DI Repubblica - La Repubblica.it

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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
Repubblica
il fatto
I vignettisti islamici e lo slalom fra i tabù
ELENA DUSI e GUIDO RAMPOLDI
la memoria
Jack London fotografo del Big One
ALBERTO FLORES D’ARCAIS e JACK LONDON
MAURIZIO RICCI
N
OLKILUOTO
el silenzio l’acqua è un vivido blu-cobalto,
quell’azzurro sfumato sul grigio che, qui al
Nord, si vede nel cielo d’inverno dopo il tramonto o subito prima dell’alba. Mi spiegano
subito che non c’è niente di romantico, di pittoresco e neanche di naturale: è solo il riflesso sulle pareti di acciaio inossidabile delle luci che illuminano le vasche di lavoro. Una
centrale atomica, infatti, vive sott’acqua. Il cuore di questo
cubo color rosso pompeiano che si eleva per 60 metri sopra
l’abetaia della costa finlandese sono le quattro piscine che
ho davanti, piene d’acqua blu: l’acqua che si riscalda dentro
il reattore per essere convogliata nella turbina che genererà
elettricità, l’acqua che lo raffredda, l’acqua dove i bracci
meccanici stivano i fasci quadrati di sottili tubicini che contengono il combustibile esaurito.
È un’immagine diversa dal mondo dell’energia che conosciamo. Niente petrolio saudita o gas russo: al loro posto, uranio australiano, arricchito in Spagna. Niente fumi o polveri
inquinanti: la ciminiera che si alza nel cielo, a poche centinaia
di metri in linea d’aria dai campi dei contadini e dalle case al
mare della borghesia di Helsinki, succhia aria, non sputa ve-
leni. Niente anidride carbonica: in materia di effetto serra, un
reattore è a tasso zero.
I pericoli, qui, sono tutti dentro, sotto il pelo dell’acqua.
Nel cilindro con la cupola affusolata si tiene sotto controllo
una frantumazione degli atomi d’uranio, in linea di principio non diversa da quella della bomba atomica. Nelle vasche
accanto, le barre di tubicini piene di neutroni sono state
reinserite nei fasci di barre di uranio, interrompendo il processo di reazione. Ma adesso le barre spente sono radioattive. Quando esco dal grande cubo rosso il contatore Geiger
che mi hanno attaccato addosso segna 0,0001, lo stesso valore che darebbe se lo portassi fra le mura di casa. La radioattività è rimasta sott’acqua. Il problema di una centrale
atomica è tenercela.
Olkiluoto 1 e la sua gemella contigua, Olkiluoto 2, sono in
funzione ormai da un quarto di secolo. Come le altre 437 centrali nucleari in esercizio oggi nel mondo, convivono da sempre con questi dubbi e queste paure. Per vent’anni, dal giorno del 1986 in cui il nome di una di queste centrali — Cernobyl
— è uscito dal mazzo indistinto per imprimersi indelebilmente nella nostra memoria, sono sembrati dei relitti del passato, da seppellire appena possibile, come un ramo cieco nell’evoluzione dell’homo sapiens.
segue nelle pagine successive
con un’intervista di ANTONIO CIANCIULLO
CENTRALE NUCLEARE DI HEIDENFELD, GERMANIA - FOTO REUTERS/MICHAEL URBAN
L’emergenza gas
e il caro petrolio
spingono Bush
e l’Europa a rilanciare
l’energia nucleare.
Ma Rifkin avverte:
“Non è la via giusta”
le storie
Serafini, l’Enciclopedia impossibile
PINO CORRIAS
cultura
Americani, come perdere un mondo
TOM BISSEL e VITTORIO ZUCCONI
la lettura
Tabloid: lo sport del tiro al potente
ENRICO FRANCESCHINI e JOHN LLOYD
spettacoli
Il genio scandaloso di Truman Capote
NATALIA ASPESI e AMBRA SOMASCHINI
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Sfida energia
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
Su un’isola del Baltico, la Finlandia è diventata il primo Paese
dell’Occidente ad avviare la costruzione di un impianto atomico
dopo Cernobyl. Una decisione presa prima del caro-petrolio,
che la rende oggi ancor più vantaggiosa. L’opinione pubblica
è favorevole e i comuni interessati hanno ingaggiato
una dura lotta per assicurarsi la centrale
2006, operazione Olkiluoto
la rinascita del nucleare
MAURIZIO RICCI
(segue dalla copertina)
on è più così. La corsa pazza del prezzo
del petrolio, la scoperta che il gas russo
può arrivare a singhiozzo hanno rimescolato le carte sul tavolo. La Francia ha
ripreso a progettare nuove centrali, negli Usa stanno riesumando vecchi studi
di fattibilità, in Gran Bretagna, in Svezia, in Germania
il dibattito sullo smantellamento delle vecchie centrali è diventato — o sta diventando — il dibattito sul loro
ammodernamento. In Italia il ministro dell’Industria,
Scajola, si chiede come superare il referendum che ha
bandito dalla penisola le centrali atomiche.
Tutte parole, finora. Fino a che non si arriva qui, su
quest’isola del Baltico che solo un rigagnolo separa
dalla costa finlandese. Ciò che conta, a Olkiluoto, non
sono i grandi cubi rossi di OL1 e OL2, ma l’enorme buco alle loro spalle dentro cui, dal maggio scorso, si
muovono i trattori e dal quale cominciano ad innalzarsi i pilastri di cemento che reggeranno OL3. Olkiluoto 3 non è solo una centrale grande da sola come
le altre due messe insieme. È, soprattutto, la prima
centrale atomica che viene costruita, da dieci anni a
questa parte, in Occidente, sull’una o l’altra delle
sponde dell’Atlantico. Nel 2009, se i programmi saranno rispettati, Olkiluoto 3 comincerà a produrre
elettricità. L’impatto è quello di un messaggio, un
manifesto: il nucleare c’è, e ne abbiamo bisogno.
In realtà i primi a giocare al ribasso, a negare a Olkiluoto 3 il carattere di una pietra miliare, di una svolta
epocale a favore del nucleare, sono i finlandesi. All’Associazione delle industrie dell’energia, a Helsinki,
Pekka Tiusanen nega che si tratti di una nuova strategia: «Fatti i conti, tenendo conto delle previsioni di aumento della domanda nazionale di energia, con OL3 la
quota del nucleare sul totale rimarrà più o meno quella di adesso, fra il 27 e il 30 per cento». Al ministero dell’Industria Riku Huttunen, che segue specificamente
la divisione Energia nucleare, spiega che la decisione
non ha niente a vedere con l’attuale crisi dei mercati
petroliferi. «Governo e Parlamento hanno approvato
la centrale nel 2002, quando, anzi, i prezzi di gas e petrolio erano favorevoli». Alla base della scelta, continua Huttunen, l’obiettivo di assicurare un mix equilibrato delle fonti di energia e, soprattutto, di restringere la dipendenza dall’estero della Finlandia, che è priva di risorse proprie. Huttunen non lo dice, ma per
estero, qui, si intende la Russia che, ancora oggi, soddisfa più del 40 per cento della domanda complessiva
di energia (petrolio compreso). E — anche se Huttunen, come qualsiasi buon finlandese, non lo ammetterebbe mai ad alta voce — non c’è niente in Finlandia
che dia più fastidio e ansia che dipendere dai russi.
Un miglior mix di approvvigionamento energetico
e una minore dipendenza dall’estero sono, tuttavia,
le parole d’ordine che in questi giorni risuonano da
un capo all’altro d’Europa e Huttunen e i suoi colleghi non possono negarsi il compiacimento di aver anticipato i tempi. Nello scenario della via finlandese al
N
439
Parla il presidente della Foundation on Economic Trends
Rifkin. “L’unica strada sicura è l’idrogeno”
NEL MONDO
È il numero
delle centrali
nucleari
operanti
nel mondo
Gli impianti
forniscono
il 17 per cento
dell’energia
elettrica
mondiale
ANTONIO CIANCIULLO
ire che le ultime dichiarazioni del presidente Bush
fiume di denaro speso, non solo quei problemi sono sempre lì,
rappresentano una svolta della politica energetica
irrisolti, ma nel frattempo si sono aggravati. Oggi il nucleare è
americana significa fare dell’umorismo». È secco e
la più irresponsabile delle scelte anche perché tutto il ciclo di
tagliente il giudizio di Jeremy Rifkin, presidente della Foundalavorazione dell’uranio, dalle centrali ai siti di stoccaggio, raption on Economic Trends e profeta dell’era dell’idrogeno: il ripresenta un target ideale per i terroristi. E non si tratta solo di
lancio, da parte della Casa Bianca, del nucleare e delle rinnoconsiderazioni accademiche: due mesi fa il governo australiavabili come alternativa al petrolio non lo convince. Eppure Buno ha arrestato un gruppo di terroristi che stavano per mettesh ha usato un’espressione che pochi avrebbero pensato di
re in atto il piano d’attacco a una centrale nucleare».
sentirgli pronunciare: «L’America è intossicata dal petrolio».
Lei boccia il nucleare senza appello ma anche i rischi legaNon sono parole troppo pesanti per un semplice lifting poti al sistema energetico attuale sono altissimi.
litico?
«È vero. Il prezzo del barile di petrolio è destinato a raggiun«Bush cerca di fronteggiare una situazione che gli sfugge di
gere i 100 dollari. E la moltiplicazione degli episodi climatici
mano proprio mentre le elezioni di mid term si avvicinano: la
estremi, dagli uragani alle alluvioni, fa capire a tutti che la exit
sua popolarità ha raggiunto il minimo, la crescita economica
strategy dal petrolio è urgente. Due mesi fa su “Science” è starallenta, il prezzo della benzina cresce. In queste condizioni era
ta pubblicata una ricerca che mostra come non ci sia mai stata
necessario tentare qualcosa di spettacolare. Ma quetanta anidride carbonica in atmosfera negli ultimi
sta amministrazione americana è storicamente con650 mila anni. Siamo di fronte a un bivio in cui si dedizionata dalle lobby dei combustibili fossili e del nucide il futuro della nostra specie. Da una parte c’è la
cleare. Se si vanno a vedere i fatti concreti, si scopre
vecchia strada che ci porta a proseguire dritti verso
che la Casa Bianca non spende una parola sull’effiil disastro. Dall’altra c’è la strada del cambiamento:
cienza energetica e riduce i fondi per la ricerca sul sole fonti rinnovabili che danno energia pulita e conlare, sull’eolico e sulle biomasse a 2 milioni di dollari
sentono di accumulare l’idrogeno necessario a riall’anno: un terzo del costo dello stadio di baseball di
pulire le città dallo smog».
Washington. È una presa in giro».
C’è chi considera questo progetto un’utopia. E in
Jeremy Rifkin
Sul nucleare però Bush ha lanciato un messaggio
alcuni casi, ad esempio il fotovoltaico, le fonti rindi rilancio molto chiaro.
novabili non sono competitive.
«In questo momento l’attività della lobby nucleare è fortis«Siamo nella fase nascente di queste tecnologie. Non ci sosima: stanno spingendo in Europa, in Asia e in America. Ma se
no differenze significative con le difficoltà che hanno accomsi vuole fare il nucleare bisogna dire con chiarezza che le tasse
pagnato l’inizio delle due grandi rivoluzioni industriali basate
devono aumentare perché è un’industria che per sopravvivesul carbone e sul petrolio. L’opinione pubblica è favorevole, la
re ha bisogno di forti finanziamenti pubblici: è troppo cara per
società civile è disponibile, il mondo scientifico è pronto per
un mercato liberalizzato».
questo terzo salto. Quello che manca è la leadership politica».
Si può anche decidere che, essendo l’energia un bene straChe ruolo può avere l’Italia in questo progetto?
tegico, occorre uno sforzo pubblico.
«Per l’Italia è una grande occasione. Il vostro paese può di«Anche se è una contraddizione non indifferente per i teoriventare l’Arabia saudita delle fonti rinnovabili: avete sole, venci della liberalizzazione estrema dell’economia, si può decideto, biomasse agricole, idroelettrico, geotermia. Potete essere al
re di mettere da parte il mercato e ricorrere agli aiuti di Stato. A
centro di un’Europa che apre una nuova era economica basaquesto punto però sorgono altri due problemi. Il primo è che
ta sulle rinnovabili e sull’idrogeno e in grado di creare milioni
l’uranio è una risorsa scarsa: potrebbe finire prima del petrodi posti di lavoro».
lio. Riconvertire il sistema energetico mondiale tarandolo su
Per ora i passi in questa direzione sono molto timidi anche
una materia prima limitata quanto quella che si vuole abbana livello europeo.
donare non è una scelta lungimirante».
«Nel 2002 l’Unione europea ha dato semaforo verde all’inE il secondo problema?
vestimento di quasi due miliardi di euro per la creazione della
«La tecnologia nucleare ha superato i 60 anni. All’inizio,
piattaforma tecnologica per l’idrogeno. E nel settembre scorquando si progettavano le prime centrali, si diceva che c’erano
so, a Bruxelles, 50 eurodeputati di tutti i gruppi politici, guidadei problemi di sicurezza, che c’erano dei problemi di trasporti da Vittorio Prodi, eletto nelle liste della Margherita e fratello
to delle scorie, che c’erano dei problemi di smaltimento dei ridell’ex presidente della Commissione, si sono impegnati a sofiuti radioattivi, ma che con il tempo e con gli investimenti in
stenere il manifesto per l’idrogeno verde, quello ottenuto da
ricerca tutti questi problemi sarebbero stati superati. Da allofonti rinnovabili. Dopo l’euro, l’energia pulita può essere per
ra è passato più di mezzo secolo e nel frattempo, nonostante il
l’Europa il motore di unità e di crescita».
«D
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
FOTO ROGER RESSMEYER/CORBIS
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
Repubblica Nazionale 33 05/02/2006
nucleare c’è, però, un terzo elemento, a prima vista
inaspettato: l’ecologia. Il dibattito sul rilancio del nucleare ha profondamente lacerato, quattro anni fa,
governo e partiti. Ma sempre meno, dicono i sondaggi, l’opinione pubblica. Nel 2001, riferisce Tiusanen,
i finlandesi si dividevano a metà, fra favorevoli e contrari al nucleare. Oggi il 41 per cento è a favore e solo
il 27 per centro contro. È Kyoto a far impallidire il ricordo di Cernobyl. «La gente — riferisce Hanna Tuominen, dell’Agenzia di sviluppo degli enti locali della
regione di Olkiluoto — si rende conto che il nucleare
non contribuisce all’effetto serra».
È uno slittamento di prospettiva che fa a pugni con
parole d’ordine radicate nel movimento ecologista, ma
può indicare che l’atteggiamento generale dell’opinione pubblica verso il nucleare non è più scontato. I finlandesi (contrari all’adesione alla Nato, proprio perché
dispone di armi atomiche) sono stati pronti a distinguere fra usi civili e militari dell’atomo. E a premiare i rischi dell’effetto serra sul ricordo degli orrori di Cernobyl. Probabilmente, anche facendo di conto. Perché
Kyoto costa. Un preoccupato Tiusanen sottolinea che,
anche con la nuova centrale, nel 2012 la Finlandia sarà
in debito di 11 milioni di tonnellate di anidride carbonica, rispetto agli impegni sottoscritti: «Al costo attuale di 20 euro a tonnellata — dice Tiusanen —
equivale a oltre 200 milioni di euro».
Più ancora dei sondaggi, comunque, vale
quello che è avvenuto davvero sul posto. Come i nuclearisti italiani non immaginerebbero neanche nei loro sogni più selvaggi, i
comuni interessati, anziché approntare
blocchi stradali, hanno ingaggiato una dura
lotta per assicurarsi la centrale. «Per fortuna
— dice Hanna Tuominen — abbiamo vinto
noi. Ci porta 5 mila posti di lavoro, benedetti in una regione dove la disoccupazione
oscilla fra il 12 e il 18 per cento. E anche una
bella fetta di tasse immobiliari». Tutto ciò
non sarebbe stato possibile se il rilancio finlandese del nucleare non si fosse preoccupato di rispondere a due quesiti chiave. Il
primo sono le scorie. La legge prevede che la
sistemazione dei residui radioattivi avvenga
a cura e a spese dei proprietari delle centrali. Con pagamento in anticipo. Il governo,
spiega Huttunen, calcola ogni anno il costo di questo
smaltimento (compreso il costo di smantellamento
futuro delle centrali) e ne impone l’accantonamento
in un apposito fondo: «Abbiamo in cassa, oggi, 1,4
miliardi di euro. Se chiudessimo domani tutte le
centrali, sarebbe tutto già pagato». Per mettere dove i residui radioattivi? In un’area, sempre a Olkiluoto, dove verranno stivate (a 500 metri di profondità) tutte le scorie prodotte sia dalle tre centrali dell’isola, sia delle altre due nell’est della Finlandia.
Il secondo quesito è la sicurezza. E la risposta, dice il direttore del progetto, Martin Landtman, «sono
mura belle spesse e profonde». Il nuovo reattore sarà
protetto da una doppia cupola di cemento, sufficiente a reggere lo schianto di un jet. Anche i sistemi
di sicurezza (quattro strutture gemelle, in modo da
24
I CANTIERI
È il numero
delle centrali
nucleari
in costruzione
soprattutto
in Asia,
ma dei nuovi
impianti
sei sono
in costruzione
da oltre 20 anni
averne una sempre in grado di funzionare) sono posizionati in modo da non poter essere colpite contemporaneamente dall’impatto di un aereo. All’altro capo, cioè in fondo, un guscio di metallo e cemento è studiato per raccogliere, contenere, espandere e raffreddare una eventuale fusione del nucleo,
tipo Cernobyl.
Naturalmente, 11 settembre e Cernobyl sono gli
incidenti che ti aspetti, mentre, ammette Landtman, «il problema con l’energia atomica è quello
che non ti aspetti». La sicurezza, insomma, è inevitabilmente destinata a restare una scommessa. Anche sulle scorie, peraltro, quella finlandese non è
una ricetta buona per tutti gli usi. La Finlandia ha un
sottosuolo stabile, a prova di terremoto, una garanzia non esportabile. Mentre, in caso di rilancio generalizzato del nucleare, le scorie diventerebbero
un problema planetario: uno studio del Mit di Boston calcola che il mondo avrebbe bisogno, ogni 34 anni, di un deposito dell’ampiezza di quello sotto
le Yucca Mountains, che il governo americano non
è ancora riuscito a varare.
Il rischio maggiore, tuttavia, è che guardare a Olkiluoto porti a sovrapporre la risposta nucleare ai pro-
Il nuovo reattore
sarà protetto dal rischio
dello schianto di un jet
e dell’eventuale fusione
del nucleo. Ma la sicurezza
resta inevitabilmente
una scommessa
31
I PAESI
Sono gli stati
che nel mondo
producono
energia elettrica
con le centrali
nucleari. I primi
nella corsa
furono Usa
e Gran Bretagna
(1951). Poi
arrivò l’Urss
blemi posti, qui ed ora, dalla crisi dell’energia. I finlandesi hanno cominciato a discutere la centrale nel
1999 e la produzione inizierà, salvo intoppi, nel 2009.
Partire ora con un progetto di centrale significa averne l’elettricità nel 2016, quando la situazione del petrolio, del gas o delle nuove tecnologie del carbone
potrebbe essere assai diversa da quella di oggi. E la
via del nucleare è una di quelle in cui le conversioni a
U non sono possibili. Un impianto come Olkiluoto 3
ha un costo di 3 miliardi di euro e dovrà funzionare al
90 per cento della capacità per i prossimi 60 anni. Altrimenti diventerebbe un baratro mangiasoldi. È la
sua condanna. Ecco perché l’energia atomica non è
un giocatore come gli altri al tavolo dell’energia: come il contrabbasso in un complesso jazz è quella che
dà sempre il tempo a tutti. Il suo premio è che il combustibile costa una frazione infinitesimale, un ventesimo del costo complessivo. Costruire una centrale a gas di uguale potenza costerebbe un quarto, a
carbone la metà, ma il combustibile può arrivare a
due terzi del costo complessivo.
In altre parole, una centrale atomica costa costruirla, una centrale a gas o a carbone alimentarla.
Nel primo caso, quello che conta sono i tassi d’interesse, nel secondo i costi del combustibile. Due anni
fa, lo studio del Mit dichiarava il nucleare
non competitivo, a meno di sussidi pubblici o di una tassa sull’anidride carbonica 3-5
volte superiore ai valori attuali. Oggi, con il
boom del prezzo del gas, probabilmente, dicono gli esperti, una centrale atomica è economicamente competitiva, ma potrebbe
non esserlo più fra sei mesi. Il problema è
che, per non diventare un disastro finanziario, deve restare competitiva almeno per i
15-20 anni necessari a ripagare il prezzo dell’investimento.
Sono degli scommettitori arrischiati, allora, i finlandesi? Niente affatto. Olkiluoto,
come spiega Landtman, «non ha un rischio
di mercato». I proprietari delle centrali sono
le stesse industrie della carta o della metallurgia, nonché le varie municipalità, che
consumeranno la sua produzione. A prezzo
di costo. In altre parole, si assicurano forniture stabili a prezzi stabili. Olkiluoto, dal
canto suo, si garantisce un mercato stabile e sicuro: se
i suoi proprietari andassero a cercare elettricità altrove, perderebbero nei conti della centrale quello che
avrebbero guadagnato altrove in energia più a buon
mercato. Non è una situazione facilmente ripetibile:
Steve Thomas, dell’università di Greenwich, la paragona a quella di un monopolio dove i prezzi sono controllati e adeguati ai costi. In questo caso, sostiene, i
finanziatori (tre quarti dell’investimento per Olkiluoto è stato rastrellato sul mercato internazionale) hanno probabilmente concesso tassi favorevoli, intorno
al 5 per cento. Gli stessi investitori, aggiunge, di fronte ad una centrale in un mercato deregolato, chiederebbero tassi assai più alti, il 10-15 per cento. Uno
pensa a Cernobyl e alle scorie, ma il futuro del nucleare è, almeno altrettanto, nei salotti delle banche.
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
il fatto
Vietato toccare Allah, Maometto e l’autorità religiosa.
Ma in tutti gli altri campi, nei paesi islamici, l’umorismo
disegnato sta guadagnando terreno. Nel mirino i nemici
di sempre, Stati Uniti e Israele, ma anche le tirannie
di casa, la loro corruzione e la mancanza di libertà
Satira pericolosa
Lo slalom fra i tabù
dei vignettisti arabi
ELENA DUSI
OCCIDENTE E ISLAM
Repubblica Nazionale 34 05/02/2006
Sopra, tre tavole di Imad Hajjaj.
La prima ironizza sul dito puntato
contro arabi e musulmani dopo l’11
settembre. Nella seconda si scherza
su un matrimonio celebrato
nell’era dei metal detector.
Nella terza si fa umorismo
sul peso di Sharon sui destini
del mondo, quello arabo in particolare
TAVOLE FATALI
Sopra, due vignette di Naji al-Ali,
il disegnatore palestinese
assassinato nel 1987
a causa delle sue denunce
contro la corruzione degli uomini
di Arafat. Il protagonista
delle sue tavole si chiama Handala
n unico tabù: non toccare l’islam.
Per il resto la satira nel mondo arabo non si ferma davanti a niente. I
nemici di sempre, Israele e gli Stati
Uniti, si guadagnano decine di caricature pungenti ogni giorno, con
qualche fuoripista antisemita o anche solo di cattivo gusto. Ma è sul fronte della politica interna
che i pallettoni della satira — molto più di qualunque articolo — riescono a bucare la barriera
della censura e a centrare i regimi tirannici. Corruzione, ipocrisia, mancanza di libertà, povertà,
ottusità del potere, soggezione agli Usa, terrorismo: nessun articolo li ha attaccati
con tanta veemenza come le vignette di cui ormai quasi tutti i giornali arabi — quotidiani, settimanali o pubblicazioni sul web — sono
forniti. In questo senso si può parlare della satira come di una delle
punte di lancia del riformismo nel
Medio Oriente.
«I vignettisti hanno più margine di libertà» conferma Imad
Hajjaj, palestinese, uno degli autori più prolifici di oggi, che lavora fra l’altro per il quotidiano londinese in lingua araba Asharq alAwsat. «Possiamo usare simboli,
doppi sensi. Possiamo ricorrere
alle espressioni dialettali. Siamo
in grado di dare alle nostre caricature una prospettiva molto aggressiva. Piena di umorismo, certo, ma molto aggressiva». E se in
un paese occidentale capita che a
cadere per una causa siano più
spesso i giornalisti, in Medio
Oriente nella lista delle morti violente compare anche una manciata di disegnatori satirici. Il più
famoso, il palestinese Naji al-Ali,
prese una revolverata in pieno
volto a Londra, il 22 luglio del
1987, dopo aver condannato in
migliaia di tavole Arafat e la sua
corte corrotta. Ma a decretare la
sua condanna a morte fu più probabilmente una vignetta che alludeva all’amicizia fra il rais e la sua
biografa ufficiale, la giornalista
egiziana Rashida Muhran. Per
quel disegno due anni prima Naji
Al-Ali era stato costretto a rifugiarsi a Londra.
«I cinesi — prosegue Hajjaj — dicono che
un’immagine vale mille parole. È verissimo. Le vignette sono semplici da leggere e hanno la magìa
dell’ironia: breve, concentrata, divertente. Tutto
questo è doppiamente vero nel terzo mondo, dove abbiamo tassi di analfabetismo altissimi e tante persone che non amano leggere. Molti sono costretti a parlare di politica solo in privato, per paura di repressioni. In queste condizioni un vignettista può diventare una star, e le sue caricature
possono essere riprodotte sugli striscioni delle
manifestazioni di piazza». Negli anni Ottanta accadeva proprio questo con Naji al-Ali e il protagonista dei suoi disegni: Handala. Era un ragazzino
palestinese scalzo e malvestito. Appariva sempre
di spalle, costernato di fronte alle scene di corruzione della leadership palestinese, all’incapacità
di tenere testa a Israele nelle trattative, alle divisioni e alla povertà del suo popolo. Il suo nome ricorda un’erba dal sapore amarissimo.
U
“Qui i disegnatori dice Imad Hajjaj,
uno degli autori più prolifici
del Medio Oriente sono più liberi
dei giornalisti
In posti con molti
analfabeti e molta gente
che non ama leggere
la vignetta dà
un’informazione breve,
concentrata, divertente
In queste condizioni
noi possiamo anche
diventare delle star”
Oggi la lista dei personaggi-bersaglio si è arricchita. Il leader egiziano che impedisce al suo popolo di votare (è accaduto nelle legislative di dicembre), le fazioni palestinesi dipinte come tanti
bebè che si azzuffano fra loro (con il commento
«dov’è papà?»), l’ottuso governante che sfoglia un
manuale di democrazia (peccato che lo stia impugnando capovolto). «Avete visto che noi governi sopravanziamo i popoli in fatto di riformismo?», dice un tiranno in sella a una tartaruga
mentre un cittadino rimane incatenato senza poter muovere un passo, in una vignetta pubblicata
dal quotidiano giordano ad-Dustur nel giugno del
2005. In Arabia Saudita, al-Yaum ha ritratto una
semplice bottiglia: al suo interno i popoli protestano e urlano slogan, ma il tappo con su scritto
“potere assoluto” garantisce che il movimento
non defluisca. Manca il nome di Mubarak, ma il riferimento è evidente nella tavola in cui «un vecchio leader che è rimasto in carica cinquant’anni»
con le fattezze di Satana arringa la folla: «Amici
miei, il diavolo che conoscete è sempre meglio di
quello ignoto», dice. A pubblicare questa vignetta
è stato il quotidiano del Bahrain Akhbar al-Khalij
a settembre del 2005, in occasione delle elezioni
presidenziali in Egitto.
Anche il terrorismo merita una netta condanna, nelle vignette arabe. Per citare solo alcune
delle caricature più recenti, il fenomeno è dipinto come una piovra che estende i suoi tentacoli
sul pianeta, come la morte che con la falce taglia
le vite dei bambini, come un serpente, un pugnale che colpisce gli arabi alle spalle, una figura
satanica che dà fuoco al mondo. In questo opinione pubblica, governi arabi e cancellerie occidentali vanno d’accordo. Ma è un’eccezione,
perché nella satira araba soffia fortissimo il vento dell’anti-americanismo.
Imad Hajjaj ha disegnato per Asharq al-Awsat
una mano americana che tende una sedia sottile
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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
Tawfik.Quell’ironia
è figlia della sconfitta
GUIDO RAMPOLDI
ella nuova ironia araba Younis Tawfik, scrittore iracheno da tempo in Italia, vede in controluce «amarezza, delusione». Un senso di sconfitta. Di
morte. «Ricorrono immagini malinconiche. La colomba della pace ferita,
sgozzata. La morte della terra araba, le lacrime dell’amata, la crisi dell’identità araba. E il senso d’un dominio altrui, cui si accompagna un auto-sarcasmo, come a
dire: siamo ridotti proprio male!».
Quando nasce questo timbro cupo, desolato?
«Negli ultimi anni, direi soprattutto a partire dal 2001. Ma diventa più forte dopo
l’occupazione dell’Iraq, quando si sposa all’idea d’un Occidente egoista, ingiusto, indifferente agli arabi. È un po’ un ritorno al senso di sconfitta che investì gli arabi dopo la guerra del 1967».
Ma la vera novità non è forse una capacità di ironizzare su stessi?
«Senza dubbio l’autocritica è cresciuta molto e oggi direi che è un atteggiamento
comune ai popoli arabi. S’è fatta più ragionata, più serena. E più serrata. Arriva quasi all’auto-accusa quando allude alle complicità di cui al-Qaeda gode nella religione
e nella politica. C’è un programma della tv irachena, per esempio, che ironizza parecchio sul terrorismo e sulle figure che stanno dietro al terrorismo. Però in quegli
sketch anche l’idea di democrazia suscita un’ironia forte. Lo stesso motivo torna in
altri programmi arabi, dove l’ironia diventa tagliente».
Un’ironia figlia della delusione?
«Sì. Per esempio lo sketch che ora le racconto. A notte fonda un padre di famiglia
torna a casa ubriaco; urla, canta a squarciagola; abbassa la voce, gli dice la moglie, i
bambini dormono; e lui: siamo in democrazia, faccio quel che voglio, non è questa la
libertà? Questa povera gente ha fatto tanta fatica per portarcela con sacrifici e rischi
e vuoi che non la usiamo. Il senso è: qui tutti parlano di democrazia ma i più non hanno capito cosa sia davvero, non sono pronti».
Un’altra novità non da poco potremmo chiamarla: la fine della deferenza. Neppure il potere adesso è totalmente al riparo dai cartoonist arabi. Cos’è successo?
«Dopo l’occupazione dell’Iraq i regimi arabi hanno avuto paura di perdere il controllo della situazione. Così hanno deciso di lasciare agli umori popolari qualche valvola di sfogo. In Egitto, in Marocco, in Libia, perfino in Arabia saudita, ormai si può
dire di tutto o quasi. Certo, quando si arriva al re o al rais i toni devono essere più cauti. Ma al di sotto, si può. Perciò spesso i ministri diventano parafulmini di un’irritazione generale diretta più in alto».
Si sarà accorto che da noi è diffuso uno stereotipo per cui l’arabo, se non è un selvaggio o un forsennato, comunque è privo di ironia. Cos’è l’ironia nella cultura araba?
«Un genere letterario antico e di solito misconosciuto. Già nell’ottavo secolo il teatro arabo prevedeva un ruolo specifico per l’attore che era un po’ giullare e un po’ cantante. E questa figura spesso era delegata a mettere alla berlina figure religiose o politiche. La cosa più sorprendente è la paura che questi attori incutevano ad importanti cariche pubbliche».
Erano così influenti?
«Potevano perfino rovinare carriere. Un testo del nono secolo dopo Cristo racconta
la messinscena che costò il trasferimento al giudice supremo d’uno dei quartieri in cui
era divisa Bagdad. L’autore era un attore comico. Costui prima giocò una beffa al giudice dentro la moschea dove quello teneva udienza, e poi la raccontò al pubblico nella
rappresentazione teatrale. Il giudice finì in un’altra città per fuggire allo scandalo».
E il clero islamico tollerava questi affronti o si faceva scudo della fede per proibire l’ironia?
«Nel periodo del suo massimo splendore l’islam non tentò mai di uccidere il sorriso. I primi “comics” arabi, se possiamo chiamarli così, risalgono al 1100 dopo Cristo,
all’apogeo dell’impero arabo-islamico, quando apparvero i Maqamat, cioè una raccolta di storie ironiche, in prosa rimata o in poesia, illustrate dall’artista che fondò la
prima scuola di pittura miniaturistica nella storia dell’islam, al-Wasiti. Dai Maqamat
nacquero vari generi di letteratura ironica. E a quel tempo c’erano comici che andavano negli ospedali per fare ridere i malati con lo scopo di farli guarire, qualcosa che
in Occidente abbiamo scoperto di recente».
Quand’è che l’islam ha perso il sorriso?
«Con la dominazione ottomana, dal quattordicesimo secolo in poi. Lì comincia
una decadenza che sprigiona un islam cupo, triste, pessimista. Ma anche in quel periodo si diffondono capolavori come Le Mille e una notte, che includono racconti ironici. Ve n’è uno, splendido, che narra di un giullare gobbo. Un ricco sarto si convince d’averlo ucciso e cerca con la moglie di sbarazzarsene gettando il corpo nella proprietà del vicino, un cristiano; e questi a sua volta fa lo stesso col vicino ebreo. Si chiama La storia del gobbo. Ha una morale implicita: gli uni e gli altri non sono diversi. Il
gobbo rappresenta le questioni scomode di cui ciascuno cerca di liberarsi scaricandole sul vicino».
E oggi? Qualunque cosa si pensi della reazione suscitata dalla pubblicazione in
Danimarca di vignette su Maometto, si direbbe che l’islam fondamentalista non
abbia alcuna speranza di trovare un compromesso con l’ironia.
«È impossibile: i fondamentalisti temono l’ironia. Il loro scopo è quello di creare
una società che viva nella paura del giorno del Giudizio di Dio, e individui che desiderino la morte come mezzo per incontrare Dio. Per quella gente la vita è dolore e il
corpo deve soffrire per meritare l’aldilà. L’ironia è agli antipodi di questa ideologia
penitenziale. Eppure l’islam non è questo, se stiamo alle scritture. Vi sono brani riferiti al profeta, che lo descrivono mentre ride fino a mostrare i molari. E altri raccontano di sua moglie Aisha, che si affaccia nel cortile della moschea dove di lì a poco canteranno e balleranno attori abissini».
Che le pare del modo in cui i cartoonist italiani raccontano gli arabi, i musulmani?
«Spesso si avverte sia la paura che incutiamo, sia il desiderio di esorcizzarla ridicolizzando quel presunto nemico. Ma quando le caricature rappresentano noi
musulmani come assetati di sangue, come sodali di Bin Laden, questo indubbiamente fa male, ferisce».
N
I grandi magazzini
Repubblica Nazionale 35 05/02/2006
In alto, un anziano arabo chiede
alla commessa: “Scusi, ho solo
dieci lire in tasca, qual è la cosa
più economica qui dentro?”. La ragazza
risponde: “Di sicuro la cosa più
economica sei tu”. La vignetta
è di Imad Hajjaj, che pubblica i propri
lavori sul sito www.mahjoob.com
e sgangherata (la democrazia) a una corpulenta
signora (il mondo arabo). «Prego madame», dice
lo zio Sam, facendo presagire il collasso. Spiega
Shujaat Ali, “disegnatore politico” del sito Internet di al-Jazira: «I sentimenti anti-americani sono una realtà nel mondo arabo, non siamo noi vignettisti a inventarli. Come per qualunque giornalista, il nostro lavoro cerca la realtà al di là delle
rappresentazioni che il potere ci offre. Dopo, sta
alla nostra professionalità trasmettere un messaggio equilibrato. Non esageratamente violento,
ma nemmeno morbido. I lettori si allontanano
subito da un disegnatore accondiscendente». Alla base dei ritratti poco accattivanti riservati agli
Stati Uniti non ci sono solo la guerra in Iraq o la
questione palestinese. «Gli Usa — sostiene Hajjaj
— hanno appoggiato per decenni i nostri dittatori corrotti, li hanno riforniti di fucili e carri armati
che sono stati usati per ucciderci».
Solo davanti alla religione non c’è licenza artistica che valga. Lo sanno l’iraniano Manushehr
Karimzadeh, condannato a dieci anni di carcere
nel 1993 per aver dipinto un personaggio vagamente somigliante a Khomeini e il quotidiano
Arab Times: la sua sede fu devastata dagli integralisti nel 1996 dopo la pubblicazione di una vignetta con un fedele che prega e la linea di Allah che
suona occupata. Per il resto, la satira in forma di
musica, letteratura, teatro e vignette è pane quotidiano in Medio Oriente. «Nel mondo arabo —
spiega Hajjaj — la maggior parte dei media è estremamente formale, controllata dal governo, noiosa, lontana anni luce dalla gente. Per questo i lettori, che hanno fame di libertà, si rivolgono a forme alternative di comunicazione: i piccoli quotidiani, il teatro satirico, alcuni siti Internet che trasformano molti dei nostri problemi quotidiani in
umorismo. Se non abbiamo la possibilità di cambiare la realtà, che almeno ci lascino riderci su.
Non è solo una consolazione, è anche una sfida».
La tortura
Qui sopra, una vignetta del palestinese
Imad Hajjaj che ironizza sulle immagini
dei maltrattamenti dei detenuti iracheni
nel carcere di Abu Ghraib
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36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
la memoria
Inediti d’autore
All’alba del 18 aprile di cento anni fa il famoso scrittore
e sua moglie Charmian furono svegliati dalla scossa
che distrusse San Francisco. Un’ora dopo erano
in marcia per uno straordinario reportage giornalistico
e fotografico. Ora le immagini, mai pubblicate prima,
sono state ritrovate e stanno per essere messe in mostra
Jack London, le foto del Big One
I
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
Repubblica Nazionale 36 05/02/2006
SAN FRANCISCO
l 18 aprile 1906 era un mercoledì.
Alle 5 e 12 del mattino Jack London e Charmian (la sua seconda
moglie) stavano tranquillamente
dormendo nella loro casa di Glen Ellen
quando la terra iniziò a tremare: una prima scossa, forte abbastanza per essere
sentita nell’intera baia di San Francisco,
e poco dopo una seconda, questa volta
terribile, a seminare il panico per cinquanta lunghissimi secondi in tutta la
California. Un “Big One” che venne sentito lungo l’intera costa del Pacifico, dal
sud dell’Oregon ai sobborghi di Los Angeles, e che all’interno arrivò a lambire le
contee semideserte del Nevada.
L’epicentro fu San Francisco. Alla vigilia si era addormentata sulle note della Carmen cantata da Enrico Caruso, in
una di quelle serate destinate a passare
alla storia della città. Alla Grand Opera
House si erano date convegno la
crema della ricchezza e del potere
californiano, per uno di quei “social event” da ricordare con orgoglio: «Io c’ero». Nel giro di poche ore
quella memoria venne cancellata.
Colpita da una scossa di magnitudo
8,5 Richter, San Francisco si risvegliò dentro un incubo, le pittoresche
strade a saliscendi che sussultavano, piccole case e grandi palazzi che
venivano giù come fossero di cartapesta. E il peggio doveva venire, e arrivò sotto forma di un incendio che
per giorni sconvolse la città, incenerendo interi quartieri e provocando la
morte di centinaia di persone.
Alle sei del mattino Jack e Charmian erano già in groppa ai loro cavalli lanciati al galoppo verso il Beauty
Ranch, sogno campestre ancora in
costruzione. Dalla stalla semidistrutta, guardando verso Santa Rosa e San
Francisco potevano vedere i fumi che
si levavano alti nel cielo. Bastò uno
sguardo e la decisione fu presa: partire.
Inizia così il breve ma intenso viaggio
che porterà uno dei più celebri autori
della letteratura popolare americana
attraverso le creste della Sonoma
County, giù fino a San Francisco e Oakland, poi di nuovo a nord verso Fort
Bragg e Santa Rosa, per tornare a San
Francisco. Un viaggio che Jack London
racconterà sulle colonne di Collier’s, il
settimanale fondato da Peter Collier
nel 1888, pioniere di quel “investigative journalism” che Theodore Roosevelt definì poco amichevolmente
“muckraking journalism”, il giornalismo di denuncia.
Durante quel viaggio la scrittura non
fu l’unica attività di London e della moglie (che tenne aggiornato il suo diario,
dove il 18 aprile campeggia in rosso la
scritta «earthquake!»). Per l’autore del
Tallone di ferro, sensibile alle nuove
frontiere che le moderne macchine offrivano al nascente fotogiornalismo —
da lui già sperimentato a Yokohama e in
Corea ai tempi della guerra russo-nipponica (1904) — il “terremoto del secolo” fu anche l’occasione per scattare centinaia di foto. Che per un secolo sono rimaste sepolte (e inedite) negli archivi del
California State Parks, un piccolo tesoro
di cui solo in pochi sapevano.
Adesso, in occasione del centenario
del terremoto e dell’incendio che distrusse “Frisco” nel momento del suo
maggiore splendore, la California Historical Society ha preparato
una mostra sulle foto dello
scrittore che verrà inaugurata il 9 febbraio: Jack London
and the Great Earthquake
and Firestorms of 1906. A quel
tempo London era all’apice
della sua fama. «La popolarità
sua e di sua moglie Charmian
era paragonabile a quella di una
odierna stella del cinema o di una
rockstar», spiega Stephen Becker,
il gioviale e attivo direttore della
California Historical Society, mentre gira da una stanza all’altra per
controllare che tutto proceda con
ordine. «Di quelle foto neanch’io conoscevo l’esistenza, e sono uno che la
storia e la vita di Jack London l’ha studiata». Becker racconta come è nata
l’idea della mostra. Da quando, «qualche anno fa», Philip L. Fradkin (che della mostra è il curatore) si imbatté quasi
per caso nelle foto; alle lunghe trattative
con il California State Parks che conservava i negativi; fino alla straordinaria
bravura di Philip Adam, il fotografo della Chs che da quei negativi invecchiati e
rovinati è riuscito a ridare vita a straordinarie foto in bianco e nero.
Quando parla di Jack London and the
earthquake, Phil Fradkin — che è il
maggiore studioso del terremoto di San
Francisco oltre che autore di libri di storia della California, professore a
Stanford e Berkeley, e vincitore di un
premio Pulitzer con il Los Angeles Times
— non nasconde un po’ di delusione.
Lo scrittore («che io ammiro, sia ben
chiaro») decise infatti di scrivere per il
Collier’s solo per una questione di denaro: «Era pagato dieci cent a parola, il
massimo che un giornale all’epoca si
potesse permettere. Per quel reportage
incassò 240 dollari che gli servivano per
finire i lavori dello “Snark”, la barca con
cui voleva fare il giro del mondo e che
finì invece per solcare solo il Pacifico».
Il fotografo Adam, quando ebbe in
mano i negativi, pensava che London
avesse usato una macchina fotografica
da pochi soldi, magari una di quelle Eastman Kodak che nel primo decennio
del secolo scorso avevano reso la foto-
Il creatore
di “Zanna Bianca”
allora era celebre
come una rockstar
La rivista “Collier’s”
pagò il suo articolo
dieci cent a parola
grafia un hobby accessibile a molti:
«Ma quando ho iniziato a lavorare con
i negativi mi sono reso conto che le foto dovevano essere state fatte con una
macchina decisamente più costosa».
Una volta stampate le foto, il risultato
colpì anche un professionista come lui.
«Mi disse subito: non sapevo che Jack
London fosse un fotografo così bravo. E
anche a un profano come me il risultato fu subito evidente: quelle foto sembravano fatte da un fotografo vero»,
racconta Stephen Becker.
Philip Fradkin entra nel dettaglio:
«Quelle foto non sono state scattate nel
giorno del terremoto, ma quando Jack
e Charmian fecero ritorno a San Francisco dopo il viaggio a nord, a Santa Rosa, nella Sonoma County e a Mendocino. Se ci dicono qualcosa di nuovo sul
terremoto? Quelle di San Francisco direi di no, ma se guardiamo a tutte le foto del viaggio allora quella di Jack London diventa una testimonianza unica
su cosa è stato il terremoto nei dintorni, nelle campagne, su come ha cambiato la storia della California del nord.
Un esempio per tutti: le foto che lo scrittore ha scattato a Santa Rosa, una città
che in proporzione ha avuto molti più
danni e più morti di San Francisco».
Becker mostra orgoglioso la prima foto, già in cornice, che insieme a altre decine si potrà ammirare nella sede della
California Historical Society al 678 di
Mission Street, pochi blocchi di distanza dalla casa natale di London. Poi, quasi di nascosto, tira fuori — mettendosi
dei guanti quasi fosse un’operazione
chirurgica — l’unico memorabilia appartenente allo scrittore di cui la “Society” è in possesso: una fiaschetta da
whisky. A pochi giorni dall’inaugurazione nella sala ci sono ancora i pannelli della mostra che ha appena chiuso i
battenti, sulla San Francisco anni Sessanta dei “figli dei fiori”: «Ma quella è
un’altra storia».
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
© 2006 C
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served
DAL 9 FEBBRAIO IN RASSEGNA
Nelle pagine, sette scatti del reportage di Jack London
sul terremoto che distrusse San Francisco e le città vicine
il 18 aprile 1906. Al centro, la pagina del diario di Charmian
London con la scritta in rosso “Earthquake” (terremoto)
e, subito sotto, Charmian e Jack London.
Tutte le foto saranno esposte dal 9 febbraio al 10 giugno
2006 nella mostra “Jack London and the Great
Earthquake and Firestorms of 1906” allestita
alla “The California Historical Society”, 678 Mission Street,
San Francisco. Presidente della Chs, Stephen Becker;
curatore Philip L. Fradkin; restauratore e stampatore
delle foto Philip Adam
“M’è rimasta solo questa casa
il fuoco sarà qui fra 15 minuti”
JACK LONDON
L’articolo che segue è la sintesi del reportage scritto
da London in qualità di “corrispondente speciale” del “Collier’s”
e venne titolato: “La storia di un testimone oculare”
l terremoto che ha scosso San Francisco ha fatto crollare
centinaia di migliaia di dollari di muri e caminetti. Ma il
devastante incendio che è seguito ha carbonizzato centinaia di milioni di dollari di edifici (...) Non c’è precedente nella storia di una moderna città imperiale distrutta in maniera
così completa. San Francisco non c’è più. Non rimane nulla,
se non i ricordi e una frangia di case ai margini dell’abitato.
La zona industriale è stata spazzata via. La zona degli affari è
stata spazzata via. La zona sociale e residenziale è stata spazzata via. Le officine e i magazzini, i grandi negozi e gli edifici
dei quotidiani, gli alberghi e i palazzi dei nababbi non ci sono più. Rimane soltanto quella striscia di case ai limiti della
città, di quella che un tempo era San Francisco (...)
Dopo appena un’ora dal terremoto, il
fumo dell’incendio di San Francisco era
una torre spettrale visibile a cento miglia di distanza. E per tre giorni e tre notti, questa torre spettrale ha fluttuato nel
cielo, arrossando il sole, oscurando il
giorno e riempiendo la terra di fumo (...)
Il terremoto è arrivato mercoledì alle
cinque e un quarto del mattino. Un minuto dopo, le fiamme già si innalzavano
verso il cielo. Gli incendi sono cominciati in una dozzina di quartieri diversi.
Non c’era niente per fermare le fiamme,
non c’era organizzazione, non c’era comunicazione (...) Le strade erano piene
di gobbe e di buche, ricoperte dai detriti dei muri crollati. Le rotaie erano piegate in angoli perpendicolari e orizzontali. Le linee telefoniche e telegrafiche erano fuori uso. E le tubature dell’acqua erano scoppiate. Tutti gli abili accorgimenti e sistemi di protezione inventati dall’uomo erano stati messi fuori combattimento da uno strattone della crosta
terrestre durato venti secondi (...)
Per incredibile che possa sembrare, la notte di mercoledì,
mentre l’intera città crollava in pezzi, è stata una notte tranquilla (...) Di fronte alle fiamme, per tutta la notte, decine di
migliaia di persone rimaste senza casa sono fuggite. Alcuni
erano avvolti in coperte. Altri si portavano dietro fagotti di
lenzuola con dentro gli oggetti più cari. A volte un’intera famiglia era attaccata a una carrozza o a un carro merci ricolmo dei loro averi. Passeggini per bambini, vagoni giocattolo
e carrettini venivano usati come mezzi da trasporto, mentre
tutti gli altri si trascinavano dietro un baule. Eppure tutti erano gentili. Imperava la cortesia più totale. Mai, in tutta la storia di San Francisco, i suoi abitanti sono stati gentili e cortesi
come in questa notte di terrore.
L’ultima cosa che abbandonavano erano i loro bauli, e molti uomini robusti sono arrivati a finirsi su quei bauli. Le colline
di San Francisco sono ripide e quei bauli sono stati trascinati
su per queste colline miglia dopo miglia. Dappertutto vedevi
bauli con stesi sopra i loro proprietari esausti, uomini e donne. Linee di soldati venivano schierate di fronte all’incedere
delle fiamme. E un isolato dopo l’altro, man mano che le fiam-
Repubblica Nazionale 37 05/02/2006
I
me avanzavano, i soldati arretravano. Uno dei loro compiti era
continuare a far muovere le persone che si tiravano dietro i
bauli. Queste creature sfinite, scosse dalla minaccia delle
baionette, si sollevavano e scalavano a fatica l’impervio selciato, fermandosi per la stanchezza ogni due o tre metri (...)
È stato a Union Square che ho visto un uomo offrire mille
dollari per un tiro di cavalli. Gli avevano affidato una carrozza piena zeppa di bauli accatastati uno sopra l’altro, di qualche albergo. Era stata trasportata fino a lì, in un posto che era
considerato sicuro, e i cavalli erano stati portati via. L’incendio si era impadronito di tre lati della piazza e cavalli non ce
n’erano. In quel momento, accanto alla carrozza, io esortavo un uomo a scappare per salvarsi. Aveva fiamme tutto intorno. Era anziano e camminava sulle stampelle. Mi ha detto: «Oggi è il mio compleanno. Ieri sera avevo trentamila dollari. Ho comprato cinque bottiglie di vino, pesce raffinato e
altre cose per la mia cena di compleanno. Non ho fatto nessuna cena e tutto quello che possiedo sono queste stampelle». Sono riuscito a convincerlo del pericolo che correva e ha
cominciato ad allontanarsi zoppicando. Un’ora dopo, da lontano, ho visto la
pila di bauli della carrozza bruciare allegramente in mezzo alla strada (...)
Giovedì mattina, alle cinque e un
quarto, appena ventiquattro ore dopo il
terremoto, mi sono messo a sedere sui
gradini di una villetta a Nob Hill. Insieme a me erano seduti giapponesi, italiani, cinesi e negri, un piccolo campione
dei relitti cosmopoliti abbandonati dal
naufragio della città (...) Nella nostra direzione, da est e da sud, avanzavano due
imponenti pareti di fiamme. Entrai nella casa, accompagnato dal proprietario.
Era tranquillo, allegro e ospitale. «Ieri
mattina», mi ha detto, «avevo seicentomila dollari. Stamattina l’unica cosa
che mi è rimasta è questa casa. Fra quindici minuti non avrò
più neanche questa». Mi ha indicato una grande vetrina.
«Questa è la collezione di porcellane di mia moglie. Questo
tappeto su cui ci troviamo è un regalo. Costa quindicimila
dollari. Provi questo pianoforte. Senta questa nota. Ce ne sono pochi così. Le fiamme saranno qui fra un quarto d’ora».
Per tutto il giorno di giovedì e per tutta la notte di giovedì,
per tutto il giorno di venerdì e per tutta la notte di venerdì
l’incendio ha continuato ad infuriare (...) È stato giovedì
notte, su Van Ness Avenue, che i pompieri sono riusciti a
bloccare l’incendio (...)
San Francisco in questo momento è come il cratere di un
vulcano, intorno al quale sono piantate la tende di decine di
migliaia di rifugiati. Soltanto al Presidio ce ne sono almeno
ventimila. Tutte le città e i paesi circostanti straboccano di
senzatetto, assistiti dai comitati di soccorso. I profughi vengono trasportati gratuitamente dalle ferrovie dovunque
chiedano di andare, e si calcola che più di centomila persone abbiano già abbandonato la penisola su cui sorgeva San
Francisco. Il governo ha la situazione sotto controllo e, grazie ai soccorsi offerti immediatamente da tutti gli Stati Uniti, non c’è nessun rischio di carestia. Banchieri e uomini
d’affari hanno già cominciato i preparativi per ricostruire
San Francisco.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Ecco il racconto
di un eccezionale
testimone oculare:
“Un’ora dopo
il terremoto, il fumo
dell’incendio si vede
a cento miglia”
Repubblica Nazionale 38 05/02/2006
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
le storie
Universi paralleli
Uomini-tenaglia, amanti che si fondono in coccodrilli,
uova che volano, alberi capovolti: una vita fantastica
che non si vede, chiosata in una scrittura che non si legge
È il “Codex Seraphinianus”, pubblicato 25 anni fa
da Franco Maria Ricci e poi esploso su Internet. Ora
il suo autore, Luigi Serafini, lo festeggia e lo racconta
L’Enciclopedia dell’altro mondo
L
PINO CORRIAS
ROMA
uigi Serafini non sta né in cielo né in
terra, ma in fondo a un corridoio nero,
dentro a una stanza di pareti verdi, dove le sedie pendono dal soffitto. Pattina tra gli alfabeti, e gioca con le nuvole, come i personaggi di inchiostro di Raymond Quenaeu, quello dei Fiori blu. In una lontana notte surrealista,
durata trenta mesi, ha immaginato una scrittura
che (forse) non si legge e un mondo che (forse) non
si vede, con uomini che diventano tenaglie, uova
che volano, alberi capovolti, zoologia vegetale, insetti e coccodrilli. Ne ha fatto una Enciclopedia
fantastica, spiazzante e inservibile che assomiglia
al mondo reale quanto un sogno assomiglia al mistero dei miraggi. Da 25 anni abita dentro a quel
mistero. E adesso lo festeggia. Si chiama Codex Seraphinianus, è un mondo bidimensionale, una
sequenza di invenzioni colorate, pubblicato nel
1981 tra i volumi luccicanti di Franco Maria Ricci
che ammirava i mondi fantastici di Jorge Luis Borges e li declinava in caratteri Bodoni.
Da quei tempi nero&oro il Codex (che affascinò Italo Calvino e che Federico Zeri definì un
incanto eccentrico) è entrato nella leggenda dei
piccoli universi paralleli. Le circa trentamila copie che da allora circolano nel mondo, sono introvabili. Ma hanno lasciato una scia indelebile,
che smaterializzandosi si è ricomposta nel passaparola della Rete. Decine di siti nel mondo riproducono le sue tavole a colori e le sue pagine
fitte di calligrafia inventata e perciò leggermente
inclinata verso l’abisso. C’è addirittura un ex crittografo della Marina militare americana, tale Jim
Marshall, che nel suo sito sostiene di aver trovato la chiave del Codex: digitando qualunque parola nella finestra interattiva,
compare la traduzione in lingua serafinica. E c’è un sito
canadese che oltre a mostrare le ascendenze magiche
delle tavole, conferma ai suoi
navigatori che Luigi Serafini
esiste davvero, abitava un
tempo in Italia, ha molto
viaggiato e probabilmente
vive ancora oggi in un punto
qualunque del pianeta.
Luigi Serafini, 56 anni, occhi sottili, sorriso, capelli lunghi e grigi, ha effettivamente
viaggiato. Il punto qualunque
del pianeta in cui abita è il
Pantheon che si vede da tutte
le finestre della sua casa romana. La sua casa è una versione semplificata del Codex.
Contiene quadri seicenteschi
riversati su alluminio e ricolorati a smalto, cervi azzurri
con corna luminose, schermi
al plasma, zebre e altri erbivori in plastica dentro a grandi
teche di vetro. E un pianoforte nero a coda, circondato da poltrone gonfiabili, abbandonato otto anni fa dalla sua penultima fidanzata.
Serafini viene da Duchamp e passa per Topor.
Ha lavorato nel gruppo Memphis con Ettore
Sottsass. Ha progettato case in marmo con colonne blu e cristalli colorati. Dipinge digitale e inventa a olio. Il Codex è nato senza ragioni e senza
scopo, nel corso di una specie di infallibile trance cominciata per caso e durata due anni e mezzo. «Mi ricordo il giorno e la circostanza», racconta Serafini. Un pomeriggio del 1976: «Mi
chiama un amico e mi dice: passo a prenderti che
andiamo al cinema. E io senza sapere bene perché gli dico: no resto a casa, devo fare un’Enciclopedia. E quando metto giù il telefono, comincio davvero a disegnare. Comincio da un uomo,
poi un cacciavite, una foglia, un ingranaggio. E
scrivo, riga dopo riga, didascalie immaginarie,
scivolando in automatico: segni danzanti e pause bianche… Una tavola dopo l’altra, senza sbagliare mai, per giorni, settimane, mesi». Creando
una scrittura che è come acqua sul vetro, trasparente, ma non penetrabile, che ci fa sentire nel
modo esatto descritto da Calvino, «sempre a un
pelo dal poter leggere». Scrittura che fa finta di
spiegarci le forme inspiegabili dei disegni, a loro
volta generati da metamorfosi fantastiche, dove
«l’anatomico e il meccanico si fondono, l’umano
e il vegetale si completano».
Naturalmente il Codex non ha alcuna traduzione plausibile se non quelle che lo sguardo gli
attribuisce. Ma almeno una chiave esiste. È la
storia della sua storia. Le molto divertenti avven-
ture di Luigi Serafini. Che nasce architetto di case immaginarie, ma poi diventa artista e viaggiatore di tre viaggi, come tre onde del destino, l’America, l’Oriente, l’Africa. Cominciando dal primo biglietto aereo della sua vita, anno 1971, destinazione New York, via Amsterdam.
«Partivo da una vita molto polverosa, famiglia
borghese, liceo agli Scolopi, niente colori. All’improvviso mi esplodono davanti i canali luccicanti
di Amsterdam e poi le verticali della santa America, con le sue nervature elettriche e anche lisergiche, Timothy Leary, gli autobus Greyhound, Chicago, le comuni hippy, le utopie abitative, Fourier,
le cupole geodetiche di Paolo Soleri. Tutto era eccitante, nuovo, come se il mondo ricominciasse
davanti ai miei occhi, rifiorisse, mutasse proporzione e luce, comprese le tristi strade dell’Alabama
dove da tre anni era stata abolita la segregazione».
Dopo gli oceani d’America, la rotta terrestre verso Oriente, l’Ararat, e poi seguendo l’Eufrate e il Tigri fino all’antica Babilonia. Il
sole, il deserto, lo spazio. Tutto a forzare, per contrasto, i
confini della vita ordinaria e a
scardinarli per sempre. Così
Serafini finisce Architettura e
apre uno studio di una stanza
e mezza in piazza di Spagna, finestra davanti alla cupola della chiesa Sant’Andrea delle
Fratte del Borromini, con un
socio che nel tempo libero cattura ragnatele, le stende su tele bianche e le immobilizza
con il fissativo.
Poi viene l’Africa. Dove tutti i misteri del colore si sciolgono e i mondi si moltiplicano e le metamorfosi si intrecciano. «Conosco a Roma un
nero enorme, elegantissimo,
ricchissimo, trafficante di
diamanti. Mi dice che ha un
terreno a Brazzaville, nell’ex
Congo francese, e mi offre di
disegnargli la villa. Io accetto,
lui sparisce. Ricompare sei
mesi dopo. Si è trasferito a Abidjan, in Costa d’Avorio. Mi spedisce un biglietto aereo. All’aeroporto trovo una limousine. Mi consegnano un altro biglietto, e un visto».
A Brazzaville ci sono militari ovunque e una piccola guerra in corso tra filo cinesi e filo sovietici con
elicotteri in volo, cibo e musica nelle strade, e pallottole danzanti. Va a visitare il terreno che è coltivato ad arachidi e ci sono zebre in lontananza. Sale
su una piroga per risalire il fiume Congo. Quando
approda, viene circondato e arrestato da una pattuglia in mimetica. Finisce da solo in una grande
cella, dove arriva un colonnello a interrogarlo, con
gli occhiali a specchio. Si ritrova nei panni inspiegabili di un architetto romano che gira in piroga
dentro a una guerra e lavora a ville inesistenti. «In
effetti era tutto così surreale, così folle, che neanche
mi spavento, ma rido. Rido talmente che mi prendono per matto e invece di fucilarmi fanno dei controlli sulla mia identità. Così compare una specie di
console italiano che in realtà è un ingegnere dell’Agip, simpatico, milanese, che garantisce per me.
Esco dal sogno, entro nella sua Mercedes».
Quando sbarca in Italia è per l’appunto il 1976 e
dal disordine di tutte le vite e di tutte le forme che
ha visto in transito, un giorno gli nasce «questo bisogno testamentario di lasciare un segno per sempre». Il per sempre è il Codex. Più di trecento tavole, un migliaio di disegni, nessun significato. Dice:
«Mi piaceva l’idea di giocare con la vita, di assecondare le continue trasformazioni dell’uomo e
della natura. L’idea di non limitarmi a cambiare il
mondo, come si diceva nelle piazze di allora, ma
addirittura a inventare un altro da principio».
“Ricordo il giorno
in cui tutto cominciò
Mi chiama un amico:
passo a prenderti
e andiamo al cinema
E io, senza sapere
perché, gli dico:
no, resto a casa, devo
fare un’Enciclopedia
Metto giù il telefono
e inizio a disegnare”
TESORI
INTROVABILI
In pagina,
alcuni disegni
del Codex
Seraphinianus,
che pubblichiamo
per gentile
concessione di
FMR-Art’è.
Del volume,
venticinque anni fa,
furono stampate
circa trentamila
copie: volumi
preziosi diffusi
in tutto il mondo
Lo finisce a metà del 1978. Impiega altri due anni a trovare un editore abbastanza pazzo da pubblicare un libro che costa dieci volte più di qualunque altro libro e che in compenso non si legge. «Quando arrivai da Franco Maria Ricci — racconta — mi sentivo come un salumiere esausto
che gira con il suo prosciutto di marmo e cerca di
venderlo a fette». Ricci (invece) gli compra tutte
le tavole. E poi le pubblica in due volumi, con cofanetto di seta nera, gioiello tipografico che su
eBay, oggi, viaggia tra i 15 e i 20mila euro. Il Codex
inizia a navigare, approda con nuove edizioni in
mezza Europa. Poi il buio. Fino alla nuova luce
della Rete, il labirinto digitale che perfeziona il
labirinto di Serafini. «E perfezionandolo lo conclude — dice — 25 anni dopo, come se fosse stato progettato apposta». Per raccontarci l’irraccontabile, per mostraci l’invisibile. Per convincerci a ricominciare sempre, dopo la fine.
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
i luoghi
Borghi letterari
Siamo a Marradi, l’abitato al confine fra Emilia e Toscana
nel quale il poeta visse, trattato come un matto. Da qui
si incamminava, a piedi, per Firenze, dove vendeva ad amici
e nemici le copie dei “Canti Orfici” stampate in proprio.
E qui oggi si celebra la memoria di un genio
incompreso, la cui esistenza è ancora avvolta nel mistero
Il paese barbaro di Dino Campana
M
ELENA STANCANELLI
Repubblica Nazionale 40 05/02/2006
MARRADI
arradi è un paese bilingue. Basta
fermarsi a chiedere un’informazione per accorgersene,
scambiare due parole con chi ti
pesa un chilo di marroni tirato su a manciate dalle cassette di legno ai lati della strada. Qualcuno
parla toscano, qualcuno romagnolo. Il fiume Lamone divide il paese a metà. Forse la lingua dipende dal lato in cui sei nato, penso sporgendomi dal parapetto. Sono cigni, chiedo io per dimostrare la mia demenza cittadina e attaccar discorso con la donna che mi osserva. Papere. È toscana, ha il volto bello e avvizzito come una castagna.
Per convincermi dell’esistenza di dio mi offre un
geranio rosso, che strappa da un vaso. Chi l’ha fatto questo? E le stelle? Non so, dico io. L’ha fatto
dio. Ma io non ci credo, dico. Zitta, mi fa, parla piano che ti sente! Chi mi sente? Rispondi, chi l’ha
fatto il mondo? Non lo so, big bang, reazioni chimiche, scintille? Ma quali scintille! Lo conosce
Dino Campana, le chiedo io per evitare dio. La
donna tace, mi guarda. Lo chiamavano il matto,
borbotta tra sé, ma invece era un poeta. Mia madre abitava a Campigno, e gli dava da mangiare.
Una minestra, un bicchiere di vino. Lui dormiva
in una specie di stalla, e quando aveva fame andava dalla mia mamma. Un giorno lei gli regalò
dei vestiti. Parlava da solo, si lavava nel fiume e
dormiva per terra. Ma era un poeta. Un paese bilingue, dove l’ostinazione toscana si unisce alla
visionarietà dei romagnoli,
Campigno è a pochi chilometri da lì, più in alto.
Non è niente, poche case inerpicate, la strada si
ferma, scompare, giri la macchina e torni indietro: finito. Quando dai suoi viaggi avventurosi veniva rimpatriato per vagabondaggio, Campana si
ritirava quassù, nel «paese barbarico, fuggente,
paese notturno, mistico incubo del caos». C’è una
lapide che lo ricorda, una colonia di gatti, una
fonte. Il Centro studi campaniani “Enrico Consolini” è vicino al fiume Lamone, a Marradi. Cerco
una copia dei Canti orfici nell’edizione del 1914,
quella curata dal poeta e stampata dalla tipografia di Federico Ravagli, grazie a una sottoscrizione tra i concittadini patrocinata dall’amico Luigi
Bandini. Due lire e cinquanta a testa, per 44 generosi marradesi. Il contratto, esposto al centro
studi dove vengo accolta dall’appassionato e
gentile Franco Scalini, prevede la stampa di mille
copie, ma non è sicuro che le abbiano stampate
davvero. Campana le ordinava a blocchi, poi le
metteva nella borsa e le portava a piedi fino a Firenze (sono circa sessanta chilometri). Le vendeva ai clienti delle Giubbe Rosse, agli amici e ai nemici letterati fiorentini. Su ogni volume aggiungeva versi, ne cancellava altri, strappava addirittura pagine quando riteneva che l’acquirente
non le meritasse. Della copia che vendette a Marinetti, alla consegna non rimase che la copertina. Oggi conosciamo l’esistenza di una sessantina di questi volumetti dalla copertina gialla e i caratteri incerti. Uno sta alla biblioteca Marucelliana di Firenze e uno dovrebbe essere qui, a Marradi. Ma non c’è. Cioè, c’è ma non è esposto, per motivi di sicurezza. Al suo posto mi offrono
un’anastatica, ma ovviamente non è la stessa cosa. Nel caso di Dino Campana la mitologia del “libro” in quanto oggetto, il feticismo della pagina,
precede e addirittura in molti casi sovrasta l’amore per il suo contenuto. Colpa delle avventure
del manoscritto de Il più lungo giorno, una delle
storie più affascinanti e strazianti della letteratura italiana del Novecento.
I suoi concittadini lo temevano anche perché
in qualche modo ne intuivano il talento
Campana scrisse il suo libro, l’unico, «la sola
giustificazione alla mia esistenza» come lui stesso lo definì, nel silenzio delle montagne. Quassù,
sull’Appennino, nella barbarica terra dalla quale
partiva e dove sempre tornava. Passeggiava e ricordava, si smarriva dentro di sé. In questo come
in molto altro emulo, e ugualmente affetto, del
suo grande maestro e ispiratore Nietzsche. «Dovremo vedere le Alpi», scriveva a Sibilla Aleramo
(che pazzamente amò, nascosti in un paese minuscolo chiamato Casetta di Tiara), «Nietzsche
scendeva di là al mare con la sua sfida». Anche
con la scrittrice passeggiò, e dietro questi passi, e
tutti gli altri del suo girovagare di “fugitivus errans”, lo segue Giovanni Cenacchi, in un libro
struggente, preciso e inevitabile per chi voglia
conoscere la vita, e quindi la poesia di Campana.
I monti Orfici di Dino Campana si intitola, ed è un
curioso saggio e una guida in dieci passeggiate,
Edizioni Polistampa, con una presentazione di
Emanuele Trevi. Cenacchi consiglia di mettersi
in cammino in autunno, quando le giornate, ancora abbastanza lunghe, sono ammorbidite nei
colori e nel clima.
Il libro, che Campana scrisse a mano su un quaderno dalla copertina chiara e i fogli pesanti, si intitolava appunto Il più lungo giorno. Lo portò a
Papini, perché lo leggesse. Questi lo consegnò a
Soffici, perché lo confortasse nel giudizio positivo. Era il 1913, e da allora il libro scomparve. Campana ne fu devastato. Dal quel dolore nacque l’edizione marradese del 1914, che ebbe il nuovo titolo di Canti Orfici. Un paio di anni fa lessi per caso che quel manoscritto sarebbe stato battuto all’asta. Era stato infatti ritrovato, nel 1971, assai
dopo la morte del poeta (avvenuta nel 1932 nel
manicomio di Castel Pulci) e dopo la malfamata
edizione di Vallecchi, farcita di altre poesie sparse e correzioni che fecero infuriare il già furioso
Campana. Gli eredi lo vendevano e il manoscritto era a disposizione dei compratori nelle sale di
Sotheby’s, in piazza Navona.
Andai con un amico, meno credibile di me, ma
fingemmo ugualmente di volerlo comprare. Un
uomo gentile lo estrasse da una teca di vetro e me
lo consegnò in mano. Su un tavolo coperto di velluto lo sfogliai a lungo. Più precisamente: lo accarezzai. C’è una macchia marrone in alto a destra,
un’addizione segnata in viola sopra una delle pagine, alcune righe cancellate con un tratto di penna. Ma non c’è la pazzia. La scrittura è serena e ordinata, doma. La grafia di Dino Campana, a disposizione in una edizione anastatica pubblicata
anch’essa dal centro studi di Marradi, è la testimonianza inattaccabile di quanto siano dementi le pretese di spontaneismo, naiveté, impulsività che qualcuno attribuisce alla sua poesia. Come tutta l’arte, l’arte pura direbbe lui stesso, i suoi
Canti sono ciò che resta dopo un lavoro enorme
che traduce l’emozione in una forma passando
attraverso la tecnica. Fatica, contenzione, lima,
questo trapela dal manoscritto de Il più lungo
giorno, che oggi riposa alla Biblioteca Marucelliana di Firenze, dove è consultabile. Non fummo
io e il mio amico, infatti, a comprarlo, ma la Fondazione Cassa di Risparmio. Grazie anche all’attenzione di Giuseppe Matulli, ex sindaco di Marradi e attuale vice-sindaco di Firenze, e alla disattenzione, pare, dell’Università di Bologna che
confuse la data e si presentò all’asta con un giorno di ritardo.
Anche Marradi, naturalmente, si candidò a
ospitare il manoscritto. Ma riportarlo in paese,
avrebbe significato esiliarlo di nuovo. Forse aveva ragione il povero Campana quando si legava le
scarpe con lo spago e si incamminava verso Firenze. Raggiungere il paese con la macchina è in-
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
‘‘
Dino Campana
Il vecchio castello
che ride sereno sull’alto
La valle canora dove si snoda
l’azzurro fiume
Che rotto e muggente
a tratti canta epopea
E sereno riposa
in larghi specchi d’azzurro:
Vita e sogno che in fondo
alla mistica valle
Agitate l’anima dei secoli passati:
Ora per voi la speranza
Nell’aria ininterrottamente
Sopra l’ombra del bosco
che la annega
Sale in lontano appello
Insaziabilmente
Batte al mio cuor
che trema di vertigine
fatti impresa per stomaci forti.
marradesi si difendono, e conE scendendo da Faenza è antrattaccano. Franco Scalini, nel
che peggio. Marradi è inaccesCentro studi campaniani, mi
sibile, appartiene a un tempo
mostra una lettera di Luigi Banbarbaro che pretende lentezdini, l’amico, pubblicata nel bel
za e non ammette seduzione.
Campana dal vivo a cura di Pedro Luis Ladròn de Guevara
È un luogo fatto di roccia, omMellado, raccolta di scritti e tebre, nebbie, dominato da una
stimonianze. Maniaca, scrive
rocca affettuosamente battezBaldini nel 1938, questa osseszata il Castellone. Risalente
sione di Campana che io stesso
più o meno all’anno mille, il
ignoravo. Lo ritenevano pazzo,
Castellone è un grosso molare
è vero, irresponsabile, ma non
che sporge sulle gengive verdi
lo perseguitavano i marradesi.
della collina. Ebbe il suo moLo temevano piuttosto, e in un
mento di gloria a metà del Cincerto modo lo rispettavano anquecento, quando Cosimo I
che, perché «lo sentivano supede’ Medici lo conquistò, avenriore». Scalini mi ricorda la sotdone individuato l’importantoscrizione per l’edizione Raza strategica. È ancora Matulli
vagli, e il carteggio tra la mama indicarmi un buffo aneddoma del poeta e la Aleramo, sinto narrato da Niccolò Machiatomo di un’attenzione che advelli nei Discorsi sopra la pridirittura se ne infischiava delle
ma Deca di Tito Livio. Stremaregole morali. I marradesi ne
ti dal lungo assedio ai Veneziasopportavano le stravaganze
ni che non intendevano laperché in modo misterioso ne
sciare il castello, i Fiorentini
intuivano il talento.
avevano deciso di andarsene.
Ognuno ha il suo vocabolaMa quel mattino, mentre dirio, sul quale ritorna a studiare.
smettevano l’accampamento,
MARRADI
Il mio è Amarcord, di Fellini. Mi
videro arrivare indisturbata
Da QUADERNO (1911-1912)
sembra che dentro ci sia tutto,
una vecchia che raccontò loro
dell’Italia ma anche della vita,
che anche i Veneziani, proprio
dell’amare e del tempo. Ci penquel mattino, se n’erano andaso mentre mi infilo a malincuore nei banchi di nebti. I fieri Fiorentini, entrarono quindi senza alcuna
bia che cancellano le curve, scendendo a
resistenza in paese, ma mandarono in patria un diFirenze. Penso sempre al toro bianco di
spaccio che millantava un’aspra battaglia e una vitAmarcord, quando sono nella nebbia. E
toria valorosa. Fin quando si fosse difesa, Marradi
da lì alla pazzia. Solo i grandi narratori
sarebbe stata inviolabile. Pochi anni dopo Cosimo
russi hanno saputo raccontare il segreto
decise che era Castrocaro l’avamposto migliore
della pazzia così bene. Quei dannati becontro i Romagnoli dello Stato Pontificio, e fece costemmiatori intrisi di dio, quelle forze
struire la bellissima fortezza di Terra del Sole. Maroscure che reagiscono al buio del dolore
radi e il suo castello furono lasciati al loro destino.
illuminando a sorpresa un salotto, un’auE poi, contro il dono del manoscritto al paese, c’è
la di tribunale. Campana cantava, sono in
sempre l’antica polemica del legame tumultuoso
molti a raccontarlo. Tirava fuori l’armoniche opponeva il poeta a i suoi concittadini.
ca e intonava canzoni imparate in giro per
Campana si sentiva perseguitato e si lamentail mondo. Non c’è un paese, o un tempo che
va. «They were all torn and cover’d with the
possa accogliere la poesia, legittimarla. Il
boy’s blood...». Per questo Sebastiano Vassalpoeta è un clandestino e Campana lo sapeli, autore tra l’altro del celebre romanzo La
va, e da clandestino ha vissuto qua e là. Quannotte della cometa, ispirato alla biografia del
do tornava nelle sue montagne, una donna o
poeta, non ha mai smesso di inveire contro i
un’altra gli preparava una minestra. Marradi,
marradesi. E contro Sibilla Aleramo, la «dano Recanati, o la Charleville di Rimbaud, angununziana», responsabile a suo dire dell’ulste e feroci, sono solo le incolpevoli gabbie di
timo, definitivo tracollo psichico di Camun circo dell’anima, la cui smania non può,
pana. Ma la Aleramo, che amò sbagliando
non deve essere placata.
(come sempre si ama) è morta, mentre i
LE CARTE
Dino Campana: Sotto:
il foglio di carta
con La Chimera
poesia scritta dal poeta
di Marradi
e il manoscritto
Il più lungo giorno
GLI INEDITI
La poetessa
Sibilla Aleramo
in una foto posata
Sotto: una pagina inedita
di Dino Campana
recuperata
da Gabriel Cacho Millet
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
Esce in Italia “Dio vive a San Pietroburgo”, un libro del giovane
scrittore Tom Bissel che racconta come la “nazione imperiale”
abbia dilapidato quel patrimonio di simpatia e attrazione che l’aveva
accompagnata, tra vicende alterne, fino all’11 settembre 2001. E come il “marchio
Usa” sia entrato nel tunnel di una crisi di cui è difficile vedere lo sbocco
Il mondo degli
VITTORIO ZUCCONI
Repubblica Nazionale 42 05/02/2006
I
WASHINGTON
l bambino che vendeva i morti davanti all’Hotel Rex neppure doveva essere nato quando quegli uomini erano morti davvero. «Dogtag, sir, dogtag, sir, pliiiiis, one dollar,
dogtag», mi inseguiva sulla piazza dell’Operà di Saigon, poi sotto i tamarindi e
i ficus giganti di via Nguyen Hue tintinnando le piastrine di riconoscimento
strappate ai morti, che i soldati chiamano così perché somigliano a quelle che si
appendono al collare dei cani. Probabilmente tutte false, le piastrine. Ma i morti, invece, tutti veri.
No, thank you, no dogtags. Yes
pleeeease! No, yes, no, yes, due per un
dollaro, nooo-oooo, yes. Ma te ne vuoi
andare? Gli intimai scocciato in italiano e il bambino si gelò. «You no american?», mi chiese. No, io no american, io
italian. Pfffft, si sgonfiarono le spalle
minuscole. Io «no like Europe», mi disse con aria di sfida, io «love America». E
il bambino che vendeva due morti
americani per un dollaro corse via
scocciato, a cercare un americano vero
che uscisse da quell’Hotel Rex dove per
vent’anni si erano accampati i visi pallidi della Cia a pianificare la morte di almeno due milioni dei suoi padri.
Per decenni avevo girato il mondo
sempre presentando alla gente per strada, ai burocrati delle ufficialità, agli intellettuali intervistati, a tutti, la mia italianità. Avevo esibito all’occhiello la mia
storia di europeo come un passepartout
di complicità istantanea contro quei
gringos, yanquis, gai-jin nasi lunghi,
amerikans go home, troppo invadenti,
ricchi e boriosi. Ero dovuto arrivare nella
Saigon, o Ho Chi Minh come fingono di
chiamarla, per scoprire nel 1995, nel ventennale della «gloriosa liberazione e riunificazione del Vietnam», il più inaspettato dei luoghi dove tutti sognavano soltanto il ritorno dell’America e gli americani: i venditori ambulanti di pho, di zuppa, come i camerieri dei ristoranti, le
compagne entraineusescon lo spacco alto nella gonna dell’aodai di seta, gli scugnizzi che spacciavano le piastrine dei
soldati morti e i modellini di Phantom costruiti con le lattine della Pepsi.
Fu il fatto che lì, all’ombra di mangrovie, ficus e tamarindi, gli americani avessero perduto una guerra per la prima volta nella loro storia e si fossero lasciati dietro 58.195 dogtags a renderli simpatici,
addirittura a farli rimpiangere? Era invece il sogno più concreto di vedere arrivare il cavaliere della Nike, Phil Knight, con
le sue fabbriche di scarpe a 25 centesimi
di salario al giorno, a farli desiderare?
Non può essere una coincidenza il fatto
che il solo luogo che io conosca dove non
abbia incontrato nessun anti-americano sia l’unico dove finora gli americani
abbiano perduto una guerra.
Essere americani oggi, dopo quel grido
del «siamo tutti americani» lanciato da Le
Monde l’11 settembre del 2001, è diventato ancor più difficile e sicuramente più
pericoloso. Un tempo si rischiava lo scippo in via del Corso e il bidone davanti a
Fontana di Trevi. Oggi rischi la gola e la testa mozzata. Presentarsi alle frontiere e
negli hotel con il libretto blu notte e l’aquila in oro stampata sulla copertina
provoca sempre più spesso, in Asia, in
America Latina, in Africa e nella enorme
“mezzaluna verde” dell’Islam che si
estende dall’Atlantico alle Filippine, occhi al cielo, sbuffi, teste scosse, sguardi di
compatimento o, peggio, sguardi di odio.
Un esperto di sicurezza e di antiterrorismo mi consigliò di viaggiare sempre con
tutti e due i miei passaporti, quello euroitaliano e quello americano, caso mai
qualche apprendista martire decidesse
di cambiare rotta all’aereo, ed esibire
sempre quello europeo.
Siamo diventanti antipatici. Se persino il Presidente che parla con Dio ha dovuto nominare un sottosegretario di
stato, la signora Karen Huges esperta di
pubbliche relazioni, con la missione
impossibile di «migliorare l’immagine
degli Stati Uniti» nel mondo islamico —
vasto programma trattandosi di un miliardo e mezzo di persone concordi soltanto nel detestare il Grande Satana e il
demonietto israeliano — si rafforza la
sensazione che decenni di Usis, Usia,
Radio Free Europe, stupende bibliote-
Americani
Nessuno sorride
al soldato Ryan
ISRAELE. Pacifisti israeliani in piazza ai tempi della prima Guerra del Golfo
La corsa
all’immigrazione
Eppure nei sondaggi
internazionali
negli States non è mai
stata così affollata
e i college sono pieni
di studenti stranieri
crescono l’ostilità
e l’odio anti-yankee,
che, viaggi studio, borse Fullbright, uffici stampa, feste all’ambasciata e pacchi lanciati dagli elicotteri stiano perdendo la battaglia per i “cuori e le menti” del mondo. Persino nell’Italia fedele
nei decenni, destra come sinistra, si devono organizzare lugubri manifestazioni pro America, nei giorni delle Torri, e costruire “fanzine” di tifosi Usa in
Internet, per ricordare il sacrificio dei
soldati Ryan, la copertura strategica per
contenere l’Urss, il piano Marshall, gli
aiuti. Tanto sfoggio di amore per l’aquila americana sembra la classica dichiarazione d’amore “non petita” e imposta
dal dubbio, ben noto a tutte le coppie,
che l’amore sia finito.
Siamo pasticcioni, incolti, zotici capaci di ordinare il cappuccino con i bucatini all’amatriciana e di pasteggiare
con la Coca Cola davanti a un cotechino,
come scoprì inorridito l’oste di un famoso ristorante bolognese che offrì la
cena gratis a condizione che quei violentatori dell’insaccato promettessero
di non tornare mai più nel suo locale. Il
“branding”, come dicono gli esperti di
marketing, il marchio America che portava una immediata connotazione positiva, ora impone un rovesciamento di
opinioni, uno sforzo di rimessa a fuoco.
Guardate, non è vero che l’America…
non è vero che Bush vuole sangue per il
petrolio… non è vero che la gente stramazzi per strada perché non ha l’assicurazione sanitaria… non è vero che Bush
sia un somaro. Sta diventando faticoso,
TURCHIA. Scontri con la polizia in un corteo antiamericano ad Ankara nell’aprile 2003
REUNION. Scritta contro gli Usa a St.Denis, a Reunion, isola francese nell’Oceano indiano
FRANCIA. Corteo di studenti francesi a Parigi contro la guerra in Iraq
anche negli altri
Paesi del continente
la fatica del bambino olandese davanti
agli undici forellini nella diga, difendere
e spiegare. Amici europei di insospettabili credenziali borghesi, moderate e
“occidentali” mi guardano strano
quando dico di avere preso la cittadinanza Usa, ma chi te l’ha fatto fare, ma
che cosa ci hai trovato, bella roba i tuoi
americani.
La vaga e generica invidia per il «beato
lei che sta in America» che per anni aveva
commentato sotto gli ombrelloni i bisticci tra i miei figli in inglese americanizzato sulle spiagge italiane, è diventato un
sorrisetto di compatimento, l’immancabile «ma che ci siete andati a fare in Iraq?»,
ma «ora farete anche la guerra in Iran»,
«ma come avete fatto a eleggere uno come Bush»? «The ugly american» degli anni Cinquanta, il prepotente pasticcione
che voleva esportare se stesso in Asia (tutto va e poi ritorna, anche in America), è
diventato l’incarnazione di tutto ciò che
non piace di noi stessi, nel mondo contemporaneo, il consumismo insensato,
lo shopping ossessivo, la tv spazzatura, il
cibo frankenstein, la devastazione del
pianeta, la “addiction” alla forza, la forca,
l’ipocrisia, quella rozzezza che i russi
chiamano nekulturny, che è qualcosa di
peggio che il semplice ignorante. Il soldato che lanciava libertà e Lucky Strike
dai carri Patton, è divenuto il sorridente
automa che diffonde hamburger otturacarotidi “super size” di McDonald’s. Li
odiamo, perché siamo diventati come loro, perché hanno vinto.
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
IN USCITA
A sinistra, la copertina
di “Dio vive a San
Pietroburgo”. Nella foto
grande, un celebre
scatto di Robert Capa
in Sicilia dopo lo sbarco
degli americani alla fine
della Seconda guerra
mondiale
il racconto
Il testo che segue è uno stralcio del racconto d’apertura
di “Dio vive a San Pietroburgo”, scritto dal giovane narratore
americano Tom Bissel, pubblicato in Italia da Einaudi
e in uscita nelle prossime settimane. Il volume raccoglie
sei storie di americani che, all’estero, si scontrano con una
nuova realtà: il mondo, che pareva aver assorbito la cultura
di cui gli Stati Uniti sono la massima espressione, si rivela
ancora diviso fra logiche contrastanti e inconciliabili. Questo
primo racconto, intitolato “Morte sfidata”, ha per protagonisti
due giornalisti occidentali, un inglese e un americano (Graves
e Donk), in Afghanistan durante la guerra contro i Taliban.
Dopo un incidente stradale i due sono accolti in un misterioso
villaggio. Da cui Donk parte alla ricerca dell’erba miracolosa
in grado di curare la malaria dell’amico. Ed è proprio nel corso
dell’escursione che avviene uno strano incontro.
L’uomo a cavallo si avvicinò
occhi azzurri, giovane e trionfante
TOM BISSEL
arba Nera, che ora si era appeso il kalashnikov in spalla, iniziò a tirare giù dall’asino le sacche e le borse di plastica della Marlboro.
Donk stava per dire qualcosa quando vide che Barba Nera si raddrizzò impettito e guardò allarmato verso est, cercando istintivamente il
fucile senza però toglierselo di spalla. Prima che Donk riuscisse anche solo a girare la tesa, sentì lo scalpiccio di un cavallo che si avvicinava, seguito da un nitrito rauco. Sul cavallo c’era un soldato. Si avvicinò lentamente, fermandosi a metà strada tra Donk e Barba Nera, la cui mano si bloccò
mentre cercava di prendere il fucile.
Il soldato guardò Donk, poi l’asino morto, dopo di che li raggiunse e fece
un giro intorno al cadavere dell’animale. Poi lanciò un’occhiata a Barba Nera, ma solo dopo aver tracciato un’orbita completa.
«Salaam», disse il soldato, mentre le orecchie del cavallo si piegavano indietro, chiaro segno di sconforto alla vista del cugino ammazzato.
«Salaam», replicò Barba Nera abbassando la mano.
Il soldato era americano. Indossava una mimetica color sabbia ricoperta di chiazze verdine e onde marroni. Le cinghie verde oliva dello zaino gli
tracciavano due linee verticali sul petto. Un’altra cinghia più spessa gli
stringeva la vita, e altre due erano fissate attorno alla coscia, dove, inguainata in un fodero mimetico, c’era una pistola 9 mm. Su una spalla aveva l’ingombrante imbottitura nera del control pad della radio terra-aria e il CB agganciato alla vita. Sul capo sfoggiava un pakul afgano, un po’ esagerato pensò Donk, e attorno al collo aveva la stessa sciarpa bianca che Donk aveva
comprato a Kunduz.
Galoppò fino a Donk, giovane e trionfante coi suoi occhi azzurri, il naso a patata e il mento appena accennato.
Sicuramente un sudista, ne dedusse Donk. Era chiaro che era uno di
quei soldati di cui Donk aveva soltanto sentito parlare, ragazzi delle Forze speciali che da cavallo comandavano intere guarnigioni di guerriglieri, che puntavano i laser nelle tane scavate nelle montagne dalle canaglie
per guidare le bombe degli F/A-18, e che spazzavano via intere culture e
lingue al loro passaggio.
Si diceva che alcuni dei ragazzi fossero qui già dal 14 settembre.
Muoversi da soli era contro la dottrina delle Forze speciali, e Donk immaginò di essere ingrandito, proprio in quel momento, dallo zoom digitale del binocolo di un altro uomo delle Forze speciali che sicuramente li stava osservando da un’altura o magari si era nascosto dietro le rocce lì vicino.
«Signore», disse il soldato a Donk. «Lei è americano?».
Donk tirò fuori le mani dalla tasca della felpa e si alzò. «Sì».
L’uomo strizzò gli occhi e guardò Donk dall’alto del suo cavallo. Aveva
un’aura severa, inavvicinabile, come il bagliore del sole su una lamiera.
«È ferito?».
«Cosa?».
Il soldato si batté la mano sopra l’occhio.
«No», disse Donk, toccandosi nello stesso punto e, con un sobbalzo, pentendosene immediatamente. «Non è niente. Un incidente in macchina».
«Signore, è da un po’ che vi seguo. E vi devo chiedere un paio di cose: uno,
cosa ci fate qui, e due, perché i vostri uomini sparano in questo modo in una
zona ostile?».
«Hanno giustiziato il nostro asino», disse Donk. «Non ho ben capito per
quale ragione. E poi non sono i miei uomini. Sono gli uomini del generale
Ismail Mohammed».
Il cavallo arretrò di qualche passo, con gli enormi muscoli levigati che scivolavano su e giù sotto un manto marrone lucido come budino al cioccolato. L’uomo, immobile come un centauro, non aveva tolto gli occhi di dosso a Donk neanche per un attimo. «Questo non spiega cosa ci facciate qui».
«Sono un giornalista. Il mio amico è rimasto al villaggio del generale
Mohammed, come le ho detto. Sta molto male. Sono venuto qui in cerca di erba».
L’uomo lo guardò fisso. «Mi scusi, signore, ma quella roba qui si trova a
ogni angolo. Non c’è alcun bisogno di venire fin...».
«No, non marijuana. Erba. Un tipo speciale di erba».
«Ah, capisco...» disse.
«Senta, dimentichi quel che le ho detto. Mi può aiutare?».
«Signore, in realtà non ho direttive al riguardo».
«Non ha cosa?».
«Direttive, signore. Non posso parlare con i media».
Donk ammirava da sempre i militari dell’esercito, soprattutto i militari giovani, per le loro menti incredibilmente innocenti. «Non sono in
cerca di un’intervista. Il mio amico ha la malaria. È rimasto al villaggio
del generale Mohammed. Sta morendo».
«Signore, l’avverto che queste montagne non sono sicure per i civili.
Sono piene di nemici. E non voglio sembrarle troppo fiscale ma in realtà
non sono autorizzato a usare questa radio se non per dare ordine di procedere con le incursioni aeree. Stiamo disinfestando, signore, e le raccomando caldamente di fare ritorno al villaggio».
«Dov’è il suo ufficiale in comando?».
«A Mazar-i-Sharif, signore».
«Il tenente Marty, o sbaglio?».
L’uomo fece una pausa. «Non sono autorizzato a dirglielo, signore».
«Senta, ha dei medicinali contro la malaria? Degli antibiotici? Qualsiasi
cosa. Mi creda, è un’emergenza».
L’uomo tirò le redini. Il cavallo si girò con tutta la pesantezza tipica della
sua specie e si mise in marcia.
Donk non se ne stupì. «È solo perché i reporter in Vietnam ve l’hanno
messo nel culo, eh?» gli urlò dietro. Allora sappia che avevo circa sei anni
quando è caduta Saigon. E lei forse non era neanche nato...».
L’uomo si fermò e si voltò indietro. «Lasci questa zona, signore. Subito».
FOTO ROBERT CAPA / MAGNUM - CONTRASTO
B
Repubblica Nazionale 43 05/02/2006
Si vedono ragazzi gridare morte all’America in ogni angolo di mondo indossando cappellini dei Boston Red Sox e
uniformi della National Hockey League.
Ci sono più studenti (finti) di Harvard in
India che a Harvard. La mia nuora americana rimase sbalordita nel vedere che
sulla Riviera Ligure le era impossibile
trovare una t shirt, una felpa, un cappello ricordo che non scimmiottasse qualcosa di americano.
«Gli americani sono Persone del Caos
che credono di essere Persone dell’Ordine» fa dire Tom Bissel al protagonista del
suo racconto Morte Sfidata, diversi da
quello che credono di essere o percepiti
diversamente da come loro credono di
presentarsi. «Come fa se lei si ammala
quando viaggia fuori dall’America?», mi
domandò premurosa una elegante matrona della buona società di Kansas City
che mi ospitava durante una convention
politica. «Abbiamo eccellenti stregoni»,
le risposi e non sono certo che lei avesse
percepito il mio sarcasmo. «Ma perché ci
odiano?», si chiedeva Bush nelle ore dopo le Torri, ponendosi una domanda
sentita da una gente che crede, che vuole
sinceramente essere amata, e guardata
come la nazione che Dio, per ragioni non
chiare, dovrebbe «benedire» più del Lussemburgo, di Malta o della Lapponia.
«Perché odiano la libertà», era la sua risposta involontariamente offensiva per
tutte le nazioni del mondo non certo meno libere degli Stati Uniti. Perché prendono noi a bersaglio, sarebbe dovuta essere la domanda e la risposta sarebbe
stata più onesta: perché in fondo al suo
cuore ogni persona che diventa americana, come tutti qui lo sono diventati, è
persuasa che ognuno dei sei miliardi di
terrestri sia, o sarebbe se fosse lasciato libero di essere, un piccolo americano represso. Non esiste forma di presunzione
più alta che pensare che tutti sognino di
essere come te. E non esiste dunque forma di delusione più bruciante che lo scoprire che non è vero.
La corsa all’immigrazione, a piedi attraverso il Rio Grande, nei container
soffocanti, o con difficili visti, non è mai
stata così affollata. Siamo in trecento
milioni, oggi, irregolari esclusi. I college
ospitano più studenti stranieri di quanti ne avessero prima del 9/11. Ventidue
delle trenta migliori università del
mondo sono qui, negli Usa. Ma nei sondaggi internazionali, crescono l’odio o
l’ostilità per l’America, persino nel suo
continente dove, per un Canada che
elegge un presidente filo-yankee, l’America Latina si rifugia a sinistra come
mai era accaduto.
Saremo dunque costretti, noi, i “nemici” con il libretto blu, a fare come facevo
quando negli anni Ottanta attraversavo
la frontiera russo-polacca con auto targata Urss e incollavo ritratti giganti di Pa-
pa Wojtyla al parabrezza e al lunotto per
evitare le pietre dei contadini? Dovrò,
viaggiando, incollare uno sticker sul passaporto come si vedono sui paraurti della macchine, «non prendetevela con me,
io ho votato per Kerry», o vigliaccamente
sarò costretto come Pietro a rinnegare tre
volte la mia nuova patria, per salvarmi la
pelle fissando l’occhietto nero di un
AK47? No, non credo che lo farò, perché
ormai è diventato inutile. Si può «morire
da italiano», come fece quel pover’uomo,
ma Quattrocchi, Baldoni, i giornalisti italiani uccisi sui fronti delle guerre volute
da Washington, dimostrano che il grido
retorico dell’11 settembre era reale: siamo davvero diventati tutti americani.
Tranne che in Vietnam.
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Stampa popolare
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
Kate Moss, David Beckham, Sven Goran
Eriksson, i leader liberali: sono solo
le ultime vittime dei giornali britannici
che vendono milioni di copie trasformando
il gossip in notizia. Siamo entrati
nella redazione di “News of the World”
Tabloid, lo scandalo
in prima pagina
L
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA
e confessioni di Kate Moss sulla cocaina? Le prove
che Madonna ha un amante? Oppure un altro lurido scandalo di sesso — sadomasochismo, prostituzione, omosessualità, va bene tutto — tirato fuori
dall’armadio di un politico? O magari, ancora meglio, un pettegolezzo nuovo di zecca sulla famiglia reale? O altrimenti qualcosa su David Beckham, che funziona sempre?
Devono essere pressappoco questi i pensieri
nella mente dei redattori che, fascio di giornali
sotto braccio, bicchiere di carta col caffè fumante in mano, s’infilano sotto un cielo grigio in
una moderna palazzina a due passi dal Tamigi,
la sede del News of the World, ciascuno probabilmente rimuginando sulla possibilità di scovare la sensazionale notizia da prima pagina per
il prossimo numero.
È martedì. Dopo due giorni di meritato riposo,
il più diffuso tabloid domenicale del Regno Unito, quasi quattro milioni di copie vendute, è
pronto a ricominciare la caccia allo scoop: non
sono neanche le nove del mattino, ma l’open
space della redazione brulica già di reporter che
sfogliano quotidiani, scrutano videoterminali,
telefonano. Alle nove in punto il direttore, Andy
Coulson, 37 anni, occhialini trendy, camicia rosa e battuta pronta, convoca la prima riunione
della settimana: «Siamo il giornale britannico
dell’anno», dice accogliendo i colleghi nel suo ufficio, con un’allusione al premio assegnato la primavera scorsa tra le polemiche al News of the World dall’Associazione della Stampa, «e intendiamo rimanerlo. Perciò diamoci dentro, ragazzi».
Non è un modo di dire. Con l’eccezione di un paio di caporedattori di mezza età, la cinquantina di uomini e donne del
suo staff sono o perlomeno sembrano “ragazzi”, come Ryan
Sabey, l’astro nascente, il venticinquenne autore di una sfilza
di esclusive che gli hanno valso il titolo di Young
journalist of the year. Nessuno di loro ha l’aspetto e i modi dei leggendari cronisti di una
volta, quelli che finivano le serate nei pub di
Fleet street col sigaro in bocca e la cravatta slacciata, la categoria di pennivendoli senza scrupoli immortalata da un indimenticabile film di
Billy Wilder, Prima pagina, e da un delizioso romanzo di Evelyn Waugh, Scoop (L’inviato speciale nella traduzione italiana). Ma in effetti le
due generazioni si somigliano più di quanto
non appaia. Quando Coulson, l’odierno direttore del News of the World, afferma che «l’essenza del nostro giornale è raccontare alla gente delle storie la domenica mattina, storie eccitanti, avvincenti, formidabili, storie che la gente non conosceva sabato sera quando è andata
a dormire», non suona troppo diverso da Lord
Copper, il direttore del Beast (La Bestia), fittizio
quotidiano tabloid del romanzo di Waugh,
mentre riassume i segreti del mestiere al novellino che sta spedendo a fare il corrispondente di guerra in Africa: «Ciò che il
giornalismo inglese desidera per primo, per ultimo e in ogni
momento, sono notizie. Si ricordi che i patrioti sono nel giusto
e vinceranno, e il Beast è dalla loro parte. Ma devono vincere al
più presto. Il pubblico inglese non nutre interesse per una
guerra che si trascina a lungo in maniera inconcludente. Qualche vittoria risolutiva, qualche clamoroso atto di valore dei patrioti, e un pittoresco ingresso nella capitale. Questo è quanto
il Beast si aspetta dalla guerra».
Di storie eccitanti, e di notizie che non si trascinano a lungo in maniera inconcludente, il
News of the World ne ha pubblicate una scorpacciata nei centosessant’anni della sua storia.
Nato nel 1843 come primo giornale “popolare”
della domenica, ossia espressamente rivolto alla classe lavoratrice, ha ispirato nel corso del
tempo una serie di imitatori, dal Daily Mirror al
Daily Express, dal Mail al Sun (di cui oggi è di fatto l’edizione della domenica), arrivando a vendere la cifra spropositata di otto milioni di copie; poi è entrato in declino, ma è rinato nel 1984
con l’arrivo di un nuovo editore, l’australiano
Rupert Murdoch, che acquistandolo cominciò
la sua espansione internazionale. Fu Murdoch
a imporre al News of the World il formato tabloid, e quindi, stroncando i sindacati, il trasferimento dalla storica via della stampa, Fleet
street, ai sobborghi, dove poco alla volta lo hanno seguito tutti gli altri giornali. Ed è nella nuova sede alle spalle del Tower Bridge che, incitato da Murdoch, il News of the
World è ridiventato la «fabbrica degli scoop», scoperchiando i vizi privati di star dello show-business, campioni dello sport, leader politici e membri della famiglia reale, spesso con metodi di-
sapprovati dalla stampa più autorevole, «quella con tirature da
ridere al confronto delle nostre» si compiace di sottolineare il direttore. L’amante segreta di Beckham. La relazione extra-coniugale del ministro degli Interni Blunkett. Le maldicenze della
principessa del Kent su Carlo e Camilla. Lo scherzetto giocato a
Sven Goran Eriksson da un giornalista travestito da sceicco. E
così via, una domenica dopo l’altra.
Il metodo del News of the World, naturalmente, non suscita
unanimi consensi, per alcune buone ragioni. La prima è che i
suoi scandali da prima pagina spesso li compra a peso d’oro. E
non lo nasconde nemmeno: «Paghiamo meglio
di chiunque altro per notizie esclusive, proteggiamo sempre le nostre fonti», avverte un riquadro sul sito Internet del giornale, fornendo numeri di telefono e indirizzo email a chiunque
abbia segreti da spifferare: un sistema sfruttato
pure dalla concorrenza (io stesso ho ricevuto
una volta la telefonata di un tabloid londinese
disposto a sborsare «una fortuna» per qualche
segreto su Berlusconi — offerta respinta, anche perché non ne conosco), ma che il News of
the World ha portato ai massimi termini, pagando — si dice — quasi 500mila euro per le
confidenze di Rebecca Loos, ex-segretaria e
amante spagnola di Beckham, uno scoop che
ha fatto salire d’un balzo la tiratura di mezzo
milione di copie. Un’altra frequente accusa è
che, invece di News of the World (Notizie del
Mondo), dovrebbe chiamarsi “Screws of the
World” (Scopate del Mondo), poiché a quelle
dedica essenzialmente gran parte delle sue pagine. Una terza critica è che, per indurre i vip a dichiarazioni
eclatanti, li attira in elaborate trappole: come quella ordita da
Mazher Mahmood, il cronista di origine araba, capo del team
investigativo del News of the World, che ha invitato Eriksson
da Londra a Dubai, alloggiandolo in un albergo a cinque stelle e fingendosi un ricchissimo sceicco, per indurre in tentazione — con successo — l’allenatore della nazionale inglese.
Non il massimo dell’etica giornalistica, si direbbe.
Eppure Andy Coulson, il direttore, obietta.
«È vero, paghiamo per ottenere certi scoop, ma
non sempre per realizzarli bastano i soldi. Il reporter che ha scoperto l’infedeltà coniugale di
Beckham ha lavorato tre mesi senza scrivere
una riga, prima di fare centro. È vero, talvolta
ce ne sbattiamo della privacy. Ma la famiglia
reale, per fare un esempio, va trattata come tutti gli altri, e i coniugi Beckham, per farne un altro, usano il loro amore da fiaba come un prodotto di marketing, senonché è un prodotto fasullo ed è lecito smascherarlo. Inoltre esistono
regolamenti e leggi contro la diffamazione: noi
stiamo attenti a rispettarli, se qualcuno ritiene
che li violiamo, ci denunci. È vero, infine, che
storie di sesso e trappole per far parlare a ruota libera i vip sono tra i nostri ingredienti preferiti. Ma non sono gli unici. Conduciamo attive campagne contro il bullismo nelle scuole e
contro la pedofilia. Pubblichiamo ogni settimana notizie in esclusiva, non la solita risciacquatura di piatti sporchi della giornata, come fanno i cosiddetti quotidiani di
qualità. Quanto al nostro finto sceicco, Mazher Mahmood,
con le sue trappole ha fatto sbattere più di centotrenta criminali in prigione. Insomma, non siamo perfetti, ma ci sono cose di cui possiamo essere orgogliosi. E non mi riferisco solo al
giornale che dirigo, ma a tutti i tabloid, alla stampa popolare
britannica, che fa per il suo pubblico più di qualsiasi altro giornale nel resto del mondo. Abbiamo con i lettori un legame che
altrove non esiste. Siamo il cuore della società.
Siamo giornali vivi e vivaci. Tutti questi sono
buoni motivi per celebrare».
Viene in mente, a proposito di celebrazioni,
una delle ultime feste di compleanno di Coulson, quando a soffiare con lui sulle candeline,
in un club di Londra, c’erano tra gli altri Rebecca Wade, direttrice del Sun, e Piers Morgan, direttore del Mirror. Tre giovani direttori di tre tabloid, grandi amici nella vita, feroci rivali nel
mestiere. Dopo la torta, Rebecca ricevette una
telefonata e cominciò a scribacchiare freneticamente su un tovagliolo. Puntando lo sguardo, con un brivido, Morgan capì che quegli appunti contenevano lo scoop del giorno. Allungando una mano, mentre Rebecca si era momentaneamente distratta a parlare con Coulson, lui le fregò il tovagliolo. Ma all’ultimo
istante Rebecca se ne accorse e lo agguantò con
la punta delle dita: nel silenzio improvviso della tavolata, rimasero lì a litigarselo uno con l’altra, insultandosi. «Fare un grande scoop, su una grande storia, su un grande
giornale», commenta Neville Thurlbeck, reporter veterano del
News of the World, «diciamo la verità, non è quello che sognano tutti i giornalisti?».
LA STORIA
LA NASCITA
IL FORMATO
GLI EDITORI
Il primo è stato, nel 1843,
il “News of the World”. Poi
sono arrivati il “Daily Mail” (1896),
il “Daily Express” (1900)
e il “Mirror” (1903)
I giornali popolari
adottarono appunto
il formato “tabloid”, più
piccolo rispetto a quello
dei quotidiani di “qualità”
All’inizio erano
gli aristocratici Northcliffe,
Beaverbrook e Astor.
Poi negli anni ’80 sono arrivati
Maxwell e Murdoch
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
LE VENDITE
GLI SCOOP
I quotidiani nazionali
negli anni ’50 toccarono
i 15 milioni di copie al giorno
(25 la domenica). Oggi sono
12 milioni (13 la domenica)
Tra gli obiettivi ci sono
personaggi dello sport,
dello spettacolo e della
politica. Ma resta alta
l’attenzione sui membri
della famiglia reale
Lo sport crudele
del tiro al potente
JOHN LLOYD
Repubblica Nazionale 45 05/02/2006
L
LONDRA
a tradizione di far sembrare stupidi i ricchi e i
potenti è viva nella maggior parte dei paesi, ma è particolarmente forte in Gran Bretagna. Ed è nei tabloid
— qualcosa di specificamente britannico — che questo sport nazionale pare assumere la sua forma più
avanzata. I tabloid britannici non possono essere pienamente compresi — né apprezzati — a meno di considerarli un genere tutto particolare di racconto morale. Essi decantano i piaceri dell’uomo e della donna
comune e tali piaceri includono il sesso. Così i tabloid
riportano molte fotografie di belle donne pressoché
nude e, meno di frequente, di gradevoli uomini quasi nudi. Il piacere più grande, però, è quello che con
una parola tedesca può essere definito shadenfreude, il piacere che si prova per il male altrui. I tabloid
giocano un match scaltro e incessante con i ricchi
e i potenti della Gran Bretagna e del mondo intero: ne esaltano la ricchezza, la bellezza, il potere, l’influenza e il fascino, e cercano di conseguenza di umiliarli. Talvolta tutto questo si
verifica soltanto una volta, di solito perché le
vittime un tempo fortunate non si riprendono più. In altri casi, invece, la vittima — specialmente se è davvero ricca, potente o bella, e se ha un buon agente e un buon addetto alle pubbliche relazioni — si riprende del tutto e sarà ancora una
volta raffigurata come se tutto le
andasse bene, per essere poi
nuovamente presa di mira e demolita ancora una volta.
Talvolta tutto questo
si limita ad essere
una
semplice
e sottile
provocazione. Pochi giorni fa
Brad Pitt, la
stella del cinema, è arrivato a Londra
accompagnato
dalla moglie
Angelina Jolie,
che è incinta. Si
è tinto di nero i
capelli, di norma biondi, per la
parte che deve
interpretare in
una nuova pellicola. Il Sun ne ha
pubblicato la foto, accompagnata dal seguente titolo, contenente un giro di parole in slang: «Brad, that hairstyle is the pitts», ovvero all’incirca «Brad, quella capigliatura è orribile». Sono
poche le chance che Pitt se ne sia risentito: al contrario, potrebbe benissimo essere stato il suo assistente
alle pubbliche relazioni ad avvertire i giornali con lo
scopo di dare la massima pubblicità possibile al suo
cliente e al suo nuovo film.
Ma ecco un altro esempio, sempre recente, né leggero né tanto meno semplice punzecchiatura. Mark
Oaten è membro del parlamento per il Partito democratico liberale, il terzo partito britannico per importanza, che ottiene circa il 20 per cento dei voti. Il leader di questo partito, Charles Kennedy, ha presentato
le sue dimissioni dopo che è stato reso noto, questa
volta dalla televisione e non ad opera dei tabloid, che
è un ubriacone. Oaten, insieme ad altri tre, si era fatto
avanti candidandosi a nuovo presidente del partito.
Poi, poche settimane dopo, News of the World ha rivelato che egli ha frequentato in parecchie occasioni un
prostituto omosessuale, pagandolo per fare cose che
il giornale ha definito essere «troppo disgustose per
venir pubblicate in un giornale destinato alle famiglie». Oaten si è immediatamente ritirato dalla
corsa alla successione a Kennedy. Alcuni giorni
dopo, un altro aspirante ancora alla leadership
del partito, Simon Hughes, ha concesso un’intervista nella quale ha rivelato di aver avuto
rapporti omosessuali (oltre che eterosessuali). Si è subito ipotizzato che egli abbia
fatto tale dichiarazione per evitare che questa notizia fosse svelata dai tabloid, o perché
gli era giunta notizia che un tabloid aveva scoperto la sua vita sessuale segreta, oppure perché
ha creduto che potesse presto arrivarci.
Il caso dei Democratici liberali è un chiaro esempio del potere che detengono i tabloid britannici.
Anche se la rivelazione che Kennedy ha «un problema con l’alcol» è stata fatta dalla televisione, i tabloid già da molto tempo cercavano
di pubblicare la notizia e vi avevano fatto
allusione svariate volte. Le ambizioni di
Oaten nei riguardi della posizione di leader — forse la sua intera carriera politica
— sono state del tutto compromesse da
quanto è stato rivelato: probabilmente
Hughes è stato costretto a fare le sue im-
barazzanti ammissioni nel timore che gli potesse accadere la stessa cosa. E così i tabloid hanno giocato un
ruolo di tutto rilievo nelle fortune — quanto meno nel
breve periodo — di una forza politica britannica di
primo piano, e lo hanno fatto unicamente in termini
che niente hanno a che vedere con la politica. Ciò che
è stato messo in questione nelle storie che sono state
pubblicate o che si è minacciato di pubblicare su Kennedy, Oaten e Hughes non aveva niente a che vedere
con le loro opinioni politiche, la loro politica o la loro
performance. Riguardava solo ed esclusivamente la
loro vita privata.
In nessun altro paese di primo piano la natura della
vita privata è altrettanto pubblica quanto lo è in Gran
Bretagna. Negli Stati Uniti gli standard giornalistici sono tali che soltanto le riviste scandalistiche come il National Inquirer pubblicherebbero mai rivelazioni sulla vita sessuale di qualcuno — a meno che i dettagli intimi della vicenda non siano resi pubblici allo scopo di
influenzare in qualche modo l’opinione pubblica, come avvenne per la relazione tra il presidente Bill Clinton e Monica Lewinsky. Ovviamente, c’è molta ipocrisia in merito a ciò che può essere considerato «l’atteggiamento dell’opinione pubblica».
In Francia l’ordinamento giuridico limita fortemente ciò che può essere detto della vita privata dei
personaggi pubblici — tanto che per esempio non si
è mai data notizia dell’esistenza di una figlia illegittima del presidente François Mitterand, notizia rivelata soltanto alla sua morte. In Italia, come in America,
la vita sessuale dei personaggi pubblici è esibita e discussa nelle riviste scandalistiche, mai tuttavia nei
quotidiani seri. In Germania, anche se il tabloid Bild
gioca spesso a dare scandalo, non si riuscirà mai ad
eguagliare l’incredibile determinazione dei tabloid
britannici, specialmente del Sun di proprietà di Rupert Murdoch e della sua edizione domenicale, il
News of the World. Questi giornali, insieme ai loro
contendenti, il Dailye il Sunday Mirror, fungono quasi da strumento moralizzatore dei personaggi pubblici britannici, raccogliendo assiduamente allusioni, voci e scandali su chiunque partecipi alla vita pubblica, da utilizzare poi non appena tutte le dicerie
possono essere confermate (e talvolta anche quando
non possono esserlo).
L’epoca d’oro per i tabloid è stata la lunga fase di
rottura del matrimonio tra il principe Carlo e la principessa Diana. Si è trattato di un’epoca d’oro perché
Diana era bella, famosa in tutto il mondo e dava scandalo incessantemente. Inoltre la famiglia reale non
ha mai intentato causa ai tabloid, rifiutandosi sia di
confermare sia di smentire le varie storie, una strategia teoricamente concepita a propria salvaguardia,
ma che di fatto ha consentito ai giornali di scrivere
tutto quello che volevano, senza timore di finire un
giorno in tribunale. Diana ha reso famosi i tabloid britannici, ne ha aumentato la tiratura e la diffusione, ha
reso milionari alcuni scrittori specializzati sulla famiglia reale e ha umiliato la famiglia reale britannica.
Dopo di allora niente ha funzionato altrettanto bene per i tabloid, e ciò nonostante essi hanno fatto del
loro meglio. L’ultima grossa storia — pubblicata ancora una volta dal News of the World — su Sven Goran
Eriksson, l’allenatore della nazionale di calcio inglese,
secondo gli standard dei tabloid è sicuramente buona.
Mazher Mahmood — un uomo che deve la propria
pessima fama alle sue rivelazioni e che è talmente
odiato da alcuni di coloro che ha messo allo scoperto
da aver bisogno di guardie del corpo private 24 ore su
24 — scrive per il giornale Investigations Editore si è camuffato da ricco sceicco di Dubai per avvicinare Eriksson. Gli ha detto di essere interessato ad assumerlo a
una cifra esorbitante per fargli allenare la squadra di
calcio del suo Paese. Eriksson si è dimostrato più che
disposto a parlare: si è portato appresso il suo agente e
il suo avvocato e nel corso di lunghe ore di conversazione con lo “sceicco”, ha tradito segreti, ha svelato
pettegolezzi su famosi giocatori, ha suggerito allo
“sceicco” di comperarsi tutta la squadra dell’Aston Villa che gioca in serie A e di nominarlo presidente, concludendo con la rivelazione che tre squadre in vetta alla classifica sono corrotte. L’episodio si è concluso come di prammatica: con la vittoria del giornale. Eriksson dovrà lasciare il proprio posto di allenatore in anticipo sulla scadenza prevista. Nel corso di una breve
intervista che ha rilasciato, ha accusato i tabloid di
avergli reso la vita impossibile. News of the World ha
pubblicato quanto emerso dalla sua indagine “durata
sei mesi” in due puntate distinte, entrambe su più pagine. Eriksson esce da tutta questa storia come uno
sciocco, il meglio che si possa dire, e comunque, al peggio, pronto a tradire i datori di lavoro e i suoi giocatori.
Le vittime di questo tipo di rivelazioni appaiono
sempre in cattiva luce, perché sono inchiodate nel
pieno della loro lussuria, della loro cupidigia o della
loro arroganza. In altre parole, sono colte in atteggiamenti umani, e per questi punite. Nel grande gioco
crudele che giocano col mondo i tabloid britannici, i
famosi, i ricchi e i potenti — oltre a tutti coloro che
bramano diventarlo — sono braccati, acciuffati e
messi alla berlina, dopo essere stati pubblicamente
torturati. Il governo ha messo al bando la caccia con i
cani, giudicata uno “sport crudele”, ma non ha il coraggio di fare altrettanto con i tabloid, che praticano
lo sport più crudele in assoluto.
(Traduzione di Anna Bissanti)
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
Esce il 18 febbraio nelle sale “Truman Capote: A sangue freddo”,
la pellicola - diretta da Bennett Miller - che racconta i cinque
anni della tormentata avventura cronistico-letteraria
dello scrittore conclusasi con la pubblicazione del suo libro “più vero” .
Cinque anni di processi per gli assassini di una famiglia di agiati
agricoltori, cinque anni di ansia creativa che cambiarono la sua vita
Truman
Capote
NATALIA ASPESI
ome sembrano lontani i tempi di gloria di Truman Capote
(mi hanno avvertito che si
pronuncia Capòdi), e non solo perché negli anni Sessanta
uno scrittore poteva diventare una star ricca e popolare (nella cafè society ma anche tra i camionisti), quanto
oggi un ignoto dell’Isola dei Famosi, ma
perché pareva giusto che qualcuno dedicasse cinque anni a un reportage, a un’inchiesta, quando adesso cinque ore sembrano già uno spreco. Certo il giornalismo
attraversava il suo periodo aureo, e negli
Stati Uniti Tom Wolfe e Norman Mailer
trascinavano i lettori nei labirinti affascinanti del New Journalism, mentre il minuscolo, mondano, inquieto, infelice Capote
inventava con A sangue freddo la non-fiction novel, il romanzo verità, il giornalismo costruito con le tecniche del racconto, la cronaca attentamente documentata
ma reinventata dalla scrittura letteraria.
Capote è morto più di vent’anni fa, il 25
agosto 1984, un mese prima di compiere
sessant’anni, nella casa di un’amica a Los
Angeles, distrutto dall’alcol, dalle droghe,
dall’infelicità; al suo biografo Gerard
Clarke aveva detto: «Nessuno saprà quanto A sangue freddo mi sia costato. Mi ha
scarnificato sino al midollo delle ossa. Mi
ha quasi ucciso. Credo che in un certo senso mi abbia ucciso davvero. Prima di cominciarlo ero una persona stabile, almeno
relativamente. Dopo mi è accaduto qualcosa. Non posso dimenticare, particolarmente l’impiccagione, alla fine. Orribile!».
Di quei cinque anni di attesa snervante,
di quella fatica, di quello strazio, racconta il
film Capote, diretto da Bennett Miller, che
esce in Italia il 18 febbraio con un titolo più
esplicativo, Truman Capote: A sangue freddo. E contemporaneamente l’editore Frassinelli ripubblica la ricca biografia di Clarke,
cui il film si ispira, che è del 1988. È stata una
scelta cinematografica temeraria, da parte
del regista e dello sceneggiatore Dan Futterman, quella di limitare la storia al tempo
della stesura di un libro con i tormenti del
caso, che di solito risultano noiosissimi e
prevedibili con l’autore che si prende la testa tra le mani, cammina in su e in giù e
strappa dalla macchina da scrivere i fogli, li
appallottola e li getta nel cestino (il dramma
creativo con computer non è stato ancora
artisticamente affrontato).
Invece i risultati sono affascinanti, emozionanti e la critica americana ha osannato
il film per l’austera bellezza, la grazia poetica, la profondità etica, e quei colori foschi,
quasi in bianco e nero, come era il bel film
che nel 1967 Richard Brooks trasse da A
sangue freddo. La N. Y. Review of Books ha
definito «meravigliosa» l’interpretazione
del protagonista Philip Seymour Hoffman,
finora grandissimo caratterista in ruoli
sciagurati, come in Happiness, Il grande Lebowsky, Magnolia. Ha vinto il Golden Globe come miglior attore, è candidato all’Oscar, come lo sono il film, il regista, lo sceneggiatore e l’attrice non protagonista
Katherine Keeler, (l’amica Nelle).
Truman Capote aveva 35 anni quando
lesse sul “New York Times” un trafiletto che
raccontava di un orribile delitto avvenuto a
Holcomb, una cittadina del Kansas: un’intera famiglia di agiati agricoltori, i Clutter,
padre, madre, due figli adolescenti, erano
stati brutalmente assassinati in casa loro,
forse per rapina. Era il 16 novembre 1959 e
lo scrittore, dopo il successo di Colazione
da Tiffany, era ormai una celebrità: era
«piccolo, gonfio, smorto, con questa voluminosa testa da feto imbarazzante, (tante
volte descritta anche con malanimo), e
quella vocetta agra che passava dall’aggressivo al perentorio secondo l’ambiente
sociale», come lo descrive Alberto Arbasino
nella raccolta mondadoriana di romanzi e
racconti di Capote. Viaggiava ovunque,
C
Miserie e gloria
di un mito da film
“Prima di cominciare
questo libro ero
una persona stabile
almeno relativamente”
specie in Italia, era circondato dalle più belle donne della società mondana, che lui
chiamava «i miei cigni» e con cui divideva
la gioia del pettegolezzo, era ricevuto dai
Kennedy alla Casa Bianca, dai Guinness,
dagli Agnelli, dai Paley, pranzava da Cecil
Beaton, a Londra, con la regina madre o la
principessa Margaret «molto noiosa». Viveva con un suo compagno vecchiotto e
snobbato dalla Beautiful People, lo scrittore e ballerino Jack Dunphy.
Capote partì per il Kansas con un’amica
d’infanzia, Nelle Harper Lee, che avrebbe
vinto il premio Pulitzer con il romanzo e
poi film Il buio oltre la siepe, e l’idea era di
scrivere un articolo per il New Yorker sulle
reazioni di una piccola comunità colpita
da un delitto così atroce. Gli assassini furono identificati e catturati alla fine di dicembre, ed erano due giovani ex carcerati, il biondo Dick Hickock dal viso sfigurato da un incidente d’auto, e il bruno Perry
Smith dalle gambe deformate da una qua-
IL RITRATTO
Truman Capote
visto da Tullio
Pericoli.
Sopra, una foto
dello scrittore
in Urss nel 1955
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
L’ALBUM DI FAMIGLIA
In alto a sinistra, Lillie
Mae, madre dello
scrittore; accanto,
Truman Capote
con il padre nel 1932
Qui a fianco con Myrtle
Bennett, sua governante
e amica a Palm Springs
Le foto di queste pagine
sono tratte dal libro
“Truman Capote:
A sangue freddo”
di Gerald Clarke,
edito da Frassinelli,
pagine 485, 18 euro
si mortale caduta dalla moto. Il processo
iniziò il 22 marzo 1960, il 29 si concluse con
la condanna a morte, l’esecuzione fu fissata per il 13 maggio.
Il film dedica poche scene a quei cinque
mesi di cronaca, cinque mesi che passarono veloci anche nella vita di Capote, che se
ne era andato con Jack in Spagna sulla Costa Brava. La sua personale tragedia cominciò subito dopo, con la prima sospensione della sentenza: «Scrivere il libro non
è stato difficile, quanto viverci sempre.
Tutta la dannata faccenda, un giorno dopo l’altro. È stato semplicemente straziante, tanto angosciante, debilitante, e triste». Il film si snoda nel crescere di questa
ansia, di questa disperazione, ad ogni sospensione della sentenza, anno dopo anno, appunto per cinque anni: sino alle prime ore del 14 aprile del 1965, quando nel
penitenziario di Lansing, prima Dick, poi
Perry, lui presente, furono impiccati. Finalmente, con quelle quattro gambe penzolanti sopra la botola, A sangue freddo,
poteva concludersi ed essere pubblicato,
e diventare, come l’autore prevedeva e
pretendeva, il best seller che l’avrebbe reso ancora più famoso e ricco.
Finalmente? Come raccontano sia la
biografia che il film, in quei lunghi anni di
nevrotica attesa, lo scrittore era andato a visitare i due condannati, rinchiusi in celle
separate nel raggio della morte: aveva trovato loro nuovi avvocati, mandato regali,
scambiato lettere, soprattutto aveva cercato di farli parlare, con una certa spietata dolcezza, a sangue freddo, per il
suo libro ancora incompiuto. In qualche modo gli sembrava di specchiarsi
in Perry. Racconta Clarke: «La statura
bassa era solo una delle molte analogie sconvolgenti. Entrambi avevano
avuto la madre alcolizzata, il padre assente e le famiglie d’adozione. Perry
era stato bersaglio di scherno perché
era mezzo indiano e bagnava il letto,
Truman era stato preso in giro perché
effeminato». «Era come se», dice lo scrittore nel film, «fossimo nati nella stessa casa e
io fossi uscito dalla porta principale, e lui da
quella di servizio». Eppure quei due assassini dovevano morire, per soddisfare le sue
ambizioni letterarie: senza la loro morte,
«la morte dolorosa di due uomini che aveva aiutato, consigliato, il libro non poteva
uscire». Il dilemma era insolubile ma quando la Corte suprema respinse l’ultimo appello dei condannati, gelidamente, crudelmente Capote scrisse a un’amica. «Sono rimasto deluso tante volte che oso a stento
sperare. Ma incrocia le dita».
Il film dai lunghi silenzi si addentra lentamente nei comportamenti e nei pensieri di Capote per esplorare un profondo
quesito morale e letterario: che non riguarda la liceità della pena di morte (lo
scrittore era contrario, ma non lo fu in
questo caso), ma sino a dove può spingersi il rapporto tra lo scrittore e il suo
soggetto. Nel caso di Capote, sino all’estrema crudeltà che lo accomuna agli assassini, di volere a tutti i costi la loro morte e di negarsi sino all’ultimo momento,
per poi assistere all’esecuzione. «Non c’è
niente che avrei potuto fare per salvarli»,
dice alla fine, piangendo, lo scrittore. E
Nellie gli risponde: «Forse no, ma la verità
è che non hai voluto».
Nel 1966, quando il libro fu pubblicato,
Capote era ormai invecchiato, ingrassato,
alcolizzato, e non riuscì più a completare
un libro. Sognava di diventare il Proust
americano, ma quella che avrebbe dovuto
diventare la sua Recherche, Preghiere esaudite, si arenò a qualche capitolo. Quello intitolato La Cote basque (un celebre ristorante di New York) fu pubblicato nel novembre del 1975 su Esquire, e fu l’inizio
della sua rovinosa caduta. Raccontava con
lo stile di una tragedia tutti i pettegolezzi
più sordidi del bel mondo che lo aveva accolto e viziato, corna, uxoricidi, alcolismi,
ricatti, volgarità, gaffe, brutture: con nomi
fittizi ma perfettamente riconoscibili.
Fu uno scandalo amaro
e subito il piccolo adulato
genio eccentrico nell’aspetto e nei modi divenne
un reietto, un «sudicio rospetto». La rivista New
York pubblicò in copertina una vignetta che rappresentava un barboncino francese con la facciotAMBRA SOMASCHINI
ta rotonda e gli occhiali di
uello che negli Stati Uniti è stato battezzato il secondo “Truman
Capote che azzanna gli inShow”, in Italia comincia la settimana prossima e durerà fino a
vitati di una festa con la
Natale. Due film, due libri, reading, incontri, moda, effervescenscritta «Capote morde le
za sul web. Il ritorno repentino di Truman Capote è un business memani che l’hanno nutridiatico e modaiolo perché è un ritorno giocato sulla seduzione. Dalla
to». Tutte le porte delle
montatura nera degli occhiali Persol al papillon in stile Giacomo Balla
grandi magioni, anche di
rivisitato da Biagiotti, ai pantaloni morbidi di Armani. «Capote ha rapquelle italiane dove era
presentato qualcosa di molto più grande rispetto a ciò che è stato realsempre stato molto invimente» sottolinea Bennett Miller, regista di Capote.
tato, gli furono sbattute in
Si parte dalla ricostruzione della sua vita. E si parte il 10 febbraio con
faccia, pure il suo grande
la presentazione di Truman Capote: A sangue freddo biografia scritta
amico Cecil Beaton lo rada Gerald Clarke per Carrol & Graf (da noi Frassinelli). Il libro verrà didiò. Ann Woodward, a cui
stribuito alle anteprime del film omonimo (Sony) in sala dal 18 febbraio
nel racconto, col nome di
con un Philip Seymour Hoffman che si è «mimetizzato, identificato
Ann Hopkins, viene attricon l’autore» sostiene il critico del “New York Times”. «Se “the Genius”
buito l’assassinio del maieri scandalizzava, oggi non scandalizza più — osserva Anna Pastore,
rito, si suicidò con i barbieditor Frassinelli — è la sua vita trasgressiva, la sua ostentata omosesturici. In Musica per casualità a legare stretto il mondo dei Sessanta con quello del 2006».
maleonti, uno dei persoI lettori appassionati invece potranno ritrovare lo scrittore nelle rienaggi, TC, grida. «Sono un
dizioni Garzanti di A sangue freddo e Musica per camaleonti, in attesa
alcolizzato. Sono un tossidi Summer Crossing, l’inedito che andrà in libreria a fine aprile. Il testo
comane. Sono un omoche l’autore avrebbe voluto distruggere è stato stampato un anno fa
sessuale. Sono un genio».
dalla Random House. «Il manoscritto è stato ritrovato tra i documenti
In fondo, quei ricchi che lo
conservati in un box e messi in vendita da Sotheby’s nel 2004 da una
abbandonavano, che un
parente della governante dello scrittore», ha spiegato l’editor Usa Gitempo gli avevano suscina Centrello. La storia di una ragazza ricca con un fidanzato povero nel
tato soggezione e invidia,
dopoguerra a New York. Garzanti ha già organizzato la distribuzione
lui li aveva sempre didelle prime 50mila copie nelle librerie.
sprezzati. Qualcuno tentò
Il secondo film, negli Usa dal prossimo novembre, uscirà da noi a Nadi dissuaderlo a pubblicatale: Have you heard con Gwyneth Paltrow nei panni della cantante
re un testo che avrebbe inPeggy Lee e Toby Jones in quelli di Capote. Poco prima della uscita deldignato gente amica e lui
la pellicola comparirà nelle librerie un volume di lettere dello scrittore
rispose: «No, sono troppo
edito da Archinto. «È la forza della scrittura a riagganciare lo spirito di
stupidi, non capiranno
Capote al mondo attuale — afferma Oliviero Ponte di Pino, editor Garchi sono».
zanti — perché il suo modo di mescolare realtà e narrativa ha cambiato la letteratura per sempre».
Tra film, inediti e nuove edizioni dei suoi romanzi
Il ritorno del genio trasgressivo
Q
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
i sapori
Da protagonista delle merende di una volta, in versione dolce
o salata con aggiunta di zucchero o acciughe, a vittima
predestinata dei regimi dietetici. Così oggi il primo derivato
del latte ha perso il suo appeal e la sua genuinità
Riscoprirlo si può ma bisogna soprattutto imparare
a distinguerne compattezza e qualità
In cucina
Burro
L’alterna fortuna del più antico partner del pane
LE TIPOLOGIE
Alimentare
È il grasso in panetti
ottenuto separando
con la centrifuga
(o per affioramento)
parte solida e liquida
sia della crema sia del siero
di latte vaccino. La legge
autorizza entrambe
le modalità, senza che sia
presente alcuna differenza
in etichetta
Aromatizzato
Viene lavorato con aglio,
erbe, spezie. I più celebri
hanno nomi francesi,
simbolo di una cucina
storicamente declinata
su burro e salse:
Marchand de Vin,
Bercy, Maitre d’Hotel…
Sono impiegati
per ammorbidire e insaporire
le carni alla griglia
Di capra
È quasi sempre
una produzione a latte crudo
(la sterilizzazione uht
dà un sapore forte).
Bianco – per l’assenza
di beta-carotene – delicato,
meno grasso
di quello vaccino
e più digeribile, viene
utilizzato anche nei casi
di intolleranza ai latticini
Di panna cruda
Prodotto tra primavera
e inizio autunno nei pascoli
alpini – con dicitura
obbligatoria in etichetta –
è ricchissimo
di vitamine liposolubili
e di beta-carotene
Si prepara lavorando
la panna fresca di giornata
nella zangola (botticella
di legno d’abete)
Salato
Diffuso nel Nord Europa,
viene prodotto
in due versioni: semisalato
(demi-sel, tra 0.5 e 3 grammi
per etto) e salato (salé,
più di 3 grammi per etto)
Il più pregiato, a latte crudo,
arriva dalla Normandia
ed è lavorato
con fleur de sel,
la prima raccolta del sale
LICIA GRANELLO
l grasso della discordia. La coda dell’inverno ci fa ancora rabbrividire. Voglia di cibi che scaldino cuore e
palato. Il “comfort food” — il cibo dell’infanzia, morbido, conosciuto — è figlio del grande freddo. E il burro è in cima alla lista. Malgrado l’olio, di semi o extravergine poco importa, abbia cento calorie abbondanti in più per etto, il burro ci sembra più grasso (e ingrassante), più legato alla cucina dei mesi a bassa temperatura. Questione di sensazioni, ricordi, dna gastronomico, se è vero che
intere generazioni sono cresciute, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dell’era delle merendine, con il medesimo
menù: pane e burro a colazione, pane e burro a merenda.
Senza fatica, senza allergie, con il solo problema di trovare il
giusto compagno di tanta bontà: zucchero, cacao, marmellata. Dita allegramente sporche e palato gongolante.
Allora, non c’era distinzione di stagioni. Pane e burro sempre, estate e inverno. Oggi lo misuriamo col bilancino del farmacista, perseguitati dall’incubo delle placche di grasso (arteriosclerosi), dannazione della nostra quotidianità alimentare.
Eppure, anche il burro può vantare una sua dignità nutrizionale. Favorisce la crescita e lo sviluppo grazie all’azione
della vitamina A, musa protettrice delle mucose (e quindi nemica delle infezioni). Aiuta la calcificazione con la vitamina
D, recentemente promossa anche come antitumorale. In
più, gli acidi grassi a catena corta — anche se fanno parte di
grassi prevalentemente saturi — sono facilmente digeribili
anche dai bambini. E negli Usa stanno sperimentando una
sostanza caratteristica del burro, il cetilmiristoleato, nelle terapie di artrite e artrosi.
Certo, va preso a piccole dosi. E soprattutto, per fare bene
I
deve essere buono. Come se fosse facile… Il guaio del
burro italiano è figlio di una legge che lo considera
un coprodotto (meglio, sottoprodotto) del formaggio e autorizza la lavorazione sia a partire da
crema di latte, sia da siero (residuo della lavorazione del formaggio) senza l’obbligo di specificarlo in etichetta.
Così, quando andiamo a comprarlo, nessuno può garantirci la materia prima: panna,
siero, un misto dei due? Il colore sarà naturale — il betacarotene dei fiori — o addizionato? E che panna: esausta dopo la caseificazione — non nella percentuale di grasso, sopra l’80 per cento obbligatorio per legge, ma
nella qualità — o intatta? Come se non bastasse, veniamo fuorviati dall’opzione “burro di qualità”, che identifica semplicemente
il burro da affioramento — metodo di lavorazione abituale nelle aziende produttrici di
Grana Padano e Parmigiano Reggiano — non
certo un valore aggiunto in tema di bontà.
Abbiamo imparato a difenderci da cascine,
vallate fiorite e secchi di legno artistico, variamente disegnati sulle confezioni, mentre sono
una buona garanzia di qualità le definizioni “a latte crudo” (in Veneto), “di montagna” (Lombardia e
Piemonte), “di affioramento” (Val d’Aosta).
Ma soprattutto, il burro buono si fa riconoscere “dal
vivo”. Va toccato, prendendone un cubetto tra pollice e
indice. Dev’essere consistente ma non colloso. L’aspetto
è uniforme, compatto, lucido, il colore paglierino più o meno carico (a seconda della stagione), l’odore fragrante, il profumo di erba e panna fresca spiccato. In bocca è cremoso,
denso, persistente. Cotto, dopo chiarificazione, regala un
sentore delicato di nocciola alla più golosa delle cotolette.
Aggiunto, dopo acidificazione, al risotto, dà un’impagabile freschezza aromatica
Se non vi sentite troppo datati, tagliate una fetta di
buon pane e spalmatelo di burro. I più arditi, ci appoggino sopra un’acciuga sott’olio. La regressione all’infanzia sarà felicemente perfetta.
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
itinerari
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
Isigny sur mer (Francia) Dogliani (Cn)
Carlo Fiori
Guffanti,
ex ricercatore
della Bocconi
convertito
sulla via
del formaggio
d’alpeggio
È uno dei più colti
e prestigiosi affinatori
italiani e membro
della giuria del premio
Caseus, che promuove
la cultura casearia
di chef e ristoratori
Morbegno (So)
Una delle prime
cittadine liberate
nel giugno 1944
nel cuore
della Normandia,
regione benedetta
per le produzioni
enogastronomiche,
dal Camembert al Calvados. La cooperativa locale
produce tre tipi di burro, tra i più buoni del mondo
È uno dei centri più
suggestivi
delle Langhe,
diviso tra il Borgo
a fondovalle e il
Castello di estrazione
medioevale. A pochi
chilometri, Beppino
Occelli produce burro e formaggi d’alpeggio.
Durante i mesi caldi,il burro è fatto con panna cruda
La porta della
Valtellina, celebre
fin dal Medioevo
come centro
turistico e termale,
è circondata
da montagne
e pascoli. L’Azienda
Fiorida produce formaggi di mucca, capra e burro
d’alpeggio, tutti certificati biologici
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DE FRANCE
13 rue Demagny
Tel. +33-2-31220033
Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa
AGRITURISMO CASCINA MARTINA
Località Martina III n.12
Tel. 0173-721239
HOTEL MARGNA
Via Margna 36
Tel. 0342-610377
Camera doppia da 60 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
FLEUR DE THYM
Le Calvaire, St. Pierre de Semilly
Tel. +33-2-33050240
Chiuso sabato a pranzo, domenica sera e lunedì
IL VERSO DEL GHIOTTONE
Via Demagistris 5
Tel. 0173-742074
Chiuso lunedì e martedì, menù da 30 euro
DOVE MANGIARE
OSTERIA DEL CROTTO
Via Pedemontana 22
Tel. 0342-614800
Chiuso domenica, menù da 20 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
COOPERATIVE LAITIERE ISIGNY-SAINTE MERE
2 rue du Docteur Boutrois
tel. +33-2-31513388
OCCELLI AGRINATURA
Regione Scarrone 2
Farigliano
Tel. 0173-746411
BURRO CHIARIFICATO
È il modo più sano per la cottura perché aumenta
la resistenza al calore. Da un kg di burro si
ottengono 650 gr di burro chiarificato ma la
quantità d’uso richiesta si dimezza
Mettere il burro in un tegame a bagnomaria
in acqua appena sotto il punto di bollitura
Cuocere per un’ora, fin quando sarà evaporata
l’acqua emulsionata nel burro e la caseina sarà
precipitata in forma solida
Filtrare con una garza bagnata
Riporre in un vaso scuro in frigorifero
DOVE COMPRARE
LA FIORIDA BIONATURA VALTELLINA
Via Lungo Adda, Mantello
Tel. 0342-680846
BURRO ACIDO
Il segreto più goloso per mantecare il risotto. Si
utilizza a fine cottura, aggiungendo un cubetto
ghiacciato per porzione e fuori dal fuoco insieme al
Parmigiano, “montando” il risotto con la frusta
Far sudare una cipolla, due grani di pepe,due
chiodi di garofano, alloro e un cucchiaio di burro
Sfumare con 40 cl di aceto bianco di vino
e far bollire fino a ridurre a metà
Aggiungere 60 cl di vino bianco e ridurre a 2/3
Aggiungere 1 kg di burro e cuocere a fiamma
bassa per un quarto d’ora
34.496
Le tonnellate di burro
prodotte in Italia
758
Le calorie per etto
di burro
25
I litri di latte necessari
per fare un chilo di burro
GLI IRRINUNCIABILI
Malgrado negli ultimi anni
la cucina italiana si sia
emancipata dalle influenze
della tradizione gourmande
francese, privilegiando l’uso
dell’extravergine, esistono
piatti per cui la scelta
del burro resta irrinunciabile.
A cominciare dalle ricette
del nord Italia, dove il burro
è maestro: i tagliolini
piemontesi (tajarin) al tartufo,
il risotto, la cotoletta
alla milanese (cotta nel burro
chiarificato), la polenta
concia, gli asparagi alla
parmigiana. Burro d’obbligo
anche per le paste-base
della pasticceria – sfoglia,
frolla, brisée – e per la regina
delle salse: la besciamella
LA MARGARINA
Promossa e venduta
come alternativa vegetale
e dietetica al burro, in realtà
contiene esattamente
lo stesso carico calorico
Negli ultimi anni, il processo
di lavorazione
(idrogenazione parziale)
è finito sotto accusa perché
i grassi idrogenati bloccano
l’eliminazione dell’eccesso
di colesterolo, inducendo
pesanti patologie
cardiovascolari
‘‘
Finalmente Gandalf spinse via piatto
e boccale — aveva mangiato
due enormi filoni di pane
con una montagna di burro,
miele e mascarpone, e bevuto
almeno un litro
di idromele — e tirò fuori la pipa
JRR TOLKIEN
DA IL SIGNORE DEGLI ANELLI
Da dietro pile di piatti
in tragitto, o di bacinelle
di maionese, o cataste d’asparagi
da cui sbrodolava giù burro sciolto
sul lucido; perseguiti
poi tutti, tutt’a un tratto,
da improvvise trombe marine
di risotti, verso la proda salvatrice
CARLO EMILIO GADDA
DA LA COGNIZIONE DEL DOLORE
E il formaggio di bue sfidò l’olio
CORRADO BARBERIS
urro: dal greco bou-tyros, formaggio di bue o, per rispettare sesso e natura, di vacca. Di qui una conclusione gastronomica: se è un formaggio, è da spalmare sul pane.
Fu nel darsi alla fabbricazione di panini al burro che i tumultuosi galli cisalpini si rassegnarono al predominio romano. Fu
nel vederla imburrare una fetta che il giovane Werter si innamorò di Carlotta. È dal burro di brussa, ossia di siero anziché
di panna, che gli alpigiani valdostani ricavano di che impastare fragranti biscotti: quasi un bel muretto di pasta per contenere i marosi di quegli intimi sapori. Ed è da pane, infine, il
burro giallo e sapido che Luciano Castellani, storico leader
della razza reggiana dal mantello formentino, ha da qualche
tempo affiancato all’ormai celebre parmigiano delle vacche
rosse. Innovazione tira novità.
Quale condimento il formaggio di bue non sempre ha avuto la
vita facile. La gastronomia mediterranea era all’olio. Plutarco
elogia l’eroismo di Cesare che mangiò senza batter ciglio gli
asparagi al burro offertigli da un capo gallo. Sulle aquile di Roma
l’olio risalì al nord, poi subentrò la Chiesa. Un cibo grasso come
il burro era da non tollerare in Quaresima: buono comunque per
lucrarne indulgenze, assai frequenti al tempo di Lutero, indignato anche perché le importazioni di olio mettevano in pericolo le finanze degli stati nordici.
Ai protestanti il burro, ai cattolici l’olio? Sia pure, ma senza dimenticare che è stata la cattolicissima Irlanda a marchiare per
B
la prima volta i barili di burro esportato da Cork, anticipando —
in pieno Settecento — le attuali Dop europee.
Probabilmente la pessima qualità dell’olio esportato decretò
il successo nordico del burro. Nel manuale francese Taillevent
(1380) solo due ricette lo prevedono. Esso dilaga invece nell’Opera di Bartolomeo Sacchi, cuoco di Pio V (1570). Di incerta origine bolognese, ma sicuramente padano, Sacchi risentiva di usi
alimentari che fino a non molti anni fa hanno diviso in due l’Italia gastronomica: burro al nord, olio al sud. Anche qui senza esagerare, però. In una Pasqua degli anni Trenta (dell’Ottocento,
ovviamente) Gioacchino Belli indugia a rimirare le vetrine dei
pizzicagnoli romani attorno a Piazza della Rotonda, oggi
Pantheon. In una appare «un Cristo e una Madonna di butirro/drent’a una bella grotta di salame». C’è sempre chi non ha badato a spese per solennizzare le feste.
Con qualche iperbole, l’unità d’Italia fu una vittoria del burro
sull’olio e del burro settentrionale su quello meridionale, costretto talora a nascondersi nel cavo di quei meravigliosi formaggetti di pasta filata detti appunto burrini. A Catania e Siracusa il burro lombardo batteva un prezzo assai più alto, rispetto
al locale. Tanto può la fama.
Col miracolo economico il consumo raddoppiò, fino a due
chili e mezzo pro capite, poi venne la paura del colesterolo. Ciò
non toglie che chi, a Parma, ordina i famosi tortelli con le erbette, rimanga male se il burro in cui questi nuotano non ha il volume di un brodo.
L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
le tendenze
Oggetti lussuosi e pezzi design accostati a mobili
acquistati dal rigattiere, una sola lampada esclusiva
al fianco di un divanetto in plastica: la rivoluzione
tra le mura domestiche si compie nella scelta
del particolare, un indizio di stile che vince su tutto
Case moderne
Dettagli
DI DESIGN
CLASSICO
Linee geometriche
per la poltroncina
Wassily disegnata
nel 1925
da Marcel Breuer
FATTO A MANO
Repubblica Nazionale 50 05/02/2006
Si chiama Chambord,
è il tappeto in pura lana
vergine con lavorazione
a mano, con contrasto
cromatico e motivi
floreali. Dalla collezione
Aleph di Driade
AURELIO MAGISTÀ
a rivoluzione arriva in salotto: il
ricco e il povero abitano insieme, quasi una nuova frontiera
della democrazia attraverso le
cose. Perché se un tempo gli
oggetti costosi, lussuosi, difficili da trovare erano destinati ai pochi in cima
alla piramide del benessere, oggi il ribaltone è
compiuto. Cose ricche e cose povere si trovano addosso alla stessa persona o nella stessa casa, dove “ricco” e “povero” non descrivono tanto la qualità materiale, ma il
prezzo delle cose. Non si tratta di una moda, ma di un profondo cambiamento delle abitudini e dei comportamenti di consumo, che apparentemente racconta la conquista di
un benessere più generale e diffuso, ma nasconde molto di più.
Infatti, malgrado l’innegabile estensione del benessere, la crisi degli ultimi anni semmai, penalizzando il ceto medio, ha di nuovo distanziato i veri ricchi da tutti gli altri. Quindi, esibire un arredo costoso in un contesto domestico relativamente poco costoso, potrebbe essere interpretato come il bisogno di riscattare la complessiva modestia con un
dettaglio di lusso. Ma la disinvoltura con cui si combinano Ikea e Lalique, per citare due
esempi separati da un abisso in termini di prezzo, sottolinea la decadenza della funzione
sociale dei marchi: non compro più Gucci perché rafforza il mio status o dimostra la mia
appartenenza a una determinata classe, ma perché mi piace. E ancor più: coniugando con
indifferenza il ricco e il povero esprimo una personalità forte e poco influenzabile, riaffermo me stesso contro le convenzioni sociali.
È il melting pot dei beni di consumo, inscritto nell’epoca in cui sono entrate in vigore le
nuove regole di una globalizzazione che ha significato incrocio e meticciato culturale an-
L
VARIAZIONI SUL TEMA
Semplice vetro o cristallo, l’effetto prezioso
resta immutato. Vetro per il vaso rosso
(a destra) battezzato Lifting e prodotto
da Ivat; cristallo sfumato per quello giallo
(qui sopra) della collezione Curios di Lalique
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
UN PEZZO
A QUATTRO MANI
Riedizione
di un pezzo d’autore,
addirittura a quattro
mani: l’appendiabiti
da muro con sfere
colorate Hang it all
firmato da Charles
& Ray Eames.
Vitra home collection
Ricchi e poveri insieme
l’arredo è meticcio
Repubblica Nazionale 51 05/02/2006
ANNI BOLLENTI
Nel 2005
ha compiuto
vent’anni,
ma il bollitore
in acciaio
con uccellino
sul beccuccio
(al centro)
disegnato
da Michael
Graves per Alessi
continua a piacere
proprio
come allora
che per le merci. Si è parallelamente compiuta una speculare rivoluzione nell’arredamento,
dove la qualità e il significato di valore dei mobili ha divorziato dai materiali tradizionali come il legno e il metallo e dall’importanza artigianale della mano d’opera. Vitra e poi Kartell,
due casi esemplari, hanno dimostrato che anche la plastica può diventare preziosa; Foscarini ha affiancato al vetro di Murano materiali tecnici come certi poliuretani, il polietilene, il
policarbonato; Alessi ha impreziosito la cucina con accessori ricercati e ironici.
Ma l’aspetto più divertente di questo melting pot dell’arredamento che ha portato la rivoluzione in casa, è che oggi, come non è mai accaduto prima, anche senza spendere grandi cifre, ma applicandosi con intelligenza all’esercizio del gusto, si può arredare una casa con ottime cose di buon prezzo. Arricchirla con uno o due dettagli importanti e costosi: il vaso di Venini, il tappeto di Driade, la riedizione del pezzo storico di Vitra, la gloriosa Fiorenza di Franco Albini per Arflex, la chaise longue LC4 firmata nel 1928 da Le Corbusier.
Per scoprire magari alla fine che la meraviglia e l’apprezzamento dei vostri ospiti sono tutti per quel bizzarro soprammobile fortunosamente trovato in un mercatino dell’usato.
Quelle piccole tracce
del dio nascosto
MORBIDA
A SORPRESA
Da interno
e da esterno,
da terra
o da sospensione,
Uto arreda
con effetti
sorprendenti
in gomma
siliconica antiurto
e morbida al tatto.
Di Foscarini
STEFANO BARTEZZAGHI
n particolare solo per farti guardare»:
la leggera arte della canzonetta pare
essere attratta dalle questioni di dettaglio. Nel 1979 Vasco Rossi notava che la sua Albachiara evitava anche le minime strategie di look
(«ti vesti svogliatamente, non metti mai niente che
possa attirare attenzione»). Qualche anno prima,
nel 1963, Bruno Lauzi aveva intitolato Dettagli
quella che sarebbe risultata la più sorniona delle
canzoni di Ornella Vanoni. Una canzone indiziaria, semiologica («lei errori di grammatica non ne
fa / e senza errori non si ha mai felicità»), ironica
(«e se farai l’amore con qualcuno / fallo tacendo /
perché se dici il nome mio / ti stai sbagliando»),
che accumula frammenti, ritagli e «dettagli che
fanno capire / che pensi a me».
Che sia assente o che sia presente, insomma, il
dettaglio risulta sempre, come si dice, «rivelatore»: è «banale» solo per chi non lo sa leggere, e si
potrebbe tradurre in termini visivi un noto proverbio di ambito acustico: a buon osservator, pochi dettagli.
Un ottimo osservatore, certamente, era lo storico dell’arte Roberto Longhi: che, secondo un
motto tramandato da Alberto Arbasino, si diceva
convinto che negli anni Sessanta per capire la società italiana bastava ascoltare una canzone (ma
non della Vanoni: di Mina). Forse le canzoni parlano di dettagli perché esse stesse sono dettagli:
tanto più rivelatori, quanto meno li si considera
come testi a sé stanti.
Il particolare ha infatti un rapporto con la totalità che lo comprende, totalità che può essere
presente (nel dettaglio, per esempio di una fotografia) o assente (nel frammento, per esempio di
un’opera perduta).
La riflessione sul dettaglio, sul frammento (e
sulla loro sede propria: l’interstizio) è incominciata per tempo. Una storia dell’idea di dettaglio
nel Novecento dovrebbe arretrare fino a Gustave
Flaubert che sembra sia stato il primo (ma non
c’è certezza filologica) a decretare che «il buon
Dio si nasconde nei dettagli».
La fortuna della frase fu quella di essere appuntata da un geniale studioso di arte e filosofia,
Aby Warburg, che poi la usò come suo motto.
Non era solo un invito alla disciplina dello scrupolo, ma anche un’indicazione di metodo: e il
formalista Roman Jakobson, fondatore dello
strutturalismo, aveva già sottolineato come il
dettaglio e la figura retorica della “parte per il tutto” stiano alla base del linguaggio del realismo.
Negli anni Settanta Carlo Ginzburg mise il motto
di Warburg in cima al suo saggio Spie. Incrociando Sigmund Freud, Sherlock Holmes e lo storico
dell’arte Giovanni Morelli (che per attribuire un
quadro a un maestro si concentrava non sulle figure ampie, più imitabili da discepoli e falsari, ma su dettagli come
la forma di un orecchio
o un’unghia), Ginzburg delineava un «paradigma indiziario»
che a partire dalla fine
dell’Ottocento avrebbe influito enormemente sulle scienze
umane del secolo, anche quelle più lontane
come psicoanalisi e filologia. Una rivoluzione inappariscente e silenziosa che arriva fino
a oggi, come dimostra
il recentissimo saggio
del critico Mario Lavagetto, intitolato Lavorare con piccoli indizi
(Bollati Boringhieri
2003).
Il detto di Warburg
ha una variante superstiziosa, e assai meno
grandiosa, che parla
del diavolo e non di
Dio. Ma nella versione
diciamo positiva il dettaglio si trova a essere
sede della totalità, dello spirito che dà forma
DA TERRA & DA TAVOLO
Stili diversi, medesima funzione
a ogni cosa: è di lì che
Da terra la lampada Lyla,
trae il suo potere rivecon decorazioni interne
latorio.
in metacrilato colorato;
Oggi è interessante
da tavolo Abat-jour di Venini:
notare, sempre lavoi corpi ellettici sono fatti
rando con piccoli india mano con la particolare
zi, come l’interesse per
tecnica balloton
il dettaglio e possiamo
anche dire la coscienza del dettaglio non sia più patrimonio di raffinati epistemologi ma colpisca l’immaginario
popolare. Vale per i gusti cinematografici. Se
l’ingrandimento fotografico sgranato affascinava gli spettatori di Blow up di Michelangelo
Antonioni (all’epoca in cui il pubblico meno
esigente si beava invece della poetica massimalista e grossier di James Bond), oggi grandi share arridono a fiction televisive come R. I. S., che
appassionano con indagini su frammenti di vetro, impronte digitali parziali, minime tracce
organiche da cui estrarre il dna: una scienza carabiniera che demanda i meno affascinanti
compiti tradizionali alla sezione che porta il nome meno alato di “Territoriale”.
Nessuna polizia territoriale può davvero dominare un territorio; nessun punto di vista può
esaurire il mondo. Conosciamo la realtà per
campionamenti, dati parziali, tracce, e così anche nel modo di presentarci affidiamo a dettagli
eloquenti il compito di rappresentarci: il tatuaggio, il piercing, il gadget, l’accessorio, il tocco che
serve, come si dice, a «personalizzare». Sono indizi volontari, disseminati per offrirli alla sperata detection altrui.
«Una questione di dettaglio separa il ruggito
dal raglio», dicono alcuni: e anche questa è una
verità. Naturalmente, una verità parziale.
«U
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 5 FEBBRAIO 2006
l’incontro
Vite alla ribalta
Note particolari: mattatore
da palcoscenico, interprete di alcuni
personaggi-culto del nostro cinema,
e in compenso autentico fantasma
delle fiction o dei talk show
televisivi. Ma alla tv
è grato:“Ci hatolto
di mezzo i tipi della farsa
italiota, così la gente
quando esce di casa
vuole qualcosa
di diverso. Ecco perché
un attore teatrale, fuori
dalla scena, deve sparire il più
possibile: per salvare l’eccezionalità
dell’incontro fisico con il pubblico”
Toni Servillo
ochi settori della vita culturale italiana sono sottovalutati come il teatro. Ogni anno nel nostro paese si vendono dodici milioni di biglietti teatrali.
Una volta e mezza le presenze del campionato di calcio di serie A. Eppure non
esiste un programma, un canale su satellite, una radio che si occupi di teatro.
Per la verità anche lo spazio dedicato
dai giornali è misero, se confrontato
con la stampa europea. Di questo e altro parliamo con Toni Servillo, che oggi è forse il migliore attore-regista sulle
scene italiane. Nel suo caso non è la televisione a ignorarlo, piuttosto lui a evitarla con cura.
Quello che piace di lui, oltre al talento immenso, è che bisogna andarselo a
cercare. A teatro appunto, qualche rara
volta al cinema, per esempio nei due
film di Paolo Sorrentino, L’uomo in più
e Le conseguenze dell’amore, quasi mai,
anzi mai in televisione. Per chi l’ha seguito fin dagli esordi, nella bellissima
esperienza dei Teatri Uniti di Napoli,
accanto a Mario Martone, la parabola
di questo attore e regista ha qualcosa di
straordinario. È passato dall’avanguardia ai classici, Marivaux e Molière, senza mai tradirsi, comunicando sempre
sulla scena, con la sua sola presenza,
una vitalità, un gusto dell’ironia e un’umiltà che è difficile trovare nel panorama dei «mattatori» nazionali.
La più fortunata e nota delle sue imprese, oltre che forse la più raffinata, è
l’aver riportato sulle scene un Eduardo De Filippo «senza eduardismi», in
un’edizione di Sabato, Domenica e
Lunedì che ha festeggiato le quattrocento repliche in Italia e ora viaggia
per l’Europa, da Parigi a Berlino. Aver
insomma restituito a Eduardo la grandezza di autore, come nessun altro ha
saputo fare. Neppure il bravissimo
Luca De Filippo, condannato in qualche modo, da figlio d’arte, a ripercorrere la recitazione paterna.
A parte questo, Servillo appartiene a
no. Pirandello è confinato scolasticamente nel teatro dei filosofemi, Eduardo de Filippo in un buonismo che assolutamente non gli appartiene. La
stessa reazione scandalizzata della
cultura italiana al Nobel assegnato a
Dario Fo la dice lunga. Avrebbero mai
scritto quelle cose se a vincere il Nobel
fosse stato uno scrittore o un poeta,
magari non eccelso?»
Si tratta soltanto di provincialismo o
non si tratta anche dell’incapacità o
della non volontà della cultura italiana
di usare l’arte per capire la società. «È
certo che nessuno ha indagato la borghesia italiana come Carlo Goldoni. Le
smanie per la villeggiatura contemplano una specie di oroscopo fisso dei caratteri nazionali. Goldoni rappresenta
la borghesia veneziana nel declino della repubblica, ma è come se parlasse del
declino di questa repubblica. Descrive
una borghesia imitativa e quindi kitsch, finta, smaniosa appunto di apparire e basta. In questo c’è un filo rosso che
lega Goldoni con Eduardo, nella spietatezza e nella lucidità con la quale entrambi seguono una parabola sociale,
senza salvare niente e nessuno, o quasi». Il «quasi», immagino, sono alcuni
personaggi femminili. «Le donne sono
Il nostro teatro
per secoli si è fondato
sullo stupore visivo
Ora la dittatura
dell’immagine,
il bombardamento
di effetti speciali
ha creato un pubblico
attento alla parola
FOTO STEFANO C. MONTESI/PHOTOMOVIE
P
VERONA
uno dei club più esclusivi d’Italia, quelli che non hanno bisogno di andare in
televisione per esistere e avere un pubblico. Non è mai neppure andato da
Marzullo, dove prima o poi son capitati tutti. Ancora più originale, per un attore italiano, non ha mai accettato di girare una fiction Rai o Mediaset, nonostante il caldo incoraggiamento del
consulente finanziario. Si è permesso
di dire no a mezzo cinema italiano che
l’aveva cercato dopo la straordinaria
interpretazione di Titta Di Girolamo, il
protagonista di Le conseguenze dell’amore. Non è snobismo, il fatto è che non
ha tempo. Soltanto nelle ultime settimane, nell’ordine, ha preparato l’allestimento di Sabato, Domenica e Lunedì
di Eduardo all’Athenée parigino;
inaugurato la stagione lirica al San
Carlo con una splendida regia del Fidelio di Beethoven; ripreso per il Piccolo di Milano Le false confidenze di
Marivaux; infine cominciato le prove
dell’Italiana in Algeri, per il festival di
Aix en Provence. Negli intervalli prepara la titanica messa in scena della
trilogia della Villeggiatura di Carlo
Goldoni, per il 2007, al Piccolo.
Come molti grandi del teatro, vive
una condizione paradossale ma in fondo invidiabile. È nel cuore della vita culturale e insieme nell’estrema periferia
dell’universo mediatico. Ma alla televisione è ironicamente grato. «Ci ha tolto
di mezzo i tipi della farsa italiota. Se li è
presi lei, la televisione. Il teatrino della
politica, il teatrino dell’informazione
soddisfano il bisogno di baruffe. Così il
pubblico, quando decide di uscire di
casa, vuole qualcosa di diverso. Non c’è
più necessità di fare i mattatori o i capocomici. I capocomici li puoi vedere
ogni sera nei talk show. Non fare l’ospite, non lavorare nelle fiction diventa allora una forma di rispetto per il pubblico del teatro. Un attore, fuori dalla scena, deve sparire il più possibile. Per salvare l’eccezionalità dell’incontro fisico
con il pubblico a teatro».
Alla televisione si danno molte colpe
e forse ne ha ancora di più ma intanto è
lo specchio di una cultura o sottocultura dominante. Non si può dire, per
esempio, che altrove il teatro ottenga
spazio e considerazione. Eppure siamo
il paese con un incredibile patrimonio
di teatri, una tradizione infinita, due
premi Nobel come Pirandello e Fo, autori rappresentati in tutto il mondo,
quando il nostro cinema supera a stento la frontiera di Chiasso. «Rimane un
vecchio stereotipo dell’attore come figura vagabonda e giullaresca e del teatro come attività quasi circense. Questo perfino nella cultura alta o presunta tale. Pensa al ruolo che ha il teatro
nella cultura francese, inglese o tedesca e guarda come le nostre università
ignorano o sottovalutano i grandi
commediografi. Un genio come Goldoni, che dovrebbe essere un punto di
riferimento costante, viene considerato un fenomeno del barocco venezia-
gli unici protagonisti positivi sia in Goldoni che in Eduardo. Non esiste un catalogo femminile tanto ricco come in
Goldoni, da Giacinta a Mirandolina a
Pamela. Eduardo affida alle donne il
sovvertimento dell’ordine patriarcale.
La più rivoluzionaria è Filumena Marturano, una prostituta che si vendica
sull’universo maschile negando al suo
ricco amante il diritto a sapere di quale
figlio è padre. Una metafora perfetta.
Ora, provate a trovare personaggi femminili di questo fascino nella letteratura, nel cinema».
Un altro legame fra Goldoni ed
Eduardo è l’incomprensione, una tassa che a volte si paga al successo. «Hanno detto cose troppo dure per essere
ascoltati fino in fondo. Goldoni è stato
rinchiuso nella storia veneziana, allontanato dal presente. De Filippo è stato
trattato come un genio attoriale ma
non un grande autore. Il suo talento di
attore era immenso ma a volte ha costituito un limite alla comprensione delle
opere. Prendiamo il Natale in Casa Cupiello. Il protagonista, con il suo patetico amore per il presepe, passa per un
simpatico idealista, quasi commovente. Al contrario, Cupiello è il più negativo dei personaggi eduardiani, un imbecille che vaneggia un mondo migliore a
forma di presepe perché non vuole vedere la realtà che lo circonda e assumersi la responsabilità di una scelta».
Il problema nasce quando i Cupiello
vanno al potere. In questi anni hanno
voluto farci piacere a tutti i costi il presepe costruito ogni giorno in televisione, l’hanno finanziato e intanto hanno
tagliato gli investimenti per l’istruzione, la cultura. «La cultura. Credo che
chi ci governa in cinque anni non abbia
neppure pronunciato la parola. L’Italia, con il sessanta per cento del patrimonio artistico del pianeta, investe in
cultura un quarto o un quinto della
media europea. In concreto significa
per esempio che un giovane attore, autore, regista oggi non trova uno spazio
per cominciare. Se fossi nato vent’anni dopo, forse anch’io avrei dovuto
cambiare mestiere. Hanno fatto il deserto e quelli che verranno dovranno
attraversarlo per ricostruire e rilanciare il paese».
Il quadro è cupo. Eppure i conti non
tornano. Voglio fare una provocazione.
Tutta questa indifferenza della politica
e dei media al seguito, non sarà per caso un vantaggio? Aggiungiamo pure
l’inconsistenza della critica teatrale
che non ha spazio e quel poco lo usa per
messaggi in codice agli addetti ai lavori. Quando leggo il critico del New York
Times capisco dalle prime cinque righe
se lo spettacolo gli è piaciuto, quanto e
perché. Qui dopo cinque righe, volto
pagina. Con le dovute eccezioni, si capisce. Nonostante questo, però, il teatro italiano cresce e gira il mondo. Mentre la televisione e il cinema, tanto coccolati dalla politica e dall’informazione, perdono spettatori ogni anno e non
contano nulla all’estero. E se la clandestinità fosse un vantaggio, un guadagno di libertà?
«Per qualche tempo lo è stata. In teatro si era più liberi che altrove, proprio
perché non contava nulla. I comici esiliati o censurati dalla televisione si rifugiavano in lunghe tournée, scoprivano
un lavoro meraviglioso e magari poi
erano loro a non voler più tornare in televisione. La mancanza di risorse, l’oscuramento da parte dei media, ha costretto il teatro a cercare nuove strade.
Il nostro teatro è stato per secoli fondato sullo stupore visivo. Ora la dittatura
dell’immagine, il bombardamento di
effetti speciali, ha creato per reazione
un pubblico più interessato alla parola.
Una certa avanguardia per la quale la
parola non aveva più significato e importanza è invecchiata molto rapidamente. Un altro vantaggio dell’ostracismo è stato il doversi confrontare più
spesso con l’estero che non con una
realtà nazionale sempre più anomala e
autarchica. Il teatro italiano è profondamente radicato in Europa, in ogni
sua componente, gli autori, i grandi registi da Strehler a Ronconi, naturalmente gli attori. Gli attori italiani hanno rivoluzionato nei secoli l’arte della
recitazione più di qualsiasi metodo o
teoria, hanno influenzato Molière e
Marivaux, fino alle avanguardie russe.
Con tutto questo, sono convinto che la
clandestinità debba finire. Non soltanto per il bene del teatro, che oggi ha bisogno di rinnovare il suo pubblico e in
parte lo sta già facendo da solo. Deve finire anche per il bene della politica e
dell’informazione. L’idea che al pubblico piacciano soltanto i reality show,
che la televisione debba inondare le case degli italiani di robaccia, non è reale.
È un’ideologia, una volontà di abbassare il livello generale per poter comandare meglio. La Rai è stata anche una
grande fonte di cultura, in passato». Per
esempio, quando la dirigeva Paolo
Grassi, guarda caso, il fondatore del
Piccolo. «E hanno lavorato Gadda, Eco,
Guglielmi. C’è bisogno che la tv pubblica torni a fare cultura. Qui è partito lo
sfascio e dalla tv occorre ricominciare».
‘‘
CURZIO MALTESE