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Domenica
La
di
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
Repubblica
l’inchiesta
La sfida dei telepredicatori di Allah
KHALED FOUAD ALLAM e GUIDO RAMPOLDI
la storia
La chiesa degli apostoli di Bush
VITTORIO ZUCCONI
La terra
violata
Ci siamo allontanati
troppo dalla natura.
La catastrofe
nell’oceano Indiano
ci ricorda che dobbiamo
recuperare un rapporto
più umile e sano
col pianeta che ci ospita
FOTO ARKO DATTA/REUTERS
V.S. NAIPAUL
SEBASTIÃO SALGADO
l primo richiamo che ho sentito, guardando quelle immagini, è all’antichità della Terra. C’è qualcosa di primordiale
nella forza che ha sprigionato. E mentre noi siamo occupati a muoverci velocemente sopra e attraverso di essa ci ha ricordato che un suo semplice sussulto ci può annientare e vanificare le nostre opere. Noi siamo ormai abituati a sentirci
sul picco del mondo. A stare lassù e ci pare di poter dominare tutto ciò che ci circonda. Quando poi un evento naturale del genere ci
fa crollare, noi vorremmo profondamente potercela prendere con
qualcuno. L’unica cosa che possiamo fare, invece, è piangere di
dolore e di rabbia. L’antichità della Terra non ci dà altro scampo,
altra via. Vedo che anche adesso, come sempre in questi casi, c’è
qualcuno che cerca spiegazioni, che ricorda il passato, che ipotizza e analizza. Ma alla fine quel che ci sommerge dopo il disastro è
la tristezza, e non c’è davvero altro da fare che convivere con essa.
(segue nella pagina successiva)
corpi di centinaia di persone morte. La furia degli elementi. Il pianto e la disperazione sul volto dei sopravvissuti. La
devastazione di terre, di case, di campi. L’anno 2004 si è
chiuso per noi con una serie di immagini strazianti che una
volta in più, dai giornali e dalle televisioni del mondo intero, ci ricordano quanto siamo tutti parte di un comune destino: quello di condividere il pianeta in cui viviamo e le responsabilità per le conseguenze delle ferite che a questo pianeta continuiamo a infliggere.
Il mio lavoro mi ha portato molte volte a documentare da vicino
grandi disperazioni, emergenze umanitarie e catastrofi. Ho passato sette anni a raccontare le migrazioni forzate di popolazioni a
causa di guerre, carestie, ma anche tragedie naturali, come gli uragani e i terremoti. Conosco l’indicibile e incomprensibile sofferenza che migliaia di esseri umani sono costretti a sopportare.
(segue nella pagina successiva)
I
I
il viaggio
Alaska, il popolo dell’isola che si scioglie
EMANUELA AUDISIO e ARTURO ZAMPAGLIONE
cultura
Censura, le strane forbici del Duce
SIMONETTA FIORI
spettacoli
Il business milionario della nostalgia
ERNESTO ASSANTE e GABRIELE ROMAGNOLI
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
la copertina
Maremoto in Asia
La natura ha annientato, travolto, rifiutato la nostra
presenza. Deve essere un segnale, deve farci capire
che abbiamo perso via via contatto con l’essenza
della vita sulla Terra, che dobbiamo lavorare
per ricongiungerci col mondo così com’era
prima che l’uomo lo modificasse fin quasi a sfigurarlo
La nostra vita
dopo l’apocalisse
(segue dalla copertina)
e culture non reagiscono
nello stesso modo, di fronte
alla potenza devastante
della natura. E in questi ultimi, drammatici, giorni ne
abbiamo avuto la prova.
Nei volti che si sono affollati davanti ai
nostri occhi, in quelle immagini di
morte e distruzione che hanno fatto
dell’Oceano Indiano il cuore del mondo, abbiamo potuto leggere non solo
dolore ma anche dignità.
Noi, qui in Occidente, non dobbiamo
dimenticare che gli abitanti di quei luoghi hanno una consuetudine maggiore
della nostra nel convivere con le tragedie, con la forza cieca della Terra. Penso
ai contadini indiani e a quelli del Bangladesh, abituati ai Monsoni sin dalla
notte dei tempi: a ogni stagione ne attendono il passaggio distruttivo, cercano di mettersi in salvo, poi tornano nelle terre allagate per ricostruire quel che
è andato perso. La ciclicità dell’annientamento e della ricostruzione abitua
l’animo umano all’incertezza, alla precarietà. Ma anche a vivere con maggiore serenità e valore gli attimi presenti.
Ho visto molto altro, in quelle fotografie, in quelle riprese televisive, in
quella tragedia dell’umanità così lontana e allo stesso tempo così vicina. Guar-
L
Naipaul
Sussulto cieco della Terra
dando e riguardando le immagini delle
coste su cui si è abbattuta l’onda, mi ha
colpito molto il notare che gli edifici
principali, i più solidi, sono rimasti in
piedi. Quello che è stato spazzato via insieme alle vite umane è l’imponente e
ininterrotta schiera delle strutture turistiche. Schegge di legno, brandelli di
bungalow, scaffali e banchi di negozietti. Tutto è stato ridotto in pezzi dalla violenza travolgente del mare. Quasi cancellato. La sorte che è toccata a gran parte di ciò che è stato costruito per sviluppare il turist trade, il commercio del turismo, mi pare dimostri la fallacità di
questo aspetto della vita dell’uomo moderno: la precarietà e temporaneità del
turismo mi sono parse legate all’immagine dell’onda che ha portato con sé le
costruzioni sorte per questo scopo. E
ciò è anche un’altra dimostrazione di
come noi siamo nuovi, così giovani rispetto all’antichità della Terra che calpestiamo e dalla quale siamo ospitati.
Lo tsunami ha investito tutti noi. Occidentali o orientali, turisti o contadini,
ricchi o poveri. Ci ha ricordato che siamo uguali di fronte alla natura. Ma non
sono ottimista, non credo che la devastazione dell’Asia possa aprire una
nuova era di fratellanza e collaborazio-
V .S. NAIPAUL
La grande onda
ha spazzato via
l’ininterrotta schiera
delle strutture
turistiche: noi siamo
così giovani e nuovi
rispetto all’antichità
del pianeta
che calpestiamo
e che ci ospita
ne fra i membri della comunità internazionale. Penso che tutto questo sia
solo un’illusione romantica. Le acque,
dopo la grande onda, si sono lentamente ritirate. Allo stesso modo, una
volta che l’emergenza sarà passata, le
cose torneranno come erano prima.
Un nuovo spirito di cooperazione non
potrà sorgere su quelle macerie.
I popoli del Sud-Est asiatico si troveranno a contare solo sulle proprie forze, sulle loro capacità di reazione. Che
sono diverse così come sono diversi i
paesi colpiti dal maremoto. L’India è
già un gigante economico, una potenza che è sulla via dell’industrializzazione e si è sviluppata grazie al proprio talento, attraverso la sua cultura, la sua
educazione. Non è così per l’Indonesia
e la Thailandia, che non hanno una
educazione allo sviluppo ma si sono accontentate di importare progetti e modelli economici, senza crearne uno originale e adatto alle proprie esigenze.
Certo, un intervento della comunità
internazionale può essere utile. Un
“Piano Marshall” per le aree messe in
ginocchio dallo tsunami può rivelarsi
efficace, come è stato quello originale:
ma solo se saprà valorizzare le risorse
umane, culturali e organizzative del
paese che lo riceve. E in ogni caso l’uomo è molto più di un animale economico, non può svilupparsi solo attraverso modelli commerciali o industriali, questa è un’utopia. L’uomo è il risultato di un insieme di combinazioni:
economiche, non lo nego, ma anche
culturali. E su tutto l’educazione ha
una grande importanza. Il carattere di
ognuno di noi è dovuto a così tante variabili, ed è questo quello che porta un
individuo, una società umana e un popolo, a voler migliorare, a voler andare
avanti, a costruire un mondo nel quale
vivere meglio.
Ancora una volta però dobbiamo frenare gli entusiasmi, che ci portano a
pensare che da un male così grande
possa arrivare un bene magari altrettanto grande. Non credo che l’uomo
possa imparare da quello che è accaduto il giorno di Santo Stefano molto più
di quello che già sapeva prima. La vita è
assolutamente imprevedibile e la cosa
più utile che possiamo fare è riuscire a
convivere con questa idea. Senza sopravvalutarci e pretendere di conoscere l’imponderabile. Accade a chi di noi
è genitore: vuole sempre sapere dove
siano i figli. Ma è certo di non poterli
controllare fino in fondo.
* V.S. Naipaul è stato Nobel
per la letteratura 2001
Testo raccolto da Stefano Citati
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25
‘‘
Dopo che in seguito, però, avvennero
terribili terremoti e diluvi, trascorsi
un solo giorno e una sola notte tremendi,
tutto il vostro esercito sprofondò
insieme nella terra e allo stesso modo
l'isola di Atlantide scomparve
sprofondando nel mare
‘‘
Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni:
le acque crebbero e sollevarono
l’arca che si innalzò sulla terra. [...] Perì
ogni essere vivente che si muove
sulla terra, uccelli bestiame e fiere
e tutti gli esseri che brulicano
sulla terra e tutti gli uomini
PLATONE
Timeo
(segue dalla copertina)
o cominciato da un anno
un nuovo progetto, cui
ho dato il nome “Genesi”, con la consapevolezza che il mondo è in pericolo a causa di un nostro
sbagliato rapporto con l’ambiente.
Oggi quindi, torno a fotografare per
mostrare un altro aspetto della realtà;
fotografo per mostrare le bellezze della terra e proporre una riflessione sulle nostre origini, sulla forza della natura, sulla sua sacralità, sul rispetto che
le dobbiamo.
Se la natura sembra esprimere, come è accaduto in questi giorni, la sua
violenza annientandoci, travolgendo
e rifiutando quasi la nostra presenza, a
maggior ragione dovremmo cercare di
recuperare il più possibile un rapporto intenso e sano, profondo, con questa stessa natura da cui troppo ci siamo allontanati. Il desiderio con cui
ogni giorno torno a fotografare, nei
più lontani e diversi luoghi della terra,
è di poter dare un mio contributo e cercare il più possibile di ricongiungerci
col mondo com’era prima che l’uomo
lo modificasse fino quasi a sfigurarlo.
Abbiamo perso contatto con l’essenza della vita sulla Terra. La nozione moderna che umanità e natura so-
H
LA BIBBIA
Libro della Genesi
Salgado
In quelle foto ci siamo noi
no in qualche modo separate è assurda. La nostra relazione con la natura
— con noi stessi — si è rotta. In quanto specie più sviluppata, l’umanità
può avere una relazione speciale,
spesso dominante, con la natura ma è
solo una parte della natura. In verità,
non possiamo sopravvivere fuori da
essa. E tuttavia l’urbanizzazione accelerata del secolo scorso ha allontanato l’umanità dalle fonti animali e
vegetali della vita stessa.
Stiamo vivendo in disarmonia con
gli elementi di cui è costituito l’universo, come se noi non fossimo fatti allo
stesso modo, come se noi fossimo esseri fatti di pura razionalità. Stiamo disconoscendo le qualità istintive e spirituali che fino a ora hanno assicurato
la nostra sopravvivenza. Ci assumiamo gravi rischi quando prendiamo le
distanze dalle nostre radici naturali,
radici che in passato ci hanno fatto
sentire parte del tutto.
Solo le generazioni recenti si sono
rese conto che il collasso della natura
è un rischio concreto. Oggi viviamo in
un pianeta che può morire. Utilizziamo energia nucleare in diversi campi,
nella vita di tutti i giorni come nei programmi scientifici, senza capire ap-
SEBASTIÃO SALGADO
La fotografia si rivela
il linguaggio comune
per capire la
tragedia: sul volto
di chi soffre
per la casa distrutta,
la famiglia perduta,
riconosciamo un
destino che potrebbe
essere il nostro
pieno i rischi legati agli effetti secondari e alle scorie nucleari. E ancora,
abbiamo accumulato un numero
inimmaginabile di armi nucleari che
possono essere utilizzate in guerra
oppure ad opera dei terroristi. Per non
parlare della minaccia di un ulteriore
e ancor più grave disastro ambientale:
l’agricoltura industrializzata e gli allevamenti su larga scala utilizzano tecniche che decimano gli habitat naturali, mentre l’uso indiscriminato di
prodotti chimici inquina terreni e falde acquifere. Oggi non produciamo
altro che merci di scambio. Stiamo
danneggiando la stratosfera e distruggendo le ultime residue porzioni
di foreste tropicali, riducendo di fatto
la fotosintesi che ci assicura la vita.
La nostra stessa esistenza è a rischio.
Nonostante tutti i danni già causati
all’ambiente, in una piccola parte del
pianeta, si può ancora trovare un
mondo di purezza, perfino d’innocenza. Questo è il mondo che oggi voglio cercare di conoscere e mostrare
a tutti; con lo stesso impegno con cui
in passato ho documentato la realtà
di guerre, di lavori umilianti, di emigrazione, di sovraffollamento, di
morte e di disperazione. Perché sia-
mo tutti parte dello stesso sistema,
della stessa natura e l’unica possibilità che abbiamo è proprio quella di
conoscere questo stesso sistema e
salvaguardarlo, curarlo nel desiderio
(forse sogno) di recuperare un equilibrio possibile.
Scorrono sotto i miei occhi le immagini di questi giorni e veramente noto
come la fotografia, una volta di più, si
riveli il linguaggio comune, il codice a
tutti comprensibile, perché profondo
e vero, con cui conoscere i termini e le
forme della tragedia planetaria. Ed è
una comprensione a fior di pelle, che
passa per i sensi, elimina ogni possibile deviazione ma ci sollecita e ci chiama, ci tocca da vicino. Un uomo soffre,
si vede il suo volto e si riconoscono i segni del suo viso, la sua casa abbattuta,
la sua famiglia distrutta: «Quell’uomo
potrei essere io; il suo destino avrebbe
potuto essere il mio».
La fotografia, immediata e profonda, ci rivela quel che già sappiamo,
quel che abbiamo sempre intuito e
che spesso fatichiamo a riconoscere.
Noi tutti siamo parte di una stessa
tribù, dai grandi ma pur sempre limitati poteri: quella degli esseri umani,
noi stessi parte della natura.
* Sebastião Salgado è uno fra i più
celebri fotografi del mondo
Testo raccolto da Alessandra Mauro
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
l’inchiesta
Islam che cambia
Le tv arabe stanno lanciando nuovi protagonisti
della vita politica dei paesi musulmani: i predicatori
televisivi. Amr Khaled, sunnita, ha un’audience fortissima
nei ceti medi che va dal Cairo a Dubai, da Amman
all’Europa; Yusuf Qaradawi, salafita, è un “teologo
via etere” che indottrina religiosi e militanti
La sfida dei teleprofeti di Allah
GUIDO RAMPOLDI
C
CAIRO
he Amr Khaled si ispiri ai
telepredicatori evangelici
— i brasiliani, gli statunitensi — lo si capisce quando la telecamera va a cercare emozioni
in platea, dove di qua donne velate e di
là giovani distinti pregano con trasporto, chi commosso fino alle lacrime chi
rapito da un’estasi forse un po’ ostentata. L’ex contabile trentasettenne non
è ancora sciolto come i colleghi delle
Americhe, ma come quelli sa calare la
fede, l’islam nel suo caso, nell’esperienza quotidiana di ciascuno. E malgrado la voce in falsetto, i baffi come
inamidati, la rigidità del mezzobusto,
ormai può contare un seguito vasto
quanto nessun telepredicatore ha mai
raggiunto: l’audience del suo programma Tesori (dell’islam), in onda
sulla tv satellitare Iqra’a, spazia dal
Cairo a Dubai, da Amman all’emigrazione araba in Europa. Piace al ceto
medio, soprattutto alle signore giovani, così perbene, così distinto nella sua
giacca blu, così diverso da quei mullah
rochi che minacciano le fiamme dell’inferno a chi non condivida il loro
rancore verso la vita. E così popolare
che malgrado si tenga lontano dalla
politica il regime gli impedisce di lavorare in Egitto: teme che una volta al
Cairo fondi un partito o si schieri con i
Fratelli musulmani. Più degli adesivi
incollati negli autobus dagli integralisti, sarebbero stati i suoi sermoni a
convincere le cairote a mettere il foulard. Tra le folgorate, si dice, perfino
una nuora di Mubarak, perciò sparita
dalle cerimonie ufficiali.
Fedeli
ai modelli
americani
o brasiliani,
mandano in estasi
e commuovono
fino alle lacrime
platee di donne
velate e di giovani
della media
borghesia
A destra, giornalisti tv
al lavoro in uno studio
dell’emittente araba
Al Jazeera
in uso presso la guerriglia irachena, e
in apparenza tutti d’accordo sull’idea
che gli americani vadano cacciati dalla penisola arabica.
Riformatore o eretico
Non è chiaro se quest’islam satellitare
insegua l’audience oppure un progetto politico, ma i due obiettivi si conciliano: nell’uno e nell’altro caso si tratta
di accontentare i più trovando un compromesso tra tendenze radicali e meno
radicali. A questa operazione si dedica
soprattutto l’ospite fisso di Sharia e vita, Yusuf Qaradawi. Rettore dell’università islamica del Qatar, Qaradawi è il
più prestigioso tra i non pochi teologi
satellitari che oggi saturano l’etere con
i loro pareri legali, le fatwa, e certamente il più seguito anche in Europa. Di
corporatura massiccia e sciolto nel
parlare, tenta di aggiornare l’islam arabo più duro, quello salafita, presso il
quale alcuni lo considerano un riformatore, altri un eretico. Il risultato del
suo sforzo non è lineare. Da una parte
Qaradawi condanna con veemenza
l’assassinio di ostaggi in Iraq e addita
alla guerriglia l’esempio dei musulmani del secolo undicesimo che rifiutarono di ripagare i crociati della loro stessa ferocia; dall’altra ribadisce che pestare con ragione la moglie non è poi
gran peccato, e dichiara legittime le
«operazioni di martirio», cioè le stragi
condotte dal terrorismo palestinese.
Il tentativo di costruire un corpus
univoco di norme valide per l’intero
islam sunnita, e di arabizzare l’islam
europeo prima che quello europeizzi
l’islam arabo, è esplicito nel Consiglio
europeo per le fatwa, con sede a Dublino. I suoi teologi, unicamente arabi,
tra i quali Qaradawi rispondono in un
FOTO CHRISTOPHE CALAIS/IN VISU/CORBIS
Un dio borghese
Nello scontro in corso dentro l’islam
sunnita Amr Khaled sembra aver successo perché offre al ceto medio un Allah borghese senza barba né scimitarra, colloquiale, aperto all’umorismo,
tuttora risentito con l’emancipazione
femminile e i non musulmani però nei
limiti della buona creanza. Quel dio
non atterrisce i peccatori né arruola
nella guerra santa come spesso l’Allah
delle moschee. Semmai è Provvidenza: dunque i musulmani non disperino. Certo, «hanno toccato il fondo e le
cose non possono andare peggio: ma il
punto più nero della notte è proprio
quello che precede l’alba». Ecco già i
primi chiarori: nel rally del Bahrain le
auto vanno a maggior velocità che nei
rally americani, in vent’anni la capitale della Malesia «è diventata più bella
delle capitali europee», la tv Al Jazeera
rivaleggia con la Cnn… Se il successo è
la misura della grazia, i benestanti risultano i più meritevoli.
La stampa laica ironizza su quest’islam nuovo nello stile più che nella sostanza. Ma il liberale Nabil Abdel-Fattah, vicedirettore del Al-Arham Center
for political and strategic studies, invita a non sottovalutare: come nel caso
dei telepredicatori americani Amr
Khaled avrebbe un’influenza politica
indiretta, però favorevole agli integralisti e sfavorevole ai loro competitori,
l’islam sufi forte nelle campagne e i
(pochi) liberali nelle città.
Se i telepredicatori come Khaled ed
un paio di suoi colleghi arabi rispondono all’ansia di certezze che sale dai
ceti medi arabi, soprattutto quelli nuovi e stressati dal rischio di ripiombare
nella povertà, altri programmi satellitari, per una divisione del mercato che
sembra quasi una divisione del lavoro
politico, puntano invece ad orientare i
religiosi e i militanti. Il principale è
Sharia e vita, in onda su Al Jazeera, tv
del Qatar. Intenzionalmente o no, questa teologia satellitare tende a unificare dentro uno standard arabo-sunnita
le infinite conventicole e i ventidue
islam di altrettanti paesi arabi, in ciascuno dei quali domina una delle quattro scuole di giurisprudenza islamica.
Condotto da una ragazza bella e algida,
ovviamente velata, alla fine di novembre Sharia e vita metteva insieme il rettore della principale università islamica yemenita, il portavoce del Consiglio
degli ulema iracheni, il capo spirituale
dei Fratelli musulmani in Egitto, uno
studioso marocchino e il portavoce dei
26 teologi sauditi che chiedono ai regimi dell’area di unirsi contro gli americani «se non vogliono fare la fine di
Saddam». Non un bisbiglio sui metodi
sito-web ai quesiti che arrivano da Europa, Africa e Medio Oriente. Strapazzano gli ulema nigeriani che hanno
vietato le vaccinazioni anti-polio ritenendole pericolose per la fertilità femminile; suggeriscono di non aprire
conti correnti in banche non musulmane; sospendono il giudizio per
mancanza di prove su un sorprendente miracolo avvenuto in Palestina, dove un albero avrebbe detto «C’è un
ebreo che si nasconde dietro di me»…
Cosa invece si nasconda dietro l’ossessione anti-giudaica è intuibile: un
islam arabo che vorrebbe riformarsi e
cerca la modernità nella tecnologia,
ma fallisce perché non riesce a liberarsi dei suoi vizi capitali. Ha scritto in una
fatwa il vicepresidente del Consiglio
europeo, Faysal Mawlawi: il Muro co-
struito da Israele prova «la codardia innata dei giudei». Ma di queste tesi dovrebbe rispondere anche il governo irlandese, che generosamente ospita gli
uffici del Consiglio.
Università desolata
Se la teo-sat di Qaradawi e i telepredicatori alla Amr Khaled sono la continuità più che la rottura col passato, dove cercare oggi i potenziali riformatori
dell’islam sunnita? Un tempo erano
nell’università di Al-Azhar. Fondata nel
970, per secoli Al-Azhar ha formato le
classe dirigenti arabe. Ma poiché i corsi
e l’immensa biblioteca sono stati trasferiti nelle nove succursali, chi oggi entri nell’antica scuola coranica, al Cairo,
trova pareti spoglie dove c’erano migliaia di libri, e silenzio tra i marmi ocra
e gli ebani dove un secolo fa fervevano
le discussioni tra i grandi riformatori
egiziani, politici e teologi protagonisti
d’un’epoca, detta da alcuni l’Età Liberale, spenta da Nasser nel 1952.
La desolazione di quelle sale oggi rispecchia il declino di Al-Azhar. Da un
ventennio almeno l’università islamica ha perso la sua antica caratteristica “liberale” e civetta con l’estremismo islamico nel mondo. Nel frattempo ha stretto un patto col regime per il
quale il Gran muftì ha tutti i vantaggi
relativi ad un rango che il cerimoniale di Stato equipara a quello di primo
ministro, ma in cambio non contesta
Mubarak. Alleandosi con un sistema
autoritario, l’università che aprì la
strada verso la Riforma islamica tuttora attesa s’è condannata a guidare
la Controriforma. Così nessuno s’è
sorpreso quando in ottobre il Gran
muftì ha abbattuto la sua scomunica
sui teologi riuniti dal centro Ibn Kal-
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
AL JAZEERA E LE ALTRE
In Medio Oriente ogni Paese ha
almeno una televisione e ne nascono
di continuo di nuove. La prima tv
satellitare per ascolto è Al Jazeera,
all-news nata nel 1996 di proprietà
del governo del Qatar, che raggiunge
35 milioni di contatti al giorno.
A farle concorrenza dal 20 febbraio
2003 c’è Al Arabiya, su posizioni più
moderate. Molto seguite sono
anche Abu Dhabi tv, la libanese Lbc,
Dubai tv, la saudita Mbc
e l’egiziana Esc
TALK SHOW ISLAMICI
Sono la novità degli ultimi anni: i
beniamini degli strati medio-alti della
società islamica, perché soddisfano
la domanda di religiosità prêt-àporter della nuova borghesia. Il
capostipite è Amr Khaled, ex
contabile privo di istruzione religiosa
superiore che è diventato uno dei
predicatori più famosi e ricchi di
tutto il Medio Oriente. È lui che ha
inventato il talk show islamico. Gli
altri sono Khalid Al-Guindy, AlHabib Aly e Safwat Hegazy
Gli imam satellitari
contro il potere
dei “nuovi califfi”
KHALED FOUAD ALLAM
imam (colui che dirige la preghiera), che a volte è anche
alim (dotto, sapiente) sono figure ricorrenti nell’islam:
attraverso le loro vicende si può leggere gran parte della
storia del mondo musulmano, la sua evoluzione come la sua regressione: perché l’imam è la memoria di un’intera società, e
perché la sua figura è inscindibile dalla storia dei rapporti spesso ambigui fra religione e politica; egli rappresenta il punto di
intersezione fra religione e mondo.
La storia degli imam è la storia di un paradosso, perché ciò che
connota l’islam è l’assenza di vere e proprie istituzioni. La storia
degli imam è dunque una storia contraddittoria, sempre all’intersezione fra la legittimità del potere e la sua contestazione. In
tutta la letteratura araba, classica e moderna, ricorre con frequenza l’immagine dell’imam: ad esempio nel famoso romanzo
dei Baibar, il più lungo romanzo del mondo (60 volumi, oltre
36mila pagine), nato come racconto orale nell’Egitto dei sultani
mammalucchi. In esso si narra la storia del sultano Baibar che un
giorno perse conoscenza in pieno deserto, e nel risvegliarsi vide
dinanzi a sé un’enorme moschea con un minareto altissimo: udì
una voce chiamarlo, quella dell’imam. Questi lo sottopose a una
serie di iniziazioni: dalla fontana della moschea dovette riempire
sette secchi d’acqua, da un albero cogliere quaranta frutti: tre dei
secchi contenevano acqua leggera e limpida, gli altri quattro acqua pesante e torbida; alcuni frutti erano dolci, altri amari. Infine
l’imam lo chiamò alla preghiera, e rivolse a Baibar parole che «lo
attraversarono fino alla spina dorsale».
Oggi tutta quella cultura di racconti fantastici sugli imam,
mediatori fra la società e il potere, quella sapienza antica tende
a scomparire, mentre la figura dell’imam si istituzionalizza per erigersi a censore della società.
Un tale atteggiamento si presta spesso a considerazioni satiriche nell’odierna narrazione popolare; ad esempio al Cairo, nei quartieri intorno ad Al Azhar, si può ascoltare una canzone d’ispirazione satirica sugli imam, che suona: «Raddrizza, raddrizza il tuo turbante, un mago si nasconde sotto il tuo turbante. Togli, togli il tuo
turbante, un elefante si nasconde sotto il tuo turbante. Raddrizza il tuo turbante, maestro: sotto
il tuo turbante brucia un fornello a gas». Questo
testo mostra come oggi il fuoco della censura si
sia sostituito all’aura magica, fantastica che avvolgeva l’imam nella cultura popolare musulmana del passato: oggi le sue parole bruciano
come un incendio.
La corporazione degli imam si sviluppò nell’islam parallelamente alla teologia e al diritto musulmano: in assenza di vere e proprie istituzioni
religiose, il potere politico dei califfi aveva bisogno degli imam per scremare la religione ufficiale dalle tendenze eretiche e per prevenire la
concorrenza delle altre religioni. Così gli imam
hanno assunto un ruolo preminente nella società
musulmana, giungendo anche ad attribuirsi la
funzione di legittimare il potere del califfo attraverso il giuramento (baya) di quest’ultimo dinanzi all’assemblea degli imam e degli ulema.
Nel caso dell’islam sunnita, si sono avuti tre grandi centri per la formazione degli imam: la Zaituna a
Tunisi, fondata nel 734; la Qarawiyyn a Fez, in Marocco, fondata nell’859; e infine la celebre moschea
e università di Al Azhar, costruita dalla dinastia sciita dei Fatimidi e che con la fine del periodo fatimide (dunque la fine dello sciismo in Egitto) è passata
ai sunniti. La continua oscillazione tra tentativi di
riforma, modernizzazione e conservatorismo ha
caratterizzato le posizioni di ulema di Al Azhar nel
XX secolo: man mano che lo stato si modernizzava
e nuove leggi, come quella sul velo, ed eventi, come
l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, incidevano sulla società, Al Azhar ha accompagnato
oppure ha contestato le trasformazioni in atto. Negli ultimi anni, la crescente reislamizzazione della
società si è tradotta in una tendenza alla radicalizzazione tra gli imam di Al Azhar, che spesso oggi si
pongono come censori dello stato quando ritengono che esso si
allontani dalla shari’a (legge islamica).
Ma a ciò si è sovrapposto un altro fenomeno: quegli stessi
imam sono stati contestati da una gioventù e da una middle
class che si richiamava a un islam non più legato unicamente alla sfera dello statuto personale e del diritto di famiglia, ma a un
islam che abbraccia la politica nel suo insieme. Il radicalismo
islamico e le nuove tecnologie di informazione hanno dunque
dato vita a nuovi imam: essi trasmettono le loro prediche attraverso audio e videocassette, televisione, internet, ciò che Marc
Augé chiama «non-luoghi». Sono predicatori che si sono formati da autodidatti, cortocircuitando il sapere tradizionale, appropriandosi di un sapere che sino allora apparteneva esclusivamente alle élite religiose ma senza possedere alcuna competenza scientifica e culturale, facendo leva però su una forte base sociale. Questi predicatori riescono a costruire un mondo
parallelo in quanto il non-luogo — la televisione o internet —
sfugge totalmente al controllo dello stato, e riescono a minacciare gli equilibri lentamente costruiti in secoli di storia del
mondo musulmano.
L’
dun in un seminario dal tema “Islam e
riforme”. Tra quegli eretici accusati di
«disprezzare» l’islam il più eminente
era l’ottantatreenne Gamal al-Banna.
Le sue tesi sono dinamite piazzata alle fondamenta degli ultimi dieci secoli di teologia sunnita.
Per gli al-Banna la rivoluzione sembra un destino. Il fratello maggiore di
Gamal, Hasan, ucciso da un poliziotto
egiziano nel 1949, fondò gli Ikwan alMuslimin, i Fratelli musulmani, ceppo
da cui discendono tutti i movimenti,
dai riformisti fino ai terroristi, che hanno terremotato la storia araba recente.
Dopo l’assassinio di Hasan, Gamal si
allontanò dagli Ikwan e tentò altre vie.
Diede vita al sindacato mondiale islamico, scrisse una storia della Repubblica di Weimar per tentare di convincere i Fratelli a tenersi lontano dal massimalismo, s’appassionò alle rivoluzionarie tedesche e russe. Oggi il suo
appello a «rivoluzionare il Corano»
provoca nell’establishment sunnita
reazioni non meno scandalizzate di
quelle che provocherebbe un teologo
cristiano se manifestasse l’intenzione
di «rivoluzionare i Vangeli».
Democrazia in Medio Oriente
Minuto e vivace, il grande eretico vive
tra pareti di libri in una casa dagli alti
soffitti, lì dove ci ha spiegato che per
tornare al senso autentico del Corano
occorre innanzitutto gettare via («neutralizzare», nelle parole di al-Banna)
alcune migliaia di Hadith, i detti attribuiti a Maometto, perché ambigui o in
contraddizione con il Corano; e altri
passi delle Scritture, da cui la teologia
sunnita trae regole morali che invece
andrebbero storicizzate. Al finale di
questa gigantesca scrematura l’islam,
FOTO AP
FOTO LYNSEY ADDARIO/CORBIS/CONTRASTO
In basso:
Amr Khaled,
il tele
predicatore
di maggior
successo
nel mondo
arabo,
e il “teologo
satellitare”
Yusuf
Qaradawi
dice al-Banna, tornerebbe ad essere la
religione della libertà che fu in origine.
Verrebbero azzerati i capisaldi della
teologia sunnita prevalente, e cioè le
norme che contraddicono la libertà di
fede, prevedono la pena capitale per il
musulmano che si converta, impongono l’identità coatta tra religione e
Stato, sviliscono la donna e i suoi diritti. Anche il velo finirebbe nella polvere.
Al-Banna dice che all’islam occorre
«un nuovo Marx», ma non lo prevede
nel futuro prossimo. Però il suo islam
rivoluzionato non è affatto un’invenzione estemporanea, piuttosto una
tendenza teologica che nasce in Egitto alla fine dell’Ottocento con el-Afgani ed Abdu, e da anni oggi collega
grandi razionalisti sunniti e pensatori sufi, da Damasco fino a Tunisi. Per-
seguitato nella totale indifferenza
dell’Occidente, represso anche da regimi filo-occidentali, e misconosciuto in Europa, oggi questo pensiero
eretico appare isolato. Eppure non s’è
lasciato spegnere, ed origina i due volumi del Liberal islam edito dall’università del North Carolina. Forse “liberal” è parola fuorviante, ma certo è
un islam che predica e pratica la libertà a partire dal metodo, perché come i riformatori protestanti (ma senza la loro cupezza teutonica) sottrae
l’interpretazione delle Scritture, l’Ijtihad, alla casta religiosa. E questa libertà d’opinione non può che essere il
vero inizio della democrazia in un
Medioriente che come ci ricorda alBanna «non ha conosciuto altra dottrina, altra teoria che l’islam».
Una parete
di schermi
televisivi
trasmette
l’immagine
di Osama
Bin Laden
mentre
rivendica
l’attentato
alle
Twin towers
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
le storie/1
Napoli e la speranza
Sembra la storia raccontata da un film di successo,
Les choristes: nel quartiere della guerra di camorra
un insegnante mette in piedi un gruppo musicale.
Gli studenti si appassionano, studiano e così stanno
lontani dalla strada. Adesso incidono cd e la loro
avventura è diventata anche un musical
JENNER MELETTI
el cortile di palazzo Maglione c’è ancora la statua
della Madonna di Lourdes, «Bianca Regina dei Pirenei / di questa Pia opera / Madre amorosa e provvida». La “Pia opera” era un
orfanotrofio aperto nel 1904 per le «bambine povere» e che da sette anni accoglie
i 560 ragazzi della scuola media San Domenico Savio. La «Madre amorosa e
provvida» per fortuna non ha smesso di
fare miracoli: in questa periferia a nord di
Napoli, dove i posti di blocco di carabinieri e polizia si alternano a quelli della
camorra, la scuola riesce — con una fatica che è pari solo all’impegno — ad essere scuola. «Il professore di educazione
musicale — dice Antonio, maglietta nera con la scritta Eminem e la faccia seria
di chi a 16 anni si sente grande — quest’anno è riuscito a fare promuovere anche me, all’esame di terza media. Io ormai non ci pensavo più. In seconda ero
stato bocciato due volte. Aspettavo solo
di non avere più l’obbligo di venire ogni
mattina in mezzo a questi ragazzini e di
andare a fare il fornaio. L’esame me lo ricordo bene: storia, geografia, matematica poi il professore di musica mi ha detto: «Adesso canta, fai vedere come sei diventato bravo». E io ho cantato. Vuole
sentire? «Me dispiace sulamente / ca l’orgoglio ‘e sta gente / se murtifica ogni juorno / pe na’ manica ‘e fetiente». Io e altri
quindici ragazze e ragazzi abbiamo fatto
un coro. Abbiamo inciso un cd e poi sono arrivati anche i ballerini e gli attori e
siamo riusciti a fare un musical. Quando
abbiamo sentito gli applausi, non volevamo crederci».
La storia del coro della scuola Savio di
Secondigliano sembra la trama di un
film, “Les choristes” (in Italia: “I ragazzi
del coro”) che la Francia candiderà all’Oscar. Il cinquantenne Clement
Mathieu, insegnante di musica disoccupato, accetta il posto da sorvegliante
in un collegio per ragazzi difficili. Il direttore Rachin pensa che solo la disciplina dura e la repressione permettano
di governare un istituto non a caso chiamato “Le Fond de l’Etang”, il fondo dello
stagno. Il maestro Mathieu vuole però
dare un’occasione ai ragazzi, e pensa
che la musica possa essere lo strumento
giusto. Si crea così il coro, che riesce a dare la speranza di una vita diversa ai ragazzi e al loro maestro.
Il Clement Mathieu di Secondigliano
si chiama Massimo Valenti, 43 anni, napoletano del Vomero. «Ho visto il film —
dice — e mi sono commosso. Quando il
maestro Clement viene mandato via dall’istituto, con un pretesto assurdo, si
piange anche. I suoi ragazzi lo salutano
dalle finestre, lanciandogli piccoli aeroplani fatti con la carta da musica. Clement è sconfitto, ma niente nel “Fondo
dello stagno” sarà come prima. E niente
sarà come prima qui a Secondigliano.
Vede, la scuola è una cosa seria. Gli insegnanti hanno responsabilità enormi, soprattutto qui. Se non dai un’educazione
e anche la possibilità di imparare un lavoro, altri “mestieri” vengono subito offerti ai ragazzi. Basta guardare fuori dalla
scuola per capire quali possano essere».
La San Domenico Savio, l’ultima volta, è stata “distrutta” quattro anni fa.
«Un gruppo è entrato di notte e ha spaccato tutto ciò che si poteva spaccare.
Perché questo? Una spiegazione c’è.
Non tutti sono contenti se c’è una scuola che funziona e che viene vissuta come un piacere dai ragazzi. Al tempo
stesso è però una scuola che insegna le
regole e il rispetto, e pretende che i ragazzi frequentino, studino e facciano i
compiti. I ragazzi che non vogliono o
non riescono a partecipare a questa
proposta educativa si sentono allora
ancora più isolati e spaccano tutto per
rabbia e per impedire che gli altri facciano la loro strada. Ricordiamo tutti
con angoscia quella mattina, con il laboratorio di ceramica distrutto, lo
sporco ovunque… Ma da quattro anni
non ci sono più danni. Questo significa
che abbiamo recuperato anche molti
ragazzi borderline e che gran parte di
Secondigliano sente la scuola come
una cosa propria».
Eccoli qua, alcuni ragazzi del coro.
Accanto ad Antonio, Lina che ha 13 an-
FOTO RICCARDO SIANO
N
SECONDIGLIANO
Secondigliano, la favola
dei Ragazzi del Coro
ni («a scuola sono avanti di un anno»),
cantante e attrice e Fabiola, 14, anni,
cantante e studente di pianoforte. Loro
sono già usciti dalla Savio, ma la sentono un po’ come la loro casa. Nell’aula a
fianco si stanno svolgendo i provini per
trovare cantanti, attori e ballerini per il
prossimo musical. L’anno scorso si
erano presentati in 150, ora sono 180.
«Siamo stati assieme per mesi e mesi —
raccontano — e abbiamo scoperto
un’amicizia vera. Finivamo la scuola
alle 13 e restavamo qui, da gennaio fino
a giugno. Un panino portato da casa,
con prosciutto o mozzarella, e via con
le prove. Noi vorremmo che il canto e il
ballo diventassero il nostro mestiere.
Le scuole per artisti sono in centro a Napoli. Abbiamo fatto dei provini, speriamo bene».
«Tutto è cominciato — racconta il
professore — nel dicembre 2003, quando la mia collega Daniela Vellani mi ha
chiesto di darle una mano per preparare i canti di Natale. Sapeva che sono laureato in musicologia, al Dams di Bologna, anche se qui sono entrato come insegnante di sostegno e adesso faccio
informatica. Ho provato a fare cantare
alcuni ragazzi, ed ho capito che c’erano
delle belle voci. Mi sono detto: perché
non tentare una follia?
Preparo i ragazzi, incidiamo un cd, e facciamo sapere a tutti che
Secondigliano non è
solo il paese delle
scuole devastate. Vado
dal preside, gli chiedo
un progetto di 60 ore
(sono oltre l’orario
scolastico e sono pagate) e lui accetta. Ma è
chiara una cosa: 60
ore, con un progetto
come questo, se ne
vanno in due settimane, e se a scuola vuoi
costruire qualcosa di
diverso, devi fare soprattutto il volontario.
Otto, dieci ore al giorno per sei mesi, invece
delle 18 settimanali delle lezioni di
informatica (che comunque continuo a
tenere). Ma qui entra in campo anche
una questione personale. Io, dopo la
laurea, mi ero messo a preparare basi
musicali jazz e a scrivere per una rivista.
Facevo tutto a casa, al computer. I soldi
‘‘
Promosso
Bocciato due volte
e con un lavoro
da fornaio pronto,
al diploma di terza
media non ci pensavo
più. Invece perfino io
sono riuscito ad avere
la promozione
FOTO DI GRUPPO
In alto, due “ragazzi
del coro” della Savio
Qui sopra, foto di gruppo
col preside Paolo
Vascello (a sinistra)
e Massimo Valenti
non mancavano ma stare tutto il giorno
al computer non mi dava soddisfazione.
Se sei un musicista hai dentro un’inquietudine che deve saltare fuori. E allora sono andato a insegnare, prima al
Nord poi a Secondigliano. Qui non c’era, e non c’è, una cattedra di educazione
musicale e allora l’ho inventata, sia chiaro anche per mia soddisfazione. Il mio
mestiere è fare cantare i ragazzi, farli
suonare, non solo raccontare la storia
della musica, che li farebbe sbadigliare».
I ragazzi ricordano bene i primi giorni. «Già sarebbe stato un miracolo mettere assieme un coro. Pensavamo di incidere due o tre canzoni, poi abbiamo
visto il musical di Claudio Mattone, C’era una volta… Scugnizzi. Ci siamo riconosciuti in quelle canzoni, dentro c’eravamo noi e anche il nostro quartiere.
Allora abbiamo deciso, con il professore, di imparare e incidere le 13 canzoni
di quello spettacolo. È la storia di un
prete che da ragazzo è stato in riformatorio e adesso aiuta ragazzi allo sbando.
Anche il presidente della Repubblica
Carlo Azeglio Ciampi, quando è venuto
a Napoli, è andato a vedere Scugnizzi».
Mettere insieme un coro è impegnativo. «È un insieme di individui — dice
il professore — che vorrebbero restare
tali. Ci sono però i più
bravi e gli altri debbono riconoscere le loro
qualità. Allo stesso
tempo i più bravi non
debbono montarsi la
testa. Anche questa,
credo, è educazione.
Con i mezzi a disposizione abbiamo fatto
miracoli: un mixer
vecchio, il mio computer portatile e un
solo microfono. Tutte
le voci registrate singolarmente giù nell’ex
laboratorio di cucito,
e interruzioni continue: sulle nostre teste
passano gli aerei di
Capodichino, a fianco
c’è la palestra, sopra
c’è la mensa dove spostano tavoli e sedie. Ma alla fine ci siamo riusciti, anzi,
ci sono riusciti loro. La scuola non ha
regalato niente a questi ragazzi. Si sono
impegnati, hanno sudato, hanno passato tutti i loro pomeriggi a scuola fino
alle 17 e poi hanno preparato anche l’e-
same di terza media».
Per fortuna, il preside della San Domenico Savio, Paolo Vascello, non è il
cattivo Rachin di “Le Fond de l’Etang”.
«So’ semp’ o Masto», sono sempre il
maestro, recita un cartello in presidenza. «A Secondigliano — dice — hanno
chiuso anche l’ultimo cinema, il Maestoso. Per questo uno spettacolo a
scuola è ancora più importante. Noi
puntiamo molto sui laboratori: ne abbiamo tanti, dalla ceramica all’informatica, dai costumi al giardinaggio. Le
conoscenze non bastano, sono necessarie anche le abilità che possono trasformarsi in mestieri. Senza queste
proposte, la scuola fallisce».
Dall’inizio dell’anno scolastico, da
quando Secondigliano e Scampia sono
quasi ogni giorno nei tg e sui giornali,
anche davanti alla scuola è tornata la
paura. I genitori vengono a prendere i
figli prima che scenda il buio, poi tutti a
casa a guardare in televisione cosa è
successo nella strada di fianco. «Padri e
madri hanno già paura — dice il professor Villani — e guardano il telegiornale che riversa loro addosso una paura amplificata che viene a sua volta riversata sui figli. È come quando un microfono fischia per un suono di ritorno:
si chiama effetto Larsen».
Nel film “Les choristes”, fra i ragazzi
c’è Pierre Morhange che un giorno diventerà direttore d’orchestra. Antonio
il sedicenne, ha sogni più piccoli ma
qualcosa per lui è già cambiata. «Ho il
diploma di terza media e non sono andato a fare il fornaio a venticinque euro
la settimana. Tutta l’estate ho fatto una
tournèe nelle piazze con Claudio Carluccio, cantante e chitarrista. Tanti
paesi e città, qui in Campania, in Puglia,
in Calabria e anche a Roma. Ho fatto il
tecnico del suono e sono anche salito
sul palco, per cantare. Fra pochi mesi
ricomincio, e intanto faccio un corso di
informatica». Si ferma a parlare a lungo
con il professore, quando già scende il
buio, sotto la statua della «Bianca Regina dei Pirenei». Ha bisogno di consigli
per il futuro. Da queste parti «‘E piccirilli» — così Antonio canta in «Ajere»
(ieri), la sua canzone preferita — sono
«gente c’afferra / a vita p’e capille».
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
le storie/2
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
Nel tempio Neocon
A dieci chilometri dal cuore duro della capitale americana,
sopravvissuta in mezzo a un groviglio di svincoli autostradali,
shopping centers, schiere di villette clonate, sorge la chiesetta
dove nel 1760 pregava George Washington. Qui alle dieci di ogni
domenica mattina si inginocchiano per la messa gli “uomini
del presidente”, gli ideologi del nuovo millenarismo made in Usa
La chiesa degli apostoli di Bush
VITTORIO ZUCCONI
a terra del cimiterino è soffice sotto i piedi, infracidita
dalle piogge invernali e dai
resti di tre secoli di storia
americana. Nel giardino di marmo attorno alla chiesa, le tombe di militi ignoti sfarinati da tempo dentro le loro giubbe blu o grigie, di madri naturalmente
sempre esemplari, di diaconi e vicari dignitosamente scomparsi, accompagnano come pietre miliari i passi dei
nuovi signori della destra di Dio che
ogni domenica mattina vengono qui ad
adorare loro stessi, nella Falls Church,
nella chiesa delle Cascate alle porte di
Washington. Quella dove quasi trecento anni or sono, nel 1760, pregava un uomo con la dentiera di legno e la volontà di ferro
chiamato George Washington, per una nazione non nata e che lui
avrebbe partorito.
Il navigatore satellitare
della mia auto dice che
siamo ad appena sei miglia, meno di dieci chilometri, dal cuore duro di
Washington, dalla Casa
Bianca, dal Congresso,
dal Pentagono, spersi in
uno di quei sobborghi
clonati che un urbanista
chiamò «il grande dappertutto americano». Ma
a volte anche gli urbanisti
sbagliano. La Falls Church, la chiesa Episcopale,
cioè Anglicana, che i coloni settecenteschi con i
loro nomi ora scolpiti sui
marmi tombali, Sommers, Dulaney, McCarron fondarono accanto
alle rapide del Potomac
in Virginia è un luogo unico, sopravvissuto al tempo e allo spazio. É uno
spicchio triangolare di
terra e di materiale genetico che persino le ruspe
non hanno mai osato
stravolgere. Sta sospeso
in una dimensione di silenzio e di rispetto miracoloso tra svincoli autostradali ciclopici, shopping centers schiamazzanti, piccole Saigon fetenti di aglio fritto, ipermercati,
ingorghi
perenni, villette fotocopiate, una catacomba a
cielo aperto invisibile per
tutti, meno che per i praticanti del nuovo millenarismo americano incarnato da Bush.
Gli uomini del Presidente, almeno
quelli di persuasione cristiana protestante, si inginocchiano qui. Ogni domenica alle dieci, la catacomba degli
apostoli del Bushismo, si popola dei nomi che negli altri sei giorni della settimana vivono tra i palazzi del potere in
centro o si autocelebrano sugli altarini
televisivi. Dalla rampa dell’autostrada
intitolata a un altro grande concimatore di terre virginiane, al generale Robert
E Lee, lo stratega del Sud ribelle, la processione delle automobili svolta a destra sulla strada della chiesa, chiamata
— che altro? — Washington Street e scarica il meglio della intelligentsja bushista, i volti, i cervelli, gli apostoli e i diffusori del suo verbo. Sulla soglia a vetrate
dell’ala nuova della chiesa, costruita a
emiciclo agganciato alla chiesetta dove
George Washington era sagrestano, come la lama di una falce nuova al manico
antico, il rettore, il reverendo dottor
John Yates accoglie di persona il suo
sceltissimo gregge. Stringe la mano all’immancabile direttore della Cia, Peter
Gross, e alla moglie Mary, che già la frequentavano quando Gross era soltanto
uno dei tanti deputati repubblicani di
destra. Saluta Fred Barnes, star dei talk
shows, penna e volto d’assalto del
Weekly Standard, la Pravda dei neo conservatori, ossequia il giudice Robert
Bork, quello che Bush il Vecchio nominò alla Corte Suprema soltanto per
Porta aperta
La nostra porta è
aperta a tutti, non
chiediamo tessere
di partito o
professioni di fede
‘‘
Cristiani
Noi crediamo
all’essere prima
cristiani e poi
episcopali, cattolici
romani, ortodossi...
Benedizione
Qui dentro il nome
di George W
è stato fatto
una sola volta, dopo
l’11 settembre
John Yates
rettore della Falls Church
É vero. Nel sermone natalizio che
ascolto pronunciare davanti alla congregazione riunita, come nella raccolta
pubblica e consultabile di tutte le omelie del rettore Yates e del suo vicario, reverendo Switthinbank, non troverete
esortazioni a votare per Bush e neppure
a votare “contro”, come nelle parrocchie
italiane degli anni ‘40. Ed è insieme falso, perchè il messaggio che scende, insieme con le note dei gruppo folk di chitarre e batteria che hanno rimpiazziato
organi e harmonium nell’ala nuova del
tempio, è inconfondibile, è l’essenza del
neo integralismo cristiano che ha portato Bush alla vittoria e i suoi uomini a raccogliersi qui. É il messaggio, come il rettore sintetizzò nella sua prima predica
dopo le elezioni, del ritorno alle tradizioni e ai “valori” giudaicocristiani nella vita pubblica e politica, portato come massima responsabilità da chi ha il potere. Parole in codice, ma leggibilissime, nella vulgata che
tutti gli uomini del Presidente porteranno fuori,
nel mondo, dopo le funzioni. Richiami fermissimi alla sacralità del matrimonio come fusione
esclusiva di uomo e di
donna, al rifiuto dell’omosessualità, dell’aborto
volontario, dell’ordinazione di vescovi gay, come proprio la chiesa episcopale americana ha accettato con voto di maggioranza, indignando la
minoranza. Frasi ed esortazioni che ogni fedele, in
ogni tempio, sente ripetere ogni settimana e che
spesso scivolano come
acqua sul dorso di un’anatra all’uscita dalla chiesa. Ma che qui risuonano
nelle orecchie di uomini
che hanno il potere per
tradurle in politica. Di
gente che tiene le chiavi
del cuore di Bush.
É lo stesso messaggio
che ho sentito ripetere e
amplificare nelle megachiese da cinquemila e più
fedeli sparse nel grande
ventre dell’America repubblicana e revivalista, e
non solo repubblicana,
diffuso da network radiofoniche e televisive,
condito di offensive sceneggiate di guaritori, piazzisti di miracoli e imbonitori con annesso Numero
Verde per l’acquisto di eleganti cofanetti
con libri scritti da loro, video cassette e
Dvd a soli dollari 29,99, pagabili anche a
rate. Ma nella chiesa che fu di George Washington e ora è di Bush, non c’è nulla della pacchianeria e degli orgasmi da televangelisti, con cori strepitanti e pettorute coriste squassate dall’estasi.
I fedeli che ascoltano intenti i lunghi
sermoni del rettore prima di avvicinarsi
alla comunione, sono i volti e le famiglie
composte di un’America come sembrerebbe non esistere più, se Hollywood e la
televisione fossero lo specchio dell’America. Bambini biondi in calzettoni bianchi e blazer blu con i bottoni d’ottone come i loro padri, mamme in teneri colori
pastello, gonne e completino d’angora
con filo di perle, padri in mocassini
oxford o “patent leather”, cuoio nero a
specchio, come gli ufficiali, qualche
uniforme e fuori automobili sobriamente lussuose, mai pacchiane, parcheggiate tra le pietre tombali. Gente per benissimo, serena nel proprio successo professionale e politico, potere reale senza
ostentazione e cafoneria da nuovi ricchi.
Gente onestamente persuasa, mentre
recita a memoria lo stesso credo di Nicene che i Cattolici recitano a Messa, ….
credo in Dio onnipotente, signore del
cielo e della terra…. di adorare un Dio
che è emigrato in America e che camminerà al loro fianco, tra le pietre tombali
vecchie e nuove di una vocazione, nei secoli dei secoli, imperiale.
FOTO EGUEORGUI PINKHASSOV / MAGNUM PHOTOS
L
WASHINGTON
vederlo bloccato dall’opposizione
quando spiegò che aborto e divorzio
erano, per lui, anatema.
Non c’è altra chiesa, negli Stati Uniti,
che raccolga tanto potere, alla domenica
mattina. Sorride, il rettore alto, biondo e
molto british, come vuole il dna strettamente Wasp, anglo-bianco-protestante,
di questa congregazione, all’amico carissimo Robert Aderholt, deputato di
quel collegio dell’Alabama che vide la ribellione del “Giudice della Bibbia”,
quando la Corte Suprema gli ordinò di rimuovere le tavole dei Dieci Comandamenti dal suo tribunale, perchè violavano la separazione fra stato e chiesa.
Aderholt è un mito tra i colleghi parlamentari perchè a ogni nuova legislatura
propone una imprecisata legge per la
“Difesa dei Dieci Comandamenti” che il
Parlamento puntualmente gli respinge,
ma con maggioranze sempre più timide.
Fino alla vigilia di Natale, quando un attacco di cuore lo ha costretto a un ricovero d’urgenza per sbloccargli le coronarie,
sempre sull’ultimo banco perchè “beati
gli ultimi…”, (remember Jesus?) sedeva
l’evangelista sommo del bushismo, l’uomo che da quattro anni mette le ali della
retorica agli stivali di George W Bush, Michael Gerson, l’autore dei discorsi presidenziali. Sono di Gerson, non di “W”,
quelle metafore esaltanti e quelle immagini salvifiche, farcite di allusioni bibliche, che troveremo il giorno dopo nei titoli dei giornali. Anche quando lo slancio
gli prende la mano, e gli scappa una parola sbagliata come quella “crociata” anti islamica che da allora ogni terrorista
arabo ha rivoltato golosamente contro
gli Usa, Gerson è la voce di Bush, tanto
quanto Karl Rove ne è il cervello politico.
A volte, nella massima discrezione
Peter Gross
Il direttore della Cia è uno
dei frequentatori più assidui
Robert Bork
Il giudice che Bush padre
nominò alla Corte Suprema
Michael Gerson
È l’autore dei discorsi
presidenziali di George W.
EDIFICIO STORICO
Qui sopra la Falls Church in una
foto di metà Ottocento
In alto, preghiera collettiva
dei fedeli davanti a una chiesa
prima dell’inizio della messa
consentita dal corteo di furgoni blindati, ambulanze, elicotteri e auto bianconere dello sceriffo che lo seguono, si dice che anche il Presidente si faccia vedere tra i banchi della Chiesa delle Cascate, ma il rettore John Yates non conferma nè smentisce. “W” Bush, che pure
era stato educato da Episcopale come il
papà, oggi si dice Presbiteriano, non che
per una pecorella così autorevole il reverendo rettore non sia pronto a spalancare i cancelli dell’ovile. «La nostra
porta è aperta a tutti, non chiediamo
tessere di partito o professioni di fedeltà» dice il rettore. «Noi crediamo all’essere prima cristiani e poi episcopali,
cattolici romani, ortodossi, si immagini
che cosa ci importa sapere per chi votino coloro che vengono ad adorare il Signore Dio nella nostra chiesa».
Ma allora perchè proprio si ritrovano
qui, nel tempio fra le tombe della storia, e
non altrove, nelle trecento chiese grandi
e piccole che si sgomitano tra i sobborghi
della capitale nel ricco mercato delle fedi,
perché proprio qui vengono a fare le loro
devozioni i teologi del Bushismo, spesso
affrontando il traffico per raggiungere la
Falls Church, dalle loro lontane ville?
«Non lo so e non lo voglio sapere» insiste
Yates, forse infastidito dalla scoperta di
questo suo piccolo segreto. «Quello che
so è che qui non si fa proselitismo politico o elettorale. Da quando sono rettore io,
il nome di George W Bush è stato fatto una
sola volta, nel sermone di domenica 15
settembre 2001, quando invocammo la
benedizione del Signore sopra i nostri caduti, il nostro Paese e il nostro Presidente, chiamato a guidare l’America nella
tempesta. Lo fecero tutti i ministri, i pastori, i parroci, i rabbini in ogni tempio,
quel giorno, controlli».
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
il viaggio
Alaska in pericolo
A 32 chilometri dal circolo polare artico seicento uomini
lottano contro il mare che si mangia le loro case.
Sono gli Inuit di Shishmaref, il loro nemico è il caldo
che squaglia il ghiaccio sotto i piedi. La loro
unica speranza di avere ancora un futuro è scappare
e diventare profughi del clima che cambia
Il popolo
dell’isola che si scioglie
La Terra è una pentola in
ebollizione, questa fetta di
Polo è la bolla più grossa.
Ad annegare è un’intera
cultura. “Se cambia
l’inverno cambia la nostra
vita: non ci sono più orsi,
i pesci scelgono altre
strade”, raccontano
Sparire nel freddo
Una volta, come nelle fiabe. Una volta
c’era un popolo che scompariva nel
freddo, la sua gente veniva chiamata
eschimese che significa «mangiatori di
carne cruda», dispregiativo poi convertito in Inuit, «essere umano». Una volta
non c’era il gore-tex e gli Inuit si rico-
di cenere; qui è l’acqua a travolgere l’esistenza. Nel ‘97 una tempesta s’è portata via cento metri di spiaggia e ha divorato 14 case, l’ultima ne ha mangiate
altre 18. Qualche abitazione la vedi ancora: disabitata, sbilenca, sgranocchiata dal mare. Gusci vuoti, carcasse, come
certi granchi storditi dalla risacca.
Quello che una volta era a cento metri
dalla costa ora è a dieci. Tiri indietro i
piedi, arretri, ma a forza di farlo ti ritrovi dall’altra parte, ancora acqua, mare.
Dove scappi?
L’aeroporto sprofonda
Shishmaref non è Las Vegas, ha 148 case, un ufficio postale, due scuole, due
empori. È piatta, senza igloo. Nessun
taxi, nessun albergo. Età media: 24 anni. Niente bagni, né docce, né cucine.
Niente acqua potabile, una volta si andava a prenderla al fiume Serpentine o
si triturava il ghiaccio. Prima, quando
c’era il ghiaccio, e non questa brodaglia.
Anche la minuscola pista dell’aeroporto si sta inabissando, e nessuno mette
più carne e pesce a essiccare sulle piccole palafitte. L’isola provvedeva a se
stessa, al suo bisogno di cibo. Il menu
era vario. «In primavera c’era il tricheco,
le more, la lepre; in estate il salmone, la
trota e le aringhe; in autunno l’alce, il
merluzzo e la pernice bianca; in inverno l’orso e il bue muschiato». Una volta,
FOTO LAIF/CONTRASTO
uio, nevica, tempesta di
ghiaccio. La pista d’atterraggio sprofonda. Nebbia
di gelo, rombo del motore,
raffiche di aria fredda. Urla da osteria,
inutili. Il vento ha più voce, canta, si sgola. Un barbiere pazzo che sfigura a colpi
di rasoio. Meno 25 gradi: caldo. Per essere a fine dicembre, nel paese dei cacciatori di balene e dei pescatori di granchi. Mare e tundra, Alaska. A 32 chilometri c’è il circolo polare artico. Vedi i
cani: malamutes, di origine sconosciuta. Testa eretta, occhi attenti, passo fiero, come i loro padroni, gli Inuit. La zampa termina in cuscinetto, s’incolla al terreno e non perde la presa. Gli uomini invece: ballerini ubriachi su una pista scivolosa. I malamutes non temono il fango, non scivolano sulla neve, non si
tagliano sulle lame di ghiaccio. Kayak e
barche da pesca giacciono su montagnozze di neve, a lato della costa, parcheggiate come fossero biciclette. Il
porto non c’è più, il mare ha sempre fame e allunga la lingua. Qui Shishmaref,
isola di Sarichef, la prima al mondo ad
avere il titolo di “rifugiata ambientale”,
perché cola come un gelato a ferragosto.
privano con una giacca d’intestino di
tricheco e di piume di cormorano. Una
volta un orso polare bianco, era il 1971,
fece lo spiritoso su questo ghiaccio. Poteva permetterselo: pesava 680 chili, 3
metri e 23 d’altezza. Ora è nella hall di
un albergo di Anchorage, dietro una vetrata, con specificato il fucile che lo fece fuori: 338 Winchester. A quattro
zampe, perché in verticale non entrava. Accanto un orso bruno, stessa stazza, ammazzato anche lui con un fucile
338. Shishmaref era casa loro: ci potevano anche ballare, senza sprofondare.
Una volta il circo polare artico non
sudava, adesso il suo mare, gelato per 15
milioni di anni, si scioglie. Come un cubetto di ghiaccio in una tazza di tè caldo. Shishmaref, 600 abitanti, nel mare
di Chukchi, è il cubetto che si squaglia.
Se volete trovarla, aprite l’atlante, guardate in alto, verso il grande nord, stretto
di Bering, la Siberia è dall’altra parte. Se
volete capirla, prendete i libri su Zanna
Bianca e il Richiamo della Foresta. «C’è
nelle creature selvagge una pazienza tenace quanto la stessa vita». E non cercate la luce del giorno nella lunga oscurità
dell’inverno, i sei mesi di buio sono appena iniziati, non è ancora tempo del
sole rosso a mezzanotte. Shishmaref,
l’isola che c’era e che non ci sarà più, è ai
suoi ultimi giorni. Una Pompei alla rovescia: lì il fuoco divampò e coprì la vita
L’EMERGENZA
L’erosione dell’isola di Sarichef è
imponente, rapida e drammatica. Le
intemperie rischiano di essere fatali: nel
1997 una tempesta ha portato via in un
colpo solo cento metri di spiaggia e con
essa quattordici case. Una bufera più
recente ha fatto sparire altre diciotto
abitazioni
FOTO CORBIS/CONTRASTO
B
SHISHMAREF
È un’isola profuga, in attesa di ricollocazione. Più in giù nomi da leggenda:
Montagna Bianca, Collina Scura, Schiena di Balene, il Passaggio a Nord-Ovest,
il fiume Yukon, largo a cattivo, le montagne del Klondike dove i cercatori d’oro
sputarono la vita e Jack London la trovò.
Tony Weyiouanna ha un cappotto
foderato di pelliccia di lupo e guida una
motoslitta: «Andiamo?». Andiamo.
Tony, per favore un bagno. «Si arrangi,
non abbiamo cessi sull’isola, forse da
qualche parte troverà un bidone di plastica giallo. Noi lo chiamiamo honeybucket, secchio di miele». Tony, 45 anni, è un Inupiaq, un Inuit nato in Alaska.
Indica il mare, color metallo lucido:
«Una volta lì c’era la spiaggia, ci giocavamo da bambini; una volta il mare
ghiacciava da ottobre a metà giugno;
una volta c’era la costa, con le strade e le
case, una volta sotto i nostri piedi la crosta non cedeva. Una volta cacciavamo e
pescavamo sul pack, con le fiocine. E le
more si raccoglievano in agosto».
FOTO CORBIS/CONTRASTO
EMANUELA AUDISIO
appunto, quando il mare non pisciava
così frequentemente, e in questa stagione faceva molto più freddo. Ora un
litro di latte costa 9 dollari, tutto viene
importato a prezzi carissimi, anche le
uova che arrivano rotte in aereo. Nemmeno l’oogruk, la foca barbuta, fondamentale per la dieta degli Inuit, si fa più
vedere. Il ghiaccio è troppo sottile. «È la
nostra fine», dice Percy Nayokpuk.
Gli Inuit non fanno guerre, non hanno mai visto un albero, non coltivano
nulla. Per loro il gelato è una crema di
grasso di animale, olio di foca e carne di
caribù. Il sole è femmina e la luna è suo
fratello. E la vera leccornia è seppellire la
testa del salmone nella sabbia per dieci
giorni, poi lavarla e mangiarla. Enjoy.
Sono isolati, gli Inuit. Ma per trovarsi
non hanno bisogno dei cartelli stradali.
A loro basta guardare le stelle, come cartina usano il cielo. Sopra, sotto, davanti
e dietro hanno una natura nemica e violenta, capace di forza bruta. Tutto è fatica, pericolo, agguato. Gli Inuit non credono, preferiscono conoscere. Da queste parti non è la fede a salvare la vita, ma
sapere cosa fare. Quando l’esploratore
Knud Rasmussen chiese ad una guida
Inuit in cosa credesse, quello stupito gli
ribattè: «Noi non crediamo, abbiamo
paura». Risposte così fanno impazzire. E
infatti Rasmussen subito dopo dichiarò:
«Datemi la neve, datemi i cani e tenete-
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
IL RISCALDAMENTO DELLA TERRA
Negli ultimi 25 anni la temperatura del
pianeta è aumentata di 0,6 gradi. Nei
prossimi cento anni si prevede una crescita
del riscaldamento globale tra 1,4 e 5,8
gradi. Dal 1810 l’anidride carbonica
nell’atmosfera è aumentata del 25% e
cresce al ritmo di 0,4% all’anno: principali
responsabili, l’uomo che brucia
combustibili fossili e la deforestazione.
IL RECORD DEL POLO NORD
L’aumento della temperatura al Polo Nord
è da due a tre volte più rapido che nel resto
del pianeta: da qui al 2100 si attende un
riscaldamento tra i 4 e i 7 gradi. Negli ultimi
35 anni il ghiaccio del Mar Artico si è
assottigliato: è passato da uno spessore
medio di 3,1 metri a 1,8.
Il ghiacciaio Columbia, in Alaska,
si è ritirato di 13 km dal 1982.
Barry Commoner
“Le colpe
dell’America”
ARTURO ZAMPAGLIONE
FOTO CORBIS/CONTRASTO
«O
Alaska si è alzata: cinque gradi in più l’estate, dieci l’inverno, e i temporali sono
aumentati. Otto milioni di ettari di natura incontaminata stanno impazzendo. I ghiacciai si ritirano ad un ritmo due
volte più veloce di dieci anni fa. I locali
parlano di «foreste ubriache», di «alberi
che schiattano nel fango», di «insetti
che contagiano la vegetazione». Una
natura sbronza, che non si regge in piedi, che ha la febbre e vomita.
Caccia e pesca in crisi
Tony Weyiouanna spiega: «Se cambia
l’inverno, cambia la nostra vita. L’hanno scorso abbiamo cacciato un solo tricheco. E siamo usciti per la prima volta
con le barche fino a fine dicembre. Non
c’era più il pack. I pesci scelgono altre
direzioni, quelli che prendiamo sono
brutti e sconosciuti. Gli orsi salgono più
a nord. Sono scomparse anche le renne: pochi anni fa nella zona ce n’erano
1.500 ora solo 300». Tony due anni fa ha
votato a favore del trasferimento della
comunità in un altro posto. I sì hanno
vinto 161 a 20. È stanco di avere i piedi
bagnati, ma capisce che l’erosione è
anche culturale. Dei 13.500 Inuit che vivono in Alaska meno del 25 per cento
parla la lingua tradizionale. «Ormai siamo solo in settanta a usare l’Inupiak,
quando ero ragazzo a scuola mi obbligavano a rispondere in inglese e mi pu-
nivano se usavo la mia lingua».
Cliff Weyiouanna, 60 anni, guida professionale, invece è tra quelli che hanno
votato no. «Questa è stata casa nostra
per migliaia di anni e si adatta al nostro
stile di vita. Tutto quello di cui abbiamo
bisogno sono sei foche barbute e due
trichechi l’anno». Altri contestano che
questa Pompei del mare sia dovuta al
rialzo delle temperature. «Sono fenomeni già visti, non è colpa dell’uomo o
dei condizionatori d’aria». Il professor
Gunter Weller dell’università di Fairbanks insiste: «Il ghiaccio dell’Artico nei
prossimi 60 anni scomparirà».
Il trasferimento di Shishmaref dovrebbe costare 120 milioni di dollari. Il
governo in un primo momento si era
detto disponibile alla spesa, poi ha fatto
marcia indietro. Sarà la prima isola a finire sulla terraferma. Forse sarà ricollocata più a sud, a un’ora di aereo, dalle
parti di Nome, meta di molti disperati
della terra. Nome è il punto di arrivo della Iditarod, la corsa più fredda e più massacrante del mondo: duemila chilometri
da correre con slitte e cani. L’unica gara
con un premio anche per l’ultimo. Si disputa a marzo, appena l’equinozio porta via la grande notte e regala il grande
giorno. Quando la natura si sgela, e molti uomini impazziscono. Charles Meach,
che è appena morto in prigione dove stava scontando una pena di 396 anni, giu-
stificò così l’uccisione di quattro ragazzi.
«Quando torna la luce, troppe cose si
sbrinano, anche la mia schizofrenia».
Nel 1973 ci volevano 20 giorni per finire
l’Iditarod, l’anno scorso chi ha vinto ce
l’ha fatta in 9 giorni 15 ore 47 minuti. Chi
ama gli animali meglio che si astenga dal
vederli morire di crepacuore.
Nome è una vecchia e triste città dei
cercatori d’oro, la sua ferrovia è ormai
un ricordo e si chiama: «Last train to
nowhere». L’ultimo treno verso il nulla.
Però è una città riconoscente e ha dedicato molti studi e libri alle sue Bocca di
Rosa, alle «Good Time Girls» che intrattenevano i clienti nei saloon. Con la motivazione: «Anche loro cercavano l’oro».
A Nome arrivò anche il famoso sceriffo
Wyatt Herp, quello che con Doc Holiday
sparò e vinse all’Ok Corral a Tombstone,
Arizona. Herp, accompagnato dalla
moglie, aprì un locale, The Dexter, fece i
soldi, ma dopo due anni se ne andò. Tutta quella neve bianca era troppa per lui,
gli faceva venire il mal di mare.
Il piccolo aereo lascia l’isola in un’aria sempre più appannata. Gli Inuit
preparano il funerale della loro terra,
ammazzata dai brividi caldi della modernità. Chissà se dopo in questo pezzo di mare ci metteranno una lapide
galleggiante come avviso ai naviganti:
«Shishmaref, 1816-2005, isola profuga,
affogata in basso a destra».
FOTO LAIF/CONTRASTO
L’EVACUAZIONE
Il trasferimento completo della popolazione di Shishmaref sulla terraferma
costerebbe 120 milioni di dollari. Gli abitanti dell’isola si sono già
pronunciati favorevolmente sul progetto con un referendum. Anche il
governo si è detto d’accordo, in un primo momento. Poi però ha fatto
marcia indietro
FOTO CORBIS/CONTRASTO
vi tutto il resto».
Ma perché oggi il mondo dovrebbe
interessarsi agli Inuit? «Perché la terra è
una pentola sul fuoco, piena di acqua in
ebollizione. Shishmaref è la prima grossa bolla che si è formata, è il simbolo di
quello che ci aspetta. Ora tocca a una fetta d’Alaska scomparire, domani sarà la
volta di Groenlandia, Canada, Siberia,
Norvegia che soffrono già degli stessi
sintomi», spiega Julie Baltan, 51 anni, direttrice del Kawerak, organizzazione
che si occupa di questi problemi. «Non è
solo un’isola ad inabissarsi, seppellita
dal mare, ma un modo di cacciare, di pescare, di vivere. È tutta una cultura che
annega, con 155mila Inuit».
Altre Shishmaref sono dietro l’angolo.
Altre comunità sono considerate in pericolo imminente. Si chiamano Kivalina,
Koyokuk, sul fiume Yukon, e Newtork. Il
rialzo delle temperature ha provocato
l’erosione dell’86 per cento del loro territorio. A Newtork il fiume Ninglick straripa da matti e si mangia quasi trenta metri all’anno. Kaktovik, Point Hope, Unalakleet, Barrow e Bethel hanno strade e
aeroporti minati dall’erosione. Gli Inuit
devono spostarsi, trasferirsi, non possono affogare. Ma ricostruire da un’altra
parte costa. Il trasferimento di Kivalina,
una comunità di 377 persone, è stato calcolato in 400 milioni di euro.
Negli ultimi 30 anni la temperatura in
NEW YORK
rmai ci siamo», sospira Barry Commoner. «È iniziata la prima fase di un cambiamento climatico che si preannuncia violento, estremo, epocale. Dopo anni di inutili avvertimenti e di politiche dissennate,
le isole si squagliano, gli uragani
si moltiplicano, le inondazioni
sono sempre più frequenti. E i
primi a farne le spese sono proprio i più deboli e i meno colpevoli. Come gli Inuit».
Commoner è uno dei padri —
forse il più noto — dell’ecologia
moderna. Autore del Cerchio da
chiudere, su cui si sono formate
generazioni di studiosi e attivisti
ambientali; fondatore del Centro per la biologia dei sistemi naturali, è l’uomo-simbolo delle
battaglie globali per la difesa
della natura. E nonostante l’età
(87 anni), continua a impegnarsi, a combattere.
«Sto scrivendo un libro-denuncia contro l’ingegneria genetica», ci spiega dall’ufficio del
Queens college. Pessimista, ma
non rassegnato, segue da vicino
anche le sorti delle popolazioni
artiche.
Professor Commoner, da dove nasce l’interesse per gli Inuit?
«Ho condotto uno studio per
conto della commissione ambientale del Nafta sull’avvelenamento da diossina. Purtroppo gli
Inuit non devono solo vedersela
con l’effetto-serra e il rialzo delle
temperature, che mettono a repentaglio la loro cultura e la loro
stessa esistenza, ma anche con la
diossina. La quale, prodotta soprattutto dagli inceneritori di rifiuti degli Stati Uniti, migra verso
il Polo Nord».
É un fenomeno pericoloso?
«Abbiamo accertato che nel
corpo degli eschimesi e nella fauna artica i livelli di diossina sono
alti quanto qui da noi. Con una
aggravante: la diossina si annida
nel grasso animale, che è alla base della dieta di quelle zone. L’avvelenamento ha già provocato
casi di orsi polari transessuali».
Torniamo all’effetto-serra e a
Shishmaref, l’isola che sta scomparendo.
«Il terremoto nelle temperature è il problema ambientale più
grave, l’innalzamento degli oceani rischia di provocare catastrofi.
Cominciamo già ad assaggiare i
primi danni: il centro meteorologico americano ci dice che il numero degli uragani è in aumento,
quest’anno le inondazioni nell’area di New York sono state le più
gravi nella storia. E poi c’è la triste
vicenda dei ghiacci dell’Alaska».
É possibile porvi rimedio?
«Sheila Watt-Vloutier, presidente del gruppo che riunisce gli
Inuit dei vari paesi artici, dall’Alaska alla Russia, dal Canada alla
Scandinavia, intende denunciare Washington alla commissione inter-americana per i diritti
umani. La sua tesi? Che gli Stati
Uniti, grandi colpevoli dell’effetto-serra, stiano mettendo in pericolo la vita delle popolazioni
artiche. Se la commissione darà
ragione agli Inuit, potrebbe servire per azioni legali contro le industrie inquinatrici, sulla falsariga delle cause contro le multinazionali del tabacco».
Ma è una strada lunga, in salita, e c’è il rischio che la vittoria legale arrivi troppo tardi.
«Sì, ma gli Inuit non hanno altre armi… Paradossalmente la
spinta maggiore a fare qualcosa
per l’ambiente verrà dalle compagnie di assicurazione, che si vedranno costrette ad aumentare i
premi per far fronte ai crescenti
costi meteorologici. Una prospettiva del genere avrà ripercussioni politiche. E a quel punto
George W. Bush, che ha boicottato il trattato di Kyoto, sarà costretto a fare marcia indietro».
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
Miracolo d’Irlanda
‘
Era il Paese della guerra civile, della povertà e della fame,
piegato da un’emigrazione disperata. Ora nella classifica 2005
dell’“Economist” è l’“isola felice”: il posto dove si sta meglio
al mondo. Il segreto? Quell’attimo fuggente in cui uno sviluppo
economico travolgente e repentino e la resistenza delle buone
vecchie tradizioni restano ancora in perfetto equilibrio
‘
Per la prima volta sentiva un senso di rivolta contro
la mediocrità priva di eleganza di Capel Street. Non
c’erano dubbi, chi voleva il successo doveva andarsene
via, a Dublino non era possibile combinare qualcosa
Da GENTE DI DUBLINO di James Joyce
Cara sporca Dublino. Dublinesi…
Notte umida maleodorante di pasta famelica.
Contro il muro. Viso luccicante color sego
sotto lo scialle di lana. Cuori frenetici
Da ULISSE di James Joyce
Gente di Dublino, la rivincita
ENRICO FRANCESCHINI
P
DUBLINO
ioggerella, raffiche di vento,
un cielo grigio gonfio di bassi nuvoloni, sei-sette gradi di
temperatura. Dublino ti accoglie così, in una giornata d’inverno. E
non è che nelle altre stagioni le condizioni atmosferiche siano molto diverse: da queste parti piove, in media, duecentocinquanta giorni all’anno. Sicchè il visitatore che ha in tasca uno studio dell’Economist, in cui si proclama
l’Irlanda il paese con la più alta qualità
della vita al mondo, appena arrivato
sente sorgere irresistibilmente la prima domanda: come può essere il posto
migliore in cui vivere, con un tempo simile? Pazientemente, gli irlandesi ti
spiegano che il clima della loro isola,
per effetto della corrente del Golfo, in
realtà è relativamente mite, considerato che come latitudine è situata più a
nord di Vancouver o Terranova. Nei
mesi invernali il termometro va raramente sotto zero, l’estate non è mai
soffocante come nel Mediterraneo, e
se qui la natura è tanto rigogliosa bisogna ringraziare per l’appunto le abbondanti piogge. Senza dimenticare,
aggiungono compiaciuti, il proverbio
locale: «Dentro ai pub non piove». Di
pub ne hanno diecimila: su una popolazione di quattro milioni fa uno ogni
quattrocento abitanti. Nessuno, in
teoria, rischia di bagnarsi.
Crescita prodigiosa
Ma anche una volta archiviati i dubbi
di carattere meteorologico, l’incredulità o almeno la sorpresa permangono.
Si sapeva che in un decennio di prodigiosa crescita economica l’Irlanda ha
cancellato un’immagine consolidata
da secoli: un Paese in miseria, falcidiato dalla fame, da una disperata emigrazione di massa, da una sanguinosa
guerra civile tra cattolici e protestanti
in Ulster, che con un cambiamento re-
‘
pentino si trasforma nella “Tigre Celtica”, diffondendo il benessere per
(quasi) tutti e i benefici della pace, dopo cent’anni di conflitto intestino in Irlanda del nord, dove manca il suggello
di un accordo finale ma è finita la violenza. Possibile però che adesso sia diventata addirittura “l’isola felice”, il
paese del bengodi, da fare invidia al resto del pianeta?
Il rapporto dell’Economist, compilato in occasione dell’uscita del numero annuale “The World in 2005”, lo stato del mondo nell’anno che verrà, la
mette davanti alla Svizzera, ai paesi
scandinavi, a Italia e Spagna, a Stati
Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna, così motivando la scelta. Gli
esperti dell’Economist Intelligence
Unit hanno misurato un ampio raggio
di fattori, dal reddito medio alla disoccupazione, dalla stabilità politica ai conflitti sociali, dall’istruzione alla sanità, dal
clima all’eguaglianza tra i
sessi, assegnando un punteggio da uno a dieci in ogni
categoria: ebbene, l’Irlanda
ha ottenuto il risultato più alto, 8,33 (la Svizzera, seconda
in classifica, è a 8,03). Il sondaggio rivela che non solo
l’Irlanda ha il quarto reddito
pro capite al mondo, ma che
questa ricchezza recentemente acquisita si combina
con persistenti valori tradizionali: famiglia, religiosità, spirito comunitario. «L’Irlanda vince perché
congiunge i più desiderabili elementi
di innovazione, come bassa disoccupazione e libertà civili, con il mantenimento di certi confortevoli elementi
del suo passato, come l’unità della famiglia e la solidarietà sociale», afferma
il rapporto, sottolineando che «il benessere materiale, da solo, non misura
adeguatamente la qualità della vita».
A Dublino, in effetti, la commistione di nuovo e di antico balza agli occhi.
Tagliata dolcemente a metà dal fiume
Liffey, la capitale ha conservato il vec-
“Bassa
disoccupazione
e libertà civili qui
si coniugano con
certi confortevoli
elementi del passato,
come l’unità della
famiglia e la
solidarietà sociale”
Tradizione e facce nuove
In giro si vedono ancora certi irlandesi
col berretto sugli occhi, la giacca di
tweed, le gote rosse, che sembrano presi di peso da The quiet man (L’uomo
tranquillo nella traduzione italiana), il
film premio Oscar del 1952 di John Ford
(all’anagrafe, l’irlandese Sean O’Fearna), con John Wayne e Maureen O’Hara, che ha contribuito più di ogni altro
a forgiare lo stereotipo nazionale, pecore e cavalli, verdi vallate e castelli,
amara, scura, schiumosa birra Guinness e duri dal cuore tenero; ma si vedono anche molte facce nuove. Da
paese di emigranti, che aveva visto la
sua popolazione dimezzarsi in un secolo da otto a quattro milioni di abitanti, l’Irlanda è diventata un paese di immigrati: ne arrivano da tutto il mondo,
in proporzione quattro volte più che in
America, e nel 2004 cinquantamila erano polacchi, ungheresi, baltici, provenienti dai dieci nuovi paesi dell’Est
aderenti all’Unione europea, a cui soltanto Dublino, tra i quindici originari
membri della Ue, ha spalancato le porte senza restrizioni.
Al 21 di Duke street c’è ancora Davy
COLORI ACCESI
Botteghe, pub
e case irlandesi dai
colori accesi.
L’ultimo a destra è il
“Temple Bar”
Sopra, una mappa
di Dublino
Gli irlandesi sono i neri d’Europa,
i dublinesi sono i neri d’Irlanda,
e noi che viviamo a nord del fiume
siamo i neri di Dublino
Da THE COMMITMENTS di Roddy Doyle
chio guscio: casette vittoriane, palazzine del primo Novecento a quattro o
cinque piani tra cui sbucano i campanili, nemmeno un grattacielo. Ma un
James Joyce redivivo faticherebbe a riconoscere quella che chiamava la
«crudele, sporca Dublino»: vetrine
scintillanti nelle strade del centro, illuminate dalle decorazioni natalizie,
frenetico passeggio su Grafton street,
la via dello shopping chiusa al traffico,
ristoranti alla moda e discoteche su
Temple Bar, versione irlandese della
“rive gauche” parigina, su cui spicca il
Clarence, un vecchio hotel al cui bar
andava a sbronzarsi con gli amici uno
sconosciuto musicista di nome Bono,
acquistato e restaurato qualche anno
fa dagli U2 che ne hanno fatto un albergo di lusso a cinque stelle, “cool” e
“hip”, per usare due termini entrati
nel linguaggio globale.
‘
Byrne’s, il pub immortalato da Joyce
nell’Ulisse, dove Leopold Bloom si ferma per uno spuntino (un sandwich al
gorgonzola con la mostarda e un bicchiere di burgundy); ma in questo come
negli altri pub dell’isola da qualche mese è vietato fumare. Si temeva che il
bando al fumo nei pub e in ogni locale
pubblico, il primo così rigido in Europa,
avrebbe suscitato disordini di piazza e
fallimenti a catena: senza la nebbiolina
azzurrognola delle sigarette, si diceva,
un pub irlandese non è più un pub. Invece la gente l’ha presa con filosofia, chi
vuole va a fumare ogni tanto fuori dal locale, e i pub, anziché rischiare il fallimento, aumentano di valore a livelli record: nel 2004 ne sono stati venduti per
un totale di centotrenta milioni di euro,
il 40 per cento in più dell’anno precedente, tra cui uno celebre, Lillie’s Bordello, per cinque milioni.
Beninteso, di “bordelli” autentici, legalizzati come ad Amsterdam o in Germania, nella cattolicissima Irlanda
non se ne parla: ma hanno aperto i primi topless-bar, e nessuno si scandalizza. La domenica mattina, davanti alla
cattedrale di San Patrizio, il santo protettore nazionale, ci si imbatte in un ingorgo da stadio: i credenti, qui, sono
praticanti e a messa vanno ancora in
molti. Ma intanto è stato finalmente legalizzato il divorzio (nel ‘95, e da allora
si moltiplicano le separazioni), il tasso
delle nascite resta il più alto d’Europa
ma l’età media a cui le donne hanno il
primo figlio è salita a trentun anni (nel
1974 era venticinque anni), e il nuovo
arcivescovo di Dublino, monsignor
Martin, ha benedetto la «modernizzazione», affermando che la chiesa non
deve più mettere il naso in politica e
preoccuparsi piuttosto dei problemi
sociali che accompagnano il benessere: droga, criminalità, individualismo.
Malanni risanati
Del resto anche la chiesa cattolica, da
sempre — insieme al pub — un’istituzione irlandese, è vittima del cambiamento: quando monsignor Martin
Mi chiedo spesso perché mi piacciono tanto le stazioni
ferroviarie…Vedi, ragazzo mio, tu che sei cresciuto in
Germania non ti rendi conto di come tutto sia diverso qui
rispetto a Dublino e all’Irlanda di quando avevo la tua età
Da STORIE DI DUBLINO di Delmot Bolger
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
LA CLASSIFICA DELL’ECONOMIST
1. Irlanda
2. Svizzera
3. Norvegia
4. Lussemburgo
5. Svezia
6. Australia
7. Islanda
8. Italia
9. Danimarca
C’è un solo paese non europeo, l’Australia, tra i primi dieci.
La Spagna è al decimo posto, la Francia al 25simo,
la Germania al 26simo, la Gran Bretagna al 29simo
PARATA DI SAN PATRIZIO
Qui sopra, una serie di paesaggi d’Irlanda:
coste selvagge e campagne verdissime
A sinistra, un bambino con la bandiera
nazionale durante la parata del St. Patrick’s
day nella città di Galway
FOTO PETER TURNLEY/CORBIS/CONTRASTO
prese i voti da sacerdote nella diocesi
di Dublino, nel 1969, con lui c’erano
altri tredici diaconi. Quest’anno ne è
stato consacrato uno. L’anno prossimo non ce ne sarà nessuno. L’arcivescovo parla gravemente dell’ipotesi
che il cattolicesimo diventi una «minoranza culturale» in Irlanda. Esagera, ma è innegabile che sia in atto un
processo di secolarizzazione. Che è
poi una delle ragioni per cui gli irlandesi sono i primi a commentare con
una dose di perplessità il rapporto dell’Economist. «La combinazione di
vecchio e nuovo, di tradizionalismo e
innovazione, ci fotografa in un perfetto momento di equilibrio», osserva
John Waters, columnist dell’Irish Times, «ma è un attimo fuggente, che
non durerà. La modernizzazione ha
sanato i nostri antichi malanni, povertà, fame, oscurantismo, ma ci ha
iniettato i disagi di società più avanzate, gap ricchi-poveri, delinquenza,
alienazione, tant’è che sono in aumento i suicidi. Se è vero che oggi siamo un’isola felice, non è chiaro cosa
saremo domani».
‘
Invasi Dublino. M’intrufolai sotto le ruote e tra i cavalli,
nelle pozzanghere, in mezzo ai venditori ambulanti, lo sterco
e i carrettieri, tra il rumore e la fuliggine, coi piedi nudi
che diventarono duri come la pietra che calpestavo
Da UNA STELLA DI NOME HENRY di Roddy Doyle
‘
Donne alla ribalta
Gli ottimisti ribattono che è il prezzo
inevitabile del progresso: «Se ripenso a
com’era orrendo il paese in cui sono
cresciuto, il miglioramento è indubbio», nota Joseph O’Connor, un romanziere della nuova generazione di
scrittori che ha rinverdito le glorie di
Yeats e Shaw, di Beckett e Heaney,
quattro premi Nobel per la letteratura
in un paese di quattro milioni di abitanti, per tacere di un quinto che l’avrebbe strameritato, Joyce.
Tra chi si domanda «cosa sarà domani l’Irlanda», una risposta viene da
Mary Harney, leader del partito Progressista democratico e simbolo di un
altro fondamentale cambiamento, il
ruolo delle donne: cittadini di seconda
classe una generazione fa, ora ascese
per due volte di seguito al posto di presidente della repubblica, prima con
Mary Robinson, femminista laica,
quindi con Mary McAleese, fervente
cattolica. Poiché il formidabile progresso irlandese deriva da una ricetta
economica di stampo reaganiano (o
thatcheriano), riduzione delle tasse e
incentivi alla libera impresa, dice Mary
Harney, «la nuova Irlanda, pur essendo
geograficamente più vicina a Berlino, è
spiritualmente più simile a Boston»,
ossia all’America.
Senonchè l’Economist, nel suo rapporto sulla qualità della vita, formula
la tesi opposta: in ogni area in cui ha
visto profondi cambiamenti sociali,
la secolarizzazione, la difesa del sistema sanitario nazionale e del welfare,
perfino le tasse, più basse del resto
della Ue ma considerevolmente più
alte che negli Usa, l’Irlanda si avvicina all’Europa, non all’America. Così
come l’avvicinano all’Europa i voli a
basso costo della Ryanair, la giovane
linea aerea di Tony Ryan e del suo manager-bucaniere Michael O’Leary,
che ha rivoluzionato i trasporti nel
continente e ha avuto un grosso ruolo
nella “rivoluzione irlandese”. Il paese
a cui l’Irlanda d’oggi somiglia di più,
sostiene il settimanale britannico,
non è l’America: è quello che l’ha dominata per settecento anni, la Gran
Bretagna. La lingua è la stessa (a parte
l’accento): l’inglese. Ma ci sono tre vistose differenze: l’Irlanda è cattolica,
è assai più piccola, ed è tenacemente
filo-europea.
Come che sia, non è un caso se a Dublino arrivano a frotte i tecnocrati delle altrettanto piccole nazioni dell’Est,
entrate da poco nell’Unione europea:
vengono a studiare il modello irlandese per apprendere come si esce in
fretta da una povertà endemica, senza stravolgere, se possibile, quel che
c’è di buono nelle proprie tradizioni.
Il segreto del Paese dei “limericks”, le
spesso insensate poesie in rima, e dei
“leprechaun”, gli gnomi-folletti della
mitologia celtica, il segreto del paese
degli U2 e della “Ryanair generation”,
il segreto dell’“isola felice”, in fondo è
tutto qui.
Quando ripenso alla mia infanzia mi chiedo come ho
fatto…Era naturalmente un’infanzia infelice…Peggio delle
solite infanzie infelici ci sono le infanzie infelici irlandesi.
E ancora peggio le infanzie infelici irlandesi e cattoliche
Da LE CENERI DI ANGELA di Frank McCourt
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2004
Nessun censore d’età fascista può vantare pari costanza:
tredici anni spesi nel controllare tutta la produzione
teatrale e radiofonica. Solo lui, non altri. Da Leopoldo
Zurlo dipesero i destini di Totò e Fellini, De Filippo e Bragaglia, ma anche
Calvino e Montanelli scivolarono sotto la sua lente. Ecco la storia di un singolare
burocrate, che talvolta s’opponeva perfino a Mussolini
TOTÒ
Nel 1938 Antonio De Curtis chiede l’autorizzazione per L’ultimo
Tarzan, una fantasia grottesca in cui compare anche Napoleone.
Il censore Zurlo conosce l’intolleranza di Mussolini per i lavori
ispirati ai grandi condottieri, assimilabili alla sua persona. Così,
in margine al copione, appunta per Totò: «Nessuna imitazione di
Napoleone, al più l’attore potrà imitare Boyer». Charles Boyer
l’aveva interpretato l’anno prima in Maria Walewska
EDUARDO DE FILIPPO
Nel 1941 l’attore invia a Zurlo il copione di In licenza, una
commedia con un limite insormontabile: i personaggi maschili
sono militari, e siamo in periodo di guerra. Così il censore scrive
al ministro del Minculpop Pavolini: «Se la ragione imperasse sul
mondo, la censura avrebbe autorizzato il lavoro», ma dal
momento che impera la follia De Filippo si vede costretto a
cambiare periodo storico e uniformi dei soldati. L’Italia è salva
FEDERICO FELLINI
Il regista è uno degli autori radiofonici più bersagliati dalla
censura. Se il suo lavoro teatrale Adamo ed Eva viene respinto
perché irriverente verso i sacri testi, da una commedia
radiofonica del 1942, Viaggio di nozze, viene cassato il seguente
dialogo: «BIANCHINA: “I tuoi vestiti, Cico?”. FEDERICO: “Ah, li
ho lasciati nel bagno...”». Zurlo temeva che gli ascoltatori
potessero lasciarsi andare a fantasie peccaminose
Censura
Quelle forbici benevole
dell’inquisitore del Duce
SIMONETTA FIORI
L
ROMA
e forbici di Mussolini a teatro
hanno il profilo rotondo e
l’incedere morbido d’un burocrate gentiluomo, che aveva il vezzo di siglare le sue autorizzazioni
alla maniera d’un leggendario spadaccino, con la zeta di Zorro, che in questo caso stava per Zurlo. Leopoldo Zurlo. Nessun censore d’età fascista può vantare altrettanta costanza nel servizio, tredici
anni spesi nel controllare meticolosamente tutta la produzione teatrale e radiofonica italiana, commedie, riviste,
drammi, tragedie, libretti d’opera e d’operetta, canzoni, sketch pubblicitari, siparietti e gag per l’avanspettacolo. Diciottomila copioni, dal 1931 al 1943. Solo
lui, nessun altro. Caso straordinario nella burocrazia fascista: se negli altri campi
i tentacoli del Duce s’articolano in un’infinità di soggetti, sulla scena s’identificano in un’unica persona. Cravatta a farfalla, pince-nez di montatura robusta, ironia sottile: cambiano i ministeri di riferimento — prima gli Interni, poi la Stampa
e Propaganda, infine la Cultura Popolare
— non Leopoldo Zurlo il Censore.
Alla zeta di Zurlo erano appesi i destini
dei personaggi più autorevoli del palcoscenico italiano — “un mondo interessante quanto pericoloso”, si legge nelle
note ministeriali dell’epoca — dai fratelli De Filippo a Totò, da Fellini a De Sica,
da Bragaglia a Sem Benelli, da Tina Pica a
Massimo Bontempelli. Ma anche i più
giovani Italo Calvino e Michelangelo Antonioni, oltre che Indro Montanelli autore di commedie, scivolarono sotto la sua
lente. Il Controllore di Regime assolse il
suo compito con straordinaria abilità,
sorvegliando ma senza vessare, tagliando ma senza indispettire, fedele al principio che «bisogna lasciare all’autore l’impressione della libertà, permettendogli
di dire quanto non guasta o non peggiora l’animo dello spettatore». Il suo buon
senso finì per conquistare gli artisti più
esigenti, nel tempo inclini a rivolgersi a
Zurlo come a un protettore delle arti. Ancora nel 1945 Silvio D’Amico lo ricordava
«colto, sensibile, dotato d’una prodigiosa memoria, di un’infinita pazienza, e
d’una mentalità tutt’altro che fascista».
Nei faldoni dell’Ufficio Censura Teatrale, depositati all’Archivio Centrale
dello Stato, è racchiuso un pezzo importante della storia della cultura italiana.
Lettere, relazioni ministeriali, note in
margine, riassunti, pareri, promemoria,
sfoghi personali, correzioni e tagli, grazie
ai quali un’archivista-ricercatrice attenta e rigorosa, Patrizia Ferrara, è riuscita a
ricostruire la censura sulla scena tra il
1931 e il 1944, con l’inventario di tutti i testi controllati dalla “pupilla del Duce”:
spesso di firma celebre, alcuni poco conosciuti se non dimenticati dallo stesso
autore (Censura teatrale e fascismo 19311944. La storia, l’archivio, l’inventario,
edito dal ministero per i Beni e le attività
culturali, due volumi, pagg. 1.114, euro
80, in vendita presso l’Istituto Poligrafico, da prenotare all’indirizzo e-mail: [email protected]). Tagli e sforbiciate, quando non divieti integrali, disegnano un’Italietta provinciale e sessuofobica, che
non ammette parodie di personalità evocatrici del Duce, ma neppure battute osé
o storie sentimentalmente azzardate. Un
paese zuppo di cattolicesimo perbenista, che dice «reggipetto» ma non «mutandine», respinge caricature bibliche
come quella di Federico Fellini nel divertissement Adamo ed Eva, esclude qualsiasi disordine anche di natura sociale —
vietati i quadri con sommosse popolari o
scioperi proletari — e tollera appena l’irrisione di matrimonio e maternità. Un’Italia littoria ormai irregimentata, che vieta Cocteau in polemica con i francesi, impone a Leopardi il “voi” al posto del “lei”,
mette al bando gli autori antifascisti quali Roberto Bracco o gli americani sospettati di antitotalitarismo come Margaret
Kennedy, e cancella L’Ebreo errante giudicato nel 1934 un testo «inopportuno».
Eppure tra le lame del Censore qualche
lavoro controcorrente riesce a passare:
anche per la complicità di Zurlo, alto burocrate del fascismo di formazione liberale, di cultura insolitamente vasta e —
virtù che immunizza da ubriacature
ideologiche — incline allo scetticismo.
Figlio d’una famiglia molisana, benestante e di radice risorgimentale, il giovane Zurlo s’era formato sul finire del secolo a Napoli, in un milieu segnato dalla personalità di Croce. È in questa città
— dove si laurea a 21 anni nel 1896 — che
frequenta casa Senise, legandosi a Carmine, futuro capo della polizia fascista.
Un’amicizia nel tempo assai fruttuosa.
Senza scosse il suo cursus honorum al
servizio dello Stato: a 25 anni funzionario del ministero dell’Interno; a 37 segretario particolare nel governo Giolitti;
DOMENICA 2 GENNAIO 2004
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
IL PERSONAGGIO
Leopoldo Zurlo nasce il 3
dicembre del 1875 da una famiglia
molisana, agiata e politicamente
attiva: il nonno materno, Leopoldo
Cannavina, deputato in
Parlamento dal 1861 al 1863; lo zio
Vittorio Cannavina sottosegretario
nel governo Giolitti. Il giovane
Zurlo si forma a Napoli, in un milieu
INDRO MONTANELLI
Nel 1942 il giornalista scrive a Zurlo su carta intestata del Teatro
Alfieri: “Eccellenza! Io sono nelle vostre mani. Tra quattro giorni
devo rimettermi l’uniforme e ripartire...». La richiesta è per una
commedia dal tono mondano: Lo specchio della vanità. Zurlo
concede l’autorizzazione, con una sforbiciata al dialogo tra i due
protagonisti. «GIULIA: “Leggi i giornali di mode?”. ANDREA:
“Dacché sono diventati gli unici nei quali si può credere”»
segnato da Croce. Esemplare il
suo “cursus honorum”: a 25 anni
funzionario dell’Interno, a 37
segretario particolare nel governo
Giolitti; a 46 nel gabinetto Bonomi,
poi con Facta. A 56 anni diventa
responsabile dell’Ufficio censura
teatrale, incarico che mantiene per
tredici anni
ITALO CALVINO
La censura passa al vaglio anche i lavori teatrali degli universitari.
Nel 1941 arriva sul tavolo di Zurlo La morte di Socrate,
divertissement goliardico di Calvino diciottenne. La scenetta
passa senza tagli: protagonisti una decina di vispi studentelli,
ottantenni in lunga barba bianca. Il magister è Socrate, costretto
dagli allievi a bere la cicuta. Colpito dalla censura un altro quadro
della rivista: per irriverenza verso l’Altare della Patria
ANTON GIULIO BRAGAGLIA
All’inizio del 1942 il famoso regista scrive a Zurlo: «Sono
mortificato di dovervi importunare, ma pure io ho un
dovere!». Chiede l’autorizzazione per Les parentes terribles
di Cocteau e Sur le marches du palais di Jean Sarment.
Secondo il ministro del Minculpop Pavolini, il lavoro di
Cocteau può «destare nelle platee l’ammirazione per
l’autore e indirettamente per la Francia». Il visto viene negato
‘‘
L’ARCHIVIO
L’archivio
dell’Ufficio
censura teatrale
nella sede
romana di via
Veneto. Dopo la
soppressione del
Minculpop,
i fascicoli furono
trasferiti altrove,
dal ‘72 presso
l’Archivio Centrale
dello Stato
a 56 la nomina a viceprefetto. Nel 1931,
del tutto inattesa, la chiamata da parte di
Arturo Bocchini, allora capo della polizia: l’incarico è «sovrintendere alla revisione delle opere teatrali». Forse è solo
un caso, forse no: la stanza di Zurlo, al Viminale, è contigua a quella di Carmine
Senise, vicecapo della polizia. L’antico
compagno degli anni napoletani. «Non
fascista né antifascista, ma fedele servitore dello Stato»: questa, più tardi, sarà
la formula autoassolutoria di molti burocrati trapassati in modo indolore dallo Stato liberale a quello fascista. Senza
sdegni né entusiasmi.
Per tredici anni Zurlo gode di crescente autonomia, talvolta scontentando i
custodi dell’ortodossia. Ma contro Zurlo
può soltanto Mussolini. Accade nel 1934
con Carne biancadi Luigi Chiarelli: il Duce non apprezza che la bianca Kitty s’innamori d’un uomo di colore, per di più
raffigurato come eticamente superiore.
Zurlo l’aveva autorizzato «perché siamo
a teatro, l’esagerazione è indispensabile». Il lavoro viene sospeso.
Sicuro di sé e molto ambizioso, il Censore non esita a rivolgersi direttamente al
capo del fascismo. Nel 1931 arriva a Roma Sacha Guitry, che porta in scena due
amanti teneramente allacciati sullo stesso talamo. Che fare? Zurlo non se la sente
di intervenire sul testo. Mussolini l’asseconda, ma raccomanda di «non sottolineare troppo nella recitazione le scene
che mostrano i due amanti». L’opinione
del Duce viene invocata per i lavori incentrati sulle figure di Cesare, Napoleone, Garibaldi, assimilabili nell’immaginario popolare alla sua persona. Un nervo scoperto: le eccezioni sollevate da
Mussolini sono sempre innumerevoli,
come quando boccia il Sant’Elena di Sheriff e Casalis solo perché Bonaparte è raffigurato in maniche di camicia. Eguale allarme per il Napoleone di Totò, in una
Vitaliano Brancati
In una via elegante di
Roma, c’è un edificio
famoso. Sotto il
fascismo, era la sede del
ministero della Cultura
Popolare. C’era anche
qualche brava persona,
perché in Italia le brave
persone si vanno a
ficcare dappertutto, come
se avessero il compito di
generare confusione tra il
bene e il male, ed evitare
a qualunque associazione
e ministero un giudizio
recisamente negativo
Da RITORNO ALLA CENSURA
Laterza, 1952
fantasia grottesca del 1938: Zurlo suggerisce all’attore una recitazione che faccia
il verso, non al personaggio, ma all’attore Charles Boyer, che l’aveva interpretato l’anno prima in Maria Walewska.
Da Censore a Pedagogo: la grande
svolta arriva alla metà degli anni Trenta,
quando Zurlo viene trasferito al ministero della Stampa e Propaganda. Con
un requisito in più: da “poliziotto” s’innalza a educatore, impegnato in una
riforma del teatro italiano in linea con
l’Italia littoria. Gli autori gli si rivolgono
con dedizione, avidi d’un suggerimento
per evitare la scure del censore. Anche
Anton Giulio Bragaglia lo elegge a proprio consigliere. Nel settembre del 1934
gli fa avere il copione di La Cortigiana
dell’Aretino, segnalando a parte «i punti più grossi», che era disponibile a modificare, fermo però nel difendere lo spirito del lavoro: «Naturalmente io rinuncerò a dare La Cortigiana se la censura
vorrà troppo evirarla. Non ne verrebbe
infatti un servizio all’Aretino presentarlo così sguarnito delle sue forze popolaresche». Zurlo vieta il lavoro per volontà
di Mussolini, ma nel 1938 inaspettatamente l’autorizza: un colpo di mano nei
confronti del ministro Alfieri.
Perfino con Michele Galdieri, autore
amato da Totò, il Censore intrattiene
rapporti cordiali. Lo considera “l’ingan-
nevole incarnazione del diavolo”, però è
evidente che si diverte alle sue battute. E
alle vibrate proteste di Adelchi Serena,
segretario del Pnf, disgustato nel 1941
dal personaggio della “mondana”, replica in modo asciutto: «Oramai la rivista è
stata autorizzata, recitata, approvata dal
pubblico». Ma è nel carteggio con Eduardo De Filippo che Zurlo manifesta il suo
originale stile censorio, venato di lungimiranza e ipocrisia.
Assai più complicati i rapporti con Sem
Benelli, inviso all’ala intransigente del fascismo e agli ambienti cattolici. In sua difesa, il Controllore di Regime non esita a
sfidare i fulmini di Alfieri — «Una severità
eccessiva con lui suscita più scalpore della condiscendenza», l’ammonisce nell’aprile del 1937 — ma ogni sforzo risulta
inutile. Per la riedizione di Caterina Sforza, nel 1941, preferisce sollecitare il parere preventivo del Vaticano. Monsignor
Giovanni Montini, sostituto della segreteria di Stato del Papa, fa tagliare la battuta in cui Sisto IV «chiede alla nipote se è incinta». Molti anni più tardi, Zurlo domanderà a Montini, divenuto intanto
pontefice, la ragione della censura. Incontestabile la risposta: «Un Papa sulla
scena parla con un altro stile».
La carriera di Zurlo si chiude il 31 dicembre del 1943. Ha 68 anni. Dopo aver
servito per tredici anni Mussolini, si rifiuta di aderire a Salò. Sull’“amabile censore” — così lo definì Gerardo Jovinelli —
fioriranno testimonianze lusinghiere,
ma tra tutte colpisce la sapiente sintesi
proposta da Vitaliano Brancati nel saggio Ritorno alla censura: «C’era anche
qualche brava persona, perché in Italia
le brave persone si vanno a ficcare dappertutto, come se avessero il compito di
generare confusione tra il bene e il male,
ed evitare a qualunque associazione,
milizia, ministero, un giudizio recisamente negativo».
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
Al mercato della memoria si possono spendere più di quattrocentomila euro
per una chitarra, se è quella suonata da George Harrison. Perché
aggiudicarsi i cimeli delle star della musica, dello sport e del cinema è una
mania. I protagonisti sono i ragazzi degli anni ’60 e ’70, diventati ormai adulti. I più ricchi
sono disposti a tutto pur di tenere in casa gli oggetti dei loro idoli. Ma anche gli altri possono
partecipare alla gara: magari solo per poter avere un pezzo di panino avanzato ai Beatles
i record
CHARLIE CHAPLIN
Il bastone di bambù che è stato
usato da Charlie Chaplin durante
le riprese del celebre
film Tempi Moderni
Valore stimato:
14.000 euro
Prezzo d’acquisto:
68.975 euro
EVITA PERON
Il sudario con cui fu avvolto il
corpo imbalsamato di Evita
Peron per il rientro in Argentina,
composto da tre veli in seta
Valore stimato:
Tra 30.000 e 40.000 euro
Prezzo d’acquisto:
160.100 euro
Nostalgia
La folle asta dei tempi andati
L
ERNESTO ASSANTE
URSULA ANDRESS
Il bikini bianco indossato in
Agente 007 Licenza di uccidere
Valore stimato:
70.000 euro
Prezzo d’acquisto:
57.992 euro
CASSIUS CLAY
I guantoni da box usati nel primo
combattimento contro Henry
Cooper nel 1963
Valore stimato:
17.000 euro
Prezzo d’acquisto:
53.022 euro
a chitarra di George Harrison venduta poche settimane fa a oltre quattrocentomila euro. Il bikini bianco indossato da Ursula Andress in
Licenza di uccidere battuto a
58mila euro. E poi centinaia di cimeli
piccoli e grandi di divi e rockstar del passato, messi all’asta in tutto il mondo ogni
mese. E aggiudicati dopo infuocati rilanci. È esploso il mercato della memoria. E
non solo quello dell’arte e della letteratura, ma soprattutto quello della nostalgia legata allo spettacolo, alla mondanità, allo sport. Il meccanismo non è
quello che lega un fan al proprio “oggetto del desiderio”. Non è il puro e semplice collezionismo a muovere l’interesse
di centinaia, migliaia di persone in ogni
angolo del pianeta, per oggetti che, in sé,
non valgono che pochi euro. È qualcosa
di diverso, di più profondo.
Matthias Horx — che è uno dei più accreditati esperti di trend — nel suo studio Future Markets 2004 sostiene che
nella società postindustriale, a lungo termine, i mercati del consumo si trasformeranno in «mercati dei sensi», nei quali le vecchie categorie di prodotti serviranno a poco. E nei quali a farla da padroni saranno proprio i memorabilia, gli
oggetti che servono solo a ricordare un
personaggio, una performance, un momento della vita di una star dello spettacolo o dello sport.
Ma chi sono i protagonisti del business della nostalgia e del feticcio? Secon-
do gli osservatori più attenti, il popolo
dei memorabilia è composto soprattutto da quaranta-cinquantenni di successo, persone che sono cresciute in piena
“era del rock”, appassionati di cinema,
giovani fan diventati adulti. Un popolo
che segue compulsivamente le aste organizzate dalle due grandi case,
Sotheby’s e Christie’s, che naviga in rete
alla ricerca di oggetti posseduti dalle
star, o che frequenta le mostre-mercato
dove possono trovarsi cimeli più piccini,
ma non meno importanti dal punto di vista simbolico. «Collezionare cimeli significa intrecciare la propria memoria
personale con la memoria collettiva e
storica, nell’intento di dare un senso al
presente», spiega Fabio Bertolo, di Christie’s. «Il singolo oggetto acquista agli occhi di questi collezionisti un valore quasi taumaturgico: l’ha posseduto “lui” e
dunque il solo contatto trasmette benefici influssi, oltre all’emozione di avere
tra le mani un pezzo di storia».
Il fenomeno ha una data di inizio: il
1981, quando Sotheby’s organizzò una
prima grande vendita di memorabilia
rock’n’roll a Londra. Da quel momento
fu un crescendo senza soste: in quella
ormai storica asta furono spese 9.000
sterline per un piano appartenuto a Sir
Paul McCartney, 7.500 per una chitarra
di John Lennon e solo 420 per il certificato di matrimonio di Lennon con
Cynthia Powell. In tutto si raccolsero
97mila sterline. Ebbene, nel 1982 la cifra era già arrivata a 104mila, nel 1983 si
era passati a 207mila.
«A spingere in alto le quotazioni è la generazione dei cinquantenni cresciuti
con il rock», racconta Red Ronnie, passato alla storia per aver acquistato la famosa chitarra suonata da Jimi Hendrix a
Woodstock, che oggi fa bella mostra al
Museo del Rock di Seattle (altra operazione nata sotto il segno della nostalgia
per iniziativa del co-fondatore di Microsoft Paul Allen). «Quelli che non si sono
bruciati il cervello con gli acidi oggi sono
dirigenti d’azienda e per loro mettere alla parete un oggetto di Lennon o una chi-
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
LA LETTERA PIÙ PREZIOSA
Il prezzo più alto pagato a un’asta per
una singola lettera autografa è di 748mila
dollari. La lettera, scritta da Abramo Lincoln
l’8 gennaio 1863 in difesa del proclama
di emancipazione, fu battuta il 5 dicembre
1991 da Christie’s, New York,
e acquistata da Profiles in History
di Beverly Hills, California
IL NUMERO SUPERFORTUNATO
Il numero di telefono più costoso è 8888-8888,
acquistato da un rappresentante delle Sichuan
Airlines il 19 agosto 2003 per 2,33 milioni
di yuan (280.723 dollari) durante un’asta
a Chengdu, Cina, di oltre 100 numeri telefonici.
Otto è ritenuto un numero fortunato
in Cina ed è simile alla parola cantonese
che sta per “arricchirsi”
Il miraggio canaglia
di un’età dell’oro
che non c’è mai stata
prato su Internet (probabilmente appartenuto alla cantina di un qualunque carome è noto siamo tutti in viaggio e
pentiere teutone). Continuiamo a rimnon abbiamo la più vaga idea del
piangere il passato in ogni aspetto: polipercorso. Non bastasse, quando
tica, musica, sport. È probabile che queguardiamo nello specchietto retrovisore
st’ultimo sia stato davvero migliore, ma
veniamo ingannati. Parafrasando l’avvercome disse una volta un filosofo di nome
timento in sovrimpressione sulle auto a
Sandro Mazzola: «Quelli che sono giovanoleggio: ogni cosa alle nostre spalle ci apni adesso hanno conosciuto solo questo
pare più grande e fulgida di quanto sia
tipo di calcio, questo amano e tra
realmente (stata). Dovrebbero mettere
vent’anni questo rimpiangeranno».
dei cartelli stradali in forma di triangolo,
Ma lo svarione universale è anche ogquelli che indicano un pericolo, sul tragitgettivo. Ammettiamolo: i cimeli dell’età
to della vita: «Attenzione, nostalgia». Sterdell’oro valgono zero perché l’età dell’oro
zate o verrete schiacciati, dirottati, beffati.
non è mai esistita. A questo non possiamo
Finirete per attribuire un valore assurdo a
rassegnarci: aver attraversato il nostro
qualcosa che non ne possiede alcuno.
tempo senza mai imbatterci in una stagioQuella che state inseguendo non è una
ne miracolosa o, almeno, in un momento
meta, ma una chimera. Eppure lo fate. Somagico. Con un’opera di revisionismo
gnate di possedere la maglia indossata da
non meno perversa di quella di certi storiRivera in Italia-Germania 4 a 3, la prima
ci prendiamo dal cassetto ricordi ammacchitarra spezzata da Jimi Hendrix durante
cati di quello che fu un anno o un giorno
un concerto (che non ripararete e quindi
che ne vale tanti altri, gli passiamo sopra
non suonerete mai giacchè il danno è la
una mano di vernice giallastra e sospiriasua essenza), il vestito bianco indossato da
mo. Poi usciamo a comprarci quel che,
Marilyn su una grata della metropolitana
nella nostra mente e lì soltanto, testimonia
di New York alle 2 e 40 di una notte del 1954
che non abbiamo sognato invano (o reilluminata a giorno dai fari per le riprese.
stiamo a invidiare chi può farlo). Capita a
Perché ci cascate? È un effetto ottico, vi
tutti, nessuno escluso.
grida la vostra mente, ma avete già messo
Dopo aver steso questa critica semisemano al portafoglio e se
ria alla nostalgia come staavete abbastanza soldi vi
to (d’animo) canaglia,
comprate una “madeleinon resta che confessare
ne” scaduta (il primo nul’insana tentazione promero, in edizione originavata anni fa davanti a
le, di Tex Willer, la sputacun’asta di cimeli. Se avessi
chiera di Freddie Mercury,
posseduto le migliaia di
il buco lasciato da una paldollari necessarie avrei
lottola sparata da Che Guepartecipato per assicurarvara in persona a Santa
mi quell’oggetto. Che coClara). Se non ve lo potete
s’era? Un accendino. E
permettere rosicherete conon fumo. Recava un’ime se la chiave del paradiscrizione, a ricordo della
so vi fosse passata sotto il
«favolosa estate del ‘56». E
naso dondolando e poi via,
non ero nemmeno nato.
nelle mani di un altro. È un
L’aveva regalato John
universale svarione sogFitzgerald Kennedy a Jacgettivo e oggettivo.
queline Bouvier. Il punto è
Soggettivo perché ogni
il seguente: il primo ricorgenerazione nel miraggio
do che ho dell’esistenza è
della nostalgia rivede col’immagine dell’attentato
me oasi gli stagni in cui ha
di Dallas, lei in tailleur ronuotato. Nel testo dell’insa stesa sul cofano nel vadimenticata filastrocca
no tentativo di rappattumusicale Sunscreen è conmare i pezzi del cervello
tenuta questa perla di sagesploso di lui. Ossessionagezza: «Accetta verità indito come un americano
scutibili: i prezzi saliranqualunque da quell’imno, i politici ruberanno e tu
magine, ho passato l’indiventerai vecchio. E
fanzia e l’adolescenza legquando lo sarai ti convingendo qualsiasi testo ricerai che quando eri gioguardasse quelle due pervane i prezzi erano ragiosone. E ho appreso prima
nevoli e i politici onesti».
la fiaba, poi il suo smaOgni generazione sposta
scheramento. Babbo Nala lancetta in cui il tempo
tale non esiste, JFK tradiva
perduto era felice, i miti
la moglie con ogni segretadegni di essere idolatrati, i
ria e per non più di 90 secocci di vetro che lastricacondi, Jackie tradiva il mano l’attuale percorso diarito con un suo collaboramanti purissimi.
tore, le loro vite sono state
Mi trasferii al Cairo e,
il tradimento delle idee per
parlando con qualcuno
cui sono stati amati, quella
del posto, per la prima volmorte, per come è stata
ta sottolineai il degrado
raccontata ufficialmente,
della città. «Avresti dovuto
è stata il tradimento di
vederla vent’anni fa, alloogni verità. Non c’è stata
MARILYN MONROE
ra sì», ribattè, nostalgico. A
età dell’oro vissuta in diIl leggendario vestito
un secondo interlocutore
retta: tutto, fin dalla prima
da sirena indossato
dissi poi: «Questa città doimmagine, comincia con
da Marilyn nel 1962
veva essere stupenda
un inganno a cui se ne soper augurare buon
vent’anni fa». Replicò:
compleanno a Kennedy vrappone un altro. Eppure
«Era già una schifezza, dodeve essere esistito un
Valore stimato:
vevi vederla quarant’anni
tempo in cui le cose erano
736.000 euro
fa, allora sì». E la frontiera
diverse, l’amore puro, l’ePrezzo d’acquisto:
continuò a spostarsi per
roe integro, la dama radio846.495 euro
evitare la verità: nessun
sa: una favolosa estate del
uomo vivente ha memoria
‘56. Allora, mentre le modi una Cairo all’altezza
netine cadevano nel juke
della sua leggenda, non
box tintinnando e le vele
importa quante pietre
sbatacchiavano nel vento
possiamo comprarci per
di Cape Cod una fiamma si
attestare il contrario.
accendeva e così miracoLo splendore è qualcolosamente restava e resa che alle cose attribuiasterà, se noi saremo devote
mo con un’operazione di
vestali di quell’istante.
restauro dettata dalla diAlla fine, la nostalgia
sperazione. Vogliamo a
non è che un surrogato o
tutti i costi poter dire anuna forma rozza e primitiche noi: formidabili queva di fede: viene a dirci che
gli anni. Se non abbiamo
un paradiso è esistito, l’abfatto il ‘68, almeno il ‘77, o
biamo perduto ma possiac’eravamo nell’89. Abbiamo riconquistarlo credenmo il primo numero del
do. Che i prezzi siano mai
Manifesto, con la testata
stati ragionevoli, i politici
in rosso, un microfono di
onesti, questo viaggio senRadio Alice, un ciottolo
za rotta un provvidenziale
del Muro di Berlino comtracciato.
GABRIELE ROMAGNOLI
FOTO MEHDI FEDOUACH/AFP
C
MARIA CALLAS
Nella foto, l’esposizione dei gioielli del grande soprano
organizzata da Sotheby’s a Parigi. La collezione (11 pezzi)
è stata aggiudicata lo scorso 17 novembre a un anonimo
acquirente per quasi un milione e mezzo di euro
tarra di Clapton o di Hendrix è molto meglio di avere un quadro di Warhol o di
Pollock. Quella della musica rock è stata
una cultura pazzesca, di conseguenza
anche le tracce delle icone di quella cultura diventano importantissime. Anche
io ho acquistato delle cose che continuano a far impazzire la gente».
“Impazzire” è il termine giusto per alcune delle memorabiliaandate all’asta e
vendute a cifre enormi negli anni passati. Alcune delle quali di memorabile hanno molto poco, come l’avanzo di un panino di George Harrison o una fetta di
torta del matrimonio dei duchi di Windsor o, il caso più recente, un chewingum
masticato da Britney Spears, venduto all’incanto su eBay. Per chi vuole spendere poco, ma non ha intenzione di rinunciare a qualche cimelio, c’è infatti Internet. Ci sono le aste online di eBay, che offrono ogni giorno piccoli e piccolissimi
pezzi di memoria nostalgica per tutte le
tasche. Ma c’è, per esempio, anche Amazon, diventato per gli appassionati di oggetti della memoria letteraria un piccolo
paradiso, ricco di copie originali e autografate di libri, soprattutto americani.
I prezzi sono cresciuti in maniera
esponenziale. E per le persone normali
comincia a mancare lo spazio, in questo
mercato della nostalgia sempre più
esclusivo: «Uno come me — dice ancora
Red Ronnie — ormai non riesce più a
comprare nulla. Nel 1990, con i 195 milioni di lire spesi per la chitarra di Hendrix meritai un posto nel Guinness dei
primati. Oggi quella chitarra, che ho
venduto, vale tra i 2 e i 3 milioni di euro».
I prezzi sono
cresciuti
vertiginosamente
Red Ronnie: “Ho
comprato la sei
corde di Hendrix
a 195 milioni
di lire. Oggi vale
oltre due
milioni di euro”
GEORGE HARRISON
La chitarra dell’ex Beatle: una
rara Gibson suonata per
registrare l’album Revolver
Valore stimato:
368.000 euro
Prezzo d’acquisto:
417.726 euro
PELÉ
La storica maglia n.10 indossata
da Pelé nella finale dei mondiali
di calcio del 1970
Valore stimato:
31.000 euro
Prezzo d’acquisto:
222.450 euro
JOHN LENNON
La Mercedes Benz Limousine
di John Lennon comprata
da un collezionista europeo
Valore stimato:
non calcolato
Prezzo d’acquisto:
193.895 euro
HARRISON FORD
La frusta usata da Harrison Ford
nei film di Indiana Jones
Valore stimato:
7.000 euro
Prezzo d’acquisto:
38.920 euro
GUERRE STELLARI
L’elmetto indossato dalle truppe
imperiali in Guerre Stellari
Valore stimato:
tra i 7.000 e i 10.000 euro
Prezzo d’acquisto:
18.968 euro
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
spettacoli & tv
DANZA ALL’ARCIMBOLDI
MILANO. Dopo il “Gala” di fine
anno al Piermarini il Corpo di
Ballo del Teatro alla Scala
riprenderà agli Arcimboldi “Lo
schiaccianoci” di Rudolf Nureyev.
Stasera, nel doppio ruolo di
Drosselmeyer e del Principe, in
scena Maximiliano Guerra (foto),
con Sabrina Brazzo.
Cinema e musica
COVATTA TORNA IN TV
ROMA. «In primavera tornerò in tv
con la Gialappas» annuncia
Giobbe Covatta in un’intervista
che andrà in onda dal 3 al 7 alle
8.50, su Radio Capital. «Perché in
primavera? Perché prima ci sono
le elezioni e con la storia della par
condicio finisce che dobbiamo
fare scena muta per due ore».
Perrin: “Ho una sola vita
voglio spenderla a sognare”
U
MARIA PIA FUSCO
ROMA
na carriera tutta particolare quella di Jacques Perrin: interprete
sommesso e gentile di
sofferte storie d’amore — indimenticabili come i primi film in Italia, La
ragazza con la valigia e Cronaca famigliare di Valerio Zurlini — e comunque di personaggi delicati, immersi spesso nella malinconia del vivere, come nei più recenti Il deserto
dei Tartari (ancora di Zurlini) o Nuovo cinema Paradiso di Tornatore,
amato da autori come Jacques
Demy, Costa-Gavras, Chabrol, è
produttore e regista, il più insolito
nella storia del cinema e non soltanto francese, caratterizzato dal netto
rifiuto del comune cinema commerciale. Ora si appresta a passare due
anni sull’acqua, alla guida di tre
troupes che nei diversi continenti indagheranno sullo stato di salute degli oceani, sulla vita — o la sopravvivenza — della fauna e della flora marina, sui guasti apportati dall’uomo,
sui misteri meravigliosi o terribili degli abissi. È Ocean, il prossimo film di
Jacques Perrin, un film tra documentario e finzione, un’altra avventura dentro la natura, dopo l’esplorazione della vita degli insetti in Microcosmo, il popolo dell’erba (1995),
dopo l’affascinante racconto del
percorso di trenta specie di uccelli in
Il popolo migratore (2001).
Non la spaventa la violenza del-
“Sono felice della
mia storia diversa
Devo tutto
a Valerio Zurlini
e al cinema italiano”
LA NATURA
Jacques Perrin sul set
di “Il popolo migratore”.
Il regista studia la natura
che lo circonda
l’oceano?
«La natura, come stiamo vedendo, a
volte può essere di una violenza inaudita come se volesse riaffermare la sua
supremazia sull’uomo. È spaventoso
certo, ma questa idea mi aiuta ad attutire i capricci e le brutture della realtà
contingente. Ho scoperto la possibilità di unire il lavoro con il piacere della conoscenza del mondo in cui viviamo, un’esaltazione troppo forte per rinunciare. E non importa se non è cinema commerciale, ho
una sola vita, non posso
sprecarla per i soldi».
C’è anche il gusto dell’avventura in certe scelte?
«In parte, l’ho scoperta
una ventina di anni fa, con
le riprese di Les quarantièmes rougissants, ero un ingegnere che faceva il giro
del mondo da solo in barca
a vela, siamo stati in mare
per mesi e mi è venuta voglia di comunicare quello
che osservavo. Ecco, io mi
definisco un passeur, uno
che ha la capacità di vivere
le cose che la natura offre e
passarle agli altri. Lo faccio
con rispetto e con rigore,
cercando di dare un’identità alle cose che faccio».
L’ultimo suo film uscito in Italia è Les Choristes,
di cui è attore e produttore. Cosa l’ha attratta nella storia?
«La musica e l’infanzia, i due elementi del film. Ho sempre amato la
musica, mi piace pensare alla vita
come una partitura musicale, sono
felice di aver trasmesso questa passione ai figli più piccoli, 9 e 5 anni. E
poi l’infanzia, l’età del passaggio importante, quando si accenna a chi saremo da adulti, si comincia a sognare. È bello quando si scopre l’amicizia e si esce dalla solitudine, si dividono emozioni e sogni».
La sua infanzia ha influito anche
sulle scelte professionali?
«Soprattutto quelle. C’è una
grande differenza tra la mia generazione e i ragazzini di oggi, che si divertono con quello che offriamo loro, noi per divertirci usavamo l’immaginazione. Avevamo poco, ma
non invidiavamo chi aveva di più,
eravamo più semplici e, forse, più
felici, con la consapevolezza di dover contare su noi stessi per avere
quello che volevamo. Ho acquistato
la volontà di scegliere quello che mi
piace e di accettare ogni rischio, anche quello di scarsi risultati economici e di restare fuori dai normali
circuiti del cinema».
Com’è nata la scelta del cinema?
«Malgrado la famiglia, non pensavo di fare l’attore, ma detestavo la
scuola e a 14 anni decisi di lasciarla.
Dovevo lavorare, il cinema era un
mezzo per guadagnare, ma non pensavo ad una carriera. Devo a Zurlini e
al cinema italiano se in qualche modo lo è diventata».
A parte qualche ruga, lei non dimostra la sua età...
«Forse perché mi sono inventato
la felicità di una vita differente che mi
ha riportato indietro nel tempo e mi
ha dato un rapporto sereno con gli
altri e con il mondo».
Musica.Trionfano Maazel e Prêtre
con i valzer e le arie di Capodanno
MICHELANGELO ZURLETTI
L
ROMA
a Fenice e la sala del Musikverein
parate a festa hanno sparato nei
Concerti di Capodanno i repertori della
loro tradizione: valzer, polke e galop da
una parte e dall’altra l’opera italiana. Sono due iniziative equivalenti. Ma in questi giorni avremmo fatto volentieri a meno anche dei due concerti: meno trullari quello veneziano ma più sbarazzino
quello viennese, al punto da suggerire ai
Wiener prima e a Maazel dopo di inviare pensierini di circostanza alle vittime
del maremoto (e un assegno all’Oms).
Lorin Maazel ha
diretto a Vienna
Certo i programmi si fanno prima e non
prevedono catastrofi ma è curioso passare in pochi minuti televisivi dalle accorate parole del Papa all’Italiana in Algeri, al verdiano ballo dal Gattopardo, al
Cancan di Respighi. È vero che Prêtre ha
fatto la sua parte, ha cincischiato e estenuato il suo programma e lo ha concluso con un brindisi dalla Traviata poco
festoso e quasi lugubre (Annalisa Raspagliosi e Giuseppe Gippali erano gli
interpreti di Puccini e del brindisi, mentre le coreografie turistiche erano di Micha van Hoecke).
A Vienna era una personale della famiglia Strauss, Johann sr.e jr. e Joseph,
più la polka Aus der Wiener-Artdi J. Hellmesberger. con una cuoca, anche qui,
che prepara lo strudel a cominciare
dalla raccolta delle mele e più l’Ouverture da La bella Galateadi Suppé. Si può
capire quanto un direttore chiamato al
Concerto di Capodanno si dia da fare
per scovare qualcosa di nuovo e si può
immaginare quanto poco di nuovo ci
sia in quel che trova. Maazel se la cava
benissimo con i pezzi veloci, meno con
i valzer distesi, più legati al rubato viennese. Orchestra splendida. Anche qui
coreografie modeste e soprattutto inutilmente sparone: sono riusciti a far venire Vladimir Malinkov da Berlino per
fargli scendere una scala. Il bel Danubio blu come bis di prammatica, ma
niente Radetzky-Marsch in considerazione della catastrofe asiatica.
In breve
CINEMA
Il governatore Schwarzy
in un film per amicizia
LOS ANGELES. Il governatore
della California Arnold Schwarzenegger reciterà per un cameo in
“The Kid and I”, una commedia
scritta e prodotta dall’amico Tom
Arnold. Schwarzenegger lo ha annunciato nel corso di uno show televisivo sulla rete Fox, “The best
damn sports show period”, di cui
Arnold è conduttore.
TEATRO
Parigi, Cardinale recita
Tennessee Williams
PARIGI. Claudia Cardinale (foto)
salirà sul palcoscenico del teatro
della Madeleine, a Parigi, dall’8 febbraio prossimo per recitare in un’opera di Tennessee Williams, “La
dolce ala della giovinezza”. L’attrice italiana sarà l’interprete principale dell’opera del grande drammaturgo americano. Accanto avrà il francese Christophe Reymond. Traduzione, adattamento e regia sono di
Philippe Adrien, la scenografia di
Claire Belloc.
OSCAR
Il 25 gennaio
le Nominations 2005
LOS ANGELES. Le candidature
agli Oscar sono state inviate per posta la scorsa settimana ai 5.808
membri dell’Academy of Motion
Picture Arts and Sciences, i quali
dovranno far pervenire il voto entro
il 15 gennaio. Le Nominations saranno annunciate il 25 gennaio. La
cerimonia degli Oscar, presentata
quest’anno dal comico Chris Rock,
si svolgerà il 27 febbraio. Una indicazione attendibile di quel che accadrà si potrà avere come ogni anno
alla consegna dei Golden Globes
(16 gennaio).
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
i sapori
Il rito della sfoglia e della farcia si accompagna
da sempre alle festività di fine e inizio anno
E questa volta, complice l’impennata dei prezzi,
le famiglie hanno recuperato l’arte della produzione
casalinga. Con le mille diverse ricette
che l’Italia, dal Nord al Sud, ha inventato nel tempo
Piatti delle feste
itinerari
Il ferrarese Franco Rizzati
è proprietario del ristorante
Max, dedicato a pesci
e formaggi, e di un
laboratorio di pasticceria
e cioccolati ripieni, dalla
zucca allo zenzero. Ma
soprattutto è un cultore
delle paste ripiene e delle
loro ricette più segrete
Mantova
Mantova, la città dei Gonzaga,
vanta un goloso mix
gastronomico, figlio della sua
posizione geografica al confine
con Emilia e Veneto.
Tra i piatti culto, oltre ai tortelli
di zucca, un’altra pasta ripiena,
gli agnolini, di piccola fattura e
con il ripieno di carni miste stracotto di manzo,
salamella, pancetta da gustare rigorosamente
in brodo.
DOVE MANGIARE
Il Cigno Trattoria dei Martini
Piazza Carlo D’Arco Tel. 0376
327101 Chiuso lunedì e martedì,
menù a partire da 45 euro, vini
esclusi
DOVE DORMIRE
Casa Margherita
Via Broletto 44 Tel. 0376 222392
camera doppia a partire da 75
euro con prima colazione
DOVE COMPRARE
Panificio Freddi
Piazza Cavallotti, 7
Tel. 0376 321418
Ferrara
Reggio Emilia
Modena
Bologna
Reggio Emilia, adagiata a metà
tra la piana del Po e la collina,
testimonia la grande tradizione
agricola anche nei primi piatti,
dove spiccano i tortelli di magro,
ripieni di erbette (biete) impastate
con ricotta e l’immancabile
parmigiano, re gourmand del
territorio. Diffusi anche i ripieni di
zucca, senza amaretti né
mostarda, e quelli di patate.
Modena, città resa gloriosa dalle
produzioni di diverse Dop,
dall’aceto balsamico tradizionale
(insieme a Reggio) allo zampone
e al prosciutto. Il marchio
“Tradizione e sapori di Modena”
protegge invece i tortellini,
codificando la farcitura con
mortadella Igp, Parmigiano di
oltre 18 mesi di stagionatura.
Vietatissimo l’uso del
pangrattato.
Bologna dotta e grassa. Dicono
sia stato un oste locale, ispirato
dal sogno di Venere che si
innalzava nuda dalle onde del
mare, a ricreare con la pasta il
suo ombelico perfetto. La ricetta
originaria non lascia scampo a
produzioni di basso profilo: la
sfoglia dev’essere soda ma
lieve, il ripieno ricco, gustoso,
meditato, il brodo
obbligatorio.
DOVE MANGIARE
Osteria La Francescana
Via Stella 22. Tel. 0532 210118
Chiuso sabato a pranzo e
domenica, menù da 70 euro
vini esclusi
DOVE MANGIARE
Marco Fadiga Bistrot
Via Rialto 23 C. Tel. 051 220118
Chiuso domenica e lunedì, menù
a partire da 30 euro,
vini esclusi
DOVE DORMIRE
Canalgrande
Corso Canalgrande 6. Camera
doppia con prima colazione a
170 euro. Tel. 059 217160
DOVE DORMIRE
Nuovo Hotel del Porto
Via del Porto 6. Tel. 051 247926
Camera doppia con prima
colazione da 110 euro
DOVE COMPRARE
La Tajadela
Via S. Eufemia 11
Tel. 059 222598
DOVE COMPRARE
Pastificio Atti
Via Caprarie 7
Tel. 051 220425
DOVE MANGIARE
Alti Spiriti
Viale Regina Margherita 1/C
Tel. 0522 922147 Chiuso lunedì,
menù a partire da 45 euro,
vini esclusi
DOVE DORMIRE
Del Vescovado
Stradone del Vescovado 1
Tel. 0522 430157 Camera doppia
con prima colazione da 78 euro
DOVE COMPRARE
Rinomata Salumeria
di Giorgio Pancaldi
Via del Broletto 1p
Tel. 0522 432795
Ferrara, altro luogo di culto
dei salumi - su tutti la salama
da sugo -, vanta una sua
originalità nella preparazione
delle paste ripiene, a cominciare
dai cappellacci di zucca giù
giù fino ai cappelletti ripieni
di cervella e petto di tacchino.
Diffusa anche la forma
“a caramella”, mentre tra
i sughi, oltre al ragù,
si usano anche
funghi e tartufi.
DOVE MANGIARE
Oca Giuliva
Via Boccacanale di Santo
Stefano 38. Tel. 0532 207628
chiuso il lunedì, menù da 40 euro,
vini esclusi
DOVE DORMIRE
Locanda Borgonovo
Via Cairoli 29. Tel. 0532 211100
Camera doppia a partire
da 55 euro
DOVE COMPRARE
Pasta Fresca Sfoglia d'Oro
Via Bologna 128/A
Tel. 0532 767808
Pasta
ripiena
Tempo di crisi, torna
il tortellino fai-da-te
LICIA GRANELLO
i si siede a tavola e si aspetta.
Finché l’aria si riempie di un
profumo caldo, avvolgente,
appena speziato. Perfetto per
far salire l’acquolina in bocca.
Subito dopo, ecco apparire la
zuppiera fumante. Il brodo, lo dice l’olfatto, è perfetto. E i tortellini? Speriamo. Anzi,
ne siamo certi, se solo siamo riusciti a sgattaiolare nella cucina di casa per sottrarre
un poco di ripieno prima che sparisse dentro la farcitura della sfoglia…
Anche quest’anno, in Italia si contano
sulla punta delle dita di una mano i pasti
delle feste consumati senza il supporto di
un vigoroso piatto di pasta fresca, possibilmente ripiena. Se è vero che la crisi dei consumi ha travolto caviale & champagne,
precipitati agli ultimi posti nella hit parade
degli acquisti alimentari di fine anno, le
paste ripiene sono andate in controtendenza: netto incremento di richieste per
quanto riguarda le vendite al dettaglio. Ma
soprattutto aumento inatteso e deciso del
fai-da-te, dopo anni (molti) in cui era sufficiente passare per tempo dal pastaio di fiducia e prenotare il vassoio pronto per la
pentola di brodo.
Del resto, a 30/40 euro al kg, anche il primo piatto diventa un lusso. Così, nell’ultimo mese hanno prosperato i siti di ricette
C
Tortellini
alla Bolognese
SFOGLIA
6 uova
400 gr di farina
RIPIENO
100 gr lombo
di maiale
100 gr prosciutto
crudo
100 gr mortadella
di Bologna Igp
150 gr Parmigiano Reggiano
1 uovo, noce moscata
Far riposare il lombo con sopra
un battuto di sale, pepe,
rosmarino e aglio.Cuocerlo con
un po' di burro. Ripulirlo del suo
battuto e tritarlo finemente
insieme a prosciutto e mortadella
Impastarlo con uovo, parmigiano
e odore di noce moscata
dedicati alla preparazione di sfoglie e ripieni. Mai come quest’anno, i macellai
hanno dovuto impegnarsi a spiegare quali
sono i tagli più gustosi per le farcie, quali i
mix di carni codificati. Esercizio di gastronomia raccontata non facilissimo, perché
tante e tali sono le varianti, che tutti, ma
proprio tutti, si sentono in diritto di recitare il proprio sapere in materia.
Anche più delicato, l’argomento pasta.
Dicono gli esperti che la differenza tra la
sfoglia lavorata e “tirata” con il mattarello
e quella uscita dalla macchinetta (manuale o elettrica) si traduce in un abisso di gusto. Non a caso, le depositarie di tanto sapere, chiamate sfogline o resdòre (non esiste un corrispettivo maschile) vengono
venerate da familiari e amici come vere divinità laiche...
In compenso, poter declinare a proprio
piacimento l’elenco degli ingredienti permette a tutti di accedere al rito del Sacro
Tortello. Qualche esempio? I ripieni di magro sono perfetti per i vegetariani, che possono addentare i cappellacci di zucca o i ravioli di magro con burro fuso, mentre i
dannati della dieta, con un’operazione gastrointellettuale, riscoprono il sapore assoluto del raviolo “cordonato”, servito
semplicemente e senza condimento alcuno su un canovaccio da cucina (il “cordo-
nato”) perché una volta, presso le famiglie
più povere, il menu della festa contemplava sì il consumo delle paste ripiene, ma non
l’investimento economico supplementare
necessario per comprare la carne del ragù
(l’odierna variante ricca prevede una spolverata di parmigiano). In quanto ai celiaci,
la diffusione delle farine prive di glutine
consente, pur con qualche perizia in più, la
preparazione di ravioli e cappelletti senza
rischi di allergie.
Il resto è nelle mille ricette regionali: dal
Piemonte alla Sicilia, c’è solo l’imbarazzo
della scelta, tra i culingiones sardi, i ravioli
abruzzesi, i casonsei bresciani, i cialzòns
della Carnia, gli agnolotti piemontesi, i
pansotti e i ravioli di borragine domiciliati
in Liguria. Il tutto, in un trionfo di salsicce,
pecorino, zafferano, uva passa, più ogni
bendidio di carni.
Ma se volete partecipare davvero al
trionfo delle paste ripiene, il vostro posto
è l’Emilia Romagna. Attenzione, però: seduti al ristorante, difficilmente troverete
commensali pronti a condividere il vostro
entusiasmo. Perché nessuno, ma proprio
nessuno, fa i tortellini buoni come la sfoglina di casa. Meglio non accanirsi nel
confronto, per evitare di rompere amicizie ventennali, o far cadere il cuoco in depressione.
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
TORTELLINI
Variazioni infinite. Per un
gusto più morbido, carni
bianche (petto di gallina
o tacchino). A Bologna,
sono di rigore lonza di
maiale, mortadella,
prosciutto crudo. Si
mangiano con brodo di
manzo e cappone
TORTELLI DI ZUCCA
Nel 1300 li chiamavano
tortelli di Quaresima e il
ripieno era arricchito da
spezie, mandorle e
zucchero. Da zona a
zona variano ingredienti
e misura. A Mantova,
immancabili mostarda,
noce moscata, amaretti
CAPPELLACCI
Tipici del Ferrarese, più
abbondanti per misura
e spessore della sfoglia.
Rispetto a Mantova, il
ripieno è più povero. Si
servono con burro fuso
e parmigiano. Quelli
avanzati si ripassano
fino a renderli croccanti
CAPPELLETTI
Si distinguono per le
due punte della sfoglia
triangolare ripiegate
all’insù. Le “sfogline” di
Reggio Emilia tritano la
carne della farcia, la
rosolano e la stufano nel
brodo. Per il pasticcio si
parte dalla carne a pezzi
420mln +6,3% 85gr
Il valore del mercato
della pasta ripiena
in Italia, sia
di produzione
industriale
che artigianale,
è di 420 milioni
di euro all’anno
Nel nostro Paese
il consumo di pasta
fresca nell’ultimo
anno è cresciuto del
6,3 per cento. In
testa alle classifiche
degli acquisti
le regioni del Nord
Il peso medio di una
porzione di pasta
fresca, così
raccontano gli italiani
nelle ricerche di
mercato, è di 85
grammi: 82 al Sud
e 87 al Nord
40euro 3giorni
Il prezzo per un chilo
di pasta ripiena
di produzione
artigianale,
interamente fatta
a mano, può arrivare
fino alla soglia
dei 40 euro
Tre giorni è il limite
massimo per la
conservazione delle
paste fresche
artigianali. Il tempo si
allunga per quelle
confezionate in
atmosfera modificata
Il mix di ripieno e sfoglia
Un matrimonio
di mille anni fa
CORRADO BARBERIS*
u la molle tenerezza del ripieno a cercare la protezione della sfoglia o fu l’imperialismo di costei ad annettersi
una preda così ghiotta? In ogni
caso due insicurezze — anche
l’imperialismo lo è — raggiunsero, unendosi, la perfezione.
Risalgono al secolo XI le prime testimonianze, di origine
arabo-persiana, a proposito di
carne macinata ricoperta di pasta. Ma correva l’anno 1284
quando Salimbene da Parma si
beava dei ravioli sine crusta:
identificati nel loro ripieno
benché quel «senza pasta» lasci
intendere che essi ne erano
normalmente rivestiti. E ancora «ignudo» è il raviolo nella prima edizione del vocabolario
della Crusca (1612), che abbina
invece tassativamente la sfoglia
ad un altro omologo: il tortello.
Ravioli, tortelli.
Ma anche agnolotti, anolini,
marubini, cappelletti, casoncelli, culingionis. Dalle valli valdesi
alla Sardegna ogni regione ha
messo a punto un suo vocabolo
per esprimere il proprio rapporto con la pasta ripiena. Ironizzava Luigi Messedaglia che varianti di scarso momento erano definibili come tortelli in greco, casoncelli in latino, ravioli in ebraico. Quando, alcuni anni orsono,
un compianto ristoratore di Tolmezzo, il Cosetti, organizzò un
concorso per i migliori cjalsons
(calzoni) non
trovò un ripieno
uguale all’altro
nelle ricette delle
quaranta signore partecipanti.
Ciò premesso, ogni regione
segue, per la farcia, il genio della propria agricoltura: manzo,
magari stracotORIGINE
Le prime
to, tra Cuneo e
testimonianze
Piacenza; maiasulla carne
le in Emilia; formacinata
maggi e verdure
ricoperta di
dalla Romagna
pasta sono
in giù, con qualarabo-persiane
che ritorno di
ortaglie nelle
più povere vallate alpine e qualche pezzetto di soppressata o
prosciutto nel regno di Napoli.
È nota poi la contrapposizione
tra i tortellini di Bologna, grondanti prosciutto e mortadella
più l’oggi vietatissimo midollo
di bue, e i cappelletti di magro di
Ravenna e Forlì, autocritico cibo di vigilia per quegli anticlericali arrabbiati. Ma non per questo meno gustoso: il prefetto
napoleonico del Rubicone parlava di quattro o cinquecento
cappelletti per commensale,
con possibilità che ci scappasse
il morto per indigestione.
Tra magro e grasso, un singolare compromesso era quello escogitato dall’Alvisi, cuoco di Barnaba Chiaramonti, allora vescovo di
Imola, poi divenuto Pio VII: il ripieno era rigorosamente di cacio,
ma con l’aggiunta, in omaggio alla finitima capitale delle Legazioni pontificie, Bologna, di un briciolo di midollo. Si ricordò Pio VII
del cuoco Alvisi e del suo genio
combinatorio quando, perseguitato da Napoleone, si rifiutò di
coinvolgere nelle normali proteste diplomatiche gli immortali
principi della libertà, eguaglianza, fraternità? Il cattolicesimo liberale deve forse qualcosa a quel
briciolo di midollo.
Intanto, l’Atlante dei prodotti tipici dedicato a La Pasta da
Oretta Zanini De Vita (edizioni
Agra-Rai Eri) segnala che, sulle
oltre trecento tipologie identificate in Italia, un quarto circa
sono ripiene. Timidezza e imperialismo hanno trovato un
vasto campo di integrazione.
*L’autore è presidente
dell’Istituto nazionale
di sociologia rurale
F
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
il corpo
I MASSAGGI
Anticellulite, linfodrenanti, con pietre
laviche, coreani, admasaki,
con le conchiglie, gli spruzzi d’acqua,
le piume, il cioccolato: da solo nessun
tipo di massaggio garantisce di essere
anche dimagrante. Se vengono però
utilizzati come coadiuvante, certamente
favoriscono il raggiungimento
dell’obiettivo
Tornare in forma
IL MOVIMENTO
Palestra, corsa, piscina, bicicletta,
o una semplice passeggiata a piedi, una
camminata a ritmo sostenuto, secondo
la nuova tendenza del “fitmoving”. La
dieta ideale non può prescindere
dall’attività fisica, che va intensificata e
resa quotidiana: meglio poco ma tutti i
giorni che moltissimo una volta la
settimana
La dieta che ci cambia la vita
LAURA LAURENZI
bbiamo veramente fatto il
pieno. Mille calorie al
giorno (almeno) più del
nostro fabbisogno quotidiano. L’overdose di cibo è
una trasgressione che non
arreca letizia. Facciamoci del male: le
abbuffate durano ormai da dieci giorni,
con picchi dell’orrore segnati a Natale e
a Capodanno. In un mese si rischia di
crescere anche due taglie, di mettere su
quattro chili. E poi il senso di gonfiore,
oltre che di colpa. L’appuntamento con
la bilancia, tendenzialmente rimandato
a dopo l’Epifania, si fa sempre più vicino. Un giorno di lutto, di autoflagella-
A
1
Nelle feste abbiamo
incamerato mille
calorie al giorno
più del necessario
Ecco come smaltire
il sovrappeso senza
correre rischi
zione, di buoni propositi, di lacrime da
coccodrillo. Dopo la baldoria calorica,
gennaio è il più crudele dei mesi: quello
della remise en forme, il mese delle diete, alternate, rimixate, saccheggiate secondo interpretazioni personali che
spesso prescindono dal buon senso. La
dieta dell’alga spirulina, la dieta olandese Polymeal o multipasto “che aggiunge
sette anni alla tua vita”, la dieta del Creatore ispirata alle parole della Genesi. C’è
posto per tutti nel luna park dei regimi
dietetici fai-da-te, frenetico e velleitario, rutilante di nuove proposte, in attesa di scelte sagge e razionali.
La sensazione di inadeguatezza ci aggredisce sin dal risveglio, assieme al rimorso. Anno nuovo vita nuova. Chi ha
un cattivo rapporto con la bilancia e pre-
ferisce ignorarla ha il suo memento e il
suo muto grido d’allarme dai vestiti, da
un giro vita in lite furibonda con i pantaloni o con le gonne, da un bottone che
non chiude. D’altra parte questi chili in
più non solo ce li siamo voluti, ma li abbiamo aspettati e accolti come un ineluttabile e ciclico dono di stagione, al
grido di è inutile opporsi, non ci posso
fare niente. Alla vigilia di Natale un sondaggio condotto da “Donna moderna”
confermava che la maggioranza degli
italiani (il 66 per cento per l’esattezza)
erano “pronti a ingrassare pur di gustare le prelibatezze di tradizione”. Adesso
però, concluso l’ultimo brindisi di Capodanno, archiviato l’ultimo cotechino, è il momento del redde rationem.
Siamo daccapo con i buoni propositi.
FIBRE E AMIDI
Consumare cibi ricchi di fibra
e di sostanze antiossidanti,
che proteggono dalle malattie
cardiovascolari e da vari
tumori (frutta, ortaggi, legumi,
cereali integrali). Consumare
anche cibi ricchi di amido
(pane, pasta, riso, legumi)
2
POCO ALCOL
3
OLIO SÌ, BURRO NO
4
CINQUE PASTI
5
MOTO E CALORIE
Evitare le bevande alcoliche.
Nel caso in cui non se ne
voglia fare a meno, è bene
preferire quelle a basso tenore
alcolico come il vino e la birra,
da ingerire in quantità
moderate, in occasione dei
pasti e in dosi frazionate.
Dunque mai superalcolici
Limitare il consumo
quotidiano di grassi da
condimento preferendo
sempre olio d’oliva
extravergine e altri grassi
vegetali, da usare
a crudo. Evitare il più
possibile il consumo di burro
e di altri grassi animali
Frazionare l’alimentazione in
più pasti giornalieri, cinque, il
primo dei quali deve essere
rappresentato da una buona
colazione del mattino. Saltarla
è un grave errore, molto
diffuso. Il pasto più leggero
dovrebbe essere quello serale
Aumentare il moto quotidiano,
possibilmente tutti i giorni,
mantenendo il proprio peso
corporeo costante, evitando
dunque sbalzi significativi,
e regolando la quantità
di energia in calorie assunta
con gli alimenti
Bere molta acqua, mangiare spesso ma
poco (e sostanzialmente solo cose che
non ci piacciono). Frutta ma soprattutto
verdura, con pochissimo olio. Non accettare inviti. Dimenticare i dolci. Tenere un diario della propria dieta, e che sia
fiscale. E soprattutto fare moto. Le tabelle di cosa bisogna fare e soprattutto
quanto bisogna faticare per smaltire un
piatto di pasta o una fetta di torta sono agghiaccianti. Per abbattere le calorie di
una manciata di noccioline per esempio
(30 grammi) bisognerebbe camminare
per un’ora e dieci. Per bruciare un sacchetto di patatine (50 grammi) quaranta
minuti di tennis o un’ora a lavare i vetri di
casa. Una bibita in lattina equivale a quaranta minuti di marcia. Nulla è gratis, e
non ci sono sconti per nessuno.
MENO SALE
Il decalogo di Marcello Ticca, docente di scienza dell’alimentazione alla Sapienza
“Niente digiuni da fachiro”
M
arcello Ticca, libero docente di scienza dell’alimentazione alla Sapienza,
esorta a non drammatizzare, ma
anche a non perdere tempo: «Occorre intervenire subito con raziocinio e con pazienza evitando però
gli eccessi, i digiuni da fachiro e le
diete alla moda e programmando la perdita
di circa un chilo a settimana, con un’alimentazione ipocalorica il più possibile
equilibrata». Gennaio e febbraio sono in assoluto i mesi più adatti, quelli che meglio si
prestano alla dieta, osserva il professor Ticca: «Ci sono poche feste, per lo meno fino a
quando non arriva il carnevale, e c’è una cer-
ta atmosfera di austerità che favorisce i sacrifici alimentari». Da che
cosa si comincia? «Ricordatevi che
i grassi vanno ridotti ma non eliminati, e che il digiuno è sempre uno
stress per l’organismo. Mangiate
più frutta ma soprattutto molta più
verdura, che fa volume e sazia. Rifuggite da tutte le diete alla moda. Di queste
la peggiore probabilmente è la dieta Atkins
come tutte le diete iperproteiche, che aumentano la colesterolemia e mettono a durissima prova reni e fegato. Ma soprattutto
aumentate l’attività fisica». È del professor
Ticca questo decalogo per un comportamento alimentare più corretto e sicuro. (l.lau.)
Diminuire la quantità di sale,
sia quello usato come
condimento sia quello
contenuto nei cibi che ne
sono ricchi, come molti
alimenti conservati. Leggere
sempre l’elenco degli
ingredienti sulle etichette
UN FRENO AL DOLCE
Va tenuto sotto stretto
controllo il consumo
di alimenti e di bevande dolci.
In caso di strappo alla dieta,
bisogna ricordarsi sempre
di curare con particolare
attenzione l’igiene orale
per allontanare il rischio
di carie dentale
VARIETÀ DI CIBI
Variare e alternare
sistematicamente la scelta dei
cibi selezionandoli nell’ambito
dei vari gruppi alimentari
senza operare immotivate
esclusioni. Così si ha una
maggiore completezza
riguardo alle sostanze di cui
necessita l’organismo
MOLTA ACQUA
Ricordarsi di bere molto. Si
può preservare il bilancio
idrico del nostro organismo
sia attraverso il frequente
consumo di acqua, sia con
bevande e cibi che ne
contengono molta, come tanti
tipi di frutta e verdura
IL RISCHIO FAI-DA-TE
Evitare le diete autoprescritte
e quelle diffuse attraverso
canali generici e non
autorizzati. Rivolgersi al
proprio medico per decidere
se e come adottare uno
schema alimentare, che va
personalizzato
6
7
8
9
10
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Nuovi balocchi
PAROLE IN VIDEO
Eye Toy Chat è un sistema
di videocomunicazione
pensato per la Play Station
2. Facile da usare come un
cellulare, permette di
accedere
a una serie di chat room:
in quelle con video si può
comunicare con un
massimo di 16 persone,
nelle altre si arriva a 256. È
per ogni età ma dotato di
opzioni di sicurezza per i
bambini. Prodotto dalla
Sony, costa 29,99 euro
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
Bambole che respirano. Peluche che pretendono affetto
Carillon interattivi. Ecco l’ultima generazione di giocattoli,
spesso tradizionali nelle forme ma diventati intelligenti
grazie alle tecnologie più sofisticate. Con una missione:
divertire i più piccoli e prepararli a entrare nel futuro
BABY TELEFONINO
Benq A500 è un cellulare
dalle molteplici funzioni,
dotato di video-suoneria
personalizzabile anche
con la voce del
chiamante. Il telefonino
possiede anche una
fotocamera digitale e
consente di modificare
le foto con animazioni
a tema. Acquistabile
a 279 euro
AMICI D’ACQUA DOLCE
Gli Aquapets sono la versione acquatica del
tamagotchi. Si tratta infatti di giocattoli galleggianti
dotati di personalità. Oltre a interagire con il bambino
(hanno bisogno di cure e attenzioni) entrano anche in
relazione fra di loro. Costano 14,90 euro
Giochi
L’orsetto con l’anima hi-tech
MARINA CAVALLIERI
nimaletti virtuali che comunicano tra loro
grazie ai raggi infrarossi, peluche che emettono suoni realistici, orsacchiotti affettuosi
che ti abbracciano, robot ubbidienti che rispondono. Videogiochi con telecamere incorporate che proiettano il bambino sullo
schermo rendendolo non solo spettatore ma divo assoluto. Carillon intelligenti che suonano appena il neonato si
sveglia. Il paese dei balocchi si trasforma: non c’è gioco che
non nasconda un sensore, un pulsante, un circuito elettronico, non c’è trastullo la cui vita non dipenda da un
software, non c’è oggetto pensato per l’infanzia che non
interagisca, perché anche nella bambola più innocente,
nel più tenero pulcino pulsa un cuore tecnologico.
Le aziende che producono giocattoli spiegano pazienti
che sopravvive solo chi si adegua e vende chi riesce a ren-
A
PC A MISURA DI BIMBO
Computer Bit Explorer è
un pc per bambini
multifunzionale. Ha 800
quiz in inglese, francese
e italiano, e permette di
fare giochi per imparare
la matematica e le
scienze. Ha una radio Fm
digitale incorporata,
cuffie e torcia estraibile,
schermo luminoso e
quattro livelli di
difficoltà.
Distribuito da Editrice
Giochi, costa 184 euro
dere animato ciò che un tempo era inerte. «I bambini cominciano sempre prima a chiedere tecnologia», spiegano i
manager della Clementoni, «se con un gioco “semplice”
una volta si poteva coprire una fascia di età fino a dieci anni, oggi non si va oltre i sette, già dagli otto vogliono solo giochi tecnologici». E a dieci sono pronti ad entrare nel mondo
della playstation, del cellulare di ultima generazione, della
videocamera sofisticata per reality show domestici.
Il segreto del business è coniugare tradizione e tecnologia, mantenere l’involucro, l’orsetto per esempio, e cambiargli l’anima con un chip. La tendenza è occupare via via
anche i terreni vergini della prima infanzia: un gioco su cui
si punta è il cucciolo che segue il bambino ovunque (anche quando gattona) grazie ad un braccialetto da tenere al
polso. Perché la parola chiave è interattività. Che vuol dire anche non dare mai la sensazione al bambino di stare
solo con se stesso. «Nel gioco si cerca una gratificazione
immediata, una risposta pronta, un rapporto diretto,
VIDEOGAME DA TASCA
Il GameBoy Advance SP della Nintendo
è stato uno degli oggetti più citati nelle
lettere per Babbo Natale. Schermo
illuminato, sportellino di protezione e
batteria ricaricabile: tutto
condensato in dimensioni
ultracompatte.
La console portatile ha
anche una versione
color rosa per
ragazze o con
tatuaggi tribali
per ragazzi.
Costa 99 euro
n antropologo del gioco potrebbe intitolarla «dinamica
Calvin-Hobbes». Naturalmente non si riferirebbe ai
due filosofi ma agli eroi del quasi altrettanto filosofico,
e divertentissimo, fumetto di Bill Watterson. Calvin è un
bambino ipercinetico e privo di freni: una valanga, un
tornado, una particella accelerata, un fertile inventore
di catastrofi, una nemesi immeritata dai suoi pazientissimi genitori.
Calvin ha un peluche: la tigre Hobbes. Come segnala l’antropologo del gioco (davvero ce n’è uno) Brian Sutton-Smith, per «alcuni
milioni di anni» l’umanità ha fatto a meno di giocattoli di stoffa, e
dunque «pare assolutamente possibile crescere come esseri umani
senza l’aiuto di un peluche» (Nel paese dei balocchi, edizioni la Meridiana, 2002). Ma poi l’era del peluche è incominciata e quello è rimasto il simbolo del giocattolo affettivo, di per sé inerte, che stimola la fantasia del bambino (che lo tratta di volta in volta da compagno di giochi, fratello, genitore, neonato, animale domestico, maestro, alunno...) e lo rassicura con il suo morbido tepore.
Il segreto nascosto U
dei bambini
STEFANO BARTEZZAGHI
emotivo», spiega il marketing di Giochi Preziosi. «C’è la
bambola che muove le labbra quando poppa, nasconde
un circuito elettronico molto complesso. La bambina gioca ma non lo percepisce».
L’ultimo sforzo ora è rendere la tecnologia sempre più nascosta e facile, la sfida è semplificare per rispondere alle esigenze del mass market e mettere insieme tutta la famiglia.
Perché giocare non è solo una prerogativa dell’infanzia, il
divertimento è lecito, trasversale, concesso a tutti. Il motto,
non a caso, è “plug and play”: attacca la spina e gioca. Ecco
allora i Tv games. Basta infilare i cavetti nel televisore: non
occorre una console, può farlo chi ha quattro anni e chi si
sentiva già vecchio e tagliato fuori. Un business promettente con i suoi ventidue milioni di pezzi venduti negli Stati
Uniti. «Al consumatore bisogna far vivere un’esperienza e
tutta la famiglia può partecipare», dicono alla Sony. Ammonta a settecento milioni di euro il mercato dei videogiochi in Italia. L’infanzia può non finire mai.
TELESCOPIO INTERATTIVO
Un telescopio per osservare il
cielo stellato e attraverso le
schede conoscerne la storia.
Con il cd Cybersky si può
trasformare il pc in un planetario e si
potranno studiare le mappe celesti.
Da Clementoni. Prezzo:
37 euro
Ma Hobbes è un peluche speciale: quando nessuno li vede Hobbes si anima, cammina eretto sulle zampe posteriori, ragiona pacatamente, parla e istiga o subisce le scorrerie di Calvin.
Per quanto riguarda la tigre di pezza la dinamica Calvin-Hobbes descrive il fenomeno dell’animazione dei giocattoli. Nell’epoca del peluche, e anche prima, il giocattolo aveva una dinamica tutta potenziale.
La scatola del Legoo del Meccanocontenevano le possibili morfologie
che venivano scelte dal bambino, così come il blocco di marmo per Michelangelo. Il sacchetto di biglie poteva produrre un’intera Olimpiade, il cui software era però tutto nella testa del bambino.
Oggi tutti i giocattoli hanno fatto quello che fa Hobbes: si sono animati. L’interazione è programmata dai loro circuiti, compiono mosse, offrono al bambino percorsi di gioco magari variegati ma almeno
apparentemente preordinati e quindi chiusi. I bambini, notoriamente, fanno a pezzi i giocattoli e secondo Baudelaire lo fanno per cercarne l’anima. Ma ora è difficile che un bambino distrugga un GameBoy
o un computer, se non per accidente o per eccesso di uso: al massimo,
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
VILLAGGIO DEGLI ORSETTI
Papà Orso, Mamma Orsa e il piccolo
Orsetto vivono in un villaggio
tridimensionale dotato di sistemi elettronici
che lo rendono interattivo e parlante. Ci
sono 24 attività di gioco, 62 giochi interattivi,
350 quiz e quattro modalità di interazione:
gioca, quiz, ascolta e musica.
Gli orsetti danno anche vita a dialoghi.
28,90 euro
BONGHI PER VIDEOGIOCO
Donkey Konga è il gioco più
innovativo di Nintendo per Game
Cube: al posto del normale
controller il giocatore dovrà
utilizzare due bonghi e il battito
delle mani seguendo le tracce
musicali delle canzoni più note di
tutti i tempi. Disponibile a 60 euro
COMPAGNI VIRTUALI
I Tamagotchi Connexion sono l’ultima versione
del famoso giocattolo interattivo. Grazie alla
tecnologia della porta a infrarossi possono
comunicare tra di loro, fare amicizia e perfino
mettere al mondo i Tamababies. A 24,90 euro
CONSOLE DA SALOTTO
Dal 2000 a oggi sono state vendute due milioni
e mezzo di Playstation. Nel frattempo è arrivata
sul mercato anche la Playstation 2. Ha un
volume ridotto del 75%, pesa solo 900 grammi,
rende possibile il collegamento online per
sfidare giocatori di tutto il mondo. Il gioiello della
Sony costa 149,99 euro
LAVAGNA DELLE MERAVIGLIE
Topolino muove la bocca e il corpo.
E attraverso una lavagna a raggi infrarossi
con 40 pulsanti interagisce con il
bambino. Il gioco è
dotato di un chip che
permette di
immagazzinare
venti minuti di
parlato. Topolino
insegna l’alfabeto, i
numeri, a riconoscere
le prime parole.
Da
Clementoni a
59 euro
PASSATO E FUTURO
Nelle foto qui sotto,
robot giocattolo d’altri
tempi. Oggi gli stessi
oggetti, grazie alla
tecnologia, sono più
intelligenti e autonomi
BAMBOLOTTO ANIMATO
Baby Amore è il bambolotto ad alta
tecnologia che respira,
piange, ride,
mangia, cambia
espressione,
può essere
allegro o triste.
Se viene
svegliato da un
rumore alza le
manine e chiede
di essere preso in
braccio e
coccolato. Costa
59,90 euro
ROBOT SAPIENS
Più di venti ore di gioco continuative
per Robosapien, il primo
robot basato sulla
tecnologia
Beam, sbarcato
da poco sul
mercato italiano.
Una volta
attivato
cammina,
prende e lancia
oggetti, danza e
fa mosse di
karate. Distribuito
da Giochi Preziosi a
110 euro
MINI KARAOKE
“Canta tu” è un
karaoke
portatile.
Collegato a una
Tv consente di
cantare
seguendo i testi
guida che vengono
visualizzati sullo
schermo. C’è anche
la versione con
videocamera per
poter vedere in video
mentre si canta.
Dai 125 euro
PELUCHE CON SENSORI
Ronny l’orsacchiotto
interagisce nel gioco,
se gli si preme il
sensore della schiena
allunga le zampe per
abbracciarti, poi
sbadiglia,
sussurra ed
emette suoni
realistici. Con
lo speciale
biberon beve
veramente, se gli
si tocca il piede
ride. Da Hasbro.
Costo: 59 euro
viene perso lo sportello dell’alloggiamento delle pile. È come se l’anima di questi giochi, che spesso sono labirintici e multitestuali, non risiedesse dentro all’involucro del gioco ma alla sua superficie, e nella
stessa successione delle schermate. I bambini capiscono subito, così,
il carattere transitorio e fugace degli oggetti che accompagneranno la
loro vita di adulti, il loro scorrimento di superficie. Il giocattolo non è
più l’oggetto: l’oggetto è il supporto e il giocattolo è la rappresentazione che ne è ospitata. È questa che andrebbe rotta. Il nuovo bambino
che smonta la sua macchinina è il giocatore che manda in bomba il
programma del GameBoy, ovvero Francesco Totti (detto Pupone) che
«squaglia» laPlaystation durante il ritiro della Nazionale.
I giocattoli tecnologici sono da mettere in relazione con l’ansia dei
genitori per il futuro dei figli: insegnano e ancor più assuefanno a «un
mondo nel quale i simboli dell’ideologia del “darsi da fare” sono onnipresenti» (ancora Sutton-Smith). Ma la dinamica Calvin-Hobbes
non riguarda solo l’animazione dei giocattoli creduti inerti. Riguarda anche il bambino che gioca. Non è possibile prevedere l’uso che
un bambino farà del suo giocattolo. Il gioco perverte il giocattolo;
produce linguaggi criptici, deformazioni della realtà, parodie a volte lancinanti (come dimostra l’analisi dei disegni dei bambini che
hanno subito traumi). Il gioco è la cultura del bambino, ed è altrettanto articolata — se non di più — della cultura dell’adulto. Il “giocare con” o il “giocare a” può voltarsi facilmente in “giocarsi di”: la
bambola serve a giocare alla mamma, ma talvolta serve anche a
prendere in giro la mamma, così come Hobbes si trasforma segretamente da peluche a compagno raziocinante.
«Dove i bambini giocano è sepolto un segreto», ha detto mirabilmente Walter Benjamin. Quello dei nuovi giocattoli tecnologici è un segreto che riguarda il nostro tempo, ivi compreso il nostro passato e il nostro futuro. Per averne una rivelazione bisognerebbe allora capire quali pervertimenti i bambini mettono in gioco nell’uso dei loro aggiornati
e complessi trastulli: in quale punto dell’interattività preordinata dai
software si collochi quello spazio di manovra e di anarchia dirompente
che è, ancora oggi, il gioco. Piacerebbe poterlo chiedere a Calvin.
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 2 GENNAIO 2005
l’incontro
Ha un rifugio segreto, un “buen
retiro” anche il cineasta più
pessimista, ipocondriaco e
autodistruttivo: la musica. Che lo
rende felice “come
mangiare o fare
l’amore”. Tanto che
per goderla e
sentirsene attraversare
anche fisicamente
suona da anni “senza
alcun talento” il
clarinetto. Con una
band di professionisti che per stare
al passo con lui devono “suonare in
modo primitivo”
Terapia e note
Woody Allen
uon anno, Woody Allen.
«No, per favore, niente auguri. Fin da ragazzo ho
sempre odiato il clima delle festività di fine anno, che
ha un senso solo se le cose
ti vanno bene: se hai soldi, se ti circonda una famiglia, se sei innamorato…
Ma se la vita non ti va nel verso giusto,
questo è il periodo più deprimente che
si possa immaginare, e non a caso sono
giorni pieni di suicidi». Visto da vicino,
Woody Allen è un uomo fragile e ironico, come stordito dal burrascoso incalzare del mondo. E per di più sembra lievemente sordo. Questo però è solo un
sospetto, giustificato dal modo in cui
accoglie le domande: stringe i puntini
scuri delle pupille dietro gli occhiali
dalla montatura esagerata, protende il
corpo magrissimo e nervoso, esprime
un’attenzione così spasmodica che
viene naturale chiedersi: perché mai si
sforza tanto? O forse invece, pur dopo
tanti anni di terapie e successi, lo innervosisce ancora l’interrogatorio che
comporta un’intervista, a cui arriva
puntuale e disciplinato come un primo
della classe, vestito proprio come in
uno dei suoi film: camicia candida
amabilmente sgualcita, pantaloni a coste di velluto troppo larghi come si addice a un intellettuale e scarpe di cuoio
meticolosamente lucidate come si addice a un ossessivo.
Insiste a reggere il microfono del registratore («la pratica mi è familiare: da
giovane, nei cabaret, non facevo altro
che reggere microfoni»), mentre attorno a noi preme minacciosa l’organizzazione che protegge la sua fama. Un
body-guard con spalle gigantesche
sorveglia l’ingresso dell’albergo romano che ospita il nostro incontro. Un severo assistente cronometra il tempo
del colloquio segnalando a intervalli
B
fissi i minuti che mancano alla fine.
Spietati fari di luce ci colpiscono in volto come se tra poco partisse il primo
ciak. E intanto brillano là fuori le vetrine, in una Roma festante e consumistica, vogliosa di comprare e divertirsi.
«Continuo a chiedermi che cosa ci sarà
mai da festeggiare. La felicità, lo sappiamo, non esiste. Arriva solo a piccoli
sprazzi a illuminare quel fosco e tragico contesto che è la vita», sospira
Woody mesto e garbato. Clamoroso
paradosso, gli si fa notare, detto da un
cineasta noto per il suo talento comico
geniale. «Eppure avrei voluto somigliare a Eugene O’ Neill, Tennessee Willams e Ingmar Bergman. Perché mi è
chiaro che la vita è breve, cattiva e gratuita. E perché abitiamo in un pianeta
assillato da catastrofi e sventure. Non
credo in niente, anzi: trovo la religione
perniciosa, strumentalizzata dalla politica e trasformata in qualcosa che non
ha più nulla a che vedere con chi s’interroga su Dio o sulla sua assenza. È come se vivessimo braccati da un terribile assassino che prima o poi giungerà a
stanarci. L’umanità e la terra corrono
verso una fine inesorabile, e io mi scopro sempre più incapace di aiutare le
persone che amo».
Tra le tragedie più vistose che Woody
osserva col suo avvolgente umor nero
c’è la vittoria alle elezioni americane di
Bush, «giunta a conferma delle mie più
tetre sensazioni esistenziali. Bush è il
prototipo della tristezza, un tipo che
sarebbe comico se non fosse desolante, un presidente che non riesce a fare
un discorso senza dire sciocchezze. È
completamente inadatto al suo lavoro
e sono certo che in fondo a se stesso
percepisca la tragedia della propria
inadeguatezza. Ha fatto una guerra orribile, non ha capito i propri errori e io
spesso me lo immagino mentre di notte si rigira nel suo letto cercando con disperazione di capire qualcosa in più di
quello che gli sta accadendo. Tutto
sommato, ne sono sicuro, avrebbe preferito perdere le elezioni per tornarsene a casa a occuparsi di baseball».
Al proprio drastico pessimismo il più
famoso ipocondriaco del cinema del
nostro tempo, che tra non molti mesi
compie settant’anni e ancora si tormenta le mani per la timidezza, prova a
resistere con qualche splendido
conforto: per esempio la musica,
«evento di soddisfazione indicibile,
una delle poche cose per cui vale la pena di stare al mondo. La musica è come
il cibo e fare l’amore: piacere puro, irrinunciabile. Ti penetra dalle orecchie, ti
invade il corpo, ti fa sentire la qualità
della bellezza. Per questo è sempre stata tanto importante nei miei film. Molte scene che altrimenti sarebbero state
spente o prive d’interesse, grazie alla
musica sono diventate tollerabili o persino belle». C’è musica anche nella trama di Melinda e Melinda, la sua commedia tragicomica e romantica uscita
in Italia a fine dicembre: una delle eroi-
ne femminili di questo pirandelliano
girotondo amoroso singhiozza d’emozione ascoltando una sinfonia di Mahler; e una passione contrastata tra due
personaggi, ovviamente già accoppiati
con altri partner, esplode grazie a sentimenti musicali condivisi. C’è musica
anche nel film che ha appena finito di
girare a Londra, Matchpoint, con Scarlett Johansson e Jonathan Rhys Meyers,
«inondato da arie operistiche e dalla
voce inarrivabile di Caruso, colonna
sonora di una vicenda che parla soprattutto della casualità del destino e
della perenne condanna della coppia
coniugale all’infedeltà, proprio come
ci dimostra il teorema sublime del Così
fan tutte di Mozart».
Per godere di musica e sentirsene
traversare anche fisicamente, Woody
suona da molti anni e «senza alcun talento» il clarinetto, come ha fatto anche di recente in un tour italiano concentrato in due tappe, Roma e Venezia,
con la New Orleans Jazz Band. «Avrei
sempre voluto essere un vero, grande
musicista, e amo e conosco bene la
musica di New Orleans. Ma non ho
“È falso quel
che si dice sulla
mia autobiografia.
Mi hanno proposto
di scriverla, ho
chiesto dieci milioni
di dollari. Era un
modo per rifiutare”
orecchio né ritmo né senso musicale.
Invece gli altri membri della band sono
bravissimi, e se qualcuno fischia una
canzone loro sono in grado di riprenderne subito la melodia. Ciò che mi salva è la semplicità del nostro repertorio,
e mentre i miei compagni, per apparire dilettanti, devono ridurre la propria
abilità e suonare in modo più primitivo di quanto siano capaci di fare, io non
mi sforzo di sembrare un dilettante,
perché lo sono davvero. Diciamo che
musicalmente sopravvivo a un livello
di mediocrità assoluta».
Tra i più intensi ricordi musicali di
Woody Allen c’è l’ascolto della radio da
ragazzo, come seppe raccontare nell’amarcord di Radio Days, il suo film forse
più tenero e toccante: «Per la mia generazione certa musica era essenziale, un
accompagnamento nutriente, una
manna quotidiana. Preparandomi la
colazione, prima di andare a scuola, accendevo la radio e venivo investito da
miracoli musicali che si chiamavano
Louis Armstrong, Frank Sinatra, Duke
Ellington, Benny Goodman e Billie Holiday. Oggi questi nomi rappresentano
i monumenti dell’arte del jazz, ma all’epoca erano la musica dei nostri piccoli rituali di ogni giorno, delle nostre
abitudini e dei nostri amori. Ho anche
visto molti grandi musicisti suonare
dal vivo, dal mio idolo Sidney Bouchet
ad Armstrong e a John Coltrane. E ho
avuto la fortuna di suonare nei locali di
New Orleans e nelle parate, per le strade e nei bar, con alcuni dei campioni
dell’epoca d’oro del jazz, che nel frattempo erano diventati molto vecchi».
Con il consueto atteggiamento di entusiasmo infantile e quieta rassegnazione alle incombenti calamità della vita, Woody narra che prese a frequentare il clarinetto in modo solitario, «perché la solitudine è creativa e produttiva. Da ragazzo mi chiudevo in una stanza e mi esercitavo ascoltando i dischi
più belli. Perciò ho sviluppato con la
musica un rapporto da autodidatta, e
probabilmente anche per questo sono
una frana. Mi piaceva molto anche allenarmi ai giochi di prestigio con le carte: sognavo di diventare un mago. Io ottengo buoni risultati in tutto ciò che esige l’isolamento. Per questo adoro scrivere, attività solitaria. Mi è sempre stato facile inventare storie, mi siedo o mi
metto a letto e la scrittura scorre con
naturalezza. Se fosse stato faticoso non
lo avrei fatto, sono troppo pigro».
C’è chi dice che adesso sia immerso
nella scrittura di un’attesissima e molto rivelatoria autobiografia. Tutta la verità su Woody Allen, dai disastri dell’infanzia a Brooklyn, quando si sentì dire
dalla baby sitter: «Potrei soffocarti nella pattumiera e non se ne accorgerebbe
nessuno», fino agli scandali della relazione con la figlia adottiva Soon Yi, poi
divenuta la sua sposa bambina. «Non
sto scrivendo niente del genere. È solo
capitato che qualcuno mi abbia chiesto: vuoi fare la tua autobiografia? Ho
risposto: non ho tempo né voglia. Però,
siccome quel qualcuno insisteva, ho
detto che avrei accettato per dieci milioni di dollari. Naturalmente era uno
scherzo, un modo per rifiutare. Neanche Hillary Clinton ha guadagnato tanto col suo libro. Ciò nonostante attorno
alla notizia s’è fatto un gran chiasso, e
c’è persino chi mi ha attaccato: come
osi? Tradimento! Non so chi avrei tradito, sono libero di raccontare la mia vita
quando mi pare. Solo che non ho mai
avuto intenzione di farlo».
Che dice dell’esito altalenante dei
suoi film? È vero che il pubblico americano la segue sempre meno? «Forse è
così, ma non m’importa, io non lavoro
pensando al successo. In America la
gente avrebbe voluto che mi ripetessi
all’infinito. Dopo Io e Annie e Manhattan, che sono stati i miei due film più
fortunati in senso commerciale, mi
dissero che avrei dovuto continuare su
quella linea. Prima però, quando parlavo della possibilità di fare una commedia romantica come Io e Annie, mi
avevano detto che ero pazzo, e che non
avrei mai dovuto lasciare il filone delle
commedie demenziali tipo Il dittatore
dello stato libero di Bananas o Prendi i
soldi e scappa. In realtà alcuni film successivi, come Hannah e le sue sorelle e
Crimini e misfatti, hanno avuto più
successo dei miei primi film di puro
humour: Prendi i soldi e scappa costò
solo un milione di dollari e ci mise dieci anni a rientrare nelle spese. Ora
qualcuno sostiene che tutti i miei film
messi insieme non hanno avuto tanto
pubblico quanto La Passione di Mel
Gibson. Probabilmente è vero. Però lo
stesso si può dire delle opere dei miei
registi preferiti. Ci sono dei blockbuster, da Terminator a E. T., che hanno
fatto più soldi nel primo week-end di
programmazione di quanti ne abbiano guadagnati tutti i film di Bergman o
di Fellini messi insieme. Perciò mi sento in buona compagnia».
‘‘
LEONETTA BENTIVOGLIO