Figurine perlopiù esili, si ricorderà: difensori a parte, erano giunchi con radici di quercia. I muscoli bastava infatti averli nelle gambe, mentre le magliette aderivano a toraci scarni e spalle strette. Poi qualcuno ha cambiato il calcio (l’Olanda, Sacchi o la tv, che importa?), le partite si sono ristrette e sono ovviamente dovuti cambiare anche quelli che le vestono, i calciatori, cresciuti invece di una taglia buona: più alti, grossi, veloci, aggressivi e palestrati. (segue nella pagina successiva) Il trono vuoto della Regina della pioggia PIETRO VERONESE cultura Sardegna, la foresta degli dei di pietra SERGIO FRAU i sapori I funghi, regalo di un agosto bagnato LICIA GRANELLO e MICHELE SERRA l’incontro Ligabue e la ricerca della leggerezza GIUSEPPE VIDETTI 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Parte il campionato DOMENICA 28 AGOSTO 2005 Dimenticate la normalità di Rivera e Boninsegna. Ora hanno facce da copertina, ricoprono di tatuaggi e piercing i loro corpi depilati e muscolosi. Amano il mondo dello spettacolo e si sposano sempre più tardi. Leggono pochissimo, hanno studiato ancora meno ma adorano Internet e fanno beneficenza. Sono i campioni del nostro sport più amato Totti&C,evoluzionedellaspecie EMANUELA AUDISIO (segue dalla copertina) Carta d’identità Il profilo Età media 26, 6 (portieri 27,6 difensori 27,1 centrocampisti 26,1 attaccanti 26) Altezza media 181,6 cm Peso medio 76,1 kg L’origine Serie A: 555 giocatori Italiani: 72,61% Repubblica Nazionale 26 28/08/2005 Nord 43,18%, Centro 30,3%, Sud 26,51% Stranieri: 27,39% Com. 23%, Extrac. 76,9% Americhe 53,98% Europa 28,28% Africa 15,13% Oceania 1,97% Asia 1,97% Lo stato civile Sposato: 39% Celibe:61% d esempio, chinarsi e allacciarsi lo scarpino. Oggi va di moda la pantofola: chiusura a strappo o a cerniera. Si chiama F50+, ai piedi di del Piero e Trezeguet. Si sa mai, qualcuno avesse problemi con i nodi. Via le maglie con le cuciture, provocano abrasioni, arrossamenti. Il corpo va protetto, fatto respirare, non offeso con il sudore. Meglio anche comprimere le fasce muscolari. «Stiamo studiando un tessuto dei pantaloncini, per evitare dispersioni» annuncia Marco Del Checcolo dell’Adidas. Un problema, la dispersione. Come avranno fatto Piola e Mezza a tirare legnate con quei mutandoni? Le mogli di una volta, niente. Il 61 per cento è celibe. Quasi tutti aspettano, e si sposano più tardi. «Perché andare in Brasile con la fidanzata?», ti dicono. Già, perché? Laureati sempre pochi: o corri con le gambe o con il cervello. Però belle eccezioni: Fabio Pecchia, centrocampista, è dottore in legge, ha fatto pratica in un studio di avvocati a Bologna; il difensore Fabio Rustico, otto esami di economia, è assessore alle Politiche giovanili a Bergamo; Luigi Beghetto quando stava al Chievo nel 2002 si è laureato in scienze politiche con un tesi sulla violenza negli stadi; Chivu della Roma, rumeno, è iscritto a scienze motorie. In politica non si sputa nel piatto in cui si mangia: il 67 per cento vota centrodestra, il 20 per cento centrosinistra. Lucarelli nella Livorno rossa è per Rifondazione, Di Canio si onora di fare il saluto fascista, Miccoli ha Che Guevara sul polpaccio. Una volta il calciatore ci teneva ad avere un legame forte con il passato, a non perdere le radici. Casa, paese, genitori. La moglie era la ragazza conosciuta al bar, che al week-end magari restava tutto il giorno in pigiama, ad aspettare. Perché, perché, la domenica mi lasci sempre sola? Se lei era una soubrette o un’attrice era scandalo. Wilma De Angelis cantava Nessuno con più melodia e lentezza di Mina e filava con Gianni Rivera, di qualche anno più giovane. Fu costretta a lasciarlo. «Mi fecero capire che non faceva bene alla squadra e che dovevo vergognarmi». Oggi il calciatore non vuole lacci, solo laccetti. Meglio se lei conosce il prezzo della gloria: cara, ci vediamo a fine trasmissione. Una partner brava sotto i riflettori, è un valore aggiunto, come una volta saper cucinare i vincisgrassi. La fedeltà è per lo stylist, che viene a casa a farti i capelli. Pardon, a curarti l’immagine. Si può con un milione e seimila euro all’anno di stipendio. Quasi nulla spesi in letture. Imbarazzanti certe interviste in salotto con dietro la libreria, vuota come il frigo d’agosto. Però sensibilità tanta. Per i cani, le malattie, i mali del mondo. Francesco Totti ha regalato i soldi dell’esclusiva del suo matrimonio agli animali abbandonati e ora vuole fare un Live8 dei calciatori per l’Africa. Si considera un fortunato. Giuseppe Meazza, campione del mondo nel ‘34 e ‘38, figlio di una vedova di guerra, aveva fatto le elementari al Trotter, scuole di Milano per i bambini bisognosi, accettava inviti a pranzo dai soci dell’Inter, che con discrezione a turno cercavano di non lasciarlo a stomaco vuoto. Era buono Meazza, ma non gli sarebbe mai venuto in mente che i miserabili erano gli altri. Il calciatore oggi non ti dice: mi dispiace non aver studiato. Marco Tardelli, che nell’82 urlò la sua gioia mondiale, era il primo dolore che confessava. Francesco Morini, racconta Gianni Mura, ai mondiali del ‘74 fece di più: stava pescando in un laghetto e al tifoso con figli che lo avvicinò vantandosi di aver speso una fortuna per arrivare fino a lì, rispose secco: «Se compravi i libri ai ragazzi era meglio». Dovettero separarli. Prima il calciatore era pura antropologia, come la scimmia di Darwin. La tribù del calcio, intuì Desmond Morris. Intendeva un’altra epoca, molto immobile, un medioevo che non voleva togliersi l’armatura. Ora è sociologia contaminata da cronaca e attualità. L’orologio di Sheva, la maglietta di Bobo, l’acqua di Alex, lo yogurt di Ciro. Kakà per Armani, Totti per Bliss. Il calciatore non porta palla, ma moda. Investe in se stesso: logo e luoghi. Ci sono i locali, i bar, i ristoranti, le vacanze, le spiagge, le maglie, i cd da calciatore. Non è cambiato lui, ma la società attorno, dice Franco Baldini, ex ds della Roma, che ha consigliato a Capello e Montella di investire sull’arte. «Il giocatore è diventato un modello. Viene invitato nei salotti, dove si sente lusingato, non imbarazzato. Non importa se ha poco da dire, è ricco, è corteggiato, ha immagine, e questo basta per una società che pensa che tutto si possa comprare. È meno ingenuo, più diffidente. Gioca di più, la carriera si è allungata, preferisce il procuratore che garantisce buoni affari fuori dal calcio». Il calciatore prima andava in tv vestito da cresima, magari a farfugliare, intimorito. Ora siede a gambe aperte, i jeans bucati e stropicciati da Soho e Noho, sguardo alla telecamera, diversa timidezza, molto ricompensata. Grande notizia: Vieri sorride. E se parlava era un’edizione speciale? L’auto è quella dello sponsor, poi c’è quella personale. Scontata, e rinnovata ogni otto mesi. Te ne accorgi quando hanno gli incidenti di notte: mai una Fiat, sempre una Porsche. Vietati gli sci, sempre per contratto. Si capisce, un menisco da assicurare di Adriano vale 15 milioni di euro. Appartamenti in affitto, molto grandi e molti vuoti. Tv, videoregistratore, play-station e poi che ci metto? Ville all’Olgiata per quelli della Lazio, in collina per quelli della Juve. Rara la scelta del centro. Senza fantasia la scelta del ristorante, sempre quello, molto offerto. I calciatori potrebbero mangiare bene, ma non lo fanno. L’unica eccezione era Platini, capace di guidare per una cena fino da Girardet a Losanna. Ouì, le coscette di agnello erano da urlo. Tutto cambiato anche sulle pagine dei libri e sullo schermo. Il futbol ora ha altre parole e immagini. Nei nuovi romanzi i calciatori sono criminali, serial-killer, gente avariata. Violenza, apparenza, indifferenza. Nei reality show poveracci che non sanno rassegnarsi a fare un passo indietro. Non appartengono ad un mondo di valori, allo sport, ma sono pezzi di iceberg che vanno alla deriva. Una volta c’erano i difensori di Osvaldo Soriano che per spaventare gli avversari lasciavano partire leggende che li volevano colpevoli d’omicidi da scontare, o attaccanti che non lesinavano gli spilli in area di rigore, era il calcio romantico che si perdeva sui campi sognati della Patagonia, che viveva di fantasia purissima fino a scatenare grosse risate dovute ad arbitri che venivano colpiti da attacchi convulsivi, o la storia del calcio di Eduardo Galeano che raccontava di un gol magnifico di Garrincha a Firenze, mal di testa e serpentine, difensori in tilt, si giocava con il sorriso sulle labbra. Capitani coraggiosi anche per Jorge Valdano, campione mondiale con l’Argentina nell’86, lui che ha visto Maradona a distanza ravvicinata fare il mago, si è lanciato in parole che sono una lunga corsa all’indietro, per fermare la gloria di un calcio irripetibile e di un uomo esagerato, a cui per firmare la partita bastavano dribbling e cross, incrociando gambe e piedi in corsa. «Io non ci riuscirei, finirei per rompermi una gamba», disse monsieur Platini, mica Palanca. Altri tempi, classe e gioco, non si correva ancora dietro alle veline e i giocatori al massimo sedevano in panchina e tribuna, non sulle scale nel bel mezzo di una sfilata. Mea culpa anche degli scrittori inglesi. L’addio alla nostalgia di Nick Hornby che dice: «Questo calcio non è più il mio». Il calciatore oggi, un uomo solo. Soprattutto i nostri. Capita, se non curi l’anima, ma i suoi dintorni. Nessun altro come Baggio a pregare Budda. I sudamericani si frequentano, le altre nazionalità di aggregano. L’italiano no, è un’anima persa. Magari ha un fratello, un amico con cui uscire di notte, un maggiordomo che mette sotto stipendio. Vedi il calciatore. Sai quanto pesa: 76 chili circa. Sai la faccia che ha, anzi quella che mostra. Sai delle sue 473 ore di allenamento all’anno. Poi più niente. Quando morì Gigi Meroni un pazzo profanò la sua tomba per rubargli il fegato. Pazzo sì, ma convinto che Gigi ne avesse tanto. A questi qui che gli prendono: il braccialetto? A L’istruzione Laurea 1,5% Scuola media sup. 61,4% Scuola media inf. 91,8% Studenti 12,1% Le fonti della ricerca Lega calcio, Assocalciatori, Centro studi e ricerche del settore tecnico della Figc, Università Tor Vergata, Università Iusm, Milan Lab, archivi de La Repubblica Le tendenze Abiti firmati (Dolce&Gabbana e Cavalli). Tatuaggi, piercing e auto sportive (cambiate una volta ogni otto mesi) La religione Cattolici 93% Musulmani 4% Altre 2% Atei 1% DOMENICA 28 AGOSTO 2005 Ieri e oggi LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 L’identikit Sul campo A tavola ALTEZZA MEDIA ALLENAMENTO ALIMENTAZIONE CARRIERA 30 anni fa: 1,75 m Oggi: 1,81 m 30 anni fa: 8 ore 30 anni fa: riso al alla settimana Oggi: 10-12 ore pomodoro, bistecca e insalata, frutta Oggi: pasta al pomodoro, prosciutto, verdura, crostata 30 anni fa: si PESO MEDIO 30 anni fa: corsa 30 anni fa: 73 kg Oggi: 76,1 kg lenta e prolungata per il fondo Oggi: tabelle di lavoro personalizzate, e si punta su velocità, potenza ed elasticità MASSA MUSCOLARE ora è molto più sviluppata la parte superiore del corpo: cosce sempre grosse uguali, ma pettorali e bicipiti più voluminosi 24% oltre 1033 euro 22,3% tra 516 e 1033 euro 18,4% tra i 258 e i 516 12,8% tra i 103 e i 258 22,5% sotto i 103 Sponsor: 1200 euro all’anno in media (dati in migliaia di euro) puntava soprattutto sulle proteine Oggi:i nutrizionisti hanno messo al centro dell’alimentazione i carboidrati PARTITE UFFICIALI 30 anni fa: 31 Oggi: 45 I soldi Stipendio medio: 1.006 euro 30 anni fa: la dieta Più alto, forte e veloce è il nuovo calciatore 10 a testa». «Allenando la potenza — illustra D’Ottavio —, aumenta la forza e lievita il testosterone che (segue dalla copertina) porta maggiore aggressività, diverso atteggiamento agonistico. Cui si aggiunge lo stress mediatico, iù “maschi”, più gonfi di testosterone. Col’ansia da prestazione, il giocarsi tanto (anche ecostruiti per combattere. Addominali, bicipiti, nomicamente) in pochi secondi». pettorali e glutei scolpiti non solo per fare belL’importanza del “meccanico” è ormai una la figura sulle riviste di gossip o in discoteca. Sono realtàaccettataecondivisaprimadituttodagliatlepiù atleti, non necessariamente meno giocatori: ti. Il Milan ha spianato la via della scienza applicata perchéoltrealfisicocivuoleanchetantatecnicaper ai piedi allestendo il suo Lab, una struttura di 400 sopravvivere alla tonnara, al calciowrestling, per metri quadrati con uno staff di 21 specialisti guidaemergere nello spazio di ti dal belga Jean Pierre due battiti di ciglia da Meersseman. Un’officiquella centrifuga di bodynastileNasadovelamacguard. È l’evoluzione china-calciatore è monidarwiniana della specie, torata costantemente e obbligata ad adattarsi ad nella quale, prima di ogni un calcio più elettrico. È match, viene elaborata successo, nella confusiouna relazione per l’allene, anche che qualcuno natoresullostatopsicofisiacapitatodentroilcorpo sico di ogni giocatore. «Il GABRIELE ROMAGNOLI di un altro, vedi il paradigmonitoraggio continuo hiunque si sia appassionato al matico caso Del Piero tra— illustra Daniele Tocalcio ha un giocatore con cui l’asformato da fringuello a gnaccini,capodeiprepamore è scoppiato e poi è andato in cinghiale prima di ritrovaratori rossoneri — ha copezzi (ma quando pensi che sia finito, re una stazzatura più conme obiettivo l’individuanon è finito). Nel mio caso, Giuseppe Sasona al proprio talento. lizzazione del lavoro fisivoldi, centravanti del Bologna anni SetUn errore nella distribuco, adeguandolo a carattanta. La squadra non era granché, la tezione delle corazze. teristiche e momento nevano in serie A i suoi gol, soprattutto La mutazione genetica dell’atleta. In alcuni casi quelli di testa. Saltava sempre un po’ più ha ridisegnato il calciatore si suggerisce al tecnico del difensore che lo marcava, restava sodel terzo millennio: più anche quando è consispeso un secondo, torceva il collo e sepotenza nel motore, più gliabile fermare un giognava. La curva cantava una canzone (la resistenza ed equilibrio catore: non per la partita, non memorabile «Na na na na na na na nella carrozzeria, più cura che sarebbe il nostro falna eh eh eh ciao ciao») riadattandola tecnologica di ogni comlimento, ma per gli alle(«Na na na na na na na na eh eh eh Bepponente. Tanto è cambianamenti». Un lavoro pe gol»). Savoldi faceva poco, non sbato nella messa a punto che non viene svolto sogliava quasi mai, era infallibile nei calci scientifica della macchilo sui muscoli: «Deterdi rigore. Fuori dal campo non esisteva. na. Compresi i carburanti, minante è anche l’aParlava pochissimo. Aveva una vita prie anche qui meglio sorvospetto mentale». vata normale, la cui traccia principale fu lare sulla faccenda degli L’incremento di un la nascita, nel 1975, di un Gianluca Saadditivi. buon 30 per cento delvoldi che avrebbe, anni dopo, fatto gol al «La svolta è stata radical’attività agonistica crea Bologna con la maglia della Reggina. le, siamo passati dal diesel scompensi. Ci sono gioPoi, un’estate, divenne ufficiale che il a motori più potenti. In catori che superano le 60 calcio era un affare come tanti: Savoldi una partita un calciatore partite a stagione. «Se nefu venduto al Napoli per una cifra, alloaffronta 1000-1200 cambi gli ultimi anni — dice Di ra record, che superava il miliardo di lidi velocità, sprint da 15-20 Salvo — sono stati i club re. La curva ammutolì, io non rinnovai metri massimo in spazi e più piccoli a vincere di l’abbonamento. Sul suo poster, ancora tempi ristretti: serviva popiù non è casuale: giocaappeso in camera, scrissi a pennarello tenziare la prima e la seno meno e con meno un patetico: «Non dimenticherò». In incondamarcia»,spiegaStestress. I grandi club devoglese, per evitare commenti in famiglia. fano D’Ottavio, ex prepano riflettere su questo. Savoldi fallì la recita sul grande palcoratore di Inter e Nazionale, Anche perché se poi si scenico. In seguito tornò e il cerchio si attuale responsabile tecvince meno, si guadagna chiuse. Finì nel giro delle scommesse, nico del settore giovanile meno». Una conseguensaltava più in basso, aggiustava partite e della Figc e coordinatore za dell’overdose di calcio dissolveva le ultime illusioni: il gioco era del corso di scienze motosono gli infortuni. E anfinito. Poi, tempo dopo, quando Savoldi rie all’università romana che qui, è dimostrato staera stato squalificato, riammesso, condi Torvergata. Valter Di tisticamente che le squadannato a riapparire come caricatura di Salvo, preparatore del dre che vincono sono sé, infine dimenticato, ho letto il libro del Manchester United (ex quelle che ne patiscono suo collega Petrini sul «pallone nel fanReal Madrid) e professore di meno. Troppe partite, go». Raccontava, tra l’altro, la partita tra associato dello Iusm (Istiallenamenti insufficienBologna e Avellino che avevano combituto universitario di scienti, scarsi tempi di recupenato insieme, scommettendo sul paregze motorie) di Roma con ro, notturne, campi tropgio. Era saltato tutto, il Bologna aveva cattedra in teoria e metopo sfruttati anche loro. vinto, semplicemente perchè «Savoldi dologia dell’allenamento, Eppure le carriere si stanaveva fatto gol e non c’era stato tempo di ha compiuto una ricerca no allungando, fino alla rimediare». Era stato più forte di lui, delsul chilometraggio medio soglia dei quarant’anni l’ombra, della delusione. Quando aveva in partita di un giocatore in casi sempre più frepensato che il gioco fosse finito, non era (lo ha fatto nella Liga spaquenti. Merito di tanta finito. gnola e in Champions attenzione riservata al fianalizzando 300 calciatosico e della “professionari): i 5,48 km di quarant’anlità”: l’incasso è un belni fa sono raddoppiati a l’incentivo.«La longevità 11,44(perfinounportierearrivaa6km,lametàdiun dipende — spiega Di Salvo — anche dalle metodomediano) con punte oltre i 23 km/h. «Ma oltre alle logie di allenamento, dagli esercizi di prevenzione distanze è cambiato il modo: l’intensità e i ritmi di a livello articolare e dai progressi della medicina gioco chiedono uno sforzo diverso, fatto di scatti e nella diagnosi e nel recupero». Eppure, come ha balzi. Dunque si deve allenare l’esplosività, la forza, detto Carlo Ancelotti poco tempo fa, «Scordatevi l’elasticità e la resistenza allo scontro fisico, calcoche i calciatori siano gente sana: io che ho giocato lando che in una partita in media i contrasti sono 8una vita ora sono pieno di acciacchi». In banca giocava sino a 33 anni Oggi: 35/36 anni STIPENDI 30 anni fa:180/200 milioni di lire all’anno Oggi: oltre il milione di euro all’anno INVESTIMENTi 30 anni fa: immobili, attività commerciali e assicurazioni Oggi: borsa, immobili e moda I novanta minuti EMILIO MARRESE P Fenomenologia di Savoldi C Repubblica Nazionale 27 28/08/2005 Gli hobby 95% Internet 93% televisione 88% altri sport 87% musica 47% cinema 43% videogiochi (molti intervistati hanno fornito più di un hobby) La politica Centrodestra 67% Centrosinistra 20% Indifferente 13% Il lavoro Minuti di allenamento all’anno 28500 (450 ore) Minuti di partita all’anno 4000 La corsa Km a partita: 11,4 portieri 4-6 centrali 10,62 esterni: 11,41 centrocampisti: 12 laterali: 11,99 attaccanti: 11,25 (nel ‘62 5,48 a partita, nel ‘76 8,68 nel ‘91 10,8) Il corpo Azioni ad alta intensità: 1100 a partita Battiti cardiaci: 165/173 al minuto Acido lattico: 12 mmol/litro Max consumo ossigeno: 60/65 ml/kg/al min Il gioco Contrasti: 9 a gara Sprint 45 a gara Possesso palla: 150 secondi a gara pari al 2 per cento del tempo di gioco 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2005 la scienza Studio delle espressioni Una mostra a Londra mette in fila trentacinquemila foto di persone sorridenti. Un modo per sconfiggere, sette settimane più tardi, la paura delle bombe del 7 luglio. Ma anche una sfida a smontare uno dei più naturali e nello stesso tempo ambigui gesti quotidiani, che oggi le neuroscienze ci aiutano a indagare e capire Il sorriso, macchina salvavita ELENA DUSI l primo, sincero e luminoso, arriva all’età di due mesi. Fino a quattro anni, quando i bambini imparano i primi trucchi del mentire per gioco, siamo sicuri che i loro saranno sorrisi veri. Ma poi aumenta l’età, e l’espressione del viso che più comunemente viene associata al buonumore e al sentirsi a proprio agio comincia a diventare complessa, la sua interpretazione non più univoca. Quando si riduce l’autenticità del sorriso, aumentano i muscoli facciali impegnati. Il sorriso aperto coinvolge undici muscoli divisi in due gruppi: quello della bocca e quello degli occhi, con il nervo craniale numero sette a fare da direttore d’orchestra. Il sorriso falso, quello nervoso e Repubblica Nazionale 28 28/08/2005 I quello sarcastico, l’espressione enigmatica della Gioconda (secondo Freud Leonardo aveva davanti agli occhi la madre Caterina, mentre dipingeva), e quella decisamente inaffidabile di Machiavelli sono molto più impegnativi dal punto di vista del controllo neuromotorio, arrivando a coinvolgere una quarantina fra muscoli e fasci nervosi. A scanso di equivoci, il governo inglese e quello canadese hanno di recente emanato una direttiva antiterrorismo: nella foto del passaporto non è solo vietato indossare veli sui capelli, ma anche ridere o sorridere in maniera da deformare il volto e renderlo irriconoscibile agli occhi degli scanner degli aeroporti. «I bambini imparano a sorridere per catturare l’attenzione dei genitori, per stimolarli a prendersi cura di loro. Prima Tutti al museo per giocare con l’arte della felicità ENRICO FRANCESCHINI I bambini imparano questa forma di comunicazione mimica solo a due mesi. Ma qualche studioso sostiene che cominciano a sorridere già nell’utero materno «F dei due mesi si tratta in realtà di movimenti incontrollati dei muscoli facciali. Solo dopo assumono un vero significato sociale», spiega Felice Carugati, che insegna psicologia dello sviluppo all’Università di Bologna. A questa interpretazione Stuart Campbell, un ostetrico britannico che da quattro anni si dedica all’osservazione dei bambini nell’utero della madre, aggiunge la propria: «I piccoli sorridono anche prima di nascere. Nel grembo della madre il feto vive un’esistenza felice e senza preoccupazioni». Non solo i bambini sorridono a genitori ed estranei per attirare la loro attenzione. Più sono piccoli, più assorbono come spugne il messaggio delle espressioni facciali altrui. «La mimica dei genitori ha un effetto potente sui neonati, che recepiscono ogni loro espressione. Sia quel- LONDRA accia un bel sorriso», dice incoraggiante il fotografo, dopo avermi messo in posa, ed ecco che in capo a qualche minuto il mio volto, catturato da una macchinina digitale, quindi prontamente stampato da una minuscola portatile, diventa parte della mostra allestita al Royal College of Art di Londra. Avvertimento ai lettori: non sono finito incorniciato al muro in virtù di meriti estetici, né per dichiarata fama. La mia stessa sorte, ossia quella di sentirsi, una volta tanto, “pezzi da museo”, è toccata a chiunque abbia approfittato del lungo week-end del Bank Day, festività che chiude l’estate (si fa per dire) britannica, per andare a visitare il Royal College, tempio accademico delle arti, affacciato al polmone verde di Kensington Gardens. Il requisito per venire appiccicati alle pareti del Real Collegio, in effetti, era alla portata di tutti: bastava sorridere, come suggerisce il titolo dell’esibizione, Britain Biggest Smile (Il più grande sorriso di Gran Bretagna). E l’intento è che sia veramente grande, al punto da guadagnarsi una citazione nel Guinness dei Primati come la più numerosa collezione al mondo di esseri umani sorridenti (il record precedente, stabilito anni fa, arrivava a trentacinquemila). Diciamo subito, tuttavia, che l’ambizione di entrare nel libro dei primati è una scusa. Così come è soltanto un mezzo, non il fine, la sponsorizzazione offerta dalla Hewlett Packard, la multinazionale che produce le ministampanti di foto digitali utilizzate per l’occasione (scommettendo che saranno «il gadget più richiesto del prossimo Natale»): per ogni immagine raccolta di uomo, donna o bambino sorridente, l’azienda dona infatti 35 pence, quasi 50 centesimi di euro, a un’associazione di beneficenza che aiuta bambini poveri a realizzare il loro potenziale. Ma lo scopo vero dell’iniziativa, spiegano i promotori, non è la carità, e tantomeno fare pubblicità allo la rassicurante come il sorriso che quella intimidatoria, per esempio il rimprovero» prosegue Carugati. Gli etologi ne sono sicuri: solo i primati, le scimmie più simili all’uomo, condividono con noi la capacità di sorridere. Le scimmie in particolare sollevano le labbra e strizzano gli occhi quando hanno voglia di giocare. Ma la teoria ha i suoi detrattori. Charles Darwin, Walter Scott e Konrad Lorenz erano altrettanto certi che anche la mimica facciale dei loro cani esprimesse un’emozione. «Anche Bashan — scriveva Thomas Mann — ci trovava da ridere. Alzava le sue sottili guance animali mostrando gli angoli della bocca in un’espressione del tutto simile a un sorriso umano». In effetti, uomini e primati condividono la capacità di disgiungere le labbra in sponsor, bensì magnificare «l’arte del sorriso», come l’ha ribattezzata il critico del quotidiano Independent. Ovvero richiamare l’attenzione su uno degli atteggiamenti che accompagnano la nostra vita: il silenzioso, misurato, talvolta impercettibile movimento delle labbra che in una frazione di secondo può significare così tanto, anche sentimenti diversissimi tra loro, componendo un alfabeto, l’equivalente di un intero linguaggio. Dalla culla, quando il genitore cogliendo il primo sorriso di un neonato, se non provocandolo con un pizzico di solletico sul mento, crede di avere assistito al primo segno di consapevolezza del suo bambino; fino alla tomba, quando una particolare piega della bocca sul volto del defunto fa dire ai vivi che lo compiangono: «Forse è morto sereno». Nel mezzo, tra l’una e l’altra, una corona di compleanni, cresime, lauree, nozze, anniversari, abbracci, amori, addii, amicizie, affetti, tutti scanditi da un qualche tipo di sorriso. Ce ne sono, naturalmente, di ogni genere, da quello enigmatico della Mona Lisa, su cui da cinquecento anni si interrogano gli accademici, a quello determinato a sedurre e conquistare a ogni costo, simboleggiato, tanto per fare un nome, da Silvio Berlusconi, al quale la mamma, da piccolo, insegnava: «Se vuoi avere successo nella vita, sorridi sempre a tutti». Dall’ineffabile «solco lungo il viso» del Pescatore di Fabrizio De André, alla dolcezza di un volto di donna che si illumina per un attimo su una carrozza della subway e poi scompare, nella canzone d’amore più gettonata di questa estate, You are beatiful di James Blunt. Senza dimenticare il sorriso sgargiante di Virna Lisi in un celebre Carosello anni Sessanta, evocato dalla battuta conclusiva: «Con quella bocca, lei può dire ciò che vuole». Sorrisi infantili, sorrisi maliziosi, sorrisi timidi, sorrisi che richiamano o che respingono, per non tralasciare — esiste pure quello — il cosiddetto sorriso ebete: ci sono tutti questi, e molti altri ancora, nella galleria di facce londinese, nei trentacinquemila volti, uno più uno meno (giudicheranno gli esperti del Guinness), appiccicati ai muri del Royal College of Art: fo- a a a i o o o LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 I PUNTI I MUSCOLI A DUE MESI SOLO I PRIMATI I SIMULATORI Un sorriso spontaneo attiva undici muscoli del viso. Fingere invece è decisamente più impegnativo: sono circa una quarantina i muscoli in gioco L’essere umano inizia a sorridere nel grembo della madre, ma prima dei due mesi non lo fa intenzionalmente E dopo i quattro anni si impara a simulare L’homo sapiens condivide la capacità di sorridere con i primati, che sollevano le labbra e strizzano gli occhi per invitare al gioco Secondo uno studio inglese, gli uomini sarebbero più bravi delle donne a “smascherare” un sorriso falso Forse perché sorridono di meno segno di affabilità, ma i geni della famiglia Hox che regolano il meccanismo del sorriso a livello cerebrale sono gli stessi che sovrintendono ai meccanismi essenziali per la vita di tutti i mammiferi: respiro, emozioni, vita sessuale. Gli stessi neuroni che in uomini e primati regolano la mimica facciale, nei gatti e nei topi fanno muovere vibrisse, palpebre e bulbo oculare. Ognuno sorride con quel che ha, insomma. Esiste perfino un robot che ne è capace. Kismet del Massachusetts Institute of Technology riconosce il sorriso altrui grazie a quattro telecamere e risponde allargando le labbra, sbattendo le palpebre e muovendo le orecchie con i suoi 15 computer e 24 motori. E ognuno fa anche sorridere gli altri con ciò che gli salta in mente. Per rende- re più belli i soggetti delle loro foto, gli inglesi (e gli italiani) dicono «cheese», gli spagnoli «patata» e i giapponesi «whisky». Ma tutti gli esseri umani sorridono nella stessa lingua, e anche chi nasce cieco sa farlo con spontaneità. Il trenta per cento delle persone mostra i canini, mentre quasi il settanta per cento si limita a formare una mezzaluna con le labbra. Qualche differenza, in termini di quantità, si registra tra uomini e donne. Queste ultime giocano con il movimento delle labbra molto più degli uomini, e generalmente con più arte, fedeli al motto: «La bellezza è potere e il sorriso è la sua spada». Di fronte a un sorriso ambiguo però anche il proverbiale intuito femminile si ritrova spiazzato. In un esperimento dell’Università dell’Hertfordshire presen- ESPOSIZIONE DA GUINNESS I sorrisi celebri di Sophia Loren, Jacqueline Kennedy e Ava Gardner accanto ad alcuni di quelli, anonimi e numerosissimi, che affollano le pareti della mostra allestita al Royal College of Art di Londra, che è intitolata “Britain Biggest Smile” e che punta a entrare nel Guinness dei primati come la più numerosa collezione al mondo di esseri umani sorridenti tato allo scorso Festival della scienza di Edimburgo, il 72 per cento degli uomini è riuscito a riconoscere un falso sorriso, contro il 71 per cento delle donne. I pubblicitari sanno che uno sguardo accattivante con i denti bene in mostra è un’ottima arma per stimolare la propensione agli acquisti. Ma questa è storia recente. In età vittoriana infatti mostrare i propri denti — in genere orribili per la mancanza delle cure — era un atto gravemente sconveniente, come racconta Angus Trumble nel suo libro A brief history of the smile. L’ipotesi che il sorriso umano si sarebbe evoluto dal digrignare dei denti delle scimmie non è molto lusinghiero: «Non mi attaccare, perché sono tuo amico». Dietro al sorriso primordiale, non ci sarebbe altro che un fine utilitaristico. Un lampo breve sulla nostra follia MARCO LODOLI ardonici, enigmatici, obliqui, elusivi, garbati o irrisori, malinconici o distaccati: quanti sorrisi c’erano una volta, sorridere era un’arte complessa, una tavolozza con mille sfumature. Chi sapeva quale sorriso usare, e quando, e perché, conosceva la meccanica del mondo, entrava con grazia nei suoi ingranaggi. Ma anche chi aveva un sorriso solo, candido e buono come una mano sulla spalla, era un bel pezzo avanti nella strada di una vita serena. Budda sorride da lontano della dolorosa follia del mondo, l’Idiota dostoevskijano sorride per stare più vicino alle pene altrui. Ogni sorriso, freddo o caldo che sia, è comunque un lampo di intelligenza, una luce breve che rischiara e spesso ci fa capire quanto ci dibattiamo a vuoto nella confusione. Oggi si sorride poco o nulla: piuttosto si ride sguaiatamente, si sghignazza, si rumoreggia, si seppellisce il mondo — come si auguravano i sessantottini, che pure erano gente seriosa — sotto una frana di risate. Dentro i telefilm impazzano le risate, i comici ridono da soli delle proprie battutacce, e la vita, da amara commedia, è diventata una chiassosa barzelletta. Ricordo un benzinaio vicino casa mia, tutti lo chiamavano Sorriso perché ascoltava i racconti furibondi degli automobilisti e li commentava sempre e solo con una smorfia irridente. Il suo sorriso rimetteva le cose a posto, placava gli animi. Poi si capì che quel ghignetto filosofico era il frutto guasto di una mezza paresi. Sorrideva suo malgrado del mondo, eppure il mondo lo guardava e per un poco si prendeva meno sul serio. S Repubblica Nazionale 29 28/08/2005 l o o DOMENICA 28 AGOSTO 2005 tografie inviate al sito della mostra con una email, raccolte qui e là per il paese, o scattate ai visitatori di questo week-end, come è capitato al sottoscritto. Migliaia di piccole immagini colorate, una accanto all’altra, in decine di composizioni, tabelloni, collage, tatzebao. Guardate da lontano, quelle macchie di colore sembrano tasselli di un puzzle. Viste da vicino, ciascuna racconta o almeno accenna una storia individuale. Un bambino in carrozzina e un altro in una cabina del telefono. Due ragazzi in ottovolante. Due fidanzatini come quelli di Peynet. Tre amici che soffiano sulle candeline di una torta. Madri che allattano amorevolmente il loro cucciolo. Padri trionfanti che tengono in braccio un erede. Uomini e donne a passeggio, in vacanza, sul posto di lavoro: ebbene sì, qualcuno riesce a sorridere anche mentre lavora. Bambini poveri del Galles che sorridono dopo avere appena ricevuto in dono il loro primo pallone da rugby dal campione, gigante buono, Martin Johnson. Fan di musica rock al megaraduno annuale di Glastonbury che sorridono con sguardo assente dopo avere, dopo avere, dopo avere, vabbè, potete immaginarvelo da soli, come mai ai concerti rock c’è sempre qualcuno che sorride in quel modo lì. Nelle recensioni della mostra apparse sulla stampa inglese viene fatto notare che il sorriso è il primo segno di intelligenza dell’homo sapiens, ciò che lo distingue dagli animali (i quali — tranne le scimmie — non sorridono: al massimo, nel caso dei delfini, danno l’impressione di farlo). «Le potenti emozioni scatenate quando qualcuno che ci è caro ci sorride, e quando a nostra volta gli rispondiamo con un sorriso, producono cambiamenti chimici nel cervello», ci informa uno psicologo, David Lewis, dalle colonne di un quotidiano. Una varietà di esperti sostiene inoltre che sorridere crea conseguenze cerebrali che ci consentono di avere una migliore memoria di determinati avvenimenti, che ci rendono più ottimisti, più motivati, più capaci di resistere al dolore, con un atteggiamento più positivo verso la vita: insomma, il sorriso fa bene alla salute. Un recente son- daggio condotto nel Regno Unito indica perfino che la maggior parte degli inglesi ricava più piacere dal sorriso affettuoso di un amico che da un rapporto sessuale con il proprio partner; tema su cui molti italiani, probabilmente, commenterebbero che dipende da chi è il partner. Come che sia, non bisogna sorprendersi se, almeno qui in Inghilterra, sono già sorti numerosi corsi e seminari su «come imparare a sorridere», condotti da guru e terapeuti alternativi. Ma per quanta importanza possa avere il lato “scientifico” del sorriso, movimento a cui contribuiscono, per chi ci tenesse a saperlo, ben undici muscoli facciali (una bazzeccola rispetto ai quarantadue che si flettono per uno sguardo arcigno), la mostra del College of Art sembra fatta apposta per comunicare anche qualcos’altro. Bisogna compiere di nuovo un passo indietro, allontanarsi, guardare il puzzle dal fondo della sala: e allora diventa chiaro che tutti quei volti sorridenti messi in fila, tutte quelle facce distese, serene, fiduciose, di maschi e femmine, di giovani e anziani, di bianchi e neri, di inglesi e indiani e cinesi e arabi e americani e giamaicani e latini e pakistani, costituiscono in fin dei conti il grande volto della cosmopolita capitale di Gran Bretagna, la città più multietnica, multirazziale, multireligiosa del pianeta. E sarà certo un caso, perché l’idea di un’esibizione così è nata molti mesi or sono — ma anche una coincidenza fortuita aiuta a trasmettere il messaggio — che sette settimane dopo la tragedia del “7-7”, sette settimane dopo le bombe del sette luglio nel metrò, dopo le decine di morti, dopo la grande paura, Londra non ha perso la voglia e la capacità di sorridere. Non è poco, di questi tempi. Anzi: sarebbe un esempio da seguire. Perciò, adesso che siete arrivati in fondo all’articolo, cercate anche voi un motivo per allentare i muscoli del viso: un figlio che vi corre incontro, un amore appena sbocciato, una voce amica, al limite una dolce visione che appare e scompare, come nella canzone di James Blunt. È domenica, gentili lettrici e lettori: fate un bel sorriso. 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2005 il racconto Memoria perduta Hanno lo sguardo sognante, gonne corte e cappelli a calotta: sono le nostre donne, friulane soprattutto che negli anni Venti emigravano ad Alessandria d’Egitto per lavorare come balie, cameriere e governanti. Figlie della povertà con storie di sacrifici e sofferenze ma anche di grande dignità e riscatto L’antica rotta delle badanti italiane S PAOLO RUMIZ GORIZIA embrano uscite da una balera del Charleston. Hanno lo sguardo sognante, gonne corte, scarpette alla moda. Portano cappello a calotta, orecchini, ombretto e messa in piega. Americane? No, italiane. Il luogo non è New Orleans, e tantomeno Roma. È Alessandria d’Egitto anni Venti, con la Belle Epoque dei sultani alla fine. Le donne con i capelli a caschetto non sono turiste in trasferta, ma proletarie immigrate. Italiane d’Egitto. Balie, governanti, cameriere, cuoche, sarte, ballerine d’alto bordo. Oggi si direbbe badanti. Figlie della povertà che, negli anni grandi del Canale di Suez, scoprirono ad Alessandria la New York del Mediterraneo. E trovarono proprio lì, all’ombra dei minareti, libertà, cultura, emancipazione. Il sogno, talvolta persino la ricchezza. Erano italiane speciali, quasi tutte pallide figlie del Nordest. Friulane, dalmate, istriane, ragazze di lingua slovena delle valli attorno a Gorizia. Figlie dell’Impero asburgico, erano più indipendenti e sapevano leggere e scrivere. Sul mercato valevano il triplo delle calabresi o delle toscane, nelle case della borghesia alessandrina facevano un figurone. Come Maria Faganelli, che divenne governante in casa di Boutros Ghali, futuro segretario delle Nazioni Unite. O Danica Furlan, ottantacinquenne viva e vegeta, che fu dama di compagnia dell’ultima regina d’Egitto alla corte di Faruk. Oppure la vecchietta dalmata che finì in casa Ungaretti e raccontò al poeta le prime fiabe, storie di «donne bianchissime sotto la custodia di neri terribili» o di caffè avvelenati serviti dal sultano a chi cadeva in disgrazia. Vicende quasi dimenticate, che in Italia si approfondiscono solo ora, dopo decenni. L’emigrazione femminile ad Alessandria s’è interrotta solo settant’anni fa, le ultime protagoniste sono ancora vive, ma la memoria dell’emigrante è corta. Chi torna, non parla volentieri dei tempi del bisogno. L’emigrazione femminile, poi, imbarazza il piccolo mondo contadino. Mica tutte, si sa, furono storie acqua e sapone. Nella valle dell’Isonzo ancora ricordano una gentildonna che, ai primi del Novecento, arrivava ogni anno dall’Egitto scortata da giganteschi maggiordomi scuri di pelle. Loro probabilmente eunuchi, lei sicuramente donna di harem. Non era bello, a quei tempi, ammettere di essere mantenuti da una mantenuta. A rompere il silenzio italiano sul tema è stato Franco Però, il regista che ha diretto Ring con Vincenzo Cerami e Lo straniero di Camus per le tv di diversi paesi d’Europa. Ora ha messo in scena al Mittelfest — titolo Quando una sera, ad Alexandria, testo di Renata Ciaravino — la storia vera di Milena, una cameriera goriziana che nel 1960, al tempo della rivoluzione anti-occidentale di Nasser, è costretta a fare le valigie e a tornarsene a casa dall’Egitto. Era emigrata nel 1925, per fuggire dalla miseria e dal fascismo che — sulla frontiera orientale — rendeva penosa l’esistenza a chi non fosse «italianissimo». Dietro la messinscena, un meticoloso lavoro sul campo costruito dallo stesso regista con interviste, documenti d’archivio, racconti di vita. Arrivavano da tutta la Penisola. Facevano all’incontrario la strada dei barchini di oggi, carichi di africani disperati. Alcune, prima di trovare lavoro nelle case dei ricchi francesi, arabi, armeni o ebrei, finivano in balìa degli sfruttatori. Anche per le biondine affamate del Nordest la situazione era precaria. «Non vi à birreria in Alessandria in cui manchi la goriziana — scrive impietosamente un anonimo in un giornale locale nel marzo 1886 — non esistono camere ammobiliate senza una goriziana, negli hotel di fama dubbia la maggior parte delle stanze sono abitate da goriziane, insomma sono pochi i fatti scandalosi in cui la nominata goriziana non faccia da protagonista». Spesso, sono solo storie di emancipazione coperte da maldicenza. Fausta Cialente, che visse ad Alessandria, ne Il vento sulla sabbia difende la vecchia zia Albina, goriziana pure lei, che «con i suoi capelli biondi e le sue efelidi era venuta in Levante giovanissima». Albina non raccontava nulla dei suoi inizi, «ma io — scrive la Cialente — ho sempre sospettato che in realtà avesse fatto la cameriera o la bambinaia». Nel parentado la denigravano, ma Fausta, che dal fascismo era scappata in Egitto col marito ebreo, non può dimenticare: «Per merito suo ero tornata in Levante, e di questa gioia, di ciò che nella mia ingenuità mi sembrava addirittura una fortuna, mi sentivo debitrice verso di lei, giacché l’Italia, dove pure ero nata, era soltanto una memoria di fallimenti e tristezze». Non c’era antisemitismo allora nel mondo arabo, l’Egitto non esportava integralisti islamici e terroristi anti-occidentali. Enrico Pea, un altro degli scrittori italiani d’Alessandria, nel suo Il servitore del diavolo, narra di una goriziana che fece girare la testa a un gre- Tra queste la governante di Boutros Ghali e la dama di compagnia alla corte di re Faruk co. Oggi non c’è villaggio fra Trieste Gorizia e la Bassa friulana che non abbia “alessandrine” nella sua piccola storia. Carlo Micheletti, friulano, difende la bisnonna emigrata giovanissima ad Alessandria. «Non mi sento di condannare quelle mie lontane concittadine, né la loro scelta, che immagino libera, né la loro gaia sfrontatezza. Certamente non fecero male a nessuno. Insomma: basta con la retorica dell’emigrazione e del lamento. Per quelle donne l’Egitto fu soprattutto una grande e bella opportunità». Alla fine dell’Ottocento le biondine del Nordest erano già così tante che il governo, allora austriaco, aprì nel 1898 un convitto apposta per loro. «Prima dell’istituzione dell’Asilo — si legge nel registro — i tuguri rigurgitavano di queste donne, ove, e da speculatori e dalla miseria, cadevano in preda di vita abietta, il che ridondava a grave disdoro della colonia austro-ungarica». Curiosità: il testo è redatto in lingua italiana, voluto da un’amministrazione austriaca, stampato da una tipografia greca, distribuito in terra araba. Basta per capire cos’era, fino a ieri, Alessandria. Una metropoli cosmopolita, il sogno realizzato della convivenza. Le contadine del Nordest imparavano una lingua dopo l’altra. La settantaseienne Berta Gregoric, per esempio, oltre all’italiano e allo sloveno, parla francese, inglese, arabo e greco. «Quand’ero piccola — racconta — andavo ogni anno per due mesi a casa della cugina di re Faruk. Mia nonna lavorava nella loro famiglia. Avevano tre bambini, Mini, Sharif e Vatila. Il re non l’ho visto mai, la regina sì. Quando mia nonna è dovuta partire, la regina le scriveva sempre, diceva che per loro era come una mamma». Ammette: «Quand’ero lì, ero una signora. Qui in Europa sono una serva, però non rimpiango niente, sono partita per amore. Mio marito voleva fare la sua parte contro i fascisti ed era tornato in Europa a combattere con i partigiani. Lo raggiunsi a guerra finita». Racconta Franco Però: «Nei loro villaggi d’origine la gente viveva scalza, non aveva mai visto automobili, la fame era tremenda. E loro in Egitto trovavano possibilità immense. Diventare balie, governanti, cameriere, sarte, pulitrici, ma anche impiegate e assistenti in grandi aziende era una fortuna. Le paghe erano alte, la borghesia alessandrina era raffinata, sul delta del Nilo si commerciava il miglior cotone del mondo». Lo stesso quadro lo trovi negli unici testi scritti sul tema, entrambi in sloveno: il romanzo Mare amaro di Marijan Tomsic e una ricerca della goriziana Dorica Makuc. «Vi era vivacissima la vita», narra Rodolfo d’Asburgo, erede al trono di Vienna, giunto nel 1883 da Trieste col piroscafo Miramar. «La gente che incontri — scrive — ha l’indefinibile tipo di razza mista, che distinguesi col nome di “levantina”, ed è una mescolanza d’italiano, di greco, d’armeno e di ebraico. Vestono quasi tutti all’europea, ma i più col fez sul capo. Oltre a que- sti vidi e dalmati ed albanesi in costume, e turchi ed asiatici, e molti preti greci e frati francescani, rappresentanti la cristianità. Mori e nubii se ne stanno davanti alle case dei ricchi banchieri, più quale oggetto di lusso che di utilità». E poi, i teatri. Molti sono ancora lì, hanno dietro il palcoscenico impolverate scenografie d’anteguerra, come il “Don Bosco”, che annovera ancora migliaia di iscritti — egiziani — e nel quale recitarono le nostre compagnie fino al 1940. «Luoghi straordinari — racconta Però — come il teatro greco “Zizinia”, oggi “Mohammed Alì”, o quello del liceo “Saint Marc”, quasi identico al “Vieux Colombier” di Parigi. O il “Victoria College Theater” dei primi del Novecento. C’era un legame fortissimo tra noi e il mondo arabo. E di tutto questo s’è quasi persa la memoria». C’è, nelle protagoniste ancora in vita, la nostalgia bruciante — e talvolta la rimozione — di un luogo unico al mondo, un mondo che è stato inghiottito dai nazionalismi, dagli scambi di popolazioni, dai pogrom, e oggi dallo «scontro di civiltà». Alessandria era il Mediterraneo di greci, ebrei, libanesi, italiani, armeni, siriani, maltesi. Era lo stesso mondo di Salonicco, Atene, Istanbul, Smirne, Marsiglia, Agadir. «Poi ha vinto il generale dei fagioli», ride amaro Herman Spacapan, novantaseienne di Nova Gorica, una vita vissuta ad Alessandria. È il suo modo di definire Nasser, l’uomo che distrusse tutta quella ricchezza «fatta anche con le nostre mani». «Tutto è cominciato per caso — racconta il regista — durante una recita ad Alessandria su Ungaretti e il greco Costantino Kavafis. Ero andato nel quartiere di Attarin alla ricerca di un vecchio luogo d’incontro di poeti, la “Baracca Rossa”, una falegnameria frequentata anche da anarchici. Chiesi ad anziani arabi se c’erano ancora italiani da quelle parti. Loro mi indicarono una strada e lì una straniera, che parlava perfettamente la mia lingua, mi portò da una certa famiglia Marino. Superstiti, con pochi altri, di una Piccola Italia che non c’è più. Non voglio che questa memoria sparisca». Come avviene oggi, molte di loro finivano nelle mani degli sfruttatori DOMENICA 28 AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 La geopolitica del benessere e dei diritti La freccia dei migranti dice dove va la Storia ILVO DIAMANTI adanti, balie. Dedite alla cura degli anziani, dei bimbi. Ma anche degli adulti… talora. E, talora, usate e sfruttate. Un fenomeno a cui ci siamo abituati ormai da tempo. Badanti e balie. Giunte da diversi paesi. Ma, soprattutto, dall’Europa centro-orientale. Nelle famiglie degli italiani hanno rimpiazzato le madri, impegnate nel lavoro. E le figlie, che oggi sono poche, indaffarate, e non si possono occupare dei genitori poco o per nulla autosufficienti. Badanti e balie. Anzi, le badanti più delle balie, perché siamo sempre più vecchi e facciamo sempre meno figli. La loro diffusione, davvero rapida e ampia, in Italia, riflette la tendenza — tradizionale per il nostro paese — a “caricare” sulla famiglia, invece che sui servizi, i compiti dell’assistenza. Le badanti come alternativa al “ricovero”. All’assistenza domiciliare. La ricerca condotta dal regista Franco Però, e raccontata in queste pagine da Paolo Rumiz, rivela che non si tratta di un fenomeno nuovo né tipicamente italiano. Visto che quasi un secolo fa appariva esteso. In Egitto. In particolare: ad Alessandria, la cosmopolita porta del canale di Suez. Passaggio verso l’Oriente. Dove le badanti erano italiane. Con una presenza cospicua di donne del Nordest. Il che, ovviamente, ci sorprende. Perché abbiamo dimenticato. Perché, come suggerisce Rumiz, quando la memoria evoca disagio, si preferisce dimenticare. E oggi l’immagine degli immigrati in Italia (e non solo in Italia) suscita sospetto, timore. Talora, senso di superiorità. Per questo, ricordare non piace. Genera imbarazzo. In particolare, quando l’esperienza migratoria riguarda paesi e contesti (come l’Egitto), che oggi appaiono lontani. Richiamano un altro mondo, un’altra civiltà, di cui diffidiamo; per motivi religiosi e socioeconomici (i poveri, quando sono più poveri di noi, spesso suscitano allarme). Eppure è giusto e utile conservare la memoria, il ricordo, anche e soprattutto quando disturba. Rammentare che ottant’anni fa la nostra terra era la stazione di partenza e l’Egitto, il passaggio fra Africa e Oriente, quella di arrivo, per molte donne e molti uomini. Non per ripetere e ripeterci — come avviene spesso, in modo un po’ retorico — che un tempo gli emigranti eravamo noi. Per il motivo esattamente contrario. Per sottolineare, marcare, che altri luoghi, altri paesi, a cui rivolgiamo uno sguardo misto di compassione e timore, un tempo erano ricchi, “civili”, liberi e aperti. Quanto oggi lo siamo noi. E forse anche di più. Alessandria d’Egitto: «Il luogo della libertà, della cultura, dell’emancipazione, della ricchezza e del sogno. La New York del Mediterraneo». Così la definisce Rumiz. Mentre, negli stessi anni, l’Italia si apprestava a divenire un paese non propriamente ricco, né tanto meno libero. Il fatto è che l’emigrazione è un indicatore sensibile agli spostamenti della ricchezza, del potere, del benessere fra un punto e l’altro del pianeta. Così, la storia delle badanti italiane ad Alessandria d’Egitto serve a ricordare che, meno di un secolo fa, il Mediterraneo era un centro politico, economico e culturale importante. E gravitava verso oriente. Subiva l’attrazione di città “plurali” e cosmopolite, come Atene, Istanbul, Smirne. Oltre, appunto, Alessandria. Mentre oggi il Mediterraneo è diventato un confine oscuro, fra sponde lontane, attraversato da disperati, che intraprendono viaggi difficili, rischiosi, drammatici. Da oriente e da sud, verso l’Italia e l’Europa. Spinti dal vento dei nazionalismi, dei fanatismi, degli integralismi, della guerra. Dalla miseria. Questo cambiamento di rotta e di direzione, nei flussi migratori, è utile a ricordare che la storia non è mai scritta una volta per tutte. Che da sempre grandi emigrazioni si succedono, inseguendo condizioni di vita e opportunità di lavoro migliori. Sfuggendo alla povertà, ma anche alla violenza e alla repressione. Alla mancanza di libertà. Chi preferisce dimenticare quando eravamo noi a viaggiare verso oriente oppure oltre oceano, dovrebbe, al contrario, coltivare la memoria. E, invece di preoccuparsi perché siamo — da poco — diventati terra di immigrazione, dovrebbe temere, assai di più, quando smetteremo di esserlo. Perché i flussi migratori sono frecce che indicano la direzione dello sviluppo. Quando gli immigrati sceglieranno altre mete, oppure torneranno in patria, sarà il segno che la geopolitica del benessere e dei diritti è cambiata. Che l’Italia ha smesso di costituirne un centro. E ne è stata sospinta, di nuovo, alla periferia. B EGITTO COSMOPOLITA Nella pagina accanto, un caffè all’aperto nell’atmosfera cosmopolita del Cairo ai primi del Novecento Repubblica Nazionale 31 28/08/2005 FOTO RITROVATE Badanti italiane in Egitto ai primi del Novecento. Le foto sono state raccolte da Gilberto Civardi e Amalia Romanelli DOMENICA 28 AGOSTO 2005 Dinastie tribali PIETRO VERONESE morta in una remota regione del Sudafrica, su al nord, la regina della tribù dei Balobedu, meglio conosciuta, a causa dei poteri che le vengono attribuiti, come la Regina della Pioggia. Il fatto risale al 13 giugno, ma notizie di questo genere non viaggiano in fretta e sebbene i funerali di Makobo Caroline Modjadji VI si siano meritati un po’ di articoli sulla stampa locale e perfino la visita dell’inviato del New York Times, la cosa non ha certo fatto il giro del mondo. Il decesso della regina è stato attribuito a meningite cronica. Però i complessi sintomi di cui soffriva da tempo e la situazione generale del Sudafrica — il Paese che conta la più alta percentuale di sieropositivi al mondo — lasciano pensare all’Aids. La regina era giovane e bella, o tale almeno appare nelle foto pubblicate, che la ritraggono sempre in momenti ufficiali. Uno sguardo severo, il busto avvolto nella pelle di leopardo, simbolo della regalità. Ma pur essendo morta appena ventisettenne, Modjadji VI aveva vissuto la sua vita. Ha saputo infrangere le regole quando ha voluto. Ha amato. Lascia due figli, di cui una piccolina, motivo più di turbamento che di gioia per i Balobedu, perché è stata concepita ignorando le norme dinastiche. Repubblica Nazionale 33 28/08/2005 È Un mito vivente La storia delle regine dei Balobedu — che come ogni antica storia africana affonda le sue radici nel mito, un mito vivo, non consegnato ai libri testo come i nostri ma ancor oggi trasmesso di bocca in bocca dai viventi — è tra le più sorprendenti e affascinanti d’Africa. Ma il fatto odierno è che la sesta sovrana se n’è andata così precocemente, appena due anni dopo essere salita al trono, senza lasciare una successione certa. La sua gente è rimasta dunque priva di monarca. Tra i Modjadji diverse fazioni sostengono diverse candidate e la figlioletta di Makobo Caroline, che ha appena cinque mesi, non appare certo la favorita. «C’è stata una rottura nella famiglia reale fin dalla questione di chi dovesse organizzare le esequie della regina», ha detto un portavoce del governo provinciale. Si è resa necessaria una mediazione dell’autorità locale. «Alla fine la famiglia ha accantonato i dissensi e ha trovato un accordo per avviare i preparativi». «Nel periodo del lutto dobbiamo restare quieti», ha spiegato al New York Times il portavoce del Consiglio della corona. Ma i funerali si sono svolti il 20 giugno. Il lutto è finito ed è lecito supporre che il conflitto si sia riacceso. Makobo Caroline era molto popolare tra i Lobedu, dicono. Aveva raccolto senza indugi la tradizione succedendo alla nonna, Mokope, la quinta regina, morta a 64 anni nel giugno del 2001. Questa matriarca di meno di trent’anni era però anche una figlia del suo tempo: diplomata (nessuna regina lo era mai stata), appassionata di computer e soap opera, mai lontana dal cellulare, frequentatrice abituale dei centri commerciali di In Sudafrica, al centro di un territorio arido e secco, la tribù dei Balobedu prospera dentro un cerchio di colline stranamente coperte di foreste e nebbia. Merito dei poteri magici che - racconta la leggenda - le sovrane di quel popolo si tramandano di madre in figlia. Ma ora che Modjadji VI è morta ad appena 27 anni si è aperta una dura lotta per la successione Regina della pioggia il trono resta vuoto Pretoria, attiva nella raccolta di fondi a favore degli orfani. Tutto ciò costituiva una rottura clamorosa nel rigido rituale al quale era tenuta la Regina della Pioggia e noi amiamo pensare a Modjadji VI come a una lady Diana d’Africa o ad una di quelle principesse che tanto piacciono alle nostre figlie: ansiose di fare bene la loro parte nella continuità ma senza rinunciare a se stesse e al proprio cipiglio. Prima di lei, le sovrane dei Balobedu vivevano recluse nel recinto reale, accudite dai cortigiani e invisibili al pubblico. Dedite nel segreto ai complessi rituali che consentivano loro, nel fitto della foresta e ben al riparo da occhi profani, di invocare — e ottenere — la pioggia. Questo è il loro potere, gelosamente custodito, protetto dal mistero. Perfino il grande Nelson Mandela dovette sudare le sette camicie per accostarsi alla regina Mokope. Era il ‘94 e colui che stava per diventare il primo presidente del Sudafrica democratico fu tenuto a fare una lunga anticamera. Le poté parlare, come imponeva l’etichetta di Corte, soltanto rispondendole: cioè se era lei per prima a rivolgergli la parola. E soltanto attraverso un intermediario. «La regina non risponde alle domande», dichiarò esterrefatto ai cronisti all’uscita dal colloquio. Ci vollero tutto il suo potere di seduzione e due ricchissimi doni (una 4x4 e una berlina giapponese superlusso) per ammorbidire Modjadji V ed eliminare, nei successivi colloqui, l’obbligo dell’intermediario. Anche la vita sessuale della regina Nelson Mandela le potè parlare solo rispondendo alle sue domande è rigorosamente soggetta all’inflessibile controllo di Corte. Le leggi dei Balobedu vietano alla sovrana di prendere marito, anche se le consentono un numero imprecisato di «mogli». La parola non va intesa in senso proprio. Si tratta piuttosto di dame di compagnia, scelte dal Consiglio della corona, di solito nelle famiglie di capi vassalli: una forma di diplomazia per garantire lealtà alla sovrana. Il Consiglio sceglie anche chi debba essere chiamato a generare le eredi al trono: un suddito che soddisfi requisiti complessi, soprattutto circa la famiglia di appartenenza e gli accertati ascendenti nella tribù. Meglio ancora se di sangue reale. Per il resto, i costumi a palazzo sono sufficientemente discreti da consentire alla sovrana di accondiscendere ai propri desideri naturali come meglio crede: la sua vita sessuale è considerata affar suo. La nonna di Modjadji VI, Modjadji V, aveva avuto tre figlie, ma due erano morte prestissimo. La sopravvissuta, la principessa Makehala, era l’erede designata. Ma disgrazia volle che morisse anche lei, appena due giorni prima della madre. Restava solo un figlio maschio. Trascorsero due anni prima che il Consiglio reale si accordasse sul nome di Makobo Caroline, una nipote. Il regno di costei, iniziato sotto auspici così travagliati, si è chiuso adesso prematuramente in circostanze ancor più complicate. Diventata regina, Makobo Caroline non aveva voluto rinunciare all’amore ed era rimasta con il suo compagno, FOTO AGENZIA MAXPPP (TLP) le storie LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 CERIMONIA D’INVESTITURA Sopra, Modjadij VI, la Regina della pioggia morta a giugno In basso, due momenti della cerimonia d’investitura David Mohale, impiegato comunale della vicina cittadina di Letaba. Da lui aveva avuto un figlio prima ancora di salire sul trono. Si dice che i due convivessero nel recinto reale. Fatto sta che solo quattro mesi prima di morire a sua volta, resa già cieca e sorda dalla malattia, la più giovane Regina della pioggia della storia ha avuto una seconda figlia. Una femmina. Erano i primi mesi di quest’anno. È intorno a questa piccola che adesso si è accesa la battaglia. La bimba sta presso dei parenti paterni, cosa che per gli aristocraticissimi Modjadji è inaccettabile. Il padre sostiene di essere di sangue reale (lo ha dichiarato in una recente intervista a un giornale locale), affermazione che il portavoce reale definisce «una sciocchezza». La famiglia di David Mohale ha costituito un suo Consiglio, alternativo a quello della Corona, e i Balobedu si sono spaccati. È tra questi due organismi che era sorta la disputa sull’organizzazione dei funerali della regina. Un duplice incesto I Balobedu sono una piccola tribù e il perpetuarsi della loro curiosa monarchia esclusivamente femminile, matriarcale e matrilineare è questione che interessa solo loro e qualche antropologo. Eppure la loro storia è magnifica e la tradizione orale la fa risalire a cinque secoli fa, al grande regno di Monomatapa, nell’odierno Zimbabwe, di cui esistono numerose prove storiche (prime fra tutte le famose rovine) e di cui Modjadji V era una discendente diretta. All’origine della tribù c’è un duplice incesto. Quello di una figlia di Monomatapa, Dzugundini, che ebbe un figlio da uno dei suoi fratelli e, costretta a fuggire, ricevette in dono dal padre il corno magico che le conferì il potere di fare la pioggia. E molti anni dopo, sul volgere dell’Ottocento, quando il re Mugolo, minacciato da ogni parte e confidando solo nella famiglia più ristretta, generò un figlio con la propria figlia. Quella creatura fu strangolata alla nascita; più tardi la figlia del re ebbe una figlia femmina, e quella fu la prima Modjadji. A questo punto della storia il lettore vorrà soddisfare la curiosità di sapere quanto siano davvero efficaci i poteri della Regina della pioggia, esercitati in comunione con gli spiriti degli antenati, che sono le divinità dei Balobedu e alla cui volontà la sovrana stessa è subalterna. Per trovare una risposta basta giungere nelle vicinanze del recinto reale, che sorge sull’alto di lussureggianti colline, nel mezzo di una vasto territorio che è invece arido e secco. Nella terra dei Modjadji, oggi riserva naturale, c’è un perenne microclima piovoso, umido e nebbioso, nel quale cresce la più vasta foresta al mondo di una rara specie di palma, meraviglia dei botanici e dei turisti. È stato il potere temuto e rispettato delle loro regine a garantire nei secoli la pace ai Balobedu. Persino il grande Shaka, fondatore della nazione Zulu, invocò dalla regine del tempo la pioggia sul proprio regno devastato da una siccità. Persino il grande Nelson Mandela ha fatto anticamera da una di loro. Un potere che adesso, in questi aridi tempi di telefonini e shopping center, appare minacciato come non mai. 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2005 i luoghi Viaggio nel tempo È una calda mattina del 1565 quando un esploratore e avventuriero spagnolo, Pedro Menendez de Avilés, arriva in quella che oggi si chiama Florida. Con il mare alle spalle e davanti una landa dalla vegetazione fittissima, decide di fondare qui un nuovo avamposto: St. Augustine. Che oggi si può vantare del titolo di “Nation’s Oldest City”. Con grande soddisfazione dei suoi cittadini e del loro portafoglio La città più vecchiad’America ALBERTO FLORES D’ARCAIS E ST. AUGUSTINE Repubblica Nazionale 34 28/08/2005 ra la mattina dell’8 settembre, anno domini 1565. Una ciurma di vecchi lupi di mare, mercenari, avventurieri e canaglie ascoltava silenziosa e indifferente le frasi in latino scandite lentamente da un sacerdote. Il rumore delle onde faceva da sottofondo a quella messa, celebrata in capo al mondo. L’uomo dai tratti marcati e dall’aria padrona che guardava soddisfatto il gruppo appena sbarcato su quella spiaggia sconosciuta, scrutando la piana che dal mare piombava in una landa di vegetazione fitta, verde e misteriosa, aveva deciso: qui sarebbe nata la sua città. Il nome di quell’uomo era Pedro Menendez de Avilés, esploratore e avventuriero. Era arrivato su quella costa che sarebbe diventata celebre come Florida dalla natia Spagna dopo un lungo viaggio, lasciandosi alle spalle la consueta scia di sangue e di morti come ogni prode che partiva alla ricerca di fortuna e ricchezze nel Nuovo Mondo. La sua città venne battezzata San Augustin. E oggi, con il nome appena storpiato di St. Augustine e all’età di 440 anni, è «The Nation’s Oldest City», la città più vecchia d’America. Molti americani, la maggioranza, ne sanno poco o nulla. Fatto curioso per un popolo e una nazione dalla storia giovane come gli Stati Uniti, dove anche edifici vecchi di cento anni sono considerati un pezzo di storia e ogni cittadina senza passato ha i suoi intoccabili “landmark” affidati alle cure dei beni culturali e delle fondazioni priva- te. Eppure è solo da una decina di anni che St. Augustine è entrata nei “pacchetti” turistici della Florida, e sono ancora meno quelli passati da quando la “riscoperta” di questa cittadina, con le sue case spagnole, i suoi patii e i suoi giardini, i suoi vicoli e i suoi musei, è diventata un fenomeno nazionale. La ragione di tanto disinteresse passato, a sentire Glenn Hastings — Executive Director del “St. Augustine, Ponte Vedra & The Beaches visitors and convention bureau” — ha una radice sciovinista: «La Florida fino al 1845 non faceva parte degli Stati Uniti e la nostra storia patria, i nostri miti e i nostri eroi sono legati soprattutto all’America della East Coast». Basta mettere in fila un po’ di date per capire quanto c’è di vero nel ragionamento di Hastings. Quando Pedro Menendez sbarcò con i suoi milleseicento coloni e soldati disposti a tutto, quando decise che quella regione affascinante e pericolosa, benedetta da un cielo azzurro ma infestata da caimani e da altri animali sconosciuti agli spagnoli, era il posto adatto per piantare la bandiera del re di Spagna e per impadronirsi di una terra sconfinata e di smisurate ricchezze naturali, qualcuno già la conosceva come “la Florida”. Su quelle coste infatti si erano affacciati altri uomini bianchi — spagnoli o francesi — ricacciati in mare o Dopo un periodo di disinteresse il turismo si è fatto conquistare dalle case spagnole con i portici, dai vicoli minuscoli e dai giardini in fiore spinti in fuga verso altre terre da tribù di indiani combattive e fiere. Dovevano passare 42 anni prima che, nel 1607, i coloni inglesi fondassero Jamestown, nell’attuale Virginia. E solo nel 1620 più a nord, in Massachusetts, venne costruita quella Plymouth che a molti, ancora oggi, piace considerare la città “storica” degli Stati Uniti. Invece, cinquantadue anni prima di Menendez, nel 1513, un altro famoso esploratore e avventuriero, l’ex governatore di Portorico Don Juan Ponce de Leon, era sbarcato su queste spiagge a capo di una spedizione. La ciurma era stata attirata e allettata dalla leggenda di una favolosa “fontana della giovinezza” e, per tenersi buoni i suoi uomini, un giorno Ponce de Leon decretò che una delle tante sorgenti naturali era proprio la “fontana dei miracoli”, si autodichiarò reggente in nome del re di Spagna di quella terra e la chiamò “la Florida” a ricordo della “Pascua florida”, la festa dei fiori che si celebrava in Spagna. Natura splendida e violenta Affacciata al mare sulla costa nordorientale della Florida, tre quarti d’ora di macchina a nord di Daytona Beach, famosa per le sue corse automobilistiche, mezz’ora a sud di Jacksonville e circa un’ora e quaranta a nord di Orlando, la città più vecchia d’America sta conoscendo un momento di fulgore. Glenn Hastings è uno degli animatori della rinascita, ma come lui ce ne sono tanti altri, venuti dagli Stati del nord o dell’ovest e attirati da questo singolare impasto di storia e architettura secolare, di natura splendida e violenta, di spiagge incontaminate e di America post-moderna. Sedotti dai vicoli dai nomi spagnoleggianti che si mescola- no a quelli anglosassoni, dove la calle Cordova incrocia Treasury Street e il boulevard Ponce de Leon fa angolo con West King. Sedotti dalle case che hanno scolpita l’età nelle mura e nei balconi, case da «vecchia Europa» con nomi che ricordano famiglie famose — Canova, de Medici, Murat (un nipote di Napoleone Bonaparte) —, famiglie aristocratiche che mandavano i loro cadetti a colonizzare il nuovo continente. Ma Hastings e gli altri sono calamitati anche dal business. «Negli ultimi dieci anni le cose hanno preso a girare velocemente e, se vogliamo dire tutta la verità, una buona parte del merito spetta a Mickey Mouse e a posti come Disneyworld. Fino a dieci anni fa, se lei entrava in un college o in una scuola e chiedeva agli studenti di St. Augustine, avrebbe visto solo facce sconcertate; e parliamo di gente, giovani, magari appena usciti da una lezione di storia. Oggi saprebbero darle una risposta: qualcuno è sicuramente venuto qui con la famiglia, magari solo per mezza giornata tra una visita a Disneyworld e una alla spiaggia; ma altri ci arrivano proprio perché attratti da una storia di cui sanno molto poco, perché a scuola nessuno gliela insegna». Lungo le vie strette dove a fatica passa una macchina, figuriamoci un ingombrante Suv, si incontrano negozietti di arte e di antiquariato. Anche i ristorantini sembrano fatti a misura d’un tempo: piccoli ma non troppo, per soddisfare la folla crescente di turisti. I numeri annuali cominciano a essere soddisfacenti: tre milioni di visitatori passano qui almeno una notte, un milione si ferma per tre giorni, gli “escursionisti della mezza giornata” sono sei milioni. Ancora pochi per le potenzialità che offre un posto come questo, do- DOMENICA 28 AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 GLI INSEDIAMENTI ROANOKE ISLAND JAMESTOWN NEW PLYMOUTH PORT ORANGE PHILADELPHIA Nel 1584 un gruppo di coloni inglesi sbarca a Roanoke Island, in Virginia, così chiamata in onore di Elisabetta I, the Virgin Queen: è l’embrione del primo insediamento Il primo insediamento è del 13 maggio 1607, quando un gruppo di mercanti sbarca nella baia di Chesapeake sulla sponda del James River e fonda Jamestown L’11 dicembre 1620, 102 padri pellegrini, salpati da Plymouth in Inghilterra a bordo della Mayflower, sbarcano nel New England dove fondano la città di New Plymouth Un forte e poche case in legno: è Port Orange, ribattezzata due anni dopo Nuova Amsterdam. È il primo nucleo di quella che nel 1664 gli inglesi chiameranno New York Una delle ultime colonie, nel 1682, è la Pennsylvania: tutto comincia con l’idea del filantropo William Penn di creare una colonia di quaccheri. Nasce così la città di Philadelphia ANIMA SPAGNOLA Sopra, la statua dedicata all’ammiraglio de Avilés, fondatore della città A lato, il castello di S. Marco Sotto, una stampa d’epoca dello sbarco spagnolo Repubblica Nazionale 35 28/08/2005 ve a pochi minuti dalla visita alla «Nation’s Oldest City», ci sono chilometri di spiagge bianche, club di ogni genere, ristoranti fusion in grado di soddisfare i palati più raffinati. C’è gente che arriva qui per fare surf sulle onde dell’Atlantico e poi si ferma stupefatta a guardare case spagnole del Settecento di cui non immaginava l’esistenza. Amministratori e investitori già la immaginano come una nuova Santa Fé, la città del New Mexico che è oggi la più “trendy” per artisti, tardo-hippies e milionari della moda e della televisione. Negli ultimi due anni gli affitti delle case sono quasi raddoppiati e trovare un appartamento nel centro storico è una caccia al tesoro. Non tanto per il prezzo — ché a guardar bene si spende meno che per un “two-bedrooms” a Manhattan — ma perché le case sono poche, piccole, e chi ce l’ha se le tiene ben strette intravedendo un futuro di ricchezza. Molti edifici poi sono occupati da musei, molti sono di proprietà delle Chiese, da sempre molto oculate negli affari immobiliari. Raffinato melting pot Un’altra benedizione della piccola antica città spagnola aggrappata alle spiagge della Florida è quella del tempo. Con un po’ di fortuna qui la stagione dura tutto l’anno. Ed ecco che nascono e si moltiplicano i “pacchetti” per l’intera area. Il mese più gettonato è marzo — «è il periodo di springbreak, quando chiudono scuole e college e le famiglie si prendono una settimana di vacanza» — ma l’onda di piena arriva anche quando si giocano i campionati di golf e qui il green, stando ai patiti del gioco, è uno dei più belli d’America. La gente che ci vive forma un raffinato melting pot: una comunità multiculturale, ricca di stranieri ma allo stesso tempo molto americana, gente tollerante che ha scelto di venire a vivere qui per godersi una esistenza più rilassata, per trovare un ritmo di vita meno nevrotico di quello delle grandi città della East Coast. In una sera di primavera può sembrare di passeggiare in una cittadina della Andalusia, e anche qui il caldo d’estate può essere soffocante. Ma l’America preme da tutti i lati, e come in ogni angolo del Paese anche «The Nation’s Oldest City» è circondata dai riti e dai simboli della vita contemporanea. Grandi “mall” dove si trova di tutto, parchi-gioco a tema, castelli con i fantasmi, la “fattoria degli alligatori” con migliaia di rettili, il “Ripley’s Believe It or Not! Museum”, il museo delle cere, la “fabbrica del cioccolato”. Oggi la strada di St. Augustine sembra dunque tutta in discesa, complice anche la sempre più potente lobby dei latinos. Non è stato facile, perché sotto questo cielo azzurro la storia l’hanno fatta gli spagnoli e i francesi e ai “wasp” — i bianchi, anglosassoni, protestanti — non piace troppo ricordarlo. E di storia qui se ne scopre ogni giorno un nuovo pezzetto. Dal Ponte dei leoni scendendo lungo la baia di Matanzas e camminando per il lungomare si arriva fino al Castillo de San Marcos, la massiccia fortezza in pietra costruita dagli spagnoli nel 1672. Dentro si possono esplorare le stanze delle guarnigioni di guardia, una antica cappella e i magazzini dove venivano conservati il cibo e le bevande in previsione degli assalti. Sulle mura, dopo aver scalato molti gradini, si può camminare lungo il parapetto orlato dai cannoni originali e ammirare dall’alto la vecchia città spagnola. La fortezza è stata decisiva per tenere in vita St. Augustine durante gli anni di fuoco della scoperta e dello sviluppo della Florida. La città venne attaccata ripetutamente: nel 1586 il corsaro inglese Sir Francis Drake tentò senza successo di metterla a ferro e fuoco; nel 1668 un altro inglese, il capitano pirata John Davis, impegnò i suoi uomini in una battaglia strada per strada che lasciò nei vicoli della città sessanta morti. Ma per l’avamposto spagnolo in Florida i pirati erano solo una faccia del pericolo. La popolazione doveva combattere con le malattie, con gli attacchi delle tribù indiane ostili, con gli uragani che squassavano stagionalmente le coste della Florida allora come oggi. Eppure fu la diplomazia politica, non una sconfitta militare, a segnare la fine della storia spagnola della Florida e a far partire l’orologio della nuova vita di St. Augustine negli Stati Uniti d’America. Nel 1763 una firma su un pezzo di carta segnò la cessione della Florida all’impero di Sua Maestà Britannica in cambio dell’Avana, a Cuba. Venti anni dopo lo “Stato del sole” torna nuovamente sotto le bandiere spagnole. Ed è solo nel 1823 che la Spagna, convinta (a ragione) di non essere in grado di difendere quella sterminata terra contro i coloni americani alla ricerca disperata di nuove terre al sud e all’ovest, decide che è giunto il momento di vendere agli Stati Uniti. Il 3 marzo 1845 la Florida entra a far parte degli States. Da quel giorno St. Augustine può fregiarsi del titolo di «The Nation’s Oldest City». 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2005 Una foresta segreta di menhir, dolmen, case di fate, tombe dei giganti. Manufatti venerati per millenni, poi bollati come “pietre infernali” dai primi cristiani, infine divelti, riciclati, dimenticati. Eppure sono gemelli di quelli che nel Nord Europa attirano milioni di turisti e torme di archeo-astronomi. Ecco dove e come trovarli Dei pietra Gli di Le cento Stonehenge della Sardegna di prima della Storia SERGIO FRAU Repubblica Nazionale 36 28/08/2005 C CAGLIARI orreva, lento, l’anno 594 dopo Cristo. Il Pontefice di Roma, Gregorio I Magno, in vena di pulizie con quel che restava del paganesimo, prese carta e penna e cominciò a scrivere lettere durissime ai suoi, in Sardegna. Con Ospitone, duce delle Barbarie — le Barbagie di oggi — usò invece mano tesa e parole di miele: «Poiché nessuno del tuo popolo è cristiano, io so che in questo tu sei migliore di tutto il tuo popolo: poiché tu sei cristiano. In effetti, mentre tutti i Barbaricini vivono come bestie prive di ragione, ignorano il vero Dio, adorano legni e pietre, il fatto che tu veneri il vero Dio mostra di quanto sei superiore a tutti quanti». Alle gerarchie ecclesiastiche dell’isola, invece, il Pontefice elargì consigli pratici “ex cathedra” per accelerare la conversione e strappare i Sardi da quelle loro pietre sacre e dai loro idoli di legno: «... Se un contadino ha tanta mala fede e ostinazione da rifiutare di venire a Dio, occorre imporgli un peso fiscale così elevato che la fatica da sostenere per pagare lo spinga ad affrettarsi verso la retta via». Detto, fatto. Del resto i veri miracoli sono quasi sempre così: di lì a breve Ospitone riuscì a convertire in blocco quelle sue genti dal cattivo carattere che avevano sempre fatto paura persino ai Romani: menhir, dolmen, tombe dei giganti — adorati per millenni — divennero pietre infernali. Furono divelte, riutilizzate, massacrate, dimenticate. Non risulta che papa Gregorio abbia inviato anatemi del genere anche ai Signori di Francia e d’Inghilterra e neppure contrordini in Sardegna. Forse è per questo che oggi Carnac e Stonehenge sono ancora lì a chiamar turisti, a far ragionare archeo-astronomi, a far decollare ufaroli. Goni, invece — un posto-gemello a quei due siti superstar, incardinato anch’esso nei ritmi del sole, a un’ora da Cagliari — lo conoscono in pochi, persino nell’isola. Cos’è Goni? È un’eccezione: una delle poche meraviglie di Sardegna ormai salve. Una fantastica spianata sacra con una cinquantina di menhir (già da anni rimessi in piedi dal professor Enrico Atzeni e dalla sua équipe, per farne un parco archeologico di grande suggestione). I menhir fanno da strada cerimoniale a un complesso di sacrari-tombe-mausoleo (datati tredicesimo-dodicesimo secolo avanti Cristo) che, anche da soli, ba- L’anatema del papa Gregorio I, 1400 anni fa, per condannare “i barbaricini, adoratori di legni e sassi” troppo non è mai arrivata alle orecchie giuste: per cui tra pastorizia e soprintendenze è lotta dura, da sempre. Altre fantastiche Pietre Sacre — quasi segrete per ora a chi in Sardegna ci arriva da fuori — fanno di Sorgono, nel cuore della Barbagia, un museo all’aperto del megalitismo. Anche lì sono salve: anni fa il sindaco, Francesco Manca, acquisì il terreno vicino alla Chiesa di San Mauro al suo Comune e così oggi bulldozer e ruspe — che per anni, e con finanziamenti regionali, hanno spietrato alla carlona mezza Sardegna per far lavorar meglio gli aratri — là dentro non entreranno mai, se non per i restauri che prima o poi vi si faranno per rimettere in piedi i cento colossali menhir che rendono davvero unico quel luogo. stano a far innamorare chi ha occhi pronti a capirli. Immaginarsela 3300 anni fa, Goni, viva e affollata — come per certe sagre d’oggi, ancora antiche come allora — quella piana di mille riti, spalanca il cuore. Sempre Atzeni — quasi a far da “antipapa” — è riuscito a creare a Laconi, poco distante da Goni, un vero e proprio Museo dei menhir (che ha anche raccontato in un libro): ce ne sono decine in mostra che affratellano la Sardegna dell’interno alla Lunigiana, alla Francia, ai Balcani, al Medioriente. Centinaia sono ancora in campagna, lì intorno, a combattere con i rovi e con i pastori che, temendo gli espropri, nascondono (e talvolta distruggono) tutto. La notizia che proprio con le pecore vengono tenute a bada le erbacce di molti siti megalitici europei, in Sardegna pur- L’ALTARE DI GRANITO Sopra, da sinistra a destra: due menhir ritrovati nella zona di Laconi, oggi esposti nel museo della città, e una statua-stele di carattere astronomico, simile a quelle d’Irlanda, rinvenuta presso Mamoiada Qui a lato, l’altare monolitico in granito di Oschiri Massacro di antichità Mamoiada, poco distante, ha una stele-menhir che strabilia. Scolpita con spirali e cerchi concentrici è uno spettacolo: sembra Irlanda, è Barbagia. A custodirla è un giardino privato, ma sempre aperto e ospitale: non si capisce se davvero sia stata trovata lì o — per evitare che finisse deportata in qualche magazzino — si sia deciso tutti insieme che «è stata trovata lì». Sali ancora, puntando verso il Limbara a Nord est, e a Oschiri un intero roccione di granito è stato scolpito ad altare con decine di edicole chissà quando, chissà da chi. Roba in zona, lì e tutt’intorno, rimanda alla Creta del tredicesimo secolo avanti Cristo. Altri segnali sembrerebbero indicare datazioni assai più recenti: bizantine. Il luogo, comunque, invita a interrogarsi: quelli della Soprintendenza lo studiacchiano senza entusiasmo da anni, ma poi non lo pubblicano come si deve. Quindi date certe ancora non ci sono. Così quelli di Oschiri con Franco Laner — ordinario d’architettura a Venezia, DOMENICA 28 AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 SACRARI MEGALITICI E ANTICHI GUERRIERI Al centro della pagina, uno dei “sacrari” del complesso megalitico Pranu Mutteddu, a Goni. In basso a destra, testa di guerriero con elmo cornuto, appartenente a una grande statua di pietra. Le immagini sono tratte da “Sardegna preistorica e nuragica”, di Ercole Contu, edizioni Dessì; e da “Pietre magiche a Mamoiada”, di Giacobbe Manca e Giacomino Zirottu, edizioni Studiostampa ma ormai innamorato delle strampalate architetture sarde — hanno intenzione di metterla in rete, quella loro meraviglia, chiedendo al mondo intero di suggerire spiegazioni. Roba ormai salva, questa: visitabile. Tutt’intorno, però — tranne altre eccezioni da prendere a modello come la necropoli di Montessu, a Villa Peruccio nel Sulcis di Santadi, e la salvaguardia appena avviata a Muravera, in una valle di menhir — la maledizione papalina ha funzionato. Si fa la bonifica dell’Oristanese? Tutto via — dolmen e menhir — senza ripensamenti. Spietramenti regionali? Un massacro di antichità. Funzionari di Stato addetti alla salvaguardia e ricerca? Uno su due non funzionano e spesso, per di più, non fanno funzionare gli altri. Colossali recinti preistorici che farebbero la felicità di mille archeologi? Usati come cave di pietre già pronte. Furti? Uno via l’altro: basta tener d’occhio i giornali; quasi un self service, la Sardegna, si ruba pure dai musei appena fatti. Insomma l’anatema di Papa Gregorio colpisce ancora, dopo più di 1400 anni, le Pietre di Sardegna. Il caso forse più vistoso è quello del pantheon nascosto: un intero pantheon di trenta grandi statue, una straordinaria parata di figure alte due metri e più che ripetono i temi dei bronzetti sardi, ingigantendoli. Scoperto nella zona di Cabras dall’aratro di un contadino nel 1974, dissepolto nel 1979 — a parte due spezzoni esposti a Cagliari — quel pantheon fu inumato di nuovo nei magazzini della Soprintendenza di Cagliari, per trent’anni, fino a pochi mesi fa. In giro se ne sapeva poco o niente, fin quando Il Giornale di Sardegna non ha saputo che solo ora ne è stato avviato il restauro e ne ha dato notizia suscitando un’indignazione di massa che chiede conto del perché sia stato coperto dall’oblio — e per tre decenni — un in- tero capitolo di arte sarda, che, pure, aveva affascinato fin da subito i più grandi archeologi del ramo. Nell’attesa — per conoscerla davvero questa Sardegna segreta — conviene affidarsi a una sorta di fai-da-te. Anzi un vai-da-te: fatto di libri giusti e di passaparola scelti, selezionati, chiedendo a gente del posto (o nei comuni) consigli e dritte che possono guidarti lì dove i cartelli mancano, dirottano o confondono. Due libri appena usciti rompono il secolare silenzio, sfidando il diktat di Gregorio I e riportando la gente ad ammirare le antiche pietre. Uno è la “Bib- bia” dell’archeologia sarda: La Civiltà dei Sardi si chiama ed è la riedizione (aggiornata) del più completo manuale mai dedicato all’isola e alla sua storia. L’autore, Giovanni Lilliu, parte dall’Isola delle Torri e spazia per l’intero Mediterraneo a caccia di somiglianze tra i reperti che la sua terra ha restituito e quel che si conosce di altre etnie: veneri sarde e veneri cicladiche, ma gemelle; dee madri anatoliche e oristanesi, uguali come gocce d’acqua; decori ciprioti e campidanesi che però sembran fatti dalle stesse mani; scarabei egizi saltati fuori però a Tharros, sulla costa Veneri sarde uguali a veneri cicladiche, dee madri anatoliche fotocopia di quelle oristanesi, pezzi egizi ritrovati a Tharros occidentale sarda. La Civiltà dei Sardi è un volumone di 910 pagine (edizioni Eri, 20 euro) e permette di scoprire — millennio dopo millennio, a cominciare dal 6000 avanti Cristo, cioè dal Neolitico antico — una realtà che, per ora, i musei nascondono dietro gerghi fin troppo specialistici: integrato dalle guide tematiche dei siti archeologici (edite da Carlo Delfino) e da chi sul posto ha il compito di illustrare i luoghi, permette a chi arriva da fuori di scassinare il doppiofondo della storia sarda. Miniere di vita fossile Per azzardarsi ad andare ancora più indietro — nelle vertigini cronologiche del periodo precedente, nel regno quasi fiabesco dei fossili — c’è ora un altro libro: La Sardegna prima della Storia (Cuec, 14 euro), che si ferma alle prime testimonianze dell’uomo nell’isola. Dolmen, menhir, “domus de janas” (ovvero case di fate), tombe dei giganti qui chiudono il racconto che inizia milioni d’anni prima. A realizzarlo è stato Pier Giorgio Pinna, che per l’occasione ha perlustrato, setacciato e raccontato le «miniere di vita antica» che punteggiano la Sardegna, tracciandone mappe e itinerari. Fino a una quindicina di anni fa si pensava che l’uomo nell’isola (geologicamente considerata terra antichissima) fosse arrivato «da poco»: «Sei, settemila anni avanti Cristo, al massimo» si sentenziò. Poi, però, una grotta di Cheremule ha restituito resti umani e animali che risalgono a 300mila anni fa. E d’improvviso, negli anni Novanta, la Sardegna si è fatta vecchia, vecchissima, e tutta ancora da indagare. Spesso a guidare Pier Giorgio Pinna e a regalargli le sorprese che lui gira al lettore sono i grandi della geologia e della paleontologia sarda. Così basta seguirli e, via via, ci s’imbatte in foreste pietrificate (vicino Perfugas, vicino Abbasanta), coccodrilli nani della Nurra (vicino Sassari), tronchi di palme ormai diventate roccia (al Museo Sanna di Sassari), tutta roba che altrove incolonna carovane di appassionati e deporta scolaresche per visite guidate. In Sardegna no. A ogni intervista eccolo rispuntare — nelle lamentele degli esperti che Pinna consulta — il rimpianto di quel che si potrebbe fare e non si fa: «In fondo, che ci vuole a creare itinerari turistico-culturali?», si sfogano Carlo Spano e Sebastiano Barca, docenti dell’Università di Cagliari. «Serve — servirebbe — una rete ragionata di musei diffusi: garantirebbero una conoscenza e una sorveglianza generalizzata del territorio che a breve darebbe i suoi frutti. E una sorta di enciclopedia geologica quest’isola: vi si possono trovare ben conservati fossili di tutti i periodi, dal Cambriano al Quaternario passando attraverso il Mesozoico e il Terziario». Per ora, a conoscerne una per una le pagine più segrete, sono soprattutto i trafficanti di fossili: stringe il cuore il libro-inchiesta di Pinna quando si mette a raccontare di quanta roba vola via dall’isola verso la Svizzera e la Toscana, da sempre centrali di traffici neppure troppo clandestini. DOMENICA 28 AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 la lettura Satira e dittatura La rivolta contro lo Scià per finire nella teocrazia dei mullah, il fragile innamoramento per Khatami, l’astensione suicida che apre la strada al reazionario Ahmadinejad. Marjane Satrapi racconta nelle storie disegnate di “Persepolis”, meglio di un’analisi politica, la passionalità e gli errori dell’intellighenzia persiana Iran, il sogno e la follia a fumetti «D VANNA VANNUCCINI io mio, che cosa abbiamo fatto?». Il giorno dopo l’elezione di Mahmmud Ahmadinejad, il conservatore che si è insediato la scorsa settimana al posto del riformatore Khatami, gli iraniani si guardavano sgomenti. In 17 milioni avevano votato per uno che diceva «non abbiamo fatto una rivoluzione per avere la democrazia»; mentre gli altri si erano rifiutati di votare per «il male minore», l’ex presidente Hashemi Rafsanjani. Non è la prima volta che gli iraniani scoprono di aver agito per eccesso di emotività e di passione, senza pensare alle conseguenze. Gli slanci emotivi hanno scandito la loro storia — dalla rivolta del tabacco in cui tutti smisero di fumare perché i Qajar, una dinastia alla perenne ricerca di quattrini, aveva ceduto il monopolio del tabacco al britannico Talbot (e poco dopo cedette a un altro britannico le concessioni petrolifere), alla rivoluzione costituzionale del 1906; fino naturalmente a quella, più a sorpresa di tutte, del 1979, quando gli iraniani si resero conto troppo tardi di aver preso «un terribile abbaglio»: per abbattere una dittatura avevano volontariamente fatto posto ad un’altra. I fumetti di Marjane Satrapi, la sua Persepolis, Storia di un’infanzia, ci raccontano passo per passo quel crescente sgomento. A quel tempo, lo Scià era diventato per gli iraniani il responsabile di tutti i mali. Bastava un litigio tra marito e moglie, e la colpa era dello Scià. Fu facile ai mullah manipolare e canalizzare queste forti emozioni. In uno dei fumetti, i rivoluzionari tirano fuori dagli ospedali persone morte di morte naturale e le portano sulla spalla per far credere al popolo che siano martiri uccisi dalla Savak, la polizia segreta dello Scià. Il padre della piccola Marjane si accorge dell’inganno ma non lo stigmatizza. Solo lei ha qualche dubbio su questa mescolanza incongrua di cadaveri, cancro, martiri e assassini. Con gli occhi di una bambina Marjane guarda la rivoluzione con gli occhi di una bambina di nove anni. Crede che vi sia una logica dietro le decisioni degli adulti e annota con stupore tutte le loro contraddizioni. I genitori sono ricchi di famiglia, di discendenza principesca, rivoluzionari a tempo pieno, liberali, amici di comunisti e, come tutti gli iraniani, appassionatamente nazionalisti. L’orgoglio nazionale è al centro di tutte le loro azioni, spesso li rende irrazionali, fa vedere il complotto contro l’Iran dappertutto. Prima della rivoluzione del ‘79 l’Occidente, dice Satrapi, dell’Iran aveva GATTO E TOPO, UNA METAFORA POLITICA DEL 1300 Poesia satirica di un poeta del 1300 (Obayad Zakani): un topo bevve vino da un’anfora, si ubriacò e cominciò a prendere in giro un gatto. Questi, offeso, lo catturò con un balzo. Il topo spaventato cambiò tono: “Ero ubriaco e mangiai merda” (in persiano significa commettere un grave errore), si scusò. Ma fu mangiato. Più tardi un amico del topo, nascosto dietro il pulpito di una moschea, vede il gatto che prega e chiede perdono per aver mangiato il topo. Corre dagli altri topi e annuncia: “Buone notizie. Il gatto si è pentito. È diventato un devoto musulmano”. Allora i topi andarono dal gatto portandogli omaggi e doni. E il gatto, che fino ad allora aveva mangiato dei topi solo saltuariamente, li attacca tutti insieme e se li mangia. solo un’immagine da Mille e una notte: di satrapi crudeli e dissoluti, e harem lussuriosi. La rivoluzione sembrò la più folle mai avvenuta contro i sistemi che reggono il mondo. Chi si sarebbe mai aspettato che quegli stessi studenti che venivano a studiare nelle università europee e americane sfidassero i carri armati dello Scià per seguire la parola di un vecchio imam che viveva nella banlieue parigina e di cui si sapeva solo che ogni mattina all’alba attraversava la strada per inginocchiarsi in direzione della Mecca? E chi si sarebbe aspettato che donne della borghesia, liberali o comuniste, che non avevano mai portato il velo, se lo mettessero nelle manifestazioni solo perché qualche barbuto di turno glielo chiedeva, in nome dell’indipendenza dell’Iran? E che il novanta per cento degli iraniani votassero per una costituzione con cui la dittatura del Leader spirituale diventava dottrina dello Stato e i diritti delle donne venivano dimezzati? Come la piccola Marjane, l’Occidente cercò di trovare una logica in quella follia. «Il sogno degli iraniani era trovare una via alternativa alla modernità occidentale. Cercavano una spiritualità nella politica, ciò che noi abbiamo perso dopo il Rinascimento» scrisse il filosofo francese Michel Foucault, che seguiva gli avvenimenti come inviato del Corriere della Sera. Colse meglio il carattere emotivo e irrazionale degli avvenimenti Ryszard Kapuscinski che annotò: «Quando gli iraniani non ne possono più di un governo, tutto il popolo si irrigidisce e il governo scompa- LA RIVOLUZIONE A STRISCE In alto, tavole tratte da Persepolis, il fumetto autobiografico di Marjane Satrapi che racconta le trasformazioni dell’Iran, dalla rivoluzione islamica ai giorni nostri Studenti usciti dalle università occidentali innamorati di un vecchio imam, donne libere e liberali in piazza col velo re, come se l’avesse inghiottito un terremoto». Una volta cresciuta, Marjane si accorge che dietro le azioni degli adulti una logica non c’è. Vede i suoi concittadini agire preda di sentimenti e risentimenti, passioni ed emozioni: di razionalità non c’è traccia. Anche il voto per Khatami, otto anni fa, era stato dettato dalla passione. Khatami era un mullah atipico. Sorridente, affascinante, elegante e colto. Prometteva democrazia. Ma non controllava né l’esercito né la polizia né i tribunali. Gli iraniani lo sapevano bene, ma poi lo dimenticarono. Dopo aver aspettato pazientemente per sei anni, all’improvviso decisero che Khatami non era che un miraggio. E non andarono più a votare. Fu così che nel febbraio del 2003 Mahmud Ahmadinejad, l’attuale presidente, cominciò la sua carriera politica: fu eletto sindaco di Teheran con il dodici per cento dei voti, quelli della parte tradizionalista, fortemente minoritaria, della popolazione iraniana che è sempre stata contraria alla penetrazione della modernità. Il tradimento dei poveri Alle ultime elezioni a quel dodici per cento si sono aggiunti i voti di quel trentacinque per cento (spesso sono gli stessi, perché i più poveri sono anche i più tradizionalisti) che vive sotto la soglia di povertà in un paese che è il secondo al mondo per risorse di petrolio e di gas. Questi poveri si sentono traditi da una rivoluzione che era stata fatta in loro nome e invece ha arricchito una nuova casta di mullah, capace di impadronirsi (Rafsanjani è l’esempio più impressionante) delle ricchezze del paese. A loro Ahmadinejad aveva promesso di distribuire una fetta delle immense rendite petrolifere e così l’hanno votato. Tra coloro che, invece, si sono rifiutati in buona coscienza di andare a votare c’erano i puristi, come il premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, che «non voterà fin quando il Consiglio dei Guardiani avrà diritto di veto sui candidati». C’erano minoranze etniche come gli azeri, che vivono nell’Azerbaijan iraniano e parlano una lingua turca ma si sentono iraniani, anzi l’élite civile e intellettuale dell’Iran, e che portano a Rafsanjani un rancore incancellabile per come, da presidente, aveva trattato Tabriz, la loro amata capitale regionale un tempo capitale di tutto l’Iran. Questa non è una città, aveva detto Rafsanjani, ma un grande villaggio. La sua parte d’irrazionalità l’ha mostrata anche l’Occidente. Prima non ha creduto che Khatami fosse veramente un riformatore, nonostante lo fosse sicuramente agli occhi dei mullah. La guerra in Iraq, poi, ha regalato al regime teocratico degli assi in mano che mai si sarebbe sognato. Un governo a maggioranza sciita a Bagdad è un’occasione storica, e il premier Safari sa bene che è più saggio stringere un’alleanza con il regime teocratico di Teheran piuttosto di rischiare che l’Iraq precipiti in un caos ancora maggiore. Mahmud Ahmadinejad è una pagina ancora da scrivere. Mira allo scontro o fa solo la voce grossa? L’Iran vuole davvero la bomba atomica o vuole solo non subire discriminazioni e poter disporre di energia nucleare come tutti i paesi firmatari del Trattato di non proliferazione? La questione nucleare è diventata acuta come se la bomba potesse essere pronta domani, mentre tutti sanno bene, e i servizi d’intelligence americani lo confermano, che ci vorranno almeno dieci anni prima che l’Iran abbia questa capacità. Ma una discussione razionale sulla questione sembra ormai impossibile, come si è visto per il tira e molla di questi giorni sulla “ripresa immediata” delle attività nucleari, con i cameramen della tv iraniana che sono rimasti per ventiquattro ore ad aspettare a Isfahan la riapertura degli impianti per l’arricchimento dell’uranio, che poi è stata rinviata. Attoniti, gli iraniani sfogliano Hafez, il poeta che hanno sempre interrogato per avere una predizione del futuro. Vanno a Shiraz sulla sua tomba, aprono a caso il suo Diwan e mettono il dito su un poemetto. Ma il poeta immancabilmente risponde: «Hafez, la vita è un indovinello, rinunciaci: non vi è risposta, solo questa coppa». 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA28 AGOSTO 2005 Tra le due sponde dell’Atlantico si gioca una partita a colpi di concerti e cd. Da sempre i campioni sono gli artisti “stelle e strisce”, ma anche i sudditi di Sua Maestà si prendono a volte clamorose rivincite. Come con Beatles e Stones negli anni Sessanta e come adesso che, dopo un decennio di sconfitte, sono tornati a dominare le classifiche. Con band giovani destinate a dominare a lungo la scena BEACH BOYS SPRINGSTEEN Il loro surf è arrivato prima del beat. Ma la band californiana ha dovuto “inseguire” i Beatles a lungo Il difensore del rock “puro e duro” arriva al cuore dei fan negli anni 70 Ed è ancora il più amato BEATLES DAVID BOWIE Nessuno è mai riuscito a superarli I Beatles conquistarono l’America in maniera totale Con i suoi “Spiders from Mars” Bowie sbanca negli Usa E contribuisce alla riscoperta di Lou Reed ’60 ’70 La sfida della musica Se gli inglesi le cantano agli americani ERNESTO ASSANTE l ROCK si muove per ondate, per waves se vogliamo mantenere un termine inglese che ha segnato varie epoche della musica giovanile. E queste onde solcano l’oceano, vanno dalle coste britanniche a quelle americane e tornano indietro, portando con loro suoni, atmosfere, sentimenti, mode, linguaggi, codici espressivi che, nel viaggio, conquistano pian piano i ragazzi di tutto il mondo. L’impero del rock è ancora saldamente angloamericano e dalle province nulla è arrivato, se non per breve tempo, a scuotere questo dominio. Ma tra Londra, New York, San Francisco, Liverpool, Seattle, Glasgow, è ben difficile decidere quale sia la capitale dell’impero, quale nazione possa detenere il titolo di “terra del rock”. Perché in epoche diverse lo scettro è passato di mano in mano e, a seconda delle ondate, è stata la musica britannica o quella americana a dettar legge, è stato lo stile british o quello yankee a dominare la scena. Oggi, dopo molti anni di relative “sconfitte”, sembra essere nuovamente tornato il momento della musica che arriva dal Regno Unito e in America si parla sempre più frequentemente di una nuova «British Invasion», proprio a quarant’anni di distanza dalla storica prima invasione delle band inglesi, quella capitanata dai Beatles che, alla metà degli anni Sessanta, arrivarono negli Usa seguiti dai Rolling Stones, dagli Who, dai Kinks e da centinaia di altre band, che sconvolsero la musica americana e conquistarono le classifiche. I nomi delle band sono ancora sconosciuti al grande pubblico ma già nel cuore dei fan del rock: Kaiser Chiefs, Athlete, Keane, Franz Ferdinand, Snow Patrol, Kasabian, Bloc Party, accanto ai quali ci sono i cantautori, da James Blunt a Damien Rice, voci soul e rap come quelle di Joss Stone e The Streets, e molte star già affermate, da Robbie Williams agli U2, dai Coldplay ai Radiohead, dagli Oasis ai Muse, fino ai Gorillaz, nati dall’inventiva di Damon Albarn dei Blur. Nelle classifiche inglesi, per la prima volta dopo dieci anni, sono gli autoctoni a dominare, in tutta Europa le band britanniche sono state le star dei festival estivi e negli Usa questa estate sono stati gli inglesi a contendere le posizioni alte delle classifiche agli artisti di casa. E il fenomeno promette di essere ancora più ampio, con molte altre band sulla rampa di lancio, pronte ad attraversare l’oceano per andare alla scoperta dell’America del rock. «La nuova British Invasion è inevitabile», scrive trionfalmente il Guardianin Inghilterra, riportando i dati del mercato inglese di quest’anno. E anche dall’altra parte dell’oceano sembra che la situazione sia chiara, e i giornali parlano di una nuova «golden age» della musica britannica. La “nuova ondata” inglese è decisamente interessante e ricca di band e personaggi che meritano di essere ascoltati. Innanzitutto perché è un ondata di gruppi che riscoprono il gusto di suonare il rock ad alto volume e con le chitarre elettriche, mettendo da parte sia le tastiere elettroniche che hanno dominato il suono negli anni Ottanta, sia i computer del decennio successivo: «Non è che non ci interessi la tecnologia», sottolineano i Franz Ferdinand, una delle migliori formazioni emerse negli ultimi anni in Inghilterra, «ma pensiamo sia arrivato il momento di tornare a suonare davvero». E come loro la pensano tutte le band e i solisti della nuova generazione, che hanno imparato ad usare le macchine e che oggi ne fanno un uso intelligente. Quarant’anni fa, dopo l’esplosione tutta americana del rock’n’roll, furono i Beatles a far sventolare l’Union Jack sulle classifiche americane, portando il beat negli Stati Uniti: tutti divennero dei cloni dei gruppi britannici, se Repubblica Nazionale 40 28/08/2005 I Paul McCartney “È una storia semplice. La musica viaggia e ognuno di noi è influenzato da quello che ascolta. Brian Wilson dice che ascoltò “Rubber Soul” dei Beatles e che quel disco lo ispirò per realizzare “Pet Sounds” con i Beach Boys. Noi ascoltammo “Pet Sounds” e fummo influenzati nel realizzare “Stg.Peppers” Da The Guardian del 23 Gennaio 2004 non nel suono almeno nell’abbigliamento o nel taglio di capelli; persino chi era lontano mille miglia dalla sensibilità del beat, come Frank Sinatra, dovette cedere all’ondata, e adattare il suo mondo sonoro alla nuova moda planetaria. Oggi i giovani, giovanissimi ragazzi del nuovo rock inglese non possono essere individuati come un movimento omogeneo, non hanno un suono dominante, ognuno si veste come vuole, non portano con loro una moda, mescolano volentieri i suoni e gli stili. Si vestono con abiti attillati e neri, come fanno i Ferdinand, o in maniera spettacolare e seventies come i Darkness, sono multirazziali come i Bloc Party, o estremamente british come The Rakes, figli di una nuova Inghilterra che parla mille lingue diverse nelle sue periferie urbane e che gioca con il rock con la stessa leggerezza dei gruppi beat quarant’anni fa. E non è Londra a tenere banco, e nemmeno Manchester che per tanto tempo ha “governato” il brit-pop e che dieci anni fa lanciò l’ultima grande ondata inglese. Quella di oggi è una scena nella quale vanno alla grande i piccoli centri, le località di provincia, i luoghi dove il rock è ancora suonato nelle cantine e nei club, dove raccontare storie è sicuramente più importante che apparire. Da Leeds arrivano i Kaiser Chiefs, la più in vista delle giovani band, una delle formazioni che ha già conquistato il pubblico americano. James Blunt, che ha dominato anche le classifiche italiane per tutta l’estate con la sua Beautiful, è di Bedlam. Da Birmingham arrivano gli Editors e The Streets, mentre la Scozia ha messo in campo i Franz Ferdinand, da Glasgow. I Futureheads sono di Sunderland, da Londra arrivano i Bloc Party e da Manchester i Doves. Se una costante si può trovare nei nuovi campioni del brit-pop è quella di un continuo riferimento all’ultima grande stagione della musica britannica, quella degli anni Ottanta, quando la new wave travolse il rock e gli americani dovettero piegarsi ad un lungo periodo di dominio britannico. Il revival degli anni Ottanta ha colpito, ovviamente, anche il rock americano ma adesso sono le band inglesi a far da traino e a guidare le danze. Cosa è successo al rock americano? Innanzitutto negli Usa sono il rap, il nuovo soul, il r’nb nelle sue mille versioni, da quelle più pop a quelle dance, da quelle commerciali a quelle raffinate, a dominare la scena. Il suono americano del nuovo millennio è sostanzialmente il suono della musica nera, e persino le starlette bianche come Britney Spears o le boy band di maggior successo, come gli ormai tramontati N’Sync di Justin Timberlake, hanno orientato il loro suono verso quello della black music. Il rock viene difeso ancora dai gruppi metallici (gli Staind sono primi in classifica negli Usa questa settimana), o dal punk melodico dei Green Day, ma per il resto non c’è una nuova generazione di formazioni rockin grado di offrire al pubblico dei giovanissimi la necessaria “scossa elettrica”. «La musica inglese oggi è più viva, più libera, meno condizionata dai dirigenti delle case discografiche», sottolinea Simon Frith, uno dei più grandi studiosi di popular music, «il pop di grande consumo in America è standardizzato ed il rap rischia di entrare in un circuito ripetitivo e autoreferenziale. Le nuove band britanniche, invece, sono veloci, leggere, raccontano storie vere, hanno il gusto dell’ironia, non pretendono di essere megastar irraggiungibili, sono molto simili a chi le ascolta». DOMENICA 28AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 Parlano i Kaiser Chiefs, protagonisti della new wawe d’Oltremanica “Suono genuino, sincerità e un po’ d’ironia ecco il segreto del nostro successo” guidare la nuova invasione degli Stasa il successo, ovviamente, ma non a scapiti Uniti d’America è una band di proto della nostra musica. E poi credo che la vincia che ha mutuato il nome da gente capisca che non ci prendiamo tropquello di una squadra di calcio sudafricana po sul serio. Troppe band lo fanno, sono sue che ha un suono inconfondibilmente briperimpegnate, credono che tutto giri attortish. Si chiamano Kaiser Chiefs, vengono da no a loro. A noi invece piace l’ironia, e creLeeds, hanno realizzato un ottimo album do si capisca bene dalle canzoni che scrid’esordio, Employment e tre singoli davveviamo e dal modo in cui siamo in scena». ro imbattibili, come Everyday i love you less La musica inglese sta attraversando un and less, Na na na na na e I predict a riot. periodo di grande fermento, soprattutto il Hanno da poco terminato un tour di sucrock. cesso negli Stati Uniti: «È stato un giro di «Si, erano molti anni che non accadeva concerti davvero entusianel campo del rock. Sono tansmante», dice il tastierista del tissime le nuove band che gruppo, Nick Baines, «i ragazstanno ridisegnando il panozi hanno affollato tutti i nostri rama musicale inglese. Ed il concerti, abbiamo avuto bello è che ogni band suona un’ottima accoglienza». È lui diversa dalle altre, c’è una per primo a credere ad una grande varietà di proposte e di nuova «british invasion»: «Si, idee». è possibile davvero, sta già acFormazioni che arrivano cadendo. Noi, i Kasabian, i in gran parte dalla provincia. Futurehads o i Bloc Party, ad «E altre ne stanno arrivanesempio, stiamo avendo un do, da Hull, da Sheffield. Il KAISER CHIEFS buon successo. Penso che il nuovo rock inglese è molto I nuovi eroi del brit-rock rock inglese oggi funzioni in ben radicato nel territorio...». America perché i ragazzi hanMolte idee sembrano arrino bisogno di ascoltare una musica che abvare dall’ultima grande stagione del rock bia meno fronzoli e più passione. In Ameribritannico, quella degli anni Ottanta. ca è tutto superprodotto, sembra tutto fin«Il suono degli anni Ottanta è certamento, c’è molto rock e molto punk ma non ci te presente nella nostra musica, molti dicosono band come le nostre». no che in alcuni momenti ricordiamo i Jam, Cosa vi rende diversi? i Clash, ma a noi piace dire che abbiamo «Il fatto che siamo così come la gente ci preso anche molto dalla musica degli anni vede. Siamo naturali, quello che facciamo Sessanta e Settanta, e che tutte queste ine scriviamo ci rappresenta davvero. Sapfluenze le abbiamo messe in una musica piamo che le canzoni che scriviamo sono che è di oggi, moderna». quelle che vorremmo ascoltare, ci interes(e. a) A TALKING HEADS NIRVANA Hanno segnato il suono degli anni Ottanta. Anche se con l’aiuto di un inglese, Eno E con un leader nato in Scozia È l’ultima ondata del rock, quella del grunge di Seattle ed è capitanata dalla band di Kurt Cobain POLICE OASIS È l’Inghilterra a dominare il decennio, anche con il reggae’n’roll di Sting e dei suoi compagni Da Manchester la band dei fratelli Gallagher cerca di far rivivere il brit-pop Con alterne fortune ’80 ’90 Repubblica Nazionale 41 28/08/2005 GREEN DAY Hanno “rifondato” il punk, depurandolo di tutto quello che c’era di britannico e rivendendolo agli inglesi come un prodotto americano, più vicino al pop e al rock di Mtv e delle radio Fm. Sono tra i grandi campioni del rock americano di questi ultimi anni, accanto ai Blink 182, agli Offspring, o alle band del nuovo metal, come gli Staind, primi in classifica una paio di settimane fa, i System of a Down, Korn, Linkin’Park, o la più giovanile e pop Avril Lavigne. A rispondere alla nuova ondata “brit” ci sono gli Strokes, The Bravery, i White Stripes, i Good Charlotte e molte altre formazioni che arrivano dalla scena “indipendente” COLDPLAY La formazione di maggior successo del nuovo rock britannico è quella di Chris Martin, arrivata al terzo album, “X & Y”, ancora ai vertici delle classfiche in tutto il mondo. Sono stati i primi a dare i segni di una nuova vitalità della scena inglese, dopo il successo dei Radiohead, dei Muse, dei Blur e degli Oasis, che dalla metà degli anni Novanta ad oggi hanno tenuto alta la bandiera del rock britannico. 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Frutti del bosco DOMENICA 28 AGOSTO 2005 Un agosto particolarmente umido lancia la stagione di porcini, ovuli, galletti e le fiere di questi buonissimi parassiti, prima fra tutte quella di Albareto, dall’8 all’11 settembre. Un cibo prelibato fin dall’antichità ma non facile: ogni anno si paga pegno, con centinaia di avvelenamenti, per gli esemplari raccolti e mangiati con troppa leggerezza Funghi Sole e pioggia, la caccia è aperta Ovulo buono Raro, bellissimo e buonissimo – a patto di non confonderlo con la velenosa Amanita Muscaria –, l’Amanita Caesarea è il più prezioso tra i funghi da consumare crudi. Strepitoso il mix con il tartufo bianco Chiodino L’Armillariella Mellea è detta chiodino per la sua forma puntuta. Date le dimensioni ridotte, non va tagliato e necessita una sbollentata prima della preparazione. Ottimo trifolato e in umido, con gnocchi e polenta LICIA GRANELLO ioggia e sole, sole e pioggia. Roba da farsi venire mal di testa. Eppure, il saliscendi meteorologico di questi giorni ha un merito: quello di riempire cuore e paniere dei cercatori di funghi. Perché non c’è modo di dire più azzeccato: nascono come funghi. Appunto. Frutti di una pianta, il micelio, composta da filamenti sottilissimi intrecciati nel terreno o in altri substrati, i funghi non vivono grazie alla sintesi clorofilliana come gli altri vegetali, bensì per merito di sostanze organiche “rubate” alla pianta-ospite o recuperati nel terreno. Insomma, che siano parassiti, saprofiti o simbionti (come i licheni), gli ottantamila tipi di funghi classificati a partire dagli inizi del Settecento sono inversamente proporzionali alle nostre crisi meteoropatiche. E infatti, si fregano le mani gli organizzatori della Fiera del fungo porcino di Albareto, in programma dall’8 all’11 settembre: negli ultimi giorni, l’Appennino tosco-emiliano è tutto uno spuntar di porcini, tutelati dall’indicazione geografica protetta da ben dodici an- P ni, pronti a farsi ammirare, turgidi e setosi, nei cesti dei quasi cento espositori presenti, prima di finire in padella. Per gli appassionati, l’appuntamento più intrigante coincide con la prima sera della rassegna, quando verrà assegnato il decimo Porcino d’Oro. Da lì in poi, nulla vi sarà negato: escursioni guidate e mostre fotografiche, convegni e mini-stage di cucina. Ma soprattutto, ad Albareto i funghi si gusteranno in tutti i modi, con il solo limite della fantasia dei cuochi. L’elenco è pressoché sterminato, che si tratti di cotture “in purezza” — grigliati, fritti, trifolati, scaloppati — o ricette composte: bignè, carpacci, crostini, insalate, torte, crepes, maccheroni, polenta, risotti, zuppe, su su fino al suadente gelato al porcino. Il tutto, a patto che gambi e cappelli siano all’altezza della fama, tanto al naso — odore profumato, non piccante, senza inflessioni di fieno — che in bocca — sapore fungino intenso e purissimo — come recita la descrizione del prodotto Igp. Certo, non si tratta di un cibo facile. Malgrado siano conosciuti e consumati da migliaia di anni, ogni anno si paga pegno per gli esemplari che ancora vengono raccolti con leggerezza e mangiati con ignoranza. Gli avvelenamenti sono centinaia, di cui pochi, per for- Colombina dorata Il nome botanico, Russula Aurea, sottolinea il colore dorato-arancio del cappello. Ha consistenza soda ma delicata: ottima per le preparazioni a fuoco vivo – grigliata, fritta – mentre le lunghe cotture la penalizzano Galletto Mazza di Tamburo Porcino Prataiolo Il Cantharellus Cibarius – detto anche finferlo e gallinaccio – ha sapore caratteristico, lievemente amaro e piccante, perfetto per il goloso sugo rosso della cucina laziale. Si cucina anche trifolato e nel risotto Riconoscibilissima per la forma lunga e affusolata, da cui il nome procera, lunga, la Lepiota Procera ha gambo fibroso, inutilizzabile, mentre il cappello impanato e fritto – ottimo – va considerato una cotoletta vegetale Il Boletus Edulis, primo tra i tanti boleti derivati dagli alberi-madre – leccino, porcino dei castagni, laricino, pinarello, albarello… – è prelibato e versatile. Carnoso, si conserva sia essiccato che sott’olio Pochi funghi come l’Agaricus Campestris crescono nei prati, lontani dalla bioculla del sottobosco e di rado associati ad alberi. Se giovani, possono essere gustati crudi in insalata, altrimenti si fanno trifolati DOMENICA 28 AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Albareto (Pr) itinerari Al ristorante St.Hubertus di San Cassiano (Bolzano), Norbert Niederkofler miscela sapori globali e materie prime apparentemente distanti, come nei fagottini fatti in casa ripieni di porcini e scampi, accompagnati da calamaretti spillo Piazza Brembana (Bg) Camigliatello Silano (Cs) Gemellato da tre anni con Alba, delimita con Borgo Val di Taro e Pontremoli il triangolo geografico del Porcino Igp (indicazione geografica protetta). Nei suoi boschi, a partire dalla primavera, si trovano anche i profumatissimi Prugnoli Sopra la stazione termale di San Pellegrino, nel cuore della Val Brembana, terra di formaggi (Branzi, Taleggio) e della polenta Taragna - a base di grano saraceno, burro e formai de mut (monte) – si trovano porcini, gallinacci e mazze di tamburo Poco più di un secolo di attività per il centro turistico della Sila a quota 1.272, che offre buone piste per sciatori a partire dal Rifugio del Tasso. Ma l’economia locale ruota soprattutto intorno alla raccolta e commercializzazione di funghi e frutti rossi DOVE DORMIRE CASA DELLE ERBE Loc. Pieve di Campi tel. 0525 990235 camera doppia da 60 euro, colazione inclusa DOVE DORMIRE ALBERGO PIAZZA BREMBANA (con cucina) Via Bortolo Belotti 70 Tel. 0345 81070 Camera doppia da 51 euro, colazione inclusa DOVE DORMIRE AQUILA-EDELWEISS via Stazione 11 Tel. 0984 578044 Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE BERZOLLA Via Provinciale 42 Tel. 0525 999828 Chiuso venerdì, menù da 22 euro DOVE MANGIARE ALBERGO DELLA SALUTE (con camere) Via G. Donizetti 13, Olmo al Bremo Tel. 0345 87079 Senza chiusura estiva, menù da 20 euro DOVE MANGIARE LA TAVERNETTA contrada Campo San Lorenzo Nord-Est Tel. 0984 579026 Chiuso mercoledì, menù da 30 euro DOVE COMPRARE FUNGHI ORSI Località Buzzò 15/A Tel. 0525 999705 DOVE COMPRARE ORTOFRUTTA DONATI Via Calvi 1 Tel. 0345 81158 DOVE COMPRARE FRUTTA E VERDURA OCCHIUTO Corso Europa 133, Spezzano della Sila Tel. 0984 431602 L’uomo raccoglitore superstizioni e magie MICHELE SERRA appassionato che si accosta al venerabile regno dei funghi con spirito scientifico, munito di regolamentari libroni e libretti, è in netta minoranza. Sì, ha letto le dotte introduzioni alla micologia nelle quali si spiega che solo la classificazione botanica delle diverse specie consente di orientarsi, evitando gli avvelenamenti. Ma in breve, nei boschi e nelle cucine, nelle chiacchiere e nelle ricette, il suo risicato abicì sprofonda nel mare oscuro delle credenze, dei proverbi, delle tradizioni locali, ancora diffusissimi e spesso utilizzati come precaria bussola dagli incauti raccoglitori. Il mondo dei funghi appartiene alla botanica, ma il mondo dei fungaioli è ancora pervaso di cultura contadina, dunque di cultura magica. E il vero “relativismo”, spieghiamolo una volta per tutte al nostro amico Marcello Pera, si dispiega in tutta la sua perniciosa potenza proprio nella credulità a-scientifica e irrazionale. Se non esiste più, almeno si spera, la convinzione che i funghi tossici anneriscano il cucchiaio d’argento immerso nel tegame, oppure la strampalata idea che i funghi intaccati dalle lumache siano comunque buoni, è però ancora forte l’inerzia di antichissime usanze che contraddicono e a volte capovolgono le indicazioni della scienza. In molte regioni dell’Est europeo si consumano interi barili di boletacci tossici (compreso il Satanas) messi a macerare sotto sale, considerati una squisitezza. Nelle Alpi Marittime ho visto raccogliere con entusiasmo un lattario del larice definito non commestibile (provocherebbe diarrea) da molti testi sacri, nelle Madonie si preferiscono i coriacei pleurotus ai porcini, la Lombardia va matta per il chiodino stracotto e irrimediabilmente amaro, in Polonia, una quarantina di anni fa, mezzo villaggio andò all’altro mondo per una scorpacciata collettiva del famigerato Cortinario Orellanus, che inchioda le reni dopo un’incubazione di dieci giorni. C’è sempre qualcuno disposto a giurare che la nonna cucinava proprio quelli, ma evidentemente le nonne polacche non sono state in grado di trasmettere con la dovuta precisione i propri saperi e sapori. Molto diffusa è anche la convinzione che stracuocere i funghi li mondi comunque dei veleni, ottenendo, nella migliore delle ipotesi, infami papponi di cappelle disfatte, indigeste come la cellulosa. E se la fame, generazioni fa, giustificava questo genere di forzature, oggi non si capisce proprio perché ostinarsi, in tanti luoghi del mondo, a ingurgitare funghi di serie C per la dubbia ragione che li si è raccolti con le proprie mani. La regola, che ogni buon dilettante impara da subito, è questa: i funghi velenosi sono poche specie (cinque o forse sei, in Italia, quelli potenzialmente mortali, una decina quelli che danno solo una robusta gastroenterite), e per prima cosa bisogna imparare a riconoscere quelli. È facile, sono quattro amanite, un cortinario e un entoloma, più una manciata di agarici, russole pepate, lepiote di piccola taglia. All’altro capo del problema, sono piuttosto pochi anche i funghi buoni, trenta o quaranta al massimo. In mezzo, c’è la marea delle specie che non sono tossiche ma nemmeno eduli, insomma non fanno male ma non si capisce la soddisfazione di mangiarli. Quelli, che sono la grande massa dei funghi, si impara a conoscerli negli anni. Riempirne cestini interi è, tra l’altro, un significativo oltraggio all’ambiente. I funghi, tutt’altro che fondamentali come alimento umano, sono decisivi per l’equilibrio e la salute del bosco, un prezioso scambiatore di sostanze biochimiche. Sono bellissimi e utili in loco, osservati e poi lasciati tranquilli a fare il loro mestiere. In pentola o sott’olio meritano di finire solo poche specie, e solo gli esemplari sani. Gli altri andrebbero rispettati, e non colti né rotti a bastonate (come molto spesso accade) anche se la nonna li cucinava così bene. Le nonne non sono infallibili, e soprattutto non è infallibile la memoria, che arriva a indorare perfino certe micragnose cene contadine, povere di proteine e di calorie. Meglio la spesa al supermercato che certe ingorde e irragionevoli razzie nei boschi. L’uomo raccoglitore è stato rimpiazzato dall’uomo coltivatore e poi, via via, da altre tappe dell’evoluzione. Perché regredire a quello stato così arcaico, e precario? L’ 80mila le specie dei funghi classificati in botanica 85% la percentuale d’acqua contenuta nei funghi 8mila tuna, mortali, e meno della metà, secondo le staSuperato l’esame, avete solo l’imbarazzo delle specie che troviamo tistiche, denunciati o vincolati al ricovero in la scelta. Dando per scontato che i funghi manabitualmente nei boschi ospedale. tengono turgore e profumi solo per poche ore Ai conoscitori tout court, mai sfiorati dal dubbio, (non andate oltre le 24 ore di conservazione), le il botanico Sacco (famoso per aver battezzato una ricette dedicate sono tantissime. varietà di menta) rispondeva inquieto che una A livello nutrizionale, abbondano in sali mipioggia è sufficiente a cambiare il colore — e quinnerali e vitamine, a fronte di un impatto calorico le calorie contenute in media di uno dei parametri di identificazione — del fungo ridottissimo. Il guaio è che la sostanza fibrosa di in cento grammi di fungo più velenoso, mimetizzandolo da commestibile. cui sono fatti li rende difficili da digerire, cotti o Del resto, l’agiografia fungaiola si porta apcrudi che siano (in alcuni casi, la cottura migliopresso quantità robuste di disastrose credenze ra la digeribilità). Se poi, come spesso succede, si popolari, dall’argento che si annerisce se immerso nell’acqua di cotopta per preparazioni grasse, come la frittura o l’aggiunta di panna tura di funghi velenosi al preteso cambio di colore al taglio, dalla proper legare, difficile sfuggire alle fatiche di una digestione complicava-odore alla prova-gatto (comunque orribile), dal lavaggio con ta. Però, chi ha gustato anche solo una volta una cappella di porciaceto alla cottura o all’essiccazione. Niente e nessuno ci mette al sino impanata sa che la tentazione è pressoché irresistibile… curo dalla tossicità, se non il controllo sanitario. Quindi, anche se ci Del resto, non tutti i funghi vengono per nuocere. Deve averlo si sente micologi professionisti, meglio fare un piccolo esercizio di pensato anche l’imperatore Claudio, un attimo prima di addentare umiltà e far controllare i tesori appena raccolti (e rigorosamente inil piatto a base di Amanita Falloide, amorosamente servita dalla moteri, i frammenti possono non essere indicativi) in una qualsiasi Asl. glie Agrippina. Repubblica Nazionale 43 28/08/2005 60 Prugnolo Spugnola Trombetta dei morti Detto anche spinarolo o virno, è una vera primizia, perché nasce in maggio, avendo come albero di riferimento il castagno. Fine e gustoso, si soffrigge con aglio o cipolla per le frittate o al sugo della pasta all’uovo Altro fungo primaverile, la Morchella Esculenta (la “morille” molto diffusa nella cucina francese) cresce in terreni erbacei incolti, vicino a pioppi e olmi. Ha sapore delicato, si consuma solo cotta, risotti in primis Detta anche Imbutino per la forma caratteristica (nome colto Craterellus Cornucopioides) cresce in gruppi nei boschi umidi, specie in autunno. Ottima saltata con burro e prezzemolo, in umido o in zuppa, va lavata con cura 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Ritorni di fiamma DOMENICA 28 AGOSTO2005 È bello, colorato, impreziosito dalla mano dei designer, riciclabile e dunque ecologico, sempre più robusto, ha un passato affascinante e leggendario. E gli italiani hanno ricominciato a comprarlo, come dicono i sondaggi e come si prepara a dimostrare il Macef, salone specializzato in calendario dal 2 al 5 settembre Vetro il Il riscatto di un materiale eterno lativa fragilità (un cubo di un centimetro di lato sopporta fino a dieci tonnellate) e l’elevato peso specifico ci rel miracolo del vetro è una delle tante meraviglie stituiscono immediatamente il senso di un materiale che affollano la nostra vita, condannate a restare prezioso, misterioso, di cui anche la scienza fatica a dare invisibili, sotto la soglia della nostra attenzione, una definizione, e quindi finisce per darne molte, per solo perché troppo familiari. Basta però riflettere esempio liquido sottoraffreddato, quasi alludendo alla sul fatto che un materiale amorfo, incoerente e orsua ubiqua capacità di appartenere simbolicamente a dinario come la sabbia, grazie al fuoco, possa didue diversi stati della materia: solido e liquido. ventare un materiale divino come il vetro, per rinnovare La rinnovata fortuna del vetro è registrata dall’osserla sorpresa. Duro, puro, trasparente, eterno perché semvatorio di Astra-Demoskopea, che verifica più volte pre riciclabile, appare sceso fra noi direttamente dal del’anno il settore e annota che le famiglie italiane che cimo cielo, quell’Empireo immateriale dove Dante vede hanno comprato oggetti di vetro per usi domestici negli scorrere il fiume di luce dei beaultimi sei mesi hanno raggiunto il 70 ti, da cui gli angeli in sembianza per cento. «Il riguadagnato amore dedi faville affiorano e affondano in gli italiani ha diverse ragioni», spiega un movimento incessante. Enrico Finzi, presidente dell’istituCome tutti i miracoli, anche to di ricerca: «La bellezza, per quello del vetro cela la sua origiesempio, che si è arricchita di tanne: non sappiamo quando e coto colore, a prezzi anche molto me sia nato, anche se Plinio nella bassi; il design, che negli ultimi sua Storia naturale racconta, dianni ha avviato un profondo cendola leggenda, la storia di alrinnovamento stilistico di quecuni mercanti di nitro che, apsto materiale; la democratizprodati su una spiaggia della Fezazione, nel senso che un nicia, videro i primi rigagnoli lutempo gli oggetti di vetro vecenti di un liquido ignoto uscire nivano acquistati soprattutdal fuoco che avevano acceso, le to da donne, mentre oggi socui fiamme avevano fuso la sabno diventati unisex; la distribia. Poi ci sono voluti secoli di buzione, perché oggetti di esperimenti, anche pericolosi vetro si trovano anche al di (nel 1291 le già rinomate vetrerie fuori dei negozi specializzadi Venezia furono confinate a ti, per esempio nei superMurano per proteggere la città market di alimentari; il midagli incendi), e di pazienti artiglioramento della qualità, giani per riuscire a ottenere il priperché il vetro è più robusto, mo vetro perfetto, ovvero puro e quindi più pratico e sicuro trasparente, prima che la plasti- FORNELLO TRASPARENTE che in passato. Inoltre il nuovo ca, nuova pretendente, giunges- Il vetro Saint Gobain, lo stesso successo del vetro è enfatizzase a insidiarne il primato. to da due grandi tendenze: le delle piramidi del Louvre, Tuttavia il vetro non ha mai co- nel progetto di Ennio Arosio ragioni dell’ecologia, perché è nosciuto una vera eclissi e anzi per Santambrogio diventa interamente riciclabile, e il nuosta vivendo una seconda giovi- piano lavoro e cottura per cucina vo boom del vino». nezza. Logico quindi che se ne Alla diffusione di happy hour e torni a celebrare il miracolo anche in manifestazioni coaperitivi corrisponde una sensibilità rituale del me il Macef, l’appuntamento che dal 2 al 5 settembre racbere, con il corollario cerimoniale di un’innumeconterà le nuove tendenze dell’abitare. Piatti e bicchierevole varietà di bicchieri. E proprio i bicchieri sori, vasi, decanter, tavoli, specchi, lampade, sculture, perno gli oggetti di vetro e cristallo più acquistati (uno fino piani di lavoro da cucina: il vetro in casa ha mille usi, su tre), a un prezzo medio di 3,6 euro. Un miracomalgrado difetti come il peso e la fragilità. Eppure la relo davvero popolare. AURELIO MAGISTÀ Repubblica Nazionale 44 28/08/2005 I COLONNA DI LUCE L’ha fatta Sottsass per Venini: una lampada da tavolo che somiglia a un tavolo: è Colonna di luce ALTERNATIVA Vasi, ma quasi ampolle: Widor I e II: il primo trasparente, il secondo colorato, rosso. Di Driadekosmo COME ALABASTRO Venature e sfumature alabastrine per i vasi in vetro soffiato a bocca e lavorati a mano di Cierre, da 9 a 20 centimetri di diametro e fino a 67 di altezza DOMENICA 28 AGOSTO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 MURRINE PRIGIONIERE I bicchieri in vetro e i calici incorporano le murrine, sorta di mosaici fatti a caldo, oggi caratteristiche di Murano ma già prodotte nell’antichità dalle vetrerie alessandrine. Di Coin SPIRALI PER TORNADO La spirale verde e ambra che ingentilisce i vasi conici con piede Tornado, soffiati a bocca, consiste in un decoro pazientemente applicato a mano La grande tradizione dei maestri vetrai di Murano DOUBLE FACE All’interno in tinta unita, fuori maculato, lavorato craquelet, è il vaso “double face” Ding di Cive Il calice-fiore di Fornarina vivo della vita del soffio umano GIANDOMENICO ROMANELLI Annunzio ha intensamendo una svolta radicale e premente amato il vetro di veggente a una realtà produttiva Murano: le stanze del di inaspettate potenzialità. Anche Vittoriale ancora mostrano i pezla rassegna d’arte più importante zi che per lui disegnarono e realizdel mondo, la Biennale, recepirà il zarono alcuni degli artisti e dei messaggio, ponendosi anzi nella maestri vetrai più in voga del priprospettiva di accompagnare e di mo Novecento. Ma vi è poi ne Il sostenere lo sforzo imprenditoFuoco una traccia consistente di riale in atto a Murano dedicando questa sua passione: per ben due ben presto una sezione della rasvolte, nel romanzo, il vetro murasegna dei Giardini proprio al vetro nese vien acquistando un’imporcontemporaneo. tanza che trascende l’episodio o il Così la storia del vetro novecengusto dell’invenzione favolistica tesco vede a Murano un susseper acquistare trasparenti valenguirsi di personalità e di invenzioze simboliche, incastonate denni. Anche al di là di presenze eclatro alla turbinosa dialettica della tanti seppur effimere (da Picasso fine di un amore impossibile e traa Chagall, da Cocteau ad Arp), il gico. Una lunga, tormentata pasvetro muranese ha sempre rivelaseggiata per le fondamente e le to talune non trascurabili affinità: calli di Murano porta gli amanti a quelle stesse che hanno prodotto una piccola fornace gestita da un filoni di eccezionale qualità e imSeguso (nome mitico e sacro al vepegno nella sua storia recente. tro veneziano) che riconosce FoCarlo Scarpa, ad esempio, ha stascarina; egli, alla fine, le renderà bilito con la grande e pur moderomaggio donandole un vaso a forna tradizione di Venini un rapporma di calice che la donna (che è to particolarmente felice. Lo stespoi, come si sa, la Duse) porterà so si può dire per Fulvio Bianconi con sé «senza invilupparlo, come e, già prima, per Tommaso Buzzi, si porta un fiore». Nel prosieguo Napoleone Martinuzzi, Giò Ponti; della drammatica peregrinazione non meno dei grandi stranieri di l’acme del racconto sarà costituiMurano: Wirkkala, Sarpaneva e to proprio dalla rottura del calice: altri ancora, fino ai giapponesi, «Il vetro s’infranse nella sua mano agli americani, agli australiani. convulsa, la ferì, cadde ai suoi pieCosì che si potrebbe forse dire che di in frantumi». E il vetro di Muramacchierà di no è diventato un vermiglio il fazlinguaggio monzoletto con cui diale. ella si era avvolta Non c’è e non le dita: in pezzi c’è mai stata concome l’amore di traddizione in Stelio e Foscaritutto ciò: se da un na. lato ancora qualMa vi è, nelle che gruppetto di nostalgici vien pagine del rochiedendo promanzo, una delle tezione e segredescrizioni più tecnicamente tezza appellancorrette e comdosi a tradizioni plete del procesche hanno avuto so di lavorazione senso e qualche del vetro così coragione nell’Eume della singola- Gabriele D’Annunzio ropa di antico rere organizzaziogime (le famose ne produttiva pene minacciate dell’unità minima e necessaria (la e comminate dalla Repubblica a piazza) in cui è strutturato e sudchi avesse divulgato i segreti deldiviso il lavoro dei vetrai muranel’arte, in una efficace commistiosi, dal garzone al maestro. ne di interessi economici e comIl secondo spunto dannunziamerciali e di saperi quasi alchemino è invece costituito dalla favola ci ed esoterici), ai più risulta chiadi ambientazione rinascimentale ro che il confronto e la circolazionarrata dal protagonista Stelio, ne delle idee e delle stesse conosecondo cui un altro Seguso, Darscenze scientifiche e tecniche di, si impegna, a rischio della vita, hanno costituito l’ultima, in ordiper realizzare presso Murano un ne di tempo, vitale sollecitazione enorme organo di settemila cane occasione di rinnovamento in ne di vetro. La sua amante, trascutempi di globalizzazione e in una rata per l’impegno e tradita a fatipologia di prodotti di cui è assovore del vento Ornitio, si getterà lutamente impossibile tenere cetra gli ingranaggi del mantice falati componenti, materiali, mocendo fallire l’impresa dell’Ardalità di lavorazione, scelte tecciorgano e condannando a morte nologiche e così via. Dardi Seguso. Che cosa rimane, allora? Come La passione vetraria del vate si distingue e si difende un’area Gabriele si collocava tuttavia — al culturale, artistica e — perché no? di là della immaginifica veste let— economica, come quella del veteraria con cui essa è presente nel tro di Murano, oggi? Il patrimonio romanzo — in uno dei momenti più grande e certo non imitabile è, più delicati e promettenti della una volta di più, costituito dalla storia di quest’arte in Venezia. storia vivente del vetro di Murano: Uscita dalle secche di un Ottocensaperi e sapienze, gusto e colpo to in bilico tra storicismi pedissed’occhio, colori e forme. «Bellissiqui, tradizione volgare e tentativi mo, veramente — come il calice di di innovazioni tecnologiche, l’inFoscarina —, e come le cose natudustria dell’isola del vetro si stava rali misterioso, recante nella sua lanciando con inusitato vigore su concavità la vita del soffio umano, una strada assolutamente nuova: nella sua trasparenza emulo delle da una parte, quella della moderacque e dei cieli, simile nel suo ornità e dei linguaggi artistici conlo violetto alle meduse che vagano temporanei e, dall’altra, di un rinsui mari, semplice, puro, (…) novamento qualitativamente di senz’altre membra che il suo piegrande portata arruolando finalde il suo stelo e il suo labbro; e permente designer, progettisti, ingeché fosse tanto bello, nessuno gneri e chimici o, meglio, creando avrebbe potuto dire né con una figure professionali nuove da afparola né con mille». fiancare alla insuperabile perizia L’autore è direttore tecnica dei maestri e così impridei Musei civici di Venezia D’ NERO CON RAGIONE Rivoluzionario per due ragioni, il calice Sommeliers di Riedel: è senza stelo, ed è nero, con una buona ragione: serve per le degustazioni “cieche” Il boom del vino e delle degustazioni ha contribuito a spingere la produzione e la vendita dei nuovi bicchieri “professionali” CAPOLAVORO Tourbillon, come il meccanismo che impreziosisce gli orologi meccanici più sofisticati, è il nome del vaso capolavoro di Lalique 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 28 AGOSTO 2005 l’incontro Artisti tuttofare È un rocker da seicento concerti in quindici anni. Non solo: ha scritto due libri e diretto due film di successo. Ora il “Liga” si confessa e parla della sua ricerca della leggerezza: nella musica, che deve restare popolare; nella vita, che ha scelto di vivere in provincia; nella religione, che vorrebbe vedere spogliata da rituali pesanti e faticosi; nella politica, che lui sogna capace di creare “un mondo comico, che faccia ridere” Luciano Ligabue n ogni paese c’è un angolo che al paese non assomiglia affatto. Correggio è preziosa, con i portici, le case ocra riportate con intelligenza e buon gusto alle antiche grazie, e persino una piccola medina, dove vivono le famiglie di extracomunitari, riconoscibile più dagli odori di spezie e di kebab che dall’architettura della viuzza. Il centro storico è immobile sotto la canicola. Gli anziani sono in casa per il pranzo. I pochi giovani costretti a restare per Ferragosto hanno approfittato del weekend per un tuffo a Rimini o a Riccione. Lo studio dove Ligabue sta completando Nome e cognome, l’undicesimo cd che esce il 16 settembre, si trova nella Correggio che non assomiglia a Correggio. Un hotel supermoderno e un ipermercato hanno scippato la scena all’antica pieve e ai filari di pioppi. Il Kochiss del rock italiano si rifugia lì dentro per la pausa pranzo: un bicchiere di vino e un piatto di tortelli. La popolarità e sei milioni di dischi venduti non l’hanno allontanato dalla provincia. Correggio d’estate diventa il suo laboratorio. «Qui nell’agosto 2002 preparavo il concerto negli stadi. Nell’agosto 2003 scrivevo La neve se ne frega, per la voglia incontrollabile di buttar fuori cose che non fossero canzoni», racconta. Il viso non parla di notti insonni, l’aspetto è tonico, il fisico asciutto, la pelle abbronzata («da cinquanta minuti di corsa al giorno»), i gioielli di argento brunito e turchesi naturali in bella vista sulle dita e sul collo. I capelli lunghi e selvaggi, come sempre. Rocker, ma non a tempo pieno, Luciano Ligabue ha diretto due film (Radiofreccia e Da zero a dieci) e scritto due libri di successo (Fuori e dentro il borgo e La neve se ne frega). «A volte sento che la musica, il motore della mia vita, non mi lascia lo spazio di cui ho bisogno. Una del- quello che faccio, ora che ho di che vivere per vent’anni, la priorità non è mai economica. Di professione faccio sempre il musicista. Il cinema mi serve per dare una risposta a un bisogno, a un’urgenza, quando ho una storia che non posso non raccontare, come è successo con Da zero a dieci». Ma c’è un altro suo libro che ancora non è diventato sceneggiatura. «Non sa quanto mi piacerebbe fare un film da La neve se ne frega. Ma non è realizzabile in Italia, costerebbe troppo, è ambientato nel 2173. Si potrebbe fare solo a Hollywood, ma pare che lì siano concentrati su altri progetti», scherza. Mentre apparecchiano la tavola, Povia canta Quando i bambini fanno oh. Il profumo dei tortelli messi a mantecare riempie l’aria e riscalda l’enorme spazio disadorno. Con gli odori di casa, la provincia entra prepotentemente nel discorso. Ricordi, entusiasmi, sogni infranti. «È crollata la certezza di quando ero ragazzino negli anni Settanta che la politica fosse lì, pronta a far diventare il mondo come lo sognavamo. Ora sem- Ho 45 anni, non immaginavo che questa fosse un’età così bella. A vent’anni ero snob, pensavo che la gente non capisse niente, ero rigido e rabbioso. Ora so più cose, sono più tollerante FOTO HGRAZIA NERI I CORREGGIO le sfighe delle canzoni è che sono composte da duecento parole, che non solo devono “suonare” ma anche avere una certa facilità comunicativa. Con un romanzo, invece, hai a disposizione un numero di pagine illimitato per dire tutto quello che vuoi. Fare un film è ancora diverso: sai che la sceneggiatura deve fare i conti con una realtà produttiva. Ma le canzoni, quando vengono bene, hanno una magia in più. Una frase che può sembrare ovvia, messa in musica si apre a un’infinità di interpretazioni e assume già in partenza un irresistibile valore retorico. Che poi si traduce in quella leggerezza che la fa fischiettare, una canzone, quando finisce nella doccia di qualcuno. È una “cosa” tua che entra in casa degli altri: questo è il punto centrale nella mia carriera, quello che fa sì che nella mia carta d’identità ci sia scritto “professione: musicista”». Nell’ampio salone si diffonde una musica soffice, da ascensore di grand hotel. Liga non presta attenzione, concentrato a spiegarsi perché «quella magia» a un certo punto non riesce a colmare la voragine che ogni artista ha dentro. «In realtà le “divagazioni” che mi sono capitate — soprattutto quella di fare film — non hanno mai spento la mia passione per il pop-rock. Ma per un appassionato di cinema come me, l’idea di scrivere una sceneggiatura era irrinunciabile. Così è venuta fuori la storia di Freccia, che è un po’ la storia delle radio libere della fine degli anni Settanta. E da lì è partita un’altra fase della mia vita, non solo professionale. Per un rocker, fare cinema può essere un’esperienza mortificante. Quando sali sul palco, hai di fronte la gente che ti ricanta in faccia le tue parole, nei loro volti vedi il trasporto, c’è passione nell’aria. Lo stadio diventa il recinto di chi si lascia andare, dove si fanno le cose che non fai per strada: urlare, piangere, cantare a squarciagola. Nel cinema, invece, dopo che ti sei fatto il culo per un anno, con la testa sempre ingombra, mandando a cagare il resto della tua vita, il massimo che ti può capitare è di incontrare qualcuno che ti dice: “Ho visto il tuo film, mi è piaciuto”. Quell’esperienza lì, il cinema, mi ha devastato. Ho dato più di quello che potevo». Ogni volta che racconta le esperienze di palco (seicento concerti in quindici anni) la mente vola al prossimo appuntamento. Un evento unico, il 10 settembre al Campovolo di Reggio Emilia, più di centomila biglietti già venduti e quattro palcoscenici che lo aspettano: un set con i Clandestino, la sua prima band, uno con il suo gruppo attuale, uno acustico voce e chitarra, e uno teatrale con Mauro Pagani («mi gioco tutto in una botta sola, a casa mia»). Magari adesso che i progetti musicali stanno tutti andando in porto, lui, ingordo, già si cova dentro il terzo film. «No. E le spiego perché. Io fino a sedici anni fa guadagnavo un milione e due al mese, tanto per mettere in chiaro che in bra retorica, ma era un’aspirazione che muoveva tutte le speranze di chi aveva quindici anni negli anni Settanta. Oggi ho imparato che la politica ha scopi più brutali e immediati. Col tempo le mie speranze si sono orientate altrove, e la cosa non mi fa felice. Restare in provincia è una scelta naturale. I miei affetti sono qui: sono separato e vedo mio figlio metà settimana, e lui vive in paese. Mia madre è vedova da tre anni, e mi piace tenerla d’occhio. Qui sono il mio studio di registrazione, la mia compagna e gli amici di sempre. Correggio, asseconda la mia poetica: sono un tignoso, uno che insiste sull’utilità della musica popolare. Un battistiano convinto. La mia aspirazione è di riuscire a porgere quel tipo di leggerezza, di speranza e di riflessione con una canzone di qualità, come ha fatto Battisti». Credevamo che il rock’n’roll fosse musica per adolescenti. Poi i nostri eroi sono invecchiati, e noi con loro. Ma i ragazzi di oggi corrono ancora ai loro concerti. Il rock ha cinquant’anni, ma non li dimostra. «Meno male, perché io ne ho 45. E sono l’esatto contrario dell’enfant prodige. C’è un numero impressionante di rocker morti a 27 anni: Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin, Kurt Cobain. Io a 27 anni ho fatto il primo concerto. Sono un tardivo, e quando l’anno scorso sono andato a vedere i Rolling Stones a Milano ho goduto come una bestia, perché è difficile spiegare cos’è il rock’n’roll se non lo ascolti da chi ancora lo sa suonare. Ma non sono uno di quelli che pensano che un tempo tutto era più bello. Non voglio diventare il palloso di turno. Cerco di essere più curioso possibile rispetto all’evolversi degli avvenimenti, capire come vanno le cose». L’amore, dice, è il motore delle sue canzoni. Ora, dopo la separazione dalla prima moglie, ne sta vivendo uno nuovo. Di quel momento di estrema fragilità sentimentale, Liga inaspettatamente mise a conoscenza anche i fan, con una lettera pubblicata sul suo sito. «Ero preoccupato che la storia potesse diventare materia per giornali scandalistici, anche perché stavano girando voci che non rispecchiavano il vero. Ai miei fan raccontai che stavo attraversando una fase delicata, chiedevo pazienza e rispetto per un momento particolarmente difficile. La privacy è importante anche per garantire una vita serena ai bambini, che hanno sette anni e dieci mesi. I figli sono un dono, ci costringono a pensieri nuovi, e la cosa fantastica è che hanno sempre più risorse dei genitori». Di Correggio era anche lo scrittore Piervittorio Tondelli, morto nel ‘91 quando il primo disco di Liga era appena uscito. I due si conoscevano solo di vista, «a causa della mia timidezza cronica non riuscivo mai ad avvicinarlo. Tondelli viveva a Milano, veniva di rado, la Correggio cattolica non gli perdonava di essere un omosessuale e di averlo scritto nei suoi libri». Ma durante la lunga malattia era tornato al paese e si era riavvicinato alla chiesa. «Da ex cattolico, anche io continuo ad avere un fortissimo bisogno della figura di un qualche dio. Ma non riesco più a tollerare la cultura dell’espiazione, della pena, del dolore, del sacrificio che ha a che fare con il cattolicesimo. Non sono migrato verso altre religioni, mi muovo a naso, ma sono rimasto colpito nel vedere il Dalai Lama professare la sua fede in un incontro a Pomaia, in provincia di Pistoia, in una giornata piena di sole, di arancione, di marrone, di verde, di pace, di gioia. Lui sorrideva e sbadigliava, profondamente umano, rilassato. Non c’era un rituale così pesante e faticoso come il nostro. Questo non mi ha spinto a diventare buddista, però ho pensato alle potenzialità che avrebbe la religione cattolica se solo riuscisse ad acquistare quella leggerezza». Il tempo che passa non lo disarma, lo ha riconciliato con la vita e con se stesso. «Non immaginavo che i quarant’anni fossero così fighi. Nonostante negli ultimi anni abbia vissuto una serie di esperienze molto forti — la morte di mio padre, di un cugino che per me era come un fratello, una separazione, una nascita — ho acquistato una consapevolezza che mi fa vivere meglio. Mi sento più tollerante. Prima ero rigido e rabbioso. A vent’anni ero snob, pensavo che la gente vivesse male, che non capisse niente. Convinto, povero sfigato, che gli altri sbagliassero sempre. Una cosa che mi ha fatto respirare profondamente, è quella che ho fatto dire a Freccia in uno dei suoi credo: “Non è giusto criticare la vita degli altri, perché degli altri non sai veramente un cazzo”. Il mio sogno è un’utopia: vorrei un mondo comico, che faccia ridere. Invece viviamo ai margini della catastrofe, augurandoci di non finirci dentro. Il pensiero economico occidentale ha ucciso lo slogan più felice del 68: “Una risata vi seppellirà”». ‘‘ GIUSEPPE VIDETTI