GULag: il sistema concentrazionario sovietico

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GULag: il sistema concentrazionario sovietico
E
POTERI
CONFLITTI
Le origini del sistema
Riferimento
storiografico
1
pag. 12
Un arcipelago
nel Mar Bianco
UNITÀ 4
La prassi di internare i nemici e gli oppositori in campi di concentramento (o lager, secondo
l’espressione tedesca, che veniva usata correntemente anche in Russia) fu adottata dai bolscevichi durante la guerra civile. Nata come misura eccezionale, dettata dall’emergenza bellica, tale pratica si trasformò ben presto in sistema, cioè in realtà istituzionale diretta dall’alto. Un passo importante in tale direzione si ebbe il 17 febbraio 1919, allorché un apposito decreto del Comitato esecutivo centrale dei soviet della Russia conferì alla CEKA il
diritto di isolare in lager tutti i soggetti sospettati di essere controrivoluzionari. Pare che,
alla fine del 1919, esistessero 21 campi registrati, che salirono a 107 nel 1920. I dati relativi a questa prima fase sperimentale, tuttavia, sono confusi e tutt’altro che sicuri.
Il sistema assunse la sua forma definitiva nel 1923, allorché nacque il lager a regime speciale delle Solovki (o SLON). Le Solovki sono un arcipelago, situato al 65° parallelo di
latitudine, a circa 160 chilometri dal circolo polare artico. Questo gruppo di isole si trova dunque nell’estremo Nord della Russia, nel Mar Bianco, al largo della città di Arcangelo (distante circa 300 km). In inverno, il Mar Bianco gela e rende molto difficile la navigazione. Al giorno d’oggi, nella stagione invernale, i pochi abitanti (circa 1500, concentrati
1
GULag:
Un gruppo di prigionieri
destinati alle Solovki
entra nel campo di
transito di Kem .
Fotogramma di un film
di propaganda girato
dalle autorità sovietiche.
il sistema concentrazionario sovietico
il sistema
concentrazionario
sovietico
APPROFONDIMENTO D
GULag:
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO D
UNITÀ 4
Il potere
delle Solovki
quasi tutti sull’isola più grande) sono collegati alla terra ferma grazie a un piccolo aeroporto. In passato, invece, gli insediamenti umani erano tagliati fuori dal resto della Russia per gran parte dell’anno. Oltre tutto, a causa della latitudine quasi polare, in inverno
le isole sono immerse nella penombra per moltissime ore al giorno.
Nel 1435, vi giunse il primo gruppo di monaci cristiani, determinati a vivere lontano
dal mondo, a contatto con una natura durissima e selvaggia. Malgrado le condizioni climatiche estreme, nel XVI secolo la comunità monastica crebbe di numero e si dotò di un
grande monastero, al cui interno fu edificata la chiesa più alta di tutta la Russia (cattedrale della Trasfigurazione, completata nel 1558). All’inizio del Novecento, i monaci delle Solovki gestivano numerose e fiorenti attività economiche; il monastero, ad esempio,
possedeva una propria flotta e una stazione radio. Ma tutto questo, ovviamente, con l’avvento dei bolscevichi al governo fu confiscato dal nuovo Stato comunista.
Già nel 1920, la regione di Arcangelo ospitava numerosi lager e i bolscevichi avevano creato sull’isola principale un campo di prigionia, per soggetti catturati durante la guerra civile. Nel 1923, con la creazione del lager a destinazione speciale, la maggior parte dei detenuti e l’amministrazione centrale furono trasferite sull’arcipelago, mentre i pochi campi minori rimasti attivi sul continente persero ogni autonomia e furono trasformati in sottocampi, dipendenti dal comandante del lager delle Solovki.
Il primo ufficiale incaricato di dirigere il campo fu A.P. Nogtev (1892-1947), che rimase al suo posto fino al 1930. Numerose testimonianze concordano nel ricordare che lui
stesso o uno dei suoi collaboratori, quando accoglievano un gruppo di nuovi prigionieri, amavano proclamare con sarcasmo che nel nuovo luogo in cui erano capitati non vigeva la legge ordinaria dell’Unione Sovietica. I prigionieri erano ora, unicamente, sotto
il potere delle Solovki. In pratica, al di là dei regolamenti di carattere generale, alle Solovki
contava solo l’arbitrio del comandante, dei suoi collaboratori e delle guardie. Per far
capire subito questo messaggio, poteva accadere che qualche detenuto fosse immediatamente ucciso, poco dopo l’arrivo, davanti a tutti gli altri, con un colpo di fucile.
Postazione di lavoro Trojckaja
LE ISOLE SOLOVKI
Eremo
della Trinità
Rebolda
Ken'ga
Eremo
del Golgota
Cittadelle
Novaja Sosnovaja
Isola di Anzer
Savvatievo
Isola Grande
Monte
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Beluz'e
Sekira Isakovo
Filimonovo
Baia
Profonda
Isola Grande Muksalma
Cremlino
Eremo di San Sergio
Diga
Isola
Piccola
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Mar Bianco
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Isola Grande
delle Lepri
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IL COMUNISMO IN RUSSIA
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Promontorio Pecak
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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
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Mar Nero
Isola Piccola delle Lepri
Cultura e teatro
Sottocampi
nei boschi
UNITÀ 4
Secondo lo scrittore russo Aleksandr Solzenicyn, il regime delle Solovki era ancora molto «lontano dall’indossare la corazza del sistema». Piuttosto, a suo parere, «l’aria delle Solovki» appariva come «uno strano miscuglio di estrema ferocia e di inconsapevolezza
quasi indulgente». Questa valutazione nasce dal fatto che, a fianco di episodi di eccezionale
brutalità, lo storico registra anche casi e situazioni del tutto particolari, destinati a scomparire nell’evoluzione successiva del sistema concentrazionario sovietico.
Ad alcuni detenuti, ad esempio, fu concesso ricevere non solo pacchi e lettere dall’esterno, ma persino visite di parenti. Nel 1926, ai numerosi religiosi reclusi fu concesso di celebrare la Pasqua, con una solenne e grandiosa cerimonia liturgica. Inoltre, all’interno del
lager, venivano curate ricerche di storia dell’arte e dell’architettura russa, di etnologia e
di archeologia; era pubblicata una rivista e (dal 1926 al 1931) funzionò anche un teatro.
Nell’inverno 1929-1930, in occasione di un’epidemia di tifo che colpì il lager, l’edificio
del teatro fu adibito a lazzaretto per i malati, ma continuò a funzionare come luogo di
spettacoli e di concerti.
All’interno del monastero la densità abitativa era insostenibile. I letti, ovviamente, non avevano lenzuola e gli ambienti, in genere, erano freddissimi, privi di qualsiasi riscaldamento,
cosicché i reclusi erano costretti a costituire dei gruppi di calore di 4 o 6 persone, che si stringevano gli uni agli altri per scaldarsi un poco. Tuttavia, le condizioni di vita di coloro che erano inviati nel bosco, in campi senza nome, a tagliare legname, erano molto peggiori. I loro
alloggi erano a dir poco primitivi: si trattava di buche o trincee, scavate spesso con le mani
nude (cioè senza vanghe o altri attrezzi) in terreni paludosi e acquitrinosi. La mortalità più
elevata si registrò proprio in tali luoghi improvvisati. Altri lavori molto duri furono quello
di costruzione e manutenzione di una piccola ferrovia a binario unico e a scartamento ridotto
(entrata in funzione il 13 agosto 1927) e quello nelle torbiere. Qui si lavorava con l’acqua fino alle ginocchia o fino alla cintola per estrarre la torba (la norma fissata era di almeno
12 metri cubi giornalieri a persona), che poi veniva messa a essiccare.
APPROFONDIMENTO D
Il lager delle isole Solovki
GULag:
il sistema concentrazionario sovietico
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Un gruppo di detenuti
del lager delle isole
Solovki durante i lavori
di costruzione di una
piccola ferrovia
a binario unico.
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APPROFONDIMENTO D
UNITÀ 4
IL COMUNISMO IN RUSSIA
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Un ritratto delle isole Solovki
DOCUMENTI
La testimonianza più importante che abbiamo sulle isole Solovki ci è pervenuta da Dmitrij Sergeevič Lichacev, che fu arrestato nel 1928. Riportiamo un brano delle sue memorie, da cui emerge
che il principale problema del lager era il sovraffollamento (con conseguente rischio di epidemie
di tifo).
Dalle conversazioni del 1929 ricordo che la densità della popolazione delle Solovki era
superiore a quella del Belgio, fermo restando che gli spazi sterminati dei boschi e delle paludi non solo non erano abitati, ma erano addirittura inesplorati. Che cos’erano, dunque, le
Solovki? Un enorme formicaio? Sì, tanto che era difficile passare tra gli edifici. Per entrare
e uscire dalla baracca 13, accanto alla chiesa della Trasfigurazione, c’era sempre ressa. I
detenuti-guardiani mantenevano l’ordine con i manganelli. Nel contempo l’accesso e l’uscita
erano consentiti solo con gli ordini, le disposizioni per il lavoro.
La notte sui passaggi tra gli edifici scendeva il silenzio. Le mura erano imponenti: quelle
di torri e chiese si allargavano verso il basso. Proverò ora a descrivere la dislocazione delle
brigate nel lager. Nel Cremlino (così si
chiamava la parte di edifici del monastero cinta da mura, massi giganteschi
ricoperti di licheni color ruggine) c’erano quattordici brigate. La quindicesima, fuori del monastero, era per i detenuti che vivevano nelle diverse tane
presso l’officina meccanica o la fabbrica di alabastro, presso il bagno numero 2 ecc. Il cimitero del lager veniva
chiamato brigata 16. Era una battuta,
ma sta di fatto che, d’inverno, in alcune
brigate i cadaveri restavano insepolti e
svestiti.
Perché i detenuti venivano suddivisi
in brigate? Probabilmente dipendeva
dal fatto che erano stati i militari prigionieri sull’isola a mantenere l’ordine tra i
primi arrivati. I secondini non potevano,
né tanto meno sapevano organizzare
alcunché. In un primo momento l’unica
forza organizzativa in grado di ripartire,
sfamare e instaurare una primordiale
forma di disciplina tra i detenuti che arrivavano sulle isole dell’arcipelago delle Solovki
erano i militari, che si rifecero ai modelli di cui disponevano. [...]
Di tutte le brigate la tredicesima era la più grande e la più tremenda. Vi venivano destinati i nuovi arrivi, lì inquadrati per spezzare ogni velleità di protesta, e poi spediti ai lavori pesanti. Chiunque giungesse alle Solovki era obbligato a trascorrere non meno di tre
mesi nella brigata 13 detta, per l’appunto, di quarantena. La mattina ci facevano mettere
in fila per l’appello lungo i corridoi che si snodavano intorno alle chiese della Trasfigurazione e della Trinità. Eravamo in file di dieci, ci si contava, e l’ultimo gridava «Centottantaduesimo per file di dieci!». È capitato che nella brigata tredici di quarantena si stipassero strette strette tre, quattro o anche cinquemila persone. Va da sé che avessimo tutti
le pulci. Solo ricorrendo a raccomandazioni particolari si riusciva a lasciarla prima del
tempo. [...]
Le Solovki erano esattamente il luogo in cui l’uomo si trovava di fronte il prodigio e la quotidianità, il passato del monastero e il presente del lager, e gente di ogni morale, dalla più
nobile alla più spregevole. [...] La vita alle Solovki era tanto assurda da non parere vera. «Qui
tutto si confonde come in un incubo terribile», si cantava in una delle canzoni del lager.
D.S. LICHACEV, La mia Russia, Einaudi, Torino 1999, pp. 138-143, trad. it. C. ZONGHETTI
A quale metafora ricorre l’autore per esprimere l’aspetto più importante del lager?
Qual era la brigata peggiore del lager?
Quali elementi contrastavano tra loro, all’interno del campo?
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
L’appello dei detenuti
nel lager delle isole
Solovki: un rituale
che si ripeteva ogni
mattino.
Clima di arbitrio
e irrazionalità
APPROFONDIMENTO D
La corruzione, all’interno del campo, imperava sovrana. Elargendo denaro agli ufficiali
o al personale sanitario, era possibile essere dichiarati inidonei ai lavori più pesanti ed essere assegnati ad altre attività meno faticose, salvo poi vedersi improvvisamente ritirare
tali privilegi. Anche questa prassi rientrava nel clima di generale arbitrio e irrazionalità che
caratterizzò la gestione del lager delle Solovki negli anni Venti.
Le infrazioni ritenute più gravi comportavano sanzioni pesantissime. All’interno della chiesa situata sul Monte Sekira funzionava un vero tribunale politico, che poteva emettere sentenze: poteva decidere, ad esempio, un prolungamento della pena detentiva, oppure la fucilazione del detenuto. Alla fine di ottobre 1929, si verificò uno degli episodi più gravi di tutta la storia del campo. Volendo intimorire i detenuti, in occasione di un fallito tentativo di
evasione da parte di due prigionieri, dopo la loro cattura furono uccisi numerosi deportati.
Il numero preciso è discusso: molte testimonianze (ad esempio quella di Dmitrij Lichacev,
sotto riportata) parlano di circa 300; più probabilmente, però, i fucilati non superarono la
cinquantina. In questo caso, l’esecuzione non avvenne sul Monte Sekira, ma nei pressi del
monastero, da cui fu prelevata la maggior parte dei detenuti eliminati. Sul Monte Sekira, venne infine commesso un altro tipo di crimine: un numero imprecisabile di prigionieri fu gettato da una lunga scala di 365 gradini, che portava fino alla base della collina. Queste uccisioni erano poi ufficialmente fatte passare per incidenti.
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Riferimento
storiografico
pag. 14
Sfruttamento
del lavoro
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il sistema concentrazionario sovietico
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Razioni di pane
GULag:
Il durissimo scontro sociale in atto nelle campagne russe, all’inizio degli anni Trenta, fece aumentare in modo esponenziale il numero dei detenuti, e quindi dei campi. Nel 1930, per gestire una struttura che si faceva sempre più ramificata e complessa, fu creato un nuovo apposito ente, la Direzione centrale dei lager (Glavnoe Upravlenie Lagerej, abbreviato in GULag).
Inoltre, in concomitanza con la svolta impressa da Stalin all’economia sovietica, si decise di
impiegare la manodopera dei campi per fini produttivi. Fin dal 1923, i detenuti avevano sempre lavorato all’interno dei lager. In epoca staliniana, però, il lavoro schiavo dei detenuti ebbe
un ruolo determinante nel formidabile processo di crescita economica che si verificò in URSS,
nel corso degli anni Trenta. Il loro impiego divenne sistematico, metodico e, al limite, spietato, in quanto i risultati da conseguire contavano molto di più della vita e della dignità umana di coloro che dovevano contribuire a raggiungerli, con i loro sforzi e la loro fatica.
Per costringere a lavorare masse sempre più ingenti di prigionieri, negli anni Trenta fu introdotto
il cosiddetto sistema delle razioni differenziate. In pratica, fu istituita una micidiale correlazione tra mole di lavoro effettivamente svolta nell’arco di una giornata e quantità di pane
ricevuta. A ciascun detenuto (o, in alternativa, a una squadra) era assegnato un dato obiettivo lavorativo da raggiungere: ad esempio, veniva fissato un determinato numero di metri
cubi di tronchi da tagliare, da accatastare o da caricare. Se tale norma era raggiunta, alla razione dei detenuti era aggiunto un corrispondente quantitativo di pane. Diversamente, il detenuto doveva accontentarsi della misera razione-base di pane, e della zuppa, il cui valore
nutritivo era spesso un fatto casuale: come scrive Varlam Šalamov, «il mestolo del distributore che pesca soltanto brodaglia (praticamente acqua), può ridurre le qualità nutritive del
companatico praticamente a zero».
Nei primi anni Trenta, per chi svolgeva lavori fisici pesanti era fissata una razione giornaliera di un chilo di pane. Per chi adempiva la norma giornaliera al 100 per cento c’erano altri 300 grammi di supplemento. Nella seconda metà degli anni Trenta, mentre la
razione punitiva scese fino a 300 grammi, la quantità di pane distribuita al detenuto a prescindere dai risultati del lavoro, la cosiddetta garantita, fu abbassata di più della metà, arrivando a toccare i 400-450 grammi.
Se si eseguivano i 3/4 del piano affidato era prevista un’aggiunta di 100 grammi. Per l’adempimento completo della norma c’era un supplemento di 200 grammi sulla razione-base;
se la si superava, addirittura, del 125%, era possibile avere 300 grammi in più. Tuttavia, i vecchi detenuti avevano imparato a loro spese una semplice massima di saggezza concentrazionaria: «Non ti ammazza la razione piccola, ma quella grande!». Andare alla ricerca della razione supplementare, infatti, richiedeva spesso sforzi eccessivi, che alla fine esaurivano del
tutto le forze e non erano affatto compensate dalla quantità extra ricevuta.
UNITÀ 4
Lo sviluppo del sistema concentrazionario
APPROFONDIMENTO D
UNITÀ 4
IL COMUNISMO IN RUSSIA
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Il sistema delle razioni
DOCUMENTI
Negli anni Trenta, nei lager sovietici fu introdotto un nuovo sistema di razioni alimentari, fornite
ai deportati in rigida proporzione rispetto al lavoro svolto. Il passo che riportiamo è di Olga AdamovaSlozberg, che visse in lager dal 1936 al 1956. La scena seguente si svolge nella regione della Kolyma
(Siberia nord-orientale).
Con Galja Prozorovskaja si lavorava in coppia a preparare il legname. Da principio lei era Che cosa è
la «quota»?
più forte e più abile di me, ma a poco a poco cominciò a cedere. Lavorava sempre più lentamente e noi finivamo sempre più tardi la quota stabilita (otto metri cubi al giorno in due). In che modo emerge
Le altre andavano già a casa e noi non avevamo ancora sistemato le nostre cataste e non
il passato
avevano la forza di andare più svelte.
comunista delle
Io mi arrendevo per prima: «Basta, Galja, finiamo domani. Non ce la faccio più».
due detenute?
Galja rispondeva spaventata:
Commenta la frase
– E la nostra quota? Dobbiamo passare a quattrocento grammi?
finale: «E andiamo
Chi raggiungeva la quota aveva seicento grammi di pane al giorno, chi non la raggiunavanti».
geva quattrocento. Quei duecento grammi di differenza erano decisivi per la nostra sopravvivenza, perché con quattrocento grammi di pane non si può vivere e lavorare a cinquanta sotto zero.
– Sì, la quota. Su, diamoci sotto!
Ammucchiavamo la catasta di legno, mentre io facevo qualche piccolo aggiustamento.
Per esempio infilavo sotto la catasta neve e residui fradici di legname.
Galja mi scongiurava:
– Lascia perdere. Magari ci scoprono e sai che vergogna! Ex membri del partito che cacciano la neve sotto la catasta.
In una maniera o nell’altra avevamo fatto i nostri otto metri cubi ed era già buio; per tornare a casa dovevamo ancora percorrere cinque chilometri. E così ci mettevamo in cam- Alcuni detenuti del
mino, col ghiaccio che ci pungeva le mani, la schiena, il volto. Era necessario uno sforzo di campo delle isole
volontà enorme per camminare ancora un’ora e mezzo o due nel gelo del bosco, quando Solovki durante la
le gambe pesano un quintale, le ginocchia tremano per la fame e la stanchezza, il fazzoletto pausa per il pranzo.
Per i reclusi non
che copre la testa si trasforma in una lastra gelata e si fa fatica a respirare.
raggiungere la mole
Ma ci aspettano il tepore della baracca, una sbobba calda e duecento grammi di pane di lavoro prefissata
pesante, molle, ma così saporito. Più avanti c’è il riposo sulla branda e una stufa accesa. in una giornata
E andiamo avanti.
significava vedersi
O. ADAMOVA-SLIOZBERG, Il mio cammino, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 106-107, trad. it. F. FICI
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ridurre le razioni
alimentari.
Detenuti impegnati
nella costruzione del
canale Mar BiancoMar Baltico.
UNITÀ 4
Il primo grande progetto che vide l’uso massiccio di manodopera tratta dai lager fu il
canale destinato a unire il Mar Bianco al Mar Baltico (chiamato in russo Belomorkanal). L’idea di un canale nell’estremo Nord della Russia europea va attribuita direttamente a Stalin, che oltre tutto fissò con precisione anche i tempi di realizzazione:
venti mesi al massimo. In questo arco temporale così compresso, i detenuti furono obbligati a scavare (nel terreno roccioso, o gelato) per più di 200 chilometri, nonché a
costruire 5 dighe e 19 chiuse. La decisione fu presa nel febbraio 1931; in settembre,
iniziarono i lavori. Nell’agosto 1933, il canale fu completato e ufficialmente inaugurato da Stalin, con un viaggio in battello.
Per costruire il canale, vennero trasferiti moltissimi detenuti dalle Solovki (che, in pratica, si trasformarono in un semplice carcere di sicurezza) e fu organizzato un vasto campo di lavoro correzionale. Denominato Belbaltlag, vide impegnati complessivamente
170 000 detenuti, 25 000 dei quali morirono durante i lavori di costruzione. La costruzione del Belomorkanal fu caratterizzata da una quasi totale assenza di tecnologia. Tutti i lavori, anche i più duri, impegnativi e faticosi, furono condotti senza macchine, con attrezzature quanto mai primitive (rozze pale, picconi, mazze, vanghe e carriole di legno ecc.) o addirittura a mani nude. Per questo, fu necessario concedere premi e incentivi di vario tipo agli operai che, malgrado le difficoltà, riuscivano comunque a far procedere il lavoro. Ai più laboriosi, vennero concesse razioni alimentari pienamente soddisfacenti e fu persino promessa un’abbreviazione della pena: per ogni tre
giorni di lavoro in cui raggiungeva la norma che gli era stata assegnata, il detenuto poteva riscattare un giorno di pena. Quando il canale fu completato, furono in effetti liberati 12 484 prigionieri.
APPROFONDIMENTO D
Il canale Mar Bianco-Mar Baltico
GULag:
il sistema concentrazionario sovietico
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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO D
UNITÀ 4
IL COMUNISMO IN RUSSIA
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Il freddo estremo di Kolyma
DOCUMENTI
Varlam Šalamov (1907-1982, arrestato nel 1937 e liberato nel 1951) è ritenuto il narratore più lucido del dramma che si consumò nei campi della regione della Kolyma. Nei suoi racconti, il freddo micidiale della Siberia nord-orientale diventa metafora di un altro ben più terribile gelo, presente a Kolyma: quello della totale indifferenza per le sofferenze umane.
A noi lavoratori non mostravano mai il termometro; del resto era inutile visto che con qualsiasi temperatura dovevamo comunque andare a lavorare. Inoltre i veterani della galera, anche senza termometro, potevano stabilire con precisione quasi assoluta quanti gradi sotto zero
ci fossero: se c’è una nebbia gelata, fuori fa meno quaranta; se l’aria esce con rumore dal naso,
ma non si fa ancora fatica a respirare, vuol dire che siamo a meno quarantacinque; se la respirazione è rumorosa e si avverte affanno, allora meno cinquanta. Sotto i meno cinquantacinque, lo sputo gela in volo. Ed erano già due settimane che gli sputi gelavano in volo.
Ogni mattina, Potasnikov si svegliava con una speranza: si era attenuato il gelo? Dall’esperienza dell’inverno precedente sapeva che, per quanto bassa fosse la temperatura, era sufficiente
una sua variazione improvvisa, un contrasto netto per provare una sensazione di calore. Anche
se la temperatura fosse risalita solo fino a quaranta-quarantacinque gradi, per un paio di giorni
avrebbero sentito caldo; e fare progetti al di là di quei due giorni era del tutto insensato.
Ma il gelo non si attenuava, e Potasnikov si rendeva conto che non avrebbe potuto resistere ancora molto. La colazione gli bastava per un’ora di lavoro al massimo, poi arrivava la stanchezza, il gelo gli trapassava il corpo fino alle ossa e quel modo di dire popolare non era affatto una metafora. Non poteva fare altro che agitare il più possibile l’attrezzo che stava
usando e saltellare da un piede all’altro per non congelare, questo fino all’ora di pranzo. Il pasto caldo – la famigerata juska acquosa e due cucchiaiate di pappa, la kasa – non lo rimetteva
in forze ma almeno lo riscaldava. E di nuovo aveva forze bastanti per non più di un’ora di lavoro, dopo di che Potasnikov desiderava soltanto una cosa: riscaldarsi, oppure abbandonarsi
lungo disteso sulle aguzze pietre ghiacciate e morire. La giornata in qualche modo finiva e dopo
il pasto serale, bevuta l’acqua calda con il pane – nessuno mangiava il pane alla mensa con la
minestra, se lo portavano tutti nella baracca – Potasnikov si metteva subito a letto.
Naturalmente lui dormiva su uno dei tavolacci di sopra: da basso faceva freddo come
in una cantina ghiacciata e quelli che avevano i posti di sotto passavano metà della notte
in piedi vicino alla stufa, facendo a turno per stringersi contro di essa con entrambe le braccia: era appena tiepida. Non c’era mai legna sufficiente: bisognava procurarsela, a quattro
chilometri di distanza, dopo il lavoro, e tutti cercavano di sottrarsi in qualsiasi modo a questa incombenza. Di sopra faceva più caldo, ma naturalmente anche lì tutti dormivano con
addosso gli stessi indumenti che indossavano di giorno per andare a lavorare: berretti, giacconi, casacche, pantaloni imbottiti. Di sopra faceva più caldo, ma anche lì bastava una notte
perché il gelo incollasse i capelli al cuscino.
Potasnikov sentiva le sue forze diminuire di giorno in giorno. Lui, un uomo di trent’anni, faceva ormai fatica sia a issarsi sui tavolacci superiori, sia a ridiscenderne. Il suo vicino di letto
era morto il giorno prima, era morto così, non si era svegliato, e nessuno si era preoccupato
di sapere di cosa fosse morto, come se la causa potesse essere una sola, quella che tutti conoscevamo bene. Il piantone della baracca era contento che fosse morto di mattina e non di
sera: l’approvvigionamento giornaliero del defunto sarebbe andato a lui. Non era un segreto,
e Potasnikov aveva preso il coraggio a quattro mani, gli si era avvicinato: «Dammene una crosta», ma l’altro l’aveva accolto con una serie di violente ingiurie, quali poteva profferire solo un
uomo debole diventato forte, il quale sa che le sue ingiurie resteranno impunite. Solo in circostanze eccezionali accade che un debole ingiuri un forte, ed è il coraggio della disperazione. Che differenza c’era,
nei tavolacci di una
Potasnikov non aveva replicato e si era fatto da parte. [...]
baracca, tra
Non faceva una colpa a nessuno per tanta indifferenza. Aveva capito per tempo da dove
i posti più in alto
venisse quell’ottusità spirituale, quel freddo dell’anima. Il gelo, quello stesso gelo che trasfore quelli inferiori?
mava in ghiaccio uno sputo prima che toccasse terra, era penetrato anche nelle anime degli
uomini. Se potevano congelarsi le ossa, se poteva congelarsi e intorpidirsi il cervello, altrettanto In quali «circostanze
poteva accadere anche all’anima. Nella morsa del gelo non si poteva pensare a niente. Ed era
eccezionali»,
tutto molto semplice. Con il freddo e la fame il cervello veniva alimentato in modo insufficiente
secondo l’autore,
e le cellule cerebrali deperivano: un evidente processo fisico che chissà se era reversibile, come
accade che un
si dice in medicina, al pari di un congelamento, o provocava un danno definitivo. Così l’anima:
debole ingiuri
si era congelata, rattrappita e sarebbe forse rimasta tale per sempre. In passato Potasnikov
un forte?
aveva avuto spesso di questi pensieri, ma ora non gli restava nient’altro che il desiderio di re- Il congelamento
sistere, di vedere la fine di quel gelo restando vivo.
dell’anima, secondo
[1954]
l’autore, è
V. ŠALAMOV, I racconti di Kolyma, Einaudi, Torino 1999, pp. 17-19, trad. it. S. RAPETTI
reversibile?
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Vorkuta
e Karaganda
UNITÀ 4
Kolyma
Il GULag durante la guerra
Durante la seconda guerra mondiale, l’esercito tedesco invase l’URSS il 22 giugno 1941.
Questo drammatico evento sconvolse non solo l’intera società sovietica (che avrebbe
pagato un prezzo altissimo: secondo le stime più recenti, 27 milioni di vittime, tra cui
18 milioni di civili), ma anche il sistema concentrazionario. All’inizio del 1941, la popolazione del GULag era di circa 1 930 000 detenuti. A seguito dell’invasione tedesca, a molti prigionieri (970 000) fu concesso
di arruolarsi nell’esercito, ma tale possibilità fu sempre
negata a coloro che erano stati condannati come controrivoluzionari, in base all’art. 58 del Codice penale
sovietico. Inoltre, vennero arrestati almeno 400 000
cittadini sovietici di nazionalità finnica o romena,
considerati potenziali sostenitori della Finlandia o
della Romania, in caso di conflitto con questi Stati. La popolazione del GULag, dunque, non calò in
modo significativo (nel 1942 si contano circa
1 777 000 detenuti).
Negli anni di guerra, però, la popolazione presente nel
sistema concentrazionario sovietico subì un significativo doppio mutamento: aumentò la percentuale di prigionieri per moF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Una massa di scarpe di
prigionieri morti
nel campo di
Butugi ak, dove erano
reclusi moltissimi
detenuti politici.
il sistema concentrazionario sovietico
9
GULag:
Verso la fine degli anni Venti, l’estremo Nord della Siberia centrale (l’area in cui poi,
più tardi, sarebbe nato il centro minerario di Vorkuta) venne scelto come zona di confino per i detenuti che, dopo aver scontato la pena, erano stati liberati dal campo delle Solovki. Dall’estate del 1929, si cominciò la costruzione delle infrastrutture (prima tra tutte una ferrovia) capaci di trasformare l’area in un distretto minerario (estrazione di carbone e di petrolio).
Nel 1931, iniziò la costruzione del grande complesso concentrazionario di Karaganda (Karagandinskij ITL o Karlag), in Kazakistan. Qui, negli anni Quaranta, avrebbero lavorato
circa 60 000 deportati, in aziende agricole che si estendevano su un territorio di 20 800
chilometri quadrati. Un altro segmento importantissimo del sistema fu l’insieme dei cantieri destinati al raddoppio della ferrovia transiberiana; il tratto su cui venne concentrato il principale intervento fu quello che andava dal lago Bajkal al fiume Amur (distanti
circa 2000 chilometri uno dall’altro). Nel 1938, questa vasta regione ospitava circa 200 000
detenuti, divenuti 260 000 l’anno seguente.
Nel novembre 1931, una risoluzione del Comitato centrale stanziò 20 milioni di rubli
per la creazione del Dal stroj, un’enorme azienda di Stato incaricata di sfruttare le risorse minerarie della regione del fiume Kolyma (nella Siberia nord-orientale). Una spedizione
geologica inviata là nel 1928, infatti, aveva scoperto enormi giacimenti d’oro.
A Kolyma (ancor più che in altre regioni siberiane) le condizioni climatiche erano terribili, per
non dire estreme, in quanto la temperatura invernale può scendere fino a -40 o addirittura
-50 °C. Malgrado ciò, nel 1939, a Kolyma erano costretti a lavorare 138 000 detenuti, divenuti 190 000 nel 1940.
Nel 1941, il Dal stroj controllava un’area vastissima: un territorio di 2 266 000 chilometri quadrati; nel 1951, tale territorio si sarebbe ulteriormente ampliato e avrebbe toccato i 3 000 000 di chilometri quadrati. Dal 1932 al 1939, la produzione di oro passò da
276 chilogrammi a 48 tonnellate.
La regione della Kolyma, però, era molto difficile da raggiungere. I prigionieri arrivavano in treno a Vladivostok, e poi – in nave – erano condotti al porto di Magadan, che dovette essere costruito dai detenuti stessi, insieme a tutte le altre infrastrutture indispensabili (ferrovie, strade e ponti). Infine, dalla città di Magadan, i deportati raggiungevano
i vari centri minerari nell’interno.
APPROFONDIMENTO D
La ramificazione del sistema
APPROFONDIMENTO D
Fabbriche
di munizioni
tivi politici (28,7% nel 1941; 41,2% nel 1945) e la quota delle donne in stato di detenzione: dal 7,6% (110 835 prigioniere) nel 1941 al 24% (168 634 nel 1945).
Durante la guerra, i detenuti furono utilizzati per costruire impianti industriali e aeroporti,
oppure per migliorare e potenziare la rete ferroviaria e il sistema stradale sovietico. Soprattutto,
però, un numero elevatissimo di prigionieri fu impiegato in fabbriche di bombe e munizioni. Si può affermare che il 10-15% del totale dei proiettili prodotti per l’Armata rossa sia uscita da impianti in cui lavorava manodopera forzata.
Gli anni 1941-1945 furono durissimi per quel che riguarda la situazione alimentare dei
detenuti, molti dei quali soffrirono la fame. Per quanto le direttive provenienti da Mosca, in questo caso, esortassero i comandanti dei campi a prestare molta attenzione alle
condizioni fisiche dei detenuti (di cui si riconosceva l’importanza produttiva, nell’ambito dello sforzo bellico), la situazione oggettiva era drammatica: in linea di massima, l’apporto calorico che era possibile fornire ai prigionieri era del 30% inferiore, rispetto a quello prebellico. Ciò provocò un costante aumento del tasso di mortalità, che nei campi passò dal 3,2% (rispetto alla popolazione concentrazionaria media annuale) del gennaio/luglio 1941 al 25,2% del gennaio/luglio 1944.
UNITÀ 4
La fame
IL COMUNISMO IN RUSSIA
10
DOCUMENTI
Nato nel 1919, lo scrittore polacco Gustaw Herling fu arrestato nel marzo 1940 e poi detenuto in
un lager sovietico della regione di Kargopol fino al 1942. La prima edizione delle sue memorie di prigioniero uscì a Londra nel 1951.
La fame... la fame è una sensazione orribile, che si trasforma in un’astrazione, in incubi
alimentati da una continua febbre mentale. Il corpo è come una macchina surriscaldata, che
lavora con accresciuta velocità e con minor carburante, e le braccia e le gambe scheletriche diventano simili a cinghie di trasmissione strappate. Gli effetti fisici della fame non hanno
un limite al di là del quale la vacillante dignità umana possa ancora serbare il suo incerto ma
indipendente equilibrio. Quante volte schiacciavo la mia faccia pallida contro i vetri gelati della
finestra della cucina per implorare con uno sguardo muto da Fedka, il ladro di Leningrado
addetto alle razioni, un altro mestolo di minestra acquosa! E ricordo che una volta il mio miglior amico, un vecchio comunista e compagno di gioventù di Lenin, l’ingegner Sodovskij,
sulla piattaforma vuota della cucina mi strappò dalle mani un pentolino pieno di minestra e
scappò via, e senza aspettare nemmeno di raggiungere la latrina, ingurgitò correndo la minestra bollente con labbra febbrili. Se Dio esiste, punisca senza pietà coloro che piegano il
loro prossimo con la fame. [...]
I primi sintomi di questa fame apparvero verso la fine dell’inverno 1941, e nella primavera ogni segno di vita era scomparso dal campo. Nelle cucine la minestra diventava ogni
giorno più liquida, spesso la razione del pane era al di sotto del peso, e sparirono completamente le aringhe che tanto piacevano a Dimka.
Gli effetti di questa fame divennero presto palesi. Le brigate facevano ritorno dal lavoro
molto più lentamente, di sera si poteva a stento camminare lungo i sentieri ingombrati dalle
incespicanti vittime della cecità notturna; nella sala d’aspetto della baracca sanitaria attendevano la visita del medico degli infelici dalle gambe gonfie come tronchi, coperte di piaghe suppurate prodotte dallo scorbuto; ogni sera una grande slitta riportava indietro al
campo uno o due tagliaboschi svenuti sul lavoro. La fame non allenta di notte la sua stretta,
anzi proprio allora, astuta e violenta, attacca con le sue armi misteriose. Solo Iganov, un vecchio russo della brigata dei carpentieri, pregava fino a notte alta, ricoprendosi il volto con le Contro quali
soggetti l’autore
mani. Gli altri dormivano nel silenzio opprimente della baracca il sonno febbricitante di coinvoca la
loro che soffrono fisicamente, aspirando l’aria con un fischio attraverso le labbra semiaperte,
maledizione divina?
rivoltandosi senza posa sull’uno e sull’altro fianco, borbottando e singhiozzando nel sonno
con un mormorio che lacerava il cuore. [...] Dimka aveva accettato di aiutare tre pulitori di Quali effetti
produceva la fame
latrine per un piatto in più di minestra, sicché tornava alla baracca poco prima di mezzasui detenuti
notte, bagnato e puzzolente come un topo di fogna. Per antica abitudine soleva ancora allavoratori?
zare il coperchio del secchio dei rifiuti, ma da molto tempo ormai non c’erano più resti di
Che conseguenze
aringhe sul fondo vuoto.
aveva sul loro
G. HERLING, Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 156-162, trad. it. G. MAGI
riposo notturno?
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
Delinquenti
e politici
APPROFONDIMENTO D
Difficoltà
dopo il 1945
Due detenuti polacchi,
dopo la liberazione,
si fanno fotografare
davanti al cimitero
che ricorda le vittime
dello sciopero represso
nel sangue il
1o agosto 1953.
il sistema concentrazionario sovietico
11
GULag:
Nel 1945, al momento della vittoria della guerra contro la Germania nazista, Stalin raggiunse il culmine del proprio prestigio e della propria forza. Da più parti, all’interno della società sovietica sorgevano richieste di maggiore libertà e soprattutto di un mutamento della politica economica del regime, che da molti anni privilegiava la produzione di acciaio o di armamenti, a scapito dei beni di consumo. Questa svolta non ci fu: nel 1946,
ad esempio, l’URSS produsse meno di un paio di scarpe e meno di un metro di stoffa all’anno, per ciascuno dei suoi cittadini. Inoltre, nell’inverno di rabbia 1946-1947, l’ennesima carestia provocò 2 milioni di morti per fame (500 000 nella sola repubblica russa) e gravi difficoltà alimentari per almeno 100 milioni di individui.
La polizia segreta sovietica si rese conto che una simile situazione era esplosiva. Pertanto, gli ultimi anni Quaranta furono caratterizzati da un’altra imponente ondata di arresti e di deportazioni. Migliaia di persone (36 670 solo nell’autunno 1946) furono condannate a 5-8 anni per furto di pane o di farina.
Tra il 1945 e la morte di Stalin (1953) la popolazione dei lager sovietici crebbe in continuazione: da 1 460 000 nel 1945, i detenuti salirono a 2 200 000 circa nel 1948, a 2 468 000
nel 1953. Questa crescita vertiginosa si spiega tenendo conto delle diverse categorie di internati, tra i quali dobbiamo ricordare 272 867 soldati dell’Armata rossa che erano stati catturati dai tedeschi e che vennero accusati di essersi arresi senza opporre resistenza al
nemico. Tra questi militari, poi, un posto speciale occuparono i 56 746 vlasovity: soldati che
avevano accettato di vestire la divisa tedesca e di combattere (sotto il comando del generale Andrej Andreevi Vlasov) contro l’esercito sovietico.
Uno dei fenomeni più gravi sottolineati dai sopravvissuti all’interno dei lager sovietici è il
peso crescente che assunsero col passar del tempo i criminali comuni. Molto spesso, infatti, si trattava di delinquenti di professione, spietati e violenti, che all’interno del sistema
riuscivano ad imporsi proprio in virtù della loro crudeltà, che esercitavano verso i detenuti più deboli e soprattutto (con la complicità delle autorità) verso i prigionieri politici, condannati in base all’art. 58 del Codice penale. Per principio, i malavitosi non lavoravano: mentre quelli passavano tutta la giornata a giocare a carte, gli altri detenuti della squadra, cui essi
erano assegnati, erano costretti a svolgere anche la loro percentuale di lavoro.
In un primo tempo, i delinquenti non accettarono incarichi di responsabilità all’interno
del campo, guardando all’autorità dello Stato come ad un nemico, con cui non bisognava collaborare. Tuttavia, durante la guerra, pur di uscire dal lager molti criminali accet-
UNITÀ 4
La vittoria di Stalin
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO D
Guerra delle cagne
UNITÀ 4
Calo di produttività
IL COMUNISMO IN RUSSIA
12
tarono di arruolarsi nell’esercito. Al loro ritorno in campo, dopo il 1945, questi malavitosi furono accusati dagli altri di tradimento e furono denominati sprezzantemente «cagne» (suki, un epiteto volgare simile a «puttane»). A partire dal 1949, tra i due gruppi iniziò una lotta lunga e feroce; denominato di solito la guerra delle cagne, lo scontro venne
ampiamente tollerato dalle autorità, che se ne servirono, spesso, per sbarazzarsi di alcuni criminali particolarmente pericolosi e potenti.
Nell’immediato dopoguerra, furono deportati nei lager sovietici anche moltissimi ucraini, polacchi o cittadini delle tre repubbliche baltiche (Lituania, Lettonia ed Estonia) che
si erano opposti all’occupazione russa nel 1939-1940, oppure avevano apertamente collaborato coi tedeschi. La maggior parte dei polacchi proveniva dalle file dei partigiani
nazionalisti, ostili sia ai tedeschi, sia ai russi. Molti di loro furono deportati a Vorkuta,
una regione della Siberia del Nord ricchissima di carbone. Nel 1951, l’intera area comprendeva ben 192 951 detenuti.
Proprio i campi con una maggiore presenza di stranieri (polacchi e ucraini, soprattutto)
videro la nascita, nei primi anni Cinquanta, di numerose e varie forme di resistenza, che
andavano dalla tufta (l’imbroglio sul lavoro) su vasta scala, allo sciopero organizzato vero
e proprio. La produttività del lavoro nei campi andò costantemente calando. In un primo tempo, i comandanti e le autorità periferiche cercarono di minimizzare il fenomeno,
falsificando le cifre. Infine, però, ci si rese conto anche ai massimi livelli che il sistema
del lavoro forzato non era più redditizio.
L’episodio di resistenza più significativo avvenne a Vorkuta, ove uno sciopero fu represso nel
sangue (circa 70 morti) il 1o agosto 1953. A quell’epoca, Stalin era già morto (5 marzo) e
un’amnistia promulgata il 27 marzo aveva già messo in libertà circa 1 200 000 detenuti.
Riferimenti storiografici
1
La vita nei lager sovietici
Le condizioni di vita dei detenuti nei lager sovietici variavano notevolmente a seconda dei luoghi:
potevano essere determinanti, di volta in volta, la posizione geografica, il tipo di lavoro che i deportati
dovevano svolgere, il carattere del comandante e dei sorveglianti ecc. La descrizione che segue cerca
di individuare le principali caratteristiche comuni.
I forzati dei lager, richiesti, registrati e «gestiti come risorse umane», rappresentavano il
gradino più basso nella piramide sociale dell’età staliniana, erano gli «schiavi del lavoro» dell’Unione Sovietica. Le istituzioni concentrazionarie sovietiche si adoperavano per impedire
in tutti i casi che in questi reclusi si formasse un’identità di gruppo; a tale scopo fin dalla nascita del sistema si provvide a suddividerli in categorie. La prima distinzione fu tra «appartenenti alla classe operaia» ed «elementi estranei» o «nemici di classe», mentre dalla metà
degli anni Trenta, rinunciando alla suddivisione in classi, si distinse fra reclusi per motivi non
politici e «controrivoluzionari».
Fin dall’inizio dell’era dei piani economici i criminali costituirono l’aristocrazia dei lager.
Vi erano delinquenti di mestiere e delinquenti abituali i quali, una volta assunta una posizione
dominante all’interno della gerarchia criminale, venivano chiamati urkas, oppure blatnois,
blatnjaki o blatari e nel campo formavano una casta potente e rigidamente chiusa con un
proprio codice di comportamento. Coloro che infrangevano il codice erano espulsi ed etichettati come suka. I criminali non avevano raggiunto quel loro rango privilegiato solo in virtù
della loro organizzazione, bensì anche grazie a un sistematico sostegno da parte delle rispettive direzioni dei campi. Come «elementi socialmente affini» godevano di maggiore fiducia; le direzioni dei campi si preoccupavano di creare un antagonismo tra loro e gli «articolo 58» (come erano chiamati i condannati secondo l’articolo 58 per «attività
controrivoluzionaria»). La grande maggioranza delle posizioni con incarichi, definite nel
gergo dei campi posizioni pridurki, veniva così assunta da criminali. [In tal modo, quasi sempre, i criminali evitavano il duro lavoro manuale, n.d.r.]
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO D
UNITÀ 4
il sistema concentrazionario sovietico
13
GULag:
La quota dell’altro grande gruppo, i «controrivoluzionari» e gli «articolo 58» era in continua crescita. Nella scala gerarchica degli internati stavano all’ultimo gradino; poiché il regime
sovietico li considerava soggetti «non rieducabili», gli «articolo 58» subivano una serie di inasprimenti della pena cui non erano soggetti i criminali. Ripetute disposizioni, spesso però non
osservate, proibivano agli «articolo 58» di detenere incarichi. [...]
Principio base per il sostentamento in tutte le
categorie di lager era vincolare la quantità delle razioni alimentari al raggiungimento dello standard
di produzione, assieme a molti altri criteri. È difficile dare una panoramica sulla varietà delle razioni;
i reclusi destinati ai «lavori comuni» erano particolarmente colpiti da tale regolamentazione. Il
cibo era di cattiva qualità, insufficiente e non corrispondeva comunque alle prestazioni richieste
dal durissimo lavoro; era carente di calorie, vitamine e altre sostanze indispensabili. Affamando
costantemente i reclusi si voleva spingerli a raggiungere o superare lo standard di produzione per
ottenere in cambio razioni maggiori o di migliore
qualità. Questo genere di sprone al lavoro non
produceva quasi mai il risultato sperato visto che
i prigionieri morivano anziché lavorare di più. Con
l’inizio della guerra le razioni già ampiamente insufficienti vennero ulteriormente ridotte. Grandi
crisi di fame percorsero i lager tra il 1941 e il
1942; solo quando la produttività calò sensibilmente vennero reintrodotte le razioni dell’anteguerra, ma in realtà la «grande fame» nel GULag si
concluse solo nel 1948. [...]
La morte era una realtà quotidiana nel lager. Gli internati morivano di fame, spossatezza, Alcuni detenuti
assideramento, venivano fucilati, erano vittima di incidenti sul lavoro o delle strutture puni- al lavoro in un lager
tive cui erano destinati. L’atteggiamento di disprezzo verso gli esseri umani adottato nei con- sovietico.
fronti dei reclusi in vita proseguiva con la «mancanza di pietà» verso i morti. Il prigioniero defunto veniva contrassegnato al piede sinistro con una targhetta di legno o altro mezzo di
identificazione che riportava la sua matricola; i denti d’oro venivano estratti; per ostacolare
un decesso simulato, la testa della salma veniva fracassata con un martello o gli veniva conficcato un chiodo nel petto. Il cadavere, nella maggior parte dei casi nudo o con la sola logora biancheria addosso, veniva infine sotterrato all’esterno del campo. Le fosse erano difficilmente o per nulla identificabili.
I reclusi che avevano la fortuna di essere sopravvissuti all’internamento e a cui non era
stato comminato un «secondo termine», ovvero una ulteriore condanna, venivano affrancati
dallo status di internati in lager, ma non ottenevano la libertà. Le autorità dell’NKVD [una delle
diverse denominazioni assunte dalla polizia politica sovietica, n.d.r.] erano interessate a non
far uscire dall’impero economico del GULag o comunque dal proprio controllo gli ex internati, pur usciti dal sistema concentrazionario del GULag, e quindi li ponevano sotto sorveglianza del Commissariato, poi Ministero degli Affari Interni. Una possibilità era quella di con- Quali detenuti
possono essere
segnare al rilasciato una lista, la cosiddetta «lista delle esclusioni», con un elenco di città nelle
definiti
quali non si sarebbe potuto stabilire, costringendolo così ad andare a vivere in aree che erano
l’«aristocrazia
zona di insediamento del GULag o dell’NKVD. La seconda variante, altrettanto frequente, era
del campo»?
quella di imporre all’ex internato di continuare a vivere come colono nelle vicinanze del campo
ove era stato rinchiuso e di continuare a esercitare la consueta attività prevista dai piani. I Chi erano gli
«articolo 58»?
cosiddetti «coloni liberi» vivevano sì all’esterno dell’area del lager, ma continuavano a essere
Che
cosa accadeva
parte integrante del GULag, erano insomma più ex internati che uomini liberi.
alla maggior parte
R. STETTNER, Il GULag. Profilo del sistema dei lager staliniani, in G. CORNI, G. HIRSCHFELD (a cura di),
dei detenuti,
L’umanità offesa. Stermini e memoria nell’Europa del Novecento, il Mulino, Bologna 2003,
una volta scontata
pp. 186-192, traduzione di R. MARTINI
la pena?
APPROFONDIMENTO D
2
UNITÀ 4
Negli anni Trenta, anche se ufficialmente si affermava ancora che i campi avevano funzioni di rieducazione, il compito principale dei lager era di tipo economico. L’economia basata sullo sfruttamento del lavoro dei detenuti, però, aveva dei margini di spreco eccezionalmente elevato, oltre a non tenere in minimo conto la dignità umana (e la vita) dei detenuti stessi.
14
IL COMUNISMO IN RUSSIA
Le funzioni economiche del GULag
La costruzione del
canale che doveva unire
il Mar Bianco al Mar
Baltico da parte di un
gruppo di prigionieri
di un GULag sovietico.
Nel sistema staliniano la funzione economica del campo è fondamentale. Già Mora e
Zwierniak scrivevano che il gulag non è solo un’istituzione penitenziaria, ma anche un’impresa industriale e commerciale che, come accade normalmente per enti di questo tipo, si
basa su contratti, bilanci preventivi, crediti ecc. Spesso il gulag assume il ruolo di un imprenditore che si impegna a esaudire le commesse affidategli da diversi enti, come i Commissariati del popolo per le Comunicazioni, gli Affari militari, le Foreste, l’Industria e via dicendo. In base ad appositi contratti, il gulag esegue tutte le opere previste dal piano
nazionale e diversi lavori pubblici: costruzione di strade ferrate e fortificazioni, sfruttamento
delle miniere (comprese quelle d’oro) e taglio delle foreste. La rimunerazione stabilita dai contratti si basa sui normali prezzi della manodopera, come se si trattasse di un’impresa che
utilizza lavoratori liberi. Siccome le spese per il lavoro dei prigionieri sono molto basse, l’eccedenza serve a mantenere l’immenso e costoso apparato di controllo dell’NKVD, nonché
tutti i prigionieri che, per un qualsiasi motivo, non siano momentaneamente impegnati nel
lavoro.
I campi hanno supplito alla penuria di macchine con la forza muscolare dei detenuti, soprattutto nelle zone più isolate: grazie al progressivo estendersi del gulag, molte terre inospitali, Dal stroj, Magadan [= la regione della Kolyma, nella Siberia nord-orientale, n.d.r.], ma
anche Vorkuta, furono colonizzate dai forzati. Il gulag ebbe una funzione notevole anche nella
russificazione e nella sovietizzazione del paese, poiché fu messo in atto un massiccio programma di mescolanza di etnie. […]
In ogni campo la dimensione economica è ben presente e determina la seguente organizzazione: fin dall’ingresso del prigioniero al campo, una commissione stabilisce in quale
classe di attitudine al lavoro debba essere inserito. I detenuti vengono suddivisi in brigate
(l’unità di base in quest’ambito) di 20-40 lavoratori. A capo di ogni brigata c’è un brigadiere
– un prigioniero che dirige l’organizzazione del lavoro – coadiuvato da un desjatnik (caporale), un aiutante che calcola la percentuale di lavoro obbligatorio effettuato. Ogni brigata lavora sotto la sorveglianza di un soldato armato, che ha diritto di vita o di morte sui prigionieri. Sino al 1936 il lavoro all’aperto si interrompeva quando la temperatura scendeva a
-35 °C; nel 1936 il limite è abbassato a -40 °C, ma a Kolyma il regolamento locale fissa la
soglia minima a -55 °C.
In seguito agli scioperi tra il 1935 e il 1955, la direzione dei campi ritorna alle regole iniziali sull’interruzione del lavoro per cause meteorologiche (-35 °C), ma a partire dagli anni
Sessanta il limite è nuovamente abbassato a -40 °C. La durata della giornata lavorativa, variabile secondo i campi, si aggira intorno alle 10-12 ore. Le condizioni di lavoro però sono
talmente dure che finiscono per danneggiare il rendimento economico. A partire dagli anni
Trenta la funzione economica del campo – l’utilizzo della forza lavoro dei prigionieri – è presente ovunque. Significa che è primaria? Le condizioni di lavoro, per quanto apparentemente
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012
APPROFONDIMENTO D
15
GULag:
Per quale motivo è improprio paragonare il lavoro dei detenuti del gulag a quello degli schiavi
neri?
Per quanto importante sia stato il lavoro dei detenuti, è legittimo affermare che il raggiungimento
di precisi obiettivi economici esauriva le funzioni del gulag?
Che cosa era la tufta?
UNITÀ 4
J. KOTEK, P. RIGOULOT, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio 1900-2000,
Mondadori, Milano 2001, pp. 159-161, trad. it. A. BERNABBI
il sistema concentrazionario sovietico
dettate dalla ricerca della massima produttività, in realtà sono tali da far pensare che la funzione fondamentale sia l’eliminazione dei detenuti.
Come sostiene Scholmer, non si può paragonare il lavoro nei campi a quello degli schiavi,
perché il proprietario di schiavi non li usava in modo così sconsiderato. Inoltre, li comprava,
mentre il potere sovietico li ruba. Nel gulag, infatti, il detenuto non è sfruttato solo per il suo
lavoro: è anche uno strumento mediante il quale si esercita un potere assoluto. Nella realtà
queste condizioni di lavoro si ritorcono contro il loro scopo: la produttività. Le pretese disciplinari per accrescere gli sforzi sul lavoro e la sottoalimentazione per far economia del carburante destinato all’attrezzo animato – per riprendere l’espressione di Aristotele – portano
al fallimento in materia di produttività, nonostante per decenni sia stato possibile rimpiazzare la manodopera mancante. Dallin e Nikolaevskij, dopo aver descritto a lungo una forma
di lavoro quasi schiavista, finiscono per affermare che il lavoro forzato ha un basso rendimento, è improduttivo, causa un enorme spreco di vite umane e una vera e propria decadenza morale e civica. Solzenicyn insiste sul fatto che i campi non riuscivano a coprire le
spese. Il carbone di Vorkuta, per esempio, costava il doppio di quello di Donetz [regione mineraria in cui i minatori erano operai liberi, non detenuti, n.d.r.].
La resistenza passiva dei detenuti non ha nulla a che vedere con questa situazione. In
tali condizioni repressive e generatrici di morte, la resistenza si manifesta con la tufta. Elinor Lipper spiega di che cosa si tratta: «Tufta significa l’arte di presentare le cose sotto un
falso aspetto; un’arte sviluppatasi attraverso molte generazioni di delinquenti nei lunghi anni
di prigionia. Chi di tufta se ne intende, ha sempre il suo lavoro in perfetta regola, sebbene
in realtà non lo sia affatto. Per esempio, due legnaiuoli consegnano la sera al brigadiere il
loro mucchio di legna; il brigadiere lo controlla, lo misura e segna: dodici metri cubi. È una
quantità rispettabile, e non di meno i due legnaiuoli non sembrano particolarmente esausti.
In realtà essi hanno raccolto appena tanta legna quanta ne basta, abilmente aggiustata, per
farne un mucchio che sembra gigantesco. Questa è tufta».
F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012