PER NON DIMENTICARE - Fondazione Brigata Maiella

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PER NON DIMENTICARE - Fondazione Brigata Maiella
pagina 1 - pennadomo notizie
COSTRUZIONI
E SERVIZI
CENTRO ITALIA
Periodico di informazione dei pennadomesi residenti in italia e all’estero
agosto 2013
La Storia Siamo noi
Era il mese di agosto 1979 quando è stato pubblicato
l’ultimo numero del giornale di Pennadomo che per
3 anni, dall’aprile 1976, ha dato informazioni a tutto campo su quanto accadeva nel paese delle rocce
protetto da San Lorenzo. E’ stato un evento editoriale
per un paese così piccolo, ma così grande nei nostri
pensieri e nei nostri cuori. Abbiamo per primi spiegato quale era l’origine storica del nome di Pennadomo
e di cui rivendichiamo l’originalità. Ed ora a distanza
di 34 anni il giornale di Pennadomo ritorna per una
missione ancora più importante e speciale: ridestare
la memoria dei tre giovani patrioti della Brigata Maiella: Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco
e Nicola Di Renzo, uccisi dai tedeschi “dagli occhi
di fuoco e di ghiaccio” nella battaglia di Pizzoferrato
il 3 febbraio 1944 e di cui il prossimo anno ricorre il
settantesimo anniversario.
Riportiamo alla luce, facendola uscire dal silenzio e
dall’oblio dove sono stati relegati ingiustamente e negligentemente per 70 anni, la storia tragica di questi
tre nostri giovani che hanno avuto il coraggio di combattere per riconquistare la libertà e la democrazia
soppresse dalla dittatura fascista, e per questo hanno
pure offerto, come i martiri di ogni tempo, la propria
vita per realizzare il sogno della nuova Italia redenta,
dando una tragica e gloriosa testimonianza.
Uniti da vicende drammatiche come molti giovani patrioti, con il desiderio della vita, della difesa del loro
avvenire, i nostri Lorenzo, Luigi Donato e Nicola,
hanno incarnato lo stesso sogno e le stesse speranze
di redenzione che coltivarono i loro coetanei durante
il Risorgimento. I giovani protagonisti di allora, che
si chiamassero Silvio Pellico, Piero Maroncelli, Attilio ed Emilio Bandiera, Goffredo Mameli o i Mille al
seguito di Garibaldi, hanno tutti desiderato un futuro
migliore per un’Italia unita e indipendente, incuranti
di ogni pericolo e pronti ad offrire la loro stessa vita,
come fecero in migliaia. L’ansia di giustizia e di libertà è stata la forza morale che ha unito i patrioti
della resistenza a quelli del periodo risorgimentale, ed
entrambi ne sono usciti vittoriosi.
Questo spirito unificante tra Risorgimento e guerra di
liberazione è stato messo in risalto anche dai generali
polacchi Anders e Wisniowski, le cui divisioni hanno
combattuto a fianco a fianco dei patrioti della Brigata Maiella: “Il sangue che insieme abbiamo versato
sui campi di battaglia per la liberazione d’Italia, ha
rinnovato la gloriosa tradizione delle lotte sostenute
nel passato, quando Polacchi nelle file di Garibaldi e
Italiani in terra polacca, combatterono per la libertà della fraterna nazione e per i sacri diritti dell’uomo...” I patrioti di Pennadomo della “Maiella” sono
entrati dunque da protagonisti nella grande Storia del
Novecento: partigiani senza partiti, soldati senza stellette.
Ecco quindi spiegate allora le ragioni del ritorno di
questo giornale per ricostruire alcuni degli eventi storici della resistenza combattuta nelle nostre montagne
d’Abruzzo e nei nostri paesi dove i tedeschi fecero
razzie, rastrellamenti, barbari eccidi di persone inermi, seminando ovunque terrore, distruzioni e morte
di interi paesi. In questa odiosa “terra bruciata” nacquero le prime resistenze tra contadini e povera gente
che si affidarono al carisma di Ettore Troilo, un perseguitato dal regime fascista, per rigenerare l’idea di
Patria negli animi e nei cuori degli abruzzesi.
Ed è qui, in queste terre, povere ma fiere, che Lorenzo,
Luigi Donato e Nicola, “i nostri tre fratelli maggiori”,
spinti dal furore e dall’ardore, hanno offerto sul sagrato di Pizzoferrato il più bell’olocausto che mai potevano offrire per la redenzione dell’Italia, spargendo
dei semi fruttuosi per la nascente Costituzione.
Noi di “Pennadomo Notizie”, ieri come oggi, di queste
storie di persone, di passioni, di drammi, di speranze
e di eroismo delle nostre genti vogliamo raccontare.
Non possiamo non far nostro l’invito di Pietro Calamandrei “ad andare in pellegrinaggio nel luogo dove
è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne
dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono
imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e
la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li
è nata la nostra Costituzione”.
Ottavio Di Renzo De Laurentis
iL 3 febbraio 1944 neLLa battagLia di Pizzoferrato morirono da eroi i Patrioti deLLa
“brigata maieLLa”: Lorenzo d’angeLo, Luigi donato di franceSco e nicoLa di renzo
Per non dimenticare
Lorenzo D’Angelo
Luigi Donato Di Francesco
Nicola Di Renzo
Ricorre il prossimo anno il 70/mo anniversario del loro sacrificio per la liberazione dell’Italia dalla dittatura nazi-fascista. E’ grazie
anche al loro sangue versato nella chiesa della Madonna del Girone che alla bandiera della Brigata Maiella è stata conferita la “Medaglia
d’oro al valore militare”, un onore che dovrebbe riempire d’orgoglio Pennadomo e i suoi concittadini. E invece di loro si è quasi persa
la memoria. Lorenzo, Luigi Donato e Nicola sono nati per vincere. Lo spirito del sacrificio fu il silenzioso condottiero che li portò diritti
verso l’olocausto di Pizzoferrato, al loro battesimo di sangue con le carni lacerate dall’odioso fuoco tedesco. è tempo dunque di ridestarne
la memoria perché essi furono sempre “primi in ogni prova di audacia ed ardimento, esempio a tutti di alto spirito di sacrificio”.
“fare memoria” Per Sentirci comunità
“Qui vivono per sempre gli occhi che furono chiusi alla luce perché tutti li avessero aperti per sempre alla luce”
(“Per i morti della Resistenza” di G. Ungaretti).
Ho accolto con entusiasmo questa iniziativa perché troppo a lungo questo
tragico episodio di Pizzoferrato è stato mistificato, dimenticato e relegato nella
memoria privata delle famiglie a cui i tre giovani partigiani appartenevano.
Al di là dell’importanza storica, del valore militare o civile dell’azione,
ciò che oggi abbiamo urgenza di testimoniare è il valore etico-morale della
scelta compiuta da tre giovani che hanno contribuito, con le loro giovani vite
spezzate, alla nascita della nostra democrazia.
In un contesto storico sgretolato e inaridito da ingannevoli e inquietanti
chimere, riorientare la rotta è il compito di noi adulti, genitori, insegnanti,
anziani, donne e uomini appartenenti a generazioni che hanno conosciuto
stagioni più solide, sorrette dall’entusiasmo di idealità oggi smarrite. Per
ritrovarle, rimodularle occorre ripartire da qui, dalla comunità alla quale
sentiamo di appartenere, dalla diaspora dei suoi pezzi di storia, non limitandosi
a ricordare perché il ricordo è fragile, può perdersi, essere dimenticato. Questo,
infatti, è accaduto. Il nostro compito è” fare memoria” perché è la memoria ciò
che lega il passato al presente e ne determina il futuro. Fare memoria vuol dire
costruire intorno a ciò che ci fa sentire parte di una comunità (la sua storia, la
sua lingua, la sua cultura) progetti che, a loro volta, creano legami, speranze,
futuro. Senza dimenticare chi ci ha preceduti. “O cara piota mia che sì t’insusi”
dice Dante alla sua radice Cacciaguida quando lo incontra nel Paradiso.
Fare memoria, dunque, vuol dire impedire che vada smarrita la nostra radice
ovvero la nostra identità spirituale. Solo raccogliendo e condividendo “le
egregie cose” la memoria non sarà più solo privata ma fertile humus per
coloro che verranno.
Maria Lucci
pagina 2 - pennadomo notizie
In ricordo di Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo patrioti della Brigata Maiella morti per
la liberazione d’Italia nella battaglia di Pizzoferrato del 1944
3 febbraio: il giorno della memoria
“Essi furono sempre primi in ogni prova di audacia e ardimento”
“Molti dei nostri, i migliori, i più
degni, quelli che hanno arrossato
del loro sangue le terre d’Abruzzo, delle Marche, della Romagna, dell’Emilia non sono oggi
tra noi. Essi sono caduti sulla
via dell’onore e del dovere per il
riscatto della libertà d’Italia... Il
tributo di eroismo, di sangue che
voi della “Maiella” avete offerto
silenziosamente alla grande causa della liberazione della Patria
vi pone tra i migliori figli d’Italia”. Sono queste alcune delle parole pronunciate da Ettore
Troilo, fondatore e comandante
del “Gruppo patrioti della Maiella”, nel giorno della cerimonia di scioglimento dei volontari
abruzzesi a Brisighella il 15 luglio 1945. E tra questi “migliori
figli d’Italia”, tra coloro che hanno dato il “tributo di eroismo e
di sangue”, ci sono anche i tre
giovani ventenni patrioti di Pennadomo: Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo, uccisi dai tedeschi
nella battaglia di Pizzoferrato il
3 febbraio 1944. E’ grazie quindi anche al loro eroismo, all’alto
spirito di sacrificio, al generoso
contributo di sangue versato per
il riscatto dell’onore e della libertà d’Italia, che alla bandiera della
“Maiella”, è stata conferita dal
Presidente della Repubblica Antonio Segni il 14 novembre del
1963 la “Medaglia d’oro al valore militare”. Una medaglia d’oro
che dovrebbe riempire d’orgoglio Pennadomo, come accade in
tanti altri paesi che hanno avuto
un simile onore, e dove monumenti, targhe commemorative o
strade e piazze sono state dedicate alle epiche o tragiche testimonianze dei propri concittadini che
si sono distinti con azioni e opere, dando così onore e rinomanza
al luogo della loro nascita.
Dalla “battaglia più cruenta”
di Pizzoferrato all’oblio
A Pennadomo invece,
rincresce affermarlo, nulla di tutto questo. Né un monumento, né
una lapide commemorativa, ci
ricordano gli eroi della battaglia
di Pizzoferrato, che il comandante Troilo definì “la più cruenta
di tutte le altre, e in cui i patrioti
hanno dato fulgida prova di eroismo e sacrificio”. Quali le ragioni di questo oblio, dell’assenza di
qualsiasi solenne riconoscimento
commemorativo per i nostri tre
giovani compaesani? E’ dovuto
principalmente ad una carenza di
coscienza civile, ad una carenza
di orgoglio collettivo per così
tanto eroismo. E i sentimenti di
oblio che purtroppo si sono alimentati nel corso degli anni, fino
alla loro quasi totale cancellazione dalla memoria di tutti, li hanno abbandonati nella tranquillità
e oscurità della morte, che non
è altro che l’oscurità della loro
vita. E’ come se la tragica morte di Lorenzo, Luigi e Nicola per
la guerra di liberazione d’Italia,
non riguardasse affatto Pennadomo, il paese natale, e la loro
dolorosa morte non avesse alcun
alto valore oggettivo, destinandola così verso il nulla eterno. E
nulla è più amaro di un eroismo
nascosto o dimenticato. Invece
il loro sacrificio è dentro la nostra Storia, poiché con la vita essi
hanno testimoniato quel che di
più nobile, di più generoso si può
dare per la Patria. Lorenzo Luigi
e Nicola sono nati per vincere:
l’ardire e l’ardore dei martiri e
degli eroi era in loro, bruciava
nei loro cuori. Lo spirito del sacrificio era dentro il loro animo
e fu il silenzioso condottiero che
li portò diritti verso l’olocausto
di Pizzoferrato, al loro battesimo
di sangue con le carni lacerate
dall’odioso fuoco tedesco.
è tempo di ridestarne la vita con
la resurrezione delle loro virtù
E’ dunque un grande
onore per Pennadomo aver dato
i natali a questi tre valorosi giovani, ed è un alto onore per noi
essere loro compaesani. Ma prima che il tempo inesorabilmente distrugga non solo le tombe
ma anche il ricordo dei defunti,
dobbiamo onorarne la memoria, “ridestarne la vita con la resurrezione delle loro virtù civili
e morali”, onorare il loro puro
eroismo di patrioti in modo che
il sacrificio della loro vita non sia
stato inutile, come un fiore senza
radici seminato nel deserto. Un eroismo il loro, è bene ricordarlo, che ha avuto il suo apice
nell’eccidio sul sagrato innevato
della Madonna del Girone a Pizzoferrato all’alba del 3 febbraio
1944 quando furono uccisi dai
tedeschi, ma che è nato e fiorito
a Pennadomo, il giorno in cui
hanno deciso di abbandonare il
lavoro dei campi o degli studi, di
allontanarsi dagli affetti familiari
più cari, da una moglie incinta di
un figlio che non conoscerà mai
le carezze del padre, per aderire alla Brigata Maiella creata e
condotta dal valoroso comandate
di Torricella Peligna, Ettore Troilo, una formazione partigiana di
volontari nata solo da qualche
mese, il 5 dicembre 1943, e subito battezzata nel sangue di Pizzoferrato appena 60 giorni dopo.
Rispettare i diritti dei defunti
Onorando con un momento funebre, una lapide o con
la dedica di una via prestigiosa,
la loro memoria, le loro virtù
civiche e morali, di testimoni di
un’Italia redenta, Pennadomo li
farà risorgere dall’oblio in cui
sono stati relegati fino ad oggi,
rispettando i loro diritti di defunti al pari di tutti gli eroi di ogni
tempo che vivono nelle menti di
coloro per i quali sono vissuti e
si sono sacrificati. E questa mistica simbiosi e comunione, tra
defunti e viventi, è una “celeste
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani”, così
come la cantava il poeta-patriota
Ugo Foscolo nei “Sepolcri”. “A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti; e bella e
santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta”, diceva ancora il
Foscolo nei “Sepolcri”. Per noi
di Pennadomo in primo luogo, e
per tutti i visitatori che verranno
nel paese delle rocce protetto da
San Lorenzo, vediamo, in una
brevissima rassegna storica, per
quale ragione il sangue offerto da
Lorenzo, Luigi e Nicola, “a egregie cose il forte animo accendono dei forti”.
“Furono in guerra, tra i migliori d’Italia”
Cominciamo con la testimonianza del Tenente Generale Comandante dell’8a armata
inglese R.L. Mc Creery il quale
affermò che “in ogni occasione
i Patrioti della Maiella hanno
saputo dimostrare quali siano
gli ideali e la tempra degli italiani liberi,... furono in guerra,
tra i migliori figli d’Italia. A loro
giunga il riconoscimento dei soldati Alleati che li hanno visti al
loro fianco, disciplinati e coraggiosi, nell’ora del combattimento”. Mentre per il generale della
1° Brigata Fucilieri Carpati, Wisniowski, “i soldati della Brigata
Maiella sono degni successori
della tradizione dei loro padri
che combatterono sul Monte
Grappa, al Piave e Vittorio Veneto, e dei loro antenati che lottarono per la libertà e la democrazia
con il grande Garibaldi”. Il Brigadiere Generale dell’8a Armata
inglese Timmins rivolgendosi ai
patrioti abruzzesi afferma: “Voi
siete i pionieri di quel movimento partigiano italiano, che tanto
ha contribuito al successo della
campagna d’Italia e grazie al
quale potrà essere costruita la
Nuova Italia. Pizzoferrato, Montecarotto, Pesaro, Monte Mauro
e molte altre località del vostro
bel Paese rimarranno sempre
associate con le vostre gloriose
gesta di guerra, in fraternità con
i soldati alleati”.
“Esempio a tutti di alto spirito
di sacrificio”
Ma al di sopra di ogni
altro encomio e riconoscimento
universale, basterebbe leggere la
motivazione storica della “Medaglia d’oro al valore militare” alla
bandiera della Maiella conferita
dal Presidente della Repubblica Antonio Segni: “In quindici
Pennadomo, monumento ai caduti di tutte le guerre
mesi di asperrima lotta sostenuta
contro l’invasore tedesco con penuria di ogni mezzo ma con magnifica esuberanza di entusiasmo e di fede, sorretti soltanto da
uno sconfinato amore di Patria,
i patrioti della Maiella, volontari
della libertà, affrontando sempre soverchianti forze nemiche,
hanno scritto per la Storia della
risorgente Italia, una pagina di
superbo eroismo. Esempio a tutti
di alto spirito di sacrificio, essi
nulla chiedendo se non il privilegio del combattimento, hanno
dato per primi largo e generoso
contributo di sangue per il riscatto dell’onore e della libertà
d’Italia... Essi furono sempre
primi in ogni prova di audacia e
ardimento. Lungo tutto il cammino una scia luminosa di abnegazione e di valore ripete e riafferma le gesta più epiche e gloriose
della tradizione del volontarismo
italiano”.
Sono dunque per tutte
queste nobilissime ragioni che
Pennadomo si deve, con orgoglio, considerare una “bella e
santa terra”, come canta il Foscolo, perché conserva e onora la
memoria e le tombe di Lorenzo,
Luigi Donato e Nicola nel camposanto, dove, “all’ombra delle
dolenti cime dei cipressi, testimoni silenti ed eterni di sovrane
tristezze, riposano nella pace dei
giusti”. Se non li onoriamo, se
non li ringraziamo per la loro nobile testimonianza di sangue versato anche per la nostra libertà,
per la nostra nuova civiltà della
rinata Repubblica italiana, sarebbe come ucciderli una seconda
volta con l’indifferenza e il silenzio complici di una morte ancora più triste e dolorosa di quella
procurata dal fuoco assassino del
nemico tedesco.
Ottavio Di Renzo De Laurentis
pagina 3 - pennadomo notizie
Giovani spinti dal “furore e dall’ardore” per riconquistare le libertà perdute
Chi erano i tre patrioti della Brigata Maiella
Nicola Di Renzo era fidanzato con una ragazza di Montelapiano. Luigi Donato Di Francesco aveva
avuto per padrino di battesimo Ettore Troilo e si stava per laureare all’Università di Roma. Lorenzo
D’Angelo scriveva dolci lettere d’amore alla sua Carolina.
Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo, partirono da Pennadomo per
Pizzoferrato verso la fine di gennaio. Si erano arruolati tutti e tre
il 25 gennaio 1944 al “Corpo dei
volontari della Maiella” fondato
soltanto il 5 dicembre 1943 a Casoli dal valoroso comandante Ettore Troilo e aggregato al Corpo
Britannico dell’ottava armata,
e quindi la loro avventura durò
solo 10 giorni, fino al 3 febbraio
quando morirono da eroi dentro
la chiesa della Madonna del Girone a Pizzoferrato combattendo
contro i tedeschi dagli occhi di
fuoco e di ghiaccio.
Lorenzo D’Angelo
aveva 20 anni, era nato il primo
maggio del 1924 da Nicola e Teresa D’Antonio, fratello di Antonio, aveva frequentato le scuole
elementari fino alla quarta classe
e dopo qualche anno, nel marzo
del 1942, appena diciottenne e
già innamorato (ricambiato) di
Carlina Ruggiero, partì militare
prima a Fiume, poi a Caserta e
Nettunia (oggi divisa in due comuni tra Nettuno ed Anzio) dove
rimase fino al Natale di quel medesimo anno. Ma durante una licenza, il 30 maggio sempre del
’42, tornò a Pennadomo per sposare la sua Carolina nella chiesa
di San Nicola di Bari. Ma pochi
giorni dopo ripartì nuovamente
al fronte. In un anno e 8 mesi
di matrimonio Lorenzo e Carolina stettero insieme solo circa
tre mesi tra una licenza ed una
convalescenza. Anche dal fronte
Lorenzo pensava sempre alla sua
amata sposa e le scriveva lettere e cartoline d’amore. In una di
queste così manifestava il suo
innamoramento: “Tutta per te la
vita, amore mio, io ti stringo sul
mio cuore così. Amore mio, non
ti scoraggiare che non ti lascio
più per tutta la vita Carolina, Lorenzo è per te sempre”. . Ritornato di nuovo a Pennadomo (assediato dai tedeschi e con la gente
sfollata in rifugi di fortuna per le
campagne) verso metà gennaio,
Lorenzo si arruolò nella “Maiella” il 25 gennaio 1944 e tre giorni dopo, il 28, partì insieme agli
altri patrioti di mattina presto per
radunarsi a Montelapiano.
Ma il primo febbraio, come un
innamorato pazzo, fece un rapido
salto a Pennadomo dove trascorse l’ultima notte con la moglie
Carolina già incinta e prima di
ripartire le disse: “Qualsiasi cosa
mi succeda, chiamerai nostro figlio Mario se è maschio in onore
di tua madre che mi ha cresciuto
come se fossi suo figlio (era rimasto orfano di madre a 11 anni,
ndr.) e nel caso fosse femmina
Maria Teresa in onore delle due
nonne”. Triste presagio di quanto
avvenne due giorni dopo dentro
la piccola chiesa della Madonna
del Girone a Pizzoferrato. Il resto della storia di Lorenzo lo troverete nel memoriale della cara
nipote Cinzia D’Angelo, figlia di
Mario, che nascerà soltanto il 21
luglio del 1944 senza aver mai
conosciuto il suo papà.
Luigi Donato Di Francesco aveva 22 anni, era nato il
7 ottobre del 1922 da Giuseppe
e Adelina Scopino, suo padrino
di battesimo fu Ettore Troilo, il
fondatore della “Brigata Maiella” e amico di famiglia. Luigi Donato era fratello di Maria,
Assunta, Emma (morta a 13 anni
nel 1940) e Italo, il sacerdote.
Dopo gli studi di ragioneria a
Chieti si era iscritto all’Università di Roma, facoltà di Economia
e commercio ed era in procinto
di laurearsi. Giovane molto attivo, anche politicamente, aveva
ricevuto già alcune prestigiose
offerte di lavoro. Nel 1943, secondo un articoletto di cronaca
di un giornale abruzzese e conservato gelosamente dai nipoti
Elena e Stefano D’Angelo, Luigi Donato, che era un brillante e dotto conferenziere, tenne
nell’aula magna dell’Istituto
tecnico “F.G” di Chieti, alla presenza dei professori e degli alunni un discorso, sotto la direzione
del professore di diritto Rosa
Achille, dal tiolo: “Il romanesimo e la Cristianità e la Missione
Storica e civilizzatrice del Diritto Romano nel mondo”. Il giovane, si legge sul giornale, “è stato
vivamente applaudito, ricevendo
anche le congratulazioni del preside prof. Cav. Forlani Rodolfo”.
Nicola Di Renzo aveva
24 anni, era nato il primo maggio del 1920 da Concetta Porreca e Fedele, fratello minore di
Adelina e Rosina. Nicola si era
diplomato a Villa Santa Maria
dove aveva anche trovato una
giovane fidanzata di nome Maria
Palumbo nativa di Montelapiano
che frequentava la scuola delle
Ricordo d’amore tra Lorenzo e Carolina
monache di Villa Santa Maria
dove apprendeva l’arte del ricamo. I giovani fidanzati avevano
anche già fissato la data delle nozze a primavera, e Maria,
proprio per questo si stava preparando, con l’aiuto di altre sue
amiche, l’abito da sposa. Quando Nicolino (così era chiamato
al paese), dopo l’arruolamento,
stava per partire, andò a casa del
suo cugino di primo grado Luigi Di Renzo (il maestro di musica) il quale pensava che stava
per portargli le partecipazioni
per l’imminente matrimonio, e
rimase molto sorpreso e amareggiato invece quando seppe il
vero motivo della visita e cercò
di dissuaderlo; ma invano. Quasi la stessa scena, ma ancora più
commovente, si ripeté a Montelapiano, allorchè Nicolino andò
nella sera del primo febbraio a
salutare la fidanzata Maria e i
futuri suoceri mettendoli al corrente del suo arruolamento nella
Maiella. La promessa sposa, in
lacrime, sull’uscio della porta,
prima che Nicolino si allontanasse per sempre, lo strattonò per la
giacca, lo frenava e lo pregava
di non andare a Pizzoferrato, di
ripensarci; ma invano.
Maria Palumbo accolse con
sommo strazio poi la notizia
della morte del suo Nicolino e
fu presente insieme ai suoi genitori ai funerali che si svolsero a
Pennadomo martedì 15 febbraio piangendo per tutto il tempo
del rito funebre nella chiesa di
Sant’Antonio. In seguito Maria
convolò a nozze con un signore
di Ateleta ed ebbe pure quattro
figli: ma dentro il suo cuore si
portò per sempre, fino al giorno
della sua morte, il ricordo del
suo Nicolino, il giovane fidanzato di Pennadomo, morto da eroe
a Pizzoferrato.
(Testimonianza di Assunta Di
Renzo)
La testimonianza di Nicola Troilo, figlio del valoroso comandante della Brigata Maiella, Ettore
“Ho rivissuto la tragedia con rinnovato dolore”
Caro Di Renzo,
sono rimasto veramente ammirato dai suoi
scritti in ricordo ed onore dei tre Caduti di Pennadomo.
Lo dico senza alcuna esagerazione perché lei ha saputo
ricreare “il clima” di quel tristissimo inverno come se lo
avesse personalmente vissuto: io, che l’ho vissuto già
grandicello, l’ho ritrovato dopo settant’anni con un rinnovato dolore. In particolare la circostanza che ignoravo
– e cioè che la moglie di Lorenzo D’Angelo aspettava
un bambino – aggiunge al quadro un tocco di tristezza
infinita. L’iniziativa da lei, dal sindaco Antonietta Passalacqua e dai suoi amici assunta di rendere il dovuto
omaggio ai tre giovani di Pennadomo caduti nel combattimento di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944 e alla Brigata Maiella nelle cui fila si erano da poco arruolati, mi
trova non solo pienamente consenziente ma provoca in
me anche una profonda commozione. Credo che questa
sia dovuta in primo luogo al fatto che Pennadomo è il
luogo di origine della mia famiglia al quale fin da piccolo ero particolarmente legato e dove ancora sorge il
palazzetto del mio bisnonno paterno e in secondo luogo
dal fatto che vissi con particolare angoscia tutta la vicenda di Pizzoferrato.
Ero all’epoca un ragazzino di quattordici anni
che aveva vissuto la feroce occupazione tedesca del suo
paese, Torricella Peligna, e poi – evacuato con la forza a
Casoli - vidi nascere la Brigata Maiella e collaborai at-
tivamente alla sua costituzione e alle sue prime vicende.
Ho ancora presente, come se non fossero passati quasi
settant’anni, la notte del ritorno a Casoli dei superstiti
di Pizzoferrato, laceri, stanchi, stravolti da quanto avevano visto e vissuto. Così come ricordo perfettamente il
racconto di Nicola De Ritis che all’indomani del combattimento si recò a Pizzoferrato per dare sepoltura ai
Caduti e si trovò di fronte ad uno spettacolo orribile. Danno nuova freschezza a questi ricordi le testimonianze da lei raccolte Di Renzo circa il recupero delle salme
dei Caduti di Pennadomo e il loro trasporto, per vie impervie ed in pieno inverno, su barelle di fortuna o addirittura a dorso di mulo fino al paese natale: sono scene
tremende e commoventi, degne di una tragedia greca.
Non credo di aver conosciuto personalmente
i tre giovani Caduti, o almeno non lo ricordo, ma ho
ben conosciuto e sono stato “amico” di tanti cittadini
di Pennadomo arruolati nella Brigata Maiella dal citato
Nicola De Ritis ad Amerigo Di Renzo, da Galizio Lucci
a Pasquale Croce, da Guido D’Angelo a Domenico Di
Gravio, tutti valorosi combattenti e variamenti decorati.
Ricordo che più volte con un camion indiano, sono stato
a Taranta Peligna a portare i rifornimenti al XIII plotone
(di cui Nicola De Ritis era il capo ed era formato in gran
parte da pennadomesi, ndr.) che era ivi accantonato ed al
quale si era aggregato anche mio cugino Mario Porreca.
Mi accoglievano sempre con grandi feste e scherzi, mi
consideravano la loro “mascotte”: erano giovani, forti,
coraggiosi, allegri e pieni di entusiasmo.
Ricordo in particolare che nella catapecchia semidiroccata di Taranta Peligna dove abitavano avevano issato
una grande bandiera rossa alla cui vista, una volta, un
generale badogliano fece un gesto di rabbia e fu sonoramente fischiato. Sempre con il plotone di Pennadomo e
con mio cugino Mario consumai il pranzo del 15 luglio
1945 a Brisighella, il giorno dello scioglimento della
Brigata.
Questo è quanto volevo dire. Altri scriveranno
del valore della Brigata Maiella, della sua importanza
nella guerra di Liberazione, dei fondamenti che i suoi
patrioti per primi eressero della libertà e della democrazia. Sono i ricordi di un ragazzo che – per l’inevitabile
trascorrere del tempo – tende a diventare uno dei pochi testimoni viventi e che non potrà mai dimenticare
che la Brigata Maiella è nata sulle nostre montagne ed
ha combattuto lungo tutta la penisola meritando la Medaglia d’Oro al Valor Militare, unica tra le formazioni
partigiane. Eroi, dunque: quelli che caddero a Pizzoferrato senza poter conoscere il profumo della pace e della
libertà e quelli che continuarono a battersi fino alla fine.
Pennadomo deve a tutti Loro il massimo omaggio e finalmente tale omaggio viene reso.
Avv. Nicola Troilo
pagina 4 - pennadomo notizie
La formazione patriottica abruzzese fu fondata 70 anni fa da Ettore Troilo il 5 dicembre 1943
I 39 pennadomesi della Brigata Maiella
Alcuni Patrioti della Brigata Maiella di Pennadomo a Roma nel febbraio 1945 (al centro della foto)
L’annuncio della resa incondizionata dell’Italia e dell’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943) aveva provocato un generale sbandamento dell’esercito italiano: alcuni
fuggirono, altri parteciparono alla Resistenza, altri ancora
aderirono alla Repubblica di Salò. La Germania, intanto,
aveva messo in atto il suo piano di occupazione dell’Italia.
In Abruzzo si verificò una situazione particolarmente difficile, in quanto la Linea Gustav tagliava a metà la regione
e la isolava quasi completamente; in più, il fronte si muoveva lentamente, tanto che l’occupazione tedesca in queste zone si protrasse dal settembre 1943 a giugno 1944:
il fronte si sarebbe spostato solo dopo la liberazione di
Roma avvenuta il 4 giugno 1944. Anche in una situazione
così caotica, non si tardò a riconoscere l’oppressore nell’esercito tedesco, con la conseguenza che la popolazione fu
subito pronta a venire in aiuto ai fuggiaschi, ai ricercati
dalla polizia ed ai soldati fuggiti dai campi di prigionia.
Gli abitanti del posto si offrirono come guide per coloro
che cercavano di passare la linea del fronte: montanari e
pastori li scortavano nei passi di montagna, difficili da superare senza una buona conoscenza del territorio.
Ed è in questa situazione storica, con molti paesi semidistrutti e con la popolazione costretta a fuggire
e a cercare rifugio in posti di fortuna, soprattutto nelle
campagne e sulla montagna, che nel dicembre del 1943
Ettore Troilo, a Casoli, con alcuni uomini si mise subito
a disposizione degli inglesi per la liberazione dei centri
Brisighella: il Generale Tomaselli premia Nicola De Ritis
abruzzesi. Troilo dovette faticare molto per ottenere il
consenso degli Alleati che nei confronti degli italiani nutrivano sfiducia e diffidenza, se non talvolta ostilità. In suo
aiuto venne il maggiore inglese Lionel Wigram e così il
5 dicembre nacque il “Corpo dei volontari della Maiella” aggregato al Corpo Britannico dell’VIII Armata. In un primo momento i volontari abruzzesi servirono ad
evitare il contatto diretto con i tedeschi e vennero utilizzati
come guide in zone difficili da raggiungere e pian piano
ottennero anche incarichi importanti, soprattutto dopo la
battaglia di Pizzoferrato del 3 febbraio 1944 che costituì
la prima prova militare dei patrioti: il successo ottenuto
ed il coraggio e la serietà dimostrati nello scontro fecero
loro ottenere la fiducia degli inglesi confermata nel tempo.
Una volta liberato l’Abruzzo, nel giugno 1944, i volontari
della Maiella decisero di proseguire il cammino intrapreso
al fianco degli alleati per liberare il resto dell’Italia. Con la
cessazione delle ostilità, la “Maiella” decise per il proprio
scioglimento, che avvenne il 15 luglio 1945 a Brisighella.
Il riconoscimento ufficiale per l’eroismo dimostrato dai
volontari abruzzesi avvenne il 14 novembre 1963 quando
l’allora presidente della Repubblica Antonio Segni conferì
la “Medaglia d’oro al valore militare” alla Bandiera della
Brigata Maiella.
Ed ecco l’elenco dei 39 pennadomesi che si aderirono alla Brigata Maiella fondata 70 anni fa. Di ogni patriota è riportato il numero di matricola con le rispettive
date di arruolamento e di congedo (dall’”Archivio della
Brigata Maiella”, inventario a cura di Stefania Di Primo
in collaborazione con l’archivio di Stato di Chieti. Casa
Editrice Tinari, Villamagna, 2007).
Coretti Sebastiano: matr. 562, dal il 1° giugno
1944 al 31 luglio 1945. Croce Pasquale: matr. 273, dal 20
settembre 1944 al 31 luglio 1945. D’Ambrosio Domenico: matr. 976, dal 20 settembre 1944 al 18 maggio 1945.
D’Angelo Andrea: matr. 556 , dal 1° giugno 1944 al 31
luglio 1945. D’Angelo Antonio (di Giuseppe): matr. 977,
dal 20 settembre 1944 al 18 maggio 1945. D’Angelo Giuseppe: matr. 549 – 1281, dal 21 maggio 1944 al 31 luglio
1945. D’Angelo Guido: matr. 291, dal 25 gennaio 1944
al 31 luglio 1945. D’Angelo Lorenzo: matr. 278 – 1513,
dal 25 gennaio 1944, morto il 3 febbraio 1944. D’Angelo
Raffaele: matr. 839, dal 13 settembre 1944 al 31 luglio
1945. D’Angelo Vincenzo (di Francesco): matr. 979, dal
20 settembre 1944 al 31 luglio 1945. D’Angelo Vincenzo
(fu Domenico): matr. 361, dal 25 gennaio 1944 al l9 marzo del 1944. De Ritis Giuseppe: matr. 848, dal 2 maggio
1944, manca la data del congedo. De Ritis Nicola: matr.
256 – 468, dal 16 gennaio 1944 al 15 febbraio 1946.
Di Francesco Giuseppe: matr. 550 – 1269, dal
1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Francesco Luigi Donato: matr. 292, dal 25 gennaio 1944, morto il 3 febbraio 1944. Di Gravio Domenico: matr. 469, dal 16 gennaio
1944 al 31 luglio 1945. Di Gravio Nicola: matr. 558, dal
1° giugno 1944, risulta ferito ed inviato in licenza di con-
valescenza il 18 agosto 1944, manca la data di congedo.
Di Legge Romeo: matr. 592, dal 1° giugno 1944 al 1° settembre 1945. Di Loreto Antonio: matr. 665, dal 10 giugno
1944 al 21 agosto 1944. Di Loreto Vincenzo: matr. 560,
dal il 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Renzo Amerigo: matr. 302 – 473, dal 16 gennaio 1944 al 28 maggio
1945. Di Renzo Armando: matr. 559 – 1516, dal 1° giugno
1944 al 31 luglio 1945. Di Renzo Giuseppe: matr. 566 –
1314, dal 1° giugno 1944 al 31 luglio 1945. Di Renzo Nicola: matr. 271, dal 25 gennaio 1944, morto il 3 febbraio
1944. Di Renzo Umberto: matr. 360, dal gennaio 1944 al
9 marzo 1946. Di Reto Orlando: matr. 290, dal 25 gennaio
1944 al 9 marzo 1945.
Fantini Giuseppe (di Domenico): matr. 561, dal
1° giugno 1944 al 1° settembre 1945. Giglio Giuseppe:
matr. 299 – 470 – 1277, dal 25 gennaio 1944 al 31 luglio
1945. Giglio Lorenzo: matr. 975, dal 20 settembre 1944
al 18 maggio 1945. Lucci Galizio: matr. 272 – 471, dal
25 gennaio 1944 al 31 luglio 1945. Pantalone Giuseppe:
matr. 637, dal 16 giugno 1944 al 31 luglio 1945. Pantalone Lorenzo: matr. 557, dal 1° giugno 1944 al 31 luglio
1945. Paradisi Silvio: matr. 1450, dall’8 novembre 1944,
manca la data di congedo. Piccone Camillo: matr. 483, dal
2 maggio 1944 al 31 luglio 1945. Piccone Domenico (di
Vincenzo): matr. 589, dal 1° giugno 1944 al 30 settembre
1944. Piccone Lorenzo: matr. 591 – 1442, dall’8 novembre 1944 al 18 maggio 1945. Rossi Giuseppe (fu Massimiliano): matr. 571 – 1278, dal 1° giugno 1944 al 18 maggio
1945. Ruggiero Lorenzo: matr. 978, dal 20 settembre 1944
al 31 luglio 1945. Ruggiero Nicola: matr. 588 – 1895, dal
1° giugno 1944, al 31 luglio 1945.
Le medaglie conquistate:
“Medaglia di bronzo al valore militare alla memoria” a: Lorenzo D’Angelo, la cui motivazione della
presidenza della Repubblica del 16/10/1954, recita: “Alla
memoria, volontario di agguerrita formazione di patrioti
in cruento assalto contro forte posizione nemica, cadeva da prode dopo estrema ed aspra lotta a Pizzoferrato il
3/2/1944”.
Medaglia d’argento sul campo a: Nicola De
Ritis prima capo Plotone e poi vice Comandante Sottotenente (quindi ai vertici della Brigata), inoltre ha ricevuto
la “Croce al merito con spade di bronzo” conferita dal comando del Corpo d’armata Polacco.
Medaglie di bronzo a: Guido D’Angelo, Galizio
Lucci, Amerigo Di Renzo. Croce di guerra sul
campo a: Domenico D’Ambrosio, Andrea D’Angelo, Raffaele D’Angelo, Domenico Di Gravio, Lorenzo Giglio,
Lorenzo Pantalone, Lorenzo Piccone, Domenico Piccone,
Camillo Piccone, Giuseppe Rossi.
I feriti: Guido D’Angelo e Umberto Di Renzo a
Pizzoferrato; Nicola De Ritis, Lonrenzo Pantalone, Andrea D’Angelo, Giuseppe Rossi, Giuseppe D’Angelo,
Domenico Di Gravio, Giuseppe Pantalone, Giuseppe
Fantini e Camillo Piccone a Montecarotto; Nicola Di Gravio a Loretello; Antonio D’Angelo e Lorenzo Piccone a
Monte Mauro; Giuseppe De Ritis e Galizio Lucci a Brisighella; Vincenzo D’Angelo a Lama dei Peligni; Giuseppe
Rossi a Castelplanio.
Ettore Troilo
pagina 5 - pennadomo notizie
Le testimonianzE DEI PARENTI DEI PATRIOTI DELLA BRIGATA MAIELLA
Mio padre “Peppe il mitragliere”
È bello poter ascoltare e saper
ascoltare una persona che racconta, specialmente se chi lo fa
è un narratore nato che riesce a
coinvolgerti nelle storie, facendotele vivere. Così è stato per me
sentire raccontare da mio padre
(Rocco Giuseppe De Ritis) episodi dell’ultima guerra, cosa che ha
fatto dopo numerose e insistenti
domande fattegli in più occasioni.
Mi rispondeva che era meglio non
parlare della guerra, perché anche
se giusta, porta sempre dietro di
sé morte, dolore, privazioni, sofferenze e tante ferite che a volte
difficilmente riescono a rimarginarsi. Successivamente, forse perché io ero cresciuta o perché lui
stesso era riuscito a far decantare
quei ricordi e sentimenti dolorosi,
incominciò a parlarmene. I suoi
racconti per me sono stati soprattutto lezioni di vita, come quella
di affermare appunto che ogni genere di guerra è sempre da evitare
per le divisioni e le discordie che
si porta dietro.
Mentre ricordava l’assalto a una trincea nemica in
Romagna, diceva di aver quasi
sentito sul suo viso il respiro dei
soldati tedeschi che si erano da
poco allontanati per il cambio
della guardia, e fu allora che gli
chiesi se si era mai reso conto di
aver ucciso qualcuno. Mi rispose
che, stando in prima linea, aveva
sparato per rispondere al fuoco e
per difendere la vita, e poi quasi
parlando a se stesso, aggiungere:
“può darsi anche che l’abbia fatto,
dato che ero bravo a sparare perché mi avevano addestrato molto
bene nel corpo degli Artiglieri di
montagna”. Bravo lo era perché
era stato militare per tanti anni e
prima di arruolarsi nella Brigata
Maiella, aveva combattuto già sul
fronte francese. Difatti, conosceva molto bene la riviera ligure e
i paesi del principato di Monaco,
dato che prima dello scoppio del
conflitto suonava il filicorno contralto nella banda militare del suo
reggimento (era anche il trombettiere della caserma): banda molto
quotata e spesso in concerto in
molti paesi limitrofi di Savona. Lo riconoscevano a distanza
quando stava alla mitraglia tanto è
vero che lo chiamavano “Peppe il
mitragliere”. Così fu a Montecarotto, quando con altri tre uomini
della sua squadra, difesero il campanile del paese: per 48 ore restarono isolati e senza rifornimento
di viveri, disponendo soltanto di
munizioni, sigarette e cioccolato,
a volontà. Ogni volta, al tacere
degli spari quelli della retroguardia pensavano al peggio, ma poi
quando sentivano la mitraglia di
mio padre, si rincuoravano: “va
tutto bene, Peppe spara ancora”.
Mio padre non mi ha saputo spie-
Rocco Giuseppe De Ritis
gare perché quel suo modo di sparare veniva riconosciuto…, ma
era così.
Vorrei aggiungere soltanto il ricordo dell’ultima battaglia a cui prese parte: quella di
Brisighella. Qui, in un casolare
restarono accerchiati per parecchie ore ed ebbero un gran da
fare per uscirne fuori solo con
dei feriti. Uno dei suoi superiori,
volendo fare spavaldamente una
sortita rimase colpito gravemente
su una scarpata e in un punto così
scoperto un massiccio tiro nemico gli impediva la ritirata. Per non
lasciarlo morire dissanguato, mio
padre insieme a un compagno,
dopo aver chiesto un fuoco di copertura, si avventurarono allo sco-
perto, riuscendolo a trascinare al
riparo. Ma in quel casolare anche
per lui ci fu una sorpresa inaspettata e tremenda. Mentre si spostava da una stanza all’altra per seguire gli uomini della sua squadra
appostati alle finestre, una bomba
a mano gli scoppiò a pochi metri
di distanza. Diceva che prima di
cadere per terra aveva guardato
verso i vetri della finestra e li aveva visti intatti: quella bomba non
era tedesca! Una grossa scheggia
gli recise la vena aorta alla gamba
destra ed altre scheggie lo colpirono in tutto il corpo: una di queste gli è rimasta per sempre dentro
una mano. Trasportato ad Ancona
nell’ospedale da campo, soltanto
dopo aver rotto l’accerchiamento, per salvargli la vita non ci fu
nientr’altro da fare che amputargli la gamba: la cancrena era già
iniziata. I medici polacchi che
l’operarono furono bravissimi e
lo assistettero molto egregiamente per tutto il periodo che restò ad
Ancona.
Per questi medici e per il
grande valore dimostrato dai soldati polacchi che in più di un’occasione avevano salvato la vita a
un centinaio di uomini, messi in
situazioni disperate, come quella
di Pesaro, dalla incompetenza e
leggerezza dei loro comandanti,
mio padre ebbe sempre per la nazione polacca una grande consi-
derazione e spesso soleva dire che
questa nazione era stata tradita
per la terza volta. Per mio padre
la guerra finì a Brisighella, e verrà
congedato con il grado di sergente: grado concessogli sul campo
per la segnalazione del tenente
colonnello inglese. Trascorse la
convalescenza presso l’ospedale di Giovinazzo, vicino Bari, e
dopo alcuni mesi fu trasportato
a Bologna per l’adattamento alla
protesi. Ma prima di andare a
Bologna tornò per alcuni giorni
di convalescenza a Pennadomo:
con una camionetta militare arrivò nella piazza del paese proprio
il pomeriggio del 10 di agosto,
mentre si stava esibendo la banda,
che lo scortò, accompagnandolo
fino a casa.
Una volta gli ho chiesto
se provava rancore, rabbia per chi
aveva lasciato cadere la bomba a
terra in quel casolare a Brisighella (sono certa che conoscesse chi
lo aveva fatto), causando la sua
menomazione. La risposta che ricevetti mi spiazzò e ancora oggi
quando mi lascio sopraffare da
insofferenze, fastidi, o altro verso
qualche persona non faccio che ripensare alle sue parole: la guerra
è finita e non deve continuare nei
cuori che devono essere pieni solo
di buoni sentimenti!
Luisa De Ritis
Memoriale di Cinzia D’Angelo, nipote di Lorenzo
“Il nonno che non ho conosciuto”
Il giovane nonno Lorenzo
Caro Ottavio,
volevo ringraziarti nuovamente,
non lo farò mai a sufficienza, per quello che
stai facendo indipendentemente dai frutti a
cui porterà. Volevo soprattutto esprimerti,
a nome mio e della mia famiglia, i ringraziamenti più sinceri per la delicatezza con
cui hai saputo cogliere l’atmosfera di quei
momenti. Volevo accennarti anche che alla
fine degli anni 70, mia nonna ricevette la
proposta di mettere la salma di mio nonno
nel sacrario della Brigata Maiella a Taranta
Peligna, ma lei rifiutò perché lo voleva con
sé, nel suo paese (di questo abbiamo solo
memoria nulla di scritto). Lì comunque ci
sono tutti i nomi dei partigiani della Brigata Maiella, anche quello di mio nonno.
Mio padre Mario ci ha portato spesso sia a
Pizzoferrato che a Taranta Peligna insieme
a chi in quei posti c’è stato in quei momenti così difficili. I dettagli che ti ho riportato
di quegli anni sono tutti scritti nel memoriale di mia nonna che conserva mia madre
(gelosamente!!!).
Nel 1942 mio nonno partì per la
guerra prima a Fiume, e poi a Caserta e
Nettuno, dove era addetto agli esplosivi in
guerra. Non era ancora diciottenne quando
si dichiarò a mia nonna Carolina che era di
quattro anni più grande di lui. Lei aveva
deciso (verso la fine del 1941) di andarsene a servizio a Roma, per avere delle prospettive di lavoro migliori rispetto al mondo contadino dell’epoca e perché chi fino
ad allora aveva chiesto la sua mano non le
piaceva. Lui prese coraggio e le disse che
al paese c’era qualcuno che teneva molto
a lei e che avrebbe sofferto per la sua partenza. Lei, quasi sfidandolo, gli disse che
quel qualcuno se aveva coraggio doveva
farsi avanti e presto, perché lei non voleva
più attendere. Lui allora le dichiarò il suo
amore e lei così decise che non sarebbe più
andata a Roma. Si sposarono il 30/05/1942
nella chiesa di S. Nicola e nonostante i pochi mesi vissuti insieme, erano ognuno il
tutto dell’altro. Pochi giorni dopo ripartì in
guerra: in un anno e 8 mesi di matrimonio
stettero insieme circa 3 mesi tra licenze e
convalescenza. In quel periodo Pennadomo era assediata dai tedeschi. Il 25 gennaio del 1944 si formarono dei gruppi di
Partigiani volontari della Maiella, tra cui
mio nonno Lorenzo. Il 28 gennaio partirono di prima mattina per Montelapiano e
il 3 febbraio a Pizzoferrato, dopo che mio
nonno rimase ferito insieme ad altri patrioti, furono tutti rinchiusi dai tedeschi nella
chiesa della Madonna del Girone e lì furono uccisi. Ci sono andata diverse volte con
mio padre e i suoi zii, mia nonna non è mai
voluta andare. Furono sotterrati senza cassa, mio nonno avvolto da una coperta militare, nel giardino al fianco della chiesa. Nel memoriale di mia nonna risulta che i
tre patrioti di Pennadomo tornarono al paese il 13 febbraio e che i funerali si tennero il giorno 15 nella chiesa di S. Antonio.
Lo ricordo bene perché quando mi sono
sposata a Pennadomo il 24 luglio del 1994
volevo sposarmi nella chiesa di S. Antonio
ma mia nonna me lo ha impedito proprio
perché lì si tennero i funerali dei 3 giovani.
Arrivò la comunicazione dell’aggiudicazione della “Medaglia d’Oro al
valor militare”, ma al momento della cerimonia di consegna, diedero a mia nonna
la “Medaglia di Bronzo” come segue:“N°
d’ordine 46941 – Ministero della Difesa, il presidente della Repubblica Italiana (Giovanni Gronchi) con Decreto
del 16/10/1954 visto il Regio Decreto ha
conferito la “Medaglia di bronzo al valore
militare” - al Patriota del “ Gruppo Patrioti Maiella” D’Angelo Lorenzo di Nicola
nato a Pennadomo (Ch) classe 1924 “Alla
memoria: Volontario di agguerrita formazione di Patrioti in cruento assalto contro
forte posizione nemica, cadeva da prode
dopo estrema ed aspra lotta. Pizzoferrato
3/2/1944”. Nulla può ridare alla famiglia
quanto tolto dalla guerra, ma mia nonna ci
ha fatto sentire mio nonno presente nella
nostra vita, nella nostra educazione di nipoti di un Partigiano che tutto ha sacrificato per amore della sua Patria. Siamo stati
cresciuti da mio padre Mario orgogliosi di
aver avuto in famiglia un nonno con alti
valori e ideali, siamo stati cresciuti con
l’esempio di mio padre e di mia nonna testimoni nelle loro azioni di alto senso del
dovere e senso della giustizia. Questa è l’
onorificenza di cui io vado maggiormente
fiera: mio nonno e i suoi ideali comunque
sono rimasti vivi in noi ed io sto cercando
di trasmetterli ai miei figli”.
Cinzia D’Angelo
pagina 6 - pennadomo notizie
La guerra a Pennadomo Tedeschi in azione:
razzie, rastrellamenti e primi morti
Dopo l’8 settembre del 1943,
in seguito alla resa dell’Italia al
cospetto del generale Eisenhower comandante in capo delle
forze alleate nel Mediterraneo,
l’Abruzzo, regione cerniera tra
il Nord e il sud d’Italia, viene
a trovarsi tagliata fuori da ogni
forma di vita organizzata e quindi nell’isolamento totale perché
né il governo Badoglio né quello
di Graziani possono in qualche
modo influenzare la regione. La
linea del fronte (la Gustav), demarcata per parecchi mesi, lungo
i fiumi Sangro e Aventino, taglia
la provincia di Chieti a metà. I
tedeschi ne fanno terra bruciata.
Interi paesi vengono distrutti, i
cittadini depredati di ogni avere,
donne e bambini sono deportati
in campi di concentramento. Nei
mesi successivi nascono le prime forze di contrasto ai nemici
e si organizzano proprio nelle
zone del Sangro-Aventino, alle
falde della Maiella, nei comuni
di Civitella Messer Raimondo,
Lama dei Peligni, Colledimadimacine, Pennadomo, Torricella
Peligna, Fallascoso, Montenerodomo, Gessopalena, Casoli ed
altri. L’avversione subcosciente
esplose in rivolta nell’autunno
1943 di fronte agli spietati tedeschi che rubavano il grano, il
bestiame, le masserizie. Si videro allora le contadine e i ragazzi
trattenere per le braccia i militari
tedeschi, opporsi con i pugni, con
le lacrime, con le implorazioni
alla perdita di ogni avere. Questa premessa era necessaria
per capire bene le ragioni per cui
molti dei giovani di Pennadomo
aderirono come volontari alla
“chiamata alle armi” dell’avvocato Ettore Troilo e numerosi si
aggregarono al nascente “Gruppo
Patrioti della Maiella”. L’eroismo
e il sacrificio dei nostri giovani in
quei giorni di guerra, in particolar
modo di Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola
Masseria Aspromonte sotto Montenerodomo
Di Renzo, sono testimoniati dalle cronache storiche delle azioni
belliche redatte dai responsabili
della formazione patriottica. I
giovani e meno giovani pennadomesi, che numerosi aderirono alla
Brigata Maiella (in tutto furono
39 come pubblicato a pagina 6),
erano gente umile nella condizione sociale, ma grande e generosa
nell’animo. Erano destinati ad
affrontare rischi e sacrifici durissimi, e alcuni di loro non rivedranno mai più il paese in difesa
del quale impugnarono le armi,
e che poi fu liberato e redento
grazie anche al loro sangue versato o alle ferite riportate sui loro
corpi dopo aspri combattimenti
non solo in Abruzzo, ma in tutte
le altre battaglie che la “Maiella”
prese parte da Montecarotto ad
Asiago, facendosi onore, tanto
da ricevere anche l’encomio dei
generali dei corpi d’armata degli
alleati inglesi e polacchi. I nostri
paesani volontari della libertà erano tenuti stretti non da un legame
di parentela o politico o militare
o sociale, ma da una perfetta fusione di pensieri e di sentimenti,
da un comune senso di solidarietà
nella tragedia al pari di tutti gli altri patrioti della Maiella.
Le prime vittime della guerra
Dunque
nell’autunno
inoltrato del 1943, Pennadomo,
come tutti i paesi del SangroAventino, che si trovavano sulla
linea Gustav-Bernhardt è in guerra e con i tedeschi in casa. “Il comando tedesco risiedeva a
Pennadomo nella casa di Angelica in via Mazzini, ed era composto da una decina di militari
– ricorda Antonio Di Renzo – da
dove partivano per controllare la
zona e compiere razzie di animali, somari, maiali e generi di
prima necessità per il loro sostentamento; le razzie le compivano
anche nelle masserie delle campagne come alle Piane. I tedeschi
per impedire l’accesso a Pennadomo e avere anche un zona di sicurezza, minarono tutta la strada
della Crocetta e la zona Streppari. Ricordo ancora perfettamente
la successiva bonifica della zona
con il brillamento delle mine da
parte degli alleati”. Anche a Pennadomo le tenebre della notte erano squarciate dallo scoppio delle
mine e dal divampare degli incendi. Il comando tedesco aveva requisito alcune case, fra cui anche
quella della famiglia di Luigi Di
Francesco a Santa Maria dove vi
installarono anche una linea telefonica collegata con Buonanotte
(testimonianza del figlio Francesco).
Il primo civile ucciso fu
il mugnaio Nicola Monaco, originario di Colledimezzo e di anni
50. La sua cattura ed uccisione
avvenne il 7 novembre del 1943 e
ucciso intorno alle ore 20. Il mugnaio morì per difendere la sua
roba nel mulino, e per questo ferì
un tedesco che voleva requisirgli
il cibo ed altri vivere. La rappresaglia non tardò ad arrivare e nonostante la fuga verso la Crocetta,
il mugnaio fu catturato e pestato
a sangue, e di lui, ricorda Nicola
Di Loreto, non si seppe più niente fino a quando dopo un po’ di
tempo fu ritrovato semisepolto
in una campagna del Castelluccio dal proprietario di quel fondo
che si accorse di un braccio che
emergeva dal terreno. La salma
del mugnaio fu ricomposta e riportata nel suo paese di origine, a
Colledimezzo.
Un’altra persona morì
a Pennadomo il 22 novembre
sempre del ‘43 per lo scoppio di
una mina. Si tratta di Carolina Di
Francesco, contadina di 55 anni
sposata con Antonio Pantalone,
la quale era sfollata in una masseria delle Piane. “Un giorno,
all’imbrunire, per non farsi vedere dalle vedette tedesche situate a
Santa Maria – racconta Laurina
Di Gravio - decise di ritornare
al paese per prendere a casa sua
alcune robe e quindi fare ritorno
la mattina dopo alle Piane dove
l’attendevano il marito ed altri
familiari. Arrivata nei pressi della Crocetta, che allora era tutta
minata, la signora Carolina forse
per il buio incipiente, non si accorse di alcuni fili collegati ad un
mina, inciampò e questo provocò
lo scoppio dell’ordigno che la uccise sul colpo e il corpo ricadde
su un masso insanguinandolo”.
Lo sfollamento nelle masserie
Abbandonata
Pennadomo, per timore delle razzie e
dei rastrellamenti dei tedeschi,
la maggior parte della gente si
era rifugiata nelle campagne soprattutto a Piano del Forno, nelle
masserie di Aspromonte, di Taddeo, di Annarosa e del Baliotto.
I primi tedeschi ad arrivare a Penandomo furono due provenienti
da Villa Santa Maria su un moto-
La casa di Taddeo
carro il 4 ottobre del 1943 e subito razziarono dei beni ad alcune
famiglie secondo la testimonianza di Francesco Di Francesco. Alcune famiglie si nascosero nelle
fattorie quasi sotto Montenerodomo di cui una era di proprietà
del grande filosofo e storico Benedetto Croce. Tutte le abitazioni,
compresi pagliai e stalle, erano
gremiti di gente e per coloro che
non c’era posto, furono utilizzati anche i fienili, altri dormivano
allo scoperto al freddo e sotto la
pioggia riparati alla meno peggio.
Le sofferenze, la paura e il terrore
erano visibili nei volti di tutti e in
particolar modo degli uomini con
l’incubo dei rastrellamenti che li
avrebbero portati prigionieri sul
fronte per essere impiegati alla
costruzione di trincee o a seminare/sminare mine, oppure, ancora
peggio, quello di un trasferimento
nei famigerati campi di concentramento in territorio tedesco
Altri sfollati si rifugiarono invece nelle masserie di Rosario, delle Selve e delle Piane. Ma
spesso i tedeschi arrivavano anche in queste case isolate di campagna per farsi consegnare con la
forza cibo e animali da macello.
Durante lo sfollamento ogni famiglia si preoccupava di salvare
la propria “roba”, soprattutto vetEd ecco
tovaglie e animali. quanto Carolina Ruggiero, la moglie del martire di Pizzoferrato
Lorenzo D’Angelo, scriveva nel
suo diario di memorie: “Tutti gli
uomini dovettero andare a dormire nei boschi. Il primo novembre
1943 dovemmo sfollare dalle nostre case e ci rifugiammo per un
mese sotto qualche pagliaio in alcune cascine della famiglia di Rosario, sotto la pioggia, il freddo e
la fame. Il paese era pieno di tedeschi e volevano far saltare le case
anche qui, ma non successe nulla
e così fu salvo. Il primo dicembre
tornammo a casa nostra, spogliata
di tutto. Arrivò il primo dell’anno
(1944) con i tedeschi ancora in
paese, e noi tutti eravamo stanchi
e stufi dei saccheggi. Il 25 gennaio si formarono i primi volontari
partigiani e tra questi c’era anche
mio marito. Io, quando me lo disse, era tardi, perché senza dirmi
niente aveva firmato. Il 28 gennaio partirono per raggiungere il
comando di Montelapiano...”. A
proposito di razzie di beni e di
cibo, queste non furono compiute solo dai tedeschi, ma anche dai
soldati alleati.
La guerra nelle “memorie storiche”
Alcuni elementi delle famigerate pattuglie degli “Alpenjager” fecero razzie e rastrellarono
molti civili anche nelle campagne
e nell’abitato di Pennadomo intorno alla metà di gennaio 1944.
A questo proposito ecco quanto
scrive Nicola Troilo nel suo libro
“Storia della Brigata Maiella”:
“ Nei giorni che seguirono, fu
sostenuto (da parte dei patrioti,
ndr) qualche scontro a fuoco con
pattuglie tedesche che si recavano a compiere razzie e saccheggi
nelle campagne e nell’abitato di
Pennadomo e furono rastrellati e
guidati al sicuro molti civili della zona. Le pattuglie si spinsero
fino alle immediate vicinanze di
Montenerodomo e di Torricella
Peligna incontrandosi spesso con
altri plotoni di patrioti provenienti da Gessopalena e provvedendo
ad arrestare i pochi civili che avevano collaborato con i tedeschi”.
L’incubo e la paura sono stati la
sofferenza maggiore per i rastrellamenti che avrebbero portato gli
uomini sulle linee nemiche, ed
ecco le ragioni per cui cercavano in tutti i modi di sfuggire agli
odiosi rastrellamenti.
Nel “Diario storico della
Brigata Maiella” compilato dal
comandante Ettore Troilo e da
Vittorio Travaglini ci sono numerosi episodi che si riferiscono
a Pennadomo. Il “Diario” scrive
che il “25 gennaio1944 una pattuglia di 4 patrioti del secondo
plotone, si porta in ricognizione
in contrada Tre Confini di Torricella, dove dai civili apprende
che sotto l’abitato di Montenerodomo trovavasi, da vario tempo, un gruppo di 15/20 tedeschi,
che giornalmente percorrevano la
campagna, arrivando sino a Pennadomo per compiervi saccheggi
e razzie”.
pagina 7 - pennadomo notizie
L’occupazione tedesca del 1943 nel Sangro-Aventino durante
la guerra di Liberazione
La battaglia di Pizzoferrato:
i motivi storici
Una posizione strategica da difendere per coprire la ritirata delle truppe tedesche impegnate nel fronte di Cassino”.
L’incomprensione tra inglesi e italiani
Per meglio capire le ragioni storiche che hanno indotto gli alleati
inglesi e i patrioti della Brigata
Maiella a sferrare l’attacco contro la roccaforte tedesca di Pizzoferrato, è opportuno ripercorrere
brevemente i mesi e i giorni che
precedettero la battaglia del 3 e 4
febbraio del 1944. In quelle tragiche giornate, parliamo dei primi
giorni di gennaio 1944, con l’Italia in guerra contro i tedeschi e
il regime nazifascista, la Brigata
Maiella e gli inglesi avevano liberato, fra gli altri, Torricella Peligna, Quadri, Lama dei Peligni,
Gessopalena, Fara San Martino
e Civitaluparella. I tedeschi della Wermacht fuggendo avevano
lasciato dietro di sé terra bruciata, ponti distrutti, case diroccate
all’80 per cento come a Torricella
Peligna o del tutto come a Quadri
e Civitaluparella, e provocando,
oltre all’abbandono dei paesi da
parte dei civili in fuga, una “folla
cenciosa, miserabile, avvilita da
ogni genere di umane sofferenze
e privazioni, schiacciata dal terrore”. Non è possibile qui per
brevità, dare un quadro completo delle violenze, della brutalità
e ferocia, né fornire il numero
preciso di morti di civili uccisi e
seviziati in buona parte anziani,
poveri contadini, donne e bambini, dai tedeschi della formazione
“Alpenjager” appartenenti al 4°
Battaglione composto da alpini
bavaresi e austriaci. La stragrande maggioranza di questi eccidi
compiuti da famigerati “Alpenjager”, ebbe luogo durante il mese
di dicembre del 1943 o ai primi
di gennaio del ‘44, prima cioè
che nella zona del Sangro Aventino operassero sistematicamente
reparti partigiani e quindi senza
nemmeno il fragile pretesto della rappresaglia, come l’eccidio
di Sant’Agata a Gessopalena del
21 gennaio 1944, dove i tedeschi
ammassarono in un casa colonica
42 civili, fra cui donne e bambini,
e massacrandoli a colpi di bombe
a mano; fu l’episodio più barbaro
che si verificò nella zona.
Alcuni elementi delle
famigerate pattuglie degli “Alpenjager” fecero razzie e rastrellarono molti civili anche nelle
campagne e nell’abitato di Pennadomo intorno alla metà di gennaio 1944. Nei giorni seguenti, il
23 e il 24 gennaio, un gruppo formato da soldati inglesi e patrioti della Maiella al comando del
Maggiore Lionel Wigram, liberarono Quadri, in quanto il contingente tedesco che lo presidiava,
era di ostacolo alla marcia di avvicinamento a Pizzoferrato. Nella notte del 24 gennaio circondarono la casa dove era il presidio
nemico. Intimata dal Wigram la
resa, la porta fu spalancata e alcuni tedeschi riuscirono a fuggire
nel buio della notte ed altri furono
fatti prigionieri; il combattimento
ebbe breve durata e il maggiore
inglese si salvò per miracolo. Ed
ecco la stessa azione militare di
Quadri come la racconta il patriota di Pennadomo, Nicola De
Ritis allora capo plotone: “Poi fu
decisa l’azione di Quadri, sempre
seguendo la logica di mandare i tedeschi verso le montagne.
Quella sera andò bene. Partimmo
una ventina di uomini. Il pallino
del maggiore Wigram, che era un
signore, era quello di non uccidere, di fare solo prigionieri. Così
circondammo la casa e lui gridò:
“Arrendetevi, siamo inglesi, non
avete nulla da temere, sarete trattati secondo la Convenzione di
Ginevra, ormai la guerra l’avete
persa, arrendetevi”. Quelli aprirono la porta ed un paio uscirono
con le mani alzate, ma contemporaneamente da una finestra uno di
loro sparò. Per fortuna uno di noi
fu più svelto, se no Wigram sarebbe morto già quella notte”.
Perché Pizzoferrato?
E perché i tedeschi vi avevano costituito un presidio quasi inaccessibile? “L’obiettivo di quell’azione militare era rilevante – ricorda
il comandante Domenico Troilo
nelle sue memorie storiche - perché si proponeva la liberazione
dai nazisti di tutti i paesi situati
nel comprensorio Aventino-Sangro e, se anche non raggiunse lo
scopo prefissato, servì a cimentare la collaborazione tra le truppe
alleate e i combattenti volontari
del nuovo esercito dell’Italia democratica e repubblicana. Da un
punto di vista strategico-militare
il presidio di Pizzoferrato rappresentava, oltre ad un osservatorio
ideale, una posizione da difendere per coprire la ritirata delle
truppe tedesche impegnate nel
fronte di Cassino”. Facciamo dunque, per
chiarezza un piccolo e breve passo
indietro per meglio comprendere
l’attacco al paese che conduceva alla stazione di Palena prima,
Roccaraso, Sulmona e Avezzano
dopo, vale a dire l’accesso per
la strada maestra, la Tiburtina, e
quindi arrivare a Roma per liberarla da parte delle forze alleate,
o contrastarne l’avanzata da parte
dei tedeschi. Scrivono i libri di
storia che nella notte tra il 30 novembre e il primo dicembre 1943
le truppe alleate canadesi e neozelandesi, con un’azione di forza
nell’ambito dell’offensiva generale contro i tedeschi, attestati
sulla “linea Gustav”, che andava
dalla foce del Garigliano al fiume
Sangro, dall’Adriatico al Tirreno,
nel punto più stretto e montagnoso della penisola, promossa dal
generale britannico Montgomery,
varcarono il Sangro sotto Casoli
e le truppe indiane si affacciarono sulle rive del fiume tra Bomba
e Villa Santa Maria nella terra di
nessuno. I tedeschi fecero saltare
immediatamente i ponti e abbandonarono a precipizio i paesi della
zona ritirandosi verso la Stazione
di Palena. La Wermacht resiste su
più fronti all’avanzata degli Alle-
La linea Gustav che divideva in due l’Italia nel 1943-44
Pizzoferrato in una foto del 1943
ati la cui offensiva si esaurì per
via della “tenace resistenza tedesca nella zona di Ortona”, dove si
combatté “una cruenta battaglia,
tanto da essere chiamata la piccola Stalingrado, con 3.000 morti
fra canadesi, tedeschi e civili”.
Nel frattempo le truppe canadesi
e neo-zelandesi puntavano verso
Guardiagrele abbandonando il
settore montano, e questo fatto
ridonò vigore alle forze tedesche
che, dopo un primo smarrimento,
carichi di armi, riparati velocemente i ponti, arrivarono a piedi a Gessopalena, a Torricella, a
Lama dei Peligni e negli altri paesi non ancora distrutti comportando un altro sfollamento della
popolazione per rifugiarsi nelle
masserie di campagne e in altri
posti sicuri.
Le razzie e i barbari
eccidi di civili a cui si erano abbandonati i tedeschi avevano resi
inquieti i patrioti aumentando il
desiderio di liberare al più presto
la zona per sottrarre la popolazione che era rimasta in balia delle
rappresaglie nemiche. “Dopo
lunghi e attenti esami si pensò di
far precipitare la situazione con
un sol colpo costringendo i tedeschi ad abbandonare il nostro
settore montano” ricorda Nicola
Troilo. “L’unica strada che collegava i reparti nemici della zona al
resto del loro schieramento, era
la strada frentana che da Palena
conduce agli altipiani e a Roccaraso. Il progetto avrebbe potuto facilitare anche l’azione del
Corpo d’armata inglese e polacco che da alcuni mesi tentavano
senza successo di superare le fortificazioni nemiche di Roccaraso
e degli altipiani. Si scelse quindi
come base di partenza per questa
azione di accerchiamento il paese
di Pizzoferrato e da qui si sarebbe continuata l’avanzata lungo la
rotabile che lo collega alla stazione di Palena”.
Ed eccoci dunque alla
battaglia di Pizzoferrato che fu
combattuta in due giorni tra circa
80 componenti della Maiella, di
cui 12 erano di Penandomo, insieme ad un plotone di 25 inglesi
comandate da Lionel Wigram,
contro la locale postazione di
tedeschi formata da circa 40 militari, ma in stretto collegamento
anche con i tedeschi posizionati
nella vicina Gamberale. L’azione
di guerra, che fu condotta “senza una saggia e giusta strategia”
dovuta anche all’incomprensione
tra inglesi e italiani per via della lingua, ma anche per una incomprensibile sottovalutazione
del potenziale umano e bellico
dei tedeschi che, forse avvertiti
da qualche spia dell’arrivo degli
alleati, tesero un agguato ai nostri rifugiandosi tutti in cima allo
sperone di roccia della Madonna
del Girone e asserragliandosi in
gran parte a casa Casati, un’abitazione che si rivelò strategicamente favorevole ai tedeschi.
L’incomprensione tra inglesi e
italiani nasceva dal fatto che i
britannici avevano all’inizio una
scarsa fiducia nei partigiani che li
sospettavano essere spie e “doppi
giochisti” legati ancora al regime
fascista. Solo con il coraggioso intervento di Lionel Wigram
gli inglesi cambiarono opinione
e da allora il Maggiore divenne
l’amico più fidato della Brigata
Maiella. Wigram aveva bisogno
dell’aiuto di questi patrioti per
accompagnare le truppe alleate
sugli impervi sentieri delle montagne abruzzesi. E dette così vita
alla “Wigforce”, una pattuglia
militare che per la prima volta
vide insieme inglesi e patrioti
combattere fianco a fianco.
Alla mancanza di una
saggia e giusta strategia di guerra non bisogna sottovalutare anche l’impreparazione bellica dei
patrioti alcuni dei quali, forse per
la prima volta avevano in braccio
un fucile, oltretutto non dell’ultima generazione come erano
invece equipaggiati gli inglesi: i
nostri erano malamente armati e
sprovvisti quasi completamente
di un equipaggiamento adeguato. Altri elementi critici di questa
battaglia furono l’imprevista resa
il 3 febbraio mentre infuriava la
battaglia degli inglesi asserragliati dentro la chiesa della Madonna
del Girone, dove pensavano di
salvarsi insieme ad un gruppo di
italiani, e che invece caddero in
una micidiale e fatale trappola. Dunque la “Wigforce” arriva a
Pizzoferrato alle 4 del mattino
del 3 febbraio e con quella oscurità, resa ancora più silenziosa
dall’abbondante nevicata, il maggiore Lionel Wigram pensava di
cogliere di sorpresa nel sonno i
tedeschi per farli tutti prigionieri e impadronirsi delle loro armi,
fra cui due cannoni. Ma vittima
della sorpresa ci rimase invece il
maggiore Wigram che non trovò
il nemico dove pensava che fosse
nascosto. Fu l’inizio della tragedia che si sarebbe consumata in
quel triste giorno come raccontato nella cronistoria della battaglia
nella pagina seguente.
A cura di Lucia Di Spirito
pagina 8 - pennadomo notizie
Pizzoferrato: cronistoria dell’attacco della “Maiella” alla roccaforte tedesca dal 2 al 4 febbraio 1944. Il primo a
morire sotto il fuoco nemico fu il maggiore inglese Lionel Wigram
La battaglia: ora per ora
Alle ore 11 muoiono da eroi Lorenzo D’Angelo, Luigi Donato Di Francesco e Nicola Di Renzo.
Il 4 febbraio il plotone di Nicola De Ritis dà sepoltura ai patrioti morti nel cimitero di Pizzoferrato
Mercoledì 2 febbraio ore 19:
partenza da Fallo
Ettore Troilo e Luigi
Mancini con i loro uomini e il
Maggiore Lionel Wigram con
29 inglesi lasciarono alle ore 17
Montelapiano e si concentrarono
a Fallo per iniziare l’azione contro Pizzoferrato.
Negli ultimi colloqui Wigram stabilì di lasciare Fallo alle ore 19
per trovarsi a Pizzoferrato prima
dell’alba del 3 febbraio iniziando
senz’altro l’attacco. I paracadutisti italiani del Capitano Gay, di
cui si attendeva di ora in ora l’arrivo a Fallo, sarebbero partiti più
tardi per raggiungere anche’essi
Pizzoferrato e dare man forte agli
inglesi e ai patrioti.
Primi dissidi tra italiani e inglesi
Racconta Nicola Troilo
nella sua “Storia della Brigata
Maiella” che a questa proposta
del Maggiore Wigram, Troilo,
Mancini, Osvaldo Glieca e gli
altri comandanti di reparto della
Maiella obiettarono che sarebbe
stato consigliabile attendere a
Fallo l’arrivo del Capitano Gay
per prendere precisi accordi con
lui e proseguire insieme per Pizzoferrato.
A giudizio degli ufficiali della Maiella sarebbe stato forse
imprudente effettuare l’attacco
alla munita posizione tedesca
di Pizzoferrato senza l’aiuto dei
paracadutisti, i quali erano, sì, in
marcia ma non si poteva prevedere quando sarebbero giunti e
se fossero stati in condizione di
proseguire immediatamente per
Pizzoferrato dato che per giungere a Fallo dovevano compiere un
lungo e faticoso cammino nella
neve.
Ma il Maggiore Wigram non
volle sentire ragioni, riaffermò
l’assoluta necessità che l’attacco
a Pizzoferrato venisse sferrato
all’alba del 3 febbraio e non più
tardi e diede ordine agli inglesi
e ai patrioti di tenersi pronti a
partire per le ore 19, lasciando
a Troilo l’incarico di attendere
i paracadutisti di Gay e di farli
proseguire immediatamente per
Pizzoferrato.
Il che non fu poi possibile perché i paracadutisti, giunti due ore
dopo la partenza di Wigram (alle
ore 21, ndr) e chiesero di riposare
parte della notte fino alle ore 2,30,
quando poi partirono da Fallo.
Obbedendo dunque all’impostazione tattica di Wigram tre plotoni di patrioti (il II, il X e l’XI) al
comando del Capitano Mancini,
di Massimo Di Iorio e di Nicola De Rosa, un plotone misto di
inglesi (29 soldati) e patrioti (80
uomini circa) comandati dal Tenente Exell e da Glieca, lasciarono Fallo alle ore 19 sotto la guida
del Maggiore.
Ritis, che partecipò all’azione militare, a proposito di questo tragico episodio sottolinea: “Il pallino
del maggiore Wigram, che era un
signore, era quello di non uccidere, di fare solo prigionieri.”.
Casa Casati vista dal basso con a sinistra la chiesa del Girone
Giovedi 3 febbraio ore 4,00: arrivo a Pizzoferrato
Pizzoferrrato si erge su
uno sperone roccioso a 1250 metri sul mare dominando la valle
del Sangro. Il paese si estende per
maggior parte ai piedi di un’alta
roccia: una sola strada, don due
file di case, sale su un fianco della
roccia fino alla sommità. Su questa cima, circondata per due lati da
un precipizio inaccessibile, sorgono una piazzetta larga poco più
di dieci metri e una piccola chiesa. La piazzetta confina da una
parte, sulla sinistra della strada di
accesso, con il giardino di Casa
Casati. La casa sorge poco oltre:
il fronte è posto verso il giardino,
gli altri lati si ergono sullo strapiombo. Il paese era occupato dai
tedeschi e la popolazione civile,
costretta a evacuare fin dal dicembre , era nascosta nei boschi
e nelle campagne. Una fitta coltre
di neve ricopriva il paese deserto. Solo i tedeschi percorrevano,
nella desolazione agghiacciante
dell’inverno, le anguste strade del
paese. La marcia di avvicinamento della “Wigforce” (il battaglione misto formato per la prima
volta da inglesi e patrioti abruzzesi fortemente voluto dal maggiore
Wigram e dal comandante Ettore
Troilo, ndr.) durò tutta la notte,
resa faticosissima dalla grande
quantità di neve caduta che aveva completamente cancellato i
sentieri e dalla fittissima oscurità. Gli inglesi erano ottimamente
equipaggiati e armati; i patrioti
calzavano quasi tutti le “cioce”,
pochissimi avevano il pastrano o
indumenti di lana. L’armamento
consisteva in normali fucili inglesi, ogni dieci uomini avevano un
fucile mitragliatore e ogni plotone una sola mitragliera pesante.
Scarse le bombe a mano. Verso
le 4 del mattino gli uomini raggiunsero le immediate vicinanze
del paese e si spinsero fino all’albergo Melocchi dove non vennero rinvenuti tedeschi. A ciascun
plotone (composto di 25 patrioti) venne assegnato il compito di
raggiungere la località Clarentia
dove si presumeva che vi fosse
un batteria di cannoni, di snidare i
tedeschi da Casa Melocchi e dalla
casa dell’Arciprete; il Maggiore
Wigram con il plotone misto di
inglesi e patrioti avrebbe attaccato casa Casati. Un distaccamento
restò a presidiare l’Albergo Melocchi.
Ore 4,30: obiettivi raggiunti,
ma non si vedono i tedeschi
Verso le 4,30 il Maggiore
Wigram ricevette la comunicazione che tutti gli obiettivi erano stati
raggiunti ma né i cannoni erano
stai trovati né si erano visti tedeschi alla casa Melocchi e in quella dell’Arciprete. Si suppose che
tutta la guarnigione tedesca fosse
asserragliata a casa Casati, nella
posizione migliore per la difesa. Il
Maggiore Wigram diede ordine ai
plotoni di restare a presidiare gli
obiettivi raggiunti e si diresse con
20 inglesi e 15 patrioti comandati
da Glieca verso casa Casati.
Ore 4,45: il Maggiore ordina
l’assalto.
Una bomba a mano venne lanciata contro la porta della
principale della villa, che saltò
in aria, e le forze entrarono di
corsa in giardino dalla parte della piazzetta della chiesa; mentre
i soldati circondavano la casa, il
Maggiore Wigram con il Glieca
si diresse verso la porta che era
saltata in aria. Il maggiore, come
era nel suo stile e come aveva già
fatto anche nell’azione di Quadri,
intima ai tedeschi la resa gridando: “I prigionieri non hanno nulla
da temere, perché verranno trattati secondo la Convenzione di
Ginevra”. Dall’interno i tedeschi
sembrano voler obbedire, accettando la proposta; se non ché da
una finestra partì all’improvviso
una scarica di mitraglia dalla quale rimasero colpiti alcuni uomini
e lo stesso Maggiore Wigram, che
cadde all’indietro, davanti al cancello della villa. Il patriota pennadomese e capo plotone Nicola De
Ore 4,50: la morte di Wigram
Wigram, benché mortalmente ferito, ebbe il tempo di
raccomandare a Glieca di ritirare
gli uomini sulla piazzetta della
Chiesa. Spirò quasi subito e con
lui scomparve un grande amico
della “Maiella”, aveva compiuto
37 anni il giorno precedente, il
2 febbraio. Osvaldo Glieca ritirò
gli uomini che avevano circondato casa Casati, disponendoli sulla
piazzetta della chiesa e attorno al
muro di cinta del giardino. Sulle
posizioni così disposte i patrioti e
gli inglesi impedirono ai tedeschi,
che avevano reagito intanto con
accanimento, di uscire di casa.
Ore 6,00: la battaglia divampa
per tutto il paese
Frattanto, al rumore della battaglia, molti patrioti dei plotoni rimasti a presidiare la casa
Melocchi e la casa dell’Arciprete
raggiunsero Glieca sulla piazzetta della chiesa per prestargli man
forte. Ma ormai era quasi giorno e
non fu possibile a tutti di raggiungere la piazzetta poiché l’unica
strada d’accesso era violentemente battuta dal tiro delle mitragliatrici tedesche. Inoltre altri uomini
dei suddetti plotoni si recarono ad
aiutare il distaccamento rimasto a
presidiare l’albergo Melocchi che
era stato nel frattempo attaccato da rinforzi tedeschi arrivati da
Gamberale. La battaglia divampò
in tutto il paese. Ed ecco il racconto di questi drammatici momenti
nel racconto del caporale inglese
Wolfe Wayne che partecipò all’attacco: “Le cose si stavano mettendo male. Occorreva dare il segnale dell’allarme con il suono delle
campane. I vari distaccamenti si
ritirano verso la chiesetta del Girone, mantenendo sempre il nemico sotto fuoco. Vengono appostati
fucili mitragliatori, mentre un certo numero di uomini, britannici e
italiani, si dispone dietro il muretto sulla parte alta del giardino,
con le spalle alla chiesa, e un altro
gruppo ancora viene piazzato sul
masso roccioso al lato della stessa.
Da queste posizioni si continua a
combattere, mentre si tenta di soccorrere anche i feriti. Intanto viene
suonata la campana: il suono, forte
e chiaro, rimbomba sulle colline.
Il segnale rende però più intenso il
fuoco dei tedeschi, cui ovviamente gli inglesi e i partigiani devono
rispondere. Per fortuna arrivano
dei rinforzi con alcuni uomini racimolati dalle altre postazioni (ma
diversi sono già fuggiti)” . (Dal libro storico “Pizzoferrato paese in
guerrra”, Carsa Edizioni).
Ore 7,30: il tenente Exell assume il comando e nuovi contrasti
con Glieca.
Il Tenente Glieca ritira
gli uomini che erano intorno alla
Casa Casati, disponendoli nella
piazzetta della Chiesa ed attorno
al muro di cinta della casa. Sulle
posizioni così disposte i sodati ed
i patrioti impediscono ai tedeschi
di uscire dalla Casa Casati finché
verso le 7,30 giunse sul luogo il
Tenente inglese Exell, che assunto il comando fa dire a mezzo
dell’interprete (il caporale Sassie)
a Glieca che la volontà del Maggiore Wigram era di annientare,
a qualunque costo, tutti i tedeschi asserragliati in Casa Casati.
Il Glieca gli fece rispondere che,
per il fatto che era ormai giorno e
che tutti gli uomini si trovavano
allo scoperto, un secondo attacco
contro Casa Casati sarebbe stato
molto pericoloso, aggiungendo
che se si voleva rinnovare l’attacco, sarebbe stato necessario attendere l’arrivo dei paracadutisti
capitanati dal pugliese Gay, che
non avrebbero potuto tardare di
molto. Ma il Tenente Exell ritenne di disporre subito l’attacco e
dopo di aver ordinato agli uomini
di avvicinarsi alla Casa Casati entrando dal giardino dalla parte del
3° cancello, fa collocare una mina
sull’altra porta della villa provocando lo scoppio a colpi di fucile,
dopo di che dà l’ordine di resa ai
tedeschi.
Ore 8,30: Exell gravemente ferito, sbandamento dei patrioti
Immediatamente escono
dalla casa a mani alzate quattro
tedeschi, ma nello stesso tempo
una violenta raffica di proiettili investì in pieno il gruppo dei
soldati e dei patrioti, nonché il
Tenente Exell, che cadde, gravemente ferito all’addome e ad
una scapola. I soldati inglesi ed
i patrioti sono costretti a ritirarsi
lungo la parte esterna del muro di
cinta, e a raggiungere nuovamente la piazzetta davanti alla Chiesa.
La battaglia dura così alcune ore,
nella speranza che arrivino i paracaduti di rinforzo, che però non
si vedono. I tedeschi, ad un certo punto, “muovendosi ad arco”,
da assediati diventano assedianti.
Quel che resta della “Wigforce” è
accerchiato e alcuni uomini cadono
sotto i colpi mortali del nemico.
Ore 10,00: patrioti e inglesi si
rifugiano nella Chiesa
Dopo questa riposizione
strategica dei tedeschi, un certo sbandamento e smarrimento
si verificò fra le file dei patrioti,
poiché gli inglesi, profondamente sfiduciati e stanchi per la lunga marcia notturna, manifestarono il proposito di arrendersi.
Alcuni cedettero le armi ai patrioti e si rifugiarono all’interno
pagina 9 - pennadomo notizie
Ore 17,30, tramonto: 10 morti, 3
dispersi, 7 feriti, 13 prigionieri
In questa azione di
guerra di Pizzoferrato del 3 febbraio 1944 è stato alto il tributo
di sangue dato dai patrioti della
Brigata Maiella. Al termine della
giornata, nell’ora del tramonto,
nella piccola chiesa, agli angoli delle case silenziose e vuote,
sulle rocce coperte di neve, giacevano i corpi dei patrioti caduti
in combattimento. Alcuni di essi
erano soltanto feriti e i tedeschi
li avevano finiti a colpi di rivoltella nelle orecchie. Un silenzio
agghiacciante dominava il campo
della battaglia. La neve calpestata era tutta seminata di bossoli, di
armi, chiazzata qua e là di sangue.
Non fu possibile calcolare le perdite nemiche che alcuni voci, sicuramente esagerando, indicano
in 23 caduti. I miseri resti furono
seppelliti in una fossa comune nel
cimitero di Pizzoferrato.
Pizzoferrato 3 febbraio 1944: soldati inglesi in pausa rancio (archivio storico dell’VIII Armata)
della Chiesa, altri restarono ai
loro posti reagendo al fuoco tedesco con scarso vigore. Presto
però lo sbandamento fu superato
per l’alto spirito dei patrioti, che
avevano subito provveduto a rimpiazzare i vuoti degli addetti ai
fucili mitragliatori e si disposero
sulle rocce circostanti la Chiesa.
Per molte ore, sdraiati sulle neve
nella giornata freddissima, poterono resistere senza abbandonare
la posizione, nella certezza che
verso le 11 sarebbero intanto sopraggiunti i paracadutisti del Capitano Gay. Ma tali rinforzi, purtroppo non giunsero e la piazza
stessa divenuta ben presto bersaglio di bombe a mano lanciate dai
tedeschi, dovette essere abbandonata perché i superstiti furono
costretti a rifugiarsi nell’interno
della Chiesa, dalle cui finestre e
dalla cui porta seguitarono a tener
fronte al nemico. Ed ecco come il
caporale inglese Wayne racconta
questa azione: “I tedeschi controllano il cocuzzolo della Chiesa
da ogni parte. Quello che resta
della ‘Wingforce’ è accerchiato.
La rocca, che era stata una posizione eccellente poco prima, diventa ora una trappola mortale.
Si decide allora di asserragliare
gli uomini dentro la chiesa, di cui
viene sbarrata la porta ”.
Ore 10,30: gli inglesi si arrendono e depongono le armi
Verso le 10,30 si ebbe
l’impressione che la situazione
precipitava e che ogni resistenza
dall’interno della Chiesa sarebbe stata impossibile. Tale critica
situazione divenne insostenibile
quando i patrioti seppero dalla
viva voce dell’interprete Sassie
che i 22 inglesi che si trovavano
all’interno della Chiesa avevano deciso di arrendersi e quando
videro gli stessi deporre le armi
e disporsi in cerchio attorno ad
un fuoco acceso in mezzo alla
Chiesa per bollire il tè, pronti ad
ubbidire alla prima intimazione
di resa da parte del nemico. La
morte del maggiore ed il feri-
mento del tenente Exell avevano
prodotto negli animi degli inglesi
una insanabile sfiducia; essi sapevano d’altra parte, che arrendersi
significava soltanto rimanere prigionieri del nemico. Non altrettanto poteva accadere ai patrioti,
ai quali sarebbe stata riservata
ben altra sorte.
Ore 10.45 i tedeschi assaltano la
chiesa
Ed allora di fronte ad una
situazione ormai disperata, il Tenente Glieca decise di ordinare ai
patrioti e agli inglesi di mettersi
in salvo abbandonando la Chiesa, ordine a cui si attennero tutti
i patrioti – tranne i feriti – e tre
soldati inglesi, che sotto le raffiche dei fucili mitragliatori tedeschi riuscirono a guadagnare il
torrente Parello e rientrare a Fallo
nella stessa serata e nella notte
seguente. Tra coloro che riuscirono mettersi in salvo ci fu anche il
pennadomese Nicola De Ritis che
nel documento storico di Raitre
“La guerra dimenticata” ricorda
che “dopo l’ordine di mettersi
in salvo di Glieca, attraversato i
cancello che era sotto il campanile, italiani e inglesi (3 soldati),
mano nella mano come in una catena lungo il canalone, si gettano
verso il basso riuscendo a guadagnare la valle del torrente Parello
fino a raggiungere Fallo”.
Ore 11.00 morte eroica dei tre
patrioti di Pennadomo
Non riuscirono invece a
mettersi in salvo i tre patrioti di
Pennadomo Lorenzo D’Angelo
e Nicola Di Renzo uccisi alle ore
11 dentro la chiesa, mentre Luigi
Donato Di Francesco, pur ferito
ad una gamba aveva tentato la
fuga ma crollò sul sagrato colpito
da un ultimo vile colpo di rivoltella dai tedeschi prima della fuga.
Ed ecco il drammatico
racconto dell’assalto alla chiesa
raccontato dal caporale inglese
Wolfe Wayne: “Ci ritirammo nella chiesa e sbattemmo la porta,
la rinforziamo e poi accatastam-
mo quanti più mobili possibile.
Il tedeschi avevano il completo controllo della situazione e
la sfruttarono al massimo. Una
scarica di mitragliatrice dall’altra parte del portale ci ridusse a
schiacciarci contro le pareti della chiesa. Non potevamo sparare
dalle finestre, perché erano troppo in alto, e noi stessi avevamo
bloccato l’uscita. All’improvviso,
bombe a mano tedesche atterrarono sul pavimento della chiesa
e la scarica di mitragliatrice ricominciò. Ci rifugiammo in fondo
alla chiesa; alcuni dei feriti distesi a terra colpiti di nuovo, compreso il luogotenente Exell, che
fu colpito al petto. Ci coprimmo
contro il muro in fondo, sotto un
Crocifisso e dietro l’altare fatto
di una semplice pietra. Se prima
avevo avuto paura, adesso ero terrorizzato. I colpi d’arma da fuoco
erano terminati ora, e i tedeschi
cominciarono a buttare giù la
porta. Presto dalla porta entrò la
luce, e insieme ad essa, una scarica di pallottole si sparse in tutta la
chiesa, colpendo l’altare e il muro
dietro a noi, intorno al Crocifisso.
I colpi finirono e una voce urlò”
“Alzarsi, alzarsi”. .. Avevo sentito una paura indescrivibile, ed ero
convinto che stavo per morire...
Mi guardai intorno e vidi i tedeschi che ci coprivano con i loro
Schmeissers. Vicino al parapetto
c’era una mitragliatrice puntata
verso il portale. Il cielo era di un
freddo blu metallico” .
Ore 12 - La sorte degli altri
patrioti di Pennadomo
Rimasero feriti nell’azione di guerra Umberto Di Renzo
e Guido D’Angelo che fu fatto
anche prigioniero. Alla cruenta
battaglia di Pizzoferrato, da notizie certe, parteciparono in tutto
12 patrioti di Pennadomo, infatti
oltre ai nomi citati fin qui, si devono aggiungere quelli di Nicola
De Ritis, Giuseppe Giglio, Galizio Lucci, Amerigo Di Renzo,
Orlando Di Reto, Domenico Di
Gravio e Vincenzo D’Angelo.
Venerdi 4 febbraio ore 5,00: i tedeschi abbandonano Pizzoferrato
Alle prime luci dell’alba
di giovedì 4 febbraio i tedeschi,
temendo un nuovo attacco, abbandonarono il paese conducendo
con sé i patrioti e gli inglesi prigionieri. Non prima però di aver
dato sepoltura militare al maggiore Lionel Wigram nel giardino
davanti Casa Casati (nelle vicinanze fu sepolto provvisoriamente anche il patriota pennadomese
Lorenzo D’Angelo): a rendere
omaggio alla salma furono, oltre
ai prigionieri inglesi, anche i tedeschi che si misero sull’attenti in
modo da parata militare; in seguito il corpo del Maggiore fu trasferito nel cimitero militare di Ortona, dove ora riposa nella pace dei
giusti. Dai civili del luogo e dai
paracadutisti si ebbe notizia che i
tedeschi dopo aver trucidato con
un colpo di rivoltella all’orecchio
i patrioti italiani rimasti feriti,
caricarono i cadaveri tedeschi, il
tenente inglese Exell ferito (che
morirà qualche tempo dopo un in
un campo di prigionia tedesco),
armi e munizioni che vennero trasportati dai patrioti e dagli inglesi
fatti prigionieri, fra cui il caporale
Wolfe Wayne, verso la stazione
di Palena. Pizzoferrato era libera.
Ore 6,00: arrivano gli inutili paracadutisti del Capitano Gay
Qualche ora più tardi
giunsero finalmente gli ormai inutili paracadutisti del Capitano Gay
che non avevano potuto, causa la
neve, lo smarrimento della strada
Chiesa della Madonna del Girone
e alcuni scontri sostenuti con il
nemico durante il cammino, raggiungere Pizzoferrato durante la
battaglia. Dietro a loro, timorosa
e incerta, rientrò una parte della
popolazione.
Ore 12: sepoltura ai patrioti caduti
Verso mezzogiorno giunse anche da Fallo una squadra di
patrioti al comando del pennadomese Nicola De Ritis, incaricata
di dare sepoltura ai caduti. Un
ben triste spettacolo si offrì ai loro
occhi (facevano parte del plotone
di recupero anche Galizio Lucci
e Amerigo Di Renzo i quali fecero arrivare nei giorni seguenti
la triste notizia dei morti a Pennadomo). Ricordiamoli tutti e 13
i morti di questa battaglia che il
comandante Ettore Troilo definì
“la più cruenta di tutte le altre, e
in cui i patrioti hanno dato fulgida
prova di eroismo e sacrificio, specie se si consideri che sempre esiguo è stato l’apporto dell’Esercito
Alleato nelle operazioni militari
e che i patrioti hanno partecipato
alle operazioni stesse in situazioni
di assoluta inferiorità, particolarmente per quanto si riferisce al
loro equipaggiamento”: Lorenzo
D’Angelo, 20 anni, di Pennadomo; Luigi Donato Di Francesco,
22 anni, di Pennadomo; Nicola
Di Renzo, 24 anni, di Pennadomo; Nicola De Rosa, 27 anni, di
Casoli; Gaetano Di Gregorio, 20
anni, di Gessopalena; Giosia Di
Luzio, 44 anni, di Torricella Peligna; Giuseppe Fantini, 18 anni,
di Torricella Peligna; Domenico
Madonna, 22 anni, di Lama dei
Peligni; Alberto Pavia, 21 anni,
di Villa Santa Maria; Alfonso
Piccone, 21 anni di Torricella Peligna; Mauro Piccoli, 22 anni, di
Torricella Peligna (ma frequentava quasi sempre Pennadomo
dove aveva molti amici); Angelo
Rossi, 21 anni, di Colledimacine;
Mario Silvestri, 22 anni, di Pacentro. Nella settimana successiva i parenti delle vittime di Pennadomo si recarono a Pizzoferrato
per recuperare le salme che erano
state seppellite e le riportarono su
muli o barelle di fortuna al paese
la domenica sera del 13 febbraio.
I funerali si svolsero due giorni
dopo, martedì 15, nella chiesa di
Sant’Antonio e di cui riferiamo a
parte con un servizio redatto con
la testimonianza di molti pennadomesi che ancora oggi, dopo 69
anni, si ricordano di quel triste e
doloroso giorno..
A cura di Lucia Di Spirito
pagina 10 - pennadomo notizie
Piazza di Pizzoferrato
Pizzoferrato, Chiesa della Madonna del Girone
Pizzoferrato: canto mattutino
In memoria di Lorenzo, Luigi Donato e Nicola1
“MEDAGLIA D’ORO AL VALORE MILITARE ALLA BANDIERA”
Sepolti nel camposanto di Pennadomo, dove tra le dolenti cime dei cipressi,
testimoni silenti ed eterni di sovrane tristezze, riposano nella pace dei giusti.
“Ancora oggi quella gelida alba
di fuoco e di sangue del 3 febbraio 1944 - un giorno con il cielo a
noi ostile – un rinnovato fremito
d’orgoglio ci riempie l’animo per
il sacrificio che noi offrimmo per
una Patria più nobile, più libera,
più generosa. Siamo ancora fieri
della nostra passione di combattenti per una grande e bella Italia.
Non fummo noi gli artefici della nostra grandezza, ma un
grande ideale trascendeva i nostri
pensieri e gli atti dei nostri miseri
corpi: le forze eterne operavano
nei nostri umili spiriti.
Dentro la piccola chiesa
della Madonna del Girone2, ai
piedi dell’altare e sotto il pietoso
sguardo del Crocifisso, noi tre
giovani ventenni pennadomesi,
spinti dal furore e dall’ardore, accendemmo il nostro più bello olocausto che mai potevamo offrire
per la redenzione d’Italia3.
Un olocausto che ci ha
purificati e consunti: fu il nostro
battesimo di sangue.
Con il rogo del nostro
eroico sacrificio, ci siamo consumati lentamente, senza pietà,
un’agonia penosa, le carni lacerate dall’odioso fuoco tedesco e il
sangue sparso ai piedi dell’altare,
quello stesso altare dove nei giorni di festa si consumava il sacrificio di Cristo: “Questo è il mio
corpo..., questo è il mio sangue
offerti in sacrificio per voi”.
Per noi, Lorenzo, Luigi
Donato e Nicola, ardore-ardire fu,
in quel tragico freddo mattino invernale, una sola essenza mistica.
Per questo se il teatro del nostro
sacrificio, la collina rocciosa della pieve sospesa sopra un dirupo,
divenne un inferno, noi ne fummo
gli angeli, creature fiammanti, con
l’essenza dell’immortalità trincerata in noi.
E tuttavia fummo lasciati soli: già sepolti prima ancora di
morire.
La sera del 2 febbraio,
dopo il vespro della Candelora,
ci incamminammo da Fallo4. Le
prime ferite ci furono inferte dal
cielo invernale. La neve prima
leggera, e poi bufera, fu la silente compagna del viaggio notturno
nella tortuosa ascensione per Pizzoferrato. Sembrava che la natura
volesse dolersi dell’imminente
destino avaro per noi di gioie e di
consolazioni. Si camminava in
colonna, con le mani l’uno sulle
spalle dell’altro come pellegrini
oranti, qualcuno scivolava e cadeva, pronto a rialzarsi con fatica
per la salita del nostro Calvario5.
Il silenzio del cammino
era più triste del silenzio dei nostri
destini.
Si vedeva poco: in lontananza le ombre avevano le sembianze di morte, di sagome di
tedeschi armati. Il vento ci impediva di respirare. Non finiva mai
quella lunga, gelida e grigia notte:
era già eterna.
Pur ricoperti di soli poveri panni6, senza scarponi o stivali,
ma con le sole cioce, con il freddo
pungente e l’ululare del vento, con
le tenebre della salita e la stanchezza del lungo e faticoso camminare, eravamo tuttavia spinti da
una forza rigeneratrice, dalla no-
biltà tragica dell’imminente azione di guerra, condotta senza una
saggia e giusta strategia 7.
Raggiungemmo le prime
masserie di Pizzoferrato al mattino presto, quando era ancora
buio, il nevischio era cessato, ma
un vento freddo batteva le strade,
c’era un’asprezza implacabile in
quel freddo. Un silenzio assoluto
incombeva sul paese, c’era solo
neve, e noi nell’aria gelida8.
Quel silenzio surreale custodiva e
nascondeva l’agguato del nemico
che sembrava svanito, come lugubre fantasma9.
Iniziava un nuovo giorno
e la guerra si preparava a ricolmarlo generosamente di corpi sanguinanti, di urla, di fumo di fucili, di
case bruciate, mentre i nostri cuori si riempivano di desolazione e
paura riflessi nei nostri volti. Stremati e sfiniti, con i poveri piedi
martoriati dal gelo, non avemmo
neanche il tempo di assaporare un
po’ di tepore in qualche casa abbandonata, di mangiare un tozzo
di pane e cacio per riprendere le
forze, di accendere una sigaretta.
Lo spirito della redenzione della nostra cara e bella Italia,
nascosto sotto i nostri miseri vestiti e dentro la carne che sarà data
in sacrificio, ci richiamava con i
primi strazianti spari d’arma da
fuoco di noi patrioti e dal crepitio
delle mitragliatrici dei nazisti che
squarciarono il silenzio, rimbombando nell’aria grigia velata di
angoscia. Nel buio, le scintille degli spari si accendevano e si spegnevano, lanciando scie e sibili di
morte.
E fummo sommersi dalla tristezza infinita della tragedia
già al primo sangue che sporcò la
neve.
Arrivati miracolosamente sul sagrato, tutto intorno e dentro la chiesa, comparvero all’improvviso decine di tedeschi dagli
occhi di gelo e di fuoco. I lampi
delle armi, il boato delle bombe
a mano, l’esplosione delle granate scuotevano l’aria e la terra tra
urla e gemiti. Si respirava a fatica, sembrava che non ci fosse più
aria...
Tenebre nerissime e dolorosissime entrarono nei nostri
occhi.
Fummo eroi di un solo
giorno quando cadde la nostra
giovane vita.
Soli e sepolti prima ancora di morire, senza che nessuno
gettasse acqua fredda su quell’incendio di spari infiniti di mitragliatrici nemiche dentro quel luogo santo.
Senza il tempo di un’Ave
Maria per raccomandarci nell’ora
della morte. Senza che nessuno
spargesse lacrime nuove o di un
pianto antico di altre guerre.
Senza il lumicino di una
candela, di un rintocco funebre di
campana, di un Requiem aeternam.
Il 4 febbraio10, a mezzogiorno, dopo un giorno e una
notte che rimanemmo soli con il
gelo e abbandonati a terra con i
corpi martoriati e ancora sporchi
di sangue, fummo portati, insieme
ai nemici tedeschi che volevamo
scacciare dall’Italia, nel santo re-
cinto mortuario di Pizzoferrato,
sepolti, ma in attesa che i nostri
parenti venissero a riportarci a
casa nel paese delle rocce protetto
da San Lorenzo a dorso di muli11 .
E nella chiesa di
Sant’Antonio il 15 febbraio12,
sotto lo sguardo misericordioso
della Madonna e del Cristo Morto
che ha portato i nostri affanni e si
è addossato i nostri dolori, ricevemmo la purificazione dei corpi
con l’aspersorio dell’acqua santa,
quella stessa acqua benedetta che
ricevemmo nel giorno del battesimo venti anni prima. Poi la mesta e lenta processione con i parenti più cari e il canto del “Lux
aeterna dona eis, Domine”, ci accompagnarono nel campo santo
di Pennadomo, dove tra le dolenti
cime dei cipressi, testimoni silenti
ed eterni di sovrane tristezze, riposiamo nella pace dei giusti.
La gloria conquistata in
vita con il nostro sacrificio, è la
nostra unica immortalità.
Pur se abbandonati
dall’atroce destino, senza annuali
solenni e pie commemorazioni,
ci sentiamo dei vittoriosi, sempre
pronti a versare altro sangue delle
nostre giovani vite, qualora ci fosse ancora richiesto.
E voi fratelli non ci abbandonate, non ci dimenticate:
non vogliamo essere degli stranieri in casa nostra, degli stranieri
senza memoria tra coloro che abbiamo onorato con il nostro sacrificio13.
L’Italia redenta è anche
nostra, abbiamo scritto la sua storia con il nostro generoso sangue,
abbiamo con il nostro eroico olo-
pagina 11 - pennadomo notizie
Pennadomo, Chiesa di Sant’Antonio
desunte le notizie storiche riportate in
questo “Canto mattutino”. Nell’azione
di guerra di Pizzoferrato furono in 12 i
patrioti pennadomesi che presero parte
alla battaglia; oltre ai tre morti, c’erano
anche Umberto Di Renzo e Guido D’Angelo che riportarono delle ferite, Nicola
De Ritis, Giuseppe Giglio, Amerigo Di
Renzo, Galizio Lucci, Vincenzo D’angelo, Domenico Di Gravio e Orlando Di
Reto.
L’antica chiesa della Madonna del
Girone si trova in cima ad uno sperone
di roccia a Pizzoferrato e dove, dentro
e tutto intorno, durante il cruento combattimento, durato dall’alba a mezzogiorno, ci fu l’eccidio di 13 combattenti
della Brigata Maiella, insieme a due
inglesi e 20 tedeschi. Dietro la chiesa
risiedeva il comando tedesco asserragliato a Casa Casati
2
causto donato nobiltà anche alle
nostre genti, al nostro paese protetto da San Lorenzo.
Noi non abbiamo tutti
fatto in tempo a godere in pieno
le dolcezze di una famiglia o di
una donna amata, né le gioie della
paternità nelle nozze benedette, e
tuttavia noi non siamo morti, siamo vivi, respiriamo ancora la santità e l’audacia di tutti i giovani
patrioti della Brigata Maiella che
per il loro ardimento hanno lasciato una scia luminosa di abnegazione e di valore, riaffermando
così le gesta più epiche e gloriose
della tradizione del volontarismo
italiano”14 .
Ottavio Di Renzo De Laurentis
_______________
Lorenzo D’Angelo 20 anni, Luigi Donato Di Francesco 22 anni e Nicola Di
Renzo 24 anni, sono i tre giovani ventenni patrioti della Brigata Maiella,
nati a Pennadomo e morti da eroi nella
battaglia di Pizzoferrato trucidati dai
tedeschi. La battaglia di Pizzoferrato, in
provincia di Chieti, fu combattuta il 3 e
4 febbraio 1944 insieme agli alleati inglesi, di cui il Maggiore Lionel Wigram
aveva il comando dell’attacco, è stata
definita da Ettore Troilo, il fondatore e
comandante della Brigata Maiella, “la
più cruenta di tutte le altre, e in cui i
patrioti hanno dato fulgida prova di
eroismo e sacrificio, specie se si consideri che sempre esiguo è stato l’apporto
dell’Esercito Alleato nelle operazioni
militari e che i patrioti hanno partecipato alle operazioni stesse in situazioni
di assoluta inferiorità, particolarmente
per quanto si riferisce al loro equipaggiamento”. La storia di quel tragico
episodio della guerra di Liberazione è
stata raccontata da Nicola Troilo, figlio
di Ettore, nel libro “Storia della brigata Maiella 1943-1945” (Mursia Editore, Milano 2011) dal quale sono state
1
“Molti dei nostri, i migliori, i più degni,
quello che hanno arrossato del loro sangue generoso le terre d’Abruzzo, delle
Marche, della Romagna, dell’Emilia
non sono tra noi. Essi sono caduti sulla
via dell’onore e del dovere per il riscatto della libertà d’Italia; altri, moltissimi,
sono assenti perché hanno ancora nelle
carni doloranti il morsi del piombo nemico... Il tributo di eroismo e di sangue
che voi della “Maiella” avete offerto
silenziosamente alla grande causa della liberazione della Patria vi pone fra i
migliori figli d’Italia” (Dal discorso del
comandate Ettore Troilo alla cerimonia
di scioglimento del Gruppo avvenuta a
Brisighella il 15 luglio 1945, e riportato
nel citato libro di Nicola Troilo a pagina
249). Lo stesso comandante Troilo nel
discorso tenuto il giorno della consegna
della “Medaglia d’oro al valore militare” alla Brigata Maiella il 2 maggio
1965 a Sulmona disse fra l’altro che “i
patrioti della Maiella vissero, giorno
per giorno, attraverso ogni difficoltà e
ogni disagio, di un infinito amore verso
la Patria”.
3
Il contingente che doveva liberare Pizzoferrato dall’occupazione tedesca era
composto da 80 partigiani ed un plotone
inglese di 25 uomini, i quali, provenienti da Montelapiano arrivarono a Fallo,
da dove alle ore 19 iniziarono la salita
raggiungendo, dopo 9 ore di marcia forzata, Pizzoferrato alle 4 del mattino di
giovedì 3 febbraio.
4
“La marcia di avvicinamento all’obiettivo durò tutta la notte, resa faticosissima dalla grande quantità di neve caduta
che aveva completamente cancellato
i sentieri e dalla fittissima oscurità”.
(Troilo N., opera citata, pag. 64). Il patriota Massimo Di Iorio di Fallascoso
che partecipò all’azione di guerra nei
suoi ricordi scrive che “durante il tragitto per Pizzoferrato ci colse una bufera di neve e nebbia, tanto che dovemmo
5
Pennadomo, Piazza dell’Unione
camminare in fila, con uno che faceva da
guida e gli altri con le mani l’uno sulle
spalle dell’altro per non disperderci”.
“Gli inglesi erano ottimamente equipaggiati e armati; i patrioti calzavano
quasi tutti le cioce, pochissimi avevano
il pastrano o indumenti di lana. L’armamento consisteva in normali fucili inglesi”. ( Troilo N., opera citata, pag. 64).
6
“A giudizio degli ufficiali della “Maiella” sarebbe stato forse imprudente
effettuare l’attacco alla munita postazione tedesca senza l’aiuto dei paracadutisti... Ma il Maggiore Wigram non
volle sentire ragioni, riaffermò l’assoluta necessità che l’attacco a Pizzoferrato
venisse sferrato all’alba del 3 febbraio
e non più tardi” (Troilo N., opera citata, pag. 63). Dopo poche ore che erano
iniziati gli aspri combattimenti, e dove
era evidente la superiorità dei tedeschi
molto meglio armati e strategicamente
dislocati, il Tenente Osvaldo Glieca, con
il Maggiore Wigram ferito a morte, “ritirò gli uomini che avevano circondato
casa Casati, disponendoli sulla piazzetta della Chiesa... Anche il tenente inglese Exell riuscì a raggiungere la piazzetta e assunse il comando facendo dire a
Glieca dall’interprete che la volontà del
Maggiore Wigram era di annientare a
qualunque costo tutti i tedeschi asserragliati. Il Glieca gli fece rispondere che,
per il fatto che era ormai giorno e che
tutti gli uomini si trovavano allo scoperto, un secondo attacco contro casa
Casati sarebbe stato un suicidio... Ma il
Tenente Exell ritenne di disporre subito
l’attacco” (Troilo N., opera citata, pag.
65). E a pag. 86 del libro storico, dopo
le aspre polemiche suscitate per l’azione
di guerra “viziata da una sottovalutazione dell’impresa e dall’insufficiente preparazione militare dei patrioti italiani”,
la nota si conclude con una drammatica
confessione sull’”inutile spargimento
di sangue... in un’azione nata sotto così
cattivi auspici”.
7
“Una fitta coltre di neve ricopriva il
paese deserto, penetrava attraverso le
porte sventrate fin dentro alle squallide
case abbandonate e devastate dal saccheggio” (Troilo N., opera citata, pag.
64).
8
9
“Verso le 4 del mattino gli uomini raggiunsero le immediate adiacenze del
paese e si spinsero fino all’albergo Melocchi dove non vennero rinvenuti tedeschi... Verso le 4,30 il Maggiore Wigram
ricevette la comunicazione che tutti gli
obiettivi erano stati raggiunti ma né i
cannoni erano stati trovati né si erano
visti tedeschi alla casa Melocchi e a
quella dell’Arciprete.” (Troilo N., opera
citata, pag, 64)
“A mezzogiorno del 4 febbraio giunse
anche da Fallo una squadra di patrioti
10
al comando di Nicola De Ritis (patriota
di Pennadomo, ndr), incaricata di dare
sepoltura ai caduti. Un ben triste spettacolo si offrì ai loro occhi. Nella piccola
chiesa, agli angoli delle case silenziose e vuote, sulle rocce coperte di neve,
giacevano i corpi dei patrioti caduti in
combattimento... I miseri resti furono
seppelliti in una fossa comune nel cimitero di Pizzoferrato” (Troilo N., opera
citata, pag. 67)
Pennadomo, in provincia di Chieti, si
estende sopra uno sperone di roccia sulla cui cima si innalza la maestosa pietra
liscia di Santa Maria. Nel libro “La
leggenda di Pennadomo” (pag. 134)
Amerigo Di Renzo scrive che il ritorno
delle salme “di chi si era sacrificato per
la società di un domani libero, fu uno
spettacolo tetro e commovente.
Fecero la loro apparizione alla periferia
di Pennadomo dove tutta la popolazione
attendeva nella notte inoltrata. I caduti
erano stati traslati: due in barella e l’altro a cavalcioni di un mulo. La scena rischiarata con torce, apparve ancora più
pietosa e tutti piansero lacrime di dolore. Rientrarono i morti accolti da eroi.
11
Le salme dei tre patrioti furono riportate da parenti ed amici a Pennadomo
nell’ora del vespro di domenica 13 febbraio e i funerali furono celebrati dal
parroco don Giovanni due giorni dopo,
martedì 15: questa testimonianza è tratta dal diario di Carolina Ruggiero, vedova di Lorenzo D’Angelo.
12
Nonostante il grande eroismo dei tre
partigiani martiri, Pennadomo, contrariamente a quanto avviene in altri paesi
vicini e lontani che onorano i loro caduti, non ha dedicato loro né un monumento, né una piazza.
13
Se si eccettua il ricordo dei loro nomi,
fra i caduti di tutte le guerre incisi sulla
lapide posta sulla facciata della chiesa
di Sant’Antonio, sono completamente
ignorati. Eppure grazie anche al loro
eroismo e sacrificio che la bandiera della Brigata Maiella è stata insignita della
“Medaglia d’oro al valor militare”, di
cui bisognerebbe andare fieri. Nell’agosto del 1976, il giornale “Notizie Pennadomo” si fece promotore per dedicare ai
tre patrioti l’attuale Via Maiella modificandola in “Via martiri della Brigata
Maiella”, con i nomi di Lorenzo, Luigi
e Nicola.
Ma l’amministrazione comunale di quel
tempo, incurante della nobile proposta,
dedicò ai patrioti della Brigata Maiella
soltanto la stradina seminascosta e la
scarsamente abitata che dal camposanto raggiunge via San Lorenzo, all’altezza della chiesa, e priva di una qualsiasi
lapide commemorativa della tragedia di
Pizzoferrato.
La frase conclusiva di questo “Canto Mattutino”: “per il loro ardimento
hanno lasciato una scia luminosa di
abnegazione e di valore ripete e riafferma le gesta più epiche e gloriose della
tradizione del volontarismo italiano”,
è tratta dalla”Motivazione della medaglia d’oro alla Brigata Maiella al valore
militare” conferita il 14 novembre 1963
dal presidente della Repubblica Antonio
Segni e il cui testo è scolpito nel sacrario della Brigata Maiella a Taranta
Peligna, inaugurato il 26 maggio 1976.
Il sacrario, che raccoglie le spoglie di
alcuni patrioti della brigata, ha coronato i lunghi sforzi del comandante Ettore
Troilo e degli ex combattenti, affinché
gli eroici caduti “riposassero all’ombra
della montagna da cui essi partirono e
presero il nome”.
14
In memoria dei tre Patrioti
di Pennadomo uccisi a Pizzoferrato
Buia alba
Furtivi gli sguardi /frugavano i tratturi
imbiancati / e già tramati / di nero presagio.
Poi / fratelli sorpresi / da un inatteso fragore
si adagiavano / su rami di giovani ricordi
che lentamente / sbiadivano.
Cancellando il dolore. / Salutando la vita.
Sull’orizzonte / finalmente disteso.
Alla Maiella, la bella partigiana
Tanti anni fa ho camminato
sui tuoi sentieri:
eri bella e selvaggia da togliere il fiato
ma io volevo, avevo qualcuno da raggiungere.
Alla tua durezza ho dato
tutto quello che avevo:
una macchia scura sul petto,
quasi un fiore rosso sul cuore,
e tu hai donato un male che non finisce,
mal d’amore, mal di Maiella.
Maria Lucci
Luisa De Ritis
pagina 12 - pennadomo notizie
Martedì 15 febbraio 1944: i funerali per le tre giovani vittime di Pizzoferrato
Il dolore e il pianto di Pennadomo
per i suoi eroi
“La gloria conquistata in vita con il sacrificio, è la loro immortalità”
Anche nel giorno del funerale, martedi 15 febbraio 1, come
nell’ora in cui furono uccisi dai
tedeschi dagli occhi di fuoco e di
ghiaccio a Pizzoferrato, la neve
cadeva leggera a Pennadomo
quasi a voler piangere in silenzio, a interiorizzare il dolore della
gente per le tre giovani vite che
non fioriranno mai più, spezzate
dall’odioso fuoco nemico. Tutto il
paese, da Santa Maria a San Lorenzo, si ammanta di dolore come
una vedova, versa lacrime amare,
si consola con un pianto inconsolabile, nessuno la può confortare,
tutte le strade sono deserte, le case
piene di amarezza e non c’è nessuno che abbia la forza di consolare l’altro.
Le stesse preghiere sono
recitate a fior di labbra, con il ritmo
del lamento, di chi si sente afflitto
dal peso di così tanto dolore: come
se ognuno avesse perso un proprio
figlio o un fratello. Le donne sono
strette nei loro scialli di lana, tutte
con il velo nero in testa e la corona del rosario in mano. Il lutto
aleggia su ogni cosa, con un’aria
di tristezza infinita: è l’immagine
della desolazione e delle rovine
di un paese ancora in guerra, invaso dal nemico tedesco, e con i
suoi soldati, i più forti, al fronte e
dal ritorno incerto. A Pennadomo
sembrava risuonare e rivivere i lamenti biblici di Geremia per i figli
partiti per la guerra, i tesori più
preziosi, spezzati dalle spade nemiche: “I suoi giovani erano più
splendenti della neve, più candidi del latte; avevano il corpo più
vermiglio dei coralli, era zaffiro
la loro figura. Ora il loro aspetto
si è oscurato più della fuliggine,
ora non si riconoscono più nelle
strade; si aggrinzì sulle ossa la
loro pelle, secca è divenuta come
un legno “ (Lamentazioni 4, 7-8).
Era l’ora del vespro, con
le prime ombre della sera di un
giorno grigio, con l’aria gelida
che toglieva il respiro. Le lanterne era accese e le torce portate a
mano diffondevano una luce flebile, quasi greve, quando le salme
di Lorenzo, Luigi Donato e Nicola, a dorso di muli e su barelle di
fortuna, arrivarono domenica 13
febbraio da due strade diverse al
largo della fontana: ci fu allora
una scena di commovente misericordia. E il freddo prima pungente, sembrava ora svanito, e le tenebre prima dense si rischiaravano
di una luce interiore. Quel giorno
il sole non era mai spuntato.
Da quel silenzio innevato
si alzarono le grida di dolore delle
madri: “Figlio, figlio mio, povero figlio mio, chi ti ha ucciso?...
Figlio, figlio mio, voglio morire con te... Povero figlio mio,....”,
versando lacrime e baciando e
ribaciando quelle bare dal legno
freddo 2. Con fatica mani pietose tentarono di distaccarle. Sorretta e circondata da amiche
e parenti, avvolta nel suo scialle
nero attendeva anche la giovane
vedova incinta di un figlio che il
padre Lorenzo non potrà mai accarezzare: il suo era un dolore di
madre ancora più grande, la sua
angoscia e il suo pianto erano anche per quella creatura nascente,
già orfano nel seno materno 3.
Il parroco don Giovanni
Martorella con il piviale nero attorniato da 4 chierichetti di bianco
vestiti e da un crocifero, benedisse per la prima volta quelle salme
prima con l’acqua santa e poi li incensò con il fumo del turibolo. Intanto il canto corale responsoriale
del “Libera me Domine de morte
aeterna,” si librava nell’aria, fioco simile alla neve che continuava
a cadere lenta lenta, come gocce
di lacrime: “Liberami, Signore,
dalla morte eterna, in quel giorno
tremendo... Quando verrai a giudicare il mondo con il fuoco, dona
ad essi, Signore, il riposo eterno e
risplenda loro la luce perpetua 4. E con questa melodia salmodiante si incamminarono tutti, con le
bare portate a spalla, nella chiesa di Sant’Antonio dove rimasero
fino al pomeriggio di martedì 15
febbraio quando, sotto lo sguardo
misericordioso della Madonna e
del Cristo Morto che ha portato
i nostri affanni e si è addossato i
nostri dolori, durante l’ufficio dei
defunti, Lorenzo, Luigi Donato
e Nicola 5 ricevettero la purificazione dei corpi con l’aspersorio
dell’acqua santa, quella stessa acqua benedetta che ricevettero nel
giorno del battesimo una ventina
di anni prima 6.
La cerimonia religiosa si
concluse con il suono dell’organo
e il canto gregoriano del “Paradisum deducant te Angeli” dalla cupa e maestosa armonia: “In
paradiso ti guidino gli Angeli, al
tuo arrivo ti accolgano i Martiri
e ti conducano nella Santa Gerusalemme. Il coro degli Angeli ti
accolga e con Lazzaro, un giorno
povero, abbi la pace eterna” e la
folla, devotamente, si pose in fila
per la mesta, lenta e silenziosa
processione per accompagnare le
bare benedette nel camposanto di
Pennadomo, candido di neve. Qui,
ancora oggi, tra le dolenti cime dei
cipressi, testimoni silenti ed eterni
di sovrane tristezze, i tre giovani
patrioti di una battaglia condotta
senza una saggia e giusta strategia, riposano nella pace dei giusti.
_______________
L’arrivo delle salme delle tre giovani
vittime, morti da eroi a Pizzoferrato, è
raccontato da Cinzia D’Angelo, nipote
di Lorenzo D’Angelo che si è avvalsa del
diario di quei tristi giorni scritto dalla
1
nonna Carolina Ruggiero. L’intera testimonianza di Cinzia, di una straordinaria
intensità emotiva, è pubblicata interamente a pagina 3.
Le salme dei tre giovani patrioti arrivarono verso le cinque del pomeriggio al
largo della Fontana: quella di Lorenzo,
su un mulo, proveniva dalla strada di
Villa santa Maria, mentre quelle di Luigi
Donato e Nicola scendevano da Buonanotte. Nonostante la fredda ora vespertina tutto il paese, accorso al rintocco lento
delle campane, era raccolto per rendere
onore all’eroismo dei tre giovani. Parenti
ed amici erano andati a Pizzoferrato per
riprendersi le salme dei caduti e ripartirono all’alba di domenica 13 febbraio,
mese bisestile, tutti insieme prima verso
Quadri, e poi si divisero: alcuni prendendo la direzione di Villa Santa Maria, altri quella di Fallo, Montelapiano, Bosco
Lungo, e strada per Buonanotte. Dopo
circa 12/13 ore di cammino, al freddo
dell’alba e sotto un leggero nevischio,
raggiunsero Pennadomo (Testimonianze di Raffaele Di Francesco). Le tre salme furono collocate dentro la chiesa di
Sant’Antonio dove, lunedì 14, furono ricomposte dentro bare di legno di fortuna
(testimoni ricordano che furono utilizzate
soprattutto tavole dei letti matrimoniali). La salma di Luigi Donato aveva una
vistosa fasciatura bianca sulla testa per
ricoprire la ferita del colpo mortale dei
tedeschi (Testimonianza di Amelio Di
Francesco). Mentre si ricomponeva la
salma di Nicola fuoriuscì dal suo corpo
una delle pallottole sparate dai tedeschi
che è conservata dai parenti ancora sporca di sangue (Testimonianza di Antonio
Di Renzo).
2
Il figlioletto nascente è Mario Lorenzo
Nicola, di Lorenzo D’Angelo e Carolina
Ruggiero (sposatisi il 30 maggio 1942)
che vedrà la luce solo il 21 luglio 1944
3
La funzione dell’ufficio dei morti (“Officium defunctorum”), con i relativi canti in
chiesa gremita di gente e lungo la processione che si snodò da Piazza dell’Unione
fino al camposanto, fu celebrata dal parroco Don Giovanni Martorella. (Testimonianza di Filomena Di Renzo).
4
La chiesa di Sant’Antonio e la piazza
dell’Unione erano stracolme di persone
che vollero assistere in un religioso silenzio ai funerali, rotto solo dalle grida
di dolore e dal pianto delle mamme delle
vittime. Le salme dei tre patrioti dentro la
chiesa erano state collocate verticalmente tra una fila di banchi e l’altra ed erano
così disposte: la più vicina all’altare era
quella di Lorenzo D’Angelo, in mezzo
quella di Luigi Donato Di Francesco e
infine quella di Nicola Di Renzo. Al termine della cerimonia funebre, dove erano
presenti anche alcuni patrioti della battaglia di Pizzoferrato, si tenne in piazza una
commossa rievocazione dei tre eroi caduti
tenuta da Amerigo Di Renzo prima che le
bare si avviassero verso il campo santo.
(Testimonianza di Assunta Di Renzo)
5
6
Le salme presenti nella chiesa di
Sant’Antonio erano all’inizio 4, in quanto c’era pure quella di Mauro Piccoli,
22 anni, nativo di Torricella Peligna in
contrada Solagne. Mauro, proprio per la
vicinanza a Pennadomo, frequentava più
il nostro paese che il suo, qui aveva molti
amici e oltretutto da piccolo era stato anche allattato dalla signora Rosa di Martellone, ma martedi mattina 15 febbraio
la sua salma ritornò a Torricella dove si
svolsero i suoi funerali. (Testimonianza di
Laurina Di Gravio)
pagina 13 - pennadomo notizie
Il suono di una fisarmonica, nel silenzio attonito di un mattino, si diffonde e inonda la piazza
annunciando la fine della guerra e l’inizio di un’alba finalmente nuova
La Storia è passata di qui... Luoghi e voci ci raccontano
I luoghi che ci hanno visto nascere, i nomi che ancora oggi sono
presenti nei ricordi e nei riferimenti toponomastici dei nostri
vecchi, ci sono tutti nei racconti di
chi, senza fatica alcuna, ha riallacciato immagini, suoni, parole,
per consentire a noi, oggi, di ricostruire e partecipare ciò che alle
nostre generazioni è stato risparmiato: la guerra. Un’esperienza e una realtà che, se non fosse
stato per “il piede straniero sopra il cuore”, ovvero per l’arrivo
tuonante dei tedeschi, per le loro
razzie e le fughe alle loro urla,
si sarebbe sentita lontana… La
guerra, infatti, ad eccezione del
breve periodo dello sfollamento,
non ha sovvertito le consuetudini
e la liturgia delle giornate. Il lavoro nei campi continuava anche per
quegli adolescenti che oggi sarebbero considerati nell’obbligo
scolastico. All’alba si partiva per
andare a giornata o nei propri poderi per preparare la terra, curarla, raccoglierne i frutti. I bambini
andavano a scuola, una scuola in
cui della guerra si taceva, a differenza di quanto accade oggi nelle
nostre aule, dove la formazione di
un cittadino non può prescindere
dall’educazione al valore della
pace, della fratellanza e della solidarietà anche attraverso riferimenti a quei luoghi dove l’uomo
ancora uccide. Tutti ricordano,
infatti, alla domanda, forse un po’
ingenua di un’insegnante di oggi,
che di guerra non si parlava anche
se vi si era dentro. Talvolta erano
gli aerei che sfrecciavano in cielo, lungo “le meridiane di morte”
o un aereo caduto nelle vicinanze
del paese a scuotere gli animi e a
ricordare che si stava combattendo. Oppure era il ritrovarsi intorno all’unica radio del paese, nella
casa del “sartore”, per ascoltare se
nell’elenco dei prigionieri vi fosse
il proprio figlio, marito, fratello,
futuro sposo… E quando il nome
del proprio caro non era pronunciato dalla radio veniva allora
cercato, come ultima disperata
scelta, nelle parole di un “magaro
”. Si andava quindi a Piane d’Archi ad interrogarlo e si attendeva
trepidanti sentirsi dire “lo vedo,
cammina!” perché questo equivaleva a “E’ vivo!” Così si tornava
a casa confortati da una fragile
speranza per affrontare il resto dei
giorni a venire.
E i giorni, i più lunghi
e indelebili, nelle voci di tutti i
testimoni, sono stati quelli dello sfollamento quando, dopo l’8
settembre del ’43, si rovesciano
i rapporti con la Germania e i tedeschi diventano ciò che rimarrà
per sempre nell’immaginario collettivo di chi ha esperito la guerra
ma anche di chi l’ha solo sentita
raccontare o studiata sui manuali
di storia. I tedeschi diventano il
simbolo di efferate rappresaglie,
feroci razzie, terribili eccidi. La
furia tedesca ha però risparmiato
il paese, rivelandosi solo nell’e-
pisodio del mugnaio ricordato
e raccontato da tutti con le stesse parole, le stesse sequenze e lo
stesso giudizio. La risposta dei
tedeschi all’istinto del mugnaio,
che aveva ferito uno di loro per
difendere il suo maiale, è quella
conosciuta in altre più orribili rappresaglie. Il mugnaio, nella triste
consuetudine tedesca, dopo essere stato picchiato, venne esposto
in fontana come monito per tutti,
suscitando la curiosità innocente e
un po’ morbosa dei piccoli che venivano richiamati dagli adulti già
consapevoli che quell’immagine
era il preludio ad un ineluttabile sacrificio. Il suo corpo, infatti,
scomparso di lì a poco, venne
ritrovato dopo un mese da Nicola
Paradisi mentre andava in campagna al Castelluccio. Pennadomo “sfolla” nell’autunno-inverno
del ’44 in luoghi che evocano la
bontà umana e la bellezza feconda della natura: Taddeo, Rosario,
Montebello, Acque vive… Sono
questi, infatti, i nomi ricorrenti
che rimandano alla gratitudine
dell’uomo verso una famiglia,
verso quell’umanità che la guerra
non è riuscita a negare, e verso la
natura che rinasce e conserva la
sua bellezza, malgrado le bombe, malgrado le macerie. Il paese,
dunque, viene abbandonato per
qualche mese. E’ un tempo che
lascerà il segno sul cuore di tutti. E’ una partenza per un viaggio
breve, lungo, forse senza ritorno,
dipende dall’unità di misura: pochi chilometri per le gambe, interminabili palpiti per il cuore…
Si parte, dopo l’annuncio del
banditore, con poche cose o con
niente. Chi con la valigia, chi
senza genitori, chi con scarpe di
fortuna scelte a caso sotto il desco buio del ciabattino. Si lascia
il cuore nelle case e ciò che c’era
di più prezioso: le provviste. I nascondigli sono i più disparati: le
pile dell’olio, la legna, il fieno o,
addirittura, una muratura improvvisata. Si fugge, tutti, tranne i più
anziani, i malati che restano insieme, uniti, raggruppati in alcune
stanze del Palazzo Troilo dove un
telo bianco steso sul tetto indicava la loro presenza inviolabile. E
come nel Lazzaretto manzoniano,
anche qui c’è un Fra Cristoforo:
don Giovanni Martorella che viene ricordato come un vero pastore, colui che è rimasto a confortare chi aveva bisogno di conforto e
a dissuadere chi veniva a violare
quel nido: i tedeschi. Coloro che
erano partiti, raggiunta la destinazione, si sistemano presso le
famiglie accoglienti anche se gli
uomini continueranno a fuggire,
a nascondersi nella boscaglia e a
dormire nei pagliai per rientrare
a turno solo per mangiare. Una
vedetta proteggeva i loro spostamenti quotidiani.
Le donne e i bambini trovano posto nelle case dove ci si adatta a
mangiare ciò che c’è e a dormire,
in tanti, anche in cucina quando le
altre camere sono piene. I pasti, per
alcuni frugali per altri abbondanti
a seconda dei luoghi e delle famiglie, sono comunque simili: pasta
fatta in casa con farina di granoturco o bianca, una pasta leggera,
senza uova, a volte cotta nell’acqua piovana raccolta. La carne
viene fornita dagli animali che gli
sfollati avevano portato con sé o
da quelli delle famiglie ospitanti.
Non mancano, naturalmente, le
patate, poco pregiate ma care alla
cucina contadina. A volte, la fame
incalzante non disdegna neanche
abbondanti porzioni di fave tostate mangiate fino a starne male.
La fame vera non badava a sottigliezze. Quando occorreva fare
rifornimento di quelle provviste
stipate, nascoste e lasciate nelle
case, bisognava tornare in paese.
Talvolta, erano giovani donne,
qualcuna anche incinta, quando
dare la vita poteva sembrare un
trionfo dell’incoscenzama era invece, la vittoria della speranza, ad
essere strategicamente scelte per
la missione e per eludere i controlli tedeschi. L’amara sorpresa
era scoprire che qualcuno era arrivato prima e aveva portato via
tutto. Si poteva sempre contare
sugli animali portati con sé ma
anche questi, a volte, potevano
rappresentare un ostacolo, in caso
di fuga, e per questo si decideva
di venderli, magari a malincuore,
fosse pure una sola capra. La promiscuità, dovuta all’affollamento
degli ambienti e alla presenza degli animali, peggiora le già precarie condizioni igieniche: ci si
lava con l’acqua del pozzo, si fa
il bucato nel fiume utilizzando la
terra come “detersivo”, ci si ritrova così con le teste affollate non
solo di timori, paure, ma anche di
pidocchi. E così, tra gli altri, uno
dei più diffusi passatempi durante il giorno è liberarsi di questi
parassiti stando all’aperto quando le giornate regalano qualche
“spera” di sole. E sempre al sole,
ascoltando racconti, cantando o,
semplicemente, dialogando si trascorrono le giornate quando non
si è impegnati a fronteggiare i tedeschi che piombavano improvvisi per portar via coperte, lenzuola,
rame, patate, animali.
Il legame con questi ultimi, creature dalle quali dipendeva la sopravvivenza di intere
famiglie, si rivela ancora in un
episodio commovente in cui l’uomo dimostra di non aver smarrito
la propria umanità. L’accoglienza
manifestata dalla famiglia Taddeo, nei confronti di tutti coloro
che avevano trovato rifugio e salvezza nella loro casa, viene ripagata quando i tedeschi portano via
un bue dalla loro stalla. La solidarietà degli sfollati si concretizza in
un toccante consolo durato diversi
giorni: a turno si cucina per loro,
per lenire il dolore per la perdita
dell’animale così essenziale per
la fragile economia di quei giorni.
Dopo il ritorno a casa e ai ritmi
consueti, si arriva alla fine della
guerra che, però, non viene salutata con manifestazioni di gioia
in piazza, come ci aspetteremmo
noi, cresciuti con la televisione o
i nostri figli nativi digitali, satolli di replicate immagini di folle
festanti all’annuncio della fine di
un conflitto o della caduta di un
tiranno. Per molti la parola “fine”
coincide con l’8 settembre quando l’espressione della gioia, però,
viene, di lì a poco, nuovamente
strozzata negli anni della dura
guerra di liberazione. Poi, attraverso i ricordi, emergono varie
cornici a cui gli animi hanno assegnato il valore di un annuncio
liberatorio. L’arrivo degli inglesi
dalle Piane che, rispettando l’ico-
nografia del nascente cinema neorealista, distribuiscono cioccolata. I tedeschi che se ne partono
lasciando nugoli di polvere che,
stavolta, anziché offuscare libera
l’aria. Le grida di gioia nelle case
affollate che salutano il mesto ritorno dei prigionieri provati ma
non domati dalla dura esperienza
dei campi di prigionia. Infine, il
suono di una fisarmonica che, nel
silenzio attonito del mattino, si
diffonde e inonda la piazza. E gli
occhi increduli si aprono ad un’alba finalmente nuova.
Maria Lucci
Ringrazio per le preziose testimonianze:
Laurina Di Gravio, Giuseppina Di Loreto,
Alberto Fagnani, Lina Fagnani, Adelina
Lucci, Domenica Lucci, Lorenzo Lucci
I coniugi Taddeo: Silvia e Giuseppe
Lettere al giornale
Caro Ottavio,
devo dirti che il progetto che mi hai sottoposto
in onore dei martiri della Brigata Maiella mi entusiasma
tantissimo, anzi dirò di più, per me si realizza un desiderio.
Quando andavo alle manifestazioni con fascia e gonfalone,
sentivo la mancanza di qualcosa che a Pennadomo doveva
toccare di diritto: la medaglia d’oro al valore militare.
Coloro che hanno combattuto fino a dare la vita per il loro
Paese non devono essere dimenticati... Grazie per quanto
stai già facendo, hai tutta la mia collaborazione.
Antonietta Passalacqua
Sindaco di Pennadomo
Caro Ottavio,
parlare dei Partigiani mi emoziona particolarmente.
Ho sempre pensato che se fossi vissuto in quegli anni, non
avrei esitato un solo minuto a considerarmi un patriota e
quindi imbracciare le armi pur di difendere la libertà, il
nostro territorio, le nostre case e le nostre famiglie.
Ho sempre considerato i ragazzi della Brigata Maiella degli
eroi. Ti ammiro per questo tuo impegno e spero di poter
contribuire alla riuscita di questo tuo bellissimo progetto
che ritengo nobile e di alto profilo morale.
Antonio Piccone
Caro Ottavio,
ho letto con molta attenzione ciò che stai scrivendo
per ricordare ed onorare degnamente la memoria dei nostri
tre fratelli maggiori in occasione del 70° anniversario del
loro eroico e supremo sacrificio, che ha permesso non solo
all’Abruzzo ma all’Italia di ritrovare libertà perduta. E’ un
ottimo lavoro, chiaro e ben documentato, che spero possa
risvegliare nei cittadini di Pennadomo i ricordi di quei
tristi giorni di guerra e dare ai nostri tre patrioti, anche
se tardivo, il giusto riconoscimento dell’alto valore morale
del loro eroico sacrificio. Ottavio. ti ringrazio veramente di
cuore per avermi coinvolto nella tua nobile iniziativa.
Antonio Di Renzo
pagina 14 - pennadomo notizie
Elezioni comunali 2013: Antonietta Passalacqua riconfermata a Via Maiella
Tutto il potere nelle mani delle donne
Le più votate alle amministrative sono state Paola Di Loreto per la maggioranza, e Nicoletta
Di Florio per l’opposizione. L’elettorato femminile supera quello maschile. Tutti gli enti
in mano alle donne, dall’Avis con Marisa Teti alla Pro Loco diretta da Mara Di Francesco
I risultati delle elezioni amministratve del 26 e 27 maggio scorsi
hanno confermato la “leadership”
delle donne nella gestione della
“cosa pubblica” a Pennadomo.
Un evento che va in controtendenza rispetto ad altri comuni,
per non parlare poi del potere politico nazionale. Antonietta Passalacqua, con la sua lista “Insieme
per Pennadomo”, ha riconquistato
la sede di Via Maiella e per altri
cinque anni avrà la non facile responsabilità di amministrare il
paese nel migliore dei modi, soprattutto in questi tempi di grande
crisi economica che ha messo in
ginocchio famiglie e società. Paola Di Loreto è risultata la consigliera che ha avuto più voti di
tutti, 21. Nicoletta Di Florio, con
20 voti, è stata la più votata per la
lista dell’opposizione “Amicizia
e partecipazione”. Su 226 aventi
diritto al voto ben 118 sono state le donne (pari al 52%) che si
sono recate alle urne, mentre gli
uomini si sono attestati a 108 (pari
al 47%).
A questa ampia affermazione delle donne sul piano politico amministrativo, bisogna aggiungerne altre due che detengono
invece il “comando” sul piano
sociale, umanitario e ricreativo:
Marisa Teti è la stimata presidente della locale sezione dell’Avis,
mentre Mara Di Francesco gestisce con generosità e competenza
la Pro Loco formata a sua volta in
gran parte da donne. Occorre poi
ricordare che sono sempre donne
le principali imprenditrici: Pina
Lucci, l’amabile maestra dell’arte
del pane, e Monika Mazurkiewicz., titolare del bar e generosa
sponsor di varie attività culturali e
ricreative. Le donne sono dunque
gli “angeli” che vigilano e governano su Pennadomo e gli uomini a
loro si affidano ciecamente e nelle loro mani ripongono completa
fiducia e la speranza affinché il
paese diventi una vera comunità,
smussando e limando le molteplici divisioni che generano solo
rancori e sterili contrapposizioni
che non conducono da nessuno
parte.
Ed ecco ora il quadro
riassuntivo dei risultati delle amministrative del 26 e 27 maggio
2013 con i relativi voti delle liste.
I pennadomesi aventi diritto al
voto, erano in tutto 420, di cui 161
residenti all’estero, per cui hanno
votato solo 226 persone, vale a
dire il 53 per cento, una media
che si attesta su quella nazionale
e che denota una forte disaffezione dei cittadini per la politica in
genere. La lista vincente “Insieme
per Pennadomo”, con Antonietta
Passalacqua candidato sindaco,
ha riportato 106 voti (pari al 46%
dei votanti). La lista “Amicizia e
partecipazione”, con Francescantonio Brignola candidato sindaco,
ha raccolto 90 voti (pari al 39%
dei votanti). La lista “Con Pennadomo”, con Domenico D’Angelo
candidato sindaco, ha racimolato
23 voti (pari al 10% dei votanti).
La nuova giunta si compone ora
di 4 consiglieri della maggioranza: Paola Di Loreto 21 voti, Tullio
Piccone 18 voti, Antonio Piccone
17 voti e Stefano Pantalone 16
voti. Mentre per l’opposizione
risulta eletta la sola Nicoletta Di
Florio 20 voti.
Sul palazzo comunale di
Via Maiella penderebbe, come
una spada di Damocle, un ipotetico rischio commissariamento.
Infatti l’opposizione “Amicizia e
Partecipazione” ha presentato un
ricorso alla prefettura di Chieti e
al ministero dell’Interno contro
la presunta irregolare rielezione
del primo cittadino che sarebbe,
a loro dire, al suo terzo mandato,
mentre la legge ne consentirebbe
solo due consecutivamente. Ma la
Passalacqua non demorde e prepara un suo controricorso (vedi
intervista qui sotto) . Purtroppo la
sede comunale Via Maiella, negli
ultimi venti/trent’anni, non è sempre stata un simbolo di concordia
e di unità per il paese (del resto
non lo era stata nemmeno quando
stava in Via San Nicola). E’ stata
al contrario, a volte, simbolo di
disunione, di nascenti e crescenti
e odi e rancori tra le opposte fazioni politiche che si rispecchiano
poi anche nella ristretta vita sociale di tutti i giorni.
Un esempio concreto di
quanto sopra affermato, si è visto
alle amministrative del maggio
scorso dove sono state presentate ben 3 liste (più una di disturbo
del tutta estranea al paese) l’una
contro l’altra armata. La posta in
palio è ghiotta, l’occupazione del
palazzo comunale, ma tre liste in
un paese piccolo come il nostro
con soli 226 elettori, sono francamente troppe, anche se, in teoria,
sono il frutto di una ricchezza democratica sancita dalla Costituzione. E ironia della sorte le tre
liste contrapposte hanno presentato per simbolo parole e slogan
ecumenici che farebbero pensare
ad un ipotetico paese delle meraviglie: “Insieme per Pennadomo”,
“Uniti per Pennadomo” e addirittura “Amicizia e partecipazione”.
E’ evidente che queste liste hanno una visione molto filosofica
e platonica dei suddetti termini
senza averne, peraltro, una approfondita conoscenza semantica: “insieme”, “uniti” e “amicizia”, significano esclusivamente
unione, visione comune, ideali e
realtà condivisi. Ma poi all’atto
pratico, in caso di vittoria dell’una o dell’altra lista, tutto viene
disatteso con le solite spaccature,
vendette minacciate e aride divisioni che, come l’araba fenice, si
rigenerano in continuazione da
una giunta comunale all’altra.
Eppure la piazza principale del nostro paese ha un nobile
nome di tutt’altro tenore, “Unione”, che dovrebbe essere preso da
tutte le amministrazioni a simbolo, al di fuori delle ideologie politiche e sociali: creare e consolidare una vera comunità, fare una
“com-unione” laica, sull’esempio
di quella religiosa che si celebra
in chiesa. Ed è anche per queste
ragioni di vivere e sperimentare momenti di condivisione, di
comunione di ideali e di valori,
che la Piazza dell’Unione sarà al
centro della manifestazione della
giornata evento in memoria dei
martiri della Brigata Maiella, i
“nostri fratelli maggiori” come
li ha definiti un nostro paesano, i
quali con il loro eroico sacrificio a
Pizzoferrato hanno dato prova di
essere più che mai uniti nell’amare generosamente la Patria e il
proprio paese, donando perfino la
loro vita senza mettere in atto sterili ed egoistici tatticismi politici.
L’origine storica del nome “Pennadomo”
Ripubblichiamo integralmente il primo articolo sull’origine storica del nome di Pennadomo EDITO nell’aprile
del 1977 sul nostro giornale e con il quale rivendichiamo il diritto di primogenitura contro eventuali plagi
e ricopiature senza citare la fonte e l’autore.
Tentare di ricostruire l’origine del nome Pennadomo non è stata un’impresa facile, tuttavia
con alcuni validi elementi storici cerchiamo di dare una spiegazione logica al nome stesso. Gli
elementi raccolti sono molto pochi ma già di per sé molto importanti perché un paese piccolo
come il nostro ha una sua origine storica ben documentata. Per prima cosa bisogna capire che
il nome Pennadomo è composto da due parole: Penna e Domo. Su queste due parole è tutto
il significato etimologico dell’origine del nome del nostro paese. Sulla parola Penna non ci
sono contrasti e dubbi per il suo significato, mentre le interpretazioni di Domo sono diverse e
discordanti. Nei vari documenti e citazioni storiche consultati la parola Penna risulta sempre
identica (a differenza di Domo che varia). Nell’etimologia geografica il termine “penna” vuol
dire: cima, vetta, sommità, roccaforte. E’ un termine molto appropriato alle rocce che svettano
sopra le nostre case.
Il punto discordante è Domo. Su questa parola gli stessi documenti storici, di cui si
citano qui sotto i più importanti, sono spesso discordanti. “Penna de Domo” è scritto nel “Rationes decimarum Aprutium Molisium” (“Clerici castra Penna de Domo”), lo stesso libro, per
quanto riguarda le decime che le chiese di San Nicola e di San Lorenzo pagavano nel 1324-25,
dice Penna de Homine. Nel “Justitieriatus Aprutii”, risalente attorno al 1300, è scritto “Penna
de Homo”. Il “Dizionario ragionato del Regno di Napoli” del 1804 scrive “Penna de Domo”.
Nell’archivio parrocchiale il documento “Stato delle anime della parrocchia di San Nicola”
del 1888 scrive indifferentemente Pennadomo, Pennad’homo, Penna d’homo, Pennad’uomo.
Come si vede c’è una gran confusione sul secondo termine, e fino a quando non è stato consultato il “Chornicon Vulturnese” si era indicesi sul motivo per cui le scritture erano così varie e
che davano di volta in volta un significato diverso al nome del paese.
Il “Chronicon Vulternense”, del monaco Giovanni, è la cronaca degli avvenimenti e
dei possedimenti dell’abbazia di San Vincenzo al Volturno. Il Chronicon, che fa anche parte
delle serie di documenti per la fonti della “Storia d’Italia” raccolti da Ludovico Muratori, non
solo è più preciso, ma è anche il più antico dei documenti finora citati. E’ da premettere che nel
Chronicon (tutto scritto in latino) non vi è nominato Pennadomo, ma è importantissimo per dare
una spiegazione al termine “Domo”. Nel marzo del 944 (documento 100) il Chronicon dice che
il pontefice Marino II conferma all’abate Leone di San Vincenzo al Volturno, la proprietà dei
possedimenti di vari monastri, tra i quali quello di Santa Maria in Palena che è così descritto:
“Monasterium Sanctae Mariae in Palene, territorio Domo”. Il documento 117 del 968 scrive
che l’imperatore Ottone I a richiesta dell’abate Paolo conferma al monastero di San Vincenzo
i precetti di Desiderio, Carlo Ludovico e Lotario con i vari monasteri, e per distinguere il monastero di Santa Maria di Palena scrive: “Monasterium Sanctae Mariae, quod constructum est
in Palena, territorio Domo”. I monasteri intitolati a Santa Maria era diversi e per distinguerli
l’uno dall’altro si apponeva sempre il territorio in cui sorgevano, per questo il Chronicon parla
del monastero di Santa Maria in “territorio marsicano”, “in territorio firmano”, “in territorio
teatino” e “in territorio Domo”. Inoltre il documento 133 del giugno 958 rileva che l’abate
Paolo concede a diversi signori appezzamenti di terra per la durata di dieci anni “que habemus
in Domo culta finem habet: ex una parte rivus, ex alia parte finem via publica” (che possediamo
coltivati nel territorio Domo, ha per confini da una parte il fiume e dall’altra la via pubblica).
E’ dunque evidente che esisteva una zona geografica ben delimitata che si chiamava
Domo. Ed ora è facile dedurre l’esatto significato del nome Pennadomo, che vuol dire: Penna
nel territorio di Domo. Ecco perché il nome più antico del nostro paese finora scoperto è quello
che si legge nel “Rationes decimarum Aprutium Molisium”, è “Penna de Domo”. Quel “de
Domo” serve per distinguere geograficamente il termine “Penna”, che intorno all’anno Mille
era una parola usata frequentemente. Nel già citato “Justitieriatus Aprutii”, un documento storico risalente a Federico II importantissimo anche perché per la prima volta l’Abruzzo viene
descritto in ogni sua singola parte e coincide approssimativamente con l’attuale regione, sono
citati diversi paesi o castelli che hanno a che vedere con il termine “Penna”. Infatti si legge di
“Lapenna”, “Furca de Pennis”, “Penna Lucis”, “Fara in Pinne”, “Pennapedemontis” e naturalmente “Penna de Homo”. Quindi per distinguere la nostra “Penna” da tutte le altre si aggiungeva “de Domo” (a parte alcuni errori di scrittura onomatopeici, ndr) cioè il territorio di Domo:
da qui il nome Pennadomo. Esiste un altro solo paese dalle nostre parti che termina in “domo”
e questo, guarda caso, è proprio Montenerodomo, perché anch’esso come Pennadomo, sorge
nella zona geografica descritta nel “Chronicon Vulternense”: “Que habemus in Domo culta
finem habet: ex una parte rivus, ex alia parte fine via publica”.
pagina 15 - pennadomo notizie
Le promesse e i progetti del rieletto primo cittadino a cominciare dal recupero urbanistico
Antonietta: “Premiata la mia coerenza”
Spiccano i campi fotovoltaici, la raccolta differenziata porta a porta. Solenne impegno per onorare degnamente i nostri
tre giovani patrioti della Brigata Maiella morti da eroi nella cruenta battaglia di Pizzoferrato
Salvo ricorsi e controricorsi, Antonietta Passalacqua,
nata a Torricella Peligna 56 anni fa, sposata con Antonio
Di Francesco da cui ha avuto tre figlie: Lorena, Emanuela
e Anna, e nonna di 3 nipoti con un altro in arrivo,
amministrerà il palazzo di Via Maiella per i prossimi 5
anni. Il suo programma elettorale aveva molte proposte
interessanti e si spera che vengano mantenute se non
tutte almeno per la maggior parte.
Ed ecco l’intervista che la Passalacqua ha rilasciato a
“Pennadomo notizie” pochi giorni dopo la sua riconferma.
Quali sono stati i motivi fondamentali per cui
i cittadini ti hanno concesso ancora la fiducia?
“La coerenza e il fatto di vivere la realtà di Pennadomo sempre al fianco dei cittadini.
Il comune non è molto frequentato, tranne che per pratiche burocratiche e amministrative, o servizi sociali.
Per cui mi trovano o li incontro per strada, parliamo in
qualsiasi luogo, al bar, in chiesa: c’è con loro un dialogo
continuo per migliorare la qualità dei servizi offerti che,
anche in una piccola realtà come la nostra, si debbono
creare le condizioni e le opportunità che consentono di
vivere bene”
Cosa pensi del ricorso legale dell’opposizione
alla tua “terza” rielezione?
“Non è una azione legale, perché questo ha un
costo. Io non sono una sprovveduta, per cui mi sono già
documentata prima di intraprendere questo “terzo” mandato, ma che per la legge non lo è. In quanto è vero che la
mia prima elezione ha superato i due anni e mezzo, ma tra
il primo ed il secondo mandato c’è stata una amministrazione commissariale, dal 10 marzo del 2007 alle elezioni
dell’aprile 2008. Alle recenti amministrative del maggio
scorso mi sono ricandidata non come un sindaco uscente,
ma come un cittadino normale che fa una sua lista. Dicevo
di non essere una sprovveduta e infatti sono andata prima
da un legale a Roma che ha seguito simili casi e ci sono
sentenze favorevoli a questo mio mandato che, ripeto, non
è il terzo consecutivo, ma il secondo. Ci sono state interpretazioni sia del ministero dell’Interno che della Corte
Costituzionale che mi hanno consentito di ricandidarmi,
proprio perché non c’è stata consecutività. E’ la legge che
mi ha quindi consentito di ricandidarmi, per cui ora la stessa legge non può dichiararmi ineleggibile, anche perché io
non ho nessuna pendenza legale in corso che me lo potrebbe impedire”.
Quindi caso mai la lista di opposizione “Amicizia e partecipazione” doveva fare un ricorso preventivo contro la tua candidatura?
“Lo hanno fatto, ma la prefettura non ha trovato nulla di irregolare sia alla mia candidatura che alla
mia lista. Loro pensavano di vincere eliminandomi dalla competizione elettorale, ma gli organi preposti non
hanno dato nessuna risposta contro questa loro tesi, e
in questo senso sono stata candidabile nel pieno rispetto delle leggi. E’ stata un’azione preventiva inutile. Ora
hanno presentato un reclamo pure al comune: ma contro
chi reclamano? Contro i cittadini che mi hanno rieletta?”
Quali saranno i principali interventi
dell’amministrazione sul recupero urbanistico del
centro storico?
“Sono principalmente tre: Via delle Starelle il
cui riassetto potrebbe fare da stimolo ai proprietari di
quelle casette, abbandonate, per riadattarle ad uso abitativo sfruttando anche gli incentivi statali attualmente
in corso che arrivano fino al 65% della spesa effettuata;
il progetto di recupero urbano ambientale ed artistico
dell’antico quartiere di Santa Maria e un finanziamento
di 150.000 euro per il recupero dell’ex scuola materna
di San Lorenzo da destinarsi a struttura per ricettività
turistica”.
A proposito di strutture turistiche, cosa ne
sarà di quella del lago?
“Il progetto prevede l’impiego di 200 mila euro.
Le strutture, realizzate dalle precedenti amministrazioni
con enorme spreco di denaro pubblico, non si sono rivelate fino ad oggi un buon investimento, in quanto poi
non c’è mai stata una saggia ed oculata gestione che è
finita pure in mani poco raccomandabili”.
Quali altri progetti intendi portare a termine
nei prossimi 5 anni?
“In cantiere ci sono opere per una migliore vivibilità ambientale, prima di tutto la raccolta differenziata porta a porta che dovrebbe iniziare nei prossimi
mesi, e questo comporterà un risparmio sulla bolletta.
La realizzazione di campi fotovoltaici: uno al cimitero
che consentirà una produzione ed un utilizzo in proprio
dell’energia elettrica, visto che è giunto alla scadenza
il contratto con la ditta “Saie” che forniva l’illuminazione per le cappelle. L’altro campo fotovoltaico, ben
più consistente rispetto a quello del camposanto, si dovrebbe realizzare nei pressi del bosco di San Leo per
fornire “gratuitamente” la corrente elettrica alle famiglie
residenti che ne faranno richiesta e per l’illuminazione
ordinaria e scenografica del paese. Altra opera estremamente indispensabile e necessaria per i tempi moderni
è quella di avere una veloce e certa connessione Wi-Fi
con la rete Internet e l’installazione di una “webcam”,
un occhio elettronico sempre acceso, notte e giorno, che
permetterebbe ai non residenti, in Italia e all’estero, di
vedere immagini in qualsiasi momento del proprio paese
in tempo reale”.
Vista la particolare configurazione del paese che
ha nella maestosa pietra liscia di Santa Maria il suo manto protettivo che costituisce una spettacolare e irripetibile scenografia, ma al tempo stesso è un impedimento alla
connessione Internet dato che la maggior parte dei ripetitori satellitari, televisivi e telefonici, sono installati a
Monte Pallano, ben venga quindi la realizzazione della
rete Wi-Fi (sperando che sia gratuita per i pennadomesi)
per stare al passo con i tempi che cambiano velocemente
per rimanere sempre aggiornati. Con l’avvento del Wi-
Fi c’è da sperare che anche il Comune ne approfitti per
creare un moderno sito Internet in modo che i cittadini
possano dialogare in tempo reale con l’amministrazione
per chiedere certificati vari ed avere risposte più rapide
per i quesiti sottoposti, per lo più di ordine tecnico, finanziario ed anagrafico. Per ora fermiamoci qui, con i
progetti futuri, che con la crisi economica in corso che
morde, potrebbero creare solo delle illusorie aspettative.
Ci sarebbe da parlare anche della realizzazione di una
nuova piazza in Via Mazzini con la contemporanea costruzione sottostante di garage e la sua opera dovrebbe
essere un ”project financing” (progetto di finanza), vale
a dire si dovrebbe finanziare da solo con l’acquisto dei
posti macchina mentre al Comune spetterebbe l’urbanizzazione (fognature, illuminazione sovrastante), ma
appunto con la crisi che ci farà compagnia per non si sa
ancora quanto tempo, questo progetto è destinato a rimanere a lungo nel cassetto dei sogni. Non è stato invece un sogno il positivo bilancio comunale del 2012 che
si è chiuso con un avanzo di cassa di ben 40.138 euro,
frutto di un’oculata amministrazione che ha visto le sue
maggiori entrate nell’imposizione fiscale, pari a 458.058
euro, grazie anche al recupero di morosità pregresse riguardanti Ici-Imu, raccolta rifiuti e gestione acqua.
Ma una domanda alla Passalacqua non
possiamo non fargliela e riguarda la giornata della
memoria per i nostri tre giovani eroi della Brigata
Maiella morti a Pizzoferrato il 3 febbraio 1944 per
la liberazione dell’Italia e di cui d’ora in poi non si
potrà non tenerne conto in qualsiasi libro di storia di
Pennadomo. Su questo argomento, che ci tocca tanto
da vicini, il sindaco ha dato tutta la sua più ampia
disponibilità, anche finanziaria, per onorarli degnamente, magari con un monumento ed altre importanti manifestazioni come quella in programma l’8
agosto con la “Giornata evento in onore della Brigata
Maiella” che si svolgerà in Piazza dell’Unione.
“Il progetto in onore dei martiri della Brigata
Maiella mi entusiasma tantissimo, anzi dirò di più, per
me si realizza un desiderio. Quando andavo alle manifestazioni con fascia e gonfalone, sentivo la mancanza di
qualcosa che a Pennadomo doveva toccare di diritto: la
medaglia d’oro al valore militare.
Coloro che hanno combattuto fino a dare la vita per il
loro Paese non devono essere mai più dimenticati. Il
prossimo 8 agosto dedicheremo ai tre giovani patrioti
l’edificio comunale con una targa marmorea commemorativa a futura memoria”
Si sa che il potere genera invidie e maldicenze, non sei stanca di fare ancora il sindaco?
“Ritengo che quando operi per una giusta causa,
per la giusta causa non ti stanchi mai. Il sindaco non
si fa stando seduti su una sedia o attaccati al telefono,
bisogna muoversi, ed io mi muovo, vado in tutte le varie
sedi istituzionali e riunioni con enti che contano: ci sono
sempre per il solo bene di Pennadomo”.
pagina 16 - pennadomo notizie
Laura Di Renzo ci conduce alla riscoperta dei “dialetti” gastronomici
Mangiare all’italiana,
nutrirsi mediterraneo
Dal 2011 la dieta mediterranea è entrata a far parte della lista rappresentativa del “Patrimonio culturale immateriale dell’umanità”. Come è a tutti noto la dieta mediterranea è un modello alimentare che racchiude nel
suo interno una molteplicità di prodotti dal vino all’olio, dal grano al pesce azzurro, dalla gran varietà di frutta
fresca a legumi ed ortaggi tipici fin dall’antichità di questa area geografica di cui l’Italia è il paese più rappresentativo. Questi ed altri prodotti costituiscono il cardine di quella speciale “strada del cibo” che l’Unesco ha
riconosciuto come patrimonio dell’umanità. Se in prospettiva biologica il cibo è primariamente nutritivo che
“serve a rifornire il corpo, a costruire ossa, denti e muscoli”, da un punto di vista culturale è peculiarmente
linguaggio, sistema di pensiero, pratica sociale ed esperienza emozionale. A riguardo del “linguaggio” antropologico del cibo, l’Italia è la nazione nell’area mediterranea, che offre una maggiore varietà di “dialetti” e si
connota per la sua speciale gastronomia del tutto distinta e peculiare. Una fisionomia che etichetta, ad esempio, il “dialetto” della cucina emiliana come grassa, la pugliese come saporita, la ligure come aromatica, la
piemontese come formaggiera, la toscana come contadina, l’abruzzese come pastorale, la veneta come polentona, la campana come pastaiola e la calabrese come piccante. L’originalità di questi “dialetti” gastronomici,
ha dato luogo ad un mosaico di piatti e di prodotti tipici a base di farro, cicerchie, caruselle, baccalà, prugnole,
sarde, scapece, ecc., un tempo facenti parte della cosiddetta cucina povera, e in seguito rimossi nel periodo
del boom economico degli anni sessanta del secolo scorso con il conseguente svuotamento degli spazi rurali
e montani a favore di un inurbamento nelle grandi metropoli e il ricorso ad alimenti prodotti dall’industria e
capace di assicurare conservabilità al cibo al di là dei tempi e dei luoghi di produzione.
“Mangiare all’italiana, nutrirsi mediteranno” (sapori e pratiche alimentari tra cultura, salute e
territorio) il nuovo libro scritto da Laura Di Renzo, dottoressa specialista in Scienza dell’Alimentazione,
docente e ricercatrice presso l’Università di Roma Tor Vergata nella facoltà di Medicina e Chirurgia, non
è il solito libro di ricette e di cucina che affollano gli scaffali delle librerie, ma è un trattato antropologico
culturale del cibo e delle sue qualità nutritive, un modo diverso di confrontarci con gli alimenti e della loro
utilizzazione. In pratica è un manuale salutistico che ci insegna a conoscere i cibi a 360 gradi, non solo per
le loro qualità nutrizionali, ma anche i componenti bioattivi. La Di Renzo, che ha partecipato più volte come
esperta della nutrizione anche in varie trasmissioni televisive di Raiuno come “La vita in diretta” con Mara
Venier e “Occhio alla spessa” ed ha pubblicato numerosi articoli su riviste scientifiche nazionali e internazionali del settore, con questa sua nuova iniziativa editoriale, scritta in collaborazione con altri colleghi e
professori universitari e pubblicata dalle edizioni dell’”Accademia italiana cucina mediterranea”, ci ricorda
che la “dieta”, contrariamente a quanto si pensa, è un genere di vita, o meglio ancora uno stile di vita, collegato alla quantità e qualità di alimenti consumati abitualmente e che è diverso da una persona all’altra, ma
per tutti dovrebbe costituire la base, il credo, del proprio stato di buona salute. La trasgressione allo stile di
“Lu pajose mè”: il piccolo mondo antico
del contadino Vincenzo Ranalli
Pennadomo è un piccolo mondo antico, dove il tempo si è fermato, dove tutto scorre tranquillo,
placido nei suoi dintorni, nei suoi solari paesaggi di pietre lisce, di acque dolci e rinfrescanti. Pennadomo
è un piccolo mondo antico eletto a residenza dalla bellezza e dall’incanto dell’armonia del creato e che
non si può non amare. Il piccolo mondo antico di Pennadomo è l’infinito di Vincenzo Ranalli. Contadino e
poeta: una sintesi di vita, dove la poesia, apparentemente solo in età non più giovanile, è diventata, ora che
non fatica più per le campagne portandosi dietro il suo asinello, l’essenza, la ragione della sua esistenza
e del suo mondo, semplice e familiare, di tipo primitivo, ma fonte di certezze razionali e di meditazioni
laiche. Pennadomo è per Vincenzo una visione quotidiana che si rigenera di stagione in stagione, ma che è
sempre uguale a se stessa. Contempla, medita e trasmette i suoi sentimenti, simili a quelli degli innamorati,
per condividerli con i familiari e con gli amici. E questa condivisione è la missione del suo esprimersi in
poesia dialettale abruzzese. “Lu pajose me” è un idillio, una dichiarazione d’amore e di fede per Pennadomo con le sue visioni ancestrali nella luce solare e lunare di scenari apparentemente silenziosi, ma che
invece declamano, forti e distinti, realtà materiali e idealizzate, fonte di infinita felicità. Vincenzo vuol far
sapere a tutti che “lu pajose me è lu pajose ‘chiù bille di la vallaote, picchè la natiure ‘sta lescje balle l’ha
criote”. Paragona la grande pietra liscia, che sovrasta e protegge come un manto prezioso Pennadomo, a
‘nu giuielle, la notte, ‘nghi li liùce appicciète pore ‘nu prisapie, lu jurre ‘nghi la liùce di lu saole, è angaore
‘chiù bille”. Mai dichiarazione d’amore fu così intensa e sincera per il proprio paese natale, per il proprio
piccolo mondo antico.
All’originale vena poetica, che si esprime con un dialetto antico e ormai desueto, anche nella scrittura, che molti oggi fanno fatica a comprendere, come le antiche lingue romanze, si accompagna una indistinta nostalgia per il tempo che passa, una amara meditazione sulla vita che ha intrapreso la curva dell’orizzonte verso l’occidente, quella del tramonto. La contemplazione passa dall’infinito materiale all’infinito
del divino, dell’eterno. E “Lu pajose me” da idillio si trasforma in un lamento esistenziale: “Pajose mè
acche so nate e so cresciute, tanda bène tè voliute, ti so tant’amate. Pocha jurre da saule tè lascjaote, ma
mò vijcchie mi so faotte, pocha timpe mè rimaste, li jurr pi mè è cundaote”. L’animo desolato e angosciato
ritrova tuttavia coraggio per una preghiera di ringraziamento, come quelle che si recitano la sera prima che
ci si addormenti, ma non davanti all’immagine di un santo, o di Padre Pio o di una Madonna, ma di fronte
alla maestosità della santità delle pietre di Pennadomo che Vincenzo porta da sempre dentro di sé: “Praste
ti laoscje, tiù scj bille ‘mbaocce a sta lescje aringimete. E ‘nghi tò cundiende ci so staote, ta ringraozje di
quelle che mi daote”. Il piccolo mondo antico di Pennadomo, al quale il rimatore rurale pur nella sua semplice povertà letteraria, ha voluto tanto bene come ad una donna amata e mai tradita con un’altra amante
e da cui si è diviso solo raramente, ora diventa il preludio del divino immanente e avverte già la presenza
di un “altro” pajose me che vorrebbe in tutto simile a quello dove “si vè saupre a la pranette di Sanda
Marè e sije tutte chi li schele, e si è ‘na bell’jurnate da ‘ngieme, pure lu mare pù vedò”. Ritorna alla fine in
Vincenzo la serena visione di quel sereno distendersi tra l’immensità delle pietre lisce del pajose me, il più
bello della valle del suo eden, che è il suo mondo, il suo pensiero, la sua poesia e la sua vita rurale e che
aleggerà per sempre nel suo spirito come la voce del vento.
Laura Di Renzo
vita, infatti, potrebbe generare patologie varie. Ed è proprio per questo
stile di vita all’insegna del benessere che si dovrebbe sempre tenere a
mente, che Laura Di Renzo, nel riproporre le ricette regionali della sapiente tradizione culturale-gastronomica regionale, oltre agli ingredienti e ai tempi di preparazione, ci propone pure un quadro riepilogativo
del “Contenuto in energia e nutrienti della pietanza per porzione” che
comprende: kilocalorie, indice di qualità nutrizionale, indice di qualità lipidica, indice di trombogenicità, contenuti di proteine animali, di
proteine vegetali, di fibra e, assoluta novità, l’indice di “Adeguatezza
Mediterranea” con il relativo punteggio. Il libro è nel suo insieme una
ricca antologia di cultura gastronomica mediterranea di cui ripercorre le
origini fin dall’antichità e di ogni cibo propone una didascalica scheda
organolettica alla portata di tutti. Per quanto riguarda il “dialetto” gastronomico dell’Abruzzo, in “Mangiare all’italiana, nutrirsi mediterraneo”, la Di Renzo ha scelto le seguenti ricette con i relativi ingredienti,
tempi di preparazione e indici nutrizionali: “Agnello incaporchiato”,
“Alici sperone”, “Baccalà alla griglia”, “Cardone in brodo”, “Cavolo
strascinato”, “Ceci allo zafferano”, “Crudo di calamaretti”, “Guazzetto
alla pescarese”, “Minestra di ceci e castagne”, “Pallotte cace e ova” e
“Pizza e ‘ffoje”, queste ultime due ricette sono state riprese dalla tradizione culinaria contadina di Pennadomo.
Lettere al giornale
Caro Ottavio,
quando ho ricevuto la tua e-mail sono stato sorpreso
da un duplice sentimento. Il primo è stato di gratitudine e
di apprezzamento nei tuoi riguardi per avere, seppure con
tanto ritardo e non certo per colpa tua, rimediato ad una
colpevole mancanza che pesa sulla coscienza di tutti noi di
Pennadomo, l’altro di gioia. La gioia di rendere giustizia
e onorare, finalmente, quei meravigliosi giovani che, più
di ogni altro nostro concittadino, hanno onorato il nostro
paese. Quel giovane sangue versato ha fertilizzato e nutrito
una democrazia che allora era nella mente e nel cuore, solo
dei più forti e più giusti degli italiani. Lorenzo, Luigi Donato
e Nicola erano fra Questi. Oggi che spesso ci tocca assistere
a tentativi di orrendo revisionismo storico, che vuole
accomunati sullo stesso altare chi sacrificava la propria
vita per la libertà e la dignità di tutti, con chi difendeva la
tirannide, il sopruso e il privilegio di pochi, la tua iniziativa
mi sembra più che mai giusta e opportuna. A volte penso che
se i nostri giovani avessero immaginato l’uso che avremmo
fatto della libertà e della democrazia, se avessero saputo
del disprezzo per le istituzioni, che negli ultimi tempi ha
raggiunto picchi inusuali, persino nel nostro paese, forse
quel tremendo mattino di inizio febbraio non avrebbero mai
dato inizio alla scalata del lo ro Calvario. Spero e auguro
che la tua iniziativa abbia il successo che merita.
Nicola Di Gravio
Caro Ottavio,
ho riletto i tuoi articoli ed eccomi qui a risponderti.
Quando tempo fa go ricevuto la tua telefonata, immagina
la mia sorpresa: una “voce”, la tua, che mi chiedeva e più
che altro mi raccontava le vicende della Brigata Maiella
e di mio padre Nicola... Inutile negare la mia meraviglia,
stavamo parlando di fatti in buona parte a me sconosciuti e di
aspetti della vita militare di mio padre che non sapevo, visto
che è sempre stato riluttante a raccontare e raccontarsi,
motivando che si trattava di cose tristi e ricordandomi che
la mia è una “generazione fortunata” in quanto non ha
conosciuto la guerra... ma questi sono ricordi.
Elio De Ritis
pagina 17 - pennadomo notizie
“Anima divelta” un diario di vita interiore storicizzato nel tempo
Il “mal di vivere”
di Maria Lucci
“Barche immobili nell’immobile meriggio.
Il vento culla le loro vele, in attesa, orientate al silenzio...”
Maria Lucci insegna Lettere al liceo scientifico per le scienze applicate J.Von Neumann di
Roma. Ha collaborato con le case editrici scolastiche Mondadori Education e Zanichelli
La scoperta delle poesie di Maria
Lucci raccolte in “Anima divelta”
(Rupe Mutevole, 2011) è avvenuta per caso e già ad una prima
lettura mi ha colpito per la sua
apparente semplicità classica ma
al tempo stesso per il suo profondo significato del mistero primitivo delle parole. L’antologia l’ho
divisa, ma solo per comodità e
brevità letteraria, in due momenti
di vita: il viaggio e la sofferenza
umana o il “mal di vivere”. Ma
i temi di riflessione che scaturiscono dalla lettura di “Anima
divelta”, non si esauriscono qui,
ognuno ne può cogliere altri,
come in un caleidoscopio dalle
infinite sfaccettature intimistiche,
letterarie e riflessive. Non a
caso “Anima divelta” si apre con
“Fuga” e si chiude con “Vele”, inframmezzate da tanti approdi, da
molteplici ripartenze, da inviti al
viaggio, da ritorni, da isole reali
come “Itaca” o immaginarie, da
albe adriatiche o aurore greche,
da città visitate e vissute con uno
sguardo insolito, vedi “Assisi” di
cui coglie l’essenza mistica della povertà di San Francesco “dal
cuore questuante”, o l’incontro con i “Pastori dell’Ellade”,
“viandanti spogliati delle comuni incertezze affondano il dubbio
nelle acque piovane dei pozzi della nostra malinconia”.
Ma è “Itaca” l’isola del
ritorno, dove ritrovare la propria
identità, dopo un lungo viaggio
con il mare in tempesta, che ha
forgiato il navigante, arricchendolo di nuove esperienze. Ad
Itaca il ritorno non è sempre alla
portata di tutti, il viaggio riserva
insidie e pericoli inaspettati. Solo
chi resiste agli infiniti pericoli del
mare e dei sogni ingannevoli, riesce a raggiungere il momentaneo
o perenne placido approdo. Lungo il viaggio di ritorno per Itaca,
come ci ricorda il poeta greco
Kafavis, non bisogna temere o
aver paura di scontarsi con l’ira
cieca dei Ciclopi, o con le trame
sensuali di Calipso e Circe. Sono
pochi o inesistenti i momenti di
calma del viaggio. La paura di affondare senza ritorno tra i gorghi
di Scilla e Cariddi, ti avvolge e ti
incute terrore e genera angoscia e
ti scoraggia e ti riempie di dubbi. Ci si salverà da tutte queste
sventure solo se non le portiamo
dentro di noi, solo se non ci mettiamo contro di noi stessi, solo se
siamo posseduti da un sentimento
forte e deciso della destinazione,
dell’approdo che, un bel giorno,
ci ripagherà dei tormenti e delle
sofferenze anche fisiche, non solo
morali. Ed eccola la nostra Itaca,
l’Itaca di Maria Lucci, che ci accoglie con la “voce del mare canto assordante di cicale; null’altro
tra i verdi selvatici cipressi a raggiungere l’azzurro; l’orizzonte è
lì, un’attesa, un vuoto a riempire,
un domani da allevare”. Rientra
ad Itaca “un battello con il suo
carico di fatica”, e “offre il vento all’anima divelta una sosta sui
muri ancora caldi di scirocco”.
E dopo un tempo indefinito di
assenza da Itaca l’approdo tanto
atteso può riservare un senso di
smarrimento o di estasi: “passi
arditi nel buio incespicano risalgono il vuoto del pensiero quando al di là del cuore nulla sembra
orientarci; oggi i sentieri si confondono e l’orizzonte non è più”.
E’ qui, nella tua Itaca, nella tua
patria, che il tuo viaggio approda nella gioia ultima, e s’innalza
al di sopra del dolore sopportato
lungo la rotta del ritorno.
Ma Itaca, in Maria e in
noi, non è solo l’isola del ritorno, l’isola di indomiti fanciulli
di mare, dell’emigrante che ritrova la sua casa paterna, gli affetti
di una donna, una famiglia che
non ha potuto godere in pieno,
è l’isola con “le barche immobili nell’immobile meriggio”, è
l’isola della ripartenza. Quelle
barche che ci hanno riportato ad
Itaca, non sono state ormeggiate
definitivamente al porto con funi
che resistono alla salsedine o ai
flutti impetuosi delle onde, sono
invece lì con il “vento che culla
le loro vele, in attesa, orientate
al silenzio”, cioè orientate verso un nuovo orizzonte forse non
lontano, a portata di mano, “come
la lievitante nostalgia di chi fece
l’uomo”. La poetessa ci dice che
è di nuovo arrivata l’ora di rimettersi in viaggio, “l’indistinto orizzonte lentamente si apre un nuovo
varco”, è di nuovo il tempo di un
“nuovo vuoto a riempire, un altro domani da allevare”, e che ci
spinge a esplorare un’altra Itaca,
di riprendere il viaggio a ritroso,
quasi alla ricerca di un passato,
di un “tempo perduto” nel quale
si è vissuto momenti che ora si
rimpiangono e di cui forse non si
comprende più il senso. Si riparte
quindi per crescere intellettualmente e ampliare ancora di più il
patrimonio di conoscenze. Maria
riassume con queste riflessioni
intimistiche del viaggio, che forse ci illudiamo di compiere, ma in
realtà ci vuol dire che il viaggio
è sempre intorno e dentro di noi
per meglio conoscerci. Come già
ci suggeriva Socrate con la sua
massima filosofica “conosci te
stesso” e che la nostra poetessa
la riassume con questa profonda
similitudine: “Come un bastimento, in cerca di ritorno, dove
attraccare, è il mio cuore”.
La sofferenza umana, o il “mal
di vivere”
L’altro tema affrontato da Maria è “il mal di vivere”.
E’ il problema della sofferenza
dell’uomo innocente, la sofferenza del Giobbe biblico, sofferenza
senza colpa, la sofferenza morale
che rimane un mistero.
Sofferenza e dolore sono termini sinonimi, tuttavia essi hanno
sfumature diverse: il dolore è
soggettivo in quanto è la percezione di una lesione fisica, la
sofferenza è oggettiva poiché è
la percezione di una lesione che
riguarda la personalità e non
è una condizione eccezionale
dell’esistenza, ma coincide con
il sentimento umano del vivere.
Anche nelle poesie della nostra
poetessa si riscontra la “malinconia”, vale a dire la convalescenza dell’anima, che a differenza
della tristezza, è un sentimento
complesso, ambiguo, una sofferta
tensione spirituale che ti fa sentire al tempo stesso dolcemente
fuori della vita, e tuttavia dentro
le viscere dell’esistenza, dove angoscia e desiderio si mescolano.
La malinconia è uno stato d’animo e appartiene al vissuto, alle
sensazioni ed esperienze individuali. Nello spirito malinconico
regna un’atmosfera di silenzio e
di quiete, come nel crepuscolo,
nel vespro, che annuncia la fine
del giorno ma c’è ancora la luce
sia pure velata dalle prime ombre
della sera: è il momento in cui si
assiste ad una apparente visione
di immobilità. “L’orizzonte è lì /
un’attesa / un vuoto a riempire /
un domani da allevare./ Barche
immobili / nell’immobile meriggio. / Il vento culle le loro vele /
in attesa orientate al silenzio”. In
questi versi, sempre da “Itaca”,
per Maria lo spazio, l’orizzonte nel meriggio immobile, è uno
spazio enigmaticamente vuoto,
e solo apparentemente desolato,
segna un tempo sospeso, bloccato, immoto, suggerisce un tempo
“altro”: vale a dire l’assenza di un
tempo, “la divina indifferenza” di
Montale negli “Ossi di seppia”.
E’ il “taedium vitae” di
Lucrezio, la “tranquillitate animi” di Seneca. Anche quando in
“Notturno” Maria dice che “il
presente grecato / edulcora l’o-
rizzonte / ma il cuore spaesato /
da inerziali latitudini / espianta
l’assenza / che frange l’onda della vita / quando la morte / declina
/ la sua cesura eterna” manifesta
il suo “mal di vivere” la sua sofferenza interiore che è nelle cose
e in tutto il creato.
Pure in “Tardo agosto” si tocca quasi con mano la sofferenza che genera dolore e infelicità
nell’impossibilità di “decriptare
una nuova geografia del cuore”,
poiché il tardo sole d’agosto,
nell’ora del crepuscolo, “oltre le
spaesate fogge, l’ombra nitente,
avamposto del nulla, narra ciò
che resta del vissuto, atteso e già
ipotecato, perché nella prossima
stagione, i gerani tornino a infiorettare i davanzali”.
“Il mal di vivere” , questa sofferenza interiore, non sempre facile
da decifrare e dall’origine incerta, non è in Maria Lucci fine a sé
stessa, né è intrisa di pessimismo,
ma è il calore, il fuoco, il cibo,
che mantiene in vita il suo animo
e la sua creatività: soffrire è conoscenza.
La conclusione di questa
breve digressione letteraria sulla
creatività della nostra poetessa,
che fa tanto onore a Pennadomo,
è che “Anima divelta” descrive
un viaggio di grande raffinatezza
nella memoria individuale, è un
percorso interiore, riflessivo. Lo
stato psicologico si traduce con
immagini di scabra essenzialità
e musicalità. La tensione poetica viene allentata dal ricorso ad
elementi colti e didascalici della
cultura ellenistica con sapienti
mediazioni all’intimismo nitido
ed essenziale, tesi a definire una
realtà non trasognata quando
parla di se stessa e delle proprie
emozioni, e dove la poesia fa da
stimolo allo scavo nel ricordo
e nella coscienza, fino a rappresentare la complessità della vita
reale, “mal di vivere” compreso. “Anima divelta” è un diario
di vita interiore, storicizzato nel
tempo, proprio come la pensava
Baudelaire, secondo cui la “poesia è ciò che vi è di più reale”.
Ottavio Di Renzo De Laurentis
Itaca
Voce del mare
canto assordante di cicale.
Null’altro
tra i verdi selvatici cipressi
a raggiungere l’azzurro.
L’orizzonte è lì, un’attesa
un vuoto a riempire
un domani da allevare.
Barche immobili nell’immobile meriggio.
Il vento culla le loro vele in attesa
orientate al silenzio.
Rocce a picco ostili riluttanti alla presa.
Un gallo chiama il giorno.
Sospeso tra il geranio e gli ulivi
Pietre seccate spaccate levigate dal mare,
dal vento, dall’uomo.
Eppure lievi come la lievitante nostalgia
di chi fece l’uomo.
pagina 18 - pennadomo notizie
“Pennadomo scenario di pietra” è una summa di atti
catastali e notarili di grigie baronie
Un libro algido
senza vita e senza “storie”
L’autore si appropria della definizione dell’origine del nome di Pennadomo
ricopiandolo da un nostro articolo pubblicato nell’aprile del 1977.
La Storia si fonda e si
sviluppa sulla vita “reale”, tanto
è vero che per gli antichi la Storia era maestra della vita, come
affermava Cicerone, in quanto
ogni storia è storia del pensiero,
elemento distintivo delle persone. Il filosofo latino Seneca si
chiedeva: “Che storia sarebbe
la Storia, senza le Storie?”, cioè
senza la storia delle persone che
sono le vere protagoniste della
Storia? La storia della civiltà della vita delle persone è dunque la
più nobile di tutte, più dei reperti
archeologici o di civiltà sepolte.
E tutto questo, vale a dire la storia della civiltà di Pennadomo, è
assente nel libro di Lucio Cuomo
dove le persone hanno un ruolo
marginale, privilegiando al contrario noiosi atti catastali e notarili. “Pennadomo scenario di
pietra” (Casa Editrice Tabula srl,
Lanciano, 2011), edito in collaborazione con il Comune, ignora
completamente la drammatica
partecipazione dei pennadomesi nelle due guerre mondiali e il
contributo dato nella lotta di liberazione d’Italia dal nazifascismo
principalmente nella battaglia di
Pizzoferrato il 3 febbraio 1944.
Forse non era questo l’intento
dell’autore, più avvezzo a frequentare mappe onciarie, revele
e reperti antichi di scarso valore
archeologico, piuttosto che storie
di persone reali che hanno lasciato un’impronta per la nostra storia di pennadomesi di cui essere
orgogliosi.
Una desolante solitudine
Per queste ed altre ragioni il libro è algido, privo di qualsiasi scenario di civiltà di vita reale, ma solo di pietre e di povere
proprietà fondiarie che passano
da un famelico barone ad un altro, da un ingordo feudatario ad
un altro, da una mediocre servitù
ad un’altra. Un libro di storia, al
contrario, è anche il racconto di
Storie di relazioni fra persone, di
incontri-scontri con altre realtà
vicine e lontane, di economia, di
politica, mentre qui Pennadomo
è considerato soltanto nella sua
desolante solitudine, nel suo relativismo minimalista, come se
fosse vissuto in un deserto geografico, culturale, economico e
sociale, esistente solo come preda di piccole e sordide baronie,
di dispute tra grigi agrimensori e
gretti esattori. Le vicende descritte dal Cuomo saranno, caso mai,
delle ridondanti cronache copia
e incolla di avvenimenti catastali che con la civiltà e la storia
delle persone hanno ben poco a
che vedere, e che poco o nulla
aggiungono alla storia di Penna-
domo già in nostra conoscenza.
La scrittura peraltro non
è scorrevole, ricalca il freddo linguaggio notarile e bancario; manca la piacevolezza del racconto,
componente essenziale per lontane vicende storiche per di più di
scarso valore; assenti i raccordi e
i legami tra un avvenimento ed
un altro, i perché di quell’evento, e quando ci sono non sono
approfonditi a sufficienza. La
componente di partecipazione,
o identificazione, emotiva degli
algidi fatti descritti, è del tutto
assente nel lettore pennadomese
che non vi trova nessun avvenimento storico o personaggio di
cui andare fieri. Si fa apprezzare il volume solo per i paragrafi
che riguardano i cognomi, che in
gran parte rispecchiano gli attuali, e la toponomastica delle campagne, ma senza indicare peraltro
la localizzazione geografica delle
stesse con una mappa didascalica: ad esempio dove si trovano la
Pantera, le Casarine, o le Grascedere?
Eccessivo ricorso al copia e
incolla
In questo ambito di totale ridondanza di documenti e di
profonda noia ci sono non meno
di 300 pagine su un totale di ben
390. Interessa forse a qualcuno,
ad esempio, leggere le superflue dispute per la successione
dell’eredità di Sinadoro Paglione
che nel 1740 ricavava dal feudo
di Pennadomo un po’ di salme di
vino e l’affitto di alcuni terreni
o di case diroccate? Interessa a
qualcuno leggere le decine e decine di pagine scritte per lo più
in latino di grigie eredità feudali
o baronali? Come quella di circa
40 pagine dedicate agli Annechino? La mancanza di logica
nell’eccessivo ricorso al “copia e
incolla” di tanti inutili documenti
notarili e onciari, si denota anche
nell’assenza di traduzione corrette in un italiano leggibile e comprensibile di vari testi in latino,
per non parlare dell’assenza totale di sintesi. Clamoroso a questo
proposito è la riproduzione della
pergamena del 1535 conservata
nel Comune e scritta in latino e
in parte anche in spagnolo inerente la famiglia Colonna: se è
un documento storico di primaria
importanza, come si vuol far credere per Pennadomo, come mai
non è stata proposta nessuna traduzione corretta e integrale? Ma
forse è meglio lasciare quel documento nelle ombre misteriose
della lingua latina, altrimenti ci
sarebbe stato il rischio di incorrere in traduzioni approssimative
ed inesatte, come quella di pag.
27, dove traducendo un testo di
Plinio il Vecchio sulla descrizione dell’Abruzzo nell’antichità,
la città di “Histonium” diventa
Istonio, quando è risaputo da tutti
che “Histonium” non è altro che
Vasto (come “Anxanum” è Lanciano).
“Dare a Cesare quel che è di
Cesare”
Il Cuomo inoltre nel
cercare di una dare una sua spiegazione sull’origine del nome di
Pennadomo, cita anche il sottoscritto a pag. 42, tra coloro che
per primi ne hanno individuato l’esatta terminologia. Ma a
parte la data sbagliata nella citazione 1971, invece che 1977
quando ho scritto l’articolo e di
cui gli avevo spedito una copia,
mi corre l’obbligo di ricordargli
che sono stato il primo a citare il
“Chronicon Vulternese”, senza
il quale si brancolerebbe ancora
nel buio per spiegare il toponimo del paese. E poi si appropria
della definizione del nome di
Pennadomo così come l’avevo
sintetizzato nel 1977 sul giornale
di Pennadomo. Scrive il Cuomo:
“Pertanto si può tranquillamente
affermare che il termine Pennadomo identifica una Penna che è
sita nel territorio Domo”.
Ed ecco quanto scrivevo io a
conclusione di un ragionamento
logico storico: “A questo punto
è facile dedurre l’esatto significato del nome Pennadomo, che
vuol dire Penna nel territorio di
Domo”. E’ vero che il Vangelo
dice che “nessuno è profeta in
patria”, ma afferma pure che “bisogna dare a Cesare quel che è
di Cesare”, per cui l’esatta e primigenia storica definizione del
nome di Penandomo è opera del
sottoscritto giornalista pennadomese.
Tesi precostituite, supponenza
e verità assolute
Nel capitolo dedicato
alla chiesa di Santa Lucia al Tutoglio, scrive l’autore a pagina
322 che tra “le varie leggende
che si raccontano a Pennadomo,
la più interessante e circostanziata è certamente quella relativa
a S. Lucia” e cita E. D’Ambrosio il quale racconta ne “La vita
audace” del 2003 che, durante
“la guerra di Federico II contro
Tommaso da Celano, nel 1221,
l’imperatore si fermò a Tutoglio
e vi fondò una chiesa, dedicata
a S. Lucia, il cui culto era molto vivo in Sicilia”. Tutto ciò che
D’Ambrosio scrive è ricopiato
da un mio articolo scritto il 30
luglio 1985 per “Il giornale d’Italia” dal titolo “Pennadomo:
un’antica riserva di caccia di Federico II di Svevia”. Strano che
il Cuomo così scrupoloso nello
scovare atti notarili e catastali
del lontano passato, non abbia
fatto un’attenta ricerca sull’origine di quello che peraltro lui, e
solo lui, definisce leggenda. E la
sua confutazione non è per nulla
convincente per una sua tesi precostituita (si vedano le arbitrarie
e surreali argomentazioni dubitative di una chiesa dedicata a
S. Lucia contro la secolare “vox
pupuli” e smentito da documenti
storici), nel senso che è vero solo
ciò che lui giudica storico e attendibile. Intanto gli ricordo che
sbaglia data quando afferma che
Federico II nel 1221, allorché era
impegnato nell’assedio di Boiano e Roccamandolfi in Molise,
ritornò in Sicilia perché gli era
morta la moglie Costanza d’Aragona, la quale invece morirà un
anno dopo nel 1222; l’imperatore
vi fece ritorno per convocare una
dieta a Messina per compiacere
papa Onorio III e promulgare
norme morali sulla vita pubblica.
Quindi il Cuomo si cinge di supponenza irritante e di
verità assolute che esulano dalla condotta di un vero storico, il
quale non rifugge mai dal dubbio
cartesiano, in quanto immagina
che potrebbe esserci un documento, un indizio, una data che
lui ancora ignora, e si fida ciecamente, come fosse Vangelo, solo
delle mappe onciarie del regno di
Napoli che sono state scritte ad
uso e consumo dei famelici baroni. Ricordo che tutte le storie
sull’origine di Roma raccontano
di una lupa che allattò Romolo
e Remo, e tutti sanno che è una
leggenda, eppure non c’è libro
sulla storia di Roma che non parli di questa famosa lupa e così
pure del ratto delle Sabine. E
allora chiediamo all’autore, che
nessuno lo ha eretto a giudice,
che ci lasci immaginare che Federico II sia venuto nelle nostre
terre, partendo da tracce storiche
ben circoscritte e documentate,
come l’assedio nelle non distanti cittadine del Molise nel 1221,
per la sua passione nel cacciare
i falchi che numerosi nidificano
sulle nostre “penne” e per la sua
riorganizzazione amministrativa
del 1233, in funzione della lotta
contro il papa, della nostra regione con il “Justitieriatus Aprutii”
con Sulmona capoluogo.
Non è consentito quindi solo
a lui immaginare, come fa, ad
esempio, sulle presunte mura di
Pennadomo e le sue supposte
torri ivi esistenti, o sul fantasioso e contraddittorio sito (dentro
o fuori le mura?) dove colloca
la diruta chiesa del Peschio, oppure quando ricorre a frasi tipo:
“c’è da supporre che...”, “allo
stato attuale la documentazione
non ha permesso di capire...”,
“il luogo dove, probabilmente,
era...”, e via dicendo. E’ lecito
chiedersi quindi quali siano le
sue credenziali scientifiche, accademiche e universitarie (di solito sono pubblicate nella terza o
quarta pagina di copertina di un
libro) per erigersi a severo giudice nell’affermare questo per me
è originale e quello è leggenda
o è un documento manipolato:
concezioni assolutistiche che,
ripetiamo, sono lontani anni luce
dalla mentalità di un vero storiografo che si rispetti.
O. D. R. D. L.
Pennadomo Notizie, rivista di informazione per i
pennadomesi residenti in Italia e all’estero.
Direttore responsabile:
Ottavio Di Renzo De Laurentis,
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Progettazione grafica e impaginazione: Dario Campoli
Stampa: Cimer, Via M. Bragadin, 12 - 00136 Roma
Ringraziamenti:
Antonio Piccone, Nicola Troilo, Cinzia D’Angelo, Stefano
ed Elena D’Angelo, Patrizia e Raffaele Di Francesco, Alberto
Fagnani, Assunta Di Renzo, Filomena Di Renzo, Nicola Di
Gravio, Laurina Di Gravio, Elio De Ritis, Luisa De Ritis,
Silvana Iezzi.
pagina 19 - pennadomo notizie
La “sagra della primavera” a Pennadomo: la “Passione” e l’Infiorata del Corpus Domini
A Santa Maria un Calvario di incantevole bellezza
Nicoletta Di Florio (la “Mater dolorosa”) e Antonio Berardinelli (il Cristo crocifisso) tra i protagonisti della “Passione”.
Uno straordinario percorso religioso che si snoda per le vie del paese.
Da tre anni a Pennadomo, grazie alla giovane
e rinata Pro Loco, si assiste ad una nuova “sagra della
primavera”, una celebrazione tra sacro e folklore drammatico di uno spettacolo collettivo, che attinge linfa a
cerimonie dei riti della cristianità che si perpetuano da
secoli remoti: la rappresentazione della Passione di Gesù
Cristo e l’infiorata del Corpus Domini che si ripetono
analoghe in varie regioni italiane. La partecipazione popolare è notevole e lodevole, e tutto nasce e si sviluppa
all’interno della gente del paese: dalla presidente della
Pro Loco, Mara Di Francesco, che sponsorizza la manifestazione para-religiosa, ad Angelina Ranalli l’animatrice
e la regista della sacra rappresentazione con la supervisione e l’imprimatur del giovane parroco Don Giuseppe
Leanza. La “Rappresentazione della Passione di Cristo”
con agiografici quadri viventi per le strade del paese,
dall’”Ultima Cena” alla “Deposizione di Gesù dalla Croce”, si inserisce nell’antica tradizione medievale quando
il popolo, guidato da confraternite religiose e da ordini
monacali mendicanti, dava vita ad una liturgia drammatica incentrata sul racconto della Passione e crocifissione
del Salvatore come è raccontata dai Vangeli. Lo spazio
scenico in cui si manifesta la metafora del dolore e della
sofferenza cristiana è quello della vita quotidiana: le strade, le piazze, le chiese, le case, che inducono il pubblico
a considerarsi non un semplice spettatore passivo, ma
protagonista di una collettiva visione e rappresentazione
religiosa. Lo spirito che anima la “Passione” dove tutti,
dai numerosi personaggi biblici al pubblico che segue in
processione le 14 Stazioni della Via Crucis con quadri
viventi, sono coinvolti nello spirito religioso della manifestazione per la sua forma orante e che proprio per
questo assume un connotato para-liturgico.
Tutti i figuranti, vestiti con abiti tradizionali
dell’antica Palestina, sono da elogiare per la loro immedesimazione nei ruoli, ma una nota a parte la meritano
tuttavia i principali protagonisti di questa Via Crucis per
la loro intensità drammatica ed emotiva: Nicoletta Di
Florio e Antonio Berardinelli, il figlio di Pina, la cordiale
e sempre amabile signora dell’arte del pane. Con il suo
volto scavato dal dolore, Nicoletta è stata una “Mater
dolorosa” dolce e tenera, grazie alla sua costante sofferente espressione, non solo quando incontra in piazza
dell’Unione il suo figlio incoronato di spine e che si avvia al patibolo con la Croce sulle spalle, ma soprattutto
quando a Santa Maria accoglie fra le sue braccia misericordiose il corpo di Gesù morto ricoprendo di baci, di
carezze e di lacrime le sue piaghe, e avvolgendolo teneramente con il suo mantello nero quasi a volergli ridare
calore per farlo tornare di nuovo in vita. Il giovane Antonio ha dominato la scena dal primo quadro dell’”Ultima Cena” davanti alla chiesa di San Lorenzo, fino alla
spettacolare e drammatica scena della “Crocifissione”,
sempre con la giusta interpretazione e immedesimandosi nell’impegnativo ruolo con religiosa e sincera partecipazione. La configurazione del paese si presta ad una
simile rappresentazione e il percorso, da San Lorenzo a
Santa Maria, passando per piazza dell’Unione e Via San
Nicola (una perfetta via per la salita al Golgota), fa da
scenario quasi naturale a questi essenziali quadri viventi,
contribuendo nel suo insieme alla buona riuscita della
manifestazione.
Una critica positiva che si deve fare alla rappresentazione è quella sull’orario. Non ci sembra adeguata
l’ora notturna per ammirare le potenziali e meravigliose
scenografie naturali che offre il paese. Facendola svolgere invece tra le ultime tenue luci del giorno che muore, e
le prime flebili ombre della notte, si coglierebbe meglio
lo straordinario, incantevole e irripetibile scenario che
si presenterebbe nelle ultime stazioni della Via Crucis a
Santa Maria. Ora, con il buio della notte, la Crocifissione
non ha alcuna prospettiva scenografica, nessuno sfondo
se non il buio (come si può vedere nella foto). Invece anticipandola almeno di un’ora rispetto all’attuale, la Crocifissione si staglierebbe su un panorama di immensa
solitudine tra la lontana visione di Monte Pallano e Colledimezzo da una parte, e da Monte Rizzano, Buonanotte
e l’Acquaviva dall’altra. Sembrerebbe una Crocifissione
sospesa nello spazio circostante, come quella magnifica
dipinta dal Mantegna nel 1457 e che si ammira al museo
del Louvre di Parigi, ma al tempo stesso più attinente anche a quanto affermano le sacre scritture: infatti nell’ora
della morte di Gesù, dice il Vangelo di San Matteo, “si
fece buio su tutto la terra”. E al Calvario di Santa Maria
questo buio sarebbe non un miracolo, ma un evento del
tutto naturale, la fine di un giorno vissuto all’insegna di
una rappresentazione para-liturgica fonte di intensa e mistica spiritualità per tutti i cristiani.
L’Infiorata del Corpus Domini
Il secondo atto della “sagra della primavera” pennadomese, dopo quello della Passione, è l’omaggio floreale al “Corpus
Domini”, il Corpo del Signore, che si è svolto domenica 2 giugno. Anche questa è una nuova tradizione che è stata ideata
dalla Pro Loco di cui è presidente Mara Di Francesco. E, come nella rappresentazione della Passione, anche l’Infiorata è
stata un’occasione di “com-unione” fra tutti pennadomesi, divisi per il resto dell’anno su quasi tutto. E’ stato bello vedere,
fin dalle prime luci dell’alba la collaborazione di tutti per allestire il tappeto floreale che da piazza dell’Unione si è snodato
fino al largo del fontana. Con l’eccezione di alcuni uomini, fra cui Nicola Di Francesco che andava su giù con il trattore per
stendere il prato erboso e Gianni Di Pomponio, tutte le altre persone erano donne, ognuna con un suo compito specifico.
Anche qui si sono viste le mani organizzatrici di Angelina Ranalli e di Mara Di Francesco con la preziosa partecipazione,
fra le altre, di Giulia Piccone, Pina l’artigiana del pane, Anna Piccone, Irma, Silvana Iezzi, Nicolina Bevilacqua, Marisa
presidente dell’Avis, Monica Mazurkiewicz, Antonietta Bozzi e di tante altre.
Oltre che un devoto omaggio al Corpo di Cristo, l’Infiorata rappresenta anche un importante momento di socializzazione (e Dio sa quanto ce ne sia bisogno a Pennadomo!) che inizia fin dai giorni precedenti con il disegno dei cartoni
preparatori che verranno poi realizzati posando pazientemente petali e petali e spighe di grano fino a completare il disegno
dei bozzetti, e con la raccolta nei campi e sulle siepi di una gran varietà di bacche e infiorescenze su cui eccellono ginestre
e rose. Dopo la messa solenne celebrata nella chiesa parrocchiale di San Nicola, il parroco Don Giuseppe Leanza ha dato
il via all’omaggio al Corpo di Cristo riposto dentro l’ostensorio. Intanto tutti i partecipanti devotamente cantavano il “Panis
angelicus”, il pane degli angeli, il pane dei pellegrini, vero pane dei figli, intervallato dalla recita del santo rosario. Arrivato
in Piazza dell’Unione la processione ha sostato davanti alla chiesa di Sant’Antonio, dove, sotto la lapide che ricorda i morti
pennadomesi di tutte le guerre, era stato eretto un altare dove Don Giuseppe ha dato un’altra benedizione con il Santissimo
Sacramento in un devoto silenzio. Quindi, con il canto del “Tantum ergo Sacramentum” ha ripreso la processione per la
strada infiorata, mentre alcune bambine gettavano petali di fiori e rose al passaggio del parroco con l’Ostensorio ricoperto
da un baldacchino portato a mano da quattro uomini ed un ombrello speciale anch’essi preziosamente ricamati, che è arrivata fino alla chiesa di San Lorenzo per poi fare ritorno alla chiesa di San Nicola. Le finestre e i balconi delle strade erano
quasi tutti addobbati con coperte variopinte e in alcuni erano accesi anche dei lumi.
Tutte le donne che hanno realizzato l’Infiorata del Corpus Domini
8 agoSto: giornata evento in memoria
dei Patrioti deLLa brigata maieLLa
saRà dEdicaTa aLLa mEmoRia di LoREnzo d’angELo, Luigi donaTo
di FRancEsco E nicoLa di REnzo La sEdE comunaLE di via maiELLa.
Il Comune di Pennadomo, la Pro
Loco e l’Avis in collaborazione
con il giornale “Pennadomo Notizie”, organizzeranno per giovedì 8 agosto in Piazza dell’Unione
una giornata evento per ridestare
la memoria dei pennadomesi che
si sono arruolati come volontari
nella Brigata Maiella e in particolare dell’eroismo dei tre giovani, Lorenzo D’Angelo, Luigi
Donato Di Francesco e Nicola
Di Renzo, morti nella battaglia
di Pizzoferrato il 3 febbraio 1944
per la liberazione d’Italia dalla
dittatura del nazifascismo, e di
cui il prossimo anno, il 2014,
ricorrerà il 70/mo anniversario.
E’ stato anche grazie al loro contributo di sangue e ai numerosi
feriti di nostri concittadini che
la bandiera della Brigata Maiella
si è potuta fregiare con orgoglio
della “Medaglia d’Oro al Valore
Militare”. Di fronte a tanto eroi-
smo, unanimemente riconosciuto, l’atteggiamento in tutti questi
anni del paese è stato invece di
un silenzio assoluto. Ma è anche
grazie all’iniziativa editoriale del
giornale “Pennadomo notizie”
che ormai quell’oblio può essere definitivamente dimenticato. Si assiste, infatti, da parte di
tutta la popolazione ad un rinato
orgoglio e a un senso di gratitudine per i nostri giovani morti
che stanno per risorgere a “vita
nova”.
Il pomeriggio dell’8
agosto in Piazza dell’Unione, a
partire dalle ore 16,00, ci sarà una
solenne commemorazione, preceduta dalla celebrazione di una
Messa nella chiesa di Sant’Antonio alla memoria dei caduti, a cui
parteciperanno anche alcuni dei
parenti dei tre martiri e degli altri
combattenti della Brigata Maiella, e poi nicola Troilo figlio di
Ettore il fondatore del corpo dei
volontari abruzzesi, il sindaco di
Pizzoferrato Palmerino Fagnilli, Nicola Mattoscio presidente
della “Fondazione Brigata Maiella”, Enzo Fimiani presidente
dell’Anpi Abruzzo, Luigi Longobardi generale dei Carabineri
e varie altre personalità. Al termine della messa si deporrà una
corona di fiori al monumento dei
caduti di tutte le guerre davanti a
Sant’Antonio con il canto corale
dell’Inno d’Italia: all’Associazione alpini di Torricella Peligna
è affidato il compito del picchetto d’onore.
La prolusione della manifestazione sarà tenuta dal sindaco di Pennadomo Antonietta
Passalacqua, cui seguiranno gli
interventi delle altre personalità
presenti alla cerimonia e soprattutto di tutti i pennadomesi che
vorranno intervenire per rendere
Il sindaco Antonietta Passalacqua con il Generale dei carabinieri Luigi Longobardi
la loro testimonianza. Saranno
anche ricordati i nomi di tutti i
pennadomesi che si sono arruolati nella “Maiella” e che si sono
fatti onore in tante altre battaglie
da Pizzoferrato a Montecarotto
e Brisighella. Sul palco saranno
esposti i gonfaloni dei comuni di
Pennadomo, di Pizzoferrato, della Fondazione Brigata Maiella,
dell’Anpi e la bandiera italiana.
La cerimonia, dopo la lettura
drammaturgica di “Pizzoferrato:
canto mattutino” di Ottavio Di
Renzo De Laurentis, proseguirà
alle 18,30 circa, con lo scoprimento, davanti alla sede comunale di Via Maiella, di una targa
marmorea in memoria dei tre
giovani martiri di Pennadomo ai
quali sarà dedicato l’edificio municipale. Subito dopo ci si incamminerà verso il camposanto di
Pennadomo, dove, tra le solenni
cime dei cipressi testimoni silenti
ed eterni di sovrane tristezze, si
onoreranno le tombe di Lorenzo,
Luigi Donato e Nicola con l’accensione di un cero e l’omaggio
di una composizione floreale.
montebeLLo e L’oLimPo:
agrituriSmo d’arte
iL REcuPERo PaEsaggisTico di una coLLina chE
PRoiETTa Lo sguaRdo suLL’inFiniTo.
La campagna d’autore, la campagna d’arte che si ammira a Pennadomo, ha un naturale prolungamento a Montebello, un nome che
evoca dolcezza, serenità, intimità,
bellezza e armonia. Già per arrivarci si percorre una strada d’altri
tempi, con curve e controcurve tra
filari di querce, boschi, ginestre
profumate, siepi di biancospino,
rovi di more purpuree e campi incolti, distese di prati verdi, vigneti e splendidi panorami sia verso
le rocce pennadomesi, sia verso
lo specchio d’acqua del lago che
riflette il monte Tutoglio: una visione georgica della natura lasciata al suo naturale evolversi e dove
è tornato a nidificare anche il nibbio reale, uno dei rapaci più belli ed eleganti presenti in Europa
e in particolare in Abruzzo, che
vola con una straordinaria agilità,
spesso aprendo e ruotando la coda
simile ad un aquilone. Pur appartenendo sul piano amministrativo
al comune di Villa Santa Maria,
Montebello è tuttavia considerata
una contrada pennadomese, visto
che i suoi abitanti e proprietari
delle campagne sono quasi tutti
nati all’ombra del campanile della chiesa parrocchiale di San Nicola di Bari. Giunti in prossimità
del piccolo borgo, un nuovo filare
di cipressi, che richiama l’incanto
del paesaggio toscano che si ammira anche nei capolavori pittorici di Giotto, Piero della Francesca
e del Beato Angelico, accoglie il
visitatore. L’atmosfera che ti circonda è amichevole e familiare,
ci si sente subito a casa propria.
Il borgo rurale – già proprietà della nobile famiglia dei
Caracciolo di Villa Santa Maria
che ha dato i natali a San Francesco (1563 – 1608) fondatore dei
COSTRUZIONI
E SERVIZI
CENTRO ITALIA
Chierici Regolari Minori e patrono dei cuochi italiani - con al centro della corte un albero secolare
dalla larga chioma ombrosa, si
trova nello stesso luogo dove un
tempo, nei primi secoli dell’anno
Mille, sorgevano due pievi devozionali dedicate a San Marco
e Santa Maria e nel loro insieme
costituivano un feudo rurale di
Pennadomo. Si legge infatti nel
“Rationes decimarum Italiae:
Aprutium Molisium”, un libro
storico del Vaticano a cura di Pietro Sella, che i “clerici castra Penna de Domo” avevano pagato per
l’anno 1324/25 le decime (tasse
ecclesiastiche) consistenti in due
monete d’argento. Era quella una
tariffa minima in quanto le chiese
del territorio pennadomese erano
povere, non essendo proprietarie
di altri possedimenti sia fondiari
che immobiliari che potevano generare delle rendite. La divisione
amministrativa e fondiaria tra
Montebello e Pennadomo potrebbe essere avvenuta nei secoli successivi e comunque di sicuro nei
primi anni del Regno d’Italia.
Che l’attuale borgo di
Montebello, trasformato in agriturismo d’arte e denominato
“Olimpo”, sorga sopra o nelle immediate vicinanze delle antiche
duecentesche pievi devozionali,
lo testimonia anche il ritrovamento in epoche passate di resti di alcuni scheletri umani, vista l’abitudine in quei tempi di seppellire
i morti in cimiteri situati davanti o
dentro le stesse chiese. Non solo
resti umani, ma sono state ritrovate anche antichissime otri di terra
cotta ed anfore votive, insieme a
laterizi di uso quotidiano e decorativo. Prima dell’odierno borgo
Olimpo a Montebello, c’era una
sola grande masseria plurifamiliare, e quando agli inizi degli anni
’80, Sergio Pantalone, pennadomese doc, agente di borsa a Milano e con l’innata passione per il
calcio, lo vide per la prima volta
se ne innamorò perdutamente: fu
il classico colpo di fulmine che
incendia i cuori degli innamorati.
Per gli uomini capaci di sognare,
si dice che l’eternità è ad un passo: progettare, trasformare coraggiosamente un’idea che ti sgorga
dalla mente in solide pietre, e per
di più in uno scenario di incantevole bellezza paesaggistica, è
solo di persone che pensano alla
grande, persone nate per entrare
nella storia nel rispetto dello sviluppo della natura. E Sergio ha
trasformato, anno dopo anno, il
suo sogno in una splendida e soli-
Società di costruzioni e restauri
da realtà, scrivendo una indelebile pagina naturalistica che sfida il
tempo e le avversità. E’ grazie a
questo suo carattere multiforme,
metà platonico (sognatore) e metà
aristotelico (praticità e fisicità),
che ha potuto trasformare una
vecchia masseria in un romantico e affascinante agriturismo:
l’Olimpo.
L’Olimpo è dunque un
piccolo mondo antico, al tempo
stesso intimo e ospitale, immerso
in un grande parco naturalistico
dall’atmosfera onirica e teatrale,
angolo di quiete per raccogliersi
in solitudine familiare, e vivace
salotto per ricevere amici e ospiti.
Le case del borgo hanno un’apertura verso la luce, un trionfo di
spazi che non hanno confini, un
panorama scenografico che invita
lo sguardo e l’animo a scorgere
altri mondi, al di sopra di monte
Pallano e di Colledimezzo, che si
aprono verso il cielo.
Silvia Bassi
Agriturismo Olimpo
Contrada Montebello
66047 Villa Santa Maria (Ch)
Informazioni e contatti:
www.agriturismoolimpo.com
0872/940425– 345.3134028
Email [email protected]
via ninfeo, 22 a/22 B - 00010 villa adriana, Tivoli (Rm)
Tel. 0774.240001/2 - Fax 0774.380120 - cap. soc. i. v. Euro 114.000.000
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