DI Repubblica - La Repubblica.it

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Domenica
La
di
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
Repubblica
la scienza
Londra, la fascinosa macchina del sorriso
ELENA DUSI, ENRICO FRANCESCHINI e MARCO LODOLI
il racconto
Le badanti italiane in Egitto
ILVO DIAMANTI e PAOLO RUMIZ
Calciatore
Facce e vita da star, poca
attenzione ai libri, una passione
per Internet e la beneficenza.
Corpi scolpiti in palestra e curati
nei laboratori: è l’identikit
dei campioni che da oggi
ritroveremo negli stadi
EMANUELA AUDISIO
EMILIO MARRESE
l calciatore oggi. La squadra ieri. Lui ora conta di più. E lui
cambia, si adatta, si trasforma. Più sexy, più erotico. Con
gli occhi neri e il tuo gioco micidiale, cantava la Nannini.
Hollywood a centrocampo. Le facce di una volta: Burgnich, Boninsegna, Benetti, Combin, volti da una notte in
commissariato. Missing. Ora ritratti da copertina: barbetta, pizzetto, frangetta, sopracciglia rifatte. Più Saint-Tropez
che San Siro. Accessoriati, con cuffiette, anche quando scendono dal pullman. Papà non li manda mai soli: iPod a gogo. Il glamour come collagene. Siti Internet per tutti: Totti, Maldini, certo, ma anche Giannichedda, Negro, Ventola, Zaccardo. Rinascesse Lodetti, avrebbe diritto ad una home page mostruosa. I
peli di una volta, niente. Quasi tutti si depilano. Muscoli non più
coperti da foresta. Aspetto meno macho.
Il calciatore oggi: più alto, più pesante. Resiste la prevalenza
dei nati al nord, il 43,18% contro il 26,51 del sud. Il corpo meno
sacro. Anzi molti tatuaggi, anelli, orecchini. Dio dello sport, ti offro i miei centimetri: che vogliamo scriverci? I gesti di una volta,
minimi. Destinati al color seppia.
Q
I
(segue nella pagina successiva)
con un articolo di GABRIELE ROMAGNOLI
FOTO CORBIS
Repubblica Nazionale 25 28/08/2005
il
le storie
uattrocentosettantatréore di allenamento per toccare il pallone un paio d’ore in tutto, da qui a luglio.
A questo si riduce un anno da calciatore, leggendo
la radiografia statistica di un titolare, uno di quelli
che giocano almeno 45 partite ufficiali a stagione.
Due minuti e mezzo con la palla al piede sui 90 di
ogni gara, hanno calcolato: 150 secondi a testa per fare la differenza divisi in azioni da due secondi l’una, perché è finito il tempo in cui col pallone passeggiavano sul prato come col gelato sul
lungomare. Era un calcio in bianco e nero che trent’anni fa potevi giocare anche se eri un maggiolino e non una formula uno:
bastavano cosce grosse e cervello fino a quei centauri, metà calciatore e metà impiegato. O abatino. Figurine perlopiù esili, si
ricorderà: difensori a parte, erano giunchi con radici di quercia.
I muscoli bastava infatti averli nelle gambe, mentre le magliette aderivano a toraci scarni e spalle strette. Poi qualcuno ha
cambiato il calcio (l’Olanda, Sacchi o la tv, che importa?), le partite si sono ristrette e sono ovviamente dovuti cambiare anche
quelli che le vestono, i calciatori, cresciuti invece di una taglia
buona: più alti, grossi, veloci, aggressivi e palestrati.
(segue nella pagina successiva)
Il trono vuoto della Regina della pioggia
PIETRO VERONESE
cultura
Sardegna, la foresta degli dei di pietra
SERGIO FRAU
i sapori
I funghi, regalo di un agosto bagnato
LICIA GRANELLO e MICHELE SERRA
l’incontro
Ligabue e la ricerca della leggerezza
GIUSEPPE VIDETTI
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Parte il campionato
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
Dimenticate la normalità di Rivera e Boninsegna. Ora
hanno facce da copertina, ricoprono di tatuaggi e piercing
i loro corpi depilati e muscolosi. Amano il mondo dello
spettacolo e si sposano sempre più tardi. Leggono pochissimo,
hanno studiato ancora meno ma adorano Internet e fanno
beneficenza. Sono i campioni del nostro sport più amato
Totti&C,evoluzionedellaspecie
EMANUELA AUDISIO
(segue dalla copertina)
Carta
d’identità
Il profilo
Età media
26, 6 (portieri 27,6
difensori 27,1
centrocampisti 26,1
attaccanti 26)
Altezza media
181,6 cm
Peso medio
76,1 kg
L’origine
Serie A: 555 giocatori
Italiani: 72,61%
Repubblica Nazionale 26 28/08/2005
Nord 43,18%, Centro 30,3%,
Sud 26,51%
Stranieri: 27,39%
Com. 23%, Extrac. 76,9%
Americhe 53,98%
Europa 28,28%
Africa 15,13%
Oceania 1,97%
Asia 1,97%
Lo stato civile
Sposato: 39%
Celibe:61%
d esempio, chinarsi e allacciarsi lo scarpino. Oggi va di moda la pantofola: chiusura a strappo o a cerniera. Si chiama F50+, ai piedi di del Piero e Trezeguet. Si sa
mai, qualcuno avesse problemi con i nodi. Via le maglie con le cuciture, provocano abrasioni, arrossamenti. Il corpo va protetto, fatto respirare, non offeso
con il sudore. Meglio anche comprimere le fasce muscolari. «Stiamo studiando
un tessuto dei pantaloncini, per evitare dispersioni» annuncia Marco Del Checcolo dell’Adidas. Un problema, la dispersione. Come avranno fatto Piola e Mezza a tirare legnate con quei mutandoni?
Le mogli di una volta, niente. Il 61 per cento è celibe. Quasi tutti aspettano, e si sposano più
tardi. «Perché andare in Brasile con la fidanzata?», ti dicono. Già, perché? Laureati sempre pochi: o corri con le gambe o con il cervello. Però belle eccezioni: Fabio Pecchia, centrocampista,
è dottore in legge, ha fatto pratica in un studio di avvocati a Bologna; il difensore Fabio Rustico, otto esami di economia, è assessore alle Politiche giovanili a Bergamo; Luigi Beghetto quando stava al Chievo nel 2002 si è laureato in scienze politiche con un tesi sulla violenza negli stadi; Chivu della Roma, rumeno, è iscritto a scienze motorie.
In politica non si sputa nel piatto in cui si mangia: il 67 per cento vota centrodestra, il 20 per
cento centrosinistra. Lucarelli nella Livorno rossa è per Rifondazione, Di Canio si onora di fare il saluto fascista, Miccoli ha Che Guevara sul polpaccio.
Una volta il calciatore ci teneva ad avere un legame forte con il passato, a non perdere le radici. Casa, paese, genitori. La moglie era la ragazza conosciuta al bar, che al week-end magari
restava tutto il giorno in pigiama, ad aspettare. Perché, perché, la domenica mi lasci sempre
sola? Se lei era una soubrette o un’attrice era scandalo. Wilma De Angelis cantava Nessuno con
più melodia e lentezza di Mina e filava con Gianni Rivera, di qualche anno più giovane. Fu costretta a lasciarlo. «Mi fecero capire che non faceva bene alla squadra e che dovevo vergognarmi». Oggi il calciatore non vuole lacci, solo laccetti. Meglio se lei conosce il prezzo della
gloria: cara, ci vediamo a fine trasmissione. Una partner brava sotto i riflettori, è un valore aggiunto, come una volta saper cucinare i vincisgrassi. La fedeltà è per lo stylist, che viene a casa
a farti i capelli. Pardon, a curarti l’immagine.
Si può con un milione e seimila euro all’anno di stipendio. Quasi nulla spesi in letture. Imbarazzanti certe interviste in salotto con dietro la libreria, vuota come il frigo d’agosto. Però
sensibilità tanta. Per i cani, le malattie, i mali del mondo. Francesco Totti ha regalato i soldi
dell’esclusiva del suo matrimonio agli animali abbandonati e ora vuole fare un Live8 dei calciatori per l’Africa. Si considera un fortunato. Giuseppe Meazza, campione del mondo nel
‘34 e ‘38, figlio di una vedova di guerra, aveva fatto le elementari al Trotter, scuole di Milano
per i bambini bisognosi, accettava inviti a pranzo dai soci dell’Inter, che con discrezione a
turno cercavano di non lasciarlo a stomaco vuoto. Era buono Meazza, ma non gli sarebbe
mai venuto in mente che i miserabili erano gli altri. Il calciatore oggi non ti dice: mi dispiace
non aver studiato. Marco Tardelli, che nell’82 urlò la sua gioia mondiale, era il primo dolore
che confessava. Francesco Morini, racconta Gianni Mura, ai mondiali del ‘74 fece di più: stava pescando in un laghetto e al tifoso con figli che lo avvicinò vantandosi di aver speso una
fortuna per arrivare fino a lì, rispose secco: «Se compravi i libri ai ragazzi era meglio». Dovettero separarli.
Prima il calciatore era pura antropologia, come la scimmia di Darwin. La tribù del calcio, intuì Desmond Morris. Intendeva un’altra epoca, molto immobile, un medioevo che non voleva togliersi l’armatura. Ora è sociologia contaminata da cronaca e attualità. L’orologio di Sheva, la maglietta di Bobo, l’acqua di Alex, lo yogurt di Ciro. Kakà per Armani, Totti per Bliss. Il calciatore non porta palla, ma moda. Investe in se stesso: logo e luoghi. Ci sono i locali, i bar, i ristoranti, le vacanze, le spiagge, le maglie, i cd da calciatore. Non è cambiato lui, ma la società
attorno, dice Franco Baldini, ex ds della Roma, che ha consigliato a Capello e Montella di investire sull’arte. «Il giocatore è diventato un modello. Viene invitato nei salotti, dove si sente
lusingato, non imbarazzato. Non importa se ha poco da dire, è ricco, è corteggiato, ha immagine, e questo basta per una società che pensa che tutto si possa comprare. È meno ingenuo,
più diffidente. Gioca di più, la carriera si è allungata, preferisce il procuratore che garantisce
buoni affari fuori dal calcio».
Il calciatore prima andava in tv vestito da cresima, magari a farfugliare, intimorito. Ora siede
a gambe aperte, i jeans bucati e stropicciati da Soho e Noho, sguardo alla telecamera, diversa timidezza, molto ricompensata. Grande notizia: Vieri sorride. E se parlava era un’edizione speciale? L’auto è quella dello sponsor, poi c’è quella personale. Scontata, e rinnovata ogni otto mesi. Te ne accorgi quando hanno gli incidenti di notte: mai una Fiat, sempre una Porsche. Vietati gli sci, sempre per contratto. Si capisce, un menisco da assicurare di Adriano vale 15 milioni
di euro. Appartamenti in affitto, molto grandi e molti vuoti. Tv, videoregistratore, play-station
e poi che ci metto? Ville all’Olgiata per quelli della Lazio, in collina per quelli della Juve. Rara la
scelta del centro. Senza fantasia la scelta del ristorante, sempre quello, molto offerto. I calciatori potrebbero mangiare bene, ma non lo fanno. L’unica eccezione era Platini, capace di guidare per una cena fino da Girardet a Losanna. Ouì, le coscette di agnello erano da urlo.
Tutto cambiato anche sulle pagine dei libri e sullo schermo. Il futbol ora ha altre parole e immagini. Nei nuovi romanzi i calciatori sono criminali, serial-killer, gente avariata. Violenza,
apparenza, indifferenza. Nei reality show poveracci che non sanno rassegnarsi a fare un passo indietro. Non appartengono ad un mondo di valori, allo sport, ma sono pezzi di iceberg che
vanno alla deriva. Una volta c’erano i difensori di Osvaldo Soriano che per spaventare gli avversari lasciavano partire leggende che li volevano colpevoli d’omicidi da scontare, o attaccanti che non lesinavano gli spilli in area di rigore, era il calcio romantico che si perdeva sui
campi sognati della Patagonia, che viveva di fantasia purissima fino a scatenare grosse risate
dovute ad arbitri che venivano colpiti da attacchi convulsivi, o la storia del calcio di Eduardo
Galeano che raccontava di un gol magnifico di Garrincha a Firenze, mal di testa e serpentine,
difensori in tilt, si giocava con il sorriso sulle labbra.
Capitani coraggiosi anche per Jorge Valdano, campione mondiale con l’Argentina nell’86, lui
che ha visto Maradona a distanza ravvicinata fare il mago, si è lanciato in parole che sono una
lunga corsa all’indietro, per fermare la gloria di un calcio irripetibile e di un uomo esagerato, a
cui per firmare la partita bastavano dribbling e cross, incrociando gambe e piedi in corsa. «Io
non ci riuscirei, finirei per rompermi una gamba», disse monsieur Platini, mica Palanca. Altri
tempi, classe e gioco, non si correva ancora dietro alle veline e i giocatori al massimo sedevano
in panchina e tribuna, non sulle scale nel bel mezzo di una sfilata. Mea culpa anche degli scrittori inglesi. L’addio alla nostalgia di Nick Hornby che dice: «Questo calcio non è più il mio».
Il calciatore oggi, un uomo solo. Soprattutto i nostri. Capita, se non curi l’anima, ma i suoi
dintorni. Nessun altro come Baggio a pregare Budda. I sudamericani si frequentano, le altre
nazionalità di aggregano. L’italiano no, è un’anima persa. Magari ha un fratello, un amico con
cui uscire di notte, un maggiordomo che mette sotto stipendio. Vedi il calciatore. Sai quanto
pesa: 76 chili circa. Sai la faccia che ha, anzi quella che mostra. Sai delle sue 473 ore di allenamento all’anno. Poi più niente. Quando morì Gigi Meroni un pazzo profanò la sua tomba per
rubargli il fegato. Pazzo sì, ma convinto che Gigi ne avesse tanto. A questi qui che gli prendono: il braccialetto?
A
L’istruzione
Laurea 1,5%
Scuola media sup. 61,4%
Scuola media inf. 91,8%
Studenti 12,1%
Le fonti
della ricerca
Lega calcio,
Assocalciatori,
Centro studi
e ricerche del
settore tecnico
della Figc,
Università Tor
Vergata,
Università Iusm,
Milan Lab,
archivi de
La Repubblica
Le tendenze
Abiti firmati
(Dolce&Gabbana
e Cavalli). Tatuaggi,
piercing e auto
sportive (cambiate una
volta ogni otto mesi)
La religione
Cattolici 93%
Musulmani 4%
Altre 2%
Atei 1%
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
Ieri
e oggi
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
L’identikit
Sul campo
A tavola
ALTEZZA MEDIA
ALLENAMENTO
ALIMENTAZIONE
CARRIERA
30 anni fa: 1,75 m
Oggi: 1,81 m
30 anni fa: 8 ore
30 anni fa: riso al
alla settimana
Oggi: 10-12 ore
pomodoro, bistecca
e insalata, frutta
Oggi: pasta al
pomodoro,
prosciutto, verdura,
crostata
30 anni fa: si
PESO MEDIO
30 anni fa: corsa
30 anni fa: 73 kg
Oggi: 76,1 kg
lenta e prolungata
per il fondo
Oggi: tabelle
di lavoro
personalizzate,
e si punta su
velocità, potenza
ed elasticità
MASSA MUSCOLARE
ora è molto più
sviluppata la parte
superiore del corpo:
cosce sempre
grosse uguali, ma
pettorali e bicipiti più
voluminosi
24% oltre 1033 euro
22,3% tra 516 e 1033 euro
18,4% tra i 258 e i 516
12,8% tra i 103 e i 258
22,5% sotto i 103
Sponsor: 1200 euro
all’anno in media
(dati in migliaia di euro)
puntava soprattutto
sulle proteine
Oggi:i nutrizionisti
hanno messo al
centro
dell’alimentazione
i carboidrati
PARTITE UFFICIALI
30 anni fa: 31
Oggi: 45
I soldi
Stipendio medio: 1.006 euro
30 anni fa: la dieta
Più alto, forte e veloce
è il nuovo calciatore
10 a testa». «Allenando la potenza — illustra D’Ottavio —, aumenta la forza e lievita il testosterone che
(segue dalla copertina)
porta maggiore aggressività, diverso atteggiamento agonistico. Cui si aggiunge lo stress mediatico,
iù “maschi”, più gonfi di testosterone. Col’ansia da prestazione, il giocarsi tanto (anche ecostruiti per combattere. Addominali, bicipiti,
nomicamente) in pochi secondi».
pettorali e glutei scolpiti non solo per fare belL’importanza del “meccanico” è ormai una
la figura sulle riviste di gossip o in discoteca. Sono
realtàaccettataecondivisaprimadituttodagliatlepiù atleti, non necessariamente meno giocatori:
ti. Il Milan ha spianato la via della scienza applicata
perchéoltrealfisicocivuoleanchetantatecnicaper
ai piedi allestendo il suo Lab, una struttura di 400
sopravvivere alla tonnara, al calciowrestling, per
metri quadrati con uno staff di 21 specialisti guidaemergere nello spazio di
ti dal belga Jean Pierre
due battiti di ciglia da
Meersseman. Un’officiquella centrifuga di bodynastileNasadovelamacguard. È l’evoluzione
china-calciatore è monidarwiniana della specie,
torata costantemente e
obbligata ad adattarsi ad
nella quale, prima di ogni
un calcio più elettrico. È
match, viene elaborata
successo, nella confusiouna relazione per l’allene, anche che qualcuno
natoresullostatopsicofisiacapitatodentroilcorpo
sico di ogni giocatore. «Il
GABRIELE ROMAGNOLI
di un altro, vedi il paradigmonitoraggio continuo
hiunque si sia appassionato al
matico caso Del Piero tra— illustra Daniele Tocalcio ha un giocatore con cui l’asformato da fringuello a
gnaccini,capodeiprepamore è scoppiato e poi è andato in
cinghiale prima di ritrovaratori rossoneri — ha copezzi (ma quando pensi che sia finito,
re una stazzatura più conme obiettivo l’individuanon è finito). Nel mio caso, Giuseppe Sasona al proprio talento.
lizzazione del lavoro fisivoldi, centravanti del Bologna anni SetUn errore nella distribuco, adeguandolo a carattanta. La squadra non era granché, la tezione delle corazze.
teristiche e momento
nevano in serie A i suoi gol, soprattutto
La mutazione genetica
dell’atleta. In alcuni casi
quelli di testa. Saltava sempre un po’ più
ha ridisegnato il calciatore
si suggerisce al tecnico
del difensore che lo marcava, restava sodel terzo millennio: più
anche quando è consispeso un secondo, torceva il collo e sepotenza nel motore, più
gliabile fermare un giognava. La curva cantava una canzone (la
resistenza ed equilibrio
catore: non per la partita,
non memorabile «Na na na na na na na
nella carrozzeria, più cura
che sarebbe il nostro falna eh eh eh ciao ciao») riadattandola
tecnologica di ogni comlimento, ma per gli alle(«Na na na na na na na na eh eh eh Bepponente. Tanto è cambianamenti». Un lavoro
pe gol»). Savoldi faceva poco, non sbato nella messa a punto
che non viene svolto sogliava quasi mai, era infallibile nei calci
scientifica della macchilo sui muscoli: «Deterdi rigore. Fuori dal campo non esisteva.
na. Compresi i carburanti,
minante è anche l’aParlava pochissimo. Aveva una vita prie anche qui meglio sorvospetto mentale».
vata normale, la cui traccia principale fu
lare sulla faccenda degli
L’incremento di un
la nascita, nel 1975, di un Gianluca Saadditivi.
buon 30 per cento delvoldi che avrebbe, anni dopo, fatto gol al
«La svolta è stata radical’attività agonistica crea
Bologna con la maglia della Reggina.
le, siamo passati dal diesel
scompensi. Ci sono gioPoi, un’estate, divenne ufficiale che il
a motori più potenti. In
catori che superano le 60
calcio era un affare come tanti: Savoldi
una partita un calciatore
partite a stagione. «Se nefu venduto al Napoli per una cifra, alloaffronta 1000-1200 cambi
gli ultimi anni — dice Di
ra record, che superava il miliardo di lidi velocità, sprint da 15-20
Salvo — sono stati i club
re. La curva ammutolì, io non rinnovai
metri massimo in spazi e
più piccoli a vincere di
l’abbonamento. Sul suo poster, ancora
tempi ristretti: serviva popiù non è casuale: giocaappeso in camera, scrissi a pennarello
tenziare la prima e la seno meno e con meno
un patetico: «Non dimenticherò». In incondamarcia»,spiegaStestress. I grandi club devoglese, per evitare commenti in famiglia.
fano D’Ottavio, ex prepano riflettere su questo.
Savoldi fallì la recita sul grande palcoratore di Inter e Nazionale,
Anche perché se poi si
scenico. In seguito tornò e il cerchio si
attuale responsabile tecvince meno, si guadagna
chiuse. Finì nel giro delle scommesse,
nico del settore giovanile
meno». Una conseguensaltava più in basso, aggiustava partite e
della Figc e coordinatore
za dell’overdose di calcio
dissolveva le ultime illusioni: il gioco era
del corso di scienze motosono gli infortuni. E anfinito. Poi, tempo dopo, quando Savoldi
rie all’università romana
che qui, è dimostrato staera stato squalificato, riammesso, condi Torvergata. Valter Di
tisticamente che le squadannato a riapparire come caricatura di
Salvo, preparatore del
dre che vincono sono
sé, infine dimenticato, ho letto il libro del
Manchester United (ex
quelle che ne patiscono
suo collega Petrini sul «pallone nel fanReal Madrid) e professore
di meno. Troppe partite,
go». Raccontava, tra l’altro, la partita tra
associato dello Iusm (Istiallenamenti insufficienBologna e Avellino che avevano combituto universitario di scienti, scarsi tempi di recupenato insieme, scommettendo sul paregze motorie) di Roma con
ro, notturne, campi tropgio. Era saltato tutto, il Bologna aveva
cattedra in teoria e metopo sfruttati anche loro.
vinto, semplicemente perchè «Savoldi
dologia dell’allenamento,
Eppure le carriere si stanaveva fatto gol e non c’era stato tempo di
ha compiuto una ricerca
no allungando, fino alla
rimediare». Era stato più forte di lui, delsul chilometraggio medio
soglia dei quarant’anni
l’ombra, della delusione. Quando aveva
in partita di un giocatore
in casi sempre più frepensato che il gioco fosse finito, non era
(lo ha fatto nella Liga spaquenti. Merito di tanta
finito.
gnola e in Champions
attenzione riservata al fianalizzando 300 calciatosico e della “professionari): i 5,48 km di quarant’anlità”: l’incasso è un belni fa sono raddoppiati a
l’incentivo.«La longevità
11,44(perfinounportierearrivaa6km,lametàdiun
dipende — spiega Di Salvo — anche dalle metodomediano) con punte oltre i 23 km/h. «Ma oltre alle
logie di allenamento, dagli esercizi di prevenzione
distanze è cambiato il modo: l’intensità e i ritmi di
a livello articolare e dai progressi della medicina
gioco chiedono uno sforzo diverso, fatto di scatti e
nella diagnosi e nel recupero». Eppure, come ha
balzi. Dunque si deve allenare l’esplosività, la forza,
detto Carlo Ancelotti poco tempo fa, «Scordatevi
l’elasticità e la resistenza allo scontro fisico, calcoche i calciatori siano gente sana: io che ho giocato
lando che in una partita in media i contrasti sono 8una vita ora sono pieno di acciacchi».
In banca
giocava sino a 33 anni
Oggi: 35/36 anni
STIPENDI
30 anni fa:180/200
milioni di lire all’anno
Oggi: oltre il milione
di euro all’anno
INVESTIMENTi
30 anni fa: immobili,
attività commerciali e
assicurazioni
Oggi: borsa,
immobili e moda
I novanta
minuti
EMILIO MARRESE
P
Fenomenologia
di Savoldi
C
Repubblica Nazionale 27 28/08/2005
Gli hobby
95% Internet
93% televisione
88% altri sport
87% musica
47% cinema
43% videogiochi
(molti intervistati hanno
fornito più di un hobby)
La politica
Centrodestra 67%
Centrosinistra 20%
Indifferente 13%
Il lavoro
Minuti di allenamento all’anno
28500 (450 ore)
Minuti di partita all’anno
4000
La corsa
Km a partita: 11,4
portieri 4-6
centrali 10,62
esterni: 11,41
centrocampisti: 12
laterali: 11,99
attaccanti: 11,25
(nel ‘62 5,48 a partita,
nel ‘76 8,68
nel ‘91 10,8)
Il corpo
Azioni ad alta
intensità: 1100 a
partita
Battiti cardiaci:
165/173 al minuto
Acido lattico: 12
mmol/litro
Max consumo
ossigeno: 60/65
ml/kg/al min
Il gioco
Contrasti: 9 a gara
Sprint 45 a gara
Possesso palla: 150
secondi a gara pari al 2
per cento
del tempo di gioco
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
la scienza
Studio delle espressioni
Una mostra a Londra mette in fila trentacinquemila foto
di persone sorridenti. Un modo per sconfiggere, sette
settimane più tardi, la paura delle bombe del 7 luglio.
Ma anche una sfida a smontare uno dei più naturali
e nello stesso tempo ambigui gesti quotidiani,
che oggi le neuroscienze ci aiutano a indagare e capire
Il sorriso, macchina salvavita
ELENA DUSI
l primo, sincero e luminoso, arriva all’età di due mesi. Fino a quattro anni, quando i bambini imparano i primi trucchi del mentire
per gioco, siamo sicuri che i loro
saranno sorrisi veri. Ma poi aumenta l’età, e l’espressione del viso che
più comunemente viene associata al
buonumore e al sentirsi a proprio agio
comincia a diventare complessa, la sua
interpretazione non più univoca. Quando si riduce l’autenticità del sorriso, aumentano i muscoli facciali impegnati. Il
sorriso aperto coinvolge undici muscoli
divisi in due gruppi: quello della bocca e
quello degli occhi, con il nervo craniale
numero sette a fare da direttore d’orchestra. Il sorriso falso, quello nervoso e
Repubblica Nazionale 28 28/08/2005
I
quello sarcastico, l’espressione enigmatica della Gioconda (secondo Freud Leonardo aveva davanti agli occhi la madre
Caterina, mentre dipingeva), e quella
decisamente inaffidabile di Machiavelli
sono molto più impegnativi dal punto di
vista del controllo neuromotorio, arrivando a coinvolgere una quarantina fra
muscoli e fasci nervosi.
A scanso di equivoci, il governo inglese e quello canadese hanno di recente
emanato una direttiva antiterrorismo:
nella foto del passaporto non è solo vietato indossare veli sui capelli, ma anche
ridere o sorridere in maniera da deformare il volto e renderlo irriconoscibile
agli occhi degli scanner degli aeroporti.
«I bambini imparano a sorridere per
catturare l’attenzione dei genitori, per
stimolarli a prendersi cura di loro. Prima
Tutti al museo
per giocare
con l’arte
della felicità
ENRICO FRANCESCHINI
I bambini imparano
questa forma
di comunicazione
mimica solo a due
mesi. Ma qualche
studioso sostiene
che cominciano
a sorridere già
nell’utero materno
«F
dei due mesi si tratta in realtà di movimenti incontrollati dei muscoli facciali.
Solo dopo assumono un vero significato
sociale», spiega Felice Carugati, che insegna psicologia dello sviluppo all’Università di Bologna. A questa interpretazione Stuart Campbell, un ostetrico britannico che da quattro anni si dedica all’osservazione dei bambini nell’utero
della madre, aggiunge la propria: «I piccoli sorridono anche prima di nascere.
Nel grembo della madre il feto vive un’esistenza felice e senza preoccupazioni».
Non solo i bambini sorridono a genitori
ed estranei per attirare la loro attenzione. Più sono piccoli, più assorbono come
spugne il messaggio delle espressioni
facciali altrui. «La mimica dei genitori ha
un effetto potente sui neonati, che recepiscono ogni loro espressione. Sia quel-
LONDRA
accia un bel sorriso», dice incoraggiante il fotografo,
dopo avermi messo in posa, ed ecco che in capo a qualche minuto il mio volto, catturato da una macchinina
digitale, quindi prontamente stampato da una minuscola portatile, diventa parte della mostra allestita al Royal College of Art di
Londra. Avvertimento ai lettori: non sono finito incorniciato al muro in
virtù di meriti estetici, né per dichiarata fama. La mia stessa sorte, ossia
quella di sentirsi, una volta tanto, “pezzi da museo”, è toccata a chiunque
abbia approfittato del lungo week-end del Bank Day, festività che chiude
l’estate (si fa per dire) britannica, per andare a visitare il Royal College, tempio accademico delle arti, affacciato al polmone verde di Kensington Gardens. Il requisito per venire appiccicati alle pareti del Real Collegio, in effetti, era alla portata di tutti: bastava sorridere, come suggerisce il titolo dell’esibizione, Britain Biggest Smile (Il più grande sorriso di Gran Bretagna).
E l’intento è che sia veramente grande, al punto da guadagnarsi una citazione nel Guinness dei Primati come la più numerosa collezione al mondo
di esseri umani sorridenti (il record precedente, stabilito anni fa, arrivava
a trentacinquemila).
Diciamo subito, tuttavia, che l’ambizione di entrare nel libro dei primati
è una scusa. Così come è soltanto un mezzo, non il fine, la sponsorizzazione offerta dalla Hewlett Packard, la multinazionale che produce le ministampanti di foto digitali utilizzate per l’occasione (scommettendo che saranno «il gadget più richiesto del prossimo Natale»): per ogni immagine raccolta di uomo, donna o bambino sorridente, l’azienda dona infatti 35 pence, quasi 50 centesimi di euro, a un’associazione di beneficenza che aiuta
bambini poveri a realizzare il loro potenziale. Ma lo scopo vero dell’iniziativa, spiegano i promotori, non è la carità, e tantomeno fare pubblicità allo
la rassicurante come il sorriso che quella intimidatoria, per esempio il rimprovero» prosegue Carugati.
Gli etologi ne sono sicuri: solo i primati, le scimmie più simili all’uomo, condividono con noi la capacità di sorridere.
Le scimmie in particolare sollevano le
labbra e strizzano gli occhi quando hanno voglia di giocare. Ma la teoria ha i suoi
detrattori. Charles Darwin, Walter Scott
e Konrad Lorenz erano altrettanto certi
che anche la mimica facciale dei loro cani esprimesse un’emozione. «Anche Bashan — scriveva Thomas Mann — ci trovava da ridere. Alzava le sue sottili guance animali mostrando gli angoli della
bocca in un’espressione del tutto simile
a un sorriso umano».
In effetti, uomini e primati condividono la capacità di disgiungere le labbra in
sponsor, bensì magnificare «l’arte del sorriso», come l’ha ribattezzata il critico del quotidiano Independent. Ovvero richiamare l’attenzione su uno degli atteggiamenti che accompagnano la nostra vita: il silenzioso, misurato,
talvolta impercettibile movimento delle labbra che in una frazione di secondo può significare così tanto, anche sentimenti diversissimi tra loro,
componendo un alfabeto, l’equivalente di un intero linguaggio. Dalla culla, quando il genitore cogliendo il primo sorriso di un neonato, se non provocandolo con un pizzico di solletico sul mento, crede di avere assistito al
primo segno di consapevolezza del suo bambino; fino alla tomba, quando
una particolare piega della bocca sul volto del defunto fa dire ai vivi che lo
compiangono: «Forse è morto sereno». Nel mezzo, tra l’una e l’altra, una corona di compleanni, cresime, lauree, nozze, anniversari, abbracci, amori,
addii, amicizie, affetti, tutti scanditi da un qualche tipo di sorriso.
Ce ne sono, naturalmente, di ogni genere, da quello enigmatico della
Mona Lisa, su cui da cinquecento anni si interrogano gli accademici, a
quello determinato a sedurre e conquistare a ogni costo, simboleggiato,
tanto per fare un nome, da Silvio Berlusconi, al quale la mamma, da piccolo, insegnava: «Se vuoi avere successo nella vita, sorridi sempre a tutti».
Dall’ineffabile «solco lungo il viso» del Pescatore di Fabrizio De André, alla
dolcezza di un volto di donna che si illumina per un attimo su una carrozza della subway e poi scompare, nella canzone d’amore più gettonata di
questa estate, You are beatiful di James Blunt. Senza dimenticare il sorriso
sgargiante di Virna Lisi in un celebre Carosello anni Sessanta, evocato dalla battuta conclusiva: «Con quella bocca, lei può dire ciò che vuole».
Sorrisi infantili, sorrisi maliziosi, sorrisi timidi, sorrisi che richiamano o
che respingono, per non tralasciare — esiste pure quello — il cosiddetto
sorriso ebete: ci sono tutti questi, e molti altri ancora, nella galleria di facce londinese, nei trentacinquemila volti, uno più uno meno (giudicheranno gli esperti del Guinness), appiccicati ai muri del Royal College of Art: fo-
a
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
I PUNTI
I MUSCOLI
A DUE MESI
SOLO I PRIMATI
I SIMULATORI
Un sorriso
spontaneo attiva
undici muscoli
del viso.
Fingere invece
è decisamente
più impegnativo:
sono circa
una quarantina
i muscoli in gioco
L’essere umano
inizia a sorridere
nel grembo
della madre, ma
prima dei due
mesi non lo fa
intenzionalmente
E dopo i quattro
anni si impara
a simulare
L’homo sapiens
condivide
la capacità
di sorridere
con i primati,
che sollevano
le labbra
e strizzano
gli occhi per
invitare al gioco
Secondo uno
studio inglese,
gli uomini
sarebbero
più bravi
delle donne
a “smascherare”
un sorriso falso
Forse perché
sorridono di meno
segno di affabilità, ma i geni della famiglia Hox che regolano il meccanismo del
sorriso a livello cerebrale sono gli stessi
che sovrintendono ai meccanismi essenziali per la vita di tutti i mammiferi:
respiro, emozioni, vita sessuale. Gli stessi neuroni che in uomini e primati regolano la mimica facciale, nei gatti e nei topi fanno muovere vibrisse, palpebre e
bulbo oculare. Ognuno sorride con quel
che ha, insomma.
Esiste perfino un robot che ne è capace. Kismet del Massachusetts Institute of
Technology riconosce il sorriso altrui
grazie a quattro telecamere e risponde
allargando le labbra, sbattendo le palpebre e muovendo le orecchie con i suoi 15
computer e 24 motori.
E ognuno fa anche sorridere gli altri
con ciò che gli salta in mente. Per rende-
re più belli i soggetti delle loro foto, gli inglesi (e gli italiani) dicono «cheese», gli
spagnoli «patata» e i giapponesi «whisky». Ma tutti gli esseri umani sorridono
nella stessa lingua, e anche chi nasce cieco sa farlo con spontaneità. Il trenta per
cento delle persone mostra i canini,
mentre quasi il settanta per cento si limita a formare una mezzaluna con le labbra. Qualche differenza, in termini di
quantità, si registra tra uomini e donne.
Queste ultime giocano con il movimento delle labbra molto più degli uomini, e
generalmente con più arte, fedeli al motto: «La bellezza è potere e il sorriso è la sua
spada».
Di fronte a un sorriso ambiguo però
anche il proverbiale intuito femminile si
ritrova spiazzato. In un esperimento dell’Università dell’Hertfordshire presen-
ESPOSIZIONE
DA GUINNESS
I sorrisi celebri
di Sophia Loren,
Jacqueline Kennedy
e Ava Gardner
accanto ad alcuni
di quelli, anonimi
e numerosissimi,
che affollano le pareti
della mostra allestita
al Royal College of Art
di Londra, che è intitolata
“Britain Biggest Smile”
e che punta a entrare
nel Guinness dei primati
come la più numerosa
collezione al mondo
di esseri umani sorridenti
tato allo scorso Festival della scienza di
Edimburgo, il 72 per cento degli uomini
è riuscito a riconoscere un falso sorriso,
contro il 71 per cento delle donne. I pubblicitari sanno che uno sguardo accattivante con i denti bene in mostra è un’ottima arma per stimolare la propensione
agli acquisti. Ma questa è storia recente.
In età vittoriana infatti mostrare i propri
denti — in genere orribili per la mancanza delle cure — era un atto gravemente
sconveniente, come racconta Angus
Trumble nel suo libro A brief history of
the smile.
L’ipotesi che il sorriso umano si sarebbe evoluto dal digrignare dei denti delle
scimmie non è molto lusinghiero: «Non
mi attaccare, perché sono tuo amico».
Dietro al sorriso primordiale, non ci sarebbe altro che un fine utilitaristico.
Un lampo breve
sulla nostra follia
MARCO LODOLI
ardonici, enigmatici, obliqui,
elusivi, garbati o irrisori, malinconici o distaccati: quanti
sorrisi c’erano una volta, sorridere
era un’arte complessa, una tavolozza con mille sfumature. Chi sapeva
quale sorriso usare, e quando, e perché, conosceva la meccanica del
mondo, entrava con grazia nei suoi
ingranaggi. Ma anche chi aveva un
sorriso solo, candido e buono come
una mano sulla spalla, era un bel
pezzo avanti nella strada di una vita
serena.
Budda sorride da lontano della
dolorosa follia del mondo, l’Idiota
dostoevskijano sorride per stare più
vicino alle pene altrui. Ogni sorriso,
freddo o caldo che sia, è comunque
un lampo di intelligenza, una luce
breve che rischiara e spesso ci fa capire quanto ci dibattiamo a vuoto
nella confusione. Oggi si sorride poco o nulla: piuttosto si ride sguaiatamente, si sghignazza, si rumoreggia,
si seppellisce il mondo — come si
auguravano i sessantottini, che pure erano gente seriosa — sotto una
frana di risate. Dentro i telefilm impazzano le risate, i comici ridono da
soli delle proprie battutacce, e la vita, da amara commedia, è diventata
una chiassosa barzelletta.
Ricordo un benzinaio vicino casa
mia, tutti lo chiamavano Sorriso
perché ascoltava i racconti furibondi degli automobilisti e li commentava sempre e solo con una smorfia
irridente. Il suo sorriso rimetteva le
cose a posto, placava gli animi. Poi si
capì che quel ghignetto filosofico
era il frutto guasto di una mezza paresi. Sorrideva suo malgrado del
mondo, eppure il mondo lo guardava e per un poco si prendeva meno
sul serio.
S
Repubblica Nazionale 29 28/08/2005
l
o
o
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
tografie inviate al sito della mostra con una email, raccolte qui e là per il paese, o scattate ai visitatori di questo week-end, come è capitato al sottoscritto. Migliaia di piccole immagini colorate, una accanto all’altra, in decine di
composizioni, tabelloni, collage, tatzebao.
Guardate da lontano, quelle macchie di colore sembrano tasselli di un
puzzle. Viste da vicino, ciascuna racconta o almeno accenna una storia individuale. Un bambino in carrozzina e un altro in una cabina del telefono.
Due ragazzi in ottovolante. Due fidanzatini come quelli di Peynet. Tre amici che soffiano sulle candeline di una torta. Madri che allattano amorevolmente il loro cucciolo. Padri trionfanti che tengono in braccio un erede. Uomini e donne a passeggio, in vacanza, sul posto di lavoro: ebbene sì, qualcuno riesce a sorridere anche mentre lavora. Bambini poveri del Galles che
sorridono dopo avere appena ricevuto in dono il loro primo pallone da
rugby dal campione, gigante buono, Martin Johnson. Fan di musica rock al
megaraduno annuale di Glastonbury che sorridono con sguardo assente
dopo avere, dopo avere, dopo avere, vabbè, potete immaginarvelo da soli,
come mai ai concerti rock c’è sempre qualcuno che sorride in quel modo lì.
Nelle recensioni della mostra apparse sulla stampa inglese viene fatto
notare che il sorriso è il primo segno di intelligenza dell’homo sapiens, ciò
che lo distingue dagli animali (i quali — tranne le scimmie — non sorridono: al massimo, nel caso dei delfini, danno l’impressione di farlo). «Le potenti emozioni scatenate quando qualcuno che ci è caro ci sorride, e quando a nostra volta gli rispondiamo con un sorriso, producono cambiamenti chimici nel cervello», ci informa uno psicologo, David Lewis, dalle colonne di un quotidiano. Una varietà di esperti sostiene inoltre che sorridere crea conseguenze cerebrali che ci consentono di avere una migliore memoria di determinati avvenimenti, che ci rendono più ottimisti, più
motivati, più capaci di resistere al dolore, con un atteggiamento più positivo verso la vita: insomma, il sorriso fa bene alla salute. Un recente son-
daggio condotto nel Regno Unito indica perfino che la maggior parte degli
inglesi ricava più piacere dal sorriso affettuoso di un amico che da un rapporto sessuale con il proprio partner; tema su cui molti italiani, probabilmente, commenterebbero che dipende da chi è il partner. Come che sia,
non bisogna sorprendersi se, almeno qui in Inghilterra, sono già sorti numerosi corsi e seminari su «come imparare a sorridere», condotti da guru
e terapeuti alternativi.
Ma per quanta importanza possa avere il lato “scientifico” del sorriso,
movimento a cui contribuiscono, per chi ci tenesse a saperlo, ben undici
muscoli facciali (una bazzeccola rispetto ai quarantadue che si flettono per
uno sguardo arcigno), la mostra del College of Art sembra fatta apposta per
comunicare anche qualcos’altro. Bisogna compiere di nuovo un passo indietro, allontanarsi, guardare il puzzle dal fondo della sala: e allora diventa chiaro che tutti quei volti sorridenti messi in fila, tutte quelle facce distese, serene, fiduciose, di maschi e femmine, di giovani e anziani, di bianchi
e neri, di inglesi e indiani e cinesi e arabi e americani e giamaicani e latini e
pakistani, costituiscono in fin dei conti il grande volto della cosmopolita
capitale di Gran Bretagna, la città più multietnica, multirazziale, multireligiosa del pianeta.
E sarà certo un caso, perché l’idea di un’esibizione così è nata molti mesi
or sono — ma anche una coincidenza fortuita aiuta a trasmettere il messaggio — che sette settimane dopo la tragedia del “7-7”, sette settimane dopo le
bombe del sette luglio nel metrò, dopo le decine di morti, dopo la grande paura, Londra non ha perso la voglia e la capacità di sorridere. Non è poco, di questi tempi. Anzi: sarebbe un esempio da seguire. Perciò, adesso che siete arrivati in fondo all’articolo, cercate anche voi un motivo per allentare i muscoli del viso: un figlio che vi corre incontro, un amore appena sbocciato, una voce amica, al limite una dolce visione che appare e scompare, come nella canzone di James Blunt. È domenica, gentili lettrici e lettori: fate un bel sorriso.
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
il racconto
Memoria perduta
Hanno lo sguardo sognante, gonne corte e cappelli
a calotta: sono le nostre donne, friulane soprattutto
che negli anni Venti emigravano ad Alessandria d’Egitto
per lavorare come balie, cameriere e governanti.
Figlie della povertà con storie di sacrifici e sofferenze
ma anche di grande dignità e riscatto
L’antica rotta delle badanti italiane
S
PAOLO RUMIZ
GORIZIA
embrano uscite da una balera del
Charleston. Hanno lo sguardo sognante, gonne corte, scarpette alla
moda. Portano cappello a calotta,
orecchini, ombretto e messa in piega. Americane? No, italiane. Il luogo non è New Orleans, e
tantomeno Roma. È Alessandria d’Egitto anni
Venti, con la Belle Epoque dei sultani alla fine. Le
donne con i capelli a caschetto non sono turiste
in trasferta, ma proletarie immigrate. Italiane
d’Egitto. Balie, governanti, cameriere, cuoche,
sarte, ballerine d’alto bordo. Oggi si direbbe badanti. Figlie della povertà che, negli anni grandi
del Canale di Suez, scoprirono ad Alessandria la
New York del Mediterraneo. E trovarono proprio
lì, all’ombra dei minareti, libertà, cultura, emancipazione. Il sogno, talvolta persino la ricchezza.
Erano italiane speciali, quasi tutte pallide figlie
del Nordest. Friulane,
dalmate, istriane, ragazze di lingua slovena delle
valli attorno a Gorizia. Figlie dell’Impero asburgico, erano più indipendenti e sapevano leggere
e scrivere. Sul mercato
valevano il triplo delle calabresi o delle toscane,
nelle case della borghesia
alessandrina facevano
un figurone. Come Maria
Faganelli, che divenne governante in casa di
Boutros Ghali, futuro segretario delle Nazioni
Unite. O Danica Furlan, ottantacinquenne viva e
vegeta, che fu dama di compagnia dell’ultima regina d’Egitto alla corte di Faruk. Oppure la vecchietta dalmata che finì in casa Ungaretti e raccontò al poeta le prime fiabe, storie di «donne
bianchissime sotto la custodia di neri terribili» o
di caffè avvelenati serviti dal sultano a chi cadeva in disgrazia.
Vicende quasi dimenticate, che in Italia si approfondiscono solo ora, dopo decenni. L’emigrazione femminile ad Alessandria s’è interrotta
solo settant’anni fa, le ultime protagoniste sono
ancora vive, ma la memoria dell’emigrante è corta. Chi torna, non parla volentieri dei tempi del
bisogno. L’emigrazione femminile, poi, imbarazza il piccolo mondo contadino. Mica tutte, si
sa, furono storie acqua e sapone. Nella valle dell’Isonzo ancora ricordano una gentildonna che,
ai primi del Novecento, arrivava ogni anno dall’Egitto scortata da giganteschi maggiordomi
scuri di pelle. Loro probabilmente eunuchi, lei
sicuramente donna di harem. Non era bello, a
quei tempi, ammettere di essere mantenuti da
una mantenuta.
A rompere il silenzio italiano sul tema è stato
Franco Però, il regista che ha diretto Ring con
Vincenzo Cerami e Lo straniero di Camus per le
tv di diversi paesi d’Europa. Ora ha messo in scena al Mittelfest — titolo Quando una sera, ad
Alexandria, testo di Renata Ciaravino — la storia
vera di Milena, una cameriera goriziana che nel
1960, al tempo della rivoluzione anti-occidentale di Nasser, è costretta a fare le valigie e a tornarsene a casa dall’Egitto. Era emigrata nel 1925, per
fuggire dalla miseria e dal fascismo che — sulla
frontiera orientale — rendeva penosa l’esistenza
a chi non fosse «italianissimo». Dietro la messinscena, un meticoloso lavoro sul campo costruito
dallo stesso regista con
interviste, documenti
d’archivio, racconti di vita.
Arrivavano da tutta la
Penisola. Facevano all’incontrario la strada dei
barchini di oggi, carichi
di africani disperati. Alcune, prima di trovare lavoro nelle case dei ricchi
francesi, arabi, armeni o ebrei, finivano in balìa
degli sfruttatori. Anche per le biondine affamate
del Nordest la situazione era precaria. «Non vi à
birreria in Alessandria in cui manchi la goriziana
— scrive impietosamente un anonimo in un
giornale locale nel marzo 1886 — non esistono
camere ammobiliate senza una goriziana, negli
hotel di fama dubbia la maggior parte delle stanze sono abitate da goriziane, insomma sono pochi i fatti scandalosi in cui la nominata goriziana
non faccia da protagonista».
Spesso, sono solo storie di emancipazione coperte da maldicenza. Fausta Cialente, che visse
ad Alessandria, ne Il vento sulla sabbia difende la
vecchia zia Albina, goriziana pure lei, che «con i
suoi capelli biondi e le sue efelidi era venuta in
Levante giovanissima». Albina non raccontava
nulla dei suoi inizi, «ma io — scrive la Cialente —
ho sempre sospettato che in realtà avesse fatto la
cameriera o la bambinaia». Nel parentado la denigravano, ma Fausta, che dal fascismo era scappata in Egitto col marito ebreo, non può dimenticare: «Per merito suo ero tornata in Levante, e
di questa gioia, di ciò che nella mia ingenuità mi
sembrava addirittura una fortuna, mi sentivo
debitrice verso di lei, giacché l’Italia, dove pure
ero nata, era soltanto una memoria di fallimenti
e tristezze». Non c’era antisemitismo allora nel
mondo arabo, l’Egitto non esportava integralisti
islamici e terroristi anti-occidentali.
Enrico Pea, un altro degli scrittori italiani d’Alessandria, nel suo Il servitore del diavolo, narra
di una goriziana che fece girare la testa a un gre-
Tra queste la governante
di Boutros Ghali
e la dama di compagnia
alla corte di re Faruk
co. Oggi non c’è villaggio fra Trieste Gorizia e la
Bassa friulana che non abbia “alessandrine”
nella sua piccola storia. Carlo Micheletti, friulano, difende la bisnonna emigrata giovanissima
ad Alessandria. «Non mi sento di condannare
quelle mie lontane concittadine, né la loro scelta, che immagino libera, né la loro gaia sfrontatezza. Certamente non fecero male a nessuno.
Insomma: basta con la retorica dell’emigrazione e del lamento. Per quelle donne l’Egitto fu soprattutto una grande e bella opportunità».
Alla fine dell’Ottocento le biondine del Nordest erano già così tante che il governo, allora
austriaco, aprì nel 1898 un convitto apposta per
loro. «Prima dell’istituzione dell’Asilo — si legge
nel registro — i tuguri rigurgitavano di queste
donne, ove, e da speculatori e dalla miseria, cadevano in preda di vita abietta, il che ridondava
a grave disdoro della colonia austro-ungarica».
Curiosità: il testo è redatto in lingua italiana, voluto da un’amministrazione austriaca, stampato da una tipografia greca, distribuito in terra
araba. Basta per capire
cos’era, fino a ieri, Alessandria. Una metropoli
cosmopolita, il sogno
realizzato della convivenza.
Le contadine del Nordest imparavano una lingua dopo l’altra. La settantaseienne Berta Gregoric, per esempio, oltre
all’italiano e allo sloveno,
parla francese, inglese,
arabo e greco. «Quand’ero piccola — racconta —
andavo ogni anno per due mesi a casa della cugina di re Faruk. Mia nonna lavorava nella loro
famiglia. Avevano tre bambini, Mini, Sharif e Vatila. Il re non l’ho visto mai, la regina sì. Quando
mia nonna è dovuta partire, la regina le scriveva
sempre, diceva che per loro era come una mamma». Ammette: «Quand’ero lì, ero una signora.
Qui in Europa sono una serva, però non rimpiango niente, sono partita per amore. Mio marito voleva fare la sua parte contro i fascisti ed era
tornato in Europa a combattere con i partigiani.
Lo raggiunsi a guerra finita».
Racconta Franco Però: «Nei loro villaggi d’origine la gente viveva scalza, non aveva mai visto
automobili, la fame era tremenda. E loro in Egitto trovavano possibilità immense. Diventare
balie, governanti, cameriere, sarte, pulitrici, ma
anche impiegate e assistenti in grandi aziende
era una fortuna. Le paghe erano alte, la borghesia alessandrina era raffinata, sul delta del Nilo
si commerciava il miglior cotone del mondo». Lo
stesso quadro lo trovi negli unici testi scritti sul
tema, entrambi in sloveno: il romanzo Mare
amaro di Marijan Tomsic e una ricerca della goriziana Dorica Makuc.
«Vi era vivacissima la vita», narra Rodolfo d’Asburgo, erede al trono di Vienna, giunto nel 1883
da Trieste col piroscafo Miramar. «La gente che
incontri — scrive — ha l’indefinibile tipo di razza mista, che distinguesi col nome di “levantina”, ed è una mescolanza d’italiano, di greco,
d’armeno e di ebraico. Vestono quasi tutti all’europea, ma i più col fez sul capo. Oltre a que-
sti vidi e dalmati ed albanesi in costume, e turchi
ed asiatici, e molti preti greci e frati francescani,
rappresentanti la cristianità. Mori e nubii se ne
stanno davanti alle case dei ricchi banchieri, più
quale oggetto di lusso che di utilità».
E poi, i teatri. Molti sono ancora lì, hanno dietro il palcoscenico impolverate scenografie
d’anteguerra, come il “Don Bosco”, che annovera ancora migliaia di iscritti — egiziani — e nel
quale recitarono le nostre compagnie fino al
1940. «Luoghi straordinari — racconta Però —
come il teatro greco “Zizinia”, oggi “Mohammed
Alì”, o quello del liceo “Saint Marc”, quasi identico al “Vieux Colombier” di Parigi. O il “Victoria
College Theater” dei primi del Novecento. C’era
un legame fortissimo tra noi e il mondo arabo. E
di tutto questo s’è quasi persa la memoria».
C’è, nelle protagoniste ancora in vita, la nostalgia bruciante — e talvolta la rimozione — di
un luogo unico al mondo, un mondo che è stato
inghiottito dai nazionalismi, dagli scambi di popolazioni, dai pogrom, e oggi dallo «scontro di civiltà». Alessandria era il
Mediterraneo di greci,
ebrei, libanesi, italiani,
armeni, siriani, maltesi.
Era lo stesso mondo di
Salonicco, Atene, Istanbul, Smirne, Marsiglia,
Agadir. «Poi ha vinto il generale dei fagioli», ride
amaro Herman Spacapan, novantaseienne di
Nova Gorica, una vita vissuta ad Alessandria. È il
suo modo di definire Nasser, l’uomo che distrusse tutta quella ricchezza «fatta anche con le nostre mani».
«Tutto è cominciato per caso — racconta il regista — durante una recita ad Alessandria su Ungaretti e il greco Costantino Kavafis. Ero andato
nel quartiere di Attarin alla ricerca di un vecchio
luogo d’incontro di poeti, la “Baracca Rossa”,
una falegnameria frequentata anche da anarchici. Chiesi ad anziani arabi se c’erano ancora italiani da quelle parti. Loro mi indicarono una strada e lì una straniera, che parlava perfettamente
la mia lingua, mi portò da una certa famiglia Marino. Superstiti, con pochi altri, di una Piccola
Italia che non c’è più. Non voglio che questa memoria sparisca».
Come avviene oggi,
molte di loro
finivano nelle mani
degli sfruttatori
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
La geopolitica del benessere e dei diritti
La freccia dei migranti
dice dove va la Storia
ILVO DIAMANTI
adanti, balie. Dedite alla cura degli anziani, dei bimbi. Ma anche degli adulti…
talora. E, talora, usate e sfruttate. Un fenomeno a cui ci siamo abituati ormai da tempo. Badanti e balie. Giunte da diversi paesi.
Ma, soprattutto, dall’Europa centro-orientale. Nelle famiglie degli italiani hanno rimpiazzato le madri, impegnate nel lavoro. E le figlie,
che oggi sono poche, indaffarate, e non si possono occupare dei genitori poco o per nulla autosufficienti. Badanti e balie. Anzi, le badanti
più delle balie, perché siamo sempre più vecchi e facciamo sempre meno figli. La loro diffusione, davvero rapida e ampia, in Italia, riflette la tendenza — tradizionale per il nostro
paese — a “caricare” sulla famiglia, invece che
sui servizi, i compiti dell’assistenza. Le badanti come alternativa al “ricovero”. All’assistenza domiciliare.
La ricerca condotta dal regista Franco Però,
e raccontata in queste pagine da Paolo Rumiz,
rivela che non si tratta di un fenomeno nuovo
né tipicamente italiano. Visto che quasi un secolo fa appariva esteso. In Egitto. In particolare: ad Alessandria, la cosmopolita porta del canale di Suez. Passaggio verso l’Oriente. Dove le
badanti erano italiane. Con una presenza cospicua di donne del Nordest. Il che, ovviamente, ci sorprende. Perché abbiamo dimenticato.
Perché, come suggerisce Rumiz, quando la
memoria evoca disagio, si preferisce dimenticare. E oggi l’immagine degli immigrati in Italia (e non solo in Italia) suscita sospetto, timore. Talora, senso di superiorità. Per questo, ricordare non piace. Genera imbarazzo. In particolare, quando l’esperienza migratoria riguarda paesi e contesti (come l’Egitto), che oggi appaiono lontani. Richiamano un altro
mondo, un’altra civiltà, di cui diffidiamo; per
motivi religiosi e socioeconomici (i poveri,
quando sono più poveri di noi, spesso suscitano allarme).
Eppure è giusto e utile conservare la memoria, il ricordo, anche e soprattutto quando disturba. Rammentare che ottant’anni fa la nostra terra era la stazione di partenza e l’Egitto,
il passaggio fra Africa e Oriente, quella di arrivo, per molte donne e molti uomini. Non per
ripetere e ripeterci — come avviene spesso, in
modo un po’ retorico — che un tempo gli emigranti eravamo noi. Per il motivo esattamente
contrario. Per sottolineare, marcare, che altri
luoghi, altri paesi, a cui rivolgiamo uno sguardo misto di compassione e timore, un tempo
erano ricchi, “civili”, liberi e aperti. Quanto oggi lo siamo noi. E forse anche di più. Alessandria d’Egitto: «Il luogo della libertà, della cultura, dell’emancipazione, della ricchezza e del
sogno. La New York del Mediterraneo». Così la
definisce Rumiz. Mentre, negli stessi anni, l’Italia si apprestava a divenire un paese non propriamente ricco, né tanto meno libero.
Il fatto è che l’emigrazione è un indicatore
sensibile agli spostamenti della ricchezza, del
potere, del benessere fra un punto e l’altro del
pianeta. Così, la storia delle badanti italiane ad
Alessandria d’Egitto serve a ricordare che, meno di un secolo fa, il Mediterraneo era un centro politico, economico e culturale importante. E gravitava verso oriente. Subiva l’attrazione di città “plurali” e cosmopolite, come Atene, Istanbul, Smirne. Oltre, appunto, Alessandria. Mentre oggi il Mediterraneo è diventato
un confine oscuro, fra sponde lontane, attraversato da disperati, che intraprendono viaggi
difficili, rischiosi, drammatici. Da oriente e da
sud, verso l’Italia e l’Europa. Spinti dal vento
dei nazionalismi, dei fanatismi, degli integralismi, della guerra. Dalla miseria.
Questo cambiamento di rotta e di direzione,
nei flussi migratori, è utile a ricordare che la
storia non è mai scritta una volta per tutte. Che
da sempre grandi emigrazioni si succedono,
inseguendo condizioni di vita e opportunità di
lavoro migliori. Sfuggendo alla povertà, ma
anche alla violenza e alla repressione. Alla
mancanza di libertà. Chi preferisce dimenticare quando eravamo noi a viaggiare verso
oriente oppure oltre oceano, dovrebbe, al contrario, coltivare la memoria. E, invece di preoccuparsi perché siamo — da poco — diventati
terra di immigrazione, dovrebbe temere, assai
di più, quando smetteremo di esserlo. Perché
i flussi migratori sono frecce che indicano la
direzione dello sviluppo. Quando gli immigrati sceglieranno altre mete, oppure torneranno
in patria, sarà il segno che la geopolitica del benessere e dei diritti è cambiata. Che l’Italia ha
smesso di costituirne un centro. E ne è stata sospinta, di nuovo, alla periferia.
B
EGITTO COSMOPOLITA Nella pagina accanto, un caffè all’aperto nell’atmosfera cosmopolita del Cairo ai primi del Novecento
Repubblica Nazionale 31 28/08/2005
FOTO RITROVATE Badanti italiane in Egitto ai primi del Novecento. Le foto sono state raccolte da Gilberto Civardi e Amalia Romanelli
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
Dinastie tribali
PIETRO VERONESE
morta in una remota regione del Sudafrica, su al nord,
la regina della tribù dei Balobedu, meglio conosciuta,
a causa dei poteri che le
vengono attribuiti, come la Regina
della Pioggia. Il fatto risale al 13 giugno, ma notizie di questo genere
non viaggiano in fretta e
sebbene i funerali di
Makobo
Caroline
Modjadji VI si siano meritati un po’ di articoli
sulla stampa locale e
perfino la visita dell’inviato del New York Times, la cosa non ha certo
fatto il giro del mondo. Il
decesso della regina è
stato attribuito a meningite cronica. Però i complessi sintomi di cui soffriva da tempo e la situazione generale del Sudafrica — il Paese che conta la più alta percentuale di sieropositivi al
mondo — lasciano pensare all’Aids.
La regina era giovane e
bella, o tale almeno appare nelle foto pubblicate, che la ritraggono sempre in momenti ufficiali.
Uno sguardo severo, il
busto avvolto nella pelle
di leopardo, simbolo della regalità. Ma pur essendo morta appena ventisettenne, Modjadji VI
aveva vissuto la sua vita.
Ha saputo infrangere le
regole quando ha voluto.
Ha amato. Lascia due figli, di cui una piccolina,
motivo più di turbamento che di gioia per i Balobedu, perché è stata concepita ignorando le norme dinastiche.
Repubblica Nazionale 33 28/08/2005
È
Un mito vivente
La storia delle regine dei
Balobedu — che come
ogni antica storia africana affonda le sue radici
nel mito, un mito vivo,
non consegnato ai libri testo come i
nostri ma ancor oggi trasmesso di
bocca in bocca dai viventi — è tra le
più sorprendenti e affascinanti d’Africa. Ma il fatto odierno è che la sesta sovrana se n’è andata così precocemente, appena due anni dopo essere salita al trono, senza lasciare
una successione certa. La sua gente è
rimasta dunque priva di monarca.
Tra i Modjadji diverse fazioni sostengono diverse candidate e la figlioletta di Makobo Caroline, che ha
appena cinque mesi, non appare
certo la favorita.
«C’è stata una rottura nella famiglia
reale fin dalla questione di chi dovesse organizzare le esequie della regina», ha detto un portavoce del governo provinciale. Si è resa necessaria
una mediazione dell’autorità locale.
«Alla fine la famiglia ha accantonato i
dissensi e ha trovato un accordo per
avviare i preparativi». «Nel periodo
del lutto dobbiamo restare quieti», ha
spiegato al New York Times il portavoce del Consiglio della corona. Ma i funerali si sono svolti il 20 giugno. Il lutto è finito ed è lecito supporre che il
conflitto si sia riacceso.
Makobo Caroline era molto popolare tra i Lobedu, dicono. Aveva raccolto senza indugi la tradizione succedendo alla nonna, Mokope, la
quinta regina, morta a 64 anni nel giugno del 2001. Questa matriarca di meno di trent’anni era però anche una figlia del suo tempo: diplomata (nessuna regina lo era mai stata), appassionata di computer e soap opera, mai
lontana dal cellulare, frequentatrice
abituale dei centri commerciali di
In Sudafrica, al centro di un territorio arido e secco, la tribù
dei Balobedu prospera dentro un cerchio di colline stranamente
coperte di foreste e nebbia. Merito dei poteri magici che - racconta
la leggenda - le sovrane di quel popolo si tramandano di madre
in figlia. Ma ora che Modjadji VI è morta ad appena 27 anni
si è aperta una dura lotta per la successione
Regina della pioggia
il trono resta vuoto
Pretoria, attiva nella raccolta di fondi
a favore degli orfani. Tutto ciò costituiva una rottura clamorosa nel rigido rituale al quale era tenuta la Regina della Pioggia e noi amiamo pensare a Modjadji VI come a una lady Diana d’Africa o ad una di quelle principesse che tanto piacciono alle nostre
figlie: ansiose di fare bene la loro parte nella continuità ma senza rinunciare a se stesse e al proprio cipiglio. Prima di lei,
le sovrane dei Balobedu
vivevano recluse nel recinto reale, accudite dai
cortigiani e invisibili al
pubblico. Dedite nel segreto ai complessi rituali
che consentivano loro,
nel fitto della foresta e
ben al riparo da occhi
profani, di invocare — e
ottenere — la pioggia.
Questo è il loro potere,
gelosamente custodito,
protetto dal mistero.
Perfino il grande Nelson Mandela dovette sudare le sette camicie per
accostarsi alla regina
Mokope. Era il ‘94 e colui
che stava per diventare il
primo presidente del Sudafrica democratico fu
tenuto a fare una lunga
anticamera. Le poté parlare, come imponeva l’etichetta di Corte, soltanto rispondendole: cioè se
era lei per prima a rivolgergli la parola. E soltanto attraverso un intermediario. «La regina non risponde alle domande»,
dichiarò esterrefatto ai
cronisti all’uscita dal colloquio. Ci vollero tutto il
suo potere di seduzione e
due ricchissimi doni (una
4x4 e una berlina giapponese superlusso) per ammorbidire Modjadji V ed
eliminare, nei successivi colloqui,
l’obbligo dell’intermediario.
Anche la vita sessuale della regina
Nelson Mandela
le potè parlare
solo rispondendo
alle sue domande
è rigorosamente soggetta all’inflessibile controllo di Corte. Le leggi dei
Balobedu vietano alla sovrana di
prendere marito, anche se le consentono un numero imprecisato di «mogli». La parola non va intesa in senso
proprio. Si tratta piuttosto di dame di
compagnia, scelte dal Consiglio della corona, di solito nelle famiglie di
capi vassalli: una forma di diplomazia per garantire lealtà
alla sovrana.
Il Consiglio sceglie anche chi debba essere
chiamato a generare le
eredi al trono: un suddito
che soddisfi requisiti
complessi, soprattutto
circa la famiglia di appartenenza e gli accertati
ascendenti nella tribù.
Meglio ancora se di sangue reale. Per il resto, i
costumi a palazzo sono
sufficientemente discreti da consentire alla sovrana di accondiscendere ai propri desideri naturali come meglio crede: la sua vita sessuale è
considerata affar suo.
La nonna di Modjadji
VI, Modjadji V, aveva
avuto tre figlie, ma due
erano morte prestissimo.
La sopravvissuta, la principessa Makehala, era
l’erede designata. Ma disgrazia volle che morisse
anche lei, appena due
giorni prima della madre.
Restava solo un figlio maschio. Trascorsero due
anni prima che il Consiglio reale si accordasse
sul nome di Makobo Caroline, una nipote. Il regno di costei, iniziato sotto auspici così travagliati,
si è chiuso adesso prematuramente in
circostanze ancor più complicate.
Diventata regina, Makobo Caroline
non aveva voluto rinunciare all’amore ed era rimasta con il suo compagno,
FOTO AGENZIA MAXPPP (TLP)
le storie
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
CERIMONIA D’INVESTITURA
Sopra, Modjadij VI, la Regina
della pioggia morta a giugno
In basso, due momenti
della cerimonia d’investitura
David Mohale, impiegato comunale
della vicina cittadina di Letaba. Da lui
aveva avuto un figlio prima ancora di
salire sul trono. Si dice che i due convivessero nel recinto reale. Fatto sta
che solo quattro mesi prima di morire
a sua volta, resa già cieca e sorda dalla
malattia, la più giovane
Regina della pioggia della storia ha avuto una seconda figlia. Una femmina. Erano i primi mesi di
quest’anno. È intorno a
questa piccola che adesso si è accesa la battaglia.
La bimba sta presso dei
parenti paterni, cosa che
per gli aristocraticissimi
Modjadji è inaccettabile.
Il padre sostiene di essere
di sangue reale (lo ha dichiarato in una recente
intervista a un giornale
locale), affermazione che
il portavoce reale definisce «una sciocchezza». La
famiglia di David Mohale
ha costituito un suo Consiglio, alternativo a quello della Corona, e i Balobedu si sono spaccati. È
tra questi due organismi
che era sorta la disputa
sull’organizzazione dei
funerali della regina.
Un duplice incesto
I Balobedu sono una piccola tribù e il perpetuarsi della loro curiosa monarchia esclusivamente
femminile, matriarcale e
matrilineare è questione
che interessa solo loro e
qualche antropologo.
Eppure la loro storia è
magnifica e la tradizione
orale la fa risalire a cinque secoli fa, al grande
regno di Monomatapa,
nell’odierno Zimbabwe,
di cui esistono numerose prove storiche (prime
fra tutte le famose rovine) e di cui Modjadji V
era una discendente diretta. All’origine della
tribù c’è un duplice incesto. Quello di una figlia
di Monomatapa, Dzugundini, che ebbe un figlio da uno dei suoi fratelli e, costretta a fuggire, ricevette in dono dal padre il corno magico che le conferì il
potere di fare la pioggia. E molti anni
dopo, sul volgere dell’Ottocento,
quando il re Mugolo, minacciato da
ogni parte e confidando solo nella famiglia più ristretta, generò un figlio
con la propria figlia. Quella creatura
fu strangolata alla nascita; più tardi la
figlia del re ebbe una figlia femmina,
e quella fu la prima Modjadji.
A questo punto della storia il lettore
vorrà soddisfare la curiosità di sapere
quanto siano davvero efficaci i poteri
della Regina della pioggia, esercitati
in comunione con gli spiriti degli antenati, che sono le divinità dei Balobedu e alla cui volontà la sovrana stessa
è subalterna. Per trovare una risposta
basta giungere nelle vicinanze del recinto reale, che sorge sull’alto di lussureggianti colline, nel mezzo di una
vasto territorio che è invece arido e
secco. Nella terra dei Modjadji, oggi
riserva naturale, c’è un perenne microclima piovoso, umido e nebbioso,
nel quale cresce la più vasta foresta al
mondo di una rara specie di palma,
meraviglia dei botanici e dei turisti.
È stato il potere temuto e rispettato delle loro regine a garantire nei secoli la pace ai Balobedu. Persino il
grande Shaka, fondatore della nazione Zulu, invocò dalla regine del tempo la pioggia sul proprio regno devastato da una siccità. Persino il grande
Nelson Mandela ha fatto anticamera
da una di loro. Un potere che adesso,
in questi aridi tempi di telefonini e
shopping center, appare minacciato
come non mai.
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
i luoghi
Viaggio nel tempo
È una calda mattina del 1565 quando un esploratore e avventuriero
spagnolo, Pedro Menendez de Avilés, arriva in quella che oggi si chiama
Florida. Con il mare alle spalle e davanti una landa dalla vegetazione
fittissima, decide di fondare qui un nuovo avamposto: St. Augustine.
Che oggi si può vantare del titolo di “Nation’s Oldest City”. Con grande
soddisfazione dei suoi cittadini e del loro portafoglio
La città più vecchiad’America
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
E
ST. AUGUSTINE
Repubblica Nazionale 34 28/08/2005
ra la mattina dell’8 settembre, anno domini 1565.
Una ciurma di vecchi lupi
di mare, mercenari, avventurieri e canaglie ascoltava silenziosa e
indifferente le frasi in latino scandite
lentamente da un sacerdote. Il rumore
delle onde faceva da sottofondo a quella messa, celebrata in capo al mondo.
L’uomo dai tratti marcati e dall’aria padrona che guardava soddisfatto il
gruppo appena sbarcato su quella
spiaggia sconosciuta, scrutando la piana che dal mare piombava in una landa di vegetazione fitta, verde e misteriosa, aveva deciso: qui sarebbe nata la
sua città.
Il nome di quell’uomo era Pedro Menendez de Avilés, esploratore e avventuriero. Era arrivato su quella costa che
sarebbe diventata celebre come Florida dalla natia Spagna dopo un lungo
viaggio, lasciandosi alle spalle la consueta scia di sangue e di morti come
ogni prode che partiva alla ricerca di
fortuna e ricchezze nel Nuovo Mondo.
La sua città venne battezzata San Augustin. E oggi, con il nome appena storpiato di St. Augustine e all’età di 440
anni, è «The Nation’s Oldest City», la
città più vecchia d’America.
Molti americani, la maggioranza, ne
sanno poco o nulla. Fatto curioso per
un popolo e una nazione dalla storia
giovane come gli Stati Uniti, dove anche edifici vecchi di cento anni sono
considerati un pezzo di storia e ogni
cittadina senza passato ha i suoi intoccabili “landmark” affidati alle cure dei
beni culturali e delle fondazioni priva-
te. Eppure è solo da una decina di anni
che St. Augustine è entrata nei “pacchetti” turistici della Florida, e sono ancora meno quelli passati da quando la
“riscoperta” di questa cittadina, con le
sue case spagnole, i suoi patii e i suoi
giardini, i suoi vicoli e i suoi musei, è diventata un fenomeno nazionale.
La ragione di tanto disinteresse passato, a sentire Glenn Hastings — Executive Director del “St. Augustine, Ponte Vedra & The Beaches visitors and
convention bureau” — ha una radice
sciovinista: «La Florida fino al 1845 non
faceva parte degli Stati Uniti e la nostra
storia patria, i nostri miti e i nostri eroi
sono legati soprattutto all’America della East Coast». Basta mettere in fila un
po’ di date per capire quanto c’è di vero
nel ragionamento di Hastings. Quando
Pedro Menendez sbarcò con i suoi milleseicento coloni e soldati disposti a
tutto, quando decise che quella regione affascinante e pericolosa, benedetta da un cielo azzurro ma infestata da
caimani e da altri animali sconosciuti
agli spagnoli, era il posto adatto per
piantare la bandiera del re di Spagna e
per impadronirsi di una terra sconfinata e di smisurate ricchezze naturali,
qualcuno già la conosceva come “la
Florida”. Su quelle coste infatti si erano
affacciati altri uomini bianchi — spagnoli o francesi — ricacciati in mare o
Dopo un periodo
di disinteresse
il turismo si è fatto
conquistare
dalle case spagnole
con i portici,
dai vicoli minuscoli
e dai giardini in fiore
spinti in fuga verso altre terre da tribù di
indiani combattive e fiere.
Dovevano passare 42 anni prima
che, nel 1607, i coloni inglesi fondassero Jamestown, nell’attuale Virginia. E
solo nel 1620 più a nord, in Massachusetts, venne costruita quella Plymouth
che a molti, ancora oggi, piace considerare la città “storica” degli Stati Uniti.
Invece, cinquantadue anni prima di
Menendez, nel 1513, un altro famoso
esploratore e avventuriero, l’ex governatore di Portorico Don Juan Ponce de
Leon, era sbarcato su queste spiagge a
capo di una spedizione. La ciurma era
stata attirata e allettata dalla leggenda
di una favolosa “fontana della giovinezza” e, per tenersi buoni i suoi uomini, un giorno Ponce de Leon decretò
che una delle tante sorgenti naturali era
proprio la “fontana dei miracoli”, si autodichiarò reggente in nome del re di
Spagna di quella terra e la chiamò “la
Florida” a ricordo della “Pascua florida”, la festa dei fiori che si celebrava in
Spagna.
Natura splendida e violenta
Affacciata al mare sulla costa nordorientale della Florida, tre quarti d’ora di
macchina a nord di Daytona Beach, famosa per le sue corse automobilistiche, mezz’ora a sud di Jacksonville e
circa un’ora e quaranta a nord di Orlando, la città più vecchia d’America sta
conoscendo un momento di fulgore.
Glenn Hastings è uno degli animatori
della rinascita, ma come lui ce ne sono
tanti altri, venuti dagli Stati del nord o
dell’ovest e attirati da questo singolare
impasto di storia e architettura secolare, di natura splendida e violenta, di
spiagge incontaminate e di America
post-moderna. Sedotti dai vicoli dai
nomi spagnoleggianti che si mescola-
no a quelli anglosassoni, dove la calle
Cordova incrocia Treasury Street e il
boulevard Ponce de Leon fa angolo con
West King. Sedotti dalle case che hanno scolpita l’età nelle mura e nei balconi, case da «vecchia Europa» con nomi
che ricordano famiglie famose — Canova, de Medici, Murat (un nipote di
Napoleone Bonaparte) —, famiglie aristocratiche che mandavano i loro cadetti a colonizzare il nuovo continente.
Ma Hastings e gli altri sono calamitati anche dal business. «Negli ultimi dieci anni le cose hanno preso a girare velocemente e, se vogliamo dire tutta la
verità, una buona parte del merito
spetta a Mickey Mouse e a posti come
Disneyworld. Fino a dieci anni fa, se lei
entrava in un college o in una scuola e
chiedeva agli studenti di St. Augustine,
avrebbe visto solo facce sconcertate; e
parliamo di gente, giovani, magari appena usciti da una lezione di storia. Oggi saprebbero darle una risposta: qualcuno è sicuramente venuto qui con la
famiglia, magari solo per mezza giornata tra una visita a Disneyworld e una
alla spiaggia; ma altri ci arrivano proprio perché attratti da una storia di cui
sanno molto poco, perché a scuola nessuno gliela insegna».
Lungo le vie strette dove a fatica passa una macchina, figuriamoci un ingombrante Suv, si incontrano negozietti di arte e di antiquariato. Anche i
ristorantini sembrano fatti a misura
d’un tempo: piccoli ma non troppo, per
soddisfare la folla crescente di turisti. I
numeri annuali cominciano a essere
soddisfacenti: tre milioni di visitatori
passano qui almeno una notte, un milione si ferma per tre giorni, gli “escursionisti della mezza giornata” sono sei
milioni. Ancora pochi per le potenzialità che offre un posto come questo, do-
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
GLI INSEDIAMENTI
ROANOKE ISLAND
JAMESTOWN
NEW PLYMOUTH
PORT ORANGE
PHILADELPHIA
Nel 1584 un gruppo
di coloni inglesi sbarca
a Roanoke Island,
in Virginia, così
chiamata in onore
di Elisabetta I, the Virgin
Queen: è l’embrione
del primo insediamento
Il primo insediamento
è del 13 maggio 1607,
quando un gruppo
di mercanti sbarca nella
baia di Chesapeake
sulla sponda del James
River e fonda
Jamestown
L’11 dicembre 1620,
102 padri pellegrini,
salpati da Plymouth
in Inghilterra a bordo
della Mayflower,
sbarcano nel New
England dove fondano
la città di New Plymouth
Un forte e poche case
in legno: è Port Orange,
ribattezzata due anni
dopo Nuova
Amsterdam. È il primo
nucleo di quella che
nel 1664 gli inglesi
chiameranno New York
Una delle ultime
colonie, nel 1682,
è la Pennsylvania: tutto
comincia con l’idea del
filantropo William Penn
di creare una colonia di
quaccheri. Nasce così
la città di Philadelphia
ANIMA SPAGNOLA
Sopra, la statua dedicata
all’ammiraglio de Avilés,
fondatore della città
A lato, il castello di S. Marco
Sotto, una stampa d’epoca
dello sbarco spagnolo
Repubblica Nazionale 35 28/08/2005
ve a pochi minuti dalla visita alla «Nation’s Oldest City», ci sono chilometri di
spiagge bianche, club di ogni genere, ristoranti fusion in grado di soddisfare i
palati più raffinati. C’è gente che arriva
qui per fare surf sulle onde dell’Atlantico e poi si ferma stupefatta a guardare
case spagnole del Settecento di cui non
immaginava l’esistenza. Amministratori e investitori già la immaginano come una nuova Santa Fé, la città del New
Mexico che è oggi la più “trendy” per artisti, tardo-hippies e milionari della
moda e della televisione.
Negli ultimi due anni gli affitti delle
case sono quasi raddoppiati e trovare
un appartamento nel centro storico è
una caccia al tesoro. Non tanto per il
prezzo — ché a guardar bene si spende
meno che per un “two-bedrooms” a
Manhattan — ma perché le case sono
poche, piccole, e chi ce l’ha se le tiene
ben strette intravedendo un futuro di
ricchezza. Molti edifici poi sono occupati da musei, molti sono di proprietà
delle Chiese, da sempre molto oculate
negli affari immobiliari.
Raffinato melting pot
Un’altra benedizione della piccola antica città spagnola aggrappata alle
spiagge della Florida è quella del tempo. Con un po’ di fortuna qui la stagione dura tutto l’anno. Ed ecco che nascono e si moltiplicano i “pacchetti”
per l’intera area. Il mese più gettonato
è marzo — «è il periodo di springbreak,
quando chiudono scuole e college e le
famiglie si prendono una settimana di
vacanza» — ma l’onda di piena arriva
anche quando si giocano i campionati
di golf e qui il green, stando ai patiti del
gioco, è uno dei più belli d’America.
La gente che ci vive forma un raffinato melting pot: una comunità multiculturale, ricca di stranieri ma allo stesso
tempo molto americana, gente tollerante che ha scelto di venire a vivere qui
per godersi una esistenza più rilassata,
per trovare un ritmo di vita meno nevrotico di quello delle grandi città della
East Coast. In una sera di primavera
può sembrare di passeggiare in una cittadina della Andalusia, e anche qui il
caldo d’estate può essere soffocante.
Ma l’America preme da tutti i lati, e
come in ogni angolo del Paese anche
«The Nation’s Oldest City» è circondata dai riti e dai simboli della vita contemporanea. Grandi “mall” dove si trova di tutto, parchi-gioco a tema, castelli con i fantasmi, la “fattoria degli alligatori” con migliaia di rettili, il “Ripley’s
Believe It or Not! Museum”, il museo
delle cere, la “fabbrica del cioccolato”.
Oggi la strada di St. Augustine sembra
dunque tutta in discesa, complice anche la sempre più potente lobby dei latinos. Non è stato facile, perché sotto
questo cielo azzurro la storia l’hanno
fatta gli spagnoli e i francesi e ai “wasp”
— i bianchi, anglosassoni, protestanti
— non piace troppo ricordarlo. E di storia qui se ne scopre ogni giorno un nuovo pezzetto. Dal Ponte dei leoni scendendo lungo la baia di Matanzas e camminando per il lungomare si arriva fino
al Castillo de San Marcos, la massiccia
fortezza in pietra costruita dagli spagnoli nel 1672. Dentro si possono esplorare le stanze delle guarnigioni di guardia, una antica cappella e i magazzini
dove venivano conservati il cibo e le bevande in previsione degli assalti. Sulle
mura, dopo aver scalato molti gradini, si
può camminare lungo il parapetto orlato dai cannoni originali e ammirare dall’alto la vecchia città spagnola.
La fortezza è stata decisiva per tenere in vita St. Augustine durante gli anni
di fuoco della scoperta e dello sviluppo
della Florida. La città venne attaccata
ripetutamente: nel 1586 il corsaro inglese Sir Francis Drake tentò senza successo di metterla a ferro e fuoco; nel
1668 un altro inglese, il capitano pirata
John Davis, impegnò i suoi uomini in
una battaglia strada per strada che lasciò nei vicoli della città sessanta morti. Ma per l’avamposto spagnolo in Florida i pirati erano solo una faccia del pericolo. La popolazione doveva combattere con le malattie, con gli attacchi delle tribù indiane ostili, con gli uragani
che squassavano stagionalmente le coste della Florida allora come oggi.
Eppure fu la diplomazia politica, non
una sconfitta militare, a segnare la fine
della storia spagnola della Florida e a
far partire l’orologio della nuova vita di
St. Augustine negli Stati Uniti d’America. Nel 1763 una firma su un pezzo di
carta segnò la cessione della Florida all’impero di Sua Maestà Britannica in
cambio dell’Avana, a Cuba. Venti anni
dopo lo “Stato del sole” torna nuovamente sotto le bandiere spagnole. Ed è
solo nel 1823 che la Spagna, convinta (a
ragione) di non essere in grado di difendere quella sterminata terra contro
i coloni americani alla ricerca disperata di nuove terre al sud e all’ovest, decide che è giunto il momento di vendere
agli Stati Uniti. Il 3 marzo 1845 la Florida entra a far parte degli States. Da quel
giorno St. Augustine può fregiarsi del titolo di «The Nation’s Oldest City».
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
Una foresta segreta di menhir, dolmen, case di fate,
tombe dei giganti. Manufatti venerati per millenni,
poi bollati come “pietre infernali” dai primi cristiani,
infine divelti, riciclati, dimenticati. Eppure sono gemelli
di quelli che nel Nord Europa attirano milioni di turisti e torme
di archeo-astronomi. Ecco dove e come trovarli
Dei
pietra
Gli
di
Le cento Stonehenge
della Sardegna
di prima della Storia
SERGIO FRAU
Repubblica Nazionale 36 28/08/2005
C
CAGLIARI
orreva, lento, l’anno 594
dopo Cristo. Il Pontefice
di Roma, Gregorio I Magno, in vena di pulizie con
quel che restava del paganesimo, prese
carta e penna e cominciò a scrivere lettere durissime ai suoi, in Sardegna. Con
Ospitone, duce delle Barbarie — le Barbagie di oggi — usò invece mano tesa e
parole di miele: «Poiché nessuno del
tuo popolo è cristiano, io so che in questo tu sei migliore di tutto il tuo popolo:
poiché tu sei cristiano. In effetti, mentre tutti i Barbaricini vivono come bestie prive di ragione, ignorano il vero
Dio, adorano legni e pietre, il fatto che
tu veneri il vero Dio mostra di quanto
sei superiore a tutti quanti». Alle gerarchie ecclesiastiche dell’isola, invece, il
Pontefice elargì consigli pratici “ex
cathedra” per accelerare la conversione e strappare i Sardi da quelle loro pietre sacre e dai loro idoli di legno: «... Se
un contadino ha tanta mala fede e ostinazione da rifiutare di venire a Dio, occorre imporgli un peso fiscale così elevato che la fatica da sostenere per pagare lo spinga ad affrettarsi verso la retta via».
Detto, fatto. Del resto i veri miracoli
sono quasi sempre così: di lì a breve
Ospitone riuscì a convertire in blocco
quelle sue genti dal cattivo carattere che
avevano sempre fatto paura persino ai
Romani: menhir, dolmen, tombe dei giganti — adorati per millenni — divennero pietre infernali. Furono divelte,
riutilizzate, massacrate, dimenticate.
Non risulta che papa Gregorio abbia
inviato anatemi del genere anche ai Signori di Francia e d’Inghilterra e neppure contrordini in Sardegna. Forse è
per questo che oggi Carnac e Stonehenge sono ancora lì a chiamar turisti, a far ragionare archeo-astronomi, a
far decollare ufaroli.
Goni, invece — un posto-gemello a
quei due siti superstar, incardinato anch’esso nei ritmi del sole, a un’ora da
Cagliari — lo conoscono in pochi, persino nell’isola. Cos’è Goni? È un’eccezione: una delle poche meraviglie di
Sardegna ormai salve. Una fantastica
spianata sacra con una cinquantina di
menhir (già da anni rimessi in piedi dal
professor Enrico Atzeni e dalla sua
équipe, per farne un parco archeologico di grande suggestione). I menhir
fanno da strada cerimoniale a un complesso di sacrari-tombe-mausoleo
(datati tredicesimo-dodicesimo secolo avanti Cristo) che, anche da soli, ba-
L’anatema del
papa Gregorio I,
1400 anni fa,
per condannare
“i barbaricini,
adoratori
di legni e sassi”
troppo non è mai arrivata alle orecchie
giuste: per cui tra pastorizia e soprintendenze è lotta dura, da sempre.
Altre fantastiche Pietre Sacre — quasi segrete per ora a chi in Sardegna ci arriva da fuori — fanno di Sorgono, nel
cuore della Barbagia, un museo all’aperto del megalitismo. Anche lì sono
salve: anni fa il sindaco, Francesco
Manca, acquisì il terreno vicino alla
Chiesa di San Mauro al suo Comune e
così oggi bulldozer e ruspe — che per
anni, e con finanziamenti regionali,
hanno spietrato alla carlona mezza
Sardegna per far lavorar meglio gli aratri — là dentro non entreranno mai, se
non per i restauri che prima o poi vi si
faranno per rimettere in piedi i cento
colossali menhir che rendono davvero
unico quel luogo.
stano a far innamorare chi ha occhi
pronti a capirli. Immaginarsela 3300
anni fa, Goni, viva e affollata — come
per certe sagre d’oggi, ancora antiche
come allora — quella piana di mille riti,
spalanca il cuore.
Sempre Atzeni — quasi a far da “antipapa” — è riuscito a creare a Laconi, poco distante da Goni, un vero e proprio
Museo dei menhir (che ha anche raccontato in un libro): ce ne sono decine
in mostra che affratellano la Sardegna
dell’interno alla Lunigiana, alla Francia, ai Balcani, al Medioriente. Centinaia sono ancora in campagna, lì intorno, a combattere con i rovi e con i pastori che, temendo gli espropri, nascondono (e talvolta distruggono) tutto. La
notizia che proprio con le pecore vengono tenute a bada le erbacce di molti
siti megalitici europei, in Sardegna pur-
L’ALTARE
DI GRANITO
Sopra, da sinistra
a destra: due
menhir ritrovati
nella zona
di Laconi, oggi
esposti nel museo
della città,
e una statua-stele
di carattere
astronomico,
simile a quelle
d’Irlanda,
rinvenuta presso
Mamoiada
Qui a lato, l’altare
monolitico in
granito di Oschiri
Massacro di antichità
Mamoiada, poco distante, ha una stele-menhir che strabilia. Scolpita con
spirali e cerchi concentrici è uno spettacolo: sembra Irlanda, è Barbagia. A
custodirla è un giardino privato, ma
sempre aperto e ospitale: non si capisce se davvero sia stata trovata lì o —
per evitare che finisse deportata in
qualche magazzino — si sia deciso tutti insieme che «è stata trovata lì».
Sali ancora, puntando verso il Limbara a Nord est, e a Oschiri un intero
roccione di granito è stato scolpito ad
altare con decine di edicole chissà
quando, chissà da chi. Roba in zona, lì
e tutt’intorno, rimanda alla Creta del
tredicesimo secolo avanti Cristo. Altri
segnali sembrerebbero indicare datazioni assai più recenti: bizantine. Il luogo, comunque, invita a interrogarsi:
quelli della Soprintendenza lo studiacchiano senza entusiasmo da anni, ma
poi non lo pubblicano come si deve.
Quindi date certe ancora non ci sono.
Così quelli di Oschiri con Franco Laner
— ordinario d’architettura a Venezia,
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
SACRARI MEGALITICI E ANTICHI GUERRIERI
Al centro della pagina, uno dei “sacrari”
del complesso megalitico Pranu Mutteddu, a Goni.
In basso a destra, testa di guerriero con elmo cornuto,
appartenente a una grande statua di pietra. Le immagini
sono tratte da “Sardegna preistorica e nuragica”,
di Ercole Contu, edizioni Dessì; e da “Pietre magiche
a Mamoiada”, di Giacobbe Manca
e Giacomino Zirottu, edizioni Studiostampa
ma ormai innamorato delle strampalate architetture sarde — hanno intenzione di metterla in rete, quella loro
meraviglia, chiedendo al mondo intero
di suggerire spiegazioni.
Roba ormai salva, questa: visitabile.
Tutt’intorno, però — tranne altre eccezioni da prendere a modello come la
necropoli di Montessu, a Villa Peruccio
nel Sulcis di Santadi, e la salvaguardia
appena avviata a Muravera, in una valle di menhir — la maledizione papalina
ha funzionato. Si fa la bonifica dell’Oristanese? Tutto via — dolmen e menhir
— senza ripensamenti. Spietramenti
regionali? Un massacro di antichità.
Funzionari di Stato addetti alla salvaguardia e ricerca? Uno su due non funzionano e spesso, per di più, non fanno
funzionare gli altri. Colossali recinti
preistorici che farebbero la felicità di
mille archeologi? Usati come cave di
pietre già pronte. Furti? Uno via l’altro:
basta tener d’occhio i giornali; quasi un
self service, la Sardegna, si ruba pure
dai musei appena fatti.
Insomma l’anatema di Papa Gregorio colpisce ancora, dopo più di 1400
anni, le Pietre di Sardegna. Il caso forse
più vistoso è quello del pantheon nascosto: un intero pantheon di trenta
grandi statue, una straordinaria parata
di figure alte due metri e più che ripetono i temi dei bronzetti sardi, ingigantendoli. Scoperto nella zona di Cabras
dall’aratro di un contadino nel 1974,
dissepolto nel 1979 — a parte due spezzoni esposti a Cagliari — quel
pantheon fu inumato di nuovo nei magazzini della Soprintendenza di Cagliari, per trent’anni, fino a pochi mesi fa.
In giro se ne sapeva poco o niente, fin
quando Il Giornale di Sardegna non ha
saputo che solo ora ne è stato avviato il
restauro e ne ha dato notizia suscitando un’indignazione di massa che chiede conto del perché sia stato coperto
dall’oblio — e per tre decenni — un in-
tero capitolo di arte sarda, che, pure,
aveva affascinato fin da subito i più
grandi archeologi del ramo.
Nell’attesa — per conoscerla davvero questa Sardegna segreta — conviene
affidarsi a una sorta di fai-da-te. Anzi
un vai-da-te: fatto di libri giusti e di passaparola scelti, selezionati, chiedendo
a gente del posto (o nei comuni) consigli e dritte che possono guidarti lì dove
i cartelli mancano, dirottano o confondono. Due libri appena usciti rompono
il secolare silenzio, sfidando il diktat di
Gregorio I e riportando la gente ad ammirare le antiche pietre. Uno è la “Bib-
bia” dell’archeologia sarda: La Civiltà
dei Sardi si chiama ed è la riedizione
(aggiornata) del più completo manuale mai dedicato all’isola e alla sua storia.
L’autore, Giovanni Lilliu, parte dall’Isola delle Torri e spazia per l’intero Mediterraneo a caccia di somiglianze tra i
reperti che la sua terra ha restituito e
quel che si conosce di altre etnie: veneri sarde e veneri cicladiche, ma gemelle; dee madri anatoliche e oristanesi,
uguali come gocce d’acqua; decori ciprioti e campidanesi che però sembran
fatti dalle stesse mani; scarabei egizi
saltati fuori però a Tharros, sulla costa
Veneri sarde uguali
a veneri cicladiche,
dee madri anatoliche
fotocopia di quelle
oristanesi, pezzi egizi
ritrovati a Tharros
occidentale sarda.
La Civiltà dei Sardi è un volumone di
910 pagine (edizioni Eri, 20 euro) e permette di scoprire — millennio dopo
millennio, a cominciare dal 6000 avanti Cristo, cioè dal Neolitico antico —
una realtà che, per ora, i musei nascondono dietro gerghi fin troppo specialistici: integrato dalle guide tematiche
dei siti archeologici (edite da Carlo Delfino) e da chi sul posto ha il compito di
illustrare i luoghi, permette a chi arriva
da fuori di scassinare il doppiofondo
della storia sarda.
Miniere di vita fossile
Per azzardarsi ad andare ancora più indietro — nelle vertigini cronologiche
del periodo precedente, nel regno quasi fiabesco dei fossili — c’è ora un altro
libro: La Sardegna prima della Storia
(Cuec, 14 euro), che si ferma alle prime
testimonianze dell’uomo nell’isola.
Dolmen, menhir, “domus de janas”
(ovvero case di fate), tombe dei giganti
qui chiudono il racconto che inizia milioni d’anni prima. A realizzarlo è stato
Pier Giorgio Pinna, che per l’occasione
ha perlustrato, setacciato e raccontato
le «miniere di vita antica» che punteggiano la Sardegna, tracciandone mappe e itinerari.
Fino a una quindicina di anni fa si
pensava che l’uomo nell’isola (geologicamente considerata terra antichissima) fosse arrivato «da poco»: «Sei, settemila anni avanti Cristo, al massimo» si
sentenziò. Poi, però, una grotta di Cheremule ha restituito resti umani e animali che risalgono a 300mila anni fa. E
d’improvviso, negli anni Novanta, la
Sardegna si è fatta vecchia, vecchissima,
e tutta ancora da indagare.
Spesso a guidare Pier Giorgio Pinna e
a regalargli le sorprese che lui gira al lettore sono i grandi della geologia e della
paleontologia sarda. Così basta seguirli
e, via via, ci s’imbatte in foreste pietrificate (vicino Perfugas, vicino Abbasanta), coccodrilli nani della Nurra (vicino
Sassari), tronchi di palme ormai diventate roccia (al Museo Sanna di Sassari),
tutta roba che altrove incolonna carovane di appassionati e deporta scolaresche per visite guidate. In Sardegna no.
A ogni intervista eccolo rispuntare —
nelle lamentele degli esperti che Pinna
consulta — il rimpianto di quel che si potrebbe fare e non si fa: «In fondo, che ci
vuole a creare itinerari turistico-culturali?», si sfogano Carlo Spano e Sebastiano Barca, docenti dell’Università di Cagliari. «Serve — servirebbe — una rete
ragionata di musei diffusi: garantirebbero una conoscenza e una sorveglianza generalizzata del territorio che a breve darebbe i suoi frutti. E una sorta di enciclopedia geologica quest’isola: vi si
possono trovare ben conservati fossili di
tutti i periodi, dal Cambriano al Quaternario passando attraverso il Mesozoico
e il Terziario».
Per ora, a conoscerne una per una le
pagine più segrete, sono soprattutto i
trafficanti di fossili: stringe il cuore il libro-inchiesta di Pinna quando si mette
a raccontare di quanta roba vola via dall’isola verso la Svizzera e la Toscana, da
sempre centrali di traffici neppure troppo clandestini.
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
la lettura
Satira e dittatura
La rivolta contro lo Scià per finire nella teocrazia
dei mullah, il fragile innamoramento per Khatami,
l’astensione suicida che apre la strada al reazionario
Ahmadinejad. Marjane Satrapi racconta nelle storie
disegnate di “Persepolis”, meglio di un’analisi politica,
la passionalità e gli errori dell’intellighenzia persiana
Iran, il sogno e la follia a fumetti
«D
VANNA VANNUCCINI
io mio, che cosa
abbiamo fatto?».
Il giorno dopo
l’elezione di
Mahmmud Ahmadinejad, il
conservatore che si è insediato la scorsa settimana al posto del riformatore
Khatami, gli iraniani si guardavano
sgomenti. In 17 milioni avevano votato
per uno che diceva «non abbiamo fatto
una rivoluzione per avere la democrazia»; mentre gli altri si erano rifiutati di
votare per «il male
minore», l’ex presidente Hashemi
Rafsanjani. Non è
la prima volta che
gli iraniani scoprono di aver agito per
eccesso di emotività e di passione,
senza pensare alle
conseguenze. Gli
slanci emotivi
hanno scandito la
loro storia — dalla
rivolta del tabacco
in cui tutti smisero
di fumare perché i
Qajar, una dinastia
alla perenne ricerca di quattrini,
aveva ceduto il
monopolio del tabacco al britannico Talbot (e poco
dopo cedette a un
altro britannico le
concessioni petrolifere), alla rivoluzione costituzionale del 1906; fino
naturalmente a
quella, più a sorpresa di tutte, del
1979, quando gli
iraniani si resero
conto troppo tardi
di aver preso «un
terribile abbaglio»: per abbattere una dittatura
avevano volontariamente fatto posto ad un’altra.
I fumetti di
Marjane Satrapi, la
sua Persepolis, Storia di un’infanzia,
ci raccontano passo per passo quel
crescente sgomento. A quel tempo, lo Scià era diventato per gli iraniani il responsabile di tutti i mali.
Bastava un litigio
tra marito e moglie, e la colpa era
dello Scià. Fu facile
ai mullah manipolare e canalizzare
queste forti emozioni. In uno dei fumetti, i rivoluzionari tirano fuori dagli
ospedali persone morte di morte naturale e le portano sulla spalla per far credere al popolo che siano martiri uccisi
dalla Savak, la polizia segreta dello Scià.
Il padre della piccola Marjane si accorge dell’inganno ma non lo stigmatizza.
Solo lei ha qualche dubbio su questa
mescolanza incongrua di cadaveri,
cancro, martiri e assassini.
Con gli occhi di una bambina
Marjane guarda la rivoluzione con gli
occhi di una bambina di nove anni.
Crede che vi sia una logica dietro le decisioni degli adulti e annota con stupore tutte le loro contraddizioni. I genitori sono ricchi di famiglia, di discendenza principesca, rivoluzionari a tempo
pieno, liberali, amici di comunisti e, come tutti gli iraniani, appassionatamente nazionalisti. L’orgoglio nazionale è
al centro di tutte le loro azioni, spesso li
rende irrazionali, fa vedere il complotto contro l’Iran dappertutto.
Prima della rivoluzione del ‘79 l’Occidente, dice Satrapi, dell’Iran aveva
GATTO E TOPO, UNA METAFORA POLITICA DEL 1300
Poesia satirica di un poeta del 1300 (Obayad Zakani): un topo bevve vino
da un’anfora, si ubriacò e cominciò a prendere in giro un gatto. Questi,
offeso, lo catturò con un balzo. Il topo spaventato cambiò tono: “Ero
ubriaco e mangiai merda” (in persiano significa commettere un grave
errore), si scusò. Ma fu mangiato. Più tardi un amico del topo, nascosto
dietro il pulpito di una moschea, vede il gatto che prega e chiede perdono
per aver mangiato il topo. Corre dagli altri topi e annuncia: “Buone notizie. Il
gatto si è pentito. È diventato un devoto musulmano”. Allora i topi andarono
dal gatto portandogli omaggi e doni. E il gatto, che fino ad allora aveva
mangiato dei topi solo saltuariamente, li attacca tutti insieme e se li mangia.
solo un’immagine da Mille e una notte:
di satrapi crudeli e dissoluti, e harem
lussuriosi. La rivoluzione sembrò la più
folle mai avvenuta contro i sistemi che
reggono il mondo. Chi si sarebbe mai
aspettato che quegli stessi studenti che
venivano a studiare nelle università europee e americane sfidassero i carri armati dello Scià per seguire la parola di
un vecchio imam che viveva nella banlieue parigina e di cui si sapeva solo che
ogni mattina all’alba attraversava la
strada per inginocchiarsi in direzione
della Mecca? E chi si sarebbe aspettato
che donne della borghesia, liberali o
comuniste, che non avevano mai portato il velo, se lo mettessero nelle manifestazioni solo perché qualche barbuto
di turno glielo chiedeva, in nome dell’indipendenza dell’Iran? E che il novanta per cento degli iraniani votassero per una costituzione con cui la dittatura del Leader spirituale diventava
dottrina dello Stato e i diritti delle donne venivano dimezzati?
Come la piccola Marjane, l’Occidente cercò di trovare una logica in quella
follia. «Il sogno degli iraniani era trovare una via alternativa alla modernità
occidentale. Cercavano una spiritualità nella politica, ciò che noi abbiamo
perso dopo il Rinascimento» scrisse il
filosofo francese Michel Foucault, che
seguiva gli avvenimenti come inviato
del Corriere della Sera. Colse meglio il
carattere emotivo e irrazionale degli
avvenimenti Ryszard Kapuscinski che
annotò: «Quando gli iraniani non ne
possono più di un governo, tutto il popolo si irrigidisce e il governo scompa-
LA RIVOLUZIONE A STRISCE
In alto, tavole tratte da Persepolis,
il fumetto autobiografico di Marjane
Satrapi che racconta le trasformazioni
dell’Iran, dalla rivoluzione islamica
ai giorni nostri
Studenti usciti
dalle università
occidentali
innamorati
di un vecchio imam,
donne libere
e liberali
in piazza col velo
re, come se l’avesse inghiottito un terremoto».
Una volta cresciuta, Marjane si accorge che dietro le azioni degli adulti
una logica non c’è. Vede i suoi concittadini agire preda di sentimenti e risentimenti, passioni ed emozioni: di razionalità non c’è traccia. Anche il voto per
Khatami, otto anni fa, era stato dettato
dalla passione. Khatami era un mullah
atipico. Sorridente, affascinante, elegante e colto. Prometteva democrazia.
Ma non controllava né l’esercito né la
polizia né i tribunali. Gli iraniani lo sapevano bene, ma poi lo dimenticarono.
Dopo aver aspettato pazientemente
per sei anni, all’improvviso decisero
che Khatami non era che un miraggio.
E non andarono più a votare. Fu così
che nel febbraio del 2003 Mahmud Ahmadinejad, l’attuale presidente, cominciò la sua carriera politica: fu eletto
sindaco di Teheran con il dodici per
cento dei voti, quelli della parte tradizionalista, fortemente minoritaria,
della popolazione iraniana che è sempre stata contraria alla penetrazione
della modernità.
Il tradimento dei poveri
Alle ultime elezioni a quel dodici per
cento si sono aggiunti i voti di quel trentacinque per cento (spesso sono gli
stessi, perché i più poveri sono anche i
più tradizionalisti) che vive sotto la soglia di povertà in un paese che è il secondo al mondo per risorse di petrolio
e di gas. Questi poveri si sentono traditi da una rivoluzione che era stata fatta
in loro nome e invece ha arricchito una
nuova casta di mullah, capace di impadronirsi (Rafsanjani è l’esempio più
impressionante) delle ricchezze del
paese. A loro Ahmadinejad aveva promesso di distribuire una fetta delle immense rendite petrolifere e così l’hanno votato.
Tra coloro che, invece, si sono rifiutati in buona coscienza di andare a votare c’erano i puristi, come il premio
Nobel per la pace Shirin Ebadi, che
«non voterà fin quando il Consiglio dei
Guardiani avrà diritto di veto sui candidati». C’erano minoranze etniche come gli azeri, che vivono nell’Azerbaijan
iraniano e parlano
una lingua turca
ma si sentono iraniani, anzi l’élite
civile e intellettuale dell’Iran, e che
portano a Rafsanjani un rancore
incancellabile per
come, da presidente, aveva trattato Tabriz, la loro
amata capitale regionale un tempo
capitale di tutto l’Iran. Questa non è
una città, aveva
detto Rafsanjani,
ma un grande villaggio.
La sua parte d’irrazionalità l’ha
mostrata anche
l’Occidente. Prima
non ha creduto che
Khatami fosse veramente un riformatore, nonostante lo fosse sicuramente agli occhi
dei mullah. La
guerra in Iraq, poi,
ha regalato al regime teocratico degli
assi in mano che
mai si sarebbe sognato. Un governo
a maggioranza
sciita a Bagdad è
un’occasione storica, e il premier
Safari sa bene che è
più saggio stringere un’alleanza con
il regime teocratico di Teheran piuttosto di rischiare
che l’Iraq precipiti
in un caos ancora
maggiore.
Mahmud Ahmadinejad è una pagina ancora da scrivere. Mira allo
scontro o fa solo la
voce grossa? L’Iran
vuole davvero la
bomba atomica o
vuole solo non subire discriminazioni e poter disporre di
energia nucleare come tutti i paesi firmatari del Trattato di non proliferazione? La questione nucleare è diventata
acuta come se la bomba potesse essere
pronta domani, mentre tutti sanno bene, e i servizi d’intelligence americani
lo confermano, che ci vorranno almeno dieci anni prima che l’Iran abbia
questa capacità. Ma una discussione
razionale sulla questione sembra ormai impossibile, come si è visto per il tira e molla di questi giorni sulla “ripresa
immediata” delle attività nucleari, con
i cameramen della tv iraniana che sono
rimasti per ventiquattro ore ad aspettare a Isfahan la riapertura degli impianti per l’arricchimento dell’uranio, che
poi è stata rinviata.
Attoniti, gli iraniani sfogliano Hafez,
il poeta che hanno sempre interrogato
per avere una predizione del futuro.
Vanno a Shiraz sulla sua tomba, aprono a caso il suo Diwan e mettono il dito
su un poemetto. Ma il poeta immancabilmente risponde: «Hafez, la vita è un
indovinello, rinunciaci: non vi è risposta, solo questa coppa».
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA28 AGOSTO 2005
Tra le due sponde dell’Atlantico si gioca una partita a colpi
di concerti e cd. Da sempre i campioni sono gli artisti “stelle
e strisce”, ma anche i sudditi di Sua Maestà si prendono a volte
clamorose rivincite. Come con Beatles e Stones negli anni Sessanta e come adesso
che, dopo un decennio di sconfitte, sono tornati a dominare le classifiche. Con band
giovani destinate a dominare a lungo la scena
BEACH BOYS
SPRINGSTEEN
Il loro surf è
arrivato prima
del beat. Ma
la band californiana
ha dovuto
“inseguire”
i Beatles a lungo
Il difensore
del rock “puro
e duro” arriva
al cuore dei fan
negli anni 70
Ed è ancora
il più amato
BEATLES
DAVID BOWIE
Nessuno
è mai riuscito
a superarli
I Beatles
conquistarono
l’America
in maniera totale
Con i suoi
“Spiders from
Mars” Bowie
sbanca negli Usa
E contribuisce
alla riscoperta
di Lou Reed
’60
’70
La
sfida
della
musica
Se gli inglesi le cantano agli americani
ERNESTO ASSANTE
l ROCK si muove per ondate, per waves se vogliamo
mantenere un termine inglese che ha segnato varie
epoche della musica giovanile. E queste onde solcano l’oceano, vanno dalle coste britanniche a
quelle americane e tornano indietro, portando con
loro suoni, atmosfere, sentimenti, mode, linguaggi, codici espressivi che, nel viaggio, conquistano pian
piano i ragazzi di tutto il mondo. L’impero del rock è ancora saldamente angloamericano e dalle province nulla è
arrivato, se non per breve tempo, a scuotere questo dominio. Ma tra Londra, New York, San Francisco, Liverpool,
Seattle, Glasgow, è ben difficile decidere quale sia la capitale dell’impero, quale nazione possa detenere il titolo di
“terra del rock”. Perché in epoche diverse lo scettro è passato di mano in mano e, a seconda delle ondate, è stata la
musica britannica o quella americana a dettar legge, è stato lo stile british o quello yankee a dominare la scena.
Oggi, dopo molti anni di relative “sconfitte”, sembra essere nuovamente tornato il momento della musica che arriva dal Regno Unito e in America si parla sempre più frequentemente di una nuova «British Invasion», proprio a
quarant’anni di distanza dalla storica prima invasione
delle band inglesi, quella capitanata dai Beatles che, alla
metà degli anni Sessanta, arrivarono negli Usa seguiti dai
Rolling Stones, dagli Who, dai Kinks e da centinaia di altre
band, che sconvolsero la musica americana e conquistarono le classifiche.
I nomi delle band sono ancora sconosciuti al grande
pubblico ma già nel cuore dei fan del rock: Kaiser Chiefs,
Athlete, Keane, Franz Ferdinand, Snow Patrol, Kasabian,
Bloc Party, accanto ai quali ci sono i cantautori, da James
Blunt a Damien Rice, voci soul e rap come quelle di Joss
Stone e The Streets, e molte star già affermate, da Robbie
Williams agli U2, dai Coldplay ai Radiohead, dagli Oasis ai
Muse, fino ai Gorillaz, nati dall’inventiva di Damon Albarn
dei Blur. Nelle classifiche inglesi, per la prima volta dopo
dieci anni, sono gli autoctoni a dominare, in tutta Europa
le band britanniche sono state le star dei festival estivi e negli Usa questa estate sono stati gli inglesi a contendere le
posizioni alte delle classifiche agli artisti di casa. E il fenomeno promette di essere ancora più ampio, con molte altre band sulla rampa di lancio, pronte ad attraversare l’oceano per andare alla scoperta dell’America del rock.
«La nuova British Invasion è inevitabile», scrive trionfalmente il Guardianin Inghilterra, riportando i dati del mercato inglese di quest’anno. E anche dall’altra parte dell’oceano sembra che la situazione sia chiara, e i giornali parlano di una nuova «golden age» della musica britannica.
La “nuova ondata” inglese è decisamente interessante e
ricca di band e personaggi che meritano di essere ascoltati.
Innanzitutto perché è un ondata di gruppi che riscoprono
il gusto di suonare il rock ad alto volume e con le chitarre
elettriche, mettendo da parte sia le tastiere elettroniche che
hanno dominato il suono negli anni Ottanta, sia i computer del decennio successivo: «Non è che non ci interessi la
tecnologia», sottolineano i Franz Ferdinand, una delle migliori formazioni emerse negli ultimi anni in Inghilterra,
«ma pensiamo sia arrivato il momento di tornare a suonare davvero». E come loro la pensano tutte le band e i solisti
della nuova generazione, che hanno imparato ad usare le
macchine e che oggi ne fanno un uso intelligente.
Quarant’anni fa, dopo l’esplosione tutta americana del
rock’n’roll, furono i Beatles a far sventolare l’Union Jack
sulle classifiche americane, portando il beat negli Stati
Uniti: tutti divennero dei cloni dei gruppi britannici, se
Repubblica Nazionale 40 28/08/2005
I
Paul McCartney
“È una storia semplice. La musica viaggia e ognuno di
noi è influenzato da quello che ascolta. Brian Wilson
dice che ascoltò “Rubber Soul” dei Beatles e che quel
disco lo ispirò per realizzare “Pet Sounds” con i Beach
Boys. Noi ascoltammo “Pet Sounds” e fummo
influenzati nel realizzare “Stg.Peppers”
Da The Guardian
del 23 Gennaio 2004
non nel suono almeno nell’abbigliamento
o nel taglio di capelli; persino chi era lontano mille
miglia dalla sensibilità del
beat, come Frank Sinatra, dovette cedere all’ondata, e adattare il
suo mondo sonoro alla nuova moda
planetaria. Oggi i giovani, giovanissimi
ragazzi del nuovo rock inglese non possono essere individuati come un movimento
omogeneo, non hanno un suono dominante,
ognuno si veste come vuole, non portano con loro una moda, mescolano volentieri i suoni e gli stili.
Si vestono con abiti attillati e neri, come fanno i Ferdinand, o in maniera spettacolare e seventies come i Darkness, sono multirazziali come i Bloc Party, o estremamente british come The Rakes, figli di una nuova Inghilterra che parla mille lingue diverse nelle sue periferie urbane e che gioca con il rock con la stessa leggerezza dei
gruppi beat quarant’anni fa.
E non è Londra a tenere banco, e nemmeno Manchester
che per tanto tempo ha “governato” il brit-pop e che dieci
anni fa lanciò l’ultima grande ondata inglese. Quella di oggi è una scena nella quale vanno alla grande i piccoli centri, le località di provincia, i luoghi dove il rock è ancora
suonato nelle cantine e nei club, dove raccontare storie è
sicuramente più importante che apparire. Da Leeds arrivano i Kaiser Chiefs, la più in vista delle giovani band, una
delle formazioni che ha già conquistato il pubblico americano. James Blunt, che ha dominato anche le classifiche
italiane per tutta l’estate con la sua Beautiful, è di Bedlam.
Da Birmingham arrivano gli Editors e The Streets, mentre
la Scozia ha messo in campo i Franz Ferdinand, da Glasgow. I Futureheads sono di Sunderland, da Londra arrivano i Bloc Party e da Manchester i Doves.
Se una costante si può trovare nei nuovi campioni del
brit-pop è quella di un continuo riferimento all’ultima
grande stagione della musica britannica, quella degli anni Ottanta, quando la new wave travolse il rock e gli americani dovettero piegarsi ad un lungo periodo di dominio
britannico. Il revival degli anni Ottanta ha colpito, ovviamente, anche il rock americano ma adesso sono le band
inglesi a far da traino e a guidare le danze.
Cosa è successo al rock americano? Innanzitutto negli
Usa sono il rap, il nuovo soul, il r’nb nelle sue mille versioni, da quelle più pop a quelle dance, da quelle commerciali a quelle raffinate, a dominare la scena. Il suono americano del nuovo millennio è sostanzialmente il suono della
musica nera, e persino le starlette bianche come Britney
Spears o le boy band di maggior successo, come gli ormai
tramontati N’Sync di Justin Timberlake, hanno orientato
il loro suono verso quello della black music. Il rock viene difeso ancora dai gruppi metallici (gli Staind sono primi in
classifica negli Usa questa settimana), o dal punk melodico dei Green Day, ma per il resto non c’è una nuova generazione di formazioni rockin grado di offrire al pubblico dei
giovanissimi la necessaria “scossa elettrica”. «La musica
inglese oggi è più viva, più libera, meno condizionata dai
dirigenti delle case discografiche», sottolinea Simon Frith,
uno dei più grandi studiosi di popular music, «il pop di
grande consumo in America è standardizzato ed il rap rischia di entrare in un circuito ripetitivo e autoreferenziale.
Le nuove band britanniche, invece, sono veloci, leggere,
raccontano storie vere, hanno il gusto dell’ironia, non pretendono di essere megastar irraggiungibili, sono molto simili a chi le ascolta».
DOMENICA 28AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
Parlano i Kaiser Chiefs, protagonisti della new wawe d’Oltremanica
“Suono genuino, sincerità e un po’ d’ironia
ecco il segreto del nostro successo”
guidare la nuova invasione degli Stasa il successo, ovviamente, ma non a scapiti Uniti d’America è una band di proto della nostra musica. E poi credo che la
vincia che ha mutuato il nome da
gente capisca che non ci prendiamo tropquello di una squadra di calcio sudafricana
po sul serio. Troppe band lo fanno, sono sue che ha un suono inconfondibilmente briperimpegnate, credono che tutto giri attortish. Si chiamano Kaiser Chiefs, vengono da
no a loro. A noi invece piace l’ironia, e creLeeds, hanno realizzato un ottimo album
do si capisca bene dalle canzoni che scrid’esordio, Employment e tre singoli davveviamo e dal modo in cui siamo in scena».
ro imbattibili, come Everyday i love you less
La musica inglese sta attraversando un
and less, Na na na na na e I predict a riot.
periodo di grande fermento, soprattutto il
Hanno da poco terminato un tour di sucrock.
cesso negli Stati Uniti: «È stato un giro di
«Si, erano molti anni che non accadeva
concerti davvero entusianel campo del rock. Sono tansmante», dice il tastierista del
tissime le nuove band che
gruppo, Nick Baines, «i ragazstanno ridisegnando il panozi hanno affollato tutti i nostri
rama musicale inglese. Ed il
concerti, abbiamo avuto
bello è che ogni band suona
un’ottima accoglienza». È lui
diversa dalle altre, c’è una
per primo a credere ad una
grande varietà di proposte e di
nuova «british invasion»: «Si,
idee».
è possibile davvero, sta già acFormazioni che arrivano
cadendo. Noi, i Kasabian, i
in gran parte dalla provincia.
Futurehads o i Bloc Party, ad
«E altre ne stanno arrivanesempio, stiamo avendo un
do, da Hull, da Sheffield. Il
KAISER
CHIEFS
buon successo. Penso che il
nuovo rock inglese è molto
I nuovi eroi del brit-rock
rock inglese oggi funzioni in
ben radicato nel territorio...».
America perché i ragazzi hanMolte idee sembrano arrino bisogno di ascoltare una musica che abvare dall’ultima grande stagione del rock
bia meno fronzoli e più passione. In Ameribritannico, quella degli anni Ottanta.
ca è tutto superprodotto, sembra tutto fin«Il suono degli anni Ottanta è certamento, c’è molto rock e molto punk ma non ci
te presente nella nostra musica, molti dicosono band come le nostre».
no che in alcuni momenti ricordiamo i Jam,
Cosa vi rende diversi?
i Clash, ma a noi piace dire che abbiamo
«Il fatto che siamo così come la gente ci
preso anche molto dalla musica degli anni
vede. Siamo naturali, quello che facciamo
Sessanta e Settanta, e che tutte queste ine scriviamo ci rappresenta davvero. Sapfluenze le abbiamo messe in una musica
piamo che le canzoni che scriviamo sono
che è di oggi, moderna».
quelle che vorremmo ascoltare, ci interes(e. a)
A
TALKING HEADS
NIRVANA
Hanno segnato
il suono degli anni
Ottanta. Anche se
con l’aiuto di un
inglese, Eno
E con un leader
nato in Scozia
È l’ultima ondata
del rock, quella
del grunge
di Seattle ed è
capitanata
dalla band
di Kurt Cobain
POLICE
OASIS
È l’Inghilterra
a dominare
il decennio,
anche con
il reggae’n’roll
di Sting e dei suoi
compagni
Da Manchester
la band dei fratelli
Gallagher
cerca di far
rivivere il brit-pop
Con alterne
fortune
’80
’90
Repubblica Nazionale 41 28/08/2005
GREEN DAY
Hanno “rifondato” il punk, depurandolo di tutto quello che c’era di
britannico e rivendendolo agli inglesi come un prodotto americano, più
vicino al pop e al rock di Mtv e delle radio Fm. Sono tra i grandi campioni
del rock americano di questi ultimi anni, accanto ai Blink 182, agli
Offspring, o alle band del nuovo metal, come gli Staind, primi in classifica
una paio di settimane fa, i System of a Down, Korn, Linkin’Park, o la più
giovanile e pop Avril Lavigne. A rispondere alla nuova ondata “brit” ci sono
gli Strokes, The Bravery, i White Stripes, i Good Charlotte e molte altre
formazioni che arrivano dalla scena “indipendente”
COLDPLAY
La formazione di maggior successo del nuovo
rock britannico è quella di Chris Martin, arrivata
al terzo album, “X & Y”, ancora ai vertici delle
classfiche in tutto il mondo. Sono stati i primi a
dare i segni di una nuova vitalità della scena
inglese, dopo il successo dei Radiohead, dei
Muse, dei Blur e degli Oasis, che dalla metà
degli anni Novanta ad oggi hanno tenuto alta la
bandiera del rock britannico.
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Frutti del bosco
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
Un agosto particolarmente umido lancia la stagione
di porcini, ovuli, galletti e le fiere di questi buonissimi
parassiti, prima fra tutte quella di Albareto, dall’8 all’11
settembre. Un cibo prelibato fin dall’antichità ma non facile:
ogni anno si paga pegno, con centinaia di avvelenamenti,
per gli esemplari raccolti e mangiati con troppa leggerezza
Funghi
Sole e pioggia, la caccia è aperta
Ovulo buono
Raro, bellissimo
e buonissimo – a patto
di non confonderlo
con la velenosa Amanita
Muscaria –, l’Amanita
Caesarea è il più prezioso
tra i funghi da consumare
crudi. Strepitoso il mix
con il tartufo bianco
Chiodino
L’Armillariella Mellea
è detta chiodino per la sua
forma puntuta. Date
le dimensioni ridotte,
non va tagliato e necessita
una sbollentata prima
della preparazione.
Ottimo trifolato e in umido,
con gnocchi e polenta
LICIA GRANELLO
ioggia e sole, sole e pioggia. Roba da farsi venire mal di
testa. Eppure, il saliscendi meteorologico di questi giorni ha un merito: quello di riempire cuore e paniere dei
cercatori di funghi. Perché non c’è modo di dire più azzeccato: nascono come funghi. Appunto. Frutti di una
pianta, il micelio, composta da filamenti sottilissimi intrecciati nel terreno o in altri substrati, i funghi non vivono grazie
alla sintesi clorofilliana come gli altri vegetali, bensì per merito di
sostanze organiche “rubate” alla pianta-ospite o recuperati nel
terreno. Insomma, che siano parassiti, saprofiti o simbionti (come
i licheni), gli ottantamila tipi di funghi classificati a partire dagli inizi del Settecento sono inversamente proporzionali alle nostre crisi meteoropatiche.
E infatti, si fregano le mani gli organizzatori della Fiera del fungo
porcino di Albareto, in programma dall’8 all’11 settembre: negli ultimi giorni, l’Appennino tosco-emiliano è tutto uno spuntar di porcini, tutelati dall’indicazione geografica protetta da ben dodici an-
P
ni, pronti a farsi ammirare, turgidi e setosi, nei cesti dei quasi cento
espositori presenti, prima di finire in padella.
Per gli appassionati, l’appuntamento più intrigante coincide con
la prima sera della rassegna, quando verrà assegnato il decimo Porcino d’Oro. Da lì in poi, nulla vi sarà negato: escursioni guidate e mostre fotografiche, convegni e mini-stage di cucina. Ma soprattutto,
ad Albareto i funghi si gusteranno in tutti i modi, con il solo limite
della fantasia dei cuochi. L’elenco è pressoché sterminato, che si
tratti di cotture “in purezza” — grigliati, fritti, trifolati, scaloppati —
o ricette composte: bignè, carpacci, crostini, insalate, torte, crepes,
maccheroni, polenta, risotti, zuppe, su su fino al suadente gelato al
porcino. Il tutto, a patto che gambi e cappelli siano all’altezza della
fama, tanto al naso — odore profumato, non piccante, senza inflessioni di fieno — che in bocca — sapore fungino intenso e purissimo
— come recita la descrizione del prodotto Igp.
Certo, non si tratta di un cibo facile. Malgrado siano conosciuti e
consumati da migliaia di anni, ogni anno si paga pegno per gli esemplari che ancora vengono raccolti con leggerezza e mangiati con
ignoranza. Gli avvelenamenti sono centinaia, di cui pochi, per for-
Colombina dorata
Il nome botanico, Russula
Aurea, sottolinea il colore
dorato-arancio del
cappello. Ha consistenza
soda ma delicata: ottima
per le preparazioni
a fuoco vivo – grigliata,
fritta – mentre le lunghe
cotture la penalizzano
Galletto
Mazza di Tamburo
Porcino
Prataiolo
Il Cantharellus Cibarius –
detto anche finferlo
e gallinaccio – ha sapore
caratteristico, lievemente
amaro e piccante,
perfetto per il goloso sugo
rosso della cucina laziale.
Si cucina anche trifolato
e nel risotto
Riconoscibilissima per la
forma lunga e affusolata,
da cui il nome procera,
lunga, la Lepiota Procera
ha gambo fibroso,
inutilizzabile, mentre il
cappello impanato e fritto
– ottimo – va considerato
una cotoletta vegetale
Il Boletus Edulis, primo
tra i tanti boleti derivati
dagli alberi-madre –
leccino, porcino
dei castagni, laricino,
pinarello, albarello… – è
prelibato e versatile.
Carnoso, si conserva sia
essiccato che sott’olio
Pochi funghi come
l’Agaricus Campestris
crescono nei prati, lontani
dalla bioculla
del sottobosco e di rado
associati ad alberi. Se
giovani, possono essere
gustati crudi in insalata,
altrimenti si fanno trifolati
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Albareto (Pr)
itinerari
Al ristorante
St.Hubertus
di San Cassiano
(Bolzano),
Norbert
Niederkofler
miscela sapori
globali e materie prime
apparentemente distanti,
come nei fagottini
fatti in casa ripieni
di porcini e scampi,
accompagnati
da calamaretti spillo
Piazza Brembana (Bg)
Camigliatello Silano (Cs)
Gemellato da tre anni
con Alba, delimita
con Borgo Val
di Taro e Pontremoli
il triangolo
geografico
del Porcino Igp
(indicazione
geografica protetta).
Nei suoi boschi, a partire dalla primavera, si trovano
anche i profumatissimi Prugnoli
Sopra la stazione
termale di San
Pellegrino, nel cuore
della Val Brembana,
terra di formaggi
(Branzi, Taleggio)
e della polenta
Taragna - a base
di grano saraceno,
burro e formai de mut (monte) – si trovano porcini,
gallinacci e mazze di tamburo
Poco più di un secolo
di attività per il centro
turistico della Sila
a quota 1.272,
che offre buone piste
per sciatori a partire
dal Rifugio del Tasso.
Ma l’economia locale
ruota soprattutto
intorno alla raccolta e commercializzazione
di funghi e frutti rossi
DOVE DORMIRE
CASA DELLE ERBE
Loc. Pieve di Campi
tel. 0525 990235
camera doppia da 60 euro, colazione inclusa
DOVE DORMIRE
ALBERGO PIAZZA BREMBANA (con cucina)
Via Bortolo Belotti 70
Tel. 0345 81070
Camera doppia da 51 euro, colazione inclusa
DOVE DORMIRE
AQUILA-EDELWEISS
via Stazione 11
Tel. 0984 578044
Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
BERZOLLA
Via Provinciale 42
Tel. 0525 999828
Chiuso venerdì, menù da 22 euro
DOVE MANGIARE
ALBERGO DELLA SALUTE (con camere)
Via G. Donizetti 13, Olmo al Bremo
Tel. 0345 87079
Senza chiusura estiva, menù da 20 euro
DOVE MANGIARE
LA TAVERNETTA
contrada Campo San Lorenzo Nord-Est
Tel. 0984 579026
Chiuso mercoledì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
FUNGHI ORSI
Località Buzzò 15/A
Tel. 0525 999705
DOVE COMPRARE
ORTOFRUTTA DONATI
Via Calvi 1
Tel. 0345 81158
DOVE COMPRARE
FRUTTA E VERDURA OCCHIUTO
Corso Europa 133, Spezzano della Sila
Tel. 0984 431602
L’uomo raccoglitore
superstizioni e magie
MICHELE SERRA
appassionato che si accosta al venerabile
regno dei funghi con spirito scientifico,
munito di regolamentari libroni e libretti,
è in netta minoranza. Sì, ha letto le dotte introduzioni alla micologia nelle quali si spiega che solo
la classificazione botanica delle diverse specie
consente di orientarsi, evitando gli avvelenamenti. Ma in breve, nei boschi e nelle cucine, nelle
chiacchiere e nelle ricette, il suo risicato abicì
sprofonda nel mare oscuro delle credenze, dei
proverbi, delle tradizioni locali, ancora diffusissimi e spesso utilizzati come precaria bussola dagli
incauti raccoglitori.
Il mondo dei funghi appartiene alla botanica,
ma il mondo dei fungaioli è ancora pervaso di cultura contadina, dunque di cultura magica. E il vero “relativismo”, spieghiamolo una volta per tutte
al nostro amico Marcello Pera, si dispiega in tutta
la sua perniciosa potenza proprio nella credulità
a-scientifica e irrazionale. Se non esiste più, almeno si spera, la convinzione che i funghi tossici anneriscano il cucchiaio d’argento immerso nel tegame, oppure la strampalata idea che i funghi intaccati dalle lumache siano comunque buoni, è
però ancora forte l’inerzia di antichissime usanze
che contraddicono e a volte capovolgono le indicazioni della scienza. In molte regioni dell’Est europeo si consumano interi barili di boletacci tossici (compreso il Satanas) messi a macerare sotto sale, considerati una squisitezza. Nelle Alpi Marittime ho visto raccogliere con entusiasmo un lattario del larice definito non commestibile (provocherebbe diarrea) da molti testi sacri, nelle
Madonie si preferiscono i coriacei pleurotus ai
porcini, la Lombardia va matta per il chiodino
stracotto e irrimediabilmente amaro, in Polonia,
una quarantina di anni fa, mezzo villaggio andò all’altro mondo per una scorpacciata collettiva del
famigerato Cortinario Orellanus, che inchioda le
reni dopo un’incubazione di dieci giorni.
C’è sempre qualcuno disposto a giurare che la
nonna cucinava proprio quelli, ma evidentemente le nonne polacche non sono state in grado di trasmettere con la dovuta precisione i propri saperi e
sapori. Molto diffusa è anche la convinzione che
stracuocere i funghi li mondi comunque dei veleni, ottenendo, nella migliore delle ipotesi, infami
papponi di cappelle disfatte, indigeste come la cellulosa. E se la fame, generazioni fa, giustificava
questo genere di forzature, oggi non si capisce proprio perché ostinarsi, in tanti luoghi del mondo, a
ingurgitare funghi di serie C per la dubbia ragione
che li si è raccolti con le proprie mani.
La regola, che ogni buon dilettante impara da
subito, è questa: i funghi velenosi sono poche specie (cinque o forse sei, in Italia, quelli potenzialmente mortali, una decina quelli che danno solo
una robusta gastroenterite), e per prima cosa bisogna imparare a riconoscere quelli. È facile, sono
quattro amanite, un cortinario e un entoloma, più
una manciata di agarici, russole pepate, lepiote di
piccola taglia. All’altro capo del problema, sono
piuttosto pochi anche i funghi buoni, trenta o quaranta al massimo.
In mezzo, c’è la marea delle specie che non sono tossiche ma nemmeno eduli, insomma non
fanno male ma non si capisce la soddisfazione di
mangiarli. Quelli, che sono la grande massa dei
funghi, si impara a conoscerli negli anni. Riempirne cestini interi è, tra l’altro, un significativo oltraggio all’ambiente. I funghi, tutt’altro che fondamentali come alimento umano, sono decisivi
per l’equilibrio e la salute del bosco, un prezioso
scambiatore di sostanze biochimiche. Sono bellissimi e utili in loco, osservati e poi lasciati tranquilli a fare il loro mestiere. In pentola o sott’olio
meritano di finire solo poche specie, e solo gli
esemplari sani. Gli altri andrebbero rispettati, e
non colti né rotti a bastonate (come molto spesso
accade) anche se la nonna li cucinava così bene.
Le nonne non sono infallibili, e soprattutto non è
infallibile la memoria, che arriva a indorare perfino certe micragnose cene contadine, povere di
proteine e di calorie. Meglio la spesa al supermercato che certe ingorde e irragionevoli razzie
nei boschi. L’uomo raccoglitore è stato rimpiazzato dall’uomo coltivatore e poi, via via, da altre
tappe dell’evoluzione. Perché regredire a quello
stato così arcaico, e precario?
L’
80mila
le specie dei funghi
classificati in botanica
85%
la percentuale d’acqua
contenuta nei funghi
8mila
tuna, mortali, e meno della metà, secondo le staSuperato l’esame, avete solo l’imbarazzo delle specie che troviamo
tistiche, denunciati o vincolati al ricovero in
la scelta. Dando per scontato che i funghi manabitualmente nei boschi
ospedale.
tengono turgore e profumi solo per poche ore
Ai conoscitori tout court, mai sfiorati dal dubbio,
(non andate oltre le 24 ore di conservazione), le
il botanico Sacco (famoso per aver battezzato una
ricette dedicate sono tantissime.
varietà di menta) rispondeva inquieto che una
A livello nutrizionale, abbondano in sali mipioggia è sufficiente a cambiare il colore — e quinnerali e vitamine, a fronte di un impatto calorico
le calorie contenute in media
di uno dei parametri di identificazione — del fungo
ridottissimo. Il guaio è che la sostanza fibrosa di
in cento grammi di fungo
più velenoso, mimetizzandolo da commestibile.
cui sono fatti li rende difficili da digerire, cotti o
Del resto, l’agiografia fungaiola si porta apcrudi che siano (in alcuni casi, la cottura migliopresso quantità robuste di disastrose credenze
ra la digeribilità). Se poi, come spesso succede, si
popolari, dall’argento che si annerisce se immerso nell’acqua di cotopta per preparazioni grasse, come la frittura o l’aggiunta di panna
tura di funghi velenosi al preteso cambio di colore al taglio, dalla proper legare, difficile sfuggire alle fatiche di una digestione complicava-odore alla prova-gatto (comunque orribile), dal lavaggio con
ta. Però, chi ha gustato anche solo una volta una cappella di porciaceto alla cottura o all’essiccazione. Niente e nessuno ci mette al sino impanata sa che la tentazione è pressoché irresistibile…
curo dalla tossicità, se non il controllo sanitario. Quindi, anche se ci
Del resto, non tutti i funghi vengono per nuocere. Deve averlo
si sente micologi professionisti, meglio fare un piccolo esercizio di
pensato anche l’imperatore Claudio, un attimo prima di addentare
umiltà e far controllare i tesori appena raccolti (e rigorosamente inil piatto a base di Amanita Falloide, amorosamente servita dalla moteri, i frammenti possono non essere indicativi) in una qualsiasi Asl.
glie Agrippina.
Repubblica Nazionale 43 28/08/2005
60
Prugnolo
Spugnola
Trombetta dei morti
Detto anche spinarolo
o virno, è una vera
primizia, perché nasce
in maggio, avendo come
albero di riferimento il
castagno. Fine e gustoso,
si soffrigge con aglio
o cipolla per le frittate o al
sugo della pasta all’uovo
Altro fungo primaverile,
la Morchella Esculenta
(la “morille” molto diffusa
nella cucina francese)
cresce in terreni erbacei
incolti, vicino a pioppi
e olmi. Ha sapore
delicato, si consuma solo
cotta, risotti in primis
Detta anche Imbutino
per la forma caratteristica
(nome colto Craterellus
Cornucopioides) cresce
in gruppi nei boschi
umidi, specie in autunno.
Ottima saltata con burro e
prezzemolo, in umido o in
zuppa, va lavata con cura
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Ritorni di fiamma
DOMENICA 28 AGOSTO2005
È bello, colorato, impreziosito dalla mano dei designer,
riciclabile e dunque ecologico, sempre più robusto,
ha un passato affascinante e leggendario. E gli italiani
hanno ricominciato a comprarlo, come dicono
i sondaggi e come si prepara a dimostrare il Macef,
salone specializzato in calendario dal 2 al 5 settembre
Vetro
il
Il riscatto di un materiale eterno
lativa fragilità (un cubo di un centimetro di lato sopporta fino a dieci tonnellate) e l’elevato peso specifico ci rel miracolo del vetro è una delle tante meraviglie
stituiscono immediatamente il senso di un materiale
che affollano la nostra vita, condannate a restare
prezioso, misterioso, di cui anche la scienza fatica a dare
invisibili, sotto la soglia della nostra attenzione,
una definizione, e quindi finisce per darne molte, per
solo perché troppo familiari. Basta però riflettere
esempio liquido sottoraffreddato, quasi alludendo alla
sul fatto che un materiale amorfo, incoerente e orsua ubiqua capacità di appartenere simbolicamente a
dinario come la sabbia, grazie al fuoco, possa didue diversi stati della materia: solido e liquido.
ventare un materiale divino come il vetro, per rinnovare
La rinnovata fortuna del vetro è registrata dall’osserla sorpresa. Duro, puro, trasparente, eterno perché semvatorio di Astra-Demoskopea, che verifica più volte
pre riciclabile, appare sceso fra noi direttamente dal del’anno il settore e annota che le famiglie italiane che
cimo cielo, quell’Empireo immateriale dove Dante vede
hanno comprato oggetti di vetro per usi domestici negli
scorrere il fiume di luce dei beaultimi sei mesi hanno raggiunto il 70
ti, da cui gli angeli in sembianza
per cento. «Il riguadagnato amore dedi faville affiorano e affondano in
gli italiani ha diverse ragioni», spiega
un movimento incessante.
Enrico Finzi, presidente dell’istituCome tutti i miracoli, anche
to di ricerca: «La bellezza, per
quello del vetro cela la sua origiesempio, che si è arricchita di tanne: non sappiamo quando e coto colore, a prezzi anche molto
me sia nato, anche se Plinio nella
bassi; il design, che negli ultimi
sua Storia naturale racconta, dianni ha avviato un profondo
cendola leggenda, la storia di alrinnovamento stilistico di quecuni mercanti di nitro che, apsto materiale; la democratizprodati su una spiaggia della Fezazione, nel senso che un
nicia, videro i primi rigagnoli lutempo gli oggetti di vetro vecenti di un liquido ignoto uscire
nivano acquistati soprattutdal fuoco che avevano acceso, le
to da donne, mentre oggi socui fiamme avevano fuso la sabno diventati unisex; la distribia. Poi ci sono voluti secoli di
buzione, perché oggetti di
esperimenti, anche pericolosi
vetro si trovano anche al di
(nel 1291 le già rinomate vetrerie
fuori dei negozi specializzadi Venezia furono confinate a
ti, per esempio nei superMurano per proteggere la città
market di alimentari; il midagli incendi), e di pazienti artiglioramento della qualità,
giani per riuscire a ottenere il priperché il vetro è più robusto,
mo vetro perfetto, ovvero puro e
quindi più pratico e sicuro
trasparente, prima che la plasti- FORNELLO TRASPARENTE
che in passato. Inoltre il nuovo
ca, nuova pretendente, giunges- Il vetro Saint Gobain, lo stesso
successo del vetro è enfatizzase a insidiarne il primato.
to da due grandi tendenze: le
delle piramidi del Louvre,
Tuttavia il vetro non ha mai co- nel progetto di Ennio Arosio
ragioni dell’ecologia, perché è
nosciuto una vera eclissi e anzi per Santambrogio diventa
interamente riciclabile, e il nuosta vivendo una seconda giovi- piano lavoro e cottura per cucina
vo boom del vino».
nezza. Logico quindi che se ne
Alla diffusione di happy hour e
torni a celebrare il miracolo anche in manifestazioni coaperitivi corrisponde una sensibilità rituale del
me il Macef, l’appuntamento che dal 2 al 5 settembre racbere, con il corollario cerimoniale di un’innumeconterà le nuove tendenze dell’abitare. Piatti e bicchierevole varietà di bicchieri. E proprio i bicchieri sori, vasi, decanter, tavoli, specchi, lampade, sculture, perno gli oggetti di vetro e cristallo più acquistati (uno
fino piani di lavoro da cucina: il vetro in casa ha mille usi,
su tre), a un prezzo medio di 3,6 euro. Un miracomalgrado difetti come il peso e la fragilità. Eppure la relo davvero popolare.
AURELIO MAGISTÀ
Repubblica Nazionale 44 28/08/2005
I
COLONNA DI LUCE
L’ha fatta Sottsass
per Venini:
una lampada da tavolo
che somiglia
a un tavolo:
è Colonna di luce
ALTERNATIVA
Vasi, ma quasi
ampolle: Widor I
e II: il primo
trasparente,
il secondo
colorato, rosso.
Di Driadekosmo
COME ALABASTRO
Venature e sfumature
alabastrine per i vasi
in vetro soffiato
a bocca e lavorati
a mano di Cierre,
da 9 a 20 centimetri
di diametro
e fino a 67 di altezza
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
MURRINE PRIGIONIERE
I bicchieri in vetro e i calici incorporano
le murrine, sorta di mosaici fatti
a caldo, oggi caratteristiche di Murano
ma già prodotte nell’antichità
dalle vetrerie alessandrine. Di Coin
SPIRALI PER TORNADO
La spirale verde
e ambra che ingentilisce
i vasi conici con piede
Tornado, soffiati
a bocca, consiste in
un decoro pazientemente
applicato a mano
La grande tradizione dei maestri vetrai di Murano
DOUBLE FACE
All’interno in tinta
unita, fuori
maculato,
lavorato
craquelet,
è il vaso “double
face” Ding di Cive
Il calice-fiore di Fornarina
vivo della vita del soffio umano
GIANDOMENICO ROMANELLI
Annunzio ha intensamendo una svolta radicale e premente amato il vetro di
veggente a una realtà produttiva
Murano: le stanze del
di inaspettate potenzialità. Anche
Vittoriale ancora mostrano i pezla rassegna d’arte più importante
zi che per lui disegnarono e realizdel mondo, la Biennale, recepirà il
zarono alcuni degli artisti e dei
messaggio, ponendosi anzi nella
maestri vetrai più in voga del priprospettiva di accompagnare e di
mo Novecento. Ma vi è poi ne Il
sostenere lo sforzo imprenditoFuoco una traccia consistente di
riale in atto a Murano dedicando
questa sua passione: per ben due
ben presto una sezione della rasvolte, nel romanzo, il vetro murasegna dei Giardini proprio al vetro
nese vien acquistando un’imporcontemporaneo.
tanza che trascende l’episodio o il
Così la storia del vetro novecengusto dell’invenzione favolistica
tesco vede a Murano un susseper acquistare trasparenti valenguirsi di personalità e di invenzioze simboliche, incastonate denni. Anche al di là di presenze eclatro alla turbinosa dialettica della
tanti seppur effimere (da Picasso
fine di un amore impossibile e traa Chagall, da Cocteau ad Arp), il
gico. Una lunga, tormentata pasvetro muranese ha sempre rivelaseggiata per le fondamente e le
to talune non trascurabili affinità:
calli di Murano porta gli amanti a
quelle stesse che hanno prodotto
una piccola fornace gestita da un
filoni di eccezionale qualità e imSeguso (nome mitico e sacro al vepegno nella sua storia recente.
tro veneziano) che riconosce FoCarlo Scarpa, ad esempio, ha stascarina; egli, alla fine, le renderà
bilito con la grande e pur moderomaggio donandole un vaso a forna tradizione di Venini un rapporma di calice che la donna (che è
to particolarmente felice. Lo stespoi, come si sa, la Duse) porterà
so si può dire per Fulvio Bianconi
con sé «senza invilupparlo, come
e, già prima, per Tommaso Buzzi,
si porta un fiore». Nel prosieguo
Napoleone Martinuzzi, Giò Ponti;
della drammatica peregrinazione
non meno dei grandi stranieri di
l’acme del racconto sarà costituiMurano: Wirkkala, Sarpaneva e
to proprio dalla rottura del calice:
altri ancora, fino ai giapponesi,
«Il vetro s’infranse nella sua mano
agli americani, agli australiani.
convulsa, la ferì, cadde ai suoi pieCosì che si potrebbe forse dire che
di in frantumi». E
il vetro di Muramacchierà di
no è diventato un
vermiglio il fazlinguaggio monzoletto con cui
diale.
ella si era avvolta
Non c’è e non
le dita: in pezzi
c’è mai stata concome l’amore di
traddizione in
Stelio e Foscaritutto ciò: se da un
na.
lato ancora qualMa vi è, nelle
che gruppetto di
nostalgici vien
pagine del rochiedendo promanzo, una delle
tezione e segredescrizioni più
tecnicamente
tezza appellancorrette e comdosi a tradizioni
plete del procesche hanno avuto
so di lavorazione
senso e qualche
del vetro così coragione nell’Eume della singola- Gabriele D’Annunzio
ropa di antico rere organizzaziogime (le famose
ne produttiva
pene minacciate
dell’unità minima e necessaria (la
e comminate dalla Repubblica a
piazza) in cui è strutturato e sudchi avesse divulgato i segreti deldiviso il lavoro dei vetrai muranel’arte, in una efficace commistiosi, dal garzone al maestro.
ne di interessi economici e comIl secondo spunto dannunziamerciali e di saperi quasi alchemino è invece costituito dalla favola
ci ed esoterici), ai più risulta chiadi ambientazione rinascimentale
ro che il confronto e la circolazionarrata dal protagonista Stelio,
ne delle idee e delle stesse conosecondo cui un altro Seguso, Darscenze scientifiche e tecniche
di, si impegna, a rischio della vita,
hanno costituito l’ultima, in ordiper realizzare presso Murano un
ne di tempo, vitale sollecitazione
enorme organo di settemila cane occasione di rinnovamento in
ne di vetro. La sua amante, trascutempi di globalizzazione e in una
rata per l’impegno e tradita a fatipologia di prodotti di cui è assovore del vento Ornitio, si getterà
lutamente impossibile tenere cetra gli ingranaggi del mantice falati componenti, materiali, mocendo fallire l’impresa dell’Ardalità di lavorazione, scelte tecciorgano e condannando a morte
nologiche e così via.
Dardi Seguso.
Che cosa rimane, allora? Come
La passione vetraria del vate
si distingue e si difende un’area
Gabriele si collocava tuttavia — al
culturale, artistica e — perché no?
di là della immaginifica veste let— economica, come quella del veteraria con cui essa è presente nel
tro di Murano, oggi? Il patrimonio
romanzo — in uno dei momenti
più grande e certo non imitabile è,
più delicati e promettenti della
una volta di più, costituito dalla
storia di quest’arte in Venezia.
storia vivente del vetro di Murano:
Uscita dalle secche di un Ottocensaperi e sapienze, gusto e colpo
to in bilico tra storicismi pedissed’occhio, colori e forme. «Bellissiqui, tradizione volgare e tentativi
mo, veramente — come il calice di
di innovazioni tecnologiche, l’inFoscarina —, e come le cose natudustria dell’isola del vetro si stava
rali misterioso, recante nella sua
lanciando con inusitato vigore su
concavità la vita del soffio umano,
una strada assolutamente nuova:
nella sua trasparenza emulo delle
da una parte, quella della moderacque e dei cieli, simile nel suo ornità e dei linguaggi artistici conlo violetto alle meduse che vagano
temporanei e, dall’altra, di un rinsui mari, semplice, puro, (…)
novamento qualitativamente di
senz’altre membra che il suo piegrande portata arruolando finalde il suo stelo e il suo labbro; e permente designer, progettisti, ingeché fosse tanto bello, nessuno
gneri e chimici o, meglio, creando
avrebbe potuto dire né con una
figure professionali nuove da afparola né con mille».
fiancare alla insuperabile perizia
L’autore è direttore
tecnica dei maestri e così impridei Musei civici di Venezia
D’
NERO CON RAGIONE
Rivoluzionario
per due ragioni,
il calice Sommeliers
di Riedel:
è senza stelo,
ed è nero,
con una buona
ragione: serve
per le degustazioni
“cieche”
Il boom del vino
e delle
degustazioni
ha contribuito
a spingere
la produzione
e la vendita
dei nuovi
bicchieri
“professionali”
CAPOLAVORO
Tourbillon, come
il meccanismo
che impreziosisce
gli orologi meccanici
più sofisticati,
è il nome del vaso
capolavoro di Lalique
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 28 AGOSTO 2005
l’incontro
Artisti tuttofare
È un rocker da seicento concerti in
quindici anni. Non solo: ha scritto
due libri e diretto due film di successo.
Ora il “Liga” si confessa e parla
della sua ricerca
della leggerezza:
nella musica, che deve
restare popolare;
nella vita, che ha scelto di
vivere in provincia; nella
religione, che vorrebbe
vedere spogliata da rituali
pesanti e faticosi; nella
politica, che lui sogna capace di creare
“un mondo comico, che faccia ridere”
Luciano Ligabue
n ogni paese c’è un angolo che al
paese non assomiglia affatto.
Correggio è preziosa, con i portici, le case ocra riportate con intelligenza e buon gusto alle antiche grazie, e persino una piccola medina, dove
vivono le famiglie di extracomunitari,
riconoscibile più dagli odori di spezie e
di kebab che dall’architettura della
viuzza. Il centro storico è immobile sotto la canicola. Gli anziani sono in casa
per il pranzo. I pochi giovani costretti a
restare per Ferragosto hanno approfittato del weekend per un tuffo a Rimini o
a Riccione.
Lo studio dove Ligabue sta completando Nome e cognome, l’undicesimo cd
che esce il 16 settembre, si trova nella
Correggio che non assomiglia a Correggio. Un hotel supermoderno e un ipermercato hanno scippato la scena all’antica pieve e ai filari di pioppi. Il Kochiss
del rock italiano si rifugia lì dentro per la
pausa pranzo: un bicchiere di vino e un
piatto di tortelli. La popolarità e sei milioni di dischi venduti non l’hanno allontanato dalla provincia. Correggio
d’estate diventa il suo laboratorio. «Qui
nell’agosto 2002 preparavo il concerto
negli stadi. Nell’agosto 2003 scrivevo La
neve se ne frega, per la voglia incontrollabile di buttar fuori cose che non fossero
canzoni», racconta. Il viso non parla di
notti insonni, l’aspetto è tonico, il fisico
asciutto, la pelle abbronzata («da cinquanta minuti di corsa al giorno»), i
gioielli di argento brunito e turchesi naturali in bella vista sulle dita e sul collo. I
capelli lunghi e selvaggi, come sempre.
Rocker, ma non a tempo pieno, Luciano Ligabue ha diretto due film (Radiofreccia e Da zero a dieci) e scritto due libri
di successo (Fuori e dentro il borgo e La
neve se ne frega). «A volte sento che la musica, il motore della mia vita, non mi lascia lo spazio di cui ho bisogno. Una del-
quello che faccio, ora che ho di che vivere per vent’anni, la priorità non è mai
economica. Di professione faccio sempre il musicista. Il cinema mi serve per
dare una risposta a un bisogno, a un’urgenza, quando ho una storia che non
posso non raccontare, come è successo
con Da zero a dieci». Ma c’è un altro suo
libro che ancora non è diventato sceneggiatura. «Non sa quanto mi piacerebbe fare un film da La neve se ne frega.
Ma non è realizzabile in Italia, costerebbe troppo, è ambientato nel 2173. Si potrebbe fare solo a Hollywood, ma pare
che lì siano concentrati su altri progetti», scherza.
Mentre apparecchiano la tavola, Povia canta Quando i bambini fanno oh. Il
profumo dei tortelli messi a mantecare
riempie l’aria e riscalda l’enorme spazio
disadorno. Con gli odori di casa, la provincia entra prepotentemente nel discorso. Ricordi, entusiasmi, sogni infranti. «È crollata la certezza di quando
ero ragazzino negli anni Settanta che la
politica fosse lì, pronta a far diventare il
mondo come lo sognavamo. Ora sem-
Ho 45 anni,
non immaginavo
che questa fosse
un’età così bella.
A vent’anni ero snob,
pensavo che la gente
non capisse niente,
ero rigido e rabbioso.
Ora so più cose,
sono più tollerante
FOTO HGRAZIA NERI
I
CORREGGIO
le sfighe delle canzoni è che sono composte da duecento parole, che non solo
devono “suonare” ma anche avere una
certa facilità comunicativa. Con un romanzo, invece, hai a disposizione un
numero di pagine illimitato per dire tutto quello che vuoi. Fare un film è ancora
diverso: sai che la sceneggiatura deve fare i conti con una realtà produttiva. Ma
le canzoni, quando vengono bene, hanno una magia in più. Una frase che può
sembrare ovvia, messa in musica si apre
a un’infinità di interpretazioni e assume
già in partenza un irresistibile valore retorico. Che poi si traduce in quella leggerezza che la fa fischiettare, una canzone, quando finisce nella doccia di qualcuno. È una “cosa” tua che entra in casa
degli altri: questo è il punto centrale nella mia carriera, quello che fa sì che nella
mia carta d’identità ci sia scritto “professione: musicista”».
Nell’ampio salone si diffonde una
musica soffice, da ascensore di grand
hotel. Liga non presta attenzione, concentrato a spiegarsi perché «quella magia» a un certo punto non riesce a colmare la voragine che ogni artista ha
dentro. «In realtà le “divagazioni” che
mi sono capitate — soprattutto quella
di fare film — non hanno mai spento la
mia passione per il pop-rock. Ma per un
appassionato di cinema come me, l’idea di scrivere una sceneggiatura era irrinunciabile. Così è venuta fuori la storia di Freccia, che è un po’ la storia delle
radio libere della fine degli anni Settanta. E da lì è partita un’altra fase della mia
vita, non solo professionale. Per un
rocker, fare cinema può essere un’esperienza mortificante. Quando sali sul
palco, hai di fronte la gente che ti ricanta in faccia le tue parole, nei loro volti
vedi il trasporto, c’è passione nell’aria.
Lo stadio diventa il recinto di chi si lascia andare, dove si fanno le cose che
non fai per strada: urlare, piangere,
cantare a squarciagola. Nel cinema, invece, dopo che ti sei fatto il culo per un
anno, con la testa sempre ingombra,
mandando a cagare il resto della tua vita, il massimo che ti può capitare è di incontrare qualcuno che ti dice: “Ho visto
il tuo film, mi è piaciuto”. Quell’esperienza lì, il cinema, mi ha devastato. Ho
dato più di quello che potevo».
Ogni volta che racconta le esperienze
di palco (seicento concerti in quindici
anni) la mente vola al prossimo appuntamento. Un evento unico, il 10 settembre al Campovolo di Reggio Emilia, più
di centomila biglietti già venduti e quattro palcoscenici che lo aspettano: un set
con i Clandestino, la sua prima band,
uno con il suo gruppo attuale, uno acustico voce e chitarra, e uno teatrale con
Mauro Pagani («mi gioco tutto in una
botta sola, a casa mia»).
Magari adesso che i progetti musicali
stanno tutti andando in porto, lui, ingordo, già si cova dentro il terzo film.
«No. E le spiego perché. Io fino a sedici
anni fa guadagnavo un milione e due al
mese, tanto per mettere in chiaro che in
bra retorica, ma era un’aspirazione che
muoveva tutte le speranze di chi aveva
quindici anni negli anni Settanta. Oggi
ho imparato che la politica ha scopi più
brutali e immediati. Col tempo le mie
speranze si sono orientate altrove, e la
cosa non mi fa felice. Restare in provincia è una scelta naturale. I miei affetti sono qui: sono separato e vedo mio figlio
metà settimana, e lui vive in paese. Mia
madre è vedova da tre anni, e mi piace tenerla d’occhio. Qui sono il mio studio di
registrazione, la mia compagna e gli
amici di sempre. Correggio, asseconda
la mia poetica: sono un tignoso, uno che
insiste sull’utilità della musica popolare. Un battistiano convinto. La mia aspirazione è di riuscire a porgere quel tipo
di leggerezza, di speranza e di riflessione
con una canzone di qualità, come ha fatto Battisti».
Credevamo che il rock’n’roll fosse
musica per adolescenti. Poi i nostri eroi
sono invecchiati, e noi con loro. Ma i ragazzi di oggi corrono ancora ai loro
concerti. Il rock ha cinquant’anni, ma
non li dimostra. «Meno male, perché io
ne ho 45. E sono l’esatto contrario dell’enfant prodige. C’è un numero impressionante di rocker morti a 27 anni:
Jimi Hendrix, Brian Jones, Janis Joplin,
Kurt Cobain. Io a 27 anni ho fatto il primo concerto. Sono un tardivo, e quando l’anno scorso sono andato a vedere
i Rolling Stones a Milano ho goduto come una bestia, perché è difficile spiegare cos’è il rock’n’roll se non lo ascolti da chi ancora lo sa suonare. Ma non
sono uno di quelli che pensano che un
tempo tutto era più bello. Non voglio
diventare il palloso di turno. Cerco di
essere più curioso possibile rispetto all’evolversi degli avvenimenti, capire
come vanno le cose».
L’amore, dice, è il motore delle sue
canzoni. Ora, dopo la separazione dalla prima moglie, ne sta vivendo uno
nuovo. Di quel momento di estrema
fragilità sentimentale, Liga inaspettatamente mise a conoscenza anche i
fan, con una lettera pubblicata sul suo
sito. «Ero preoccupato che la storia potesse diventare materia per giornali
scandalistici, anche perché stavano girando voci che non rispecchiavano il
vero. Ai miei fan raccontai che stavo attraversando una fase delicata, chiedevo pazienza e rispetto per un momento particolarmente difficile. La privacy
è importante anche per garantire una
vita serena ai bambini, che hanno sette anni e dieci mesi. I figli sono un dono, ci costringono a pensieri nuovi, e la
cosa fantastica è che hanno sempre più
risorse dei genitori».
Di Correggio era anche lo scrittore
Piervittorio Tondelli, morto nel ‘91
quando il primo disco di Liga era appena uscito. I due si conoscevano solo di
vista, «a causa della mia timidezza cronica non riuscivo mai ad avvicinarlo.
Tondelli viveva a Milano, veniva di rado, la Correggio cattolica non gli perdonava di essere un omosessuale e di
averlo scritto nei suoi libri». Ma durante la lunga malattia era tornato al paese
e si era riavvicinato alla chiesa. «Da ex
cattolico, anche io continuo ad avere
un fortissimo bisogno della figura di un
qualche dio. Ma non riesco più a tollerare la cultura dell’espiazione, della pena, del dolore, del sacrificio che ha a che
fare con il cattolicesimo. Non sono migrato verso altre religioni, mi muovo a
naso, ma sono rimasto colpito nel vedere il Dalai Lama professare la sua fede in un incontro a Pomaia, in provincia di Pistoia, in una giornata piena di
sole, di arancione, di marrone, di verde,
di pace, di gioia. Lui sorrideva e sbadigliava, profondamente umano, rilassato. Non c’era un rituale così pesante e
faticoso come il nostro. Questo non mi
ha spinto a diventare buddista, però ho
pensato alle potenzialità che avrebbe
la religione cattolica se solo riuscisse ad
acquistare quella leggerezza».
Il tempo che passa non lo disarma, lo
ha riconciliato con la vita e con se stesso. «Non immaginavo che i quarant’anni fossero così fighi. Nonostante negli ultimi anni abbia vissuto una
serie di esperienze molto forti — la
morte di mio padre, di un cugino che
per me era come un fratello, una separazione, una nascita — ho acquistato
una consapevolezza che mi fa vivere
meglio. Mi sento più tollerante. Prima
ero rigido e rabbioso. A vent’anni ero
snob, pensavo che la gente vivesse male, che non capisse niente. Convinto,
povero sfigato, che gli altri sbagliassero
sempre. Una cosa che mi ha fatto respirare profondamente, è quella che ho
fatto dire a Freccia in uno dei suoi credo: “Non è giusto criticare la vita degli
altri, perché degli altri non sai veramente un cazzo”. Il mio sogno è un’utopia: vorrei un mondo comico, che
faccia ridere. Invece viviamo ai margini della catastrofe, augurandoci di non
finirci dentro. Il pensiero economico
occidentale ha ucciso lo slogan più felice del 68: “Una risata vi seppellirà”».
‘‘
GIUSEPPE VIDETTI