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Domenica La di DOMENICA 2 GENNAIO 2005 Repubblica l’inchiesta La sfida dei telepredicatori di Allah KHALED FOUAD ALLAM e GUIDO RAMPOLDI la storia La chiesa degli apostoli di Bush VITTORIO ZUCCONI La terra violata Ci siamo allontanati troppo dalla natura. La catastrofe nell’oceano Indiano ci ricorda che dobbiamo recuperare un rapporto più umile e sano col pianeta che ci ospita FOTO ARKO DATTA/REUTERS V.S. NAIPAUL SEBASTIÃO SALGADO l primo richiamo che ho sentito, guardando quelle immagini, è all’antichità della Terra. C’è qualcosa di primordiale nella forza che ha sprigionato. E mentre noi siamo occupati a muoverci velocemente sopra e attraverso di essa ci ha ricordato che un suo semplice sussulto ci può annientare e vanificare le nostre opere. Noi siamo ormai abituati a sentirci sul picco del mondo. A stare lassù e ci pare di poter dominare tutto ciò che ci circonda. Quando poi un evento naturale del genere ci fa crollare, noi vorremmo profondamente potercela prendere con qualcuno. L’unica cosa che possiamo fare, invece, è piangere di dolore e di rabbia. L’antichità della Terra non ci dà altro scampo, altra via. Vedo che anche adesso, come sempre in questi casi, c’è qualcuno che cerca spiegazioni, che ricorda il passato, che ipotizza e analizza. Ma alla fine quel che ci sommerge dopo il disastro è la tristezza, e non c’è davvero altro da fare che convivere con essa. (segue nella pagina successiva) corpi di centinaia di persone morte. La furia degli elementi. Il pianto e la disperazione sul volto dei sopravvissuti. La devastazione di terre, di case, di campi. L’anno 2004 si è chiuso per noi con una serie di immagini strazianti che una volta in più, dai giornali e dalle televisioni del mondo intero, ci ricordano quanto siamo tutti parte di un comune destino: quello di condividere il pianeta in cui viviamo e le responsabilità per le conseguenze delle ferite che a questo pianeta continuiamo a infliggere. Il mio lavoro mi ha portato molte volte a documentare da vicino grandi disperazioni, emergenze umanitarie e catastrofi. Ho passato sette anni a raccontare le migrazioni forzate di popolazioni a causa di guerre, carestie, ma anche tragedie naturali, come gli uragani e i terremoti. Conosco l’indicibile e incomprensibile sofferenza che migliaia di esseri umani sono costretti a sopportare. (segue nella pagina successiva) I I il viaggio Alaska, il popolo dell’isola che si scioglie EMANUELA AUDISIO e ARTURO ZAMPAGLIONE cultura Censura, le strane forbici del Duce SIMONETTA FIORI spettacoli Il business milionario della nostalgia ERNESTO ASSANTE e GABRIELE ROMAGNOLI 24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 la copertina Maremoto in Asia La natura ha annientato, travolto, rifiutato la nostra presenza. Deve essere un segnale, deve farci capire che abbiamo perso via via contatto con l’essenza della vita sulla Terra, che dobbiamo lavorare per ricongiungerci col mondo così com’era prima che l’uomo lo modificasse fin quasi a sfigurarlo La nostra vita dopo l’apocalisse (segue dalla copertina) e culture non reagiscono nello stesso modo, di fronte alla potenza devastante della natura. E in questi ultimi, drammatici, giorni ne abbiamo avuto la prova. Nei volti che si sono affollati davanti ai nostri occhi, in quelle immagini di morte e distruzione che hanno fatto dell’Oceano Indiano il cuore del mondo, abbiamo potuto leggere non solo dolore ma anche dignità. Noi, qui in Occidente, non dobbiamo dimenticare che gli abitanti di quei luoghi hanno una consuetudine maggiore della nostra nel convivere con le tragedie, con la forza cieca della Terra. Penso ai contadini indiani e a quelli del Bangladesh, abituati ai Monsoni sin dalla notte dei tempi: a ogni stagione ne attendono il passaggio distruttivo, cercano di mettersi in salvo, poi tornano nelle terre allagate per ricostruire quel che è andato perso. La ciclicità dell’annientamento e della ricostruzione abitua l’animo umano all’incertezza, alla precarietà. Ma anche a vivere con maggiore serenità e valore gli attimi presenti. Ho visto molto altro, in quelle fotografie, in quelle riprese televisive, in quella tragedia dell’umanità così lontana e allo stesso tempo così vicina. Guar- L Naipaul Sussulto cieco della Terra dando e riguardando le immagini delle coste su cui si è abbattuta l’onda, mi ha colpito molto il notare che gli edifici principali, i più solidi, sono rimasti in piedi. Quello che è stato spazzato via insieme alle vite umane è l’imponente e ininterrotta schiera delle strutture turistiche. Schegge di legno, brandelli di bungalow, scaffali e banchi di negozietti. Tutto è stato ridotto in pezzi dalla violenza travolgente del mare. Quasi cancellato. La sorte che è toccata a gran parte di ciò che è stato costruito per sviluppare il turist trade, il commercio del turismo, mi pare dimostri la fallacità di questo aspetto della vita dell’uomo moderno: la precarietà e temporaneità del turismo mi sono parse legate all’immagine dell’onda che ha portato con sé le costruzioni sorte per questo scopo. E ciò è anche un’altra dimostrazione di come noi siamo nuovi, così giovani rispetto all’antichità della Terra che calpestiamo e dalla quale siamo ospitati. Lo tsunami ha investito tutti noi. Occidentali o orientali, turisti o contadini, ricchi o poveri. Ci ha ricordato che siamo uguali di fronte alla natura. Ma non sono ottimista, non credo che la devastazione dell’Asia possa aprire una nuova era di fratellanza e collaborazio- V .S. NAIPAUL La grande onda ha spazzato via l’ininterrotta schiera delle strutture turistiche: noi siamo così giovani e nuovi rispetto all’antichità del pianeta che calpestiamo e che ci ospita ne fra i membri della comunità internazionale. Penso che tutto questo sia solo un’illusione romantica. Le acque, dopo la grande onda, si sono lentamente ritirate. Allo stesso modo, una volta che l’emergenza sarà passata, le cose torneranno come erano prima. Un nuovo spirito di cooperazione non potrà sorgere su quelle macerie. I popoli del Sud-Est asiatico si troveranno a contare solo sulle proprie forze, sulle loro capacità di reazione. Che sono diverse così come sono diversi i paesi colpiti dal maremoto. L’India è già un gigante economico, una potenza che è sulla via dell’industrializzazione e si è sviluppata grazie al proprio talento, attraverso la sua cultura, la sua educazione. Non è così per l’Indonesia e la Thailandia, che non hanno una educazione allo sviluppo ma si sono accontentate di importare progetti e modelli economici, senza crearne uno originale e adatto alle proprie esigenze. Certo, un intervento della comunità internazionale può essere utile. Un “Piano Marshall” per le aree messe in ginocchio dallo tsunami può rivelarsi efficace, come è stato quello originale: ma solo se saprà valorizzare le risorse umane, culturali e organizzative del paese che lo riceve. E in ogni caso l’uomo è molto più di un animale economico, non può svilupparsi solo attraverso modelli commerciali o industriali, questa è un’utopia. L’uomo è il risultato di un insieme di combinazioni: economiche, non lo nego, ma anche culturali. E su tutto l’educazione ha una grande importanza. Il carattere di ognuno di noi è dovuto a così tante variabili, ed è questo quello che porta un individuo, una società umana e un popolo, a voler migliorare, a voler andare avanti, a costruire un mondo nel quale vivere meglio. Ancora una volta però dobbiamo frenare gli entusiasmi, che ci portano a pensare che da un male così grande possa arrivare un bene magari altrettanto grande. Non credo che l’uomo possa imparare da quello che è accaduto il giorno di Santo Stefano molto più di quello che già sapeva prima. La vita è assolutamente imprevedibile e la cosa più utile che possiamo fare è riuscire a convivere con questa idea. Senza sopravvalutarci e pretendere di conoscere l’imponderabile. Accade a chi di noi è genitore: vuole sempre sapere dove siano i figli. Ma è certo di non poterli controllare fino in fondo. * V.S. Naipaul è stato Nobel per la letteratura 2001 Testo raccolto da Stefano Citati DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25 ‘‘ Dopo che in seguito, però, avvennero terribili terremoti e diluvi, trascorsi un solo giorno e una sola notte tremendi, tutto il vostro esercito sprofondò insieme nella terra e allo stesso modo l'isola di Atlantide scomparve sprofondando nel mare ‘‘ Il diluvio durò sulla terra quaranta giorni: le acque crebbero e sollevarono l’arca che si innalzò sulla terra. [...] Perì ogni essere vivente che si muove sulla terra, uccelli bestiame e fiere e tutti gli esseri che brulicano sulla terra e tutti gli uomini PLATONE Timeo (segue dalla copertina) o cominciato da un anno un nuovo progetto, cui ho dato il nome “Genesi”, con la consapevolezza che il mondo è in pericolo a causa di un nostro sbagliato rapporto con l’ambiente. Oggi quindi, torno a fotografare per mostrare un altro aspetto della realtà; fotografo per mostrare le bellezze della terra e proporre una riflessione sulle nostre origini, sulla forza della natura, sulla sua sacralità, sul rispetto che le dobbiamo. Se la natura sembra esprimere, come è accaduto in questi giorni, la sua violenza annientandoci, travolgendo e rifiutando quasi la nostra presenza, a maggior ragione dovremmo cercare di recuperare il più possibile un rapporto intenso e sano, profondo, con questa stessa natura da cui troppo ci siamo allontanati. Il desiderio con cui ogni giorno torno a fotografare, nei più lontani e diversi luoghi della terra, è di poter dare un mio contributo e cercare il più possibile di ricongiungerci col mondo com’era prima che l’uomo lo modificasse fino quasi a sfigurarlo. Abbiamo perso contatto con l’essenza della vita sulla Terra. La nozione moderna che umanità e natura so- H LA BIBBIA Libro della Genesi Salgado In quelle foto ci siamo noi no in qualche modo separate è assurda. La nostra relazione con la natura — con noi stessi — si è rotta. In quanto specie più sviluppata, l’umanità può avere una relazione speciale, spesso dominante, con la natura ma è solo una parte della natura. In verità, non possiamo sopravvivere fuori da essa. E tuttavia l’urbanizzazione accelerata del secolo scorso ha allontanato l’umanità dalle fonti animali e vegetali della vita stessa. Stiamo vivendo in disarmonia con gli elementi di cui è costituito l’universo, come se noi non fossimo fatti allo stesso modo, come se noi fossimo esseri fatti di pura razionalità. Stiamo disconoscendo le qualità istintive e spirituali che fino a ora hanno assicurato la nostra sopravvivenza. Ci assumiamo gravi rischi quando prendiamo le distanze dalle nostre radici naturali, radici che in passato ci hanno fatto sentire parte del tutto. Solo le generazioni recenti si sono rese conto che il collasso della natura è un rischio concreto. Oggi viviamo in un pianeta che può morire. Utilizziamo energia nucleare in diversi campi, nella vita di tutti i giorni come nei programmi scientifici, senza capire ap- SEBASTIÃO SALGADO La fotografia si rivela il linguaggio comune per capire la tragedia: sul volto di chi soffre per la casa distrutta, la famiglia perduta, riconosciamo un destino che potrebbe essere il nostro pieno i rischi legati agli effetti secondari e alle scorie nucleari. E ancora, abbiamo accumulato un numero inimmaginabile di armi nucleari che possono essere utilizzate in guerra oppure ad opera dei terroristi. Per non parlare della minaccia di un ulteriore e ancor più grave disastro ambientale: l’agricoltura industrializzata e gli allevamenti su larga scala utilizzano tecniche che decimano gli habitat naturali, mentre l’uso indiscriminato di prodotti chimici inquina terreni e falde acquifere. Oggi non produciamo altro che merci di scambio. Stiamo danneggiando la stratosfera e distruggendo le ultime residue porzioni di foreste tropicali, riducendo di fatto la fotosintesi che ci assicura la vita. La nostra stessa esistenza è a rischio. Nonostante tutti i danni già causati all’ambiente, in una piccola parte del pianeta, si può ancora trovare un mondo di purezza, perfino d’innocenza. Questo è il mondo che oggi voglio cercare di conoscere e mostrare a tutti; con lo stesso impegno con cui in passato ho documentato la realtà di guerre, di lavori umilianti, di emigrazione, di sovraffollamento, di morte e di disperazione. Perché sia- mo tutti parte dello stesso sistema, della stessa natura e l’unica possibilità che abbiamo è proprio quella di conoscere questo stesso sistema e salvaguardarlo, curarlo nel desiderio (forse sogno) di recuperare un equilibrio possibile. Scorrono sotto i miei occhi le immagini di questi giorni e veramente noto come la fotografia, una volta di più, si riveli il linguaggio comune, il codice a tutti comprensibile, perché profondo e vero, con cui conoscere i termini e le forme della tragedia planetaria. Ed è una comprensione a fior di pelle, che passa per i sensi, elimina ogni possibile deviazione ma ci sollecita e ci chiama, ci tocca da vicino. Un uomo soffre, si vede il suo volto e si riconoscono i segni del suo viso, la sua casa abbattuta, la sua famiglia distrutta: «Quell’uomo potrei essere io; il suo destino avrebbe potuto essere il mio». La fotografia, immediata e profonda, ci rivela quel che già sappiamo, quel che abbiamo sempre intuito e che spesso fatichiamo a riconoscere. Noi tutti siamo parte di una stessa tribù, dai grandi ma pur sempre limitati poteri: quella degli esseri umani, noi stessi parte della natura. * Sebastião Salgado è uno fra i più celebri fotografi del mondo Testo raccolto da Alessandra Mauro 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 l’inchiesta Islam che cambia Le tv arabe stanno lanciando nuovi protagonisti della vita politica dei paesi musulmani: i predicatori televisivi. Amr Khaled, sunnita, ha un’audience fortissima nei ceti medi che va dal Cairo a Dubai, da Amman all’Europa; Yusuf Qaradawi, salafita, è un “teologo via etere” che indottrina religiosi e militanti La sfida dei teleprofeti di Allah GUIDO RAMPOLDI C CAIRO he Amr Khaled si ispiri ai telepredicatori evangelici — i brasiliani, gli statunitensi — lo si capisce quando la telecamera va a cercare emozioni in platea, dove di qua donne velate e di là giovani distinti pregano con trasporto, chi commosso fino alle lacrime chi rapito da un’estasi forse un po’ ostentata. L’ex contabile trentasettenne non è ancora sciolto come i colleghi delle Americhe, ma come quelli sa calare la fede, l’islam nel suo caso, nell’esperienza quotidiana di ciascuno. E malgrado la voce in falsetto, i baffi come inamidati, la rigidità del mezzobusto, ormai può contare un seguito vasto quanto nessun telepredicatore ha mai raggiunto: l’audience del suo programma Tesori (dell’islam), in onda sulla tv satellitare Iqra’a, spazia dal Cairo a Dubai, da Amman all’emigrazione araba in Europa. Piace al ceto medio, soprattutto alle signore giovani, così perbene, così distinto nella sua giacca blu, così diverso da quei mullah rochi che minacciano le fiamme dell’inferno a chi non condivida il loro rancore verso la vita. E così popolare che malgrado si tenga lontano dalla politica il regime gli impedisce di lavorare in Egitto: teme che una volta al Cairo fondi un partito o si schieri con i Fratelli musulmani. Più degli adesivi incollati negli autobus dagli integralisti, sarebbero stati i suoi sermoni a convincere le cairote a mettere il foulard. Tra le folgorate, si dice, perfino una nuora di Mubarak, perciò sparita dalle cerimonie ufficiali. Fedeli ai modelli americani o brasiliani, mandano in estasi e commuovono fino alle lacrime platee di donne velate e di giovani della media borghesia A destra, giornalisti tv al lavoro in uno studio dell’emittente araba Al Jazeera in uso presso la guerriglia irachena, e in apparenza tutti d’accordo sull’idea che gli americani vadano cacciati dalla penisola arabica. Riformatore o eretico Non è chiaro se quest’islam satellitare insegua l’audience oppure un progetto politico, ma i due obiettivi si conciliano: nell’uno e nell’altro caso si tratta di accontentare i più trovando un compromesso tra tendenze radicali e meno radicali. A questa operazione si dedica soprattutto l’ospite fisso di Sharia e vita, Yusuf Qaradawi. Rettore dell’università islamica del Qatar, Qaradawi è il più prestigioso tra i non pochi teologi satellitari che oggi saturano l’etere con i loro pareri legali, le fatwa, e certamente il più seguito anche in Europa. Di corporatura massiccia e sciolto nel parlare, tenta di aggiornare l’islam arabo più duro, quello salafita, presso il quale alcuni lo considerano un riformatore, altri un eretico. Il risultato del suo sforzo non è lineare. Da una parte Qaradawi condanna con veemenza l’assassinio di ostaggi in Iraq e addita alla guerriglia l’esempio dei musulmani del secolo undicesimo che rifiutarono di ripagare i crociati della loro stessa ferocia; dall’altra ribadisce che pestare con ragione la moglie non è poi gran peccato, e dichiara legittime le «operazioni di martirio», cioè le stragi condotte dal terrorismo palestinese. Il tentativo di costruire un corpus univoco di norme valide per l’intero islam sunnita, e di arabizzare l’islam europeo prima che quello europeizzi l’islam arabo, è esplicito nel Consiglio europeo per le fatwa, con sede a Dublino. I suoi teologi, unicamente arabi, tra i quali Qaradawi rispondono in un FOTO CHRISTOPHE CALAIS/IN VISU/CORBIS Un dio borghese Nello scontro in corso dentro l’islam sunnita Amr Khaled sembra aver successo perché offre al ceto medio un Allah borghese senza barba né scimitarra, colloquiale, aperto all’umorismo, tuttora risentito con l’emancipazione femminile e i non musulmani però nei limiti della buona creanza. Quel dio non atterrisce i peccatori né arruola nella guerra santa come spesso l’Allah delle moschee. Semmai è Provvidenza: dunque i musulmani non disperino. Certo, «hanno toccato il fondo e le cose non possono andare peggio: ma il punto più nero della notte è proprio quello che precede l’alba». Ecco già i primi chiarori: nel rally del Bahrain le auto vanno a maggior velocità che nei rally americani, in vent’anni la capitale della Malesia «è diventata più bella delle capitali europee», la tv Al Jazeera rivaleggia con la Cnn… Se il successo è la misura della grazia, i benestanti risultano i più meritevoli. La stampa laica ironizza su quest’islam nuovo nello stile più che nella sostanza. Ma il liberale Nabil Abdel-Fattah, vicedirettore del Al-Arham Center for political and strategic studies, invita a non sottovalutare: come nel caso dei telepredicatori americani Amr Khaled avrebbe un’influenza politica indiretta, però favorevole agli integralisti e sfavorevole ai loro competitori, l’islam sufi forte nelle campagne e i (pochi) liberali nelle città. Se i telepredicatori come Khaled ed un paio di suoi colleghi arabi rispondono all’ansia di certezze che sale dai ceti medi arabi, soprattutto quelli nuovi e stressati dal rischio di ripiombare nella povertà, altri programmi satellitari, per una divisione del mercato che sembra quasi una divisione del lavoro politico, puntano invece ad orientare i religiosi e i militanti. Il principale è Sharia e vita, in onda su Al Jazeera, tv del Qatar. Intenzionalmente o no, questa teologia satellitare tende a unificare dentro uno standard arabo-sunnita le infinite conventicole e i ventidue islam di altrettanti paesi arabi, in ciascuno dei quali domina una delle quattro scuole di giurisprudenza islamica. Condotto da una ragazza bella e algida, ovviamente velata, alla fine di novembre Sharia e vita metteva insieme il rettore della principale università islamica yemenita, il portavoce del Consiglio degli ulema iracheni, il capo spirituale dei Fratelli musulmani in Egitto, uno studioso marocchino e il portavoce dei 26 teologi sauditi che chiedono ai regimi dell’area di unirsi contro gli americani «se non vogliono fare la fine di Saddam». Non un bisbiglio sui metodi sito-web ai quesiti che arrivano da Europa, Africa e Medio Oriente. Strapazzano gli ulema nigeriani che hanno vietato le vaccinazioni anti-polio ritenendole pericolose per la fertilità femminile; suggeriscono di non aprire conti correnti in banche non musulmane; sospendono il giudizio per mancanza di prove su un sorprendente miracolo avvenuto in Palestina, dove un albero avrebbe detto «C’è un ebreo che si nasconde dietro di me»… Cosa invece si nasconda dietro l’ossessione anti-giudaica è intuibile: un islam arabo che vorrebbe riformarsi e cerca la modernità nella tecnologia, ma fallisce perché non riesce a liberarsi dei suoi vizi capitali. Ha scritto in una fatwa il vicepresidente del Consiglio europeo, Faysal Mawlawi: il Muro co- struito da Israele prova «la codardia innata dei giudei». Ma di queste tesi dovrebbe rispondere anche il governo irlandese, che generosamente ospita gli uffici del Consiglio. Università desolata Se la teo-sat di Qaradawi e i telepredicatori alla Amr Khaled sono la continuità più che la rottura col passato, dove cercare oggi i potenziali riformatori dell’islam sunnita? Un tempo erano nell’università di Al-Azhar. Fondata nel 970, per secoli Al-Azhar ha formato le classe dirigenti arabe. Ma poiché i corsi e l’immensa biblioteca sono stati trasferiti nelle nove succursali, chi oggi entri nell’antica scuola coranica, al Cairo, trova pareti spoglie dove c’erano migliaia di libri, e silenzio tra i marmi ocra e gli ebani dove un secolo fa fervevano le discussioni tra i grandi riformatori egiziani, politici e teologi protagonisti d’un’epoca, detta da alcuni l’Età Liberale, spenta da Nasser nel 1952. La desolazione di quelle sale oggi rispecchia il declino di Al-Azhar. Da un ventennio almeno l’università islamica ha perso la sua antica caratteristica “liberale” e civetta con l’estremismo islamico nel mondo. Nel frattempo ha stretto un patto col regime per il quale il Gran muftì ha tutti i vantaggi relativi ad un rango che il cerimoniale di Stato equipara a quello di primo ministro, ma in cambio non contesta Mubarak. Alleandosi con un sistema autoritario, l’università che aprì la strada verso la Riforma islamica tuttora attesa s’è condannata a guidare la Controriforma. Così nessuno s’è sorpreso quando in ottobre il Gran muftì ha abbattuto la sua scomunica sui teologi riuniti dal centro Ibn Kal- DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 AL JAZEERA E LE ALTRE In Medio Oriente ogni Paese ha almeno una televisione e ne nascono di continuo di nuove. La prima tv satellitare per ascolto è Al Jazeera, all-news nata nel 1996 di proprietà del governo del Qatar, che raggiunge 35 milioni di contatti al giorno. A farle concorrenza dal 20 febbraio 2003 c’è Al Arabiya, su posizioni più moderate. Molto seguite sono anche Abu Dhabi tv, la libanese Lbc, Dubai tv, la saudita Mbc e l’egiziana Esc TALK SHOW ISLAMICI Sono la novità degli ultimi anni: i beniamini degli strati medio-alti della società islamica, perché soddisfano la domanda di religiosità prêt-àporter della nuova borghesia. Il capostipite è Amr Khaled, ex contabile privo di istruzione religiosa superiore che è diventato uno dei predicatori più famosi e ricchi di tutto il Medio Oriente. È lui che ha inventato il talk show islamico. Gli altri sono Khalid Al-Guindy, AlHabib Aly e Safwat Hegazy Gli imam satellitari contro il potere dei “nuovi califfi” KHALED FOUAD ALLAM imam (colui che dirige la preghiera), che a volte è anche alim (dotto, sapiente) sono figure ricorrenti nell’islam: attraverso le loro vicende si può leggere gran parte della storia del mondo musulmano, la sua evoluzione come la sua regressione: perché l’imam è la memoria di un’intera società, e perché la sua figura è inscindibile dalla storia dei rapporti spesso ambigui fra religione e politica; egli rappresenta il punto di intersezione fra religione e mondo. La storia degli imam è la storia di un paradosso, perché ciò che connota l’islam è l’assenza di vere e proprie istituzioni. La storia degli imam è dunque una storia contraddittoria, sempre all’intersezione fra la legittimità del potere e la sua contestazione. In tutta la letteratura araba, classica e moderna, ricorre con frequenza l’immagine dell’imam: ad esempio nel famoso romanzo dei Baibar, il più lungo romanzo del mondo (60 volumi, oltre 36mila pagine), nato come racconto orale nell’Egitto dei sultani mammalucchi. In esso si narra la storia del sultano Baibar che un giorno perse conoscenza in pieno deserto, e nel risvegliarsi vide dinanzi a sé un’enorme moschea con un minareto altissimo: udì una voce chiamarlo, quella dell’imam. Questi lo sottopose a una serie di iniziazioni: dalla fontana della moschea dovette riempire sette secchi d’acqua, da un albero cogliere quaranta frutti: tre dei secchi contenevano acqua leggera e limpida, gli altri quattro acqua pesante e torbida; alcuni frutti erano dolci, altri amari. Infine l’imam lo chiamò alla preghiera, e rivolse a Baibar parole che «lo attraversarono fino alla spina dorsale». Oggi tutta quella cultura di racconti fantastici sugli imam, mediatori fra la società e il potere, quella sapienza antica tende a scomparire, mentre la figura dell’imam si istituzionalizza per erigersi a censore della società. Un tale atteggiamento si presta spesso a considerazioni satiriche nell’odierna narrazione popolare; ad esempio al Cairo, nei quartieri intorno ad Al Azhar, si può ascoltare una canzone d’ispirazione satirica sugli imam, che suona: «Raddrizza, raddrizza il tuo turbante, un mago si nasconde sotto il tuo turbante. Togli, togli il tuo turbante, un elefante si nasconde sotto il tuo turbante. Raddrizza il tuo turbante, maestro: sotto il tuo turbante brucia un fornello a gas». Questo testo mostra come oggi il fuoco della censura si sia sostituito all’aura magica, fantastica che avvolgeva l’imam nella cultura popolare musulmana del passato: oggi le sue parole bruciano come un incendio. La corporazione degli imam si sviluppò nell’islam parallelamente alla teologia e al diritto musulmano: in assenza di vere e proprie istituzioni religiose, il potere politico dei califfi aveva bisogno degli imam per scremare la religione ufficiale dalle tendenze eretiche e per prevenire la concorrenza delle altre religioni. Così gli imam hanno assunto un ruolo preminente nella società musulmana, giungendo anche ad attribuirsi la funzione di legittimare il potere del califfo attraverso il giuramento (baya) di quest’ultimo dinanzi all’assemblea degli imam e degli ulema. Nel caso dell’islam sunnita, si sono avuti tre grandi centri per la formazione degli imam: la Zaituna a Tunisi, fondata nel 734; la Qarawiyyn a Fez, in Marocco, fondata nell’859; e infine la celebre moschea e università di Al Azhar, costruita dalla dinastia sciita dei Fatimidi e che con la fine del periodo fatimide (dunque la fine dello sciismo in Egitto) è passata ai sunniti. La continua oscillazione tra tentativi di riforma, modernizzazione e conservatorismo ha caratterizzato le posizioni di ulema di Al Azhar nel XX secolo: man mano che lo stato si modernizzava e nuove leggi, come quella sul velo, ed eventi, come l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, incidevano sulla società, Al Azhar ha accompagnato oppure ha contestato le trasformazioni in atto. Negli ultimi anni, la crescente reislamizzazione della società si è tradotta in una tendenza alla radicalizzazione tra gli imam di Al Azhar, che spesso oggi si pongono come censori dello stato quando ritengono che esso si allontani dalla shari’a (legge islamica). Ma a ciò si è sovrapposto un altro fenomeno: quegli stessi imam sono stati contestati da una gioventù e da una middle class che si richiamava a un islam non più legato unicamente alla sfera dello statuto personale e del diritto di famiglia, ma a un islam che abbraccia la politica nel suo insieme. Il radicalismo islamico e le nuove tecnologie di informazione hanno dunque dato vita a nuovi imam: essi trasmettono le loro prediche attraverso audio e videocassette, televisione, internet, ciò che Marc Augé chiama «non-luoghi». Sono predicatori che si sono formati da autodidatti, cortocircuitando il sapere tradizionale, appropriandosi di un sapere che sino allora apparteneva esclusivamente alle élite religiose ma senza possedere alcuna competenza scientifica e culturale, facendo leva però su una forte base sociale. Questi predicatori riescono a costruire un mondo parallelo in quanto il non-luogo — la televisione o internet — sfugge totalmente al controllo dello stato, e riescono a minacciare gli equilibri lentamente costruiti in secoli di storia del mondo musulmano. L’ dun in un seminario dal tema “Islam e riforme”. Tra quegli eretici accusati di «disprezzare» l’islam il più eminente era l’ottantatreenne Gamal al-Banna. Le sue tesi sono dinamite piazzata alle fondamenta degli ultimi dieci secoli di teologia sunnita. Per gli al-Banna la rivoluzione sembra un destino. Il fratello maggiore di Gamal, Hasan, ucciso da un poliziotto egiziano nel 1949, fondò gli Ikwan alMuslimin, i Fratelli musulmani, ceppo da cui discendono tutti i movimenti, dai riformisti fino ai terroristi, che hanno terremotato la storia araba recente. Dopo l’assassinio di Hasan, Gamal si allontanò dagli Ikwan e tentò altre vie. Diede vita al sindacato mondiale islamico, scrisse una storia della Repubblica di Weimar per tentare di convincere i Fratelli a tenersi lontano dal massimalismo, s’appassionò alle rivoluzionarie tedesche e russe. Oggi il suo appello a «rivoluzionare il Corano» provoca nell’establishment sunnita reazioni non meno scandalizzate di quelle che provocherebbe un teologo cristiano se manifestasse l’intenzione di «rivoluzionare i Vangeli». Democrazia in Medio Oriente Minuto e vivace, il grande eretico vive tra pareti di libri in una casa dagli alti soffitti, lì dove ci ha spiegato che per tornare al senso autentico del Corano occorre innanzitutto gettare via («neutralizzare», nelle parole di al-Banna) alcune migliaia di Hadith, i detti attribuiti a Maometto, perché ambigui o in contraddizione con il Corano; e altri passi delle Scritture, da cui la teologia sunnita trae regole morali che invece andrebbero storicizzate. Al finale di questa gigantesca scrematura l’islam, FOTO AP FOTO LYNSEY ADDARIO/CORBIS/CONTRASTO In basso: Amr Khaled, il tele predicatore di maggior successo nel mondo arabo, e il “teologo satellitare” Yusuf Qaradawi dice al-Banna, tornerebbe ad essere la religione della libertà che fu in origine. Verrebbero azzerati i capisaldi della teologia sunnita prevalente, e cioè le norme che contraddicono la libertà di fede, prevedono la pena capitale per il musulmano che si converta, impongono l’identità coatta tra religione e Stato, sviliscono la donna e i suoi diritti. Anche il velo finirebbe nella polvere. Al-Banna dice che all’islam occorre «un nuovo Marx», ma non lo prevede nel futuro prossimo. Però il suo islam rivoluzionato non è affatto un’invenzione estemporanea, piuttosto una tendenza teologica che nasce in Egitto alla fine dell’Ottocento con el-Afgani ed Abdu, e da anni oggi collega grandi razionalisti sunniti e pensatori sufi, da Damasco fino a Tunisi. Per- seguitato nella totale indifferenza dell’Occidente, represso anche da regimi filo-occidentali, e misconosciuto in Europa, oggi questo pensiero eretico appare isolato. Eppure non s’è lasciato spegnere, ed origina i due volumi del Liberal islam edito dall’università del North Carolina. Forse “liberal” è parola fuorviante, ma certo è un islam che predica e pratica la libertà a partire dal metodo, perché come i riformatori protestanti (ma senza la loro cupezza teutonica) sottrae l’interpretazione delle Scritture, l’Ijtihad, alla casta religiosa. E questa libertà d’opinione non può che essere il vero inizio della democrazia in un Medioriente che come ci ricorda alBanna «non ha conosciuto altra dottrina, altra teoria che l’islam». Una parete di schermi televisivi trasmette l’immagine di Osama Bin Laden mentre rivendica l’attentato alle Twin towers 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 le storie/1 Napoli e la speranza Sembra la storia raccontata da un film di successo, Les choristes: nel quartiere della guerra di camorra un insegnante mette in piedi un gruppo musicale. Gli studenti si appassionano, studiano e così stanno lontani dalla strada. Adesso incidono cd e la loro avventura è diventata anche un musical JENNER MELETTI el cortile di palazzo Maglione c’è ancora la statua della Madonna di Lourdes, «Bianca Regina dei Pirenei / di questa Pia opera / Madre amorosa e provvida». La “Pia opera” era un orfanotrofio aperto nel 1904 per le «bambine povere» e che da sette anni accoglie i 560 ragazzi della scuola media San Domenico Savio. La «Madre amorosa e provvida» per fortuna non ha smesso di fare miracoli: in questa periferia a nord di Napoli, dove i posti di blocco di carabinieri e polizia si alternano a quelli della camorra, la scuola riesce — con una fatica che è pari solo all’impegno — ad essere scuola. «Il professore di educazione musicale — dice Antonio, maglietta nera con la scritta Eminem e la faccia seria di chi a 16 anni si sente grande — quest’anno è riuscito a fare promuovere anche me, all’esame di terza media. Io ormai non ci pensavo più. In seconda ero stato bocciato due volte. Aspettavo solo di non avere più l’obbligo di venire ogni mattina in mezzo a questi ragazzini e di andare a fare il fornaio. L’esame me lo ricordo bene: storia, geografia, matematica poi il professore di musica mi ha detto: «Adesso canta, fai vedere come sei diventato bravo». E io ho cantato. Vuole sentire? «Me dispiace sulamente / ca l’orgoglio ‘e sta gente / se murtifica ogni juorno / pe na’ manica ‘e fetiente». Io e altri quindici ragazze e ragazzi abbiamo fatto un coro. Abbiamo inciso un cd e poi sono arrivati anche i ballerini e gli attori e siamo riusciti a fare un musical. Quando abbiamo sentito gli applausi, non volevamo crederci». La storia del coro della scuola Savio di Secondigliano sembra la trama di un film, “Les choristes” (in Italia: “I ragazzi del coro”) che la Francia candiderà all’Oscar. Il cinquantenne Clement Mathieu, insegnante di musica disoccupato, accetta il posto da sorvegliante in un collegio per ragazzi difficili. Il direttore Rachin pensa che solo la disciplina dura e la repressione permettano di governare un istituto non a caso chiamato “Le Fond de l’Etang”, il fondo dello stagno. Il maestro Mathieu vuole però dare un’occasione ai ragazzi, e pensa che la musica possa essere lo strumento giusto. Si crea così il coro, che riesce a dare la speranza di una vita diversa ai ragazzi e al loro maestro. Il Clement Mathieu di Secondigliano si chiama Massimo Valenti, 43 anni, napoletano del Vomero. «Ho visto il film — dice — e mi sono commosso. Quando il maestro Clement viene mandato via dall’istituto, con un pretesto assurdo, si piange anche. I suoi ragazzi lo salutano dalle finestre, lanciandogli piccoli aeroplani fatti con la carta da musica. Clement è sconfitto, ma niente nel “Fondo dello stagno” sarà come prima. E niente sarà come prima qui a Secondigliano. Vede, la scuola è una cosa seria. Gli insegnanti hanno responsabilità enormi, soprattutto qui. Se non dai un’educazione e anche la possibilità di imparare un lavoro, altri “mestieri” vengono subito offerti ai ragazzi. Basta guardare fuori dalla scuola per capire quali possano essere». La San Domenico Savio, l’ultima volta, è stata “distrutta” quattro anni fa. «Un gruppo è entrato di notte e ha spaccato tutto ciò che si poteva spaccare. Perché questo? Una spiegazione c’è. Non tutti sono contenti se c’è una scuola che funziona e che viene vissuta come un piacere dai ragazzi. Al tempo stesso è però una scuola che insegna le regole e il rispetto, e pretende che i ragazzi frequentino, studino e facciano i compiti. I ragazzi che non vogliono o non riescono a partecipare a questa proposta educativa si sentono allora ancora più isolati e spaccano tutto per rabbia e per impedire che gli altri facciano la loro strada. Ricordiamo tutti con angoscia quella mattina, con il laboratorio di ceramica distrutto, lo sporco ovunque… Ma da quattro anni non ci sono più danni. Questo significa che abbiamo recuperato anche molti ragazzi borderline e che gran parte di Secondigliano sente la scuola come una cosa propria». Eccoli qua, alcuni ragazzi del coro. Accanto ad Antonio, Lina che ha 13 an- FOTO RICCARDO SIANO N SECONDIGLIANO Secondigliano, la favola dei Ragazzi del Coro ni («a scuola sono avanti di un anno»), cantante e attrice e Fabiola, 14, anni, cantante e studente di pianoforte. Loro sono già usciti dalla Savio, ma la sentono un po’ come la loro casa. Nell’aula a fianco si stanno svolgendo i provini per trovare cantanti, attori e ballerini per il prossimo musical. L’anno scorso si erano presentati in 150, ora sono 180. «Siamo stati assieme per mesi e mesi — raccontano — e abbiamo scoperto un’amicizia vera. Finivamo la scuola alle 13 e restavamo qui, da gennaio fino a giugno. Un panino portato da casa, con prosciutto o mozzarella, e via con le prove. Noi vorremmo che il canto e il ballo diventassero il nostro mestiere. Le scuole per artisti sono in centro a Napoli. Abbiamo fatto dei provini, speriamo bene». «Tutto è cominciato — racconta il professore — nel dicembre 2003, quando la mia collega Daniela Vellani mi ha chiesto di darle una mano per preparare i canti di Natale. Sapeva che sono laureato in musicologia, al Dams di Bologna, anche se qui sono entrato come insegnante di sostegno e adesso faccio informatica. Ho provato a fare cantare alcuni ragazzi, ed ho capito che c’erano delle belle voci. Mi sono detto: perché non tentare una follia? Preparo i ragazzi, incidiamo un cd, e facciamo sapere a tutti che Secondigliano non è solo il paese delle scuole devastate. Vado dal preside, gli chiedo un progetto di 60 ore (sono oltre l’orario scolastico e sono pagate) e lui accetta. Ma è chiara una cosa: 60 ore, con un progetto come questo, se ne vanno in due settimane, e se a scuola vuoi costruire qualcosa di diverso, devi fare soprattutto il volontario. Otto, dieci ore al giorno per sei mesi, invece delle 18 settimanali delle lezioni di informatica (che comunque continuo a tenere). Ma qui entra in campo anche una questione personale. Io, dopo la laurea, mi ero messo a preparare basi musicali jazz e a scrivere per una rivista. Facevo tutto a casa, al computer. I soldi ‘‘ Promosso Bocciato due volte e con un lavoro da fornaio pronto, al diploma di terza media non ci pensavo più. Invece perfino io sono riuscito ad avere la promozione FOTO DI GRUPPO In alto, due “ragazzi del coro” della Savio Qui sopra, foto di gruppo col preside Paolo Vascello (a sinistra) e Massimo Valenti non mancavano ma stare tutto il giorno al computer non mi dava soddisfazione. Se sei un musicista hai dentro un’inquietudine che deve saltare fuori. E allora sono andato a insegnare, prima al Nord poi a Secondigliano. Qui non c’era, e non c’è, una cattedra di educazione musicale e allora l’ho inventata, sia chiaro anche per mia soddisfazione. Il mio mestiere è fare cantare i ragazzi, farli suonare, non solo raccontare la storia della musica, che li farebbe sbadigliare». I ragazzi ricordano bene i primi giorni. «Già sarebbe stato un miracolo mettere assieme un coro. Pensavamo di incidere due o tre canzoni, poi abbiamo visto il musical di Claudio Mattone, C’era una volta… Scugnizzi. Ci siamo riconosciuti in quelle canzoni, dentro c’eravamo noi e anche il nostro quartiere. Allora abbiamo deciso, con il professore, di imparare e incidere le 13 canzoni di quello spettacolo. È la storia di un prete che da ragazzo è stato in riformatorio e adesso aiuta ragazzi allo sbando. Anche il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, quando è venuto a Napoli, è andato a vedere Scugnizzi». Mettere insieme un coro è impegnativo. «È un insieme di individui — dice il professore — che vorrebbero restare tali. Ci sono però i più bravi e gli altri debbono riconoscere le loro qualità. Allo stesso tempo i più bravi non debbono montarsi la testa. Anche questa, credo, è educazione. Con i mezzi a disposizione abbiamo fatto miracoli: un mixer vecchio, il mio computer portatile e un solo microfono. Tutte le voci registrate singolarmente giù nell’ex laboratorio di cucito, e interruzioni continue: sulle nostre teste passano gli aerei di Capodichino, a fianco c’è la palestra, sopra c’è la mensa dove spostano tavoli e sedie. Ma alla fine ci siamo riusciti, anzi, ci sono riusciti loro. La scuola non ha regalato niente a questi ragazzi. Si sono impegnati, hanno sudato, hanno passato tutti i loro pomeriggi a scuola fino alle 17 e poi hanno preparato anche l’e- same di terza media». Per fortuna, il preside della San Domenico Savio, Paolo Vascello, non è il cattivo Rachin di “Le Fond de l’Etang”. «So’ semp’ o Masto», sono sempre il maestro, recita un cartello in presidenza. «A Secondigliano — dice — hanno chiuso anche l’ultimo cinema, il Maestoso. Per questo uno spettacolo a scuola è ancora più importante. Noi puntiamo molto sui laboratori: ne abbiamo tanti, dalla ceramica all’informatica, dai costumi al giardinaggio. Le conoscenze non bastano, sono necessarie anche le abilità che possono trasformarsi in mestieri. Senza queste proposte, la scuola fallisce». Dall’inizio dell’anno scolastico, da quando Secondigliano e Scampia sono quasi ogni giorno nei tg e sui giornali, anche davanti alla scuola è tornata la paura. I genitori vengono a prendere i figli prima che scenda il buio, poi tutti a casa a guardare in televisione cosa è successo nella strada di fianco. «Padri e madri hanno già paura — dice il professor Villani — e guardano il telegiornale che riversa loro addosso una paura amplificata che viene a sua volta riversata sui figli. È come quando un microfono fischia per un suono di ritorno: si chiama effetto Larsen». Nel film “Les choristes”, fra i ragazzi c’è Pierre Morhange che un giorno diventerà direttore d’orchestra. Antonio il sedicenne, ha sogni più piccoli ma qualcosa per lui è già cambiata. «Ho il diploma di terza media e non sono andato a fare il fornaio a venticinque euro la settimana. Tutta l’estate ho fatto una tournèe nelle piazze con Claudio Carluccio, cantante e chitarrista. Tanti paesi e città, qui in Campania, in Puglia, in Calabria e anche a Roma. Ho fatto il tecnico del suono e sono anche salito sul palco, per cantare. Fra pochi mesi ricomincio, e intanto faccio un corso di informatica». Si ferma a parlare a lungo con il professore, quando già scende il buio, sotto la statua della «Bianca Regina dei Pirenei». Ha bisogno di consigli per il futuro. Da queste parti «‘E piccirilli» — così Antonio canta in «Ajere» (ieri), la sua canzone preferita — sono «gente c’afferra / a vita p’e capille». DOMENICA 2 GENNAIO 2005 le storie/2 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 Nel tempio Neocon A dieci chilometri dal cuore duro della capitale americana, sopravvissuta in mezzo a un groviglio di svincoli autostradali, shopping centers, schiere di villette clonate, sorge la chiesetta dove nel 1760 pregava George Washington. Qui alle dieci di ogni domenica mattina si inginocchiano per la messa gli “uomini del presidente”, gli ideologi del nuovo millenarismo made in Usa La chiesa degli apostoli di Bush VITTORIO ZUCCONI a terra del cimiterino è soffice sotto i piedi, infracidita dalle piogge invernali e dai resti di tre secoli di storia americana. Nel giardino di marmo attorno alla chiesa, le tombe di militi ignoti sfarinati da tempo dentro le loro giubbe blu o grigie, di madri naturalmente sempre esemplari, di diaconi e vicari dignitosamente scomparsi, accompagnano come pietre miliari i passi dei nuovi signori della destra di Dio che ogni domenica mattina vengono qui ad adorare loro stessi, nella Falls Church, nella chiesa delle Cascate alle porte di Washington. Quella dove quasi trecento anni or sono, nel 1760, pregava un uomo con la dentiera di legno e la volontà di ferro chiamato George Washington, per una nazione non nata e che lui avrebbe partorito. Il navigatore satellitare della mia auto dice che siamo ad appena sei miglia, meno di dieci chilometri, dal cuore duro di Washington, dalla Casa Bianca, dal Congresso, dal Pentagono, spersi in uno di quei sobborghi clonati che un urbanista chiamò «il grande dappertutto americano». Ma a volte anche gli urbanisti sbagliano. La Falls Church, la chiesa Episcopale, cioè Anglicana, che i coloni settecenteschi con i loro nomi ora scolpiti sui marmi tombali, Sommers, Dulaney, McCarron fondarono accanto alle rapide del Potomac in Virginia è un luogo unico, sopravvissuto al tempo e allo spazio. É uno spicchio triangolare di terra e di materiale genetico che persino le ruspe non hanno mai osato stravolgere. Sta sospeso in una dimensione di silenzio e di rispetto miracoloso tra svincoli autostradali ciclopici, shopping centers schiamazzanti, piccole Saigon fetenti di aglio fritto, ipermercati, ingorghi perenni, villette fotocopiate, una catacomba a cielo aperto invisibile per tutti, meno che per i praticanti del nuovo millenarismo americano incarnato da Bush. Gli uomini del Presidente, almeno quelli di persuasione cristiana protestante, si inginocchiano qui. Ogni domenica alle dieci, la catacomba degli apostoli del Bushismo, si popola dei nomi che negli altri sei giorni della settimana vivono tra i palazzi del potere in centro o si autocelebrano sugli altarini televisivi. Dalla rampa dell’autostrada intitolata a un altro grande concimatore di terre virginiane, al generale Robert E Lee, lo stratega del Sud ribelle, la processione delle automobili svolta a destra sulla strada della chiesa, chiamata — che altro? — Washington Street e scarica il meglio della intelligentsja bushista, i volti, i cervelli, gli apostoli e i diffusori del suo verbo. Sulla soglia a vetrate dell’ala nuova della chiesa, costruita a emiciclo agganciato alla chiesetta dove George Washington era sagrestano, come la lama di una falce nuova al manico antico, il rettore, il reverendo dottor John Yates accoglie di persona il suo sceltissimo gregge. Stringe la mano all’immancabile direttore della Cia, Peter Gross, e alla moglie Mary, che già la frequentavano quando Gross era soltanto uno dei tanti deputati repubblicani di destra. Saluta Fred Barnes, star dei talk shows, penna e volto d’assalto del Weekly Standard, la Pravda dei neo conservatori, ossequia il giudice Robert Bork, quello che Bush il Vecchio nominò alla Corte Suprema soltanto per Porta aperta La nostra porta è aperta a tutti, non chiediamo tessere di partito o professioni di fede ‘‘ Cristiani Noi crediamo all’essere prima cristiani e poi episcopali, cattolici romani, ortodossi... Benedizione Qui dentro il nome di George W è stato fatto una sola volta, dopo l’11 settembre John Yates rettore della Falls Church É vero. Nel sermone natalizio che ascolto pronunciare davanti alla congregazione riunita, come nella raccolta pubblica e consultabile di tutte le omelie del rettore Yates e del suo vicario, reverendo Switthinbank, non troverete esortazioni a votare per Bush e neppure a votare “contro”, come nelle parrocchie italiane degli anni ‘40. Ed è insieme falso, perchè il messaggio che scende, insieme con le note dei gruppo folk di chitarre e batteria che hanno rimpiazziato organi e harmonium nell’ala nuova del tempio, è inconfondibile, è l’essenza del neo integralismo cristiano che ha portato Bush alla vittoria e i suoi uomini a raccogliersi qui. É il messaggio, come il rettore sintetizzò nella sua prima predica dopo le elezioni, del ritorno alle tradizioni e ai “valori” giudaicocristiani nella vita pubblica e politica, portato come massima responsabilità da chi ha il potere. Parole in codice, ma leggibilissime, nella vulgata che tutti gli uomini del Presidente porteranno fuori, nel mondo, dopo le funzioni. Richiami fermissimi alla sacralità del matrimonio come fusione esclusiva di uomo e di donna, al rifiuto dell’omosessualità, dell’aborto volontario, dell’ordinazione di vescovi gay, come proprio la chiesa episcopale americana ha accettato con voto di maggioranza, indignando la minoranza. Frasi ed esortazioni che ogni fedele, in ogni tempio, sente ripetere ogni settimana e che spesso scivolano come acqua sul dorso di un’anatra all’uscita dalla chiesa. Ma che qui risuonano nelle orecchie di uomini che hanno il potere per tradurle in politica. Di gente che tiene le chiavi del cuore di Bush. É lo stesso messaggio che ho sentito ripetere e amplificare nelle megachiese da cinquemila e più fedeli sparse nel grande ventre dell’America repubblicana e revivalista, e non solo repubblicana, diffuso da network radiofoniche e televisive, condito di offensive sceneggiate di guaritori, piazzisti di miracoli e imbonitori con annesso Numero Verde per l’acquisto di eleganti cofanetti con libri scritti da loro, video cassette e Dvd a soli dollari 29,99, pagabili anche a rate. Ma nella chiesa che fu di George Washington e ora è di Bush, non c’è nulla della pacchianeria e degli orgasmi da televangelisti, con cori strepitanti e pettorute coriste squassate dall’estasi. I fedeli che ascoltano intenti i lunghi sermoni del rettore prima di avvicinarsi alla comunione, sono i volti e le famiglie composte di un’America come sembrerebbe non esistere più, se Hollywood e la televisione fossero lo specchio dell’America. Bambini biondi in calzettoni bianchi e blazer blu con i bottoni d’ottone come i loro padri, mamme in teneri colori pastello, gonne e completino d’angora con filo di perle, padri in mocassini oxford o “patent leather”, cuoio nero a specchio, come gli ufficiali, qualche uniforme e fuori automobili sobriamente lussuose, mai pacchiane, parcheggiate tra le pietre tombali. Gente per benissimo, serena nel proprio successo professionale e politico, potere reale senza ostentazione e cafoneria da nuovi ricchi. Gente onestamente persuasa, mentre recita a memoria lo stesso credo di Nicene che i Cattolici recitano a Messa, …. credo in Dio onnipotente, signore del cielo e della terra…. di adorare un Dio che è emigrato in America e che camminerà al loro fianco, tra le pietre tombali vecchie e nuove di una vocazione, nei secoli dei secoli, imperiale. FOTO EGUEORGUI PINKHASSOV / MAGNUM PHOTOS L WASHINGTON vederlo bloccato dall’opposizione quando spiegò che aborto e divorzio erano, per lui, anatema. Non c’è altra chiesa, negli Stati Uniti, che raccolga tanto potere, alla domenica mattina. Sorride, il rettore alto, biondo e molto british, come vuole il dna strettamente Wasp, anglo-bianco-protestante, di questa congregazione, all’amico carissimo Robert Aderholt, deputato di quel collegio dell’Alabama che vide la ribellione del “Giudice della Bibbia”, quando la Corte Suprema gli ordinò di rimuovere le tavole dei Dieci Comandamenti dal suo tribunale, perchè violavano la separazione fra stato e chiesa. Aderholt è un mito tra i colleghi parlamentari perchè a ogni nuova legislatura propone una imprecisata legge per la “Difesa dei Dieci Comandamenti” che il Parlamento puntualmente gli respinge, ma con maggioranze sempre più timide. Fino alla vigilia di Natale, quando un attacco di cuore lo ha costretto a un ricovero d’urgenza per sbloccargli le coronarie, sempre sull’ultimo banco perchè “beati gli ultimi…”, (remember Jesus?) sedeva l’evangelista sommo del bushismo, l’uomo che da quattro anni mette le ali della retorica agli stivali di George W Bush, Michael Gerson, l’autore dei discorsi presidenziali. Sono di Gerson, non di “W”, quelle metafore esaltanti e quelle immagini salvifiche, farcite di allusioni bibliche, che troveremo il giorno dopo nei titoli dei giornali. Anche quando lo slancio gli prende la mano, e gli scappa una parola sbagliata come quella “crociata” anti islamica che da allora ogni terrorista arabo ha rivoltato golosamente contro gli Usa, Gerson è la voce di Bush, tanto quanto Karl Rove ne è il cervello politico. A volte, nella massima discrezione Peter Gross Il direttore della Cia è uno dei frequentatori più assidui Robert Bork Il giudice che Bush padre nominò alla Corte Suprema Michael Gerson È l’autore dei discorsi presidenziali di George W. EDIFICIO STORICO Qui sopra la Falls Church in una foto di metà Ottocento In alto, preghiera collettiva dei fedeli davanti a una chiesa prima dell’inizio della messa consentita dal corteo di furgoni blindati, ambulanze, elicotteri e auto bianconere dello sceriffo che lo seguono, si dice che anche il Presidente si faccia vedere tra i banchi della Chiesa delle Cascate, ma il rettore John Yates non conferma nè smentisce. “W” Bush, che pure era stato educato da Episcopale come il papà, oggi si dice Presbiteriano, non che per una pecorella così autorevole il reverendo rettore non sia pronto a spalancare i cancelli dell’ovile. «La nostra porta è aperta a tutti, non chiediamo tessere di partito o professioni di fedeltà» dice il rettore. «Noi crediamo all’essere prima cristiani e poi episcopali, cattolici romani, ortodossi, si immagini che cosa ci importa sapere per chi votino coloro che vengono ad adorare il Signore Dio nella nostra chiesa». Ma allora perchè proprio si ritrovano qui, nel tempio fra le tombe della storia, e non altrove, nelle trecento chiese grandi e piccole che si sgomitano tra i sobborghi della capitale nel ricco mercato delle fedi, perché proprio qui vengono a fare le loro devozioni i teologi del Bushismo, spesso affrontando il traffico per raggiungere la Falls Church, dalle loro lontane ville? «Non lo so e non lo voglio sapere» insiste Yates, forse infastidito dalla scoperta di questo suo piccolo segreto. «Quello che so è che qui non si fa proselitismo politico o elettorale. Da quando sono rettore io, il nome di George W Bush è stato fatto una sola volta, nel sermone di domenica 15 settembre 2001, quando invocammo la benedizione del Signore sopra i nostri caduti, il nostro Paese e il nostro Presidente, chiamato a guidare l’America nella tempesta. Lo fecero tutti i ministri, i pastori, i parroci, i rabbini in ogni tempio, quel giorno, controlli». 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 il viaggio Alaska in pericolo A 32 chilometri dal circolo polare artico seicento uomini lottano contro il mare che si mangia le loro case. Sono gli Inuit di Shishmaref, il loro nemico è il caldo che squaglia il ghiaccio sotto i piedi. La loro unica speranza di avere ancora un futuro è scappare e diventare profughi del clima che cambia Il popolo dell’isola che si scioglie La Terra è una pentola in ebollizione, questa fetta di Polo è la bolla più grossa. Ad annegare è un’intera cultura. “Se cambia l’inverno cambia la nostra vita: non ci sono più orsi, i pesci scelgono altre strade”, raccontano Sparire nel freddo Una volta, come nelle fiabe. Una volta c’era un popolo che scompariva nel freddo, la sua gente veniva chiamata eschimese che significa «mangiatori di carne cruda», dispregiativo poi convertito in Inuit, «essere umano». Una volta non c’era il gore-tex e gli Inuit si rico- di cenere; qui è l’acqua a travolgere l’esistenza. Nel ‘97 una tempesta s’è portata via cento metri di spiaggia e ha divorato 14 case, l’ultima ne ha mangiate altre 18. Qualche abitazione la vedi ancora: disabitata, sbilenca, sgranocchiata dal mare. Gusci vuoti, carcasse, come certi granchi storditi dalla risacca. Quello che una volta era a cento metri dalla costa ora è a dieci. Tiri indietro i piedi, arretri, ma a forza di farlo ti ritrovi dall’altra parte, ancora acqua, mare. Dove scappi? L’aeroporto sprofonda Shishmaref non è Las Vegas, ha 148 case, un ufficio postale, due scuole, due empori. È piatta, senza igloo. Nessun taxi, nessun albergo. Età media: 24 anni. Niente bagni, né docce, né cucine. Niente acqua potabile, una volta si andava a prenderla al fiume Serpentine o si triturava il ghiaccio. Prima, quando c’era il ghiaccio, e non questa brodaglia. Anche la minuscola pista dell’aeroporto si sta inabissando, e nessuno mette più carne e pesce a essiccare sulle piccole palafitte. L’isola provvedeva a se stessa, al suo bisogno di cibo. Il menu era vario. «In primavera c’era il tricheco, le more, la lepre; in estate il salmone, la trota e le aringhe; in autunno l’alce, il merluzzo e la pernice bianca; in inverno l’orso e il bue muschiato». Una volta, FOTO LAIF/CONTRASTO uio, nevica, tempesta di ghiaccio. La pista d’atterraggio sprofonda. Nebbia di gelo, rombo del motore, raffiche di aria fredda. Urla da osteria, inutili. Il vento ha più voce, canta, si sgola. Un barbiere pazzo che sfigura a colpi di rasoio. Meno 25 gradi: caldo. Per essere a fine dicembre, nel paese dei cacciatori di balene e dei pescatori di granchi. Mare e tundra, Alaska. A 32 chilometri c’è il circolo polare artico. Vedi i cani: malamutes, di origine sconosciuta. Testa eretta, occhi attenti, passo fiero, come i loro padroni, gli Inuit. La zampa termina in cuscinetto, s’incolla al terreno e non perde la presa. Gli uomini invece: ballerini ubriachi su una pista scivolosa. I malamutes non temono il fango, non scivolano sulla neve, non si tagliano sulle lame di ghiaccio. Kayak e barche da pesca giacciono su montagnozze di neve, a lato della costa, parcheggiate come fossero biciclette. Il porto non c’è più, il mare ha sempre fame e allunga la lingua. Qui Shishmaref, isola di Sarichef, la prima al mondo ad avere il titolo di “rifugiata ambientale”, perché cola come un gelato a ferragosto. privano con una giacca d’intestino di tricheco e di piume di cormorano. Una volta un orso polare bianco, era il 1971, fece lo spiritoso su questo ghiaccio. Poteva permetterselo: pesava 680 chili, 3 metri e 23 d’altezza. Ora è nella hall di un albergo di Anchorage, dietro una vetrata, con specificato il fucile che lo fece fuori: 338 Winchester. A quattro zampe, perché in verticale non entrava. Accanto un orso bruno, stessa stazza, ammazzato anche lui con un fucile 338. Shishmaref era casa loro: ci potevano anche ballare, senza sprofondare. Una volta il circo polare artico non sudava, adesso il suo mare, gelato per 15 milioni di anni, si scioglie. Come un cubetto di ghiaccio in una tazza di tè caldo. Shishmaref, 600 abitanti, nel mare di Chukchi, è il cubetto che si squaglia. Se volete trovarla, aprite l’atlante, guardate in alto, verso il grande nord, stretto di Bering, la Siberia è dall’altra parte. Se volete capirla, prendete i libri su Zanna Bianca e il Richiamo della Foresta. «C’è nelle creature selvagge una pazienza tenace quanto la stessa vita». E non cercate la luce del giorno nella lunga oscurità dell’inverno, i sei mesi di buio sono appena iniziati, non è ancora tempo del sole rosso a mezzanotte. Shishmaref, l’isola che c’era e che non ci sarà più, è ai suoi ultimi giorni. Una Pompei alla rovescia: lì il fuoco divampò e coprì la vita L’EMERGENZA L’erosione dell’isola di Sarichef è imponente, rapida e drammatica. Le intemperie rischiano di essere fatali: nel 1997 una tempesta ha portato via in un colpo solo cento metri di spiaggia e con essa quattordici case. Una bufera più recente ha fatto sparire altre diciotto abitazioni FOTO CORBIS/CONTRASTO B SHISHMAREF È un’isola profuga, in attesa di ricollocazione. Più in giù nomi da leggenda: Montagna Bianca, Collina Scura, Schiena di Balene, il Passaggio a Nord-Ovest, il fiume Yukon, largo a cattivo, le montagne del Klondike dove i cercatori d’oro sputarono la vita e Jack London la trovò. Tony Weyiouanna ha un cappotto foderato di pelliccia di lupo e guida una motoslitta: «Andiamo?». Andiamo. Tony, per favore un bagno. «Si arrangi, non abbiamo cessi sull’isola, forse da qualche parte troverà un bidone di plastica giallo. Noi lo chiamiamo honeybucket, secchio di miele». Tony, 45 anni, è un Inupiaq, un Inuit nato in Alaska. Indica il mare, color metallo lucido: «Una volta lì c’era la spiaggia, ci giocavamo da bambini; una volta il mare ghiacciava da ottobre a metà giugno; una volta c’era la costa, con le strade e le case, una volta sotto i nostri piedi la crosta non cedeva. Una volta cacciavamo e pescavamo sul pack, con le fiocine. E le more si raccoglievano in agosto». FOTO CORBIS/CONTRASTO EMANUELA AUDISIO appunto, quando il mare non pisciava così frequentemente, e in questa stagione faceva molto più freddo. Ora un litro di latte costa 9 dollari, tutto viene importato a prezzi carissimi, anche le uova che arrivano rotte in aereo. Nemmeno l’oogruk, la foca barbuta, fondamentale per la dieta degli Inuit, si fa più vedere. Il ghiaccio è troppo sottile. «È la nostra fine», dice Percy Nayokpuk. Gli Inuit non fanno guerre, non hanno mai visto un albero, non coltivano nulla. Per loro il gelato è una crema di grasso di animale, olio di foca e carne di caribù. Il sole è femmina e la luna è suo fratello. E la vera leccornia è seppellire la testa del salmone nella sabbia per dieci giorni, poi lavarla e mangiarla. Enjoy. Sono isolati, gli Inuit. Ma per trovarsi non hanno bisogno dei cartelli stradali. A loro basta guardare le stelle, come cartina usano il cielo. Sopra, sotto, davanti e dietro hanno una natura nemica e violenta, capace di forza bruta. Tutto è fatica, pericolo, agguato. Gli Inuit non credono, preferiscono conoscere. Da queste parti non è la fede a salvare la vita, ma sapere cosa fare. Quando l’esploratore Knud Rasmussen chiese ad una guida Inuit in cosa credesse, quello stupito gli ribattè: «Noi non crediamo, abbiamo paura». Risposte così fanno impazzire. E infatti Rasmussen subito dopo dichiarò: «Datemi la neve, datemi i cani e tenete- DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 IL RISCALDAMENTO DELLA TERRA Negli ultimi 25 anni la temperatura del pianeta è aumentata di 0,6 gradi. Nei prossimi cento anni si prevede una crescita del riscaldamento globale tra 1,4 e 5,8 gradi. Dal 1810 l’anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata del 25% e cresce al ritmo di 0,4% all’anno: principali responsabili, l’uomo che brucia combustibili fossili e la deforestazione. IL RECORD DEL POLO NORD L’aumento della temperatura al Polo Nord è da due a tre volte più rapido che nel resto del pianeta: da qui al 2100 si attende un riscaldamento tra i 4 e i 7 gradi. Negli ultimi 35 anni il ghiaccio del Mar Artico si è assottigliato: è passato da uno spessore medio di 3,1 metri a 1,8. Il ghiacciaio Columbia, in Alaska, si è ritirato di 13 km dal 1982. Barry Commoner “Le colpe dell’America” ARTURO ZAMPAGLIONE FOTO CORBIS/CONTRASTO «O Alaska si è alzata: cinque gradi in più l’estate, dieci l’inverno, e i temporali sono aumentati. Otto milioni di ettari di natura incontaminata stanno impazzendo. I ghiacciai si ritirano ad un ritmo due volte più veloce di dieci anni fa. I locali parlano di «foreste ubriache», di «alberi che schiattano nel fango», di «insetti che contagiano la vegetazione». Una natura sbronza, che non si regge in piedi, che ha la febbre e vomita. Caccia e pesca in crisi Tony Weyiouanna spiega: «Se cambia l’inverno, cambia la nostra vita. L’hanno scorso abbiamo cacciato un solo tricheco. E siamo usciti per la prima volta con le barche fino a fine dicembre. Non c’era più il pack. I pesci scelgono altre direzioni, quelli che prendiamo sono brutti e sconosciuti. Gli orsi salgono più a nord. Sono scomparse anche le renne: pochi anni fa nella zona ce n’erano 1.500 ora solo 300». Tony due anni fa ha votato a favore del trasferimento della comunità in un altro posto. I sì hanno vinto 161 a 20. È stanco di avere i piedi bagnati, ma capisce che l’erosione è anche culturale. Dei 13.500 Inuit che vivono in Alaska meno del 25 per cento parla la lingua tradizionale. «Ormai siamo solo in settanta a usare l’Inupiak, quando ero ragazzo a scuola mi obbligavano a rispondere in inglese e mi pu- nivano se usavo la mia lingua». Cliff Weyiouanna, 60 anni, guida professionale, invece è tra quelli che hanno votato no. «Questa è stata casa nostra per migliaia di anni e si adatta al nostro stile di vita. Tutto quello di cui abbiamo bisogno sono sei foche barbute e due trichechi l’anno». Altri contestano che questa Pompei del mare sia dovuta al rialzo delle temperature. «Sono fenomeni già visti, non è colpa dell’uomo o dei condizionatori d’aria». Il professor Gunter Weller dell’università di Fairbanks insiste: «Il ghiaccio dell’Artico nei prossimi 60 anni scomparirà». Il trasferimento di Shishmaref dovrebbe costare 120 milioni di dollari. Il governo in un primo momento si era detto disponibile alla spesa, poi ha fatto marcia indietro. Sarà la prima isola a finire sulla terraferma. Forse sarà ricollocata più a sud, a un’ora di aereo, dalle parti di Nome, meta di molti disperati della terra. Nome è il punto di arrivo della Iditarod, la corsa più fredda e più massacrante del mondo: duemila chilometri da correre con slitte e cani. L’unica gara con un premio anche per l’ultimo. Si disputa a marzo, appena l’equinozio porta via la grande notte e regala il grande giorno. Quando la natura si sgela, e molti uomini impazziscono. Charles Meach, che è appena morto in prigione dove stava scontando una pena di 396 anni, giu- stificò così l’uccisione di quattro ragazzi. «Quando torna la luce, troppe cose si sbrinano, anche la mia schizofrenia». Nel 1973 ci volevano 20 giorni per finire l’Iditarod, l’anno scorso chi ha vinto ce l’ha fatta in 9 giorni 15 ore 47 minuti. Chi ama gli animali meglio che si astenga dal vederli morire di crepacuore. Nome è una vecchia e triste città dei cercatori d’oro, la sua ferrovia è ormai un ricordo e si chiama: «Last train to nowhere». L’ultimo treno verso il nulla. Però è una città riconoscente e ha dedicato molti studi e libri alle sue Bocca di Rosa, alle «Good Time Girls» che intrattenevano i clienti nei saloon. Con la motivazione: «Anche loro cercavano l’oro». A Nome arrivò anche il famoso sceriffo Wyatt Herp, quello che con Doc Holiday sparò e vinse all’Ok Corral a Tombstone, Arizona. Herp, accompagnato dalla moglie, aprì un locale, The Dexter, fece i soldi, ma dopo due anni se ne andò. Tutta quella neve bianca era troppa per lui, gli faceva venire il mal di mare. Il piccolo aereo lascia l’isola in un’aria sempre più appannata. Gli Inuit preparano il funerale della loro terra, ammazzata dai brividi caldi della modernità. Chissà se dopo in questo pezzo di mare ci metteranno una lapide galleggiante come avviso ai naviganti: «Shishmaref, 1816-2005, isola profuga, affogata in basso a destra». FOTO LAIF/CONTRASTO L’EVACUAZIONE Il trasferimento completo della popolazione di Shishmaref sulla terraferma costerebbe 120 milioni di dollari. Gli abitanti dell’isola si sono già pronunciati favorevolmente sul progetto con un referendum. Anche il governo si è detto d’accordo, in un primo momento. Poi però ha fatto marcia indietro FOTO CORBIS/CONTRASTO vi tutto il resto». Ma perché oggi il mondo dovrebbe interessarsi agli Inuit? «Perché la terra è una pentola sul fuoco, piena di acqua in ebollizione. Shishmaref è la prima grossa bolla che si è formata, è il simbolo di quello che ci aspetta. Ora tocca a una fetta d’Alaska scomparire, domani sarà la volta di Groenlandia, Canada, Siberia, Norvegia che soffrono già degli stessi sintomi», spiega Julie Baltan, 51 anni, direttrice del Kawerak, organizzazione che si occupa di questi problemi. «Non è solo un’isola ad inabissarsi, seppellita dal mare, ma un modo di cacciare, di pescare, di vivere. È tutta una cultura che annega, con 155mila Inuit». Altre Shishmaref sono dietro l’angolo. Altre comunità sono considerate in pericolo imminente. Si chiamano Kivalina, Koyokuk, sul fiume Yukon, e Newtork. Il rialzo delle temperature ha provocato l’erosione dell’86 per cento del loro territorio. A Newtork il fiume Ninglick straripa da matti e si mangia quasi trenta metri all’anno. Kaktovik, Point Hope, Unalakleet, Barrow e Bethel hanno strade e aeroporti minati dall’erosione. Gli Inuit devono spostarsi, trasferirsi, non possono affogare. Ma ricostruire da un’altra parte costa. Il trasferimento di Kivalina, una comunità di 377 persone, è stato calcolato in 400 milioni di euro. Negli ultimi 30 anni la temperatura in NEW YORK rmai ci siamo», sospira Barry Commoner. «È iniziata la prima fase di un cambiamento climatico che si preannuncia violento, estremo, epocale. Dopo anni di inutili avvertimenti e di politiche dissennate, le isole si squagliano, gli uragani si moltiplicano, le inondazioni sono sempre più frequenti. E i primi a farne le spese sono proprio i più deboli e i meno colpevoli. Come gli Inuit». Commoner è uno dei padri — forse il più noto — dell’ecologia moderna. Autore del Cerchio da chiudere, su cui si sono formate generazioni di studiosi e attivisti ambientali; fondatore del Centro per la biologia dei sistemi naturali, è l’uomo-simbolo delle battaglie globali per la difesa della natura. E nonostante l’età (87 anni), continua a impegnarsi, a combattere. «Sto scrivendo un libro-denuncia contro l’ingegneria genetica», ci spiega dall’ufficio del Queens college. Pessimista, ma non rassegnato, segue da vicino anche le sorti delle popolazioni artiche. Professor Commoner, da dove nasce l’interesse per gli Inuit? «Ho condotto uno studio per conto della commissione ambientale del Nafta sull’avvelenamento da diossina. Purtroppo gli Inuit non devono solo vedersela con l’effetto-serra e il rialzo delle temperature, che mettono a repentaglio la loro cultura e la loro stessa esistenza, ma anche con la diossina. La quale, prodotta soprattutto dagli inceneritori di rifiuti degli Stati Uniti, migra verso il Polo Nord». É un fenomeno pericoloso? «Abbiamo accertato che nel corpo degli eschimesi e nella fauna artica i livelli di diossina sono alti quanto qui da noi. Con una aggravante: la diossina si annida nel grasso animale, che è alla base della dieta di quelle zone. L’avvelenamento ha già provocato casi di orsi polari transessuali». Torniamo all’effetto-serra e a Shishmaref, l’isola che sta scomparendo. «Il terremoto nelle temperature è il problema ambientale più grave, l’innalzamento degli oceani rischia di provocare catastrofi. Cominciamo già ad assaggiare i primi danni: il centro meteorologico americano ci dice che il numero degli uragani è in aumento, quest’anno le inondazioni nell’area di New York sono state le più gravi nella storia. E poi c’è la triste vicenda dei ghiacci dell’Alaska». É possibile porvi rimedio? «Sheila Watt-Vloutier, presidente del gruppo che riunisce gli Inuit dei vari paesi artici, dall’Alaska alla Russia, dal Canada alla Scandinavia, intende denunciare Washington alla commissione inter-americana per i diritti umani. La sua tesi? Che gli Stati Uniti, grandi colpevoli dell’effetto-serra, stiano mettendo in pericolo la vita delle popolazioni artiche. Se la commissione darà ragione agli Inuit, potrebbe servire per azioni legali contro le industrie inquinatrici, sulla falsariga delle cause contro le multinazionali del tabacco». Ma è una strada lunga, in salita, e c’è il rischio che la vittoria legale arrivi troppo tardi. «Sì, ma gli Inuit non hanno altre armi… Paradossalmente la spinta maggiore a fare qualcosa per l’ambiente verrà dalle compagnie di assicurazione, che si vedranno costrette ad aumentare i premi per far fronte ai crescenti costi meteorologici. Una prospettiva del genere avrà ripercussioni politiche. E a quel punto George W. Bush, che ha boicottato il trattato di Kyoto, sarà costretto a fare marcia indietro». 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi DOMENICA 2 GENNAIO 2005 Miracolo d’Irlanda ‘ Era il Paese della guerra civile, della povertà e della fame, piegato da un’emigrazione disperata. Ora nella classifica 2005 dell’“Economist” è l’“isola felice”: il posto dove si sta meglio al mondo. Il segreto? Quell’attimo fuggente in cui uno sviluppo economico travolgente e repentino e la resistenza delle buone vecchie tradizioni restano ancora in perfetto equilibrio ‘ Per la prima volta sentiva un senso di rivolta contro la mediocrità priva di eleganza di Capel Street. Non c’erano dubbi, chi voleva il successo doveva andarsene via, a Dublino non era possibile combinare qualcosa Da GENTE DI DUBLINO di James Joyce Cara sporca Dublino. Dublinesi… Notte umida maleodorante di pasta famelica. Contro il muro. Viso luccicante color sego sotto lo scialle di lana. Cuori frenetici Da ULISSE di James Joyce Gente di Dublino, la rivincita ENRICO FRANCESCHINI P DUBLINO ioggerella, raffiche di vento, un cielo grigio gonfio di bassi nuvoloni, sei-sette gradi di temperatura. Dublino ti accoglie così, in una giornata d’inverno. E non è che nelle altre stagioni le condizioni atmosferiche siano molto diverse: da queste parti piove, in media, duecentocinquanta giorni all’anno. Sicchè il visitatore che ha in tasca uno studio dell’Economist, in cui si proclama l’Irlanda il paese con la più alta qualità della vita al mondo, appena arrivato sente sorgere irresistibilmente la prima domanda: come può essere il posto migliore in cui vivere, con un tempo simile? Pazientemente, gli irlandesi ti spiegano che il clima della loro isola, per effetto della corrente del Golfo, in realtà è relativamente mite, considerato che come latitudine è situata più a nord di Vancouver o Terranova. Nei mesi invernali il termometro va raramente sotto zero, l’estate non è mai soffocante come nel Mediterraneo, e se qui la natura è tanto rigogliosa bisogna ringraziare per l’appunto le abbondanti piogge. Senza dimenticare, aggiungono compiaciuti, il proverbio locale: «Dentro ai pub non piove». Di pub ne hanno diecimila: su una popolazione di quattro milioni fa uno ogni quattrocento abitanti. Nessuno, in teoria, rischia di bagnarsi. Crescita prodigiosa Ma anche una volta archiviati i dubbi di carattere meteorologico, l’incredulità o almeno la sorpresa permangono. Si sapeva che in un decennio di prodigiosa crescita economica l’Irlanda ha cancellato un’immagine consolidata da secoli: un Paese in miseria, falcidiato dalla fame, da una disperata emigrazione di massa, da una sanguinosa guerra civile tra cattolici e protestanti in Ulster, che con un cambiamento re- ‘ pentino si trasforma nella “Tigre Celtica”, diffondendo il benessere per (quasi) tutti e i benefici della pace, dopo cent’anni di conflitto intestino in Irlanda del nord, dove manca il suggello di un accordo finale ma è finita la violenza. Possibile però che adesso sia diventata addirittura “l’isola felice”, il paese del bengodi, da fare invidia al resto del pianeta? Il rapporto dell’Economist, compilato in occasione dell’uscita del numero annuale “The World in 2005”, lo stato del mondo nell’anno che verrà, la mette davanti alla Svizzera, ai paesi scandinavi, a Italia e Spagna, a Stati Uniti, Francia, Germania e Gran Bretagna, così motivando la scelta. Gli esperti dell’Economist Intelligence Unit hanno misurato un ampio raggio di fattori, dal reddito medio alla disoccupazione, dalla stabilità politica ai conflitti sociali, dall’istruzione alla sanità, dal clima all’eguaglianza tra i sessi, assegnando un punteggio da uno a dieci in ogni categoria: ebbene, l’Irlanda ha ottenuto il risultato più alto, 8,33 (la Svizzera, seconda in classifica, è a 8,03). Il sondaggio rivela che non solo l’Irlanda ha il quarto reddito pro capite al mondo, ma che questa ricchezza recentemente acquisita si combina con persistenti valori tradizionali: famiglia, religiosità, spirito comunitario. «L’Irlanda vince perché congiunge i più desiderabili elementi di innovazione, come bassa disoccupazione e libertà civili, con il mantenimento di certi confortevoli elementi del suo passato, come l’unità della famiglia e la solidarietà sociale», afferma il rapporto, sottolineando che «il benessere materiale, da solo, non misura adeguatamente la qualità della vita». A Dublino, in effetti, la commistione di nuovo e di antico balza agli occhi. Tagliata dolcemente a metà dal fiume Liffey, la capitale ha conservato il vec- “Bassa disoccupazione e libertà civili qui si coniugano con certi confortevoli elementi del passato, come l’unità della famiglia e la solidarietà sociale” Tradizione e facce nuove In giro si vedono ancora certi irlandesi col berretto sugli occhi, la giacca di tweed, le gote rosse, che sembrano presi di peso da The quiet man (L’uomo tranquillo nella traduzione italiana), il film premio Oscar del 1952 di John Ford (all’anagrafe, l’irlandese Sean O’Fearna), con John Wayne e Maureen O’Hara, che ha contribuito più di ogni altro a forgiare lo stereotipo nazionale, pecore e cavalli, verdi vallate e castelli, amara, scura, schiumosa birra Guinness e duri dal cuore tenero; ma si vedono anche molte facce nuove. Da paese di emigranti, che aveva visto la sua popolazione dimezzarsi in un secolo da otto a quattro milioni di abitanti, l’Irlanda è diventata un paese di immigrati: ne arrivano da tutto il mondo, in proporzione quattro volte più che in America, e nel 2004 cinquantamila erano polacchi, ungheresi, baltici, provenienti dai dieci nuovi paesi dell’Est aderenti all’Unione europea, a cui soltanto Dublino, tra i quindici originari membri della Ue, ha spalancato le porte senza restrizioni. Al 21 di Duke street c’è ancora Davy COLORI ACCESI Botteghe, pub e case irlandesi dai colori accesi. L’ultimo a destra è il “Temple Bar” Sopra, una mappa di Dublino Gli irlandesi sono i neri d’Europa, i dublinesi sono i neri d’Irlanda, e noi che viviamo a nord del fiume siamo i neri di Dublino Da THE COMMITMENTS di Roddy Doyle chio guscio: casette vittoriane, palazzine del primo Novecento a quattro o cinque piani tra cui sbucano i campanili, nemmeno un grattacielo. Ma un James Joyce redivivo faticherebbe a riconoscere quella che chiamava la «crudele, sporca Dublino»: vetrine scintillanti nelle strade del centro, illuminate dalle decorazioni natalizie, frenetico passeggio su Grafton street, la via dello shopping chiusa al traffico, ristoranti alla moda e discoteche su Temple Bar, versione irlandese della “rive gauche” parigina, su cui spicca il Clarence, un vecchio hotel al cui bar andava a sbronzarsi con gli amici uno sconosciuto musicista di nome Bono, acquistato e restaurato qualche anno fa dagli U2 che ne hanno fatto un albergo di lusso a cinque stelle, “cool” e “hip”, per usare due termini entrati nel linguaggio globale. ‘ Byrne’s, il pub immortalato da Joyce nell’Ulisse, dove Leopold Bloom si ferma per uno spuntino (un sandwich al gorgonzola con la mostarda e un bicchiere di burgundy); ma in questo come negli altri pub dell’isola da qualche mese è vietato fumare. Si temeva che il bando al fumo nei pub e in ogni locale pubblico, il primo così rigido in Europa, avrebbe suscitato disordini di piazza e fallimenti a catena: senza la nebbiolina azzurrognola delle sigarette, si diceva, un pub irlandese non è più un pub. Invece la gente l’ha presa con filosofia, chi vuole va a fumare ogni tanto fuori dal locale, e i pub, anziché rischiare il fallimento, aumentano di valore a livelli record: nel 2004 ne sono stati venduti per un totale di centotrenta milioni di euro, il 40 per cento in più dell’anno precedente, tra cui uno celebre, Lillie’s Bordello, per cinque milioni. Beninteso, di “bordelli” autentici, legalizzati come ad Amsterdam o in Germania, nella cattolicissima Irlanda non se ne parla: ma hanno aperto i primi topless-bar, e nessuno si scandalizza. La domenica mattina, davanti alla cattedrale di San Patrizio, il santo protettore nazionale, ci si imbatte in un ingorgo da stadio: i credenti, qui, sono praticanti e a messa vanno ancora in molti. Ma intanto è stato finalmente legalizzato il divorzio (nel ‘95, e da allora si moltiplicano le separazioni), il tasso delle nascite resta il più alto d’Europa ma l’età media a cui le donne hanno il primo figlio è salita a trentun anni (nel 1974 era venticinque anni), e il nuovo arcivescovo di Dublino, monsignor Martin, ha benedetto la «modernizzazione», affermando che la chiesa non deve più mettere il naso in politica e preoccuparsi piuttosto dei problemi sociali che accompagnano il benessere: droga, criminalità, individualismo. Malanni risanati Del resto anche la chiesa cattolica, da sempre — insieme al pub — un’istituzione irlandese, è vittima del cambiamento: quando monsignor Martin Mi chiedo spesso perché mi piacciono tanto le stazioni ferroviarie…Vedi, ragazzo mio, tu che sei cresciuto in Germania non ti rendi conto di come tutto sia diverso qui rispetto a Dublino e all’Irlanda di quando avevo la tua età Da STORIE DI DUBLINO di Delmot Bolger DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 LA CLASSIFICA DELL’ECONOMIST 1. Irlanda 2. Svizzera 3. Norvegia 4. Lussemburgo 5. Svezia 6. Australia 7. Islanda 8. Italia 9. Danimarca C’è un solo paese non europeo, l’Australia, tra i primi dieci. La Spagna è al decimo posto, la Francia al 25simo, la Germania al 26simo, la Gran Bretagna al 29simo PARATA DI SAN PATRIZIO Qui sopra, una serie di paesaggi d’Irlanda: coste selvagge e campagne verdissime A sinistra, un bambino con la bandiera nazionale durante la parata del St. Patrick’s day nella città di Galway FOTO PETER TURNLEY/CORBIS/CONTRASTO prese i voti da sacerdote nella diocesi di Dublino, nel 1969, con lui c’erano altri tredici diaconi. Quest’anno ne è stato consacrato uno. L’anno prossimo non ce ne sarà nessuno. L’arcivescovo parla gravemente dell’ipotesi che il cattolicesimo diventi una «minoranza culturale» in Irlanda. Esagera, ma è innegabile che sia in atto un processo di secolarizzazione. Che è poi una delle ragioni per cui gli irlandesi sono i primi a commentare con una dose di perplessità il rapporto dell’Economist. «La combinazione di vecchio e nuovo, di tradizionalismo e innovazione, ci fotografa in un perfetto momento di equilibrio», osserva John Waters, columnist dell’Irish Times, «ma è un attimo fuggente, che non durerà. La modernizzazione ha sanato i nostri antichi malanni, povertà, fame, oscurantismo, ma ci ha iniettato i disagi di società più avanzate, gap ricchi-poveri, delinquenza, alienazione, tant’è che sono in aumento i suicidi. Se è vero che oggi siamo un’isola felice, non è chiaro cosa saremo domani». ‘ Invasi Dublino. M’intrufolai sotto le ruote e tra i cavalli, nelle pozzanghere, in mezzo ai venditori ambulanti, lo sterco e i carrettieri, tra il rumore e la fuliggine, coi piedi nudi che diventarono duri come la pietra che calpestavo Da UNA STELLA DI NOME HENRY di Roddy Doyle ‘ Donne alla ribalta Gli ottimisti ribattono che è il prezzo inevitabile del progresso: «Se ripenso a com’era orrendo il paese in cui sono cresciuto, il miglioramento è indubbio», nota Joseph O’Connor, un romanziere della nuova generazione di scrittori che ha rinverdito le glorie di Yeats e Shaw, di Beckett e Heaney, quattro premi Nobel per la letteratura in un paese di quattro milioni di abitanti, per tacere di un quinto che l’avrebbe strameritato, Joyce. Tra chi si domanda «cosa sarà domani l’Irlanda», una risposta viene da Mary Harney, leader del partito Progressista democratico e simbolo di un altro fondamentale cambiamento, il ruolo delle donne: cittadini di seconda classe una generazione fa, ora ascese per due volte di seguito al posto di presidente della repubblica, prima con Mary Robinson, femminista laica, quindi con Mary McAleese, fervente cattolica. Poiché il formidabile progresso irlandese deriva da una ricetta economica di stampo reaganiano (o thatcheriano), riduzione delle tasse e incentivi alla libera impresa, dice Mary Harney, «la nuova Irlanda, pur essendo geograficamente più vicina a Berlino, è spiritualmente più simile a Boston», ossia all’America. Senonchè l’Economist, nel suo rapporto sulla qualità della vita, formula la tesi opposta: in ogni area in cui ha visto profondi cambiamenti sociali, la secolarizzazione, la difesa del sistema sanitario nazionale e del welfare, perfino le tasse, più basse del resto della Ue ma considerevolmente più alte che negli Usa, l’Irlanda si avvicina all’Europa, non all’America. Così come l’avvicinano all’Europa i voli a basso costo della Ryanair, la giovane linea aerea di Tony Ryan e del suo manager-bucaniere Michael O’Leary, che ha rivoluzionato i trasporti nel continente e ha avuto un grosso ruolo nella “rivoluzione irlandese”. Il paese a cui l’Irlanda d’oggi somiglia di più, sostiene il settimanale britannico, non è l’America: è quello che l’ha dominata per settecento anni, la Gran Bretagna. La lingua è la stessa (a parte l’accento): l’inglese. Ma ci sono tre vistose differenze: l’Irlanda è cattolica, è assai più piccola, ed è tenacemente filo-europea. Come che sia, non è un caso se a Dublino arrivano a frotte i tecnocrati delle altrettanto piccole nazioni dell’Est, entrate da poco nell’Unione europea: vengono a studiare il modello irlandese per apprendere come si esce in fretta da una povertà endemica, senza stravolgere, se possibile, quel che c’è di buono nelle proprie tradizioni. Il segreto del Paese dei “limericks”, le spesso insensate poesie in rima, e dei “leprechaun”, gli gnomi-folletti della mitologia celtica, il segreto del paese degli U2 e della “Ryanair generation”, il segreto dell’“isola felice”, in fondo è tutto qui. Quando ripenso alla mia infanzia mi chiedo come ho fatto…Era naturalmente un’infanzia infelice…Peggio delle solite infanzie infelici ci sono le infanzie infelici irlandesi. E ancora peggio le infanzie infelici irlandesi e cattoliche Da LE CENERI DI ANGELA di Frank McCourt 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2004 Nessun censore d’età fascista può vantare pari costanza: tredici anni spesi nel controllare tutta la produzione teatrale e radiofonica. Solo lui, non altri. Da Leopoldo Zurlo dipesero i destini di Totò e Fellini, De Filippo e Bragaglia, ma anche Calvino e Montanelli scivolarono sotto la sua lente. Ecco la storia di un singolare burocrate, che talvolta s’opponeva perfino a Mussolini TOTÒ Nel 1938 Antonio De Curtis chiede l’autorizzazione per L’ultimo Tarzan, una fantasia grottesca in cui compare anche Napoleone. Il censore Zurlo conosce l’intolleranza di Mussolini per i lavori ispirati ai grandi condottieri, assimilabili alla sua persona. Così, in margine al copione, appunta per Totò: «Nessuna imitazione di Napoleone, al più l’attore potrà imitare Boyer». Charles Boyer l’aveva interpretato l’anno prima in Maria Walewska EDUARDO DE FILIPPO Nel 1941 l’attore invia a Zurlo il copione di In licenza, una commedia con un limite insormontabile: i personaggi maschili sono militari, e siamo in periodo di guerra. Così il censore scrive al ministro del Minculpop Pavolini: «Se la ragione imperasse sul mondo, la censura avrebbe autorizzato il lavoro», ma dal momento che impera la follia De Filippo si vede costretto a cambiare periodo storico e uniformi dei soldati. L’Italia è salva FEDERICO FELLINI Il regista è uno degli autori radiofonici più bersagliati dalla censura. Se il suo lavoro teatrale Adamo ed Eva viene respinto perché irriverente verso i sacri testi, da una commedia radiofonica del 1942, Viaggio di nozze, viene cassato il seguente dialogo: «BIANCHINA: “I tuoi vestiti, Cico?”. FEDERICO: “Ah, li ho lasciati nel bagno...”». Zurlo temeva che gli ascoltatori potessero lasciarsi andare a fantasie peccaminose Censura Quelle forbici benevole dell’inquisitore del Duce SIMONETTA FIORI L ROMA e forbici di Mussolini a teatro hanno il profilo rotondo e l’incedere morbido d’un burocrate gentiluomo, che aveva il vezzo di siglare le sue autorizzazioni alla maniera d’un leggendario spadaccino, con la zeta di Zorro, che in questo caso stava per Zurlo. Leopoldo Zurlo. Nessun censore d’età fascista può vantare altrettanta costanza nel servizio, tredici anni spesi nel controllare meticolosamente tutta la produzione teatrale e radiofonica italiana, commedie, riviste, drammi, tragedie, libretti d’opera e d’operetta, canzoni, sketch pubblicitari, siparietti e gag per l’avanspettacolo. Diciottomila copioni, dal 1931 al 1943. Solo lui, nessun altro. Caso straordinario nella burocrazia fascista: se negli altri campi i tentacoli del Duce s’articolano in un’infinità di soggetti, sulla scena s’identificano in un’unica persona. Cravatta a farfalla, pince-nez di montatura robusta, ironia sottile: cambiano i ministeri di riferimento — prima gli Interni, poi la Stampa e Propaganda, infine la Cultura Popolare — non Leopoldo Zurlo il Censore. Alla zeta di Zurlo erano appesi i destini dei personaggi più autorevoli del palcoscenico italiano — “un mondo interessante quanto pericoloso”, si legge nelle note ministeriali dell’epoca — dai fratelli De Filippo a Totò, da Fellini a De Sica, da Bragaglia a Sem Benelli, da Tina Pica a Massimo Bontempelli. Ma anche i più giovani Italo Calvino e Michelangelo Antonioni, oltre che Indro Montanelli autore di commedie, scivolarono sotto la sua lente. Il Controllore di Regime assolse il suo compito con straordinaria abilità, sorvegliando ma senza vessare, tagliando ma senza indispettire, fedele al principio che «bisogna lasciare all’autore l’impressione della libertà, permettendogli di dire quanto non guasta o non peggiora l’animo dello spettatore». Il suo buon senso finì per conquistare gli artisti più esigenti, nel tempo inclini a rivolgersi a Zurlo come a un protettore delle arti. Ancora nel 1945 Silvio D’Amico lo ricordava «colto, sensibile, dotato d’una prodigiosa memoria, di un’infinita pazienza, e d’una mentalità tutt’altro che fascista». Nei faldoni dell’Ufficio Censura Teatrale, depositati all’Archivio Centrale dello Stato, è racchiuso un pezzo importante della storia della cultura italiana. Lettere, relazioni ministeriali, note in margine, riassunti, pareri, promemoria, sfoghi personali, correzioni e tagli, grazie ai quali un’archivista-ricercatrice attenta e rigorosa, Patrizia Ferrara, è riuscita a ricostruire la censura sulla scena tra il 1931 e il 1944, con l’inventario di tutti i testi controllati dalla “pupilla del Duce”: spesso di firma celebre, alcuni poco conosciuti se non dimenticati dallo stesso autore (Censura teatrale e fascismo 19311944. La storia, l’archivio, l’inventario, edito dal ministero per i Beni e le attività culturali, due volumi, pagg. 1.114, euro 80, in vendita presso l’Istituto Poligrafico, da prenotare all’indirizzo e-mail: [email protected]). Tagli e sforbiciate, quando non divieti integrali, disegnano un’Italietta provinciale e sessuofobica, che non ammette parodie di personalità evocatrici del Duce, ma neppure battute osé o storie sentimentalmente azzardate. Un paese zuppo di cattolicesimo perbenista, che dice «reggipetto» ma non «mutandine», respinge caricature bibliche come quella di Federico Fellini nel divertissement Adamo ed Eva, esclude qualsiasi disordine anche di natura sociale — vietati i quadri con sommosse popolari o scioperi proletari — e tollera appena l’irrisione di matrimonio e maternità. Un’Italia littoria ormai irregimentata, che vieta Cocteau in polemica con i francesi, impone a Leopardi il “voi” al posto del “lei”, mette al bando gli autori antifascisti quali Roberto Bracco o gli americani sospettati di antitotalitarismo come Margaret Kennedy, e cancella L’Ebreo errante giudicato nel 1934 un testo «inopportuno». Eppure tra le lame del Censore qualche lavoro controcorrente riesce a passare: anche per la complicità di Zurlo, alto burocrate del fascismo di formazione liberale, di cultura insolitamente vasta e — virtù che immunizza da ubriacature ideologiche — incline allo scetticismo. Figlio d’una famiglia molisana, benestante e di radice risorgimentale, il giovane Zurlo s’era formato sul finire del secolo a Napoli, in un milieu segnato dalla personalità di Croce. È in questa città — dove si laurea a 21 anni nel 1896 — che frequenta casa Senise, legandosi a Carmine, futuro capo della polizia fascista. Un’amicizia nel tempo assai fruttuosa. Senza scosse il suo cursus honorum al servizio dello Stato: a 25 anni funzionario del ministero dell’Interno; a 37 segretario particolare nel governo Giolitti; DOMENICA 2 GENNAIO 2004 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 IL PERSONAGGIO Leopoldo Zurlo nasce il 3 dicembre del 1875 da una famiglia molisana, agiata e politicamente attiva: il nonno materno, Leopoldo Cannavina, deputato in Parlamento dal 1861 al 1863; lo zio Vittorio Cannavina sottosegretario nel governo Giolitti. Il giovane Zurlo si forma a Napoli, in un milieu INDRO MONTANELLI Nel 1942 il giornalista scrive a Zurlo su carta intestata del Teatro Alfieri: “Eccellenza! Io sono nelle vostre mani. Tra quattro giorni devo rimettermi l’uniforme e ripartire...». La richiesta è per una commedia dal tono mondano: Lo specchio della vanità. Zurlo concede l’autorizzazione, con una sforbiciata al dialogo tra i due protagonisti. «GIULIA: “Leggi i giornali di mode?”. ANDREA: “Dacché sono diventati gli unici nei quali si può credere”» segnato da Croce. Esemplare il suo “cursus honorum”: a 25 anni funzionario dell’Interno, a 37 segretario particolare nel governo Giolitti; a 46 nel gabinetto Bonomi, poi con Facta. A 56 anni diventa responsabile dell’Ufficio censura teatrale, incarico che mantiene per tredici anni ITALO CALVINO La censura passa al vaglio anche i lavori teatrali degli universitari. Nel 1941 arriva sul tavolo di Zurlo La morte di Socrate, divertissement goliardico di Calvino diciottenne. La scenetta passa senza tagli: protagonisti una decina di vispi studentelli, ottantenni in lunga barba bianca. Il magister è Socrate, costretto dagli allievi a bere la cicuta. Colpito dalla censura un altro quadro della rivista: per irriverenza verso l’Altare della Patria ANTON GIULIO BRAGAGLIA All’inizio del 1942 il famoso regista scrive a Zurlo: «Sono mortificato di dovervi importunare, ma pure io ho un dovere!». Chiede l’autorizzazione per Les parentes terribles di Cocteau e Sur le marches du palais di Jean Sarment. Secondo il ministro del Minculpop Pavolini, il lavoro di Cocteau può «destare nelle platee l’ammirazione per l’autore e indirettamente per la Francia». Il visto viene negato ‘‘ L’ARCHIVIO L’archivio dell’Ufficio censura teatrale nella sede romana di via Veneto. Dopo la soppressione del Minculpop, i fascicoli furono trasferiti altrove, dal ‘72 presso l’Archivio Centrale dello Stato a 56 la nomina a viceprefetto. Nel 1931, del tutto inattesa, la chiamata da parte di Arturo Bocchini, allora capo della polizia: l’incarico è «sovrintendere alla revisione delle opere teatrali». Forse è solo un caso, forse no: la stanza di Zurlo, al Viminale, è contigua a quella di Carmine Senise, vicecapo della polizia. L’antico compagno degli anni napoletani. «Non fascista né antifascista, ma fedele servitore dello Stato»: questa, più tardi, sarà la formula autoassolutoria di molti burocrati trapassati in modo indolore dallo Stato liberale a quello fascista. Senza sdegni né entusiasmi. Per tredici anni Zurlo gode di crescente autonomia, talvolta scontentando i custodi dell’ortodossia. Ma contro Zurlo può soltanto Mussolini. Accade nel 1934 con Carne biancadi Luigi Chiarelli: il Duce non apprezza che la bianca Kitty s’innamori d’un uomo di colore, per di più raffigurato come eticamente superiore. Zurlo l’aveva autorizzato «perché siamo a teatro, l’esagerazione è indispensabile». Il lavoro viene sospeso. Sicuro di sé e molto ambizioso, il Censore non esita a rivolgersi direttamente al capo del fascismo. Nel 1931 arriva a Roma Sacha Guitry, che porta in scena due amanti teneramente allacciati sullo stesso talamo. Che fare? Zurlo non se la sente di intervenire sul testo. Mussolini l’asseconda, ma raccomanda di «non sottolineare troppo nella recitazione le scene che mostrano i due amanti». L’opinione del Duce viene invocata per i lavori incentrati sulle figure di Cesare, Napoleone, Garibaldi, assimilabili nell’immaginario popolare alla sua persona. Un nervo scoperto: le eccezioni sollevate da Mussolini sono sempre innumerevoli, come quando boccia il Sant’Elena di Sheriff e Casalis solo perché Bonaparte è raffigurato in maniche di camicia. Eguale allarme per il Napoleone di Totò, in una Vitaliano Brancati In una via elegante di Roma, c’è un edificio famoso. Sotto il fascismo, era la sede del ministero della Cultura Popolare. C’era anche qualche brava persona, perché in Italia le brave persone si vanno a ficcare dappertutto, come se avessero il compito di generare confusione tra il bene e il male, ed evitare a qualunque associazione e ministero un giudizio recisamente negativo Da RITORNO ALLA CENSURA Laterza, 1952 fantasia grottesca del 1938: Zurlo suggerisce all’attore una recitazione che faccia il verso, non al personaggio, ma all’attore Charles Boyer, che l’aveva interpretato l’anno prima in Maria Walewska. Da Censore a Pedagogo: la grande svolta arriva alla metà degli anni Trenta, quando Zurlo viene trasferito al ministero della Stampa e Propaganda. Con un requisito in più: da “poliziotto” s’innalza a educatore, impegnato in una riforma del teatro italiano in linea con l’Italia littoria. Gli autori gli si rivolgono con dedizione, avidi d’un suggerimento per evitare la scure del censore. Anche Anton Giulio Bragaglia lo elegge a proprio consigliere. Nel settembre del 1934 gli fa avere il copione di La Cortigiana dell’Aretino, segnalando a parte «i punti più grossi», che era disponibile a modificare, fermo però nel difendere lo spirito del lavoro: «Naturalmente io rinuncerò a dare La Cortigiana se la censura vorrà troppo evirarla. Non ne verrebbe infatti un servizio all’Aretino presentarlo così sguarnito delle sue forze popolaresche». Zurlo vieta il lavoro per volontà di Mussolini, ma nel 1938 inaspettatamente l’autorizza: un colpo di mano nei confronti del ministro Alfieri. Perfino con Michele Galdieri, autore amato da Totò, il Censore intrattiene rapporti cordiali. Lo considera “l’ingan- nevole incarnazione del diavolo”, però è evidente che si diverte alle sue battute. E alle vibrate proteste di Adelchi Serena, segretario del Pnf, disgustato nel 1941 dal personaggio della “mondana”, replica in modo asciutto: «Oramai la rivista è stata autorizzata, recitata, approvata dal pubblico». Ma è nel carteggio con Eduardo De Filippo che Zurlo manifesta il suo originale stile censorio, venato di lungimiranza e ipocrisia. Assai più complicati i rapporti con Sem Benelli, inviso all’ala intransigente del fascismo e agli ambienti cattolici. In sua difesa, il Controllore di Regime non esita a sfidare i fulmini di Alfieri — «Una severità eccessiva con lui suscita più scalpore della condiscendenza», l’ammonisce nell’aprile del 1937 — ma ogni sforzo risulta inutile. Per la riedizione di Caterina Sforza, nel 1941, preferisce sollecitare il parere preventivo del Vaticano. Monsignor Giovanni Montini, sostituto della segreteria di Stato del Papa, fa tagliare la battuta in cui Sisto IV «chiede alla nipote se è incinta». Molti anni più tardi, Zurlo domanderà a Montini, divenuto intanto pontefice, la ragione della censura. Incontestabile la risposta: «Un Papa sulla scena parla con un altro stile». La carriera di Zurlo si chiude il 31 dicembre del 1943. Ha 68 anni. Dopo aver servito per tredici anni Mussolini, si rifiuta di aderire a Salò. Sull’“amabile censore” — così lo definì Gerardo Jovinelli — fioriranno testimonianze lusinghiere, ma tra tutte colpisce la sapiente sintesi proposta da Vitaliano Brancati nel saggio Ritorno alla censura: «C’era anche qualche brava persona, perché in Italia le brave persone si vanno a ficcare dappertutto, come se avessero il compito di generare confusione tra il bene e il male, ed evitare a qualunque associazione, milizia, ministero, un giudizio recisamente negativo». 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 Al mercato della memoria si possono spendere più di quattrocentomila euro per una chitarra, se è quella suonata da George Harrison. Perché aggiudicarsi i cimeli delle star della musica, dello sport e del cinema è una mania. I protagonisti sono i ragazzi degli anni ’60 e ’70, diventati ormai adulti. I più ricchi sono disposti a tutto pur di tenere in casa gli oggetti dei loro idoli. Ma anche gli altri possono partecipare alla gara: magari solo per poter avere un pezzo di panino avanzato ai Beatles i record CHARLIE CHAPLIN Il bastone di bambù che è stato usato da Charlie Chaplin durante le riprese del celebre film Tempi Moderni Valore stimato: 14.000 euro Prezzo d’acquisto: 68.975 euro EVITA PERON Il sudario con cui fu avvolto il corpo imbalsamato di Evita Peron per il rientro in Argentina, composto da tre veli in seta Valore stimato: Tra 30.000 e 40.000 euro Prezzo d’acquisto: 160.100 euro Nostalgia La folle asta dei tempi andati L ERNESTO ASSANTE URSULA ANDRESS Il bikini bianco indossato in Agente 007 Licenza di uccidere Valore stimato: 70.000 euro Prezzo d’acquisto: 57.992 euro CASSIUS CLAY I guantoni da box usati nel primo combattimento contro Henry Cooper nel 1963 Valore stimato: 17.000 euro Prezzo d’acquisto: 53.022 euro a chitarra di George Harrison venduta poche settimane fa a oltre quattrocentomila euro. Il bikini bianco indossato da Ursula Andress in Licenza di uccidere battuto a 58mila euro. E poi centinaia di cimeli piccoli e grandi di divi e rockstar del passato, messi all’asta in tutto il mondo ogni mese. E aggiudicati dopo infuocati rilanci. È esploso il mercato della memoria. E non solo quello dell’arte e della letteratura, ma soprattutto quello della nostalgia legata allo spettacolo, alla mondanità, allo sport. Il meccanismo non è quello che lega un fan al proprio “oggetto del desiderio”. Non è il puro e semplice collezionismo a muovere l’interesse di centinaia, migliaia di persone in ogni angolo del pianeta, per oggetti che, in sé, non valgono che pochi euro. È qualcosa di diverso, di più profondo. Matthias Horx — che è uno dei più accreditati esperti di trend — nel suo studio Future Markets 2004 sostiene che nella società postindustriale, a lungo termine, i mercati del consumo si trasformeranno in «mercati dei sensi», nei quali le vecchie categorie di prodotti serviranno a poco. E nei quali a farla da padroni saranno proprio i memorabilia, gli oggetti che servono solo a ricordare un personaggio, una performance, un momento della vita di una star dello spettacolo o dello sport. Ma chi sono i protagonisti del business della nostalgia e del feticcio? Secon- do gli osservatori più attenti, il popolo dei memorabilia è composto soprattutto da quaranta-cinquantenni di successo, persone che sono cresciute in piena “era del rock”, appassionati di cinema, giovani fan diventati adulti. Un popolo che segue compulsivamente le aste organizzate dalle due grandi case, Sotheby’s e Christie’s, che naviga in rete alla ricerca di oggetti posseduti dalle star, o che frequenta le mostre-mercato dove possono trovarsi cimeli più piccini, ma non meno importanti dal punto di vista simbolico. «Collezionare cimeli significa intrecciare la propria memoria personale con la memoria collettiva e storica, nell’intento di dare un senso al presente», spiega Fabio Bertolo, di Christie’s. «Il singolo oggetto acquista agli occhi di questi collezionisti un valore quasi taumaturgico: l’ha posseduto “lui” e dunque il solo contatto trasmette benefici influssi, oltre all’emozione di avere tra le mani un pezzo di storia». Il fenomeno ha una data di inizio: il 1981, quando Sotheby’s organizzò una prima grande vendita di memorabilia rock’n’roll a Londra. Da quel momento fu un crescendo senza soste: in quella ormai storica asta furono spese 9.000 sterline per un piano appartenuto a Sir Paul McCartney, 7.500 per una chitarra di John Lennon e solo 420 per il certificato di matrimonio di Lennon con Cynthia Powell. In tutto si raccolsero 97mila sterline. Ebbene, nel 1982 la cifra era già arrivata a 104mila, nel 1983 si era passati a 207mila. «A spingere in alto le quotazioni è la generazione dei cinquantenni cresciuti con il rock», racconta Red Ronnie, passato alla storia per aver acquistato la famosa chitarra suonata da Jimi Hendrix a Woodstock, che oggi fa bella mostra al Museo del Rock di Seattle (altra operazione nata sotto il segno della nostalgia per iniziativa del co-fondatore di Microsoft Paul Allen). «Quelli che non si sono bruciati il cervello con gli acidi oggi sono dirigenti d’azienda e per loro mettere alla parete un oggetto di Lennon o una chi- DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 LA LETTERA PIÙ PREZIOSA Il prezzo più alto pagato a un’asta per una singola lettera autografa è di 748mila dollari. La lettera, scritta da Abramo Lincoln l’8 gennaio 1863 in difesa del proclama di emancipazione, fu battuta il 5 dicembre 1991 da Christie’s, New York, e acquistata da Profiles in History di Beverly Hills, California IL NUMERO SUPERFORTUNATO Il numero di telefono più costoso è 8888-8888, acquistato da un rappresentante delle Sichuan Airlines il 19 agosto 2003 per 2,33 milioni di yuan (280.723 dollari) durante un’asta a Chengdu, Cina, di oltre 100 numeri telefonici. Otto è ritenuto un numero fortunato in Cina ed è simile alla parola cantonese che sta per “arricchirsi” Il miraggio canaglia di un’età dell’oro che non c’è mai stata prato su Internet (probabilmente appartenuto alla cantina di un qualunque carome è noto siamo tutti in viaggio e pentiere teutone). Continuiamo a rimnon abbiamo la più vaga idea del piangere il passato in ogni aspetto: polipercorso. Non bastasse, quando tica, musica, sport. È probabile che queguardiamo nello specchietto retrovisore st’ultimo sia stato davvero migliore, ma veniamo ingannati. Parafrasando l’avvercome disse una volta un filosofo di nome timento in sovrimpressione sulle auto a Sandro Mazzola: «Quelli che sono giovanoleggio: ogni cosa alle nostre spalle ci apni adesso hanno conosciuto solo questo pare più grande e fulgida di quanto sia tipo di calcio, questo amano e tra realmente (stata). Dovrebbero mettere vent’anni questo rimpiangeranno». dei cartelli stradali in forma di triangolo, Ma lo svarione universale è anche ogquelli che indicano un pericolo, sul tragitgettivo. Ammettiamolo: i cimeli dell’età to della vita: «Attenzione, nostalgia». Sterdell’oro valgono zero perché l’età dell’oro zate o verrete schiacciati, dirottati, beffati. non è mai esistita. A questo non possiamo Finirete per attribuire un valore assurdo a rassegnarci: aver attraversato il nostro qualcosa che non ne possiede alcuno. tempo senza mai imbatterci in una stagioQuella che state inseguendo non è una ne miracolosa o, almeno, in un momento meta, ma una chimera. Eppure lo fate. Somagico. Con un’opera di revisionismo gnate di possedere la maglia indossata da non meno perversa di quella di certi storiRivera in Italia-Germania 4 a 3, la prima ci prendiamo dal cassetto ricordi ammacchitarra spezzata da Jimi Hendrix durante cati di quello che fu un anno o un giorno un concerto (che non ripararete e quindi che ne vale tanti altri, gli passiamo sopra non suonerete mai giacchè il danno è la una mano di vernice giallastra e sospiriasua essenza), il vestito bianco indossato da mo. Poi usciamo a comprarci quel che, Marilyn su una grata della metropolitana nella nostra mente e lì soltanto, testimonia di New York alle 2 e 40 di una notte del 1954 che non abbiamo sognato invano (o reilluminata a giorno dai fari per le riprese. stiamo a invidiare chi può farlo). Capita a Perché ci cascate? È un effetto ottico, vi tutti, nessuno escluso. grida la vostra mente, ma avete già messo Dopo aver steso questa critica semisemano al portafoglio e se ria alla nostalgia come staavete abbastanza soldi vi to (d’animo) canaglia, comprate una “madeleinon resta che confessare ne” scaduta (il primo nul’insana tentazione promero, in edizione originavata anni fa davanti a le, di Tex Willer, la sputacun’asta di cimeli. Se avessi chiera di Freddie Mercury, posseduto le migliaia di il buco lasciato da una paldollari necessarie avrei lottola sparata da Che Guepartecipato per assicurarvara in persona a Santa mi quell’oggetto. Che coClara). Se non ve lo potete s’era? Un accendino. E permettere rosicherete conon fumo. Recava un’ime se la chiave del paradiscrizione, a ricordo della so vi fosse passata sotto il «favolosa estate del ‘56». E naso dondolando e poi via, non ero nemmeno nato. nelle mani di un altro. È un L’aveva regalato John universale svarione sogFitzgerald Kennedy a Jacgettivo e oggettivo. queline Bouvier. Il punto è Soggettivo perché ogni il seguente: il primo ricorgenerazione nel miraggio do che ho dell’esistenza è della nostalgia rivede col’immagine dell’attentato me oasi gli stagni in cui ha di Dallas, lei in tailleur ronuotato. Nel testo dell’insa stesa sul cofano nel vadimenticata filastrocca no tentativo di rappattumusicale Sunscreen è conmare i pezzi del cervello tenuta questa perla di sagesploso di lui. Ossessionagezza: «Accetta verità indito come un americano scutibili: i prezzi saliranqualunque da quell’imno, i politici ruberanno e tu magine, ho passato l’indiventerai vecchio. E fanzia e l’adolescenza legquando lo sarai ti convingendo qualsiasi testo ricerai che quando eri gioguardasse quelle due pervane i prezzi erano ragiosone. E ho appreso prima nevoli e i politici onesti». la fiaba, poi il suo smaOgni generazione sposta scheramento. Babbo Nala lancetta in cui il tempo tale non esiste, JFK tradiva perduto era felice, i miti la moglie con ogni segretadegni di essere idolatrati, i ria e per non più di 90 secocci di vetro che lastricacondi, Jackie tradiva il mano l’attuale percorso diarito con un suo collaboramanti purissimi. tore, le loro vite sono state Mi trasferii al Cairo e, il tradimento delle idee per parlando con qualcuno cui sono stati amati, quella del posto, per la prima volmorte, per come è stata ta sottolineai il degrado raccontata ufficialmente, della città. «Avresti dovuto è stata il tradimento di vederla vent’anni fa, alloogni verità. Non c’è stata MARILYN MONROE ra sì», ribattè, nostalgico. A età dell’oro vissuta in diIl leggendario vestito un secondo interlocutore retta: tutto, fin dalla prima da sirena indossato dissi poi: «Questa città doimmagine, comincia con da Marilyn nel 1962 veva essere stupenda un inganno a cui se ne soper augurare buon vent’anni fa». Replicò: compleanno a Kennedy vrappone un altro. Eppure «Era già una schifezza, dodeve essere esistito un Valore stimato: vevi vederla quarant’anni tempo in cui le cose erano 736.000 euro fa, allora sì». E la frontiera diverse, l’amore puro, l’ePrezzo d’acquisto: continuò a spostarsi per roe integro, la dama radio846.495 euro evitare la verità: nessun sa: una favolosa estate del uomo vivente ha memoria ‘56. Allora, mentre le modi una Cairo all’altezza netine cadevano nel juke della sua leggenda, non box tintinnando e le vele importa quante pietre sbatacchiavano nel vento possiamo comprarci per di Cape Cod una fiamma si attestare il contrario. accendeva e così miracoLo splendore è qualcolosamente restava e resa che alle cose attribuiasterà, se noi saremo devote mo con un’operazione di vestali di quell’istante. restauro dettata dalla diAlla fine, la nostalgia sperazione. Vogliamo a non è che un surrogato o tutti i costi poter dire anuna forma rozza e primitiche noi: formidabili queva di fede: viene a dirci che gli anni. Se non abbiamo un paradiso è esistito, l’abfatto il ‘68, almeno il ‘77, o biamo perduto ma possiac’eravamo nell’89. Abbiamo riconquistarlo credenmo il primo numero del do. Che i prezzi siano mai Manifesto, con la testata stati ragionevoli, i politici in rosso, un microfono di onesti, questo viaggio senRadio Alice, un ciottolo za rotta un provvidenziale del Muro di Berlino comtracciato. GABRIELE ROMAGNOLI FOTO MEHDI FEDOUACH/AFP C MARIA CALLAS Nella foto, l’esposizione dei gioielli del grande soprano organizzata da Sotheby’s a Parigi. La collezione (11 pezzi) è stata aggiudicata lo scorso 17 novembre a un anonimo acquirente per quasi un milione e mezzo di euro tarra di Clapton o di Hendrix è molto meglio di avere un quadro di Warhol o di Pollock. Quella della musica rock è stata una cultura pazzesca, di conseguenza anche le tracce delle icone di quella cultura diventano importantissime. Anche io ho acquistato delle cose che continuano a far impazzire la gente». “Impazzire” è il termine giusto per alcune delle memorabiliaandate all’asta e vendute a cifre enormi negli anni passati. Alcune delle quali di memorabile hanno molto poco, come l’avanzo di un panino di George Harrison o una fetta di torta del matrimonio dei duchi di Windsor o, il caso più recente, un chewingum masticato da Britney Spears, venduto all’incanto su eBay. Per chi vuole spendere poco, ma non ha intenzione di rinunciare a qualche cimelio, c’è infatti Internet. Ci sono le aste online di eBay, che offrono ogni giorno piccoli e piccolissimi pezzi di memoria nostalgica per tutte le tasche. Ma c’è, per esempio, anche Amazon, diventato per gli appassionati di oggetti della memoria letteraria un piccolo paradiso, ricco di copie originali e autografate di libri, soprattutto americani. I prezzi sono cresciuti in maniera esponenziale. E per le persone normali comincia a mancare lo spazio, in questo mercato della nostalgia sempre più esclusivo: «Uno come me — dice ancora Red Ronnie — ormai non riesce più a comprare nulla. Nel 1990, con i 195 milioni di lire spesi per la chitarra di Hendrix meritai un posto nel Guinness dei primati. Oggi quella chitarra, che ho venduto, vale tra i 2 e i 3 milioni di euro». I prezzi sono cresciuti vertiginosamente Red Ronnie: “Ho comprato la sei corde di Hendrix a 195 milioni di lire. Oggi vale oltre due milioni di euro” GEORGE HARRISON La chitarra dell’ex Beatle: una rara Gibson suonata per registrare l’album Revolver Valore stimato: 368.000 euro Prezzo d’acquisto: 417.726 euro PELÉ La storica maglia n.10 indossata da Pelé nella finale dei mondiali di calcio del 1970 Valore stimato: 31.000 euro Prezzo d’acquisto: 222.450 euro JOHN LENNON La Mercedes Benz Limousine di John Lennon comprata da un collezionista europeo Valore stimato: non calcolato Prezzo d’acquisto: 193.895 euro HARRISON FORD La frusta usata da Harrison Ford nei film di Indiana Jones Valore stimato: 7.000 euro Prezzo d’acquisto: 38.920 euro GUERRE STELLARI L’elmetto indossato dalle truppe imperiali in Guerre Stellari Valore stimato: tra i 7.000 e i 10.000 euro Prezzo d’acquisto: 18.968 euro DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 spettacoli & tv DANZA ALL’ARCIMBOLDI MILANO. Dopo il “Gala” di fine anno al Piermarini il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala riprenderà agli Arcimboldi “Lo schiaccianoci” di Rudolf Nureyev. Stasera, nel doppio ruolo di Drosselmeyer e del Principe, in scena Maximiliano Guerra (foto), con Sabrina Brazzo. Cinema e musica COVATTA TORNA IN TV ROMA. «In primavera tornerò in tv con la Gialappas» annuncia Giobbe Covatta in un’intervista che andrà in onda dal 3 al 7 alle 8.50, su Radio Capital. «Perché in primavera? Perché prima ci sono le elezioni e con la storia della par condicio finisce che dobbiamo fare scena muta per due ore». Perrin: “Ho una sola vita voglio spenderla a sognare” U MARIA PIA FUSCO ROMA na carriera tutta particolare quella di Jacques Perrin: interprete sommesso e gentile di sofferte storie d’amore — indimenticabili come i primi film in Italia, La ragazza con la valigia e Cronaca famigliare di Valerio Zurlini — e comunque di personaggi delicati, immersi spesso nella malinconia del vivere, come nei più recenti Il deserto dei Tartari (ancora di Zurlini) o Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, amato da autori come Jacques Demy, Costa-Gavras, Chabrol, è produttore e regista, il più insolito nella storia del cinema e non soltanto francese, caratterizzato dal netto rifiuto del comune cinema commerciale. Ora si appresta a passare due anni sull’acqua, alla guida di tre troupes che nei diversi continenti indagheranno sullo stato di salute degli oceani, sulla vita — o la sopravvivenza — della fauna e della flora marina, sui guasti apportati dall’uomo, sui misteri meravigliosi o terribili degli abissi. È Ocean, il prossimo film di Jacques Perrin, un film tra documentario e finzione, un’altra avventura dentro la natura, dopo l’esplorazione della vita degli insetti in Microcosmo, il popolo dell’erba (1995), dopo l’affascinante racconto del percorso di trenta specie di uccelli in Il popolo migratore (2001). Non la spaventa la violenza del- “Sono felice della mia storia diversa Devo tutto a Valerio Zurlini e al cinema italiano” LA NATURA Jacques Perrin sul set di “Il popolo migratore”. Il regista studia la natura che lo circonda l’oceano? «La natura, come stiamo vedendo, a volte può essere di una violenza inaudita come se volesse riaffermare la sua supremazia sull’uomo. È spaventoso certo, ma questa idea mi aiuta ad attutire i capricci e le brutture della realtà contingente. Ho scoperto la possibilità di unire il lavoro con il piacere della conoscenza del mondo in cui viviamo, un’esaltazione troppo forte per rinunciare. E non importa se non è cinema commerciale, ho una sola vita, non posso sprecarla per i soldi». C’è anche il gusto dell’avventura in certe scelte? «In parte, l’ho scoperta una ventina di anni fa, con le riprese di Les quarantièmes rougissants, ero un ingegnere che faceva il giro del mondo da solo in barca a vela, siamo stati in mare per mesi e mi è venuta voglia di comunicare quello che osservavo. Ecco, io mi definisco un passeur, uno che ha la capacità di vivere le cose che la natura offre e passarle agli altri. Lo faccio con rispetto e con rigore, cercando di dare un’identità alle cose che faccio». L’ultimo suo film uscito in Italia è Les Choristes, di cui è attore e produttore. Cosa l’ha attratta nella storia? «La musica e l’infanzia, i due elementi del film. Ho sempre amato la musica, mi piace pensare alla vita come una partitura musicale, sono felice di aver trasmesso questa passione ai figli più piccoli, 9 e 5 anni. E poi l’infanzia, l’età del passaggio importante, quando si accenna a chi saremo da adulti, si comincia a sognare. È bello quando si scopre l’amicizia e si esce dalla solitudine, si dividono emozioni e sogni». La sua infanzia ha influito anche sulle scelte professionali? «Soprattutto quelle. C’è una grande differenza tra la mia generazione e i ragazzini di oggi, che si divertono con quello che offriamo loro, noi per divertirci usavamo l’immaginazione. Avevamo poco, ma non invidiavamo chi aveva di più, eravamo più semplici e, forse, più felici, con la consapevolezza di dover contare su noi stessi per avere quello che volevamo. Ho acquistato la volontà di scegliere quello che mi piace e di accettare ogni rischio, anche quello di scarsi risultati economici e di restare fuori dai normali circuiti del cinema». Com’è nata la scelta del cinema? «Malgrado la famiglia, non pensavo di fare l’attore, ma detestavo la scuola e a 14 anni decisi di lasciarla. Dovevo lavorare, il cinema era un mezzo per guadagnare, ma non pensavo ad una carriera. Devo a Zurlini e al cinema italiano se in qualche modo lo è diventata». A parte qualche ruga, lei non dimostra la sua età... «Forse perché mi sono inventato la felicità di una vita differente che mi ha riportato indietro nel tempo e mi ha dato un rapporto sereno con gli altri e con il mondo». Musica.Trionfano Maazel e Prêtre con i valzer e le arie di Capodanno MICHELANGELO ZURLETTI L ROMA a Fenice e la sala del Musikverein parate a festa hanno sparato nei Concerti di Capodanno i repertori della loro tradizione: valzer, polke e galop da una parte e dall’altra l’opera italiana. Sono due iniziative equivalenti. Ma in questi giorni avremmo fatto volentieri a meno anche dei due concerti: meno trullari quello veneziano ma più sbarazzino quello viennese, al punto da suggerire ai Wiener prima e a Maazel dopo di inviare pensierini di circostanza alle vittime del maremoto (e un assegno all’Oms). Lorin Maazel ha diretto a Vienna Certo i programmi si fanno prima e non prevedono catastrofi ma è curioso passare in pochi minuti televisivi dalle accorate parole del Papa all’Italiana in Algeri, al verdiano ballo dal Gattopardo, al Cancan di Respighi. È vero che Prêtre ha fatto la sua parte, ha cincischiato e estenuato il suo programma e lo ha concluso con un brindisi dalla Traviata poco festoso e quasi lugubre (Annalisa Raspagliosi e Giuseppe Gippali erano gli interpreti di Puccini e del brindisi, mentre le coreografie turistiche erano di Micha van Hoecke). A Vienna era una personale della famiglia Strauss, Johann sr.e jr. e Joseph, più la polka Aus der Wiener-Artdi J. Hellmesberger. con una cuoca, anche qui, che prepara lo strudel a cominciare dalla raccolta delle mele e più l’Ouverture da La bella Galateadi Suppé. Si può capire quanto un direttore chiamato al Concerto di Capodanno si dia da fare per scovare qualcosa di nuovo e si può immaginare quanto poco di nuovo ci sia in quel che trova. Maazel se la cava benissimo con i pezzi veloci, meno con i valzer distesi, più legati al rubato viennese. Orchestra splendida. Anche qui coreografie modeste e soprattutto inutilmente sparone: sono riusciti a far venire Vladimir Malinkov da Berlino per fargli scendere una scala. Il bel Danubio blu come bis di prammatica, ma niente Radetzky-Marsch in considerazione della catastrofe asiatica. In breve CINEMA Il governatore Schwarzy in un film per amicizia LOS ANGELES. Il governatore della California Arnold Schwarzenegger reciterà per un cameo in “The Kid and I”, una commedia scritta e prodotta dall’amico Tom Arnold. Schwarzenegger lo ha annunciato nel corso di uno show televisivo sulla rete Fox, “The best damn sports show period”, di cui Arnold è conduttore. TEATRO Parigi, Cardinale recita Tennessee Williams PARIGI. Claudia Cardinale (foto) salirà sul palcoscenico del teatro della Madeleine, a Parigi, dall’8 febbraio prossimo per recitare in un’opera di Tennessee Williams, “La dolce ala della giovinezza”. L’attrice italiana sarà l’interprete principale dell’opera del grande drammaturgo americano. Accanto avrà il francese Christophe Reymond. Traduzione, adattamento e regia sono di Philippe Adrien, la scenografia di Claire Belloc. OSCAR Il 25 gennaio le Nominations 2005 LOS ANGELES. Le candidature agli Oscar sono state inviate per posta la scorsa settimana ai 5.808 membri dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, i quali dovranno far pervenire il voto entro il 15 gennaio. Le Nominations saranno annunciate il 25 gennaio. La cerimonia degli Oscar, presentata quest’anno dal comico Chris Rock, si svolgerà il 27 febbraio. Una indicazione attendibile di quel che accadrà si potrà avere come ogni anno alla consegna dei Golden Globes (16 gennaio). 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 i sapori Il rito della sfoglia e della farcia si accompagna da sempre alle festività di fine e inizio anno E questa volta, complice l’impennata dei prezzi, le famiglie hanno recuperato l’arte della produzione casalinga. Con le mille diverse ricette che l’Italia, dal Nord al Sud, ha inventato nel tempo Piatti delle feste itinerari Il ferrarese Franco Rizzati è proprietario del ristorante Max, dedicato a pesci e formaggi, e di un laboratorio di pasticceria e cioccolati ripieni, dalla zucca allo zenzero. Ma soprattutto è un cultore delle paste ripiene e delle loro ricette più segrete Mantova Mantova, la città dei Gonzaga, vanta un goloso mix gastronomico, figlio della sua posizione geografica al confine con Emilia e Veneto. Tra i piatti culto, oltre ai tortelli di zucca, un’altra pasta ripiena, gli agnolini, di piccola fattura e con il ripieno di carni miste stracotto di manzo, salamella, pancetta da gustare rigorosamente in brodo. DOVE MANGIARE Il Cigno Trattoria dei Martini Piazza Carlo D’Arco Tel. 0376 327101 Chiuso lunedì e martedì, menù a partire da 45 euro, vini esclusi DOVE DORMIRE Casa Margherita Via Broletto 44 Tel. 0376 222392 camera doppia a partire da 75 euro con prima colazione DOVE COMPRARE Panificio Freddi Piazza Cavallotti, 7 Tel. 0376 321418 Ferrara Reggio Emilia Modena Bologna Reggio Emilia, adagiata a metà tra la piana del Po e la collina, testimonia la grande tradizione agricola anche nei primi piatti, dove spiccano i tortelli di magro, ripieni di erbette (biete) impastate con ricotta e l’immancabile parmigiano, re gourmand del territorio. Diffusi anche i ripieni di zucca, senza amaretti né mostarda, e quelli di patate. Modena, città resa gloriosa dalle produzioni di diverse Dop, dall’aceto balsamico tradizionale (insieme a Reggio) allo zampone e al prosciutto. Il marchio “Tradizione e sapori di Modena” protegge invece i tortellini, codificando la farcitura con mortadella Igp, Parmigiano di oltre 18 mesi di stagionatura. Vietatissimo l’uso del pangrattato. Bologna dotta e grassa. Dicono sia stato un oste locale, ispirato dal sogno di Venere che si innalzava nuda dalle onde del mare, a ricreare con la pasta il suo ombelico perfetto. La ricetta originaria non lascia scampo a produzioni di basso profilo: la sfoglia dev’essere soda ma lieve, il ripieno ricco, gustoso, meditato, il brodo obbligatorio. DOVE MANGIARE Osteria La Francescana Via Stella 22. Tel. 0532 210118 Chiuso sabato a pranzo e domenica, menù da 70 euro vini esclusi DOVE MANGIARE Marco Fadiga Bistrot Via Rialto 23 C. Tel. 051 220118 Chiuso domenica e lunedì, menù a partire da 30 euro, vini esclusi DOVE DORMIRE Canalgrande Corso Canalgrande 6. Camera doppia con prima colazione a 170 euro. Tel. 059 217160 DOVE DORMIRE Nuovo Hotel del Porto Via del Porto 6. Tel. 051 247926 Camera doppia con prima colazione da 110 euro DOVE COMPRARE La Tajadela Via S. Eufemia 11 Tel. 059 222598 DOVE COMPRARE Pastificio Atti Via Caprarie 7 Tel. 051 220425 DOVE MANGIARE Alti Spiriti Viale Regina Margherita 1/C Tel. 0522 922147 Chiuso lunedì, menù a partire da 45 euro, vini esclusi DOVE DORMIRE Del Vescovado Stradone del Vescovado 1 Tel. 0522 430157 Camera doppia con prima colazione da 78 euro DOVE COMPRARE Rinomata Salumeria di Giorgio Pancaldi Via del Broletto 1p Tel. 0522 432795 Ferrara, altro luogo di culto dei salumi - su tutti la salama da sugo -, vanta una sua originalità nella preparazione delle paste ripiene, a cominciare dai cappellacci di zucca giù giù fino ai cappelletti ripieni di cervella e petto di tacchino. Diffusa anche la forma “a caramella”, mentre tra i sughi, oltre al ragù, si usano anche funghi e tartufi. DOVE MANGIARE Oca Giuliva Via Boccacanale di Santo Stefano 38. Tel. 0532 207628 chiuso il lunedì, menù da 40 euro, vini esclusi DOVE DORMIRE Locanda Borgonovo Via Cairoli 29. Tel. 0532 211100 Camera doppia a partire da 55 euro DOVE COMPRARE Pasta Fresca Sfoglia d'Oro Via Bologna 128/A Tel. 0532 767808 Pasta ripiena Tempo di crisi, torna il tortellino fai-da-te LICIA GRANELLO i si siede a tavola e si aspetta. Finché l’aria si riempie di un profumo caldo, avvolgente, appena speziato. Perfetto per far salire l’acquolina in bocca. Subito dopo, ecco apparire la zuppiera fumante. Il brodo, lo dice l’olfatto, è perfetto. E i tortellini? Speriamo. Anzi, ne siamo certi, se solo siamo riusciti a sgattaiolare nella cucina di casa per sottrarre un poco di ripieno prima che sparisse dentro la farcitura della sfoglia… Anche quest’anno, in Italia si contano sulla punta delle dita di una mano i pasti delle feste consumati senza il supporto di un vigoroso piatto di pasta fresca, possibilmente ripiena. Se è vero che la crisi dei consumi ha travolto caviale & champagne, precipitati agli ultimi posti nella hit parade degli acquisti alimentari di fine anno, le paste ripiene sono andate in controtendenza: netto incremento di richieste per quanto riguarda le vendite al dettaglio. Ma soprattutto aumento inatteso e deciso del fai-da-te, dopo anni (molti) in cui era sufficiente passare per tempo dal pastaio di fiducia e prenotare il vassoio pronto per la pentola di brodo. Del resto, a 30/40 euro al kg, anche il primo piatto diventa un lusso. Così, nell’ultimo mese hanno prosperato i siti di ricette C Tortellini alla Bolognese SFOGLIA 6 uova 400 gr di farina RIPIENO 100 gr lombo di maiale 100 gr prosciutto crudo 100 gr mortadella di Bologna Igp 150 gr Parmigiano Reggiano 1 uovo, noce moscata Far riposare il lombo con sopra un battuto di sale, pepe, rosmarino e aglio.Cuocerlo con un po' di burro. Ripulirlo del suo battuto e tritarlo finemente insieme a prosciutto e mortadella Impastarlo con uovo, parmigiano e odore di noce moscata dedicati alla preparazione di sfoglie e ripieni. Mai come quest’anno, i macellai hanno dovuto impegnarsi a spiegare quali sono i tagli più gustosi per le farcie, quali i mix di carni codificati. Esercizio di gastronomia raccontata non facilissimo, perché tante e tali sono le varianti, che tutti, ma proprio tutti, si sentono in diritto di recitare il proprio sapere in materia. Anche più delicato, l’argomento pasta. Dicono gli esperti che la differenza tra la sfoglia lavorata e “tirata” con il mattarello e quella uscita dalla macchinetta (manuale o elettrica) si traduce in un abisso di gusto. Non a caso, le depositarie di tanto sapere, chiamate sfogline o resdòre (non esiste un corrispettivo maschile) vengono venerate da familiari e amici come vere divinità laiche... In compenso, poter declinare a proprio piacimento l’elenco degli ingredienti permette a tutti di accedere al rito del Sacro Tortello. Qualche esempio? I ripieni di magro sono perfetti per i vegetariani, che possono addentare i cappellacci di zucca o i ravioli di magro con burro fuso, mentre i dannati della dieta, con un’operazione gastrointellettuale, riscoprono il sapore assoluto del raviolo “cordonato”, servito semplicemente e senza condimento alcuno su un canovaccio da cucina (il “cordo- nato”) perché una volta, presso le famiglie più povere, il menu della festa contemplava sì il consumo delle paste ripiene, ma non l’investimento economico supplementare necessario per comprare la carne del ragù (l’odierna variante ricca prevede una spolverata di parmigiano). In quanto ai celiaci, la diffusione delle farine prive di glutine consente, pur con qualche perizia in più, la preparazione di ravioli e cappelletti senza rischi di allergie. Il resto è nelle mille ricette regionali: dal Piemonte alla Sicilia, c’è solo l’imbarazzo della scelta, tra i culingiones sardi, i ravioli abruzzesi, i casonsei bresciani, i cialzòns della Carnia, gli agnolotti piemontesi, i pansotti e i ravioli di borragine domiciliati in Liguria. Il tutto, in un trionfo di salsicce, pecorino, zafferano, uva passa, più ogni bendidio di carni. Ma se volete partecipare davvero al trionfo delle paste ripiene, il vostro posto è l’Emilia Romagna. Attenzione, però: seduti al ristorante, difficilmente troverete commensali pronti a condividere il vostro entusiasmo. Perché nessuno, ma proprio nessuno, fa i tortellini buoni come la sfoglina di casa. Meglio non accanirsi nel confronto, per evitare di rompere amicizie ventennali, o far cadere il cuoco in depressione. DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 TORTELLINI Variazioni infinite. Per un gusto più morbido, carni bianche (petto di gallina o tacchino). A Bologna, sono di rigore lonza di maiale, mortadella, prosciutto crudo. Si mangiano con brodo di manzo e cappone TORTELLI DI ZUCCA Nel 1300 li chiamavano tortelli di Quaresima e il ripieno era arricchito da spezie, mandorle e zucchero. Da zona a zona variano ingredienti e misura. A Mantova, immancabili mostarda, noce moscata, amaretti CAPPELLACCI Tipici del Ferrarese, più abbondanti per misura e spessore della sfoglia. Rispetto a Mantova, il ripieno è più povero. Si servono con burro fuso e parmigiano. Quelli avanzati si ripassano fino a renderli croccanti CAPPELLETTI Si distinguono per le due punte della sfoglia triangolare ripiegate all’insù. Le “sfogline” di Reggio Emilia tritano la carne della farcia, la rosolano e la stufano nel brodo. Per il pasticcio si parte dalla carne a pezzi 420mln +6,3% 85gr Il valore del mercato della pasta ripiena in Italia, sia di produzione industriale che artigianale, è di 420 milioni di euro all’anno Nel nostro Paese il consumo di pasta fresca nell’ultimo anno è cresciuto del 6,3 per cento. In testa alle classifiche degli acquisti le regioni del Nord Il peso medio di una porzione di pasta fresca, così raccontano gli italiani nelle ricerche di mercato, è di 85 grammi: 82 al Sud e 87 al Nord 40euro 3giorni Il prezzo per un chilo di pasta ripiena di produzione artigianale, interamente fatta a mano, può arrivare fino alla soglia dei 40 euro Tre giorni è il limite massimo per la conservazione delle paste fresche artigianali. Il tempo si allunga per quelle confezionate in atmosfera modificata Il mix di ripieno e sfoglia Un matrimonio di mille anni fa CORRADO BARBERIS* u la molle tenerezza del ripieno a cercare la protezione della sfoglia o fu l’imperialismo di costei ad annettersi una preda così ghiotta? In ogni caso due insicurezze — anche l’imperialismo lo è — raggiunsero, unendosi, la perfezione. Risalgono al secolo XI le prime testimonianze, di origine arabo-persiana, a proposito di carne macinata ricoperta di pasta. Ma correva l’anno 1284 quando Salimbene da Parma si beava dei ravioli sine crusta: identificati nel loro ripieno benché quel «senza pasta» lasci intendere che essi ne erano normalmente rivestiti. E ancora «ignudo» è il raviolo nella prima edizione del vocabolario della Crusca (1612), che abbina invece tassativamente la sfoglia ad un altro omologo: il tortello. Ravioli, tortelli. Ma anche agnolotti, anolini, marubini, cappelletti, casoncelli, culingionis. Dalle valli valdesi alla Sardegna ogni regione ha messo a punto un suo vocabolo per esprimere il proprio rapporto con la pasta ripiena. Ironizzava Luigi Messedaglia che varianti di scarso momento erano definibili come tortelli in greco, casoncelli in latino, ravioli in ebraico. Quando, alcuni anni orsono, un compianto ristoratore di Tolmezzo, il Cosetti, organizzò un concorso per i migliori cjalsons (calzoni) non trovò un ripieno uguale all’altro nelle ricette delle quaranta signore partecipanti. Ciò premesso, ogni regione segue, per la farcia, il genio della propria agricoltura: manzo, magari stracotORIGINE Le prime to, tra Cuneo e testimonianze Piacenza; maiasulla carne le in Emilia; formacinata maggi e verdure ricoperta di dalla Romagna pasta sono in giù, con qualarabo-persiane che ritorno di ortaglie nelle più povere vallate alpine e qualche pezzetto di soppressata o prosciutto nel regno di Napoli. È nota poi la contrapposizione tra i tortellini di Bologna, grondanti prosciutto e mortadella più l’oggi vietatissimo midollo di bue, e i cappelletti di magro di Ravenna e Forlì, autocritico cibo di vigilia per quegli anticlericali arrabbiati. Ma non per questo meno gustoso: il prefetto napoleonico del Rubicone parlava di quattro o cinquecento cappelletti per commensale, con possibilità che ci scappasse il morto per indigestione. Tra magro e grasso, un singolare compromesso era quello escogitato dall’Alvisi, cuoco di Barnaba Chiaramonti, allora vescovo di Imola, poi divenuto Pio VII: il ripieno era rigorosamente di cacio, ma con l’aggiunta, in omaggio alla finitima capitale delle Legazioni pontificie, Bologna, di un briciolo di midollo. Si ricordò Pio VII del cuoco Alvisi e del suo genio combinatorio quando, perseguitato da Napoleone, si rifiutò di coinvolgere nelle normali proteste diplomatiche gli immortali principi della libertà, eguaglianza, fraternità? Il cattolicesimo liberale deve forse qualcosa a quel briciolo di midollo. Intanto, l’Atlante dei prodotti tipici dedicato a La Pasta da Oretta Zanini De Vita (edizioni Agra-Rai Eri) segnala che, sulle oltre trecento tipologie identificate in Italia, un quarto circa sono ripiene. Timidezza e imperialismo hanno trovato un vasto campo di integrazione. *L’autore è presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale F DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 il corpo I MASSAGGI Anticellulite, linfodrenanti, con pietre laviche, coreani, admasaki, con le conchiglie, gli spruzzi d’acqua, le piume, il cioccolato: da solo nessun tipo di massaggio garantisce di essere anche dimagrante. Se vengono però utilizzati come coadiuvante, certamente favoriscono il raggiungimento dell’obiettivo Tornare in forma IL MOVIMENTO Palestra, corsa, piscina, bicicletta, o una semplice passeggiata a piedi, una camminata a ritmo sostenuto, secondo la nuova tendenza del “fitmoving”. La dieta ideale non può prescindere dall’attività fisica, che va intensificata e resa quotidiana: meglio poco ma tutti i giorni che moltissimo una volta la settimana La dieta che ci cambia la vita LAURA LAURENZI bbiamo veramente fatto il pieno. Mille calorie al giorno (almeno) più del nostro fabbisogno quotidiano. L’overdose di cibo è una trasgressione che non arreca letizia. Facciamoci del male: le abbuffate durano ormai da dieci giorni, con picchi dell’orrore segnati a Natale e a Capodanno. In un mese si rischia di crescere anche due taglie, di mettere su quattro chili. E poi il senso di gonfiore, oltre che di colpa. L’appuntamento con la bilancia, tendenzialmente rimandato a dopo l’Epifania, si fa sempre più vicino. Un giorno di lutto, di autoflagella- A 1 Nelle feste abbiamo incamerato mille calorie al giorno più del necessario Ecco come smaltire il sovrappeso senza correre rischi zione, di buoni propositi, di lacrime da coccodrillo. Dopo la baldoria calorica, gennaio è il più crudele dei mesi: quello della remise en forme, il mese delle diete, alternate, rimixate, saccheggiate secondo interpretazioni personali che spesso prescindono dal buon senso. La dieta dell’alga spirulina, la dieta olandese Polymeal o multipasto “che aggiunge sette anni alla tua vita”, la dieta del Creatore ispirata alle parole della Genesi. C’è posto per tutti nel luna park dei regimi dietetici fai-da-te, frenetico e velleitario, rutilante di nuove proposte, in attesa di scelte sagge e razionali. La sensazione di inadeguatezza ci aggredisce sin dal risveglio, assieme al rimorso. Anno nuovo vita nuova. Chi ha un cattivo rapporto con la bilancia e pre- ferisce ignorarla ha il suo memento e il suo muto grido d’allarme dai vestiti, da un giro vita in lite furibonda con i pantaloni o con le gonne, da un bottone che non chiude. D’altra parte questi chili in più non solo ce li siamo voluti, ma li abbiamo aspettati e accolti come un ineluttabile e ciclico dono di stagione, al grido di è inutile opporsi, non ci posso fare niente. Alla vigilia di Natale un sondaggio condotto da “Donna moderna” confermava che la maggioranza degli italiani (il 66 per cento per l’esattezza) erano “pronti a ingrassare pur di gustare le prelibatezze di tradizione”. Adesso però, concluso l’ultimo brindisi di Capodanno, archiviato l’ultimo cotechino, è il momento del redde rationem. Siamo daccapo con i buoni propositi. FIBRE E AMIDI Consumare cibi ricchi di fibra e di sostanze antiossidanti, che proteggono dalle malattie cardiovascolari e da vari tumori (frutta, ortaggi, legumi, cereali integrali). Consumare anche cibi ricchi di amido (pane, pasta, riso, legumi) 2 POCO ALCOL 3 OLIO SÌ, BURRO NO 4 CINQUE PASTI 5 MOTO E CALORIE Evitare le bevande alcoliche. Nel caso in cui non se ne voglia fare a meno, è bene preferire quelle a basso tenore alcolico come il vino e la birra, da ingerire in quantità moderate, in occasione dei pasti e in dosi frazionate. Dunque mai superalcolici Limitare il consumo quotidiano di grassi da condimento preferendo sempre olio d’oliva extravergine e altri grassi vegetali, da usare a crudo. Evitare il più possibile il consumo di burro e di altri grassi animali Frazionare l’alimentazione in più pasti giornalieri, cinque, il primo dei quali deve essere rappresentato da una buona colazione del mattino. Saltarla è un grave errore, molto diffuso. Il pasto più leggero dovrebbe essere quello serale Aumentare il moto quotidiano, possibilmente tutti i giorni, mantenendo il proprio peso corporeo costante, evitando dunque sbalzi significativi, e regolando la quantità di energia in calorie assunta con gli alimenti Bere molta acqua, mangiare spesso ma poco (e sostanzialmente solo cose che non ci piacciono). Frutta ma soprattutto verdura, con pochissimo olio. Non accettare inviti. Dimenticare i dolci. Tenere un diario della propria dieta, e che sia fiscale. E soprattutto fare moto. Le tabelle di cosa bisogna fare e soprattutto quanto bisogna faticare per smaltire un piatto di pasta o una fetta di torta sono agghiaccianti. Per abbattere le calorie di una manciata di noccioline per esempio (30 grammi) bisognerebbe camminare per un’ora e dieci. Per bruciare un sacchetto di patatine (50 grammi) quaranta minuti di tennis o un’ora a lavare i vetri di casa. Una bibita in lattina equivale a quaranta minuti di marcia. Nulla è gratis, e non ci sono sconti per nessuno. MENO SALE Il decalogo di Marcello Ticca, docente di scienza dell’alimentazione alla Sapienza “Niente digiuni da fachiro” M arcello Ticca, libero docente di scienza dell’alimentazione alla Sapienza, esorta a non drammatizzare, ma anche a non perdere tempo: «Occorre intervenire subito con raziocinio e con pazienza evitando però gli eccessi, i digiuni da fachiro e le diete alla moda e programmando la perdita di circa un chilo a settimana, con un’alimentazione ipocalorica il più possibile equilibrata». Gennaio e febbraio sono in assoluto i mesi più adatti, quelli che meglio si prestano alla dieta, osserva il professor Ticca: «Ci sono poche feste, per lo meno fino a quando non arriva il carnevale, e c’è una cer- ta atmosfera di austerità che favorisce i sacrifici alimentari». Da che cosa si comincia? «Ricordatevi che i grassi vanno ridotti ma non eliminati, e che il digiuno è sempre uno stress per l’organismo. Mangiate più frutta ma soprattutto molta più verdura, che fa volume e sazia. Rifuggite da tutte le diete alla moda. Di queste la peggiore probabilmente è la dieta Atkins come tutte le diete iperproteiche, che aumentano la colesterolemia e mettono a durissima prova reni e fegato. Ma soprattutto aumentate l’attività fisica». È del professor Ticca questo decalogo per un comportamento alimentare più corretto e sicuro. (l.lau.) Diminuire la quantità di sale, sia quello usato come condimento sia quello contenuto nei cibi che ne sono ricchi, come molti alimenti conservati. Leggere sempre l’elenco degli ingredienti sulle etichette UN FRENO AL DOLCE Va tenuto sotto stretto controllo il consumo di alimenti e di bevande dolci. In caso di strappo alla dieta, bisogna ricordarsi sempre di curare con particolare attenzione l’igiene orale per allontanare il rischio di carie dentale VARIETÀ DI CIBI Variare e alternare sistematicamente la scelta dei cibi selezionandoli nell’ambito dei vari gruppi alimentari senza operare immotivate esclusioni. Così si ha una maggiore completezza riguardo alle sostanze di cui necessita l’organismo MOLTA ACQUA Ricordarsi di bere molto. Si può preservare il bilancio idrico del nostro organismo sia attraverso il frequente consumo di acqua, sia con bevande e cibi che ne contengono molta, come tanti tipi di frutta e verdura IL RISCHIO FAI-DA-TE Evitare le diete autoprescritte e quelle diffuse attraverso canali generici e non autorizzati. Rivolgersi al proprio medico per decidere se e come adottare uno schema alimentare, che va personalizzato 6 7 8 9 10 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA le tendenze Nuovi balocchi PAROLE IN VIDEO Eye Toy Chat è un sistema di videocomunicazione pensato per la Play Station 2. Facile da usare come un cellulare, permette di accedere a una serie di chat room: in quelle con video si può comunicare con un massimo di 16 persone, nelle altre si arriva a 256. È per ogni età ma dotato di opzioni di sicurezza per i bambini. Prodotto dalla Sony, costa 29,99 euro DOMENICA 2 GENNAIO 2005 Bambole che respirano. Peluche che pretendono affetto Carillon interattivi. Ecco l’ultima generazione di giocattoli, spesso tradizionali nelle forme ma diventati intelligenti grazie alle tecnologie più sofisticate. Con una missione: divertire i più piccoli e prepararli a entrare nel futuro BABY TELEFONINO Benq A500 è un cellulare dalle molteplici funzioni, dotato di video-suoneria personalizzabile anche con la voce del chiamante. Il telefonino possiede anche una fotocamera digitale e consente di modificare le foto con animazioni a tema. Acquistabile a 279 euro AMICI D’ACQUA DOLCE Gli Aquapets sono la versione acquatica del tamagotchi. Si tratta infatti di giocattoli galleggianti dotati di personalità. Oltre a interagire con il bambino (hanno bisogno di cure e attenzioni) entrano anche in relazione fra di loro. Costano 14,90 euro Giochi L’orsetto con l’anima hi-tech MARINA CAVALLIERI nimaletti virtuali che comunicano tra loro grazie ai raggi infrarossi, peluche che emettono suoni realistici, orsacchiotti affettuosi che ti abbracciano, robot ubbidienti che rispondono. Videogiochi con telecamere incorporate che proiettano il bambino sullo schermo rendendolo non solo spettatore ma divo assoluto. Carillon intelligenti che suonano appena il neonato si sveglia. Il paese dei balocchi si trasforma: non c’è gioco che non nasconda un sensore, un pulsante, un circuito elettronico, non c’è trastullo la cui vita non dipenda da un software, non c’è oggetto pensato per l’infanzia che non interagisca, perché anche nella bambola più innocente, nel più tenero pulcino pulsa un cuore tecnologico. Le aziende che producono giocattoli spiegano pazienti che sopravvive solo chi si adegua e vende chi riesce a ren- A PC A MISURA DI BIMBO Computer Bit Explorer è un pc per bambini multifunzionale. Ha 800 quiz in inglese, francese e italiano, e permette di fare giochi per imparare la matematica e le scienze. Ha una radio Fm digitale incorporata, cuffie e torcia estraibile, schermo luminoso e quattro livelli di difficoltà. Distribuito da Editrice Giochi, costa 184 euro dere animato ciò che un tempo era inerte. «I bambini cominciano sempre prima a chiedere tecnologia», spiegano i manager della Clementoni, «se con un gioco “semplice” una volta si poteva coprire una fascia di età fino a dieci anni, oggi non si va oltre i sette, già dagli otto vogliono solo giochi tecnologici». E a dieci sono pronti ad entrare nel mondo della playstation, del cellulare di ultima generazione, della videocamera sofisticata per reality show domestici. Il segreto del business è coniugare tradizione e tecnologia, mantenere l’involucro, l’orsetto per esempio, e cambiargli l’anima con un chip. La tendenza è occupare via via anche i terreni vergini della prima infanzia: un gioco su cui si punta è il cucciolo che segue il bambino ovunque (anche quando gattona) grazie ad un braccialetto da tenere al polso. Perché la parola chiave è interattività. Che vuol dire anche non dare mai la sensazione al bambino di stare solo con se stesso. «Nel gioco si cerca una gratificazione immediata, una risposta pronta, un rapporto diretto, VIDEOGAME DA TASCA Il GameBoy Advance SP della Nintendo è stato uno degli oggetti più citati nelle lettere per Babbo Natale. Schermo illuminato, sportellino di protezione e batteria ricaricabile: tutto condensato in dimensioni ultracompatte. La console portatile ha anche una versione color rosa per ragazze o con tatuaggi tribali per ragazzi. Costa 99 euro n antropologo del gioco potrebbe intitolarla «dinamica Calvin-Hobbes». Naturalmente non si riferirebbe ai due filosofi ma agli eroi del quasi altrettanto filosofico, e divertentissimo, fumetto di Bill Watterson. Calvin è un bambino ipercinetico e privo di freni: una valanga, un tornado, una particella accelerata, un fertile inventore di catastrofi, una nemesi immeritata dai suoi pazientissimi genitori. Calvin ha un peluche: la tigre Hobbes. Come segnala l’antropologo del gioco (davvero ce n’è uno) Brian Sutton-Smith, per «alcuni milioni di anni» l’umanità ha fatto a meno di giocattoli di stoffa, e dunque «pare assolutamente possibile crescere come esseri umani senza l’aiuto di un peluche» (Nel paese dei balocchi, edizioni la Meridiana, 2002). Ma poi l’era del peluche è incominciata e quello è rimasto il simbolo del giocattolo affettivo, di per sé inerte, che stimola la fantasia del bambino (che lo tratta di volta in volta da compagno di giochi, fratello, genitore, neonato, animale domestico, maestro, alunno...) e lo rassicura con il suo morbido tepore. Il segreto nascosto U dei bambini STEFANO BARTEZZAGHI emotivo», spiega il marketing di Giochi Preziosi. «C’è la bambola che muove le labbra quando poppa, nasconde un circuito elettronico molto complesso. La bambina gioca ma non lo percepisce». L’ultimo sforzo ora è rendere la tecnologia sempre più nascosta e facile, la sfida è semplificare per rispondere alle esigenze del mass market e mettere insieme tutta la famiglia. Perché giocare non è solo una prerogativa dell’infanzia, il divertimento è lecito, trasversale, concesso a tutti. Il motto, non a caso, è “plug and play”: attacca la spina e gioca. Ecco allora i Tv games. Basta infilare i cavetti nel televisore: non occorre una console, può farlo chi ha quattro anni e chi si sentiva già vecchio e tagliato fuori. Un business promettente con i suoi ventidue milioni di pezzi venduti negli Stati Uniti. «Al consumatore bisogna far vivere un’esperienza e tutta la famiglia può partecipare», dicono alla Sony. Ammonta a settecento milioni di euro il mercato dei videogiochi in Italia. L’infanzia può non finire mai. TELESCOPIO INTERATTIVO Un telescopio per osservare il cielo stellato e attraverso le schede conoscerne la storia. Con il cd Cybersky si può trasformare il pc in un planetario e si potranno studiare le mappe celesti. Da Clementoni. Prezzo: 37 euro Ma Hobbes è un peluche speciale: quando nessuno li vede Hobbes si anima, cammina eretto sulle zampe posteriori, ragiona pacatamente, parla e istiga o subisce le scorrerie di Calvin. Per quanto riguarda la tigre di pezza la dinamica Calvin-Hobbes descrive il fenomeno dell’animazione dei giocattoli. Nell’epoca del peluche, e anche prima, il giocattolo aveva una dinamica tutta potenziale. La scatola del Legoo del Meccanocontenevano le possibili morfologie che venivano scelte dal bambino, così come il blocco di marmo per Michelangelo. Il sacchetto di biglie poteva produrre un’intera Olimpiade, il cui software era però tutto nella testa del bambino. Oggi tutti i giocattoli hanno fatto quello che fa Hobbes: si sono animati. L’interazione è programmata dai loro circuiti, compiono mosse, offrono al bambino percorsi di gioco magari variegati ma almeno apparentemente preordinati e quindi chiusi. I bambini, notoriamente, fanno a pezzi i giocattoli e secondo Baudelaire lo fanno per cercarne l’anima. Ma ora è difficile che un bambino distrugga un GameBoy o un computer, se non per accidente o per eccesso di uso: al massimo, DOMENICA 2 GENNAIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 VILLAGGIO DEGLI ORSETTI Papà Orso, Mamma Orsa e il piccolo Orsetto vivono in un villaggio tridimensionale dotato di sistemi elettronici che lo rendono interattivo e parlante. Ci sono 24 attività di gioco, 62 giochi interattivi, 350 quiz e quattro modalità di interazione: gioca, quiz, ascolta e musica. Gli orsetti danno anche vita a dialoghi. 28,90 euro BONGHI PER VIDEOGIOCO Donkey Konga è il gioco più innovativo di Nintendo per Game Cube: al posto del normale controller il giocatore dovrà utilizzare due bonghi e il battito delle mani seguendo le tracce musicali delle canzoni più note di tutti i tempi. Disponibile a 60 euro COMPAGNI VIRTUALI I Tamagotchi Connexion sono l’ultima versione del famoso giocattolo interattivo. Grazie alla tecnologia della porta a infrarossi possono comunicare tra di loro, fare amicizia e perfino mettere al mondo i Tamababies. A 24,90 euro CONSOLE DA SALOTTO Dal 2000 a oggi sono state vendute due milioni e mezzo di Playstation. Nel frattempo è arrivata sul mercato anche la Playstation 2. Ha un volume ridotto del 75%, pesa solo 900 grammi, rende possibile il collegamento online per sfidare giocatori di tutto il mondo. Il gioiello della Sony costa 149,99 euro LAVAGNA DELLE MERAVIGLIE Topolino muove la bocca e il corpo. E attraverso una lavagna a raggi infrarossi con 40 pulsanti interagisce con il bambino. Il gioco è dotato di un chip che permette di immagazzinare venti minuti di parlato. Topolino insegna l’alfabeto, i numeri, a riconoscere le prime parole. Da Clementoni a 59 euro PASSATO E FUTURO Nelle foto qui sotto, robot giocattolo d’altri tempi. Oggi gli stessi oggetti, grazie alla tecnologia, sono più intelligenti e autonomi BAMBOLOTTO ANIMATO Baby Amore è il bambolotto ad alta tecnologia che respira, piange, ride, mangia, cambia espressione, può essere allegro o triste. Se viene svegliato da un rumore alza le manine e chiede di essere preso in braccio e coccolato. Costa 59,90 euro ROBOT SAPIENS Più di venti ore di gioco continuative per Robosapien, il primo robot basato sulla tecnologia Beam, sbarcato da poco sul mercato italiano. Una volta attivato cammina, prende e lancia oggetti, danza e fa mosse di karate. Distribuito da Giochi Preziosi a 110 euro MINI KARAOKE “Canta tu” è un karaoke portatile. Collegato a una Tv consente di cantare seguendo i testi guida che vengono visualizzati sullo schermo. C’è anche la versione con videocamera per poter vedere in video mentre si canta. Dai 125 euro PELUCHE CON SENSORI Ronny l’orsacchiotto interagisce nel gioco, se gli si preme il sensore della schiena allunga le zampe per abbracciarti, poi sbadiglia, sussurra ed emette suoni realistici. Con lo speciale biberon beve veramente, se gli si tocca il piede ride. Da Hasbro. Costo: 59 euro viene perso lo sportello dell’alloggiamento delle pile. È come se l’anima di questi giochi, che spesso sono labirintici e multitestuali, non risiedesse dentro all’involucro del gioco ma alla sua superficie, e nella stessa successione delle schermate. I bambini capiscono subito, così, il carattere transitorio e fugace degli oggetti che accompagneranno la loro vita di adulti, il loro scorrimento di superficie. Il giocattolo non è più l’oggetto: l’oggetto è il supporto e il giocattolo è la rappresentazione che ne è ospitata. È questa che andrebbe rotta. Il nuovo bambino che smonta la sua macchinina è il giocatore che manda in bomba il programma del GameBoy, ovvero Francesco Totti (detto Pupone) che «squaglia» laPlaystation durante il ritiro della Nazionale. I giocattoli tecnologici sono da mettere in relazione con l’ansia dei genitori per il futuro dei figli: insegnano e ancor più assuefanno a «un mondo nel quale i simboli dell’ideologia del “darsi da fare” sono onnipresenti» (ancora Sutton-Smith). Ma la dinamica Calvin-Hobbes non riguarda solo l’animazione dei giocattoli creduti inerti. Riguarda anche il bambino che gioca. Non è possibile prevedere l’uso che un bambino farà del suo giocattolo. Il gioco perverte il giocattolo; produce linguaggi criptici, deformazioni della realtà, parodie a volte lancinanti (come dimostra l’analisi dei disegni dei bambini che hanno subito traumi). Il gioco è la cultura del bambino, ed è altrettanto articolata — se non di più — della cultura dell’adulto. Il “giocare con” o il “giocare a” può voltarsi facilmente in “giocarsi di”: la bambola serve a giocare alla mamma, ma talvolta serve anche a prendere in giro la mamma, così come Hobbes si trasforma segretamente da peluche a compagno raziocinante. «Dove i bambini giocano è sepolto un segreto», ha detto mirabilmente Walter Benjamin. Quello dei nuovi giocattoli tecnologici è un segreto che riguarda il nostro tempo, ivi compreso il nostro passato e il nostro futuro. Per averne una rivelazione bisognerebbe allora capire quali pervertimenti i bambini mettono in gioco nell’uso dei loro aggiornati e complessi trastulli: in quale punto dell’interattività preordinata dai software si collochi quello spazio di manovra e di anarchia dirompente che è, ancora oggi, il gioco. Piacerebbe poterlo chiedere a Calvin. 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 GENNAIO 2005 l’incontro Ha un rifugio segreto, un “buen retiro” anche il cineasta più pessimista, ipocondriaco e autodistruttivo: la musica. Che lo rende felice “come mangiare o fare l’amore”. Tanto che per goderla e sentirsene attraversare anche fisicamente suona da anni “senza alcun talento” il clarinetto. Con una band di professionisti che per stare al passo con lui devono “suonare in modo primitivo” Terapia e note Woody Allen uon anno, Woody Allen. «No, per favore, niente auguri. Fin da ragazzo ho sempre odiato il clima delle festività di fine anno, che ha un senso solo se le cose ti vanno bene: se hai soldi, se ti circonda una famiglia, se sei innamorato… Ma se la vita non ti va nel verso giusto, questo è il periodo più deprimente che si possa immaginare, e non a caso sono giorni pieni di suicidi». Visto da vicino, Woody Allen è un uomo fragile e ironico, come stordito dal burrascoso incalzare del mondo. E per di più sembra lievemente sordo. Questo però è solo un sospetto, giustificato dal modo in cui accoglie le domande: stringe i puntini scuri delle pupille dietro gli occhiali dalla montatura esagerata, protende il corpo magrissimo e nervoso, esprime un’attenzione così spasmodica che viene naturale chiedersi: perché mai si sforza tanto? O forse invece, pur dopo tanti anni di terapie e successi, lo innervosisce ancora l’interrogatorio che comporta un’intervista, a cui arriva puntuale e disciplinato come un primo della classe, vestito proprio come in uno dei suoi film: camicia candida amabilmente sgualcita, pantaloni a coste di velluto troppo larghi come si addice a un intellettuale e scarpe di cuoio meticolosamente lucidate come si addice a un ossessivo. Insiste a reggere il microfono del registratore («la pratica mi è familiare: da giovane, nei cabaret, non facevo altro che reggere microfoni»), mentre attorno a noi preme minacciosa l’organizzazione che protegge la sua fama. Un body-guard con spalle gigantesche sorveglia l’ingresso dell’albergo romano che ospita il nostro incontro. Un severo assistente cronometra il tempo del colloquio segnalando a intervalli B fissi i minuti che mancano alla fine. Spietati fari di luce ci colpiscono in volto come se tra poco partisse il primo ciak. E intanto brillano là fuori le vetrine, in una Roma festante e consumistica, vogliosa di comprare e divertirsi. «Continuo a chiedermi che cosa ci sarà mai da festeggiare. La felicità, lo sappiamo, non esiste. Arriva solo a piccoli sprazzi a illuminare quel fosco e tragico contesto che è la vita», sospira Woody mesto e garbato. Clamoroso paradosso, gli si fa notare, detto da un cineasta noto per il suo talento comico geniale. «Eppure avrei voluto somigliare a Eugene O’ Neill, Tennessee Willams e Ingmar Bergman. Perché mi è chiaro che la vita è breve, cattiva e gratuita. E perché abitiamo in un pianeta assillato da catastrofi e sventure. Non credo in niente, anzi: trovo la religione perniciosa, strumentalizzata dalla politica e trasformata in qualcosa che non ha più nulla a che vedere con chi s’interroga su Dio o sulla sua assenza. È come se vivessimo braccati da un terribile assassino che prima o poi giungerà a stanarci. L’umanità e la terra corrono verso una fine inesorabile, e io mi scopro sempre più incapace di aiutare le persone che amo». Tra le tragedie più vistose che Woody osserva col suo avvolgente umor nero c’è la vittoria alle elezioni americane di Bush, «giunta a conferma delle mie più tetre sensazioni esistenziali. Bush è il prototipo della tristezza, un tipo che sarebbe comico se non fosse desolante, un presidente che non riesce a fare un discorso senza dire sciocchezze. È completamente inadatto al suo lavoro e sono certo che in fondo a se stesso percepisca la tragedia della propria inadeguatezza. Ha fatto una guerra orribile, non ha capito i propri errori e io spesso me lo immagino mentre di notte si rigira nel suo letto cercando con disperazione di capire qualcosa in più di quello che gli sta accadendo. Tutto sommato, ne sono sicuro, avrebbe preferito perdere le elezioni per tornarsene a casa a occuparsi di baseball». Al proprio drastico pessimismo il più famoso ipocondriaco del cinema del nostro tempo, che tra non molti mesi compie settant’anni e ancora si tormenta le mani per la timidezza, prova a resistere con qualche splendido conforto: per esempio la musica, «evento di soddisfazione indicibile, una delle poche cose per cui vale la pena di stare al mondo. La musica è come il cibo e fare l’amore: piacere puro, irrinunciabile. Ti penetra dalle orecchie, ti invade il corpo, ti fa sentire la qualità della bellezza. Per questo è sempre stata tanto importante nei miei film. Molte scene che altrimenti sarebbero state spente o prive d’interesse, grazie alla musica sono diventate tollerabili o persino belle». C’è musica anche nella trama di Melinda e Melinda, la sua commedia tragicomica e romantica uscita in Italia a fine dicembre: una delle eroi- ne femminili di questo pirandelliano girotondo amoroso singhiozza d’emozione ascoltando una sinfonia di Mahler; e una passione contrastata tra due personaggi, ovviamente già accoppiati con altri partner, esplode grazie a sentimenti musicali condivisi. C’è musica anche nel film che ha appena finito di girare a Londra, Matchpoint, con Scarlett Johansson e Jonathan Rhys Meyers, «inondato da arie operistiche e dalla voce inarrivabile di Caruso, colonna sonora di una vicenda che parla soprattutto della casualità del destino e della perenne condanna della coppia coniugale all’infedeltà, proprio come ci dimostra il teorema sublime del Così fan tutte di Mozart». Per godere di musica e sentirsene traversare anche fisicamente, Woody suona da molti anni e «senza alcun talento» il clarinetto, come ha fatto anche di recente in un tour italiano concentrato in due tappe, Roma e Venezia, con la New Orleans Jazz Band. «Avrei sempre voluto essere un vero, grande musicista, e amo e conosco bene la musica di New Orleans. Ma non ho “È falso quel che si dice sulla mia autobiografia. Mi hanno proposto di scriverla, ho chiesto dieci milioni di dollari. Era un modo per rifiutare” orecchio né ritmo né senso musicale. Invece gli altri membri della band sono bravissimi, e se qualcuno fischia una canzone loro sono in grado di riprenderne subito la melodia. Ciò che mi salva è la semplicità del nostro repertorio, e mentre i miei compagni, per apparire dilettanti, devono ridurre la propria abilità e suonare in modo più primitivo di quanto siano capaci di fare, io non mi sforzo di sembrare un dilettante, perché lo sono davvero. Diciamo che musicalmente sopravvivo a un livello di mediocrità assoluta». Tra i più intensi ricordi musicali di Woody Allen c’è l’ascolto della radio da ragazzo, come seppe raccontare nell’amarcord di Radio Days, il suo film forse più tenero e toccante: «Per la mia generazione certa musica era essenziale, un accompagnamento nutriente, una manna quotidiana. Preparandomi la colazione, prima di andare a scuola, accendevo la radio e venivo investito da miracoli musicali che si chiamavano Louis Armstrong, Frank Sinatra, Duke Ellington, Benny Goodman e Billie Holiday. Oggi questi nomi rappresentano i monumenti dell’arte del jazz, ma all’epoca erano la musica dei nostri piccoli rituali di ogni giorno, delle nostre abitudini e dei nostri amori. Ho anche visto molti grandi musicisti suonare dal vivo, dal mio idolo Sidney Bouchet ad Armstrong e a John Coltrane. E ho avuto la fortuna di suonare nei locali di New Orleans e nelle parate, per le strade e nei bar, con alcuni dei campioni dell’epoca d’oro del jazz, che nel frattempo erano diventati molto vecchi». Con il consueto atteggiamento di entusiasmo infantile e quieta rassegnazione alle incombenti calamità della vita, Woody narra che prese a frequentare il clarinetto in modo solitario, «perché la solitudine è creativa e produttiva. Da ragazzo mi chiudevo in una stanza e mi esercitavo ascoltando i dischi più belli. Perciò ho sviluppato con la musica un rapporto da autodidatta, e probabilmente anche per questo sono una frana. Mi piaceva molto anche allenarmi ai giochi di prestigio con le carte: sognavo di diventare un mago. Io ottengo buoni risultati in tutto ciò che esige l’isolamento. Per questo adoro scrivere, attività solitaria. Mi è sempre stato facile inventare storie, mi siedo o mi metto a letto e la scrittura scorre con naturalezza. Se fosse stato faticoso non lo avrei fatto, sono troppo pigro». C’è chi dice che adesso sia immerso nella scrittura di un’attesissima e molto rivelatoria autobiografia. Tutta la verità su Woody Allen, dai disastri dell’infanzia a Brooklyn, quando si sentì dire dalla baby sitter: «Potrei soffocarti nella pattumiera e non se ne accorgerebbe nessuno», fino agli scandali della relazione con la figlia adottiva Soon Yi, poi divenuta la sua sposa bambina. «Non sto scrivendo niente del genere. È solo capitato che qualcuno mi abbia chiesto: vuoi fare la tua autobiografia? Ho risposto: non ho tempo né voglia. Però, siccome quel qualcuno insisteva, ho detto che avrei accettato per dieci milioni di dollari. Naturalmente era uno scherzo, un modo per rifiutare. Neanche Hillary Clinton ha guadagnato tanto col suo libro. Ciò nonostante attorno alla notizia s’è fatto un gran chiasso, e c’è persino chi mi ha attaccato: come osi? Tradimento! Non so chi avrei tradito, sono libero di raccontare la mia vita quando mi pare. Solo che non ho mai avuto intenzione di farlo». Che dice dell’esito altalenante dei suoi film? È vero che il pubblico americano la segue sempre meno? «Forse è così, ma non m’importa, io non lavoro pensando al successo. In America la gente avrebbe voluto che mi ripetessi all’infinito. Dopo Io e Annie e Manhattan, che sono stati i miei due film più fortunati in senso commerciale, mi dissero che avrei dovuto continuare su quella linea. Prima però, quando parlavo della possibilità di fare una commedia romantica come Io e Annie, mi avevano detto che ero pazzo, e che non avrei mai dovuto lasciare il filone delle commedie demenziali tipo Il dittatore dello stato libero di Bananas o Prendi i soldi e scappa. In realtà alcuni film successivi, come Hannah e le sue sorelle e Crimini e misfatti, hanno avuto più successo dei miei primi film di puro humour: Prendi i soldi e scappa costò solo un milione di dollari e ci mise dieci anni a rientrare nelle spese. Ora qualcuno sostiene che tutti i miei film messi insieme non hanno avuto tanto pubblico quanto La Passione di Mel Gibson. Probabilmente è vero. Però lo stesso si può dire delle opere dei miei registi preferiti. Ci sono dei blockbuster, da Terminator a E. T., che hanno fatto più soldi nel primo week-end di programmazione di quanti ne abbiano guadagnati tutti i film di Bergman o di Fellini messi insieme. Perciò mi sento in buona compagnia». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO