Raccontare G.Zen.Net - Caritas Diocesana di Palermo

Transcription

Raccontare G.Zen.Net - Caritas Diocesana di Palermo
con il sostegno di
CONFRATERNITA DI SAN GIUSEPPE DEI FALEGNAMI
Ente ecclesiale di culto, religione, istruzione,
promozione umana e cristiana
P.zza Santa Chiara n.10 – 90134 Palermo
RETE INTERISTITUZIONALE dell’UPL
SAN FILIPPO NERI
PALERMO
Raccontare
G.Zen.Net
a cura di Martino Lo Cascio
CONFRATERNITA DI SAN GIUSEPPE DEI FALEGNAMI
Ente ecclesiale di culto, religione, istruzione, promozione umana e cristiana
P.zza Santa Chiara n.10 – 90134 Palermo
RETE INTERISTITUZIONALE dell’UPL
SAN FILIPPO NERI
con il sostegno di
Il presente lavoro si è avvalso della collaborazione della Dott.ssa Casella Claudia e della
Dott.ssa Anita Scarpello.
Si ringraziano tutti i partner del progetto G.Zen.Net:
Confraternita San Giuseppe dei Falegnami, Caritas Diocesana di Palermo, Istituto Don
Calabria, Centro Socio Culturale E.Piazza onlus, Associazione Lega contro la droga,
Associazione Apriti Cuore onlus, Centro Studi – Opera Don Calabria, Associazione Shalom,
Associazione Lievito onlus, Associazione di volontariato “Centro Sociale Laboratorio Zen
Insieme”, Circolo Culturale Nuova Società, La Panormitana Soc.Coop. Sociale onlus,
Parrocchia S.F.Neri, Associazione “centro Sociale Dusmet” onlus, Ufficio Servizio Sociale per
Minorenni- Palermo, I.C.S. G.Falcone, I.C.S. L.Sciascia,, M.I.U.R. –U.S.R. SICILIA U.S.P.
Palermo, Osservatorio Scolastico Distretto 13 AT XV, ASP 6 Palermo Distretto 13 Unità
Operativa Educazione alla Salute, I.P.S. G.Salvemini, Comune di Palermo, Centro di
Accoglienza Padre Nostro, Centro di Solidarietà della “Compagnia delle Opere Don Giosuè
Bonfardino”, Centro Assistenza Legale, Consorzio Comunità Nuova, ENDO-FAP, Circlo ACLI
Padre Pino Puglisi, Società Cooperativa Sociale “La Lucerna”, INAS, Associazione Handala,
Servizio Sociale di Comunità VII Circoscrizione
Si ringraziano tutti i membri del Comitato di Pilotaggio: Mons.Benedetto Genualdi,
Giuseppe Mattina, Dott.ssa Rosalba Salierno, Claudia Casella, Anita Scarpello, MariaPia Avara,
Martino Lo Cascio, Maurizio Artale, Carla Mazzola, Giuseppe Di Nunno, Claudia Cassarà,
Passantino Dorotea, Girolamo Provenzano, Maurizio Gallo, Riso Salvatore, Massimo Castiglia e
Salvatore Cavalieri.
Si ringraziano tutti i partecipanti al workshop del 1 Luglio 2011 :
Concetta Russo, Antonino Viola, Giuseppe Bonucci, Agnese Cracolici, Calogero Milanese,
Martino Passanisi, Benedetto Madonna, Antonia Brancato, Nunzia Orlando, Rosalia Abbate,
Vincenza Cardovino, Maurizio Gallo, Massimo Castiglia, Elbana Moro, Giuseppa Riccardi,
Salvatore Casella,Catenina Bagnasco, Michele Mulà, Salvatore Cavalieri, Antonio Callea,
Girolamo Provengano, Valentina Lo Castro, Maria Francesca Mansueto, Teresa Ferlisi,Caterina
Furnari, Elisa Barraco.
2
INDICE
Prefazione
a cura di Mons.Benedetto Genualdi
4
Raccontare Gzennet: storied’operatori in giro per il quartiere
a cura Martino Lo Cascio
1 Premessa e contesto
6
1.1 Fare Mente Locale
7
1.2 G.Zen.Net: un progetto con “Fondazione con il Sud”
8
2 Narrazione e lavoro sociale
11
3 Il workshop narrativo
14
4 Primo Sentiero:
17
4.1 Il corpo
19
4.2 Essere IN, essere OUT
21
4.3 Emozioni
24
4.4 Gli abitanti
28
4.5 Lo stile ed il metodo nel lavoro sociale
32
5 Secondo Sentiero: le cose andate storte
35
6 Terzo Sentiero : intuizione e scoperte
40
7 Quarto Sentiero: impegni per il futuro
46
8 Considerazioni Conclusive
50
Postfazione
a cura della Dott.ssa Salierno
56
Allegati
Riflessioni i Narrazioni di un’avventura urbana
62
Biografia
89
3
Prefazione
A Cura di Mons. Benedetto Genualdi
La Caritas Diocesana di Palermo, ha sempre avuto una particolare attenzione
nei confronti delle periferie urbane della città.
Attraverso i suoi molteplici interventi, progetti, studi e ricerche si è sempre fatta
prossima nei confronti dei singoli e delle famiglie che abitano nei “quartieri difficili”,
attraverso l’indagine condotta con il progetto Aree Metropolitane si è rilevato il
cambiamento delle periferie, la loro trasformazione, tutto ciò ci ha permesso di
“progettare ed agire percorsi di umanizzazione e cambiamento”.
L’attenzione al quartiere San Filippo Neri, ha permesso un’analisi dell’esistente,
in termini di servizi, di attività, di sostegno ed inoltre si è analizzato il sistema delle
risorse sia quelle esistenti sia quelle potenziali, si sono avviati i contatti, le
comunicazioni, le relazioni, sempre supportati dalla rete interistituzionale San Filippo
Neri.
La strada intrapresa, ancora lunga da percorrere, che ci ha portato però alla
presentazione di un progetto, come risposta ad un bando promosso da Fondazione con
il Sud, alla vincita ed alla realizzazione del Progetto G.Zen.Net
Ripensare G.Zen.Net, alla sua nascita e soprattutto al suo sviluppo lento,
impervio ma estremamente deciso, riporta alla mente immagini, emozioni, stati
d’animo.
Alla conclusione di tutto il percorso è lecito chiedersi cosa ha lasciato, che
impatto ha avuto sia nei confronti degli operatori, degli enti ma soprattutto sul
quartiere e sui suoi abitanti.
Spinti dall’emozionante workshop conclusivo del progetto, nel mese di luglio, si
è giunti ad una scrittura collettiva di un testo frutto dell’esperienza di vita personale
e professionale, l’uso della metodologia narrativa utilizzata si è rivelata uno strumento
efficace al fine di manifestare l’agire dell’operatore, la scrittura, infatti, crea
“occasioni di crescita e di consapevolezza del vissuto.”
Il progetto G.Zen.Net ha restituito dignità non solo al quartiere “Zen” ma ad
ogni abitante, adulto o bambino, accompagnando e sostenendo il singolo e la comunità
nel normale e quotidiano percorso di vita.
4
La presenza, l’essere e l’esserci, non solo con il corpo ma soprattutto con la mente e con
il cuore ha favorito la condivisone di valori, principi e stili di vita, “l’importanza di
vivere con loro, in strada, di conoscere ragazzi e famiglie, di farsi vedere vicini, di
chiacchierare anche del più e del meno in una panchina o al bar” ha consentito tutti di
essere e di farsi prossimi verso gli altri. E’ nell’incontro con le persone che
l’accoglienza diventa la prima forma di evangelizzazione e testimonianza.
Tantissime le persone, “i personaggi” e le situazioni che gli operatori durante
tutto l’arco della realizzazione del progetto hanno incontrato e conosciuto, questi
momenti sono riportati “fedelmente” all’interno del libretto, dalla loro lettura,
riflessione ed analisi emerge la costante ricerca qualcosa, qualcosa di perduto o
negato,
contemporaneamente però si
tocca con mano la voglia di un riscatto
individuale e collettivo nei confronti della vita,
“Raccontare G.Zen.Net”,
rappresenta un modo diverso di raccontarsi e di
raccontare il quartiere attraverso il vissuto degli operatori e degli abitanti, è grazie
alla
valorizzazione
dell’esperienza
che
si
riesce
a
cogliere
la
complessità
dell’esistente/reale.
La consapevolezza di lavorare in un luogo di forte fragilità umana, sociale e
culturale non deve essere
un impedimento alla crescita di una coscienza civile e
maturità ecclesiale, il compito che tutti quanti dobbiamo assumerci da ora in poi è
quello di continuare a credere in ciò che facciamo ed affermare i principi di giustizia e
legalità impegnandoci a far rete sulla base dei nuovi stimoli e delle spinte
motivazionali emerse.
5
Raccontare G.Zen.Net: storie d’operatori in giro per
il quartiere
(a cura di Martino Lo Cascio)
1 Premessa e contesto
Presentare il S.Filippo Neri, ovvero lo Zen (Zona Espansione Nord), è
un’operazione davvero ad alto rischio. Talmente tante sono le rappresentazioni,
talmente incrostate le immagini che abbiamo negli occhi, talmente bugiarde le visioni
mediatiche tramandate, che qualsiasi descrizione teme di risultare poco credibile o,
addirittura, fraintesa e sfocata. Di sicuro lo Zen, negli anni, è stato etichettato quale
quartiere simbolo del degrado, dell’impossibilità di recupero, della disperazione
profonda, dell’assenza di Stato ed è stato uno dei quartieri europei che al contempo
usufruiva di grandi attenzioni, interventi pubblici e privati, sovvenzionamenti e
finanziamenti per un suo possibile riscatto.
Oggi la vera aspirazione del luogo che è stato spesso dipinto come “ghetto” è di
acquisire una sorta di normalità, una maturità e originalità d’espressione come frutto
di tutti questi anni di sacrifici personali, sperimentazioni sociali, ripensamenti
urbanistici, avventure culturali.
6
1.1 Fare mente locale
Circa 3 anni fa, a seguito di riflessioni congiunte della rete “S.Filippo Neri” è
stato redatto in forma partecipata il primo Piano di Sviluppo di Quartiere denominato
“Fare Mente Locale”. Il Piano nasce dopo alcuni anni di sperimentazione della
suddetta rete e punta sulla scommessa di rimettere il bene comune al centro
dell’interesse collettivo.
E’, dunque, la ricostituzione di un particolare assetto educativo ad essere il
perno, l’oggetto, la finalità di “Fare Mente Locale”. Ridare corso alle potenzialità
educative dell’intera comunità per ridare “progetto comune”, per riprendersi i desideri
condivisi,
per
ritornare
alla
reciprocità,
per
ristabilire
l’intergenerazionalità
propositiva e costruttiva. Ripartire da un’educazione che renda necessaria e
apprezzata la convivenza. Ma la convivenza è il risultato di un processo. Si può
generare solo “insieme” ed è il luogo reale dove in concordanza di azioni concrete le
persone mettono in comune i loro desideri in una cornice di accettazione reciproca.
Educare, educarsi attraverso una migliore conoscenza di se stessi, delle proprie
caratteristiche individuali, familiari, comunitarie. Educarsi, educare, ristabilendo le
priorità, le modalità, gli aspetti etici.
Nello specifico il Piano di Sviluppo di Quartiere si basa sui principi della
ricerca-azione,
della
progettazione
partecipata,
delle
strategie
di
rete
e
dell’empowerment di comunità mentre si privilegiano gli interventi in 4 aree
principali:
Le strategie educative;
•
Le relazioni abitanti-ambiente;
•
La promozione della salute;
•
Il lavoro: le nuove competenze e le prospettive comunitarie.
Il Progetto “GZenNet” viene concepito proprio insistendo nel tentare – con una
serie di vincoli e limiti non indifferenti – di rispettare e seguire le strade tracciate dal
piano di sviluppo “Fare Mente Locale”
7
1.2 G.ZenNet: un progetto con “Fondazione con il Sud”
All’interno di questa temperie e dell’attuale fase di vita del quartiere, dunque,
possiamo calare il progetto “GZenNet”, nato dall’aggregazione di due differenti reti
interistituzionali che già operavano su quel territorio. G.Zen.Net nasce con l'obiettivo
di promuovere il miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti del quartiere San
Filippo Neri attraverso una serie variegata di interventi.
Il progetto è finanziato dalla Fondazione con il Sud e coinvolge 32 partner tra
cui istituzioni pubbliche, enti ecclesiastici ed associazioni che da anni lavorano insieme
nel quartiere e che hanno trovato in questo progetto la possibilità di operare
congiuntamente.
L’ente Capofila del Progetto è la Confraternita S.Giuseppe dei Falegnami Caritas Diocesana.
Il progetto si articola su tre principali aree d’intervento:
•
AREA A: Cura e valorizzazione dei beni comuni;
•
AREA B: Centro polivalente di prossimità: sviluppo, qualificazione di servizi
socio-sanitari-culturali, promozione di percorsi di legalità;
•
AREA C: Comunicazione.
8
Per entrare nello specifico del presente contributo, si aggiunge che all’interno di
quest’ultima area si è creato un gruppo di lavoro1 che sulla base delle numerose
sollecitazioni degli operatori e dei dirigenti si è incaricata di preparare, ideare e
attuare alcuni momenti di formazione ed autoformazione, sebbene non fossero stati
previsti in fase di progettazione. Da più parti, infatti, emergeva la necessità
impellente di riflettere sul proprio operato, sulle attività poste in essere,
sull’organizzazione generale, sui canali di comunicazione più adeguati per migliorare
la qualità dei servizi - sia relativamente all’utenza esterna sia nei confronti degli stessi
partner progettuali. Il gruppo di lavoro ha, peraltro, agito cercando costantemente di
costruire proposte che fossero non solo pragmaticamente utili ed efficaci per i
destinatari ma che potessero essere, attraverso riunioni e correzioni continue, pensate
insieme con l’intero corpo degli operatori beneficiari.
Due sono state le tappe pregnanti:
9 un incontro di due giorni su alcune parole chiave individuate in precedenza
nonché
l’approfondimento
dinamico
e
interattivo
sulla
progettazione
partecipata;
9 un workshop narrativo di valutazione complessiva e finale della propria
esperienza d’operatori dentro “GZenNet”.
E’, soprattutto, in questa seconda tappa del percorso che si sono utilizzate tecniche
narrative per raggiungere gli obiettivi che ci si era preposti e per le potenzialità che gli
si riconoscono in ambito sociale.
1
Dott.ssa Claudia Casella, Dott.ssa Anita Scarpello, Dott. Luciano D’Angelo, Dott. Martino Lo
Cascio
9
10
2
Narrazione e lavoro sociale
Sono ormai diversi anni che l’ambito della formazione psico-sociale e della
ricerca-azione sulle nuove forme di cittadinanza si interroga sulle modalità e le
applicazioni che lo strumento narrativo può rappresentare per ampliare e rendere
complessa la conoscenza degli individui e dei loro contesti. Iniziano, così, ad esserci
alcune esperienze interessanti e si fa strada un filone di approccio alla realtà sociale
che sembra riservare ottime prospettive di sviluppo nella consapevolezza di fratture e
distanze che negli anni si sono originate tra operatori e utenti. In particolare,
riprendendo le parole di una proposta formativa della rivista “Animazione Sociale”
possiamo affermare che vi sia un vero deficit di narratività”: “Di ciò che fanno gli
operatori sociali i cittadini sanno poco e questo non sapere rischia di alimentare una
"società del diniego". Ovvero dell'indifferenza e dell'abbandono. Per questo è cruciale
oggi per gli operatori sociali apprendere, oltre ai linguaggi della tecnica e della
burocrazia, l'arte di raccontare”.
Come bene ha mostrato Bruner, si può parlare di un vero e proprio “pensiero
narrativo” che sta accanto al cosiddetto “pensiero paradigmatico”. La “psicologia
popolare” (quella che utilizziamo nella vita di tutti giorni) utilizza proprio questo
pensiero narrativo piuttosto che essere legata a leggi, logiche razionali e categorie
astratte. Il pensiero narrativo e il raccontare si occupano di permettere il confronto
delle persone con le convenzioni della propria cultura, di ricostruirne i significati, di
mettere ordine alle molteplici interpretazioni degli eventi. In particolare è molto utile
in momenti d’empasse, come quello attuale, perché “l’attenzione alle trame (…) alle
11
modalità attraverso le quali si racconta in una specifica cultura è spesso indicatore
(…) di un modo appreso e utilizzato per affrontare eventi critici, nuovi, portatori di
incertezza” (M. Tomisich, 1998)
Le strutture narrative sono modelli della mente per conoscere la realtà, per
comprendere il mondo esterno e interno, per comunicare sulle cose della vita. E in
fondo gli schemi narrativi utilizzati ogni giorno da ciascuno di noi non differiscono
molto da quelli che, con altri intenti ed esiti, utilizzano i narratori di professione. Un
grande narratore diceva: “Ogni volta che chiedevo a mio padre di spiegarmi il
significato di qualche cosa, la risposta iniziava sempre con: “le cose stanno così….
C’era un uomo che viveva…Una volta uno studioso….C’era una vedova con un unico
figlio…Un uomo viaggiava per una strada solitaria…” e così via” (S. Bellow). Come già
ci diceva Bateson in “Mente e Natura”, quando vogliamo spiegarci cosa ci accade,
utilizziamo inevitabilmente una storia e il suo linguaggio metaforico.
L’uso della metodologia narrativa nel nostro lavoro, inoltre, è particolarmente
indicata per approssimarci “alla concezione di se stessi e delle proprie capacità” (J.
Bruner, 1996) e dunque alle rappresentazioni che gli operatori hanno del loro agire e
del loro “Sé professionale”. In una ricerca che si rivolga a gruppi e organizzazioni di
lavoro, d’altronde ciò che maggiormente attira non sono i singoli racconti ma l’affresco
che si compone mettendo insieme le varie storie.
Vale la pena riportare integralmente il seguente passaggio di un autore: “Nel
narrare la storia del proprio contesto lavorativo (o la propria storia in quel contesto),
può succedere in qualche caso che le storie riescano a dare visibilità a ciò che è noto
ma resta opaco: a quelle divaricazioni tra realtà esistente e realtà dichiarata che
12
permangono oggi in molte situazioni organizzative, alla possibilità di aprire spazi e
possibilità di comunicazione quando il percorso dell’azione organizzativa risulta
ancora provvisorio, imprevisto, o poco comprensibile” (A.Nannicini, 1998) Il nostro
stesso workshop ha evidenziato la grande richiesta di luoghi in cui raccontare e come
siano ricchi i tesori che vogliono emergere in superficie; abbiamo toccato con mano che
un vero “spazio narrante” è il luogo dove c’è desiderio di ascolto (Bompiani G.).
Un luogo (formativo ma non solo) in cui liberare parole, pensieri, idee,
emozioni e favorirne la proliferazione secondo ricomposizioni inaspettate e creative. In
tal senso, osserviamo di sfuggita che diverso è scrivere (o raccontare) per sé o per
essere letti (ascoltati) dagli altri. In situazione pubblica il reciproco raccontarsi attiva
una funzione specchio che interroga, sfida le premesse, rimanda visioni perturbanti,
incontrollate e dunque ci mette in gioco, ci sottopone ad un rischio ma anche alla
possibilità di scrostarsi da atteggiamenti e comportamenti ormai sterili. Possiamo dire
che narrare sollecita esperienza sociale e immaginazione creativa incastrando in modi
imprevisti la moltiplicazione degli sguardi “risvegliati”.
Se raccontare “permette di staccarci dall’esperienza per esaminarla, di esplorare
situazioni da altri punti di vista, di formarci delle opinioni, di risolvere problemi, di
comunicare intuizioni, di mettere a confronto idee e di sviluppare l’immaginazione e la
creatività” (R. Dynes,) allora si dovrà utilizzarla soprattutto nell’immaginazione
sociale poiché gli interventi – in linea e in sincrono con i mutamenti perenni del sociale
– hanno una costituzionale necessità di trasformazione continua di strumenti, griglie
di lettura ed epistemologie di riferimento.
13
3
Il workshop narrativo
Ricollegandoci a quanto si diceva sulla formazione proposta agli operatori del
progetto G.Zen.Net, nel workshop conclusivo si è richiesta al gruppo la scrittura vera e
proprio di un testo composto da vari capitoli, puntando sulle loro risorse narrative.
I capitoli del testo diventavano i seguenti:
ƒ
gli episodi emblematici;
ƒ
le cose andate storte;
ƒ
le intuizioni/scoperte/conquiste;
ƒ
gli impegni per il futuro.
Sono state scelte due tecniche differenti per abbordare le questioni. Per quanto
concerne gli episodi emblematici, per loro natura necessitanti di un tempo più dilatato
e di una ritualità più precisa, si è utilizzato un classico “cerchio narrativo” e tutti
hanno avuto modo di scrivere e poi narrare in pubblico la storia che avevano prescelto
dal baule dei loro ricordi. Nella seconda sessione dei lavori, invece, si è interpellati
sempre in forma scritta, chiedendo loro pareri, idee, opinioni che poi hanno potuto
dibattere in piccoli gruppi per tema; successivamente, un dibattito in plenaria al fine
di completare e condividere con l’intera rete dei partecipanti i vari “capitoli”,
“paragrafi” e “frasi” da inserire definitivamente nel testo-libro.
Alla base di queste scelte metodologiche (meglio precisate nel capitolo
successivo) vi è l’idea che la scrittura biografica come tecnologia formativa possa
14
creare “occasioni di crescita e di auto sviluppo attraverso cui affrontare i momenti
“critici” e le fasi di passaggio da una condizione di incertezza ad una di maggiore
consapevolezza.
La riorganizzazione dell’esperienza consente l’evoluzione, il cambiamento, la
presa in carico e la risoluzione degli episodi di vita” (M. Cavallo, 2001). A noi serviva,
in questa delicata fase del progetto, cercare di rimandare segnali positivi e fare
emergere soprattutto i punti di forza non oscurando comunque criticità e punti di
fragilità intercettati nei quasi due anni di lavoro. La narrazione è, infatti, una
modalità alternativa e ancora poco sperimentata di esplorare temi, scegliere fatti
rilevanti per l’interpretazione e la riprogettazione, individuare relazioni significative e
nuove connessioni tra eventi, pratiche ed eventuali insuccessi. Inoltre, come elemento
non secondario e accessorio, si è voluto costruire uno spazio in cui ci si potesse anche
“ri-creare”, rigenerare e per ciò stesso ritrovare motivazione e piacere al proprio
lavoro. Un recupero delle emozioni lasciate taciute, dell’umanità debordante che si
sprigiona nelle relazioni lavorative con l’utenza. In parole povere stare bene insieme,
mettere in comune aspetti che promuovano l’agio tra operatori senza paure di essere
giudicati e senza onnipresenti sguardi e pressioni sul “risultato” da ottenere a tutti i
costi.
Più schematicamente possiamo indicare i seguenti obiettivi raggiunti.
15
Obiettivi generali:
-
Costituzione di un nuovo gruppo di lavoro composto da operatori che vanno al di
là delle appartenenze associative o istituzionali;
Costruzione di una cultura di riferimento che accomuni gli operatori per
condividerla e farla interagire propositivamente con gli abitanti del quartiere;
Apprendimento di alcune modalità narrative da implementare per affrontare il
lavoro sul campo;
Promozione della diffusione di luoghi narranti nel quartiere;
Rinforzata l’attitudine alla cura di sé come soggetto professionale bisognoso di
ri-crearsi
Connessione del lavoro sociale al mondo della vita;
Obiettivi specifici:
-
-
Ri-narrare in forma differente le situazioni problematiche per enuclearne
elementi solo intuiti, nuove prospettive di visione, modi di lettura alternativi;
Lavorare sulla cura di sé derivante dall’incontro con le narrazioni altrui;
Ricreare contesti di sollievo, di agio, di sostegno reciproco, di ben-essere vissuto
insieme/grazie agli altri;
Associare tasselli di momenti autobiografici per intrecciare una “memoria del
futuro” e dunque co-progettare i passi da compiere sulla base di una
rielaborazione partecipata del passato;
Favorire un contesto adeguato all’espressione personale e allo scambio;
Stimolare la produzione congiunta di nuove idee soprattutto in tema di
sostenibilità futura delle progettazioni nel quartiere;
Sviluppare maggiore consapevolezza di sé e degli altri senza attivare
meccanismi difensivi di attacco o di negazione;
Operare un migliore rilassamento e abbassare le tensioni da lavoro.
Per fare ciò, oltre a immaginare le proposte specifiche da avanzare, è stata
fondamentale la costruzione del setting e dell’insieme di condizioni che aiutassero a
sentirsi piacevolmente immersi in un lavoro di approfondimento “leggero”.
Per quanto concerne il primo dei lavori narrativi, si è più volte precisato che si
doveva evitare di preoccuparsi di grammatica, sintassi, ortografia, che piuttosto
l’interesse era per le trame e l’affettività che le storie avrebbero trasportato con sé.
Naturalmente si sono esplicitate le cornici, gli scopi e gli obiettivi e – dopo aver letto
un breve racconto suggestivo sul tema che potesse indicare il tipo di storie richieste in un clima che alternava un silenzio denso ad alcune suggestive musiche per
abbandonarsi alla reverie del racconto si è precisato che sarebbero stati banditi
commenti e giudizi, svalutazioni e critiche nei confronti del concreto lavoro prodotto da
ciascuno.
16
4 Primo sentiero: gli episodi emblematici
Varia e ricca la sequenza dei racconti che sono stati prodotti nella prima
sessione di lavoro ed è davvero difficile riuscire a sintetizzare o estrapolare elementi
esaustivi. E’ da rimarcare come molti partecipanti abbiano proprio sottolineato, pur
sforzandosi di rintracciare un ricordo, che non é l’episodio singolo ma bensì la trama
continua dei rapporti ad essere fondamentale. L’episodio viene descritto come punta
dell’iceberg, emblematico proprio perché frutto di un processo a volte lunghissimo e in
qualità di segnale, di luce che rischiara zone fino ad allora solo presentite: “una storia
dentro altre storie che si succedono incessantemente una dietro l’altra” .
Le 21 storie raccolte (presenti in allegato) sono davvero ricche e si possono
enucleare dei temi che ricorrono, giusto per segnalare punti di interrogazione, piste di
lavoro (più che strade diritte sembrano tortuose e polverose carovaniere), intuizioni
per future esplorazioni, eventi metaforici che indicano un orizzonte di ripensamento.
Certamente possiamo notare alcune ridondanze e, in alcuni casi, l’emergere di
discorsi spesso soffocati. Ci sono emozioni profonde che attraversano tutti i testi e si
avverte una potente identificazione tra chi scriveva (la persona) e il personaggio che si
muoveva nella storia. Si tratta chiaramente di scritture autobiografiche ma è
interessante notare l’aderenza che si può rintracciare con quelle che sono le
dimensioni più riposte e “non dette” percepite soprattutto nei modi concreti del
racconto: incepparsi dell’eloquio, cambiamenti di toni, improvvisi silenzi, evidenti
reazioni di commozione nell’ascoltare e nell’ascoltarsi. I temi sono numerosi e prima di
approfondirne qualcuno si potrebbero già inventare titoli indicativi e parole evocative
17
come per esempio: “dall’amaro al dolce”, “i tempi delle svolte”, “al di là della
maschera”, “restare/andare”, “i muri invisibili”, ecc.. Si cercherà di enucleare alcuni
oggetti di riflessione, mantenendo salvo il fatto che i racconti hanno una loro
autonomia, forza e ragion d’essere a prescindere da qualsiasi analisi successiva e che
la loro pregnanza massima la si ritrova proprio nell’ascolto attivo e partecipe,
nell’esplorazione e nello scavo che essi suggeriscono alla nostra introspezione e ai
dialoghi che innescano.
18
4.1 Il corpo.
Un elemento che immediatamente emerge è la presenza in moltissimi testi del
corpo, della dimensione materiale, della fisicità delle cose e delle persone, un fattore
da sempre sottovalutato e non casualmente assente da molti degli insegnamenti e
degli approcci educativi e di servizio sociale. Nel momento in cui si da spazio al
racconto, questo veicolo di emozioni e strumento di contatto e scambio, smarcandosi da
termini troppo tecnicisti e da parole abusate dalla retorica del lavoro sociale, rifà
capolino il corpo e ne possiamo risentire il calore che si sviluppa nei rapporti sociali.
Nel racconto delle esperienze troviamo ri-umanizzata la relazione utenteoperatore, operatore-operatore e si scopre che, al di là delle parole (ma non
dimentichiamo che la voce stessa con i suoi toni e le inflessioni è parte stessa del corpo,
parte che se ne distacca ma che appartiene alla fisicità) il quotidiano è fatto di sguardi,
saluti, pacche sulle spalle. Nelle fredde valutazioni quantitative o classiche ciò non
riesce a trovare dimora anche se sono proprio questi fattori inesprimibili che spesso
rendono ragione di un intervento riuscito o fallito, di un drop-out o di un destino
riaperto, di una perdita di motivazione o di un nuovo slancio:
“ripagati con un sorriso, un abbraccio, un bacio,
beh tutta la fatica lo sforzo ti viene ripagato”
19
Ci sono le strette di mano che sigillano patti o che comunicano in una frazione
di secondo ciò che con enormi giri di parole è impossibile, ci sono tutti gli oggetti con
cui avviene lo scambio, in cui si mantiene alta la temperatura della relazione: la
tazzina di caffè, la porta che si apre e accoglie, la sigaretta offerta e fumata insieme, il
muro che divide o le lacrime che segnano il percorso di un volto. In fondo è questo che
ricorderemo un giorno, più che il numero esatto di colloqui che abbiamo fatto quando ci
chiederanno perché abbiamo continuato ad essere lì, accanto a loro.
20
4.2 Essere IN, essere OUT.
Una polarità che emerge con frequenza è quella che riguarda il sentirsi dentro
o fuori il quartiere, dentro o fuori i processi di lavoro, dentro o fuori il ruolo assegnato.
Insomma per recitare uno dei mantra del palermitano di borgata “Ma tu a ccu
appartieni?”.
Gli operatori sembrano oscillare tra il desiderio di essere accettati sentendosi
uno di loro (gli abitanti del quartiere) e la necessità di prendere le distanze,
differenziarsi, assumere una posizione meno invischiata. Vi è, però, la consapevolezza
che per lavorare in questi contesti, in terre di frontiera molte rigidità vanno riviste e ci
si trova spesso a dovere fare i conti con forme ibride di rapporto professionale, costretti
ad inventare zone di mezzo, possibilità di appartenenze multiple e provvisorie. Come
se si dovessero costruire di volta in volta dei tavoli da gioco dove i ruoli si trasfigurano
e si gioca anche con la propria identità professionale. Momenti in cui si deve accorciare
bruscamente la distanza tra residenti e operatori e fasi in cui vanno ribaditi confini e
termini della convivenza.
Vi è, del resto, una sensazione generale di voler abbattere quella separatezza
che spesso è anche una appartenenza a culture sostanzialmente differenti. Come in
ambito interculturale si possono avvertire sensazioni di estraneità reciproca e uno iato
tra indigeni e stranieri, tra locali ed “invasori”, tra autoctoni e “colonizzatori”. Da qui
viene segnalata la necessità di individuare dei ponti (in alcuni casi anche l’uso del
dialetto può essere interpretato come un luogo di comunicazione – dove peraltro
finalmente l’utente è spesso più competente di noi), dei contesti dove chiarirci a
vicenda le nostre visioni della realtà, dei problemi, delle soluzioni immaginate.
E in quasi tutte le storie assume una rilevanza centrale la comprensione che c’è
bisogno di un tempo lungo, di un intervento non sporadico né precario, l’importanza
percepita di un lungo “sostare” insieme alle persone e persino nei pressi di quelle
architetture urbane. Entrare in una storia di condivisione delle dinamiche del
quartiere, senza colludervi ma per sentirle e provare a rintracciarne lembi da cui far
partire la trasformazione. “Dare tempo” di avere fiducia, darsi tempo di comprendere
senza costringere l’altro in categorie asfittiche e astratte, “sospendere il tempo” per
21
stare nel malessere e per far sedimentare contenuti ed eventi. Solo così può realizzarsi
una complicità nuova che combatte altre complicità tese invece a mantenere il
quartiere nell’illegalità, nella dipendenza, nella disperazione.
In questo complesso gioco d’equilibrio sul confine è spesso possibile che un vero
confronto possa risolversi da subito in uno scontro (di mondi, di prospettive, di
pratiche, di legalità, di linguaggi) ed è proprio da questa sorta di iniziale lotta che si
deve partire per entrare in relazione autenticamente, ridefinendo ruoli, obiettivi,
richieste e domande, aspettative e rappresentazioni reciproche. Per fare ciò può essere
significativo smarcarsi, a volte, dalle figure tradizionali e istituzionali, connotatesi nel
tempo come ostili o avversarie, come nemiche e incapaci di comprendere
In questo senso la forte presenza nel gruppo di lavoro di figure educative legate
alla strada rivela come tale soggetto-ponte debba essere molto valorizzato anche
nell’ottica improrogabile di rendere le istituzioni “prossime” e, se è il caso, di rivedere
le figure professionali. Si fa notare, per esempio, che in alcuni casi non si tratti di
resistenza malevola alle indicazioni degli operatori (che pur sempre rappresentano
una Norma, una Cultura, una Visione) ma della presenza nel quartiere e nelle
famiglie di logiche alternative, non globalizzate, non irreggimentate e che vogliono
sopravvivere, sentendo dunque la violenza di un intervento in cui si “esporta” la
democrazia per parafrasare disastrosi interventi di politica internazionale
“c’è un’energia incredibile, una forza di viversi un
quotidiano non mediato da regole che vengono da lontano”.
22
Per essere più vicini senza mescolarsi, i racconti ci mostrano che l’alleanza tra
adulti, tra operatori e genitori, tra figure prestigiose ed educatori è una delle vie
maestre per il cambiamento integrato e condiviso. Anche per questo la forte
eterogeneità dei background culturali degli operatori, come evidenziato dal gruppo che
ha partecipato all’incontro narrativo, è un punto di forza notevole perché permette di
piegare e rendere flessibile una certa tendenza monolitica delle organizzazioni e
istituzioni, permettendo di trovare varchi, soglie, spiragli per un reciproco
intendimento e per abbinamenti inusuali e la sensazione di essere ascoltati nella
propria diversità. Anche l’operatore sociale scopre di avere dentro di sé una
molteplicità e, consapevolmente e con finalità pragmatiche, potrà di volta in volta
creare sodalizi funzionali giocandosi alternativamente come professionista, come
uomo/donna, come cittadino, come straniero, come giovane/anziano, ecc. Non è facile e
lo scivolare sterile nella confusione di ruoli è sempre in agguato ma vale la pena
iniziare a far esercizi in tale direzione.
23
4.3 Emozioni
Se c’è una materia che trova piena espressione nei racconti è – lo ribadiamo –
quella che fa capo alle emozioni. Le emozioni sono state spesso escluse dal raggio di
spiegazione e comprensione degli eventi sociali ma, negli ultimi due decenni stanno
ritrovando uno spazio significativo di ascolto, come riscattate dall’idea positivista di
essere d’intralcio alla conoscenza. Sappiamo, certo, che stiamo parlando di territori
esposti ad un continuo fraintendimento e non si tratta qui di privilegiare tesi e teorie
che puntano su una presunta e romantica efficacia dell’abbandonarsi sentimentale ad
un rapporto di confidenza con l’utente. E nemmeno di una acritica adesione al
“discorso dell’altro”, impigliati nelle proiezioni spesso difensive che l’utente propone.
Piuttosto si vogliono riconsiderare le emozioni come potente veicolo di sapere,
nel quale corpi e intelletti dialogano ad un livello di complessità ancora superiore. Ciò
implica anche una possibilità di confrontarsi – spesso con altri colleghi – su quanto in
noi e negli altri è provocato, alimentato, stimolato dall’incontro, dalla gravosità o
animosità di alcuni eventi vissuti nella relazione coinvolgente con il quartiere.
Nei racconti possiamo cogliere sia le emozioni positive che le negative, le
sensazioni di benessere o di disagio che quegli episodi o la permanenza per gli spazi
dello Zen ha indotto negli operatori. Fortunatamente sembrerebbe prevalere una sorta
di felicità e di soddisfazione che non sempre nei discorsi ufficiali o nelle riunioni
“tecniche” trapela, concentrati come si è spesso sulle disfunzioni e sui problemi. La
riflessione in altro contesto (formativo) e lo strumento narrativo riescono a ridare una
gestalt più completa dove le difficoltà della relazione non sono annullate o negate ma
24
al contempo si riconnettono con una cornice di generale crescita e di maggiore
equilibrio affettivo.
Lo stesso disorientamento che viene sentito come un freno, una pillola amara,
un oggetto da allontanare e respingere, in questa nuova versione dei fatti in cui le
emozioni riprendono corpo e coscienza allora possono lasciare il posto a espressioni di
meraviglia di segno positivo. Il sentirsi “squilibrati”, privi di punti di riferimento può
essere declinato sul versante della sperimentazione controllata e dell’esplorazione di
potenzialità. Le domande senza risposta acquisiscono lo statuto di pungolo a
perseverare nella ricerca collettiva e partecipe.
Affiorano anche episodi di frustrazione ma, contrariamente ad altri setting, non
si risolvono in lamentazione e la stessa negatività della percezione si stempera in un
silenzio che non richiede commenti. La frustrazione e la rabbia connessa sono
articolate meglio con i vari fattori che la generano e la mantengono e vengono
osservate in un’ottica più umana, come fatti parziali di un processo fatto di cadute e di
momenti dolorosi. Anche la tolleranza alle frustrazioni, come recitano molti manuali di
psicologia, può essere un apprendimento fecondo in ambito di interventi sociali con
comunità e quartieri.
Colpisce, poi, come ritornano sulle labbra parole che si imparentano con l’amore,
altra questione spinosa e delicata. L’amore come forza propulsiva dei rapporti, in uno
sguardo non deturpato dall’accezione corrente e melensa, può ritornare ad essere
indicato come motore di trasformazione e cambiamento anche in questi territori.
Amore come scelta di dedicarsi al benessere dell’altro, come volersi “implicare”
coraggiosamente per costruire con gli altri la possibilità di un “bene comune”. L’amore
25
trapela persino nel desiderio di imparare dagli utenti, riconoscendogli virtù e talenti,
apprezzando una vivacità anche dolente, e nel riconoscere piccoli risultati che
potranno nel tempo dare conseguenze significative:
“mi sono coinvolta, affezionata, “innamorata” di questi ragazzi,
così fragili e al tempo stesso capaci e desiderosi di essere stimati
e accompagnati a prendersi sul serio e a prendere sul serio
le circostanze e le opportunità che la vita ci offre”.
E si intravede la gioia che si sprigiona quando finalmente le cose funzionano, le
azioni vanno per il verso giusto e iniziano a raccogliersi i primi frutti di tanta fatica.
Una gioia che si fa stupore soprattutto quando - in un gesto, in uno sguardo, in un
ritorno inatteso - si coglie nell’utente la capacità adesso di stimarsi positivamente, di
apprezzarsi per quello che è, di riconoscersi delle qualità sconosciute. E questo amore
per se stesso può inevitabilmente passare solo da uno sguardo esterno (dell’operatore)
“innamorato”. In questo senso essere innamorati si potrebbe intendere come quella
capacità di sentire la nostra fondamentale interdipendenza, la partecipazione alla
ferita altrui, la specularità delle sofferenze e la dedizione agli altri come forma di
ricerca democratica e condivisa delle soluzioni ai nostri problemi, pratici o esistenziali
che siano.
26
Un emozione che si trova, infine, ripetutamente è quella di desiderare lasciar
traccia, un segno che il proprio lavoro non è stato inutile e che possa sempre vedersi
inciso tra le strade del quartiere. Un emozione che è il corrispettivo della paura che
tutto sia stato vano, che il sistema sia così mastodontico e incancrenito da non riuscire
a mantenere una testimonianza viva delle strade alternative, di altri modi/mondi
possibili in quello stesso quartiere.
27
4.4 Gli abitanti
Lo spaccato che si apre dalle storie si presta a varie interpretazioni e commenti.
Ad ogni modo sembrerebbe che anche lì ci siano delle oscillazioni tra un pregiudizio
positivo (in fondo sono migliori di noi) e un pregiudizio negativo (sono infarciti di errori
che dovremo estirpare) ma la cosa più ragguardevole è che le narrazioni rivelano una
processualità incessante durante il lavoro quotidiano. Ed è ancora l’ascoltare le storie
reali, questa volta quelle dei residenti, a far pulire le lenti dello sguardo sul quartiere.
Raccontarsi vicendevolmente appare come un canale per la comprensione reciproca e
un vero antidoto contro gli stereotipi, re-insegnando a valutare le situazioni a partire
dalla conoscenza concreta delle persone e della continua revisione delle premesse con
cui ci approcciamo. I drammi che stanno dietro quelle vite rendono più chiari alcuni
atteggiamenti che noi critichiamo e danno maggiore contezza di una pervasiva
diffidenza e sospetto degli abitanti verso chi viene dall’esterno.
Le storie suggeriscono di partire dall’idea che la fiducia sia una conquista e
giammai da intendersi come fatto dovuto, scontato e una volta e per tutte. Anche lo
stesso rispetto che riteniamo si debba verso le istituzioni e operatori dell’aiuto va
rivisto, poiché la storia pregressa con questi soggetti non è stata sempre facile. In
effetti, spesso entrambi si sono mostrati agli abitanti con il loro volto peggiore, più
afflittivo e giudicante, punitivo e colpevolizzante, irrispettoso e sordo. E anche la mano
che si tendeva in aiuto, in alcuni casi si è rivelata paradossalmente un problema. La
fiducia è un processo e va continuamente confermata con azioni precise e presidiata
con cura.
28
Una prima fotografia sfocata che ci rimandano le storie comprende alcuni punti:
¾ Le famiglie sono i veri luoghi inespugnabili del malessere e qualsiasi intervento che
non metta dentro il sistema familiare sarà ineluttabilmente inghiottito e reso vano.
Famiglie che lottano, famiglie che si sono arrese, famiglie che preferiscono soffrire
mandando “in esilio” i propri figli e consumarsi nel sacrificio, famiglie le cui buone
intenzioni sono piegate da condizioni fisiche o psicologiche intollerabili;
¾ I bambini “raccontati” sono certamente provati e doloranti, troppo grandi o troppo
piccoli, ma anche fonte di nuove energie ricreative e costruttive. Sono in alcuni casi
veri maestri e sonde per ripartire dalle empasse che ci bloccano. Le fasi della loro
vita sono descritte come storpiate in un quartiere periferico come lo Zen e nulla
segue un ciclo che si direbbe regolare, normale (ci sia concesso questo termine):
“attraversati dalla scontentezza, dalla furia,
dalla lotta, dalla voglia di fuggire”.
¾ Verso i bambini ritorna un tentativo di ripristinare un canale corporeo, caldo,
materno come a doverli risarcire della durezza del loro entourage. Ci si scambia
giochi, voci, colori. Si cerca di lasciare un’impronta su cui riposare. E sempre
ritornano le mani
29
“massaggio le piccole mani piano piano/le avvicino
le une alle alte e, come per magia ecco che
si toccano gioiose, allegre, amorevoli”.
L’indugiare sulla cura e la lentezza sono un tramite comunicativo essenziale e si
fondono dentro uno stile delicato e rispettoso;
¾ Sono tangibili, anche grazie alla preziosa presenza nel gruppo di lavoro delle
mamme tutor, sentimenti ed emozioni sociali che probabilmente la maggior parte
degli abitanti prova. In particolare hanno contorni più definiti un misto di vergogna
e dignità della propria condizione. E si sente come dentro questi sentimenti assai
radicati ci siano anni di inestricabile interazione tra immagini rimandate
dall’esterno (i media, il Centro-Città, i ceti più abbienti o colti) e osservazione di sé
dall’interno. Bisogna ripartire proprio da lì, da queste premesse che il quartiere ha
di se stesso per spezzare l’identificazione riduttiva e viziosa tra cittadino e
quartiere di residenza (l’idea che se c’è un colpevole, del marcio, allora siamo tutti
colpevoli, marci), rimandando semmai ad un comune senso di appartenenza e di
attaccamento al proprio luogo di vita;
¾ Anche nei momenti di festa non bisogna dimenticare che vi è un disagio sottostante
e, pur restituendo serenità e una pausa ai travagli quotidiani, non bisogna far finta
di non accorgersi di quell’allarme. Ascoltare sempre, far festa per evadere ma non
per dimenticare. Non chiudere gli occhi di fronte ad un reale che esplode di fronte
ad ipotesi incongrue, ad aiuti che si sentono stridenti con la violenza di rapporti
quotidianamente subita. Far capire che la festa è solo una tappa di un abbraccio
più ampio e variegato, altrimenti l’abitante sente l’intervento come “sfasato”,
inopportuno, complice delle menzogne. Sono altre urla nel rumore. Come ulteriori
danni provocati della volontà di aiutare e dagli ostacoli e dai limiti che gli operatori
non riescono ad accettare. Così, a volte, si tratta di dover digerire un malessere
senza confini che ci prende alla gola proprio nel momento della gioia collettiva, un
sentimento di colpa e di impotenza verso chi non può condividere quella “pausa”
ludica. Un flash improvviso, nel divertimento generale riapre uno squarcio su chi è
sempre e comunque debole e marginale:
30
“non voleva fare la foto con la mamma e le sorelle, ha strepitato,
ha scalciato, ha urlato, si è nascosto: la macchina lo ha
immortalato in un angolo della foto, imbronciato e
con gli occhi lucidi, mentre il resto della sua famiglia sorrideva”;
¾ Risulta di capitale importanza evidenziare con la gente del quartiere ogni obiettivo
realizzato, ogni meta conquistata e le azioni svolte con successo. E’fondamentale
per persone che da sempre vivono nella frustrazione del sentirsi giudicati
inappropriati, inadeguati, fallimentari che ci sia una nuova valorizzazione
autentica e non di facciata. Essere visti come soggetti di diritti dà loro voglia di
farcela, esattamente come nella dinamica con i bambini più piccoli
31
4.5 Lo stile e il metodo nel lavoro sociale
Il cerchio narrativo ha prodotto delle storie che in filigrana rimandano
parecchie suggestioni per un’impostazione più efficace del lavoro sociale. Sebbene non
fosse nella consegna e non fosse il fulcro della proposta, le storie racchiudono un tesoro
prezioso di ciò che può essere replicabile (best practices) o su cui comunque continuare
a investire, approfondire, sperimentare.
Sia in termini di metodo che in termini di stile personale e di sfumatura
relazionale del rapporto con l’utente si potrebbero adottare:
- Vivere il progetto come una scommessa che, dunque, deve coagulare tutte le nostre
energie e su cui vale la pena rischiare anche in termini personali. Il progetto è solo un
pezzo di un processo più lungo, di una vita “a prescindere” del quartiere, di un flusso
di persone ed eventi che ha un prima e un dopo. Il progetto diventa così un fatto
parziale e uno stimolo che può però sovvertire destini individuali;
- In alcune occasioni è bene ridiventare bambini, rispolverare una dimensione di
spensieratezza che ammortizzi un clima così rude e violento come quello che si respira
spesso allo Zen. L’ammorbidire il contatto e il mollare la presa può essere di buon
auspicio per modificare specularmente l’approccio duro di molti residenti. Se è vero che
vi è una forza modellante dell’ambiente che ci circonda allora anche noi siamo
“ambiente” nel momento in cui interagiamo di continuo e legittimamente con gli
abitanti. Gli schemi che si ri-modellano possono così subire un’ibridazione e dar luogo
ad altri modelli;
32
- L’importanza di vivere con loro, in strada, di conoscere ragazzi e famiglie, di farsi
vedere vicini, di chiacchierare anche del più e del meno in una panchina o al bar.
Infatti “la narrazione spostandosi sulle storie va alla ricerca di fenomeni intrecciati
con la vita quotidiana, il racconto si intesse di analogie metafore, non offre prove o
dimostrazioni, anzi intreccia episodi drammatici con altri più simili alle chiacchiere,
connette volti, comportamenti, emozioni” (A. Nannicini, 1998). Si diventa una
comunità integrata che assiste se stessa e si spinge ad un’evoluzione etica dei
comportamenti;
- Adottare una pedagogia più attenta alle richieste sottostanti che ai diktat della società
dominante. Cercare di vivere e operare all’altezza dei loro desideri. Naturalmente qui
si rischia di muoversi su un terreno sdrucciolevole perché spesso, ad uno sguardo
meno superficiale, le stesse richieste dell’utenza collimano con l’omologazione e
l’alienazione provocata dal consumismo neocapitalista. Nello stesso scontro tra modelli
educativi e di visione del mondo, sussiste la possibilità per gli operatori di ridefinire le
richieste degli utenti, di ristrutturare domande e processi interpersonali, descrizioni
reciproche e progetti di vita. Di ribaltare visioni incrostate e sedimentate, sia in chi
lavora nel quartiere che nella gente che vi risiede. Lo si può fare perché:
“la forza non manca, l’intelligenza è oltre, l’umiltà
è abbondante, la voglia è coinvolgente,
la necessità collettiva è una giusta alchimia”;
- La centralità assunta da alcune figure che sono insieme operatori e residenti nel
quartiere. Si dovrà molto puntare su tali soggetti-ponte perché sono il vero zoccolo
33
duro da cui partire in direzione di una reale e più matura progettazione partecipata. Si
tratta di vere e proprie cerniere e di laboratori viventi di sperimentazione della
commistione tra logiche e linguaggi. Formare persone che in autonomia potranno poi
rappresentare punti di riferimento per la comunità e, già in partenza, legarsi e
collaborare con leader prestigiosi e positivamente noti tra gli abitanti;
- Concepire l’intervento, talvolta come “un assalto al buio”. C’è, soprattutto in alcune
fasi, la necessità di spingersi oltre l’ostacolo senza troppe certezze, privi di alcune
garanzie che non arriveranno mai. Sapendo che è impossibile capire la verità e non
sempre si può carpire qualcosa che vada oltre ad atteggiamenti di menzogna ed
omertà che si respirano nel quartiere, ne fanno da trama e rendono viscido, paludoso,
un pantano il procedere dell’aiuto. Sta di fatto che molte domande restano aperte e
resta in alcuni il dubbio di non potere cambiare una virgola delle realtà troppo
complesse e ingarbugliate.
- Evitare nei percorsi del “privato sociale” (fattosi negli ultimi anni forse più aggressivo
e concorrenziale, allontanatosi spesso dalla mission di partenza e dai suoi slanci
comunitari) atteggiamenti deleteri come
“personalismi, potere, prendere spazi, non collaborazione, ecc.”
che certamente nuociono ad ogni intenzione di aiuto e ogni credibilità con il quartiere.
Il privato sociale deve al contrario rappresentare una discontinuità con certe logiche
imperanti nella nostra società e variamente declinate anche allo Zen. Superando,
peraltro, anche le rappresentazioni, interne ed esterne, di operatori matti, kamikaze,
martiri, missionari che non facilitano una presa in carico condivisa e feconda delle
istanze di cambiamento della gente del quartiere:
“Di cosa ti occupi?” qualcuno mi chiedeva ogni tanto. Ed io aggiungevo tra le altre cose
“lavoro allo Zen”. Attimi, secondi di silenzio, poi il pallore sul viso misto a sorpresa e
compassione nei miei confronti simile alla reazione che si poteva avere nel dare la
notizia di una partenza senza ritorno per l’Afghanistan oppure ricevere un
apprezzamento e i complimenti come se avessi fatto parte del commando che ha ucciso
Bin Laden poco tempo fa…”.
34
5 Secondo sentiero: le cose andate storte
Per questo capitolo (e i seguenti) del testo scritto dai partecipanti si è adottata
la tecnica di far scrivere dei bigliettini a ciascuno puntando quanto più è possibile
sulla memoria di fatti concreti da loro vissuti in GZenNet, dando poi ampio spazio ad
una discussione su quanto era emerso.
Quando una persona ricorda il suo passato, più che assumere il ruolo dello
storico in cerca di verità oggettive, rivive gli eventi trascorsi come una
rappresentazione teatrale in cui è l’interprete principale ed è in scena come
protagonista” (P. Farello e F. Bianchi, 2001). Ciò significa che tali appunti narrativi ci
avvicinano non tanto alla verità oggettiva in quanto tale quanto al senso che gli
operatori hanno dato alle esperienze compiute; a come stanno costruendo il loro sé
professionale in rapporto agli altri, al quartiere, a ciò che pensano del quartiere, ecc.
Quindi anche nel ripensare “le cose andate storte” siamo sempre in un ambito di
visione soggettiva che acquista valore e utilità progettuale se collegata in un contesto
dialogico con le osservazioni degli altri attori sociali implicati. Ad ogni modo, è pur
vero, che in me risuonava quanto scritto in ambito scolastico da Farello e Bianchi, cioè
che lo slancio a individuare ciò che funziona meno, “nasceva dall’impressione di una
perdita di senso della scuola: quando ci si fermava a ragionare, sempre appariva uno
scarto incolmabile e assurdo tra ciò che si faceva e ciò che sarebbe stato necessario
fare. […] sentire il disagio che deriva, talora, da una pratica scolastica che, al di là
delle enunciazioni di principio, sembra cristallizzata in modelli che ne sono l’esatta
35
smentita” (P. Farello e F. Bianchi, 2001). In effetti, nel cammino arduo del lavoro
sociale ci si ritrova talvolta a svolgere compiti e routine che sono ormai lontani,
incoerenti, sterili rispetto al mutamento delle domande.
E’ interessante, così, sbirciare nel panorama di criticità che la seconda
sessione narrativa del seminario ha espresso. Si spazia da questioni metodologiche ad
altre più connesse al rapporto con l’utenza o con le organizzazioni di riferimento.
Dal punto di vista delle modalità di intervento si segnalano, per esempio:
-
“il rischio di una “settorializzazione” dell’intervento che dia risposta solo ad un
bisogno circoscritto e non raggiunga il cuore della situazione nella sua
complessità”. In questi casi vengono privilegiati i singoli aspetti perdendo di vista
la globalità della persona: si rischia di concentrarsi sul “fare” piuttosto che su una
riflessione olistica relativa all’azione;
-
le dimensioni della rete proponente che appare troppo ampia, quasi elefantiaca
nella sua strutturazione plurale, con evidenti difficoltà di raccordo, comunicazione
e governo globale;
-
la conoscenza carente e reciproca di alcuni soggetti della rete con conseguenti
difficoltà di comunicazione;
Dal punto di vista strutturale:
•
“la mancanza dei mezzi di trasporto per raggiungere i laboratori”;
•
“la presenza di un numero di bambini eccedente rispetto alle reali possibilità di
lavoro”;
36
•
la mancanza di un luogo “fisico” di incontro permanente e costante per tutti gli
operatori del centro di prossimità alle famiglie;
•
l’eccessivo turn-over di operatori nel quartiere in un flusso che non consente
sempre la creazione di rapporti fiduciari stabili;
•
Dal punto di vista più squisitamente tecnico:
•
una conoscenza ancora insufficiente del grande lavoro svolto da GZen Net.
Rimangono ancora molte fasce di utenti (attuali e potenziali) che rimangono
all’oscuro di numerose offerte o dei risultati ottenuti con determinate azioni,
mentre al contempo si avverte parallelamente una lieve carenza nelle forme della
pubblicizzazione all’intero contesto cittadino degli aspetti positivi e propositivi;
•
un’operatività che non sempre è riuscita a percepirsi e, dunque, a concepirsi come
inserita in un flusso in cui c’è un prima (ciò che già è stato fatto, ciò che il quartiere
già esprime in termini positivi) e un dopo (come proseguire a fine progetto sulle
azioni avviate, come incastrare gli interventi con le necessità successive e con il
futuro del quartiere);
•
la difficoltà di linguaggi che a volte si può far stridente tra gli operatori sul campo e
i vertici delle organizzazioni di appartenenza. Ciò può dar luogo a divaricazione di
obiettivi, a malintesi su quanto emerge quotidianamente, aspettative reciproche
poco realistiche e richieste non esaudibili;
Quello che appare, comunque, più rilevante ai fini del nostro discorso è la
capacità straordinaria dei partecipanti al laboratorio di non trincerarsi dietro a
lamentele e rivendicazioni ma di proporre contestualmente essi stessi possibilità di
evoluzione comprendendo l’inevitabile presenza di alcune aree di opacità. Nell’incrocio
dei racconti si è progressivamente fatta strada l’idea che uno dei pilastri delle
prossime progettazioni sarà un’area strutturata e ben congegnata a priori
relativamente alla supervisione degli interventi attuati. Ad essa vanno associati
momenti di formazione per tutti i soggetti interessati e che possano comprendere i vari
piani del lavoro e con obiettivi molteplici come: la consapevolezza del proprio operato e
dei risultati, la motivazione permanente, la chiarificazione delle mete e delle
metodologie, la condivisione e il coordinamento tra pubblico, privato e cittadini,
l’articolazione tra dimensioni teoriche e pratiche, cognitive ed emotive, di analisi e di
37
proposte future. Inoltre, questa impostazione mette maggiormente al riparo il progetto
da eventuali frammentazioni interne e separatezze tra metodi, operatori, finalità,
evitando che l’enorme professionalità profusa possa disperdersi in mille rivoli che
prosciugano nel tempo la fonte da cui sorgono e su cui si alimentano. Come ci ricorda
la Arendt “nessuna esperienza produce alcun significato o anche solo coerenza senza
subire le operazioni di immaginare e pensare”.
E’ bene ricordare che il lavoro sociale è fortemente usurante e necessita di un
costante sostegno, di un supporto che deve diventare lo sfondo su cui reggere l’intero
sviluppo del/con il quartiere. Un vero sostegno a catena tra politici-dirigenti-operatoriutenti: quando salta anche uno solo di questi anelli, si può stare certi che malesseri,
inefficacia
e
malumori
faranno
la
loro
comparsa,
ingarbugliando
le
linee
dell’intervento e ostacolando il cammino di crescita comunitaria. E immaginare che
questo sostegno possa anche passare per un approccio narrativo non è un’idea
certamente peregrina: “dare forma di storia all’esperienza vissuta significava, allora,
come oggi, aver capito la necessità di dare ordine a quanto accade, conservarne la
memoria, creare un senso di appartenenza” (Rita Valentino Merletti, 1998).
A
fronte
delle
“cose
andate
storte”,
strutturare
dei
momenti
di
formazione/autovalutazione/tutoraggio/conoscenza permette di creare storia comune di
quanto si “fa” ogni giorno e rende reali, vive, pulsanti, alcune maglie di reti che sennò
sono tali solo sulla carta e non possono valorizzare le proprie affinità e differenze. Ed è
ancora più impellente l’urgenza se ci si riferisce ad uno dei nodi più importanti e
nevralgici: quello che unisce l’associazionismo alle scuole. Questo è il vero luogo di
sfida e terreno principe per azioni di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva,
laboratorio per la trasformazione che può esprimere la sua vocazione solo se, senza
paure, mostra essa stessa flessibilità e doti auto- trasformative.
Il valore aggiunto di un buon tandem tra istituzioni deputate alla formazione e
privato sociale sarebbe anche una facilitazione - d’intesa con tutti gli altri soggetti
presenti in rete – nel costituirsi come soggetto politico, nel senso più nobile e profondo
del termine. Sebbene il gruppo dei partecipanti abbia evidenziato modalità differenti e
divergenti di approccio a tale questione mi sembra che tutti concordino sul fatto che è
davvero un peccato se non si riescono a sfruttare le conoscenze e le relazioni instaurate
sul territorio, l’immenso patrimonio di elaborazione delle informazioni sul quartiere, la
38
voce che si può dare a richieste e diritti in pericolo. In assenza di una spinta politica
dal basso si ha la sensazione di girare a vuoto e di una certa inutilità sostanziale del
proprio operato.
Infine, ciò su cui tutti si attestano – non casualmente, visto che si era alla fine
del progetto – è la necessità di garantire sempre la sostenibilità del progetto, la
possibilità di farlo camminare con proprie energie, sulle proprie gambe. La
replicabilità di quanto innescato e la possibilità che soggetti del quartiere (qualcuno
dei presenti al workshop lo ha chiamato “il capitale umano”, “i beni relazionali”), se ne
possano incaricare con responsabilità e competenza appare priorità assoluta.
39
6 Terzo sentiero: intuizioni e scoperte
Una delle ragioni esplicite per la realizzazione di questo workshop è stata la
richiesta istituzionale (della rete e della regia del progetto stesso) di attivare modalità
che permettessero di comprendere, documentare, rendere visibili, salvare quelle
numerose e preziose acquisizioni ottenute con GZenNet. Ed entrando prepotentemente
in gioco le identità professionali, gli obiettivi futuri, le parole degli abitanti, si è
ritenuto che raccontare fosse il modo migliore di rappresentarsi in forma simbolica e
metaforica. Scoperte e intuizioni possono ben usufruire della “sospensione dal
quotidiano” che si realizza nella formazione e dell’attenuazione dei giudizi critici che
l’approccio narrativo spesso riserva come valore aggiunto. L’intuizione può essere
rapida ma la sua declinazione in termini condivisi e sperimentabili ha bisogno un
tempo di raccoglimento, di “tregua”, “il tempo della sutura dei pezzi sparsi; è il tempo
in cui uno dei nostri io si fa tessitore” (D. Demetrio, 1999). La novità che abbiamo
apportato è che la ricucitura non è più di spezzoni di un singolo attore sociale ma il
patchwork di un intero progetto, di una comunità che si ascolta, di una coralità di voci.
Le intuizioni, le conquiste, le scoperte sono state sempre raccontate con grande
entusiasmo e, anche qualora fossero elementi già sentiti se ne avvertiva la marca
molto diversa in quanto frutto di un vissuto, di una fatica, piuttosto che di frasi
trattenute da un libro o da un convegno sul tema.
Innanzitutto è stato sottolineato da molti partecipanti l’avventura della
“fiducia” e il suo essere al cuore di ogni possibile intervento. Una fiducia che si fa
40
collaborazione con gli altri operatori, con gli abitanti del quartiere e che è guadagnata
sul campo, con ferite e cadute, con la sincerità e l’autenticità del gesto di prossimità:
“nell’ultimo anno ho acquisito maggiore fiducia rispetto al quartiere,
alla sua capacità di farcela da solo ed alla disponibilità
di recepire e fare propri gli stimoli esterni”.
Si abbina a questo pensiero la scoperta che non è possibile a volte arroccarsi
sui ruoli istituzionali rigidamente prescritti e di cercare nuove vie e strade per
l’incontro (“io come te nel gioco)”, ribadendo la forza ristrutturante che il gioco e il
mettersi in gioco può rivestire nel quartiere. L’operatore, in questo circuito virtuoso di
fiducia e collaborazione deve anche ridare corso alla speranza, alla voglia di farcela e
riaccendere strade e storie evolutive, rendere possibile all’abitante del quartiere la
riappropriazione di sé come soggetto e di sapersi prendere cura di se stessi con amore
e autenticità.
L’operatore viene descritto come uno stimolo, come un solvente e non come
“soluzione”, come innesco di reazioni positive e attento ai modelli altri che vengono
esibiti e rivendicati nella relazione con gli abitanti. Vale la pena di trascrivere per
esteso una delle osservazioni di un partecipante:
“se si stringono legami di cooperazione, fiducia – scambio tra genitori/famiglie ed
operatori si può con più facilità, vista la loro ritrosia, accedere al loro mondo e avere
così la possibilità di proporre attività e momenti che portino con sé informazioni ed
esperienze affettive discordanti e dissonanti rispetto al modo in cui essi danno
41
significato alla realtà e dunque in parte trasformativi se accompagnati da
consapevolezza”.
Un elemento che ricorre nei racconti e nelle osservazioni successive è
l’emozione di profondo stupore di fronte al palese apprezzamento che gli utenti fanno
del lavoro svolto nel quartiere. A riprova e a rinforzo di questa percezione vengono in
aiuto proprio le mamme tutor che più volte hanno ribadito la bontà e l’efficacia della
presenza degli interventi svolti
“lo Zen è cambiato, dall’amaro al dolce”
e sono loro le più accanite sostenitrici delle azioni messe in campo e degli operatori
sociali protagonisti. Le facce dei partecipanti si illuminano quando si confessano e
quando scoprono dalla viva voce delle mamme tutor la legittimità di quanto fanno
giorno per giorno, la giustezza della direzione intrapresa e nella stanza si sente un
clima di rinnovato desiderio di fare ancora. D’altronde, sia in formazione che con gli
utenti, “quando compare l’episodio autobiografico, immediatamente i rapporti si
umanizzano, il flusso delle emozioni irrompe sulla scena, i ruoli cessano di offrire
pretesti alla separazione e alla regressione e il riconoscersi gratifica i partecipanti, le
distanze si accorciano” (P. Farello e F. Bianchi, 2001). C’è anche chi ha già iniziato a
sperimentare il racconto e ne intesse le lodi:
“nel mio settore di intervento, il cambiamento principale avvenuto durante il percorso,
ha riguardato la sperimentazione del metodo della narrazione biografica ed
autobiografica per fare formazione socio- relazionale e socio-affettiva con le mamme
tutor”
Su questa nuova consapevolezza di contare qualcosa, di non lavorare
inutilmente, di portare a casa dei risultati pregevoli (attenuando aspettative a volte
esagerate e di cambiamento nei macrosistemi) si installa il valore della ri-conoscenza,
intesa nella sua doppia accezione: “ri-conoscere” come possibilità che ci si da di
accedere a quelle parti dell’altro che spesso non vediamo o passate sotto silenzio, e “riconoscenza” per l’aiuto, essere grati della mano tesa.
42
Se ne coglie un’altra scoperta che potrebbe fare da base per tutti i prossimi
interventi, anche nell’ottica di riprendere i termini della progettazione partecipata in
seno al piano di sviluppo di quartiere “Fare Mente Locale”. Intavolare e preservare
una nuova alleanza: tra operatori e utenti, tra motivazioni e azioni, tra desideri degli
utenti e risposte sociali. Punto di partenza e base solida è l’apertura di un credito e
l’instaurare
“un rispetto reciproco tra operatori, genitori e bambini”
accomunati dalla “voglia di fare e di riuscita”.
Durante la sessione narrativa si scopre tutti insieme che il quartiere è una
risorsa e va valorizzata al massimo e dunque ci possiamo rispecchiare nell’idea che
“trasformare la realtà utente è “costruire con l’utente” una risposta ai bisogni, desideri
ed esigenze di individuazione ed emancipazione dell’utente stesso sulla base delle
risorse disponibili” (M. Tomisich, 1998). E allora non c’è più un male da sradicare, un
ordine unilaterale da ripristinare ma
“il quartiere ha una sua normalità e una capacità di cogliere stimoli nuovi e contributi.
E ciò non risulta mai nella “vulgata” e negli stereotipi dei mass media”.
Certo può “funzionare un’opera di sensibilizzazione sull’uso di spazi, cose e
relazioni” perché si è più volte constatato che “se lo spazio è stato vissuto come “spazio
comune” allora si riesce a mantenerlo fruibile”.
43
A partire da queste nascenti consapevolezze può persino venire desiderio di
non aspettare che la città giunga allo Zen ma che lo Zen stesso possa essere
“esportato” con la sua cultura/vitalità/ identità nel desiderio mai sopito di far entrare
in contatto varie altre realtà cittadine e non. Sono gli abitanti stessi che dentro
GZenNet hanno tirato fuori
“la voglia di avere un’opportunità nuova e diversa; la voglia di avere un luogo di
incontro; la voglia di non appartenere solo alla propria realtà”.
Il quartiere sta dimostrando che è capace di reinventare e reinterpretare le
indicazioni che gli arrivano dall’ambiente esterno e di potersi lentamente
autonomizzare. Un processo lungo e pieno di insidie ma di cui se ne iniziano a cogliere
spunti ed esempi:
“il quartiere in realtà “cambia” sempre, a dispetto dell’immagine di immutabilità
statica. Vi è una partecipazione a flussi (globali ecc..). Una comunità di flussi e non
solo di luoghi”.
E all’interno di questa nuova cornice comune una delle intuizioni più
spiazzanti è quella secondo la quale gli interventi sul fronte socio-culturale non sono
meno importanti che quelli che riguardano i bisogni materiali, anche laddove la
richiesta e il bisogno primario siano più pressanti. Emerge con chiarezza che
migliorando la qualità della vita (anche culturale) si cresce in autostima, capacità
percepita di potercela fare e di stare meglio, valorizzazione del proprio percorso
originale. E saranno esattamente queste competenze che permetteranno a molte
persone di ribaltare la propria vita e di uscire fuori da una sorta di vittimizzazione
“il passare da: “un sacciu niente” a “ci provo”
Aiutati, pertanto, indirettamente nell’auto-progettazione su come soddisfare i
loro bisogni primari potranno dar luogo a soluzioni impensabili, a scelte autonome e
radicali, spezzando così la dipendenza e l’assistenzialismo che sempre si nutre di
mancanza di fiducia nelle proprie potenzialità.
44
A mettere al riparo da una tendenza a scivolare ancora verso vecchi modelli di
rapporto con l’utenza possono essere utili alcuni consigli “involontari” contenuti nei
bigliettini scritti dai partecipanti.
E’ bene per l’operatore:
- “non essere mai [troppo] sicuri e non sentirmi al sicuro”;
- ritenere sempre di “non aver capito abbastanza”;
- ricordare sempre che “esiste un modo di vivere opposto al nostro e sapere che
funziona”;
- mantenere “tenacia, perseveranza, fiducia in me stessa”;
- non accontentarsi di “dare risposte (ma)
diventa centrale il lavoro sulla
consapevolezza delle persone”;
- ritenere sinceramente che “la felicità è il dare/riceve benessere è di per sé curativa
nelle persone e per il quartiere”;
- sapere che l’attesa, il tempo e la pazienza sono qualità indispensabili per
accettare continue sconfitte e ripensare quelle sconfitte”.
45
7
Quarto sentiero: impegni per il futuro
La particolare proposta formativa ha avuto lo scopo di riconsiderare da un
altro polo eventi e accadimenti, prossimi e remoti, con un taglio fortemente indirizzato
all’avvenire. Non un esercizio di stile o una ricreazione accademica ma un procedere
rigoroso verso la delineazione di obiettivi e atteggiamenti futuri. Pertanto abbiamo
voluto considerare una particolare funzione del rimembrare cioè la sua predisposizione
ad essere uno dei fattori “per costruire i sogni che vorremmo realizzare, per prevenire i
fantasmi che insidiano le nostre realizzazioni, per costruire solidi i progetti futuri” (P.
Farello e F. Bianchi, 2001).
In questa ultima fase dei lavori, al di là della stanchezza inevitabile, i
partecipanti hanno mantenuto una continua posizione di rilancio e, come spesso
accade, hanno sperimentato come l’aspetto più arduo sia proprio la sfida
all’immaginazione, individuale e collettiva, e soprattutto il liberare energie che
prefigurino
scenari
futuri
finché
ci
si
sente
gravati,
oppressi
e
vincolati
ineluttabilmente dalle condizioni della realtà spesso frustranti.
Le dichiarazioni di impegno sono comunque fioccate, forse complice un certo
clima di unione e forte speranza, ma anche come segnale di passione professionale e
vocazione. Insomma la determinazione a non interrompere un flusso di relazioni,
scambi, apprendimenti tra operatori e quartiere:
- Il primo grande leit-motiv è stato il desiderio di continuare quanto intrapreso a
prescindere dalla presenza di una continuazione progettuale di GZen Net o di altri
finanziamenti. L’impressione che se ne ricava è di non volere ancorare un processo
46
avviato a dei fattori estrinseci e non sempre alla nostra portata, consci anche delle
notevoli riduzioni e ristrettezze di cui le progettazioni sociali sono tragicamente
vittime. Un’azione potente e solida non può poggiare le basi sui finanziamenti
esterni, anche se ovviamente sono basilari. Le risposte dei partecipanti si situano su
un piano di lavoro che implica il rapporto umano con il quartiere, rapporto che non
può essere interrotto per questioni mercantili, per logiche di economia spicciola.
Nella discussione emerge d’altronde tutta la paura di un intervento precario e
attuato da soggetti “precari” sul versante occupazionale e, dunque, costretti loro
malgrado a dovere tagliare di netto la loro collaborazione se dovessero individuare
altre risorse per “campare”. In questo senso il discorso che emerge sembra altalenare
tra affermazioni di sincera e decisa volontà di esserci comunque e la paura profonda
e realistica di dovere rinunciare a questo mandato, non più solo organizzativo ma
ormai anche personale, interiore, esistenziale. Non v’è dubbio che serpeggia
concretamente il fantasma di cui si parlava prima: ancora una volta sarà “tutto al
vento”. Molti hanno voluto esplicitamente esprimere il loro impegno individuale e si
sono ripromessi di rinforzare nelle organizzazioni di appartenenza la motivazione a
mantenere un forte sguardo e presa sul quartiere auspicando
“una maggiore responsabilizzazione dei membri dell’associazione nei confronti
dell’impegno portato avanti nel quartiere, che possa favorire la messa in luce di una
pluralità di risorse”.
- E’ interessante una risposta, apparentemente sibillina: “Sì…se; No…ma”. Provando
a “smorfiarla” diremmo “SI’, mi impegnerò nel futuro ancora SE mi verranno date le
condizioni anche minime. NO, non mi impegnerò – nonostante tutta la mia passione
– MA non so come potrò fare, come potrò essere sordo alle istanze esterne che mi
chiamano dentro e alle mie istanze interiori che mi legano profondamente a quelle
persone, di cui conosco volti, drammi e speranze”. L’operatore è in parte preso in una
piccola trappola, spaventandosi di non essere supportato in futuro e ciò sarebbe una
disfatta in termini anche umani proprio perché è riuscito
“ad andare oltre l’incarico “istituzionale” affidato, oltre i ruoli e le consegne ricevute e
prendere a cuore le situazioni e le persone”
47
Un altro impegno è quello di vedersi come un singolo tassello di un mosaico più
ampio e questa ottica permette di ottimizzare il proprio impegno perché, al di là
dell’aspetto quantitativo (per es. 3 ore o 20 ore), è la correttezza della direzione
intrapresa e la capacità d’integrare risorse e politiche.
“Pensare il ruolo dell’operatore sociale non come centrale, ma a partire dalla sua
parzialità e dalla necessità di pensare il suo ruolo in relazione ad una serie sempre più
ampia di attori”
in questa accettazione matura e consapevole si possono costruire impegni realistici e
di lungo passo. In linea con le proposte della giornata di approfondimento i
partecipanti hanno anche sottolineato l’utilità degli strumenti utilizzati in quanto
“pensare in modo narrativo sembra favorire la capacità di collaborazione con gli altri
per realizzare i propri progetti” (P.Farello e F. Bianchi, 2001) ed è particolarmente
indicato in momenti di recessione economica in cui bisogna dare fondo alla capacità di
essere un fronte compatto che non disperda energie, idee, memorie, aspirazioni.
Nel rinsaldare patti per il futuro sono state individuate anche quelle qualità di base
che dovrebbero sostenere e reggere il mantenimento degli impegni sottoscritti
collettivamente. Se ne possono qui enunciare alcuni:
-
la perseveranza e la continuità;
48
-
la gioia, la velocità e il sacrificio;
-
il sorriso e il radicarsi in convinzioni profonde e sincere;
-
“pungere, rompere, essere spina nel fianco a coloro che non credono”;
-
la congruenza del “tempo da dedicare”;
-
“la voglia di fare e rischiare”;
-
la cooperazione come chiave di volta dell’intervento poiché: “da soli si può fare
poco, serve una convergenza di obiettivi da realizzare con l’ausilio di tutti:
istituzioni, scuola, associazioni, liberi cittadini, abitanti del quartiere”. E quindi
come corollario un ultimo punto, scontato ma opportuno ribadirlo, è: “cercare di
implementare un buon lavoro di rete al fine di migliorare il mio lavoro”. Il
lavoro di rete non è solo una bella parola da usare ai convegni ma una fatica
quotidiana da sperimentare sulla propria pelle.
49
8
Considerazioni conclusive
Il percorso che abbiamo vissuto è stato estremamente coinvolgente, sia quello di
GZenNet che delle giornate formative. Abbiamo potuto verificare direttamente la
tenuta e il soffio innovativo che l’approccio narrativo può instillare nel mondo della
valutazione e del monitoraggio delle azioni progettuali, prestandosi con la sua duttilità
a molteplici finalità. Abbiamo anche toccato con mano la differenza tra il generico
“mettere in parola”, atto già di enorme rilevanza trasformativa, e il concepire dei veri
racconti della propria esperienza. Non si afferma qui che il racconto sia la panacea per
tutte le situazioni né tanto meno che sia la nuova parola chiave, il nuovo concetto
guida, lo strumento-mantra del lavoro sociale ma può dare il suo valido contributo alla
comprensione e all’articolazione costruttiva ed evolutiva delle questioni poste da un
sociale in continuo movimento, smosso da perenni perturbazioni ambientali. Lo stesso
lavoro da noi svolto, alla fine ha prodotto ulteriori piani di riflessione poiché in fondo
“tutte le storie contengono semi di altre storie” (V.Chandra) e già possiamo
intravedere i semi che dovremo coltivare e nutrire nel prosieguo dell’impegno.
Più nello specifico e andando oltre la valenza anche “curativa” del racconto ci
sembra che il gruppo di lavoro abbia delineato alcune sfere poco battute solitamente e
che uno “spazio narrante” può intercettare:
50
- “Raccontare le sfide” che percorrono i progetti e le azioni attivate. Quei territori
ancora poco esplorati e, dunque, poco dicibili, alieni, refrattari alle categorie
vigenti nell’ambito della ricerca quantitativa.
- Ricostruire le fatiche e le microinterazioni che danno luogo alle dinamiche più
globali e più facilmente visibili, creando moneta di scambio sociale fra abitanti e
operatori (entrambi infatti maneggiano storie);
- “Raccontare le frustrazioni e le sconfitte” che molto spesso vengono sottaciute per
difesa personale o per proteggersi da critiche e mancato accesso a nuovi
finanziamenti. Sappiamo bene che non c’è progetto (e forse operatore/persona) che
ama pubblicizzare le proprie deficienze, disfunzioni o errori ma sappiamo anche
benissimo che tutti i processi di intervento socio-culturale sono lastricati di passi
falsi, di cadute, di regressioni, di ripensamenti; e ciò soprattutto laddove si intende
smuovere terreni lasciati incolti per anni, zone del sociale di forte disagio e
comunità afflitte da problematiche vetuste e radicate. Riuscire ad avere contesti di
confronto, in cui gli errori e gli insuccessi abbiano piena dimora ed anzi sono il
vero “inciampo” su cui riorganizzare l’intervento ed il sapere sull’oggetto di lavoro,
non è semplice. Il cerchio narrativo e le altre tecniche connesse al racconto possono
essere la cornice più adatta ad evitare fughe nella negazione o, peggio ancora,
accuse sterili verso la presunta ottusità degli utenti e/o dell’istituzione. E’ chiaro
che utenti ed istituzione rappresentano spesso delle difficoltà estreme ma è anche
vero che, come si diceva un tempo, possiamo solo tentare di trasformare tali vincoli
in risorse feconde;
-
Attraverso la liberazione di molti intrecci narrativi che popolano le nostre giornate
lavorative e le nostre spiegazioni a ciò che facciamo, si da più spazio alla voce reale
della gente. E sentiamo, nel caso dello Zen, una dignità pervasiva che la gente del
quartiere rivendica, con atti e parole. La dignità che chiede rispetto e
considerazione, la dignità nonostante qualsiasi giudizio si possa dare delle
situazioni di degrado, disagio, deriva che si incontrano:
“la madre, la sua dignità e la fatica che questa signora compie per portare
avanti la famiglia, sapevamo anche che il ragazzino era tutt’altro che cattivo,
anzi il problema era probabilmente che era “troppo buono”;
51
-
“raccontare la trama quotidiana” che costruisce e rigenera imperterrita le radici
della democrazia e della cittadinanza. Osservare anche il farsi di quelle condizioni
che invece la minano con altrettanta pervicacia. La struttura narrativa, per sua
natura “drammatica” e cioè schema perfetto per descrivere lo scontro tra
intenzionalità differenti, può rappresentare al meglio questa tessitura fatta di
gesti ordinari e straordinari, di piccoli eroismi ignoti, di tenacia e caparbietà
d’impegni di protagonisti del quartiere, di figure decisive per la tenuta delle nostre
istituzioni.
Infine due sono le cose che più ci colpiscono e che vogliono essere delle
questioni aperte, delle interrogazioni per i futuri interventi e riflessioni. Innanzitutto
il grande assente, l’innominato e innominabile, il convitato di pietra che in nessuna
delle discussioni viene messo dentro: la mafia. Mi ha sempre colpito questa latitanza,
anche in altri incontri, e non credo che sia casuale. Ritengo che ci sia una valenza
fortemente difensiva ma che dobbiamo cominciare a riconsiderare questa tessera
cruciale, pena il malinteso e l’operare solo alla superficie delle situazioni. Non c’è
dubbio, peraltro, che tutte le azioni di GZenNet, a ben guardare, possono essere rilette
come forme di aggressione indiretta alle logiche mafiose e al substrato socio-economico
e culturale su cui fa proseliti e affari. Tutto ciò che potenzia le aree dell’occupazione,
delle infrastrutture, della crescita culturale, dell’apertura del quartiere al mondo,
dell’espressione comunitaria delle voci represse, rappresenta una minaccia ad un
potere mafioso che si regge su chiusura, precarietà economica, sopravvivenza di codici
52
violenti e familisti, silenzio omertoso. Un’ipotesi è che gli operatori non citino la mafia
per non provare eccessiva frustrazione di fronte alla percezione di un mostro che tutto
inghiotte, corrode e frantuma ma c’è anche l’ipotesi per la quale è più efficace una
strategia di basso profilo che non la nomini direttamente per non costringerla a
rispondere, sperando che si accorga troppo tardi di cosa sta cambiando nel quartiere.
La seconda osservazione, ancora allo statuto di possibile intuizione, di dato
intravisto è una certa specularità, in alcuni momenti, tra azione sociale e
caratteristiche del quartiere, come se l’influenzamento sia reciproco, come se il
progetto e le sue disavventure possano essere lette come un’originale cartina tornasole
dei meccanismi più sotterranei delle dinamiche sociali del quartiere. Pur nell’immensa
congerie di risultati positivi ottenuti ci sono zone del lavoro sociale che vorrebbero
introdurre logiche alternative nel quartiere mentre poi si ritrova esso stesso
impregnato di quelle stesse modalità che si vorrebbe ribaltare o, ancora, nella
contaminazione reciproca sono le aree di collusione (e non di dialogo tra diversità) a
decretare il fallimento nel raggiungimento degli obiettivi. Così anche fra gli operatori e
dirigenti circolano parole e questioni che ricordano da vicino alcuni “mali” dello Zen:
-
L’ossessione delle Associazioni su ciò che è mio e di ciò che è tuo, di perdere
privilegi guadagnati nel tempo e il tentativo di arroccarsi sul possesso di pezzi
di lavoro nel quartiere. Una paura di essere invasi nel proprio spazio piuttosto
che un desiderio di ospitare gli altri, di renderli partecipi, di fare squadra. Un
solipsismo e una ricerca di fondi pubblici e privati che richiama un certo
isolamento dei residenti, chiusi nelle loro coriacee aree occupate;
-
Gli operatori che nel tempo si “induriscono”, perdono la loro capacità empatica,
si concentrano solo sulla realizzazione del compito, dimenticando le ragioni e
vivacchiando dentro routine prive di futuro. Come gli abitanti, i bambini e le
fasce meno deboli che per sopravvivere devono tirare fuori gli artigli, rendersi
complici di dinamiche di violenza, chiudere gli occhi di fronte a palesi
ingiustizie. Abitanti, operatori, istituzioni ed Enti che smettono di interrogarsi e
accettano compromessi, sapendo che altrimenti potrebbero essere espulsi,
ostacolati, boicottati. Omologarsi al cliché può diventare a volte vitale per
sentirsi parte di un mondo, per non sentirsi soli, per avere delle relazioni
significative;
53
-
Al pari di persone del quartiere che hanno smesso di confrontarsi con i propri
vissuti per non reiterare la sofferenza, per non ricordarsi dello scacco in cui ci si
trova, per non riuscire a ribellarsi alle vessazioni del marito, del vicino, del
bullo, del boss di turno, anche l’operatore e l’istituzione talvolta smette di farsi
domande, di modificare l’intervento per tararlo sul cuore dei problemi più che
sui suoi fenomeni di superficie, magari ricavando anche l’idea che comunque
almeno qualcosa di buono la si sta facendo;
-
E’ quando l’operatore smette di vestire i panni burocratico-amministrativi che
riesce ad avere soddisfazione e risultati; esattamente come per l’utente del
quartiere che inizia ad avviare un’evoluzione della sua situazione solo quando
smette di essere un numero, un freddo dato statistico, un numero di via, di
padiglione, di scala. Specularmente è il riacquisire valore di persona,
dimensione umana, di uscire fuori dal’anonimato (per abitanti e operatori) che
permette il recupero di una storia, di una relazione in cui si possono
immaginare e costruire mondi alternativi. A ben guardare le identità
professionali e delle stesse reti possono solo guadagnare da questa operazione di
“prossimità” reciproca;
-
L’operatore che ha smesso di sperare è il riflesso dell’utente che ha smesso di
lottare: la demotivazione dell’uno è la rassegnazione dell’altro e viceversa.
L’operatore che illumina le positività dell’interlocutore, al contrario, lo salva dal
peso del continuo essere inondati di negativo, di storie rilette con disperazione,
dal focus fissato su un male che non riesce a placarsi.
Queste note sparse sono, in realtà, poca cosa rispetto al pozzo di
considerazioni che i partecipanti al gruppo hanno saputo sviluppare e la parola fine
non vorremmo dirla nemmeno noi. Speriamo in cuor nostro che questa fatica sia un
episodio di una lunga serie. Il prossimo passo dovrebbe essere quello in cui operatori e
abitanti del quartiere, davvero insieme e integrandosi, pensano, discutono, agiscono
per il bene comune, per la comunità. Per realizzare quel momento letteralmente vitale
che gli orientali definiscono “Saku Taku No-Ki”: l’istante in cui si rompe il guscio,
frutto del picchettare in sincrono e in parallelo della gallina e del pulcino, dall’interno
e dall’esterno.
54
In gioco c’è la vita del quartiere o, al contrario, un’ indefinito sopravvivere “in
potenza”, relegati in una trappola asfittica.
55
POSTFAZIONE
A cura della Dott.ssa Salierno
Siamo dunque arrivati alla fine dell’ impresa collettiva messa in campo
attraverso il progetto G.Zen.Net?
La scommessa di farcela tutti insieme è stata vinta nonostante le difficoltà
incontrate, o abbiamo perso lungo la strada la motivazione e l’ entusiasmo che ci ha
spinto a tentare la grande impresa? …ma di che impresa si è trattato?
Sono le domande su cui ultimamente spesso mi soffermo a riflettere, quando
penso allo Zen e al forte investimento personale e istituzionale che scegliemmo di fare
nel lontano 2005, anno in cui fu istituita la Rete Interistituzionale S. Filippo Neri.
Ricordo con quanto entusiasmo accogliemmo la notizia della pubblicazione del
Bando di Fondazione con il Sud e come gli incontri di rete in quel periodo fossero
particolarmente frequenti e partecipati anche per la numerosità dei convenuti, tutti
desiderosi di condividere un’ occasione, che al di là delle singole, legittime aspettative
di natura economica, poteva rappresentare finalmente la realizzazione collettiva del
percorso di condivisione di valori e visioni nel lavoro sociale allo Zen. Infatti nel tempo
si era cercato di costruire una prospettiva integrata su azioni possibili volte allo
sviluppo locale del territorio (il piano di sviluppo di quartiere “Fare Mente locale” ne
rappresenta tutt’ora la pregevole esemplificazione).
La parola chiave su cui tutti convergevano era partecipazione, tant’è che si
parlava di progettazione partecipata, attraverso cui dare parola e coinvolgere
direttamente gli abitanti del quartiere. In realtà più che di progettazione partecipata
si realizzò, nel breve tempo a disposizione concesso dall’ ente finanziatore, una
sistematica e ben organizzata progettazione di rete, che ha comunque consentito non
solo di ascoltare attraverso vari strumenti (video, interviste ecc.) le testimonianze
dirette sui propri bisogni degli utenti dei vari enti, ma l’ attiva partecipazione al
processo di costruzione del progetto di tutti gli enti della Rete, che hanno
successivamente sottoscritto il progetto.
Inoltre l’ aspetto fortemente innovativo nella realizzazione del progetto è stato
costituito dalla stretta sinergia tra pubblico-privato, che si è realizzata attraverso l’
affidamento delle macroazioni del progetto (aree di intervento) agli enti pubblici della
Rete, all’ interno delle quali i singoli interventi previsti facevano riferimento: “cura e
56
valorizzazione dei beni comuni”, affidati al coordinamento della Scuola, “Centro
Polivalente di prossimità: sviluppo, qualificazione di servizi socio-sanitari, culturali,
promozione di percorsi di legalità” al Comune e all’ ASP Palermo per alcune specifiche
azioni, “comunicazione”, all’ USSM di Palermo.
La scelta di un tale assetto organizzativo oltre a modulare il lavoro sul territorio
in sinergia con quello istituzionale, doveva garantire la sostenibilità delle azioni messe
in campo oltre il tempo limitato del progetto.
Per la prima volta a mia memoria, (in 25 anni di lavoro sociale a Palermo),
istituzioni importanti come il Comune, l’ ASP, la Scuola e l’ USSM erano concordi nell’
impegnarsi a supportare in ogni modo la praticabilità delle azioni previste dal
progetto, che perseguivano, tra gli altri, obiettivi e realizzazioni di una certa rilevanza
per promuovere lo sviluppo del quartiere, non solo in termini di realizzazione di opere,
quali i campi di atletica presso la scuola Falcone, la ristrutturazione della palestra
della scuola Sciascia, il ripristino dei corpi bassi dei campetti OPIAN, l’ archivio
storico del quartiere, ma anche per es. la possibilità di favorire il micro-credito per
sostenere e promuovere iniziative imprenditoriali.
Ciononostante si sono incontrati diversi ostacoli: tra quelli di tipo istituzionale,
vi è la capacità delle istituzioni di tener fede alle richieste nei tempi previsti dal
progetto (p.es. la praticabilità della ristrutturazione dei corpi bassi dei campetti
OPIAN, all’ interno dei quali poter collocare stabilmente il Centro Polivalente di
Prossimità realizzato dal progetto) e in alcuni casi i limiti fissati dallo stesso ente
finanziatore, (p.es. la possibilità di favorire l’ accesso al micro-credito, che ha
modificato, a mio avviso, una delle azione cardine del progetto).
Accanto al tali pregevoli opere realizzate, emerge con tutta evidenza lo spessore
qualitativo del lavoro sociale rivolto all’ utenza, la sperimentazione di azioni congiunte
tra operatore e utenti “l’ andare oltre l’ incarico istituzionale affidato, oltre i ruoli e le
consegne ricevute e prendere a cuore le situazioni e le persone”.
L’ investimento operativo è stato forte al punto che si desidera “lasciare traccia,
un segno che il proprio lavoro non è stato inutile e che possa vedersi inciso tra le
strade del quartiere”, che non sarà lasciato ancora una volta “tutto al vento”.
L’ intima consapevolezza di quanto “gli interventi sul fronte socio-culturale non
siano meno importanti di quelli che riguardano i bisogni materiali poiché solo
57
migliorando la qualità della vita anche culturale si può passare da: “un sacciu niente”
“a ci provo””.
L’ intuizione della “necessità di una spinta politica dal basso” (………..) “perché
è giunto il momento di non accontentarsi più di dare risposte ma diventa centrale il
lavoro sulla consapevolezza delle persone”.
E’ stata dunque un’ impresa importante che ha cambiato anche gli operatori e
dare loro la possibilità di “mettere ordine su quanto accaduto” attraverso la narrazione
ha significato e significa effettivamente “creare senso di appartenenza”, conservando
insieme la memoria di ciò che G.Zen.Net ha rappresentato.
A questo punto sento forte la responsabilità di questa Rete, degli operatori che
ne fanno parte: quanti di essi hanno invece perso la motivazione e l’ entusiasmo?
Quanto non sono riusciti a cogliere la preziosa opportunità offerta dal progetto di
superare steccati, autoreferenzialità, paure, solipsismi privi di speranza?
E a coloro che l’ hanno fatto e che per questo sono diventati realmente una Rete,
a quanti dei loro auspici, bisogni e nuove consapevolezze potrò far fronte? Come
persona, ma soprattutto come istituzione?
Da parte mia non ho perso né la motivazione né l’ entusiasmo; la fiducia e la
speranza continuano a sostenermi, perché la sollecitudine verso gli ultimi per la
costruzione di una società più giusta e più equa è in grado di fare miracoli,
specialmente quando si agisce tutti insieme.
Per quanto mi riguarda, dunque, continueremo a fare la nostra buona battaglia,
a costruire insieme il futuro di G.Zen.Net!
Sono ottimista perché non sento che nel mio caso ci sia distanza con gli
operatori sul campo, (“la difficoltà di linguaggi che a volte si può far stridente tra gli
operatori sul campo e i vertici delle organizzazioni di appartenenza”) perché anzi
accolgo prontamente, condivido e sottoscrivo quanto “raccontato” così lucidamente
dagli operatori del progetto.
E’ effettivamente giunto il momento che la Rete inglobi al suo interno anche gli
abitanti del quartiere, in particolare “quelle figure che sono insieme operatori e
residenti nel quartiere”, che G.Zen.Net ci ha dato la possibilità di incontrare e
coinvolgere, al fine di farne dei punti di riferimento per il cambiamento culturale della
comunità e dei veri e propri “soggetti-ponte” con le istituzioni.
58
L’ istituzione che rappresento non “smette di farsi domande”, è tesa “ad
indagare il cuore del problema “ ed è convinta della potenza del cambiamento operata
dalle minoranze attive.
In questo senso la Rete può diventare minoranza attiva!
Gli operatori giustamente non pensano di potersi scontrare con la mafia, è
strategico tenere sui territori un basso profilo che eviti reazioni violente, ma l’
istituzione non può tacere, deve denunciare che la Mafia esiste ed agisce in maniera
organizzata e la vicenda dei campetti OPIAN lo suggerisce.
Troveremo pure all’ interno di altre istituzioni persone disponibili, che
superando ogni reticenza, scelgano di mettersi in gioco per il perseguimento del bene
comune e per combattere la buona battaglia del servizio alla comunità, anche, laddove
necessario, contro la prevaricazione mafiosa!
E’ quello che ci auguriamo che avvenga proprio in questi ultimi questi durante i
quali sono state riprese le trattative interistituzionali per la vicenda OPIAN; hanno
partecipato all’ incontro tutte le istituzioni coinvolte nella gestione dei campetti, il
comune di Palermo, attraverso gli assessori allo sport, alle attività sociali e i
funzionari apicali dell’ assessorato ai lavori pubblici, la Caritas, l’ Istituto autonomo
Case Popolari (IACP), l’ Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni (USSM) di Palermo,
e, si spera, che anche attraverso il coinvolgimento della Prefettura si riesca tutti
insieme a vincere tale prevaricazione, che in questo momento si sta esprimendo
attraverso le continue difficoltà amministrativo-burocratiche connesse all’ apertura
della struttura, prevaricazione che troppo spesso, paradossalmente, strumentalizza
proprio quelle norme che, poste a salvaguardia della legalità, dovrebbero favorire,
anziché penalizzare il benessere della società civile.
L’ impresa collettiva quindi non si è esaurita, ha solo bisogno di sviluppare una
comune coscienza politica, nell’ accezione positiva del termine, che, frutto di una reale
partecipazione democratica dei territori, la orienti e la sostenga in una attivazione di
prossimità sempre più pregnante tra tutte le forze sane della nostra società locale.
59
Allegati
60
G.Zen.Net
Storie e appunti da un’avventura urbana
61
INTRODUZIONE
Il primo Luglio del 2011, nell’ambito delle azioni del progetto GZenNet, si è
tenuto presso i locali dell’Istituto “L. Sciascia” un workshop condotto da Dott.ssa C.
Casella (coordinatrice di GZenNet), Dott. M. Lo Cascio (Ufficio Servizio Sociale per i
Minorenni di Palermo, referente Area Comunicazione), dott.ssa A. Scarpello (tutor di
progetto).
La metodologia prescelta per i lavori è stata quella narrativa poiché la scrittura
biografica come tecnologia formativa crea “occasioni di crescita e di auto sviluppo
attraverso cui affrontare i momenti “critici” e le fasi di passaggio da una condizione di
incertezza ad una di maggiore consapevolezza. La riorganizzazione dell’esperienza
consente l’evoluzione, il cambiamento, la presa in carico e la risoluzione degli episodi
di vita” (M. Cavallo).
Al gruppo di partecipanti, appartenenti a molte delle organizzazioni partner di
GZenNet, è stata proposto un lavoro che avesse come risultato concreto la stesura vera
e proprio di un “testo” suddiviso in vari capitoli: gli episodi emblematici, le cose andate
storte, le intuizioni/scoperte/conquiste, gli impegni per il futuro.
Sono state scelte due tecniche differenti per abbordare le questioni. Per quanto
concerne gli episodi emblematici si è creato un classico “cerchio narrativo” e tutti
hanno avuto modo di scrivere e poi narrare in pubblico la storia che avevano fatto
riemergere dal baule dei loro ricordi. Nella seconda sessione dei lavori, invece, li si è
interpellati sempre in forma scritta, chiedendo loro pareri, idee, opinioni che poi hanno
potuto dibattere sia in piccoli gruppi che in plenaria, in modo da completare e
condividere con tutti i partecipanti i definitivi “capitoli”, “paragrafi” e “frasi” da
inserire nel “testo-libro”.
Schematicamente accenniamo ad alcuni degli obiettivi raggiunti:
Obiettivi generali:
-
Costituzione di un nuovo gruppo di lavoro composto da operatori al di là delle
appartenenze associative o istituzionali;
-
Primi passi verso la creazione di una cultura di riferimento che accomuni gli
operatori al fine condividerla per interagire con gli abitanti del quartiere;
62
-
Apprendimento di alcune modalità narrative da implementare per affrontare il
lavoro sul campo;
-
Diffusione di “luoghi narranti” nel quartiere;
-
Sviluppo dell’attitudine alla cura di sé come soggetto professionale bisognoso di
ri-crearsi;
-
Connessione tra lavoro sociale e mondo della vita;
Obiettivi specifici:
-
Ri-narrare in forma differente le situazioni problematiche per enuclearne
intuizioni ancora poco chiare, nuove prospettive e modi di lettura alternativi;
-
Ricerca e cura di sé derivante dall’incontro con le narrazioni altrui;
-
Ricreare contesto di sollievo, di agio, di sostegno reciproco, di ben-essere vissuto
insieme/grazie agli altri;
-
Associare tasselli di momenti autobiografici per intrecciare una “memoria del
futuro” e dunque co-progettare i passi da compiere sula base di una
rielaborazione partecipata del passato;
-
Favorire un contesto adeguato all’espressione personale e allo scambio;
-
Stimolare la produzione congiunta di nuove idee soprattutto in tema di
sostenibilità futura delle progettazioni nel quartiere;
-
Sviluppare maggiore consapevolezza di sé e degli altri senza attivare
meccanismi difensivi di attacco o di negazione;
-
Operare un migliore rilassamento e abbassare le tensioni da lavoro;
Quella che segue è una trascrizione fedele delle storie raccontate (primo
sentiero) e una sintesi di alcuni pensieri emersi (secondo, terzo e quarto sentiero)
mentre una nota interpretativa sarà disponibile in un’altra versione del presente
lavoro. Si ritiene, peraltro, che la semplice lettura dei testi sia di per sé molto
interessante, piacevole, emozionante in alcuni punti, nonché – nella sua essenzialità ricca di stimoli e suggestioni per il futuro del lavoro sociale nel quartiere. Ciò che più
importa non sono tanto i singoli pensieri o frasi (su cui si può anche talvolta essere in
disaccordo) quanto l’immagine globale e l’affresco d’insieme che ci viene rimandato.
Buona lettura!
63
Primo sentiero
EPISODI SIGNIFICATIVI
64
1
Per me quello che mi ha colpito di più è quel poco di cambiamento che ha avuto lo zen
in positivo, perché mi ricordo negli anni 80 c’è stato un periodo che c’era da prendere il
primo volo e partire, perché ogni giorno si sentivano sempre cose brutte, invece da
quando sono diventata mamma tutor e sto a contatto con delle famiglie – bambini si
sente che lo Zen è cambiato, dall’amaro al dolce.
2
La particolarità di vivere un emozione non sta sicuramente nell’aver vissuto un
momento specifico, ma nella sua complessa totalità di eventi vissuti assieme, in questo
caso, ai bambini che frequentavano il doposcuola. Se dovessi trovare un episodio che
mi è rimasto impresso, direi senza ombra di dubbio la festa di carnevale. Bè apparte
vedere il giorno come puro svago e divertimento o come semplicemente il giorno del
travestimento, u buddielluuuu però oggi ancora non ho visto occhi così diversi, così
vicini, tristi ma pieni di emozione, coesi e lontani, ed ancora di più ricordo quel legame
stretto, a volte morboso che si venne a creare tra gli animatori e tutti loro Gabriele,
Desi, Andrea, Salvo, Salvo, Salvo,….perché si chiamano tutti salvo… e questo avviene
semplicemente per vedere la gioia di questi bambini e quando veniamo, perché poi è
quello che ho vissuto, ripagati con un sorriso, un abbraccio, un bacio beh tutta la fatica
lo sforzo ti viene ripagato e questo vale più di ogni altra cosa
3
Per me è stata un’esperienza difficile quella di “fare la mamma tutor” all’interno della
scuola, soprattutto all’inizio.
Ma ricordo tanti episodi e situazioni belle in modo particolare un agita fatta con i
bambini dell’elementari. Siamo andati al Parco di Carini pieno di animali e per me è
stato bello giocare con loro e festeggiare il compleanno di un bambino. Mi piace
divertirmi con loro, mi danno gioia e mi fanno sentire una di loro.
E’ stato ed è bello il rapporto che si è creato con le maestre, mi fanno sentire a mio agio
e si è creata tra noi un rapporto di confidenza.
65
4
Il sorriso, anzi i sorrisi di tutti loro mi hanno colpito… ci hanno in qualche modo
contattato, hanno bisogno di una mano, da poco sono allo Zen, o meglio da poco è stata
data una sede da un politico che grazie alle promesse fatte alle persone dello Zen si
trova sulla sedia che molti ambiscono. Molti si credono potenti in questo modo!
Il quartiere non è molto contento di questo. Incontro una mamma che conosco da
tempo e mi dice: “ci livaro l’associazioni ai picciriddi nostri e ora i miei figli che fanno,
ma perché non se ne tornano nelle loro case” in pochi minuti spiego che loro vivono da
tanti anni allo Zen, che sono come noi cittadini palermitani, che stanno lottando per
essere riconosciuti tali, loro sono Tamil, e questa è una lotta fra poveri.
Hanno bisogno anche di qualcuno che faccia un corso di italiano per gli adulti… i miei
occhi si illuminavano, la mia mente si accende, i miei compagni di vita e di lavoro
capiscono che quella potrei essere io.
Il primo lunedì sera erano in tre, ora sono in 30 e mi chiamano pure il giorno del mio
compleanno e mi ringraziano per ogni cosa e si alzano quando arrivo e questa cosa mi
imbarazza e ogni volta gli spiego che non c’è bisogno, io sono Elbana, non solo la
maestra, sono una palermitana, che li sta aiutando per far si che questa città giorno
dopo giorno possa migliorare, sono la stessa Elbana cha da 11 anno crede che questo
quartiere possa migliorare, crede che tutti insieme possiamo fare qualcosa per
migliorarci.
Continuerò anche senza G.Zen.Net
5
Un giorno particolare, emblematico, non credo, non penso ci sia realmente stato,
perché ogni giorno è stato un giorno particolare a sé.
Per il tipo di attività svolta ogni giorno c’è sempre qualcosa di nuovo, di particolare, un
emozione che vedi negli occhi dei ragazzini che riescono a fare quel trick con gli
attrezzi, l’acquistare sicurezza ed equilibrio con i trampoli.
Si! Nel nostro laboratorio (laboratorio circense) ogni giorno è un momento a sé, non
posso descrivere uno solo, o per meglio dire, mi viene difficile parlare di un giorno in
particolare, sminuirei gli altri giorni ed il lavoro svolto, la complicità, la fiducia che
pian piano si è sviluppata ed evoluta in questo periodo passato insieme a loro.
66
Ogni giorno abbiamo sempre un evento, ogni giorno accade qualcosa di nuovo, un
qualcosa che fa parte delle emozioni che vede e che vivi nei rapporti con questi
ragazzini.
6
Una storia dentro altre storie che si succedono incessantemente una dietro l’altra.
Non esiste per me una storia in particolare ogni momento, ogni incontro, ogni sguardo,
atteggiamento, parole, silenzi di questi ragazzi raccontano un mondo.
Mi viene in mente quando aspettano con i trampoli il nostro arrivo in palestra felici di
vederci e di essere presenti e di vivere assieme quei momenti regalati. Vedo la loro
soddisfazione di riuscita nell’utilizzo di un attrezzo circense, la loro autostima e
sicurezza.
Mi viene in mente un bambino di 8 anni che solamente in un incontro riusciva a far
roteare tre palline, meravigliato e anche un po’ disorientato di un risultato.
Mi viene in mente il carnevale, mi viene in mente un infinità di visioni particolari, per
me da quando arrivo a quando me ne vada è ricco di emozioni, mi colpisce tutto perché
tutto è importante come scrivere delle parole su un foglio bianco
Grazie
7
Per le persone, come me che son cresciute alla Zen ed hanno “continuato” ad operare
con impegno per lo stesso, l’opportunità di un “progetto” complesso ed articolato come
“G.Zen.Net” ha rappresentato una serie di stimoli positivi per continuare questo
legame.
Ovvero l’idea che in questo quartiere sia possibile costruire un intervento di sostegno
sociale partendo dai reali bisogni degli abitanti è stato per inizialmente come
scommettere, oltre che nel proprio vissuto, sulla “eterogeneità” di tutti gli altri soggetti
coinvolti nelle azione progettuali.
Purtroppo questa scommessa è stata parzialmente “persa” in quanto sin dall’inizio è
iniziato lo scontro di personalità tra alcuni soggetti, pur non entrando nel merito delle
questioni, va sottolineato come questi episodi hanno determinato in me la
67
consapevolezza che il “progetto” in realtà servisse più a far emergere ed “imporre” la
propria per validità che a “fare” le azioni che ciascun partner aveva ideato.
8
La data era stata fissata. Non si tornava più indietro. Il tempo passava inesorabile e
quella data fissata sull’agenda restava lì, quella nota “ ore 9.00 allo Zen” sembrava
ormai scolpita come su marmo, indelebile. Non si tornava indietro.
“Di cosa ti occupi?” qualcuno mi chiedeva ogni tanto. Ed io aggiungevo tra le altre cose
“lavoro allo Zen”. Attimi, secondi di silenzio, poi il pallore sul viso misto a sorpresa e
compassione nei miei confronti simile alla reazione che si poteva avere nel dare la
notizia di una partenza senza ritorno per l’Afghanistan oppure ricevere un
apprezzamento e i complimenti come se avessi fatto parte del commando che ha ucciso
Bin Laden poco tempo fa…
Ripresi dallo choc ecco le raccomandazioni della gente per bene e senza alcun
pregiudizio: “Mizzica! Stai attento alla macchina!” oppure “Bedda matri! E ci vai da
solo?? Stai attento”
La data fissata è stata raggiunta, eccomi al mio “ore 9.00 allo Zen”. Mi metto in auto
senza tuta mimetica, né vetri antiproiettili, vestito solo dalla voglia di attraversare il
ponte… andare al di là, oltre ciò che tutti sanno dello zen senza averci mai messo né
piede né respirato la sua aria.
Eccomi dinanzi alla porta di casa lì c’è il ragazzo di cui dovrò occuparmi o meglio dovrò
cercare di accompagnare. E ora?? Che succederà? Chiameranno i vicini e mi
salteranno addosso? Riceverò minacce?? Uscirà il padre, il fratello e… cosa?
Ecco l’incontro. Una stretta di mano. Il gelo si scioglie. Il muro si abbatte. Viene
gettato il ponte tra me e lui, tra “noi” e “loro”.
Adesso lo Zen è fatto di volti, di occhi, di mani, di una porta che si è aperta, una tazza
di caffè che ti viene offerta.
Avevo timore ma sono stato accolto.
Avevo un fascicolo con me ma ho incontrato persone, ho guardato due occhi, ho stretto
una mano.
68
9
Mediterraneo Antirazzista. Velodromo. Viene rubato un borsone. Il borsone
apparteneva ad un ragazzo etiope che veniva da Roma, insieme ad un associazione
aderente al progetto.
Dentro il borsone c’erano il suo telefonino, i ricambi, il portafogli e soprattutto i suoi
documenti, compreso il permesso di soggiorno. Praticamente le cose più importanti per
sopravvivere in Italia.
Insomma, nel bel mezzo di una festa straordinaria arriva questa notizia del cazzo a
rovinare a tutti l’umore.
I colpevoli? Non c’è voluto Sherlock Holmes per individuarli: tre ragazzini dello Zen
che presi dall’atmosfera euforica, e con un po’ di voglia di attirare l’attenzione, era da
un po’ di giorni che rompevano le scatole in giro e così vedendo un borsone incustodito
hanno deciso di continuare lo scherzo con cose più grandi di loro.
Ovviamente conoscevamo già tutti e tre i ragazzini, ad uno di loro in particolare
avevamo
curato “posto casa” il disbrigo delle pratiche per l’iscrizione a scuola.
Conoscevamo anche la madre, la sua dignità e la fatica che questa signora compie per
portare avanti la famiglia, sapevamo anche che il ragazzino era tutt’altro che cattivo,
anzi il problema era probabilmente che era “troppo buono”.
Data l’importanza del contenuto del borsone abbiamo deciso comunque di andare a
casa del ragazzo per dirgli che sapevamo che non era un ladro, ma che era
importantissimo che uscissero fuori almeno i documenti contenuti nel borsone. Si
mobilita un intero quartiere per cercarli, ma i ragazzi ormai si sentivano troppo
mortificati per ammettere la bravata.
Tutto il resto dei partecipanti al torneo fa una colletta per il ragazzo
a minima
ricompensa per la brutta avventura.
Ma non c’è lieto fine. Ci sono solo stereotipi che inevitabilmente si confermano, amaro
in bocca e domande che rimangono aperte.
Quelle per cui è ancora importante continuare a fare questo lavoro.
69
10
Visita al quartiere
Mia figlia mi chiama al cellulare.
“Ciao papà sto rientrando in pullman ad Agrigento. Indovina dove sono stata”
“Forse sei stata qui all’Università. Avete organizzato qualcuna delle vostre visite
guidate con compagni e docenti di Architettura” dico io, senza però riuscire ad
immaginare cosa esattamente possano aver fatto qui a Palermo.
“Hai quasi indovinato; siamo venuti in 20 con il prof. Sciascia a studiare il quartiere
ZEN e dopo una passeggiata nelle strade e tra le insulae abbiamo visitato l’Archivio
presso la scuola Sciascia”
Ero quasi incredulo.
Mi ha colpito, non tanto l’episodio in sé, che qualcuno visitasse questo quartiere. Anzi
io stesso nel passato avevo partecipato a simili passeggiate turistiche.
Mi colpì la rapidità con la quale si era diffusa la notizia che nella scuola era già aperto
e utilizzabile l’Archivio di quartiere.
E’ stata una iniziativa a cui mi si sono dedicato con entusiasmo nell’ambito del
progetto di Fondazione Sud, a attraverso la partecipazione di operatori, gente del
quartiere, docenti delle scuole e dell’Università, avevamo appena concluso la fase di
raccolta di materiali di documentazione. L’Archivio era appena diventato un fatto
concreto. L’Avv. Piazza, responsabile dell’Associazione che lo gestisce aveva già
provveduto all’acquisto delle scaffalature, del computer e della indispensabile porta
blindata.
Mia figlia, con il suo gruppo della Facoltà di Architettura di Agrigento era stata la
prima visitatrice. Orgoglio di papà.
11
Io da quest’anno sono stata coinvolta più da vicino con le attività del laboratorio
scolastico dell’Associazione Centro di Solidarietà “ Don G. Bonfardino”
Quest’anno posso dire che è accaduto per me un avvenimento: mi sono coinvolta,
affezionata, “innamorata” di questi ragazzi, così fragili e al tempo stesso capaci e
desiderosi di essere stimati e accompagnati a prendersi sul serio e a prendere sul serio
le circostanze e le opportunità che la vita ci offre.
70
Martedì mattina 21 Giugno ore 9.00
Alcuni ragazzi sono in attesa di affrontare la prova orale dell’esame di licenza media.
Si prevede un ritardo nella commissione. Mi siedo con A. e decidiamo di rivedere gli
argomenti della tesina, riguardiamo la carta geografica. Ci fermiamo a parlare dei suoi
programmi futuri. Mi dice che da qualche tempo sta riprendendo in seria
considerazione l’idea di proseguire gli studi, iscrivendosi all’Alberghiero per conseguire
la qualifica.
E’ teso, nervoso ,a allo stesso tempo è passato l’atteggiamento di sfida che
caratterizzava il suo impatto con gli adulti all’inizio. Mi chiede spiegazioni e
delucidazioni sugli argomenti ed è disposto a lavorare fino alla mezz’ora prima degli
esami.
Arriva il momento.
A. si siede ed espone con fierezza e padronanza gli argomenti che avevamo preparato.
Il discorso si amplia….le Torri gemelle… Bin Laden… A. non si tira indietro riesce a
tener testa alla conversazione dimostrando una buona conoscenza dei fatti di attualità.
La commissione gli chiede dei suoi progetti per il futuro. Alla fine uno dei prof gli dice
“ti ho osservato in questi giorni… Ti ho visto cambiato hai affrontato questi esami con
la maturità di un ragazzo di 20anni” e A. “Si cresce, prof”.
Quello che desidero per questi ragazzi è che possano vivere “all’altezza dei loro
desideri…”
12
Io come mamma tutor ho avuto una esperienza molto bella anche se i primi giorni e
stata dura perché non mi conoscevano nel quartiere però giorno dopo giorno ho
acquistato fiducia. Dicendogli che non ero un’ assistente sociale, anzi, poi erano i
genitori stessi a dirmi di far capire ai suoi figli che la scola era importante.
E ancora oggi dopo tanto tempo quando mi vedono mi abbracciano e mi baciano
dicendomi sempre grazie.
71
13
Assalto al Buio
Raccogliere i pensieri, le idee, le emozioni di punto in bianco non è mai semplice per
me.
Raccontare una delle migliaia straordinarie “ cose” vissute o semplicemente osservate
qui allo zen per me che ho avuto la fortuna di vivermi la mia infanzia serenamente
non è immediato.
Sicuramente non basterebbero 2 risme di carta per raccontare, tra correzioni e
aggiunte, le “cose” … e si perché per me si tratta di “cose”, di “cose” che ci sono, che ho
visto e di “cose” che non ci sono.
Ho sempre avuto un punto di vista molto materiale sul mio impegno qui allo zen.
Quello che c’è è quello che manca… quello che manca dove c’è e quello che c’è dove
manca…
Si ma in fondo, cosa manca…. Il lavoro, l’istruzione, spazi per la cultura, ambienti
sani, in una parola “serenità” di credere in un futuro bello, solare, possibile per se e
per i propri cari.
E poi cosa c’è… una energia incredibile, una forza di viversi un quotidiano non
mediato da regole che vengono da lontano, un lontano però solo geografico in questo
caso.
E si perché parole e atteggiamenti purtroppo hanno molto di lontano in questo pezzo
importante di Palermo.
Ecco perché per me è un “assalto al buio”
La forza non manca,
l’intelligenza è oltre,
l’umiltà è abbondante,
la voglia è coinvolgente,
la necessità collettiva è una giusta alchimia!!
Grazie Zen!
72
14
Ai margini di una fotografia
Festa finale per la chiusura del doposcuola nel mese di maggio, intorno alle tre del
pomeriggio, ci ritroviamo con le mie colleghe, qualche aiutante in palestra per mettere
a posto le ultime cose prima di dare via alla festa; una festa organizzata da tempo che
abbiamo voluto intitolare “festa della famiglia” col chiaro intento di incontrare la
famiglia ma soprattutto di consentire alle famiglie di incontrare, nel senso di venire
incontro ai propri figli.
I momenti in cui avevamo pensato di articolare la festa
consistevano per primo nella costruzione partecipata genitori – figli, di un lavoretto
nel quale bisognava creare una cornice ad una foto che noi provvedevamo a scattare al
momento dell’ingresso, questa foto avrebbe dovuto cogliere la famiglia in un momento
di unione, di collaborazione, nella presenza, nel suo esserci, lì e non altrove… per gli
altri momenti erano previsti dei giochi e un rinfresco.
G. un bambino di 8 anni, con occhi azzurri intensi e densi ogni volta di un sentimento
diverso, purtroppo spesso attraversati dalla scontentezza, dalla furia, dalla lotta, dalla
voglia di fuggire, che ci mettono molte volte di fronte ad un comportamento che non
riusciamo a comprendere e che ci impedisce di incontrarlo, non voleva fare la foto con
la mamma e le sorelle, ha strepitato, ha scalciato, ha urlato, si è nascosto: la macchina
lo ha immortalato in un angolo della foto, imbronciato e con gli occhi lucidi, mentre il
resto della sua famiglia sorrideva.
15
Ricordo quando ero piccola che giocavo sempre ai campetti di via Adamo Smith
insieme ai miei amici, ci divertivamo un mondo tra i giochi e l’aria pura che
respiravamo tra gli uccelli che cinguettavano la nostra innocenza e spensieratezza, e
un ricordo bellissimo mi piacerebbe ritornare indietro e riviverlo.
16
SONO MANI CHE PARLANO
QUESTE PICCOLE MANI. . . QUANTE PICCOLE MANI
QUANTA POTENZA IN QUESTE PICCOLE MANI. . .
TI SPINGO . . . TI TOCCO. . . TI PARLO CON
73
LE MANI. . . E’ MIO!
PRENDO IL COLORE, PRENDO LA GOMMA, LO STRAPPO
GRIDO CON LE MANI. . . MI AFFERRO CON LE
MANI. . . MANI CHE MI RAPPRESENTANO!
SONO PICCOLE MANI CHE
APPARTENGONO A BAMBINI “TROPPO GRANDI”: SONO
LA LORO VOCE, LA LORO PAROLA, LE LORO EMOZIONI.
TUTTO NELLE MANI. . .
SIAMO INSIEME. . . STIAMO GIOCANDO. . . PROVIAMO AD
INCONTRARCI, A COMUNICARE : RISCOPRIAMO LE MANI.
E COSI’ LASCIAMO NUOVE IMPRONTE COLORATE SU UN CARTELLONE
BIANCO, DENTRO UNA NUVOLA. . .
BASTA UN ATTIMO. . . ED ECCO LA TRASFORMAZIONE
MASSAGGIO LE PICCOLE MANI PIANO PIANO
LE AVVICINO LE UNE ALLE ALTRE E, COME
X MAGIA ECCO CHE SI TOCCANO GIOIOSE, ALLEGRE, GIOCOSE
AMOREVOLI: SONO LE PICCOLE MANI DI BAMBINI PICCOLI
CHE GIOCANO E PARLANO!
DEDICATO AI BAMBINI DELLA SCUOLA ELEMENTARE (IV C) SCIASCIA
17
La cosa che mi ha colpito
È stato 3 – 4 anni fa. C’era la festa della Madonna. . . mentre camminavo verso le Zen
2 il prete diceva lave maria. Ad tratto anno aceso lo stereo in tutto volume e mentre
alziamo la testa per vedere chi era stato ci arriva un secchio d’aqua. In quel momento
ho avuto tanta vergogna come se que secchio daqua lavessi lanciato io me ne sono
ritornata a casa molto triste.
Forse perche nel mio quartiere ci degno molto e non ho vergogna di dire Abbito allo
ZEN
74
18
L’episodio che ricordo con maggiore chiarezza di dettagli è quello relativo al caso di un
adolescente a rischio di drop-out, affidatomi dal Servizio Sociale. Ricordo ancora molto
bene il groviglio di emozioni che mi ha accompagnato il giorno in cui decisi di
“mettermi alla ricerca, nel senso letterale del termine, di Ignazio, era questo il nome
del ragazzo con il quale avrei dovuto cercare un “confronto” o forse uno “scontro”. Con
me avevo solo un nome, un cognome e il nome della “scala”, una delle tante che
compone, come un pezzo di un puzzle, uno dei padiglioni del quartiere San Filippo
Neri di Palermo. Dopo essermi addentrata all’interno del Padiglione, e dopo diverse
vicissitudini, riesco a prendere i contatti con la famiglia di Ignazio, la quale mi accoglie
con sorprendente entusiasmo, forse perché riponevano nella mia “figura” tutte le loro
speranze di poter finalmente “condurre il figlio nella retta via” sempre che una retta
via ci sia. Faccio appena in tempo a sedermi che mi ritrovo inondata di racconti
relativi alla vita del giovane adolescente caratterizzati da rifiuti, “cattive amicizie”,,
scelte sbagliate, mancato rispetto e riconoscimento per la famiglia e il contesto scuola.
Il suo rifiuto per la scuola, per le regole, per il lavoro ha portato la famiglia a chiedere
aiuto ai Servizi Sociali, affinché il figlio venisse allontanato dal quartiere “Zen”, visto
come luogo di perdizione di se stessi, delle proprie risorse, ambizioni e desideri, per
poter intraprendere un percorso di crescita presso una casa famiglia, ma tutto a una
condizione, che essa fosse fuori città, come a voler metaforicamente rappresentare il
loro desiderio di “trascinare” letteralmente il figlio fuori dal loro “ microcosmo” quasi
in modo salvifico e magico.
Di fronte a me avevo lo sguardo perso nel vuoto di Ignazio, che incontro dopo incontro
ha iniziato gradualmente ad incrociare il mio e che adesso forse guarda più lontano
verso una direzione.
Adesso frequenta un corso professionale, non so cosa farà del suo futuro, ma forse sarà
contento di aver trovato nella sua vita una mano tesa verso di lui, uno sguardo attento
alle sue vicissitudini di vita quotidiana e un amico pronto ad ascoltarlo.
75
19
Fiducia
Un giorno di primavera mi trovavo all’interno di una casa ad ascoltare una donna, una
mamma che raccontava la propria storia e quella della sua famiglia.
Durante il racconto la mia attenzione venne distolta da un'altra donna che era intenta
a sbucciare una banana a suo figlio. La cosa che mi colpì fu che la donna faceva questa
operazione fumando. Teneva la sigaretta ora in bocca ora in una mano mentre dava
dei pezzetti di banana al figlio che la guardava.
“Ma come si fa a dare da mangiare ad un bambino così piccolo con una sigaretta in
mano, con la cenere che cade continuamente” pensavo.
Nei giorni seguenti conobbi la donna e anche la sua famiglia e così come per le altre
famiglie cercai di rispondere alle richieste che di volta in volta mi venivano fatte.
Questa donna aveva un altro figlio. Una bambina di sette anni circa, di costituzione
più piccola rispetto all’età ma molto sveglia. Non parlava bene. Inizialmente non
riuscivo a capirla avevo bisogno di un “traduttore” che di volta in volta era la mamma
o il papà.
Questa bambina era molto vivace e col tempo scoprì che assumeva o le davano compiti
superiori alla sua età, come per esempio occuparsi del fratellino più piccolo.
Avevano fiducia in me e io in loro. Cercavo di aiutarli come meglio potevo anche se non
sempre riuscivo a risolvere tutti quei problemi che mi venivano chiesti. Mi chiamavano
anche in orari che non erano quelli di lavoro per chiedermi cose che in quel momento o
non riuscivo a soddisfare o che erano totalmente banali che si risolvevano in quel
momento.
Una mattina ricevo una telefonata. Mi viene detto che la bambina ha avuto un
incidente. E’ stata investita da una moto davanti casa. Le hanno rotto il femore e il
bacino.
La vado a trovare in ospedale. Nella stanza dove si trovava c’era la nonna. I genitori
erano a casa a prenderle un cambio. La bambina ha uno sguardo vuoto, spaventato mi
racconta cosa si è rotto e cosa le hanno fatto. E’ immobilizzata dal bacino in giù. Non
sembra perdere la vivacità che l’ha sempre contraddistinta.
Sto un po’ lì cercando di rassicurarla poi vado via.
76
Nei giorni successivi chiamo i genitori per saper se ci sono progressi. Mi raccontano
che l’hanno operata e ingessata. Il giorno successivo alle dimissioni della bambina
dall’ospedale vado a trovarla.
La bambina ha il gesso dal bacino alle gambe e questo non le permette neanche di
stare seduta.
Sono molto colpito da questa visione. Ma c’è una cosa che mi sorprende. La madre mi
racconta che mentre la bambina era in ospedale sono venuti i carabinieri e i “miei
colleghi”, si sono presi la bambina di lato e l’hanno interrogata, chiedo il perché. Mi
dice che non credono in un incidente ma che qualcuno dei componenti della famiglia
l’ha picchiata: così risulta da una denuncia anonima.
Guardo entrambi i genitori negli occhi e gli chiedo se c’è qualcosa di vero. Mi giurano
che non è così che c’è qualcuno che gli vuole del male. Giro il mio sguardo verso l’altra
donna, presente al racconto dei genitori. Mi guarda ma non dice nulla. . .
20
Erano i primi giorni di Novembre,il mio ruolo di coordinatore presso il doposcuola
dell’Associazione Lievito era iniziato da poco. Come spesso accade, quando si prende il
posto di un responsabile in corso d’opera, il primo periodo serve a capire come
funzionano le cose e come poter sistemare tutti possibili problemi esistenti.
I primi giorni furono molto difficili, non era facile trovare una soluzione a tutte le
piccole cose che, secondo me, non andavano bene.
Il problema principale che avevo rilevato era il numero eccessivo di bambini rispetto
ad operatori e volontari presenti nella struttura.
Decisi come prima cosa di non accettare altri bambini e cercare di coinvolgere più
volontari in questo progetto.
Nelle successive due settimane ebbi tante segnalazioni, tanti genitori richiesero di
poter iscrivere i loro figli al doposcuola, ma con sommo dispiacere, fui costretto a non
accettare le richieste.
Un giorno una maestra ripropose di iscrivere un bambino per il doposcuola, spiegai la
situazione ma lei insistette motivando il tutto con una frase che mi spiazzo: “Questo
bimbo ha grossi problemi in famiglia”. Inizialmente pensai, che purtroppo, in quartiere
77
tanti bambini avevano problemi familiari ma le dissi che avrei incontrato il padre del
bimbo per capire come aiutarlo.
L’incontro con il papà di Giuseppe fu inizialmente disastroso. Lo vedevo come una
persona che pretendeva un aiuto che purtroppo sapevo di non poter fornire.
Che fare, presi un po’ di tempo per capire meglio la situazione. Lui però insisteva,
aveva tantissime buone motivazioni che io ignoravo.
Un giorno mi spiegò le sue difficoltà, i suoi problemi si aprì davvero con me e mi
raccontò il suo dramma familiare.
A quel punto mi convinse che forse il suo modo fare, il suo “pretendere” derivasse da
questo suo dramma e mi decisi a far entrare Giuseppe nel progetto.
Dopo 6 mesi ogni volta che incontro quest’uomo vedo nei suoi occhi la gratitudine.
21
Io come mamma tutor sono contenta perché o avuto dell’esperienze che non conoscevo
cioè: cioè stare a contatto con la scuola con le insegnanti, gli alunni e le famiglie
soprattutto. Un giorno la scuola ci ha chiamato per andare a consegnare delle lettere
la cui una famiglia non la trovavamo, non la conosceva nessuno.
Siamo saliti in un padiglione domando se conoscevano questa famiglia e tutti ci
dicevano no poi ci hanno chiesto se eravamo dell’assistenza sociale e noi con
gentilezza abbiamo detto no noi siamo mamme tutor che siamo ad disposizione della
scuola cioè portare comunicazioni alle famiglie da parte della scuola, lavoriamo sia con
le mamme e con i figli.
Solo dopo aver spiegato cosa significava mamma tutor ci anno detto dove abitava la
signora.
Abbiamo avuto modo di conoscere la Signora che ci ha invitati a casa sua e abbiamo
consegnato la comunicazione della Preside.
La signora ci ha ringraziato ed era molto contenta, e noi più della Signora perché
abbiamo realizzato il nostro obbiettivo.
22
Uno dei partecipanti, anche sulla base della sua competenza specifica in materia, ha
preferito un racconto orale e ha riservato al foglio bianco consegnatogli, un disegno
della situazione raccontata.
78
Secondo sentiero
LE COSE ANDATE STORTE
79
Questioni Strutturali del Progetto:
-
Il rischio di una “settorializzazione” degli interventi che, non dialogando fra
loro, potrebbero non raggiungere il cuore della situazione nella sua complessità;
-
Mancanza, talvolta, di risorse strutturali per consentire una buona fruizione
delle azioni previste (es. sede centro di prossimità, mezzi di trasporto autonomi,
ecc);
-
Rete forse troppo vasta e bisognosa di un rodaggio più esteso. Reti così ampie,
complesse e variegate devono dotarsi di organizzazione e regia molto ben
strutturate;
-
Una migliore pianificazione in alcune aree progettuali e la necessità di inserire
meglio GZenNet in una storia ed in un flusso di lavoro sociale pluridecennale,
per evitare inutili duplicati e per non disperdere esperienze cruciali;
Questioni legate all’Attuazione del Progetto
-
La quantità di utenza e di bisogni da esaudire superiore alle reali possibilità
offerte;
-
In alcuni momenti difficoltà di coordinamento tra partner o tra azioni con
problemi di comunicazione che, però, venivano sempre affrontati per trovare
delle soluzioni efficaci;
-
Una
pubblicizzazione da incrementare significativamente sia all’interno del
quartiere che della stessa rete progettuale;
-
Su alcune azioni una forte inerzia burocratico-amministrativa dell’Ente Locale;
80
-
Per l’estensione della rete molto vasta e la complessità del lavoro da svolgere,
alcuni momenti organizzativi e riunioni sono apparsi piuttosto faticosi e talvolta
non molto produttivi;
-
In qualche caso difficoltà varie presso le strutture dove gli operatori si recavano
per effettuare le attività (per es. sovrapposizione a scuola di attività interne e
attività progettuali);
-
Un lavoro ancora insufficiente per stimolare l’autosostenibilità del progetto e del
quartiere;
-
L’assenza di un posto fisico unico, riconoscibile, permanente dove effettuare
alcune delle attività (per es. Centro di prossimità);
-
Necessità, in taluni casi, di immettere risorse proprie delle associazioni per
consentire l’efficacia della azioni stesse;
-
Vicissitudini personali imprevedibili dell’utenza che hanno inficiato alcuni
risultati molto positivi che gli operatori e il progetto stavano raggiungendo
81
Terzo sentiero
CONQUISTE, INTUIZIONI, SCOPERTE
82
Se si stringono legami di cooperazione, fiducia, affetto, collaborazione, scambio
tra genitori/famiglie ed operatori si può con più facilità, vista la loro ritrosia, accedere
al loro mondo e avere così la possibilità di proporre attività e momenti che portino con
sé informazioni ed esperienze affettive discordanti e dissonanti rispetto al modo in cui
essi danno significato alla realtà e dunque in parte trasformativi se accompagnati da
consapevolezza;
Stupore e soddisfazione per la consapevolezza e l’apprezzamento che gli abitanti dello
Zen (bambini e adulti) hanno fatto del lavoro svolto dagli operatori di GZenNet;
La motivazione enorme che deriva dal vedere i sorrisi e la felicità degli utenti, il
vederli passare da “un sacciu niente” a “ci provo”;
La scoperta condivisa con gli abitanti che chiedere un “supporto” non è una debolezza
ma un punto di forza e dona, paradossalmente, maggiore fiducia in se stessi;
La comprensione che lo Zen non è un quartiere da occupare ma un mondo da scoprire e
che avvicinarsi ad altre modalità di vedere le cose può solo arricchirci;
L’apertura alla diversità interna al quartiere ha permesso di osservare e far venir
fuori il profondo desiderio degli abitanti di impegnarsi in una qualche attività
formativa, di conoscere altre possibilità, di riuscire, di avere opportunità nuove e
diverse, di luoghi di incontro;
L’importanza di mantenersi umili, in ascolto, passibili di fallimenti, con una visione
inevitabilmente parziale, capaci di attendere i “tempi” del cambiamento senza forzarli,
consapevoli che ci sono modi di vivere lontani dal nostro ma che hanno una loro
coerenza ed efficacia. Ciò permette anche di vedere il quartiere come un soggetto che
deve contare progressivamente sulla sua capacità di farcela da solo e di
autonomizzarsi;
83
Fiducia nuova nella possibilità di ridare spazi al quartiere e alle persone;Spazi di
agibilità non possibili prima
Nuova consapevolezza che il nostro lavoro si incrocia con grandi temi e macrosistemi
politici, culturali e finanziari. Esempio emblematico sono i grossi progetti speculativi
sullo Zen;
La scoperta della centralità del sapere flessibilmente rimodulare pragmaticamente i
progetti, anche quelli pensati da altri;
Avere conquistato il piacere nelle cose che si fanno ha fatto apparire il lavoro in una
dimensione pur sempre professionale ma più umana e meno faticosa. La “riscoperta”
del valore assoluto dell’altro e della propria storia ha rinforzato il valore
dell’esperienza e la spinta motivazionale ad andare avanti nonostante gli ostacoli e le
difficoltà
Scoprire che, talvolta, non devi necessariamente andare lontano per trovare soluzioni
o opportunità ma basta “ bussare” alla porta del vicino.
Una conquista è il lasciare che gli abitanti (per esempio le mamme tutor) siano i
protagonisti della propria crescita psicologica e culturale, anche nelle relazioni sociali.
Il quartiere è risorsa per se stesso ed è complementare ad un’opera di sensibilizzazione
sull’uso di spazi, cose e relazioni.
Si può ipotizzare la chance di “esportare” lo zen con alcuni suoi elementi di vitalità,
identità e desiderio di entrare in contatto con altre realtà cittadine e non.
Un’intuizione profonda è comprendere che al di là dei bisogni primari molti eventi
mostrano che migliorando la qualità della vita (anche culturale) si cresce come
autostima, capacità percepita di potercela fare e di stare meglio (aiutando anche
l’auto-progettazione sui bisogni primari);
84
Il quartiere in realtà “cambia” sempre, a dispetto dell’immagine di immutabilità
statica. Partecipando a flussi (globali ecc..) si determina una comunità di flussi e non
solo di luoghi
I progetti devono prevedere una sostenibilità altrimenti si rischia di aprire aspettative
che verranno deluse
La capacità di per sé curativa e apportatrice di benessere della dimensione del
dare/ricevere
85
Quarto sentiero
Impegni per l’avvenire
86
Molti dei partecipanti hanno manifestato l’intenzione di:
-
continuare ad impegnarsi anche dopo l’esperienza di G.ZEN.NET, continuando
a far rete sulla base di nuove spinte emotive e motivazioni, di nuovi incontri con
gli abitanti del quartiere;
-
responsabilizzare e condividere costantemente con i vertici delle loro
Organizzazioni ed Enti affinché il sostegno ed il lavoro sociale del quartiere non
sia un fenomeno isolato ma una strategia complessiva di cambiamento che
favorisca la messa in luce di una pluralità di risorse;
-
ristrutturare le attività da proporre ai cittadini per migliorare quantità e
qualità delle offerte e per renderle sempre più vicine ai reali bisogni, soprattutto
di chi appare maggiormente in difficoltà;
-
Mantenere rapporti costanti con i nodi della rete risultati particolarmente
adeguati ad un lavoro coordinato e integrato, sviluppando il partenariato che
riesca ad avere metodologie condivise, obiettivi comuni ed interventi mirati;
-
Impegnarsi non solo per un’azione sociale ma anche politica verso i cittadini e
l’amministrazione comunale;
-
Con passione provare un “assalto al cielo” per non “gettare tutto al vento”;
-
Avere uno sguardo e un’azione più ampia e globale verso la persona, nella
complessità dei suoi bisogni e risorse, non limitandosi ad un intervento di
pronto soccorso, riuscendo ad andare oltre l’incarico “istituzionale” affidato,
oltre i ruoli e le consegne ricevute e prendendo a cuore le storie degli abitanti
del quartiere;
-
Non perdere mai l’impegno, lasciare sempre un tempo da dedicare allo Zen,
preservare la voglia di fare con entusiasmo e di rischiare;
-
Provare a mettere in pratica le seguenti parole-chiave:
o perseveranza e mai resa;
o continuità e gioia;
o Capacità di sacrificio e di sorriso;
o Essere pungolo per coloro che smettono di credere;
-
costruire assieme agli attori (che hanno voglia reale di scommettere)una rete
“forte ed autorevole” in grado di progettare e attuare percorsi progettuali.
87
-
costruzione e regalo di trampoli personalizzati;
-
possibilità di mandare avanti il lavoro svolto con i ragazzi e non deluderli con
una nostra scomparsa nel loro quartiere.
-
Nella continuazione del lavoro sociale assicurare al quartiere una proposta più
variegata e con strumenti ancora più idonei;
-
Impegnarsi a “far emergere” piuttosto che “introdurre” cambiamenti: “il deficit
principale da colmare non sono le infrastrutture o le opportunità socioeconomiche e lavorative, ma la formazione delle persone. Vi è un enorme
potenziale umano e sociale del tutto represso. Il basso grado di istruzione della
popolazione adulta e la scarsa qualità delle relazioni interpersonali dentro le
famiglie e nell’ambito sociale più allargato, impediscono di far concretizzare le
speranze ed i progetti di vita di ciascuno”;
-
Incrementare le sperimentazioni relative alla peer education e a quella in cui gli
adulti diventano facilitatori dei progetti di altri adulti;
-
Più concretamente ci si impegna a continuare a realizzare il carnevale sociale, il
mediterraneo antirazzista, un percorso di accompagnamento alla genitorialità
presso il consultorio, le attività di sostegno scolastico;
88
Bibliografia essenziale
Bruner Jerome, (1996), “La cultura dell’educazione” Feltrinelli, Milano
Cavallo Michele, (2001), “Il racconto che trasforma”, EdUP
Demetrio Duccio, (1999) “Raccontarsi”, Raffaello Cortina, MIlano
Farello Patrizia e Bianchi Ferruccio, (2001), “Laboratorio dell’autobiografia”, Erickson,
Trento
Kaneklin Cesare, Scaratti Giuseppe, (1998), “Formazione e narrazione”, Raffaello
Cortina Editore, Milano
Merletti Rita Valentino, (1998), “Raccontar storie”, Mondadori, Milano
Nannicini Adriana, (1998)
Scaratti, op.cit.
“Narrazione, formazione e letteratura, in Kanekline
Tomisich Manuela, (1998) “Scuola e formazione”, in Kanekline Scaratti, op.cit.
89