antonio tagliaferri

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antonio tagliaferri
IL PROGETTO DISEGNATO-2
ANTONIO TAGLIAFERRI
(1835-1909)
L’architettura come romanzo della storia
AAB EDIZIONI
ORDINE DEGLI ARCHITETTI DI BRESCIA
ORDINE DEGLI INGEGNERI DI BRESCIA
COMUNE DI BRESCIA
PROVINCIA DI BRESCIA
ASSOCIAZIONE ARTISTI BRESCIANI
IL PROGETTO DISEGNATO-2
ANTONIO TAGLIAFERRI
(1835-1909)
L’architettura come romanzo della storia
rassegna a cura di
Valerio Terraroli
galleria aab - vicolo delle stelle, 4 - Brescia
16 gennaio - 3 febbraio 1999
feriali e festivi 15,30 -19,30
lunedì chiuso
AAB EDIZIONI
Indice
pag. 3 Prefazione
pag. 5 Antonio Tagliaferri,
Progetti e restauri all’insegna della cultura tardoromantica
pag. 23 Biografia di Antonio Tagliaferri
pag. 25 Illustrazioni
pag. 55 Schede
2
Prefazione
L’occasione di presentare al pubblico, dopo molti anni, una scelta ristretta,
ma emblematica dei disegni architettonici, degli acquerelli e dei dipinti di Antonio Tagliaferri offre la possibilità non solamente di rileggere il percorso professionale e artistico del più significativo e creativo architetto eclettico bresciano
del secondo Ottocento, ma di riscoprire le atmosfere, il gusto, la qualità del disegno della cultura tardoromantica in area lombarda.
La mostra è distribuita secondo la scansione cronologica dei progetti architettonici e dei cantieri avviati da Antonio Tagliaferri a partire dal 1867 fino alla
morte, avvenuta nel 1909, ed è arricchita da alcuni taccuini di viaggio e album
di repertorio, dipinti e acquerelli raffiguranti ambienti e scene di genere secondo atmosfere e stili storici diversi ed un ritratto postumo, ma intenso, dell’amatissimo scultore Domenico Ghidoni, proprio per restituire al pubblico l’immagine di Tagliaferri non solo come abilissimo progettista e funambolico inventore di architetture in stile, ma come uomo di cultura dagli interessi ad ampio
spettro.
Si è ritenuto opportuno per l’occasione riproporre integralmente il saggio
e le schede (relative ai progetti presentati in mostra) predisposti a suo tempo
per il mio volume Antonio e Giovanni Tagliaferri. Due generazioni di architetti
in Lombardia tra Ottocento e Novecento, Brescia 1991 e qui ringrazio l’Editrice Morcelliana e l’avvocato Stefano Minelli per averne concesso la parziale ripubblicazione.
Valerio Terraroli
dicembre 1998
3
Antonio Tagliaferri (1835-1909)
Progetti e restauri all’insegna della cultura tardoromantica
1. Brescia negli anni Settanta dell’Ottocento tra demolizione e conservazione
Le vicissitudini economico-politiche della Lombardia e dell’ex
Lombardo-Veneto, immediatamente a ridosso delle guerre d’indipendenza e ancora intrise di idee risorgimentali, pur proiettandosi nelle varie realtà locali in
modo diversificato, perseguono un unico intento: trasformare e modernizzare le
strutture urbane e di conseguenza gli elementi architettonici in esse contenuti,
al fine di dare da una parte un impulso nuovo e possibilmente inarrestabile allo
sviluppo della città moderna e industriale, dall’altra creare condizioni di vita
adatte ai nuovi standard igienico-sanitari propugnati anche a livello legislativo a
partire dall’inizio del secolo.1
Brescia, pur manifestando in questo momento gravi condizioni di arretratezza nelle attività produttive, fra l’altro denunciate a chiare lettere da Giuseppe
Zanardelli nel 1857 in “Il Crepuscolo”2, era la seconda città della regione per
potenzialità industriali, essendo situata strategicamente all’interno del crocevia
italiano, in specie con le linee ferroviarie Verona-Brennero (realizzata dal 1865
al 1870) e Milano-Bologna-Firenze-Roma, collegata nel 1882 con il Gottardo.
Mentre la città si evolveva negli spazi oltre le mura, dove già dall’inizio del secolo si trovavano il cimitero monumentale e il foro boario, con la nuova stazione
ferroviaria di San Nazaro, la zona degli opifici sul fiume Grande, derivato dal
Mella (nell’attuale via del Sebino nel 1887 erano presenti ventidue fabbriche) e
le officine del gas presso la stazione, all’interno della cinta muraria rinascimentale iniziavano a scarseggiare le aree disponibili per nuovi edifici e sempre più
impellenti si facevano le necessità di decoro urbano e di igienizzazione dei quartieri: insomma di una sostanziale riforma dell’assetto urbanistico sedimentatosi
per secoli. Proprio alla vigilia dell’unificazione al regno piemontese, Brescia viveva le ultime sistemazioni di origine illuministica basate su rettificazioni e allargamenti stradali che incisero, talvolta in modo violento, il tessuto medioevale della città: «come per gli attuali corso Zanardelli e corso Magenta nel 1852,
sull’apertura di vie importanti, come il primo tratto di via S. Martino con il taglio nel 1850 della chiesa di S. Luca, sui primi riassetti di alcune porte della
città, come quelle di S. Nazaro (attuale piazzale della Repubblica) e S. Alessandro (attuale piazza Cremona) dove viene tagliato il rivellino. Anche porta S.
Giovanni (attuale piazza Garibaldi) viene definitivamente sistemata nel 1853»3.
Le rinnovate necessità di agevoli contatti viari con l’esterno, il bisogno di reperire altri spazi abitativi per una popolazione in progressivo aumento, attratta
dalle possibilità di lavoro offerte dalla nuova industria bresciana, e anche di tro5
vare uno sfogo ad una sempre crescente massa di disoccupati, portarono il Consiglio Comunale alla decisione di abbattere le mura veneziane, che ormai assediavano la vecchia città e non avevano più alcuno scopo di difesa: sul tracciato
dei bastioni vennero progettati i viali ai lati dei quali furono edificate residenze
alto borghesi, risparmiando solamente il tratto verso oriente, gli attuali spalti
San Marco, che divennero per la cittadinanza la “passeggiata”.
All’interno della città quindi continuarono i lavori di rettificazione stradale
con l’intento di tracciare i percorsi, il più regolari possibili, delle principali arterie cittadine e conseguentemente si proseguiva nel rifacimento degli affacci degli edifici privati, nella sistemazione dei giardini e delle piazze, che venivano arricchite da una serie di monumenti celebrativi, ed infine nella progettazione di
nuovi spazi pubblici che richiamassero, nella scelta dello stile, funzione e tradizione. Contemporaneamente venivano avviati cantieri di restauro in pristino
con la chiara intenzione di riportare gli edifici storici della città ad un presunto
splendore originario, che li elevasse a simboli storici e culturali della nuova Brescia.
Le problematiche connesse al dibattito sul restauro e sulla nuova architettura, che cercava di mediare il ricorso agli stili storici con le nuove tecnologie costruttive, coinvolsero a livello nazionale tutte le forze intellettuali impegnate in
discussioni sul rapporto progresso-conservazione, restauro-stili storici, decorazione-struttura, architetti-ingegneri. Le voci furono estremamente variegate e in
realtà la questione non trovò soluzioni univoche, ma al contrario sembrò adattarsi a realtà culturali diverse, talvolta identificabili con precise aree geografiche.
È quindi opportuno considerare la possibilità di una serie di declinazioni locali
relative alla concezione dell’architettura eclettica e ai suoi possibili addentellati
con le presenze storiche nelle varie aree urbane.
In questo contesto risultò di particolare importanza l’elaborazione teorica di
Camillo Boito chiaramente espressa nel capitolo introduttivo ad Architettura del
Medio Evo in Italia, intitolato programmaticamente Sullo stile futuro dell’architettura italiana, nel quale, tracciando una breve storia dell’architettura in Italia e
implicitamente indicando le matrici e i modelli di riferimento per il futuro, sintetizzava le contraddizioni del presente: «Certo è uno stato di transizione questo
dell’architettura, poiché tutto il passato lo mostra falso. Già le altre nazioni s’avviano a ritrovare uno stile. I Tedeschi tornano al loro Tudor, i Russi s’accostano
al loro bizantino, i Francesi sono tuttavia incerti fra il loro gotico e il loro rinascimento. Per l’Italia il grande impaccio sta nella meravigliosa ricchezza del suo
passato. Ma, presto o tardi, bisognerà pure che un’architettura italiana ci sia,
massime che ora l’Italia s’è fatta nazione, ed ha la sua capitale. E dovrà essere
uno stile, come nel Trecento, vario, pieghevole a’ bisogni, a’ climi, all’indole delle diverse provincie; e dovrà essere degno della civiltà raffınata, della scienza progredita di questo nostro secolo decimonono o del ventesimo, perché noi discorriamo, così per nostro diletto, delle cose di là da venire»4.
Il modello, al quale ogni architetto avrebbe dovuto guardare, era dunque lo
stile “nazionale”, che appunto Boito identificava nell’architettura lombarda (leggi romanica) e nelle “maniere municipali del Trecento”5, e dall’altra la prepara6
zione di ogni architetto, ben distinta nei contenuti da quella degli ingegneri,
avrebbe dovuto caratterizzarsi per l’abilità disegnativa, la precisione dei dettagli,
la perfetta corrispondenza fra struttura e decorazione.
La cultura architettonica bresciana seguì la falsariga di questa impostazione
teorica dato che gli epigoni di Rodolfo Vantini, Giuseppe Cassa, Alessandro
Sandri e Giuseppe Conti, operosi soprattutto all’interno del complesso del Vantiniano, cercarono di mantenere inalterata la fedeltà al gusto e allo stile neoclassico, mentre la generazione della metà del secolo acquisì immediatamente i dettami del nuovo gusto eclettico; così Carlo Melchiotti, Luigi Arcioni e Antonio
Tagliaferri divennero le punte di diamante dell’elaborazione architettonica a
Brescia, almeno fino al primo decennio del Novecento.
Certo Tagliaferri, più di altri, ebbe l’opportunità di venire a contatto con le
elaborazioni teoriche nel campo architettonico di ambito milanese, essendo studente a Brera e poi operoso in collaborazione con ingegneri locali. Il cursus studiorum di Antonio corrispose a quanto indicato da Boito: uno studio attento ai
dettagli decorativi, una solida conoscenza della storia dell’architettura e delle
problematiche strutturali degli edifici, nonché un’innata ed educata abilità
disegnativa che molto spesso l’architetto utilizzerà al di là dei semplici progetti
architettonici.
La costituzione dello stato unitario passò attraverso l’alleanza fra la burocrazia e gli apparati statali e i nuovi ceti borghesi, i quali prediligevano la figura
professionale dell’ingegnere a quella dell’architetto, che risultava sempre vincolata al dibattito teorico della poetica del singolo oggetto architettonico. Infatti le
grandi trasformazioni urbane, che coinvolsero tutti i centri storici italiani fra il
1860 e il 1890, furono sempre gestite da ingegneri e da tecnici municipali,
mentre gli architetti si limitarono ad intervenire esclusivamente su singole strutture e dal lato prevalentemente estetico. “Avviene così che là dove gli architetti
tentano di imporre una forma alla dinamica urbana, quando tentano di offrire
la loro tecnica per la trasformazione della città, vengono accantonati con non
poche delusioni e infatti l’ambiguità sostanziale del dibattito architettonico stava proprio nel binomio innovazione-progettazione, storia architettonica-urbanistica moderna, dato che l’architettura segue, con una sua regressiva coerenza, la
strada dell’aulicità, delle interpretazioni monumentali, del compromesso degli
stili, e, di fronte alle città italiane che sfuggono ad ogni serio tentativo di piano,
in presenza di una committenza articolata ma desiderosa di offrire rapidamente
un’immagine di se stessa, di quel che rappresenta, essa concentra le proprie scelte in messaggi formali, in singole operazioni che vengono scambiate per scelte
globali, così come la serie di progetti per i palazzi ministeriali, le sedi delle banche, le stazioni ferroviarie della capitale e dei principali centri italiani” (Restucci, Città e architettura nell’Ottocento, Torino 1982, p. 732).
È interessante inoltre sottolineare quanto fossero determinanti nella progettazione i valori estetici, legati indissolubilmente alle categorie del decoro e della
rappresentatività, che solo gli architetti potevano elaborare e proporre. Si assistette dunque ad un rapporto simbiotico tra le due fıgure: da una parte, gli ingegneri che progettavano gli interventi edilizi a largo raggio, la divisione dei lot7
ti per funzioni e le strutture portanti in economia, dall’altra gli architetti che
elaboravano e schizzavano facciate, elementi decorativi in cemento, cotto, stucco ed anche affreschi, che ricoprissero “convenientemente” le nude strutture
portanti. A questa logica non sfuggì Tagliaferri che proprio attraverso la costante collaborazione con due noti ingegneri milanesi, Magni e Casati, partecipò in
prima persona al mutare dell’aspetto della Milano di fine secolo con gli interventi al Carrobbio, in via Dante e in via San Vincenzino.
Le opzioni stilistiche di Antonio Tagliaferri e della sua generazione furono
fortemente condizionate dalla contraddizione scienza-verità e sensibilità-fantasia
che, muovendosi da un sostanziale rifıuto della eroicità del neoclassicismo e del
sublime romantico, tentarono la strada della ricostruzione storica e della scoperta di una via evoluzionistica del fare architettonico, non immemore delle
contemporanee teorie di Darwin e Fourier. In un tale clima di recupero del vero, inteso come insieme di lati oscuri e zone luminose, era aperta la discussione
sugli stili del passato e si faceva strada e si affermava l’eclettismo che diveniva lo
strumento di ricerca per un ambiente nuovo, abitabile: nel senso che appoggiandosi sulle ragioni di utilità e di progresso ogni genere monumentale si trasformava in genere di consumo e a ciò contribuirono straordinariamente le
esposizioni universali: la vetrina tecnologico-figurativa e sociale di quei decenni.
L’eclettismo fu un fenomeno dalle radici essenzialmente romantiche, e si
espresse attraverso un continuo e fluido ripescaggio, libero e a piene mani, dagli
stili passati (neoclassico, neogotico, neorococò ecc.); tuttavia in esso non era
presente un metodo astratto, un’ideologia, ma al contrario con ogni rigore di
stile quest’epoca si caratterizza per il gusto aperto e discontinuo e per un tentativo costante di creare un nesso armonico fra arte e vita, dove appunto la conoscenza degli stili storici si mescola alla commozione narrativa e alla disposizione
evocativa.
Così il nuovo linguaggio stilistico, e i suoi molteplici operatori, non risultarono legati ad un simbolo unitario, ma a molti simboli, in analogia al mutarsi e
al crescere di diversi interessi e all’intersecarsi di diverse culture.
L’elemento trainante, come è stato più volte sottolineato, di questa successione di esperienze revivalistiche, talvolta mescolate nel medesimo edificio, fu la
classe media che attraverso tali esperienze cercò per tutto il secolo di precisare
sempre più i propri ideali rappresentativi.
A ciò, è ovvio, vanno ricondotti altri elementi importanti quali il repentino
sviluppo industriale, l’invenzione di nuove tecniche e nuovi materiali costruttivi, che vennero piegati alle forme decorative e strutturali storiche per assumere
una valenza prevalentemente estetica, i valori delle rinascite nazionali e della
conseguente necessità di identificare uno stile come radice e garante della propria storia. In Italia il medievalismo fu strettamente connesso alle istanze risorgimentali, almeno nella sua fase iniziale, e trovò nel neoromanico uno stile più
consono del neogotico, anche se in realtà quest’ultimo, con tutte le contaminazioni dal neoquattrocentismo allo stile Tudor, venne reimpiegato fin all’ultimo
decennio del secolo e nei padiglioni delle esposizioni universali, dove tra l’altro
fu talvolta assimilato ad elementi neomoreschi, e nelle residenze lacustri e di
8
campagna, quali il notissimo castello MacKenzie, oggi Wolfson, a Genova, realizzato da Gino Coppedè nel 18906, e, per venire a Brescia, il castello Bonoris di
Montichiari (realizzato da Tagliaferri, 1890-1892), la villa De Ferrari oggi
Cavazza, sull’isola di Garda (di Luigi Rovelli, 1900-1903)7, il castello sull’isola
iseana di Loreto (di Luigi Tombola, 1900-1901).
Tuttavia accanto al dibattito sullo stile “nazionale” venne formulandosi il
concetto dell’unità fra le necessità rappresentative della retorica borghese e la
tradizione accademica delle scuole di architettura, ancora legate all’Accademia di
Belle Arti, particolarmente vivace dove le accademie appunto erano maggiormente propositive come a Torino, Milano e Venezia, che trovò un modello nell’architettura neorinascimentale (meglio bramantesca e michelangiolesca) in
aperta polemica con il gotico fiorito, che si riconosceva ai paesi di area franco-tedesca.
Ed in effetti il neocinquecentismo risultò essere l’aspetto dominante nei
grandi piani urbanistici e negli sviluppi monumentali anche di alcune capitali
europee dopo la metà del secolo, compresa la Roma umbertina. Così come in
ambiente locale il nuovo stile fu riconosciuto adatto per i grandi edifici ad uso
pubblico; Tagliaferri progettò infatti la sede centrale del Credito Agrario Bresciano, in piazza del Duomo, in stile neomichelangiolesco e l’ampliamento di
Palazzo della Loggia in stile neopalladiano. Il fenomeno assunse poi anche
connotazioni ideologiche: nel mondo accademico, ad esempio, consolidare l’insegnamento sugli ideali estetici del rinascimento era la strada più sicura per superare il radicalismo del neogreco e del neoromano, con un riaggancio alla tradizione del grande classicismo, e inoltre non presupponeva una scelta radicale di
campo per costruttori e professionisti, il cui interesse era soprattutto quello della produzione, del “mestiere” e dell’aggiornamento tecnologico; il sistema compositivo rinascimentale non appariva affatto come una scelta esclusiva e di tendenza, ma era visto come il fondamento (collaudato da secoli) della composizione architettonica tout court. Parallelamente al dominante indirizzo neocinquecentesco e neoquattrocentesco (Tagliaferri progettò fra l’altro una serie cospicua di abitazioni cittadine e ville su modelli bramanteschi e toscani: Casa
Bertelli a Brescia e Villa Fenaroli a Fantecolo), si svilupparono produzioni plastiche e decorative che tendevano, specie nelle esposizioni, a mimetizzare le
strutture in ferro e ghisa con un’incrostazione di stucchi e cornicioni, volute di
gesso e impalcature di legno e stoffa come il clamoroso interno neo rocaille del
salone della Gare d’Orsay, costruita appunto con tecniche dichiaratamente moderniste (ferro, cemento e vetro), ma con gli interni ancora legati ad un senso
del décor tutto borghese che identifıcava l’equazione stile-eleganza con le sovrapposizioni decorative del “salotto buono”.
Questi furono dunque gli eccessi dell’architettura eclettica e in fin dei conti
delineavano la crisi defınitiva dello storicismo, sensazione sentita immediatamente dagli intellettuali più attenti e in primis da Camillo Boito, il quale, come
si è detto, proponeva una radicale eliminazione delle contaminazioni stilistiche
ed una riappropriazione del romanico (l’architettura lombarda) non in accezione stilistica o mimetica, bensì come traccia per la rifondazione logica degli edi9
fici e come studio del linguaggio architettonico che gli appariva «più duttile e
moderno di quello classico». Questo indirizzo, che resta in Boito una irrealizzata
aspirazione, si concretizzò alla fine del secolo nelle realizzazioni americane di Richardson e in quelle olandesi di Berlage, mentre erano presenti in Italia varie rielaborazioni che si intrecciavano con la matrice romanica, arricchite da elementi
tratti da edifici policromi pisani, senesi, ravennati e del primo Quattrocento fiorentino. In effetti le esortazioni di Boito non trovarono rispondenza immediata
nell’area italiana, e segnatamente lombarda, dove l’elaborazione architettonica
dovette sempre fare i conti con le preesistenze storiche: certo il discorso attecchì
negli Stati Uniti e nei Paesi Bassi proprio per la mancanza di una sedimentazione variegata e soprattutto per la mancanza di confronti diretti con monumenti
originali. In Italia, e questo vale anche per Brescia, la verifica boitiana si esercitò
nel campo del restauro in pristino piuttosto che nell’elaborazione ex novo degli
edifıci. Tagliaferri e Arcioni giocarono le loro carte proprio su questo terreno, in
particolare il secondo, impegnato negli anni Novanta dell’Ottocento nella sostanziale ricostruzione del Duomo Vecchio di Brescia detto La Rotonda, che fra
l’altro era stato portato ad esempio da De Dartein, da Cordero da San Quintino e da Porter come uno dei massimi esempi dell’architettura medievale lombarda8. La mancata scelta boitiana e la riconversione del discorso sulle problematiche del restauro e dell’imitazione, furono la causa che appunto bloccò a livello intermedio la progettazione architettonica italiana e lombarda sulle linee
dell’eclettismo, mentre pochi architetti aggiornati, ma con una cultura tecnologica già da politecnico e da ingegneri, furono in grado di captare i messaggi del
Modernismo e di darne una versione italiana (specie a Torino e a Milano), ma
nella maggior parte dei casi in qualche modo mediata con la cultura storicista.
Da questi dati di fatto non poté esimersi Antonio Tagliaferri che appunto fino
alla morte (1909) mantenne inalterate le proprie posizioni di storicista che non
mostrava cedimenti né dal punto di vista strutturale né dal punto di vista decorativo. Diverso fu il caso del nipote Giovanni Tagliaferri, il quale, generazionalmente vicino ad Egidio Dabbeni, l’unico architetto a Brescia compiutamente liberty, riuscì a mutuare da questi e dalle esposizioni internazionali (specie quella
di Torino del 1902) delle proposte decorative moderne, ma certo non rivoluzionarie, nel contesto di un’architettura mediamente ancora impastoiata nella problematica degli stili storici ben addentro il Novecento.
2. Manuali ed esposizioni: palestre di conoscenze
Per Antonio Tagliaferri, come per molti suoi coetanei, la fonte primaria di conoscenze storiche e architettoniche erano gli insegnanti dell’Accademia di Belle Arti, almeno in prima istanza, e successivamente erano i manuali di storia dell’architettura,
le riviste specialistiche e le esposizioni. Nel nostro caso la continuità della famiglia e
l’amore degli eredi per gli oggetti ereditati, hanno permesso la sostanziale conservazione dello studio e della biblioteca di Antonio e Giovanni Tagliaferri il chè ci permette di tracciare in modo chiaro i percorsi conoscitivi dei due, specie di Antonio.9
10
Fra gli altri, importanti repertori compaiono a cavallo della metà del secolo
in relazione proprio all’architettura romanica e gotica italiana. A cura di E. Arborio Mella, esce nel 1857 Elementi di architettura Gotica, seguito, nel 1860, dal
volume di Lodovico Cadorin, Studi teorici e pratici di Architettura e di Ornato.
Non da meno, e degli stessi anni, sono alcuni repertori tedeschi e francesi: di
Heideloff, Gli ornamenti del Medio Evo, di Verdier e Cattois, L’architettura civile e domestica del Medio Evo, del Grüner, Terra-Cotta Architektur in North Italien,
ed infine di George Edmund Street, Brik and Marble Architecture of Middle Age
in Italy. Fra le riviste, che ancor più capillarmente e velocemente diffondevano
per tutta l’Italia e l’Europa le novità di gusto e di stile, ma anche quelle tecnologiche, va ricordata “L’Edilizia Moderna”, diretta da Luca Beltrami, che spesso
riprodusse i progetti del Tagliaferri. Non mancavano certamente anche i manuali a diffusione più capillare e popolare, per esempio quelli editi a Milano da
Hoepli, come il Manuale d’arte decorativa antica e moderna curata da Alfredo
Melani nel 1907, o Modelli d’arte decorativa italiana del 1898, o l’Arte in Famiglia del 1904, tutti testi di tenore didascalico che rappresentavano sul versante
della diffusione a stampa i repertori delle cosiddette arti industriali che si potevano studiare ed ammirare nei musei appositamente organizzati in Europa allo
scadere del secolo XIX: il Victoria and A1bert Museum o South Kensington
Museum di Londra, il Museo Horne a Firenze, quello di Arti Industriali a Bologna, il Kaiser Friedrich Museum di Berlino, i Kunstgewerbemuseen di Lipsia,
Dresda e Francoforte, il Museo dell’Età Cristiana a Brescia, creato proprio dal
Tagliaferri e inaugurato nel 1882.
I trattati e i libri di divulgazione per artisti, periodici a puntate, erano
mass-media tipici di quegli anni; il loro impegno era sostenuto dal clima delle
esposizioni, contrassegnato da un fervore tipico del secolo XIX, tendente a legare l’industria e il progresso dell’arte, attraverso mediazioni diverse, non filtrate
nei laboratori accademici.
Le esposizioni universali e i loro cataloghi consacravano la cultura e la ricerca degli autodidatti, il livello del loro mestiere, fuori dalle scuole. Tant’è che le
esposizioni erano discusse, prima durante e dopo la loro apertura, sui cataloghi
e sulle riviste divulgative, che riproducevano le facciate e i padiglioni, quali divenivano a loro volta modelli di sperimentazione architettonica e talvolta veri e
propri repertori di gusto e di stile. In Italia poi ebbero particolare influenza a livello progettuale le esposizioni di Torino del 1880, del 1884 e del 1896, nelle
quali accanto ai padiglioni con l’illustrazione delle più avanzate tecnologie,
comparivano ricostruzioni storiche e pastiches stilistici (per tutti, il Borgo Medievale del Valentino, per l’expo del 1884, realizzato con la supervisione di Alfredo D’Andrade, che univa come in un centone tutti gli elementi “più belli”
dei castelli piemontesi e valdostani10) e vere e proprie esercitazioni relative alle
questioni del restauro degli edifici storici.
Risulta pertanto significativa la presenza di Antonio all’Esposizione di Milano del 1881 con la realizzazione della Sala Bresciana (progettata nel maggio e
luglio dell’anno precedente) in una versione del gotico rutilante di legni intagliati, vetri dipinti, affreschi e mobili in stile: una vera prova generale delle pro11
prie capacità eclettiche. Nel 1884, dal 17 al 22 maggio, egli visitò 1’Esposizione di Torino traendo spunti determinanti per la progettazione di alcune ville e
soprattutto per il restauro ricostruttivo e gli arredi del Castello Bonoris a Montichiari, a partire dal 1890. Antonio fu inoltre eletto membro di alcune commissioni per le esposizioni (Torino 1884, Milano 1881, Parigi 1866 e 1878); mentre dal 1879 entrò a far parte del Collegio degli Ingegneri e Architetti di Milano e nel 1887 fu eletto membro della commissione giudicatrice del concorso per
il Palazzo di Giustizia a Roma.
La documentata visita all’Esposizione universale di Parigi del 1889, dal 29
settembre al 12 ottobre, pare non lasciare significative tracce nei processi elaborativi di Antonio, che al contrario colse del grande expo solamente il versante
eclettico, quello appunto dell’Hotel d’Orsay e dei padiglioni in stile, e non quello ingegneristico dell’architettura in ferro e vetro, la Tour Eiffel per tutti, che certo al nostro doveva apparire ancora una via sperimentale e puramente decorativa e adatta all’effimero.
3. Primi esperimenti di architettura eclettica e di restauro per Antonio Tagliaferri
Antonio Tagliaferri frequentò l’Accademia di Belle Arti di Brera dal 1855 al
1859, ponendo il proprio impegno soprattutto sulle tecniche disegnative, sull’acquerello, sullo studio dell’ornato. Tale opzione fu probabilmente motivata da
un’innata predisposizione al disegno che il giovane, spinto anche dalla famiglia,
pensava di educare al punto da potersi esprimere in campo strettamente pittorico, più che in quello progettuale. Una volta diplomatosi, e ritornato alla città
natale, iniziò a sperimentare, non sappiamo esattamente in che modo e in quali forme, l’educazione accademica: probabilmente in bozzetti, studi d’ambiente,
progetti decorativi, come testimonierebbe il premio ottenuto appunto nel 1859,
per un progetto di fontana non meglio specificato.
È in questa fase, sulla quale purtroppo sia la storia critica che i documenti
tacciono, che il giovane Tagliaferri orientò il proprio impegno professionale verso la progettazione architettonica, pur non abbandonando mai completamente
l’impegno nelle tecniche pittoriche.
Con chi e attraverso quali vie abbia egli ottenuto la prima commissione per
un progetto non ci è dato sapere, anche se possiamo avanzare l’ipotesi che Antonio, attraverso la propria famiglia, abbia avuto la possibilità di avvicinarsi da
una parte al patrio Ateneo di Scienze Lettere e Arti, nel quale infatti entrò come socio, nel 1864, e dall’altra ad alcune nobili famiglie bresciane che in quegli
anni, sulla spinta del rinnovamento cittadino, andavano progettando mutamenti e rifacimenti nei propri palazzi.
La prima indicazione che abbiamo, citata nelle pagine del Diario (una raccolta minuziosa di dati realizzata da Giovanni Tagliaferri su appunti sparsi di
Antonio), è l’allargamento di corso Magenta, datato all’aprile del 1865, con
conseguente sparizione della cosiddetta via Bruttanome, degli orti e delle case
popolari prospicienti palazzo Lechi e ovviamente la rettificazione del suddetto
12
palazzo al quale il Vantini aveva aggiunto un propileo in stile neoclassico. Tagliaferri ne realizzerà successivamente uno gemello sul lato destro e collegherà
questo con il modello attraverso un colonnato tuscanico: un’esercitazione neoclassica omogenea e accademicamente ineccepibile, che ci presenta un personaggio a suo agio nei panni del funambolico utilizzatore e assemblatore di stili
quale diventerà nel corso della propria vita.
A partire dal 1867, Antonio insegnò nella Scuola comunale di disegno, arti
e mestieri, dedicata ad uno dei maggiori artisti bresciani del Rinascimento: il
Moretto. La scuola aveva la funzione di avviamento professionale ad attività artigiane di particolare prestigio nella città, in specie pittura e soprattutto scultura per la vocazione locale alla lavorazione della pietra e della terracotta. Il legame con la scuola e l’insegnamento non venne mai meno, anche quando iniziò
la doppia attività progettuale divisa fra Brescia e Milano e i numerosi cantieri
contemporaneamente in funzione; infatti nel proprio testamento designava un
legato di £. 3.000 affinché nella scuola Moretto l’insegnamento industriale andasse di pari passo con l’insegnamento artistico: Antonio aveva perfettamente
colto le linee di tendenza dello sviluppo della città, tutta puntata sull’industria
metallurgica, a scapito della produzione artigiana, ed in effetti la scuola, nel passaggio al nuovo secolo, accentuò sempre più il ramo industriale fino al totale abbandono dell’insegnamento artistico.
Anche la partecipazione in veste di socio al cittadino Ateneo, dall’antica e
gloriosa tradizione culturale, ebbe notevole importanza nello sviluppo della personalità di Tagliaferri, che deve proprio alla sua presenza, all’interno di questo
organismo, l’unico culturalmente agguerrito a Brescia, le numerose possibilità di
intervento non solamente nella progettazione di edifici ex novo, ma soprattutto
nel campo del restauro conservativo, nella realizzazione di nuovi enti municipali dedicati alla cultura (i Musei Civici) e infine la possibilità di entrare in stretto
contatto con tutte le fabbriche municipali, dalla Loggia al Vantiniano, dai monumenti celebrativi, che dovevano essere esaminati e approvati da una commissione dell’Ateneo, alle esposizioni di arte antica e contemporanea.
Un altro dato importante da sottolineare è che il nostro architetto visse in
una congiuntura storica particolarmente favorevole e non solo a livello generale,
come si è detto appunto sotto la spinta di rinnovamenti e possibilità economiche di espansione apparentemente illimitate, ma anche a livello personale, dato
che a Brescia non emersero personalità di progettisti di altrettanta qualità, se si
escludono Carlo Melchiotti, Luigi Rovelli e Luigi Arcioni11, che tuttavia restarono sempre a margine, almeno fino alla scomparsa di Antonio. Da ciò la definizione di nume tutelare della progettazione architettonica locale, almeno negli
anni cruciali 1870-1909, titolo che si è potuto attribuirgli senza tema di esagerare l’importanza storica di una personalità che in effetti non solo ha dato in
molti casi il volto alla città che ancora oggi vediamo, ma ha anche profondamente contribuito alla crescita culturale di Brescia e dei gruppi intellettuali ivi
presenti, mantenendo sempre aperto il canale di comunicazione con l’ambiente
milanese di Boito, Beltrami, Cattaneo12, ma anche immettendo la città nel circuito nazionale dei grandi concorsi monumentali (facciata del Duomo di Mila13
no, monumento ad Arnaldo e a Garibaldi a Brescia, Monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma) e delle esposizioni internazionali (Torino, Milano, Roma,
Palermo, Venezia, Parigi). Certo può risultare carente in Tagliaferri quell’apertura alla cultura europea e quei contatti diretti con l’elaborazione architettonica,
che via via dall’eclettismo andava sfociando nelle teorie moderniste e nel linguaggio internazionale del Liberty, che tranne per qualche dettaglio decorativo,
non incontrò mai il favore di Antonio, arroccato nella fede agli stili storici,
mentre ebbe una certa influenza su Giovanni Tagliaferri e sui progettisti bresciani della nuova generazione: Egidio Dabbeni e Arnaldo Trebeschi13.
L’avvio professionale, come si è detto, fu lento, almeno per quanto è documentato, e generico, nel senso che le indicazioni si limitano a disegni e acquerelli per l’Ateneo o per committenze private intente a modificare le proprie residenze (Lechi, Fenaroli, Averoldi).
Ma è a partire dal 1873 che l’attività si fece intensa e particolarmente articolata, proiettandosi al di là della cinta urbana, nella campagna e nella zona della
Franciacorta, con la costruzione del castelletto per Fausto Lechi in località Nassina a Borgo Poncarale, della villa Gregorini a Lovere e anche dello stabilimento Gregorini, attuale Franchi Sant’Eustacchio, a Brescia, e alcuni disegni per la
Farmacia degli Spedali Civili e per la fabbrica del Duomo (1870).
Un impegno progettuale importante, e che investe anche la sfera del restauro, si ebbe a partire dal 1875 con l’incarico da parte del Municipio di procedere alla ristrutturazione e ampliamento dell’antico Santuario di Santa Maria delle Grazie. I lavori procedettero per circa un trentennio fino al 1907, e videro il
Tagliaferri entrare vieppiù, sulla falsariga dei laboratori medievali, nelle vesti di
capocantiere che progettava ogni dettaglio, anche decorativo, circondandosi di
una schiera di pittori, decoratori, marmisti, stuccatori, fabbri, tutti perfettamente coordinati dalla personalità dell’architetto, che qui appunto tentò un recupero globale di stile e di modalità operative del tardo medioevo. Ma in questo cantiere Tagliaferri dovette affrontare anche dal punto di vista teorico le problematiche del restauro, che proprio in quegli anni in Italia si fecero sempre più
articolate e complesse e videro scendere in campo tutta l’intellighenzia delle Accademie di Belle Arti, degli architetti e degli amministratori.
4. Il restauro: risarcimento o conservazione?
Un discorso sull’evoluzione della problematica del restauro in Italia deve
partire necessariamente dalla normativa riguardante la sorveglianza del patrimonio artistico-monumentale nazionale: problema che pare non affliggesse lo
stato neounitario, poiché solo nel 1874, con il reale decreto n. 2032 del 7
agosto, veniva istituita la Commissione conservatrice dei monumenti d’arte e
di antichità, una per ogni provincia del regno. In realtà la legge non faceva altro che regolare e diffondere sul territorio un’istituzione che in molte città si
era venuta costituendo all’indomani dell’annessione al regno d’Italia; infatti a
Brescia nel 1859 la giunta municipale aveva nominato una commissione con14
sultiva per la sorveglianza dei beni artistici della città e della provincia, costituita da otto personalità, non a caso scelte in campo strettamente artistico14.
Nel 1869 la commissione vedeva entrare, quali membri effettivi, rappresentanti del Civico Ateneo e del Municipio, mentre venivano eliminati totalmente gli artisti, dato che il solo Antonio Tagliaferri, eletto per il Municipio, poteva essere indicato per tale.
La totale mancanza, nel pensiero dei rappresentanti comunali, dei giornalisti, di molti intellettuali e operatori nel settore del restauro architettonico e dei
cittadini, di una precisa e articolata nozione di bene artistico-monumentale,
lungi dall’essere consapevole (concetti che in questa fase possedeva lucidamente
soltanto Giovan Battista Cavalcaselle), si limitava ad aspetti municipalistici e alla ristretta prospettiva del singolo monumento, e cioè che fosse possibilmente
un unicum, e la sua salvaguardia era quasi sempre in funzione di una generica
quanto fluttuante idea di “decoro urbano”. A questa visione parziale sfuggivano
ovviamente i contesti, ovvero i quartieri, gli isolati, in cui i monumenti erano
inglobati. La questione non era pacifica e si dibatteva fra accese polemiche e violente discussioni non più relegate nei circoli intellettuali, come nella prima metà
del secolo, ma portate nell’aula consigliare del municipio dove spesso rivestivano posizioni politiche più o meno radicali, e soprattutto sulle pagine dei giornali che entravano nella diatriba “conservazione-abbattimento” con una totale
ignoranza delle problematiche storico-artistiche, mettendo in evidenza
alternativamente la “pubblica utilità”, “il decoro” e “il risanamento igienico”.
Su queste parole d’ordine si basarono tutte le operazioni di sventramento,
abbattimento e ricostruzione nei centri storici italiani, ma in contemporanea si
dibatteva sulla salvaguardia della storia artistico-artigianale, a memoria e didattica delle future generazioni, istituendo i musei di arti industriali e applicate che
si arricchivano proprio attraverso i recuperi di oggetti dagli abbattimenti e dalle
riconversioni degli edifici storici. L’ambigua posizione degli intellettuali e della
clas se politica si può sintetizzare proprio nel binomio conservazione-ab battimento, che tra l’altro apre il discorso sul risarcimento dei monumenti ovvero sul completamento o la restituzione alla situazione “originale” di quegli
unicum che venivano isolati nei nuclei storici come testimoni del passato della
nazione, a scapito del contesto urbano che dava loro reale valore documentario.
Furono gli anni delle operazioni di completamento delle grandi cattedrali
italiane, singolarmente mancanti di facciate monumentali, che, a partire da Santa Maria del Fiore a Firenze con il concorso del 1867, si diffusero sul territorio
nazionale. A Napoli con la facciata gotica del Duomo da parte di Errico Alvino
(del 1877), quella di Santa Croce a Firenze di Nicola Matas (1856-1862), il
Duomo di Amalfi sempre di Alvino (1875), fino al concorso internazionale per
la facciata del Duomo di Milano, indetto nel 1886, a cui parteciparono 120
concorrenti, ma che solo dopo due concorsi trovava soluzione nel progetto del
Brentano nel 188815. Antonio Tagliaferri partecipava al concorso milanese, appunto nel 1886, proprio nell’intento di proiettare la propria capacità progettuale in un ambito non bresciano e aprirsi le possibilità di un nuovo mercato. Il
progetto risultava molto rispettoso dell’esistente, ma l’accezione di gotico che
15
egli proponeva non era sufficientemente monumentale per poter essere accettata dalla commissione, anche se l’acquerello venne positivamente giudicato.
Tuttavia accanto alle proposte di completamento comparvero sempre più
frequentemente progetti di ampliamento di edifici storici e proposte di restauro
in pristino di monumenti.
Antonio e Giovanni Tagliaferri, affiancati da Luigi Arcioni e da Luigi Rovelli, monopolizzarono la realtà bresciana entrando da protagonisti in tutti i cantieri municipali. Antonio a partire dal 1875 fino al 1905 si occupò del restauro
ricostruttivo del Santuario di Santa Maria delle Grazie, della cancellata di Santa
Maria dei Miracoli, in accordo con Arcioni (1905-1906), del rifacimento della
cappella del SS. Sacramento in San Giovanni Evangelista, con il coinvolgimento del pittore Bertolotti (1873-1888), del restauro della chiesa di Santa Giulia
per la riduzione a Museo dell’arte cristiana (1877) e in provincia del castello Bonoris a Montichiari (1890-1892). Giovanni, invece, con gli auspici dello zio, si
occupò in modo particolare dei restauri del palazzo del Broletto dal 1906 al
1926 (in sostituzione di Luigi Arcioni che nel 1902 aveva ricostruito la Loggia
delle Grida). Altri progetti di restauro conservativo e ampliamento coinvolsero
nel tempo Antonio e Giovanni, obbligandoli ad un continuo confronto con gli
storici, con le tecniche e i materiali antichi, confermandoli sempre più nella loro opzione decisamente eclettica e poco incline ai mutamenti repentini dell’invenzione architettonica e della tecnologia costruttiva di fine secolo. Dal rococò
del Ridotto del Teatro Grande al barocco degli altari di Santa Maria in Calchera e di Sant’Agata, al rinascimento di San Giovanni e di San Cristo e soprattutto di palazzo della Loggia.
Sul restauro di quest’ultimo prestigioso monumento l’idea venne sviluppata in
brevissimo tempo da Antonio nel 1878, sollecitato dal sindaco e dalla Giunta Municipale intenzionata a costruire un nuovo palazzo in stile palladiano, accanto al
palazzo comunale, al fine di riunire in un unico luogo tutti gli uffici pubblici.
Il progetto, data l’enormità dei costi, non venne nemmeno iniziato, ma si assistette ad una riproposta del medesimo, con lievi varianti, da parte di Giovanni nel 1924, che prevedeva tra l’altro uno stile classicheggiante più severo ed una
trasformazione globale del lato settentrionale di piazza della Loggia.
Questi interventi non furono mai indolori, poiché ogni volta si aprirono
aspri scontri verbali e dibattiti sui singoli cantieri e lo stesso Antonio visse in
prima persona i contrasti con i committenti, come nel caso del burrascoso rapporto, poi rapidamente reciso, con il conte Gaetano Bonoris: questi interessato
alle trasformazioni sostanziali del progetto di ricostruzione del castello monteclarense, quello difensore a spada tratta del rispetto delle proprie scelte stilistiche
e morfologiche. Anche se non era ancora elaborata teoricamente la figura e la
funzione del restauratore, il Tagliaferri difendeva una propria coerenza valutativa dal punto di vista storico ed una propria correttezza professionale, che gli veniva dalla sicura conoscenza degli stili e della sintassi dell’eclettismo, che lo autorizzavano implicitamente all’intervento sul monumento. Fra il 1883 e il 1896,
a Milano, Luca Beltrami interveniva massicciamente su quanto restava del castello Sforzesco e in quell’occasione la “scuola milanese” elaborava la figura del
16
restauratore come nuovo artefice, progettista, che doveva fondare e giustificare
le proprie ricostruzioni su qualsiasi fonte vuoi documentaria, vuoi letteraria,
vuoi figurativa: da qui all’invenzione ex abrupto di elementi stilistici il passo era
breve, così come divenne quasi inconsapevole la mescolanza e l’abbinamento di
elementi storicamente e geograficamente diversi. A queste particolari posizioni
si arrivò anche attraverso i risultati del furore restaurativo che negli anni
1880-1900 attraversò l’Italia e che vide in testa Boito, Beltrami, D’Andrade,
Fabbris ecc. Per esempio, all’esposizione torinese del 1884 parteciparono D’Andrade, Vittorio Avondo, Riccardo Brajda, Giuseppe Giacosa, Carlo Nigra e
Federico Pastoris, costituendo una commissione per la storia dell’arte che si impegnò in una ricostruzione assolutamente credibile di un borgo medievale di
area piemontese-aostana, dove ogni dettaglio decorativo, ogni materiale, persino
i costumi degli abitanti fossero un’esatta ricostruzione del passato. Erano gli anni nei quali Giuseppe Giacosa elaborava alcune pièces teatrali, che avevano come
ambientazione castelli medievali: da Una partita a scacchi a la Signora di Challant (presentata a Torino per la prima volta nell’ottobre 1891), e più avanti uno
studio storico intitolato I castelli valdostani, pubblicato a Milano nel 1903, e significativamente dedicato agli amici dell’avventura torinese: Federico Pastoris,
Vittorio Avondo e Alfredo D’Andrade. La moda neomedievale poi investiva
ogni aspetto della produzione artistica, dalla pittura all’arredamento, dai tessuti
ai ferri battuti alle ceramiche, e il gusto andrà ben oltre la fine del secolo se dai
primi del Novecento al 1941 si affronterà a Grazzano Visconti (Piacenza) la totale ricostruzione di un castello e di un borgo medievale16. Antonio Tagliaferri,
in questo senso più di Giovanni e di altri bresciani, si immedesimò in questo
clima con lo spirito del filologo, se proprio a Montichiari cercò in ogni modo di
adeguare la ricostruzione di fantasia a forme e materiali (mattoni e ciottoli di
fiume) storicamente coerenti e verificati su monumenti originali (in primis il
Castello di Pandino, ma anche spiritosamente il castello torinese del 1884).
Si ha testimonianza di molti bozzetti e qualche progetto completo in stile
neomedievale da parte di Antonio e in ogni caso, se si esclude il caso particolare di Santa Maria delle Grazie, si trattò sempre di ville di campagna dove meglio si poteva giocare il rapporto con il paesaggio e il gusto ricostruttivo del maniero (il castello Treccagni a San Martino della Battaglia, villa Lattuada a Casatenovo, realizzata tra il 1882 e il 1886 con l’inserimento di elementi Tudor, le
ville De Riva - Sabelli e Da Como a Lonato e una versione gotico-veneziana di
villa Zanardelli a Maderno).
Riguardo la diversa posizione che via via veniva assunta dagli architetti bresciani sul problema del restauro ricostruttivo-conservativo, è interessante ed emblematico confrontare attraverso tre cantieri diversi le opzioni operative e concettuali assunte da Antonio e Giovanni Tagliaferri e Luigi Arcioni tra il 1880 e
il 1917: il Santuario delle Grazie, la chiesa di San Francesco e il Broletto.
Nel grande complesso di Santa Maria delle Grazie, un ruolo fondamentale
per il culto era sempre stato svolto dal piccolo santuario, un tempo chiesa conventuale dei frati Umiliati dedicata a Santa Maria di Palazzolo, collocata sul
fianco meridionale del chiostro settecentesco.
17
Attraverso i secoli il terreno si era sopraelevato intorno al piccolo ambiente,
che quindi rimaneva collegato al chiostro da una serie di gradini, ma sempre più
desueto, benché in esso si conservasse un miracoloso affresco quattrocentesco
raffigurante una Natività. Ad aggravare lo stato di degrado del santuario contribuirono poi le vicende delle soppressioni napoleoniche, le infiltrazioni di umidità e il sostanziale abbandono del culto trasferito alla chiesa maggiore.
Nel 1860 si procedette tuttavia ad una serie di opere di restauro, dedicate
particolarmente alle pareti, scrostando le quali vennero alla luce una serie di affreschi votivi databili ai secoli XIV-XV, contemporanei all’elevazione del santuario, i quali furono in parte strappati e trasferiti nella Civica Pinacoteca Tosio-Martinengo, mentre altri lacerti restarono nella sacrestia. Gli interventi di restauro si limitarono dunque ad una semplice operazione di ridecorazione con il
rifacimento degli intonaci delle pareti laterali e la decorazione delle volte da parte di Giuseppe Ariassi, in sostituzione di affreschi eseguiti dal bresciano Francesco Giugno nel corso del Seicento.
A partire dal novembre 1875 l’architetto Antonio Tagliaferri venne coinvolto nella progettazione di un generale e più radicale restauro sostenuto dal vescovo e dal Comune, restauro che partendo dal concetto della restituzione d’ambiente e non della conservazione dell’esistente, si caratterizzò per la radicale e totale trasformazione dell’antico santuario del quale oggi non resta alcuna traccia,
se non un lacerto di muratura d’ambito visibile nell’intercapedine della scala che
porta alle celle monastiche.
Tagliaferri mantenne il livello dell’antica chiesa trasformandolo in una specie
di vano, circondato (ad un livello più alto) da una serie di arcate a trifora gotica, ricavate dall’abbattimento delle pareti laterali del santuario e dall’utilizzazione di ambienti circostanti, e procedette al distacco dell’affresco miracoloso, sollevandolo al di sopra del nuovo altare. La nuova tribuna, lunga 44 metri e larga
5,50, che quindi raddoppiava lo spazio originario, corrispondeva al piano di calpestio del chiostro settecentesco e della strada e serviva dunque da tramite tra lo
spazio esterno e il vano centrale più raccolto, più sacro, raggiungibile attraverso
una serie di gradini.
La formazione presso l’Accademia di Brera, basata ancora su un concetto decorativo e storicista dell’attività architettonica, indusse il Tagliaferri ad elaborare
quello che oggi definiamo un “falso storico”, ma che allora corrispondeva esattamente al concetto di restauro: ovvero la restituzione di un ambiente stilisticamente omogeneo, dove il tempo sembrava essere tornato indietro, alle origini.
Partendo da questi presupposti è ovvio che l’operazione progettuale doveva
partire da una scelta stilistica, cioè dal privilegio di uno stile architettonico sull’altro, e Antonio scelse il gotico, o meglio un ibrido fra il gotico “francescano”
delle trifore e della tribuna e il gotico “fiorito” di Orcagna nell’Orsanmichele di
Firenze, riconoscibile nella zona dell’altare. Non è un caso che proprio questo
stile sia stato privilegiato perché esso, nella mentalità eclettica degli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento, corrispondeva perfettamente alla funzione religiosa,
così come i cimiteri (si pensi al Monumentale di Milano simile al Camposanto
di Pisa o al concorso per la facciata del Duomo nella stessa città), mentre il Ri18
nascimento si adattava alle ville o ai palazzi di città, il manierismo e il barocco
alle banche e agli uffici pubblici, ecc.
Certo il desiderio della restituzione storica omogenea, indifferente dunque
alle stratificazioni stilistiche e al trascorrere del tempo, indusse Tagliaferri alla ricostruzione anche di modalità operative, che si palesarono nell’organizzazione di
un articolato cantiere su modello di quelli medievali, dove in ruoli ben distinti
i vari operatori erano tutti coordinati dalla figura del capocantiere, Tagliaferri
appunto, e lavoravano in un continuo scambio di idee e di modelli da armonizzarsi alla struttura architettonica. Cosi vediamo le sculture e le decorazioni marmoree di Davide Lombardi rispecchiarsi negli stucchi dei bergamaschi fratelli
Peduzzi e questi a loro volta trasformarsi negli affreschi decorativi del Franchini,
del Salvi e del Chimeri; fino ai dipinti eseguiti in una prima fase da Modesto
Faustini e poi da Cesare Bertolotti, dove i modi sono chiaramente puristi, premasacceschi, ma nei quali immancabile affiora nei gesti e negli sguardi quella retorica “degli occhi bassi” che caratterizzò tutta la pittura devozionale italiana fra
Otto e Novecento.
Come si diceva i lavori di ricostruzione furono particolarmente lunghi e
complessi, protraendosi fino al 1907, anno nel quale Tagliaferri consegnò il disegno esecutivo per i bracci delle lampade da porre nel santuario. All’architetto
si doveva tutto: dai progetti per i commessi marmorei pavimentali, alle carteglorie, ai calici, alle lampade, alle porte, fino ai bozzetti dei soggetti degli affreschi. Le capacità eclettiche del nostro non vennero meno neppure quando nel
1905 gli venne richiesto un progetto di risistemazione della facciata della chiesa
di Santa Maria delle Grazie. Infatti, partendo dalla presenza in facciata dello
splendido portale rinascimentale, Tagliaferri elaborava un apparato murario costituito da una serie di nicchie quadrangolari, alternate a candelabre, con affreschi e sculture esemplate sulla facciata della Certosa di Pavia: ancora una volta
la storia architettonica era storia degli stili dalla quale, come da un immenso e
inesauribile repertorio, era possibile attingere forme e modelli per restituire all’oggi quello che il tempo ha distrutto o non ha terminato.
Molto diversa risulta, al contrario, la posizione di Luigi Arcioni, impegnato
in San Francesco, appartenente tuttavia al medesimo milieu culturale, ma più
vicino alla posizione di restauro purista e aggiornato sulle nuove tecniche costruttive portate avanti dagli studi di ingegneria17. La situazione storica era mutata e imponeva una maggiore attenzione al reperto originale, una maggiore
acribia filologica nel restauro, che veniva tuttavia sempre intesa come privilegio
di uno stile rispetto ad un altro, ma la totale ricostruzione, come in Tagliaferri,
era meno giustificata e gli interventi tendevano a distinguersi, otticamente, per
l’impiego diverso dei materiali e delle tecniche. Infatti partito da posizioni radicalmente ricostruttive, Arcioni, nel 1865 presentava, alla commissione per l’Ornato dell’Accademia di Brera, un progetto, probabilmente un’esercitazione più
che un progetto esecutivo, relativo al “Restauro nelle forme primitive della chiesa di S. Francesco di Brescia”. Il confronto fra la planimetria dell’esistente, dove
si leggono chiaramente la pianta longitudinale a tre navate, con cappelle a fianco del presbiterio, di origine gotica, le aggiunte del coro e delle cappelle rinasci19
mentali di Antonio Zurlengo, gli altari laterali e la settecentesca cappella dell’Immacolata, e la planimetria della progettata restituzione, si evidenzia come
l’eliminazione di ogni sovrapposizione o intervento sul presunto originale fosse
ancora l’unica strada ritenuta percorribile, così come alla convinzione di un’architettura nuda e severa, priva di decorazioni, corrispondeva l’idea della totale
distruzione degli intonaci lungo le pareti, per riportare a vista i conci di pietra
nel loro regolare disporsi nello spazio.
Ai medesimi principi si atterrà sempre l’Arcioni nel restauro della Rotonda
di Brescia (1892-1897), che poneva però anche diversi problemi di ordine statico e storico, mentre in una seconda fase, e questa operativa, dei restauri del San
Francesco nel 1911, le opzioni risulteranno meno rigide e meno legate al desiderio ricostruttivo, ma più sensibili ad una lettura diacronica del manufatto. Infatti gli interventi si limitarono, nel rispetto dunque delle trasformazioni quattro-cinquecentesche e persino di quelle settecentesche, all’eliminazione degli interventi, anch’essi di restauro-trasformazione, di Rodolfo Vantini della prima
metà dell’Ottocento che avevano interessato specificatamente le navate, restituendo allo spettatore la lettura delle massicce colonne-pilastro in pietra (ma
non più slanciate come in origine, dato che le basi furono immurate per rialzare il pavimento molto più basso del moderno piano stradale) e delle coperture,
dove Arcioni riproponeva una copertura a capriate lignee, sostituita negli anni
Cinquanta da una “carena di nave” rovesciata su modello delle chiese di area veneta. I maggiori interventi si ebbero sulla facciata, una volta liberata dagli edifici che vi si addossavano. Creato l’ampio invaso del sagrato, che doveva dare respiro al monumento, si procedette alla riapertura delle ampie monofore gotiche,
degli oculi frangivento e in particolare al restauro del rosone; mentre all’interno
dello straordinario chiostro grande, Arcioni si limitò al rabberciamento di alcune arcatelle e colonnine, dato che la trasformazione in caserma e in panificio militare ne aveva sì trasformato la destinazione d’uso, ma non la sostanziale funzione di luogo di passaggio e di corte aperta: qui infatti gli interventi distruttivi
furono assai limitati.
Gli interventi di Giovanni Tagliaferri nel Broletto di Brescia, portati a
compimento fra il 1906 e il 1926, si caratterizzarono in modo ancora diverso
rispetto all’Arcioni e ancor di più rispetto agli interventi di Antonio. Innanzi
tutto lo strumento fotografico, che com’è noto appartenne alle abitudini professionali di Giovanni, divenne il principale metodo d’indagine dell’esistente e
inoltre, cosa per noi importantissima, fondamentale nel fissare per immagini
il procedere degli interventi e le soluzioni finali adottate per i paramenti murari e per le decorazioni. Un secondo elemento, e in ciò si legge un forte influsso dello zio Antonio al quale Giovanni dovette con ogni probabilità la
commissione da parte del Comune del restauro del palazzo, fu la tendenza alla ricostruzione in stile del monumento storico, dove questa opzione via via
tese a venir meno per lasciare posto al concetto di conservazione. Ma la ricostruzione di Giovanni Tagliaferri non era basata sul funambolico impiego degli stili, bensì su un attento recupero delle tracce del passato, e in questo si avvicina a Luigi Arcioni, che proprio nel 1902 inaugurava la Loggia delle Grida
20
ricostruita sulla facciata occidentale del Broletto. All’aprirsi del nuovo secolo
non assistiamo più a un occultamento, come in Antonio, ma a una denuncia
dell’intervento sul manufatto antico e di conseguenza ad un’evidenziazione del
frammento originario: è il passo decisivo verso il rispetto per la realtà storica
dell’oggetto architettonico e la nascita della coscienza critica degli interventi
che non tendono più ad amalgamarsi, a cammuffarsi in un’azione mimetica
con l’antico, ma al contrario rivelano la tecnologia del presente che riconduce, attraverso una lettura priva di lacune, ad un’immagine passata, intaccata
dal tempo, ma definitivamente perduta.
Per quanto riguarda le problematiche legate alla legislazione e agli interventi sanitari
nelle città postunitarie cfr. G. Zucconi, La
città contesa. Dagli ingegneri sanitari agli
urbanisti (1885-1942), Milano 1989. Per il
caso particolare di Brescia cfr. La città e la
sua forma, in Brescia postromantica e liberty: 1880-1915, Brescia 1985, pp. 25-41.
2
G. Zanardelli, Sulla Esposizione bresciana - lettere di Giuseppe Zanardelli estratte
dal giornale “Il Crepuscolo” del 1857, ed.
an. Brescia 1973.
3
F. Robecchi, La nuova forma urbana. Brescia tra ’800 e ’900, Brescia 1980, p. 20.
4
C. Boito, Stile futuro dell’architettura italiana, Milano 1916, p. 76.
5
Ibidem, p. 83.
6
R. Bossaglia-M. Cozzi, I Coppedè, Genova 1982.
7
Per quanto riguarda villa De Ferrari-Borghese-Cavazza vedi V. Terraroli, La varietà
cresce con la varietà, in “Atlante Bresciano. AB”, primavera 1986, pp. 54-55. Per la
Rocca Bonoris di Montichiari: V. Terraroli,
La Rocca Bonoris, in “Atlante Bresciano.
AB”, n. 6, 1986, pp. 48-59 e V. Terraroli, Il
Santuario delle Grazie a Brescia e il Castello Bonoris a Montichiari: neogotico sacro e neogotico cortese a confronto, in Il
Neogotico in Europa nel XIX e XX secolo,
atti del Convegno a cura di R. Bossaglia e
V. Terraroli, Milano 1990, pp. 127-134.
8
V. Terraroli, Luigi Arcioni e i restauri ottocenteschi alla Rotonda: storia e problematiche di un restauro, in Le Cattedrali di Brescia, Brescia 1987, pp. 25-40 e G.P. Treccani, Questioni di “patrî monumenti” Tutela e
restauro a Brescia (1859-1891), Milano
1988. In corso di pubblicazione V. Terraroli, Luigi Arcioni. Progetti e restauri a Brescia tra Ottocento e Novecento.
9
La Biblioteca dello studio di Antonio e
Giovanni Tagliaferri raccoglie ancora oggi
1
un centinaio circa di pubblicazioni specialistiche che fortunatamente gli eredi hanno
conservato e inventariato. Si tratta per la
gran parte di manuali di architettura, riviste,
cataloghi di esposizioni, monografie e dispense. Una parte fondamentale è riservata
alle edizioni, anche originali, dei trattati storici di architettura quali Vitruvio, Vignola,
Scamozzi e Serlio, i Principi di architettura
civile di Francesco Milizia e il volume edito nel 1833 da J.N.L. Durand, Raccolta e
parallelo delle fabriche classiche di tutti i
tempi, d’ogni popolo e di ciascun stile. Non
mancano naturalmente i più diffusi manuali
di impiantistica e di tipologie edilizie quali
il Traité d’architecture di Reynaud, L’architettura pratica di Archimede Sacchi e il
Trattato generale di costruzioni civili di
Breymann. Una parte importante della biblioteca è costituita poi dai repertori decorativi, dalla storia dell’architettura e dallo studio delle ornamentazioni in stile: accanto
all’ormai «classico» Violett Le Duc e al
Selvatico, compaiono i diffusissimi Melani,
Lacroix, De Dartein, Sidoli, Owen Jones,
Percier-Fontaine, Heideloff e Duran la cui
Raccolta dei migliori ornamenti... sarà uno
dei punti di riferimento basilari per un’intera generazione di architetti eclettici. Non da
meno le riviste specialistiche e i periodici,
accanto ai cataloghi delle Esposizioni Nazionali e Universali, rivestivano il carattere
di palestra di confronto e strumento di diffusione di idee e soluzioni costruttivo-decorative. Tagliaferri era abbonato a “Ricordi
di architettura”, “Memorie di un architetto”
e a “L’edilizia Moderna”, ma possedeva anche numeri di altre riviste europee quali
“Der Architekt” di Vienna, «L’art et l’industrie”, “Monographie de batiments modernes” di Parigi e l’«Academy architecture
and annual architectural review” di Londra.
Sull’importanza dello studio delle biblioteche degli architetti eclettici e modernisti
cfr. A. Restucci, Città e architetture nell’Ot-
21
tocento, in Storia dell’Arte italiana, vol.
6**, Torino 1982, passim e F. Tentori, Raimondo D’Aronco dai suoi libri e dai suoi
schizzi, in D’Aron co architetto, Milano
1982, pp. 23-26.
10
Cfr R. Maggio Serra, Torino 1884. Perché
un Castello Medievale?, Torino 1985 e
Esposizione Generale Italiana in Torino 1884.
Guida Ufficiale, Torino 1884, pp. 329-331.
11
Per notizie in merito alla attività di Carlo
Mechiotti e Luigi Arcioni cfr. Note biografiche, a cura di C. Zani in Brescia postromantica e liberty: 1880-1915, Brescia 1985,
pp. 262-263.
12
A. Restucci, Città e architetture..., cit., pp.
760-775.
13
Cfr. nota 11.
14
Sulla problematica della tutela del patrimonio artistico nazionale e i conseguenti restauri vedi A. Emiliani, Una politica dei Beni Culturali, Torino 1974 e A. Rossari e R.
Togni, Verso una gestione dei beni culturali
22
come servizio pubblico. Attività legislativa
e dibattito culturale dallo stato unitario alle regioni (1860-1977), Milano 1978. Per il
caso particolare di Brescia cfr. G.P. Treccani, Questioni di..., cit.
15
Sui problemi del ripristino degli edifici
storici: A. Restucci, Città e architetture...,
cit., pp. 783-786. Per Santa Maria del Fiore:
C. Cresti-M. Cozzi-G. Carapelli, L’avventura della facciata, Firenze 1987; per Napoli,
Amalfi e Milano cfr. in Il Neogotico in Europa nel XIX e XX secolo, cit. i saggi rispettivamente di M.L. Scalvini, pp. 383-397,
G.B. Sannazzaro, pp. 105-116 e E. Brivio,
pp. 117-126.
16
Gotico Neogotico Ipergotico. Architettura
e arti decorative a Piacenza 1856-1915, a
cura di M. Dezzi Bardeschi, Bologna 1985,
pp. 272-283.
17
G.P. Treccani, Questioni di..., cit., passim
e V. Terraroli, Luigi Arcioni. Progetti e restauri a Brescia tra Ottocento e Novecento,
in corso di pubblicazione.
BIOGRAFIA DI
ANTONIO TAGLIAFERRI
Antonio Tagliaferri nasce a Brescia il 9
febbraio 1835, da Giovanni Tagliaferri
e dalla contessa Cecilia Carini. Dal
1854 al 1856 frequenta i corsi della
Scuola Comunale di Disegno ed essendo particolarmente portato al disegno
si iscrive ai corsi dell’Accademia di
Brera a Milano, che segue a partire dal
1856 fino al 1859. Sono gli anni nei
quali entra in contatto con Camillo
Boito e Luca Beltrami e con tutta l’intellighenzia milanese. Nel 1857 riceve
una menzione onorevole all’esposizione bresciana per un progetto di fontana
da collocarsi in piazza della Loggia. A
partire dal 1860, dopo il suo rientro a
Brescia, inizia a progettare edifici di
piccole dimensioni, come il villino in
stile neogotico per il conte Faustino
Lechi, al quale è legato da stretti vincoli di amicizia, in località Nassina
presso Poncarale. Ciò nonostante Antonio non abbandona mai la pittura e si
produce in una serie di quadri d’ambiente di gusto bozzettistico, vicini alle
opere di Mosè Bianchi, che certo aveva conosciuto durante il periodo braidense: nel 1862 e nel 1867 riceve infatti due menzioni onorevoli dall’Ateneo per l’esposizione di due opere ad
olio.
Ma i legami con l’Ateneo bresciano si
fanno strettissimi proprio nel 1863,
quando diviene socio onorario (sarà
socio effettivo a partire dal 3 gennaio
1864). L’anno precedente, il 5 marzo,
entra nella Commissione d’Ornato, e
queste posizioni gli permettono nel
corso del tempo di gestire un certo monopolio sull’attività architettonica e artistica di Brescia. Infatti nel 1867 diviene insegnante di disegno architettonico presso la Scuola Comunale di
Disegno, carica che tiene fino all’ottobre del 1870. Nel 1882 apre uno studio a Milano per poter meglio gestire
l’attività progettuale, in quegli anni avviata con lo studio ingegneristico Casati-Magni e con la committenza milanese-brianzola. Ed in effetti la presenza a Milano si fa sempre più impegna-
tiva divenendo, il 22 giugno 1880, socio onorario dell’Accademia di Brera,
mentre a Brescia amplia sempre più il
proprio controllo entrando in tutte le
commissioni comunali e per la salvaguardia del patrimonio storico artistico
della provincia e per l’erezione di monumenti celebrativi (da Arnaldo a Tito
Speri, da Garibaldi a Tartaglia). In quegli anni continua l’attività progettuale
per committenze private (nel 1882 sistema villa Fenaroli a Corneto, nel
1886 realizza casa Ducos in corso
Martiri della Libertà 27) e pubbliche,
dato che nel 1876 inizia i lavori nel
Santuario di S. Maria delle Grazie (terminati nel 1905) e presenta il complesso progetto di ampliamento del palazzo
della Loggia in stile neopalladiano
(1876). Nel corso degli anni Novanta,
Antonio vive il momento di maggior
prestigio essendo presente in ogni concorso nazionale (dal Vittoriano a Roma
alla facciata del Duomo di Milano),
nelle commissioni d’esame a Brera e
nel concorso Brozzoni a Brescia, città
nella quale è anche membro della commissione musei e che lo vede responsabile del restauro e dell’allestimento
del Museo Cristiano in Santa Giulia e
della Civica Pinacoteca e della sede
dell’Ateneo in palazzo Martinengo.
Nel medesimo torno di tempo Antonio
entra in contatto anche con i problemi
relativi ai restauri e in particolare si ricordano gli interventi nel Ridotto del
Teatro Grande (1888), nel castello Bonoris di Montichiari (1890-1892) e naturalmente nel Santuario delle Grazie.
La collaborazione con gli ingegneri,
ovviamente, non si svolge solamente a
Milano, ma lo vede protagonista anche
a Brescia, dato che nel 1908 realizza
casa Erba, in via dei Mille 26, con gli
ingegneri Gadola e Bevilacqua. Lo studio bresciano nel frattempo viene gestito dall’amato nipote Giovanni, laureatosi in ingegneria a Padova e che a
partire dal 1890 segue i cantieri bresciani dello zio e partecipa spesso ai
suoi progetti, specie nel Vantiniano e
per la facciata della parrocchiale di
Polpenazze.
Antonio nel frattempo mantiene stretti
rapporti di amicizia e di lavoro con un
23
nucleo di artisti bresciani: Domenico
Ghidoni, scultore, il Pezzoli, scultore
anch’egli, Cesare Bertolotti, Modesto
Faustini, il Manziana, pittori; in sintesi
con tutti quegli artisti che formarono
l’Arte in Famiglia: un’associazione di
giovani pittori e scultori che si impegna sulla strada del vero nell’arte e che
Antonio presiede per lunghi anni.
L’attività intensissima nei primi anni
24
del secolo lo obbliga, ad un certo
punto, ad abbandonare Milano, dove
già avanza lo stile modernista, e a ritornare definitivamente a Brescia,
dove ancora mantiene un’inalterata
considerazione in ambito architettonico e nel campo del restauro. Gli ultimi progetti datano a pochi giorni
dalla morte, avvenuta a Brescia il 22
maggio 1909.
Antonio Tagliaferri ripreso nel giardino della villa di Vilminore in val di Scalve, stampa fotografica, 1905 circa.
Brescia, collezione privata
25
Antonio Tagliaferri, Prospettiva del castello Bonoris di Montichiari, 1890-1892, matita su lucido, cm. 39 x 55.
Brescia, collezione privata
26
Antonio Tagliaferri, Veduta di fantasia di una chiesetta romanica, 1890-1900, olio su tela, cm. 59,5 x 48.
Brescia, collezione privata
27
Antonio Tagliaferri, Conversazione in un giardino settecentesco, 1901,
acquarello su carta, cm. 22 x 15. Brescia, collezione privata
28
Antonio Tagliaferri, Veduta della facciata di un santuario di stile neobarocco
(vicino al prospetto della parrochiale di Polpenazze), 1901,
acquarello su carta, cm. 22 x 15. Brescia, collezione privata
29
Antonio Tagliaferri, Veduta della loggia di un monastero alpino quattrocentesco con riprodotta sulla parete una Danza macabra, 1901,
acquarello su carta, cm. 22 x 15. Brescia, collezione privata
30
Antonio Tagliaferri, Elevazione del palazzo degli uffici sul lato nord della Loggia, 1873-1892,
matita su carta, cm. 44 x 58. Brescia, collezione privata
31
Antonio Tagliaferri, Bozzetto per la decorazione dell’altare maggiore del Santuario delle Grazie,
1875-1907, acquarello su cartone, cm. 113 x 75,5.
Brescia, Santuario di Santa Maria delle Grazie
32
Antonio Tagliaferri, Progetto di sistemazione della cappella del Santissimo Sacramento in San
Giovanni Evangelista, 1877-1883, acquarello e inchiostro su cartoncino, cm. 51 x 39,5.
Brescia, collezione privata
33
Antonio Tagliaferri, Prospetto e sezione di caminetto e caminiera di gusto neosettecentesco, 1879-1904,
matita su carta, cm. 35 x 46. Brescia, collezione privata
34
Antonio Tagliaferri, Prospettiva del monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, 1881, inchiostro su cartoncino,
cm. 35 x 47. Brescia, collezione privata
35
Antonio Tagliaferri, Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari,
1890-1892, Cortile, acquarello su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari,
1890-1892, Scala, acquarello su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
36
Antonio Tagliaferri, Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari,
1890-1892, Atrio, acquarello su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari, 1890-1892,
Galleria a piano terra, acquarello su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
37
Antonio Tagliaferri, Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari,
1890-1892, Sala da pranzo, acquarello su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari,
1890-1892, Salone, acquarello su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
38
Antonio Tagliaferri, Prospettiva d’insieme di villa Fenaroli a Fantecolo, 1895-1897, acquarello su carta,
cm. 42 x 59. Brescia, collezione privata
39
Antonio Tagliaferri, Prospetto di un edificio di gusto neoquattrocentesco lombardo da adibirsi a sede di un
Circolo Artistico, 1897, acquarello su carta, cm. 70 x 50 (presentato all’Esposizione del Sempione a Milano nel 1906). Brescia, collezione privata
40
Antonio Tagliaferri, Sezione sulla linea CD (est-ovest) del “Casino dei Nobili” e dell’atrio del Teatro Grande sul Corso
del Teatro, 1867-1868, china e acquarello su cartoncino, cm. 62 x 103. Brescia, collezione privata.
41
Antonio Tagliaferri, Sezione sulla linea AB di palazzo della Loggia, 1873-1892, matita e
inchiostro su cartoncino, cm. 60 x 81. Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Prospettiva di palazzo della Loggia ed edifici adiacenti, 1873-1892,
matita e inchiostro su carta, cm. 50 x 42. Brescia, collezione privata
42
Antonio Tagliaferri, Prospetto e sezione di caminetto e caminiera di gusto neosettecentesco, 1879-1904, matita su carta, cm. 35 x 46. Brescia, collezione privata
43
Antonio Tagliaferri, Progetto per credenza in stile pompeiano, 1879-1904,
acquarello su cartoncino, cm. 50 x 43. Brescia, collezione privata
44
Antonio Tagliaferri, Collage di bozzetti per il Monumento a Vittorio Emanuele II a Roma,
1881, matita e inchiostro su carta incollata su cartoncino, cm. 38 x 56.
Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Collage di bozzetti per il Monumento a Vittorio Emanuele II a Roma,
1881, matita e inchiostro su carta incollata su cartoncino, cm. 33 x 47.
Brescia, collezione privata
45
Antonio Tagliaferri, Prospetto posteriore del Monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, 1881,
matita su cartoncino, cm. 48 x 77. Brescia, collezione privata
46
Antonio Tagliaferri, Planimetria di villa Zanardelli a Maderno, 1886-1889,
acquarello su cartoncino, cm. 29 x 44. Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Prospetto di villa Zanardelli a Maderno in stile pompeiano, 1886-1889,
matita su cartoncino, cm. 39 x 23. Brescia, collezione privata
47
Antonio Tagliaferri, Album di schizzi, totale fogli 31, disegni di ambientazioni in stile, inchiostro, matita
e acquarello, cm. 14 x 20. Brescia, collezione privata
48
Antonio Tagliaferri, Planimetria del castello Bonoris a Montichiari, 1890-1892,
acquarello su cartoncino, cm. 55 x 77. Brescia, collezione privata
Antonio Tagliaferri, Prospettiva del castello Bonoris da Montichiari, 1890-1892,
matita su lucido, cm. 39 x 55. Brescia, collezione privata
49
Antonio Tagliaferri, Elevazione a mattine del castello Bonoris da Montichiari, 1890-1892,
matita e china su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
50
Antonio Tagliaferri, Disegno esecutivo di un capitello del cortile del castello Bonoris a
Montichiari, con la figura allegorica dell’architetto-capomastro, 1890-1892,
matita su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
51
Antonio Tagliaferri, Album di repertorio, totale fogli 45, disegni di arredi, cancellate, edifici in stile,
matita e inchiostro, cm. 14 x 20. Brescia, collezione privata
52
Antonio Tagliaferri, Planimetria di villa Fenaroli a Fantecolo, 1895-1897, inchiostro su cartoncino, cm. 38 x 56.
Brescia, collezione privata
53
Domenico Ghidoni, Busto di Antonio Tagliaferri, 1910, bronzo, cm. 53 x 53. Brescia,
collezione privata
54
1) TEATRO GRANDE E SISTEMAZIONE DEI PORTICI DEL CORSO DEL
TEATRO (1867-1868)
Un recente studio (AA.VV., Il Teatro Grande di Brescia, Brescia 1986, vol. II, pp. 209,
218-219), ricorda che “Nel 1867 l’architetto Antonio Tagliaferri, che avrà gran parte
nella vita architettonica del Grande nella
seconda metà del secolo XIX, presentò un
interessante progetto che concentrava l’attenzione sulla facciata del teatro” (p. 209, i
disegni sono conservato nell’Archivio del
Comune di Brescia, U.T. 51, 1867). In
realtà i disegni (riprodotti alle pp. 218-219)
sono una prima versione della cartella definitiva, preparata con dovizia di dettagli e
una notevole qualità tecnica, fra il 1867 e il
1868, e costituita da nove tavole ad acquerello e china su cartoncino, conservate nella
propria cartella rilegata presso l’archivio
dell’architetto.
L’esatto titolo “Progetto d’innalzamento di
una sala sopra il portico attuale del Teatro
Grande di Brescia e di due piani superiori
sulle case laterali al medesimo ad uso di Casino di Società”, chiarisce che l’intervento
non riguardava solamente la sistemazione
architettonica dell’incompiuta facciata del
Teatro, ma coinvolgeva anche gli edifici
adiacenti che dovevano diventare parte integrante del Teatro come luogo d’incontro
dell’aristocrazia, di sangue e di denaro, con
sala da ballo, sale da gioco, salottini e diretto ingresso nel Ridotto e nella Sala teatrale.
Infine i portici, rettificati con architravi al
posto degli archi ribassati, venivano chiusi
da vetrate per trasformare l’antico Corso
del Teatro in un passeggio coperto, una specie di Jardin d’hiver, dove trovavano posto
caffè, negozi lussuosi ecc.
Nella “Prospettiva” è ben chiaro il risultato
finale che Antonio voleva raggiungere con
l’uniformità delle facciate degli edifici laterali, il salone superiore illuminato da tre
grandi vetrate con un attico costituito da
quattro colonne ioniche e ai lati due finestre con timpano archivoltato, che riprendono neomanieristicamente lo stile tardo
cinquecentesco del piano inferiore della facciata. A coronamento della nuova costruzione, che veniva così a nascondere la struttura edilizia esterna del Ridotto e della Sala,
Tagliaferri poneva, su modello della Biblioteca Queriniana, un attico con quattro
sculture; tale ideazione non compare nel
progetto conservato all’Archivio di Stato di
Brescia, benché tutte le altre soluzioni compositive e strutturali siano identiche.
Dalla pianta del piano terreno si ricava che
l’accesso al Casino dei Nobili utilizzava
l’entrata al Loggione, problema che nel
1872 riceverà parere negativo dell’Ufficio
Tecnico del Comune; fra l’altro, tranne il
fronte monumentale del Teatro, il resto delle adiacenze erano ancora di proprietà privata (Aranzini, Crivellari, Guaineri) e ciò
avrebbe comportato oneri ulteriori e questioni di proprietà o acquisto. Così, mentre
il primo piano veniva ancora utilizzato in
modo frazionato e a scopi privati, il Tagliaferri proponeva una ristrutturazione e nuova distribuzione di tutto il secondo piano
ad uso del Casino. Tutte le stanze disposte a
ridosso del Teatro venivano adibite a servizi
vari (deposito mantelli, scale di accesso e di
servizio, toilettes, sala caffè ecc.), mentre gli
ambienti corrispondenti ai portici e affacciati sul Corso del Teatro sono una serie di
salotti di diverso uso (biliardo, biblioteca,
lettura, conversazione ecc.), tutti confluenti
nella grandiosa sala da ballo (un’aula rettangolare biabsidata, affacciata sul Corso e sulla scalinata di accesso al Teatro), che Antonio aveva pensato in un primo schizzo di
realizzare quasi ad imitazione del Ridotto,
in stile rococò. Infine al terzo piano trovavano sistemazione le cucine e gli appartamenti per i domestici, costituiti da un’alternanza di camera da letto, salette e sala da
pranzo.
Dalla “Sezione sulla linea AB” in confronto
con il rilievo dell’esistente si osserva l’intenzione dell’architetto di conservare il più
possibile la cubatura originaria degli ambienti: l’unico intervento radicale riguarda
l’inserimento della scala di accesso al Casino dei Nobili, illuminata da un magnifico
lucernario a cupola. Nella “Sezione sulla linea CD” si noterà che i salotti del secondo
piano risultano tutti decorati da soffitti a
volta e stucchi di gusto neosettecentesco,
così come nel salone da ballo ritroviamo
l’impiego dei pilastri con le basi arrotondate, le cornici lignee delle specchiere e delle
finestre e gli stucchi delimitanti lunette ad
affresco, simili alle soluzioni adottate poi
nel Ridotto. Infine dalla “Sezione sulla linea GH” si ricava, non solo che la cubatura del salone occupava il secondo e il terzo
55
piano, ma che sul retro di esso correva una
balconata in ferro battuto che si affacciava
sulla scalinata d’accesso al Teatro e permetteva il collegamento delle sale sui due lati
dei portici.
Il progetto non venne mai realizzato per il
parere contrario del Comune, ma è anche
probabile che Tagliaferri lo preparasse in sostituzione delle prime tavole consegnate nel
1867, che mostrano apprezzabili varianti,
nella speranza che successivamente il lavoro
si potesse eseguire, ma probabilmente non
lo consegnò mai (il che ci spiega il motivo
della conservazione presso l’archivio dove
solitamente rimanevano i bozzetti, gli studi
preparatori e le fotografie o le eliocopie dei
progetti definitivi).
Tuttavia nel 1912 Luigi Tombola, basandosi sui progetti del Tagliaferri, proponeva ancora la facciata del Teatro Grande con soluzioni formali neorinascimentali e la sistemazione del prospetto occidentale dei portici come già Antonio aveva progettato: anche in questo caso l’idea non ebbe seguito.
Ancora della primavera del 1889 è l’indicazione “Costruzione monumentale ingresso
per nuovo Corso” (forse si trattava di un ulteriore intervento nei portici mai realizzato)
ed infine nel 1908 (8-11 maggio), un anno
prima della morte, Antonio si occupava dei
portici del Corso del Teatro per la sistemazione di un negozio da parrucchiere, del
quale tuttavia non abbiamo altre notizie.
2) CASTELLO PER IL CONTE FAUSTO LECHI. Località Nassina, Borgo
Poncarale (Brescia) (1870-1875)
Del progetto per un castelletto, commissionatogli dall’amico pittore conte Fausto Lechi, affettuosamente camuffato sotto lo
pseudonimo di Frà Doretto da Calvisano, si
hanno scarne notizie. Localizzato nei pressi
di Borgo Poncarale, a Nassina, il castelletto
è oggi divenuto un’azienda agricola ed ha
perso parte delle decorazioni esterne ed interne che lo connotavano nella pianura come un maniero monumentale. L’unico elemento che ci permette oggi di riconoscerlo
è un acquerello su carta, non finito, dove il
prospetto verso occidente è inserito in un
contesto di paesaggio con figure in costume
56
che si aggirano nel viale. L’idea parte da
uno schema quadrato con ampio cortile
centrale, secondo il modello dei castelli
lombardi tra XIV e XV secolo, gli angoli
esterni del quale sono rafforzati verso occidente da coppie di torrioncini e verso
oriente da due torrioni quadrati, tutti coronati da merlature guelfe con caditoie. L’accesso alla corte è dato da un torrione traforato da un’ampia bifora bramantesca. I muri esterni risultano cadenzati in senso verticale da una serie di contrafforti modanati e
coronati da pinnacoli gotici, mentre una
sottile fascia marcapiano divide i due piani
abitativi aperti da monofore archivoltate. I
contrafforti angolari risultano infine suddivisi in bande alternate bianche e rosse, probabilmente ad intonaco dipinto. La realizzazione avvenuta negli anni 1870-1875
non rispettò meccanicamente il progetto,
ma l’insieme è quello ancora oggi visibile.
Modelli di riferimento sono in ogni caso i
castelli di area lombarda con elementi gotici tratti dall’area inglese e ripresi da Antonio dai repertori di architettura che conservava nel proprio studio.
3) PROGETTO DI AMPLIAMENTO
DI PALAZZO DELLA LOGGIA. Brescia (1873-1892)
Nell’adunanza dell’11 gennaio 1872, su
proposta di Giuseppe Zanardelli, il Consiglio Comunale di Brescia deliberava di
stanziare L. 4.000 allo scopo di stilare un
preventivo per il restauro del cinquecentesco palazzo della Loggia, sede storica del
Comune, che tenesse conto dei modi e dei
tempi in cui le opere potevano essere ripartite. Desiderando la Giunta utilizzare il vasto piano superiore del palazzo per riunire
tutti gli uffici comunali, si decise, e certo
non ne fu estraneo lo stesso Zanardelli, di
affidare l’intera ipotesi di progetto all’ormai
noto Antonio Tagliaterri, vincolandolo al
mantenimento dell’aspetto esterno del palazzo, ma con l’obbligo di modificare totalmente l’interno appunto per ingrandire gli
uffici.
La lettera d’incarico gli veniva inviata dal
sindaco Salvadego il 29 marzo 1873 ed in
essa veniva ricordato che il restauro esterno
era stato da poco portato a compimento
dall’architetto Giuseppe Conti. Nell’agosto
del 1878 l’architetto inviava al Municipio
21 splendide tavole acquerellate (riprodotte
poi in fotografia e raccolte in album) con
una breve lettera di accompagnamento che
sostituiva la complessa relazione ancora in
via di stesura, e contemporaneamente chiedeva la restituzione del lavoro per partecipare alla mostra annuale di Brera (concessagli dal sindaco Bonardi il 24 agosto 1878).
Nella prima fase progettuale Antonio si occupò dei rilievi dell’esistente e per questo
riutilizzò anche alcune tavole disegnate dal
Conti (datate 19 settembre 1865). Il primo
indirizzo del progetto fu quello di seguire la
falsariga delle indicazioni della Giunta:
mantenimento dell’aspetto esterno e totale
modifica dell’interno. Infatti lo stesso Conti aveva proposto l’eliminazione dello scalone d’onore, nell’edificio a fianco della Loggia, e l’apertura di uno scalone di raccordo
tra i piani al centro del palazzo. Il piano superiore si sarebbe dovuto articolare intorno
al vano centrale di un lucernario nascosto
dall’attico vanvitelliano, che veniva mantenuto, mentre al contrario spariva il salone
corrispondente al loggiato aperto a livello
della piazza.
Tuttavia Antonio comprese l’impossibilità
di riunire convenientemente tutti gli uffici
nella sola area del palazzo e nello stesso
tempo si rese conto della necessità, anche
politica e d’immagine, di ridare al palazzo
municipale l’aspetto pseudopalladiano ricordato dalle fonti: grande cupola in piombo a carena di nave rovesciata, scalone d’onore in stile rinascimentale, il palazzo come sede di sale di rappresentanza. Pertanto
gli uffici avrebbero dovuto essere collocati
in una nuova costruzione, collegata direttamente al Municipio e ovviamente in stile
con la Loggia. Antonio scelse l’area dell’attuale piazza Rovetta, che allora era un rione popolare sovraffollato compreso tra il
corso degli Orefici-vicolo Cavagnini-vicolo
e contrada della Loggia, che aveva inglobato le murature esterne dello scalone tardoquattrocentesco. Su quest’area, rasa al suolo ad eccezione del solo edificio quattrocentesco, l’architetto propose di elevare
una fabbrica con pianta ad U e ampio cortile rivolto a settentrione (verso via S. Faustino) per il movimento del pubblico e delle carrozze, raccordato all’antica Loggia at-
traverso il cavalcavia cinquecentesco che
andava opportunamente allargato e modificato. Iniziò anche la stesura di una serie
di dettagli architettonici e di studi proporzionali per la realizzazione di colonne d’ordine gigante, con altissimi plinti e capitelli
composti da triglifi, identiche a quelle della basilica palladiana a Vicenza. Anche la
soluzione da adottare per le aperture del
nuovo corpo di fabbrica tendono ad
uniformarsi alla tradizione architettonica
veneta del Cinquecento, con l’impiego di
ampi archi inquadrati in cornici rettangolari modanate e con l’inserimento nei due
triangoli della cimasa di emisferi di marmi
colorati. I capitelli delle lesene risultano
rudentati, mentre le cornici sono costituite
da ghiere di foglie e di ovoli.
Questo tipo di apertura monumentale (che
risulta poi dovesse essere chiusa da una
complessa vetrata dalle forme vagamente
gotiche) avrebbe dovuto essere collocata ai
capi delle crociere alternativamente a eleganti bifore, inquadrate in archi a tutto sesto, appoggiate su mensole a fogliami (secondo la contaminazione di stilemi albertiani e donatelliani). Le aperture invece affacciate sul cortile interno e sulle facciate
principali riprendono, al piano terreno,
grandi archi palladiani della Loggia, e al
piano nobile la tipica apertura a serliana; il
raccordo tra i due livelli era dato da un ampio scalone monumentale a doppia rampa.
Dalla sezione degli edifici affiancati si evidenziano anche le volute differenze stilistiche: semplificate con quattro ordini di finestre rettangolari modanate per il nuovo edificio, ampie bifore e finestroni per il corpo
di raccordo e l’antico palazzo comunale.
Nella sezione trasversale della Loggia si coglie anzi la volontà di recupero da parte di
Antonio delle funzioni di rappresentanza
dell’antico palazzo: l’ampio ufficio del sindaco risulta separato dall’aula di ricevimento (il salone vanvitelliano) da due ambienti
coperti da cupole a lacunari e definiti da
monumentali serliane a vetri.
Le due vere novità del progetto di restauro
sono tuttavia la decorazione del salone e
scala d’onore e la copertura esterna del palazzo. La scala a rampa unica, poi, a due
braccia parallele in marmo di Botticino con
innesti di marmi colorati, portava al piano
nobile nel vestibolo cupolato, che dava accesso all’ampio salone di rappresentanza
57
dove, a metà del Cinquecento, erano stati
collocati i grandi teleri di Tiziano e le quadrature dei Rosa, presto perduti nell’incendio. Ebbene, Tagliaferri cercava di riprodurre il fasto di quella sala riproponendo una
decorazione a stucco e dipinta che era un
poco la mescolanza tra le Logge di Raffaello
e la tradizione lombarda.
In una seconda versione del progetto l’architetto modificava alcuni dettagli, in specie per le aperture, che venivano assumendo
cornici quadrangolari al piano terreno e ad
arco a tutto sesto nei piani superiori. Così
l’antico edificio della scala quattrocentesca,
inglobato nel nuovo palazzo degli uffici, assumeva un nuovo connotato architettonico
per l’impiego di archi trionfali con timpani
e al primo piano bifore con timpani ed una
copertura a piccola carena di nave.
Certo in questa seconda e definitiva versione del progetto, Antonio squadernava tutta
la conoscenza e l’esperienza acquisita sui
monumenti rinascimentali e sulla trattatistica archittetonica del Cinquecento, non
solamente nell’impiego di soluzioni strutturali e formali, ma in particolare per i dettagli decorativi.
Nel 1878, come si è detto, egli consegnava
un album con ventun tavole nelle quali
grande spazio è dato ai dettagli: dalle decorazioni scultoree del fregio dell’architrave
alle fontane nel nuovo cortile, dalla complessa decorazione pittorica del salone vanvitelliano alla interessantissima struttura di
tiranti di acciaio par reggere la struttura
metallica, sulla quale posare la copertura a
carena di nave rovesciata. In questo disegno
sono descritti minuziosamente i soggetti
delle sculture e degli affreschi del salone: da
sinistra Arnaldo, il motto “Modica Sunto”,
“Causas Populi Teneto” e “Vis Abestio”, infine la figura di Tito Speri. Sul retro compare la firma dell’ingegnere a cui si deve il
progetto e i calcoli per la struttura metallica
della cupola: “Alberto Calzoni, Via Cavalletto”. Nel progetto di Antonio inoltre il
vestibolo al piano superiore della Loggia,
non più coperto da cupole neoromane, doveva mostrare chiaramente la struttura metallica e i tiranti d’acciaio della cupola: un
omaggio dall’architetto storicista alla tecnologia moderna. Tuttavia le lunette e i fregi
del vestibolo non venivano meno alla tradizione pittorica rinascimentale e Tagliaferri
stesso, da buon disegnatore qual era, realiz-
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zava una serie di bozzetti per i pittori con
putti reggenti oggetti simbolici in riferimento alle arti e ai mestieri. Per il grande
salone, oltre ad episodi e personaggi della
storia di Brescia, egli aveva progettato un
grande affresco per il soffitto raffigurante il
Trionfo di Brescia circondata dagli dei olimpici, del quale esiste un bozzetto quadrettato e in parte acquerellato.
Il progetto, realizzato in modo definitivo
nei giorni 23-26 maggio 1878 e consegnato
nell’agosto di quell’anno, suscitò ammirazione e consensi in città e fuori, ma non ebbe seguito immediato. Infatti nel 1880 Andrea Cassa, amico di Antonio, gli scriveva
dicendosi stupito del successo riscosso a
Milano (a Brera) dal progetto, e nello stesso
tempo dispiaciuto perché i preventivi dei
costi erano troppo alti affinché l’idea potesse andare in porto e pertanto si doveva pensare ad un secondo progetto ridotto.
È probabile che Antonio non fosse disponibile a ritrattare il proprio lavoro e per un
decennio la questione rimase sul tappeto
senza essere risolta. Bisognava attendere il
1891 quando, a partire dal 30 ottobre fino
al gennaio del 1892, Tagliaferri venne ricontattato per la progettazione della decorazione della sala del consiglio: impresa che
avrà termine nel 1902 quando Arturo Castelli, coinvolto dall’architetto con Gaetano
Cresseri e Cesare Bertolotti, firmava l’ottagono del vestibolo con la figura di Brescia
armata. A questa fase si deve la realizzazione dello scalone e la collocazione dei dipinti cinque-seicenteschi di proprietà comunale, nonché le decorazioni pittoriche della
sala del consiglio e dei mobili, realizzati dagli ebanisti Zatti e Passadori.
4) SANTUARIO DELLA MADONNA
DELLE GRAZIE. Brescia, Santuario di
Santa Maria delle Grazie (1875-1907)
Alla fine del secolo XIII gli Umiliati di
Palazzolo eressero, nel luogo dove ora sorge il Santuario, una piccola chiesa dedicata alla Natività di Maria. Di questo edificio, ormai scomparso, restano alcuni lacerti murari (ampi conci di pietra locale
uniti da sottili letti di malta), visibili da
un’apertura del muro d’ambito della scala
che porta alla biblioteca del monastero e
alle celle dei frati.
Il piccolo ambiente venne rinnovato nel secolo XIV con l’erezione di una serie di volte a crociera costolonate e ampliata in pianta rispetto alla struttura originaria. Da una
pianta settecentesca si ricava che la chiesetta aveva assunto una struttura rettangolare,
coperta da cinque volte poggianti su due
pilastri quadrati posti al centro; mentre nella sesta campata, in corrispondenza del muro dove era dipinta l’immagine miracolosa
della Vergine, l’altare risultava delimitato da
una balaustra a forma trapezoidale. In realtà
la chiesa aveva mutato orientamento (scomparse abside ed entrata ad occidente) e aveva subito ulteriori modificazioni quando,
nel 1519 cacciati gli Umiliati, vi si insediarono i Gerolimini da Fiesole, trasferitisi dal
loro convento extra muros per le leggi militari del 1517, che spostarono qui il titolo di
Santa Maria delle Grazie. Il 23 marzo 1522
il vescovo di Brescia, Paolo Zane, pose la
prima pietra della nuova chiesa delle Grazie
progettata dal priore della congregazione,
Ludovico Barcella. In tal modo il nuovo
monumentale edificio e il grande convento
annesso relegavano in secondo piano l’antico Santuario: insufficiente per le grandi folle che si riunivano, specie in occasione dei
giubilei e delle feste dedicate ai miracoli
della Vergine. L’accesso alla chiesetta, che
già aveva il pavimento più basso rispetto al
piano stradale, avveniva dal chiostro attraverso due porte con gradini che lo stesso
Antonio riutilizzerà nel proprio progetto.
La crescita del monastero venne bruscamente interrotta dall’editto di soppressione
promulgato da papa Clemente IX il 7 dicembre 1668 e nel 1669 il complesso monastico passò in proprietà ai Gesuiti che ne
modificarono alcuni ambienti per adattarlo
all’attività didattica. Con la soppressione
dei Gesuiti, avvenuta nel 1773, il convento
passò alla Repubblica Veneta, ma il Comune di Brescia rivendicò a sé il giuspatronato
sugli ambienti e sul Santuario. La chiesetta,
che nel corso del Cinquecento, nel generale
rinnovamento pittorico della chiesa grande,
era stata decorata da quadrature del Sandrini e da affreschi del Giugno (ora scomparsi), non aveva poi vissuto altri interventi
che, anzi, era stata mano a mano abbandonata dal culto ed era divenuta un magazzino. A partire dal 1860, per volontà del Co-
mune, erano stati appaltati alcuni lavori di
maquillage affidati all’Ariassi, che probabilmente rinfrescò i pallidi resti delle decorazioni tardo-cinquecentesche. Ma fu nel
1875 che Antonio Tagliaferri, incaricato dal
Comune, iniziava ad occuparsi delle opere
di restauro e che, una volta preso atto della
situazione conservativa, si orientava verso
un totale rifacimento in stile che rappresenta, a Brescia, il maggior esempio di architettura eclettica e di decorazione tardo-ottocentesca.
Del complesso lavoro progettuale non si
conserva nulla nello studio, perchè tutte le
tavole ad acquerello, alcuni disegni esecutivi e bozzetti, furono donati dall’architetto
al Santuario e fino a pochi anni fa conservati in un piccolissimo ambiente a ridosso
della sacrestia, probabilmente ideato dallo
stesso Antonio, le cui pareti, a vetro con
eleganti cornici in legno, erano completamente tappezzate dal progetto di restauro.
Ora la stanzetta è scomparsa, per esigenze
della chiesa, e i disegni si spera siano stati
ricoverati in un luogo acconcio.
Dalle note del Diario si ricava, con cadenza
quasi quotidiana, l’andamento degli studi e
dei progetti, che certo dovettero entusiasmare Antonio che poteva in questo lavoro
dimostrare le sue capacità inventive ed insieme culturali, gestire un ricco e multiforme cantiere d’artisti ed artigiani come nel
primo Rinascimento italiano e restituire alla città un luogo di grande ricchezza decorativa e artistica.
A partire dal novembre 1875 il Tagliaferri
iniziava i rilievi dell’esistente e predisponeva i primi bozzetti e progetti esecutivi per
alcuni elementi decorativi, come i cancelli
ed alcuni dettagli di cornici. Tra il 1877 e il
1878 l’attenzione si spostava alla struttura
interna dell’altare maggiore e dei mosaici
che dovevano decorare i muri d’ambito e i
pilastri di sostegno delle volte; mentre ancora più oltre, tra il 1879 e il 1896, i progetti andavano infittendosi, proponendo
soluzioni per le porte di accesso, i pavimenti, la cantoria, i dettagli degli stucchi e delle sculture. È in questa fase che entrano in
gioco prima Modesto Faustini e poi Cesare
Bertolotti, impegnati nella decorazione pittorica delle due pareti brevi e dei pilastri
con Storie di Maria e figure di Sante e Profeti. Alcune difficoltà sorgevano poi per gli
impianti di illuminazione e per la struttura
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che le moderne lampade a gas avrebbero
dovuto avere per inserirsi senza screzi nel
contesto neogotico del Santuario. Nel corso
del 1897 Antonio procedeva ad un continuo mutamento di idee, fino a quella, poi
realizzata, di una serie di lampade in ferro e
vetro che univano il valore simbolico e la
luce tenue delle lampade da moschea con la
funzionalità e la praticità dell’impianto a
gas. Nel 1889 e dal 1899 al 1907 si dedicava completamente all’ideazione degli arredi
della chiesetta: dai banchi alle carteglorie,
dai candelieri alla gelosia della cantoria,
dalla cattedra all’acquasantiera al leggio;
progetti dei quali si conservano numerosi
studi e bozzetti nel Santuario e nello studio.
Il confronto diretto tra i rilievi dell’esistente e la pianta dell’edificio dopo l’intervento
di Antonio, rivela con chiarezza il proposito conservativo-ricostruttivo del manufatto
giocato sulle esigenze di culto (maggior spazio per il pubblico, distinzione visivo-fisica
tra deambulatorio e altare, centralità della
figura dell’officiante) che deteminarono
l’ampliamento su due piani, l’apertura della
parete meridionale con cinque grandi trifore a vetri, l’ampia balaustra, lunga 44 metri,
che permetteva di ‘affacciarsi’ verso l’immagine miracolosa, ed esigenze stilistiche che
trovarono in Tagliaferri un interprete ed un
paladino entusiasta.
La lunga opera di elaborazione del progetto
implicava un continuo muoversi, da parte
di Antonio, sul terreno della storia degli stili, e in particolare del Gotico fiorito italiano, e su quello dell’organizzazione del cantiere di stampo medievale, che egli aveva
voluto ricostituire intorno a sè, con un ricco stuolo di artigiani e di artisti che ricevevano bozzetti e disegni esecutivi dal capo
cantiere e nello stesso tempo erano in grado
di elaborare varianti ed idee proprie, ma
coordinate all’insieme. I modelli di riferimento per le Grazie hanno ampia latitudine
muovendosi dai chiostri romanici dei Vassalletto in S. Paolo fuori le mura a Roma
(nella decorazione a mosaico dei pilastri
tornata in auge in quegli anni per gli impegnativi lavori di restauro che vi si attuavano), al tabernacolo di Orsanmichele dell’Orcagna (per l’altare e la cornice dell’affresco); dal gotico francescano (struttura delle
volte e delle bifore) alla pittura preraffaellita (gli affreschi di Faustini, che aveva predisposto quasi tutti i cartoni, oggi nella Pina-
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coteca Tosio Martinengo di Brescia, e di
Bertolotti).
Nel cantiere convivevano tra l’altro diverse
specializzazioni: Davide Lombardi, della ditta Lombardi di Rezzato, molto spesso presente in cantieri condotti dal Tagliaferri come il Vantiniano, che realizzava le sculture in
marmo di Carrara limitatamente alla balaustra, all’altare, allo zoccolo perimetrale e ai
plinti dei pilastri, sui quali vengono ripetuti
simmetricamente i simboli mariani (Fons Vitae, Turris Eburnea, Janua Coeli, Sole, L una e
stelle, pozzo e il monogramma M.V.); e Pietro
Peduzzi e figli, di Bergamo, esperti stuccatori
ai quali si devono gli elementi aggettanti delle cornici, delle volte e dei pilastri. La ditta
Peduzzi tra l’altro lavorava in quegli anni anche nella chiesa bresciana di S. Alessandro,
dove portava a compimento nel 1875 la
stuccatura lucida e marmorizzata delle colonne (R. Prestini, La chiesa di Sant’Alessandro in
Brescia. Storia e Arte, Brescia 1986, p. 208) e
probabilmente negli stessi anni operosa anche a Portese e in altri cantieri del Tagliaferri.
Numerosi anche i marmorini che eseguirono
gli intarsi del pavimento, gli ebanisti per gli
arredi e le porte e soprattutto fabbri e fonditori per i cancelli, le lampade e gli apparati
decorativi dell’altare.
Infine l’impresa pittorica, inizialmente affidata a Modesto Faustini che eseguiva solamente l’Annunciazione, la Visitazione e alcuni Santi e quasi tutti i i cartoni per le rimanenti pareti, e, dopo la scomparsa di
questi a Cesare Bertolotti, vedeva scendere
in campo i migliori pittori del gruppo “Arte in Famiglia”, in quegli anni presieduto
dallo stesso Tagliaferri, pittori che coniugavano sapientemente Beato Angelico e i preraffaelliti, Moretto e certo purismo tedesco.
5) MONUMENTO AD ARNALDO DA
BRESCIA. Brescia, piazzale Arnaldo
(1877-1880)
Spinto dagli entusiasmi neounitari e da una
forte polemica antiromana il Consiglio Comunale di Brescia, il 15 dicembre 1865 deliberava di erigere un monumento ad Arnaldo da Brescia, voce critica nei confronti
del potere papale, bruciato come eretico a
Roma nel secolo XII. Lo stanziamento pre-
visto era di L. 30.000, da prelevare per cinque anni (fino al 1870) dai bilanci comunali. Tuttavia per sostenere i pesantissimi
oneri dell’impresa veniva indetta una sottoscrizione internazionale che vedeva coinvolti non solamente i comuni italiani, ma anche città come Parigi e Zurigo. Il 23 ottobre 1869 si costituiva la Commissione comunale composta da Giovan Battista Formentini (Sindaco), Angelo Mensi, Gabriele
Rosa, Filippo Ugoni, Marino Ballini, Giuseppe Zanardelli (consiglieri), la quale stabiliva e pubblicava il concorso l’8 dicembre
del medesimo anno. I bozzetti iniziarono a
pervenire presso il Comune nell’estate del
1870 e con una lettera del 9 agosto veniva
convocata la commissione giudicatrice per
il giorno 6 settembre, costituita da: Aleardo
Aleardi, Eleuterio Pagliano e Angelo Inganni, pittori, Angelo Colla e Giuseppe Conti,
architetti l’uno a Milano e l’altro a Brescia,
lo scultore Giosuè Argenti, insegnante all’Accademia di Brera, Camillo Boito, docente alla Scuola Superiore a Milano, Giuseppe Mongeri, segretario di Brera. Il Sindaco, con lettera alla Direzione del 14 luglio 1870 (Brescia Archivio Civico, R. XIV,
c. 8/3a) chiedeva che tutti i bozzetti venissero esposti negli ambienti del Museo Patrio a maggior lustro del concorso. Ma da
subito si accendevano vivaci polemiche, come testimonia una lettera inviata dallo scultore Innocenzo Fraccaroli (Milano 27 ottobre 1870), fra l’altro attivo anche al Vantiniano, che sottolineava la parzialità della
commissione nel giudicare i bozzetti. Bisogna attendere il 22 febbraio 1871 per leggere sulla “Provincia di Brescia” una relazione
dettagliata dei 29 progetti presentati, fra i
quali erano stati scelti nell’ordine: Odoardo
Tabacchi, Michele Boninsegna e Giacomo
Sassi. Il vincitore del primo premio, insegnante all’Accademia Albertina di Torino,
chiedeva di ritirare il premio con una lettera inviata al sindaco il 28 aprile, dove non
si accennava all’esecuzione della statua; probabilmente era ancora in discussione il progetto generale del monumento e della piazza, se Gaetano Morelli scriveva da Firenze
(18.1.1872) per avere il disegno della pianta del medesimo.
Una relazione veniva stilata nel novembre
del 1870, firmata da Angelo Inganni e
Aleardo Aleardi, e inviata al Consiglio Comunale e agli artisti concorrenti.
In realtà la prima idea del monumento ad
Arnaldo (il bozzetto è conservato alla Fondazione Da Como di Lonato) seguiva un’idea più fortemente pittorico-scapigliata,
dove la foga oratoria del frate era accentuata dall’arrovellarsi dei panneggi. Questa prima idea del Tabacchi è quella che vediamo
utilizzata dal Tagliaferri nelle due prime
versioni del monumento; infatti nel 1879,
all’atto del contratto, la stessa Commissione
chiedeva, con ogni probabilità, per motivi
di opportunità, di attenuare la foga oratoria
dell’eretico e di darne un’interpretazione
maggiormente severa ed essenziale. Accanto
alla figura di Arnaldo, il Tabacchi si impegnava a fornire quattro bassorilievi illustranti gli episodi salienti della vita del frate
(Predicazione a Brescia, Predicazione a Roma, Processo e Supplizio), nonchè una serie
di dodici stemmi di città legate alla figura
di Arnaldo e di dodici teste leonine per la
decorazione del basamento e della cancellata di protezione.
La discussione proseguì per qualche anno,
almeno fino al 1877 quando nel dibattito
entrò anche Antonio Tagliaferri: dalle Note
si ricava che fra il 18 e il 23 giugno l’architetto era andato elaborando un proprio
progetto in merito alla sistemazione del
monumento e di ciò si ha testimonianza in
una lettera inviata al Sindaco, e firmata da
Antonio in qualità di presidente de “L’Arte
in Famiglia” (9 luglio), nella quale davanti
all’ipotesi di una collocazione in piazza del
Duomo o presso il Mercato dei grani (dove
effettivamente verrà collocata), proponeva
in alternativa una sistemazione in piazza
Loggia o piazza Vecchia, in asse con la Loggetta del Monte di Pietà. A questa prima
proposta corrisponde uno schizzo nel quale
è leggibile la posizione del monumento di
fronte a palazzo Loggia ed un basamento
che, nelle linee essenziali, sarà poi quello
adottato dall’architetto nella fase finale. La
risposta non si faceva attendere e il 24 agosto la Commissione invitava il Tagliaferri a
prendere parte alla riunione nella quale gli
veniva ufficialmente conferito l’incarico di
progettare il monumento e la sistemazione
a giardino della piazza Mercato dei grani.
Nei giorni 9-13 settembre Antonio iniziava
i rilievi della zona, ma solamente nel corso
del 1878 riusciva ad approntare il progetto
per la sistemazione delle barriere daziarie di
porta Venezia. Dal disegno si ricava che
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l’architetto, per dare respiro al monumento,
arretra la cancellata posta a chiusura della
piazza ad oriente e raddrizza in senso ortogonale il casello posto a settentrione, arretra
l’entrata del tiro al bersaglio (attuale parcheggio) e propone l’abbattimento dei bastioni e dei caseggiati a nord e a sud rispetto all’Arnaldo, per aprire una nuova salita al
Castello (attuale via Brigida Avogadro e
successivamente la palazzina del fotografo
Capitanio) e uno sbocco verso sud sistemato a giardino, poi abbattuto (attuale via
Spalto S. Marco). Infine ai quattro lati del
quadrilatero centrale propone la collocazione di grandi lampioni a gas dei quali fornisce due schizzi: il primo, poi scartato, riproducente le forme romanico-gotiche del prezioso candelabro Trivulzio conservato nel
Duomo di Milano, mentre la seconda versione risulta più compatta e stilizzata con
elementi ricavati anche dalla tradizione
quattrocentesca. Nel corso del 1879 (12-31
gennaio / 1-3 febbraio / 4-5 febbraio con
soppraluogo a Brescia / 6-8 febbraio / 1015 marzo con dettagli), nel suo studio milanese, Antonio elaborava una prima redazione del basamento, vicina a quella accennata per la sistemazione in piazza Loggia,
costituita da un parallelepipedo cuspidato e
a fasce bicrome, senza alcuna decorazione
tranne lo stemma cittadino; mentre in alto,
sopra un cubo marmoreo con iscrizioni,
doveva appoggiare un rustico masso con
l’effige della Lupa Capitolina ed una catasta
per il rogo dai quali troneggiava la figura di
Arnaldo.
Camillo Boito scriveva al sindaco il 28
maggio 1879 di aver saputo che “lo scultore Tabacchi al quale venne commessa la
parte statuaria del monumento ad Arnaldo
da Brescia, riferì alla Commissione che la
S.V. Ill. ebbe a vedere a Milano nello studio
dell’architetto Tagliaferri, il progetto del basamento da lui ideato e lo dichiarò lavoro
pregevole”(AS, BS). Una volta approvato il
progetto del basamento, le Commissioni
comunale e provinciale si riunirono il 7 luglio per allogare ufficialmente ad Odoardo
Tabacchi la realizzazione dei gruppi bronzei, ma è noto che egli lavorò a questo soggetto già nel 1860, durante il soggiorno a
Roma, e che inviò il modelletto a Milano
nel maggio 1861, vincendo il primo premio
della scultura a Brera. Il Tabacchi doveva
fornire il modello in gesso entro un anno;
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infatti nel 1881 la statua risulta già fusa
presso la ditta Alessandro Nelli di Roma,
ma subito iniziavano le polemiche in relazione alla qualità della fusione e della scultura: alle voci pose fine una secca lettera
dello scultore (16 ottobre 1881). I lavori
nella piazza del Mercato dei grani fervevano, sollecitati dallo stesso sindaco che, partendo dal progetto presentato a suo tempo
dal Tagliaferri, cercava di reperire finanziamenti per l’abbattimento di casa Rigozzi e
di gran parte dei bastioni ancora in piedi, e
per i vari arretramenti degli edifici daziari
(18 ottobre 1881); dalla medesima lettera
risulta che il basamento era quasi pronto. I
lavori di progettazione della seconda versione del basamento dovettero durare tutto il
1880 (4-7 febbraio / 22-29 marzo / 16-29
giugno) e venire realizzati nel corso del
1881 dalla ditta Lombardi di Rezzato, che
forniva anche le breccie impiegate (marmo
bianco di Mazzano, bianco di Cividate, bigio di Brozzo e rosa di Torri del Benaco).
L’idea informativa delle decorazioni plastiche risulta essere uno studio di scultura altomedievale nell’impiego degli archetti pensili e nelle teste mostruose dei capitelli, con
riferimenti a motivi ad intreccio vimineo di
ascendenza longobarda o a foglie d’acanto
stilizzate vicine alla rinascita carolingia e alla cultura ravennate. Si tratta di una sintesi
della plastica medievale, quasi il frammento
di un chiostro del secolo XI-XII, come testimoniano le colonnine in marmo rosa con
i capitelli scolpiti vicini a quelli notissimi di
Moissac. Per la cancellata, al contrario, Tagliaferri utilizzò un andamento maggiormente decorativo e già tutto gotico che ben
contrastasse con la potenza del basamento.
Il legame con la cultura medievale si faceva
quindi evidente e in un certo senso rendeva
ancora più viva e teatrale la presenza della
grande figura in atto oratorio. Il 18 aprile
1882 iniziavano i lavori di collocamento
del mo numento, nei quali il Tagliaferri,
non potendo partecipare, veniva sostituito
dall’arch. Giuseppe Conti, membro della
sottocommissione. Il 7 luglio 1882 il fonditore Nelli scriveva al sindaco affermando
“ieri ho spedito a mezzo ferrovia a S.V. la figura di Arnaldo da Brescia...” e il 14 agosto, con uno straordinario concorso di folla
fra cui le rappresentanze di ben quaranta
logge massoniche e il coinvolgimento di
tutta l’Italia in una gigantesca lotteria che
avrà strascichi annosi, il monumento veniva
inaugurato ed immortalato da una serie di
fotografie della ditta Ferrario di Milano e
Alinari di Firenze. Le polemiche tuttavia
non si erano ancora sopite sul significato e
il valore politico del monumento, e nel settembre 1882 si accendeva la polemica fra
Tabacchi e Tagliaferri per via di 16 testine
di leone in bronzo che dovevano decorare il
basamento.
Tuttavia i lavori di sistemazione della piazza
non erano ancora conclusi, dato che il 18
dicembre venivano stipulati i preliminari di
contratto per la fornitura delle colonnette
in ferro fuso occorrenti sui giardinetti per
una lunghezza di circa m. 200. Ancora il 10
febbraio 1883 lo stesso Sindaco sollecitava
Tagliaferri affinchè facesse fondere in ghisa
il modello delle panchine per i giardini della nuova piazza Arnaldo, e in bronzo le lettere delle epigrafi (ideate dal senatore Tullo
Massarani) da porre sul basamento “acciò
possano essere collocate in sito prima che si
cancellino quelle dipinte provvisoriamente”. Infine il 16 dicembre 1895 e il 28 aprile 1903 si doveva provvedere ad alcune opere di restauro e sostituzione di marmi al
monumento.
Un intervento molto più tardo, e probabilmente determinato dalla sempre maggiore
frequentazione di piazza Arnaldo da parte
della cittadinanza, è quello che vede Antonio predisporre uno studio nel giugno 1903
(23-30) per la chiusura delle arcate, ormai
non più utilizzate, del Mercato dei Grani di
Angelo Vita. L’idea, che ancora oggi è da
molti sostenuta, non fu realizzata ma, in
mancanza di testimonianze grafiche, possiamo supporre fosse molto vicina a quella
adottata per la chiusura dei portici del Corso del Teatro.
6) RESTAURO DELLA CAPPELLA DEL
SS. SACRAMENTO. Brescia, chiesa di
S. Giovanni Evangelista (1877-1883)
Fra i numerosi interventi di restauro di monumenti cittadini, da parte di Antonio,
quello relativo alla sistemazione della cappella del Sacramento di San Giovanni è forse fra i più rispettosi dello status quo e in
nessun caso tendente ad una ricostruzione.
La cappella, che conserva com’è noto i cicli
pittorici di soggetto eucaristico di Moretto
e Romanino (1521-1524) e la Deposizione
di Zenale (1509 c.), era già stata in parte
trasformata da Tommaso Sandrini, che aveva realizzato delle quadrature architet toniche sulla cupola, incornicianti le quattro Sibille poste nei pennacchi e variamente
attribuite al Giugno o al Nuvolone.
Tuttavia nel generale impegno di rifacimento dei luoghi monumentali (negli stessi anni si era avviata la trasformazione del Santuario delle Grazie) la cappella del Sacramento, gioiello del Rinascimento bresciano,
diviene oggetto d’attenzione a tal punto da
indurre il prevosto della chiesa, fratello del
pittore Modesto Faustini, amico di Antonio, a commissionare al Tagliaferri un progetto complessivo di restauro. Probabilmente i primi abboccamenti risalgono al
1873 (26-30 aprile), ripresi poi a distanza
di tre anni nel 1876 (durante l’estate), ma
sfociano in una proposta definitiva solamente nell’ottobre del 1877 (26-30), quando l’architetto porta a compimento l’acquerello con la sezione della cappella.
L’idea informatrice del progetto risulta essere una filologica ricostruzione di un’architettura cinquecentesca, che parte proprio dall’ancona intagliata da Stefano
Lamberti (1509-1517 c.) per la Deposizione di Zenale, posta al centro della parete
frontale e che si proietta sulle pareti laterali, sulle lesene, negli archi e nelle cornici
del ciclo di Romanino e Moretto, collocato sui due lati dell’ambiente. Il motivo
dei racemi vegetali salienti da cespi d’acanto, la corona d’alloro con nastri, il frontone semicircolare con conchiglia, le volute,
gli ovoli e le gutte, pescano a piene mani
nel repertorio decorativo di ascendenza
mantegnesca e quattrocentesca tout court
che era testimoniata storicamente nel Santuario dei Miracoli e in Palazzo Loggia.
Nella lunetta superiore era previsto un affresco raffigurante la Sacra Famiglia (forse
una Fuga in Egitto), che non venne eseguito, ma sostituitito dalla lunetta con l’Incoronazione della Vergine di Moretto, mentre
nei pennacchi, in sostituzione delle Sibille,
fu realizzato il calice con il Sacramento in
un orifiamma. Infine la sommità della cupola doveva essere decorata da un fondo
blu con stelle dorate ad imitazione dei soffitti rinascimentali (come del resto sarebbe
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poi stato fatto nel Santuario delle Grazie).
Il Vezzoli (1975, p. 109) ricorda come il 5
giugno 1883 il Ministro per gli affari del
culto, rispondendo ad un’interpellanza della parrocchia, comunicasse che “la fabbriceria della chiesa parrocchiale di S. Giovanni Evangelista in Brescia è autorizzata a
vendere all’asta pubblica la soasa di altare
consistente in due colonne intagliate ed architrave stimata L. 250, nonchè il cancello
di ferro stimato L. 150 nella perizia Coen,
28 febbraio 1883, a condizione che l’incanto si apra per la soasa in base al prezzo
di L. 400 offerto dal pittore Achille Glisenti, e pel cancello al prezzo di stima”.
Tuttavia già nel 1878 (rendiconti del 26
novembre; Vezzoli, 1975, p. 109) la fabbriceria si era impegnata nella vendita di altri
arredi ecclesiastici: “Non essendo compatibili col progetto Tagliaferri due banchi di
legno vecchi di stile e ammalorati, lo scrivente trova necessario sostituirli, ed a questo scopo ha chiesto alla Superiorità di poter alienare i vecchi che si dicono del seicento e potrebbero avere un valore relativo”. La vendita ad un antiquario svizzero
aveva fruttato L. 7255 e perciò la soasa del
Lamberti venne risparmiata, ma forse non
la cancellata se lo stesso Tagliaferri presentava un progetto per il cancello nell’anno
1888 (giugno 22-29). I lavori di restauro,
terminati nel 1883 per la parte decorativa,
avevano visto l’intervento dei ‘doratori’
Dilda e Laffranchi, per un costo di L.
2200, che aveva interessato la soasa lambertiana e la nuova lunetta col pellicano
(forse del laboratorio Passadori), e le nicchie laterali. I sedili lungo il perimetro della cappella, in sostituzione di quelli venduti, di gusto classicista, furono realizzati su
disegno di Antonio dal falegname Monicelli; mentre al decoratore Ovidio Franchini si dovette l’esecuzione del cielo stellato,
delle candelabre delle lesene, delle corone
d’alloro dorate sullo zoccolo. Infine Modesto Faustini inter veniva nei quattro pennacchi sostituendo alla proposta di Tagliaferri delle figure di Angeli, che richiamano
fortemente il contemporaneo ciclo delle
Grazie.
Sempre per la parrocchia di S. Giovanni, il
Tagliaferri realizzava nel luglio del 1908
(22-24) il progetto per l’apparato delle
Quarant’ore, del quale non si hanno altre
notizie.
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7) PROGETTI PER ARREDI IN STILE
(1879-1904)
Nel corso della ricchisimma carriera di Antonio Tagliaferri non è raro incontrare indicazioni e disegni relativi a progetti per singoli mobili o interi arredamenti, per le
esposizioni e per completare l’architettura
degli edifici progettati dall’architetto medesimo. Talvolta i mobili sono stati commissionati da artigiani, tal’altra si tratta di ammodernamenti, in gusto eclettico, di palazzi nobili e di antiche residenze.
Nonostante le numerose notizie delle Note
è praticamente impossibile ricollegare i nomi dei committenti e le date di progettazione alle poche tavole conservate nello studio,
che spaziano dallo stile pompeiano al rinascimento italiano, dal rococò francese al
neogotico d’Oltralpe.
Tra le prime indicazioni compaiono le date
15 luglio 1879 (“mobili per il Sig. Bonometti”), il 24-25 giugno 1883 (“mobili Dulini”), il 1886 (gennaio 6-10) (“mobili Pastori”), il 1888 (mobili per palazzo Arrivabene-Ducos) e 1890 per 1’ing. Calini.
Significativamente, tra il 1885 e il 1895,
Antonio consegna una serie di dettagli per
mobili vari al falegname bresciano Paolo
Ruini. Uno di questi, una credenza contenente un caminetto, è forse riconoscibile in
un acquerello, datato al giugno 1885, nel
quale il mobile risulta diviso in cinque sezioni (che non ci sono pervenute). Lo stile
prescelto è quello manierista con gran dispendio di mascheroni, sfingi, pilastrini e
bassorilievi con girali d’acanto, e dato che
nel medesimo anno Antonio segue le fasi finali dell’arredamento di villa Lattuada a
Casatenovo, realizzata in stile Tudor, non è
escluso che questo mobile particolare sia
stato progettato proprio per i Lattuada.
Nel 1889 (12-16 dicembre) vengono consegnati i disegni per il prefetto Soragni, nell’estate del 1900 quelli per il sig. Rota e per
Seveso, mentre nell’aprile Antonio aveva
realizzato un acquerello (non rintracciato)
di sala con camino del secolo XVI. Ancora
nel 1902 (marzo) e nel 1904 (settembre)
realizzava i mobili Rondani e Balardini.
Dei pochi disegni conservati nello studio,
oltre a quello della credenza del 1885, va ricordato quello relativo ad una credenza in
stile pompeiano (poi acquerellato), costituita da un ampio basamento a vetri con colonnine, mensole e tritoni marini intagliati.
Dalle Note si ricava che Tagliaferri si impegna nella realizzazioni di mobili “pompeiani” nell’11-14 aprile 1885 per il sig. Pastori
di Brescia, negli anni 1889-1890 (mag gio-luglio) per il signor Bona-Gerardi di
Roma ed infine nel settembre-ottobre 1902
per la casa del sig. Luigi Cocchetti-Terzi di
Brescia. Tuttavia, date le affinità di tratto e
di stesura di colore con acquerelli degli anni Novanta, è possibile ipotizzare che si
tratti dello schizzo per i mobili Gerardi.
Nel corso dell’ottobre 1897, Antonio realizza una serie di mobili per il sig. Apollonio e
nel marzo dell’anno seguente propone un
secondo disegno per una credenza. Si tratta
con ogni probabilità della credenza con caminetto in stile neorococò, con elementi
decorativi del repertorio “stile Luigi XV”,
costituito da un’alzata con ante intagliate e
da due cantonali laterali con linee mosse ed
elementi vegetali. L’affinità dello stile ha
permesso di legare a questo disegno un secondo progetto (nelle Note si ricorda infatti
che il 16-17 settembre 1898 egli consegna
il disegno per “un mobile d’angolo”) raffigurante un armadio a muro con specchiere
ed un mobile d’angolo con lavandino incastrato e elegante rubinetto in forma di
anfora.
Per arricchire ulteriormente la conoscenza
dell’attività di Antonio come disegnatore di
mobilia, si rendono noti in questa sede tre
disegni non appartenenti allo studio, ma al
mercato antiquario, che tuttavia è possibile
identificare con certezza.
La libreria con scrittoio in stile neogotico
con coronamento riccamente intagliato e
ornato da due figure allegoriche e dallo
stemma di famiglia, mentre la parte inferiore ha colonne binate ad angolo, leoni reggistemma e bassorilievi sulle antine con cornici a compasso, è da identificarsi nei mobili per il ristrutturato palazzo Valotti, poi
Lechi, in corso Magenta a Brescia, realizzati nell’agosto del 1888.
La monumentale libreria, inglobante una
porta di accesso alla biblioteca, è invece caratterizzata da semicolonne corinzie su basi
mistilinee e le cornici hanno quell’andamento geometrizzato che riconosciamo nell’architettura tardo-ottocentesca di Antonio. Sulla sommità è inserito un angelo reg-
gicartiglio e la libreria risulta coronata con
pinnacoli identici a quelli sistemati sulla
cancellata Brunati a Rivoltella e, appunto,
su palazzo Arrivabene-Ducos a Brescia. Poichè nel marzo del 1888 sono ricordati progetti per i mobili del nuovo palazzo Ducos,
è credibile pensare che questa indicazione si
leghi al disegno esaminato.
Infine l’ultimo disegno relativo ad una piccola libreria o consolle a più ripiani in stile
protoneoclassico porta l’indicazione “Per
una sala di stile Luigi XVI pel Conte Bernardo Salvadego” e ci aiuta così ad identificare l’oggetto con le indicazioni di “mobili
Salvadego” nel 26-31 dicembre 1876,
probabilmente per il ristrutturato palazzo
Martinengo poi Salvadego in via Dante.
8) MONUMENTO ALLE CINQUE
GIORNATE DI MILANO (1880)
Nel 1880 il Comune di Milano bandiva un
concorso pubblico per l’erezione di un monumento a ricordo delle Cinque Giornate
da erigersi alla barriera di Porta Vittoria.
Antonio Tagliaferri partecipava con un acquerello che veniva giudicato al secondo
posto e veniva premiato con una medaglia
d’argento. L’idea di partenza di Antonio è la
medesima applicata nel basamento dell’Arnaldo da Brescia, ovvero un recupero in senso simbolico dell’architettura e della decorazione plastica romanica, riconosciuta come unica e vera radice culturale della unità
nazionale e del bisogno di irredentismo.
Esiste una prima idea della composizione
(acquarello su cartone, cm. 49,5 x 34) che
prevedeva una possente torre merlata che
doveva fungere da porta di accesso alla città
affiancata, alla base, da gruppi scultorei raffiguranti combattenti armati e bandiere
sventolanti sulle barricate. I giganteschi
conci di pietra si elevavano in corsi regolari
da due basamenti rettangolari, interrotti a
metà dell’altezza da due cornici di dentelli.
Al di sotto della merlatura ghibellina, la
massiccia cortina muraria del torrione si
apriva in una loggia di archetti a tutto sesto
con colonnine e capitelli squadrati, decorati da protomi animali, di chiara desunzione
romanica, mentre sul fondo delle archeggiature venivano posti al cuni stemmi di
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città italiane che si erano ribellate al dominio straniero (per esempio la leonessa rampante di Brescia). Nella porzione centrale
della torre era stata ricavata una nicchia, archivoltata con una struttura trilobata aggettante, nella quale era inserito un bassorilievo raffigurante un uomo a cavallo che con
la spada atterra un nemico; al di sotto l’epigrafe riportava la data memorabile della rivolta “XXII MARZO MDCCCXLVIII”.
L’arcone centrale di sostegno era significativamente realizzato da conci di pietra liscia
alternata a conci di pietra lavorata con bassorilievi raffiguranti la lotta fra un’aquila e
un leone: l’allusione alla forza del popolo in
rivolta contro l’Austria e il richiamo metodico e attento all’esattezza delle forme romaniche, concorrevano a dare un forte valore allegorico a tutto il monumento. La soluzione definitiva adottata dal Tagliaferri, e
presentata in concorso, teneva conto delle
linee fondamentali della prima redazione (il
torrione massiccio, i conci di pietra, gli elementi romanici), ma insisteva maggiormente sugli elementi simbolici e sulla ricostruzione di un’ideale unione attraverso la storia
dell’anelito di libertà dei milanesi, e degli
italiani tout court, dal giuramento di Pontida all’entrata dei piemontesi a Roma: un
percorso ascensionale che dalla massicciata
della base tendeva ad alleggerirsi verso l’alto
con archetti, colonnine, merlature, fino alla
sommità dove una grande aquila, dalle ali
spalancate, era pronta a librarsi in volo. A1
centro del torrione compariva ancora un
bassorilievo, dove erano riconoscibili figure
di armati con al centro una Vittoria alata,
simbolo della pace raggiunta con la sommossa popolare del 22 marzo. Di questa seconda versione si conservano alcuni interessanti studi parziali a matita su velina, fra i
quali compaiono la Lupa capitolina, il Leone di San Marco, la Leonessa di Brescia, l’Aquila bicipite (per il Monumento ad Arnaldo), cinque bassolirilievi con Lotta fra leone
e aquila e il bassorilievo centrale con gli armati che difendono l’Italia seduta ed incoronata, sormontata da una Vittoria in volo.
L’acquarello, come per il monumento ad
Antonio Calegari, era arricchito da un contorno di figure di gusto bozzettistico, una
caratteristica delle ambientazioni che Antonio dava ai propri acquerelli progettuali.
Il concorso fu vinto da Giuseppe Grandi,
che proponeva una soluzione scultorea del
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tutto nuova, rispetto all’ideazione architettonica ad arco trionfale di tipo tradizionale,
e a sua volta questo monumento diveniva il
modello di riferimento di Domenico Ghidoni per l’ideazione della prima versione
del monumento al Moretto a Brescia.
9) SALA BRESCIANA ALL’ESPOSIZIONE
GENERALE DI MILANO (1881)
Dell’impegno di Antonio Tagliaferri nel
campo della progettazione e realizzazione di
padiglioni per le esposizioni nazionali, resta
oggi solamente la testimonianza dell’intervento nell’esposizione Generale Italiana di
Milano del 1881, per la quale realizzò la Sala Bresciana. Il lavoro è testimoniato dalle
Note in tre riprese: 16-24 maggio (giorni in
cui presentava alla commissione di controllo i bozzetti e i disegni esecutivi del padiglione), 19-24 giugno e 14-17 luglio (nei
quali progettava la libreria in stile neogotico per la sala).
A questa fase progettuale va ricondotto anche un piccolo schizzo a china e matita su
velina che raffigura un interno in stile neogotico, di area franco-tedesca, nel quale sono leggibili l’elegante caminetto (con cornice a pinnacoli, girali vegetali e vasi di fiori),
il divano con specchiera archiacuta (tutta la
parete è in boiserie traforata) e al centro una
mensolina con leone reggistemma.
Dall’unico acquerello conservato nell’archivio Tagliaferri si ricava l’impressione che il
contemporaneo cantiere del Santuario di S.
Maria delle Grazie (iniziato nel 1875) influenzasse in modo determinante la scelta
stilistica che doveva rappresentare la città
nell’esposizione milanese. Si tratta anche
qui di una mescolanza continua, certo consapevole, tra il gotico fiorito di marca italiana ed elementi dello stile Tudor (specie nella porta di ingresso). Pinnacoli, colonnine
tortili, archetti trilobati (posti a coronamento del padiglione) e trafori, si trasferiscono dall’ambiente religioso delle Grazie
in un interno cortese che incornicia specchiere, camini, boiseries, porte e una grande
libreria a parete. Le decorazioni pittoriche
previste nell’acquerello, probabilmente realizzate da uno dei tre decoratori operosi alle Grazie (Chimeri, Franchini o Salvi), oltre
ad imitare una tappezzeria medievale con
elementi geometrici, ricordava sulla porta
di accesso lo stemma della città, ripetuto
anche sugli scudi del caminetto retti da due
leoni seduti, e nel cornicione di coronamento paesi e fiumi della provincia: (da sinistra) Salò / Garza / Chiari / Mella / Palazzolo / Oglio/. Al centro invece, legati
dalle decorative ramificazioni vegetali di un
cespo d’erbe e da un cartiglio, gli stemmi di
Milano, dell’impero asburgico, di Pandolfo
Malatesta e di Venezia.
10) MONUMENTO A VITTORIO
EMANUELE II A ROMA (1881)
Il Parlamento Nazionale, per onorare la
memoria di Vittorio Emanuele II, Pater Patriae, stabiliva, con legge del 25 luglio 1880
(da una proposta del Governo del 16 maggio 1878), che: “Una Commissione da nominarsi per decreto Reale provvederà alla
pubblicazione del manifesto di concorso, al
conferimento dei premi, farà la scelta del
progetto da eseguirsi, continuerà a raccogliere le offerte pel monumento nazionale,
e veglierà alla buona esecuzione dell’opera”.
Umberto I nominava la suddetta commissione il 13 settembre, la quale riunitasi, significativamente, il 20 dello stesso mese
sotto la presidenza di Cairoli, formulava le
norme del concorso per il 23. Le norme si
potevano sintetizzare in una totale libertà di
ideazione del monumento “...quando non
accettando la proposta d’un arco di trionfo,
e non rigettandola, lasciava la speranza che
nel secolo nostro fosse sorta in mezzo alle
vecchie forme, improvvisa e innominata
quella forma nuova, adeguato simbolo della
riconoscenza del popolo, e perfetta estrinsecazione delle conquiste dell’arte moderna”.
Il 23 settembre 1881, alle ore 5 pomeridiane, scadeva il termine per l’accettazione dei
bozzetti: ne giunsero 293. A cominciare dal
15 novembre del medesimo anno, essi venivano esposti nelle nuove sale del Museo
agrario in Via Santa Susanna e rimanevano
a disposizione del giudizio del pubblico per
quattro mesi. Finalmente il 15 febbraio
1882 si riuniva la Commissione giudicatrice arricchita di alcune nomine Reali: De
Pretis (presidente del Consiglio), i senatori
Giuseppe Fiorelli, Tullo Massarani (che aveva composto le iscrizioni per l’Arnaldo),
Marco Tabarrini, Francesco Vitelleschi-Nobili, il Presidente dell’Accademia di San Luca, il Sindaco di Roma, i deputati Cesare
Correnti, Alessandro Guiccioli, Ferdinando
Martini, Francesco De Renzis (segretario
della commissione), gli architetti Camillo
Boito, Raffele Canevari, Carlo Ceppi, Emilio De Fabris, i pittori Giuseppe Bertini e
Domenico Morelli, infine gli scultori Giulio Monteverde e Vincenzo Vela.
Sui 293 progetti esaminati, dopo ampie discussioni e votazioni, la maggioranza dei
commissari sceglieva 54 bozzetti e di questi
indicava fra i migliori l’estrinsecazione del
motto “Da Porta Palatina a Porta Pia” di
Antonio Tagliaferri “ove è abilmente superato il volontario problema della sovrapposizione di masse architettoniche disparate”.
Il 1° aprile 1882 la Commissione conferiva
il primo premio al progetto n. 249 di Enrico Paolo Nenot, pensionato all’Accademia
di Francia a Roma, il secondo premio al n.
194 di Ettore Ferrari e Pio Piacentini (che
si ripresentarono al concorso di secondo
grado), infine il terzo premio al n. 259 dello scultore Stefano Galletti. Il progetto di
Antonio Tagliaferri veniva classificato con il
n. 52, ma il 27 settembre del 1883 riceveva
il diploma della medaglia d’argento per la
partecipazione al concorso di primo grado.
Non avendo trovato adeguate soluzioni costruttive, la Commissione bandiva un secondo concorso, per i soli artisti italiani, il
12 dicembre 1882, definendo la sede del
monumento a fianco del Campidoglio e la
forma costituita da ampie scalee, propilei e
una statua equestre del re in asse con via
del Corso e piazza del Popolo. Al 9 febbraio 1884 risultavano aver inviato i propri
progetti 70 concorrenti, fra i qua li non
compare il Tagliaferri, probabilmente non
sollecitato dal risultato del primo concorso.
Il 24 giugno la Commissione giudicava
vincitore il progetto di Giuseppe Sacconi,
debitore fra l’altro dell’idea di Antonio (al
quale invia fotografia del proprio progetto
con dedica), e il 1° gennaio 1885 con Reale decreto veniva investito della carica di
Direttore e Soprintendente dei lavori. Il 22
marzo 1885 il re Umberto I posava la prima pietra dando così inizio alle opere di
abbattimento e sventramento ai piedi del
colle capitolino: dall’aprile 1885 al novem-
67
bre 1888 venivano abbattuti 28 fabbricati
storici e solamente nell’aprile 1891 le gigantesche fondazioni, che avevano imprevedibilmente fatto lievitare i costi, emergevano dal terreno. Ancora nel gennaio del
1892 proseguivano le spinose e interminabili trattative con la ditta rezzatese dei fratelli Lombardi per la fornitura del Botticino per la costruzione: com’è noto, Sacconi
aveva previsto l’impiego del locale travertino, ma l’allora presidente del consiglio, il
bresciano Giuseppe Zanardelli, era riuscito
a dirottare l’appalto sulle ditte rezzatesi,
fondamentale risorsa economica della zona
e importante bacino elettorale. Il 30 dicembre 1894 veniva presentata al Parlamento una relazione definitiva sullo stato
dei lavori e sull’aumento dei costi: iniziarono le discussioni e il cantiere subì dei ritardi, tanto che alla morte del Sacconi, 25 settembre 1905, il monumento era ancora in
parte da costruirsi e all’uopo veniva designato un triumvirato di architetti che lo
portasse a termine secondo i progetti: Gaetano Kock, Pio Piacentini e Manfredo
Manfredi. Diverso fu il problema per la
realizzazione dell’Altare della Patria, al quale per primo aveva cercato di dare una forma lo scultore Ludovico Pogliaghi in un dipinto ad olio donato al kaiser Guglielmo
II, e lo stesso Sacconi aveva fatto preparare
un bozzetto ad Eugenio Maccagnani (l’autore del Garibaldi bresciano) in cooperazione con il Gallori e lo Zocchi. Bisognava
tuttavia attendere il risultato del concorso
del 1909 che vedeva vincitore il bresciano
Angelo Zanelli, residente a Roma da anni,
il quale portava a compimento l’opera, almeno nella fase in gesso, per il 4 giugno
1911, giorno di inaugurazione ufficiale del
monumento, ma Antonio Tagliaferri era
già morto da due anni. Il lavoro di Zanelli
si concludeva solamente nel 1925 con la
collocazione della grande Dea Roma al centro della edicola, sotto la statua equestre di
Vittorio Emanuele II.
Quando nel 1880 Tagliaferri ricevette il
bando di concorso per l’ideazione del monumento a Vittorio Emanuele II a Roma,
con ogni probabili tà (e di ciò abbiamo
chiara testimonianza nella serie di collages di
cartoncini e veline probabilmente sistemati
dal nipote Giovanni dopo la morte dello
zio) si orientò immediatamente allo sviluppo dello schema dell’arco trionfale anti-
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co con possibili varianti nelle soluzioni degli attici e nella decorazione plastica. Ad
una seconda fase appartiene l’elaborazione
di un arco trionfale sopraelevato su una serie di gradini, poi un obelisco circondato da
un recinto sacro oppure da colonnati, infine la scelta pare essere caduta sulla rivisitazione-ricostruzione del mausoleo di Adriano (attuale Castel S. Angelo) affacciato sul
Tevere. Da questa costante ricerca basata
sull’impiego dei diversi stili architettonici
classici, assemblati in fondali scenografici
traforati da nicchie e colonnati, Tagliaferri
doveva desumere l’idea conclusiva di un
grandioso gioco di scalee e piani inclinati a
diversi livelli con un coronamento di colonnati ionici e un tempietto corinzio per la figura di Roma. Il grande colle artificiale sarebbe divenuto il fulcro visivo della nuova
Roma (area della stazione Termini), luogo
di passaggio veicolare (la base era costituita
da due passaggi per carrozze e due pedonali) e infine centro di un parco pubblico con
giardini e fontane. Nella dettagliata relazione, contraddistinta dal motto “Da Porta Palatina a Porta Pia”, consegnata accanto ai
bozzetti e agli acquerelli, Tagliaferri dava
una giustificazione simbolica precisa anche
alle scelte architettoniche, indicando nelle
scalee e nei terrazzamenti il percorso compiuto dal Risorgimento nazionale, con a capo Vittorio Emanuele, da Torino (Porta Palatina riprodotta alla base del monumento),
attraverso imprese militari (Novara, Magenta, San Martino, Crimea) e diplomatiche
(Plombières, Berlino) alla presa di Porta Pia
(20 settembre 1870) e alla sconfitta del potere temporale dei papi (la tiara atterrata).
Al centro fra due Vittorie, dominava la statua equestre del re in armi e sotto il motto
“Il popolo forte si matura alla scuola delle
avversità”.
Sotto l’ampio colonnato ionico, memore
dei propilei ateniesi, trovavano posto le personificazioni delle 14 regioni italiane in abiti classici; mentre a coronamento comparivano le riproduzioni della Vittoria alata
bresciana (ritrovata negli scavi del Capitolium il 20 luglio 1826).
Nella parte posteriore del monumento, al
contrario, venivano messe in evidenza le
masse murarie (e qui in modo più evidente
si scorgono analogie con la mole adrianea e
il mausoleo imperiale tout court) e quindi
accanto ai conci di travertino veniva siste-
mata una porta che abbinava la trabeazione
dorica ad una finta loggia romanica.
Nella zona superiore, corrispondente al trono della Dea Roma, il Genio del Progresso,
con eloquenti simboli delle “magnifiche
sorti e progressive” dell’età industriale (pila
elettrica, torchio per la stampa e una vaporiera), rappresentava la sintesi del percorso
evolutivo, storico e culturale, della società
italiana, dall’età classica, attraverso il Medioevo, fino al Risorgimento. Nella sezione
del monumento si coglie chiaramente l’intenzione, da parte di Tagliaferri, di creare
un Pantheon al di sotto della statua equestre
(vera e propria riproduzione del Pantheon,
divenuto mausoleo dei Savoia a Roma, con
la medesima copertura a lacunari): probabilmente le tribune disposte in circolo ai lati con un ampio vano al centro, volevano richiamare il monumentale sepolcro napoleonico de Les Invalides a Parigi e accomunare
quindi, nella gloria della Storia, Vittorio
Emanuelle II alla figura dell’Empereur dei
francesi.
In un confronto fra questa elaborazione e il
progetto presentato da Sacconi tre anni dopo è facile scorgere quanto questi abbia utilizzato del progetto di Tagliaferri, pur mutandone la distribuzione dei piani e gli elementi allegorici più personali, e questo
spiega forse l’invio cortese delle 5 riproduzioni fotografiche dei propri acquerelli ad
Antonio che, come si diceva, non partecipò
al secondo concorso per il monumento:
probabilmente pago del buon risultato ottenuto nella prima tornata della prova e impegnato in altri più vicini e redditizzi cantieri; non da meno è probabile che il nostro
evitasse di partecipare, nel 1884, anche per
non incorrere in una seconda e poco esaltante sconfitta.
11) MONUMENTO A TITO SPERI E SISTEMAZIONE DELLA PIAZZETTA.
Brescia, piazza Tito Speri (1885)
Nel corso delle ricerche nell’archivio di
Antonio Tagliaferri è stato rinvenuto uno
schizzo a matita su cartoncino, siglato in
basso a sinistra “Architetto Tagliaferri A.”,
relativo ad una proposta per un monumento a Tito Speri, eroe delle Dieci Gior-
nate nel 1849 e martire di Belfiore. L’idea
era quella di sfruttare il naturale declivio
delle pendici del Castello di piazza dell’Albera, poi piazza 1849, ora piazza Tito Speri, con una serie di due piccole rampe di
scale incornicianti uno zoccolo sul quale
una ricostruita barricata (sul barile rovesciato si legge la data 1849) faceva da podio alla figura dello Speri che indicava al
popolo bresciano la salita di Ognissanti,
ora delle Barricate. Il progetto rientrava
probabilmente nell’impegno dell’architetto
di ridisegnare tutta la piazzetta e doveva
essere relativo non solamente al monumento, fulcro dei giardini che vi avrebbe
disposto, ma anche alla rettificazione e alla
sistemazione delle facciate delle case antistanti. La commissione passava poi al giovane Domenico Ghidoni l’esecuzione della
statua di Tito Speri, il quale realizzava una
figura di stretta matrice verista, di mediocre qualità, ma che piacque ai bresciani che
vi riconobbero con facilità l’eroe cittadino.
Il cambio della guardia si doveva certamente allo stesso Antonio, che fin dall’inizio fece da sostenitore al giovane scultore
di Ospitaletto, e il basamento della statua,
così come la posizione del personaggio, i1
disegno delle aiuole e dei vialetti di passeggio, sono suoi. Il monumento veniva inaugurato nel 1888, ma la Piazzetta veniva
progettata fin dal 1885 (anno in cui va
collocato il disegno per la prima versione
del monumento) e più esattamente all’agosto (23-30) vanno datati gli schizzi preparatori e a settembre (1-8) il progetto definitivo di sistemazione dell’area). Tuttavia
nel maggio-giugno 1889 non erano ancora
state collocate sul basamento le epigrafi
dedicatorie per le quali lo stesso Antonio,
sul retro di una lettera datata 18 giugno,
stila un bozzetto della cornice e della distribuzione delle lettere per l’epigrafista. Al
giugno (20-21) e luglio (13-15) 1888 datano il trasporto e la sistemazione della
fontanina posta sul lato orientale. La piccola fontana si trovava all’interno del convento dei SS. Cosma e Damiano, che sorgeva sull’area poi occupata dalla “Caserma
degli sbirri” e dall’attuale piazza, spostato
nella parte orientale della città dal vescovo
Berardo Maggi al fine di ampliare il Broletto verso nord. La vasca della fontanella
era stata ricavata dall’arca funeraria del vescovo bresciano San Tiziano (opera del se-
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colo XII) e coperta da una tettoia marmorea sostenuta da due colonnine con capitello pseudocorinzio del secolo XV. La fontana fu montata all’esterno della “Caserma
degli sbirri” nei primi decenni dell’Ottocento, come testimonia un disegno dello
stesso Antonio ricavato da uno schizzo di
Giovanni Renica del 1834, mentre in un
disegno acquerellato di Luigi Delelidi detto il Nebbia, databile al 1820-1825 circa,
non è visibile sotto la torre di guardia alcuna fontana. Nel 1885, appunto, Antonio Tagliaferri, impegnato nella risistemazione della piazzetta dell’Albera e deciso a
voler dare un segnale della stratificazione
storica della zona, decideva di riportare la
fontana da via Musei al lato orientale della
piazza, dove appunto un tempo sorgeva il
medievale convento dei SS. Cosma e Damiano. In una foto Glisenti di quegli anni
è possibile vedere l’originaria disposizione
e collocazione della fontana all’esterno della “Caserma degli sbirri”, poi palazzo della
posta; mentre Antonio, smontatala completamente, ridisegnava una capace vasca
rettangolare su cui poggiare le due colonnine (in parte restaurate, come testimonia
lo schizzo su un taccuino), rialzando al
centro l’arca di San Tiziano con le due
protomi umane in funzione di cannelle.
Nello spazio libero sotto la tettoia faceva
dipingere a fresco uno stemma nobiliare
sormontato da un cimiero piumato, oggi
quasi illeggibile.
12) VILLA ZANARDELLI.
Maderno (Brescia) (1886-1902)
Il 2 giugno 1886 Antonio Tagliaferri sceglieva, in una località posta tra Fasano e Maderno, il luogo dove avrebbe dovuto essere costruita la villa di vacanza dell’allora consigliere comunale, poi primo ministro, Giuseppe Zanardelli. Gli studi iniziarono immediatamente tenendo conto della posizione
panoramica verso il lago di Garda su un promontorio che permetteva di abbracciare visivamente tutta la porzione centro meridionale del bacino lacustre.
Nel dicembre 1886 Antonio realizzava un
primo progetto della villa in forma di castello medievale, da erigersi in pietra e caratte-
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rizzato da uno svettante torrione merlato
con caditoie. L’edificio residenziale invece risultava aperto da una serie di bifore gotiche
al primo piano (ed una loggia sul lago) e di
finestre “Tudor” al secondo (nel coronamento della facciata e nella tipologia delle cornici richiamava il villino Tonelli di Coccaglio
del 1885). Il 27 dicembre del medesimo anno Antonio realizzava la planimetria distributiva del giardino e delle stanze della villa
secondo uno schema rettangolare con vani
simmetrici rispetto all’asse mediano. Nel
sotteraneo trovavano posto i servizi (dispensa, cucina, legnaia, cantina e darsena; al piano superiore una camera da letto, il terrazzo
e la scala per la torre). A questa prima versione della planimetria ne venne sostituita
una seconda, maggiormente compatta intorno al centrale vano scale e provvista di un
ampio parterre verso il lago e di una limonaia. Alla prima planimetria corrispondeva
un secondo progetto neomedievale (del febbraio 1887), del quale ci è pervenuto un
bozzetto che mostra la torre spostata a sud,
rispetto all’originaria posizione settentrionale, ed uno stile più chiaramente desunto dall’architettura toscana degli inizi del Quattrocento: archi a sesto acuto, ma con ampie
ghiere di pietra, torre guelfa, grandi oculi nel
sottotetto. Alla seconda planimetria (sempre
del 1887) corrisponde invece un progetto di
alzato ovviamente più compatto e privo della torre che, pur mantenedo la merlatura
quadrata, assume l’aspetto di un palazzo veneziano per le ampie finestre, bifore e trifore, dagli elegantissimi trafori a quadrifoglio e
archi acuti (modelli sono le veneziane Cà
d’Oro e palazzo Franceschetti, che da poco
era stato restaurato da Camillo Boito).
Nel gennaio del 1887 Tagliaferri aveva anche tentato la strada della ricostruzione di
una villa in stile “pompejano”, ispiratagli
probabilmente dagli appunti di viaggio presi
dieci anni prima durante la sua visita agli
scavi di Ercolano e Pompei (come testimoniano alcuni fogli dei taccuini) ed insieme
anche dalla curiosità di richiamare sulle rive
del lago, che aveva visto una importante colonizzazione romana (Sirmione con Catullo,
le ville di Desenzano e Toscolano), un’architettura nuova anche nel campo della ricostruzione in stile. La distribuzione dei vani
abitativi e i rapporti proporzionali tra gli
edifici e i giardini restano quelli già ipotizzati per la villa neomedievale, ma con l’ag-
giunta della portineria e delle abitazioni della servitù.
Per quando riguarda gli alzati ci sono pervenuti alcuni bozzetti a matita, in preparazione degli acquerelli definitivi, che mostrano
la struttura della villa neoveneziana ricoperta
di elementi architettonici e decorativi ellenistico-romani, disposti in modo coerente e filologicamente documentati e corretti (come
la villa dei Papiri ricostruita a Malibu, California, da Paul Getty per le proprie collezioni d’arte). Certo Antonio ha reminescenze di monumenti visti in prima persona, ma
non è immemore della folta produzione degli studi accademici in questo campo e dei
progetti architettonici di Schinkel e di Von
Klenze, nonché della contemporanea pittura
simbolista italiana e tedesca. Nel prospetto
verso il giardino poi, Antonio non disdegna
di inserire nel contesto architettonico, oltre
alle sculture, anche una serie di affreschi decorativi nel “Quarto stile” pompeiano, che
ritroveremo quasi identici nelle decorazioni
di villa Feltrinelli a Gargnano, ora Università, opera di Giovanni Beretta.
L’elemento verticale della torre, conservato
dai progetti precedenti in posizione limitrofa
alla villa, si è trasformato in un tempietto con
bassorilievi “a meandro”, antefisse in terracotta e colonne doriche. Molto interessante risulta poi la sezione della villa, che mostra nella sala di ricevimento le pareti decorate con
finte architetture e figure svolazzanti su fondali monocromi come nel “Terzo” e “Quarto”
stile romano; mentre il soffitto, realizzato in
stucco dipinto, con clipei e rombi incantenati contenenti figure allegoriche e simboli, ripropone l’originale decorazione del soffitto
del sepolcro dei Valeri sulla via Latina a Roma, da molto tempo noto agli studiosi. In voluto contrasto risulta invece l’imbarcadero,
posto sotto il salone, perchè realizzato con
stalattiti e pietre nel tentativo di ricostruire
una finta grotta naturale in ossequio al rinascimentale binomio arte-natura.
Nonostante i continui ripensamenti sul progetto, nell’agosto del 1889, Tagliaferri elaborava un nuovo studio per la villa, sempre in
“stile pompejano”, ma con alcune correzioni
in merito all’orientamento dei corpi di fabbrica e alla distribuzione dei vani abitativi.
Dalla nuova planimetria, stilata nel settembre del 1889, si ricavavano una maggiore articolazione delle sale nel corpo centrale della
villa padronale (sempre a pianta rettangolare
e con ampio parterre semicircolare prospicente il lago) e il trasferimento sul lato meridionale dei padiglioni (torre belvedere, serre,
limonaia). La pianta del seminterrato, che
evidenzia un’attenta e moderna distribuzione dei locali di servizio (con passaggio anche
per la terrazza sul lago), mostra già l’impiego
di pilastri, da realizzarsi in cemento e ferro,
posti a sostegno, in corrispondenza dei trasversali muri maestri, di tutto l’edificio. Dalla pianta del piano terreno si ricava una
maggiore attenzione di Antonio alla volontà
ricostruttiva: il vestibolo con doppia colonna e vasca centrale (impluvium/compluvium),
l’ampia sala di ricevimento verso il lago e la
distribuzione simmetrica delle altre quattro
sale lungo l’asse mediano. Come raccordo
tra il corpo centrale e la torre (dove viene sistemata una camera da letto) l’architetto
predispone lo spazio luminoso della biblioteca e dello studio, aperti su un portico e sul
terrazzo. Al piano nobile invece, oltre alle
quattro camere da letto e ai servizi corrispondenti, viene collocato, in asse con la sala di ricevimento, un ampio salone.
I bei prospetti, a matita su carta, conservati
nello studio ci permettono di cogliere un
perfezionamento disegnativo di Antonio ed
una maggior ricercatezza decorativa e di dettagli rispetto alla prima versione del progetto: egli rispetta nella facciata a monte l’ordine vitruviano nella collocazione di colonne
ioniche al primo piano e corinzie al secondo, mentre riserva le tuscaniche ed il bugnato ai vani di servizio e al giardino di agrumi.
Altrettanto dicasi per l’elegante facciata a lago dove le terrazze sono delimititate da balaustre in pietra (con la “croce di S. Andrea”)
e l’edificio è aperto da ampi lunettoni con
grate, portali coronati da timpani con acroteri, sfingi, pilastri antropomorfi. In sostituzione del compluvium/impluvium, Antonio
ha poi pensato di collocare un ampio lucernario per dare luce al vestibolo (medesima
soluzione applicata nei primi anni del secolo
dall’architetto Castiglioni nella villa Feltrinelli di Gargnano, ora Università).
La complessità e i costi del progetto non
diedero luogo all’inizio dei lavori almeno fino alla fine del 1890 e con un disegno semplificato: la villa aveva assunto un aspetto
più dichiaratamente modernista con pochi
echi eclettici e veniva compiuta, con le decorazioni interne di Ettore Ximenes e Cesare
Bertolotti, nel 1902.
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13) CASEGGIATO IN VIA CARROBBIO
A MILANO (1889)
Nella lunga, quanto ricca produzione progettuale di Tagliaferri nel suo studio di Milano, sito in Viale Venezia, i progetti per
caseggiati monumentali da porsi lungo i
principali assi viari su modello della Parigi
della terza repubblica, sono prevalenti e
spesso vedono la stretta collaborazione dell’architetto con alcuni importanti ingegneri
quali Casati e Magni.
In particolare riveste una certa importanza
il progetto, poi non realizzato, di un caseggiato da porsi in angolo fra via Cesare Correnti e Porta Ticinese, nella zona del Carrobbio. La posizione del fabbricato permetteva ad Antonio di giocare sugli effetti scenografici delle ali laterali e sugli aggetti degli elementi decorativi quali colonne, timpani, balconi, sculture.
In una prima versione del prospetto descritta in piano, Tagliaferri sfodera la propria
cultura accademica e la propria creatività
disegnativa assemblando senza soluzione di
continuità elementi rinascimentali (i timpani rotondi e triangolari alternati, il bugnato
rustico) ad elementi gotici (le bifore variamente interpretate) e barocchetti (grate in
ferro traforato con motivi rocaille, stucchi,
busti sui timpani delle finestre ecc. ), ma il
tutto amalgamato da un décor così dichiaratamente Belle Epoque da farci intendere
quanto Antonio avesse assorbito delle novità architettoniche parigine, ma anche della Roma umbertina.
Nel secondo progetto infatti, databile al
maggio-giugno 1889, gli elementi eclettici
tendono a semplificarsi: le bifore divengono serliane, legandosi in tal modo alla presenza sul fronte principale di colonne ioniche e sui pilastri di sostegno del bugnato; mentre il terzo piano, scandito da finestre rettangolari con colonnina centrale
(di gusto neorinascimentale), vede la presenza di una serie di telamoni e cariatidi
montati su basi troncopiramidali. L’allure
è quello degli ambienti alto borghesi francesi, si pensi alla sala da ballo dell’albergo
della Gare d’Orsay, con in più quel legame
al patrimonio visivo della cultura rinascimentale che in Antonio non viene mai
meno ed è alternativo al neomedievale e
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sicuramente agli sperimentalismi modernisti del ferro e del vetro.
Nella prospettiva definitiva del complesso,
realizzata nel luglio 1889, compaiono ulteriori varianti e l’insieme della gran macchina decorativa è davvero suggestivo. La cifra
filofrancese, intendi parigina, è data proprio dal grande attico a mansarda con timpano tondo e fregio con putti danzanti, le
statue allegoriche aggettanti dal cornicione, l’ampio finestrone a nicchia con decorazioni a stucco. Sono spariti i telamoni, le
serliane, le bifore, l’insieme è ridimensionato per dare maggiore ri salto al corpo
centrale, che scenograficamente chiude lo
slargo del Carrobbio e si apre a ventaglio
sulle due vie laterali, in modo simile alla
monumentale fontana di Boulevard Saint
Michael a Parigi.
14) CASTELLO BONORIS. Montichiari
(Brescia) (1890-1892)
Nei medesimi anni dell’elaborazione del
Santuario delle Grazie, accanto ad altri progetti e impegni pubblici, Tagliaferri affronta un secondo problema di restauro-ricostruzione.
Nel 1890 il neoconte Gaetano Bonoris, ricco banchiere mantovano strettamente legato alla corte dei Savoia e perciò stesso investito del titolo nobiliare e del “feudo” del
paese di Montichiari presso Brescia, decise
di commissionare ad Antonio il recupero
della antica rocca monteclarense allo scopo
di trasformarla in una elegante residenza in
veste di maniero medievale.
La fortezza, fondata ai tempi di Berengario I e arricchita dalla presenza di una
chiesetta romanica dedicata a S. Tommaso
(testi moniata a partire dal 1167), nel
1890 si presentava totalmente abbandonata e diruta, se si escludono alcune porzioni del triplice giro di mura, che collegavano il castello al paese sottostante, e la casa
quadrangolare del podestà che inglobava
fra l’altro parte della chiesetta di San Tommaso.
Il desiderio di una ricostruzione in stile del
castello, rispondente an che nei minimi
dettagli decorativi agli esempi ancora visibili di fortilizi medievali, ma completo di
ogni comfort moderno, si deve, per quanto
ci è dato sapere, al Bonoris stesso, i1 quale
cercava così di materializzare il sogno di
un’inesistente quanto nobile tradizione familiare aristocratica, un ricettacolo per la
propria neonata nobiltà che raccogliesse
una collezione di armi antiche, ulteriore
prova di un impegno guerresco mai praticato. A ciò si aggiunga la speranza, mai sopita, da parte del Bonoris di realizzare una
dimora che avrebbe potuto degnamente
ospitare i Reali in visita al fedelissimo,
quanto ricchissimo conte.
L’idea doveva piacere e stuzzicare molto
l’ingegno del Tagliaterri, ma fin dall’inizio
diversi sono gli occhi dell’architetto rispetto alle esigenze di gusto e alle ingerenze del committente, il quale fra l’altro aveva in mente un ben preciso modello: il castello e il borgo del Valentino visti in occasione dell’esposizione di Torino del
1884. Si trattava, come è noto, di un centone architettonico-decorativo, un collage
dei pezzi ‘migliori’ dei castelli valdostani e
piemontesi, atto a ricostruire una atmosfera cortese favoleggiata e leggendaria, perfettamente consentanea a tanta pittura di
storia di fine secolo o alla contemporanea
produzione teatrale: si pensi a La partita a
scacchi di Giacosa, che fra l’altro era nella
commissione scientifica per la costruzione
del borgo del Valentino. Tagliaferri, al
contrario, segue una linea di ricerca più
coerente e corretta: innanzitutto compie
rilievi dell’esistente al fine di progettare
una nuova struttura che utilizzi il più possibile le fondamenta, le piante e gli alzati
ancora visibili della rocca medievale. Anche nello studio dei materiali intende adeguarsi alle preesistenze: per esempio sceglie per le cortine murarie un’alternanza di
corsi di pietre di fiume in un letto di malta grossa e disposti a spina di pesce, alternati a corsi più sottili di cotto, secondo
quanto era ancora leggibile nelle porzioni
superstiti ed in analoghi fortilizi lombardi.
Inoltre nel primo progetto la chiesa di San
Tommaso e parti della casa del podestà risultano inglobate nella nuova costruzione,
caratterizzata da una lunga cortina muraria atta a ricostituire l’antica unione fra la
rocca e il paese con uno sbocco monumentale sulla piazza principale. Dalle numerose piante e sezioni dell’edificio è tuttavia chiaramente identificabile una linea
di condotta che da una parte cerca di
giustificarsi storicamente e stilisticamente
e dall’altra immette, occultandoli il più
possibile, tutti i servizi moderni, dalle tubature del gas alle autoclavi per l’acqua,
alle cisterne.
Bonoris risulta entusiasta dalla prima stesura del progetto e incita l’architetto alla
continuazione dei lavori proponendo, è
presumibile, alcune modifiche; forse accenna al suo modello ideale, se il Tagliaferri fra il 19 e il 21 ottobre del 1890 si reca
a Torino per studiare il castello del Valentino eretto dal D’Andrade nel 1884. I risultati della missione non sono noti, ma si
può credere che il Nostro abbia tenuto fede alla propria linea di condotta, più attenta all’emulazione con l’originale che al
puro gioco di assemblaggio di pezzi diversi. In una lettera inviata da Antonio a Bonoris il 13 febbraio 1892, a lavori avviati e
con gran parte dei ruderi abbattuti perché
gravemente pericolanti, si legge: “In quanto al progetto delle due stanze sopra la
porta in fondo alla rampa ed ai lavori di ricostruzione delle vecchie mura ch’Ella vorrebbe fossero eseguite contemporaneamente al resto, devo dirle che io non ho concretato questa parte del progetto perché ritengo conveniente attendere che il corpo
di fabbrica principale sia perlomeno coperto, onde con maggiore sicurezza cavarne dagli avanzi quei partiti atti a far maggiormente comparire la parte pittoresca del
nuovo edificio...”. È singolare proprio questa affermazione di “pittoresco” che molto
ci dice sui rapporti fra progettista e committente ché, certo, di questo ultimo doveva essere l’idea di un edificio pittoresco;
più attenta la posizione del Tagliaferri che
nonostante l’anno prima, 1891, avesse già
consegnato al conte un notevole numero
di tavole acquerellate con la defini zione
dettagliata delle parti decorative (lignee e
pittoriche) di tutti gli ambienti dell’erigendo maniero, non aveva ancora definito in
ogni parte la distribuzione degli ambienti e
la struttura esterna dell’edificio, in attesa
di vedere quanto dell’originale era ancora
possibile mantenere. Fra l’altro, in una delle sezioni è chiaramente leggibile la proposta di reimpiego della struttura romanica
di San Tommaso, la cui abside a strapiombo sul paese emerge all’esterno del corpo
centrale, che nel progetto finale doveva es-
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sere trasformata nella sala da pranzo. Si
notano inoltre dei dettagli decorativi apparentemente incongrui (una serie di finestre
quadrate e a croce rispetto alle aperture archiacute) spiegabili con i riferimenti tipologici del Tagliaferri che vanno dai castelli
viscontei di Somma Lombarda e di Pandino ai castelli di Fènis e di Issogne in Valle
d’Aosta.
Le ingerenze di Bonoris si fanno tuttavia
sempre più pressanti e quando giungono a
toccare questioni di stile, Tagliaferri rompe
il contratto consegnando al committente la
distinte delle spese e le tavole esecutive (capitelli, cornici, affreschi), pagate £. 21.000
il 3 maggio 1892. Il conte cerca in ogni
modo di coinvolgere nella prosecuzione dei
lavori il nipote di Antonio, Giovanni Tagliaferri, il quale tuttavia rifiuta. Non avendo alternative e desiderando al più presto
concludere i lavori, Bonoris, abbandonando
l’idea di chiamare un architetto-progettista,
si procura le piante e le sezioni del castello
del Valentino e i cartoni dogli affreschi ivi
eseguiti e convoca a Montichiari, nelle vesti
di meri esecutori, l’ar chitetto bresciano
Carlo Melchiotti e il pittore torinese Giuseppe Rollini, così come sono torinesi i mobili in stile gotico-valdostano realizzati dai
fratelli Alboretti di Torino (fra il 1895 e il
1900).
Il castello, pur avendo avuto un avvio coerente alla situazione originaria, viene completamente trasformato sia all’esterno che
all’interno, divenendo per la gran parte la
riproduzione fedele del castello del Valentino e del castello di Fènis: il sogno di Bonoris di realizzare una degna cornice per ospitare re Umberto I era tragicamente tramontato a Monza all’inizio del secolo, mentre
nell’avito maniero lo stesso Bonoris si spegne il 19 dicembre 1923. Gli era premorto
Antonio Tagliaferri, nel 1909, senza che in
alcun modo l’architetto fosse tornato sulla
propria decisione e avesse ripreso in mano
le fila del cantiere, come invece gli era riuscito a fare alle Grazie.
Il dolore per questo lavoro mai terminato
è leggibile fra le righe di alcune lettere accorate scritte dal Tagliaferri all’amico milanese Cochard, nelle quali fino all’ultimo
egli difende la libertà di scelta e il rigore
storico della ricerca del ‘vero’ architettoprogettista ‘moderno’ di fronte ai ruderi
del passato.
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15) VILLA DI ALESSANDRO FENAROLI. Fantecolo, frazione di Camignone (Brescia) (1895-1897)
Il progetto per la villa di Alessandro Fenaroli in Franciacorta impegnò Antonio per
alcuni anni, sebbene il progetto vero proprio fosse già di fatto consegnato tra il
1895 e il 1896.
Il 22 luglio 1896 Tagliaferri si recava in
località Bardellone a Fantecolo, piccola
frazione di Camignone in collina, antica
proprietà del conte Alessandro Fenaroli,
per eseguire alcuni rilievi della cascina allora esistente. Di quell’edificio restano
due fotografie, scattate da Giovanni Tagliaferri in occasione di un secondo sopralluogo, richiestogli dallo zio allora residente a Milano, dalle quali è possibile
dedurre che parte dei loggiati e dei portici furono recuperati e riutilizzati nel progetto definitivo della villa.
A partire dal luglio 1895 a tutto dicembre
Antonio si dedicava senza interruzione all’elaborazione del progetto, con una ricchissima serie di schizzi, tavole e disegni
esecutivi. Antonio già nel gennaio 1896
aveva realizzato l’acquerello con la veduta
prospettica della villa e nel corso dell’anno
proseguiva nella realizzazione di dettagli
decorativi, lucidi e disegni esecutivi. Il 18
maggio si recava a Cremona con il conte
Alessandro per la scelta delle terracotte e
nel luglio questi gli scriveva a Milano comunicandogli le ultime offerte par l’acquisto dei modelli e la richiesta di inizio del
lavori. Le demolizioni necessarie iniziavano infatti il 28 luglio e nell’agosto Antonio
proponeva una nuova pianta con alcune
varianti che tenessero conto del recupero
di alcune parti dell’antica cascina.
Intensissima fu l’attività nel secondo semestre dell’anno, tutto dedicato ai dettagli
compositivi e decorativi almeno fino al
gennaio 1897, quando realizzava il disegno
per il cancello (simile a quello per il conte
Felice nel palazzo di città) e per il balcone
verso la campagna. L’anno seguente, a lavori quasi conclusi, l’architetto consegnava
i disegni delle scale e di tutti i serramenti
della casa fino alla decorazione pittorica
del frontone d’ingresso alla villa e dei rustici. Nel corso del 1898 proseguiva con la
lapide dedicatoria, le decorazioni delle scuderie e gli affreschi esterni.
Significativamente il 4 novembre si recava
in visita alla villa con il commendator Bertelli che, nel luglio, gli aveva appunto
commissionato un palazzo neoquattrocentesco de erigersi a Brescia in via Dante.
Nel contratto di progettazione entravano
anche i bozzetti per la decorazione pittorica del salone di ricevimento e dei mobili
d’arredo (realizzati rispettivamente il
21-24 marzo e il 25-29 marzo 1899); nel
settembre del medesimo anno progettava
la struttura del giardino. La villa poteva
dirsi definitivamente conclusa nel 1900
quando, in marzo, Antonio consegnava i
disegni esecutivi per un tavolo da inserire
nella galleria.
La cartella contenente i disegni di villa Fenaroli a Fantecolo è fra le più ricche conservate nello studio (insieme a quelle della
Loggia, del Teatro Grande e del castello
Bonoris) e ci permette ancora oggi di ricostruire l’iter d’invenzione dell’intero progetto.
Nel 1895, subito dopo i rilievi, Antonio
pensava con ogni probabilità ad una residenza in stile medievale (come quella Treccagni a S. Martino o Bonoris a Montichiari), come risulta da un piccolo schizzo a
matita dove, accanto al portale fortificato
con torrette angolari d’avvistamento, si
scorge sullo sfondo un massiccio torrione,
mentre sulla destra, nel corpo di fabbrica
fortificato, è innestata una villa dalle linee
vagamente gotiche.
Come si diceva, Antonio nel corso della
progettazione cercava di recuperare gran
parte degli elementi murari della cascina
preesistente, scelta questa verificabile nell’osservazione di una planimetria dove in
grigio sono indicate le preesistenze e in
tratteggio la distribuzione del nuovo edificio con due varianti: una con indicati gli
orientamenti delle mura del giardino, l’altra con la struttura quadrata della villa e le
due ali porticate del cortile.
Nella seconda fase progettuale Tagliaferri
abbandonava tuttavia il repertorio medievale, optando per l’architettura quattrocentesca toscana nei volumi quadrati, nelle
finestre monofore a tutto sesto e negli oculi del sottotetto, ma con innesti di gusto
lombardo nell’impiego della terracotta modellata. Questo rapporto con la tradizione
locale si faceva palese nella decorazione
pittorica del cortile, dove Antonio aveva
proposto, accanto alle fiammelle dorate su
fondo rossastro, gli anelli incatenati policromi di ascendenza mantegnesca.
Nel progetto, consegnato alla fine de1
1896, l’architetto proponeva al committente une articolata planimetria dell’abitazione dove tutte le sale di rappresentanza
(contenute nella villa padronale) si affacciassero verso il paesaggio collinare e su
un giardino all’italiana: mentre tutte le zone di servizio, riutilizzando parte della
muratura originaria, si distribuissero intorno al cortile fino alla zona delle scuderie. Gli studi delle facciate e delle
prospettive del complesso (realizzate tra il
1896 e il 1897) sono debitori della
profonda conoscenza dell’architettura rinascimentale acquisita da Tagliaferri in occasione del progetto della Loggia. Infatti
per Fantecolo egli pescava a piene mani
dai repertori dell’architettura quattrocentesca, non solo mescolando loggiati a balconi angolari traforati, monofore con
ghiera in pietra archiacuta ad oculi dipinti, ma soprattutto recuperando un’infinità
di dettagli decorativi che contribuiscono
ad una ricostruzione d’ambiente coerente
e credibile.
Certo nelle soluzioni interne non viene
meno l’attenzione allo standard di comodità che allora si poteva pretendere dalla
moderna tecnologia, ma il gusto per i dettagli e la consapevolezza dell’importanza
dei materiali hanno fatto in modo che Antonio producesse una notevole serie di tavole esecutive per falegnami e fabbri per la
produzione diversificata di infissi interni
ed esterni, pavimenti, soffitti a cassettoni,
ringhiere, copricaloriferi, tutti in stile. Il
discorso vale anche per le parti in pietra e
in terracotta: dai pilastri ai capitelli, dalle
cornici ai bassorilievi decorativi, tutto è
modellato con attenzione ed equilibrio formale. Ciò che non gli era riuscito di vedere realizzato né in palazzo della Loggia né
nel castello Bonoris. Antonio ebbe la soddisfazione di vederlo concluso qui, a Fantecolo, alla fine del 1897, come ricorda la
lapide posta accanto all’ingresso e da lui
stesso concepita “Alexander nob.s Fanarolus/ingenio et cura/Archit.i Antonii Eg.s
Tagliaferri/villam a fundamentis erexit/anno Domini MDCCCIIC”.
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16) VILLINO LAUGIER. Comerio
(1902-1906)
Tra le numerose invenzioni di villette,
palazzetti, rustici per le vacanze estive
nella zona della Franciacorta e della
Brianza, queste ultime sempre pensate
in collaborazione con gli studi degli
ingegneri milanesi Casati e Magni, il
progetto per villa Laugier a Comerio è
forse tra le più conosciute.
I lavori, che si collocano tra la primavera del 1902 e l’inverno del 1906, si
occuparono della decorazione del cortile, di alcuni elementi di arredo interno e della portineria: da ciò si evince
che la villa padronale doveva essere
preesistente e che ad Antonio era stato
commissionato semplicemente l’ammodernamento e il padiglione della
portineria o “capannina”. Il disegno e
la china su velina che ci sono pervenuti hanno il gusto succoso del bozzetto
tanto caro ad Antonio, dove ambientazione storica e architettura si sposano in un allure quasi teatrale. Il piccolo corpo di fabbrica infatti riproduce
un edificio civile quattrocentesco caratterizzato dalla scala esterna, addossata al muro con tettoia a vista e colonnine a “foglia grassa”, tipiche dell’architettura lombarda del secolo XV.
Porte e finestre, con arco ribassato e
aperture a bifora, sono chiuse da vetri
molati e piombati, così come le pareti
sono decorate da graffiti e finti bugnati, alla moda lombarda, con alcuni fregi floreali desunti dalle miniature.
Certo, la proposta è un’antologia di
architetture civili del Quattrocento
più che un tentativo di ricostruzione
filologica, ma questo ad Antonio interessava relativamente, come aveva dimostrato in modo più chiaro e monumentale nel castello Bonoris di Montichiari e in villa Fenaroli a Fantecolo.
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Elenco delle opere esposte
Teatro Grande
Scenografia del “Casino dei Nobili” e del Teatro
Grande prospiciente il Corso del Teatro, 18671868, china e acquarello su cartoncino, cm. 62
x 103. Brescia, collezione privata
Sezione sulla linea CD (est-ovest) del “Casino dei
Nobili” e dell’atrio del Teatro Grande sul Corso
del Teatro, 1867-1868, china e acquarello su
cartoncino, cm. 62 x 103. Brescia, collezione
privata.
Castelletto Lechi
Prospettiva del castelletto per Teodoro Lechi in località Nassina a Poncarale, 1870-1875, acquarello e inchiostro su carta, cm. 33,5 x 51,5.
Brescia, collezione privata
Palazzo della Loggia
Planimetria del piano terra di palazzo della Loggia, 1873, matita e inchiostro su carta, cm. 82
x 57. Brescia, collezione privata
Prospettiva di palazzo della Loggia ed edifici
adiacenti, 1873-1892, matita e inchiostro su
carta, cm. 50 x 42. Brescia, collezione privata
Elevazione del palazzo degli uffici sul lato nord
della Loggia, 1873-1892, matita su carta, cm.
44 x 58. Brescia, collezione privata
Prospettiva del palazzo della Loggia e degli edifici adiacenti, 1873-1892, matita su carta, cm.
44 x 58. Brescia, collezione privata
Sezione sulla linea AB di palazzo della Loggia,
1873-1892, matita e inchiostro su cartoncino,
cm. 60 x 81. Brescia, collezione privata
Prospettiva dell’ingresso al salone del primo piano
di palazzo della Loggia, 1873-1892, matita su
carta, cm. 61 x 48. Brescia, collezione privata
Prospettiva dello scalone d’onore e dell’atrio al
primo piano di palazzo della Loggia, 18731892, matita su carta, cm. 61 x 48. Brescia,
collezione privata
Veduta dell’atrio e delle decorazioni al primo
piano di palazzo della Loggia, 1873-1892, acquarello su cartoncino, cm. 12 x 7. Brescia,
collezione privata
Bozzetto per la decorazione del soffitto del salone
al primo piano di palazzo della Loggia, 1873-
1892, matita e acquarello su carta, cm. 21 x
31. Brescia, collezione privata
Santuario di Santa Maria delle Grazie
Studio di ampliamento del Santuario, 18751876, matita su cartoncino, cm. 40 x 53. Brescia, Santuario di Santa Maria delle Grazie
Bozzetto per la decorazione dell’altare maggiore
del Santuario delle Grazie, 1875 - 1907, acquarello su cartone, cm. 113 x 75,5. Brescia, Santuario di Santa Maria delle Grazie
Disegno per l’esecuzione di un candelabro a tre
luci per il Santuario delle Grazie, 1875-1907,
acquarello su cartoncino, cm. 88 x 63,5. Brescia, Santuario di Santa Maria delle Grazie
Studio degli arredi per l’altare maggiore del Santuario, 1876-1878, matita e china su cartoncino, cm. 44 x 69. Brescia, Santuario di Santa
Maria delle Grazie
Monumento ad Arnaldo
Planimetria con la sistemazione dell’intera area
urbana di Porta Orientale per la collocazione del
Monumento ad Arnaldo, 1877-1880, acquarello e inchiostro su cartoncino, cm. 67,7 x 93,3.
Brescia, collezione privata
Studio per la cancellata di recinzione del monumento ad Arnaldo, 1877-1880, matita e acquarello su cartoncino, cm. 66 x 96. Brescia, collezione privata
Studio per lampione da collocarsi in piazzale Arnaldo, 1877-1880, matita su cartoncino, cm.
27,2 x 50. Brescia, collezione privata
San Giovanni Evangelista
Progetto di sistemazione della cappella del Santissimo Sacramento in San Giovanni Evangelista,
1877-1883, acquarello e inchiostro su cartoncino, cm. 51 x 39,5. Brescia, collezione privata
Mobili
Prospetto e sezione di caminetto e caminiera di
gusto neosettecentesco, 1879-1904, matita su
carta, cm. 35 x 46. Brescia, collezione privata
Progetto per credenza in stile pompeiano, 18791904, acquarello su cartoncino, cm. 50 x 43.
Brescia, collezione privata
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Monumento alle Cinque Giornate
di Milano
Progetto per l’erezione di un monumento alle
Cinque Giornate di Milano, 1880, acquarello
su cartoncino, cm. 49,5 x 34. Brescia, collezione privata
“Sala bresciana” all’esposizione
di Milano
Progetto per la decorazione della “Sala bresciana”
all’esposizione generale di Milano, 1881, acquarello su carta, cm. 30 x 27. Brescia, colezione
privata
Prospettiva di villa Zanardelli a Maderno in
stile pompeiano, 1886-1889, acquarello su
cartoncino, cm. 10 x 12. Brescia, collezione
privata
Prospettiva di villa Zanardelli a Maderno in stile
pompeiano, 1886-1889, acquarello su cartoncino, cm. 32 x 46. Brescia, collezione privata
Prospettiva generale di villa Zanardelli a Maderno, 1886-1889, acquarello su cartoncino, cm.
29 x 44. Brescia, collezione privata
Prospetto di villa Zanardelli a Maderno in stile
pompeiano, 1886-1889, matita su cartoncino,
cm. 39 x 23. Brescia, collezione privata
Monumento a Vittorio Emanuele II
a Roma
Prospetto di villa Zanardelli a Maderno in stile
pompeiano, 1886-1889, matita su cartoncino,
cm. 39 x 23. Brescia, collezione privata
Collage di bozzetti per il Monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma, 1881, matita e inchiostro
su carta incollata su cartoncino, cm. 33 x 47.
Brescia, collezione privata
Prospetto di villa Zanardelli a Maderno in stile
pompeiano, 1886-1889, matita su cartoncino,
cm. 39 x 23. Brescia, collezione privata
Collage di bozzetti per il Monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma, 1881, matita e inchiostro
su carta incollata su cartoncino, cm. 38 x 56.
Brescia, collezione privata
Il Carrobbio a Milano
Collage di bozzetti per il Monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma, 1881, matita e inchiostro
su carta incollata su cartoncino, cm. 38 x 56.
Brescia, collezione privata
Prospetto di una facciata del Carrobbio a Milano, 1889, matita su cartoncino, cm.
50 x 68. Brescia, collezione privata
Prospettiva del Monumento a Vittorio Emanuele
II a Roma, 1881, inchiostro su cartoncino, cm.
35 x 47. Brescia, collezione privata
Prospetto principale del Monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma, 1881, matita su cartoncino, cm. 48 x 77. Brescia, collezione privata
Prospetto posteriore del Monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma, 1881, matita su cartoncino, cm. 48 x 77. Brescia, collezione privata
Prospettiva generale del monumento a Vittorio
Emanuele II a Roma, 1881, acquarello su carta,
cm. 46 x 80. Brescia, collezione privata
Monumento a Tito Speri
Progetto per l’erezione di un monumento a Tito
Speri, 1885, matita su carta, cm. 48 x 37. Brescia, collezione privata
Villa Zanardelli a Maderno
Planimetria di villa Zanardelli a Maderno,
1886-1889, acquarello su cartoncino, cm. 29
x 44. Brescia, collezione privata
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Prospettiva dell’edificio al Carrobbio a Milano,
1889, acquarello su cartoncino, cm. 57 x 62.
Brescia, collezione privata
Prospetto di una facciata del Carrobbio a Milano, 1889, matita su cartoncino, cm. 50 x 68.
Brescia, collezione privata
Castello Bonoris a Montichiari
Planimetria del castello Bonoris a Montichiari,
1890-1892, acquarello su cartoncino, cm. 55
x 77. Brescia, collezione privata
Prospettiva del castello Bonoris da Montichiari,
1890-1892, matita su lucido, cm. 39 x 55.
Brescia, collezione privata
Elevazione a mattina del castello Bonoris di Montichiari, 1890-1892, matita e china su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
Disegno esecutivo di un capitello del cortile del
castello Bonoris a Montichiari, con la figura allegorica dell’architetto-capomastro, 1890-1892,
matita su cartoncino, cm. 48 x 66, 11 tavole.
Brescia, collezione privata
Progetto per la decorazione interna del castello
Bonoris a Montichiari, 1890-1892, acquarello
su cartoncino, cm. 48 x 66, 11 tavole. Brescia,
collezione privata
Progetto per la decorazione interna del castello Bonoris a Montichiari, 1890-1892, matita su cartoncino, cm. 48 x 66. Brescia, collezione privata
Villa Fenaroli a Fantecolo
Prospettiva d’insieme di villa Fenaroli a Fantecolo, 1895-1897, acquarello su carta, cm. 42 x
59. Brescia, collezione privata
Planimetria di villa Fenaroli a Fantecolo, 18951897, inchiostro su cartoncino, cm. 38 x 56.
Brescia, collezione privata
Sezione sulla linea CD di villa Fenaroli a Fantecolo, 1895-1897, inchiostro su cartoncino, cm.
73 x 52. Brescia, collezione privata
Disegno esecutivo per capitello e cornice d’imposta di villa Fenaroli a Fantecolo, 1895-1897,
matita su cartoncino, cm. 76 x 56. Brescia,
collezione privata
Disegno per la cancellata monumentale di villa
Fenaroli a Fantecolo, 1895-1897, acquarello su
cartoncino, cm. 68 x 50. Brescia, collezione
privata
Villa Laugier a Comerio
Prospettiva della portineria di villa Laugier a
Comerio, 1902-1906, matita su cartoncino,
cm. 26 x 35,5. Brescia, collezione privata
Album
Taccuino di viaggio, totale fogli 41, disegni
d’architettura e ricordi di viaggio con appunti
a matita e inchiostro, cm. 12 x 18. Brescia,
collezione privata
Album di repertorio, totale fogli 45, disegni di arredi, cancellate, edifici in stile, matita e inchiostro, cm. 14 x 20. Brescia, collezione privata
Album di schizzi, totale fogli 31, disegni di ambientazioni in stile, inchiostro, matita e acquarello, cm. 14 x 20. Brescia, collezione privata
Album di repertorio, totale fogli 20, schizzi ritagliati e incollati con appunti, inchiostro e matita, cm. 21 x 30. Brescia, collezione privata
Album di repertorio, totale fogli 16, disegni con
repertori in stile, inchiostro, cm. 25 x 35. Brescia, collezione privata
Album con disegni, totale fogli 15, disegni di
Antonio Tagliaferri raccolti e incorniciati dal
nipote Giovanni (post 1909), matita e inchiostro, cm. 37 x 27. Brescia, collezione privata
Ritratti
Antonio Tagliaferri ripreso nel giardino della
villa di Vilminore in val di Scalve, stampa fotografica, 1905 circa. Brescia, collezione privata
Domenico Ghidoni, Busto di Antonio Tagliaferri, 1910, bronzo, cm. 53 x 53. Brescia, collezione privata
Giovanni Tagliaferri, Ritratti familiari (riconoscibili a partire da sinistra Carlo Tagliaferri, il fratello architetto Antonio, il pittore
Carlo Manziana, due profili femminili, Giuseppe Manziana, NinÏ Manziana, il nipote
ingegner Giovanni), 1910-12, acquarello su
cartoncino come ombre cinesi, cm. 36 x 47.
Brescia, collezione privata
Dipinti
Veduta di fantasia di una chiesetta romanica,
1890-1900, olio su tela, cm. 59,5 x 48. Brescia, collezione privata
Il Mausoleo Martinengo nella chiesa di San
Cristo, 1904, olio su tela, cm. 98,5 x 75. Brescia, collezione privata
Veduta della loggia di un Monastero alpino
quattrocentesco con riprodotto sulla parete una
Danza macabra, 1901, acquarello su carta,
cm. 22 x 15. Brescia, collezione privata
Veduta della facciata di un santuario di stile
neobarocco (vicino al prospetto della parrochiale di Polpenazze), 1901, acquarello su carta,
cm. 22 x 15. Brescia, collezione privata
Conversazione in un giardino settecentesco,
1901, acquarello su carta, cm. 22 x 15. Brescia, collezione privata
Prospetto di un edificio di gusto neoquattrocentesco lombardo da adibirsi a sede di un Circolo
Artistico, 1897, acquarello su carta, cm. 70 x
50 (presentato all’Esposizione del Sempione a
Milano nel 1906). Brescia, collezione privata
Libri
Estratto della rivista “Edilizia Moderna”,
1910, con l’illustrazione dell’intervento di
Antonio Tagliaferri in Santa Maria delle Grazie a Brescia. Brescia, collezione privata
De Dartein, Architettura lombarda, 1880
(proveniente dalla biblioteca di Antonio Tagliaferri). Brescia, collezione privata
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Il progetto disegnato - 2
Antonio Tagliaferri (1835-1909)
16 gennaio - 3 febbraio 1999
Mostra organizzata dall’AAB
Cura della mostra e redazione dei testi:
Valerio Terraroli
Cura del catalogo:
Vasco Frati, Gabriella Motta e Valerio Terraroli
Progetto grafico:
Martino Gerevini
Cura dell’allestimento:
Anna Adami, Pierangelo Arbosti, Ermete Botticini, Roberto Formigoni,
Giuseppe Gallizioli e Giusi Lazzari
Referenze fotografiche:
Fotostudio Rapuzzi - Brescia
Collaborazioni:
Ordine degli architetti e Ordine degli ingegneri di Brescia
Assicurazione:
RAS, Agenzia di Gardone Val Trompia
Direzione: Gabriella Motta, Giuseppina Ragusini
Segreteria: Monica Ferrata
L’A.A.B. ringrazia gli eredi di Antonio Tagliaferri e il Santuario di Santa Maria delle Grazie
per il prezioso impegno profuso per la realizzazione della mostra.
Stampa: Arti Grafiche Apollonio - Brescia
Finito di stampare nel mese di gennaio 1999
Di questo catalogo sono state stampate 500 copie