INTRODUZIONE - Funeralia.net

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INTRODUZIONE
L’idea per questo progetto di tesi è nata da una chiacchierata con un guardiano del cimitero
di Greco, nello specifico, un’intervista svolta nel 2010 nel corso di una prima esplorazione
etnografica sulle interazioni negli spazi pubblici dedicati alla morte. Con vena malinconica
e allo stesso tempo battagliero, l’operatore racconta che la propria categoria professionale è
destinata a scomparire per via di alcuni cambiamenti legislativi introdotti nel settore
funebre negli ultimi dieci anni, leggi che favoriscono, invece, le imprese di pompe funebri.
Un’ostilità dichiarata, dunque, tra guardiani del cimitero che lavorano nel settore pubblico
e impresari funebri che si muovono nel settore privato, un conflitto ignorato nel discorso
comune ma che sembra riprodurre, più in generale, certi cambiamenti in corso nella società
contemporanea. Riportando le parole del guardiano «dentro la morte c’è un mix di tante
realtà, politica, economia, le gestioni scorrette e corrotte, fa tutto parte della nostra
società».
Studiare da un punto di vista strettamente sociologico la morte, dunque, per comprendere
diversi aspetti della società in generale: questa è stata l’intuizione di partenza per il lavoro
di tesi. Ma come si studia la morte? Di solito della morte si parla in termini astratti,
metafisici e moralistici, ed è difficile pensare di elevare la morte a oggetto di ricerca
tangibile e analizzarlo come un qualsiasi fenomeno sociale. La risposta alla mia domanda
stava in quel colloquio avuto con il guardiano del cimitero: il fenomeno morte può essere
indagato ponendo lo sguardo sui professionisti del settore funebre, sul loro lavoro,
sull’organizzazione sociale della morte intesa come pratica organizzativa. In definitiva, si
può fare ricerca sulla morte osservando concretamente le pratiche lavorative dei detentori
del corpo morto dall’avvenuto decesso fino alla conclusione del rito di sepoltura, e quindi
le due categorie professionali che organizzano due diverse fasi dell’evento funebre: gli
impresari di pompe funebri e gli operatori tecnici cimiteriali (i guardiani del cimitero).
Le istituzioni funebri hanno il compito di organizzare i rituali di transizione dalla vita alla
morte, pertanto, oggetto d’analisi di questo lavoro di ricerca sono le pratiche organizzative
dei professionisti dell’addio, pratiche che hanno lo scopo – tra gli altri – di rappresentare la
morte tramite questi rituali. Lo studio è stato condotto nella città di Milano utilizzando
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come metodo di indagine la ricerca etnografica e come tecniche di ricerca interviste in
profondità e osservazione partecipante. Cercherò quindi di “spiegare” la morte attraverso i
professionisti dell’addio e i contesti di lavoro in cui agiscono. La prima parte della ricerca
vede protagonisti gli impresari di pompe funebri e ha l’obiettivo di delineare il volto della
moderna impresa funebre; nella seconda parte analizzo uno dei contesti di lavoro degli
operatori funebri del settore privato, la Casa funeraria. L’osservazione partecipante ha
inteso comprendere tutte le pratiche di lavoro quotidianamente eseguite in Casa funeraria,
e, in modo particolare, le routine e i rituali funebri contemporanei messi in scena dagli
operatori, come la pratica di “travestire la morte” tramite tecniche di tanatoestetica, vale a
dire la pratica di vestizione e di trucco del cadavere, il significato assunto dalla “sala
multifunzionale” che consente di modellare il rituale in base alle diverse esigenze dei
dolenti, e i funerali celebrati con rituale laico che sostituiscono le cerimonie religiose
tradizionali. Infine, l’ultima parte della ricerca pone lo sguardo alla comunità degli
operatori cimiteriali e alle pratiche di sepoltura da loro eseguite nel proprio contesto di
lavoro che è per l’appunto il cimitero.
In definitiva, l’obiettivo è di condurre un’analisi sociologica sull’organizzazione sociale
della morte e, in particolare, sulle pratiche lavorative dei professionisti dell’addio, uno
studio sulle professioni del settore funebre e sui contesti di lavoro che, nel loro insieme,
costituiscono un appassionante spaccato della mentalità e della sensibilità dell’epoca
contemporanea e che, d’altro canto, si rivelano efficaci per comprendere il significato che
la nostra società conferisce alla morte, e più in generale, al senso della vita.
L’elaborato si divide in due parti. Nella prima ho inteso illustrare brevemente le principali
teorie sociologiche che guidano il mio lavoro di tesi e sulle quali mi appoggio per spiegare
e interpretare i fenomeni oggetto d’analisi. Nella seconda parte, dal carattere empirico,
presento il lavoro di ricerca condotto sul campo.
Alla parte teorica è dedicato il primo capitolo che esordisce con il tentativo di dare risposta
ad alcune domande di ricerca tra cui: qual è il percorso di un corpo dopo l’avvenuto
decesso? Come fanno gli individui a rimuovere il cadavere dalla comunità dei vivi? Chi lo
fa? Dove è tenuto il corpo nel periodo in cui si organizza il funerale? E qual è la sua
sistemazione dopo il funerale? Domande, all’apparenza banali, che gli individui non si
pongono nella quotidianità, ma che in realtà nascondono una complessa macchina
organizzativa post-mortem. Al fine di comprendere i meccanismi di questa macchina
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organizzativa, adopero la teoria del sociologo Robert Kastenbaum e gli elementi del suo
Death system come chiave di lettura per spiegare come la società contemporanea organizza
l’evento funebre. Il sistema della morte per lo studioso è formato da diversi elementi tra cui
gli individui, lo spazio e il tempo: elementi indissolubilmente legati al corpo. Gli individui
hanno un ruolo chiave all’interno del sistema della morte poiché essa alla fine coinvolge
tutti gli esseri umani; ai fini dell’analisi prendo in considerazione coloro che si guadagnano
da vivere fornendo servizi legati alla morte: gli impresari di pompe funebri e gli operatori
cimiteriali. I primi organizzano il funerale, prelevano il corpo dal luogo del decesso, si
incaricano delle formalità amministrative e lo detengono fino alla cerimonia funebre; i
secondi, agiscono in un tempo e in uno spazio diverso rispetto agli impresari funebri,
hanno il compito di prendersi cura del cimitero e di seppellire i corpi. Il secondo elemento
del death system è lo spazio poiché alcuni luoghi, come le imprese funebri, le case
funerarie e i cimiteri, sono identificati con la morte: spazi che diventano oggetto d’analisi
nel mio progetto di ricerca. Infine, il terzo elemento del sistema morte è il tempo. Gli
impresari di pompe funebri iniziano un lavoro che sarà portato a termine dai guardiani del
cimitero, ma mentre i primi agiscono in un tempo breve, e, in pochi giorni, organizzano le
esequie, i secondi, invece, oltre a occuparsi di dare degna sepoltura ai corpi, devono
supportare quella che è la funzione del cimitero che si muove in un “tempo eterno” poiché
custodisce il ricordo del caro estinto, strumento essenziale per eliminare l’angoscia della
perdita.
Il mio progetto di tesi, dunque, è un tentativo di studiare sociologicamente la morte
attraverso le pratiche lavorative degli impresari di pompe funebri e degli operatori tecnici
cimiteriali, figure professionali che danno vita a una complessa organizzazione e
rappresentazione sociale della morte. Per analizzare gli elementi che agiscono nel death
system, ho utilizzato due approcci sociologici differenti, tentando di tenerli insieme:
l’approccio del sociologo francese Robert Hertz, che studia nello specifico il
funzionamento del rito funebre, e l’approccio etnometodologico secondo il quale il rituale
è sostanzialmente una pratica, cioè «un’azione ridotta all’osso» senza né simboli né
credenze (Navarini 2003, p.208), teoria brillantemente illustrata dall’etnografia di David
Sudnow che analizza la morte come evento pianificato, prodotto dalla collaborazione
pratica degli attori. L’approccio di Hertz si rifà alle grandi teorie durkheimiane, il suo
interesse è diretto alle questioni riguardanti le pratiche che gli uomini mettono in atto per
organizzare il lutto, in altre parole, a tutte le esperienze che per lui si riconducono alla
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Rappresentazione collettiva della morte. Di solito si parla di morte riferendosi a essa come
un’entità astratta; il merito di Hertz è di aver intuito come la morte diventi “reale”, ossia
tangibile, attraverso le rappresentazioni che indicano ciò che si deve fare (e non fare) nei
confronti del corpo morto di un membro della società. La certezza della morte, sostiene
Hertz, è il primo “fatto culturale” dell’umanità che dà luogo al rituale funebre, definito dal
sociologo francese il rito dei riti, la cui funzione è quella di riaffermare la comunità
morale, pertanto un evento terribile come la morte serve a celebrare i vivi, offrendo
l’opportunità di restituire alla società fede in se stessa. Lo studio condotto da Robert Hertz
agli inizi del Novecento sui rituali funebri ha fornito un’ottima chiave di lettura per
analizzare e interpretare i moderni rituali funebri; nonostante sia trascorso un secolo, la sua
ricerca resta attuale perché in grado di restituire delle categorie interpretative valide per lo
studio dei rituali in epoca contemporanea. Il mio studio si avvale delle teorie del sociologo
francese per spiegare come gli operatori funebri organizzano il rituale funebre e per
analizzare i rituali osservati nel corso della ricerca. Hertz, anticipa l’idea che il significato
della morte sia costruito nelle pratiche ordinarie: teoria poi illustrata dalla ricerca
etnografica di David Sudnow. Lo studioso spiega la morte attraverso le pratiche, il
fenomeno del “morire” è una categoria prodotta attraverso le pratiche lavorative (quello
che praticamente facciamo) e, quindi, organizzative. In virtù delle pratiche produciamo
significato, le azioni inscritte nelle pratiche producono la realtà concepita come processo
strutturato, coordinato che genera significato e rende ordinata l’azione, ed è attraverso
queste azioni compiute in un contesto di lavoro ordinario che la morte è costruita
socialmente. Sudnow studia quella tipologia di rito considerata come attività priva di
risvolti interpretativi, simbolici, emotivi o religiosi, una pratica senza né simboli, né
credenze e in tale nozione, vengono incluse le routine organizzative e alcuni tipi di pratiche
ripetitive, standardizzate, realizzate meticolosamente e con un certo sincronismo. L’intento
dell’osservazione condotta in Casa funeraria, prendendo come modello la ricerca di
Sudnow, è quello di studiarne la sua routine organizzativa e dimostrare come il fenomeno
morte fonda il suo senso nelle pratiche agite in un contesto di lavoro che gli operatori
funebri, inghiottiti dalla routine, vivono come ovvio e dato per scontato; l’obiettivo è
dimostrare come la morte sia socialmente costruita attraverso le pratiche lavorative
ripetitive e standardizzate, pertanto solo il ricercatore, che è estraneo al contesto, può
prendere le distanze da ciò che è ritenuto ovvio, comprendere e spiegare come il senso
della morte risorga dalle attività di routine. La seconda sezione del primo capitolo indaga il
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rapporto dell’uomo con la morte, o meglio, l’atteggiamento dell’individuo verso la fine
dell’esistenza proprio dell’epoca contemporanea; l’obiettivo è comprendere quale grado di
consapevolezza ha la società attuale della morte come fenomeno esistente. Sappiamo che
la morte è un evento reale con il quale tutti, prima o poi, faremo i conti, ma nonostante
questo se ne parla sempre meno, rimuoviamo la morte dai nostri pensieri trasformandola in
tabu. Indagare gli atteggiamenti verso la morte, attraverso interviste condotte agli operatori
del settore funebre, è una chiave di lettura per comprendere alcuni interrogativi di ricerca
del lavoro presentato in questa sede come ad esempio capire perché i professionisti
dell’addio sono trattati con sospetto e ostilità da gran parte degli individui e cosa fanno per
liberarsi dallo stereotipo del “becchino” perverso e inquietante. Gli autori di riferimento
che ho utilizzato per indagare questa tematica sono lo storico Philippe Ariès, che descrive e
analizza i vari atteggiamenti degli individui verso la morte nella cultura cristiana
occidentale, e il sociologo Geoffrey Gorer, che rompe il silenzio della sociologia sui
costumi funebri del nostro tempo e, in particolare, sulla rimozione totale della morte dal
contesto sociale odierno. Ariès e Gorer indagano la morte come evento pubblico,
riflettendo sul rapporto della società in generale con la morte, altri autori, invece tra gli
anni sessanta e gli anni settanta, cominciano a occuparsi della morte come evento privato,
indagando il percorso di dolore, sofferenza e disperazione che spesso accompagna il
malato negli ultimi istanti della vita. Glaser e Strauss si dedicano allo studio sulla
consapevolezza del morire nei contesti ospedalieri della California e non è un caso che
proprio in una ricerca sulla morte nasce uno dei più propizi metodi di ricerca qualitativi, la
grounded theory. I due autori notano la discontinuità tra l’atteggiamento dei nostri
progenitori verso la morte, rimasto immutato per secoli, e il moderno atteggiamento verso
la morte, sostenendo che i nostri progenitori morivano meglio di noi rimanendo padroni
della propria vita fino alla fine, diversamente dall’attuale atteggiamento che vede la morte
occultata e vittima delle routine organizzative. Negli anni novanta, le teorie del sociologo
inglese Tony Walter, ribaltano la visione pessimistica di Glaser e Strauss; l’autore sostiene
che la morte in epoca postmoderna rinasce dalle sue ceneri, un vero e proprio Revival of
Death, poiché il trionfo dell’individualismo scaccia quei limiti legati alla tradizione e alla
scienza e la morte “buona” diventa quella morte che ogni persona sceglie per se. La mia
ricerca mette in luce come la moderna impresa funebre offra servizi che meglio si adattano
alle diverse esigenze del dolente, ponendo quest’ultimo in condizione di “scegliere la
morte per se” e organizzare il funerale come meglio crede, vagliando le diverse proposte
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rituali. La terza e ultima sezione del capitolo teorico si conclude con una nota
metodologica. Raccontando alcuni episodi vissuti sul campo, descriverò le diverse fasi del
disegno della ricerca, dalla scelta del tema al metodo impiegato per indagare
l’organizzazione sociale della morte, le difficoltà legate all’accesso al campo e i problemi
di etica incontrati durante le osservazioni per poi terminare con argomentazioni che
riguardano la fase finale del disegno della ricerca ossia la scrittura etnografica.
I capitoli successivi presentano il lavoro di ricerca: nel secondo capitolo il fuoco
dell’analisi è la moderna impresa funebre, nel terzo l’attenzione è rivolta alle pratiche
lavorative degli operatori funebri osservate nella Casa funeraria, mentre nel quarto e ultimo
capitolo indago la routine lavorativa della comunità dei guardiani del cimitero.
Le imprese di pompe funebri
Perché gli impresari funebri, e gli operatori del settore in generale, sono trattati con
sospetto da gran parte degli individui? Com’è organizzata un’impresa di pompe funebri?
Di quali attività si occupa? Esiste una gerarchia all’interno dell’organizzazione? Ha subito
dei cambiamenti negli ultimi anni? Sono queste le domande cui proverò a rispondere in
questa prima fase della ricerca presentata nel secondo capitolo del mio lavoro di tesi, al
fine di delineare il volto della moderna impresa funebre. Descrivere le onoranze funebri
tramite la voce dei suoi attori, degli impresari di pompe funebri «key player in the drama
and guardian of the body» (Howarth 1993, p. 221), che si raccontano in lunghi colloqui
aiutandomi sia a comprendere il ruolo che rivestono nella complessa organizzazione
sociale della morte, sia ad acquisire conoscenze nuove sul fenomeno indagato. Il capitolo
si apre con il tentativo di spiegare perché l’atteggiamento degli individui verso la categoria
degli operatori funebri è negativo e da cosa è originato lo stereotipo del becchino brutto,
perverso e cattivo che trasmette ansia e insicurezza al dolente vulnerabile. In definitiva,
proverò a chiarire da cosa sia stata originata la “nuvola nera” che aleggia su questi
professionisti, prendendo in esame le possibili cause. La prima accusa rivolta agli
impresari di pompe funebri è di tipo economico poiché la vox populi sostiene da sempre
che siano approfittatori consapevoli e assettati di denaro, capaci di far sobbarcare il dolente
di spese eccessive. In secondo luogo, a rafforzare l’immagine negativa cucita addosso agli
operatori funebri, è un passato turbolento nel quale il lavoro di questi professionisti era
compiuto seguendo le regole di un gioco sporco fatto di corruzione e immoralità. Infine, la
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terza causa risiede nella paura della morte, un atteggiamento diventato, un modus operandi
genericamente diffuso, che non aiuta quanti lavorano quotidianamente con essa poiché le
inquietudini scaturite dalla fine dell’esistenza vengono incanalate nelle professioni che
forniscono servizi funebri perché considerati “messaggeri”, loro malgrado, di quel pensiero
tanto doloroso quanto ineludibile. Queste sono le cause che hanno contribuito a creare il
pregiudizio sulla figura dell’operatore funebre, tuttavia, negli ultimi dieci anni, qualcosa è
cambiato. Le innovazioni legislative, apportate nel settore funebre, hanno l’obiettivo di
accrescere il prestigio dell’attività funebre mettendo ordine all’interno dell’organizzazione
e sviluppando una positiva immagine del comparto tramite una serie di servizi che aiutano
il dolente ad affrontare le prime ore del lutto in modo soft. Le innovazioni legislative hanno
indotto le imprese funebri a modificare la cultura dell’organizzazione aziendale
anteponendo il benessere del dolente al mero interesse economico ed esaltando come
valore cardine della cultura aziendale l’etica. Il rispetto assoluto delle volontà del defunto e
dei familiari, la sensibilità in tutte le fasi della cerimonia, la puntualità, la riservatezza, la
serietà, l’efficienza, la professionalità propria e del personale, la presenza discreta, tutte
qualità che devono rientrare in quello che possiamo definire un vero e proprio decalogo
professionale. La necessità di rinnovare le leggi del settore è stata mossa da un modo
diverso di guardare all’evento morte; dal 1998 qualcosa cambia poiché, prima di questa
data, era lo Stato a occuparsi dei funerali, il trasporto funebre non era gestito dai privati
perché la morte era considerata solo un problema di natura igienico-sanitaria pertanto era
compito del comune prelevare la salma dal luogo del decesso, pulire il corpo e portarlo al
cimitero. I privati, cominciano a gestire l’evento morte in toto, da quando si guarda alla
fine dell’esistenza da un’altra prospettiva, si ragiona sul fatto che quando una persona
muore, oltre a eliminarne rapidamente il cadavere per evitare infezioni ed epidemie, è
necessario anche prendersi cura di chi resta, e, il compito delle pompe funebri, è offrire una
vasta gamma di servizi che coinvolga i dolenti e li aiuti ad affrontare il difficile momento
del distacco dal caro estinto. La legge regionale del settore funebre della Lombardia
prevede dei corsi obbligatori per formare gli operatori del settore funebre e riqualificarli,
pertanto, prima di intraprendere tale professione è necessario seguire questi corsi e, alla
fine del percorso formativo, sarà rilasciata una licenza che abilita alla professione. Sono tre
le figure che operano in un’impresa funebre e per ciascuna di questa figura è organizzata
una tipologia di corso: il direttore tecnico e addetto alla trattazione degli affari (il titolare
dell’azienda che poi è l’impresario funebre) parla con le famiglie e si occupa delle attività
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amministrative; l’operatore necroforo è un esecutore tecnico, esegue il lavoro manuale,
movimenta la salma per sistemarla nella bara e, insieme ad altri tre necrofori, la porta in
spalla nel luogo della cerimonia; l’autista necroforo conduce il carro funebre e si occupa
del trasporto del feretro, momento in cui la salma è trasferita dal luogo del funerale al
cimitero. La seconda parte del capitolo, entra in merito all’organizzazione di un’impresa di
pompe funebri, spiegando com’è suddivisa l’attività tra le diverse figure professionali, se
esiste una gerarchia aziendale, quali sono le attività di cui si occupa, in particolare,
un’impresa di pompe funebri e, infine, illustra la distinzione tra due diverse tipologie di
azienda: l’agenzia funebre e l’impresa funebre. La parte finale del capitolo riporta il
resoconto etnografico di quattro imprese di pompe funebri visitate in occasione delle
interviste ai titolari.
Casa funeraria
Nel terzo capitolo della tesi osservo uno dei contesti di lavoro degli operatori funebri: la
Casa funeraria. Una volta ottenuto l’accesso al campo, ho indagato e rilevato
empiricamente, tramite osservazione partecipante (trascorrendo otto ore lavorative al
giorno per una settimana nella struttura, mescolandomi tra gli operatori), le pratiche che i
soggetti eseguono per l’organizzazione dell’evento funebre. Accedere in questo edificio mi
ha dato la possibilità di entrare all’interno della comunità degli operatori funebri del settore
privato, ho osservato ciò che accadeva, ho interagito direttamente con i membri, ho
assistito alle attività compiute dai soggetti indagati, con l’obiettivo di cogliere il loro punto
di vista su ciò che accadeva, attraverso l’esperienza personale, le osservazioni e le
conversazioni. Le interviste in profondità condotte nella prima fase della ricerca, hanno
consentito di stabilire un contatto personale con gli impresari di pompe funebri e di
organizzare la conoscenza acquisendo informazioni nuove, e, infatti, è stato attraverso le
interviste che ho scoperto l’esistenza delle Case funerarie. Ora, però, dovevo scendere sul
campo e assistere direttamente agli eventi, conoscere persone, elaborare nozioni, osservare
le azioni sociali e gli attori che agiscono nel contesto quotidiano di lavoro per cogliere
l’intensità, la profondità e la drammaticità di un evento funesto come la morte. L’unico
modo per cogliere quei significati, era andare sul campo per raccogliere dati intensi, ricchi
e profondi e utilizzare l’approccio etnografico, ha rappresentato la scelta migliore.
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La Casa funeraria è tra i servizi che le imprese funebri offrono ai dolenti, la costruzione di
queste strutture è stata approvata nel 2003, è tra le innovazioni apportate dal recente
rinnovamento legislativo del settore funebre. La funzione della Casa funeraria è ospitare il
defunto, nei giorni necessari a organizzare il funerale, e concedere un posto confortevole
alle famiglie per dare l’ultimo saluto a chi li ha lasciati offrendo la possibilità di esaudire le
esigenze concrete che si presentano durante il lutto. L’obiettivo di questo capitolo è
descrivere, analizzare e interpretare le pratiche che gli operatori funebri eseguono
quotidianamente; l’organizzazione della struttura ruota intorno alle seguenti attività di
routine: sistemazione della salma, accoglienza, incassamento, chiusura, partenze e
cerimonie funebri. Nella prima sezione del capitolo spiego le esigenze che hanno portato
alla nascita delle Case funerarie, qual è la funzione sociale che riveste all’interno del
rituale funebre per poi raccontare delle sue origini d’oltreoceano. L’attenzione poi si sposta
alla pratica dell’accoglienza; la mission degli operatori funebri è accogliere gli ospiti e
guidarli verso la camera ardente della Casa funeraria in cui giace lo scomparso, devono
intercedere in quella situazione in cui il dolente entra in contatto con il caro estinto per la
prima volta e rendere più soft la difficile circostanza. In ultima analisi, è descritta
dettagliatamente la pratica riguardante l’incassamento (deporre il corpo morto nella bara),
la chiusura (chiudere il cofano funebre) e le partenze (la salma lascia la Casa per
raggiungere la destinazione finale): pratiche compiute tramite azioni intense e profonde
che svelano una complessa organizzazione dalla quale si può cogliere il significato
conferito alla morte nel contesto di lavoro osservato.
La seconda sezione del capitolo comincia con la descrizione della sala tecnica, l’area della
Casa funeraria nella quale è consentito l’accesso solo al personale: in questa sala le salme
sono sottoposte alla tecnica di tanatoestetica che comprende la pulizia, la vestizione e il
trucco della salma. Durante la mia permanenza in Casa funeraria, ho avuto l’opportunità di
osservare la pratica di tanatoestetica eseguita su una donna anziana; attraverso la
descrizione dettagliata della situazione, spiego le procedure effettuate dall’operatore sul
corpo della donna al fine di comprendere in cosa consiste la tecnica di tanatoestetica. Una
pratica che riveste un’importante funzione rituale poiché curare la toeletta di un defunto,
vestirlo, presentarlo come in uno dei suoi giorni migliori, come quando era vivo, risponde
non solo al bisogno di conferire al defunto un’apparenza dignitosa, ma anche a quello più
istintivo di rimandare il momento del distacco prolungandone illusoriamente la vita. In
maniera effimera il cadavere si ritrasforma in persona e torna a far parte della società. In
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questa sezione del capitolo metto in luce un aspetto molto interessante: la tecnica di
tanatoestetica in realtà è un’invenzione tutta italiana, la vera tecnica è la tanatoprassi
utilizzata in tutto il resto del mondo, ma non in Italia poiché la legge non consente di
eseguirla sui corpi. La tanatoprassi è l’insieme delle tecniche messe in atto per conservare i
corpi. Il trattamento di tanatoprassi comprende la pulizia del defunto, l’iniezione del fluido
di conservazione, l’eliminazione dei liquidi e dei gas, la chiusura delle incisioni e la
presentazione estetica, è un intervento invasivo rispetto la tanatoestetica che si limita alla
pulizia, vestizione e trucco della salma. La tecnica di tanatoprassi è nata in America, ma i
francesi hanno affinato il metodo e se ne servono da anni per ricomporre cadaveri. Legata
alla tecnica di tanatoprassi è nata una nuova figura professionale, il tanatoprattore; in Italia
esistono scuole di tanatoprassi e tanatoprattori ma non è una figura riconosciuta dalla
legge, anche se, è in corso l’iter legislativo che dovrebbe introdurre la tanatoprassi nel
sistema funerario italiano e dare un riconoscimento alla nuova figura professionale.
Protagoniste dell’ultima parte del capitolo, sono le cerimonie funebri eseguite in Casa
funeraria, lo sguardo è rivolto soprattutto agli emergenti rituali laici e alla nuova figura
professionale del cerimoniere laico. La casa funeraria è dotata di una sala multifunzionale,
uno spazio che assolve più funzioni, come indica la parola stessa, e che si trasforma in un
luogo neutro senza simboli, per dare la possibilità agli individui di plasmare l’ambiente
secondo le proprie esigenze; una polivalenza rituale necessaria in epoca postmoderna dove
i sentimenti del sopravvissuto diventano oggetto di attenzione da parte del professionista e
la morte rinasce sotto diverse sembianze. In questa sede ho messo a confronto il rituale
funebre religioso tradizionale con un rituale laico o civile, osservando/partecipando a due
cerimonie eseguite lo stesso giorno nella sala multifunzionale. Nel primo caso si trattava di
un rito di benedizione celebrato da un diacono, lo spazio era arredato dai simboli
tradizionali cattolici, crocefisso e immagini sacre; finito il rituale di benedizione,
velocemente gli operatori coprono le immagini sacre della sala multifunzioni con le pareti
scorrevoli. Occultati, crocefissi e quant’altro possa evocare una qualche forma di
religiosità, ci si prepara alla seconda cerimonia celebrata con rito laico. I funerali civili non
hanno una realtà consolidata in Italia, gli individui che non appartengono a nessun credo
religioso, prima che la legge prevedesse la costruzione di sale del commiato, non sapevano
dove e come celebrare un funerale civile, poiché creare un nuovo rituale non è semplice.
Da quando la legge italiana ha introdotto le sale del commiato, un luogo dove celebrare un
culto senza Dio, ha cominciato a diffondersi il funerale laico e di conseguenza è nata una
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nuova figura professionale, il cerimoniere laico, il cui compito è di sostituire la figura del
sacerdote e dettare e coordinare i ritmi della cerimonia. La cultura laica, dunque, non è
anti-ritualista, al contrario, nuovi bisogni rituali stanno venendo alla luce in una cultura
fondata sull’individualismo che ritiene unica una vita solo se vissuta “unicamente”. La
peculiarità del funerale civile è onorare il defunto per ciò che è stato in vita, per la sua
unicità, rendendo più personale il modo di morire.
Guardiani del cimitero
Il quarto e ultimo capitolo si lascia alle spalle il mondo privato delle onoranze funebri per
entrare in una nuova dimensione nella quale il tempo diventa eterno e il legame dei vivi
con i morti smette di essere fisico e si concretizza nel ricordo. Il cimitero ha la funzione di
custodire la memoria degli scomparsi, compito complesso e delicato supportato dai
guardiani del cimitero che devono prendersi cura del camposanto e garantire sostegno ai
dolenti. Detentori del corpo morto per un breve periodo, il lavoro delle onoranze funebri
termina al cimitero: l’autista necroforo, giunto al camposanto con il carro funebre, cede il
feretro agli operatori tecnici cimiteriali che prenderanno in custodia il corpo affidandolo
“all’eternità”. Un passaggio del testimone che rappresenta il trasferimento del defunto
dall’ambito spaziale del settore privato, in cui si muovono le imprese funebri, al settore
pubblico, nel quale operano i tecnici cimiteriali assunti dal Comune: un passaggio carico di
tensione e ostilità. La prima parte dell’analisi è focalizzata proprio su questo punto; dalle
interviste condotte agli impresari funebri e ai guardiani del cimitero, emerge come
entrambe le figure professionali abbiano poca stima l’una dell’altra, un aspetto che si
coglie dagli epiteti che gli impresari affibbiano ai guardiani e viceversa. I primi affermano
che gli operatori cimiteriali sono i veri becchini perché becchino, è chi seppellisce i
cadaveri (un’affermazione tutta da verificare), inoltre, accusano i guardiani di essere rozzi,
inefficienti e incapaci di fare il proprio lavoro, alimentando lo stereotipo del dipendente
pubblico senza aspirazioni e fannullone; i secondi, invece, mostrano la propria avversione
verso gli impresari di pompe funebri definendoli insaziabili avvoltoi e mercenari della
morte che hanno come unico intento quello di spillare soldi ai dolenti. I guardiani
difendono la propria categoria spiegando che rivestono un ruolo istituzionale importante
poiché rappresentano la Repubblica.
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Se si parla di cimiteri, non si può non parlare dell’editto di Saint Cloud che ha
rivoluzionato il modo di guardare la morte creando il cimitero moderno e il culto della
memoria. Lo stereotipo, che vede il guardiano del cimitero come becchino senza
professionalità, probabilmente affonda le radici proprio nella storia dell’epoca
rivoluzionaria francese quando a occuparsi del trasporto dei cadaveri e della loro sepoltura
erano individui disagiati presi a caso. La seconda sezione del capitolo ripercorre le tappe
fondamentali del rinnovamento delle consuetudini cimiteriali in una Francia del Settecento
impregnata di idee e di valori rivoluzionari mettendo in luce aspetti molto interessanti. Se
confrontiamo la legislazione funeraria italiana attuale, vediamo che lo schema è identico
alle leggi impostate da Napoleone più di duecento anni fa, la cultura funeraria creata e
modellata dai francesi rivoluzionari permane nella nostra epoca e influenza il nostro modo
di vivere il lutto. La sepoltura individuale oggi sembra un fatto ovvio ma che ovvio non è
per nulla. La Rivoluzione ha cambiato il modo di vedere la morte, ha travasato nell’editto
di Saint Cloud lo spirito del tempo e l’uguaglianza tra gli uomini tramite il culto della
memoria che concede a ogni individuo una collocazione al cimitero, dando la possibilità a
chi resta di commemorarlo. Il popolo italiano dopo l’emanazione delle leggi napoleoniche
sulla questione funeraria, più di duecento anni fa, ha accettato a fatica il passaggio della
gestione delle sepolture dall’autorità religiosa a quella civile. La situazione oggi è, per
alcuni versi, simile poiché la tradizione italiana dà per scontato che il culto dei morti
coincida con la religione e si delega alla Chiesa cattolica il compito di gestire il rapporto
con l’aldilà tant’è vero che spesso non si dice cimitero, si dice camposanto, perché le due
cose non si sono separate. Il cimitero dovrebbe essere laico poiché è gestito dalla
Repubblica, dall’autorità civile, ma nonostante ciò i nostri cimiteri sono sopraffatti da
elementi che richiamano la tradizione cattolica: dalla croce che sovrasta l’ingresso dei
campisanti alle chiese (cattoliche) ubicate al loro interno, emblema del dominio clericale.
La terza parte del capitolo sui guardiani del cimitero prende in analisi l’organizzazione del
lavoro degli operatori tecnici cimiteriali e le pratiche che eseguono nella routine lavorativa
tra cui: l’inumazione, la tumulazione, la cremazione, lo smantellamento del campo e le
esumazioni. Alcune di queste mansioni sono state sottratte agli operatori cimiteriali e date
in affidamento alle ditte private; attraverso interviste in profondità agli operatori
cimiteriali, nelle quali raccontano l’esperienza lavorativa, vedremo come il modo di
percepire la morte acquista un significato diverso in base alle diverse pratiche eseguite.
15
Nell’ultima parte dell’elaborato, torna il tema dei funerali laici, questa volta però, oggetto
d’analisi, sarà la sala multifunzionale del cimitero di Bruzzano, un caso peculiare poiché
nonostante la struttura sia stata edificata da diversi anni, sembra che nessuno ne usufruisca.
All’interno del polo crematorio del Cimitero di Lambrate c’è una sala multiconfessionale
destinata allo svolgimento dei riti funebri per culti religiosi diversi da quelli cristiani e per
riti civili. La sala a Lambrate probabilmente è più richiesta perché di solito la cerimonia
civile è voluta da persone che si fanno cremare; certo non sempre le due cose vanno di pari
passo ma nella maggior parte dei casi la situazione tipo è questa. Per una questione di
logica, se un corpo è cremato al cimitero di Lambrate e i parenti desiderano organizzare
una
cerimonia
civile,
rimarranno
nello
stesso
luogo
usufruendo
della
sala
multiconfessionale dell’importante polo crematorio milanese. Utilizzando come strumento
analitico le sale del commiato dei cimiteri e lo strano caso della sala del cimitero di
Bruzzano inutilizzata, è emersa una riflessione inerente ai “vuoti rituali”. La linea rituale
tradizionale, adottata da gran parte degli italiani (spesso anche dai laici), per ossequiare i
defunti è il rituale cattolico. Nonostante ci siano strutture adeguate per celebrare un rituale
non cattolico, il popolo italiano è “impreparato” sulla gestione dei funerali civili o laici. La
cultura funebre italiana soffre di vuoti rituali che non sa come colmare e di conseguenza
non sa come celebrare un funerale che non sia religioso. Solo una minoranza di laici ha gli
strumenti culturali per pianificare un funerale civile; il resto si ostina a offrire al caro
estinto una cerimonia che non rispecchia la persona che è stata in vita commemorandola
con un rituale tradizionale, o addirittura eliminando il passaggio della celebrazione
destinando il corpo direttamente al cimitero. Un ultimo punto su cui focalizzare
l’attenzione è l’assenza di corsi per operatori tecnici cimiteriali, corsi, invece obbligatori
per diventare operatore del settore privato. Il capitolo termina con delle note dal campo,
piccoli resoconti etnografici dei tre cimiteri milanesi visitati in occasione delle interviste ai
guardiani.
16
CAPITOLO 1
La morte come problema di organizzazione sociale
Qual è il percorso di un corpo dopo l’avvenuto decesso? Come fanno gli individui a
rimuovere il cadavere dalla comunità dei vivi? Chi lo fa? Dove è tenuto il corpo nel
periodo in cui si organizza il funerale? E qual è la sua sistemazione dopo il funerale?
Domande che gli individui non si pongono nella quotidianità, almeno che, non siano
direttamente implicati nelle pratiche o coinvolti nella situazione luttuosa; quesiti
all’apparenza banali, ma che in realtà nascondono una complessa macchina organizzativa
post-mortem che scontata non è per niente. Un modo per comprendere i meccanismi di
questa macchina organizzativa può essere quello di addentrarsi nell’innovativa teoria di
Robert Kastenbaum e utilizzare, come chiave di lettura, gli elementi del suo death system
per comprendere come la società contemporanea organizza l’evento funebre e qual è il
significato che dà alla morte e, più in generale, al senso della vita.
1.1 Alcuni elementi del death system
Esaminando il processo della morte, da un punto di vista strettamente sociologico, tramite
l’approccio struttural-funzionalista, lo studioso americano Robert Kastenbaum - con
l’innovativo termine death system - spiega il nesso esistente tra la società e la morte.
Kastenbaum sostiene che il sistema della morte è costituito da diversi elementi tra cui gli
individui, lo spazio e il tempo: elementi indissolubilmente legati al corpo.
Gli individui hanno un ruolo cardine all’interno del sistema poiché l’evento morte è
inevitabile e alla fine coinvolge tutti gli esseri umani, «all of us are potential components
of the death system» (Kastenbaum 2009, p. 78). Alcune persone hanno un contatto costante
e regolare con la morte perché si guadagnano da vivere fornendo servizi legati a essa, tra
questi gli impresari delle pompe funebri e gli operatori cimiteriali (i guardiani del
cimitero). Il compito degli impresari funebri è quello di organizzare funerali, essi
prelevano il corpo dal luogo del decesso, si incaricano delle formalità amministrative e lo
detengono fino alla cerimonia funebre; esercitano un potere molto forte sul “sistema del
dopo morte” e un’analisi sociologica del loro lavoro si rivela efficace per comprendere il
significato che la nostra società conferisce alla morte e, più in generale, al senso della vita.
17
Lo stesso potere è esercitato dagli operatori cimiteriali; questa categoria professionale,
però, agisce in un tempo e in uno spazio diverso rispetto agli impresari di pompe funebri, il
loro compito è prendersi cura del cimitero e seppellire i corpi.
Il secondo elemento nel death system è lo spazio; certi posti sono identificati con la morte:
le imprese funebri, le case funerarie e i cimiteri sono esempi evidenti. Gli impresari funebri
non agiscono in un luogo fisico stabile perché le pratiche che eseguono richiedono spazi
diversi: il colloquio con i dolenti, per pianificare il funerale, ha luogo presso l’ufficio
dell’impresa, altre volte, invece, sono gli impresari a raggiungere il cliente ovunque esso si
trovi. Le pratiche legate alla cura del corpo morto, il trucco e la vestizione della salma,
sono eseguite dagli operatori funebri o presso l’abitazione privata della famiglia, o
all’obitorio o nella sala del commiato di proprietà dell’impresa funebre. Infine, il corpo è
trasportato nel luogo in cui avverrà il funerale e alla destinazione finale che è il cimitero.
Alcune imprese funebri possiedono una Casa funeraria che mettono a disposizione dei
dolenti, se questi non desiderano vegliare il corpo del defunto nell’appartamento privato o
in obitorio. In questo caso, le onoranze funebri trasferiscono il corpo dal luogo del decesso
a questa struttura, qui il corpo è sistemato (truccato e vestito) per l’esposizione nella
camera ardente della Casa per i giorni necessari all’organizzazione del funerale. Il lavoro
degli operatori funebri in Casa funeraria è eseguito in uno spazio concreto, definito che è
un contenitore di pratiche e di nuovi rituali: un ambiente nel quale è possibile prendersi
cura del corpo attraverso le innovative tecniche di tanatoprassi, organizzare funerali laici
nella sala multifunzionale, che va incontro alle diverse esigenze rituali dei dolenti, e,
assistere alla nascita e al modo di operare di nuove figure professionali. In definitiva, la
Casa funeraria è una lente attraverso cui osservare il modo di concepire la morte nella
società contemporanea.
Il terzo elemento del sistema morte è il tempo. Gli impresari di pompe funebri cominciano
un lavoro che sarà portato a termine dai guardiani del cimitero. La missione dei primi è
breve, essi agiscono subito dopo la morte e in tre giorni il loro compito è esaurito:
prelevano il corpo, se ne prendono cura e lo sorvegliano nel breve periodo che intercorre
tra la morte e il funerale, poi l’autista, che conduce il carro funebre, compie l’ultimo atto
trasportando il corpo dal luogo della cerimonia al cimitero e lo consegna agli operatori
tecnici cimiteriali. Questi ultimi, oltre a occuparsi di dare degna sepoltura ai corpi, devono,
poi, custodirne la loro memoria, garantire aiuto e ascolto ai dolenti, fare in modo che la
pietas verso i defunti possa esprimersi tramite un sereno rapporto con i propri morti.
18
Il culto dei defunti, istituito dall’editto di Saint Cloud che ha travasato lo spirito del tempo
nel ricordo, è utile anche ai vivi: in un luogo ridente e accogliente, dov’è possibile
passeggiare in raccoglimento e meditazione tra viali alberati, li aiuta a tenere vivo il
ricordo del proprio caro. Dunque, i guardiani supportano il compito del cimitero, che non
agisce in un breve lasso temporale, ma si muove in un tempo eterno poiché custodisce la
memoria dei nostri avi, ospita i vivi che celebrano i loro morti ed è pronto ad accogliere le
generazioni future; un luogo nel quale passato, presente e futuro si mescolano dando vita al
ricordo, importante strumento utilizzato dagli individui per aggrapparsi a esso ed eliminare
l’angoscia della perdita.
La mia ricerca, dunque, è una stringente analisi sociologica di due figure professionali
legate al settore funebre - gli impresari di pompe funebri e gli operatori tecnici cimiteriali e dell’organizzazione sociale in cui agiscono per realizzare l’evento funebre. Elementi che
costituiscono, più in generale, un appassionante spaccato della mentalità e della sensibilità
dell’epoca contemporanea.
1.2 Studiare sociologicamente la morte
«Nel momento in cui l’amore, il dolore penetrano in un’anima umana, il corpo sociale è
testimone dell’unione sessuale o della morte che ne sono l’occasione, e partecipa
attivamente al matrimonio e al lutto che modificano la sua propria composizione e il suo
ordinamento. A ogni grave crisi della vita affettiva corrisponde una rottura di equilibrio
della vita sociale» (Granet, Mauss 1953, p.38). Il sopraggiungere della morte è un fatto
sconvolgente, è una grave crisi della vita affettiva, così definita dagli antropologi Marcel
Mauss e Marcel Granet, porta al crollo di quella sicurezza che accompagna il vivere
quotidiano fatto di routine; di conseguenza, la marginalità in cui la morte è relegata nel
vissuto giornaliero sfuma e la morte in sé si rende concreta. L’evento luttuoso provoca una
rottura dell’equilibrio sociale. La morte di una persona cara causa angoscia, sentimento
d’impotenza, coscienza dell’irreversibilità del tempo, senso di smarrimento; per ristabilire
questo equilibrio e tornare alla continuità della vita sociale sono necessari una serie di
scambi e di prestazioni obbligatorie materiali e morali. Il lutto, sostengono i due
antropologi, è un fenomeno squisitamente morale poiché al tempo stesso è
rappresentazione collettiva e rappresentazione scenica della transizione, espressione dei
19
sentimenti e obbligo di farlo, di produrli con un linguaggio codificato e socialmente
riconosciuto come solidale solo perché esistono imperativi morali. La morte, dunque, è un
fatto biologico e sociale che riguarda ogni società umana. La mortalità tende a
interrompere il corso della vita dei gruppi sociali e delle relazioni creando una forte
contraddizione tra il bisogno di liberarsi del cadavere e quello di tenerlo socialmente vivo,
poiché il defunto non può essere semplicemente sepolto come un corpo morto: la
prospettiva di una totale esclusione dal mondo sociale sarebbe troppo angosciante per i
vivi. Il bisogno di tenere vivo il defunto, spinge la società a organizzare dei rituali che
celebrano e assicurano la transizione a un nuovo status sociale in un mondo diverso.
Un’organizzazione del lutto che combini questa trasformazione di status con l’atto di
liberarsi fisicamente del cadavere è comune a tutte le società, e, in quella contemporanea, è
affidata alle istituzioni funebri che hanno il compito di gestire la sistemazione del morto e
di organizzare i rituali di transizione dalla vita alla morte: le istituzioni funebri devono
occuparsi della rappresentazione collettiva della morte. Un’espressione coniata dal
sociologo Robert Hertz che, attraverso uno studio condotto agli inizi del Novecento sui riti
funebri di una popolazione esotica, ha fornito una brillante chiave di lettura per analizzare
e interpretare i moderni rituali funebri: una ricerca che resta attuale, nonostante sia passato
un secolo, perché in grado di restituire delle categorie interpretative valide per lo studio del
rito dei riti in epoca contemporanea. Hertz individua due fasi legate alle rappresentazioni
collettive che indicano cosa bisogna fare nei confronti del defunto, del suo corpo fisico e
del suo corpo sociale e chiama il susseguirsi di queste due fasi doppia sepoltura: la prima
si pone il problema di come eliminare fisicamente il cadavere, un passaggio che chiama
sepoltura provvisoria, nel quale il defunto è fisicamente morto ma socialmente vivo, ossia
trattato come se fosse ancora vivo; la seconda fase, chiamata sepoltura definitiva, conclude
il periodo di sepoltura provvisoria mettendo fine al doppio legame del morto con i vivi
eliminando completamente il cadavere. Applicando tali categorie interpretative allo studio
del rituale funebre odierno, vediamo che a organizzare la fase di sepoltura provvisoria,
sono le imprese di pompe funebri: esse s’incaricano delle formalità amministrative, e poi
prelevano il corpo, di cui avranno gestione fino al cimitero. È possibile trovare delle
analogie tra i rituali messi in atto dai popoli del Borneo, studiati da Hertz, e i rituali
rappresentati nei riti funebri oggi; questo dimostra come l’impianto simbolico del rito dei
riti possa essere assunto come principale modello di osservazione perché concentra le
principali caratteristiche dei rituali. Sia nei popoli esotici osservati dallo studioso sia nella
20
nostra società, il lutto dei familiari nella fase di sepoltura provvisoria è strettamente legato
alle rappresentazioni riguardanti il corpo del defunto; ad esempio presso i popoli del
Borneo, il morto deve essere purificato dall’infezione mortuaria (dal processo di
putrefazione), attendendo il tempo necessario perché il cadavere sia ridotto a scheletro,
poiché è diffusa la credenza che, in questa fase, esso sia preda di spiriti maligni. Una sorta
di purificazione “dall’infezione mortuaria” avviene anche nelle pratiche inscenate oggi nei
rituali funebri; il corpo, tramite la pratica di toeletta funebre, deve essere sistemato con le
fasi del lavaggio e della disinfezione (purificazione o sterilizzazione) insistendo su zone
che sono ricettacoli di microorganismi patogeni, al fine di evitare il presentarsi dei primi
segni di decomposizione che pregiudicherebbero la presentazione estetica del defunto. Una
logica che non muove dal terrore degli spiriti maligni, ma da ben altre motivazioni, ma che
accomuna i due popoli nella cura del corpo che, da una parte è oggetto di
commemorazione di quanti l’hanno amato (corpo sociale), dall’altro è fonte di repulsione e
di paura per i processi di putrefazione cui va incontro (corpo fisico); una pratica che,
ragionando secondo le intuizioni di Hertz, rende la morte, un fenomeno revocabile, un
rituale attraverso cui la società rinnova la propria promessa di immortalità, comunica agli
individui il proprio carattere di perennità e il defunto viene reintegrato nella società dei
vivi. A prendersi cura della carne corruttibile nella fase di sepoltura provvisoria, dunque,
sono le imprese funebri, l’elemento “secco” del corpo caratterizza, invece, la sepoltura
definitiva, dove il cadavere ha raggiunto la meta finale che è il cimitero; per i popoli del
Borneo con la cerimonia finale si conclude il cupo periodo dominato dalla morte per aprire
l’era di una vita nuova, bisogna dare ai resti del defunto una sepoltura definitiva, assicurare
alla sua anima il riposo e l’accesso al paese dei morti, e infine liberare i vivi dall’obbligo
del lutto. Un processo analogo avviene nella società contemporanea poiché con la
sepoltura definitiva comincia la pietas verso i defunti che sono rispettati e onorati
attraverso il ricordo. Seppellire i propri morti al cimitero cancella il doppio legame tra il
morto e i vivi, consente di sbarazzarsi definitivamente del cadavere poiché il corpo non si
vede più, è occultato nell’oblio e questo consente di trovare pace a chi resta, anche se le
pratiche eseguite dagli operatori cimiteriali, analizzate nel mio lavoro di ricerca, rivelano
che non è sempre cosi. A volte il corpo ritorna, come ad esempio, nella pratica
dell’esumazione che prevede, per legge, la riesumazione del cadavere dopo diversi anni
dalla sepoltura riportando il morto tra i vivi e rinnovando il doppio legame del corpo fisico
con il corpo sociale.
21
Il fuoco della mia analisi, quindi, è rivolto all’organizzazione sociale della morte, ossia al
significato assunto dalle pratiche eseguite dai professionisti del settore funerario che
costituiscono un appassionante spaccato della mentalità e della sensibilità dell’epoca
contemporanea. Le rappresentazioni collettive che gli operatori funebri organizzano
attraverso un complesso di pratiche hanno il fine di creare una complessiva
rappresentazione dell’intera vita sociale. Le pratiche attuate nella routine lavorativa dai
professionisti dell’addio, hanno il compito di trattare gli “oggetti sacri” per loro, con
rispetto e devozione, ossia il dolente che richiede il servizio funebre e il corpo del defunto
che manipolano attraverso atti rituali; tali pratiche professionali e le azioni rituali funebri,
si ripetono periodicamente: sono fatti sociali e pertanto costruiscono un sistema complesso
di credenze. La morte fonda il suo senso ed è spiegata attraverso le pratiche agite in un
contesto di lavoro che gli operatori funebri, inghiottiti dalla routine, ritengono ovvio e dato
per scontato; dunque, essi non percepiscono la morte come socialmente costruita ma come
lavoro da eseguire. Pertanto spetta al ricercatore assumere una distanza, estraniarsi da ciò
che è ritenuto ovvio e cercare di comprendere come il senso della morte risorga dalle
pratiche lavorative. Riporto un esempio di comportamento dato per scontato e rilevato
tramite l’osservazione di alcune situazioni in uno dei contesti di lavoro in cui agiscono i
professionisti dell’addio: la Casa funeraria. Gli operatori utilizzano gesti di cortesia salutare i dolenti, accoglierli, aprire le porte della camera ardente e lasciare entrare prima
loro, rendersi sempre disponibile alle loro richieste, e cosi via - non perché siano
particolarmente gentile (magari lo sono, ma non è questo il punto), ma perché queste
piccole azioni rituali rappresentano l’essenza della Casa funeraria, che costruisce la sua
base morale nel principio del rispetto verso il dolente e il corpo morto: oggetti sacri intesi
in termini durkheimiani.
La prima parte del capitolo teorico si conclude spiegando il tentativo di analizzare i rituali
di cui si parlerà nella ricerca (non solo il rituale funebre ma il rito inteso in un’accezione
più ampia), seguendo tre approcci differenti: lo studio rituale degli “oggetti” sacri e delle
loro rappresentazioni, realizzato da studiosi come Durkheim (che si occupa più in generale
dei grandi raduni rituali) e Hertz (che studia nello specifico il funzionamento del rito
funebre), l’approccio etnometodologico, secondo il quale il rituale è sostanzialmente una
pratica, cioè “un’azione ridotta all’osso”, e, infine lo studio rituale degli “oggetti” sacri e
delle loro espressioni nelle interazioni tra gli individui condotto da Goffman.
22
In sintesi, ho utilizzato il rituale funebre come base di partenza per analizzare altre forme
rituali; riti costruiti nel mondo ordinario delle interazioni tra gli individui e che hanno in
comune l’obiettivo di rendere l’azione ordinata e dotata di senso.
1.2.1 La morte rappresentata
La tesi che propongo in questo lavoro di ricerca sulla morte, poggia le basi sulla “teoria
della realtà come rappresentazione” (Prosperi 1994), formulata, in questo specifico ambito,
da Robert Hertz, sociologo e antropologo francese, allievo e collega di Durkheim.
L’interesse di Hertz è quasi interamente dedicato allo studio del “lato sinistro 1” della vita
sociale, o meglio, alle questioni riguardanti le pratiche che gli uomini mettono in atto per
organizzare il lutto, in altre parole, a tutte le esperienze che per lui si riconducono alla
Rappresentazione collettiva della morte (Hertz 1907), poiché «tutti i fatti sociali, e in
primo luogo la morte, sono reali perché (e solo se) sono rappresentati con pratiche che li
rendono tali» (ivi, p. 104). Di solito si parla di morte riferendosi a essa come un’entità
astratta; il merito di Hertz è di aver intuito come la morte diventi “reale”, ossia tangibile,
attraverso le rappresentazioni che indicano ciò che si deve fare (e non fare) nei confronti
del corpo morto di un membro. L’istituzione del lutto, nasce per Hertz, da una doppia
ambivalenza: da una parte, come corpo-anima, il morto sta transitando verso un mondo
sconosciuto, ma socialmente noto perché rappresentato dalle regole e dalle pratiche che i
vivi intrattengono con il defunto come materia simbolica, cioè con il suo corpo e i suoi
simulacri; dall’altra il transito del morto (come anima), dipende da come i vivi lo trattano
come materia sociale (le ossa, gli oggetti, gli averi ecc.) e quindi da come si organizzano
socialmente per vivere la rappresentazione collettiva di questo stato che è essenzialmente
creato e ricreato dagli attori sociali. È così che questi fabbricano la rappresentazione, anche
scenica, del lutto.
1
Hertz ipotizza che gli esseri umani abbiano la tendenza a pensare e a dividere lo spazio fisico secondo un
principio oppositivo bipolare, la destra e la sinistra, opposizione che ha la sua origine nel corpo umano. Il
sociologo riconduce questa bipolarità all’essenza del religioso e ancor più a una dialettica essenziale tra sacro
e non sacro. Ciò si rifletterebbe nelle rappresentazioni collettive legate alla destra, idealizzata e identificata
con tutto ciò che è positivo e sicuro, rispetto alla sinistra, vista come “luogo” del pericolo e dell'inquietudine,
su cui pesa una sorta di interdetto sociale. Questa dicotomia genera dunque due aspetti contrapposti: il polo
della forza, del bene, della vita, e quello della debolezza, del male e della morte. E’ dalla destra e attraverso il
nostro lato destro che entrano gli influssi favorevoli e vivificanti; inversamente è attraverso la sinistra che
penetrano, nel profondo del nostro essere, la sofferenza e la miseria.
23
Il punto di partenza della teoria di Hertz è che «quando un uomo muore, la società non
perde solo la propria unità, ma è colpita nel principio stesso della sua vita, della fede che
ha in se stessa» (ivi, p. 98). Il dolore della morte non appartiene a chi viene a mancare
poiché smette di essere e resta solo corpo; lo strazio è di chi resta. Per difendersi da questo
“colpo” gli individui agiscono con pratiche il cui compito è ristabilire ordine nel caos
creato dalla morte riportando la società a vivere come prima; il vuoto, la perdita, la
mancanza generano non solo dolore ma un problema di fiducia nella vita, e gli uomini
devono trovare riparo da questa crisi. La certezza della morte, sostiene Hertz, è il primo
“fatto culturale” dell’umanità che dà luogo all’archetipo di tutti i riti, il rituale funebre,
definito dal sociologo francese il rito dei riti. La funzione del rito, secondo lo studioso, è
quella di riaffermare la comunità morale, pertanto un evento terribile come la morte serve a
celebrare i vivi, offrendo l’opportunità di restituire alla società fede in se stessa nel
momento in cui sembra non averla più. Hertz tratta i riti come forme con le quali l’uomo
fronteggia i mutamenti e le crisi; in tale contesto, ossia in rapporto ai mutamenti
(individuali o sociali, naturali o artificiali, reali o del tutto inventati), i riti sono forme di
produzione di senso nella misura in cui marcano e definiscono i significati di ciò che
accade in termini di “passaggio”. In altre parole, “passaggio” significa che qualcosa nel
mondo è cambiato o sta cambiando, e che con il rito gli attori percorrono (attraversano e
superano, e per questo “passano”) il cambiamento fissandone un possibile senso (Navarini
2007). È l’antropologo Arnold Van Gennep a orientare la ricerca sulla persistenza delle
forme rituali seguendo un approccio particolarmente attento ai legami tra le azioni
simboliche e i processi di transizione e di mutamento sociale. Secondo lo studioso, un rito
di passaggio è costruire con le azioni, un sistema di interpretazioni e di segni che affrontino
e controllino il mutamento, facendo in modo che il mutamento stesso sia riconosciuto
come dotato di senso dall’individuo e dalla collettività e ribadendo così l’ordine delle cose;
un ordine che, quando viene messo in scena dal rito, assume il senso e le sembianze di un
“passaggio” che è efficace solo se al contempo è individuale e collettivo. Con il rito
funebre, identificato nella rappresentazione collettiva della morte, ritualizzata e
teatralizzata, il gruppo sociale, che tende a considerarsi eterno e immutabile, si difende dal
possibile attacco che la morte di un membro rappresenta per la propria stessa coesione. La
morte è ovunque uno scandalo, essa distrugge non solo il singolo individuo ma anche il
rapporto dell’individuo con il suo gruppo; la fine dell’esistenza umana è vissuta dalla
comunità come una minaccia per la coesione sociale. Quando la morte colpisce un essere
24
umano, ne consegue un periodo di lutto scandito da speciali e precisi doveri; la perdita di
un membro della società assume un preciso significato, diventa oggetto di una
rappresentazione collettiva i cui elementi sono complessi. La morte è un evento difficile da
accettare per gli individui al punto da ritenere la propria società immortale, non è
considerato normale che i propri membri siano destinati a spegnersi; per difendersi da tale
minaccia si inscenano rappresentazioni collettive (Hertz 1907) durevoli in cui la morte
diventa un fenomeno revocabile, «la morte in quanto fenomeno sociale è un duplice
penoso lavoro di disgregazione e di sintesi mentali, solo quando esso è compiuto la società,
tornata in pace, può trionfare sulla morte» (ivi, p. 104). La società rinnova la propria
promessa di immortalità, comunica agli individui il proprio carattere di perennità proprio
come un defunto che dopo essere stato “liberato” viene reintegrato nella società dei vivi
grazie a «uno degli atti più solenni della vita collettiva» (ivi, p. 97). Ciò che l’opera di
Hertz intende mettere in risalto è come le forme morali siano durevoli perché fatte
rinascere proprio nei processi di rappresentazione della morte, «la vita vincerà, anche se
sotto diverse sembianze» (ivi, p.75). Studiando i rituali funebri dei “primitivi” prende
forma l’intuizione cruciale di Hertz secondo la quale «l’attenzione per i contesti simbolici
e sociologici del cadavere consente di formulare le più profonde spiegazioni sul significato
della morte e della vita quasi in ogni società» (Huntington e Metcalf 1985, op. cit. in
Favole 2003, p. 17); ricercare i significati simbolici di cui varie società rivestono i corpi
morti è oggetto di soglia significativo per indagare gli atteggiamenti che una società
intrattiene nei confronti della morte (ivi, p. 21). Hertz in Contributo a uno studio sulla
rappresentazione collettiva della morte si dedica allo studio del rito funebre presso i popoli
del Borneo, tra cui quello degli Olo Ngadju; egli scopre come questi rituali siano costituiti
da due fasi legate alle rappresentazioni collettive che indicano cosa bisogna fare nei
confronti del defunto, del suo corpo fisico, della sua anima e del suo corpo sociale e la vita
collettiva che ruota attorno all’evento morte definito come il passaggio dalla vita visibile a
quella invisibile (Navarini 2003, p. 69). Il sociologo francese chiama doppia sepoltura il
susseguirsi di queste due fasi, la prima pone il problema di come sbarazzarsi del cadavere2
2
Quando un individuo muore, la società deve farsi carico del compito pratico di sbarazzarsi del cadavere per
il fatto molto concreto che i corpi umani si decompongono e diventano spiacevoli alla vista e all’odorato dei
vivi, dunque bisogna seppellirli e allontanarli dal mondo dei vivi per una questione di igiene. D’altra parte, la
comunità non può sbarazzarsi del corpo e interrompere il legame con il defunto in modo netto perché sarebbe
troppo doloroso, quindi organizza una serie di rituali che hanno il compito indispensabile di trattare il defunto
come se fosse ancora in vita e farlo morire gradualmente fino alla sepoltura definitiva che ne occulterà il
corpo e lo reintegrerà in un mondo nuovo, nel mondo degli avi.
25
(Davies 1996), di come viene trattato il corpo del defunto; è necessario sbarazzarsi del
cadavere in modo legittimo con atti che sono “rituali” perché rispettosi e socialmente
riconosciuti, degni e doverosi sia per i morti che per i vivi. Ciò avviene sempre con
pratiche e tabù che sono adeguati alle credenze e alle rappresentazioni collettive,
rimuovere il corpo del defunto mette in gioco un complesso di pratiche e di atti cerimoniali
che riproducono queste rappresentazioni e, assieme alla morte, danno origine a una
complessiva rappresentazione dell’intera vita sociale. Hertz definisce questo primo
passaggio sepoltura provvisoria, il defunto è «fisicamente morto ma socialmente vivo»
(1907), ossia trattato come se fosse ancora vivo.
In questa prima fase di sepoltura provvisoria, il corpo fisico è al centro delle attenzioni; è
consuetudine presso gli Olo Ngadju non trasportare immediatamente il cadavere nel
sepolcro definitivo; ciò avverrà allo scadere di un periodo più o meno lungo durante il
quale il corpo è deposto in un luogo temporaneo. Il corpo del defunto giace
provvisoriamente in un luogo isolato, in attesa delle seconde esequie e l’intervallo dalla
data di morte alla cerimonia finale è di circa due anni. La cerimonia finale, o Tiwah, si
celebrerà una volta raggiunta la pace dei vivi e la salvezza dei morti. E’ lecito pensare che
il periodo tra la morte e la cerimonia definitiva corrisponda al tempo necessario perché il
cadavere sia ridotto a scheletro. Una formula pronunciata durante il Tiwah indica il vero
motivo di tali pratiche: la putrefazione del cadavere è assimilata alla “folgore pietrificante”
poiché entrambe provocano morte istantanea a chi ne è colpito. E’ importante che la
decomposizione si compia nell’isolamento poiché l’influenza insita nel cadavere putrefatto
potrebbe recare grave danno ai vivi. Si creano inoltre buchi di scolo delle materie putride
in un vaso di terra o direttamente al suolo, poiché il morto, durante il processo di
essiccazione delle ossa, deve essere purificato dall’infezione mortuaria. E’ diffusa la
credenza che fino alla cerimonia finale, Tiwah, il cadavere sia preda di spiriti maligni e sia
esposto a influenze nocive che minacciano l’uomo. L’obbligo dei famigliari è di tener
compagnia al morto durante una così temibile fase, di vegliare al suo fianco, facendo
risuonare i gong per tenere a distanza gli spiriti maligni. La sistemazione del cadavere in
luoghi pubblici, le cure rivolte a esso, la manipolazione sacra dei suoi oggetti e tutto
quell’eccezionale insieme di relazioni che i vivi stabiliscono tra loro mettendo il defunto al
centro delle proprie attenzioni, fa sì che il defunto sia sospeso tra due mondi, per un
periodo necessario affinché il rito faccia il suo corso. Il corpo morto nella fase di sepoltura
provvisoria è oggetto e soggetto di pratiche atte a determinare la particolare organizzazione
26
sociale dell’evento morte che è avvenuto, ma che non è ancora definitivamente compiuto.
La morte di un individuo è rappresentata dai loro cari, dai vivi, la condizione del defunto
non è determinata da ciò che egli è stato in vita ma da ciò che i suoi cari fanno per lui
durante questo stato di transizione. Gli oggetti con i quali gli individui rappresentano la
vita del proprio amato come, ad esempio, la spesa per i fiori, il funerale, la lapide, la bara e
altri prodotti funebri, perdono la sostanza materiale e assumono un valore simbolico, un
segno del rispetto con cui i vivi trattano il loro coinvolgimento nel passaggio dei morti (ivi,
p. 71).
L’anima, nella fase di sepoltura provvisoria, è considerata un essere malefico: oppressa
dalla propria solitudine essa cerca di trascinare con sé i vivi. In tanta desolazione si ricorda
di tutti i torti subiti in vita e vuole vendicarsi; la morte le ha conferito poteri magici che le
consentono di mettere in atto i suoi perfidi disegni. Lo stato penoso e pericoloso in cui
l’anima si trova durante questo periodo, spiega l’atteggiamento contraddittorio dei vivi,
sempre sospesi tra timore e pietà. L’anima abbandona la terra allo scadere di un tempo,
definito non in modo arbitrario, ma in concomitanza con la totale disgregazione del corpo.
Il corpo sociale del defunto coinvolge direttamente i parenti che devono obbedire a diversi
obblighi: prendersi cura del morto, tutelarsi dalla malevolenza e dalle insidie della sua
anima tormentata a cui sono esposti, e assoggettarsi a diversi divieti che costituiscono il
lutto. Secondo gli Olo Ngadju, il corpo del defunto è circondato da una “nuvola impura”
che contamina tutto ciò che raggiunge. Per un tempo prolungato, la casa mortuaria è
impura e i parenti sono esclusi dalla comunità perché portatori di mali. Abbandonati non
solo dagli uomini, ma anche dagli spiriti protettori, essi, finché dura il tempo dell’impurità,
sono vulnerabili, esposti agli spiriti del male. Il lutto dei familiari è strettamente legato alle
rappresentazioni relative al corpo e all’anima del defunto durante il periodo intermedio che
dura fino alle seconde esequie, fino quindi al Tiwah. Il lutto è la conseguenza diretta, per i
vivi, dello stato stesso del morto. Si tratta di una forzata partecipazione alla condizione del
morto; mettendosi in una sorta di comunione con il defunto, i vivi immunizzano se stessi
ed evitano, alla comunità, ulteriori disgrazie. In sostanza, per interesse o per obbligo,
vivono in intimo e continuo contatto con la morte, emarginati dalla comunità dei vivi; il
loro corpo e quello del defunto sembrano quasi confondersi.
Il periodo di sepoltura provvisoria termina con la sepoltura definitiva, con una cerimonia
che elimina completamente il cadavere ponendo fine al doppio legame del morto con i
vivi. Presso gli Olo Ngadju, il Tiwah, si celebra di norma per molti morti
27
contemporaneamente in modo tale che le famiglie dei defunti possano dividere le spese.
Con la cerimonia finale si conclude il cupo periodo dominato dalla morte per aprire l’era di
una vita nuova. Il Tiwah ha un triplice scopo: dare ai resti del defunto una sepoltura
definitiva, assicurare alla sua anima il riposo e l’accesso al paese dei morti, e infine
liberare i vivi dall’obbligo del lutto. Spesso presso gli Olo Ngadju accade che il luogo della
sepoltura sia nelle vicinanze di un fiume; quindi si depone la bara su un battello ornato di
ricchezze, fiancheggiato da un altro su cui si trovano le sacerdotesse e i parenti del morto.
Dopo aver depositato le ossa e aver pregato, i vivi si allontanano pensando di aver
compiuto il proprio dovere nei confronti del morto e ritornano al villaggio cantando e
bevendo. Molto forte è la contrapposizione simbolica esistente tra il cadavere e le ossa;
mentre il primo rimanda al fetore della putrefazione, alla nube di spiriti del male, al
disgusto e alla repulsione, le ossa suscitano una rispettosa fiducia, sono rivestite di
carattere sacro e magico, sono “calde di virtù spirituale”. Si crede che influssi benefici
emanati dall’ossario proteggano il villaggio contro la sventura e aiutino i vivi nelle loro
imprese. La comunità dei vivi, durante le esequie definitive, rinnova se stessa costituendo
la società dei morti.
Le eccellenti intuizioni di Robert Hertz si rifanno alle teorie di Durkheim, considerato il
fondatore della sociologia del rito. Secondo il grande sociologo francese, le credenze sono
considerate non in termini biologici o psicologici ma come fatti sociali, cioè esistono
collettivamente, al di fuori e al di là delle intenzioni individuali e ciò porta Durkheim a
individuare le credenze non tanto nei pensieri e nelle opinioni , ma in fatti sociali analoghi,
e quindi nelle azioni rituali3. In breve credenze e simboli si costituiscono mediante le
azioni rituali e si mantengono attraverso la ripetizione periodica di riti e cerimonie
collettive (Navarini 2003, pag. 32). Il sociologo francese, attraverso una delle sue maggiori
opere Le forme elementari della vita religiosa, spiega i meccanismi che stanno alla base
dei rituali e l’importante funzione sociale da questi rivestita. La teoria sociale dei riti
durkheimiana non si limita a spiegare i rituali della religione totemica primitiva di
popolazioni esotiche, la sua ingegnosa complessità permette di formulare anche una teoria
sociale dei riti contemporanei. Lo scopo delle Forme elementari non è quello di illustrare i
3
In quanto modalità espressive, marcatori e produttori di cultura, i riti sono fondamentalmente azioni
simboliche. Con ciò si intende dire sia che i simboli impiegati in un rito sono dei mezzi non solo per creare
significati ma anche per agire, sia che la simbolizzazione – le attività di rappresentazione della realtà per
mezzo di simboli, e di costruzione di un ordine simbolico – costituisce propriamente il fine, o se vogliamo il
risultato e l’esito principale, di qualsiasi rito collettivo preso nel suo insieme (Navarini 2007).
28
tratti della religione australiana, chiamata religione totemica per l’apparente semplicità
delle sue forme, ma scoprire gli elementi e i momenti costitutivi della vita religiosa stessa,
«considerati come i caratteri originari di quel fenomeno a noi noto con il nome di
“società”» (ivi, p.31). La religione (nella sua forma elementare) è costituita da due tipi di
elementi, rispettivamente connessi alle rappresentazioni e alle pratiche sociali. Per
Durkheim ogni credenza religiosa, ogni tipo di credenza collettiva, è una rappresentazione
ricreata sia nei momenti in cui la vita spirituale assume una forma concreta, sia quando la
vita ordinaria si scontra in qualcosa definito come sacro. È il sacro, non la divinità,
l’oggetto specifico della religione, un riferimento simbolico da cui originano la morale e le
credenze. Credenze e riti costituiscono il sistema elementare della religione, le prime
coincidono con le rappresentazioni e i pensieri, i secondi sono azioni, pratiche, movimenti
e gesti concreti (ibidem). Le credenze sono considerate come fatti sociali, ossia esistono
collettivamente oltre le intenzioni individuali, sono elementi deboli che tendono a
spegnersi pertanto non potendo vivere di una vita propria, sono ricreate nel tempo, in
questo modo la società si ricostituisce; le credenze si costituiscono mediante le azioni
rituali e si mantengono attraverso la ripetizione periodica di rituali collettivi. «I rituali sono
regole di condotta che prescrivono il modo in cui l’uomo deve comportarsi con le cose
sacre» (Durkheim 1912, p. 43), sono comportamenti codificati perché trattano in modo
rispettoso, oggetti, persone e tutto ciò che è simbolo del sacro. Il bisogno che traduce il
rituale è quella necessità di agire e allo stesso tempo di far rivivere la forza fisica e morale
che anima una società, mediante il rito ci si appella a una forza morale, vale a dire
atteggiamenti di rispetto e devozione, “regole di condotta di fronte al sacro” gestite dalla
collettività e poi ritradotte nelle credenze e nelle pratiche individuali. «Il rituale è una
forma d’azione dalla natura simbolica, periodica e dotata di elementi ricorrenti o ripetitivi,
in cui differenti attori, almeno in parte sottomessi a medesime regole, partecipano,
collaborano o negoziano la costruzione di una comune dimensione sacrale» (Navarini
2003, p.27). In breve sono tre gli elementi che costituiscono una religione secondo
Durkheim: una religione per essere una religione non deve necessariamente avere un Dio,
la divinità non è un elemento necessario, ciò che è scambiato per divinità è l’elemento del
sacro, l’idea del sacro4 è una cosa indefinibile da se stessa, è l’origine di tutti i sistemi di
pensiero con cui concepiamo il mondo; una religione è una religione affinché ci siano in
4
Ciò che è sacro per gli attori più che il sacro in generale o in un’accezione strettamente religiosa.
29
ballo delle credenze, ossia, sistemi di pensiero e rappresentazioni di idee; in ultimo, le
pratiche che formano le credenze sono i rituali.
1.2.2 L’organizzazione sociale della morte
Robert Hertz anticipa l’idea che le categorie sociali, inclusi la morte e il morire nelle loro
dimensioni cliniche, sociali e fisiche, siano costruite nelle pratiche ordinarie: teoria
illustrata dalla brillante etnografia di Sudnow5 pubblicata nel 1967 nel libro Passing on.
The social organization of dying.
Il sociologo americano non studia l’interpretazione che si dà alla morte, il processo sociale
del morire, ma concentra l’attenzione sulla preparazione che c’è intorno alla persona che
sta per morire e alla persona morta all’interno dell’ospedale, analizza le pratiche necessarie
da compiersi per l’organizzazione. L’intento della ricerca è dimostrare che le pratiche
svolte quotidianamente dallo staff ospedaliero conferiscono un significato e un senso alla
morte, oggetto del libro è la morte come evento pianificato. L’autore prende in esame
alcune dimensioni rilevanti che caratterizzano la vita organizzativa di due ospedali
americani - il primo, l’ospedale pubblico californiano County, il secondo, Cohen, un
ospedale privato del Midwest - e riferendosi a esse utilizza l’espressione categorie di
eventi. Sudnow spiega la morte attraverso le pratiche, tratta ciò in cui consiste il “morire”
come un fenomeno problematico; è l’organizzazione delle attività di reparto che cattura la
sua totale attenzione, pertanto problematizza il fenomeno del “morire” nel momento in cui
la conoscenza del suo significato richiede l’individuazione delle pratiche che sono
giustificate dall’utilizzo di questa categoria (Sudnow 1967, p. 125). In altre parole, morire
è una categoria prodotta attraverso le pratiche lavorative (quello che praticamente
facciamo) e, quindi, organizzative. In virtù delle pratiche produciamo significato, le azioni
inscritte nelle pratiche producono la realtà concepita come processo strutturato, coordinato
che genera significato e rende ordinata l’azione, ed è attraverso queste azioni compiute in
un contesto di lavoro ordinario che la morte è costruita socialmente. Tramite l’espressione
morte sociale, l’autore spiega ciò che “morire” significa nel contesto ospedaliero. La morte
sociale, dunque, è un insieme di pratiche e definisce quei casi in cui la morte fornisce la
giustificazione per svolgere determinate attività come programmare un’autopsia, prendere
5
Prova che l’etnometodologia ha radici nella scuola durkheimiana.
30
accordi con le imprese di pompe funebri, trasportare un corpo in obitorio, riposarsi, portare
il lutto, in generale «occuparsi di quelle attività organizzative, cerimoniali ed economiche
che segnano la fine dell’esistenza sociale» (ivi, p.133). L’autore riporta un esempio di
morte sociale accaduto a un paziente ricoverato in un reparto di emergenza per la
perforazione di un’ulcera duodenale nell’ospedale da lui osservato. Dopo essere stato
operato, l’uomo versava in condizioni molto gravi e le probabilità di sopravvivenza erano
scarse, dopo due settimane, però, le condizioni dell’uomo migliorarono e fu dimesso. Una
volta tornato a casa trovò una situazione spiacevole, sua moglie aveva fatto sparire tutti i
suoi vestiti e i suoi effetti personali, aveva preso accordi con le onoranze funebri per il suo
funerale, aveva smesso di portare l’anello matrimoniale e si era fatta trovare con un altro
uomo. Il paziente racconta questa storia in occasione di un secondo ricovero in ospedale,
racconta di aver abbandonato la casa, di aver cominciato a bere e di aver avuto un attacco
di cuore (ivi, p. 136). Un altro esempio di morte sociale, osservato da Sudnow, è parlare
dell’autopsia del moribondo in sua presenza, quando, di fatto, è ancora vivo; vi è una
chiara diminuzione di attenzione prestata ai pazienti in fin di vita perché considerati, dal
punto di vista delle pratiche, non più in vita. Una pratica, invece, riguardante il post
mortem, comune a quasi tutti gli ospedali americani, osservata dal sociologo americano è
la fasciatura dei corpi. Quella di fasciare i corpi è una pratica eseguita da due o più persone
che ha una caratteristica struttura temporale: un inizio ben definito, una sequenza di fasi e
una conclusione. Si procede rimuovendo i vestiti del morto, compresi i gioielli, e
avvolgendo il corpo con un pesante lenzuolo, «prima che il corpo sia fasciato, è talvolta
ripulito con un panno umido, non completamente ma solo per togliere lo sporco
particolarmente evidente. Una fascia a forma di pannolino è avvolta intorno alla zona
genitale; le mani e i piedi sono incrociati e tenuti fermi con un legaccio speciale ricoperto
di cotone; due tamponi di garza ritagliati appositamente vengono applicati sugli occhi,
dopo che le palpebre sono state chiuse. Prima che il corpo sia definitivamente avvolto nel
lenzuolo esterno, esso viene ricontrollato per accertarsi che nessun oggetto personale vi sia
rimasto» (ivi, p. 137). Durante la pratica il personale scambia poche parole, di solito
riguardano il paziente deceduto, il lavoro dura circa quindici minuti, non vi sono pause
mentre si svolge l’operazione, il personale quando finisce va via piuttosto che concedersi
una pausa in presenza del corpo morto. La fasciatura dei corpi è considerata dal personale
ospedaliero come un compito sgradevole, nonostante sia un’attività di routine; aiutoinfermieri e inservienti se ne occupano con estrema tranquillità perché devono farlo, ma
31
tentano sistematicamente di evitare l’incarico ogni qualvolta si presenta la possibilità.
«Uno stratagemma diffuso al County è quello di fingere che il paziente non sia morto e, se
necessario e possibile, dissimularne la morte facendolo sembrare vivo. Se lo stratagemma
ha successo, gli inservienti riescono a fare in modo che il corpo sia passato al personale del
turno successivo che, finiti i giri di ispezione, lo scoprirà e sarà responsabile della
fasciatura. Il corpo viene camuffato puntellando la testa, in modo che non cada di lato; gli
occhi vengono chiusi per simulare il sonno, l’apparecchio della fleboclisi viene mantenuto
in funzione e il corpo viene schermato con un tramezzo, in modo che il personale di
passaggio, ad esempio infermiere e medici, non si accorga del morto» (ivi, p. 138). Lo
studioso, durante le sue osservazioni, individua la tendenza a nascondere la morte,
significativo è un testo stilato dall’amministrazione dell’ospedale pubblico riportato da
Sudnow: «L’obitorio dell’ospedale è ben collegato al piano terra e si trova in un’area
inaccessibile al pubblico. È importante che esso abbia una apposita uscita principale su una
piattaforma privata che sia nascosta sia ai pazienti dell’ospedale che al pubblico». Il
personale delle corsie adopera una serie di tecniche per rendere la morte invisibile; per
“proteggere” i parenti, i corpi sono rimossi durante le ore di visita, inoltre, per
salvaguardare gli altri pazienti, il morente è trasferito in una stanza privata nel momento in
cui la sua fine è vicina. Le morti improvvise, annunciate dai pazienti che condividono la
camera con la persona appena deceduta, sono considerate un problema perché rimuovere il
cadavere, senza offendere i vivi, è un’operazione difficile per il personale ospedaliero
(Cavicchia Scalamonti 1984, p.153).
La domanda di Sudnow è in che modo e in che misura le categorie di eventi acquistano
significato nel corso dello svolgimento delle attività a esse collegate. L’attenzione è
pertanto rivolta al processo di costruzione di significato, l’interesse è orientato verso le
activities of seeing death, announcing death, cercando di dimostrare quanto tali attività
siano intrise di sociale: il senso è costruito dagli attori, è l’agire stesso che produce senso.
Questo assunto riconduce alla teoria di Garfinkel6 e all’etnometodologia: il significato
delle cose non sta nell’oggetto ma nell’uso che gli attori fanno della cosa che stanno
6
A partire dagli anni sessanta, la scoperta della conoscenza quotidiana come fenomeno sociologico è stata
accompagnata da una fitta attività di ricerca sul campo. Harold Garfinkel, fondatore dell’etnometodologia ha
fornito alcune indicazioni su come analizzare le attività più comuni prendendo le mosse dai metodi che gli
stessi membri di una società utilizzano per dare un senso a quel che fanno. Tutti i dettagli della vita ordinaria,
apparentemente banali, possono diventare rivelatori delle dinamiche che rendono possibile l’ordine sociale.
In questa prospettiva, un orientamento empirico di tipo etnografico diviene la principale modalità di analisi.
32
studiando. Garfinkel (1967) suggerisce al ricercatore di assumere una distanza, di
estraniarsi da quel che riteniamo ovvio, al fine di cercare di comprendere come il mondo
quotidiano venga socialmente costruito. Esistono delle modalità di ragionamento pratico
che i membri di una società mettono in atto ogni qual volta percepiscono e spiegano un
fatto, un evento, la propria realtà sociale. Gli individui non sono pienamente consapevoli di
queste modalità di ragionamento pratico anche per il fatto che sovente si tratta di semplici
automatismi e di conoscenze date per scontate: spetta all’etnometodologo renderle visibili.
L’etnometodologo si sofferma sull’accountability dei fatti quotidiani: questi sono di norma
osservabili e “descrivibili” (cioè accountable) da tutti coloro che sono in grado di attingere
a uno stock di conoscenza di senso comune. Le spiegazioni e i resoconti (gli accounts)
forniti dai membri ordinari della società divengono allora un’unità di analisi decisiva per il
sociologo. Tuttavia i vari modi attraverso i quali vengono messi appunto gli accounts
relativi alla società e al suo funzionamento sono parte integrante delle cose stesse che
descrivono. Questa loro caratteristica viene definita riflessività: la spiegazione dei fatti
oggetto di spiegazione. I resoconti che consentono agli individui di attribuire un senso ai
fatti sociali sono comprensibili soltanto all’interno di un contesto ben preciso o in
riferimento ad esso. In altri termini, gli individui formano un account ricorrendo a
espressioni linguistiche il cui significato non è “oggettivo”, bensì indicale (vincolato a un
contesto) (Dal Lago, De Biasi 2002, pp. XXVIII-XXIX).
1.2.3 Tre dimensioni per l’analisi rituale
Finora abbiamo visto come l’approccio di Hertz, che si rifà alle grandi teorie
durkheimiane, analizza nello specifico il funzionamento del rito funebre, che ha il compito
di fronteggiare i mutamenti che hanno a che vedere con i cosiddetti “lati sinistri della vita
sociale”. In tali circostanze l’impianto simbolico, costituito da quello che spesso viene
chiamato il rito dei riti, può essere assunto come principale modello di osservazione poiché
condensa le principali caratteristiche dei rituali: si tratta al tempo stesso di un rituale
aggregativo (di estasi e trascendenza, con il conseguente tentativo di rinnovare i legami
sociali; così come questi fenomeni sono intesi da Durkheim), di un rituale di resistenza e di
reazione all’inazione (posto di fronte ai limiti estremi della vita sociale, l’attore reagisce
con azione collettive fortemente simboliche), e ovviamente di un rito di passaggio a fronte
del mutamento più clamoroso che una società e un gruppo sociale sono in grado di
33
sopportare: la scomparsa di una persona, la transizione dei defunti in un altro mondo, ma
anche il passaggio o meglio la reintegrazione dei vivi nello stesso mondo in cui devono o
vogliono continuare a vivere (Navarini 2007). Il lavoro che presento analizza, in chiave
durkheimiana, lo studio rituale degli “oggetti” sacri e delle loro rappresentazioni, nello
specifico, le pratiche inscenate dai professionisti dell’addio, necessarie da compiersi per
l’organizzazione sociale dell’evento morte; pratiche che mettono al centro dell’azione,
rituali che permettono di reagire alla più grave delle perdite. Altri approcci, oltre a quello
di Hertz, sono possibili per analizzare i rituali: il metodo utilizzato nell’etnografia di
Sudnow, che affonda le radici nell’etnometodologia7, è uno di questi. Sudnow mostra
come le categorie della “morte” e del “morire” hanno un carattere fondamentalmente
sociale e sono intese come la sintesi coordinata di pratiche reciprocamente interdipendenti
ed eseguite in contesti il cui dominio di fenomeni è ordinato; i riti sono considerati come
attività prive di risvolti interpretativi, simbolici, emotivi o religiosi, una pratica senza né
simboli, né credenze e, in tale nozione, vengono a volte incluse sia le routine organizzative
e alcuni tipi di pratiche ripetitive, standardizzate, realizzate meticolosamente e con un certo
sincronismo. Il focus della ricerca etnometodologica è un problema pratico: come fanno gli
individui a fare quello che fanno dal momento che interagiscono all’interno di un dominio
di fenomeni ordinati. Sia il dominio in cui si agisce (l’ordine) sia il modo concreto in cui si
agisce (le pratiche) possono essere rituali (Navarini 2003, p. 208). L’etnometodologia
studia il soggetto interagente come persona incarnata nelle sue pratiche e nel suo contesto
di azione. Il focus trasversale del suo programma di ricerca sta nell’analisi dei modi “dati
per scontati” in cui in determinati contesti di ordinaria interazione le persone rendono
intelligibile e comprensibile ciò che fanno, ciò che dicono o ciò che sentono di essere in
quanto membri di una comunità (ibidem). Nella mia ricerca analizzo il rituale anche dal
punto di vista etnometodologico, osservando le routine organizzative di uno dei contesti di
lavoro degli operatori funebri e dimostrando come la morte sia socialmente costruita e
fondata nelle sue pratiche. In sintesi, nella ricerca presentata nelle prossime pagine,
sviluppo due differenti approcci per l’analisi rituale: lo studio rituale degli “oggetti” sacri e
delle loro rappresentazioni, realizzato da studiosi come Durkheim (che si occupa più in
generale dei grandi raduni rituali) e Hertz (che studia nello specifico il funzionamento del
rito funebre) e l’approccio etnometodologico, secondo il quale il rituale è sostanzialmente
7
Ricordiamo, però, che l’idea che le categorie sociali siano costruite nelle pratiche ordinarie deriva dalle
intuizioni di Hertz, dunque i due approcci non sono scollegati, ma condividono una matrice comune che ha la
sua base nelle teorie durkheimiane.
34
una pratica, cioè “un’azione ridotta all’osso”. Un terzo punto di vista attraverso il quale
guardare al rito (in questo caso ai micro rituali), è quello di Goffman che pone lo sguardo
allo studio rituale degli “oggetti” sacri e delle loro espressioni nelle interazioni tra gli
individui. «Questo moderno mondo laico non è poi così irreligioso come si potrebbe
pensare. Ci siamo sbarazzati di molti dei, ma l’individuo stesso rimane ostinatamente una
divinità di notevole importanza. Egli si comporta con una certa dignità e a lui sono dovuti
molti piccoli omaggi. È geloso del culto che gli è dovuto e tuttavia, se avvicinato nel modo
giusto, è pronto a perdonare coloro che lo hanno offeso. Alcune persone, a seconda del loro
relativo status sociale, sentiranno di essere contaminate dal suo contatto, mentre altre
sentiranno di contaminarlo. Tuttavia, in entrambi i casi, si sentiranno in dovere di trattarlo
con cura rituale. Forse l’individuo è un dio così vitale, proprio perché può effettivamente
capire il significato cerimoniale del modo in cui è trattato e può rispondere
drammaticamente di persona a ciò che gli viene offerto. Nei rapporti tra queste divinità non
è necessario l’intervento di intermediari; ognuno di questi dei è in grado di celebrare
l’ufficio divino come sacerdote di se stesso» (Goffman 1967, p. 104). Un passo (nel quale
si nota la sottile presenza di Durkheim e Hertz) tratto dal Rituale dell’interazione, che offre
un assaggio del pensiero goffmaniano incentrato sullo studio dell’organizzazione sociale
dei rapporti interpersonali. Goffman intende il rituale come uno specifico insieme di
attributi presente in ogni attività dotata di ordine che vede gli individui incontrarsi e
interagire; attributi e dimensioni dell’azione la cui “natura simbolica” non allude a
questioni di carattere antropologico o culturale quali le credenze, i miti o i grandi “modi di
vivere e di morire”, ma al fatto che l’espressione del self e il trattamento morale degli
individui sono categorie simboliche sempre incorporate e riprodotte nell’ordine delle
interazioni a prescindere dalle emozioni, dalle credenze o dalle volontà dei soggetti
partecipanti (Navarini 2003, p. 207). Secondo lo studioso dei micro rituali, nelle nostre
società lo straordinario non sta nei valori, nelle norme, nei processi simbolici e morali
creati e ricreati nelle solenni cerimonie o nei grandi eventi pubblici, così come non arriva
dall’esterno della vita quotidiana, al contrario, lo straordinario non viene da nessuna parte
perché risiede già nell’ordinario mondo-della-vita di ogni individuo, cioè nelle dimensioni
cerimoniali presenti nelle piccole pratiche rituali e nelle sue relazioni con gli altri: nelle
interazioni, negli incontri, nei discorsi e nelle conversazioni di tutti i giorni. L’ordine è
dato dall’eterno riprodursi delle attività ordinarie: dalle interazioni, dalle pratiche e dalla
loro inevitabile portata morale (ivi, p. 172). «La forza dei rituali risiede sostanzialmente
35
nella capacità di creare periodicamente occasioni di incontro con l’Altro per poi trasferire
in diversi modi nella vita più ordinaria i tratti generati da questi eccezionali incontri,
attribuendole
così
una
qualche
direzione
morale» (ivi,
p.
171).
Lo
studio
sull’organizzazione sociale della morte da me condotto, sarà ricco di analisi dei rituali delle
micro interazioni tra i protagonisti della ricerca; descriverò le occasioni cerimoniali in cui i
simboli dei soggetti e dei legami tra loro, vengono messi in scena come qualcosa di reale e,
per questo, ne viene rafforzata e rinvigorita la base morale (ivi, p. 177). In certi casi «è
come se la forza di un legame lentamente si deteriorasse se non si fa nulla per celebrarlo, e
quindi almeno occasionalmente è necessario rinvigorirlo un po’» (Goffman 1971, pp. 5354), cioè ravvivarlo con interscambi cerimoniali che esprimono sostegno (ad esempio i
saluti, le cortesie, gli inviti, i piccoli favori, le strette di mano, le confidenze ecc.).
Tre dimensioni per l’analisi rituale con le quali osservare e studiare i riti che convergono
però, in una stessa direzione e condividono una nozione comune: «il rituale è una pratica
nella quale le persone, in contesti concreti di interazione, dimostrano le une alle altre di
essere parte di una medesima comunità morale, di essere partecipi di un comune sentire, e
di condividere un’analoga metodologia pratica di produzione in vivo dell’ordine sociale»
(Giglioli, Fele 2001).
1.3 L’atteggiamento verso la morte
La seconda sezione di questo capitolo - ripercorrendo velocemente l’atteggiamento verso
la morte nelle diverse epoche storiche - proverà a dare una spiegazione dell’atteggiamento
attuale; inoltre, alcuni sociologi, analizzeranno il rapporto dell’uomo con la morte da
diversi punti di vista, prima studiando la morte come evento pubblico, poi, soffermandosi
sui momenti finali della vita e indagandola come evento privato.
Sappiamo che ogni individuo ha un’idea della morte, sa che fa parte della vita, è la vita che
cade e l’esistenza che viene a mancare, eppure tale consapevolezza è puramente razionale e
per nulla interiorizzata e si fatica a pensare alla morte come a una reale possibilità. L’idea
di essere seppellito, dopo il decesso, in un oblio totale, non avere più nulla in comune con
gli esseri della nostra specie e perdere qualsiasi possibilità di influire su di essi, è un
pensiero doloroso per ogni individuo (D’Holbach 1978, p. 312). La morte è la sconfitta
della ragione perché la ragione non può pensare alla morte, essa è appresa attraverso gli
36
altri ma non può essere un’esperienza propria. Per quanto sia legittimo temere e riflettere
sulla morte, la rappresentazione che ne consegue riguarda sempre quella degli altri. È
impossibile raffigurare la nostra stessa morte, l’idea della morte è un’idea vuota che non si
può visualizzare e neanche interpretare concettualmente, l’atteggiamento dell’individuo
verso l’oblio è ostile; tuttavia siamo consapevoli della sua inevitabilità ed è proprio per
questo motivo che è destinato a rimanere un evento traumatico “la morte è, è reale, e noi lo
sappiamo” (Bauman 1992, pp. 24-25). Sappiamo, quindi, che la morte è reale eppure
continuiamo a evitarla, un atteggiamento ricorrente nella nostra epoca che può fungere da
chiave di lettura per comprendere alcuni interrogativi di ricerca del lavoro presentato in
questa sede come ad esempio capire perché i professionisti dell’addio sono trattati con
sospetto e ostilità da gran parte degli individui.
1.3.1 La morte indagata come evento pubblico
Lo storico francese Philippe Ariès descrive e analizza i vari atteggiamenti degli individui
dinanzi alla morte nella cultura cristiana occidentale. Ogni uomo è chiamato per natura a
entrare in contatto con la finitezza e a questo rapporto inevitabile ha corrisposto da sempre
una serie di comportamenti e atteggiamenti che danno vita, ancora oggi, a modi di agire
dinanzi alla morte che potremmo definire collettivi. Dai risultati della ricerca condotta
dallo storico francese emerge che ogni periodo storico è caratterizzato da un suo specifico
atteggiamento che si basa su un preciso modo di concepire, vivere e sentire la morte. La
prima sensibilità comune verso la fine dell’esistenza che Ariès rintraccia nel periodo a
cavallo tra l’età antica e medievale, è l’atteggiamento in cui la morte è attenuata, vicina e
familiare, una morte addomesticata (Ariès 1975), che contrasta con il nostro in cui la morte
fa paura tanto che non osiamo pronunciarne il nome. In questo periodo storico si parla
della morte e del morire con molta franchezza, la letteratura popolare dell’epoca ne è la
testimonianza, in molte poesie appaiono morti o la morte in persona. In uno di questi
poemi si narra di tre uomini che passano davanti a una tomba aperta e i morti dicono loro:
«Ciò che siete lo fummo. Ciò che siamo lo diverrete» (Ariès 1975, op. cit. in Elias 1982, p.
32). Le malattie mortali potevano colpire chiunque senza preavviso e uccidere nel giro di
pochi giorni, «la morte era capricciosa, stabilita solo dall’imperscrutabile volontà del
Signore» (Walter 1994, p.5).
37
Dunque, il primo atteggiamento nei confronti della morte, il più antico, è la familiare
rassegnazione del destino comune della specie, riassunto in questa formula: Et moriemur,
moriremo tutti (Ariès 1975, p.50). L’atteggiamento verso la morte rimane uguale per molti
secoli muovendosi entro uno spazio sincronico. È a partire dal XII secolo che questa
sensibilità comincia a divenire diacronica, ossia inizia a mutare, portando al secondo
atteggiamento verso la morte: ogni uomo riscopre il segreto della sua individualità,
conferisce importanza alla sua esistenza individuale scoprendo la morte di sé. L’uomo del
primo Medioevo si rassegnava senza eccessiva fatica all’idea che siamo tutti mortali; dalla
metà del Medioevo in poi l’individuo riconosceva se stesso nella propria morte. Con
l’ascesa della coscienza individuale si prestava più attenzione alla morte, era diventato un
avvenimento importante e pertanto richiedeva una cura più particolare, ma non era
diventata né terrificante, né ossessionante, restava addomesticata (ivi, pp. 51-52). Dal XVI
secolo la morte si carica di un senso nuovo, prende forma l’idea di rottura. L’arte e la
letteratura esaltano i temi della morte di un senso erotico, innumerevoli scene o motivi
associano la morte all’amore, Thanatos a Eros. Il teatro barocco colloca i suoi innamorati
nelle tombe, come Romeo e Giulietta, la letteratura nera del XVIII secolo unisce il giovane
monaco alla bella morta che sta vegliando (ivi, p. 51). Artisti, letterati e poeti legano la
morte all’erotismo per esprimere la rottura dell’ordine abituale; «come l’atto sessuale, la
morte è ormai sempre più considerata come una trasgressione che strappa l’uomo alla sua
vita quotidiana, alla sua società ragionevole, al suo lavoro monotono, per assoggettarlo a
un parossismo e gettarlo in un mondo irrazionale, violento e crudele» (ibidem). Nel XIX
secolo la fine dell’esistenza inizia ad esser vista come qualcosa da temere e proprio per
questo non viene più rappresentata; si ha paura della morte e del problema concreto di
essere sepolti vivi a causa di una morte apparente, e poi scompaiono le rappresentazioni
macabre, inoltre questo timore ha portato alla ripugnanza verso il cadavere. L’uomo delle
società occidentali, da questo periodo storico, si occupa meno della propria morte, la
morte romantica è la morte dell’altro che dà origine al culto delle tombe e dei cimiteri
moderni, strumenti essenziali in cui concretizzare il ricordo e dar sfogo al rimpianto (ivi,
p.58). In epoca contemporanea, la cultura è permeata da una paranoica rimozione della
morte divenuta l’innominabile, tutto avviene come se fossimo più mortali, ammettiamo di
poter morire ma in verità, in fondo al nostro cuore, ci sentiamo immortali (ivi, p.84). Il
sociologo tedesco Norbert Elias afferma che la tendenza a eludere il pensiero della morte,
celandolo o rimuovendolo, credendo fortemente nella propria immortalità (muoiono gli
38
altri, non io), si manifesta apertamente nelle società avanzate contemporanee (1982, p.19).
Il lento cambiamento dell’atteggiamento degli uomini di fronte alla più grave delle perdite,
sostiene Elias, non è tanto l’effetto di processi di rimozione della morte, tipici della
modernità, ma è un aspetto del più generale processo di civilizzazione, è la conseguenza
del trionfo della civiltà delle buone maniere nella quale la morte8 è considerata impudica e
imbarazzante (Marzano, 2002). La morte, sia come evento sia come pensiero, nel corso di
questo processo di civilizzazione è sempre più confinata dietro le quinte della vita sociale,
tutti gli aspetti della vita umana sono regolati in modo molto più complesso, armonico e
differenziato rispetto al passato, da regole imposte dalla società e dalla coscienza
individuale (Elias 1982, pp. 29-30). Morire è uno dei più grandi pericoli bio-sociali che
minacciano la vita degli esseri umani (ivi, p. 30); tra gli esseri che muoiono, gli uomini
sono le uniche creature per le quali la morte è un reale problema. Con gli animali il genere
umano condivide la nascita, la giovinezza, la sessualità, la malattia, la vecchiaia e la morte,
ma la consapevolezza di dover morire è propria solo dell’uomo. Siamo gli unici esseri
viventi a sapere che prima o poi la vita deve avere fine, pertanto, è la coscienza della morte
a costituire un problema per gli uomini, non la morte in sé (ivi, pp. 21-22). «Non
inganniamoci: la mosca prigioniera tra le dita dell’uomo si dibatte e si difende come un
uomo sopraffatto dal suo assassino, come se sapesse il pericolo che corre; ma il dibattersi
della mosca in pericolo è un istinto innato proprio della sua specie. Una scimmietta può
certo trasportare ancora per un pezzo di strada il suo piccolo morto prima di abbandonarlo
in un punto qualunque della via. Essa non sa nulla della morte, né di quella del suo piccolo
né della propria. Gli uomini invece ne hanno coscienza e perciò la morte per essi diventa
un problema» (ivi, p. 23). Si prende coscienza della morte quando essa si manifesta,
percepiamo la sua presenza quando vediamo morire qualcuno, una persona cara, un vicino
di casa, l’amico di un amico. La morte dell’altro di cui parla Ariès, rivelata come assenza
dal mondo e da noi stessi, assolve un ruolo fondamentale nella presa di coscienza del
morire e del dover morire, essa costituisce forse il percorso più autentico per penetrarla in
profondità (Thomas 1975, p.276).
Di morte, dunque, nelle società avanzate se ne parla sempre meno e questo fenomeno ha
delle conseguenze anche sui fatti o sul “fatto-morte” che si eclissa dalla vita sociale e
individuale. È stato il sociologo inglese, Geoffrey Gorer a rompere il silenzio della
8
Il libro di Norbert Elias, La solitudine del morente, è tra i contributi più rilevanti all’analisi storico-sociale
dei momenti finali della vita. Il sociologo spiega come l’ostinata rimozione collettiva della morte, in epoca
moderna, abbia conseguenze negative portando all’isolamento del morente.
39
sociologia sui costumi funebri del nostro tempo e, in particolare, sulla rimozione totale
della morte dal contesto sociale odierno. Nel 1955 pubblica in un breve articolo intitolato
The pornography of death ripubblicato poi come saggio nel 1965 in uno studio dedicato ai
costumi funebri della società inglese contemporanea. L’autore descrive e denuncia
l’emarginazione di quanti avevano perso qualcuno nella nostra società “avanzata”. Egli
sostiene che, mentre nella società tradizionale i rituali del lutto integravano la morte e il
dolore nel contesto sociale e facevano sentire ai familiari la solidarietà del gruppo, la
società moderna avrebbe privato i familiari del proprio dolore creando un clima di tacita
disapprovazione intorno alla disperazione dei superstiti. Il sociologo inglese sostiene che la
morte nel XX secolo sia diventata pornografica ovvero sempre meno menzionabile,
imbarazzante, oscena, qualcosa che non si può dire, conquistando il posto finora occupato
dal sesso. Gorer rileva acutamente che il muro di silenzio e di menzogna un tempo
riservato al sesso sembra ormai trasferito alla morte. Nell’Inghilterra del XIX secolo, in
epoca vittoriana, parlare di sesso era fonte di imbarazzo, costituiva un aspetto
dell’esperienza umana intrinsecamente vergognoso e ripugnante, non si poteva parlare o
riferirsi al sesso apertamente senza essere accompagnati da un senso di colpevolezza e
indegnità (Gorer 1965, p. 41). La morte, invece, in tale periodo non era un aspetto oscuro
della società, quotidianamente si aveva a che fare con essa per diversi motivi; il tasso di
mortalità era elevato e spesso si vedeva gente morire, i bambini erano incitati a pensare alla
morte e di frequente assistevano alla scomparsa di persone care, i cimiteri erano in
evidenza in ogni città e l’esecuzione dei criminali era una festa di dominio pubblico. Nel
XX secolo si assiste a una graduale trasformazione, il tabù del sesso cede il posto al tabù
della morte. Gli atteggiamenti verso l’esperienza della morte hanno subìto un mutamento, i
progressi della scienza hanno reso il decesso naturale tra i giovani più raro rispetto alle
epoche precedenti, la morte si allontana lentamente dal quotidiano di ognuno, si ritiene
inopportuno parlarne, si nasconde ai bambini e si tace ai moribondi; parlare della morte
corrisponde a una forma di pornografia pertanto morenti e persone in lutto sono oggetto di
evitazione. Citando Gorer, «i processi naturali della corruzione e del decadimento del
corpo sono diventati disgustosi, tanto quanto lo erano un secolo fa i processi naturali della
nascita e della copulazione. La preoccupazione riguardante tali processi viene considerata
morbosa e poco igienica, da scoraggiare in tutti e da punire nei giovani». Riferendo e
ribadendo le affermazioni di Gorer, Philippe Ariès rileva che «i bambini vengono iniziati
fin dalla più tenera età alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più
40
il nonno o chiedono perché… si risponde loro che riposa in un bel giardino dove cresce il
caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto i cavoli, ma i nonni a scomparire tra i
fiori» (Ariès 1978, pp. 213-214). Ai nostri bisnonni dicevano che i neonati si trovano sotto
una pianta di uvaspina o sotto un cavolo; ai nostri bimbi è probabile che si dica che coloro
che sono andati all’aldilà (si evita naturalmente di dire più semplicemente che sono morti)
si sono mutati in fiori, o riposano in bei giardini. Ariès e Gorer denunciano la rimozione
totale non solo della morte ma anche del moribondo dal contesto sociale odierno relegando
la morte in un asettico e impersonale contesto ospedaliero. Nell’ospedale il moribondo è
tenuto il più a lungo possibile all’oscuro della sua condizione perché si teme non sia in
grado di essere discreto, insomma di attenersi a uno «stile accettabile di morte» (an
acceptable style of dying), come dicono Glaser e Strauss, nei confronti dei moribondi e dei
loro parenti. Queste prime riflessioni di Ariès e Gorer sullo stato dei morenti, condurranno
i sociologi a indagare la morte non più solo come evento pubblico ma anche come evento
privato, intimo.
1.3.2 La morte indagata come evento privato
Negli anni successivi alla pubblicazione del saggio di Gorer, tra gli anni sessanta e gli anni
settanta, diversi sociologi cominciano a occuparsi dell’evento morte studiando i processi
sociali del morire, concentrando l’attenzione verso lo studio dei morenti e indagando il
percorso di dolore, sofferenza e disperazione che spesso accompagna il malato negli ultimi
istanti della vita. Lo studio delle emozioni e dei morenti, della morte in ambito privato,
prima di allora, è stato trascurato perché considerato un evento intimo; in gran parte delle
società umane il moribondo vive una fase liminare che prepara la sua uscita dal gruppo, un
passaggio in cui la società si “ritira” lasciando alla piccola cerchia dei familiari il compito
di occuparsi del proprio caro in fin di vita (Favole 2003, p. 20). Nei momenti che
procedono la morte, la società si allontana dalla vita della persona agendo però subito dopo
per prendersi cura del corpo e mettere in atto i rituali del congedo. Il morire implica il
ripiegamento dell’individuo su di sé e su un ristretto gruppo di intimi, la morte compiuta
vede la prepotente ricomparsa della società alla quale è affidato il compito di
accompagnare lo scomparso verso il mondo dei morti (ivi, p. 21). Il dibattito sulla morte,
in quegli anni, alimentato dalle teorie di diversi studiosi, parte da una congettura comune:
la discontinuità tra l’atteggiamento dei nostri progenitori verso la morte, rimasto immutato
41
per secoli, e il moderno atteggiamento verso la morte cominciato tra ottocento e novecento
e rinsaldato negli anni successivi (Marzano 2002, p. 268). Secondo questi autori tale
cambiamento ha avuto un seguito negativo peggiorando la qualità dei momenti finali della
vita, interpretato come il risultato del sopraggiungere di nuovi strumenti di controllo o
come la conseguenza estrema del razionalismo positivista; i responsabili principali di
questo mutamento sarebbero la scienza, i medici e la medicina occidentale, occupati
soprattutto a sottomettere il corso naturale degli eventi e ottenendo la perdita del controllo,
da parte delle famiglie e dei pazienti, sulla malattia e sulla morte (ibidem). Nel XVII
secolo l’evento morte ha abbandonato la sua natura religiosa ed è diventato un evento
medico, nel XX secolo anche le emozioni umane si sono spostate nel regno razionale della
medicina, «quando si tratta di morte la burocrazia è inevitabile» (Walter 1994, p. 7). I
critici della modernità sostengono che i nostri progenitori morivano meglio di noi
assecondando le leggi della natura e rimanendo padroni della propria vita fino alla fine
(Marzano 2002, p. 268). «L’età della Ragione ha trasferito la morte dall’ambito della
religione al proprio, dal contesto del peccato e del destino a quello della probabilità
statistica. Il compito del pubblico ufficiale non è quello di pregare di fronte al cadavere, ma
di procedere alla sua registrazione, classificazione e disinfezione. L’ascesa della medicina
e della scienza ha sostituito le categorie fondamentali morale/immorale con quelle di
normale/anormale e sano/malsano» (Walter 1994, p.6). Lo studio sulla morte e sul morire
non si è limitato solo a dispute teoriche ma ha avuto una funzione decisiva anche nel
progresso di metodi di ricerca, in particolare ha contribuito allo sviluppo dell’etnografia
organizzativa; nasce proprio durante una ricerca sulla morte di Glaser e Strauss, la
grounded theory9, uno dei più propizi metodi di ricerca empirica qualitativa. I due studiosi
si dedicano allo studio sulla consapevolezza del morire nei contesti ospedalieri della
California e il libro che pubblicarono ebbe un enorme successo. Questo testo colpì esperti e
professionisti per la profondità dell’analisi e la capacità di elaborare una teoria
comprensiva su un tema fino ad allora poco indagato e soprattutto poco studiato con
strumenti qualitativi. La ricerca apparve innovativa per il contenuto, per il metodo e per le
creative connessioni fra i due; era innovativo, nella sociologia medica affrontare il tema
dell’esperienza del morire in ospedale nelle sue implicazioni sociali, psicologiche ed
9
Secondo la grounded theory, osservazione ed elaborazione teorica procedono di pari passo in un’interazione
continua. L’accento in questa tecnica è posto sui dati piuttosto che sulle teorie, queste ultime derivano
direttamente dall’analisi dei dati che sono locali e contestualizzati. Il ricercatore scopre la teoria nel corso
della ricerca empirica.
42
esistenziali. Inoltre, data la natura del tema, i consolidati metodi della ricerca sociologica,
come la survey, difficilmente avrebbero potuto intercettare l’intensità, la profondità e la
drammaticità di un’esperienza del genere, peraltro socialmente occultata e tendenzialmente
rimossa dalle pratiche quotidiane. Per elaborare i processi che il morire innescava in
contesti ospedalieri, occorreva andare sul campo per raccogliere i dati intensi, ricchi,
profondi. L’opzione per un approccio qualitativo sul campo rappresentava una scelta
innovativa (si parla di un’epoca in cui la ricerca sociologica o era quantitativa o non era e i
metodi qualitativi si muovevano lungo terreni marginali e puramente di contorno), ma al
tempo stesso necessaria per affrontare adeguatamente il tema della morte. Il gruppo di
ricerca guidato da Glaser e Strauss condusse una serie di osservazioni in vari reparti di
molti ospedali della California dove le dinamiche della consapevolezza del morire erano
evidenti, e condussero interviste in profondità e lunghi colloqui informali sulle modalità, i
tempi, le circostanze in cui lo staff medico e i pazienti terminali comunicavano la notizia
della morte imminente e come questa veniva gestita o occultata dal personale
infermieristico, dai pazienti e dalle famiglie. Ne ricavarono una teoria originale che dava
conto sistematicamente dell’organizzazione sociale e della strutturazione temporale
innescate dai processi del morire e degli scambi comunicativi e le omissioni su questo tema
che avvenivano fra medico, infermiere e paziente. Il metodo era nuovo, era stato creato sul
campo per rispondere alle specifiche richieste di una domanda di ricerca ampia (ma non
riducibile), difficile (ma non semplificabile) e scomoda (ma degna di essere esplorata): che
cosa avviene nei contesti ospedalieri quando un paziente è in procinto di morire? (Tarozzi
2008, pp. 26-27). I risultati della ricerca sono pubblicati tra il 1965 e il 1968 in quattro
volumi , il primo e il terzo volume, Awareness of dying e Time for dying, otterranno per
molto tempo l’attenzione degli studiosi della morte (Marzano 2002, p.275). Nel primo
volume i due sociologi osservano l’organizzazione e la gestione della morte in diversi
ospedali di San Francisco individuando quattro contesti di consapevolezza: il primo
contesto è di chiusura, il medico e la famiglia sono complici nel nascondere la verità sulle
sue condizioni al paziente; il secondo è di sospetto, il paziente tenta attraverso varie
tattiche di scoprire la verità dal personale restio a comunicargliela; finzione reciproca,
quando tutte le parti sanno che il paziente sta morendo, ma nessuno lo dice per non turbare
l’altro; apertura, quando c’è aperta comunicazione tra il paziente, la famiglia e il personale
medico. Si è osservato come la scelta di mantenere l’ammalato in una condizione di non
consapevolezza era prevalente tra i medici americani perché la consapevolezza piena, da
43
parte del paziente che sa di dover morire, crea una più elevata possibilità di conflitto tra
quest’ultimo e gli operatori sanitari circa il modo in cui deve avvenire l’agonia e la morte.
Glaser e Strauss prediligono i benefici derivanti dalla piena consapevolezza da parte del
sofferente poiché sapere tutta la verità circa le sue condizioni consente di poter negoziare
con il personale e con i parenti le decisioni terapeutiche e le condizioni della propria morte
(ivi, p. 277). Nel volume Time for dying Glaser e Strauss spiegano come i tempi decisi e
seguiti dall’organizzazione ospedaliera per la morte di un paziente non sempre coincidono
con quelli seguiti o percepiti dall’infermo e dai suoi familiari, ciò che ne consegue è il
conflitto e dure negoziazioni, anche in questo caso, non sempre le esigenze del paziente e
della sua famiglia sono rispettate (ivi, p.278). Lo studio di Sudnow sopra citato, rivolto agli
ultimi istanti della vita e ai primi dopo la morte, condivide con la ricerca di Glaser e
Strauss lo scetticismo dei critici della modernità: la morte appare disumanizzata, vittima
delle routines organizzative dell’ospedale, degli interessi del personale ospedaliero e dei
parenti sottratta di ogni dignità e decoro (Marzano 2002, p. 275), l’incapacità in ambito
medico e burocratico di dar voce al dolore privato può reggere l’accusa di fare della morte
un tabù. Glaser e Strauss tuttavia non sottovalutano le difficoltà organizzative all’interno
dell’ospedale; uno dei principali motivi che ostacola la confessione della verità ai morenti,
secondo i due sociologi, sta nella loro mancata socializzazione a quel ruolo. Nell’ultimo
capitolo di Time for Dying, suggeriscono una riforma risolutiva del sistema volta a
migliorare l’assistenza ai pazienti, tra le proposte vi è quella di intervenire sulla formazione
di medici e infermieri inserendo, nel loro percorso formativo, corsi che potessero
aumentare la comprensione, non esclusivamente tecnica, del processo del morire che, fino
ad allora, non discostava molto dal sapere della gente comune; creare nuovi meccanismi
organizzativi che trasformino l’assistenza ai malati terminali da attività improvvisata a
pratica organizzativa; offrire assistenza psicologica per medici e infermieri e di counselling
per i parenti in lutto (ivi, p. 281). In definitiva, secondo i critici della modernità, bisogna
ripensare il modello organizzativo al fine di produrre una nuova cultura del morire
supportata da diversi assetti istituzionali.
La postmodernità, invece, sembra realizzare lo scenario immaginato dagli studiosi della
morte; i morenti diventano i protagonisti di se stessi e del proprio distacco dalla vita, il
trionfo dell’individualismo scaccia quei limiti legati alla tradizione e alla scienza e la morte
“buona” diventa quella morte che ogni persona sceglie per se (Marzano 2003, p. 292).
Nell’epoca postmoderna la morte sembra prendersi qualche rivincita risorgendo dalle sue
44
ceneri, si assiste alla sua rinascita, Revival of Death, per utilizzare la fortunata espressione
del sociologo inglese Tony Walter; la fine dell’esistenza ricompare sulla scena protesa a
esaltare l’individualismo e l’affermazione del modello autonomistico. I Did It My Way
(Walter, 1994), sono queste le parole che meglio delineano la nuova immagine della morte
nella società contemporanea. Tony Walter sostiene che in una cultura fondata
sull’individualismo, si ritiene unica una vita solo se vissuta “unicamente”, la buona morte è
quella che scegliamo noi e il buon funerale è quello che distingue in modo unico la
scomparsa di un individuo unico (ivi, p. XX). Nell’epoca moderna la morte deve essere
rapida, inconsapevole e indolore, la buona morte postmoderna, invece, è quella fatta “a
modo mio”, con uno stile personale, si preferisce una morte che sia consapevole, indolore e
impegnata nel chiudere le questioni psicologiche (ivi, p. 69). Il nostro contesto culturale,
proprio dell’epoca postmoderna, vede il lento declino della comunità e della religione; i
due fondamenti dei modi soliti di morire e di soffrire non sono più un’autorità indiscutibile
e di conseguenza tutti gli elementi della tradizione trascinano con sé un clima di
insicurezza e incertezza di fronte alla morte. Siamo in presenza di qualcosa che assomiglia
a un vuoto, siamo diventati de-tradizionalizzati e stiamo lottando per colmare questo vuoto
(ivi, p. 21). L’ascesa dell’individualismo e della privacy ha sostituito i vecchi dogmi
scorgendo il loro punto di forza nella medicina, nelle imprese di pompe funebri e dai
sistemi burocratici di assistenza sociale (ivi, p. 27). Le persone si rassicurano nelle
istituzioni fisiche e finanziarie, ma il linguaggio della medicina e della burocrazia non è in
grado di dar voce al dolore privato e si sentono persi (ivi, p. 28). La morte rinasce sotto
nuove sembianze, critica il modo moderno di morire e intende eliminare la contraddizione
tra esperienza privata e linguaggio pubblico. Walter sostiene che non bisogna privarsi dei
benefici della medicina moderna e delle necessarie attività burocratiche ma ritiene che
molti oggi siano dell’opinione di rendere più personale il modo di morire, i funerali e il
modo di portare il lutto. Il paziente deve essere libero di decidere come gestire la fine della
propria vita, il funerale non deve essere guidato da interessi economici o da necessità
burocratiche ma il defunto deve essere onorato per ciò che è stato in vita, per la sua unicità,
va riconosciuto e accettato il corso naturale del dolore nella persona in lutto (ivi, p.23).
L’esperienza privata deve diventare parte del linguaggio pubblico (ivi, p.24). A
caratterizzare l’epoca postmoderna in tutti i suoi aspetti, e anche nella morte, è
l’affermazione dell’autorità dell’individuo. Le vecchie autorità quali la Chiesa e la
tradizione sono ora sostituite dall’autorità del Sé individuale, pertanto qualsiasi costrizione
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è rifiutata perché limita la libertà di scelta personale e la buona scelta è quella che compio
da me non la scelta che baso sulla giustezza di un’autorità esterna (ivi, p. 28). La
liberazione dell’autorità del Sé è ciò di cui si nutre l’attuale rivoluzione della morte e la
missione della rinascita è di migliorare gli ultimi giorni di vita dei morenti e la condizione
dei sopravvissuti piuttosto che quella dei defunti (ivi, p. 36). Le persone in fin di vita e le
persone in lutto devono comunicare i propri sentimenti, esprimere ciò che sentono e non
devono isolarsi e chiudersi nel proprio dolore, i funerali dovrebbero essere personalizzati e
non più simili a un prodotto in serie, essi dovrebbero incorporare lo stile personale del
defunto unendo anche le esigenze tecniche e affaristiche delle moderne imprese di pompe
funebri. La sfera pubblica continua a gestire quella privata ma in modo più sottile, con
questo sistema la morte si identifica con i processi emozionali che possono comunque
essere controllati e amministrati (ivi, p. 44). Il postmoderno celebra l’esperienza privata,
una concezione che discende dal romanticismo del XIX secolo. Il romanticismo a
differenza del postmodernismo opponeva le emozioni alla ragione, il privato contro il
pubblico, le richieste del morente e dell’individuo in lutto contro le richieste della chiesa o
della società. Il postmodernismo, all’opposto, miscela pubblico e privato, i sentimenti del
morente e del sopravvissuto diventano oggetto di attenzione da parte del professionista e
anche i sentimenti del professionista, diventano oggetto del professionista (ivi, p.46). Ariès
sostiene che il XX secolo è stato testimone di un conflitto tra due modelli ideali: la morte
romantica dell’altro e l’occultamento istituzionalizzato della morte. I fautori della rinascita,
a quanto pare, vogliono istituzionalizzare la morte romantica (ibidem). Tony Walter
afferma che la definizione di postmoderno non esaurisce la varietà di aspetti inerenti alla
rinascita della morte, pertanto individua la presenza di due diverse correnti, tardo-moderna
e postmoderna. Se la modernità si caratterizza per la capacità del sistema di controllare i
suoi singoli membri, allora la forma tardo-moderna della rinascita non è che un sistema più
sofisticato di controllo (ivi, p.44). Nella corrente tardo moderna, medici, infermieri e
impresari funebri appartenenti alla rinascita, esercitano un forte controllo sui loro pazienti
e clienti; il pubblico domina sul privato e il linguaggio specializzato influenza l’esperienza
privata. La centralità dell’individuo e la scelta di fare a modo proprio sono, invece,
elementi tipicamente postmoderni, il sentimento privato viene esaltato e l’esperienza
privata invade e frammenta il linguaggio pubblico. La proposta del sociologo inglese è di
riunire entrambe le correnti in un unico termine: neomoderno. Neo significa nuovo rinato
in una forma nuova e la rinascita della morte è sicuramente neomoderna (ivi, p. 52).
46
1.4 Il disegno della ricerca
L’ultima parte di questo capitolo si conclude con una nota metodologica. Raccontando
alcuni episodi vissuti sul campo, descriverò le diverse fasi del disegno della ricerca, dalla
scelta del tema al metodo impiegato per indagare l’organizzazione sociale della morte, le
difficoltà legate all’accesso al campo e i problemi di etica incontrati durante le
osservazioni per poi terminare con argomentazioni che riguardano la fase finale del
disegno della ricerca ossia la scrittura etnografica.
La scelta del tema
Robert Park, il fondatore della Scuola di Chicago, circa un secolo fa, consigliava ai suoi
studenti di scendere sul campo armati di un taccuino e osservare tutto quello che avveniva
lì intorno. Li invitava a “sporcarsi i pantaloni”, al being there che è l’unico modo valido di
fare etnografia: bisogna essere lì, sul campo per osservare e descrivere, partecipare alla vita
quotidiana di altri, entrare e condividere altri “mondi della vita”. Durante una lezione di
etnografia, circa due anni fa, ascoltavo il professore parlare di Park e del suo invito a
“sporcarsi i pantaloni”, e, intanto, pensavo se l’oggetto di ricerca che avevo scelto per il
lavoro da presentare a fine corso, potesse andar bene. Si può fare una ricerca etnografica di
un cimitero? O rischio davvero di “non trovare interazioni sociali” come qualcuno mi
aveva detto dopo avergli spiegato il mio interesse di ricerca? Dovevo essere lì, sul campo
per osservare e descrivere, partecipare alla vita quotidiana di altri, entrare e condividere
altri “mondi della vita”. Ma come potevo fare tutto questo in un cimitero, luogo senza vita
per eccellenza? Caparbia, ho colto l’invito di Park, sono andata sul campo e, facendo
ricerca, ho scoperto che la morte non è solo oggetto di discussioni metafisiche e
moralistiche, ma è tangibile, è un oggetto che può essere osservato, descritto e analizzato,
al pari di qualsiasi altro fenomeno sociale. Con quel lavoro di ricerca sul cimitero ho
ottenuto un appagante 29 per l’esame di etnografia, e non solo. Studiando la morte ho
scoperto la passione per la ricerca e per un mondo-della-vita affascinante, inesplorato e
poco indagato, tant’è che ho deciso di approfondire l’argomento nella mia tesi di laurea.
Definire la domanda di ricerca
Il tema di interesse scelto dunque, è la morte, ma un’indagine empirica su un fenomeno
così generico e complesso non poteva aver luogo, pertanto dovevo scegliere su cosa
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focalizzare la mia attenzione. Quali fossero le domande di ricerca a cui volevo rispondere
non era chiaro in questa prima fase del disegno della ricerca. Scrivendo e riflettendo sul
progetto (il primo progetto di ricerca era così ambizioso che più che fare ricerca sulla
morte, avrei dovuto fare ricerca fino alla morte), ho deciso di porre lo sguardo su due
professioni legate al settore funebre: gli impresari di pompe funebri e i guardiani del
cimitero. L’intuizione di studiare la morte attraverso le pratiche lavorative dei
professionisti del settore funebre, è arrivata leggendo l’intervista condotta a un guardiano
del cimitero oggetto di studio per la tesina del mio esame di etnografia; l’operatore
raccontava i rapporti di conflitto che ci sono tra impresari di pompe funebri e operatori
cimiteriali, i primi operano nel settore privato, i secondi nel settore pubblico: un dualismo
che sembra creare inevitabili problemi. Il progetto di ricerca cominciava a prendere forma,
avevo compreso che indagando come lavorano queste figure professionali, le pratiche che
eseguono quotidianamente nel loro contesto di lavoro, consentiva di avere il quadro chiaro
di come viene organizzato il rituale funebre nella società contemporanea; seguire il
percorso di un corpo morto una volta avvenuto il decesso fino al momento della sepoltura
si è rivelata una buona idea di partenza.
Decidere metodi e tecniche
Un tema complesso, difficile e scomodo come la morte, non può che essere indagato
attraverso metodi qualitativi dal momento che per ricerca qualitativa si intende quella
ricerca che adotta, nei confronti del proprio oggetto di indagine, un approccio naturalistico,
studiando i fenomeni nei loro contesti naturali e tentando di dare loro un senso, o di
interpretarli, nei termini del significato che la gente gli dà (Ronzon 2008, p. 15) . Il
significato che gli individui conferiscono alla morte è una chiave di lettura per
comprendere, più in generale, la sensibilità dell’epoca contemporanea; data la natura del
tema, quindi, serviva un approccio di ricerca che potesse intercettare l’intensità, la
profondità e la drammaticità di un evento funesto come la morte che interrompe
bruscamente i rapporti sociali generando sfiducia nella vita. L’unico modo per cogliere
quei significati era andare sul campo per raccogliere dati intensi, ricchi e profondi e
utilizzare l’approccio etnografico, rappresentava la scelta migliore poiché l’etnografia è un
aiuto fondamentale per guadagnare l’accesso al mondo concettuale nel quale vivono i
soggetti (Geertz 1973, p. 24). Per Geertz, è la densità di un’etnografia, la sua tickness, la
sua ricchezza interpretativa che ci permette di avvicinarci al senso che le persone danno a
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quello che fanno, di stabilire un contatto più profondo con i significati culturali originari, di
“metterci nei panni” di chi vogliamo studiare. L’analisi culturale non può essere una
scienza sperimentale in cerca di leggi ma deve assomigliare a una scienza interpretativa in
cerca di significato (Marzano 2006, p. 22). Il ricercatore qualitativo cerca di studiare i
fenomeni così come si manifestano spontaneamente nel “mondo reale”, i partecipanti al
fenomeno oggetto di studio sono visti come individui che, in interazione con altre persone,
sviluppano significati, li trasmettono, li modificano e agiscono a partire da essi. La loro
attività è mediata dalla comunicazione verbale e non verbale, dalle azioni e dalle pratiche
sociali (Ronzon 2008, p. 17). L’oggetto studiato aveva chiamato da sé il metodo di ricerca
scelto; l’approccio etnografico rendeva giustizia alla complessità del tema di ricerca, un
metodo aperto, flessibile e pragmatico che più si adatta al singolo caso e che permette di
studiarlo nel rispetto della sua interezza e nel contesto quotidiano in cui esso si manifesta
(ivi, p. 20). Le tecniche di ricerca che ho scelto di utilizzare sono le principali tecniche
impiegate dagli etnografi nel corso del loro lavoro sul campo: l’osservazione partecipante e
le interviste.
L’accesso al campo
Dopo aver definito oggetto e metodo, il processo di ricerca entrava nel vivo e il passo
successivo era accedere a quel microcosmo oscuro cui dovevo far luce per comprenderne
l’organizzazione e poter estrapolare informazioni necessarie a definire le mie domande di
ricerca: le imprese di pompe funebri. L’accesso al campo è uno spazio di ricerca e la
facilità di accesso o le difficoltà che si presentano per entrare nel mondo che vogliamo
studiare, sono di per sé dei dati di ricerca, ci dicono già qualcosa di quella realtà. Accedere
alle imprese di pompe funebri è stato un percorso tortuoso e problematico. L’idea iniziale
era affiancare un impresario funebre nella sua attività, essere con lui nel momento in cui
riceveva i dolenti, vedere come si rapportava a loro, dove avveniva il colloquio, capire
quale era il percorso della salma dal momento che l’impresa si incaricava di prelevarla dal
luogo del decesso, osservare come sono le sedi delle imprese funebri, com’è composto il
personale, se c’è una gerarchia e così via. Insomma, da maniaca del come, come ogni
etnografo che si rispetti, era necessario accedere al campo e sapere come lavorava
un’impresa di pompe funebri. Non ho ritenuto, però, opportuno cominciare l’indagine in
questo modo per due motivi: in primo luogo, non conoscevo nessun professionista del
settore e pensavo che nessuno mi avrebbe permesso di “ficcanasare” in giro per l’azienda,
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dovevo prima conquistare la fiducia di qualcuno; in secondo luogo, la mia presenza
avrebbe, quasi sicuramente, reso meno naturale l’interazione tra il cliente e l’imprenditore
funebre. Opto, allora, per l’intervista non direttiva, tecnica utile sia per avere l’accesso al
campo quanto per raccogliere informazioni. Obiettivo delle interviste era di creare un
quadro del “mondo imprese funebri”, dipinto direttamente dalla voce degli attori di quel
campo. Ho deciso di servirmi dell’intervista non direttiva o biografica perché il centro
dell’attenzione dovevano essere le parole dell’intervistato, lasciarlo parlare “liberamente”,
permettendogli di raccontare il suo modo di vedere il mondo, le sue percezioni, la sua
esperienza così come sente di averla vissuta (Bichi 2007, p. 48). Divido la traccia
d’intervista, poco strutturata, secondo quattro aree tematiche: la prima parte è incentrata su
quella che è l’esperienza professionale dell’attore e su com’è percepita la figura
dell’operatore funebre da se stesso e dall’esterno; in un secondo momento, chiedo come si
diventa operatori del settore e indago la struttura aziendale, se ci sono gerarchie e com’è
strutturata in generale un’impresa funebre; l’attenzione, nella terza parte dell’intervista, si
sposta sul cambiamento, l’attuazione di una nuova legge regionale in Lombardia ha
apportato modifiche rilevanti a questa professione, cerco di capire cosa è cambiato
dall’attuazione di questa legge e, in generale, com’è mutato il lavoro dell’impresario
funebre rispetto al passato; la fase finale dell’intervista è incentrata sull’organizzazione,
per quanto riguarda la dimensione interna dell’azienda, chiedo quali sono le pratiche
eseguite dal personale, mi informo sui servizi offerti al cliente, mentre per la dimensione
esterna all’impresa, interrogo l’intervistato sul rapporto con altri attori del comparto
funerario.
Dopo aver deciso cosa fare per esplorare la comunità degli impresari funebri, andavo
incontro al problema principale: come fare.
Non è stato semplice entrare in un’impresa funebre e avere colloqui con i titolari. Con il
“primo accesso al campo” ho avuto fortuna, grazie alla mediazione di una conoscenza
comune, l’impresario funebre in questione ha accettato quasi subito di farsi intervistare.
Come campo di ricerca ho scelto Milano, città innovatrice nel settore funebre rispetto ad
altre realtà italiane; guardando le pagine gialle, le pagine bianche e un sito internet “rete
imprese” individuo cinquantacinque imprese funebri nel territorio milanese, segno indirizzi
e numeri di telefono e come primo criterio di selezione utilizzo le zone di Milano, scelgo di
chiamare imprese funebri situate in zone differenti della città. Dopo aver contattato quattro
imprese, presentandomi come studentessa interessata alla loro professione e, chiedendoli di
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ricevermi per una “chiacchierata”, ricevo sempre un no come replica, decido, allora, di
cambiare approccio. La risposta più frequente era “siamo molto occupati, non abbiamo
tempo”, sicuramente non capita tutti i giorni, agli operatori del settore, di ricevere
telefonate di questo tipo, e la mia “intrusione” non era gradita o capita. Mi accorgo che il
passaparola è il metodo più veloce ed efficace per ottenere risultati, nel frattempo, grazie
all’intercessione di due amici, riesco a intervistare altri due imprenditori funebri. Siamo a
quota tre. La nebbia che offusca il mio sapere su questa categoria professionale si dirada
all’aumentare dei colloqui, avevo le idee più chiare ma il bisogno di interagire con altri
esperti del settore. Spulcio internet alla ricerca di piccole imprese funebri, non è corretto il
termine impresa per i “piccoli”, sono agenzie funebri. Un primo segnale per riconoscerle è,
nella maggior parte dei casi, l’assenza di un sito internet, sono indicate tramite pubblicità
ma non hanno un sito proprio. Torno al vecchio metodo, dopo un paio di telefonate senza
successo ricevo il primo (e unico) si. Trovare operatori funebri di piccole agenzie disposti
a dedicarti del tempo, è stata la difficoltà maggiore. Dopo la prima, una seconda intervista
è stata irrealizzabile, i titolari di agenzie funebri spesso gestiscono il lavoro da soli o con
personale esiguo, dedicare del tempo, nelle ore lavorative, a “scocciatori” come me, non
era sempre possibile per loro. Il tentativo successivo alla classica telefonata è stato recarsi
di persona nelle agenzie funebri, pensavo che il contatto diretto mi avrebbe dato una
chance in più, mi sbagliavo. Il goffo titolare di un’agenzia, in cui sono stata a elemosinare
un’intervista, ha esibito la pila di carte sulla scrivania: «tutta burocrazia e devo sbrigarla io
da solo», gli ho detto che non avevo fretta e si poteva chiacchierare un giorno in cui era
meno impegnato, ma nulla, il suo era un no deciso e irremovibile. Il titolare di un’altra
agenzia afferma che chi fa questo lavoro non può essere sposato, e se lo è, divorzia.
Continua dicendo che, la professione dell’impresario funebre è impegnativa, si può
ricevere la chiamata per un servizio in qualsiasi momento della giornata, bisogna essere
sempre reperibili perché la morte arriva inattesa e non ha orari. Tuttavia mi esorta a
chiamarlo per la settimana successiva. Al terzo tentativo rinuncio. Continuava a rinviare
per assenza di tempo. La prima parte della ricerca ha interessato cinque interviste a cinque
impresari di pompe funebri e un’intervista in forma di colloquio avuta con il Segretario
generale della Feder. Co. F. It. la Federazione del Comparto Funebre Italiano, in totale sei
interviste.
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L’accesso al campo è stato difficile per quasi tutti i casi, il problema principale era l’avere
a che fare con professionisti molto impegnati e poco disponibili all’interazione con il
ricercatore o sospettosi nei confronti di un individuo considerato un “estraneo” o un
“ficcanaso”.
Osservare e partecipare
Iniziare la ricerca facendo ricorso alle interviste mi ha permesso di stabilire un contatto
personale con gli impresari di pompe funebri e di organizzare la conoscenza acquisendo
informazioni nuove. Colloquiando con gli impresari funebri ho scoperto l’esistenza delle
Case funerarie; alcune aziende ne possiedono una e offrono come servizio al dolente la
permanenza della salma nella camera ardente della struttura, un ambito spaziale nel quale
vegliare il proprio caro nei giorni in cui si organizza il funerale. La Casa funeraria è un
moderno rituale funebre e, allo stesso tempo, contenitore di rituali funebri: dovevo avere
l’accesso al campo in questo contesto di lavoro per osservare e rilevare empiricamente le
pratiche che gli operatori eseguono per l’organizzazione dell’evento luttuoso. Accedere
alla Casa funeraria mi avrebbe consentito di entrare all’interno della comunità degli
operatori funebri, osservare ciò che accade, interagire direttamente con i membri, assistere
alle attività compiute dai soggetti indagati, con lo scopo di cogliere il loro punto di vista su
ciò che accade, attraverso l’esperienza personale, le osservazioni e le conversazioni. Dopo
alcune ricerche, scopro una delle realtà più importanti di Casa funeraria a Milano: avevo
individuato il campo di ricerca che mi avrebbe dato la possibilità di osservare e partecipare
alle pratiche degli operatori funebri senza dover limitare l’indagine utilizzando come
tecnica di ricerca le sole interviste. La pratica dell’osservazione partecipante è l’essenza
del metodo etnografico e lo affermano le esperienze di ricerca di diversi studiosi: Le Play
si era stabilito fra un gruppo di lavoratori, Malinowsky era andato ad abitare fra gli abitanti
delle isole Tobriand, Anderson aveva sperimentato la vita della hobohemia dall’interno e
una delle prime scoperte di White, nel corso della sua ricerca a Cornerville, fu il fatto che
l’accettazione da parte di un gruppo sociale dipendeva molto di più dalle relazioni
personali che egli riusciva ad instaurare che da qualsiasi spiegazione razionale di ciò che
stava facendo (Madge 1962, p. 281). Io, invece, trascorrevo otto ore lavorative al giorno
nella Casa funeraria mescolandomi tra gli operatori funebri. Per accedere al campo, però,
dovevo entrare in contatto con il titolare di questa Casa funeraria, un personaggio di spicco
del panorama funebre, il primo imprenditore ad aver costruito una Casa funeraria a Milano
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e proprietario di una delle più grosse aziende funerarie del Paese: dovevo fare in modo che
partecipasse al gioco relazionale (Ranci 1999, p. 34) nella mia ricerca e dar voce al suo
patrimonio di conoscenza, interagire con lui perché parte fondamentale del fenomeno
analizzato in questa seconda parte dell’indagine (ivi, p. 35). Ho negoziato l’accesso al
campo tramite un’intervista che, dopo qualche difficoltà iniziale, questo importante
personaggio mi ha concesso. Avevo conquistato la sua fiducia e potevo cominciare le
osservazioni nella Casa funeraria. Ho trascorso una settimana sul campo, potevo accedere a
qualsiasi area della struttura e passare lì tutto il tempo necessario a raccogliere
informazioni poiché il titolare - il mio gatekeeper – aveva “ordinato” ai suoi dipendenti di
lasciarmi fare quello che volevo.
Dopo aver definito il mio ruolo all’interno dell’edificio, ho potuto cominciare a raccogliere
i dati. La prima volta che sono andata alla Casa funeraria è stata per intervistare il mio
gatekeeper e prima che arrivasse, uno dei suoi dipendenti, Francesco, mi ha fatto visitare la
struttura. Lui non è un semplice operatore funebre ma è il responsabile dell’edificio,
durante la visita ho subito compreso che sarebbe diventato il mio informatore (Ronzon
2008, p. 52) perché era particolarmente informato e poteva fornire notizie utili a capire
cosa accadeva. Il giorno seguente ho fissato un appuntamento con lui per intervistarlo e la
settimana successiva cominciava la mia ricerca sul campo. Sul campo ho assistito a eventi,
ho conosciuto persone, ho elaborato nozioni, concetti, schemi interpretativi: il disegno
della ricerca, come insegna la grounded theory, ha preso corpo gradualmente come
risultato della mia presenza sul terreno, delle mie continue interazioni con le persone
osservate, delle varie opportunità che ho saputo cogliere osservando le azioni sociali, o
meglio gli attori che agivano nel contesto quotidiano di lavoro. La facilità che ho
incontrato a istituire relazioni amichevoli e di fiducia con i partecipanti, chiama in causa, la
persona del ricercatore e il suo corpo, ciò che Hannerz definisce attributi discriminanti di
ruolo, vale a dire i tratti immodificabili dello strumento osservativo, quali il sesso, l’età, il
colore della pelle (Cardano 2011, p. 104). Nel mio caso, il fatto che fossi una giovane
donna ha agevolato le relazioni con gli operatori funebri nel corso di tutta la ricerca, poiché
il settore funebre è costituito quasi esclusivamente da uomini, e la presenza femminile è
sempre gradita. La mia presenza, dunque, era discreta e apprezzata, non c’è stato bisogno
di ricorrere a interviste formalizzate per raccogliere dati, come disse Doc a White, nella
famosa ricerca Street Corner Society: «Bill, se la gente ti accetta nella compagnia, puoi
semplicemente far da spettatore e imparerai le risposte con il tempo, senza neppure aver
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bisogno di far domande» (White 1943). Annotavo tutto sul mio diario di campo, durante le
osservazioni, poiché sul campo, il ricercatore procede intrecciando osservazione,
partecipazione e dialogo e raffigurando gli aspetti salienti della propria esperienza nelle
note etnografiche (Cardano 2011, p. 118). Quando gli operatori mi vedevano scrivere,
scherzosamente mi accusavano di appuntare le loro mancanze sul lavoro, sul “libro nero”,
per poi riferire al grande capo (il gatekeeper). Larga parte del lavoro di ricerca sul campo
implica una costante prossimità e frequentazione dei propri interlocutori, nel corso delle
loro attività quotidiane. Non a caso, più di un ricercatore ha evidenziato come
l’osservazione partecipante consista, di fatto, in un vero e proprio hanging around
(ciondolare, bighellonare, perder tempo) con i propri interlocutori (Ronzon 2008, p. 57). I
miei interlocutori hanno ampiamente notato questa attività di hanging around e non
perdevano mai l’occasione per evidenziare, in tono scherzoso, come gli studenti
universitari (il mio ruolo era “scoperto”, sapevano tutti che ero lì per fare ricerca per la mia
tesi di laurea), perdono tempo e “cazzeggiano” disturbando chi, invece, lavora sul serio.
L’unico momento in cui la mia identità restava nascosta, era alla presenza dei dolenti. Non
che nascondessi chi ero davvero, piuttosto non mi presentavano. Ad esempio, quando
affiancavo Francesco nella situazione di accoglienza, lui intratteneva i dolenti, io mi
limitavo a restare al suo fianco e annuire. Alcuni di loro, più di una volta, mi guardavano,
curiosi di sapere chi fossi, ma mai nessuno (le circostanze poi non erano delle migliori) mi
ha fatto domande. Una situazione nella quale, invece, avrei preferito camuffarmi da
operatrice funebre, è stata quando ho osservato i due funerali in Casa funeraria.
Innanzitutto non sapevo come vestirmi, se rispettare la tradizione e indossare un abito nero,
oppure abbigliamento casual, jeans e maglietta; in secondo luogo, pensavo a come
intrufolarmi nella sala dove celebravano i rituali funebri, poiché la saletta multifunzioni era
piccola e la mia “strana” presenza l’avrebbero notata tutti. Gli operatori volevano prestarmi
una divisa con il cartellino con scritto il nome dell’impresa, ma quel giorno ne erano
sprovvisti. Uno di loro, ha risolto il problema accompagnandomi nella sala e restando al
mio fianco per un po’. Quando però l’operatore è andato via, perché doveva lavorare, e la
cerimonia è finita, gli sguardi dei presenti erano puntati su di me.
Durante la mia permanenza in Casa funeraria sono andata incontro a piccoli problemi di
etica. Alcuni si presentavano nella fase riflessiva della scrittura, come vedremo più avanti,
altri costringevano a riflettere direttamente lì, sul campo. Ad esempio, un problema era
legato al registratore che avevo sempre con me acceso ma nascosto; registravo ogni
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momento sul campo all’insaputa degli interlocutori, anche le conversazioni intime,
avvenute in momenti privati, ad esempio, mentre pranzavamo, e questo mi creava un po’ di
disagio perché avevo la sensazione di rubare attimi che non ero legittimata a diffondere.
I problemi di etica, però, sono strettamente legati alla ricerca, ed è normale che ci siano,
possiamo considerarli uno spazio di ricerca poiché danno un contributo rilevante all’analisi
e dimostrano che abbiamo vissuto sul campo e indossato i panni dell’altro.
La parte conclusiva della ricerca ha visto protagonista la comunità dei guardiani del
cimitero. Purtroppo, a causa di vincoli organizzativi legati al tempo, non ho potuto
approfondire la ricerca sulle pratiche eseguite dagli operatori tecnici cimiteriali attraverso
l’osservazione partecipante; ho indagato la comunità dei guardiani del cimitero attraverso
la tecnica di ricerca delle interviste in profondità. L’accesso al campo, in questo caso, è
stato rapido perché il mio gatekeeper, Pino, nel momento stesso in cui gli ho chiesto se
conosceva qualche operatore cimiteriale disposto a farsi intervistare, ha preso il telefono e
ha cominciato a chiamare una lista di suoi colleghi. Alla fine della telefonata avevo, nelle
due settimane seguenti, sei interviste a operatori cimiteriali che lavoravano in tre diversi
cimiteri milanesi. Per procacciare sei interviste agli impresari di pompe funebri ho
impiegato tre mesi di tempo e ottenuto decine di: «mi spiace ma siamo molto impegnati,
non abbiamo tempo». Ho incontrato durante la mia ricerca sul cimitero per l’esame di
etnografia; è il guardiano con più esperienza, ma non solo, Pino è un vero leader rispettato
da tutti, lavora nei cimiteri di Milano da quarant’anni e in quello di Greco da quattro, ha
fatto parte dei sindacati per molto tempo e conosce quasi tutti gli operatori cimiteriali di
Milano. La sua conoscenza e la sua guida si sono rivelate preziose per il mio lavoro di
ricerca.
La scrittura etnografica
La fase di ricerca sul campo è terminata dopo quattro mesi con cinque interviste a
impresari di pompe funebri, un’intervista al segretario generale della Feder. Co. F. It, sei
interviste a operatori tecnici cimiteriali e una all’ex assessore ai servizi civici e funerari,
Stefano Pillitteri, in totale tredici interviste in profondità; oltre alle interviste formali,
registrate e analizzate, ho interrogato altri soggetti in forma di intervista etnografica, ossia
come colloqui relativi a momenti intermedi nel corso dell’osservazione partecipante. Ora
dovevo presentare la comunicazione dei risultati che costituisce l’ultima fase della ricerca e
la riflessione si sostanzia nella produzione di un testo scritto. Le scelte retoriche che si
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compiono, in modo più o meno consapevole, per dare vita a un testo hanno implicazioni
sulla narrazione che si è in grado di produrre, costruiscono una particolare storia e una
particolare visione della realtà. Nessun tipo di scrittura è innocente, la scrittura e il
linguaggio non si limitano a rendere comunicabile ciò che già esiste nel mondo o nella
mente ma diventano forme attive di costruzione del mondo e del pensiero. Lo scienziato
sociale è uno scrittore e un narratore. La scrittura non è un processo facile, in questa fase
ho avuto difficoltà di diversa natura, come ad esempio capire quali avvenimenti riportare e
quali trascurare. Il mio intento, ad esempio, era presentare nel resoconto finale, tutto
quello che osservavo e che realmente succedeva per offrire una descrizione e un’analisi il
più possibile fedele e documentata delle relazioni e degli eventi cosi come sono stati
percepiti. A volte, però, non sapevo se omettere qualcosa, come ad esempio,
comportamenti degli operatori che li avrebbero messi in cattiva luce quando erano in una
situazione di retroscena e parlavano tra loro, se riportare certe conversazioni o meno, certi
atteggiamenti e cosi via. Il grado di confidenza con gli operatori, che aumentava con il
trascorrere dei giorni, non aiutava a risolvere questo dilemma. Questo poi riconduceva
anche a problemi di etica. La risposta ai problemi legati al processo di scrittura risiedono
nel suo carattere di riflessività. Il materiale etnografico deve essere analizzato offrendo
dettagli su come lavora il ricercatore, su come costruisce i propri dati, sulle situazioni di
osservazione, esplicitando le domande che orientano la ricerca, le posizioni teoriche di
partenza, riflettendo sugli intoppi incontrati e cercando di non nascondere il carattere
costruito di ogni ricerca. La scrittura etnografica ha il carattere di riflessività, intesa come
capacità di rendere conscio e visibile il processo di costruzione interno a ogni ricerca e di
esplicitare la posizione che l’osservatore assume nel campo di osservazione, distingue la
conoscenza scientifica dal senso comune. La narrazione riflessiva, in definitiva, ha come
suo fine non di giungere a una conclusione ma di aprire un dibattito. Non di pervenire a
una classificazione o a una sintesi ma di mettere in evidenza la molteplicità e la polisemia
della realtà (Colombo 1999). Il passaggio riflessivo della scrittura, l’ultima fase del
disegno della ricerca, durato circa sei mesi, mi ha permesso di riflettere su come indagare
la morte dal punto di vista delle pratiche dei professionisti del settore funebre, sia stato
utile al fine di aprire un varco di ricerca nuovo e di mettere in luce la molteplicità e la
polisemia di un fenomeno complesso come la fine dell’esistenza. Le pratiche inscenate
dagli operatori funebri per l’organizzazione del funerale, rappresentano una chiave di
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lettura singolare per comprendere il rapporto che intercorre tra la morte e la società e il
significato che quest’ultima conferisce alla morte e, più in generale, al senso della vita.
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CAPITOLO 2
De – scrivere le onoranze funebri
Signor becchino mi ascolti un poco
il suo lavoro a tutti non piace
non lo consideran tanto un bel gioco
coprir di terra chi riposa in pace
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnarle la vanga d'oro
ed è per questo che io mi onoro
nel consegnarle la vanga d'oro.
Il testamento, Fabrizio De Andrè.
2.1 Un cliché consolidato: com’è percepita la figura dell’impresario funebre
Nell’immaginario collettivo la categoria degli impresari di pompe funebri e, in generale,
degli operatori10 che lavorano nel settore della morte, è dipinta a tinte fosche ed è permeata
dal pregiudizio11. Spesso guardati con sospetto, difendono la propria attività provando a
scrollarsi di dosso l’immagine di un’imprenditoria crudele che alimenta l’insicurezza e
l’ansia del sofferente ignorandone la vulnerabilità.
Di seguito proverò a spiegare da cosa sia stata generata la “nuvola nera” che aleggia su
questi professionisti, prendendo in esame le possibili cause.
10
L’operatore funebre è denominato operatore necroforo, per comodità indicherò, genericamente, con il nome
“operatore funebre” le tre figure professionali: impresari di pompe funebri, operatori necrofori, autisti
necrofori.
11
Il pregiudizio è un giudizio che viene prima: prima della riflessione e dell’esperienza, in un certo senso,
nessuno di noi può evitare di avere pregiudizi. La nostra esperienza della realtà è necessariamente limitata.
Per tutto ciò di cui non abbiamo conoscenza di prima mano, dobbiamo fare uso di pre-giudizi, cioè di giudizi
non derivati dalla nostra esperienza, ma applicati traendoli dalla tradizione in cui siamo immersi, dalla
comunicazione altrui, da ciò che leggiamo e da ciò che ci raccontano, e, infine, anche dalla nostra fantasia,
dalla capacità che abbiamo di proiettare su altri i contenuti della nostra immaginazione. Il pregiudizio
corrisponde a una pre-comprensione del mondo, il fatto che ciascuno di noi esprima dei pregiudizi, significa
che ciascuno è immerso nella struttura di una tradizione, di un mondo in comune con gli altri, dove i
significati veicolati e tramandati nel senso comune costituiscono la base di ogni esperienza. Nel linguaggio
comune, avere dei pregiudizi significa conoscere le cose in modo distorto ed essere chiusi all’esperienza,
esso serve a semplificare cognitivamente la realtà (Jedlowski 2003, pp. 47- 48).
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2.1.1 Il problema economico
VEDOVA: Francamente non so che cerimonia gli sarebbe piaciuta.
IMPRESARIO: In genere si guarda chi era la persona in vita, che opinione aveva
di se e che tipo di lavoro faceva, anche.
VEDOVA: Era una persona molto dinamica, era il presidente di un’azienda, la
Beauty vision.
IMPRESARIO: Quella della pubblicità?
VEDOVA: Si l’ha fondata lui.
IMPRESARIO: Allora di lusso. Organizzerò la camera ardente per domani, il
giorno seguente, sepoltura, servizio per 200. Ora dobbiamo scegliere il giusto
cofano in cui lui possa riposare, uno degno di un uomo della sua statura.
( La vedova scoppia in lacrime e l’impresario le porge dei fazzoletti).
IMPRESARIO: Le posso chiedere che macchina preferiva suo marito?
VEDOVA: Lui aveva una fuori serie.
IMPRESARIO: Rammenta il modello?
VEDOVA: Era enorme e piena di optional.
IMPRESARIO: Raccomando, in questo caso, la serie Titan (apre il catalogo dei
cofani e illustra quello che consiglia alla vedova) mogano solidissimo rifinito a
mano, il medesimo usato oggi per gli interni delle auto di lusso.
VEDOVA: Sembra molto costoso.
IMPRESARIO: 9.000 dollari. Se posso, questo non è solo un giaciglio è un tributo
si fidi.
VEDOVA: D’accordo. Abbiamo finito?
IMPRESARIO: Mi occorre solo la sua carta di credito.
Scena di un celebre serial tv, Six feet under12 che declina lo stereotipo degli impresari di
pompe funebri come avvoltoi13 senza cuore, addomesticati al dolore, approfittatori
consapevoli e assetati di denaro capaci di far sobbarcare il dolente di spese eccessive.
Nell’episodio sopra citato una moglie disperata e angosciata per la prematura perdita del
marito, con il proprio bambino tra le braccia, discute i dettagli della celebrazione con un
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13
Il titolo si riferisce alla profondità cui s'interra una bara negli Stati Uniti, 6 piedi, pari a 1,83 metri.
Povero e innocente animale spesso metaforicamente accostato alla morte e ai cadaveri.
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impresario di pompe funebri. Avvilita e in preda allo sconforto, risponde, quasi per inerzia,
alle domande del suo interlocutore che, senza un briciolo di umanità, fa leva sull’emotività
della giovane donna per attingere alla sua carta di credito. L’impresario funebre organizza
un bel funerale di lusso, con una bara da “soli” 9.000 dollari, d’altra parte, un uomo che in
vita è stato un pezzo grosso, ricco, presidente di una prestigiosa azienda e proprietario di
un auto piena di optional, non può che avere un funerale degno della sua persona. La
vedova ha il sospetto che il corrispettivo richiesto sia eccessivo, tuttavia porge la carta di
credito senza troppe storie poiché la bara serie Titan non è solo un giaciglio ma un tributo,
la sontuosità dell'estremo saluto si quantifica in denaro e in casi come questo la spesa per il
funerale simboleggia l'affetto riposto nei confronti del caro estinto. Un aspetto che illustra
anche Hertz nella sua opera Rappresentazione collettiva della morte; il sociologo francese
osserva che la morte di un individuo è rappresentata dai loro cari e la condizione del
defunto non è determinata da ciò che egli è stato in vita ma da ciò che i suoi parenti fanno
per lui durante lo stato di transizione. Gli oggetti con i quali gli individui rappresentano la
vita del proprio amato come, ad esempio, la spesa per i fiori, il funerale, la lapide, la bara e
altri prodotti funebri, perdono la sostanza materiale e assumono un valore simbolico, un
segno del rispetto con cui i vivi trattano il loro coinvolgimento nel passaggio dei morti
(Hertz 1907, p. 71). Un atteggiamento analizzato bene da Daniele, impresario funebre che
durante l’intervista spiega:
Io vedo qui persone che, che ne so, ad esempio, con Louise Vuitton, scarpetta giusta, tutti
griffati, poi arrivano qua “no ma mio papà non voleva niente”. Non voleva niente? Va bene, lei
cosa vuole fare allora, perché loro presumono che dicendo così uno li fa spendere meno, anche
perché io più di una volta ho detto va beh, lei mi deve spiegare perché io li vedo con il Rolls
Royce, strano, perché io se mio figlio dovesse dire una cosa del genere mi girerei nella tomba
perché ho vissuto tutta una vita per essere apposto, per comprarmi il bell’abitino come mi
piace, la scarpina come voglio, l’orologino, no, però quando muoio non voglio niente, buttami
via alla meglio […] A me personalmente di una bara intarsiata come facevano una volta non
me ne può fregare di meno ma non voglio neanche che mi portino via in un sacco di patate,
sono sempre e comunque una persona che ha vissuto bene, contento e tutto quanto, dunque il
rispetto per questa persona ci deve essere (Daniele).
Parafrasando ciò che afferma l’intervistato, se la famiglia del defunto è benestante, è una
logica conseguenza organizzare un funerale “in grande stile”, se il caro estinto vestiva
firmato e andava in giro con una Rolls Royce è necessario che continui ad avere stile anche
nell’aldilà, arrivandoci con una bara piena di optional e dal notevole valore. Alcuni
impresari di pompe funebri, come Daniele e quello descritto nel serial tv, associano il
rispetto nei confronti del defunto alla quantità di denaro investita per la celebrazione.
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Daniele sostiene di aver vissuto una vita piena e appagante, quindi alla sua morte non
immagina di essere portato via in un sacco di patate, una metafora che esprime il dissenso
per la merce che non è di qualità, ha vissuto pienamente e vuole morire nel medesimo
modo; ipotizza una sepoltura dentro un cofano dal legno pregiato, non di lusso, ma in
grado di rappresentare la persona che è stata in vita. Critica i “figli di papà” Daniele, quelli
che non hanno intenzione di spendere chissà quali cifre per una bara e per la cerimonia in
generale; continua sostenendo che la frase no ma mio papà non voleva niente sta per
“vogliamo risparmiare”, insomma, è un modo indiretto per chiedere un servizio con un
prezzo modesto senza perdere la faccia (Goffman 1967, p. 17); domandare di un funerale a
basso costo può essere imbarazzante, perché è come se si volesse sminuire il valore della
persona deceduta oppure perché si può dare l’impressione di essere cinici economizzando
sulla morte del proprio caro. In sintesi, la difficoltà sta nel trovare le parole giuste
nell’interazione con l’impresario funebre, per mercanteggiare un prezzo decoroso, senza
rischiare di sembrare esseri abominevoli con l’intento di risparmiare a danno
dell’immagine del caro estinto. Altri, invece, richiedono il “low cost” di default per
l'estremo saluto; è evidente che quello economico sia l’unico aspetto che interessa alla
maggior parte delle persone, rileva Stefano, giovane imprenditore funebre.
Ultimamente guardano anche il prezzo. Ti telefonano, ti fanno la domanda: è successo cosi e
cosi, cosa costa? Poi magari quando ne parli di persona modificano anche il servizio e alcuni
guardano esclusivamente il prezzo. In molti, la maggior parte. Fa niente, anche se questo è
osceno, va bene, anche se fosse più brutto dell’osceno, va bene mille euro. Purtroppo è cosi
(Stefano).
Si preferisce un cofano “meno bello” o una composizione floreale “poco nutrita”,
l’importante è viaggiare su cifre dell'ordine di mille euro e non superiori; questa è la
politica adottata, a detta di Stefano, dai congiunti. A volte si deve necessariamente
economizzare a spese del caro scomparso, seppur obtorto collo, perché si ha difficoltà a
pagare un funerale, come nel caso dei giovani.
Adesso come adesso la parte economica incide molto, poi, bene o male, ci sono persone che
sono anziane e magari hanno qualcosa via, se sono ragazzi giovani che hanno il mutuo,
macchina, eccetera eccetera, anche loro sono messi male (Stefano).
Gli anziani, che sentono la morte più vicina, tra le spese mettono in conto quella delle
proprie esequie e accumulano il gruzzoletto per il triste evento; un giovane, che è nel pieno
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della vita (e forse dei debiti), relega in un angolo remoto la possibilità di dover spendere
dei soldi per un funerale, e se la probabilità diventa certezza, si trova a dover fare i conti
con le onoranze funebri in tutti i sensi. Gli individui, in genere, contestano il tariffario
eccessivo per il servizio funebre e accusano gli impresari funebri di approfittare del
momento di debolezza emotiva delle famiglie per “spillare” denaro; dal canto loro, gli
impresari funebri si difendono spiegando che il costo medio14 di un funerale non è elevato
se si prendono in considerazione alcuni fattori che il cliente ignora.
La bara poi, dire la bara sembra dire tutto in realtà la bara è il legno, poi va messo
l’imbottitura, puoi mettere lo zinco o meno a seconda della destinazione finale, piedini, la
parure, che sono le croci, noi le vendiamo e le croci biodegradabili a costo zero e la croce con
gli Swarovski se non di diamanti, chiaro che una croce, la croce che si mette sul coperchio
della cassa se tu la prendi con i diamanti ha un costo, se tu prendi la croce in Mater-bi ha un
altro costo. Dipende, dipende tutto dalla fornitura, ripeto, purché una volta scelta la fornitura, a
quello corrisponde il prezzo (Francesco).
La bara deve essere fornita di una serie di accessori, dall’imbottitura interna alle croci, che
possono essere in Mater - bi o in Swarovski, accessori che vanno dai più economici a
quelli più costosi e che concorrono a formare il prezzo totale, spiega Francesco, operatore
funebre. Non è solo la materialità di una bara o di una corona a determinare il costo di un
funerale, c’è anche il servizio immateriale, ciò che non è visibile e che il cliente non mette
in conto, ma che contribuisce a valorizzare il lavoro, ossia l'intangibilità del calore umano.
Tu stai facendo un servizio, è un servizio delicato, dunque, devi cercare la perfezione. Poi dopo
chiedi, anche, ovviamente, perché poi tutto, purtroppo o per fortuna, tutto poi deve essere
pagato, però tu poi sei anche autorizzato a chiedere, eventualmente, se hai lavorato come devi,
c’è anche il tuo tornaconto ed è giusto che sia cosi (Francesco).
L’intervistato osserva che se il servizio offerto è di qualità, cioè attento ai bisogni del
cliente assicurandogli tatto, cortesia e disponibilità, e utilizzando prodotti di prima scelta
(bare, paramenti, fiori e quant’altro), è giusto che il funerale sia ben pagato. I servizi
immateriali non possono essere presentati sul preventivo, quindi «per inserire questo tipo
di servizio gli impresari di pompe funebri devono alzare molto i prezzi di quella parte del
loro servizio che è visibile, cioè la bara elevata a dignità di sarcofago, poiché molti degli
14
Una ricerca di Help consumatori stila una classifica della convenienza del “caro morte” che va dai 2.155
euro romani ai 3.575 euro di Milano. Mediamente comunque, al sud seppellire l’estinto costa meno che al
nord, ad esempio a Napoli i privati si fanno pagare 2.300 euro.
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altri costi che sono necessari allo svolgimento di un funerale non possono facilmente
essere visibili» (Goffman 1959, p. 44).
In definitiva, l’addio al caro estinto è diventato un business a tutti gli effetti e le leggi del
mercato stabiliscono che dove c’è domanda c’è sempre un’offerta. Quello del funerario è,
però, un mercato atipico in cui, le strategie di marketing devono guardare soprattutto al
famoso mix prodotto/servizio che determina la qualità e il successo di un’azienda funebre.
Il comparto funerario è guidato dal cliente e non da chi vende e tale condizione di mercato
deriva dal fatto che la prestazione del servizio rivolta al consumatore è dipendente dal
bisogno e non dal desiderio, diversamente da una qualsiasi altra attività, del consumatore
stesso, il quale ha necessità per il verificarsi di un evento e, soltanto per questo motivo, si
rivolge a un’impresa funebre. Il più delle volte un impresario funebre tende a scindere il
cofano, l'imbottitura, gli accessori, gli arredi funebri e floreali dal servizio inteso nella sua
completezza, e cioè assistenza ai dolenti; questo perché i costi di tale servizio, se lo stesso
è svolto bene, sono notevolmente superiori ai beni tangibili offerti, ma la differenza, la fa
soprattutto la qualità del servizio: un bel cofano bene accessoriato, insieme ad un arredo
funebre dignitoso, sono il biglietto da visita dell'azienda, ma ciò che la distingue è come
essa si presenta all'esame più severo ed al momento di massima attenzione verso il cliente,
cioè durante il “funerale vero e proprio” (Bellachioma 2003).
Tornando all’episodio del serial tv, la giovane vedova scopre che il caro estinto le ha
lasciato in eredità solo una marea di debiti e il conto in banca prosciugato, perché la Beauty
Vision stava per fallire; di nuovo in lacrime, comunica all’impresario funebre di non avere
i soldi per pagare il funerale, quest’ultimo, impietosito dalla difficile situazione, organizza
l’ultimo addio, gratis.
2.1.2 L’oscuro passato delle pompe funebri
A rafforzare l’immagine negativa cucita addosso agli impresari di pompe funebri, gioca un
ruolo rilevante, un passato turbolento, nel quale il lavoro di questi professionisti era
compiuto seguendo metodi sicuramente poco ortodossi.
Ti posso dire quale era il mercato di cinquant’anni fa, era un mercato…come posso definirlo,
era un brutto mercato, nel senso che c’era molta concorrenza, c’era la concorrenza sleale, si
lavorava direttamente all’interno dei nosocomi, degli ospedali, si passavano magari le giornate
sulla porta degli ospedali piuttosto che nei reparti terminali, si aspettava la persona che si
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spegneva e si vedeva il famigliare piangere, ci si recava da lui, ci si presentava, cose che oggi
giorno sono inconcepibili (Alessandro).
Vigeva una concorrenza sleale, gli impresari funebri si infiltravano negli ospedali e
“assalivano” chi aveva appena perso qualcuno proponendosi come impresa alla quale
rivolgersi, andando a infierire sulla persona che aveva appena visto morire un proprio caro,
ignorandone la privacy e il momento di dolore. Alessandro, titolare di un’impresa funebre,
spiega il sistema corrotto di un tempo, anche se, tutt’oggi si presentano situazioni di questo
genere, pur essendo vietate dalla legge che prevede, invece, che sia il cliente a prendere
contatto con le onoranze funebri.
C’è negli ultimi sette, otto anni, se vai a scartabellare racket delle pompe funebri, guardi anche
su internet, racket delle pompe funebri, ti esce l’ira di Dio di roba. C’è gente che in buona fede
lo faceva per sopravvivere, c’è gente che sapeva quello che stava facendo, c’è gente che non si
è ancora resa conto di quello che ha fatto, anche se li hanno lasciati andare dalla galera, ognuno
è libero di fare quello che vuole a sto mondo, io non sono un santo, però, bene o male, so qual
è la regola e bene o male cerco di barcamenarmi (Stefano).
L’intervistato accenna al racket del caro estinto, veri e propri sistemi fraudolenti messi in
atto per l’acquisizione di servizi; infermieri, centralinisti, personale delle camere
mortuarie, che in cambio di tangenti, chiamavano le loro “imprese amiche” per avvisarli
del decesso appena avvenuto. Molti impresari funebri giocavano sporco per accaparrarsi
servizi, basando il proprio lavoro sulle regole della corruzione e dell’immoralità e a pagare
le conseguenze erano, sia quanti eseguivano il lavoro in maniera impeccabile e con un
certo rigore professionale, che i dolenti importunati. Un atteggiamento di questo genere ha
impresso nella memoria della collettività un’immagine del settore negativa. Un altro fattore
che ha contribuito a turbare gli animi degli individui, se solo pensano alle onoranze
funebri, era il modo di celebrare un funerale fino agli anni sessanta a Milano, una vera e
propria schifezza, utilizzando le parole di Stefano.
No, però onestamente adesso è migliorato, anche perché una volta era il classico proprio, le
onoranze funebri era una cosa tetra, se anche guardavi i funerali che si facevano una volta, ho
delle foto degli anni trenta, paramenti scuri, cose viola e nere, una cosa tipo Dracula, per
capirsi. Ci sono delle foto che sono oscene […] Si facevano addirittura gli album fotografici
dei funerali, si facevano proprio paramenti, colori pesanti, si facevano anche, una stupidata, si
mettevano foto di Cristi, foto di madonne che piangevano, si portava la striscetta nera al
braccio a Milano fino agli anni ’40-’50. E’ cambiato tutto, si è evoluto tutto, quindi se vedi
certe foto, i carri funebri stessi, quei carri funebri che vedi in quella foto lì, sono carri funebri
che erano più alti di un tram come dimensione. Renditi conto che una persona di fianco
arrivava giusto giusto all’altezza della bara […] Guarda che schifezza, questo è un carro
funebre, erano con tutti proprio i drappi, era una cosa a sé, si usava cosi, era cosi il culto. Tu
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avevi a che fare con persone che portavano, per dire, vedi, carro funebre, c’erano i chierichetti,
c’erano anche quelle che piangevano, le chiamavano le piangine, perché andavano in giro a
piangere, c’erano i bambini, gli orfanelli che mandavano in giro. Mio papà mi raccontava che
si andava all’orfanotrofio, non mi ricordo dove, i Martinitt, erano quelli di Milano, si andava lì,
si pagava l’uscita, un’offerta per fare uscire sti bambini, poveri cristi, che dovevano seguire e
piangere dietro sti funerali. È cambiato tutto grazie a Dio. Si è passati da queste cose, che per
me sono cose irreali e oscene, a cose più normali, è diventata una vettura normale, il carro
funebre, la bara, anziché essere una cosa lugubre, è come se fosse una custodia di legno un po’
più decorosa (Stefano).
L’imprenditore racconta com’era organizzato il corteo funebre, non meravigliandosi della
fama di cui godevano le onoranze funebri (che lo organizzavano), viste come “entità”
tenebrose. I paramenti (addobbi) avevano colori scuri, viola e nero, il carro funebre, che
sfilava nel corteo trasportando la bara, era di dimensioni enormi, adornato con drappi
sempre dai colori pesanti, a seguire questa carrozza c’erano le piangine, donne pagate per
piangere, e gli orfanelli, prelevati dagli orfanotrofi cui si dava un’offerta per “prendere in
prestito” i poveri bambini costretti a partecipare alla processione, e la gente portava una
striscetta nera al braccio in segno di lutto. Il giovane impresario conosce bene il modo di
operare delle imprese funebri di un tempo perché il papà fa questo lavoro da anni, inoltre,
usanza dei tempi e ulteriore testimonianza era fotografare il corteo e inserire le foto in un
album fotografico da dare alla famiglia, decorato con immaginette sacre. In epoca odierna
il cambiamento è visibile: i cortei funebri stanno per scomparire e, se qualcuno si fa, è
diverso rispetto ai cortei di cinquant’anni addietro; le auto funebri sono vetture eleganti dal
colore sobrio, così come i paramenti e le composizioni floreali, in generale, il culto del
lutto, come evento straziante, reso ancora più triste da elementi di contorno, ha lasciato il
posto a un’organizzazione adeguata a rasserenare la famiglia.
2.1.3 La paura collettiva della morte: scaramanzia, perplessità, derisione,
ostilità, silenzio
Gesto emblematico, sintomatico del passaggio di un carro funebre è il toccare ferro perché
convinti che allontani la sfortuna portata dal suo transito, quasi come potesse essere fautore
di una sorta di maledizione in grado di trasferire per riflesso l'evento funesto su di noi.
Suscita ilarità vedere l’insegna di un’impresa funebre o un operatore che fa il suo lavoro
perché siamo imbarazzati, sentiamo la presenza della morte, avvertiamo disagio, poiché la
morte è ripugnante, la morte è pornografica (Gorer 1965). La rifiutiamo, non pronunciamo
65
il suo nome, non riusciamo a definirla: la morte è innominabile (Ariès 1975). Perché un
atteggiamento avverso? Perché sappiamo che alla fine giunge a noi, la temiamo o temiamo
la morte dell’altro (ivi), la coscienza della dipartita è il vero problema per l’uomo.
L’eventualità di accogliere la morte come evento possibile e reale infonde ansia, paura e
angoscia, ne evitiamo il pensiero perché traumatico e doloroso. Se un qualsiasi input
esterno è in grado di richiamare alla mente il concetto di morte noi lo rifiutiamo, ci
distraiamo in qualche modo e il brutto pensiero è messo in fuga. Questo atteggiamento, ben
presto, si tramuta in un modus operandi genericamente diffuso, tuttavia scappare dalla
morte non aiuta quanti hanno a che fare con essa quotidianamente, le inquietudini scaturite
dalla fine dell’esistenza vengono incanalate nelle professioni che forniscono servizi
funebri; gli individui stigmatizzano gli operatori del settore perché considerati
“rappresentanti della morte” e la loro sola presenza si tramuta in fonte di inquietudine e
turbamento in quanto “messaggeri”, loro malgrado, di quel pensiero tanto doloroso quanto
ineludibile. L'unico modo per restituire dignità sociale agli operatori funebri è scavare
nell’inconscio collettivo e sconfiggere la grande paura della morte.
Ma guarda, io sono convinto che c’è ancora molta scaramanzia. Spesso e volentieri vedo gente
che passa davanti alla mia attività o a quella della concorrenza, legge il nominativo, gesti
scaramantici, battute o quando si parla, in linea di massima, con persone che non si conoscono,
ti chiedono “Che tipo di attività fai?” “Ho un’impresa di attività funebre”, la gente rimane
sempre sulle sue, perplessa. È una mentalità, secondo me, un po’ retrograda. Forse i ragazzi
della nostra età già cominciano a vederla in maniera diversa, a parte le battutine onoranze
funebri tocca ferro, però incominciano a vederla come un’attività normale, attività che al
giorno d’oggi ci deve essere perché siamo dei professionisti, operiamo, si cerca, di operare con
la massima discrezione, con la massima serietà e di non far pesare più di tanto quello che
facciamo (Alessandro).
«Repertorio di gesti, parole, atteggiamenti e oggetti a cui si attribuisce il potere di
scongiurare malefici e disgrazie o di propiziare il destino», è questa la definizione del
termine scaramanzia in qualsiasi dizionario.
Alessandro sostiene che ci sia ancora molta scaramanzia sulla propria professione, ma cosa
vuol dire questo? Che se si incontra un operatore funebre inevitabilmente si muore almeno
ché non si facciano i dovuti scongiuri? Ognuno sa, chiaramente, che i professionisti del
settore funebre non hanno il potere di causare la morte con lo sguardo, né tanto meno ha
tale potere un carro funebre o la sede delle pompe funebri. Gli operatori, invece, hanno il
potere di offrire un servizio necessario alla comunità; il modo di guardare alle onoranze
funebri sta cambiando, a parere dell’impresario, si comincia a vederla come un’attività
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normale probabilmente intende dire che, anche se si lavora a contatto con la morte, evento
terribile che tutti rifiutano di accettare, è comunque un’attività con un’organizzazione, uno
scopo, una routine, un mestiere che richiede una particolare competenza e una specifica
abilità. Probabilmente vuole discostarsi dal cliché che vede la professione dell’impresario
funebre come eccentrica e terrificante, racconta d’eseguire il proprio lavoro con
discrezione e serietà per non far pesare quello che fa, perché il compito degli impresari
funebri è fare in modo di alleviare lo strazio della perdita mettendo a proprio agio il
dolente.
E non ti dico i problemi, da bambino è naturale, ti massacrano, poi tu sei piccolo non sai
neanche che cosa faccia tuo padre, sai che cosa fa ma a grandi linee […] Una volta, se tu
controllavi in giro, vedevi un carro funebre, c’era tutta questa ritualità della scaramanzia,
corna, adesso si, c’è ancora qualcuno che lo fa ma il 99%, non dico lo veda come la normalità,
però non ha più tutto questo effetto negativo (Stefano).
Ricorre il tema della scaramanzia anche tra le parole di Stefano che, in accordo con
Alessandro, sostiene quanto la realtà di oggi sia diversa rispetto al passato, le persone
vedono normale la professione dell’impresario funebre, non ha più effetto negativo, dice
Stefano, i singoli cominciano a dare il giusto valore a questo lavoro evitando di associarlo
a iettature e disgrazie, e separando il male e il dolore che provoca la morte da chi, invece,
fa solo il suo mestiere. Poi rivela di aver avuto problemi da bambino perché, neanche
conoscendo in dettaglio di cosa si occupasse il papà, doveva sorbirsi la beffa dei ragazzini;
d’altronde i bambini, inconsapevoli, non fanno che riflettere il pregiudizio dei grandi.
Essendo un’attività di famiglia, potrà sembrare stano, ma sono cresciuto in questo ambiente.
Sin da piccolo frequentavo gli ambienti espositivi dell’azienda di mio padre, pertanto per me,
vedere una lapide, un monumento, o vedere un’urna cineraria piuttosto che una bara non mi è
mai pesato, da piccolo li vedevo come giochi (Alessandro).
A differenza dei bambini che prendevano in giro Stefano, Alessandro non attribuiva un
significato a quegli oggetti che, per lui, erano solo dei giocattoli. Bare, urne cinerarie,
lapidi, erano giochi agli occhi di un bambino, che diventato adulto, pensa di doversi
giustificare per questo, definendo strano ciò che faceva, perché gli adulti, invece, danno un
valore a quegli oggetti, li associano alla morte e la morte è una realtà che pesa ai grandi,
ma non pesa a un bambino, perché non sa cos’è.
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Mi è stato chiesto di fare da sponsor a una società di calcio […] Sono presente sulle magliette e
sulle borse dei ragazzi di questa società calcistica. Ho però richiesto alla società di togliere la
mia attività, ovvero le onoranze funebri, ho chiesto di pubblicizzare semplicemente impresa
*** e basta. Perché non è bello […] Ma anche per i ragazzi stessi, la maggior parte sono
ragazzini, bimbi. Vedere onoranze funebri magari dà fastidio, si vergognano, così ho preferito
eliminarlo mettendo semplicemente impresa *** (Alessandro).
Pur riconoscendo l’utilità del lavoro eseguito dalle imprese funebri, la nostra società non è
ancora pronta a vedere impresso su magliette e borsoni di una squadra di calcio, composta
da ragazzini, la scritta, onoranze funebri. Alessandro ha sponsorizzato una società di
calcio, ma non ha voluto specificare di che tipo di attività si trattasse, facendo
pubblicizzare solo “impresa***” senza il “funebre”. Il tabù della morte è ancora vivo, la
società attuale ha spensieratamente indebolito la propria capacità di mettere a fuoco il
grande tema della morte, non riusciamo a parlarne apertamente perché dà fastidio e ci
vergogniamo, come sostiene Alessandro, se poi si tratta di bambini, il tabù si accentua, con
il rischio di riprodurre la trasmissione alle nuove generazioni del nostro senso della morte,
probabilmente neanche loro “da grandi” saranno capaci di attrezzare un dialogo sulla morte
senza trepidazione.
C’è il tabù del parlarne, non è come chiacchierare con te, fuori non è che ti metti a parlare di
morte, così come al bar, anche se in realtà non dovrebbe essere un discorso tabù, fa parte della
vita. Fondamentalmente, però, capisco anche che non è facile parlarne (Francesco).
Non è facile parlare di morte, non è un argomento di cui si chiacchiera al bar tra amici,
anche se non dovrebbe essere un tabù, afferma Francesco, perché la morte è un processo
naturale, fa parte della vita. E se di morte non si parla perché fa paura e preferiamo
rimuoverla, allora un professionista del settore difficilmente potrà chiacchierare del suo
lavoro, dal momento che lavora con la morte, e visto il rigetto che la questione provoca
negli individui, sarà tentato a non parlarne lui per primo e a tenersi tutto dentro.
La vestizione oggi la fa l’infermiere, io se non vedo i morti è anche meglio (Daniele).
Daniele, titolare di un’agenzia, preferisce non avere contatto con i corpi morti o di ridurlo
al minimo, è vero che le sue mansioni si limitano, più che altro, al disbrigo delle pratiche
burocratiche e non vede i corpi, ma stando a contatto con la morte tutti i giorni, dovrebbe
avere una sensibilità diversa; sembra che l’orrore ispirato dal cadavere sia universale,
persino per un impresario di pompe funebri che, invece, dovrebbe essere dotato di una
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sorta di senso professionale che porta al limite dell’impassibilità (Thomas 1975, pp. 293294). Non sono solo gli individui in genere a bollare la figura dell’operatore funebre, ma
gli operatori stessi, si potrebbe dire, si auto-stigmatizzano. Si tengono ben lontani
dall’incoraggiare un atteggiamento positivo nei riguardi della propria figura per paura di
reazioni negative. I professionisti del settore lamentano il modo di rapportarsi della gente
verso la morte, vorrebbero meno inibizione sull’argomento, ma quando si presenta
l’occasione per cambiare lo stato attuale si aggregano alla massa. La morte è un tabù
talmente radicato nella nostra società che, anche i professionisti del settore, hanno
difficoltà a parlarne liberamente.
2.2 Restituire un’immagine positiva alle onoranze funebri: la soluzione etica
Nei paragrafi precedenti ho ipotizzato le cause che, negli anni, hanno contribuito a creare il
pregiudizio sulla figura dell’operatore funebre, notando come, rispetto al passato qualcosa
sia cambiato: sembra che il settore della morte stia mettendo ordine all’interno della
propria organizzazione in modo tale da ripulire l’immagine dell’imprenditoria funebre e
darle, così, un volto nuovo. La soluzione trovata al problema è di tipo culturale, ossia ciò
di cui ha bisogno l’industria funeraria per risollevarsi è un sistema di valori, un insieme
coerente di assunti di base che danno luogo a sistemi di convinzioni articolati e complessi
(Schein 2002, p. 161). Per affrontare i problemi, l’impresa funebre, sviluppa degli assunti
che devono funzionare abbastanza bene da essere considerati validi, questi assunti formano
la cultura dell’organizzazione (ivi, p. 163). Una cultura non è fatta di idee astratte, ma di
risposte a problemi concreti che occorre risolvere, inventando o scoprendo soluzioni (ivi,
p. 162), scoprire convinzioni profonde che ispirano la cultura dell’impresa. E l’assunto di
base che ispira la condotta degli operatori funebri e la cultura dell’impresa è l’etica; tale
professione deve essere eseguita con onestà e rettitudine, anteponendo i bisogni del dolente
al mero interesse economico. Per ovviare alle critiche a cui è costantemente sottoposto, un
imprenditore funebre deve fare dell’etica non un valore aggiunto ma il valore
fondamentale della propria azienda, come sostenuto in un convegno dal titolo La
dimensione etica nella professione dell’impresario funebre tenutosi a Modena nel 2002.
In Italia più di mezzo milione di famiglie, ogni anno, affrontano un lutto e devono
inevitabilmente prendere contatto con operatori del settore funebre ed esporsi, in
condizioni di particolare fragilità psicologica, al loro possibile cinismo contrattuale. Infiniti
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casi di cronaca mettono in luce il lato peggiore di operatori senza scrupoli che, pur di
aggiudicarsi servizi funebri, risalgono a sistemi corrotti a spese di persone già duramente
provate. Tuttavia bisogna anche tener conto delle migliaia di operatori seri e corretti e dei
numerosi episodi di comportamenti esemplari densi di solidarietà, delicatezza e grande
professionalità. A caratterizzare questa professione, dunque, è l’etica intesa come somma
di principi morali che si prefigge di esaminare la rettitudine delle azioni umane e che entra
in azione quando mettiamo in discussione ciò che è giusto e buono, quando il concetto di
morale diventa problematico, quando deve essere risolto il conflitto tra interesse proprio e
necessità altrui. Il rispetto assoluto delle volontà del defunto e dei familiari, la sensibilità in
tutte le fasi della cerimonia, la puntualità, la riservatezza, la serietà, l'efficienza, la
professionalità propria e del personale, la presenza discreta, tutte queste importantissime
qualità rientrano in quello che potremmo definire un decalogo professionale (Zaffarano
2005).
Alcuni ho visto che fanno pubblicità in giro per Milano con cartelli pubblicitari […] Noi non
concepiamo questo tipo di pubblicità, a noi non piace. Non piace perché comunque ritengo che
bisogna avere un po’ di ritegno, non stiamo trattando abbigliamento o chissà quale altro bene, è
un settore delicato e penso che si debba avere rispetto, rispetto della morte e del dolore degli
altri (Alessandro).
Alessandro ritiene che pubblicizzare su enormi cartelli, in giro per la città, la propria
impresa funebre sia poco etico, perché si rischia di urtare la sensibilità di chi ha subìto un
lutto, pertanto sbandierare quello che è un momento particolare, intimo e doloroso della
vita di un individuo, non aderisce all’assunto base della professione di un impresario
funebre, non è coerente con il principio di moralità da osservare. La pubblicità di
un’impresa funebre deve essere discreta e silenziosa, è il dolente a scegliere i professionisti
a cui affidarsi, questi ultimi sostengono come il passaparola sia la miglior pubblicità e il
miglior modo per provare il prestigio dell’azienda, poiché se il dolente è soddisfatto della
qualità del servizio la raccomanderà.
Diciamo che negli anni addietro chi ha fatto questo lavoro, non tanto io, io sono titolare da
dieci, undici anni, ma chi ha fatto questo lavoro, i nostri, diciamo, predecessori, non l’hanno
fatto nel modo giusto […] Non l’hanno fatto nel modo giusto perché si può guadagnare
lavorando ma lavorando onestamente pur guadagnando. E invece c’è stato proprio un
malandare negli anni, la gente è un po’ sprovveduta e parecchi, in questo lavoro, ne hanno
approfittato […] Va fatto comunque con coscienza (Daniele).
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È un lavoro che va fatto con coscienza, afferma Daniele, perché negli anni addietro, come
detto finora, gli impresari funebri si avvalevano di sistemi non corretti pur di agguantare un
servizio e la gente poco informata ne subiva la triste conseguenza. Dunque, è un lavoro che
va eseguito onestamente, perché il guadagno c’è, anche se operi con rettitudine, secondo
l’intervistato.
Bisogna pensare ad assistere, noi diciamo la clientela, i dolenti, i familiari […] E’ evidente che
dipende anche dalla cultura dell’imprenditore, bisogna capire qual è, che tipo di impresario si
trova davanti, se si trova un impresario o si trova un commerciante, se si trova un truffatore, se
si trova un faccendiere e siccome la nostra è un’attività molto particolare, bisogna vedere che
tipo di clientela lei ha, è evidente che quando le si presenta un cliente che ha un lutto può
essere, volgarmente, un rapinatore, un ladro, una puttana, un drogato, noi non possiamo
differenziare lo stile e la cultura del lutto, per noi qualsiasi tipo di clientela si presenta,
dobbiamo dare sempre quell’assistenza che viene data al ricco, al povero, al meno abbiente,
all’insieme delle cose peggiori. Deve esserci un trattamento equo ma una parità di trattamento
sul piano morale, psicologico, per tutti uguale e capire la necessità di questa famiglia che non è
quella di vendere una cassa da morto, dargli un carro funebre bello, dare quello che
commercialmente può essere redditizio per noi, dobbiamo metterci in una condizione che la
famiglia possa sentirsi protetta (Armando).
È fondamentale l'assistenza al dolente, per Armando, magnate dell’industria funebre, e
dare spazio alla comunicazione reciproca per non lasciare il dolente solo con le sue ansie e
con i suoi legittimi dubbi. Dipende dalla cultura dell’imprenditore, continua l’impresario,
ossia che tipo di formazione ha ricevuto, qual è obiettivo della professione per lui, poi
passa in rassegna quattro tipologie di professionisti: l’impresario, il commerciante, il
truffatore e il faccendiere. L’impresario dovrebbe essere il professionista vero e proprio
che esegue il lavoro nel rispetto del dolente e con rigore deontologico. Il commerciante è
quel tipo di professionista capace nella vendita ma poco attento ai bisogni del cliente, il
truffatore mente sulla qualità del servizio, spacciando la mediocrità per eccellenza, in
questo modo calpesta il “principio etico” disonorando l’industria funebre. Il faccendiere
guarda esclusivamente al profitto ignorando le necessità della famiglia, una figura che si
avvicina al modo di operare corrotto degli impresari funebri di un tempo. Dopo aver
menzionato tipologie di impresari, l’intervistato afferma che ci sono anche diversi tipi di
clientela, la clientela “comune” e quella “particolare” che va dal drogato alla puttana, ma
indipendentemente da quello che sono e da ciò che fanno, le persone che hanno perso
qualcuno devono meritare uguale rispetto, bisogna dare la stessa assistenza a tutti e parità
di trattamento sul piano morale. Viene prima l’esigenza del cliente, dichiara Armando, un
buon imprenditore funebre deve ascoltare e comprendere i bisogni della famiglia senza
badare a ciò che può essere vantaggioso, dal punto di vista economico, per l’azienda. Dai
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frammenti di intervista, in generale, emerge la moralità come principio cardine in
un’impresa funebre. I professionisti, nei loro racconti, relegano l’aspetto economico in un
angolo celebrando, invece, quello emotivo, parlano di rispetto del dolore altrui e di quanto
sia importante aiutare le persone colpite dal lutto. Viene da chiedersi, ragionando in
termini goffmaniani, se sono sinceri o cinici (Goffman 1959, p. 30), ossia se agiscono
realmente in questo modo, cioè, risolvendo il conflitto tra interesse proprio e necessità
altrui preservando quest’ultime, oppure se stanno bleffando per il bene della comunità, che
in questo caso è la “comunità degli operatori funebri”. Se questi professionisti vogliono
scrollarsi di dosso quell’immagine negativa che li perseguita, devono, comunque, costruire
l’impressione che questi standard morali siano raggiunti.
2.3 Uno strumento per trasformare la morte in una “buona morte”: la legge
regionale
Per far sì che i principi morali diventino la prerogativa delle onoranze funebri, ci si è
appellati alla legge che ha il compito di imporre una condotta agli operatori funebri: i
professionisti dell’addio devono essere in grado di fornire prestazioni che aiutino i dolenti
a vivere nel migliore dei modi i primi momenti del lutto.
«Già da anni ci ostiniamo a considerare le onoranze funebri, un servizio alla persona e non
un mero trasporto di “cose”, a meno di non voler intendere il funerale come un orrendo
trasferimento di un cadavere verso lo “smaltimento” in cimitero; e le ultime evoluzioni
della normativa di riferimento ci stanno rendendo giustizia».
La prestigiosa rivista del settore funerario, Oltre magazine 15, annuncia così l’importante
cambiamento legislativo che ha modificato il volto della moderna impresa funebre
rendendo possibile realizzare un modello vicino alle più avanzate realtà europee. Merito
della nuova legislazione sarà di professionalizzare e rinnovare il settore funerario, offrendo
una gamma di servizi utili ad aiutare il dolente nel doloroso momento del distacco. La
materia della polizia mortuaria, storicamente, non è mai stata sussunta in un unico plesso
amministrativo. Vi sono, infatti, aspetti prettamente sanitari, ve ne sono altri riconducibili
15
Edita dal proprietario del marchio Tanexpo (la più grande manifestazione fieristica europea del settore
funebre). La rivista tratta argomenti che ruotano intorno al tema della morte, molti articoli sono a carattere
commerciale, illustrano prodotti del settore funerario, inoltre la rivista è utilizzata anche allo scopo di
pubblicizzare il Tanexpo. Oltre magazine e il suo staff hanno fortemente voluto la riforma legislativa del
compartimento funerario.
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all'ordine pubblico, altri ancora relativi a esigenze di giustizia, si tratta di una materia
multidisciplinare, non facilmente riconducibile ad una singola competenza unitariamente
intesa. Si è pertanto sentita l’esigenza di innovare in modo organico il settore funerario, da
sempre oggetto di interventi sporadici e limitati ad alcune parti del problema, lasciandone
altri del tutto privi di regolamentazione. È dal 1998 che il comparto funerario si batte per
l’emanazione di norme atte a rinnovare il Regolamento di Polizia Mortuaria (DPR 285/90),
una lunga battaglia che vede protagoniste, o meglio antagoniste, le due federazioni
nazionali delle imprese di onoranze funebri, Feniof e Federcofit. La Feniof16, storica
federazione del comparto funerario, è stata accusata dalla più giovane Federcofit, di aver
accettato in maniera miope e passiva la bozza del regolamento del 1998, la cosiddetta
“bozza Bindy17”, regolamento non voluto dal settore funerario perché, sostengono, svende
la categoria e l’attività funebre agli interessi delle “Aziende Pubbliche”. La Federcofit è
stata fondata nel 1999 a Milano da grandi imprese del comparto funerario, con l’obiettivo
di modificare profondamente il Regolamento di Polizia Mortuaria proposto dal ministro
Rosy Bindi, perché punitivo nei confronti delle attività private e anacronistico rispetto al
ruolo delle Regioni.
Gli scopi della federazione sono:
- rappresentare il Comparto Funerario in tutte le sedi promuovendo nuove normative,
nazionali e regionali, atte a tutelare e sviluppare l’imprenditoria privata del settore;
- accrescere il prestigio dell’attività funebre sviluppando una positiva immagine del
comparto.
La federazione, fin dalla sua costituzione, ha sostenuto la necessità di affidare alle Regioni
compiti primari nel normare la materia, in un discorso fatto al Consiglio della Regione
Lombardia tenutosi il 17 luglio del 2003, quando la legge regionale non è ancora
approvata, presenta i motivi per cui si ritiene doverosa la sua promulgazione: «Finalmente,
dopo lunghi anni di discussioni, di correzioni, di modifiche radicali del quadro istituzionale
di riferimento, con l’introduzione del Federalismo, siamo di fronte ad un decisivo passo
concreto nella direzione giusta: una legge regionale per il nostro comparto. La legge
regionale “Norme in materia di attività e servizi necroscopici, funebri e cimiteriali”, non
16
Ho ricostruito il percorso che ha portato al varo dell’attuale legge regionale in materia di attività funeraria,
basandomi su quanto detto nella rivista Oltre magazine, nella quale è spesso citata la Federcofit e molto poco
la Feniof. Sembra che la Federcofit, non soddisfatta del lavoro di rappresentanza del settore privato funebre
portato avanti da Feniof, abbia preso la situazione in mano, “spodestando” la storica federazione del settore.
17
Non ritengo necessario, ai fini dell’argomento, approfondire il contenuto della bozza.
73
solo rappresenta una importante risposta alle domande di un comparto tanto delicato
quanto compresso nello sviluppo delle proprie potenzialità e che cerca di offrire adeguati
servizi ad una società in profonda trasformazione, ma, soprattutto, rappresenta una valida
indicazione per tutto il paese, per tutte le regioni d’Italia. Il comparto funerario italiano
attende da troppi anni una normativa moderna e adeguata alle modificazioni profonde
intervenute nella società civile, negli aspetti igienico-sanitari e, soprattutto, per quanto ci
riguarda, nell’organizzazione della vita della collettività. La velocità dei ritmi del
convivere civile, la crescente padronanza dell’uomo sulla vita, hanno teso a cancellare la
morte, relegandola in un angolo sempre più nascosto e trascurato e lasciando nella
solitudine le famiglie colpite dal lutto. I problemi per gli operatori sono chiaramente
evidenti, ma ancora più pesanti e drammatici sono gli effetti sui cittadini, sui dolenti. Se la
morte si dovesse ridurre, per la società, ad un problema di smaltimento di un “rifiuto
speciale”, il cittadino colpito dal lutto sarà sempre più solo a fare i conti con questa
drammatica separazione. L’operatore funebre deve fornire un servizio complesso e
professionalmente molto qualificato, in grado di accompagnare la famiglia nel dolore del
lutto fornendo tutte le prestazioni capaci di trasformare la morte in una “buona morte”, in
una morte accettata. Con le disposizioni contenute nel Progetto della Regione Lombardia,
finalmente, anche l’operatore italiano potrà equipararsi agli operatori funebri dei paesi
europei più avanzati. Più rapido sarà l’iter di approvazione del progetto di legge regionale,
prima potranno iniziare quei percorsi di rinnovamento che la legge permette».
Un vero e proprio rituale del discorso, secondo la teoria di Foucault, dalla forma strutturale
sulla quale un locutore istituzionale si appoggia per produrre discorsi di verità, discorsi
che, da una parte, creano adesione perché fanno emergere alcuni temi e producono “verità
pubbliche”, dall’altra, legittimano e autorizzano colui che li produce (Navarini 2003, p.
108). I rituali del discorso gestiscono un potere di nominazione della realtà sociale, il
potere non può funzionare senza una circolazione del discorso; la federazione del comparto
funerario costruisce i suoi discorsi intorno al tema della “buona morte” persuadendo gli
organi politici dell’importante funzione sociale esercitata dall’industria funebre; la retorica
della “buona morte” ha evidenziato un profitto politico e una certa utilità economica che
l’ha fatta funzionare nell’insieme (Foucault 1971, p. 188).
Il 17 febbraio 2005 la Camera dei Deputati ha approvato la legge sulla “Disciplina delle
attività del settore funerario”, poi passata al Senato e affidata alla Commissione Sanità per
l’esame che procede la discussione in aula per il voto definitivo. I contenuti del disegno di
74
legge, di natura generale, permettono di inquadrare le normative regionali avviate con le
leggi della Lombardia18, Regione che ha avuto un ruolo decisivo nell’iter per la
promulgazione. La legge19 ha il merito di inquadrare l’attività funebre in modo adeguato
restituendo un’immagine positiva al settore funerario, definire con chiarezza la natura
imprenditoriale, ossia esplicitare quali sono i compiti affidati alle onoranze funebri e quali
sono i suoi obiettivi, e chiarire le incompatibilità a tutela di una corretta concorrenza, per
evitare che si replichi quel sistema corrotto in cui le imprese funebri agivano per
procacciare funerali.
Da qualche anno a questa parte ogni regione ha attuato un proprio regolamento. Il vecchio
regolamento di polizia mortuaria nazionale si è suddiviso alla fine in regionale, pertanto ogni
regione ha un regolamento di polizia mortuaria, dove si stabiliscono i requisiti
dell’imprenditore e dove vi sono anche i vari articoli di legge su come portare avanti il servizio
di onoranze funebri (Alessandro).
Alessandro spiega che ogni regione italiana ha leggi diverse inerenti al comparto funerario,
o meglio, esiste una legge sulla funeraria unica, la legge nazionale cui fare riferimento, ma
ogni regione ha un regolamento proprio che chiarisce quali sono i requisiti necessari per
avviare un’attività funebre e come eseguire il servizio in modo dettagliato. L’anima della
legge regionale n.22/03 e del Regolamento regionale n. 6/04 della Lombardia sta
nell’affermazione di un marcato senso etico della professione e la formazione. Le relazioni
che ci sono tra il defunto e i vivi, è la base da cui parte la nuova normativa, si rende
necessario sensibilizzare l’operatore che ha il dovere di assistere il dolente nel delicato
passaggio della sepoltura provvisoria nel quale il defunto è fisicamente morto ma
socialmente vivo (Hertz 1907). Oggi l’organizzazione di un funerale richiede professionisti
formati dal punto di vista legislativo, pratico e morale. La mission è seguire la famiglia che
ha subìto un lutto, essere in grado di prestare un ottimo servizio per addolcire il distacco
dal defunto e rendere “buona” la morte, una morte accettata.
Il cambiamento legislativo è dovuto al fatto che la normativa sulla funeraria è sempre stata una
normativa sanitaria perché lo Stato ha sempre considerato il morto come un problema sanitario
perché il morto si decompone, può dare problemi di salute pubblica eccetera eccetera […]
Delle relazioni tra il morto e i vivi allo Stato non gliene può fregà de meno. Il primo problema
è evitare che ci siano problemi con la morte e quindi tutto viene normato per fare in modo che
quando si tratta un morto lo si tratti in modo tale da evitare rischi della salute pubblica […]
18
Il campo di ricerca è Milano pertanto approfondirò i contenuti della legge regionale della Lombardia.
In appendice l’allegato A, un estratto dal testo del DDL unificato per la riforma dei servizi funerari, e
precisamente l’articolo 8 e l’art. 23, nel quale sono contenuti i nuovi criteri per operare come impresa
funebre.
19
75
Tant’è che la responsabilità di tutto questo la si affida al sindaco, fino a 30, 40 anni fa, era il
comune che faceva trasporti funebri, non gli operatori privati, perché il trasporto funebre è un
problema di natura igienico sanitaria, che significa prendere un morto dall’abitazione piuttosto
che dall’ospedale, trattarlo in un modo adeguato per non avere rischi sulla salute pubblica e
portarlo al cimitero. Quindi è una funzione igienico sanitaria. Quindi, comune, sei te il
responsabile della salute e quindi fallo te. Dopo si incomincia a ragionare che l’operatore
funebre deve fare i trasporti funebri, si arriva alla fine del novecento, 1998, con l’avvio di una
nuova impostazione legislativa che invece comincia a ragionare, per fortuna, sulle relazioni che
ci sono tra il defunto e i vivi. E quindi un susseguire, anche sul piano professionale, di questo
tipo di relazioni per cui l’operatore funebre è, si, deve svolgere correttamente queste operazioni
di natura igienico sanitaria eccetera eccetera, ma deve anche essere il soggetto capace di
interpretare al meglio le esigenze di una famiglia nei confronti del defunto (Segretario generale
Federcofit).
Il segretario generale della federazione del comparto funerario spiega com’è nata la
necessità di rinnovare le leggi del settore. Fino a trent’anni fa era lo Stato a occuparsi dei
funerali, il trasporto funebre non era gestito dai privati perché l’evento morte era
considerato esclusivamente un problema igienico, bisognava eliminare presto il cadavere
perché il corpo in decomposizione poteva diffondere malattie, quindi essendo un problema
di natura igienico-sanitaria, era compito del comune prelevare la salma dal luogo in cui è
avvenuto il decesso, pulire il corpo e portarlo al cimitero. Dal 1998 qualcosa cambia. Si
guarda all’evento morte da un’altra prospettiva, si ragiona sul fatto che quando una persona
muore, certo, bisogna gestire il corpo e dargli subito una sepoltura per evitare che si
decomponga e avvii infezioni, ma non solo, è necessario prendersi cura anche di che resta.
È importante prendere in mano la situazione, affrontare la morte anche dal punto di vista
dei dolenti, e il compito dell’operatore funebre deve essere quello di non lasciare al suo
destino chi ha appena subìto una perdita ma offrire un servizio completo che coinvolga
anche la famiglia e che la aiuti ad affrontare il difficile momento del distacco dal caro
estinto. Solo in questo modo si può sconfiggere la collettiva paura della morte, non
lasciando da solo chi ha subìto un lutto, aiutandolo nei primi momenti della perdita, attimi
in cui si avvia il lungo e lento processo di elaborazione del lutto 20. La gestione emotiva del
dolente, quindi, è il punto focale intorno al quale gira l’evoluzione del comparto funerario.
20
Il lutto è quella serie di forti sentimenti e stati mentali derivati da accadimenti improvvisi, che creano
sofferenza e che generano un forte impatto psicologico e/o modifica nella vita della persona che li subisce,
come allontanamenti di persone care, o la modifica obbligata di stili di vita significativi. “L' elaborazione del
lutto” consiste nel lavoro di rielaborazione emotiva dei significati, dei vissuti e dei processi sociali legati alla
perdita “dell' oggetto relazionale”, ovvero della persona (parente o amico) con la quale si era sviluppato un
legame affettivo significativo, interrotto dal decesso della stessa. Il processo di elaborazione del lutto, in base
all'intensità del legame affettivo interrotto, dalle sue modalità, e da diversi fattori protettivi o di rischio, può
essere di durata e complessità variabile. Solitamente, nella sua fase acuta, viene completato entro 6-12 o
anche 24 mesi in caso di perdite di figure relazionali primarie (genitori, figli, partner), anche se non sono
infrequenti possibili sequele per periodi successivi; si deve comunque tenere conto che il processo di
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Deve esserci un dialogo, lei deve attrezzare il personale a un dialogo con queste persone che
dal momento del lutto, che magari arrivano al lutto dopo una grande malattia, una malattia
interminabile, ci sono dei casi veramente pietosi di come muore la gente, no? Con un tumore,
comincia ad avere un tumore dieci anni prima muore dieci anni dopo, fa dieci anni di…di che
cosa fa, di delirio, di disperazione, una persona che sa che deve morire, perché tutti sappiamo
che dobbiamo morire ma ce lo dimentichiamo. Però una persona che viene a mancare a un
certo punto sa, ha un tumore, sa che il medico gli dice ha novanta giorni, centoventi giorni, due
anni, cinque anni, dunque la situazione psicologica che ha il soggetto più la sua famiglia, che
entra in una situazione psicologica di debolezza, questo è un fatto importante per fare
l’impresario di pompe funebri (Armando).
Gli operatori funebri devono essere addestrati al dialogo, sostiene Armando, perché si ha a
che fare con gente che arriva nell’impresa funebre interiormente a pezzi, in una condizione
di debolezza psicologica, e in una condizione del genere l’individuo cade in uno stato
confusionale e non è sempre in grado di chiedere ciò che desidera o pronto a lasciare
andare il suo caro organizzandogli il funerale. E compito dell’impresario funebre è quello
di capire chi ha davanti e agire di conseguenza. C’è gente, spiega l’intervistato, che perde
qualcuno dopo una lunga e devastante malattia, e l’operatore funebre deve comunicare con
queste persone nel modo giusto, offrire il proprio servizio con tatto, sapendo come
atteggiarsi nei loro confronti.
Le onoranze funebri è un settore molto particolare, molto delicato. Nell’ultimo periodo
diciamo che è una professione che si è cercato un attimo di definire bene, per far sì che gli
operatori funebri diventino una figura ben precisa e ben riconosciuta […] Noi si possa essere
preparati non solo da un punto di vista imprenditoriale ma anche da un punto di vista, se posso
permettermi, psicologico, ovvero dobbiamo venire incontro alle esigenze della famiglia
cercando di capire la situazione che stanno vivendo per far sì che questa situazione, questo
momento, possa essere elaborato già sin dai primi momenti. So che può apparire strano dire
che, già dal primo contatto con le onoranze funebri, si debba elaborare il discorso del distacco,
però, ci siamo resi conto che invece è importante, è importante far sì che la gente si renda
conto di quello che sta vivendo e come va affrontato. Anche l’organizzazione di un funerale è
importante, è importante viverla, è importante ehm, come posso definirla, non mi viene il
termine, comunque procedere con il distacco dal proprio caro (Alessandro).
Da quanto dice Alessandro, è importante che la gente si renda conto di quello che sta
vivendo, deve sentire e vivere il distacco dal caro estinto, non deve lasciar correre l’evento
con l’illusione che, da un momento all’altro, possa risvegliarsi, deve “elaborare il discorso
del distacco” e non può farcela da solo, ma deve essere seguito da professionisti che lo
aiutino in questo. Continua l’intervistato, dicendo che, quanti lavorano nel settore, si sono
resi conto che il primo contatto con le onoranze funebri deve essere gestito al meglio
dall’operatore, il dolente deve cominciare ad accettare il significato emotivo della perdita
elaborazione è fortemente soggettivo, e può durare per tempi assai variabili in base a fattori personali e
situazionali.
77
relazionale, una corretta elaborazione del lutto deve cominciare dai primi istanti della
perdita.
Ci troviamo di fronte al cliente che, a seconda delle problematiche che espone, dobbiamo
cercare di dare un aiuto. Tante volte sono persone anziane e quindi bisogna aiutarli anche a
capire bene quello che si può fare, tante volte sono persone giovani a cui interessa
principalmente la spesa e non tutto il resto. Poi dipende se la persona che è deceduta è una
persona giovane o una persona anziana, allora lì cambia tutto, il modo di approcciarsi nei
confronti del cliente o il modo di offrirgli anche un certo tipo di servizio (Stefano).
Le parole di Stefano lasciano intendere che non c’è bisogno di essere uno psicologo per
aiutare il dolente, certo, è importante conoscere alcune pratiche nozioni di psicologia per
avere un giusto approccio iniziale con il parente, ma l’aiuto può essere dato in modi
differenti. Se arriva in ufficio una persona anziana, probabilmente avrà bisogno che
qualcuno gli spieghi dettagliatamente e pazientemente cosa fare, se invece è una persona
giovane che non ha la possibilità di spendere molto, si offrirà un servizio mirato al
risparmio. Diversi sono i modi di aiutare i dolenti, l’importante è ascoltare ciò che dicono e
comprenderne le reali esigenze.
2.4 La costruzione della professione: i corsi della Regione Lombardia
Riassumendo, l’industria funebre ha riorganizzato il settore, trovando un codice culturale
aziendale comune, che vede nel principio morale il punto di riferimento al quale appigliarsi
per esercitare la professione nel migliore dei modi. Si è creata, così, un’ideologia della
cultura aziendale, una cultura forte che enuncia i principi base dell’industria funebre, una
mappa per leggere la realtà e comportarsi di conseguenza. Questa cultura chiede di essere
trasmessa ai dipendenti che devono farla propria se vogliono contribuire al successo
dell’impresa (Kunda 2002, p. 170). Si cominciano ad acquisire i codici culturali propri
dell’impresa funebre e a costruire la professione attraverso dei corsi: la legge regionale
vuole riqualificare la figura dell’operatore funebre, quanti vogliono intraprendere questa
carriera, devono formarsi partecipando a corsi indetti dalla Regione Lombardia, alla fine
del percorso formativo sarà rilasciata una licenza che abilita alla professione. La licenza è
considerata come un permesso legale specifico per svolgere un’occupazione, può essere
meramente tecnica, ma può anche estendersi a vaste aree di comportamento o pensiero
(Hughes 1984 pp. 230-231). Quella dell’operatore funebre è considerata una professione e
i professionisti professano, professano di conoscere meglio di altri la natura di certe
78
materie, e di sapere meglio dei loro clienti cosa li affligge. È questa l’essenza del concetto
di professione e delle pretese a esso collegate e, quando tali pretese sono riconosciute come
legittime, è nata una professione nel senso pieno del termine: con tutte le conseguenze che
ne derivano. I professionisti esigono il diritto esclusivo di praticare le arti che affermano di
conoscere, e di dare il tipo di consiglio che deriva dal tipo specifico di conoscenza
ottenuta. È questa l’essenza della licenza, sia in termini legali che nel senso più ampio
della libertà d’azione concessa ai professionisti rispetto alla pratica della professione e al
relativo modo di vivere e pensare. Dal professionista ci si aspetta che pensi in modo
obiettivo rispetto al profano, inoltre, si può richiedere al professionista di pensare e agire in
modo obiettivo rispetto a situazioni che esso stesso troverebbe dolorose come se le stesse
vivendo (ivi, p.298). Il professionista chiede che gli venga data fiducia poiché il cliente
non è in grado di esprimere un giudizio attendibile rispetto al sevizio ricevuto, dunque, il
professionista pretende di essere creduto (ivi, p. 299). Le pretese di una professione
dipendono dal fatto che i suoi membri costituiscono un gruppo a parte, con una propria
etica ( ivi, p. 300). Sono questi i criteri che fanno di un lavoro, una professione, principi
che ora, con la legge regionale, si auspica diventino propri anche dei professionisti del
comparto funerario.
Il contenuto21 dei corsi si può suddividere in tre aree: la prima è dedicata alla conoscenza e
all’approfondimento delle nuove disposizioni di legge sulla funeraria; gli argomenti trattati
nella seconda area sono di natura prettamente tecnica; il tema indagato nell’ultima, è il
rapporto con il dolente e la gestione delle emozioni nell’elaborazione del lutto, le tre
diverse figure professionali devono imparare il modo corretto di approcciarsi al
dolente/cliente per aiutarlo nel difficile momento del distacco e favorire una migliore
elaborazione del lutto, è dedicato ampio spazio all’argomento nelle tre diverse tipologie di
corso e gran parte del modulo pratico due.
2.4.1 Divisione del lavoro e gerarchie
Il programma formativo dei corsi indetti dalla Regione, è strutturato in moduli che
prevedono un progressivo approfondimento dei temi trattati con il crescere della
complessità delle figure professionali coinvolte. Le figure sono divise in tre famiglie: il
21
Riporto, in appendice, allegato B, il documento con il contenuto dei corsi in modo dettagliato, reso pubblico
sul web subito dopo l’emanazione della legge.
79
direttore tecnico o addetto alla trattazione degli affari, gli operatori funebri o necrofori22, il
responsabile per il trasporto funebre. Ogni figura professionale veste un ruolo ben preciso
nell’organizzazione di un’impresa di onoranze funebri. Che cos’è la descrizione di un
lavoro se non la dichiarazione di che cosa un lavoratore, invece di un altro, fa o deve fare?
(Hughes 1984, p. 245); la divisione del lavoro consiste nel fatto che i diversi compiti sono
parti di un tutto al cui risultato tutti, a vari livelli, contribuiscono (ibidem). Vediamo quali
sono le mansioni di ciascun professionista cominciando dal titolare dell’azienda: il
direttore tecnico.
Il direttore tecnico, io sono direttore tecnico, sono, va be, il base per poter operare, la Regione
vuole che si abbia un attestato per essere anche necroforo, e io ho anche quello, poi quello da
autista e quello da direttore tecnico, che è quello dei tre il più tecnico, nel senso che ti permette
di fare il commerciale, la contrattazione degli affari, non tutti ce l’hanno, chi fa il necroforo,
chi porta solo, tra virgolette, le casse, non è indispensabile che sia direttore tecnico, lo devi
essere per andare a fare la documentazione degli uffici, per andare nei comuni, per parlare con
le famiglie (Francesco).
L’intervistato ha frequentato tutti e tre i corsi, è direttore tecnico/addetto alla trattazione
degli affari, operatore necroforo e autista necroforo. Se si segue il corso da direttore
tecnico/addetto alla trattazione degli affari, si devono obbligatoriamente seguire gli altri
due corsi, l’operatore necroforo frequenta solo il corso inerente alla propria figura
professionale, l’addetto al trasporto deve frequentare il proprio corso e quello da operatore
necroforo. Il direttore tecnico, spiega Francesco, sbriga le pratiche burocratiche, va nei
comuni, parla con le famiglie.
Ci sono altre due figure, l’addetto alla trattazione degli affari che è colui che, pertanto, può
stipulare i contratti con la famiglia e vi è la figura del direttore tecnico, il direttore tecnico è il
direttore dell’azienda, colui che ha il rapporto con le amministrazioni comunali […] Il direttore
tecnico, sai son tutti, sono nuove figure, è da pochi anni che è stato inserito questo nuovo
regolamento di polizia mortuaria…alla fine…ehm…il direttore tecnico o l’addetto alla
trattazione degli affari hanno la stessa esperienza, cambia solo il ruolo identificativo. Molte
persone…ad esempio io non sono solo direttore tecnico ma anche addetto alla trattazione degli
affari e sono anche operatore necroforo, sono tutte e tre, avendo dei corsi […] Nel corso per
l’addetto alla trattazione degli affari vieni istruito su come organizzare il servizio funebre, ti
spiegano ciò che è un servizio, ciò che può essere richiesto in un servizio funebre. Oltre alle
cose basilari, quali naturalmente l’auto funebre, la bara, ci sono molti altri aspetti, dal discorso
floreale agli addobbi, ai paramenti (Alessandro).
Alessandro spiega accuratamente il ruolo e la funzione dell’addetto alla trattazione degli
affari e del direttore tecnico: entrambe le figure eseguono le stesse mansioni, cambia solo il
22
Il necroforo (dal greco nekro “morto” + phoro(s) “portatore”).
80
ruolo identificativo. Al corso insegnano, per lo più, a organizzare il servizio funebre, ciò
che può essere richiesto in un servizio funebre, dall’auto, al tipo di bara, agli addobbi
floreali. Sono figure nate con la nuova legge sulla funeraria, specifica l’intervistato,
ciascuna figura professionale ha un’identità definita.
Ci sono tre corsi da fare. Uno dei quali dobbiamo fare noi come titolari quindi quello da
direttore tecnico. Una volta invece ci si inventava, lo facevi, adesso invece ci sono dei corsi
indetti dalla Regione, devi aver frequentato questi corsi altrimenti non puoi fare questo lavoro
(Daniele).
Ci si inventava, dice Daniele, prima della legge non c’era nessun corso da seguire, e le
figure professionali non avevano un nome specifico, l’impresario funebre improvvisava il
proprio lavoro e probabilmente, essendoci una distinzione meno netta dei ruoli, funebri, le
mansioni degli operatori funebri erano interscambiabili.
Il direttore tecnico o addetto alla trattazione degli affari ha il primo contatto con i dolenti,
deve accoglierli nell’ufficio e capire le esigenze di ognuno.
 Dati anagrafici del dolente e del defunto
 Tipo di rituale da celebrare
 Tipo di sepoltura
Da queste tre domande basilari partiamo con le varie aggiunte […] Passiamo un attimo a
visionare insieme alla famiglia le forniture, le tipologie di bara, tipologie di fiori, i paramenti a
casa [...] E quindi… niente, si valuta bene la tipologia di servizio, si stila il preventivo e questo
è il primo passo. Dopo di che la famiglia, naturalmente, è libera di accomiatarsi, andare a far
visita al proprio caro o tornare a casa e noi partiamo con il disbrigo delle attività burocratiche.
Ci rechiamo presso, o contattiamo il luogo del decesso per capire se la documentazione è
disponibile, in alcuni casi dobbiamo recarci di persona a ritirarla, in altri casi invece è il
nosocomio che trasmette tutti i certificati al comune, dove noi ci rechiamo, al comune, allo
stato civile per la denuncia di morte con i dati anagrafici che abbiamo chiesto subito alla
famiglia. Denuncia di morte, richiesta di seppellimento, ci si reca poi nell’ufficio funerali per la
richiesta di un funerale, ottenimento dell’orario del funerale, e poi niente si chiede il tipo di
sepoltura che la famiglia ci ha richiesto (Alessandro).
Alessandro spiega, scrupolosamente, i passaggi necessari per avviare la macchina
organizzativa che condurrà alla cerimonia finale: le prime tre domande sono fondamentali
per l’espletamento delle pratiche burocratiche conseguenti il decesso, ma la burocrazia è
solo uno tra i servizi offerti dalle onoranze funebri. Il secondo passo (e ulteriore servizio
offerto), consiste nel pianificare il rito funebre, il dolente espone le sue idee in merito allo
svolgimento delle esequie e il titolare consiglierà la soluzione più adeguata, mostrerà le
diverse tipologie di bare, le composizioni floreali, gli addobbi funerari e così via. Dopo
81
aver pianificato la cerimonia e aver stabilito di quali servizi usufruirà il dolente,
l’impresario funebre presenta il preventivo, in seguito si reca al comune per il disbrigo
della burocrazia: dopo aver denunciato la morte, prenota il funerale presso l’ufficio
funerali, e comunica il tipo di sepoltura richiesto dal dolente. Alessandro racconta il lato
più tecnico del lavoro, Daniele, invece, espone un aspetto diverso, interessante, ossia
l’atteggiamento del dolente durante il colloquio con il titolare.
Mi addentro nelle domande […] Sono tante le domande che in quel momento, però son tutte
cose che domando io perché le persone in quel momento non sanno, non ci pensano, devo
essere io a capire il loro desiderio, cosa vorrebbero fare, cosa non vorrebbero fare, sono io che
pongo domande a loro. Dopo di che, in base a quello che loro mi dicono, propongo questo o
propongo quello (Daniele).
Si fanno tante domande, chiarisce Daniele, perché loro non ci pensano, devo essere io a
capire il loro desiderio, le persone, che hanno appena perso qualcuno, vivono in uno stato
confusionale, è una circostanza orribile cui non si pensa mai e quando ci si ritrova ad
affrontarla si arriva impreparati, non si sa dove cominciare e ci si aggrappa al sapere dei
professionisti. L’evento morte è delirante, è una grave crisi della vita affettiva, provoca
angoscia e senso di smarrimento, non si ha la forza e la voglia di organizzare, in poco
tempo, il funerale, per questo ci si affida a degli esperti, per far sì che qualcuno esegua, al
posto tuo, le fasi del post mortem, dalle operazioni più seccanti come quelle burocratiche a
quelle più problematiche come la gestione del corpo (pulizia e vestizione).
Contemporaneamente alle operazioni compiute dal titolare, eseguono il proprio lavoro
nell’impresa funebre, gli operatori necrofori e gli autisti necrofori.
Il necroforo è colui che ha il contatto diretto con la salma e che la movimenta. Questo è il
necroforo o operatore funebre. Il corso da autista necroforo, oltre a conoscere i regolamenti,
perché comunque divieni responsabile…come autista necroforo divieni responsabile del
feretro. Una volta che il feretro viene chiuso e caricato sull’auto funebre, tu autista divieni
l’unico responsabile fino alla destinazione finale che è il cimitero. Pertanto devi conoscere i
vari regolamenti ma regolamenti basilari […] Come dev’essere l’auto funebre, come chiudere
il feretro. Il feretro può essere allestito e confezionato in diverse maniere a seconda della
destinazione finale e del tumulo finale […] e poi la movimentazione della salma, come
prenderla per poterla adagiare all’interno della bara (Alessandro).
L’operatore necroforo è un esecutore tecnico, esegue il lavoro manuale, movimenta la
salma per sistemarla nella bara e, insieme ad altri tre necrofori, la portano, di solito, in
spalla nel luogo della cerimonia. Ai corsi imparano i regolamenti base per operare,
istruzioni tecniche su come eseguire il lavoro, come confezionare il feretro, ossia la
82
modalità di chiusura della bara, che è diversa in base alla destinazione finale (tumulo o
inumazione). Alcuni operatori compiono la vestizione del defunto, ma non tutte le aziende
assumono personale necroforo in grado di sistemare una salma, alcuni si affidano ad altri
professionisti, di solito agli infermieri.
L’autista necroforo, invece, guida il carro funebre e si occupa del trasporto che è il
momento in cui, dopo aver chiuso la bara in modo definitivo, la salma viene trasportata dal
luogo dove è avvenuto il decesso o da dove è stata trasferita, al luogo in cui verranno
celebrati i funerali e/o dove viene eseguita la sepoltura. È il responsabile del feretro fino al
cimitero.
Impresari funebri, operatori necrofori e autisti necrofori gestiscono il lavoro in un’impresa
funebre, ma come sono i rapporti tra loro? Esiste una gerarchia? C’è “chi comanda” e chi
“esegue” o ognuno è responsabile e coordina le proprie mansioni? Stefano spiega come
sono i rapporti tra i diversi membri del personale mettendo in luce la presenza di una
gerarchia informale.
In famiglia siamo in tre, madre, padre e figlio, invece abbiamo diciotto persone che lavorano
con noi, che sono i ragazzi che lavorano, come proprio, che portano le bare e questi lavori qui,
i classici necrofori, e poi abbiamo tre carri lunghi e un carro corto. Diciamo che è una piccola
attività che però dà da vivere e comunque gestisce una cosa di non più tanti dipendenti quanto
una famiglia grande, noi la viviamo cosi […] La gerarchia funziona, titolare, comunque siamo
in famiglia, siamo in tre che bene o male gestiamo la cosa, chi più chi meno perché poi dipende
dal momento. Quindi c’è chi comanda tra virgolette, le persone che ci sono sotto che sono
quelle che lavorano come proprio portantini, autista, questi lavori qua e sono a pari grado,
tranne qualcuno che magari ha più esperienza e quindi può prendere decisioni in autonomia,
sennò ci si telefona, ci si organizza. Quindi c’è, diciamo, qualcuno che sta al di sopra
dell’organizzazione che prende contatti con la famiglia e poi bene o male tutti gli altri sono
simili, ma non è che noi siamo superiori e gli altri sono inferiori, non è che c’è una piramide,
siamo bene o male tutti dello stesso grado. Soltanto che da un punto di vista del cliente, uno
deve parlare, prendere contatto con il cliente, e poi gli altri sono quelli che eseguono il lavoro.
Non c’è una vera gerarchia come nelle grosse imprese in cui c’è il patron che comanda e gli
altri che sono gli schiavi, sempre mantenendo ovviamente le figure, più o meno è cosi che
funziona qua da noi. Poi grossi problemi non ne abbiamo mai avuti, con i dipendenti (Stefano).
Abbiamo diciotto persone che lavorano con noi, l’espressione asserita con molta
spontaneità “con noi” piuttosto che “per noi”, lascia intendere che nessuno prevarica
sull’altro, e questo concetto, Stefano lo ripete più volte. C’è chi comanda tra virgolette,
ossia lui, la mamma e il papà che sono i titolari: parlano con i dolenti, gestiscono e
coordinano il lavoro più manuale eseguito dai diciotto operatori funebri le persone che ci
sono sotto che sono quelle che lavorano, ossia gli autisti necrofori e gli operatori necrofori.
Estremizza il concetto utilizzando il verbo “comandare” per farmi capire che, di fatto,
83
esiste una scala gerarchica che ci dice chi sono i proprietari dell’impresa e i dipendenti da
loro assunti ma smentisce l’esistenza di una gerarchia vera e propria, il livello di autorità
esercitato nei confronti dei dipendenti è basso. Un clima caldo, sereno e di collaborazione,
come quello che si respira in una famiglia, rubando la metafora dell’intervistato, perché è
così che Stefano descrive il suo team: una famiglia grande.
L’ultimo arrivato, anche se può capitare che ne sa molto di più del primo che è dentro in questa
attività, può accettare, deve accettare i consigli da chi è dentro da più tempo e può dare i suoi,
ma non deve comandare sui dipendenti o comunque su quello che è di pari grado suo ma che è
arrivato prima (Stefano).
La gerarchia informale colloca al gradino più basso i neo assunti che devono sempre
chiedere consiglio ai titolari, prima di prendere delle decisioni, e dare ascolto ai dipendenti
“anziani” perché hanno esperienza, ne sanno di più e possono decidere in autonomia.
Ascoltare e dare consigli, supportarsi a vicenda e collaborare, è questo il clima ideale per
lavorare in serenità, secondo il giovane imprenditore.
2.4.2 Il primo contatto con le onoranze funebri
È notte fonda, una di quelle notti invernali buie e fredde, il vento ulula, qualche spruzzo di
neve ha imbiancato a tratti i tetti e le strade, gli alberi intirizziti levano verso il cielo i loro
tristi rami rinsecchiti, la città languisce mentre il guaito di un cane randagio si perde
lontano come implorante.
L’improvviso squillo del telefono mi fa sobbalzare. Alzo il ricevitore e meccanicamente,
ma svogliatamente dico: - Pronto.
All’altro capo una voce rotta dall’emozione mi chiede: - Onoranze funebri?
Rispondo: - Sì.
L’interlocutrice con molto garbo: - Mi dispiace disturbare ma avrei bisogno di lei.
Potrebbe venire a casa mia? C’è stato un decesso.
Annuisco e rispondo: - Vengo subito, mi dica dove.
-
In via dei tali, numero tot, primo piano.
-
Fra dieci minuti sono da lei. La rassicuro.
-
Grazie, mi dice, lei è molto gentile.
-
E’ mio dovere.
84
Chiudo il telefono. Mi vesto velocemente. Prendo il cappotto e sono giù nella strada
tristemente deserta. Un brivido e via.
Raggiungo l’abitazione indicatami. Guardo il palazzotto ottocentesco, imponente ma
piuttosto tetro. Sembra un gigante addormentato.
Una sola finestra è illuminata al primo piano. Busso, mi qualifico.
La stessa voce che mi parlava al telefono mi invita: - Venga è al primo piano. Vado su.
Una casa sontuosa. Mobili d’antiquariato, specchiere, consolle e angoliere, piante. Gente
fine, di rango. Si presentano. Una signora giovane, molto bella, simpatica e colta e due
signore anziane, austere, come principesse venute da dipinti di pregio, la mamma e la zia.
Mi fanno accomodare in un salone di gusto raffinatissimo.
-
Il babbo è morto! - mi dice la più giovane, mentre le due signore anziane
continuavano ad asciugare le lacrime. - Ma non è qui è a (mi dice la città). Ci
hanno telefonato poco fa. Noi non ce l’aspettavamo. È successo improvvisamente.
Era ricoverato al Policlinico, ma ieri siamo state noi e l’abbiamo trovato bene, in
condizioni da non preoccuparci. Invece … Piange.
Io ascolto e annuisco. Pronuncio qualche frase di circostanza per darle tempo di
riprendersi.
-
Lei potrebbe occuparsi di tutto quanto? Mio marito è all’estero. Noi siamo tre
donne sole e non sapremmo cosa fare, da dove cominciare. Lei può interessarsi per
il funerale a … e poi per il trasporto fin qui? Le pratiche. Tutto. Noi abbiamo una
cappella di famiglia al cimitero. Dovremmo tumularlo là, mio padre.
Non mi dà tempo di rispondere e quindi annuisco ad ogni domanda. Poi finalmente posso
interloquire.
-
Signora stia calma e tranquilla. Mi interesserò di tutto (De Santis23 2001, p.47).
Il racconto continua ma quanto riportato è sufficiente a mettere in risalto l’influenza delle
imprese funebri legata alla gamma delle prestazioni di cui alleggerisce la famiglia: dal
23
Alfonso De Santis è un impresario funebre in pensione dal 1999. Per venticinque anni ha condotto la sua
attività a Foggia, è stato nel Comitato Direttivo Nazionale della Fe.N.I.O.F. (Federazione Nazionale delle
Imprese di Onoranze Funebri), ha scritto centinaia di articoli e lettere aperte per l’Informatore (organo di
informazione della Fe.N.I.O.F) e ha collaborato alla rivista settoriale “Oltre”. Tra i suoi libri, Il dito nella
piaga, nel quale denuncia i sistemi fraudolenti messi in atto dalle imprese funebri per l’acquisizione dei
“servizi”, attraverso la narrazione di avvenimenti fantasiosi pur se molto aderenti alla realtà. Da pensionato,
scrive in uno dei suoi articoli: “ammazzo il tempo, in attesa che lui ammazzi me, scrivendo…”.
85
colpo di telefono iniziale, si incaricano delle formalità amministrative, e poi prelevano il
corpo, di cui avranno gestione fino al cimitero (Vovelle 1986, p. 625).
Chiamate subito il nostro Call Center al numero ***, attivo 24h su 24h per
365 giorni l’anno: un responsabile vi raggiungerà nel più breve tempo
possibile e vi aiuterà a risolvere qualsiasi problema.
Chiedete a lui tutto ciò che desiderate, ma soprattutto abbiate fiducia in lui e
nella sua esperienza: lui è al vostro fianco per aiutarvi con discrezione a
compiere - in un momento di dolore e confusione - quelle che sono le scelte più
appropriate per voi e per la persona che è mancata.
È quanto riportato sul sito internet di una delle imprese funebri, oggetto d’analisi, alla voce
cosa fare in caso di decesso. Le imprese di pompe funebri hanno il compito di gestire
procedure e rituali della morte, sono disponibili a qualunque ora del giorno e della notte e
in qualsiasi momento dell’anno, perché la morte è inattesa e può sopraggiungere in ogni
istante. Di solito è il titolare a recarsi a casa della famiglia, dopo aver ricevuto la chiamata,
altre volte sono i dolenti a raggiungere la sede dell’azienda funebre scelta, in entrambi i
casi, il primo passo per sbarazzarsi del cadavere è affidarsi a professionisti dell’addio.
Esperienza e professionalità faciliteranno il dolente a muovere i primi passi per adempiere
ai loro doveri rituali (Durkheim 1915, p. 382); anche in occasione della morte, uno dei
momenti peggiori dell’esistenza umana, l’individuo è costretto a districarsi nei meandri
della burocrazia e a dover affrontare dolorose scelte che lo proietteranno brutalmente nella
“situazione del distacco”. Il compito degli impresari funebri è alleggerire la famiglia dalle
pratiche burocratiche e pianificare il funerale insieme a loro, incarico arduo, quest’ultimo,
poiché è difficile cogliere lo stato d’animo di persone che devono scontrarsi con
l’immagine del proprio caro costretto in un giaciglio o ridotto in polvere in un’urna
cineraria.
2.4.3 L’accoglienza e la funzione dell’ufficio
L’ufficio delle onoranze funebri ha la funzione di accogliere i dolenti, è il luogo dedicato
alla vita di relazione, qui, si privilegia il rapporto umano con i clienti, l’incontro, la
comunicazione, la conoscenza. «Il dolente suona il campanello e si aspetta che subito
qualcuno gli apra. La porta viene immediatamente aperta dall'interno e accede agli uffici.
Cosa si aspetta ora? Bisognerebbe che alla porta ci fosse qualcuno ad accoglierlo, oppure
86
che a poca distanza dall'ingresso venisse ubicato un desk sempre presidiato da un
impiegato». È quanto scrive Francesco Campione24in un articolo della rivista settoriale,
Oltre magazine, lo psicologo sostiene che deve esserci sintonia tra il tipo di dolente e
l'atmosfera dello studio: un buon ufficio è quell’ufficio che riesce ad accogliere il cliente in
modo rassicurante, non lasciandolo mai solo sin dal primo contatto. Campione individua
tre tipologie di ufficio: professionale, personale e umana. «I dolenti vengono per essere
aiutati ad organizzare un funerale. Ogni funerale ha aspetti professionali, personali e
umani. In altri termini, un funerale bisogna “saperlo fare oggettivamente”, “saperlo
personalizzare” e “saperlo umanizzare”». Il dolente entra negli uffici e dovrebbe
innanzitutto "sentire" l'atmosfera. Ogni atmosfera è sempre una composizione complessa
di aspetti tecnici, personali e umani. Un ufficio con un'atmosfera professionale deve
comunicare ai dolenti che la cosa più importante è fare bene quello che si deve fare, non si
dà importanza alle persone con le proprie storie o gli esseri umani con i propri desideri.
Un'atmosfera di questo genere si può determinare progettando un ambiente funzionale ma
freddo, con mobili da ufficio belli ma che non alludono a un ambiente familiare.
Progetteranno uffici con atmosfera professionale gli operatori funerari la cui
preoccupazione fondamentale è dare un'immagine rassicurante sulla qualità dei servizi. Se
si vuole determinare un'atmosfera personale si comunica ai dolenti che li si vuole far
sentire “a casa propria”, in un posto dove si organizzerà il funerale come ciascuno
preferisce. Un'atmosfera di questo genere si può determinare progettando gli uffici come
una casa. Il dolente entra in un ufficio con prevalente atmosfera personale e sarà contento
se vuole essere trattato come una persona in lutto unica e distinta da tutte le altre e se
concepisce il funerale non come qualcosa di standard, ma come qualcosa di personalizzato.
Se si vuole creare un’atmosfera umana bisogna saper comunicare ai dolenti che sono in un
ambiente in cui vi è tutto ciò che serve per organizzare il funerale che si desidera.
Un'atmosfera di questo tipo si può determinare progettando gli uffici in modo plurale, con
ambienti freddi e funzionali per certi aspetti e con ambienti familiari. Il dolente entra in un
ufficio con atmosfera umana e sarà contento se, non sapendo come organizzare il funerale,
è aiutato umanamente da qualcuno che lo sa fare. La soluzione del problema, secondo
Campione, si trova negli uffici con prevalente atmosfera umana, in quanto comprendono in
sé anche le caratteristiche delle altre due atmosfere.
24
Primo psicologo italiano che si è dedicato agli studi sulla morte.
87
«Un funerale solo “professionale” può essere spersonalizzato e disumano. Un funerale solo
“personale” può essere non professionale. Un funerale “umano”
può essere
contemporaneamente anche professionale e personalizzato».
2.4.4 Le qualità teatrali del necroforo
Uno schianto nella tarda serata, sulla tangenziale, stroncò due giovani vite, un
ragazzo ed una ragazza, più o meno fidanzati.
Fui investito dell’incarico delle esequie della ragazza, figlia di un mio amico.
Una cosa straziante!
Oltre alla Chiesa, era gremito il sagrato, con la folla di morbosi curiosi che vi
si accalcava; taluni piangevano.
Al termine della funzione religiosa, i necrofori che portavano a spalla i feretri
per deporli nei carri funebri, si facevano largo a fatica.
Qualcuno nella folla gridò: bravi! E un lungo, scrosciante applauso
accompagnò il mesto corteo.
Mi chiesi: bravi per che cosa? (De Santis 2001, pp. 199-200)
Potrebbe essere uno di quei fatti di cronaca urlato dai telegiornali, ma che ascoltiamo
distrattamente perché, oramai, assuefatti da notizie di questo genere. Invece è una storia
inventata e narrata in un libro che racconta uno dei momenti più commoventi in un
funerale, momento in cui si mette in scena una rappresentazione che ha come attori
principali gli operatori necrofori impegnati in un’azione altamente simbolica. La morte è
paradossalmente una delle più grandi commedie della vita: quattro uomini della stessa
altezza, aspetto ben curato, vestiti scuri ed eleganti, hanno il compito di portare sulla spalla
la bara verso il carro funebre. E se per caso uno degli operatori inciampa e cade?
Scardinerebbe l’equilibrio degli altri tre creando una situazione imbarazzante che potrebbe
scandalizzare i familiari addolorati e il resto del pubblico. Una sola nota stonata può
distruggere l’armonia di tutta una rappresentazione, un gesto involontario creerebbe una
notevole e spiacevole discrepanza tra la realtà e la sua proiezione ufficiale, perché
quest’ultima dovrebbe essere l’unica possibile nella circostanza specifica (Goffman 1959,
p. 64). E poiché l’impresa funebre è rappresentata dai propri operatori, la proiezione
ufficiale che si vuole trasmettere prevede una serie di requisiti che i necrofori devono
88
possedere; l’imprenditrice funebre Luciana, elenca eleganza, serietà, professionalità,
sobrietà, giusta lunghezza dei capelli e grande attenzione per il cliente. Aspetto curato e
buone maniere sono considerati un segno di rispetto; Stefano ripropone l’influenza
dell’aspetto estetico degli operatori funebri che si riflette, poi, sulla rappresentazione più
generale dell’impresa funebre.
Ma innanzitutto come ti devi presentare a livello d’immagine. Devi essere innanzitutto non
tatuato che si veda, o almeno, se sei tatuato e la camicia è coperta, la manica copre tutto, ok
non ci sono problemi, però senza aver tatuaggi in faccia, sulle mani, così già, onestamente non
è razzismo questo ma non posso presentarti avanti ad un cliente (Stefano).
I necrofori hanno divise elegantissime e impeccabili, non più nere, come anni fa, ma
grigie: proprio come i carri funebri che hanno abbandonato l’austerità per linee e colori
“seri” diventando “più sportivi”. Indossano vestiti eleganti, uguali all’interno di ogni ditta
per manifestare l’appartenenza all’organizzazione e per essere riconoscibili e affidabili,
perché per istinto le persone si rivolgono a chi ha l’aspetto più curato. L’aspetto dei
necrofori è curato nei dettagli, nessun tatuaggio, niente orecchini ma capelli corti, mani
pulitissime e unghie curate. Tutto ciò che è alla moda è sinonimo di poco professionale
(Dagradi 2005, p. 56). Il comportamento degli operatori deve rassicurare i clienti, estrema
cortesia e disponibilità, i ragazzi che portano la bara, spiega Stefano, devono essere
preparati a qualsiasi richiesta dei dolenti.
E poi la cosa che riteniamo più opportuna è quella di come ci si atteggia nei confronti di un
dolente, cioè quando un cliente ti viene a chiedere qualcosa, noi siamo sempre a suo servizio,
però c’è del personale di quattro persone che portano la bara, se qualcuno ti viene a chiedere
qualcosa, anche se fosse la cosa più insensata di questo mondo, la prima cosa devi essere
educato e, secondariamente, al massimo, se non sai chiedi e poi rispondi (Stefano).
I necrofori devono agire in modo da dare l’impressione di essere coinvolti e interessati
all’interazione (Goffman 1959, p. 64), anche se la domanda, posta dal dolente, non ha
alcun senso, dice Stefano, l’operatore deve sempre essere educato e risolvere il problema,
evitando di creare circostanze inopportune. L’attività del necroforo deve avere un
significato per il dolente, l’operatore è tenuto a rispondere a una domanda stupida perché
deve esprimere, durante l’interazione, il senso del proprio lavoro che è quello di aiutare il
parente in qualsiasi modo (ivi, p.42), mettendo in scena una rappresentazione che sia ben
attenta a non profanare la sacralità del dolente (ivi, p. 65).
89
2.4.5 Il valore dell’esperienza
Formalmente si diventa operatore funebre mediante un momento di formazione in aula,
che può durare dalle dodici alle quarantaquattro ore e durante il quale si apprendono le
pratiche necessarie richieste dal ruolo professionale. Ai partecipanti al corso è rilasciata
una licenza e da questo momento possono esercitare la professione. All’entrata in vigore
della legge regionale tutti gli operatori funebri sono stati chiamati a frequentare i corsi, per
tutti si intende anche quanti operano nel settore da molti anni, chi è entrato in questo
mondo da poco e chi, invece, sta per cominciare. Gli operatori che lavorano da molto
tempo si reputano già dei professionisti e non vedono la necessità di essere istruiti
ulteriormente sulla materia. Diverse, comunque, sono state le reazioni alla disposizione
istituzionale, alcuni attaccano ferocemente la natura di questi corsi mettendone in dubbio il
reale valore.
Se fare il corso vuol dire fare il corso come abbiamo fatto noi che facciamo presenza,
firmiamo, ce ne andiamo e non incameriamo niente… io non ho bisogno di incamerare, ho
dovuto farli per forza, mi sono seduto e ho ascoltato tutte le cazzate, scusa l’espressione, che
dicevano perché a fare i corsi c’erano persone che non hanno mai fatto questo lavoro, quindi,
per insegnare qualcuno a fare un mestiere bisogna che tu per primo lo sappia fare, presumo, o
sbaglio? No, c’erano tutte persone che non avevano nulla a che vedere con questo lavoro […]
Uno era un costruttore che ci ha detto le misure della cassa, poi chi c’era, un ragioniere per
quello che riguardava la parte amministrativa, uno psicologo per quanto riguardava la vendita e
l’attività di vendere, comprare, gestire ma nello specifico nessuno di questo lavoro. Per
insegnare questo lavoro bisogna averlo fatto […] Hanno fatto fare dei corsi a me che sono
quarant’anni che faccio questo lavoro, per poter andare avanti a lavorare? Dopo quarant’anni?
Chi alla Regione veniva e cercava di spiegarci cosa dovevamo fare, praticamente davamo già
noi le risposte, facevamo noi le domande. Poi però giustamente c’è anche chi non l’ha mai
fatto e a qualcosa servivano, però diciamo che per determinate persone si poteva anche evitare
questo corso. C’è gente che lo fa da trenta, quarant’anni, è un po’ come quando si costruiscono
palazzi, il carpentiere ne sa più dell’architetto […] Si vive di bagaglio nostro, di esperienza
nostra (Daniele).
Infuriato e amareggiato, Daniele inveisce contro i corsi, inutili e poco efficaci, a suo
parere. Ferito nell’orgoglio, non accetta l’idea di qualcuno che gli insegni un lavoro che fa
da quarant’anni. E’ l’esperienza che fa da padrone in questo mestiere, racconta
l’impresario, e avere docenti che insegnano a operatori funebri senza aver mai avuto a che
fare con il settore, non ha senso. Un costruttore che espone le misure di una bara, un
ragioniere che impartisce lezioni sulla gestione amministrativa e uno psicologo che illustra
come vendere prodotti a chi ha appena subìto un lutto, ma nessuno di questi che abbia mai
messo piede in un’attività funebre. Imparare a diventare professionisti da nonprofessionisti è l’aspetto più comico della situazione, afferma Daniele, e lo dimostra
90
raccontando l’aneddoto dei docenti messi in difficoltà dalle domande degli operatori
funebri, molto più competenti, presenti in aula. Questi corsi, prosegue l’intervistato, sono
utili ai novelli senza esperienza, a quanti devono intraprendere questa professione perché
danno un’infarinatura, ma gli insegnanti dovrebbero essere gli stessi operatori funebri che
hanno una conoscenza approfondita del settore.
Facciamo i corsi, siamo stati obbligati per la normativa, quella regionale, a fare tutti i corsi e
anche noi che siamo da anni nel settore, io è da quando ho diciotto anni che lavoro con mio
padre, abbiamo dovuto fare il corso di…c’è il direttore di settore, c’è quello di direttore
tecnico, poi c’è l’addetto al trasporto, l’addetto alle vestizioni (Stefano).
Stefano fa confusione sul nome dei corsi e ne aggiunge uno inesistente, potrebbe essere
indicatore della scarsa efficacia dei corsi anche per questo professionista. Non ne ricorda i
nomi perché probabilmente non ha dato molto peso all’attività di formazione ritenendosi
un professionista già formato grazie all’esperienza acquisita in anni di attività.
Tutti indistintamente, a rotazione, abbiamo dovuto fare i corsi, senz’altro. Poi va be,
all’italiana, nel senso che, tanti ce li hanno dati così, d’ufficio. Ma va bè perché c’era poco da
fare i corsi, io quando ho fatto i corsi lavoravo già da quindici anni. Non c’era bisogno di
formare certo noi, però comunque vanno formati sicuramente, da allora, quelli che sono entrati
a far parte del settore, sono stati formati adeguatamente almeno per quell’a, b, c perché lì si
tratta veramente dell’a, b, c, non sono poi così tecnici. Però, comunque, un minimo lo devi
sapere, altrimenti davvero allo sbaraglio e chi lavorava da anni nel settore, forse se l’è
guadagnato sul campo l’attestato, mettiamola giù così, un minimo di frequenza, ma davvero un
minimo di frequenza, il minimo sindacale, dopodiché, l’attestato te l’han dato, per forza
(Francesco).
Approvata la normativa regionale sul comparto funerario, tutti gli operatori del settore, a
rotazione, devono tornare tra i “banchi di scuola” per essere istruiti sulla propria
professione. Francesco sostiene che non c’era bisogno di formare, chi come lui, è
professionista da anni, ma ritiene necessario impartire le nozioni base a chi deve entrare a
far parte del settore, più che altro, per non cominciare del tutto impreparati. Dal punto di
vista giuridico si richiede la partecipazione ai corsi con successiva licenza per diventare
professionista e poter esercitare la professione. Parte degli operatori delle onoranze funebri
se l’è guadagnato sul campo l’attestato, maturando l’esperienza necessaria per eseguire il
lavoro con professionalità, quindi non ha seguito i corsi ricevendo comunque la licenza
“all’italiana”, come ci racconta Francesco; pertanto, legalmente sono professionisti perché
hanno ottenuto la licenza, ma, di fatto, non dovrebbero esserlo perché erano fisicamente
assenti in aula.
91
Ne penso male. È un business, non hanno aggiunto nulla, questi corsi danno un’infarinatura e
sono buoni da un lato perché aiutano da un punto di vista psicologico ma non pratico. Non
insegnano nulla. Però hanno instaurato l’appartenenza al settore perché gli impresari funebri
non hanno un albo professionale, almeno adesso non sono come cani sciolti (Luciana).
L’imprenditrice funebre Luciana pensa che il sistema dei corsi sia una messinscena per
coprire un meschino gioco d’affari; da quando gli operatori del settore si formano tramite
questi corsi, non è cambiato nulla, il modo di svolgere la professione è lo stesso rispetto al
tempo in cui non c’erano lezioni per imparare e il lavoro si “inventava”. D’altra parte
riconosce loro il merito di aver instaurato l’appartenenza al settore, ossia, hanno
disciplinato un comparto finora dominato dal caos, affidando un codice deontologico25
alla professione. I professionisti dell’addio devono seguire un percorso ben preciso prima
di operare, dunque la funzione dei corsi è dare una competenza alla professione, definirne
limiti, confini e regole. Gli impresari funebri che ho intervistato dichiarano che, corsi o non
corsi, si diventa professionista quando si acquisisce esperienza, cioè lavorando e facendo
pratica per molti anni. Se l’esperienza è la condizione necessaria per potersi definire
professionista, cade la legittimità dei corsi per quanti l’hanno già maturata. Il discorso
cambia per chi si appresta a intraprendere la carriera funeraria. Gli intervistati sostengono
che le nozioni generali impartite nei corsi, sono utili per non mandare i principianti allo
sbaraglio quando cominceranno a lavorare. Ottenere la qualifica non è sufficiente per
considerare i principianti professionisti del settore, il momento in cui si diventa operatori
funebri a tutti gli effetti non sempre coincide con la partecipazione ai corsi. È la pratica,
l’esperienza in azione, che fa di un dilettante un professionista, il momento in cui “si
diventa” è diverso per ogni soggetto e non è la legge a poterlo stabilire. L’ordinamento
giuridico non intende tanto stabilire quando si diventa realmente professionista, più che
altro, seguendo la logica foucaultiana, si serve dei corsi, che sono espressione e risultato di
una specifica strategia del potere e di una correlata produttività discorsiva per fondare una
vera e propria categoria professionale.
25
La deontologia professionale consiste nell'insieme delle regole comportamentali, il cosiddetto “codice
etico”, che si riferisce a una determinata categoria professionale. Talune attività o professioni, a causa delle
loro peculiari caratteristiche sociali, devono rispettare un determinato codice comportamentale, il cui scopo è
impedire di ledere la dignità o la salute di chi sia oggetto del loro operato.
92
2.5 Agenzia funebre e Impresa funebre: un dibattito acceso
Per aprire un’attività funebre bisogna richiedere al comune una licenza, pertanto bisogna avere
come minimo un ufficio o di proprietà o anche in locazione. Presenti la richiesta al comune in
marca da bollo e a distanza di trenta giorni puoi aprire tranquillamente la tua attività e puoi
esercitare. Con la legge del silenzio assenso dopo trenta giorni puoi aprire il tuo ufficio e
lavorare (Alessandro).
Alessandro racconta qual è la procedura per aprire un ufficio di pompe funebri elencando
tre condizioni necessarie: un responsabile della conduzione dell’attività di pompe funebri,
una licenza da richiedere al comune in cui ha sede commerciale principale l’impresa e una
sede nel quale espletare il servizio, dopo trenta giorni dalla domanda in comune, con la
legge del silenzio assenso, è possibile esercitare la professione.
Se tu sei proprietario di autorimesse e di auto funebri, presenterai la richiesta e ti farai rilasciare
una licenza di attività funebre, come impresa funebre. Se invece decidi di avere un contratto di
fornitura con una società di servizi richiederai semplicemente una licenza di agenzia funebre
(Alessandro).
Introduce, poi, un’importante distinzione, facendo notare la presenza di due tipologie di
onoranze funebri: l’agenzia e l’impresa. Per legge, le imprese che esercitano l’attività di
pompe funebri devono avere almeno un carro funebre e un’autorimessa attrezzata, almeno
una sede, personale necroforo, regolarmente assunto con minimo di tre addetti, e un
responsabile. L’agenzia segue la stessa procedura dell’impresa per aprire l’attività, ossia si
avvale di un responsabile, di una sede e richiede la licenza in comune, con la differenza
che non investe in personale e automezzi propri, ma si avvale di contratti di fornitura
appoggiandosi a imprese funebri o società di servizio.
Un dettaglio che fa la differenza.
Il dibattito sulla qualità del servizio offerto dalla piccola realtà, che non assume personale
ma lo “preleva” da terzi, piuttosto che dalla grande impresa, che invece ha personale
proprio, è acceso. Daniele è proprietario di un’agenzia funebre, è diventato professionista
nel settore funebre per necessità; dopo lunghi anni da dipendente, ha rilevato uno dei tanti
uffici di proprietà dell’azienda in cui lavorava e ha aperto un ufficio suo.
Per caso, dovevo lavorare, avevo i figli, qualcosa dovevo pur fare. Questa persona mi ha detto
se vuoi puoi provare e io ho detto va bene e da lì ho fatto otto anni in un’impresa, poi tredici in
un’altra e poi attività in proprio (Daniele).
93
L’intervistato è il membro più anziano e con più esperienza, gestisce l’organizzazione dei
funerali, e il lavoro in generale, in tutti i passaggi, avvalendosi dell’aiuto del figlio, della
moglie e dei dipendenti che, essendo un’agenzia, prende in prestito dalle imprese più
grandi.
Siamo in quattro. Io, mia moglie, mio figlio e un fattorino. Poi ci si avvale di un centro servizi
(Daniele).
Il titolare dell’agenzia, oggetto d’analisi, spiega la natura delle piccole realtà
imprenditoriali chiarendone due aspetti:
C’è chi ha fatto una catena di montaggio di questo lavoro, non ci si immedesima più nella
famiglia, nel problema, nel dolore delle persone. Purtroppo…noi forse non siamo diventati
grandi proprio per questo motivo (Daniele).
Il primo aspetto è di ordine organizzativo e morale. Daniele ritiene che il servizio offerto
dalla piccola realtà sia migliore perché consente di gestire pochi clienti/dolenti e di seguirli
accuratamente, in ogni momento della preparazione del funerale. Secondo l’intervistato,
l’impresario funebre deve essere in grado di ascoltare, interpretare e soddisfare le esigenze
del dolente che, in un momento di debolezza psicologica e profondo dolore, ha bisogno di
essere supportato con professionalità; il dovere di un professionista sta nel vigilare tutte le
fasi che conducono poi alla cerimonia finale, cosa che, secondo lui, non avviene nelle
imprese funebri di più grosse dimensioni. L’organizzazione nelle imprese è diversa, più
articolata, gestiscono molti più funerali rispetto un’agenzia, il titolare non può sempre
seguire tutta l’operazione che affida ai suoi fidati dipendenti. Non a caso, Daniele, utilizza
l’espressione “catena di montaggio” che rimanda ai ritmi industriali, ai movimenti ripetitivi
e meccanici che conducono alla spersonalizzazione, conseguenza naturale in un’impresa
funebre che ha decine di dipendenti: ogni membro del personale, stando alle parole
dell’intervistato, se non è supervisionato dal titolare che è “l’anima dell’impresa”, condurrà
la propria attività con disinteresse e senza empatia verso il dolente ma con il solo fine di
lucro.
E’ un lavoro strano questo, si sta anche dieci, quindici giorni senza fare niente, tu pensa avere
dipendenti da pagare senza lavorare […] Sono due ditte esterne che passano il personale,
personale e auto. Altrimenti si rischierebbe di avere del personale assunto e degli automezzi
che costano delle cifre pazzesche, fermi magari per quindici giorni […] Le aziende piccole non
hanno ragione di avere dipendenti e automezzi (Daniele).
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Il secondo aspetto è di natura economica. Il mercato della morte è strano, secondo Daniele,
perché la competizione nel settore è elevata e il numero di clienti si disperde per le diverse
aziende, dato l’altissimo numero di imprese funebri presenti sul territorio milanese e il
tasso di mortalità costante, ciò vuol dire che si può non avere nessuna richiesta di funerali
per giorni. La grande impresa, che riceve svariati incarichi mensili, ha tutto il vantaggio,
dal punto di visto economico, ad avere le proprie autovetture e il proprio personale, la
piccola agenzia, invece, non investe grossi capitali perché corre il rischio di non riuscire a
coprire le spese, basti pensare che il costo di un carro funebre è intorno a 130.000 euro. Le
piccole aziende non hanno ragione di avere personale e automezzi propri, dice Daniele, in
primis perché non ne hanno bisogno, poiché si occupano personalmente di seguire
l’organizzazione del lavoro in tutti gli step, in secondo luogo perché non possono
permetterselo. Torna la metafora dell’industria in un altro frammento di intervista,
proferita da Stefano, proprietario di un’impresa funebre.
Il problema è, comunque sia, anche avvalerti o direttamente di personale, oppure avvalerti di
piccole società che hanno personale e che ti vendono il servizio, che quindi è meno gestibile,
nel senso che, se tu hai il diretto contatto con il personale, bene o male puoi impostare un tipo
di servizio, se tu ti avvali da uno che ti vende il carro e il personale quando ti serve, diventa un
po’ una cosa più industriale, diciamo cosi, meno familiare, e diventa più difficile gestirla
(Stefano).
Non avere dipendenti propri, sostiene Stefano, rende l’ambiente lavorativo freddo e
impersonale, in senso figurato, più simile a una fabbrica, perché il titolare non conosce i
dipendenti e i dipendenti non si conoscono tra di loro, ognuno esegue il proprio dovere con
freddezza e a modo proprio, il responsabile dovrà essere particolarmente capace a
trasmettere agli operatori la propria concezione di lavoro ben eseguito e istruirli in breve
tempo. Alessandro, titolare di una grande impresa, capovolge il discorso portato avanti da
Daniele e riprende quanto detto da Stefano, facendo notare che, impiegare il personale di
un’ impresa esterna, nuoce all’organizzazione aziendale.
Si esegue il servizio in maniera diversa. Avere del personale proprio sul servizio funebre
consente anche magari di non essere presente alla celebrazione della messa, nel senso che hai
del personale alle tue dipendenze che esegue il servizio nelle dovute maniere. Quando magari
invece si deve chiamare una società di servizi, non sai mai quale personale ti viene mandato,
preferisci essere di persona sul servizio in maniera tale da poter seguire la famiglia in una certa
maniera (Alessandro).
Avere del personale proprio slega i titolari da molte responsabilità: eseguire il servizio
nelle dovute maniere, stando a quanto dice l’intervistato, vuol dire che i dipendenti
95
eseguono l’incarico con professionalità perché vengono istruiti su come deve essere svolto
il lavoro dai responsabili, in questo modo si rendono gli operatori autonomi e si conferisce
alla ditta un’etichetta e un modo ben preciso di operare. Ciò non accade se il personale
cambia per ogni servizio: non conoscendo il loro modo di lavorare e il grado di
professionalità, i titolari delle agenzie funebri sono costretti sia a sorvegliare la
preparazione del funerale che a presenziare alla stessa cerimonia.
E’ evidente che chi fa l’agenzia di pompe funebri che non investe, lei ha quell’ufficio lì, non
hanno altro che quell’ufficio lì, il carro funebre vanno a noleggio, la cassa da morto la vanno a
comprare al supermercato, mi spiego? Quelli non sono impresari di pompe funebri, sono dei
commercianti che vendono casse da morto. Dunque non è un’impresa di pompe funebri, c’è
scritto fuori pompe funebri e dicono che è un’impresa ma l’impresa di pompe funebri è quella
che fa l’impresa. Cosa vuol dire la parola impresa? Fare l’impresa significa avere
un’organizzazione, avere del personale (Armando).
È importante che i titolari delle imprese funebri investano nell’azienda assumendo
personale necroforo, sostiene Armando, magnate dell’industria funebre milanese. Investire
negli operatori funebri equivale a conferire all’azienda qualità, è doveroso organizzare
l’impresa potendo contare sui propri dipendenti; per ottenere i migliori risultati bisogna
contare sulla professionalità di ogni singolo membro e questi contribuiranno a creare una
cultura aziendale che conferirà la giusta immagine all’impresa, che non è quella di una
bottega in cui si vendono casse da morto: rappresentazione più vicina alle piccole realtà,
stando alle parole dell’intervistato. Le imprese funebri sono organizzazioni fatte dalle
persone che lavorano al suo interno, che con il loro comportamento contribuiscono al loro
corretto funzionamento, contribuiscono a plasmarle e a fare in modo che siano
contemporaneamente una struttura e un processo, aspetto statico e aspetto dinamico di una
medesima realtà (Bonazzi 2002, p.19). Da un lato le organizzazioni, in quanto strutture,
condizionano l’azione dei soggetti attraverso vincoli normativi, tecnici, economici e
culturali; d’altra parte i soggetti, interpretano e modificano quei vincoli attraverso un
processo che riproduce e modifica le organizzazioni (ivi, p. 20). Il risultato è che ogni
persona contribuisce in maggiore o minore misura, con maggiore o minore consapevolezza
a creare la cultura e il clima interno, a interpretare le normative, a stabilire i livelli di
efficienza, le aspettative e l’immagine che l’organizzazione ha nell’ambiente circostante
(ibidem): risultato che non può essere raggiunto se un’azienda non possiede il proprio
personale.
96
2.6 Giochi di potere: i protagonisti del cambiamento
Da quando lo Stato ha liberalizzato le licenze26, il mercato funebre ha subìto notevoli
cambiamenti; ciò ha portato a un’incontrollabile proliferazione di agenzie e di imprese
funebri scatenando diversi problemi.
Ma guarda è stato lo Stato, ha deciso di liberalizzare un po’ tutto […] Negli ultimi anni, non so,
metti da…io mi ricordo che quando ho iniziato a lavorare io, vent’anni fa, penso che fossimo
sessanta imprese, oggi giorno saremo in Milano centocinquanta, centosessanta […] Non è che
il lavoro aumenta, anzi, diminuisce, la mortalità è sempre quella, bene o male, l’Istat dice che è
sempre quella. Più imprese ci sono, più il lavoro viene suddiviso, sai magari la grossa impresa
che fa cento funerali al mese, si trova a farne ottanta, per un mese va avanti tranquillamente,
quello che magari ne faceva cinque si trova a farne uno ed è costretto magari a chiudere. Chi
magari ha aperto convinto magari di fare chissà che cosa, con un funerale al mese se deve
pagare un affitto, le utenze telefoniche e vivere, non ce la fa (Alessandro).
Vent’anni fa a Milano c’erano circa sessanta imprese, oggi il numero è raddoppiato, se non
triplicato, afferma Alessandro, però, precisa che il lavoro non è aumentato con l’aumentare
delle imprese, anzi, è avvenuto l’esatto contrario. La mortalità è costante e il lavoro è
suddiviso per ogni azienda presente sul territorio milanese, le grandi imprese non faticano
ad andare avanti perché da cento funerali che avevano, ora ne fanno ottanta, un numero
sempre elevato, a risentirne è la piccola realtà che, al diminuire del lavoro e le spese da
pagare, rischia di fallire.
Sicché da cinquanta imprese che c’erano a Milano, sono diventate duecento, in Lombardia
sono diventate millecinquecento, che cosa succede? È bene che ci sia la crescita di aziende ma
bisogna che ci sia anche la crescita del prodotto, i morti son sempre quelli, i morti non è come
vendere le calze, le scarpe, il ristorante che tutti i giorni…no, lei quando muore compra una
cassa da morto sola, la cassa da morto è una sola, unica, dunque non ci potrà essere crescita di
mercato perché adesso quando sente parlare in televisione di mercato sente… deve crescere,
ecc. ecc. Invece no, qui nel mercato non ce n’è di crescita, i morti sono sempre quelli […] Ciò
significa che il mercato si rimpiccolisce sempre, la fetta diventa sempre più piccola, la torta,
facevamo la torta, la mangiavamo in dieci, la dividevamo per dieci, adesso siamo in cento,
dividiamo la torta per cento, siamo duecento dividiamo la torta per duecento. Sotto un certo
26
Il decreto legislativo n. 114 del 31 marzo 1998 approvò la possibilità di libero accesso al commercio da
parte di chiunque senza più la necessaria autorizzazione da parte dell’ ente locale competente per territorio.
Risulta dalle intenzioni del legislatore, che il principio della libera concorrenza e della battaglia alle
situazioni monopolistiche debbano essere i cardini di una politica, anche economica, finalizzata al
miglioramento delle condizioni di mercato. E’ vero, tuttavia, che spesso non è accaduto quanto i sostenitori
del decreto auspicavano: troppo di frequente, infatti, la possibilità di avviare un’attività commerciale
indiscriminata e senza “contingentamento” ha prodotto distorsioni al mercato ben più marcate dei vantaggi
conseguibili. Il problema più saliente è costituito dalla concorrenza (o meglio guerra) estrema tra
commercianti. La corsa al ribasso, le perenni vendite promozionali, l’insostenibile competizione nei confronti
della grande distribuzione, la scarsa affidabilità e serietà di alcuni fornitori hanno portato il commercio ad
una grave situazione di stallo.
97
profilo questo è un mercato che è in una crisi continua che non può continuare con questo
sistema (Armando).
Il numero delle aziende, dunque, è cresciuto a dismisura negli ultimi anni e lo conferma
anche Armando, proprietario di una grossa impresa funebre. L’impresario sostiene che
normalmente la crescita delle aziende è un bene se c’è anche la crescita del prodotto, ma
non in questo caso, nelle aziende funebri il sistema funziona diversamente. All’aumento
delle imprese funebri non corrisponde un aumento del prodotto, spiega Armando, perché
non si sta parlando di un bene materiale, ma di defunti e il numero di morti è costante,
quindi non si può parlare di crescita del mercato, nel peculiare caso delle imprese di pompe
funebri. La conseguenza è un ridimensionamento del mercato, si divide il numero di
servizi per il numero delle imprese, in questo modo il mercato funebre è in una continua
crisi.
Si è cambiato. Da quando si è allargato il mercato è cambiato tutto nel senso che sono scesi i
guadagni, ovviamente si è diviso per più persone il lavoro e poi essendo più concorrenza, c’è
una concorrenza maggiore, sicuramente tutti cercano di offrire il miglior servizio a minor
prezzo e quindi lavori di più e guadagni di meno sotto questo punto di vista (Stefano).
Essendoci più concorrenza, quindi dividendo il numero dei servizi per un numero
maggiore di imprese, scendono anche i guadagni perché ogni azienda, per offrire il miglior
servizio al minor prezzo, diminuisce il costo, dunque si lavora di più e si guadagna di
meno, precisa Stefano.
Sono liberalizzazioni ma relative, l’unica cosa che hanno creato qual è? Che qui, dalla sera alla
mattina, anche l’ultimo delinquente va in comune, 14 euro di marca da bollo e chiedono la
licenza di pompe funebri […] Di più, siamo 110 o 120 imprese, prima eravamo 50, 55, i primi
anni. Prima la licenza di onoranze pompe funebri veniva rilasciata in base alla cittadinanza cioè
un paese di 20.000 persone, secondo le statistiche, aveva bisogno di tre imprese di pompe
funebri. Milano con 2.000.000 di abitanti aveva bisogno di 50 imprese di pompe funebri, però
va bene così, secondo me non hanno creato nessun…come si può dire, non hanno favorito il
cliente perché il cliente comunque va da chi conosce, hanno solo creato grande caos di gente
che sgomita, che vuole arrivare con quali mezzi non si sa (Daniele).
Chiunque può aprire un’impresa funebre, dice Daniele, diversamente dal passato dove,
invece, la licenza era rilasciata a un numero ristretto di attività, si guardava al numero di
abitanti e in base alla necessità si autorizzava l’apertura di una ditta funebre. A Milano
c’erano due milioni di abitanti e cinquanta imprese funebri erano sufficienti a coprire il
numero dei servizi da eseguire. Aggiunge l’impresario che questa liberalizzazione delle
licenze non ha agevolato il cliente, perché la gente preferisce rivolgersi all’impresa di
98
fiducia, non affida la persona cara a chiunque, ma ha contribuito a creare caos,
un’eccessiva concorrenza può essere sinonimo di scarsa qualità del servizio. In sintesi, la
mortalità è costante, le imprese a Milano sono raddoppiate nel giro di pochi anni e l’effetto
è stato una redistribuzione dei clienti per più aziende con conseguente diminuzione del
lavoro. Un immiserimento, dunque, che ha turbato tutti, dalle agenzie ai colossi
dell’industria funebre: un problema cui bisogna assolutamente rimediare. Le grandi
imprese cercano la soluzione nell’innovazione del settore, vogliono investire, ingrandirsi
ed evolversi, non lasciando spazio alle imprese più piccole.
È evidente che se ci sono quattro piccole imprese che lei ha visitato, si mettono assieme e
diventano una grande impresa, alla piccola impresa non le proibisce nessuno di migliorarsi, di
creare qualcosa […] Nel mondo economico, nel mondo dell’industria, nel mondo del
commercio, se uno non investe nell’azienda può vedere il futuro? Quelle che sono micro
aziende che, se vorranno continuare a fare quest’attività, dovranno adeguarsi alle leggi del
mercato […] Capito? Siamo al caos, questa è la realtà […] Non è un mercato che può crescere,
è un mercato che sta andando indietro […] Arriveremo ad essere molto pochi ma con degli
oneri molto più alti e con un sistema molto più evoluto (Armando).
Per creare un sistema funerario più evoluto bisogna eliminare le piccole imprese, oppure
far sì che creino consorzi, perché solo grandi realtà possono dar vita a un sistema
complesso e ben organizzato. È quanto dice Armando, l’impresario afferma con decisione
che questo è un mercato che non può crescere, ma può solo andare indietro.
Grandi e piccoli in guerra coinvolti in un gioco di potere che intreccia politica, leggi e
regole del mercato, inizia così il percorso che ha portato alla promulgazione della legge
regionale in Lombardia ma che sembra non avere ancora fine. Il potere appartiene ai
“grandi” perché hanno più mezzi per cambiare lo stato attuale a loro vantaggio.
Ma è davvero così?
Il potere, insegna Foucault, non è un fenomeno di dominazione massiccio e omogeneo di
un gruppo sugli altri, il potere non è qualcosa che si divide tra coloro che lo posseggono e
lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno e lo subiscono. Il potere deve
essere analizzato come qualcosa che circola, non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle
mani di alcuni ma si esercita attraverso un’organizzazione reticolare e nelle sue maglie gli
individui circolano, sono sempre in posizione di subire e di esercitare questo potere. Il
potere transita attraverso, non si applica agli individui (Foucault 1971, p.184).
Io mi sono interessato della legge nazionale, la legge nazionale era passata in parlamento e poi
è stata bocciata al senato setto, otto anni fa. Per quanto riguarda la legge regionale mi sono
99
attivato, ho collaborato con l’amministrazione regionale per la legge, è stata fatta la legge poi
un gruppo di queste piccole imprese hanno modificato la legge e hanno portato il caos perché
pensavano che la legge l’avessero fatta per me […] Hanno fatto una petizione, sono andati a
modificare la legge regionale e hanno creato il caos (Armando).
I “piccoli” si ribellano, esercitano il potere per modificare le leggi proposte da un insieme
di grandi imprese funebri, e lo stato delle cose cambia di nuovo. Il potere appartiene anche
alle fasce apparentemente più deboli, tocca il granello stesso degli individui, raggiunge il
loro corpo, si inserisce nei loro gesti, il loro apprendimento, i loro discorsi, i loro
atteggiamenti, la loro vita quotidiana. Il suo esercizio è nel corpo sociale non al di sopra
del corpo sociale (ivi, p. 121). Le grandi imprese funebri hanno agito tramite l’organo di
rappresentanza del comparto funerario, la Federcofit per intervenire sul Parlamento e sulle
Regioni e introdurre nuovi elementi nella legislazione sulla funeraria. L’ordinamento
giuridico è il luogo nel quale il potere viene regolato e legittimato, lo Stato, le leggi, le
egemonie sociali sono soltanto effetti e manifestazioni sul piano istituzionale di rapporti e
strategie di potere; ma per capire i meccanismi generali del potere e i suoi effetti bisogna
coglierlo nelle sue ultime terminazioni, nelle sue forme e istituzioni più regionali, più
locali, là dove diventa capillare, scavalcando le regole di diritto che lo organizzano e lo
delimitano, il potere si prolunga al di là di esse (ivi, p. 182). Il potere va studiato
nell’estremità sempre meno giuridica del suo esercizio, in quei processi continui e
ininterrotti che assoggettano i corpi, dirigono i gesti, cercare di sapere come si sono
progressivamente costituiti i soggetti, a partire dalla molteplicità dei corpi, delle forze,
delle energie, dei desideri, dei pensieri. Si tratta di studiare il potere là dove la sua
intenzione è investita all’interno di pratiche reali (ivi, p. 183).
2.7 Note dal campo: dentro a una piccola agenzia
Non credevo potesse esserci una concentrazione tanto elevata d’imprese funebri in una sola
strada in pieno centro città. Eppure c’è. La prossimità dell’ospedale e di una sala
dell’obitorio può essere una valida spiegazione. Una di fianco all’altra. Tre imprese, situate
all’interno di un palazzo e accanto a questo edificio una vetrata che esibisce la quarta
impresa funebre: un’ampia sala con due scrivanie, un accomodante divano in tinta con le
pareti color pesca e un uomo e una donna coinvolti in una conversazione. Poi la strana
vetrina della quinta impresa di pompe funebri. Perché strana? Una decina di immaginette
100
ricordo di giovani donne e di un ragazzino, messe lì, in bella esposizione, poi, oltre il vetro,
il nulla. Tutto oscuro. In un secondo momento leggo il cartello “Abbiamo trasferito
l’attività in via…”.
Le 16.30 in punto, l’ora dell’appuntamento, come concordato al telefono. Ad attendermi
c’è Daniele, seduto alla scrivania sulla sua poltrona nera in pelle. Lo vedo per la prima
volta, un uomo di mezza età, viso simpatico e sorridente, non l’avrei detto. Ho trovato la
sua agenzia sulle pagine bianche e l’ho contattato telefonicamente. Due volte. La prima
volta mi presento, gli chiedo se possiamo fare due chiacchiere di persona e mi rimprovera:
«Sono in servizio, sto seguendo un funerale, mi richiami più tardi». Mi guardo intorno,
arredamento banale e professionale allo stesso tempo. Nulla, però, lascia pensare di essere
in un’agenzia di pompe funebri. Ambiente funzionale ma freddo, penso all’impatto che
può avere su un dolente, sicuramente non trasmette sensazioni necessarie a supportarlo
emotivamente in un momento così delicato, né tanto meno dà l’idea dell’elevato livello
professionale proprio della categoria (Campione 2007).
Comincia l’intervista.
Daniele è il proprietario dell’agenzia funebre. Ha cominciato a lavorare con la morte circa
quarant’anni fa e nonostante decenni di esperienza ha non poche difficoltà a rispondere alla
mia prima domanda.
Parlami della tua professione.
È bloccato non sa da dove cominciare, cosa raccontare. Forse un po’ di imbarazzo, forse
non è mai stato intervistato e non sa come si fa. Non siamo soli, seduto al nostro tavolo c’è
suo figlio affaccendato al computer; la sua presenza non migliora la situazione, anzi, la
tensione aumenta quando, vedendo il papà in difficoltà, esclama: «Cos’è ti vergogni? Se
vuoi vado via». Fortunatamente dopo qualche minuto lascia la stanza e va a prendere un
caffè al bar con un collega. Pian piano i toni del colloquio diventano confidenziali. Lui
continua a darmi del lei, io preferisco dargli del tu per far si che si apra, che parli.
L’incontro dura circa un’ora, interrotto una decina volte dal cellulare che squilla: prova
degli innumerevoli impegni di un professionista.
2.7.1 L’imprenditore tutto fare
Non sono mai puntuale agli appuntamenti arrivo sempre in anticipo. Questa volta, però, il
mio non essere in orario si rivela utile. Non sapevo esattamente a quale fermata
101
dell’autobus scendere, quando scorgo una freccia su un’insegna che indica la strada per
arrivare all’impresa funebre di mio interesse. Imbocco un viottolo silenzioso della periferia
milanese, la freccia sul cartello pubblicitario della ditta ha guidato il mio poco pratico
senso dell’orientamento ed eccomi avanti al numero civico indicato nell’indirizzo. Una
seconda insegna, che poteva essere utile quanto la prima, mi è completamente sfuggita:
Attenti al cane suonare alla porta accanto. Vista troppo tardi, proprio nel momento in cui
un enorme cane da guardia abbaia e ringhia frenato dal cancello che ci separava, per
fortuna. Sono nel posto giusto e la voce gentile di una signora al citofono mi invita ad
attendere. Qualche istante e la porta si apre. Giovane, lunghi capelli biondi legati, faccia
vispa e occhialuta, con fare frettoloso Stefano si presenta scusandosi per l’abbigliamento,
una salopette sporca di gesso. Stefano non è un impresario come tutti gli altri, il suo lavoro
non si limita al disbrigo delle pratiche burocratiche per la classica organizzazione di un
funerale, ma è un imprenditore tuttofare. Si occupa della lavorazione del marmo27, accoglie
il defunto nella sala del commiato28e lo sistema per l’esposizione29. Arredamento rustico,
caldo, accogliente, sembra una casa. La stanza è affollata da oggetti, alcuni di questi
rimandano alla morte: quadri, cinerari30, piante, un paio di librerie, un acquario e la solita
scrivania che riceve i dolenti. Seduti a quella stessa scrivania, spiego il perché
dell’intervista e si comincia. Quarantacinque minuti di colloquio, soddisfatta del contenuto,
di ciò che mi è stato detto, meno dell’atteggiamento dell’intervistato: seduto, come se
dovesse scattare da un momento all’altro per andare chissà dove; ciò non ha contribuito a
rendere l’atmosfera tranquilla, mi sentivo come se dovessi affrettarmi a fare le domande
perché il nostro colloquio poteva essere interrotto all’improvviso, e cosi è stato. A un paio
di domande dalla fine squilla il telefono. Lavoro in arrivo, la nonna di un amico di Stefano
è deceduta e bisogna intervenire, Stefano mi guarda e mi dice: «E’ questo il problema, qui
non si sta mai tranquilli c’è sempre tanto da fare, posso dedicarti altri dieci minuti ma poi
devo andare». A un certo punto, parlando del cambiamento delle imprese funebri e dei
funerali rispetto al passato, mi fa notare uno dei quadri alle pareti rappresentante i carri
funebri di un tempo: imponenti con drappi neri, alti, enormi. Suggestivo. Poi prende un
album, mi racconta di com’era un tempo. Interessante. Mi affretto nelle domande ma lui mi
27
La sua azienda si occupa anche della costruzione di lapidi.
Costruita da pochi anni dall’impresa di Stefano, la sala del commiato ha la funzione di accogliere i defunti e
dare la possibilità ai propri cari di vegliarli in una struttura adeguata.
29
Pulizia, vestizione e trucco della salma, dopo queste operazioni viene esposta nella sala del commiato.
30
Urna che contiene le ceneri del defunto.
28
102
rassicura, può dedicarmi qualche altro minuto, mi esorta a finire con tranquillità.
Nonostante il fare frettoloso, perché in questo lavoro c’è sempre da fare, Stefano è stato
gentile e disponibile. Avrei voluto vedere il resto dell’impresa, la sala del commiato,
chiacchierare ancora un po’ con lui. Mi rendo conto, però, che aver sottratto
quarantacinque preziosi minuti a un professionista, è stata già una fortuna.
2.7.2 L’impresa al femminile
La sede dell’impresa funebre, in centro città, si nota da lontano. L’insegna con il nome
dell’azienda, scritto a grossi caratteri bianchi su uno sfondo nero, annuncia un piccolo
ufficio. Due scrivanie occupate da un uomo e da una donna, entro e chiedo della titolare
pensando fosse l’unica figura femminile presente. Mi sbagliavo. La donna, dai dolci
lineamenti e con un fare materno, mi accompagna in un altro ufficio, rintanato in un grosso
palazzo. Spazioso, design moderno dai colori sobri, ambiente professionale e funzionale,
mobili da ufficio belli ma, a primo impatto, un ambiente poco familiare. Seduta al tavolo
da lavoro, colmo di carte, c’è lei, una delle poche imprenditrici donne del comparto
funerario in Italia. Approfitto delle chiacchiere tra le due signore per guardarmi intorno,
uno scaffale in bella vista espone i cinerari, distratta e impegnata a coccolare un tenero
cane, l’avevo ignorato. Un’anziana donna piuttosto agguerrita e forse un po’ sospettosa nei
miei riguardi m’invita a non toccare il cane perché è cieco. Prima di cominciare, le chiedo
il permesso di utilizzare il registratore: mi stronca con un no secco. Per l’imprenditrice è un
problema registrare il colloquio, per me è un problema non farlo. Con timida insistenza
tento di convincerla. Tutto inutile. Testarda. M’incalza a cominciare e dice alla sua
collaboratrice di restare.
Una simpatica intervista a tre voci.
Munita di penna e taccuino inizio ad annotare il suo vissuto.
Luciana è arrivata a questo lavoro per successione, l’impresa era del papà. Durante
l’intervista squilla il suo cellulare e l’altra donna, Giorgia, approfitta dell’assenza per
puntualizzare che era il marito di Luciana a gestire l’impresa, poi è morto e lei ha dovuto
cominciare a interessarsi alla cosa. Chiusa questa parentesi, il discorso, già dalle prime
battute, verte sulle questioni di genere. Entrambe sono del parere che le donne lo fanno
meglio, aggiungono grazia, femminilità e dolcezza a un settore dominato dallo sguardo
maschile. Luciana sostiene, a gran voce, che il suo è un lavoro nel quale affiora l’umanità
103
delle persone, anche se, da fuori è visto con occhio critico, dice che c’è un’assenza di
informazione sulla bontà delle aziende nel far superare il dolore della gente. Chiedo com’è
strutturata l’azienda e i requisiti che esigono dai dipendenti, e da subito precisa che non c’è
una gerarchia nella sua impresa ma tutti collaborano, sono un team. Poi comincia ad
affannarsi nel cercare un foglio, rovista tra le carte, sfoglia un’agenda ma non riesce a
trovarlo. Ha un elenco che osserva scrupolosamente quando seleziona il suo personale.
Vuole leggerlo. La sua collaboratrice quando vede Luciana in difficoltà interviene, spiega
alla sua titolare che forse è mio interesse sapere concretamente come deve essere il
personale. Lei borbotta e le risponde a tono, in realtà ogni intervento che fa Giorgia è preso
di mira dall’anziana imprenditrice, hanno un rapporto confidenziale, si conoscono da anni,
Luciana è critica, Giorgia la asseconda e allo stesso tempo completa le informazioni che
pensa siano date con superficialità dalla sua titolare. Ma a lei questo non va giù e
rimprovera la docile signora. Mentre cerca il suo foglio, Luciana dice che c’è una lunga
fila di requisiti richiesti. Di norma le imprese devono avere la fedina pulita e si chiede
questo ai dipendenti, altrimenti cade la credibilità dell’azienda. Continua Giorgia, elenca
eleganza, serietà, professionalità, sobrietà, giusta lunghezza dei capelli. Dicono che il
personale rappresenta l’azienda e ciò che vogliono è la cura della persona un po’…vecchio
stile! Termine adatto che descrive l’impresa. Continuano col dire che l’ordine sia mentale
che fisico è importante. Finalmente Luciana trova i suoi appunti. Comincia a leggere: «Si
chiede la qualità nel servizio, bisogna dare grande attenzione al cliente». Poi un altro
elenco di ciò che è richiesto al personale: «coinvolgimento, efficienza, produttività,
affidabilità, disponibilità, grinta, motivazione, capacità di vendita, abilità organizzativa,
livello di stress da valutare». Luciana detta e controlla attentamente se ho scritto tutto. Poi
continua dicendo che il personale non è una scelta a caso ma l’analisi delle capacità ha uno
scopo. Finisce con una lezione sull’importanza delle risorse umane in un’azienda, sempre
controllando le istruzioni date dal suo foglio. Il discorso si dilunga e per fortuna riesco a
dirottare l’argomento su altro. Parliamo dei corsi obbligatori che la legge sulla funeraria ha
indetto per tutti gli operatori del settore. No, questo argomento non piace a Luciana, non ne
vuole parlare. Nell’immediato risponde: «Ne penso male. È un business, non ha aggiunto
nulla», poi si trattiene e, con il suo fare un po’ duro, un po’ imbarazzato, mi dice di non
scrivere quello che ha appena detto. Interviene la sua collaboratrice spiegandole che io non
farò nomi e che queste informazioni mi servono per scrivere la tesi. Giorgia ha capito dal
primo istante lo scopo dell’intervista, vorrebbe parlare di più, raccontare anche lei la sua
104
esperienza. Lavora nell’impresa di Luciana dal 1985 ed è la contabile. E’ incuriosita, si
lascia prendere dall’intervista ma è frenata. Eclissata dalla sua titolare, non vuole rubarle la
scena. Provo a insistere sui corsi, aggiunge qualcos’altro. Chiedo nello specifico di quali
attività si occupano: «L’impresa funebre nasce per organizzare funerali» poi con mia
grande sorpresa, dice che i necrofori non portano la bara sulle spalle al termine del
funerale, ma è messa sui carrelli almeno che la famiglia non richiede che sia portata in
spalla. Sulla pratica della tanatoestetica sostiene che sia un modo di artefare la morte e che
la gente non vuole che si trucchi il morto. Però apprezzano la tanatoprassi, ritengono sia
utile, se un cadavere è “mal conciato” le tecniche della tanatoprassi riescono a ricostruire
parti del corpo nel migliore dei modi. Sulla nuova figura professionale del cerimoniere non
hanno molto da dire: «Non abbiamo ancora capito cos’è».
La sua azienda, vuole dare un servizio elegante e lampante, ma non troppo, non vogliono
eccedere nel lusso. Luciana sostiene, che alla morte va dato l’aspetto della dignità, non del
lusso. Preferisce la qualità al lusso, dà bare di qualità che durano nel tempo in qualsiasi
tipo di sepoltura, poi a un certo punto, parlando della morte e della dignità che a essa va
conferita, comincia a piangere, si commuove. Tra le parole che sussurrano quanto la morte
sia importante e dolorosa, le lacrime.
Porto la conversazione a un altro livello, chiedo come pubblicizzano l’azienda: orologi in
Milano, sul corriere della sera, pagine gialle, on line. Arriviamo alla parte conclusiva del
nostro colloquio, domando quando termina il lavoro dell’impresa funebre una volta arrivati
al cimitero. Mi spiegano che una volta arrivati al cimitero c’è il personale addetto del
comune che ritira la salma. Il loro lavoro finisce all’ingresso del cimitero, l’auto funebre
entra nel camposanto, i necrofori lasciano il feretro e vanno via, non accompagnano la
famiglia anche durante la sepoltura.
Scorrono le parole e discorsi che sfiorano il retorico.
Si alternano nel parlare, Giorgia e Luciana, osservano come la morte porti a galla tutto, la
paragonano a uno specchio che riflette la personalità dell’individuo. Qui, dicono, si scopre
tutta la persona, si vede la meschinità ma anche la dignità, c’è di tutto. Viene fuori la
volgarità e la signorilità nelle scelte, nelle tradizioni, il modo di vedere, come si considera
la situazione, come si affronta la vita nel complesso.
La morte, il morire è una fotografia dell’umanità.
Chiedo a Luciana se negli ultimi anni, secondo lei, è cambiato qualcosa nel settore: «Ma
certo, tutto cambia, è nell’ordine delle cose cambiare. Oggi il nostro lavoro è più ordinato».
105
Restando nel frame cambiamento, domando cosa ne pensano delle case funerarie. Dopo
aver ricevuto risposte negative in merito ai cambiamenti più rilevanti degli ultimi anni nel
settore funerario e visto l’impostazione tradizionale e classica dell’azienda, mi aspettavo
negatività anche per l’avvento delle case funerarie. Mi sbagliavo di nuovo: «Le case
funerarie…ne penso bene. Penso che il mondo si modifica e prende piede il concetto di
non tenere la salma in casa. Oggi però i parenti vogliono la salma in casa, c’è ancora
questa tradizione. La casa funeraria ci vuole, è il futuro». E poi ancora sui cambiamenti:
«Come lavoravano i nostri genitori non lavoriamo più noi. La società è cambiata, anche le
strutture sono cambiate. Oggi si va con le Mercedes, non ci sono i carri di una volta con
pennacchi neri, cortei con suore, bambini». Le tradizioni di una volta tendono a sparire, mi
spiegano della totale eliminazione dei cortei funebri, oggi: «Limitano il traffico, i sacerdoti
non sono disponibili a seguire il corteo funebre perché hanno da fare, si ferma la città, sono
una barriera alla circolazione ».
Oddio, penso. Persino i preti travolti dai frenetici ritmi della città.
Il colloquio dura quasi altri venti minuti ma l’intervista finisce qui. Il fuoco del discorso
resta il cambiamento ma cambia l’oggetto. Si chiacchiera di lavoro in generale, dell’essere
donna oggi, e di esperienze di vita privata.
La diffidenza cede il posto alla complicità.
Mi accompagnano alla porta, scortate dal povero cane non vedente, e Luciana, sotto
suggerimento di Giorgia, esibisce orgogliosa un attestato ottenuto per essere tra le poche
donne a lavorare in un settore prevalentemente maschile.
2.7.3 La moda della morte
L’appuntamento è alle 10.30, non curante del mio anticipo, entro.
Chiudo la porta lasciandomi alle spalle i frenetici ritmi della città, potenziati dal frastuono
delle ambulanze inghiottite dall’imponente ospedale di zona.
Alessandro è seduto alla scrivania posta all’ingresso e mi aspettava. Giovane e ben vestito,
giacca e camicia color avana, propone un caffè al bar per rompere il ghiaccio e soprattutto
per chiedermi: «Ma come mai studi proprio la nostra professione?»
Di nuovo in agenzia.
Il locale, luminoso, bianco, arredato con piante e bellissime statue, si estende in lunghezza
ed è diviso in tre spazi comunicanti, tre uffici. Le porte sono aperte. Mi chiede gentilmente
106
di aspettare all’ingresso, che coincide con il primo ufficio. Lo sento parlare con la
segretaria, intanto intravedo l’ultima stanza, la più grande, la stanza che ospita le bare.
Mentre aspetto, mi guardo intorno, ambiente professionale e accogliente, si presenta bene.
Torna dopo pochi minuti, mi dice che l’intervista possiamo farla in quella stessa sede, non
c’era bisogno di andare nell’altra. Lievemente imbarazzato, ha premura nel chiedermi se
m’infastidisce avere il colloquio nell’ufficio con l’esposizione delle bare. Un
“assolutamente no” lo rassicura.
Entriamo.
L’allestimento dell’ufficio abbonda di elementi di arredo, un’esposizione di cofani funebri,
urne cinerarie e bronzi, fanno bella mostra di sé nello spazio. Un punto vendita strategico
poiché una buona organizzazione del punto vendita, sotto l'aspetto dell'immagine
complessiva e sotto quello di una grande funzionalità, rappresenta la migliore
presentazione di una moderna impresa funeraria (Campione 2007). Mi fa accomodare alla
grossa scrivania su una sedia più simile a un trono in stile gotico. Lui è di fronte a me un
po’ teso. Alla fine dell’intervista, continuiamo a chiacchierare, gli argomenti prendono una
piega “commerciale”, chiedo se i suoi clienti mostrano preferenze o affidano il compito
della scelta della bara a loro. Risponde che la maggior parte dei clienti vuole scegliere
personalmente modello e colore. A un certo punto, Alessandro rivela, entusiasta, di avere
in fondo alla stanza una bara rossa dal modello un po’ particolare, che però, nessuno mai
ha comprato. Gli chiedo di vederla. Comincia a parlarmi delle preferenze dei clienti e delle
mode che si sono alternate negli ultimi anni, sia riguardo alle bare, sia ai carri funebri.
Negli ultimi anni va di moda la bara in rovere sbiancato, spiega l’intervistato, perché il
colore scuro appesantisce una situazione che di per se non è piacevole. La gente predilige
la bara di un colore chiaro perché fa sentire meglio, è come vedere il sole in una bella
giornata, la luce, tutto chiaro (metafora dell’intervistato). Per quanto riguarda i carri
funebri, fino a qualche tempo fa, tutte le aziende le possedevano di colore chiaro, grigio
chiaro; negli ultimi tempi è tornato di moda il colore scuro e l’impresa *** si è adeguata al
gusto dominante. Uscendo dalla stanza l’intervistato mi fa notare l’esposizione di cinerari,
tra questi, alcuni a forma di pallone da calcio con i colori di due squadre italiane.
Ultima moda in fatto di cinerari.
107
CAPITOLO 3
La casa per l’ultimo addio
Tu sei polvere, e polvere ritornerai,
ma mio Dio, evitaci gli stadi intermedi.
Roger Fesneau
3.1 La funzione sociale della Casa funeraria 31
Il portone principale della Casa funeraria è aperto, entro, guardo alla mia sinistra, alla
reception c’è un uomo di mezza età, pensavo di trovarci Francesco, il mio informatore,
chiedo di lui. Sono le 9.15, arrivo con quarantacinque minuti d’anticipo rispetto all’orario
programmato per la prima delle due cerimonie alle quali avrei assistito quel giorno. Dopo
qualche istante Francesco spunta dalla porta accanto alla reception sulla quale è indicato un
divieto d’accesso, indossa il camice bianco, stava sistemando una salma. Tolto il camice
torna in divisa e andando verso l’ascensore mi fa cenno di seguirlo.
«Vieni con me, facciamo accoglienza».
L’avventura comincia.
Con l’ascensore arriviamo al primo piano, mi spiega che il defunto appena sistemato deve
essere trasferito dalla sala tecnica alla camera ardente dell’appartamento che, a breve,
ospiterà i suoi cari. Dando per scontato che non volessi vedere il cadavere apre la porta
dell’appartamento e dice che posso aspettare al suo interno mentre portano il corpo nella
camera ardente; rispondo che se è presentabile non ho problemi a seguirli. Un po’ divertito
vanta l’estetica impeccabile del defunto evidenziando come sia stato sistemato da
professionisti (lui). Ecco arrivare l’altro collaboratore, Luca, ci viene incontro portando la
barella con la salma.
31
Luogo di proprietà di un’impresa di pompe funebri, in cui sono ospitati i corpi in attesa dell’inumazione,
tumulazione o della cremazione. La sosta nella Casa funeraria non è obbligatoria. In Italia la Casa funeraria è
una di quelle innovazioni apportate dalla legge regionale del 2003 in Lombardia: l’autorizzazione della Home
è disciplinata dall’articolo 42, è una struttura che può essere realizzata dalle imprese funebri:«è idonea a
ricevere e custodire persone decedute in abitazioni, strutture sanitarie di ricovero o di cura».
108
La fisso. Sembra di vedere un uomo che dorme. Mi assicurano che non era così quando è
arrivato, con maquillage e altre tecniche che si offrono di spiegarmi in un secondo
momento, hanno ottenuto questo risultato. Entriamo nella camera ardente, chiedo perché
lasciano il corpo sul lettino e non lo espongono nella bara, mi spiegano che non è un
semplice lettino ma è un tavolo refrigerante che serve a mantenere fredda la temperatura
per rallentare il processo di decomposizione. Il defunto è posto nella bara (incassamento)
poco prima della partenza dalla Casa funeraria. Dopo aver collocato la salma nella camera
ardente, usciamo chiudendo la porta alle nostre spalle. Arriva il parente, Luca va via, io mi
metto in disparte. Francesco mostra l’appartamento, apre la porta della camera ardente con
cautela e il dolente vede per la prima volta il corpo disteso del suo caro. Ascolta con
sguardo perso nel vuoto le raccomandazioni dell’operatore: «Restate nell’appartamento
tutto il tempo che desiderate, chiamateci in caso di bisogno, c’è un’area ristoro al terzo
piano». Andiamo via lasciando la famiglia a vegliare il caro estinto.
L’organizzazione della struttura ruota intorno a cinque attività di routine accennate finora:
-
Sistemazione della salma
-
Accoglienza
-
Incassamento
-
Cerimonia
-
Partenze
Il corpo morto è oggetto e soggetto di queste pratiche atte a determinare la funzione sociale
svolta dalla Casa funeraria.
La Casa funeraria di per sé ha lo scopo di dare modo alle famiglie di far visita, a chi ha piacere,
al proprio defunto, non essendo nell’abitazione privata che comunque crea sempre dei
problemi e non lasciando la salma se decede in strutture pubbliche perché, anche qui non
generalizziamo, però sette su dieci sono in condizioni fatiscenti […] Noi offriamo la Casa
funeraria per dare modo di far visita in un ambiente, lo vedi no? Dunque, comodo,
confortevole, con discrezioni, intimità loro perché ognuno dispone di un appartamento
adiacente alla stanza dove c’è il defunto, privato, tra virgolette, è il loro, possono chiudere la
porta oppure puoi stare nelle parti comuni che sono abbastanza ampie (Francesco).
Il sistema Casa funeraria assume una funzione rilevante sotto molteplici aspetti di ordine
pratico, etico e psicologico. Il suo compito, spiega Francesco, è di ospitare il defunto in
attesa del funerale, l’obiettivo è concedere un posto confortevole alle famiglie per dare
109
l’ultimo saluto a chi li ha lasciati e offrire a tutti la possibilità di esaudire le esigenze
concrete che si presentano durante il lutto.
L’appartamento privato, luogo del lutto da secoli, il primo ambito spaziale in cui il defunto
e i suoi congiunti vivevano il cordoglio, adesso non consente per problemi di diversa
natura di ospitare il caro scomparso, esasperando il disagio e la sofferenza dei familiari. Gli
obitori, invece, sono spesso poco agevoli, confinati in ambienti angusti e degradati,
vegliare il proprio caro in un posto del genere aumenta il senso di disagio, inoltre, come
spiega Francesco, in queste strutture si ha spesso a che fare con i comportamenti poco
professionali di alcuni operatori.
Non c’è davvero cultura della gestione del lutto e il personale si presenta male, lavorano male,
davvero siamo indietro, da questo punto di vista abbiamo una carenza, un problema, tenendo
conto poi che all’obitorio di Milano finiscono le salme particolari tra virgolette nel senso che ci
finiscono magari gli incidenti stradali, possono essere giovani, dunque, ci vorrebbe un minimo
di professionalità per gestire una mamma, ci finiscono morti violente, suicidi, cose di questo
tipo […] Quando la morte è violenta e ti prende dal giorno alla notte, hai un problema, ci
vorrebbe del personale qualificato a gestire la cosa, non delle persone messe lì a lavorare come
se maneggiassero pacchi o sacchi di patate tra virgolette. È brutto da vedere, io l’ho visto, l’ho
vissuto […] Si potrebbe gestire meglio se ci fosse il personale qualificato sarebbe sicuramente
meglio [...] I dipendenti comunali lavorano negli obitori hanno delle tute blu con dei guantoni,
voglio dire, precauzioni igienico – sanitarie senz’altro però le tute blu come i metalmeccanici si
potrebbero evitare. Dei dettagli, a volte basta poco, eh, non è che ci vuole poi la scienza, i
locali più curati, qualcosa di più si potrebbe fare […] Quella è la loro divisa di ordinanza e va
bè è cosi. Quello poi è un aspetto che potrebbero rivedere, senz’altro (Francesco).
L’intervistato racconta l’esperienza che ha vissuto all’obitorio civico di Milano.
Solitamente negli obitori sono portate persone morte in modo violento coinvolte in
incidenti stradali, morti suicidi e altro, una mamma che ha perso un figlio in un incidente,
spiega Francesco, è sotto shock e vedere il corpo del suo caro maneggiato come se fosse un
“sacco di patate” da personale non qualificato e in locali non adeguati, aggrava un
momento già di per sé traumatico. I dettagli sono importanti, bisognerebbe curare
l’immagine cominciando dalle divise del personale che lavora in obitorio perché vedere
operatori con divise “da metalmeccanici” tute blu e guantoni gialli non rende giustizia al
settore funebre e al delicato compito che assolve. L’uniforme degli operatori delle camere
mortuarie è solo uno dei problemi che andrebbe risolto, l’assenza di professionalità
impedisce di creare la “cultura della gestione del lutto” un sapere che richiede personale
qualificato che sappia rapportarsi al dolente conoscendo il modo corretto di parlare a
persone che hanno subìto una grave perdita e che sappia movimentare le salme con il
dovuto rispetto.
110
Primo, è un problema igienico sanitario, uno che viene a mancare in casa non è giusto che uno
che ha una malattia infettiva sta in una casa, magari di gente non facoltosa, tre locali più servizi
con due bambini in casa o uno malato terminale in casa (Armando).
Il fondatore della Casa funeraria oggetto d’analisi approva la rilevanza della struttura in
primo luogo per un discorso d’igiene, se il defunto si trova nell’abitazione privata, non si
hanno gli strumenti necessari per gestire al meglio l’evento morte, ad esempio non si ha la
possibilità di rallentare il processo di decomposizione motivo che obbliga le famiglie a
organizzare il funerale in tempi brevi per sbarazzarsi in fretta del cadavere ed evitare le
spiacevoli conseguenze. Una vera e propria crisi della ritualità domestica, incapace di
raccogliere e di ospitare la pluralità di esigenze di un mondo nuovo che fa dell’igiene un
mito ancor più che un requisito (Cannizzo 2011). La salute pubblica però non è l’unico
motivo per cui gli impresari di pompe funebri e i loro servizi si fanno carico di fornire un
luogo che funga da abitazione del defunto in sostituzione della sua dimora; bisogna
rendersi conto che, nelle moderne società, dove molti servizi vengono forniti ai vivi
all’esterno delle mura domestiche, vi è una logica secondo cui la morte segue
semplicemente il modello della cura della salute, del tempo libero e dei servizi di
ristorazione (Davies 1996, p.60). Inoltre la comunità più vasta in cui si viveva un tempo
partecipava in maggior misura alla morte dei suoi membri.
Io posso cominciare a farci i conti con maggiore tranquillità, come succedeva prima. Prima
succedeva questo anche perché la famiglia era una famiglia larga, quindi il defunto non era a
contatto solo del figlio, della figlia, del padre e della madre, là c’erano parenti più larghi e
quindi la relazione tra il defunto e i vivi era una relazione molto mediata, per cui c’era quello
che morto il padre e quindi ha, diciamo, una relazione intensa, ma il genero, la cognata, il
nipote, il fratello, il cugino, che vivono nella famiglia allargata, hanno una relazione diversa.
Ma tutte queste relazioni che s’intersecano aiutano l’elaborazione del lutto dei soggetti che
sono coinvolti. Oggi questo non è più possibile. Per questo si dice è una sconfitta e io voglio
buttar fuori perché nessuno mi da una mano a gestirmela (Segretario generale Federcofit).
Un tempo la famiglia allargata aiutava chi aveva subito il lutto a gestire l’evento morte,
racconta il segretario della federazione nazionale del comparto funerario, pertanto era più
semplice organizzare il funerale perché si aveva il supporto di tanta gente. In molte parti
del mondo i vicini, o i parenti più lontani, si interessavano di solito a tutto il periodo della
malattia precedente la morte, aiutavano a preparare il corpo, visitavano le persone in lutto
sostenendole nel dolore e condividendo con loro il tragico avvenimento. Oggi, con la
professionalizzazione della morte, questo coinvolgimento è molto diminuito; molti
111
interpretano questi cambiamenti come una conseguenza della crescente individualizzazione
della vita, specialmente negli ambienti urbani (ibidem).
I malati devono essere curati negli ospedali quando uno viene a mancare non centra
assolutamente più con quello che è il sistema sanitario, il sistema sanitario deve dare il
massimo e poi se ne deve andare, questo perché mette in condizione sia l’ente ospedaliero di
non turbare l’equilibrio di quelli che sono lì, che sono gravi che devono morire, se lei va in
ospedale entra e va in una camerata e vede che un morto lo lasciano lì due ore, ci sono altri tre
che sono gravi e vedono quello lì che è morto […] Questo è il sistema, ecco perché le case
funerarie sono state adottate, qui viene in una casa, viene in un ambiente, viene in una… la
chiami come vuole, in una camera mortuaria al quale viene trattata nella maniera ai termini di
legge, viene trattata perché questa salma si conservi per un giorno, due giorni, tre giorni, il
tempo di permettere alla famiglia di riunire il suo nucleo familiare per concentrarsi su quello
che vuol fare e praticamente poi decide quello che vuole con più tempo […] Non so se lei è
stata in qualche ospedale a vedere come sono le camere mortuarie, vada al Niguarda, vada
all’ospedale di Sesto San Giovanni, vada in giro lei come vedrà la camera mortuaria, cosa vede
nelle camere mortuarie, vede dolore, se va all’ospedale policlinico vede che ce ne sono dieci
uno attaccato all’altro. Non c’è il senso del rispetto della morte, la casa funeraria dà il rispetto,
il senso del rispetto della morte, dà dignità alla famiglia e dà dignità a chi viene a mancare
(Armando).
In secondo luogo non è opportuno trattenere la salma in ospedale o in obitorio perché,
afferma l’intervistato, il sistema sanitario deve occuparsi delle persone in vita e delegare la
gestione del corpo morto alle imprese funebri. Le strutture sanitarie a volte lasciano per
qualche ora un individuo da poco deceduto nella stanza in cui era ricoverato creando
disagio ai malati poiché vedere un morto accanto al proprio letto potrebbe esasperare la
loro paura di morire, inoltre le condizioni indegne degli obitori, come già accennato da
Francesco, confermano l’indispensabilità di un luogo adeguato nel quale custodire le salme
in attesa della cerimonia. Questi luoghi hanno smarrito la funzione di accogliere familiari,
parenti e amici per un ultimo saluto e per un omaggio prima del funerale, troppo spesso si
vedono corpi accatastati nelle camere mortuarie come se fossero merci e non esseri umani
senza la minima possibilità di riservatezza necessaria in momenti colmi di sentimenti e di
ricordi, questo non fa che aumentare l’angoscia del dolente oltre a privare l’anima defunta
della propria dignità. Diversamente dagli impersonali e freddi obitori lo spazio riservato
agli ospiti nella Funeral home consiste nella capacità di soddisfare le esigenze di
accoglienza materiale e spirituale con rispetto e professionalità, le pratiche eseguite hanno
una finalità altamente sociale che si traduce in un vero e proprio rituale funebre moderno.
Oggi la cultura funeraria va per forza verso le case funerarie perché, che siano pubbliche o
private, devono andare a finire qua per un problema igienico, per un problema di
organizzazione, per un problema di assistenza alle famiglie (Armando).
112
Il futuro del settore funerario risiede nella Funeral home capace attraverso la sua
organizzazione di rendere onore al defunto accompagnandolo nel periodo di lutto scandito
da speciali e precisi doveri rituali. Nella Casa funeraria famiglia e amici del caro estinto
sono ospitati in un salottino privato (ciascuna famiglia ha il proprio salotto o
appartamento), un luogo intimo per pensare in raccoglimento o parlare con riservatezza e
dove esprimere il proprio cordoglio lontano dagli occhi di tutti. I locali sono indipendenti
gli uni dagli altri e sono tutti dotati di una camera ardente annessa, ambiente in cui è
esposta la salma: luogo di silenzio, di pace, allestito per contrapporre il calore familiare al
rigore del trapasso. Oltre ai salottini privati su ogni piano, ci sono ampie parti comuni
pensate per relazionarsi ad altre persone o solo per passeggiare e sostare in un ambiente
diverso dal proprio appartamento. L’elegante edificio si sviluppa su tre piani: non appena
si varca la soglia dell’ingresso principale a piano terra, si entra in contatto con un interno
caldo e sorprendentemente luminoso e non si può non notare due maxi schermo con la
funzione di indicare al dolente nome e cognome dei defunti presenti nella Casa funeraria e
il numero dell’appartamento in cui sono collocati. A sinistra della grande hall c’è la
reception che accoglie amici e parenti del caro estinto, a destra accomodanti divani,
tavolini con riviste per intrattenere gli ospiti e una porta bianca dalle maniglie dorate con
ante scorrevoli che nasconde la sala del commiato. Un ascensore spazioso dalla forma
circolare e dalle luci soffuse conduce ai piani: il primo ospita cinque appartamenti e una
stanza utilizzata per trattare affari, attentamente chiusa a chiave perché custodisce costosi
cinerari e oggetti funebri di altro genere. Al secondo piano, invece, si trovano gli
appartamenti più prestigiosi, così definiti da Francesco, perché sono più grandi e si
possono ampliare, sono più adatti a ospitare personaggi illustri o defunti con un
considerevole numero di amici e parenti, ma l’arredamento non è differente è identico per
tutti gli spazi. I quattro appartamenti sono speculari, si possono estendere muovendo una
parete elettrica che si richiude a libro, i primi due locali diventano un ambiente unico e la
stessa cosa accade per i due appartamenti di fronte. L’ultimo piano, il terzo, è simile a un
ristorante ma non ha la cucina, arredamento moderno meno classicheggiante, è chiamato
punto ristoro dagli operatori ed è annunciato da un avviso esposto a piano terra nella hall:
113
Gentili signori,
nel darVi il nostro benvenuto in Casa funeraria, Vi informiamo che il personale al
ricevimento è a vostra disposizione per qualsiasi informazione.
Vi ricordiamo che non è possibile consumare cibi e bevande all’interno degli appartamenti
e nelle aree comuni della Casa funeraria.
A tale scopo è stata dedicata appositamente un’area situata al terzo piano:
l’AREA RISTORO provvista di distributori automatici a Vostra disposizione.
Grazie per la collaborazione.
La Direzione.
L’area ristoro è uno spazio nel quale dipendenti e dolenti si ritrovano per un momento
ricreativo. La Casa funeraria è divisa in due aree: la prima, descritta finora, è l’area
riservata al pubblico, l’altra è l’area tecnica che si sviluppa nel retro della palazzina ed è
una zona accessibile solo ai dipendenti. Nell’area tecnica al piano terra vi si accede tramite
un secondo ingresso, qui la salma è preparata e vestita da personale esperto per poi essere
portata nella camera ardente dell’appartamento ed esposta alle famiglie, un lungo corridoio
permette di accedere da quest’area alla sala del commiato, inoltre dietro ogni camera
ardente sono presenti aree tecniche alle quali si arriva con l’ascensore di servizio, il
montaferetri.
La Casa funeraria *** è un Hilton, per così dire, con il suo ambiente che non deve mettere in
imbarazzo nessuno, è aperta a tutti non è aperta ai ricchi perché è lussuosa, perché può
sembrare lussuosa, è aperta anche a quelli che non hanno la possibilità di spendere, noi qui
portiamo tutti, non la facciamo pagare la Casa funeraria, noi la Casa funeraria la doniamo,
doniamo il servizio perché vogliamo far capire alla gente che c’è un modo nuovo di stare
vicino a un suo caro […] Può venire qui a qualsiasi ora del giorno e della notte perché questo è
considerato un albergo e in albergo ci va quando vuole, noi diamo la possibilità a questa gente,
a queste famiglie di venire qui e di trovarsi a casa sua, nella sua intimità, c’è la stanza grande,
la stanza piccola eccetera (Armando).
Armando paragona la sua Casa funeraria a un Hilton 32 non solo perché l’arredamento è
elegante e raffinato, la presenza della reception e l’atrio con comode poltrone rimanda alle
sembianze di un grand hotel, ma come in un albergo i dolenti hanno libero accesso
all’edificio luogo nel quale riposa il proprio caro; un “Funeral hotel” dove pernottare due o
tre notti per il viaggio nell’aldilà che sta per cominciare. Costruita con materiali pregiati,
dignitosi che lasciano trasparire la solennità della funzione, sembra un servizio costoso che
32
Hilton hotels una delle più grandi catene alberghiere del mondo.
114
solo le classi agiate possono permettersi, ma non è così la Casa funeraria noi la doniamo,
afferma l’intervistato, tutti devono avere la possibilità di fruire di un servizio tanto
complesso quanto utile e ricevere il messaggio che c’è un modo nuovo di stare vicino al
proprio caro. Vedendo per la prima volta la Casa funeraria non si nota la presenza di
nessun simbolo legato alla morte; l’aspetto esteriore di una Funeral home è possibilmente
neutro, privo di simboli legati a una sola pratica religiosa, non ha sembianze né di una
chiesa né di un altro luogo di culto. Un luogo specifico, distinto dai luoghi e dagli spazi
della quotidianità, è una realtà “diversa” (Balboni 2001), uno spazio progettuale ibrido che
annienta i simboli preesistenti mescolandoli in un nuovo modo di vivere la morte. La Casa
funeraria, dunque, non è un simbolo già esistente nella cultura e nell’esperienza comune,
ma è un simbolo nuovo che si inserisce nel nostro contesto culturale, proprio dell’epoca
postmoderna, contenitore di molteplici identità e di differenti credenze, una cultura fondata
sull’individualismo e de-tradizionalizzata (Walter 1994, p. 21) e che ha bisogno di colmare
quel vuoto rituale generato dalla crisi che ha trafitto gli elementi della tradizione.
L’obiettivo delle Funeral home è finalizzato alla fornitura di un servizio il più possibile
funzionale, aperto culturalmente, non predefinito ma mutabile e malleabile nel tempo che
assume forme diverse secondo le esigenze dei dolenti, essa si presenta come materia che si
presta a essere lavorata dalla simbologia comune.
3.1.1 Funeral Home: un’eredità americana
Finora ho adoperato il corrispettivo in lingua inglese di Casa funeraria: indubbiamente una
scelta non casuale.
La Funeral home è un fenomeno culturale nato negli Stati uniti d’America, qui le Case
funerarie non sono strutture a sé ma vere e proprie imprese funebri con ufficio annesso che
offrono una serie di servizi aggiuntivi rispetto alle imprese tradizionali. Dal punto di vista
estetico, esse si presentano come case, spesso sono delle ville di diverse dimensioni,
pittoresche e ben curate e per la maggior parte sviluppate su due piani. All’interno di
queste strutture solide e accoglienti sono compiute tutte le procedure che seguono il
decesso, dai riti funebri alla veglia, e qualsiasi altro servizio richiesto dai familiari del
defunto per onorare il proprio caro. La loro ubicazione è in vaste aree a contatto con la
natura, spesso all’interno di parchi, che offrono la possibilità agli ospiti di passeggiare e
rilassarsi in un ambiente dalle sfumature bucoliche. Gli americani sostengono che
115
l’ambientazione circostante gioca un ruolo fondamentale nello stato d’animo di coloro che
si trovano ad affrontare un momento doloroso come quello della perdita della persona cara
e la possibilità di trovarsi a contatto con la natura può, se non eliminare, almeno alleviare il
disagio di vivere tali circostanze in luoghi spesso caotici, impersonali e asettici. Estrema
cura è rivolta agli ambienti interni, concepiti secondo un gusto classico (così come gli
americani concepiscono la classicità); gli arredi sono studiati per garantire il massimo
comfort, solitamente il piano terra è riservato all’accoglienza e ai servizi per i clienti,
compreso il servizio di catering che rientra nella tradizione del rito funebre americano,
mentre al primo piano si trovano gli ambienti per la cura della salma, dove il pubblico non
è ammesso. Una caratteristica delle Case funerarie statunitensi riguarda alcuni servizi
particolarmente curiosi offerti dalle imprese, come ad esempio la pianificazione del proprio
funerale (pre-need), questo servizio agevola i familiari al momento del triste evento
prevedendo che il soggetto interessato lasci scritta la propria volontà o decida di comprare i
servizi in anticipo rispetto al momento del decesso. Altra iniziativa consiste nel creare
gruppi di supporto psicologico per aiutare chi ha subito una perdita e ha bisogno di essere
guidato in un progetto di reinserimento sociale. Alcune imprese evidenziano il fatto di
poter servire qualsiasi religione professata dal defunto, fattore non trascurabile in un Paese
come gli Stati Uniti d’America dove la mescolanza culturale e religiosa rende questo
servizio indispensabile. Un altro tipo di servizio è un particolare supporto psicologico
offerto da alcune Case funerarie che realizzano filmati nei quali vengono suggerite
modalità comportamentali da seguire nel corso di ricorrenze importanti (compleanno,
anniversario, vacanze), quando il dolore per la perdita si fa particolarmente intenso, viene
consigliato come trascorrere questi giorni e come riuscire a comunicare il proprio dolore
agli altri. I video realizzati hanno contenuti e destinatari differenti: amici del defunto,
vedovi, storie reali di persone afflitte da malattie terminali costrette ad affrontare
l’imminente morte, trattazione del tema suicidio, argomenti specifici indirizzati ai bambini
e agli adolescenti (Balboni 2001). Una breve fotografia della realtà della Casa funeraria
negli Stati Uniti, Paese da cui abbiamo in parte attinto il modo di fare funerali
riadattandolo alla nostra cultura.
Noi operatori ci stiamo guardando in giro, guardando intorno, stiamo prendendo come canoni
l’America […] Le Case funerarie, le Home funeral, in America è anni che ci sono
(Alessandro).
116
L’impresario funebre Alessandro ci informa che sono anni che esistono le Funeral home in
America, dalla fine dell’ottocento precisa Armando, a differenza dell’Italia che organizza
funerali “medioevali” ed è tra i pochi paesi al mondo a presentarsi allo stato embrionale
per quanto riguarda il sistema Casa funeraria.
In Italia si va avanti ancora con il funerale medioevale, siamo fuori da ogni realtà, siamo
l’ultimo paese del mondo a iniziare con le Case funerarie [...] L’America è stato l’unico, il
primo paese al mondo che a livello sanitario, con delle leggi sanitarie ha istituito le Case
funerarie […] Dunque il progresso dell’America ha portato a questa evoluzione e l’hanno
copiata tutti i Paesi civili del mondo, se lei va in Africa in qualsiasi metropoli o capitale
dell’Africa trova la casa funeraria, noi in Italia siamo l’ultimo paese, considerati un paese del
sud, cosa vuol dire? Siamo considerati dal mondo funerario un paese dell'Africa, del sud,
perché? Perché noi non abbiamo leggi che tutelino la salute pubblica nei confronti dei cittadini
che hanno il morto in casa, che tutelino l’igiene sanità dei vivi e che non portano rispetto ai
morti. Non è che ho copiato l’America, è perché in America c’era ma c’era in America, c’era in
Inghilterra, c’era in Germania, c’era in Francia, in Danimarca, Norvegia, Austria. Allora voglio
dire nei paesi, dove esistono quelle leggi sanitarie, di salute pubblica, le Case funerarie sono
state istituite, i primi sono stati gli americani che le hanno fatte alla fine dell’ottocento, molto
prima del novecento. Dunque naturalmente se lei deve andare a fare uno stage io le dico ma
vada in America a New York, si fa quattro Case funerarie e vedrà che c’è una cultura e trova la
cultura che c’è nella mia Casa funeraria […] Sicuramente, questa è la strada del futuro, ne
stanno nascendo delle altre (Armando).
Gli Stati Uniti hanno istituito quest’importante innovazione per una questione di salute
pubblica, le salme devono essere portate in strutture adeguate, custodite e curate con
strumenti adatti per evitare rischi di epidemie. L’America è stata imitata da gran parte dei
Paesi europei, dove le leggi sulla sanitaria favoriscono la nascita delle Case funerarie ormai
entrate a far parte del tessuto socio-culturale. In Italia il recente ordinamento attuato a
livello regionale ha permesso di costruire tali strutture creando anche nel nostro Paese una
cultura sulla funeraria simile a quella americana anche se questa realtà comincia da poco a
muovere i primi passi (il numero di Case funerarie è minimo, presenti soprattutto nel nord
dell’Italia). Questa è la strada del futuro, afferma Armando, e la sua Funeral home è un
perfetto esempio di cultura funeraria americana riadattata a quella italiana Vada in America
a New York, si fa quattro Case funerarie e vedrà che c’è una cultura e trova la cultura che
c’è nella mia Casa funeraria, dichiara l’imprenditore, infatti, diversi servizi offerti sono
stati presi in prestito dagli Stati Uniti come ad esempio la possibilità di organizzare il
proprio funerale prima dell’avvenuto decesso o l’importanza di assistere il dolente anche
dal punto di vista psicologico formando i propri operatori in tal senso.
Questa è la prima casa funeraria che è stata fatta in Italia, è la più classica, perché per me
personalmente che conoscevo gli americani, è una sfida agli americani per dimostrare che
117
siamo più bravi di loro, che abbiamo più classe di loro, che abbiamo più gusto di loro, che
sappiamo utilizzare la cultura, l’intelletto degli italiani, la grazia degli italiani, noi siamo un
popolo meraviglioso, un popolo di avventurieri, avventurosi, di artisti, di cantanti, siamo tutto
noi italiani (Armando).
Un inno alle qualità del popolo italiano decantato dal magnate dell’industria funebre che
prima di costruire la sua Funeral home ha visitato e studiato il sistema funerario americano,
è stato il primo impresario funebre a portare quel sistema nel nostro Paese perfezionandolo,
guidato dall’inconfondibile (e reale) stile classico italiano.
Che l’America sia stato il Paese precursore di questo fenomeno lo raccontava Philippe
Ariès già negli anni settanta nel suo libro dedicato agli atteggiamenti degli individui verso
la morte a cavallo dei secoli, l’America è stata la prima a smussare il senso tragico della
morte (Ariès 1975, p. 217). Lo storico evidenzia come la società americana sia attaccata ai
suoi nuovi riti funebri, che sembrano ridicoli agli europei e agli stessi intellettuali
americani (ivi, p. 219), opinioni che a distanza di quasi quarant’anni hanno subito un
notevole cambiamento, i nuovi rituali lanciati dagli americani oggi sono imitati da tutto il
mondo. Negli Stati Uniti le Funeral home nascono per deporre il corpo in un luogo neutro
presso una specie di albergatore specializzato nell’ospitare i morti, il funeral director, un
luogo che non sia né l’ospedale anonimo né la casa troppo personale (ivi, p. 220). Il popolo
statunitense non ritiene idoneo l’obitorio come luogo per ospitare le salme perché spesso
sono camere refrigerate dove i corpi sono conservati come anonimi pezzi di carne non
rendendo possibile un momento di raccoglimento e solennità. Solennità che avrebbe potuto
svolgersi, come una volta, a casa ma si tollera sempre meno l’idea di tenere il corpo in
casa, sia per igiene, sia per il timore nervoso di non sopportare la sua presenza e di crollare
(ibidem). Gli americani sono convinti della legittimità del loro way of death e i funeral
directors danno a questi riti un’altra giustificazione molto interessante: minacciati nei loro
interessi dall’opinione pubblica che vorrebbe semplificare i funerali, si rifugiano dietro il
parere di alcuni psicologi, secondo i quali dei bei funerali floreali e ambienti caldi e
familiari scacciano la tristezza e la sostituiscono con una dolce serenità. In definitiva,
l’industria delle pompe funebri avrebbe una funzione morale e sociale con lo scopo di
addolcire (softness) il rimpianto dei sopravvissuti (ivi, p. 223). Il modo di concepire la
funzione della Casa funeraria e delle pompe funebri in generale dai professionisti
dell’addio d’oltre oceano descritto da Philippe Ariès è il riflesso dell’odierno modo di
pensare ai nuovi rituali nel nostro Paese.
118
Gli ospedali italiani sono ospedali antiquati le strutture sono fatiscenti forse anche per questo
torni anche al discorso della morte come viene vista, tu hai il ricordo della camera ardente
dell’ospedale, una camera ardente magari, la maggior parte delle camere ardenti situate nei
sotterranei, fatiscenti hai un certo tipo di ricordo. La Casa funeraria vai a trovare un caro che si
è spento, vieni accolto in un ambiente diverso, come ti dicevo, più accogliente, per amor del
cielo non è che cambia il tuo dolore il tuo stato d’animo eh, perché è quello, però lo vivi in
maniera diversa, credo che si possa viverlo in maniera diversa […] Un ricordo migliore del
giorno, di tutto, dei giorni perché comunque dal momento in cui si spegne la persona,
all’ultimo saluto, alla tumulazione, passano quei due, tre giorni. Un certo tipo di ricordo fa si
che magari tu come persona possa affrontare un domani lo stesso evento in maniera diversa,
no? […] Di riuscire a convivere con questo ricordo, comunque è un ricordo indelebile, che sia
un tuo caro, che sia un amico, è un ricordo che rimarrà sempre in una persona (Alessandro).
Vivere il lutto in un ambiente accogliente piuttosto che nelle fatiscenti strutture d’ospedale
concorre a custodire nel tempo un ricordo migliore dell’evento doloroso vissuto nei due o
tre giorni di veglia, afferma l’impresario funebre intervistato. La funzione morale e sociale
agisce sull’individuo permettendogli di convivere più serenamente con il ricordo della
persona scomparsa alleviando lo strazio creato dal lutto.
Fa poca differenza la location, però anche lì in realtà se si fosse in grado di poterli dare una
sistemazione in una cameretta un po’ più dignitosa, non dico che può attenuare, alleviare un
dolore di quel tipo, assolutamente, però, poterli far sentire tra virgolette un po’ più a casa,
invece che essere in un, tipo macelleria, perché di quello si parla, non so se per i tuoi studi sei
mai andata a vedere che cosa è il civico obitorio di Milano, è scandaloso, è scandaloso. Già un
tuo caro vederlo, magari, in condizioni cosi, non belle, fa male e farebbe male a prescindere,
però, vederlo per terra o vederlo su un lettino, può fare la differenza. Per intenderci, potrebbero
essere più curati gli ambienti, senz’altro, ripeto, farebbe male comunque, ma vederlo cosi, su
un tavolaccio è veramente scandaloso (Francesco).
Vedere il proprio caro all’obitorio steso per terra insieme ad altri corpi fa male, spiega
Francesco, una situazione che si vive all’obitorio civico di Milano definita dall’intervistato
una “macelleria”. Invece preparare il corpo con cura per il funerale ed esporlo in un
edificio che dà la sensazione di un ambiente familiare in camere arredate con oggetti che si
trovano di solito nelle case private, sicuramente non allevia un dolore così intenso ma può
aiutare a vivere la situazione più serenamente perché il contesto lo consente. Le Case
funerarie forniscono un ambiente familiare al di fuori dell’abitazione privata, danno
l’occasione per affrontare nel migliore dei modi il triste evento e concedono lo spazio
affinché i membri della famiglia e amici del caro estinto si incontrino e si salutino: accade
che accanto al corpo del defunto l’atmosfera risulti più carica di contrizione, mentre
all’altra estremità della stanza, o appena fuori, si può svolgere una piacevole conversazione
(Davies 1996, p. 58).
119
3.1.2 Ruoli e gerarchie
Intorno alla Casa funeraria ruotano tre figure professionali: i responsabili del servizio Casa
funeraria (Francesco e Luca), autisti e operatori necrofori: un’équipe di rappresentazione
formata da un complesso di individui che collaborano nell’inscenare una singola routine
(Goffman 1959, p. 97). Francesco e Luca hanno formalmente parità di grado, gestiscono la
struttura eseguendo tutte le pratiche dall’accoglienza alle partenze, si possono definire
compagni di équipe poiché contano l’uno sull’altro per una collaborazione sul piano
drammaturgico, allo scopo di suscitare una certa definizione della situazione (ivi, p. 101).
Autisti e operatori necrofori, che si aggirano nella Casa funeraria solo in determinati
momenti della routine lavorativa, possono ugualmente considerarsi compagni di équipe,
anche se a volte non si dimostrano sensibili alla rappresentazione che si vuole dare o
vogliono porre un accento particolare (ibidem). Ad esempio accade spesso che tra i due
operatori che lavorano all’interno della Casa funeraria (Luca e Francesco) e gli operatori
necrofori che invece lavorano all’esterno ossia hanno il compito di seguire i funerali, ci
siano dei piccoli litigi perché i necrofori, mentre attendono di portare via la salma
dall’edificio, si appropriano della reception luogo riservato agli operatori che gestiscono
l’area interna della struttura e capita che questi ultimi, infastiditi dall’atteggiamento, li
mandino via. Nonostante siano nominati due responsabili della struttura, Francesco ha un
diverso potere all’interno della Funeral home esercitando la leadership, è chiamato
“responsabile” dal titolare dell’edificio che si rivolge a lui per qualsiasi cosa
(telefonandogli diverse volte durante un turno di lavoro), quest’ultimo è ufficialmente in
possesso del potere della struttura ma ha una parte che ha un’importanza solo
drammaturgica, mentre sono i subalterni, come nel caso di Francesco, a dirigere lo
spettacolo (ivi, p. 120). Per quanto concerne i compiti eseguiti dai due operatori esiste una
forma di divisione del lavoro per cui Francesco si occupa delle pubbliche relazioni
lasciando i lavori manuali a Luca quando è possibile: «Ognuno ha i compiti suoi. Se c’è da
fare i documenti o da parlare alla famiglia Luca lo sa che lo faccio io e lui veste la salma.
Lui è un po’ più manuale, c’è chi è più portato per fare uno, chi è più portato per fare
l’altro». Un’indole carismatica e sicura di sé che ha condotto Francesco a capo della
struttura, lui non “fa uscite” che nel gergo aziendale vuol dire che non segue i funerali ma
lavora solo all’interno dell’edificio. Un temperamento mite quello di Luca che preferisce
eseguire lavori pratici, “si sente più portato” a sistemare una salma piuttosto che
120
comunicare con i dolenti, lavora spesso all’esterno della Casa funeraria, sistema le salme
negli appartamenti privati, segue i funerali prestandosi come operatore necroforo e preleva
i cadaveri dal luogo del decesso per portarli nella sala tecnica. Una gerarchia informale
quella in cui agiscono gli operatori funebri, costruita e negoziata giorno dopo giorno.
Inoltre se c’è un problema di qualsiasi genere, i membri del personale si rivolgono a
Francesco il responsabile com’è accaduto in un episodio a cui ho assistito nella hall. Dopo
esser tornati dall’accoglienza Francesco mi informa sulle prossime attività: «Dobbiamo
sistemare una salma all’interno della cassa poi c’è da fare l’espianto di un pacemaker ma
questo te lo sconsiglio». Non ho altra scelta. Mentre Luca e Francesco lavorano nella sala
tecnica, mi accomodo sulla poltrona poco distante dalla reception. Di fronte a me i maxi
schermo. Noto una dicitura diversa dalla solita (nome e cognome del defunto e il numero
dell’appartamento in cui si trova), sotto uno dei nomi appare in osservazione e vicino un
altro nome in deposito. Perplessa domando all’uomo di mezza età cosa vogliano dire quelle
legende. Mi spiega pazientemente che in osservazione vuol dire che il defunto non è
nell’appartamento ma è nella sala tecnica in attesa di essere sistemato e pronto per
l’esposizione, mentre in deposito è il luogo nel quale si trovano i feretri, il magazzino della
Casa funeraria, in attesa di essere portati alla destinazione finale. Immagino delle bare in
serie accatastate una sull’altra e penso che farebbero meglio a eliminare le due indicazioni
dai maxi schermo. Chiacchierando l’uomo in divisa rivela di essere un’autista necroforo:
«Sono un’autista guido carri funebri sono qui per fare un favore», se la giornata lavorativa
è particolarmente movimentata, gli operatori necrofori (ritenuti fidati dal responsabile)
aiutano Francesco nella gestione dei dolenti. Un ragazzo si avvicina a noi chiedendo del
proprio caro, l’autista guarda il maxi schermo e risponde che è in deposito. Sconcertato, il
dolente domanda cosa significa. Un momento di silenzioso imbarazzo. L’operatore non sa
come spiegarglielo, questa volta la domanda gli è stata fatta da una persona che ha perso
quel qualcuno “depositato” in un magazzino creando un delicato problema d’interazione, o
meglio una disgrazia rituale (Goffman1967, p. 22). Per riparare all’incidente e di
conseguenza il proprio self, l’autista schiva la domanda e va in aiuto al responsabile, solo
in questo modo si è restituito un equilibrio all’interazione chiamando qualcuno che avrebbe
risposto adeguatamente alla domanda del dolente e risolto i suoi problemi, «lo scopo è di
salvare la faccia, l’effetto è salvare la situazione» (ibidem).
121
3.1.3 Il significato dell’accoglienza
È il momento di un’altra accoglienza. Arriva un gruppo di sette persone chiedendo del
proprio caro: «Vi accompagno all’appartamento, prego signori», il responsabile lascia
entrare tutti in ascensore, lui per ultimo.
Di nuovo al primo piano. Entriamo nello stesso salottino della prima accoglienza, la porta
della camera ardente è socchiusa, intravedo il dolente seduto al capezzale dell’estinto, è
rimasto lì tutto il tempo da quando siamo andati via. L’operatore chiede ai congiunti se può
aprire la porta della camera ardente, la figlia del defunto con un’espressione inconsolabile
e un fazzoletto tra le mani scuote la testa, non è pronta a vedere il suo papà.
Ci allontaniamo dalla sala consentendo alla famiglia di decidere il momento opportuno per
avere il primo contatto.
Francesco mi spiega che è frequente non voler vedere nell’immediato il corpo del
beneamato, del resto la scomparsa di una persona cara è sempre vissuta come un evento
traumatico e i dolenti hanno bisogno di un idoneo supporto psicologico e di assistenza per
affrontare nel migliore dei modi quelle situazioni che vengono a crearsi durante le prime
ore del lutto, un’assistenza garantita dagli operatori della Casa funeraria poiché questi
ultimi onorano e incarnano le qualità richieste dal decalogo professionale del settore
funerario: sensibilità, puntualità, riservatezza, serietà ed efficienza.
L’incarico assolto dagli operatori nel sistema Casa funeraria è gestire la relazione tra il
defunto e i vivi, nei due o tre giorni in cui la salma è trattenuta nella struttura, sostituendo
quello che era il compito dei parenti nelle famiglie allargate di un tempo, come spiega il
segretario generale della Federcofit.
Io voglio buttar fuori di casa la morte perché nessuno mi da una mano a gestirmela. Allora se
l’operatore nel realizzare questa struttura riesce, proprio perché permette una mediazione
maggiore di queste relazioni, ecco, se riesce a rendere più razionale, diciamo, usando
un’espressione un po’ buffa, più sereno, perché poi il rapporto con la morte non può essere mai
sereno, diciamo può essere anche sereno ma insomma è problematico sempre, però se io do
questo contributo, allora ho una funzione anche sociale importante come operatore. Ho una
funzione anche sociale importante come operatore […] La mia azienda si trasforma
completamente ho una funzione molto più complessa, ho la funzione di gestire queste relazioni
per 30 – 35 ore dal decesso al funerale (Segretario generale Federcofit).
La funzione sociale dell’operatore è intercedere in quelle situazioni in cui il dolente entra
in contatto con la persona scomparsa per rendere più soft la difficile circostanza e ne è un
chiaro esempio, la pratica dell’accoglienza eseguita da Francesco.
122
Qualcuno è sempre disponibile in reception per l’arrivo di parenti e amici perché il dolente
non deve mai provare la sensazione di sentirsi trascurato, come un buon padrone di casa
Francesco accoglie gli ospiti e li guida verso il luogo in cui giace lo scomparso. Media il
primo contatto, uno dei momenti più duri da affrontare, coordina e ritma i tempi
dell’evento adeguandosi alle esigenze dei dolenti, se questi ultimi danno il via, viene aperta
la porta della camera ardente e l’operatore resta lì per assicurarsi che tutto proceda
serenamente, lui deve prendersi cura dei dolenti, esaudire richieste e dare informazioni. Il
frame33“accoglienza”, proiettandoci in una dimensione analitica e utilizzando il
vocabolario goffmaniano, determina l’identità e la funzione sociale svolta dall’operatore
funebre, fabbricata interamente nel rituale dell’interazione che avviene in modo continuo e
incessante all’interno delle interazioni con il pubblico che in questo caso è rappresentato
dai dolenti. Nei contatti sociali, qualunque sia lo status o il rango, il ruolo sociale o
istituzionale ricoperti da un soggetto, e «qualunque siano gli altri ruoli che egli riveste in
quel momento, egli non potrà evitare di ricoprire il ruolo di soggetto interagente»
(Goffman 1967, p. 149). Dunque, il soggetto operatore funebre, responsabile della tutela
del dolente durante l’interazione controlla ed evidenzia le implicazioni simboliche dei suoi
atti alla diretta presenza di un oggetto che per lui assume un valore particolare (ivi, p. 62),
vale a dire il sacro, la rappresentazione del soggetto prodotta dalle interazioni e la sua
percezione negli attori come qualcosa che ne costituisce tanto l’identità sociale quanto lo
status morale (Navarini 2003, p. 177). D’altro canto i dolenti celebrano il proprio legame
con l’operatore affidandosi a lui e al compito che assolve tramite l’impegno spontaneo,
quell’energia al tempo stesso reale e assunta in modo cerimoniale ma necessaria per
entrare in relazione con l’altro attribuendo a quest’occasione di relazione un senso di realtà
(ivi, p. 178).
33
Il frame è una cornice cognitiva che definisce e riflette le premesse su cui si fondano le modalità di
organizzazione e di interazione relative al tipo di situazione o di scena in cui i soggetti sono collocati.
Goffman ha delineato una microsociologia della conoscenza, elabora una teoria dell’organizzazione sociale e
cognitiva dell’esperienza quotidiana. Si tratta dell’idea del mondo sociale quale incastro di frames, ovvero di
«cornici simboliche» che conferiscono un determinato tipo di senso alle situazioni concrete. L’etnografo deve
operare una distinzione tra le diverse «sfere di realtà autonome e contestuali» nelle quali si radicano i
significati delle sequenze minute di interazione. È esattamente ciò che avviene nell’esempio paradigmatico
del gioco, dove - «diversamente dall’attività seria» - entriamo in un mondo nel quale i nostri gesti, le nostre
parole e persino gli oggetti che manipoliamo assumono un altro significato rispetto a quello normalmente
«conferito nella vita reale», ma non per questo possiamo definire il frame del gioco come qualcosa di
«irreale». In conclusione, l’operazione di framing svolta dagli attori sociali si configura fondamentale per una
descrizione etnografica della vita di ogni giorno, poiché essa consente agli individui di orientarsi attivamente
tra le molteplici dimensioni dell’esperienza: ciascun frame conferisce allora un determinato tipo di senso a
quel che accade a seconda della sfera di realtà nella quale si colloca, «facendo diventare finzione, gioco,
cerimoniale, inganno e altre riformulazioni» (Dal Lago, De Biasi 2002, p. XXVII).
123
In sintesi, una vera e propria attività rituale incentrata su un insieme di piccoli atti
espressivi, combinabili e concatenabili in diversi modi, riguardo alle circostanze della
situazione in cui gli individui entrano in contatto tra loro, a come intendono o presumano
che sia il rapporto che li lega, a come gli stessi partecipanti definiscono la loro situazione
di compresenza (ivi, p. 176). La fase accoglienza termina dopo qualche minuto di
raccoglimento attorno al corpo senza vita con la domanda dell’operatore per assicurarsi che
vada tutto bene, egli dovrà cogliere il momento più adatto per interagire con i cari stando
attento a non danneggiare il fragile equilibrio emotivo dovuto alla delicata circostanza.
3.1.4 Incassamento, chiusura e partenze
Al termine di una breve pausa nel retro della Casa funeraria Francesco, rivolgendosi a
Luca, esclama: «Va beh dai, andiamo a incassare gli altri due». Colgo l’occasione per
osservare la pratica dell’incassamento. Prendiamo l’ascensore e arriviamo al primo piano.
Francesco bussa alla porta della camera ardente, dove riposa la salma da prelevare. Un
uomo di quasi cinquant’anni li avrebbe compiuti ad agosto. Non risponde nessuno. Entra,
stacca la spina del lettino refrigerante e porta il corpo nella sala tecnica dietro la camera
ardente. Gli operatori lavorano in modo coordinato mostrando che il compito è stato
eseguito molte volte in precedenza e sempre da loro due; indossano guanti in lattice,
tolgono la bara dal carrello e la poggiano a terra poi si posizionano per prendere il corpo
dell’uomo, Francesco lo afferra sotto le braccia, Luca dalle caviglie, al via di uno dei due
lo spostano con notevole sforzo dal lettino alla bara. Sistemano per bene il defunto
all’interno del cofano, abbassano una delle due braccia che nell’impatto è rimasta alzata,
stendono la giacca del vestito e Luca dichiara finita l’operazione con la frase: «Pronto per
il lungo viaggio». L’azione dura pochi minuti, non appena conclusa passano sulle mani un
disinfettante posto in un angolo dell’area tecnica e si asciugano con della carta. Chiedo
com’è morto l’uomo, ma non lo sanno e forniscono una risposta ironica, per loro è solo un
corpo senza vita, uno tra i tanti che arriva in Casa funeraria, per gli operatori è solo lavoro.
È ora di pranzo, Francesco ci guarda e dice: «Andiamo a mangiare?».
Il contatto costante e regolare con la morte porta gli operatori ad affrontare il lavoro con
cinismo, un atteggiamento diretto a sdrammatizzare e creare un clima, almeno tra i
dipendenti, più sereno. I cadaveri sono considerati “lavoro da eseguire” e vederli non
suscita sensazioni di alcun tipo nei professionisti, sono desensibilizzati e imparano a
124
“sentire meno”, diventano schermati e impassibili al dolore degli altri che subiscono
quotidianamente. Il linguaggio adoperato dagli addetti è un esempio di come sia percepita
la morte dagli operatori, considerata da un punto di vista meramente tecnico/professionale
e per nulla emotivo. Riporto una situazione tipo di quelle che si vedono abitualmente nella
Casa funeraria che chiarisca il concetto.
Dal portone d’ingresso entra un uomo ed esclama a gran voce:
«Buongiorno dovrei consegnare una salma».
Francesco è in reception, controlla delle carte e dopo due minuti risponde all’uomo in
attesa: «Va bene, voi dovete scaricare giusto?»
«Si siamo con un furgone».
«Bene prendete il furgone e scarichiamo nel retro».
Per un individuo che non appartiene alla professione assistere a una conversazione di
questo genere potrebbe rivelarsi un’esperienza triste e scioccante perché accostare il verbo
“scaricare” a una salma può sembrare una mancanza di tatto, dà l’impressione che si parli
della persona morta come se fosse un oggetto, un tipo di linguaggio non consentito in
quelle regole della grammatica culturale che strutturano i rapporti e le interazioni sociali e
che inconsapevolmente seguiamo. Nelle attività di routine della Casa Funeraria alcuni
principi sono sovvertiti, gli operatori parlano in quel modo di un defunto non perché lo
considerano letteralmente una merce da scaricare mancandogli di rispetto, ma si servono di
espressioni appartenenti al gergo professionale spesso caratterizzato dall'adozione di
termini metaforici, destinato esclusivamente alla comunicazione fra gli appartenenti a
quella categoria lavorativa, un linguaggio che si usa spesso inconsapevolmente poiché è
appreso nel luogo di lavoro, è molto pratico e consente più sintesi (Cogno 2009, p. 136). Il
soggetto interagente, osservato da un punto di vista etnometodologico come «persona
incarnata nelle sue pratiche e nel suo contesto d’azione», un contesto di ordinaria
interazione, agisce in un modo “dato per scontato” rendendo intelligibile, ragionevole e
comprensibile (accountable) ciò che fa e ciò che dice (Navarini 2003, p. 208). Il cinismo
come arma di difesa contro l’angoscia che serpeggia in Casa funeraria è adottato in molte
situazioni e spesso si riversa contro i clienti, una tattica indispensabile per evitare il
coinvolgimento emotivo. È da poco terminato un funerale e familiari e amici del defunto
indugiano nella hall. Francesco guardandoli borbotta: «Ma tutta sta gente che intenzioni
ha? Perché non trovano un posto dove andare?»
125
Stupita, gli faccio notare che ciò che ha detto contrasta con il suo modo di essere cordiale
nell’interazione con i dolenti, goffmanianamente un’espressione cerimoniale poco in linea
con un self che esprime “buon contegno34”. Risponde alla mia provocazione: «Sai, c’è tutta
la parte ufficiale, poi c’è quella ufficiosa, l’altro aspetto». La parte “ufficiale” è la ribalta
direbbe Goffman (1959 p. 133) luogo nel quale si svolge un’attività in presenza di altre
persone, si riveste un particolare ruolo e l’espressione di alcuni aspetti viene accentuata. In
questo caso la ribalta è rappresentata da quelle situazioni in cui gli operatori sono davanti
al pubblico ossia i dolenti, interagiscono con loro mantenendo un tono colloquiale formale
e cortese recitando la parte dell’operatore funebre sempre a disposizione del cliente e
disposto a esaudire qualsiasi richiesta. La parte “ufficiosa” invece corrisponde al
retroscena (ibidem), territorio nel quale gli aspetti che potrebbero screditare l’impressione
voluta vengono soppressi, qui l’attore può rilassarsi, abbandonare la sua facciata, smettere
di recitare la sua parte e spogliarsi del suo ruolo. Come detto in precedenza la Casa
funeraria è divisa in due ambienti, una zona riservata al pubblico e l’altra (la sala tecnica)
nella quale l’accesso è limitato solo ai membri del personale; potremmo dire che la prima
corrisponde alla ribalta, la seconda al retroscena. La sala tecnica è identificata da una porta
con il simbolo del divieto d’accesso35 e si sviluppa nel retro della struttura, rappresenta il
retroscena ideale poiché si trova a un estremo del luogo dove è presentato lo spettacolo ed
è separato da un divisorio e da un passaggio sorvegliato, inoltre costituisce un luogo sicuro
per l’operatore nel senso che nessuno del pubblico può entrarvi (ivi, p. 134). Seguendo
questa logica, qualsiasi territorio può essere trasformato in retroscena, infatti, l’episodio
raccontato, si è svolto in reception, Francesco prima di pronunciare quelle frasi si è
accertato che non ci fosse nessun dolente nei paraggi e lontano dai loro occhi ha liberato il
suo sfogo; gli attori si appropriano di un settore della ribalta e assumendo un
comportamento familiare lo staccano simbolicamente dal resto del territorio (ivi, pp. 149 150). La situazione cambia totalmente se in Casa funeraria arriva il corpo di qualcuno
conosciuto dagli operatori, in questo caso il cinismo cede il posto al silenzio. L’aria era
particolarmente tesa quel giorno, gli operatori dovevano incassare un quarantenne morto di
34
L’espressione di un buon contegno è il comportamento cerimoniale con cui il soggetto vuole informare gli
altri del possesso di certe sue qualità, è comunemente una condizione necessaria per entrare in relazione con
qualcuno.
35
Habenstein nel corso di un seminario ha affermato che gli impresari di pompe funebri hanno il diritto legale
di impedire ai parenti del defunto di entrare nella stanza dove si sta preparando il morto. Forse la vista di ciò
che deve essere fatto ai cadaveri per farli sembrare attraenti, sarebbe un colpo troppo duro per i non addetti e
soprattutto per i parenti stretti (Goffman 1959, p.163).
126
cancro ai polmoni. Amareggiato per la vita che se ne va, Luca sussurra: «Era un amico.
Andavamo allo stadio insieme». La camera ardente pullula di parenti e amici che
lentamente lasciano la stanza per dar modo agli operatori di portar via la salma. Un rosario
e una sciarpa da tifoso sono adagiati sul pover’uomo per onorare la sua identità. Francesco
e Luca coprono il corpo con un lenzuolo bianco e trasportano il lettino refrigerante verso il
montaferetri, prima di entrare un’anziana donna ci raggiunge, guarda il suo caro lo bacia
sulla bocca e lo accarezza. L’ascensore di servizio ci conduce alla sala tecnica del piano
terra, dove gli operatori procederanno all’incassamento. Mi consigliano di andar via perché
la salma ha “forti problemi” e l’operazione sarà problematica, la lunga malattia ha
trasformato il corpo del defunto e il processo di decomposizione ha iniziato il suo corso.
Finito il lavoro di incassamento Luca e Francesco attraversano il lungo passaggio che porta
dalla sala tecnica alla sala del commiato per esporre la bara aperta e dare la possibilità di
un ultimo saluto ad amici e parenti prima della chiusura definitiva del cofano e della
partenza che condurrà il feretro in chiesa per il funerale e successivamente al luogo della
sepoltura. È giunto il momento di procedere alla chiusura della bara. I due operatori
entrano nella sala del commiato informano i cari che devono portare via il feretro, poi si
fanno in disparte concedendo ad amici e parenti di vedere per l’ultima volta il proprio caro.
Tutti intorno al feretro, qualcuno lo bacia, altri piangono e pian piano la sala si svuota.
Si attraversa di nuovo verso il passaggio per arrivare alla sala tecnica: la chiusura del
feretro avviene qui e a occuparsene è il personale necroforo. Gli ambienti riservati ai
dipendenti brulicano di operatori necrofori e autisti prima della partenza, si rintanano qui
perché la loro presenza non deve “invadere” i locali dedicati ai dolenti.
L’idea è stata presa dalle case funerarie americane, l’idea è quella di non mescolare diciamo
così (Francesco).
L’ennesima idea presa in prestito dal sistema funerario americano. Gli operatori necrofori
non devono mischiarsi ai dolenti per non alterare l’armonia e il silenzio che regna nella
Casa Funeraria.
Immagina che quando c’è pieno qua, ci sono nove salme e magari quattro funerali che vanno
via alla stessa ora abbiamo quattro, otto, dodici, sedici operatori necrofori, intendo, sono tanti,
non possono circolare, chi va al secondo, chi al terzo, chi ha la salma al terra, perché poi sono
tutti in divisa vestiti uguali, sarebbe poco carino […] Ma non che non si possono chissà per
quale motivo, perché è poco carino ecco, semplicemente per quello, perché siamo in divisa e
vedere tutti questi omini con la divisa blu che vanno su, giù, a destra, sinistra, perché poi devi
salire, scendere, portare attrezzi, attrezzatura, saldatura, trapano, non sarebbe carino vederli
127
muovere negli ambienti dove magari la gente sta chiacchierando ed è seduta sul divano come
stiamo facendo io e te, vedere passare uno con la valigetta che magari ha una certa premura
anche, dunque, dai vieni, corri, fai (Francesco).
Il responsabile pensa che sia poco carino vedere tutti questi omini in divisa blu che corrono
ovunque con l’attrezzatura da lavoro, trapano, saldatore eccetera. E se la Casa funeraria è
al completo ovvero tutti e nove gli appartamenti ospitano nove salme e hanno la partenza
alla stessa ora quattro di loro, vuol dire che sedici operatori necrofori più quattro autisti
dovrebbero circolare nella struttura, non è una buona idea trasmettere ai dolenti l’ansia e la
fretta dovute alla gestione dei tempi e mostrare loro i segreti del retroscena.
Tutto questo avviene lontano dagli sguardi di chi sta al di qua che probabilmente sa che cosa
sta succedendo, vedono i mezzi fuori, vedono un certo movimento, però è giusto che sia il più
discreto possibile, anche se poi si intuisce che qualcuno sta facendo qualcosa, però deve essere
fatto in maniera discreta (Francesco).
La frenesia che precede le partenze è percepita dai dolenti, ma tutto deve avvenire lontano
dal loro sguardo, la discrezione è indispensabile per proteggere la serenità di quanti devono
già affrontare la grave situazione del lutto. A occuparsi della chiusura della bara in cui
giace l’amico di Luca, è un operatore necroforo. L’uomo dalla corporatura robusta e i folti
capelli neri sta saldando un pezzo in ferro sul feretro con la funzione di bloccare la
fuoriuscita di liquidi organici causati dalla decomposizione del corpo, poi riporrà il
coperchio in legno della bara avvitandolo con il trapano verificando che sia ben stabile.
Una composizione floreale e la sciarpa da tifoso che prima giaceva sul corpo dell’uomo
sono esposte sulla bara inserita poi da quattro operatori necrofori nell’auto funebre.
Durante l’operazione di chiusura del feretro noto che nessun dolente è presente, pensavo
fosse importante per i cari dello scomparso assistere alla separazione dal defunto, evento
principale per il parente in lutto poiché l’azione potrebbe essere considerata un’importante
fase di passaggio36(Van Gennep 1906) dell’intero rituale funebre. La chiusura della bara è
una fase che segna il passaggio dalla sepoltura provvisoria a una sorta di pre-sepoltura
definitiva perché il corpo non è più visibile avviandosi alla fine del doppio legame del
morto con i vivi, simbolicamente rappresenta la fine di ogni possibilità di intervento
sociale, culturale e affettivo sul corpo.
36
L’espressione “riti di passaggio” è stata coniata dall’antropologo Arnold Van Gennep, egli sostiene ce il
rito è un passaggio, ovunque vi è un rito vi è un mutamento in sostanza. I riti marcano le fasi e i cicli della
vita individuale, tramite essi viene ristabilito un ordine volto a colmare i “vuoti di senso” creati dai fenomeni
sociali percepiti come transizioni (Navarini 2003, p. 91).
128
La gente non ci tiene ad assistere, sono pochi quelli che dicono io voglio, se lo vogliono noi li
accontentiamo e vengono nell’area tecnica ad assistere, senza problemi. Ma la gente non ci
tiene ad assistere alla chiusura […] Però si abituano a vederlo sul lettino, dunque sanno che è
morto ma hanno la sensazione che è come se fosse su un letto, tanti danno l’ultimo saluto cosi,
non vogliono neanche vederlo nella cassa, figuriamoci vedere l’atto di chiusura. La chiusura,
credo io, per esperienza, è la parte terminale, e insieme all’inumazione o tumulazione sono i
momenti più delicati. Perché lì, chissà per quale strano meccanismo, scatta il non lo rivedrò
mai più, è morto anche prima però, non so, lo vedi, c’è anche il contatto, il tatto, lo tocchi,
anche se le sensazioni sono di freddo, morte, però lo puoi vedere, lo puoi toccare. Quando vai a
mettere il coperchio su, quando vai a chiudere la cassa, realizzi che non lo rivedrai mai più
(Francesco).
Francesco ritiene che gli individui non vogliano vedere la chiusura perché ritenuto un
momento troppo duro da sopportare ma se qualcuno vuole assistere, può farlo, non è
vietato dalla legge essere presenti alla chiusura del feretro. Molti preferiscono dare l’ultimo
saluto vedendo il proprio caro steso sul lettino nella camera ardente perché anche se hanno
la consapevolezza che sia morto, possono vederlo e toccarlo, mentre l’atto della chiusura,
che corrisponde, a parere dell’operatore, al momento finale del rituale funebre simile alla
sepoltura al cimitero, è la parte più dolorosa poiché si acquisisce la consapevolezza di non
rivedere mai più la persona amata. Scatta lo strano meccanismo del non lo rivedrò mai più,
il legame tangibile con il defunto si spezza evolvendosi in un ricordo dai contorni sfumati e
questo fa male.
Noi tendiamo a non farlo vedere, dare l’ultimo saluto e ricordarlo cosi. Che poi ricordi quel
momento, sentire il rumore dell’avvitatore che ti sfonda il cervello per mesi, se sei debole quel
trapano ti accompagna per tutta la vita. In quel momento là tu sei talmente debole e quella
scena la rivivrai tutta la vita. Invece dai l’ultimo saluto, ti allontani e lasci che gli operatori
facciano quello che devono fare. Tu sai cosa devono fare, però, non vedi (Francesco).
La politica della Casa funeraria prevede la chiusura del feretro lontano da parenti e amici
per proteggerli, consentendo loro di avere un ricordo del caro estinto vivido e non
tormentato dal rumore martellante degli attrezzi da lavoro adoperati sulla persona amata
poiché i particolari della chiusura della bara possono indurre effetti psicologici devastanti
sui familiari. In sintesi, in un momento di fragilità psicologica il trambusto della sala
tecnica è uno spettacolo proibito ai dolenti, a loro è concesso accomiatarsi dal defunto in
un clima calmo e sereno che possa restituire una sorta di pace interiore. Nella sala tecnica
irrompe un uomo in divisa dicendo: «La mia salma dov’è? Ho la partenza tra un po’». Va a
prendere l’auto con la “sua” salma e la conduce fino all’ingresso principale della Casa
funeraria. Francesco scorta tre donne che hanno espresso il desiderio di accompagnare il
proprio caro con il carro funebre, apre lo sportello posteriore dell’auto e le signore si
129
accomodano. Luca segue il funerale del suo amico, si siede accanto all’autista. Pronti per
la destinazione finale.
La Casa funeraria è un contesto nel quale le categorie della morte hanno risvolti
interpretativi, simbolici, rappresentativi, emotivi o religiosi poiché è il luogo che ospita il
rito dei riti ma non solo; un altro tipo di rituale prende forma nell’edificio, un rituale non
vincolato a un insieme di rappresentazioni, visioni del mondo o credenze, un rito che è
sostanzialmente una pratica, cioè un’azione ridotta all’osso senza né simboli né credenze,
sia il dominio in cui si agisce (l’ordine) sia il modo concreto in cui si agisce (le pratiche)
possono essere rituali. I membri dello staff eseguono quotidianamente quest’insieme di
pratiche reciprocamente interdipendenti e dal carattere fondamentalmente sociale:
l’incassamento, la chiusura e la partenza rappresentano pratiche ripetitive, standardizzate,
realizzate meticolosamente e con un certo sincronismo, attività eseguite in un contesto
organizzato come quello della Funeral home e che sono indicative dell’esistenza di un
ordine socialmente organizzato e dotato di senso (Navarini 2003, p. 208-209).
3.2 Il senso antropologico e sociologico della “toeletta funebre”
La sala tecnica è dedicata alla preparazione dei corpi e l’accesso è strettamente riservato
agli addetti ai lavori, fa parte dell’area riservata nella quale i diversi spazi sono tra loro
comunicanti e collegati in modo da garantire il passaggio dei corpi e dei cofani fuori dalla
vista del pubblico. È quindi un luogo isolato, al riparo dagli sguardi, un ambiente asettico,
duro, cinereo allestito con tavoli d’acciaio e imponenti celle frigorifere.
È il luogo in cui si sente la morte.
Nel tardo pomeriggio in Casa funeraria arriva la salma di un’anziana signora. Siamo nella
sala tecnica, vedo il corpo esanime steso sul tavolo d’acciaio interamente coperto da un
lenzuolo bianco. Nel frattempo Francesco si cambia, toglie la giacca, indossa il camice e i
guanti in lattice monouso, scopre il cadavere, io sono lontana all’altra estremità della
stanza, sbircio e l’operatore mi consiglia caldamente di non assistere alla sistemazione
della salma37dell’anziana donna. Assolutamente d’accordo (soprattutto dopo aver visto il
37
La sistemazione di una salma inizia con le fasi del lavaggio, della disinfezione e della mobilizzazione delle
articolazioni. Le medicazioni, le sonde e tutti gli altri apparecchi vengono tolti. Se il cadavere presenta
fuoriuscite o è particolarmente sporco si attua un lavaggio minuzioso con l’aiuto di un detergente. Poi si
asciuga il corpo e si procede alla sua completa disinfezione, insistendo soprattutto sugli orifizi naturali o sulle
pieghe cutanee. Queste zone, veri ricettacoli di microorganismi patogeni, devono essere trattate subito per
130
corpo nudo della povera deceduta) esco dalla sala, però avviso l’operatore di voler assistere
almeno alla preparazione del viso. Nel frattempo nella hall aspettano i parenti dell’anziana
signora impazienti di rivederla, mi unisco all’attesa. Non appena pervenuto il cadavere
dell’anziana signora in Casa funeraria, Francesco è un po’ seccato perché deve sistemarlo
subito poiché i parenti sono arrivati insieme alla defunta e aspettano di vederla esposta
nell’appartamento. L’autista necroforo in reception, vedendo i parenti sostare nella hall,
esclama “che sfiga” perché la loro presenza non consente a Francesco di evitare l’incarico
lasciando il cadavere nella sala tecnica in attesa che arrivi il collega a sistemarlo (Luca era
fuori a seguire un funerale). Dopo circa quindici minuti, Francesco apre la porta sulla quale
è indicato il divieto di accesso e mi fa cenno di entrare. La donna indossa un largo e lungo
cappotto verde scuro (nonostante siamo in un caldo mese estivo) che nasconde il delizioso
abito che la famiglia ha scelto per lei, ma la figlia della defunta ha voluto che lo mettesse
perché era l’indumento preferito dalla mamma. È arrivato il momento di assistere
all’importante e delicata fase della cura del viso durante la quale si cercherà di ridare ai
tratti dello scomparso un aspetto naturale chiudendogli gli occhi e la bocca. Nella bocca è
inserita dell’ovatta che aiuta a mantenerla ferma in quella posizione, poi un punto di
legatura va a chiudere la mascella superiore e inferiore al fine di mantenere la bocca chiusa
con un aspetto naturale, il labbro superiore riposto sul labbro inferiore. Questa tecnica
prevede l’aiuto del filo38e di un ago39 ricurvo, Francesco è molto abile nell’eseguire
l’operazione frutto dell’esperienza maturata in anni di lavoro; introduce il filo con l’ago
sotto la lingua e fa fuoriuscire l’ago da sotto il mento, ripassa l’ago dallo stesso buco ma lo
fa uscire passando davanti la mascella inferiore, tra le gengive e il labbro inferiore e tira il
filo in modo da fare entrare nella carne l’occhiello sotto il mento. Introduce l’ago tra la
gengiva e il labbro superiore in modo che esca da una delle due narici, fa entrare l’ago per
evitare il presentarsi dei primi segni di decomposizione (colore verdastro) che pregiudicherebbero la
presentazione estetica e igienica del defunto. L’operatore si occupa quindi di mobilizzare le articolazioni e
rompere la rigidità cadaverica. Utilizza anche una crema da massaggio che viene spalmata su tutto il corpo,
insistendo su mani e viso: il massaggio permette di ben reidratare la pelle e costituisce un’ottima base per il
trucco che potrà essere realizzato alla fine del trattamento.
Una volta terminato il trattamento del corpo, la salma sarà in seguito vestita con gli abiti scelti dalla famiglia.
È importante ricordarsi che tutti gli abiti devono essere messi sul corpo, compresa la biancheria, cinture,
bretelle, scarpe ecc. (Larribe 2010).
38
Il filo più correntemente utilizzato è un filo di lino, solido e resistente. Esiste in forma cerata al fine di
evitare che questo si imbeva di liquido. Si può ugualmente utilizzare del filo chirurgico che però è
generalmente più caro poiché sterile. Il filo chirurgico è interessante perché essendo più fine permette di fare
delle suture meno visibili (Larribe 2010).
39
Sono della forma di mezzo cerchio e ne esistono di diverse dimensioni, adatti per introdurre il filo nelle
zone a forma complessa (Larribe 2010).
131
la stessa narice in modo da uscire nell’altra narice. Il filo passa quindi nella cartilagine del
setto nasale. Fa entrare l’ago nella seconda narice in modo che esca tra il labbro e la
gengiva superiore. A questo punto gli resta da annodare i due fili con l’aiuto di un
occhiello che potrà in seguito sciogliere. Il passo successivo è chiudere gli occhi
restituendo loro un aspetto naturale attraverso l’inserimento di copri-occhi sotto le palpebre
(conchiglie di plastica trasparente che presentano sulla parte convessa piccole protuberanze
in modo da evitare che la palpebra si possa aprire). Bocca e occhi si idratano con una
crema prima di passare alla cosmesi. La cosmetica è una tappa molto importante, si tratta
più precisamente di un riequilibrio delle colorazioni del volto del defunto. Il viso delle
salme presenta un aspetto molto pallido, uniformemente spento poiché il sangue non
circola più nei piccoli capillari sotto la pelle, quindi si compensa quest’assenza di
colorazione. Si tratta di un lavoro che deve essere estremamente sottile, adatto al volto del
defunto e che non ha nulla a che vedere con il trucco. Familiari e amici, guardando il loro
caro, dovranno trovargli una “buona cera” senza poter definire precisamente da dove viene
questa sensazione (Larribe 2010, p.87). Francesco avvicina al tavolo in acciaio un
carrellino con l’insieme di prodotti cosmetici (fatti arrivare dalla Francia), applica la crema
colorata sul volto40 della donna partendo dal centro della zona da riequilibrare verso la
periferia. Una volta applicata la crema colorata, utilizza una cipria leggera e trasparente per
opacizzare la pelle, evitando così i riflessi. L’ultima fase è l’acconciatura, l’operatore deve
rispettare al meglio il modo nel quale il defunto si acconciava, l’osservazione di una foto,
consegnata dalla famiglia, potrà fornire consigli preziosi (ivi, p. 86). Nel caso dell’anziana
donna è stato semplice occuparsi della sua acconciatura avendo i capelli molto corti, è
bastato pettinarli e hanno preso facilmente la loro posa. Conclusa l’operazione Francesco
avvisa i parenti che a breve potranno accedere all’appartamento, la figlia della defunta dà
in custodia all’operatore un mazzolino di fiori, due fotografie dei nipotini e
un’immaginetta di Padre Pio chiedendogli se può darli alla mamma. Torniamo nella sala
tecnica, Francesco sistema accuratamente gli oggetti 41 sul corpo dell’anziana, poi la copre
40
Il volto non è la sola parte che può ricevere un riequilibrio del colore. Il dorso delle mani può necessitare di
un trattamento cosmetico.
A seconda del tipo di vestiti portati dal defunto(e delle macchie da nascondere) un riequilibrio potrà essere
eventualmente necessario a livello del collo e della scollatura.
Se le orecchie presentano ancora delle tracce degli ematomi cadaverici, sarà necessario mettere in opera lo
stesso trattamento del viso, delle mani e del collo (Larribe 2010).
41
Gli accessori quali occhiali, cappello, foulard, bastone, fotografie, oggetti sacri o religiosi, saranno
posizionati al momento della presentazione. Alcuni accessori necessitano di essere mantenuti in posizione,
132
fino a metà busto con un lenzuolo e con il montaferetri porta la salma nella camera ardente
del suo appartamento per l’esposizione42 e la presentazione ai parenti (accoglienza).
Oltre agli indiscutibili vantaggi dal punto di vista igienico, curare la toeletta di un defunto,
vestirlo, presentarlo come in uno dei suoi giorni migliori, com’era quando era vivo,
risponde non solo al bisogno di conferire al defunto un’apparenza dignitosa, ma anche a
quello più istintivo di rimandare il momento del distacco prolungandone illusoriamente la
vita. In maniera effimera il cadavere si ritrasforma in persona e torna a far parte della
società che lo circonda, una pratica dunque che riveste un’importante funzione rituale
poiché è soprattutto una rassicurazione per i familiari che celebrano il corpo rendendogli
l’apparenza della vita. La toeletta funebre ha il compito di travestire la morte mascherando
i segni devastanti dell’agonia e della sofferenza, cercando di tenere nascoste le tracce
dell’imminente disgregazione, quel poco che ancora rimane, «quel margine di intervento
che ancora sussiste subito dopo la morte, viene sfruttato in ogni modo per imprimere,
ancora una volta, i segni di una cultura, di una concezione antropologica, di una forma di
umanità» (Remotti 2000, p. 138). Curare il corpo del defunto è una pratica che si adegua
alle credenze e alle rappresentazioni collettive della società contemporanea poiché dà
origine a una complessiva rappresentazione dell’intera vita sociale, come direbbe Hertz,
rappresentazione però minacciata dalla presenza della putrefazione. In quanto tale essa
pone un pericolo mortale non solo all’individuo, ma all’intera società e per questo deve
essere culturalmente controllata. I processi biologici della tanato-morfosi pongono
drasticamente fine al modellamento culturale del corpo. La putrefazione, termine che già di
per sé suscita orrore e angoscia, è la forza disgregatrice per eccellenza, è la morte che
agisce sul corpo e sull’intera società, il punto terminale e irreversibile dell’opera di
costruzione dell’essere umano che avverte l’impellente esigenza di governare la
trasformazione dei corpi che stanno per uscire dall’orbita sociale, ma sono ancora
“impregnati” di umanità tanto da non poter essere facilmente abbandonati (Favole 2003,
pp. 34-35).
l’operatore deve fare attenzione a non utilizzare dei sistemi di fissaggio definitivi (per esempio la colla)
poiché il corpo potrà essere manipolato al momento della deposizione nella bara (Larribe 2010).
42
In generale i defunti saranno presentati distesi sulla schiena con il busto leggermente sollevato. Le braccia
sono allungate lungo il corpo o meglio ripiegate sul petto (conviene in questi casi fare scendere i gomiti
poiché il peso degli arti tende a farli scivolare lungo il corpo). Le mani sono messe una sopra l’altra,
privilegiando la mano destra sopra la sinistra. Bisognerà evitare di incrociare le dita, a meno di essere certi
che il defunto sia di confessione cattolica. Le gambe saranno strette e i piedi dritti (esistono degli accessori
che si mettono nelle scarpe e permettono di evitare che i piedi si divarichino) (Larribe 2010).
133
I rituali funebri adempiono la duplice funzione di guidare il defunto verso la sua nuova
destinazione e di ristabilire la normalità tra chi rimane, obblighi morali impongono cura e
onori al defunto che, da una parte è oggetto di commemorazione di quanti l’hanno amato e
conosciuto, dall’altro è fonte di repulsione e di paura per i processi di putrefazione cui va
incontro, qui subentra la cura del corpo che rende la morte un fenomeno revocabile, un
rituale attraverso cui la società rinnova la propria promessa di immortalità, comunica agli
individui il proprio carattere di perennità e il defunto viene reintegrato nella società dei vivi
(Hertz 1907). Il bisogno che traduce il rituale della toilette funebre è quella necessità di
agire e allo stesso tempo di far rivivere la forza fisica e morale che anima una società, l’uso
di intervenire tecnicamente sul corpo mediante riti che si ripetono sempre uguali a sé stessi
posseggono il valore di una reazione culturale, tramite il rito ci si appella a una forza
morale “regole di condotta di fronte al sacro” gestite dalla collettività e poi ritradotte nelle
credenze e nelle pratiche individuali (Durkheim 1912).
3.2.1 La morte ti fa bella: la tanatoprassi estetica
Durante una pausa nel retro della Casa funeraria mi presentano una ragazza proveniente
dalla Francia: «Lei fa tanatoprassi, quella che in Italia è illegale, in Francia la tanatoestetica
è un altro mondo, hanno un’altra concezione di come trattare le salme, un altro pianeta».
La donna dunque è una professionista della tanatoprassi pratica illegale in Italia, riferisce
Francesco e sostiene fermamente che in Francia hanno un approccio diverso, migliore,
rispetto all’Italia per quanto riguarda le cure rivolte alla salma.
Per comprendere meglio quanto detto dall’operatore, occorre far chiarezza sui due termini
tanatoprassi e tanatoestetica, pratiche considerate affini ma in realtà profondamente
diverse, anzi si può dire che la seconda sia uno “scimmiottamento” della prima.
La tanatoprassi è la parte corposa, grossa che comporta degli interventi un po’ più invasivi.
Comporta il mantenimento della salma, si utilizzano prodotti enzimatici che rallentano il
normale processo di decomposizione, si aspira il sangue e si iniettano questi liquidi in
formaldeide che fanno si che il corpo resti integro per qualche giorno. In Francia è una cosa
diffusa abbastanza frequentemente. La tanatoprassi ancora non è permessa in Italia perché si
aspetta una disposizione nazionale (Segretario generale Federcofit).
134
La tanatoprassi43 quindi è l’insieme delle tecniche messe in atto per conservare i corpi. Il
trattamento di tanatoprassi comprende la pulizia del defunto, l’iniezione del fluido di
conservazione, l’eliminazione dei liquidi e dei gas, la chiusura delle incisioni e la
presentazione estetica. Il suo scopo è ritardare la tanatomorfosi del corpo permettendo ai
familiari di un defunto di avere il tempo per assicurare dei funerali dignitosi senza che
l’immagine del defunto presenti un aspetto orribile e di rendergli omaggio in condizioni di
igiene ottimali. Il segretario della federazione del comparto funerario dopo aver spiegato a
grandi linee cos’è la tanatoprassi e in cosa consiste il trattamento, evidenzia come questa
pratica sia diffusa in Francia44 mentre in Italia applicare tale tecnica sui cadaveri è vietato
dalla legge.
Una serie di tecniche importanti che sono state sperimentate e sono state affinate soprattutto in
Francia, questa è nata in America durante la guerra di secessione, e che aiuta i vivi a convivere
per quelle 30 ore con il defunto. Se io voglio che un figlio possa accarezzare la fronte del
proprio genitore bisogna che questo non abbia un aspetto di repulsione perché altrimenti
diventa difficile, se io invece lo ricompongo per bene e quindi adotto anche quelli accorgimenti
per ricomporlo per bene, sicuramente il figlio può stare lì un’ora a parlare con il defunto, che è
43
La parola è stata costruita usando due radici greche: THANATOS nome della divinità rappresentante la
morte nel pantheon greco e PRAXIEN verbo che significa “manipolare, mettere in opera, realizzare”.
Questo nuovo termine è stato scelto per evitare l’uso del termine “imbalsamazione”, tuttora adottato nei paesi
anglosassoni.
La tanatoprassi consente contemporaneamente:
- La disinfezione. I liquidi conservativi che si iniettano uccidono gran parte degli agenti patogeni e dei
microrganismi presenti.
- La conservazione. Il trattamento permette di bloccare temporaneamente i processi putrefattivi, in
modo che il cadavere non rilasci liquidi o gas o cambi colore.
- Il ripristino. Il procedimento consente di mantenere un aspetto naturale eliminando la lividità
cadaverica e mascherando con il trucco eventuali altre macchie e ferite (Larribe 2010).
44
Le tecniche di imbalsamazione a scopo funerario iniziarono a essere utilizzate dal XIX secolo. Non si sa se
questo rinnovato interesse per i defunti sia la conseguenza delle campagne napoleoniche in Egitto che
riscoprirono questa antica civiltà e la sua cultura dei morti, o sia dovuto all’evoluzione scientifica della
medicina e della chimica. In Francia il trattamento di conservazione del corpo venne ammesso fin dalla metà
del XIX secolo, risale al 1837 il primo brevetto di imbalsamazione arteriosa da parte del francese Gannal. La
pratica rimase tuttavia aneddotica perché le esequie erano organizzate velocemente e le abitudini
socioculturali dei funerali non s’integravano con questa tecnica.
Gli anni che seguirono la seconda guerra mondiale apportarono degli sconvolgimenti socioculturali molto
importanti, i modi di vita si evolsero velocemente e anche le pratiche funerarie iniziarono a modificarsi.
Anche la comparsa delle case funerarie, dal 1962, contribuì a cambiare i comportamenti funeri. Quando i
professionisti francesi dei servizi funebri (il signor Francois Chatillion e il sig. Jacques Marette), scoprirono
le tecniche di imbalsamazione dai loro colleghi canadesi, mobilizzarono le loro energie per sviluppare questo
servizio in Francia.
Il quadro regolamentare rappresentato dalle leggi napoleoniche, permise la messa in pratica di questi
trattamenti che poterono così diffondersi a poco a poco. Venne creato il termine “tanatoprassi” e nel 1963
venne fondato l’Istituto Francese di Tanatoprassi, sotto la presidenza di Jacques Marette.
Nei paesi anglosassoni si utilizza il termine imbalsamazione al posto di tanatoprassi ma la tecnica applicata è
la medesima, cambia solo la denominazione. La moderna imbalsamazione si diffuse dapprima nel Canada
inglese e poi nella provincia francese del Québec alla fine del XIX secolo. In Europa la pratica della
tanatoprassi si sviluppò nel corso del XX secolo. In Inghilterra si diffuse dal 1927 (l’Istituto Britannico di
Imbalsamazione è stato creato nel 1929), si sviluppò in Francia dal 1960 come abbiamo visto (Larribe 2010).
135
suo padre, e ci sta senza avere quel disturbo o quell’effetto di disagio (Segretario generale
Federcofit).
La tecnica di tanatoprassi è nata in America ma i francesi hanno affinato il metodo e se ne
servono da anni per ricomporre cadaveri. La funzione sociale della tanatoprassi è favorire
la relazione con il defunto, o meglio donare l’aspetto “più vivo” possibile camuffando il
deceduto da addormentato, in tal modo il parente può stargli accanto, avere un contatto
diretto senza l’effetto di disagio causato dall’aspetto orripilante di un cadavere tumefatto e
in decomposizione. Resta da chiedersi come mai la tanatoprassi sia una realtà consolidata
in Francia da decenni mentre in Italia tutt’oggi resti una tecnica impraticabile. È una
questione di “cultura della morte”, spiega Francesco.
Vanno ricostruiti, c’è poco da fare. A Milano vengono portati in obitorio e lì vengono lasciati,
il più delle volte non vengono neanche vestiti, gli abiti vengono appoggiati su, viene
semplicemente occultato il problema, bendati, fasciati, tu di un corpo magari vedi due occhi,
ammesso che si possano vedere, sennò neanche quelli. Semplicemente dicono signori non è
visibile, ma non si fa cosi […] Salme che sono in condizioni particolari, non sono visibili,
bendate completamente. Sai. La gente rimane, insomma, che cosa vedi, chi saluti? Che cosa
stai salutando? Andrebbero risistemate. Questo è il problema, che non c’è proprio cultura. In
Francia lo fanno su tutte le salme, indistintamente (Francesco).
La tanatoprassi permette la conservazione temporanea del corpo e la sua migliore
presentazione, un cadavere conciato piuttosto male perché magari morto in modo violento
è possibile sistemarlo con le tecniche di tanatoprassi restituendogli un’apparenza dignitosa.
Invece in Italia non c’è questa possibilità, racconta Francesco, non c’è la cultura e la
sensibilità di restituire al mal capitato un aspetto decoroso, negli obitori non hanno neanche
la decenza di vestire i defunti in modo adeguato e se un corpo è malmesso si aggira il
problema invece di affrontarlo ovvero lo bendano dicendo alle famiglie che non è visibile
negando loro la possibilità di un ultimo addio, proibendo ai cari dell’estinto, in termini
rituali, di “prolungare la relazione con il defunto”. I francesi, continua l’operatore,
eseguono la pratica della tanatoprassi su tutte le salme, la loro cultura sulla funeraria
prevede l’uso di questa tecnica per diverse ragioni. Innanzitutto permette di tenere il
defunto in casa senza alcun pericolo per i familiari e senza odori e preservare l’aspetto del
cadavere per il periodo necessario al distacco poiché il processo moderno di tanatoprassi è
destinato a ritardare la decomposizione quel tanto da consentire alla famiglia di separarsi
dal proprio caro senza fretta, in modo che anche parenti e amici lontani possano rendere
omaggio alla salma, consolare la famiglia per la perdita subita. Inoltre i corpi devastati
136
dalle malattie, dalla sofferenza o dall’agonia, recuperano una vita sociale se sottoposti alle
attenzioni estetiche volte a purificarlo, diventano il centro di attenzioni, estrema
testimonianza di amore, affetto e rispetto, gli interventi estetici in parte invasivi preparano
la salma per il rito funebre vero e proprio (Larribe 2010, p. 25).
In Italia nessuno fa quel tipo di lavoro come lo fanno loro sia perché è vietato, ma comunque
hanno una cura particolare, ma è una cultura che hanno che è totalmente differente e il nostro
titolare vuole che noi ci si avvicini più a quella mentalità che non a quella della maggior parte
delle imprese delle realtà italiane, dove ci si improvvisa invece questa è una professione
(Francesco).
In Francia la tanatoprassi è una pratica legalmente riconosciuta così come in molti Paesi 45
in tutto il mondo, il tanatoprattore è una professione 46 a tutti gli effetti e gli esperti seguono
con rigore deontologico le tecniche insegnate loro per sistemare l’aspetto dei defunti. E
poiché la Francia è l’eccellenza per quanto riguarda la tanatoprassi, il nostro titolare,
afferma con un po’ di fierezza Francesco, vuole che si acquisisca la cultura funeraria
francese in materia di cure rivolte alla salma, non a caso periodicamente una tanatoprattrice
professionista affianca gli operatori nella struttura per insegnare loro “il metodo francese”
seppur nei limiti consentiti dalla legge italiana.
Perché la nostra legge è, come sempre in Italia ci si arriva dopo vent’anni. Allora, per loro la
casa funeraria è l’ordine del giorno, per noi è, noi siamo stati i primi a costruirla in Italia e la
45
Annualmente in Francia le cure di tanatoprassi sono effettuate sul 45% dei defunti, comincia a essere una
prestazione funebre diffusa e numerose famiglie chiedono il trattamento per i propri cari.
In Inghilterra circa il 60% dei defunti ricevono il trattamento.
È a livello embrionale in Germania dove esistono una sessantina di tanatoprattori (i primi si sono formati in
Francia attorno al 1990).
In Spagna viene praticata sotto la responsabilità dei medici legali, ma resta poco sviluppata. Due grandi centri
di servizi funebri municipali, a Madrid e a Barcellona, hanno tanatoprattori all’interno delle loro imprese e la
formazione è svolta regolarmente.
In Belgio, sebbene i professionisti del settore funerario abbiano costituito un Istituto Belga della
Tanatoprassi, questa pratica rimane poco sviluppata.
Nei Paesi Bassi la pratica della tanatoprassi non è autorizzata ad eccezione dei membri della famiglia reale.
Nelle altre regioni d’Europa tale pratica resta ancora aneddotica.
In Nord America il trattamento è eseguito in oltre il 95% dei cadaveri. È praticata anche in Venezuela dalla
quale si sta diffondendo negli altri paesi dell’America Latina.
In alcuni paesi africani sono presenti forme di conservazione dei corpi basate in genere su iniezioni di
formaldeide o di altri prodotti. Trattamenti analoghi si hanno anche in Cina e in Thailandia, mentre in
Oceania, Sri-Lanka, Singapore e Hong-Kong la tecnica usata è quella anglosassone (Larribe 2010).
46
La legge del 1993 che inquadra l’organizzazione dei funerali in Francia, definisce l’attività dei
tanatoprattori come una prestazione di servizi funebri e ne riserva la pratica ai soli titolari di un diploma
nazionale. Per sostenere l’esame che consente di ottenere il diploma nazionale, occorre dimostrare di aver
seguito una formazione teorica di almeno 150 ore, e una formazione pratica che prevede la realizzazione di
almeno cento interventi di conservazione con un tanatoprattore titolare di un diploma nazionale. Il candidato
che supera la prova teorica e quella pratica, ottiene il suo diploma e può esercitare presso un’impresa di
servizi funebri abilitata (Larribe, 2010).
137
legge consente il trasporto in strutture come questa da soli quattro anni. Dunque, per farti
capire da loro è 26 - 27 anni che hanno quella legge, da loro è riconosciuta come professione.
Da loro vengono inquadrati, letteralmente, a livello statale, e hanno le retribuzioni, è tutto
quadrato, come dovrebbe in teoria essere. E da noi è vietata perché la legge non… non c’è un
disegno di legge, un qualcosa che forse si sta tentando di portare avanti, però era caduto con
l’ultimo governo, non era stata approvata, dunque adesso è ripartito tutto l’iter. Insomma, ci
arriveremo perché il futuro e anche la civiltà, voglio dire, non possiamo avere delle regole
dell’ottocento, delle leggi, ci dobbiamo arrivare per forza, quando non si sa (Francesco).
I moderni rituali funebri sono entrati a far parte del tessuto socioculturale francese da
decenni perché il loro sistema legislativo ha permesso il cambiamento evolvendosi di pari
passo con le nuove esigenze della società, e se i francesi hanno visto nascere il fenomeno
Casa funeraria nel lontano 1962, il bel Paese ha raggiunto tale obiettivo quasi quarant’anni
dopo. La figura professionale del tanatoprattore è disciplinata dalla legge in Francia con
tutti i vantaggi annessi sul piano della retribuzione e non solo, spiega Francesco, in Italia il
nuovo Regolamento di Polizia Mortuaria doveva prevedere il riconoscimento della nuova
professione di tanatoprattore ma qualcosa non è andato per il verso giusto pertanto è
ripartito l’iter legislativo che si spera introdurrà la tanatoprassi nel sistema funerario
italiano.
3.2.2 La formazione professionale dei tanatoprattori e l’alibi della
tanatoestetica
Nel nostro Paese la situazione è peculiare. Il sistema Casa funeraria e le imprese funebri in
generale offrono come servizio alle famiglie (sempre meno disposte a mettere le mani sul
cadavere del proprio caro) la sistemazione della salma eseguita da esperti; delegando
quella che un tempo era la sola vestizione del defunto a professionisti, si va dunque
professionalizzando la stessa pratica. I professionisti del settore attendono con fervore la
normativa che introdurrà la tanatoprassi, nel frattempo, la preparazione del corpo morto
non si limita alla semplice toeletta funebre, non si tratta più solo di far indossare al caro
estinto l’abito che porterà per l’eternità, ma il defunto sarà soggetto a un insieme di cure
eseguite con tecniche che si avvicinano alla tanatoprassi: il risultato è una “pratica ibrida”
denominata tanatoestetica. I professionisti del settore funerario che operano in Italia quindi
hanno trasformato la figura del tanatoprattore in “preparatore di salme” e la tanatoestetica
in camouflage.
138
Nonostante non ci sia una disposizione di legge che legalizzi la professione del
tanatoprattore, ciò non ha frenato la nascita di corsi che insegnano le tecniche di
tanatoprassi ai preparatori di salme e non solo, esiste anche l’Istituto Nazionale Italiano di
Tanatoprassi47 il cui obiettivo è istituire dei corsi per formare tanatoprattori e il cui motto è
“Impara l’arte e comincia a farne parte”, poi però, mettila da parte visto che certificazioni e
attestati rilasciati da questi corsi non abilitano alla professione. Poiché il disegno di legge
approvato dal Consiglio dei Ministri nel 2003 fa esplicito riferimento alla nuova figura
professionale
di
tanatoprattore, bisogna
pazientemente attendere il
suo pieno
riconoscimento, intanto si organizzano corsi per formare tanatoprattori/tanatoesteti, ma
cosa insegnano in questi corsi? A Milano, dal 14 aprile al 16 maggio 2003, scrive la rivista
Oltre magazine (2003) ha avuto luogo il primo corso per tanatoprattori organizzato dal
progetto Caronte48 articolato in trenta ore di lezioni generali e sessanta ore di lezioni
specialistiche, con tre pomeriggi di sperimentazione. Durante il corso si è presentata agli
operatori italiani la modalità francese nell’applicazione della tanatoprassi. Il dottor Pierre
Larribe, responsabile della formazione professionale nell’organizzazione les alyscamps
della più importante Federazione Funeraria Francese e membro del Jury National de
Thanatopraxie, ha svolto le sessanta ore di lezione. Non si è trattato di conferire diplomi di
47
Andrea Fantozzi è il presidente dell’ I.N.I.T, è un tanatoprattore e ha introdotto la tanatoprassi in Italia. Il
sito internet dell’I.N.I.T presenta in questo modo tutti i vantaggi della pratica di tanatoprassi: essa è un
trattamento "post-mortem" e consiste nella cura igienica di conservazione del corpo dopo la morte, ma è
soprattutto un trattamento che ha lo scopo di realizzare un processo altamente igienico nel settore funerario e
cimiteriale. Il corpo nelle ore successive alla morte, subisce una veloce trasformazione, vi è la fuori uscita di
liquidi organici e la presenza di vapori nauseanti, che rendono la veglia funebre più traumatica e
potenzialmente pericolosa. Con la Tanatoprassi, si possono perciò evitare queste spiacevoli situazioni, ciò è
possibile tramite un’iniezione nel sistema arterioso di un fluido conservante e da una serie di cure estetiche
che consentono di conservare un'immagine integra della persona cara, eliminando per alcune settimane il
processo di decomposizione. Con la Tanatoprassi, viene garantito il naturale ritorno in polvere del corpo in
un tempo massimo di 10 anni, mentre per un corpo che non ha subito nessun trattamento ci vogliono circa 40
anni, in alcuni casi anche 80. La Tanatoprassi, presenta i suoi vantaggi anche nell'ambito della medicina
legale, infatti fermando la decomposizione della salma, si fissano i tessuti e le lesioni come in una
preparazione istologica, consentendo cosi di eseguire le indagini più facilmente. I parenti del defunto avranno
un ultimo ricordo più piacevole e meno traumatizzante, non vi sarà la presenza di quelle fattezze dettate dalla
morte, ma i familiari vedranno il loro caro come in realtà era da vivo. E' giusto precisare che la Tanatoprassi,
non è da confondere con l'imbalsamazione perpetua che non servirebbe a molto, ma è un metodo di
conservazione temporanea; ciò fa si che le salme trattate con tale tecnica, possono essere conservate dai 10 ai
15 giorni prima della sepoltura, rimanendo intatte in qualsiasi tipo di ambiente.
48
Il progetto Caronte ha lo scopo di creare e diffondere modelli di percorsi formativi utili per il rinnovamento
del settore funerario in vista delle numerose innovazioni che hanno avuto luogo e avranno luogo
dall’approvazione del nuovo Regolamento di Polizia mortuaria. Protagonisti del progetto Caronte sono ESA
(consorzio di aziende nato per iniziativa di un gruppodi imprese private), Fondazione Fabretti (ha sede a
Torino, ha come compito istituzionale quello di promuovere gli studi e le ricerche sulla morte), Istituto di
Tanatologia e Medicina Psicologica dell’Università di Bologna (opera nel settore dell’assistenza e della
formazione del personale sanitario e degli addetti ai servizi funerari, è stato fondato ed è tuttora diretto dal
Prof. Francesco Campione), Feder.co.f.it, Federazione del Comparto Funerario Italiano (la federazione
rappresenta gli interessi degli operatori funerari).
139
tanatoprattore, specializzazione ancora non riconosciuta nel nostro ordinamento, ma,
invece, di anticipare il più possibile i tempi per essere preparati quando anche in Italia,
come prevede il Disegno di Legge del Governo, si potrà esercitare questa professione. Nel
corso sono stati trattati argomenti che spaziano dalla descrizione della strumentazione
necessaria, a quella delle pratiche più diffuse, fino ai casi particolari, quali la
ricomposizione della salma dopo un incidente. Il corso ha anche visto la sperimentazione
di procedure di tanatoestetica, le uniche oggi possibili, presso una struttura ospedaliera. Le
nozioni impartite nel corso preparano gli allievi a eseguire la pratica di tanatoprassi solo
sul piano teorico, poi la pratica sui cadaveri si fa eseguendo la tanatoprassi a metà. Se
come da definizione, il trattamento di tanatoprassi comprende la pulizia del defunto,
l’iniezione del fluido di conservazione, l’eliminazione dei liquidi e dei gas, la chiusura
delle incisioni e la presentazione estetica (Larribe 2010), la pratica di tanatoestetica mette
in atto la parte iniziale (pulizia del defunto) e quella finale (presentazione estetica) di
questa descrizione.
La tanatoestetica non esiste. Essere tanatoesteta è come dire, non so, essere un’estetista. La
tanatoprassi è la vera tecnica, è una pratica di conservazione del corpo che si ottiene eseguendo
una procedura ben precisa. La tanatoestetica è un termine inventato in Italia per legittimare dei
corsi nei quali si insegnano le tecniche di tanatoprassi vietate nel nostro Paese. Ma vestire e
truccare una salma non ha nulla a che fare con la tanatoprassi, lo può fare chiunque Quando
l’azienda per cui lavoro ha chiamato la francese per insegnare a noi operatori le ultime tecniche
di tanatoestetica, lei per spirito imprenditoriale ha accettato di venire ma non sapeva
minimamente cosa fosse la tanatoestetica. Ci ha insegnato tecniche di tanatoprassi, se un
giorno la legge darà il permesso di eseguire questa pratica noi avremo già l’attestato che ci
consente di operare (Francesco).
La tanatoestetica non è una pratica vera ma un termine inventato per legittimare dei corsi,
nei quali tra l’altro si insegnano tecniche di tanatoprassi, una sintesi perfetta della realtà
italiana, delineata da Francesco, legata al nuovo rituale della cura del corpo. Quando il
titolare della Casa funeraria ha contattato la professionista francese per insegnare ai suoi
operatori le ultime tecniche di tanatoestetica lei ha immediatamente accettato pur non
avendo la più pallida idea di quale tecnica si trattasse. Periodicamente affianca gli operatori
in Casa funeraria istruendoli però sulle tecniche di tanatoprassi così, se il regolamento
italiano un giorno introdurrà l’innovativa pratica, gli operatori avranno già l’abilitazione
per eseguirla. I corsi di tanatoestetica/tanatoprassi non sono obbligatori perché la
professione del tanatoprattore non è legalmente riconosciuta e le tecniche di tanatoestetica
non devono essere eseguite sui corpi per legge ma è una scelta della famiglia se affidare la
140
cura del corpo a professionisti o occuparsene in prima persona. Sono diverse dunque le
motivazioni che spingono i professionisti del settore o chiunque voglia imparare tali
tecniche a intraprendere questo percorso formativo, ad esempio Stefano, oltre a essere un
impresario di pompe funebri è anche tanatoesteta e ha deciso di approfondire la sua
conoscenza in materia seguendo un corso di tanatoestetica.
La tanatoestetica è mettere in ordine la salma, renderla visibile, non dico bella però, renderla
meno brutta dal punto di vista dell’impressione che ti può fare una persona che è deceduta.
Io all’inizio ho imparato guardando quello che faceva l’infermiere che lavora per noi, perché
una volta non c’era nessun corso. Una volta non c’era nessun corso. Adesso c’è questo corso di
tanatoestetica, l’abbiamo fatto per una settimana al Niguarda e abbiamo seguito anche dal
punto di vista reale, non più teorico, la cosa. Abbiamo imparato tante cose che comunque son
cose che non ti insegna nessuno […] (Stefano).
L’intervistato dà una definizione di tanatoestetica: lo scopo è rendere decorosa una salma o
per lo meno renderla meno brutta dal punto di vista dell’impressione che ti può fare. Fino
a qualche anno fa si imparava a trattare una salma guardandolo fare ad altri o si
improvvisava, racconta l’imprenditore che ha appreso tutto quello che sa dall’infermiere
che lavora nella sua azienda, oggi invece ci sono questi corsi che insegnano dei
“trucchetti” utili per mascherare le deturpazioni causate dalla morte.
Parti dalla teoria, vedi com’è fatta una persona e, poi va be, se hai una minima idea di come sia
la biologia, allora te la cavi subito, quella è veloce. Il problema è, poi ti spiegano come
funzionano i muscoli, come interviene la morte, com’è il processo di decomposizione, e tutto
ciò che accade, quindi, tu come devi interagire con questo in tempi normali dalla morte a
quando tu trovi la salma. Come risolvere il problema, per dire una stupidata, dell’occhio che
non sta chiuso, risolvere problemi del tipo, uno può cadere, può sbattere la testa, quindi il
defunto quando è visto dai parenti non puoi fargli vedere una persona con i punti, come la vedi
all’ospedale. Ci hanno fatto vedere, ci hanno spiegato, poi ti fanno provare su con mano. E’ un
corso che ci è costato parecchio, però è servito per risolvere tante cose, sempre nel limite di
quello consentito (Stefano).
Si parte dalla teoria che illustra brevemente l’anatomia e la fisiologia del corpo umano per
poi comprendere come agisce il decesso e come avviene il processo di decomposizione,
nozioni necessarie per imparare a intervenire su un corpo e “camuffare” la morte. Dalla
teoria si passa alla pratica, si lavora direttamente sulla salma e si impara a gestire i
problemi più frequenti come ad esempio fissare un occhio che non ne vuole sapere di star
chiuso o coprire eventuali punti di sutura al fine di presentare il defunto senza ferite visibili
ai familiari. Un corso che è costato molto, afferma il tanatoesteta, ma che è servito a
imparare tecniche utili per eseguire un lavoro più accurato. Il segretario generale della
141
Federcofit racconta com’è strutturato uno dei corsi di tanatoprassi/tanatoestetica che
periodicamente la federazione organizza nella sua sede a Milano.
Ci sono tanti modi di strutturare i corsi. Per quanto riguarda la tanatoestetica noi facciamo dei
corsi di tre giorni, un giorno di teoria, dove vi si spiegano quali sono le reazioni del corpo,
chimiche e non solo e quindi quali sono gli effetti di queste reazioni, due giornate presso una
camera mortuaria dell’ospedale, in modo tale da sperimentare le operazioni sul vivo, insomma,
sulla materia, perché la teoria è una cosa, la pratica è totalmente diversa. Bisogna dare la
possibilità di verificare con la testa quelli che sono gli effetti pratici perché radere un defunto,
può sembrare una stupidaggine, invece no, non è assolutamente una stupidaggine perché se io
non sto attento a certe cose fo dei danni incredibili, perché la pelle del defunto non ha la pelle
idratata, non ha la pelle morbida, ha una pelle che si squama facilmente e quindi se io non sto
attento, la barba continua a crescere ancora per un paio d’ore o tre sul defunto, ha una sua
vitalità eccetera e quindi se io non sto attento rischio di sbranare e tagliare la pelle. Sangue non
esce, perché il sangue non ha più pulsazioni, però l’ematoma rimane, abbiamo un volto poi
tumefatto che non è assolutamente un vantaggio, meglio la barba lunga che un volto tumefatto
per uno che lo deve guardare. Quindi ci sono tutta una serie di elementi che sperimentati in
modo tale da acquisire quell’elemento di manualità che permette di non fare danni (Segretario
generale Federcofit).
Si organizzano diverse tipologie di corso, quello che descrive dura tre giorni, il primo
dedicato alla teoria e gli altri due si va presso l’obitorio di un ospedale per esercitarsi sui
cadaveri, probabilmente un corso dalla breve durata come questo si limiterà a insegnare
esclusivamente tecniche di tanatoestetica tralasciando la pratica di tanatoprassi.
L’intervistato racconta alcuni dettagli tecnici che rendono l’idea del lavoro eseguito dai
preparatori di salme come ad esempio l’espediente della rasatura della barba e quello
dell’abito scuro. È importante mettere la teoria in pratica anche per acquisire una certa
manualità, se ad esempio si deve radere un cadavere, occorre delicatezza poiché il defunto
non ha la pelle idratata e morbida e basta un gesto scorretto per creare un ematoma sul
volto.
E poi ci vuole la sensibilità, molto spesso si usano dei canoni che sono canoni un po’ iper
rituali, vestire un uomo sempre con il vestito scuro, la cravatta nera e la camicia bianca, se uno
ci riflette, è un contro… perché nemmeno quando si sposano si mettono il vestito nero, la
cravatta nera e la camicia bianca, per cui quando un tanatoesteta dice ma perché si deve
mettere la camicia, gli si può mettere anche la maglietta, eh, ha ragione lui. Nel senso che, se
questo è sempre vissuto con un tipo d’abbigliamento io lo devo riportare a quella condizione di
convissuto con i propri familiari, con la propria realtà. Una persona come me (l’intervistato
parla di se stesso) si metterà la camicia e la cravatta perché facendo questo mestiere, si mette
spesso la camicia e la cravatta, eh però, un’altra persona che invece si è messo la cravatta solo
per sposarsi, per dire, è inutile che io gli metta la cravatta. Se gli metto la cravatta io do un
aspetto di formale ritualità che a volte può essere anche utile per un’ elaborazione corretta del
lutto e per prendere un po’ di distanza dal coinvolgimento, in qualche altro caso, invece,
diciamo, può non favorire una memoria serena. Voglio dire, do un addio a una persona che in
quel momento era una persona diversa da quella che io conoscevo (Segretario generale
Federcofit).
142
Il professionista deve sviluppare la capacità di consigliare nel modo giusto la famiglia
percependo in tempi brevi il tipo di situazione in cui si trova a operare. A volte, sostiene
l’intervistato, si esagera con la ritualità perché si tende a vestire il defunto da cerimonia (in
questo caso da funerale), con abito scuro, camicia e cravatta piuttosto che guardare a quello
che era lo stile della persona scomparsa. Se lo scomparso non ha mai indossato un abito da
cerimonia, è opportuno fargli indossare qualcosa che meglio si adatti al suo modo di essere
per non trovarsi nella spiacevole situazione con la famiglia di presentare una persona
diversa da quella che conoscevano. In altri casi invece, può essere utile “deviare” il modo
solito di vestire del defunto e formalizzare la situazione per prendere un po’ le distanze dal
coinvolgimento emotivo.
Le tecniche di tanatoestetica insegnate in corsi come questo differiscono dalla pratica di
tanatoprassi che è più raffinata e complessa, come raccontano Francesco e Luca parlando
con me e la tanatoprattrice francese durante la pausa lavorativa.
«È lei che ci ha insegnato le nuove tecniche. Le donne sono quelle più rompiballe da
sistemare, il lavoro diventa più complicato perché l’uomo, bene o male, lo trucchi si però
le donne le devi anche pettinare, tutte tecniche un pochettino… è il risultato quello che
conta, il risultato finale, poi la tecnica magari è sbagliata, però alla fine quando la famiglia
va lì ed è contenta, sei contento anche tu. Io non è che sono delicato nei movimenti, eh,
però quello che conta è il risultato finale. Lei si ferma qui qualche giorno, noi le mostriamo
la tecnica italiana e lei quella francese, diciamo che i francesi sono più delicati, forse lo
sono di natura». Luca sostiene che i francesi siano più bravi degli italiani a mettere in atto
le tecniche di tanatoprassi/tanatoestetica perché hanno più abilità e un metodo diverso di
operare. Con sarcasmo racconta di un fantomatico “scambio di tecniche”, loro insegnano
alla tanatoprattrice la tecnica italiana di sistemare una salma, ossia non attenta ai dettagli e
maldestra, ma sempre ben riuscita e lei insegnerà loro la perfetta e impeccabile tecnica
francese. Francesco in tono scherzoso (ma non troppo) riferendosi alla tanatoprattrice:
«Noi carpentieri edili non una ditta di pompe funebri, lei professionista seria. Quello che
dice lei è di non guardare l’operatore italiano, non guardare come lavora, il risultato è
bello, ma come lavora…lascia stare, non guardare». Chiacchierando con Luca gli chiedo se
per lui è stato sgradevole vedere una salma per la prima volta quando ha cominciato questo
lavoro: «No, assolutamente. Il primo autista mi disse di andare a Bergamo a prendere una
salma, era un feto. Il secondo giorno, un bambino di quattro anni».
143
Continua spiegando come funziona, tecnicamente, il prelevamento di una salma: «Se la
salma non è sistemata e deve essere portata in Casa funeraria, andiamo a prelevarla con
quel furgone lì, all’interno c’è una barella spinale, tipo quella del pronto soccorso, con
molta delicatezza lo prendi e lo porti su questa barella, lo metti all’interno di un sacco, hai
visto mai CSI?». Rispondo che guardo il serial tv e se si riferisce ai sacchi neri: «Si, noi ce
l’abbiamo colorato. Bianco, blu, dipende come arriva nell’ordine, però cosi, lo metti
all’interno di quel sacco, lo porti qua e poi io e il signor Francesco procediamo all’azione».
La pausa è finita. È ora di tornare a lavoro.
3.3 La sala multifunzionale49
FRANCESCO: Luca spegni le luci della chiesa per favore le ho lasciate accese.
IO: La chiamate chiesa?
FRANCESCO: Si chiesa, ci sono le immagini religiose e quant’altro (sorride).
IO: Ma è sconsacrata…
FRANCESCO: Mai stata consacrata. Si noi la chiamiamo chiesa 50, chiesetta, sala
multifunzioni è troppo lungo.
IO: Quindi la chiamate chiesa…
FRANCESCO: Per noi è chiesa c’è pure San Francesco (ride).
IO: Però le immagini sacre possono essere coperte, no?
FRANCESCO: Esatto, possono essere occultate per fare i riti non religiosi, i
famosi riti civili con catering annessi li facciamo là, si chiude tutto...
Si chiude tutto e la sala multifunzionale con le “più funzioni” che assolve, come dice la
parola stessa, si trasforma in un luogo neutro senza simboli, per dare la possibilità agli
individui di plasmare l’ambiente secondo le proprie esigenze; una polivalenza rituale
necessaria in epoca postmoderna dove i sentimenti del sopravvissuto diventano oggetto di
attenzione da parte del professionista (Walter 1994) e la morte rinasce sotto diverse
sembianze.
49
Chiamata anche sala del commiato.
Gli operatori tra loro chiamano la sala multifunzionale “chiesa”, se si rivolgono al dolente, la chiamano
“sala funzioni”.
50
144
3.3.1 Benedizioni e funerali a metà: relazioni tra Chiesa e Casa funeraria
Luca mi accompagna alla sala multifunzioni che ospita un rituale di benedizione da poco
iniziato. Afferra le maniglie dorate e fa scorrere dolcemente le ante della porta, entriamo
scivolando silenziosamente in un angolo. Al centro del palcoscenico rituale un diacono con
il vangelo tra le mani e una bara aperta che custodisce il corpo anziano di una donna, il
pubblico in numero esiguo prende parte solennemente alla liturgia.
Ascoltiamo ora la parola del Signore.
Dal vangelo secondo Matteo.
In quel tempo vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si
avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo:
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di
male contro di voi per causa mia.
Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Parola del Signore.
Gloria al Signore. Esclamano i presenti.
Questo passo del vangelo ci fa comprendere un po’ qual è lo stile di vita del Signore Gesù,
uno stile di vita che ci trasmette ogni giorno, ed è questo quel motivo che si anela come la
cerva alla sorgente del Signore. Certo, questo momento, per noi qua, è un momento di
disdetta perché una persona cara ci lascia, ma la nostra fede è proprio questa. Noi
crediamo nella risurrezione del nostro corpo e del nostro spirito, altrimenti non ci sarebbe
la veridicità, è la pasqua la veridicità, tutto il resto è un aiuto per camminare, per arrivare
145
a quello, ma soprattutto come vediamo lo stile è fatto di mitezza, è fatto di amore, è fatto di
perdono, è fatto di pace, ecco. Quella pace che ora nostra sorella Erminia sicuramente
contempla e, potremmo dire, gusta davanti al Signore, perché l’immensità di gioia, di
amore, che noi troveremo, noi non lo conosciamo adesso, è avvolta nel grande mistero, è il
mistero dell’amore, qualcosa che va oltre noi stessi. Oggi il nostro cuore è triste ma
dobbiamo anche sapere che lei è in festa, è in festa perché viene accolta dal Signore, dai
suoi angeli, dai suoi santi, da tutto quel grande esercito tra virgolette, d’amore che c’è
nella vita che ci aspetta. In quell’infinito, ecco, è un infinito fatto di tenerezza e amore che
noi a volte facciamo fatica a capire. Il Signore è venuto, ci ha dato la carità fino in fondo,
ha detto io sono vostro amico e l’amico è colui che da il pane. Ringraziamola per il suo
passaggio qua, questo è un momento di silenzio, ognuno pensi a quanto Erminia sia stata
fondamentale.
Si compie il momento di silenzio ordinato dal diacono.
Un momento di preghiera nel quale si alterna la parola del diacono a quella dei dolenti.
Preghiamo Dio padre di tutti per la nostra sorella Erminia e per tutti coloro che oggi
piangono la sua morte, perché il Signore liberi la sua fedele Erminia da ogni colpa e da
ogni vincolo. Preghiamo.
Ascoltaci o Signore.
Perché il Signore raccolga nella dimora della luce e della pace, preghiamo.
Ascoltaci o Signore.
Perché il Signore dia il suo premio e la sua gioia eterna, preghiamo.
Ascoltaci o Signore.
Perché il Signore colmi con il conforto della sua presenza il vuoto di coloro che soffrono
per la scomparsa della loro fragile colpa, preghiamo.
146
Ascoltaci o Signore.
Ora ci affidiamo al Padre.
Tutti insieme recitano in sequenza tre preghiere: il Padre nostro, l’Eterno riposo e l’Ave
Maria.
Termina così il rito di benedizione. Il diacono stringe la mano ai parenti e va via.
Gli operatori spostano la bara dalla sala multifunzionale all’area tecnica per la chiusura,
subito dopo il feretro lascerà la Casa funeraria per raggiungere la Toscana dove, nel
pomeriggio, sarà celebrato in chiesa il funerale vero e proprio.
Lo spazio torna libero.
Parole contro la morte (Davies 1996) proferite da un diacono51 durante una benedizione
eseguita con rituale cattolico che hanno il compito di incoraggiare l’impegno alla vita che
vincerà nonostante la morte. Il rituale funebre va considerato una reazione adattiva
dell’uomo alla morte e il linguaggio rituale rappresenta la sua principale forma di risposta;
parole contro la morte che sono di dominio pubblico attraverso le forme verbali di
preghiera, benedizione, invocazione, elogio e orazione (ivi, p. 13). Il linguaggio operato in
ambito liturgico, in questo caso nella religione cristiana, è efficace come retorica della
morte e contro la morte poiché appartenente a una grande tradizione teologica ufficiale,
propria di una comunità, capace di trasformare la natura umana in un più elevato grado di
servizio e sottomissione a Dio. Parole contro la morte e formule religiose che
rappresentano la natura umana che muore simbolicamente per sottomettersi a Dio: natura
umana che muore fisicamente per risorgere in una nuova realtà con Dio (ivi, p. 171). Da un
punto di vista idealtipico, il rito inscritto nella pratica religiosa è una forma vuota poiché
un potere esterno si impone ai soggetti i quali aderiscono a forme di comportamento
imposte dall’istituzione Chiesa. Nella forma vuota la credenza nel rito è tendenzialmente
stabile e passiva in quanto riferita alla legittimità delle regole e delle convenzioni (Navarini
2001, p. 7).
51
Il diacono non è un sacerdote perché non presiede l’Eucaristia e non assolve i peccati. Più in generale, non
si colloca all’interno della comunità cristiana nella stessa posizione del parroco, riceve il sacramento
dell’Ordine, che lo immette tra i membri del clero, ha una propria veste liturgica, sull’altare ha un posto suo,
ha il compito di proclamare il vangelo e di tenere l’omelia, ha l’obbligo di celebrare la liturgia delle ore a
nome dell’intera Chiesa, può celebrare la liturgia del battesimo, benedire le nozze, accompagnare alla
sepoltura i defunti.
147
I rituali, all’interno del potere assunto dallo sviluppo liturgico della Chiesa, sono stati
progressivamente razionalizzati, cioè organizzati come strumenti di una metodica della
redenzione, prescritti “in una legge comprensiva, la cui conoscenza adeguata richiede
istruzione e dottrina” (Weber 1922, p. 222 op. cit. in Navarini 2001, p. 5). Il rito assume il
significato di “atto socialmente codificato” e svolge la funzione di rendere l’esperienza
religiosa una pratica e una regola formale, il rituale apre l’esperienza alla comunità e la
sottrae all’unicità e all’irripetibilità del vissuto mistico individuale, spesso considerato
pericoloso per la stabilità dell’istituzione (ivi, p. 6). Il defunto come singolo individuo che
ha vissuto una vita “unica”, diversa dagli altri suoi simili con il suo stile personale non è
menzionato nelle omelie dei rituali cattolici rendendo i funerali più simili a un prodotto in
serie. Nel caso osservato, l’unico riferimento alla persona Erminia e non al suo status di
credente “Ognuno pensi a quanto Erminia sia stata fondamentale” è espresso dal diacono
verso la fine della predica. Sono due i temi che i cristiani hanno tradizionalmente posto al
centro della loro religione. Il primo concerne la morte di Gesù come sacrificio per il
peccato (Davies 1996, p. 148), nel cristianesimo l’idea della morte è strettamente legata a
quella del peccato che entra nel mondo perfetto di Dio con la disobbedienza umana. La
morte e la decomposizione sono considerate simbolicamente come la conseguenza della
disobbedienza e del peccato (ivi, p. 150) e alcuni passi della preghiera recitata nel rituale di
benedizione descritto pocanzi ne è la conferma: Perché il Signore liberi la sua fedele
Erminia da ogni colpa e da ogni vincolo. Il peccato è in sé una nozione valida, solo se,
riferita a una comunità di credenti e quindi a una società dotata di religione; il peccato
viola la legge, abbandona la retta via indicata dall’ordine stabilito alla condotta umana, si
perde, dunque e fallisce lo scopo (Hertz 1928, p. 35). Il peccato non è solo uno stato
transitorio, limitato al tempo dell’azione, ma sussiste anche quando la causa iniziale è
scomparsa (ivi, pp. 35-36). Il peccato quindi non è un processo ma è uno stato, non si è in
peccato ma si entra in uno stato di peccato che riguarda esclusivamente il soggetto che
agisce (Navarini 2003, p. 76), esso non dipende né da Dio, né dalla Chiesa, ma dal fatto
che si fa ingresso in una condizione che è il risultato automatico e immediato dell’azione
contraria alla legge morale (Hertz 1928, p. 36). Dunque il peccato è un fatto sociale, un
fenomeno fabbricato dall’uomo la cui natura è dinamica e processuale, è interiorizzato dal
soggetto che lo compie come rappresentazione trasgressiva della legge morale creata da
un’istituzione (Navarini 2003, p. 76); esso riguarda prescrizioni e divieti impartiti in nome
di Dio, dalla società religiosa cui si appartiene e che violando un ordine morale ha
148
conseguenze solo a condizione che la fede sia presente nel dare realtà e vita a
rappresentazioni di ordine ideale (Hertz 1928, p. 39). Sono le pratiche sociali, in realtà,
che creano l’ordine morale e la fede, la cui trasgressione origina il peccato; l’aldilà,
durkheimianamente parlando, è la trasfigurazione della società, e i peccati sono
trasgressioni inventate, cioè rappresentate come tali, dagli uomini che si sentono membri di
un medesimo ordine morale (Navarini 2003, p. 77). Il secondo tema riguarda la duplice
fede nella morte e resurrezione di Gesù (ivi, p. 148) evento che ha donato speranza
all’uomo liberandolo (se è credente) dal suo peccato, un tema che ritroviamo nella
predicazione di un passo del Vangelo secondo Matteo citato dal diacono: Grande è la
vostra ricompensa nei cieli. Oppure dalle parole contro la morte enunciate dall’esponente
ecclesiastico quando commenta il passo tratto dal Vangelo: Noi crediamo nella
risurrezione del nostro corpo e del nostro spirito, altrimenti non ci sarebbe la veridicità, è
la pasqua la veridicità, tutto il resto è un aiuto per camminare, per arrivare a quello […]
Oggi il nostro cuore è triste ma dobbiamo anche sapere che lei è in festa, è in festa perché
viene accolta dal Signore, dai suoi angeli, dai suoi santi, da tutto quel grande esercito tra
virgolette, d’amore che c’è nella vita che ci aspetta. La vita è solo l’attesa della grande
ricompensa che il Signore darà all’uomo accogliendolo nei cieli, parole che consolano chi
ha fede, chi è un “bravo credente”, che hanno il fine ultimo di sconfiggere la paura della
morte; dunque l’intervento rituale (che in questo caso è il rituale di benedizione) cancella i
peccati del defunto; il rito di passaggio trasforma il trasgressore in penitente e si ridefinisce
la comunità morale, rappresentata dall’ordine della sua legge, in una comunità che si
rigenera perché ha la facoltà di punire ma anche di perdonare. Ciò che fanno alcuni riti di
passaggio non è solo ricordare o far rivivere la memoria del passato, ma passare,
sopportare e andare oltre e questo tipo di azione non si compie se almeno una parte del
passato non muore, cioè se per-dono dei presenti non viene calato su di essa un sipario.
Infine per vivere le società hanno bisogno della morte e di tutti i suoi equivalenti simbolici
ma necessitano anche del perdono, cioè di quella pratica rituale che non ricrea il ricordo
ma garantisce armonia nell’oblio (Navarini 2003, p. 78). Quella cui ho assistito, non era
una semplice benedizione ma qualcosa di un pochino più importante ammette Francesco,
più simile a un “mezzo funerale”: «Mi sembra che abbia fatto anche i santi, perché alcuni
fanno anche i santi e lì sei vicino a una messa vera e propria. Non sono efferatissimo su
queste cose, però c’è la parte finale della messa, dove nominano tutti i santi e qui a volte
arrivano a fare quello e lì è un mezzo funerale, manca solo la comunione per renderla una
149
cerimonia vera e propria, ma la comunione qui non si fa perché la chiesa non è consacrata.
È l’eucaristia la parte clou, no? È il corpo di Cristo, non puoi fare la comunione se non sei
confessato, è questo che rende tutto religioso». Il sistema Casa funeraria in un primo
momento era guardato con un certo sospetto dalla chiesa cattolica che aveva il timore di
essere sostituita nella sacra funzione che assolve.
Un timore in parte fondato.
Un vero funerale non potrebbe essere celebrato nella sala multifunzionale perché i preti si
rifiutano di eseguirlo ritenendo la chiesa, l’unico luogo possibile dove poter dare
l’eucaristia. Il rito del commiato eventualmente compiuto all’interno della Casa funeraria
non dovrebbe sostituire ma integrare la cerimonia religiosa tradizionale, permeando ogni
atto compiuto di una religiosità umana prima ancora che liturgica. La benedizione descritta
in precedenza è un perfetto esempio di rituale del commiato che integra la liturgia
ecclesiale, essa aggiunge un elemento importante ovvero dà la possibilità di eseguire nella
sala multifunzione una cerimonia a feretro aperto (in chiesa per legge deve essere chiuso) e
questo consente di potersi relazionare con il defunto in termini più diretti rimanendo
ancora per un po’ nello stato di sepoltura provvisoria e rimandando la fase in cui il corpo
non sarà più visibile occultato dalla sepoltura definitiva. Come già detto funerali veri e
propri in Casa funeraria non se ne fanno, o meglio, ufficialmente non si potrebbero fare,
ma in qualche occasione la sala multifunzioni ha visto celebrare delle vere esequie: «Ci
sono stati pochissimi funerali veri anche perché sono molto poche le persone che lo
richiedono, chi crede veramente preferisce andare in chiesa. Ad esempio c’è stato un caso
di persone che volevano una cosa più intima, erano molto molto pochi e la persona
deceduta era una centenaria, era una cerchia ristretta, non c’erano estranei. Loro volevano
un rito completo ma volevano anche un luogo riservato, non volevano questa gran chiesa,
loro mi sembra che abitassero anche in centro dove c’era una cattedrale e loro,
fondamentalmente, erano sette, otto persone», racconta Francesco. Il problema serio è
trovare preti disposti a celebrare un funerale che non sia in una chiesa e qualcuno è
disposto, mi spiegano gli operatori della Casa funeraria, come il parroco che interpellavano
per eseguire le cerimonie. Quest’ultimo era dell’idea che la comunione doveva essere
libera da vincoli di luogo, poteva esser data ovunque, un parroco “particolare” raccontano i
ragazzi, che accettava volentieri l’offerta elargita ai funzionari della chiesa che si recano in
Casa funeraria per officiare ai doveri.
150
Preti corrotti a parte, la regola vuole che i funerali siano celebrati in chiesa: «Il prete che
c’era prima fortunatamente l’hanno trasferito, ora abbiamo qui dei preti, preti serissimi,
vengono tranquillamente a fare benedizioni, però non vogliono fare funerali, dicono che la
casa di Dio è la chiesa, però vengono a dare benedizioni a tutti. Se qualcuno vuole il
funerale qui dentro, gli si dice chiaro e tondo che c’è questo limite derivato dal fatto che la
chiesa non è consacrata, dopo di che se riesci ad accontentarli lo si fa».
3.3.2 Il funerale laico: un rituale “de-tradizionalizzato”
Cambio di scena.
Finito il rituale di benedizione, velocemente gli operatori coprono le immagini sacre della
sala multifunzioni con le pareti scorrevoli. Occultati, crocefissi e quant’altro possa evocare
una qualche forma di religiosità, ci si prepara alla seconda cerimonia, celebrata con rito
laico. La bara è chiusa, avvolta dai vivaci colori della bandiera della pace e dal rosso fuoco
di falce e martello. Lo spazio questa volta è pieno di amici e parenti che hanno formato un
cerchio intorno al feretro. Avanza un uomo, può avere la stessa età della donna scomparsa,
forse sessantacinque anni. Ha un foglietto in mano e comincia un discorso.
È chiaro che lei ha vissuto con noi gli anni difficili della situazione italiana del partito
comunista. Quelli che sono gli ideali, ideali che poi ci siamo ripresi, ci stiamo
riprendendo, dopo la caduta del muro di Berlino, la crisi della sinistra, e grazie alla
Giordana, siamo riusciti ad andare avanti e a sperare in un mondo migliore. Io credo che
se qualcuno non ci sia ancora andato, possa andare alla triennale della Bovisa dove c’è la
storia del PCI con la Giordana … (si commuove) scusate. Ci mancherà tanto Giordano.
Lei era per la lotta, la giustizia, l’affermazione dei diritti, noi continueremo cosi. Ciao
Giordana.
Tutti applaudono.
Un secondo discorso.
Io penso che quello che hanno detto adesso, sia insufficiente per ricordare Giordana. Non
posso parlare di Giordana senza parlare anche di Antonio. Giordana e Antonio, marito e
moglie, erano due miei compagni, lui se n’è andato come già sapete da ormai sette anni.
151
Antonio è stato uno dei miei amici più affini ma per ragioni che il cuore spesso non
conosce, il nostro rapporto arrivò a logorarsi e per anni siamo rimasti in lotta. Capita
che, io appaia talvolta, come uno di quelli sempre in procinto di mordere qualcuno,
invece, sono un omaccione sentimentale. Fui io a riprendere i contatti che poco a poco ci
fecero tornare amici come prima, più di prima. La nostra mente sognatrice già vaneggiava
i futuri viaggi turistici e culturali che avremmo organizzato insieme, Parigi prima di tutto
perché Antonio, buona parte della sua iniziale formazione poetica, morale, deriva quasi
tutta da quella città. La vita di frequente si incarta, cosi, in pochissimi mesi Antonio si
spegne. Ho assistito giorno dopo giorno, lui reagiva in questo modo, fingendo una
normalità inesistente. Giordana, condividendo le sue idee, organizzò un degno funerale al
cimitero che vide la partecipazione di centinaia di persone. Ho mantenuto i rapporti di
amicizia con Giordana, ci sentivamo per telefono, poi i nostri rapporti si sono diradati a
seguito dell’incidente in cui mia moglie è stata coinvolta, prima per l’incidente
automobilistico, poi per la scoperta di un tumore al seno e tutto ciò che questo ha
comportato. Ci siamo sentiti poco e visti ancora meno. Potrei trovare delle attenuanti ma
niente mi toglie dalla mente che avrei potuto fare per lei qualcosa di più. Per Giordana la
morte di Antonio non è mai stata messa alle spalle, di questo sono assolutamente sicuro, il
legame sentimentale era solido, e forte è rimasto. Un giorno mi confidò che era in collera
con suo marito, non doveva farle questo, non doveva andarsene. So che queste
affermazioni possono apparire paradossali e irragionevoli, ma se ci si pensa bene, si può
comprendere il senso profondo di queste parole. La vita senza Antonio a un certo punto
deve esserle sembrata poco interessante tanto da ritirarsi progressivamente da quelli
impegni sociali che aveva sempre adorato. Un po’ colpa mia, non ho afferrato quanto era
necessario per toglierle dalla testa questi brutti pensieri e farle cambiare opinione. Che
Giordana soffrisse di solitudine, di silenzi, senza mai dirlo, non ho mai avuto dubbi, ma
direi una bugia se affermassi che quello che le mancava molto non è stato il matrimonio.
La morte ti sorprende sempre, arriva a tono sicuro. Io spero, spero davvero che lei si
possa riposare e che possa riabbracciare Antonio. Adesso il problema non è Giordana, il
problema adesso è Mario, a lui dobbiamo stare vicini, io cercherò di farlo.
Bloccato dalla commozione, abbraccia il figlio di Giordana.
Il funerale si chiude sulle note di Bella ciao. I dolenti intonano l’inno partigiano, le signore
più anziane cantano con tono solenne tenendo il braccio alzato e il pugno chiuso. Un
152
momento di religioso silenzio, alcuni salutano la donna a tono con un “Ciao Giordana” e
un forte applauso irrompe nella sala.
Prima di andar via, il figlio della defunta prende la parola.
Come mio papà, mia mamma preferiva essere cremata, il suo desiderio sicuramente è
stato esaudito, sarà messa insieme a papà, nello stesso posto. Quando poi sarà, potremmo
andare a trovarli insieme.
Di nuovo un fragoroso applauso.
L’estremo saluto si manifesta sotto diverse sembianze, i non credenti accarezzano la bara, i
religiosi fanno il segno della croce chinandosi sul feretro.
Le parole e l’azione si uniscono nella rappresentazione verbale che raggiunge il suo scopo.
Nei momenti critici della vita il linguaggio può assumere un’importanza notevole, dà agli
esseri umani la capacità di rappresentare, ne dirige le emozioni e gli umori. In occasione
della morte esprime comprensione per confortare il dolente e tesse elogi funebri che
narrano la vita del morto (Davies 1996, p. 20). La retorica, processo che si serve della
parola in modo persuasivo, comprende tutto ciò che è stato detto sul morto e il dolente, nel
tentativo di incoraggiarlo e dargli forza e speranza (ivi, p. 21) come nel caso del funerale
laico52 o civile descritto che, oltre a quanto detto fino a ora, dimostra anche come il
linguaggio operi sia in ambito liturgico che in contesti laici. Debellato il tradizionale
funerale celebrato con rituale cattolico, il problema di quanti non si reputano appartenenti a
nessuna fede religiosa è “trovare le parole giuste53” per parlare a qualcuno che ha subìto un
lutto ma questo disagio non bisogna credere che diventi inevitabile nel mondo laico, altre
parole possono riempire il vuoto parziale che si è creato (ivi, p. 22).
Non c’è una ritualità consolidata per i funerali civili frutto de l nostro contesto culturale,
proprio dell’epoca postmoderna54 nella quale si assiste al lento declino della religione che,
non essendo più un’autorità indiscutibile, trascina con sé tutti gli elementi della tradizione
in un clima di insicurezza e incertezza di fronte alla morte. Le vecchie autorità quali la
52
Il termine “laico” si riferisce all’eliminazione dell’influenza delle idee religiose tradizionali.
In appendice, allegato C, un capitolo di un libro interessante per “trovare le parole giuste”, Funerali senza
Dio: manuale pratico per la celebrazione di funerali non religiosi di Richard Brown e Jane WynneWillson
(ed. Omnilog, 2010). Questo capitolo è di particolare aiuto per chi deve scrivere il testo di un funerale. Il
volume contiene 7 esempi di funerali diversi, un compendio di espressioni utili alle situazioni più difficili,
nonché tutte le istruzioni utili al buon svolgimento del rito laico.
54
La postmodernità non è necessariamente priva di sentimento religioso, non è inevitabilmente atea, ma è
eclettica e seleziona elementi di credenze diverse (Davies 1996, p. 244).
53
153
Chiesa e la tradizione, dunque, sono ora sostituite dall’autorità del Sé individuale, pertanto
qualsiasi costrizione è rifiutata perché limita la libertà di scelta personale e la buona scelta
è quella che compio da me non la scelta che baso sulla giustezza di un’autorità esterna.
Siamo di fronte a qualcosa che assomiglia a un vuoto, siamo diventati de-tradizionalizzati e
stiamo lottando per colmare questo vuoto (Walter 1994) creando un nuovo modo di
celebrare una liturgia senza Dio. Questo non vuol dire che la nostra cultura sia anti –
ritualista, al contrario nuovi bisogni rituali stanno venendo alla luce in una cultura fondata
sull’individualismo che ritiene unica una vita solo se vissuta “unicamente”. Il buon
funerale è quello che onora il defunto per ciò che è stato in vita, per la sua unicità rendendo
più personale il modo di morire (ivi). Il funerale laico della compagna Giordana è stato
celebrato con una liturgia politica riempita da parole che raccontano di lei e colmando quel
vuoto rituale dalle persone che l’hanno amata in vita e dalla sua fede nel partito comunista.
Il rituale laico assume le sembianze di una forma piena poiché i soggetti si trovano in una
situazione in cui hanno la possibilità di agire in modo proprio facendo emergere le proprie
credenze interiori all’interno di una scena in cui si media con i simboli e le contraddizioni
della cultura (Navarini 2001, p. 6). Forma piena e forma vuota sono determinate dalle
relazioni che ogni soggetto pensa di instaurare con le situazioni e con la cultura poiché i riti
sono azioni che spesso eseguiamo convinti delle nostre credenze e ogni credenza implica
che l’individuo deve agire secondo le proprie idee. Althusser sostiene che «l’individuo in
questione si comporta in questa o in quella maniera, adotta questo o quel comportamento
pratico e, quel che conta di più, partecipa ad alcune pratiche regolate, che sono quelle
dell’apparato ideologico da cui “dipendono” le idee che egli ha liberamente scelto in tutta
coscienza in quanto soggetto» (1995, p. 187-188), il soggetto dunque deve iscrivere negli
atti della sua pratica materiale le sue proprie idee di soggetto libero. La credenza può
diventare ciò che rende “materiali” le ideologie, ossia «atti inseriti nelle pratiche. E
osserveremo che queste pratiche sono regolate da rituali nei quali esse si inscrivono, in
seno all’esistenza materiale di un apparato ideologico» (ivi, p. 189). Il significato materiale
del potere di un rito deriva dal fatto che ogni rito tende a creare forze integrative e fabbrica
visioni del mondo, scene significative che si impongono sui soggetti traducendo il
linguaggio in pratiche sociali e costruendo identità (ibidem). Il rituale funebre preso in
considerazione inscrive le sue pratiche in seno all’apparato ideologico politico, l’elemento
sacro nella celebrazione laica del funerale di Giordana non è Dio ma ciò che è sacro (il
sacro così com’è inteso da Durkheim) per l’attore ossia il credo politico, la fede nel partito
154
comunista. La cerimonia è strutturata in questo modo: l’ambiente è arricchito da simboli
legati all’ideologia comunista (bandiera della pace e falce e martello), l’intero rituale è
coordinato dagli amici più cari della defunta e dai suoi familiari. Una funzione inscenata
per rappresentare l’unicità della donna scomparsa, un primo discorso improntato sulla
passione politica di una vita e un secondo discorso che racconta episodi “intimi”
dell’esistenza di Giordana, i suoi amori, le paure, i suoi stati d’animo, parole che hanno
catturato l’essenza e l’unicità della donna combattiva che non c’è più. Grande è il potere
delle parole di generare e dirigere l’emozione, soprattutto quando esse sono unite alla
musica, il funerale di Giordana termina sulle note dell’inno partigiano “Bella ciao” che
sostituisce l’inno sacro intonato nei rituali funebri religiosi. La liturgia laica rende omaggio
al defunto e offre conforto ai suoi cari celebrando l’importanza che ha avuto nella vita di
coloro che l’hanno amato e rappresentando ciò che era significativo per il defunto, in
quanto esprime qualcosa dell’intimo della personalità dello scomparso, viene messa in luce
la sua individualità e le azioni della sua vita sono narrate in modo particolareggiato. Questi
funerali centrati sulla persona rovesciano l’atteggiamento radicato nelle tradizioni cristiane
che considera l’identità e l’individualità dei defunti di importanza minima nei rituali
funebri. L’enfasi cristiana tradizionale sul peccato, sulla misericordia divina e su una vita
ultraterrena in paradiso, tende a svalutare la vita terrena, il tema del perdono per il passato
ha la precedenza piuttosto che quello del ringraziamento per le gioie godute in terra
(Davies 1996, p. 244). «La Chiesa cristiana garantisce a coloro che a lei si affidano “la
resurrezione e la vita”» (Hertz 1907, p. 97) e lo fa formulando e rinnovando la promessa
che ogni società religiosa fa ai propri membri. Ma questo alla fine è ciò che fa ogni sfera
sociale che vive, si organizza e si rigenera in quanto comunità morale e che rinnova con
qualche rito (in questo caso con un funerale celebrato con rituale laico) la propria promessa
di immortalità, proprio quando muore un membro che di fatto è il simbolo del suo corpo
sociale (Giordana è ricordata come membro rappresentante il partito comunista), parte
costitutiva di ciò che esso rappresenta (Navarini 2003, p. 75).
155
3.3.3 …Ma i laici muoiono in seconda classe55
«Perché un funerale sia “civile” non è sufficiente l’assenza del sacerdote. Perché un
funerale sia “civile” occorre anche che ci sia un luogo dignitoso in cui svolgere il rito di
commiato.
Perché un funerale sia “civile” occorre che si sviluppi una ritualità adeguata che
accompagni i partecipanti in un momento così delicato; una ritualità che oggi è quasi del
tutto assente e che deve ancora trovare il modo di mettere le proprie radici in un paese in
cui le tradizioni religiose hanno costituito per secoli un punto di riferimento centrale e a
volte totalizzante».
È quanto scritto sulla copertina del dvd che presenta il documentario “Sia fatta la mia
volontà” realizzato dall’associazione culturale romana Schegge di cotone nel 2010. Un
cortometraggio che, attraverso l’esperienza di professionisti del settore funebre e la
testimonianza di gente comune, riflette sull’attuale situazione del popolo italiano
“impreparato” sull’organizzazione e la gestione dei funerali civili o laici.
Nel 2003 la nuova disposizione di legge sulla funeraria ha introdotto in Italia le sale del
commiato, un’importante innovazione che concede la possibilità di avere uno spazio
dignitoso affinché si possa “costruire” un rito funebre laico.
Per fare un funerale civile ci vuole una sala adatta, normalmente queste sale, che si chiamano
sale del commiato, vengono realizzate per lo più accanto all’impianto di cremazione, va detto
che una maggior parte dei comuni non è attrezzato per svolgere questo tipo di cerimonia. Il
funerale civile quando viene richiesto e viene svolto il più delle volte si trova un luogo
arrabattato, molte volte è la sala mortuaria, altre volte è un vecchio magazzino che viene
utilizzato per quello(Presidente federazione italiana cremazione, intervista tratta dal
documentario Sia fatta la mia volontà).
Il Presidente intervistato nel documentario spiega che la sala del commiato è il luogo
adatto a ospitare il nuovo rituale civile; così come un funerale religioso è dignitosamente
officiato in una chiesa è giusto che i non credenti abbiano una sala di cui disporre per dare
l’estremo saluto al proprio caro. Ma nonostante la legge abbia acconsentito alla costruzione
di sale del commiato, l’innovazione fatica a prendere piede tant’è che molti comuni non
sono attrezzati per affrontare questo importante cambiamento nella cultura funeraria. La
richiesta dei funerali civili viene tristemente esaudita mettendo a disposizione dei dolenti e
del povero estinto luoghi fatiscenti per l’ultimo addio, nel migliore dei casi si improvvisa
55
Titolo di un articolo apparso su Repubblica del 18 dicembre 2000 che segnalava l’assenza di un luogo
destinato alle cerimonie laiche nella città di Venezia.
156
una “cerimonia last minute” nella stessa camera mortuaria, altre volte si salta il passaggio
dell’addio portando direttamente la salma al cimitero perché non si sa dove e come
celebrare un funerale che non sia religioso.
In Italia non c’è un rito laico, come tutte le posizioni di laicità fanno molta fatica a imporsi
perché oltre a essere un paese cattolico, è un paese cattolico che vede la presenza sul suo
territorio del Vaticano e quindi evidentemente, tradizionalmente una presenza anche più
ingombrante dal punto di vista politico (Marina Sozzi, intervista tratta dal documentario Sia
fatta la mia volontà).
La direttrice della Fondazione Fabretti, un centro di ricerca e documentazione sulla morte e
sul morire, appura come in un paese estremamente cattolico come il nostro ogni forma di
laicità si fa strada a fatica pertanto la reticenza in materia di religione laica regna sovrana.
La gente di status medio-basso va in chiesa perché si deve andare, funziona così, anche se in
realtà non mette piede in una chiesa da vent’anni, però è cosi, si va in chiesa e si fa il funerale.
La media va in chiesa quando si deve andare, quando ti sposi, quando muori, quando fai la
comunione, il battesimo, perché è cosi, è il luogo comune (Francesco).
L’italiano medio resta ingabbiato in azioni rituali che spesso esegue convinto delle sue
credenze, ma realizza, al tempo stesso, che sta cedendo a una routine, o a un modello
stereotipato che non è parte di lui (Navarini 2001, p. 7). Invece a staccarsi dalla routine
rituale liberandosi dallo stereotipo dominante, secondo Francesco, sono i facoltosi “quelli
che hanno una cultura superiore”.
Sono i facoltosi, è l’imprenditore che riempie quella saletta lì di amici, industriali, sono quelli
che non vanno in chiesa. Quelli che hanno una cultura superiore, invece, improntano il rito
civile, in una sorta di commiato, di ricordare i propri aneddoti o le proprie storie, però è tutta
gente che ha cultura superiore della media (Francesco).
Coloro che hanno gli strumenti culturali per edificare un rituale personalizzato richiedono
uno spazio per plasmare la cerimonia volta a onorare il proprio defunto.
Sono persone che hanno uno status medio-alto, quelli che sono passati qua e che ho visto qua
assolutamente. Chi ha visione differente è data da cultura superiore evidentemente, o da culture
prese in vari posti, chi ha vissuto a New York, per loro è all’ordine del giorno fare funerali
cosi, in sala del commiato, infatti, quello che mi viene in mente è quello che ha fatto proprio il
top, champagne, professore lui, professoressa lei deceduta giovane, quarantasei anni, professori
universitari, studiosi, gente che è abituata a girare il mondo. Lui aveva fatto questa cosa qua,
forse la più clamorosa, ma ce ne sono state anche altre. Tutte con dirigenti, personaggi un po’
particolari. L’operaio va in chiesa, punto. Oltre a questa gente che fa funerali di questo tipo, la
maggior parte dei funerali civili sono di comunisti, la musica, le bandiere, sanno cosa fare è
tutta una cosa gestita da loro (Francesco).
157
Milano è una città privilegiata per ossequiare i defunti assecondando il loro desiderio laico
poiché ci sono gli spazi adeguati, e la struttura oggetto d’analisi ne è un chiaro esempio. La
maggior parte dei funerali civili celebrati nella Funeral Home sono dei comunisti, dice
Francesco, oppure funerali laici di lusso officiati da gente di un certo livello; cerimonie
organizzate da coloro che di solito hanno vissuto all’estero e conoscono una cultura
funeraria nella quale il rito civile è la regola non l’eccezione, dunque dolenti che
possiedono determinati strumenti culturali per creare un rituale adatto alle proprie
necessità. Nell’esempio di funzione laica citato dall’operatore nel frammento di intervista,
il marito della giovane professoressa universitaria deceduta ha voluto che si
commemorasse la compagna ascoltando durante il rituale la sua musica prediletta e
offrendo il servizio catering agli ospiti alla fine della cerimonia. L’uso di musica leggera ai
funerali, come modo distintivo di strutturare un rituale funebre laico è un fenomeno
impiegato soprattutto nei Paesi anglosassoni nei quali ritengono che la musica e le letture
preferite, lette da amici e membri della famiglia conferiscono al rito un particolare
significato (Davies 1996, p. 90). L’uso di banchettare dopo il funerale non è tipico del
nostro Paese anche questa tradizione affonda le proprie radici lontano, oltre al funerale
della docente universitaria, altri dolenti hanno accettato come servizio il catering dopo la
cerimonia ma molto pochi, racconta Francesco. Chi ha avuto esperienza all’estero ha
gradito l’idea di riunire i propri cari in ricordo dello scomparso attraverso il cibo, altri
hanno rifiutato il servizio proposto dagli operatori perché non è nella nostra tradizione e
l’idea è percepita in malo modo.
In tanti, tanti francamente sono rimasti scossi, nel senso entravano, vedevano e dicevano ma
come…sai, abituati al funerale classico, chiesa, lutto, silenzio religioso, tanti rimanevano un
attimino cosi, spiazzati. Non c’è cultura, davvero non c’è cultura (Francesco).
In Italia non si fanno banchetti post funerale perché considerati una mancanza di rispetto
per il morto, perché fino ad ora non c’erano posti in cui poterlo fare essendo l’obitorio e la
casa privata spazi ridotti o semplicemente perché nessuno mai l’ha fatto e non ci si pensa.
In altre parti del mondo invece, consumare cibo insieme è considerato un rimedio contro la
morte poiché nutre il dolore, i banchetti che seguono i funerali sono caratterizzati da un
cambiamento nello stato d’animo. Il funerale suscita inevitabilmente sentimenti negativi,
tristezza, ansia e paura, ma un’intensa emozione negativa non può essere sostenuta per
lunghi periodi e la società non deve perpetuarla. Il momento del banchetto è quindi
158
importante perché permette all’umore di trasformarsi in senso positivo, è un momento
dedicato a riaffermare la vita (ivi, pp. 64-65). Non vi è miglior modo per evidenziare la
positività della vita che continua che quello di consumare cibo insieme esprimendo in tal
modo il desiderio di nutrire il corpo e di essere attivi per il futuro andando contro gli
elementi potenzialmente distruttivi della vita. I banchetti sono spesso rumorosi, animati
dalla conversazione e da un trambusto generale, in contrasto con la casa triste e silenziosa
per il lutto, suoni e rumore pertanto sono ulteriori segni di vita, proprio come il silenzio e
la quiete sono tipici segni di morte (ivi, p. 66). In uno spazio come la sala multifunzionale
dunque gli individui possono esprimere se stessi e modellare i rituali come meglio credono,
ascoltando musica, banchettando o riflettendo in silenzio sulla vita che viene a mancare.
In Casa funeraria i laici “muoiono in prima classe”.
3.3.4 Il maestro di cerimonia
Purtroppo le esperienze in Italia finora ci insegnano che talvolta avere uno spazio non è
sufficiente per costruire un rito, è sufficiente per coloro che hanno gli strumenti culturali per
organizzarsi da soli un rito ma queste persone sono una minoranza e quindi bisogna consentire
a tutti, cioè bisogna costruire una cultura funeraria che non c’è, bisogna costruirla con delle
competenze specifiche e questo va fatto a mio modo di vedere attraverso la formazione di
questa strana parola che è il cerimoniere (Marina Sozzi, intervista tratta dal documentario Sia
fatta la mia volontà).
L’assenza di una tradizione rituale laica, come abbiamo visto, ha bisogno di soluzioni per
offrire ai dolenti la possibilità di costruire una nuova cultura funeraria, una prima risposta è
arrivata dalle innovazioni legislative sulla funeraria del 2003 che hanno introdotto le sale
del commiato, uno spazio da modellare in base alle esigenze rituali di ognuno, ma non tutti
possiedono gli strumenti culturali adatti per creare una funzione ad personam. Un ulteriore
aiuto per costruire i moderni riti è dato dalla formazione di una nuova figura professionale,
il cerimoniere laico, il progetto Caronte, citato sopra, ha ideato dei corsi per fornire
competenze a questa nuova figura che soccorre quanti esprimono la volontà di avvalersi di
una cerimonia del commiato. Il cerimoniere in una funzione laica, utilizzando un termine
di paragone, sostituisce la figura del sacerdote, il suo compito è gestire i tempi della
cerimonia del commiato.
Il cerimoniere in genere è un operatore funebre, un addetto di un livello un po’ più elevato. Un
buon cerimoniere deve conoscere i testi, deve conoscere le musiche, deve avere una cognizione
degli spazi perché altrimenti crea una grande confusione (Segretario generale Federcofit).
159
La nuova figura professionale non dà il suo contributo solo nell’organizzare funerali civili
ma agisce più in generale nella fase del commiato laico che può essere un momento di
raccoglimento in cui si dà l’ultimo saluto al caro estinto nei momenti di “cesura” del rituale
funebre. Ad esempio si può tenere una breve cerimonia prima della chiusura del feretro (e
andare in chiesa per il funerale religioso) o al cimitero poco prima della sepoltura,
insomma un momento di riflessione in cui si spendono due parole per il defunto, si leggono
poesie, si ascolta un brano musicale e altro ancora con l’aiuto del cerimoniere che detta i
ritmi. Una fase dell’addio laica che non vuole sostituirsi al percorso religioso della morte
né vuole rappresentare un’alternativa, ma che può integrare i diversi percorsi rituali. Una
cerimonia del commiato può essere celebrata anche in un altro fondamentale momento di
distacco ovvero prima che il feretro vada in cremazione. La realtà più evoluta di cerimonie
del commiato presso i forni crematori è a Torino, la famiglia è contattata per sapere se,
prima che il feretro entri nel forno crematorio, si vuole dare l’ultimo addio con il supporto
dei cerimonieri in una struttura creata appositamente per questo tipo di funzione. Riporto le
testimonianze di cerimonieri laici che lavorano in questo evoluto scenario rituale, tratte dal
documentario, Sia fatta la mia volontà.
Il funerale laico ha come modalità la libertà quindi la sua modalità è proprio
quella di non avere una struttura fissa. Il cerimoniere deve rendersi interprete
di questa esigenza di libertà e riuscire a tradurla in un processo rituale
definito quindi si tratta di tradurre questa libertà in strumenti espressivi e in
atti di parola, di silenzio, di musica, di azione. Se il dolente ha dato la sua
regia si seguono assolutamente le sue volontà e non ci sono deroghe perché
quello ci ha affidato di fare e quello dobbiamo fare. Sennò sono i parenti più
stretti che decidono se i parenti più stretti non se la sentono ci siamo noi. In
ultima istanza siamo noi a decidere, non li lasciamo senza una casa rituale.
Ultimamente abbiamo fatto un brindisi col feretro con tanto di vino e brindisi
da parte dei figli, il defunto aveva chiesto un brindisi e si deve dare il brindisi
allora se i figli ritengono che quello sia il luogo più adatto, io penso che quello
sia il luogo più adatto e se qualcuno si scandalizza lo si lascia al suo scandalo.
In dieci anni tanti funerali più di 70.000 mi sembra (Cerimoniere n.1).
160
Se viene una famiglia che porta, non so, tre brani musicali, due letture allora
in quel caso chiaramente il tempo si dilata e la cerimonia non dura più dieci
minuti dura magari mezz’ora sennò diversamente è un saluto.
Poi ogni famiglia può capitare che porti un cd, io ho messo da Vasco Rossi a
Zucchero a brani classici e mi hanno chiesto di leggere delle cose anche molto
forti che trattavano proprio la morte o altre cose più consolatorie, questo
capita sempre, normalmente (Cerimoniere donna n. 2).
La cosa più difficile è cercare di capire veramente chi hai di fronte e dare cosa
effettivamente vogliono in quel momento. È inutile che io, non so, legga una
poesia di Pascoli o di Montale a delle persone che non riescono a cogliere
questa cosa, invece, magari hanno bisogno di qualcosa di un po’ più di
passionale, qualcosa di un po’ più di concreto ed è questo un servizio da fare.
Non è tanto avere un cliché, anche se è una liturgia laica per cui ha bisogno di
scandire attraverso delle parole che sono rituali, ecco però all’interno della
ritualità che è quasi sempre simile che bisogna cercare di intervenire, è lì la
capacità del cerimoniere di capire cosa fare e come farlo soprattutto.
Ho dovuto leggere in napoletano la livella di Totò perché loro avevano portato
un mp3 e l’mp3 non ha funzionato e hanno detto ma perché non ce lo leggi tu
la livella? E ci siam messi a leggere la livella in napoletano.
Noi facciamo dalle 30-40 cerimonie al giorno (Cerimoniere n. 3).
In Casa funeraria Francesco e Luca sono operatori funebri a 360 gradi, oltre a essere
impresari di pompe funebri, autisti necrofori e operatori necrofori perché hanno seguito il
percorso formativo obbligatorio inerente, sono tanatoprattori e cerimonieri poiché il
titolare della Funeral home pretende una formazione completa per i suoi operatori e ha
ritenuto opportuno che partecipassero ai relativi corsi. Nonostante i due operatori siano
anche dei cerimonieri, non lo propongono come servizio perché ritengono che a condurre i
funerali laici sia la stessa famiglia e la presenza di un terzo sarebbe di troppo.
Diversamente dalle brevi cerimonie organizzate presso i forni crematori dove avviene il
distacco definitivo dalla salma e dare un ultimo saluto rendendo dolce l’ultimo passaggio
del rituale funebre è importante, in Casa funeraria la situazione è diversa perché qui si
gestiscono le prime ore del lutto, le prime fasi e la funzione assolta è differente.
161
Nonostante non siano cerimonieri nel senso stretto del termine, gli operatori esibiscono
comunque un self da cerimoniere poiché la Funeral home è un palcoscenico rituale e gli
attori agiscono in occasioni cerimoniali in un continuo scambio di rituali dell’interazione
con il pubblico.
Io sono un cerimoniere anche quando mi vedi parlare così, quando entra la gente, faccio il
cerimoniere, nel senso che, anche quello fa parte del cerimoniale. Che poi, in buona sostanza,
si tratta anche di buone maniere, di educazione, sapersi rapportare, il timbro della voce, la
gestualità. Ci vuole un po’ di elasticità e capire le circostanze, poi c’è quello che si sbilancia di
più e con il quale magari hai anche una battuta, c’è quello, e questo devi saperlo leggere, ma te
lo da l’esperienza anche questo, non è che lo scopri o lo studi. Quello che vorrebbe, allora, ci
sono le persone più anziane che vorrebbero un conforto, dunque sei lì pronto a darglielo
eventualmente, chi capisci che invece non vuole condividere con te questa cosa e allora proprio
distacco, devi assecondare tutte le esigenze e devi saperle interpretare, perché non te lo
vengono a chiedere, sei tu che devi capire come gestire la cosa, appunto, e anche quello fa
parte del cerimoniale, non è solo la funzione di per se. Per tutta la permanenza e la durata devi
leggere e capire un attimino, c’è quello che non vuole essere disturbato, quello che, invece, ha
piacere se vai li a chiedere signora come va, tutto bene, ha bisogno di qualcosa, stupidate che
però fanno la differenza. E fai il cerimoniere praticamente dalla mattina alle sette alla sera alle
nove non è solo la cerimonia (Francesco).
Il cerimoniere in Casa funeraria non ha il compito di intervenire nell’organizzazione del
funerale laico, almeno che non sia espressamente richiesto dai dolenti, ma ha il dovere di
curare i rapporti con gli ospiti per tutta la permanenza nella casa per l’ultimo addio, è
questo che fa dell’operatore un maestro di cerimonia.
3.4 L’addio alla Casa funeraria
Tre piani d’architettura severa, grigio sobrio, tutt’attorno tremila metri quadrati distribuiti
tra aree verdi e parcheggio. Non la ricordavo così austera la Casa funeraria, forse perché i
giorni in cui sono stata a fare le mie osservazioni erano addolciti dalle calde temperature
estive, ora invece fa freddo, siamo a novembre e la foschia milanese fa sembrare l’edificio
tenebroso. Entro nella hall e alla mia sinistra c’è Francesco in reception affaccendato al
computer: trasferiva i dati delle ultime salme arrivate nella Funeral Home.
«Cosa ci fai qua?»
«Sono passata a salutarvi e a salutare la Casa, mi mancava».
Sento il posto un po’ mio nonostante siano trascorsi diversi mesi dall’ultima visita e mi
siedo in reception a fare due chiacchiere con il responsabile. Qualche minuto dopo arriva
162
Luca, era andato a seguire un funerale; stupito della mia visita esclama: «Ti piace proprio
questo posto qua, non lo vuoi mollare!».
Un etnografo ricorda sempre con affetto il suo campo di ricerca anche se si tratta di un
luogo dalle funeree sfumature.
Seduta sulla poltrona nera in pelle dietro la reception osservo fuori dal finestrone l’esterno
della Casa: lunghe aste con le bandiere della Regione Lombardia, dell’Italia, dell’Unione
Europea e di altri Paesi sovrastano l’ingresso dell’edificio, di tanto in tanto vedo arrivare le
Rolls Royce, parcheggiate dagli autisti necrofori sulla destra dell’edificio nei pressi
dell’ingresso dell’area tecnica. Chiedo a Francesco perché ci sono gli olivi56 come unica
tipologia di albero, non lo sa con precisione: «Bisognerebbe chiederlo al titolare, forse
perché è il simbolo della pace».
Continuo a fissare fuori e vedo correre due gatti tra gli olivi. Dopo l’estate Francesco e
Luca hanno trovato una cucciolata di gatti neri e ne hanno preso uno a testa, gli altri sono
rimasti lì: la Casa funeraria è diventata anche la loro casa.
Ironia della sorte?
56
Sia i popoli orientali che quelli europei hanno sempre considerato questa pianta un simbolo della pace.
I greci antichi consideravano l’olivo una pianta sacra e la usavano per fare delle corone con cui cingevano gli
atleti vincitori delle olimpiadi. A quel tempo la pianta non era ancora l’olivo coltivato ma il suo progenitore
selvatico l’oleastro. Secondo il mito ci pensò Atena a trasformare la pianta selvatica in pianta coltivata e da
quel momento essa divenne sacra alla Vergine Atena e di conseguenza divenne anche simbolo di castità.
Per gli Ebrei l'olivo era simbolo della giustizia e della sapienza. Nella religione cristiana la pianta d'olivo
ricopre molte simbologie. Nella Bibbia si racconta che calmatosi il diluvio universale, una colomba portò a
Noè un ramoscello d'olivo per annunciargli che la terra ed il cielo si erano riconciliati. Da quel momento
l’olivo assunse un duplice significato: diventò il simbolo della rigenerazione, perché, dopo la distruzione
operata dal diluvio, la terra tornava a fiorire; diventò anche simbolo di pace perché attestava la fine del
castigo e la riconciliazione di Dio con gli uomini. Ambedue i simboli sono celebrati nella festa cristiana delle
Palme dove l’olivo sta a rappresentare il Cristo stesso che, attraverso il suo sacrificio, diventa strumento di
riconciliazione e di pace per tutta l’umanità. In questa ottica l’olivo diventa una pianta sacra e sacro è anche
l’olioche viene dal suo frutto, le olive. Infatti l'olio d'oliva è il Crisma, usato nelle liturgie cristiane dal
Battesimo all' Estrema Unzione, dalla Cresima alla Consacrazione dei nuovi sacerdoti. La simbologia
dell'olivo si ritrova anche nei Santi Vangeli: Gesù fu ricevuto calorosamente dalla folla che agitava foglie di
palma e ramoscelli d'olivo; nell'Orto degli Ulivi egli trascorse le ultime ore prima della Passione.
163
CAPITOLO 4
I guardiani del cimitero
Se uno è ancora fermo all’immagine del cimitero
che quando entri cambia tutto,
è tutto purificato, è disilluso.
Diciamo che l’aria di fuori è entrata dentro.
Pino, operatore tecnico cimiteriale.
4.1 Guardiani vs impresari di pompe funebri
Il sociologo francese Robert Hertz sostiene, come abbiamo visto, che il rituale funebre si
divide in due fasi: la prima concerne il corpo subito dopo la morte e la seconda i resti di
quel corpo. La prima serie di riti si occupa della carne corruttibile, che Hertz definisce
l’elemento “umido” del corpo; la seconda serie di riti si occupa dei resti ossei o delle ceneri
e costituisce l’elemento “secco” del corpo (Davies 1996, p. 27). A prendersi cura della
carne corruttibile nella fase di sepoltura provvisoria sono le imprese funebri che preparano
il corpo con gli atti rituali discussi fino a ora. L’elemento “secco” del corpo caratterizza,
invece, la sepoltura definitiva, il cadavere ha raggiunto la meta finale che è il cimitero e a
occuparsene sono gli operatori tecnici cimiteriali meglio conosciuti con il nome di
guardiani o custodi del cimitero. Il lavoro dell’impresa di pompe funebri termina all’arrivo
nel camposanto: l’autista necroforo consegna il feretro agli operatori tecnici cimiteriali che
provvederanno alla sepoltura. Un passaggio del testimone che rappresenta il trasferimento
del defunto dall’ambito spaziale del settore privato in cui si muovono le imprese funebri al
settore pubblico nel quale operano i tecnici cimiteriali assunti dal Comune.
Una volta che giungiamo al cimitero, consegniamo la documentazione agli incaricati, i
dipendenti del cimitero, che solitamente sono dipendenti comunali, consegni a loro la
documentazione e loro prendono in consegna il feretro. A Milano capita che tu giungi al
cimitero, gli incaricati del cimitero, i necrofori cimiteriali comunali, prendono il feretro
dall’automezzo e lo portano, non so, nella sala del commiato, nella sala multifunzionale
piuttosto che ti dicono, cosa fa, va in sepoltura? Si, va in sepoltura, va bene allora ci segui. La
tua auto funebre arriva sul campo della sepoltura, si ferma, l’autista apre l’auto funebre, il
personale cimiteriale prende il feretro e lo porta in tumulazione piuttosto che inumazione in
terra (Alessandro).
164
Alessandro, impresario funebre, descrive dettagliatamente la situazione di consegna della
bara ai dipendenti comunali; terminate le pratiche burocratiche, gli operatori tecnici
cimiteriali affidano l’ultimo incarico alla ditta funebre comunicando all’autista dove
portare la salma, dopodiché il feretro diventa responsabilità del Comune.
Io li chiamo necrofori cimiteriali o, come vengono definiti spesso e volentieri in Italia, i famosi
becchini […] No, non viene definito becchino chi lavora nell’impresa funebre, è sbagliato. Il
becchino è proprio colui che esegue le sepolture e che lavora nel cimitero […] Credo che il
termine becchino sia stato proprio il primo termine con la quale si è chiamato il custode del
cimitero che eseguiva le sepolture. Non vorrei dire una sciocchezza, credo che proprio sia stato
definito e chiamato cosi. Poi dopo è stato chiamato in maniera diversa credo e sia rimasto in
termine dispregiativo questo lavoro, questa attività, perché alla fine è un’attività del tutto
rispettabile, una persona che fa questo lavoro per portare a casa dei soldini è una persona che
merita rispetto. Però è rimasto come termine dispregiativo. Quando sono in giro a ridere con i
miei amici, ogni tanto ne scappano “Uè becchino!” e io dico, no, non lo sono (Alessandro).
L’operatore tecnico cimiteriale è conosciuto anche come becchino, spiega l’imprenditore, è
stato il primo nome dato a chi si apprestava a eseguire le sepolture nei cimiteri e oggi è
rimasto ma è utilizzato in modo dispregiativo per indicare questo lavoro del tutto
rispettabile, specifica l’intervistato. E se i guardiani del cimitero sono considerati becchini
perché la principale attività che eseguono è seppellire cadaveri, allora gli addetti alle
onoranze funebri sono immuni dallo scomodo epiteto poiché si occupano di tutt’altro.
«Chi, per mestiere, seppellisce i morti; necroforo. Sin. seppellitore, affossatore, beccamorti
(spreg.)», dizionario Garzanti.
«Chi di mestiere seppellisce i morti Sin. Necroforo», dizionario on-line del Corriere.
«Chi, per mestiere, si prende cura dei morti fino alla sepoltura», Grande dizionario italiano
Hoepli.
Tra le definizioni del termine becchino prese da tre diversi dizionari, due concordano con
quanto affermato dall’impresario funebre intervistato: becchino è chi per mestiere
seppellisce i morti. L’ultima definizione invece mette in crisi quanto detto finora: becchino
è chi si prende cura del cadavere fino alla sepoltura, sembrerebbe rientrare il caso di quanti
lavorano nelle imprese private poiché hanno in gestione il corpo dall’avvenuto decesso
fino all’ingresso nel cimitero. Se poi si prendono in considerazione altri fattori come ad
esempio i recenti cambiamenti introdotti nel settore funerario che hanno modificato la
tipologia di servizio eseguita da entrambe le figure professionali 57 (operatori necrofori e
57
Chiarirò nelle prossime pagine il cambiamento introdotto nel settore funebre.
165
operatori tecnici cimiteriali), il dibattito su chi sia becchino e chi invece non lo è sembra
non avere fine.
No io non vado al cimitero, io seguo il servizio nel momento in cui c’è la chiusura e tutto
quanto, vado in chiesa e poi basta. Finché serve la mia presenza perché poi quando arriviamo
al cimitero, subentra il personale del comune e lì preferisco non esserci […] Il nostro lavoro
finisce al cimitero con l’autista che arriva e consegna la salma, dopo di che subentra il
personale cimiteriale che non ha modo, non ha tatto, non sa cogliere il momento, che cinque
minuti non possono aspettare perché loro smontano da lavoro (Daniele).
L’impresario funebre intervistato segue personalmente tutto il servizio fino all’arrivo nel
luogo nel quale sarà celebrato il funerale, poi affida il feretro al conducente del carro
funebre che lo consegnerà al personale cimiteriale che non ha modo, non ha tatto, non sa
cogliere il momento. Un approccio duro verso gli operatori pubblici del cimitero si coglie
tra le parole pronunciate da Daniele, li considera ignoranti, privi di tatto e calore umano,
incapaci di comprendere il dolore del parente.
L’ignoranza regna sovrana ma anche dal dirigente del cimitero, un minimo di tatto, un minimo
di sentimento, cercare di comprendere anche i problemi della persona no, non esiste […] Il
cafone ma cafone è anche poco, cafone è anche poco. C’è qualcosa di più offensivo, meritano
questo i dipendenti comunali nei cimiteri. A Milano…che ne so, uno scaricatore di porto è più
delicato, però noi non possiamo subentrare e va bene cosi […] Noi non possiamo fare nulla,
noi dobbiamo arrivare e il personale interno del cimitero, l’autista apre la porta della macchina,
e il personale del cimitero prende la cassa la appoggia su un carrello magari anche cigolante,
non hanno una divisa, uno è vestito in un modo, uno in un altro, un altro c’ha le scarpe sporche
di terra, quell’altro c’ha il cappellino di paglia e lo portano via cosi. Noi stiamo qua per tutto il
tragitto prima, durante e dopo ad avere il personale in divisa, tutto apposto, in ordine, per poi
arrivare lì e avere questo passaggio (Daniele).
Cafone e scaricatore di porto, non usa mezzi termini l’imprenditore funebre per delineare
la figura del guardiano del cimitero dipingendo le sue azioni come grossolane e non curanti
della delicatezza della situazione luttuosa. Daniele descrive il modo di lavorare del
personale delle imprese di pompe funebri come impeccabile, ordinato e organizzato,
rispetto alla goffaggine del personale comunale che porta via la bara con indifferenza su un
carrello scricchiolante, non indossano una divisa adeguata ma sono vestiti in modo
sconveniente e a volte si presentano sporchi di terra e affaticati dall’incarico. Un passaggio
distruttivo per l’emotività del dolente scaraventato dall’impeccabilità del servizio, offerto
dalle imprese di pompe funebri, all’incompetenza degli operatori tecnici cimiteriali che
esasperano il disagio del sofferente.
166
Quando uno ha fatto il funerale, parte col carro, arriva al cimitero, se trovi, grazie a Dio, il
dipendente del comune che è cristiano, nel senso che ti tratta come una persona, il parente è
contento perché comunque gli dicono, guardi stiamo facendo… ci sono alcuni momenti in cui
magari trovi la squadra di seppellitori particolari che lavorano e non aiutano minimamente, uno
rimane lì, non sa cosa deve fare come parente […] C’è gente che non sa proprio minimamente,
che non ha proprio voglia di parlare, sta lì a fare il suo lavoro ma non gliene frega niente.
Quando chiudi la bara e quando lo abbandoni proprio al cimitero, non trovarti nessuno che ti
spiega cosa succede, neanche una parola, che ti dice, guardi questo è il campo, questo è il
numero di fossa […] Va a fortuna trovare una persona che abbia un’intelligenza e che abbia un
modo di fare con la gente. È capitato nel caso specifico di trovare persone che, arrivate al
cimitero, metti che, io mi metto anche nei panni di uno che lavora per il comune, dopo tutto il
giorno che sei stato al sole, al pomeriggio sono le quattro e mezza, ti arriva una salma che è in
ritardo, magari non so, sbuffi, oppure sei lì, non ti comporti come se fossi una pietra. Eh,
magari qualcuno vede questa faccia che ha…è capitato di assistere a una lite, e non è bello, ti
assicuro che non è bello (Stefano).
Stefano è meno critico del suo collega Daniele nel giudicare il lavoro degli operatori
tecnici cimiteriali o seppellitori come li definisce, dividendoli in due categorie: la prima
formata da dipendenti che rendono soft il passaggio del feretro dal privato al pubblico,
prendendosi cura del dolente non lasciandolo in stato di abbandono spiegandogli cosa
accade con garbo e solidarietà. La seconda categoria vede protagonisti operatori
indisponenti che non si incaricano di guidare il dolente nella fase di distacco definitivo dal
proprio caro. In sintesi, gli impresari funebri denunciano il comportamento freddo e
indifferente dell’ultima tipologia di operatori cimiteriali verso il dolente che nel momento
in cui è lasciato al cimitero si trova disorientato e non può affidarsi a nessuno. Un
passaggio che rende vano lo sforzo compiuto dall’impresa per aiutare il sofferente a gestire
al meglio l’evento luttuoso fino all’arrivo al cimitero dove poi è costretta ad abbandonare il
cliente perché entra in un territorio che non è più di sua competenza.
C’è una legge che vieta le operazioni alle imprese nel cimitero, quando varchiamo la soglia del
cancello d’ingresso del cimitero, non dobbiamo più toccare la cassa, in teoria, nel senso che poi
devono occuparsene loro, questo di legge, se dovessimo farci male all’interno del cimitero,
avremmo anche dei problemi, per intenderci, perché non è più competenza nostra, è di
competenza loro (Francesco).
L’ultima azione autorizzata dalla legge alle imprese funebri all’interno del camposanto è
aprire il portello dell’auto funebre per dar modo agli operatori cimiteriali di estrarre il
feretro e prenderlo in custodia.
L’abbigliamento probabilmente non è neanche colpa loro, comunque è la divisa che dà il
comune di Milano, lì sarebbe il comune ecco, invece, a dover concentrare un attimino uno
sforzo magari economico, un qualcosa in più per dargli un’apparenza, così, un po’ più
decorosa, perché davvero lì non è colpa loro. Però c’è anche modo e modo di portarla, anche lì,
posso avere anche una tuta ma se ho giacca e camicia fuori, si potrebbe fare meglio […] Poi
167
c’è quella mentalità tra virgolette che quelli del comunale tirano a campare, forse perché non
sono gratificati, mettiamola giù anche da quel punto di vista perché sicuramente c’è anche
quello, va tenuto conto anche quello, nel senso che, ma chi me lo fa fare a me […] Il più delle
volte sono indisponenti, ah no adesso signora devo andare a mangiare, non posso, dopo,
insomma c’è una visione del lavoro differente, sicuramente (Francesco).
Il dipendente cimiteriale non ha una divisa appropriata, ma questo è colpa del Comune che
non la fornisce e non vuole investire per dare un’immagine migliore al settore precisa
Francesco, ciò che indossa l’operatore lo porta male, non è attento all’aspetto esteriore, non
è interessato a presentarsi con decoro mostrandosi il più delle volte disinteressato, un
chiaro segno di mancanza di professionalità. Poi c’è quella mentalità tra virgolette che
quelli del comunale tirano a campare, opinione condivisa dagli operatori del settore
privato che alimentano lo stereotipo del dipendente pubblico senza aspirazioni che si culla
nel “dolce far niente”, apostrofato come fannullone e impreparato a svolgere il proprio
compito.
Secondo me basterebbe una selezione migliore, però chiaramente e probabilmente il candidato
tipo per quel tipo di lavoro, per conto del comune, sicuramente non è che ti permette di
selezionare un granché, comunque basterebbe una selezione migliore. Alcuni avrebbero dei
problemi a trovare un lavoro anche più elementare da privato, sicuramente, al comune va bene
cosi (Francesco).
Basterebbe una selezione migliore per rendere la situazione nei cimiteri meno disastrosa,
afferma l’intervistato. Il lavoro di guardiano non è visto come una mansione molto
edificante e non gode di grande stima da parte degli operatori del settore privato. Francesco
sottintende che il personale che si adatta a fare tale lavoro nella maggiore totalità dei casi è
di bassa levatura sociale e culturale e di bassa manovalanza e non trova di meglio proprio a
causa della sua preparazione. Insomma sarebbe auspicabile trovare del personale diverso
dal solito stereotipo che vuole il becchino brutto, cattivo e perverso. Le imprese si
avvalgono collaboratori preparati, giovani, educati e, in grado di sostenere moralmente i
dolenti nel momento del funerale, differente invece è quanto accade nella ancor più dura
fase della sepoltura supervisionata dagli operatori tecnici cimiteriali. Insomma gli
impresari di pompe funebri ostentano in coro l’insofferenza verso tale categoria di
lavoratori accusandoli di pigrizia, incompetenza e indelicatezza, ma questi ultimi non
restano impassibili alle critiche e si difendono sbandierano i difetti dei rivali.
Non c’è la professionalità che possiamo avere noi perché loro lo fanno solo a scopo di lucro
invece a me se una cosa la faccio bene o se la faccio male ho comunque lo stipendio a fine
168
mese. A me non interessa fartene 50, te ne faccio 10 ma fatte bene perché se te ne faccio
cinquanta non è che guadagno di più capisci la logica? (Orazio)
L’operatore cimiteriale intervistato punta il dito sulla mancanza di professionalità degli
addetti alle onoranze funebri che, investiti dalla smania di guadagnare sempre più,
procacciano una mole di servizi non riuscendo poi a curare i particolari dell’incarico a loro
affidato. La categoria dei custodi, al contrario, non trae profitto in base ai servizi effettuati
ma riceve uno stipendio mensile, ragione per cui bada alla qualità della prestazione perché
può concentrarsi sul da farsi evitando lo stress di dover lavorare per numerosi clienti con il
solo scopo di intascare cifre consistenti eseguendo le sepolture in fretta e furia.
Loro devono vendere, noi non dobbiamo vendere. Quando un dolente si rivolge a noi, anche
quando facciamo un funerale diciamo, rivolgetevi al Comune, non all’impresario, perché
l’impresario vi pela un sacco di soldi (Luigi).
Gli impresari di pompe funebri, come insaziabili avvoltoi, hanno come unico intento quello
di spillare soldi al dolente; Luigi non fa che confermare quanto detto dal collega nel
frammento di intervista precedente e invita caldamente i parenti a rivolgersi al Comune per
l’organizzazione del funerale piuttosto che alle imprese private.
Loro non hanno capito che come varcano il cancello, non sono fuori a dire che comandano
loro, nel senso, entro nel territorio del comune…si devono rivolgere a noi, nel senso che noi,
gentilmente, abbiamo sempre aspettato i parenti, e non abbiamo mai brontolato perché noi
siamo dalla parte dei parenti, hanno un lutto, ci mancherebbe. Cosa facciamo li sgridiamo?
Anzi (Luigi).
Oltre alla meschinità che contraddistingue i mercenari della morte, gli operatori cimiteriali
ne criticano l’atteggiamento arrogante e presuntuoso sfoggiato in un territorio che esclude
radicalmente la loro presenza; uno spazio gestito dai dipendenti comunali che hanno la
pretesa di far valere la loro autorità chiedendo rispetto dal momento che il servizio funebre
è passato nelle loro mani. L’intervistato sostiene che gli addetti alle onoranze funebri non
hanno motivo di prendere decisioni nell’area comunale sia perché non spetta loro per legge
sia perché gli operatori cimiteriali sono dalla parte dei parenti, sono professionisti seri e
motivati e non farebbero mai nulla per mettere il sofferente in una situazione di disagio.
Fai finta che sei la dolente, arriva il babbeo di turno che tra l’altro è un tirapiedi sciacallo e
cosa fa? Non è che dice adesso andiamo al cimitero e il mio lavoro finisce qui. No ma ci penso
io! Tu gli dici di rivolgersi a un dipendente invece lui fa di testa sua e chiede se va bene al
parente (Vinicio).
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Tirapiedi e sciacallo sono tra i nomignoli affibbiati all’operatore necroforo; superbi nel
modo di fare, Vinicio concorda con il collega sopra citato, tu gli dici di rivolgersi a un
dipendente invece lui fa di testa sua, non tenendo in considerazione che il lavoro per loro
finisce varcata la soglia del cimitero.
Loro con noi cozzano dappertutto, perché noi rappresentiamo la Repubblica. Quante volte ci
hanno detto, se me la scaricate perché devo andare a fare un servizio? Sono sempre loro a dire
queste cose, sono presi dalla fretta, perché noi abbiamo il compito istituzionale, loro hanno un
altro compito (Guido).
Gli impiegati del settore privato sono presi dalla fretta perché, sottintende Guido, a loro
spetta il compito di saltare da un servizio all’altro assegnato dai titolari delle pompe
funebri che rincorrono una sorta di logica espressa attraverso la formula “maggiore è il
numero delle esequie maggiore sarà il guadagno”. Diverso è il compito di noi operatori
tecnici cimiteriali, spiega l’intervistato, poiché rivestiamo un ruolo istituzionale: noi
rappresentiamo la Repubblica.
4.2 Un nuovo modo di guardare la morte: l’editto di Saint Cloud
Qua al cimitero comanda l’autorità civile. In realtà con la rivoluzione francese ci fu la rottura
del muro, però c’è una specie di coesistenza tra autorità civile e autorità religiosa. C’è una lotta
che continua dal Medioevo tra i due, io sono completamente ghibellino, per cui, per me c’è la
supremazia assoluta dell’autorità civile. Questa è l’opinione mia (Guido).
Non è solo opinione di Guido, operatore tecnico cimiteriale laureato in filosofia e
impiegato al cimitero di Bruzzano, ma dopo il settecento e dopo il suo sbocco
rivoluzionario, qualcosa cambia e il rapporto dell’uomo con la morte non sarà più lo stesso.
La Francia, specificamente da questo momento storico, impregnato di idee e di valori
rivoluzionari, assumeva un ruolo del tutto primario in merito alle questioni funerarie
diventando il paese-guida nel rinnovamento delle consuetudini cimiteriali, chiave di volta
tanto importante da superare i confini nazionali. Dagli studi sulla legislazione funeraria del
periodo rivoluzionario apprendiamo che uno degli assunti su cui si discuteva e si sentiva
l’esigenza di apportare cambiamento era di sottrarre alla chiesa 58 e ai preti il governo di
58
L’identità tra chiesa e cimitero, dal V al XVIII secolo, ha la sua origine nelle catacombe dell’epoca delle
persecuzioni romane. Al contrario di quanto generalmente si crede, le catacombe dell’antica Roma non sono
un’invenzione cristiana; infatti esse nascono nelle campagne attigue alla città, nelle cave scavate per estrarre
la pozzolana (materiale usato in edilizia per l’impasto della malta) che, una volta abbandonate, venivano
170
questa materia. Questione importante ma è anche vero che non è questo il punto centrale,
non vi è solo la pars destruens della sottrazione del singolo a quel tutto che era la comunità
della chiesa, vi è anche la pars costruens della sua sussunzione a un altro tutto, la comunità
civica. Questo processo crea una nuova prospettiva, un diverso modo di guardare alla
morte considerata sempre come un fatto pubblico che sottopone scrupolosamente ogni
cittadino alla regola dell’uguaglianza (Sozzi, Porset 1999, pp. IX-X). Nel 1799 i regimi
post rivoluzionari vollero rimettere ordine in una serie di costumanze che credevano scosse
dalle fondamenta, così il ministero degli interni del consolato Lucien Bonaparte, chiese
all’Institut National, massima istituzione culturale francese, di bandire un concorso sulla
questione delle sepolture (Ariès 1975, p. 175). Il quesito era su quali riti e quali luoghi
funebri la Repubblica avrebbe dovuto prescegliere: Quelles sont les cérémonies à faire
pour les funérailles, et les réglemens à adopter pour le lieu de la sépulture? (Sozzi, Porset
1999, p. 3). L’Istituto ricevette quaranta memoriali, il titolo del concorso aveva suscitato
l’interesse della classe dirigente e colta del Direttorio e del primo Consolato, il tema
proposto, su cui Lucien Bonaparte aveva ritenuto di dover richiamare l’attenzione del
pubblico, aveva toccato un problema profondamente sentito (ivi, p. 4). Gli autori dei
memoriali scritti sono concordi nel constatare il triste stato dei cimiteri e delle tombe, lo
attribuiscono agli eccessi della rivoluzione, mentre, a mio avviso, è più antico, dovuto
all’indifferenza popolare (Ariès 1975, p. 175). Si doveva porre rimedio al grande squallore
nel quale si svolgevano le inumazioni, all’abdicazione ai doveri verso i propri defunti che
si stava generalizzando tra la popolazione, all’assenza di cortei funebri, alla desolazione
dei cimiteri, lasciati in stato di abbandono e privi di manutenzione, all’anonimato e alla
tristezza delle fosse comuni e dei corpi ammucchiati. Gli autori dei mémoires si occupano
usate dai romani come luoghi di sepoltura, due milioni di pagani furono sepolti nelle catacombe, prima che
esse divenissero emblema della religione cristiana. Nell'antica Roma i cimiteri dei pagani non erano separati
da quelli dei cristiani, tale uso fu introdotto da alcune comunità ebraiche che scavarono delle gallerie
sotterranee in cui deporre i propri morti, affinché non si confondessero con quelli pagani. Tale tradizione fu
presto imitata dai cristiani che, dal III secolo epoca delle persecuzioni, vi si rifugiarono praticando il proprio
culto e conciliando la comunità dei vivi a quella dei morti. Probabilmente i primi cristiani si riunirono sotto la
copertura di qualche associazione funeraria, tollerata dalle autorità romane, che pure praticavano il culto dei
morti. Quando il cristianesimo si affermò come religione ufficiale, le comunità dei morti furono separate da
quelle dei vivi. In seguito, numerose basiliche furono edificate sopra quelle antiche catacombe che, passate in
disuso per parecchi secoli, furono riutilizzate ai tempi della peste quando vi venivano gettati i cadaveri
portatori di contagio. Successivamente i cristiani costruirono le prime chiese sulle tombe dei martiri, che
divenivano così luogo di comunione tra vivi e morti, una sorta di chiesa mausoleo. La messa veniva quindi
celebrata su una tomba o su ciò che la sostituiva. Ben presto furono sempre più numerosi ad esprimere il
desiderio di essere seppelliti vicino alle reliquie dei santi e ciò fu conseguito prima da vescovi e preti, poi da
re e aristocratici e da ultimo, sul finire del XIII secolo, anche da nobili, il popolo riposava intorno alla chiesa
in fosse anonime (Ragon1981).
171
dunque della necessità di rendere adeguati onori funebri ai defunti, parlano del pericolo
costituito dai miasmi provenienti dalla putrefazione dei corpi morti, si interrogano sulla
gestione dei cadaveri, su come trasportare i corpi e come risparmiare spazio nei cimiteri,
inventano riti, bandiere, iscrizioni funebri, scritte da apporre all’ingresso dei cimiteri,
stabiliscono quale ordine deve avere il corteo e come devono essere gli abiti da cerimonia,
immaginano architetture cimiteriali, riflettono sul lutto, si diffondono sul valore morale
delle tombe (Sozzi, Porset 1999, pp. 4-5). Il degrado progressivo delle istituzioni funebri
risale alla metà del secolo XVIII e alla polemica condotta dai medici contro la sepoltura
nelle chiese e nelle città considerate dannose per la salute dei vivi a causa delle esalazioni
putride provenienti dai cimiteri urbani che inquinavano l’aria e le acque potabili. Da allora
si moltiplicano le indagini e i trattati sui pericoli delle sepolture entro le mura cittadine e
nelle chiese, in particolare in Francia e in Italia. Dopo qualche anno di decreti locali rimasti
inapplicati anche a causa della resistenza passiva da parte della Chiesa, nel 1776 Luigi XVI
emanò un decreto che proibiva le inumazioni nelle chiese e all’interno dei centri abitati: i
cimiteri urbani dovevano essere smantellati e spostati fuori città. Il trasferimento dei
cimiteri causò delle difficoltà nello svolgimento del rito funebre cattolico tradizionale; la
cerimonia religiosa si ritrovò suddivisa in due fasi: la prima prevedeva il trasporto del
corpo dalla casa del defunto in chiesa, dove aveva luogo il funerale religioso. La seconda
richiedeva il trasporto del cadavere dalla chiesa al cimitero fuori le mura: una novità
assoluta. Questa fase venne affidata a persone reclutate a caso, il corpo era affidato a
mercenari, facchini senza professionalità, e l’inumazione vera e propria si verificava senza
l’accompagnamento dei parenti e senza rito. I riti funebri passarono da essere prerogativa
ecclesiastica a quella comunale, così si smantellava il funerale cattolico, senza però riuscire
a sostituire a esso un altro rituale efficace (ivi, p. 6). «Le sepolture dei comuni cittadini si
svolgevano senza un rito, i morti venivano portati via dalle case da becchini, sovente
impreparati al loro compito, volgari, sboccati o ubriachi, e i cadaveri sepolti in fosse
comuni, poste in cimiteri pubblici che erano sovente luoghi desolati, sudici e tristi»(ivi, p.
7). Nei memoriali la figura del beccamorto è ritratta a tinte fosche, si descrivono convogli
funebri dell’epoca gestiti da becchini impreparati, dall’ubriachezza molesta che ridono e
dicono sconcezze.
Lo stereotipo che vede il guardiano del cimitero come becchino senza professionalità
probabilmente affonda le radici nella storia dell’epoca rivoluzionaria francese quando a
occuparsi del trasporto dei cadaveri e della loro sepoltura erano individui disagiati presi a
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caso ai quali veniva affidato un compito sgradevole che nessuno era disposto a eseguire, ci
si ritraeva con una sorta di orrore dalla fossa comune che allontanava la popolazione dai
doveri verso i propri morti. Il doloroso abbandono in cui si trovava la pratica dei funerali e
delle sepolture, e il vuoto legislativo in materia, era denunciato da molti tant’è che si può
parlare di quel che Vovelle definisce una “disorganizzazione” del rituale funebre (ivi, p. 8).
La tristezza dei cimiteri ridotti a fossa comune in un terreno fangoso e inaccessibile,
l’assenza di un corteo funebre che accompagnasse il defunto verso l’ultima dimora
auspicavano la diffusione di una nuova cultura funeraria. Il problema dei funerali in questo
periodo storico viene unanimemente sentito come un problema laico, un problema della
repubblica; prima in Francia le pompe funebri erano affidate al potere ecclesiastico, ma la
celebrazione dei funerali deve essere un’istituzione morale e politica, dunque gestita dallo
Stato. La Rivoluzione ha apportato una novità che poggia sull’uguaglianza le basi sulle
quali costruire il nuovo rituale funebre, le pompe funebri del passato, che solo i ricchi
potevano permettersi, erano un lusso non appropriato alla situazione se si confronta con la
sepoltura burlesque del povero: un corteo con un prete che borbottava rapidamente le
preghiere con effetto grottesco e umiliante. L’elitarismo e l’avidità dei preti, il loro
linguaggio criptico in latino, la loro ritualità vuota di contenuto per il popolo, erano
elementi da modificare a favore di un rituale pensato non solo per onorare i morti ma
soprattutto per moralizzare i vivi (ivi, pp. 12-13). Il rito religioso era visto da quasi tutti gli
autori dei memoriali come un fatto privato che caratterizza solo una parte del rito funebre,
è un di più, che si può scegliere o rifiutare, senza che in alcun modo sia modificato il
rituale funebre laico. Il modo di intendere la libertà religiosa nei mémoires è importante
per comprendere l’atteggiamento nei confronti della libertà di rito, pensato come un
prolungamento della libertà di culto. Una conseguenza della sconfitta della religione
dominante in Francia è stato il triste degrado delle istituzioni funebri ma i laici ottimisti
ritenevano che pur senza ricorrere alle pratiche religiose si poteva ugualmente dare ai
funerali la dignità che si addice loro (ivi, p. 63). I discorsi della società laica del Direttorio
su una probabile convivenza fraterna tra i culti e i riti sono troppo ottimistici e
cambieranno con il Concordato firmato da Napoleone con il Vaticano nel 1801 con il quale
lo Stato francese riconosceva nuovamente il cattolicesimo e una nuova cristianizzazione
della Francia aveva inizio (ivi, p. 64). Il laicismo perdeva così la sua egemonia e
l’atmosfera che aveva consentito la proclamazione della libertà religiosa e della pluralità
dei riti, mutò. In sintesi, a conferma delle numerose richieste nate dall’indignazione
173
dell’intero popolo dovute a un’imperdonabile e dolorosa trascuratezza del culto dei morti,
solo con il lungo sovrapporsi di fatti politici, religiosi e sociali, la questione funeraria
giunse a svolte significative con l’emanazione del decreto napoleonico del 1804: l’editto di
Saint Cloud. Il decreto fece tesoro delle proposte descritte nei memoriali e tradusse in
legge molte di esse. Fu fissato un nuovo regolamento di polizia mortuaria: il compromesso
tra Stato e Chiesa si realizzerà distribuendo i compiti. Il cerimoniale della morte resta
affidato alla Chiesa mentre le incombenze della sepoltura furono regolamentate da leggi
nazionali e affidate ai municipi. I morti verranno trattati da due categorie: i preti e i
becchini. L’editto confermò il divieto di seppellire nelle chiese e nelle città, stabilì che le
sepolture dovevano essere individuali per tutti, precisò la distanza da tenere tra una tomba
e l’altra, la profondità delle fosse e l’ampiezza necessaria dei cimiteri in rapporto alla
popolazione locale. Si preoccupò di garantire la salubrità e di fare in modo che la pietas
verso i defunti potesse esprimersi, che il desiderio diffuso di coltivare un sereno rapporto
con i propri morti divenisse realtà. Il cimitero era concepito come un luogo ridente e
accogliente, dove era possibile passeggiare in raccoglimento e meditazione tra viali
alberati. Finalmente i morti venivano rispettati ed era stato istituito un culto dei defunti
utile anche per i vivi che cancellasse l’indifferenza che si era radicata nella popolazione e
che aiutasse a elaborare il lutto (ivi, pp. 82-83). La conseguenza delle leggi napoleoniche
sulle sepolture doveva essere inevitabilmente la costruzione di nuovi cimiteri. Se nel
Settecento prevaleva ancora il sogno del cimitero agreste, che riunifica il defunto con il
contesto naturale, nell’Ottocento trionfa il cimitero città di pietra. La svolta avviene con la
creazione del cimitero parigino di Pére Lachaise, che diventa il nuovo prototipo di cimitero
ottocentesco. Ricchi di statue, che oscillano tra il pietismo alle seduzioni pagane, in un
patchwork di stili (medioevali, neogotici, ecc.), divisi in settori che evidenziano le
differenze sociali: così sono i primi cimiteri che sorgono tra il 1804 e il 1866, il Pére
Lachaise, Montparnasse, Montmartre, il Verano, Staglieno, il Monumentale di Milano. Il
nuovo cimitero ottocentesco ha due ha due caratteristiche fondamentali: è lontano dal
cuore della città, per sottrarre la morte alla visibilità quotidiana; è monumentale 59,
sovrabbondante di statue, come status symbol delle famiglie borghesi, con tombe
individuali.
59
Se Parigi ha dato origine al cimitero moderno, il centro propulsore dei cimiteri monumentali è stato proprio
in Italia (settentrionale).
174
C’è stato un periodo, un po’ di anni fa che mi ero interessato a questa cosa, intanto la
traduzione dell’editto per vedere…poi confrontarlo con la legislazione attuale, praticamente
non è cambiato nulla, sono cambiate solo le misure, invece di 40 m. saranno 200, invece di
dieci anni, qui per esempio bisogna far passare un decennio e invece lì è cinque anni, però lo
schema è quello, anzi addirittura nell’editto di Saint Cloud è fatto espresso divieto di fare le
sepolture come avvenivano prima, nelle chiese, perché poi nelle chiese venivano seppelliti i
nobili, la plebe finiva nei campi comuni con la calce. Cioè il concetto di sepoltura per tutti
individuale non esisteva, è la rivoluzione francese che ha scombinato tutto. Ancora oggi
respiriamo quel clima. Quindi quasi nessuno la guarda da questo punto di vista, sembra un fatto
ovvio che ovvio non è (Guido).
Se confrontiamo la legislazione funeraria attuale, vediamo che lo schema è identico alle
leggi imposte da Napoleone più di duecento anni fa, ancora oggi respiriamo quel clima, la
cultura funeraria creata e modellata dai francesi rivoluzionari permane nella nostra epoca e
influenza il nostro modo di vivere il lutto.
Al cimitero tutte le persone hanno diritto, tutti gli esseri umani quindi, non importa zingari, re,
alla sepoltura individuale, singola. Venne travasato nell’editto di Saint Cloud lo spirito del
tempo, l’uguaglianza tra gli uomini (Guido).
La sepoltura individuale oggi sembra un fatto ovvio, spiega Guido, ma che ovvio non è per
nulla. La Rivoluzione ha cambiato il modo di vedere la morte, ha travasato nell’editto di
Saint Cloud lo spirito del tempo, l’uguaglianza tra gli uomini tramite il culto della
memoria che concede a ogni singolo individuo scomparso una collocazione al cimitero,
dando la possibilità a chi resta di commemorarlo favorendo l’elaborazione del lutto.
E tuttavia nell’editto di Saint Cloud si vede proprio questa cosa, in Italia venne recepito dopo
perché all’inizio si faceva fatica a immaginare che questa cosa dovesse essere gestita
dall’autorità civile. Io sono il terminale dell’autorità civile. Ehm che dire, mi trovo qua per
caso io, eh (Guido).
L’editto di Saint Cloud, del 12 giugno 1804, ordinava che le tombe venissero poste al di
fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali, solo
con nome, cognome e date evitando così discriminazioni tra i morti. Il decreto aveva
dunque due motivazioni: una igienico-sanitaria e l’altra ideologico - politica. Le nuove
norme furono estese al Regno d’Italia con l’editto Della Polizia Medica, promulgate
sempre a Saint Cloud il 5 settembre 1806, scatenando un intenso e complesso dibattito
pubblico. Con l’allontanamento del cimitero dalla vita del quartiere e della parrocchia
cessava una secolare tradizione che aveva profondamente condizionato mentalità, costumi,
175
devozioni60. L’Italia, come sostiene Guido, ha fatto fatica ad accettare l’editto napoleonico
e la questione della sepoltura lontano dalla città e dalle chiese. Alcuni studi sulla situazione
italiana dopo l’emanazione del decreto mostrano la difficoltà della popolazione ad
adeguarsi alle nuove normative che mettevano in discussione un modo di pensare
differente rispetto a quello radicato nel Paese da decenni. Gianni Carullo, ricercatore che a
duecento anni da questo evento conduce meticolose indagini sugli effetti dell’editto di
Saint Cloud in Italia, in una conferenza dal titolo 10 maggio 1810, apertura dei tre cimiteri
extraurbani a seguito delle leggi napoleoniche: contesto giuridico - sociale, urbanistico,
religioso, racconta che «l’editto napoleonico si applicò a Bergamo, dove pure non mancò
di sollevare furiose polemiche. I cimiteri si trovavano allora all’interno della cerchia delle
Muraine, nel cuore delle parrocchie cittadine, disposti intorno alle chiese se non addirittura
in locali posti sotto la pavimentazione delle stesse. I morti erano al centro della comunità
dei vivi. Si costruirono dunque da parte del Comune di Bergamo tre nuovi cimiteri: di
Valtesse, di S. Lucia e di S. Maurizio, che vennero inaugurati con la benedizione del
Vescovo, il 10 maggio 1810»(ivi). In un articolo dal titolo Dai sepolcri dentro le Chiese
alla nascita dei primi cimiteri in Calabria, pubblicato su un blog61 è descritta la condizione
del Mezzogiorno prima dell’emanazione dell’editto di Saint Cloud e la reazione del popolo
all’emissione delle nuove disposizioni di legge sulla funeraria. I sepolcri delle chiese
divennero sempre più insufficienti con il passare degli anni, specie dopo l’incremento
demografico settecentesco. All’inizio dell’ottocento la questione appare perciò
problematica un po’ in tutto il Mezzogiorno; in numerose località l’imperfetta chiusura
delle tombe vizia l’aria che si respira in questi edifici religiosi da provocare malori nei
fedeli e in qualche caso i gas che si sprigionano, causano addirittura la morte per asfissia di
qualche becchino intento alle operazioni di sepoltura. Spesso i pochi cimiteri esistenti o
rimangono inutilizzati perché i parenti preferiscono seppellire i propri morti nelle chiese o
non risolvono parzialmente il problema perché sono costruiti proprio accanto agli edifici
religiosi. Il divieto di seppellire nelle chiese e la nuova e più igienica pratica della sepoltura
nei cimiteri ordinata dall’editto di Saint Cloud viene spesso ostacolata dal popolo. Nelle
province di Catanzaro e Reggio Calabria «si guarda con un’avversione furibonda il divieto
di seppellirsi nelle chiese, dove solo si crede in contatto colla divinità, con cui debbe in tal
modo conciliarsi». Nei giorni immediatamente successivi alla disfatta dei francesi, la
60
61
www. l’eco di Bergamo. it
www.salliaracconta.blogspot.com
176
popolazione di alcuni paesi disseppellisce i cadaveri dei propri cari dai cimiteri, dove era
stata costretta a inumarli e li trasporta nelle chiese. Le resistenze al seppellimento dei morti
nei cimiteri vanno lentamente a diminuire con il passare degli anni, tuttavia ancora nella
seconda metà dell’ottocento, in numerosi paesi si continua a seppellire nelle chiese e
alcune città di primaria importanza restano prive di cimiteri. È il caso di Cosenza. Scrive
proprio a questo proposito intorno al 1860 Vincenzo Padula«per spiegare l’elevata
mortalità di Cosenza bisogna invocare un altro fattore, all’appressarsi della pioggia le
latrine puzzano e le tombe anche puzzano […] In questi mesi Cosenza è una cloaca aperta;
il possesso di un buon naso diventa una sventura; l’acido carbonico, che si eleva poco,
offende meno gli alti, e più gli uomini di bassa statura; a medicare tale pestilenza si grida
contro i porci, si perseguitano i cani, si chiama l’opera degli spazzini, e non si vuol capire
ancora che quel puzzo scappa dalle sepolture, che i morti uccidono i vivi, e che sarebbe
miglior senno agli spazzini sostituire i beccamorti. Finché Cosenza non avrà un
Camposanto, ogni compenso per migliorarne l’aria torna inutile». Dopo l’unificazione
italiana, la legge sanitaria ribadisce non solo l’obbligo di seppellire i cadaveri nei cimiteri,
ma stabilisce anche che tra questi ultimi e l’abitato devono intercorrere almeno 200 metri.
Sono abbastanza numerose nel Mezzogiorno le violazioni a questa legge; agli inizi del
novecento in Calabria su 295 comuni osservati, 56 affermano che hanno cimiteri o
maltenuti o troppo vicini all’abitato o in ubicazione antigienica o insufficienti al numero
della provincia.
Se fossi io a fare la gestione prima di tutto fuori dal cimitero metterei il simbolo della
Repubblica Italiana, la chiesa fuori dal cimitero […] Il regno d’Italia recepì l’editto di Saint
Cloud ma in realtà è diventato operativo dopo, con la nascita del regno di Italia. Perché
all’inizio ci furono delle grosse questioni per quanto riguarda, diciamo così, dalla gestione
religiosa cattolica alla gestione civile, tant’è vero che spesso non si dice cimitero, si dice
camposanto, perché le due cose non si sono separate. All’ingresso del cimitero, questo qua è un
cimitero comunale civile, quindi, la croce cattolica non ci dovrebbe essere. Ci dovrebbe essere
il simbolo della repubblica, sono passati due secoli ma ancora la cosa non si è sbrogliata
(Guido).
Il popolo italiano dopo l’emanazione delle leggi napoleoniche sulla questione funeraria,
più di duecento anni fa, ha accettato a fatica, e non senza ribellione, il passaggio della
gestione delle sepolture dall’autorità religiosa a quella civile. La situazione oggi è per
alcuni versi simile poiché la tradizione italiana dà per scontato che il culto dei morti
coincida con la religione e si delega alla Chiesa cattolica il compito di gestire il rapporto
con l’aldilà tant’è vero che spesso non si dice cimitero, si dice camposanto, perché le due
177
cose non si sono separate. Il cimitero dovrebbe essere laico poiché è gestito dalla
Repubblica, dall’autorità civile, ma nonostante ciò i nostri cimiteri sono sopraffatti da
elementi che richiamano la tradizione cattolica: dalla croce che sovrasta l’ingresso dei
campisanti alle chiese (cattoliche) ubicate al loro interno, emblema del dominio clericale. E
invece a regnare dovrebbe essere la bandiera italiana, simbolo di libertà, uguaglianza,
umanità, unità e indipendenza, perché i defunti e i loro cari non appartengono tutti allo
stesso credo, ma la società occidentale contemporanea è innegabilmente una società
multietnica, secolarizzata e individualista. Ci dovrebbe essere il simbolo della Repubblica,
sono passati due secoli ma ancora la cosa non si è sbrogliata.
In Francia è molto netta la cosa, eh. Per esempio, ci sono dei dettagli, nei dettagli si
nasconde…in Francia quando c’è la festa civile, sulla chiesa c’è il buco con il tricolore, vuol
dire che in Francia l’autorità civile tiene sotto quella religiosa. Se tu vai sull’edificio religioso e
metti la bandiera tricolore, in Italia non lo puoi fare, sono dettagli, no? E non sono dettagli
sono cose importantissime, in Italia non lo puoi fare, in Francia si. Questa cosa l’ho notata o a
Parigi o tra la Bretagna e la Loira, sulla chiesa c’era il tricolore, azzo! Perché la storia è dietro
di noi, anzi è in mezzo (Guido).
Diversa è la situazione francese dove lo spirito laico della Repubblica fa prevalere le sue
ragioni stabilendo che la religione, nonostante sia un importante mezzo d’espressione
individuale, esercita un potere diverso da quello della Repubblica: è lo Stato a gestire gli
affari del popolo. I francesi sono indipendenti dalle questioni di culto per l’influenza
storica a cui soggiacciono: la Rivoluzione francese aveva operato una profonda
laicizzazione culturale, diminuendo il ruolo della religione di fronte alla morte. Di fatto
essi sono liberi di piazzare il loro tricolore su edifici religiosi, azione impensabile in Italia:
dettagli importanti che consentono di cogliere i tratti distintivi dell’identità di una nazione
edificata nel tempo perché la storia è dietro di noi, anzi è in mezzo.
4.3 La missione dell’operatore tecnico cimiteriale
CHI È? COSA
FA?
L'operatore cimiteriale è specializzato nello scavo delle tombe e nella
manutenzione del cimitero. L'attività è svolta come dipendente di un Comune.
QUALI SONO LE ATTIVITÀ PIÙ FREQUENTI? Le sue attività possono comprendere: individuare
il luogo di scavo della tomba; scavare la buca con pala e piccone, inserire la bara nella
178
tomba, ricoprire la buca, murare la lapide sulla tomba; pulire le tombe rimuovendo erbe e
foglie secche; rimuovere vecchie tombe; curare le aree verdi del cimitero.
DOVE
SONO SVOLTE E IN QUALI CONDIZIONI?
La sua attività si svolge prevalentemente
presso i cimiteri, dove si può essere esposti alle intemperie.
QUALI
STRUMENTI O APPARECCHIATURE SI UTILIZZANO?
Per lo svolgimento della sua
attività utilizza piccone, pala, scala e materiali per la costruzione: cemento, gesso, rena,
pietre ecc.
QUALI SONO
I REQUISITI NECESSARI PER SVOLGERE QUESTA PROFESSIONE?
Non è richiesto
un livello di istruzione particolare. Sono richiesti autocontrollo, buona manualità, buona
forma fisica.
CONTROINDICAZIONI: L'attività può risultare deprimente poiché a continuo contatto coi
parenti dei defunti.
Il sito internet Guida alle professioni presenta, a grandi linee, il lavoro dell’operatore
tecnico cimiteriale mettendone in luce aspetti interessanti e occultandone altri. La sintesi
che appare semplifica eccessivamente una figura professionale che, al contrario, esegue un
incarico complesso e delicato, pertanto merita di essere analizzata a fondo per cogliere le
diverse sfumature e il fascino di un mestiere che non gode di grande credito presso
l’opinione pubblica. L’operatore tecnico cimiteriale, da quanto ipotizzato finora, identifica
la propria figura con la Repubblica, o meglio, ritiene di eseguire un importante compito
istituzionale che ha due obiettivi: offrire un servizio utile alla comunità (la sepoltura) e
aiutare il dolente nella situazione luttuosa.
4.3.1 L’accesso alla professione e l’organizzazione del lavoro
L’accesso alla professione di operatore cimiteriale avviene tramite concorso pubblico: la
prima fase prevede una prova pratica seguita poi, in caso di superamento, da una prova
orale. Angelo, operatore tecnico cimiteriale da otto mesi, racconta come si è svolto il
concorso; stanco del suo lavoro di autotrasportatore ha provato a inserirsi nel settore
179
cimiteriale perché la considerava una buona opportunità. La maggior parte degli operatori
cimiteriali intervistati ha intrapreso questa professione per avere la sicurezza di un lavoro
per tutta la vita poiché il Comune offriva loro un contratto a tempo indeterminato.
Ho fatto la domanda, mi sono iscritto al collocamento come disoccupato mi hanno chiamato,
ho fatto una prova. La prova consiste praticamente, quel giorno ci hanno fatto fare gruppi di
quattro con la bara vuota, prenderla metterla giù nella buca poi fare il terrapieno che sarebbe
con la ruspa dopo tu riempi la cassa e dopo col terrapieno ci fai tipo un giardinetto, poi ci
hanno fatto smontare e montare i piedini della cassa con una certa velocità per sapere anche se
tu sapevi le viti giuste da mettere […] Ci hanno portato nel campo qua in fondo e ci hanno fatto
fare tutte queste cose qua, come portare la bara, come mettere il carrellino sotto se ci mettevi il
freno, tutte ste cose, lui guardava, il funzionario, in base a tutte queste cose, piccolezze però
giustamente dovevano prendere 25 persone su 900 e passa ti scartavano. A me è andato tutto
bene poi il pomeriggio ci sono state delle domande a caso su una boccia (Angelo).
Il funzionario del cimitero ha formato gruppi da quattro e ha ordinato ai partecipanti di
eseguire la sepoltura di una bara vuota nel campo del cimitero in cui si trovavano:
movimentazione della bara, escavazione della fossa, inserimento della bara nella buca,
copertura della fossa tramite la ruspa (macchina per la movimentazione di terra, adatta per lo
spianamento superficiale) e realizzazione di un giardinetto intorno al luogo di sepoltura; il dirigente
sceglieva, tra novecento aspiranti operatori cimiteriali, i venticinque che avrebbero compiuto nel
modo corretto ( o quasi) queste operazioni.
Eh che uno doveva pescare, tu aprivi c’era una domanda, tipo a me è uscito camera mortuaria
nel cimitero e io dovevo rispondere. Queste erano le domande (Angelo).
Superata la prova tecnica del mattino, il pomeriggio i candidati idonei dovevano affrontare
l’ultimo esame ossia dare la giusta definizione dell’argomento contenuto in una boccia
pescata dal concorrente di turno: Angelo doveva essere in grado di raccontare qualcosa
sulla camera mortuaria nel cimitero e sulla gestione di un campo62.
Essendo trascorsi pochi mesi dal concorso e dall’assunzione, l’intervistato ha un’immagine
vivida dell’esperienza vissuta e riesce a narrarla con una certa scrupolosità. Diversamente
dai colleghi più anziani ricorda perfettamente le sensazioni alla vista di un cadavere per la
prima volta, cosa pensava e quali emozioni provava quando ha cominciato questo lavoro,
insomma quale era lo stato emotivo indotto da una professione così particolare.
62
Il campo è la parte del cimitero destinata alle inumazioni, il cimitero è diviso in campi che vengono
numerati per distinguerli.
180
Ero suscettibile io, non è che c’ho un grande feeling con i morti […] A noi ci hanno fatto fare
tre mesi di prova, il primo mese all’obitorio, il secondo mese alla cremazione e il terzo mese
qua e dopo davano le destinazioni. Il primo mese, le prime due settimane sono state tragiche
perché l’obitorio è un lavoro totalmente diverso dal cimitero. L’obitorio comunale si occupa di
andare a prendere le salme in giro nel territorio milanese (Angelo).
Non ha preso immediatamente in considerazione l’idea di diventare operatore tecnico
cimiteriale Angelo perché non aveva grande feeling con i morti, poi però ci si è trovato
dentro e, a parte le difficoltà iniziali, ora gli piace fare quello che fa. I problemi più grossi
gli ha avuti quando il primo mese di prova è stato assegnato all’obitorio comunale 63 nel
quale si effettua un servizio molto diverso rispetto al cimitero. Le prime due settimane
sono state difficili per Angelo, inabissato in una realtà raccapricciante fatta di sgradevoli
odori e sensazioni: doveva fare i conti con corpi che, nella maggior parte dei casi, subivano
una morte violenta.
La prima volta è stato un impatto violento, però giustamente non gliel’ho fatto vedere perché
eravamo seguiti dai funzionari che ti mettevano alla prova per vedere se tu avevi un certo
fegato, dopo magari mi giravo e dicevo mamma mia oppure mi veniva anche un po’ l’urto di
vomito sono sincero anche se sono un uomo e di solito viene alle donne però succede. Gli
odori, perché dopo tu lo prendi e lo metti in un sacco, lo porti all’obitorio (Angelo).
Il primo impatto alla visione di un cadavere mal ridotto è stato duro ma bisognava tenersi
tutto dentro e stare attenti a non mostrare segni di debolezza e cedimento perché i
funzionari seguivano tutta l’operazione al fine di valutare se il soggetto era in grado di
poter lavorare in quell’ambiente o meno. Quando lo sguardo fuggiva all’austero controllo
dei funzionari, ci si lasciava andare a cenni di disgusto, l’intervistato ammette di aver
risentito a livello fisico di quell’esperienza “pur essendo uomo”, poi rammenta, con
particolari orripilanti, alcuni episodi risalenti al periodo in cui lavorava in obitorio.
È tosto. Sono andato anche a prendere una salma indecomposta che era da sei mesi in casa, non
ti dico quando abbiamo aperto la porta, c’erano anche quelli dell’Asl c’erano i vigili, nessuno
entrava dentro, però noi dovevamo entrare per prenderla, si era mummificata, non era un bel
vedere, scarafaggi, animaletti che uscivano, entravano […] Dopo aver passato la prova
all’obitorio che era più difficile perché hai il contatto diretto con il morto fresco, tu lo vai a
prendere dopo un’ora come ti trovi quello che è morto di infarto che sembra che dorme e come
ti trovi che la testa non c’è, anche quello che si è buttato sotto a Lambrate la testa da una parte,
il braccio dall’altra, raccogli tutti questi pezzi mettili nel sacco poi vai all’obitorio e cerchi di
renderlo presentabile a un parente che viene e cerchi di fare una composizione un po’…non è
che sia tanto bello (Angelo).
63
Le salme sono trasportate dal luogo dell’avvenuto decesso al Civico Obitorio per gravi motivi di ordine
igienico-sanitario. La struttura accogli tutte le salme a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, le salme che
devono essere sottoposte ad autopsia per riscontro diagnostico e le salme di persone decedute su strada a
Milano.
181
Brutti ricordi legati al luogo di lavoro che l’intervistato considera il peggiore tra i tre 64 ai
quali gli operatori cimiteriali sono destinati; il secondo mese di prova lo effettuerà al polo
crematorio di Lambrate, meno traumatico rispetto al servizio eseguito all’obitorio, si tratta
più che altro di lavoro di routine.
Al crematorio di Lambrate c’è tanto lavoro di scarico, poi la cassa va dentro il forno viene
bruciata c’è un lavoro anche lì più che altro di routine ma non è che ti affatichi tanto,
sinceramente il vero lavoro è nei cimiteri perché fai tutto […] Qua stavo bene. Qua si lavora
poi dipende sempre dal servizio che ti fanno fare sinceramente io preferisco qua perché qua ti
senti più utile (Angelo).
La destinazione finale assegnata all’operatore è stata il cimitero, per sua fortuna, essendo il
posto in cui Angelo preferisce lavorare perché qua si sente più utile alla comunità per la
tipologia di servizio che esegue.
Il cimitero Maggiore 65 nel quale lavora Angelo, è il cimitero più grande di Milano 66e
l’organizzazione del lavoro in un cimitero di grosse dimensioni è diversa rispetto a un
piccolo cimitero.
Il cimitero Maggiore è il cimitero più grande che c’è in Lombardia e noi qui siamo…adesso il
personale sta un po’ cadendo perché tanti sono andati in pensione perciò siamo in quarantadue
dipendenti del comune […]Il responsabile del settore si organizza e fa questa scheda dove ti dà
il servizio tutto il giorno e te la mette in una bacheca, noi tutte le mattine arriviamo, timbriamo,
andiamo alla bacheca e vediamo il servizio qual è. Non è che tutto il mese o per due mesi un
dipendente deve fare sempre inumazione perché dopo un po’ si rompe anche le scatole e ti fai
un po’ il culo, scusa la parola, allora una settimana ti mette a inumazione, una settimana in
camera mortuaria, una settimana a pulire il campo poi quando c’è il periodo delle esumazioni,
adesso a settembre ci sono le esumazioni, va tirata su la salma devi fare una squadra (Angelo).
64
Il comune di Milano gestisce il Civico Obitorio, il polo crematorio e i cimiteri cittadini, pertanto sono tutti
servizi pubblici.
65
Il Cimitero Maggiore di Milano, noto anche come Cimitero di Musocco, è il più grande cimitero della città.
Si trova nella zona nord-occidentale che ai tempi della costruzione era frazione del comune di Musocco. Fu
costruito sul finire dell'Ottocento su progetto di Luigi Mazzocchi e Enrico Brotti, e venne inaugurato il 1º
gennaio1895. La sua costruzione si inserì in un piano di ristrutturazione dei cimiteri cittadini che un tempo
erano piccoli e molto numerosi, ma collocati in zone che oramai erano completamente urbanizzate.
L'apertura del Cimitero Maggiore coincise infatti con la chiusura dei cimiteri posti all'uscita delle porte
cittadine, con il trasferimento a Musocco delle sepolture. La superficie complessiva del cimitero,
originariamente di 400.000 m2, è oggi di 678.000 m2, di cui 80.000 a giardino. I defunti che ospita
attualmente sono oltre mezzo milione. Oltre alle inumazioni nei campi, vi sono colombari, ossari, cinerari,
tombe di famiglia. Nella parte posteriore della struttura centrale, oltre i cancelli, è collocato il Cimitero
Ebraico per le sepolture degli Israeliti. Dal 2002 sono in funzione anche alcune centraline che forniscono
informazioni sui luoghi di sepoltura e un servizio di navetta lungo il vialone centrale.
66
La città di Milano ha sette cimiteri: cimitero di Baggio, cimitero di Chiaravalle, cimitero di Lambrate,
cimitero Monumentale, cimitero di Greco, cimitero di Bruzzano e cimitero Maggiore. Le interviste sono state
condotte a dipendenti degli ultimi tre cimiteri menzionati.
182
Il lavoro al Maggiore è organizzato in questo modo: il responsabile del settore (il
funzionario che sta al di sopra degli operatori tecnici cimiteriali nella gerarchia all’interno
del cimitero) ha il compito di organizzare le attività dei quarantadue dipendenti che
suddivide in squadre; a ogni squadra è affidato un servizio a settimana al termine della
quale c’è la rotazione: il gruppo che ha lavorato a un determinato servizio, la settimana
successiva passerà all’altro. Ogni mattina gli operatori arrivano sul luogo del lavoro,
timbrano e guardano in bacheca le attività del giorno.
Le tipologie di servizio affidate agli operatori cimiteriali sono tre: inumazioni, camera
mortuaria e gestione dei campi (i cimiteri sono divisi per aree), poi c’è una quarta attività
da effettuarsi solo in un determinato periodo dell’anno: le esumazioni.
Il campo inumazione che è dove la salma arriva e viene messa a terra e ci vogliono cinque
persone più un ruspista sei. Allora ci sono cinque ruspisti qua al cimitero e lui cosa scrive ad
esempio, la settimana di questa squadra inumazione è composta da tizio che è ruspista poi
mette altri quattro, questi cinque tutta la settimana si devono occupare delle inumazioni, stanno
lì sul campo, fanno le buche per portarci avanti, le buche con la ruspa poi mettiamo dei casseri
(Angelo).
Un ruspista e altri cinque operatori cimiteriali formano la squadra feretri, ossia il gruppo
che deve occuparsi delle inumazioni (le sepolture in terra).
Ci deve essere servizio anche alla camera mortuaria tutti i giorni e ci vogliono quattro persone
perché vedi i furgoni che arrivano, le persone vengono a ritirare le loro ceneri o le loro ossa e
magari vengono anche dalla cremazione che devono mettere nei loculi, nei colombari, dipende
e ci devono essere almeno quattro persone, uno che fa il muratore, uno che sta sempre fisso là
perché se arriva, io dico in questo caso il cliente perché sono clienti le persone che vengono,
chi deve registrare la salma che entra, una deve scaricare o caricare la salma e in questo caso è
in deposito che dopo deve partire, allora esempio mettiamo altri quattro nomi e le metto lì tutta
la settimana (Angelo).
Gli addetti alla camera mortuaria hanno diverse mansioni: restituire al parente le ceneri o le
ossa depositate dopo le esumazioni, tumulare le ceneri prodotte dalla cremazione, sbrigare
alcune pratiche burocratiche come ad esempio la registrazione delle salme che arrivano al
cimitero.
Poi deve trovarsi il servizio per chi deve pulire i campi perché non è che loro ti dicono quando
sei libero vai a pulire i campi, no, te lo dico io quando devi andare a pulire i campi, magari
dieci persone in questo caso non sa dove metterli nel servizio e dice dieci nomi, allora tu vai a
pulire il campo 74, tu vai al 78 (Angelo).
Il personale restante è suddiviso in ulteriori squadre: una parte è assegnata alla pulizia dei
campi, l’altra si reca nei cimiteri più piccoli per eseguire le sepolture. La manutenzione di
183
un campo richiede le seguenti mansioni: tagliare l’erba, diserbare, spazzare via le foglie
secche, insomma tenere pulita l’area, inoltre custodire un campo vuol dire anche aiutare il
dolente che va a fare visita al proprio caro nel caso chiedesse informazioni o avesse
bisogno di qualcosa.
Poi organizzano un’altra squadra per andare al cimitero di Baggio perché al cimitero di Baggio
ci siamo noi del Maggiore che dobbiamo andare a mettere il morto giù, come a Bruzzano sono
loro che vanno a mettere il morto a Greco perché in questi cimiteri piccoli sono tutti non
idonei, non idonei significa che tu puoi fare una certa parte del cimitero, puoi lavorare ma
l’altra parte del cimitero tu non puoi lavorare […]Bruzzano con Greco, noi con Baggio e
Chiaravalle noi dobbiamo partire da qui per andare o a Baggio o a Chiaravalle se c’è da fare
qualche funerale (Angelo).
L’ultima squadra formata al Maggiore ha il compito di recarsi al cimitero di Baggio e
Chiaravalle per eseguire le inumazioni poiché nei piccoli cimiteri gli operatori tecnici
cimiteriali sono quasi tutti parzialmente idonei.
Siamo in sei di cui siamo due idonei gli altri sono parzialmente idonei […] La differenza è che
noi abbiamo le mansioni limitate, chi è parzialmente idoneo come me non può fare tutto ad
esempio il morto non lo posso mettere giù, non posso fare le esumazioni, non posso fare gli
scavi manuali come non posso fare gli scavi con la ruspa […] Ci sono gli altri che arrivano
dall’altro cimitero da Bruzzano o arriva la squadra intera o sennò arrivano le persone a
integrare quello che non possiamo fare qua (Alex).
Alex, dipendente al cimitero di Greco67 (il cimitero più piccolo di Milano), spiega cosa
vuol dire essere parzialmente idoneo: non poter eseguire lavori pesanti come le inumazioni
e le esumazioni perché il soggetto non è adatto a sopportare l’impegno fisico preteso da tali
attività. Nei cimiteri di piccole dimensioni quasi tutti gli operatori sono parzialmente
idonei e sono in numero ridotto poiché i ritmi sono meno intensi, lo sforzo fisico richiesto
è minimo e la quantità di lavoro è inferiore. Le sepolture vengono realizzate dalla squadra
formata da personale idoneo inviato dal cimitero di Bruzzano 68: si può dire che il cimitero
67
Il cimitero di Greco si trova all’interno dell’omonimo quartiere nella periferia nord – orientale milanese
facente parte della zona due e ha un’estensione di 38.000 mq, è uno dei cimiteri più piccoli di Milano.
Nacque sul finire dell’ottocento quando il comune dei Corpi Santi (unione amministrative delle cascine e dei
borghi agricoli oltre la cinta bastionata di Milano) riorganizzò ed edificò i necessari luoghi di sepoltura; per
le zone più prettamente agricole funzionavano piccoli cimiteri, tra i quali: Vigentino, Trenno, Niguarda,
Turro Milanese e Greco Milanese.
68
Il lavoro nel cimitero di Bruzzano è organizzato allo stesso modo rispetto al cimitero Maggiore, pur
essendo grande la metà (possiamo considerarlo un cimitero di medie dimensioni) e avendo la metà dei
dipendenti (20 rispetto ai 40 del Maggiore), i servizi eseguiti, la gestione dei turni di lavoro e del personale è
la medesima. Fu costruito agli inizi del 1900 in Piazza Martiri della Deportazione, 1 (zona 9). Comprende il
vecchio cimitero del comune di Bruzzano e ha un’estensione di 195.000mq di cui 35.550 mq a verde; la
struttura è parte integrante del Parco Nord Milano.
184
di Greco sia una frazione del cimitero di Bruzzano così come il cimitero di Baggio e di
Chiaravalle sono una sezione del cimitero Maggiore.
Qua non hai tutti i giorni sicuro il morto invece Bruzzano tutti i giorni minimo una sepoltura ce
l’ha, a Greco ti può capitare di fare quattro morti in una settimana, negli altri cimiteri di più, è
una tipologia di lavoro diverso, Maggiore è peggio ancora di Bruzzano per la mole di lavoro
(Alex).
Greco non ha tutti i giorni sicuro il morto, in una settimana possono esserci solo quattro
sepolture, diversamente da cimiteri come Bruzzano o il Maggiore che hanno una mole di
lavoro nettamente superiore.
Il cimitero Maggiore è industrializzato, vuoi per la tipologia, vuoi per l’area che occupa ma
soprattutto per il numero di sepolture che vengono effettuate […] Nel senso che si viaggia a
ritmi industriali, se ad esempio al cimitero di Greco in una settimana ci possono essere due
morti, al cimitero Maggiore ce ne possono essere 50 al giorno, il personale è molto più
occupato (Pino).
Si viaggia a ritmi industriali nei grossi cimiteri, definizione allegorica data da Pino,
operatore al cimitero di Greco; il ritmo frenetico impegna il personale che può arrivare a
eseguire fino a cinquanta sepolture al giorno in cimiteri dalle colossali dimensioni rispetto
alle due possibili a settimana di un piccolo cimitero.
Noi siamo qua in pochi non abbiamo una tabella di riferimento, arriviamo sappiamo che là è
sporco e andiamo a pulire non è che c’è qualcuno che dice tu vai e tu non vai […] Si qua c’è
Pino che ha l’incarico di coordinare le cose però proprio la persona fisica come c’è al
Maggiore noi non la abbiamo (Alex).
Diversamente da quanto accade in cimiteri come Maggiore e Bruzzano, a Greco
l’organizzazione del lavoro è meno strutturata; non è presente il funzionario (occupato a
Bruzzano essendo lo stesso) che coordina i servizi poiché essendo solo in sei possono
autogestirsi, o meglio l’operatore Pino fa le veci del funzionario perché ha il compito di
coordinare il lavoro ma è un compito informale che ha il solo scopo di far funzionare
meglio l’organizzazione tra i dipendenti, per il resto svolge le stesse mansioni degli altri.
Regna un clima soft nei piccoli cimiteri, la mattina guardano la tabella sulla quale è
indicato il numero di sepolture della settimana, poi si decide cosa fare: se c’è da pulire i
campi lo si fa, qualcuno è fermo all’ingresso per essere d’aiuto ai dolenti bisognosi, altri
ancora sbrigano pratiche burocratiche e così via.
185
4.3.2 L’incarico della squadra feretri: l’ inumazione
«Le tipologie di sepoltura possibili sono: l’inumazione, la tumulazione e la cremazione.
Sono tutte a titolo oneroso, fatti salvi i casi di gratuità previsti dalla vigente normativa o
per stato di bisogno». L’opuscolo La tutela del dolente, cosa fare e a chi rivolgersi in caso
di lutto realizzato dal Comune di Milano, presenta le tipologie di sepoltura: la squadra
feretri, di cui ho spiegato la natura nel paragrafo precedente, deve occuparsi della prima di
queste ossia delle inumazioni.
Squadra feretri che è quella che esegue le inumazioni cioè l’inumazione è il nome tecnico per
dire seppellimento (Orazio).
Orazio, operatore cimiteriale a Bruzzano, spiega qual è il compito della squadra feretri e il
significato di inumazione. Nel cimitero nel quale lavora l’intervistato, da qualche anno è
stata introdotta un’importante innovazione, è in funzione un nuovo sistema di inumazione
che, grazie al supporto di un apparecchiatura meccanica, ha permesso di modificare la
tecnica di interramento e di ridurre l’impatto traumatico sui dolenti rappresentato dalla
presenza di ruspe e di trincee aperte.
«Uno dei momenti più duri della vita di ognuno di noi - spiega l'assessore ai Servizi
Funebri e Cimiteriali Giulio Gallera - è dover assistere alla sepoltura di un proprio caro.
Ciò risulta addirittura straziante se si è costretti a vedere la cassa depositata in fondo ad una
lunga fossa essere allineata a molte altre già presenti, una ruspa a lato della fossa scaricare
la terra sui feretri e una fila di transenne attorno allo scavo a impedire l'avvicinamento dei
parenti per l'ultimo saluto, come purtroppo accadeva nei cimiteri di Milano. Con il nuovo
sistema di inumazione al Cimitero di Bruzzano - prosegue l'assessore Gallera - ho ritenuto
giusto porre fine a tale cruda e penosa situazione e dare maggiore dignità all'ultimo saluto,
permettendo ai milanesi di vivere il momento del distacco dai propri cari in modo meno
traumatico» (Balboni, 2003). Una pratica che tutela il dolente e gli permette di avvicinarsi
alla bara senza impedimenti consentendogli di vivere il momento rituale del distacco
definitivo dolcemente.
Con questo metodo qua il bello è che tu apri sto cassero di ferro, piano piano lo metti giù, poi
dopo il cassero viene richiuso ma in realtà i familiari non vedono che gli butti la terra addosso,
perché quell’operazione viene eseguita successivamente, lo vedono chiuso lo stesso perché il
cassero si chiude quindi loro non vedono più niente, non vedono la terra che viene gettata sulla
bara […] Strategicamente va a supplire anche a questa cosa che un familiare non vede più il
momento reale della sepoltura, perché il momento reale della sepoltura è quando la ruspa va là
186
e tira fuori il cassero e la terra comincia a cadere e quell’operazione lì è fatta perché un
familiare non veda più, viene fatto successivamente (Orazio).
Inoltre, spiega Orazio, il dolente non è costretto ad affrontare il momento reale della
sepoltura dato dalla brutalità della situazione nella quale si vede un oggetto meccanico
gettare terra sul caro scomparso, ma l’operazione con il metodo dei casseri è effettuata in
un secondo tempo, lontano dallo sguardo del familiare addolorato.
Non è che facciamo una buca e mettiamo tutte le salme, una attaccata all’altra, non succede
questo, è giusto per visione perché noi questi casseri quando poi i parenti se ne vanno noi li
tiriamo fuori […] C’è questa struttura che separa una salma dall’altra (Angelo).
I feretri non sono posti nello stesso scavo, la struttura dei casseri li separa; il campo di
sepoltura viene predisposto con una sequenza di casseri inumativi metallici interrati, in
modo da ottenere una successione regolare e uniforme di fosse singole, artificiali e chiuse.
Il nuovo sistema di inumazione, oltre a proteggere l’emotività di chi ha perso qualcuno, è
stato adottato anche per facilitare il lavoro ai dipendenti cimiteriali; la procedura di
allestimento del campo avviene nel rispetto delle fondamentali regole di sicurezza per gli
operatori. Il terreno circostante sarà rifinito manualmente e al termine del lavoro il campo
sarà privo di buche aperte e di mezzi operativi pesanti.
Una cassa con un corpo dentro comunque è un bel peso, il peso morto poi, negli anni si è
riscontrato che metà dei dipendenti sono mezzi sciancati, io ho iniziato a diciannove anni e
sono arrivato qua che ero sano come un pesce, adesso ne ho trentasei e ho i miei bei
problemini, la schiena inizia a scricchiolare perché di casse sul collo ne ho portate, qua ne ho
tirate fuori parecchie. Per quella cosa lì si è cambiata metodologia si usano i casseri di ferro
[…] Adesso le casse non si portano più a mano è tutta movimentazione meccanizzata (Orazio).
Orazio racconta che quando il metodo dei casseri non esisteva e i feretri “si portavano a
mano”, gli operatori ne risentivano fisicamente, molti di loro hanno avuto problemi alla
schiena dovuti al peso eccessivo della bara. Gli operatori cimiteriali, ora, eseguono lo
scaricamento dal carro funebre, giunto a bordo campo, utilizzando un carrello a trazione e
movimentazione elettrica, il trasporto fino al calaferetri avviene per mezzo dello stesso
carrello elettrico, silenzioso ed elegante; una nuova procedura che riduce i rischi presenti
nel vecchio sistema inumativo. Al termine dell’operazione il calaferetri viene spostato sul
cassero adiacente per poter effettuare la successiva inumazione, mentre il feretro di cui si è
conclusa la sepoltura potrà ricevere l’ultimo saluto dei parenti, ponendo il cassero in
sicurezza con l’innalzamento dei parapetti laterali ad altezza finale (ibidem).
187
È meno faticoso fino a un certo punto perché se tu la salma la prendi in quattro, poi va beh
essendo uomini abbiamo anche un po’ di forza non è che siamo dei pappa molli, non ne risenti
neanche e eviti di fare anche le procedure di sti casseri perché devono anche essere messi bene.
Devi iniziare un’altra fila affianco? Riprendi i casseri che hai messo, sfili, la terra frana, va
sopra la cassa, è un procedimento di cui tutti ci stiamo lamentando però i grandi capi hanno
deciso così (Angelo).
Guardando all’innovativa tecnica di sepoltura solo dal punto di vista tecnico, non è
considerata da tutti una buona soluzione, alcuni operatori preferivano eseguire
l’inumazione come si faceva un tempo e come si fa tutt’oggi nei piccoli cimiteri 69. Alla
fine della giornata bisogna procedere all’estrazione dei casseri che sono stati utilizzati per
le inumazioni giornaliere per trasportarli in testa allo scavo e renderli nuovamente
disponibili, Angelo ritiene che ripetere questa procedura ogni giorno sia superfluo e rende
più lento il lavoro.
4.3.3 Il lavoro rubato agli operatori cimiteriali: la tumulazione
L’aspetto gestionale dei cimiteri sconta anche problematiche di natura di risorse del personale
tenuto conto che, adesso sto andando a memoria eh, non ho più i dati con me perché ahimè non
sono più assessore, però noi abbiamo un personale dislocato sui sette cimiteri mi pare che fosse
di 150 unità che è tirato assolutamente all’osso perché sette cimiteri in cui devi aprire e
chiudere le porte, andare in giro a verificare che le cose vadano bene, che le fontanelle
funzionino, che non entrino gli zingari a rubarti il rame eccetera, è poca gente. Impensabile
assumerne di più tenuto conto che se tu vai a chiedere alle risorse umane di avere nuove,
appunto, risorse per i cimiteri ti rispondono che è assolutamente impossibile perché è un posto
turn over, nessuno vuole venire lì eccetera. Quindi quello che è il personale è sempre
comunque ridotto all’osso, quindi quello che si è dovuto fare in questi anni è stata una
progressiva attività di esternalizzazione di determinate attività (Pillitteri, ex assessore ai servizi
funebri e cimiteriali).
L’ex Assessore ai Servizi Funebri e Cimiteriali, Stefano Pillitteri70, spiega che negli ultimi
anni parte dei servizi funebri gestiti dal Comune, sono stati esternalizzati e affidati a
imprese private e cooperative perché il personale dei cimiteri milanesi è insufficiente a
ricoprire tutte le mansioni.
69
Il cimitero di Bruzzano e il cimitero Maggiore adottano il sistema dei casseri mentre il cimitero di Greco ha
mantenuto il vecchio sistema inumativo chiamato a scavo libero, ossia la bara è calata nella fossa a mano.
70
Dopo la militanza giovanile nel Partito Socialista, Stefano Pillitteri (figlio di Paolo Pillitteri ex sindaco di
Milano), vota e si impegna per Forza Italia (oggi PDL) dal 1994. Nel 2001 ha deciso di mettersi in gioco e si
è candidato alle elezioni per il Comune di Milano. È stato eletto Consigliere. Nell’ambito del Consiglio, ha
assunto l’incarico di Presidente dell'importante Commissione “Trasporti Traffico e Viabilità”. Nel 2006, è
stato nuovamente eletto e nominato. Si è ripresentato alle elezioni del 2011.L'esito negativo della
Candidatura di Letizia Moratti non gli ha consentito, nonostante i 924 voti di preferenza ottenuti, di rientrare
(per la terza volta) in Consiglio Comunale.
188
L’inumazione è il servizio principale che svolgiamo attualmente perché per scelta
dell’amministrazione comunale e un po’ per tutta una serie di pensionamenti e personale che è
stato dichiarato non idoneo dal medico competente, ci siamo un po’ dimezzati con il numero
del personale. Per cui l’amministrazione è saltata politicamente addosso a questa situazione qui
e ha cominciato ad affidare i vari servizi alle varie imprese. Ad esempio la tumulazione in
colombario che abbiamo sempre svolto noi con macchinari del comune e tuttora viene svolta
solo ed esclusivamente dalle imprese in questo momento qua (Pino).
La tumulazione71 in colombario era uno dei compiti affidati agli operatori tecnici
cimiteriali, adesso trasferito alle ditte private. Il passaggio di attività dall’ambito pubblico a
quello privato ha causato disagi sia ai professionisti cimiteriali, poiché la sottrazione di
servizi importanti che hanno sempre eseguito loro ne sminuisce il ruolo professionale, che
agli stessi dolenti.
L’attività di esternalizzazione di determinate attività, fondamentalmente attività di natura meno
piacevole, diciamo così tipo l’esumazione, tirare su i morti quando scade il periodo di
concessione, attività assolutamente poco piacevole che infatti è stata mano mano esternalizzata
a cooperative esterne, il che comporta anche dei problemi perché ad esempio le cooperative
alle volte possono avere del personale poco professionale tra virgolette, magari non italiano. È
capitato di ricevere lamentele di gente che vedeva l’esumazione, io lo sconsiglio sempre, non è
una bella cosa, una roba molto cruenta, succedeva che ci fosse chi spostava i brandelli di
braccia, tibia eccetera come se fossero…chiaro è una roba che non va bene. Un personale più
professionale un po’ garantiva, per così dire, un’attività fatta meglio (Pillitteri, ex assessore ai
servizi funebri).
Oltre alla tumulazione anche l’esumazione 72 è stata esternalizzata, un servizio delicato che
va eseguito con pazienza perché quando si tira fuori dalla bara il corpo di un defunto, dopo
diversi anni dalla sepoltura, c’è il parente a seguire la procedura. Un’attenzione verso il
dolente che molto spesso manca da parte dell’operatore della ditta privata perché non ha lo
stesso grado di professionalità che può avere il dipendente cimiteriale che esegue tutti i
giorni questo tipo di lavoro e sa come rapportarsi al parente e qual è il metodo migliore per
trattare i resti umani.
Adesso è rientrata una ditta che si occupa di riesumazioni di corpi umani, sta di fatto che noi
che siamo dei lavoratori facciamo in un cimitero medio 20-25 esumazioni al giorno, con il
personale adeguato anche trenta, questi qui son venuti qua in quattro pellegrini, scusami, e ti
fanno 80 esumazioni al giorno, tanto di cappello. Ma io ho visto come lavorano, però, non mi
metto a confronto. Innanzitutto queste persone che lavorano per queste aziende sono ultra
sfruttate a livello fisico, economico, difficilmente sono in regola e poi è meglio che non ti
racconto le cose che ho visto. Fermiamoci qua […]Una volta una famiglia è stata obbligata a
fare due tumulazioni, una col personale comunale e una con un’impresa, noi con la
strumentazione che avevamo in dieci minuti abbiamo effettuato la tumulazione, dopo un’ora e
71
72
Per tumulazione si intende l' introduzione della bara, ermeticamente chiusa, in un loculo.
Estrarre dalla tomba una salma.
189
mezza quelli dell’impresa stavano ancora costruendo, è venuto il parente da me e mi ha detto,
senta non potete farlo voi (Pino).
L’esperienza degli operatori tecnici cimiteriali consente loro di effettuare circa trenta
esumazioni al giorno lavorando in modo impeccabile, rapido e con professionalità,
racconta Pino, invece gli addetti delle cooperative o delle imprese private riescono a
eseguirne fino a tre volte di più ma il modo di operare è indubbiamente diverso e manca di
ogni sorta di competenza e di rispetto verso il defunto stesso e il suo caro.
Perché quando vado in ospedale perché non mi sento bene chiedo il massimo dell’efficienza?
Se l’infermiere si comporta in modo sgarbato io ti assicuro che reagisco, io non sono uno di
quelli che sta zitto, ma perché? Nel mio lavoro è la stessa cosa anche se è un morto. Io in
trentacinque anni non ho mai camminato sopra un morto, piuttosto mi facevo 200 metri di giro
ma sopra non ci ho mai camminato. Il rispetto di quello che è il compito che ti viene assegnato
e che tu hai scelto è fondamentale (Pino).
Se un individuo va in ospedale perché sta poco bene, pretende attenzioni dal personale
sanitario sia perché vuole essere curato sia per una questione di rispetto. È quello che
accade al cimitero, i defunti meritano lo stesso riguardo che si dà ai vivi, anche se non
possono pretenderlo. Pino sostiene che è doveroso portare a termine la missione
dell’operatore tecnico cimiteriale e questo implica avere rispetto per la propria professione.
I cimiteri se la scelta dell’amministrazione è questa qui, sono destinati ad essere affidati alle
imprese. Resteremo noi fino ad esaurimento come sorveglianza e basta, in pensione cinque e
non vengono sostituiti, poi altri dieci e non vengono sostituiti e diventa un obbligo affidare
tutto alle imprese […] Stiamo diventando dei semplici sorveglianti (Pino).
Lo sconforto di Pino emerge fortemente dalle sue parole; nonostante gli operatori
cimiteriali sappiano fare il proprio mestiere, nel corso degli anni il loro potere nel cimitero
si riduce e non lo sentono più di loro “proprietà” sia perché sono obbligati a dividere il
“campo” con dipendenti privati sia perché è quasi assente un ricambio generazionale e le
assunzioni sono semi - bloccate. Il ruolo dell’operatore tecnico cimiteriale rischia
un’involuzione trasformandosi in semplice sorvegliante o peggio ancora rischia
l’estinzione.
Il nostro lavoro si chiamava autista necroforo che sono quelli che adesso lavorano nelle
imprese private che vedi in giro col Mercedes che sono autisti perché trasportano la salma e le
incassano anche […] Prima usciva il personale del comune, eravamo proprio noi, divisa del
comune, i furgoni erano del comune (Orazio).
190
L’autista necroforo è una figura che lavora presso le imprese di pompe funebri, il suo
compito è guidare il carro funebre, si occupa del trasporto che è il momento in cui la salma
viene spostata dal luogo dove è avvenuto il decesso o da dove è stata trasferita, al luogo in
cui verranno celebrati i funerali e/o dove viene eseguita la sepoltura.
Orazio racconta che fino al 1999 il trasporto della salma era un servizio del comune, erano
i dipendenti comunali a occuparsene, avevano la divisa fornita dal comune e conducevano
furgoni sostituiti, da quando il servizio è stato privatizzato, da eleganti e lussuose
Mercedes.
4.3.4 Milano città pioniera della cremazione
La cremazione è l’ultima tipologia di sepoltura; le ceneri 73, ricavate dal corpo morto, si
possono ubicare al cimitero (in appositi tumuli per la sistemazione delle ceneri) e questo
tipo di tumulazione è affidata ai dipendenti comunali.
Altra grande peculiarità unica del sistema cimiteriale di Milano, Milano è la città che in
assoluto ha la più alta percentuale di cremazioni in Italia tra le più alte in Europa, penso che
adesso siamo, quando ho iniziato io eravamo sul 52, 53%, ora siamo arrivati al 60% perché il
trend era quello, 60% vuol dire che tenuto conto che a Milano ogni anno muoiono 15.000
persone, almeno 9.000 di queste si fanno cremare […] Qua c’è per così dire una cultura del
rapporto con il fine vita che è già diverso rispetto le altri parti d’Italia (Pillitteri, ex assessore ai
servizi funebri e cimiteriali).
La città di Milano ha la percentuale di cremazioni più alte rispetto al resto delle città
italiane, informa l’avvocato Pillitteri, qua c’è per così dire una cultura del rapporto con il
fine vita che è già diverso rispetto le altri parti d’Italia.
La cremazione è una cosa positiva per mille motivi, comunque riflette un cambiamento
culturale che è comunque positivo nonostante la cremazione non era vista bene dalla Chiesa. A
Milano è nata la Socrem che è una società per la cremazione mezza massonica, anzi di
importazione massonica quindi anticlericale che propugnava la cremazione guardata invece
dalla Chiesa come un peccato mortale. Dal ’60 una bolla papale, non mi ricordo quale, ha reso
la cremazione coerente con il culto cattolico e Milano in questo senso, anche questo
sociologicamente è un dato molto importante, è una città assolutamente pioniera (Pillitteri, ex
assessore ai servizi funebri e cimiteriali).
73
Le ceneri dopo la cremazione sono trasferite in un’urna che può essere deposta al cimitero in tumulo,
oppure possono essere disperse in natura (fiumi, laghi, mari o spazi aperti), in cimitero (nel Giardino del
Ricordo ubicato nel cimitero di Lambrate) o in aree private purché all’aperto e con il consenso dei
proprietari.
191
La cremazione, secondo l’ex assessore, è sintomo di cambiamento culturale; il moderno
crematorio è una delle più chiare espressioni della società contemporanea, con la sua
grande varietà di credi e atteggiamenti: rappresenta il mondo ideologico della modernità
(Davies 1996, p. 248). La chiesa cattolica fu contraria alla cremazione, una delle ragioni di
tale opposizione sta nel fatto che, a Milano e in altri paesi cattolici europei, i massoni
avevano preso posizioni a favore della cremazione, fondando la Socrem74, e si erano
opposti alla chiesa cattolica che a sua volta avevano spinto i cattolici su posizioni anti
cremazioniste. Appare chiaro che le influenze storiche incidono sulla mentalità di una
popolazione, tant’è che la cremazione è adottata molto più rapidamente nei paesi di
tradizione protestante, mentre i paesi cattolici sono rimasti più propensi a scegliere
l’inumazione (ibidem).
E’ un fatto positivo anche perché libera gli spazi, non rende necessaria la costruzione di nuovi
cimiteri, si evitano attività sgradevoli come le esumazioni, tutto ciò che è connesso col fatto
che un corpo debba putrefarsi ovvero mineralizzarsi, è il termine meno macabro che viene
utilizzato (Pillitteri, ex assessore ai servizi funebri e cimiteriali).
Il corpo cremato torna cenere dunque non necessita di spazio poiché le ceneri si possono
disperdere, o comunque, se si vogliono tenere i resti in una celletta nel cimitero la quantità
di spazio richiesta è minima. E questo è un primo fattore importante perché risolve il
problema dei posti insufficienti evitando la costruzione di ulteriori cimiteri. In secondo
luogo, non essendoci più il corpo, non c’è putrefazione e scompare il problema di dover
spostare i futuri resti ossei, dunque le spiacevoli pratiche legate alla riesumazione del
cadavere sono eliminate creando un vantaggio (dal punto di vista pratico e igienico) sia per
gli operatori che le eseguono che per i parenti costretti a rivivere il dolore della perdita.
Se dipendesse da me, ripristinerei quello che c’era negli anni ’80, la cremazione è un servizio
pubblico gratuito. Invece adesso, dal 2001, è a domanda individuale, quindi a pagamento.
Invece andava incoraggiato perché…quando le persone provano un grande dolore, se tu su una
ferita continui a mettere il sale, non va bene, per esempio l’inumazione è un po’ crudele perché
dopo dieci anni devi tornare qui, non è obbligatorio, però il fatto che ti arriva una lettera, devi
riflettere, prendiamo la celletta, non la prendiamo, lo portiamo qui, lo portiamo la. È un ricordo
che si rinnova, non è tanto un ricordo che si rinnova, se tu ti fai un taglio rimane la cicatrice
però non è che tu sulla ferita ci metti il sale, c’è gente che dopo dieci anni viene qua e si rivive
il primo giorno, strilli, pianti (Guido).
74
Società per la cremazione.
192
La cremazione è un servizio che va incoraggiato secondo Guido e dovrebbe essere un
servizio pubblico gratuito. D’accordo con l’avvocato Pillitteri, Guido sostiene che
l’inumazione è un po’ crudele perché dopo dieci anni bisogna tornare al cimitero e vedere
il corpo del proprio caro logorato dalla morte e questo porta a rinnovare la sofferenza, una
pratica che è di intralcio al naturale corso dell’elaborazione del lutto. La cremazione invece
sarebbe la soluzione migliore sia per una questione di igiene che civile, ma anche
economica.
No, poi c’è un aspetto civile, igienico, non voglio dire economico perché sarebbe… I comuni o
la repubblica deve stare vicino a chi, inevitabilmente, si trova coinvolto con la morte, ma col
cuore leggero, col cuore libero, non con altri fini. Non so se riesco a spiegarmi. Se io ho già
uno stipendio dato a me dalla repubblica, punto, se io sto facendo un caffè al bar o, che ne so,
batto alla cassa un prodotto, quello è implicito nello stipendio che prendo a fine mese, mentre
altri operatori del settore, diciamo che non sono mossi dalla stessa filosofia di vita mia, loro
hanno altri obiettivi, leciti sicuramente ma…insomma è un po’ complessa la cosa. Per cui,
siccome noi esseri umani quando siamo coinvolti dalla morte abbiamo le difese immunitarie
vicine allo zero, ci vuole qualcuno, ci vorrebbe, che si occupi di loro, sia dal punto di vista
pratico, come si fa la disdetta di…come si comunica all’Inps che la pensione va bloccata
eccetera, eccetera, a tutto il resto. Allora se venissero convogliate le persone verso la
cremazione, tutto quello che ruota intorno oggi, inevitabilmente…anche perché un funerale
normale, non deve implicare che uno si fa un mutuo, io penso questo (Guido).
Dovrebbe essere lo Stato a prendersi cura dei dolenti, ribadisce l’intervistato, perché chi
deve affrontare l’evento luttuoso non ha la lucidità necessaria per pianificare il funerale e
lascia carta bianca ai privati; questi ultimi però non sempre vanno incontro alle reali
esigenze dei sofferenti, non agiscono col cuore leggero, col cuore liberoma con altri fini.
La cremazione potrebbe eliminare questo ulteriore problema poiché un corpo cremato non
ha bisogno di “contorni” funebri come ad esempio cofani super accessoriati piuttosto che
monumenti funebri o lapidi, dunque resta un servizio economico e non dà troppa libertà
alle imprese di presentare un preventivo ricco di eccessi.
La cremazione è un servizio pratico, veloce, con anestesia. Per esempio già il fatto di non
vedere più la bara ha una sua importanza, tu vedi un cubo, quindi concentri le tue cose
nell’astratto, devi cominciare a ricordare, non c’è una cosa che vedi, non vedi la sepoltura, si,
puoi vedere la celletta, però…ci può essere la dispersione ceneri, puoi lasciale a Lambrate, c’è
un angolo o comunque in luoghi consentiti (Guido).
La cremazione è un servizio pratico, veloce, con anestesia, sbarazzarsi dell’oggetto, in
questo caso della bara, costringe ad affrontare rapidamente l’addio definitivo; il legame
con il defunto si interrompe e l’immaterialità si trasforma in ricordo mettendo l’individuo
193
nella condizione di dover reagire alla crisi della presenza75 in tempi brevi rispetto alla
sepoltura “classica”.
4.3.5 Lo smantellamento del campo e le esumazioni
Quando questa attività veniva svolta all’interno del cimitero dal personale cimiteriale si
presentavano forti problemi di natura psicologica anche problemi di alcolismo perché avere a
che fare con i cadaveri e tutto ciò che ne consegue, in tutti i termini senza voler entrare nel
macabro, non è un’attività facile (Pillitteri, ex assessore ai servizi funebri e cimiteriali).
L’esumazione è tra i servizi che il comune di Milano non svolge più; quando questo lavoro
era in mano al personale cimiteriale, vi erano forti problemi di natura psicologica, racconta
l’ex assessore ai servizi funebri, perché non è un’attività facile. L’esperienza degli
operatori ci rivelerà gli aspetti più difficili legati alla pratica dell’esumazione confermando
quanto detto dall’avvocato Pillitteri: è la pratica meno gratificante e più complessa da
gestire tra tutte le prestazioni eseguite in un cimitero poiché nasconde degli aspetti macabri
e riluttanti.
In un campo vengono sepolte tutte persone che saranno poi tutte insieme, dopo dieci anni,
riesumate. Si parte con il decennio dall’ultima sepoltura […] Per cui per fare le esumazioni,
quando si fa l’esumazione del campo, è come se quel campo avesse una sola data, l’ultima. Per
esempio molti non lo sanno, e allora tutti quanti dicono, è morto nel ’97, come mai sono
passati 14 anni?(Guido).
Quando un corpo è sepolto sottoterra (inumazione), dopo dieci anni per legge deve essere
riesumato (disseppellito). Guido spiega che possono trascorrere anche più di dieci anni
perché si parte dall’ultima sepoltura effettuata: quando il campo è saturo e non possono
effettuarsi ulteriori inumazioni, si stabilisce la data per le esumazioni.
75
La presenza in senso antropologico, nella definizione di de Martino, è intesa come la capacità di conservare
nella coscienza le memorie e le esperienze necessarie per rispondere in modo adeguato a una determinata
situazione storica, partecipandovi attivamente attraverso l'iniziativa personale e andandovi oltre attraverso
l'azione. Ernesto de Martino, antropologo italiano, attraverso l’etnografia del lamento funebre lucano
descritta nella sua opera Morte e pianto rituale, osserva e analizza le modalità espressive del lutto costruite
all’interno di un doppio condizionamento: lo statuto sociale del defunto e la convenzionalità di un codice
simbolico condiviso (De Martino 1958, p. XXXIX). Gli individui reagiscono alle crisi della presenza tramite
rituali odierni. La crisi del cordoglio appartiene alla condizione umana, ma la civiltà moderna l’ha ridotta di
intensità fornendole il soccorso di tutta l’energia morale maturata nel tempo (ivi, p. 42) ; la morte di una
persona cara, spiega lo studioso, è un evento tragico e l’uomo si difende da tale trauma attraverso il controllo
rituale del patire. Il rito aiuta a elaborare il lutto che è oggettivato nelle pratiche. La fatica di far passare la
persona cara attraverso le varie forme di celebrazione e di culto dei morti, permette di superare lo strazio,
rendendolo oggettivo, in tal modo si avvia l’aspra fatica di far morire i nostri morti in noi. I rituali inscritti
nella nostra cultura consentono di rialzarsi dalle tombe e di superare il rischio di morire con ciò che muore.
194
Adesso per esempio, 16 e 19 verranno smantellati perché a settembre, ottobre e novembre
verranno fatte le esumazioni, quindi il lavoro preparatorio viene fatto nella settimana prossima.
Hanno tolto le foto che vengono messe in una busta numerata, quando le hanno portate via
loro, i parenti, quindi cosa vedi là, vedi i monumenti, ci sono gli alberi, ecco a un certo
momento non c’è più niente. C’è il vuoto, tu eri abituato per dieci anni a vedere un pieno e
dopo vedi il vuoto, poi il campo viene scavato, vengono portate via tutte le cose, due, quel che
sta intorno è la salma, cioè quello che resta della salma, o viene cremato, o viene trasferito, o
viene messo nelle cellette, però quel campo sparisce, perché poi devi anche rompere delle cose,
i monumenti vengono maciullati, c’è un ragno, no, gli alberi per esempio, vengono sradicati
(Guido).
L’esumazione è preceduta dallo smantellamento del campo ossia il lavoro preparatorio
affinché si possa procedere con le esumazioni. Al cimitero di Bruzzano le prossime
esumazioni sarebbero state in autunno e lo smantellamento dei campi si compieva due
mesi prima, a luglio. Tutto ciò che è presente sul campo da smantellare viene sradicato
(alberi) e distrutto (monumenti, lapidi). Quando si tira su la bara, se si è davanti a una
salma consumata (dunque il processo di putrefazione nei dieci anni di sepoltura ha fatto il
suo corso), i resti ossei sono trasferiti negli ossari o cremati, se invece il corpo è intatto,
viene sepolto nuovamente sottoterra.
Quello che mi dà maggiore tristezza qui è smantellare il campo, perché il campo dura dieci
anni, no? Un decennio, e finché le persone arrivano, fanno, portano il lumino, che ne so, i fiori,
è come se il funerale non fosse ancora finito, non so come spiegarti, è come se si allungasse
l’ultimo saluto, si ha questa impressione, no?
Invece quando tu il campo lo tiri su, tiri via i monumenti, tiri via le foto, tiri via gli alberi, non
rimane niente, o meglio, c’è un campo completamente sgombro da quello che c’è sopra. Ecco a
quel punto, era già finita prima ovviamente, ma in termini, come posso dire, obliqui, come
viene a me un grande dolore viene pure a quelli che arrivano e non trovano niente. Lo sanno
che c’è l’esumazione, però quella cosa là è forte, molto forte, per me, poi la risposta è
individuale (Guido).
Smantellare un campo è l’attività che tra tutte rende più triste l’operatore cimiteriale
intervistato. Il campo “pieno” colma, in un certo senso, il vuoto lasciato dal caro estinto, è
come se si allungasse l’ultimo saluto, si vedono le persone far visita ai loro cari, portare i
fiori; insomma un campo pieno aiuta a superare la perdita della presenza e a evitare la
crisi del cordoglio (De Martino, 1958) per il dolente, mentre rende il lavoro dell’operatore
cimiteriale gratificante e meno malinconico poiché ci si rende utili ai parenti. Osservare il
campo “vuoto”, rivela Guido, lascia un gusto amaro sia ai i dolenti sia agli operatori: i
primi devono in qualche modo scontrarsi di nuovo con il dolore affrontato dieci anni
prima, perché rivedere il proprio caro consumato dalla morte fa riaffiorare inevitabilmente
il dolore e lo strazio della perdita; i secondi “perdono” il campo custodito con devozione
195
per anni dovendo combattere con la nostalgia, emozione che ritrae l’essenza dei luoghi
dell’addio.
Ho fatto un po’ fatica ti dico la verità ad abituarmi alle esumazioni. Quando ho iniziato a fare
le esumazioni all’inizio è stata un po’ dura perché l’esumazione è quando tu di seppellisci un
corpo di una persona che è sottoterra da 12, 13, 14 anni e le cose sono due, anzi sono tre
possibilità o trovi tutte le ossa che è consumato completamente e lì è la cosa più bella che ti
può capitare perché le ossa le tiri su, le pulisci un attimino noi avevamo i secchi di ammoniaca
già pronti, le pulisci, sono ossa, ok? Ma quando inizi a trovare le salme o non mineralizzate,
qua, si dice demineralizzate, va beh, comunque indecomposte via, cioè se trovi il corpo che
non è consumato allora lì inizia a diventare brutto, capisci? Vedere un corpo umano dopo 14,
15 anni sottoterra che non è consumato completamente vedi di quelle cose… mi son visto di
quelle mummie, all’inizio è stata dura, c’erano giorno in cui non mangiavo per sta cosa. Però
mi è durata i primi sei mesi, è stata abbastanza dura poi dopo basta, dopo le facevo come se
niente fosse, non mi facevano più impressione, una volta superata la fase accettalo, lo devi fare
comunque sia anche dopo vent’anni che fai questo lavoro qui fai un’esumazione ti trovi una
salma che non è consumata completamente o metà è consumata e metà no non è bello
comunque eh. È solo il tuo modo di reagire che cambia però se uno lo può evitare lo evita,
adesso noi non le facciamo più come personale comunale l’esumazione qua a Bruzzano perché
le hanno esternalizzate, sono private anche quelle (Orazio).
Se per Guido lo smantellamento del campo è il fatto più deprimente che possa vedersi al
cimitero, Orazio racconta che, soprattutto i primi sei mesi di assunzione, ha avuto difficoltà
ad abituarsi alle esumazioni ed è ben contento che siano state affidate ai privati. Sono due
gli scenari possibili ai quali si va incontro durante questa attività di natura poco piacevole:
trovare il corpo consumato e lì è la cosa più bella che ti può capitare perché oltre alle ossa
non ne rimane più nulla, oppure scoprire un corpo demineralizzato (intero, non
indecomposto) se trovi il corpo che non è consumato allora lì inizia a diventare brutto. Il
disgusto di manipolare i brandelli di un cadavere non completamente putrefatto causava
diversi problemi agli operatori tecnici cimiteriali.
Fare le esumazioni, ormai ci abbiamo fatto l’occhio e non è più un problema, però anche lì non
è un bel vedere. Tante volte la salma esce intera, tutta indecomposta, tutta brutta e tu la devi
sempre toccare ovviamente con i guanti, abbiamo l’attrezzatura giusta, devi prenderla dalla
cassa poi metterla a terra, gli odori, certe volte non è un bel vedere neanche per i parenti perché
certe volte la salma si attacca anche per terra, si attacca sulla cassa (Angelo).
Le sensazioni raccapriccianti provate da Orazio le prime volte che ha dovuto misurarsi con
la pratica dell’ esumazione, sono le medesime nutrite da Angelo. La situazione è molesta
poiché coinvolge in negativo i sensi sia degli operatori che eseguono l’operazione sia i
parenti che vi assistono: cattivi odori, contatto con il corpo putrefatto e visione dei residui
di tessuto umano incollati alla cassa o per terra.
196
A me è capitato che ho fatto l’esumazione con una cassa col zinco e quando l’ho aperta mi
sono trovato davanti un bambino intatto, prenderlo non è stato semplice perché ti rendi conto
che è un bambino. Quando fai l’esumazione normale dici va beh, prendi e vai, lì ti trovi così e
rimani lì cosi. Cerchi già di stare attento e non farti male perché comunque però hai paura
anche di come prenderlo, non sai come prenderlo, non sai come approcciarlo, è un bambino ci
sono lì il padre e la madre e devi rendere la cosa…come posso dire…meno macabra, cerchi di
trovare la soluzione più dolce, più carina possibile e trovare la posizione giusta in cui
prenderlo. Se ci fosse un medico a prenderci il battito cardiaco… […] Il genitore già gli è
morto il figlio, poi se lo ritrova intero dopo dieci anni devi fare in modo di non farglielo
vedere. prenderlo così come se fosse uno straccio, lo tiri su, non puoi prenderlo così, allora
cerchi di andare sotto prenderlo da in mezzo alle gambe, tirarlo su cosi e adagiarlo nella cassa,
non è come nelle esumazioni normali che devi fare in fretta perché c’è l’odore e cerchi di fare
in fretta, non sei rude però sei meno delicato (Alex).
La repulsione del corpo non è l’unico disagio a cui andavano incontro gli operatori durante
le esumazioni: si verificavano anche delicati problemi di interazione. Alex racconta di
aver riesumato un bambino integro, la sua difficoltà era l’approccio con il corpicino, non
sapeva in che modo prenderlo per trasferirlo in un’altra cassa, prenderlo così come se fosse
uno straccio, lo tiri su, non puoi prenderlo così, allora cerchi di andare sotto prenderlo da
in mezzo alle gambe, tirarlo su cosi e adagiarlo nella cassa. La sua maggiore
preoccupazione era di non urtare la sensibilità dei genitori che guardavano l’operazione,
doveva essere delicato nei movimenti perché era un bambino e la morte precoce è un
dolore troppo grande da sopportare. La missione dell’operatore era di proteggere il piccolo
e la sua famiglia, rendere dolce il passaggio tra il suo giaciglio e il nuovo, tenerlo come se
lo stesse cullando per non turbare il debole stato emotivo dei suoi genitori; una missione
tutt’altro che semplice: se ci fosse un medico a prenderci il battito cardiaco ne vedrebbe
delle belle.
Guarda come faccio io l’esumazione, cioè noi operatori cimiteriali, tu sei lì, c’è un metro e
mezzo, tu hai una bacinella, guarda come faccio io l’esumazione, si capisce subito, mani e
piedi subito si prendono, perché quelli dopo non li trovi più, poi, sempre nella bacinella, così e
così, gli arti, e poi tutto quanto messo che non c’è bisogno di essere un medico per capire che
lo scheletro è tutto qua. Però attenzione ai particolari, quando tu fai l’esumazione sopra ci
sono, in genere, i parenti, guarda la differenza, eh, io faccio l’operazione, arti inferiori, arti
superiori, testa, bacino, tutto accuratamente preso e riposto nella bacinella in ordine, invece
loro scaraventano tutto indistintamente. Ma non è finita l’operazione, dopo devi dare la
bacinella al collega che sta sopra che la deve mettere nella cassettina, nella cassettina cosa
faccio, se lo fai cosi, non ci vanno, quindi devi mettere (imita come vanno messe le ossa nella
cassettina), così ci va tutto. 207 pezzi abbiamo noi, all’incirca, non si deve sentire quel rumore,
il rumore delle ossa che cozzano l’una con l’altra o che sbattono per terra, noi qua non abbiamo
fretta, non si deve avere fretta, perché a quella persona non gli risolvi il problema, ma non
glielo devi complicare. Come si può notare ci sono tanti particolari che messi insieme fanno un
mosaico (Guido).
197
In questo frammento di intervista torna il tema della lotta tra operatori cimiteriali e
operatori del settore privato; Guido spiega dettagliatamente come avviene, in caso si trovi
un corpo mineralizzato, lo spostamento delle ossa dal cofano alla cassettina evidenziando
l’accortezza nei passaggi degli operatori tecnici rispetto ai dipendenti del privato. C’è un
metodo preciso da seguire per l’esumazione quando si trovano resti ossei: in primo luogo
bisogna trovare e posizionare nel contenitore prima gli arti inferiori, poi gli arti superiori,
la testa e infine il bacino, poi trasferire le ossa nella cassettina definitiva, ma bisogna fare
attenzione a inserirle in un certo modo poiché si corre il rischio di non farle entrare tutte.
Queste azioni devono essere attuate con estrema calma, in primis perché è facile sbagliare
poi, motivo principale, perché eseguire il compito con tranquillità vuol dire avere rispetto
per il dolente che osserva tutto il lavoro, i resti devono essere maneggiati con cura poiché
si tratta pur sempre di un essere umano che vive nel ricordo dei presenti. Duecentosette
pezzi abbiamo noi all’incirca, non si deve sentire quel rumore, il rumore delle ossa che
cozzano l’una con l’altra o che sbattono per terra, noi qua non abbiamo fretta, non si deve
avere fretta, perché a quella persona non gli risolvi il problema, ma non glielo devi
complicare, e a parere dell’intervistato i dipendenti del settore privato complicano la vita al
dolente poiché le attenzioni che dovrebbero esibire durante la pratica dell’esumazione sono
inesistenti.
4.4 Il Tempio per le Commemorazioni Civili: lo strano caso di Bruzzano
Nel 2002 l’Assessore ai Servizi Funebri e Cimiteriali del Comune di Milano, Giulio
Gallera, rispondendo all’esigenza espressa da molti cittadini di avere un luogo dove
commemorare in forma civile la scomparsa di un proprio congiunto, ha fatto realizzare
presso il Cimitero cittadino di Bruzzano un Tempio Civile.
«I parenti dei defunti che non professavano alcuna fede religiosa - spiega l'Assessore erano costretti a commemorare i propri cari nei luoghi più disparati, come le camere
mortuarie degli ospedali, le palestre, le sale dei circoli e delle cooperative. Per questo il
Comune di Milano ha deciso di mettere a disposizione di tutti i milanesi, un luogo
appositamente dedicato alla commemorazione e al commiato di coloro che non professano
alcuna religione. Con la realizzazione del Tempio Civile a Bruzzano, primo esempio in
Italia, ho accolto e condiviso l'istanza liberale e laica di prevedere per qualunque cittadino,
a prescindere dal credo religioso, un dignitoso momento di ricordo e di commiato»
198
(Balboni 2003). Primo esempio in Italia di luogo appositamente dedicato alle
commemorazioni civili, fortemente voluto dai cittadini per onorare il proprio defunto
secondo il rituale laico e struttura ben organizzata e attrezzata. Resta allora da chiedersi
perché, a distanza di dieci anni, i milanesi hanno usufruito rare volte del Tempio Civile a
Bruzzano.
In dieci anni sono stato lì per sei funerali (Guido).
Il “tempietto”, com’è chiamato da Orazio, è abbandonato da circa tre mesi e Guido afferma
di aver visto solo sei funerali in dieci anni di servizio al cimitero di Bruzzano; si ipotizza
che la gente vada in altri luoghi per commemorare il defunto attraverso la ritualità laica.
No, qua no, il discorso è questo, magari fuori ne fanno ma qua all’interno del cimitero quindi è
difficile che una persona che viene a mancare si viene a fare il rito qua dentro è una cosa
abbastanza rara, viene utilizzato pochissime volte questo tempio, negli ultimi 3 mesi neanche
una volta. Io forse è da gennaio che non vedo nessuno al tempietto (Orazio).
Eppure il Tempio Civile a Bruzzano, gestito dal Comune di Milano, si presenta bene ed è
pubblicizzato, dunque la gente sa della sua esistenza, ma nonostante questo c’è poca
richiesta.
In tutti i dépliant del comune c’è. Su internet c’è. Che poi dopo c’è scritto che danno i
microfoni e roba del genere che poi nessuno li vuole, però, c’è l’acustica che è buonissima
(Luigi).
L’unico ragionamento possibile che dia una spiegazione valida, allo strano caso del
Tempio di Bruzzano, è fornita indirettamente da Luigi.
Perché nessuno la vuole. Al cimitero di Lambrate, che c’è la sala del commiato, viene
utilizzata. Qua non viene utilizzata (Luigi).
All’interno del polo crematorio del Cimitero di Lambrate c’è una Sala multiconfessionale
destinata allo svolgimento dei riti funebri per culti religiosi diversi da quelli cristiani e per
riti civili. La Sala a Lambrate probabilmente è più richiesta perché di solito la cerimonia
civile è voluta da persone che si fanno cremare; certo non sempre le due cose vanno di pari
passo ma nella maggior parte dei casi la situazione tipo è questa. Per una questione di
logica, se un corpo è cremato al cimitero di Lambrate e i parenti desiderano organizzare
199
una
cerimonia
civile,
rimarranno
nello
stesso
luogo
usufruendo
della
sala
multiconfessionale dell’importante polo crematorio milanese.
I riti civili, se è uno sportivo che muore, il rito civile lo fanno nella sua palestra, quello del
partito lo fanno alla sede del partito, non è che vengono qua a farlo, e così via, ognuno c’ha il
suo. Viene utilizzato poco per questo (Luigi).
Non c’era la necessità di edificare un luogo apposito per celebrare i funerali laici, secondo
Luigi, perché ognuno professa il proprio credo (religioso o civile) e ha già un posto che
simboleggia la fede dello scomparso dove officiare il funerale: una palestra se muore uno
sportivo piuttosto che la sede del partito se il defunto in vita era un militante.
L’italiano in se stesso non ha il culto della commemorazione, di parlare, discutere, come fanno
per esempio in America i protestanti. Tu guarda la chiesa e roba del genere, tu fai il funerale ed
è finito qui, se trovi qualche prete moderno che dice, c’è qualcuno che vuol dire qualche cosa,
ma lo dici in chiesa. Non è che fai la messa normale in chiesa e poi dopo vai al cimitero perché
hai questo edificio (Luigi).
La linea rituale tradizionale, adottata da gran parte degli italiani (spesso anche dai laici),
per ossequiare i defunti è il rituale cattolico. Nonostante ci siano strutture adeguate per
celebrare un rituale non cattolico, il popolo italiano è “impreparato” sulla gestione dei
funerali civili o laici; l’intervistato fa notare che diversamente dalla cultura funeraria
anglosassone più spontanea, verrebbe da dire, nell’organizzazione dell’estremo saluto, la
cultura funebre italiana soffre di vuoti rituali che non sa come colmare e di conseguenza
non sa come celebrare un funerale che non sia religioso. Solo una minoranza di laici ha gli
strumenti culturali per pianificare un funerale civile; il resto si ostina a offrire al caro
estinto una cerimonia che non rispecchia la persona che è stata in vita commemorandola
con un rituale tradizionale, o addirittura eliminando il passaggio della celebrazione
destinando il corpo direttamente al cimitero. È solo attraverso il rito, considerato come una
forma di produzione di senso nella misura in cui marca e definisce i significati di ciò che
accade in termini di “passaggio” (in questo caso il passaggio dal vuoto rituale al rituale
laico), che la credenza prende corpo.
200
4.5 Corsi di formazione anche per i dipendenti comunali?
Per diventare operatore tecnico cimiteriale bisogna superare un concorso pubblico,
dopodiché, i nuovi dipendenti, cominciano a lavorare senza frequentare corsi di
formazione come invece accade per gli operatori delle imprese private.
A noi ci hanno insegnato, diciamo, i vecchi (Luigi).
Il lavoro si impara sul campo; l’operatore più anziano ha il compito di insegnare al nuovo
arrivato le operazioni di routine del settore, spiega Luigi.
Non è che ci hanno fatto vedere come si fa l’esumazione o come si cala giù una salma, anche la
cremazione come si fa, quanto tempo deve stare dentro al forno per essere estratta, abbiamo
imparato strada facendo, fai finta che oggi era il mio primo giorno sei un po’ spaesato è
normale, poi guardi e piano piano ti fanno fare anche a te […] Le esumazioni mai nessuno ci
ha spiegato veramente come vanno fatte. Secondo me io lo faccio bene perché ho avuto un
buon insegnamento da uno degli anziani che è qua e io sono stato dietro a lui, il giorno piano
piano ha fatto fare a me, mi stava dietro poi dopo l’ho fatto io (Angelo).
Angelo racconta che non sapeva da dove cominciare perché nessuno gli aveva spiegato
come doveva essere eseguito il lavoro. Il buon insegnamento dell’anziano che affiancava,
gli ha permesso di imparare; i primi giorni Angelo guardava lavorare il collega esperto,
quest’ultimo gradualmente gli affidava piccole mansioni fino a quando non ha ritenuto che
il giovane allievo fosse in grado di operare da solo.
Si comunque dei corsi servirebbero nel settore funebre, si, perché secondo me tanti lavorano
male e tanti lavorano anche bene. Corsi per addestramento lavorativo (Angelo).
L’intervistato si reputa fortunato ad aver appreso da un anziano che sapeva lavorare bene e
che sia riuscito a trasmettergli il necessario per diventare un buon operatore cimiteriale, ma
non tutti hanno avuto la stessa fortuna. Ci sono operatori che nonostante siano nel settore
da anni, non portano a termine gli incarichi come dovrebbero; la proposta di Angelo è di
istruire gli operatori tecnici cimiteriali, prima che comincino a lavorare, tramite dei corsi di
addestramento lavorativo.
Ma se li fanno è perché evidentemente il problema ce l’ hanno loro, non noi […]
Evidentemente danno per scontato che siamo all’altezza sennò farebbero fare dei corsi anche a
noi […] Perché loro sanno che noi siamo professionalizzati, sono loro che non lo sono. I corsi,
i corsi d’aggiornamento sono sul campo. Leonardo da Vinci è considerato uno dei più grandi
geni di tutti i tempi, non è uscito dal politecnico, è andato in bottega, questa è la nostra bottega,
perché, bene o male, quelli che l’hanno fatto prima di te il lavoro, ti fanno vedere, poi c’è dello
spazio per mettere del tuo (Guido).
201
Una proposta che probabilmente non verrà ascoltata dal momento che funziona così da
sempre: i corsi d’aggiornamento sono sul campo, afferma Guido, il cimitero è la bottega
nella quale si formano gli operatori cimiteriali, imparano da chi ne sa di più, da chi il
lavoro lo fa da sempre e poi c’è spazio per mettere del proprio migliorando con
l’esperienza. A differenza degli operatori del settore privato che hanno bisogno di
professionalizzarsi tramite dei corsi, i dipendenti cimiteriali professionali lo sono già,
ammette Guido, e non necessitano di nozioni dettate in aula poiché il mestiere si impara
strada facendo.
C’è questa sorta di pregiudizio che il dipendente pubblico è lazzarone e lo dice anche Brunetta
in televisione. In realtà la cosa è molto diversa soprattutto negli ambienti come i cimiteri,
l’obitorio, ti posso garantire che il personale ha una certa professionalità e non è un mestiere
per tutti perché se non hai un bell’auto controllo, sei facilmente suggestionabile, sei
emotivamente debole non lo puoi fare non reggeresti perché tu arrivi qua al mattino e in realtà
quando timbri il cartellino tu ti ricordi tutti i giorni che devi morire non so se mi spiego. A
pensarci è una roba allucinante eh. Ci sono tutti questi aspetti, la psicologia è importante
(Orazio).
Quando timbri il cartellino tu ti ricordi tutti i giorni che devi morire. Orazio spiega che
scontrarsi ordinariamente con l’idea della morte, poiché la si vive tramite le pratiche
eseguite, può avere dei risvolti psicologici pesanti per l’operatore. Diversamente dallo
stereotipo che vede il dipendente comunale come un lazzarone, lavorare nei cimiteri,
invece, richiede delle buone competenze che permettano di gestire gli aspetti emotivi e
mantenere un buon auto controllo nelle situazioni più difficili.
Un corso di questo tipo, come affrontare le emozioni lo abbiamo fatto anni fa ed era sul gestire
il rapporto col pubblico perché si, è utile. Ce l’ha fatto fare il Comune perché noi qua abbiamo
a che fare col pubblico, l’abbiamo fatto anni fa una volta sola però può essere utile secondo me
perché a gestire il rapporto con il pubblico ancora oggi non è facile perché come sai le persone
sono diverse, trovi la persona gentile che ti chiede le cose con calma, trovi la persona
maleducata che sbotta per ogni cosa e ti da la colpa a te anche di cose che non centrano, quindi
tu devi gestire questa situazione qua. Allora nella gestione del rapporto col pubblico ogni tanto
secondo me qualche corso può essere utile (Orazio).
Gestire le emozioni e il rapporto con il pubblico è tra gli aspetti più problematici, sostiene
Orazio, e lo conferma Guido tramite la simpatica espressione si va da Oxford, come stile di
vita, oppure di predisposizione all’esistenza, al Bronx, ovvero si può incontrare dal dolente
con i modi gentili al dolente che urla furioso senza una valida ragione. Inoltre l’operatore
afferma che bisogna munirsi di una carica di pietà per far fronte alla situazione dolorosa
202
che vive il parente, qui vedi zingari e re che piangono, li vedi proprio polvere, che non
sono niente.
Questo è un ambiente eterogeneo eh. Si va da Oxford, come stile di vita, oppure di
predisposizione all’esistenza, al Bronx. Siamo molto variegati qua hai capito? Si va da chi beve
solo acqua a chi beve tutto tranne l’acqua. Per dire, no? Tanto per dire. Io sono arrivato con
una carica significativa di pietà, perché questo lavoro per forza deve avere questo aspetto. Qui
vedi zingari e re che piangono, li vedi proprio polvere, che non sono niente (Guido).
Anni fa il Comune ha organizzato un corso con l’obiettivo di aiutare i dipendenti ad
affrontare le proprie emozioni e reagire in modo appropriato verso i dolenti. Un corso però
che non è stato mai ripresentato.
Si uno il front-line chiamato “quello per star bene insieme” per il contatto con il pubblico [...]
Nel 2005, anzi no, nel 2006; avrebbe dovuto avere un seguito invece poi hanno tarpato le ali,
era un concorso proposto dagli psicologi che lavorano al comune, sai affrontavamo quelle
problematiche che ti dicevo prima, come rispondere e comportarsi con la gente che risponde
male, anzi come non puoi reagire alla gente che risponde male, non puoi permetterti di
mandare a quel paese la gente. Questo corso avrebbe dovuto avere un seguito che però non ha
avuto […] Hanno tirato fuori quali sono le problematiche del nostro lavoro, raccoglievano le
nostre sensazioni, i nostri problemi perché potevano capire cosa c’era ma solo chi lavora può
saperlo […] Il rapporto con il pubblico, sempre quello perché quello è il problema che noi
abbiamo. L’obiettivo era quello di tirar fuori le problematiche, stendere un verbale e attuare
qualcosa per migliorare e risolvere questi problemi (Alex).
Il “front-line” è mirato a migliorare il rapporto tra i dipendenti cimiteriali e i dolenti ma
non solo. Gli operatori, durante il corso, raccontavano quali erano le difficoltà da affrontare
nella routine lavorativa, era un modo per dare sfogo alle paure, alle sensazioni negative
assorbite in un clima incline all’angoscia e alla sofferenza. I dipendenti tiravano fuori le
problematiche che gli psicologi segnalavano tramite verbale al Comune con l’intento di
trovare una soluzione.
Secondo me serviva anche come sfogo perché in effetti c’era gente che andava a casa…allora,
ognuno di noi ha una propria idea oppure ha un proprio carattere, c’è quello che riusciva a farsi
scivolare le cose addosso mentre ci sono altri che non riescono e si portavano a casa le
problematiche, non so arrivava il funerale e questi piangevano, andavano a casa tristi e queste
cose se le portavano dietro e le scaricavano poi nella famiglia. Questo corso doveva servire a
non portarsi le problematiche a casa e trovare la soluzione per scaricarle (Alex).
Gli operatori cimiteriali subiscono una sorta di sindrome da burnout76; il lavoro diventa
insostenibile e stressante tant’è che molti di loro non riescono a essere distaccati e
76
Il burnout comporta nel soggetto un lento processo di "logoramento" o "decadenza" psicofisica dovuta alla
mancanza di energie e di capacità per sostenere e scaricare lo stress accumulato ("burnout" in inglese
significa proprio "bruciarsi"). In tali condizioni può anche succedere che queste persone si facciano un carico
203
professionali nella situazione lavorativa, arrivava il funerale e questi piangevano,
andavano a casa tristi riversando lo stato emotivo avvilente nella vita privata.
È un aspetto che purtroppo resta, perché diventi insensibile, le persone pensano che sia un
lavoro semplice, siamo qua, mettiamo giù i morti ed è una cosa normale però rischi di
diventare cinico[…] Tu vedi tutto, entra dentro e non esce più, quindi si diventa o troppo
sensibili o cinici […] Il nostro lo dovrebbero considerare come lavoro usurante però più
mentale che fisico (Vinicio).
Si diventa cinici a fare questo lavoro, a mettere giù i morti, afferma Vinicio, si finisce per
dimostrare disinteresse per il dolente che cerca conforto o sprezzante per la vita in
generale. Tu vedi tutto, entra dentro e non esce più, vedi i parenti in lacrime, la loro
sofferenza, il loro dolore, vedi la persona che hanno amato, sparire sotto cumuli di terra o
dietro il freddo cemento dei loculi, poi li vedi andar via da soli, scortati dalla disperazione
e dall’unico legame con lo scomparso che pregano non si dissolva mai: il ricordo.
Si, tenuto conto che quelle che sono le mansioni di natura più riluttante, definiamole cosi, li
sono state sistematicamente sottratte, quindi quello che era un aspetto grave con fenomeni di
vera patologia, l’alcolismo affliggeva molto i vecchi operatori cimiteriali che materialmente
sono tutti morti, non si riscontrano più. Si riscontrano oggi, possono riscontrarsi e si sono
riscontrati, anche dei fenomeni di natura depressiva, a quel punto una rotazione è lo strumento
migliore. Tu non puoi lasciare uno nei cimiteri, per cosi dire, in eterno, quindi su questo con i
miei dirigenti si era molto lavorato per andare a individuare quelli che potevano essere dei
fenomeni negativi e disporre che ci fosse un ricambio di mansioni, insomma che non ci fosse,
come poteva succedere, gente che in un cimitero, già un ambientino un po’ cosi, sta in un
ufficio da solo a fare poco o niente (Pillitteri, ex assessore ai servizi funebri e cimiteriali).
I vecchi operatori cimiteriali erano afflitti da gravi problemi come ad esempio l’alcolismo,
racconta l’avvocato Pillitteri. Oggi queste difficoltà non si riscontrano più considerato che
molti servizi di natura più riluttante, come le esumazioni, sono stati sottratti ai dipendenti
cimiteriali e affidati a società private; il problema che invece continua ad affliggere questi
professionisti, è di natura depressiva e il metodo migliore per ovviare a questa difficoltà è
il ricambio di mansioni all’interno del camposanto, secondo l’ex assessore.
eccessivo delle problematiche delle persone a cui badano, non riuscendo così più a discernere tra la propria
vita e la loro. Il burnout comporta esaurimento emotivo, depersonalizzazione, un atteggiamento spesso
improntato al cinismo e un sentimento di ridotta realizzazione personale. Il soggetto tende a sfuggire
l'ambiente lavorativo assentandosi sempre più spesso e lavorando con entusiasmo ed interesse sempre minori,
a provare frustrazione e insoddisfazione, nonché una ridotta empatia nei confronti delle persone delle quali
dovrebbe occuparsi. Il burnout si accompagna spesso a un deterioramento del benessere fisico, a sintomi
psicosomatici come l'insonnia e psicologici come la depressione. I disagi si avvertono dapprima nel campo
professionale, ma poi vengono con facilità trasportati sul piano personale: l'abuso di alcol, di sostanze
psicoattive ed il rischio di suicidio sono elevati nei soggetti affetti da burnout (Burnout, La speranza.net).
204
Però tutto sommato, per quella che è stata la mia esperienza, di fenomeni forti di rigetto da
parte degli operatori cimiteriali io non ne ho mai registrati in maniera critica, cattivi rapporti tra
l’operatore e la dirigenza, in termini di incomunicabilità, in termini di disattenzione, in termini
di essere abbandonati a se stessi al di là di quello che può essere la fisiologia, non posso dire
che si siano mai registrati in maniera critica. Certo, corsi con un percorso di sostegno
psicologico sicuramente potrebbero avere un suo effetto positivo [...] Quello che io vedo come
necessario è si, sicuramente la costruzione di una professionalità in maniera tale che
l’operatore cimiteriale non si senta l’ultimissima ruota del carro (Pillitteri, ex assessore ai
servizi funebri e cimiteriali).
Gli operatori cimiteriali chiedono di essere ascoltati da qualcuno che li aiuti a risolvere le
difficoltà nel lavoro, come accadeva nel corso front-line che però, per misteriosi motivi,
non è stato ripetuto; l’avvocato Pillitteri, nei suoi anni da assessore, non ha riscontrato forti
problematiche da parte dei dipendenti, tuttavia ritiene che sia una buona idea inserire un
percorso di sostegno psicologico che consenta di costruire una professionalità in maniera
tale che l’operatore cimiteriale non si senta l’ultimissima ruota del carro.
4.6 Onori e oneri del settore cimiteriale
Il rapporto con i dolenti non è solo un “problema da gestire” ma è anche il punto di forza
del lavoro dell’operatore tecnico cimiteriale.
C’è una ragazza che ha perso il marito, qualche anno fa, ed è rimasta sola con i gemelli. Noi
con questa ragazza abbiamo fatto amicizia perché viene sempre qua a trovare suo marito poi ha
perso un’amica e dopo si è trasformata, ha cominciato a ingrassare e noi l’abbiamo convinta a
curarsi, dimagrire, riprendere in mano la sua vita […] E si è perché alla fine noi siamo anche
un po’ assistenti sociali […] La prima persona che incontri quando vieni qua, quando sei solo
che hai il dolore per la perdita cosa fai? Piangi ti guardi in giro e dove ti aggrappi? Al
guardiano. Tante volte ce la facciamo altre volte è più pesante (Vinicio).
Aiutare i sofferenti è la mission del guardiano del cimitero; non è sempre un compito facile
ma è l’onore per eccellenza.
Aiutare le persone è una cosa importantissima, dobbiamo essere all’altezza della situazione,
capire, innanzitutto, che abbiamo di fronte persone con un dolore e la cosa è molto molto
toccante, anche perché i giorni dopo la sepoltura, il cittadino è distrutto, chiaramente ci lascia
qui un proprio caro che sia un figlio, un genitore, un fratello, una sorella e noi cerchiamo di
entrare in quella psicologia del dolore, è un po’ come una terapia del dolore psicologico. Non
so, ad esempio, tutte le attenzioni come il vasettino che manca al parente glielo dai,
l’annaffiatoio d’acqua, aiutare a rintracciare i primi giorni il suo morto, sono tutte quelle
piccole attenzioni che fanno in modo che il cittadino entri, non dico in familiarità con te, però è
una sorta di fiducia che si crea tra noi e il cittadino, è importante per il cittadino ma anche per
noi (Pino).
205
L’empatia con il dolente è il requisito fondamentale, è ciò che rende professionale il ruolo
dell’operatore cimiteriale; basta poco per assistere un cittadino che vive il lutto, è
importante dare quelle piccole attenzioni necessarie per instaurare la fiducia tra il dolente e
il guardiano, piccoli gesti che aiutano ad affrontare il momento critico sia al parente sia al
professionista.
Quando arriva il defunto, noi siamo pronti ad accoglierlo, lo deponiamo nelle buche, qui ci
sono scavi a buca libera; noi deponiamo la salma nella buca a seconda di quello che è il
desiderio del parente, la copriamo davanti o aspettiamo che vanno via anche per delicatezza,
capisci che vedere una ruspa, un oggetto meccanico che agisce sul tuo parente non è molto
bello, no? (Pino).
Tra le attenzioni da riservare ai sofferenti c’è anche quello di esaudire i suoi voleri; Pino
racconta che vedere un oggetto meccanico che scaraventa terra sul corpo del caro estinto,
può essere scioccante per il parente e i guardiani devono avere la sensibilità di evitare il
gesto funesto in loro presenza.
La gratificazione sta nel…tu puoi essere apposto con la tua coscienza, diciamo che la
gratificazione non è un momento particolare del tuo lavoro ma sta nel tuo lavoro, perché tu
offri un servizio ai cittadini, può essere l’inumazione, può essere che ripulisci il campo, e ti
ringraziano perché vedono la zona bella pulita, la gratificazione è dare nel servizio il massimo
della tua disponibilità e la persona ti ringrazia col cuore (Orazio).
La gratificazione sta nel lavoro in sé, spiega Orazio, sapere di eseguire un incarico utile
alla comunità e sentirsi ringraziare col cuore è la vera soddisfazione per l’operatore
cimiteriale. Tra gli oneri, invece, Orazio reclama il lavoro fisico, fonte primaria di stress.
L’operatore cimiteriale esegue compiti manuali, spesso faticosi, e deve avere una buona
forma fisica, inoltre lavorando all’aperto può subire il disagio di condizioni climatiche
poco favorevoli.
La parte stressante è la parte lavorativa manuale, finito il funerale come tutti i lavori devi
smontare le transenne, portale più avanti, devi smontare tutto, sfila i casseri, sposta i fiori cioè
la parte manuale, la parte stressante è quella perché in realtà è un lavoro fisico, quella è la parte
stressante, poi qua sei sotto le intemperie, sei all’aperto quindi se c’è la giornata che sei a
quaranta gradi lo devi fare, nevica, piove, grandina lo devi fare. È questo il fattore più
stressante per noi, lavorare all’aperto ha i suoi pro e i suoi contro (Orazio).
Quando si eseguono mansioni che richiedono un certo sforzo fisico, non si indossa la
divisa ufficiale composta da pantaloni blu e camicia azzurra, ma il comune fornisce jeans e
t-shirt. Angelo spiega che quando si fa, ad esempio l’inumazione, definito lavoro di scavo,
206
si è a contatto con la terra, si fatica, si suda e il rischio di sporcarsi è elevato, pertanto ci si
veste “da battaglia”. Terminata la sepoltura in terra, l’operatore fa una doccia e indossa
l’impeccabile divisa ufficiale: pronto per accogliere i dolenti nella sua forma migliore.
La divisa è la camicia azzurra, in inverno a maniche lunghe in estate a maniche corte,
pantalone come questo, l’abbiamo sia azzurro che blu sia invernale che estivo. Se tu adesso per
esempio ti metti nei miei panni, io oggi sono stato in campo inumazione, sei a contatto con la
terra, la pala, sudi, il casco, i guanti, io non mi presento in campo inumazioni cosi, mi cambio, i
jeans che indosso ce li hanno dati loro infatti abbiamo tutti i jeans poi abbiamo anche le
magliette che devi cambiare ogni giorno, loro ci hanno dato quattro magliette bianche e quattro
magliette blu o stai ogni giorno a lavarle o sennò te le compri anche tu. Però quando sei alla
porta, adesso alle due e mezza io sto alla porta fino alla chiusura e quando sto alla porta, mi
vesto con il completo, camicia azzurra, pantalone blu, però quando sei a fare un lavoro di scavo
non mi presento con la scarpettina, il pantalone, adesso sono in jeans vado a fare la doccia
perché noi abbiamo la possibilità di fare la doccia e mi preparo per stare alla porta, camicia e
pantalone blu. E questa è la divisa ufficiale, poi d’inverno abbiamo anche un bel giubbotto con
scritto: Comune servizi funebri (Angelo).
4.7 Note dal campo
E poi…da conoscitore di Balzac, qui la commedia umana è alla grande, perché all’inizio del
cimitero, all’ingresso del cimitero, di solito le persone si salutano o si incontrano, di solito
quando c’è l’ultimo commiato e si incontrano tutti i parenti è così: «Ciao come va? Da quanto
tempo! Ma non ci dobbiamo vedere solo in queste circostanze, lasciami il telefono che ti
chiamo». Sempre così, è un disco continuo, a me viene da ridere e a volte da piangere, io sto là
zitto, impassibile. Però il registratore ha lo stesso nastro, mi viene da ridere. Quindi qua è un
angolo privilegiato per vedere la commedia umana (Guido).
4.7.1 Cimitero di Bruzzano: la commedia umana
È una calda giornata d’estate, il clima non è rovente ma piacevole: la condizione ideale per
visitare i verdi cimiteri di Milano alla ricerca dei suoi guardiani.
Sono davanti al cimitero di Bruzzano che, pur non essendo tra i più grandi campisanti
milanesi, ha un ingresso imponente. Non so da che parte andare, a chi rivolgermi; mi
guardo intorno, vado verso gli uffici, noto tre o quattro uomini lì davanti e chiedo: «Sto
cercando…», non finisco la frase che uno di loro domanda se sono l’amica di Pino.
Pino, il mio gatekeeper, ha lavorato diversi anni a Bruzzano e conosce tutti i dipendenti, ha
avvisato che sarei arrivata oggi. Ecco perché mi fissano con l’aria di chi sa già cosa avrei
detto. Indicano il box77 di fronte all’ingresso, mi accoglie Orazio, trentaseienne gentile e
77
L’operatore addetto al box, posto all’ingresso del cimitero, ha il compito di accogliere i cittadini e dare
informazioni.
207
disponibile, dall’aria bonacciona, mi fa accomodare nel gabbiotto, chiude porta e finestre e
mi chiede se gradisco la temperatura dell’aria condizionata.
La prima intervista a un operatore cimiteriale ha inizio.
Dopo quasi due ore di colloquio lascio Orazio al suo pranzo e mi addentro nel cimitero:
devo trovare Guido. Il mormorio degli uccelli e il frastornante silenzio rendono gradevole
la passeggiata per i viali alberati del camposanto; a un certo punto mi imbatto in una
struttura dalla forma e dai colori singolari, deve essere il Tempio Civile. Intenta a
osservarlo sento qualcuno che si avvicina ed esclama: «Sei Priscilla?», mi volto e un uomo
in bicicletta in uniforme mi sorride.
È Guido.
I guardiani, per raggiungere i diversi campi all’interno dei cimiteri, si muovono a piedi, se
le distanze lo permettono, o in bicicletta.
Si presenta e oso domandargli se è possibile visitare la struttura, ma non ha le chiavi ed è
chiusa con grossi lucchetti e catenacci. È inaccessibile.
Ci avviamo verso l’area ristoro e beviamo un caffè, intanto l’operatore mi parla dell’editto
di Saint Cloud e di come la morte sia paradossalmente il più grande teatro della vita.
Seduti su uno scalino in un posto ombreggiato, accanto alla chiesa del cimitero, accendo il
registratore. Guido è un personaggio singolare, un uomo sui sessant’anni o forse meno,
occhialetto da sole con lenti tonde, capelli color argento corti davanti e con un lungo
codino. Accende un sigaro e mentre lo gusta, dà voce ai suoi pensieri raffinati. Uomo di un
certo spessore culturale, è laureato in filosofia e nei suoi discorsi si nota l’impostazione
accademica; con una risata travolgente e accattivante, riesce a legare al tema della morte i
più disparati argomenti, trattandoli con sarcasmo, ironia e intelligenza pungente.
4.7.2 Cimitero Maggiore: la morte a ritmi industriali
«Salve, mi scusi, sto cercando Angelo, lavora qui, è un operatore tecnico cimiteriale.»
«Angelo sta lavorando al campo numero 8, c’è una sepoltura. Di cosa ha bisogno?»
«Sono un’universitaria, sto intervistando operatori cimiteriali per la mia tesi di laurea…»
«Puoi fare le domande anche a me, anch’io sono un operatore cimiteriale».
Mentre aspettiamo Angelo, l’operatore, incontrato casualmente, si racconta. Magro, intensi
occhi azzurri, sguardo scavato e malinconico, abbronzato perché lavora sotto il caldo sole
208
di luglio, non gli piace quello che fa, è troppo doloroso; stare a contatto con la morte tutti i
giorni è difficile, non c’è niente di bello, rivela.
Si avvicina un uomo in bicicletta, jeans e maglietta, notevolmente affaticato dal lavoro di
sepoltura che ha eseguito poco prima. È il mio intervistato.
Il Maggiore è il cimitero più grande della Lombardia, dimensioni colossali, i dipendenti si
spostano in bicicletta e c’è un servizio di navetta per i dolenti al suo interno; ed è proprio
alla fermata del bus, sotto la pensilina, al riparo dal sole invadente, che comincia il nostro
colloquio. Regolarmente, ogni dieci minuti, arriva la navetta che trasporta i dolenti nei
diversi campi del cimitero; il rumore del motore importuna il nostro colloquio, allora
decidiamo di spostarci. Ci sediamo su una panchina in ombra sotto un albero, dietro di noi
maestosi monumenti funebri immersi nel verde. Angelo fa questo lavoro da circa otto mesi
e, a differenza di altri operatori cimiteriali che ho intervistato, quando parla della sua
esperienza, trasmette sensazioni ed emozioni vivide, l’abitudine e la routine non ancora
prendono il sopravvento sul suo modo di operare. Con i modi gentili, sincero e senza
omettere i particolari più osceni del proprio mestiere si racconta.
4.7.3 Cimitero di Greco: tutto comincia da qui
Il cimitero di Greco lo sento un po’ come casa mia. Forse perché la mia passione per gli
studi sulla morte comincia proprio da qui e dall’amicizia nata con i guardiani.
Greco era l’ultima tappa nella settimana di interviste agli operatori tecnici cimiteriali.
Varco la soglia del cancello e vedo Pino inginocchiato, intento a sistemare un mattone, alle
prese con calce e cazzuola. Lo saluto, sorride, mi scorta nella sala ricreativa e pretende che
beva l’acqua fresca che ha appena preso dal distributore automatico perché fa caldo.
Seduto a riposare, dopo una lunga e faticosa mattina di lavoro, c’è Vinicio, sta guardando
la tv a volume alto. Mi saluta e chiede come sta procedendo il lavoro di tesi. Dopo qualche
minuto, spunta Alex dalla porta d’ingresso della saletta, Pino ci presenta, poi va via perché
deve terminare il lavoro che ho interrotto poco prima. Accendo il registratore e metto Alex
a suo agio chiedendogli di parlarmi del suo lavoro. Vinicio resta con noi, guarda la tv,
sempre a volume esageratamente alto, e, intanto, ascolta il colloquio. Pian piano si insinua
nel discorso e alla fine diventa un secondo intervistato. Alex è più giovane, magrolino,
capello chiaro, occhiali da vista con lenti tonde. Ha modi gentili, è più aggraziato rispetto a
Vinicio che ricorda un uomo di altri tempi, folte sopracciglia nere, sguardo duro dai
209
lineamenti marcati, panciuto e superbo nel modo di parlare. Vinicio è protettivo nei miei
confronti, si comporta come un papà e come Pino, infatti, durante l’intervista, anche lui mi
invita a bere l’acqua fresca (la giornata è molto calda, anche se nell’ufficio si sta bene
perché è acceso il condizionatore). Pino ha finito il suo turno di lavoro, libero dalla divisa,
assiste qualche minuto all’incontro. Esattamente un anno prima, intervistavo lui seduto allo
stesso posto di Alex. Approfittiamo della presenza di Pino per concederci un momento di
“pausa caffè” nel quale sono sommersa da cibo e delizie: pezzi di torta, biscotti, caramelle
e quant’altro. Questi guardiani mi viziano.
Ecco perché a Greco mi sento come a casa.
210
CONCLUSIONI
“Tirare le fila” del lavoro di tesi presentato finora, è un compito arduo. Durante la fase
riflessiva della scrittura, mi rendevo conto della complessità dell’oggetto di ricerca che ho
scelto di indagare perché le ipotesi di partenza e gli obiettivi che mi proponevo non
giungevano mai a una conclusione, anzi, aprivano sempre nuovi varchi di ricerca.
Imbattendomi in diversi manuali di etnografia, però, ho imparato che i risultati di una
ricerca etnografica hanno come suo fine non di pervenire a una conclusione ma di aprire un
dibattito, poiché la narrazione riflessiva deve mettere in evidenza la molteplicità e la
polisemia della realtà. Il metodo di indagine qualitativo che ho utilizzato, oltretutto, si è
rivelato una scelta vincente perché, tra i metodi della ricerca sociale, l’approccio
etnografico è quello più adatto per rispondere alle specifiche richieste di una domanda di
ricerca ampia (ma non riducibile), difficile (ma non semplificabile) e scomoda (ma degna
di essere esplorata): come si organizza la società quando un membro muore?
Ho risposto a questa domanda studiando le professioni legate al settore funebre: gli
impresari di pompe funebri e i guardiani del cimitero che organizzano il lutto e rendono
possibile l’organizzazione sociale della morte portando a termine il delicato compito di
sbarazzarsi del cadavere. La fine dell’esistenza, dunque, provo a “spiegarla” attraverso le
professioni dell’addio; le pratiche organizzative di questi professionisti hanno lo scopo di
rappresentare la morte tramite i rituali di transizione dalla vita alla morte. L’istituzione
funebre simbolicamente rappresenta valori e credenze fondamentali della società di cui è
espressione. Di questa società essa ci dice di che tipo sia, chi sono e che caratteristiche
hanno i membri che la abitano; è talmente intenso il legame tra la collettività dei viventi e
quella dei morti che la complessa macchina organizzativa post-mortem è un vero e proprio
barometro culturale: riflette con grande sensibilità ogni cambiamento dell’ethos sociale e
rivela il modo in cui una società si pone di fronte alla morte.
La mortalità tende a interrompere il corso della vita dei gruppi sociali e delle relazioni
creando una forte contraddizione tra il bisogno di liberarsi del cadavere e quello di tenerlo
socialmente vivo, poiché il defunto non può essere semplicemente sepolto come un corpo
morto: la prospettiva di una totale esclusione dal mondo sociale sarebbe troppo angosciante
211
per i vivi. Il bisogno di tenere vivo il defunto, spinge la società a organizzare, attraverso
pratiche eseguite nella routine lavorativa, dei rituali che celebrano e assicurano la
transizione a un nuovo status sociale in un mondo diverso. Un’organizzazione del lutto che
combini questa trasformazione di status con l’atto di liberarsi fisicamente del cadavere è
comune a tutte le società, e, in quella contemporanea, è affidata alle istituzioni funebri che
hanno il compito di gestire la sistemazione del morto e di organizzare i rituali di
transizione dalla vita alla morte: le istituzioni funebri devono occuparsi della
rappresentazione collettiva della morte.
Studiare la morte per indagare alcuni cambiamenti della società più in generale e palesare
l’atteggiamento degli individui verso la morte: sono questi i due aspetti del lavoro di
ricerca che ho voluto mettere in luce. L’intuizione cruciale del sociologo Robert Hertz
secondo la quale «l’attenzione per i contesti simbolici e sociologici del cadavere consente
di formulare le più profonde spiegazioni sul significato della morte e della vita quasi in
ogni società» racchiude il senso della mia indagine poiché ricercare i significati simbolici
di cui varie società rivestono i cadaveri è oggetto di soglia significativo per indagare gli
atteggiamenti che una società intrattiene nei confronti della morte. Il corpo morto è il vero
oggetto di ricerca, il protagonista della rappresentazione scenica del lutto che i
professionisti dell’addio organizzano attraverso un complesso di pratiche che hanno
l’obiettivo di riprodurre una complessiva rappresentazione dell’intera vita sociale tramite i
rituali funebri. La morte, dunque, diventa reale solo se rappresentata con pratiche che la
rendono tale, o meglio, come spiega David Sudnow nella sua etnografia del 1967, le azioni
inscritte nelle pratiche producono la realtà concepita come processo strutturato, coordinato
che genera significato e rende ordinata l’azione, ed è attraverso queste azioni che la morte
è costruita socialmente.
Indagando le pratiche dei professionisti dell’addio sono nati interrogativi di ricerca e
riflessioni; nella prima parte dell’indagine, gli impresari di pompe funebri e il loro contesto
di lavoro, diventano indicatori per rilevare l’atteggiamento della società contemporanea
verso la morte, provando a capire qual è il modo di concepire, vivere e sentire la morte
oggi. Osservando le pratiche di lavoro quotidianamente eseguite in Casa funeraria, e, in
modo particolare, le routine e i rituali funebri contemporanei messi in scena dagli
operatori, mi domando se le recenti innovazioni apportate dalla riforma legislativa sulla
212
funeraria siano state necessarie per andare incontro a una società contemporanea in
continua evoluzione, o al contrario, se il settore funebre ha introdotto innovazioni per
indurre al cambiamento degli usi funebri nella nostra società al fine di salvaguardare i
propri interessi economici. Nel capitolo conclusivo sui guardiani del cimitero,
intervistando gli operatori cimiteriali e ripercorrendo la storia dell’editto di Saint Cloud, mi
sono imbattuta in un fenomeno interessante inerente all’organizzazione e alla gestione
della morte, un passaggio importante avvenuto nel periodo rivoluzionario francese e che si
ripropone, oggi, sotto altre vesti. Infine, indagando la comunità dei guardiani, vediamo
come il senso che questi ultimi conferiscono alla morte sia costruito nelle pratiche di
sepoltura eseguite quotidianamente nel cimitero.
Le imprese di pompe funebri
Qualche mese fa un impresario funebre, mio conterraneo, mi stava raccontando che la
legge italiana vieta alle onoranze funebri l’esposizione delle bare in vetrina. In effetti, poi,
riflettendoci, non mi è parso mai di vedere vetrine allestite con cofani, paramenti e altri
arredi funebri, passeggiando per le vie della città. Non pensavo, però, che ci fosse
addirittura una legge che vietasse l’esposizione, pensavo potesse decidere il titolare
dell’impresa funebre se esibire o no “la morte in vetrina”. Qualche tempo dopo, mentre
leggevo l’articolo del sociologo Geoffrey Gorer, The pornography of death, un passo in
particolare mi ha fatto tornare in mente le parole del mio amico impresario funebre.
L’autore sostiene che mentre nella società tradizionale i rituali del lutto integravano la
morte e il dolore nel contesto sociale e facevano sentire ai familiari la solidarietà del
gruppo, la società moderna avrebbe privato i familiari del proprio dolore creando un clima
di tacita disapprovazione intorno alla disperazione dei superstiti. Ho associato
l’espressione “tacita disapprovazione” alla storia del divieto di esporre le bare in vetrina e
mi sono domandata: «Se Gorer fosse ancora vivo, avrebbe scritto di una società
contemporanea che, in modo più velato rispetto a quella moderna, tace la morte
trasformandola in tabu»? Purtroppo Gorer non può dirci la sua perché è morto, ma posso
provare a rispondere a questa domanda con i risultati della ricerca presentata in questa
sede.
213
Gli impresari funebri intervistati, quasi all’unanimità, ammettono che lo stereotipo
dell’impresario funebre eccentrico e terrificante è radicato nella mente degli individui, e
loro stessi faticano a definire la propria professione “normale”, pur essendo un’attività,
come tante altre, con un’organizzazione, uno scopo, una routine, che richiede una
particolare competenza e una specifica abilità. Dalle interviste emerge che gli impresari
funebri si tengono lontano dall’incoraggiare un atteggiamento positivo nei confronti della
propria figura per paura di reazioni negative da parte degli individui; ad esempio, uno degli
intervistati sponsorizza una squadra di calcio locale formata da ragazzini, ma ha deciso di
non voler specificare di quale tipo di azienda si tratta stampando su maglie e borsoni solo il
nome dell’azienda e omettendo “onoranze funebri”. I professionisti dell’addio lamentano il
modo di rapportarsi della gente verso la morte affermando di non sentirsi liberi di parlare
del proprio lavoro per paura di provocare reazioni di fastidio, pertanto vorrebbero meno
inibizione sull’argomento, ma quando si presenta l’occasione per cambiare lo stato attuale
si aggregano alla massa. In questo caso la morte appare come un tabù radicato nella nostra
società tant’è che anche i professionisti del settore hanno difficoltà a parlarne liberamente.
D’altra parte, però, affermano che qualcosa negli ultimi anni è cambiato e gli individui
cominciano a dare il giusto valore alle professioni del settore funebre, evitando di
associarlo a iettature e disgrazie, separando il male e il dolore che infligge la morte da chi,
invece, fa solo il suo mestiere. Il motore di tale cambiamento è da ricercare
nell’organizzazione aziendale e nelle innovazioni legislative del settore funebre: sembra
che l’industria della morte stia mettendo ordine all’interno della propria organizzazione in
modo tale da ripulirne l’immagine e conferirle, così, un volto nuovo. L’assunto base che
ispira la condotta degli operatori funebri e la cultura dell’impresa è l’etica: un imprenditore
funebre, per dare un’immagine positiva del proprio mestiere, deve fare dell’etica il valore
fondamentale della propria azienda, anteponendo i bisogni del dolente al mero interesse
economico. Viene da chiedersi, però, se agiscono realmente in questo modo, cioè,
risolvendo il conflitto tra interesse proprio e necessità altrui preservando quest’ultime,
oppure se stanno bleffando per il bene della comunità, che in questo caso è la “comunità
degli operatori funebri”. Se questi professionisti vogliono scrollarsi di dosso
quell’immagine negativa che li perseguita, devono, comunque, costruire l’impressione che
questi standard morali siano raggiunti. Per far sì che i principi morali diventino la
peculiarità delle onoranze funebri, si è fatto ricorso alla legge che ha il compito di imporre
una condotta agli operatori funebri: i professionisti dell’addio devono essere in grado di
214
fornire prestazioni che aiutino i dolenti a vivere serenamente i primi momenti del lutto.
L’impresario deve fornire un servizio complesso e professionalmente molto qualificato, in
grado di accompagnare la famiglia nel dolore del lutto fornendo prestazioni capaci di
trasformare la morte in una “buona morte”, in una morte accettata. Si cominciano ad
acquisire i codici culturali propri dell’impresa funebre e a costruire la professione
attraverso dei corsi imposti dalla legge regionale della Lombardia, corsi da seguire
obbligatoriamente per esercitare la professione. Professionalità e serietà, dunque, sono
elementi indispensabili per allontanare l’immagine negativa cucita addosso agli impresari
di pompe funebri e inserire, gradualmente, nel discorso pubblico, una visione accettabile e
non inquietante delle attività legate alla morte. Insomma, un primo passo per eliminare la
morte come tabù, potrebbe essere quello di non rabbrividire alla presenza di un’impresa di
pompe funebri, ma accettare l’idea che il lavoro degli operatori funebri è un lavoro come
tanti altri ed è indispensabile nella fase di sepoltura provvisoria che, tramite atti rituali,
serve a mantenere vivo il legame tra il morto e i vivi in attesa della sepoltura definitiva.
Oltre alla professionalizzazione degli operatori funebri, è stato adottato un altro criterio per
dissipare la paura collettiva della morte che si riflette, poi, in quanti operano nell’industria
della morte; la moderna impresa funebre ha abbandonato le ambientazioni e i colori
macabri presenti fino a qualche anno, inserendo tonalità più vivaci. I necrofori hanno
divise elegantissime e impeccabili, perché per istinto le persone si rivolgono a chi ha
l’aspetto più curato, non sono più nere, ma grigie, e sono tutte uguali all’interno di ogni
ditta. I carri funebri hanno abbandonato l’austerità per linee e colori più “sportivi” e lo
stesso vale per le bare; un impresario funebre che ho intervistato, rivela che negli ultimi
anni “va di moda” la bara in rovere sbiancato perché il colore scuro appesantisce una
situazione che di per sé non è piacevole, e continua dicendo che la gente predilige la bara
di un colore chiaro perché fa sentire meglio, è come vedere il sole, tutto chiaro, in una bella
giornata.
In conclusione, l’obiettivo della riorganizzazione dell’industria funebre, reso concreto
attraverso un rinnovamento legislativo sulla funeraria, è di modificare i comportamenti e
gli atteggiamenti che danno vita a modi di agire dinanzi alla morte che potremmo definire
collettivi. Dai risultati della mia ricerca si evince come l’industria funebre della regione
215
Lombardia78, stia provando a modificare il modo di concepire, vivere e sentire la morte
attraverso la professionalizzazione degli operatori funebri che hanno il compito di ripulire
l’immagine delle onoranze funebri e aiutare il dolente nel difficile momento di separazione
dal corpo morto, attraverso competenze elevate che consentono una raffinata
rappresentazione scenica del lutto, introducendo elementi nuovi nel sistema della morte, tra
cui nuovi rituali che, in qualche modo, inducono al cambiamento dei costumi funebri.
Casa funeraria
Tra i nuovi elementi nel sistema della morte, introdotti dalle innovazioni legislative del
settore funerario, vi è la Casa funeraria, che può essere considerata un nuovo rituale
funebre e un contenitore di altri elementi tra i quali la pratica di tanatoprassi/tanatoestetica
e il rituale laico. La funzione della Casa funeraria è di ospitare il defunto in attesa del
funerale e dare alle famiglie un posto confortevole per l’ultimo saluto, poiché
l’appartamento privato, luogo del lutto da secoli, il primo ambito spaziale in cui il defunto
e i suoi congiunti vivevano il cordoglio, adesso non consente, per problemi di diversa
natura, di ospitare il caro estinto, gli obitori, invece, sono spesso poco agevoli, confinati in
ambienti angusti e degradati e vegliare il proprio caro in un posto del genere aumenta il
senso di disagio. Sembrerebbe, dunque, che la città di Milano79, e dunque la società
contemporanea, stia andando incontro a una vera e propria crisi della ritualità domestica,
incapace di raccogliere e di ospitare la pluralità di esigenze legate al lutto, questo, almeno,
è quanto affermano i professionisti del settore funebre. La legge sulla funeraria della
regione Lombardia, dunque, ha concesso la costruzione di Case funerarie perché i
professionisti dell’addio ritenevano necessario offrire un luogo diverso dall’abitazione
privata e dall’obitorio per dare l’estremo saluto, un cambiamento dovuto alle nuove
esigenze di una società che si evolve e modifica il proprio rapporto con il corpo morto e
con la morte. I discorsi prodotti dalle onoranze funebri, per spiegare l’impellenza del
sistema Casa funeraria, vertono su due questioni: in primo luogo è doveroso concedere una
struttura attrezzata ad accogliere i problemi derivati dalla situazione luttuosa, problemi
78
Il mio studio è stato condotto nella città di Milano che applica le leggi sulla funeraria della Lombardia,
poiché il sistema legislativo nazionale sulla funeraria è stato suddiviso per regioni, ogni regione ha le sue
leggi sulla funeraria.
79
Il mio campo di indagine è stata la città di Milano, non so quanto sia possibile estendere i risultati della mia
ricerca alla società contemporanea in generale, ma essendo Milano parte della società contemporanea farò
riferimento a essa anche in questi termini.
216
soprattutto di igiene, poiché se il defunto si trova nell’abitazione privata, non si hanno gli
strumenti necessari per gestire al meglio l’evento morte. In secondo luogo “anche l’occhio
vuole la sua parte”, secondo i professionisti dell’addio vegliare il caro estinto in un
ambiente confortevole, simile a un hotel di lusso, piuttosto che in una camera mortuaria,
concorre a custodire nel tempo un ricordo migliore dell’evento doloroso, seguendo l’idea
che ambienti caldi e familiari scacciano la tristezza e la sostituiscono con una dolce
serenità. La Casa funeraria avrebbe una funzione morale e sociale con lo scopo di
addolcire il rimpianto dei sopravvissuti. Essere costantemente seguiti dagli operatori
funebri della Casa funeraria, così come si è serviti in un hotel, inoltre, dà la sensazione al
dolente di non essere abbandonato al suo destino. Gli operatori utilizzano gesti di cortesia salutare i dolenti, accoglierli, aprire le porte della camera ardente e lasciare entrare prima
loro, rendersi sempre disponibile alle loro richieste, e cosi via - non perché siano
particolarmente gentili (magari lo sono, ma non è questo il punto), ma perché queste
piccole azioni rituali rappresentano l’essenza della Casa funeraria, che costruisce la sua
base morale nel principio del rispetto verso il dolente e il corpo morto. D’altra parte, in
Casa funeraria, non si fa che applicare il principio fondamentale di tutta l’industria
funebre, ossia fare dell’etica non un valore aggiunto, ma il valore fondamentale e anteporre
le esigenze dei dolenti a interessi di altra natura. Inoltre, luoghi come gli obitori, hanno
smarrito la funzione di accogliere familiari, parenti e amici per un omaggio prima del
funerale, troppo spesso si vedono corpi accatastati nelle camere mortuarie come se fossero
merci e non esseri umani e questo non fa che aumentare l’angoscia del dolente.
Proponendo delle ipotesi sui motivi che hanno portato la cultura delle Case funerarie a
Milano, potremmo sostenere che nella società contemporanea, dove molti servizi vengono
forniti ai vivi all’esterno delle mura domestiche, vi è una logica secondo cui la morte segue
semplicemente il modello della cura della salute, del tempo libero e dei servizi di
ristorazione. Una seconda riflessione vede protagonista la comunità allargata in cui si
viveva un tempo, che partecipava in maggior misura alla morte dei suoi membri. Oggi, con
la professionalizzazione della morte, questo coinvolgimento è molto diminuito; si può
interpretare
questo
cambiamento
come
una
conseguenza
della
crescente
individualizzazione della vita, specialmente negli ambiti urbani.
Tra le pratiche eseguite in Casa funeraria, ho osservato la tecnica della tanatoestetica; la
sua funzione sociale è favorire la relazione con il defunto, o meglio, donare l’aspetto “più
vivo” possibile camuffando il deceduto da addormentato, in tal modo il parente può stargli
217
accanto senza il disagio causato da un corpo tumefatto. Un moderno rituale funebre che ha
l’obiettivo di restituire ai corpi una vita sociale se sottoposti ad attenzioni estetiche volte a
purificarlo. Nel nostro Paese la situazione è peculiare rispetto al resto del mondo; le leggi
sulla funeraria non riconoscono la tanatoprassi, che è la vera tecnica per sistemare i
cadaveri e agisce tramite interventi invasivi, pertanto, in attesa di un rinnovamento
legislativo, gli italiani hanno inventato una “pratica ibrida”, la tanatoestetica. Ibrida perché
la preparazione del cadavere non si limita alla semplice toeletta funebre, ma il defunto è
sottoposto a un insieme di cure eseguite con tecniche che si avvicinano alla tanatoprassi
senza, però, l’intervento invasivo che non è consentito dalla legge. In definitiva, la
tanatoestetica è considerata un nuovo rituale della cura del corpo, ma è una pratica nata nel
nostro Paese più che altro per legittimare l’esistenza dei corsi che la insegnano e
incrementare il business legato a questo nuovo rituale, poiché non potendo compiere le
operazioni invasive che bloccano il processo di decomposizione, così come avviene per la
tecnica “vera”, cioè la tanatoprassi, la funzione di “rendere vivo” il corpo cade o, per lo
meno, funziona a metà e per breve tempo con il rischio di perdere quasi subito l’effetto e,
di conseguenza, la sua funzione morale.
In ultima analisi, possiamo utilizzare il nuovo rituale laico come strumento per avanzare
diverse considerazioni su alcuni aspetti della società in generale e avvalorando le tesi di
uno dei sociologi della morte presi in considerazione nel lavoro presentato. Milano è una
città privilegiata per la celebrazione di funerali civili poiché possiede diverse strutture (sale
del commiato, sale multifunzionali o multiconfessionali) dove eseguire il rituale laico. La
legge regionale sulla funeraria della Lombardia ha dato il via, qualche anno fa, alla
costruzione di tali edifici per rispondere all’esigenza di colmare quel vuoto rituale cui si
stava andando incontro. Non c’è una ritualità consolidata per i funerali civili frutto del
nostro contesto culturale, proprio dell’epoca postmoderna, nella quale si assiste al lento
declino della religione che, non essendo più un’autorità indiscutibile, trascina con sé tutti
gli elementi della tradizione in un clima di insicurezza e di incertezza di fronte alla morte.
Siamo di fronte a qualcosa che assomiglia a un vuoto, siamo diventati de-tradizionalizzati e
stiamo lottando per colmare questo vuoto creando un nuovo modo di celebrare una liturgia
senza Dio. Questo non vuol dire che la nostra cultura sia anti-ritualista, al contrario, nuovi
bisogni rituali stanno venendo alla luce in una cultura fondata sull’individualismo che
ritiene unica una vita solo se vissuta “unicamente” e il buon funerale è quello che onora il
defunto per ciò che è stato in vita rendendo più personale il modo di morire. Ipotesi che
218
avvalorano la teoria del sociologo inglese Tony Walter secondo la quale la morte in epoca
postmoderna rinasce dalle sue ceneri, un vero e proprio Revival of Death, poiché il trionfo
dell’individualismo scaccia quei limiti legati alla tradizione e alla scienza e la morte
“buona” diventa quella morte che ogni persona sceglie per sé. Concludendo, la nuova
disposizione sulla funeraria, che ha introdotto in Italia le sale del commiato e la stessa Casa
funeraria, ha concesso la possibilità di avere uno spazio dignitoso affinché si possa
“costruire” un rito funebre laico. Vedendo per la prima volta la Casa funeraria, infatti, non
si nota la presenza di nessun simbolo legato alla morte; l’aspetto esteriore di una Funeral
home è possibilmente neutro, privo di simboli legati a una sola pratica religiosa, non ha
sembianze né di una chiesa né di un altro luogo di culto. Un luogo specifico, distinto dai
luoghi e dagli spazi della quotidianità, è una realtà “diversa” uno spazio progettuale ibrido
che annienta i simboli preesistenti mescolandoli in un nuovo modo di vivere la morte. La
Casa funeraria, dunque, non è un simbolo già esistente nella cultura e nell’esperienza
comune, ma è un simbolo nuovo che si inserisce nel nostro contesto culturale, proprio
dell’epoca postmoderna, contenitore di molteplici identità e di differenti credenze, una
cultura fondata sull’individualismo e de-tradizionalizzata e che ha bisogno di colmare quel
vuoto rituale generato dalla crisi che ha trafitto gli elementi della tradizione.
L’obiettivo delle Funeral home è finalizzato alla fornitura di un servizio il più possibile
funzionale, aperto culturalmente, non predefinito ma mutabile e malleabile nel tempo che
assume forme diverse secondo le esigenze dei dolenti, essa si presenta come materia che si
presta a essere lavorata dalla simbologia comune.
Guardiani del cimitero
Il percorso di un corpo morto comincia con il prelevamento da parte delle onoranze
funebri, che se ne prendono cura per un breve periodo, e termina al cimitero: l’autista
necroforo, giunto al camposanto con il carro funebre, cede il feretro agli operatori tecnici
cimiteriali che lo prenderanno in custodia. Un passaggio del testimone che rappresenta il
trasferimento del defunto dall’ambito spaziale del settore privato, in cui si muovono le
imprese funebri, al settore pubblico, nel quale operano i tecnici cimiteriali assunti dal
Comune: un passaggio carico di ostilità. Perché c’è tanto attrito tra impresari di pompe
funebri e guardiani del cimitero? Negli ultimi anni, il modo di guardare all’evento morte
in Italia si modifica. A occuparsi della gestione del corpo morto era lo Stato: gli operatori
219
pubblici prelevavano il corpo, lo custodivano il tempo necessario per organizzare il
funerale, e, infine, trasportavano il feretro al cimitero, mentre le onoranze funebri
eseguivano una funzione prettamente commerciale, il loro compito era vendere bare e
arredi funebri. Dal 1998 qualcosa cambia: sono state apportate delle modifiche rilevanti
alle leggi sulla funeraria che hanno trasferito gran parte dei servizi funebri dallo Stato ai
privati. Il trasporto funebre non era gestito dai privati, prima di allora, perché la morte era
considerata solo un problema di natura igienico-sanitaria pertanto era compito del comune
prelevare la salma dal luogo del decesso, pulire il corpo e portarlo al cimitero. I privati,
cominciano a gestire l’evento morte, in tutti i suoi aspetti, da quando si guarda alla fine
dell’esistenza da un’altra prospettiva, si ragiona sul fatto che quando una persona muore,
oltre a eliminarne rapidamente il cadavere per evitare infezioni ed epidemie, è necessario
anche prendersi cura di chi resta offrendo una vasta gamma di servizi che permetta al
dolente di organizzare l’evento funebre secondo le proprie esigenze e che lo aiutino ad
affrontare il lutto nel modo più sereno: la gestione della morte passa dallo Stato ai privati
che hanno la possibilità di offrire (anzi, di vendere) questi nuovi servizi. I moderni rituali
funebri sono entrati a far parte del tessuto socioculturale italiano perché il sistema
legislativo ha permesso il cambiamento evolvendosi di pari passo con le nuove esigenze
della società, e con gli interessi economici dell’industria funebre, poiché l’introduzione di
nuovi servizi (trattamenti di tanatoestetica, costruzione di sale del commiato e così via), è
una fonte di business per il settore della morte. Tornando al punto di partenza, il passaggio
della gestione della morte dallo Stato ai privati, era necessario per creare una nuova cultura
della morte che stesse al passo con le nuove esigenze della società ed è proprio questo il
motivo di tanto astio tra impresari di pompe funebri e guardiani del cimitero poiché a
questi ultimi sono stati sottratti gran parte dei servizi, che eseguivano fino a qualche anno
fa e, inevitabilmente, la propria categoria professionale ha subito un declassamento.
Ripercorrendo la storia dell’editto di Saint Cloud, ho trovato un punto di contatto
interessante con l’attuale storia sulla funeraria. La recente legislazione sulla funeraria è
stata emanata perché si auspicava la diffusione di una nuova cultura funeraria e lo stesso
avvenne nell’epoca rivoluzionaria francese, ovviamente i rituali da introdurre e le
problematiche erano diverse, ma anche il periodo rivoluzionario ha visto protagonista un
passaggio che ha cambiato il modo di guardare alla morte: il passaggio della gestione delle
sepolture dall’autorità religiosa a quella civile. Dall’epoca rivoluzionaria francese, che ha
influenzato il modo di guardare alla morte anche nel nostro Paese, a oggi, sono avvenuti
220
due importanti passaggi che hanno modificato la sensibilità verso il modo di sentire e
vivere il lutto: il passaggio della gestione dell’evento funebre dalla Chiesa allo Stato in
epoca rivoluzionaria agli inizi dell’Ottocento, e il passaggio della gestione dell’evento
funebre dallo Stato al settore privato oggi. La morte è il riflesso della società, due passaggi
legati alla fine dell’esistenza che ritraggono due diverse epoche e ne rappresentano le
diverse problematiche; passaggi che se analizzati, costituiscono un appassionante spaccato
della mentalità e della sensibilità dei due periodi storici.
Allo Stato, dunque, spetta la gestione del cimitero e le attività di cui si occupano i
guardiani sono per lo più, le pratiche di sepoltura. La sepoltura, raccontano gli operatori
cimiteriali intervistati, è tra i momenti più duri dell’intero rituale funebre, e negli ultimi
tempi nei cimiteri di Milano, sono state introdotte alcune innovazioni che hanno il compito
di rendere il momento del distacco definitivo dal caro scomparso meno traumatico. Al
cimitero di Bruzzano, ad esempio, c’è un nuovo metodo di inumazione, il metodo dei
casseri attraverso il quale non si è più costretti a vedere la cassa depositata in fondo a una
lunga fossa, essere allineata a molte altre già presenti, una ruspa a lato della fossa scaricare
la terra sui feretri e una fila di transenne attorno allo scavo che impedisce l’avvicinamento
dei parenti per l’ultimo saluto. Con il nuovo sistema di inumazione i feretri non sono posti
nello stesso scavo perché la struttura dei casseri li separa, non si ha bisogno delle transenne
così il parente può stare vicino al feretro e dargli un ultimo saluto dignitoso e la ruspa
agisce, gettando terra sulla bara, quando i parenti vanno via. Un esempio che è la
dimostrazione della teoria etnometodologica secondo la quale il significato delle azioni è
fondato nelle pratiche (in quello che praticamente facciamo): il modo di sentire la morte
acquista significato nelle pratiche lavorative eseguite dai guardiani del cimitero, attraverso
quello che fanno e al modo in cui lo fanno ( ad esempio se gettano la terra sulla bara avanti
al dolente o aspettano che vada via), la situazione luttuosa si colma di significati che
portano, poi, i dolenti e gli operatori stessi a percepire quell’esperienza in un certo modo
piuttosto che in un altro. La teoria etnometodologica trova riscontro anche in un altro dato
di ricerca emerso nel corso dell’indagine. La pratica di tumulazione e la pratica
dell’esumazione, prima delle innovazioni legislative, erano attività affidate agli operatori
tecnici cimiteriali, ora, invece, appaltate a imprese private. I guardiani del cimitero
lamentano l’incapacità da parte degli operatori privati di portare a termine le due pratiche
perché questo poi ha degli effetti negativi sui dolenti. In particolare, l’esumazione (il corpo
viene dissotterrato dopo un tot di anni previsto dalla legge) implica problemi di diversa
221
natura e va fatta in un certo modo. C’è un metodo preciso da seguire per l’esumazione
quando si trovano resti ossei: in primo luogo bisogna trovare e posizionare nel contenitore
prima gli arti inferiori, poi gli arti superiori, la testa e infine il bacino, poi trasferire le ossa
nella cassettina definitiva, ma bisogna fare attenzione a inserirle in un certo modo poiché si
corre il rischio di non farle entrare tutte. Queste azioni devono essere attuate con estrema
calma, in primis perché è facile sbagliare poi, motivo principale, perché eseguire il compito
con tranquillità vuol dire avere rispetto per il dolente che osserva tutto il lavoro, i resti
devono essere maneggiati con cura poiché si tratta pur sempre di un essere umano che vive
nel ricordo dei presenti. Non si deve sentire il rumore delle ossa che cozzano l’una con
l’altra o che sbattono per terra, non si deve avere fretta, perché al dolente non gli risolvi il
problema, ma non glielo devi complicare, e a parere dei guardiani, i dipendenti del settore
privato complicano la vita al dolente poiché le attenzioni che dovrebbero esibire durante la
pratica dell’esumazione sono inesistenti. Un altro elemento interessante emerso dalla
pratica dell’esumazione riguarda il doppio legame tra il morto e i vivi. Seppellire i propri
morti al cimitero rimuove il doppio legame tra il morto e i vivi, consente di sbarazzarsi
definitivamente del cadavere poiché il corpo non si vede più, è occultato nell’oblio e
questo consente di trovare pace a chi resta; le pratiche eseguite dagli operatori cimiteriali,
analizzate nel mio lavoro di ricerca, però, rivelano che non è sempre cosi. A volte il corpo
ritorna, come nella pratica dell’esumazione che prevede la riesumazione del cadavere dopo
diversi anni dalla sepoltura riportando il morto tra i vivi e rinnovando il doppio legame del
corpo fisico con il corpo sociale.
In definitiva, le pratiche che gli operatori tecnici cimiteriali eseguono nella routine
lavorativa, le azioni inscritte in quelle pratiche, producono la realtà concepita come
processo strutturato, coordinato che genera significato e rende ordinata l’azione, ed è
attraverso queste azioni compiute in un contesto di lavoro ordinario che la morte è costruita
socialmente.
222
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7/8 – Luglio/agosto.
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228
APPENDICE
229
ALLEGATO A
Estratto dal testo del DDL unificato per la riforma dei
servizi funerari
Art. 8 e art. 23
Riporto un estratto dal testo di DDL unificato per la riforma dei servizi funerari, e
precisamente l’articolo 8 e l’art. 23, nel quale sono contenuti i nuovi criteri per poter
operare come impresa funebre:
Articolo 8 (Introduzione dell’articolo 341-bis del testo unico delle leggi sanitarie).
1. Dopo l’articolo 341 del testo unico delle leggi sanitarie, di cui al regio decreto 27 luglio
1934, n. 1265, come sostituito dall’articolo 6 della presente legge, è inserito il seguente:
ÂÂ «Articolo 341-bis – 1. Per attività funebre si intende un servizio che comprende e
assicura in forma congiunta, secondo modalità fissate dalle regioni, le seguenti prestazioni:
a) disbrigo, su mandato, delle pratiche amministrative pertinenti all’attività funebre, in
qualità di agenzia d’affari di cui all’articolo 115 del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza, di cui al regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni;
b) fornitura di casse mortuarie e di altri articoli funebri, purché in occasione di un
funerale;
c) trasporto di salma e di cadavere di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 339, di ceneri e di
ossa umane;
d) cura, composizione e vestizione di salme e di cadaveri.
2. L’attività di pompe funebri è consentita unicamente a imprese in possesso di apposita
autorizzazione all’esercizio, valevole per l’intero territorio nazionale, rilasciata dal comune
in cui ha sede commerciale principale l’impresa sulla base del possesso dei requisiti
strutturali, gestionali, professionali e formativi previsti dalle regioni competenti, purché
siano soddisfatti gli standard qualitativi e quantitativi minimi stabiliti per il territorio
nazionale e alle seguenti disposizioni:
a) l’attività di pompe funebri deve essere svolta nel rispetto delle norme del settore
funerario, tra le quali rientra la normativa UNI EN 15017:2006, garantendo l’igiene e la
sicurezza pubblica, nonché il rispetto delle norme in materia di tutela della salute e della
sicurezza dei lavoratori;
b) le imprese che esercitano l’attività di pompe funebri devono disporre in maniera
permanente e continuativa di mezzi, risorse e organizzazione adeguati, fra cui la
disponibilità:
1) di almeno un carro funebre e di autorimessa attrezzata per la sanificazione e il ricovero
di non meno di un carro funebre;
2) di almeno una sede idonea alla trattazione degli affari amministrativi, ubicata nel
comune ove si richiede l’autorizzazione;
3) di personale stabilmente occupato, con minimo di 3 addetti, con regolare contratto di
lavoro stipulato direttamente con il richiedente l’autorizzazione o con altro soggetto di cui
questi si avvale in forza di un formale contratto nel rispetto della normativa in materia di
impresa e del mercato del lavoro nonché in possesso di requisiti formativi definiti dalle
regioni in attinenza alle specifiche mansioni svolte;
230
ALLEGATO A
4) di un responsabile della conduzione dell’attività di pompe funebri (direttore tecnico), in
aggiunta al personale di cui al punto 3), che deve essere specificatamente individuato,
anche coincidente col legale rappresentante dell’impresa in possesso dei requisiti formativi
specifici definiti dalle regioni. Il direttore tecnico dell’impresa di pompe funebri svolge le
funzioni direttive dell’impresa; assolve alle funzioni di organizzazione del personale, dei
mezzi e delle attrezzature; mantiene i rapporti con i clienti e con il pubblico in
rappresentanza dell’impresa, con titolarità nella negoziazione degli affari della stessa;
coordina il personale; dispone di autonomia organizzativa e gestionale, di potestà
discrezionale nell’espletamento dell’attività di impresa; assicura il rispetto delle norme in
materia di assunzioni, di assicurazioni sociali obbligatorie, di sicurezza nei luoghi di lavoro
e quant’altro necessario per l’esercizio dell’impresa, assumendone le relative
responsabilità. Quando le funzioni di direttore tecnico non siano svolte dall’imprenditore
titolare dell’autorizzazione, trovano applicazione gli articoli 2203 e seguenti del codice
civile;
5) per l’apertura di ulteriori sedi commerciali o filiali, i soggetti esercenti l’attività di
pompe funebri devono disporre per ogni sede di un ulteriore incaricato alla trattazione
degli affari quale responsabile commerciale, in possesso dei requisiti formativi previsti al
comma 4. Il responsabile commerciale mantiene i rapporti con i clienti e con il pubblico in
rappresentanza dell’impresa, con titolarità nella negoziazione degli affari della stessa
assumendone le relative responsabilità.
6) il personale, operatori funebri o necrofori, da impiegare in ciascun servizio funebre
deve essere numericamente pari o superiore a quello stabilito nel piano adottato da
ciascuna impresa per il rispetto delle norme in materia di sicurezza nel lavoro, deve essere
in possesso di requisiti formativi previsti al comma 3) con regolare contratto di lavoro
stipulato direttamente con il richiedente l’autorizzazione o con altro soggetto di cui questi
si avvale in forza di un formale contratto nel rispetto della normativa in materia di impresa
e del mercato del lavoro;
c) i requisiti di cui alle lettere b), punti 1) e 3), si intendono soddisfatti laddove la relativa
disponibilità venga acquisita anche attraverso consorzi o contratti di agenzia o di fornitura
di durata e di contenuto idonei a garantire in via continuativa e funzionale l’espletamento
dell’attività funebre con un altro soggetto in possesso dell’autorizzazione all’attività
funebre o ricorrendo all’attivazione di processi di integrazione come la costituzione di
consorzi con attività esterna di cui agli articoli 2602 e seguenti o di società consortili ai
sensi dell’articolo 2615-ter del codice civile. Tali contratti, regolarmente registrati e
depositati presso il Comune autorizzante, devono esplicitare i compiti dei soggetti che,
attraverso le forme contrattuali suddette, garantiscono in via continuativa e funzionale
l’espletamento dell’attività funebre. Tali compiti devono riguardare l’incassamento, il
trasporto della salma, la sigillatura del feretro. Il trasporto del cadavere con il personale e
con i mezzi necessari verranno espletati unitariamente e direttamente dall’altro soggetto
autorizzato all’attività di pompe funebri o di trasporti funebri nel rispetto delle norme
vigenti in materia di igiene, di sicurezza e del lavoro;
d) i soggetti che intendono garantire il possesso dei requisiti tecnico-organizzativi per
svolgere l’attività funebre ad altri esercenti con contratto di cui al comma 2, lettera c)
dovranno possedere regolare certificazione rilasciata da organi preposti dalla Regione
attestante il possesso dei requisiti di cui al comma 2, lettere a) e b), in base al criterio di
proporzionalità tra il numero dei contratti sottoscritti ed i requisiti posseduti stabiliti dalle
231
ALLEGATO A
Regioni medesime in funzione delle realtà operative e commerciali regionali con un
minimo di 8 addetti necrofori e 2 auto funebri. Analoghe verifiche in ordine ai criteri di
proporzionalità tra i requisiti posseduti e l’attività svolta dovranno essere effettuate anche
nei casi di attivazione di processi di integrazione aziendali, quali consorzi o società
consortili. Inoltre dovranno essere in possesso di regolare certificazione di qualità.
e) I comuni verificheranno annualmente e vigileranno sulla permanenza dei requisiti di
tutti i soggetti di cui al presente articolo.
3. È vietata l’intermediazione nell’attività funebre. Il conferimento dell’incarico per il
disbrigo delle pratiche amministrative, per la vendita di casse ed articoli funebri e per ogni
altra attività connessa al funerale si svolge unicamente nella sede autorizzata o
eccezionalmente, su richiesta degli interessati, presso l’abitazione degli aventi diritto e non
può svolgersi all’interno di strutture sanitarie e socio assistenziali di ricovero e cura,
pubbliche e private, di strutture obitoriali e di cimiteri.
4. Il comune vigila e controlla l’attività di pompe funebri e di trasporto funebre e, in
particolare, del trasporto di salme e di cadaveri, assicura alla famiglia e agli aventi titolo il
diritto di scegliere liberamente nell’ambito dei soggetti autorizzati all’esercizio dell’attività
di pompe funebri. Le Regioni definiranno i criteri di cui al presente articolo entro 24 mesi
dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della presente legge.
5. E’ fatto assoluto divieto di svolgere attività di pompe funebri o di trasporto funebre o di
proporre servizi e forniture concernenti l’attività di pompe funebri o di trasporto funebre e
l’attività marmorea e lapidea cimiteriale:
a) all’interno di strutture sanitarie pubbliche o private, ivi comprese le residenze per
anziani e altre strutture sociosanitarie, socio-assistenziali e residenziali, nonché i relativi
servizi mortuari;
b) all’interno di obitori e dei locali di osservazione delle salme;
c) all’interno dei cimiteri e nei locali comunali.
6. Ogni violazione deve essere tempestivamente segnalata al comune per la irrogazione
delle sanzioni previste.
7. Il personale adibito al servizio pubblico di obitorio o di servizio mortuario delle
strutture sanitarie non può svolgere attività di pompe funebri o di trasporto funebre in
forma diretta o indiretta; tale personale dovrà tenere un comportamento improntato alla
massima educazione e correttezza ed agire con diligenza professionale specifica; in
particolare è fatto divieto di interferire o condizionare in alcun modo la scelta dell’impresa
funebre da parte dei familiari del defunto; accettare eventuali compensi o regalie; svolgere
alcuna opera di propaganda e di commercio.
8. Chi è proprietario, in tutto o in parte, chi ha poteri di responsabilità e chi tratta affari in
un esercizio di attività di pompe funebri o di trasporto funebre, chi opera all’interno di
obitori, depositi di osservazione, servizi mortuari di strutture sanitarie pubbliche e private,
deve possedere gli stessi requisiti di moralità per l’assunzione del pubblico impiego.
9. Presso ciascuna regione è istituito un elenco delle imprese autorizzate dai comuni. Tale
elenco deve essere consultabile con strumenti di ricerca telematici.
10. Nello svolgimento di attività funebre, fatta salva la promozione commerciale e da
ricorrenza mediante oggettistica di valore trascurabile, chiunque propone direttamente o
indirettamente provvigioni, offerte, regali di valore o vantaggi di qualsiasi tenore per
ottenere informazioni tese a consentire la realizzazione di uno o più servizi è punito, se il
fatto non costituisce reato, con la sanzione amministrativa pecuniaria da 25.000 euro a
232
ALLEGATO A
50.000 euro. In caso di recidiva è altresì sospeso da uno a sei mesi, con effetto immediato,
dalla possibilità di ulteriore esercizio dell’attività funebre e per casi particolarmente gravi
può essere disposta la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività.
11. Ogni esercente l’attività di pompe funebri è tenuto a implementare il sistema di
gestione, organizzazione e controllo secondo le disposizioni in materia di responsabilità
amministrativa delle persone giuridiche, delle società e della associazioni anche prive di
personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300».
Articolo 23 (Applicabilità)
1. Le norme di cui alla presente legge si applicano decorsi sei mesi dalla sua
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, ad esclusione di quelle
transitorie di cui ai commi successivi.
2. Le autorizzazioni al commercio e quelle di agenzia d’affari rilasciate prima della entrata
in vigore della presente legge per operare come impresa di pompe funebri vengono
convertite dal comune al momento del rilascio dell’autorizzazione all’esercizio di attività
funebre. Ove non ritirate cessano di avere efficacia decorsi due anni dalla pubblicazione
della presente legge in Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.
3. Le autorizzazioni all’esercizio di attività di pompe funebri, comunque denominate,
rilasciate in forza di leggi regionali emanate precedentemente alla data di approvazione
della presente legge permangono nella loro validità, purché i requisiti operativi siano
almeno pari a quelli fissati in sede nazionale. Qualora presentino requisiti inferiori cessano
di avere efficacia decorsi due anni dalla pubblicazione della presente legge in Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana o al momento della loro sostituzione con nuova
autorizzazione adeguata alle disposizioni della presente legge nonché di quelle regionali di
sua attuazione.
233
ALLEGATO B
REGIONELOMBARDIA
L'entrata in vigore della Legge Regionale n° 22/03 e del
Regolamento Regionale n° 6/04 (art.32, comma 6) rende
obbligatorio il possesso di requisiti formativi per le varie
figure impegnate nell'attività funebre.
234
ALLEGATO B
OPERATORE FUNEBRE
n° 12 ore di Formazione Teorica (MODULO 1) e, se al 10/02/2005 non aveva maturato più
di due anni di esperienza (dimostrabile con certificazione di rapporto di lavoro o
equipollente), 12 ore di sperimentazione (MODULO PRATICO 1).
FORMAZIONE TEORICA - MODULO 1
PROGRAMMA
(Regolamento Regionale n° 6/04, all.1)
ELEMENTI NORMATIVI DI BASE
* Inquadramento storico
* Innovazioni della Legge 22/03
NOZIONI IGIENICO-SANITARIE NELL'AMBITO DELL'ATTIVITA' FUNEBRE
* Norme regionali di riferimento
* DL 626/94
* Rischio biologico e DPI
* Movimentazione carichi
CARATTERISTICHE DELLE CASSE E MODALITA' DI CONFEZIONAMENTO
* DPR 285/90 vincoli alla costruzione dei cofani funebri
* Regolamento Regionale: vincoli alla costruzione dei cofani funebri
* Tipologie legni, tecniche costruttive e verniciatura
* Biodegradabilità e tecniche di controllo sulla regolarità dei cofani
RAPPORTO CON I DOLENTI E CON IL PUBBLICO
* Ruolo professionale
* La relazione d'aiuto
MODULO TEORICO 1 E' OBBLIGATORIO PER:
Operatore funebre
Addetto al trasporto
Addetto alla trattazione affari
Direttore Tecnico
235
ALLEGATO B
ADDETTO AL TRASPORTO
n° 24 ore di Formazione Teorica (MODULO 1+ MODULO 2) e, se al 10/02/2005 non
aveva maturato più di due anni di esperienza (dimostrabile con certificazione di rapporto di
lavoro o equipollente), 12 ore di sperimentazione (MODULO PRATICO 1).
FORMAZIONE TEORICA - MODULO 2
PROGRAMMA
(Regolamento Regionale n°6/04)
ELEMENTI DI LEGISLAZIONE IN MATERIA FUNERARIA
* Finalità della Legge e adempimenti conseguenti al decesso
* Osservazione e trattamento del cadavere
* Il trasporto funebre
* La cremazione
TRASPORTO FUNEBRE E VERIFICHE DELL'INCARICATO DEL TRASPORTO
* Il trasporto funebre
* Erogazione del servizio
* L'addetto al trasporto funebre
* Adempimenti e modulistica
RAPPORTI CON ASL E COMUNI
* Competenze delle ASL e relativi adempimenti
* Competenze dei Comuni e relativi adempimenti
* Competenze degli Ufficiali di Stato Civile e relativi adempimenti
MODULO TEORICO 2 E' OBBLIGATORIO PER:
Addetto al trasporto
Addetto alla trattazione affari
Direttore Tecnico
236
ALLEGATO B
DIRETTORE TECNICO/
ADD. TRATTAZIONE AFFARI
n° 44 ore di Formazione Teorica (MODULO 1+ MODULO 2 + MODULO 3) e, se al
10/02/2005 non aveva maturato più di cinque anni di esperienza (dimostrabile con
certificazione di rapporto di lavoro o equipollente )16 ore di sperimentazione (MODULO
PRATICO 2).
FORMAZIONE TEORICA - MODULO 3
PROGRAMMA
(Regolamento Regionale n° 6/04, all.1)
ELEMENTI DI LEGISLAZIONE IN MATERIA FUNERARIA-SPECIALISTICA
* La normativa: l'attività funebre
* La normativa: l'attività disgiunta
* La normativa: sala del commiato
* La normativa: problematiche cimiteriali
I CONTRATTI DI LAVORO E LE VARIE FORME DI COLLABORAZIONE
* Tipologie di contratto di lavoro
* Tipologie di lavoro previste dal CCNL del settore
* Disciplina comune del rapporto individuale di lavoro: orario
* Disciplina comune del rapporto individuale di lavoro: rapporti in azienda
ELEMENTI DI GESTIONE AMMINISTRATIVA
* La scelta del tipo societario
* Sostanziali differenze tra società di capitali e società di persone
* Bilancio d'esercizio: funzione, struttura, classificazione
* La normativa fiscale; cenni sulle principali categorie di costi
* Basilea 2: le nuove disposizioni in tema di ricorso al finanziamento bancario
* Il concetto di marketing
* Il marketing mix
* Il ruolo della comunicazione: processi e strumenti
* Comunicazione e qualità
237
ALLEGATO B
RAPPORTI CON I DOLENTI E CON IL PUBBLICO IN RELAZIONE ALLA
TRATTAZIONE DEGLI AFFARI E DEONTOLOGIA PROFESSIONALE
* Le emozioni
* Il processo di elaborazione del lutto
* Gli scenari del morire
MODULO TEORICO 3 E' OBBLIGATORIO PER:
Addetto alla trattazione affari
Direttore Tecnico
238
ALLEGATO B
MODULO PRATICO 1
n° 12 ore
Il MODULO PRATICO 1 è obbligatorio per l’ OPERATORE FUNEBRE e per
L’ADDETTO AL TRASPORTO se al 10/02/2005 non avevano maturato più di due anni di
esperienza (dimostrabile con certificazione di rapporto di lavoro o equipollente).
PROGRAMMA
(Regolamento Regionale n°6/04, all.1)
PROCEDURE NEL TRATTAMENTO DELLE SALME E DEI CADAVERI
* Introduzione storica e riferimenti anatomici
* Modifiche del cadavere
* Toilette mortuaria
* Tanatoestetica
PREPARAZIONE FERETRO
* Descrizione del feretro: accessori, maniglie, piedini, imbottitura
* Preparazione del feretro da inumazione, cremazione, tumulazione in loculo aerato
* Preparazione del feretro per tumulazione in loculo a tenuta stagna (predisposizione cassa
di zinco)
* Chiusura feretro
MEZZI FUNEBRI, RIMESSE, SISTEMI DI SANIFICAZIONE E DISINFEZIONE
* Descrizione e presentazione auto funebre, auto recupero salme, carro porta corone
* Illustrazione sistemi di sicurezza delle varie tipologie di auto
* Intervento di sanificazione dell’automezzo
* Autorimessa, impianti di sicurezza, autolavaggio, impianti di depurazione delle acque
239
ALLEGATO B
MODULO PRATICO 2
n°16 ore
Il MODULO PRATICO 2 è obbligatorio per l’ ADDETTO TRATTAZIONE AFFARI e il
DIRETTORE TECNICO se al 10/02/2005 non avevano maturato più di cinque anni di
esperienza (dimostrabile con certificazione di rapporto di lavoro o equipollente).
PROGRAMMA
(Regolamento Regionale n°6/04, all.1)
RITUALITA’: PRINCIPALI MODALITA’ DI SVOLGIMENTO DELLE DIVERSE
FORME DI
ESEQUIE (RELIGIOSE E LAICHE)
* La Morte nelle religioni: lettura antropologica
* La ritualità funebre tradizionale: significati e simboli
* La ritualità funebre nelle religioni monoteistiche
* La ritualità laica
ACQUISIZIONE DEL SERVIZIO FUNEBRE: RAPPORTO CLIENTE/PRODOTTO
* Introduzione alla deontologia per le imprese di onoranze funebri
* Gestione della relazione con il Cliente: l’atteggiamento positivo
* Stratificazione dei Clienti
* Gestione del processo di vendita
RAPPORTO CON IL CLIENTE: SIMULAZIONE PRATICA
* Gestione del processo di vendita
* Gestione dell’erogazione del servizio
* Innovazione di prodotto
* Verso il miglioramento continuo: analisi della soddisfazione del Cliente
ESPLETAMENTO PRATICHE AMMINISTRATIVE
* Normativa per “l’agenzia di affari” (ex art.115 Testo Unico di PS)
* Tenuta del libro degli affari
* Registrazione dati dell’interessato
* Tutela dei dati
240
ALLEGATO C
Esempio di funerale laico tratto dal libro Funerali senza dio, Manuale pratico per la
celebrazione di funerali non-religiosi
di Richard Brown e Jane Wynne Willson
Si tratta del funerale di una donna morta per cause naturali quando aveva più di 75 anni.
La chiameremo Giuseppina Tremonti. Era il perno di una famiglia ben unita anche se nel
corso della sua vita, aveva passato dei momenti difficili. La cerimonia si tiene in una sala
del commiato, prima della cremazione.
Musica all’apertura
Tchaikovsky, Sesta sinfonia, “La Patetica”
Parole introduttive
Siamo qui riuniti per celebrare e per onorare la vita di Giuseppina Tremonti, conosciuta da
tutti come Pinella, tristemente scomparsa all’età di 77 anni. Per rispettare le sue idee,
questa sarà una cerimonia non-religiosa e, come celebrante laico, sono stato chiamato a
condurla. Sentirete della musica e delle letture, scelte per Pinella dai suoi cari, e un elogio
della sua vita che ho scritto dopo avere parlato di lei con i familiari. Ci sarà un momento di
riflessione individuale nella cerimonia quando, chi lo vorrà, potrà offrire una preghiera
silenziosa.
Riflessioni sulla vita e sulla morte
Anche se ognuno di noi esprime un’idea diversa della morte, quando muore una persona
cara condividiamo gli stessi sentimenti di tristezza e di perdita. Condividiamo allo stesso
modo la ricerca e il bisogno di rassicurazione e di conforto. Con questa cerimonia, in parte
vogliamo dare risposta a queste esigenze riconoscendo il valore della vita di Pinella e
ricordando i suoi pregi e le sue azioni. Questa poesia di un autore sconosciuto riassume
tutto ciò:
Se n’è andata.
Puoi versare lacrime perché se n’è andata
oppure puoi sorridere perché è vissuta.
Puoi chiudere gli occhi e pregare che torni
oppure puoi aprire gli occhi
e vedere tutto ciò che ha lasciato.
Il tuo cuore può essere desolato
perché non la puoi più vedere
o puoi essere pieno dell’amore che hai condiviso
Puoi voltare la schiena al domani e vivere di ieri
oppure puoi essere sereno per il domani a causa di ieri.
Puoi ricordar che se n’è andata
oppure puoi tenere caro il suo ricordo
e farlo rivivere nel tuo cuore.
Puoi piangere
e chiudere la mente, svuotarti e tornare indietro
241
ALLEGATO C
oppure puoi fare ciò che avrebbe voluto lei:
sorridi, apri gli occhi, ama e vai avanti.
L’elogio
Pinella è nata a Torino e lì è cresciuta durante i difficili anni trenta. Suo padre - emigrato
dal Sud e operaio - era spesso disoccupato e così la famiglia visse frugalmente. Essendo la
più grande dei fratelli e delle sorelle, Pinella dovette presto assumere il compito in famiglia
di aiutare sua madre a badare ai più piccoli, soprattutto quando la madre fu costretta a
lavorare. Gino nacque quando Pinella aveva 4 anni e, in seguito, nacquero Antonio, Sergio
e Franca. Franca ricorda come Pinella fosse una sorella, un’amica ed una mamma tutto
insieme, e racconta come si divertiva da piccola ad aiutare Pinella a preparare la cena.
Gli anni della guerra furono difficili per tutti; e quando il padre si unì ai partigiani, le
responsabilità familiari di Pinella crebbero. Dopo la guerra, ottenne un lavoro in una
piccola fabbrica di parti meccaniche e lì conobbe Salvo. Fu Maria Catena, la sua più
vecchia amica, a farli conoscere. Pinella e Salvo avevano molto in comune e il loro
rapporto fiorì. I preparativi per il matrimonio erano già in fase avanzata quando, nel 1949,
il padre di Pinella morì e i fidanzati furono costretti a posticipare le nozze per aiutare la
madre. Pinella e Salvo si sposarono finalmente nel 1951 quando Salvo era ormai diventato
sindacalista. Quando non lavoravano, amavano passare il tempo libero fuori, nei boschi, in
campagna o in montagna. La passione di Pinella per la bicicletta risale a quei giorni felici.
Nel 1953 nacque Livia e l’anno successivo, il fratello Dario. La vita cambiò
necessariamente. Pinella trascorreva più tempo in casa dove, spesso, era in compagnia
dell’amica Maria Catena, anche lei ormai sposata e con bambini piccoli. Mai venne meno
l’affetto reciproco, ma spesso vi erano delle discussioni accese tra le due donne a causa di
divergenze politiche e religiose. La tragica scomparsa del marito Salvo in un incidente
stradale, nel 1961, lasciò Pinella sola a dovere crescere la famiglia. Non fu un’impresa
facile. Il coraggio e la forza della donna con le abitudini acquisite durante l’infanzia e
soprattutto la sua capacità affettiva le vennero in aiuto. A tutt’oggi infatti i figli, a parte
l’evidente mancanza del padre, riferiscono di non aver mai percepito un drammatico
cambiamento nelle loro condizioni di vita. Anche se non potevano avere vestiti alla moda,
in casa non mancava mai nulla di materiale e si trovava sempre come fare fronte alle varie
esigenze. La frugalità e la capacità organizzativa, combinate con un grande senso
dell’orgoglio, hanno permesso a Pinella di mantenere uno stile di vita dignitoso nonostante
i pochi mezzi disponibili. La famiglia, quando poteva, passava molto del suo tempo fuori
in campeggio; quando invece era a casa ci si dedicava allo studio. Pinella aveva infatti
grandi ambizioni per i suoi figli. I momenti di soddisfazione non mancarono quando Livia
riuscì a diplomarsi maestra elementare e, in seguito, Dario divenne perito tecnico.
Riservata, ferma ma mai invadente, anche quando i figli si sposarono e formarono le loro
famiglie, Pinella era sempre disponibile fosse per un consiglio o per una ricetta culinaria.
Era il perno della famiglia e i nipotini Giuliano, Fabrizio ed Elena volevano stare spesso
con lei per sentire i suoi racconti dei tempi passati.
La gente le dava fiducia e lei la ricambiava. Era affidabile, manteneva sempre le promesse
e dava sempre una mano a chi ne aveva bisogno. Teneva nascoste le sue incertezze e
trovava sempre molto piacere nella famiglia e nella natura che la circondava. La sua risata
era contagiosa e, con una mano alzata all’altezza del fronte, esprimeva tutta la sua gioia di
vivere. Rimarrà così per sempre nella memoria e nei cuori di chi la conosceva.
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ALLEGATO C
Concediamoci adesso un momento per riflettere sui ricordi felici che ognuno di noi ha di
Pinella e sui momenti lietamente passati insieme. Se c’è qualche credente, può utilizzare
questo momento per le sue preghiere private.
Musica
Mascagni- Intermezzo dalla Cavalleria Rusticana
Il momento del commiato
È giunto il momento di salutare Pinella per l’ultima volta. Chi se la sente si metta in piedi.
E così la morte ha preso la nostra cara e amata Pinella. Consegniamo le sue speranze e i
suoi ideali alle nostre memorie e alle nostre intenzioni; consegniamo il suo amore ai nostri
cuori; il suo spirito libero è da molto tempo tra di noi e il suo corpo lo consegniamo alla
sua fine naturale.
Ricordati di me
quando non potrai più raccontarmi, giorno per giorno,
del futuro nostro progettato insieme:
Solo Ricordati di me. Capirai
che sarà troppo tardi per consigli o desideri.
Però, se dovessi dimenticarmi per un pò
e dopo ricordarti di nuovo di me, non affliggerti:
perché se il buio e la corruzione della carne lasciano
un vestigio delle idee che una volta avevo,
sai, è meglio che ti dimentichi e sorridi
che tu ricordi e t’intristisci.
(Christina Rossetti)
Parole di chiusura
La famiglia di Pinella vuole ringraziarvi per essere venuti qui oggi per commemorarla. Se
vorrete fare una donazione in beneficenza, in ricordo di lei, potete o lasciarla in fondo
all’aula oppure inviarla direttamente alla Fondazione per la ricerca contro il cancro, in
nome suo. Pinella continuerà a vivere attraverso di voi. La sua eredità genetica proseguirà
nei suoi figli e nei suoi nipoti; in voi stessi e negli altri, riconoscerete i suoi modi e il suo
aspetto e sarete consapevoli dell’influenza benefica che lei ha esercitato sui vostri pensieri
e sulle vostre azioni. Così continuerà a fare parte delle vostre vite quotidiane. Non
perderete mai il conforto di avere conosciuto Pinella come madre, come sorella, come
amica, come nonna.
Chiudo la cerimonia con queste parole di Cicerone:
Anche quando è morta, la nostra amica è ancora viva. È ancora viva perché i suoi amici
continuano a ricordarla, ad averla cara. Questo significa che comunque vi è una gioia
anche nella sua morte, perché rende nobile l’esistenza di quelli che lascia.
Musica
Billy Joel, Just the way you are dal CD Best of Billy Joel.
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ALLEGATO C
Esempio di funerale laico tratto dal libro Funerali senza dio, Manuale pratico per la
celebrazione di funerali non-religiosi
di Richard Brown e Jane Wynne Willson
Questa è una cerimonia per un bambino di 9 anni, morto in seguito ad un incidente
banale. Lo chiameremo Davide Gentile. Al funerale, oltre ai parenti, erano presenti anche
tanti compagnetti di classe. La cerimonia comprende la lettura di una lettera al fratello
morto scritta dalla sorella tredicenne. La formulazione del momento di commiato formale
è diversa in questo funerale, in quanto la bara è rimasta in vista per tutta la cerimonia ed
è stata portata via solo alla fine per una breve cerimonia al cimitero prima della
sepoltura.
Musica in apertura
Negrita Ho imparato a sognare dal CD XXX
Parole introduttive
Abbiamo sentito una delle canzoni preferite di Davide Gentile, morto giovedì scorso al
policlinico per complicazioni in seguito ad una brutta caduta dalla bicicletta. Per due giorni
strazianti ha lottato tra la vita e la morte, ma alla fine non ce l’ha fatta. Siamo qui oggi per
onorare la sua vita, e per partecipare al cordoglio della famiglia. A richiesta dei suoi
genitori, Alberto e Susanna, e in sintonia con le loro idee di vita, la nostra cerimonia sarà
non-religiosa: ascolteremo della musica e delle letture, scelte per Davide dalla sua
famiglia, e ricorderemo la sua breve vita prima di dargli il nostro ultimo saluto.
Riflessioni sulla vita e sulla morte
La morte di un bambino tocca sempre tutti. Non possiamo negare lo sgomento che si sente
davanti alla scomparsa di qualcuno così giovane; e quando a questi sentimenti si aggiunge
anche il fatto che la perdita di Davide era totalmente inattesa, come un fulmine a ciel
sereno, sentiamo ancora di più sia lo smarrimento che la rabbia. Cerchiamo delle risposte,
ma non ce ne sono. Proviamo ad incolpare qualcuno- ma in realtà nessuno può avere colpa
per la tragica catena di incidenti casuali che lo ha portato via. In alcuni momenti vorremmo
urlare all’universo che non è giusto- perché non lo è- mentre in altri momenti cadiamo
senza parole in un mutismo causato da un dolore talmente intenso e personale che diventa
difficile da esprimere. Sopravviene allora un’enorme tristezza al pensiero di quello che
avrebbe potuto essere, ma che adesso non sarà perché Davide non è più qui. In questi
giorni, Sabrina ha scritto una lettera a suo fratello. Mi ha chiesto di condividerla con Voi.
Eccola.
Caro fratello,
ti scrivo come se potessi sentirmi, anche se so che non è così. Mi pare così
strano, pensare che non potrai sentirmi mai più, che non potremo più né
litigare o ridere insieme, che le scemenze che dicevi sono finite per sempre.
Non ci saranno più le partite al videogioco, che vincevi sempre anche se
resto comunque convinta che baravi. Eri sempre più bravo di me alle cose
elettroniche. E non capivi niente dei film che comunque volevi vedere con
me. Adesso non li capirai. Non più, questo è finito. Mi pare cosi strano,
pensare che non potrai mai più sentirmi, e sai perché? Perché io ti sento
244
ALLEGATO C
sempre. Ti sento sempre con me. Sento la tua voce con i tuoi racconti che
non finiscono mai, alzo gli occhi e ti vedo seduto nell’angolo del soggiorno al
computer. Sento la tua risata nei momenti più strambi della giornata, e mi
viene da piangere. Nove anni sei stato con me, ed eri un bravo fratello, anche
se non sempre me ne rendevo conto. Ciao fratellino. Mi mancherai tanto.
TVB: ti voglio bene. Sabrina.
La profondità del dolore di oggi misura la forza del vostro amore, il più grande dei tesori
umani. Fino a quando esiste questo amore, Davide non è perso anche se non è più
fisicamente qui. É nei vostri cuori, dove resterà per sempre, è nei vostri ricordi, e finché
penserete a lui resterà per sempre un membro della famiglia, l’amico, il compagno di
scuola. Gli anni passeranno e le circostanze delle vostre vite cambieranno. Ci saranno
momenti in cui la presenza di Davide sarà meno forte, anche se mai scomparirà del tutto.
Ci saranno invece altri momenti, all’inizio duri da sopportare, in cui il suo ricordo sarà
molto più forte. Ma dobbiamo dire con forza che il dolore di averlo perso non cancella la
gioia di averlo avuto con voi.
L’elogio
Quando Davide è nato nove anni fa, sua sorella Sabrina aveva appena compiuto quattro
anni e la famiglia viveva in Puglia. Il trasferimento qui a Milano, per motivi di lavoro del
padre Alberto, sarebbe avvenuto tre anni dopo, ed è qui che Davide ha passato la maggior
parte della sua vita.
Da tanto tempo Sabrina aveva desiderato un fratellino, e finalmente lo aveva avuto. Così
sin dai primi momenti Sabrina aiutava i genitori a badare al piccolo Davide, e i due fratelli
crescevano insieme, sereni e felici, giocando ridendo e anche litigando come succede a
tutti fratelli. Alberto mi ha fatto vedere delle fotografie della famiglia, soprattutto delle
vacanze che hanno passato ogni anno in Puglia; e in queste foto si vede sempre il simpatico
sorriso del giovane Davide, e l’atteggiamento protettivo ma sorridente di sua sorella. Tutti
mi hanno raccontato della risata contagiosa di Davide, e anche a scuola era conosciuto per
il suo senso dell’umorismo e per la sua facilità nel fare subito amicizia. Davide aveva
frequentato la scuola materna, e poi la scuola elementare, vicino casa. Era sempre stato un
ragazzino vivace e generoso e aveva tanti amici. I suoi compagni di scuola lo ricordano per
le sue battute spiritose, per la disponibilità ad aiutare tutti e perché era il più bravo nei
giochi in palestra: era sempre il primo a essere scelto nei giochi di gruppo. Le maestre
dicono che la classe non sarà più la stessa senza le sue risate e la sua allegria. Amava lo
sport: era cintura gialla di karate, ma gli piaceva qualunque
gioco di movimento. Era anche un campione di videogiochi. A casa era affettuoso con tutti
e adorava i nonni.
Ho tracciato brevemente la vita di Davide, ma ognuno di voi avrà ricordi diversi dei tempi
e delle cose fatte insieme. Staremo adesso in silenzio per alcuni momenti, mentre
ascolteremo una musica che piaceva tanto a lui. Insieme alla musica, cercate i ricordi belli
di Davide, e teneteli stretti nei vostri cuori. Chi di voi avesse una fede religiosa, potrà usare
questo momento di riflessione per una preghiera privata.
Musica
Ennio Morricone, Poverty dal film C’era una volta in America.
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ALLEGATO C
Il momento del commiato
La vita di Davide è giunta al termine, e adesso è venuto il momento per salutarlo. Chi se le
sente, si metta in piedi.
Con immenso affetto abbiamo ricordato e onorato la vita di Davide Gentile, figlio, nipote,
fratello e amico. Adesso, in questo momento solenne, ci congediamo dal suo corpo e
consegniamo la sua memoria ai nostri cuori. Parole di chiusura Alberto, Susanna, Sabrina:
siete tutti e tre grandi, saggi e forti a sufficienza per riconoscere che adesso bisogna andare
avanti. Sapete pure che nella vita, come in ogni viaggio, ci saranno momenti dolorosi in cui
guarderete indietro. Per superare questi momenti difficili, avrete non solo il sostegno delle
vostre famiglie e dei vostri amici, ma anche l’aiuto e il sostegno dell’uno per l’altro.
A tutti, dico: spero che la partecipazione a questa cerimonia vi abbia portato un po’ di
consolazione. Siamo soggetti alla legge naturale e al caso, ma il nostro umano sentire ci dà
il potere di non soccombere. In parte comprendiamo, in parte controlliamo e in parte
subiamo il corso delle nostre vite. Condividendo pensieri e sentimenti ci sosteniamo l’un
l’altro. Vivendo e amandoci l’un l’altro, diamo valore e senso al nostro destino. Adesso la
nostra cerimonia è giunta quasi al termine. Fra un momento, uscirete da qui e tornerete al
vostro quotidiano. Prima di questo, comunque, siederemo alcuni momenti ad ascoltare una
canzone del Sud Africa, una delle canzoni preferite di Davide mentre pensiamo a lui.
Anche se lui andrà via alla fine della canzone, tenetelo stretto nei vostri pensieri: non è
necessario separarvi da lui frettolosamente. Parlate spesso di lui, raccontatevi le cose che
diceva e le battute che faceva; come avviene in questo momento, continuate anche in
futuro a trovare piacere nel suo ricordo.
Musica finale
Johnny Clegg, Thameka dal CD One world.
Alla conclusione della musica, la bara è stata portata via, con applauso.
In seguito, al cimitero
Per ogni cosa c’è il suo momento,
il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
Un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
Un tempo per nascere e un tempo per morire,
Per ogni cosa c’è il suo tempo.
Amici- qui, in questo atto finale, addolorati ma senza timore, con affetto e con amore,
affidiamo il corpo di Davide alla sua fine ultima. Non ne ha più bisogno, e resterà qui in
pace mentre ognuno di noi terrà caro il suo ricordo nel calore del proprio cuore.
E alla fine, resteranno parole d’amore.
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ALLEGATO C
Esempio di funerale laico tratto dal libro Funerali senza dio, Manuale pratico per la
celebrazione di funerali non-religiosi
di Richard Brown e Jane Wynne Willson
Presentazione di un rito generico, poco personalizzato
Settima cerimonia: rito generico
Musica
Musica seria mentre le persone arrivano.
Parole di apertura
Siamo qui per onorare e celebrare la vita di NOME COGNOME. In sintonia con quello che
lui stesso / lei stessa credeva, questa sarà una cerimonia non-religiosa, nella quale
ricorderemo e celebreremo insieme la vita dell’amico / amica che ci ha lasciato e infine gli
/ le daremo il nostro commiato. Siete qui oggi perché siete stati toccati dalla vita di
NOME: spero che alla fine della cerimonia sentirete una maggiore serenità per avervi
partecipato e per avere espresso il vostro cordoglio in compagnia delle altre persone che lo
/ la conoscevano.
Riflessioni sulla vita e sulla morte
La morte è giunta per il vostro amico/a NOME, come un giorno giungerà anche per noi.
Non c’è da temerla: tutto ciò che vive un giorno morirà. La morte è poca cosa rispetto alla
gioia e al privilegio della vita. Tutti gli esseri viventi sono soggetti alla morte: questo è alla
base della vita. Attraverso miliardi e miliardi di morti, l’Umanità si è evoluta nei corso dei
millenni e noi siamo oggi i portatori di questa comune eredità. In più, come singoli
individui, ognuno di noi ha un contributo personale da offrire, ognuno per il valore della
propria vita. Comunque, quando una persona cara muore sentiamo tristezza per la perdita.
Anche questi sentimenti sono naturali. L’unicità di ogni individuo è alla base di questo; in
ogni tempo non c’è stata e mai ci sarà una persona come lui/lei. Ma lui/lei vive ancora
nelle vostre memorie e nei ricordi e, anche se non più visibile, rimarrà sempre una parte di
chi gli/le voleva bene, continuerà a vivere attraverso l’influenza che ha esercitato su di voi
e il ruolo speciale che ha avuto nelle vostre vite. Non c’è più la gioia di avere NOME ma la
gioia di averlo/la conosciuto/a lenisce il dolore per averlo/la perso/a, una gioia che si
contrappone al dolore della sua perdita. Una gioia di cui si diventa specialmente
consapevoli in questi momenti, quando l’immagine della persona vivente si fissa nei Vostri
cuori e quando ricordate le qualità personali che la resero unica. La sua influenza perdurerà
nelle tracce lasciate dal suo carattere e dalle cose che ha fatto. La ricorderemo come una
presenza viva e vitale e questo ricordo rinfrancherà i nostri cuori nei momenti difficili.
Come scrisse il poeta Christina Rossetti.
Ricordati di me quando me ne sarò andata,
Andata lontano nella terra del silenzio:
Quando tu non potrai più tenermi per mano,
Né io girarmi per restare.
Ricordati di me quando non potrai più raccontarmi,
giorno per giorno, del futuro nostro progettato insieme:
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Solo ricordati di me.
ALLEGATO C
Capirai che sarà troppo tardi per consigli o desideri.
Però, se dovessi dimenticarmi per un pò
e dopo ricordarti di nuovo di me, non affliggerti:
perché se il buio e la corruzione della carne
lasciano un vestigio delle idee che una volta avevo,
sai, è meglio che ti dimentichi e sorridi
che tu ricordi e t’intristisci.
L’elogio, se c’è, sarà inserito qui.
Adesso staremo in silenzio per alcuni secondi per pensare ai momenti trascorsi con NOME
quando era in vita. Ricordate i tempi migliori e siate lieti per avere vissuto quei momenti
con lui / lei. Se qui c’è qualcuno con una fede religiosa, potrà usare questo tempo per una
preghiera silenziosa.
Musica
Musica di riflessione mentre tutti stanno in silenzio.
Il momento del commiato
È arrivato il momento di congedarci da NOME. Chi se la sente, si metta in piedi per il
saluto finale.
Per ogni cosa c’è il suo momento,
il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per piantare
e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
Un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
Un tempo per nascere e un tempo per morire,
Per ogni cosa c’è il suo tempo.
Chi crede che morire pone fine alla personalità cosciente guarda la stessa morte in faccia
con serenità e con dignità. Il dolore di avere perso una persona cara non può cancellare la
gioia di averla avuto con noi. Così, consegniamo il sereno ricordo di NOME ai nostri cuori
e, con rispetto ma in tristezza, con amore e con gratitudine, consegniamo il suo corpo alla
sua fine ultima.
(pausa)
Parole di chiusura
Tra poco, usciremo da qui e ognuno rientrerà nel proprio mondo quotidiano. Tenete
NOME stretto/a nei vostri pensieri: non è necessario separarvi da lui / lei frettolosamente.
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ALLEGATO C
Parlate spesso di lui / lei, raccontatevi le cose che diceva e le battute che faceva; come
avviene in questo momento, continuate a trovate piacere nel suo ricordo.
Musica finale: solenne ma vivace
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RINGRAZIAMENTI
Un ringraziamento particolare va al mio Relatore Gianmarco
Navarini per la sua preziosa guida, per gli insegnamenti accademici
e
di
vita,
per
le
lunghe
chiacchierate,
i
consigli
e
l’incoraggiamento nei momenti di sconforto, per il sostegno
costante e per avermi riportata nel mondo della ricerca, un
mondo che stava diventando sempre più lontano.
Grazie al mio Correlatore Simone Tosi per i suggerimenti e per aver
dimostrato un sincero interesse verso il mio lavoro di ricerca.
Un ringraziamento speciale ai “guardiani” del cimitero di Greco,
Bruzzano e del cimitero Maggiore e, in modo particolare, a Pino:
grazie per l’indispensabile servizio che offrite alla comunità
affrontando ogni giorno la morte con coraggio e dignità.
Grazie agli impresari di pompe funebri e alla Federazione del
Comparto Funerario Italiano che hanno sottratto tempo prezioso
al proprio lavoro per concedermi splendide e intense interviste.
Grazie al titolare della Casa funeraria e ai suoi operatori funebri
e soprattutto al “responsabile” per la disponibilità e la pazienza
avuta con una ricercatrice “ficcanaso” è un po’ troppo curiosa.
Grazie all’ex Assessore ai servizi funebri Stefano Pillitteri per
l’intervista gentilmente concessami.
Grazie alla classe di scatenati “sociolgi” per aver reso questi due
anni di università divertenti e indimenticabili, per aver condiviso
ansie e paure accademiche e non, e soprattutto per avermi
regalato nuove e sincere amicizie. Un ringraziamento speciale va a
quelle due matte di Federica ed Eleonora (ma quante ne abbiamo
combinate insieme?), a Elisa, Franco, Manu e Fra per aver vissuto
250
insieme lo sprint finale pre-laurea, a Zineb, Dani, Francesco, Teo,
Sara, Martina….ragazzi vi voglio bene !!!
Un doppio ringraziamento va a Martina, al suo Matteo e ai miei nipoti
a quattro zampe per avermi accolto in casa loro in un momento
difficile della mia vita. Grazie alla piccola Stella che non c’è più
per averci insegnato l’amore incondizionato.
Grazie a Giorgia ed Elena, la mia nuova insolita famiglia! In poco più
di due mesi ne abbiamo combinate di tutti i colori…non oso
immaginare cosa accadrà! Grazie ragazze per avermi fatto sentire
subito a casa e grazie soprattutto per le notti insonni che mi
regalate ogni giorno… vi voglio bene!
Grazie alle mie amiche storiche Adriana, Maria, Romina, Filomena, a
bimbo Giuseppe e al mio dolce e romanista fratellino Valerio…
grazie per esserci sempre. Vi voglio bene da morire (eheh…ci stava!)
Un grazie a Carlo, al mio amico di una vita che mi hai insegnato il
valore del mantenersi autentici, liberi ma soprattutto consapevoli
di se stessi… senza te non avrei dato vita a questo lavoro di tesi.
Tambien
Il ringraziamento più importante va a mamma, papà e Debora. Siete la
mia vita.
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