fiaba

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fiaba
Introduzione
Carissimi amici,
la storia che state per leggere si svolge in un
supermercato. Un posto strano per una fiaba, non è
vero? È vero, una volta i personaggi delle fiabe si
perdevano nei boschi e incontravano lupi, orchi e
streghe. Oggi di boschi ce ne sono sempre di meno e chi vive in
città, forse, è più facile che smarrisca la strada in un
supermercato. Come ha fatto Chiara, la protagonista di queste
storie.
Perché Chiara si è persa? Perché in un supermercato c’è
confusione, tante luci, un sacco di gente ed è facile distrarsi un
attimo e non trovare più i propri genitori. Ma Chiara in realtà
non si è persa, ha solo fatto un giro per il supermercato con un
suo nuovo amico: Bongo. Grazie a questo amico ha scoperto che in
quel supermercato non c’erano solo scatole e barattoli, ma tante
storie interessanti, bastava cercarle.
Così Chiara ha scoperto che ci sono bambini che vengono
sfruttati e maltrattati, ma anche che si
può fare qualcosa per aiutarli; che ci sono
angoli del nostro pianeta, come la foresta,
la montagna e il deserto che sono
minacciati, ma che si può tentare di
salvarli; che il tempo e il lavoro possono
essere scambiati tra le persone per stare
meglio.
E che il cibo avesse fatto tanti viaggi
prima di arrivare da noi lo sapevate?
Forse no, e nemmeno Chiara, ma ora lo sa.
Quante volte abbiamo gettato via degli oggetti che
sembravano inutili? Invece Chiara ha scoperto che una bicicletta
rotta può diventare mille cose diverse, perché la diversità è la
ricchezza del nostro mondo. Vi piacerebbe un mondo tutto dello
stesso colore, vi piacerebbero amici tutti alti uguali, con lo stesso
nome e con la stessa faccia? No, vero? Allora imparate ad
apprezzare tutto ciò che è diverso.
Nei suoi giri con Bongo, Chiara ha anche incontrato degli
amici come Gandhi, l’omino con gli occhiali che diventava
pesante. Come, non sapete chi era? Neppure lei lo sapeva, chiedete
ai vostri genitori e ai vostri insegnanti, ve lo spiegheranno.
Chiara è una bambina come voi, piena di curiosità e di voglia
di trovare cose nuove. È stata quindi molto felice di avere
incontrato Bongo e di scoprire quante cose ci raccontano gli
oggetti. A noi sembrano muti perché non sappiamo interrogarli,
invece quando vedete un oggetto, chiedetevi da dove viene, di che
cosa è fatto, che strada ha percorso per arrivare fino a voi. Vedrete
allora che comincerà a raccontarvi una storia ricca e interessante.
Talvolta può anche essere una storia triste, ma non preoccupatevi,
succede, in ogni caso avrete imparato qualcosa di nuovo.
Ciao a tutti!
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Chiara si perde
nel supermercato
Chiara era lì, in mezzo a quella folla di gambe. C’erano
pantaloni grigi, marroni, gonne lunghe che ondeggiavano,
ma non c’era più la gonna a scacchi della mamma. E
nemmeno i blue jeans del papà.
Erano lì fino a un momento prima, poi Chiara aveva
lasciato la mano della mamma per accarezzare un
cagnolino che allungava il suo muso nero verso di lei. Era
un barboncino dall’aria simpatica. A Chiara sembrava un
po’ buffo in quel suo cappottino rosso e si mise a ridere.
Ridendo gli toccò il nasino freddo. Poi il cagnolino si
allontanò, tirato da un guinzaglio tenuto da una signora
con un cappotto lungo e scuro.
Chiara era rimasta sola. Guardò in su per scoprire
qualcosa di conosciuto in quel bosco di persone grandi, ma
non vide nulla che conosceva. Non si spaventò e si mise a
trotterellare verso gli scaffali pieni di prodotti.
“Chiara!”, disse una voce. Lei si
girò e non vide nulla.
“Chiara!”. Niente. Non capiva da
dove arrivava quella voce, che non
era quella della mamma né quella del
papà.
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“Qui, Chiara, qui!”. Girò su sé stessa fino a perdere
l’equilibrio e cadde per terra. Rimase lì, con lo sguardo
perso, mentre la bocca iniziava a piegarsi nelle smorfie del
pianto.
Non aveva ancora emesso il primo strillo che sentì la
voce vicina: “Non piangere, sono io!”.
La voce arrivava da dietro a un mucchio di scatole di
pomodori. Era un omino
piccolo, come lei, con un
nasone lungo, i capelli a
molla e due grossi occhi a
palla. Sembrava una
melanzana di peluche, però
si muoveva e parlava.
Chiara rimase ferma.
Aveva un po’ di paura
adesso, ma aveva smesso di
piangere. Guardava quel
coso che voltava la testa di
qua e di là, come se fosse
inseguito. Poi fece un salto
e si sedette vicino a Chiara.
Aveva la pelle proprio
come i pupazzi di peluche
ed era tutto blu, forse era
caduto dentro un barattolo di vernice.
“Ciao”, disse, facendo una capriola.
Chiara si mise a ridere: “Ciao”, rispose, salutando con
la mano.
“Io mi chiamo Bongo, vivo qui, nel supermercato”.
Chiara guardava i suoi capelli a molla e rideva. Poi gli
accarezzò la pelle, ma quello fece un salto all’indietro.
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“Non mi fare il solletico, se no te lo faccio anch’io”.
La foresta di gambe era sempre più folta, ma nessuno
sembrava far caso a quei due esserini seduti per terra.
“Vieni, ti porto a vedere delle cose che forse non
conosci”.
“Dove?”.
“Qui negli scaffali - disse Bongo. - Sai che dietro a queste
scatole e contenitori colorati ci sono un sacco di fiabe?”
“Davvero?”
“Non ci credi? vieni a vedere!”
Si infilarono tra file di scatole e contenitori colorati,
passarono tra profumi e saponi, scivolarono tra montagne
di carta, poi arrivarono in mezzo a mucchi di maglie e
sciarpe.
Bongo correva veloce e Chiara gli trotterellava dietro
per non perderlo di vista in mezzo a quel groviglio di
gambe e piedi.
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Fiaba delle dita
nei tappeti
“Che grandi questi tappeti!”.
“È vero, sono proprio grandi, eppure a farli sono
bambini piccoli piccoli”.
“Piccoli piccoli?”.
“Sì. Guarda bene quei tappeti, poi chiudi gli occhi e
prova a immaginare una casa in Pakistan, un paese pieno di
montagne grandissime. Ci riesci?”.
Chiara chiuse forte gli occhi e si mise a pensare alle
montagne.
“Ci riesci?”.
“Sì”.
“Ecco, vedi quegli uomini con la barba che si guardano
attorno con aria sospetta?”.
“Sì”.
“Brava. Ora prova a entrare in quella casa laggiù. Piano
piano, mi raccomando, sennò quegli uomini ti vedono e
prendono anche te”.
“Piano, piano”.
“Cosa vedi adesso?”.
“Mani. Tante mani veloci che intrecciano fili colorati”.
“Come sono?”.
“Sono rovinate. La pelle è a pezzi. Sembrano le mani dei
vecchi”.
“E invece guarda bene. Sono bambini. È stata la lana a
rovinare le loro mani”.
“Poverini!
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“Già. Vedi quello con i
capelli più lunghi?”.
“Sì”.
“Si chiama Iqbal. E
adesso continua a
guardare. Non c’è
bisogno che ti racconti
questa storia. Puoi
raccontarla tu”.
Chiara guardò Bongo
con aria sorpresa: “Come
faccio a raccontarla io, se non la so?”.
“Guarda e prova, vedrai che non è difficile. Dimmi cosa
vedi”.
“Ecco, nella stanza fa caldo e ci sono odori cattivi. Un
uomo scuro entra gridando e inizia a prendere a calci i
bambini che lavorano ai telai. L’uomo urla di fare in fretta,
più in fretta. Ecco, adesso Iqbal si infila con gli altri in un
buco”.
“Vai con Iqbal e vedrai”.
“Sì. Iqbal! Iqbal!, aspettami, vengo con te!”.
“Shhh” dice Iqbal e la prende per mano. Entrano in un
buco del pavimento e si rannicchiano lì.
“L’hanno scavato i compagni dell’uomo scuro”, mi dice
Iqbal.
Fuori arrivano dei poliziotti, che escono da una nuvola
di polvere e saltano giù dalla jeep. Entrano di corsa e
trovano solo una stanza puzzolente e deserta. Due anziani
fanno finta di trafficare svogliatamente attorno alle matasse
di lana che sono ammucchiate in un angolo.
I telai abbandonati sembrano dei grandi ragni seccati
dal sole. Le corde vibrano appena. Non c’è nessun rumore.
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Gli uomini stanno dietro ai poliziotti, lo scuro dietro a
tutti, in silenzio. I poliziotti si arrabbiano via via che
frugano negli angoli dell’edificio senza trovare altro che
mucchi di lana sporca, corde sfilacciate, rottami impolverati
e bastoni macchiati di coloranti.
“Con quei bastoni lì - dice Iqbal - ci picchiano quando
non facciamo tutti i tappeti che vogliono loro”.
“Ma perché rimani qui?”.
“Come faccio a scappare? Ci sorvegliano tutto il giorno
e di notte ci chiudono a chiave. Ci dicono che se ci prende la
polizia ci uccide, ma sono loro che hanno paura della
polizia”.
“È tanto tempo che sei in questo posto?”.
“Sono tre anni”.
“Ma tu sei di qui?”.
“Shh. Silenzio che si avvicinano”.
I poliziotti passano vicino al nostro buco, ma non ci
vedono, perché stiamo schiacciati schiacciati, senza
respirare.
“No, io sono di un villaggio lontano, ai piedi delle
montagne. La mia famiglia è molto povera. Un giorno è
arrivato un uomo ben vestito, con una bella macchina e si è
messo a parlare con mio padre.
Non so cosa gli ha detto, ma
quando lui è andato via mio padre
era triste. Guardava in basso e non
parlava più con nessuno. Tutte le
sere però si riuniva con gli altri
uomini del villaggio, i padri dei
miei amici, e discutevano fino a
tardi.
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Dopo un po’ di giorni l’uomo ritornò. Non aveva più la
bella macchina di prima, ma un camioncino. Parlò con gli
uomini e disse che, se volevano, i bambini potevano partire
con lui. Li avrebbe portati nel suo laboratorio per imparare
a lavorare come tessitori. Per questo avrebbe dato a tutte le
famiglie tre sacchi di riso e ai ragazzi un piccolo salario. Le
nostre famiglie sono povere e hanno accettato. Con quei
sacchi di riso si dava da mangiare ai nostri fratellini più
piccoli.
Siamo saliti piangendo sul camion e, invece di finire nel
laboratorio, ci hanno portato qui, lontani da casa. I nostri
genitori non sanno nemmeno dove siamo e qui ci fanno
lavorare 12 anche 15 ore al giorno per 20 centesimi. Ci sono
dei giorni che vorrei morire”.
I poliziotti se ne sono andati sbattendo le porte. E lo
scuro inizia a gridare ai bambini di uscire, che bisogna
rimettersi al lavoro.
“E adesso vai via, Chiara, — dice Iqbal - scappa, se no
anche a te rimangono le dita impigliate nei tappeti e ti
prendono. Vai via e racconta a tutti come viviamo. Digli di
aiutarci!”.
“Lo farò Iqbal”.
“E allora? Perchè quegli uomini fanno lavorare i
bambini? Per fare i tappeti a prezzi più bassi. Cosa
dobbiamo fare noi? Smettere di comprarli. Se noi non
comperiamo più quei tappeti, loro smetteranno di produrli
e i bambini saranno finalmente liberi”.
“È vero!”, disse Chiara battendo le mani.
“Lo so, possiamo sempre fare qualcosa”.
“Ma i grandi sono sempre così cattivi?”.
Bongo rimase un attimo in silenzio a pensare.
“Non tutti sono cattivi, Chiara, non tutti. Sai, avevo un
amico, che veniva da un altro pianeta, un pianeta piccolo,
piccolo...”.
“Come noi?”.
“Sì, come noi. Questo amico diceva sempre che tutti i
grandi sono stati bambini, ma a volte non se lo ricordano”.
Chiara rimase lì a guardare quel suo naso lungo e buffo.
Sembrava triste e anche lei si sentiva triste.
“Che bella cosa diceva quel tuo amico!”.
“Che storia triste che mi ha fatto raccontare Bongo!”,
disse Chiara e cominciò a piangere, mentre Bongo
l’abbracciò con le sue braccia morbide di peluche.
“Non piangere, piccola”.
“Iqbal ha detto che possiamo aiutare lui e i suoi amici”.
“È vero”,
“E come? Sono così lontani e quegli uomini così
cattivi!”.
ATTIVITÀ:
schede 1-a, 1-b, 1-c e 1-d
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Fiaba della bicicletta
nel fosso
“Vieni, andiamo a cercare altre fiabe!”.
“Troviamone una bella però!”.
“Hai ragione, quella di prima era triste”.
Bongo teneva Chiara per mano. Davanti ai loro occhi
passavano giocattoli di ogni tipo.
“Ti piacerebbe sentire una fiaba ancora da accadere?”.
“Cosa vuoi dire?”.
“Che racconta una storia che non è ancora successa”.
“Che bello, raccontamela!”.
“Ecco, la vedi questa bicicletta?”.
“Bella, tutta colorata!”.
“Ecco, allora ci sarà una volta.., un bambino bianco che
avrà questa bicicletta. Un giorno, mentre pedala in una
stradina, la ruota finisce su un sasso e il bambino cade. Non
si fa molto male, ma la ruota davanti della bicicletta si
rompe.
Il bambino la guarda, poi la getta in un fosso.
“Me ne compro un’altra” dice, e torna a casa arrabbiato.
La bicicletta sta ora in fondo al fosso, sola, triste e
bagnata perché la pioggia è iniziata a cadere.
Il giorno dopo arriva un bambino verde. Vede la bici nel
fosso e si ferma a guardarla.
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“Chissà chi è che l’ha gettata via?
- dice il ragazzo. - A me serve
proprio un manubrio, perché il mio
è rotto”,
Così smonta il manubrio dalla
bici nel fosso e lo monta sulla sua.
Il giorno dopo ancora arriva un
bambino blu. Anche lui vede la bicicletta nel fosso.
“Manca il manubrio — dice — ma è quasi nuova”. Così
smonta i pedali e li mette al posto di quelli della sua bici che
sono un po’ arrugginiti.
Mentre torna a casa incontra un bambino giallo, con una
bici senza fanalino.
“Perché non vai a prenderlo a quella bici che sta nel
fosso?”, gli dice. Il bambino giallo lo ascolta e va anche lui a
prendere il pezzo che gli serve.
La bicicletta nel fosso non è per niente triste, anzi
sorride ogni volta che gli smontano un pezzo. Credeva di
finire lì, buttata via, solo per una ruota rotta, invece
continua a vivere su tante altre biciclette.
Ogni giorno arriva un bambino di colore diverso e
prende un pezzo per la sua bici, fino a quando rimane solo
la ruota rotta.
La bicicletta nel
fosso ora è un po’
triste: “Mi è rimasta
solo una ruota rotta.
Nessuno la prenderà.
Non serve a
nessuno”.
Due giorni dopo
arriva un vecchietto.
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Fiaba del chicco
di caffè
Vede la ruota tutta storta e la prende in mano. Fa per
ributtarla nel fosso, quando gli viene in mente che può
servirgli per aggiustare una vecchia carriola.
“La raddrizzerò”, dice. Così la prende e se la porta a
casa.
La bicicletta ora è felice: viaggia dappertutto, il
manubrio con il bambino verde, i pedali con quello blu, il
fanalino con quello giallo, la ruota con la vecchia carriola
del nonno e tutti gli altri pezzi con tanti bambini colorati:
perché il mondo è bello quando è pieno di colori!
“Che bella questa fiaba!”
“Dai, vieni, andiamo a cercarne altre!”.
Chiara e Bongo fecero una gran corsa tra barattoli e
sacchetti, fino a raggiungere lo scaffale del caffè.
“Vedi quanti barattoli?”.
“Tantiiiii!”
“Sono belli, colorati, non è vero?”.
“Siiiii!”.
“Ecco, guarda questo barattolo qui, come ti sembra?”.
“E un po’ meno bello”.
“Sai cosa c’è scritto?”.
“No”.
“COMMERCIO EQUO SOLIDALE. Siediti qui che
bussiamo”.
“Bussiamo dove?”.
“Nel barattolo”.
“E chi c’è”.
“Adesso vedrai”, disse Bongo;
e toc toc, bussò sul coperchio
del barattolo di caffè.
“Chi è?”, disse una
vocina dal di dentro.
“Io, Bongo, puoi aprire?”.
Si sentirono dei passi
nel barattolo. Dopo un po’
il coperchio si aprì e apparve
un chicco di caffè con i baffi,
ATTIVITÀ:
scheda 2
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che sbuffava.
“Ciao, come stai Pedro?”, disse Bongo.
“Abbastanza bene e tu? – rispose il chicco,
stropicciandosi un po’ gli occhi. — Scusa, ma ho fatto un
viaggio lungo per arrivare fino qui”.
“Lo so, senti, io e Chiara siamo venuti a sentire la tua
storia. Hai tempo per raccontarcela?”,
“Sì, sì, volentieri, ma poi torno a dormire”. Il chicco uscì
dal barattolo, si sedette vicino a Chiara e cominciò a
raccontare.
“Mio padre si chiamava Pablo e anche lui faceva il
chicco di caffè. Fin da quando era piccolo aveva vissuto nei
campi di caffè con tutti i suoi
parenti. Erano amici con Manuel, il
contadino, che è un po’ il padre di
tutti noi chicchi. È lui che ci
prepara la terra. Tutti i santi giorni
di tutte le sante settimane stava là,
sul suo campo insieme a sua
moglie a zappare e a raccogliere.
Però guadagnavano poco. Poveri
erano nati e poveri erano rimasti. A
noi dispiaceva vederli tristi, perché gli volevamo bene.
Ogni anno, quando noi chicchi eravamo maturi, ci
ammucchiavano dentro dei sacchi lungo la strada. Stavamo
lì, stretti stretti. Poi arrivavano i signori delle Compagnie e
si mettevano a discutere con Manuel sul prezzo. Ogni anno
pagavano sempre meno, perché, così dicevano loro, il caffè
doveva poi essere tostato da altri, lavato da altri ancora,
macinato da chissà chi, poi messo nei barattoli e spedito in
Europa e allora loro dovevano spendere un sacco di soldi.
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Si lamentavano sempre, e Manuel con i suoi vicini di
casa, che erano anche loro padri di altri chicchi come noi,
dovevano stare lì ad ascoltare le lamentele di quegli uomini
delle Compagnie.
Intanto io ero cresciuto e piano piano avevo cominciato
anch’io a fare ogni anno quel viaggio dal campo fino ai
negozi d’Europa. Però non mi piaceva tanto. Finché era
Manuel a raccogliermi, a tenermi nella sua mano sporca di
terra, a mettermi nel sacco, ero contento, perché sentivo che
lui ci voleva bene. Poi però arrivavano quegli altri e non mi
piaceva come mi trattavano. Passavo da una mano all’altra,
ma nessuno mi guardava, nessuno mi accarezzava, nessuno
mi diceva che ero un bel chicco, come faceva Manuel. A
quelle mani non importava niente di me e poi puzzavano
sempre di soldi.
Un giorno arrivarono al villaggio due giovani dall’aria
simpatica. Chiesero di poter parlare con gli uomini che
coltivavano il caffè. Si radunarono tutti sulla piazza, anche
Manuel, e i giovani iniziarono a spiegare che non era giusto
che loro guadagnassero così poco, mentre quelli delle
Compagnie si arricchivano. Non erano forse loro che
faticavano tutto il giorno su quei
campi? Gli uomini ascoltavano a
testa bassa e noi chicchi eravamo
tutti lì, con le orecchie ben aperte
per sentire cosa dicevano quei
ragazzi. I due spiegarono che in
Europa stavano aprendo delle
botteghe che vendevano il caffè
comperandolo direttamente dai
contadini, senza passare per altre
mani e che invece di dare soldi a
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quelle altre mani, li davano tutti a chi coltivava il caffè.
Gli uomini discussero un po’, poi decisero di provare.
Quando noi chicchi fummo maturi ci vendettero a quei
giovani e guadagnarono meglio di prima. Anche noi
eravamo più felici per loro e quando arrivarono quelli delle
Compagnie rimasero a bocca asciutta, perché ormai ci
avevano già imbarcati sulla nave.
Anche nelle botteghe si sta meglio di prima, la gente che
ci compra parla sempre degli uomini del villaggio,
chiedendo se stanno bene. Non so come fanno a conoscerli,
ma quando prendono il barattolo, dicono “speriamo che
serva ad aiutare quei poveri contadini!”.
Così adesso faccio questo viaggio una volta all’anno, ma
ora sono più contento e anche gli altri chicchi sono felici.
Sulla nave cantiamo tutto il tempo. Questa gente ci vuole
bene, si sente dalle loro mani!”.
“Che bella storia!”, disse Chiara.
“Ti è piaciuta?”, le chiese Bongo accarezzandola.
“Proprio bella”.
“Sono contento - disse Pedro - e ora scusatemi, torno a
dormire perché muoio dal sonno”.
“Ciao Pedro, buonanotte!”, disse Chiara e lo accarezzò
con la manina.
Pedro si allungò e le diede un bacino sulla guancia,
pungendola un po’ con i suoi baffi: “Anche tu mi vuoi bene.
Lo sento dalle mani”.
ATTIVITÀ:
scheda 3
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Fiaba della spiga
di grano
“Sono contenta per Pedro!”, disse Chiara.
“Chissà, forse, se tutti lo aiutiamo, i suoi amici contadini
potranno stare sempre meglio…”.
“Speriamo! E i campi saranno sempre pieni di tanti
colori!”.
“Già, è bello quando ci sono tanti colori, eppure tanta
gente dice che fanno confusione”.
“Ma non è vero!”.
“Lo so, ma non tutti la pensano allo stesso modo”.
“Ma... la campagna sarebbe brutta, se fosse tutta di un
colore solo!”, disse Chiara imbronciandosi.
“È vero, ma sai che la gente è strana. A volte ha paura di
tutto quello che è diverso”.
“È un peccato”.
“Sì. La sai la storia della spiga di grano che si sentiva
sola?”.
“No, dai, racconta!”.
“Vieni, andiamo vicino allo scaffale del pane. È là che
c’è quella storia”.
“Bongo — disse Chiara, mentre l’altro già partiva di
corsa. — Ma le storie non sono dovunque?”.
“Sì, ma spesso la gente non le vede. Allora, deluse, se ne
ritornano dove sono nate. Così bisogna andare a cercarle. Ci
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sono tante storie nel mondo, come i colori, ma te l’ho già
detto, spesso la gente vuole sentire sempre una storia sola,
sempre la stessa”.
“E non si possono raccontare dovunque?”.
“Sì, si può, ma è meglio andare dove ci sono i
personaggi, così loro rivivono e sono più contenti”.
“Allora andiamo!!!”, gridò Chiara e partirono di corsa,
mentre un barboncino spaventato si mise ad abbaiare nel
vedere passare quei due piccoli di corsa davanti al suo
naso.
“Ecco, vedi quelle pagnotte?”.
“Sì”.
“Sono fatte con il grano”.
“Sì”.
“Lo sai davvero o mi dici così tanto per dire?”,
“Lo so, lo so!”, disse Chiara offesa.
“Bene. C’era una volta una spiga di grano che viveva in
un campo di grano. Non stava male, cresceva, diventava
bella bionda, poi gli uomini le tagliavano il gambo, ma
l’anno dopo lei ricresceva, sempre nello stesso campo.
Ormai conosceva tutte le altre spighe e le piaceva
chiacchierare con alcune di loro. Alcune le erano
antipatiche, altre le erano amiche. Però, con il passare del
tempo, la spiga cominciò ad
annoiarsi, a parlare sempre delle
stesse cose, con le stesse spighe. La
vita nel campo diventava monotona.
La spiga ricresceva ogni anno
nello stesso campo, ma non nello
stesso posto. Così accadde che un
anno si trovò a crescere al bordo del
campo. Lì poteva guardare al di
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fuori e vide che non era tutto uguale come il suo campo:
c’erano fiori, ortiche, alberi, cespugli, un sacco di piante
diverse!
La spiga attaccò discorso con un fiore giallo che stava lì
vicino e chiacchierarono del più e del meno.
Ogni tanto il fiore doveva alzare la voce, perché le api
che venivano a prendergli il polline ronzavano troppo forte:
“Glielo dico sempre di non fare tutto quel zzz zzz — diceva
il fiore — ma niente, non capiscono. Però mi aiutano, se non
fosse per loro, sarei da solo”.
Poi la spiga si mise a parlare con un’ortica: “È un po’
triste essere ortica, perché tutti ti girano alla larga, però ci
sono anche dei vantaggi: nessuno ti viene a strappare il
gambo”.
Lì vicino c’era anche un orto dove crescevano cipolle,
pomodori, fagioli e altre verdure. Era un ambiente allegro,
gli ortaggi scherzavano sempre tra di loro e si prendevano
in giro allegramente. I fagioli ridevano dei pomodori, così
panciuti e tondi.
“Sarete belli voi! Secchi, secchi, lunghi e magri”,
rispondevano i pomodori.
“Guarda che orecchie ha quell’insalata! Ah, ah, ah!”.
“Guardate il vostro nasone a punta, carote dei miei
stivali!”. E tutti ridevano a crepapelle. Alla spiga piaceva
quell’ambiente e iniziò a scherzare anche lei e anche a
essere presa in giro.
“Chi è quella bionda lì?», diceva una cipolla un po’
invidiosa.
“E una nuova, è carina!”.
“Macché carina, non vedi com’è magra? Guarda io che
fianchi che ho!”. E giù tutti a ridere della cipolla che faceva
il verso alle fotomodelle.
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La spiga era contenta perché stava scoprendo un
mucchio di cose nuove e si era fatta tanti amici divertenti e
simpatici.
Alcune delle altre spighe la guardavano male: “Quella lì
sta sempre a chiacchierare con quella gente! - dicevano, Ma sono piante diverse da noi! Come si fa a parlare con
quelle? Cosa vuoi che abbiano da dire?”.
Un giorno arrivarono alcuni uomini vestiti bene e si
misero a parlare con il contadino.
“Bisogna produrre più grano - dicevano — e lasciare
perdere il resto. Rende di più”. Il contadino si grattava la
testa. Lui ci teneva alle sue patate, ai suoi fagioli, ma anche
ai fiori e alle ortiche, anche se non raccoglieva mai né gli uni
né le altre.
I signori benvestiti però offrirono dei soldi e il
contadino, che doveva comperare un trattore nuovo, perché
il suo era vecchio, alla fine accettò.
Così un giorno, con il suo trattore nuovo, iniziò ad arare
il terreno vicino al campo di grano.
“Addio”, disse il fiore giallo alla spiga, mentre veniva
schiacciato dal trattore.
“Addio”, disse l’ortica prima di essere strappata via dal
terreno.
“Ahi”, fece l’albero con voce triste, prima di essere
tagliato e cadere per terra. Uno per uno la spiga vide
sparire tutti i suoi amici.
“Ben le sta — dicevano le altre spighe invidiose. — Così
la smetterà di parlare con chiunque!”.
Dopo un po’ di mesi, nel terreno vicino a lei c’erano
centinaia di spighe, uguali a lei. Le spighe invidiose
iniziarono subito a fare amicizia con le nuove spighe e a
spettegolare. Anche la nostra spiga si era fatta delle amiche
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tra le nuove arrivate, ma era triste, perché i discorsi erano
sempre uguali, sempre le stesse storie, la stessa tiritera.
Pensava sempre ai suoi vecchi amici, ai loro colori, alla
loro forma. Intanto il tempo passava e le spighe
diminuivano e crescevano sempre più distanti tra di loro.
Erano sempre di meno nel campo e a volte per parlarsi
dovevano urlare.
Anche il contadino se ne era accorto, non era più un bel
campo come prima. Le spighe erano diventate più piccole e
magre. Si grattò la testa per un po’ e si mise a pensare cosa
non andava.
“Il concime l’ho messo, l’acqua l’ho messa nei canali, la
pioggia è stata buona, il sole caldo”. Non c’era niente che
non andava, eppure quel grano non era mai stato così
striminzito.
“Non sarà mica che
tutto un terreno con le
stesse piante diventa più
povero?”, si chiese il
contadino.
Aveva ragione.
Quando i signori
benvestiti arrivarono per
comperare il grano dissero
che era un raccolto da
poco e lo pagarono perciò
molto poco.
Allora il contadino
decise di fare di testa sua.
Seminò di nuovo il grano nel primo campo, fece un piccolo
orto e lasciò un terreno libero di fianco. Così, dopo alcuni
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anni, nel prato tornarono a crescere fiori, ortiche, cespugli,
cipolle e fagioli.
“Avete visto che si sta meglio con gente diversa?”, disse
la spiga a quelle invidiose e queste si convinsero che un
mondo vario è un mondo più ricco.
Fiaba del tempo
nei barattoli
ATTIVITÀ:
scheda 4
Chiara camminava, ma era pensosa. Bongo se ne accorse
subito: “Cos’hai, piccola?”.
“Pensavo a quegli uomini trisporici: loro avevano più
tempo di noi!”.
“Preistorici, Chiara, si dice preistorici. Comunque sì,
avevano più tempo di noi”.
“E perché?”.
“Perché ... perché noi il tempo lo abbiamo venduto”.
“Tutto?”.
“Quasi”.
“Peccato, ma non si può comperarne un po’? Vendono
di tutto qui dentro!”.
“E vero, ma il tempo non c’è sugli scaffali. Però un
modo ci sarebbe. Vieni sediamoci qui che ti racconto”.
“Che bello, un’altra storia!”.
Si erano messi a sedere dietro a uno scaffale pieno di
bottiglie e, piccoli com’erano, nessuno li poteva vedere.
“Immagina, Chiara, un negozio come questo, ma senza
una cassa dove si paga”.
“Allora si può prendere quello che si vuole?”.
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“Non proprio, ascolta: sugli scaffali ci sono barattoli
come questi, ma invece di esserci dentro delle cose da
mangiare, c’è del tempo.
Se guardi le etichette sui barattoli c’è scritto TEMPO DI
MURATORE, TEMPO DI MAESTRO, TEMPO Dl CUOCA.
Insomma ci sono tutti i tempi della gente”.
“E come mai sono finiti dentro i barattoli?”.
“Ti racconto la storia di Homo. E’ uno che c’era già nella
preistoria ed è ancora vivo oggi. Magari è qui, al
supermercato come noi.
Homo una volta lavorava i campi e aveva il tempo per
sedersi sotto un albero a chiacchierare con i suoi amici. E’
parlando che si diventa uomini, non lavorando sempre, da
soli, in silenzio. Gli uomini diventano persone solo quando
parlano tra loro.
Ora lavora tanto, ma ha poco tempo per pensare. Ha
una bella casa, ha tante cose, ma è completamente assorbito
dal lavoro, come tutta la gente. Il tempo libero si trovò ad
essere sempre più solo. Nessuno andava più a trovarlo: tutti
erano sempre impegnati a lavorare. Così lui se ne stava in
un angolo, solo e senza amici”.
“Poverino!”,
disse Chiara.
“Già. Un giorno
passò di lì una
donna e lo vide più
triste che mai che
piangeva, “Cos’hai
piccolo?”, disse la
donna.
“Sono sempre
solo, nessuno mi
25
vuole come amico, nessuno viene a trovarmi”.
“Ma perché?”.
“Perché hanno altri amici, la gente esce con il lavoro, il
tram, l’auto, la spesa e per me nessuno ha mai tempo”.
“Hai ragione - disse la donna - Come ti chiami piccolo?”.
“TEMPO LIBERO, signora”.
“Bene, qui bisogna fare qualcosa”.
“Qualcosa ha già fatto!”.
“Cosa?”.
“Lei è stata qui a
chiacchierare con me per dieci
minuti e io sono già più
contento”.
“Si può fare di meglio,
vedrai TEMPO LIBERO”.
La signora tornò a casa e
disse a suo marito: “Da domani
ogni giorno dedicheremo
un’ora ad andare a trovare un
amico che si chiama TEMPO
LIBERO”.
“E chi è?”, chiese il marito.
“Domani, lo conoscerai, è
simpatico. Anzi invitiamo anche i nostri amici”.
Così da quel giorno tutti andavano a trovare il piccolo,
che ora non piangeva più ed era sempre più felice. La voce
si sparse e sempre più gente andava da TEMPO LIBERO.
Qualcuno si fermava anche più di un’ora e allora lui gli
raccontava un sacco di storie belle e interessanti.
Le persone, con la scusa di andare a trovare l’amico,
diventavano anche loro amiche e scherzavano, si
26
raccontavano storie, proprio come ai tempi di quando
Homo e i suoi amici erano felici.
TEMPO LIBERO non era mai stato così contento e un
giorno, mentre era in mezzo a moltissimi amici, ebbe
un’idea.
“Sentite! - disse. - Perché invece di ritrovarci solo per
divertirci, non pensiamo anche a darci una mano uno con
l’altro?”.
“E come?”, chiesero tutti in coro.
“È semplice — disse TEMPO LIBERO. — Tu, cosa fai di
lavoro?”, disse indicando uno dei primi della fila.
“Il muratore”.
“Bene, e quanto sei stato qui con noi oggi?”.
“Due ore”.
“Ecco, prendiamo queste due ore e le mettiamo in un
barattolo”.
“In un barattolo?”, chiesero tutti stupiti.
“Sì, e tu cosa fai?”.
“La cuoca”.
“Ecco anche le tue due ore le mettiamo in un barattolo”,
disse TEMPO LIBERO, scrivendo sull’etichetta “Tempo di
cuoca”. Continuò così per tutti quelli che erano lì e riempì
un sacco di barattoli con tempi di tutti i tipi.
“Allora adesso facciamo questo
gioco: tu maestro, di cosa avresti
bisogno?”.
“Maah, a dire il vero io avrei
bisogno di dipingere i muri di casa
mia, ma non ho mai tempo”.
“E perché non hai mai tempo?”.
“Perché devo lavorare”.
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“Tu lavori per guadagnare soldi per poi pagare uno che
ti vernici i muri, vero?”,
“Sì, adesso è così”, disse il maestro.
“Bene, da domani si può cambiare. Tu vieni qui, nel
nostro negozio e ti prendi il barattolo del tempo
dell’imbianchino e lui verrà a casa tua a dipingere i muri, ma
alla fine del lavoro tu non lo pagherai con del denaro”.
L’imbianchino, che era lì vicino guardò TEMPO LIBERO
e disse: “Come sarebbe non mi paga!”.
“Non ti paga con denaro, ma tu potrai prendere il
barattolo del tempo del maestro, senza spendere una lira e
lui verrà da te gratis”.
“A dire il vero mi farebbe comodo, se insegnasse un po’
di cose a mio figlio”, disse soddisfatto l’imbianchino.
“Vedete, se tutti mettono un po’ del loro tempo in un
barattolo e lo mettono a disposizione degli altri, lo si può
scambiare quando si vuole. Così il maestro avrà la casa
dipinta, il figlio
dell’imbianchino
andrà meglio a
scuola, il sarto
avrà la macchina
aggiustata e il
meccanico un
bel vestito. La
gente si
incontrerà
sempre di più,
dovrà lavorare
di meno e avrà
più tempo per
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parlarsi e conoscersi”.
“Bello! - esclamò Chiara -. Possiamo anche noi fare
così?”.
“Certamente che possiamo, basta mettere un po’ del
nostro tempo in un barattolo e portarlo in questa specie di
negozio”.
“Un negozio senza soldi”.
“Sì, più che un negozio sembra quasi una banca”.
“Una banca? Cos’è?”.
“Un posto dove tutti mettono i soldi, qui invece
metteranno il tempo. Una BANCA DEL TEMPO, pensa che
bello!”.
“Che bella storia che mi hai raccontato!”.
“Ti è piaciuta?”.
“Sì, tanto!”.
“Sono contento. Vieni ora, andiamo a cercare altre
fiabe”, disse Bongo e prese Chiara per mano.
ATTIVITÀ:
scheda 5
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Fiaba
di nonno Penn
Mentre camminavano, sentirono un rumore che si
faceva sempre più vicino, strap, strap, strap. Poi udirono
una voce che diceva: “Cattivi! Via! Via di qui! Cattivi!”.
Chiara sbarrò gli occhi perchè appena dietro al bancone
dei formaggi videro spuntare un bambino che sferrava
colpi a destra e a sinistra, strappando i sacchetti di plastica e
urlando: “Via! Via! Cattivi!”.
“Cosa fai?”, chiese Bongo al bambino.
“Oh, scusatemi, non vi avevo visti. Mi chiamo Alex”.
“Ciao, ma perchè strappi i sacchetti?”.
“Perchè fanno morire mio nonno! Cattivi!”, gridò,
strappandone un altro.
“Tuo nonno?”.
“Sì, non ci credete? Venite a vedere”.
I due seguirono Alex attraverso un passaggio tra scatole
e scatoloni e si trovarono su di un sentiero. Stava
diventando buio e si vedeva appena.
Il sentiero iniziò a salire piano piano.
“Dove sta tuo nonno?”, chiese Bongo ad Alex.
“Un po’ più in su, ma non è lontano”.
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Continuarono a salire per un po’, poi Chiara e Bongo
sentirono un lamento debole, come di uno che respirava a
fatica.
“Chi è? — diceva la voce, che sembrava quella di un
vecchio — chi è?”.
“Sono io, nonno Penn”.
“Aah, meno male che sei arrivato Alex, guarda cosa mi
hanno fatto”.
Chiara e Bongo non capivano da dove venisse quella
voce e guardarono Alex con occhi meravigliati.
“È lui, mio nonno, sta male”, disse Alex — indicando i
pendii scuri della montagna.
“Tuo nonno è una montagna?”,
“Sì. Nonno Penn, ho portato due amici con me, sono
venuti a salutarti”.
“Grazie Alex, ma ti prego, toglimi quel sacchetto, che mi
manca il fiato”. Alex girò attorno alla montagna e tirò via
un sacchetto di plastica gettato lì da qualche passante e che
si era infilato in un ruscello, facendo uscire tutta l’acqua.
“Grazie, meno male, mi mancava il fiato”, disse con
voce più sollevata nonno Penn, anche se faceva ancora
fatica a respirare.
Chiara si chinò sull’erba e la accarezzò con dolcezza.
“Che bello! — disse il vecchio, — Chi è quella bambina
che mi accarezza?”.
“È Chiara,
nonno”.
“Meno male
che c’è ancora
qualcuno che mi
vuole bene”.
“Perché stai
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male, nonno?”, chiese Bongo.
“È una storia lunga. Tu adesso mi vedi vecchio e
malandato, ma una volta ero forte, fortissimo. Non mi
batteva nessuno. Gli uomini mi camminavano sopra, senza
ferirmi. Erano leggeri, anche se avevano gli scarponi. Mi
spettinavano un po’, ma erano gentili. Ogni tanto mi
graffiavano un po’ con le loro zappe, ma non faceva male e
le ferite guarivano in pochi mesi. Poi mi facevano bello, mi
coprivano di piante e fieno. Mi rubavano un po’ d’acqua,
ma non tanta e io li lasciavo fare”.
Chiara e Bongo ascoltavano in silenzio.
“Poi, non so perché, sono cambiati. Io non gli ho mica
fatto niente, ma loro sono diventati più cattivi e pesanti.
Hanno cominciato a fare graffi sempre più profondi e a
ricoprirmi di plastica e di cemento. Gli ho chiesto perché,
ma nessuno rispondeva, erano sempre di corsa a scavare e a
tagliarmi gli alberi di dosso. “Non fatelo”, dicevo, che è
pericoloso, ma niente.
Così un giorno non ce l’ho più fatta a trattenere i miei
fianchi e a valle sono cadute pietre e terra, che hanno
sommerso le case e portato via tutto. Non volevo, ma non
riuscivo proprio più senza piante addosso.
Speravo che avevano capito e avrebbero smesso. Invece
niente, dopo un po’ di tempo erano di nuovo lì a
tormentarmi.
Ero ormai diventato calvo, senza alberi e la neve cadeva,
stava un po’ attaccata ai miei fianchi, poi giù a valle e
distruggeva le case degli uomini. E la pioggia, si fermava
appena nei miei ruscelli, poi giù anche lei a riempire i fiumi
della pianura e via! Altre case distrutte. Intanto loro
continuavano a coprirmi di plastica e cemento. Alla fine mi
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sono ridotto così, un vecchio senza voce, senza fiato e senza
amici”.
“Ma noi ti vogliamo bene!”, dissero Chiara e Bongo
assieme,
“Grazie, grazie, anche Alex mi vuole bene”.
“Sì, nonno”.
“Adesso voi siete leggeri, ma riuscirete a esserlo quando
sarete grandi?”. I due bambini e il pupazzo si guardarono
perplessi.
“Dovete
mantenervi leggeri,
capire che tutto
quello che vi sta sotto
i piedi non è vostro. È
di tutti”. Il vecchio si
mise a tossire e i suoi
fianchi tremarono
tanto che i tre
dovettero
aggrapparsi a dei
cespugli lì vicino per
non volare via.
“Scusate, non
volevo, ma sono così
mal ridotto che anche
quando non voglio
faccio danni. Alex,
per favore, toglimi
quei due sacchetti
dietro alla schiena”.
Alex, Chiara e
Bongo partirono di
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corsa e si misero ad andare su e giù per i prati che
coprivano i fianchi del vecchio, raccogliendo tutti i
sacchetti, la plastica, le lattine e ogni oggetto che trovavano,
per liberare il nonno.
Il vecchio era stanco e, mentre i tre correvano a liberare i
ruscelli, si addormentò, russando piano piano.
Chiara lo accarezzò ancora una volta e gli diede un
bacino su un sasso che spuntava lì vicino.
“Andiamo, torniamo giù”, disse Alex e si
incamminarono per il sentiero.
“Ha ragione il nonno, bisogna essere leggeri - disse
Alex. - Camminare leggeri, per non fare male alla terra”. I
tre si avviarono giù per la discesa con il passo più leggero
che potevano. Non parlavano nemmeno, per non infastidire
il vecchio.
“Sentite. Se state in silenzio, si può ascoltare il respiro
del nonno”,
“È vero”, disse Chiara.
Cammina cammina erano ritornati nel cortile poco
illuminato del supermercato.
ATTIVITÀ:
scheda 6
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Fiaba dell’omino
con gli occhiali
“Bongo, ma qui dentro ci sono solo storie tristi?”.
“No, vieni che ti faccio vedere un angolo dove ci sono
delle fiabe che finiscono bene”.
“Dai!”.
“Ti ricordi cosa diceva Alex?”.
“Diceva, diceva ... che bisogna essere leggeri”.
“Brava!”.
“Ora ti racconto la storia di un omino leggero leggero,
che però sapeva diventare pesante, quando voleva”.
“Dai!”.
“Era un omino piccolo, magro, con gli occhiali tondi e la
testa pelata”.
“E come faceva a diventare pesante?”.
“Ecco, per esempio, a quell’epoca c’erano gli schiavi.
L’omino diceva che non è una vergogna essere schiavi, è
una vergogna avere degli schiavi. Capisci?”.
“Un po’ ”.
“L’omino voleva dire che se c’è ancora tanta gente che
sta male al mondo è perché tanti hanno troppe cose. Lui
viveva in un grande paese dove c’erano tanti poveri, e
occupato da stranieri.”
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“Cosa vuole dire occupato?”.
“Che questi stranieri erano arrivati lì con le armi e si
erano messi a comandare. Come se un giorno arrivasse uno
a casa tua e si mettesse a fare quello che vuole e a
comandare tua mamma e tuo papà”.
“Ho capito”.
“Un giorno l’omino andò in un negozio e chiese quanto
costava un vestito. Il negoziante disse che costava tanto,
perché la gente del posto coltivava il cotone, però poi i
vestiti li facevano in Europa e li rimandavano lì. Così i soldi
andavano tutti a quegli stranieri che comandavano il suo
paese. L’omino ci pensò un po’, poi si grattò la testa pelata e
disse ‘Ci penso io’. Andò da un contadino, comprò un po’
di cotone da lui, tornò a casa e si mise a farsi il vestito da
solo.
La gente lo guardò stupita.
Gli stranieri si misero a ridere,
cosa poteva mai fare quell’omino
da solo? Che si facesse pure il
suo vestito. Era un omino
piccolo, leggero, ma mentre
filava quel cotone diventava
sempre più grande e pesante.
Tutti cominciarono a pensare che
forse aveva ragione lui, che non
era giusto che altra gente si
arricchisse con il loro cotone e
che bisognava farsi i vestiti da
soli.
Quando videro le strade piene di gente che filava il
cotone e che si tesseva gli abiti, gli stranieri iniziarono a
preoccuparsi. I loro negozi rimanevano vuoti, nessuno
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andava più a comperare da loro e così dovettero abbassare i
prezzi.
Un po’ di giorni dopo la moglie dell’omino si accorse
che non aveva più sale per la minestra. ‘Puoi andare tu a
comprarne un po’?’, disse al marito. Lui si mise il suo bel
vestito bianco, fatto con le sue mani, e uscì di casa. Arrivato
al negozio scoprì che il sale era diventato più caro.
‘Gli stranieri hanno aumentato le tasse sul sale’, disse il
negoziante. L’omino si grattò di nuovo la testa pelata e uscì
dal negozio. Vedendolo arrivare a mani vuote la moglie gli
chiese cosa era successo.
‘Non bisogna più comperare il sale da quegli stranieri!’.
‘E come la faccio io la minestra?’.
‘Abbi pazienza e vedrai’. Prese il suo bastone e uscì di
casa. Per strada la gente gli chiedeva ‘Dove vai?’,
‘A prendere il sale’.
‘Ma il negozio è dall’altra parte’.
‘Non vado al negozio, costa troppo caro’.
‘E dove vai a prenderlo?’.
‘Dove sta il sale?’.
La gente pensò un po’, poi uno disse: ‘Nel mare’.
‘Ecco, io vado là’.
‘Ma è lontano di qui!’.
‘Basta camminare.
Nessun posto è abbastanza
lontano se vuoi arrivarci’.
‘Vengo anch’io!’, disse
uno.
‘Anch’io!’, disse un altro
e dopo un po’ dietro
all’omino si formò una
coda di gente che
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camminava verso il mare.
Gli stranieri rimasero a bocca aperta. Quell’omino
diventava sempre più pesante e grande. Uno disse:
‘Mettiamolo in prigione!’.
‘Non si può mettere in prigione un uomo solo perché
non vuole comprare il sale’, disse un giudice. Così rimasero
lì, con i loro sacchi di sale nei magazzini, mentre l’omino e i
suoi amici andavano a prenderselo al mare.
Nessuno comprava più sale, vestiti, nulla, e gli stranieri
cominciarono a pensare che era meglio parlare con
quell’omino.
‘Forse avete cominciato a capire che è ora di smettere di
arricchirvi sulle spalle del nostro popolo.
Qui la gente non ha neppure il necessario per vivere e
voi siete ricchi. Chi ha più del necessario è un ladro. E voi
fate faticare la gente di questo paese per arricchirvi sempre
di più. Dio ha creato l’uomo perché si procurasse il cibo con
il lavoro e disse che chi mangiava senza lavorare era un
ladro. Se ognuno vivesse con il sudore della propria fronte,
la terra diverrebbe un paradiso. Ricordate che un paese può
fare a meno dei suoi miliardari, ma mai del lavoro e che è
ora che ve ne andiate
di qui, perché i veri
governanti sono i
milioni di uomini e
donne che faticano!’.
Gli stranieri
guardavano
quell’omino
minuscolo, pelato, che
diventava sempre più
grande mentre parlava.
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dimenticare le parole di quell’omino”.
Mentre Bongo le accarezzava i capelli, Chiara piano
piano si addormentò. Sognò un mare pieno di pesci, una
foresta grande grande e con tanti animali e piante diversi
che crescevano insieme, sognò bambini che giocavano e
tutti che mangiavano. Sognò anche l’omino con gli occhiali
che le parlava e le diceva tante belle cose.
Dopo un po’ si sentirono
schiacciare dal peso
dell’omino e non riuscirono
più a resistere. Presero i
loro bagagli e se ne
andarono.
Mentre erano sulla
nave, uno degli stranieri
disse a un suo compagno:
‘Non capisco come fa a
diventare così pesante
quell’uomo’.
‘È il peso delle sue
parole’.
L’omino stava sulla riva
del mare a guardare la
nave che partiva. Si pulì gli
occhiali, li infilò sul naso e
salutò con la mano gli
stranieri.
‘Sembra un passerotto,
eppure!’.
‘Eppure ha la forza di
un’aquila’.
L’omino si grattava la
testa pelata e sorrideva”.
“Che bella storia!”,
disse Chiara
raggomitolandosi sulla
pancia morbida di Bongo.
“Sono contento che ti
sia piaciuta. Non devi mai
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Un nuovo amico
“Eccola!”. Era da un po’ di tempo che la mamma di
Chiara girava per il supermercato in cerca della bambina e
finalmente l’aveva trovata. Era lì, rannicchiata sotto lo
scaffale dei peluche che dormiva,
“Chiara! Chiara!”, chiamò la mamma, ma la bambina
continuava a dormire.
“Chiara, svegliati!”. Chiara aprì gli occhi e vide la
mamma che le sorrideva. “Mamma!”.
“Piccola, dov’eri finita? Credevo di averti persa”.
“Ero con un amico”.
“Chi era? Un bambino che hai incontrato qui?”.
“No, era... come una
melanzana, ma parlava e
sapeva tante cose”.
“Piccolina, avrai sognato.
Vieni che andiamo a casa”.
“Aspetta, devo salutarlo”.
“Dai che è tardi”.
“Noo, aspetta!”. Chiara alzò
gli occhi e lo vide lassù, sullo
scaffale, immobile come gli altri
pupazzi.
“Eccolo, mamma, è lui”.
“Lui chi?”.
“Bongo, il mio amico”.
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“Ma quello è un pupazzo”.
“Ma no, sembra un pupazzo, ma parla, cammina e sa un
sacco di storie”.
“Dai, andiamo, che viene tardi”.
Chiara continuava a torcersi il collo per guardare
all’indietro, verso lo scaffale, mentre la mamma la tirava
per la mano verso l’uscita.
Chiara puntava i piedi, non voleva lasciare Bongo da
solo lassù. A quel punto sentì che qualcun altro le prendeva
l’altra manina. Chiara si voltò e vide un bambino biondo,
con una sciarpa al collo.
“Vieni, Chiara, vieni. Sai, a volte i grandi non capiscono.
Sono stati anche loro bambini, ma non se ne ricordano
mai”.
“Ma tu sei quell’amico di Bongo, quello che diceva delle
belle cose”.
“Sì, sono io, ma adesso andiamo”.
Erano vicini all’uscita ormai e quando già stava per
perdere di vista lo scaffale, Chiara si voltò per l’ultima volta
e vide che il pupazzo le strizzava l’occhio e con la mano le
faceva un segno che voleva dire: “Ci rivedremo, Chiara, ci
rivedremo”.
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