Untitled - Istella

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Untitled - Istella
oggetti
per passione
il mondo
femminile
nell’arte
giapponese
A cura di
Anna Maria Montaldo
e Loretta Paderni
copertina e pagine illustrate
Le immagini sono tratte da:
Suzuki Harunobu, Ehon seirō bijin awase,
“Libro illustrato a paragone delle bellezze
delle case verdi”, 1770
Oggetti per passione
Il mondo femminile
nell’arte giapponese
Cagliari, Palazzo di Città
Museo d’Arte Siamese
27 giugno – 8 settembre 2013
Progetto e cura della mostra
Anna Maria Montaldo, Loretta Paderni
Realizzazione della mostra
Musei Civici Cagliari in collaborazione
con la Soprintendenza al Museo
Nazionale Preistorico Etnografico
Luigi Pigorini, Roma
Testi
Anna Maria Montaldo, Loretta Paderni
Segreteria Organizzativa
Simona Pala, Maria Antonietta Pellecchia,
Donatella Pusceddu, Stella Spiga,
Francesca Zenoni – Musei Civici, Cagliari
Cura e preparazione degli oggetti
Jesus Garcia Lourido, sotto la guida
di Luciana Rossi e Maria Francesca
Quarato, Laboratorio di Conservazione
e Restauro della Soprintendenza al
Museo Nazionale Preistorico Etnografico
Luigi Pigorini
Collaborazioni
Elisabetta Borghi, Vincenzo Crisafulli,
Serena Fiorletta, Mayumi Koyama,
Mario Pesce
COMUNE DI CAGLIARI
Scenografia
Sabrina Cuccu
Progetto
Fondazione Teatro Lirico di Cagliari
Realizzazione
Progetto grafico
Subtitle
Fotografie
Fabio Naccari
Foto oggetti
Chise Saito, Art Research Centre,
Ritsumeikan University, Kyoto,
Foto libro Harunobu
© Soprintendenza al Museo Nazionale
Preistorico Etnografico Luigi Pigorini
su concessione del Ministero per i
Beni e le Attività Culturali
Giuseppe Ungari (foto pag. 20-21)
Traduzioni
David Nilson
Servizi educativi
Musei Civici di Cagliari
in collaborazione con
Associazione Orientare
Ufficio Stampa
Francesca Cardia
Un sentito ringraziamento
per la realizzazione della mostra
e del catalogo alla Soprintendenza
al Museo Nazionale Preistorico
Etnografico Luigi Pigorini
Francesco di Gennaro
Soprintendente
Egidio Cossa
Responsabile della sezione
Eventi e Mostre
Grazia Poli
Sezione Eventi e Mostre
Mario Mineo
Responsabile del Laboratorio
Fotografico e dell’Archivio Fotografico
e Storico
Si ringraziano inoltre
Ikuko Kaji e Maria Cristina Gasperini
Istituto Giapponese di Cultura
(The Japan Foundation), Roma
Rosanna Bussu, Tiziana Ciocca
e Marzia Marino
Associazione Orientare
Indice
Il museo come luogo di scambio e relazione culturale
L’oriente ad ovest della penisola
7
9
L’arte giapponese nelle collezioni di Stefano Cardu e Vincenzo Ragusa
I collezionisti
L’oriente, la ricerca e la passione
Il Museo Civico d’Arte Siamese Stefano Cardu
L’arte giapponese nella collezione Stefano Cardu
Quando fuori “c’era tanto mondo...”
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12
14
16
19
22
Presentarsi in pubblico
25
Abbigliamento e accessori
27
Ventagli33
Toeletta43
Arti predilette
55
Shōdo, calligrafia
57
Ikebana, disposizione dei fiori
69
Musica85
Momenti di svago
93
Gioco95
Fumo107
Bibliografia109
English text 112
L’arte giapponese
nelle collezioni
di Stefano Cardu
e Vincenzo Ragusa
I collezionisti
Stefano Cardu
Vincenzo Ragusa
Stefano Cardu nacque a Cagliari il 18 novembre
1849 da una famiglia di artigiani di agiate
condizioni economiche; giovanissimo si imbarcò su
un bastimento a vela e, dopo anni di navigazione,
approdò sulle coste del Siam nel 1874. In questi
luoghi si stabilì per oltre vent’anni e creò un’ingente
fortuna come impresario di opere pubbliche (gli
si attribuì anche la costruzione del Palazzo Reale
di Bangkok). Al successo economico si unì un
grande prestigio personale: Cardu fu spesso ospite
della Corte reale siamese e riferimento privilegiato
dell’alta nobiltà italiana che ivi soggiornò.
Nella capitale siamese il Cagliaritano conobbe,
probabilmente, la sua futura moglie, Rosa Fusco,
figlia e sorella di musicisti napoletani attivi a
Bangkok, e con lei, intorno al 1893, incominciò i
preparativi per tornare in patria. Nel 1896, infatti,
Cardu doveva trovarsi già in Europa visto che,
in tale data, donò alla piccola parigina Luigia Le
Bailly d’Inghieu, adottata solo nel 1911, alcuni
degli oggetti più belli e preziosi della sua collezione
orientale. Il 22 giugno 1914, il collezionista, ancora
ricco e relativamente giovane, ormai stabilitosi
nella sua città natale, scrisse all’allora Sindaco
Ottone Bacaredda per offrire in dono al Comune di
Cagliari la sua raccolta di oggetti e armi orientali.
Con delibera n. 484 del 3 luglio 1914, il Consiglio
comunale accettò la donazione e destinò al museo
una sala del secondo piano del nuovo Palazzo
Civico. Dopo un’intricata vicenda burocratica
che si concluse solo nel 1923 con l’acquisizione
della totalità della collezione da parte del Comune
di Cagliari, Cardu si trasferì a Roma dove morì,
tristemente, il 16 novembre 1933.
Vincenzo Ragusa, nato a Palermo l’8 luglio 1841,
seguì Garibaldi a Milazzo nel 1860. Studiò con
l’abate Giovanni Patricolo (1789-1861), Nunzio
Morello (1806-1874), Salvatore Lo Forte (18091885) e frequentò l’Accademia del Nudo di
Palermo. Trasferitosi a Milano, ottenne nel 1875 il
diploma ad honorem dall’Accademia di Brera, che
gli permise di accedere e superare la selezione
per la scelta di tre artisti italiani da inviare presso
la costituenda Scuola di Belle Arti (Kōbu Bijutsu
Gakkō) di Tōkyō. Dal 1876 al 1882 v’insegnò
scultura, introducendo la tradizione plastica
occidentale in Giappone. A Tōkyō conobbe la
giovane e promettente pittrice Kiyohara Tama
(Tōkyō, 10 giugno 1861-Tōkyō, 6 aprile 1939),
che lo seguì al suo ritorno a Palermo nel 1882,
inserendosi con successo nel panorama artistico
della città. Vincenzo Ragusa fondò e diresse a
Palermo la Scuola d’Arte Applicata all’Industria,
di cui Tama fu direttrice della sezione femminile.
Alla scuola fu inizialmente annesso il Museo
giapponese costituito dalla ricca collezione di
oggetti d’arte e d’artigianato che lo scultore
aveva collezionato durante il suo soggiorno in
Giappone. Ragusa morì nella sua città natale il 13
marzo 1927. Dopo molte trasformazioni, la scuola
fondata da Ragusa è oggi diventata Liceo Artistico,
dal 2006 intitolato allo scultore e alla moglie. La
collezione di oggetti giapponesi è conservata al
Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi
Pigorini di Roma.
8
Stefano Cardu
Vincenzo Ragusa
9
L’oriente, la ricerca e la passione
Anna Maria Montaldo
Direttore Musei Civici di Cagliari
“Oggetti per passione”… quando l’amore per la
bellezza e l’eleganza emerge anche dalle forme
degli oggetti più semplici e banali, dall’uso squisito
e aggraziato di questi, ci si rende conto di essere
di fronte ad una cultura che basa il proprio gusto
estetico nella profonda e radicata conoscenza
dell’armonia e dell’equilibrio della natura.
L’universo femminile giapponese, o meglio quello
delle cortigiane, forse ancora oggi poco noto,
appare così dalla selezione di una serie di oggetti,
provenienti dalla raccolta di opere d’Arte Asiatica
del Museo Nazionale Preistorico e Etnografico
Luigi Pigorini di Roma, una interessante sezione,
non ancora esposta ma studiata e curata in
questi anni da Loretta Paderni. Al suo interno
un’importante collezione di arte giapponese
intitolata a Vincenzo Ragusa (Palermo 1841-1927),
scultore siciliano che visse in Giappone tra il
1876 e il 1882, dove raccolse più di 4000 oggetti
d’arte che portò in Italia e cedette, in due momenti
diversi, al museo romano.
L’idea della mostra nasce dall’inevitabile raffronto
con ciò che è più noto, nel nostro caso l’analoga
esperienza, di avventura ed esotismo, che ha
caratterizzato la vita di Stefano Cardu, il collezionista
cagliaritano che dopo aver vissuto nel Siam per oltre
vent’anni, all’inizio del Novecento tornò a Cagliari,
carico di tesori dell’Estremo Oriente.
Stimolante è stato mettere a confronto le
personalità dei due collezionisti per evidenziare le
numerose corrispondenze e le differenze. Tanto
per cominciare c’è una perfetta coincidenza
cronologica: Stefano Cardu approdò sulle coste
del Siam nel 1874, Vincenzo Ragusa giunse a
Tōkyō, a distanza di due anni, nel 1876. Entrambi
isolani, uno sardo, l’altro siciliano, in Oriente
hanno trovato la loro fortuna, il successo, il
riscatto sociale. Cardu divenne impresario di opere
pubbliche, Ragusa si affermò come scultore. I
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due in Oriente trovarono anche l’amore, Cardu
incontrò la sua futura moglie, la napoletana Rosa
Fusco, Ragusa la promettente pittrice Kiyohara
Tama che con lui fondò a Palermo la scuola di arti
orientali, divenuta, nel 1908, Istituto d’Arte. Come
il cagliaritano Stefano Cardu, Vincenzo Ragusa fu
un grande appassionato dell’Oriente e della sua
cultura, anche lui collezionista. Una tendenza,
quella dell’orientalismo, che nell’Ottocento divenne
un fatto di costume, quasi una moda, alimentata
dai racconti di viaggio, dalla circolazione delle
stampe e degli oggetti che in quantità sempre più
massiccia entravano in Europa. La prima differenza
la si percepisce nella composizione delle due
collezioni definite come “siamese” quella del Cardu
e “giapponese” quella del Ragusa. Nella selezione
delle opere, inoltre, Cardu appare più eclettico,
guidato da un intuito infallibile per la bellezza,
Ragusa si rivela, invece, più monotematico
e tecnico, attento agli aspetti didattici. Ad
essere diverse erano, infatti, le motivazioni dei
due collezionisti. Ragioni formative, finalizzate
all’apertura di una scuola, quelle del Ragusa,
più edonistiche quelle del Cardu, desideroso di
riportare in Occidente e nella sua città natale la
bellezza, l’eleganza e la raffinatezza incontrate
in Oriente. Gli oggetti vennero scelti e raccolti,
infatti, con metodo direttamente in Giappone dal
Ragusa, in maniera più varia e diversificata dal
Cardu durante i suoi numerosi spostamenti. Non
dimentichiamo, inoltre, che nel mercato siamese
era a quell’epoca fiorente l’importazione dalla Cina
e dalle isole giapponesi. Ulteriore coincidenza nella
triste fine dei due collezionisti: le difficoltà riscontrate
con le istituzioni locali, le ingiustizie subite, i debiti,
per entrambi il fallimento di un sogno.
Il progetto stesso della mostra “Oggetti per
passione. Il mondo femminile nell’arte giapponese”
è, dunque, in parte frutto del raffronto tra la
raccolta romana e il nucleo giapponese della
collezione Cardu. Là dove, infatti, Cardu ha
caratterizzato tutta la raccolta con un’impronta
ed un gusto tipicamente maschile che si
conforma perfettamente allo spirito e alla curiosità
dei viaggiatori ottocenteschi, Ragusa, forse
condizionato dalla propria sensibilità artistica
o influenzato dalla moglie, nelle sue scelte ha
dato spazio all’universo femminile e i pezzi
selezionati dalla raccolta romana ne danno
prova. L’idea è proprio quella di entrare in punta
di piedi e sottovoce in un mondo che è sempre
stato inaccessibile, quasi proibito, spostare
delicatamente un byōbu, il tipico paravento
utilizzato per delimitare gli spazi privati, e curiosare
in una dimensione che è distante da noi nello
spazio e nel tempo.
Il percorso della mostra si snoda tra il primo e
secondo piano del Palazzo di Città, in piazza
Palazzo, e si conclude con una citazione negli
spazi del MAS. Oggetti ricercati o strumenti
della vita quotidiana raccontano piccole e grandi
storie e l’inflessibile disciplina delle cortigiane
pari a quella militare dei samurai, attraverso tre
sezioni e relative sottosezioni. La prima sezione
è intitolata “Presentarsi in pubblico”, suddivisa in
abbigliamento e toeletta. Qui spiccano i magnifici
kimono, finemente ricamati con grande varietà di
temi decorativi, specie il kosode in crespo di seta,
già segnalato da Vincenzo Ragusa come “Veste
per gran dama… sposa di qualche generale”.
I segreti dell’apparire sono ancora svelati da:
scatole e ciotole in lacca; bruciaprofumi e astucci
per belletto; fermacapelli in legno, argento, corallo
e giada. Ma la tendenza alla perfezione estetica
ed etica si manifesta in modo più compiuto nella
seconda sezione “Arti predilette”. Pittrici, calligrafe,
maestre dell’ikebana, le cortigiane giapponesi tra
le arti preferite avevano anche la musica, quella
del liuto, soprattutto, testimoniato in mostra dalla
presenza di ben tre esemplari, senza disdegnare
la cetra e il tamburo. La terza sezione è dedicata
ai “Momenti di svago” e qui convergono tutti
quegli oggetti che hanno a che fare con i giochi,
le carte, gli scacchi, le conchiglie, l’incenso e il
fumo, considerato una delle quattro arti signorili,
aspetti della vita quotidiana che svelano, per
noi occidentali, il lato più inedito delle donne
giapponesi e ce le mostrano nei momenti più intimi
e oziosi della giornata.
Ad introdurre e contestualizzare le tre sezioni, sia
nell’esposizione che nel catalogo, le magnifiche
xilografie a colori, tratte dal volumetto Ehon seirō
bijin awase, anche questo in mostra. Le immagini
rappresentano le cortigiane di Yoshiwara, l’universo
più segreto delle maisons vertes, delle geisha e
delle case del tè, romanticamente ammantato di
esotica diversità. Queste, sono da intendersi come
una tarda evoluzione della pittura di genere. Con
sottili grafismi ed uno spiccato gusto decorativo,
narrano le atmosfere raffinate, l’aspetto elegante,
etereo e grazioso delle figure femminili, ritratte
in solitario splendore su di uno sfondo neutro e
luminoso. Così stupisce la garbata gestualità che
accompagna il rito quotidiano dell’abbigliamento
e della toeletta, il vezzo del fumo, la consuetudine
del gioco, l’arte e la maestria della calligrafia, della
pittura, della musica e dell’ikebana.
Il segreto mondo femminile si svela, gradualmente,
nell’allestimento scenografico della mostra. Un
semplice rotolo di cartone ondulato crea sipari,
paraventi e astratte evocazioni del paesaggio
nipponico nel quale si manifestano gli oggetti
“gentili” delle geisha, ora leggeri ed aerei, ora
imponenti e regali. Gli ultimi due piani del museo
accolgono, dunque, le visitatrici e i visitatori in
un luogo dove finalmente, nel nostro mondo
globalizzato, c’è ancora tanto da scoprire.
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1. Primo allestimento Museo d’Arte Siamese
Stefano Cardu, 1918.
Palazzo Civico, via Roma, Cagliari.
2. Attuale allestimento del museo.
Cittadella dei Musei, Cagliari
Il Museo Civico d’Arte Siamese Stefano Cardu
La storia del museo inizia il 22 giugno 1914,
quando con una lettera all’allora Sindaco Ottone
Bacaredda, il collezionista Stefano Cardu offrì
in dono al Comune di Cagliari una “modesta
raccolta”, così lui la definì, di oggetti e armi
orientali, collezionati in oltre un ventennio di
permanenza a Bangkok.
Con delibera n. 484 del 3 luglio 1914, il Consiglio
Comunale accettò la donazione e destinò al museo
una sala del secondo piano del nuovo Palazzo Civico.
Il museo si aprì solo nel 1918 e, per volere del
munifico donatore, gli incassi furono devoluti
agli orfani della Prima Guerra Mondiale. In quella
occasione Cardu prestò al Comune anche
la raccolta di oggetti ed armi che intendeva
mantenere di sua proprietà. Prese avvio un’intricata
vicenda burocratica conclusasi, solo dopo cinque
anni, con un atto di transazione tra il collezionista
ed il Comune che, a seguito del pagamento di
£135.000, entrò in possesso dell’intera collezione.
Nel 1939 il museo fu disallestito e le opere furono
trasportate nelle grotte dei Giardini Pubblici,
dove la magnifica raccolta si salvò dagli atroci
bombardamenti, che nel 1943 sventrarono anche
il Palazzo municipale della Città. Soltanto nel
1969, a seguito dell’incarico all’illustre orientalista
Gildo Fossati, si intraprese un riordino sistematico
della raccolta che fu così studiata e inventariata.
L’esposizione potè essere visitata dal 1977
nelle sale della Galleria Comunale d’Arte e,
successivamente, trasferita negli ambienti della
Cittadella dei Musei dove ancora oggi è fruibile in
un rinnovato allestimento.
Il museo presenta una notevole varietà di pezzi
artistici di origine e di culture asiatiche diverse.
Tuttavia non è individuato come “Museo d’Arte
Orientale” ma come “Museo d’Arte Siamese”
per evidenziare che la parte preponderante degli
oggetti è di tale provenienza, ed è proprio questa
caratteristica a dare alla collezione peculiarità,
unicità e importanza a livello europeo.
Il percorso espositivo è suddiviso in aree
geografiche e tematiche. Si inizia con il nucleo
degli argenti siamesi, finemente decorati a sbalzo e
a niello, probabilmente provenienti dalle medesime
officine che lavoravano per la corte di Bangkok.
Tra le porcellane spiccano quelle cinesi del periodo
Ming e dei primi imperatori Qing (dal XIV secolo
agli inizi del XVII) notevoli per bellezza di forma,
qualità, decorazione, smalti, ornato e una tecnica
esecutiva di altissimo livello. La sezione, forse, più
affascinante del museo è dedicata alle armi. Tra
queste prevalgono i pezzi da parata, le lance della
guardia reale siamese, realizzate con inserti in oro
e abbondante uso d’argento. Caratteristici sono i
pungoli da elefante, talvolta utilizzati come armi.
Un piccolo gruppo a sé è costituito dagli oggetti di
uso rituale, in particolare i “pugnali da esorcismi”
impiegati nella medicina tradizionale e i rasoi da
tonsura. Di grande fascino sono, inoltre, le armi
provenienti dalla Malesia, spade, coltelli e pugnali
caratteristici come il kriss, reso celebre da Salgari.
Accanto alle sculture di tema religioso, emergono
infine gli avori, specchio del profondo mutamento
sociale che prese avvio in Giappone a partire dalla
fine del XVII secolo e che vide l’ascesa al potere di
nuovi classi sociali.
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3. Teiera con coperchio, della manifattura Banko, firmata,
ceramica, smalti, oro. Il manico e il pomello del coperchio
sono a forma di doppio cordoncino ritorto, cm 6,5, XIX secolo
L’arte giapponese nella collezione Stefano Cardu
All’interno del nucleo di opere giapponesi della
collezione Cardu, spiccano i piccoli avori,
specchio del profondo mutamento politico,
economico e sociale che, agli inizi del 1700, vide
in Giappone l’ascesa, ai vertici del potere, della
classe dei commercianti.
3
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Una rivoluzione che fu anche culturale e che
determinò, inevitabilmente, il mutamento del
gusto estetico: agli artisti non si richiedeva più
la trattazione di soggetti di nobile schiatta, ma
raffigurazioni di contenuto popolare, adatte anche
ad un pubblico non colto. Le piccole sculture
in avorio della Collezione Cardu rappresentano,
con marcato gusto naturalistico e dovizia di
particolari, umili personaggi, colti nel quotidiano,
e animali senza gloria come il granchio, la
scimmia, il topo o la rana. Databili tra la fine del
periodo Edo (1615-1867) e il periodo Meiji (18681912), tali oggetti sono degli okimono, ninnoli
ornamentali ricollegabili, per caratteristiche
stilistiche e dimensioni, alla vasta produzione di
netsuke, anche questi presenti in gran numero
nella raccolta. Il netsuke era una sorta di bottone
destinato a fissare alla cintura del kimono
maschile, sfornito di tasche, la scatoletta delle
medicine o del tabacco (inrō), l’astuccio della pipa.
Una produzione funzionale all’abbigliamento
tradizionale che, ben presto, assunse anche
un valore decorativo. Da semplici placche
bidimensionali, i netsuke iniziarono a divenire delle
vere e proprie figure tridimensionali. Un passaggio
da oggetto-funzionale a oggetto-opera d’arte
che divenne definitivo quando, durante il periodo
Meiji, il Giappone aprì le porte all’Occidente
abbandonando, gradualmente, anche il tradizionale
indumento, il kimono, e tutti i suoi accessori. è in
quel momento che i raffinatissimi intagliatori, veri e
propri artisti, cominciarono a lavorare, soprattutto,
per il mercato estero e a produrre statuine che si
ispiravano al gusto figurativo dei netsuke.
Anche le scatole della collezione, alcune delle quali
catalogate come portagioie, sono state realizzate
in questo periodo per il mercato occidentale,
considerato che, per tradizione, le donne
giapponesi non indossavano gioielli. Tra queste
merita una particolare menzione il contenitore
portadolci in avorio, interamente scolpito con figure
di draghi, esempio mirabile del raffinato gusto
che guidò Stefano Cardu nella selezione dei pezzi
della sua collezione. Come quando si imbatté nella
rara teierina in ceramica Banko, con decorazioni
a smalto. Un esempio pregevole di quello stile, a
volte bizzarro, capriccioso e fantastico, che molto
affascinò i viaggiatori europei per i temi tratti dal
folklore e dal mondo della natura.
Nella sezione giapponese, oltre agli splendidi
esemplari di katana, forniti di fodero e impugnatura in
avorio decorato con bassorilievi e intarsi, la collezione
offre un’interessante serie di tsuba in metallo. Si
tratta della guardia o elsa che doveva separare
l’impugnatura della spada dalla lama, facilitando,
in questo modo, il controllo dell’arma e garantendo
la protezione della mano dello spadaccino. In
periodi di relativa pace come quello Edo, questo
oggetto, solitamente tondo o leggermente ovoidale,
prevalentemente metallico ma spesso anche
eburneo, iniziò ad essere elegantemente ornato con
motivi decorativi di varia natura.
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4. Okimono, pescatore con cesto di pesci,
firmata, avorio scolpito, brunito, inciso,
cm 10,5, XIX secolo
5. Okimono, venditore di bonsai,
firmata, avorio scolpito, brunito, inciso,
cm 8,5, XIX secolo
4
6. Okimono, pescatore con cormorano,
avorio scolpito, brunito, inciso,
cm 6,5, XIX secolo
7. Contenitore cilindrico con coperchio, draghi a tutto tondo
e a rilievo, duplice firma, base cm Ø 9 x 20, XIX secolo
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Quando fuori “c’era tanto mondo…”
Loretta Paderni
Direttore Sezione Asia del Museo Nazionale
Preistorico Etnografico Luigi Pigorini
Vincenzo Ragusa e gli “Oggetti per passione”
Durante la presentazione della sua autobiografia
romanzata “Case, amori, universi” Fosco Maraini,
con l’abituale sagacia questa volta tinta di
malinconia, raccontò che il titolo del volume era
stato in qualche modo imposto dalla casa editrice
ma che lui in realtà avrebbe voluto usare il più
evocativo “C’era tanto mondo…”, per alludere
all’inesauribile fonte di sorpresa e di conoscenza
che aveva sperimentato nei suoi tanti viaggi in
un’epoca e in un mondo non ancora globalizzato.
Con lo stesso sguardo, aperto alle straordinarie
potenzialità del confronto quando ancora “c’era
tanto mondo”, arrivò in Giappone nel 1876
Vincenzo Ragusa (1841-1927). Il percorso di vita di
questo giovane scultore siciliano seguì il sentiero
tracciato da una volontà di ferro, animata dalla
passione per l’arte e dai principi risorgimentali
tesi alla costruzione morale dell’uomo e della
Patria, alla solidarietà tra gli individui e tra i
popoli, all’educazione intesa come strumento di
riscatto e crescita personale. Il Giappone che si
trovò davanti agli occhi era un paese in fermento,
un paese che si stava reinventando, in cui era
diventato possibile che uno straniero di umili
origini quale lui stesso era, fosse ricevuto a corte
da uno dei sovrani fino allora più inavvicinabili,
il Tennō, diretto discendente degli dei. L’arrivo
delle “navi nere” del commodoro Perry nel 1853,
aveva incrinato l’autoisolamento del Giappone in
una dimensione feudale, durato ininterrottamente
per oltre 200 anni. L’autorità dello shōgun era
stata minata e nel 1867, dopo aspri conflitti, il
potere era stato restituito all’imperatore. Da quel
momento, anche per evitare di essere fagocitato
dalle mire imperialistiche dei paesi occidentali, il
Giappone si era imposto di diventare una potenza
moderna, industrializzata ed economicamente
sviluppata, apprezzata a livello internazionale. Il
governo dell’imperatore Meiji (1868-1912) aveva
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scelto di farsi conoscere attraverso le Esposizioni
Universali in voga all’epoca, mostrando a un
pubblico sempre più ammirato la straordinaria
creatività e abilità tecnica dei suoi artigianiartisti. Nello stesso tempo aveva intuito di dover
apprendere, il più velocemente possibile, da tecnici
ed esperti stranieri di tutte le specializzazioni,
perché, parafrasando il Gattopardo di Tomasi di
Lampedusa “bisognava che tutto cambiasse,
perché tutto rimanesse com’era”. Ragusa era tra
questi oyatoi gaikokujin (stranieri noleggiati). Su
domanda del governo giapponese, che aveva
richiesto all’Italia, il “bel paese” dell’arte, tre
insegnanti per la costituenda Scuola di Belle Arti
del Ministero dei Lavori Pubblici di Tōkyō (Kōbu
Bijutsu Gakkō), fu selezionato, tra molti aspiranti,
insieme al pittore Antonio Fontanesi e all’architetto
Gian Vincenzo Cappelletti. Pur non conoscendo
nulla del Giappone, se ne fece rapidamente
conquistare. Ne apprezzava la sobrietà, la
serietà e la dedizione nel lavoro, la sensibilità
artistica presente in tutte le manifestazioni del
vivere quotidiano. Su tutto furono le straordinarie
competenze tecniche degli artigiani e la creatività
degli artisti a catturare la sua attenzione e a
spingerlo alla raccolta di una collezione di circa
4200 oggetti, rappresentativi di tutti i settori delle
arti figurative e decorative giapponesi. Del resto le
contingenze non potevano essergli più favorevoli.
Come esperto straniero godeva di una discreta
disponibilità economica e di prestigio sociale, in
un momento in cui le riforme socio-economiche
del governo Meiji, provocando un terremoto nelle
attività produttive e nella struttura della società,
avevano portato alla svendita scellerata di
patrimoni d’inestimabile valore. Migliaia di artigiani
avevano perso il sostegno economico garantito dai
signori locali e dai templi. La classe samurai era
stata esautorata dal suo ruolo e privata dei suoi
privilegi, prima di tutto quello di portare la spada.
Ragusa ebbe quindi la possibilità di acquistare
oggetti d’uso quotidiano o cultuale di epoca Edo
(1600-1867), documenti di un periodo storico
da poco concluso ma testimoni di un mondo
destinato a essere completamente soppiantato in
brevissimo tempo. Insieme alla collezione prese
corpo l’idea di una scuola–officina da impiantare
a Palermo, una volta rientrato in Italia, in cui
avvalersi di tecniche e insegnanti giapponesi per
creare una manifattura industriale specializzata
nella lavorazione della lacca. Gli oggetti raccolti
in Giappone furono esposti nelle undici sale
del Museo annesso alla scuola, inaugurato nel
1883. Nel disegno di Ragusa essi avrebbero
dovuto supportare le attività didattiche della
scuola-officina, fornire modelli tecnici ed estetici
cui ispirarsi, ed essere al tempo stesso fonte di
conoscenza del paese da cui provenivano. Come
spesso accade, però, i grandi sogni sono interrotti
da bruschi e traumatici risvegli. La miopia della
burocrazia e forse anche l’invidia per una fortuna
ricercata con coraggio al di fuori delle consuetudini
e dei confini ristretti della propria terra, portarono
ben presto alla chiusura delle Officine della lacca
giapponese e del Museo. I debiti costrinsero lo
scultore, che aveva rinunciato alla sua arte per
diventare didatta e divulgatore, a vendere la
collezione, che ora è conservata a Roma, presso
il Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi
Pigorini.
Gli oggetti della collezione di Vincenzo
Ragusa continuano a raccontare un Giappone
profondamente diverso da quello di oggi. Per
l’esposizione “Oggetti per passione” sono
stati selezionati materiali legati al mondo
femminile che, pur non essendo esaustivamente
rappresentato nella raccolta, emerge tuttavia vivido
e intrigante, anche in virtù dell’accostamento
con le immagini delle cortigiane di Yoshiwara,
(il quartiere del piacere della capitale Edo) che
sono state scelte per accompagnare gli oggetti.
Nella raccolta Ragusa sono molte le xilografie
e i libri illustrati (ehon) che raccontano l’ukiyo,
il mondo fluttuante della cultura e della società
di Edo, il suo culto per la bellezza unito alla
consapevolezza dell’effimera realtà della natura
umana. Spesso i volumi erano veri e propri
cataloghi delle cortigiane più conosciute, ne
sottolineavano l’avvenenza, la raffinatezza o la
maestria nelle arti dell’intrattenimento, al fine di
indirizzare i clienti nella scelta più appropriata
per passare piacevolmente il tempo nella “città
senza notte”. Pur appartenendo a questo genere
di libri illustrati, nei volumi della serie Ehon seirō
bijin awase (Libro illustrato a paragone delle
bellezze delle Case Verdi) pubblicati da Suzuki
Harunobu, nel 1770 le cortigiane non appaiono
come maliarde raggiungibili solo da pochi eletti,
disposti a spendere capitali per i loro favori, ma
sono ritratte nella dimensione della vita quotidiana,
nei quartieri privati (oku) dove si svolgevano i
momenti più intimi della loro giornata. Le giovani
donne mostrano con grazia eterea come si
prendevano cura del proprio corpo, il trucco
del viso, le elaborate acconciature dei capelli,
l’abbigliamento e gli accessori del vestiario che
le rendevano così affascinanti agli occhi dei
clienti. Rivelano la dedizione al perfezionamento
delle arti indispensabili per la loro attività di
intrattenitrici nei banchetti: la musica, la danza,
la composizione floreale (ikebana), la conoscenza
della poesia e della calligrafia, strumenti di una
seduzione più sottile ma altrettanto necessaria
per la conquista della notorietà. I momenti di
ozio e di svago, i passatempi preferiti, il fumo, la
lettura, la compagnia degli animali domestici, i
giochi, completano il quadro di un mondo celato
agli sguardi indiscreti dal sottile ma invalicabile
schermo dei silenziosi pannelli scorrevoli.
19
自分自身を提示する方法
Presentarsi
in pubblico
Eleganza, sensualità, grazia erano parte del fascino apparentemente
ingenuo e spontaneo delle cortigiane del periodo Edo, così come il distacco,
l’inflessibilità, l’artificio con cui in realtà veniva costruito. Il livello di raffinatezza
raggiunto sia sul piano estetico sia su quello etico era definito iki, parola
intraducibile, la cui essenza permea la cultura giapponese. Con disciplina pari
a quella dei samurai nell’addestramento militare, le donne si preparavano alla
seduzione curando nei minimi dettagli gesti, posture, sguardi e, naturalmente,
il proprio aspetto esteriore sia nella toeletta sia nell’abbigliamento.
21
8
Abbigliamento e accessori
Ume ga ka o
Sode ni utsushite
Todometeba
Haru wa sugu to mo
Katami naramashi
Se potessi impregnare la manica
con il profumo del susino
e conservarlo
sarebbe un ricordo
del veloce passaggio di questa primavera
Anonimo, Kokinshū (secolo X)
Tra i simboli più affascinanti della cultura
giapponese, il kimono (termine generico che
indica “ciò che si indossa”) è oggi usato in
occasioni particolari come matrimoni, funerali,
feste tradizionali o per la cerimonia del tè. Il
suo precursore, il kosode (lett. manica piccola),
ha avuto una lenta evoluzione, adattandosi ai
cambiamenti sociali, leggi e mode che si sono
susseguite nella storia. Utilizzato dalla gente
comune come abito quotidiano e come sottoveste
dalle classi più elevate, il kosode fu adottato come
capo d’abbigliamento della classe dei samurai*.
In seguito fu l’elemento di vestiario principale
per tutte le classi e per entrambi i sessi. Durante
il periodo Edo (1600-1867) la stabilità politica
e il crescente benessere nella nuova capitale,
scelta dallo shōgun Tokugawa (l’odierna Tōkyō),
stimolarono la fioritura delle arti tessili, e la
produzione di capi d’abbigliamento più elaborati
per le mogli dei ricchi chōnin (mercanti e artigiani).
Dopo l’emissione di rigide regole suntuarie (riforme
dell’era Tenpō, 1830-1844) per arginare gli eccessi
di tale ostentazione, si sviluppò la tendenza ad
adeguarsi all’estetica dell’iki, con colori tenui,
tessuti semplici, e attenzione ai dettagli, a un lusso
nascosto e non esibito.
Il kimono è una tunica a forma di T ricavata da
un’unica striscia di tessuto lunga 11 metri e
larga circa 36 centimetri, tagliata in sette parti:
due lunghi pannelli rettangolari cuciti insieme in
verticale formano il corpo, lungo fino ai piedi,
due strisce di tessuto formano le maniche, due i
baveri, e una fascia il colletto. Viene drappeggiato
intorno al corpo e fermato con una lunga fascia
(obi) che gira più volte intorno alla vita e termina
con un elaborato nodo. Poiché tutti i kimono hanno
la stessa forma e una misura standard possono
essere utilizzati da chiunque. A differenza degli
abiti occidentali, non sottolinea la fisicità corporea
nei suoi particolari, ma la cela “nelle sue forme
22
senza forma”, avviluppandola con grazia. Il kimono
sfoderato è indossato d’estate, mentre in inverno
il calore è fornito dal kimono imbottito, indossato
in molti strati. La semplicità delle linee dal taglio
squadrato lo rende simile a una tela bianca, dove la
decorazione definisce il ruolo, lo status sociale e la
sensibilità culturale ed estetica di chi lo indossa. Il
motivo decorativo che sale dall’orlo fino alla spalla
identifica le donne nubili; quello nella parte bassa
dell’abito indica una donna sposata; l’obi annodato
in alto è per le ragazze giovani, in basso per le
donne mature. Con il procedere dell’età si passa
da colori brillanti a tinte meno vivide. Caratteristica
principale è la lunghezza della manica che nel
furisode (lett. manica che pende), indossato dalle
ragazze nubili e dalle spose, può raggiungere i
90-100 cm, nel tomesode (lett. manica trattenuta),
indossato dopo il matrimonio, arriva fino alla vita.
I colori delle stoffe e i temi decorativi sono infiniti:
le differenze sono connesse a una simbologia
codificata, con diversi livelli di significato. Le tinte
dei tessuti cambiano secondo il susseguirsi delle
stagioni. L’uso di motivi specifici può alludere alle
virtù o alle caratteristiche di chi lo indossa (o a ciò
cui la persona potrebbe aspirare), può riflettere
emozioni, o riferirsi alla stagione in corso e in
certi casi anticipare quella che verrà. Gli elementi
del mondo naturale hanno di solito associazioni
poetiche, che sottolineano la cultura letteraria
di chi lo indossa. Allo stesso modo le scene di
paesaggio si riferiscono a storie tratte sia dalla
letteratura classica sia dalle tradizioni popolari.
Raro trovare nei kimono la rappresentazione di
figure umane, evocate invece da particolari oggetti
che ne suggeriscono la presenza.
* Anna Jackson, V&A Pattern: Kimono, 2010
8. Katabira furisode, tela di ramiè (Boehmeria utilis)
stampata e ricamata, seta, filo metallico,
cm 175 x 128, XVIII secolo.
23
9
10
pagine precedenti
9. Kosode imbottito, seta stampata e ricamata,
filo metallico, cm 170 x 120, XIX secolo
8. Katabira, kimono estivo con lunghe maniche
(furisode), in tela grezza di ramiè (Boehmeria
utilis) stampata con la tecnica di tintura a riserva
katazome e ricamata con seta policroma e filo
d’oro. Il katazome prevedeva l’uso di matrici di
carta di gelso intagliate (katagami) e di una pasta
di riso (norioki) resistente al colore che veniva
applicata negli spazi vuoti della matrice e poi
rimossa dopo l’applicazione della tintura. Il motivo
a forellini dai contorni scuri (suribitta) imita l’effetto
della più complessa e dispendiosa tecnica di
tintura a riserva kanoko shibori, realizzata mediante
imbastiture e proibita, per i costi esorbitanti, dalle
leggi suntuarie emanate dagli shōgun Tokugawa
nel XVII secolo. Il katabira è interamente coperto
dal tradizionale motivo saikan san’yū, i “tre amici
dell’inverno”: pino, bambù coperto di neve e
susino in fiore (shōchikubai), considerato di buon
auspicio e utilizzato anche in occasione degli
auguri per il nuovo anno. Il sempreverde pino,
infatti, è simbolo di longevità, il flessibile bambù,
che resiste ai rigori invernali senza spezzarsi, è
associato alla perseveranza, il susino, primo albero
a fiorire ogni anno è immagine di rinnovamento.
L’associazione delle gru (tsuru) in volo, simbolo
del cielo, con le mitiche tartarughe dal mantello
di alghe (minogame), simbolo della terra, richiama
la dimora degli Immortali, il mitico monte Horai e
rafforza il significato augurale di lunga vita. I motivi
e le tecniche utilizzati per questo furisode sono
tipici dell’aristocrazia militare.
9. Kosode, kimono invernale con maniche piccole
in crespo di seta (chirimen) verde giada con
stampa a riserva bianca (shiroage), stampa con
matrice (katazome), dipinto a mano e ricamato
con seta policroma e filo d’oro. Fodera in mussola
di seta arancio con imbottitura. La decorazione
di questo kosode è tipica dello “stile della corte
imperiale” (goshodoki), utilizzata per i kimono
indossati dalle donne di alto rango della classe
26
11. Hakoseko, borsetta, velluto ricamato, seta, filo metallico, cm 8 x 16,5 x 3,7;
Kamiire, portafazzoletti velluto ricamato, seta, filo metallico, cm 8 x 17, XVIII-XIX secolo.
10. Katabira kosode tela di ramiè (Boehmeria utilis) stampata
e ricamata, seta, filo metallico, cm 175 x 128, XIX secolo
samurai. Lo stesso Vincenzo Ragusa annota nel
suo inventario a proposito di questo kimono:
“Veste per gran dama, sposa di qualche generale”.
I kosode goshodoki si caratterizzano per la
presenza di paesaggi immaginari, all’interno dei
quali sono inseriti elementi simbolici, allusivi a
citazioni tratte da drammi del teatro nō, dalla
letteratura classica o da storie popolari. Il fondo
verde chiaro di questo kosode suggerisce
l’immagine di una primavera incipiente, anche se il
paesaggio è tipicamente invernale, contrassegnato
dai “tre amici dell’inverno”: gli alberi di pino e
bambù, carichi di neve, i primi fiori di susino, tra
i quali scorrono le acque parzialmente gelate di
un ruscello. Nella parte inferiore del paesaggio, al
riparo tra le rocce e gli alberi, è ricamata con filo
d’oro una capanna rustica dal tetto di paglia ma
con preziose cortine raccolte che fanno intravedere
all’interno un ventaglio e un copricapo dorato.
Al centro una staccionata con un alto portale di
legno, isolata nel paesaggio. All’altezza della spalla
destra un cappello conico (kasa) e un mantello
(mino), entrambi di paglia, tradizionalmente
utilizzati dai contadini e dai viaggiatori per
proteggersi dalla pioggia e dalla neve. La presenza
di due lunghe armi inastate, probabilmente di
origine cinese, rimanda all’appartenenza alla
classe samurai della proprietaria del kosode.
10. Katabira, kimono estivo con maniche piccole
(kosode) in tela di ramiè (Boehmeria utilis),
stampata con la tecnica di tintura a riserva
shiroage e ricamata con seta policroma e filo d’oro.
La decorazione si sviluppa in diagonale e termina
sulla manica destra, tralasciando la zona delle
spalle. Un motivo di erbe palustri, iris, peonie e
glicine è ricamato in arancione, viola, bianco, giallo
e verde. Tra i fiori si muovono onde increspate,
realizzate con la tecnica shiroage, che, mediante
l’applicazione di una pasta di riso resistente al
colore permetteva di ottenere dei motivi bianchi
11
nettamente distinti dal fondo, colorato dal bagno
di tintura. Le creste delle onde sono ricamate
con filo ricoperto da foglia d’oro. Il fondo è stato
probabilmente ritinto in epoca Meiji (1868-1912). Il
colletto e le maniche sono foderati con mussola di
seta arancione.
11. Hakoseko, borsetta di velluto (birōdo) a
forma di scatola rettangolare, con fascia di
chiusura e sacchetto circolare pendente. Il
velluto fu introdotto in Giappone dai portoghesi
nel XVI secolo e lo stesso termine con cui viene
indicato, birōdo, deriva dalla parola portoghese
veludo. Accessorio dell’abbigliamento femminile,
l’hakoseko era indossato nel periodo Edo (16001867) dalle donne della casta samurai che in
occasioni formali lo inserivano nella fascia avvolta
attorno alla vita (obi) per portare con sé il rosso per
le labbra (beni ita), il piumino da cipria (mayuhake),
fazzoletti di carta, incenso, un piccolo specchio
di metallo, lo spillone ornamentale per capelli
(kanzashi). Oggi ha un ruolo puramente decorativo,
come nell’abito da sposa tradizionale. Il motivo
ornamentale, realizzato con ricami in seta e filo
d’oro, raffigura una ruota e un particolare della
parte finale della carrozza di corte (gosho guruma),
da cui fuoriescono cortine ricamate che sventolano
nell’aria tra i fiori di ciliegio. Nell’epoca Heian
(795-1185), era usanza dei nobili di corte recarsi
sulla carrozza trainata da buoi ad ammirare la
fioritura degli alberi, in particolare quella dei ciliegi
in primavera. Questa tradizione, detta hanami, ha
ancora oggi largo seguito ed è un’occasione per
festeggiare all’aperto.
Kamiire, sacchetto in velluto (birōdo) color rosso
mattone a forma di busta, utilizzato per fazzoletti di
carta morbida (hanagami). La decorazione di fiori e
boccioli di ciliegio è realizzata con applicazioni di
seta bianca. I particolari dei fiori sono ricamati con
filo di seta bianco, mentre le foglie hanno diverse
gradazioni di verde. Tra i fiori due passeri (suzume)
stilizzati e visti dall’alto, realizzati con filo metallico
d’oro e d’argento.
27
12
Ventagli
Fuji no kaze ya
Ōgi ni nosete
Edo miyage
Porterò a Edo in dono
il vento del Fuji
nel mio ventaglio
Bashō Matsuo
(1644-1694)
Nella cultura giapponese tradizionale il ventaglio è
accessorio personale dell’abbigliamento, elemento
cerimoniale, simbolo di potere, meccanismo
teatrale, oggetto d’uso pratico, strumento di
seduzione, segnale di battaglia, arma e molto altro
ancora. Utilizzato da uomini e donne di ogni ceto
sociale, si divide in due tipi principali: il ventaglio
pieghevole (ōgi o sensu) di origine giapponese, per
occasioni più formali, e il ventaglio rigido (uchiwa),
proveniente dalla Cina. Nella collezione di Vincenzo
Ragusa predominano i ventagli di quest’ultimo
tipo. Sulle sue facciate di seta venivano applicate
le arti predilette della calligrafia, della poesia, della
pittura. Nel periodo Edo (1600-1867) si iniziarono
a produrre, soprattutto per l’emergente classe
borghese (chōnin), uchiwa con soggetti dell’arte
popolare allora in voga, le stampe ukiyo-e: attori
del teatro kabuki, cortigiane dei quartieri di piacere,
eroi e personaggi della mitologia. Con il tempo il
ventaglio rigido è stato utilizzato, e lo è tuttora,
nell’ambiente domestico per farsi vento, ravvivare
il fuoco, raffreddare il cibo, scacciare gli insetti.
12. Uchiwa, ventaglio rigido con schermo in carta
grigio perla incollata su una struttura di stecche in
bambù che si inseriscono in un manico appuntito
di legno laccato nero (rōiro nuri), decorato con
motivi floreali dorati. Alla base dello schermo
una decorazione in carta nera lucida traforata a
doppia virgola che lascia in vista le sottili stecche
di bambù e che poggia su un inserto intagliato in
lacca nera su due registri, in alto ad andamento
curvilineo, in basso a cunei triangolari. Il recto è
dipinto ad acquarello con rami dalle foglie marroni
e fiori bianchi di susino (ume). Sul verso due
uccellini a rilievo in seta imbottita. Il bordo del
ventaglio è dorato.
12. Uchiwa, ventaglio,
legno, bambù, carta, lacca, pigmenti, seta,
cm 22,8 x 40,5, XIX secolo
28
29
30
13
14
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22
23
24
16
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19
20
21
28
29
30
pagina 34
13-14. Uchiwa, ventaglio,
legno, lacca, oro,
cm 20 x 33,5, XIX secolo
15. Uchiwa, ventaglio,
legno, lacca,
cm 19,7 x 33,5, XIX secolo
16-17. Uchiwa, ventaglio,
legno, bambù, carta, seta, pigmenti,
cm 19,7 x 34, XIX secolo
18. Uchiwa, ventaglio,
bambù, carta, pigmenti,
cm 24,5 x 40,5, XIX secolo
13-14. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale
allungata verso il manico. Una pagina è decorata
con un tronco di bambù in lacca oro a rilievo
(takamakie) e con rami e foglie di bambù in oro
e argento su un fondo di lacca screziata nera e
rossa. Sull’altra pagina steli e fiori di garofano
dorati realizzati in “pittura cosparsa piana”
(hiramakie) su fondo uniforme rossiccio. Il corto
manico ligneo, che si innesta sul ventaglio con
un supporto trilobato, è laccato in nero con
decorazioni e spruzzature in oro.
15. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale
allungata verso il manico, in legno laccato. La
pagina è attraversata da una linea di demarcazione
obliqua che separa due diversi tipi di decorazione
in lacca con effetti cromatici peculiari: lacca di
Tsugaru marmorizzata (Tsugaru nuri) nella parte
inferiore, con motivi rossi su fondo nero e a
corteccia di ciliegio (ōhi-nuri) nella parte superiore.
Sul verso di lacca bruno-rossa sono sparsi motivi
decorativi stilizzati di colore nero. Il corto manico
ligneo, che si raccorda allo schermo con un
sostegno di forma trilobata, è laccato in nero con
fiori di garofano dipinti in oro. Probabilmente si
tratta di un mizu uchiwa o ventaglio per l’acqua
che, impermeabilizzato dalla lacca, era usato per
spruzzarsi un po’ d’acqua sul viso.
16-17. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale
allungata verso il manico, aggiunto dopo il
completamento del corpo del ventaglio secondo
la tipica manifattura di Kyoto (Kyo-uchiwa). Lo
schermo è costituito da uno scheletro di sottili
stecche di bambù disposte a raggiera. Una
delle pagine è rivestita di carta rossa decorata
con crisantemi bianchi dipinti. L’altra, di colore
naturale, è in seta, distesa su una fodera in carta
giapponese a fibra lunga. La seta ha un fondo con
spruzzature d’oro su cui è dipinto ad acquarello un
paesaggio rurale. In basso scorre un fiume che tre
figure stanno attraversando sulla tipica imbarcazione
detta chōki-bune (barca a forma di zanna di
32
19-20. Uchiwa, ventaglio,
metallo, bambù, carta, seta,
lacca, pigmenti,
cm 22 x 36,8, XIX secolo
21. Uchiwa, ventaglio,
metallo, bambù, seta, lacca, inchiostro,
cm 21,7 x 36,9, XIX secolo
cinghiale), sospinta dal barcaiolo con un’asta. Il
bordo dell’uchiwa è dipinto in oro. Dal manico ligneo
pende una nappa di seta di colore azzurro.
18. Uchiwa, ventaglio rigido di forma rettangolare,
con angoli arrotondati. Dal manico di bambù, si
dipartono un orlo rigido e uno scheletro di sottili
stecche disposte a raggiera, cucite tra loro e
rivestite da carta giapponese dipinta ad acquerello.
Su una pagina, tra nubi bordate d’argento si
stagliano dei rami con fiori bianchi e rosa di
ciliegio. Sull’altra sono dipinte due donne intente
nelle operazioni di molitura dei cereali.
19-20. Uchiwa, ventaglio rigido costituito da uno
scheletro di sottili stecche di bambù disposte a
raggiera, rivestito in seta dipinta con inchiostro
nero, oro, azzurro, rosso e distesa su una fodera
di carta. Lo schermo è innestato a un manico
di rame formato da una lamina piegata su se
stessa e chiusa in alto da due ribattini. Sul manico
fiori di susino e ghiaccio incrinato, simboli della
primavera, dipinti in nero e argento. Sul recto,
una scena della battaglia di Yashima (1185) in cui
si scontrarono i clan rivali Taira e Minamoto, la
cui saga è raccontata nel romanzo epico del XIV
secolo Heike monogatari. Il bordo dello schermo è
rivestito con carta dorata. Sul fondo, tra l’innesto
del manico e lo schermo, c’è un inserto di lacca
nera intagliato con motivi curvilinei.
21. Uchiwa, ventaglio rigido con schermo in seta
su struttura di stecche in bambù e manico in rame
decorato con piccoli motivi floreali e romboidali
in oro sul recto e neri sul verso. Le pagine sono
dipinte con inchiostro nero (sumi-e): sul recto il
condottiero Minamoto no Yoshitsune su un cavallo
bardato. Il guerriero, oltre alla tradizionale coppia
di spade (daishō), porta anche un lungo arco e una
faretra colma di frecce. Gli è a fianco il suo fedele
compagno Benkei con il tipico copricapo nero
(tokin) degli yamabushi (monaci asceti guerrieri).
Benkei ha una spada lunga (katana) poggiata
pagina 35
22. Uchiwa, ventaglio,
legno, pigmenti,
cm 19,5 x 33, XIX secolo
24. Uchiwa, ventaglio,
bambù, seta, tessuto, avorio,
madreperla, pigmenti,
cm 27,2 x 39,
Cina, metà XVIII secolo
23. Uchiwa, ventaglio,
legno, pigmenti,
cm 19,5 x 33, XIX secolo
25-26. Uchiwa, ventaglio,
legno, pigmenti, inchiostro,
cm 19,3 x 33, XIX secolo
sulla spalla. Sul verso alberi di pino sul mare. Il
ventaglio è stato realizzato nella stessa bottega del
precedente (n. 19-20). Sul fondo, tra l’innesto del
manico e lo schermo, c’è un inserto di lacca nera
intagliato con motivi curvilinei.
22. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante,
con schermo in legno al naturale, dipinto ad
acquarello. Su una delle pagine è raffigurata una
scena dal racconto popolare del matrimonio fra
topi (Nezumi no Yomeiri). La sposa, che indossa
un uchikake-furisode (sopraveste dalle maniche
lunghe) bianco con fodera rossa ha il capo coperto
con un velo a forma di cappuccio, (tsunokakushi).
La tradizione vuole che questo copra le “corna
da demone”: segno di gelosia della sposa che,
nascondendole, mostra la sua sottomissione allo
sposo. Quest’ultimo attende seduto, indossando
il completo kamishimo tipico dei samurai o dei
nobili di corte. Un’assistente accompagna la
sposa mentre due giovani inservienti, inginocchiate
davanti a un tavolino quadrato (kagetsudai) si
apprestano a servire il sake (bevanda alcolica
derivata dal riso fermentato) nelle tipiche tazze per
il rito del san-san-kudo, “tre volte tre”. Gli sposi si
scambiano tra loro tre tazze di sake, bevendo tre
sorsi da ogni tazza a turno. Alla sinistra dello sposo
è posta la cosiddetta “isola dei beati” (shimadai),
un tavolino quadrilobato con una composizione
di pino, susino in fiore e bambù ritenuta di buon
augurio. Il verso e il manico hanno la stessa
decorazione del ventaglio n. 25-26.
23. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante
di legno al naturale, dipinto ad acquarello. Su una
pagina un gruppo di fanciulle semi-nascosto da
nove parasole aperti di cui sono tracciate solo le
linee di contorno. Delle ragazze si intravede solo
un volto, i particolari dell’abbigliamento e i piedi
calzati con tabi (calzini bianchi) e zori (infradito). Si
scorge un ragazzo dai piedi scalzi che porta sulle
spalle un mastello di legno da trasporto assicurato
da funi. Sul manico dall’innesto trilobato sono
27. Uchiwa, ventaglio,
legno, garza, pigmenti, lacca, metallo,
cm 25,5 x 48, XVIII-XIX secolo
28-29. Uchiwa, ventaglio,
legno, bambù, carta, seta, lacca, pigmenti,
cm 21,8 x 37,2, XIX secolo
30. Uchiwa, ventaglio,
bambù, carta, pigmenti, legno,
cm 22,6 x 34,3, metà XIX secolo
dipinti fiori di ipomea (asagao) blu. Sull’altra pagina
tre serti di fiori di ciliegio (sakura), ipomea (asagao),
foglie di acero (momiji) e quattro rondini. Sul manico
tre foglie verdi.
24. Uchiwa, ventaglio cinese di forma tonda, in seta
dipinta con bordo a rilievo sul retro, dove la seta è
di colore naturale. Il manico d’avorio attraversa lo
schermo del ventaglio sul retro e va rastremandosi
verso alto. L’avorio è scolpito in rilievo con motivi
a soggetto floreale e uccelli. Il recto è dipinto
in policromia con figure che portano doni a un
dignitario, nel giardino di un edificio. I personaggi
sono realizzati con applicazioni a rilievo: le facce
sono ricavate da dischetti di madreperla e di avorio
dipinti, gli abiti da ritagli di seta. L’armatura rigida
che contorna lo specchio è rivestita con un tessuto
broccato di colore verde. Dal manico pende una
nappa di seta colore naturale.
25-26. Uchiwa, ventaglio rigido di forma
tondeggiante di legno al naturale dipinto ad
acquarello. Su una pagina Izanami e Izanagi, Ia
coppia di fratelli divini dello Shintō. Le due figure
vestite di bianco sono l’una di fronte all’altra.
Izanami di spalle, avanza verso Izanagi, che è visto
frontalmente. Sulla pagina la firma Kunisada ga
(dipinto da Kunisada) e il timbro rosso dell’autore,
probabilmente Kunisada III. Il tema dell’opera la
colloca nel filone del Kokugaku, movimento nato
nel XIX secolo, teso al recupero della tradizione
autoctona e alla sua emancipazione dalle influenze
straniere. Il manico dall’innesto trilobato è decorato
con una delicata peonia rosa (botan). Sull’altra
pagina una pianta di ipomea (asagao) dai fiori azzurri
e cespugli di altri fiori primaverili si protendono da
uno sperone di roccia, circondati da uccelli in volo.
Sul manico un fiore di lilium arancione.
27. Uchiwa, ventaglio rigido simile nella forma al
gumpai uchiwa, utilizzato dai comandanti militari
per dirigere le loro truppe. La struttura perimetrale
in legno curvato, laccato e intagliato funge da
33
31. Uchiwa, ventaglio,
bambù, corno, seta, pigmenti,
cm 23 x 39,6, XVIII-XIX secolo
telaio di sostegno e tensione allo schermo, in garza
dipinta. Le pagine in garza del ventaglio sono
divise in due metà rispetto all’asse centrale, che
prolunga il manico. Su ciascuna metà è dipinta
con delicati colori una fenice (hōō) dalla lunga
coda variopinta, in volo. Il manico e il perimetro
sono interamente ricoperti da girali fitomorfe
stilizzate dette “erba cinese” (karakusa) in lacca
oro su sfondo ambrato “a buccia di pera” (nashiji).
Il terminale in lacca oro a “pittura cosparsa piana”
(hiramakie) imita una finitura in metallo. Le parti in
legno sono tutte in lacca bruna con decorazione
di nuvole in lacca oro. I punti d’incastro tra l’asse
centrale e la struttura perimetrale sono rinforzati
e decorati da applicazioni metalliche in ottone e
da due stemmi famigliari imperiali (mon), a forma
di foglia di kiri (Paulownia tomentosa). Secondo la
leggenda quando discende sulla terra la fenice,
simbolo di rinascita e d’immortalità ed emblema
dell’imperatrice, vive proprio tra i rami dell’albero
di paulonia. Nell’inventario della sua collezione
Vincenzo Ragusa lo definisce “Ventaglio da
imperatrice, per grandi ricevimenti religiosi…”
30. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante,
con schermo di carta, su struttura di stecche
in bambù, manico in legno naturale. Sul recto
una stampa xilografica policroma di Utagawa
Kunisada, (1786-1865) uno dei più prolifici e noti
autori di stampe ukiyo-e del XIX secolo. Entrato
giovanissimo come apprendista nella scuola di
Utagawa Toyokuni I (1769-1825) famoso autore di
ritratti di attori, fu autorizzato a prendere parte del
nome del maestro per comporre il suo, scegliendo
per sé il nome Kunisada. Intorno al 1845 divenne
il caposcuola, assumendo il nome di Toyokuni III.
La stampa appartiene alla serie “Le sette variazioni
dell’alfabeto Iroha” (Seisho Nana Iroha), pubblicata
dall’editore Ebisuya Shōshichi nel luglio del 1856.
Il titolo dell’opera è “E” che sta per Emmado (il
tempio di Emma, il re degli inferi). La scena illustrata
è tratta dal sesto atto del dramma teatrale kabuki
Ehon Gappō ga Tsuji, opera dello scrittore Tsuruya
Nanboku IV (1755-1829). In un cartiglio rosso
appare la firma Toyokuni ga, adottata da Kunisada
tra il 1845 e il 1850. Il verso, monocromatico, è
costituito da un rivestimento di carta rosa.
28-29. Uchiwa, ventaglio rigido di forma ovale
allungata verso il manico, costituito da uno
scheletro di sottili stecche di bambù disposte a
raggiera, rivestito su entrambe le pagine in seta,
distesa su una fodera in carta giapponese a fibra
lunga. Il manico di legno in lacca nera lucida (rōiro
nuri) è decorato con uccelli e fiori in lacca oro. Le
due pagine dell’uchiwa sono dipinte ad acquerello
con motivi floreali e uccelli, su un fondo spruzzato
di pagliuzze d’oro. Su una pagina un tralcio reciso
di peonie rosa e fiorellini bianchi con un passero
in volo; sull’altra un ramo di ibisco (fuyō) rosso,
verso cui tende un altro passerotto. Il bordo del
ventaglio è rivestito con carta dorata. Dalla base
del manico pende un cordoncino in seta bianca e
viola intrecciata, con nodi e nappe.
31. Uchiwa, ventaglio rigido di forma tondeggiante,
con schermo in seta di colore naturale, su struttura
di sottili stecche di bambù. Il manico in corno
è decorato con rami di glicine e motivi floreali
dipinti in oro. Nella parte terminale un foro con
una ghiera di metallo dorato da cui pende un
cordoncino rosso in seta terminante con due
nappe dello stesso colore. Sul recto una fenice
(hōō) in volo, realizzata con applicazioni di tessuto
viola, arancione, e verde chiaro che traspaiono
attraverso un lavoro di ritaglio. Il piumaggio della
fenice è bordato e rifinito con filo ricoperto di carta
color oro. L’immagine è speculare sul verso.
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31
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Toeletta
Sewashige ni
Kushi de kashira o
Kakichirashi
Essa di fretta
si pettina i capelli,
come per caso.
Nozawa Bonchō
(1640-1714)
32. Kagami-kake, cavalletto pieghevole con
funzione di supporto per specchio a manico lungo
(e-kagami), composto da due elementi trapezoidali
che si aprono a compasso articolati da un perno
posto a tre quarti dell’altezza. L’apertura è regolata
da un cordoncino in seta arancione che passa
attraverso due fori praticati nelle basi d’appoggio
e termina con due nappe. La parte superiore
dell’elemento più lungo, arcuata e sagomata,
termina con due riccioli. La lacca nera di fondo è
decorata in oro con il motivo degli stemmi sparsi
(mon chirashi) delle tre foglie di aoi (Asarum
caulescens maxim). Emblema per molto tempo
utilizzato esclusivamente dalla famiglia degli
shōgun Tokugawa, veniva concesso come premio
ai feudatari più fedeli.
33. E-kagami con e-kagamibako, specchio in
bronzo bianco (hakudō) con manico largo e corto,
rivestito con un avvolgimento a spirale in vimini,
posto all’interno di una custodia in legno laccato
nero a doppia valva. Il retro dello specchio è
decorato con il motivo gosan no kiri (emblema di
paulonia con tre infiorescenze da tre, cinque e tre
fiori) e l’iscrizione Tenka-ichi Fujiwara Masashige,
“Il primo sotto il cielo, Fujiwara Masashige”,
ovvero il migliore del mondo. Lo specchio è
insieme alla spada e al gioiello uno dei tre doni
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che la dea Amaterasu fece al nipote Ninigi-noMikoto, progenitore della stirpe imperiale ed è
quindi un oggetto legato al contesto religioso della
tradizione shintoista. Utilizzati dalla nobiltà nel
periodo Heian (795-1185), iniziarono a diffondersi
presso la borghesia nella seconda metà del
periodo Edo (1600-1867). Nel tardo periodo
Edo la produzione artigianale degli specchi in
bronzo comprendeva anche prodotti di qualità più
modesta, per soddisfare la richiesta delle classi
popolari. La paulonia (Paulownia tomentosa, giapp.
kiri), è emblema della famiglia imperiale, come il
crisantemo (kiku).
34. E-kagami, specchio in bronzo bianco (hakudō)
con ampia superficie riflettente e un manico largo
e corto rivestito con un avvolgimento a spirale
in vimini. La faccia posteriore è delimitata da un
bordo circolare e presenta una decorazione di
arbusti di nanten (Nandina domestica), con bacche
e foglie. Si riteneva che la pianta fosse di augurio
per la fertilità femminile. Al centro un imponente
stemma (mon) costituito da due grappoli penduli
di glicine (fuji), emblema della potente famiglia
Fujiwara. Verso la fine del periodo Edo (1600-1867)
la dimensione degli specchi aumentò a causa delle
pettinature sempre più voluminose e complesse.
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32. Kagami-kake, cavalletto da specchio,
legno, lacca nera, lacca oro, seta, metallo,
cm 32 x 34,5 x 64,2, XVIII-XIX secolo
33. E-kagami con e-kagamibako,
specchio con manico e custodia per specchio, bronzo, vimini, legno, lacca nera,
custodia: cm 20,5 x 3 x 32; specchio: Ø cm 18,3 x 27,2, XVIII-XIX secolo.
34. E-kagami, specchio con manico,
bronzo, vimini, Ø cm 30 x 40,7, XIX secolo
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35. Kogai kanzashi, spillone,
legno, argento, corallo, oro,
cm 15,5 x 2,5;
Kogai kanzashi, spillone,
legno, argento, giada, cm 16 x 2,2;
Kogai kanzashi, spillone,
legno, ottone, cm 18,5 x 2,5.
XIX secolo
36. Set per il trucco costituito da:
ciotola
legno, lacca nera, lacca oro, Ø cm 4,9 x 2;
Oshiroi fude, pennello per ossido di piombo,
legno, lacca nera, lacca oro, setole, fibra
vegetale, Ø cm 5 x 9,5;
pennelli a doppia setola, per cosmesi,
legno, lacca nera, lacca oro, setole, fibra
vegetale, Ø 0,8 x 12.
XVIII-XIX secolo
35. Kogai kanzashi, fermacapelli a forma di barretta
a sezione ovale, in legno tinto di color marrone. Le
estremità sono ricoperte da due cappucci metallici,
di cui uno sfilabile, terminanti in forma di corolla
a cinque petali. Ogni petalo è inciso con motivi
decorativi diversi, in ogni corolla ci sono due petali
dorati e al centro un vago di corallo. Gli accessori
per i capelli sono stati fino alla modernizzazione
gli unici ornamenti delle donne giapponesi, erano
realizzati con materiali pregiati e decorati con
particolare cura.
Kogai kanzashi, fermacapelli a sezione schiacciata, in
legno tinto in color rosso. Le estremità sono ricoperte
da due cappucci metallici, di cui uno sfilabile, che
incastonano due rettangoli di giada.
Kogai kanzashi, fermacapelli a sezione quadrata,
in legno tinto in color rosso mattone. È chiuso alle
estremità da due cappucci in ottone, di cui uno
sfilabile, terminanti a impennatura di freccia con tre
alette.
36. Set per il trucco costituito da: piccola ciotola
con basso piede ad anello in legno laccato di
colore nocciola all’interno, nero all’esterno; Oshiroi
fude, pennello cilindrico per ossido di piombo,
con manico in legno laccato nero; due pennelli a
doppia setola innestata su manico di legno laccato
nero. Tutti gli oggetti hanno una decorazione in
lacca a “pittura cosparsa” oro (makie) di girali
fitomorfe stilizzate (karakusa), che sulla piccola
ciotola circondano l’aoi mon (Asarum caulescens
maxim) della famiglia Tokugawa. Nel periodo Edo
(1600-1867) la cosmesi prevedeva una precisa
etichetta con l’uso di tre colori: rosso (estratto
dal benibana, Carthamus tinctorius) per labbra e
occhi; bianco per il viso, (una polvere di piombo
empaku amalgamata con acqua, altamente tossica
a lungo andare); nero per la tintura dei denti. Le
sopracciglia venivano rasate ed erano disegnate
con nerofumo un paio di centimetri più in alto.
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38. Kanzashi, spilloni da capelli,
lega metallica, cm 18,5 x 2,5,
XIX secolo
37. Set per il trucco costituito da:
pennello per cosmesi doppio a scomparsa,
legno, lacca oro, metallo, setole; Ø cm 0,7 x 13;
pennello per cosmesi doppio,
legno, lacca oro, metallo, setole, cm 8 x 4,5 x 2;
astuccio per belletto,
metallo dorato, cm 4 x 5;
bottiglietta porta essenze profumate,
metallo dorato, argento, Ø cm 1. 4 x 3,7.
XIX secolo
37. Set per il trucco composto da: pennello a setole
estraibili, contenuto in un astuccio cilindrico in
metallo; pennello con doppie setole inserite in un
corpo metallico rettangolare; astuccio per belletto
in metallo, decorati in oro su fondo nero con diverse
campiture di motivi geometrici. Vi è abbinata una
bottiglietta porta essenze profumate, decorata con
motivi floreali in oro su fondo nero e chiusa da un
pomello che si avvita in una ghiera a crisantemo in
argento.
39. Kōgō, scatolina per incenso,
legno, lacca oro, lacca colorata,
cm 9 x 7 x 3,7, XIX secolo
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40. Kōgō, scatolina doppia per incenso,
lacca oro, lacca nera, cm 12 x 9,7 x 4,7,
XVIII secolo
38. Kanzashi, spilloni metallici a forcina che
terminano con un disco inciso a motivi geometrici
su ambedue le facce. Nel disco sono praticati
cinque forellini da cui presumibilmente pendevano
altrettante catenelle metalliche con pendagli più
piccoli. Sulla sommità un puntale spatuliforme.
39. Kōgō, piccola scatola per incenso a forma di
piviere (chidori) stilizzato, fondo in lacca dorata
opaca (kin fundame) con disegno in lacca colorata
(iro-urushi-e) raffigurante una pianta di bambù e
uccellini in volo.
40. Kōgō, contenitore per l’incenso a forma di due
libri sovrapposti, riconoscibili dalla tipica rilegatura
cucita a mano sulla destra, rappresentata con
sottili linee dorate. Sullo sfondo di lacca brunorossiccia spruzzata con sottile polvere d’oro del
“libro” in primo piano, si sviluppa un paesaggio
notturno in lacca dorata a “pittura cosparsa piana”
(hiramakie) . Sulla copertina del libro sottostante
una luna argentata tra le nubi, con un volo di
oche selvatiche. Il fondo e l’interno sono in lacca
spruzzata d’oro a “buccia di pera” (nashiji). Nello
spessore del lato corto frontale appaiono la firma
in oro e il marchio rosso (kao) dell’autore.
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L’intero catalogo è disponibile
presso i Musei Civici di Cagliari
Galleria Comunale d’Arte
Palazzo di Città
Museo d’Arte Siamese
www.museicivicicagliari.it