1943-1947 - Progetto Fahrenheit

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1943-1947 - Progetto Fahrenheit
poloniaeuropae
Storie.Spazi.Idee in rete
Ricordare
la seconda guerra mondiale
n. 1/2010
In copertina: dettaglio da Pablo Picasso, Visage de Femme (5 décembre 1950), disegno di una serie
di 29 intitolata Visages de la Paix, edita in volume da Cercle d'Art nel 1951 insieme a 29 poemi di
Paul Eluard, e riproposta ora sotto forma di piatti in ceramica da Galerie l’Art e la Paix Éditeur ©
Succession Picasso, Paris.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
indice
RICORDARE LA SECONDA GUERRA MONDIALE
Paolo Morawski
Ai nostri lettori
GUERRA POLACCA, EUROPEA, MONDIALE
Norman Davies, Włodzimierz Kalicki
Polacchi, nazisti, sovietici, alleati, americani, europei (due interviste)
Sandra Cavallucci
La seconda Repubblica di Polonia nel 1939: tra mito e verità storica
Francesco M. Cataluccio
La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo
Christian Bernardo
La Svizzera e gli internati militari: dall’armata dell’Est del generale
Charles Denis Bourbaki alla seconda Divisione fanti fucilieri del
generale Bronisław Prugar-Ketling
John e Carol Garrard
Finalmente libero: Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado
POLACCHI, TEDESCHI
Giuseppe [Józef] Czapski
Sull’insurrezione di Varsavia. Lettera aperta a Giacomo Maritain e
Francesco Mauriac, del 5 ottobre 1944
Jacek Zygmunt Sawicki
Lotte per il monumento in ricordo dell’insurrezione di Varsavia del 1944
Marianne Birthler, Joachim Gauck, Anna Kaminsky
Festeggiare il 1989 significa anche ricordarsi del 1939. Lettera degli
intellettuali tedeschi per il 70° anniversario del patto Hitler-Stalin
del 23 agosto 1939
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
indice
Józef Michalik, Robert Zollitsch
Dichiarazione del Presidente della Conferenza episcopale polacca S.E. Józef
Michalik e del Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi S.E. Robert
Zollitsch in occasione del 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra
mondiale, il 1° settembre 1939
Basil Kerski
Cambia il clima, cambiano le narrazioni. Appunti su come i tedeschi
ricordano la guerra e sui contrasti polacco-tedeschi intorno al
“Centro contro le espulsioni”
POLACCHI, UCRAINI, RUSSI
Paolo Morawski
Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
Krystyna Kalinowska Moskwa
Il museo virtuale Kresy-Siberia
Vincenzo Maria Palmieri
I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń pubblicati su “La vita italiana”
(luglio 1943)
Kazimierz Karbowski
François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta del 1943
sul massacro di Katyń
Paolo Morawski
Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe» e la manipolazione della verità
Aleksandr Šelepin
Lettera sull’eliminazione dei prigionieri polacchi del capo del KGB a Nikita
Sergeevič Chruščёv, primo segretario del Comitato centrale del PCUS,
scritta il 3 marzo 1959
Joanna Żelazko
I russi e Katyń oggi
Redazione di “poloniaeuropae”
Settantesimo anniversario dell’aggressione di Hitler alla Polonia
Adam Michnik
Lettera aperta al Presidente Vladimir Putin sulla seconda guerra mondiale
e i rapporti tra polacchi e russi. Con una nota su Katyń, tra storia e
propaganda
Francesco Maria Cannatà
“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
indice
L’ODISSEA DEL SECONDO CORPO D’ARMATA POLACCO
Gustaw Herling-Grudziński
L’ultimo capitolo (25 agosto 1969)
Józef Czapski, Gustaw Herling-Grudziński
Dialogo intorno al Comandante, il generale Władysław Anders, in occasione
della sua scomparsa (1970)
Gustaw Herling-Grudziński
Ritorni a Montecassino «l’ultimo cimitero della Repubblica polacca».
Pagine dal Diario scritto di notte (1984-1994), a cura di Marta Herling
Marta Herling
Una lapide di sasso nel gulag. Sulle tracce di Gustaw Herling da Ercevo
a Montecassino
Giuseppe Campana
1943-1947. Il secondo Corpo d’armata polacco in Italia
Mieczysław Rasiej
Il mio lungo cammino verso Torino
Alberto Turinetti di Priero
Una grande e terribile battaglia, ma non tutto accadde a Montecassino e
Cassino
Valentino Rossetti
“Dal Volturno a Cassino” — un sito italiano dedicato alle battaglie
di Cassino
Lutz Klinkhammer
Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania, lungo la linea Gustav,
a Montecassino
Helena Janeczek
Venti tombe con la stella di Davide nel cimitero polacco di Montecassino
Fondazione romana J. S. Umiastowska
Opere riguardanti il secondo Corpo d’armata polacco possedute
dalla biblioteca della Fondazione (aprile 2010)
Mario Fratesi
Le ricerche sul secondo Corpo d’armata polacco in Italia. L’attività svolta
dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche
Basil Kerski
La rivista “Kultura” di Jerzy Giedroyc
Redazione di “Kultura”
Il primo editoriale della rivista dell’emigrazione polacca (1946)
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indice
MEMORIE UNITE E DIVISE
Parlamento Europeo
Sul 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale conclusasi
l'8 maggio 1945
Parlamento Europeo
Sui crimini di guerra commessi dai regimi totalitari
Parlamento Europeo
Sulla proclamazione del 23 agosto “Giornata europea di commemorazione
delle vittime dello stalinismo e del nazismo”
Simone Sibilio
Seconda guerra mondiale e cinema documentario: alcune memorie della riva
sud del Mediterraneo
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Ai nostri lettori
di Paolo Morawski
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ndagare il «volto di una cultura di cui sappiamo soltanto che esiste e che noi
amiamo senza poterne ancora individuare le risonanze». A parlare così nel 1938 era il
romanziere, filosofo e drammaturgo francese Albert Camus in riferimento al Mediterraneo. Oggi è la vecchia Europa rinnovata che ci appare esuberante di vita in tutti gli
ambiti della creatività, veemente nella sua diversità, forte del contrasto tra i suoi molti
sud, nord, est, ovest. Quest’Europa giovane eppure saggia, rivolta indietro quanto proiettata in avanti vorremmo coglierla attraverso una finestra particolare — quella polacca;
e attraverso un filtro peculiare — quello italiano. Ragionare sulla Polonia dall’Italia in modo
non esclusivo; introdurre nuove curiosità verso un paese lontano e al contempo vicino; inseguire più vasti lidi europei immettendo un fattore di benefica distanza dalle vicende tanto
polacche quanto italiane — ecco le prime disordinate ambizioni di poloniaeuropae.
poloniaeuropae non nasce da alcuna pressante necessità del momento. La sua urgenza, semmai, è data dalla passione per il confronto, dall’interesse per l’effervescente
simultaneità dei tempi storici, dalla costante attenzione per la traduzione. Traduzione
da una lingua all’altra ma, con intenti più larghi, traduzione da una sensibilità e cultura a un’altra. Consapevoli del fatto che in Europa — e non solo nell’ambito dell’UE —
le prospettive bilaterali hanno la loro importanza, certo, ma solo se arricchite da una
visione d’insieme, continentale, allargata a est e a sud all’intero spazio euro-mediterraneo: dal Baltico al Mar Nero all’Atlantico. Uno spazio che — come la stessa Polonia,
come la stessa Italia, come ieri l’Est e oggi il Centro-Est — si presenta plurale, eterogeneo, differenziato, dinamico, non esattamente delimitabile, mutante.
Storie. Spazi. Idee in rete — recita il sottotitolo di poloniaeuropae.
Storie: perché quello che ci lega e divide come europei è, oltre alla lingua, innanzitutto la storia, ciò che riconosciamo come tradizione; quindi i “nostri” modi diversi
o comuni di intendere i fatti, talvolta gli stessi fatti, donde un plurale di narrazioni individuali e collettive, antiche o recenti quando non in atto, che difficilmente si lasciano
ricondurre a un unico denominatore.
Spazi: perché non c’è storia senza geografia, tempo senza spazio, fatto senza
luogo, contenuto senza contenitore — e viceversa. Ricordarlo non è banale. “Spazio”
evoca più aperte estensioni, più ampi cieli e orizzonti, fisici e mentali.
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Ai nostri lettori
Idee: parola sempre giovane, meno lisa forse di “dialoghi” o di “incontri”, che comunque ricerchiamo. Le idee racchiudono forme di incontro, di dialogo. Evocano un senso
di ebollizione creativa, vitale. Il dialogo, un muoversi generoso in avanti e indietro.
L’incontro, un senso di accoglienza, un andare verso. E richiama pure, nell’etimologia,
il corpo a corpo, meglio se critico, con l’altro — tema, oggetto, territorio, persona o
gruppo umano che sia.
In rete: qui i contenuti sono gratuiti. In rete possiamo raggiungere tutti gli interessati. La rete è réseau, network.
Il titolo poloniaeuropae unisce due parole declinate in latino. In latino, per abbracciare ciò che è diviso. In latino si è costruito gran parte del sapere che le diverse
aree del continente si sono trasmesse nel corso dei secoli in tutti i campi. In latino si
sono incontrati mille anni fa i primi “polacchi” con i primi “italiani”. Il latino: lingua viva
finché il mondo classico e il pensiero antico continuano a esserci contemporanei. Non
solo, dunque, per un fatto grafico, per gusto estetico. Per una questione di radici profonde.
Il primo campo visivo di poloniaeuropae riguarda la seconda guerra mondiale con
particolare attenzione al modo in cui, attorno alle singole vicende belliche e della ricostruzione, le esperienze e i punti di vista dei polacchi si intersecano con altre sensibilità
e altri punti di vista, in patria e all’estero. Nel prisma della guerra si è scomposta l’intera Europa. La cesura del 1939-45 ha segnato la “fine del mondo di ieri”. Oggi il futuro
del continente si gioca anche in relazione alla capacità di costruire un minimo territorio
comune sul piano delle memorie, per ora divise.
14 marzo 2010. Grazie all’apporto fondamentale dell’Ufficio Consolare dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia a Roma e della Fondazione Romana J.S. Umiastowska
di Roma, inauguriamo poloniaeuropae.
Paolo Morawski. Nato a Varsavia (1955). Vive e lavora a Roma. Dirigente RAI. Studioso di
storia europea. È co-coordinatore di “pl.it — annuario italiano di argomenti polacchi”. Collabora a “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, a “Polonia Włoska” e alle attività scientifiche della Fondazione romana J.S. Umiastowska di Roma. Con il fratello Andrea
Morawski ha scritto Polonia Mon amour. Dalle Indie d'Europa alle Indie d'America (Ediesse,
Roma 2006). Dal libro è nato poi il blog “Polonia mon amour” (www.polonia-monamour.eu). Con Jacques Le Goff ha scritto per i licei italiani il manuale Età medievale
(Marietti, Milano 1988).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Guerra polacca, europea, mondiale
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Polacchi, nazisti, sovietici, alleati, americani, europei
(due interviste)1
di Norman Davies, Włodzimierz Kalicki
Traduzione di Urszula Jasińska
Nel 1939 i polacchi si sono comportati molto bene. Il bilancio di sei anni di
guerra2
Włodzimierz Kalicki: Era proprio inevitabile che i venti anni della Polonia indipendente dovessero finire con il settembre 1939?
Norman Davies: Dopo la prima guerra mondiale due grandi stati europei, la Germania e la Russia sovietica, non hanno mai accettato l’assetto politico stabilito a Versailles. Negli anni Venti e Trenta, agendo di nascosto, ma il più delle volte apertamente,
mirarono a rovesciare l’assetto costituitosi in Europa. Erano, dunque, legati da un obiettivo comune e da lunghe tradizioni di cooperazione come, ad esempio, durante le spartizioni della Polonia. E la Polonia, per sua sfortuna, si trovava giusto tra questi due
grandi stati.
Per di più, la Francia e la Gran Bretagna, pur avendo concluso un’alleanza difensiva con Varsavia, non intendevano affatto rispettare i patti. In quella configurazione
geopolitica la seconda Repubblica polacca non aveva nessuna chance di sopravvivere.
W.K. — Quindi la propaganda tedesca aveva ragione a definire la seconda Repubblica di Polonia uno Stato stagionale, Saisonstaat?
N.D. — I tedeschi sapevano quel che dicevano, perché distruggere la Polonia era
nei loro intenti. Ma i tedeschi non erano gli unici a considerare la Polonia un fenomeno
transitorio. L’assetto mondiale dell’inizio del XX secolo si era formato nell’Ottocento.
A quell’epoca non esistevano entità come lo Stato polacco, i Paesi baltici, la Jugoslavia o la Cecoslovacchia. Per i politici, non solo quelli di Berlino o del Cremlino, ma
anche francesi, inglesi o americani, queste entità statali erano come bizzarri tumori:
1
Questo testo presenta, per la prima volta in traduzione italiana, alcuni significativi passaggi di
due interviste di Włodzimierz Kalicki a Norman Davies. Si ringrazia “Gazeta Wyborcza” e, in particolare, Włodzimierz Kalicki ed Ewa Sobulska, per averne autorizzato la traduzione e pubblicazione in italiano.
2 NORMAN DAVIES, W 1939 r. Polacy się świetnie spisali, z prof. Normanem Daviesem rozmawia Włodzimierz Kalicki, “Gazeta Wyborcza”, 23-08-2009
(http://wyborcza.pl/1,97737,6952313,Norman_Davies__W_1939_r__Polacy_sie_swietnie_spisali.html).
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
questa espressione infelice, magari pure offensiva, rende però l’idea di quanto fossero
pericolosi gli umori allora. Gli anni Trenta costituiscono, infatti, l’epoca degli imperialismi. I cosiddetti leader democratici consideravano del tutto naturale l’esistenza di
potenze investite di diritti e privilegi speciali.
W.K. — Quali?
N.D. — Le potenze annoveravano tra i loro privilegi quello di decidere sul destino
degli stati più piccoli. Nell’Europa centrale la Cecoslovacchia era il pupillo dell’Occidente, una specie di prima della classe. A Praga si rispettavano sempre con un certo rigore le procedure democratiche, non si manifestavano tendenze autoritarie diffuse in
altri paesi nati dopo la prima guerra mondiale. In Boemia vivevano tantissimi tedeschi,
pertanto i cechi erano filorussi, in senso strategico non ideologico. Anche questo piaceva molto all’Occidente. Ma quando la Germania rivendicò i Sudeti, al colloquio con
Hitler, Chamberlain e Daladier neanche pensarono a invitare i cechi. Alle loro spalle, nel
1938 consegnarono i Sudeti a Hitler lasciando in pratica tutto il Paese in pasto al Terzo
Reich. Così si sono comportati gli occidentali con il loro pupillo. E in quella stessa classe
la Polonia faceva parte degli alunni più scarsi, quelli che siedono nell’ultimo banco,
non ascoltano i professori e creano sempre confusione. Quello polacco, non era un partner comodo per Francia e Gran Bretagna. Non si prestava al ruolo di palla da giocare.
Piłsudski e il suo gruppo consideravano la Russia un nemico irriducibile. Cercavano di
condurre una politica estera piuttosto indipendente; anzi, avevano l’ambizione di svolgere il ruolo di potenza regionale. Tutto questo a Parigi e a Londra suscitava irritazione,
anzi, ostilità. Che noia questi polacchi e i loro eterni problemi con tutti i vicini: tedeschi, russi, cechi… Con chi e a quale gioco stanno veramente giocando?
W.K. — Verso la fine della sua vita Piłsudski propose a Parigi una guerra preventiva contro i tedeschi.
N.D. — La guerra di prevenzione sembra avere un senso nell’ottica di oggi, ma allora era impensabile. Sull’Europa pesava ancora l’ombra degli enormi sacrifici della
prima guerra mondiale. Distruggere la pace senza un motivo drastico, provocare di
nuovo milioni di vittime: questo per le società democratiche era inaccettabile. Non c’è
da prendersela con Parigi se, quando fu sondata su questo argomento, ignorò la proposta polacca.
W.K. — Però c’è da prendersela con Parigi per non aver reagito per molti anni al
ravvicinamento e alla cooperazione tra Berlino e Mosca, a partire dagli accordi di
Rapallo nel 1922. Le esercitazioni tedesche con armi anticarro e l’aviazione in assetto
offensivo, esercitazioni che i vincitori della prima guerra mondiale avevano vietato ai
tedeschi, erano puntate non solo contro la Polonia, ma in generale contro l’ordine di
Versailles.
N.D. — Non è così semplice. Lei vede la cooperazione tedesco-sovietica dalla prospettiva di oggi, tenendo a mente il patto Ribbentrop-Molotov e il 17 settembre 1939.
Tuttavia all’epoca di Rapallo in Germania imperversavano iperinflazione, caos e fame;
la Russia era dominata da una povertà indescrivibile, stretta — manco a dirlo — in una
morsa di fame. Nessuno in Europa vedeva le loro relazioni come una pericolosa alleanza
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tra due potenze economiche e militari, ma piuttosto come una tresca tra storpi, come
nei quadri di Breughel. È ovvio che chiunque era sano di mente non aveva dubbi sul
grande potenziale di entrambi gli Stati; però, a quanto era dato prevedere, quelle
potenzialità non sarebbero state sfruttate che molti anni dopo, forse addirittura con la
generazione successiva. Molti politici responsabili in Europa, vedendo l’isolamento di
Mosca e di Berlino, giungevano alla conclusione opposta: collaborano tra loro perché noi
li trattiamo come dei paria. La sicurezza in Europa ci impone però di trattarli meglio.
Ecco perché negli anni Venti si sono fatti notevoli sforzi per far rientrare Berlino nel concerto diplomatico; perché si è fatto finta di non vedere come la Germania eludeva le
restrizioni del Trattato di Versailles; e perché negli anni Trenta l’URSS è stata accolta
con soddisfazione nella Lega delle Nazioni.
W.K. — C’era qualche chance per Varsavia di creare con Praga una compatta
coalizione militare che trattenesse Hitler dalla spartizione della Cecoslovacchia e
salvasse la Polonia dalla disfatta di settembre?
N.D. — Lo spazio per migliorare le relazioni polacco-ceche non mancava, ma non
era quella la chiave di volta della situazione. Tutti in Europa erano fissati con l’idea che
solo la posizione delle grandi potenze avesse un peso. Anche se i polacchi si fossero
messi d’accordo con i cechi, ciò non avrebbe avuto grande rilevanza sullo scacchiere
della grande politica. E senza l’appoggio dell’Occidente le forze armate cecoslovacche
e polacche non erano in grado di affrontare Hitler. Del resto la Boemia era minata dalla
minoranza tedesca e politicamente paralizzata. Il ché non significa che bisognava
occupare i territori sul fiume Olše. Questa mossa ha dato all’Europa la bruttissima
impressione che Varsavia fosse alleata con Hitler. Nessuno in Occidente ricordava le origini del problema delle regioni sull’Olza, né sapeva che nel 1919 i Boemi avevano rotto
l’accordo con la Polonia occupando le zone abitate da molti polacchi.
W.K. — Nel 1939 era ipotizzabile qualche compromesso tra la Polonia e il Terzo
Reich? E se lo era, avrebbe portato vantaggio alla prima?
N.D. — Poche cose in politica sono impossibili in assoluto. Nel 1929, una persona
sana di mente avrebbe forse potuto pensare che dieci anni dopo i primi ministri
britannico e francese, sotto il diktat di Berlino, avrebbero costretto la Cecoslovacchia
a capitolare e a rendere alla Germania una parte del loro Paese? In Europa, fino al
marzo 1939, ogni alleanza o cambio di alleanza era possibile. Un’alleanza con la Polonia, naturalmente non astratta ma puntata contro l’URSS, rimaneva per Hitler una questione aperta. Il Führer sondò su questo terreno i colonnelli polacchi al governo.
In teoria le élite politiche e militari polacche non avrebbero dovuto essere restie a collaborare con la Germania; si dà il caso che venti anni prima gli stessi uomini, in uniforme
da legionari, erano stati compagni d’arme con i soldati austriaci e tedeschi; e, fianco a
fianco, avevano combattuto insieme contro i russi. Ma durante la prima guerra mondiale la
Germania e l’Impero austro-ungarico furono partner politici e militari del tutto rispettabili.
Con loro ci si poteva accordare e, in genere, aspettarsi che avrebbero rispettato gli impegni. È vero, i territori polacchi erano logorati dalla politica economica di Berlino e di Vienna,
ma questo era dovuto allo sforzo bellico, non al proposito politico di logorare la nazione polacca. Del resto i tedeschi e le nazioni dell’impero non se la passavano molto meglio.
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
Hitler non era il kaiser. I colonnelli polacchi al potere conoscevano bene il suo
regime. Abbastanza bene per non avere illusioni. Infatti, siamo già dopo la notte dei
lunghi coltelli, la notte dei cristalli, dopo la destabilizzazione della Cecoslovacchia con
l’aiuto della minoranza tedesca. Ogni politico dotato di buon naso doveva aver capito
che Berlino non era un partner degno di questo nome. Quindi, il ministro Józef Beck,
rifiutando i suggerimenti di Hitler, ha fatto quello che avrebbe dovuto fare. Naturalmente sulla sua decisione ha influito anche l’assicurazione di sostegno data alla Polonia dagli alleati occidentali.
Legarsi a Hitler significava per certi versi andare alla catastrofe.
Non bisogna pensare alla Seconda Repubblica come alla Polonia attuale. Oggi è un
paese etnicamente uniforme, allora le minoranze rappresentavano uno dei problemi
più gravi per lo Stato. Se Varsavia fosse salita sul treno di Hitler, prima o poi sarebbe
scoppiata la questione ucraina. Gli ucraini formavano la minoranza più numerosa in
Polonia. I tedeschi avevano già certe tradizioni di cooperazione con gli ucraini. Penso
che molto presto i territori orientali polacchi sarebbero passati sotto un qualche
protettorato tedesco o governo militare, e la Polonia ne avrebbe perso completamente
il controllo.
La seconda questione è il destino degli ebrei polacchi. Verso la fine della guerra i
nazisti hanno dimostrato una volontà fanatica e ideologica di sterminare gli ebrei
europei. Se il governo polacco avesse imboccato la via delle concessioni nei confronti
di Berlino, non sarebbe stato in grado di difendere dallo sterminio i cittadini polacchi
di nazionalità ebrea. Hitler pretese la consegna degli ebrei perfino da Mussolini. Il Duce
esitò e i tedeschi dovettero aspettare. Ma dopo la caduta di Mussolini le SS tentarono
in ogni dove di raggiungere gli ebrei italiani.
Scendere a compromessi con Hitler significava fare i conti con la prospettiva che
un giorno egli avrebbe rivendicato non solo il corridoio della Pomerania, ma anche il via
libera per il passaggio della Wermacht in Polonia. Anzi, avrebbe chiesto la partecipazione dei soldati polacchi alla spedizione contro Mosca. Un tale scenario rappresentava
per la Polonia una catastrofe in ogni caso: sia se la guerra fosse stata vinta dalla coalizione degli alleati occidentali con Stalin, sia se Hitler avesse vinto la guerra o solo
l’avesse protratta di qualche anno.
No, un compromesso con Hitler non era pensabile, e nella primavera del 1939 tutti
in Polonia lo capivano perfettamente.
W.K. — Tutti in Polonia, ad eccezione di alcuni comunisti, sapevano anche
perfettamente che l’URSS era una reale minaccia per il loro Paese. Perché l’Occidente
non voleva vederlo?
N.D. — I politici dotati di lucidità non si facevano la benché minima illusione sul
comunismo. Churchill paragonava i comunisti ai babbuini. Ma le amministrazioni francese, britannica e americana subivano la notevole influenza degli agenti di diversione
sovietici. E molti politici, peraltro seri, nutrivano sul comunismo ingenue illusioni.
Le cose d’importanza chiave sono successe però nella seconda metà degli anni
Trenta. Quando il Terzo Reich uscì dalla Lega delle Nazioni e l’Unione Sovietica entrò
a farne parte, tutti pensarono che Stalin fosse un politico moderato, un partner nella
comune difesa dal fascismo. In Occidente quasi tutti consideravano il fascismo più
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
pericoloso del comunismo. Perché? Da una parte Stalin mascherava benissimo le sue
intenzioni, dall’altra la guerra civile in Spagna aveva fatto da banco di prova. Con la
vittoria dei fascisti aiutati da Hitler l’Occidente rimase ossessionato dall’idea di un
solo nemico, un solo uomo distruttore della pace: Hitler. Ma se i repubblicani avessero
sconfitto il generale Franco con l’aiuto di Stalin, l’Europa avrebbe considerato Stalin
il suo nemico numero uno.
W.K. — Alla vigilia della guerra, cercando di formare una coalizione efficace
contro il Terzo Reich, gli alleati accettarono che l’Armata Rossa entrasse in Polonia per
combattere i tedeschi. Non si rendevano conto delle conseguenze dell’invito rivolto
alle divisioni sovietiche? O forse ammettevano cinicamente che dopo la sconfitta di
Hitler la Polonia sarebbe stata data per persa?
N.D. — Dopo il 1920 i polacchi sapevano perfettamente quello che l’Armata Rossa
era. L’Occidente invece ragionava nei termini della prima guerra mondiale, quando le
truppe britanniche e poi americane erano entrate in Francia per combattere i tedeschi
e, dopo la vittoria, salutate con mazzi di fiori, erano tornate a casa. Penso che i politici
inglesi e francesi semplicemente non si fossero posti il problema delle conseguenze di un
eventuale via libera del governo polacco all’entrata delle truppe sovietiche in Polonia.
Certo, sarebbe stato come invitare la volpe nel pollaio. Recentemente sono stato
in Estonia dove ho saputo i particolari di come andò con l’ingresso delle truppe sovietiche in quel paese. Nel 1940 Stalin estorse ai Paesi baltici il consenso all’entrata dell’Armata Rossa e alla costruzione di basi militari sovietiche. Così, oltre ai militari,
arrivarono migliaia di operai con la scusa di dover costruire le infrastrutture. E furono
proprio loro, gli operai, a marciare poi su Tallin, a organizzare comizi, azioni di protesta, disordini, per far cadere il governo. L’Armata Rossa non vi partecipò, ma era
evidente che si sarebbe mossa, se il governo avesse solo tentato di difendersi. Probabilmente in Polonia Stalin avrebbe avuto il compito facilitato, perché nei territori orientali una parte sostanziale di biancoruteni [bielorussi] e di ucraini avrebbe appoggiato i
sovietici.
Era imperativo per Varsavia rifiutare l’idea di far entrare l’Armata Rossa nel Paese:
sarebbe stato un suicidio.
W.K. — Il 17 settembre alle 16:00, a Kuty, sul confine polacco-rumeno, si tenne
una riunione con la partecipazione del governo polacco, del presidente Mościcki e del
comandante in capo, maresciallo Rydz-Śmigły. Né in quell’occasione, né in seguito, le
autorità polacche si decisero a dichiarare ufficialmente la guerra all’aggressore sovietico. Fu un errore?
N.D. — Errore sarebbe stato dichiarare la guerra. Agli occhi di Londra e Parigi, la
Russia, seppur bolscevica, era un potenziale alleato strategico. Il 22 giugno 1941, giorno
dell’attacco di Hiter all’Unione Sovietica, gli alleati occidentali avrebbero rinunciato
alla causa polacca. La dichiarazione di guerra a Stalin avrebbe portato alla Polonia solo
danni e nessun vantaggio. Non avrebbe evitato né il crimine di Katyń, né le deportazioni
di massa dei polacchi. Se il governo polacco in esilio, dopo l’attacco di Hitler all’URSS
e sotto le pressioni di Churchill, non avesse concluso in fretta il trattato di pace con
Stalin, certamente non sarebbe stato possibile formare l’armata polacca in URSS al
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
comando del generale Anders e, così, portare via decine di migliaia di polacchi dall’Unione Sovietica. Dopo la guerra, durante i negoziati dei tre Grandi sui confini, la
Polonia si sarebbe trovata in una posizione peggiore.
W.K. — L’epopea del governo in esilio e delle battaglie delle forze armate polacche in Occidente aveva essenzialmente un obiettivo supremo: ricostruire lo Stato
democratico entro i confini dell’anteguerra. Invece il governo del generale Sikorski
non ha mai preso di punta la questione dei confini orientali né nelle relazioni con gli
alleati occidentali, né nei colloqui con Stalin.
N.D. — In Francia Sikorski si è trovato in una situazione molto difficile. Il governo
polacco rimaneva sotto la stretta sorveglianza dei francesi, lasciato alla loro mercé.
Premere su Parigi sulla questione dei confini con l’URSS non era nemmeno pensabile. A
quel tempo — prima della caduta folgorante della Francia — la sconfitta della Polonia
in settembre appariva ancora molto rapida e di poco stile.
W.K. — E dopo la caduta della Francia, quando gli inglesi temevano un’invasione
tedesca, quando gli aviatori polacchi difesero i cieli d’Inghilterra?
N.D. — Nella battaglia d’Inghilterra un aviatore su dieci era polacco. Credo che il
loro impegno è stato decisivo per la sconfitta della Luftwaffe. Gli aviatori polacchi
hanno probabilmente salvato la Gran Bretagna. Ma i loro meriti non si traducevano
direttamente in una maggiore forza politica del governo polacco, soprattutto nella questione del confine orientale. L’opinione dell’Occidente era contraria ai polacchi per
quanto riguardava i loro territori orientali. Su questo pesava il retaggio delle spartizioni. Nel 1939, quando l’Armata Rossa invase i territori orientali, l’ambasciatore polacco a Londra, conte Raczyński, pubblicò sulla stampa una dichiarazione di protesta.
La reazione fu immediata: gli esperti britannici, tra cui l’allora direttore del mio
istituto di Londra, sir Bernard Pares, lo attaccarono perché per loro quei territori erano
russi. La propaganda zarista per anni li aveva martellati con l’idea che i russi, i bielorussi e gli ucraini erano tutti la stessa cosa. Quindi Sikorski doveva muoversi in un contesto non solo d’ignoranza, ma addirittura di false conoscenze storiche da parte dei
partner britannici.
Per Churchill la cosa più importante era l’impegno dei sovietici nella guerra contro Hitler. Evitava screzi col Cremlino come il diavolo l’acquasanta. Sikorski non poteva
contare su da lui per un appoggio nella questione dei confini.
W.K. — Sikorsi avrebbe mai potuto estorcere da Stalin una qualche dichiarazione
sul confine con la Polonia?
N.D. — Senza un sostegno deciso degli alleati, no. Stalin non aveva intenzione di
fare dichiarazioni nemmeno nell’autunno 1941, quando la Wermacht stava alle porte di
Mosca. E poi, man mano che l’Armata Rossa riportava successive vittorie, men che mai
fu propenso a fare concessioni alla Polonia.
W.K. — Però sotto la pressione congiunta di Churchill e Roosevelt avrebbe ceduto?
N.D. — Può darsi, in qualche misura, perché non era certamente possibile mantenere il confine orientale della Polonia tale quale, vale a dire com’era prima della
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
guerra. Forse si sarebbe potuto negoziare un confine lungo la linea Curzon, ma con
essenziali ritocchi a favore della Polonia.
Il problema è che né Churchill, né Roosevelt mai intavolarono con Stalin un discorso serio sul confine orientale polacco. Ciò era alquanto comprensibile nella prima
fase della guerra. L’Armata Rossa si sobbarcava il peso di fermare Hitler, teneva impegnate le forze principali della Wermacht, subendo danni giganteschi. Le forze di terra
britanniche, dopo la sventurata campagna del 1940 in Francia, erano in disfacimento.
Gli Stati Uniti, in tempo di pace avevano una fortissima marina militare; ma il loro esercito, nel 1939, era quasi sette volte inferiore all’armata polacca! Però, verso la fine
della guerra, gli Alleati disponevano ormai di enormi forze di terra, e nell’aria erano
molto più potenti dei sovietici. Ciò nonostante, anche allora sulla questione dei confini
rimasero muti. Eppure avevano degli argomenti validi. Infatti, grazie ai rifornimenti
americani di armi e di mezzi l’Armata Rossa aveva potuto riportare eclatanti vittorie e
avanzare rapidamente verso ovest. Stalin non voleva conflitti con i suoi alleati, anche
perché dopo la guerra avrebbe dovuto collaborare con loro nella gestione della Germania distrutta. Prevedeva, in cooperazione con le altre grandi potenze, di strappare
alla Germania enormi riparazioni di guerra senza le quali risollevare l’URSS dalle macerie della guerra sarebbe stato molto difficile. Voleva, inoltre, svolgere un ruolo
importante nell’Organizzazione delle Nazioni Unite progettata dall’Occidente. Infine,
l’elemento forse più importante: Roosevelt aveva dichiarato a Jalta che al massimo
entro due anni dopo la guerra, l’armata americana sarebbe tornata oltre l’oceano. È
facile indovinare che Stalin tenesse moltissimo a che questa ipotesi si realizzasse. Invece, in caso di conflitto palese, gli americani sarebbero potuti rimanere in Europa.
Forse il rientro degli americani oltre oceano sarebbe valso, per Stalin, qualche
concessione in merito al confine polacco. In fin dei conti la Polonia — i presupposti per
crederlo c’erano tutti — si sarebbe trovata comunque nella sfera d’influenza sovietica.
Gli alleati avevano in mano carte valide da giocare, ma non le hanno mai usate per
la causa dei confini polacchi. E nemmeno per definire con chiarezza la sfera d’influenza
sovietica in Europa dopo la guerra.
W.K. — Perché?
N.D. — Fino allo sbarco in Normandia Churchill e Roosevelt si trovavano in posizione
di disagio: non avevano ancora mantenuto la promessa di creare il secondo fronte. Non
era una posizione propizia per mettere Stalin con le spalle al muro. Gli americani combattevano una seconda guerra sul Pacifico — contro il Giappone — che forse per loro, a
dispetto delle dichiarazione ufficiali di Washington, era più importante della guerra in
Europa. Contavano sull’aiuto di Stalin per sconfiggere il Giappone. In quella situazione
gli interessi della Polonia non avevano per Roosevelt grande importanza. Certo, gli americani trattavano i polacchi da amici, ma solo se le loro strade convergevano.
W.K. — Sikorski non poteva premere su Roosevelt?
N.D. — Nella seconda guerra mondiale la Polonia ebbe la sfortuna di essere sempre coalizzata con l’alleato più debole. All’inizio con la Francia e, alla fine della guerra,
con la Gran Bretagna che stava perdendo terreno. Churchill dovette ridimensionare
sempre più i suoi obiettivi, perfino quelli che riguardavano la Gran Bretagna, figuria-
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
moci quelli polacchi. Washington non aveva impegni formali verso il governo polacco
non avendo firmato con esso alcun trattato di alleanza. Del resto è un comportamento
tipico per la politica americana: non legarsi con i trattati, ma sistemare tutto in modo
informale, a voce.
Quando Sikorski è morto a Gibilterra, non c’era più nessuno a sollecitare la questione del confine. Sikorski era stato a Londra sin dall’estate 1940, aveva autorità.
Invece Stanisław Mikołajczyk non era un interlocutore né per Churchill, né per Roosevelt. Quando Mikołajczyk, prima dei colloqui a Mosca, incontrò Roosevelt, questi gli
diede qualche pacca sulle spalle dicendo di non preoccuparsi che tanto tutto sarebbe
andato per il meglio. Tutto qui. Dopo l’insurrezione di Varsavia del 1944 Churchill con
Roosevelt addirittura boicottarono Mikołajczyk.
W.K. — Però quando Roosevelt era in corsa per il terzo mandato, la comunità
polacca in America ebbe una chance per costringerlo a fare qualche dichiarazione sui
confini.
N.D. — È vero che nel 1944 la Polonia ebbe la più grande importanza politica di
tutta la sua storia. Roosevelt era a capo del Partito democratico. Partito sostenuto dai
sindacati. E nei sindacati contavano molto Detroit, Chicago, Cleveland, grandi agglomerati industriali in cui gli operai di origine polacca avevano un ruolo chiave. Ma Roosevelt era circondato da ammiratori di Stalin. Il suo consigliere principale, Harry
Hopkins, era molto probabilmente un agente infiltrato sovietico. Quando la delegazione
delle comunità polacche in America incontrò Roosevelt, i suoi consiglieri inscenarono
quell’incontro così: il presidente seduto sulla sedia a rotelle e, sullo sfondo, la carta
geografica della Polonia con i confini dell’anteguerra. Roosevelt non ha detto: vi prometto questi confini. Niente impegni. E gli emigrati polacchi che non avevano alcuna
esperienza politica, si sono immaginati da soli che quell’ottimo presidente parteggiasse
per la Polonia, e non hanno chiesto altro.
Non bisogna nemmeno incolpare i politici in esilio per non aver posto la questione
dei confini all’ordine del giorno della coalizione. L’esperienza della prima guerra mondiale, infatti, era diversa: decisioni del genere si deliberavano nella conferenza di pace.
Durante la guerra c’era da fare una cosa sola: battersi dalla parte giusta. E i polacchi
l’hanno fatto. A Londra, Narvik, Tobruk, Falaise, Monte Cassino.
Mettiamo le cose in chiaro: durante la guerra il governo polacco in esilio non aveva
in pratica nessuna voce in capitolo riguardo ai confini. Se mai fosse stato possibile apportare qualche cambiamento al tracciato dei confini che la Polonia ha attualmente, questo dipendeva esclusivamente dalla volontà dei tre Grandi: Stalin, Churchill e Roosevelt.
W.K. — E sarebbe stato possibile?
N.D. — Ritengo fosse realistica la possibilità di lasciare Leopoli [oggi L’viv, in
Ucraina] dalla parte polacca. Prima della conferenza di Teheran, Stalin capiva bene che
in via di principio c’era l’assenso di concedergli vantaggi territoriali, ma non si era ancora stabilito quali. A Teheran Churchill dichiarò che accettava la linea Curzon come
base per la discussione. Al suo ritorno a Londra commissionò agli esperti del Foreign Office un’analisi delle diverse opzioni per il tracciato del confine vicino a Leopoli. Furono
elaborate quattro proposte. Ciascuna di esse lasciava Lwów dalla parte polacca.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Se Roosevelt avesse appoggiato la posizione di Churchill probabilmente oggi il
confine polacco-ucraino passerebbe a est di Lwów. Ma il secondo giorno della conferenza di Teheran il presidente americano, senza informarne Churchill, incontrò Stalin
in privato. Durante quell’incontro Roosevelt affermò che non ci sarebbero stati problemi circa il confine polacco-sovietico. Stalin lo capì al volo: poteva prendersi anche
Lvov.
Però la questione dei confini va vista in un’ottica d’insieme. Se Lwów fosse rimasto dalla parte polacca, non è detto che Stalin avrebbe voluto poi ricompensare i
suoi clienti, i comunisti polacchi, dividendo la Prussia orientale tedesca. Non si sa nemmeno se avrebbe voluto premere, contro la posizione degli alleati, per la consegna
alla Polonia dell’intera Bassa Slesia fino al fiume Neiss. E anche di Stettino. Infatti, alla
conferenza di Potsdam Churchill si impuntò sul fatto che Breslau [oggi Wrocław, in Polonia] doveva essere tedesca. S’impuntò per motivi sentimentali. Da giovane ufficiale,
ancora prima della prima guerra, aveva partecipato a Breslau alle grandi manovre militari dell’armata del kaiser e si vede che quel soggiorno gli aveva lasciato dei bei ricordi.
Insistendo sulla linea Oder-Neiss, Stalin voleva mettere i polacchi nella situazione
di eterno confronto con la Germania. E ci riuscì. Infatti questa situazione è durata
mezzo secolo e anche oggi, a Varsavia, c’è chi pensa esattamente come voleva il generalissimo.
W.K. — Dopo la guerra molti polacchi ritenevano che le soluzioni decise dai tre
Grandi fossero per la Polonia una catastrofe storica.
N.D. — Credo che il bilancio non sia univoco. Con la perdita dei territori orientali
si è perso un importante retaggio storico e culturale. Ma quella regione, prima della
guerra scarsamente sviluppata, fu distrutta come nessun’altra nella storia dell’Europa.
Una Polonia controllata da Stalin, dietro la cortina di ferro, senza il piano Marshall,
come avrebbe fatto a sobbarcarsene la ricostruzione? Che cosa sarebbe successo se,
dopo il crollo del comunismo, la minoranza di qualche milione di ucraini, insediata nei
territori orientali polacchi, si fosse trovata con il proprio Stato dietro il confine? Una
seconda Jugoslavia a portata di mano?
La Polonia di oggi è strutturata essenzialmente secondo la ricetta di Stalin. Il comunismo è sparito, il dominio del Cremlino idem, ma lo Stato è rimasto compatto,
uninazionale. Bisogna rendersi conto che i polacchi non hanno avuto influenza né sulle
vicende della Polonia nella seconda guerra mondiale, né sulla forma della Polonia postbellica. Nel senso che né sui campi di battaglia, né nei gabinetti diplomatici avrebbero potuto ottenere più di tanto. Molto invece avrebbero potuto perdere. E comunque
sono riusciti a evitare errori che sarebbero costati moltissimo. Penso che sia un bilancio rispettabile per i sei anni di battaglie cominciate il 1° settembre 1939.
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
Ripensare la seconda guerra mondiale3
Włodzimierz Kalicki: Sulla seconda guerra mondiale sono stati scritti più di dieci
mila libri. Perché a sessant’anni anni dalla guerra ha ritenuto necessario scrivere un
nuovo libro di sintesi intitolato L’Europa in guerra? 4
Norman Davies: C’è una famosa foto di Vladimir Lenin che arringa la folla nel
1917. Lev Trockij sta al suo fianco. Poi la foto è stata ritoccata per cancellare Trockij.
Il più influente commissario di Lenin era svanito. Per 70 anni in URSS non c’era modo
di sapere chi fosse per davvero, quali idee avesse in realtà.
Falsare il ricordo del passato è possibile, e non solo in un paese totalitario quale
era l’URSS. In Polonia questo sta avvenendo sotto i nostri occhi. Ancora non è stata
scritta una storia di Solidarność rigorosa, completa, obiettiva, e già un gruppo politico
si è messo a modificarla, ad aggiustarla secondo i propri bisogni. Sotto gli occhi attoniti dei testimoni di quelle vicende si cancellano dalle carte della storia non solo singoli individui, ma interi gruppi politici.
Una cosa simile è successa con l’immagine della seconda guerra mondiale. Gli stati
partecipanti hanno creato ad uso proprio delle visioni singole, mistificate del grande
conflitto. Le società e gli storici le hanno accettate. Le mitologie della seconda guerra,
soprattutto in Europa, a settant’anni anni dalla sua fine, rimangono tuttora più forti
della conoscenza vera.
W.K. — La storia è stata sempre scritta perlopiù dai vincitori.
N.D. — Questo era vero nei tempi lontani, ma la storiografia moderna ha elaborato
versioni coerenti praticamente di tutti i conflitti della storia. Col passare del tempo
tra gli studiosi di tutto il mondo, quelli seri, è stato raggiunto un consenso. Non conosco uno storico responsabile che affermi, per esempio, che la prima guerra non sia cominciata nel 1914.
Invece l’inizio della seconda guerra è poco chiaro, nebuloso, percepito in modi diversi. É un’illusione pensare che tutti lo identifichino con la data del 1 settembre 1939.
Nella storiografia sovietica e russa prevale la mitologia della grande guerra per la
Patria, la «Grande guerra patriottica»; e volutamente si lasciano nell’ombra i primi anni
del conflitto. Questo ovviamente per creare l’impressione che l’URSS fosse solo vittima
dell’attacco della Germania di Hitler e non avesse niente a che vedere con gli atti di
aggressione precedenti. Per i russi la guerra è cominciata nel giugno 1941.
3 NORMAN DAVIES, II wojna, wydanie poprawione, z prof. Normanem Daviesem rozmawia Włodzimierz Kalicki, “Gazeta Wyborcza”, 31-10-2008
[http://wyborcza.pl/1,97737,5863390,II_wojna__wydanie_poprawione.html].
4 Si tratta di Norman Davies, Europa walczy 1939-1945. Nie takie proste zwycięstwo, Znak 2008;
traduzione in polacco di: Europe at War 1939–1945: No Simple Victory, Pan Macmillan Publishers,
London 2006 (n.d.r.).
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Per gli americani lo stesso nel 1941, ma nel mese di dicembre, quando gli USA attaccati dal Giappone hanno cominciato i combattimenti. Naturalmente ogni storico
americano sa che cosa è accaduto nel 1939, ma oltre oceano quelle vicende, nel racconto, appartengono al preludio della guerra.
Esiste un’altra ottica ancora. Per coloro che ritengono l’Olocausto il tema principe della guerra, questa comincia nel 1941 con la messa in funzione della macchina nazista per lo sterminio industriale degli ebrei. Tutto quello che era successo prima ne
costuisce soltanto la premessa.
W.K. — L’immagine della guerra che lei descrive [nel suo nuovo libro] è particolarmente lugubre: la seconda guerra in Europa come braccio di ferro tra il Terzo Reich
e l’URSS. In questo braccio di ferro le democrazie, dall’inizio alla fine, avevano ben
poco da dire. E ancora: uno scontro tra due gangster totalitari intorno ai quali le
democrazie in veste di camerieri si fanno in quattro, servendo panini, cioè qualche
aiuto materiale, al gangster che rappresenta il male minore; e solo alla fine si uniscono
efficacemente nella lotta finale.
N.D. — È stato un conflitto a triangolo, ma, in effetti, il fatto più importante era
il braccio di ferro tra la Germania di Hitler e l’URSS di Stalin. La guerra contro il Terzo
Reich è stata vinta dall’URSS. L’Armata Rossa ha riportato le sue vittorie decisive, a
Stalingrado e a Kursk, quando gli esigui eserciti alleati combattevano sui fronti periferici, insignificanti per la sorte della guerra, mentre Londra e Washington erano occupati
prima di tutto a conquistare il controllo strategico sulle vie di comunicazione nell’Atlantico. Basti pensare che Hitler mandò in Africa solo una quindicina di divisioni,
mentre sul fronte orientale qualche centinaio. La storiografia occidentale non ne vuole
parlare, preferisce occuparsi degli scontri sul fronte occidentale.
L’Armata Rossa univa consapevolmente la quantità e la qualità. Laddove la qualità
non era sufficiente, senza battere ciglio sacrificava la vita di migliaia di soldati.
W.K. — Se gli alleati non avessero invaso la Francia e creato il secondo fronte,
Stalin avrebbe vinto lo stesso con Hitler?
N.D. — Credo che avrebbe vinto e l’Europa sarebbe diventata una grande Unione
Sovietica. Ma la mistificazione dell’immagine della guerra in Occidente non si limita al
sottovalutare l’enorme contributo dell’URSS alla vittoria.
Quando Churchill optò per collaborare con Stalin, disse pubblicamente che doveva
sedersi al tavolo con il diavolo per sistemare la faccenda con Hitler. Per lui fu il male
necessario.
Gli americani non capivano che si trattava di collaborare con il diavolo. Sono più
moralizzatori degli inglesi, perciò avevano bisogno di credere che tutto era a posto. La
società, l’armata, i politici venivano nutriti dalla propaganda che mostrava l’URSS come
una democrazia che si batteva spalla a spalla con l’America per la causa comune. Quasi
tutti accettavano quell’immagine della Russia sovietica e dello zio Joe, un democratico
sincero. E così è rimasto fino ad oggi.
Non possiamo pensare e scrivere di Stalin, nostro alleato, mostrandolo come un
grande criminale, senza macchiare la nostra memoria sulla guerra, la nostra meravigliosa vittoria pagata con tanto sangue. Per fare un ragionamento onesto su questa
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
guerra sarebbe stato necessario rivalutare anche la propria partecipazione al conflitto.
Mentire a se stessi che i gulag e il tremendo terrore staliniano non erano mai esistiti era
più facile. Quel bisogno era talmente forte che persino nel periodo della guerra fredda,
quando la propaganda occidentale addirittura demonizzava l’Unione Sovietica, nessuno
si azzardò a parlare male dei crimini sovietici perpetrati durante la guerra. Qual è stata
la reazione quando Solženicyn negli anni Settanta svelò le dimensioni dell’oppressione
comunista? Tutti in Occidente davano tacitamente per scontato che il Gulag avesse
funzionato negli anni Trenta, dopodiché fosse scomparso, per riprendere le sue attività
all’indomani della guerra.
L’ho sperimentato sulla mia pelle. Gli storici di Oxford, i miei colleghi, parlano
senza riserve del terrore sovietico, ma mai nel contesto della seconda guerra. Il dibattito sulla guerra assume una dimensione diversa in cui le conoscenze sullo stalinismo di
colpo svaniscono. Non si può infangare la nostra gloriosa vittoria. Eppure, quella vittoria non è stata né gloriosa, né del tutto nostra.
W.K. — Sarebbe difficile sopravvalutare l’importanza dei rifornimenti americani
di armi e mezzi dati all’URSS.
N.D. — Questi aiuti furono senz’altro enormi, ma la maggior parte dei rifornimenti
arrivò in URSS quando l’esito della guerra era ormai deciso.
Del resto anche senza i carri armati e gli aerei americani l’Armata Rossa se la sarebbe
cavata benissimo. Di fondamentale importanza furono invece le forniture di camion, benzina e vettovaglie. I russi non ne avevano. L’Armata Rossa avrebbe comunque battuto i
tedeschi, ma grazie ai camion e alle jeep degli americani fu in grado di farlo in un baleno,
in tempi davvero da capogiro. Infatti l’operazione Bagration5 o la presa della Bielorussa
rappresentarono in termini militari, piuttosto che una marcia, una corsa vittoriosa.
Dopo che l’Armata Rossa batté le divisioni corazzate tedesche a Kursk, i tedeschi
furono incapaci di condurre una qualsivoglia offensiva strategica. Ma per sfruttare quel
vantaggio occorreva la mobilità dei russi. E gliela offrirono gli americani. Grazie alle loro
forniture, Stalin guadagnò almeno sei mesi, oltre alla libertà d’azione sul piano strategico. Così poté permettersi di fermare le sue divisioni nei pressi di una Varsavia in mano
agli insorti e di occupare una parte consistente dei Balcani.
W.K. — Gli americani se ne rendevano conto?
N.D. — Per loro era uguale. Ponevano solo una condizione: Hitler non doveva vincere sul fronte orientale. Per loro questo fronte non aveva alcuna importanza politica,
ma esclusivamente militare.
5
Era il nome in codice dato dai sovietici alla grande offensiva vittoriosa dell’Armata Rossa nell’estate 1944 in Bielorussia e nella Polonia orientale. Combattuta contemporaneamente allo sbarco
in Normandia sul fronte occidentale, l’operazione Bagration costituì probabilmente l’offensiva sovietica maggiormente riuscita di tutta la guerra sul fronte orientale. In termini di perdite umane
e materiali fu la più pesante sconfitta subita dalla Wehrmacht tedesca durante il conflitto, ancor
più grave della stessa battaglia di Stalingrado (n.d.r.).
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
W.K. — Roosevelt non ha mai voluto porre condizioni politiche in cambio dei
rifornimenti?
N.D. — Gli americani hanno dato ai russi tutto sulla parola, senza un pezzo di carta
e senza il controllo sull’uso degli aiuti. Non sappiamo se gli alleati, ponendo qualche
condizione politica, avrebbero ottenuto da Stalin qualcosa di essenziale.
Eppure un argomento ce l’avevano, magari più valido degli aiuti materiali. Stalin
contava molto sull’Occidente nella prospettiva dell’organizzazione delle riparazioni di
guerra a carico della Germania. Sapeva che dopo la prima guerra mondiale i tedeschi
avevano efficacemente eluso il pagamento dei danni, mentre lui progettava di ricostruire l’URSS con i soldi spremuti ai tedeschi. Per questo aveva bisogno di una buona
cooperazione con gli americani. Ma loro nemmeno tentarono con lui un discorso da
uomo a uomo.
W.K. — Perché?
N.D. — Perché militarmente gli americani erano più deboli dei russi. Portavano
avanti, infatti, due guerre: con Hitler e con il Giappone. E nonostante le loro dichiarazioni ufficiali non è mica tanto sicuro che la guerra in Europa fosse per loro la più
importante. Non volevano rischiare delle beghe con Stalin.
W.K. — Una monografia onesta sulla seconda guerra mondiale è solo un esercizio
in cui si tratta di interpretare correttamente le conoscenze dettagliate disponibili al
giorno d’oggi? O ci sono ancora aspetti importanti, ma del tutto sconosciuti, nella
storia di questa guerra?
N.D. — A tutt’oggi sappiamo molto poco su uno dei momenti chiave della guerra:
il confronto tra Berlino e Mosca nell’autunno 1940. Dopo la vittoria lampo sulla Francia, Hitler aveva in mano carte molto forti. In Occidente gli rimaneva solo un avversario, la Gran Bretagna, militarmente molto fiacca, separata dal canale che, pur
ostacolando l’invasione delle Isole, rendeva altrettanto difficile un’eventuale incursione britannica sul continente. A quanto pare, Hitler fece allora un tentativo di stabilizzare la situazione nell’Europa dominata dal Terzo Reich. Suggerì a Stalin di indirizzare
l’espansione sovietica al sud, verso i mari caldi. Stalin esigeva però il ritiro delle truppe
tedesche dalla Finlandia, chiedeva il diritto di prendere la Romania e voleva assicurarsi
un dominio effettivo sulla Turchia. Ancora oggi non sappiamo come Stalin valutasse
quella situazione, quali opzioni prendesse in considerazione, che cosa volesse ottenere
in definitiva.
Gli storici sono d’accordo nell’assumere che dopo la caduta della Francia, Stalin
temeva Hitler. Probabilmente è vero, c’erano motivi per averne paura. Non sappiamo
se Stalin vedesse chiaro la situazione e giocasse a mente fredda secondo un piano
prestabilito, o, colto dalla nevrosi, prendesse decisioni senza riflettere sulle conseguenze. Io non escludo nessuna di queste possibilità.
W.K. — Queste lacune nelle conoscenze si estendono fino al giugno 1941. Non esiste ancora una spiegazione convincente sul perché l’Armata Rossa fosse del tutto
impreparata alla guerra contro il Terzo Reich.
N.D. — È vero. Non sappiamo perché le forze armate sovietiche siano state dislo-
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
cate lontano verso ovest, giusto nei pressi del nuovo confine tedesco-sovietico stabilito
dal patto Ribbentrop-Molotov, abbandonando così le potenti fortificazioni predisposte
da anni più a est, sul confine sovietico-polacco d’anteguerra. Di conseguenze le linee
di rifornimento sovietiche si allungarono drammaticamente; l’aviazione sovietica concentrata sotto il naso dei tedeschi era esposta a un attacco repentino. È molto strano,
giacché il raggruppamento di tutti gli aerei vicino alla linea di confine offendeva ogni
principio di difesa. E infatti, nei primi giorni dell’operazione Barbarossa6 da parte
tedesca, l’aviazione sovietica, sebbene molto più numerosa dell’avversaria, fu praticamente annientata dalla Luftwaffe.
C’è un’altra cosa, ancora più strana. Poco prima dell’attacco tedesco, i comandanti sovietici di grado inferiore avevano chiesto ai loro capi di ritirare l’aviazione
all’interno del paese, di allontanarla dal confine. Il vertice non acconsentì.
Per completare il mistero arriva il fatto accaduto nella notte tra il 21 e il 22 giugno. La macchina da guerra tedesca è pronta, gli ordini di attaccare all’alba sono partiti. All’una di notte, tre ore prima dell’attacco, un soldato comunista tedesco diserta,
attraversa a nuoto il Bug raggiunge i sovietici e li avverte che la Wermacht sta per
attaccare. L’informazione è talmente importante che il comandante sovietico chiama
il Cremlino. Al ché Stalin, invece di chiedere che il disertore sia interrogato e consegnato a Mosca, invece di impartire ordini operativi, ordina di fucilarlo. Capisco che
poteva non aver creduto a tale informazione. Ma perché subito fucilarlo? La sua mossa
ha tutta l’aria di eliminare un testimone scomodo, ma testimone di che cosa? Forse
dell’ingenuità politica di Stalin, forse della sua indecisione. Ecco un’altra domanda
senza risposta.
Non so perché Stalin abbia esposto l’Armata Rossa all’attacco tedesco. Spero soltanto di aver descritto bene l’attuale stato delle nostre conoscenze su questi fatti.
W.K. — Gli archivi britannici e americani nascondono ancora la spiegazione di qualche mistero importante della seconda guerra?
N.D. — Non lo escludo. Pochissime ricerche sono state condotte sulla trasmissione
delle informazioni durante la guerra. Invece è un aspetto fondamentale delle decisioni
più importanti prese dagli alleati occidentali e da Stalin. Le decisioni del presidente
Roosevelt e, generalmente, lo stile della sua politica nei confronti dell’Europa centrorientale e della Polonia in particolare, suscitano spesso tra i polacchi reazioni di stizza.
6 L’operazione Barbarossa, che prese il nome dall’imperatore Federico Barbarossa (Unternehmen
Barbarossa), era il nome in codice tedesco per l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della
Germania nazista. Prese avvio il 22 giugno 1941, aprendo a est il più grande teatro di operazioni
della seconda guerra mondiale. L’avanzata tedesca si esaurì con la battaglia di Mosca dell’autunno-inverno 1941-1942; e fallì tra l’estate del 1942 e l’inverno (febbraio) 1943 con la battaglia
di Stalingrado, che segnò la prima grande sconfitta politico-militare della Germania nazista e dei
suoi alleati e satelliti, nonché l’inizio della controffensiva sovietica verso ovest.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Ebbene sì, gli americani non si curavano del fronte orientale, erano felici che, a combattere e a vincere lì, ci fossero i sovietici. Perciò erano propensi ad accettare le richieste sovietiche: giacché versate il sangue al posto nostro, avrete pur diritto di
ottenere qualcosa in cambio.
Sospetto però che molte decisioni prese dalla Casa Bianca a vantaggio del Cremlino siano dovute non tanto alla mancanza d’interesse, quanto all’assimilazione di informazioni sovietiche. Sono convinto che lo spionaggio americano assorbiva in modo
acritico sia le informazioni spionistiche manipolate dai russi, sia le informazioni preconfezionate sulla situazione dell’URSS e del fronte orientale. Un’altra questione è
l’attività degli agenti di diversione sovietici infiltrati nell’amministrazione americana.
Sappiamo per esempio che Harry Hopkins, consigliere di fiducia più vicino al presidente Roosevelt, era un uomo del Cremlino, ma sicuramente si potrebbero scoprire
altri personaggi del genere. Sarebbe interessante fare una ricerca negli archivi per
mettere in luce le dimensioni e gli effetti di queste infiltrazioni; varrebbe anche la
pena di ritornare al progetto Venona utilizzato dopo la guerra dallo spionaggio britannico per decodificare i messaggi segreti spediti dai sovietici durante il conflitto.
Nelle ricerche sulla seconda guerra la trasmissione e il controllo delle informazioni
rimane ancora un campo vergine.
Bisogna sempre tenere conto del materiale nuovo che può venire a galla cambiando l’immagine del passato. Nel 1994 gli storici hanno scoperto per caso, negli
archivi dei partiti comunisti occidentali, degli appunti scritti, il 19 agosto 1939, da uno
dei membri esteri del Comintern durante un discorso di Stalin al politburo sovietico.
Stalin esponeva le ragioni e i contenuti dei suoi piani politici. Annunciava la prossima
distruzione della Polonia e l’annessione della Galizia ucraina; e, in una prospettiva più
lunga, prefigurava una tattica finalizzata a far protrarre al massimo il conflitto tra
Germania da una parte e Francia e Gran Bretagna dall’altra.
W.K. — Lo si poteva intuire osservando le svolte delle politica sovietica.
N.D. — Questi appunti dimostrano che il capo della Russia sovietica, alla vigilia
della guerra, non era un osservatore passivo e innocente che reagiva unicamente alla
mutevole situazione politica — come spesso si è cercato di presentarlo — bensì un politico determinato a prender parte alla grande guerra europea che avrebbe cancellato
i confini nel Vecchio Continente. Soltanto che intendeva attaccare dopo tre, quattro
anni di conflitto a Occidente, quando Germania, Francia e Inghilterra avessero esaurito
le forze. Stalin credeva che, dal punto di vista militare, l’imminente guerra tedescofrancese avrebbe grosso modo ricalcato la staticità degli scontri avvenuti sul fronte
occidentale durante la prima guerra mondiale.
Ragionando a freddo, il persistere della Gran Bretagna a impegnarsi nella guerra
era estremamente rischioso. Nessuna società di assicurazioni responsabile avrebbe
assicurato una tale politica.
W.K. — Quali sono le importanti questioni della seconda guerra riguardanti la
Polonia che, secondo lei, non sono state tuttora chiarite?
N.D. — Ce n’è ancora qualcuna. Per esempio la questione del confine orientale.
Quasi tutti gli storici polacchi sostenevano che alla conferenza di Teheran [novembre
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
1943] Churchill e Roosevelt avessero accettato di spostare il confine orientale polacco
sulla linea Curzon. Lasciando, cioè, sottinteso che il futuro di quel confine fosse stato
suggellato a Teheran. Invece Churchill ha detto — lo sappiamo dagli stenogrammi britannici dei colloqui registrati in inglese — che la linea Curzon poteva costituire «the
basis of discussion». Ossia: cominciamo a parlare del confine partendo dalla linea
Curzon. È tutta un’altra cosa rispetto al dichiararsi d’accordo con questa linea.
Al suo ritorno a Londra Churchill commissionò ai suoi funzionari l’elaborazione di
diverse opzioni per il tracciato del futuro confine polacco-sovietico. Predisposero quattro proposte diverse. Tutte prevedevano di lasciare Lwów dalla parte polacca. Quindi,
agli occhi di Churchill, la questione di Lwów non solo non era ormai decisa a svantaggio della Polonia, ma si sarebbe dovuta risolvere a suo favore.
Il secondo giorno della conferenza di Teheran, Roosevelt, all’insaputa di Churchill,
incontrò Stalin in privato e gli disse che non ci sarebbero stati problemi circa il confine
polacco-sovietico. In parole povere, diede a Stalin la luce verde per regolare la questione per il verso suo.
Fino ad oggi non mi risulta chiarito quali fossero le ragioni per cui Stalin ignorò la
posizione di Churchill in una questione tanto importante. Avrà capito Stalin il suo
ragionamento? In questo contesto sarebbe importante accertare quali parole ed espressioni ha utilizzato durante il loro colloquio l’interprete di Churchill e se ha trasmesso
fedelmente le sfumature del discorso del premier britannico. Uno degli interpreti inglesi
alla conferenza di Teheran, Hugh Longie, vive ancora. Nonostante l’età molto avanzata
e i problemi di salute ha conservato una mente lucida e una buona memoria. L’avevo
contattato per sentirlo al riguardo. Purtroppo non è stato lui a tradurre il colloquio di
Churchill circa il confine polacco. Forse paragonando gli stenogrammi inglesi e russi si
potrebbe capire qualcosa in più?
Questo esempio dimostra bene fino a che punto lo storico impegnato in un’opera
di sintesi dipende dai risultati dei colleghi che si occupano di ricerche particolari. Da
una parte, scrivere una sintesi è possibile grazie al lavoro meticoloso degli specialisti, dall’altra, è impossibile approfondire da soli i problemi che loro non hanno
affrontato.
W.K. — La guerra sul fronte orientale, quello decisivo, era una lotta tra quantità
e qualità…
N.D. — Mio suocero [polacco] raccontava di come in un bosco a Porąbka aveva visto
l’Armata Rossa per la prima volta. Era il gennaio del 1945. In prima linea avanzava la
fanteria, perfettamente armata, in tute bianche, sugli sci. Dopo di loro passava la
seconda onda, un’orda di asiatici selvaggi in stracci, uniformi a pezzi, sacchi in spalla,
arraffando tutto quello che era mangiabile. Dietro ancora correva la terza ondata:
agenti dell’NKVD, in eleganti montoni rovesciati, su jeep americane, sparando a ogni
soldato sovietico rimasto indietro. L’Armata Rossa univa consapevolmente e sapientemente la quantità con la qualità, naturalmente laddove poteva raggiungerla, per esempio nell’aviazione tattica, nelle unità corazzate. Ma quando la qualità non bastava,
senza battere ciglio sacrificava la vita di centinaia di migliaia di soldati.
W.K. — La seconda guerra ha dimostrato che il soldato di uno Stato totalitario,
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
schiavizzato, sottoposto al terrore dai suoi, sul fronte esterno non combatte peggio,
anzi, forse meglio, del soldato di uno Stato democratico, uomo libero, consapevole dei
valori per i quali si sta battendo. È molto inquietante.
N.D. — Non è così semplice. L’Armata Rossa ha sfornato milioni di disertori, la più
grande quantità di disertori nella storia. Nella prima fase della guerra i soldati
sovietici si consegnavano in massa alla prigionia; in poco tempo i tedeschi presero
cinque milioni di prigionieri. D’altro canto i soldati dell’Armata Rossa si battevano
con un incredibile disprezzo per la morte. Dalle relazioni tedesche sappiamo che la
disperazione degli “Ivan” era terrificante, morivano in massa, ma dietro di loro procedevano in file altri soldati: avanti, avanti e avanti ancora. Forse andavano avanti,
esponendo il petto alle pallottole tedesche, solo perché rimanere indietro significava
ricevere un colpo sicuro nella schiena dall’unità di sbarramento dell’NKVD? È una
buona domanda.
L’Unione Sovietica avrebbe battuto i tedeschi anche senza le jeep americane,
ma grazie ad esse ha potuto farlo in tempi da capogiro.
Non sono uno psicologo, ma mi domando se uno schiavo sovietico tirato fuori dal
kolchoz, dalla fabbrica, dalla paura quotidiana, in un certo senso non si sentisse libero, rischiando la morte e anche morendo armi in mano. Era l’unico momento in cui
poteva sentirsi libero. Per questo andava avanti gridando: «per la Patria, per Stalin,
hurrah!»
In URSS la guerra ha mobilitato la società a un punto tale che nessuno, nemmeno
Stalin, avrebbe potuto prevedere prima. L’evacuazione dell’industria dalla parte europea dell’URSS agli Urali e fino in Siberia fu un successo inimmaginabile. Le fabbriche, dislocate nell’agosto 1941 dall’Ucraina a Magnitogorsk, già in dicembre sfornavano
i primi carri armati perfettamente funzionanti!
W.K. — Questa guerra ha avuto come conseguenza degli enormi spostamenti
forzati di popolazione. Oggi parleremmo di purghe etniche. Ammessa tutta la
crudeltà in essi implicita, ammesso il giudizio morale oggi chiaramente negativo,
tali sfollamenti di masse di civili non hanno forse contribuito alla stabilità politica
dell’Europa?
N.D. — Guardo la questione dal punto di vista personale. La famiglia di mia moglie ha perso tutto a Lwów, è stata costretta a partire con una sola valigia. Non riesco a vedere aspetti positivi nell’espulsione politica di masse umane. In tali atti non
vi era alcuna giustizia, si trattò di brutali decisioni belliche. La guerra è crudele non
solo durante le azioni militari, ma anche dopo, nelle sue conseguenze. Per me è curioso che Churchill e Roosevelt, senza battere ciglio, abbiano partecipato allo spostamento dei confini polacchi e abbiano contribuito alla decisione di trasferire a ovest
milioni di tedeschi. Eppure sapevano benissimo quale sarebbe stato il costo umano
delle loro scelte.
W.K. — Il tempo della guerra si conclude simbolicamente con il processo di
Norimberga. A prescindere dalle colpe degli imputati nazisti, quel processo spesso ebbe
poco a che vedere con gli standard del diritto internazionale.
N.D. — Per la parte sovietica a Norimberga fece la sua comparsa [Andrej]
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Polacchi, nazisti, sovietici, ...
Vishinskij, il procuratore dei processi dimostrativi sovietici prima della guerra. Senz’altro sarebbe dovuto comparire in quel tribunale, ma sul banco degli imputati.
Insomma, non era un tribunale internazionale, ma il tribunale dei vincitori che
giudicavano gli sconfitti. Ha condannato giustamente il Terzo Reich, ma ha evitato in
tutti i possibili modi di ragionare sulle azioni compiute dagli alleati contro la legge.
Il finale di Norimberga è stato come la vittoria in questa guerra: moralmente equivoco e, anni dopo, del tutto mistificato.
Norman Davies, storico britannico di origini gallesi, nato nel 1939, vive tra Oxford e
Cracovia. È stato docente di Storia in diverse università della Gran Bretagna (a Oxford
e, dal 1985 al 1996, alla School of Slavonic and East European Studies all’Università di
Londra), degli Stati Uniti e del Giappone. Collaboratore di “The Times” e di “The New
York Review of Books”, ha pubblicato vari libri particolarmente attenti alla storia della
Polonia e dell’Europa centrorientale. Tra questi, tradotti in italiano: La rivolta. Varsavia 1944: la tragedia di una città tra Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2004; e Storia d’Europa, in 2 volumi, Bruno Mondadori, Milano 2006. Con Roger Moorhouse ha scritto anche:
Microcosmo. L’Europa centrale nella storia di una città, Bruno Mondadori, Milano 2008.
Il suo ultimo libro è dedicato alla seconda guerra mondiale: Europe at War 1939—1945:
No Simple Victory, Pan Macmillan Publishers, London 2006.
Włodzimierz Kalicki, nato nel 1954, scrittore e giornalista polacco. Negli anni Settanta
e Ottanta ha scritto per “Kultura” e collaborato con la stampa clandestina e cattolica.
Durante la legge marziale, l’Associazione clandestina dei giornalisti polacchi gli conferì
il premio “Jerzy Zieliński”. Lavora come giornalista alla “Gazeta Wyborcza” sin dalla sua
fondazione. È vincitore di prestigiosi premi, tra cui il premio polacco-tedesco dell’Associazione dei giornalisti polacchi (1997), il “Pulitzer polacco 1998”, il Premio “Dariusz
Fikus” (2000), il Premio Grand Press (2000). Ha pubblicato tra l’altro Ostatni jeniec
wielkiej wojny. Polacy i Niemcy po 1945 roku (2002).
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
La seconda Repubblica di Polonia nel 1939:
tra mito e verità storica
di Sandra Cavallucci
Intorno alla seconda Repubblica di Polonia e alla sua élite politica — soprattutto
quella degli anni Trenta — sono fioriti infiniti miti e leggende. Sono innumerevoli le critiche mosse alla politica polacca del periodo 1938-39 e sono tante le “leggende nere”
che circondano le scelte di Varsavia in quegli anni cruciali. Il principale protagonista di
quelle scelte fu il ministro degli Esteri Józef Beck, anch’egli giudicato negativamente
dai suoi contemporanei e successivamente dagli storici. Questo articolo si propone di
sfatare le credenze più comuni e popolari relative alla Polonia di quella epoca, rimettendo in prospettiva i principali temi che hanno alimentato le critiche degli storici e dei
pubblicisti.
Collaborazione segreta tra la Polonia e la Germania nel 1938?
Le voci di una presunta collaborazione segreta tra la Polonia e la Germania risalivano al 1934, quando i due Paesi avevano firmato una dichiarazione di non aggressione
(26 gennaio). Da quel momento, soprattutto ad opera della diplomazia francese e sovietica, si iniziò a sospettare che Varsavia e Berlino si fossero accordate per andare
oltre lo spirito del patto di non aggressione. In realtà non vi era nessun protocollo segreto e non vi erano intese sovversive tra i due firmatari. Tuttavia le voci non cessarono.
Anzi, aumentarono nel corso del tempo anche a causa dei ripetuti inviti tedeschi rivolti
alla Polonia affinché questa si unisse al patto anti-Comintern. Quelle congetture trovarono nuove presunte conferme durante le crisi del 1938.
In marzo la Germania annetté l’Austria (Anschluss). Le grandi potenze, che fino a
poco prima avevano considerato la sovranità dell’Austria il simbolo della pace di Versailles, non reagirono. Dal canto suo, la Polonia colse l’occasione per sciogliere una disputa ventennale nel settore settentrionale. Tra la Polonia e la Lituania non
intercorrevano rapporti regolari, a causa della controversia relativa al possesso della
città di Vilnius, occupata dalla Polonia nell’immediato dopoguerra e costantemente rivendicata dalla Lituania. Sull’onda emotiva dovuta all’Anschluss e in seguito a un incidente di frontiera, Varsavia inviò alla Lituania un ultimatum per instaurare normali
relazioni diplomatiche L’iniziativa ebbe successo, ma i già diffusi sospetti di una cooperazione segreta polacco-tedesca trovarono conferma nella coincidenza di metodi e
tempi tra l’azione tedesca in Austria e quella polacca in Lituania.
Poco dopo, la crisi cecoslovacca fornì nuova linfa a quei sospetti. Le relazioni tra
Praga e Varsavia erano offuscate dall’occupazione cecoslovacca del distretto di Teschen
nei primi anni del dopoguerra. Non vi erano alleanze tra i due Paesi, che si guardavano
reciprocamente con una ostilità quasi patologica. Durante la crisi del 1938, Varsavia fu
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La seconda Repubblica di Polonia nel 1939...
accusata di non volersi impegnare nella difesa della Cecoslovacchia (peraltro Praga era
alleata della Francia che si era ormai adattata all’appeasement). In realtà Beck aveva
richiesto legittimamente, per la minoranza polacca presente in quel Paese, la clausola
della nazione più favorita. Ciò significava che ogni concessione accordata alla popolazione tedesca in Cecoslovacchia doveva essere estesa anche a quella polacca. Date le
sempre maggiori richieste tedesche, la Polonia si trovò prigioniera della sua rivendicazione: dall’autonomia, al plebiscito alla cessione del territorio. Anche in questo caso fu
Hitler a dettare l’andamento dei tempi e delle modalità e la Polonia vi si adattò.
Quando, infine, la crisi fu risolta con la conferenza di Monaco (29-30 settembre, peraltro senza la partecipazione cecoslovacca), i rappresentanti polacchi non furono invitati
e le loro richieste furono lasciate in sospeso, come pure quelle avanzate dall’Ungheria.
Per Beck la conferenza fu la consacrazione di un «sistema che governava l’Europa
mercanteggiando in conciliaboli accessibili solo alle grandi potenze e senza alcuna partecipazione — neppure ufficiosa — dei paesi più direttamente interessati» [J. Beck, Dernier Rapport, 1951, p. 165]. La reazione non si fece attendere e, lungi da essere
concordata con la Germania, rappresentò una semplice riaffermazione della pari dignità della Polonia rispetto agli altri Paesi e una chiara protesta contro i metodi e le decisioni della conferenza di Monaco. Anche in questo caso Varsavia inviò con successo un
ultimatum con cui reclamava la cessione di Teschen. Praga capitolò e la crisi si chiuse
rapidamente con l’occupazione polacca del distretto conteso.
Mentre l’Europa tirava un sospiro di sollievo per aver sventato il pericolo di guerra
(provocato dalle richieste di Hitler), la Polonia fu considerata uno sciacallo per aver
partecipato avidamente al banchetto di spartizione della Cecoslovacchia; paradossalmente l’uomo della strada la condannò come responsabile di tutto quanto aveva dovuto
subire Praga. All’apparenza Varsavia aveva nuovamente agito di concerto con la Germania. La realtà era molto più sfumata. Vi erano state molte consultazioni tra la Germania e la Polonia, soprattutto sul tema delle rivendicazioni ungheresi che — se accolte
— avrebbero permesso la realizzazione della contiguità territoriale polacco-ungherese.
Tuttavia non era stato concordato alcunché. Hitler aveva lasciato intendere di essere
disposto perfino a riconoscere l’intangibilità dei confini orientali per assicurarsi la neutralità polacca nella crisi cecoslovacca; e la Polonia aveva inutilmente tentato di vendere al meglio la sua neutralità, che avrebbe avuto un grande peso solo se le democrazie
occidentali avessero deciso di non cedere alle richieste tedesche. Non è un caso che le
proposte tedesche furono lasciate cadere subito dopo la conferenza di Monaco, per essere riprese di lì a poco con un tono nuovo e più incisivo.
Infatti la prospettiva dell’occupazione polacca di Teschen aveva reso necessario
concordare con i tedeschi la demarcazione delle rispettive zone, poiché le minoranze
erano mescolate e le infrastrutture dei territori occupati interessavano sia Berlino sia
Varsavia. Fu proprio nel clima di dialogo che si era instaurato sull’onda della crisi cecoslovacca che il ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop presentò ai polacchi la
proposta di una «soluzione globale» (Gesamtlösung) delle questioni pendenti tra i due
Paesi: la Germania voleva il ritorno di Danzica al Reich e la costruzione di collegamenti
extraterritoriali attraverso il Corridoio; la Polonia avrebbe ottenuto garanzie per i suoi
interessi a Danzica e — in ipotesi — una proroga della dichiarazione del 1934 con una
eventuale garanzia per la frontiera. Era il 24 ottobre 1938 e da quel momento niente
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
sarebbe stato più come prima nelle relazioni bilaterali, poiché le richieste tedesche
erano per molti aspetti inaccettabili.
Vi furono alcuni scambi successivi che furono interpretati come una ulteriore convalida della cooperazione tedesco-polacca. Nel gennaio 1939 Beck incontro Hitler e Ribbentrop a Berchesgaden; poco dopo Ribbentrop si recò a Varsavia in visita ufficiale, in
un’atmosfera di calda cordialità. Tuttavia i temi della «soluzione globale» pesavano già
gravemente tra i due Paesi e di lì a poco sarebbero sfociati nella “guerra dei nervi”, che
sarebbe terminata solo il 1° settembre 1939 con l’attacco tedesco alla Polonia.
I sospetti occidentali, d’altro canto, si attenuarono soltanto quando la Gran Bretagna, a seguito della violazione tedesca degli accordi di Monaco (occupazione di Praga,
marzo 1939), propose a Beck una garanzia per l’indipendenza della Polonia. Beck accettò immediatamente e, con una certa sorpresa, i britannici scoprirono che la Polonia in realtà temeva Hitler ed era pronta a opporsi al revisionismo tedesco. La garanzia
fu annunciata il 31 marzo ed elaborata poco dopo durante la visita di Beck a Londra. A
quel punto fu chiaro che non vi era, né vi era mai stata, una intesa sovversiva tra Varsavia e Berlino.
La politica di equilibrio polacca era un goffo tentativo di «tenere il piede in
due staffe»?
Fin dai primi anni della ritrovata indipendenza, la Polonia aveva cercato di costruire un sistema di sicurezza efficace. Nel 1921, con la Francia, era stata stipulata una
alleanza in chiave antitedesca che, per la Germania, prospettava il rischio di un conflitto su due fronti; nello stesso anno la Polonia e la Romania firmarono un trattato difensivo in funzione antirussa. Questi due accordi, rigorosamente bilaterali, nei primi
Anni Venti soddisfacevano le esigenze di sicurezza di Varsavia, poiché la Germania e
l’Unione Sovietica versavano in condizioni di oggettiva debolezza. La situazione, però,
mutò nel 1925, a causa della riconciliazione franco-tedesca consacrata negli accordi di
Locarno. In quella occasione, infatti, le grandi potenze distinsero tra le frontiere occidentali della Germania, meritevoli di una garanzia internazionale speciale, e quelle
orientali. Questa discriminazione fu appena temperata da alcuni accordi di arbitrato.
Nelle parole di Beck, «la Germania era stata solennemente invitata ad attaccare a est»
[J. Beck, Dernier Rapport, 1951, p. 268]. Da quel momento — e fino al 1939 — i francesi tentarono di alleggerire l’alleanza franco-polacca del 1921 e di temperare gli automatismi in essa previsti. La fiducia tra Parigi e Varsavia ne risentì e non fu mai
ristabilita del tutto.
Dopo Locarno, che aveva messo in evidenza i limiti della disponibilità francese nell’Europa centrorientale, la Polonia decise di percorrere autonomamente la strada della
riconciliazione con i due grandi Paesi vicini. Nel 1932 fu firmato un accordo di non aggressione con l’Unione Sovietica e nel 1934 fu sottoscritto un documento analogo con
la Germania. I due accordi rappresentavano, nel medio periodo, una valida garanzia di
sicurezza per la sovranità, l’integrità territoriale e l’indipendenza della Polonia. Essi divennero i principali pilastri della politica internazionale polacca lungo l’asse est-ovest,
da cui — come le tre spartizioni del tardo XVIII secolo avevano insegnato — dipendeva
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La seconda Repubblica di Polonia nel 1939...
l’esistenza del Paese. Dal 1934 Varsavia operò tutte le sue scelte considerando soprattutto le possibili ripercussioni che esse avrebbero potuto avere nelle relazioni con la
Germania e con l’Unione Sovietica. In altre parole, la Polonia adottò la cosiddetta “politica di equilibrio”, basata sulla constatazione che una collaborazione troppo stretta
con uno dei due grandi vicini avrebbe inevitabilmente provocato la reazione dell’altro.
Da ciò derivava la necessità di mantenere le migliori relazioni possibili con Mosca e Berlino: la Polonia avrebbe dovuto rifiutare ogni iniziativa multilaterale che non comprendesse entrambi i vicini. Dunque, si trattava semplicemente di evitare che la Polonia
si trovasse nella scomoda situazione di dover optare tra la Germania e l’Unione Sovietica.
La politica di equilibrio presupponeva che il conflitto ideologico nazi-sovietico
fosse insuperabile. In questo senso, nella visione di Beck, l’ascesa al potere di Hitler
rappresentava una garanzia che la cooperazione tra Mosca e Berlino, nei fatti inaugurata a Rapallo nel 1922 e poi rinnovata nel 1926, fosse ormai preclusa.
In ipotesi, se l’equilibrio non avesse funzionato, cioè se le relazioni con uno dei vicini si fossero deteriorate, le alleanze del 1921 con la Francia e la Romania avrebbero
puntellato il sistema. La Francia, minacciando il confine renano, avrebbe costretto la
Germania a dividere le forze; la Romania avrebbe fornito qualche aiuto nel caso di aggressione sovietica. Sul versante orientale erano utili anche le ottime relazioni con il
Giappone che — pur essendo ideologicamente schierato — poteva essere informalmente
un valido alleato, poiché minacciava l’Unione Sovietica nel settore asiatico.
La politica di equilibrio — talvolta definita «di equidistanza» — è stata criticata e
giudicata negativamente dai contemporanei di Beck, che probabilmente non la capivano, e successivamente dagli storici. Essa è stata considerata sia il frutto di impossibili acrobatismi politici, sia l’espressione di una propensione filotedesca. Certamente i
polacchi, nel periodo tra le due guerre mondiali, trovavano più facilmente un linguaggio comune con i tedeschi, piuttosto che con i francesi o con i britannici. Tuttavia, in
realtà, essi nutrivano una profonda diffidenza nei confronti dei sovietici. Di conseguenza, le relazioni con Berlino erano molto vivaci, mentre quelle con Mosca erano tiepide e limitate agli scambi strettamente necessari. In ogni caso la cordialità
polacco-tedesca aveva limiti ben precisi, che coincidevano con la sovranità e l’integrità territoriale della Polonia.
Quanto agli acrobatismi politici, basta considerare la difficile posizione geopolitica
della Polonia per capirne i motivi. In realtà, lungi da essere il risultato di scelte sconsiderate, l’equilibrio era espressione della intrinseca fragilità del Paese: esclusa l’alleanza con uno dei due ingombranti vicini, che avrebbe trasformato la Polonia in uno
Stato vassallo, l’unica alternativa valida sull’asse est-ovest era una rigorosa neutralità.
Per usare le parole di Beck, vi erano due cose «impossibili dal punto di vista della Polonia, cioè la dipendenza della sua politica da Mosca o da Berlino». Infatti, «se la Polonia avesse reso la sua politica dipendente da una delle due potenze [Germania e Unione
Sovietica], essa avrebbe cessato di essere un elemento di pace e stabilità per divenire
un potenziale elemento di conflitto» [Documenti diplomatici polacchi: Polskie dokumenty dyplomatyczne. 1939 styczeń-wrzesień, 4 aprile 1939].
Risultano ora più comprensibili le ragioni che portarono la Polonia a rifiutare costantemente di far parte delle combinazioni multilaterali di volta in volta proposte.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Così i polacchi disattesero gli inviti francesi a partecipare alla cosiddetta Locarno Orientale (1934), che prevedeva la partecipazione sovietica ma per la quale difficilmente
avrebbe avuto il sostegno tedesco; negarono ai tedeschi la loro adesione al patto antiComintern, ideologicamente schierato contro l’Unione Sovietica; infine respinsero le
iniziative delle democrazie occidentali tese alla creazione di un «fronte della pace»
(estate 1939), che comprendeva l’Unione Sovietica ed era chiaramente diretto contro
la Germania.
Varsavia, dunque, non teneva il «piede in due staffe», non tentava di «cavalcare
due cavalli allo stesso tempo», ma privilegiava gli impegni bilaterali e ben determinati
a discapito delle dichiarazioni di principio e degli schieramenti multilaterali. Tra gli accordi bilaterali, quelli di non aggressione del 1932 e del 1934 con i Paesi limitrofi avevano la priorità. Nonostante le apparenze, Varsavia rifiutava — in modo assoluto e da
molti ritenuto irragionevole — di scegliere a favore della Germania o dell’Unione Sovietica.
Questa politica funzionò bene fino alla conferenza di Monaco del 1938, che modificò l’assetto dell’Europa centrale. Da quel momento, la Germania non fu più disposta
a tollerare la neutralità polacca. Tuttavia, la proposta di «soluzione globale» del 24 ottobre era incompatibile con i principi della ragion di stato polacca (sovranità, integrità
territoriale, indipendenza). Se accettata, l’avrebbe trasformato in un paese vassallo
della Germania. In quelle circostanze, l’equilibrio — sul versante occidentale — fu mantenuto artificiosamente, nella consapevolezza che le relazioni con la Germania erano
«basate sulla convinzione delle più alte autorità tedesche che, nel prossimo conflitto
tedesco-sovietico, la Polonia sarebbe stata l’alleato naturale del Reich». In quelle circostanze «tutta la politica di buon vicinato inaugurata nel 1934 poteva facilmente rivelarsi soltanto una finzione» [Diario di Jan Szembek: Diariusz i teki Jana Szembeka,
vol. IV, 10 dicembre 1938].
Nonostante la priorità data alle buone relazioni con Mosca e Berlino, come punto
di riferimento rimasero sempre le democrazie occidentali: la Francia, ma soprattutto
la Gran Bretagna. Beck infatti sapeva che, in un conflitto europeo, la Polonia non
avrebbe mai potuto trovarsi a fianco della Germania o dell’Unione Sovietica, ma
avrebbe dovuto schierarsi con Londra e Parigi. In questo senso, la garanzia britannica
del 31 marzo 1939 completava la struttura dell’equilibrio, poiché raccordava l’alleanza
franco-polacca del 1921 alla (presunta) volontà britannica di sbarrare il passo a Hitler.
L’epilogo della politica di equilibrio non fu certamente positivo. L’intera struttura
era basata sugli accordi di non aggressione con l’Unione Sovietica e la Germania, e sulle
alleanze con la Francia, la Romania e la Gran Bretagna. Il 1° settembre 1939 venne
meno l’accordo di non aggressione con la Germania (che peraltro era già stato denunciato da Hitler il 28 aprile). Nei mesi precedenti, le alleanze con la Francia e la Gran
Bretagna avevano dato luogo a scambi di delegazioni militari in preparazione dell’imminente conflitto con il Reich. Durante i colloqui che si erano susseguiti dal mese di
maggio, i polacchi avevano acquisito la certezza che, in caso di attacco tedesco, gli alleati avrebbero fornito in modo immediato e automatico tutta l’assistenza possibile, e
avrebbero intrapreso i bombardamenti degli obiettivi militari in territorio tedesco per
costringere il nemico a dividere le sue forze. Le promesse occidentali erano state ribadite a più riprese e la sostanza degli impegni non era mai stata messa in discussione,
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La seconda Repubblica di Polonia nel 1939...
neppure dopo l’imbarazzante fallimento dei negoziati anglo-franco-polacchi per la concessione di un prestito destinato a rafforzare il potenziale bellico della Polonia. I polacchi, del resto, non avevano motivo di dubitare delle dichiarazioni di Gamelin, di Clayton
e di Ironside. Tuttavia, nonostante l’inizio del conflitto, Parigi e Londra non avevano rinunciato a salvare la pace. L’intervento in aiuto di Varsavia non fu né automatico né immediato e le dichiarazioni di guerra alleate giunsero soltanto il 3 settembre.
A Varsavia si salutò l’entrata in guerra degli alleati con entusiasmo, in attesa del
dispiegamento del potenziale bellico anglo-francese. Tutto sommato, alla data del 3
settembre, la struttura dell’equilibrio, con il suo meccanismo di contro-assicurazione,
poteva ancora dare un’impressione di efficacia: la Germania aveva attaccato, ma le
alleanze occidentali si stavano attivando secondo quando stabilito. Occorreva solo attendere che le previste (e promesse) operazioni belliche francesi e britanniche capovolgessero l’esito del conflitto.
È su questo aspetto che la politica di equilibrio mostrò la sua debolezza. Infatti,
nel giro di qualche giorno, fu chiaro che Francia e Gran Bretagna non avevano intenzione
di rispettare gli impegni. Gli appelli rivolti da Varsavia agli alleati non furono ascoltati
e il governo polacco iniziò a battere in ritirata. Il versante occidentale dell’equilibrio
si sgretolò, e con esso la fiducia nei confronti degli alleati (fu allora che si iniziò a parlare di «tradimento» anglo-francese).
Rimaneva invece invariata la situazione nel settore orientale. Dal punto di vista
formale le relazioni tra Mosca e Varsavia erano irreprensibili. Anzi, poco prima dell’inizio delle ostilità (e poco dopo la firma del patto nazi-sovietico!), il 27 agosto, i sovietici avevano offerto a Varsavia forniture di materie prime strategiche nell’ambito
dei normali scambi commerciali bilaterali. E il 2 settembre, l’ambasciatore sovietico a
Varsavia rinnovò l’offerta. Ancora l’8 settembre, i sovietici riconfermarono la loro volontà di rispettare la dichiarazione di non aggressione del 1932 [Polish White Book, n.
170 e 172].
Dunque, nel breve periodo, i polacchi non avevano motivo di sospettare un mutamento di rotta della politica di Mosca: secondo le loro valutazioni, l’Unione Sovietica
non avrebbe partecipato a un conflitto europeo, salvo scendere in campo all’ultimo
momento (quando i contendenti fossero stati stremati) per determinare l’esito finale
dello scontro. Fu quindi con una certa sorpresa che i polacchi accolsero la notizia della
mobilitazione sovietica (9 settembre), ma non nutrirono eccessivi sospetti quando l’ambasciatore Sharonov lasciò il paese con il pretesto di dover comunicare con Mosca.
L’equilibrio a est crollò improvvisamente il 17 settembre, quando l’ambasciatore
polacco Grzybowski ricevette una nota con la quale i sovietici comunicavano la loro decisione di entrare in territorio polacco per tutelare le minoranze ucraina e bielorussa.
Nella nota si prendeva atto del collasso della Polonia di fronte all’attacco tedesco e si
denunciavano tutti i trattati in vigore tra Mosca e Varsavia: dal trattato di Riga del
marzo 1921, che aveva posto fine alla guerra russo-polacca dell’immediato dopoguerra,
alla dichiarazione di non aggressione del 1932 (che era stata riconfermata nel novembre 1938 ed era valida fino al 1945). In quelle gravi circostanze, i polacchi rinunciarono
a chiedere alla Romania l’adempimento degli impegni derivanti dall’alleanza del 1921.
L’equilibrio dunque non aveva retto la prova del conflitto e tutti i presupposti su cui
essa si basava erano venuti meno: le promesse occidentali non avevano funzionato con-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tro la Germania e ora, ancora una volta, gli appelli agli alleati non avevano esito positivo,
nonostante il riconoscimento formale del governo polacco “in esilio”; le valutazioni sulla
politica sovietica si erano dimostrate profondamente errate, soprattutto per quanto riguardava la priorità del conflitto ideologico nelle relazioni tedesco-sovietiche.
Lo scenario che si prospettò il 17 settembre era il peggiore in assoluto e inevitabilmente la Polonia fu costretta a subire una nuova spartizione, non avendo, da sola,
la forza per opporvisi.
La seconda guerra mondiale è scoppiata per Danzica?
Dopo la garanzia britannica all’indipendenza della Polonia (31 marzo 1939), trasformata in alleanza provvisoria il 6 aprile, l’attenzione internazionale era rivolta a
Danzica. Era infatti evidente che Hitler, dopo aver ottenuto giustizia per i tedeschi dei
Sudeti, aveva intenzione di risolvere una volta per tutte la situazione della popolazione
tedesca nella città.
La questione assunse una particolare risonanza pubblica quando il giornalista francese Marcel Déat pubblicò un articolo intitolato Mourir pour Dantzig? [L’Œuvre, 4 maggio 1939]. La risposta all’interrogativo di Déat era ovviamente negativa, ma in realtà si
trattava di capire quanto la Francia e la Gran Bretagna fossero vincolate alla difesa
dello status quo di Danzica.
Nell’era dell’appeasement, cioè dell’acquiescenza britannica (e francese) alle richieste di Hitler in nome del mantenimento della pace europea, il tema di Danzica diveniva la chiave di lettura della visione delle democrazie occidentali rispetto all’Europa
centrale e orientale.
Il dibattito relativo all’assetto alla foce della Vistola non era una novità. Già nei
primi anni del dopoguerra la soluzione scelta per garantire alla Polonia uno libero sbocco
al mare era stata aspramente criticata (ovviamente dai tedeschi, ma anche dai britannici). Dopo la garanzia del 31 marzo, il tema tornò ad accendere le polemiche, soprattutto in relazione alla qualità dell’impegno di Londra e di Parigi in difesa delle decisioni
di Versailles.
Annunciando la garanzia, il primo ministro britannico Neville Chamberlain si era impegnato a fornire in modo immediato tutto l’aiuto possibile, qualora «una qualsiasi azione
avesse minacciato chiaramente l’indipendenza della Polonia e il governo polacco avesse
ritenuto di vitale importanza resistere con tutte le forze nazionali» [Poland in the British
Parliament. 1939-1945, 31 marzo 1939]. Nonostante l’apparente svolta nella politica di
Londra, che fino a quel momento aveva guardato a quella regione europea con distacco,
la dichiarazione di Chamberlain si prestava a svariate interpretazioni. La scelta del termine «indipendenza» pareva infatti alludere alla possibilità di mutamenti pacifici dell’assetto territoriale: la Gran Bretagna (e con essa la Francia) non si obbligava a difendere
l’integrità territoriale della Polonia, bensì la sua indipendenza. Si trattava di nozioni sostanzialmente diverse, poiché la garanzia britannica non si sarebbe attivata nel caso di
rettifiche della frontiera polacco-tedesca, a meno che la Polonia non avesse deciso di
mettere in campo tutto il suo potenziale bellico. D’altro canto, una piccola erosione del
territorio polacco non avrebbe certamente messo a rischio l’indipendenza del paese.
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La seconda Repubblica di Polonia nel 1939...
Sul tema della garanzia britannica, si innestano molte considerazioni più generali.
Era la fine dell’appeasement? Si stava ingannando la Polonia, alimentando le illusioni
sulla fermezza di propositi di Londra? All’epoca, la stampa diede ampia risonanza a
tutte le ambiguità della dichiarazione di Chamberlain, che evidentemente non presupponeva l’accettazione dello status quo territoriale. Inoltre la garanzia aveva un valore
puramente simbolico, poiché non erano stati previsti strumenti concreti di aiuto per Varsavia (crediti, forniture militari, etc.). Ancora oggi gli storici discutono di questi argomenti, ma probabilmente con un problema di fondo relativo alla chiave di lettura.
Infatti, se si ribalta la tradizionale prospettiva “occidentale”, la garanzia britannica
assume un significato completamente diverso.
Beck non era uno sprovveduto e, quando si recò a Londra per definire i termini dell’alleanza, era consapevole delle ambiguità della formula di Chamberlain. Con un abile
negoziato egli riuscì a far includere il caso dell’annessione di Danzica alla Germania in
un protocollo, secondo il quale nell’eventualità di «altre» azioni tedesche che avessero
minacciato chiaramente l’indipendenza polacca e a cui la Polonia avesse deciso di opporsi con la forza, il governo britannico avrebbe fornito aiuto immediato [documento
originale in Archiwum Akt Nowych, Ministerstwo Spraw Zagranicznych, c. 108a, 6 aprile
1939, promemoria sulla questione di Danzica]. A prescindere dalla voluta vaghezza della
formula del 31 marzo, la nozione di indipendenza rispondeva in modo più efficace alle
esigenze polacche ed era più elastica rispetto a quella di integrità territoriale. Paradossalmente, in considerazione del particolare status di Danzica, la scelta britannica dei
termini comprendeva anche il caso della città libera.
Infatti, a seguito di lunghe discussioni alla conferenza della pace, Danzica era
stata trasformata in uno stato in miniatura con sovranità limitata e dipendente dalla
Società delle Nazioni. Dunque la “città libera” non apparteneva né alla Germania, né
alla Polonia, pur essendo compresa nell’area doganale polacca. La Polonia godeva di
una serie di prerogative economiche che le garantivano il libero accesso al mare,
mentre la Germania non aveva diritti formalmente riconosciuti ma, sul piano politico, poteva esercitare una grande influenza a livello locale.
Soltanto tenendo presente la singolare situazione di Danzica è possibile percepire le sfumature della garanzia britannica. Infatti, se Chamberlain avesse optato per
la nozione di integrità territoriale, automaticamente la città libera sarebbe stata
esclusa dalla garanzia. Al contrario, il concetto di indipendenza comprendeva anche
Danzica poiché, se la città fosse stata annessa alla Germania, la Polonia avrebbe perso
la sua indipendenza economica e, di conseguenza, quella politica. Tutto considerato,
nella primavera-estate 1939 un colpo di mano tedesco per l’annessione di Danzica
era più che probabile. L’alleanza con Londra era quindi, per la Polonia, uno strumento
formidabile e valido erga omnes.
Peraltro Beck aveva iniziato a negoziare con la Germania ben prima dell’annuncio della garanzia britannica. Ribbentrop aveva rilanciato i temi della «soluzione globale» il 21 marzo. Il 25 Beck aveva proposto di risolvere la questione di Danzica con
un condominium bilaterale che sostituisse la Società delle Nazioni e che garantisse,
a un tempo, il libero sviluppo della popolazione tedesca e le prerogative economiche
polacche. Era invece esclusa una semplice annessione della città al Reich, che avrebbe
subordinato il libero esercizio dei diritti riconosciuti alla Polonia alla (opinabile) buona
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
volontà tedesca. L’altro aspetto della «soluzione globale» riguardava la richiesta di
comunicazioni extraterritoriali attraverso il corridoio da e per la Prussia orientale. In
questo ambito, Beck era pronto ad accordare ogni possibile facilitazione di transito
— da trattare sul piano tecnico — ma sempre e comunque nei limiti posti dalla sovranità polacca. In altre parole, Varsavia era pronta a rimuovere tutti gli ostacoli al transito attraverso il suo territorio, ma Berlino doveva rinunciare all’idea
dell’extraterritorialità [Polish White Book, n. 62].
La garanzia britannica migliorò in generale la posizione strategica di Varsavia, ma
fornì a Hitler il pretesto per denunciare la dichiarazione di non aggressione del 1934
[discorso al Reichstag, 28 aprile]. Beck non si fece intimidire e replicò pubblicamente
il 5 maggio, dando voce ai sentimenti antitedeschi della nazione, tracciando in modo
chiaro i limiti del non possumus del paese e lanciando un monito: «La pace è un bene
prezioso e auspicabile. La nostra generazione, insanguinata dalle guerre, merita sicuramente un periodo di pace. Tuttavia, se la pace ha un prezzo elevato, questo
prezzo, come tutte le cose di questo mondo, è quantificabile. Per noi polacchi la nozione di una pace a qualsiasi prezzo non esiste. C’è solo una cosa che, nella vita degli
uomini, dei popoli e degli Stati, non ha prezzo — ed è l’onore» [Polish White Book, n.
77].
Dal quel momento, la disputa polacco-tedesca innescata dalla «soluzione globale» assunse una valenza internazionale. Era ormai in gioco il prestigio dei due
paesi. Si delineava la “guerra dei nervi”, che avrebbe interessato anche la Francia e
la Gran Bretagna in virtù delle alleanze con Varsavia.
Nonostante l’inasprimento della vertenza con la Germania, fino all’attacco tedesco la Polonia non rifiutò mai il negoziato con Berlino, né l’idea di un compromesso.
Tuttavia il negoziato doveva essere paritario, non imposto con la minaccia dell’uso
della forza; e ogni soluzione doveva necessariamente rispettare la sovranità polacca.
Infine, poiché erano stati i tedeschi ad avanzare le richieste, l’iniziativa degli eventuali negoziati sarebbe dovuta provenire dalla Germania.
In definitiva, dunque, la guerra non scoppiò per Danzica, poiché Danzica non era
polacca e poiché Beck era sempre stato favorevole a un mutamento dello status della
città. La Germania e la Polonia avrebbero potuto trovare un’intesa bilaterale per governare congiuntamente la città, senza il condizionamento della Società delle Nazioni. Casomai, almeno dal punto di vista causale, il conflitto fu innescato dal rifiuto
categorico di Beck circa la nozione di extraterritorialità per i collegamenti attraverso
il corridoio. In altre parole, per Danzica l’approccio polacco era sempre stato possibilista e conciliante, per l’extraterritorialità no. Dunque, se è vero che la Polonia fu
l’unico paese a opporsi chiaramente alle pretese di Hitler, è altrettanto vero che Beck
aveva una posizione negativa soltanto per gli aspetti minori della «soluzione globale»,
non per la città libera di Danzica. Basta considerare che quando la città proclamò la
sua indipendenza (il 23 agosto, in violazione dello Statuto della Società delle Nazioni),
la reazione polacca fu estremamente moderata e di natura diplomatica. La questione
di Danzica fu poi travolta dagli eventi che si susseguirono nell’ultima settimana di
pace e dai contraccolpi del patto Ribbentrop-Molotov, che diede a Hitler la certezza
di non incontrare resistenza nella sua campagna contro il paese (l’unico) che aveva
osato rifiutare le sue magnanime offerte.
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La seconda Repubblica di Polonia nel 1939...
Riflessioni finali
Oltre ai “miti” brevemente analizzati, ve ne sarebbero molti altri da ricollocare
in prospettiva storica: i progetti di aggregazione dei paesi dell’Europa centrale e orientale, giudicati come espressione di ambizioni da grande potenza; la diffidenza nei confronti della Francia; il costante rifiuto di intavolare un dialogo costruttivo con Mosca,
perfino nelle ultime settimane di pace; la mancata previsione del patto nazi-sovietico;
la cieca fiducia nelle promesse occidentali; l’incapacità di una intera classe dirigente
e militare. Questi e tanti altri temi hanno pesato in modo negativo sugli studi relativi
alla seconda Repubblica di Polonia, generalmente valutata secondo preconcetti che
avevano origine in Francia e in Unione Sovietica. Tuttavia le scelte polacche del 19381939 avevano motivazioni logiche che si possono comprendere soltanto guardando all’Europa con gli occhi di Varsavia e in particolare del ministro degli Esteri Józef Beck.
Del resto, nell’estate 1939, chi poteva prevedere che cosa sarebbe accaduto? Le
notizie di una imminente convergenza tra Germania e Unione Sovietica circolavano già
molto tempo prima della effettiva stipulazione dell’accordo del 23 agosto. Ma furono
pochi gli statisti europei che prestarono fede a tali voci. Beck, come la maggior parte
dei suoi contemporanei, attribuiva al conflitto ideologico molta, forse troppa, importanza. In definitiva, quando il patto Ribbentrop-Molotov fu stipulato, il ministro non
cambiò idea, anche perché Mosca e Berlino avevano sottoscritto un semplice trattato
di non aggressione. Peraltro Beck non conosceva il contenuto del protocollo segreto allegato al patto nazi-sovietico e non poteva sospettare che Stalin e Hitler si fossero accordati per spartirsi l’Europa orientale, Polonia compresa. E i pochi che, invece, erano
ben informati non trasmisero le informazioni a Varsavia.
Quando la Germania attaccò, la Polonia, in teoria, aveva le alleanze giuste per sostenere il confronto. Forse peccando di ingenuità, Beck era convinto che Parigi e Londra avrebbero onorato gli impegni. Per il ministro, che aveva una mentalità prettamente
militare e intrisa di patriottismo, la parola data aveva il suo valore e gli alleati avevano
promesso molto nei mesi precedenti all’inizio delle ostilità. Egli non poteva sapere —
né concepire — che nella programmazione militare anglo-francese, la Polonia fosse stata
considerata una “causa persa” a priori. Non erano stati previsti strumenti di intervento
e di assistenza per dare concretezza alle alleanze, poiché ogni finanziamento o materiale bellico sarebbe stato “sprecato”. La visione strategica anglo-francese legava il
destino della Polonia all’esito finale del conflitto, non al suo rafforzamento temporaneo. Il fallimento dei negoziati finanziari per la concessione di un credito e di materiali
militari destinati all’esercito polacco era dovuto proprio alla mancanza di una pianificazione militare che comprendesse la Polonia. Dunque, per parte anglo-francese, le alleanze erano realmente uno strumento di natura più politica e psicologica che tattica
e militare. Ma per Beck questi erano risvolti inconcepibili, dato che gli impegni alleati
erano stati ribaditi solennemente in più occasioni.
Beck pagò i suoi errori di valutazione con la sconfitta e la prigionia. La Polonia dovette subire la sua quarta spartizione nonostante le alleanza “giuste”, poiché da sola
non poteva far fronte alle forze tedesche e sovietiche. Tuttavia, forse, proprio queste
alleanze “giuste”, alla fine del conflitto fecero sì che il paese fosse restaurato nella sua
semi-indipendenza e non fosse del tutto assorbito dall’URSS.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
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Sandra Cavallucci, insegna Storia dell'Europa orientale alla Facoltà di Scienze Politiche
di Firenze e Storia contemporanea europea a studenti stranieri presso l'Istituto Lorenzo
de’ Medici (Firenze). Ha conseguito il dottorato in Storia delle relazioni internazionali
a Firenze, dove si è anche laureata in Scienze Politiche. Si interessa soprattutto di Europa orientale, in particolare di Polonia. Ha pubblicato alcuni articoli su problematiche
polacche e a breve uscirà una sua monografia sulla Polonia alla vigilia del conflitto,
presso l’editore Rubbettino.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
La Polonia
e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo1
di Francesco M. Cataluccio
La Polonia, nel 1939, fu non soltanto vittima dell’attacco concordato di due grandi
potenze, ma anche il terreno dove, per la prima volta nel nostro secolo, fu messa in pratica una guerra di annientamento sostenuta da motivazioni ideologiche. Come ha sostenuto lo storico tedesco Ernst Nolte, nel suo controverso libro Nazionalismo e
bolscevismo. La guerra civile europea 1917-19452: «sulle due rive del Bug agirono in
immediata prossimità le conseguenze delle due rivoluzioni che avevano scritto l’annientamento di un nemico sul loro vessillo». Né la Germania né l’URSS tentarono di
dar vita, in Polonia, ad un governo collaborazionista del tipo di quello di Vichy in Francia. Sin dall’inizio — come del resto era scritto nelle clausole segrete del patto Ribbentrop-Molotov — ambedue le potenze fecero in modo di cancellare nuovamente la
Polonia dalle carte geografiche e ridurre la sua popolazione al rango di schiavi.
Durante i colloqui per la firma del «Trattato di amicizia sui confini» (firmato il 28
settembre 1939) i tedeschi posero la questione di uno Stato polacco sotto il controllo
della Germania e dell’URSS. Hitler era sollecitato in questo senso da Mussolini, che ancora il 5 gennaio del 1940 gli scriverà:
Questo popolo, che è stato vergognosamente tradito dalla sua classe dirigente, politica e militare, che — come Voi stesso avete cavallerescamente riconosciuto nel vostro discorso a Danzica — si è battuto valorosamente, è degno di un
trattamento che non fornisca pretesti ai nostri avversari. Sono convinto che non
potrà mai costituire pericolo per il grande Reich la costituzione di una Polonia limitata e disarmata, esclusivamente polacca e affrancata dagli ebrei [...].
Ma per i sovietici la Polonia non poteva continuare ad esistere in quanto «avrebbe
ostacolato ogni futura relazione tra Germania e URSS». La parte sovietica della Polonia
fu di fatto annessa; mentre una gran parte del settore conquistato dai tedeschi, il 12
ottobre, fu trasformata in «General Gouvernament» dove fu insediato come governatore (il 26 ottobre) Hans Frank.
1 Questo testo è la relazione tenuta il 13 ottobre 1989 al convegno internazionale Cinquant’anni
dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale (Genova, 13-14 ottobre 1989) promosso dall’Istituto storico della resistenza in Liguria e pubblicato nell’Annale dell’Istituto, “Storia e memorie”
(Genova 1991).
2 Der europäische Bürgerkrieg 1917-1945. Nationalsozialismus und Bolschewismus, 1987 (trad. it.
Sansoni, Firenze 1988).
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La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo
Nella zona occupata dai sovietici si ebbero espropriazioni e deportazioni (circa un
milione e mezzo di persone furono inviate in Siberia) e fucilazioni dei «nemici di classe»;
nella zona occupata dai tedeschi ci fu lo sterminio programmato della intelligenzja
polacca e della popolazione ebraica. Come nota il Nolte:
Le misure prese dalle SS furono una semplice copia dei metodi sovietici, ma
una copia a cui mancava una qualsiasi capacità di attrazione e di persuasione perché destinata soltanto a mettere una nazione contro l’altra. (...) La conduzione
della guerra da parte della Unione Sovietica era caratterizzata dal genocidio, tuttavia i genocidi di Hitler sono di un’altra categoria. La differenza non è quantitativa.
(...) Hitler fece dello sterminio un principio e chiese subito di eliminare i rappresentanti della intelligenzja polacca. Nel suo caso era invertito il rapporto tra il
mezzo e lo scopo. La fine della guerra non avrebbe fatto cessare il genocidio, ma al
contrario la vittoria doveva renderlo possibile in proporzioni più estese.
Fino al 22 giugno 1941, data dell’invasione nazista dell’URSS, la politica delle due
potenze verso la Polonia fu sostanzialmente simile e frequenti furono gli episodi di
collaborazione contro i partigiani polacchi. Del resto il patto Ribbentrop-Molotov —
che di fatto fu un patto per la spartizione di una parte dell’Europa centrale e della regione baltica — prevedeva questa collaborazione tra due sistemi apparentemente
molto diversi, ma con obiettivi e metodi assai uguali.
I rapporti tra Germania e URSS non si erano mai interrotti, nemmeno dopo il 1933.
Litvinov, alla fine di quell’anno (dopo, quindi, l’incendio del Reichstag e la liquidazione del KPD, il Partito comunista di Germania) sostenne apertamente che la politica
interna tedesca non avrebbe avuto influenza sul rapporto tra i due paesi: «Comprendiamo i sentimenti dei compagni tedeschi ma non ci facciamo guidare dai sentimenti.
Possiamo mantenere buoni rapporti con qualsiasi regime, anche fascista». La Polonia
divenne ad un certo punto il perno dell’accordo tra Germania ed URSS. E fu quest’ultima a spingere perché ciò avvenisse. In questa direzione andarono i ripetuti interventi di Kandelakim, capo della missione commerciale sovietica a Berlino, uomo di
fiducia di Stalin. I sovietici erano convinti che la divisione della Polonia fosse un mezzo
per rendersi amico Hitler e allontanare le sue mire sull’URSS e, allo stesso tempo, consideravano la parte orientale di questo paese (Vilna, Leopoli, la Bielorussia) come
territori naturalmente appartenenti alla Russia. Fino a Monaco i tedeschi cercarono
un accordo con i polacchi. Ma la questione di Danzica si rivelò insormontabile. Il 6 gennaio 1939, a Berchtesgaden, Hitler chiese a Beck che la Polonia diventasse alleata della
Germania contro l’URSS, con l’obiettivo di spartirsi assieme l’Ucraina. Il rifiuto
polacco di trattare su Danzica, e l’atteggiamento della Francia e della Gran Bretagna,
spinsero la Germania verso l’URSS, che si muoveva con sempre più vigore verso un
accordo con Hitler.
L’atteggiamento polacco va spiegato con l’orgoglio nazionale ma anche con la paura.
Un esempio chiarificatore è la risposta data dall’ambasciatore polacco a Roma WieniawaDugoszowski, il 15 maggio del 1939, a Galeazzo Ciano che cercava di convincere il governo
polacco a «concedere qualche comunicazione sul litorale alla Germania»:
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Di comunicazioni con la Prussia Orientale la Germania ne ha parecchie.
Noi le concediamo ogni facilitazione e le potremmo ancora concedere vantaggi
tecnici. In alcun modo però possiamo abdicare ai nostri diritti sovrani poiché sappiamo, noi polacchi, come sa benissimo anche lei e lo sa la Germania, ecco perché insisto tanto, che ogni minima concessione in tal senso porta ad ulteriori
concessioni sino alla perdita completa della sovranità. La contesa verte pertanto
sui nostri diritti sovrani, sulla nostra sovranità e non su una strada, su un binario,
viadotto o tunnel che sia3.
Per gli stessi motivi, alla fine di aprile, erano falliti a Parigi, i colloqui tra francesi,
britannici e sovietici per un patto anti-tedesco.
I polacchi avevano rifiutato il transito delle divisioni sovietiche sul proprio territorio. Il 4 maggio fu messo da parte il filo-occidentale Litvinov e sostituito con Molotov,
che iniziò subito le trattative con i tedeschi. Il nuovo incontro che si tenne, a giugno,
tra Francia, Inghilterra e URSS, a Mosca, fu soltanto una farsa: con la Russia che già preparava il patto con Hitler, e la Polonia sempre più irremovibile e convinta che questo
fosse l’unico atteggiamento per evitare la guerra (del resto Beck si sentiva sicuro dei
due patti stipulati, in primavera, con i francesi e gli inglesi).
La conferenza di Monaco, e la successiva occupazione dei Sudeti da parte dei tedeschi e dei polacchi, nell’autunno del 1938, coincide con l’intensificazione dei rapporti tra sovietici e tedeschi. Commentando la vicenda di Monaco, il viceministro
degli Affari esteri sovietico disse all’ambasciatore francese a Mosca, Couloudre, la
famosa frase: «Ora non abbiamo nessun’altra via che la quarta spartizione della Polonia». Alcuni giorni dopo, Schulenburg (ambasciatore tedesco a Mosca dal 1932) e
Litvinov firmarono un accordo che impegnava i due paesi ad astenersi da attacchi reciproci. Il patto Ribbentrop-Molotov venne preceduto, durante tutta la prima metà del
1939, da grossi accordi commerciali.
Quando, nel marzo del 1939, la Polonia respinse definitivamente le proposte tedesche su Danzica, Hitler firmò (il 3 aprile) le direttive per l’attacco contro questo
paese e Stalin, al XVIII congresso del partito, attaccò le potenze occidentali, che davano
il loro appoggio alla Polonia. Su tutti i piani, gli interessi sovietici e tedeschi venivano,
per il momento, a coincidere.
Ci sono due domande a cui bisogna cercare di rispondere riguardo al patto Ribbentrop-Molotov:
1. Perché l’URSS si decise ad un’alleanza con Hitler e non con i paesi occidentali? Perché i paesi occidentali non potevano dargli quello che gli dette Hitler,
è la risposta che dà lo storico Leon Grosfeld4. L’alleanza con l’Occidente avrebbe
potuto significare il coinvolgimento dell’URSS in una guerra di difesa contro la
3
Cfr. J. CHUDEK, Z raportów ambasadorskich Wieniawy-Dugosławskiego, Warszawa 1957.
Cfr. L. GROSFELD, Polskie aspekty stosunków niemiecko-sowieckich w przededniu i pierwszym okresie II wojny światowej, in “Krytyka”, n. 7, 1980.
4
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La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo
Germania, mentre l’alleanza con la Germania gli garantì non soltanto la neutralità, quanto il non incorrere in un rischio militare, ma, al massimo in una spedizione di carattere pacificatorio. Così almeno la situazione appariva nel 1939.
Inoltre, l’alleanza con l’Occidente non permetteva nessuna conquista territoriale
e realizzazione delle aspirazioni imperiali della Russia (una parte della Polonia, i
paesi baltici, un pezzo di Romania);
2. Chi fu l’iniziatore e il promotore dell’alleanza? Tutto fa supporre che fu
l’URSS: i primi avvicinamenti; il tentativo di abbattere l’impasse sia riguardo al
patto di non aggressione che al protocollo aggiuntivo; gli accordi di Mosca del 28
settembre 1939; l’opposizione alla formazione di un qualsivoglia (seppur di facciata) Stato polacco. Nell’ambito di una strategia globale, in particolare per quanto
riguarda il rapporto con l’Inghilterra, Hitler si adeguò a questa iniziativa, facendo
anche molte concessioni.
Un grandissimo significato ebbe l’aspetto economico dell’alleanza (soprattutto
riguardo alle materie prime sovietiche e alle strade di transito, per motivi strategici
della Germania, nella campagna militare verso l’occidente). Il 22 agosto, lo stesso
giorno in cui Ribbentrop lasciava Mosca, dopo la firma del patto, Hitler disse ad una
riunione di generali:
L’annichilimento della Polonia sta al primo posto. L’obiettivo è l’eliminazione delle forze vitali, non il raggiungimento di un confine specifico [...]. Io preparerò un pretesto propagandistico per scatenare la guerra, non importa se sia
credibile. La vittoria non richiede che si dica o non la verità. Ciò che è importante
all’inizio e durante la guerra non è la ragione, ma la vittoria. Non bisogna avere
pietà. Si proceda brutalmente. Ottanta milioni di persone devono ottenere ciò di
cui hanno diritto [...]. Il più forte ha ragione. Ci vuole la massima durezza.
Il 25 agosto Hitler dette l’ordine che l’attacco alla Polonia iniziasse la mattina seguente.
Ciò che fermò la Germania fu la notizia che la Gran Bretagna e la Polonia avevano
firmato, a Londra, un patto di mutua assistenza. Il patto prevedeva:
1. assistenza reciproca in caso di aggressione diretta o indiretta o qualsivoglia pressione economica;
2. stava al partner colpito richiedere l’intervento dell’altro;
3. nonostante l’accordo non prevedesse la garanzia delle frontiere, era chiaro che
ogni tentativo di mutarle con la forza veniva considerato una aggressione.
Come nel patto Ribbentrop-Molotov, anche questo patto conteneva una clausola segreta nella quale si diceva che il III Reich era «la potenza europea» che poteva essere
l’aggressore.
Questo accordo che di fatto trascinò la Gran Bretagna e la Francia a «morire per
Danzica», fu per buona parte merito del ministro degli esteri polacco Beck, di solito molto
bistrattato dalla storiografia corrente che lo considera uno degli artefici della sconfitta
polacca. Il problema è semmai un altro: sia la Polonia che gli alleati occidentali furono
vittime di un equivoco. Ambedue sottovalutarono la forza della Germania e sopravvalu-
48
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tarono quella della Polonia (dotata di un esercito mal armato, con strategie antiquate,
schierato tutto sul fronte orientale per respingere i nemici tradizionali: i russi) e la capacità di intervento di inglesi e francesi e la loro possibilità di farlo in tempi rapidi.
Il patto anglo-polacco fu subito annunciato nella speranza che servisse a fermare
Hitler. Egli infatti ritirò l’ordine di attacco, il che non impedì però di entrare in azione
ad un certo Alfred Naujocks che, dal 15 agosto, con uno speciale distaccamento vestito
con uniformi polacche, e comprendente dei prigionieri tedeschi prelevati dai campi di
concentramento per essere ammazzati nell’azione simulata, era pronto ad attaccare la
stazione radio vicino a Gleiwitz. Questa «provocazione polacca» fu comunque ripreparata per il 31 agosto.
Negli ultimi giorni di agosto ripresero le trattative diplomatiche: ci furono ancora
incontri informali tedesco-polacchi; uno scambio di lettere tra il premier francese e
Hitler; alcuni contatti tra Londra e Berlino; un tentativo di mediazione di Mussolini che
non era ancora pronto per la guerra. Ma nessuno era ormai in grado di fermare un meccanismo che era stato messo in piedi da anni.
L’invasione della Polonia appare oggi, a distanza di tempo, una tragedia ineluttabile;
e il gioco diplomatico di quei mesi che la precedettero solo un paravento per un mondo
e delle culture che avevano ancora bisogno di salvare, nonostante tutto, le forme.
Così, la Polonia, che aveva annunciato la mobilitazione generale il 29 agosto, fu costretta a ritirarla per le pressioni delle ambasciate occidentali che «non volevano dare
pretesti a Hitler».
Il primo settembre le truppe tedesche varcarono la frontiera senza una formale dichiarazione di guerra. La Polonia si trovava nel caos più totale. L’esercito fu immediatamente spostato ad ovest (lasciando ai confini con l’URSS solo i KOP, le guardie di
frontiera).
Questo fu un grave errore, perché i tedeschi riuscirono a spezzare il fronte in più
punti e molte divisioni polacche si trovarono in pochi giorni con i nemici alle spalle. La
«nuova guerra», veloce e indiscriminatamente distruttiva, rese impossibile ai polacchi
una difesa che non si basasse soltanto su episodi di eroismo disperato.
I polacchi ebbero 200 mila tra morti e feriti, e 400 mila soldati fatti prigionieri dai
tedeschi (che ebbero circa 45 mila tra morti e feriti).
Già il 3 settembre iniziarono le trattative tra tedeschi e sovietici per un impegno
diretto di questi ultimi nel conflitto e per una definizione precisa della spartizione della
Polonia.
Molotov però sosteneva che l’ingresso nel conflitto della Gran Bretagna e della
Francia aveva modificato la situazione in quanto l’URSS «doveva salvaguardare i propri
interessi di paese neutrale».
In realtà l’intenzione di Mosca era quella di far avanzare il più possibile le truppe
tedesche in modo da poter dichiarare che la Polonia era ormai un paese collassato e che
bisognava salvaguardare le minoranze bielorusse ed ucraine che si trovavano nel suo
territorio.
5
Komunisticeskij Internacional, XXI, n. 8/9, agosto - settembre 1939, p. 45.
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La Polonia e l’inizio della seconda guerra mondiale cinquant’anni dopo
Sulla stampa sovietica si accusava la Polonia di aver provocato il conflitto. Nella
pubblicazione ufficiale del Comintern5 si sosteneva che: «I capitalisti polacchi e i grandi
proprietari terrieri, ispirati dall’Inghilterra e dalla Francia hanno voluto il conflitto e
portato il popolo polacco alla guerra».
L’editoriale della “Pravda” del 14 settembre, intitolato «Le cause interne della
sconfitta militare polacca», dava una giustificazione teorica alla futura aggressione.
La Germania riuscì a convincere l’URSS ad invadere la Polonia, e ad affrettare i
tempi (il 10 settembre Molotov aveva informato Schulenburg che tre milioni di soldati
sovietici erano già mobilitati, ma che occorrevano almeno tre settimane per completare la loro preparazione), facendo sapere a Stalin che un armistizio con i polacchi era
imminente e che quindi la Russia rischiava di dover scatenare una nuova guerra, con il
suo tardivo intervento.
All’alba del 17 settembre le truppe sovietiche, tra la sorpresa dei polacchi, varcarono il confine. L’invasione della Polonia fu facile: l’URSS ebbe 737 morti e 1862 feriti (secondo la dichiarazione di Molotov, durante la sessione del Soviet supremo del 31
ottobre).
L’invasione sovietica affrettò la fuga del governo polacco, attraverso la Romania
fino al porto di Costanza. L’abbandono del maresciallo Rydz-Smigly gettò il paese ancor
più nel caos mentre le truppe tedesche e russe davano prova di grande coordinamento
e collaborazione. I sovietici avanzarono velocemente, senza quasi incontrare resistenza.
Passarono il Bug e poi, rispettando la seconda delle quattro clausole segrete del Patto
Ribbentrop-Molotov, si ritirarono al di qua del fiume, che divenne anche dopo la guerra
il confine tra Polonia e Unione Sovietica.
Come nella parte occupata dai tedeschi, anche se in misura quantitativamente
minore, molti soldati e poliziotti polacchi, nonché civili, furono fucilati. In molte cittadine però le truppe sovietiche vennero accolte col pane e il sale. Di fatto un terzo
della popolazione polacca, a causa della politica del governo contro le nazionalità del
periodo tra le due guerre, non si sentiva legata alle sorti del paese. Ma anche molti di
coloro che vedevano benevolmente l’invasione sovietica del paese (come, ad esempio,
i comunisti di Vilna e Leopoli) furono deportati, incarcerati o fatti fuori dall’NKVD.
Come ha notato Jan Gross6, in quella parte della Polonia fu messo in atto un «terrore pedagogico» per preparare il terreno alla sovietizzazione del paese. L’occupazione,
nel senso classico del termine, non era il fine dei sovietici: essi puntavano a trasferire
in quella parte di Polonia il sistema di tipo sovietico. A differenza dei tedeschi «speravano non di rendere schiavi, ma che la gente si autorendesse schiava di sua volontà».
La differenza rispetto ai tedeschi era anche che per essi la «germanizzazione» del territorio era un obiettivo secondario. Sfruttamento economico e sterminio erano gli obiettivi di Hitler. Il «salto di qualità» tedesco fu nel comportamento rispetto agli ebrei (che
in Polonia erano circa 3 milioni): la reclusione nei ghetti e l’annientamento nei campi
di concentramento.
6 Cfr. J. T. GROSS, I. GRUDZINSKA-GROSS, «W czterdziestym nas matko na Sybir zesłali...». Polska a
Rosja 1939-1942, London 1983.
50
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Rispetto ai polacchi, il «salto di qualità» fu l’idea di Himler di sottrarre i figli alle
famiglie polacche di «buona razza» e spedirli in Germania per incrementare la razza
ariana (dalla regione di Zamość, ad esempio, furono deportati 30 mila ragazzini). Per
queste ragioni, i polacchi trovarono molto più difficile (sempre che ne avessero voglia)
collaborare con i tedeschi che con i sovietici e cospirare contro i sovietici piuttosto che
contro i tedeschi (per combattere i quali le formazioni partigiane entrarono in azione
già nell’ottobre 1939).
Francesco M. Cataluccio (1955) ha studiato Filosofia e Letteratura a Firenze e a Varsavia. Dal 1989, ha lavorato nell’editoria (Feltrinelli, Bruno Mondadori, Bollati Boringhieri). È autore di numerosi saggi sulla cultura e la storia della Polonia e del Centro
Europa ed è stato curatore delle opere di Witold Gombrowicz (presso Feltrinelli) e delle
opere complete di Bruno Schulz (Einaudi, Torino 2001 e Siruela, Madrid 2009). Ha
scritto: Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi, Torino 2004; tradotto in
spagnolo e polacco); Che fine faranno i libri? (nottetempo, Roma, 2010); Vado a vedere
se di là è meglio. Quasi un breviario mitteleuropeo (Sellerio, Palermo 2010).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
La Svizzera e gli internati militari: dall’armata dell’Est del generale
Charles Denis Bourbaki alla seconda Divisione fanti fucilieri del generale
Bronisław Prugar-Ketling
di Christian Bernardo
L’internamento di militari stranieri in Svizzera durante la seconda guerra mondiale
è un tema che è stato accantonato per molti anni, anzi lasciato nel dimenticatoio. L’argomento rappresenta, al contrario, un prezioso spunto per rimettere in moto la riflessione su un importante periodo storico che, in svariati modi, toccò il suolo elvetico.
Inevitabilmente, nel momento in cui lo storico decide di affrontare tali delicate e
purtroppo trascurate vicissitudini del passato, la sua attenzione non può non posarsi
sui soldati polacchi ovvero sul gruppo nazionale che in modo numericamente più consistente fu “ospite” dei tanti campi d’internamento per militari predisposti dalle autorità svizzere. Al riguardo, la storiografia ci impone di ricordare alcuni eventi che hanno
avuto luogo molto prima dell’ultimo conflitto mondiale, dando vita ad una specifica
tradizione di rapporti amicali tra la Confederazione e la Polonia.
Tra il XVIII e il XX secolo, diverse generazioni di polacchi trovarono rifugio in Svizzera. La prima presenza di rifugiati polacchi in terra elvetica risultò dall’insuccesso
dell’insurrezione di Kościuszko1 nel 1794 e fece seguito alla conseguente terza spartizione della Polonia nel 1795. Anche il XIX secolo vide molti polacchi rifugiarsi nella
Confederazione, in particolare dopo le insurrezioni del 1831, del 1848 e del 1863. La
Svizzera diede a questi bisognosi asilo, sostegno e un’attività lavorativa. Essi poterono
studiare e scrivere articoli in cui trovarono il modo di esprimere i propri sentimenti in
difesa della patria e della sua indipendenza2. Dopo la prima guerra mondiale, ridivenuta
la Polonia uno stato sovrano, i rapporti con la Confederazione assunsero una natura
esclusivamente culturale ed economica. Tuttavia, dopo il 1° settembre 1939, le vicende
belliche spinsero nuovamente i polacchi a dovere lasciare la propria patria per trovare
asilo in Svizzera in quanto paese neutro3.
1 Tadeusz Andrzej Bonawentura Kościuszko (1746-1817), ingegnere polacco, combatté per l’indipendenza degli Stati Uniti, dove si conquistò i gradi di generale di Brigata, e poi della Polonia, che
lo decorò con la Croce al Valore Virtuti Militari. Nel 1794 capeggiò il tentativo insurrezionale di liberare Polonia e Lituania dall’influenza dell’Impero russo, fallito il quale la Polonia venne spartita
per la terza volta e l’Austria, la Russia e la Prussia si annessero la parte restante della nazione,
che per più di 120 anni cessò di esistere. Kościuszko morì in esilio in Svizzera (Soletta).
2 Cfr. R. MULLIS, Die Internierung polnischer Soldaten in der Schweiz 1940-1945, MilBro 2014, Militärbibliothek Basel 2003, p. 51.
3 Helvétie, terre d’accueil. Espoir et vie quotidienne des internés polonais en Suisse 1940-1946,
Fondation Archivum Helveto-Polonicum Fribourg, Editions Noir sur Blanc, Montricher 2000, pp. 20
e 22.
poloniaeuropae 2010
53
La Svizzera e gli internati militari...
Per quanto concerne la questione dell’internamento militare, è opportuno citare
un caso decisamente eclatante. Se la Svizzera accolse soldati stranieri sul proprio
territorio durante la seconda guerra mondiale, ebbene non si trattò di una prima volta.
Infatti, durante il biennio 1870-1871, in pieno conflitto franco-prussiano, le mal equipaggiate4 truppe francesi del generale Charles Denis Bourbaki, composte da circa
87 mila anime, furono costrette a riparare in territorio elvetico. Ogni genere di materiale, tra cui soprattutto armamenti e munizioni, dovette essere lasciato alla frontiera
secondo quanto imponevano le convenzioni dell’epoca. Successivamente, tutti i militari
e 12 mila cavalli poterono varcare la frontiera ed entrare nella Confederazione. La
popolazione svizzera si prodigò in maniera esemplare per assistere questa immensa
fiumana bisognosa, fino a quando, tra il 13 e il 22 marzo 1871, i soldati francesi poterono rimpatriare5.
Questo evento straordinario è stato qui evidenziato per i suoi parallelismi con l’entrata nella Confederazione delle truppe franco-polacche nel giugno 1940 e la successiva
presenza per qualche anno dei soldati polacchi in Svizzera6. Le truppe di Bourbaki, disorganizzate e demoralizzate, vennero respinte verso la frontiera svizzera. Quali furono
invece le iniziali vicissitudini dei militari polacchi al momento in cui furono costretti ad
affrontare una nuova ed inaspettata realtà politica e sociale?
Dopo l’invasione e l’occupazione nazista della Polonia il 1° settembre 1939, un numero non indifferente di soldati polacchi riuscì, dopo aver attraversato la Romania e
l’Ungheria, ad entrare in Francia. Qui ripararono il governo polacco in esilio, lo stato
maggiore e il comandante in capo, il generale Władysław Sikorski. I soldati arrivati in
territorio transalpino si unirono agli immigrati polacchi già presenti nell’esagono: così
si riuscì a ricostituire l’esercito. Tale atto fu legittimato dal trattato franco-polacco del
21 settembre 1939, confermato successivamente nel gennaio 1940, che dava appunto
facoltà di ricomporre un esercito polacco in territorio francese, il quale, tuttavia, doveva essere sottomesso allo stato maggiore francese per quel che concerneva l’organizzazione e i piani operativi7.
Dal novembre 1939, quindi, a seguito del primo consistente arrivo di soldati polacchi, ci fu la possibilità di creare la prima Divisione di granatieri (1 Dywizją Grenadierów), sotto il comando diretto del generale Bronisław Duch8. Successivamente, nei
dintorni di Parthenay, nel Dipartimento Deux-Sèvres, si costituì una seconda Divisione,
4 Nella lingua francese è rimasta l’espressione peggiorativa «l’armée à Bourbaki» per indicare un
gruppo di persone mal equipaggiate, con le divise fuori ordinanza.
5 P. MORATH, Les internés militaires en Suisse pendant la 2e Guerre Mondiale. Le cas des polonais
de la division Prugar, Biblioteca militare federale e del servizio storico, n. 20, Bern 2006, p. 7.
6 O. GRIVAT, Internés en Suisse 1939-1945, Ketty et Alexandre éditeurs, Chapelle-sur-Moudon 1995,
p. 15.
7 Helvétie, terre d’accueil, cit. p. 28.
8 Il generale Bronisław Bolesław Duch (1896-1980), dalla Francia sarebbe poi passato in Gran Bretagna (1940), in Canada (1941), nuovamente in Gran Bretagna (1942), poi in Palestina (1943), infine in Italia (1943-1945) dove, nell’ambito del secondo Corpo d’armata, comandò la terza Divisione
di fanteria “Fucilieri di Carpazia” [3 Dywizja Strzelców Karpackich]. Dopo la guerra Duch riparò a
Londra, dove fu attivo nelle fila dell’emigrazione polacca.
54
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
alla cui testa venne nominato il generale Bronisław Prugar-Ketling9. Al fine di ottimizzare la possibilità di combattere contro le truppe di carristi tedesche, fu necessario
aumentare gli effettivi della seconda Divisione creando quattro reggimenti di fanteria,
uno di artiglieria leggera, uno di artiglieria pesante e più unità di sostegno. A questa
divisione rafforzata venne dato il nome di seconda Divisione fanti fucilieri (2 Dywizja
Strzelców Pieszych).
Il totale degli effettivi dell’esercito polacco in Francia ammontò alla fine ad oltre 82
mila uomini, di cui 50 mila erano immigrati polacchi già risiedenti in territorio francese10.
Si tratta ora di comprendere meglio le motivazioni che dal punto di vista tatticomilitare spinsero le truppe polacche e francesi a entrare in Svizzera, e quindi a creare
le condizioni per la loro accoglienza e il loro successivo internamento.
Il 10 maggio 1940 l’esercito tedesco aveva attaccato l’Olanda e il Belgio, riproponendo la stessa identica strategia di manovra per entrare in Francia già utilizzata
durante il primo conflitto mondiale. Dopo la disfatta della Somme e di Amiens, lo stato
maggiore francese fu obbligato a ricorrere alle riserve.
Il 19 maggio la seconda Divisione fanti fucilieri polacca fu inviata al fronte partendo
da Parthenay, Airvault, Saint-Loup e La Ferrière11. L’obiettivo della manovra era di
accorpare la seconda Divisione al 45° Corpo d’armata francese del generale Marius
Daille, così da consolidare le difese alla frontiera francese tra Belfort e la Svizzera. Ma
l’esito fu negativo: i tedeschi riuscirono a raggiungere la frontiera nei dintorni di
Besançon e Pontarlier a una velocità inaspettata.
Accerchiati, senza munizioni e messi alle strette proprio come settant’anni prima
era accaduto alle truppe del generale Bourbaki, i soldati franco-polacchi furono
costretti a chiedere di rifugiarsi nella Confederazione. Il consenso a tale richiesta fu
dato dal consigliere federale Pilet-Golaz il 18 giugno 1940, dato che lo stato drammatico in cui versavano le truppe non poteva non essere preso in seria considerazione.
La notte del 19 giugno 1940 le truppe in fuga passarono attraverso i primi paesi di
frontiera del territorio giurassiano: Epiquerez, Goumois, Brémoncour, Réclère e Chaufour12. Il grosso delle truppe era costituito da 16 mila francesi e 12 mila polacchi, a cui
vanno aggiunti 5.800 cavalli e 1.600 veicoli militari. Tre mila soldati seguitarono ad
entrare in Svizzera anche nei giorni successivi.
La seconda Divisione fanti fucilieri era, come già accennato, costituita per il 70%
da emigrati polacchi fuggiti dalla miseria dopo la prima guerra mondiale. Essi ripararono
9
Cfr. R. MULLIS, op. cit., p. 6. Il generale Prugar-Ketling fu ufficiale di riserva dell’esercito austriaco durante la Grande guerra. Nel 1939, alla testa dell’11a Divisione polacca, combatté tra Leopoli e Cracovia contro le truppe di Hitler, ma venne fatto prigioniero. Riuscì successivamente ad
attraversare la Romania e raggiungere la Francia, dove si mise agli ordini del generale Sikorski,
capo del governo polacco in esilio. Per ulteriori approfondimenti cfr. O. GRIVAT, op. cit., p. 18. Durante il suo internamento in Svizzera Prugar-Ketling scrisse, quasi a caldo, una ricostruzione della
campagna polacca del 1939, spesso citata come fonte: BRONISŁAW PRUGAR-KETLING, Aby dochować
wierności, Wyd. Odpowiedzialność i Czyn, Warszawa 1990.
10 Helvétie, terre d’accueil, cit. p. 28.
11 Ibidem.
12 O. GRIVAT, op. cit., p. 19; R. MULLIS, op. cit., p. 10.
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55
La Svizzera e gli internati militari...
in Francia e riuscirono a trovare un’occupazione come minatori nelle miniere del Nord.
Il 30% restante era composto da quadri dell’esercito e da soldati giunti in territorio
francese dopo svariate vicissitudini. Molti di loro erano studenti costretti dalla guerra
ad interrompere gli studi13. Oltre alla seconda Divisione polacca di Ketling, bisogna
tenere anche in considerazione i 500 soldati inquadrati nella prima Divisione di granatieri, i quali, a seguito del tallonamento dei tedeschi, furono costretti anch’essi a spingersi fino in Svizzera14.
Volendo, quindi, tirare le somme degli effettivi militari entrati nel territorio
svizzero, possiamo constatare che tra il 19 giugno e il 10 luglio 1940, circa 13 mila soldati polacchi furono costretti a cercare rifugio nella Confederazione. Secondo un censimento15 del 1° agosto 1940, vennero contati più precisamente un totale di 29.507
francesi, 12.531 polacchi, 639 belgi, 74 inglesi e 1 spagnolo. Tra cavalli e muli, invece,
il totale ammontò a ben 5.897.
All’inizio, a questa immensa fiumana si dovette trovare un alloggio non disdegnando di ricorrere a notevoli capacità di improvvisazione; ad esempio, svariate volte
furono visti soldati bivaccare in alcune chiese. In proposito vale la pena di riportare la
testimonianza di un cittadino giurassiano: «Rivedo questi bravi polacchi, dall’equipaggiamento superbo, con una presenza piena di dignità, alloggiare nell’antico e famoso
collegio romano e fare ogni sera la loro preghiera in comune, inginocchiati davanti
all’altare prima di addormentarsi sotto lo sguardo compassionevole del crocifisso; ormai
la loro unica speranza»16.
Benché possa sembrare ovvio, va ribadito che i contingenti militari, al momento
del loro ingresso in Svizzera, furono obbligati ad abbandonare armi e munizioni.
Un prezioso elemento di arricchimento del quadro d’insieme è dato dall’analisi di
quali furono, in linea del tutto generale, le impressioni della popolazione svizzera al primo
incontro coi soldati polacchi. È indubbio che il riscontro fu positivo perché, a livello disciplinare, essi si comportarono in modo ineccepibile. Ciò trova conferma soprattutto nel
confronto con la condotta dei militari francesi. Infatti, questi ultimi, a seguito di vari accadimenti particolarmente drammatici, mostrarono inequivocabili segni di sofferenza sia
fisica, sia morale. Per quel che concerne, invece, i soldati polacchi, essi lasciarono di sé
un’ottima impressione, come dà ad intendere la testimonianza di un altro osservatore
giurassiano: «Un reggimento polacco si dirige verso la stazione di Delémont, in un ordine
perfetto. La sfilata è magnifica… Si è colpiti dalla fiamma nel loro sguardo, il loro viso intelligente, fiero e di una sorprendente distinzione. Un ufficiale marcia in testa ad ogni reparto. È la grande parata di una nazione che non vuole morire»17.
Ciò che è opportuno non omettere, anzi che merita di essere sottolineato nuovamente,
è che la Svizzera fu “costretta” ad accogliere così tanti richiedenti in cerca di aiuto e pro-
13
Per ulteriori approfondimenti cfr. C. BERNARDO, Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro
e sentimento, Armando Dadò Editore, Locarno 2010, pp. 61-67.
14 P. MORATH, op. cit., p. 7; Hélvetie, terre d’accueil, op. cit., p. 32.
15 Cfr. O. GRIVAT, op. cit., p. 17.
16 A. MEMBREZ, E. JUILLERAT, Remous de Guerre aux frontières du Jura, citato in O. GRIVAT, cit., p. 19.
17 Cfr. O. GRIVAT, op. cit., p. 18.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tezione, in quanto paese neutrale nel rispetto dei principi della Convenzione dell’Aia.
Tuttavia, non tutti i soldati polacchi accettarono in modo incondizionato la loro
nuova situazione. Infatti, molti, soprattutto i più giovani, mal sopportavano l’idea di
essere stati sconfitti. Di conseguenza, furono numerosi coloro i quali, per evitare il controllo alla frontiera, si presentarono in tenuta civile. Il loro scopo era di riorganizzarsi
e ripartire per l’Inghilterra onde continuare la lotta contro la Germania nazista e la
Russia sovietica18. Il problema della fuga si fece di conseguenza incalzante.
La responsabilità che la Svizzera si era assunta comportava, inoltre, ingenti costi
economici. Per attenuarne il carico, vennero concessi oltre che dalla Confederazione
stessa, anche da organizzazioni private sempre maggiori finanziamenti per la gestione
generale del problema dei rifugiati. In quanto al governo collaborazionista di Vichy,
esso ottenne il consenso da parte tedesca a fare tornare in Francia i propri soldati:
circa 29.700, tra gennaio e febbraio 1941.
I militari polacchi non erano inclusi in quella disposizione di rimpatrio. Possiamo
facilmente intuire quale fosse la loro condizione morale e psicologica: oltre a subire gli
andamenti bellici, soffrivano per la grande incertezza relativa al futuro della patria, invasa e mutilata sia dai nazisti, sia dai sovietici. Le reazioni a questo diffuso stato
d’animo furono diverse. Molti dei soldati polacchi desideravano solo una cosa: tornare
a casa per proseguire la vita di sempre, nonostante la duplice invasione. Molti ufficiali,
invece, avrebbero ripreso volentieri a combattere aiutando gli inglesi. Altri soldati ancora, specie quelli che risiedevano in Francia già prima del conflitto, non riuscivano a
comprendere perché si vietasse loro di tornare nell’esagono, soprattutto dopo aver
combattuto insieme ai francesi. Non mancava neppure chi sperava nella rinascita di
una “Grande Polonia” sul modello di quella di prima delle spartizioni. La gestione di così
tanti e diversi problemi dei militari polacchi internati in Svizzera non era semplice e rappresentò la prima sfida da affrontare e risolvere per le autorità elvetiche. Alla fine polacchi e svizzeri sarebbero riusciti a convivere per il lungo lustro del conflitto mondiale;
e ciò in virtù di compromessi assolutamente non scontati, attraverso i quali molti elementi positivi avrebbero visto la luce.
I soldati polacchi in Svizzera, più di quanto asettici documenti possano far trasparire, hanno lasciato traccia di sé non soltanto sul territorio della Confederazione Elvetica, ma anche e soprattutto nell’animo e nel cuore di coloro che ebbero modo di vivere
con o vicino a questi dimenticati protagonisti della storia svizzera — che è, in definitiva,
storia europea.
Christian Bernardo, nasce a Bellinzona, in Canton Ticino (Svizzera), da genitori italiani
nel novembre 1981. Si trasferisce a Lugano nel 1987. Nel 2008 si laurea in Storia e Documentazione Storica presso la cattedra di Storia dei Paesi Slavi dell’Università degli
Studi di Milano. Si sta ora abilitando per l’insegnamento della Storia presso il Dipartimento della formazione e dell’apprendimento di Locarno. Ha scritto: Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento, Armando Dadò Editore, Locarno 2010.
18
Ivi, p. 21.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Finalmente libero:
Vasilij Grossman e la battaglia di Stalingrado
di John e Carol Garrard
Il saggio è ripreso da Il romanzo della libertà. Vasilij Grossman tra i classici del XX
secolo, a cura di Giovanni Maddalena e Pietro Tosco, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli 2007, pp. 69-87.
Si ringraziano gli autori e l’editore per la gentile concessione.
Il volume curato da Giovanni Maddalena e Pietro Tosco raccoglie i lavori del convegno internazionale dedicato allo scrittore russo Vasilij Grossman per il centenario
della nascita, svoltosi a Torino dal 12 al 13 gennaio 2006.
Recita la quarta di copertina: «Vasilij Grossman (1905-1964) è uno degli scrittori
più importanti e più ignorati del XX secolo. Il tema di Vita e destino, il capolavoro che
lo inserisce tra i classici della letteratura, è l’assoluta irriducibilità del singolo uomo a
qualsiasi forma di potere. Tale forza umile e infinita è testimoniata dalle grandi domande sul significato dell’esistenza, sulla sua misteriosa bellezza, sul permanente anelito alla felicità che definiscono il cuore e la ragione dell’uomo anche dentro le
circostanze più drammatiche della vita. Nell’inferno della battaglia di Stalingrado, Grossman scoprì la propria libertà e la intravide, nascosta, in tutti i gesti degli uomini. In
nome di questa libertà fu il primo a patire: il manoscritto del romanzo fu sequestrato
dal KGB nel 1961 e Grossman morì senza poterne vedere né prevedere la pubblicazione,
che avvenne solo vent’anni più tardi in Occidente. Grossman comincia solo ora a essere
oggetto di studi specialistici. Questo volume vuole raccogliere i primi frutti di tali analisi e costituisce il primo passo verso la conoscenza completa della vita e dell’opera del
grande autore russo».
John Garrard, è professore di Studi russi presso la University of Arizona. Insieme
a sua moglie, la dott.ssa Carol Garrard, ha scritto diversi libri sulla letteratura russa,
tra i quali The Bones of Berdichev: The Life and Fate of Vasily Grossman (New York
1996) la più completa biografia esistente sull’autore russo; e Russian Orthodoxy Resurgent: Faith and Power in the New Russia (Princeton University Press 2008).
poloniaeuropae 2010
1
pietro tosco, è laureato in Letterature
Moderne Comparate presso l’Università
di Torino. Ha studiato in particolare
l’influenza della letteratura americana nella
produzione giovanile di Pavese con il prof.
Marziano Guglielminetti. Collabora con
alcune riviste ed è tra i curatori della mostra
«Vita e destino. Il romanzo della libertà
e la battaglia di Stalingrado». Attualmente
sta facendo studi specifici sull’opera di
Vasilij Grossman.
Rubbettino
€ 18,00
giovanni maddalena, è ricercatore
di filosofia teoretica presso l’Università
del Molise. Si occupa in particolare
di filosofia americana e dei rapporti tra
fenomenologia, logica e metafisica.
Oltre a numerosi saggi sul pragmatismo
e la filosofia contemporanea su riviste
nazionali e internazionali, ha pubblicato
monografie sul pensiero di MacIntyre
(Cuneo 2000) e di C.S. Peirce (Torino
2003). Ha curato e tradotto per i classici
della Utet l’antologia di Peirce, Scritti scelti
(Torino 2005).
IL ROMANZO DELLA LIBERTÀ
Vasilij Grossman (1905-1964) è uno degli
scrittori più importanti e più ignorati del XX
secolo.
Il tema di Vita e destino, il capolavoro
che lo inserisce tra i classici della letteratura,
è l’assoluta irriducibilità del singolo uomo
a qualsiasi forma di potere. Tale forza umile
e infinita è testimoniata dalle grandi
domande sul significato dell’esistenza, sulla
sua misteriosa bellezza, sul permanente
anelito alla felicità che definiscono il cuore
e la ragione dell’uomo anche dentro
le circostanze più drammatiche della vita.
Nell’inferno della battaglia di Stalingrado,
Grossman scoprì la propria libertà
e la intravide, nascosta, in tutti i gesti degli
uomini. In nome di questa libertà fu
il primo a patire: il manoscritto del romanzo
fu sequestrato dal kgb nel 1961 e Grossman
morì senza poterne vedere né prevedere
la pubblicazione, che avvenne solo vent’anni
più tardi in Occidente.
Grossman comincia solo ora a essere
oggetto di studi specialistici. Questo volume
vuole raccogliere i primi frutti di tali analisi
e costituisce il primo passo verso
la conoscenza completa della vita
e dell’opera del grande autore russo.
IL ROMANZO
DELLA LIBERTÀ
VASILIJ GROSSMAN
TRA I CLASSICI DEL XX SECOLO
A CURA DI GIOVANNI MADDALENA
E PIETRO TOSCO
Rubbettino
john e carol garrard
Finalmente libero: Vasilij Grossman
e la battaglia di Stalingrado
Vasilij Grossman, ufficiale dell’Armata Rossa e corrispondente del giornale militare «Stella Rossa» scrisse nel suo diario che
l’inizio dell’offensiva tedesca nell’estate del 1942 – quasi un
anno esatto dall’inizio dell’invasione – «avrebbe deciso tutte le
questioni e tutti i destini». La sua predizione si avverò. L’offensiva della Wehrmacht terminò con la battaglia di Stalingrado, il punto di svolta della guerra e del suo destino personale.
Il generale David Ortenberg, l’editore in capo della «Stella
Rossa» durante la guerra, ci ha detto in un colloquio personale che questo periodo fu «il momento d’oro» della vita di Grossman. La corrispondenza privata di Grossman conferma questa affermazione. Dopo due mesi del più intenso combattimento ravvicinato dell’intera guerra, egli scrisse a suo padre:
«Non ho desiderio di lasciare questo posto. Anche se la situazione è migliorata, voglio ancora stare in un luogo dove ho potuto testimoniare i tempi peggiori» (garrard 1996, p. 159).
Anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, egli
proiettò le proprie emozioni riguardo alla battaglia nella fine
di Vita e destino, la sua ricostruzione romanzesca della battaglia. Krymov, un commissario dell’Armata Rossa, a cui Grossman prestò molte delle sue esperienze personali, oltre che il
suo grado nell’esercito, viene arrestato dall’nkvd. Lo troviamo ora giacere alla Lubjanka, sanguinante, dopo essere stato
preso a pugni. Krymov ricorda a come «libero e felice, solo
qualche settimana prima se ne stesse spensierato dentro il cratere di una bomba e sulla sua testa fischiasse l’acciaio» (vd, p.
772).
70
«Libero e felice» non è proprio il modo in cui descriveremmo
la condizione degli uomini che combattevano a Stalingrado. La
visione di Grossman sulla paradossale natura della libertà di Stalingrado comporta la sua analisi più profonda della condizione
umana e della unicità di ogni singolo individuo. Si tratta anche
della sua accusa più lucida nei confronti dello Stato sovietico, il
quale, salvato da questi stessi soldati, si preparava a trattarli in
modo così ingiusto. Ora la stessa Unione Sovietica è stata gettata nel dimenticatoio della storia; la sola battaglia che rimane come eredità della seconda guerra mondiale è quella per la verità e
la memoria. Questo volume offre un’occasione d’oro sia per noi
occidentali sia per i cittadini della Federazione Russa per pagare
il nostro tributo ai soldati dell’Armata Rossa della guarnigione di
Stalingrado e allo scrittore che ha registrato il loro austero coraggio, un coraggio che ha cambiato il corso della storia umana.
«Libertà» a Stalingrado voleva dire innanzitutto libertà dall’nkvd. La polizia segreta normalmente stazionava al sicuro
nelle retrovie sparando a chiunque cercasse di ritirarsi. Ma non
c’erano «retrovie» dentro la città, visto che l’Armata Rossa doveva combattere su tutti i fronti con alle proprie spalle il fiume Volga. L’nkvd prudentemente si era accampato sulla sicura riva est del Volga. Qui gli argini del fiume si ergono ripidi e
l’Armata Rossa aveva scavato gallerie per la propria artiglieria
e per i razzi Katjuša. Sulla riva est la posta veniva consegnata,
i soldati venivano denunciati e l’nkvd faceva il buono e il cattivo tempo [strutted and fretted]. La sicurezza della riva est era
così allettante che la maggior parte dei comandanti dell’Armata Rossa vi aveva installato i quartieri generali dei reggimenti
delle divisioni spostandoli di nascosto dalla riva ovest dove infieriva il combattimento strada per strada. Appena il generale
Vasilij Čujkov aveva preso il comando della 62ª armata, le sue
prime direttive furono di ordinare a tutti i comandanti di tornare nelle rovine della città e di impedire ogni ritirata attraverso il fiume sotto la minaccia della pena di morte.
A Čujkov fu ordinato di resistere a tutti i costi, mentre il
maresciallo Georgij Žukov preparava una controffensiva. Né
finalmente libero...
71
a Stalin né allo stato maggiore sovietico importava in che modo e a che prezzo ciò poteva essere ottenuto. La guarnigione di
Stalingrado poteva condurre il combattimento per le strade
così come la situazione della battaglia lo richiedeva, ignorando «la mentalità del Partito» (partijnost’). Un commento dei
quaderni di Grossman riassume la situazione: «nella difesa di
Stalingrado i comandanti di divisione basarono i propri calcoli più sul sangue che sul filo spinato» (grossman 1989, p.
363). Tale affermazione è pressoché identica a quella che lo
stesso Čujkov riferisce ai suoi comandanti riguardo alla missione: stavano guadagnando tempo e «il tempo è sangue».
L’Armata Rossa pagò veramente con il sangue. Il combattimento cittadino era cominciato ai primi di settembre del
1942 dopo che un terrificante raid della Luftwaffe aveva ucciso circa 40.000 civili. Ma non appena le forze tedesche avevano cominciato a entrare nella città vera e propria, si erano
trovate a combattere casa per casa e strada per strada all’interno delle rovine di edifici massicci e molto resistenti. Il terreno
di battaglia fu ridotto a crateri e a macerie in fiamme. Vale la
pena scorrere una lunga citazione del diario di un luogotenente della 24ª divisione Panzer a causa della sua rilevanza per capire le condizioni del combattimento cittadino:
Abbiamo combattuto per quindici giorni per una sola casa con mortali, granate, pistole di baionette... i cadaveri sono stipati nelle cantine,
sui pianerottoli e sulle scale. Il fronte è un corridoio tra camere bombardate; e il sottile soffitto tra i 2 piani. C’è una lotta senza pause da
mezzogiorno fino a sera. Ci bombardiamo l’un l’altro da piano a piano
con le nostre facce nere e sudate; nel mezzo di esplosioni, di nuvole di
fumo e polvere, di colpi di mortaio di fiumi di sangue, di frammenti di
mobili e di esseri umani... chiedete a qualsiasi soldato che cosa voglia
dire mezz’ora di combattimento corpo a corpo in una lotta del genere.
E immaginate Stalingrado dopo 80 giorni e 80 notti di combattimenti corpo a corpo. La strada non si misura più a metri, ma a cadaveri...
gli animali fuggono da quest’inferno, le pietre più dure non possono
sostenerlo a lungo, solo gli uomini resistono (clark 1985, p. 238).
72
La situazione era altrettanto orrenda per entrambi i contendenti, eppure quando Vasilij Grossman scrive a suo padre in
dicembre, quasi nello stesso identico momento, dichiara che
«il peggiore di tutti tempi» è anche il migliore di tutti tempi.
I tedeschi alla fine occuparono il 99 per cento della città.
L’1 per cento della città che non presero includeva un numero
ad hoc di unità dell’Armata Rossa dislocate in punti strategici
e una minuscola linea continua di terra ancora tenuta dal generale Čujkov e dai suoi uomini lungo il Volga. Questo «fronte» alla fine si riduceva a circa 300 metri di roccia bombardata e di fango. Ma includeva l’area di attracco per i traghetti del
Volga e per la linea di rifornimento della guarnigione. Ogni
rinforzo, cartuccia, medicazione e razione di cibo di cui
Čujkov e i suoi uomini avevano bisogno doveva passare attraverso il fiume; ogni ferito doveva essere evacuato dai traghetti
di nuovo attraverso il fiume. Se i traghetti del Volga fossero stati fermati definitivamente, la linea dei rifornimenti sarebbe
stata tagliata. Se la linea dei rifornimenti fosse stata tagliata, allora la guarnigione di Stalingrado sarebbe stata effettivamente
circondata. Una volta circondata, sparata l’ultima pallottola e
mangiata l’ultima razione, non ci sarebbe stata scelta per questa piccola e coraggiosa banda di uomini se non arrendersi, vittima ancora una volta di un accerchiamento come quelli che
avevano già stroncato intere armate come era successo a Gomel, Vjaz’ma-Brjansk, Smolensk e Kiev. La strategia dei tedeschi era semplice: ogni loro offensiva tendeva a conquistare
l’attraversamento del Volga.
Čujkov, però, aveva elaborato un piano che impediva ai tedeschi di raggiungere il fiume. Aveva organizzato i suoi uomini in unità di combattenti che comprendevano dai 10 ai 20
elementi e aveva messo ogni squadra in edifici-chiave nel cuore della città, parte dell’1 per cento della mappa della città era
tenuta dai sovietici. Ogni struttura fortificata era responsabile
di alcune intersezioni cruciali delle strade. In Vita e destino il
commissario Krymov visita uno di questi castelli in miniatura
chiamato «la casa di Grekov». Queste strutture agivano come
finalmente libero...
73
degli «spartiacque» incanalando i carri armati nazisti in percorsi obbligati sui quali Čujkov aveva puntato la sua limitata artiglieria. Quando i carri armati apparivano in queste vie predisposte in cui si muovevano a fatica, si trovavano ad affrontare
il fuoco delle armi pesanti di Čujkov. Una volta bloccati, le piccole unità combattevano corpo a corpo con la fanteria tedesca.
Il piano di Čujkov spezzò il pugno d’acciaio dei panzer e le colonne di carri armati poterono così esser rese vulnerabili in un
combattimento ravvicinato. Fu un piano brillante che annullò la superiorità tedesca di uomini e di mezzi. Indebolì perfino la virtuale supremazia aerea perché la Luftwaffe non poteva
bombardare visto che i propri uomini erano mischiati ai nemici nel combattimento corpo a corpo con i soldati dell’Armata
Rossa.
Ma fu una missione suicida per gli uomini che dovevano
reggere la strategia di Čujkov. Il generale tedesco Friedrich Paulus cominciò il combattimento cittadino con cinque divisioni
panzer, ciascuna delle quali completa di carri armati e armi. La
situazione dell’Armata Rossa era opposta. Il generale Čujkov
dice nelle sue memorie che quando prese il comando della guarnigione di Stalingrado aveva 40 carri operativi e una «riserva»
di 19. Čujkov non dice che cosa voleva dire per un soldato dell’Armata Rossa combattere a Stalingrado. Grossman riempie
questo vuoto. Krymov, l’alter ego di Grossman in quanto commissario dell’Armata Rossa, alla fine di Vita e destino, dice ai
suoi torturatori della Lubjanka: «dovreste essere mandati ad affrontare un attacco di carri armati senza nient’altro che i fucili»1. Questa battuta del romanzo mostra una terribile realtà: gli
uomini dell’Armata Rossa venivano davvero mandati ad affrontare i carri armati con nient’altro che i fucili.
Per di più, i tedeschi avevano un’enorme supremazia nell’artiglieria pesante. Quando il genio individuava il sito di una
1. Il testo è tratto dalla traduzione inglese (grossman 1986, p. 786), che differisce leggermente da quella italiana nella quale non compare il riferimento ai «fucili», che è invece presente nell’edizione originale.
74
di queste unità, ne segnava le coordinate sulle mappe. Le armi
tedesche a lunga gittata e le bombe Stuka li avrebbero allora ridotti a schegge di materia fluttuanti in un enorme cratere.
Grossman capì che cosa voleva dire tenere una di queste minifortezze. Tutti i russi rimasti all’interno della «casa di Grekov»
moriranno quando la casa sarà cancellata dal fuoco tedesco.
Gli storici militari confermano il massacro: quando i tedeschi
si arresero il 3 febbraio del 1943, molte delle divisioni dell’Armata Rossa formate da 10.000 uomini si erano ridotte a meno di 100 sopravvissuti, il che significa che della guarnigione
di Stalingrado solo un uomo su 100 era sopravvissuto.
Questo era l’inferno nel quale Grossman voleva entrare a
tutti i costi. Ne aveva avuto l’occasione ai primi di ottobre del
1942, quando il generale Ortenberg gli aveva mandato un messaggio urgente domandandogli del materiale sulla divisione
delle guardie del generale Aleksandr Rodimcev. Grossman decise che la sua presenza fisica nella città era necessaria e, quindi, domandò a Ortenberg il permesso di attraversare il Volga
da est a ovest. Una volta arrivato sulla riva ovest non trovò superiori della Sezione Politica a dirgli che cosa fare o dove andare, perché essi erano rimasti al sicuro sull’altro lato del Volga.
Per i successivi 100 giorni circa, egli fu libero di andare dovunque volesse, e approfittò appieno di questa pericolosa libertà.
Era estasiato dall’assenza dei papaveri di Partito e dell’nkvd e
si mosse senza risparmio. La sua totale assenza di paura gli conquistò il rispetto dell’Armata Rossa; i soldati non lo considerarono un giornalista, ma uno di loro. I suoi articoli scritti da
Stalingrado gli assicurarono fama nazionale. Probabilmente il
pezzo più rilevante per ciò che si vuole mettere in luce, “L’asse
di tensione principale”, è un tributo allo straordinario coraggio
della divisione siberiana del colonnello Gurt’ev. Questo resoconto apparve sulla prima pagina della «Stella Rossa» e fu subito ristampato sulla «Pravda». La sua frase «l’eroismo era diventato un fatto quotidiano, lo stile della divisione e dei suoi
uomini» (grossman 1999, p. 74) fu abbreviato in uno slogan popolare: «l’erosimo è diventato un fatto quotidiano». Gli
finalmente libero...
75
uomini di Gurt’ev si trovavano sulla collina del Mamaev Kurgan che domina la città. Uno dei punti più infuocati della battaglia, la linea diretta per il Volga. Non ci furono letteralmente sopravvissuti in molti settori della battaglia per il Mamaev
Kurgan. Grossman, come conferma il generale Ortenberg,
«passò molti giorni con una divisione di Gurt’ev sul Mamaev
Kurgan» e tuttavia non ricevette neanche un graffio, benché
una granata gli rotolasse fra le gambe, mancando poi di esplodere. Mentre le pallottole sfioravano soltanto la sua testa, gli
uomini che stavano di fianco a lui venivano colpiti a morte. I
soldati cominciarono a chiamarlo «Grossman il fortunato».
Dopo che “L’asse di tensione principale” uscì sulla «Pravda», Il’ja Erenburg disse a Grossman: «ora puoi avere tutto
quello che chiedi». Ma Grossman non chiese nulla. Qualche
soldo [perks] in più avrebbe certamente aiutato sua moglie Olga Michajlovna o suo padre che si lamentava continuamente
della situazione del luogo in cui era stato evacuato. La mancanza di egoismo di Grossman fu probabilmente una risposta
personale al coraggio mostrato dalla divisione siberiana. Per
una singolare eccezione «il trentesimo del colonnello Gurt’ev
fu la sola divisione russa ad aver combattuto in Stalingrado dopo la metà di settembre che non fu né promossa allo stato di
guardia né ricompensata con l’encomio di un’unità» (kerr
1978, p. 202)2. È chiaro che cosa significhi questa omissione.
Quasi certamente questi uomini provenivano dai battaglioni
di punizione, gli infami štrafbaty nei cui ranghi (non solo tra
quelli inviati a Stalingrado) solo quattro uomini su 100 sopravviveranno alla guerra. Di nuovo, in Vita e destino, Grossman ci introduce in questo pezzo di verità. Fa sì che Krymov
urli contro i suoi ben pasciuti torturatori alla Lubjanka: «voi,
porci, dovreste essere mandati in distaccamento penale... ad
affrontare un carro armato senza nient’altro che i fucili»3. In
2. Secondo Kerr, la sola altra divisione a essere altrettanto maltrattata fu la 112ª,
la divisone Sologub.
3.
Si veda la nota 1.
76
questo passaggio Grossman rivela che cosa significa l’orrore del
combattimento cittadino per molti soldati della guarnigione
dell’Armata Rossa. Grossman conosceva questa verità e, anche
se questi fatti sarebbero stati inaccettabili per la censura sovietica, era determinato a farli conoscere.
Gli uomini di questo battaglione erano siberiani, famosi
per essere taciturni. Tuttavia, ciascuno emerge nell’articolo di
Grossman come un essere umano unico4. Il colonnello Gurt’ev,
un uomo dal quale ogni altro trovava difficile strappare più di
un da o net, si confidò con Grossman per sei ore. La tecnica di
intervista di Grossman era più simile al counseling che al giornalismo. Non prendeva appunti. Non voleva che gli uomini
fossero attenti, mentre parlavano con lui. Preferiva che incidessero i loro famosi cucchiai di legno così che potessero concentrarsi sulle loro mani invece che guardare lui negli occhi.
Questi uomini, così coraggiosi in combattimento, erano terrificati dall’essere intervistati da un commissario dell’Armata
Rossa e dal poter dire qualcosa che mettesse un compagno nei
pasticci. Allora Grossman li faceva rilassare parlando innanzi
tutto della caccia o delle loro famiglie. Di notte avrebbe poi
scritto l’intera conversazione registrata dalla sua formidabile
memoria e poi l’avrebbe riformulata. La tecnica di Grossman
permetteva a uomini in continua tensione di aprirsi. Ogni
«Ivan» dell’Armata Rossa è idiosincratico. Un soldato dice che
è contento dei suoi «900 grammi di pane e dei pasti caldi por4. Questa osservazione è vera per tutti i reportages di Grossman da Stalingrado.
Nel suo altrettanto famoso «Vista da Čechov» (grossman 1999, pp. 52-62) egli
ci dà un ritratto di un giovane cecchino dallo strano nome: Čechov. In Siberia era
abituato a cacciare e sapeva come giacere immobile per ore nella neve. La sua infanzia difficile con un padre alcolizzato gli aveva insegnato molte cose della vita.
Ora, egli era determinato a non permettere ai tedeschi di camminare orgogliosamente a testa alta nella sua città, essi avrebbero nascosto la testa tra le spalle, per la
paura di essere colpiti. Čechov faceva chinare la testa alla «razza padrona», li faceva
strisciare, nascondersi di luogo in luogo e infine collassare, morti, tra le macerie con
una pallottola nel cranio. La freddezza di un cecchino professionista si combina nell’articolo di Grossman con gli affettuosi e particolareggiati dettagli su che cosa volesse dire essere un giovane soldato dell’Armata Rossa.
finalmente libero...
77
tati in containers due volte al giorno» – il tipo di dettaglio che
è importante per i soldati su qualsiasi fronte. Il punto che individualizza ogni uomo era semplice; Grossman sapeva che
erano stati stigmatizzati dal loro stesso esercito con l’etichetta
di štrafbaty (ovviamente in un contesto più ampio, i tedeschi
avevano insultato le popolazioni slave etichettandole come untermenshen, “subumane”). L’intero reportage di Grossman a
Stalingrado mostra la futilità delle etichette. Ciò che importava a Stalingrado era il tipo di soldato che eri.
Grossman adottò deliberatamente un’istanza narrativa
molto pacata. Egli richiama i suoi compatrioti a onorare il coraggio. La sua voce non è mai stridente e ciò innalza «L’asse di
tensione principale» al di sopra del livello della propaganda
militare. Il basso profilo della voce narrativa corrisponde all’autoimmagine degli uomini descritti:
I suoi uomini non potevano rendersi conto dei cambiamenti psicologici prodottisi in loro nel corso del mese che avevano passato in quell’inferno, sull’estremo limite della linea di difesa di Stalingrado. Credevano di essere rimasti quel che erano sempre stati […]. (grossman
1999, p. 73).
Ma se gli uomini non erano consapevoli del cambiamento o
erano incapaci di esprimerlo a parole, Grossman non lo era.
Qui Grossman accenna a un altro tipo di «libertà» presente a
Stalingrado, la libertà dal sospetto, dall’interferenza e dal costante assillo del Partito. Gli uomini della divisione siberiana
erano uniti dalla fiducia, una qualità del tutto assente dalla vita sovietica. In uno degli ultimi articoli che firmò sulla «Stella
Rossa» prima di essere riassegnato, Grossman scrisse che «la fede reciproca unì l’intero fronte di Stalingrado dal comandante in capo ai soldati di ogni rango e di ogni linea». Da quella
fede e da quella fiducia uscì la libertà che «generò la vittoria».
Secondo Grossman fu precisamente durante i giorni più terribili del combattimento che la città distrutta fu la capitale della terra della libertà.
78
La paradossale libertà garantita all’Armata Rossa durante il
combattimento cittadino cambiò letteralmente il corso della storia. Resistendo contro forze sovrastanti, la guarnigione di Stalingrado fece commettere ai tedeschi un errore catastrofico. Essi sovrastimarono le forze del generale Čujkov5. Ciò li condusse a
un fatale errore di calcolo. I tedeschi vedevano le proprie riserve esaurirsi nel combattimento, il loro orgoglio li convinse che
i russi dovevano sprecare le proprie riserve nella battaglia allo
stesso modo. Credendo che le forze dei russi si stessero esaurendo con uguale, se non con maggiore, rapidità, esclusero una
controffensiva russa per mancanza di riserve. Per tutta la durata
del combattimento cittadino, il ministero della propaganda di
Goebbels vantava il fatto che a Stalingrado si stesse consumando la «più grande battaglia di logoramento» mai combattuta.
Era vero. Ma Goebbels commise un errore di presunzione.
Erano i tedeschi, e non l’Armata Rossa, che stavano perdendo,
per feriti e per stanchezza, tutte le proprie divisioni sul terreno.
Allo stesso tempo, il maresciallo Žukov, stava costruendo
al di là del Volga un’enorme forza di uomini e mezzi su un
fronte di attacco di 40 miglia. Con un freddo calcolo egli fornì
il minimo di rinforzi alla 62ª armata di Čujkov. Nei due mesi critici, dal 1° di settembre al 1° di novembre, solo «cinque divisioni furono mandate al di là del Volga, il minimo indispensabile per coprire le immense perdite» (clark 1985, p. 232)6.
5. Alan Clark, lavorando sulle fonti primarie degli archivi tedeschi ha descritto
l’errore in questi termini: «La vi armata, per un comprensibile desiderio di giustificare la richiesta di ulteriori rinforzi e di enfatizzare il compito che stava svolgendo, tendeva a riportare la presenza di divisioni nemiche laddove c’erano soltanto
reggimenti o persino battaglioni, assumendo la presenza della divisione di appartenenza ogni volta che una delle formazioni subordinate venivano rilevate. Dato il
numero delle unità che Čujkov aveva dislocato in parti diverse della città, il calcolo abituale della vi armata immaginò le forze russe cinque o sei volte più numerose di quelle reali […]».
6. L’uso del termine «immense perdite» da parte di Clark è ripetuto da molti veterani dell’Armata Rossa per identificare la normale abitudine di Stalin nell’uso delle truppe. Quest’orrenda prodigalità con cui gli uomini erano spesi avrà conseguenze demografiche devastanti per l’Unione Sovietica post-bellica.
finalmente libero...
79
Gli organi di propaganda di Goebbels non potevano credere
che la vi armata tedesca, il fiore all’occhiello della Werhmacht,
fosse costretta allo stallo da soldati dell’Armata Rossa infinitamente inferiori di numero e di armi. Paulus continuò con la
stessa tattica, cercando di colpire i russi sempre con gli stessi
metodi costosi e dispersivi. Il suo ultimo attacco fu lanciato l’11
novembre 1942. Finì in una serie di violente battaglie corpo a
corpo, alle volte combattute nelle fogne, alle volte nei crateri
dove prima si trovava una «casa di Grekov». Il combattimento
fu feroce, da nessuna delle due parti vi furono prigionieri. Benché fosse molto inferiore di numero (il rapporto era di più di
dieci a uno) e non potesse contare né sui carri armati né sulla
forza aerea dei tedeschi, la guarnigione di Stalingrado resistette ancora. La calma sul campo di battaglia del 18 di novembre
indicava che entrambi gli eserciti erano ora a corto di munizioni. Čujkov adesso aveva terminato anche le razioni di cibo, anche se i suoi uomini avevano ancora della vodka. Ma la vi armata era finita. Le sue ultime riserve erano state distrutte.
Mentre quelli che Grossman descrive come «i calcoli basati sul sangue» confondevano i tedeschi, il maresciallo Žukov
non stava sprecando il tempo pagato a tal prezzo. Egli aveva
spostato in zona una fanteria di mezzo milione di uomini, 230
reggimenti di artiglieria e 115 reggimenti armati di missili
Katjuša. Posizionò 900 nuovi T-34 sui loro fianchi. Ora il
momento della controffensiva era a portata di mano. La mattina del 19 novembre 1942 – ossia solo qualche ora dopo il definitivo spegnersi dell’ultima offensiva tedesca – Žukov scatenò il fuoco di sbarramento e la sua armata con tutti i suoi uomini e i suoi mezzi si rovesciò al di là del Volga. Si trattava della maggior forza di uomini e armi che l’Armata Rossa avesse
mai dispiegato dal momento dell’invasione. Essi spianarono
l’armata romena che teneva i fianchi dell’esercito tedesco. Entrambi i bracci della tenaglia oltrepassarono la città. Il 23 novembre si riunirono al ponte di Kalač, la linea di rifornimento tedesca sul fiume Don, il condotto per ogni cartuccia, medicamento e razione alimentare che giungeva alla vi armata.
80
Così i russi tagliarono la linea di rifornimento tedesca e bloccarono di fatto la via della fuga. Ora i ruoli erano invertiti. Invece dell’Armata Rossa circondata su tre lati con le spalle al
Volga, ora era la Wehrmacht a essere circondata. Essi erano ora
le vittime del terribile «doppio accerchiamento» che è sempre
stato il sogno di ogni comandante militare fin dalla classica vittoria di Annibale sui romani a Canne. Dentro il calderone, o
kessel, come lo chiamavano i tedeschi, più di 250.000 uomini erano bloccati senza speranza.
Nel suo capolavoro narrativo Barbarossa, Alan Clark sintetizza perfettamente che cosa significava l’accerchiamento della vi armata:
[...] questo brillante colpo segnò in ogni suo aspetto – per la sua tempistica, la sua potenza e il modo in cui sfruttò la disposizione stessa del
nemico – un cambiamento completo e definitivo nell’equilibrio strategico tra i due contendenti. Da questo momento in avanti l’Armata
Rossa mantenne l’iniziativa e, benché i tedeschi cercassero in molte occasioni (e alle volte con successo) di rovesciare questo equilibrio, i loro sforzi risultarono al massimo dei tentativi tatticamente significativi. A partire dal novembre 1942 l’atteggiamento della Wehrmacht sul
fronte est fu fondamentalmente un atteggiamento difensivo (clark
1985, p. 249).
Vasilij Grossman era sul posto e in Vita e destino descrisse la
natura dell’errore tedesco con la stessa chiarezza di uno storico professionista, ma con molto anticipo:
Stalingrado continuava a resistere, come prima gli attacchi tedeschi non
fruttavano vittorie decisive benché i contingenti impiegati fossero massicci e dei logorati reggimenti sovietici rimanesse solo qualche decina di
uomini. Queste poche decine di soldati si erano accollate tutto il peso
di quegli scontri tremendi, e pure avevano in sé una forza che riusciva
a disorientare tutte le aspettative del nemico. I tedeschi non riuscivano
a capacitarsi del fatto che la loro potenza potesse essere disintegrata da
un pugno di uomini. Erano convinti che le riserve sovietiche fossero de-
finalmente libero...
81
stinate a sostenere ed alimentare la difesa di Stalingrado. I soldati che
respinsero sulle rive del Volga gli attacchi delle divisioni di Paulus, furono i veri strateghi dell’offensiva di Stalingrado (vd, p. 485).
Una volta che nei tedeschi accerchiati si era spenta la speranza
di un sostegno esterno la loro resa era inevitabile, un problema scacchistico che aspettava solo di essere risolto con mosse
obbligate. Le ultime truppe della zona nord di Stalingrado furono prese prigioniere dai sovietici tra l’1 e il 3 febbraio 1943,
mentre il grosso delle forze, compreso Paulus (che Hitler aveva appena nominato maresciallo) e 30 dei suoi generali, erano
stati catturati due giorni prima.
Quale fu, però, il destino degli uomini la cui “libertà” aveva conquistato questa magnifica e decisiva vittoria? Dal momento in cui la vi armata perse ogni realistica possibilità di
fuggire o di essere soccorsa, cominciò a svanire anche la libertà
dell’Armata Rossa dall’interferenza dell’nkvd. La polizia segreta si precipitò di nuovo nella città. Dopo l’arresa la «Stella
Rossa» inneggiava a Stalin, che non aveva mai lasciato il Cremlino, come all’architetto della Canne del Volga. Sfortunatamente, la libertà dall’nkvd che il Partito aveva garantito per
100 giorni, non era che un mezzo per un fine. Il generale Ortenberg ordinò a Grossman di lasciare Stalingrado il 3 gennaio
1943, quasi un mese esatto prima dell’arresa definitiva, ma sei
settimane dopo l’accerchiamento del 23 novembre che aveva
ipotecato la sconfitta finale della Germania. Konstantin Simonov, il perfetto ragazzo modello di Partito, lo sostituì. Quando Grossman partì, la città che era stata la capitale della “libertà” stava tornando a essere solo un insieme di rovine di
un’altra città distrutta, ancora una volta sotto il controllo del
Partito e dell’nkvd.
In Vita e destino Grossman scrive la vera storia di come la
libertà dal controllo di Partito avesse «generato la vittoria». Solo che era una visione che non poteva essere pubblicata all’interno dell’Unione Sovietica. Grossman se ne accorse lentamente. Come ha riferito la sua stretta amica Ekaterina Zabo-
82
lockaja in un’intervista: «era un bambino in queste cose». Parrebbe che Grossman pensasse che la mentalità da «banda di
fratelli» della guarnigione di Stalingrado potesse permanere nel
pieno degli anni ’60. Persino dopo che gli uomini del kgb
perquisirono il suo appartamento e si impadronirono di tutto
ciò che trovarono di Vita e destino – comprese le bobine della
macchina da scrivere – Grossman cercò di liberare il proprio
libro dalla prigionia. Scrisse una lettera al Segretario del pcus,
Nikita Chruščëv, che a sua volta era stato a Stalingrado durante il combattimento cittadino, chiedendogli aiuto per riavere
il suo manoscritto. Fu convocato al Cremlino il 23 luglio 1962
per incontrare Michajl Suslov, il responsabile dell’ideologia del
Partito.
Grossman scrisse a memoria la conversazione appena tornato nel suo appartamento. Suslov disse di non aver letto personalmente il romanzo, ma di avere davanti a sé delle note dei
«recensori», cioè dei cani da guardia [watchdog] del kgb. Il suo
commento è interessante:
Perché dovremmo aggiungere il suo libro alle bombe atomiche che i nostri nemici sono pronti a lanciarci contro? Questa pubblicazione aiuterebbe soltanto i nostri nemici. Pubblicare il suo libro accrescerebbe solo il numero delle vittime7.
7. Grossman scrisse l’intero testo del dialogo con Suslov quando a sera tornò nel
suo appartamento. La sua stupefacente memoria non lo aveva abbandonato. L’intero testo è pubblicato in appendice a garrard 1996, pp. 357-360. La traduzione in inglese è di John Garrard. Anche la provenienza del resoconto grossmaniano
di questo incontro è istruttiva. Quando morì lasciò cinque pagine manoscritte nel
suo appartamento, il che significa che esse giunsero in possesso di sua moglie Ol’ga Michajlovna. Nel 1964 ella accettò una richiesta formale dei burocrati dell’Unione degli Scrittori di depositare le note nella speciale collezione degli archivi di
Stato della letteratura. Ella raccontò in seguito, a uno sconvolto e orripilato Semën
Lipkin, amico di Grossman, di essere stata pregata dal Segretario della sezione moscovita dell’Unione degli Scrittori, che casualmente era un ufficiale del kgb, il generale Ilyin (garrard 1996, pp. 308-309). La traduzione di John Garrard di questo documento finora inaccessibile ci apre uno squarcio sul modo in cui gli apparaticik del pcus, fino ai più alti livelli, trattassero con scrittori problematici come
Grossman.
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Suslov fa poi un’affermazione che dimostra che i cervelli del
kgb avevano prestato particolare attenzione ai passaggi sul
modo in cui la vittoria di Stalingrado era stata raggiunta:
Come avremmo potuto trionfare nella guerra con il tipo di persone che
lei descrive? […] se accettiamo ciò che lei dice, allora è impossibile capire come mai abbiamo vinto la guerra. Secondo lei non avremmo mai
dovuto vincere. È impossibile capire perché abbiamo vinto (garrard
1996, p. 358).
Con «noi», ovviamente, Suslov intende il Partito Comunista
dell’Unione Sovietica, non l’Armata Rossa. Nel 1962 la linea
del Partito sulla vittoria ottenuta grazie alla guida di Stalin era
cambiata; ora gli osanna inneggiavano al Partito che aveva
compiuto il miracolo sul Volga. Suslov non era mai stato in
prima linea durante la guerra. Dal suo punto di vista, come
aveva detto, «era impossibile capire perché abbiamo vinto».
Grossman era stato lì e aveva dimostrato che i soldati comuni
avevano vinto a Stalingrado perché essi, in quei critici 100
giorni, erano stati liberi dalla guida del Partito. Il Partito
avrebbe anche potuto riconoscere il ruolo dell’Armata Rossa,
ma rifletteva la conquista dei soldati in uno specchio distorto.
Dopo l’incontro con Suslov, Grossman si rese conto che il
manoscritto non gli sarebbe mai stato restituito né pubblicato
durante la sua vita. I restanti due anni della sua vita furono
estremamente difficili e pieni di dolore. La fama conquistata a
Stalingrado, tuttavia, gli fornì qualche protezione. Non morì
alla Lubjanka, ma in ospedale (il 14 settembre 1964), di cancro allo stomaco. Tecnicamente, dunque, morì di «cause naturali», anche se è verosimile pensare che l’onnipresente sorveglianza del kgb, degli informatori, delle spie, il sequestro dei
manoscritti, la rimozione dei suoi libri dalle biblioteche e la riduzione del suo status a quello di «non persona», affrettarono
la sua fine. In un certo senso, fu fortunato a morire allora. Il
14 settembre 1964 quasi tutti i posti importanti del comando
dell’esercito erano occupati da soldati che avevano servito con
84
o sotto Chruščëv durante i tre mesi critici a Stalingrado8. In
fondo erano stati anche i compagni d’arme di Grossman.
Chrušˇčëv fu destituito soltanto un mese dopo la morte di
Grossman. Il nuovo leader, Leonid Brežnev, non era stato a
Stalingrado e non condivideva alcun senso di fratellanza con
coloro che vi erano stati (Brežnev era stato un commissario di
Partito nel Caucaso; un ghostwriter gonfiò il suo contributo
molto modesto allo sforzo bellico in una grandiosa memoria
che valse a conquistargli premi letterari conferiti molto generosamente dai sicofanti dell’Unione Sovietica degli scrittori).
Brežnev concluse la lunga campagna, durata 18 anni, per ascrivere la vittoria al pcus. Suslov, la nemesi di Grossman dal
giorno in cui al Cremlino aveva paragonato Vita e destino a una
bomba, guidò il blitz della propaganda. Lazar Lazarev ha descritto eloquentemente il nuovo ritornello come «suona, suona, o tuono vittorioso!»9. Il Partito aveva mischiato le genuine memorie popolari della vittoria con l’ideologia sovietica. E
il Partito non aveva alcuna intenzione di riconoscere il ruolo
di Vasilij Grossman.
La cinica denigrazione da parte del Partito del contributo di Grossman alla vittoria di Stalingrado si può vedere in
plastico rilievo sulla scena del più grande monumento alla
vittoria, il gigantesco complesso memoriale a Volgogrado
(Chrušˇčëv aveva rinominato la città durante la sua campagna
anti-staliniana). Durante il suo mandato come Segretario Generale del pcus, Brežnev fece costruire venti enormi memoriali alla Grande Guerra Patriottica: quello di Volgogrado è il
più grande di tutti. Fu inaugurato nel 1967 sul Mamaev Kurgan per festeggiare il cinquantesimo anniversario della Rivolu8. Per una lista completa degli uomini e delle loro posizioni (che prenderebbe
troppo spazio) si rimanda a clark 1985, p. 464. Grossman fece un errore politico a Stalingrado non intervistando Chruščëv. Pare che il leader sovietico ne fosse rimasto ferito e che prendesse l’omissione come un’offesa personale.
9. Si veda la discussione di questa e altre importanti verità sulla guerra nell’articolo di Lazarev “Russian Literature on the War and historical Truth” in garrard
1993, p. 42. Lazarev è un veterano decorato della Seconda guerra mondiale.
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zione bolscevica e collegare così il Partito con la vittoria sulla
vi armata tedesca.
La collina del Mamaev Kurgan domina ancora la città.
Qui, nel mezzo di sparatorie letali, Grossman aveva realizzato le sue interviste. Aveva passato giorni e giorni sotto i bombardamenti tedeschi. E proprio qui, dove aveva condiviso
con i soldati il pericolo, il Partito si rifiutò di pronunciare il
suo nome. Per aggiungere al danno la beffa, una citazione
presa da «L’asse di tensione principale» di Grossman fu scolpita in lettere alte quasi due metri sul muro che conduce al
mausoleo:
Un uragano di acciaio li colpiva in viso, ma continuavano ad avanzare.
Un terrore superstizioso si impadronì del nemico: erano degli uomini
questi che attaccavano? Erano mortali? (grossman 1999, p. 69).
Ma né la fonte di queste parole né il loro autore sono menzionati da qualche parte. Lo stesso silenzio permane all’interno
del grande mausoleo del complesso memoriale. Sotto la cupola, la mano di un gigante innalza una torcia. Sui lati della cupola sono scolpiti i nomi dell’enorme numero di cittadini e di
soldati che morirono a Stalingrado. Ancora una volta vediamo
delle parole di Grossman, la risposta che i soldati dell’Armata
Rossa diedero alla domanda dei tedeschi, questa volta incisa in
oro alla base della gigantesca cupola. Tuttavia, le sue parole sono di nuovo citate senza fonte:
Sì, noi eravamo davvero mortali e pochi di noi sopravvissero, ma tutti
abbiamo adempiuto al nostro dovere di patrioti davanti alla santa madre Russia.
La madre Russia stessa è personificata sul Mamaev Kurgan da
un’immensa statua che sguaina la propria spada e chiama i suoi
figli a difendere Stalingrado dagli invasori. Vasilij Grossman fu
uno di quei figli che rispose alla chiamata, ma il Partito ha cancellato il suo nome.
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Si tratta qui del classico monumento di guerra sovietico:
un capolavoro di disinformazione fissato nella pietra. L’immenso complesso di Volgogrado onora palesemente i soldati
dell’Armata Rossa che vinsero la battaglia e il corrispondente
di guerra che, senza morire, scrisse un tributo al loro sacrificio. Tuttavia, cancella l’identità sia dei soldati – quasi certamente un battaglione di punizione – sia dell’autore delle parole. Persino oggi, come testimonia Mark Burman, un corrispondente della bbc che ha recentemente visitato il mausoleo
sul Mamaev Kurgan, le guide ufficiali pretendono ancora di
non sapere chi ha scritto queste parole, anche se il Partito Comunista dell’Unione Sovietica non controlla più il paese. Questo silenzio dà ragione alle menzogne del Partito sui veri eroi
di Stalingrado.
Grossman è stato ed è l’uomo che ha raccontato la verità
sulla guerra, sulla sua battaglia più epica e sui suoi segreti più
oscuri. L’Unione Sovietica e la sua ideologia marxista-leninista sono scomparse, ma i russi (e i non russi cittadini della Federazione) lottano ancora per capire una guerra che fu combattuta principalmente sulla loro terra e la cui vittoria fu pagata a un prezzo tale che tuttora le statistiche demografiche
della nazione ne risentono. Questa lotta andrà avanti per tutto questo secolo, e forse di più. Mentre le memorie individuali dei sopravvissuti svaniscono, si sta forgiando una memoria
collettiva. Tutti i galantuomini sono chiamati a servire nella
guerra contro la dimenticanza. Ancora vivo nei suoi libri,
Grossman ci chiama, ovunque noi siamo, a farci carico del fardello della storia e a ricordare i veri vincitori di Stalingrado: i
soldati della 62ª armata di Čujkov, che cambiarono il senso
della «forza del destino»10 contro la Wehrmacht e salvarono il
pianeta dal fascismo.
10. Winston Churchill usò questa memorabile espressione «hinge of fate» come
titolo di uno dei suoi libri in cui descrive la battaglia di Stalingrado.
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riferimenti bibliografici
clark a.
1985 Barbarossa: The Russian-German Conflict 1941-45, Quill, New York (second edition).
grossman v.
1984 Vita e destino, Jaca Book, Milano.
1986 Life and Fate, Harper&Row, New York.
1989 “Zapisnye Knižki” in Gody voiny, Ogiz, Moskva.
1999 Anni di guerra, l’ancora, Napoli.
garrard j. e c. (a cura di)
1993 World War 2 and the Soviet People, S. Martin Press, New York.
garrard j. e c.
1996 The Bones of Berdichev: The Life and Fate of Vasily Grossman, The Free Press,
New York.
kerr w.
1978 The Secret of Stalingrad, Doubleday, New York.
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Polacchi, tedeschi
poloniaeuropae 2010
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Sull’insurrezione di Varsavia.
Lettera aperta a Giacomo Maritain e Francesco Mauriac, del 5 ottobre
19441
di Giuseppe [Józef] Czapski
Ho avuto la fortuna di conoscervi nei miei anni di tirocinio a Parigi.
Ammiravo la vostra integrità di pensatori, di scrittori, il vostro coraggio. Per me,
straniero, voi non eravate soltanto Maritain o Mauriac, voi eravate la Francia, una tradizione d’integrità intellettuale, un’atmosfera che si sentiva presso gli scrittori ed i
pensatori francesi, dai conservatori fino ai rivoluzionari (beninteso, con delle eccezioni).
Tutta l’opinione della Francia è stata sconvolta per la difesa di un solo uomo condannato ingiustamente2, perché voi ben giudicavate che si trattava allora di un principio, la cui violazione accettata produrrebbe un abbassamento, uno sprofondamento
della morale francese. Voi avete avuto allora Zola, e avete avuto Peguy.
Ai miei tempi, a Parigi, Lei dirigeva, Giacomo, una revisione di tutta una filosofia.
Lei lottava per la filosofia e la morale cattolica, che erano allora più che impopolari
negli ambienti intellettuali della Francia. E con ciò si «comprometteva» doppiamente,
attirando verso la Sua fede... dei pubblicani.
È allora che Benda parlava del «Tradimento dei chierichi», Halévy della «Decadenza della libertà» e Gide ci insegnava che cos’è «lo Spirito non preconcetto».
E più tardi, Bernanos e Lei, Mauriac, difendevate gli spagnuoli e i baschi antifranchisti massacrati. Lei Maritain gli ebrei perseguitati, e Gide, credente del comunismo,
aveva il coraggio di scrivere il suo libro: «Ritorno dall’URSS».
Potevamo essere «per» o «contro» le vostre affermazioni o i vostri principii, ma
eravate per noi un esempio di non-conformismo.
Perciò, ci sforzavamo nel nostro paese di condurre le nostre lotte nello stesso spirito di probità intellettuale. La maggioranza di voialtri credeva troppo facilmente che
il mondo finisse col Reno, altri che non cominciasse che a Mosca, e non sapevano neppure che vi erano da noi degli uomini che lavoravano da generazioni per lo stesso compito, e che difendevano il medesimo patrimonio.
Ma che succede ora?
1 La lettera, qui riportata tale e quale, nella versione dell’epoca, fu stampata nel 1944 in italiano
in forma di piccolo libro di 16 pagine dalla Drukarnia Polowa A[rmii] P[olskiej] [na] W[schodzie],
creata inizialmente in Palestina. Una precedente versione in polacco venne pubblicata sulla
rivista «Orzeł Biały», n. 34, 1944.
2 L’affare Dreyfus.
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Sull’insurrezione di Varsavia...
Al momento del vostro ritorno nella vostra capitale liberata, la nostra si è sollevata per un combattimento col suo oppressore, ed è appena caduta, cambiata in un
mucchio di macerie, in condizioni senza uguali. Si tratta di un caso di coscienza europea. Siamo in diritto di aspettare dagli scrittori e pensatori francesi, quali li abbiamo
sempre conosciuti, una parola in difesa delle vittime, che sarebbe anche stata una
parola in difesa dell’onore e della coscienza cristiana dell’Europa; ora, nulla di simile
ci è ancora pervenuto.
È difficile parlare di Varsavia, perché ciò che succede laggiù sorpassa i limiti della
nostra immaginazione. Una città avente più abitanti di Roma d’ante-guerra, più grande
di Los Angeles e due volte più grande di Lione, è rasa al suolo, l’esercito sotterraneo
[clandestino], tutta la popolazione combattendo senza viveri, senza armi, non sottomettendosi, per quanto da settimane Varsavia manchi d’acqua, devastata da febbre
tifoidea e scarlattina, difendendo selvaggiamente ogni casa, e affermando davanti al
mondo la propria volontà di indipendenza.
Le nostre Chiese, le nostre biblioteche, l’Università di Varsavia, i nostri palazzi
storici e migliaia di case dove si rifugiavano più di un milione e mezzo di uomini, sono
distrutte.
Il numero dei morti e dei feriti è calcolato a duecentomila.
Per il campo di transito di Pruszków sono passati fino al 27 settembre 243 mila civili, evacuati per forza dai tedeschi (una piazza enorme, senza la minima installazione
sanitaria, centinaia di cadaveri insepolti, fucilazioni nel campo stesso).
Questi disgraziati erano le madri, le mogli, i bambini dei soldati polacchi che combattevano a Varsavia e combattono su tutti i fronti.
Valgono qualcosa questi soldati, se i capi degli eserciti alleati li onorano di affidar
loro i compiti più ardui e pieni di responsabilità; questi soldati, che hanno conquistato
Montecassino e Ancona, hanno preso parte ai più duri combattimenti di Falaise e di Arnhem; e sempre con questa fede irragionevole: che vi è al mondo una giustizia e che il
sangue versato non è mai sangue versato inutilmente.
Presento in breve alcuni fatti.
Nell’ottobre 1943, il movimento clandestino polacco riceve dal suo governo a
Londra l’ordine di collaborare con le truppe sovietiche. Questa collaborazione si inizia
all’entrata delle truppe russe in Polonia, l’insurrezione della capitale ne è un termine
logico.
Le truppe sovietiche entrano a Praga (sobborghi di Varsavia) e la radio russa, il 30
luglio, lancia un appello alla popolazione di Varsavia di cui cito alcune frasi:
«Tutta la popolazione della città deve unirsi intorno all’esercito della resistenza.
Cittadini di Varsavia, alle armi! Attaccate i tedeschi, facilitate il passaggio della Vistola
alle truppe sovietiche. Un milione di abitanti è un esercito di un milione di uomini che
combattono per la libertà della Polonia».
Contemporaneamente, le autorità tedesche ordinano l’evacuazione totale della
popolazione della città.
Spinta dalla radio sovietica, minacciata di sterminio, Varsavia si solleva.
Varsavia è il più importante nodo di comunicazioni di tutto il fronte orientale.
L’insurrezione blocca queste arterie, sconvolge i piani dell’alto comando della Wehrmacht,
chiude in questo settore forze considerevoli.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Tattica russa: il comando sovietico rifiuta di concedere un qualsiasi aiuto a Varsavia, innalza ostacoli contro l’opera di soccorso intrapresa dagli alleati, rifiuta l’uso delle
sue basi aeree e mantiene questa interdizione durante quarantanove giornate decisive
per la sorte di Varsavia quando tali soccorsi potevano ancora essere efficaci, e si decide
finalmente ad un «gesto magnanimo», intorno al quale la propaganda russa fa gran
chiasso, gesto consistente nel lancio tardivo di armi e viveri, effettuato quando si
sapeva già ch’era troppo tardi per salvare Varsavia.
L’unica causa della caduta di Varsavia è la mancanza assoluta di ogni aiuto, durante
il primo periodo dell’insurrezione, da parte di coloro che potevano e dovevano concederlo. Nell’ultima fase dell’insurrezione, allorché il destino di Varsavia era già segnato,
giunsero i soccorsi, troppo tardivi, e, del resto, insufficienti. L’unica operazione di gran
larghezza fu effettuata dall’aviazione americana, con 400 fortezze volanti. Ma per
quanto l’80% del materiale lanciato col paracadute cadesse in mano ai polacchi, si trattava di vettovagliamento sufficiente appena per due giorni. Un aiuto concesso senza
ritardo dai russi durante la prima fase dell’insurrezione avrebbe senza dubbio prodotto
la liberazione di Varsavia, salvando la capitale dalla distruzione totale, e risparmiando
ai suoi abitanti orribili sofferenze e la morte.
Questo scorcio di fatti dice ben poco se la nostra fantasia non vi collabora.
Non conoscete il grido di pericolo della radio di Varsavia? Lo suppongo, perché vi
sono delle forze nel mondo che vogliono soffocare questi richiami di soccorso. Vi è una
propaganda che fin dalla creazione, nel 1939, della frontiera Molotov-Ribbentrop, si è
specializzata nel metodo di propagare tesi che non rispondono a verità alcuna; e ve n’è
un’altra parallela e che ha molto successo nei paesi democratici d’oggi, di non sentire
i fatti fastidiosi.
Ma non vi è nessuno in questi paesi che voglia vedere la verità, che voglia sapere
ciò che vale, ciò che soffre un paese, anche se non si è in grado di portargli aiuto?
Leggiamo nei radiogrammi di Varsavia di questi ultimi due mesi dei richiami ininterrotti di aiuto in materiale di guerra e in viveri, il 27 agosto ancora la radio ci
informa che l’esercito del paese dà tutto il suo sforzo per aiutare l’esercito sovietico,
lo fa credendo che questa collaborazione nella battaglia potrà creare una base di
giusto accomodamento fra i due paesi.
Sostenuta dalle ottimistiche emissioni [trasmissioni] delle radio alleate, le notizie
di enormi bombardamenti in Germania, la popolazione non cessava dal credere in un
forte aiuto degli alleati stessi e aspettava questi soccorsi come nell’anno 1863 i nostri
insorti credendo nell’aiuto di Napoleone III, ed anche all’arrivo di Garibaldi, con il suo
esercito, attendevano la riscossa.
La radio del 29 agosto ci disse: «La capitale della Romania, appena due giorni dopo
essere insorta contro i suoi alleati di ieri, riceve un aiuto per il quale noi chiamiamo da
26 giorni e che Varsavia aspetta senza ricevere. Bisogna essere nemici per cinque anni
e non tra i più fedeli alleati per ricevere un aiuto?». Seguiamo attraverso la radio la descrizione delle donne che, nel fumo degli incendi, durante l’attacco della Centrale telefonica, prendono parte all’azione, nei lavori dei vigili del fuoco e degli zappatori.
Seguiamo la lotta nel vecchio quartiere della città, uno dei più bei monumenti dell’architettura in Polonia, che non esiste più. La sua cattedrale gotica di San Giovanni è oggi
un mucchio di ceneri.
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Sull’insurrezione di Varsavia...
Veniamo anche a conoscenza della presa dell’edificio della polizia, che precedeva
l’annientamento dei tedeschi nella chiesa della Santa Croce dove si era formata una
piazzaforte (vi era sepolto il cuore di Chopin).
Bisogna conoscere queste chiese storiche, che ci sono familiari fin dalla nostra infanzia, questi tranquilli caffè dove trascorrevamo le nostre ore di riposo, trasformati
in fortezze, prese e riprese da noi e dai tedeschi, per poter immaginare in parte l’atrocità dei combattimenti nella nostra capitale.
I varsaviani sono informati dalle radio delle vittorie degli alleati sui fronti dell’Occidente, e anche del discorso di Churchill, insistente sulla cessione ai russi delle nostre provincie orientali.
«Dobbiamo forse perdere la Polonia per questo lungo e sanguinoso martirio?» grida
la radio di Varsavia. «Varsavia combatte per i diritti e la libertà, non soltanto per sé,
ma anche per tutta la Polonia. Varsavia non cessa di aspettare, di ascoltare le voci del
lontano Occidente, ed è il discorso di Churchill che ci giunge... Tutto diventa più chiaro,
al momento in cui diveniamo coscienti che la Polonia è senza forza, esangue, che con
una Polonia simile non si ha più bisogno di contare». E poi questa frase: «Abbiamo dato
ciò che potevamo e abbiamo così poco contribuito alla soluzione della questione
polacca. Sono le parole ed il pensiero di tutta Varsavia».
Ma in tutti questi comunicati vi è ancora una riserva di speranza, essi spirano la
gioia del combattimento di un popolo, per cinque anni selvaggiamente soggiogato.
Dopo essersi ritirati, i russi rioccupano Praga, il sobborgo sulla riva destra della
Vistola. Ed ecco che dopo il primo entusiasmo di un così vicino aiuto, giungono le notizie delle deportazioni.
Leggiamo nel comunicato del 30 settembre: «Nessuno al mondo ci vuole ascoltare... Vi è qualcuno che tiene a che la nazione polacca cessi d’esistere... Non possiamo capire per quali cause e quali fini l’Inghilterra permetta alla Russia di
tormentarci... Nel momento in cui scoppiò la rivolta, non vi erano a Varsavia né armi,
né munizioni. Le abbiamo guadagnate sui tedeschi perdendo un uomo ogni due fucili.
Ci si lasciò senza aiuto, perché l’Inghilterra ha deciso che l’aiuto per la Polonia non si
calcoli. Un troppo grande aiuto per un paese così piccolo, dicevano gli uomini politici
inglesi... Varsavia combatteva con fucili contro cannoni, con granate contro carri armati. Combattevamo sotto l’artiglieria e le bombe tedesche. Eppure avevamo dei momenti di gioia: il primo era l’entrata degli eserciti sovietici a Praga, e l’altro l’arrivo
degli apparecchi americani. Solo oggi ci accorgiamo di come ci siamo illusi, rallegrandoci dell’entrata dei russi, credendo che non ricomincerebbero i loro atti del 1939. E
soltanto ora vediamo ch’essi sono venuti in Polonia per perderci».
I difensori ricevono notizie definitive, secondo le quali i russi deportano la popolazione in Siberia. Scoppia una collera, un rancore contro gli alleati.
È per questo, allora, che si è combattuto, che si è distrutta la propria capitale?
Nella radio del 2 ottobre, abbiamo parole piene di fiele contro gli alleati. È molto
possibile che gli abitanti di Varsavia non abbiano avuto un’idea chiara delle difficoltà
da sormontare per organizzare un efficace aiuto degli alleati. Ma pur tuttavia queste
voci strazianti di una popolazione in pericolo devono essere ascoltate dal mondo. Questi richiami non giungono a voi «perché sono autentici». Oh, se fossero stati redatti da
uffici di propaganda di Mosca, di Berlino, di Londra o di Washington, li avreste intesi in
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tutte le emissioni, tutti i giornali li citerebbero nelle loro postille. Ma queste frasi insanguinate, spesso sgarbate, questi richiami contraddittori di rancore e di tenerezza inviati da una città in fuoco non vi giungono.
Questa popolazione ricorda che abbiamo perso durante la battaglia aerea di Londra il 40% dell’effettivo della nostra aviazione che ha preso parte alla difesa, che i
polacchi combattono oggi su tutti i fronti. Il comunicato del 2 ottobre, alle 7 di sera,
ci dice: «L’aiuto non viene da nessuna parte. Gli eserciti del generale Rokossovski3 assassinano i nostri fratelli». È con queste frasi che incomincia il comunicato. «I russi
hanno ordinato l’evacuazione da Varsavia (del sobborgo occupato da loro) dei vecchi e
dei bambini. Gli uomini fra i 14 e i 60 anni sono mandati in Siberia». E dopo alcune parole fra le più dure verso gli alleati: «Sappiate che già oggi centinaia di migliaia di polacchi sono morti per voi. Dovete subito portarci aiuto. Noi soccombiamo... Ci si chiama
la «preoccupazione dei popoli combattenti». Perché? Per il sangue versato o perché
siamo un popolo che vuol vivere, respirare l’aria libera? E osavate proclamare il motto:
«Combattiamo per la libertà dei popoli soggiogati». «Ci avete persi in un labirinto di
menzogne. E ci rivolgiamo ora agli uomini giusti, a coloro che non hanno vangato la
fossa sotto il popolo polacco estenuato. Cambiate il mondo, che vada su un’altra strada,
se è necessario, non abbiate paura di cambiare guide. Perché non fate questo sforzo?
Perché non aiutereste coloro che periscono? Abbiamo una sola strada davanti a noi, la
strada nell’altro mondo. Ricordate che sono gli spettri dei cadaveri di domani che vi parlano. Abbiamo perso la fiducia nell’uomo, nei suoi sentimenti, nella sua lealtà, e abbiamo in fondo al nostro animo un’amarezza mortale contro coloro che hanno distrutto
il nostro paese». E dopo queste frasi di sanguinante rancore, un’altra, fatta di tenerezza: «Sappiamo che non interpreterete male ciò che diciamo. Siamo stati così a lungo
ingannati, ed ora ancora di più, ma crediamo sempre».
Vedo già degli uomini «moderni» e scettici sorridere con una benevola superiorità:
«Che popolo romantico, che sogni scaduti di libertà delle Nazioni, di giustizia». Ma so
che nessuno di voi, Mauritain, Mauriac, si permetterà di sorridere.
Cito alcuni passaggi del comunicato del 3 ottobre: «Varsavia disgraziata, non vinta,
combatte ancora. Non riceviamo aiuto da nessuno, Rokossovski distrugge i resti della popolazione polacca. A Varsavia vi è un pugno di soldati estenuati fino all’ultimo. Le
3
Konstantin Konstantinovič Rokossovskij (1986-1968), generale sovietico di origine polacca
(Konstanty Ksawerowicz Rokossowski). Nel 1941 comandante del Corpo d’armata ad ovest di Mosca
e nel 1942 quello del settore del Don. Soprannominato nel 1943 "L’invincibile", dopo la battaglia
di Stalingrado e promosso a generale d’armata. Nel 1944 diresse il fronte della Russia Bianca e comandò la controffensiva sovietica dal Dniepr fino alla Vistola, fermandosi alle porte orientali di Varsavia, senza aiutare gli insorti polacchi. Nel 1945 occupò Stettino. Come maresciallo dell’URSS e
poi anche maresciallo polacco, dal 1949 al 1956 fu ministro della Difesa della Polonia comunista
e, comandante supremo dell’esercito polacco; e dal 1952 al 1956 esercitò pure le funzioni di vice
premier della Repubblica popolare di Polonia (PRL). Dopo il “disgelo” del 1956 rientrò in URSS, su
espressa richiesta dei comunisti polacchi.
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Sull’insurrezione di Varsavia...
donne, i bambini e le madri con i loro piccoli muoiono di fame. È stato proclamato ieri
l’ordine del generale Rokossovski che esige l’evacuazione della popolazione di Varsavia
(riva destra occupata dai russi). In Siberia vanno i soldati dell’esercito nazionale; ai
lavori forzati vanno gli eroi di Varsavia che muore. Dov’è la lealtà umana? Esigiamo da
voi aiuto. L’aiuto deve venire subito, capite, subito per Varsavia che muore. Non vi è
tempo da perdere, crediamo soltanto in voi. Solo in voi abbiamo fiducia».
Ancora questa speranza, questa fiducia non spenta negli alleati. «È oggi che rincomincia la strada polacca in Siberia, una via lunga e lontana. Una via che è un pericolo anche per l’Inghilterra. Il patrimonio di tante generazioni è stato distrutto. La
capitale dei grandi uomini, la capitale della Polonia bruciata... Soldati dell’indipendenza e della Costituzione, avete fatto tutto ciò che dovevate fare, avete salvato
l’onore della città insanguinata e morente. Avete posto il suo onore più in alto della
vostra vita, voi, gli uomini della Polonia sotterranea. Varsavia vi ha ricevuti come una
madre, vi ha nascosti nelle sue cantine, e quando le bombe tedesche volevano strapparle i vostri cadaveri, vi copriva con le sue macerie. Allevati da tutto il paese
polacco, di cui Varsavia è una parte, non ne avete ceduto una particella senza combattere. Gloria e onore a voi. Iniziamo oggi una lunga via nell’incognito. Dobbiamo
abbandonare con dolore queste care macerie, queste pietre che ancor oggi sono un
pericolo per gli occupanti. Abbiamo il diritto di parlare a nome dei polacchi, e ce ne
serviamo per dirvi che è nostro desiderio che ogni polacco conosca le parole ed i
richiami che Varsavia lancia nel mondo, da molto tempo. Sappiamo che le ore dei
tedeschi sono contate. Il popolo polacco era, è e sarà. Il nostro popolo non perirà. I
truffatori, per quanto barbari essi siano, non riusciranno ad assassinare un eroico popolo di 30 milioni».
Questo stesso comunicato ci porta l’ultimo ordine del giorno del capo del sollevamento, il generale Bór4. Ne cito alcuni frammenti: «Abbiamo combattuto per uno
scopo nobile. La liberazione del popolo polacco e di tutti gli stati che dividono la sua
sorte. Abbiamo combattuto per il ritorno di un giusto ordine per tutti nell’Europa del
dopo guerra, per una sicurezza di tutti i suoi cittadini. Per la rinascita del mondo. Non
ci è stato dato di finire questo combattimento. Abbiamo dovuto cedere alla forza, ma
i nostri eserciti all’estero combattono, e la lotta per la Polonia e per la libertà non
finisce qui a Varsavia. La capitolazione della capitale non prova che abbiamo cessato
di lottare contro i tedeschi. La Polonia, che ha combattuto contro di loro durante i cinque anni dell’occupazione, ora, dopo una perdita così dolorosa, in una situazione
4 Tadeusz Komorowski (1895-1966), politico e militare polacco, detto Bór-Komorowski, da uno dei
suoi nomi di battaglia: “Bór” (la Foresta). Prese parte attiva alla resistenza contro l’occupazione
della Polonia da parte della Germania nazista. Nel 1941 fu nominato vice comandante e nel marzo
1943 comandante dell’esercito polacco clandestino (AK-Armia Krajowa). Con l’appoggio del governo polacco in esilio a Londra decise e diresse l’insurrezione di Varsavia nel 1944. Dopo la sconfitta fu imprigionato in Germania. Alla fine della guerra andò in esilio a Londra, dove svolse un
ruolo attivo nell’emigrazione polacca. Dal 1947 al 1949 fu primo ministro del governo polacco in
esilio.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
politica atroce, non cesserà di lottare. Le esigenze di Mosca sono peggiori della resa
degli eserciti al nemico. Preferiamo morire piuttosto che accettarle. I sovieti volevano
deportarci e distruggerci come le diecimila vittime di Katyń5. Non ci è stato dato aiuto,
abbiamo combattuto senza questo, abbiamo fatto il nostro dovere fino alla fine... Sono
sicuro che le ore della Germania, contro la quale combattiamo, sono contate».
È la fine del combattimento di sessantatre giorni. La sconfitta.
Contemporaneamente alla lotta condotta a Varsavia, si organizzava nel mondo intero un’attività febbrile e ben diretta, avente per fine di calunniare gli uomini della resistenza polacca. Dopo un’accanita lotta contro il capo del nostro esercito, il generale
[Kazimierz] Sosnkowski, che in un ordine del giorno constatava apertamente l’insufficienza dell’aiuto degli alleati, vi è ora una campagna contro il generale [Tadeusz] BórKomorowski, capo della difesa di Varsavia, e oggi capo di tutte le nostre forze armate.
I telegrammi di Mosca qualificano per «criminali» i capi responsabili dell’insurrezione che hanno essi stessi incoraggiata con tutte le loro forze, esigendola.
Un giornale americano, letto da migliaia di soldati, pensa bene di mettere in grandi
caratteri: «I polacchi fuggono da Varsavia». Non so se questo redattore americano si permetterebbe di parlare di fuga se si trattasse di soldati americani che si fossero battuti
per sessantatre giorni, circondati da un nemico cento volte più forte, senz’armi e quasi
senza aiuto dai loro alleati. E ancora con la prospettiva di essere accusati di tradimento
e deportati in fondo alla Russia.
E con ciò, altre notizie ancora ci pervengono dalla Polonia.
La terribile prigione di Maidanek, presso Lublino (tutta la stampa mondiale ne parlava come di un centro di atrocità tedesche) è piena oggi di 2500 soldati polacchi del
nostro esercito sotterraneo. La differenza consiste unicamente nel fatto che i tedeschi
tenevano a Maidanek la popolazione civile e stranieri che vi si portavano da altri paesi
dell’Europa, mentre i sovieti, in nome della lotta comune contro i tedeschi, vi hanno
messo dei soldati che hanno combattuto e che potrebbero ancora combattere contro
l’esercito tedesco.
Gli ufficiali dei battaglioni polacchi che hanno preso parte alla conquista di Wilno
con gli eserciti sovietici, invitati a pranzo il giorno della vittoria dal comando russo,
sono stati arrestati sul posto. Il loro destino è sconosciuto.
Fino al 25 settembre sono state deportate da Wilno diecimila persone, per il
momento a Kalouga [Kaluga], nel centro della Russia.
Un telegramma ci informa che le deportazioni, le fucilazioni dell’elemento
polacco sono più numerose che nell’anno 1939.
Ma sapete almeno che cos’erano queste deportazioni del 1939 e 1940? Sapete che
vi era un milione e mezzo di uomini, di donne e di bambini che sono stati deportati fino
5 Nel 1944 si pensava che nelle fosse di Katyń si trovassero i corpi di circa 10-11 mila ufficiali polacchi (mentre le vittime ritrovate sono “solo” 4421). Ancora non si sapeva che i massacri erano
avvenuti in varie località.
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Sull’insurrezione di Varsavia...
ai confini dell’URSS e che una parte enorme di questi deportati è già morta di fame, di
freddo, di miseria? Che non vi è quasi nessun polacco che non vi abbia perso parenti
stretti?
Una Nazione di trenta milioni è votata ad una definitiva distruzione biologica da
due Stati totalitari di 80 e di 180 milioni. Questo paese, che per primo ha detto «no» a
Hitler, con una capitale ridotta in ceneri, non può nemmeno farsi ascoltare, la sua bocca
sanguinante deve essere ancora imbavagliata, e si dice che sia necessario in nome della
causa comune. Ma qual è questa causa comune? Dopo che si è sotterrata la Carta Atlantica e che si vuol regalare alla Russia metà del territorio polacco, dandoci promesse di
ricompense dalla parte dell’ovest, come se la Patria fosse un armadio che si trasporta
di posto in posto.
Ci ricorderemo sempre, con commossa riconoscenza, che vi sono stati degli aviatori britannici, sud-africani, australiani, americani, che sono morti tentando di portare
soccorso alla capitale della Polonia.
Siamo oggi informati che Churchill ha reso omaggio solenne ai difensori di Varsavia alla Camera dei Comuni. Siamo riconoscenti per queste belle parole ripetute dalla
stampa mondiale, che «Varsavia ha subito sofferenze e privazioni che nulla sorpassa,
anche fra tutte le disgrazie di questa guerra».
Ma non salveranno più Varsavia. Vi è un detto polacco che dice: «Utile come
incenso per i morti».
E poi queste commoventi parole alla Camera dei Comuni non erano accompagnate
da alcuna prova di comprensione per il senso, il fine di questi combattimenti: la libertà
e l’integrità della Repubblica.
Capiamo bene come gli uomini politici abbiano le loro grandi e le loro piccole combinazioni, e come la tattica imbrogli spesso gli scrittori, il cui compito è stato sempre
quello di dire la verità; sono loro che dicevano: «Accuso», che «Non potevano tacere»,
che erano «Al disopra della mischia». So bene dove si trovano quelli che sono rimasti
in Germania, in Russia, in Polonia, se ve ne sono ancora che non sono stati uccisi. Sono
tutti votati al silenzio, torturati nei campi, dall’Olanda fino al Pacifico. Ma dove sono i
grandi scrittori inglesi, americani? Perché tacciono? Ammetto che vi sia poca materia nel
dramma polacco per un brillante paradosso di Bernard Shaw, ma dov’è il sottile Aldous
Huxley, Sinclair Lewis, [Theodore] Dreiser?
Silenzio completo dei grandi scrittori. Sono anch’essi ridotti al silenzio dalla censura?
Capisco che sia scomodo parlare oggi della Polonia, che è infinitamente più facile tacere o
ripetere riproduzioni semplicistiche o false sulla Polonia, paese dei «landlords» e dei reazionari. Queste voci così comode, accettate oggi da una parte della stampa mondiale detta
progredita, sarebbero un’inciviltà sotto la penna di uno scrittore degno di questo nome.
Forse mai la mancanza della Francia, questo vuoto che ha formato la sua disfatta
nel 1940, ci apparve più evidente e più tragica.
Ma è a voi, scrittori e pensatori francesi che tornate oggi nella vostra patria ferita,
provata ma liberata, nella vostra Parigi quasi intatta, è a voi che si rivolgono la nostra
speranza e la nostra fiducia, la nostra speranza che rifarete la coscienza mondiale,
continuerete una tradizione che è la vostra. Non riuscirete a ricreare l’autorità della
Francia se non lottate ugualmente per le Nazioni che difendono e incarnano gli stessi
principi di civiltà.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
La causa della Polonia e di tutti i popoli dell’Europa come essa assoggettati, dopo
cinque anni di guerra mondiale, è una causa della morale e della coscienza del mondo.
Se per un giuoco di così dette esigenze politiche, la Francia, come gli altri, si
disinteresserà della loro sorte, cesserete dall’essere agli occhi del mondo ciò che eravate — gli apportatori di un patrimonio comune, i difensori delle idee universali. Partecipereste col vostro silenzio alla distruzione, forse per sempre, del prestigio, così
caro a noi tutti, del prestigio intellettuale e morale della Francia nel mondo.
Józef Marian Franciszek Czapski (1896-1993), artista polacco, pittore, saggista.
Durante la seconda guerra mondiale subì la prigionia nei campi di concentramento sovietici. Rilasciato nel 1941, raggiunge l’armata polacca in URSS del generale Władysław
Anders, per incarico del quale partì senza esito alla ricerca degli ufficiali polacchi
“scomparsi” (4 mila dei quali ritrovati poi a Katyń). Esperienze che raccontò in Ricordi
di Starobielsk (Roma 1945) [prima edizione polacca: Oddział Kultury i Prasy 2 Korpusu,
1944] e in Na nieludzkiej ziemi [Terra disumana] (Instytut Literacki, 1949). Nel 194344 combatté col secondo Corpo polacco in Italia. Nel 1946 emigrò a Parigi, dove fu tra
i cofondatori di «Kultura», la principale rivista dell’emigrazione polacca. Nel 1950 fu tra
gli organizzatori del Congresso della libertà della cultura a Berlino.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Lotte per il monumento in ricordo dell’insurrezione
di Varsavia del 19441
di Jacek Zygmunt Sawicki
Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone
6 luglio 1945. Nel corso di una grande manifestazione alla centrale elettrica di
Varsavia, gli operai lanciano l’idea di costruire un monumento all’insurrezione di Varsavia e inviano un appello in proposito al nuovo governo e alle nuove autorità cittadine. Tre giorni dopo, la stampa pubblica la delibera del plenum del Consiglio dei
sindacati concernente la colletta di denaro per il — come fu allora chiamato — “Monumento agli Eroi della capitale”. È anche indetto un concorso per il progetto architettonico…
Nel 1946 nasce un’altra idea: formare un tumulo con le macerie della capitale
(fino a 150 metri di altezza). Ma prevale l’iniziativa del giornale del pomeriggio “Express
Wieczorny”, che nel luglio del 1946 torna all’idea del monumento. Si ottiene per questo scopo la considerevole somma di oltre un milione di złoty, frutto di donazioni.
Sempre nel 1946, viene eretto il primo “Monumento all’Insurrezione di Varsavia”,
ma non a Varsavia. Fin dall’inizio la lotta per i simboli legati all’insurrezione oltrepassa
i confini della capitale. Questo estendersi della questione oltre la città è favorito dall’esodo degli abitanti di Varsavia. Ne è un esempio l’iniziativa di costruire un “Monumento all’Insurrezione” a Słupsk: con il sostegno del reverendo Jan Zieia, l’idea viene
lanciata da ex insorti che, dopo la guerra, si sono stabiliti in Pomerania, sulle rive del
Baltico. Il monumento è inaugurato il 15 settembre 1946.
«Tombe coperte di erbacce»
Anche a Varsavia sembra che tutto vada nella direzione migliore. È in corso un vivace dibattito sulla forma, sull’ubicazione e sul nome del monumento. Quest’ultimo
aspetto è fluttuante: in un primo momento si parla di un monumento “all’Insorto”, più
tardi di un monumento “ai Combattenti di Varsavia”, infine di un monumento “ai Combattenti per la Libertà e per la Democrazia”. Tuttavia, verso la fine del 1946, l’argo-
1 JACEK ZYGMUNT SAWICKI, Walka o pomnik, “Tygodnik Powszechny”, 20 luglio 2009. Si ringrazia
l’autore e la rivista per aver autorizzato questa traduzione e pubblicazione in italiano
(http://tygodnik.onet.pl/35,0,30793,walka_opomnik,artykul.html).
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Lotta per il monumento...
mento viene “silenziato” dall’alto. L’anno dopo, dell’iniziativa si ricorda soltanto il
quotidiano d’opposizione “Gazeta Ludowa”, organo del PSL-Polskie Stronnictwo Ludowe
[Partito popolare polacco]. A dire il vero, per via dei molteplici interrogativi che essa
suscita, della questione si occupa il congresso dell’Unione dei partecipanti alla lotta armata per l’indipendenza. È anche costituito un Comitato per la costruzione del monumento di cui sono membri onorari il presidente della Polonia Bolesław Bierut, il primo
ministro Józef Cyrankiewicz e il generale Marian Spychalski; presidente del Comitato è
nominato il generale Franciszek Jóźwiak (partigiano dell’Armia Ludowa, l’Esercito popolare di liberazione). La cerimonia della posa della prima pietra viene programmata
per il 1° settembre 1948, in modo che i riferimenti all’insurrezione siano il meno possibile diretti.
Tutto sommato, i comunisti sono riusciti a risolvere la questione. Per il momento.
Dopo una pausa di qualche anno — quando per aver fatto parte dell’Armia Krajowa (Esercito nazionale di liberazione2) si poteva finire in galera — il primo settembre
1948 ebbe nuovamente luogo una cerimonia al cimitero Powązki. «La forza con la quale
ai tempi del comunismo si volevano cancellare dalla memoria varie questioni — scrive
Marcin Kula nelle sue riflessioni sulla memoria e l’oblio — conferma in modo inequivocabile come, in fin dei conti, le cose fossero molto radicate nella memoria. Molto spesso
risultava che tutto ciò che era azzittito fosse perfettamente ricordato da tutti coloro
che dovevano ricordare».
Uno dei capi dell’insurrezione, Jan Mazurkiewicz “Radosław”, dopo essere uscito
di prigione, diresse i suoi primi passi a Powązki. Con amarezza avrebbe scritto più tardi:
«Le tombe coperte da erbacce, croci marcite e ribaltate, soprattutto sulle tombe di
“Parasol”, “Miotła” e “Żywiciel”, il monumento pieno di crepe: cadono le lastre dallo
zoccolo di granito, le catene tutte intorno rotte, nell’insieme una spaventosa visione
di abbandono e trascuratezza».
L’insurrezione ovvero un episodio
Le cose sarebbero cambiate. Nel 1956, sull’onda del “disgelo”, la stampa iniziò a
pubblicare le numerose lettere alla redazione che illustravano le emozioni della moltitudine degli ex soldati dell’Armia Krajowa e di altre organizzazioni indipendentiste. Il
dibattito in corso costituiva per loro il ritorno nella società e la restituzione dell’onore
2 L’AK-Armia Krajowa [Esercito nazionale o dell’interno] fu il principale movimento di resistenza
clandestina nella Polonia occupata prima dalla Germania nazista e poi dall’URSS, e fu anche una
delle più grandi organizzazioni di resistenza europee durante la seconda guerra mondiale. L’Armia
Krajowa costituì il braccio armato di quello che successivamente fu definito lo Stato clandestino
polacco. Nominalmente apolitico, l’AK rifletté soprattutto gli orientamenti nazionalisti e anticomunisti dei suoi membri, che tesero ad accentuarsi con il crescere della minaccia comunista. I comunisti crearono invece la GL-Gwardia Ludowa [Guardia popolare], dal luglio del 1943 denominata
AL-Armia Ludowa [Esercito popolare].
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
e della giustizia. Ciò venne suffragato da una successiva valanga di denaro spontaneamente indirizzata alle redazioni degli organi di stampa di Varsavia e dagli interventi
che invitavano alla costruzione del monumento agli insorti della capitale.
Alla vigilia dell’anniversario dell’insurrezione, il 31 luglio 1956, la stampa diffuse
un’informativa sulla delibera emanata dal Consiglio nazionale della capitale, riguardante la costruzione del “Monumento agli Insorti di Varsavia” e la costituzione a tal
fine di un Comitato sociale. «In questa maniera — si spiegava — sarà onorata la memoria dei soldati della Guardia e dell’Armia Ludowa, dell’Armia Krajowa e dei Battaglioni
contadini, dei reparti del RPPS (Partito operaio dei socialisti polacchi), dei combattenti
del Ghetto, delle vittime del terrore, del sangue dei soldati dell’esercito polacco del
1939 e del 1945 e dei soldati dell’esercito sovietico che parteciparono alla liberazione
della capitale; sarà onorata la lotta eroica di tutti gli abitanti della capitale contro la
violenza del nemico». Annuncio veniva fatto che il monumento sarebbe sorto nel quindicesimo anniversario dell’insurrezione.
A chi dedicare il monumento — la questione continuava a essere sollevata, più
volte. Il potere si rendeva conto delle aspettative sociali. Per questa ragione, nascondeva il fatto di stare dietro a tutto. Perciò, quattro giorni dopo, nelle notizie delle
agenzie di stampa riguardanti la prima seduta del Comitato sociale si poté leggere che
solo nel corso del dibattito era stato deciso di costruire «un monumento in onore dei
patrioti caduti a Varsavia negli anni 1939-1945 e di non erigere un monumento o monumenti dedicati ai singoli episodi delle battaglie che si sono svolte a Varsavia, per
esempio alla sola insurrezione».
La barricata rimossa
Passò il 1959. Nel 1960 le autorità della PRL-Polska Rzeczpospolita Ludowa [Repubblica popolare di Polonia] continuavano a comportarsi in modo da limitare le celebrazioni dell’anniversario dell’insurrezione. Sulla stampa fu ripreso unicamente il
dibattito intorno alla costruzione del “Monumento agli Eroi di Varsavia”. «Il monumento
sarà costruito col denaro della società — ricordava “Kurier Polski” — donato con grande
generosità dalle singole persone. Nella questione del monumento è stato investito un
enorme potenziale emotivo degli abitanti di Varsavia, ma non solo. E sarebbe oltremodo sbagliato se le decisioni prese eludessero tali sentimenti umani, se si volesse realizzare un progetto tale da fargli crescere intorno un’atmosfera di ostilità».
Questa fu la risposta alla decisione di realizzare il controverso progetto di Marian
Konieczny: rappresentava la figura di una fanciulla seminuda con in mano una spada che
simboleggiava Nike. Le autorità non acconsentirono al fatto che nella scultura commemorativa ci fossero riferimenti diretti all’insurrezione di Varsavia; dal progetto di Konieczny fu cancellato il motivo della barricata.
Per la società, che associava il monumento al nome iniziale degli “Insorti di
Varsavia”, tale proposta era inaccettabile. Così come lo erano le iniziative dietro le
quinte, come per esempio destinare il denaro raccolto alla costruzione di una delle
scuole del “Millennio”, di una Casa del veterano o di un ospedale. Ebbe inizio un’ondata di proteste inviate alla stampa o addirittura all’Ufficio delle lettere del Comitato
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Lotta per il monumento...
centrale del POUP [Partito operaio unificato polacco]. Il dibattito condotto in quell’occasione, a causa delle limitazioni poste agli interventi, assunse carattere ora serio
ora derisorio. Per esempio, Erik Lipiński pubblicò nel calendario illustrato “Stolica” [La
capitale] per l’anno 1961 l’umoristico Varsavia nel 2001: «È stato indetto il nuovo, trentottesimo concorso per il monumento agli eroi di Varsavia. Il primo premio è andato al
progetto con lo stemma “Non oggi, allora domani”: rappresenta uno scoiattolo disteso
sulla schiena con una nocciola tra le zampe. Come si vuole dimostrare, nessuno dei
membri della giuria e dei partecipanti al concorso ha più idea di che cosa si tratti nel
suddetto concorso» (il testo finì al Comitato centrale del POUP come segnale degli stati
d’animo diffusi).
Per elevare il rango delle celebrazioni della festa del 22 luglio — allora una delle
principali feste della PRL — il 20 luglio si provvide a inaugurare il monumento di Konieczny,
chiamato il “Monumento agli Eroi di Varsavia”, cercando volutamente di far perdere la
sua genesi, ossia l’iniziativa di onorare gli insorti di Varsavia. E nuovamente cadde una
coltre di silenzio.
L’agente “R-70” riferisce
Quando, nel 1980, nacque Solidarność, in contemporanea cominciarono a sorgere
strutture parallele, alternative allo Stato comunista, e fiorì l’editoria clandestina. All’epoca i comunisti persero il controllo su molte aree sociali. Nello stesso tempo, negli
anni 1980-81, si andò accentuando la polarizzazione negli ambienti dei combattenti: la
distanza nei confronti delle celebrazioni ufficiali diveniva manifesta, mentre nelle
chiese crescevano i partecipanti alle messe patriottiche.
Nel novembre 1980, nell’atmosfera di euforia, si tornò all’idea del “Monumento
all’Insurrezione”. L’iniziativa nacque nel circolo territoriale del PTTK [Associazione polacca turistico-paesaggistica] del centro storico della capitale. Nel febbraio 1981, si
diede inizio alla costituzione del Comitato della capitale per la costruzione del monumento all’insurrezione di Varsavia del 1944; si formò anche il Comitato d’onore. Le autorità cercavano di disturbare, ma al loro operato mancava la determinazione di un
tempo.
Dal settembre 1981 i servizi di sicurezza cominciarono a ricevere informazioni precise riguardanti il monumento. Le trasmetteva un loro collaboratore segreto “R-70”
che era riuscito ad insinuarsi nell’ambiente dei combattenti e al quale era stato addirittura proposto di entrare a far parte del Comitato per la costruzione del monumento.
Nel frattempo, poiché l’idea del monumento rispondeva alle urgenze sociali, il progetto si conquistò un ampio appoggio; pertanto non fu più possibile insabbiarlo. Si poteva tutt’al più mettere in moto una ennesima manipolazione ma anche questa a tempo
determinato.
Il progetto si arricchì subito di ulteriori iniziative. Il 1° ottobre 1981, gli artisti organizzarono, nella sala dei congressi del palazzo della Cultura, un «Grande concerto di
Varsavia». Nei corridoi venne allestita una vendita di opere d’arte. I soldi raccolti e gli
onorari furono destinati alla costruzione del monumento. In precedenza, il 1° settembre, a Varsavia era iniziata una colletta pubblica per lo stesso scopo.
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Ambiti di libertà
Più tardi, già durante lo stato di guerra, le autorità acconsentirono alla ripresa ex
novo dell’idea di erigere un monumento o di creare un museo dell’insurrezione, a condizione che non si trattasse di iniziative intese contro il sistema, che la gente le accettasse e che si potesse sfruttare tutto ciò per pacificare gli umori sociali. Il principio
era anche quello di “cogliere l’occasione” per rafforzare le tradizioni della sinistra. Per
esempio, venne dato al direttivo dello ZBoWiD [Unione dei combattenti per la libertà
e la democrazia] il sostegno per realizzare, nel febbraio del 1982, un progetto di costruzione del “Monumento ai Caduti nella Difesa del Potere Popolare”, comunemente
chiamato “obelisk” [obelisco].
Nel 1983 (lo stato di guerra era stato appena abolito il 22 luglio) le celebrazioni
dell’anniversario dell’insurrezione si divisero — così com’era successo negli anni precedenti — fra cerimonie ufficiali e cerimonie indipendenti. Le cerimonie al cimitero
Powązki richiamarono così tanta folla che, nel documento del reparto informazione del
Comitato centrale del POUP, si parlava di «centinaia di migliaia di abitanti di Varsavia
venuti quel giorno a rendere onore alle tombe degli insorti».
All’epoca si aprì la possibilità di realizzare nuove iniziative sociali riguardanti la
memoria dell’insurrezione. A quanto pare con una sola riserva: che non si andasse al di
là del significato locale. In tal modo si riuscì a collocare in via Podwale il “Monumento
al Piccolo Insorto”, realizzato secondo il progetto di Jerzy Jarnuszkiewicz. Si trattò di
un’iniziativa degli scout della divisione “Eroi di Varsavia” dell’Unione degli scout polacchi, i quali si riallacciarono all’idea di Jan Brzechwa del 1948. Si potrebbe aggiungere che questo monumento si inseriva nell’ambito della libertà concessa dalle autorità:
infatti, già da anni si poteva parlare della presenza di bambini nell’insurrezione. Ma
nessuno si era reso conto della portata emotiva di questa simbologia. Poco dopo, in via
Dworkowa, venne inaugurato un monumento che commemorava i soldati della divisione
“Baszta”, trucidati dai tedeschi. L’anno dopo, nel parco “Mokotowski”, fu inaugurato
il monumento “Mokotów che combatte 1944” (entrambi realizzati secondo il progetto
di Eugeniusz Ajewski).
Contrasti sul nome
A cavallo tra il 1983 e il 1984, scoppiò una querelle intorno al nome contestato del
“Monumento all’Insurrezione di Varsavia”. Le autorità utilizzarono come pretesto, tra
l’altro, la delibera del direttivo varsaviano dello ZBoWiD approvata nell’ottobre 1981 e
firmata dal presidente del Circolo degli ambienti della resistenza, l’ex insorto Leszek
Jaskółowski, nella quale si leggeva: «Il nome del monumento va cambiato in “Monumento agli Insorti di Varsavia”. (…) Il nome del monumento ha un significato essenziale
(…). L’insurrezione di Varsavia è solo la definizione di un fatto storico oggettivo, mentre l’elemento che dovrebbe essere onorato secondo le intenzioni dei progettisti è
l’eroica lotta dei soldati dell’insurrezione e di tutta la popolazione di Varsavia».
Le autorità definirono la propria posizione in una nota del Comitato centrale del
Partito del giugno 1983. Vi si spiegava che il nome “Monumento all’Insurrezione di
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Lotta per il monumento...
Varsavia” avrebbe suggerito di modificare «la fondamentale posizione politica nei confronti di questo fatto avvenuto nella seconda guerra mondiale»; e tale intenzione da
parte delle autorità — come si poteva ben immaginare — non c’era.
Secondo le ottimistiche impostazioni del 1981, il monumento si sarebbe dovuto
erigere in occasione del quarantesimo anniversario dell’insurrezione. Il Comitato sociale risolse addirittura il problema dell’ubicazione e indisse un concorso architettonico.
Ma una successiva nota del marzo del 1984, messa a punto dalla Sezione propaganda del
Comitato interno del Partito, segnalò che le autorità non avrebbero ceduto e suggerì la
direzione che si sarebbe dovuta prendere per raggiungere una soluzione auspicabile: «La
questione del nome del monumento suscita molte controversie. La stragrande maggioranza dei membri del Comitato per la costruzione del monumento si schiera a favore del
nome “Monumento all’Insurrezione di Varsavia”. Tale stato di cose provoca reazioni
negative in parte degli ambienti di Varsavia vicini allo ZBoWiD e soprattutto agli ex
soldati dell’AL (Armia Ludowa) e della GL (Gwardia Ludowa), ma anche al Circolo degli
ambienti della resistenza e dei soldati dell’insurrezione di Varsavia presso il direttivo
varsaviano dello ZBoWid. Tra l’altro, proprio questi ambienti hanno lanciato la proposta che il monumento portasse il nome di “Insorti di Varsavia” oppure di “Soldati dell’Insurrezione di Varsavia”. Il compagno Włodzimierz Sokorski [Presidente dello ZBoWiD]
ha fatto diversi tentativi a tale proposito, ottenendo l’appoggio del generale Mazurkiewicz “Radosław”. La questione non è stata risolta».
In dirittura d’arrivo
Mazurkiewicz spiegò più tardi che la sua intenzione era quella di salvare l’iniziativa che le autorità cercavano di soffocare. In parte egli voleva anche difendere la Commissione nazionale della resistenza presso lo ZBoWiD, da lui diretta, la quale
considerava l’iniziativa del Comitato sociale come un attacco al suo operato. Il conflitto fu risolto per via amministrativa.
Il 17 luglio 1984, prima delle celebrazioni per il quarantesimo anniversario dell’insurrezione, l’attività del Comitato sociale venne sospesa. Al suo posto fu chiamato
il direttivo provvisorio del Comitato per la costruzione del monumento agli eroi dell’insurrezione di Varsavia del 1944, la cui direzione venne affidata a Mazurkiewicz.
A quell’epoca, il Settore propaganda e agitazione del Comitato interno e il Settore
ideologico del Comitato centrale del Partito rilasciarono un documento comune che definiva il programma delle celebrazioni per la muratura dell’atto di erezione sotto il “Monumento agli Eroi dell’Insurrezione di Varsavia”. Si decise che alla cerimonia in piazza Krasiński
avrebbe preso parte il primo segretario del Comitato centrale del POUP e presidente del
Consiglio dei ministri, Wojciech Jaruzelski, nonché i rappresentanti del POUP e dello Stato.
Mazurkiewicz avrebbe dovuto apporre la firma sotto l’atto di erezione a nome dei combattenti. Venne rifiutata la proposta dei combattenti di benedire il luogo destinato al monumento. Le autorità giustificarono tale rifiuto con la volontà di «non costituire — come si
leggeva nel documento del Comitato centrale — un precedente gravido di conseguenze a
lungo raggio». Alla fine, una modesta cerimonia di benedizione ebbe comunque luogo lo stesso
giorno ma senza partecipazione del pubblico, soltanto in presenza dei servizi di sicurezza.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Negli anni successivi i progressi nella costruzione del “Monumento agli Eroi
dell’Insurrezione di Varsavia” suscitarono attenzione e preoccupazione. All’indirizzo del
Comitato giungevano continuamente voci che criticavano il progetto di Wincenty Kućma
in via di realizzazione e che chiedevano la convocazione di un nuovo concorso. Alla fine
furono i combattenti stessi a porre fine alla controversia. Nel marzo del 1988 venne
pubblicizzato il punto di vista comune dei presidenti di quarantatre ambienti legati
all’insurrezione, che rappresentavano oltre ventimila membri dello ZBoWiD di Varsavia.
I presidenti lanciarono un appello di appoggio ai lavori ancora in corso del monumento,
spiegando che esso avrebbe costituito il simbolo della fine del periodo dei torti, delle
umiliazioni, delle persecuzioni e delle errate valutazioni che in passato avevano colpito
i soldati di tutte le formazioni dell’esercito clandestino; e avrebbe portato a compimento ciò che si era aspettato per oltre quarant’anni.
Il monumento fu inaugurato il 1° settembre 1989, ormai nella nuova situazione
politica.
Jacek Zygmunt Sawicki è storico e cineasta, lavora presso l’IPN [Istituto della memoria nazionale]. Autore del film documentario sul generale Pełczyński e del libro Bitwa
o prawdę. Historia zmagań o pamięć Powstania warszawskiego 1944-1989, Wydawnictwo DiG, Warszawa 2005.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Festeggiare il 1989 significa anche ricordarsi del 1939. Lettera degli
intellettuali tedeschi per il 70° anniversario del patto Hitler-Stalin del
23 agosto 19391
di Marianne Birthler, Joachim Gauck, Anna Kaminsky
Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone
In tutta l’Europa celebriamo il ventesimo anniversario del tramonto delle dittature
comuniste dell’Europa centrorientale. Cerimonie e conferenze, mostre e film ricordano
il coraggio di molte persone che, con pacifiche proteste, non solo hanno abbattuto la
dittatura, ma hanno anche gettato le fondamenta per la democrazia e hanno contribuito
ad eliminare la divisione della Germania e dell’Europa.
La seconda guerra mondiale è stata la causa della divisione e della prigionia
comunista dell’Europa orientale e centrale durata oltre quattro decenni. Per questa
ragione, con vergogna e tristezza, ricordiamo a noi stessi il giorno 1° settembre 1939
quando la Germania nazista invase la Polonia. Otto giorni prima la Germania e l’Unione
Sovietica avevano firmato quello scellerato patto tedesco-sovietico in virtù del quale
entrambi gli Stati totalitari si erano spartiti tra loro i paesi baltici, la Polonia, la Finlandia e la Romania.
L’invasione tedesca e sovietica della Polonia, nel settembre 1939, è stata il preludio di una guerra devastante, senza precedenti, mediante la quale i tedeschi hanno
inflitto ai loro vicini nell’intera Europa, soprattutto in Polonia, ma anche in Unione
Sovietica, sofferenze indicibili.
Dopo la liberazione dell’Europa e della Germania dal nazismo, in tutti gli Stati era
diffusa la speranza che il futuro sarebbe stato riempito dal vivere in democrazia e
libertà. Molti, tuttavia, provarono un’amara delusione.
L’Unione Sovietica introdusse un nuovo regime negli Stati dell’Europa centrorientale, indeboliti dalla guerra e dai governi nazisti, e in una parte della Germania. Ciò
ebbe conseguenze catastrofiche per le società, per le economie, per le culture, come
anche per una moltitudine di persone che subirono persecuzioni oppure persero la vita
in quanto cercarono di opporsi ai comunisti.
Sui tedeschi grava la grande responsabilità per lo sterminio degli ebrei europei, per
1
Das Jahr 1989 feiern, heißt auch, sich an 1939 zu erinnern! Eine Erklärung zum 70. Jahrestag des
Hitler-Stalin-Pakts am 23. August: l’appello — disponibile in tedesco, inglese, polacco, russo,
ceco, ungherese — fu redatto il 19 agosto 2009 per iniziativa di Marianne Birthler, Anna Kaminsky,
Ulrich Mählert, Wolfgang Templin, e raccolse oltre 300 firme di politici, studiosi, artisti, tra cui
quelle di Rita Süssmuth e Joachim Gauck. Vedi: www.23august1939.de.
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Festeggiare il 1989, significa anche ricordarsi del 1939!...
la persecuzione e l’eccidio di rom, omosessuali, disabili e di tutti coloro che i nazisti
ritenevano elementi asociali, oppure di fedeli di altre confessioni; e anche per i milioni
di persone che sono perite in guerra.
Siamo consapevoli — anche se ciò è doloroso — che se non ci fosse stata la seconda
guerra mondiale scatenata dai tedeschi, non ci sarebbero stati i regimi comunisti in Europa centrorientale né le divisioni del continente e della Germania.
Quando oggi, nel 2009, gettiamo uno sguardo sulla storia dell’Europa e della Germania del XX secolo, lo facciamo memori del disastro procurato dal nazionalsocialismo.
Ma al tempo stesso siamo felici che l’odierna Germania sia a pieno diritto un membro
rispettato della comunità delle nazioni europee.
Con gratitudine e rispetto pensiamo nel contempo a tutti coloro che, nell’arco di
questi quattro decenni dopo il 1945, osarono, nonostante l’enorme rischio, lanciare la
loro sfida ai dittatori comunisti chiedendo libertà e democrazia. Molti pagarono ciò con
la vita. Le rivolte nella Repubblica Democratica Tedesca, in Ungheria, in Cecoslovacchia,
come anche quelle che scoppiavano in continuazione in Polonia, per quattro decadi
hanno tenuto vive le speranze di libertà e di democrazia.
Non dimenticheremo che, soprattutto i polacchi, combattendo per la vostra e la
nostra libertà, hanno inferto i primi colpi al sistema comunista. Ringraziamo anche i
membri di Carta 77 cecoslovacca che ci hanno esortato a vivere nella verità. Ricordiamo tutti quelli che hanno spianato la strada alla democrazia in Ungheria e che nell’estate 1989 hanno aperto la cortina di ferro.
Molto prima della perestrojka, i dissidenti sovietici si erano impegnati nella difesa
dei diritti dell’uomo.
Infine, ringraziamo nella stessa misura tutte le persone che, in Occidente, non
hanno mai voluto rassegnarsi all’esistenza della cortina di ferro e delle dittature comuniste e che hanno preteso l’osservanza dei diritti dell’uomo dando il loro appoggio
ai dissidenti. La rivoluzione pacifica da essi condotta ha permesso ai paesi dell’Europa
centrorientale di riacquistare la libertà perduta cinquant’anni fa, la sovranità nazionale
e il diritto all’autodeterminazione. Proprio queste rivoluzioni hanno causato la fine
della divisione delle due Germanie e dell’Europa.
Quando, dopo la caduta della dittatura del SED-Sozialistische Einheitspartei Deutschlands [Partito socialista unificato di Germania], abbiamo iniziato l’unificazione delle
due Germanie, la fiducia dataci dai nostri vicini è stata per noi un dono prezioso. Come
conseguenza della rivoluzione pacifica, tutti i tedeschi, per la prima volta nella loro
storia, possono vivere in libertà, democrazia e prosperità entro frontiere riconosciute,
godendo del rispetto e dell’amicizia dei vicini.
Come il 1939, così anche l’anno 1989 è divenuto, sia pure in maniera molto diversa, l’anno del destino europeo. L’Europa libera e democratica dev’essere consapevole della propria storia. Ha bisogno di serbare memoria dell’epoca comunista e del
suo crollo. Il primo passo è stato compiuto: in aprile il Parlamento europeo per la prima
volta ha riconosciuto tale responsabilità.
L’Europa deve continuare ad andare avanti per questa strada e ha bisogno di un’attiva e responsabile cultura della memoria. Grazie ad essa le future generazioni diventeranno più vigili e reagiranno nel caso in cui nel mondo dovesse riapparire un regime
autoritario.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Tra i primi firmatari
Marianne Birthler, Bundesbeauftragte für die Stasi-Unterlagen (BStU) (Berlin), Dr.
h.c. Joachim Gauck, Gegen Vergessen — Für Demokratie (Berlin), Dr. Anna Kaminsky,
v.i.S.dP., Bundesstiftung zur Aufarbeitung der SED-Diktatur (Berlin), Hans Altendorf,
BStU (Berlin), Dr. Andreas H. Apelt, Deutsche Gesellschaft (Berlin), Prof. Dr. Jörg
Baberowski, Humboldt-Universität zu Berlin (Berlin), Prof. Dr. Arnulf Baring, Historiker, Publizist (Berlin), Michael Beleites, Landesbeauftragter für die Stasiunterlagen
(Dresden), Parlamentarischer Staatssekretär Dr. Christoph Bergner, Bundesministerium
des Innern (Berlin), Prof. Dr. Dieter Bingen, Deutsches. Polen-Institut (Darmstadt),
Wolfgang Börnsen (Bönstrup) MdB, Schleswig-Holstein, Staatssekretär a.D. Klaus
Bölling, Publizist (Berlin), Dr. Martin Böttger, BStU (Berlin), Heidi Bohley, Verein ZeitGeschichte(n) (Halle/Saale), Hansgeorg Bräutigam, Richter i. R. (Berlin), Dr. Matthias
Buchholz, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Dr. Karl Corino, Journalist, Literaturkritiker (Tübingen), Michael Cramer, Mitglied des Europaparlaments (Berlin), Eberhard
Diepgen, Regierender Bürgermeister a.D., Gegen Vergessen — Für Demokratie (Berlin),
Dr. Lothar Dittmer, Körber-Stiftung (Hamburg), Dr. Klaus von Dohnany, Bundesminister
und Erster Bürgermeister a.D. (Hamburg), Prof. Dr. Jost Dülffer, Universität zu Köln
(Köln), Prof. Dr. Rainer Eckert, Zeitgeschichtliches Forum (Leipzig), Oberst Dr. Hans
Ehlert, Militärgeschichtliches Forschungsamt (Potsdam), Ruth Ellerbrock, Landeszentrale für politische Bildung Berlin (Berlin), Jürgen Engert, Journalist (Berlin), Rainer
Eppelmann, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Wieland Förster, Künstler
(Oranienburg), Annemarie Franke, Stiftung Kreisau (Breslau), Dr. h.c. Karl Wilhelm
Fricke, Publizist (Köln), Ralf Fücks, Heinrich-Böll-Stiftung (Berlin), Christian Führer,
Pfarrer i. R. (Leipzig), Prof. Dr. Hansjörg Geiger, Staatssekretär a.D. (Berlin), Prof. Ines
Geipel, Schriftstellerin (Berlin), Ute Gramm, Bürgerkomitee Sachsen-Anhalt e.V.
(Magdeburg), Prof. Hans Hendrik Grimmling, Maler (Berlin), Dr. Robert Grünbaum,
Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Monika Grütters, MdB, Stiftung Brandenburger Tor (Berlin),
Martin Gutzeit, Landesbeauftragter für die Stasi-Unterlagen
(Berlin), Dr. Helge Heidemeyer, BStU (Berlin), Oberst Dr. Winfried Heinemann, Militärgeschichtliches Forschungsamt (Potsdam), Prof. Dr. Hans-Olaf Henkel, Bank of America (Berlin), Prof. Dr. Günter Heydemann, Universität Leipzig (Leipzig), Helga Hirsch,
Publizistin (Berlin), Jan Hoesch, Roger Loewig Gesellschaft e.V. (Berlin), Irmtraut
Hollitzer und Siegfried Hollitzer, Bürgerkomitee Leipzig e.V. (Leipzig), Prof. Dr. Hans
Walter Hütter, Stiftung Haus der Geschichte der Bundesrepublik Deutschland (Bonn),
Dr. Jens Hüttmann, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Maybrit Illner, Journalistin
(Berlin), Prof. Dr. Hartmut Jäckel, Historiker (Berlin), Martin Jankowski, Schriftsteller
(Berlin), Margot Jann, Frauenkreis der ehemaligen Hoheneckerinnen (Teltow), Dr.
Karsten Jedlitschka, BStU (Berlin), Günter Jeschonnek, Regisseur und Autor (Berlin),
Prof. Dr. Ralf Jessen, Historiker (Köln), Dr. Carlo Jordan, Forschungs- und Gedenkstätte
Normannenstraße (Berlin), Matthias Jung, Wahlforscher (Mannheim), Prof. Dr. Friedrich
P. Kahlenberg, Archivar (Boppard), Siegfried T. Kasparick, Amt. Bischof in der Evangelischen Kirche in Mitteldeutschland (Wittenberg), Bettina Kielhorn, Beratungsstelle
“Gegenwind” (Berlin), Dr. Axel Klausmeier, Stiftung Berliner Mauer (Berlin), Prof. Dr.
Christoph Kleßmann, Historiker (Potsdam), Freya Klier, Schriftstellerin und Doku-
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Festeggiare il 1989, significa anche ricordarsi del 1939!...
mentarfilmerin (Berlin), Uwe Kolbe, Schriftsteller (Berlin), Klaus Kordon, Schriftsteller (Berlin), Hartmut Koschyk, MdB, Parlamentarische Geschäftsführer der CSU-Landesgruppe im Deutschen Bundestag (Goldkronach), Dr. Ilko-Sascha Kowalczuk, BStU
(Berlin), Dr. Günter Kröber, Rechtsanwalt (Leipzig), Thomas Krüger, Bundeszentrale
für politische Bildung (Bonn), Angelika Krüger-Leißner, MdB, Filmpolitische Sprecherin der SPD-Bundestagsfraktion (Berlin), Dr. Hanna-Renate Laurien, Senatorin a.D.
(Berlin), Dr. Peter Lautzas, Verband der Geschichtslehrer Deutschlands (Mainz),
Robert Lebegern, Deutsch-Deutsches Museum Mödlareuth (Mödlareuth), Doris Liebermann, Publizistin (Berlin), Dr. h.c. Erich Loest, Schriftsteller (Leipzig), Bernd Lüdkemeier, Landeszentrale für politische Bildung Sachsen-Anhalt (Magdeburg), Dr. Ulrich
Mählert, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Dr. Peter Maser, Historiker (Bad
Kösen), Markus Meckel, MdB, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Prof. Dr. Dr. h.c.
mult. Horst Möller, Institut für Zeitgeschichte (München), Helmut Morsbach, DEFAStiftung (Berlin), Jörn Mothes, Ministerium für Bildung, Wissenschaft und Kultur Mecklenburg-Vorpommern (Schwerin), Dr. Daniela Münkel, BStU (Berlin), Dr. Ehrhart
Neubert, Historiker (Erfurt), Hildigund Neubert, Landesbeauftragte für die StasiUnterlagen (Erfurt), Uwe Neumärker, Stiftung Denkmal für die ermordeten Juden Europas (Berlin), Prof. Dr. Paul Nolte, FU Berlin (Berlin), Günter Nooke, Menschenrechtsbeauftragter der Bundesregierung (Berlin), Dr. Marc-Dietrich Ohse, Deutschland Archiv
(Hannover), Hans-Joachim Otto, MdB, Vorsitzender des Ausschusses für Kultur und
Medien des Deutschen Bundestages (Frankfurt am Main), Marita Pagels-Heineking,
Landesbeauftragte für die Stasi-Unterlagen (Schwerin), Martin-Michael Passauer,
Generalsuperintendent a.D. (Berlin), Prof. Dr. Alexander von Plato, Historiker (Stade),
Gerd Poppe, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Ulrike Poppe, Evangelische Akademie zu Berlin (Berlin), Lutz Rathenow, Schriftsteller (Berlin), Steffen Reiche, MdB,
Mitglied des Bundestagsausschuss für Kultur und Medien (Potsdam), Prof. Dr. Dr. h.c.
Gerhard A. Ritter, Historiker (Berlin), Dr. Volker Rodekamp, Stadtgeschichtliches Museum (Leipzig), Prof. Lea Rosh, Kommunikation und Medien GmbH (Berlin), Dr. Sabine
Roß, Bundesstiftung Aufarbeitung (Berlin), Robert Rückel, DDR-Museum (Berlin), Prof.
Dr. Reinhard Rürup, Historiker (Berlin), Dr. habil. Jürgen Runge, Halle (Saale),
Günter Saathoff, Stiftung “Erinnerung, Verantwortung und Zukunft” (Berlin), Birgit Salamon, BStU (Berlin), Dr. Manfred Sapper, Zeitschrift Osteuropa (Berlin), Christoph
Schaefgen, Generalstaatsanwalt a.D (Berlin), Wolfgang Schenk, Hauptschullehrer i.R.
(Berlin), Dr. Dieter Schiffmann, Landeszentrale für politische Bildung Rheinland-Pfalz
(Mainz), Eva Schlichenmaier-Schenk, Studienrätin (Berlin), Franz-Josef Schlichting,
Landeszentrale für politische Bildung Thüringen (Erfurt), Cornelia Schmalz-Jacobsen,
Gegen Vergessen — Für Demokratie (Berlin), Jochen Schmidt, Landeszentrale für politische Bildung Mecklenburg-Vorpommern (Schwerin), Dr. Jürgen Schmude, Bundesminister a.D (Moers), Peter Schneider, Schriftsteller (Berlin), Andreas Schönfelder,
Umweltbibliothek (Großhennersdorf), Prof. Dr. Richard Schröder, Humboldt Universität zu Berlin (Berlin), Werner Schulz, Mitglied des Europaparlaments (Berlin), Uwe
Schwabe, Archiv Bürgerbewegung Leipzig e.V (Leipzig), Ulrich Schwarz, Journalist
(Berlin), Dr. Hannes Schwenger, Autor (Berlin), Dr. h.c. Rudolf Seiters, Präsident des
Deutschen Roten Kreuzes, Bundesminister a.D. (Berlin), Tom Sello, Robert HavemannGesellschaft (Berlin), Ilse Spittmann-Rühle, Journalistin (Köln), Friede Springer,
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Verlegerin (Berlin), Prof. Dr. Peter Steinbach, Universität Mannheim (Mannheim), Prof.
Dr. Eckart D. Stratenschulte, Europäische Akademie Berlin (Berlin), Dr. Walter Süß,
BStU (Berlin), Prof. Dr. Rita Süssmuth, Bundestagspräsidentin a.D. (Berlin), Wolfgang
Templin, Publizist (Berlin), Joachim Trenkner, Journalist (Berlin), Prof. Dr. Stefan
Troebst, Geisteswissenschaftliches Zentrum für Geschichte und Kultur Ostmitteleuropas (Leipzig), Prof. Dr. Johannes Tuchel, Gedenkstätte Deutscher Widerstand (Berlin),
Prof. Dr. Hans-Joachim Veen, Stiftung Ettersberg (Weimar), Friedrich Veitl, Verleger
(Berlin), Siegfried Vergin, Politiker (Mannheim), Prof. Dr. Bernhard Vogel, KonradAdenauer-Stiftung (St. Augustin), Dr. Hans-Jochen Vogel, Gegen Vergessen — Für
Demokratie (München), Jürgen Wahl, Publizist, ehem. Vorsitzender des AK Ostfragen
des Zentralkomitees der deutschen Katholiken (Bonn), Christoph Waitz, MdB, Deutscher Bundestag (Berlin), Rainer Wagner, Union der Opferverbände kommunistischer
Gewaltherrschaft (Berlin), Joachim Walther, Schriftsteller (Berlin), Matthias Waschitschka, Verein Zeit-Geschichte(n) (Halle), Prof. Dr. Dr. h.c. Hermann Weber, Universität Mannheim (Mannheim), Konrad Weiß, Publizist (Berlin), Reinhard Weißhuhn,
Robert-Havemann-Gesellschaft (Berlin), Dr. Gerhard Wettig, Historiker (Kommen),
Wolfgang Wieland, MdB, Sprecher für Innere Sicherheit der grünen Fraktion (Berlin),
Prof. Dr. Manfred Wilke, Historiker (Berlin), Prof. Dr. Heinrich August Winkler,
Humboldt-Universität zu Berlin (Berlin), Hans-Eberhard Zahn, Bund Freiheit der
Wissenschaft (Berlin).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Dichiarazione 1
del Presidente della Conferenza episcopale polacca S.E. Józef Michalik e del
Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi S.E. Robert Zollitsch
in occasione del 70° anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale,
il 1° settembre 1939
Traduzione a cura dell’agenzia SIR
1 — Settant’anni fa, il 1°settembre del 1939, le forze armate della Germania invasero la Polonia. Ebbe così inizio la seconda guerra mondiale. I numerosi sopravvissuti
— nel contesto del prossimo anniversario — sentiranno di nuovo rivivere i dolorosi ricordi
del tempo di violenze, abusi, sopraffazioni, i ricordi dei familiari più stretti, dei parenti
e degli amici trucidati, della patria perduta. Ricordando quel giorno, ancora una volta
ci rendiamo conto quanto le esperienze della guerra mondiale hanno profondamente penetrato la memoria delle persone e dei popoli. Alcune delle ferite tuttora restano
aperte.
La memoria della guerra oggi viene però inquadrata in un contesto nuovo. La generazione dei superstiti alla seconda guerra mondiale — dei testimoni oculari di quegli
anni — se ne sta andando. Se ne sta andando anche la generazione di coloro che hanno
avuto il coraggio di pronunciare le parole di pentimento e di perdono, aprendo un nuovo
capitolo nella storia dei nostri popoli. Oggi è quindi necessario impegnarsi affinché le
nuove generazioni acquisiscano e conservino una corretta conoscenza della seconda
guerra mondiale. Abbiamo bisogno non solo di un onesto bilancio delle atrocità del passato, ma dobbiamo anche rinunciare agli stereotipi che rendono più problematica
un’esatta comprensione di quei tempi e possono minare la fiducia costruita, nonostante
tutte le difficoltà, tra polacchi e tedeschi. Anche oggi, non meno di quanto fosse necessario nel passato, abbiamo bisogno di un impegno dinamico in favore della pace e
dell’educazione delle generazioni libere dall’odio, capaci di costruire una società basata sulla dignità dell’uomo.
Sappiamo che la pace dipende da ciascuno di noi: dalla nostra volontà, dai nostri
atteggiamenti, dalle parole e dai gesti di buona volontà, dalla capacità di riconoscere
le colpe e quella di perdonare e infine, da quanto siamo capaci di guardare al futuro
senza essere esclusivamente incatenati al passato.
1 Nata per iniziativa dei vescovi polacchi, la dichiarazione congiunta ha suscitato molto interesse
nel mondo ecclesiale e politico in Germania e in Polonia, ed è stata riportata per intero dai maggiori quotidiani nazionali. A rafforzarne il senso, domenica 30 agosto 2009 il metropolita Georg
Sterzinsky ha celebrato nella cattedrale di Berlino la messa per tutte le vittime della seconda
guerra mondiale e per la pace nel mondo, con la partecipazione dei vescovi della Polonia e della
Germania. La versione italiana del testo è stata pubblicata sul sito dell’episcopato polacco
(http://www.episkopat.pl/?a=dokumentyKEP&doc=2009825_2)
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Dichiarazione del Presidente della Conferenza episcopale...
Il ricordo e la memoria
2 — La guerra è in definitiva «il fallimento di ogni autentico umanesimo» ed «è
sempre una sconfitta dell’umanità» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXXII Giornata
mondiale della Pace 1999. Discorso al Corpo diplomatico, 13 gennaio 2003). Quelle parole si riferiscono alla seconda guerra mondiale in una maniera del tutto particolare.
Quella guerra non fu simile alle altre. La Germania nazionalsocialista scatenò in Europa
la guerra nel corso della quale sono stati apertamente negati i principi morali e i diritti
fondamentali dell’uomo. Nell’Europa Orientale quella guerra ebbe lo scopo di annientare e di rendere schiavi interi popoli. Colpiti da una politica di sterminio, finalizzata
alla sottomissione dell’intero popolo, furono soprattutto i leader della società polacca,
gli studiosi, l’intellighenzia, compreso il clero e i religiosi. Oggi ricordiamo le milioni di
vittime di quella guerra, coloro che furono perseguitati e trucidati a causa dell’ideologia razzista, della loro provenienza o della fede che professavano. Ricordiamo gli ebrei
di tutta Europa, vittime del crimine contro l’umanità qual fu l’Olocausto, i sinti e i rom,
i disabili mentali e le élite dei popoli dell’Europa Centrale e Orientale. Non possiamo
inoltre dimenticare coloro che di fronte al pericolo — sacrificando la propria vita — opposero un’attiva resistenza alle barbarie di quel tempo. Oggi la Chiesa venera alcuni di
loro come martiri. Il nostro ricordo si trasforma in preghiera per le vittime della guerra
e in preghiera per la pace: «Non più gli uni contro gli altri, non più, mai! ... Non più la
guerra» (Paolo VI, Discorso all’ONU, 4 ottobre 1945).
3 — Dopo la fine della seconda guerra mondiale le sorti dei nostri popoli hanno
preso delle strade diverse. In seguito alla decisione delle potenze vincitrici, la Polonia si trovò nell’area dell’influenza dell’Unione Sovietica il che fu recepito dalla società polacca come una nuova forma di occupazione e provocò ulteriori sofferenze,
vittime, deportazioni e trasferimenti forzati. Per la Polonia ebbe così inizio una realtà
che durò fino ai primi anni Novanta, una realtà di coercizione e isolamento che resero
più difficile lo sviluppo economico e l’accesso alle nuove tecnologie. Le sorti degli
stessi tedeschi non furono uguali. Mentre in Europa Occidentale poco dopo il 1945 iniziò la ricostruzione di una libera società civile, gli abitanti della parte orientale della
Germania (la Repubblica Democratica Tedesca) dovettero acconsentire alla superiorità sovietica e al sistema sociale comunista. Il regime vigente in Polonia promuoveva
un’ufficiale amicizia con la RDT, fomentando l’odio verso la Germania Federale con
delle minacce di un «revisionismo» tedesco alleato con «l’imperialismo» americano.
Le conseguenze dell’aggressione di Hitler le patirono anche coloro che avevano
perso le proprie case, il lascito dei loro padri. I primi fra loro furono i polacchi che
erano non solo vittime di eventi bellici e dell’occupazione del Paese da parte delle
truppe straniere ma allo stesso modo vittime delle deportazioni forzate conseguenti a
operazioni di guerra da parte della Germania nazifascista e dell’Unione Sovietica. A seguito dei piani di espansione sovietica volti a introdurre un nuovo ordine sul territorio
dell’Europa Centrale e Orientale, e come conseguenza delle decisioni delle potenze
vincitrici, numerosi tedeschi hanno ugualmente sofferto sia alla fine della guerra sia
successivamente, come profughi e deportati.
In quel contesto vogliamo ricordare il messaggio congiunto delle Conferenze epi-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
scopali polacca e tedesca del dicembre 1995: «Solo la verità ci farà liberi; la verità che
non abbellisce nulla e non trascura nulla, che non tace niente e che non cerca di pareggiare le offese» (cfr. Gv 8, 32).
In questo spirito, data la criminale aggressione della Germania nazista, l’entità
delle offese a seguito arrecate ai polacchi da parte dei tedeschi, e delle offese subite
dai tedeschi soggetti alle deportazioni forzate e alla perdita della loro patria, ripetiamo
insieme le parole: «Perdoniamo, e chiediamo perdono».
Insieme, noi vescovi tedeschi e polacchi, condanniamo i crimini di guerra. Inoltre,
concordiamo nella condanna delle deportazioni forzate senza dimenticare tuttavia l’intrinseco nesso di successione degli eventi.
4 — Con gratitudine ricordiamo oggi tutti coloro che, nonostante l’atroce esperienza, dopo la fine della guerra, lavorarono a favore della riconciliazione sia tra i nostri popoli sia tra tutti i popoli europei.
In modo particolare ricordiamo, quale indice della riconciliazione, il gesto dei vescovi polacchi che, nel 1965, durante il Concilio che volgeva alla fine, per primi tesero
la mano ai loro confratelli tedeschi. La risposta dei vescovi tedeschi testimoniava la
loro apertura al dono di un nuovo inizio. Con gratitudine ricordiamo inoltre le numerose
iniziative in favore della pace e della riconciliazione che furono lanciate dai cristiani e
da altri gruppi delle società civili, polacca e tedesca, e successivamente approfonditi
sul piano politico.
Non bisogna però tacere sul fatto che la via della riconciliazione e della collaborazione seguita da allora dalla Chiesa in entrambi i Paesi fu a volte difficile, onerosa e non
priva di malintesi. Ma questo ci è servito per imparare che gli elementi imprescindibili del
processo di costruzione del bene comune sono pazienza, delicatezza e verità.
Con immensa riconoscenza evochiamo qui il ricordo degli aiuti organizzati, e attivati spontaneamente, da parte dei cattolici e della società tedesca per gli abitanti della
Polonia i quali in seguito al crollo del sistema economico comunista nel 1980 si trovarono sull’orlo di una catastrofe umanitaria. Allora vennero allacciati i legami di solidarietà e di amicizia tra le famiglie, le parrocchie e gli altri soggetti della società civile.
Così iniziò un vero processo di avvicinamento, di conoscenza e di accettazione reciproca. Quell’incalcolabile patrimonio delle relazioni sociali dovrebbe essere con cura
conservato anche nel futuro.
Invitiamo tutti coloro che tengono alle relazioni di buon vicinato nella casa europea a cercare con sempre maggior impegno di costruire un futuro comune, senza voltarsi in maniera selettiva verso il passato. Tutti abbiamo bisogno di guardare al futuro
verso il quale vogliamo procedere senza dimenticare e senza svalutare però la verità
storica in tutti i suoi aspetti. A tale scopo sono senz’altro utili i lavori della commissione
congiunta che si occupa della stesura del manuale di storia comune: quella polacca e
tedesca. Auspichiamo che quel lavoro sia presto terminato e che il volume siffatto divenga per le giovani generazioni di Germania e Polonia una preziosa fonte di conoscenza
del nostro passato, difficile e carico di esperienze. Ci appelliamo anche agli operatori
dei mass media: giornalisti della carta stampata, della radio e della televisione affinché siano all’altezza delle responsabilità per l’atmosfera di crescente fiducia tra polacchi e tedeschi.
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Dichiarazione del Presidente della Conferenza episcopale...
La costruzione del futuro
5 — Bisogna affermare che, anche se i passi verso la riconciliazione compiuti nei
decenni passati hanno portato dei buoni frutti, le esperienze della guerra e degli anni
successivi hanno tutt’ora una notevole rilevanza nelle relazioni tra i nostri popoli. Alcune tendenze presenti nella società civile o nel mondo politico svelano i tentativi di
un uso propagandistico delle ferite inferte, volto a fomentare i risentimenti risultanti
da un’interpretazione partigiana della storia. La Chiesa, in modo costante e deciso intende pronunciarsi contro un simile allontanamento dalla verità storica, invitando a
rendere più intenso il dialogo, sempre legato alla disponibilità di sentire le ragioni dell’altra parte. I tedeschi e i polacchi debbono volgere insieme la loro attenzione verso
coloro che soffrono tutt’ora a causa delle traumatiche esperienze conseguenti alla
guerra, all’occupazione del Paese da parte di forze straniere, dalla perdita dell’eredità
e a causa del disprezzo patito dall’uomo. Tale atteggiamento verso il passato e i suoi
effetti non racchiude affatto i nostri popoli in una prigione del passato. Al contrario «la
cura del passato» di cui più volte ha parlato Giovanni Paolo II — da un punto di vista psicologico, culturale e politico — crea lo spazio nel quale, con necessaria concretezza, si
possono trovare delle risposte alle sempre nuove domande. Il ricordo non ci incatena
al passato, ci rende invece liberi per il futuro. A quell’idea è dedicata una serie di iniziative nelle quali sono impegnati congiuntamente i cattolici polacchi e tedeschi. Ne costituiscono esempio il Centro di Dialogo e di Preghiera nelle vicinanze dell’ex campo di
concentramento di Auschwitz, l’Opera Massimiliano Kolbe, così come la Fondazione
Massimiliano Kolbe sorta nel 2007.
La testimonianza della Chiesa
6 — La pace tra i popoli, basata sulla giustizia e sulla riconciliazione, non ci è
data una volta per tutte. Va costruita giorno dopo giorno, e può fiorire solo se tutti
siamo pronti a riconoscere le nostre responsabilità. Il dono della pace deve essere
vissuto nel proprio cuore come un grande valore, e solo in tal modo la pace potrà diffondersi nelle famiglie, nelle varie organizzazioni sociali, infine raggiungendo l’intera comunità delle nazioni. Solo nel clima del perdono e della riconciliazione, della
giustizia, dell’amore e della verità può svilupparsi una cultura della pace al servizio
del bene comune.
Come Chiesa siamo convinti che Dio è la più profonda Fonte della Pace. Una grande
rilevanza hanno quindi le azioni degli uomini che dal Vangelo traggono le loro più profonde motivazioni per il servizio alla vera pace. Così per prima cosa, invitiamo tutti a
pregare per la pace, invogliandoli a organizzare degli incontri che aiutino la conoscenza,
il rispetto e l’accettazione reciproci. Invitiamo i giovani a imparare la lingua dei popoli
limitrofi, e di conoscere la loro cultura con la quale condividiamo le comuni radici cristiane. Invitiamo a collaborare le istituzioni ecclesiali in Polonia e in Germania, auspicando una comune opera di evangelizzazione del mondo, per dare risposte alle sfide
umanitarie che nascono in diverse parti del nostro pianeta, soprattutto in Africa, il continente più vicino all’Europa. Le Chiese in Germania e in Polonia dispongono di un notevole potenziale di uomini e mezzi, e proprio per questa ragione la nostra collaborazione
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
può portare abbondanti frutti. Le esperienze di violenza e di abusi che ricordiamo in occasione dell’anniversario dell’inizio della seconda guerra mondiale dovrebbero in maniera particolare renderci più sensibili all’esigenza di libertà religiosa che manca a molti
cristiani nel mondo, facendoci diventare più attenti alla necessità di solidarietà con
coloro i cui diritti umani non vengono rispettati. L’ideale della cultura della pace che
deve sempre essere intesa quale cultura della vita ci spinge, come Chiesa, a impegnarci
in modo deciso a favore del sostegno alla famiglia e alla difesa della vita umana dal concepimento alla morte naturale.
Come uomini riconciliati, e che continuano il cammino di riconciliazione, vogliamo
dare al mondo contemporaneo l’esempio di una nuova cultura di pace, verità, giustizia
e amore.
7 — La riconciliazione tra i nostri popoli è un dono che possiamo apportare alla storia dell’Europa unita. Nonostante, a volte, tensioni, incomprensioni, interessi particolari non manchino mai in una famiglia di popoli, vale la pena ricordare il fondamentale
passo storico costituito dall’integrazione europea. Non possiamo lasciarci sfuggire l’opportunità di costruire la pace, offerta dall’unificazione dei popoli dell’Europa. Ci appelliamo a tutti affinché, sia attraverso la preghiera che l’azione, non cessino di
impegnarsi per la costruzione dell’unità europea. Solo così potremo continuare a beneficiare della pace.
Affidiamo la speranza di una riconciliazione definitiva tra i nostri popoli nell’ambito della comunità europea al Signore che, in Gesù Cristo, ci ha offerto la pace. Vogliamo corrispondere a quel dono, diventando noi stessi portatori di pace. Siamo
testimoni del Principe della Pace!
Che Maria Regina della Polonia cui affidiamo la sorte dei tedeschi e dei polacchi,
dell’Europa e del mondo, ci accompagni nel nostro cammino.
Varsavia-Bonn, 25 agosto 2009
Firmatari:
Józef Michalik, Presidente della Conferenza episcopale polacca
Robert Zollitsch, Presidente della Conferenza dei vescovi tedeschi
Wiktor Skworc, Presidente del Gruppo per i contatti con la Conferenza dei vescovi tedeschi
Ludwig Schick, Presidente del Gruppo per i contatti con la Conferenza episcopale polacca
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Cambia il clima, cambiano le narrazioni. Appunti su come i tedeschi
ricordano la guerra e sui contrasti polacco-tedeschi intorno al “Centro
contro le espulsioni”
di Basil Kerski
Traduzione di Alessandro Amenta
Alla fine degli anni Novanta, Erika Steinbach, deputata della CDU e presidente della
Lega degli espulsi [Bund der Vertriebenen], avanzò la proposta di creare una nuova istituzione per ricordare il destino dei profughi tedeschi dell’Europa centrorientale. A quel
tempo l’idea di un “Centro contro le espulsioni” non ebbe particolare risonanza nell’opinione pubblica tedesca e incontrò subito una reazione ferma e distaccata da parte
degli addetti ai lavori. Agli occhi degli esperti della politica storica della Repubblica Federale Tedesca questa proposta sembrava poco comprensibile, perché in base a una legge
sugli esuli, dalla fine degli anni Cinquanta lo Stato tedesco non solo finanziava la loro integrazione sociale, ma sosteneva anche diverse associazioni che si occupavano dell’eredità culturale tedesca all’est e delle sorti dei profughi tedeschi.
La reazione suscitata inizialmente dalla proposta di Steinbach riguardava allora il
senso di questa nuova istituzione. I giornalisti e gli storici tedeschi si chiedevano se non
si trattasse per caso di un tentativo di introdurre vecchi modelli interpretativi nel nuovo
paesaggio della memoria che si stava delineando a Berlino.
Dopo l’unificazione della Germania erano sorti nuovi musei storici e nuove istituzioni: il Museo degli ebrei tedeschi, il Monumento alle vittime dell’Olocausto, la Topografia del terrore o il Museo di storia tedesca.
Diffidenza nei confronti della Lega degli espulsi
La mancanza di entusiasmo nei confronti del progetto di un Centro contro le espulsioni non derivava solo dalla diffidenza verso Erika Steinbach, molto critica sul tema del
confine polacco-tedesco e sull’entrata della Polonia nell’Unione Europea. A suscitare sospetti erano anche la tradizione politica e le interpretazioni storiche della Lega di cui
era presidente. Negli anni Cinquanta e Sessanta la Lega degli espulsi rappresentava tutte
le opzioni politiche della Repubblica Federale Tedesca. Nonostante questo pluralismo,
dava una lettura controversa del Terzo Reich e della guerra. Basta dare uno sguardo alla
Carta degli espulsi, il documento fondativo dell’associazione risalente al 1950, che Erika
Steinbach cita spesso. Per la Lega degli espulsi questo documento rappresentava un gesto
di riconciliazione paragonabile addirittura alla lettera dei vescovi polacchi del 1965. Questo paragone, però, è incomprensibile. Nella Carta non c’è alcun riferimento all’Olocausto o al problema della responsabilità politica dei tedeschi per i crimini del Terzo Reich,
né c’è traccia di un’autocritica che potrebbe infondere fiducia nei vicini.
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Cambia il clima, cambiano le narrazioni...
La responsabilità collettiva della comunità
La responsabilità politica della comunità è un concetto tratto dalle famose lezioni
di Karl Jaspers del 1946. Il filosofo tedesco affermava che di fronte alla storia esistono
diverse dimensioni della colpa. Abbiamo una colpa criminale, vale a dire una responsabilità diretta per i crimini nazisti. Ma se facciamo parte di un popolo e ci identifichiamo in esso, allora siamo politicamente responsabili per tutta la comunità.
Le riflessioni di Jaspers mostrano che la resa dei conti con il passato non si risolve
in una domanda sulla propria responsabilità. Se siamo parte di un popolo o di una collettività più grande, dobbiamo porci domande che oltrepassano l’orizzonte limitato della
responsabilità personale. Questo modo di pensare è stato incarnato al meglio da Willy
Brandt. Il cancelliere socialdemocratico (vittima del Terzo Reich, emigrante, profugo e antinazista) si è inginocchiato davanti al Monumento alle vittime del ghetto di Varsavia e si
è assunto la responsabilità per i crimini commessi dai suoi connazionali. Quello di Brandt
non è stato solo il gesto di un capo di governo, è stato anche il gesto di un patriota tedesco che aveva capito bene il problema della responsabilità politica del suo popolo.
Nella Carta degli espulsi questa elevata cultura della riflessione storica che infonde fiducia nei vicini è del tutto assente. Inoltre, gli esuli tedeschi si definiscono tra
le maggiori vittime della guerra, chiedono aiuto, perdonano gli altri per crimini non
meglio identificati. È un documento molto strano e rappresenta un passo poco credibile
verso la riconciliazione.
Il popolo come ostaggio
Il documento in questione è uno dei tentativi che i tedeschi hanno fatto per venire
a patti col loro passato. Dopo una denazificazione malriuscita da parte degli alleati, la Repubblica Federale Tedesca è sorta sulla base di un certo consenso. Da un lato regnava un
atteggiamento negativo nei confronti del Terzo Reich e i dirigenti politici dei maggiori
partiti, come Adenauer e Schumacher, erano diventati i simboli della resistenza tedesca
al nazismo. Dall’altro lato, però, si era venuta a creare una certa interpretazione della
storia: quella, appunto, sulla quale fino ad oggi si basa la Lega degli espulsi, ossia l’idea
che Hitler e le elite naziste avevano soggiogato il popolo e lo avevano tenuto in ostaggio.
In questo modo la responsabilità per i crimini è addossata soltanto alla cerchia della «dirigenza nazista». Questo è un modo di pensare discutibile, perché manca la dimensione
della responsabilità politica del popolo. In democrazia ci domandiamo non solo quale sia
il ruolo dei carnefici, ma anche quello di chi sta a guardare. Un’altra caratteristica di
questo modo di pensare, che si era fatto strada negli anni Cinquanta, era lo spostamento
della responsabilità dall’inizio alla fine della guerra. Invece di occuparci delle cause della
guerra, in Germania c’è chi ha iniziato a concentrarsi sulla catastrofe umanitaria degli ultimi anni del conflitto. Il numero maggiore di vittime civili e militari si è avuto, infatti,
negli ultimi dodici mesi di guerra. Il grande cataclisma del 1944-1945 è diventato un punto
di riferimento, e i tedeschi non ricordano la guerra nella sua dimensione politica, ma in
quella della catastrofe personale. Questi sono punti di riferimento molto importanti per
noi polacchi quando riflettiamo su come influire sui dibattiti tedeschi.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Domande difficili per la generazione postbellica
Negli anni Sessanta il clima del dibattito in Germania occidentale è iniziato a cambiare, e allo stesso tempo è cambiato anche il ruolo della Lega degli espulsi. Sotto la
spinta di eventi come il Processo di Auschwitz a Francoforte sul Meno, i figli della guerra
hanno cominciato a porre domande difficili. A quel tempo, vent’anni dopo le lezioni di
Jaspers, la Germania era infine pronta alla discussione che il filosofo tedesco aveva invocato subito dopo la fine della guerra. L’atteggiamento della Germania nei confronti
dei nuovi confini e della perdita dei territori tedeschi diventava una questione centrale. La maggioranza di coloro che avevano perso la propria patria a est, l’avevano ritrovata a ovest e avevano iniziato a prendere le distanze dalla Lega degli espulsi.
Avevano accettato i nuovi confini occidentali della Polonia e, invece di reiterare stereotipi negativi, avevano preferito cercare un’intesa. Un momento centrale di svolta è
rappresentato dalla visita del cancelliere Brandt a Varsavia nel 1970 e dall’accordo tra
Repubblica Popolare di Polonia e Repubblica Federale approvato dal Bundestag. Molti
tedeschi dell’est iniziarono allora a impegnarsi nella costruzione di nuove iniziative tedesco-polacche.
Alla fine degli anni Novanta è cambiato qualcosa nel modo in cui i tedeschi si raccontano la guerra? Penso di sì. Alcuni rappresentanti della generazione ideologica del Sessantotto hanno cominciato a guardare in maniera critica alle loro radici e hanno
“scoperto” la questione delle vittime di guerra e degli esuli tedeschi. Dimentichi delle sue
tradizioni politiche, hanno iniziato a considerare la Lega degli espulsi come un’organizzazione di raduno delle vittime di un crimine. (In proposito vale la pena precisare che tale
organizzazione non rappresenta affatto la maggioranza dei tedeschi originari dell’est).
C’è anche un altro fattore che influisce sul modo in cui oggi i tedeschi discutono
della guerra. Negli anni Sessanta e Settanta la generazione dei figli della guerra e del
periodo postbellico poneva domande critiche ai propri genitori e ai propri nonni, a persone cioè che avevano vissuto la guerra da persone adulte. Ora invece chi sono i testimoni della guerra? Persone nate negli anni Trenta o Quaranta, che durante la guerra
erano giovani o addirittura bambini; esse appartengono dunque al novero delle vittime
della catastrofe. Oggi come oggi nelle famiglie tedesche non troviamo più persone potenzialmente responsabili dei crimini del Terzo Reich. Il rapporto dei giovani tedeschi
nei confronti delle generazioni precedenti è cambiato: sta cambiando il clima della memoria collettiva e del dialogo tra le generazioni. Lo storico tedesco Norbert Frei ha definito il fenomeno che regna attualmente come una nuova «attenuazione del giudizio».
Viviamo in tempi in cui la testimonianza individuale è molto importante e viene particolarmente messa in mostra dai media. Così, d’un tratto è uscito fuori che, oggi, la
maggioranza dei tedeschi è costituita da vittime di un sistema totalitario.
Astrazioni politiche
A fronte di questo insieme di cambiamenti molto importanti nella sensibilità collettiva, le discussioni sulle dimensioni della colpa nello spirito di Jaspers e sui crimini
nazisti stanno diventando un’astrazione politica e non una testimonianza viva. Da que-
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Cambia il clima, cambiano le narrazioni...
sto punto di vista, la fine degli anni Novanta rappresenta un momento di svolta legato
alla nascita di un nuovo fattore emotivo dovuto a una certa stanchezza verso l’intensa
discussione sui crimini del Terzo Reich. Molti tedeschi sono convinti che la Germania democratica abbia fatto i conti con quel periodo in maniera esemplare. In effetti ci sono
molti motivi per giudicare positivamente la sua politica storica. A ciò bisogna aggiungere che la questione del Terzo Reich ha cominciato a scivolare in secondo piano, mentre la difficile resa dei conti con l’eredità comunista della Repubblica Democratica
Tedesca è diventata il principale argomento di discussione. Non che la stragrande maggioranza dei tedeschi abbia messo in discussione il suo giudizio critico verso il Terzo
Reich, ma sono cambiate le generazioni, è cambiato il clima delle conversazioni familiari e il baricentro del discorso storico. In questo nuovo contesto ha fatto la sua comparsa Erika Steinbach, che di fatto afferma le stesse cose che la Lega degli espulsi
sostiene da decenni.
Un elemento importante nel dibattito tedesco sul tema delle migrazioni forzate nel
XX secolo è rappresentato dall’esperienza della guerra nei Balcani. Insieme ai loro alleati della NATO, i tedeschi si sono impegnati in difesa dei civili perseguitati in quelle
terre, molti dei quali espulsi dai territori natii. A questo discorso si è agganciata in modo
molto intelligente Erika Steinbach. Lo ha potuto fare perché una parte dei tedeschi non
ha dimenticato il motivo per cui la Lega degli espulsi veniva criticata negli anni Settanta
e Ottanta. In quanto rappresentante dell’ala nazionalista della CDU, Steinbach è riuscita
anche ad ottenere l’appoggio dei conservatori tedeschi, che si trovano in accordo con
la sensibilità e la visione storica della Lega degli espulsi. Ciononostante, bisogna sottolineare che una parte rilevante dei politici tedeschi sa benissimo che Erika Steinbach
è una figura controversa e che le critiche polacche non riguardano il ricordo delle vittime delle migrazioni forzate, ma solo l’interpretazione che ne da la Lega degli espulsi.
Quando Erika Steinbach ha proposto di creare un Centro contro le espulsioni, in pochi
hanno preso sul serio la sua idea, perché nessuno credeva che avesse appoggi politici e possibilità di successo. Se ha iniziato ad acquistare visibilità nella scena politica tedesca,
Steinbach lo deve anche alla demonizzazione che subisce da parte polacca. Possiamo ricordare qui la copertina di un numero di “Wprost” del 2003 che rappresentava una Steinbach in uniforme nazista seduta a cavalcioni sul cancelliere Schröder. L’intenzione del
settimanale era di rappresentarla come il cavallo di Troia dei socialdemocratici tedeschi
in Europa. Ma perché proprio Steinbach avrebbe dovuto essere il cavallo di Troia di Schröder? Questo politico, per quanto poco simpatico, non voleva avere nulla a che fare con lei.
Steinbach ha fatto il suo ingresso nel dibattito politico tedesco grazie ai polacchi che
l’hanno demonizzata, in quanto vittima dei media polacchi e in quanto persona continuamente citata nei dibattiti polacchi. Di contro, pochi media tedeschi hanno fanno notare
che i polacchi hanno buoni motivi per criticare la Lega degli espulsi. C’è di più. Hanno ignorato il fatto che anche i polacchi hanno cose importanti da dire sulla seconda guerra mondiale, sulle sue conseguenze per i tedeschi e sull’eredità culturale tedesca all’est.
Il dibattito polacco-tedesco sulla memoria delle migrazioni forzate
Fino ad oggi, nel dibattito polacco-tedesco si è sentita troppo poco la voce delle
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
élite politiche polacche che, basandosi su esempi concreti, criticano i modelli interpretativi della storia proposti da Erika Steinbach e dalla Lega degli espulsi. La Polonia non
ha indicato in maniera chiara i criteri in base ai quali una mostra permanente sul tema a
Berlino (uno dei cavalli di battaglia di Steinbach e della Lega) potrebbe commemorare le
vittime tedesche della guerra in modo accettabile per la maggioranza dei polacchi.
Possiamo citare concretamente due mostre tedesche: Erzwungene Wege [Strade
forzate], a cura della stessa Erika Steinbach, e Flucht, Vertreibung, Versöhnung [Fuga,
espulsione, riconciliazione], organizzata dal governo federale. Purtroppo, entrambe le
mostre hanno inserito la fuga e le migrazioni forzate di persone di lingua tedesca in un
contesto di genocidi e pulizie etniche. Ambedue erano basate su materiali statistici
controversi, che parlano di quindici milioni di profughi tedeschi dal 1945 a oggi. Nessuna delle due mostre aveva un atteggiamento critico verso il pensiero politico della
Lega degli espulsi; e tutte e due accettavano senza discutere la definizione etnica di
popolo tedesco. Nell’una come nell’altra iniziativa era assente ogni riflessione sul multiculturalismo dell’Europa centrale. Prima del 1939, per esempio, un cittadino di Poznań o di Toruń era un cittadino polacco che parlasse tedesco o polacco; e nel 1945, che
parlasse tedesco o polacco, poteva trovarsi a scappare dai sovietici. Insieme a queste
persone è scomparso il multiculturalismo della Polonia oppure è scomparsa solo l’eredità tedesca all’est? Questa prospettiva non è stata presentata dai curatori di nessuna
delle due mostre.
Non sto dicendo che le migrazioni forzate durante e dopo la guerra debbano essere
ricordate secondo la sensibilità storica dei polacchi. Dico solo che non devono essere
mostrate nemmeno secondo l’ottica della Lega degli espulsi. La mostra permanente di
Berlino dovrebbe partire dalla contemporaneità e chiedersi dov’è che l’eredità culturale tedesca e l’espulsione dei tedeschi costituiscono ancora un problema vivo. Il ricordo
dell’espulsione dei tedeschi (o di coloro che le autorità totalitarie definivano tali) è un
importante tema di riflessione storica per i polacchi di Olsztyn, Danzica o Wrocław. Per
questo il motivo conduttore della mostra permanente non dovrebbe essere il ricordo
delle «vittime di guerra tedesche», ma la distruzione del tessuto multiculturale dell’Europa centrale ad opera dei regimi totalitari.
Tra le risposte credibili ed efficaci c’è la creazione di iniziative espositive o di istituzioni polacche. Una voce importante, anche nel dibattito tedesco sulla memoria e
sulla storia, può essere il Museo della seconda guerra mondiale di Danzica. Un luogo in
cui conservare la memoria dei civili tedeschi vittime della guerra, ma dove la responsabilità politica per la guerra e le sue conseguenze vengano chiamate con il loro nome.
Basil Kerski, vive a Berlino; politologo, giornalista, capo redattore del mensile bilingue
polacco-tedesco “DIALOG”, membro del comitato di redazione del quadrimestrale di
Danzica “Przegląd Polityczny”, membro del Consiglio del Centro europeo Solidarność di
Danzica. Tra i suoi ultimi libri su temi polacco-tedeschi, ricordiamo: Homer na placu
Poczdamskim. Szkice polsko-niemieckie (Lublin 2008).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Polacchi, ucraini, russi
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo1
di Paolo Morawski
Nella lunga durata
Polacchi e ucraini vivono fianco a fianco da secoli. Oggi la Polonia è uno Stato etnicamente omogeneo in cui, su 38 milioni di abitanti, i polacchi veri e propri rappresentano quasi il 97%, mentre le minoranze nazionali ed etniche non superano
complessivamente il milione di persone2. Ufficialmente in Ucraina risiedono circa 220
mila polacchi (ma sarebbero un milione) e in Polonia circa 27 mila ucraini (ma sarebbero dieci volte di più). Nel censimento del 2002 il 97,8% dei polacchi ha affermato di
parlare a casa polacco e il 93% si è dichiarato cattolico a fronte di un 2% di fedeli ortodossi. In passato il Paese non era così prettamente nazionale. Nel censimento del
1931 la seconda Rzeczpospolita3 appariva composita. Sul piano linguistico i polacchi di
madrelingua rappresentavano il 69% del totale, i parlanti ucraino/ruteno il 14%, yiddish
quasi il 9%, bielorusso il 3%, tedesco il 2%, russo come lituano lo 0,4%. Si dichiaravano
allora cattolici romani il 65% degli abitanti, cattolici di rito greco il 10%, ortodossi il 12%,
di religione ebraica il 10%. Vivaci, anche se numericamente esili, erano le minoranze
rom (30-50 mila), ceche, tartare, armene, karaime, slovacche, casciube. Rielaborando
queste informazioni si stima oggi che da un punto di vista etnico-nazionale i polacchi
costituissero nel 1931 il 64-65% della popolazione (vale a dire circa 20,6 milioni di persone su un totale di circa 32 milioni di cittadini), gli ucraini il 16% (inclusi ruteni e lemchi), gli ebrei il 10% circa, i bielorussi il 5-6%, i tedeschi il 2,6%, i lituani e i russi intorno
all’1%. Va inoltre aggiunto che la seconda Repubblica polacca era inegualmente popo-
1
Una prima versione di questo testo col titolo: Acqua sulle sciabole. Polonia e Ucraina, è stata pubblicata nel volume miscellaneo curato da GUIDO CRAINZ, RAOUL PUPO, SILVIA SALVATICI, Naufraghi della
pace. Il 1945, i profughi e le memorie divise d’Europa, Donzelli editore, Roma 2008, pp. 223-245.
2 Fra slesiani, tedeschi, bielorussi, ucraini, zingari, lituani, lemchi, slovacchi, ebrei, russi, cechi,
armeni, tartari… Vedi Raport z wyników Narodowego Spisu Powszechnego Ludności i Mieszkań 2002
e Mały Rocznik Statystyczny 2007 (ambedue online: www.stat.gov.pl).
3 La seconda Rzeczpospolita (in italiano: Repubblica) è il termine di cui si serve la storiografia polacca per definire lo Stato polacco rinato nel 1918, dopo 123 anni di spartizioni — (prima con un
sistema politico democratico, parlamentare e multipartitico, poi autoritario-presidenziale dopo il
colpo di Stato del maggio del 1926). L’uso del termine “seconda Rzeczpospolita” serviva a sottolineare la continuità ideale con la Polonia di prima delle spartizioni, ovvero con la “prima Rzeczpospolita” polacca (1454-1795), che era una originalissima “Repubblica nobiliare”, detta anche
Respublica. Il termine Respublica (in latino) era uno dei più diffusi nell’antico linguaggio politico
polacco. Spesso costituiva un sinonimo di Stato polacco e veniva usato in alternativa al termine Regnum.
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
lata in senso diagonale da ovest (Poznań) verso sud-est (Lwów). I polacchi abitavano in
maggioranza l’ovest del Paese insieme alla minoranza tedesca, gli ucraini il sud-est, i
bielorussi e i lituani il nord-est, mentre gli ebrei prevalevano in molti ambiti urbani4.
Il fianco orientale della Polonia negli anni Venti e Trenta era in realtà poco, talvolta
molto poco “polacco”.
Come segnalano cifre e percentuali, in meno di un secolo il rapporto tra polacchi
e non polacchi si è modificato profondamente. L’alterità è diventata una relazione con
la sfera del “di fuori”, mentre dopo la prima guerra mondiale riguardava la sfera del “di
dentro”. Se nella seconda Repubblica rinata dallo sconquasso dei grandi imperi europei
era prioritario, per la ricostruzione dello Stato e dell’unità della nazione, l’incastro fra
le differenti componenti linguistiche, religiose, etnico-nazionali interne — ovvero la
dialettica tra maggioranza e minoranze, quindi la convivenza tra vicini di casa — ora il
tema cruciale concerne le relazioni tra la Polonia e i paesi limitrofi, quindi con l’Unione
Europea e la NATO. Non è solo una condizione polacca. “Polonia” è il nome di un insieme
di territori europei (pianure, laghi, fiumi, monti, coste) che hanno avuto nei secoli confini assai mutevoli, specie a est. Dopo una fase di lunga e fortunata espansione, questo
spazio “polacco” che abbracciava vaste schiere di non polacchi, ha avuto una storia
sempre più complicata dal XVII-XVIII secolo in poi, con tendenza alla contrazione fino
al completo dissolvimento. Scomparsa la Polonia dalla carta d’Europa, agli inizi del Novecento un gran numero di polacchi viveva ancora nel ricordo (e nel mito) della Respublica polacca ante 1772 ovvero di quella Rzeczpospolita di “Ambedue le Nazioni” che
dalla fine del Medioevo aveva saldato sotto un unico scettro il Regno di Polonia e il
Granducato di Lituania. In quanto privi di un proprio Stato, i polacchi dell’Ottocento e
del primo Novecento proiettavano la speranza dell’avvenire dentro a una patria immaginaria in quanto sognata5. Nell’attesa di un risorgimento, essi rielaborarono il passato
a vantaggio della propria sopravvivenza col linguaggio del tempo; ovvero di un’epoca
di dilaganti e aggressivi nazionalismi. Così “polonizzarono” mentalmente uno spaziotempo che era stato multietnico, plurilingue e multiconfessionale, polarizzato ma asimmetrico, attraversato da innumerevoli e fluttuanti frontiere. Oggi quello stesso spazio
della Respublica di una volta è diviso in maniera già più stabile in un cospicuo numero
di entità statali distinte e tendenzialmente omogenee sul piano etnico, che cercano di
avere relazioni reciproche possibilmente paritarie.
A questo insieme di radicali trasformazioni si è giunti dopo una lunga serie di immani tragedie, in particolare quella della seconda guerra mondiale, esperienza catastrofica per la Polonia e per tutta l’Europa centrorientale.
4
Z. SUŁOWSKI, J. SKARBEK (a cura di), Mniejszości narodowe i religijne w Europie Środkowo-Wschodniej, Instytut Europy Środkowo-Wschodniej, Lublin 1995, pp. 13-14 e p. 20; J. TOMASZEWSKI, Mniejszości narodowe w Polsce w XX wieku, Editions Spotkania, Warszawa 1991, p. 23. Altrettanto
significativi i dati del censimento del 1921: polacchi 69%, ucraini/ruteni 15%, ebrei 8%, bielorussi
4%, tedeschi 4%. Il 62% si professava cattolico, il 12% ortodosso, l’11% greco-ortodosso, l’11% di religione ebraica, il 4% protestante.
5 Cfr. i saggi e l’antologia di J. PROKOP, K. JAWORSKA, Letteratura e nazione. Studi sull’immaginario
collettivo nell’Ottocento polacco, Editrice Tirrenia Stampatori, Torino 1990.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Una dolorosa quanto difficile contabilità
Per i polacchi la seconda guerra mondiale è scoppiata due volte. Il 1°settembre
1939 con l’invasione nazista che avrebbe annesso al Terzo Reich quasi la metà della Polonia occidentale, mentre la restante parte sarebbe andata a costituire il Governatorato generale (Generalgouvernement), sorta di protettorato coloniale senza alcuna
forma di sovranità sotto ferreo controllo nazista. E una seconda volta il 17 settembre
1939, quando l’Armata Rossa attaccò a sua volta la Repubblica polacca impadronendosi
della metà orientale (il 51,5% del paese dove abitavano circa 13,5 milioni di abitanti,
per quasi la metà di lingua polacca). Il Paese fu spartito dai due aggressori ritoccando
appena i protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov, in cui nell’agosto 1939 si erano
definite le sfere di influenza del Terzo Reich e dell'Unione Sovietica in vista del futuro
conflitto. Sebbene in alcuni casi l’Armata rossa venisse festosamente accolta da minoranze ucraine, bielorusse ed ebraiche, alla brutalità nazista si sommò quasi subito la
brutalità sovietica.
L’incorporazione delle terre polacche nel dominio dell’URSS durò 21 mesi. Per legittimare la «sovrana volontà popolare» nell’ottobre 1939 i sovietici fecero svolgere ai
polacchi “libere” elezioni. Ma sotto la (falsa) patente di legalità furono quasi due anni
di terrore che cominciarono con le bestiali uccisioni dei proprietari terrieri polacchi
(«signori») da parte di gruppi di sbandati, in maggioranza ucraini. Sotto il controllo dell’Armata rossa avvennero poi ripetute ondate di arresti, confische, requisizioni, nazionalizzazioni. Repressioni a tappeto contrastarono ogni fede religiosa e attività politica,
sociale, economica, culturale che non fosse comunista o favorevole all’URSS. Furono insediati nei posti di comando e a tutti i livelli gerarchici i quadri comunisti inviati da
Mosca, coadiuvati da un vasto apparato di spie e informatori. Tutto ciò che era polacco
(dalla lingua ai monumenti, dalle indicazioni stradali alla moneta al passaporto) venne
sistematicamente “sovietizzato”, quindi a seconda dei casi “ucrainizzato”, “bielorussizzato”, “russizzato”. Su 250 mila soldati polacchi fatti prigionieri dai sovietici, una
parte (circa 43 mila) fu «restituita» ai nazisti. Decine di migliaia di civili vennero colpiti da arresti eseguiti a caso per demoralizzare la popolazione. Un decimo forse della
società fu imprigionato per «tradimento», «spionaggio», «anticomunismo», «attività
reazionarie» e «controrivoluzionarie» o per «passaggio illegale della frontiera» (per
quanto incoerente possa oggi sembrare, tra il 1939 e il 1941 molti polacchi, anche ebrei,
cercarono scampo dal terrore sovietico nel Generalgouvernement nazista).
Alla Repubblica socialista sovietica ucraina furono annessi circa 90 mila km2 di territorio polacco, dove vivevano allora 8 milioni di abitanti, di cui 2 milioni di polacchi etnici. Se il regime di occupazione sovietico fu per questi ultimi particolarmente duro,
difficile era stata fino a quel momento la loro sorte. Su quelle terre agli inizi del Novecento la minoranza polacca contava circa un milione di individui (in maggioranza a Kiev,
a Odessa e nel basso Dnipro, a Zitomir). L’influenza e il ruolo dei polacchi nello spazio
ucraino cominciò invero a declinare dopo la Rivoluzione russa e soprattutto dopo il Trattato di Riga (1921), col quale polacchi e sovietici si divisero i territori contesi anche da
bielorussi e ucraini (i quali diedero vita in quel periodo a più entità statali separate, tra
cui la Repubblica nazionale dell’Ucraina occidentale e la Repubblica popolare ucraina).
Nel 1926 nell’Ucraina sovietica la minoranza polacca ammontava a circa 650 mila abitanti.
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
Quasi un quinto di essi venne eliminato durante le carestie e il terrore degli anni Trenta
(repressioni, arresti, collettivizzazione forzata, lotta contro i cattolici, i controrivoluzionari e i nazionalisti, deportazioni fino in Kazakistan). Dati questi precedenti, non sorprenderà il fatto che, nelle terre ex polacche annesse all’URSS nel 1945, la liquidazione
delle strutture statali polacche andò di pari passo con l’eliminazione degli «elementi socialmente pericolosi». Essendo i polacchi generalmente in cima alla piramide economica
e sociale, la repressione toccò soprattutto (anche se non esclusivamente) la minoranza
polacca, sovrapponendosi e intersecandosi con i locali conflitti etnici. Tra violenta sovietizzazione, lotte di classe e lotte fra nazionalità il numero delle vittime fu particolarmente alto. Non meno di 80 mila, ma forse 130 mila furono i polacchi uccisi tra il 1939 e
il 1941 sulle terre ex polacche della Galizia orientale e della Volinia.
In linea generale un’esorbitante schiera di «nemici» (di classe, del comunismo,
dell’URSS) venne deportato dalla Polonia orientale verso l’Unione Sovietica, senza distinzioni di sesso o di età, spesso dividendo tra loro i familiari. Vi erano militari polacchi di tutti i gradi, poliziotti e gendarmi, agenti della forestale e guardie di confine,
guardie carcerarie e agenti dei servizi segreti, attivisti sociali e politici, e pure impiegati e alti funzionari dello Stato, imprenditori, proprietari immobiliari e terrieri, intellighenzia professionale e artigiani, intellettuali, professori universitari, insegnanti,
ecclesiastici in prevalenza cattolici, e profughi fuggiti verso est davanti all’avanzata
tedesca. In centinaia di migliaia, dopo settimane allucinanti di viaggio in treno, parti
consistenti di popolazione polacca approdarono così negli sprofondi della Siberia, in
Kazakistan, in località calmucche e kirghize, in sistemazioni primitive e condizioni climatiche spesso impossibili (temperature di meno 40 gradi). Ancora oggi è difficile stabilire quanti finirono nei gulag sovietici e nelle miniere del circolo polare. Le fonti
polacche parlano di 1 milione circa di deportati (1,7 milioni secondo le stime dell’emigrazione polacca in USA a tutt’oggi citate)6. Le fonti sovietiche finora accessibili7 documentano — solamente — il trasferimento verso est di circa 320 mila polacchi. Gli
abitanti non etnicamente polacchi (lituani, bielorussi, ucraini, ebrei) delle terre orientali appartenenti alla Polonia tra le due guerre sono stati forse conteggiati dalle fonti
sovietiche insieme ad altre nazionalità? Di certo mancano all’appello da mezzo milione
a un milione di “polacchi”. Quanti di essi morirono subito (uccisi, torturati)? Quanti durante il loro trasferimento coatto: il 30%, il 10% o lo 0,7%? Quanti i deceduti di stenti,
di fame, di freddo, di malattia una volta insediati in URSS: 15-20 mila o molti di più?
Quanti i morti a causa delle durissime condizioni di lavoro nei gulag? Dai campi di concentramento sovietici taluni riuscirono a salvarsi: circa 120 mila polacchi approdarono
sotto la guida del generale Władysław Anders nel Vicino Oriente raggiungendovi nel
1942 le truppe alleate; altri 100-200 mila polacchi vennero arruolati nell’Armata rossa;
6 Vedi www.electronicmuseum.ca. Il sito contiene anche l’elenco nominativo di tutte le vittime
di Katyń. Grazie a Carol Celinska Dove del Kresy-Siberia group per le sue indicazioni cartografiche.
7 Le fonti sovietiche dettagliano quattro deportazioni verso l’URSS dai territori dell’odierne
Ucraina, Bielorussia e Lituania, allora parte orientale della Polonia: nel febbraio 1940 (140 mila
deportati), nell’aprile 1940 (61 mila), nel giugno 1940 (78 mila), nella primavera 1941 (34-44 mila
polacchi, ma i deportati furono 90 mila contando anche lituani, lettoni, estoni, moldovi).
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
circa 250-300 mila (?) fecero ritorno tra il 1945 e il 1947 in Polonia. Di quanti, costretti
a rimanere in URSS anche dopo la fine della guerra, si è persa ogni traccia?8
L’invasore sovietico “tagliò la testa” alla società polacca. Le élite e l’intellighenzia polacche (in misura minore anche ucraine, bielorusse ed ebraiche) vennero non solo
imprigionate o deportate ma anche deliberatamente eliminate dagli organi responsabili della sicurezza di Stato (l’NKVD o Commissariato del Popolo per gli Affari Interni).
Fucilati senza sentenza, perlopiù uccisi con un colpo alla nuca e seppelliti in fosse comuni: questo sarà il tristissimo destino nell’aprile-maggio 1940 di circa 14.700 polacchi, in maggioranza ufficiali (di carriera e di complemento) dell’esercito, di cui si sono
ritrovati i corpi in varie località russe, bielorusse, ucraine (Char’kov, Kalinin, Miednoje),
di cui la più famosa è, vicino alla città di Smolensk, la foresta di Katyń. Katyń è diventato il nome-simbolo dell’eccidio di cui furono vittime in totale circa 22 mila polacchi
(ne mancano all’appello almeno altri 7 mila assassinati in altri luoghi). Katyń fu un crimine eccezionale persino nell’ambito dei sanguinari metodi dello stalinismo9.
Dopo il terrore sovietico, il terrore nazista e il terrore ucraino
Dal 22 giugno 1941, con la rottura dell’alleanza tra Hitler e Stalin, l’attacco nazista all’URSS portò altri lutti e altre brutali repressioni. L’NKVD nel ritirarsi uccise quasi
10 mila prigionieri polacchi. In un vortice di crudeltà che durò fino al 1944, nella Polonia orientale passata sotto comando tedesco si generalizzò quanto era già accaduto
nella metà occidentale: un’estrema violenza tesa a fare posto ai tedeschi in cerca di
“spazio vitale” da germanizzare e a ridurre i cittadini polacchi in manodopera coatta a
basso costo, spaurita, deculturata, priva di identità. Almeno 200 mila polacchi vennero
da lì inviati nei campi di concentramento e ai lavori forzati nel Terzo Reich. Il culmine
dell’oppressione si ebbe nel 1942-43 con il dilagare di condanne a morte, fucilazioni,
impiccagioni, esecuzioni pubbliche che non risparmiarono né polacchi né cattolici. E ciò
mentre in tutto il paese iniziava lo sterminio degli ebrei polacchi (che erano circa 3,35
milioni nel 1939), già sottoposti a durissima prova fin dai primi giorni dell’occupazione
nazista della Polonia occidentale. Dapprima furono rinchiusi in circa 400 ghetti, «cimiteri dei vivi» dalle condizioni di vita col passare del tempo sempre più estreme. A partire dalla fine del 1941 vennero sistematicamente avviati verso i campi della morte,
8
Gli storici (polacchi inclusi) tendono oggi ad allinearsi su valori più bassi che in passato. Secondo
i dati emersi dagli archivi ex sovietici, le vittime polacche dal 1939 alla fine della seconda guerra
mondiale sarebbero 300-400 mila. Ma per quanto “basso” possa essere il numero dei morti o dei
deportati, si tratta di centinaia di migliaia di esseri umani: uomini, donne, anziani, fanciulli, bambini, militari ma soprattutto civili — il che comunque fa riflettere. Per una critica delle cifre sovietiche vedi: J. TRZNADEL, Spór o całość. Polska 1939-2004, Wydawnictwo Antyk-Marcin Dybowski,
Warszawa 2004, pp. 54-62.
9 Per i contributi più recenti sul tema: A. M. CIENCIALA, N. S. LEBEDEVA, W. MATERSKI (a cura di), Katyń:
A Crime Without Punishment (Annals of Communism Series), Yale University Press 2007. Al «classicidio» sovietico fa riferimento VICTOR ZASLAVSKY, Pulizia di classe. Il massacro di Katyń, il Mulino,
Bologna 2006, p. 49 e sg.
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
dove, nel 1942-44 ne furono assassinati circa 1,8 milioni. Altri ebrei polacchi morirono
nei ghetti o nei campi di lavoro tedeschi, circa 200 mila vennero ammazzati dai reparti
speciali (Einsatzgruppen). Alla fine della guerra circa 3 milioni di ebrei polacchi (di cui
2 milioni provenienti dalla Polonia orientale) sarebbero venuti meno.
Mentre il fronte avanzava verso est, il perdurare delle violenze alzava la soglia di accettazione del male. La morte divenne realtà quotidiana, normalità, abitudine. Con la rottura della reciproca fiducia sociale e l’ingrandirsi delle divisioni in ambito locale venne
meno quasi ogni forma di solidarietà. Nell’ex Galizia orientale e in Volinia si trovarono a lottare contro gli invasori tedeschi (ma anche gli uni contro gli altri) ucraini, polacchi e russi.
Gli ucraini volevano l’indipendenza: erano prevalentemente anti-URSS (date anche le repressioni subite), quindi anti-polacchi, infine in parte anti-nazisti (nonostante le propensioni
filo-tedesche)10. I polacchi si dividevano tra la maggioranza dei sostenitori del governo in
esilio a Londra (la resistenza dell’AK-Armia Krajowa) e la minoranza dei sostenitori dei comunisti sovietici (AL-Armia Ludowa). I russi si spaccavano tra partigiani comunisti e reparti
cosacchi comandati dall’occupante nazista. È in questo caotico e particolare contesto che
s’infiammò il conflitto ucraino-polacco, in parte attizzato dai tedeschi che volevano dividere l’eventuale fronte degli «schiavi» slavi. Per gli ucraini i vicini polacchi erano i «nemici»
che sin dalla prima guerra mondiale negavano ogni loro aspirazione all’indipendenza; che
tra le due guerre avevano brutalmente cercato di polonizzarli (arrestando le élite, bruciando i villaggi, distruggendo le chiese, chiudendo le scuole, creando dei campi di prigionia); e che anche durante il conflitto cominciato nel 1939 continuavano a definire
“polacche” terre in cui erano chiaramente in minoranza, terre con le quali i nazionalisti radicali ucraini volevano costruire il proprio Stato indipendente, depurandolo dell’elemento
polacco. Per la popolazione polacca le crudeltà ucraine si innestarono sulle crudeltà naziste senza soluzione di continuità. Tra il 1943 e il 1945, in pieno disfacimento tedesco causato della controffensiva sovietica, i nazionalisti dell’OUN-B (Orhanizacija Ukrajinśkych
Nacjonalistiw-Bandery), gli estremisti della paramilitare UPA (Ukrajinśka Powstanśka Armija) e altri partigiani o sbandati ucraini, sentendosi le mani libere, incendiarono intere
campagne e uccisero — con zappe, falci, forconi, asce, accette, scuri, mannaie — circa 80100 mila civili polacchi nelle campagne della Volinia e Galizia ex polacche. A fronte di tanta
bestialità che non risparmiò né donne né bambini, i sopravvissuti talvolta risposero vendicandosi con violenza (uccidendo circa 20 mila civili ucraini), perlopiù si strinsero nelle grandi
città o fuggirono di proposito verso il Generalgouvernement (dei circa 300 mila fuggiaschi
nel 1943-1944 molti finirono in Germania ai lavori forzati).
La contabilità del sangue versato e delle vessazioni subite non riguarda ovviamente
solo i polacchi, anche se in questa sede si è scelto di evidenziare le sofferenze polacche. Tra gli stessi storici polacchi si dibatte non solo delle dimensioni della tragedia
che si è consumata negli anni Quaranta in Volinia e nell’ex Galizia orientale, ma anche
10 Rispetto ai polacchi gli ucraini beneficiarono di un trattamento relativamente migliore da parte
dei tedeschi nel Generalgouvernement; e in Volinia molti di essi collaborarono con gli occupanti
nazisti e parteciparono ai loro crimini in una misura che non ha riscontri nel caso polacco (vedi per
es. gli 11 mila volontari ucraini della divisione SS-Galizien). Queste circostanze certamente contribuirono a inasprire ulteriormente i rapporti polacco-ucraini.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
della natura criminale delle azioni anti-polacche compiute soprattutto dall’UPA: «lotte
fra diverse formazioni partigiane», «crimini di guerra», «assassinii di massa», «pulizia
etnica» o vero e proprio «genocidio»11.
Il ritorno dei sovietici
La ritirata tedesca lasciò irrisolte le questioni etnico-nazionali. Nel gennaio 1944 i reparti sovietici, attraversando la frontiera polacca in Volinia, trovarono nei reparti della polacca AK piena collaborazione in funzione anti-tedesca. Quasi subito però l’Armata Rossa
cominciò a reprimere i resistenti polacchi disarmandoli, arrestandoli, deportandoli in URSS.
Era chiaro: l’«alleato» con la falce e il martello stava impossessandosi del territorio anteguerra dell’ex Repubblica polacca. Così, fin dal gennaio 1944 nelle terre poi passate alle repubbliche sovietiche di Lituania, Bielorussia e Ucraina, i polacchi si trovarono sottoposti
alla contemporanea pressione degli ambienti nazionalisti locali, particolarmente ostili ai polacchi nel loro anelito indipendentista, e delle autorità sovietiche (Armata Rossa e NKVD).
Per motivi diversi tutti i contendenti cercavano di spezzare la resistenza polacca, quindi di
espellere i polacchi verso la Polonia centrale e occidentale. Prendendo a pretesto la denazificazione e la lotta contro chi aveva «collaborato con i tedeschi», i vincitori sovietici arrestarono, condannarono, deportarono polacchi in tutti gli ambiti sociali per obbligarli a
partire. Spostando le frontiere della Polonia di circa 250 km verso ovest, i grandi accordi
internazionali sanciti a Potsdam nell’agosto 1945 diedero il colpo finale al processo di depolonizzazione delle terre orientali. Alla fine del 1945 la resistenza polacca nell’Ucraina sovietica non esisteva più. Con qualche variante, allo stesso risultato si giunse infine in
Lituania e in Bielorussia. La lotta clandestina dei resistenti polacchi continuò fino al 1956,
ma solo nei confini della Polonia postbellica12.
Con l’aiuto degli organi dell’NKVD i sovietici sparsero un tale terrore che, tra il 1944
e il 1948, furono «volontariamente rimpatriati» in treno dall’Ucraina (di fatto trasferiti
in modo coatto) circa 800 mila polacchi (tra cui 33 mila ebrei polacchi e 10 mila polacchi-ucraini). Una seconda ondata di partenze nel 1955-1959 “alleggerì” l’Ucraina di altri
circa 80 mila polacchi. Alla fine degli anni Cinquanta secondo le statistiche ufficiali —
comunque difficili da maneggiare dato il loro carattere propagandistico — la minoranza
polacca in Ucraina contava 360 mila individui, di cui solo il 19% parlava polacco; nel 1989,
sempre secondo le stesse fonti, 219 mila persone di cui solo il 12% parlanti polacco13. In
11 Z. KONIECZNY (a cura di), Zbrodnie nacjonalistów ukraińskich na ludności cywilnej w południowowschodniej Polsce (1942-1947), Polski Związek Wschodni, Przemyśl 2001; W. SIEMASZKO, E. SIEMASZKO, Ludobójstwo dokonane przez nacjonalistów ukraińskich na ludności polskiej Wołynia
1939-1945, 2 vol., Wydawnictwo von Borowiecky, Warszawa 2000.
12 A lottare nel 1944-1956 in modo organizzato contro la sovietizzazione furono in tutto circa 120180 mila polacchi, anche giovani, su scala nazionale, regionale, locale. A nascondersi nei boschi nel
dopoguerra rimasero in circa 20 mila. Erano 13-17 mila nel 1945, la metà nel 1946, poche centinaia
dopo l’amnistia del 1947. Cfr. R. WNUK, S. POLESZAK, A. JACZYŃSKA, M. ŚLADECKA (a cura di), Atlas polskiego
podziemia niepodległościowego 1944—1956, Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa-Lublin 2007.
13 G. HRYCIUK, Polacy na Ukrainie, “Acta Universitatis Wratislaviensis”, n. 1668, Historia CXVIII,
Wrocław 1995, pp. 407-429.
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
base agli stessi accordi, fino al 1946 vennero evacuati in senso contrario, dalla Polonia
verso la RSS Ucraina, circa 500 mila ucraini, molti dei quali terminarono la loro vita in Siberia (dove nello stesso periodo finirono anche molti resistenti e anticomunisti polacchi).
Tra la comunità degli ucraini rimasti nei confini della nuova Polonia il senso di identità e
il sentimento nazionale restarono tuttavia vivi, creando un sostrato fertile per la lotta indipendentista, antisovietica e antipolacca, dei partigiani dell’UPA. Questi si servivano del
retroterra polacco come base per le proprie azioni di «resistenza» in Ucraina, dove la
loro «guerra partigiana» contro gli occupanti sovietici — guerra a lungo sconosciuta: un
vero e proprio tabù — venne vinta da questi ultimi a costi altissimi (decine di migliaia di
vittime e di ucraini deportati nel fondo dell’URSS)14. Alla fine, col pretesto di un attentato e probabilmente su ispirazione di Mosca (i servizi segreti polacchi erano strettamente
controllati da quelli sovietici), Varsavia ricorse all’esercito. Nel corso dell’Akcja “Wisła”
(Azione “Vistola”, 1947), in virtù della loro «responsabilità collettiva» per le azioni dell’UPA, le autorità polacche fecero deportare dai territori del sud-est a ridosso della frontiera con l’Ucraina oltre 140 mila ucraini, di fatto cittadini polacchi, sparpagliandoli verso
le terre settentrionali e occidentali della nuova Polonia, già forzatamente «liberate» dai
tedeschi. L’Azione “Vistola” è stata di recente riconosciuta ufficialmente come un atto
«contro i diritti umani»15. Simbolo di quel periodo nefasto resta ancora oggi nell’immaginario ucraino il campo di concentramento di Jaworzno, nella Slesia, dove i polacchi oppressero, torturarono e anche uccisero circa 4 mila dei propri concittadini lemco-ucraini.
Cesure
La complessa traiettoria del Novecento, con al centro gli esiti terribili della seconda
guerra mondiale, ha segnato una profonda lacerazione nell’immaginario collettivo polacco. Mezzo millennio di presenza polacca (etnica, culturale, politica) oltre il Bug è finito tra immani violenze. Legami e contatti plurisecolari sono stati recisi. Cambiando più
volte forma, la carta etnografica polacca da pluri è passata a mono. Stermini, massacri,
spostamenti di frontiere e trasferimenti forzati di milioni e milioni di persone hanno inaridito la tradizionale capacità polacca di convivere con i non polacchi, di condividere con
loro uno stesso destino nel medesimo territorio. Per di più i polacchi si sono spesso sentiti soli, umiliati, attaccati, traditi, accerchiati, vittime di una sorte avversa e crudele. Così
nelle mentalità come nei comportamenti sociali si è fatta largamente strada l’avversione,
14 G. MOTYKA, Ukraińska partyzantka 1942-1960. Działalność Organizacji Ukraińskich Nacjonalistów
i Ukraińskiej Powstańczej Armii, Instytut Studiów Politycznych PAN-Oficyna Wydawnicza Rytm,
Warzawa 2006.
15 Così i presidenti polacco e ucraino nel documento sottoscritto in occasione del sessantesimo anniversario dell’Akcja “Wisła”: Wspólne oświadczenie Prezydenta RP i Prezydenta Ukrainy z okazji
60-tej rocznicy Akcji “Wisła”, Warszawa 2007 (online: www.pis.org.pl/article.php?id=7233). Sulla
deportazione degli ucraini vedi G. MOTYKA, Tak było w Bieszczadach. Walki polsko-ukraińskie 19431948, Oficyna Wydawnicza Volumen, Warszawa 1999. Sulla de-germanizzazione delle terre poi polacche ha scritto con efficacia D. ARTICO, “Terre riconquistate”. De-germanizzazione e
polonizzazione della Bassa Slesia dopo la II Guerra mondiale, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
talvolta il malanimo verso gli altri, lo straniero, il diverso, i vicini. Il regime coloniale instaurato in Polonia da Stalin dopo il 1945 e l’esperienza della PRL-Polska Rzeczpospolita
Ludowa (Repubblica popolare polacca)16 non hanno modificato tale situazione, semmai
l’hanno aggravata, al meglio congelata.
Il 1989-1991 ha affrancato milioni di persone. Ma i sentimenti polacco-ucraini si sono
trovati fortemente condizionati dal peso della storia, dal ricordo ancora attuale dei drammi
della seconda guerra mondiale e perfino dall’eco non ancora spenta dei conflitti avvenuti
alla fine della prima guerra mondiale. Erano allora (e ancora sono) vive migliaia di persone
direttamente coinvolte in tali vicende insieme alle decine di migliaia di familiari e amici
delle vittime. L’importanza che ambedue le parti attribuiscono ai propri simboli e luoghi
di memoria “nazionali” (monumenti, cimiteri, località che ricordano le vittime delle guerre,
delle repressioni politiche e dei crimini contro i civili) ha dunque una sua ragion d’essere.
Tanto più che al tempo dell’URSS nulla si è fatto per attenuare le conseguenze di tante
sanguinose lacerazioni. Anzi, per quasi mezzo secolo si sono lasciate deliberatamente aperte
le piaghe, per far durare le incomprensioni e i reciproci pregiudizi, per alimentare il contrasto tra opposti nazionalismi. I contatti privati tra polacchi della Polonia e polacchi in
Ucraina erano contrastati, se non proprio impediti. Agli occhi degli ucraini dell’Ucraina sovietica gli ucraini della PRL erano «stranieri». Ogni riferimento alle più delicate questioni
riguardanti la comune esperienza storica apparteneva alla sfera dei tabù. La regola era il
silenzio. Per evitare che gli abitanti dei paesi satelliti fossero tentati di unirsi tra loro, il sistema sovietico aveva eretto tra i singoli paesi poderose barriere anche mentali che si sono
incrinate solo a cavallo degli anni Ottanta-Novanta17.
La coabitazione polacco-ucraina e ucraino-polacca è, dunque, solo agli inizi, e così la
reciproca conoscenza. Senza nulla togliere al fatto che il dialogo sia stato avviato sin dal
dopoguerra negli ambienti dell’emigrazione (per esempio nell’ambito della rivista “Kultura” di Parigi) e poi in quelli dell’opposizione18, e pur mettendo in conto che in Polonia la
riconciliazione è cominciata prima che in Ucraina, il desiderio di comunicare con i vicini interni ed esterni, quindi di conoscere la verità sulla propria storia comune non ha alle spalle
una lunga tradizione — come accade invece in Europa occidentale. Ciò spiega la carica di
emozionalità liberata nell’Ottantanove. Non finiva solo il comunismo: finiva con un ritardo
spaventoso anche la seconda e per certi versi pure la prima guerra mondiale. Questa du-
16
La Repubblica Popolare di Polonia (Polska Rzeczpospolita Ludowa, PRL) fu il nome ufficiale della
Polonia dal 1952 al 1989. Pur essendo i comunisti al potere dal 1944, la nuova denominazione fu
adottata con l'entrata in vigore della Costituzione del 1952. Tale costituzione definiva la Polonia
come uno Stato socialista, attribuendo per legge la guida politica del Paese al Partito Comunista,
ufficialmente chiamato Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR, Polska Zjednoczona Partia Robotnicza), perché formato dalla fusione fra comunisti e socialisti.
17 T. STEGNER (a cura di), Polacy o Ukraińcach, Ukraińcy o Polakach, Gdańsk 1993; R. TORZECKI, Polacy i Ukraińcy. Sprawa ukraińska w czasie II wojny światowej na terenie II Rzeczypospolitej, Wydawnictwo PWN, Warszawa 1993; P. KOSIEWSKI, G. MOTYKA (a cura di), Historycy polscy i ukrainscy
wobec problemów XX wieku, Universitas, Kraków 2000.
18 Sul tema si potrà leggere: B. BERDYCHOWSKA (a cura di), Jerzy Giedroyc - emigracja ukraińska. Listy
1950-1982, Czytelnik, Warszawa 2004; e B. KERSKI, A. S. KOWALCZYK, Polska i Ukraina. Rozmowy z Bohdanem Osadczukiem, seconda edizione allargata e aggiornata, Kolegium Europy Wschodniej im. Jana
Nowaka-Jeziorańskiego, Wrocław 2008.
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
plice/triplice fine ha rimesso in circolazione molti fantasmi del passato. Donde la difficoltà
di quest’ultimo ventennio non solo a disinnescare l’emotività, con il suo corollario di comportamenti aggressivi/difensivi, ma anche a evitare la strumentalizzazione politica dei fatti
dolorosi. In un clima di raggiunta normalità oggi in ambedue i paesi il rapporto tra maggioranza e minoranza è innovativo e importante (in Ucraina interessa quasi il 30% dei cittadini
che si dichiarano non ucraini, in Polonia solo il 2% della popolazione non polacca). Se tale
rapporto si iscrive nella quotidiana dialettica democratica, non figura tuttavia nell’elenco
delle priorità del momento, alle quali appartiene invece la (ri)costruzione dell’identità nazionale. In Polonia come in Ucraina l’obiettivo principe è consolidare la rinascita dello Statonazione, processo tuttora in corso con forza proporzionale alla durezza con la quale il
comunismo sovietico ha attaccato in nome dell’internazionalismo operaio le tradizioni e i
sentimenti nazionali. Non a caso nelle mutue relazioni sia interne che esterne hanno un
ruolo ancora preponderante i rapporti a livello istituzionale, ufficiale, bilaterale; a testimonianza del fatto che da ambo i lati della frontiera un modello di politica delle nazionalità non si è ancora stabilizzato. A complicare le mediazioni e i contatti è l’intreccio tra
fisionomia nazionale e identità confessionale, tra Stato e Chiese. I polacchi in Ucraina sono
in genere cattolici romani (insieme ad altre minoranze ungheresi, slovacche e in parte rumene); gli ucraini in Polonia sono invece in prevalenza grecocattolici oppure ortodossi (come
le minoranze bielorusse o russe). La politicizzazione di tali differenze religiose è stata svariate volte fonte di tensioni e di accuse (di polonizzazione o di ucrainizzazione) che sono
rimbalzate da una parte all’altra del confine polacco-ucraino perpetuando taluni stereotipi
negativi e, peggio, rivitalizzando l’immagine del nemico.
Piste di ricerca
Vent’anni dopo il 1989 a che punto sono le relazioni polacco-ucraine? Ecco alcune
risposte19, tutte veritiere.
Ottime: le migliori nella storia. Con nessun altro paese al mondo la Polonia ha contatti così intensi. La volontà politica di riconciliarsi è ormai un dato strutturale. Secondo una tradizione a lungo minoritaria, ma non per questo meno solida20, si vuole
definitivamente gettare « acqua sulle sciabole in segno di pace, alleanza, fratellanza»21.
Normali: come è d’uso tra Stati sovrani, indipendenti, europei, e perdipiù vicini.
In movimento: la strada del dialogo è in salita, ma ogni dolorosa ricorrenza è oc-
19
Per un primo tentativo di bilancio in italiano si rimanda a P. MORAWSKI, La Polonia nello specchio
ucraino. Note di lettura, “pl.it — Rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, “Polonia 19391989: la quarta spartizione”, Lithos Editrice, Roma, pp. 523-557.
20 Utilissima antologia che raccoglie un secolo di interessanti e rari materiali: P. KOWAL, M. ZUCHNIAK,
J. OŁDAKOWSKI (a cura di), Nie jesteśmy ukrainofilami. Polska myśl polityczna wobec Ukraińców i
Ukrainy. Antologia Tekstów, Kolegium Europy Wschodniej, Wrocław 2002.
21 Così la Dichiarazione comune di comprensione e riconciliazione firmata il 21 maggio 1997 dai presidenti polacco Kwaśniewski e ucraino Kučma: Wspólne oświadczenie Prezydentów Rzeczypospolitej Polskiej i Ukrainy o porozumieniu i pojednaniu, Kijów 21-05-1997
(online: www.bbn.gov.pl/index.php?lin=5&last=183&idtext=393).
110
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
casione per un positivo passo in avanti; dal 1989 in poi non ne sono mancati22.
Dietro la facciata, difficili e mutevoli: a dispetto della retorica sul «partenariato
strategico», la Polonia non è prioritaria per l’Ucraina e viceversa. La Polonia essendo
dentro e l’Ucraina fuori dall’UE, tra i due paesi si sta approfondendo e non colmando
il divario non solo economico, reso più tangibile dalle difficoltà che incontra l’Ucraina
a staccarsi dal proprio sovietismo e ad allentare la dipendenza dalla nuova Russia. La
politica orientale polacca, fiore all’occhiello di tutti i governi posteriori all’Ottantanove, è oggi accusata nella stessa Polonia di debolezza, incoerenza, inconsistenza23.
In sostanza irrisolte: la rappacificazione degli animi non riguarda le società nella
loro interezza. Nell’Ucraina dell’ovest i sentimenti anti-polacchi sono più acuti che a
Kiev o nell’Ucraina dell’est. In Polonia le inchieste sul campo dimostrano che le tensioni
tra polacchi e ucraini non si sono del tutto spente24. Da una parte brucia ancora l’Azione
“Vistola”; dall’altra parte sono i massacri commessi 65 anni fa in Volinia e Galizia ad accendere la sensibilità di molti ambienti polacchi, anche estremi. Questi, in sintesi, si
pongono almeno due obiettivi: commemorare le vittime polacche con un «segno tangibile» (monumento e/o centro studi) che sottolinei la barbarie delle stragi ucraine25;
quindi contrapporsi in modo «adeguato» alla (supposta o reale) rinascita del nazionalismo ucraino e ai tentativi, estremamente controversi nella stessa Ucraina, di riabilitare
e glorificare i militanti dell’UPA26.
Confrontati a tante opposte valutazioni gli studiosi, più che semplificare hanno necessità di complicare il quadro. Tra polacchi e ucraini esiste una effettiva circolazione di
persone e di idee, una fitta rete di contatti e di scambi, una compenetrazione dei più sva-
22 Importanti gesti comuni: in Ucraina l’11 luglio 2003 a Pawliwka, già Poryck (in ricordo delle vittime polacche della Volinia), e il 24 giugno 2005 nel cimitero di Orląt (L’viv) per le vittime polacche della guerra polacco-ucraina del 1918-1920. In quell’occasione si sono celebrate anche le
vittime ucraine che lottavano dall’altra parte della barricata. Inoltre l’incontro in Polonia il 13
maggio 2006 a Pawłokoma, vicino Przemyśl (in ricordo delle vittime ucraine).
23 Il dibattito sulle debolezze della politica orientale polacca dura da due decenni. Per citare un
solo esempio il primo effetto dell’allargamento dell’area Schengen è stata la crisi polacco-ucraina
sul traffico (e le code) di frontiera che si è protratta per i primi tre mesi del 2008. Vedi: M. KACEWICZ, Gorzka prawda. Skończył się romantyczny okres w relacjach Warszawy i Kijowa, “Newsweek
Polska”, N. 14/08, p. 6; A. ERLINGER, Ukraine: Good Neighbors Needed, “Transitions On Line”, 12-022008; P. KOWAL, Wschodni błąd Tuska, “Gazeta Wyborcza”, 8-02-2008; J. KUCHARCZYK, Poland: Warsaw’s New Waltz, “Transitions On Line”, 5-02-2008; T. SERWETNYK, Tracimy w oczach Ukraińców,
“Rzeczpospolita”, 30-01-2008; P. KOŚCIŃSKI, Musimy być aktywni na Wschodzie, “Rzeczpospolita”, 2901-2008; B. OSADCZUK, Jak Donald Tusk przegrał Ukrainę, “Rzeczpospolita”, 28-01-2008; B. OSADCZUK, Schengen rozdzieliło Polskę i Ukrainę, “Rzeczpospolita”, 23-01-2008.
24 J. WOJCIECHOWSKA, Wołyniak: bez ich “przepraszam” nie da się rozmawiać z Ukraińcami, pp. 70-79,
e ID., Piszę: “Ukrainiec” ludzie czytają: “obcy”, “zły”, pp. 77-79, in “Borussia”, 41, 2007. Su recenti
polemiche con gli ucraini ortodossi: M. WOJCIECHOWSKI, U prezydenta nie widzą prawosławnych, “Gazeta Wyborcza”, 15-04-2008.
25 Si accusa la politica di praticare una strategia dei “due pesi e due misure” tesa da una parte a
ingigantire le colpe polacche e d’altra parte a calare il silenzio su tutti i crimini ucraini che potrebbero (o si crede potrebbero) incrinare le relazioni ucraino-polacche. In altre parole si sacrificherebbero verità e dovuto omaggio alle vittime sull’altare dei buoni rapporti.
26 Per una sintesi sulle tensioni primaverili: M. WOJCIECHOWSKI, Polska-Ukraina. Nie ma jednej pamięci, “Gazeta Wyborcza”, 22-04-2008.
poloniaeuropae 2010
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
riati ambienti che non ha precedenti. La “rivoluzione arancione” dell’inverno 2004 ha
stimolato in Polonia un’ondata di nuova empatia verso l’Ucraina contemporanea, suscitando in tutti i polacchi un sincero interesse per quel paese, ravvivato sul piano mediatico dall’organizzazione congiunta degli europei di calcio nel 2012. Eppure, secondo gli
scettici, anche dopo la “rivoluzione arancione” la Polonia «guarda a Est con la schiena»27.
Questa osservazione sottolinea la forza magnetica dell’Occidente che attrae la maggioranza delle attenzioni ed energie polacche. Ma significa anche — in positivo — che i polacchi non rivendicano le “patrie perdute” a est né pianificano di recuperarle. Il ritorno
al passato non è all’ordine del giorno: una pietra sopra. D’altro canto se la Polonia volge
lo sguardo altrove è perché — in negativo — accusa un ritardo mentale. Non vi è infatti
proporzione tra le trasformazioni geopolitiche degli ultimi decenni (crollo dei muri, fine
dell’URSS, allargamenti dell’UE) e il modo in cui i polacchi continuano a guardare secondo vecchi prismi al loro est (in particolare alla vicina Ucraina). Un’adeguata svolta spirituale non è ancora avvenuta, i polacchi poco s’interessano alla storia e alla cultura
ucraine (lo stesso dicasi della loro curiosità per gli altri paesi dell’area). Secondo i politologi, la questione fondamentale è la dimensione orientale della Polonia e dell’Unione
Europea. La posta in gioco sarebbe in sostanza geo-storica: trasformare il fattore di debolezza della Polonia (la sua perifericità, il suo essere paraurti tra l’Est e l’Ovest del continente) in forza (il suo diventare spazio di mediazione, di incontro, eventualmente di
sintesi tra l’Ovest e l’Est del continente, tra l’UE e le sue nuove periferie orientali). Il che
significa che il dialogo tra polacchi e ucraini è (ancora) tutto da costruire28.
Sul piano della ricerca storica è invece innegabile che negli ultimi vent’anni gli
studiosi sia polacchi sia ucraini sono riusciti a compiere un enorme lavoro di “ecologia
della storia”. Fermo restando che ciascuna storiografia coltiva il proprio “cortile mnemonico”29, lunghi tratti di strada sono stati percorsi unitamente, con reciproco profitto30. Vent’anni — il tempo di una generazione — non bastano tuttavia a sgrovigliare
tutti i nodi, a risolvere l’insieme delle vecchie contese. Oggi il punto di partenza è costituito dall’esser riusciti a palesare che vi è distanza su talune questioni, diversità di
pesi e misure, disaccordo sul peso relativo dei singoli eventi. L’accordo è dunque sull’evidenza delle reciproche differenze di visuale, accento, interpretazione.
Se i fatti possono ormai dirsi assodati, la nuova frontiera del dialogo polacco-
27
BOHDAN SKARADZIŃSKI, Uwaga na Wschód, Biblioteka “Więzi”, Warszawa 2007.
L. WŁODEK-BIERNAT (a cura di), Po co nam te narody? Debata w Klubie “Goście Gazety”, dibattito
con A. Michnik, M. Nouschi, G. Schwan, R. Traba, “Gazeta Wyborcza”, 16-02-2008.
29 Sul dibattito in Ucraina una utilissima messa a punto di T. STRYJEK, Jakiej przeszłości potrzebuje
przyszłość? Interpretacje dziejów narodowych w historiografii i debacie publicznej na Ukrainie
1991-2004, Instytut Studiów Politycznych PAN-Oficyna Wydawnicza Rytm, Warzawa 2007. Su elementi del dibattito in Polonia si leggerà in italiano P. MORAWSKI, Memorie e politiche della storia in
Polonia, “pl.it — Rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2007, “La Polonia tra identità nazionale e appartenenza europea”, Lithos Editrice, Roma, pp. 332-362.
30 R. NIEDZIELKO (a cura di), Polska-Ukraina: trudna odpowiedź. Dokumentacja spotkań historyków
(1994-2001), kronika wydarzeń na Wołyniu i w Galicji Wschodniej (1939-1945), Naczelna Dyrekcja
Archiwów Panstwowych- Ośrodek Karta, Warszawa 2003; e Polska-Ukraina: trudne pytania (191848), voll. I-IX, Ośrodek Karta, Warszawa 1998-2002.
28
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
ucraino è il superamento del proprio «egoismo del dolore» in cui ciascuno si limita alla
propria esperienza, al proprio punto di vista e prisma particolare. Se tali generalizzazioni sono lecite, ai polacchi interessa evidenziare prevalentemente l’estremismo dei
nazionalisti ucraini dell’OUN-B e dell’UPA, la loro ideologia anti-polacca, i massacri di
polacchi che essi hanno compiuto nella prima metà degli anni Quaranta in Volinia e Galizia, quindi le loro attività (criminali) nella Polonia del sud-est dopo il 1945. Gli ucraini
da parte loro esaltano la resistenza anti-sovietica e anti-nazista dell’UPA31; e puntano
il dito contro le azioni anti-ucraine dell’AK e contro l’ignominia polacca dell’Akcja
“Wisła”. Inoltre gli studiosi ucraini chiedono a quelli polacchi di allargare il raggio della
riflessione, di guardare indietro nel tempo riportando in primo piano due principali ordini di fatti (per limitarci qui al XX secolo). Innanzitutto i cattivi trattamenti inflitti
agli ucraini dai governi della seconda Repubblica polacca, la cui contraddittoria politica
verso le minoranze ebbe esiti amari e fu fonte di tensioni e di irrisolti contrasti. In secondo luogo, e in precedenza, il fatto che la seconda Repubblica fosse riuscita a stabilizzare le sue frontiere orientali solo al prezzo di tre guerre: con l’Ucraina (1918-1919),
con la Lituania (1919-1920) e soprattutto con la Russia bolscevica (1919-1920). Al termine del primo di questi conflitti armati la Polonia vittoriosa poté annettersi l’ex Galizia orientale polacca e la Volinia, aumentando così il suo carattere multietnico, ma
anche la forza dell’opposizione ucraina interna. Mentre al termine della guerra polaccoucraina contro i sovietici, la pace di Riga (1921) fu il “tradimento” polacco che mise fine
per un lungo periodo alle speranze indipendentiste degli ucraini occidentali.
Dal dia-logo al poli-logo
Ogni seria discussione che riguardi la «memoria collettiva» delle popolazioni, le
«pagine bianche» o le «macchie nere» della storia, è per definizione ardua. Ancor più
spossante è la fatica di ragionare sui “grumi di fatti”, nel duplice senso di sangue rappreso e di eventi coagulati. Polacchi e ucraini hanno deciso dopo l’Ottantanove di riconciliarsi, di cicatrizzare le ferite del passato. Per una efficace ecologia della storia,
l’approccio bilaterale è condizione necessaria ma non sufficiente. Si prenda l’esempio
di Tłuste-Tovste, nell’Ucraina occidentale, a metà strada tra Ternopil’ e Chernivtsi. È una
cittadina tri-nazionale che nel 1900 contava 3778 abitanti, di cui 1077 grecocattolici (di
lingua ucraina), circa 400 cattolici romani (di lingua polacca) e oltre due mila ebrei (parlanti jiddish e polacco)32. Oppure l’esempio di Lemberg-Lemberik-Lwów-Lvov-L’viv così
descritta da Leopold Unger: «città di tre nazioni: polacchi, ucraini ed ebrei (non contando armeni, karaimi, tartari, ecc.), città di tre aspirazioni/ambizioni, tre filosofie,
31
Sulle polemiche che suscitano all’estero e tra gli stessi ucraini i tentativi di riabilitazione dei
combattenti dell’OUN e dell’UPA, vedi G. MOTYKA, Ukraińska partyzantka, op. cit., pp. 651-660.
32 B. BERDYCHOWSKA, Ukraina: ludzie i ksiąszki, Kolegium Europy Wschodniej, Wrocław 2006, pp. 9-32.
Si veda anche l’interessante sito che cerca di raccontare la storia del luogo da tre prospettive diverse: www.tovste.info/index.php.
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Polacchi e ucraini: dal dia-logo al poli-logo
lingue, religioni e di un numero infinito di conflitti che s’intersecano». «I miei genitori
— racconta Unger — sono nati, si sono sposati e hanno messo su famiglia in Austria,
hanno costruito la loro esistenza nella Polonia indipendente, sono morti nella Germania nazista, sono stati sepolti in una tomba sconosciuta nell’Ucraina sovietica. Tutto
ciò senza mai cambiare indirizzo in via Gródecka 99 a Lwów»33. In tutti questi casi, una
sola è la conclusione: i territori non sono mai uniformi. Piuttosto sono simili alle zone
di frontiera, vale a dire che dobbiamo immaginarli come complesse aree di transizione,
di intersezione, di scambi e di dinamici incontri umani, in cui la mescolanza anche sul
piano dei sentimenti di appartenenza è moneta corrente. In altri termini: il dialogo polacco-ucraino non riguarda esclusivamente polacchi e ucraini. Anche gli ebrei, i russi, i
bielorussi, i tedeschi o i cechi o gli armeni hanno molto da dirci in proposito. È dunque
necessario passare dal dia-logo al poli-logo a rafforzamento della convinzione che anche
la particolare rappacificazione polacco-ucraina è questione europea34.
33
Dal blog di Leopold Unger (http://unger.blox.pl/html), Mój berliński kadysz, 19-09-2007.
Per un approccio ad ampio spettro che cerca di spiegare al lettore (tedesco in questo caso, nella
traduzione polacca) la complessità di ciò che è accaduto in Polonia nel corso della seconda guerra
mondiale, legando in un quadro d’insieme le diverse popolazioni che sono state allora “mandate
via (anche lontano), cacciate, espulse, sfrattate, sgomberate, forzatamente sloggiate, confinate,
esiliate, portate via, evacuate, deportate, tolte, eliminate (da un dato territorio), allontanate, trasferite, costrette a emigrare o a scappare, portate altrove, spostate (nello spazio)”, e quelle che
sono poi “tornate” o sono state “rimpatriate”, vedi THOMAS URBAN, Utracone ojczyzny, Czytelnik,
Warszawa 2007.
34
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Il museo virtuale Kresy-Siberia
di Krystyna Kalinowska Moskwa
Si sono incontrati su Internet
L’idea di un museo in rete, dedicato ai deportati polacchi in Siberia, è nata oltre
i confini della Polonia. I suoi ideatori vivono in diversi paesi, sparsi nei vari continenti.
Non hanno una sede, né uno studio, né questo è il loro lavoro fisso. Ad unirli è stata la
ricerca delle loro origini, delle radici familiari che affondano in terra polacca.
«Siamo i discendenti dei deportati in Siberia [Sybiracy o Sybiraki]. Parliamo polacco. Della storia della mia famiglia non sapevo un granché. Ho cominciato a interessarmene solo quando sono diventato padre», racconta Stefan Wiśniowski, nato in
Canada, attualmente residente a Sydney, presidente della Fondazione Kresy-Siberia,
con sede a Varsavia1. Suo nonno Lucjan venne deportato ad Archangel’sk con il figlio
Zbigniew, padre di Stefan.
Per i miei figli ho cominciato a indagare su come e perché mio padre fosse
finito in Canada. Ho saputo che se adesso sono vivo è grazie all’eroismo della
nonna, la quale riuscì per miracolo a tenere in vita mio padre in Siberia. E quando
sono venuto a conoscenza della nostra storia, ho iniziato a fare scorrerie su Internet e, così, mi sono imbattuto in un gruppo di persone che avevano un destino simile al mio. All’inizio eravamo in otto. Ci scambiavamo ricordi e fotografie. Ci
faceva riflettere il fatto di come fosse possibile che ovunque la gente fosse a conoscenza dei campi di concentramento, dell’Olocausto, del bombardamento di
Pearl Harbour e di altri orrori della seconda guerra mondiale, mentre soltanto
pochi sapevano quel che era accaduto ai cittadini polacchi dei territori orientali
della Polonia (Kresy2). Essi hanno vissuto l’inferno. Eppure di tutto ciò, fuori della
Polonia, nelle lezioni di storia a scuola non si dice nulla.
Col tempo questo piccolo gruppo di discussione su Internet, formatosi nel 2001, ha
iniziato a crescere. Oggi conta oltre novecento membri. La maggior parte di loro vive
in Polonia, negli Stati Uniti d’America, in Gran Bretagna, in Canada, in Australia, in
www.kresy-siberia.org
Kresy, maschile plurale in polacco: si tratta delle “terre”, delle “marche”, delle “distese” orientali appartenute alla Polonia prima delle spartizioni di fine Settecento e poi, con estensione già
ridotta, tra le due guerre mondiali. In seguito allo spostamento verso ovest delle frontiere polacche dopo il 1945, queste terre fanno parte oggi delle odierne repubbliche di Lituania, Bielorussia
e Ucraina.
1
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poloniaeuropae 2010
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Il museo virtuale Kresy-Siberia
Nuova Zelanda, in Sudafrica, ma alcuni vivono anche in Italia, in Argentina e nella lontana Russia. Sono gli ex deportati polacchi in Siberia che, durante l’esilio, hanno vinto
la loro battaglia per la vita e che dopo la guerra si sono stabiliti fuori dei confini della
patria polacca; così anche i loro figli. Tra essi ci sono ex prigionieri dei campi di lavoro,
soldati dell’esercito di Anders e le loro famiglie. Ora, sempre più spesso, si associano
alle loro iniziative nipoti e pronipoti. L’età dei membri della rete oscilla così tra i 24 e
gli 84 anni o addirittura oltre. Vogliono fare ricerche, vogliono fissare nella memoria e
far conoscere la storia dei «cittadini polacchi deportati, imprigionati e trucidati dall’apparato repressivo sovietico durante la seconda guerra mondiale». A questo scopo,
nel 2008, hanno costituito prima un Comitato promotore del Museo virtuale KresySiberia e, poi, la Fondazione Kresy-Siberia con sede a Varsavia, per dare inizio ai lavori
per la realizzazione di questo progetto unico nel suo genere.
Salvare le tracce
Ecco una testimonianza sulla fine di una famiglia:
Furono portati via il 14 aprile 1940. Entrambi — Paulina e Piotr Konopka, proprietari di un’azienda agricola di settanta ettari situata nei pressi di Białystok, genitori di sei figli — avevano 67 anni. Furono spinti in un vagone sovraccarico di un
treno merci sovietico. In condizioni disumane raggiunsero, dopo alcune settimane
di viaggio, Pavlodar, in Kazakistan. Da lì furono condotti in una steppa profonda e
lasciati su territori desolati. Pare che col tempo abbiano imparato a mangiare le
bucce di patate, sembra che Piotr si sia rifiutato di uscire per andare al lavoro e
pare che sia morto per primo. Quando la moglie lo seguì — questo non si sa. Non
si sa dove siano le loro tombe, sempre che queste esistano realmente. Forse i loro
corpi sono stati buttati in una fossa e ricoperti di calce.
Perché il destino ha riservato loro tale sorte? Perché erano polacchi, proprietari
terrieri e vivevano sui territori orientali del Paese, perché avevano dato un’istruzione
ai figli; e i figli — ingegneri — come ufficiali dell’esercito polacco avevano difeso la
Polonia all’inizio della seconda guerra mondiale e, nel 1940, erano finiti nei campi per
i prigionieri di guerra. Questa è stata la loro colpa.
Questa singola storia esemplare non ha avuto ancora il suo epilogo. I discendenti,
i nipoti dei deportati, continuano a cercare i luoghi della deportazione e il luogo del
riposo eterno dei loro avi. Fino a questo momento non esiste una registrazione completa
di tutte le persone deportate dai territori orientali verso i luoghi più remoti della Russia. Si stanno realizzando dei database e degli indici delle persone cacciate dalle loro
case, imprigionate, trucidate nel lontano Oriente. Tuttavia, gli storici polacchi non riescono ad avere pieno accesso agli archivi dei servizi di sicurezza sovietici che potrebbero documentare tali crimini. Si parla di centinaia di migliaia, ma addirittura di un
milione di vittime. Esse vengono definite col termine Sybirak, anche se non tutti i
deportati polacchi sono finiti in Siberia. Dalle memorie, dalle ricerche storiche, dai
documenti di famiglia, da brevi filmati veniamo a conoscere il loro dramma, la loro
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
“geenna”, le condizioni disumane della loro vita. Al riguardo le notizie aumentano a
partire dal 1990. Ma ci sono vittime il cui nome non figura in alcun elenco, nessuna
fonte le menziona. Eppure sono persone esistite; hanno avuto una famiglia, dei vicini;
sono rimaste nella memoria dei loro cari. Da qualche parte ci deve pur essere una qualche loro traccia.
Cercare di rintracciare e di salvare dall’oblio ogni singola vita che fu condannata
dal totalitarismo sovietico alla sofferenza e all’umiliazione; documentare, approfondire, scolpire nella memoria nazionale, trasmettere tale bagaglio di informazioni alle
future generazioni, diffonderle nella storia mondiale — ecco il compito del Museo
virtuale Kresy-Siberia, che è stato inaugurato a Varsavia, nella sede del Senato della
Repubblica di Polonia, il 17 settembre 2009, nel settantesimo anniversario dell’invasione
sovietica della Polonia. Lo stesso giorno le ambasciate polacche a Londra, Toronto e
Sydney e, più tardi, a Washington, hanno organizzato un solenne “primo clic”.
Virtuale non significa morto
«Anche se il Museo raccoglie avvenimenti ed esperienze tragiche, desideriamo imprimere ad esso il carattere di un monumento vivo all’eroismo delle centinaia di migliaia
di cittadini polacchi che hanno combattuto per sopravvivere all’esilio e in seguito hanno
lottato per una Polonia libera», dice Aneta Hoffmann, direttrice generale del Museo
virtuale Kresy-Siberia.
Abbiamo progettato venticinque sale, ciascuna dedicata a un argomento. In ognuna di esse, accanto ad un’ampia descrizione storica, saranno presentate le relazioni dei testimoni, fotografie e documenti
filmati. Una parte importante del Museo è costituita dal muro della Memoria sul quale sono scritti i nomi delle vittime della repressione sovietica (oltre 32 mila fino ad ora), dai quali partono i link che conducono al
database e ai documenti. Stiamo progettando mostre temporanee e pure
delle sale della Memoria individuali. Qui sarà possibile raccogliere documenti personali e cimeli riguardanti le sorti delle singole famiglie, che
narreranno ai navigatori su Internet di tutto il mondo questa pagina della
nostra storia bellica. Prevediamo due versioni linguistiche: una in polacco
e l’altra in inglese e, in seguito, anche una in russo. Quello che siamo
riusciti a realizzare fino a questo momento si può vedere all’indirizzo
www.kresy-siberia.org.
Il Museo è una grande iniziativa storica e informatica della Fondazione KresySiberia, ma una iniziativa ovviamente assai esigente. L’attuazione del programma espositivo e operativo delle pagine/sale museali, prevista per i prossimi due anni, non è
possibile senza significativi contributi finanziari. Così, per esempio, la registrazione
audiovisiva dei ricordi degli ultimi testimoni oculari e dei protagonisti di quegli avvenimenti. Sono necessarie attrezzature e personale. La documentazione deve essere
verificata ed elaborata da storici competenti. Col passar del tempo appaiono nuove
poloniaeuropae 2010
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Il museo virtuale Kresy-Siberia
tecnologie, pertanto è indispensabile un continuo aggiornamento. La modernizzazione
della programmazione esige il controllo da parte dei migliori informatici. Sottolinea in
proposito Aneta Hoffmann:
Cerchiamo continuamente degli sponsor. La tematica e la portata mondiale
del Museo ci obbligano ad assicurare al nostro avamposto virtuale un livello altissimo. Siamo molto contenti del fatto che tante persone rispondano al nostro appello, non limitandosi solo a un gesto di cordialità, ma dandoci anche sostegno
finanziario. Noi esistiamo grazie a ciò. Godiamo dell’appoggio di numerose persone
in vista nel mondo della scienza e della politica, e del sostegno delle organizzazioni dei polacchi all’estero. Tra le personalità favorevolmente disposte nei nostri
confronti c’è, tra gli altri, il professor Zbigniew Brzeziński, ex consigliere del presidente degli Stati Uniti per le questioni riguardanti la sicurezza, e Michael Schudrich, rabbino capo della Polonia.
Il presidente della Fondazione Kresy-Siberia, Stefan Wiśniowski, è venuto da
Sydney insieme al padre in occasione dell’inaugurazione a Varsavia della prima tappa
della costituzione del Museo. Al parlamento polacco ha detto: «Vorremmo dire ai
Sybiracy [deportati in Siberia] ancora in vita: guardate, questo è il vostro museo, abbiamo vinto, salveremo tutti dall’oblio».
Occorre aggiungere che il Museo nasce in gran misura grazie alle persone che dedicano a questa idea il loro tempo libero fuori dagli impegni professionali. La stessa
Aneta Hoffmann, che in Polonia è a capo dell’iniziativa, è una giovane economista con
un incarico di grande responsabilità e madre di due bambini.
A nome del direttivo della Fondazione, rivolgiamo il seguente appello:
Se voi, o i vostri conoscenti, siete in possesso di documenti, fotografie o illustrazioni sconosciute riguardanti questo capitolo della storia polacca, vi preghiamo di mettervi in contatto con noi. Tali documenti potranno essere utili per
arricchire le sale e le gallerie del Museo. Inoltre, raccogliamo e registriamo le testimonianze degli ex deportati in Siberia [Sybiracy] e degli ex abitanti dei territori
orientali della Polonia [Kresowianie o Kresowiacy o przesiedleńcy z kresów] sparsi
per il mondo.
Fundacja Kresy-Syberia
ul. Krakowskie Przedmieście 64, 00-322 Warszawa, Polska - Tel. +48 22 5569055
[email protected]
Krystyna Kalinowska Moskwa, polonista e giornalista. Ha lavorato alla radio polacca e
in teatro come responsabile letteraria. Dal 1992 al 2006 è stata amministratrice della
Biblioteca e del Centro di studi di Roma dell’Accademia Polacca delle Scienze (PAN).
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń pubblicati su “La vita italiana”
(luglio 1943)
di Vincenzo Maria Palmieri
Sabato Santo 24 aprile sono stato telefonicamente avvisato che il Governo germanico mi aveva, col consenso delle nostre Autorità, designato a far parte di una Commissione internazionale, invitata a recarsi immediatamente al fronte russo presso
Smolensk, onde procedere ad un’inchiesta medico-legale sui cadaveri esumati in gran
copia nella foresta di Katyń.
Avevo già letto qualche notizia sull’argomento nei nostri giornali, senza certo supporre che avrei avuto l’onore e la responsabilità di dare il mio contributo, ed in una
forma così solenne, ad un giudizio scientifico collegiale sulla triste scoperta.
La domenica di Pasqua ero già in viaggio per Roma, e di lì, espletate le necessarie
formalità, proseguii in aereo per Berlino, dove la Commissione era convocata per il
martedì 27.
Colà ci trovammo infatti in 14, appartenenti ai seguenti Paesi: Belgio, Bulgaria,
Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Italia, Olanda, Protettorato di Boemia e Moravia, Rumenia, Slovacchia, Spagna, Svizzera ed Ungheria; il delegato spagnolo, prof.
Piga, aveva però talmente sofferto nel viaggio in aereo che non riteneva possibile proseguire, sicché, con suo e nostro rammarico, riprese la via di Madrid. Il delegato francese, prof. Costédoat, generale medico, inviato dal suo Governo, prese parte ai lavori
della Commissione come osservatore.
In due aeroplani militari ripartimmo subito via Varsavia, per Smolensk, dove siamo
stati ospiti del Quartier generale tedesco.
A Smolensk ha pure sede il servizio medico-legale del gruppo di armate del fronte
centrale tedesco-russo, diretto dal valente collega prof. Buhtz, ordinario di medicina
legale dell’Università di Breslavia, il che ci ha permesso di avere a disposizione i mezzi
tecnici ed il personale ausiliario di cui avevamo bisogno.
Riassumiamo anzitutto i fatti che hanno dato origine all’inchiesta.
Verso la fine del febbraio di quest’anno, nel bosco al margine della strada KrasniborKatyń, circa al km. 14,5 da Smolensk, un gruppo di operai alle dipendenze dell’Autorità militare tedesca, mise allo scoperto una fossa comune, nella quale giacevano
numerosissimi cadaveri.
Tale ritrovamento non fu propriamente casuale, anzi era il risultato di scavi di saggio, a seguito delle deposizioni raccolte dalla polizia militare germanica tra gli abitanti
del luogo, secondo cui dal marzo ai principi di maggio 1940 ogni giorno erano giunti alla
stazione ferroviaria di Gniesdowo parecchi vagoni, nei quali viaggiavano militari riconoscibili anche da lontano per le uniformi, come ufficiali polacchi, e raramente qualche civile.
poloniaeuropae 2010
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I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń...
Erano ad attendere costoro degli autocarri, che li trasportavano rapidamente in direzione di Katyń; la strada anzidetta è orlata per la lunghezza da 3 a 4 chilometri da
un bosco, il quale da vari anni era notoriamente prescelto per le esecuzioni della Gepeù;
il comprensorio d’altronde faceva parte di una stazione di riposo per alti funzionari
della polizia segreta sovietica, il cui fabbricato è in suggestiva anzi romantica posizione
presso un’ansa del Dnieper all’estremità sud-occidentale della selva.
Testimoni oculari dell’ulteriore destino dei prigionieri non ce n’erano stati, poiché
l’ingresso del bosco era precluso agli estranei; si udirono però colpi d’arma da fuoco e
grida, il che fece ritenere che fossero stati giustiziati in massa.
Scoppiata la guerra tra la Germania e la Russia nel giugno 1941, Smolensk fu occupata nell’autunno successivo dalle truppe tedesche; nella primavera del 1942, polacchi al seguito di un’unita germanica che attraversava la zona iniziarono, su
indicazioni di abitanti del luogo, scavi di saggio nella foresta di Katyń, che condussero
allo scoprimento di cadaveri. Le due piccole croci di betulla lasciate sul luogo furono,
nel marzo 1943, il punto di partenza dei sondaggi iniziati dalle Autorità militari tedesche, in maniera sistematica.
Questi furono coronati dal più completo ed insieme raccapricciante successo; ad
1,5 metri circa di profondità, fu potuta circoscrivere una fossa delle dimensioni di m.
28 x 16, la quale conteneva press’a poco 2.500-3.000 cadaveri.
I saggi proseguirono tutt’intorno e dettero in altri sei punti risultato positivo; piuttostocché di altre sei distinte fosse, sembra peraltro che esse ne costituiscono una sola,
di ampiezza duplice o triplice di quella già completamente esplorata.
Sin dal primo incontro dei membri della Commissione internazionale a Berlino, la
sera del 27 aprile, furono stabilite le direttive generali dell’inchiesta che si andava
compiendo.
Premesso che il compito era — e non poteva concepirsi diversamente — puramente
scientifico, la Commissione diveniva un collegio peritale internazionale, incaricato di
compiere accertamenti medico-legali tanatologici, ed i quesiti che ci proponemmo furono quegli stessi che il magistrato suole prospettare ai periti in occasione del ritrovamento di uno o più cadaveri:
1) identificazione dei cadaveri;
2) causa della morte;
3) epoca a cui questa risale.
Per assolvere tali compiti la Commissione si è servita dei seguenti mezzi:
a) sopraluogo;
b) interrogatorio dei testi;
c) esame di documenti trovati addosso ai cadaveri;
d) esame esterno di un gran numero di cadaveri;
e) autopsie di alcuni di essi.
Le Autorità militari germaniche hanno messo a nostra disposizione tutti i mezzi, di
ogni genere, di cui potessimo aver bisogno ed hanno cercato di facilitare in ogni modo
l’esecuzione del nostro compito.
Sede ufficiale della Commissione è stata la città di Smolensk, o più esattamente
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
quanto di essa è rimasto o è stato riadattato dopo l’incendio totale provocato dai russi
prima di abbandonarla.
La bella città sul Dnieper, posta sulla grande strada storica che dal Baltico mena
al mar Nero, collegando il Nord all’Oriente Europeo, ha sempre rappresentato un punto
di confluenza di popoli, di commerci, ed all’occorrenza di scontri guerreschi, come nel
1812, durante l’epopea napoleonica, ed ora nel 1941.
Dei suoi numerosi monumenti storici ed artistici sopravvivono la Cattedrale (ortodossa) ricostruita nel secolo XVII, trasformata dai bolscevichi in museo antireligioso ed
ora restituita al culto, le antiche mura di cinta ed il monumento, fatto erigere nel 1912,
a ricordo del centenario della battaglia franco-russa.
La Commissione fu alloggiata nell’ex albergo Molotoff, ora Haus der Wehrmacht,
al centro della città. Un autobus, costantemente a nostra disposizione, faceva la spola
tra la città ed i luoghi che volevamo visitare.
Anzitutto la foresta di Katyń, a circa km. 15 da Smolensk, come ho detto.
Il caratteristico odore della materia organica in decomposizione ci avverte che
siamo giunti; delle sentinelle ed un recinto di ferro spinato inibiscono l’ingresso della
zona, cui il pubblico può accedere solo in ore determinate e con guida.
Uno spettacolo grandiosamente sinistro, che richiederebbe il verso di Dante o il pennello di Michelangelo, ci si scopre improvvisamente dinanzi; in una radura declinante tra
magri pini e betulle, ancor più miseri al confronto dei robusti esemplari della selva circostante, grandi fosse a gradinate contengono centinaia di cadaveri accatastati in istrati
sovrapposti; tutti in posizione ventrale, e per lo più con le gambe distese.
Le fosse sono profonde vari metri e gli strati numerosi; le salme vi sembrano disposte con un certo ordine alla periferia, piuttosto alla rinfusa al centro.
Sul terreno libero tra una fossa e l’altra sono poi disposti in serie, uno accanto all’altro, i cadaveri già esumati: tutti sono completamente vestiti; circa la metà di essi
ha le mani legate al dorso.
Lo stato di conservazione è generalmente discreto, il che è evidentemente in rapporto al clima freddo della zona ed ancor più al terreno sabbioso nel quale i cadaveri
sono stati inumati.
Si possono osservare diversi gradi e forme di decomposizione, subordinatamente
alla disposizione dei cadaveri nella fossa e tra loro; quelli alla superficie ed ai margini
del blocco cadaverico versano in uno stato più o meno avanzato di mummificazione,
mentre negli strati intermedi sono evidenti anche processi di macerazione, dovuti al
confluire degli umori organici degli strati superiori.
Su numerosi tavoli già predisposti facciamo portare delle salme da noi stessi indicate, sia tra quelle giacenti tuttora nelle fosse, sia tra quelle già esumate, e ciascuno
inizia le proprie osservazioni, dettandone i risultati al segretario.
La prima fase dell’esame macroscopico concerne l’identificazione.
I cadaveri sono, come ho detto, completamente vestiti e gli abiti sono facilmente
riconoscibili come uniformi invernali di ufficiali polacchi: cappotto militare con gradi,
giacca di cuoio, divisa, decorazioni, stivali; anche la biancheria è completa, con tutti
gli annessi, bretelle, cinghie, giarrettiere.
Uniforme e biancheria si adattano perfettamente alle dimensioni della salma; tutto
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I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń...
è abbottonato ed indossato in ordine; l’impregnazione di umori organici, le pieghe degli
abiti, la loro perfetta adesione alle particolarità dei tessuti cadaverici, fanno concludere
che quegli individui sono stati inumati con l’uniforme portata al momento della morte.
La visita delle tasche porta generalmente al rinvenimento di portafogli, lettere, giornali, carte dalle quali si desume in oltre due terzi dei casi la precisa identità del cadavere.
La leggibilità dei documenti è per lo più soddisfacente, e per la interpretazione ci
avvaliamo di interpreti giurati, egualmente a nostra disposizione.
È frequente il reperto di bocchini o portasigarette di legno, che portano incisa la
parola Kosielsk nome di un campo di concentramento sovietico; vi si trovano pure borse
da tabacco, scatole di sigarette e di fiammiferi polacche, parecchie banconote polacche, nonché spiccioli egualmente polacchi, non però oggetti di valore (anelli, orologi),
ad eccezione di qualche medaglia; protesi dentarie di oro sono invece conservate; in un
caso da me esaminato mancava peraltro l’intera dentatura, che dall’esame degli alveoli, si deduceva essere stata sostituita da tempo da una protesi completa.
La Commissione ha poi proceduto all’esame testimoniale di parecchi contadini
russi della località, i quali hanno confermato le dichiarazioni già note circa l’arrivo dei
treni carichi di ufficiali polacchi alla stazione di Gniesdowo tra il marzo e l’aprile 1940,
il loro successivo trasporto mediante autocarri nella foresta di Katyń, le grida, i colpi
d’arma da fuoco uditi, e la scomparsa di tutti quei militari.
Per completare il sopralluogo, ci siamo pure recati alla stazione ferroviaria di Gniesdowo ed al villaggio di Katyń, ed abbiamo visitato la villa già adibita a luogo di riposo
degli agenti della Ghepeù, ora occupata dagli ufficiali tedeschi.
I documenti repertati sulle salme già esaminate sono raccolti in un ufficio della polizia campale germanica a poche centinaia di metri dalla foresta, e colà abbiamo speso
alcune ore ad esaminarli.
II materiale non fa davvero difetto: tessere, lettere, fotografie, diarii, giornali,
oggetti personali.
Tutti i documenti sinora raccolti lasciano concludere senz’ombra di dubbio che i cadaveri appartengono ad ufficiali polacchi, che dopo l’occupazione della Polonia Orientale, da parte delle armate russe, nell’ottobre 1939, sono stati trasferiti in campi di
concentramento, specialmente a Kosielsk ed a Starobel’sk.
Dai diarii si desume che questi campi di concentramento furono sciolti nei primi
mesi del 1940 e gli ufficiali avviati verso occidente, e quindi verso la Patria.
Particolarmente interessante al riguardo è il diario del maggiore Siolski che descrive
dettagliatamente la sorte del convoglio dalla partenza dal campo di Kosielsk il 7 aprile
1940; il viaggio per Jelnia, Smolensk fino a Gniesdowo. Il 9 aprile, nelle prime ore del mattino i prigionieri furono fatti salire su autocarri che, fortemente scortati, si diressero
verso la foresta di Katyń. Le ultime note di Siolski sono scritte nel bosco, molto probabilmente pochi minuti prima dell’esecuzione; l’ufficiale si meraviglia dei maltrattamenti
improvvisamente inferti ai prigionieri, e si domanda perché essi hanno dovuto consegnare
temperini, orologi, ecc., mentre pensavano di essere restituiti alle loro famiglie.
La quasi totalità dei giustiziati appartiene all’ufficialato, di tutti i gradi, da sottotenente a generale di brigata; pochissimi borghesi ed un solo cappellano militare; secondo gli abitanti del luogo si dovrebbero trovare anche donne e soldati finlandesi e
lituani.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Il numero dei cadaveri può valutarsi a circa 10.000.
L’intervento della Croce Rossa polacca facilita il compito della identificazione;
fino al 30 aprile sono stati esumati 812 cadaveri, di cui 583 sono stati immediatamente
identificati; per altri 150-200 erano in corso trattamenti chimici sui documenti in modo
da ripristinare la leggibilità del testo; si può presumere che solo nel 5% l’identità delle
vittime rimarrà sconosciuta.
Il secondo quesito propostoci era quello della causa della morte di questi ufficiali
polacchi.
Esso fu assolto mediante l’esame esterno di gran numero di cadaveri, completato
in parecchi casi dall’autopsia.
Il risultato di queste indagini fu assolutamente univoco: tutti, senz’alcuna eccezione, i cadaveri portavano la traccia di un colpo di arma da fuoco alla nuca, generalmente nella lamina orizzontale dell’occipitale, in prossimità del margine posteriore del
forame omonimo; raramente i fori di entrata erano duplici, in un solo caso — proprio
uno di quelli da me esaminati — triplice.
Il proiettile aveva traversato il cervelletto ed il cervello diagonalmente, uscendo
al sommo del capo o alla fronte, press’a poco sulla linea d’impianto dei capelli; raramente era rimasto nella cavità cranica, come in un caso capitato alla mia osservazione.
Il calibro del proiettile è costantemente inferiore ad 8 millimetri; quello da me repertato misura 7,65.
Il colpo è stato esploso a contatto o ad immediata vicinanza; ne fanno fede il frequente reperto di residui di carica nel foro osseo e le linee di frattura che da esso si dipartono. Talvolta queste fratture sono estese ed interessano uno od ambedue gli
occipitali; in qualche caso una linea di frattura congiunge il forame di entrata con quello
di uscita; raramente si osserva un vero e proprio scoppio del cranio.
Nessun’altra lesione si osserva sul resto del corpo, ad eccezione di qualche rara ferita a croce d’arma da punta, facilmente identificabile per una baionetta a quattro spigoli; queste lesioni non hanno interessato organi vitali, anzi sono piuttosto superficiali.
Se ne conclude che la causa unica ed esclusiva della morte è stata per tutti i casi
uno (raramente due, eccezionalmente più) colpi d’arma da fuoco di calibro inferiore ad
8 mm., esplosi a contatto o a bruciapelo in un punto determinato della regione nucale;
il decesso ha dovuto essere immediato.
L’uniformità della causa letifera, della sede della lesione, del calibro dell’arma,
dello stesso decorso del proiettile su di un numero così notevole di vittime fa ritenere
per certo essersi trattato di un’esecuzione sistematica, realizzata da persone particolarmente esperte.
Aggiungasi che le stesse caratteristiche si riscontrano in cadaveri di civili, ritrovati
nella stessa zona, e, secondo le deposizioni raccolte dagli abitanti del luogo, questo genere di esecuzione sarebbe tipicamente quello in uso presso gli agenti della Ghepeù, il
che verrebbe pure confermato dal tipo di legatura delle mani al dorso, che è comune
nei civili giustiziati in Russia.
In un caso da noi esaminato in quei giorni è risultato che l’ufficiale polacco, oltre al
solito colpo alla nuca, presentava la traccia di un proiettile strisciante su di un parietale,
di cui aveva interessato soltanto il tavolato esterno. Ne abbiamo concluso che il proiet-
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I risultati dell’inchiesta nella foresta di Katyń...
tile, dopo aver attraversato il cranio di un’altra vittima, aveva colpito il soggetto già
morto e giacente al suolo. Questa circostanza lascia ritenere che l’esecuzione sia avvenuta nella stessa fossa, per evitare l’incomodo del trasporto, e che i giustiziandi fossero
disposti con la testa flessa in avanti ed in basso, probabilmente in ginocchio.
Il terzo ed ultimo quesito propostoci è stato quello dell’epoca cui la morte delle
vittime poteva farsi risalire.
Secondo le deposizioni raccolte, le esecuzioni erano avvenute tra il marzo e l’aprile
1940, cioè esattamente tre anni fa. Poteva questa retrodatazione venir confermata
obiettivamente?
Gli elementi che ci hanno servito per la formulazione del giudizio peritale sono
stati di vario genere, e precisamente:
1) anatomo-patologici;
2) botanici;
3) documentari;
4) entomologici.
Lo stato di conservazione dei cadaveri e la loro parziale mummificazione potevano
darci in proposito elementi alquanto vaghi, facendoci al più presumere che il decesso
risalisse ad oltre un anno; una maggiore precisazione è stata possibile, applicando i risultati di alcune precedenti osservazioni del prof. Orsòs, membro della nostra Commissione e professore di medicina legale e criminalistica all’Università di Budapest.
Egli ha, cioè, fatto rilevare nella cavità cranica di alcuni cadaveri un’incrostazione
calcareo-tufacea a più strati alla superficie della massa cerebrale già ridotta in purea
omogenea argillosa, che, in base alla sua esperienza, non si osserva nei cadaveri inumati da meno di tre anni.
In lunghi anni di esperienza tanatologica su cadaveri, esumati dopo almeno 3-4
anni dalla morte, il prof. Orsòs ha osservato nella fossa cranica posteriore di scheletri
altrimenti completamente intatti, alterazioni consistenti in rammollimenti, erosioni,
carie, depositi duri e talora addirittura perdite di sostanza.
Nelle zone rammollite ambedue le parti laterali dell’occipitale e la metà inferiore
della squama potevano venire talora arrotolate come croste di pane umido; durante il disseccamento tuttavia la zona ossea decalcificata si lacerava e si deformava spontaneamente.
La limitazione dell’alterazione ad una zona così circoscritta poteva far pensare a
qualche processo morboso dell’osso, per esempio ad una lesione tubercolare, o ad una
metastasi blastoma tosa, il che tuttavia era escluso in base alla anamnesi.
Queste alterazioni sono state costantemente notate in quella parte del cavo cranico nelle immediate vicinanze della quale la poltiglia cerebrale ispessita si era da lungo
tempo adagiata; sulla superficie di quest’ultima, in prossimità dell’osso si era invece costituito un deposito calcareo-tufaceo, grigiastro bianco-sporco o giallo-ocra chiaro, falciforme, che dava subito all’occhio.
La superficie anteriore di questo aggregato untuoso è formata da uno strato finemente cristallino, di notevole resistenza, che si ispessisce progressivamente a gradinate e si solleva verso il mezzo dell’osso sino a raggiungere l’altezza di 33 mm. e lo
spessore di 10; attraverso il forame occipitale esso si estende anche in basso sull’articolazione occipito-atlantoidea.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Chimicamente è costituito da sostanze inorganiche nella proporzione di oltre il
75%, per il 15% di sostanze organiche e per circa il 10% di acqua. La parte inorganica risulta nella quasi totalità di calcio e fosfato di magnesio.
Si tratta di modificazioni post-mortali, corrispondenti ad uno stato avanzato di putrefazione, consistenti in decalcificazione ed eliminazione di una concrezione, che l’Orsòs ha paragonato ad un “pseudocallo”.
La sua origine viene così interpretata: col progressivo raggrinzarsi del cervello si
accumulano nella poltiglia residua fosfati, grassi ed acidi grassi; in presenza dell’ossigeno dell’aria gli acidi grassi ed il fosforo agiscono decalcificando l’osso circostante, sottraendogli calcio e magnesio, che si depositano sulla superficie cerebrale costituendo
lo “pseudocallo”.
La nostra attenzione si è rivolta anche alle piante, magre betulle e pini, esistenti
sul terreno delle fosse, ed abbiamo cercalo di stabilirne l’età, facendone prelevare
qualche esemplare per esaminarlo, e richiedendo all’uopo anche l’ausilio di un perito
forestale, che ci è stato fornito nella persona del sig. von Herff. Dalla dichiarazione rilasciata da questi risulta che si tratta di piante cresciute male all’ombra di alberi più
grossi; la loro età era di almeno cinque anni, ma il trapianto in quella sede aveva dovuto avvenire circa tre anni or sono. Questa conclusione è stata confermata anche da
qualcuno dei membri della Commissione particolarmente esperto in botanica.
Inoltre tutti i documenti trovati sui cadaveri (lettere, diarii, giornali) sono esattamente riferibili ad un’epoca che varia dall’autunno 1939 all’aprile 1940; il più recente
documento sin’allora rinvenuto era costituito da un giornale russo del 22 aprile 1940.
Aggiungasi infine che la mancanza assoluta di insetti e di larve sui cadaveri porta
a ritenere che le esecuzioni e le inumazioni abbiano avuto luogo in una stagione fredda.
Al termine dei suoi lavori la Commissione ha redatto una breve relazione peritale,
di cui trascrivo esattamente le conclusioni:
«Nella foresta di Katyń la Commissione ha esaminato sepolture in massa di ufficiali polacchi, delle quali sinora sette sono state aperte.
«Da queste sono stati esumati sinora 982 cadaveri, esaminati ed in parte aulopsiati, e già identificati nella proporzione di circa il 70 per cento.
«La causa della morte è esclusivamente riferibile a colpi di arma da fuoco alla
nuca.
«Dalle testimonianze emergenti da lettere, diarii, giornali trovati addosso alle
salme si rileva che le esecuzioni hanno dovuto aver luogo nei mesi di marzo e di aprile
1940.
«Con queste conclusioni stanno in perfetta concordanza i reperti, descritti nella
relazione nelle fosse e sui singoli cadaveri degli ufficiali polacchi».
Aggiungo che queste conclusioni sono state adottate e sottoscritte all’unanimità,
e che anche nella discussione preparatoria nessun dissenso si è manifestato tra i membri della Commissione.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
François Naville (1883-1968).
Il suo ruolo nell’inchiesta del 1943 sul massacro di Katyń1
di Kazimierz Karbowski
Traduzione di Patrick Chaloum
Il 13 aprile 1943 la radio tedesca annunciò il ritrovamento in una fossa comune di
cadaveri di ufficiali polacchi scomparsi dalla primavera del 1940, nella foresta di Katyń,
nei pressi di Smolensk, una regione che fino [dal settembre 1939] al giugno del 1941 [attacco nazista all’URSS] aveva fatto parte dell’Unione Sovietica. Da successive ricerche
risultò trattarsi quasi esclusivamente di ufficiali precedentemente detenuti nel campo
di Kozielsk.
La notizia suscitò emozioni contrastanti nell’opinione pubblica. Da un lato, forniva il primo indizio concreto sulla possibile sorte di quei prigionieri polacchi, dei quali
non si avevano più notizie da tre anni; dall’altro però, il comunicato sembrava poco credibile, poiché proveniva dal governo di Hitler, il quale da parte sua aveva già ordinato
omicidi di massa nei territori polacchi e sovietici sotto occupazione tedesca; aveva costruito campi di concentramento e di annientamento come Auschwitz, Treblinka ed altri
ancora; e stava portando a compimento nell’aprile del 1943 — con la sanguinaria repressione della rivolta del ghetto di Varsavia — il genocidio di milioni di ebrei polacchi.
A metà aprile i tedeschi organizzarono alcune visite per delle delegazioni in maggioranza polacche a Smolensk e a Katyń. Furono invitati anche alcuni giornalisti stranieri accreditati a Berlino. Fonti polacche2 e americane3 indicano che tra loro si trovava
un certo «Signor Schnetzet del giornale svizzero “Der Bund”». In effetti, nell’edizione
di “Der Bund” di lunedì 15 aprile 1943 troviamo un articolo dal titolo: Smolensk oggi.
Tel. dal nostro corrispondente. Berlino 14 aprile. L’autore raccontava la sua visita a
Smolensk, e riportava la versione dei tedeschi sulla scoperta dei cadaveri di ufficiali polacchi a Katyń, senza però prendere posizione sui possibili responsabili del massacro. Il
suo commento era: «Durante questa guerra sono già stati commessi tanti misfatti, sarà
poi compito degli storici chiarire obiettivamente le reali responsabilità»4.
1
Si ringrazia l’autore per la gentile autorizzazione a tradurre questo testo inedito in italiano, di
cui una più ampia versione in francese è stata pubblicata dal “Bulletin de la Société des Sciences
Médicales du Grand Duché de Luxembourg”, n. 1, 2004, pp. 41-61
(http://www.ssm.lu/pdfs/bssm_04_1_8.pdf).
2 [ZDZISŁAW STAHL], Zbrodnia katyńska w świetle dokumetów, Gryf, Londyn, 1950, p. 191.
3 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn Forest massacre: hearings before the Select Committee to Conduct an Investigation of the Facts, Evidence and Circumstances of the Katyn Forest massacre.
Eighty-second session, Government Printing Office, Washington 1952, Part 5, p. 1719.
4 «Der Bund», Nr. 177, Morgen-Ausgabe, Bern, Donnerstag, 15 April 1943, p. 2.
poloniaeuropae 2010
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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...
Dopo l’annuncio tedesco, la Croce Rossa tedesca5, il governo polacco in esilio a
Londra6 e la Croce Rossa polacca di Varsavia7 chiesero, indipendentemente gli uni dagli
altri, che un comitato d’inchiesta del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR)
fosse inviato a Katyń. Queste richieste non sortirono alcun effetto, poiché il governo sovietico non aveva inoltrato alcuna richiesta in tal senso e il CICR non era disposto a
farsi carico di una tale missione senza l’accordo di tutte le parti in causa8. In un articolo apparso quarantasei anni dopo, Paul Stauffer, ex ambasciatore della Svizzera in
Polonia, precisò che «quella presa di posizione da parte del CICR poteva essere interpretata come un favore reso a Mosca»9.
Messo sotto pressione dal primo ministro inglese Winston Churchill, che temeva
fosse messa in pericolo l’alleanza con i sovietici, il governo polacco in esilio rinunciò in
seguito alla richiesta d’indagini fatta al CICR. Ciò nonostante il governo sovietico, considerando un atto di ostilità nei propri confronti quella richiesta di indagini imparziali
avanzata a suo tempo dai polacchi, il 26 aprile 1943, ruppe le relazioni diplomatiche con
il governo polacco in esilio10.
Nel frattempo i tedeschi decisero di riunire autonomamente una commissione di
esperti internazionali con l’incarico di esaminare le fosse comuni di Katyń. Il 22 aprile
1943 un certo dottor Steiner, medico del consolato generale tedesco a Ginevra, a nome
del ministro della Salute del Reich tedesco chiese al direttore dell’Istituto di medicina
legale dell’Università di Ginevra, il professor François Naville, se volesse e potesse partire il 26 aprile per far parte del collegio di esperti in questione11.
“L’affaire Katyń” e le sue ripercussioni a Ginevra e a Berna
In una lettera datata 23 aprile 1943, indirizzata al «Signor ministro Pierre Bonna,
Dipartimento politico federale, e al Servizio della salute del Dipartimento militare federale», il Professor Naville informava di aver ricevuto da parte del Reich la richiesta
di recarsi a Smolensk «assieme ad altri medici legali di paesi neutrali» al fine di collaborare all’identificazione degli ufficiali polacchi i cui corpi erano stati trovati sepolti
in una foresta nei pressi di quella città. Chiedeva al Dipartimento politico federale «se
vi fossero obiezioni nel caso avesse accettato questa missione», e al Servizio della salute di accordargli l’autorizzazione a lasciare la Svizzera, probabilmente per un periodo
5 Amtliches Material zum Massenmord von Katyn, Deutsche Informationsstelle, Deutscher Verlag,
Berlin 1943, p. 140.
6 HENRI DE MONTFORT, Massacre de Katyn, Crime Russe ou Crime Allemand?, La Table Ronde, Paris 1966
(Presses de la Cité, 1969), pp. 43-44.
7 Amtliches Material..., op. cit., p. 137.
8 ivi, p. 139, p. 141.
9 PAUL STAUFFER, Die Schweiz und die Tragödie von Katyn, “Schweizer Monatshefte”, H. 11, Nov.
1989, p. 902.
10 HENRI DE MONTFORT, op. cit., pp. 53-55.
11 Archives du CICR, Archives privés F. Naville, (Cote FN) Nr. 2.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
di otto giorni. Il Ministro Bonna gli rispose il giorno seguente con un telegramma che recitava: «senza ulteriori informazioni su commissione esperti neutrali costituita dalle
autorità tedesche non vediamo per parte nostra alcun motivo opporci a che voi intraprendiate viaggio a titolo privato e sotto vostra unica responsabilità, se ottenete
congedo militare»12.
Come risulta da alcuni appunti personali datati 23 e 24 aprile 1943 di E. de Haller13,
delegato del Consiglio federale per le opere di mutuo soccorso internazionale e agente
di collegamento del Dipartimento politico federale presso il CICR, il CICR era in contatto
telefonico con il ministro Bonna e con il professor Naville, in merito al previsto viaggio
di quest’ultimo a Smolensk e Katyń. De Haller riporta la dichiarazione di Paul Ruegger
del CICR — che il Professor Naville aveva chiamato — secondo la quale egli aveva «raccomandato al sig. Naville di consultare il Dipartimento politico federale». Il parere di
Ruegger era che «fosse auspicabile che il sig. Naville desse seguito alla richiesta del
Reich, se non altro per attenuare l’effetto della risposta (negativa) data dal CICR a
Berlino. Se fossimo stati al posto del sig. Naville, non accetteremmo tutta questa fretta:
chiederemmo di conoscere la composizione della commissione d’inchiesta, i termini
del suo mandato eccetera». De Haller darà conto in seguito del suo colloquio telefonico
del 24 aprile con il ministro Bonna, annotando: «Constatiamo che non vi è alcun motivo
per opporsi al viaggio del sig. Naville. Il telegramma indirizzato a quest’ultimo il giorno
stesso è stato redatto proprio durante quel colloquio telefonico».
Avendo ottenuto il congedo militare, il 26 aprile il professor Naville partì con il
treno per Berlino, dove l’indomani incontrò il ministro plenipotenziario della Svizzera,
Hans Frölicher, e fece conoscenza anche degli undici membri stranieri del collegio di
esperti in viaggio per Smolensk e Katyń. Egli era l’unico rappresentante di un paese
veramente neutrale. Tutti gli altri medici provenivano da paesi alleati della Germania,
oppure occupati o controllati dalla Germania14.
Trasferita il 28 aprile 1943 da Berlino a Smolensk in aereo, la commissione di
esperti visitò, tra il 28 e il 30 aprile, le fosse comuni nella foresta di Katyń. I medici
eseguirono delle autopsie su alcuni cadaveri di ufficiali polacchi, esaminarono i documenti personali ritrovati, come lettere e appunti, e interrogarono alcuni testimoni russi.
In un rapporto del 30 aprile 1943 si rilevava che «la causa della morte, per tutti i
cadaveri, è da attribuire a un colpo alla nuca».
«In base alle testimonianze, alle lettere, ai diari personali e ai giornali trovati vicino ai cadaveri, risulta che le esecuzioni abbiano avuto luogo durante i mesi di marzo
e aprile 1940»15. Poiché a quella data, e fino all’estate del 1941, il territorio nel quale
furono scoperti i cadaveri si trovava sotto l’egemonia sovietica, l’indicazione relativa
12
ivi, Nr. 3.
Archives fédérales suisses, Berne. E 2001 (E) 11 Bd. 139. B. 55. 11. 43 b. Dossier: «Entsendung
von Ärzten durch das Int. Rote Kreuz nach Russland (Smolensk) zur Identifizierung von Leichen polnischer Offiziere», E. DE HALLER, Affaire de la fosse commune de Katyn (Smolensk).
14 HENRI DE MONTFORT, op.cit., p. 62-64.
15 Amtliches Material..., op. cit., pp. 114-118.
13
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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...
al momento del decesso degli ufficiali polacchi equivaleva ad attribuire ai sovietici la
responsabilità di quegli omicidi.
Tornato a Ginevra il professor Naville fu contattato dal consolato tedesco, su richiesta del Dipartimento degli Affari esteri della Germania, e gli fu chiesto di rendere
una testimonianza radiofonica sui fatti di Katyń. Egli rifiutò, dichiarando che si sarebbe
espresso in pubblico o alla radio solo nel caso in cui l’attività della commissione e i risultati dell’inchiesta fossero stati presentati in forme erronee16. Nove anni più tardi, il
professor Naville spiegò davanti alla Commissione del Congresso americano che il suo
rifiuto fu condizionato dal fatto che egli si riteneva uno scienziato e un medico e non
un propagandista17.
Nel settembre 1943, la regione di Smolensk fu riconquistata dalle truppe sovietiche. Nel gennaio 1944, una commissione di esperti, costituita unicamente da cittadini
sovietici, sotto la presidenza del chirurgo e accademico [Nikolay Nilovich] Burdenko,
eseguì nuove autopsie sui cadaveri degli ufficiali polacchi nelle fosse comuni di Katyń.
Dalle loro conclusioni risultava che «lo stato dei cadaveri mostra che la morte risale approssimativamente a due anni addietro, ossia al tardo autunno 1941», e che sarebbero
stati dunque i tedeschi in quel periodo ad uccidere quegli ufficiali18.
Sulla base di quella perizia, il procuratore sovietico colonnello [Yuri] Pokrovski (o
Pokrovsky) accusò i tedeschi, il 13 e 14 febbraio 1946, di fronte al Tribunale internazionale per i crimini di guerra di Norimberga, «di aver assassinato 11 mila ufficiali polacchi nella foresta di Katyń». Lo specialista bulgaro di medicina legale, il dottor [Marko
Antonov] Markov, ex membro della commissione internazionale di esperti nel 1943,
venne tra altri a testimoniare. Alla fine della guerra, egli era stato accusato in Bulgaria — che si trovava a quel tempo sotto dominazione sovietica — di collaborazionismo
con i tedeschi, per aver preso parte alla perizia di Katyń. Al Tribunale di Norimberga,
il dottor Markov dichiarò che nel 1943 aveva agito sotto costrizione dei tedeschi e che
solo per quel motivo allora egli aveva firmato il protocollo della commissione di
esperti19.
La difesa di [Hermann] Göring chiese allora di chiamare a testimoniare il professor Naville, che dichiarò però di non poter né modificare né aggiungere nulla al verbale
che aveva firmato nel 1943 e che riteneva pertanto inutile una sua testimonianza20.
Alla fine il Tribunale di Norimberga non fece alcun accenno al massacro di Katyń nella
sentenza emessa nei confronti dei tedeschi il 30 settembre e il 1°ottobre 1943. Quel
tribunale — costituito da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica — rinunciò a pronunciarsi sulla questione della responsabilità di quel massacro21.
16 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn…, op. cit., p. 1408 (Fotografia di una lettera del 6 maggio
1943 del Consolato di Germania a Ginevra alla Legazione della Germania a Berna).
17 ivi, p. 1614.
18 HENRI DE MONTFORT, op.cit., pp. 131-135.
19 ivi, pp. 180-183.
20 ivi, p. 181.
21 ivi, p. 184.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Anche dopo quel processo, la tesi che tendeva ad attribuire ai tedeschi la responsabilità dell’uccisione degli ufficiali polacchi a Katyń apparve fondata non solo in Unione
Sovietica, ma anche nei paesi suoi satelliti e nel resto del mondo, agli occhi di tutti i
comunisti.
Al Gran Consiglio di Ginevra, il deputato del Partito del lavoro (comunista) Jean
Vincent l’11 settembre 1946 presentò un’interrogazione sul ruolo ricoperto dal professor Naville, direttore dell’Istituto di medicina legale di Ginevra, nei fatti rimasti tristemente noti come il «Massacro di Katyń». Egli citò i risultati della commissione
d’inchiesta sovietica, così come le dichiarazioni del dottor Markov di fronte al Tribunale
di Norimberga, sostenendo che «il massacro di Katyń è stato incontestabilmente opera
dei tedeschi». Vincent chiese di sapere a quali condizioni il professor Naville avesse accettato la missione propostagli dai tedeschi a Katyń, «se quella missione era stata remunerata, se il Consiglio di Stato avesse autorizzato il dott. Naville a intraprendere
quel viaggio e, se sì, chi avesse incassato gli onorari versati dal governo tedesco». In risposta a Vincent, Albert Picot, vice presidente del Consiglio di Stato, fece rilevare che
le domande riguardavano solo Naville, al quale sarebbero state trasmesse22.
Il professor Naville rispose il 24 settembre 1946 con una lettera dattilografata di
13 pagine e mezzo indirizzata al «Signor consigliere di Stato incaricato del Dipartimento
della pubblica istruzione», nella quale rendeva noto che le critiche formulate dal deputato Vincent lo obbligavano «a sciogliere per la prima volta la riserva che mi ero intenzionalmente imposta da più di tre anni»; e che «il signor Vincent porterà la
responsabilità delle conseguenze di ogni sorta che potrebbero risultarne, sia sul piano
nazionale che su quello internazionale». Il professor Naville descrisse le «condizioni di
chiamata ed accettazione» della sua missione a Katyń e ricordò di aver ricevuto il 24
aprile 1943 l’autorizzazione a partire da parte del ministro Bonna, del Dipartimento
politico federale23.
Egli «rassicurò» il deputato Vincent: «Non ho… chiesto né ricevuto da nessuno né
oro, né argento, né doni, né ricompense, né vantaggi, né promesse di qualsivoglia natura. Quando un paese è smembrato quasi simultaneamente dagli eserciti di due potenti
vicini, e trapela la notizia dell’uccisione di circa 10 mila dei suoi ufficiali prigionieri, colpevoli solo di aver difeso la propria patria, quando si cerca di sapere come ciò sia potuto accadere, non si può avere l’indecenza di chiedere onorari per recarsi sul posto e
cercare di sollevare un lembo del velo che cela al resto del mondo le circostanze di un
atto così vile e così contrario agli usi della guerra».
Il professor Naville descrisse poi dettagliatamente le condizioni in cui si erano
svolti il lavoro e gli accertamenti condotti dalla commissione di esperti a Katyń, sottolineando che, contrariamente a una recente affermazione del medico legale bulgaro il
dottor Markov, «abbiamo potuto procedere in tutta libertà ai nostri lavori di perizia» e
22 Mémorial des Séances du Grand Conseil d’Etat de Genève, Session du 11 septembre 1946, pp.
1275-1276 e pp. 1279-1280.
23 Archives du CICR, Archives privées F. Naville, (Cote FN) Nr. 23.
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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...
alla redazione del rapporto finale, e che egli stesso aveva «circolato alquanto liberamente a Katyń come a Berlino senza essere in alcun modo accompagnato o sorvegliato».
Aggiungeva poi di ignorare se il dottor Markov «avesse potuto subire pressioni dalle autorità del suo paese, sia prima di recarsi a Katyń, sia nel momento in cui ha ritirato la
propria firma, quando è stato accusato di collaborazionismo e ha dichiarato di aver
agito sotto costrizione; eppure egli sicuramente non ha subito costrizioni né pressione
alcuna durante i lavori della commissione della quale faceva parte».
Il professor Naville confermò le conclusioni della perizia del 1943, criticando le
affermazioni e la relazione finale della commissione d’inchiesta russa del gennaio 1944
su Katyń. Egli spiegò che, firmando il rapporto del 1943, non aveva «in alcun modo
cercato di fare un favore ai tedeschi, ma esclusivamente ai polacchi e alla Verità».
Il professor Naville ricordò la propria ostilità nei confronti dei tedeschi e dei capi del
regime nazista, e riferì di non aver nascosto a Katyń quel che pensava «della responsabilità morale (dei tedeschi) in quei fatti, perché furono loro a scatenare la guerra e
ad invadere per primi la Polonia, anche se [noi esperti] concludevamo a favore della
loro innocenza nella morte degli ufficiali polacchi». La sua lettera del 24 settembre
1946 terminava rilevando che i medici legali devono «cercare di servire prima di tutta
la Verità... senza preoccuparsi delle critiche e dell’ostilità di chi a volte vuole intralciare la nostra oggettività e imparzialità. Possa il nostro motto rimanere per sempre
quello che onora ancora qualche tomba: Vitam impendere vero (consacrare la propria
vita alla verità)».
Questo resoconto del professor Naville è dettagliato, obbiettivo e intelligibile. Con
un’unica eccezione. Strana e infondata rimane la sua supposizione che il massacro di
Katyń «è stato perpetrato da subalterni, all’insaputa degli alti dirigenti politici e militari russi e della Direzione generale dei campi di prigionia russi».
Temendo che dal suo rapporto potessero derivare conseguenze politiche imprevedibili, il professor Naville suggeriva, prima di trasmettere il proprio testo al Gran
Consiglio, di prendere contatto con il Dipartimento politico federale, dal quale aveva
ricevuto a suo tempo l’autorizzazione a partecipare alla perizia in questione.
Il Consigliere di Stato di Ginevra Albert Picot consultò allora il Consigliere federale
Max Petitpierre, che rispose il 24 ottobre 1946 in maniera decisamente negativa24.
Rilevava fra altre cose che:
— Una discussione pubblica sul massacro di Katyń in seno al vostro Gran Consiglio
potrebbe avere ripercussioni incresciose sulle nostre relazioni con l’URSS e, in
qualche misura, rendere più difficile la nostra posizione internazionale, in particolare le nostre relazioni con le Nazioni Unite...
— … penso che il Consiglio di Stato dovrebbe astenersi dal leggere il resoconto del
professor Naville. Tale lettura, fatta da un membro del Consiglio di Stato, potrebbe
insinuare l’idea che questi avalli con la sua autorità le conclusioni del professor Naville.
24
Archives fédérales suisses, Berne, E 2800 1967/59, vol. 26-27, dossier 26/4. Lettera del 24 ottobre 1946 indirizzata ad Albert Picot.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
— ... sarei grato al Consiglio di Stato se fossi tenuto esclusivamente a rispondere
alle precise domande poste dal deputato on. Vincent e a dare la mia opinione sui
rimproveri mossi contro il professor Naville, senza dover rendere noto il contenuto del suo rapporto...
Il Consiglio di Stato di Ginevra non accolse il parere del capo del Dipartimento politico federale. Il 18 gennaio 1947, Picot, diventato presidente del Consiglio di Stato e
vice presidente del Consiglio nazionale, dava lettura ai deputati di gran parte del rapporto del professor Naville, rilevando che «Il Consiglio di Stato …. non ha alcun rimprovero da rivolgere al dott. Naville, distinto scienziato, eccellente medico legale... che
non è venuto meno ad alcuna regola di dignità professionale, né ad alcuna legge dell’onore»25. Due giorni più tardi quel testo apparve sulla “Tribune de Genève”26.
La lettura della relazione del professor Naville ebbe varie ripercussioni. Per primo
fu il deputato comunista Vincent a rimproverargli nuovamente di aver accettato l’incarico di recarsi a Katyń per procedere a quella perizia e — basandosi sulle fonti sovietiche — sostenne che nel caso Katyń, «si è trattato di uno spaventoso massacro
perpetrato dai tedeschi sospinti dalla loro volontà... di sterminio dei popoli slavi». Nella
sua replica Picot precisò che «è una Polonia libera, un governo polacco scelto... con elezioni effettuate in totale libertà... che potrà, un giorno, cercare la verità»27.
Su richiesta del consigliere federale Petitpierre, E. de Haller gli inviò, il 30 gennaio,
una nota riservata sui propri ricordi delle circostanze nelle quali il professor Naville
aveva partecipato alle riesumazioni di Katyń28. Vi criticava la decisione di quest’ultimo
di aver accettato l’invito delle autorità tedesche a prender parte all’inchiesta, dicendo
di ricordare che nell’aprile 1943 egli fosse personalmente convinto «dell’inopportunità
che uno svizzero vi fosse coinvolto». De Haller faceva così passare sotto silenzio il
parere — da lui stesso riportato nell’aprile 1943 — di Ruegger, del CICR, secondo il quale
sarebbe stato «auspicabile che il sig. Naville desse seguito all’invito del Reich», ricordando inoltre che un medico svedese e uno spagnolo si erano sottratti a quel compito
e che il professor Naville era di fatto l’unico esperto rappresentante di un paese realmente neutrale.
In una lettera del 10 febbraio 1947, indirizzata al Consiglio di Stato di Ginevra, il
consigliere federale Petitpierre esprimeva il proprio disappunto per la lettura della relazione del professor Naville fatta da un membro del Consiglio di Stato, e criticava —
sulla base delle informazioni di de Haller citate sopra — la decisione del professor Naville di prendere parte, nella primavera del 1943, alla commissione d’inchiesta sul massacro di Katyń. Petitpierre rendeva noto che il ministro plenipotenziario dell’URSS, così
25
Mémorial des Séances du Grand Conseil d’Etat de Genève, Session du 18 janvier 1947, pp. 38-54.
“La Tribune de Genève”, 20/01/1947, p. 9.
27 Mémorial des Séances…, op. cit., pp. 53-54.
28 Archives fédérales suisses, Berne, E 2001(E), vol. 139 B 55.11.43 b. Nota riservata di E. de Haller al consigliere federale Petitpierre.
26
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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...
come il ministro della Polonia, avevano vivamente protestato per le dichiarazioni rese
da Picot e chiedeva ulteriori informazioni per poter fornire le necessarie spiegazioni ai
due ministri29.
Il 21 febbraio, il Consiglio di Stato di Ginevra inviava in risposta al Dipartimento
politico federale il «memoriale» della seduta del 18 gennaio 194730, che costituirà in
seguito la base di un promemoria consegnato al ministro plenipotenziario sovietico
Koulagenkov (o Kulazenkov). Vi si spiegava tra l’altro che «non si potrebbe pretendere...
che il presidente del governo ginevrino si sia fatto difensore della tesi hitleriana sull’affare di Katyń e abbia assunto, in ciò, un atteggiamento ostile nei riguardi del governo
dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche»31. Sembra che il governo sovietico
abbia infine accettato in silenzio questa spiegazione.
Il caso tornò ancora alla ribalta nella primavera del 1952, quando una commissione del Congresso americano, riunita in seduta a Francoforte, in Germania, indagando
sul massacro di Katyń volle interrogare il professor Naville. Questi chiese l’autorizzazione del Dipartimento politico federale e ricevette tale risposta il 18 aprile 1952: «Si
tratta di una questione privata che non riguarda le autorità federali. Pertanto non dobbiamo, in linea di principio, né concedere né negare tale autorizzazione...», ma «non
vi è alcun dubbio sul fatto che il suo viaggio, come la volta precedente, non mancherà
di suscitare reazioni sia in Svizzera, sia da parte della rappresentanza dell’URSS a
Berna» e che... «la sua partecipazione a questa nuova inchiesta... ci pare poco auspicabile»32.
Nonostante queste raccomandazioni, il professor Naville decise di recarsi a testimoniare. Il 26 aprile 1952 rese, a Francoforte, una deposizione dettagliata33, che confermava tutte le conclusioni del 1943. Ribadiva inoltre quel che aveva già dichiarato
nella sua relazione al Gran Consiglio di Ginevra nel 1946, in particolare l’indipendenza
con la quale lui e i suoi colleghi avevano lavorato a Katyń. Quattro altri medici legali
che avevano fatto parte della commissione internazionale nel 1943, i dottori Edward
Lucas Miloslavich (Croazia), Helge Tramsen (Danimarca), Ferenc Orsós (Ungheria) e Vincenzo Mario Palmieri (Italia), dichiararono in modo analogo, davanti al Comitato americano, di aver avuto totale libertà di azione nelle loro indagini34.
29
Archives fédérales suisses, Berne, E 2001(E), vol. 139 B. 55.11.43 a, dossier: «Participation du
CICR à l’identification des corps d’officiers polonais trouvés près de Smolensk». Lettera indirizzata al Consiglio di Stato di Ginevra del 10 febbraio 1947.
30 ivi. Lettera del Consiglio di Stato di Ginevra al consigliere federale Petitpierre del 21 febbraio
1947.
31 Archives fédérales suisses, Berne, E 2001(E), vol. 139. B. 55.11.43 a. Promemoria del 19 marzo
1947.
32 Archives du CICR, Archives privées F. Naville, (Cote FN) Nr. 29.
33 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn..., op. cit., p. 1602-1615.
34 UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn Forest Massacre. Interim Report of the Select Committee to
Conduct an Investigation and study of the Facts, Evidence, and Circumstances of the Katyn Forest
Massacre, Union Calendar No. 762, 82d Congress, 2d Session, House Report No. 2430, VIII, Testimony
of International Medical Commission, Government Printing Office, Washington 1952, pp. 21-23.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
La commissione del Senato americano concluse all’unanimità che la polizia politica sovietica, il NKVD, era responsabile del massacro di Katyń e probabilmente anche
di altri due, avvenuti in località ancora sconosciute nel 1952. La Commissione ritenne
che il caso dovesse essere portato davanti a una corte internazionale di giustizia. Le Nazioni Unite avrebbero dovuto sentirsi in obbligo di mostrare al mondo che il «Katyńismo»
costituiva un piano diabolico dei sovietici, che mirava alla conquista del mondo35. Queste raccomandazioni della commissione non ebbero purtroppo alcun seguito.
Negli anni che seguirono, anche dopo il suo ritiro in pensione, il professor Naville
continuò a interessarsi vivamente all’«affaire Katyń». Egli raccolse libri, opuscoli, articoli di giornale e materiale iconografico su quel massacro, anche alcuni reperti provenienti dalle fosse comuni, e intrecciò una corrispondenza con personalità polacche
e straniere. Alla sua morte, la figlia, Valentine Aubert-Naville, e il nipote, il professor
Gabriel Aubert, continuarono per molti anni, fino al 1995, ad arricchire quella voluminosa documentazione, consegnandola infine agli Archivi del CICR, dove è tuttora
conservata. Altri documenti risalenti al periodo 1943-1952 e riguardanti il professor
Naville sono consultabili negli Archivi federali svizzeri a Berna e negli Archivi di Stato
di Ginevra.
Ciò nonostante, è singolare il fatto che, nei ricordi pubblicati dopo la morte del
professor Naville, nella stampa quotidiana e medica non venga mai fatta menzione —
salvo rare eccezioni — della sua partecipazione nel 1943, alla commissione internazionale d’inchiesta sul massacro di Katyń. Si trovano invece descrizioni molto dettagliate sulla sua implicazione nell’«affaire Katyń» in un libro polacco: Zbrodnia
Katyńska, pubblicato a Londra36 in forma anonima da Zdzisław Stahl37; in un libro francese di Henri de Montfort, Massacre de Katyn, Crime Russe ou Crime Allemand?, pubblicato a Parigi38; infine, in un articolo di Paul Stauffer, Die Schweiz und Katyń,
pubblicato sul “Schweizerische Monatshefte” nel novembre 198939.
Gli sviluppi dell’«affaire Katyń» fino ai giorni nostri
Ancora negli anni Ottanta, i punti di vista sull’«affaire Katyń» erano rimasti praticamente immutati. Il blocco comunista continuava a sostenere la responsabilità dei
tedeschi nel massacro. Nel 1985, il governo (comunista) polacco eresse a Varsavia un
monumento alla memoria dei morti di Katyń, sul quale si poteva leggere che essi furono
35
UNITED STATES, CONGRESS, The Katyn Forest Massacre. Final Report of the Select Committee to
conduct an Investigation and Study of the Facts, Evidence, and Circumstances of the Katyn
Forest Massacre, Union Calendar No. 792, 82d Congress, 2d Session, House Report No. 2505, XI,
Conclusions, Government Printing Office, Washington 1952, pp. 37-38.
36 [ZDZISŁAW STAHL], op.cit., pp. 150-155.
37 JERZY ŁOJEK [LEOPOLD JERZEWSKI], Dzieje sprawy Katynia, Versus, Białystok 1989, p. 70.
38 HENRI DE MONTFORT, op.cit., pp. 73-86.
39 PAUL STAUFFER, op.cit., pp. 905-916.
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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...
vittime del «fascismo hitleriano»40. Nel mondo libero continuava a predominare l’incertezza. La stampa internazionale — anche quella svizzera — pretendeva, ancora nel
1983 e 1984, che «il caso è rimasto irrisolto» e che «tedeschi e sovietici si rimandano
la responsabilità della morte di quegli ufficiali»41.
Nel 1985 l’ascesa al potere di Gorbačëv in Unione Sovietica, cui seguì una certa liberalizzazione del regime comunista, permise, alla fine degli anni Ottanta, ad alcuni
storici progressisti russi quali Sergej Charlomov, Natalia Lebedeva, W.S. Parsadanova,
Jurij Zoria ed altri ancora di occuparsi del massacro di Katyń42. I risultati delle loro ricerche concordavano a tal punto da rendere impossibile per le autorità sovietiche continuare a negare il loro coinvolgimento in quel massacro.
Il 19 aprile 1990 l’agenzia di stampa ufficiale sovietica TASS confermò che i militari polacchi dei campi di prigionia di Kozielsk, Ostaškov e Starobilsk erano stati consegnati nell’aprile e nel maggio 1940 alla polizia politica NKVD, che da allora se ne era
persa ogni traccia e che si trattava di uno dei più spaventosi crimini staliniani43. Più
tardi fu precisato che i 6.311 prigionieri del campo di Ostaškov erano stati assassinati
a Kalinin (Tver’) e sepolti lì vicino, nella località di Mednoe, e che le spoglie dei 3.280
ufficiali del campo di Starobilsk — giustiziati negli edifici del NKVD a Char’kov — si trovavano in una foresta vicino a quella città. Infine si apprese che le fosse comuni di
Katyń contengono 4.421 corpi (e non 10 mila, 11 mila, o 12 mila, come si era sostenuto
in precedenza) di ufficiali precedentemente detenuti nel campo di Kozielsk44. In questa vicenda rimane, in effetti, ancora un interrogativo: dove si trovano i cadaveri dei
7.305 militari polacchi rimanenti, assassinati in altri luoghi? Secondo recenti informazioni, gran parte di loro sarebbero stati assassinati nella prigione di Kiev in Ucraina e
in seguito sepolti nella vicina località di Bykivnia46.
Dobbiamo precisare che, da parecchio tempo ormai, si usa comprendere sotto la
nozione di «affaire Katyń» non solo il massacro di Katyń in senso stretto, ma anche altri
massacri di militari polacchi perpetrati dal NKVD staliniano nel 1940, soprattutto quelli
avvenuti a Char’kov e a Tver’.
Il 14 ottobre 1992, il presidente russo Boris El’cin trasmise al presidente polacco
Lech Wałęsa un fascicolo — fino ad allora rimasto strettamente riservato — contenente
40
H. RYCHENER, Granit, Kreuz und eine Lüge. Das neue Katyn-Denkmal als Geschichtsfälschung,
“Der Bund”», 25/04/1986, p. 3.
41 ATS/AFP, Soutien à «Solidarność», Feuille d’Avis de Neuchâtel / l’Express, 3 novembre 1983, p.
27; M. JÖRIMANN, Les interrogations de l’Histoire. Les fossés de Katyn, GHI (Genève Home Informations), 25 ottobre 1984, p. III.
42 W. FALIN, Nota per Gorbačëv del 22 febbraio 1990 (in russo con traduzione polacca), Instytut Studiów Politycznych Polskiej Akademii Nauk, Warszawa 1992, pp. 118-125; J. ZORIA, Droga do prawdy
o Katyniu, in Rosja a Katyń, Karta, Warszawa 1994, pp. 63-89 (traduzione dal russo al polacco).
43 Eingeständnis Moskaus zum Mord von Katyn, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, , 14-15/04/1990, p. 2.
44 Massengrab in der Ukraine entdeckt, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, 15/06/1990, p. 4 ; Katyn und
zwei weitere Massengräber in der USSR, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, 27-28/07/1991, p. 4.
46 A. KOLA, II Archeologiczne badania sondazowe i prace ekshumacyjne w Bykowni w 2001 roku,
“Przeszłość i Pamięc. Biuletyn Rady Ochrony Pamięci Walk i Męczeństwa”, Warszawa 2001, n. 4
(21), pp. 123-125.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
i documenti dell’Ufficio politico del Partito comunista sovietico su quel caso. Vi si leggeva che Stalin ed altri dirigenti del Partito avevano ordinato quei massacri il 5 marzo
1940 e che nel marzo 1959 il segretario generale del Partito Chruščёv aveva ordinato la
distruzione dei 21.857 fascicoli personali delle vittime47.
Nel 2000 ha avuto luogo l’inaugurazione solenne dei cimiteri a Char’kov, Katyń e
Mednoe48. Eppure, né le iscrizioni in quei cimiteri, né i funzionari russi e ucraini presenti alle cerimonie, hanno citato espressamente i responsabili staliniani di quei crimini.
Per contro gli assassinati sono definiti come «vittime del totalitarismo»49. In questo
modo il profano potrebbe di nuovo chiedersi di quale «totalitarismo» si tratta: di quello
hitleriano o di quello staliniano? I governi sia russo che ucraino non si sono d’altronde
mai scusati ufficialmente con il popolo polacco per quei massacri né hanno portato in
giudizio i funzionari del NKVD ancora vivi, co-esecutori degli omicidi.
Negli ultimi anni, i rappresentanti del Partito russo nazional-bolscevico (che conta
circa 8 mila membri) hanno auspicato — nell’ambito di una campagna antipolacca estremamente aggressiva — il «rinnovo» del patto Molotov-Ribbentrop. Essi sostengono, contro ogni evidenza e buon senso, che furono i tedeschi ad assassinare i militari polacchi
a Katyń e in altre località50.
Epilogo
Il professor François Naville ha notevolmente contribuito, nella sua qualità di riconosciuto specialista in medicina legale e di perito di un paese neutrale, a fare chiarezza sulle circostanze del massacro degli ufficiali polacchi a Katyń. Ebbe il coraggio di
difendere — con il solo appoggio del Consigliere di Stato di Ginevra Albert Picot (che era
d’altronde suo cugino e amico) — il suo punto di vista davanti a un deputato comunista
molto aggressivo, e senza alcun sostegno da parte del CICR e del Dipartimento politico
federale.
Queste istituzioni agirono in un modo strettamente pragmatico, con l’unico scopo
— sembrerebbe — di non offendere il governo sovietico e di evitare complicazioni diplomatiche. Come i giudici del Tribunale di Norimberga, preferirono semplicemente
“non sapere” chi fosse il responsabile del massacro di Katyń.
Il professor Naville ha compiuto pienamente il suo dovere scientifico e civico, nel
rispetto della deontologia professionale. Ha anche ricoperto un ruolo storico, decidendo
di recarsi a Katyń, firmando assieme agli altri periti la relazione sulle osservazioni fatte
47
Uebergabe von Dokumenten zu Katyn an Polen. Stalins Politbüro für den Massenmord verantwortlich, “NZZ-Neue Zürcher Zeitung”, 15/10/1992, p. 1; Dokumenty Katyńia. Decyzja, Interpress, Warszawa 1992, p. 20, p. 28.
48 Polen und Russen gedenken des Massenmordes von Katyn, “NZZ Neue Zürcher Zeitung”, 2930/07/2000, p. 2.
49 KAZIMIERZ KARBOWSKI, Bogen um die Vergangenheit, “Der Bund”, 18/03/1999, p. 5.
50 E. GRUNER-ZARNOCH, Starobielsk w oczach ocalałych jeńców, Recto, Szczecin 2001, pp. 287-288.
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François Naville (1883-1968). Il suo ruolo nell’inchiesta...
nel corso delle autopsie e riaffermando in seguito la loro autenticità. Come già menzionato, egli stesso chiarì, che con ciò non aveva «in alcun modo cercato di fare un favore ai tedeschi, ma esclusivamente ai polacchi e alla Verità».
Egli ha realmente reso un enorme servigio al popolo polacco e in particolare alla
memoria di diverse migliaia di militari polacchi crudelmente assassinati. Per di più, in
questa circostanza, ha salvaguardato l’onore della Svizzera.
Stranamente, il governo della Polonia, ormai indipendente dal 1990, non ha sinora
[marzo 2004] dato il giusto riconoscimento ai servigi resi dal professor Naville al popolo
polacco. Questo oblio è forse inscritto nella natura umana? In effetti, già il 7 ottobre
1800 il barone Georges Cuvier, in un elogio pronunciato all’Istituto di Francia in onore
di Louis-Guillaume Lemonnier, dichiarava: «Gli uomini sono ingiusti nella distribuzione
della gloria. In effetti, riservano il primo posto nella loro memoria a coloro che gli uomini li hanno distrutti, il secondo a quelli che li hanno divertiti; a malapena ne rimane
uno [di posto] per quelli che li hanno serviti»51.
Kazimierz Karbowski, dottore medico, è professore al Dipartimento di Neurologia dell’Università di Berna, Svizzera. Come lui stesso spiega, ha scritto questo articolo, in
quanto suo padre, il dottor Bronisław Karbowski di Varsavia, maggiore nelle truppe
mediche dell’esercito polacco, fu assassinato all’età di 55 anni, nella primavera del
1940 — assieme a migliaia di altri prigionieri di guerra del campo di Starobilsk — a
Char’kov, in Ucraina, dalla polizia politica sovietica NKVD.
La sua email è: [email protected].
51 G. CUVIER, Eloge historique de Louis-G. Lemonnier, in Recueil des éloges historiques de l’Institut Royal de France, tome premier, Levrault, Strasbourg-Paris 1819, pp. 83-107. Ringraziamenti [di
K. KARBOWSKI]. La dottoressa Ewa Gruner-Zarnoch, di Szczecin in Polonia, presidente dell’Associazione delle famiglie delle vittime di Katyń, ha incoraggiato l’autore ad occuparsi di questo tema.
Parecchie persone gli hanno accordato la loro preziosa collaborazione nel corso delle sue ricerche
bibliografiche. Essi sono, in ordine alfabetico: Margrit Armoneit dell’archivio del giornale “Der
Bund” a Berna; Fabrizio Bensi, archivista del CICR a Ginevra; Max e Elisabeth Broennimann di Frauenkappelen, vicino Berna; Pia Burkhalter, bibliotecaria dell’Istituto di storia della medicina dell’Università di Berna; le collaboratrici del Servizio di documentazione del giornale “La Tribune de
Genève”; Cora Couchepin, bibliotecaria della facoltà di Medicina dell’Università di Ginevra; Pierre
Flückiger, assistente archivista, Archivio di Stato di Ginevra; Margrit Hirsi, Ufficio federale della
salute pubblica, Sezione esami delle professioni mediche; Barbara Lothamer, di “Schweizerische
Osteuropa-Bibliothek” a Berna; Philip Rieder, Istituto Louis Jeantet di Storia della medicina dell’Università di Ginevra; Werner Schubert, professore di filologia classica dell’Università di Berna;
Ruth Stalder degli Archivi federali svizzeri a Berna; Nicole Curti di Ginevra, Elisabeth Curti-Karbowski di Berna e Martine Konorski di Parigi, rispettivamente le nipoti e la figlia dell’autore, hanno
corretto il testo francese. Infine il professor Gabriel Aubert di Ginevra, nipote del professor François Naville, ha fornito all’autore importanti informazioni biografiche, e messo a sua disposizione
una fotografia del professor Naville. A tutte queste persone, l’autore [K. K.] rivolge i suoi vivi e
sentiti ringraziamenti.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe» e la manipolazione
della verità
di Paolo Morawski
Tra i suoi molti contributi alla sociologia politica e alla storiografia contemporanea
Victor Zaslavsky (1937-2009) sarà ricordato per le sue originali riflessioni sul sistema
sovietico, conosciuto dall’interno e studiato in tutte le fasi dell’ascesa, della stabilità,
del crollo, delle conseguenze e del suo superamento. Non fosse che per le sue analisi
sullo stalinismo, egli ha arricchito in maniera notevole il dibattito storiografico e politico internazionale1.
Particolarmente importante è stato, ad esempio, il suo contributo alla definizione
e circolazione in un ambito sempre più vasto, a partire dalla fine degli anni Novanta,
del concetto di «pulizia di classe» per definire quella politica dello Stato sovietico «diretta alla soppressione o addirittura allo sterminio delle classi indesiderate», «nemiche, aliene o semplicemente superflue»; tesa cioè alla eliminazione fisica di «corpi
estranei e nocivi», di «interi gruppi sociali realmente esistenti e intere aggregazioni
umane individuate sulla base di certe caratteristiche ascrittive e arbitrarie, suggerite
dall’ideologia dominante del regime totalitario». L’esigenza ideologica del marxismoleninismo di creare una società nuova attraverso «i metodi “scientifici” dell’igiene sociale e della “purificazione” dell’organismo sociale dal “contagio borghese”», si
manifestò sin dai primi anni della Russia rivoluzionaria. Le vittime venivano eliminate
non per quello che avevano fatto, «ma per quel che erano, cioè per essere nate nella
classe sociale sbagliata». Lo stalinismo poi diede un’enorme spinta al terrore totalitario, che divenne molto più esteso e “popolare”, nel senso che il concetto di «nemico
di classe» fu «sostituito durante le grandi purghe degli anni 1936-1938 da un nuovo
concetto di “nemico del popolo”, allargando così i limiti concettuali e l’applicazione
pratica dell’azione repressiva». Il terrore di massa colpì e liquidò i cosiddetti kulaki,
la categoria dei contadini agiati; ma distrusse anche — alla vigilia della seconda guerra
mondiale — l’alto comando dell’esercito sovietico («oltre quarantamila ufficiali, soprattutto di grado superiore»); ed eliminò pure — specie negli anni 1948-1953 — «una
parte notevole» dell’élite culturale ebraica.
La macchina del terrore di massa messa a punto nell’arco di oltre un ventennio in
URSS contro i nemici interni fu «replicata e addirittura perfezionata» nel processo di sovietizzazione dell’Europa orientale e dei paesi baltici, processo attuato in un arco di
1 Per un ritratto della personalità dell’uomo e dello studioso, si veda Ricordo di Victor Zaslavsky
sul sito dell’AISSECO-Associazione italiana studi di storia dell’Europa centrale e orientale
(http://host.uniroma3.it/associazioni/aissecoit/maestri/zaslavsky.htm).
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Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe»...
tempo concentrato «di circa tre-quattro anni» e realizzato «anche grazie al terrore totalitario, la cui intensità era a volte superiore a quella in atto nell’Unione Sovietica»2.
In questo contesto di estrema violenza vanno interpretati, secondo Victor
Zaslavsky, i massacri compiuti dai sovietici durante la seconda guerra mondiale sul
fronte occidentale, nel periodo in cui Hitler e Stalin erano alleati (1939-1941). Tali massacri colpirono in particolare circa 22-25 mila «nemici di classe» polacchi già internati
in campi di concentramento o detenuti in prigioni sovietiche: in maggioranza ufficiali
e sottufficiali dell’esercito, della polizia, delle guardie di frontiera, della gendarmeria,
in servizio attivo o riservisti; ma anche poliziotti, gendarmi, guardie carcerarie e di
confine, agenti dei servizi segreti e del controspionaggio; quindi intellettuali, professori universitari, insegnanti, funzionari e alti funzionari, proprietari terrieri, imprenditori, preti cattolici; infine «membri di varie organizzazioni controrivoluzionarie e di
resistenza e di diversa matrice controrivoluzionaria, traditori, spie e sabotatori». Il più
noto di questi massacri fu quello avvenuto nella foresta di Katyń nella primavera del
1940, in quanto i corpi di oltre 4 mila ufficiali polacchi uccisi con un colpo di pistola alla
nuca e poi seppelliti in fosse comuni vennero trovati nel 1943 dai nazisti, allorché a
loro volta essi occuparono quelle aree dopo aver attaccato l’URSS nell’estate del 1941.
Ma per “massacro di Katyń” s’intende oggi, per estensione, l’insieme dei 22-25 mila
polacchi uccisi dai sovietici in varie località dell’URSS tra il 1939 e il 1941.
La scoperta nazista del 1943 fu l’inizio di una guerra di propaganda e disinformazione destinata a durare decenni. I tedeschi accusarono immediatamente i sovietici del
crimine, e a ragione. Ma il regime staliniano cercò di scaricare la responsabilità per il
massacro sui tedeschi, orchestrando una campagna di falsificazione, cui gli alleati durante la guerra non ritennero di opporsi — un atteggiamento di connivenza che perdurò
anche nel dopoguerra (soprattutto da parte britannica) per ragioni di opportunità, per
Realpolitik e, soit disant, per “favorire la distensione”. In URSS i documenti comprovanti la colpa sovietica furono nascosti nell’archivio supersegreto del Politbjuro e tutti
i successivi governi sovietici fino a Michail Gorbačëv rifiutarono di ammetterne l’esistenza.
Per Victor Zaslavsky studiare Katyń fu forse “un obbligo morale”: «Ho sempre pensato che dovesse essere proprio un russo a riportare per primo alla luce quelle vicende»,
disse una volta3. Basandosi sui documenti resi pubblici soltanto dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, in un saggio breve e incisivo — Il massacro di Katyn. Il crimine e la
menzogna, Ideazione, Roma 19984; poi ampliato e arricchito di ulteriori documenti nel
frattempo venuti alla luce, in: Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, Bolo-
2 Tutte le precedenti citazioni sono tratte da VICTOR ZASLAVSKY, Il nemico oggettivo: il totalitarismo
sovietico e i suoi bersagli interni, in GULag. Il sistema dei Lager in URSS, a cura di Marcello
Flores, Francesca Gori, Mazzotta, Milano 2002, pp. 29-37.
3 Citato da PIERLUIGI MENNITTI, Ricordo di Victor Zaslavsky, nel blog «Walking class», venerdì 27 novembre 2009 (http://walkingclass.blogspot.com/2009/11/ricordo-di-victor-zaslavsky.html).
4 Si veda anche VICTOR ZASLAVSKY, The Katyn Massacre: Class Cleansing as Totalitarian Praxis, «Telos»,
n. 14, Winter 1999, pp. 67-107.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
gna 2006 (ultima edizione 2009) — lo storico russo ricostruì l’intera vicenda trattandola
come un caso esemplare, appunto, della politica di «pulizia di classe» condotta dal regime totalitario staliniano nei paesi della sua orbita.
Per definire questo specifico crimine era essenziale per Zaslavsky sottolineare «il
ruolo dell’ideologia come guida per il terrore». Il «classicidio» operato a Katyń andava
distinto dalla pulizia etnica, da altre forme di violenza e da altri massacri. E neppure
poteva definirsi come un genocidio, seppur “selettivo”. A differenza dell’Olocausto
nazista, infatti, «le repressioni non erano dirette contro i polacchi in quanto tali, bensì
contro alcune categorie all’interno della società polacca», ovvero contro «tutti i
nemici giurati del potere sovietico, pieni di odio verso il sistema sovietico», «nemici
inveterati e incorreggibili del potere sovietico» — per usare il linguaggio sovietico dei
documenti dell’epoca. Contro questi prigionieri di guerra polacchi, il capo della polizia segreta Lavrentij Pavlovič Berija chiese una «soluzione finale» ossia l’applicazione
della «più alta misura punitiva: la fucilazione». Non solo, ma con la stessa «procedura
speciale» tutta la fascia lungo la linea di confine tra URSS e Reich avrebbe dovuto essere «ripulita» e le famiglie delle vittime — «donne, bambini e vecchi, i cui beni erano
stati confiscati» — deportate per dieci anni nell’Asia sovietica. L’esecuzione della
classe dirigente polacca nell’aprile 1940 nei vari Katyń, scriveva pertanto Zaslavsky,
«può essere compresa appieno soltanto se la si considera come un episodio del generale processo di “pulizia di classe” cui furono sottoposti i territori polacchi caduti sotto
il dominio sovietico»5. Pulizia di classe di rara intensità ed estensione dal momento che
in circa 20 mesi (settembre 1939-giugno 1941) almeno mezzo milione di polacchi abitanti nelle terre orientali della Polonia invase dall’URSS subì imprigionamenti, deportazioni e fucilazioni.
Nel dibattito ancora aperto sui totalitarismi, dunque, «il massacro di Katyń rappresenta un caso emblematico della politica di “pulizia di classe”, come Auschwitz di
quella di “pulizia etnica”»6.
Victor Zaslavsky considerava Katyń un caso esemplare anche sul piano della durevole opera di manipolazione della storia e della memoria, manipolazione continuata
fino al crollo dell’impero sovietico: «una gigantesca operazione di falsificazione, occultamento e rimozione della verità che non ha paragoni nella storia contemporanea»7.
Non a caso la prima versione di Pulizia di classe insisteva già nel titolo sul binomio crimine e menzogna. L’ultima versione dedica al rapporto tra la verità, il silenzio e le
«montagne di bugie e di disinformazione» tutta la seconda parte del libro (pp. 61-127)8.
5
Citazioni da VICTOR ZASLAVSKY, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, Il Mulino, Bologna 2006,
in particolare dal capitolo III, Il classicidio o la pulizia di classe, pp. 49-60.
6 Ivi, p. 11.
7 Ivi, p. 7.
8 Nel dettaglio, i capitoli: IV (Il massacro di Katyn: la ricerca dei responsabili), V (La menzogna sovietica e la complicità occidentale), VI (Politici e storici di fronte alla versione ufficiale sovietica),
VII (Il silenzio di Gorbaciov), VIII (Il caso Katyn: una lezione per la storiografia e per la politica).
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Victor Zaslavsky, Katyń, la «pulizia di classe»...
A più riprese quantità di documenti importanti sul caso Katyń vennero distrutti dai
dirigenti sovietici per non lasciare “alcuna traccia”. Si tratta di una questione non secondaria che Zaslavsky analizzò in dettaglio, in relazione tra l’altro a una lettera che
il capo del KGB Aleksander Šelepin scrisse il 3 marzo 1959 a Nikita Sergeevič Chruščёv,
primo segretario del Comitato centrale del PCUS. Lettera particolarmente significativa
perché le argomentazioni di Šelepin convinsero il Politbjuro a distruggere molti documenti compromettenti, in particolare i fascicoli personali degli ufficiali polacchi.
Victor Zaslavsky ha definito questa lettera «uno dei più impressionanti documenti
sulla tecnologia dell’organizzazione e del mantenimento della menzogna nella storia
contemporanea». Egli ha pienamente ragione nel scrivere che: «La lettera di Šelepin
dovrebbe entrare nei manuali di storia come monito affinché non si perda la capacità
critica davanti alle “versioni ufficiali” degli avvenimenti». Al suo seguito, «la citiamo
per intero»9.
Lettera sull’eliminazione dei prigionieri polacchi di Aleksandr Šelepin, capo
del KGB, a Nikita Sergeevič Chruščёv, primo segretario del Comitato centrale del PCUS, scritta il 3 marzo 195910
Segretissimo
Al compagno Chruščёv N.S.
Il Comitato per la Sicurezza di Stato presso il Consiglio dei Ministri dell’URSS dal
1940 conserva fascicoli individuali e altri materiali riguardanti i prigionieri e gli ufficiali
internati, i gendarmi, gli agenti di polizia, i proprietari terrieri ecc., rappresentanti
della Polonia ex borghese fucilati lo stesso anno. Secondo le disposizioni della speciale
trojka del NKVD dell’URSS furono fucilati 21.857 uomini, di cui: nel bosco di Katyn (provincia di Smolensk) 4.421 uomini, nel campo di Starobilsk vicino Char’kov 3.820 uomini,
nel campo di Ostaškov (provincia di Kalilin) 6.311 uomini, mentre 7.305 uomini furono
fucilati negli altri campi e nelle prigioni dell’Ucraina occidentale e della Bielorussia
occidentale.
L’intera operazione per l’eliminazione delle persone suddette è stata condotta
sulla base della Delibera del CC del PCUS del 5 marzo 1940.
I detenuti sono stati condannati alla massima pena sulla base dei fascicoli individuali in archivio riguardanti il loro status di prigionieri di guerra e internati nel 1939.
9
In VICTOR ZASLAVSKY, Pulizia di classe..., op. cit., p. 79 e p. 82.
Ivi, pp. 79-81. Nella nota 22 di p. 83 l’autore precisa che «La lettera si trova in APRF [Archivio
del presidente della Federazione Russa], f. 3, busta sigillata n. 1. Pubblicato in «Voprosy istorii»,
1993, n. 1, pp. 20-21 (trad. di M.G. Perugini)». Ringrazio vivamente Elena Aga-Rossi per avermi autorizzato a riproporre questo eccezionale documento in questa sede.
10
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Dal momento in cui è stata eseguita l’operazione suddetta, cioè dal 1940, non sono
state fornite ad alcuno informazioni su questi fatti e tutti i fascicoli individuali, per un
totale di 21.857, sono conservati in un locale sigillato.
Per gli organi sovietici, questi fascicoli individuali non presentano alcun interesse
operativo né valore storico. È difficile che possano avere un interesse effettivo per i
nostri amici polacchi. Al contrario, circostanze imprevedibili, possono condurre alla
rivelazione dell’operazione compiuta, con tutte le conseguenze spiacevoli per il nostro
Stato. Tanto più che relativamente alle fucilazioni nel bosco di Katyn esiste una versione
ufficiale, confermata dall’inchiesta avviata per iniziativa degli organi del potere
sovietico nel 1944 dalla Commissione chiamata: «Commissione speciale per l’accertamento e l’indagine della fucilazione compiuta dagli invasori nazifascisti degli ufficiali
polacchi prigionieri di guerra nel bosco di Katyn».
Secondo le conclusioni di questa commissione, tutti i polacchi liquidati sono stati
eliminati dagli occupanti tedeschi. I materiali dell’inchiesta hanno avuto in quel
periodo larga diffusione sulla stampa sovietica e straniera. Le conclusioni della commissione si sono solidamente radicate nell’opinione pubblica internazionale.
A partire da quanto esposto risulta opportuno distruggere tutti i fascicoli individuali
riguardanti le persone fucilate nel 1940 nell’operazione suddetta.
Per rispondere alle possibili richieste di informazioni del CC del PCUS o del
governo Sovietico si possono tenere i protocolli della seduta della trojka del NKVD
dell’URSS, che ha condannato le persone in oggetto alla fucilazione, e gli atti riguardanti l’esecuzione delle decisioni della trojka.
Il numero di questi documenti è esiguo, e si possono conservare in una cartella
speciale.
In allegato la proposta di delibera del CC del PCUS.
Il Presidente del Comitato per la Sicurezza di Stato
presso il Consiglio dei Ministri dell’URSS
A. Šelepin
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
I russi e Katyń oggi1
di Joanna Żelazko
Traduzione di Alessandro Amenta
Sono da poco trascorsi settant’anni dal massacro dei sottufficiali e degli ufficiali
dell’esercito polacco e del Corpo di difesa di frontiera, dei poliziotti e dei funzionari
della Guardia carceraria. Furono condannati a morte senza un regolare processo in
quanto «elementi controrivoluzionari irrecuperabili», con decisione del 5 marzo 1940
dei membri del Politbjuro del Comitato centrale del Partito comunista di tutta l’Unione
(quello bolscevico) sulla base dell’art. 58 punto 13 del codice penale della Repubblica
Socialista Federativa Sovietica Russa del 1929. Secondo le autorità sovietiche erano
«nemici accaniti e incorreggibili dell’autorità sovietica»2 e pertanto meritavano un simile trattamento. Vennero uccisi dai funzionari del Commissariato del popolo degli
Affari Interni [d’ora in poi, NKVD] nel bosco vicino Katyń, a Pjatihatki nei pressi di Char’kov
e a Kalinin (l’attuale Tver’). Il luogo di sepoltura dei corpi venne scrupolosamente mascherato in modo che il massacro restasse segreto. Per molto tempo non si è saputo
nulla del destino dei polacchi rinchiusi nei cosiddetti campi speciali. È vero che la
scoperta dei corpi degli ufficiali polacchi nel bosco di Katyń da parte dei tedeschi nella
primavera del 1943 pose fine alla ricerca degli “scomparsi”, ma allo stesso tempo dette
inizio alla controversia su chi fossero i responsabili del massacro.
Nei decenni successivi, su questo argomento circolarono due opinioni discordanti.
La prima, diffusa in “Occidente”, sostenuta dall’emigrazione polacca e confermata
dalla stampa illegale in Polonia, accusava del massacro i sovietici. La seconda, imposta
dall’URSS, rappresentava la versione ufficiale in Polonia e nei paesi dell’Europa centrorientale: sosteneva che i responsabili fossero i tedeschi3.
L’atteggiamento delle autorità sovietiche iniziò a cambiare con l’accordo del
21 aprile 1987 sulla creazione di una Commissione polacco-sovietica per il chiarimento
di problemi di natura storica. Una delle questioni aperte era proprio l’uccisione degli
ufficiali polacchi nei campi speciali. Nel luglio del 1988 il segretario generale del Comitato centrale del Partito comunista sovietico Michail Gorbačëv incontrò una rappresentanza di intellettuali polacchi al Castello reale di Varsavia. In quell’occasione
1 Una versione più ampia di questo articolo si trova nel libro W kręgu historii Europy Wschodniej.
Studia i szkice, a cura di Paweł Chmielewski, Albin Głowacki, Łódź 2010. Si ringrazia Joanna Żelazko
per la gentile concessione. Sul tema si veda anche J. ŻELAZKO, Pamięć i propaganda. Sprawa Katynia po 1945 r., in Represje Sowieckie Wobec Narodów Europy 1944-1956, a cura di Rogut Dariusz,
Adamczyk Arkadiusz, Atena, Zelów 2005, pp. 393-426.
2 S. JACZYŃSKI, Polscy jeńcy wojenni w ZSRR. Wrzesień 1939-maj 1940, cz. II, WPH 1996, n. 3, pp. 330-331.
3 J. ŻELAZKO, Pamięć i propaganda. Sprawa Katynia po 1945 r., in Represje sowieckie Wobec Narodów Europy 1944-1956, a cura di D. Rogut e A. Adamczyk, Zelów 2005, pp. 394-426.
poloniaeuropae 2010
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I russi e Katyń oggi
affermò che negli archivi sovietici non c’era alcuna traccia di documenti sul massacro
di Katyń. I materiali resi noti negli anni successivi dimostrarono che questa tesi, diffusa
strenuamente dall’URSS, era una menzogna e che i lavori della Commissione servivano
solo a creare l’apparenza di una “ricerca della verità”.
Alla fine degli anni Ottanta, il massacro di Katyń era un argomento che la stampa
sovietica affrontava difficilmente. Aleksej Pamjatnych scrisse alcune lettere aperte ai
quotidiani. Solo la redazione di “Moskovskie Novosti” dimostrò interesse verso questo
tema. In un numero dell’aprile del 1989 pubblicò un articolo di Pamjatnych e Akuličev
intitolato Katyn’: podtverdit’ ili oprovergnut’ [Katyń: confermare o smentire], che però
non suscitò alcuna reazione da parte delle autorità. Lo stesso quotidiano pubblicò anche
O čem molčit Katyňskij les? [Cosa tace il bosco di Katyń?] di Gennadij Žavoronkov. Nell’articolo venivano riportate le testimonianze di Michail Krivožercov e Aleksander Kosiński sul fatto che dal 1935 al 1941 le unità speciali dell’NKVD avevano ucciso uomini di
diverse nazionalità nel bosco di Katyń. Ciò confermava che anche nel 1940 erano avvenute esecuzioni di massa in quel luogo.
Una svolta nella ricerca della verità si ebbe poco prima del crollo dell’URSS. Nel
1990 gli atti dell’Archivio speciale e dell’Archivio centrale di Stato della Direzione generale degli archivi presso il Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica furono messi a
disposizione degli storici sovietici. Tra loro c’erano Natal’ja Lebedeva, Valentina Parsadanova e Jurij Zoria. Quello stesso anno venne firmata anche la Dichiarazione di collaborazione in materia di cultura, scienza ed educazione, grazie alla quale gli storici e
gli archivisti polacchi ottennero un accesso limitato agli archivi sovietici. Ufficialmente
ottennero l’autorizzazione a cercare materiali riguardanti la sorte dei prigionieri di
guerra e degli internati nei campi sovietici di nazionalità polacca.
Un effetto della maggiore libertà di ricerca fu la scoperta da parte degli studiosi sovietici di materiali interessanti. Nel marzo del 1990 la stampa sovietica pubblicò un comunicato sul ritrovamento da parte dalla professoressa Lebedeva di nuovi documenti che
confermavano la fucilazione degli ufficiali polacchi da parte dell’NKVD, pubblicati due mesi
dopo sul mensile “Meždunarodnaja žizn’”. Anche se oggi questi documenti non sono considerati particolarmente importanti, perché non documentano direttamente il massacro, Lebedeva era riuscita comunque a trarne le giuste conclusioni. Dopo averli confrontati con i
materiali di altri archivi, aveva finalmente rintracciato informazioni che confermavano la
responsabilità dell’NKVD. Lebedeva aveva trovato una disposizione del 28 gennaio 1940 in
cui il generale Vasil’ij Ulrich, capo del Collegio militare della Corte suprema dell’URSS, ordinava che i prigionieri di guerra fossero giudicati dai tribunali militari dell’NKVD. Anche i
documenti dell’Archivio centrale di Stato e dell’Archivio centrale di Stato dell’Armata rossa
costituiscono una prova che dall’autunno del 1939 alla primavera del 1940 i polacchi erano
rinchiusi nei campi di Kozielsk, Starobel’sk [oggi Starobilsk] e Ostaškov per poi essere affidati alla direzione dell’NKVD dei distretti di Smolensk, Char’kov e Kalinin. Dopo aver parlato sinteticamente delle sue scoperte sulla stampa, Lebedeva le espose in maniera più
approfondita nel libro Katyn’: Prestuplenie protiv čelovečestva [Katyń: un massacro contro l’umanità] del 1994, pubblicato nel 1997 anche in Polonia4.
4
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N. LEBIEDIEWA [N. LEBEDEVA], Katyń — zbrodnia przeciwko ludzkości, Warszawa 1997.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Nel 1990 la questione di Katyń venne trattata su quattro numeri di “Vojenno Istoričeski Žurnal”. Uno degli articoli più interessanti era Nurinberskij bumerang [Il bumerang di Norimberga] di Jurij Zoria, in cui l’autore metteva a confronto documenti
dell’Archivio speciale con pubblicazioni occidentali e materiali del Tribunale militare internazionale di Norimberga5. Vale la pena notare che in quello stesso periodo “Vojenno
Istoričeski Žurnal” pubblicò anche degli articoli sui soldati sovietici fatti prigionieri dai
polacchi negli anni 1919-1920. L’improvviso interesse verso questo argomento era chiaramente una “risposta” alle numerose pubblicazioni sul massacro di Katyń. In una disposizione del 1990 Gorbačëv ordinava infatti all’Accademia delle scienze e al Comitato
di sicurezza nazionale di «cercare, insieme ad altre istituzioni e organizzazioni, qualunque materiale che dimostri le colpe dei polacchi e che possa costituire un contrappeso alla questione di Katyń»6. Questo testimonia che l’ostacolo maggiore alla
“scoperta” di documenti su Katyń era l’ostilità delle autorità sovietiche e non il fatto
che realmente questi materiali non esistessero. Gli autori delle “scoperte” scelsero di
pubblicarli prima sulla stampa perché rappresentava il mezzo d’informazione più veloce
per raggiungere un pubblico di massa.
Sin dagli inizi della sua attività, l’associazione Memorial7, registrata nel 1989, ha cercato di chiarire diversi aspetti del massacro di Katyń. Ancora oggi, collabora con organizzazioni non governative polacche per presentare una valutazione corretta, da un punto di
vista morale, dei crimini commessi sui prigionieri di Kozielsk, Starobel’sk e Ostaškov. Cerca
anche di scoprire e trasmettere ai polacchi qualunque documentazione riguardante Katyń.
Cerca infine di ridare dignità alle vittime e di ottenere un risarcimento per le loro famiglie.
A fronte del numero sempre maggiore di pubblicazioni, anche nella stampa sovietica,
sui crimini commessi contro i prigionieri di guerra polacchi, le autorità sovietiche riconobbero che era inutile continuare a nascondere la documentazione su Katyń. Il 13 aprile
1990, attualmente celebrato come Giornata mondiale di Katyń, a Mosca venne pubblicata una dichiarazione dell’agenzia TASS8. Il comunicato confermava la responsabilità
dell’NKVD per lo sterminio degli ufficiali polacchi nella primavera (da aprile a giugno)
del 1940. Vennero incolpati personalmente Lavrentij Berija e Vsevolod Merkulov. Il
comunicato mentiva dicendo che solo «recenti ricerche d’archivio» avevano permesso
di accertare l’identità dei responsabili del massacro. In ogni caso si trattò di una grande
novità: per la prima volta dopo mezzo secolo le autorità sovietiche rendevano pubblica
la verità e ammettevano le proprie colpe per il massacro di Katyń. In realtà, i documenti
più importanti su Katyń erano sempre stati nelle mani del presidente sovietico. Un anno
prima, il 22 marzo 1989, Eduard Ševardnadze, Valentin Falin e Vladimir Krjučkov avevano creato presso il Comitato centrale del Partito un file segreto denominato Sul pro-
5
JU. N. ZORIA, Niurinberskij bumierang, “Wojenno-Istoriczeskij Żurnał”, 1990, 6, pp. 47-57.
I. JAŻBOROWSKA [I. JAŽBOROVSKAJA], Kierunki i poglądy w historiografii rosyjskiej w sprawie zbrodni
katyńskiej, in Zbrodnia katyńska w oczach współczesnych Rosjan, Warszawa 2007, pp. 47-48.
7 Obscestvo Memorial: associazione che si occupa di studi storici, della diffusione di informazioni
sulle vittime delle repressioni staliniste e sovietiche e della difesa dei diritti umani nei paesi dell’ex URSS.
8 Oświadczenie TASS w sprawie odpowiedzialności za zbrodnię w Lesie Katyńskim, WPH 1990, 1-2,
pp. 363.
6
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I russi e Katyń oggi
blema di Katyń. Essi non avevano dubbi sul fatto che il protocollo della Commissione
Burdenko mentisse e proponevano che le autorità valutassero se non fosse meglio svelare la verità. Sempre il 13 aprile 1990 Michail Gorbačëv trasmise al presidente polacco
Wojciech Jaruzelski la prima parte dei materiali riguardanti i prigionieri di guerra
polacchi in URSS. Si trattava delle prime due cartelle contenenti la corrispondenza e le
annotazioni di diversi anelli dell’NKVD e 45 elenchi con i nomi dei prigionieri di
Kozielsk, inviati al comando del campo dalla Commissione dell’NKVD sui prigionieri di
guerra. Tutti gli elenchi erano datati aprile e maggio 1940. Tra i materiali trasmessi
c’erano anche documenti riguardanti i prigionieri di guerra di Starobel’sk e Ostaškov.
Questa era la prova che fino a quel momento i russi avevano mentito sulla sorte dei polacchi rinchiusi nei campi speciali. Il 22 giugno 1990 le autorità polacche ricevettero
ulteriori documenti riguardanti questioni connesse all’organizzazione dei luoghi di isolamento e alla creazione di un elenco di tutti i prigionieri. I sovietici acconsentirono
anche a effettuare delle ricerche nella regione di Char’kov e Mednoe. Le esumazioni,
che vennero portate avanti dal 25 luglio al 30 agosto 1991, confermarono che in quei
luoghi erano stati sepolti i polacchi internati nei campi di Starobel’sk e Ostaškov.
Poco dopo questi avvenimenti, nel 1991 uscì il libro di Vladimir Abarinov intitolato
Katynskij labirint. L’autore aveva esaminato la documentazione degli eserciti dell’NKVD
che scortavano i detenuti e aveva confrontato le mansioni da loro svolte nella primavera
del 1940 con le date in cui i prigionieri polacchi erano stati portati via dai campi speciali.
Ne aveva dedotto che questi soldati avevano il compito di scortare i prigionieri al luogo
della loro fucilazione. Tuttavia non potevano essere loro gli assassini, visto il tempo limitato di cui disponevano. Questo era invece compito dei funzionari delle strutture locali
dell’NKVD9. Abarinov aveva anche intervistato i testimoni degli avvenimenti e aveva utilizzato informazioni contenute nelle lettere giunte alla redazione di “Literaturnaja Gazeta”. Queste nuove conclusioni spiegavano alcuni particolari del massacro, soprattutto
rispetto ai suoi esecutori diretti. L’edizione polacca del libro è stata pubblicata nel 200710.
I documenti trasmessi il 14 ottobre 1992 al presidente polacco Lech Wałęsa
permisero di vedere gli avvenimenti sotto una luce completamente nuova11. Le autorità
sovietiche avevano deciso di rendere noti i materiali più importanti su Katyń, ma mentirono nuovamente dicendo di averli appena scoperti. In questo modo cercavano di cancellare il fatto che sino a quel momento ne avevano negato l’esistenza. Tra questi c’era
il fondamentale Pacchetto 1, contenente la proposta di Berija di sterminare 25.700
prigionieri di guerra polacchi e un estratto del protocollo della seduta del Politbjuro del
5 marzo 1940, durante la quale tale proposta era stata accolta ed erano state stabilite
le modalità con cui metterla in atto. Altri trenta documenti illustravano come la verità
sul massacro era stata insabbiata fino al 1989. I criteri con cui erano stati selezionati
questi materiali non vennero rivelati, ed era chiaro che la documentazione trasmessa
era incompleta.
9
V. ABARINOV, Katynskij labirint, Moskva 1991, p. 40.
W. ABARINOW [V. ABARINOV], Oprawcy z Katynia, Znak, Kraków 2007, pp. 245-291.
11 Katyń. Dokumenty ludobójstwa. Dokumenty i materiały archiwalne przekazane Polsce 14 października 1992 r., Warszawa 1992.
10
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Nel novembre 1992 una delegazione polacca a Mosca acquisì nuovi materiali d’archivio riguardanti la sorte dei polacchi nei territori orientali negli anni 1939-1951. Si
trattava di cinquantanove documenti sul funzionamento dei campi di prigionia, sul trasporto in URSS degli ufficiali e dei soldati polacchi internati in Lituania, sullo scambio
di prigionieri di guerra tra URSS e Terzo Reich. Una parte dei documenti acquisiti dalla
Direzione generale degli archivi di Stato polacchi e dalla Commissione militare per gli
archivi è stata pubblicata a cura di un team di studiosi polacco-russi nei quattro volumi
di Katyń. Dokumenty zbrodni [Katyń. Documenti di un massacro]12.
Poiché la Polonia era ormai entrata in possesso di un numero elevato di documenti sul
massacro di Katyń, la Procura polacca e il ministero della Giustizia chiesero alle forze di polizia sovietiche di avviare un’indagine. In seguito alle insistenze dei polacchi, nella primavera del 1990 le procure di Char’kov in Ucraina e di Tver’ in Russia aprirono un’indagine. Sei
mesi dopo, a cavallo tra ottobre e novembre, azioni simili vennero intraprese dalla Procura
militare generale dell’Unione Sovietica. I lavori vennero diretti dal colonnello Aleksandr Treteckij. Parallelamente, i procuratori polacchi raccolsero materiali che potevano essere
d’aiuto nell’indagine e li trasmisero all’Unione Sovietica. Presso la Procura generale della Repubblica di Polonia queste operazioni vennero coordinate dal procuratore Stefan Śnieżko. Tra
i circa mille testimoni interrogati nel corso dell’indagine, le testimonianze più importanti si
rivelarono quelle di Mitrofan Syromjatnikov, che negli anni 1939-1941 era stato consigliere
anziano della prigione interna dell’NKVD a Char’kov13, e Dmitrii S. Tokarev, nel 1940 capo dell’NKVD di Kalinin (Tver’). Quest’ultimo raccontò con pedante minuzia lo svolgimento del
massacro, fornendo dettagli tecnici e organizzativi14. Non tutti i testimoni, però, si dimostrarono così collaborativi. Il maggiore Pëtr K. Soprunenko, capo del Consiglio per i prigionieri di guerra, disse ai procuratori: «non sono a conoscenza degli ordini della dirigenza
dell’NKVD sull’eliminazione di prigionieri di guerra polacchi»15. Considerata la posizione ricoperta da Soprunenko nel 1940, grazie alla quale poteva avere accesso a documenti segreti, queste affermazioni sembrano del tutto assurde.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la nascita della Federazione Russa, l’indagine
passò nelle mani della Procura generale russa, sotto la direzione del sottocolonnello
Anatolij Jablokov, a cui venne affidata nella primavera del 1992. Dopo quattordici anni,
l’indagine fu archiviata il 21 settembre 2004. Nessuno venne accusato. La Russia non
riconosce il massacro di Katyń come genocidio16, ma solo come crimine comune ormai
12 Katyń. Dokumenty zbrodni: t. 1, Jeńcy niewypowiedzianej wojny. Sierpień 1939 — marzec 1940,
a cura di W. Materski, Warszawa 1995; t. 2, Zagłada. Marzec — Czerwiec 1940, a cura di W. Materski e A. Belerska, Warszawa 1998; t. 3, Losy ocalałych. Lipiec 1940 — marzec 1943, a cura di W. Materski e A. Belerska, Warszawa 2001; t. 4, Echa Katynia. Kwiecień 1943 — marzec 2005, a cura di W.
Materski e A. Belerska, Warszawa 2006.
13 Zeznania Syromiatnikowa, WPH 1995, 1-2, pp. 423-438.
14 Zeznanie Tokariewa, a cura di M. Tarczyński, “Zeszyty Katyńskie”, n. 3, 1994.
15 M. HARZ, Pierwsze zeznanie Soprunienki, in II półwiecze zbrodni. Katyń — Twer — Charków, Warszawa
1995, p. 144.
16 Con un decreto del 9 XII 1948 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha accolto la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine per genocidio, in cui si afferma che: «per
genocidio si intende ciascuno degli atti […] commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in
parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso».
poloniaeuropae 2010
149
I russi e Katyń oggi
caduto in prescrizione. Pertanto la procura russa non muoverà alcuna accusa, sebbene
nel corso del procedimento siano state accertate le generalità degli esecutori diretti e
questi siano tuttora in vita. Purtroppo non sappiamo neppure se e chi sia stato riconosciuto come potenziale esecutore, perché agli inizi del marzo del 2005 la Procura militare della Federazione Russa, nonostante le promesse fatte, si è rifiutata di trasmettere
alla Polonia una copia dei 183 tomi degli atti d’indagine. I russi hanno dichiarato che
116 di questi tomi sono coperti dal segreto di Stato e pertanto non possono essere messi
a disposizione dei polacchi. La procura non ha rivelato neppure i nomi dei responsabili
del massacro, perché le loro generalità si trovano nei documenti segreti. I russi hanno
avuto paura di assumersi la responsabilità morale per il massacro di Katyń, perché questo avrebbe gettato un’ombra sulla potenza e i successi dell’Unione Sovietica. Inoltre,
c’era il rischio che questo costituisse un precedente per altri crimini risalenti allo stesso
periodo e potesse dare il via ad eventuali rivendicazioni finanziarie da parte delle
famiglie delle vittime.
Ufficialmente la Russia annovera il massacro di Katyń tra i crimini comuni. In
verità il punto b dell’art. 3 della legge della Federazione Russa del 18 ottobre 1991 prevede che le vittime di repressioni politiche vengano riabilitate per legge. Tuttavia,
anche se la Polonia ritiene che i prigionieri di guerra uccisi a Katyń, Char’kov e Tver’
meritino di essere riconosciuti innocenti almeno post-mortem, le autorità russe sono di
parere contrario.
Per questo motivo il Comitato di Katyń17 ha presentato una denuncia per omicidio
all’Istituto della memoria nazionale [Instytut Pamięci Narodowej, IPN]. Sulla base di
questa denuncia, il 30 novembre 2004 l’IPN ha avviato un’indagine su «omicidi di massa
per fucilazione commessi su non meno di 21.768 cittadini polacchi». Lo scopo principale
del procedimento è stabilire l’elenco completo delle vittime, i nomi dei responsabili del
crimine (dai mandanti agli esecutori diretti), le circostanze riguardanti la decisione di
eliminare i polacchi e la sua realizzazione. Purtroppo i tribunali polacchi non hanno la
possibilità di condannare i colpevoli anche se ne venisse accertata l’identità e se
fossero ancora vivi, perché la legge russa non consente l’estradizione dei suoi cittadini
agli organi di giustizia di altri paesi18. Le famiglie delle vittime stanno cercando di
ottenere dai tribunali russi la riabilitazione di singoli individui. Questo creerebbe un
precedente giuridico e permetterebbe di ottenere sentenze simili per le altre vittime
di questo crimine. Sinora questi tentativi non hanno avuto alcun successo. Al contrario,
nell’ottobre del 2008 il procuratore militare russo Igor Blizejev ha affermato che
«alcuni ufficiali polacchi uccisi a Katyń potevano essere spie, sabotatori e terroristi,
pertanto esistevano le basi per una loro repressione»19.
17
Il Komitet Katyński (Federacja Rodzin Katyńskich) è una Ong polacca nata nel 1992 che ha per
finalità di raccogliere gli sforzi di quanti in Polonia mantengono viva la memoria delle vittime polacche di tutti i crimini commessi dai sovietici. Tra le iniziative più note promosse dalla Federazione, l’apertura dei cimiteri militari polacchi a Katyń, Mednoe e Char’kov (n.d.r.).
18 S. KALBARCZYK, Zbrodnia. Droga do prawdy. Kara? Katyń po 65 latach, “Biuletyn IPN”, n. 5-6 (5253), 2005 p. 70.
19 P. KOŚCIŃSKI, Dywersanci z Katynia, “Rzeczpospolita”, 25-10-2008, n. 251 (5182).
150
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Per i lettori russi una pubblicazione importante è stata sicuramente Katyn’. Prestuplenie v range gosudarstvennoj tajny [Katyń. Un crimine coperto dal segreto di
Stato] di Inessa Jažborovskaja, Anatolij Jablokov e Jurij Zoria, pubblicato anche in
Polonia nel 1998. Questo libro ha permesso ai russi di conoscere la storia delle menzogne sul massacro di Katyń mostrando come le informazioni su questa vicenda siano
state insabbiate e falsificate dalle autorità sovietiche dal 1944 fino al 1990 e come,
alla fine, la verità sia stata svelata. Essendo stato scritto da studiosi e giornalisti russi,
questo libro ha maggiori possibilità di raggiungere i lettori russi rispetto a quelli di
autori stranieri20.
In un altro libro pubblicato nel 2007, Jažborovskaja, Jablokov e Parsadanova hanno
attuato un’interessante analisi dei rapporti polacco-sovietici e polacco-russi sulla questione di Katyń. Gli autori si sono concentrati sul periodo iniziale e su quello finale,
esaminando la situazione geopolitica della Polonia dal 1939 alla fine della seconda
guerra mondiale e la politica staliniana nei confronti dei polacchi, per arrivare sino all’insabbiamento e poi al chiarimento degli aspetti controversi della vicenda negli anni
Novanta21. Gli autori concludono che per far evolvere in maniera costruttiva i rapporti
russo-polacchi è necessario liberarsi dell’eredità del totalitarismo, anche se questo
richiederà tempo e buona volontà da entrambe le parti. Molti storici e giornalisti russi
che si occupano della vicenda di Katyń pubblicano i loro lavori anche in polacco. Questo non solo consente di diffondere le loro idee in Polonia, ma è una conferma che pure
gli studiosi russi si impegnano a svelare la verità.
Anche i siti internet russi si occupano dell’argomento, che in questo modo raggiunge un pubblico giovane. Nel 1999 Jurij Krasilnikov ha creato un sito interamente
dedicato a Katyń che contiene le domande più frequenti sul massacro, articoli e frammenti di libri, copie di documenti, mappe e fotografie. Ma non è l’unico. Esiste anche
il sito di Aleksej Pamjatnych e Sergej Romanov che contiene principalmente documenti
riguardanti il massacro e fotografie delle recenti esumazioni, come quelle avvenute a
Mednoe. C’è anche il sito di Sergej Strygin, un seguace della versione di Muchin, secondo
il quale l’NKVD non è responsabile del massacro di Katyń. Esistono anche i siti ufficiali
di organizzazioni e associazioni, come Memorial, dei complessi cimiteriali di Katyń e
Mednoe, dei difensori dei diritti umani.
Purtroppo, accanto a studiosi e giornalisti impegnati attivamente a scoprire e diffondere la verità, in Russia esistono persone che non solo dubitano delle responsabilità
dei funzionari dell’NKVD e delle autorità sovietiche, ma cercano anche di dimostrare
che i responsabili del massacro sono stati i tedeschi. Tra i più attivi in questo senso c’è
Jurij Muchin, autore di Katynskij detektiv [Il giallo di Katyń]22 e Antirossijskaja podlost’
[La vigliaccheria antirussa]23. Entrambi i libri espongono la tesi della responsabilità
20 I. JAŻBOROWSKA, A. JABŁOKOW, J. ZORIA [I. JAŽBOROVSKAJA, A. JABLOKOV, JU. ZORIA], Katyń. Zbrodnia chroniona tajemnicą państwową, Warszawa 1998, pp. 8-9.
21 I. JAŽBOROVSKAJA, A. JABLOKOV, V. PARSADANOVA, Katynskij sindrom v sovetsko-pol’skich i rossijskopol’skich otnošenijach, Moskva 2007, pp. 380-394.
22 J. MUCHIN, Katynskij detektiv, Moskva 1995.
23 Idem, Antirossijskaja podlost’. Naučno-istoričeskij analiz. Rassledovanie fal’sifikacii Katynskogo dela
Pol’šej i Generalnoj prokuraturoj Rossii s cel’ju razžeč’ nenavist’ poljakov k russkim, Moskva 2003, p. 5.
poloniaeuropae 2010
151
I russi e Katyń oggi
tedesca per il massacro e hanno un atteggiamento ostile verso chiunque pensi il contrario. Muchin accusa persino le famiglie delle vittime di essere mosse dal desiderio di
arricchirsi grazie ai risarcimenti della Russia. Secondo lui è per colpa dei polacchi se le
indagini russe vanno per le lunghe, perché i polacchi temono che portando la causa in
tribunale le loro accuse si rivelerebbero infondate. Muchin afferma anche che i tedeschi conoscevano i nomi delle persone uccise a Katyń perché erano stati loro a commettere il massacro. Considera poi una menzogna propagandistica la tesi che dopo
l’occupazione di Smolensk nel 1941 l’archivio dell’NKDV locale sia finito in mano ai
tedeschi. In Antirossijskaja podlost’ afferma che i corpi scoperti durante le recenti esumazioni nei pressi di Char’kov appartengono a criminali fucilati e a prigionieri tedeschi
morti nei campi, mentre i polacchi affermano «falsamente» che si tratta dei loro ufficiali rinchiusi nel campo di Starobel’sk.
Affermazioni scioccanti e scandalose, che mettono in dubbio la responsabilità
dell’NKVD per il massacro dei prigionieri di guerra polacchi, non vengono pronunciate
solo da studiosi e giornalisti controversi, ma anche da deputati della Duma di Stato
russa. Lo scopo è di creare un’immagine positiva della missione della Russia nel
mondo. Viktor Iluchin (deputato del Partito comunista russo) nega completamente la
responsabilità dell’NKVD e sostiene invece le argomentazioni contenute nel rapporto
della Commissione Burdenko24 del 1944. Sulla stessa linea è pure lo scrittore Vladimir
Žucharaj (ex militare, generale e luogotenente, dottore di ricerca in storia), secondo
il quale i documenti che incolpano del massacro le autorità sovietiche e l’NKVD, scoperti negli anni Novanta, sono dei falsi. Secondo lui a fabbricarli sarebbe stata
l’Intelligence britannica, che li avrebbe poi immessi nel circuito degli archivi dopo la
morte di Stalin25. Sergej Stygin ha invece fondato l’Esercito della volontà del popolo,
i cui attivisti hanno manifestato il 4 novembre 2005 davanti all’ambasciata polacca a
Mosca. Stygin e i suoi seguaci sono dell’opinione che le accuse contro l’NKVD per i massacri di Katyń, Char’kov e Kalinin (Tver’) sono solo menzogne, e sono convinti che i
polacchi agiscano spinti dal desiderio di ottenere risarcimenti dalla Federazione
Russa. L’ex primo segretario della Lega degli scrittori dell’URSS, Vladimir Karpov, nel
libro Generalissimus, pubblicato a Mosca nel 2000, afferma che fino ad oggi non è
stato ancora accertato se i responsabili del massacro siano i tedeschi o i russi26. Con
24 Nel gennaio 1944, avendo riconquistato la zona di Katyń, i sovietici istituirono una compiacente
“Commissione speciale per la determinazione e investigazione dell’uccisione di prigionieri di guerra
polacchi da parte degli invasori fascisti tedeschi nella foresta di Katyń”, guidata dal Presidente dell’Accademia di Scienza Medica dell’URSS Nikolaj Burdenko. Composta da rappresentanti solo sovietici, la Commissione riesumò nuovamente i corpi e giunse alla «conclusione» che delle
esecuzioni di massa dei prigionieri di guerra polacchi nella foresta di Katyń… «nel 1941»… erano
responsabili gli «invasori tedeschi». Su questa base, nel 1946, al processo di Norimberga l’URSS
cercò di accusare la Germania per le uccisioni di Katyń, ma di fronte all’efficace difesa degli avvocati tedeschi, la questione passò nel dimenticatoio: Katyń non è menzionata in nessuna delle sentenze di Norimberga (n.d.r.).
25 W. ABARINOW [V. ABARINOV], Zbrodnia chroniona całym autorytetem państwa rosyjskiego, in Zbrodnia katyńska w oczach…, pp. 35-36.
26 I. JAŻBOROWSKA [I. JAŽBOROVSKAJA], Kierunki i poglądy w historiografii rosyjskiej w sprawie zbrodni
katyńskiej, in Zbrodnia katyńska w oczach…, pp. 55-56.
152
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tono simile scrive anche Vladislav Šved nel libro Tajna Katyni [Il mistero di Katyń], pubblicato nel 2007. L’autore mette in dubbio l’attendibilità dei documenti che confermano la responsabilità dei dirigenti sovietici e dei funzionari dell’NKVD. Afferma che il
numero dei polacchi trucidati è stato gonfiato e i documenti che testimoniano della
responsabilità sovietica sono stati falsificati27.
Nell’autunno del 2007, subito dopo la prima del film Katyń di Andrzej Wajda, sulla
stampa russa sono apparsi alcuni articoli in cui si difendeva la versione staliniana degli
eventi, come quello pubblicato su “Niezavisimoja Gazeta” da Nikolaj Varsegov, reporter di “Konsomolskaja Pravda”, e da Aleksandr Šyrokorad. Gli autori basano la loro tesi
sulle conclusioni contenute nel protocollo della Commissione Burdenko, anche se questo documento è stato messo in discussione non solo dagli storici polacchi, ma anche da
quelli russi. Nello stesso periodo, Sergej Strygin e Vladislav Šved sono stati ospiti del
programma “Postscriptum” di Aleksej Puškov in onda il 3 novembre 2007 sulla rete moscovita TWC. I due hanno cercato di convincere i telespettatori che le testimonianze di
Dmitrii Tokarev sull’uccisione dei polacchi nella primavera del 1940 erano false e hanno
messo in discussione l’autenticità dei documenti che confermano le responsabilità di
Stalin e dell’NKVD28.
A Mosca il film di Wajda è stato presentato il 18 marzo 2008, suscitando un grande
interesse. Tra gli spettatori c’erano rappresentanti del mondo della scienza, della religione, della politica, di organizzazioni non governative e di associazioni per la difesa dei
diritti umani. Il giorno successivo “Rossijskaja Gazeta” ha pubblicato un’intervista con il
regista, il quale spiegava che il film non era stato girato contro la Russia, ma voleva
mostrare la verità su uno dei crimini di Stalin. Nello stesso numero, però, il quotidiano
ha pubblicato anche un commento di Aleksandr Sabov che confuta l’autenticità dell’ordine di uccidere i polacchi emesso da Berija il 5 marzo 1940.
Attualmente i membri della Federazione delle famiglie di Katyń (associazione
che riunisce le famiglie delle vittime)29 intendono sottoporre la questione alla Corte
Internazionale dell’Aja. Anche se ottenessero un verdetto favorevole, però, la coscienza dei russi non cambierebbe. Cercare di modellarla mostrando la verità è compito di studiosi, giornalisti e insegnanti. Coloro che provano ancora a falsificare la
storia del massacro di Katyń sono pochi e le loro argomentazioni sono messe in discussione dalla maggioranza degli studiosi. Però godono comunque di un certo seguito. Così come i tedeschi hanno dovuto confrontarsi con le loro responsabilità per
i crimini del nazismo dopo la fine della seconda guerra mondiale, così i cittadini della
Federazione Russa devono accettare il fatto di essere i successori “delle realizza-
27 Eadem, Katyńska konfrontacja historii i polityki w Rosji, in Zbrodnia katyńska. Między prawdą
a kłamstwem, a cura di M. Tarczyński, Warszawa 2008, p. 133.
28 A. PAMIATNYCH [A. PAMJATNYCH], Rosyjskie publikacje ostatnich miesięcy na temat Katynia. Film
Andrzeja Wajdy i jego rola w problematyce katyńskiej w Rosji, in Zbrodnia katyńska. Między
prawdą…, pp. 150-152.
29 Vedi nota 17.
poloniaeuropae 2010
153
I russi e Katyń oggi
zioni” del regime staliniano. In quanto russi contemporanei, devono affrontare il difficile compito di elaborare una formula che metta insieme il fatto di essere gli eredi
delle azioni dei loro predecessori e il fatto di non avere una diretta e personale responsabilità per tali azioni.
Joanna Żelazko, dottore di ricerca in scienze umanistiche, lavora all’IPN-Instytut Pamięci Narodowej, sezione di Łódź. Studia in particolare le questioni legate all’attività
dei servizi di sicurezza e dell’amministrazione della giustizia in Polonia negli anni 19441956. Autrice di vari libri e articoli scientifici e divulgativi. Tra le sue monografie: “Ludowa” sprawiedliwość. Skazani przez Wojskowy Sąd Rejonowy w Łodzi (1946—1955),
Łódź 2007.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Settantesimo anniversario
dell’aggressione di Hitler alla Polonia
Il 70° anniversario dell’aggressione di Hitler alla Polonia che ha dato avvio alla seconda guerra mondiale è stato celebrato il 1° settembre 2009 in Polonia, a Danzica,
nelle rovine del forte di Westerplatte, la penisola fortificata polacca, dove tutto per
così dire cominciò. Si è trattato di una cerimonia piena di sorprese, alla quale hanno
partecipato, tra i vari protagonisti stranieri, la cancelliera tedesca Angela Merkel e Vladimir Putin. La presenza del premier russo in Polonia era già di per sé un evento, e
come tale è stato ampiamente sottolineato. Ma Putin ha fatto di più scrivendo una
lettera aperta ai polacchi dal tono conciliante sulle «ombre del passato» che «oggi e
nel futuro non dovrebbero offuscare la cooperazione tra Russia e Polonia». Ha condannato come «immorale» il patto di non aggressione stretto da Hitler e Stalin nell’agosto 1939 alle spalle della Polonia, chiedendo al contempo di porre gli eventi nel
loro contesto ricordando gli accordi di Monaco del 1938 e le responsabilità di Francia
e Gran Bretagna nell’aver pesato sui destini della Cecoslovacchia: «hanno rovinato
tutte le speranze di formare un fronte comune» nella lotta contro il nazi-fascismo. Ha
detto di comprendere i sentimenti polacchi sull’eccidio di Katyń perpetrato per mano
sovietica nel 1940 e ha proposto di riconoscere i cimiteri di Katyń e Mednoe come simboli «del rimpianto e del perdono reciproco», chiedendo al tempo stesso «gratitudine
e rispetto per le tombe dei soldati russi sepolti in terra polacca». Ha invitato infine i
polacchi a «imparare le lezioni della storia», a non leggerla in modo selettivo cercando
motivo di recriminazioni.
La lettera è stata pubblicata il 31 agosto 2009 in prima pagina su “Gazeta Wyborcza”, il maggiore quotidiano polacco1. Il testo di Putin ha suscitato una ridda di
commenti e sentimenti misti: sorpresa, molto interesse, qualche plauso, qualche critica. Il commento più interessante è venuto dal fondatore stesso di “Gazeta Wyborcza”,
il giornalista e storico Adam Michnik, che ha risposto con l’articolo di seguito riportato
e in polacco intitolato: Non è andata esattamente così [come Lei scrive], signor Putin…2.
1 VLADIMIR PUTIN, List Putina do Polaków, “Gazeta Wyborcza”, 31/08/2009
(http://wyborcza.pl/1,75477,6983945,List_Putina_do_Polakow___pelna_wersja.html).
2 ADAM MICHNIK, To niezupełnie było tak, panie Putin…, “Gazeta Wyborcza”, 01/09/2009.
(http://wyborcza.pl/1,101422,6986045,To_niezupelnie_bylo_tak__panie_Putin___.html).
Si ringrazia “Gazeta Wyborcza” e in particolare Adam Michnik ed Ewa Sobulska per avere autorizzato la traduzione e pubblicazione di questo testo inedito in Italia.
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Lettera aperta al Presidente Vladimir Putin...
Lettera aperta al Presidente Vladimir Putin sulla seconda guerra mondiale
e i rapporti tra polacchi e russi
di Adam Michnik
Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone
Pubblicando l’articolo di Vladimir Putin, “Gazeta Wyborcza” si è fatta guidare dall’idea che il lettore polacco abbia il diritto di conoscere le opinioni del primo ministro
della Russia di prima mano. Il dialogo polacco-russo, anche se costellato di ostacoli, è
una grande conquista degli ultimi vent’anni. La Russia è uno dei più importanti Stati del
mondo. Per i polacchi è un paese con un particolare significato. Per questa ragione, ospitiamo sulle colonne del nostro giornale le opinioni di scrittori, politici o scienziati russi.
Ricordiamo anche quanto dobbiamo alle trasformazioni democratiche in Russia iniziate da Michail Gorbačëv e da Boris El’cin. E quanto dobbiamo agli oppositori democratici russi che hanno dimostrato al mondo come sia possibile vivere senza menzogna.
La voce di Vladimir Putin, oggi il più importante politico della Russia, costituisce
un fatto significativo. Sullo sfondo della retorica aggressiva dei nazionalisti panrussi, che
ripetono oggi le menzogne della propaganda stalinista — secondo cui «la Polonia è stata
la prima alleata di Hitler» e il crimine di Katyń è stato opera dei tedeschi — la sua voce
risuona in maniera del tutto diversa.
Vladimir Putin scrive chiaramente che proprio i polacchi, per primi, hanno sbarrato
la strada agli aggressori hitleriani. Per questa ragione, vorrei che questo mio articolo
fosse letto con attenzione dagli sciovinisti panrussi.
Nell’articolo del primo ministro russo c’è una nota di apprensione riguardo al futuro, un futuro di pace e fondato sulla cooperazione e sul dialogo. Condividiamo tale
preoccupazione. Perciò, approfittiamo di questa occasione per dialogare.
Merita piena stima il linguaggio con il quale il premier Putin scrive sui tedeschi
che hanno avversato il nazismo e sulla riconciliazione russo-tedesca. Sono stati gli antinazisti tedeschi a svolgere un ruolo chiave in quest’opera di riconciliazione; sono stati
loro a opporsi alla lugubre tradizione simboleggiata dal telegramma di Stalin a Hitler
sull’«amicizia suggellata col sangue».
Noi, in Polonia, dobbiamo ricordare con lo stesso rispetto quei russi che si sono
opposti allo stalinismo e alla dittatura brežneviana: Andrej Sacharov, Aleksandr Solženicyn, Sergej Kovalëv e Josif Brodskij, Vasilij Grossman oppure gli uomini dell’associazione storica internazionale Memorial.
Vorremmo che quella stessa sensibilità che il capo del governo russo manifesta per
gli antifascisti tedeschi fosse rivolta, in ugual misura, alle vittime del terrore staliniano:
lituani, ucraini, estoni e lettoni. Tutto ciò è richiesto a noi, uomini del ventunesimo se-
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
colo, dal rispetto dovuto alla memoria di coloro che combatterono per la libertà.
Ogni popolo ha una sua propria memoria storica. Il polacco e l’ucraino, il russo e
il tedesco valutano, ciascuno in modo diverso, gli avvenimenti storici. Tuttavia, noi polacchi non vogliamo costruire la nostra memoria su una menzogna storica. E crediamo
che ciò non lo voglia neppure il capo del governo della Federazione Russa.
Per noi il patto Ribbentrop-Molotov ha determinato la quarta spartizione della Polonia e la cancellazione dello Stato polacco dalla carta d’Europa. Immediata conseguenza di questo patto fu l’aggressione armata dello Stato di Hitler alla Polonia, il 1°
settembre 1939 e, il 17 settembre, l’aggressione armata da parte dello Stato di Stalin.
Poi venne il tempo delle crudeli persecuzioni a danno dei cittadini del nostro Stato,
come i crimini nella foresta di Palmira e nella foresta di Katyń. La Polonia cadde vittima
di due imperialismi totalitari.
Vladimir Putin ricorda giustamente «l’aspetto etico della politica» e scrive che «il
carattere immorale del patto Ribbentrop-Molotov è stato giudicato in modo inequivocabile dal parlamento» dell’URSS. E ripete: «Senza alcun dubbio si può pienamente
condannare il patto Ribbentrop-Molotov, firmato nell’agosto del 1939».
Continuando, il primo ministro russo ricorda il contesto: l’Anschluss, il «complotto»
di Monaco. Tali considerazioni sono azzeccate. Questi sono gli errori fatali che hanno commesso gli stati dell’Europa democratica. Ma ci è difficile essere d’accordo sul fatto che
il vile, opportunistico e amorale consenso dato all’espansione hitleriana sia messo sullo
stesso piano della comune aggressione hitleriano-staliniana contro la Polonia. Gli eserciti
inglese e francese non sono entrati insieme in Cecoslovacchia per occupare il paese.
Il premier Putin ricorda anche l’entrata delle divisioni polacche nella regione di
Zaolzie [oltre il fiume Olza]. Consideriamo questa azione come un errore storico della
politica estera polacca e, comunque la si voglia giustificare, rimane sempre un errore
vergognoso e degno di condanna. Ma neanche qui riusciamo a ravvisare alcuna simmetria. Basta confrontare l’atteggiamento — senz’altro deplorevole — dell’amministrazione polacca in Zaolzie con il comportamento dell’amministrazione staliniana sui
territori polacchi occupati dopo il 17 settembre. I polacchi non organizzarono nessuna
deportazione, per non parlare dei crimini come quello di Katyń.
Il premier Putin accenna anche alla «tragica sorte dei soldati russi che furono imprigionati durante la guerra del 1920». Se volessi essere maligno, ricorderei che nel
1941, cercando una simmetria fra i danni causati dai polacchi ai russi e quelli causati
dai russi ai polacchi, Josif Vissarionovič Stalin richiamò alla memoria del generale Władysław Sikorski la presenza dei polacchi al Cremlino e l’occupazione polacca di Mosca
dei primi anni del XVII secolo.
Cerchiamo di essere seri: tutta la verità sul destino di quei prigionieri sovietici del
1920 ha da essere svelata. Ma non ricorderemo mai abbastanza che nessuno di loro è
stato ucciso con un colpo dietro la nuca.
Mai un politico polacco ha pronunciato quella orrenda frase, cioè, che finalmente
era sparita dalle carte geografiche la Cecoslovacchia, «bastardo deforme del Trattato
di Versailles». Eppure queste precise parole vennero pronunciate nell’ottobre del 1939
a proposito della Polonia da Vjačeslav Molotov, ministro sovietico degli Affari esteri. I
polacchi non passeranno mai sopra queste parole, non le scorderemo mai. Esse fanno
parte della nostra memoria nazionale. Per noi — come per numerosi democratici russi
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Lettera aperta al Presidente Vladimir Putin...
— Stalin è stato un criminale e un aggressore. In quanto artefice dello Stato del Gulag
poteva essere pienamente paragonato a Hitler.
È ovvio che ciò non diminuisce la nostra gratitudine e la nostra ammirazione per
l’eroismo delle centinaia di migliaia di soldati dell’Armata Rossa che perirono in terra
polacca durante la guerra contro l’occupante hitleriano.
La cura delle loro tombe è dovere di noi polacchi. Il premier Putin scrive che eravamo insieme nella coalizione antihitleriana il Giorno della Vittoria. Ebbene, signor
primo ministro, non tutti siamo stati insieme. Aleksandr Solženicyn e Leopold Okulicki
— per ricordare soltanto questi due nomi simbolici — quel giorno erano rinchiusi nelle
galere staliniane in attesa di un processo. In questi destini è racchiuso il simbolo che
non ci è permesso dimenticare.
Le dispute storiche sono rischiose e possono portare a «speculare sulla memoria».
Vogliamo evitarlo, vogliamo lasciare la storia agli storici. Per questo rivolgiamo un appello affinché agli storici venga consentito l’accesso agli archivi di entrambi i paesi.
Teniamo in modo particolare a che siano resi noti tutti i materiali riguardanti i crimini
di Katyń. Sarà per i polacchi un ottimo segnale.
Il premier Putin scrive che nelle relazioni russo-polacche si vedono i primi segni di una
nuova logica, quella del dialogo e della cooperazione. Anche i polacchi desiderano il dialogo, la riconciliazione e la cooperazione fondata sulla verità, la libertà e l’uguaglianza.
Bisogna superare il modo di ragionare tipico della guerra fredda basato sulle categorie della politica «della zona di influenza» oppure «dell’estero vicino». Tale politica genera sempre conflitti quando viene attuata dalle grandi potenze dell’Europa,
dell’Asia o dell’America Latina.
Comprendiamo la dura realtà del mondo della politica. Per questa ragione guardiamo alla Russia con speranza e, al contempo, con inquietudine. Ci rallegrano le conquiste della cultura e della scienza russa. Ci inquietano, invece, i tragici avvenimenti
del Caucaso, l’uccisione dei giornalisti indipendenti e degli attivisti sociali, l’ennesimo
processo a Michail Chodorkovskij.
Abbiamo letto l’articolo del premier russo con speranza e fede: con la speranza in
un futuro migliore nelle relazioni russo-polacche e con la fede nel futuro della democrazia in Russia.
Tale fede e tale speranza intendiamo coltivare.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Katyń, tra storia e propaganda3
di Adam Michnik
Traduzione di Alessandro Amenta
Ormai sappiamo tutta la verità su come è scoppiata la guerra, sul patto RibbentropMolotov e il protocollo segreto, sulla «coltellata alle spalle» e la quarta spartizione
della Polonia, sul dramma della Polonia vinta e occupata da due regimi banditi. Sappiamo tutto anche sul massacro di Katyń.
Questa verità non la conoscono solo i polacchi. La conoscono tutti, russi compresi.
Solo chi falsifica la storia, e a farlo non sono in pochi, può negare i crimini nazisti, come
le camere a gas, o quelli stalinisti, come Katyń.
Ne sono una prova i numerosi studi di storici tedeschi e russi. Questi storici, che
scrivono la verità sul passato totalitario, sono messaggeri di un futuro migliore. Grazie
a un’amara resa dei conti con la memoria, costruiscono un mondo migliore. I polacchi
devono essere riconoscenti a tutti loro, agli storici tedeschi e a quelli russi.
Non c’è modo di cancellare il passato dalla politica, perché non si può cancellarlo
dalla memoria delle persone. Gli storici sono i suoi custodi. Per questo uno storico scrupoloso è al servizio della verità e non di questa o quella congiuntura politica che usa il
passato come un’arma per colpire gli oppositori.
Pertanto le discussioni se il massacro di Katyń debba essere definito un crimine di
guerra o un genocidio, sono discussioni sterili. Chi scatena una disputa politica intorno
a questa differenza di opinioni dimostra disprezzo per i morti e per un futuro migliore
costruito sulla verità e sulla riconciliazione. Lo scopo di questa disputa non è infatti
quello di rendere omaggio alle vittime, ma quello di fare lo sgambetto agli oppositori
di oggi.
Uno storico scrupoloso non prende parte agli schiamazzi della propaganda di partito
che accende l’odio verso i nemici di ieri. Uno storico scrupoloso insegna a capire la storia e il contesto; insegna a capire non solo le proprie ragioni, ma anche quelle degli altri.
Nazioni diverse hanno infatti il diritto di ricordare in maniera diversa il settembre 1939.
Della storia, cari politici, è stato detto che è maestra di vita; non è stato detto che
è maestra di odio e di bugie.
3
ADAM MICHNIK, Katyń - historia i propaganda, “Gazeta Wyborcza”, 17/09/2009
(http://wyborcza.pl/1,101422,7048149,Katyn___historia_i_propaganda.html).
Si ringrazia l’autore ed Ewa Sobulska per aver consentito la traduzione e pubblicazione di questo
testo inedito in Italia.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo
di Francesco Maria Cannatà
La “guerra dei trent’anni” del XX secolo ha lasciato ferite profonde nella memoria dei popoli europei. Non solo l’oriente del continente è stato teatro di atti di violenza
senza pari. Conflitti mondiali, rivoluzioni e guerre civili, colpi di Stato e dittature, carestia e grande terrore, nazionalsocialismo, sterminio degli ebrei, gulag, guerre di frontiera e conflitti nazionali, deportazioni e pulizie etniche sono momenti intrecciati e
difficilmente separabili anche quando avvengono a distanza di decenni l’uno dall’altro. Il Novecento, secolo “estremo”, patrimonio comune del nostro continente, è però
interpretato a modo proprio da ogni nazione. Ogni Stato ha il proprio XX secolo. Ogni
memoria nazionale autorappresentandosi come contromemoria si contrappone alle altre
e le prepara allo scontro. La battaglia russo-estone dell’aprile 2007 causata dallo spostamento del monumento al soldato sovietico dal centro di Tallin ne è la prova. Gli eredi
dei soldati sovietici che hanno combattuto per la liberazione dei territori baltici dall’occupazione tedesca e di quelli estoni vittime dopo l’occupazione nazista di quella
dell’Armata Rossa non sono riusciti a trovare un linguaggio comune. Non è stato un caso
isolato. Tensioni appaiono anche tra Polonia e Ucraina quando si tratta di giudicare personaggi che per Kiev sono “eroi”, mentre Varsavia e Mosca (una volta tanto unite) li
giudicano “terroristi”: così nel caso di Stepan Bandera1. Paradossale quanto accaduto
in Georgia lo scorso dicembre quando il governo di Tblisi per far saltare in aria in fretta
e furia il monumento al milite ignoto della seconda guerra mondiale di Kutaisi, ha causato delle vittime tra i cittadini della seconda città georgiana.
In Europa centrale e orientale, storia e memoria fanno parte della vita quotidiana.
Nonostante europeizzazione e globalizzazione i conflitti sul piano delle reminiscenze e
dei ricordi si moltiplicano. Dal 1989 adattamenti, elaborazioni e rivalutazioni si intrecciano in maniera tempestosa. Con conseguenze ambigue. Cadono tabù, spariscono punti
oscuri.
1 Stepan Bandera (1909-1959), politico ucraino, uno dei leader del movimento nazionalistico
ucraino nella Galizia polacca (oggi Ucraina occidentale). Durante la seconda guerra mondiale fu il
capo della Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN-B: Orhanizacija Ukrajinśkych Nacjonalistiw-Bandery), e anche il fondatore dell’UPA-Armata insurrezionale ucraina (Ukrajinśka Powstanśka Armija). Nel giugno 1941 fu Bandera a proclamare a Leopoli l’indipendenza di uno Stato ucraino
che si voleva alleato di Hitler in funzione antisovietica, un’ipotesi presto scartata dallo stesso Hitler. Tra il 1943 e il 1945, i nazionalisti dell’OUN-B e gli estremisti della paramilitare UPA e altri
partigiani o sbandati ucraini attuarono una radicale pulizia etnica nelle campagne della Volinia e
Galizia ex polacche uccidendo circa 80-100 mila civili polacchi. La lotta indipendentista, antisovietica e antipolacca, dei partigiani dell’UPA continuò nel dopoguerra. Bandera rimase in Germania, dove morì avvelenato dal KGB.
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“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo
Cresce la conoscenza storica di quanto accaduto a Katyń, Solovki2, Katowice3, Kaunas4,
Bełżec5. Non si arresta però la battaglia per la gestione del passato. La storia, infatti, è una
moneta con valore di scambio politico. Ogni soggetto in gioco — politici, governi, amministrazioni — punta a un proprio obiettivo. Storia e anamnesi pubblica diventano risorse del
potere. Servono a creare legittimazioni, a mobilitare persone, sono usate per integrare e
legittimare. Si dibatte di “politica della storia”, si parla di “ricerca di memoria” e di “identità storica”, ma spesso si tratta solo di “battaglie politiche combattute in costume storico”.
Solo così si può definire l’atteggiamento dei diversi attori in campo quando si arrogano sovranità interpretative, quando tentano di omogeneizzare la storia per fissarla a una verità
definitiva, per mitizzarla, ideologizzarla, col risultato di creare nuovi tabù.
Nel 2004 un gruppo di storici polacchi annunciava che Varsavia aveva bisogno di «sviluppare e diffondere la propria politica del passato». Se il nome dato a questa discussione —
polityka historyczna, politica della storia — rivelava l’influenza in Polonia del dibattito tedesco sulla Geschichtspolitik, i tentativi di prendere le distanze dalla pubblicistica tedesca portava a una varietà di definizioni da parte polacca: patriottismo affermativo, rielaborazione
del passato, politica del passato — sono le altre denominazioni date a queste tendenza.
L’intervento della politica nel dibattito sulla storia e sulle rappresentazioni collettive di essa, nei paesi ex socialisti tentava di definirsi attraverso una serie di provvedimenti
tra loro assai diversi ma che rivelano i metodi e le dimensioni della politica di costruzione
della storia negli Stati usciti dall’ultimo passato totalitario del continente. In particolare,
il movimento dava vita alla nascita di Istituti della memoria nazionale in Polonia e Ucraina;
di un Museo contro l’occupazione sovietica in Georgia; di interventi normativi e legislativi
in Russia. Così nel maggio 2009 il presidente Dmitrij Anatol’evič Medvedev ha fatto nascere per decreto una Commissione che ha il compito di «contrastare ogni falsificazione
della storia contraria agli interessi di Mosca». La Commissione, priva di storici di professione, parte da una interpretazione «vera» degli eventi e prevede pene di carattere penale per chi si fa portavoce di punti di vista «difformi» dalla vulgata statale.
In Russia, paese dove ora più forte è il tentativo dello Stato di monopolizzare il racconto storico e la riflessione sulla memoria, l’intervento attivo della politica inizia in
ritardo rispetto ai paesi vicini e ha un carattere piuttosto reattivo. Prima dell’intervento di Medvedev, quattro sono stati i momenti centrali dell’offensiva del Cremlino.
In occasione del 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale, Vladimir Putin, allora presidente della Federazione Russa, sottolinea la «sacralità» della vittoria per ribadire la narrativa di una «Unione Sovietica innocente», assalita brutalmente
2
Isole del Mar Bianco fino al 1917 sede della spiritualità ortodossa, dopo la rivoluzione bolscevica
diventate luogo di detenzione per dissidenti e tutti gli irregolari anti-sovietici.
3 Cittadina polacca a circa 260 km a sudovest di Varsavia. L’8 settembre 1939 la Werhmacht incendia la Grande Sinagoga. È controverso il ruolo svolto dalla popolazione locale nell’avvenimento.
Tra il settembre 1939 e l’aprile 1941 vengono deportati 8300 ebrei.
4 Attualmente è la seconda città della Lituania. Nel 1940 fu invasa dalle truppe sovietiche, nel 1941
da quelle tedesche che l'occuparono fino al 1944. Furono massacrati (vicino al Forte IX) migliaia
di ebrei tedeschi ed austriaci, tra i quali il noto storico e pedagogo Willy Cohn.
5 A Bełżec, nella Polonia occupata, è stato costruito il primo campo di sterminio tedesco dove sono
stati uccisi 434.500 ebrei oltre a un numero sconosciuto di polacchi e zingari. La mancanza di sopravvissuti, è la ragione del fatto che il campo è quasi sconosciuto.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
da «un aggressore inumano». L’Armata Rossa è l’esercito che avanza per fermarsi solo
quando libera tutto il «genere umano». Spiegando che «il bene ha trionfato sul male e
la libertà sulla tirannia», l’ex presidente russo da una dimensione mistica alla vittoria
ed esclude ogni punto di vista alternativo.
Pochi giorni dopo le parole di Putin, il 15 maggio 2005, avviene il secondo passo. Il
movimento giovanile Nashi manifesta a Mosca. Sessantamila giovani incontrano i veterani della seconda guerra mondiale giurando di «ricordare la guerra, difendere la patria».
Nel 2006 è la volta del mondo accademico. La pubblicazione del manuale di storia di A.V. Filippov, Novejshaja Istorija Rossii 1945-2006, mette il suggello scientifico a
quanto avvenuto l’anno prima.
Infine nell’inverno 2009 arriva la dichiarazione di Sergej Shoigu, ministro federale per
le Situazioni d’emergenza, sul «bisogno di una legge che sancisca le conseguenze legali di
ogni affermazione “scorretta” sulla storia della Grande Guerra Patriottica». Attualmente la
Duma sta esaminando due disegni che vanno nella direzione auspicata dal ministro.
Questi momenti diversi della vita interna della Russia puntano a ribadire che la vittoria nel secondo conflitto mondiale è non solo il baricentro del rapporto storia-memoria-verità del nuovo Stato, ma deve anche diventare momento centrale dell’identità della
popolazione della Federazione. La vicenda del manuale di storia di Filippov fa, inoltre,
capire i modi attraverso i quali è possibile influenzare le scelte dell’opinione pubblica
senza interventi diretti dello Stato. Il volume di Filippov nella sua prima edizione ha avuto
una tiratura di 250 mila copie. In casi simili il numero dei volumi in circolazione va dai
5 mila ai 15 mila esemplari. Stampare 250 mila copie di un manuale di storia è una decisione politica. La casa editrice Prosveshchenie deve aver ricevuto in anticipo assicurazioni
che la domanda del volume avrebbe coperto una offerta cosi rilevante.
Il sociologo Boris Dubin ha condensato nel giudizio «povertà di simboli» la propria diagnosi sulla società russa attuale. In precedenza il filosofo Assen Ignatev aveva parlato di «vuoto
postcomunista». Nel 2002 il presidente Boris El’cin, lanciando il concorso per una “nuova idea
per la Russia”, riteneva che «ogni momento della storia russa aveva avuto la sua ideologia,
noi invece ne siamo privi». Il timore di dar vita a una società priva di convinzioni, senza punti
di riferimento culturali, moralmente disunita, incapace di resistere ai modelli esterni, ha
avuto il suo momento di parossismo nel periodo delle “rivoluzioni arancioni”, tutte viste come
un attacco ai valori più profondi della Russia. Da qui lo sforzo di difendere e promuovere la
“corretta” interpretazione della storia fondandola sullo stesso mito dell’URSS post-staliniana.
Anche la recente recessione globale e le sue conseguenze sulla Federazione hanno
spinto a riflettere sul modello di sviluppo avviato dopo la dissoluzione sovietica e la
crisi del 19986. Lo scorso febbraio Medvedev, ritenendo necessario affrontare direttamente
6 Nell’agosto 1998, dopo diversi mesi di una crisi partita con la fine del boom delle tigri asiatiche, il
governo russo annuncia la svalutazione del rublo, la moratoria unilaterale del proprio debito e il fallimento di quello interno. Tutte le obbligazioni a breve (Gko) in scadenza alla fine del 1999 sono dichiarate nulle. In un mese i prezzi aumentano del 50%; in poche settimane la valuta russa perde un terzo
del proprio valore, molte banche scompaiono portandosi con se i risparmi di milioni di cittadini che avevano investito, consigliati dalle autorità, su titoli bidone. Davanti allo sbando economico si affloscia
tutto il sistema el’ciniano. Dopo quella sovietica, è la seconda crisi di sistema russa in pochi anni. La
ripresa avviene grazie alla svalutazione della moneta, l’aumento delle esportazioni che ne consegue,
la ripresa dei consumi interni e la crescita del prezzo delle materie prime, costante dal 2000 al 2008.
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“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo
la questione della “via” russa, ha utilizzato i principali canali televisivi nazionali per rivolgersi in maniera insolita ai suoi concittadini: «nella nostra vita è molto importante dire la
verità e affrontare anche le questioni più difficili con franchezza e onestà» — ha affermato
il giurista di Pietroburgo. L’intervento si è rivelato il momento iniziale di un 2009 che il presidente russo ha voluto dedicare a questo tema, al punto che il rapporto tra “verità”, “storia”, “memoria” e “vita sociale e intellettuale” del suo paese è sembrato costituire una sua
peculiare priorità. Si tratta comunque di temi che nel 2009 il calendario delle ricorrenze ha
imposto non solo alla Russia: novantesimo anniversario della Conferenza di pace di Parigi,
settant’anni dal patto Molotov-Ribbentrop e dallo scoppio della seconda guerra mondiale,
sessantesimo della nascita delle due Germanie, ventennale della caduta del Muro di Berlino. A una tale serie di appuntamenti si aggiunge il nodo di Katyń: nella primavera 2010
compirà settant’anni l’esecuzione di massa da parte del NKVD, i servizi speciali sovietici,
di circa ventiduemila ufficiali, soldati e civili polacchi.
Il quadro continentale dei rapporti tra storia e memoria è chiaro nella sua complessità e, in tale scenario, le relazioni tra Polonia e Russia possono essere definite “un
luogo” della memoria europea. Obbligo alla memoria e diritto all’oblio, è stato il titolo, non a caso, di una serie di conferenze internazionali su questo particolare aspetto
dei rapporti tra Mosca e Varsavia organizzate nell’ottobre 2009 nella capitale federale
da parte di diverse istituzioni politiche e culturali dei due paesi
Nei primi giorni dello scorso mese di febbraio i media russi hanno riservato un’assai limitata attenzione alla telefonata fatta da Vladimir Putin a Donald Tusk, con la quale il
primo ministro russo ha invitato il collega polacco a prendere parte alle manifestazioni di
cordoglio previste a Katyń nell’aprile 2010. È la prima volta che i due paesi si apprestano a
commemorare insieme un evento che, per i polacchi, è il simbolo centrale dell’oppressione
e del terrore che la Polonia ha subito durante l’occupazione sovietica nella prima fase della
seconda guerra mondiale (1939-1941). Ma il significato reale del gesto del primo ministro
russo sarà comprensibile solo al momento dell’incontro. Putin ha sempre agito pragmaticamente verso Varsavia. Il primo viaggio nei paesi ex socialisti l’allora presidente russo lo
ha compiuto nel gennaio 2002 proprio in Polonia e il quotidiano francese “Le Monde” dava
atto all’allora presidente russo di un «successo d’immagine». Nel 2008 è stato il ministro
degli Esteri Sergej Lavrov ha esprimersi con “nuovi toni” e a “sorprendere” i media internazionali per la disponibilità dimostrata verso le esigenze del governo Tusk. La procura militare russa, invece, ha archiviato le indagini su Katyń nel 2004. Negli anni successivi la
Corte suprema di Mosca ha confermato la validità giuridica di questa scelta. Essa fa infuriare i polacchi, ma difficilmente verranno accolte le richiesta delle famiglie degli uccisi,
le quali chiedono un processo che riconosca il carattere di «genocidio» della strage, dichiari «colpevoli» i colpevoli e riabiliti le vittime. Secondo le autorità russe i documenti classificati segreti devono restare tali, per il resto tutte le persone sospettate per gli omicidi
commessi sono comunque morte. In sintesi, da parte russa si ragiona in “modo nuovo” sul
patto Stalin-Hitler, ma non si vuole veramente toccare la questione Katyń. Certo, «il patto
col diavolo» — cosi Sebastian Haffner, uno dei più importanti pubblicisti tedeschi del XX secolo ha definito l’accordo Hitler-Stalin — è stato ufficialmente condannato dall’URSS, ma
la Russia cerca di mantenere posizioni più sfumate. Ma non è un caso se i documenti siano
venuti fuori e siano stati pubblicati in un momento di transizione tra un sistema politico e
un altro. Esiste una memoria capace di sollevare i propri sepolcri a prescindere dagli inte-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
ressi che viola o dei rapporti che mette in discussione? Secondo i dirigenti della Federazione
russa no. Eppure le relazioni con la Polonia — il paese più importante insieme alla RDT
dei satelliti socialisti — vengono stimolati addirittura dal capo del governo e dal ministro degli Esteri federali. Ciò era impossibile al tempo della diarchia dei fratelli Jarosław e Lech Kaczyński. Tuttavia, anche nel favorevole contesto di oggi, su Katyń
difficilmente a Mosca si arriverà al processo verificatore e riparatore voluto da Varsavia. Lo stesso silenzio che in Russia ha avvolto il gesto di invito di Putin a Tusk, è stato
successivamente riservato alla dichiarazione comune My pomnim o proshlom, no dumaem o budushchem [Ricordiamo il passato, ma pensiamo al futuro], sottoscritta dal
presidente del Senato della Repubblica di Polonia Bogdan Borusewicz e dal presidente
del Consiglio federale del Parlamento russo Sergej Mironov. Si tratta di un documento
pubblico a suo modo notevole non solo per l’affermazione che alla base dei nuovi rapporti russo-polacchi vi è: «l’azione di Solidarność e di Michail Gorbačëv». La presa di posizione dei due alti rappresentanti di Mosca e Varsavia è stata pubblicata su “Gazeta
Wyborcza”, il quotidiano più letto in Polonia. In Russia, invece, è apparsa solo sulla
“Rossiskaja Gazeta”, una sorta di Gazzetta ufficiale federale che pochi leggono. Dunque, di fatto, è rimasta del tutto sconosciuta all’opinione pubblica federale.
Più che giustificare gli atteggiamenti si tratta di capire. Tra i paesi che cercano o hanno
cercato di superare il proprio passato totalitario, la Russia ha scelto il metodo più contraddittorio. Rinnegare il comunismo mettendo a fondamento e al centro della storia della
nuova Russia la seconda guerra mondiale, ovvero un avvenimento legato comunque al passato totalitario, ha reso impossibile la ricercata separazione tra la guerra vittoriosa, da una
parte, e gli eventi accaduti prima o contemporaneamente ad essa, dall’altra. Così facendo,
inoltre, viene cancellata ogni responsabilità e colpa, poiché non si prendono in considerazione tutti i fatti storici. Una mia cara amica, persona laureata e colta che segue gli avvenimenti contemporanei, ha confessato di aver appreso di Katyń solo in occasione dell’uscita
del film del regista polacco Andrzej Wajda. A venti anni circa dalla fine dell’Unione Sovietica, i cittadini russi non sono in grado di valutare obiettivamente il livello delle responsabilità storiche dell’URSS verso gli altri paesi, Federazione russa compresa.
Il solo paese europeo in cui sia possibile paragonare il cammino intrapreso dalla Russia contemporanea, la Germania, è stato “spinto” su quella strada dalla sconfitta militare
della Wehrmacht e dall’aiuto-costrizione degli alleati che non hanno lasciato ai tedeschi
altra scelta, se non quella di fare tabula rasa del proprio passato. Con una sostanziale differenza: la fine della guerra fredda, se ha comportato tante umiliazioni alla Russia e alla
sua popolazione, non è stata segnata da una riconoscibile sconfitta sul campo di battaglia
— come è avvenuto alla fine della prima guerra mondiale con la “capitolazione” dello zarismo. Quando Vladimir Putin diventa primo ministro nel 1999 per poi venire eletto presidente della Federazione Russa nel 2000, trova un paese in piena «dissoluzione ideologica e
spirituale» — secondo la formula di un pubblicista tedesco — ma non battuto in maniera
netta. Il travaglio che ha portato Bonn e, in seguito, Berlino a passare al setaccio passato
e memoria nazionali — un processo durato secondo August Winkler, storico del “lungo cammino” tedesco verso Occidente, fino al collasso della Repubblica Democratica Tedesca —
è stato accompagnato dalla scelta dell’integrazione sovranazionale europea: «I tedeschi
che si proteggono da se stessi» abbracciando l’Europa.
C’è stata un’altra fase importante della transizione russa, vale a dire l’età dell’inco-
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“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo
scienza sperimentale di Boris El’cin negli anni Novanta. Ma essa ha reso sgomenti gli stessi
russi. Non poteva pertanto diventare il momento dell’identificazione culturale e nazionale
della Russia postcomunista. Anche la scelta dalle élite putiniane — tentare di fondare l’autocoscienza della nazione su un passato, l’URSS, che in altri momenti razionalmente si rinnega — non sembra essere un progetto di lunga durata. Si può presumere che a breve il
dibattito su quale “idea” debba essere alla base della collettività federale tornerà attuale.
Date queste premesse torniamo a chiederci come l’URSS-Russia abbia affrontato uno
dei più imponenti momenti della politica internazionale del XX secolo, cioè il patto Ribbentrop-Molotov, con annesso protocollo segreto. Fino all’ultimo il regime comunista sovietico ha ritenuto il patto una mossa obbligata: un provvedimento strategico che trovava
giustificazione nella necessità di far fronte ai piani aggressivi di Hitler e dell’intero Occidente. Il voltafaccia di Mosca, che ad un tratto si alleava con Berlino, non veniva spiegato
tuttavia solo in termini di utilità geopolitica. Dopo la «separazione violenta» avvenuta durante il primo conflitto mondiale, la guerra civile nell’impero zarista e la rivoluzione russa,
i popoli ucraino e bielorusso «rientravano» nel seno della madre patria — nella narrazione,
come si vede, un posto importante occupa la questione della «giustizia storica» e, anche,
gli evidenti vantaggi per i baltici: l’ingresso delle truppe sovietiche e l’accorpamento nell’URSS ne evitava il vassallaggio verso la Germania nazista. Ma la responsabilità ultima dell’accordo tra la patria del comunismo e la Germania nazista spettava a Francia e Inghilterra.
Parigi e Londra, con la loro politica di appeasement, la loro titubanza e mancanza di volontà
di cooperazione con l’URSS, avevano «costretto» Stalin a compiere il passo fatale.
Sul tema degli allegati segreti al patto, invece, la chiusura era totale. Le divisioni in
sfere d’influenza dei territori baltici e polacchi erano per i sovietici — e per qualche russo
lo sono ancora — falsità inventate dall’Occidente. L’Unione Sovietica ha sempre negato la
loro esistenza. Ancora durante la perestrojka, Gorbačëv e il suo entourage — compreso
Aleksandr Jakovlev, responsabile ideologico del piano di riforme del Partito — negavano che
negli archivi sovietici esistesse l’originale del trattato. Un atteggiamento che si rivelò alla
lunga insostenibile. La crisi progressiva del regime comunista non poté non incidere sugli
atteggiamenti da tenere nei confronti del patto e del suo protocollo segreto. Il tema, peraltro, era stato fonte di dissenso persino nelle fasi di maggiore repressione intellettuale.
La scelta di collaborare con la Germania nazista aveva sollevato dubbi e suscitato critiche
anche nei periodi in cui il mondo accademico e scientifico sovietico era costretto ad assumere posizioni unitarie su ogni argomento di una certa importanza. Non è dunque affatto
un caso se, con la libertà di discussione innescata dalla glasnost, siano immediatamente tornati all’ordine del giorno sia il trattato di amicizia con la Germania del 23 agosto 1939 sia
l’allegato patto sulla modifica delle frontiere del 28 settembre dello stesso anno. Fondamentale fu in quel frangente la pressione baltica. Estonia, Lettonia e Lituania non avevano
mai accettato il punto di vista ufficiale diffuso dal Cremlino, al contrario avevano sempre
messo in discussione e contestato la moralità politica dell’alleanza russo-tedesca. Già nel
1983 la Lituania aveva pubblicato la versione in lingua russa dei due documenti. Nel 1989
ne era seguita una nuova edizione che arricchiva la versione di sei anni prima con l’aggiunta di epistolari diplomatici, discorsi, dichiarazioni pubbliche dei leader dei due Stati e
commenti stampa sull’accordo. L’uscita del libro, se destò scalpore negli ambienti accademici e nella vita politica dell’URSS, non modificò però la posizione ufficiale. La pubbli-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
cazione, infatti, era in realtà una raccolta di fotocopie degli atti pubblicata in una edizione
tascabile accessibile a tutti. Alcune fotocopie recavano in calce la firma del ministro degli
Esteri sovietico in caratteri latini: tanto bastò per metterne in discussione l’autenticità!
La prudenza di Gorbačëv sulla questione è in fondo comprensibile. L’uomo che doveva
decidere su questo dossier esplosivo intendeva riformare l’URSS allo scopo di salvare tutto
il salvabile dell’esperienza della rivoluzione del 1917. Ammettere l’esistenza del trattato
rendeva impossibile negare il nesso tra la collaborazione sovietico-tedesca nel 1939 e l’inizio della seconda guerra mondiale. Ammettere la possibilità che la Germania di Hitler e
l’URSS di Stalin avessero sottoscritto un trattato che regolava la spartizione dell’Europa
orientale sconfessava la rappresentazione che aveva portato al conflitto, in particolare
sconfessava tutta la narrazione sovietica che faceva iniziare la guerra nell’estate del 1941
con l’attacco nazista all’URSS.
Ma bloccare la discussione sul trattato nell’estate del suo 50° anniversario si rivela impossibile. Nel giugno 1989, durante la sua prima sessione, il Congresso dei deputati del popolo dell’URSS crea una Commissione speciale per la valutazione giuridica e politica del
patto di non aggressione russo-tedesco. L’organo parlamentare prende atto dell’esistenza
del trattato, che viene “riconosciuto” così dal potere sovietico. Del patto sottolinea però
il venir meno giuridico nel momento in cui, il 22 luglio 1941, la Germania attacca l’URSS.
Presa visione della relazione della Commissione, il Congresso condanna patto e protocollo;
li rinnega dichiarandoli «non validi» dal punto di vista giuridico «sin dal momento della
firma». Sottolineando però che «non è stato possibile trovare l’originale del patto né negli
archivi sovietici né in quelli stranieri», l’organo sovietico sembra non essersi completamente liberato dalle ambiguità del passato.
La ricerca della copia autentica del documento tedesco-sovietico è stata, in effetti, particolarmente ardua. Un decreto del presidente El’cin che imponeva il trasferimento dei documenti in possesso del Partito comunista russo all’Archivio di Stato della Federazione Russa,
il solo avente il diritto di classificarli, venne attuato solo in parte. Il Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica consegnò “una scelta” di materiali del proprio archivio.
Nel 1992 lo studioso di storia militare, generale Dimitrij Volkogonov, trovò nell’archivio del
PCUS un catalogo siglato: Mappa speciale. Strettamente segreta. Si trattava del testo sovietico e degli originali tedeschi del patto Hitler-Stalin. Nel marzo 1993 i documenti vennero
pubblicati dalla rivista di storia moderna e contemporanea “Novaja i novejshaja istorija”7.
Bisogna dunque dare atto al Congresso di aver condannato la collaborazione tedescosovietica, incurante della tempesta che si sarebbe potuta scatenare in una società già molto
divisa. Si trattò di un momento quanto mai cruciale anche per la politica della glasnost di
Gorbačëv, poiché era la dimostrazione che, una volta messo in moto, il metodo della critica non si fermava davanti ad alcun ostacolo. Condannando il trattato, il Congresso dei
deputati del popolo dell’URSS ha senza dubbio compiuto un passo coraggioso su un argomento riguardante uno dei momenti più importanti della storia nazionale del XX secolo —
7
L’autenticità di questi documenti è stata messa in discussione anche recentemente dal Partito
comunista della Federazione russa sul suo sito internet. I deputati della Duma, affermando nel
maggio 2008 che la questione riguarda la storia e gli storici, e sottolineando di riconoscersi nella
dichiarazione politica del Congresso dei deputati del popolo dell’URSS, hanno messo un punto definitivo alla discussione.
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“Russia e Polonia”: un “luogo di memoria” europeo
la Grande guerra patriottica. In effetti la sacralizzazione della vittoria nel conflitto che più
di ogni altro è costato in vite umane e distruzioni economiche al paese, al popolo e al suo
esercito, è stata parte fondante dell’educazione civica del dopoguerra e pilastro di tutta
l’autorappresentazione propagandistica sovietica. L’analisi obiettiva del patto e del protocollo segreto mise, invece, in discussione il quadro complessivo dato fino ad allora per scontato — l’URSS vittima di un’aggressione. Anche la politica estera dell’Unione Sovietica,
basata sul mantenimento della pace come assunto e sull’ingresso nel secondo conflitto
mondiale solo nel 1941, dovette essere vista a quel punto in una luce diversa. I dirigenti sovietici si trovarono prigionieri di un dilemma che si è poi trasferito alle élite russe. Non ammettere l’immoralità politica e giuridica del patto per i leader sovietici significava
compromettersi davanti agli occhi del mondo. Ammetterla, voleva dire scuotere il proprio
albero politico e ideologico, e mettere in mano assi straordinari da giocare agli Stati che più
avevano sofferto del patto (Polonia, Repubbliche baltiche) e che erano inflessibili nella loro
richiesta di sovranità assoluta.
Esattamente due anni dopo la condanna del patto da parte del Congresso dei deputati del popolo, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche si dissolve. Ci si sarebbe atteso che la condanna del 1989 avrebbe facilitato una corretta valutazione del passato
sovietico in Russia, il principale tra gli Stati successori dell’URSS. Invece i politici della Federazione Russa non hanno osato seguire la strada indicata dai predecessori sovietici. Anche
perché per i dirigenti russi ammettere limpidamente le responsabilità sovietiche, vuol dire
dare all’autocoscienza della Federazione, basata quasi esclusivamente sul mito della guerra
e della vittoria, fondamenta traballanti. Nel 2005 gli Stati baltici ormai membri dell’UE —
soprattutto la Lettonia — hanno chiesto a Mosca una pubblica dichiarazione di scuse per la
sottoscrizione da parte dell’URSS del trattato del 1939. La risposta negativa di Putin fu
netta: non ha senso «ripetere ogni anno condanne già espresse». Per il presidente russo:
«quello che c’era da dire è stato detto». Il tema, dunque, per Mosca è chiuso. Putin lo ripeterà quattro anni dopo a Danzica in occasione delle manifestazioni ufficiali del 70° anniversario dello scoppio della seconda guerra mondiale: l’URSS doveva «garantire interessi
e sicurezza delle proprie frontiere occidentali. Il patto Molotov-Ribbentrop è stato firmato
per tali ragioni». Se la Russia esprime un evidente malessere a confrontarsi con il passato
sovietico e con quanto avvenuto durante la seconda guerra mondiale, è proprio perché ha
scelto come racconto storico fondante lo stesso mito con cui l’URSS ha tentato di superare
la crisi dello stalinismo, vale a dire la vittoria ottenuta nella seconda guerra mondiale. Dopo
l’esplosione di gioia del maggio 1945, in URSS ricordare le prospettive aperte dalla vittoria
equivaleva a sfidare il ghiacciaio staliniano. Solo a partire dal 1965 è stato possibile tornare
a celebrare in grande stile la disfatta nazifascista.
C’è comunque da parte russa una evidente differenza di trattamento tra il patto russotedesco e Katyń. Perché? Le due questioni rimandano certamente a momenti storici diversi,
ma se si fanno delle domande informali il succo delle risposte russe è il seguente. Il patto
Hitler-Stalin è un momento nelle relazioni tra due nazioni europee: «gli Hitler passano,
resta il grande popolo tedesco» — sembra abbia detto Stalin. Queste relazioni sono mutevoli e al tempo stesso costanti; e sono tenute sotto osservazione da alcuni paesi molto sensibili al riguardo, come si è capito quando nel 2006, nel pieno del dibattito energetico
continentale, l’allora ministro della Difesa polacco Radosław Sikorski, riferendosi al progetto
di gasdotto russo-tedesco del Mare del Nord, paventò «il ritorno di un nuovo patto Ribben-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
trop-Molotov». Lo stesso paragone era stato peraltro evocato a Varsavia quando la RDT incitava in modo molto chiaro a reprimere il movimento di Solidarność. Come interpretare la
chiave di lettura riproposta da Sikorski all’annuncio della cooperazione energetica tra Mosca
e Berlino? «Una sottolineatura (involontaria?) che i rapporti con la Germania sono la priorità continentale di Mosca» — è la risposta datami da un gruppo di amici moscoviti con una
certa dose di humour. «Certo bisogna capire le sensibilità polacche. Sono nel solco della tradizione di Locarno, nella tradizione Molotov-Ribbentrop, appunto. Dimostrano però che
Varsavia non distingue ancora tra Prussia e Germania e tra URSS e Russia. Ovviamente anche
noi dovremo capire che il tempo del Granducato di Varsavia è finito».
Il dibattito storico-memorialistico sul patto Molotov-Ribbentrop è stato segnato dalla
decisione del Congresso dei deputati del popolo dell’URSS — un passo su cui si sono infranti
tutti i tentativi revisionistici. Invece il giudizio sugli avvenimenti di Katyń è sospeso e molto
dipenderà da quanto dirà Putin il giorno della commemorazione della strage alla presenza
di Tusk. Ovviamente la Russia non è un monolite e il suo primo ministro tenta di essere un
punto di mediazione e di equilibrio tra interessi, opzioni e lobby diverse. Al momento il dibattito storico federale è riassumibile in quattro opzioni:
• Massimo di apertura e di libera discussione. È la posizione dell’associazione Memorial, di altri gruppi che difendono i diritti umani e di settori del mondo accademico. Essi ritengono che anche le più difficili questioni storiche vadano affrontate senza diktat da parte
della politica;
• Relativismo storico. I fatti vanno considerati in maniera arbitraria e la storia, nel
suo essere utile alla battaglia politica del momento, può anche essere manipolata. «Non è
possibile rispondere alle questioni del XXI secolo con gli argomenti del XX» — cosi il politologo Leonid Radzikhovskij sulla “Rossiskaja Gazeta” in un articolo intitolato Istoricheskie
bitvy [Battaglie storiche], del giugno 2009;
• Negazionismo. Il presidente della Commissione presidenziale contro le falsificazioni
della storia che danneggiano la Russia, ha dichiarato che questo organo «si batterà per la
difesa della storia russa dagli attacchi disonesti per distorcerla»;
• Tra le forze politiche solo il Partito democratico russo Yabloko ha scritto che il «superamento dello stalinismo è la premessa indispensabile per la modernizzazione russa nel
XXI secolo».
Se togliamo il primo punto, alle commemorazioni di Katyń Putin potrebbe farsi portatore di una qualsiasi delle altre tre opzioni. Dalla scelta del primo ministro russo dipenderà
non solo la modernizzazione della Russia, ma anche il suo rapporto con la verità.
Francesco Maria Cannatà è attualmente corrispondente da Mosca dell’AGI—Agenzia
Giornalistica Italia. Ha fondato il sito “quadranteuropa” (www.quadranteuropa.it).
Collaboratore di “Limes” e di altre pubblicazioni italiane e tedesche. È stato responsabile della rassegna della stampa estera presso l’archivio del quotidiano “La Repubblica”.
Come fotogiornalista ha seguito gli avvenimenti che dall’Ottantanove fino alle guerre
postsovietiche hanno cambiato il profilo del continente europeo. Ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia dell’idea d’Europa con una tesi sulle riforme amministrative
di Pietro il Grande e l’abolizione del SS. Sinodo. Si è laureato in Storia dell’Europa orientale all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi sul ruolo politico del Patriarcato
di Mosca dopo la dissoluzione dell’URSS.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
L’odissea del secondo Corpo d’armata polacco
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
L’ultimo capitolo (25 agosto 1969)1
di Gustaw Herling-Grudziński
Traduzione di Marta Herling
Dalla descrizione di Waterloo nei primi capitoli della Certosa di Parma, la cui lettura affascinò profondamente l’autore di Guerra e pace, apprendiamo cos’è una battaglia per coloro che vi hanno preso parte. Non un insieme dai tratti chiari ed evidenti
animato da un solo respiro e sottoposto a una sua logica, ma una massa di episodi caotici, a malapena collegati fra di loro, talvolta puramente casuali. Solo in seguito accade
che si metta ordine nel caos, che si modelli il magma in nome di tali o altre “leggi e sentenze della Storia”, che si creino leggende e miti, che si interpreti con chiarezza il significato sottinteso nel testo di geroglifici sanguinanti e confusi, che si individuino linee
diritte di svolgimento nel turbinio convulso degli eventi. La Waterloo caotica, osservata
con gli occhi di Fabrizio del Dongo, si ricompone nelle pagine de I Miserabili di Victor
Hugo, nel quadro armonico della battaglia, disegnato dalla mano della provvidenza. Al
fato — o se si preferisce, allo Spirito della Storia — è sufficiente una pioggerella nella
notte fra il 17 e 18 giugno 1815, per preparare un terreno sufficientemente scivoloso
alla sconfitta di Napoleone, pianificata dall’alto.
Ai comandanti ed ai soldati delle reali battaglie, ancora libere dall’aurea della
leggenda, è naturalmente più vicino lo sguardo di Stendhal.
Mi è accaduto spesso — scrive il generale Anders nel suo libro Senza l’ultimo capitolo2 — di osservare le rappresentazioni di battaglie celebri. Il comandante su un’altura, con il cannocchiale poggiato sugli occhi, segue il corso della
lotta, ne vede i progressi e gli ostacoli, incita, dà gli ordini, dirige. Queste rappresentazioni mi appaiono simili a quelle che già da molto tempo abbiamo potuto
contemplare sui bassorilievi antichi, che mostravano battaglie di alcuni secoli fa.
1 GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Ostatni rozdział (25 agosto 1969), pubblicato in “Kultura”, n. 10, 1969;
e raccolto poi in Id., Godzina cieni. Eseje [L’ora d’ombra. Saggi], Znak, Kraków 1991; trad. it.,
GUSTAW HERLING, Il pellegrino della libertà. Saggi e racconti, a cura di Marta Herling, l’ancora del
mediterraneo, Napoli 2006, pp. 55-59.
2 WŁADISŁAW ANDERS, Bez ostatniego rozdziału. Wspomnienia z lat 1936-1946 [Senza l’ultimo capitolo. Ricordi degli anni 1936-1946], London 1959. Traduzione italiana: WŁADISŁAW ANDERS, Un’armata
in esilio, Cappelli, Bologna 1950 (Testimoni: collana di memorie diari e documenti, 13).
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L’ultimo capitolo (25 agosto 1969)
Oggi una battaglia non si svolge nel raggio degli occhi o del cannocchiale del comandante, ma oramai ha qualcosa che è veramente difficile da immaginare: ovunque sia, ma sicuramente lì sulle pendici di Montecassino, dove il nostro soldato
all’attacco ad ogni passo entrava in una zona minata, mentre i tedeschi in difesa
erano assestati come in un agguato preparato meticolosamente e più volte riuscito. L’oscurità totale della notte e del fumo: non si vedeva nulla a pochi passi di
distanza. Persino i soldati della stessa divisione in marcia o tentando di avanzare
in marcia, cadevano sotto il fuoco nemico e si rialzavano di nuovo, fra le esplosioni
vicine o in mezzo a loro, perdevano il collegamento col gruppo e si ritrovavano a
mala pena, non si rendevano conto della situazione in cui erano… Senza dubbio
anche questa battaglia aveva una sua logica d’insieme ma nessuno era in grado di
intravederla. E in queste particolari condizioni ognuno vedeva meno di quanto di
solito accade nelle odierne battaglie, perché con lo sguardo non penetrava neanche nell’oscurità più vicina, che era il suo principale riparo, anche se incerto.
In questo quadro della battaglia di Montecassino, mi riconosco pienamente come
uno di coloro che vi hanno preso parte. Riaffiorano brandelli confusi di ricordi. La breccia oscura della salita, la notte fra il 16 e 17 maggio, con le scarpe avvolte in sacchi,
sull’altura 593, fino al momento in cui i tedeschi, lanciando nel cielo un razzo, mutarono la notte in giorno, e la via della nostra pattuglia, in un macello. Come abbiamo potuto raggiungere, l’osservatore d’artiglieria e io con l’apparecchio radiofonico sulle
spalle, la vetta del colle fra i soldati che cadevano intorno a noi? Come abbiamo potuto,
nel corso di tutta la giornata del 17 maggio, condurre il fuoco dell’artiglieria dal crepaccio roccioso e poco profondo, in prossimità dei fortini tedeschi? Come sull’imbrunire
siamo potuti scendere giù fino alla Casetta del dottore? Nella Casetta del dottore piena
zeppa di soldati, i brandelli dei ricordi diventano più intensi. Rammento i dialoghi nell’oscurità, in cui ci chiedevamo se la battaglia sarebbe stata vinta o persa: ne sapevamo
così poco quella notte fra il 17 e il 18 maggio, poco prima che la bandiera della vittoria venisse innalzata sull’Abbazia. Ricordo anche la supplica di un soldato di collegamento che con una voce cantilenante cercava di convincere il suo comandante che il
cavo estratto dalla Casetta del dottore (per le difficoltà nella comunicazione radiofonica) non era stato subito sminuzzato dalle lame dei tedeschi che incessantemente lo
avevano sfiorato. In questa sua istanza non vi era nessun sfoggio di bravura, ma solamente il ripetersi continuo della stessa frase: «Anch’io voglio dare il mio contributo».
Può darsi che ricordo questi due episodi perché hanno rappresentato, almeno per me,
una sintesi perfetta della battaglia: i suoi esiti incerti fino alla fine, la sua altissima
tensione sopportata da tutti fino allo stremo e che nella fraseologia dei comunicati di
guerra veniva di solito definita come “volontà di vittoria”. È stata senza dubbio una
battaglia grande.
L’abbiamo fortemente voluta, abbiamo vissuto con la mente rivolta a lei in Palestina, in Iraq, in Egitto, addestrandoci nel deserto, ascoltando le notizie che provenivano dalla Polonia. È facile oggi affermare che cinque mesi dopo Teheran era
oramai politicamente inutile. È altrettanto facile esprimere oggi un giudizio analogo,
se non ancora più categorico, sull’insurrezione di Varsavia. Esistono processi che una
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
volta messi in moto e continuamente alimentati, non si possono arrestare a un passo
dal loro compimento senza rischiare una disfatta spirituale per lunghi anni a venire.
La storia dell’Armia Krajowa3 tendeva fin dall’inizio verso l’insurrezione, così come
nella storia del secondo Corpo4 era scolpita fin dall’inizio la Battaglia. Non eravamo dei
condottieri: e lo testimonia tra l’altro la rivolta della quinta Divisione — che fu troppo
presto sedata, o meglio scongiurata in modo miope dal comando del secondo Corpo —
alla vigilia del disarmo dell’esercito e del suo imbarco su una nave diretta in Inghilterra. Eravamo, lontano dai confini del nostro paese, compagni d’arme dei soldati dell’Armia Krajowa. Durante le celebrazioni ad agosto dei venticinque anni dalla battaglia
di Montecassino, è mancato un segno che testimoniasse questo fatto semplice ed evidente: avrebbe potuto essere posta all’ingresso del cimitero una simbolica lapide sepolcrale alla memoria di Grot-Rowecki5. A testimoniare che i venticinque anni dalla
battaglia erano allo stesso tempo i venticinque anni dall’insurrezione.
Da alcuni anni abito vicino all’antico campo di battaglia, dunque mi accade spesso di
farlo visitare agli amici e conoscenti che vengono da queste parti. Una volta ho detto a
qualcuno che è l’ultimo cimitero della Repubblica polacca. E la stessa identica osservazione
mi è stata fatta in seguito da Maria Dąbrowska e Anna Kowalska6, dopo una visita al cimitero. Nella ricorrenza dei venticinque anni dalla battaglia, sono state celebrate nell’ultimo
cimitero della Repubblica polacca quattro funzioni religiose: cattolica, uniate, ebrea ed
evangelica (purtroppo è stata dimenticata la cerimonia greco-ortodossa). La parola
“ultimo” è risuonata fra le alture che circondano l’Abbazia con una eco multiforme.
La cerimonia celebrata a Montecassino era anche l’ultimo capitolo dell’emigrazione
degli anni della guerra. In uno degli articoli scritti in occasione dell’anniversario della
battaglia, leggo che i polacchi hanno un «sussulto di orgoglio» nel sentir risuonare il nome
Montecassino, poiché come «nazione cavalleresca» pongono «la lotta a visiera scoperta»
3 Esercito nazionale: la principale formazione della resistenza antinazista, che ebbe un ruolo fondamentale nell’insurrezione di Varsavia.
4 Il secondo Corpo dell’esercito polacco in esilio, costituito dal generale Anders nei territori dell’Unione Sovietica in seguito all’accordo sottoscritto fra Sikorski e Maiskij nel 1941, fu «un esercito — come lo ha definito Herling nel testo inedito di una conferenza tenuta all’Istituto polacco
di Roma il 10 giugno 1998 — di ex prigionieri dei campi sovietici al comando di un ex prigioniero».
5 Il generale Stefan Rowecki (1895-1944): dal 1940 comandante delle forze armate in Polonia sotto
l’occupazione tedesca (Zwz-Armia Krajowa), nella fase finale della guerra diresse la preparazione
del piano dell’insurrezione di Varsavia. Arrestato il 30 giugno 1943, fu ucciso dai tedeschi nel lager
di Sachsenhausen nell’agosto 1944.
6 La scrittrice Maria Dąbrowska (1889-1965) si è affermata con la raccolta di novelle e racconti Ludzie stamtąd, 1925 (trad. it.: Erbe selvatiche. Gente di là, Feltrinelli, Milano 1961); e poi con il romanzo in quattro volumi Noce i dnie [Le notti e i giorni], 1932-1934, saga di due generazioni di una
famiglia polacca negli anni bui dal 1880 al 1914. Anna Kowalska (1903-1969) autrice di novelle, racconti e romanzi, molti dei quali ambientati a Leopoli dove è nata e ha vissuto fino agli anni della
guerra. Dal 1954 a Varsavia ha svolto un ruolo attivo nell’organizzazione della vita culturale in Polonia nel secondo dopoguerra.
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L’ultimo capitolo (25 agosto 1969)
al di sopra della «lotta nascosta e clandestina», e preferiscono «l’alloro dei condottieri
vittoriosi» al «martirio dei Traugutt»7. Non mi intendo di psicologia immutabile delle nazioni (in particolare ex definitione “cavalleresche”), ma so che ai polacchi da allora è
rimasta solo la via della lotta più o meno nascosta e clandestina. Il 15 agosto a Montecassino vi è stato il commiato da un’epoca definitivamente conclusa.
7
Romuald Traugutt, nella fase finale dell’insurrezione polacca del 1863, assunse il potere del governo provvisorio che doveva guidare la resistenza clandestina contro l’esercito russo, in attesa e
nella speranza di un intervento delle potenze occidentali. Il tentativo fallì e l’insurrezione si concluse con una drammatica sconfitta e una brutale repressione.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Dialogo intorno al Comandante,
il generale Władysław Anders, in occasione della sua scomparsa (1970)1
di Józef Czapski, Gustaw Herling-Grudziński
Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone
Gustaw Herling-Grudziński: — Il giorno della mia partenza per recarmi ai funerali
del generale Anders, ricevetti per posta l’ultimo numero di “Tygodnik Powszechny” con
un articolo di Andrzej Kijowski intitolato La nostra guerra di Troia2. Lo lessi lungo la
strada da Napoli a Monte Cassino.
La mattina presto di una domenica di maggio, gli inquilini di un palazzo di Varsavia vengono svegliati da alcuni ciechi che fanno musica con violino e armonica. Cantano
canzoni di guerra, tra cui una ben nota sulla battaglia di Monte Cassino. Senti un po’
qual è stata la riflessione di Kijowski: «La nostra guerra di Troia. Uno era il suo soldato,
un altro il suo generale, un altro il suo prigioniero, un altro costretto all’esilio per causa
sua, un altro l’ha osservata di nascosto, ad un uno ha rubato l’infanzia, ad un altro ha
avvelenato la vita attraverso i ricordi altrui; al suo cospetto siamo tutti sempre più
uguali, perché il tempo allontana da essa tutti noi allo stesso modo, non liberandoci,
però, dalla dipendenza che essa impone alle nostre anime… Tutti i conflitti gravi tra noi
risvegliano gli echi di questa guerra passata da tempo, come se noi tutti continuassimo
a prendere da essa — quasi fosse una centrale elettrica — energia, scuotimenti, stimoli.
Non mi riferisco soltanto ai conflitti internazionali, che sono il risultato di questioni politiche non risolte fino in fondo, ma anche a quei conflitti generati dalla contrapposizione degli atteggiamenti di principio assunti nei confronti della vita sociale, come
anche nei confronti della vita in generale… Quando i giovani insorgono contro il potere,
come accadde in Francia e in altri paesi due anni fa, oppure quando il figlio litiga con
il padre a cena, tale conflitto, se avrà slancio e gravità, attraverso una sua contorta diramazione si congiungerà sempre e comunque con ciò che avvenne un quarto di secolo
fa. Andarono Caparbi e Folli — cantano i ciechi; volano le monete avvolte nella carta,
i bambini le raccolgono e le infilano nelle tasche dei musicisti. Questa guerra ha costretto l’umanità (in Europa) al massimo della sofferenza, dello sforzo e del coraggio,
diventando la misura di quello che l’essere umano può… Com’era semplice allora scegliere la causa giusta e com’era facile credere nella sua vittoria. Almeno oggi ci sem-
1
JÓZEF CZAPSKI, GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Dialog o Dowódcy, “Kultura”, Lipiec-Sierpień 1970, pp. 15-25.
Si ringraziano in particolare Marta Herling e Henryk Giedroyc per aver autorizzato la traduzione e
pubblicazione di questo testo fino a oggi inedito in Italia.
2 “Tygodnik Powszechny”, n. 21, 1970; rist. in A. KIJOWSKI, Gdybym był królem, Poznań 1988.
poloniaeuropae 2010
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Dialogo intorno al Comandante...
bra così». Il concerto del cortile di Varsavia volge al termine, i ciechi siedono sul muretto che circonda il giardino dell’asilo, facendo scivolare le monete tra le dita con il
capo alzato verso il giovane sole.
Durante il funerale del Comandante a Monte Cassino, spesso alzavamo la testa in
direzione del giovane sole di primavera, facendo scivolare tra le dita gli anni da tempo
trascorsi. Noi, ciechi, con il soldo di guerra dei ricordi buoni e cattivi, delle speranze
deluse, delle illusioni perdute? «La centrale elettrica nascosta» dalla quale continuano
ad arrivare ai polacchi «correnti, scuotimenti, stimoli» percettibili dalle dita? Centinaia di uomini sullo sfondo bianco del cimitero, numerosi nelle loro divise militari tirate
fuori dalla naftalina. Sono stato lì nell’agosto dell’anno scorso, alla cerimonia del venticinquesimo anniversario della battaglia. Scrissi allora che questo era l’ultimo capitolo dell’emigrazione bellica3. Ora c’è ancora un epilogo: la tomba proprio quasi nel
punto in cui nove mesi fa sedeva il Generale, accomiatandosi dai suoi soldati vivi e
morti.
Naturalmente i ricordi tornano alla tappa russa del nostro percorso. Dopo un mese
e mezzo di cammino dal lager sul Mar Bianco, raggiunsi, all’inizio del marzo 1942, la decima Divisione che si stava formando a Lugovoj nel Kazakistan. Allo stremo delle forze,
con gli stracci del lager, affamato, coperto da ulcere. Fui condotto alla tenda dove si
trovavano alcuni soldati rimessi in piedi alla meno peggio, anche loro o prigionieri o
deportati; mi fu concesso di rimanere sdraiato sul materasso anche all’ora della sveglia.
Scavando nella memoria, non bisogna vergognarsi dei nostri momenti sentimentali.
Quando sentii un canto corale polacco, ringraziai Dio di essere solo nella tenda. Forse
tutti quegli esuli dai lager e dalle deportazioni, vivi per metà, piangevano il primo
giorno dopo il risveglio nell’esercito? Eravamo un’armata di prigionieri, comandata da
un prigioniero e ricostruita con il consenso resistente delle guardie carcerarie. Dico «il
consenso resistente», perché una volta, mentre venivo dal lager, mi è successo di chiedere aiuto a un comando sovietico per poter continuare il mio viaggio; fui invogliato ad
abbandonare l’idea di raggiungere l’esercito polacco e ad entrare nella Krasnaja Armija
[Armata Rossa].
Józef Czapski: — Sei stato al funerale del Generale, lo hai salutato a Monte Cassino, dove hai combattuto sotto il suo comando (io a quell’epoca «distribuivo giornali»)
— ti invidio.
La morte del Generale, che da molto tempo sembrava inevitabilmente vicina, mi
toccò più di quanto mi potessi aspettare, misurai allora la mia devozione a quest’uomo,
ma c’era di più: c’era la sensazione di un filo rotto, un filo che negli ultimi anni legava
tutti noi soprattutto simbolicamente. Il suo destino, le sue gesta erano la nostra storia.
Parli dei ricordi russi che ritornano, del tuo viaggio allo stremo delle forze da un
«mondo a parte» all’esercito, e in queste poche frasi, parlando di te, parli del destino
di migliaia di polacchi che affluivano nell’esercito dall’intera URSS. Quanti non hanno
3
Cfr. GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Ostatni rozdział, “Kultura”, n. 10, 1969; trad. it., L’ultimo capitolo, qui riproposto (vedi nell’indice in www.poloniaeuropae.eu).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
raggiunto quell’esercito! «Se si iniziasse a formare un esercito polacco in qualsiasi
posto, lo raggiungerei anche in ginocchio» — mi disse ancora a Starobel’sk il maggiore
Adam Sołtan, capo dello Stato maggiore del Generale Anders durante la campagna di
settembre. Tale sogno non si avverò né per lui né per tanti altri, ma si avverò per noi.
Nei miei ricordi riguardanti il Generale domina la tappa russa. Solo allora vidi
l’uomo, percepii il suo spessore, e non un “Kmicic”, di cui si innamoravano tutte le
donne (così lo vidi nel 1917), bensì un capo.
Claudicante, col bastone, cera terrea, venne da noi a Grjazovec dritto dritto dalla
Lubianka, e ci chiamò di nuovo in servizio attivo. Era la fine dell’agosto del 1941.
Dopo alcune settimane, quando nel nostro esercito che si stava formando a sud,
l’incomprensibile assenza di tutti gli ufficiali e sottufficiali dei tre campi, Starobel’sk,
Kozel’sk e Ostaškov (ad eccezione dei quattrocento di Grjazovec), divenne la nostra ossessione, Anders mi nominò capo delle ricerche degli ufficiali e soldati dispersi. Allora,
lavorando sotto il suo diretto comando, per oltre sei mesi ebbi tempo di osservarlo. Mi
colpì la sua calma, la sua concentrazione, il controllo dei movimenti e la capacità — in
caso di bisogno — di prendere una decisione immediata. Impegnato a costituire l’esercito in condizioni apparentemente impossibili, Anders sembrava, anche allora, non solo
non dimenticare le ricerche e le richieste, ma addirittura dava priorità alla questione.
Il Generale reagiva immediatamente a ogni notizia sulle tracce o sulla speranza che vi
fossero tracce degli ufficiali che tardavano a presentarsi. Impegnandosi senza riserve,
si rendeva inviso alle più alte istanze sovietiche, indirizzando loro incessanti richieste,
inondando le autorità sovietiche di telegrammi, chiedendo ai capi dei lager e a quelli
dell’NKVD il rilascio immediato di tutti i polacchi. Il nome Katyń allora ci era assolutamente ignoto. Tuttavia, ritornando con il pensiero a quell’epoca, penso istintivamente
al Generale e lo associo non soltanto a Monte Cassino, ma anche a Katyń.
Uno degli ultimi interventi pubblici del Generale, se non addirittura l’ultimo, ebbe
luogo durante la riunione svoltasi a Londra in occasione dell’anniversario di Katyń. Il
Generale si era scusato con i presenti per il fatto di dover parlare seduto. Parlava molto
piano, sapeva che non solo i giorni della sua vita erano contati, ma anche i battiti del
suo cuore. E, forse, per questa ragione, volle prendere ancora una volta la parola per
manifestare la sua fedeltà ai compagni d’armi là caduti.
Gustaw Herling-Grudziński: — La questione riguardante il trasferimento dall’URSS.
Tra gli argomenti a favore usati più di frequente dal Generale, c’erano in prevalenza ragioni tecniche e militari: la riduzione del rancio, le difficoltà per quel che concerneva
l’armamento e l’addestramento, la minaccia di divisione delle unità polacche (cosa che
chiaramente avrebbe dovuto avere a lungo termine conseguenze politiche facilmente
prevedibili); Anders, nella sua ultima intervista, mette in secondo piano le resistenze
psicologiche e morali dell’esercito dei prigionieri, convinto che queste potessero
essere superate. Gli argomenti contro, rappresentati nel modo più completo dal professor Kot, riducevano l’intero problema alla questione dell’ambizione personale del
Generale: «Ciò che accadde fu colpa del gruppo di alti ufficiali, ma a partire da un
certo momento divenne principalmente colpa di Anders, il quale permise che si accendesse in lui la rivalità col generale Sikorski, con il conseguente trasferimento dell’esercito polacco fuori della Russia col pretesto di salvare delle vite umane. La massa
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Dialogo intorno al Comandante...
dei soldati in Russia che adorava Sikorski non aveva alcuna ambizione personale e
avrebbe obbedito ad ogni suo comando andando su ogni fronte. Tale moltitudine, nonostante le ingiustizie subite in Russia, aveva sempre in mente il fatto che Hitler e l’invasione tedesca erano stati la causa prima delle loro disgrazie… Il fatto di spaventare
successivamente i soldati, col dire che cosa sarebbe stato di loro se fossero andati al
fronte dal lato russo, fu aggiunto ad arte per calmare la coscienza del Generale».
Secondo me, sia Anders sia Kot dicono solo una parte di verità. Per quanto riguarda
il primo, gli ostacoli tecnici e militari non erano i più importanti; mentre erano importanti i timori politici più che giustificati alla luce dell’esperienza, come anche le resistenze psicologiche e morali che Anders prima della morte inutilmente relegò
nell’ombra; suppongo che egli non sia stato del tutto sincero nella sua ultima intervista, nel corso della quale assicurava che, durante la formazione della divisione polacca
in URSS, la sua valutazione sulle possibilità militari della Russia, nello scontro con i tedeschi, non era stata estremamente pessimistica; in realtà, egli prendeva in considerazione una sconfitta della Russia. Per quanto riguarda l’altro, io, come appartenente
alla «massa dei soldati in Russia», sono pronto senza esitazione ad essere d’accordo
con Kot, affermando che non avevamo alcuna ambizione personale (?), che avremmo seguito ogni comando, saremmo andati su ogni fronte e che ricordavamo bene quale fosse
la principale causa delle nostre sventure; ma non era affatto una cosa così semplice,
«nonostante le ingiustizie subite in Russia»; tacevamo in generale (sia per il senso di
disciplina sia per il timore che sentivamo nei confronti di onnipresenti agenti o delatori
dell’NKVD), macinavamo in silenzio incessantemente le ingiustizie subite, ci sentivamo
«su una terra disumana», in una situazione moralmente falsa; non poteva essere altrimenti in un esercito composto da vittime di conquiste e sopraffazioni e, per di più,
costituito per la maggior parte da abitanti di una regione dello Stato polacco contestata
da Stalin. Era, quindi, difficile prevedere in che modo si sarebbe comportato il nostro
esercito a fianco del persecutore di ieri, trasformatosi nell’arco di una notte di giugno
del 1941 nell’«alleato dei nostri alleati»; del resto, la storia non è fatta di se, basti
dire che se è dovere di un buon capo mettere l’esercito a lui subordinato in condizioni
psicologiche e morali accettabili, allora Anders ha compiuto il suo dovere, portandoci
via dalla Russia. Tra parentesi, quando negli anni Cinquanta incontrai il professor Kot a
Londra, questi, dopo aver ascoltato i miei racconti, non era sicuro al cento per cento
della giustezza della sua presa di posizione.
Sorge la domanda quale sia stato l’apporto di Anders alla questione basilare delle
relazioni polacco-sovietiche. Nulla. È lecito dubitare sul fatto che, nonostante tutta
la sua buona volontà, Sikorski abbia dato qualcosa di più oltre al momento di una
breve congiuntura che diede un frutto concreto, cioè riuscire a strappare dalle galere,
dai lager e dalle deportazioni centomila persone, poi portate via da Anders in Persia.
Con una volontà ancora più determinata di quella di Sikorski, lo stesso Beneš non ha
dato un grande contributo alle relazioni tra Cecoslovacchia e Unione Sovietica, tranne
il fatto di rimandare la sentenza di tre anni. Questo nostro comune “nulla” era la
conseguenza del sovietico “tutto”. A mio avviso, si potrebbe riassumere la tappa russa
di Anders in questo modo: un capo responsabile, ma non politico, in una situazione in
cui la stessa politica ufficiale polacca si avvicinava sempre più alla quadratura del
cerchio.
180
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Józef Czapski: — Tocchi le questioni più controverse: la questione del trasferimento dall’URSS e dei motivi che portarono a tale decisione, della serie di mosse del
Generale che non sempre seguivano la linea dei piani politici di Sikorski e del suo più
devoto rappresentante, l’ambasciatore Kot a Kujbyšev. Non ho dubbi che, alla base
degli attriti che ebbero luogo allora, ci fosse una differente valutazione della situazione da parte di Sikorski e di Anders. Quest’ultimo, fin dai primi momenti, era molto
scettico per quanto riguardava l’eventualità di una leale collaborazione tra le autorità
sovietiche e l’esercito polacco, ma dopo alcuni mesi in Anders si era cristallizzata la
convinzione che la costituzione di un esercito polacco, in grado di affrontare le battaglie, sarebbe stata impossibile nelle condizioni sovietiche. Eppure, proprio Anders cercò
di creare, con onestà, questo esercito senza armi, malnutrito, circondato da un nugolo
di spie. Mi sembra che tu non tenga in giusto conto l’argomentazione di primo piano,
cioè l’aspetto tecnico-militare, argomentazione che non era ovviamente unica ma di
grande rilevanza.
Qui vorrei citare le conversazioni, a suo tempo trascritte, di Anders con il capitano
di cavalleria Klimkowski, tenutesi nel maggio o giugno del 1942 in mia presenza. Klimkowski all’improvviso se ne uscì, durante la prima colazione, con la tesi secondo la
quale l’esercito polacco sarebbe dovuto rimanere in Russia.
«Non dire sciocchezze — sbottò Anders — che esercito può essere questo con il diciotto per cento di uomini malati di cecità crepuscolare a causa dell’avitaminosi, senza
armi; te lo puoi immaginare questo esercito come qualcosa di diverso dalla carne per i
cannoni dei bolscevichi?».
La percezione del clima che regnava nell’esercito e l’istinto del capo che contraddistingueva Anders lo mettevano in una posizione molto concreta rispetto alle
intenzioni di allora della “grande” politica nei confronti della Russia; di una politica
che in realtà si mostrava sovente una finzione irreale.
L’argomentazione del professor Kot, del resto formulata in modo tanto drastico
dopo alcuni anni, che riconduceva il tutto all’ambizione personale di Anders e alla sua
rivalità con Sikorski, non regge alla critica. Lo sforzo di Anders, compiuto nella prima
fase mirante alla cooperazione con la Russia, ci sembra sincero e totale, nonostante le
selvagge condizioni in cui era costretto a costituire l’esercito. La convinzione che il
trasferimento dell’esercito fuori della Russia fosse l’unica soluzione ebbe in lui un lungo
processo di incubazione, ma nel momento in cui tale soluzione gli sembrò l’unica possibile, la assunse in pieno pronto a mettersi contro Mosca, contro gli inglesi in Persia e
contro il nostro governo a Londra, mettendolo ogni volta davanti al fatto compiuto.
Oggi, guardando la realtà dopo che sono trascorsi tanti anni, quel, come tu dici, “tutto”
russo avrebbe cancellato i tentativi di una politica che avesse preteso di lasciare l’esercito in Russia. Parlo di quella politica che l’ambasciatore Kot avrebbe voluto e tentava
di realizzare fino in fondo contro tutti.
Gustaw Herling Grudziński: — Sono stato in Medio Oriente da soldato semplice e
non so nulla di sicuro circa gli attriti o i contrasti fra Anders e Sikorski. Forse tu conosci queste cose in maniera un po’ più precisa. Il periodo precedente alla partenza per
l’Italia mi si configura dal punto di vista della massa dei soldati semplici, così come ho
scritto a margine delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della battaglia
poloniaeuropae 2010
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Dialogo intorno al Comandante...
di Monte Cassino: «Volevamo la battaglia, vivevamo con questo pensiero in Palestina,
in Iraq, in Egitto, addestrandoci nel deserto, ascoltando le notizie che provenivano dalla
Polonia». Ciò suona in maniera patetica, ma è la verità. Quando oggi ci si domanda se,
passati cinque mesi dopo Teheran, la nostra partecipazione alla battaglia fosse opportuna, alzo le spalle. In quella battaglia c’era una specie di corsa alla purificazione dalla
sconfitta, dall’abbrutimento, dalle sofferenze, dall’oppressione in cui viveva il nostro
paese, dalla lunga attesa nel deserto. Subito dopo essere arrivato dall’Egitto, mi sono
ammalato gravemente, ma non appena fui dimesso dall’ospedale britannico nei pressi
di Salerno, corsi come un invasato al reparto per giungere in tempo, ancora molto debilitato. A proposito, ricordi forse che ci siamo conosciuti là a Campobasso… Sì, questa
era e sarà per me sempre una grande battaglia, ci siamo battuti in essa sotto il comando di un bravo capo. Ma mettiamo da parte gli umori soldateschi. Anche dal punto
di vista politico Monte Cassino ha avuto il suo significato, come l’ultimo tentativo di realizzare il piano “balcanico” di Churchill. Quando, dopo la conquista di Roma, una vittoria rapida e totale nell’ambito della campagna italiana era alla nostra immediata
portata, quando le ventotto divisioni di Alexander inseguivano le ventuno malmesse divisioni di Kesselring e noi, passeggiando, avremmo potuto quasi raggiungere le Alpi, fermandoci alle frontiere dell’Europa centrale, su richiesta di Eisenhower e di Marshall
sono state ritirate dall’Italia sette divisioni destinate all’invasione della Francia meridionale. Questo feroce inseguimento si trasformò in una lenta corsa a ostacoli, il fronte
italiano si era raffreddato e finì in secondo piano. Solo allora divenne chiaro che il piano
“balcanico” era definitivamente fallito. E solo allora ci si poté domandare se la nostra
partecipazione alla campagna d’Italia per forza di cose rallentata avesse un senso.
Non so se Anders si chiedesse ciò seriamente. So soltanto che da quel momento la
nostra «guerra di Troia», nella sua tratta occidentale, divenne unicamente un simbolo
e che, di fronte a ciò, bisognava custodire fino in fondo tale simbolo. Dopo Jalta non ci
è rimasto altro che rifiutarci di consegnare le armi agli inglesi e obbligarli ad internarci
sotto gli occhi del mondo. Queste erano le premesse della rivolta della quinta Divisione
alla quale presi parte anch’io. Anders, come ricordi, era indignato, per due ragioni
credo: in primo luogo (cosa che del resto disse in faccia al capo della quinta Divisione,
Generale Sulik), si prevedeva il repentino scoppio di una nuova guerra. In secondo luogo
(che in qualche modo si lega al primo) ci teneva a non inasprire i rapporti con gli inglesi
malgrado Jalta. A mio avviso, in questo caso ci deluse in quanto nostro capo e dimostrò
uno scarso discernimento. Personalmente ritengo piuttosto credibile la sua intervista rilasciata al quotidiano svizzero “Die Tat”. Lo si può giustificare con quel disorientamento
politico (almeno credo e aggiungo, per essere giusti, abbastanza diffuso tra gli emigrati) a conclusione della seconda guerra mondiale.
Di Londra preferisco non parlare, anche se ci sono vissuto per circa cinque anni,
dal 1947 al 1952. Mi sembra, tuttavia, che, sia allora sia dopo, Anders sarebbe dovuto
rimanere in disparte, lontano «dai biasimevoli litigi». Egli era soltanto un eccellente ed
eroico comandante e dopo la guerra il suo ruolo non era altro se non quello di cedere
il posto alla leggenda.
Józef Czapski: — Parlando degli umori della massa dei soldati, «volevamo la battaglia, vivevamo con questo pensiero in Palestina, in Iraq e in Egitto» — tu accenni agli
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
attriti e ai contrasti di allora tra Anders e Sikorski, sottolineando che io avrei dovuto saperne un po’ di più. Sì, per forza di cose, è così. La tensione nei rapporti di allora tra
Sikorski e Anders era dovuta alla critica, feroce e diffusa nel Corpo d’armata, verso la
politica di Sikorski nei confronti della Russia. Gli si rimproverava morbidezza ed arrendevolezza nei riguardi di ogni persona che provenisse dalla Russia, mentre sembrava che
la politica sovietica verso la Polonia esigesse reazioni determinate e violente. E per di
più ci cadde come un fulmine Katyń. Il Corpo d’armata, insieme ad Anders, era lontano
da Londra non solo dal punto di vista geografico; le pressioni del governo inglese sul governo polacco, l’atteggiamento del governo nei riguardi della politica degli alleati per
i quali già allora non irritare la Russia era un dogma, tutti questi elementi erano sottovalutati nel Vicino Oriente. Klimkowski, a quel tempo luogotenente di Anders, stava
cristallizzando una corrente estremamente antigovernativa all’interno dell’esercito e
cercava di creare tra i giovani ufficiali un centro di cospirazione fortemente ostile a
Sikorski. Anders lo tollerò per un certo periodo di tempo, considerando probabilmente
questa febbre di giovani ufficiali come una sorta di argomento o una specie di atout nel
gioco con Sikorski. Tutto il carisma di Klimkowski nell’esercito poggiava sulla convinzione che egli fosse il portavoce dei pensieri e delle indicazioni del comandante.
Quando, ad un certo punto, Klimkowski venne allontanato da un giorno all’altro dalla
cerchia più stretta del generale Anders, praticamente cessò di esistere e la cospirazione finì nel nulla.
Oggi ci sembra che ci sia stato un solo momento grave, quando Anders stesso era
deciso a dire di no al capo supremo assumendosi tutte le conseguenze di ciò. Nel periodo in cui Sikorski arrivò nel Vicino Oriente, durante una grande riunione con gli ufficiali convocata senza avvisare Anders, parlando dell’imminente partenza dell’esercito
per l’Italia allo scopo di combattere, disse che il generale Anders avrebbe potuto scegliere: o conservare il comando di tutte le forze nel Vicino Oriente e in Italia, rimanendo
da solo in Palestina, oppure rinunciare alla propria carica e comandare l’esercito sul
campo di battaglia. Questo genere di proposta di divisione e di scelta fu per Anders una
sorpresa. Da quel momento — fino al giorno in cui Sikorski si accomiatò dall’esercito a
Bagdad — interruppe con lui praticamente qualsiasi dialogo. «Parlavo con lui del bel
tempo, del paesaggio e di belle donne» — mi disse Anders.
A Bagdad si sarebbe dovuta prendere la decisione definitiva, e Sikorski sapeva che
Anders non avrebbe ceduto il comando sull’intero esercito di stanza in Oriente di sua
volontà e che non avrebbe rinunciato al comando diretto delle operazioni sul fronte.
Sikorski, allora, cedette. Chi conosceva Anders sapeva bene che egli possedeva un’appassionata volontà di potere: non sarebbe stato un comodo subordinato né avrebbe ceduto senza lottare il potere già acquisito. Allora, nel Vicino Oriente, Sikorski era ormai
un uomo stanco, consumato dalle responsabilità per l’insieme della questione polacca,
coinvolto nel desiderio di unire tutti i polacchi — sotto il suo comando naturalmente —
e, inoltre, i suoi atteggiamenti vanitosi, quasi infantili, non gli guadagnavano nuovi seguaci. Anders era al massimo delle forze e dell’ambizione e sapeva di poter assolutamente contare sull’esercito nel Vicino Oriente. A Bagdad Sikorski si rese conto di tutto
ciò e la volontà di Anders ebbe la meglio. Il capo supremo dovette allora prendere atto
della situazione e così salvò l’esercito dalla minaccia di una contesa. Talvolta mi ricordo di un mio ulteriore e ultimo incontro con lui al Cairo. Mi disse allora: «Mi ricono-
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Dialogo intorno al Comandante...
sca di aver agito bene venendo da voi, così sono riuscito ad appianare molti malintesi
e molte difficoltà. Bisogna assolutamente lavorare tutti insieme, occorre mitigare i
dissidi».
Che cosa potrei aggiungere a proposito di Monte Cassino? Forse una sola cosa: gli
attacchi della stampa comunista e di quella non comunista — secondo cui Anders sprecava disinvoltamente il sangue dei suoi soldati — erano profondamente ingiusti. Non
scorderò mai la conversazione con lui svoltasi poche settimane prima della battaglia,
quando mi convocò a Campobasso. Non sapevo nulla del fatto che avrebbe accettato la
proposta del comando inglese e che le divisioni polacche avrebbero dovuto compiere
l’attacco frontale a Monte Cassino. Parlava poco, era assorto nei suoi pensieri e quasi
totalmente solo. Lo vedo ancora davanti alla tenda, tra gli ulivi — non so se ricordo
bene, all’orizzonte si profilava la sagoma del monastero? Mi disse soltanto «sai mi sono
assunto una grande responsabilità» e all’improvviso, proprio in quel momento, mi parve
profondamente se stesso: un capo il cui intero pensiero andava in un’unica direzione —
come fare per affrontare tale responsabilità, come assolvere questo compito.
L’ho visto molte volte durante la battaglia di Monte Cassino. La sua sorprendente
calma in questa incredibile tensione colpiva tutti noi.
Non parlerò di quella che tu chiami «rivolta» della quinta Divisione, semplicemente
perché ho dei vuoti di memoria. Mi ricordo solo che, durante quel mio colloquio con
Anders, intuii la sua reazione estremamente negativa ad ogni tentativo di dimostrazione contro gli inglesi o contro gli alleati. Era profondamente convinto del fatto che
fosse nostro dovere mantenere la nostra lealtà, dal momento che la guerra non era ancora finita e si stavano stratificando le decisioni politiche; pertanto ogni rivolta dell’esercito ci avrebbe danneggiati agli occhi del mondo.
Gustaw Herling-Grudziński: — Un giorno, poco prima della battaglia, trasportavamo sui muli gli approvvigionamenti, quando all’improvviso di lato comparve una piccola jeep con Anders seduto dentro. Ci salutò rivolgendoci qualche domanda veloce e
concreta. Fu questo il mio unico incontro con lui durante la guerra, se non teniamo
conto delle cerimonie per la decorazione degli ufficiali ad Ancona, dove egli assisteva
Sosnkowski. Non gli era rimasto molto del suo sguardo magnetico quando gli fui presentato a Londra, nel 1968, e quando, un anno dopo, parlai brevemente con lui in
occasione delle celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della battaglia. Aveva
conservato un’eccellente memoria, ma erano come dei bagliori che apparivano nell’assenza che allargava sempre più la sua ombra. Ho visto morire il mio vecchio
comandante.
Bisogna tornare indietro al punto di partenza, all’articolo di Kijowski sulla mattinata di maggio varsaviana. «Tutti i conflitti gravi tra noi risvegliano gli echi di questa
guerra passata da tempo, come se noi tutti continuassimo a prendere da essa — quasi
fosse una centrale elettrica — energia, scuotimenti, stimoli». Se è veramente una «centrale elettrica», lo è solo nella leggenda. Qui non posso non citare il brano conclusivo
della mia nota pubblicata su “Kultura” di ottobre dell’anno scorso. «Le celebrazioni per
Monte Cassino sono state l’ultimo capitolo dell’emigrazione bellica. Leggo in uno degli
articoli scritti in occasione dell’anniversario che i Polacchi provano “un brivido di orgoglio” al suono del nome di Monte Cassino, perché in quanto “popolo cavalleresco”
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
apprezzano di più “la battaglia con la visiera alzata” anziché “la lotta clandestina e
sotterranea”, e al “martirio dei Traugutt” preferiscono “l’alloro dei comandanti
vincitori”. Non mi intendo dell’immutabile psicologia dei popoli (soprattutto di quelli
ex definitione “cavallereschi”), so comunque che ai polacchi, da allora, rimane solo
la via della lotta più o meno nascosta e clandestina. Il 15 agosto a Monte Cassino è stato
dato l’addio a un’epoca che si è definitivamente chiusa»4.
Il 23 maggio di quest’anno su di essa è stata posta una pietra tombale con la
scritta: Władysław Anders, Generale di Corpo d’armata, nato l’11 agosto 1892 a Błonie,
morto il 12 maggio 1970 a Londra.
Józef Czapski: — Questa pietra tombale chiude, come dici tu, l’ultimo capitolo
dell’emigrazione bellica. Ma proprio oggi bisogna ricordare che Anders è stato anche il
principale costruttore di quella “piccola Polonia” che si costituì in Iraq e in Italia; i suoi
contorni, il suo significato profondo esulavano di gran lunga dal compito puramente
militare dell’esercito. Ma che cos’era questa “piccola Polonia” in Oriente?
Soldati provenienti dalla Russia con alle spalle anni nei campi sovietici; soldati da
Tobruk già con una bella pagina di guerra; donne soldato che durante la guerra svolsero
un ruolo molto importante nei servizi ausiliari; soldati — quasi bambini — e tra questi
più di uno era ritornato analfabeta nei kolchoz.
Grazie ad Anders, sorge nell’esercito un ampio e articolato sistema d’istruzione:
ginnasi, istituti tecnici, in Palestina, in Egitto, in Libano e in seguito in Italia. Verso la
fine della guerra, circa quattromila giovani frequentano i ginnasi e le università a Beirut, a Roma, a Milano e a Torino. Nello stesso tempo il Corpo crea e amplia il settore
editoriale, dove si pubblicano centinaia di testi scolastici a partire dalla letteratura
classica e moderna fino ai volumetti dei poeti dell’esercito, libri illustrati, e perfino
un’edizione di Pan Tadeusz che viene distribuita in diecimila copie.
Inoltre, il Comandante si trova di fronte a problemi dovuti alla composizione eterogenea dell’esercito nazionale. Questo esercito in grande percentuale era formato da
minoranze nazionali: ucraini accanto ai lituani, ebrei accanto ai bielorussi. D’intesa
con il vescovo Gawlina, Anders ordina di far stampare libri di preghiera greco-cattolici,
ammette nell’esercito cappellani ucraini; agli ucraini, che nell’URSS si fingevano polacchi cattolici romani per paura dell’NKVD e degli ufficiali con atteggiamenti sciovinisti, concede di aggiustare i cambiamenti anagrafici. E la questione ebraica di
quest’esercito? A partire da Buzuluk il Comandante, nei suoi interventi, sottolineava
con forza che tra i cittadini polacchi, soldati della Repubblica di Polonia, non c’era né
ci poteva essere disparità di trattamento. Quindi, non c’erano sintomi di antisemitismo o palesi ingiustizie? C’erano, ma sarebbe falso attribuirli ad Anders; tante volte sono
stato testimone di situazioni in cui proprio Anders cercava di appianare o di cancellare ingiustizie del genere. Il divieto di Anders, impartito non solo alla gendarmeria polacca, ma
anche a quella inglese, di inseguire i numerosi soldati ebrei che avevano disertato il nostro esercito in Palestina, è un elemento molto caratteristico. «Essi hanno una doppia
4
GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, cit.
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Dialogo intorno al Comandante...
lealtà: nei confronti della Polonia e per la lotta in favore d’Israele — tocca a loro scegliere». Coloro che rimasero nelle file del nostro esercito combatterono insieme a noi e
molti di loro riposano oggi nel cimitero di Monte Cassino, accanto a polacchi, ucraini,
bielorussi o lituani.
Anders, questo ufficiale di carriera, era capace — quando si rendeva necessario —
di spezzare la routine, di cancellare la distanza tra ufficiale e soldato semplice, distanza che non pochi ufficiali desideravano aumentare e irrigidire. Attribuire, per esempio, ai soldati semplici impiegati nel reparto della propaganda e dell’istruzione il rango
di PRO (Public Relations Officer) contrastava con tutte le tradizioni militari non soltanto
polacche, ma anche inglesi.
In un periodo in cui in Polonia non vi era alla luce del sole nemmeno un’università,
una scuola media o una casa editrice, quando regnava la massima segregazione nazionale ed era in atto lo sterminio dell’intero popolo ebreo in territorio polacco, il tentativo del generale Anders di creare, nell’ambito dell’esercito in esilio, una struttura
sociale viva, forte e al contempo flessibile, com’è nella migliore tradizione liberale, di
una società plurinazionale e pluriconfessionale, dovrebbe scolpirsi nella nostra memoria come suo testamento per il futuro.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Ritorni a Montecassino «l’ultimo cimitero della Repubblica polacca».
Pagine dal Diario scritto di notte (1984—1994) di Gustaw HerlingGrudziński
a cura di Marta Herling1
Traduzione di Alessandro Amenta
18 maggio 1984
Commozione, soprattutto commozione; sarà sempre così ogni volta che ritorno a
Montecassino. Siamo arrivati molto presto. Il primo giorno di una vera, tardiva primavera quest’anno, sotto un sole cocente il campo di battaglia e il cimitero. Su qualche
tomba i nomi dei caduti erano leggermente sbiaditi, i pori sulle lapidi erano più grandi,
il travertino è una pietra bella ma infida. Sì, è successo qui, e là… Cos’è successo là? È
difficile disperdere la nebbia che serpeggia capricciosa nella memoria. Esattamente
quaranta anni fa, la mattina del 18 maggio, andavo con la pattuglia che stava sminando
il sentiero per le rovine dell’Abbazia; si vedeva già la bandiera bianco-rossa che era stata
issata all’alba. Sulla strada ci imbattemmo in un gruppo di soldati: semidistesi intorno alla
sporgenza rocciosa, stavano ascoltando le parole del loro comandante, un georgiano al
servizio dell’esercito polacco; con voce tonante e un piacevole accento russo li stava
convincendo, con l’aiuto di una «concatenazione logica di fatti di natura militare», che
«noi polacchi abbiamo vinto la seconda guerra mondiale»…
Prima delle dieci iniziarono ad affluire in massa alla cerimonia. Alla rinfusa e in
gruppi in assetto miliare; in abiti civili e in uniformi ornate di medaglie; vecchi e
giovani; uomini, donne e bambini; con cartelli con su scritto «Canada», «Inghilterra»,
«Sandomierz»; con le bandiere e gli striscioni di Solidarność. Secondo gli esperti, a
occhio c’erano quattromila persone al momento dell’inizio della cerimonia.
La cerimonia fu strana, per non dire ambigua; un piccolo, triste e amaro postscriptum
all’ultimo capitolo2, scritto in carattere ridotto. La tradizione dell’ultimo cimitero della
Repubblica polacca era stata rimossa nel «ripostiglio della storia»: non ci furono
1 Le pagine sono tratte dall’ultima edizione integrale di GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Dziennik pisany
nocą, in Id., Pisma zebrane, pod red. Z. Kudelskiego, t. 6, Dziennik pisany nocą 1984-1988, Czytelnik, Warszawa 1996, pp. 50-51; t. 10, Dziennik pisany nocą 1993-1996, Czytelnik, Warszawa
1998, pp. 57-58; 213-14.
2 Il riferimento è a: GUSTAW HERLING-GRUDZIŃSKI, Ostatni rozdział (25 agosto 1969), “Kultura”, n. 10,
1969; trad. it. L’ultimo capitolo, qui riproposto, cfr. l’indice di “poloniaeuropae”(www.poloniaeuropae.eu).
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Ritorni a Montecassino «l’ultimo cimitero della Repubblica polacca»
funzioni di altre confessioni religiose, come nel 1969. Nel sermone del primate Glemp
non venne pronunziato neppure una volta il nome di [Władysław] Anders; un fatto non
da poco, nel quarantesimo anniversario della battaglia. In compenso, vicino all’altare
qualcuno tenne per tutto il tempo un grande ritratto di [Władysław] Sikorski3 su un
bastone. Era una storia “addomesticata”. Il primate disse innanzitutto che i polacchi
venerano tre monti: Jasna Góra, il Vaticano e Montecassino, vale a dire «il monte sacrificale dell’esercito polacco». Poi, che il mondo si aspetta dai polacchi solo sangue,
ma ne è stato versato abbastanza, anche troppo; e che nel motto «per la vostra e la
nostra libertà» è giunta l’ora di mettere l’accento su «nostra».
Sulla via di ritorno verso Napoli, rimuginando sul postscriptum di Montecassino,
mi consolavo con il discorso tenuto il giorno prima da Giovanni Paolo II ai pellegrini
polacchi, pubblicato oggi su “L’Osservatore Romano”. In questo discorso c’erano la comprensione del significato della nostra battaglia e la piena consapevolezza di un nuovo
capitolo nella lotta dei polacchi, che è seguito subito dopo quell’ultimo capitolo di
quindici anni fa e, malgrado le sconfitte, perdura ancora.
20 maggio 1993
Paolo Morawski (figlio di Stanisław August), un giovane storico pieno di talento che
la mancanza di prospettive accademiche ha spinto a lavorare per il terzo canale della
radio italiana, sta preparando un programma sugli stranieri in Italia. Mi ha dato il
microfono per mezz’ora chiedendomi di parlare della prima ondata di polacchi, soldati
che per un motivo o per un altro avevano deciso di stabilirsi qui. Mentre parlavo, mi
sono ricordato del lontano episodio di Falconara.
Dopo la guerra, gli inglesi si comportavano in maniera indecente in Italia, per dirla
con un eufemismo. Residui di “stile imperialista” gli imponevano di considerare gli italiani come dei natives, una razza inferiore. La conseguenza nel nostro caso fu che al momento della partenza del secondo Corpo dall’Italia per l’Inghilterra, i soldati polacchi
sposati con donne italiane furono esclusi da questo “beneficio degli alleati”. Ovviamente Anders avrebbe dovuto protestare e minacciare che l’intero Corpo non si sarebbe mosso dall’Italia senza i suoi compagni sposati con delle filthy Italian women, ma
Anders aveva molta fretta, perché, secondo le sue idee sullo scoppio di una terza guerra
mondiale, da un giorno all’altro l’Armata Rossa avrebbe attaccato dalla Jugoslavia attraverso l’Adriatico. E così venne organizzato un campo a Falconara, sulla costa adriatica, dove i soldati polacchi sposati con delle italiane dovevano aspettare di emigrare
in altri paesi meno sensibili a questioni di razza o rassegnarsi pian piano all’idea di rimanere in Italia (come alla fine è successo). Ero andato a Falconara su richiesta di Jerzy
3 Władysław Sikorski (1881-1943), generale e politico polacco, durante la seconda guerra mondiale
fu primo ministro del governo polacco in esilio e anche comandante in capo e ispettore generale
delle forze armate polacche. Fu molto filo-britannico. La sua morte alimentò numerose congetture e teorie di complotti perché l’aereo su cui viaggiava precipitò in circostanze misteriose presso
Gibilterra. Durante gli anni del regime comunista in Polonia, la sua figura fu minimizzata e la sua
memoria messa in ombra.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Giedroyc, ci avevo trascorso due tristi giornate e avevo descritto la vicenda in un reportage
dal tono amaro, riportando tra l’altro il fatto che il colonnello Emeryk Czapski (che Józio4
non sopportava) aveva cominciato per conto dei francesi un silenzioso arruolamento per il
bacino carbonifero del nord della Francia (una specie di tratta degli schiavi). In realtà non
avevo fatto nomi, ma questo Czapski si riconobbe subito nel reportage e un bel giorno alla
nostra casa oltre il Tevere venne a bussare nel ruolo di padrino Pawełek Zdziechowski, che
a quel tempo conoscevo poco. Spiegai a Pawełek che il mio basso rango militare e la mia
misera posizione sociale non mi permettevano di battermi a duello con un uomo che era
conte e colonnello, ci scherzammo su davanti a una tazza di tè e stringemmo un’amicizia
durata anni, fino alla sua morte a Parigi.
Varsavia, 5 — 11 maggio 1994
Artur Międzyrzecki5, mio compagno d’armi nel secondo Corpo, ha deciso di unire
l’incontro al Pen Club con l’autore venuto da Napoli al cinquantesimo anniversario della battaglia di Montecassino. Questo ha spinto alcune persone a fare domande sulla battaglia.
Nell’arco di mezzo secolo non ho cambiato idea sull’argomento. Dopo Teheran,
questa battaglia era politicamente inutile; i soldati lo sapevano meglio di Anders, irremovibile nella sua visione della terza guerra mondiale. Dal punto di vista psicologico era
inevitabile, i soldati la desideravano tanto ardentemente quanto Anders, che alla fin
fine avrebbe potuto tirarsi indietro grazie a un accordo con i suoi superiori alleati. In
Vicino Oriente ci eravamo preparati per anni a questa battaglia, la sognavamo nelle
tende in mezzo al deserto, si sarebbe spezzato qualcosa di fondamentale se fosse stata
annullata all’ultimo minuto. È stata una grande battaglia, una battaglia sacrificale;
sono contento che il destino mi abbia permesso di prendervi parte.
Tra i soldati del secondo Corpo, forse sono quello che abita più vicino al campo di
battaglia e al cimitero. Un tempo (prima della malattia) ci andavo spesso, da solo o
con ospiti venuti dalla Polonia. Una volta, anni fa, mi era capitato di portare a Montecassino Maria Dąbrowska e Anna Kowalska6. “Questo è l’ultimo cimitero della Repubblica
4
Józio: diminutivo di Józef Czapski che era il cugino di Emeryk [August Hutten-]Czapski. Józef
Czapski (1896-1993), pittore, saggista, scrittore, co-fondatore del mensile dell’emigrazione polacca “Kultura”, visse dopo la guerra in Francia, a Parigi. Emeryk [August Hutten-]Czapski (18971979), politico, militare e diplomatico, emigrò invece dopo la guerra in Italia, a Roma.
5 Artur Międzyrzecki (1922-1996), deportato in Unione Sovietica nel 1940-42; entrò poi a far parte
dell’esercito polacco in Medio Oriente e partecipò col secondo Corpo alla campagna d’Italia. Si stabilì in Francia fino al 1949. Rientrato in Polonia, fu redattore di “Nowa Kultura” e di “Poezja”; dal
1991, presidente del Pen Club polacco. Autore di poesie, racconti, romanzi, saggi letterari e traduzioni dalla letteratura francese, russa e americana.
6 La scrittrice Maria Dąbrowska (1889-1965) si è affermata con la raccolta di novelle e racconti Ludzie stamtąd, 1925 (trad. it: Erbe selvatiche. Gente di là, Feltrinelli, Milano 1961); e poi con il romanzo in quattro volumi Noce i dnie [Le notti e i giorni], 1932-1934, saga di due generazioni di una
famiglia polacca negli anni bui dal 1880 al 1914. Anna Kowalska (1903-1969) autrice di novelle, racconti e romanzi, molti dei quali ambientati a Leopoli dove è nata e ha vissuto fino agli anni della
guerra. Dal 1954 a Varsavia ha svolto un ruolo attivo nell’organizzazione della vita culturale in Polonia nel secondo dopoguerra.
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Ritorni a Montecassino «l’ultimo cimitero della Repubblica polacca»
polacca”, dissi alla Dąbrowska. Lei annuì commossa e sussurrò piano: “Ha ragione, ha
assolutamente ragione”.
Nel venticinquesimo anniversario della battaglia, con Anders ancora vivo e presente, nell’ultimo cimitero della Repubblica polacca vennero celebrate funzioni religiose officiate contemporaneamente tra le tombe per le anime di soldati di tutte le
confessioni. Nel quarantesimo anniversario della battaglia ci si limitò a una messa cattolica celebrata dal cardinal [Władysław] Rubin. L’omelia venne pronunciata dal primate [Józef] Glemp. Senza saperlo, stava sulla tomba di Anders, parlava del suo
argomento preferito, «nemmeno una goccia di sangue polacco», e fece un miracolo non
da poco: ignorò il nome del Comandante. Dieci anni fa il suo sermone è stato l’equivalente oratorio del gesto compiuto da [Wojciech] Jaruzelski, che aveva girato ostentatamente la testa dalla tomba di Anders per chinarla in raccoglimento su quella
adiacente del generale [Bolesław Bronisław] Duch («questo era permesso»)7. L’affronto
fatto dal primate Glemp ai soldati che avevano partecipato alla battaglia venne riparato da Giovanni Paolo II con un articolo in polacco pubblicato sulle pagine dell’“Osservatore Romano”.
Il mio intervento al Pen Club creò scompiglio. Un impiegato del ministero degli
Esteri avvisò il suo superiore, Stefan Frankiewicz telefonò al nunzio apostolico. Ma
tornare alla vecchia tradizione delle funzioni in tutte le confessioni religiose nel giro di
appena una settimana sembrava poco realistico.
(Aggiunta successiva. Sono riusciti comunque a metter su in fretta e furia una funzione ecumenica incompiuta. Questo è stato l’unico punto luminoso — ho il diritto di
essere orgoglioso! — nelle scandalose, ridicole celebrazioni organizzate dalle più alte
autorità polacche).
7
Il riferimento è alla cerimonia che si tenne nel gennaio 1987 a Montecassino alla presenza del generale Jaruzelski, che Herling così commenta nel Dziennik pisany nocą 1984-1988, cit., p. 288-89,
alla data del 15 gennaio: «Montecassino è stato il teatro di una cerimonia personale e davvero
“storica”. Al suono dell’inno nazionale il Generale [Jaruzelski] assunse il simbolico comando sullo
spirito del migliaio di caduti, designando come loro comandante nell’oltretomba il generale Duch
al posto di Anders, da lui ostentatamente ignorato». E aggiunge: «Gli osservatori degli incontri e
dei momenti “storici” [della visita di Jaruzelski in Italia] e “i cosiddetti oppositori” in Polonia dispongono ora di un abbondante materiale su cui riflettere». Nella battaglia di Montecassino il generale Bolesław Bronisław Duch (1885-1980) comandava la terza Divisione fanteria “Carpazi” del
secondo Corpo polacco.
190
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Una lapide di sasso nel gulag. Sulle tracce di Gustaw Herling da Ercevo
a Montecassino
di Marta Herling
Dal 13 settembre 2009 una targa incisa su un masso di pietra prelevato dai boschi
che circondano il villaggio di Ercevo nella regione di Archangel’sk, ricorda con queste
parole la prigionia di Gustaw Herling nel campo sovietico:
– GRUDZIŃSKI
1919 – 2000
PISARZ POLSKI, AUTOR “INNEGO SWIATA”
WIĘZIEŃ LAGRU W JERCEWIE 1940 – 1942
GUSTAW HERLING
Il testo compare in russo e in polacco1. Il masso di pietra che si erge su una base
di sassi impastati nel cemento, è imponente nella sua grandezza, e nella forma richiama
una figura umana la cui forza ed energia sono racchiuse nella roccia, che la comprende
e l’avvolge, non lasciando intravedere le braccia, le gambe né il volto. Un corpo raccolto in sé e allo stesso tempo eretto, leggermente chino verso destra, che si staglia
nella sua immobilità inflessibile, sullo sfondo degli alberi e dei tetti spioventi delle
casupole di Ercevo. È il prigioniero. Fermo e in movimento. Oggi chi l’osserva sulla via
principale del villaggio, che egli ogni giorno percorreva all’alba per recarsi al cosiddetto «lavoro correttivo» nei boschi e nelle lande circostanti e al calar della sera per
rientrare nella sua baracca nel campo, percepisce attraverso quel masso di pietra che
lo scolpisce, il peso immane della pena e della sofferenza che ha vissuto e a cui è
riuscito a sopravvivere.
Il 13 settembre il sasso nel gulag era cinto dall’alto in basso, dalla spalla inclinata
a destra ai piedi a sinistra, da un nastro rosso-bianco dei colori della Polonia. Lo
circondavano ai lati e dietro coloro che lo hanno voluto deporre lì e hanno promosso la
cerimonia in memoria di Gustaw Herling a Ercevo quel giorno.
La nostra delegazione polacca partita da Varsavia per la Federazione Russa ha
percorso nel suo viaggio, le tappe del prigioniero. San Pietroburgo — Vologda — Ercevo.
Ne facevano parte: Tomasz Merta, viceministro della Cultura e del Patrimonio nazionale
della Repubblica di Polonia, Michał Michalski, direttore del Dipartimento del patrimonio culturale del ministero, ed io. A San Pietroburgo siamo stati accolti dal console generale della Repubblica di Polonia Jarosław Drozd, dal direttore dell’Istituto polacco di
San Pietroburgo Cezary Karpiński, dai vice-consoli Alina Karpińska e Zbigniew Piotrowski;
1
GUSTAW HERLING – GRUDZIŃSKI / 1919 – 2000 / SCRITTORE POLACCO, AUTORE DI “UN MONDO A PARTE”/ PRIGIONIERO
ERCEVO 1940 – 1942
DEL LAGER DI
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Una lapide di sasso nel gulag...
nella sede consolare e dell’Istituto si è svolto un incontro conviviale con la partecipazione dei giornalisti russi invitati a una conferenza stampa. Per la prima volta assistevo
a un dialogo polacco-russo, al mescolarsi in tonalità nette e melodiose, delle due lingue.
Agli ospiti russi i rappresentanti del governo di Varsavia e del corpo diplomatico
polacco raccontavano e spiegavano le vicissitudini e la biografia del loro concittadino
Gustaw Herling in terra sovietica, quella che Józef Czapski in un suo celebre libro aveva
definito «Terre inhumaine»2. In quel racconto — che aveva la cadenza di un resoconto
chiaro e preciso, dai toni distesi che le circostanze consentivano, di fatti ed eventi che
erano all’origine della cerimonia che si sarebbe compiuta due giorni dopo a Ercevo —
vi era, e chiaramente affiorava, una pagina centrale della storia della Polonia e dell’Unione Sovietica nel Novecento. Fra le tante impressioni suscitate in me dal dialogo
al quale assistevo (circondata dalla cordiale premura delle signore del consolato), due
in particolare vorrei ricordare. Gran parte di ciò che veniva raccontato appariva ignoto
agli ascoltatori e ai giornalisti russi presenti, e testimoniava la forza e la verità delle
parole con le quali mio padre concluse la sua prefazione alla prima edizione russa di Un
mondo a parte, pubblicata a Londra nel 1986 («Un sogno impossibile» … «devo ammettere che non me lo sarei mai aspettato»):
Non si può sfuggire ai fantasmi del passato con il silenzio. Se qualcosa può
avvicinare i polacchi ai russi questo è proprio una conversazione ad alta voce sulle
offese fatte e la coscienza della sofferenza comune. Proprio questa sofferenza
comune, sofferenza di tutti i detenuti dell’impero dei campi di concentramento
staliniani, sta alla fonte di Un mondo a parte. Dalla sofferenza comune nasce la
speranza comune3.
La conversazione franca e aperta nella sede del Consolato di Polonia a San Pietroburgo, con la quale veniva annunciato e spiegato il significato della cerimonia di inaugurazione della lapide di sasso a Ercevo in memoria di Herling (voluta dalle autorità
polacche e autorizzata da quelle russe), mostrava anche il cammino percorso e quello
ancora da percorrere affinché si realizzasse fino in fondo l’auspicio espresso nella
successiva introduzione dell’autore all’edizione moscovita di Un mondo a parte, pubblicata nel 1990:
Il corso degli avvenimenti in URSS ha oltrepassato i desideri che avevo un
quarto di secolo fa. Tutto ciò mi dà una profonda gioia. E non soltanto una gioia
personale, di autore, soddisfazione provata da ogni scrittore di fronte a una nuova
edizione del proprio libro. La mia gioia è — se la si può così definire — pubblica.
Se Un mondo a parte esce a Mosca per le edizioni Progress (dopo Arcipelago Gulag
di Solženicyn e i Racconti della Kolyma di Šalamov, e seguendo propriamente la
2
J. CZAPSKI, Terre inhumaine, L’Age d’Homme, Paris 1978.
G. HERLING, Prefazione all’edizione russa, in Id., Un mondo a parte, Feltrinelli, Milano 1994, p.
285.
3
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
strada aperta da questi due grandi scrittori russi), allora è chiaro che i cambiamenti che ha portato con sé la “glasnost” permettendo di “guardare nello specchio del passato”, sono irreversibili. È difficile sopravvalutare il significato di
questo fatto per il formarsi di rapporti polacco-russi autenticamente amichevoli,
perché fondati sulla verità e sincerità. Un mondo a parte, edito a Mosca, ha dato
un piccolo contributo a questo storico processo4.
Venti anni dopo questa pagina, ho avuto io, sua figlia, la possibilità inaspettata di
partecipare a una tappa importante ed altamente simbolica, di «questo storico
processo».
L’altra impressione che ricordo di quell’intrecciarsi di discorsi polacchi e russi nella
sala del Consolato, era che il nostro viaggio, gli incontri “bilaterali” che erano stati organizzati e la cerimonia a Ercevo, si svolgevano nella ricorrenza dei settant’anni dallo
scoppio della seconda guerra mondiale. E non era un caso che per scoprire la lapide a
Ercevo, fosse stata scelta la data del mese di settembre 2009. Mentre ascoltavo quei
discorsi, riecheggiavano ancora nella mia mente le parole pronunciate durante le
celebrazioni a Danzica dal cancelliere Merkel, dal capo del governo Tusk, dal presidente
Putin, che tanta eco hanno avuto nell’opinione pubblica e nella stampa internazionale.
Anche noi ci trovavamo a ricordare un pezzo di storia, che ebbe la sua origine dallo
scoppio della guerra con la duplice invasione nazista e sovietica della Polonia, il suo
svolgimento nei territori orientali della Polonia occupati dall’Armata Rossa e da lì nel
«mondo a parte» del gulag, per poi confluire nell’esercito costituito dal generale Władysław Anders in Medio Oriente, fino alla campagna d’Italia e alla battaglia di Montecassino. Tutto questo riascoltavo dalle parole della delegazione polacca che presentava
alla stampa russa, il programma delle celebrazioni in memoria di Gustaw Herling a
Ercevo. E mi ritornavano in mente frammenti di pagine autobiografiche di mio padre:
Quando è scoppiata la guerra sono andato via da Varsavia seguendo l’appello lanciato alla radio dal maresciallo Umiastowski, il quale richiamava gli uomini
ad andare verso oriente, poiché riteneva probabilmente che saremmo riusciti ad
arrestare la pressione dei tedeschi e ad organizzare una qualche resistenza militare. Ma era un’illusione. Mi sono diretto verso il Bug, con un terribile senso di
sofferenza perché non ero nell’esercito, e non potevo in qualche modo contribuire
alla battaglia, anche se già si sapeva che era una lotta senza speranza. Incontrai
lungo la via una pattuglia a cavallo, tre uomini che avevano con sé anche un
cavallo libero. Chiesi se potevo unirmi a loro e così abbiamo cavalcato per circa
quattro ore fino al momento in cui è giunta la notizia che l’esercito sovietico aveva
invaso la Polonia il 17 settembre, e quel piccolo drappello si è sciolto5.
4
G. HERLING, Alcune parole d’introduzione all’edizione moscovita, ibid. p. 286.
Il brano è tratto da Z. KUDELSKI, Opowieść autobiograficzna Gustawa Herlinga Grudzińskiego [Racconto autobiografico di G.H.G.] (1996), cit. da: M. HERLING, L’insurrezione in alcune pagine di Gustaw
Herling, in 1944: Varsavia brucia. Atti del convegno internazionale: L’insurrezione di Varsavia tra
guerra e dopoguerra, a cura di K. Jaworska, Edizioni dell’Orso, Torino 2006, pp. 99-100.
5
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Una lapide di sasso nel gulag...
A fine ottobre del 1939 mi recai da Varsavia alla mia casa di famiglia nei
pressi di Kielce, per una visita di commiato. Avevo già maturato la decisione di
varcare il Bug, e di intraprendere da lì il tragitto da nord o da sud, verso Occidente
(…). Un mese dopo scendevo da un treno a Małkin con una folla di fuggiaschi6.
A Grodno [nel marzo 1940] trovai finalmente, grazie a un prestito di denaro,
due contrabbandieri disposti a condurmi in Lituania. Uno di loro si chiamava
Mickiewicz. Sotto questi auspici è iniziata la mia… via per la Russia. Il nostro piccolo furgone aveva lasciato la cinta delle mura a nord di Grodno e aveva percorso
appena dieci chilometri. L’auto della polizia lo raggiunse in un campo deserto dove
simili operazioni non attirano l’attenzione di nessuno. Il mio Mickiewicz era al
servizio dell’NKVD7.
Le pagine successive sono quelle che abbiamo potuto leggere in Un mondo a parte,
l’opera che ci ha accompagnato nel nostro viaggio lungo il percorso nel quale fu condotto il prigioniero Herling.
Dopo l’incontro al Consolato, il direttore Karpiński ci ha accompagnato in una
visita della città, per ammirare i suoi splendidi monumenti, le sue prospettive e le sue
piazze, le chiese ortodosse e i monasteri. Al calar della sera percorrendo in auto il bordo
della Neva, ci ha mostrato sull’altra sponda del fiume, il profilo grigio, tetro e possente
della prigione di San Pietroburgo. Alla domanda se volessi vederla da vicino, ho risposto di sì. Con un lungo giro per passare da una sponda all’altra della Neva, ci siamo fermati dinanzi all’edificio della prigione. Nell’oscurità, al di là del cancello e delle mura
che la circondavano, si innalzavano fra i viali il corpo centrale, le torri e i padiglioni,
puntellati dalle finestre delle celle alcune delle quali con la luce accesa. Non siamo
scesi dalla macchina, poiché non è consentito; mi sono limitata a guardare dal finestrino, nel silenzio di tutti noi passeggeri, con un senso di angoscia che mi è difficile
esprimere in parole. Lo stesso gesto, la stessa sosta fugace con l’apertura del finestrino
per volgere lo sguardo su quell’edificio, non ci sono stati consentiti due giorni dopo a
Ercevo per il campo dove mio padre fu recluso e che tuttora esiste come carcere per
detenuti comuni: nonostante l’ulteriore e pressante richiesta che l’ambasciatore di
Polonia a Mosca ha fatto, in mia presenza, alle autorità locali…
La nostra tappa alla prigione di San Pietroburgo si può commentare solo con la
testimonianza di Un mondo a parte:
Era novembre quando, dopo un viaggio di più di una settimana [dalla prigione di Vitebsk], giunsi con un convoglio di prigionieri a Leningrado. Sulla piattaforma della stazione fummo divisi in gruppi di dieci, e condotti a brevi intervalli,
6
G. HERLING, Godzina cieni (1963), trad. it.: L’ora d’ombra, in: Il pellegrino della libertà. Saggi e
racconti, a cura di M. Herling, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2006, pp. 16-17.
7 Ibid., p. 24. E prosegue: «Tre anni dopo lo incontrai nel deserto in Iraq: era un caporale e ciò dimostra che anche lui alla fine ha seguito le orme delle sue vittime. Lo guardai a lungo in silenzio
e lo vidi impallidire. Poi, sempre senza una parola, proseguii oltre».
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
in furgoni neri, alla Peresylka (la prigione di transito di Leningrado, luogo di sosta
per i prigionieri destinati ai campi di lavoro). Schiacciato in mezzo agli altri,
soffocando in quella scatola di legno senza finestre o ventilatori, non mi riusciva
di vedere la città. Ma nelle svolte, il movimento mi sbalzava dal mio posto e, attraverso una fessura nel divisorio tra la cabina del conducente e la parte posteriore
del furgone, ebbi fugaci visioni di edifici, piazze e alberi. Il giorno era freddo e
assolato. Era caduta la neve: i passanti per strada portavano alti stivali invernali
e berretti di pelliccia coi paraorecchi, che li facevano guardare dritti avanti a sé,
senza prestar attenzione a quel che accadeva intorno. Il nostro convoglio attraversò la città inosservato.
Prigionieri veterani mi dissero poi che le prigioni di Leningrado contenevano in quel tempo quarantamila persone. (…) Nella nostra prigione calcolammo
che il numero giungeva a diecimila. Nella cella alla quale fui assegnato, n. 37, che
in condizioni normali avrebbe dovuto contenere venti prigionieri, eravamo in settanta. (…) A Leningrado udii per la prima volta ipotesi sul numero totale di prigionieri, deportati e schiavi bianchi nell’Unione Sovietica. Nelle discussioni in prigione
la cifra supposta si aggirava tra i diciotto e i venticinque milioni8.
Riandando con la mente a questa pagina, in quell’attimo trascorso dinanzi alla prigione di San Pietroburgo, avvertivo la forza espressiva delle due immagini: quella del
prigioniero che sessantanove anni prima «attraverso una fessura nel divisorio tra la
cabina del conducente e la parte posteriore del furgone, ebbe fugaci visioni di edifici,
piazze e alberi», e la mia che sessantanove anni dopo, attraverso il finestrino leggermente abbassato di una macchina del corpo diplomatico polacco, scrutavo circondata
dal brusio della città e dal silenzio di chi mi accompagnava, l’edificio della sua prigione
cercando di carpirne quanto più mi fosse possibile nella libertà che mi era stata
concessa di essere lì ad osservare.
L’indomani mattina presto, la nostra delegazione che ora comprendeva i rappresentanti del Consolato e dell’Istituto polacco di San Pietroburgo, è partita per Vologda.
Settecento chilometri di tragitto da percorrere nell’arco della giornata, su una strada
a due sole corsie, in gran parte dissestata, con buche e fossi che costringevano i conducenti a continui rallentamenti e ad acrobazie di sorpassi nella corsia opposta, anche
per le frequenti file di camion che procedevano con lenta pesantezza. Ho provato una
continua ansia e tensione nel seguire le manovre che talvolta mi parevano azzardate,
ma che la perizia e l’abitudine di chi guidava rendevano naturali, e così mi sono gradatamente assuefatta e rassegnata. La fatica del viaggio veniva alleviata dalla scoperta
della “Russia profonda”: distese interminabili di brughiera, di steppa, di foreste, di
campi per lo più incolti. Rare le case, rari i villaggi. Un paesaggio in cui domina la
natura senza uomini. Uno spazio immenso del quale non si intravedono i confini. Si percepisce la grandezza “geografica” dell’impero (l’Imperium descritto da Kapuściński) e
la forza primordiale — dovuta anche agli spazi su cui si estende — del suo dominio.
8
G. HERLING, Un mondo a parte, cit., pp. 24-25.
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Una lapide di sasso nel gulag...
La conversazione coi miei compagni di viaggio mi faceva comprendere meglio la storia
sottintesa a quei luoghi e a quegli spazi; la loro conformazione attuale soprattutto
laddove la scomparsa e l’abolizione del kolchoz con il crollo del comunismo, avevano
lasciato dopo di sé terreni incolti e abbandonati. Nel corso degli ultimi venti anni non
si è riusciti ad operare una trasformazione agraria capace di sostituirsi all’abbandono
e alla distruzione di quanto esisteva nelle campagne. La politica economica si era rivolta
in altre direzioni. Ho potuto così osservare quanto rimaneva ancora in piedi ma senza
vita, del mitico kolchoz: sopravvivenze inermi che qua e là puntellavano il paesaggio dei
campi che si susseguivano senza fine ai lati della strada, come i boschi e le foreste
interminabili. La monotonia dello sguardo veniva ravvivata solo dal pensiero che quei
boschi e foreste, quella brughiera sterminata, avevano ispirato le grandi pagine della
letteratura russa ed erano state il teatro di memorabili guerre e battaglie, di epiche
campagne militari, nei secoli passati.
Vologda ci apparve d’improvviso all’orizzonte come una cattedrale nel deserto.
Dopo tante ore di viaggio e poche soste nei piazzali che circondavano le stazioni di
rifornimento, gli unici dove ci si poteva fermare per un breve spuntino all’aperto, un
tè o un caffè caldi preparati dall’equipe del Consolato e riposti nel bagagliaio delle
nostre automobili, il silenzio della natura che ci aveva accompagnato venne interrotto
da strade e circonvallazioni, dagli edifici e grattacieli moderni della periferia della città
in stile sovietico misto a quello più recente della Russia “capitalistica” postsovietica.
Ritornano ancora a commentare la visione della città, seconda tappa del nostro percorso, le pagine del primo capitolo di Un mondo a parte intitolato: «Vitebsk — Leningrado — Vologda»:
Dopo mezzanotte i movimenti nel corridoio divennero più forti; potevo
udire l’aprirsi e chiudersi delle porte delle celle, e le voci monotone intonanti le
liste dei nomi. Dopo ogni “presente”, cresceva il fiume di corpi umani, bisbigli
soffocati echeggiavano nel corridoio. Infine, la porta della cella 37 si aprì; Šklovskij
e io eravamo chiamati per il trasferimento. Mentre mi inginocchiavo e radunavo in
fretta il mio fagotto cencioso, Artamian mi afferrò ancora una volta la mano, e la
strinse con calore. Non disse una parola e non mi guardò. Uscimmo nel corridoio
e raggiungemmo la folla di corpi madidi di sudore, caldi, assonnati, raggomitolati
timorosi contro i muri, come miserabili avanzi umani.
Šklovskij e io viaggiammo insieme nello stesso scompartimento di un “vagone Stolypin”9. (…) Molto più tardi il treno aveva lasciato la foresta, e le luci grigie dell’alba apparivano sopra le alture coperte di neve. (…) Quando il treno giunse
a Vologda ero il solo a lasciare lo scompartimento. «Addio!» dissi a Šklovskij.
«Addio!» rispose, e ci stringemmo le mani. «E possiate far ritorno alla terra dei nostri padri».
Passai un giorno e una notte nella prigione di Vologda, le cui torrette d’angolo,
9 Vagoni ferroviari con finestre sbarrate per il trasporto dei prigionieri, chiamati così dal ministro
zarista che li introdusse per primo in Russia.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
e il muro rosso, circondati da un ampio cortile, davano l’impressione di un piccolo
castello medievale. Nelle cantine in una cella che non aveva finestre, solo un buco
della grandezza della testa di un uomo nel muro, dormii sulla terra nuda. Giacevano intorno a me contadini delle campagne circostanti, che non sapevano più distinguere il giorno dalla notte, non ricordavano l’epoca dell’anno o il nome del
mese, non avevano idea di perché fossero in prigione, da quanto tempo, e quanto
ci sarebbero rimasti. Distesi sui loro cappotti di pelliccia, completamente vestiti,
con le scarpe, non lavati, parlavano febbrilmente in dormiveglia delle loro famiglie, delle case e del bestiame10.
Nell’albergo di Vologda in stile sovietico riadattato ai tempi capitalisti, in cui la
nostra delegazione polacca era ospitata, ci accolsero il presidente della città, un quarantenne di bell’aspetto, disinvolto e moderno nel vestiario e nel comportamento, con
alcuni assessori del governo cittadino, signore giovani e brillanti, la guida turistica che
parlava perfettamente italiano, la direttrice del complesso antico del Kremlin. Tutti
nello stile si avvicinavano — per intenderci — più a Medvedev che a Putin; con una particolarità che nella apertura, nella spontaneità e cordialità del contatto, derivava probabilmente dall’essere in una provincia dell’impero, lontana dal suo centro politico e
militare. Nella mia stanza ho trovato un bellissimo bouquet di fiori, omaggio del presidente della città, con il suo biglietto da visita: accanto ho riposto, estraendoli dalla
valigia, il mazzo di alloro, legato con un nastro dai colori bianco-rosso-verde dell’Italia, che mio figlio Gustavo aveva raccolto nel nostro giardino il giorno della mia partenza, perché lo deponessi sulla stele in memoria del nonno; e il bouquet di fiori secchi
di vari colori avvolto da una carta rosa, di mia madre. Ancora oggi il piccolo Gustavo mi
rimprovera per il gesto che compii quella sera: dalle foto della cerimonia l’indomani a
Ercevo si è accorto che il suo fascio di alloro era privo del nastro che lo avvolgeva, ed
era circondato dalle tante composizioni floreali ornate coi colori della Polonia. Il
motivo di quel mio gesto forse lo capirà un giorno, e non è questo il luogo per spiegarlo.
Rimane il senso di colpa per quello che avevo fatto nei suoi confronti, acuito dall’amarezza provata in quei giorni della missione polacca e della cerimonia a Ercevo,
per non aver riscontrato nessun segno né testimonianza di partecipazione a quanto
avveniva da parte del paese — l’Italia — in cui siamo nati e nel quale mio padre ha
trascorso oltre cinquant’anni della sua vita11.
10
Ibid., pp. 33-35.
Con l’unica eccezione dell’articolo di TITTI MARRONE, L’omaggio a Jercevo. Herling una lapide nel
gulag, pubblicato su “Il Mattino”, 17 settembre 2009, che riprende la notizia diffusa dall’ANSA di
Varsavia del 16 settembre: Scrittori: da Napoli a ex gulag per ricordare Herling. – «Una lapide per
ricordare lo scrittore polacco vissuto a Napoli per quasi 50 anni, Gustaw Herling-Grudziński, autore del libro autobiografico di racconti dal Gulag Un mondo a parte, è stata scoperta in questi
giorni dalla figlia Marta a Jercevo, nel nord della Russia, dove il padre fu dal 1940 detenuto per
due anni in un gulag. “È stata un’esperienza molto dura, ho visto un mondo davvero diverso”, ha
raccontato all’ANSA Marta Herling di ritorno dal suo viaggio a Jercevo» – come si legge in apertura
del testo di agenzia redatto da Tadeusz Konopka.
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Una lapide di sasso nel gulag...
La sera alla cena al ristorante Pinokio, scelto in onore dell’ospite giunto da Napoli,
la conversazione conviviale fra i componenti della delegazione polacca, ai quali si è aggiunto l’ambasciatore di Polonia a Mosca Jerzy Bahr, arrivato nel pomeriggio a Vologda,
e i rappresentanti della città che ci avevano accolto, ha seguito un evidente protocollo:
ci sono state illustrate le bellezze di Vologda e del suo distretto federale, i monumenti,
la storia, la vita artistica e culturale, e le iniziative intraprese nell’ultimo decennio per
il restauro della parte antica (Kremlin) e in ambito economico e commerciale. Affiorava
(e veniva sottolineato) il volto della nuova Russia che si mostrava moderno e intraprendente, aperto alle innovazioni, capace di competere coi nostri modelli europeioccidentali. I temi politici, e storici, legati alla cerimonia alla quale il giorno dopo
avremmo partecipato, venivano tacitamente rinviati alla sera seguente, dopo il rientro
da Ercevo. Al protocollo, condotto con brillante disinvoltura dai nostri ospiti, ci siamo
adeguati senza forzature, nella cordiale atmosfera della serata.
L’indomani mattina presto, partenza per Ercevo. Nella hall dell’albergo, mentre
facevo colazione, la delegazione polacca mi appariva tesa e agitata, in un andirivieni
verso le macchine pronte all’esterno, fra voci concitate e composizioni floreali che
venivano riposte nel bagagliaio. Compresi poi che non era successo nulla che potesse
turbare il nostro programma, ma era semplicemente l’ansia mista ad emozione che si
manifestava per l’approssimarsi della nostra meta finale, e la preoccupazione che tutto
si svolgesse al meglio e secondo quanto stabilito, dopo oltre un anno e mezzo di preparativi. L’ambasciatore Bahr, vedendomi assorta in pensieri al mio tavolo, mi ha consegnato la copia della lettera scritta dal ministro degli Esteri della Repubblica di Polonia
Radosław Sikorski, per l’inaugurazione della stele in memoria di Gustaw Herling a
Ercevo, che l’ambasciatore avrebbe letto in apertura della cerimonia. Quel testo mi ha
fatto percepire pienamente la solennità e la rilevanza storica e politica, di quanto si
andava compiendo, nel momento in cui mi accingevo a iniziare il mio cammino per
Ercevo. E mi ha accompagnato nel tragitto che ho percorso nella macchina con l’ambasciatore, sostenuta dalla sua colta e premurosa conversazione.
Alla periferia di Vologda la nostra fila di macchine del corpo diplomatico polacco
è stata raggiunta e preceduta da un’auto della milizia russa. Con la luce lampeggiante
sul tetto e il suono della sirena, ci ha guidato lungo tutto il viaggio, all’andata e al
ritorno, per segnalare una presenza “speciale” lungo una strada di duecento chilometri, per metà serrata (nell’ultimo tratto), consentendoci così di procedere a velocità sostenuta obbligando le automobili che incontravamo e ci precedevano a spostarsi
celermente verso destra, per non farci rallentare o costringerci a pericolosi sorpassi. Era
chiaramente anche una tutela per passeggeri autorevoli e macchine “appariscenti” che
si addentravano in territori abbandonati da Dio e dagli uomini. Mi ha colpito che in quel
momento l’ambasciatore ha detto all’autista di «alzare» la bandierina triangolare rossobianca della Polonia sulla destra del cofano. In una giornata soleggiata e tersa nella
quale il cielo, raramente segnato da strisce di nuvole, si distendeva all’orizzonte fino
al limite estremo della pianura leggermente ondulata nel suo disegno, la natura appariva qui con tonalità diverse di silenzio: più integro, intatto, senza palesi segni di trasformazioni. C’era qualcosa di selvatico nell’aria, nella terra e nei colori: che parlava
di assenze più che di presenze e di abbandoni. Eravamo allora davvero entrati in «un
mondo a parte»? Ho avuto la netta sensazione che fosse così. Un mondo del quale si
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
poteva essere stati prigionieri o spettatori inermi, attoniti, o abitanti fuori dal mondo,
dal “nostro mondo”. Il mistero dei luoghi che abbiamo attraversato era difficile da penetrare, rinchiusi e raccolti com’erano in sé stessi, separati e protetti da un’invisibile
cortina di silenzio. Il paesaggio si faceva man mano più collinare, più dolce laddove non
c’erano boschi, per poi ritornare a una distesa di alberi che puntellavano il cielo e lo
oscuravano, lasciando spazio solo alla strada sempre più deserta che li attraversava.
A un certo punto il nostro convoglio si è fermato, in prossimità di un alto pilastro
di cemento che recava su di sé la targa con incisa la scritta: Арханге́льская о́бласть
[Oblast’ di Arkhangel’sk]. Era il confine che segnava l’ingresso nella regione in cui è
situato il villaggio di Ercevo. Ad attenderci ed accoglierci dinanzi al pilastro, il vicegovernatore di Archangel’sk, Elena Vladimirovna Kudriashova, con due suoi collaboratori, per darci il simbolico benvenuto nel suo Oblast’. Dopo uno scambio di saluti e di
strette di mano, siamo rientrati nelle nostre rispettive automobili, per raggiungere
insieme in una fila ora più lunga, la nostra meta.
Oltre al segnale stradale metallico, di un grigio sbiadito dal tempo, sul quale compariva il nome Ercevo in caratteri cirillici (Ерцево), erano le prime casupole in legno,
di colori diversi e coi tetti spioventi, che spuntavano fra gli alberi del bosco e della collina, a indicare l’arrivo al villaggio. E poi, col rallentare delle nostre macchine, le
strette stradine fra le case, il piazzale, i tronchi tagliati e accatastati sui bordi come
materiale da costruzione o legna da ardere, il fumo dai camini, l’odore del legno, le
prime voci sempre più forti e concitate. Finché ci siamo fermati dinanzi a una casa in
legno più grande delle altre, con un patio sporgente sugli scalini, dalla quale ci sono venuti incontro mentre scendevamo dalle auto, un gruppo festoso, a braccia aperte e voci
tonanti, guidato dal borgomastro Gienadij A. Naumenko e da sua moglie e composto
dalla piccola amministrazione comunale di Ercevo. In quella casa, sede del Comune, si
è svolto il primo incontro con i rappresentanti della comunità locale. Fra scatole di
cioccolatini e bicchieri di vodka lanciati in alto per i brindisi di rito, abbiamo ascoltato
l’eloquio irrefrenabile del borgomastro, che non lasciava spazio ad altre parole, e ci avvolgeva tutti con la sua emozione e la sua eccitazione. Nei suoi gesti e nei suoi discorsi
si palesavano la lunga attesa di quel momento, i meticolosi preparativi per la cerimonia ai quali ha partecipato tutta la comunità, la tensione (e l’imbarazzo) fra i sentimenti
festosi di accoglienza per una visita di per sé “eccezionale” nella vita del villaggio, e i
contenuti certo non festosi ai quali quella cerimonia si richiamava. Eravamo in fondo
sulla scena di un autentico teatro russo. Usciti dal Comune siamo stati condotti sulla via
principale per l’inizio delle celebrazioni.
Un gruppo di ragazze vestite con il costume locale, bianco con ricami azzurri, e il
bel volto sorridente ornato da lunghe trecce bionde intorno alla nuca, ci hanno accolto
porgendo su un vassoio una pagnotta di pane del quale ognuno di noi ha preso un pezzo:
nel simbolico rituale russo di accoglienza che gli ospiti condividono. Intorno a loro bambini e bambine, e più avanti, all’inizio del piccolo viale a destra che conduce al luogo
della cerimonia, ci attendevano disposti in semicerchio, uomini e donne, anziani, gruppi
di famiglie, lasciando aperto un varco per il nostro passaggio. Il piccolo viale era ricoperto da un tappeto rosso: a destra un apparecchio con un registratore trasmetteva le
note di Chopin e poi quelle dell’inno nazionale polacco, a sinistra erano raccolti i cineoperatori delle televisioni locali e regionali. In fondo, di fronte a noi, due stele: l’una
poloniaeuropae 2010
199
Una lapide di sasso nel gulag...
in marmo scuro che fu deposta lì nel 1991 e reca incise solo le cifre dell’anno 1937 in
memoria delle vittime dello stalinismo; l’altra, la «lapide di sasso» che ho descritta
all’inizio e che di lì a poco avremmo scoperto, togliendo il nastro rosso-bianco che la
cingeva dall’alto in basso.
I discorsi delle autorità presenti dalle due parti, in polacco e in russo con i rispettivi interpreti, sono stati di intensità e di contenuti alti e profondi. È difficile qui ricordarli tutti, ma mi sia consentito riportare il testo della lettera del ministro degli
Esteri della Repubblica di Polonia Radosław Sikorski, che l’ambasciatore Bahr ha letto
in apertura della cerimonia:
Egregi partecipanti alla cerimonia odierna,
Cari connazionali,
Amici russi,
vorrei esprimere la mia sincera soddisfazione e la mia profonda commozione per l’inaugurazione, in un luogo così lontano dalla Polonia, di una stele in
memoria di un eminente cittadino polacco.
Nel corso della sua vita, Gustaw Herling-Grudziński ha dovuto affrontare
ostacoli e difficoltà, come decine e centinaia di migliaia di polacchi privati della
libertà nella loro stessa Patria. Molti di loro sono rimasti in quella terra russa
intrisa e santificata dal loro sangue, come dal sangue di russi, ucraini, bielorussi,
ebrei, lituani, lettoni, estoni, tedeschi e altri abitanti delle repubbliche sovietiche.
Molte delle persone con cui Gustaw Herling-Grudziński ha condiviso un misero
pezzo di pane nel gulag non sono sopravvissute sino al crollo dei due regimi totalitari che hanno causato innumerevoli sacrifici e sofferenze ai popoli d’Europa.
Era un Mondo a parte, come scrisse profeticamente Fëdor Dostoevskij, «un mondo
a parte che non somiglia a nessun altro, con le sue leggi speciali, i suoi usi, i suoi
costumi, le sue abitudini». Questo Mondo a parte non era popolato, però, solo da
“uomini sovietici”, come avrebbero voluto i “condottieri del popolo”; vi era posto
anche per i sentimenti e le speranze umane che hanno dato ai nostri connazionali
la forza per sopravvivere a testa alta all’abbrutimento e al crudele trattamento
inflitto loro dai carnefici.
Il destino ha voluto che Gustaw Herling-Grudziński sfuggisse a quel Mondo
a parte che poi ha descritto nel suo libro. Il destino ha voluto anche che tornasse
“con lo scudo” dal sentiero di guerra che aveva percorso nelle fila dell’esercito del
generale Anders, e con la croce Virtuti Militari ricevuta per la sua partecipazione
alla battaglia di Montecassino. Dopo l’intenso lavoro in favore di una Polonia libera,
che Gustaw Herling-Grudziński aveva svolto lontano dalla sua patria come pubblicista del settimanale londinese “Wiadomości”, come redattore del mensile “Kultura”
e successivamente come collaboratore di Radio Free Europe a Monaco, il destino
ha fatto in modo che prima di morire potesse vedere la sua Patria libera in un’Europa libera. Gustaw Herling-Grudziński è vissuto sino al crollo di quel Mondo a
parte.
Egregi Signori,
200
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
vorrei cogliere l’occasione per ringraziare tutti coloro i quali hanno partecipato ai lavori che hanno portato all’inaugurazione di questa stele in memoria,
i diplomatici polacchi e i funzionari del Consolato generale e dell’Istituto polacco
di San Pietroburgo, i rappresentanti del ministero della Cultura e del Patrimonio
nazionale della Repubblica di Polonia e in particolare i rappresentanti del comune
di Ercevo e dell’oblast’ di Archangel’sk, che si sono dimostrati comprensivi e ben
disposti all’idea di commemorare un eminente figlio della nazione polacca.
Sono convinto che questa stele di pietra renda omaggio alla memoria di
tutti i polacchi sepolti nel cimitero di Ercevo e in altri cimiteri sparsi per le sconfinate distese della Russia e che oggi riposano in pace accanto a cittadini russi e
di altre nazionalità, martiri della nostra terribile storia comune.
Spero che il ricordo dei celebri figli delle nostre grandi nazioni rimanga in
eterno nei nostri cuori e che le loro azioni indichino la strada alle generazioni
future di polacchi e russi.
Radosław Sikorski
13 settembre 200912
Allo “scoprimento” della stele di pietra hanno fatto seguito: la benedizione officiata in polacco e in russo da padre Jozef Roman, parroco della parrocchia dell’Ascensione della Santissima Vergine Maria di Vologda; la deposizione delle corone e dei mazzi
di fiori, aperta secondo il protocollo da me, seguita dalle autorità e dai membri delle
due delegazioni, in nome delle quali l’ambasciatore Bahr e il vicegovernatore Kudriashova hanno poi deposto fiori sul memoriale delle vittime delle repressioni staliniane,
lì accanto. Nel raccoglimento e nel silenzio di noi tutti dinanzi ai due monumenti, la
cerimonia si è chiusa e mentre ci allontanavamo, sono risuonate ancora le note melodiose di Chopin. Assistita dal mio fedele interprete russo dell’università di San Pietroburgo, ho potuto conversare con le persone presenti alla cerimonia, percepirne la
commozione e il turbamento, il desiderio soprattutto da parte dei più anziani di testimoniarmi quanto sapevano — anche per i racconti trasmessi dai loro padri — su Ercevo
e il campo di prigionia negli anni in cui mio padre vi fu recluso. Dalle loro parole un
senso di liberazione spezzava il silenzio in cui quella memoria per anni era stata avvolta
e rimossa. I giornalisti e operatori delle televisioni locali, mi hanno voluto intervistare
chiedendomi di parlare di mio padre e di cosa significasse per me essere lì a Ercevo
quel giorno. Ho raccontato la sua storia e ho ripercorso il cammino che lo ha condotto,
giovane e promettente studente dell’università di Varsavia, dalla Polonia in guerra alla
resistenza antinazista, ai territori occupati dai sovietici, e «sul finire dell’estate del
1940» alle prigioni di «Vitebsk — Leningrado — Vologda» e al lager di Ercevo. E le tappe
successive alla liberazione dal campo nel gennaio 1942, quando al culmine di uno sciopero della fame poté “beneficiare” dell’accordo Sikorski-Maiskij13: il suo pellegrinaggio
12 Il testo viene riportato nella traduzione di Alessandro Amenta. Colgo l’occasione per ringraziare
il ministro Sikorski per la sua lettera e le sue parole.
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Una lapide di sasso nel gulag...
di ex-prigioniero attraverso l’Unione Sovietica e poi di soldato nelle fila dell’esercito di
Anders in Medio Oriente e nella campagna d’Italia fino alla battaglia di Montecassino.
La visita alla scuola, un piccolo edificio di legno nel quale ci attendevano i bambini e i ragazzi in divisa con la direttrice e le insegnanti, mi ha profondamente colpito:
sulle pareti le fotografie incorniciate, di angoli, case e paesaggi di Ercevo e dei suoi dintorni al chiarore dell’estate e degli inverni innevati o nell’ombra lunare della notte
(una di queste fotografie, che ho potuto scegliere per gentile omaggio del loro autore,
è ora nel mio studio); e poi gli scaffali con le ante di vetro della biblioteca scolastica.
Da lì era stata estratta e poggiata sul tavolo — accanto a esemplari delle opere di Dostoevskij (Memorie da una casa di morti), Čechov, Mandel’štam, Solženicyn, Šalamov —
l’edizione moscovita del 1990 di Un mondo a parte. La copia era consumata dalla lettura e recava nella scheda al suo interno un lungo elenco di nomi con le date di coloro
che l’avevano avuta in prestito. Ora sulla pagina iniziale compare la dedica che mi è
stato chiesto di apporre: «In ricordo della mia visita a Ercevo, 13 settembre 2009».
Il pranzo offerto e imbandito in un caffè — unico punto di ristoro locale, riscaldato
da una bella stufa a legna — è stato festoso: brindisi, discorsi e scambi di doni. Nell’ultimo brindisi il borgomastro Naumenko (che nel suo passato, fra vari lavori aveva
svolto negli anni Sessanta quello di impiegato-guardiano presso la prigione), in un crescendo di eloquio e di euforia, segnati anche dalla rilassatezza che subentra alla fine
di una giornata faticosa e ben riuscita, si è rivolto a me con il volto incorniciato da una
fragorosa risata, invitandomi a tornare a Ercevo e a considerarlo come un luogo che
può offrire una vacanza di svago per fare passeggiate e soprattutto cercare funghi nei
boschi... Più volte coi miei compagni di viaggio sulla via del ritorno fino a Varsavia,
abbiamo commentato con ironia mista a sconcerto, quella proposta. Ed io in una scena
da teatro dell’assurdo, rispondendo all’invito senza una parola ma con un sorriso di
cortesia, mi sono trovata a riflettere su cosa avrebbe detto mio padre, che fra i suoi
hobby preferiti aveva quello del “cercatore di funghi”…
Nella cordialità e nel frastuono dei saluti, ci siamo incamminati verso le macchine.
Non ci è stato concesso, lasciando Ercevo, di percorrere la strada che passa dinanzi alla
prigione. Nessun rimpianto ho provato per l’unica cosa che ci è stata negata in quella
giornata, e che mi è stata restituita nella memoria dal brano che conclude il primo capitolo di Un mondo a parte:
La notte seguente, viaggiai con un altro convoglio e giunsi all’alba alla sta-
13
Cfr. il cap. XIII di Un mondo a parte, cit., pp. 212-232, intitolato: Martirio per la fede, che si
apre così: «Verso la fine del novembre 1941, quattro mesi dopo l’annunzio dell’amnistia generale
per i prigionieri polacchi nei campi di lavoro russi, convinto che non sarei sopravvissuto fino alla
primavera, e persa ogni speranza di essere liberato decisi di intraprendere come protesta lo sciopero della fame». «Un uomo sepolto vivo che all’improvviso si risveglia nell’oscurità, non ragiona,
ma spinge il suo corpo e batte le dita sanguinanti contro il coperchio della bara, con la forza
estrema della sua disperazione». E si conclude: «Dovevo essere un triste spettacolo, accovacciato
su una tavola gelata, con la mia camicia svolazzante al vento, guardando fuori alla tempesta di
neve che soffiava sulla pianura, con gli occhi pieni di lacrime, di dolore, ma anche di orgoglio».
202
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
zione di Ercevo, presso Archangel’sk, dove ci attendeva una scorta. Scendemmo dai
vagoni sulla neve scricchiolante, tra gli ululati dei cani poliziotto, e i gridi delle
guardie. Il cielo era pallido di gelo, e le ultime stelle tremolavano ancora. Mi parve
che stessero per spegnersi ad ogni istante: allora la notte nera e spessa sarebbe
emersa dalla foresta silenziosa e avrebbe inghiottito il cielo luccicante e la pallida
alba che si annunziava fra le fiamme dei fuochi. Ma alla prima svolta della strada
potetti scorgere all’orizzonte il profilo delle quattro vedette, poste alte su sostegni di legno, e circondate da filo spinato. Brillavano luci nelle finestre delle
baracche, e si poteva udire il suono delle catene del pozzo scorrere sugli argani
gelati14.
14
Un mondo a parte, cit. p. 35.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
1943-1947. Il secondo Corpo d’armata polacco in Italia
di Giuseppe Campana
L’articolo è ripreso da “Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona”, n. 1,
luglio 2009.
Si ringraziano l’autore e l’editore per la gentile concessione.
poloniaeuropae 2010
Giuseppe Campana
Giuseppe Campana
1943-1947 IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA
1943-1947
IL II CORPO D’ARMATA POLACCO
IN ITALIA
18 luglio 1944: liberazione di Ancona
REGIONE MARCHE
MUSEO
DELLA LIBERAZIONE
DI ANCONA
Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1
1943-1947
Il II Corpo d’Armata polacco in Italia
Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1
Regione Marche
Museo della Liberazione
di Ancona
Istituto regionale
per la storia del
movimento di liberazione
nelle Marche
1943-1947
IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA
A cura di
Giuseppe Campana
Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1
1943-1947
Il II Corpo d’Armata polacco in Italia
Prima edizione: luglio 2009
A cura di
Giuseppe Campana
Ha collaborato
Mario Fratesi
Stampa
Errebi Grafiche Ripesi - Falconara M.ma (An)
Collana editoriale: Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1
© Copyright 2009
SOMMARIO
5
6
Presentazione
Prefazione
9
1943-1947. IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA
44
Riferimenti Bibliografici
49
MUSEO DELLA LIBERAZIONE DI ANCONA
51
LUGLIO 1944: LA BATTAGLIA DI ANCONA
In copertina: il 18 luglio 1944 uno squadrone del Reggimento “Lancieri dei Carpazi”, la principale unità esplorante del II Corpo
d’Armata polacco, entra ad Ancona. In primo piano: a sinistra, veicolo da ricognizione White M3A1 e, a destra, Jeep. In secondo
piano: autoblindo Staghound I con cannone da 37 mm. (The Polish Institute and Sikorski Museum, Londra)
In IV di copertina: il 6 ottobre 1945 la Giunta municipale di Bologna, su proposta del sindaco Giuseppe Dozza, conferisce la cittadinanza onoraria al gen. Anders, quale comandante delle “valorose truppe polacche che prime entrarono in Bologna, liberando la città,
il 21 aprile 1945”.
PRESENTAZIONE
La costituzione a Offagna (An) del Museo della
Liberazione di Ancona ha concluso la gestione di
un progetto denominato Le Marche in guerra,
avviato nel 2004 dalla Regione Marche e
dall’Istituto regionale per la storia del movimento
di liberazione nelle Marche, in collaborazione con
enti ed istituti storici nazionali ed internazionali.
Il progetto, coordinato dal punto di vista scientifico dal dott. Giuseppe Campana, ha consentito
la realizzazione di un’imponente attività di ricerca
e di raccolta di documenti, la creazione di un’importante mostra esposta in varie sedi italiane (10
sedi marchigiane oltre a Roma e Venezia) ed in 6
sedi estere (Varsavia, Czȩstochowa, Cracovia,
Londra, Chicago, Adelaide) ed in altre sedi
dell’America Latina (Argentina), dove verrà realizzata a partire dal prossimo autunno.
Hanno accompagnato la mostra la realizzazione
di un bel catalogo e la realizzazione di due pubblicazioni curate dal dott. Campana e dal dirigente del Servizio Cultura della Regione Marche
dott. Raimondo Orsetti.
L’imponente quantità del materiale recuperato,
una volta ordinato, sarà conservato presso il Museo
di Offagna. Il Museo si arricchisce così di un vero e
proprio Centro di Documentazione che sarà gestito
in stretta collaborazione con l’Istituto regionale per
la storia del movimento di liberazione nelle Marche
e con il prezioso contributo di studiosi locali.
La presente pubblicazione, curata con la solita
perizia e competenza dal dott. Giuseppe
Campana, diviene un utile strumento di conoscenza, non solo per quanti visiteranno l’interessante Museo di Offagna, ma anche per quanti
vogliono conoscere più da vicino le vicende della
nostra terra in relazione ai tragici avvenimenti del
secondo conflitto mondiale.
La Regione Marche è orgogliosa di aver promosso e realizzato un progetto così rilevante che, specie
in riferimento alle vicende del II Corpo d’Armata
polacco, ha consentito di scrivere con maggior puntualità la verità storica che vide, proprio qui nelle
Marche, i giovani soldati della Polonia combattere
fianco a fianco ai nostri soldati ed alle divisioni partigiane per riconquistare la libertà perduta.
Gian Mario Spacca
Presidente della Regione Marche
5
PREFAZIONE
La Regione Marche e l’Istituto regionale per la
storia del movimento di liberazione con il raggiungimento dell’importante obiettivo della
entrata in funzione del Museo della Liberazione
di Ancona ubicato ad Offagna - la cui
Amministrazione Comunale ha fornito una fondamentale collaborazione - hanno inteso portare un importante contributo alla conoscenza ed
alla documentazione dei tragici fatti che hanno
portato, nel luglio 1944, alla liberazione di
Ancona.
La realizzazione del Museo, la cui conduzione scientifica è stata affidata all’Istituto regionale
per la storia del movimento di liberazione, non
esaurisce però il nostro compito; il proposito è
quello di portare avanti una attività di ricerca storica e di documentazione finalizzata ad approfondire tutti gli aspetti relativi agli avvenimenti che
interessarono le Marche, e l’intera penisola,
durante il secondo conflitto mondiale e nel periodo immediatamente successivo.
Riteniamo che dare vita alla pubblicazione
di una collana - che abbiamo titolato “Quaderni
del Museo della Liberazione di Ancona”, di cui
“1943-1947. Il II Corpo d’Armata polacco in
Italia” è il primo volume - sia il naturale corol6
lario di questa attività. Con questo agile strumento divulgativo intendiamo infatti ampliare
ed approfondire l’informazione sulle diverse
tematiche che sono oggetto del Museo della
Liberazione di Ancona.
Abbiamo anche cercato di individuare gli argomenti che saranno oggetto di approfondimento e
divulgazione nei prossimi numeri dei “Quaderni”.
Ne elenchiamo alcuni: l’apporto della Resistenza
alla liberazione di Ancona e delle Marche, i rapporti tra il Comitato di liberazione regionale ed il
Governo militare alleato, le scuole del II Corpo
polacco ubicate nella nostra Regione, i matrimoni tra ex soldati polacchi e ragazze italiane, lo sfollamento da Ancona in conseguenza dei pesanti
bombardamenti sulla città. Interessante sarebbe
anche arrivare alla redazione di una “ Guida della
battaglia di Ancona” la quale, nell’indicare i luoghi dei combattimenti, sappia collegarli ad informazione di carattere turistico e culturale riferite
all’oggi.
In questo primo volume Giuseppe Campana ricercatore presso l’Istituto ed autore di precedenti libri sul II Corpo polacco di assoluto rilievo
ed originalità - riassume le vicende degli oltre 100
mila soldati che, dal novembre 1943 all’aprile ‘45,
combatterono accanto alle truppe alleate per liberare la nostra penisola dall’occupazione nazista,
per poi - a causa della situazione che si era creata
in patria - soggiornare in Italia fino ai primi mesi
del 1947.
Si tratta, a nostro avviso, di un ulteriore ed
importante apporto alla conoscenza di una storia
che, fino a pochi anni fa, era stata dimenticata o
parzialmente distorta.
Mario Fratesi
Vicepresidente dell’Istituto regionale
per la storia del movimento
di liberazione nelle Marche
7
Il II Corpo d’Armata polacco affronta le principali battaglie a Montecassino, Ancona, Bologna. I soldati polacchi
combattono in Italia anche per la Polonia, all’insegna del
motto: “per la nostra e vostra libertà”.
(Da: “Szkice do Działan 2 Korpusu we Włoszech” - Cartine
delle operazioni del II Corpo in Italia, pubblicate a Londra
nel 1956 dalla Sekcja Historyczna 2 Korpusu).
8
1943-1947
Il II Corpo d’Armata polacco in Italia
di Giuseppe Campana
I precedenti. Il II Corpo d’Armata polacco nasce
ufficialmente in Iraq nel luglio del 1943, ma la sua
storia comincia molti anni prima. L’unità è infatti
soprattutto composta di cittadini polacchi che erano
stati deportati e rinchiusi nei campi di lavoro forzato e nelle prigioni dell’Unione Sovietica e che, prima
di arrivare in Medio Oriente, avevano subito tutta
una serie di vicissitudini.
Il 23 agosto 1939 era stato firmato a Mosca, da
Germania nazista e Unione Sovietica, il “Patto di
non aggressione tedesco-sovietico”, che prevedeva
nell’Europa orientale due distinte sfere territoriali di
influenza, nelle quali i due Paesi avrebbero potuto
operare senza il timore di interferenze reciproche.
Neutralizzato in tal modo un eventuale intervento
sovietico contro la Germania, la politica aggressiva
di Hitler continua con l’invasione della Polonia, che
avviene il primo settembre 1939. Segue, il 3 settembre, la dichiarazione di guerra alla Germania da
parte di Gran Bretagna e Francia: l’Europa e poi
tutto il mondo verranno a mano a mano coinvolti in
un sanguinoso conflitto.
Pur combattendo con valore e determinazione, le
truppe polacche vengono sopraffatte dalle superiori
forze tedesche e si ritirano in parte nelle zone a sud
del Paese. Ma quando, il 17 settembre, le armate
dell’Unione Sovietica invadono la Polonia da oriente, il colpo alle spalle si rivela fatale e impedisce a
molti soldati di rifugiarsi in Romania e Ungheria.
Già ai primi di ottobre cessano quasi del tutto i
combattimenti.
La Campagna del 1939 ha dato origine a miti ed
errate valutazioni - frutto di una iniziale acritica
accettazione della propaganda bellica e poi tramandatisi da autore ad autore - che gli storici stanno ora
rivedendo. Non corrisponde a verità, ad esempio, la
versione lungamente accettata delle “invincibili
masse corazzate tedesche” che travolgono le forze
polacche schierate in modo errato.
Nel 1939 la “Blitzkrieg” (guerra lampo), cioè l’impiego dei mezzi corazzati tedeschi in formazioni
autonome che penetrano con rapidità nelle forze
nemiche disarticolandole, non è ancora ben collaudata. In particolare, non è pienamente efficiente la
cooperazione tra carri armati ed aerei. Nella realtà, i
tedeschi subiscono perdite elevatissime da parte
della Cavalleria polacca armata di cannoni controcarro. E, a questo proposito, risulta del tutto inven9
tato, pare da corrispondenti di guerra italiani, l’episodio della Cavalleria polacca che avrebbe suonato la
carica contro i carri armati tedeschi. Il racconto
viene subito sfruttato dalla propaganda tedesca per
dimostrare l’irresponsabilità degli ufficiali polacchi,
falsamente accusati di avere impartito l’ordine di
fermare i carri armati con le sciabole. È invece vero
che la Cavalleria polacca, come tutte le cavallerie
dopo la Prima guerra mondiale, si sposta a cavallo
ma combatte a piedi e, con le sue rapide puntate,
mette spesso in difficoltà i tedeschi (Sull’invasione
della Polonia si veda lo studio di Vuerich; nota: nel presente testo i riferimenti bibliografici sono indicati in
forma abbreviata; per il riferimento in forma estesa si
consulti la bibliografia finale).
Per quanto poi riguarda l’Aviazione polacca, non è
esatto che essa sia stata distrutta a terra dalla
Luftwaffe, l’aeronautica militare tedesca, nei primi
giorni di guerra. Gli aerei erano stati dispersi in
diverse piste segrete e, anzi, i piloti polacchi riescono
a infliggere gravi perdite agli aerei tedeschi e ad attaccare anche le truppe. L’Esercito polacco, infine, viene
schierato ai confini con la Germania per tentare di
difendere quella parte di territorio nazionale in cui
sono concentrate industrie, risorse agricole, centri
logistici e depositi militari. L’obiettivo è quello di
reggere all’invasione tedesca fino all’avvio delle previste e promesse azioni offensive della Francia contro la
Germania, la cui frontiera occidentale è debolmente
difesa, e fino al completamento della mobilitazione
polacca, avviata in ritardo proprio a causa delle pressioni di Francia e Gran Bretagna, che non volevano
far precipitare la situazione con la Germania pur
avendo assunto in precedenza il formale impegno di
10
salvaguardare l’indipendenza della Polonia.
I Comandi polacchi, tuttavia, pur avendo schierato le truppe al confine avevano preso in considerazione una ritirata sulla linea dei fiumi Vistola e San,
che però diventa impossibile a causa dell’avanzata
tedesca. Viene allora deciso di concentrare le truppe
nella zona sud del Paese e lì continuare la lotta, mentre Varsavia sta impegnando notevoli forze nemiche.
Ma l’attacco sovietico, unito al mancato rispetto
degli impegni da parte di Francia e Gran Bretagna,
pone fine al progetto. Con notevole prontezza, allora, i Comandi ordinano alle formazioni superstiti di
passare in Romania - dove lo stesso Governo polacco chiede asilo - per potere poi trasferirsi in Francia
e tentare la ricostituzione dell’Esercito. E il Governo
fascista italiano, alleato dei tedeschi se pure non
ancora in guerra, mostrerà una notevole tolleranza
verso i militari polacchi di passaggio in Italia e provenienti da Romania o Ungheria. Va ricordato che
fra Polonia e Italia non verrà decretato lo stato di
belligeranza né verrà presentata alcuna dichiarazione
di guerra nel corso degli anni 1940-44.
In Polonia, l’occupazione di tedeschi e sovietici provoca conseguenze drammatiche. Il Paese, ricostituitosi solo nel 1918 dopo secoli di lotte per la libertà contro russi, tedeschi e austriaci, è costretto a subire una
ulteriore spartizione, la quarta della sua storia. I tedeschi annettono direttamente al Reich le province
occidentali, mentre nel rimanente territorio polacco,
che comprende le città di Varsavia, Cracovia e
Lublino, viene imposto un “Governatorato Generale”
sotto controllo tedesco. I polacchi subiscono le brutali conseguenze dell’ideologia nazista. Gli ebrei sono
in parte uccisi e il resto rinchiuso nei ghetti: quasi
l’intera comunità ebraica polacca – due milioni di
persone – verrà soppressa nei campi di sterminio nazisti. La classe dirigente polacca viene fisicamente eliminata, due milioni di cittadini sono deportati nel
Reich, decine di migliaia di uomini di Slesia,
Pomerania e della regione di Poznań sono costretti ad
arruolarsi nella Wehrmacht, le forze armate tedesche,
mentre con la chiusura di scuole, università, musei si
tenta di cancellare l’intera cultura polacca.
I territori orientali della Polonia, compresa la città
di Lwów, sono occupati dall’Unione Sovietica, che
procede ad elezioni farsa e all’inserimento di cittadini sovietici nel sistema amministrativo. La Polonia
orientale viene di fatto incorporata e trattata come
parte integrante dell’Unione Sovietica, che considera
i residenti come propri cittadini. Nel periodo 1939
– 1941 più di 400 mila persone vengono rinchiuse
dai sovietici nelle prigioni, nei campi di lavoro forzato o uccise. Le deportazioni avvengono in quattro
ondate successive e coinvolgono contadini, famiglie
dei soldati polacchi catturati dall’Armata Rossa nel
1939, magistrati, insegnanti, politici, uomini d’affari, funzionari statali. Al tempo stesso l’Unione
Sovietica incoraggia le aspirazioni di ucraini e bielorussi, introducendo le loro lingue, accanto a quella
russa, nelle università ed eliminando tutto ciò che
rappresenta la cultura polacca.
Il Governo polacco si ricostituisce il 30 settembre
1939 in Francia, con sede ad Angers, dove il gen.
Władysław Sikorski, eminente personalità politica
della Polonia, forma un gabinetto di unità nazionale, subito riconosciuto da Francia, Gran Bretagna e
Stati Uniti. Sikorski, Primo ministro e ministro
della Guerra, si dedica alla riorganizzazione delle
Forze Armate polacche, convinto che con un forte
potere militare alle spalle possa meglio difendere gli
interessi nazionali della Polonia.
Con i militari polacchi rifugiatisi in Ungheria e
Romania e fuggiti dall’internamento e con i polacchi presenti in Francia viene decisa la formazione di
diverse unità che, alla fine, inquadreranno circa 80
mila soldati. Quando la Francia viene invasa dalla
Germania, nel maggio del 1940, il Governo polacco
si trasferisce, con circa 20 mila soldati, a Londra,
dove con il Primo ministro britannico Winston
Churchill si raggiungono accordi che portano al
potenziamento dell’Aeronautica e della Marina
polacche e alla formazione del I Corpo d’Armata
polacco, i cui reparti daranno un valido contributo
allo sforzo bellico alleato in Normandia (Francia),
Belgio, Olanda, Germania del nord.
L’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, cominciata il 22 giugno 1941, provoca in Europa un cambiamento della situazione politica e militare. I
sovietici si trovano in gravi difficoltà e ottengono
l’appoggio di Gran Bretagna e Stati Uniti: questi
ultimi entreranno in guerra nel dicembre del 1941,
ma hanno già avviato il meccanismo della legge
degli “affitti e prestiti” a favore delle nazioni amiche.
L’Esercito polacco in Unione Sovietica. Il nuovo
contesto influisce anche sui rapporti tra polacchi e
sovietici: il 30 luglio 1941 il Governo polacco in esilio e una delegazione sovietica raggiungono a Londra
un primo accordo, sostenuto dal Governo britannico,
a cui segue il 14 agosto un patto militare. Secondo
tali accordi, dopo la concessione di una amnistia a
favore dei polacchi trattenuti nelle prigioni e nei
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campi di lavoro forzato sovietici, con gli ex prigionieri verrà formato un Esercito polacco in Unione
Sovietica, destinato a partecipare alla comune lotta
contro la Germania nazista. Al comando dell’Esercito
il Governo polacco designa il ten. gen. Władysław
Anders (1892-1970), distintosi nelle lotte per l’indipendenza della Polonia e nella Campagna del 1939,
che i sovietici hanno fatto prigioniero e rinchiuso nel
carcere della Lubianka, a Mosca.
L’Esercito, che dipende dal Governo polacco in esilio ma è controllato dal punto di vista operativo dai
sovietici, si costituisce nella regione dell’OremburgVolga, con Quartier Generale a Buzuluk. Dalle carceri e dai campi di lavoro forzato sovietici arrivano molti
polacchi in pessime condizioni fisiche, malati, denutriti, pressoché privi di vestiario e, con essi, bambini e
donne, con parte delle quali il gen. Anders organizza
un “Servizio Ausiliario Femminile”.
Nonostante le assicurazioni sovietiche che i prigionieri polacchi sono solo 21 mila, a metà ottobre
del 1941 gli uomini arruolati sono oltre 25 mila e
continuano ad affluire in massa, anche se i comandanti dei campi di lavoro contrastano la liberazione
di chi è in condizioni fisiche accettabili. Inoltre, a
causa della critica situazione al fronte, i sovietici possono fornire armi ed equipaggiamenti per una sola
divisione e razioni per 30 mila persone, quando i
polacchi raggiungono ormai il numero di 40 mila.
Nel dicembre del 1941 un accordo tra Stalin,
segretario generale del Partito comunista sovietico, e
Sikorski prevede un Esercito polacco di 96 mila
uomini, con due divisioni di 11 mila uomini ognuna organizzate secondo gli schemi sovietici e quattro
strutturate secondo il sistema britannico. Circa 25
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mila uomini, inclusi tutti gli aviatori e i marinai,
sarebbero stati poi evacuati in Gran Bretagna e in
Medio Oriente. A Stalin vengono inoltre fatte presenti le difficoltà dovute alla carenza di viveri, alla
inadeguatezza dell’armamento, alle condizioni dei
soldati – la maggior parte dei quali sono accampati
in tende e devono sopportare temperature bassissime – e alle conseguenti ripercussioni sull’addestramento. Nel gennaio e febbraio del 1942 i polacchi
vengono traferiti nelle repubbliche asiatiche
dell’Unione Sovietica: Kazakistan, Kirghizistan,
Uzbekistan, con il Quartier Generale sistemato a
Jangi-Jul, tra Samarcanda e Taškent, e il centro di
evacuazione a Krasnovodsk, sul mar Caspio.
Alla richiesta sovietica del febbraio 1942 di inviare una divisione al fronte, Anders oppone un rifiuto, sia perché intende impiegare l’Esercito come
forza unitaria sia perché è convinto che armamento
e addestramento sono ancora insufficienti. In particolare, Anders lamenta l’assenza di quadri, tanto che
un certo numero di ufficiali viene fatto venire dalla
Gran Bretagna, e pone il problema del mancato arrivo nell’Esercito di numerosi ufficiali polacchi prigionieri dei russi, chiedendone notizia e cominciando a nutrire forti sospetti sulla loro sorte.
I russi, agli inizi di marzo del 1942, quando i
polacchi dell’Esercito sono oltre 70 mila, riducono
per ritorsione il numero delle razioni a 26 mila.
Segue subito un incontro tra Stalin e Anders che
porta a un cambiamento dell’accordo del dicembre
1941: l’Unione Sovietica è in grado di fornire ai
polacchi un massimo di 44 mila razioni e l’Esercito
dovrà essere strutturato su tre divisioni; tutti i soldati in soprannumero saranno evacuati in Persia, occu-
pata fin dall’agosto del 1941 da Gran Bretagna e
Unione Sovietica. L’operazione comincia già il 24
marzo e dura fino al 4 aprile del 1942: 33069 soldati e 10789 civili, tra cui tremila bambini, vengono trasferiti per ferrovia a Krasnovodsk e poi in battello a Pahlevi in Persia.
All’esodo, oltre alla critica situazione in Unione
Sovietica provocata dalla pressione tedesca, ha contribuito anche Winston Churchill: preoccupato per
la sicurezza dei campi petroliferi in Persia e Iraq, che
le scarse unità britanniche non sono in grado di proteggere, aveva insistito con i sovietici per il trasferimento dei polacchi. Nell’aprile del 1942 Anders si
reca a Londra dove incontra sia Sikorski, che è favorevole all’impiego in Unione Sovietica delle truppe
polacche, sia Churchill: a entrambi esprime l’opinione che l’intero Esercito polacco debba essere trasferito dall’Unione Sovietica in Persia. Il generale è
preoccupato per le deficienze in razioni e nell’armamento e per le malattie che hanno colpito i suoi
uomini, ma anche per l’atteggiamento sovietico, che
impedisce l’arruolamento dei polacchi di origine
ucraina e bielorussa. L’Unione Sovietica sostiene che
si tratta di cittadini sovietici, rivendicando così i territori della Polonia già annessi nel 1939 e ora occupati dai tedeschi. Ritornato in Unione Sovietica,
Anders insiste presso le autorità per ottenere il consenso al trasferimento in Persia anche delle restanti
unità. La richiesta viene infine accettata nel luglio
del 1942 – anche perché Stalin, attraverso gli informatori infiltrati tra i polacchi, sa che l’Esercito di
Anders non può essere controllato dai sovietici – e
dal 5 al 25 agosto si compie il secondo esodo. I
polacchi che lasciano l’Unione Sovietica in marzo e
in agosto, e in minor quantità in novembre, raggiungono così in totale, tra civili e militari, la cifra
di circa 115 mila, con i soldati che si aggirano sulle
70 mila unità. Le truppe si insediano a Pahlevi e a
Teheran e, dopo una serie di incontri con le autorità
britanniche, vengono messe a punto le modalità per
riorganizzare un Esercito polacco. La situazione di
partenza è molto precaria, a causa delle condizioni
fisiche degli ex internati nel gulag sovietico: in
poche settimane muoiono mille persone, mentre
molti soldati sono affetti da febbri malariche.
L’Esercito polacco in Oriente. Circa 3500 soldati sono inviati in Gran Bretagna per rinforzare gli
squadroni dell’Aeronautica polacca. Con i restanti
uomini è costituito l’Esercito polacco in Oriente
(APW) che comprende reparti polacchi già presenti
in zona, l’ospedale polacco e la Brigata indipendente “Fucilieri dei Carpazi” del gen. Stanisław
Kopański, anch’essa con una lunga storia alle spalle.
Nata in Siria nel maggio del 1940 e sostenuta dai
francesi, era formata da soldati polacchi fuggiti
attraverso i Balcani dopo il settembre del 1939. In
seguito alla caduta della Francia, si era spostata in
Palestina e poi a Tobruk e aveva preso parte con i
suoi 5800 uomini, a fianco dell’Esercito inglese, ai
combattimenti in Africa del Nord.
L’Esercito polacco in Oriente, organizzato secondo gli ordinamenti inglesi e comandato dal gen.
Anders, entra a far parte della Pai Force (Persia and
Iraq Command): si tratta di truppe britanniche e
indiane che hanno il compito, oltre che di sorvegliare i campi petroliferi, di costruire basi e di organizzare il flusso verso l’Unione Sovietica dei riforni13
menti del programma “affitti e prestiti”. I polacchi
difendono i campi petroliferi e si addestrano fino a
che, nel marzo del 1943, sono inviati nel nord
dell’Iraq, nella zona di Kirkuk, dove vengono istruiti sulle tecniche della guerra in montagna e delle
operazioni di sbarco.
In questo periodo arriva ad Anders la drammatica
conferma dei suoi sospetti. Nella foresta di Katyń,
vicino a Smolensk, i tedeschi scoprono – nell’aprile
del 1943 – delle fosse comuni con 4400 corpi. Si
tratta di ufficiali polacchi fatti prigionieri dai russi
nel 1939 e massacrati l’anno successivo – come ha
riconosciuto nel 1990, dopo decenni di disinformazione e di mistificazioni, la stessa Unione Sovietica –
dai reparti speciali del Nkvd (Commissariato del
popolo per gli affari interni, in realtà polizia politica), su ordine del Politburo sovietico. In totale sono
22 mila i prigionieri polacchi uccisi dai sovietici nell’aprile del 1940 con lo scopo di eliminare quei cittadini che in futuro avrebbero potuto guidare una
lotta per la rinascita della Polonia. I tragici aspetti
umani di questa criminale “pulizia di classe” si ripercuotono anche sul piano diplomatico: quando il
Governo polacco propone alla Croce Rossa internazionale di istituire una commissione internazionale
di inchiesta, i sovietici rompono le relazioni diplomatiche con i polacchi. Già dopo la partenza di
Anders, i rapporti si erano deteriorati: era stata
impedita l’ulteriore formazione di truppe polacche
ed erano stati arrestati gli addetti al reclutamento.
Le intenzioni sovietiche si rivelano in modo chiaro
quando Stalin acconsente, nel maggio del 1943, alla
formazione in Unione Sovietica di un Esercito
polacco comandato dal gen. Zygmunt Berling, ex
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collaboratore di Anders. Il nuovo Esercito è del
tutto subordinato alle autorità sovietiche, anche se
formalmente dipende dalla Unione dei patrioti
polacchi, un gruppo procomunista di “polacchi di
Mosca” che, in contrapposizione con i “polacchi di
Londra”, sono favorevoli alla cessione all’Unione
Sovietica delle province orientali della Polonia.
Stalin può così disporre di unità polacche senza
alcun legame con il Governo in esilio e sotto stretto
controllo sovietico, che daranno comunque anch’esse un valido contributo alla lotta contro il nazismo.
La nascita del II Corpo d’Armata. Nel giugno
del 1943 le truppe polacche in Iraq sono ispezionate
dal gen. Sikorski: dopo la visita viene stabilita la
nascita di una formazione tattica da chiamare II
Corpo d’Armata polacco e al cui comando è designato il gen. Anders. Il II Corpo è strutturato sul
modello britannico, ma dispone di supporto diretto
di artiglieria e carri armati, oltre che di servizi non
presenti in un Corpo d’Armata britannico.
L’importante decisione è seguita da una grave tragedia dai contorni ancora oscuri. Nel ritorno a Londra
l’aereo di Sikorski effettua una sosta a Gibilterra e,
poco dopo il decollo per la tappa finale, il 4 luglio,
precipita in mare. Il gen. Sikorski muore e la Polonia
perde uno dei più decisi sostenitori degli interessi
nazionali, una personalità stimata dagli Alleati, a cui
aveva più volte fatto presente il problema del confine orientale del Paese, e capace di mantenere la disciplina interna. Dopo la sua morte, le strutture politica e militare del Governo polacco vengono divise:
Primo ministro diventa Stanisław Mikołajczyk mentre il generale Kazimierz Sosnkowski assume il
comando in capo delle Forze Armate. I due uomini
hanno idee politiche e sociali diverse: il primo è favorevole a trattative con Mosca mentre il generale, fervente patriota, diffida dei sovietici.
La nuova organizzazione delle forze militari polacche entra in vigore dal 21 luglio 1943. Il II Corpo
polacco assume un ordinamento basato su due divisioni di fanteria e una brigata corazzata, a cui si
aggiungono l’artiglieria di Corpo d’Armata, il
Reggimento “Lancieri dei Carpazi”, il 10° Battaglione
Genio, l’11° Battaglione Guardie e unità di commando. Tale ordinamento subirà in seguito notevoli variazioni. Ma la struttura su due divisioni rimarrà una
costante del Corpo. E’ anche prevista una “Base”,
comprendente la 7ª Divisione di riserva, strutture per
addestramento, ospedali, servizi. Nell’agosto del
1943 i polacchi vengono trasferiti in Palestina, allora
sotto mandato britannico, dove quasi tremila ebrei su
quattromila presenti abbandonano il Corpo per partecipare alla lotta per la creazione di uno Stato ebraico. Tra essi Menahem Begin, che diventerà Primo
ministro d’Israele. Il gen. Anders e i comandi polacchi, in contrasto con le autorità britanniche, rifiutano
di ricercare e perseguire i disertori.
Nel territorio tra Tel Aviv e il confine egiziano continuano le manovre in terreno montuoso e in ottobre
il II Corpo viene trasferito a Camp Quassasin in
Egitto. I comandi britannici richiedono una divisione polacca sul fronte italiano, ma il gen. Anders rifiuta perché fedele alla sua posizione di impiegare il II
Corpo come struttura unitaria. Nel novembre del
1943 è lo stesso gen. Sosnkowski, in occasione di una
visita ai reparti, a comunicare che tutto il Corpo verrà
utilizzato in Italia. Infine, nel dicembre del 1943, le
autorità britanniche, in accordo con quelle polacche,
prendono la decisione di inviare il II Corpo in Italia.
I polacchi devono sostituire i reparti che gli Alleati
hanno intenzione di trasferire dall’Italia in Gran
Bretagna per partecipare allo sbarco in Normandia,
confermato per la primavera del 1944.
Il II Corpo polacco in Italia. I soldati del II
Corpo vengono trasportati in treno nella regione di
Alessandria e Port Said e da qui i britannici li trasferiscono in Italia utilizzando anche alcune navi polacche: l’operazione prende l’avvio il 15 dicembre 1943
e continua fino al mese di aprile del 1944. Mentre
in Egitto rimane un comando dell’Esercito polacco
in Oriente, poi trasformato in Quartier Generale
delle Unità in Medio Oriente, i reparti destinati in
Italia sbarcano soprattutto a Taranto e nei porti di
Brindisi e di Napoli.
Al II Corpo è assegnata un’ampia area attorno a
Masseria S. Teresa, alle spalle di Taranto lungo la
strada per Monopoli, scelta per la vicinanza al porto
e ai depositi britannici. Le unità sono acquartierate
in cinque campi di tende, ma in seguito i siti subiscono costanti variazioni, in relazione all’arrivo di
nuovi contingenti, che affluiscono anche nella zona
di Mòttola, dove si insedia il Quartier Generale del
II Corpo. Dal punto di vista operativo, il Corpo
polacco è inquadrato nell’8ª Armata britannica che,
con la 5ª Armata americana, costituisce le Armate
Alleate in Italia, comandate dal gen. Harold
Alexander. Politicamente si tratta della grande unità
di un Paese alleato indipendente, che combatte a
fianco della Gran Bretagna secondo gli accordi sottoscritti dai due Governi.
15
Agli inizi del 1944 i tedeschi sono attestati sulla
Linea Gustav – che corre dal fiume Garigliano, sul
mar Tirreno, fino al mar Adriatico a nord del fiume
Sangro – con la 10ª Armata, mentre la 14ª Armata
circonda e costringe a rimanere sulla difensiva le
truppe alleate sbarcate ad Anzio il 22 gennaio 1944.
In questa situazione di stallo e mentre è ancora in
corso il trasferimento dall’Egitto, al II Corpo polacco viene affidato un settore sulla linea del fiume
Sangro, tra Castel S. Vincenzo, a sud di Alfedena, e
Colledimezzo (Piano del Monte), a sud di Atessa,
che costituisce la saldatura tra la 5ª Armata americana, impegnata nel settore occidentale, e l’8ª Armata
britannica, che tiene il settore orientale della Linea
Gustav. I compiti del II Corpo sono di carattere
difensivo e verranno poi estesi anche al settore tra
Castel S. Vincenzo e le sorgenti del fiume Rapido.
Poi, nell’offensiva messa a punto nel marzo del
1944, il comando alleato affida al II Corpo il compito di spezzare il dispositivo difensivo tedesco sulle
montagne a nord di Cassino, impadronendosi della
collina del Monastero – l’ultima barriera naturale,
potentemente difesa, prima di Roma – e delle posizioni tedesche, affidate alla 1ª Divisione
Paracadutisti e alla 5ª Divisione Alpina. L’attacco
polacco, iniziato nella notte tra l’11 e il 12 maggio
contemporaneamente alle altre forze alleate, si conclude il 25 maggio con la conquista di Monte Cairo
e Piedimonte. Nella mattina del 18 maggio 1944
un reparto del 12° Reggimento esplorante “Lancieri
di Podolia” innalza la bandiera polacca sulle rovine
dell’abbazia di Montecassino, distrutta dagli Alleati
nel bombardamento del 15 febbraio.
Dopo la conquista di Roma da parte degli Alleati,
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il 17 giugno 1944 il II Corpo assume la responsabilità del settore adriatico. All’epoca gli effettivi del II
Corpo polacco sono circa 43 mila e l’unità è formata da due divisioni di fanteria (3ª Divisione “Fucilieri
dei Carpazi” e 5ª Divisione “Kresowa”), dalle truppe
di Corpo d’Armata (artiglieria, servizi, Reggimento
esplorante “Lancieri dei Carpazi”) e dalla 2ª Brigata
corazzata, composta di tre reggimenti dotati di carri
armati Sherman e Stuart. E’ attivo anche il “Servizio
Ausiliario Femminile”, impegnato soprattutto nella
Sanità, ma anche nelle Trasmissioni e nei Trasporti.
Collaborano con i polacchi: il Corpo italiano di liberazione, comandato dal gen. Umberto Utili e con un
organico di circa 25 mila uomini; il 7° Reggimento
“Ussari”, una unità esplorante-corazzata britannica; i
partigiani, circa 400, della Banda “Patrioti della
Maiella”, comandati da Ettore Troilo. Le forze tedesche contrapposte sono costituite da due divisioni di
fanteria (278ª e 71ª) a organici ridotti, prive di carri
armati e di copertura aerea, ma dotate di una efficace artiglieria, di cannoni d’assalto, usati in ruolo controcarro, di semoventi italiani M42 e di armi controcarro individuali. La campagna ha il suo punto culminante nella conquista di Ancona e del suo porto,
l’obiettivo che i Comandi alleati hanno assegnato al
II Corpo allo scopo di poter disporre di una base
logistica avanzata.
La città viene presa con una manovra di aggiramento condotta dal territorio di Osimo, attraverso
Polverigi e Agugliano, verso la foce del fiume Esino.
Sulla fascia costiera a sud di Ancona viene impostata una simultanea manovra diversiva. Lo scopo è
quello di chiudere i tedeschi in una sacca. I combattimenti sono particolarmente intensi per la conqui-
sta di Monte della Crescia, che domina il terreno
della battaglia, e nelle zone di Torrette e di Camerata
Picena, dove i tedeschi tentano di contenere l’avanzata polacca. Il 18 luglio 1944 Ancona viene conquistata e, ad entrare per primi in una città semidistrutta dai bombardamenti aerei alleati, sono i
“Lancieri dei Carpazi” e i volontari italiani della
111a Compagnia Protezione Ponti, aggregati al II
Corpo come “commando” (si vedano i saggi di
Tasselli e Strzałka, 2008 citati in bibliografia).
La presa di Ancona costituisce un notevole successo strategico perché il porto, entro pochi giorni,
viene messo in grado di funzionare. Possono così
essere sbarcati materiali vari, viveri e carburanti. La
battaglia riveste inoltre una fondamentale importanza per i polacchi in quanto è l’unica grande operazione condotta in Italia in cui il II Corpo combatte
in modo pressoché autonomo. Per gli italiani, che
cooperano con i polacchi, il significato è al tempo
stesso militare e simbolico: soldati, partigiani, volontari, mostrano la loro ferma volontà di combattere
per la liberazione del Paese. In particolare, il Corpo
italiano di liberazione con l’entrata ad Ascoli Piceno
(18 giugno), Macerata e Tolentino (30 giugno), e
con l’attacco su Filottrano (9 luglio) e la liberazione
di Jesi (20 luglio) testimonia la rinascita dell’Esercito
italiano dopo la tragedia dell’8 settembre 1943.
Il 4 agosto i polacchi entrano a Senigallia e il 9 agosto prende l’avvio la Battaglia del Cesano, che si propone di consolidare il possesso della Statale N. 76:
questa strada deve infatti essere percorsa in sicurezza
dal I Corpo canadese e dal V Corpo britannico nel
loro trasferimento verso il versante adriatico, dove
dovranno essere impiegati per sfondare la Linea
Gotica in base alla nuova strategia alleata che, anche
a causa della conquista del porto di Ancona, prevede
lo spostamento sul versante adriatico dell’asse di
attacco dell’8a Armata britannica. La successiva
Battaglia del Metauro si svolge dal 19 al 22 agosto ed
ha come obiettivo la conquista, ad opera dei polacchi, delle basi di partenza alleate per le successive
operazioni contro la Linea Gotica. E’ considerato il
combattimento più accanito affrontato dal II Corpo
durante tutta la Campagna adriatica. Dopo l’attacco alla Linea Gotica, sferrato il 25 agosto con le altre
truppe alleate, per il II Corpo il ciclo operativo nel
settore adriatico si conclude il 2 settembre, con la
liberazione dell’intera zona tra Pesaro e Gradara.
Ad entrare a Pesaro, il 2 settembre, sono i “Lancieri
dei Carpazi” e i “Patrioti della Maiella”. Il Corpo italiano di liberazione, dopo avere partecipato alla liberazione di Urbino e di altre importanti località del
pesarese, dal 30 agosto sospende ogni attività operativa e viene trasferito in zona di riordinamento per
essere integrato da nuove forze. Nasceranno così i
“Gruppi di Combattimento”.
In ottobre, dopo un periodo di riposo, i polacchi
vengono trasferiti in Emilia-Romagna, dove operano su un terreno montuoso e in difficili condizioni
atmosferiche. Il 27 ottobre, dopo duri combattimenti, conquistano Predappio, luogo di nascita di
Benito Mussolini, e cooperano alla liberazione di
Faenza. Poi gli Alleati esauriscono la spinta offensiva e sono costretti a sospendere le operazioni, mentre il fronte si stabilizza sulla linea del fiume Senio.
In questo periodo il II Corpo polacco viene notevolmente rinforzato: in particolare, le divisioni di
fanteria sono ora articolate su tre brigate in luogo
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delle due precedenti, mentre un reggimento di artiglieria è dotato di pezzi di grosso calibro. Le operazioni offensive riprendono nell’aprile del 1945 e
portano alla resa dei tedeschi e alla fine della guerra
in Italia. Il II Corpo libera Imola il 14 aprile e, dopo
i duri combattimenti sulla linea del torrente Gaiana,
contribuisce notevolmente, il 21 aprile 1945, alla
conquista di Bologna, dove i polacchi entrano per
primi alle 6 del mattino, accolti con entusiasmo
dalla popolazione. La bandiera polacca viene issata
sul balcone del Palazzo municipale e poi sulla Torre
degli Asinelli, la più alta della città. Il 6 ottobre
1945 il sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza, conferisce la cittadinanza onoraria al gen. Anders nella
sua qualità di comandante delle “valorose truppe
polacche che prime entrarono in Bologna”.
Analogo gesto avverrà ad Ancona l’8 dicembre 1945
da parte del sindaco Luigi Ruggeri.
Durante la Campagna d’Italia, il II Corpo polacco ha subito, tra morti, feriti e dispersi, oltre 17 mila
perdite. Il numero comprende anche coloro che
sono stati evacuati per aver perso l’idoneità al combattimento e i feriti per varie cause (incidenti, ecc.).
Le perdite in combattimento sono state le seguenti:
2197 morti (i 4022 caduti sepolti nei cimiteri di
guerra di Casamassima, Montecassino, Loreto,
Bologna comprendono i soldati deceduti per ferite,
malattie, incidenti), 8376 feriti e 264 dispersi (in
prevalenza caduti prigionieri). Nel corso delle battaglie che nell’estate del 1944 si sono combattute nelle
Marche, dal fiume Chienti al fiume Foglia, il II
Corpo polacco ha avuto 753 morti (496 per le battaglie di Ancona e 257 per l’attacco alla Linea
Gotica) e 2877 feriti (rispettivamente 1789 e 1088).
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In totale, nel periodo 1944-45 il II Corpo ha combattuto sul fronte italiano per 367 giorni, eliminando dal combattimento circa 50 mila soldati tedeschi.
La questione polacca. Con il contributo dato alle
armate alleate i polacchi, oltre a lottare contro la
Germania nazista, sperano anche di ottenere il sostegno dei Governi britannico e statunitense per il
recupero dei territori orientali annessi nel 1939
dall’Unione Sovietica e per la ricostituzione di una
Polonia libera e indipendente. Il II Corpo, in particolare, avrebbe dovuto costituire l’ossatura del futuro esercito nazionale polacco. Ma proprio nel corso
della Campagna d’Italia - a cui i soldati polacchi
partecipano con grande impegno e forza morale perché convinti di combattere per un ideale di libertà gli avvenimenti prendono una via del tutto sfavorevole alle loro aspettative.
Nel gennaio del 1944 le truppe sovietiche sono
all’offensiva, attraversano il confine anteguerra della
Polonia e penetrano nel Paese. L’Esercito
dell’Interno (Armia Krajowa), che raccoglie le forze
della resistenza polacca collegate con il Governo in
esilio, attua l’“Operazione Tempesta”, che si propone di offrire cooperazione ai sovietici e, al tempo
stesso, di dimostrare che l’Armata Rossa non è sola
nell’opera di liberazione della Polonia. Secondo il
piano, l’Esercito dell’Interno avrebbe aperto le ostilità contro i tedeschi e sarebbe poi andato incontro
all’Armata Rossa come autorità legittima.
L’obiettivo finale, in linea con il Governo in esilio,è
quello di mantenere l’autonomia della Polonia
dall’Unione Sovietica.
Alcune azioni contro i tedeschi vedono russi e
polacchi uniti nella lotta, ma poi i comandanti della
resistenza polacca cominciano a essere arrestati o
uccisi dal Nkvd, mentre ai soldati, dopo il disarmo,
viene imposta dai sovietici la scelta tra i campi di
lavoro o l’entrata nelle truppe di Berling.
L’insurrezione di Varsavia dell’agosto-settembre
1944 contro i tedeschi costituisce l’ultimo disperato
tentativo della resistenza polacca di rivendicare il
proprio ruolo. I componenti dell’Esercito
dell’Interno, oltre 36 mila, riescono all’inizio a conquistare gran parte della città, ponendosi poi sulla
difensiva in attesa di aiuti dall’ovest o dai sovietici.
Le truppe sovietiche comandate dal maresciallo
Rokossovskij, che comprendono anche la 1a Armata
polacca comandata dal gen. Berling, sono ormai
arrivate a Varsavia nel quartiere di Praga, sulla riva
destra della Vistola. Ma, a parte un tentativo fallito
da parte di elementi della 1a Armata, non mostrano
alcuna volontà di intervenire a favore degli insorti.
Non ci sono ancora prove certe per stabilire se Stalin
abbia fermato l’offensiva sovietica allo scopo di permettere ai tedeschi di eliminare la resistenza polacca
non allineata con Mosca. È tuttavia accertato il fatto
che nei primi giorni dell’insurrezione i sovietici non
permettono l’atterraggio nelle loro basi agli aerei
alleati che portano rifornimenti agli insorti. I voli
alleati, molti dei quali partono da Brindisi, vengono
così sospesi dopo gravi perdite e quando il 18 settembre gli aerei americani sono autorizzati all’atterraggio in territorio controllato dai sovietici, i rifornimenti sganciati con i paracadute cadono per la
maggior parte in mano dei tedeschi, che ormai controllano vaste aree di Varsavia. In sostanza, gli occidentali non forniscono un adeguato apporto alla
rivolta, mentre manca completamente l’aiuto dei
sovietici che, oltretutto, era stato promesso quando
le truppe erano in vista di Varsavia.
I tedeschi possono così scatenare la loro controffensiva, che vede coinvolte anche la famigerata
“Brigata di Polizia”, composta di criminali comuni, e
la “Brigata Kamińky”, formata da cittadini sovietici
che avevano aderito al nazismo. Dopo l’uccisione di
oltre 100 mila persone, tra insorti e civili, in ottobre
tutto finisce con la resa e la distruzione di gran parte
di Varsavia. Il risultato è la dispersione dell’Esercito
dell’Interno, mentre molti polacchi perdono fiducia
nel Governo in esilio, che ormai non possiede più
alcun potere negoziale. L’Esercito del Popolo (Armia
Ludowa), che raccoglie le formazioni comuniste
della resistenza polacca, pur avendo cominciato la
propria attività con un numero di sostenitori nettamente inferiore a quello dell’Esercito dell’Interno,
può ora sostenere di rappresentare l’intera nazione
polacca. Nel frattempo le unità sovietiche procedono al rastrellamento dei superstiti reparti della resistenza polacca non comunista. Intorno al mese di
febbraio del 1945 quasi l’intero territorio polacco è
stato ormai conquistato dall’Armata Rossa.
La svolta sul piano politico e diplomatico era già
avvenuta nel corso della conferenza di Teheran
(novembre-dicembre 1943) tra Stati Uniti, Gran
Bretagna e Unione Sovietica, indetta allo scopo di
coordinare la strategia dei componenti della “Grand
Alliance”. Nell’incontro, il primo fra Churchill,
Stalin e Roosevelt, presidente degli Usa, viene discusso anche il futuro della Polonia. L’atteggiamento
occidentale, frutto di valutazioni di esclusiva convenienza politica, può essere così sintetizzato: per scon19
figgere Hitler occorre mantenere l’alleanza con
Stalin; per mantenerla bisogna abbandonare la
Polonia. Roosevelt e Churchill, consapevoli del ruolo
decisivo che l’Armata Rossa svolge nella lotta alla
Germania, privilegiano così l’amicizia con Stalin e
accettano la sua richiesta di incorporare nell’Unione
Sovietica la parte orientale della Polonia, corrispondente all’incirca alle regioni invase dai sovietici in
seguito agli accordi con la Germania nazista e che,
storicamente polacche, erano state unite al Paese
dopo la guerra russo-polacca (1919-20) e dopo il
trattato di Riga del 1921.
Va specificato che la cessione per Churchill è solo
una proposta su cui discutere, ma Roosevelt assicura
Stalin che la proposta del leader britannico non
avrebbe posto in futuro alcun problema. In tal modo
la diplomazia sovietica considera i colloqui di Teheran
sulla Polonia un vero e proprio accordo finale, che è
conforme alle proprie intenzioni di controllare, a
guerra finita, una vasta zona di sicurezza davanti ai
confini occidentali. Il destino della Polonia viene così
deciso senza coinvolgere le legittime autorità governative e senza prevedere consultazioni tra le popolazioni
interessate, trattando il Paese quasi come se fosse un
nemico sconfitto invece che un leale alleato delle
democrazie occidentali e, per di più, il Paese della cui
indipendenza la Gran Bretagna si era fatta garante.
Nell’incontro di Teheran i governi occidentali, oltre
a privare la Polonia di quasi la metà del suo territorio
in cambio di compensazioni a spese della Germania,
manifestano anche la precisa scelta di non voler difendere gli interessi nazionali polacchi in caso di contrasti con i sovietici. Un atteggiamento ambiguo che,
tuttavia, era già emerso in precedenza (esponenti
20
governativi britannici avevano dichiarato che i diritti
della Polonia sui suoi territori orientali non erano
certi) e nel momento in cui era stato scoperto il massacro di Katyń: di fronte alle prime notizie della
responsabilità sovietica e, dall’altra parte, alla necessità britannica di assicurarsi la cooperazione bellica di
Stalin, Churchill aveva deciso di accantonare la questione definendola “di nessuna importanza pratica”
(Zaslavsky, p. 69).
Dopo Teheran, il Governo britannico, pur mantenendo segreti gli accordi, esercita continue pressioni
sul Governo polacco affinché accetti il fatto compiuto, ma le proposte vengono respinte. Nella conferenza di Mosca dell’ottobre 1944 Stalin e
Churchill si accordano sul grado di influenza che
Unione Sovietica e Gran Bretagna avrebbero avuto
nei Balcani. A Mosca si discute anche del destino
della Polonia, ma il Primo ministro polacco
Mikołajczyk può occuparsi solo di dettagli, in quanto i “grandi” sono già d’accordo sul futuro confine
orientale della Polonia. Ed è Molotov, il ministro
degli Esteri sovietico, a rivelare nel corso dell’incontro, tra l’imbarazzo di Churchill, che “... tutto è
stato stabilito a Teheran” (Davies, p. 498). Le province orientali polacche, compresa la città di Lwów,
verranno cedute all’Unione Sovietica. Mikołajczyk
non riesce a convincere il suo gabinetto ad accettare
questi termini e il 24 dicembre 1944 si dimette.
Nelle conferenze di Jalta e Potsdam (febbraio e
luglio 1945), Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione
Sovietica più che spartirsi l’Europa prendono atto
della realtà derivante dalle posizioni, già concordate,
raggiunte dalle rispettive Forze Armate. Per quanto
riguarda la Polonia non si fa altro che confermare
quanto già era stato deciso a Teheran. In cambio
della consegna all’Unione Sovietica delle province
orientali polacche e del suo consenso a una Polonia
che adotti un “atteggiamento amichevole verso la
Russia”, Churchill chiede l’entrata nel futuro
Governo di tutti gli “elementi democratici polacchi”.
Ma l’Unione Sovietica, che ben conosce il forte
sentimento nazionale polacco, prepara con cura e
con apparente legalità la conquista del potere: fin
dal loro ingresso in Polonia, i sovietici sono accompagnati dal Comitato polacco di liberazione nazionale – espressione dei “polacchi di Mosca”, contrapposti a quelli di Londra, e della resistenza comunista
– che prende poi il nome di “Comitato di Lublino”,
diventando nel gennaio del 1945 Governo provvisorio e accettando l’annessione all’Unione Sovietica
delle province orientali polacche.
Nel Governo di unità nazionale, riconosciuto il 6
luglio 1945 da Stati Uniti e Gran Bretagna, erano
entrati in giugno anche alcuni “polacchi di Londra”,
tra cui Mikołajczyk, ma le posizioni più importanti
rimangono nelle mani di persone nominate dal
“Comitato di Lublino”. Il nuovo Governo è in realtà
allineato con Mosca e dominato dai comunisti, mentre ormai in tutta la Polonia stazionano le truppe
sovietiche. Si procede a imprigionare gli esponenti
della resistenza non comunista dopo averli invitati,
nel marzo del 1945, a un incontro trappola. Il gen.
Leopold Okulicki, appartenente al II Corpo e ultimo
comandante dell’Esercito dell’Interno, viene processato a Mosca e condannato a dieci anni di reclusione per
presunte attività contro l’Armata Rossa, ma nel 1946
morirà in carcere in circostanze oscure. La stessa sorte
tocca a delegati del Governo in esilio di Londra.
I russi tentano in tal modo di screditare l’Esercito
dell’Interno, facendo credere che esso ha combattuto contro l’Armata Rossa e, al tempo stesso, eliminano dalla scena politica coloro che si oppongono
alla instaurazione a Varsavia di un regime vassallo di
Mosca. Poi, dopo aver modificato i confini dello
Stato, controllato gli insediamenti polacchi nei territori sottratti alla Germania, liquidato la vecchia
classe dirigente e annientato la residua resistenza
armata anticomunista, si tengono, nel gennaio del
1947, le elezioni che sanciranno la dipendenza della
Polonia dalla Unione Sovietica. Lo stesso
Mikołajczyk, impossibilitato a svolgere liberamente
la propria attività politica, nell’ottobre del 1947 sarà
costretto a fuggire dalla Polonia e a rifugiarsi prima
in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti. L’Esercito
polacco verrà ricostituito, sul modello di quello
sovietico, con un nucleo formato dai 400 mila soldati che hanno combattuto sul fronte russo-tedesco.
Dal 1949, a riprova della costante ingerenza russa,
esso verrà posto agli ordini del maresciallo
Rokossovskij, che aveva comandato le truppe sovietiche all’epoca dell’insurrezione di Varsavia.
Il dopoguerra. La maggior parte degli oltre 250
mila soldati polacchi che avevano combattuto contro il nazismo sui fronti occidentali non accettano
l’autorità del nuovo regime in Polonia e rifiutano il
rimpatrio in un Paese sotto dominio comunista,
anche per il timore di essere imprigionati. I soldati
del II Corpo, in particolare, che hanno sofferto la
prigionia in Unione Sovietica e che sono in gran
parte originari delle province polacche cedute ai
sovietici, guardano al comunismo con sospetto e ini21
micizia. Il gen. Anders ritiene che Gran Bretagna e
Stati Uniti abbiano violato i loro obblighi assunti
nei confronti della Polonia e manifesta le proprie
idee negli incontri che ha con Churchill – uno dei
quali si era svolto il 26 agosto 1944 nel Quartier
Generale polacco, a Senigallia – e con i comandanti
militari alleati, oltre che con esponenti del Governo
in esilio. Dopo la conferenza di Jalta, che sancisce la
definitiva cessione all’Unione Sovietica delle province orientali polacche in cambio di ampliamenti territoriali a nord e a ovest, con l’annessione di territori tedeschi fino ai fiumi Oder e Neisse, il gen.
Anders si fa interprete del risentimento dei suoi soldati, chiedendo alle autorità alleate di ritirare i
reparti del II Corpo dal fronte. Ma poi i polacchi
continuano ugualmente la lotta contro la Germania,
a fianco degli Alleati.
Nel dopoguerra, pur sostenendo che la Polonia è “in
schiavitù” e che è ormai impossibile un ritorno “con
le bandiere al vento come araldi della libertà”, il gen.
Anders informa i suoi soldati che, se lo vogliono, possono rientrare singolarmente nel Paese. Su una forza
totale di 110 mila effettivi, sono circa 14 mila coloro
che entro la fine del 1945 scelgono di rimpatriare: si
tratta soprattutto di soldati giunti da poco tra le file
del II Corpo. Al tempo stesso, l’unità diventa un polo
di attrazione per i polacchi di tutta Europa: nell’Italia
centrale e meridionale vengono creati campi per i civili e si istituiscono corsi professionali allo scopo di formare specialisti da inserire, dopo il congedo, nelle
varie attività lavorative. Per i bambini e gli adolescenti, proseguendo in un programma didattico impostato fin dall’inizio, si organizzano scuole sovvenzionate
dagli stessi soldati. Ancona, dove ha sede il comando,
22
diventa il centro della vita del II Corpo e in alcune
località delle Marche (Amandola, Ancona, Falconara,
Fermo, Jesi, Macerata, Porto Recanati, Porto S.
Giorgio, Recanati, Sarnano, Senigallia, S. Ginesio, S.
Severino, Urbino) sorgono scuole di vario indirizzo in
cui si svolgono anche “corsi di maturità” per quei
militari che non avevano potuto completare gli studi
a causa della guerra. Ad Alessano, in provincia di
Lecce, viene impiantata la prima scuola in cui si tengono corsi per il conseguimento della maturità liceale
o ginnasiale. Ancora oggi, in Polonia, vengono chiamati gli “Alessanesi di Polonia” coloro che li hanno
frequentati.
Le sezioni “Editoria” e “Cultura e Stampa” del II
Corpo producono testi militari, ma anche libri scolastici, saggi storici, romanzi, raccolte di poesie,
mentre molti giovani possono frequentare le università di Padova, Bologna, Roma, Torino. Nel 1946,
a continuazione dell’attività svolta all’interno del II
Corpo, Jerzy Giedroyc (1906-2000) fonda a Roma
una casa editrice (Instytut Literacki) e poi la rivista
“Kultura”, molto importante per la sua influenza
sulla letteratura polacca del dopoguerra. La casa editrice e la rivista - trasferite in seguito a Parigi - hanno
avuto come cofondatore e collaboratore Gustaw
Herling (1919-2000), soldato del II Corpo e autore
di “Un mondo a parte”, straordinaria opera letteraria e impressionante testimonianza sui campi di
lavoro forzato sovietici. Ma anche un libro che, per
le sue traversie editoriali (pubblicato in Gran
Bretagna nel 1951, verrà quasi ignorato quando nel
1958 appare nella traduzione italiana; solo dal 1994,
con l’edizione Feltrinelli, il libro sarà conosciuto in
Italia) costituisce un silenzioso biasimo morale per
quegli intellettuali italiani e francesi che volevano
tenere gli occhi chiusi su ciò che accadeva in Unione
Sovietica. Dopo avere sposato Lidia, figlia di
Benedetto Croce, Herling si è stabilito a Napoli e ha
dovuto subire per decenni l’ostilità dell’ambiente
intellettuale italiano. Solo pochi esponenti della cultura lo hanno apprezzato. Tra questi: Leo Valiani,
Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Giovanni
Spadolini, Indro Montanelli.
Nasce in Italia nel 1944-46, per merito del gen.
Anders, una “Piccola Polonia”, dove i polacchi ritrovano tutti gli elementi della vita sociale e culturale
del loro Paese. E nasce anche una letteratura del II
Corpo, che diventerà una “letteratura dell’esilio”,
ispirata agli eventi della guerra, alla nostalgia per la
patria lontana e alla particolare drammatica situazione in cui si trovano i polacchi. Ma sulla quale
influiscono anche gli storici rapporti di amicizia tra
i due Paesi e una rinnovata reciproca comprensione
e conoscenza, l’arte, la natura, il sole, il paesaggio
italiano. Già durante la guerra era stato pubblicato,
fin dalla permanenza in Medio Oriente, “Dziennik
Żołnierza APW” (Il quotidiano del soldato –
Esercito Polacco in Oriente), che in Italia mantiene
questa testata. Il giornale segue gli spostamenti del
fronte e, per un certo periodo, viene stampato a
Fermo. Al quotidiano si affiancano varie testate
periodiche, tra cui il settimanale “Orzeł Biały”
(L’Aquila Bianca) e pubblicazioni specifiche delle
varie formazioni del II Corpo.
Una conversazione di Gustaw Herling e Józef
Czapski sul generale Anders, apparsa in “Kultura”
(N. 7-8, 1970, pp. 15-25) e dal titolo “Dialog o
Dowódcy” (Dialogo sul Comandante) così si con-
clude : “In un periodo in cui in Polonia era negata
l’esistenza a qualunque università, scuola o casa editrice, in cui vigeva la totale segregazione nazionale,
con l’eliminazione fisica di tutta la nazione ebrea
sulla nostra terra, il tentativo di Anders di creare
all’interno dell’Esercito in esilio una struttura sociale viva, solida e al contempo flessibile, nella tradizione liberale di una società multinazionale e multireligiosa, deve preservarsi nella nostra memoria
come il suo testamento per il futuro” (Herling,
“Breve racconto di me stesso”, p. 132).
A mano a mano, come ricorda lo scrittore Jan
Bielatowicz, il II Corpo diventa una sorta di “grande nave che viaggia attraverso il tempo, raccogliendo ovunque naufraghi polacchi”, l’“ultima speranza”, il “rifugio e il punto d’arrivo”, oltre il quale,
però, si delineano presto il fallimento di tutte le
aspirazioni polacche e la frustrante realtà dell’assorbimento della Polonia nel sistema politico e militare
sovietico. Una condizione psicologica che porta
alcuni soldati polacchi a inscenare dimostrazioni di
ripulsa e di spregio nei confronti dei simpatizzanti
di sinistra italiani e a compiere vere e proprie aggressioni contro i militanti comunisti e le manifestazioni del Partito comunista, soprattutto nelle Marche,
ma anche in Emilia-Romagna e in Puglia.
La stampa comunista risponde con attacchi contro il II Corpo, ma si verificano anche reazioni violente contro i polacchi. Si tratta, in sintesi , di uno
scontro tra due posizioni inconciliabili, da inquadrare nelle tensioni politiche e sociali del dopoguerra. E i contrasti in Italia verranno influenzati e acuiti dai contemporanei e complessi sviluppi della politica internazionale. Il Partito comunista, consapevo23
le del ruolo importante avuto nella Resistenza e portatore di idee di rinnovamento totale della società –
ma anche perché allineato con Mosca, dove l’utopia
sociale a suo avviso si è realizzata, e permeato del
“mito” dell’Armata Rossa per il contributo determinante dato alla lotta contro il nazismo – trova inconcepibile l’anticomunismo e l’antisovietismo dei
polacchi. I soldati polacchi, dal canto loro, sono in
gran parte reduci dai campi di lavoro forzato sovietico – in particolare i soldati della Divisione
“Kresowa”, originari delle regioni orientali – e, consapevoli delle intenzioni egemoniche dell’Unione
Sovietica nei confronti della Polonia, identificano il
comunismo con l’aggressione sovietica del 1939,
che aveva portato alla spartizione del loro Paese con
la Germania nazista. Per molti polacchi gli italiani,appena liberatisi da una forma di totalitarismo,
appaiono intenzionati a sceglierne volontariamente
un’altra, a cui una parte dei soldati del II Corpo
tenta di opporsi duramente.
Nelle Marche i contrasti cominciano già subito
dopo la liberazione, quando le autorità militari polacche, seguendo gli ordini impartiti dai Comandi alleati, procedono con decisione al disarmo dei partigiani.
I soldati e gli ufficiali polacchi, di stanza nella regione,
provvedono a cancellare le scritte murali inneggianti a
Stalin e all’Unione Sovietica, a strappare le bandiere
rosse esposte nelle sezioni comuniste, a disturbare i
comizi degli oratori comunisti. Le reazioni non si
fanno attendere e sono altrettanto decise.
Secondo un recente saggio di G. Petracchi (vedi
bibliografia), i primi episodi vengono segnalati da
Palmiro Togliatti, all’epoca segretario del Pci e ministro del Governo Bonomi, in un dossier allegato a
24
una lettera personale del 30 settembre 1944 indirizzata al presidente del Consiglio. Il leader comunista
sostiene che “soldati e ufficiali polacchi... esercitano
violenze contro il nostro partito” e cita un episodio
accaduto a Macerata in cui i polacchi “sono arrivati
al punto di impedire un discorso dell’on. Molinelli”.
Togliatti sostiene di aver dato al partito l’ordine di
“non raccogliere queste provocazioni”, ma avverte
che “se esse continueranno, non possiamo garantire
che in qualche luogo non si producano incidenti
gravi”. Vi è nella lettera anche un riconoscimento
per la lotta che i polacchi conducono in Italia contro i tedeschi, ma la richiesta è precisa: il Governo
italiano deve intervenire ufficialmente presso la
Commissione alleata di controllo per evitare che i
polacchi spargano “scintille di guerra civile”.
Anche se l’episodio di Macerata ha in realtà una
dinamica più articolata di quella segnalata nella
denuncia (gesti provocatori da ambo le parti, sassaiola, intervento dei carabinieri che bloccano i
polacchi), Bonomi dà seguito alla segnalazione,
rivolgendosi all’ammiraglio Stone, capo della
Commissione alleata, affinché compia i passi necessari presso le autorità militari. Ma gli incidenti continuano e Togliatti, nel gennaio del 1945, denuncia
formalmente i fatti in una lettera a Bonomi, introducendo un nuovo dato: “elementi fascisti si avvicinano ai soldati polacchi e svolgono una pericolosa
opera di provocazione contro gli appartenenti ai
partiti democratici”. Un accostamento, quello tra
polacchi e fascisti, che sarà ampiamente e strumentalmente sfruttato dalla propaganda comunista.
Ulteriori scontri, nel corso del 1945, avvengono in
provincia di Macerata e di Ascoli Piceno, a Urbisaglia,
Porto Civitanova, Montelupone, Potenza Picena,
Cingoli, Porto Recanati e le federazioni comuniste
puntualmente li registrano e li documentano. Parri, il
nuovo presidente del Consiglio, nell’agosto del 1945
si rivolge all’ammiraglio Stone che, a sua volta, richiama i Comandi alleati alle loro responsabilità. A tal
proposito, è di particolare interesse la replica del gen.
Anders (9 settembre 1945) che, nel citato saggio di
Petracchi, è integralmente riportata (pp. 55-56). Tale
lettera, indirizzata a Stone, viene poi da questi inviata
al presidente Parri.
Il gen. Anders ammette che, con truppe che raggiungono ormai un organico di oltre 100 mila unità,
si possano verificare incidenti e riconosce alcuni addebiti. Ribadisce tuttavia che le relazioni con la popolazione locale sono cordiali e, più in generale, che ha
emanato disposizioni atte a proibire interferenze con
gli affari interni italiani. Accusa infine l’organo comunista “L’Unità” di diffamare i soldati polacchi paragonandoli ai fascisti e il Partito comunista di diffondere
volantini che invitano i soldati ad abbandonare le armi
e a ritornare in Polonia. Tale lettera provoca un perentorio intervento di Stone presso Parri in cui si chiede,
a nome del Comandante in capo alleato, di adottare
provvedimenti volti a porre fine alla campagna di
stampa contro i polacchi. Ma Parri, consapevole dell’impotenza del suo Governo ad affrontare la questione, non fa altro che rivolgersi a Togliatti (lettera del 30
settembre 1945) invitandolo a intervenire presso la
direzione dell’“Unità”.
La campagna raggiunge toni sempre più accesi e
trova un riscontro anche nel 5o Congresso del Pci
(Roma, 29 dicembre 1945-6 gennaio 1946), quando
l’assemblea approva l’invito ad espellere i polacchi
dall’Italia. In precedenza (8 settembre 1945),
“Bandiera Rossa”, organo marchigiano del Pci, aveva
scritto, a proposito dei polacchi, che “il popolo è stanco di sopportarli” e aveva dipinto il gen. Anders come
“un reazionario, legato agli interessi antinazionali dei
latifondisti polacchi” (8 dicembre 1945).
Ormai contro il II Corpo polacco è in atto un attacco proveniente da vari fronti e che mira a un preciso
obiettivo. Per la sinistra italiana la questione ha assunto un rilievo del tutto politico: oltre a difendere le
posizioni di Mosca sulla questione delle frontiere
polacche, la campagna per il rimpatrio si propone di
eliminare dallo scenario politico italiano quelle forze
che, in caso di sommosse o disordini, avrebbero potuto appoggiare le destre e che erano sospettate di voler
mettere a rischio lo svolgimento della campagna elettorale dei partiti di sinistra per le consultazioni del 2
giugno 1946. Che ci siano state aggressioni - peraltro
ricambiate - contro militanti comunisti da parte di
soldati del II Corpo e che alcuni polacchi abbiano
avuto contatti con movimenti politici italiani estremisti corrisponde a realtà. Ma la violenta campagna di
stampa contro i polacchi, che unisce abilmente elementi di verità a false accuse e sfrutta tutte le implicazioni internazionali connesse alla questione, va inquadrata nel clima politico del periodo 1945-46. Oggi
essa appare del tutto strumentale.
In particolare, alla luce delle considerazioni di
Petracchi nel saggio citato e di un documento acquisito presso il “Polish Institute and Sikorski
Museum” di Londra, grazie alla segnalazione del
prof. Krzysztof Strzałka e alla collaborazione del
dott. Andrzej Suchcitz, andrebbe rivista quella che è
stata l’accusa principale rivolta al gen. Anders e al II
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Corpo: preparare una guerra contro l’Unione
Sovietica. Il coinvolgimento di reparti polacchi nella
crisi di Trieste, una circostanza finora mai emersa
segnalata da Petracchi, consente infatti di formulare
alcune fondate ipotesi, confermate dal documento
sopra ricordato, sulla reale strategia militare e politica perseguita dal gen. Anders.
Sulla questione di Trieste si rinvia alla bibliografia
segnalata da Petracchi. Si ricorda qui, in sintesi, che
dopo il primo maggio 1945 truppe iugoslave avevano occupato tutta l’Istria e raggiunto Trieste, minacciando una annessione sia nei confronti della città
sia dell’intera Venezia Giulia. Con l’arrivo degli
Alleati, Trieste e parte della Venezia Giulia erano
state assoggettate a un regime di duplice occupazione, britannica e iugoslava.
Tra l’indifferenza dei Comandi alleati, gli iugoslavi avevano proceduto a uccisioni, deportazioni e
violenze nei confronti della popolazione italiana e
solo nel giugno del 1945 si erano ritirati sulla base
di una spartizione provvisoria dei territori lungo la
Linea Morgan (dal nome di chi l’aveva negoziata:
William Morgan all’epoca è capo di Stato Maggiore
del maresciallo Alexander e, dall’ottobre del 1945,
lo sostituirà nella carica di comandante in capo delle
Forze alleate nel Mediterraneo), con la quale Trieste
restava sotto controllo di un Governo militare alleato, mentre alla Iugoslavia veniva assegnata tutta
l’Istria e buona parte della Venezia Giulia (si veda
Lamb, pp. 336-343). Le difficili trattative, che avevano coinvolto i governi britannico, americano e
sovietico in una certa misura segnano l’inizio della
“guerra fredda” e del confronto tra Occidente, in
particolare Stati Uniti, e Unione Sovietica.
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La situazione aveva portato, fin dal giugno del 1945,
allo spostamento verso il Nord-est anche di reparti del
II Corpo polacco e, in particolare di due brigate della
5a Divisione di Fanteria “Kresowa” (a Belluno, Vittorio
Veneto, Treviso), del 2o Reggimento Artiglieria controcarro (a Pordenone), della 14a Brigata corazzata
“Grande Polonia” (tra Ravenna e Mestre). In novembre unità del II Corpo avevano raggiunto Udine,
mentre nei pressi della città era stato schierato uno
Squadrone di “Spitfires” pilotato da polacchi.
Ma, nel corso della seconda metà del 1945, le tensioni continuano tanto che nell’autunno pervengono
ai Comandi alleati ricorrenti informazioni sui preparativi di un colpo di mano degli iugoslavi per rientrare in possesso di Trieste. Ed è in questo contesto
che si intensificano i contatti tra il gen. Anders e il
gen. William Morgan, il nuovo comandante in capo
delle Forze alleate nel Mediterraneo, e che lo stato
Maggiore del II Corpo polacco elabora il documento intestato “A Study of the Possibilities of the
Defence of Italy” (Studio delle possibilità di difesa
dell’Italia). Tale documento, in lingua inglese e classificato “top secret”, è datato 17 gennaio 1946 ed è
accompagnato da una lettera del gen. Anders (datata
“Feb 46”) indirizzata al gen. Morgan. La lettera fa
riferimento a un precedente colloquio tra i due generali, avvenuto a Caserta il 26 gennaio 1946.
La premessa al documento (“Lo scopo delle Forze
Armate consiste nella loro costante prontezza a
respingere ogni possibile minaccia, anche la più
improbabile”) farebbe supporre che lo “Studio” sia
una generica bozza di piano preparata - come è compito di ogni Stato Maggiore - per eventuali future
contingenze del tutto teoriche. La realtà sembra inve-
ce del tutto diversa. Già nell’introduzione si accenna
a una situazione politica generale che “non esclude la
possibilità di un’altra guerra” e, nell’analisi della
situazione si individua subito il “nemico”: l’Unione
Sovietica e i suoi Paesi “satelliti”, Iugoslavia, Albania,
Bulgaria, Romania, Ungheria. Va poi precisato che il
documento si occupa della difesa del “fronte sud”
(Alpi e Italia). Ciò farebbe supporre l’esistenza di un
ulteriore piano riguardante il “fronte nord” e dunque
il coinvolgimento (da verificare) degli alti Comandi
alleati in Europa in un più ampio piano di difesa
contro un attacco sovietico.
In sintesi, il documento polacco sostiene che l’attacco più probabile dovrebbe avvenire nel Nord-est
dell’Italia, nella zona di Udine-Padova, e potrebbe
essere condotto con forze corazzate e motorizzate
opportunamente protette. Una volta raggiunta la
zona Vicenza-Padova il nemico potrebbe dilagare in
Italia o procedere verso il confine francese.
Presupposto fondamentale dell’azione nemica diventano l’attraversamento del fiume Po e l’occupazione
delle vie d’uscita settentrionali degli Appennini. Il
successo sovietico provocherebbe in Italia, da parte di
civili, un movimento di massa in loro favore.
Molto dettagliate risultano le informazioni sulle
truppe sovietiche: alle concentrazioni di mezzi
corazzati, di fanteria e di artiglieria in Ungheria,
Iugoslavia, Bulgaria e Romania vanno aggiunte le
truppe dei Paesi “satelliti”. Si specifica inoltre che le
truppe sovietiche dispongono di una notevole capacità di compiere rapide operazioni di sfondamento e
attacchi di sorpresa, mettendo al tempo stesso in
atto tattiche diversive. Si nota poi che, dopo la fine
della guerra, le autorità sovietiche non hanno sciol-
to i loro comandi di livello più elevato.
Per quanto riguarda le forze alleate, le uniche
truppe disponibili sono costituite dal XIII Corpo
britannico e dal II Corpo polacco, mentre altre forze
britanniche, americane e francesi sono disperse in
un’area molto vasta, trovandosi così esposte ad attacchi nemici. La conclusione è che le forze alleate non
sono in grado di mantenere, in caso di attacco, le
loro posizioni. Dopo una analisi approfondita delle
varie opzioni, si giunge alla conclusione che lungo le
linee dei fiumi Isonzo, Tagliamento, Piave, Brenta
potranno essere attuate solo azioni ritardatrici.
L’unica possibilità realistica risiede nella difesa della
linea del fiume Po ma, anche in questo caso, si tratterà di una azione più protratta ma sempre temporanea, da esercitarsi in attesa della mobilitazione
delle forze italiane.
La resistenza effettiva, secondo il documento, deve
essere organizzata sulla linea degli Appennini che va
presidiata a partire da Comacchio in modo da coprire
tutto il settore dalla costa, a est, fino al Piemonte e alla
Liguria. La soluzione sembra dunque essere una sorta
di Linea Gotica alla rovescia, da cui sarà possibile, oltre
che difendersi in modo appropriato, condurre anche
azioni offensive. Ma, soprattutto, tale linea fortificata
impedirà al nemico di usare le linee di comunicazione
lungo la costa adriatica, difenderà i passi appenninici e
permetterà di utilizzare l’area di Bologna come centro
vitale dal punto di vista logistico e tattico.
Il II Corpo verrà soprattutto impiegato nella difesa del settore pianeggiante e andrebbe dunque concentrato nella zona di Rimini-Ravenna-Faenza. Ma,
in ogni caso, le forze alleate non potranno essere in
grado di mantenere la linea degli Appennini per più
27
di 10 giorni: di qui la necessità - esorta il documento nella parte finale - di provvedere subito alla elaborazione di un piano operativo adeguato che esamini le varie opzioni, definisca le aree di difesa e che
tenga conto della capacità di mobilitazione
dell’Esercito italiano.
Lo “Studio” viene elaborato nei mesi in cui le tensioni per la questione di Trieste salgono di continuo,
ma anche nel periodo in cui l’Unione Sovietica procede con decisione al consolidamento del proprio
controllo in Bulgaria, Romania e Ungheria. Studi
recenti (Aga-Rossi e Zaslavsky, vedi bibliografia)
hanno messo in evidenza che, all’epoca, l’Unione
Sovietica sostiene il principio delle sfere di influenza. E tale situazione permarrà fino al 1947, quando
con la formazione del Cominform verrà incoraggiata un’offensiva politica decisa contro il blocco occidentale. Per l’Italia, in particolare, Stalin segue al
momento la linea del diritto delle potenze di imporre il proprio sistema politico sul territorio che occupano, al fine di poter avere mano libera nei Paesi
della sfera sovietica.
Il gen. Anders valuta questo atteggiamento di carattere strumentale e dà corpo alla diffusa idea che la
guerra non sia terminata e che l’Unione Sovietica
abbia intenzione di dare inizio a un nuovo conflitto.
La strategia politico-militare del gen. Anders postula
dunque una guerra difensiva per contrastare un eventuale attacco all’Europa sferrato dall’Unione
Sovietica. Egli ritiene, anzi, che l’attacco possa avvenire entro il 1946 provocando una guerra tra le
potenze occidentali e l’Unione Sovietica. In questo
contesto il II Corpo avrebbe potuto svolgere un ruolo
decisivo - e qui si rivela l’obiettivo finale di Anders 28
capace anche di ridare l’indipendenza alla Polonia,
oltre che di contribuire a salvare l’Europa. Nella visione di Anders sembrano rivivere sia l’antica concezione della Polonia “antemurale” dell’Occidente sia gli
echi della battaglia di Vienna contro i turchi (1683) e
di quel “miracolo della Vistola” che nell’agosto del
1920 aveva fermato i russi.
La posizione di Anders, che lo “Studio” lascia
intuire, è confermata da numerosi documenti, citati
da Petracchi, conservati nei “National Archives”
(Public Record Office) di Londra. Ulteriori prove
provengono dalle continue esercitazioni eseguite nel
dopoguerra e dalla stessa dislocazione dei reparti del
II Corpo. Mentre i reparti avanzati sono, per così
dire, in prima linea nel Nord-est, ad Ancona c’è il
Comando del II Corpo e nelle Marche, considerata
area alle spalle della zona di azione, sono presenti i
reggimenti corazzati della Divisione “Varsavia”,
reparti di fanteria, di cavalleria, di artiglieria, oltre
che strutture logistiche, depositi, officine, ospedali.
Altre strutture importanti e l’ospedale principale
sono collocati in Puglia. Inoltre, il potenziamento
del II Corpo, avviato nel settembre del 1944 per
motivi legati all’impiego dell’unità nella Campagna
d’Italia, prosegue con vigore anche dopo la fine della
guerra. E quando i britannici, nel settembre del
1945, impongono il limite di 85 mila effettivi, il
gen. Anders non tiene conto dell’ordine portando il
II Corpo a 120 mila uomini (novembre 1945) e
quindi (gennaio 1946) a 110 mila (Sarner, pp. 234235).
Che qualche ufficiale polacco abbia sostenuto che,
una volta sconfitti i tedeschi fosse stato necessario
combattere i russi, corrisponde a verità (Seton-Watson,
pp. 229-230). Ma si tratta di un atteggiamento dettato più dai sentimenti che dalla ragione. I soldati
polacchi dipendono, dal punto di vista logistico, dai
britannici e dal luglio del 1945 sono alle dipendenze
gerarchiche dell’8a Armata: una loro eventuale marcia
verso est si sarebbe interrotta dopo qualche chilometro. È inoltre singolare che nessuno si sia chiesto come
le due divisioni del II Corpo, anche se rinforzate,
avrebbero potuto affrontare le forze sovietiche, formate da oltre 11 milioni di soldati. Come si è visto,
lo stesso Anders - che pure usava in proposito espressioni molto decise - aveva escluso una guerra preventiva. Una ipotesi ragionevole è che il vero amplificatore della “guerra di Anders” sia stato il Nkvd sovietico, con una classica operazione di disinformazione.
Nei suoi rapporti si parla infatti di un “pericoloso
complotto che avrebbe portato un esercito polacco
forte di un milione di polacchi in esilio, guidati dal
gen. Anders, ad attraversare la Germania per opporsi
al dominio sovietico” (Davies, p. 557). Il tutto per
screditare Anders, alimentare la tensione internazionale, procedere in Polonia ad arresti indiscriminati.
La conclusione è che Anders ha un profilo umano
e morale molto più articolato di quel generale “guerrafondaio”, “comandante della Guardia Bianca”,
capo di “una armata di fascisti, di anticomunisti irriducibili” descritto da alcuni storici e intellettuali italiani, i quali “dimenticavano” nei loro scarsi studi sul
II Corpo di citare il Patto di non aggressione tra
Germania nazista e Unione Sovietica, la prigionia
dei polacchi nei campi di lavoro forzato sovietici, la
collaborazione tra Nkvd e nazisti contro la resistenza polacca, la consegna di materie prime ai nazisti da
parte dell’Unione Sovietica nel periodo 1939-1941.
Il gen. Anders è stato un soldato eccellente, con un
carattere forte e determinato, un ottimo conoscitore
della lingua russa e della realtà sovietica, un buon
oratore. All’interno del II Corpo ha sempre svolto
un ruolo di mediazione tra le varie componenti
ideologiche, tra coloro che si rifacevano a Piłsudski
e chi era contrario, tra i seguaci e gli oppositori di
Sikorski, intervenendo sempre con decisione contro
qualsiasi posizione estrema.
Anders, che dal febbraio al maggio del 1945 è
stato comandante in capo delle Forze Armate polacche dipendenti dal Governo in esilio, ha dovuto
ricoprire un ruolo al tempo stesso militare e politico, anche se il suo linguaggio diretto mal si conciliava con le esigenze della politica. Il suo è stato un
compito di estrema difficoltà in quanto le vicende
del II Corpo sono state sempre collegate con complessi avvenimenti internazionali. È tuttavia un suo
grande successo politico quello di essere riuscito nel
1942 ad evacuare dall’Unione Sovietica, in contrasto anche con il gen. Sikorski, un così grande numero di connazionali, sia militari sia civili, donne e
bambini. Basti ricordare, in proposito, che gli ultimi
soldati e civili polacchi sopravvissuti al gulag sovietico sono stati rimpatriati solo nel 1959.
Quando il gen. Leese, comandante dell’8a Armata
britannica, gli propone di impiegare il II Corpo nel
difficile compito della conquista delle alture di
Montecassino e di Piedimonte, il gen. Anders comprende subito che si tratta di un incarico difficile e
che avrebbe comportato un costo altissimo in vite
umane. Ma egli accetta perché si rende conto dell’importanza per gli Alleati della presa di
Montecassino (apertura della strada per Roma) e,
29
soprattutto, degli effetti che la battaglia avrebbe
avuto per la causa della Polonia. Churchill, nel febbraio del 1944, aveva dichiarato alla Camera dei
Comuni che le rivendicazioni sovietiche sulla
Polonia orientale non andavano “oltre il limite di
quel che è ragionevole e giusto” e aveva annunciato
compensi alla Polonia a spese della Germania.
Anders ritiene però che sia ancora possibile contrastare le pressioni britanniche combattendo con impegno contro i tedeschi. E, in effetti, a Montecassino
emerge in pieno il valore dei soldati del II Corpo e la
loro condizione di Esercito che lotta anche per la
libertà della Polonia. Ma quella di Anders è una decisione dolorosa (la battaglia di Montecassino provoca
924 morti e 2930 feriti), che però non incrina il suo
rapporto di fiducia e di stima con i soldati.
L’interesse primario di Anders è dunque la Polonia e
la stessa battaglia di Ancona viene, ancora una volta,
combattuta anche per il proprio Paese. Dopo la fine
della guerra la questione, per il gen. Anders, assume
un aspetto morale, oltre che di carattere politico e strategico. Il II Corpo ha combattuto in nome del concetto occidentale di ordine internazionale, basato sulla
libertà e l’autodeterminazione dei popoli ed egli ritiene che il compito della formazione si possa ritenere
concluso solo quando tali condizioni verranno instaurate in Polonia. E per Anders l’opportunità per ridare
l’indipendenza alla Polonia si presenterà se e quando
l’Unione Sovietica invaderà l’Europa.
Le posizioni di Anders muteranno con l’evolversi
delle vicende internazionali e del II Corpo ma il generale, sia per gli aiuti che fornisce ai movimenti anticomunisti in Polonia sia per la sua attività in Gran
Bretagna, diventerà negli anni della guerra fredda, per
30
la macchina propagandistica comunista, il simbolo
del “nemico”. Il suo libro “Un’Armata in esilio” (titolo originale: “Bez ostatniego rozdziału” - Senza l’ultimo capitolo) verrà tradotto in numerose lingue e provocherà forti polemiche in quanto denuncia il sistema
concentrazionario sovietico e accusa i leader occidentali di aver tradito la Polonia. Gli attacchi contro
Anders assumono toni violenti e, ancora nel 1959, in
Polonia verrà pubblicato un libro in cui le accuse contro il generale sono tante e talmente assurde da sfiorare il ridicolo. Il fatto che l’autore avesse ricoperto il
ruolo di aiutante di campo di Anders e fosse stato
imprigionato in Medio Oriente come presunto informatore del Nkvd è tuttavia una ulteriore prova che i
servizi segreti sovietici avevano infiltrato nel II Corpo
alcuni uomini che possono aver agito, in determinati
contesti, anche come provocatori (Sarner, pp. 124127; pp. 281-283).
Non sono però mancati, in Polonia, studi accurati sul II Corpo, frutto anch’essi però di una sorta di
compromesso - se non talora di una vera e propria
collaborazione - tra storico e regime comunista. In
“I polacchi nella Campagna italiana” di Terlecki
(stampato a Varsavia, nel 1977, in lingua italiana;
vedi bibliografia), ad esempio, l’autore evita qualsiasi riferimento all’invasione sovietica della Polonia e
definisce “polacchi trovatisi in territorio sovietico”,
senza ulteriori approfondimenti, i polacchi rinchiusi nelle prigioni e nei campi di lavoro forzato sovietici nel periodo 1939-41. Manca ovviamente qualsiasi riferimento alla questione polacca e ai progetti
del gen. Anders, il cui nome, in un libro di 140
pagine, è citato solo pochissime volte.
L’impegno senza compromessi alla causa dell’indi-
pendenza polacca durerà per Anders fino alla morte,
quando diviene una figura emblematica e quasi mitica da celebrare. E dopo il 1989, con il ripristino di
quella sovranità polacca a cui Anders aveva dedicato
tutta la vita, i suoi meriti saranno pienamente riconosciuti. Sono stati pubblicati i suoi libri, che durante il regime comunista circolavano in forma clandestina; gli sono stati dedicati francobolli e monete;
una grande via di Varsavia porta il suo nome. Di
recente in questa via è stato collocato il monumento
dedicato ai combattenti e alle vittime scomparse in
Unione Sovietica: un carro ferroviario pieno di croci.
L’esilio. La smobilitazione del II Corpo polacco
viene decisa dal nuovo Governo laburista britannico
(Primo ministro: Clement Attlee; ministro degli
Esteri: Ernest Bevin) proprio nel momento in cui
numerosi reparti sono impegnati in Venezia Giulia
per la crisi di Trieste. Il II Corpo, da un punto di
vista militare, costituisce il cardine del dispositivo
britannico in Italia. Ma per il Foreign Office, il
Ministero degli Esteri britannico, a mano a mano la
presenza dei polacchi in Italia, nel dopoguerra, viene
a costituire una fonte di contrasti con il Governo
polacco di unità nazionale, e con la stessa Unione
Sovietica, con cui invece Bevin, anche sotto la spinta della sinistra del suo partito, intende all’epoca
mantenere rapporti di amicizia.
Anche l’Italia aveva riconosciuto il nuovo Governo
polacco ed erano riprese le relazioni diplomatiche con
la Polonia: Eugenio Reale era stato inviato come
ambasciatore a Varsavia ed a Roma erano venuti
prima E. Markowski e poi S. Kot, già ambasciatore in
Unione Sovietica e con cui il gen. Anders si era dura-
mente scontrato al momento dell’esodo dei polacchi,
nel 1942, accusandolo di non aver fatto del proprio
meglio per salvare i suoi connazionali. L’ambasciata
polacca si rivela molto abile nell’elaborare materiale
contro Anders e nel raccogliere informazioni sugli
incidenti tra polacchi e italiani e su interferenze di
ufficiali polacchi nella vita politica italiana. Vengono
poi preparati dei dossier da fornire ai Comandi alleati in Italia e alla stampa internazionale. La stampa
inglese, in particolare, provvede a diffondere e ad
amplificare tali informazioni. Il gen. Anders, il vero
obiettivo della campagna diffamatoria, è accusato di
impedire il rimpatrio dei soldati del II Corpo che
intendono rientrare in Polonia, di armare i movimenti clandestini anticomunisti in Polonia, di alimentare
le tensioni internazionali fomentando una guerra
contro l’Unione Sovietica.
Secondo l’ambasciatore britannico a Roma, sir
Noel Charles, Kot (che poi si rifugerà in Occidente,
accusando i nuovi governanti della Polonia con un
linguaggio simile a quello di Anders) è “instancabile nel sostenere la campagna contro Anders... e stilla veleno” contro il II Corpo (Sarner, p. 240).
Il Governo polacco invia continue proteste a
Londra chiedendo la chiusura dei giornali e la cessazione delle pubblicazioni del II Corpo. Quando l’11
dicembre 1945 il gen. Anders decora ad Ancona due
ufficiali britannici e uno americano (Rankin,
Steward, Tappin; si vedano le foto nel fondo “gen.
Anders” di Regione Marche e Polish Institute and
Sikorski Museum) in nome del presidente (con sede
a Londra) della Repubblica polacca, W. Raczkiewicz,
il fatto viene duramente stigmatizzato dal Governo
comunista di Varsavia.
31
Di fronte a tale situazione, che potrebbe sfociare
in una crisi internazionale, il Foreign Office compie
una sorta di istruttoria sul II Corpo e sul gen.
Anders procedendo ad un confronto tra gli interessi
britannici e le posizioni polacche. Il contrasto, in
particolare, è netto sull’intenzione britannica, in
continuità con la linea di Churchill, di puntare sull’entrata nel Governo polacco di alcuni rappresentanti del Governo in esilio di Londra. E la conclusione a cui arrivano le autorità britanniche è che
l’apporto militare del II Corpo in Italia non compensa le conseguenze negative che possono riversarsi sulla politica estera della Gran Bretagna. Il II
Corpo deve quindi essere ritirato dall’Italia.
Ad affrettare la decisione contribuiscono le implicazioni internazionali sollevate dal documento elaborato dalla Iugoslavia che, nel febbraio del 1946, il rappresentante sovietico trasmette al Segretario generale
e al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nel documento
si sostiene che il II Corpo è schierato sulla frontiera
della Iugoslavia e che, per i suoi rapporti con i “collaborazionisti iugoslavi rifugiatisi in Italia” - reclutati
con lo “slogan combatti il comunismo in Iugoslavia”
- rappresenta un grave pericolo per la pace.
E così, il 15 marzo 1946, avviene a Londra un
drammatico incontro tra il Primo ministro Attlee, il
ministro degli Esteri Bevin e il gen. Anders. Il gen.
Anders viene messo di fronte al fatto compiuto: il II
Corpo “politicamente sta diventando un imbarazzo”
(Anders, p. 365) per il Governo britannico e deve
essere smobilitato e trasferito dall’Italia in Gran
Bretagna. Ancora una volta la Gran Bretagna, nella
questione polacca, sceglie la “Realpolitik”. Il
Governo britannico garantirà l’avvenire di coloro
32
che non vogliono rientrare in Polonia, pur invitando i soldati a rimpatriare nel maggior numero possibile. Nel maggio successivo viene deciso di trasformare le Forze Armate polacche all’estero in un
Corpo di Avviamento (Polish Resettlement Corps)
che, per un periodo massimo di due anni, preparerà
i soldati alla vita civile mediante corsi professionali e
l’insegnamento della lingua inglese.
Paradossalmente, la crisi di Trieste, che aveva fatto
forse intravedere ad Anders qualche possibilità che si
verificassero le sue previsioni, pone fine all’esistenza
del II Corpo. L’odissea dei soldati polacchi, cominciata in Polonia e proseguita in Unione Sovietica e in
Medio Oriente, si conclude in Venezia Giulia. E,
altro paradosso, che tuttavia testimonia la divaricazione tra autorità militari e politiche britanniche, termina quando gli Stati maggiori alleati avevano elaborato un piano che, in accordo con lo “Studio” polacco
citato, disponeva di rifornire i soldati polacchi schierati sul confine giuliano per permettere loro, in caso
di attacco da est, di resistere per tre settimane in attesa dell’arrivo di rinforzi (Petracchi, pp. 66-67).
Nell’Ordine del giorno del 29 maggio 1946, il gen.
Anders, con la consueta franchezza, scrive che i soldati polacchi lasceranno l’Italia, ma batteranno sempre la “strada ignota verso la Polonia, quella Polonia
per la quale abbiamo combattuto... che nessun cuore
polacco può immaginare senza Vilno e Leopoli”.
Espressioni che suscitano la reazione del ministro
degli Esteri britannico Bevin, il quale auspica che tali
sentimenti non vengano ripetuti da Anders in
dichiarazioni ufficiali, in quanto le frontiere della
Polonia sono ormai fissate internazionalmente.
Le autorità britanniche non invitano le forze polac-
che all’estero a partecipare alla grande Parata della
Vittoria, che si svolge a Londra l’8 giugno 1946. Il
gen. Anders risponde celebrando ad Ancona, il 15
giugno, la “Giornata del soldato” del II Corpo e fa
trasmettere dagli altoparlanti il “voto”: “Le forze
polacche indipendenti devono essere smobilitate,
(ma)... come soldati della sovrana Repubblica
Polacca... continueremo la nostra lotta per la libertà
della Polonia”. Il 26 settembre il Governo polacco
priva Anders e altri 75 generali e ufficiali superiori
della cittadinanza polacca. Il 31 ottobre 1946 il gen.
Anders lascia l’Italia, dopo le visite di congedo al capo
provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, al papa Pio
XII, e al Quartier Generale alleato di Caserta.
Il trasferimento dei soldati del II Corpo dall’Italia
alla Gran Bretagna avviene dal giugno all’ottobre del
1946 e continua, con gli ultimi piccoli contingenti,
fino al febbraio del 1947. Nel corso della complessa
operazione non mancano problemi, in quanto i
componenti della 5a Divisione “Kresowa”, formata
da ex deportati in Unione Sovietica e da polacchi
provenienti dai territori orientali incorporati
nell’Unione Sovietica, rifiutano il trasferimento in
Inghilterra e si dicono pronti ad andare in Polonia
per combattere i sovietici. Ma la rivolta rientra grazie anche all’intervento del gen. Anders. Altri problemi riguardano i soldati polacchi che avevano sposato ragazze italiane in quanto le autorità britanniche impediscono il loro ingresso in Gran Bretagna.
I 1400 soldati polacchi interessati sono costretti a
rimanere in Italia, in particolare nelle Marche, in
Puglia e in Emilia Romagna, e a trovarsi un lavoro
nella difficile situazione di quegli anni. Alcuni di essi
emigreranno, soprattutto in Argentina. Altri polacchi rimangono nelle città dove avevano studiato:
Roma, Torino, Milano, Bologna.
Dei soldati trasferitisi in Gran Bretagna, molti
rimangono nel Paese, altri emigrano negli Stati
Uniti, in Canada, Argentina, Australia. Tutti i soldati polacchi che si avviano all’esilio sono consapevoli di aver combattuto con grande determinazione,
riconosciuta da tutti i comandanti alleati, per una
rivincita nei confronti dell’invasione tedesca del
1939, per i loro familiari rimasti in Polonia, per la
sopravvivenza nazionale contro le mire sovietiche,
ma anche per l’Italia. Il loro motto era stato “per la
nostra e vostra libertà” e il loro riferimento ideale il
generale Jan Henryk Dąbrowski, che si era battuto a
fianco di Napoleone con una legione polacca con la
speranza di portare la libertà nel suo Paese marciando, appunto, “dalla terra italiana alla Polonia”, una
frase che risuona nell’inno nazionale polacco.
Ma, come 150 anni prima, il sogno non si realizza perché il loro Paese accanto alle violenze commesse dai vinti deve sopportare le ingiustizie dei vincitori. La Polonia, infatti, dopo essere stata vittima
della duplice aggressione nazista e sovietica del 1939
e avere subito nel corso della guerra 6 milioni di
morti su una popolazione di 36 milioni di abitanti,
diventa nel dopoguerra vittima dei nuovi equilibri
europei. Che sono il risultato dei protocolli segreti
tra sovietici e tedeschi e degli accordi di Jalta tra
sovietici e potenze occidentali.
Nelle sue memorie (Un’Armata in esilio) il gen.
Anders scrive che per la Polonia la guerra non è cessata con la vittoria, come per altre nazioni alleate e che
ai polacchi non resta che attendere che si compia “l’ul33
timo capitolo di questo grande sconvolgimento storico”. “L’ultimo capitolo” verrà scritto dai polacchi nel
1989, l’anno in cui nasce il primo governo a maggioranza non comunista dalla Seconda guerra mondiale.
Si è trattato di una transizione pacifica che ha però
comportato decenni di lotta, dalla rivolta operaia di
Poznań del 1956, agli scontri altrettanto sanguinosi di
Danzica, alla proclamazione della legge marziale, alla
messa fuori legge di Solidarność, all’assassinio di padre
1892-1970
1893-1982
1896-1980
1893-1954
34
J. Popiełuszko da parte dei servizi di sicurezza.
Un periodo che ha avuto momenti esaltanti come
la prima visita in Polonia, nel 1979, di Giovanni
Paolo II. La lotta è terminata con la vittoria grazie
anche al contributo che il gen. Anders e i soldati del
II Corpo hanno dato con le loro battaglie in Italia,
con i loro caduti, con la testimonianza di libertà offerta dal loro esilio, con il loro impegno senza compromessi alla causa dell’indipendenza della Polonia.
Da sinistra a destra e dall’alto in basso: tenente generale
Władysław Anders, comandante del II Corpo polacco;
generale Zygmunt Bohusz-Szyszko, vicecomandante del II
Corpo; maggior generale Bronisław Duch, comandante
della 3ª Divisione “Fucilieri dei Carpazi”; maggior generale
Nikodem Sulik, comandante della 5ª Divisione “Kresowa”;
maggior generale Bronisław Rakowski, comandante della
2ª Brigata corazzata; maggior generale Roman
Odzierzyński, comandante dell’artiglieria del II Corpo.
1895-1950
1892-1975
Nota
Costituzione organica del II Corpo polacco
e materiali in dotazione
Il II Corpo d’Armata polacco è una unità operativa
autonoma, costituita sul modello di un corpo di spedizione britannico. La sua articolazione è tuttavia molto
più complessa comprendendo truppe di Corpo
d’Armata, divisioni di fanteria, un raggruppamento di
artiglieria, una brigata corazzata e una vasta struttura di
servizi che lo rende indipendente, oltre che dal punto di
vista operativo, anche da quello amministrativo. Le truppe di Corpo d’Armata, l’artiglieria, le formazioni corazzate hanno il compito generale di rinforzare e appoggiare l’azione delle divisioni di fanteria.
La fanteria, tradizionalmente definita il “nerbo degli
eserciti”, anche nel II Corpo ha il compito di svolgere le
azioni di fuoco e di urto: comprende due divisioni autotrasportate, ognuna delle quali è su due brigate, mentre
ogni brigata è su tre battaglioni. Il battaglione è composto di 4 compagnie fucilieri e di una compagnia comando, alla quale spettano - oltre ai compiti amministrativi i ruoli di supporto eseguiti per mezzo di plotoni e sezioni mortai, controcarro, controaerei, esploranti, trasmissioni, genieri. Le altre formazioni divisionali comprendono 3 reggimenti di artiglieria da campagna, un reggimento di artiglieria controcarro, un reggimento di artiglieria controaerei leggera, un reggimento esplorante, un
battaglione Genio, un battaglione Trasmissioni, un battaglione mortai-mitragliatrici, servizi.
In totale, la fanteria del II Corpo è composta di 12 battaglioni, a cui vanno aggiunti i due battaglioni dotati di
mortai e mitragliatrici. I fanti hanno in dotazione: i fucili Lee-Enfield N. 1 Mark III e N. 4 Mark I, a ripetizione
ordinaria, cal. 0,303 pollici; il moschetto automatico
Thompson mod. 1928, cal. 0,45 pollici; il fucile mitragliatore Bren, cal. 0,303 pollici (alcuni su cingolato leggero, carrier, di 3,5 tonnellate - chiamato in questo caso
Bren Carrier - un mezzo molto versatile che serve anche
per il trasporto dei fanti e di armi di reparto); la mitragliatrice Vickers, cal. 0,303 pollici; il lanciabombe controcarro PIAT; i mortai da 2 e da 3 pollici; il cannone
controcarro da 6 libbre (dal peso del proietto).
Fanno parte del II Corpo anche i “commando”, fanti
particolarmente addestrati per operazioni combinate terrestri-marittime o per missioni speciali. Inizialmente
parte del Commando N. 10 interalleato, una compagnia
polacca di commando combatte con i britannici sui fiumi
Sangro e Garigliano e nell’aprile del 1944 passa al II
Corpo, combattendo a Montecassino e ad Ancona, con il
nome di 1a Compagnia autonoma Commando, impiegata come fanteria d’élite. I commando polacchi addestrano la 2a Compagnia Commando o 111a Compagnia
Protezione Ponti, formata da volontari italiani inquadrati da ufficiali e sottufficiali polacchi, che sarà uno dei
primi reparti ad entrare in Ancona il 18 luglio 1944. La
35
1a e la 2a Compagnia formano il Raggruppamento
Commando.
Nel suo complesso, l’artiglieria - compreso il reggimento osservatori - è composta di 18 reggimenti con in dotazione circa 600 pezzi. Ogni azione della fanteria del II
Corpo può dunque contare sul potente appoggio del
fuoco dell’artiglieria, che mostra una notevole versatilità
di calibri e di specializzazioni, una buona organizzazione
di comando e un buon servizio trasmissioni.
L’artiglieria di Corpo d’Armata è formata da due reggimenti di artiglieria media (“pesante” nella terminologia
polacca). Ogni reggimento è composto di due gruppi
(“dywizjon” nella terminologia polacca), ognuno dei
quali è formato da due batterie. Il singolo reggimento di
artiglieria media ha in dotazione 16 pezzi da 5,5 pollici e
16 pezzi da 4,5 pollici. Nel Corpo sono inoltre presenti
due reggimenti di artiglieria campale (per tradizione, uno
di essi è designato come artiglieria a cavallo), dotati ognuno di 24 cannoni da 25 libbre a tiro rapido, uno dei pezzi
più usati nel corso della Seconda guerra mondiale. I 4
reggimenti citati fino ad ora costituiscono la base
dell’AGPA (Army Group Polish Artillery) che è una formazione, appunto, a livello di Corpo d’Armata, sotto
comando unico, da impiegare quando sono necessari i
calibri superiori ai pezzi divisionali. L’artiglieria di Corpo
è inoltre costituita da: un reggimento di artiglieria controaerei leggera, dotato di 54 pezzi Bofors da 40 mm; un
reggimento di artiglieria controaerei pesante, dotato di 24
cannoni; un reggimento dotato di 24 semoventi M 10
controcarro (ricavato sullo scafo del carro armato
Sherman, con torretta a cielo aperto, pesa circa 30 tonnellate ed è dotato di un cannone da 76,2 mm e di una
mitragliatrice da 12,7 mm; gli inglesi sostituiranno i cannoni originari con i 17 libbre, ribattezzando il mezzo
Achilles); un reggimento di osservatori di artiglieria.
L’artiglieria divisionale, cui si è accennato più sopra in
riferimento alla singola divisione, è in complesso costitui36
ta da: 6 reggimenti (3 per divisione) di artiglieria campale, dotati ognuno di 24 cannoni da 25 libbre; due reggimenti di artiglieria controcarro, dotati ognuno di 16 cannoni da 17 libbre e di 32 cannoni da 6 libbre; due reggimenti di artiglieria controaerei leggera, dotati ognuno di
54 cannoni Bofors da 40 mm.
La brigata corazzata ha il compito di sostenere le unità
di fanteria e agisce come unità corazzata di fanteria. Solo
in qualche caso essa opera indipendentemente come brigata corazzata e talora come artiglieria d’assalto. Le forze
corazzate sono raggruppate in 3 reggimenti, ognuno dei
quali è dotato di 52 carri armati medi Sherman, 11 carri
leggeri Stuart e 12 autoblindo. Ogni reggimento è su uno
squadrone comando, di cui fanno parte 4 Sherman, gli
11 Stuart e veicoli da esplorazione, e su 3 squadroni di
prima linea, ognuno dei quali è composto di un plotone
comando con 4 Sherman e di 4 plotoni con 3 Sherman
ciascuno. In totale, quindi, in ogni squadrone di prima
linea ci sono 16 Sherman. Abitualmente, è il plotone
carri (“troop” nella terminologia britannica) che affianca
le unità fucilieri.
Per quanto riguarda le caratteristiche dei due carri, il
carro leggero statunitense M3 (denominato Stuart in
Gran Bretagna) nasce per l’appoggio alla fanteria, ma nel
corso della guerra viene soprattutto impiegato con compiti esploranti. Ha un equipaggio di 4 uomini e pesa circa
13 tonnellate. L’armamento base è costituito da un cannone da 37 mm, con una mitragliatrice coassiale da 7,62
mm e altre 4 mitragliatrici da 7,62 mm. Il carro medio
statunitense M4 (denominato Sherman in Gran
Bretagna) ha un equipaggio di 5 uomini e pesa circa 32
tonnellate, ma presenta numerose varianti. Il II Corpo ha
in dotazione il tipo M4A2, dotato di un gruppo propulsore costituito da due motori diesel, e armato con un cannone da 75 mm, mitragliatrice coassiale da 7,62 mm e
altre due mitragliatrici, di cui una da 12,7 mm per la difesa controaerei. Troppo alto e insufficiente nella corazza-
tura e nella potenza di fuoco, è tuttavia disponibile in un
altissimo numero di esemplari (circa 40 mila carri prodotti) , tanto che uno Sherman distrutto viene rapidamente rimpiazzato. In azione spesso è protetto dai carristi con spezzoni di cingolo o sacchetti di sabbia. In seguito, si provvede a potenziare la corazzatura e a utilizzare un
cannone da 76 mm.
Le unità esploranti (cavalleria), che hanno il compito di
raccogliere informazioni e di saggiare la consistenza quantitativa e qualitativa del nemico, sono presenti con un
reggimento sia nelle truppe di Corpo d’Armata sia in
ogni divisione di fanteria. Il reggimento esplorante di
Corpo d’Armata (Lancieri dei Carpazi) dispone di una
potenza di fuoco superiore rispetto a quella dei reggimenti divisionali.
I Lancieri dei Carpazi sono infatti formati da uno squadrone comando, dotato di 6 autoblindo, di cui fanno parte
un plotone controaerei, un plotone trasmissioni, una batteria controcarro dotata di pezzi da 17 libbre, e da 3 squadroni di prima linea, ognuno dei quali è costituito da un plotone comando, dotato di 5 autoblindo, da 5 plotoni con 4
autoblindo ciascuno e da un plotone d’assalto con 5 blindati. In totale, il reggimento dispone di 58 autoblindo
pesanti Staghound, 23 veicoli da esplorazione, 26 veicoli
per il trasporto del plotone d’assalto e dei cannoni.
Ognuno dei due reggimenti esploranti divisionali è così
suddiviso: squadrone comando, dotato di 3 autoblindo,
di cui fanno parte un plotone mortai da 3 pollici, un plotone controcarro con pezzi da 6 libbre, un plotone motociclisti, un plotone trasmissioni e 3 squadroni di prima
linea. Ogni squadrone si compone di plotone comando,
dotato di 2 autoblindo, di 3 plotoni, dotati di autoblindo pesanti, veicoli da esplorazione, carrier, e di un plotone d’assalto. Ogni reggimento esplorante divisionale è
dotato di 28 autoblindo pesanti Staghound, 24 veicoli da
esplorazione, 60 carrier, 55 motociclette.
Ai genieri spetta il compito di costruire opere difensive,
di stendere campi minati, di bonificare dalle mine, di
costruire ponti, strade, ferrovie, aeroporti, di compiere
demolizioni. Nel II Corpo sono presenti con 3 battaglioni,
uno nelle truppe di Corpo d’Armata e uno in ogni divisione di fanteria. Anche le trasmissioni sono rappresentate da
3 battaglioni, uno nelle truppe di Corpo d’Armata e uno in
ogni divisione di fanteria. La Polizia Militare, cui spettano
compiti di sicurezza e di controllo del traffico, è presente
con 3 compagnie, distribuite nel Corpo e nelle divisioni.
Efficienti, flessibili e notevoli per numero e addetti
sono i servizi. Quello più consistente è il Servizio
Rifornimenti e Trasporti, che ha il compito di trasportare munizioni, viveri, materiali dai depositi principali britannici alle varie unità del II Corpo, da quelle maggiori
alle minori. Il Servizio è dotato di forni da campo, mattatoi mobili, autocisterne.
Il Servizio di Sanità, cui spetta il controllo della salute
dei militari e l’evacuazione di malati e feriti, opera con
stazioni mobili per lo smistamento dei feriti, unità chirurgiche campali, unità per trasfusioni, ambulanze campali. In zona di operazioni, nei posti di medicazione avanzati, vengono trattati i casi più lievi, mentre gli altri feriti
passano al posto di medicazione principale e negli ospedali, situati nelle retrovie e nella Base (vedi più avanti).
Negli ospedali svolgono un ruolo fondamentale le infermiere del “Servizio Ausiliario Femminile”. Le donne sono
impiegate anche nel Servizio Trasporti, nelle trasmissioni
e in altri servizi. La 316a e la 317a Compagnia Trasporti
sono formate esclusivamente da donne.
Nei servizi sono inseriti anche gli specialisti meccanici
elettricisti, cui spetta il compito di riparare veicoli, armi e
apparati per le trasmissioni. I Servizi logistici si occupano
della fornitura ai reparti di armi ed equipaggiamenti vari,
per artiglieria, genio, trasmissioni, ecc. e di tutto ciò che
riguarda il vestiario. I materiali sono sistemati nei depositi di Corpo d’Armata e vengono poi trasferiti dal Servizio
Trasporti nei Parchi materiali logistici delle singole divi37
sioni. Al Servizio logistico sono affidati anche i compiti di
provvedere ai bagni dei soldati e alla lavanderia.
I cappellani militari provvedono all’assistenza spirituale per i soldati cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei. La
Sezione Benessere si occupa delle condizioni dei soldati e
allestisce sale riunioni, spacci, spettacoli. Altri servizi si
occupano di: amministrazione, posta, pubbliche relazioni. Il Servizio Topografico provvede ai rilievi, alla riproduzione di mappe, alla loro distribuzione ai reparti. Le
Corti Marziali, una nelle truppe di Corpo d’Armata e una
per ogni divisione, si occupano di giustizia militare. Nella
Base, dove si concentrano le attività addestrative del II
Corpo, sono presenti la 7a Divisione di riserva (complementi), la sezione stampa, tre ospedali da 600 letti ognuno e uno da 200 letti,un convalescenziario. Nel corso dell’avanzata verso nord, parte della struttura ospedaliera
seguirà il II Corpo, mentre un ospedale principale
rimarrà a Casamassima.
Nel mese di aprile del 1944, gli effettivi del II Corpo
ammontano a: 3156 ufficiali, 43971 tra sottufficiali e
truppa, 110 ausiliarie per un totale di una forza di 47237.
Nella Base sono presenti: 922 ufficiali, 5459 tra sottufficiali e truppa, 1180 ausiliarie. Suddividendo il dato per
specialità e considerando la forza reale, senza i servizi, si
nota che la fanteria dispone di 11309 addetti, mentre
l’artiglieria ne conta 12854. Emerge così uno dei problemi fondamentali del II Corpo, cioè la relativamente scarsa disponibilità di fanteria, che provoca difficoltà quando
si deve entrare nella fase di sfruttamento del successo. A
tale situazione contribuisce anche l’alto grado di motorizzazione del II Corpo (5297 autocarri, 590 trattori di artiglieria, 1908 mezzi speciali, 1292 autovetture, 129 ambulanze, 2528 motociclette, ecc. presenti già nel dicembre
del 1943), che sottrae personale alle armi combattenti.
Il primo luglio del 1944, alla vigilia dei combattimenti
per la conquista di Ancona, gli effettivi sono i seguenti:
2872 ufficiali, 41343 tra sottufficiali e truppa, 207 ausi38
liarie, per una forza totale di 44422. Nella Base sono presenti: 1082 ufficiali, 8389 tra sottufficiali e truppa, 1292
ausiliarie. E sarà proprio la Battaglia di Ancona a evidenziare i problemi di organico del II Corpo, tanto che dal
mese di settembre del 1944 viene messo in atto un piano
di potenziamento dell’unità, sia in mezzi sia in uomini.
Il nuovo personale proviene dalla “prima linea”, cioè,
dopo una selezione, dai polacchi di Pomerania, Slesia,
Posnania incorporati nelle Forze Armate tedesche e fatti
prigionieri dagli Alleati. Il progetto è approvato dalle
autorità britanniche, in vista anche dell’offensiva della
primavera del 1945 contro i tedeschi, e porta all’inizio del
1945 alla articolazione delle divisioni di fanteria su 3 brigate, in luogo delle 2 precedenti. La priorità viene data
proprio a questa trasformazione, in quanto i combattimenti richiedono un contributo sempre crescente della
fanteria. Le nuove brigate, già operative da gennaio, partecipano all’ offensiva dell’ aprile 1945. Anche l’ artiglieria viene potenziata e sviluppata secondo i piani previsti:
il 9° Reggimento viene dotato di pezzi da 155 mm e da
7,2 pollici e diventa di artiglieria pesante (“pesantissima”
nella terminologia polacca); si formano inoltre 2 nuovi
reggimenti di artiglieria media.
Per quanto riguarda la 2a Brigata corazzata, che ha talora mostrato scarsa capacità di sfondamento, è prevista la
sua incorporazione nella nuova 2a Divisione corazzata
“Varsavia”, che dovrà anche comprendere la 16a Brigata di
Fanteria motorizzata “Pomerania”, il 2° Battaglione
motorizzato Commando e reparti di artiglieria. Della 2a
Divisione corazzata farà parte anche il Reggimento esplorante “Lancieri dei Carpazi”, in precedenza compreso
nelle truppe di Corpo d’ Armata. Ma questo complesso
piano di ristrutturazione potrà essere pienamente attuato
solo nel giugno del 1945, a guerra terminata.
E’ inoltre programmata la costituzione della 14a Brigata
corazzata “Grande Polonia”, composta di 3 reggimenti
corazzati. L’ addestramento si svolge in Egitto e la briga-
ta rientra in Italia nel gennaio del 1945, ma la sua organizzazione viene completata solo a guerra finita. Il potenziamento generale del II Corpo polacco riguarda anche i
reparti esploranti, le trasmissioni e i servizi. Gli organici
salgono in totale a circa 110 mila soldati.
Da notare come i nomi dei reparti, sia prima sia dopo
la ristrutturazione, siano una ulteriore testimonianza dei
forti legami con la Polonia e, in particolare, con le regioni orientali. La 3a Divisione “Fucilieri dei Carpazi” prende il nome dai monti Carpazi, attraverso cui molti soldati polacchi sono riusciti, nel 1939, a fuggire dalla Polonia.
La 5a Divisione “Kresowa” richiama nel nome i reparti di
frontiera (Kres=termine, limite) ed è costituita da molti
soldati originari delle zone di confine con l’ Unione
Sovietica. Le sue 3 brigate sono intitolate alla regione
della Volinia e alle città di Leopoli (Lwów) e di Wilno,
lituana ma nel Cinquecento unita alla Polonia. Un reggimento esplorante ricorda la regione della Podolia. Nella
2a Brigata corazzata il 6° Reggimento è intitolato ai
“Bambini di Lwów” e rievoca la partecipazione anche dei
giovani polacchi alla difesa della città, nel 1918, contro
gli ucraini, mentre il 1° Reggimento richiama alla memoria i combattimenti svoltisi nella località di Krechowce.
Il primo obiettivo della profonda ristrutturazione del II
Corpo polacco è quello di conferire maggior efficacia alle
forze alleate in vista dell’ offensiva finale della primavera
del 1945 contro i tedeschi. Ma è anche evidente il tentativo del gen. Anders di formare i quadri di un futuro esercito polacco moderno, in quanto in grado di impiegare
truppe corazzate, fanteria motorizzata, artiglieria semovente e di disporre di servizi efficienti.
Nel momento in cui svanisce il sogno di ritornare in
patria, permane tuttavia la volontà di costituire un centro
di aggregazione dei cittadini polacchi dispersi, a causa
della guerra, in tutta Europa per fornire loro - grazie
anche a scuole e corsi professionale - un sostegno morale
e materiale, oltre che le conoscenze e le esperienze utili
per fondare nuove comunità nei vari Paesi del mondo.
Distintivi del Comando e delle truppe di Corpo d’Armata del
II Corpo polacco (sirena di Varsavia bianca su fondo rosso); della
3a Divisione “Fucilieri dei Carpazi” (pino verde su fondo bianco
e rosso); della 5a Divisione “Kresowa” (bisonte marrone scuro su
fondo giallo chiaro); della 2a Brigata corazzata, poi 2a Divisione
corazzata (braccio armato e alato color argento su fondo cachi).
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MUSEO DELLA LIBERAZIONE DI ANCONA
Via dell’Arengo 11, OFFAGNA (Ancona)
(Scheda a cura di Mario Fratesi)
Il 24 aprile 2009 è stato inaugurato a Offagna
(An) il Museo della Liberazione di Ancona.
La maggior parte dello spazio espositivo del
museo è dedicato alle cento fotografie recuperate,
dopo una paziente e meticolosa ricerca, presso i
musei di guerra di Londra (The Polish Institute and
Sikorski Museum, Imperial War Museum).
Tali fotografie documentano tutte le fasi delle battaglie per la liberazione di Ancona nonché aspetti
legati alla vita delle comunità locali ed alla permanenza nelle Marche dei soldati del II Corpo polacco.
E’ presente una collezione di armi e di equipaggiamenti militari che si riferiscono alla Campagna
d’Italia della Seconda guerra mondiale: in gran parte
provengono dalle destinazioni effettuate dalla
Soprintendenza per i beni storici delle Marche, e da
altre Soprintendenze, per interessamento del prof.
Daniele Diotallevi; in parte provenienti dalla collezione privata del sig. Giuliano Evangelisti.
Una postazione mediatica consente di visionare le
oltre 7.000 immagini riferite alle operazioni del II
Corpo polacco nelle Marche, provenienti sempre dai
musei londinesi. E’ stato anche ricostruito, con l’ausilio di effetti sonori, l’ambiente di un rifugio antiaereo;
luogo in cui gli anconetani erano costretti a rifugiarsi
nel corso dei bombardamenti a cui è stata sottoposta
la città dall’ottobre 1943 al giugno ’44.
Esiste inoltre il progetto di dotare il museo di una
biblioteca e di materiale documentativo sulla
Campagna d’Italia e sulle conseguenze della guerra
rispetto alla popolazione civile
L’allestimento del museo è stato curato dal sottoindicato Comitato scientifico, mentre la gestione
scientifica è stata affidata all’Istituto Regionale per la
Storia del Movimento di Liberazione.
COMITATO SCIENTIFICO
Dott. Stefano Balzani
Dott. Giuseppe Campana
Prof. Daniele Diotallevi
Sig. Mario Fratesi
Dott.ssa Beata Jackiewicz
Dott. Sergio Molinelli
Prof. Wojciech Narȩbski
Dott. Michael Olizar
Dott. Massimo Papini
Prof. Henryk Swiebocki
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ORARI DI APERTURA
Dal 25/04 al 30/06 Sabato e Domenica 10-12,
16,30-19,30
Dal 01/07 al 15/09
Tutti i giorni 10-12, 17-20
Dal 16/09 al 31/10 Sabato e Domenica 10-12,
16.30-19.30
Dal 01/11 al 24/04 Chiuso: visitabile solo su prenotazione
Informazioni - Comune di Offagna:
Tel. 071.7107005 - Fax 071.7107380 - e-mail: [email protected]
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Il contesto storico
ANCONA, LUGLIO 1944
UNA BATTAGLIA PER LA LIBERTA’ DI POLACCHI E ITALIANI
(Scheda a cura di Giuseppe Campana)
Il 18 luglio 1944 i soldati del II Corpo d’Armata
polacco, al comando del generale W.Anders, entrano ad Ancona. La città viene liberata dopo una battaglia, condotta in due fasi, che mostra notevoli
punti di interesse e di originalità. Sono inoltre presenti alcuni aspetti di ordine simbolico che rivestono una fondamentale importanza e che indicano le
Marche come uno dei primi luoghi in cui le ricostituite Forze armate italiane, i partigiani, le istituzioni
locali collaborano con gli alleati per compiere quella necessaria opera di ricostruzione morale che porterà alla rinascita dell’Italia.
I soldati polacchi hanno il compito di conquistare
il porto di Ancona, il cui possesso è indispensabile
per rifornire le truppe alleate impegnate nell’offensiva contro i tedeschi che segue allo sfondamento
della Linea Gustav e all’entrata degli americani a
Roma. Per raggiungere l’obiettivo, il gen. Anders
imposta dapprima una strategia flessibile che prevede una manovra aggirante da condurre dalla zona di
Macerata in direzione di Jesi. Tuttavia, nel caso che
l’offensiva si dovesse esaurire, è prevista in subordine la conquista delle posizioni dominanti di
Castelfidardo, Osimo, Filottrano, Cingoli, ritenute
utili per continuare le operazioni con successo.
Ed è quanto accade nelle prime due settimane del
luglio 1944. Il possesso di queste alture consente,
nel periodo 17-19 luglio, l’effettiva conquista di
Ancona. L’operazione viene condotta a termine con
una manovra avvolgente che si sviluppa nell’entroterra di Ancona, partendo da Osimo e procedendo
in direzione di Polverigi, Agugliano, Falconara e la
foce del fiume Esino. Al tempo stesso viene impostata una manovra diversiva sulla fascia costiera a
sud di Ancona, volta a mascherare l’attacco principale e a spingere i tedeschi verso nord. Lo scopo
finale è quello di chiudere i tedeschi in una sacca,
delimitata a sinistra dalle forze polacche e a destra
dal mare.
Nella manovra avvolgente c’è un massiccio impiego di mezzi corazzati e di fanteria, mentre la manovra diversiva è affidata alla cavalleria. Nel suo complesso, l’operazione è molto ben impostata ed è preceduta da una valutazione di tutti i fattori favorevoli e contrari. In particolare, nella preparazione dell’attacco a Monte della Crescia, la cui conquista è di
estrema difficoltà ma al tempo stesso indispensabile
per proseguire la manovra avvolgente, entrano in
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gioco le peculiari doti del comandante: esperienza,
razionalità, prudenza unita al coraggio e alla capacità di affrontare incerte situazioni di rischio calcolato. E quando si manifestano quegli imprevisti che
sempre accompagnano le battaglie, il gen. Anders
può intervenire con decisioni adeguate.
Anche se i tedeschi, con ridotte forze di fanteria e
privi di carri armati ma dotati di notevoli contingenti di artiglieria, mostrano una tempestiva reattività, il successo arride alla fine al II Corpo polacco.
La conquista del porto di Ancona produce alcune
importanti conseguenze. Già dopo alcuni giorni le
navi cariche di rifornimenti possono attraccare,
mentre in tutta l’area di Ancona sorge una complessa rete di strutture logistiche, tra cui un gigantesco
deposito carburanti nel territorio di Falconara.
Ma, soprattutto, è la stessa strategia alleata a subire un radicale cambiamento: ai primi di agosto 1944
l’attacco principale alla Linea Gotica – la barriera
difensiva sistemata dai tedeschi tra sud di La Spezia
e Pesaro – viene spostato sulla fascia costiera adriatica. I polacchi dovranno proseguire l’azione contro i
tedeschi, spingendoli verso nord e logorandoli,
mentre altre truppe britanniche e canadesi saranno
inviate verso l’Adriatico per unirsi ai polacchi.
L’azione comune alleata contro la Linea Gotica verrà
avviata il 25 agosto 1944, alla presenza dello stesso
Primo ministro britannico W. Churchill.
Nella battaglia di Ancona il II Corpo polacco
mostra tutta l’efficienza raggiunta in anni di addestramento. Ma c’è nei soldati polacchi anche una
grande forza morale. Essi avevano vissuto, nel settembre del 1939, il dramma della duplice invasione
della Polonia da parte della Germania nazista e poi
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dell’Unione Sovietica. Molti di loro erano stati rinchiusi nei campi di lavoro forzato sovietici e avevano subito privazioni di ogni genere. Un solo ideale
unisce questi uomini: combattere i tedeschi sia per
liberare l’Italia sia per potere ritornare in una
Polonia libera, indipendente e ricostituita nei suoi
confini.
La battaglia di Ancona è dunque una battaglia
anche per la Polonia, volta a far conoscere la questione polacca e la condizione del II Corpo di armata in esilio. Ma le aspettative dei polacchi saranno
frustrate proprio dagli alleati britannici e americani
che, privilegiando l’alleanza con i sovietici, permetteranno a Stalin di incorporare nell’Unione
Sovietica quelle regioni orientali della Polonia che
erano state occupate nel 1939 d’accordo con Hitler.
Si può tuttavia affermare con fondamento che il
sacrificio dei soldati polacchi ad Ancona – come a
Cassino nel maggio 1944 e a Bologna nell’aprile
1945 -e la dignità con cui hanno in seguito affrontato l’esilio costituiscono le premesse di quella lunga
lotta che nel 1989 ha portato la Polonia a diventare
un Paese libero.
Nella battaglia di Ancona i polacchi non sono soli.
Al loro fianco combattono gli italiani. Il Corpo italiano di liberazione, comandato dal gen. U. Utili,
nella prima fase della battaglia ha il compito di
prendere Filottrano e quindi, nella fase decisiva, di
proteggere il fianco sinistro dei polacchi e di conquistare Rustico e Santa Maria Nuova. Il CIL, pur
disponendo di mezzi inadeguati, si comporta con
valore e mostra che il nuovo esercito italiano sta
superando il trauma dell’otto settembre. Proprio in
seguito ai risultati conseguiti dal CIL, potranno
nascere nei mesi successivi quei Gruppi di
Combattimento che daranno delle ottime prove, a
fianco degli alleati, nelle operazioni della primavera
del 1945 che porteranno alla sconfitta dei tedeschi.
Gli italiani fanno inoltre parte delle stesse forze
armate polacche. La 111a Compagnia Protezione
Ponti è appunto formata da volontari italiani,
inquadrati da ufficiali polacchi e impiegati come
commando. Con i Lancieri dei Carpazi sono tra i
primi, il 18 luglio 1944, ad entrare ad Ancona. Con
i polacchi collabora poi la “Banda Patrioti della
Maiella”, formata da partigiani abruzzesi e comandata da E. Troilo. I partigiani di Ancona danno un
contributo rilevante alla vittoria finale combattendo duramente, evitando la distruzione di ponti e
strade minate dai tedeschi, fornendo ai polacchi
preziose informazioni sul dislocamento dei tedeschi
e sulle strade da percorrere.
Una efficace collaborazione tra polacchi e italiani
si instaura con rapidità. Dal 18 luglio, e d’accordo
con i polacchi, sono gli stessi partigiani che, insieme
alle residue forze dell’ordine, presidiano la città. Il
coordinamento è affidato a Carlo Albertini, comandante del 3° Corpo dei Vigili del fuoco che, con i
suoi uomini, aveva svolto un ruolo fondamentale
nell’opera di soccorso delle popolazioni della provincia colpite dai bombardamenti angloamericani
dell’ottobre-novembre 1943 e dei primi mesi del
1944. Sia pure sotto tutela alleata si ricostituisce la
pubblica amministrazione: il prof. Franco
Patrignani viene nominato sindaco mentre prefetto
diventa l’avv. Oddo Marinelli.
Il 18 luglio 1944 non è dunque solo il giorno di
un notevole successo strategico alleato, ma segna
anche la data simbolica del faticoso avvio della
democrazia dopo la dittatura fascista e i tragici anni
della guerra. E va sottolineato il fatto che alla lotta
per la riconquista della libertà partecipano gli italiani, sia coloro che appartengono alle truppe regolari
e sia i partigiani, che mostrano ad Ancona – come
accadrà nei mesi successivi nel nord – la comune
volontà di combattere per il proprio Paese.
53
17 - 19 luglio 1944:
Battaglia principale di
Ancona (Seconda Battaglia
di Ancona).
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Seconda Battaglia di Ancona, 17-19 luglio 1944: commando polacco in azione nella zona di Casenuove (Osimo).
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Cannone d’assalto tedesco StuG III distrutto dai carri armati del 6° Reggimento corazzato nella zona di S. Paterniano
(Osimo).
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Il gen. Anders, comandante del II Corpo, e il gen. Sosnkowski, a destra, comandante in capo delle Forze Armate polacche, fotografati durante le battaglie di Ancona.
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Il gen. Rakowski, comandante della 2a Brigata corazzata, è in prima linea su un carro armato nel corso dell’offensiva per
la conquista di Ancona.
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La popolazione saluta i polacchi.
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La foto che è diventata il simbolo della liberazione di Ancona: i “Lancieri dei Carpazi” sfilano lungo corso Vittorio
Emanuele II (attuale corso Garibaldi).
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Giuseppe Campana
Giuseppe Campana
1943-1947 IL II CORPO D’ARMATA POLACCO IN ITALIA
1943-1947
IL II CORPO D’ARMATA POLACCO
IN ITALIA
18 luglio 1944: liberazione di Ancona
REGIONE MARCHE
MUSEO
DELLA LIBERAZIONE
DI ANCONA
Quaderni del Museo della Liberazione di Ancona - N. 1
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Il mio lungo cammino verso Torino
di Mieczysław Rasiej
L’articolo è ripreso da “pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, 19391989: la “quarta spartizione”, pp. 782-787.
Si ringraziano Luigi Marinelli e Marina Ciccarini per la gentile concessione.
poloniaeuropae 2010
Il mio lungo cammino verso Torino
Mieczysław Rasiej
Non ricordo quanti anni avessi quando, mentre passeggiavo con mia madre, ci
imbattemmo in una zingara che mi lesse la mano e mi predisse che avrei fatto
dei lunghi viaggi. Allora non le credetti, ma pochi anni dopo i fatti le dettero ragione.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, il 1 settembre 1939, mi trovavo con
la mia famiglia a Brody, una città della Polonia orientale, dove mio padre era
comandante distrettuale della Polizia di Stato. Quando, il 17 settembre, le truppe dell’Armata Rossa da oriente invasero la Polonia, anche la città di Brody
pochi giorni dopo fu occupata ed i sovietici incominciarono subito ad arrestare
funzionari della Polizia (uno dei primi fu mio padre) e dell’amministrazione statale ed inoltre magistrati, professionisti, ufficiali dell’Esercito, esponenti del clero.
Alcuni mesi dopo, il 13 aprile 1940, in piena notte, gli agenti della NKVD, senza
alcun preavviso, prelevarono anche mia madre, con me e mio fratello, e ci portarono con un ridottissimo bagaglio alla stazione, dove fummo caricati su uno
dei carri merci che formavano il lungo convoglio destinato al trasporto dei deportati: parenti (come noi) degli arrestati e famiglie del ceto medio. Quando tutti i
vagoni furono stipati, le guardie chiusero le porte ed il treno con la scorta militare partì. Dalla posizione del sole sapevamo che s’andava verso Est. Non avevo
ancora sedici anni ed era quello il mio primo lungo viaggio: ma quale viaggio!
Durò due settimane e ci si può immaginare in quali condizioni siamo vissuti,
sempre chiusi nei vagoni, in totale promiscuità ed in condizioni igieniche proibitive, con poco cibo e acqua. Giunti in una stazione della linea ferroviaria che
univa il bacino carbonifero di Karaganda alla transiberiana, nella repubblica
sovietica del Kazakistan, fummo smistati – a gruppi di famiglie – nei vari colcos
della regione. Noi, con alcune decine di altre famiglie polacche (anche di ebrei),
fummo portati a Mironovka, sede di un colcos in piena steppa, dove io con gli
altri giovani fui subito destinato ai lavori di campagna e di manovalanza. In quanto agli alloggi, tutti dovettero arrangiarsi a trovare in qualche modo una precaria
sistemazione presso i colcosiani, che erano già allo stretto nelle loro misere
casupole di argilla. Ben presto fra noi deportati polacchi si creò un rapporto di
solidarietà e di amicizia, rafforzato anche dal fatto che la gente locale, russi e
ITALIA - POLONIA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
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ucraini, non ci era molto favorevole. Quando era possibile, soprattutto nelle lunghe sere invernali, ci riunivamo in un’isba per conversare ed anche per cantare
le nostalgiche canzoni della nostra tradizione. Questo ci aiutava a sopportare
meglio una vita molto difficile, di fatiche e di privazioni, con cibo scarso e indumenti insufficienti a proteggerci dalle temperature che spesso d’inverno scendevano a -40°. Ma soprattutto ci aiutava a non perdere la speranza che la nostra
sorte sarebbe cambiata.
Al principio del 1941 ci trasferimmo nella cittadina di Novoje Suchotnoje, dove io
fui adibito a lavori, sempre di manovalanza, molto pesanti, certo non adatti al
fisico di un adolescente.
La nostra costante speranza, anzi la nostra fede in un cambiamento di vita, si
ravvivò alla notizia dell’attacco all’Unione Sovietica effettuato dalle armate tedesche il 22 giugno 1941. Poco dopo infatti si diffuse la notizia che l’Unione Sovietica avrebbe liberato tutti i polacchi detenuti e che si sarebbe anche organizzato un Esercito polacco. L’eccitazione fu subito grandissima e fra noi giovani
divenne frenesia. Ma solo nel febbraio 1942 potei finalmente salire su un treno
– stavolta con vetture passeggeri – che mi portò, assieme a molti altri volontari,
con un viaggio di dieci giorni, alla base di Lugovaja nel Kazakistan meridionale,
a
dove si andava formando la 10 Divisione dell’Esercito polacco. La mia gioia fu
offuscata dal ricordo di mia madre e di mio fratello, Kazimierz, più giovane di me,
che erano dovuti rimanere a Novoje Suchotnoje.
Passai la visita alla Commissione medico-militare, di cui facevano parte anche
alcuni ufficiali della NKVD che cercavano di impedire che venissero arruolati
ucraini, bielorussi ed ebrei, benché fossero a pieno diritto cittadini polacchi.
Rivestito con una divisa nuova, inglese, fui assegnato al 10° reggimento di artiglieria da campo. La nostra “caserma” era costituita da tende piantate nella steppa, in cui la paglia sparsa sulla nuda terra fungeva da giaciglio. Soffrivamo il
freddo e le razioni erano scarse (avevamo anche rinunciato volontariamente ad
una parte del pane che ci veniva distribuito quotidianamente per aiutare i civili
polacchi, in maggioranza donne e bambini che, liberati, si erano accampati vicino alla nostra base). Eppure eravamo molto felici perché finalmente liberi sotto
la nostra bandiera bianco-rossa.
a
La nostra permanenza in quella base fu breve, in quanto la 10 Divisione, formata soprattutto dagli ultimi detenuti liberati dai lager, molto provati e fisicamente
deboli, venne inclusa nello scaglione che doveva essere trasferito in Medio
Oriente. E così alla fine di marzo, dopo un viaggio in treno di alcune migliaia di
chilometri ci trovammo a Krasnovodsk, porto sul Mar Caspio, da dove, su petro-
784
Mieczysław Rasiej
liere sovietiche, fummo trasportati fino a Pahlevi, in Persia. Là, sistemati in tende
allestite sulle vaste spiagge, trascorremmo un periodo di adattamento durante il
quale molti di noi furono curati per varie malattie dovute a deperimento organico.
Fummo poi trasportati con automezzi in Palestina e qui, dopo essere stati sottoposti ad una accurata disinfestazione, con il taglio dei capelli a zero, fummo rivestiti a nuovo, mentre le vecchie uniformi vennero bruciate.
Con la riorganizzazione dell’esercito fui assegnato al 1° Reggimento di Artigliea
ria da campagna della 3 Divisione Carpatica. Seguì un intenso periodo di addestramento, che tuttavia ci lasciò il tempo di visitare vari luoghi biblici, come Gerusalemme, Betlemme, Nazareth, il Monte Carmelo. Certo, dopo la Russia, la
Palestina ci sembrava il paradiso terrestre: sentimento rafforzato anche dal fatto
che moltissimi ebrei, essendo di origine polacca, parlavano la stessa nostra lingua, cosicché ci sembrava di essere a casa nostra. Non di rado le esercitazioni
militari ci portavano nei kibbutz, e gli incontri con la popolazione erano improntati a viva cordialità.
Nel settembre 1942 fummo trasferiti in Iraq per unirci alle truppe del secondo
scaglione dell’Esercito polacco evacuato dall’Unione Sovietica. Stavolta il trasferimento della nostra unità fu effettuato via mare fino a Bassora sul Golfo Persico; a bordo della nave “City of Canterbury”, che faceva parte di un grande convoglio scortato da navi da guerra, trascorsi tre settimane emozionanti e molto
piacevoli. In Iraq con grande sorpresa e altrettanta gioia ritrovai mia madre, che
con mio fratello era riuscita a lasciare la Russia e si era arruolata nei reparti ausiliari femminili dell’esercito. Mio fratello fu invece avviato in Palestina per frequentare una scuola organizzata dall’Esercito polacco.
In Iraq, nelle vicinanze dei campi petroliferi e non lontano dalle alture abitate dai
curdi, fummo sottoposti per vari mesi ad intensi addestramenti fino ad un nuovo
trasferimento, nell’agosto 1943, in Palestina. Sulle montagne del Libano, a nord
della Palestina, per alcune settimane compimmo particolari esercitazioni, già in
vista del prossimo impiego del 2° Corpo d’Armata polacco in Italia; ma nell’ottobre del 1943 io fui improvvisamente distaccato dal mio reggimento e mandato a
Barbara per completare gli studi ginnasiali (forzatamente interrotti nel 1940), che
mi avrebbero dato la possibilità di accedere alla scuola per ufficiali di complemento. A Barbara ritrovai mio fratello, impegnato sia nella scuola, sia nei corsi
paramilitari.
Terminati gli studi all’inizio del febbraio 1944 con il diploma di “Piccola Maturità”,
tutti noi militari-studenti fummo subito trasferiti in Italia, con una burrascosa tra-
ITALIA - POLONIA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
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versata dal porto di Suez a quello di Taranto, e di là raggiungemmo le nostre
unità che dalla fine di dicembre erano impegnate sul fronte in Val di Sangro.
In aprile ci spostammo nella zona di Cassino, dove l’11 maggio ebbe inizio la
sanguinosa battaglia.
Monte Cassino: a distanza di tanti anni è sempre vivissimo il ricordo della bandiera bianco-rossa svettante sulle rovine dell’Abbazia, unito al ricordo dei compagni caduti e feriti, in uno stato d’animo velato da indicibile mestizia.
Ci fu poi la campagna adriatica lungo la costa, che ci portò fino ad Ancona e terminò ai primi di settembre con lo sfondamento della Linea Gotica. I ricordi delle
battaglie si intrecciano con le immagini della gente dei paesi via via liberati, che
ci salutava, ci festeggiava, voleva farci sentire la sua amicizia.
Dopo questa campagna, durata quasi tre mesi, mentre al 2° Corpo veniva concesso un breve periodo di riposo, io fui mandato a Matera per seguire il corso
per ufficiali di artiglieria di riserva, che terminai il 15 febbraio 1945. Potei così tornare al mio reggimento per partecipare alle azioni che portarono alla liberazione di Bologna il 21 aprile.
Un’altra parentesi dedicata allo studio fu quella dei corsi liceali, che, finite le ostilità belliche, seguii a Matino in Puglia, ottenendo il diploma che mi permise di
presentare in seguito al Comando la domanda per essere ammesso ai corsi universitari organizzati dall’Esercito per i suoi militari presso gli Atenei italiani.
Fu così che, all’inizio del febbraio 1946, mi trovai nel gruppo dei futuri studenti
che su un camion militare erano in viaggio per Torino, dove li attendeva il Politecnico. Non potevo certo immaginare, allora, che proprio Torino sarebbe diventata la città della mia vita!
I primi mesi, qui, per me non furono facili: iscritto al primo anno di ingegneria,
dovetti interrompere gli studi ai primi di maggio perché mi ammalai gravemente
e passai più di cinque settimane negli ospedali militari di Milano e di Senigallia.
Appena mi fu possibile mi feci dimettere e, rinunciando al periodo di convalescenza, tornai con l’autostop a Torino, dove purtroppo seppi che non potevo
riprendere la frequenza al Politecnico perché la mia Maturità, conseguita sotto
le armi, non era più considerata valida. Con i quarantatre compagni che erano
nelle stesse condizioni, dopo un mese e mezzo di preparazione intensissima,
affrontai i nuovi esami di Maturità classica presso il Liceo Gioberti, superandoli
con risultati discreti, cosicché alla fine di agosto potei tornare ai miei studi. Pochi
giorni dopo, giusto l’8 settembre, la professoressa Alma Borelli, che si era tanto
adoperata per i nostri esami al Liceo Gioberti, organizzò a Settimo Torinese una
festicciola, alla quale parteciparono – oltre ad una delegazione degli studenti
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Mieczysław Rasiej
polacchi – vari Commissari degli esami di maturità. C’era fra loro anche la giovanissima commissaria di filosofia, Renza Cortinovis, che dopo poco più di due
mesi sarebbe diventata mia moglie. Quel giorno presi la decisione di stabilirmi
in Italia e, per non essere trasferito con i miei commilitoni in Inghilterra, affrettai
il mio matrimonio civile. Quello religioso fu poi celebrato il 30 dicembre 1946 dal
card. Fossati, arcivescovo di Torino, ed io ebbi come testimone il tenente Giorgio Kruszelnicki, mio superiore in tutta la campagna italiana e caro amico.
Fino alla smobilitazione, avvenuta nell’estate del 1947, mi dedicai esclusivamente agli studi, cercando anche di migliorare il più possibile il mio italiano.
Subito dopo però mi procurai un impiego, diventando agente di commercio per
Torino della società Sobrero Est, attività che mi permetteva di frequentare abbastanza regolarmente le lezioni e le esercitazioni al Politecnico.
Gli anni fino al luglio 1954 – quando mi laureai in Ingegneria Elettrotecnica col
prof. Antonio Carrer – furono un periodo di sacrifici e di tante rinunce, di lavoro
e di studio continuo, ma consideravo il traguardo della laurea una sfida a me
stesso – che risaliva al ’46 – e vincerla mi diede una grande gioia e soddisfazione. Intanto avevo raggiunto una posizione economica soddisfacente, che mi
permetteva di provvedere senza problemi alla mia famiglia, allietata dalla nascita di due figli, Kazimierz e Giorgio, ed in seguito della terzogenita Helena.
Allettato anche dalle vantaggiose proposte economiche, per ben 14 anni rimasi
alle dipendenze della Sobrero Est come responsabile del suo ufficio commerciale, benché il prof. Carrer spesso mi sollecitasse ad esaminare nuove offerte di
lavoro più consone alla mia preparazione di studio. Finalmente, sentendo di
“tirare troppo la corda”, accettai la proposta di un amico, Federico Capetti, direttore tecnico della società Nebiolo. Si trattava di seguire e curare il progetto per
la costruzione a Sommariva Perno, nella zona di Alba, di un nuovo stabilimento
per le sue macchine da stampa, del quale sarei diventato direttore dopo averne
seguito e curato la progettazione e la costruzione. Costituitasi una nuova
società, la “Meccanica Sommariva”, in cui ero socio minoritario nonché consigliere di amministrazione, venne acquistato il terreno adatto, sul quale il 24 giugno 1970 (tempo di lasciar mietere l’ultimo grano!) cominciarono i lavori di
costruzione a cui impressi un ritmo serrato. In autunno ci furono le prime assunzioni di personale ed il 15 gennaio 1971 fu già prodotto il primo cilindro rettificato per una macchina da stampa. Nell’estate dello stesso anno ci fu l’inaugurazione ufficiale dello stabilimento, con l’azienda ormai avviata ad un sicuro sviluppo. Ero contento di aver superato una dura prova, di aver vinto un’altra sfida, ma
soprattutto di aver realizzato qualcosa di utile, creando posti di lavoro in un
ITALIA - POLONIA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
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paese agricolo non certo ricco. Nella conduzione dell’azienda conobbi molte
soddisfazioni, soprattutto per gli ottimi rapporti che si instaurarono sia con le
maestranze, sia con la popolazione, a cui erano assicurate concrete possibilità
di miglioramento economico.
Questo clima sereno era favorito anche dal continuo, rapido sviluppo dell’azienda, che portò nel 1974 alla produzione di macchine da stampa complete.
Purtroppo però andava acuendosi inesorabilmente la crisi che aveva colpito la
Nebiolo, tanto che lo stabilimento di Sommariva, fu ceduto nel 1975 alla Graziano – Trasmissioni di Rivalta, ed io nel 1976 preferii passare alla Patelec – Cem.
Presso questa azienda, produttrice di cavi elettrici, fui dirigente e consigliere di
amministrazione, curando soprattutto i rapporti tecnico commerciali in Italia e
all’estero. E così continuai a fare lunghi, frequenti viaggi, come la zingarella mi
aveva predetto!
Nel 1986, raggiunti i requisiti, andai in pensione, ma rimasi nell’azienda come
collaboratore e quando, nel 1987, la Patelec fu acquistata dal Gruppo Saiag, fui
confermato nel mio ruolo di consulente con il compito specifico di sviluppare il
mercato nei paesi dell’Est (Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria) ed ultimamente per assistere l’azienda nel suo insediamento in Polonia, a Legnica.
Chiudo qui il mio racconto ed esprimo la mia grande soddisfazione di aver contribuito attivamente alla nascita ed alla lunga storia di Ognisko.
Mieczysław Rasiej è nato il 6 maggio 1924 a Pikulice-Przemyśl. Dal 1991 è stato Presidente della
Comunità di Torino. Dal 1996 è stato Presidente dell’Associazione Generale dei Polacchi in Italia.
Oltre alle onorificenze militari, tra cui la Croce di Monte Cassino, è stato insignito della Croce d’Oro
al Merito del Governo Polacco in Esilio e della Croce di Commendatore dell’Ordine “Polonia Restituta”. È morto il 16 ottobre 2007 [n.d.r.].
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Una grande e terribile battaglia,
ma non tutto accadde a Montecassino e Cassino
di Alberto Turinetti di Priero
Quando potevo scendere a Cassino, sceglievo la fine di aprile, quando non arrivano ancora le comitive di turisti e di pellegrini. Non fa né troppo caldo né troppo
freddo, gli alberi si ricoprono di verde con splendide e variopinte fioriture, ma, soprattutto, non ci sono cerimonie ufficiali.
Salivo all’Abbazia il mattino presto o la sera tardi, sostando in solitudine nel
cimitero polacco, camminando fra le croci, guardando quei nomi, tanto che qualcuno
mi è diventato persino familiare.
Il sottotenente Ludomir Bialecki, caduto il 12 maggio 1944, a bordo del suo carro
armato, alla Gola, tra il Fantasma ed il Calvario; il maggiore Ludomir Tarkowski,
sopravvissuto agli attacchi del 12 e del 17 maggio, ucciso il 22 da un cecchino, ai piedi
delle mura di Piedimonte San Germano; il fuciliere Teodor Tokarewicz, uno dei tanti,
caduto il 17 maggio 1944, probabilmente sulla Cresta del Fantasma: era nato il 17
maggio 1924…
Montecassino, il cimitero militare polacco, le colline e le quote senza nome che li
sovrastano, uno dei campi di battaglia, fra i più sanguinosi: i polacchi certamente, ma
anche tedeschi, americani, inglesi, indiani, i famosi gurkhas nepalesi1 …
Quei luoghi sono però soltanto uno dei campi di battaglia nei quali si divise quella
che noi siamo ormai abituati a chiamare sbrigativamente la battaglia di Cassino.
Seguendo la strada che scende a Cassino, conviene fermarsi un attimo ad ammirare lo splendido panorama dall’unica e vasta piazzola dove si può fermare l’auto.
Da lì il vostro occhio potrà spaziare sui campi di battaglia e potrete rendervi conto
di quanto vasta sia stata l’area nella quale si svolsero gli avvenimenti legati a quelle che
gli storici definiscono le tre, o le quattro, battaglie di Cassino.
Sotto di voi la Rocca Janula, la città, la via Casilina, la stazione ferroviaria, che
evocano altri avvenimenti dolorosi; più in là la pianura dove scorre il Gari e sorge il
1
I ghurka o gurkha o gorkha erano soldati provenienti dalla valle Gorkha’ nel Nepal occidentale,
famosi per le loro spiccate attitudini al combattimento che già agli inizi dell’Ottocento presero ad
essere arruolati come volontari nell’Esercito della Compagnia britannica delle Indie orientali. Dal
1815 al 1947 furono creati 13 reggimenti attivi e tre reggimenti per l’addestramento delle reclute
(1943-1946). Durante la seconda guerra mondiale circa 40 battaglioni di Gurkha Rifles, qualcosa
come 112.000 uomini, prestarono servizio nelle divisioni indiane combattendo in Africa (Abissinia,
Libia, Egitto, Tunisia), in Grecia, in Medio Oriente ed in Italia, ma soprattutto contro i giapponesi
in India, in Birmania ed in Malesia.
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Una grande e terribile battaglia...
piccolo paese di Sant’Angelo in Theodice: là morirono prima centinaia di soldati americani, poi inglesi e indiani; ed ancora il monte Trocchio, che nasconde la vista di Montelungo, ma non quella della vetta di monte Sammucro, teatro di tanti scontri nel
dicembre 1943.
Se vi girate verso sinistra, verso nord, potete seguire la valle del Rapido, le strade
che raggiungono Caira e Sant’Elia Fiumerapido, ma anche scorgere la cresta del Belvedere, dove nel gennaio-febbraio 1944 si svolsero i feroci combattimenti fra tedeschi e
nordafricani del 4e Régiment de Tirailleurs Tunisiens: circa 400 caduti delle due parti per
la conquista di un fazzoletto di terra e sassi!
Più in là, sullo sfondo, le sorgenti del Rapido, le Mainarde, i monti dell’Abruzzo e
del Molise: la Linea Gustav arrivava fino a lassù.
Se invece volgete lo sguardo alla vostra destra, potete spaziare sulla Valle del Liri,
dove si svolse l’offensiva dell’8a Armata nel maggio 1944, ma la linea dell’orizzonte è
sbarrata da una possente e minacciosa barriera di montagne: i monti Aurunci. Là si svolsero i furiosi combattimenti fra francesi e tedeschi, e là si sfaldò la Linea Gustav il 13
maggio 1944.
Il panorama si interrompe a questo punto, ma il fronte proseguiva verso la costa
del Tirreno, lungo il Garigliano: ancora combattimenti e tanto sangue versato.
Furono gli inglesi ad attraversare il fiume nel gennaio 1944, attestandosi sulle pendici del monte Ornito, carico di storia quanto di oblìo; chiamarono con vivo senso dello
spirito quella zona “Harrogate” [città termale dell’Inghilterra situata nella regione dello
Yorkshire n.d.r.] in onore delle terme di Suio [a pochi chilometri da Castelforte n.d.r.].
Tra gennaio e marzo 1944 ebbero talmente tante perdite da erigere un cimitero militare per raccogliere le loro spoglie a Minturno, che si aggiunge a quello di Cassino.
Ed ancora, lungo il Garigliano, due piccoli paesi: Santa Maria Infante e Pulcherini,
rasi al suolo, perché i tedeschi ci si barricarono dentro, causando molte perdite agli
americani nel maggio 1944.
Ovunque, in ognuno dei posti citati, migliaia di caduti tedeschi.
E allora?
La battaglia di Cassino, le battaglie di Cassino?
Oppure la battaglia di Montecassino?
Lasciamo pure agli storici la decisione, ma, se visitate quei luoghi, ricordatevi che
siete sul terreno di una delle più grandi battaglie combattute nel corso della seconda
guerra mondiale, e quindi calcatelo con il dovuto rispetto.
È certamente stata una delle più lunghe nel corso della guerra.
Si può discutere se sia iniziata a dicembre del 1943 o a gennaio 1944, ma gli alleati
dovettero fermarsi davanti alla Linea Gustav fino all’11 maggio 1944, ingaggiando durissimi combattimenti fino al 18, quando, finalmente, i tedeschi furono costretti a ritirarsi sulla Linea Senger, quella che per la storiografia anglo-sassone è la Linea Hitler.
Dunque durò almeno cinque, lunghissimi mesi.
El Alamein si risolse in sei giorni, la resistenza tedesca a Stalingrado in tre mesi.
Certamente l’attenzione di chiunque passi da Cassino, anche senza fermarsi, è attratta dall’Abbazia, quella ciclopica e candida fortezza che si staglia contro il cielo, visibile sia dalla direzione di Napoli che da quella di Roma.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Ma l’Abbazia, malgrado la distruzione del bombardamento del 15 febbraio 1944, fu
l’obbiettivo diretto soltanto degli attacchi del febbraio-marzo 1944 ed invece la furia della
guerra toccò ogni metro quadrato dagli Abruzzi al mare. È appunto per la sua estensione
lineare che la battaglia va considerata fra le più estese della seconda guerra mondiale.
Non ci sono solo Cassino e Montecassino.
Tracciando una linea ideale da Castel San Vincenzo, bel paesino sulla montagna
molisana, a Scauri, sulla costa tirrenica, sono ben 60 chilometri!
Per ogni chilometro lineare si contarono distruzioni, morti, feriti…
Un altro elemento che porta a considerare l’estensione del terreno sul quale si
svolsero tanti avvenimenti, è la sua profondità rispetto alla linea del fronte.
Le retrovie, da una parte e dall’altra del fronte, erano spesso oggetto di bombardamenti delle opposte artiglierie o colpite da frequenti attacchi aerei, anche a diversi
chilometri di distanza.
Acquafondata, per esempio, un bel paesino a circa 15 chilometri da Cassino, sulla
strada che si inerpica da Sant’Elia Fiumerapido, quella che i soldati alleati chiamavano
«la strada della morte», e scende tortuosamente a Venafro, nella valle del Volturno, era
un’importante base logistica e fu ripetutamente bombardata dall’artiglieria tedesca.
Portella, San Michele, Cervaro, San Vittore del Lazio erano paesi dove si ammassavano i rifornimenti per le prime linee e furono costantemente bersagliati dall’artiglieria tedesca.
Seguendo il Garigliano, Castelforte, un paese che sbarrava la valle dell’Ausente che
sbocca nella piana del fiume, ebbe la triste sorte di diventare un punto di forza della
linea di difesa tedesca. Fu bombardato dall’artiglieria inglese ogni giorno, fin dal
novembre 1943, per poi essere definitivamente distrutto nel maggio 1944, all’atto dell’offensiva alleata.
Piccoli e grandi borghi, occupati dai tedeschi, furono oggetto di pesanti concentramenti di artiglieria e bombardamenti aerei: Atina, Terelle, Santa Lucia, Piedimonte
San Germano, Aquino, Esperia, Lenola fino alla costa, dove città quali Fondi, Gaeta e
Itri furono oggetto persino di bombardamenti navali.
Molti storici tendono a chiudere le battaglie di Cassino con una data: il 18 maggio
1944, quando la bandiera polacca sventolò sulle rovine dell’Abbazia.
Forse sarebbe più giusto considerarne la fine con il definitivo sfondamento della
linea successiva, la Linea Senger, ma, anche considerando la data del 18 maggio, bisogna tener conto che in quel giorno i francesi arrivavano a lambire Pontecorvo, a 25 chilometri di distanza dalla Linea Gustav, e, sugli Aurunci, il piccolo paese di Campodimele,
obbiettivo strategico del Corpo di spedizione francese, sulla rotabile Itri-Pico, a ben 30
chilometri dal Garigliano. Alla loro sinistra, gli americani erano ormai a Itri, 20 chilometri oltre la loro linea di partenza.
Questo per affermare che tutte le cittadine e i paesi attraversati nel corso degli
attacchi alleati per lo sfondamento finale della Linea Gustav furono distrutti dai bombardamenti o nel corso dei combattimenti che si svolsero al loro interno.
Quindi se la Linea Gustav nel settore di Cassino correva per circa 60 chilometri di
lunghezza, le opposte retrovie arrivavano fino a circa 20 chilometri dalle prime linee,
con tutti i danni conseguenti che dovettero sopportare per mesi.
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Una grande e terribile battaglia...
Il terreno sul quale si affrontarono per mesi gli opposti schieramenti ebbe anch’esso una parte rilevante nel caratterizzare le battaglie e a renderne quasi uniche le
caratteristiche nel pur vasto panorama del secondo conflitto mondiale.
Gran parte della Linea Gustav passava sulle montagne, dove i tedeschi avevano
avuto il tempo di preparare ogni sorta di riparo ed ogni sorta di ostacolo, dai campi minati a grovigli di filo spinato, disposti su più linee.
Gli assalti alleati si frantumarono davanti a queste munite posizioni e la lotta stagnò per giorni e giorni, nel fango, nel freddo, nella neve e nella pioggia.
Ai più anziani fra i combattenti tutto ciò ricordò la prima guerra mondiale e la terribile vita nelle trincee.
La conformazione morfologica del terreno fu di per se un ostacolo ad ogni azione
offensiva, ma ad essa si aggiunsero condizioni atmosferiche particolarmente ostili con
neve alle quote più alte ed una pioggia torrenziale nelle valli.
I due eserciti più meccanizzati del mondo si impantanarono nel fango e furono
riscoperti i muli, quei magnifici animali, così bravi e preziosi da dedicargli persino dei
monumenti, a Londra e a New York.
Per i soldati, costretti a vivere in tanto disagio, anche nei momenti di stasi non diminuiva il pericolo. A parte la noia, il freddo, l’umidità, il non potersi muovere dalla
propria tana durante il giorno, erano sempre all’agguato cannoni e mortai in un continuo stillicidio di morti e di feriti, che incuteva angoscia e tensione.
Le battaglie di Cassino hanno poi un’altra peculiarità, perché nessuna fra le grandi
battaglie della seconda guerra mondiale fu così “cosmopolita”. Vi si affrontarono, da
una parte e dall’altra, migliaia di soldati provenienti da quattro continenti, delle più
diverse razze e religioni.
Il cimitero militare francese di Venafro è costellato da candidi cippi con la mezzaluna, la maggioranza, con croci cristiane, con la stella di Davide o con un simbolo che
ricorda le religioni animiste del Centro Africa.
Il goumier Hamadi Bem Djilal, caduto il 18 maggio 1944, riposa a poca distanza
dalla volontaria Alphonsine Loretti, morta il 5 febbraio 1944, mentre, alla guida di
un’ambulanza, cercava di soccorrere i feriti di un automezzo che la precedeva, colpito
da una granata tedesca; poco più in là, riposa il soldato Lanina Karnaka, caduto il 15
maggio 1944, nel 24e Bataillon de Marche: chissà da dove veniva? Dal Senegal, dal Ciad,
dal Camerun, dalla Costa d’Avorio o dal Congo?
Nel cimitero del Commonwealth di Cassino, i caduti sono raccolti sotto il simbolo
del reggimento o dell’arma di appartenenza, in una sequenza di cippi ordinati come in
una parata militare: sfilano i reggimenti di antica tradizione inglesi, gallesi, scozzesi e
irlandesi della Gran Bretagna, ma anche quelli neozelandesi, canadesi, sudafricani. Non
manca certo la testimonianza dei tanti caduti indiani, dei gurkhas nepalesi, dei Maori
neozelandesi.
Più discosto da Cassino, il cimitero militare italiano a Montelungo, riscoperto dalle
autorità nazionali da pochi anni, dopo mezzo secolo di voluta e colpevole dimenticanza.
Ci furono anche gli italiani, schierati nel dicembre 1943 proprio davanti a Montelungo, dove patirono perdite pesanti, e quindi al confine tra Abruzzo e Molise: monte
Marrone, conquistato con una brillante operazione notturna dagli alpini del battaglione
“Piemonte”, e monte Mare.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Nella Wermacht hanno militato ovviamente milioni di cittadini autoctoni, ma anche
migliaia di soldati austriaci, che pagarono un altissimo tributo di sangue alla follia dei
loro capi. Nel cimitero militare tedesco giacciono però anche le spoglie di militari d’origine polacca, slovacca, alsaziana, russa, bielorussa, ucraina, baltica e tirolese del sud,
inglobati, con la forza o meno, nella macchina militare nazista.
Ci sono storie alle quali si stenta a credere.
Gli indiani del Nord America, volontari negli eserciti statunitense e canadese.
I neri africani, provenienti da paesi lontanissimi, che arrivarono sul fronte italiano
dopo aver combattuto in Francia, in Abissinia, in Siria, in Libia e in Tunisia.
I conducenti di mulo ciprioti, tanto ammirati per la loro dedizione.
I soldati indiani, divisi per religione e caste, con baffi, barbe e capelli lunghissimi.
Gli antillesi e i legionari, che militarono nell’esercito francese.
Fra i tedeschi, coloro che usciti incolumi dalle campagne di Polonia, Francia,
Jugoslavia, Grecia, Creta e Russia non sono sopravissuti in Italia.
Se passate da Cassino, alla sera prestate attenzione al suono delle campane dell’Abbazia.
Alle 21:00 il loro rintocco, grave e solenne, si spande sulle montagne e scende per
forre e dirupi fino al Rapido e nella valle del Liri.
Sembra chiamare a raccolta le anime di chi ha perso la propria vita in quella ormai
sempre più lontana stagione di morte e sembra quasi di udire una risposta a quel’appello.
Sembra di ascoltare l’anziano soldato indiano che invoca la propria memoria, ormai
dimenticato:
Oh, bury me at Cassino.
My duty to England is done
And when you get back to Blighty
And you are drinking your whisky and rum
Remember the old Indian soldier
When the war he fought has been won!
Centinaia di lingue e dialetti, che non hanno più importanza, così come le differenze del colore della pelle, della razza, della religione si confondono con quel suono
solenne in un unico mormorio d’amicizia e di pietà.
Mi chiede “poloniaeuropae”: «Quanti sono stati i caduti lungo quella Linea Gustav?»
Gli unici dati complessivi oggi disponibili sono quelli che si possono trarre dai registri dei vari cimiteri militari.
I polacchi sono 1052, i francesi e nordafricani sono 4.345, quelli le cui salme sono
raccolte nei cimiteri del Commonwealth di Cassino e Minturno sono rispettivamente
4.271 e 2.049, per un totale di 6.320.
Gli americani hanno preferito traslare le salme dei loro caduti dalla Sicilia a Roma
nel grande cimitero militare di Nettuno e nessun dato specifico è stato pubblicato. Le
loro perdite a Cassino, Montecassino e sul Garigliano si possono stimare in 3 mila unità.
Mistero più fitto invece sui tedeschi.
Nel cimitero militare di Caira (Cassino) sono sepolti i soldati del Reich caduti dalla
Calabria a Cassino, Salerno e costa adriatica compresi, fino ad una linea ideale che va
poloniaeuropae 2010
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Una grande e terribile battaglia...
da Pescara a Terracina. Si può ipotizzare che le perdite tedesche equivalgano a quelle
degli alleati, specie per quanto riguarda il maggio 1944, ma è soltanto una stima.
Ricapitolando, i caduti dovrebbero essere, seppure con le dovute cautele, 15 mila
alleati e 15 mila tedeschi per un totale di circa 30 mila.
Non sarebbe giusto, trattando di Cassino e la seconda guerra mondiale, non ricordare il dramma della popolazione civile italiana.
Fino al 1943, la città di Cassino e i paesi che sarebbero stati così duramente colpiti erano stati considerati come siti privilegiati, lontani dai pericoli della guerra, senza
apparenti obbiettivi militari e con una certa abbondanza di viveri, dovuta alla presenza
di migliaia di capi di bestiame, di pascoli e di estese coltivazioni.
Erano così tranquilli quei paesi che molte famiglie napoletane, terrorizzate dai
bombardamenti aerei, li avevano scelti come sede di sfollamento, fin dal 1942.
Il primo campanello di allarme suonò nella notte fra il 19 e il 20 luglio 1943, quando
fu bombardato l’aeroporto di Aquino e molti si chiesero fino a quando sarebbero stati
risparmiati. Poi seguirono l’incursione su Cassino, il 10 settembre; quella su Esperia, il
30 settembre; quella sul nodo ferroviario di Roccasecca, il 23 ottobre; e quella, terribile, su Pontecorvo, il 1° novembre.
I bombardamenti aerei causarono la prima grande fuga da città e paesi verso la
campagna e le montagne, mentre lo stesso fenomeno colpiva la popolazione lungo la
costa, dove ai bombardamenti aerei si erano aggiunti quelli navali.
Subito dopo l’8 settembre 1943, si presentò un altro pericolo che colpì la popolazione maschile. I tedeschi emisero dei bandi con l’obbligo di presentazione ad un servizio del lavoro e la reazione fu un’ulteriore fuga verso le montagne con conseguenti
rastrellamenti, che spesso coincisero con rappresaglie, omicidi, arresti ed un vero e
proprio saccheggio del bestiame, fino allo sgombero coatto dei centri abitati.
Con la fine delle scorte di viveri, durante i primi mesi del ‘44 ebbe inizio il periodo
della fame nera e fu allora fortunato chi riusciva a procurarsi qualche pugno di granoturco o di carrube o di sale; fu allora che l’erba dei prati costituì una voce non trascurabile della sempre più magra dieta giornaliera, ma continuavano le razzie dei tedeschi,
che spesso si concludevano con uccisioni, furti e saccheggi.
Così li descrive un reduce francese in un bel libro di ricordi:
Povera gente più miserabili che la più miserabile delle bestie, smunti, cenciosi, vagamente calzati di stracci, che si rifugiavano in grotte orrende e assistevano al cataclisma; le loro magre terre rivoltate e bruciate dalle granate, i loro
alberi che le bombe mozzavano ciecamente, le loro case distrutte un po’ di più
giorno dopo giorno, tutti i loro umili oggetti dispersi e le loro tombe anch’esse
profanate dal ferro. I sussulti del XX secolo li riportavano d’un colpo alle difficoltà
della preistoria2.
Si arrivò a quella notte fra l’11 ed il 12 maggio 1944, quando la preistoria avrebbe
dovuto finire.
2
214
EMILE ROY, Les Chemins d’Italie, Bertout, Luneray 1994, pag. 229.
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Un’intera umanità di anziani, donne e bambini, affamata, lacera, sporca, abbandonata, stanca, avvilita fu svegliata dall’immenso fragore del bombardamento ed il
cielo, verso il Garigliano, si illuminò a giorno; capì immediatamente che stava per
succedere qualcosa di grande e che si era arrivati alla fase finale della battaglia.
A mano a mano che le truppe alleate avanzavano, la gente uscì dai rifugi.
Ci fu chi si trovò davanti a dei soldati americani, inglesi, indiani, canadesi, ma
altri si trovarono davanti ai soldati marocchini.
Fu uno dei fatti più crudeli e imprevisti della conclusione della battaglia.
Quasi tutti i rifugiati sulle montagne avevano portato con se ogni bene di valore
che fosse trasportabile e nascondibile: orologi, oggetti in oro e argento come anelli,
catenine, collane, braccialetti, quasi sempre ricordi di famiglia, denaro liquido.
Tutto ciò sparì in un batti baleno.
Persino le cartelle dei buoni del Tesoro, la cui commerciabilità, qualcuno, italiano
o francese, aveva indicato ai nordafricani.
Così fu per tutti quegli animali, salvati con tanta fatica dai rastrellamenti tedeschi:
mucche, asini, capre, pecore, maiali, conigli, galline...
Quindi fu la volta di biancheria, vestiti, stoviglie e persino di arredi.
Poi si verificarono casi più gravi di violenza: omicidi, aggressioni a mano armata, e gli
stupri che colpirono in maggioranza la popolazione femminile, ma anche quella maschile.
Chi si opponeva era minacciato dai fucili o dai mitra puntati, aggredito, persino ucciso.
Un atteggiamento comune tra gli ufficiali ed i graduati francesi delle quattro divisioni impegnate nell’offensiva fu il totale disinteresse per la sorte di quei civili, con
poche eccezioni.
Talvolta gli atti più gravi furono puniti severamente, ma in generale, specie davanti
ai furti, l’atteggiamento di molti ufficiali e graduati, francesi e nordafricani, fu quello
della più completa passività.
Tutte le testimonianze dei civili sul trattamento ricevuto sono concordi, suffragate dalle migliaia di denunce presentate alle autorità alleate ed italiane già nel corso
della guerra e che riguardano omicidi, violenze carnali, furti, grassazioni e saccheggi.
Oggi, controllando i percorsi dei vari reparti, si può stabilire che i fatti più gravi
si verificarono lungo il passaggio dei Tabors Marocains, i famosi goumiers marocchini, e
della 4e Division Marocaine de Montagne3.
È bene notare che questi reparti erano quasi completamente reclutati fra le tribù
berbere del Marocco.
3
I Tabors Marocains erano unità comparabili ad un battaglione dell’esercito, strutturati su quattro Goums (compagnie), da cui il nome Goumiers, e raccolti in Groupements de Tabors Marocains
(reggimento). I Goums erano stati creati fin dal 1908 con personale volontario proveniente da
quasi tutte le tribù berbere dell’Atlante; pur essendo comandati da ufficiali dell’esercito francese, essi dipendevano dal ministero per gli Affari Civili ed esercitavano esclusivamente funzioni
di controllo del territorio e di polizia interna. Nel 1940, dopo l’armistizio francese con Germania
ed Italia, furono ristrutturati e raccolti in Tabors, celando ai controlli delle commissioni italo-tedesche il nuovo tipo di organizzazione, ormai teso ad un utilizzo propriamente militare di tali
unità. Nel 1943 entrarono a far parte dell’Armée d’Afrique e furono impiegati, al pari delle unità
dell’esercito, nella campagna di Tunisia. Successivamente essi hanno partecipato alle operazioni
in Sicilia, in Corsica, in Italia, in Francia, in Germania ed in Austria.
poloniaeuropae 2010
215
Una grande e terribile battaglia...
Di alcuni di essi si può risalire alle località attraversate, ai giorni e persino alle
ore, comparando i dati con quelli delle denunce dei civili. È bene infatti non generalizzare sugli autori dei misfatti, ma piuttosto chiedersi quali fossero le abitudini ancestrali di questi guerrieri, spuntati non dalla preistoria, ma certamente dal Medioevo.
“poloniaeuropae” mi ha posto ancora una domanda: «ma quante sono state le vittime civili?».
Una valutazione c’è già ed è frutto delle ricerche di uno storico cassinate, Emilio Pistilli4: circa 10 mila, sparse nel territorio di cinquanta città, cittadine e paesi coinvolti.
Morirono per le cause più svariate, dai bombardamenti aerei e terrestri, tra questi le vittime del bombardamento dell’Abbazia, alle rappresaglie tedesche, ma anche
per la fame, per il freddo, per la mancanza di igiene, per le malattie, per le mine, per
incidenti di varia natura.
Passata la guerra, i civili continuarono però a morire. Moltissimi a causa delle migliaia di ordigni abbandonati ovunque e molti per l’epidemia di malaria, scatenatasi
già nell’estate del 1944 a causa dell’allagamento della piana del Rapido, provocato dai
tedeschi che ne avevano fatto saltare gli argini.
Torino, maggio 2010
Alberto Turinetti di Priero è nato a Saluzzo (Cuneo) il 1°gennaio1943. Laureato in Scienze
Politiche all’Università di Torino, ha svolto la sua carriera professionale all’ENEA, prima
a Roma, poi presso il Centro Ricerche di Saluggia (Vercelli), quindi a Torino. È stato presidente dell’Associazione Amici del Museo Nazionale del Risorgimento, organizzando alcune mostre a carattere storico, fra le quali, nel 1995: L’Armata polacca in Italia,
1944-1945. Ha pubblicato libri, saggi ed articoli di carattere storico. Fra i primi: La guerra
sulle Alpi, 10-24 giugno 1940, del quale uscirà la quarta edizione fra breve, e Nachtigall,
l’operazione Usignolo nelle valli Chisone, Pellice e Susa, 2-15 agosto 1944. Nel 2006, nell’ambito del convegno internazionale di Torino sull’insurrezione di Varsavia, ha pubblicato lo studio L’Armata Rossa davanti a Varsavia, 1° agosto-2 ottobre 1944 (in KRYSTYNA
JAWORSKA, 1944: Varsavia brucia. L’insurrezione di Varsavia tra guerra e dopoguerra, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2006). Da qualche anno collabora attivamente al sito
www.dalvolturnoacassino.it per il quale ha curato saggi ed articoli. Tra i più recenti: La
battaglia del Belvedere (25 gennaio-2 febbraio 1944): due documenti a confronto (2005);
La 5a Gebirgsjaeger-Division brevi cenni storici (2005); I carri armati polacchi a Piedimonte San Germano (2007); Due parole con l’ingegner Mieczysław Rasiej, reduce di Montecassino (2007); La Linea Gustav: nazionalità, etnie, religioni e una babele di lingue
(2008); La battaglia del Garigliano ed il Corps Expéditionnaire Français (2009); L’attacco
polacco a Montecassino da un documento del 1945 (2010).
4
Emilio Pistilli, tra l’altro, nel 1998 ha fondato il CDSC-Centro Documentazione e Studi Cassinati,
di cui è presidente (www.cassino2000.com/index.php).
216
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
“Dal Volturno a Cassino”
un sito italiano dedicato alle battaglie di Cassino
di Valentino Rossetti
Le battaglie che caratterizzarono il fronte italiano durante la seconda guerra mondiale sono state molte, ma nessuna trova tanti appassionati come quella che siamo ormai
usi chiamare, forse impropriamente, la battaglia di Cassino o la battaglia di Montecassino.
L’interesse per quanto avvenne in quei luoghi è certamente calamitato dalla sorte
dell’Abbazia di Montecassino, ma ci sono anche altri motivi: l’estensione sul territorio
dei fatti bellici che coinvolsero e distrussero quasi cinquanta fra cittadine e paesi, la
partecipazione ai combattimenti di soldati provenienti da quattro continenti e di diverse
etnie e religioni, la peculiarità stessa degli scontri fra opposti eserciti, svoltisi spesso
tra le rovine degli abitati, sulle montagne, sulle rive di fiumi che evocano tante tragedie: Rapido, Gari, Garigliano, Volturno. Ancora oggi, chi transita per quei luoghi non può
esimersi da una visita al Monastero ed al vicino cimitero di guerra polacco.
Ed ecco nascere il desiderio di informarsi, di sapere, di conoscere.
Gli imponenti cimiteri militari: tedesco, inglese, francese e certamente quello polacco sono meta continua di visite e di pellegrinaggi, talvolta di reduci (sempre meno
con il passare degli anni), più spesso delle loro famiglie che ritornano a pregare sulle
tombe di padri e nonni, mantenendo una memoria che tenderebbe a spegnersi con il
tempo se non esistessero in giro per il mondo coloro che la mantengono in vita con studi
e testimonianze scritte, fino a qualche tempo fa stampate su libri e giornali, ed oggi affidate a quel formidabile mezzo di comunicazione che è Internet.
Chi scrive queste note è uno di coloro che hanno scoperto Cassino, la sua famosa
Abbazia e ciò che accadde nel 1943-44 un po’ per caso. Fu galeotto un viaggio in Puglia, l’apparire lungo l’autostrada di quell’imponente edificio che si staglia fra il cielo
e la montagna, la decisione di salire fin lassù, la scoperta del candido cimitero polacco:
un ricordo indelebile, tanto commovente ed appassionante da far prendere la decisione
di creare un sito appositamente dedicato.
L’idea iniziale è stata quella di creare una raccolta delle letture, delle fotografie
e di tutto il materiale che l’autore aveva raccolto. Lo scoprire che molti altri erano interessati all’argomento e il ricevere alcuni messaggi di adesione furono i primi passi di
aggregazione attorno al sito — www.dalvolturnoacassino.it — di un mondo fino ad allora sconosciuto. Ben presto giunsero varie e preziose collaborazioni, alcune di fondamentale importanza, che hanno impresso un deciso e continuo miglioramento dei
contenuti, sia qualitativo sia quantitativo. Tali apporti hanno “obbligato” l’autore ad
una progressiva ridefinizione dell’impostazione del sito. Questo processo, per certi
aspetti ancora in corso, è finalizzato a far si che i contenuti, inizialmente dedicati a
pochi appassionati, siano fruibili in maniera organica da una più larga fascia di persone,
che magari per la prima volta si avvicinano a queste vicende storiche.
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“Dal Volturno a Cassino”, un sito italiano...
Oggi “Dal Volturno a Cassino” è seguito in tutto il mondo. Abbiamo lettori in tutti
i paesi europei, ma anche nelle due Americhe e c’è chi ci segue con regolarità dalla
Nuova Zelanda. Stupisce di trovare “visite” che provengono dalla Cina o dalla Corea,
dalle nuove nazioni che formavano l’Unione Sovietica o dall’Africa. Le nuove tecnologie hanno fatto miracoli e la possibilità di una traduzione automatica, magari non esattissima, offre la possibilità di leggere in un’altra lingua i testi che sono scritti in italiano.
Il sito si pone come scopo principale quello di raccogliere e divulgare informazioni
relative, in particolare, alla battaglia di Cassino e a tutti quegli eventi meno noti, ma
ad essa obbligatoriamente correlati, che temporalmente la precedono e la seguono. Il
periodo storico preso in considerazione va dall’ottobre 1943 al giugno 1944 e cioè dall’attraversamento del fiume Volturno da parte delle truppe alleate fino al loro ingresso
a Roma. www.dalvolturnoacassino.it vuole essere inoltre un punto di riferimento sia
per gli appassionati di questi eventi storici sia per quelle persone che sono comunque
interessate a conoscere qualche cosa di più di questo periodo della campagna d’Italia.
Dal 2000, anno della sua nascita, al 2009 le pagine visitate sono state 953.000.
Nel corso degli anni la qualità dei contenuti è certamente aumentata. Oggi scrivono sul sito, in perfetta volontarietà e con grande passione, autori che possono vantare altre pubblicazioni a livello nazionale. Si è dato maggior peso ai riferimenti
bibliografici, alle fonti storiche, alla “sitografia”, che consente di raggiungere documenti finora conservati in archivi inaccessibili se non altro per la loro distanza dall’Italia. E tuttavia resta valido l’obiettivo principale per il quale è nata l’iniziativa:
aumentare il livello di conoscenza dei fatti relativi alle battaglie per Cassino ed accrescere l’interesse sul ruolo avuto dagli italiani anche nel contesto complessivo della campagna d’Italia. Non per nulla dal 2002, pur rimanendo entità autonoma, “Dal Volturno
a Cassino” ospita l’Associazione onlus Battaglia di Cassino, assumendone anche il ruolo
di organo di diffusione; e, dal dicembre 2004, ospita l’Associazione Reduci LI Btg. Bersaglieri, dedicata alla memoria di Montelungo.
C’è però da sottolineare un altro aspetto. Il sito è e resta un’iniziativa privata, di
volontari, senza lucro o fini di lucro. Tutti coloro che vi collaborano e che vi scrivono
non pretendono nessun compenso, se non la soddisfazione di veder pubblicati i loro interventi che possono essere veri e propri saggi, articoli di carattere storico, testimonianze (preziosissime quelle dei reduci), ma anche racconti, purché abbiano attinenza
con il territorio e i fatti ai quali il sito è dedicato. Altri offrono documenti e fotografie,
talvolta tanto significativi da valere da soli un testo scritto. Altri ancora scrivono al
Forum del sito chiedendo informazioni, esponendo problemi, cercando persone, commentando gli interventi. Tutti insieme hanno creato un punto di aggregazione importante per il mantenimento della memoria sulle battaglie di Cassino, che resta il vero e
unico obiettivo. Lo sforzo compiuto in questi anni è stato ampiamente compensato dall’aumento costante dei lettori, come dimostrano le cifre sopra riportate, e dai contatti
ricevuti.
La varietà degli argomenti trattati nei ben 242 scritti finora pubblicati varia dalla
memorialistica, alla narrativa, alla saggistica storica. Qualche esempio: Livio Cavallaro, autore di un bel libro sulle battaglie di Cassino, ha dedicato pagine importanti
alla quota 593, al monte Castellone, ai combattimenti nella città di Cassino, rivelando
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
molti particolari inediti. Roberto Molle, instancabile artefice di mille iniziative per far
conoscere agli ospiti di Cassino la realtà che vissero combattenti e civili in quei mesi cruciali, ha descritto con molto realismo la partecipazione dei soldati canadesi all’ultima
offensiva, ma è anche l’autore di alcune importanti interviste a reduci tedeschi. Alberto Turinetti di Priero ha offerto alcuni veri e propri saggi dedicati al Corpo di spedizione francese ed al secondo Corpo polacco, soffermandosi sull’offensiva del maggio
1944, sulla battaglia del Belvedere, sull’incredibile assalto a Piedimonte San Germano.
Ha inoltre intervistato Mieczysław Tadeusz Rasiej (1924-2007), decano della comunità
polacca in Italia, che ha raccontato la propria esperienza dall’interno della diaspora
polacca, passata dalla Madrepatria ai campi di concentramento in Unione Sovietica,
per giungere infine in Italia e poi spargersi per il mondo nell’amaro dopoguerra. Altri
autori ancora hanno ricordato la storia dei loro padri, reduci da Montecassino, o si sono
soffermati sulla descrizione di luoghi ed avvenimenti, altrimenti dimenticati: monte
Sammucro, monte Cifalco, il Rapido, San Pietro Infine (in provincia di Caserta), Montelungo, Campodimele eccetera. Molte, inoltre, sono le testimonianze dirette di combattenti che hanno scritto da diverse parti del mondo. Non manca infine un
“personaggio” tanto caro ai polacchi in esilio e al quale è stato di recente dedicato un
monumento in Gran Bretagna: l’orso Wojtek, la cui storia è stata narrata da Ryszard Antolek.
L’impostazione del sito
www.dalvolturnoacassino.it è organizzato intorno a cinque sezioni principali:
• Sezione Articoli
Contiene l’archivio dei 242 articoli finora pubblicati. La raccolta degli articoli è
suddivisa in tre sezioni generaliste, in funzione della caratterizzazione dei contenuti.
Per facilitare il reperimento di articoli che trattano della stessa argomentazione o riconducibili allo stesso periodo temporale, la raccolta è suddivisa anche in gruppi tematici, trasversalmente alle sezioni generaliste. La ricerca può anche essere effettuata
tramite un elenco cronologico o per autore.
• Sezione Eventi storici
Eventi storici: descrizione dei punti focali del periodo storico trattato.
Biografie: le biografie dei protagonisti.
Unità: l’organizzazione, la descrizione e la storia delle unità combattenti.
• Sezione Cassino e l’Abbazia
La storia di Cassino
L’Abbazia di Montecassino
I cimiteri di guerra
I monumenti
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Immagini e Video:
poloniaeuropae 2010
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“Dal Volturno a Cassino”, un sito italiano...
— Fotografie, oltre 1.900 immagini.
— Video, 3 raccolte di video e documentari.
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Bibliografia: con circa 300 titoli recensiti ed altre pagine speciali.
Collegamenti: i “bookmarks” in argomento e/o correlati.
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Associazioni: le pagine dedicate alle Associazioni ospitate sul sito.
To Veterans: dedicato ai Veterani.
Ricerche: dedicato alle ricerche di amici e commilitoni.
In memoria: una pagina dedicata al ricordo di chi non c’è più.
News & Manifestazioni: per essere sempre al corrente di novità ed eventi correlati.
La ricerca di un argomento, di un autore, di una località, di una data può essere
eseguita tramite il motore di ricerca interno al sito.
Valentino Rossetti (1963), abita a Brescia. Nutre un profondo interesse per le vicende della seconda guerra mondiale, in particolare per gli avvenimenti che rientrano nell’ambito della battaglia di Cassino. Si occupa dell’arricchimento, dello sviluppo, dell’amministrazione e del
mantenimento del sito www.dalvolturnoacassino.it di cui è titolare e webmaster: [email protected].
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Distruggere o salvare l’arte:
i tedeschi in Campania, lungo la linea Gustav, a Montecassino
di Lutz Klinkhammer1
Il ricchissimo patrimonio monumentale e artistico italiano fu sottoposto a immensi
pericoli quando la seconda guerra mondiale si riversò contro i paesi aggressori, cioè
Germania, Giappone e Italia, esponendoli prima ai bombardamenti aerei e poi alla
guerra terrestre. In Italia, il momento cruciale avvenne dopo l’8 settembre 1943, perché a partire da quel momento monumenti, edifici e luoghi di raccolta entrarono nel
raggio dei combattimenti di artiglieria. Nel settembre 1943, il feldmaresciallo Rommel,
il comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, pensò a una rapida ritirata fino
all’Appennino tosco-emiliano oppure, addirittura, fino alle Alpi. Ma già un mese dopo,
il maresciallo Albert Kesselring, il comandante in capo delle truppe tedesche dell’Italia meridionale, riuscì ad imporre la sua strategia, impostata sulla tenace difesa del
territorio. La costruzione di forti posizioni difensive doveva permettere una battaglia
palmo a palmo, e ritirate solo graduali. L’ostinata difesa lungo la linea Gustav all’altezza di Cassino, dall’ottobre 1943 al maggio 1944, e poi sulla cosiddetta linea Gotica
(che ufficialmente si chiamava “Linea verde”) consentì ai tedeschi di sfruttare intensamente, sino alla primavera 1945, le risorse economiche e umane dell’Italia centrosettentrionale ai loro fini bellici.
Dopo la stabilizzazione del fronte il potere decisionale delle truppe combattenti
fu limitato all’immediato territorio di combattimento, mentre nel resto del Paese occupato si sparse una serie di delegati delle varie amministrazioni speciali e nazionalsocialiste. Quindi le complicate strutture di potere del terzo Reich si trasferirono in
breve tempo sul territorio occupato2. Il ministero degli Esteri nazista, guidato da von
Ribbentrop, si dava da fare per assicurarsi una posizione di potere privilegiata in Italia.
Già alcuni giorni prima della liberazione di Mussolini era stato deciso di ricostituire in
ogni caso un governo fascista italiano collaborazionista con o senza la presenza del duce
scomparso. La nascita della Repubblica Sociale non era quindi legata alla liberazione di
Mussolini da parte di truppe tedesche sul Gran Sasso. Il motivo era semplice: l’alleanza
tra Germania e Italia, o almeno una sua fittizia apparenza, doveva comunque essere
mantenuta soprattutto nei confronti degli altri Stati satelliti del Terzo Reich. Ma ci furono anche altre mire tra i gerarchi nazisti: i due federali del Tirolo e della Carinzia pensavano fosse giunta l’ora di estendere il loro potere sull’Italia del nord al confine con
l’Austria. Era chiaro per i dirigenti nazisti che il clamoroso «tradimento» dell’Italia —
1
Il copyright di questo articolo è dell’autore Lutz Klinkhammer.
Per il modo in cui questo meccanismo ha funzionato nel caso dell’Italia mi permetto di rinviare
a LUTZ KLINKHAMMER, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
2
poloniaeuropae 2010
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Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...
tanto utilizzato dalla propaganda tedesca — doveva permettere l’efficace sfruttamento
delle risorse italiane. L’unico dubbio che sorgeva ne riguardava l’ampiezza.
È da sottolineare che questo tentativo di sfruttamento non solo propagandistico
ebbe delle ripercussioni sul patrimonio artistico italiano e in particolare sulla vicenda
di Montecassino. Ma innanzitutto bisogna dire che il destino delle opere d’arte in Italia
era in primis legato alle vicende militari e al modello di occupazione nazista applicato
al paese ex-alleato. In una prima fase, caratterizzata dall’insicurezza sulla futura linea
di difesa tedesca e dall’assenza di un governo neo-fascista, dominò la logica militare che
voleva evitare di lasciare al nemico anglo-americano dei materiali e dei punti d’appoggio di importanza bellica. Mentre in Lucania, Calabria e Puglia, a causa della ritirata molto rapida da parte tedesca, non si poté quasi procedere a distruzioni e ad
asportazioni, la zona di Napoli, considerata particolarmente importante dal punto di
vista economico e militare, diventò una delle regioni tra le più massicciamente colpite
dal programma tedesco di distruzione. La città partenopea e i suoi dintorni furono largamente devastati e saccheggiati dall’esercito tedesco prima della ritirata. Un battaglione di genieri, aggregato al quattordicesimo Corpo d’armata corazzato, ebbe il
compito di intraprendere le più ampie distruzioni. Al battaglione, suddiviso in tre compagnie, furono assegnati settori distruttivi geograficamente ben fissati. Il 18 settembre
1943 fu dato l’ordine di distruggere tutte le strade, linee di comunicazione, poste, telegrafi e radio, fabbriche di importanza bellica e materiale bellico non più asportabile.
Più esteso fu l’ordine emanato il 29 settembre, quasi una cambiale in bianco per le distruzioni, cioè, «trasformare in terra bruciata il territorio da cedere al nemico»3. Lo
stesso Corpo d’armata l’8 ottobre estese a edifici civili l’ordine di distruzione e indicò
di «distruggere tempestivamente tutti gli edifici adatti ad alloggiare comandi e ad accasermare truppe (edifici amministrativi, grandi edifici di abitazione eccetera)». Sarebbero state risparmiate dalla distruzione soltanto piccole case della popolazione
civile, costruzioni di interesse storico e artistico, ospedali civili e militari occupati,
chiese e conventi4. Il proposito era anche quello di rendere particolarmente difficile il
rifornimento di generi alimentari alle truppe alleate che avanzavano. Il 19 settembre,
il comandante del Corpo ordinò: «da questo momento il vettovagliamento delle truppe
deve avvenire esclusivamente a spese del paese. Nei prossimi quattordici giorni la Campania deve essere completamente depredata, soprattutto di carne e ortaggi. Le compagnie addette al macello lavorino sotto pressione. Agire senza scrupoli. Da questo
momento è severissimamente proibito distribuire scatole di conserva tedesche»5.
Trascorso questo termine, il comando supremo giudicò che queste misure non fossero
state attuate in modo abbastanza rigido. Il generale Hube, comandante del quattordicesimo Corpo d’armata, uno dei pochi militari trasportati in aereo fuori dall’accerchiamento di Stalingrado, ordinò pertanto che i comuni tra le due linee di difesa
3
Bundesarchiv-Militärarchiv, Freiburg (BAMA), Fondo: RH 24-14, Vol. 81: XIV. Pz. Korps, 29/9/1943.
BAMA, RH 24-14, Vol. 82: Gen. Kdo. XIV.14. Pz. Korps, Ko. Pi. Fü., 10/10/1943.
5 BAMA, RH 24-14, Vol. 211: Anl. 86; BAMA, RH 24-14, Vol. 81, Bl. 140/6.
4
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
denominate Viktor (sul Volturno) e Bernhardt (detta anche Linea Reinhard), «conformemente al metodo adottato in Russia», consegnassero al più presto un determinato
quantitativo di generi alimentari e bestiame, minacciando altrimenti misure coercitive6. La popolazione di Napoli reagì ai propositi della potenza occupante con una sollevazione — le famose quattro giornate — che fecero da detonatore alle misure di
distruzione, sgombero ed evacuazione della Wehrmacht7. Fu decisiva la presenza dell’esercito e di alcuni comandanti con l’esperienza particolare della guerra combattuta
nell’est europeo (come il generale Hube). A loro va attribuito il tentativo di creare un
“paradigma russo” per l’Italia, di proporre quindi un trattamento per l’Italia analogo a
quello che avevano applicato in Polonia, in Russia o in Jugoslavia. Non a caso, Hube,
dopo le quattro giornate, propose al comandante in capo Kesselring di effettuare un
bombardamento aereo punitivo sulla città di Napoli, ma Kesselring si rifiutò. In quei
giorni fu distrutto anche il deposito di San Paolo di Belsito nei pressi di Nola, con le
carte più preziose dell’Archivio di Stato di Napoli riguardanti la storia del Medioevo —
una distruzione che significò una perdita immensa per il patrimonio nazionale ed
internazionale, per la storia italiana come per quella tedesca.
Nel settembre 1943 sembrava, quindi, che la Penisola dovesse subire immense distruzioni ad opera dei tedeschi, soprattutto nelle zone a ridosso della linea di combattimento, dove erano sparsi numerosi depositi contenenti gli oggetti archivistici ed
artistici più preziosi dei musei italiani, ora esposti ad alti rischi di distruzione. Ci si
chiederà come mai quei depositi si trovassero in campagna in luoghi abbastanza remoti. Nei primi anni dopo l’entrata dell’Italia in guerra era certamente opportuno trasportare il contenuto più prezioso dei musei italiani in campagna, perché si temevano
i bombardamenti sulle grandi città. Con l’occupazione tedesca, e con la guerra di Kesselring condotta palmo a palmo, anche le ville in campagna divennero estremamente
esposte ai pericoli. Spesso si trattava di edifici posti in cima a una collina, in luoghi
particolarmente adatti per piazzare un osservatorio o fare alloggiare i militari tedeschi. Perciò potevano diventare facilmente oggetto di combattimento o bersaglio dell’artiglieria. I responsabili delle opere d’arte pensarono perciò di far tornare il
contenuto di questi depositi in città, ma in una città considerata sicura. Si trattava di
scegliere tra Scilla e Cariddi: correre dei rischi lasciando le opere d’arte nei depositi in
campagna (all’insaputa degli eserciti combattenti) o rischiare di affrontare i pericoli dei
trasporti stradali esposti ai bombardamenti per portarle in città unilateralmente dichiarate “aperte” (come Roma e Firenze), e forse neanche sufficientemente sicure?
Bisogna però tenere presente un’altra particolarità. La percezione postbellica della
politica tedesca nei confronti dell’arte è stata fortemente influenzata dalle ricostruzioni
6
BAMA, RH 24-14, Vol. 212: XIV. Panzerkorps, Der Chef des Generalstabs, gez. Bonin, an Quartiermeister des XIV. PzK, 8/10/1943.
7 Wehrmacht (in tedesco significa «forza di difesa»): era il nome delle forze armate tedesche dal
1935 alla fine della seconda guerra mondiale.
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Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...
e dalle ipotesi interpretative di Rodolfo Siviero – il responsabile dell’Ufficio recupero
delle opere d’arte trafugate presso il ministero degli Affari Esteri italiano. Siviero,
«l’agente segreto dell’arte»8, cercò non soltanto di recuperare allo Stato italiano le
opere d’arte trafugate e scomparse, ma anche di far tornare quelle opere esportate col
permesso stesso di Mussolini, esportazioni che si consideravano a quel punto illegali.
Riuscì a far rientrare per esempio il celebre discobolo Lancellotti, il lanciatore del disco:
una copia romana di un originale greco di Milone che era stata comprata da Hitler il 18
maggio 1938 per la lauta cifra di sedici milioni di lire dell’epoca. Quella vendita politica avvenuta due settimane dopo la visita di Stato di Hitler in Italia – l’unica vera visita che quest’ultimo abbia mai fatto e durante la quale aveva visitato Roma, Napoli e
Firenze – fu raccontata, nella narrazione del dopoguerra, come figlia delle forti pressioni da parte dello Stato nazista sul debole alleato italiano che non si era potuto sottrarre. Si tratta ovviamente di un mito interessato, perché al momento della visita
quella che divenne poi l’alleanza politico-militare del Patto d’Acciaio doveva ancora nascere. Fece comodo però, nel dopoguerra, far dimenticare l’imbarazzante alleanza
italo-tedesca. Essa aveva fatto sì che, dal 1939 fino al 1943, l’Italia fascista fosse l’alleato più importante della Germania nazista, con una sua parallela politica di aggressione bellica verso i paesi del Mediterraneo9. Quell’avvicinamento ebbe delle
ripercussioni anche sulla questione del patrimonio artistico. Nel caso del famoso discobolo, Mussolini ne aveva autorizzato l’esportazione scavalcando il divieto posto dalla
legge sulla tutela delle opere d’arte di importanza nazionale.
È stata costruita nel dopoguerra anche un’altra vulgata interpretativa che riguarda
gli spostamenti delle opere d’arte più prestigiose dai musei statali italiani nei depositi
di campagna –uno spostamento che era esclusivamente determinato dalle esigenze belliche nel 1940-41. La tesi è che non si sarebbe trattato solo della necessità di proteggere il patrimonio artistico dagli attacchi aerei da parte degli alleati, ma, inserendo la
ricerca della motivazione in un altro contesto, sottolinea l’esistenza di un piano da
parte tedesca per arricchire i musei del Terzo Reich con capolavori rubati nei Paesi occupati o acquistati, in maniera dubbia nei Paesi sotto l’influenza tedesca10. Siviero
stesso, nel suo libro L’Arte e il nazismo11, ha creato quest’interpretazione dominante
che può essere riassunta con le sue parole. Con l’8 settembre, «il programma del governo nazista poté così completare il suo ciclo. Dalla cordialità di un amico corruttore
(il principe d’Assia) [che comprava le opere d’arte prima del 1943 — LK] alla rapina organizzata dei reparti armati». Quindi, una politica mirata esclusivamente al furto, effettuato non soltanto dai soldati combattenti ma da un’intera organizzazione dedicata
8
MASSIMO BECATTINI, Siviero 007. Inchiesta su arte e nazismo. Il cacciatore di opere d’arte,
“Archeologia viva”, n. 71, settembre/ottobre 1998, pp. 38-51.
9 DAVIDE RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista
(1940-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003.
10 Cfr. BECATTINI, op. cit., p. 40.
11 RODOLFO SIVIERO, L’arte e il nazismo. Esodo e ritorno delle opere d’arte italiane 1938/1963, a cura
di M. Ursino, Cantini, Firenze 1984.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
ufficialmente alla protezione delle opere d’arte italiane, il reparto Kunstschutz,
appunto, ovvero l’Ufficio tutela delle opere d’arte dell’amministrazione militare
tedesca. Sentiamo Siviero: «La protezione nazionalsocialista della cultura italiana ebbe
inizio, ufficialmente, il 30 settembre 1943, con l’incendio dell’Archivio storico di Napoli. (...) Dopo queste distruzioni e i primi furti in grande stile, che dal lato tecnico presentavano gravi lacune, l’istituzione del Kunstschutz fu veramente sentita da tutti»12.
Questa interpretazione è stata ripresa anche da altri autori, come Silvio Bertoldi: «La
città più colpita dall’interessamento del Kunstschutz fu Firenze dove si trovavano tesori in numero illimitato. La vittima più illustre, il Museo degli Uffizi, praticamente
svuotato... Quanto ai “protettori”, erano gli stessi che avevano dato alle fiamme per
puro spregio l’Archivio storico di Napoli, provocando alla cultura un danno di cui non è
possibile definire le proporzioni. Gli stessi che avevano incendiato le navi romane di
Nemi, tanto per citare due degli episodi vandalici più indegni». Secondo Bertoldi, nel
suo libro Siviero sarebbe riuscito a «ricostruire non solo l’itinerario dei furti, ma a smascherare l’ipocrisia degli autori, dietro l’usbergo della loro veste di esecutori di storici
salvataggi»13.
L’idea del furto organizzato da parte tedesca del patrimonio artistico italiano è
però già nata durante il periodo dell’occupazione, quarant’anni prima dell’uscita dell’accusa di Siviero. Alla fine del 1944, essa venne espressa dall’allora ministro della
Pubblica Istruzione del Regno del Sud, Guido De Ruggiero, che sottolineò come la svolta
dell’8 settembre avesse trasformato il progetto di sfruttamento di un alleato nel depredamento sistematico di un paese occupato14. Questa tesi servì all’epoca a fini politici. Con essa De Ruggiero motivò la richiesta di un risarcimento danni con opere d’arte
tedesche, se il patrimonio italiano non fosse stato restituito. Questa richiesta doveva
valere — secondo De Ruggiero — anche nel caso un preciso piano tedesco per lo spostamento dei depositi non fosse stato dimostrabile. Già nel 1945 il sottosegretario alle
arti e spettacolo del governo Parri, il critico Carlo Raggianti, chiese la consegna delle
biblioteche tedesche a Roma come indennizzo per i danni di guerra, e in primis per la
distruzione del deposito napoletano15.
Ci furono quindi dei forti interessi politici per presentare l’Italia occupata, a guerra
finita, come vittima dell’occupante ed ex-alleato nazionalsocialista. In riferimento al
destino dei monumenti e delle opere d’arte la situazione si rivelava però assai complicata in quanto i beni di valore furono sottoposti non soltanto a delle attività di distruzione, ma anche a dei tentativi di salvataggio.
12
Ivi, p. 33.
Ivi, p. 9.
14 Archivio storico-diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, Roma: Direzione Generale Affari Politici 1931-45, Italia, busta 99, fasc. 9 (ASMAE). Ministero della Pubblica Istruzione, Dir. Gen. delle
Arti, Div. III, prot. n. 3328, 24/11/1944, fto. De Ruggiero al ministero degli Affari Esteri, Ufficio V
(Germania), Roma.
15 National Archives Washington (NARA): Record Group 331 Allied Operational and Occupation Commands, World War II, ACC Italy, Monuments & Fine Arts, Numeric files 10.000/145/440-441, box 13,
File 20915, Foglio 1612: Istituto nazionale di studi sul rinascimento, fto. Carlo L. Ragghianti al
Major Norman T. Newton, Direttore della Sottocommissione Alleata MFAA, 29/12/1945.
13
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Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...
Torniamo al fronte, cioè in Campania, dove nel settembre-ottobre 1943 operavano
le divisioni tedesche tra combattimenti, tenace difesa del territorio, lenta ma inesorabile ritirata e continui ordini di distruzione. Ogni tanto, e con la loro massima sorpresa,
le truppe scoprivano dei depositi di materiale artistico estremamente pregiato. Quando
un medico in servizio presso la divisione corazzata Hermann Göring16, il tenente Maximilian Becker, dovette istituire un lazzaretto a Teano agli inizi di ottobre 1943, scoprì
casualmente, nel convento di Sant’Antonio, un deposito con casse provenienti dalla Biblioteca nazionale di Napoli. Il medico Becker17 si interessava di libri e di storia dell’arte; perciò organizzò lo spostamento del deposito dal fronte meridionale a Spoleto
dove era collocato un luogo di raccolta della sua divisione. Becker temeva che le casse
venissero distrutte «a causa dell’ordine generale di far brillare tutti gli edifici maggiori
nel momento della ritirata» tedesca. Quest’ordine venne applicato ampiamente nella
zona di Napoli e dintorni; la preoccupazione di Becker (anche se espressa dopo la
guerra) non era quindi priva di fondamento. Ma la Sovrintendenza italiana competente
in materia venne a sapere soltanto mesi dopo dell’avvenuto spostamento.
Solo alla fine dell’ottobre 1943, Becker poté recarsi a Spoleto per ispezionare il deposito. Egli ritenne allora il convento francescano di Assisi un luogo più adatto per la collocazione delle casse18. Dai padri francescani di Teano Becker venne informato di
un’altra raccolta d’arte nei pressi del fronte, cioè nell’abbazia di Montecassino, e nei
giorni successivi egli si adoperò per portare anche quel deposito fuori dalla zona a rischio dei combattimenti19. A Montecassino c’erano la biblioteca (con 70 mila volumi) e
l’archivio (con 80 mila documenti), possedimenti dello Stato italiano in quanto l’abbazia era «monumento nazionale», ma gestiti dai monaci stessi. A Montecassino si trovava
inoltre un secondo deposito che annoverava le opere d’arte più preziose delle gallerie
napoletane20 e il medagliere di Siracusa. Gli ufficiali tedeschi (il col. Schlegel e ten.
16 Questa divisione, che portò il nome del gerarca nazista, era composta da tanti giovani appartenenti alla “gioventù hitleriana”. Se dovessimo fare un elenco delle divisioni che si macchiarono,
in Italia, di stragi di civili, questa divisione occuperebbe il triste secondo posto, dopo la famigerata 16a Divisione granatieri corazzati “Reichsführer SS”, quella di Marzabotto e di Sant’Anna di
Stazzema. Cfr. CARLO GENTILE, “Politische Soldaten”. Die 16. SS-Panzer-Grenadier-Division
Reichsführer-SS in Italien 1944, “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, vol. 81, 2001, pp. 529-561.
17 Il rapporto di Becker su Teano e Montecassino viene riportato in una lettera del Dr. Albrecht
Haas MdB al sottosegretario del ministero degli Esteri tedesco, Prof. Dahrendorf, del 5/12/1969,
copia in: Archivio dell’Istituto storico germanico di Roma (ADHIR), Jüngere Registratur, Hagemann,
Kiste 3 (Botschaftskorrespondenz). Per un commento di Hagemann su Montecassino vedi: Lettera
Wolfgang Hagemann all’addetto culturale presso l’ambasciata tedesca di Roma Dr. G. Negwer del
7/10/1970.
18 Fausto Avagliano (a cura di), Il bombardamento di Montecassino. Diario di guerra di E. Grossetti
/ M. Matronola, Montecassino 1980 (Miscellanea Cassinese, 41), p. 277.
19 Delle vicende di Montecassino esistono ricostruzioni contrastanti. I rapporti di Becker e di Schlegel si trovano in Ivi, pp. 276-277, e pp. 284-285.
20 Ricoverato a Montecassino fu, ad esempio, anche il materiale che si trovava in esposizione alla
Mostra d’Oltremare a Napoli nel 1941.
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poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Becker) decisero di loro iniziativa, senza consultare né le autorità tedesche né quelle
italiane o vaticane, lo spostamento a Spoleto, nel centro di raccolta della divisione
Göring, sia del «monumento nazionale» sia della raccolta napoletana. All’abate di Montecassino venne detto che i materiali sarebbero stati consegnati a Mussolini. Quando il
sostituto-archivista padre Leccisotti arrivò a Roma la sera del 19 ottobre con i beni di
proprietà privata dei monaci (dentro i quali era stato nascosto il tesoro di Siracusa),
informò immediatamente la segreteria di Stato vaticana e la competente Sovrintendenza italiana dell’asportazione dei tesori da Montecassino. Nel frattempo i camion
tedeschi continuavano a partire da Montecassino senza che ai benedettini fosse stato
comunicato il luogo di destinazione dei trasporti. Il sovrintendente Lavagnino si rivolse
al ministero degli Esteri a Roma e chiese un intervento anche al segretario del Partito
fascista repubblicano Alessandro Pavolini.
La protesta diplomatica vaticana da parte del sostituto Mons. Giovanni Battista
Montini indusse l’ambasciatore tedesco presso la Santa Sede, Ernst von Weizsäcker, a
chiedere all’ambasciata tedesca presso la Repubblica di Salò di intervenire. Un incaricato della sede romana dell’ambasciata, il sottotenente del Sicherheitsdienst (SD)21
Peter Scheibert, nel dopoguerra professore universitario, riuscì il 31 ottobre 1943 a contattare il comando generale della Divisione Hermann Göring e venne a sapere del centro di custodia a Spoleto. Il 2 novembre, il sottotenente delle SS Scheibert — accompagnato dal ten. col. Bobrowski della Divisione Göring e in compagnia del dott.
Deichmann, membro dell’Istituto archeologico germanico a Roma — visitò il deposito a
Colle Ferreto presso Spoleto e controllò le casse provenienti da Montecassino e da
Teano22. I capi militari della Göring inizialmente non avevano alcuna intenzione di trasferire integralmente il prezioso patrimonio di Montecassino a Roma23. Quando il maresciallo Kesselring venne a sapere di queste vicende all’inizio di novembre, convocò
una riunione e costrinse la divisione Göring a riconsegnare le casse asportate al Vaticano, non appena ci fosse stata la possibilità tecnica di effettuarne il trasporto24.
21
Il Sicherheitsdienst (Servizio di Sicurezza) era il servizio segreto delle SS.
FRIEDRICH WILHELM DEICHMANN, THEODOR KRAUS, Zur Geschichte der Abteilung Rom des Deutschen Archäologischen Instituts von 1929-1979, in: Das Deutsche Archäologische Institut. Geschichte und
Dokumente, vol. 3, Mainz 1979, p. 10. Cfr. anche il promemoria del 30/10/1943 sul colloquio con
Don Tommaso Leccisotti, a firma dei prof.ri Fuhrmann e Deichmann, che si trova nell’Archivio dell’Istituto archeologico germanico di Roma (ADAIR), Abteilung I, Generalia, Korrespondenz 1943,
Brief Deichmanns an von Gerkan, 13/11/1943; e il rapporto senza firma probabilmente scritto da
Deichmann, del 4/11/1943.
23 Nel luglio 1944 la stampa alleata accusò la Divisione Hermann Göring di aver rubato una parte
dei dipinti più preziosi, per la collezione d’arte del maresciallo Göring. Cfr. ASMAE, Affari Politici
1931-45, Italia, busta 96, fasc. 2 (stampa), Promemoria dell’Ufficio Stampa del 17/8/1944 riportando un articolo della rivista “Time” del 24/7/1944 intitolato: Nudes for Hermann (ora riproposto in: http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,791608,00.html).
24 Fausto Avagliano, op. cit., pp. 276-278; Rapporto Hagemann del 7/10/1970.
22
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Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...
Per la salvaguardia del patrimonio archeologico, storico ed artistico italiano non si
mossero soltanto diplomatici e capi militari, ma anche storici dell’arte, archeologi sia
tedeschi che italiani. A Roma, sin dal settembre 1943 e nonostante il vuoto politico nato
con la fuga del re e del governo dalla capitale, alcuni soprintendenti della Direzione
generale delle Belle Arti del ministero dell’Educazione nazionale, in primis i dirigenti
Giulio Carlo Argan, Guglielmo De Angelis d’Ossat e Pietro Romanelli, preoccupati per il
destino dei tesori d’arte italiani, si attivarono per tutelare monumenti e opere. Immediatamente si pensò non soltanto a salvaguardare i beni artistici da eventuali distruzioni
belliche, ma anche da eventuali mire da parte tedesca. Bisogna dire che le strutture tedesche presenti sul territorio italiano durante l’occupazione furono tutt’altro che omogenee. Iniziative che tendevano al furto (in particolare da parte dell’Einsatzstab
Rosenberg25) si scontrarono con il lavoro e l’ethos professionale di storici e storici dell’arte che lavoravano nell’organizzazione militare per la tutela delle opere d’arte
(Kunstschutz) e che cercavano di salvare il patrimonio artistico italiano — probabilmente anche in visione di un futuro postbellico26.
Il futuro sindaco di Roma, Giulio Carlo Argan, in un suo diario di quei giorni — ne
ho trovato un frammento — racconta il contatto con l’ufficio tedesco del Kunstschutz,
preposto alla tutela delle opere d’arte. Il reparto era stato costituito in Italia nel novembre 1943 e aveva il compito, sulla scia dello stesso organismo creato in Francia, di
tutelare i monumenti e le opere d’arte sul suolo italiano. L’ufficio era composto da storici dell’arte, archeologi, storici, alcuni dei quali vivevano in Italia da parecchi anni e
avevano rapporti di collaborazione con i colleghi italiani. Fu anche in virtù di questi
precedenti, che si attivarono vari accordi, talvolta taciti, talvolta espliciti, per la tutela delle opere d’arte esposte ai pericoli bellici. Il Kunstschutz, nell’interpretazione
di Siviero, era finalizzato soltanto al furto. Eppure, in un diario semiufficiale della Direzione generale delle Arti del ministero dell’Educazione nazionale, scritto con alta
probabilità dall’allora dirigente Carlo Giulio Argan, il primo incontro con i rappresentanti dell’organo tedesco preposto alla difesa delle opere d’arte, la mattina del 4 novembre 1943, viene descritto con le seguenti parole27:
25
L’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg (ERR), creata nel luglio 1940 dal Reichsminister Alfred Rosenberg, era una unità speciale dell’Ufficio politico estero, che aveva il compito di fare man bassa
e confiscare tutto il materiale ritenuto politicamente importante nei paesi occupati dalle truppe
germaniche.
26 Non a caso, alcuni esperti furono tutelati e nascosti alla fine della guerra (così Wolfgang Hagemann nella curia arcivescovile di Verona) con la motivazione che avevano svolto un effettivo lavoro di salvataggio nei mesi dell’occupazione. Cfr. PETER HERDE, Wolfgang Hagemann e il processo
Kesselring (25.IV.1947), parte II: Dalle Fosse Ardeatine al Processo, “L’Acropoli. Rivista bimestrale
diretta da Giuseppe Galasso”, n. 5, ottobre 2002, p. 649 e sgg.; GIORGIO MICAGLIO, Quei due tedeschi che aiutarono Verona, “Verona Fedele”, 21 ottobre 2001, p. 9.
27 Mentre il lavoro di Siviero e le sue pubblicazioni ebbero una risonanza relativamente forte sull’opinione pubblica, il diario di Argan rimase ignoto e così quello del suo collega Emilio Lavagnino
pubblicato solo nel 1974 nella rivista “Nuova Antologia” (ora ripresa nel volumetto della figlia:
ALESSANDRA LAVAGNINO, Un inverno 1943-1944. Testimonianze e ricordi sulle operazioni per la salvaguardia delle opere d’arte italiane durante la seconda guerra mondiale, Sellerio, Palermo 2006).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Stamane, alle 10, si è presentato in ufficio il barone dott. Bernardo von Tieschowitz, consigliere d’intendenza delle forze armate germaniche, accompagnato
dal prof. Fuhrmann e dal dott. Deichmann dell’Istituto archeologico germanico. (…)
Il Tieschowitz, che avevo conosciuto nell’inverno scorso insieme al conte Wolff
Metternich, al cui ufficio per la tutela dei monumenti e delle opere d’arte nei
paesi occupati è addetto, mi ha dichiarato di dover prendere contatti con le autorità competenti italiane per agevolarle nel loro compito reso difficile dalle attuali circostanze. Ho detto al Tieschowitz che, nelle precedenti conversazioni con
il dott. Scheibert, ora ammalato, s’era convenuto che il provvedimento più prudente era il trasporto a Roma di tutte le opere del Lazio e delle più importanti dell’Italia centrale e settentrionale. Il dott. Tieschowitz ha approvato; avendo egli
accennato alla possibilità di ricoverare le opere in Vaticano, gli ho risposto che,
qualunque possa essere lo sviluppo delle trattative avviate col Vaticano prima dell’armistizio e poi interrotte, il primo problema è quello di portare le opere a Roma.
Il Tieschowitz si è impegnato di agevolare la concessione di automezzi da parte del
Comando germanico, consigliando di cominciare con l’evacuazione dei ricoveri a
sud di Roma; gli ho consegnato copia dell’appunto contenente le conclusioni della
riunione dei Soprintendenti del 31 ottobre scorso [1943], dal quale risulta il fabbisogno di camion per i vari trasporti dai depositi laziali. Il dott. Tieschowitz propone di fare apporre a tutti gli edifici monumentali o ricoveri di opere d’arte di
cui gli sarà dato l’elenco dei cartelli che, in nome dell’alto comando germanico,
inibiscano l’ingresso alle truppe di transito o di presidio. Venendo a casi particolari, Tieschowitz comunica che le opere portate via da Montecassino da una divisione germanica operante nella zona si trovano ora a Spoleto presso il deposito di
quell’unità; sono a nostra disposizione per essere portate a Roma. Comunica inoltre che truppe germaniche hanno recuperato a Teano, durante violenti combattimenti, circa 600 casse di libri della Biblioteca nazionale di Napoli: sono anch’esse
a Spoleto. Circa i trasporti viene convenuto che essi saranno scortati da nostri funzionari e custodi. Tieschowitz conta di fermarsi a Roma circa tre settimane, per
condurre il lavoro insieme al dott. Scheibert, che pare essere un suo dipendente;
poi verrà a Roma, a sostituirlo, un docente dell’università di Monaco.
Questa era, dunque, la situazione quando Tieschowitz si presentò ai colleghi italiani, comunicando ai suoi interlocutori il luogo dove si trovavano il tesoro di Montecassino e i libri del deposito di Teano, e dichiarando il suo impegno a restituirli. Tra
dicembre e gennaio le casse tornarono al Vaticano in una cerimonia di consegna alla
quale la maggior parte dei soprintendenti italiani non volle neanche partecipare. Il 4
gennaio 1944 vennero consegnate a Piazza Venezia anche le 600 casse con i libri della
Biblioteca nazionale di Napoli, che vennero portati alla Sapienza28.
28
Per le fotografie della consegna vedi Fausto Avagliano, op. cit.
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Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...
Dalle annotazioni di Argan vengono fuori tutti gli elementi del quadro che caratterizzò i venti mesi dell’occupazione tedesca per quanto riguarda l’ambito delle opere
d’arte, delle biblioteche e degli archivi29:
1) truppe tedesche combattenti che sulla strada della ritirata trovano depositi di
opere d’arte e di altro materiale prezioso collocati al di fuori dei grandi centri e al riparo dagli effetti disastrosi dei bombardamenti aerei;
2) decisioni unilaterali tedesche di spostare i depositi o parte di essi in altre aree
delle loro retrovie (non si sa bene se con l’intento di salvarli dai combattimenti e dagli
effetti del fuoco d’artiglieria o per secondi fini);
3) uno specifico organo tedesco in fase di costruzione che si occupa della localizzazione delle opere e dei depositi che risultano spostati, trasferiti o momentaneamente
dispersi;
4) uno specifico organo ministeriale italiano sottoposto nolens volens (cioè a causa
delle vicende belliche) alle neocostituite autorità di Salò;
5) contatti diretti tra esperti tedeschi e italiani per coordinare le attività di settore;
6) un’amministrazione tedesca sottoposta a cambiamenti, ma composta da esperti
di storia dell’arte, di archeologia e di storia, cioè provenienti dal mondo dell’accademia tedesca, con – fatto non raro – conoscenze dirette dell’Italia.
Mancano in questo contesto l’analoga struttura angloamericana (comandata da ufficiali addetti ai Monuments, Fine Arts and Archives) e i rappresentanti tedeschi delle
varie organizzazioni desiderose di accaparrarsi per proprio interesse del prezioso patrimonio italiano (attraverso i sequestri che sono dei furti malcelati).
È necessario sottolineare che il rischio per le opere d’arte non fu costituito soltanto
dalle distruzioni belliche, ma anche dalle evacuazioni selvagge operate dalle truppe
tedesche; le quali, nel momento della ritirata si trovarono spesso di fronte a questi depositi senza conoscerne il contenuto e senza aver ricevuto ordini superiori precisi.
Quindi o lasciarono le opere lì o le portarono via a seconda dei mezzi di trasporto a disposizione e in virtù di decisioni prese sul posto. In alcuni casi, queste evacuazioni selvagge furono legate a veri e propri tentativi di furto. Come nel caso della Divisione
Göring, dove i capi militari decisero a un certo punto di togliere dalle casse alcuni dei
quadri trasferiti da Montecassino a Spoleto per regalarli al titolare della Divisione, il gerarca nazista Hermann Göring, per la sua collezione privata. Le opere mancanti vennero
poi ritrovate, a guerra finita, in Austria, in Stiria, in una galleria sotterranea presso AltAussee, località in cui erano custodite parte delle collezioni di Hitler e di Göring30.
29 Per quanto riguarda gli archivi italiani cfr. JÜRGEN KLÖCKLER, Verhinderter Archivalienraub in Italien. Theodor Mayer und die Abteilung “Archivschutz” bei der Militärverwaltung in Verona 19431945, “Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, vol. 86, 2006.
30 ERNST KUBIN, Sonderauftrag Linz. Die Kunstsammlung Adolf Hitler. Aufbau, Vernichtungsplan, Rettung. Ein Thriller der Kulturgeschichte, Wien 1989, pp. 88-91; JAKOB KURZ, Der Kunstraub in Europa
von 1938 bis 1945, Hamburg-München 1989, p. 353 (con l’elenco degli oggetti d’arte ritrovati).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Torniamo alla linea Gustav e all’abbazia di Montecassino31, anch’essa altamente
esposta agli effetti della guerra. Come si è visto, l’evacuazione del patrimonio artistico
da Montecassino, anche se originariamente concepita come un’iniziativa di salvataggio, non fu propriamente un’azione di cui vantarsi, visto il furto di alcuni quadri di
valore e la lenta, reticente procedura di restituzione delle opere portate a Spoleto.
Tuttavia non è un caso se gli ufficiali della Divisione Hermann Göring abbiano avviato il
trasferimento dei preziosi beni di Montecassino: già nell’ottobre del 1943 pensavano
infatti a una probabile distruzione dell’abbazia! Tale distruzione non era un’ipotesi sorprendente per gli alti comandi militari tedeschi. Nessuno aveva fatto sufficienti sforzi
per evitare una eventuale distruzione del monumento storico. I poteri militari tedeschi
erano ben consapevoli del rischio che correva l’edificio, nel momento stesso in cui fu
integrato nella linea del fronte in conseguenza di un ordine esplicito dello stesso Hitler32
— donde il nome di: «linea di difesa rafforzata del Führer». Il 14° Corpo d’armata aveva
chiesto, il 5 dicembre 1943, al comandante supremo Kesselring come ci si doveva comportare con l’abbazia, visto che si considerava «impossibile il mantenimento dell’extraterritorialità dell’edificio del monastero che si trova nell’immediata vicinanza della
principale linea di combattimento»33. Kesselring rispose che alla Chiesa cattolica era
stato promesso soltanto di «risparmiare l’edificio stesso”34. «Perciò possono essere
messe — se ritenuto necessario — delle postazioni militari fino alle immediate vicinanze
dell’abbazia»35: questo era il tenore del comunicato del 14° Corpo d’armata alle divisioni ad esso sottoposte. Che si prevedessero dei combattimenti attorno all’abbazia ed
anche delle eventuali distruzioni, è dimostrato dal tentativo di evacuare il più presto
possibile tutti gli sfollati che si erano rifugiati all’interno dell’abbazia36. Il comando
tedesco consapevolmente accettò il rischio di una distruzione bellica dell’abbazia per
avere maggiori vantaggi militari, anche se l’edificio monastico stesso non venne occupato dai soldati tedeschi prima che esso fosse distrutto dagli alleati. Herbert Bloch ha
evidenziato la corresponsabilità tedesca — anche se la distruzione dell’edificio,
militarmente inutile, rimane collegata ai nomi dei generali alleati Harold Alexander,
Francis Tuker e Bernard Freyberg, i quali vedevano l’abbazia come una fortezza ottocentesca e la fecero bombardare il 15 febbraio 194437.
Gli alleati pensavano che dentro l’edificio ci fosse una presenza militare tedesca
(cioè delle mitragliatrici) e lo comunicarono attraverso i volantini distribuiti dagli aerei
31 Un dettagliato riassunto delle vicende si trova in HERBERT BLOCH, The Bombardement of Monte Cassino (February 14-16, 1944). A new appraisal, “Benedictina”, XX, 1973, pp. 383-424.
32 BAMA, RH 24-14, Vol. 85, Bl. 134/6.
33 Ivi, Foglio 329.
34 Ivi, Foglio 370.
35 Ivi, Foglio 138/6.
36 Ivi, Foglio 370 del 12/12/1943; e BAMA, RH 19X, Vol. 12, Foglio 275 seg.: Comando Supremo di
Kesselring all’Ambasciata tedesca presso la S. Sede, 18/12/1943 (si trattava di circa 150 persone);
BAMA, RH 24-14, Vol. 107, Foglio 8, All. 223: 29. Pz. Gren. Div. Ic Nr. 506/43geh. al XIV. Pz. Korps,
4/1/1944 (monastero evacuato ad eccezione di 44 persone, di cui 13 monaci).
37 HERBERT BLOCH, art. cit., pp. 390, 423 seg. e 396 seg.; BAMA, RH 24-14, Vol. 109, Foglio 558: XIV.
Pz. Korps an AOK 10, 15/2/44.
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Distruggere o salvare l’arte: i tedeschi in Campania...
e negli annunci radio. Il bombardamento si giustificava con la «massiccia presenza e
difesa militare tedesca del monastero»38. Formalmente questa affermazione poteva
essere facilmente negata da parte tedesca. Il colonnello Karl-Lothar Schulz, comandante del primo Reggimento cacciatori-paracadutisti e comandante militare di Cassino,
riferì al comando supremo tedesco che nel monastero non c’erano armi tedesche. Un
poliziotto militare aveva il compito di vietare l’accesso all’edificio ai militari tedeschi.
Epperò, come si è detto, i punti militari di osservazione erano dislocati immediatamente a ridosso delle mura del monastero.
La distruzione del monastero da parte degli alleati «viene completamente sfruttata ai fini della propaganda» nazionalsocialista, si scrisse esplicitamente nel diario
storico del 14° Corpo d’armata: «Si riesce a portare fuori dalle macerie l’abate ottantenne. Ospite del comandante generale, arriva di sera presso il comando generale del
Corpo d’armata e viene mandato la mattina successiva a Roma — dopo un’esaustiva
intervista da parte dei giornalisti militari per la stampa e il cinegiornale»39.
Nel caso di Montecassino, la decisione su come comportarsi nei confronti del patrimonio artistico italiano spettava soprattutto agli attaccanti alleati, non ai tedeschi. Una
situazione rovesciata si presentò invece pochi mesi dopo quando il fronte si avvicinò a
Roma, e poi a Firenze. Allora furono gli occupanti ad essere costretti a decidere prima,
se volevano difendere o sgombrare la città; a decidere se e in quale misura dovevano distruggerla oppure no per trarne dei vantaggi sul piano militare. Non è questa la sede per
analizzare dove e quando le logiche militari ebbero il sopravvento sulle buone intenzioni
riguardanti la protezione della ricchezza culturale italiana40. La guerra in Italia assomigliò per ambedue le parti coinvolte nel conflitto ad un combattimento che si svolge in un
gigantesco museo. Una storia ancora da raccontare per tanti suoi aspetti.
Lutz Klinkhammer, storico dell’età contemporanea, ha studiato e svolto attività di ricerca a Treviri (dove è nato nel 1960), a Roma, a Colonia, a Monaco di Baviera, a Parigi. Ha insegnato nelle università di Pavia, Viterbo, Bologna. Dall’aprile 1999 è membro
dell’Istituto Storico Germanico di Roma e responsabile per il settore di storia dei secoli
XIX e XX. Nel 1994 ha ricevuto il Premio “Acqui Storia” per il libro L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945 (Bollati Boringhieri, Torino, terza edizione 2007); ed è stato pe-
39
Ivi, Foglio 117: KTB XIV. Pz. K. vom 17/2/44.
Cfr. MARCO GIOANNINI, GIULIO MASSOBRIO, Bombardate l’Italia. Storia della guerra di distruzione aerea
1940-1945, Rizzoli, Milano 2006, in particolare il cap. 13: La lotta della bellezza contro la guerra.
40
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
rito storico del tribunale d’appello di Coblenza al processo contro W. Lehnigk-Emden per
l’eccidio di civili italiani a Caiazzo. Collabora a varie riviste (“Quellen und Forschungen
aus italienischen Archiven und Bibliotheken”, “Journal of Modern Italian Studies”,
“Mondo Contemporaneo”, “Ricerche di Storia Politica”, “Roma moderna e contemporanea”) e istituzioni: l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in
Italia (Milano), l’Istituto romano per la storia dal fascismo alla Repubblica, la Società
romana di storia patria. È stato consulente della Commissione parlamentare bicamerale
di Inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti
(2004-2006) e della Commissione per il recupero del patrimonio bibliografico della
Comunità ebraica di Roma, razziato nel 1943. Dal 2006 è membro del Comitato nazionale per le celebrazioni del Bicentenario del Decennio francese, istituito dal ministero
per i Beni Culturali. Dal 2006 è presidente del Comitato scientifico della fondazione
“Fossoli. Camp Foundation. Fondazione ex-campo”. Dal 2009 è membro della Commissione storica italo-tedesca istituita dai ministeri degli Affari Esteri. Tra le sue pubblicazioni recenti: La morte per la patria. La celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla
Repubblica (con Oliver Janz, Donzelli 2008), Eigenbild im Konflikt Krisensituationen
des Papsttums zwischen Gregor VII und Benedikt XV (con Michael Matheus, Primus 2009),
Die ‘Achse’ im Krieg (con Amedeo Osti Guerrazzi e Thomas Schlemmer, Schöningh 2010).
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Venti tombe con la stella di Davide
nel cimitero polacco di Montecassino
di Helena Janeczek
Al cimitero polacco di Montecassino, in basso a destra, quasi formassero le lettere
di una frase in ebraico, ci sono una ventina di tombe con la stella di Davide. Talvolta
qualcuno ci depone un ciottolo, un segno di pietra sulla pietra più resistente dei papaveri di stoffa che si trovano sulle altre lapidi. Venti caduti su quasi mille lì sepolti. Ma
sono parsi un numero sufficiente perché alla commemorazione del 65° della battaglia
venisse invitato anche un rabbino. Quando l’ho visto, in piedi dietro alle sedie che ospitavano autorità e i molti veterani accorsi nonostante l’età avanzata, non l’ho riconosciuto come tale. Un ebreo, un solo ebreo ortodosso, capello nero, abito nero, in mezzo
a centinaia di polacchi di diverse generazioni. Comitive di scout, bambine in costume,
clero di vario rango fatto arrivare dalla Polonia. Gruppi di famiglie giunti da Gran Bretagna, Stati Uniti e Canada e altri luoghi dell’esilio in cui si è dispersa nel dopoguerra
l’Armata del generale Władysław Anders. La prima cosa che mi è venuto da chiedergli
è se qualche suo parente è sepolto qui. Mi ha risposto in un inglese dal ruvido accento
ebraico, accennando a un fratello di suo nonno che in effetti ha partecipato alla battaglia. «But I’am here for work». E io continuavo a non capire.
Così ho provato un’autentica sorpresa quando dopo la messa cattolica, dopo il
pope ortodosso e il pastore protestante, l’ho visto salire sugli scalini di marmo. Ha recitato «El mole rahamin», signore della misericordia, la preghiera comunemente usata
per le vittime della Shoah. Non mi aspettavo la presenza di un rabbino e non ne ho mai
visto uno senza barba lunga, caffettano e tallit, soprattutto non ne ho mai incontrato
uno così giovane.
Lo ritrovo più tardi che si aggira per l’enorme sala ristorante del Hotel Edra, un palazzone nuovo vicino allo svincolo autostradale, dove l’ambasciata polacca offre una
cena ai convenuti. Se non stesse aspettando qualcosa da mangiare, mentre gli altri
ospiti hanno finito l’antipasto di affettati ciociari, potrebbe sembrare un ragazzo come
un altro che per qualche ragione non vuole levarsi di testa il normalissimo berretto a
visiera con cui ha sostituito la componente più riconoscibile e ingombrante dell’abito
«for work».
«Mi stanno riscaldando qualcosa che ho portato da Varsavia», risponde alla mia domanda se è stato provveduto per il suo pasto. Gli consegnano un grande teglia di alluminio, si siede al mio tavolo. Agli altri viene servito il primo e il secondo, e lui continua
a sbocconcellare direttamente dalla teglia, con posate di plastica che per lo stupore del
cameriere si è fatto dare, una massa di farinacei che fatico a identificare. Dovrebbero
essere pierogi, ravioli polacchi, solo che questi sembrano aver sostituito il condimento
proibito di pancetta con una doppia razione di cipolla. L’odore è persistente, l’aspetto
colloso, e della porzione enorme sparisce solo quanto è indispensabile a sfamarsi.
È anche questo ciò che significa essere stati mandati in Polonia come rabbino.
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Venti tombe con la stella di Davide...
Pinchas Zarczyński mi racconta che è arrivato da appena sei mesi, ma il suo primogenito è nato a Varsavia.
«Ha preso i miei occhi e i colori scuri di sua madre che è di origine yemenita».
Noto per la prima volta che è biondo e chiaro come un polacco, ma soprattutto un
bel ragazzo. Gli occhialini di metallo non riescono a fare da schermo al suo orgoglio
gioioso, inconfondibile con quello di chi ha semplicemente cominciato a realizzare i
precetti del Signore.
«Allora sarà bellissimo», lo incalzo.
«Sì», non si trattiene di rispondere, illuminandosi in un sorriso che tradisce una nostalgia fisica, primaria. Questo è un padre innamorato di suo figlio e si direbbe pure di
sua moglie che in Polonia un po’ ci soffre, ma per fortuna ha una grande famiglia unita
che molto spesso viene a trovarla. E Pinchas Zarczyński, nato anche lui a Varsavia, figlio di un ultimo ramo comunista che solo con la legge marziale del generale Jaruzelski si è deciso a raggiungere il ramo sionista, apprezza il calore e il senso della famiglia
degli ebrei yemeniti, i più legati alle loro antichissime tradizioni orientali.
Aveva quattro anni quando è arrivato in Israele e del suo ebraismo non sapeva
nulla. È cresciuto in una città satellite di Tel Aviv, ha fatto le scuole fino all’università,
ha conseguito una laurea in architettura. E poi, studiando in una yeshiva, un scuola talmudica di Gerusalemme, è diventato rabbi.
Ora, a meno di trent’anni, è stato rispedito nella sua città d’origine. Chi lo ha
mandato in Polonia non è il movimento dei Chabad-Lubavitch con sede a Brooklyn, ma
un’organizzazione che si chiama Shavei Israel, dedita a ritrovare gli ebrei perduti nei
più remoti e spesso esotici angoli del mondo. Tre degli attuali dieci rabbini in Polonia
sono suoi emissari, gli altri fanno capo ai Lubavitch o alla Ronald S. Lauder Foundation
creata dal figlio di Estée Lauder, la regina dei cosmetici, a differenza della concorrente
Helena Rubinstein nata in America e non a Cracovia. Non arrendersi allo sterminio di un
popolo e della sua cultura nell’Europa orientale, innaffiare le ultime pianticelle rimaste nella terra bruciata, piantarvi nuove semenze nella speranza che attecchiscano:
questo sarebbe il denominatore comune degli attuali sforzi ebraici. Eppure oggi in Polonia il numero di ebrei dichiarati resta di gran lunga inferiore a quelli sepolti nei milletrecento cimiteri che i dieci rabbini attuali non sanno come riuscire a preservare.
Pinchas Zarczyński sostiene che, rispetto a certi colleghi di origine polacca ma cresciuti negli Stati Uniti, ha il vantaggio di capire sino in fondo quel che pensa e sente la
gente con cui entra in contatto. Ha anche lui una zia che, pur immigrata in Israele, non
ha mai voluto rettificare sui documenti il nome ereditato da documenti falsi. Racconta
storie di ragazzi che hanno ritrovato nel fondo della loro memoria preghiere ebraiche
cantate come ninnananne da madri e nonne cattoliche, adulti i cui genitori sul letto di
morte hanno confessato «siamo ebrei», persone smarrite con tanti brandelli di storie che
riemergono, additano ferite, pongono domande. Riconoscere la propria radice ebraica in
Polonia è difficile, afferma, e non solo per via di quanto rimane dell’antisemitismo. Ma
quando mi racconta dell’interesse crescente di molti polacchi per le cose ebraiche, o
quando dice che prenderà lo stesso aereo del presidente Lech Aleksander Kaczyński che
l’ha invitato di persona, mi sembra di cogliere una nota di orgoglio che non riguarda un
emissario dell’ebraismo ortodosso, ma un uomo cresciuto con il polacco come lingua
madre e che ha voluto conservare un cognome pieno di consonanti complicate.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Sembriamo c’entrare così poco l’uno con l’altra: lui, il ragazzo tornato alla religione e alla terra dei suoi avi per riportare nel luogo dove è nato un’identità integralmente riabbracciata, io figlia impenitente della secolarizzazione e della diaspora. Ma
in quell’occasione e in quel luogo di memoria, non ci saremmo mai incontrati se non
avessimo entrambi radici in Polonia.
In una frase buttata lì verso la fine della nostra conversazione, Pinchas Zarczyński
mi confida che quando lo hanno invitato, gli avrebbero anche detto che gli ebrei caduti
a Montecassino sarebbero in realtà assai di più di quelli sepolti nelle tombe con la stella
di Davide.
Per lungo tempo era stata un’ipotesi che anch’io avevo accarezzato, forte dell’aver trovato nell’elenco dei caduti esposto ai cancelli del cimitero cognomi assai diffusi fra gli ebrei polacchi ai quali non corrispondeva una collocazione nella sezione
ebraica. Immaginavo ci fossero stati diversi modi per unirsi all’Armata senza dover rivelare di essere ebrei. Davo anzi per scontato che potesse essere una scelta diffusa, vuoi
perché la persecuzione nazista aveva già indotto molti profughi a occultare la propria
identità, vuoi per mettersi a riparo da pregiudizi e esclusioni da parte polacca. Ma alla
fine dovetti accorgermi di aver fatto i conti senza la visita militare. Per poter passare
come polacchi «autentici», non bastava un nome o un documento falso: bisognava non
essere circoncisi. E per chi era nato in una famiglia ebrea fra gli anni Dieci e Venti del
XX secolo questo pare assai poco probabile. Può darsi che nel secondo Corpo d’armata
ci fossero soldati di parziale o lontana origine ebraica, anche Halbjuden, ossia mezziebrei che i tedeschi non avrebbero risparmiato, ma quegli uomini non avrebbero dovuto
fingere di essere cattolici.
La frase riferita al giovane rabbino resta comunque significativa. Non solo perché
ripropone lo stereotipo degli ebrei «infiltrati» che per definizione sono molti di più di
quelli dichiarati, ma perché quell’ipotesi è sembrata plausibile anche a chi, come Pinchas Zarczyński o io stessa, la considerava da un punto di vista ebraico.
Uno degli effetti più perversi del antisemitismo razzista è stato che il suo immaginario paranoico traducendosi in prassi persecutoria, avesse generato proprio questo:
ebrei occulti, ebrei costretti a fingersi altro pur di cercare scampo. Ovunque, ma in
Polonia nel modo più vasto e drammatico. E la continuazione nel dopoguerra di momenti di violenza e discriminazione antiebraica — dal pogrom di Kielce del 1946 sino all’antisemitismo di Partito del ‘68, giusto per nominare due date emblematiche — ha
fatto sì che per il numero sempre minore di ebrei rimasti in Polonia divenisse quasi automatico conservare le proprie radici celandole. Se a questo si aggiunge l’uguaglianza
imposta dall’ideologia di Stato, spesso abbracciata come scudo difensivo da chi continuava a vivere in Polonia, non stupisce che oggi Pinchas Zarczyński e suoi colleghi siano
dediti principalmente ad assistere i nuovi «marrani» prodotti dal nazismo e conservati
dai decenni di socialismo reale.
Il caso della Polonia rende particolarmente tangibili molti dei problemi legati al lavoro di memoria. Malgrado gli sforzi intensi di conservare e tramandare il passato, la
vita ebraica dell’anteguerra nella sua articolazione complessa e diversificata pare infatti cristallizzarsi attorno ad alcune raffigurazioni predominanti. Da un lato tali ricostruzioni rispecchiano i tratti principali del mondo scomparso, dall’altro sembrano
riflettere ciò che è più vicino all’esperienza di chi lo sta ricomponendo. E se non è ca-
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Venti tombe con la stella di Davide...
suale che i rabbini mandati in Polonia provengano da Stati Uniti e Israele, pare altrettanto inevitabile che la trama memoriale risenta dei principali centri dove viene tessuta o rammendata. Partendo, per esempio, da una città americana dove gli ebrei
ortodossi si incontrano per strada e dove l’appartenenza etnico-religiosa è la norma
per qualsiasi comunità, immaginare uno shtetl popolato da chassidim o un quartiere
ebraico di Vilna o Cracovia richiede uno sforzo assai minore che figurarsi gli ambienti
borghesi «polonizzati» o la militanza operaia nelle fila di un partito ebraico ateo, socialista, ma al tempo stesso patriottico come il Bund. E se si vuole dar credito alla testimonianza del giovane rabbino di Varsavia, forse oggi per un ebreo americano e
israeliano nulla è più difficile che entrare nella testa di chi ha nascosto la propria origine ebraica sotto il coperchio stagno del comunismo.
Così, se da un lato le memorie collettive risultano insostituibili perché solo loro
sono in grado di dare conto sia dei traumi che dello sforzo per ritessere fili di continuità
e di significato, il rischio è che tali memorie non si parlino, ma anzi si pongano a fondamento di identità giustapposte e concorrenziali.
Memoria polacca, memoria ebraica, memoria ucraina eccetera: tutte, giocoforza,
codificazioni di un racconto collettivo maggioritario, cosa che accentua le difficoltà di
metterle in comunicazione per giungere a un quadro non conciliato né conciliante, ma
capace di confronto, interrelato.
La memoria sia collettiva che individuale riguarda per definizione quegli avvenimenti del passato che restano vivi e significativi per il presente. Uno dei nodi centrali
dello scollamento fra memoria ebraica e memoria polacca, credo risieda nelle diverse
priorità di ripristinare alcune verità negate. Qui il bisogno di marcare la specificità del
genocidio (ad Auschwitz l’allestimento di una baracca dedicata alla memoria delle vittime della Shoah, è stato possibile solo dopo l’Ottantanove), là i conti sospesi con il continuum repressivo della dominazione comunista.
Se si sottraggono i circa 3 milioni di ebrei polacchi sterminati dal computo dei
morti della seconda guerra mondiale in Polonia (oggi si stima che il totale dei cittadini
polacchi uccisi dal 1939 al 1945 sia di 5,6-5,8 milioni1), rimane una cifra spaventosa.
Pochi oggi, al di fuori della Polonia, sono consapevoli di tale enorme prezzo di sangue
pagato dai polacchi cattolici, vittime di entrambi gli occupanti. Ma con la sconfitta di
Hitler, la violenza nazista entrava a far parte della memoria ufficiale, mentre quella sovietica restava rigidamente censurata.
Entrambi i regimi totalitari miravano a distruggere l’identità nazionale polacca,
però la repressione comunista, messa in atto anche con lo strumento della censura, ha
agito molto più a lungo. Per questo, dopo la caduta della cortina di ferro, divenne prioritario appropriarsi di quanto era stato negato. L’autorappresentazione nazionale che
ne emerge, asseconda quindi prima di tutto l’urgenza di riconoscersi in un popolo che
ha patito l’oppressione sovietica ed è stata capace di resistervi.
Le vicende che ruotano intorno all’Armata di Anders forniscono un buon esempio
di come agisce e si trasmette tale memoria. L’invasione e sovietizzazione dei Kresy
1
WOJCIECH MATERSKI, TOMASZ SZAROTA (a cura di), Polska 1939-1945. Straty osobowe i ofiary represji
pod dwiema okupacjami, IPN-Instytut Pamięci Narodowej, Warszawa 2009.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
(così veniva chiamata la parte orientale della Polonia tra le due guerre), le deportazioni
di massa verso il Gulag, l’eccidio di Katyń con la sua verità negata per mezzo secolo,
la travagliata e incompleta liberazione dei detenuti polacchi dopo gli accordi SikorskiMajski del 1941: tutto ciò in cui si era espresso il primo impatto violento della repressione staliniana, con il senno di poi assume i tratti di una prefigurazione del futuro, se
non di un trauma originario rimosso per ordine di regime.
E tutto questo, dopo essere stato trasmesso per mezzo secolo in modo semiclandestino o coltivato nell’esilio, quando finalmente ridiventa storia dicibile, si configura
come memoria nazionale recuperata, ossia memoria «polacca» pura e semplice.
La presenza di un rabbino, di un pope e di un pastore protestante alla commemorazione del 65° anniversario della battaglia è un segno che va nella direzione opposta. Ma con il gesto conciliante del rammentare che i deportati dei Kresy e quindi
i soldati del secondo Corpo polacco non erano tutti cattolici, si rischia di edulcorare
una realtà assai più complessa e conflittuale prima ancora che essa possa essere affrontata.
Questo a partire dal passato della Repubblica polacca prima del ‘39, dove le minoranze si trovavano in posizioni di subalternità sociale, culturale e persino giuridica che
le portavano ad abbracciare spesso forme di identità oppositive (nazionalismo ucraino,
sionismo, comunismo) che poi facilitavano gli occupanti nell’attuazione di una politica
del divide et impera, sbocciata in conflitti sanguinari che a loro volta rafforzavano odi
e recriminazioni reciproche.
Che i Kresy non fossero territori di pacifica e egalitaria convivenza multietnica, di
questo testimonia infine anche la composizione dell’Armata di Anders. Perché se da un
lato nel mirino delle deportazioni sovietiche finirono pure ebrei, ucraini e bielorussi (o
ruteni bianchi) il numero dei soldati non «polacchi» nel secondo Corpo d’armata era decisamente esiguo.
Gli studi che ho potuto consultare su questo argomento sono principalmente quello
di Yisrael Gutman, Jews in General Anders’Army In the Soviet Union2, nonché quello di
Jan T. Gross, Revolution from Abroad: The Soviet Conquest of Poland’s Western Ukraine
and Western Belorussia (Princeton University Press, edizione ampliata, 2002). Si tratta
di lavori principalmente incentrati sul problema ebraico ma che abbozzano anche le
vicissitudini degli altri cittadini non polacchi per etnia.
Sappiamo che le «minoranze» ucraine e bielorusse rappresentavano in realtà la
maggioranza della popolazione rurale dei territori orientali occupati, mentre le comunità ebraiche spesso molto numerose si concentravano negli ambienti urbani. Per contro, erano polacchi gran parte dei cittadini deportati, dato che rispecchia puntualmente
la politica sovietica di voler «decapitare» le strutture dello Stato e della società polacca
che trova il suo culmine nell’eccidio di Katyń.
Gross, citando un rapporto dell’ambasciata polacca del ‘43, riporta la seguente
composizione delle deportazioni: «52 percent were ethnic Poles, 30 percent were
2
YISRAEL GUTMAN, Jews in General Anders’ Army In the Soviet Union, in
http://www1.yadvashem.org/odot_pdf/microsoft%20word%20-%206564.pdf
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Venti tombe con la stella di Davide...
Jewish, 18 percent were Ukranian and Belorussian»3.
Quel che stupisce principalmente è l’alta percentuale di ebrei, dato che risulta
comprensibile soltanto quando si viene a sapere che la terza e, in misura lievemente
minore, la quarta deportazione sovietica aveva riguardato soprattutto i profughi rifugiati nelle città, la cui maggior parte era formata da ebrei.
Nella primavera del 1940, messi davanti all’alternativa se prendere il passaporto
sovietico o tornare nei luoghi d’origine sotto occupazione nazista, moltissimi ebrei infatti scelsero di mettersi in fila davanti agli uffici della Commissione tedesca per il rimpatrio, la quale dopo aver respinto le loro domande, consegnò le liste con i veri nomi
e indirizzi dei rifugiati direttamente all’Nkvd che sulla base delle medesime si accinse
a preparare le successive deportazioni.
Di questa realtà apparentemente assurda, testimonia anche Gustaw Herling
quando, in Un mondo a parte, scrive: «Allora accadde una cosa straordinaria: le stesse
moltitudini che solo pochi mesi prima avevano rischiato la vita per entrare nella “terra
promessa” adesso iniziarono un esodo in massa nella direzione opposta, vale a dire
verso la terra dei Faraoni. I russi osservavano anche questo con indifferenza, ma si dovettero scrivere nella memoria le reazioni di questi candidati alla cittadinanza sovietica messi alla loro prima prova di fedeltà»4.
In ogni modo, si deve a questo macabro meccanismo di doppia persecuzione — sebbene nel caso sovietico non razziale, ma rivolta ai “nemici del popolo” — il dato altrettanto macabro che la percentuale più alta di ebrei polacchi scampati al genocidio
è formata da coloro che furono deportati nel Gulag sovietico. Ma all’epoca della sua
evacuazione in Iran, gli ebrei inquadrati nell’Armata di Anders sono soltanto un dieci per
cento e dopo la tappa in Palestina - dove la gran parte diserta con il muto consenso dei
comandi polacchi - i soldati ebrei che con il secondo Corpo giungono sul fronte di Cassino restano meno di un migliaio.
Cos’è successo nel tempo che separa la liberazione dei cittadini polacchi dalla partenza delle truppe di Anders dall’Unione Sovietica?
Lo studio di Yisrael Gutman analizza meticolosamente ogni forma di antisemitismo
nell’Armata di Anders, a partire dal comandante fino alla truppa, ma non è di questo
aspetto che vorrei occuparmi, nel tentativo di abbozzare il problema delle minoranze
nel suo complesso, pur riservando un occhio di riguardo per la questione ebraica.
3 JAN T. GROSS, Revolution from Abroad: The Soviet Conquest of Poland’s Western Ukraine and Western Bielorussia, Princeton University Press, 2002, p. 199. Cfr. Anche GUTMAN: “It is estimated that
the number of Jews among the Polish exiles in the Soviet Union reached 400,000 about a third of
the total number. Their proportion among the exiles was thus more than triple their proportion
among the population of the independent Polish State in the years between the wars. It was only
natural that the persecuted Jews should seek refuge in the Soviet State; their numbers would have
been even greater had it not been for the obstacles preventing mass evacuation and flight in the
first weeks after the outbreak of war between Germany and the Soviet Union”.
4 GUSTAW HERLING, Un mondo a parte, Feltrinelli 1994, p. 189.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
The first units set up had a very large number of Jews; according to Anders the Jews
at times constituted sixty per cent, and according to Kot, forty per cent. The surge of Jews
to the ranks of the Polish Armed Forces aroused suspicion and dismay. In Polish sources one
finds complaints to the effect that the Russians intentionally released the Jews from the
camps-before all others so as to flood the Polish Armed Forces with the “Jewish element”.
In a letter to the Polish Foreign Minister in London on November 8, 1941, Kot writes that
“the Soviets delayed by various means the release of the Polish element who were in better health and spirits, sending instead the handicapped and the Jews”5.
Nei verbali della conferenza fra Sikorsi, Anders e Stalin del 1° dicembre 1941 riportati nel libro di memorie di Anders, è fissato tutto il dilemma dei vertici polacchi nell’affrontare il problema delle minoranze deportate e della loro integrazione nell’Armata.
«ANDERS: Vi è un numero considerevole di Ebrei, tra di essi [soldati], i quali non vogliono prestare servizio nell’Armata
STALIN: Gli Ebrei sono cattivi soldati.
SIKORSKI: Molti Ebrei presentatisi all’Armata sono borsari neri, condannati per contrabbando. Non diventeranno mai buoni soldati. Non li voglio nell’Esercito polacco.
ANDERS: Duecentocinquanta Ebrei hanno disertato da Buzuluk in seguito a una voce, risultata poi falsa, del bombardamento aereo di Kubyšev. Oltre sessanta Ebrei hanno disertato dalla 5a Divisione alla vigilia del giorno in cui furono distribuite le armi.
STALIN: Sì, gli Ebrei sono cattivi soldati»6.
(Per capire l’ambito in cui si svolge la discussione, bisogna evocare il linguaggio
dell’epoca: «STALIN: gli Slavi sono gli aviatori migliori e più valorosi. Essi sono rapidi nell’azione, perché costituiscono una razza giovane, non ancora logorata. I Tedeschi sono
forti ma gli Slavi li sconfiggeranno»7).
Ma il giorno dopo occorre puntualizzare:
«ANDERS: Eravamo stati informati ufficialmente che i Bielorussi, gli Ucraini, gli Ebrei
non sarebbero stati messi in libertà ed essi erano — né hanno mai cessato di essere —
cittadini polacchi, perché lei ha annullato tutti i suoi impegni con la Germania.
STALIN: E che cosa ve ne fate dei Bielorussi, degli Ucraini e degli Ebrei? Voi volete i Polacchi, che sono i soldati migliori.
SIKORSKI: Non penso agli uomini; questi possono essere scambiati contro polacchi, che
sono cittadini russi. Non posso accettare in linea di principio alcuna situazione che renda
incerte le frontiere della Repubblica polacca. I cittadini polacchi dei territori appartenenti alla Repubblica prima del 1939 non hanno mai cessato di essere tali. Nessun fatto
compiuto può essere creato con la forza. Ciò non sarà accettato mai dall’Occidente.
STALIN: Essi hanno preso parte ai plebisciti e sono diventati cittadini sovietici.
5
6
7
GUTMAN, pp. 49-50.
WŁADYSŁAW ANDERS, Un’armata in esilio, Capelli, 1950, pp.118-119.
Ibidem, p. 120.
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Venti tombe con la stella di Davide...
ANDERS: Ma non l’hanno fatto di loro libera volontà, e per quanto riguarda i Bielorussi
essi si considerano polacchi e furono ottimi soldati durante la guerra del 1939.
SIKORSKI: Lei ha detto ieri che il mondo riderebbe se l’intero Esercito polacco lasciasse
la Russia. Dico ora che il mondo riderebbe se io accettassi una qualsiasi discussione sul
punto delle frontiere del 1939 o sull’accettazione di situazioni create con la forza durante la guerra.
STALIN: È certo che non polemizzeremo mai sulle frontiere.
SIKORSKI: Non ha detto lei stesso che Leopoli è una città polacca?
STALIN: Sì, ma lei dovrà discuterne con gli Ucraini.
ANDERS: Molti Ucraini sono filo-tedeschi; ecco perché abbiamo avuto tante difficoltà
con essi; voi stessi ne avete avute altrettante dopo.
STALIN: Sì, ma furono causati dai vostri Ucraini, non dai nostri. Noi li distruggeremo assieme a lei.
SIKORSKI: Noi non ci preoccupiamo degli Ucraini, ma del territorio»8.
È durante quelli stessi incontri che alle insistite domande su dove siano finiti gli ufficiali polacchi introvabili, Stalin risponde: «Be’, saranno fuggiti in Manciuria». Ricordo
questa celebre replica per meglio contestualizzare le enormi difficoltà da parte polacca, difficoltà concernenti pressoché tutti gli aspetti della formazione dell’armata:
numero degli effettivi che i sovietici vorrebbero limitare al massimo, scarsità degli approvvigionamenti, condizioni climatiche e sanitarie pessime, mancanza di collaborazione nel rilascio dei deportati, il cui numero era stimato dai polacchi di oltre un milione
e mezzo.
In simili condizioni di trattativa, la questione delle minoranze si rivela una trappola. Da un lato, Sikorski e Anders vogliono tenere aperte le possibilità di rimpinguare
le fila dell’armata con i polacchi «veri», sperando soprattutto nel ritrovamento degli ufficiali scomparsi. Dall’altro non possono transigere sull’equazione «diritto dei cittadini
della Repubblica ante 1939 di unirsi all’Armata = riconoscimento dell’appartenenza dei
Kresy alla Polonia». L’ambivalenza di chi rivendica lo ius soli per interesse verso il suolo
più che per tutela di tutti i suoi cittadini, rende facile a Stalin accentuare le differenze
tra questi ultimi, trovare un consenso negativo, seminare zizzania.
A prescindere dalle gincane contraddittorie dei vertici polacchi, ebrei, bielorussi
e ucraini verranno sempre più univocamente trattati come cittadini sovietici. Tale linea
di condotta da parte russa trova una ratifica ufficiale solo quando i soldati di Anders stazionano già in Medio Oriente, ma costituisce uno degli elementi che contribuiscono a
far sì che l’Armata si comporrà per la sua stragrande maggioranza di polacchi etnici.
L’altro elemento documentato dal lavoro di Gutman è la selezione etnica che effettueranno gli stessi polacchi. Con il passare del tempo diverrà sempre più difficile
per i cittadini appartenenti alle minoranze farsi accettare nei ranghi dell’Armata. Persino coloro che sono stati arruolati all’inizio, finiscono per essere scartati nel corso di
successive scremature effettuate mediante nuove visite militari. Coloro che scampano
a questo meccanismo, in genere sono o raccomandati da qualche ufficiale polacco, o
8
244
Ibidem, pp.122-123.
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
possono vantare qualifiche professionali particolarmente utili per l’esercito quali quelle
di medico o di ingegnere.
Grazie alle forche caudine sovietiche, i problemi della Polonia multietnica d’anteguerra si riflettono così nella composizione finale dell’Armata di Anders in maniera
più accentuata anziché attenuata. Vi sono stati più tardi, in Occidente, diversi accenni
anche pratici di voler correggere questa rotta. Il primo laboratorio di pari cittadinanza
rappresentato dalle scuole e dalle diverse attività culturali create per i membri del secondo Corpo, nasce dall’esilio. Così, la vicenda delle minoranze fornisce un esempio
drammatico di quanto sia difficile pervenire a un modello di coscienza nazionale multietnica, sia quanto sarebbe necessario cogliere sino in fondo la forza sia geopolitica che
culturale insita nello ius soli.
Il nodo più cruciale mi sembra questo. Riuscire da un lato a far reciprocamente
coesistere memorie conflittuali dolorose, e, dall’altro, raggiungere al contempo il pieno
riconoscimento di un’identità fondata su nient’altro che la cittadinanza.
I venti caduti ebrei di Montecassino, i loro compagni ucraini e bielorussi, lituani o
tedeschi etnici che malgrado ogni discriminazione etnica ce l’hanno fatta a diventare
soldati del secondo Corpo d’Armata, non hanno solo diritto alle preghiere di un pope,
di un pastore e di un rabbino. Hanno soprattutto diritto a essere ricordati come polacchi: come coloro che, pari ai loro compagni, hanno combattuto e sono morti «per la nostra e la vostra libertà».
Helena Janeczek è nata a Monaco di Baviera in una famiglia di origine ebraico-polacca.
Si è trasferita in Italia nel 1983. Attualmente vive a Gallarate e lavora a Milano. Ha
esordito come poetessa in lingua tedesca con la raccolta Ins Freie (Suhrkamp, 1989) e
come narratrice in italiano con Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997; Premio Bagutta
Opera Prima e Premio Berto). Da allora ha partecipato con racconti e saggi a varie antologie e ha pubblicato il suo secondo romanzo, Cibo (Mondadori, 2002). Inoltre è redattrice di
“Nuovi Argomenti” e della rivista online “Nazione Indiana” (www.nazioneindiana.com). Il
suo nuovo romanzo Le rondini di Montecassino, di prossima pubblicazione presso l’editore Guanda, tocca diffusamente anche le vicende del secondo Corpo polacco.
poloniaeuropae 2010
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Le ricerche sul secondo Corpo d’armata polacco in Italia. L’attività svolta
dall’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle
Marche
di Mario Fratesi
L’articolo è ripreso da “pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, 19391989: la “quarta spartizione”, pp. 796-805.
Si ringraziano Luigi Marinelli e Marina Ciccarini per la gentile concessione.
poloniaeuropae 2010
Le ricerche sul II Corpo d’Armata
polacco in Italia. L’attività svolta
dall’Istituto regionale per la storia
del movimento di liberazione nelle
Marche
Mario Fratesi
L’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche è nato
negli anni Settanta e, nel tempo, ha assunto le caratteristiche di un centro di
documentazione e ricerca sulla storia regionale, e nazionale, del Novecento. È
fornito di una biblioteca con oltre 25.000 volumi, di una emeroteca e di un archivio storico; raccoglie inoltre fondi e documenti acquisiti anche tramite donazioni.
La decisione, da parte di questo Istituto, di svolgere attività di ricerca e divulgazione in merito alle vicende del II Corpo d’Armata polacco in Italia è scaturita
soprattutto dalla volontà di portare un contributo alla conoscenza di una pagina
di storia che fino a quel tempo, anche per motivazioni politiche legate alla “guerra fredda”, era stata dimenticata o ricostruita in maniera distorta. Alle conseguenti iniziative messe in campo ha dato un indispensabile contributo Giuseppe
Campana: pubblicista, attento conoscitore della storia delle Marche durante la
seconda guerra mondiale e collaboratore dell’Istituto. Già nel 1978 Campana
aveva iniziato ricerche nel merito recandosi in Inghilterra presso l’Imperial War
Museum. Successivamente – nel 1986 – si era recato di nuovo a Londra, presso il Polish Institute and Sikorski Museum, dove aveva acquisito nuova documentazione sul II Corpo polacco.
Nel 1994, in occasione del 50° anniversario della liberazione delle Marche, lo
stesso Giuseppe Campana aveva curato l’uscita di un supplemento speciale e
di diversi articoli – apparsi sul Corriere Adriatico, il più importante quotidiano
della Regione – in cui si ricostruivano le fasi della Battaglia di Ancona e il ruolo
che vi avevano svolto i soldati polacchi comandati dal generale Wladysław
Anders. Lo stesso Campana, utilizzando il materiale filmico reperito presso l’Imperial War Museum, aveva curato la realizzazione di Ancona 1944. I film degli
operatori di guerra inglesi.
Il 18 luglio 2004 il Comune di Ancona – dietro proposta e sollecitazione dell’Isti-
ITALIA - POLONIA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
797
tuto – celebrava l’anniversario della liberazione di Ancona invitando alla cerimonia ex combattenti del II Corpo polacco e rappresentanti della Repubblica di
Polonia. Intervenivano il viceministro della difesa Maciej Górski, l’ambasciatore
in Italia Michał Radlicki e un reparto dell’esercito. Una cerimonia di questo genere non si svolgeva dal lontano 1984.
L’anno successivo usciva un libro, Camerata Picena 1944. L’anno del fronte,
edito dal Comune di Camerata Picena e curato da Giuseppe Campana e Mario
Fratesi, in cui la storia della liberazione di Ancona e del territorio circostante era
arricchita con le testimonianze di persone che erano state direttamente coinvolte in quegli avvenimenti.
Nel 1999 e nel 2002, per iniziativa dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, uscivano: Rapporto sulle operazioni del II
corpo polacco nel settore adriatico e La battaglia di Ancona del 17-19 luglio 1944
e il II Corpo polacco, ambedue curati da Giuseppe Campana. Questi due libri
hanno rappresentato, rispetto a quanto fino a quel momento era stato pubblicato, una grossa novità storiografica ed hanno riscosso unanimi apprezzamenti.
L’impegno dell’Istituto su questo argomento è poi proseguito attraverso la collaborazione con la Regione Marche sul progetto “Le Marche in guerra”. Progetto
la cui realizzazione ha portato all’acquisizione dai musei londinesi (The Polish
Institute and Sikorski Museum, Imperial War Museum) di filmati e di oltre 8.000
fotografie riguardanti la presenza del II Corpo nella Regione Marche dal 1944 al
1946. Le fotografie sono state rese disponibili per la consultazione anche tramite internet .
Una selezione delle stesse fotografie è stata poi utilizzata per la predisposizione della mostra “Il II Corpo d’Armata polacco nelle Marche: 1944-46”, che è
stata vista ed apprezzata nelle più importanti città della Polonia, in numerose
località delle Marche, a Roma e a Venezia. E per la pubblicazione di due libri
fotografici: Ancona 1944. Immagini dei fotografi di guerra inglesi e polacchi e Il
II Corpo d’Armata polacco nelle Marche. 1944/1946. Fotografie, curati da Giuseppe Campana e da Raimondo Orsetti, all‘epoca responsabile del Servizio tecnico alla cultura della Regione Marche.
Quanto sopra è stato possibile grazie alla collaborazione di numerose persone;
citiamo – tra i tanti – Krzysztof Strzałka (all’epoca primo segretario dell’Ambasciata della Repubblica di Polonia in Italia), Andrzej Suchcic e Michał Olizar
(rispettivamente responsabile dell’archivio e vicepresidente del Polish Intitute
and Sikorski Museum), gli ex combattenti del II Corpo Wojciech Narębski, Jan
Zdzisław Zaremba e Mieczysław Rasiej, recentemente scomparso. Importante è
1
798
Mario Fratesi
stata anche la collaborazione dell’Associazione Italo-Polacca delle Marche.
L’ultima iniziativa è rappresentata dalla recente pubblicazione, promossa di concerto con la Regione Marche, del volume Loreto: il cimitero di guerra polacco,
curato da Beata Janckiewicz e Giuseppe Campana.
L’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche intende proseguire il lavoro finalizzato alla ricostruzione delle vicende storiche delle
Marche durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi, nonché a rendere giustizia ai soldati polacchi che hanno combattuto “per
la nostra e la vostra libertà”. In base a questo impegno è già in atto la collaborazione scientifica diretta alla realizzazione (in località Offagna, a pochi chilometri da Ancona) di un museo e centro di documentazione sulla “Battaglia di Ancona”. Inoltre, attraverso l’utilizzazione della documentazione in nostro possesso,
e di altra da acquisire, si sta valutando l’ipotesi di dare vita a ricerche e pubblicazioni sulle scuole del II Corpo polacco (quasi tutte ubicate nelle Marche) e
sulle sue iniziative in campo culturale ed editoriale. Meritano infine ulteriori
approfondimenti e ricerche molti aspetti e vicende collegati alla presenza del
generale Władysław Anders e dei suoi soldati ad Ancona, e nel resto della penisola, per tutto il 1946.
Può essere utile a questo punto riferire con maggiore dovizia di dettagli delle
pubblicazioni fin qui edite dall’Istituto. La prima è il Rapporto sulle operazioni del
II Corpo polacco nel settore adriatico, a cura di Giuseppe Campana, collaborazione di Mario Fratesi, prefazione di Massimo Papini, Istituto regionale per la
storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 1999. Nel libro viene
riprodotto il testo integrale del Rapporto sulle operazioni del II Corpo polacco nel
settore adriatico, acquisito due anni prima presso il Public Record Office di Londra, disponibile per la prima volta in Italia e tradotto dall’inglese dallo stesso
autore.
Con la pubblicazione di questo documento non solo si recupera una dimensione più complessiva e meno ideologica del problema, ma si vengono anche a colmare lacune della storia militare, sopratutto per quello che riguarda la Campagna d’Italia sul versante marchigiano. Nel Rapporto i polacchi propongono una
loro ricostruzione operativa, compilata a “caldo” consultando i diari di guerra e
ricca di precisi riferimenti, di luogo e di tempo, delle battaglie sostenute nelle
Marche. Ma non si tratta solo di un registro da confrontare utilmente con le fonti
locali e con eventuali analoghi documenti tedeschi. La ricerca delle cause di
alcuni insuccessi e inconvenienti verificatesi durante le operazioni del II Corpo
durante l’avanzata nel settore adriatico può far considerare il Rapporto come un
ITALIA - POLONIA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
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documento che segna il passaggio dalla raccolta dei fatti alla loro prima interpretazione storiografica.
Sono tuttavia gli eventi bellici a cadenzare le varie parti del Rapporto; il racconto – spesso scandito da fatti drammatici – si dipana attraverso i sanguinosi scontri di Loreto, Castelfidardo, Osimo, Ancona; e ricordando episodi come quelli
relativi al difficile passaggio dei fiumi Chienti, Musone, Esino, Metauro e Foglia,
fino alla battaglia della “Linea Gotica” (la barriera difensiva tedesca).
Tra i meriti di questo lavoro vi è certamente quello di aver contribuito a superare le amnesie del passato e le polemiche politiche mettendo in giusto rilievo il
ruolo svolto dai soldati del II Corpo polacco nella liberazione delle Marche. Questo senza dimenticare che accanto a loro, e in sinergia, combattevano i soldati
del ricostituito Esercito Italiano (il Corpo Italiano di Liberazione), i combattenti
della Brigata Maiella (formazione militare, composta da abruzzesi, che operava
in collegamento con i polacchi) e i partigiani.
Il libro è corredato da interessanti e complete note bibliografiche e da materiale
fotografico d’archivio, nonché da carte topografiche militari che illustrano, passo
dopo passo, l’avanzata del II Corpo polacco nell’Italia centrale.
Dall’esigenza di arrivare a una vera e propria ricostruzione dettagliata e precisa
della Battaglia di Ancona, il più possibile scevra da tentazioni ideologiche e che
mettesse in luce il ruolo svolto dal II Corpo polacco nella liberazione della città,
è nato La Battaglia di Ancona del 17-19 luglio 1944 e il II Corpo d’Armata polacco, a cura di Giuseppe Campana, collaboratori Mario Fratesi, Cesare Jacomini
e Wojciech Narębski, presentazione di Massimo Papini, Istituto regionale per la
storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 2002.
Per fare questa ricostruzione occorreva una ricognizione a tappeto di tutte le
fonti e – ecco una delle novità del libro – anche di quelle provenienti da parte
tedesca. La grande passione di Giuseppe Campana e la raccolta certosina da
lui operata in ogni parte del mondo hanno permesso uno studio completo, in cui
non resta fuori alcuna immagine della guerra, con una pluralità di protagonisti;
dai soldati, vincitori e vinti, dai partigiani dalla popolazione civile.
Nella prima parte del libro vengono descritte la varie fasi della battaglia: dal
geniale piano operativo ideato dal generale Anders per sconfiggere le truppe
tedesche che occupavano Ancona tramite una manovra a tenaglia, al ruolo svolto dai combattenti italiani del Corpo Italiano di Liberazione, della Brigata Maiella e della Resistenza.
Seguono poi delle dettagliate schede relative alle notizie storiche sul II Corpo
polacco, la sua composizione e articolazione, e i materiali in dotazione. Analoga
800
Mario Fratesi
documentazione viene prodotta riguardo al CIL e alla 171 e 278 Divisione di
a
a
fanteria tedesca. Il tutto completato dalla riproduzione di materiale fotografico,
mappe militari e documenti riguardati le varie fasi dei combattimenti, e pure testi
di poesie scritte da soldati del II Corpo. In appendice fotografie, scattate recentemente, riguardanti i luoghi della memoria della Battaglia di Ancona.
L’importanza di questo lavoro è rilevante anche perché Campana vi introduce
una novità storiografica. L’autore – pur facendo una distinzione tra la “Prima Bat-
taglia di Ancona” o “Battaglia preliminare di Ancona”, che si conclude l’8 luglio
con la conquista dell’importante località collinare di Filottrano, e la “Seconda
Battaglia di Ancona” o “Battaglia principale di Ancona”, che si conclude nel
pomeriggio del 18 con l’entrata dei Lancieri dei Carpazi nel capoluogo marchigiano – considera gli avvenimenti succedutosi nel periodo 2-19 luglio come un
unico avvenimento militare avente come obiettivo la conquista del porto di Anco-
na. In previsione dell’imminente attacco alleato alla Linea Gotica era infatti indispensabile poter usufruire del porto dorico per accorciare il percorso dei rifornimenti.
Non ultimo merito di questo libro è quello di mettere in luce la piena collaborazione, che si realizza sul campo nel corso della Battaglia di Ancona, tra il II
Corpo polacco e le forze italiane: CIL, Brigata Maiella e partigiani. Quanto sopra
a ulteriore dimostrazione che precedenti ricostruzioni e opinioni tendenti a dimostrare il contrario, e circolate per decenni, erano in maggior parte frutto del clima
di contrapposizioni politiche creatosi nell’immediato dopoguerra.
Grazie alle immagini acquisite presso l’Imperial War Museum ed il Polish Insti-
tute and Sikorski Museum in base al progetto “Le Marche in guerra”, portato
avanti dalla Regione Marche d’intesa con l’Istituto regionale per la storia del
movimento di liberazione nelle Marche, è stato possibile pubblicare due importantissimi libri fotografici. Il primo – Ancona 1944. Immagini dei fotografi di guerra inglesi e polacchi, a cura di Giuseppe Campana e Raimondo Orsetti, Regione Marche e Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle
Marche, Ancona 2004 – racchiude una selezione di fotografie scattate, nella
seconda metà del 1944, da fotografi del II Corpo polacco e dell’Army Photographic Unit britannico. Questa unità dipendeva dal Ministero delle informazioni
e aveva il compito di documentare gli eventi bellici e fornire materiale alla stampa, ai cinegiornali, al War Office – il Ministero della guerra.
Le immagini – in base a precise direttive impartite ai fotografi – dovevano soprattutto documentare le cerimonie militari, l’organizzazione logistica e le distruzioni
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provocate dai bombardamenti, queste ultime quale segno della potenza militare
alleata. Gli italiani vengono in genere mostrati come folla plaudente al momento della liberazione, quasi assenti sono le immagini relative ai soldati del Corpo
Italiano di Liberazione e ai partigiani. Da quanto sopra si deduce che la fotografia di guerra è destinata, come scrive Campana, “a essere strumentalizzata per
precisi interessi e bisogni contingenti, in modo tale che la realtà venga rappresentata nel modo più opportuno e che le immagini documentino solo quello che
il potere politico vuole e non altro”.
Questa doverosa premessa non toglie comunque nulla allo straordinario valore
documentativo delle 160 fotografie presenti in questo volume. Si parte dalle
immagini dei soldati polacchi che attraversano il fiume Musone, delle varie fasi
della loro marcia di avvicinamento ad Ancona e dei militari tedeschi fatti prigionieri. Una volta liberata la città di Ancona le fotografie documentano l’accoglienza da parte dei partigiani e della popolazione civile, le distruzioni provocate dai
bombardamenti e il lavoro dei genieri inglesi per ripristinare il porto e fare riprendere l’afflusso dei rifornimenti – soprattutto carburanti – verso il fronte che, in
vista dell’imminente attacco alla Linea Gotica, si è spostato a nord. In proposito
si segnalano le belle immagini di ragazze italiane che lavorano presso il deposito carburanti di Falconara.
Le ultime fotografie sono riferite alla visita ad Ancona del maresciallo Alexander,
comandante delle forze alleate in Italia, e a una cerimonia militare che si tiene
allo stadio dorico, nel corso della quale il generale Anders procede alla decorazioni di alcuni suoi ufficiali e soldati che si sono distinti nel corso delle battaglie
di Cassino e di Ancona.
Nella parte introduttiva del libro i curatori ripercorrono le vicende storiche del II
Corpo polacco e raccontano, con l’ausilio di documenti e mappe, le varie fasi dei
combattimenti svoltesi tra il 2 ed il 19 luglio e finalizzati a liberare Ancona dalla
presenza dei tedeschi e a rendere utilizzabile il suo porto. Interessantissimo,
inoltre, il saggio sulla fotografia in tempo di guerra e sull’utilizzo che ne veniva
fatto.
Il secondo volume fotografico è II Corpo d’Armata polacco nelle Marche. Fotografie, a cura di Giuseppe Campana e Raimondo Orsetti, Regione Marche, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, The Polish Institute and Sikorski Museum, Ancona 2005. Racchiude 310 fotografie, la
maggior parte delle quali proviene dal Polish Institute and Sikorski Museum nato
a Londra nel 1945 con la finalità di conservare e rendere disponibile agli studiosi i documenti prodotti dal Governo polacco in esilio e dalle Forze Armate polac-
802
Mario Fratesi
che che, nel periodo 1940-45, avevano combattuto sui fronti occidentali.
Le fotografie sono state scattate da soldati appartenenti a singole unità del II
Corpo polacco, in molti casi non si trattava di fotografi professionisti. Le fotocamere Leica che avevano in dotazione, piccole e molto maneggevoli, consentivano di cogliere in pieno la drammaticità degli eventi facendo apparire le foto più
spontanee. Per questo motivo, oltre che a una certa autonomia goduta dagli
operatori, le immagini immortalate dai polacchi risultano meno omologate e più
attinenti alla realtà rispetto a quelle degli inglesi.
Le prime immagini del libro riguardano l’avanzata dei soldati polacchi nel sud
delle Marche e documentano combattimenti, scene di vita della popolazione nei
territori liberati, i soldati nemici caduti o catturati. Ci sono poi le fotografie scattate ad Ancona nel pomeriggio del 18 luglio 1944, al momento dell’entrata in città
dei Lancieri dei Carpazi.
Nella seconda parte, le fotografie si riferiscono alla battaglia per il superamento
della linea difensiva approntata dai tedeschi sul fiume Metauro (compresa la
famosa fotografia che immortala Churchill a Montemaggiore al Metauro mentre
osserva l’attacco alleato) e l’entrata degli alleati a Pesaro.
Ricchissima e interessante è l’ultima parte del libro dedicata al dopoguerra: dalle
fotografie che riprendono ausiliarie e soldati polacchi dediti alle loro normali
occupazioni o colti in momenti di svago, agli ospedali militari, alle scuole del II
Corpo. Attraverso i molti licei e scuole tecniche, disseminate in tutte le Marche,
il generale Anders cercava di offrire ai suoi soldati, in vista dell’imminente smobilitazione, gli strumenti per affrontare la vita civile, tenuto anche conto che – per
la stragrande maggioranza di loro – non vi era più la prospettiva di un ritorno in
patria.
Non mancano le immagini su parate militari e sulla visita nelle Marche di personaggi illustri; tra questi Harold Mc Millan, vicepresidente della Commissione di
controllo alleata e futuro premier britannico. L’obiettivo dei fotografi polacchi sorprende inoltre interessanti momenti della vita sociale e religiosa dei marchigiani.
Introduce il volume il saggio Polonia e Italia nella storia di Krzysztof Strzałka,
oggi docente all’Università Jagellonica di Cracovia. Da parte sua Giuseppe
Campana ripercorre l’odissea dei soldati del II Corpo: cominciata in Polonia nel
1939 con la duplice invasione da parte della Germania nazista e dell’Unione
Sovietica, proseguita poi con la prigionia nei gulag sovietici, il trasferimento in
Medio Oriente e infine in Italia. Non manca una scrupolosa descrizione della
costituzione organica del II Corpo polacco e dei materiali in dotazione.
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La vicenda della visita del Primo ministro britannico Winston Churchill nelle Marche, avvenuta nell’agosto 1944, è documentata in Agosto 1944 Churchill nelle
Marche. Dietro le immagini, a cura di Giuseppe Campana e Raimondo Orsetti,
Regione Marche, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione
nelle Marche, Ancona 2006. Il volume venne pubblicato proprio mentre la mostra
fotografica “Il II Corpo polacco nelle Marche 1944-1946” si spostava nelle più
importanti località della Regione.
In questo libro la visita di Churchill nelle Marche viene documentata da numerose fotografie provenienti dall’Imperial War Museum e dal Polish Institute and
Sikorski Museum. Vediamo così che il 25 agosto 1944, dopo essere atterrato a
Loreto, Churchill ha un incontro con il generale Anders a Senigallia presso il
quartier generale del II Corpo polacco. Successivamente si reca in prossimità
del fiume Metauro, dove sono in corso i combattimenti per superare l’ultima linea
difensiva tedesca prima della Linea Gotica.
La preziosa rassegna fotografica contenuta nel libro è preceduta da alcuni documenti di rilevante interesse storico, quali il racconto dello stesso Churchill sul
suo viaggio e il resoconto completo del colloquio tra il premier britannico e il
comandante del II Corpo. L’incontro si svolge in un momento cruciale per gli
assetti futuri dell’Europa e fa emergere i contrasti tra i due leader in merito al
futuro della Polonia. Anders manifesta subito le proprie ansie e preoccupazioni
per quanto sta accadendo a Varsavia (dove i patrioti polacchi sono insorti contro i nazisti e l’esercito sovietico non fa nulla per aiutarli) e per quanto scaturito
dalla conferenza di Teheran, da cui traspare l’orientamento degli alleati occidentali ad assecondare i disegni di Stalin in merito alla Polonia. Stalin, tra l’altro,
intendeva annettere all’Unione Sovietica le regioni orientali della Polonia, zone
da cui erano originari la maggior parte dei soldati del II Corpo. Churchill risponde che l’Inghilterra onorerà i propri impegni ma che Anders non deve “rigidamente insistere sul mantenimento dei confini orientali”. Anders cerca anche di convincere il suo interlocutore che non si può prestare fede a Stalin quando promette “una Polonia libera e forte”, Churchill si lascia andare alla commozione e ribadisce: “non vi abbandoneremo mai”.
Le vicende, come sappiamo, seguiranno il corso temuto dal generale Anders.
Nel corso della conferenza di Jalta gli alleati occidentali non faranno altro che
prendere atto della situazione che si era creata sul campo di battaglia e, di fatto,
abbandoneranno la Polonia nelle mani dell’Unione Sovietica. Di conseguenza la
Polonia, oltre a vedersi spostare le frontiere verso ovest, non potrà scegliere
liberamente il proprio destino. Per Władysław Anders e i suoi soldati – che ave-
804
Mario Fratesi
vano combattuto per la libertà della Polonia, oltre che dell’Italia – non rimane
altra scelta che un futuro lontano dalla loro patria.
A Loreto, a pochi chilometri da Ancona, è ubicato uno dei quattro cimiteri in cui
sono sepolti i soldati del II Corpo d’Armata polacco caduti durante la “Battaglia
d’Italia”. Abbiamo quindi ritenuto più che giusto dedicare un libro anche a questo argomento: Loreto: il cimitero militare polacco, a cura di Giuseppe Campana e Beata Jackiewicz, collaboratori Mario Fratesi e Sergio Molinelli, Regione
Marche e Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche, Ancona 2007. Il libro si propone di ricordare i soldati del II Corpo d’Armata
polacco che, al comando del generale Anders, nel 1944 hanno combattuto per
liberare le Marche dall’occupazione nazista.
I 1088 soldati polacchi caduti nella Campagna dell’Adriatico sono stati sepolti nel
cimitero militare di Loreto; in un terreno donato dalla Santa Sede, che per secoli – a causa della devozione mariana – è stato meta di pellegrinaggi provenienti anche dalla stessa Polonia. Un luogo scelto per le profonde suggestioni spirituali che suscita e dove, in Basilica, è presente una Cappella polacca realizzata con le offerte provenienti dalla Polonia.
Il cimitero di Loreto è considerato un frammento in terra italiana di una cultura
polacca cancellata dal nazismo e dagli assetti territoriali del dopoguerra. Nel
libro vengono riportati i nomi di tutti i caduti. Sono persone di ogni fede religiosa: cattolici, ortodossi, evangelici, ebrei, musulmani. Persone di ogni condizione
sociale: contadini, tessitori, operai, intellettuali. Tra di essi vi è un noto scrittore
e giornalista, Adolf Bocheński, morto proprio il 18 luglio 1944 ad Ancona, mentre disinnescava una mina. Dalle molte note biografiche dei caduti emergono
storie commoventi, come quelle dei giovani indosso ai quali sono state trovate
lettere scritte alla madre lontana o alla donna amata, medaglie votive, fotografie
familiari, canzoni d’amore.
Giuseppe Campana, nel saggio introduttivo dedicato alla storia del II Corpo
polacco, si sofferma in modo particolare sui due anni successivi alla fine del con-
flitto, con gli ex combattenti polacchi impossibilitati a tornare in una Polonia
ormai inserita nel blocco sovietico; e sul ruolo svolto dal generale Anders durante la sua permanenza in Italia. Di particolare importanza è un documento, acquisito presso The Polish Institute and Sikorski Museum, ovvero la lettura che consente di rivedere l’accusa da più parti rivolta al generale Anders di aver voluto
preparare una guerra contro l’Unione Sovietica. In questo documento – intitolato Studio sulle possibilità di difesa dell’Italia e datato gennaio 1946 – Anders individua il pericolo di un attacco che potrebbe provenire dall’Unione Sovietica e dai
ITALIA - POLONIA
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paesi suoi satelliti, un attacco che potrebbe interessare il Nord-est dell’Italia.
Passa pertanto a delineare i piani di difesa, compresi luogo e modalità di impiego del II Corpo. In un periodo in cui la tensione internazionale è alta, anche per
la situazione creatasi a Trieste, ciò che il generale Anders postula è dunque una
guerra difensiva.
Il libro contiene una ampia documentazione fotografica, finora inedita, relativa
alla costruzione e consacrazione del cimitero (avvenuta il 6 maggio 1946 alla
presenza delle autorità civili e militari e con riti religiosi celebrati dai ministri delle
varie confessioni), alla visite che ai caduti hanno reso personalità quali lo stesso Anders e Karol Wojtyła, da cardinale (1977) e anche da Pontefice (1979).
1
Vedi il sito <www.cultura.marche.it/cultura/mostraguerra>.
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
La rivista “Kultura” di Jerzy Giedroyc
di Basil Kerski
L’articolo è ripreso da “pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi”, 2008, 19391989: la “quarta spartizione”, pp. 577-599.
Si ringraziano Luigi Marinelli e Marina Ciccarini per la gentile concessione.
poloniaeuropae 2010
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
STORIA E POLITICA
La rivista «Kultura» di Jerzy
Giedroyc
Basil Kerski
traduzione: Renzo Panzone
1.
Dopo la capitolazione della Germania hitleriana, nella primavera del 1945, centinaia di migliaia di polacchi – soldati combattenti dalla parte degli alleati, ex
lavoratori forzati del Terzo Reich, detenuti liberati dai campi di concentramento
e dai campi di prigionia – vennero a trovarsi oltre i confini dello Stato polacco
occupato dall’esercito sovietico. Molti di loro non si facevano alcuna illusione
circa la situazione politica in patria. Era facile prevedere che la Polonia sarebbe
stata sempre più un docile vassallo dell’impero sovietico. Di fronte a tali prospettive politiche, in centinaia di migliaia voltarono le spalle alla patria e decisero di
prendere la strada dell’emigrazione.
Gli emigranti politici del 1945 avvertivano forte il legame con il destino delle élite
politiche del 1831. Allora, dopo il fallimento dell’insurrezione contro la Russia,
potenza occupante, l’ondata di profughi che rappresentavano le élite politiche e
culturali si diresse verso la Francia. Gli esuli del 1945, così come i fuoriusciti del
1831, si sentivano “traditi dagli alleati occidentali”. L’emigrazione polacca nel
diciannovesimo secolo si formò sull’esperienza di una mancanza di solidarietà
da parte della Francia e della Gran Bretagna, nella sua lotta contro le potenze
occupanti per l’indipendenza della Polonia. Vero è che, in Francia, gli emigrati
furono accolti con entusiasmo, ma poi vennero rinchiusi, l’uno dopo l’altro, in
una specie di lager e sotto la sorveglianza della polizia. In Europa Occidentale
rimasero come degli outsider .
Nel 1946, Gustaw Herling-Grudziński, giovane soldato e scrittore polacco di
stanza a Roma, vedeva tra le due ondate emigratorie un’analogia “talvolta spaventosa”. Agli occhi suoi e degli altri profughi polacchi, I libri della nazione polacca e dei pellegrini polacchi, scritti nel 1832 da Adam Mickiewicz, tornavano ad
essere di attualità.
L’eredità romantica della cosiddetta “Grande Emigrazione” dopo il 1831, di cui
Mickiewicz fu illustre rappresentante, divenne infatti un importante punto di rife1
578
Basil Kerski
rimento culturale e politico per i nuovi emigranti polacchi. Per ripetere le parole
dello slavista berlinese Heinrich Olschowsky: “L’autoconsapevolezza dell’emigrazione, sia politica che letteraria, dopo la seconda guerra mondiale si formava sotto il forte influsso del romanticismo. Analoga situazione era determinata
dalla rinascita del mito e del martirologio della “Grande Emigrazione”, che aveva
lasciato un’impronta nella memoria culturale. La tradizione celava in sé un messaggio di orientamento” .
La pubblicazione dei Libri della nazione polacca e dei pellegrini polacchi di
Mickiewicz agli inizi dell’attività dell’Instytut Literacki, casa editrice dell’emigrazione, fondata a Roma nel 1946 da giovani ufficiali polacchi, aveva un significato programmatico. La premessa a tale pubblicazione, scritta da Gustaw HerlingGrudziński, fu definita dal direttore della suddetta editrice, Jerzy Giedroyc, il
manifesto generazionale dell’emigrazione polacca .
Nonostante il fascino dovuto all’attualità dei Libri di Mickiewicz, Gustaw HerlingGrudziński, nella sua prefazione programmatica, faceva i conti con l’eredità del
romanticismo polacco, specialmente col messianismo degli emigranti del diciannovesimo secolo . Nel lascito messianico dei romantici Herling individuava gli
elementi di cui la sua generazione avrebbe dovuto liberarsi. In primo luogo, “l’individualismo romantico”, che – secondo lui – non aveva niente in comune con la
tradizione occidentale di rispetto delle libertà della persona. Secondo Herling, il
modo polacco di intendere l’individualismo si fondava non tanto sui valori umanistici, quanto sulla totale subordinazione dell’individuo agli interessi collettivi
della nazione. Un altro pericolo Herling lo scorgeva nella “megalomania nazionale”, di cui era sintomo particolare l’idea mickiewiczana di Polonia come “Cristo delle nazioni”. “La megalomania nazionale polacca, che attinge la sua linfa
principalmente dal messianismo, parte dal presupposto ingannevole che il valore della dedizione e del sacrificio è giudicato, nell’ambito dei criteri politici e
sociali, con la stessa misura con cui si giudica nella sfera delle norme morali”.
Liberando la morale dalla politica, Herling-Grudziński non si dichiarava in favore di una forma di cinismo politico, bensì dello sviluppo di una concezione realistica e politicamente portante del recupero della sovranità statale. A suo parere,
i polacchi avranno poco da guadagnare sulla scena politica internazionale, se
ricorreranno al pathos contrassegnato dalla retorica nazionalistica e moralistica.
Herling-Grudziński era consapevole del fatto che un nuovo movimento indipendentistico polacco non potesse formarsi senza ideali. Oltre agli elementi messianici, egli trovava nei Libri di Mickiewicz dei pensieri che tracciavano il futuro indirizzo: “Per fortuna I libri della Nazione e dei Pellegrini Polacchi indicano già l’ini2
3
4
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STORIA E POLITICA
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zio della fine di quel fascino pericoloso [la megalomania nazionale – B.K.]. Sulle
loro pagine verrà espressa, in modo chiaro e preciso, la necessità di dialogare
con i popoli d’Europa al di sopra dei capi delle corti e dei gabinetti, dalle loro
pagine fluiranno le più belle parole delle Litanie del Pellegrino: ‘La guerra universale per la libertà dei popoli’…”.
Herling considerava particolarmente prezioso, e ancora in grado di indicare un
indirizzo di pensiero, il punto di vista di Mickiewicz e degli altri romantici polacchi, secondo cui la questione della sovranità della Polonia dipendeva dagli altri
popoli europei. A suo avviso, aveva un valore notevole e di vasta portata anche
il pensiero sociale di Mickiewicz: sia l’emancipazione delle nazioni europee, sia
l’instaurazione della giustizia sociale sono condizioni altrettanto importanti per
creare le basi della stabile sovranità della nazione; la democrazia non deve
essere privilegio di un piccolo gruppo; e la nuova Polonia indipendente non può
essere la ricostruzione dell’antica Res Publica nobiliare, ma deve diventare uno
stato moderno.
I fondatori dell’Instytut Literacki cercarono, mediante l’introduzione di Gustaw
Herling-Grudziński ai Libri di Mickiewicz, di far capire che il loro scopo era non
soltanto la ricostruzione basata su premesse realistiche dell’indipendenza dello
Stato, ma anche l’edificazione di uno Stato democratico e riformato nella sfera
sociale. La prefazione di Herling era, dunque, non solo una sorta di chiarimento
con il romanticismo polacco, ma anche un tentativo di definire - per le esigenze
della generazione polacca di emigranti post 1945, protesi verso il futuro - gli elementi moderni del pensiero politico. Nello stesso tempo, i fondatori dell’Instytut
Literacki, raccolti intorno a Jerzy Giedroyc, tagliavano i ponti con le élite polacche conservatrici – in particolar modo con il governo in esilio a Londra – miranti a restaurare irragionevolmente la II Repubblica esistente fra le due guerre. La
politica del governo di Londra era considerata irrealistica da Giedroyc, per il
quale non valeva certo la pena ricostruire lo Stato polacco d’anteguerra, così
come si presentava fino al 1939, a motivo del suo carattere autoritario in campo
politico e per le tensioni sociali che vi dominavano.
2.
I fondatori dell’Instytut Literacki facevano parte delle forze armate polacche di
stanza in Italia. Si trovavano in mezzo a loro numerosi ex prigionieri del Gulag,
liberati grazie alle relazioni riallacciate tra il governo polacco in esilio e Stalin.
Memori delle esperienze avute durante l’occupazione comunista della Polonia in
seguito al patto Ribbentrop-Molotov, non prendevano nemmeno in considerazio5
580
Basil Kerski
ne un ritorno nella patria occupata dall’Unione Sovietica. Dovevano, perciò, trovare il loro posto all’estero, il che non era cosa facile in un’Europa Occidentale
appena uscita dalla guerra. Anche nei paesi vincitori la fame e la disoccupazione erano all’ordine del giorno, pertanto i profughi provenienti dall’Europa Orientale erano visti come zavorra indesiderata.
I fondatori dell’Instytut Literacki ottennero dal comando del Secondo Corpo i
mezzi finanziari necessari per l’acquisto di macchine per la stampa e, così, nel
settembre 1946, crearono a Roma una casa editrice – l’Instytut Literacki, appunto -, i cui uffici erano situati in piazza Remuria 2a. A quel tempo in Italia c’erano
ancora molti soldati polacchi che ricevevano regolarmente la paga ed erano
avidi lettori di libri. Dopo appena un anno di attività dell’Instytut Literacki, Giedroyc estese il programma editoriale alla rivista «Kultura», che sarebbe apparsa come trimestrale.
In Italia l’Instytut Literacki pubblicò un solo numero di «Kultura» e ben 24 titoli di
libri . Oltre alla nuova edizione del Libro della Nazione Polacca e dei Pellegrini
Polacchi di Adam Mickiewicz, l’Istituto di Giedroyc pubblicò, tra l’altro, opere prestigiose quali il romanzo di Arthur Koestler Arrival and departure nella traduzione di Gustaw Herling-Grudziński e, a cura dello stesso Herling, un’ampia antologia del racconto di guerra polacco Agli occhi degli scrittori. Tra i libri editi a
Roma si può trovare anche Il diario del viaggio in Austria e Germania di Jerzy
Stempowski del novembre-dicembre 1945. Il libro di Stempowski, che dopo la
guerra usava lo pseudonimo di Paweł Hostowiec, è un resoconto a più livelli che
descrive il destino delle “Displaced Persons” nel dopoguerra: accanto ai polacchi, vittime del nazismo, erano presenti in territorio tedesco anche profughi
ucraini che temevano di essere deportati in Unione Sovietica. Stempowski, inoltre, si interessa alla sorte dei civili tedeschi. Nel suo libro giudica la politica degli
alleati nei confronti della Germania. Grazie alla penna di questo scrittore polacco, nel diario abbiamo la prima analisi critica delle incursioni aeree degli alleati
sulle città tedesche durante la guerra. Stempowski giudica criticamente i raid
alleati, considerandoli addirittura un atto di barbarie culturale. Il diario di Stempowski fu pubblicato dall’Instytut Literacki quasi immediatamente dopo il suo
ritorno dall’Austria e dalla Germania, Jerzy Giedroyc ne finanziò la traduzione in
italiano nel 1947 (Paolo Hostowiec, Il calvario continua… Diario di un viaggio in
Austria e Germania, Instytut Literacki, Roma, 1948). Il gesto di Giedroyc dimostra che l’Instytut non voleva rinchiudersi nel ghetto dell’emigrazione, ma cercava di allacciare relazioni con i circoli artistici ed intellettuali dell’Europa Occidentale.
6
STORIA E POLITICA
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581
Verso la fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50, Stempowski continua i suoi
viaggi in Germania per incarico di Giedroyc. I diari di viaggio furono da lui pubblicati sulle colonne di «Kultura», tra l’altro anche ampie relazioni di viaggi in Italia durante l’inverno 1947-1948, apparse con il titolo Corona turrita nel numero
5 e 6 di «Kultura». Tutti i diari di viaggio di Hostowiec furono raccolti da Giedroyc
in un libro soltanto dopo la morte di questo eminente saggista polacco, nel 1971,
nel volume Od Berdyczowa do Rzymu (Da Berdičev a Roma). Per iniziativa
della casa editrice Czarne dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk e di sua moglie
Monika Sznajderman, il suddetto volume, nel 2001, è stato ripubblicato col
nuovo titolo Od Berdyczowa do Lafitów (Da Berdičev a Maisons-Laffitte) e ha
trovato entusiastica accoglienza presso i critici letterari polacchi. Vale la pena di
aggiungere che il diario tedesco di Hostowiec, del 1945, non fu l’unica traduzione in italiano dell’Instytut Literacki. Durante il periodo romano, Giedroyc pubblicò
anche un romanzo del naturalista polacco Juliusz Kaden-Bandrowski Miasto
mojej matki nella traduzione di Enrico Damiani (La città di mia madre, Instytut
Literacki, Roma 1947). I libri di Kaden-Bandrowski e di Stempowski entrarono a
far parte della collana in lingua italiana ideata da Giedroyc “Capolavori della Letteratura Straniera”, nella quale sarebbero dovute apparire le traduzioni delle
grandi opere della letteratura polacca, tra cui i libri di Henryk Sienkiewicz, Bolesław Prus, Jarosław Iwaszkiewicz e Stanisław Dygat. Quando, nel 1946, nacque
a Roma l’Instytut Literacki, Jerzy Giedroyc pensava che la casa editrice da lui
diretta sarebbe rimasta più a lungo in Italia; il che richiedeva non soltanto la
messa a punto di un programma editoriale in lingua polacca, ma anche una strategia per entrare nel mercato italiano.
Agli inizi del 1946, Jerzy Giedroyc era ancora del parere che l’Italia fosse un ottimo posto per svolgervi attività politico-editoriale. In una nota personale del 14
febbraio 1946 scriveva:
Il momento importante che, a mio avviso, deve decidere la collocazione di un istituto del genere sul
territorio italiano è la possibilità che l’attività dell’Istituto abbia, ad un certo punto, l’appoggio di
ambienti italiani e vaticani bendisposti verso di noi. Inoltre, bisogna tener conto del fatto che in un
prossimo futuro l’Italia diventerà un canale della propaganda di Varsavia e della propaganda sovie7
tica. È, dunque, opportuno e necessario bloccare tale operazione sul nascere .
Già un anno più tardi, Giedroyc doveva rivedere questo suo giudizio positivo
riguardo all’Italia come luogo ideale per l’attività dell’Instytut Literacki. Con la
smobilitazione dell’esercito polacco iniziò a cambiare radicalmente il mercato
del libro polacco in Italia. La maggior parte dei soldati cominciarono a lasciare la
582
Basil Kerski
Penisola, trasferendosi in altri paesi occidentali, in America o in Australia. Il processo di adattamento nella nuova patria risultò così difficile che molti di essi non
avevano né tempo né voglia di leggere libri, mentre quelli ancora interessati non
avevano soldi per comprarli. Il clima politico italiano, poi, indusse Giedroyc a una
più profonda riflessione sull’opportunità di continuare il lavoro editoriale a Roma.
Nell’Italia del dopoguerra, l’opinione pubblica favorevole alla sinistra dimostrava
grande simpatia per il comunismo, perciò gli esuli polacchi, dall’atteggiamento
chiaramente antistalinista, si sentivano qui spiritualmente estraniati.
Così, nell’autunno 1947, Giedroyc vende il macchinario della tipografia e si trasferisce, con i suoi collaboratori, dapprima a Parigi e in seguito a Maisons-Laffitte, una località situata nei dintorni della città, dove pubblica la rivista «Kultura»
regolarmente ogni mese fino alla sua morte avvenuta nel settembre del 2000
(l’ultimo numero del mensile è apparso nell’ottobre dello stesso anno).
Giedroyc decise di trasferirsi nei pressi di Parigi soprattutto per prendere le
distanze dal governo in esilio a Londra. L’incompatibilità di idee tra l’Instytut Literacki e quel governo – come ho ricordato all’inizio – si poteva già rilevare nella
premessa di Herling ai Libri di Mickiewicz. A decidere il trasferimento contribuďìanche il fatto che sulle rive della Senna viveva Józef Czapski, capo della
delegazione francese del II Corpo Polacco, già superiore e amico di Giedroyc.
Czapski, che era ufficiale, pittore e scrittore, durante la guerra dirigeva il settore
propaganda del II Corpo. Era uno dei più stretti collaboratori del generale
Anders, comandante dell’esercito polacco in Occidente. Per incarico di quest’ultimo, alla fine del 1941, si recò in URSS per indagare sul destino degli ufficiali
polacchi assassinati dalla NKVD. La relazione su queste sue ricerche, che
venne pubblicata col titolo Na nieludzkiej ziemi (In una terra disumana), rappresenta una delle più importanti opere della letteratura memorialistica polacca.
Czapski, persona che godeva della fiducia del comando dell’esercito polacco,
era in buoni rapporti con il generale de Gaulle. Conosceva anche André Malraux, già prima della guerra, quando faceva il pittore a Parigi. Grazie a queste
conoscenze, «Kultura» poté contare sulla protezione dello Stato francese, specialmente durante la presidenza di de Gaulle e con Malraux ministro della Cultura.
Il cosmopolita Czapski, rampollo di un’illustre famiglia nobile polacca, era imparentato con altri casati europei. Grazie alle sue ampie relazioni, «Kultura» divenne nota in Europa Occidentale, e Czapski diventò una specie di “ministro degli
esteri” della rivista. Oltre a cercare mecenati, Czapski scriveva per «Kultura» ed
era una delle firme più prestigiose.
STORIA E POLITICA
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Nel 1947, solo una parte del gruppo di redattori dell’Instytut Literacki si trasferì
in Francia. Gustaw Herling-Grudziński lasciò Roma alla volta di Londra, dove iniziò a collaborare a un periodico polacco dell’emigrazione «Wiadomości». In
Inghilterra videro la luce i suoi ricordi dell’Unione Sovietica, pubblicati in italiano
nel 1953 nel volume dal titolo Inny Świat (Un altro mondo, tradotto in italiano
come Un mondo a parte). Questo libro costituisce una delle più importanti opere
non solo della produzione di Herling, ma anche di tutto il patrimonio della letteratura polacca del XX secolo. A Londra Herling rimase poco tempo. Nel 1952 si
trasferì a Monaco di Baviera, dove cominciò a lavorare nella redazione polacca
di Radio Europa Libera. Ma anche il suo soggiorno in Germania non fu altro che
un episodio di breve durata. Nel 1955 Herling si trasferì a Napoli, città natale
della sua seconda moglie, Lidia Croce. Prendendo dimora in Italia, Herling riallacciò i suoi rapporti con Giedroyc, iniziò un’intensa collaborazione a «Kultura»
e, fino al 1995, fu suo corrispondente dall’Italia.
Occorre ricordare che, oltre a Herling, facevano parte del “circolo italo-polacco”
dei collaboratori di Jerzy Giedroyc i saggisti e pubblicisti Konstanty Jeleński,
Dominik Morawski e Jerzy Pomianowski. Konstanty Jeleński, intimo amico di
Herling, aveva iniziato il suo rapporto con l’Instytut Literacki già poco dopo la fine
della guerra. Nel 1945 Jeleński era stato assegnato alla rappresentanza militare polacca presso l’Ambasciata Britannica di Roma, che sotto la direzione del
colonnello Emeryk Hutten-Czapski stava organizzando l’emigrazione dall’Italia
dei soldati polacchi smobilitati. Dopo la smobilitazione, Jeleński aveva lavorato
nell’IRO (International Refugee Organization), l’Organizzazione Internazionale
per i Rifugiati, a Napoli, e qui era diventato amico della famiglia di Benedetto
Croce. Nel 1948 tornò a Roma dove lavorò nella sezione economica dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO). A Roma
Jeleński strinse amicizia con Alberto Moravia e sua moglie Elsa Morante e
conobbe anche Ignazio Silone. Nel 1951 lasciò Roma per trasferirsi a Parigi
dalla pittrice italiana Leonor Fini, residente sulle rive della Senna. Come addetto presso la segreteria generale del Congresso della Libertà della Cultura, come
redattore del periodico «Preuves» nonché traduttore e critico letterario, Jeleński
era fortemente impegnato a far conoscere la letteratura polacca in Europa Occidentale. Nonostante si fosse trasferito in Francia, non perse i contatti con i suoi
amici italiani, ma continuò a collaborare alla rivista «Tempo presente». Insieme
a Silone creò, nel 1956, il “Comitato degli scrittori e degli editori per il mutuo soccorso in Europa”, che si prefiggeva lo scopo di inviare libri e periodici occidentali all’Est e di assegnare borse di studio agli scrittori dell’Europa Orientale.
584
Basil Kerski
Dominik Morawski e Jerzy Pomianowski emigrarono in Italia solo negli anni ’60.
Entrambi cominciarono un’intensa collaborazione con «Kultura» negli anni ’70.
Morawski pubblicò regolarmente le sue corrispondenze dal Vaticano fino agli
anni ‘90, mentre Jerzy Pomianowski iniziò la sua collaborazione con Jerzy Giedroyc come traduttore di Andrej Sacharov, Michail Heller e soprattutto di Aleksandr Solženicyn. Inoltre, finché la rivista «Kultura» ebbe vita, Pomianowski
pubblicò ampi saggi di letteratura e cultura russa. Come professore di lingua e
letteratura polacca a Bari, Firenze e Pisa, fu, negli anni ’70 e ’80, un eccellente
divulgatore della cultura polacca in Italia. Dopo il crollo del comunismo, come
Dominik Morawski, anche Jerzy Pomianowski è tornato in Polonia. Con l’appoggio di Jerzy Giedroyc, Pomianowski ha fondato a Varsavia, nel 1999, il mensile
in lingua russa «Novaja Polša», che viene pubblicato riservando un certo spazio all’intelligencija russa per meglio conoscere, tramite quest’ultima, i problemi
della Polonia e i rapporti tra Russia e Polonia.
3.
Nelle sue memorie, Jerzy Giedroyc – nonostante il riferimento programmatico ai
Libri della nazione polacca e dei pellegrini polacchi – sottolinea la distanza
rispetto ad Adam Mickiewicz e all’eredità spirituale del romanticismo polacco. Se
si può parlare in generale di una certa affinità tra «Kultura» e l’emigrazione
polacca del XIX secolo, questa, però, andrebbe cercata, in primo luogo, nella
sorprendente somiglianza tra l’attività del principe Czartoryski e l’opera svolta da
Giedroyc. Morto esule in Francia nel 1861, il principe Adam Jerzy Czartoryski,
verso la metà del XIX secolo, era considerato negli ambienti della nobiltà polacca il capo indiscusso degli emigrati e il “re senza corona” dello Stato polacco in
lotta contro gli invasori per la riconquista dell’indipendenza. Già fedele suddito
degli zar di Russia, era stato uno dei capi dell’insurrezione di novembre, soffocata dopo lunghi combattimenti dagli occupanti russi nel 1831, avvenimento,
questo, che aveva causato una grande ondata di profughi. Stabilitosi a Parigi,
Czartoryski continuò l’attività politica. Nella sua residenza parigina, l’Hôtel Lambert, raccolse il fior fiore dell’emigrazione polacca, creando delle strutture atte a
promuovere la cultura e la scienza polacca, sviluppando, nel contempo, una fervida attività diplomatica, che sarebbe durata alcuni decenni, mirante a restaurare la monarchia in uno Stato polacco indipendente:
Czartoryski ambiva ad ottenere aiuti da parte dei governi e dei parlamenti occidentali. Dall’Hôtel
Lambert di Parigi egli dirigeva una vasta rete di agenti, attivi in Europa Centrale e nei Balcani, conducendo una battaglia ostinata contro la diplomazia russa. Il principe non rigettava in maniera cate-
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
STORIA E POLITICA
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gorica le insurrezioni e le trasformazioni sociali, ma voleva che queste avvenissero al momento
8
opportuno e avessero possibilità di successo .
Tuttavia, l’attività di Czartoryski non diede i risultati sperati. Dopo la sua morte
nel 1861, la sua opera venne portata avanti dal figlio Władysław, che nel 1873
concluse l’attività politica in esilio e si trasferì in territorio polacco sotto occupa-
zione austriaca, dove la politica liberale dell’imperatore d’Austria attirava molti
polacchi.
Non fu certo un caso che sul primo numero di «Kultura», apparso ancora a
Roma, trovasse posto un articolo dello storico polacco-americano Dziewanowski, il quale ricordava le iniziative diplomatiche prese da Czartoryski durante la
Primavera dei Popoli (1848-49) . Gli esuli polacchi dell’Hôtel Lambert fallirono
nel cercare di mobilitare le potenze occidentali contro la Russia e, con la guerra, di riconquistare l’indipendenza. Czartoryski, nel 1848, ebbe una delusione
cocente quando, tra i monarchi europei, non riuscì a trovare alleati nella lotta per
l’indipendenza della Polonia. La sua azione venne appoggiata soltanto dalle
forze liberali d’Europa e anche da quelle nazioni dell’Europa Centrale che aspiravano all’indipendenza. Dopo il fallimento delle insurrezioni nel 1848, a Czartoryski non rimase che sperare in una nuova “primavera dei popoli”.
L’articolo di Dziewanowski va preso come un avvertimento rivolto a quegli emigrati polacchi che, nel 1947, credevano in un conflitto armato tra potenze occidentali e Russia Sovietica – una mezza specie di terza guerra mondiale – che
avrebbe ridato l’indipendenza alla Polonia. Come nel 1848, così cent’anni più
tardi, garantire lo status quo era, per i “gabinetti”, più importante dell’indipendenza delle nazioni europee. Dziewanowski, così come aveva fatto Herling nella
9
premessa ai Libri di Mickiewicz, nel suo articolo su Czartoryski avanzava la proposta di aspettare pazientemente una nuova occasione storica, una nuova “primavera dei popoli” europea.
Più forte di quello del principe Czartoryski risulterà l’influsso esercitato su Jerzy
Giedroyc e sulla rivista «Kultura» da un’altra personalità del diciannovesimo
secolo: lo scrittore russo Aleksandr Herzen che Giedroyc, nelle sue memorie,
definirà un modello. Herzen, tra il 1857 e il 1865, aveva pubblicato – prima a
Londra e poi a Ginevra – il settimanale russo «Kolokol» (La Campana). Destinatari di questo periodico non erano solo esuli russi, ma anche persone che
vivevano in Russia e che valutavano criticamente la situazione politica dominante nell’impero zarista. Secondo Isaiah Berlin, la rivista di Herzen fu il primo
tentativo sistematico di intraprendere la lotta contro l’autocrazia russa. A detta di
586
Basil Kerski
Berlin, il prestigio di «Kolokol» derivava dalla competenza, dalla coerenza e
dalla vivacità d’ingegno di questo giornale dell’emigrazione. «Kolokol» presentava fatti e analisi sulla situazione in Russia, nelle sue colonie, in particolare
riguardo alla Polonia e ad altre nazioni oppresse, che ai Russi non erano ben
noti .
Come già Herzen, Giedroyc e i suoi collaboratori volevano pubblicare un periodico dell’emigrazione legato alla patria. Lo scopo di «Kultura» era influire sullo
sviluppo della situazione nella Polonia comunista e – in tempi di confronto ideologico che si inaspriva fra Est ed Ovest – raccogliere informazioni obiettive
riguardanti i cambiamenti che avvenivano nel blocco sovietico.
«Kultura» attraversava per varie vie “la cortina di ferro” che, alla fine degli anni
’40 e agli inizi degli anni ’50, sembrava quasi impenetrabile. Dopo il “disgelo”
politico del 1956, le frontiere per un po’ si riaprirono, il che consentì ai numerosi ospiti che visitavano la Polonia di far entrare di nascosto dall’Occidente libri e
riviste. Negli anni Settanta – dopo un periodo di irrigidimento del corso politico
negli anni Sessanta – un numero sempre maggiore di polacchi, perfino i critici
del sistema comunista, ottennero il passaporto. Giungevano in Occidente e, perciò, arrivavano anche a «Kultura». Per facilitare il “contrabbando” delle pubblicazioni proibite, Giedroyc, a spese della sua casa editrice, cominciò a stampare i quaderni di «Kultura» in miniatura. Agli inizi degli anni Ottanta concedeva
licenze alle case editrici clandestine che rifornivano i lettori residenti sulla Vistola di ristampe di «Kultura». Egli creò un vasto campo di influenza per le sue pubblicazioni grazie alla collaborazione con la redazione polacca di Radio Europa
Libera (Radio Wolna Europa). L’emittente presentava non soltanto brani, ma
anche interi libri editi da «Kultura», e grazie a ciò essi giungevano nelle mani di
molti polacchi che vivevano nella parte orientale della cortina di ferro. Con il crollo del blocco sovietico, «Kultura» non avrebbe più dovuto percorrere queste vie
intricate. Nel corso degli ultimi anni di esistenza, appariva a Varsavia, quasi contemporaneamente alla sua edizione parigina, la ristampa destinata al mercato
polacco.
Jerzy Giedroyc, erede spirituale di Herzen, e gli ambienti londinesi dell’emigrazione differivano su un punto essenziale, vale a dire l’apertura verso la patria
10
governata dai comunisti. Secondo Giedroyc, gli esuli polacchi residenti a Londra
non prendevano atto delle realtà esistenti in Polonia. Il loro scopo, appena finita la guerra, fu la creazione di uno Stato polacco in esilio:
Divennero autosufficienti ed erano presi soltanto dalla propria vita. La Polonia era stata totalmente
STORIA E POLITICA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
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rifiutata: divieto di stampare nel Paese oppure boicottare i libri editi in Polonia, tutto ciò equivaleva
a recidere qualsiasi legame. Se volevano esercitare una qualche influenza, era esclusivamente a
mo’ di diversivo […]. Io ero categoricamente contrario a ciò. Ritrovarsi in un giro di spie, per acchiap11
pare così un po’ di soldi e costruire delle reti molto sospette, era per me del tutto inaccettabile .
4.
La nuova edizione dei Libri di Mickiewicz da parte dell’Instytut Literacki a Roma,
nel 1946, mostrava chiaramente che Jerzy Giedroyc, con la sua casa editrice,
aveva delle ambizioni politiche. L’Instytut Literacki e «Kultura» dovevano essere, anzitutto, un forum per pensatori politici di talento. Giedroyc desiderava elaborare un programma politico che costituisse un’alternativa dell’emigrazione alla
politica comunista della Repubblica Popolare di Polonia (PRL). Tale programma
– cosa ben chiara già nell’introduzione di Herling – doveva essere formulato in
uno spirito di realismo politico e, perciò, doveva risultare attraente sia per i connazionali residenti sulle rive della Vistola, sia per i partner europei. Sebbene i
temi politici occupassero un posto centrale, «Kultura» divenne anche una delle
più importanti riviste letterarie polacche della seconda metà del XX secolo.
Tale evoluzione verso un importante forum letterario rispondeva alle intenzioni
del creatore di «Kultura»? Il posto eminente accordato alla letteratura e alle questioni estetiche non era solo in armonia con gli interessi letterari del redattore
capo. Giedroyc e compagni credevano anche nella forza della libera parola nella
lotta contro le ideologie. Questa fede si esprimerà chiaramente nei diari, pubblicati su «Kultura», di Witold Gombrowicz, secondo il quale la vera lotta contro il
comunismo consisteva nel rafforzare l’individuo in opposizione alla massa. Pertanto, agli “anticomunisti di professione” rivolgeva parole sul potere della letteratura nel combattere le ideologie. L’arte “o rimarrà nei secoli ciò che è stata fin
dalle origini del mondo, vale a dire voce dell’individuo, rappresentante dell’uomo
al singolare, oppure perirà. In questo senso, una sola pagina di Montaigne, un
solo verso di Verlaine, una sola frase di Proust sono più ‘anticomunisti’ del coro
accusatorio che voi [anticomunisti - B.K.] costituite. Sono libere, sono liberatorie” .
La letteratura ha rappresentato un importante campo di battaglia non solo contro il comunismo, ma anche contro la tradizione romantica polacca. Un autorevole “alleato” nelle lotte con Mickiewicz e altri romantici Giedroyc lo trovò in
Witold Gombrowicz, il cui diario pubblicato su «Kultura», negli anni Cinquanta e
12
Sessanta, fu per lui fonte di ispirazione. Gombrowicz ebbe con Mickiewicz una
contesa appassionata: “Dobbiamo avere una letteratura esattamente contraria a
quella che fino ad oggi si è scritta per noi, dobbiamo cercare vie nuove in oppo-
588
Basil Kerski
sizione a Mickiewicz e a tutti i re degli spiriti. Tale letteratura non deve confermare il polacco in quel suo concetto di sé avuto finora, ma deve appunto portarlo fuori da questa gabbia, mostrargli ciò che non ha mai osato essere” .
Giedroyc incoraggiava e appoggiava non soltanto Witold Gombrowicz, ma
anche altri scrittori dell’emigrazione, i quali senza di lui, negli anni del dopoguerra, probabilmente si sarebbero smarriti nella lotta quotidiana per la sopravvivenza. Senza «Kultura» certamente non avrebbero visto la luce molti articoli di
Jerzy Stempowski e Konstanty Jeleński; e Herling-Grudziński non avrebbe composto il suo Diario scritto di notte. «Kultura» di Parigi divenne una patria anche
per molti scrittori emigrati dalla Repubblica Popolare Polacca. Nel 1951, l’Instytut Literacki aiutò a fuggire in Occidente il poeta Czesław Miłosz, a quel tempo
addetto culturale della PRL a Parigi. Dopo il “disgelo”, nel 1956, Giedroyc aiutò
lo scrittore Marek Hłasko. Dopo il marzo 1968, «Kultura» fu un porto sicuro
anche per scrittori in esilio, come Leszek Kołakowski, Witold Wirpsza e Henryk
Grynberg, mentre offriva la possibilità di pubblicare liberamente ad autori residenti nella PRL e colpiti dal divieto di dare alle stampe le loro opere. Malgrado
la situazione finanziaria rimasta difficile fino alla fine e dovuta al fatto che Giedroyc si atteneva al principio dell’indipendenza economica, quest’ultimo dimostrava grande coerenza nella sua politica di aiuto. Per molti anni aiutò la moglie
di Andrzej Bobkowski, scrittore e collaboratore di «Kultura», la quale viveva in
Guatemala.
Giedroyc non si limitava ad assegnare borse di studio, ma cercava anche di far
conoscere in Occidente autori polacchi. In questo veniva aiutato dalle riviste che
rientravano nell’ambito del “Congresso della Libertà della Cultura”, fondato
insieme a Józef Czapski, che riuniva gli intellettuali liberali critici verso il comunismo. Con alcune di queste riviste, come «Preuves» di François Bondy,
«Tempo Presente» di Ignazio Silone e Nicola Chiaramonte, «Encounter» e «Der
Monat» di Melvin Lasky, si iniziò un’intensa collaborazione.
«Kultura» non si limitava a promuovere la letteratura polacca. Nelle sue annate
si possono trovare molte opere di classici della letteratura contemporanea dell’Europa Occidentale pubblicate per la prima volta in polacco: prosa e saggistica di Albert Camus, 1984 di George Orwell, articoli di Ignazio Silone, scritti di
Simone Weil nella traduzione di Czesław Miłosz e molti altri. Guardando con gli
occhi di oggi, non si può non notare l’apertura alle piccole letterature slave. Nel
1960 apparve in ucraino, presso l’Instytut Literacki, un’antologia di letteratura
ucraina degli anni ’20 e ’30. Sul mensile di Giedroyc una voce importante è stata
sempre la letteratura russa. Già nel 1965 su quattro numeri di «Kultura» trova13
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
STORIA E POLITICA
589
rono posto le poesie di Iosif Brodskij, allora sconosciuto al di fuori di Leningrado. Nel 1959 Giedroyc pubblicò, nella collana “Biblioteka Kultury”, Il dottor Živago di Boris Pasternak tradotto da Jerzy Stempowski e, dieci anni più tardi, a cura
di Jerzy Pomianowski le prime traduzioni in polacco de Il primo cerchio, Divisione cancro e Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn .
14
5.
La lettura delle oltre cinquanta annate della rivista parigina «Kultura» è una
lezione di realismo politico polacco. Per realismo politico Giedroyc e i suoi collaboratori intendevano un pensiero basato su un’attenta e pacata analisi della
realtà, libero da qualsivoglia ideologia. Secondo Giedroyc, il pensiero politico
realistico non va identificato con l’opportunismo. “Cambio tattica, dal momento
che la politica non è un sacramento; se la si vuole coltivare, allora bisogna rimanere vicino alla realtà, che cambia. Occorre saper mantenere i principi e cambiare le opinioni” .
La realtà politica dell’Europa del dopoguerra era lo spostamento spaziale della
Polonia ad Ovest e la perdita dei territori orientali. «Kultura» si opponeva con
tutte le sue forze alla propaganda sia dei comunisti che dei nazionalisti anticomunisti, la cui retorica definiva l’occupazione degli ex territori tedeschi come il
ritorno alle “antichissime terre polacche”. «Kultura», pur criticando la brutale
cacciata della popolazione civile tedesca, non vedeva tuttavia alcuna realistica
alternativa al riconoscimento della linea Oder-Neisse. Pertanto si opponeva ai
tentativi tedeschi di rivedere i confini.
Giedroyc e il suo più stretto collaboratore Juliusz Mieroszewski diedero prova di
grande coraggio quando, agli inizi degli anni Cinquanta, lanciarono un appello
affinché venissero riconosciuti i confini orientali della Polonia. Giedroyc, che
rischiò di perdere molti lettori e collaboratori originari delle terre di frontiera nord
e sud-orientali d’anteguerra, non subì tuttavia la sorte di Aleksandr Herzen. L’appoggio dato da Herzen all’insurrezione antirussa del gennaio 1863 fece sì che,
sull’onda crescente di antipolonismo e nazionalismo, moltissimi lettori voltassero le spalle al suo giornale. In una situazione del genere, Herzen nel 1867 fu
costretto a sospendere la pubblicazione di «Kolokol».
La divisione della Germania nonché l’annessione della Lituania, della Bielorussia e dell’Ucraina all’URSS vennero considerate da «Kultura» come un elemento essenziale della politica egemonica sovietica in Europa Centrale. Secondo
Mieroszewski, la sovranità della Polonia dipendeva dall’unificazione della Germania e dall’indipendenza dei suoi vicini orientali. La Lituania, la Bielorussia e
15
590
Basil Kerski
l’Ucraina sarebbero dovute rinascere come Stati indipendenti entro i confini delle
repubbliche sovietiche e, dunque, con Leopoli e Vilna. Mieroszewski chiedeva,
inoltre, una politica polacca tale da escludere ogni ambizione da grande potenza nei confronti dei vicini orientali. A suo avviso, ogni forma di indebolimento
della Lituania, della Bielorussia e dell’Ucraina apriva alla Russia la strada dell’Europa Centrale e, pertanto, le offriva l’occasione per condurre in Europa una
politica imperialistica.
Quanto alla questione tedesca, Mieroszewski metteva in guardia su «Kultura»
già negli anni Sessanta contro l’isolazionismo europeo: “L’ideale per risolvere il
problema dell’Europa sarebbe giungere alla riunificazione della Germania
(senza la quale non potrà esserci un’Europa unita), trattenendo al tempo stesso
sul continente gli americani in veste di alleati-controllori della Germania unificata. L’alternativa è un’Europa puramente europea, il che in pratica significherebbe un’intesa tra Russia e Germania con tutte le sue conseguenze” .
«Kultura» sperava che la caduta del comunismo in Europa e la conseguente riunificazione della Germania non sarebbero avvenute in seguito ad un conflitto
armato, bensì come frutto della Nuova Primavera dei Popoli in Europa Centrale
e Orientale. La chiave per il crollo del comunismo erano – secondo l’opinione di
Giedroyc e di Mieroszewski – i problemi irrisolti delle nazionalità nell’ambito dell’Unione Sovietica. Perciò, oltre ai dissidenti e agli oppositori del regime in
URSS, Giedroyc appoggiava anche i movimenti nazionali nelle singole repubbliche sovietiche.
Il pensiero politico di «Kultura» non fu privo di errori. Illusorie risultarono le speranze in una vasta democratizzazione della Polonia dopo l’arrivo di Gomułka al
potere nel 1956. Giedroyc e Mieroszewski erano convinti che i comunisti fossero capaci di limitare di molto il proprio potere con la conseguente riforma dello
Stato e dell’economia. Un’illusione si rivelò anche la proposta di Mieroszewski,
degli anni Cinquanta, di anticipare la riunificazione della Germania con la creazione di una confederazione neutrale di Stati dell’Europa Centro-orientale.
Leggendo i numeri di «Kultura» degli anni Sessanta e Settanta, specialmente gli
articoli di Mieroszewski, colpisce – nonostante gli abbagli – la lungimiranza dell’analisi. Grazie agli stretti rapporti con la patria, Giedroyc e collaboratori si
accorsero ben presto delle tensioni sociali nella PRL, le quali, nel 1970 e nel
1976, condussero a sanguinose proteste operaie. In quell’occasione il loro
ammonimento fu che le proteste operaie senza l’appoggio degli intellettuali e,
viceversa, i movimenti di protesta degli intellettuali senza il sostegno degli operai sarebbero rimasti lettera morta: “La Rivoluzione la fanno gli operai e nessun
16
STORIA E POLITICA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
591
altro. Ma la Rivoluzione vince se gli intellettuali l’appoggiano”, sottolineava nel
1975 Jerzy Giedroyc nell’intervista al periodico polacco dell’emigrazione
«Aneks» . Proprio tale alleanza proposta da Giedroyc tra operai e intellettuali,
dalla quale qualche anno dopo sarebbe nata Solidarność, ha mostrato nella lotta
contro il comunismo la massima efficacia politica.
17
6.
Dopo la morte di Jerzy Giedroyc avvenuta il 14 settembre 2000 e la cessazione
della pubblicazione di «Kultura», molto si è detto sull’importanza e sull’influenza
di questa rivista polacca dell’emigrazione. Valutare l’influsso di oltre 637 numeri
di «Kultura» e di 512 volumi della “Biblioteka Kultury” non è cosa semplice.
Volendo descrivere la reale influenza di «Kultura», bisogna ricordare che alla
rivista avevano accesso – nonostante i tentativi di diffonderla via radio – pochi
lettori. A causa del suo atteggiamento critico nei riguardi del tradizionale nazionalismo polacco plasmato dal romanticismo, «Kultura» veniva letta innanzi tutto
da quegli intellettuali polacchi dalle idee liberali. E poi, fino alla fine, i suoi esponenti non accettarono opzioni politiche diverse.
Non si deve neppure dimenticare che il lettore polacco, a partire dagli anni Settanta, aveva la possibilità di scegliere tra «Kultura» e il rinomato trimestrale politico «Aneks», fondato a Londra alla metà degli anni Settanta dai fratelli Smolar.
Agli inizi degli anni Ottanta, vide la luce a Parigi – nell’ambiente di autori che
scrivevano su «Kultura», quali Stanisław Barańczak, Wojciech Karpiński e Barbara Toruńczyk – il periodico «Zeszyty Literackie». Dopo il 1981 ebbe luogo
anche il travolgente sviluppo del cosiddetto “secondo circuito”, ovvero delle case
editrici della clandestinità politica polacca.
Si deve altresì ricordare che, nella Repubblica Popolare di Polonia, ciascun
periodo di liberalizzazione ha portato a mitigare la censura e, grazie a ciò, alcuni settimanali editi sulla Vistola ufficialmente, per esempio «Tygodnik Powszechny» e «Polityka», potevano permettersi di affrontare alcuni argomenti controversi. Forse i dibattiti condotti sulle loro pagine influivano sulla coscienza delle
élite polacche più delle pubblicazioni dell’emigrazione.
La svolta politica del 1989 e la successiva soppressione della censura, come
pure la liberalizzazione dell’offerta mediatica, limitarono fortemente il peso di
«Kultura». Dopo la caduta del comunismo, il cittadino polacco aveva a disposizione una produzione editoriale eterogenea e difficile da contenere, nella quale
«Kultura» finiva col diventare uno dei tanti periodici polacchi che valeva la pena
di leggere.
592
Basil Kerski
Jerzy Giedroyc – nonostante gli scopi ambiziosi – non si fece mai troppe illusioni circa la possibilità di influire sul corso della storia per mezzo del suo mensile:
“Tutta «Kultura» è pur sempre bluff e affarismo. Qualcosa tipo quegli enormi draghi di cartapesta che le truppe cinesi portavano davanti durante la guerra dei
Boxers. Ciò fa il suo effetto, ma talvolta ci si imbatte nelle mitragliatrici. Tuttavia
tale bluff devo continuarlo” .
Questo sedicente “affarista”, però, forse ha esercitato un grande influsso sui
polacchi. È difficile trovare in Polonia un esponente dei mass media che non
abbia realizzato un’intervista col fondatore dell’Instytut Literacki. Nella classifica
dei cento più famosi polacchi del XX secolo, pubblicata dal settimanale
«Polityka», Giedroyc occupa uno dei primi posti.
Negli ultimi anni della sua vita, il giornalista non aveva né voglia né tempo di
riflettere su ciò che aveva rappresentato «Kultura». Malgrado l’età avanzata, il
suo pensiero era continuamente proteso verso il futuro. Cercava senza sosta
nuovi collaboratori e nuovi argomenti, faceva da mediatore nell’allacciare rapporti, ogni giorno scriveva molte lettere e ogni mese voleva sorprendere i suoi
lettori con numeri interessanti di «Kultura».
Una prudente, ma forse realistica valutazione dell’importanza e dell’influsso di
«Kultura» è stata tentata da uno dei suoi collaboratori, lo storico polacco Krzysztof Pomian, residente in Francia:
18
Non sapremo mai con quanti ospiti provenienti dalla Polonia Giedroyc abbia parlato della protesta
degli operai, quanti ne abbia convinti sul peso di tale problema […]. Insomma, non era grande il
numero di coloro che venivano in visita a Maisons-Laffitte, però erano spesso persone influenti. Neppure sapremo mai quanti leggessero gli articoli di Mieroszewski. Alcune centinaia? Qualche
migliaio? Eppure, parecchi di loro hanno probabilmente diffuso il contenuto di tali articoli, e per di più
19
senza citarne la fonte .
Bisogna dire, perciò, che – nonostante le difficoltà nel valutare l’influsso di «Kultura» sui polacchi che vivevano in esilio e nella Polonia comunista – il suo notevole peso nella storia della Polonia è fuori d’ogni dubbio. Lo storico varsaviano
Andrzej Friszke si è spinto addirittura tanto in là da definire l’emigrazione polacca uscita dalla seconda guerra mondiale – anzitutto la redazione e i collaboratori di «Kultura» – come “Seconda Grande Emigrazione”, col pensiero rivolto alla
“Grande Emigrazione” sorta in seguito all’Insurrezione di Novembre. Friszke ha
voluto così sottolineare il fatto che questa seconda emigrazione ha esercitato
sulla cultura e sulla politica polacca lo stesso considerevole influsso avuto dai
grandi romantici polacchi:
STORIA E POLITICA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
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«Kultura» di Parigi ha influito principalmente sugli intellettuali e ha contribuito in sommo grado a plasmare gli atteggiamenti politici e ideologici degli ambienti dell’opposizione. Affluendo per varie vie da
Parigi e da Londra, i libri ostacolavano la falsificazione della storia, ricordavano fatti del passato condannati al silenzio, facilitavano il processo di liberazione delle scienze storiche dalla pressione della
propaganda. La letteratura nata nell’emigrazione è stata un’importante integrazione della letteratura
prodotta in patria, suscitando anche, soprattutto negli anni ’70, un crescente interesse. Il movimento di opposizione alle autorità della Repubblica Popolare di Polonia, gli interventi della Chiesa, le iniziative degli ambienti dell’opposizione, gli atti di repressione da parte del regime, sono stati fatti
conoscere all’opinione internazionale e, mediante le case editrici dell’emigrazione e attraverso le
emittenti radiofoniche, le notizie e i commenti al riguardo sono arrivati fino al vasto pubblico in Polo20
nia. L’influenza dell’emigrazione sul paese è stata quindi innegabile .
7.
Con l’abolizione della censura, nel 1989, le case editrici polacche iniziarono,
negli anni ’90, a pubblicare intensamente libri degli scrittori e giornalisti di «Kultura» o a riproporre titoli classici inclusi nel programma editoriale dell’Instytut
Literacki. Grazie a tali iniziative, divennero accessibili al vasto pubblico non solo
i libri di autori di fondamentale importanza per la letteratura polacca, quali Gombrowicz, Czapski o Herling, ma anche i classici riproposti da «Kultura», nonché
le opere di autori di culto, ma poco noti al largo pubblico, come Jerzy Stempowski, Zygmunt Haupt, Andrzej Bobkowski o Leo Lipski.
Nel dicembre 1993, la casa editrice Czytelnik cominciò a pubblicare una collana
di libri dal titolo “Archivum «Kultury»”, che presentava la corrispondenza del giornalista nonché la sua autobiografia. Nel caso di Jerzy Giedroyc, la pubblicazione di brani dall’enorme e ricca corrispondenza rivelava uno dei più importanti
epistolografi polacchi della seconda metà del XX secolo. Come ha giustamente
osservato Krzysztof Pomian, le lettere di Giedroyc rappresentano un contributo
significativo alla letteratura polacca. Giedroyc è stato un insigne epistolografo
non solo per il numero di lettere scritte,
ma anche perché, in mezzo ad esse, troviamo testi splendidi, composti perfettamente, brillanti, a
volte caustici, che colpiscono per il tono disinvolto, per l’assenza di qualsiasi retorica e ostentazione. Anche se certamente, come molti della sua generazione, Giedroyc amava scrivere lettere, tuttavia le scriveva per necessità, in quanto costituivano per lui l’unico modo di mantenere i contatti con
i collaboratori disseminati per il mondo. E così, nell’assolvimento dei suoi doveri d’ufficio, ecco
nascere quest’opera unica nel suo genere che è la raccolta delle sue lettere, fonte storica e opera
21
letteraria al tempo stesso: quadro di un’epoca scomposto attraverso il prisma della sua personalità .
Con la collaborazione di Krzysztof Pomian, vide la luce, negli anni ’90, un’altra
importante opera di Giedroyc, vale a dire la sua autobiografia. Alla fine del libro,
Jerzy Giedroyc inserisce il suo testamento spirituale . In poche frasi compendia
la sua visione della Polonia, per la cui realizzazione ha combattuto, cioè l’essen22
594
Basil Kerski
za del pensiero di «Kultura». Nel suo testamento, Giedroyc sottolinea, ancora
una volta, che grande opportunità sia per la Polonia indipendente la costruzione
di rapporti amichevoli con i vicini e la capacità di condurre una politica autonoma, in particolare nell’Europa dell’Est, priva di megalomania nazionale. La conditio sine qua non per tali rapporti di buon vicinato il capo redattore di «Kultura»
la individua nel rispetto dei diritti delle minoranze nazionali. In una posizione
forte ad Est egli vede l’occasione per rafforzare in Europa il prestigio di una
Polonia democratica. Secondo Giedroyc, una Polonia forte deve sorgere sulle
basi di una democrazia forte. Ciò esige uno Stato di diritto, lotta alla corruzione,
una stampa libera e la separazione tra Stato e Chiesa. Nella realizzazione di tali
obiettivi, Giedroyc scorge non solo la possibilità di uno Stato efficiente, ma
anche di un cambiamento della mentalità della nazione, per liberarsi, così, di
quegli elementi della cultura politica dei polacchi che, nel corso della storia,
hanno portato alla perdita dell’indipendenza.
La pubblicazione dell’autobiografia di Giedroyc e della sua vasta corrispondenza ha dato un importante impulso alle ricerche di storici, esperti di letteratura e
di cultura, sul patrimonio della rivista «Kultura», nonché di tutta l’emigrazione
politica polacca del dopoguerra. Non intendo presentare qui tutte le pubblicazioni di un certo rilievo concernenti «Kultura», uscite durante gli ultimi 17 anni. Lo
ha fatto, in modo sistematico, sulle pagine di «Przegląd Polityczny» Mikołaj Tyrchan che, in occasione del centenario della nascita di Jerzy Giedroyc, nel 2006,
passò in rassegna tutti i titoli dei libri che si erano occupati dell’Instytut Literacki,
tra i quali, accanto alle pubblicazioni scientifiche, anche i volumi di corrispondenza e i documenti autobiografici dei più importanti collaboratori di «Kultura» .
Il bilancio delle pubblicazioni apparse finora rivela alcune lacune sostanziali
negli studi riguardanti la rivista «Kultura» e il suo ambiente. Manca ancora un’esauriente biografia politica di Jerzy Giedroyc, biografia che presenti la sua attività non solo nel contesto polacco, ma anche europeo; che documenti e valuti i
tentativi, da parte di «Kultura», di influire sugli europei. Non esiste nemmeno
una biografia più dettagliata di Józef Czapski, Czesław Miłosz o di Gustaw Herling-Grudziński. Come nel caso di Giedroyc, il lettore polacco può disporre “soltanto” dei saggi e delle analisi di studiosi della loro opera, della loro corrispondenza, degli articoli oppure degli ampi colloqui autobiografici. Nel caso di Herling-Grudziński, il lettore polacco può leggere due eccellenti volumi di conversazioni tra Włodzimierz Bolecki e Herling . Tuttavia, non sostituiscono la necessità
di una dettagliata biografia intellettuale, che presenti l’iter artistico e intellettuale
dell’autore di Un mondo a parte, per esempio la sua collaborazione con Ignazio
23
24
STORIA E POLITICA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
595
Silone e Nicola Chiaramonte o il modo in cui è stata percepita la sua opera in
Europa Occidentale. Non sono stati ancora tradotti in polacco i saggi italiani di
Herling. (Anche per quanto riguarda il suo amico, l’illustre saggista Konstanty
Jeleński, conosciamo soltanto la sua produzione polacca, ma non quella francese).
Una grande lacuna negli studi su «Kultura» e il suo ambiente resta, oltre alla
mancanza di saggi biografici, la carenza di monografie su temi bilaterali. Non è
ancora apparso un lavoro che presenti in modo completo le relazioni tra Polonia
e Ucraina o tra Polonia e Russia sulle colonne di «Kultura», nonché l’influsso
esercitato dall’Instytut Literacki su tali rapporti. Lo stesso discorso vale per la
sfera delle relazioni tra Polonia e Germania e per il problema della percezione
di «Kultura» e del suo ambiente in Europa Occidentale. Jerzy Giedroyc ha sempre ambìto a evitare il ghetto dell’emigrazione, ad uscire dal campo culturale
polacco, ad ispirare il dialogo con i vicini, a propugnare l’integrazione europea.
Per questo motivo, gli studi sul patrimonio di «Kultura» e sull’attività politica di
Jerzy Giedroyc, negli anni avvenire, dovranno concentrarsi più che mai sulla
dimensione internazionale.
Bibliografia essenziale su «Kultura» e l’Instytut Literacki
ALBERSKA MAŁGORZATA, Ośrodki emigracji polskiej wobec kryzysów politycznych
w kraju (1956-1981), Wrocław 2000.
BERBERYUSZ EWA, Książę z Maisons-Laffitte, Gdańsk 1995.
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GIEDROYC JERZY, GOMBROWICZ WITOLD, Listy 1950-1969, Warszawa 1993.
GIEDROYC JERZY, JELEŃSKI KONSTANTY A., Listy 1950-1987, Warszawa 1995.
GIEDROYC JERZY, BOBKOWSKI ANDRZEJ, Listy 1946-1961, Warszawa 1997.
GIEDROYC JERZY, STEMPOWSKI JERZY, Listy 1946-1967, II voll., Warszawa 1998.
GIEDROYC JERZY, MIEROSZEWSKI JULIUSZ, Listy 1949-1956, II voll., Warszawa
1999.
GIEDROYC JERZY, WAŃKOWICZ MELCHIOR, Listy 1945-1963, Warszawa 2000.
GIEDROYC JERZY, EMIGRACJA UKRAIŃSKA, Listy 1950-1982, Warszawa a 2004.
Jerzy Giedroyc – Redaktor. Polityk. Człowiek, a cura di K. Pomian, Lublin 2001.
HABIELSKI RAFAŁ, Życie społeczne i kulturalne emigracji, Warszawa 1999.
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Basil Kerski
HERTZ ZYGMUNT, Listy do Czesława Miłosza 1952-1979, Paris 1992.
HOFMAN IWONA, Zjednoczona Europa w publicystyce paryskiej “Kultury”, Lublin
2001.
KOPCZYŃSKI KRZYSZTOF, Przed przystankiem Niepodległość. Paryska Kultura i
kraj w latach 1980-1989, Warszawa 1990.
KOREK JANUSZ, Paradoksy paryskiej “Kultury”. Ewolucja myśli politycznej w
latach 1947-1980, Sztokholm 1998.
KOWALCZYK ANDRZEJ STANISŁAW, Giedroyc i Kultura, Wrocław 1999.
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Sejny 2006.
KUDELSKI ZDZISŁAW, Spotkania z paryską “Kulturą”, Lublin 1995.
Kultura i jej krąg, katalog wystawy czterdziestolecia Instytutu Literackiego, Paris
1988 (ed. pol.: Lublin 1995).
MACHCEWICZ PAWEŁ, Emigracja w polityce międzynarodowej, Warszawa 1999.
MENCWEL ANDRZEJ, Przedwiośnie czy potop. Studium postaw polskich w XX
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PTASIŃSKA-WÓJCIK MAŁGORZATA, Z dziejów Biblioteki Kultury 1946-1966 ,
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SZARUGA LESZEK, Przestrzeń spotkania. Eseje o “Kulturze” paryskiej, Lublin
2001.
TORUŃCZUK BARBARA, Rozmowy w Maisons-Laffitte 1981, Warszawa 2006.
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1999.
WOLAŃSKI MARIAN S., Europa Środkowo-Wschodnia w myśli politycznej emigracji
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Zostało tylko słowo. Wybór tekstów o “Kulturze” paryskiej i jej twórcach, Lublin
1994.
Cfr. WITKOWSKA ALINA, Cześć i skandale. O emigracyinych doświadczeniach Polaków, Gdańsk
1997.
2
OLSCHOWSKY HEINRICH, Europavorstellungen des literarischen Exils. Mickiewicz und Miłosz, in
Polen und Nachbarn. Polonistische und komparatistische Beiträge zu Literatur und Sprache, a cura
di H. Rothe, P. Thiergen, Köln 1998, p. 235.
3
GIEDROYC JERZY, Autobiografia na cztery ręce, Warszawa 1994, p. 126.
4
Le citazioni successive di Gustaw Herling-Grudziński provengono dall’edizione dei Libri di Mickiewicz
1
STORIA E POLITICA
pl.it - rassegna italiana di argomenti polacchi / 2008
597
da parte dell’Instytut Literacki: MICKIEWICZ ADAM, Księgi narodu polskiego i pielgrzymstwa polskiego,
Roma 1946.
5
Tra i fondatori dell’Instytut Literacki vanno annoverati – oltre a Jerzy Giedroyc e Gustaw HerlingGrudziński – anche Józef Czapski e i coniugi Zofia e Zygmunt Hertz.
6
La genesi dell’Instytut Literacki nonché l’attività della casa editrice di Jerzy Giedroyc in Italia sono
state dettagliatamente documentate da Małgorzata Ptasińska-Wójcik nella sua monografia Z
dziejów Biblioteki Kultury (1946-1966), edita dall’Instytut Pamięci Narodowej (Istituto della Memoria
Nazionale) nel 2006 (pp. 19-66 del libro). Małgorzata Ptasińska-Wójcik valuta in questi termini l’attività dell’Instytut Literacki a Roma: “Nel periodo romano l’Instytut Literacki inaugurò una serie di libri
la cui edizione cessò dopo il trasferimento a Parigi. Tuttavia, le sezioni tematiche iniziate in pratica
rimasero e saranno visibili anche nella “Biblioteca di Kultura” esistente dal 1953. Anche se l’attività
romana ebbe breve durata - poco più di un anno - già allora erano evidenti gli embrioni della futura politica editoriale della casa editrice, in pieno sviluppo dopo il 1953”.
7
PTASIŃSKA-WÓJCIK MAŁGORZATA, op. cit., p. 40.
8
WANDYCZ PIOTR S., Cena wolności: historia Europy Środkowo-Wschodniej od średniowiecza do
współczesności, Kraków 1995, p. 234-235.
9
DZIEWANOWSKI M. K., Wiosna Ludów w Hotelu Lambert, in «Kultura» 1, giugno 1947.
10
BERLIN ISAIAH, HERZEN ALEXANDER, Eine Einführung, in Alexander Herzen, Die gescheiterte
Revolution. Denkwürdigkeiten aus dem 19. Jahrhundert. Ausgewählt und herausgegeben von Hans
Magnus Enzensberger, Frankfurt a. M. 1988, p. 300.
11
GIEDROYC JERZY, Autobiografia..., cit., p. 152.
12
GOMBROWICZ WITOLD, Dziennik 1953-1969, vol. 1, Kraków 2004, p. 31.
13
Ivi, p. 173.
14
Negli anni 1960, 1971 e 1981, l’Instytut Literacki pubblicò alcuni numeri speciali di «Kultura»
dedicati alla Russia.
15
GIEDROYC JERZY, Autobiografia..., cit., p. 215.
16
MIEROSZEWSKI JULIUSZ, Polityczne neurozy, Paris 1967, p. 132.
17
Rozmowa z Jerzym Giedroyciem sprzed dwunastu lat, in Zostało tylko słowo. Wybór tekstów o
“Kulturze“ paryskiej i jej twórcach, Lublin 1990, p. 81.
18
Cfr. la citazione dalla lettera di Jerzy Giedroyc a Konstanty A. Jeleński dell’8 agosto 1955;
GIEDROYC JERZY, JELEŃSKI KONSTANTY A., Listy 1950-1987, Warszawa 1995, p. 199.
19
La citazione proviene dall’articolo di Krystyna Kersten dedicato a «Kultura»: KERSTEN KRYSTYNA,
Enklawa wolnej myśli, in «Tygodnik Powszechny» del 28 luglio 1996.
20
FRISZKE ANDRZEJ, Życie polityczne emigracji, Warszawa 1999, p. 7.
21
POMIAN KRZYSZTOF, Jerzy Giedroyć w historii Polski, in «Kultura» 10, 2000.
22
GIEDROYĆ JERZY, Przesłanie, in ID., Autobiografia..., cit., pp. 227-228.
23
TYRCHAN MIKOŁAJ, Lekcje “Kultury”, in «Przegląd Politiczny» 77, 2006, pp. 139-149.
24
HERLING-GRUDZIŃSKI GUSTAW, BOLECKI WŁODZIMIERZ, Rozmowy w Dragonei, Warszawa 1997; HERLING-GRUDZIŃSKI GUSTAW, BOLECKI WŁODZIMIERZ, Rozmowy w Neapolu, Warszawa 2000. Vale la pena
di ricordare anche il volume di conversazioni tra la giornalista napoletana Titti Marrone e Gustaw
Herling-Grudziński degli anni ’90: HERLING-GRUDZIŃSKI GUSTAW, MARRONE TITTI, Controluce, Tullio
Pironti Editore, Napoli 1995. In polacco questo libro è uscito nel 1998 a Cracovia, col titolo Pod
światło.
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Il primo editoriale
della rivista dell’emigrazione polacca “Kultura” (1947)1
Traduzione di Marzenna Maria Smoleńska Mussi, Renzo Panzone
Evocate nell’introduzione al primo quaderno di “Kultura”, le voci dei due principali pensatori europei del primo e del secondo dopoguerra (Valéry con un testo del 1919
e Croce del 1946), ci dimostrano come il pensiero del crepuscolo o della crisi della civiltà in cui viviamo è naturale nei tempi che emergono da ogni sconvolgimento mondiale.
In ambedue le voci echeggia la profonda tristezza di persone che hanno consacrato tutte le loro forze e capacità al lavoro di approfondimento e di elevazione della
cultura europea, per sopravvivere infine ai giorni del pericolo mortale e della minaccia. Ma, al tempo stesso, vibra in loro una grande forza, la forza delle convinzioni incrollabili, dei legami e della fede nonostante «i tempi del disprezzo», a dispetto
«dell’invincibile imminente barbarie».
«Tutto all’Europa è venuto e tutto da essa uscì. Tutto, o quasi tutto» — scrive Valéry. «Combattere rimanendo sulla propria postazione pro aris et focis, vale a dire per
le nostre chiese e le nostre case» — esorta Croce, l’ottantenne filosofo napoletano, il
più ostinato nemico del fascismo italiano e di Mussolini. Non sono forse impregnate allo
stesso spirito le splendide parole di André Malraux, pronunciate all’inaugurazione della
riunione dell’UNESCO a Parigi? Ascoltiamole: «L’Europa che il mondo finora pensava
nelle categorie della libertà, oggi viene considerata come uno scherzo del destino. Ma
ci dimentichiamo troppo spesso che non è la prima volta che ciò accade nella storia
d’Europa. La situazione non era affatto migliore durante le precedenti invasioni.
Quando l’esercito mongolo di Genghiz Khan avanzava su Vienna, il destino dell’Europa
era forse più luminoso? O era migliore quando Tamerlano si spingeva alle porte dell’Europa? Oppure dopo la battaglia di Nicopoli2 o dopo la battaglia di Mohács?3 Eppure
1
Titolo originale: Kultura, “Kultura. Wybór szkiców, opowiadań i sprawozdań”, n. 1,1947, Instytut Literacki, Rzym, p. 1. Si ringrazia Henryk Giedroyc per aver autorizzato la traduzione e pubblicazione di questo testo inedito in Italia.
2 La battaglia o crociata di Nicopoli è avvenuta nel 1396 tra lo schieramento franco-ungherese e
quello ottomano (n.d.r.).
3 La battaglia è avvenuta nel 1526 fra le truppe turche di Solimano il Magnifico e quelle del re d’Ungheria, Luigi II (n.d.r.).
poloniaeuropae 2010
303
Il primo editoriale della rivista dell’emigrazione...
allora si trattava di vita o di morte e non della rivalità tra culture e dell’eredità dello
spirito. Era più luminoso — chiedo — il destino dell’Europa durante la battaglia di Londra? C’era forse qualcuno in Inghilterra o addirittura in Francia che nel momento della
battaglia di Londra dubitasse dei fondamentali valori dell’Occidente? Non è vero che
l’uomo europeo è morto. Ma è abbandonato, poiché lui stesso ha ripudiato i valori fondamentali, e si prepara alla morte, così come si preparavano alla morte le classi dirigenti degli antichi imperi quando perdevano la volontà di vivere».
Le tre voci — la latina, la franco-italiana — non esauriscono il ricco ventaglio degli
atteggiamenti ideali nei periodi di caos e di ricerca che caratterizzano l’età postbellica.
Accanto a parole come fede e attaccamento, vengono pronunciate parole di odio e di
ripulsa. Accanto ad atteggiamenti che generano in profondità cultura, crescono come
funghi dopo la pioggia atteggiamenti chiaramente anticulturali. Accanto alle correnti di
rinascita e di rinnovamento si susseguono opache onde di decomposizione e distruzione.
Dopo la prima guerra mondiale, in Europa andava di moda il catastrofismo della civiltà alla tedesca. Si incuneava in menti stanche e svogliate, si infiltrava nelle pagine
delle opere filosofiche, si arrampicava furtivamente sulle cattedre universitarie. Oggi
sappiamo qual era il suo scopo. Attraverso tale catastrofismo apocalittico l’imperialismo e il nazionalismo tedeschi volevano mettere in ginocchio tutte le nazioni europee.
Indebolire in loro la volontà di lottare, avvelenarle col pensiero della morte. Per quale
ragione combattere, che cosa difendere di fronte all’universale Untergang des Abendlandes? Sotto il tacco dell’occupazione hitleriana, in Europa si risvegliò il pensiero
della resistenza. Purtroppo non è durato abbastanza a lungo per far fronte alla nuova
minaccia.
Alla fine di questa guerra il catastrofismo tedesco cede il posto alla “innovazione”
sovietica. È un “innovamento” sicuro di sé, dinamico e antitradizionalista, di cui Croce
dice in generale che «non è l’elevamento della tradizione a un livello più alto, bensì il
fatto di rompere con essa, il che significa instaurare la barbarie; e questa “innovazione” arriva quando le forze selvagge e malvagie che, sebbene tenute a bada, sono presenti in ogni società, prendono a un certo punto la rincorsa e acquistano vigore per,
infine, dominare e comandare. Tali forze sono incapaci di risolvere in sé il problema dell’attuale civiltà, innalzandola a un livello più alto, ma viceversa la rifiutano e non solo
opprimono e perseguitano gli uomini che ne sono la personificazione, ma osano addirittura distruggere le opere che stimolano l’incessante arricchimento della cultura;
osano distruggere i monumenti della bellezza, i sistemi di pensiero e tutte le testimonianze del glorioso passato; osano chiudere le scuole, saccheggiare e bruciare i musei,
le biblioteche e gli archivi e fare cose di cui siamo stati testimoni e che riscontriamo
ancora oggi».
Passeranno senz’altro di nuovo molti anni prima che le nazioni dei due emisferi capiscano che il “rinnovamento” sovietico è uno strumento per anestetizzare la cultura
europea, così come a suo tempo il catastrofismo tedesco è stato lo strumento della sua
disintegrazione. Stanno arrivando tempi di nuovo indebolimento della volontà, di avvelenamento con pensieri di morte. Allora, per che cosa lottare, che cosa difendere dinanzi all’universale Ex Oriente lux?
In queste condizioni, il ruolo, le finalità e i compiti di “Kultura” sono sufficientemente chiari e non richiedono una spiegazione molto dettagliata.
304
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
“Kultura” desidera far capire ai lettori polacchi — avendo scelto l’emigrazione politica, essi i sono trovati fuori delle frontiere del proprio paese natale — che la cerchia
culturale nella quale vivono non è un ambito morto.
“Kultura” desidera raggiungere i lettori polacchi in patria e rafforzare in loro la
fede che i valori che sono a loro vicini non sono ancora caduti sotto i colpi del piccone
della forza bruta.
“Kultura” vuole cercare nel novero della civiltà occidentale quella «volontà di vivere, senza la quale l’uomo europeo morirà, come nel passato morirono le classi dirigenti degli antichi imperi».
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Memorie unite e divise
poloniaeuropae 2010
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Il Parlamento Europeo
sul 60° anniversario della fine della seconda guerra mondiale conclusasi
l’8 maggio 1945
La pace in Europa è irreversibile1
Seduta commemorativa, 9 maggio 2005
In apertura di seduta il Presidente Borrell ha pronunciato una dichiarazione commemorativa del 60° anniversario della fine del secondo conflitto mondiale.
L’8 maggio 1945, ha detto, si è potuto iniziare a stilare un bilancio dell’orrore vissuto negli anni precedenti che ha provocato la morte di 60 milioni di soldati e civili, lo
sterminio di 6 milioni di persone, la distruzione di intere città e 30 milioni di sfollati. A
prescindere dalle responsabilità, ha continuato, la sofferenza degli esseri umani è stata
«indicibile».
L’Europa «era un continente distrutto» e l’8 maggio qualche leader politico proclamò che la bandiera della libertà sventolava in tutta Europa. Tuttavia, oggi si può
dire che la fine della guerra portò la pace e la libertà «solo a metà Continente», perché l’altra metà è stata «vittima del nuovo ordine mondiale scaturito da Jalta». L’8
maggio segnò una nuova geografia europea per molti paesi. Un altro totalitarismo, infatti, «ha preso in ostaggio mezza Europa». Nacque così un Continente bipolare, cominciò un conflitto ideologico e in tutto il mondo iniziò «l’incubo dell’era nucleare».
Oggi, ha quindi detto, si commemora finalmente un’Europa «riunificata» e non, ha
tenuto a precisare, «allargata». Il 1° maggio 2005, infatti, si è festeggiato il primo anniversario del nuovo incontro con 10 nuovi paesi che erano stati «ostaggi di Jalta» e presto «saremo di più». Il 9 maggio è anche il giorno dell’Europa, oggi pertanto si
commemorano tre eventi: il 55° anniversario del progetto europeo, il 60° della fine
della seconda guerra mondiale e il 1° anniversario della riunificazione. Il Presidente ha
poi sottolineato il «dovere della memoria» per tramandarlo alla nuove generazioni «per
le quali la pace rappresenta la normalità».
Il Continente ha oggi «superato la subordinazione dell’individuo allo Stato e il disprezzo della dignità». Il nostro sistema si basa sulla separazione dei poteri, la sovranità popolare e il rispetto dei diritti umani e il messaggio che deve essere trasmesso è
che «occorre continuare a battersi per i valori della pace, della giustizia e della tolleranza, non solo in Europa ma in tutto i mondo».
La pace tra di noi, ha proseguito il Presidente, «è irreversibile» perché «non è pensabile che si ricorra alle armi» per dirimere le nostre controversie. I cittadini chiedono
all’Unione di garantire la prosperità economica e la sicurezza dalle nuove minacce che
1 Fonte: www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=PRESS&reference=TW-20050509S&format=XML&language=IT#SECTION2
poloniaeuropae 2010
309
Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...
incombono sul mondo, «che non è più quello di Jalta». Il Presidente ha quindi concluso
affermando che, ora, è necessario volgere il nostro sguardo al futuro per rispondere
alle esigenze dei cittadini.
Avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale2
Discussioni. Mercoledì 11 maggio 2005, Strasburgo
Josep Borrell Fontelles, Presidente — (SP) L’ordine del giorno reca le dichiarazioni
sull’avvenire dell’Europa sessant’anni dopo la seconda guerra mondiale. Come ricorderete, lunedì scorso, in concomitanza della Giornata dell’Europa, ho fatto una dichiarazione sulla fine della seconda guerra mondiale in Europa, la cui data cade nello
stesso mese in cui festeggiamo anche l’anniversario dell’adesione di dieci nuovi paesi,
cioè a maggio. Tenendo conto di questa triplice coincidenza, la Conferenza dei presidenti ha deciso di svolgere oggi una discussione sull’avvenire dell’Europa sessant’anni
dopo la seconda guerra mondiale, che sia qualcosa di più di una semplice commemorazione, qualcosa di più di una visione retrospettiva: una visione del nostro futuro sulla
base del ricordo del nostro passato. Per introdurre la discussione odierna sono qui presenti il Presidente in carica del Consiglio Juncker e il Presidente Barroso... (Applausi)
...che sono stati di recente a Mosca per assistere alle celebrazioni in commemorazione
della fine della guerra e che ora si uniscono a noi in questa discussione che, come vi dicevo — voglio insistere su questo punto — intende guardare al futuro e non solo ricordare il passato. Vi ringraziamo per gli sforzi che entrambi avete fatto per essere qui tra
noi. La vostra presenza arricchisce, senza dubbio, la nostra discussione. Do quindi la parola innanzi tutto a loro, come d’abitudine.
Jean-Claude Juncker, Presidente in carica del Consiglio — (FR) Signor Presidente,
signor Presidente della Commissione, onorevoli deputati, sono trascorsi sessant’anni
dalla fine della seconda guerra mondiale. Ricordare l’8 maggio 1945, data della capitolazione del Terzo Reich, è un dovere ardente e vorrei congratularmi a tale proposito
con il Parlamento europeo per non avere mancato oggi di ricordare tale data. L’obbligo
di ricordare è un dovere assoluto soprattutto, a mio giudizio, per quanti sono nati dopo
la seconda guerra mondiale, gli uomini e le donne della mia generazione. Quando ricordiamo l’8 maggio 1945, la capitolazione della democrazia tedesca nel 1933 e il terribile periodo che divide queste due date, noi giovani dobbiamo farlo con grande
ritegno, almeno rispetto alla generazione coinvolta. Quelli che, come me, sono nati
dopo la seconda guerra mondiale, nel 1954, nel 1955 e oltre, devono ricordare con ritegno perché non sono stati testimoni diretti della tragedia che si è abbattuta sul continente europeo. Noi non abbiamo visto, a differenza di coloro che ci hanno preceduti,
i campi di concentramento e le prigioni dove furono uccise, torturate e umiliate le per-
2
Fonte:
www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=CRE&reference=20050511&secondRef=ITEM
-016&format=XML&language=IT#def1#def1
310
poloniaeuropae 2010
n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
sone, fino alla loro degradazione più totale. Non abbiamo visto, come loro, i campi di
battaglia, perché non abbiamo dovuto attraversarli, con la morte nell’anima, per non
parlare molto spesso della morte fisica. Non abbiamo potuto né dovuto osservare, a
differenza di loro, i lunghi cortei di prigionieri di tutte le nazioni che attraversavano
l’Europa, costituendo di fatto un unico corteo funebre europeo. Noi che siamo nati
dopo la seconda guerra mondiale non ci siamo trovati di fronte a scelte drammatiche,
individuali o collettive. Non dovevamo dire sì o no, abbiamo potuto vivere al sole del
dopoguerra, tutte le scelte drammatiche ci sono state risparmiate.
Ricordare l’8 maggio 1945 è un atto che alimenta la memoria collettiva. È molto
importante nel momento in cui i ricordi diretti e l’esperienza vissuta della guerra o dell’immediato dopoguerra — il vissuto diretto con il bagaglio di esperienze personali e di
nobili sentimenti — si stanno trasformando in storia, con tutto ciò che comporta la storia rispetto ai ricordi in termini di distanza e di griglie di lettura sedicenti obiettive.
Oggi, i testimoni diretti di questa epoca terribile della storia continentale stanno scomparendo. Sono commoventi i veterani russi sui camion sulla Piazza Rossa, è commovente questo lungo corteo di quanti hanno fatto la guerra per loro e per noi e che, già
oggi, non possono più camminare. Del resto noi sappiamo verso che cosa si stanno dirigendo. Il dovere di ricordare è un dovere assoluto. Per gli uomini e le donne della mia
generazione, ricordare vuole dire serbare la memoria non solo con ritegno, ma anche
con molta gratitudine. Innanzi tutto, dobbiamo mostrare riconoscenza per la generazione dei nostri padri e dei nostri nonni che, di ritorno dai campi di battaglia, dai campi
di concentramento, liberati dalle prigioni, avevano tante ragioni per cedere, per non
fare nulla e piangere sul proprio destino. Invece hanno ricostruito l’Europa e hanno
fatto dell’Europa il più bel continente che ci sia. Dobbiamo essere riconoscenti dinanzi
agli straordinari risultati della generazione di coloro che hanno dovuto andare in guerra
e che hanno voluto costruire la pace! (Applausi) Ricordando e provando questo dovere
assoluto della memoria, dobbiamo anche dire la verità. L’8 maggio 1945 è stata per
l’Europa una giornata di liberazione.
(DE) L’8 maggio 1945 è stato anche un giorno di sconfitta. Con ciò intendo, tuttavia, la sconfitta del fascismo e del nazionalsocialismo, oltre alla fine della capitolazione democratica di fronte ai terribili eventi che si erano succeduti dal 1933. È stata
soprattutto, comunque, anche una giornata di liberazione per la Germania. (Applausi)
Vorrei dire ai rappresentanti eletti del popolo tedesco presenti in quest’Aula che ora i
tedeschi sono per noi vicini migliori di quanto non siano mai stati. (Applausi)
(FR) Dire la verità, l’8 maggio, il 9 maggio e il 10 maggio significa anche mostrarsi
riconoscenti nei confronti di coloro che hanno unito le loro forze e la loro energia alle
forze e all’energia europee per liberare il continente europeo. Con sessant’anni non di
ritardo ma di distanza, vorrei sottolineare quanto noi europei dobbiamo essere riconoscenti ai giovani soldati statunitensi e canadesi che hanno varcato l’oceano per venire
a liberare l’Europa, contribuendo alla liberazione di innumerevoli paesi di cui talvolta
ignoravano persino l’esistenza. Non dovremmo mai dimenticarlo. (Applausi) Penso
anche ai soldati dell’Armata Rossa. Quante perdite! Quante vite spezzate tra i russi,
che, per la libertà dell’Europa, hanno sacrificato ventisette milioni di morti! Non c’è bisogno di provare un grande amore per la profonda ed eterna Russia, che personalmente
amo molto, per riconoscere che questo Stato è degno dell’Europa. (Applausi) Vorrei
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rendere un omaggio particolare a un popolo d’Europa che ha saputo dire no mentre
altri, troppo spesso, erano tentati di dire un debole sì. Vorrei qui, oggi, rendere omaggio al popolo britannico, che ha saputo dire no e senza il cui contributo niente sarebbe
stato possibile. (Applausi) Tuttavia, la libertà ritrovata, all’inizio del mese di maggio del
1945, non fu la stessa ovunque. Noi, nella parte occidentale dell’Europa, comodamente
insediati nelle nostre vecchie democrazie, dopo la seconda guerra mondiale abbiamo
potuto vivere nella libertà, in una libertà ritrovata di cui conosciamo bene il prezzo. Per
cinquant’anni coloro che vivevano nell’Europa centrale e orientale, invece, non hanno
conosciuto la libertà che abbiamo vissuto noi. (Applausi) Erano soggetti a una legge
estranea. Gli Stati baltici, dei quali vorrei salutare l’ingresso in Europa e ai quali vorrei dire quanto siamo fieri di averli con noi, sono stati incorporati con la forza in
un’unione di cui non facevano parte. Erano soggetti non alla pax libertatis, ma alla pax
sovietika che non apparteneva loro. Questi popoli e queste nazioni, che sono passati di
disgrazia in disgrazia, hanno sofferto più di tutti gli altri europei. (Applausi) Gli altri
paesi dell’Europa centrale e orientale non hanno conosciuto questa straordinaria capacità di autodeterminazione che abbiamo potuto sperimentare nella nostra parte d’Europa. Non erano liberi. Hanno dovuto vivere sotto il regime di principio che fu loro
imposto. Con immensa tristezza nel cuore ricordo tutte le parole negative pronunciate
oggi riguardo all’allargamento. Oggi, tuttavia, che la seconda guerra mondiale si è finalmente conclusa, io dico: viva l’allargamento! (Applausi)
Questa Europa del dopoguerra che, senza la guerra, non sarebbe mai potuta diventare l’Europa di oggi, questa Europa, nata dalle ceneri del conflitto, non avrebbe mai
visto la luce senza i cosiddetti padri fondatori dell’Europa — persone come Schuman,
Bech, Adenauer, de Gasperi e altri — che, per la prima volta nella storia del continente,
hanno trasformato la frase “mai più la guerra” in una speranza, in una preghiera e in un
programma. Dobbiamo ricordare oggi con emozione e con gratitudine coloro che hanno
avuto il coraggio di dire sì dopo aver detto no. Non avrebbero potuto agire così se non si
fossero sentiti spinti dai nobili e profondi sentimenti dei loro popoli. Non è possibile compiere grandi imprese contro la volontà del popolo. Se abbiamo potuto costruire l’Europa
così com’è ora, dopo la seconda guerra mondiale, il motivo è che i popoli europei non volevano rivivere mai più la tragedia che il continente europeo aveva vissuto, per due volte,
durante il XX secolo. Vi sono i padri fondatori dell’Europa che sono famosi; vi sono i popoli che sono andati avanti nell’ombra e che condividevano questi nobili sentimenti e poi
vi sono i filosofi, i pensatori, i politici che, troppo spesso, non ricordiamo: Léon Blum, che
ha sognato l’Europa in una prigione francese; il grande Spinelli, incarcerato su un’isola in
Italia dai fascisti italiani; altri che non hanno un nome, ma ai quali dobbiamo molto. Vorrei rendere omaggio a coloro che, dimenticati o nell’anonimato, hanno reso possibile
tutto ciò che è stato realizzato dopo la seconda guerra mondiale. (Applausi)
In Europa c’era dunque la parte libera e la parte rimasta paralizzata da questo funesto decreto della storia, l’accordo di Jalta, che intendeva dividere l’Europa per sempre in due. Tra queste due parti, che molto spesso si guardavano in cagnesco, siamo stati
troppo spesso incapaci di costruire ponti. La guerra fredda — così si chiamava eufemisticamente questo altro periodo tragico della storia europea — ha paralizzato le migliori energie dell’Europa e ha impedito ai migliori talenti d’Europa di esprimere tutto
ciò che avevano di buono da esprimere se ne avessero avuto la possibilità.
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
Personalmente, sono nato nel dicembre 1954, ma preferisco dire che sono nato
nel 1955. Sono cresciuto innanzitutto nel rispetto delle conquiste della generazione di
mio padre, se mi consentite questa digressione, che ha conosciuto una sorte doppiamente terribile, perché i lussemburghesi nati tra il 1920 e il 1927 furono arruolati a
forza nella Wehrmacht e costretti a portare un’uniforme che non era la loro, al servizio di ambizioni che non erano le loro. È una sorte terribile dover portare l’uniforme del
proprio nemico. La stessa osservazione vale per gli abitanti dell’Alsazia e della Lorena,
ai quali rendo omaggio. Sono cresciuto nell’atmosfera della guerra fredda, in cui il
mondo, così sembrava, era più facile da capire. C’erano quelli che erano con noi e
quelli che erano contro noi. Non sapevamo perché simpatizzavamo per quelli che stavano dalla nostra parte, ma sapevamo di dover odiare gli altri. Si sapeva che la minaccia veniva da oltrecortina e chi stava dall’altro parte pensava che la minaccia provenisse
da noi. Quante occasioni perdute! Quanto tempo perso in Europa per queste stupide
analisi nell’immediato dopoguerra. Rallegriamoci, oggi, di non doverci più riferire alla
logica implacabile della guerra fredda e di poter mettere pace tra le due parti dell’Europa. (Applausi)
Penso spesso agli uomini saggi dell’Europa — probabilmente perché io non lo sono
— ad esempio a Churchill. Nel 1947, quando il primo congresso del movimento europeo
si riunì a L’Aia, dando origine all’idea di creare il Consiglio d’Europa, di fronte al rifiuto
dell’Unione Sovietica di lasciar partecipare gli altri paesi dell’Europa centrale e orientale sia al piano Marshall che alla creazione del Consiglio d’Europa, il grande Churchill
dichiarò con quel dono profetico che gli era proprio: «Cominciamo oggi a ovest quello
che un giorno completeremo a est». Onorevoli deputati, dobbiamo essere orgogliosi di
essere giunti a questa meta. (Applausi) Ricordo alcune parole di Victor Hugo che, nel
1849, scriveva: «Giorno verrà in cui non vi saranno altri campi di battaglia all’infuori dei
mercati aperti al commercio e degli spiriti aperti alle idee. Giorno verrà in cui i proiettili
e le bombe saranno sostituiti dai voti». Dobbiamo essere fieri di aver raggiunto oggi
questo obiettivo. Dobbiamo sentirci orgogliosi di poterlo dire al Parlamento europeo, costituito dai rappresentanti eletti dei popoli d’Europa, eredi di coloro che hanno saputo
dire no quando era necessario, eredi di coloro che hanno saputo dire sì quando era
l’unica opzione che restava. Dobbiamo essere riconoscenti nei confronti di coloro che
hanno detto no quando bisognava dire no e di tutti coloro che, oggi, dicono sì alla
grande Europa, all’Europa che ha visto riconciliarsi la sua storia e la sua geografia. Dobbiamo essere orgogliosi di coloro che non vogliono che l’Europa si trasformi in una zona
di libero scambio e di coloro che, come noi, come milioni di altri, ritengono che l’Europa sia un continente complesso, che merita qualcosa di meglio di una zona di libero
scambio. Dobbiamo essere fieri dell’Europa che hanno costruito coloro che ci hanno
preceduti e abbiamo il dovere di comportarci come degni eredi. (L’Assemblea, in piedi,
applaude lungamente)
José Manuel Barroso, Presidente della Commissione — (PT) Signor Presidente, signor Presidente in carica del Consiglio, onorevoli deputati, cari amici, è un grande onore
per me rappresentare la Commissione in questa cerimonia nel Parlamento che rappresenta gli europei. Oggi guardiamo sia al passato che al futuro. Siamo qui per ricordare,
per riconoscere e per costruire. Guardiamo in primo luogo al passato. Il più grande conflitto mondiale è stato fonte di sentimenti contraddittori per tutti coloro che soprav-
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vissero. Fonte di sollievo per molti, fonte di vuoto, senza dubbio, spesso fonte di paura
del futuro, il timore che il dopoguerra non fosse migliore, ma persino peggiore del passato. Perciò ricordiamo. Ricordiamo l’entità della distruzione che ha devastato in particolare l’Europa. Quasi nessun paese ne è uscito illeso. Quella che alcuni hanno definito
la «guerra civile europea» ha testimoniato la disumanità di cui può dare prova l’uomo
nei confronti dell’uomo. Noi europei, che spesso ci sentiamo orgogliosi dei grandi risultati della nostra civiltà e della nostra cultura, delle grandi opere dello spirito europeo, dobbiamo ammettere umilmente che alcuni degli orrori peggiori mai perpetrati
dall’umanità sono avvenuti nell’Europa nel XX secolo.
(EN) Dovremmo comunque ricordare anche le grandi storie di trionfo sulle avversità, i viaggi personali che tanti europei hanno compiuto per trovare una vita migliore,
attraversando mari e montagne per realizzare il loro obiettivo di un’esistenza felice e
pacifica. Alcuni lo hanno raggiunto semplicemente ritornando a casa. Ricordiamo coloro
che non hanno avuto questa opportunità, per i quali la luce della libertà si è spenta subito dopo averla intravista, per i quali un incubo fu sostituito da un altro incubo. Riconosciamo che qualcosa di straordinario è emerso dalle rovine dell’Europa nel 1945.
Vorrei citarvi uno dei visionari di quel tempo, che in un discorso pronunciato a Zurigo
nel 1946 disse: «Sto per dirvi qualcosa che vi stupirà. Il primo passo nella ricostruzione
della famiglia europea deve essere un’intesa tra la Francia e la Germania. Solo così la
Francia può recuperare la guida morale e culturale dell’Europa. Non vi può essere una
ripresa dell’Europa senza [...] una Germania grande spiritualmente». Churchill aveva ragione. È facile ora dimenticare il coraggio che richiedeva allora pronunciare quelle parole. Quello che disse era stupefacente. Ancor più stupefacente furono gli atti che
hanno trasformato quelle parole in realtà. Dovremmo ricordare la determinazione straordinaria mostrata da Robert Schuman, Jean Monnet, Konrad Adenauer, Alcide de Gasperi e altri e ciò che hanno realizzato, ricostruendo invece di barricarsi nelle
rappresaglie. Dovremmo anche ricordare e riconoscere la visione dei leader transatlantici che contribuirono a sostenere il carico della ricostruzione invece di voltarci le
spalle. Prima di lasciarci trasportare troppo, facciamo una pausa, perché l’impresa avviata dai padri fondatori era straordinaria, ma incompleta. Come ha detto la Commissione nella sua dichiarazione del 9 maggio: per milioni di persone, la vera libertà doveva
giungere solamente con la caduta del muro di Berlino, non con la fine della seconda
guerra mondiale. Dopo il 1945 questi popoli persero le loro libertà e opportunità quasi
subito dopo averle riguadagnate. In alcuni casi persero il controllo politico dei loro
paesi; in altri, persero la loro indipendenza. Per molte persone in Europa la fine della
guerra significò pace e libertà, ma per alcuni significò solamente pace, non ancora libertà. Non dobbiamo dimenticare che cos’era l’Europa. Sessant’anni fa qui, in questo
continente, abbiamo vissuto l’Olocausto. Circa 30 anni fa molti paesi nell’Europa meridionale, compreso il mio, vivevano ancora sotto dittature. Fino a circa 15 anni fa metà
dell’Europa non godeva di libertà e democrazia. Per questo ho difficoltà a capire come
possiamo non essere ottimisti sul futuro dell’Europa osservando i progressi compiuti rispetto alla situazione esistente solo alcuni anni fa. (Applausi) Comunque, per fortuna,
la storia non è finita lì. I leader europei degli anni ‘40 e ‘50 hanno costruito una luce e
un magnete: una luce attraverso anni oscuri per coloro che non avevano nessuna prospettiva della pace, prosperità e stabilità, di cui altri europei godevano, e una straor-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
dinaria e potente forza di attrazione per quei popoli e paesi che si stavano liberando e
vedevano la Comunità europea — come veniva chiamata allora — come un catalizzatore
per la trasformazione dei loro paesi.
Per la mia generazione, l’Europa è sempre stata sinonimo di democrazia. A 18 anni,
insieme ad altri, ero deciso a liberare il mio paese da un regime repressivo, autoritario, retrivo. Per questo motivo io e molte persone della mia generazione ammiriamo
particolarmente gli sforzi straordinari dei popoli della Repubblica ceca, dell’Estonia,
dell’Ungheria, della Lettonia, della Lituania, della Polonia, della Slovacchia, della Slovenia, della Romania e della Bulgaria nella lotta per la democrazia e il fatto che essi
collegano l’idea stessa dell’Europa a quella di democrazia. Dovrebbe essere ed è con
enorme orgoglio che l’Unione europea e le sue Istituzioni accolgono quei nuovi Stati
membri e quei popoli, insieme a quelli di Malta e Cipro. Questa trasformazione è quindi
degna di riconoscimento e di commemorazione. Perché? Perché a volte sembra quasi dimenticata. Oggi è troppo facile dare per scontate le solide fondamenta della nuova Europa in cui viviamo, un’Europa di libertà e di valori condivisi.
(FR) Per questo bisogna affermare che l’Unione europea non può essere vittima del
proprio successo. L’integrazione di una tale varietà di Stati membri, uniti da un progetto
comune, è un risultato davvero straordinario. È una sfida straordinaria quella che tutti
stiamo affrontando. Sono convinto che l’attuazione di questo formidabile progetto, che
riguarderà presto 27 paesi e 500 milioni di persone, proseguirà malgrado le turbolenze che
non mancheranno di sopraggiungere di tanto in tanto. Questa attuazione, tuttavia, avviene talvolta così pacificamente che corriamo il pericolo di dimenticarne gli antefatti. I
racconti dei conflitti sanguinosi che hanno devastato l’Europa sembrano essere oramai
confinati ai libri di storia. Tuttavia, erano ancora sulle prime pagine dei giornali dieci anni
fa, quando avvenivano massacri in certi paesi dei Balcani. Nel nostro continente possiamo
dire: mai più! È facile dirlo, ma la storia dell’Europa dimostra che dobbiamo lavorare per
la pace e non darla per scontata. Questa prospettiva non è probabilmente molto allegra,
perché oggi in Europa esistono problemi e timori. A Berlino, nel grande edificio che un
tempo ospitava quello che la RDT chiamava il suo parlamento, si trova iscritta la parola
Zweifel, che significa “dubbi”. Vi sono dubbi e timori, soprattutto tra i giovani. Le loro
ansie sono serie: il timore di trovare o meno un lavoro, l’apprensione di fronte a un mondo
più competitivo, percepito talvolta come una sfida. Tuttavia le paure riguardano il fatto
di trovare un impiego, non di trovare o meno il proprio paese. Attualmente è opportuno
trovare un modo efficace per risolvere le difficoltà, reali o percepite come tali, legate
all’integrazione dei mercati. Non si tratta di conflitti armati tra concorrenti che diventano avversari o nemici. Per tale ragione, per far fronte a questi timori, dobbiamo seguire
l’esempio delle generazioni che ci hanno preceduti; dobbiamo dare prova della stessa
immaginazione e dello stesso coraggio. Ricordiamoci che l’ambizioso partenariato che
abbiamo concluso in Europa è stato all’origine delle rivoluzioni pacifiche che hanno portato la libertà e la democrazia a milioni di europei! L’esempio dell’Europa — l’Europa dei
Sei, dei Dieci, dei Dodici, dei Quindici e ora dei Venticinque — è stato la vera forza motrice della democratizzazione nell’Europa del sud, nell’America latina e, in seguito, nell’Europa centrale e orientale. Ricordiamoci che la libertà è la forza motrice che stimola
la crescita, l’occupazione, gli investimenti e che offre a un maggior numero di europei la
possibilità di una vita migliore.
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La vitalità della democrazia e la modernità delle nostre società testimoniano la nostra capacità di reinventare il nostro continente. Dal mercato interno alle frontiere
esterne, dalla promozione della coesione interna alla difesa dello sviluppo sostenibile
e dell’ambiente, dalla dimensione della solidarietà a quella della giustizia ai quattro angoli del globo — perché non vogliamo un’Europa chiusa su se stessa — l’Unione europea
costruisce continuamente l’Europa. Lo fa per tappe concrete che migliorano la vita
quotidiana dei suoi cittadini. La ratifica della Costituzione consoliderà queste realizzazioni e getterà le basi per progressi ancora più significativi in futuro. Oggi, dunque,
ricordiamo questa terribile guerra e le sue conseguenze. Nel nostro lavoro imperniato
sull’avvenire, lasciamoci ispirare dall’ambizione visionaria e dalla determinazione dei
leader e dei cittadini che ci hanno preceduti, portandoci dalla riconciliazione alla cooperazione e dalla cooperazione all’Unione europea! (Applausi)
Hans-Gert Poettering, a nome del gruppo PPE-DE — (DE) Signor Presidente, signor
Presidente in carica del Consiglio europeo, signor Presidente della Commissione, onorevoli colleghi, nel 1945, sessant’anni fa, l’Europa era un campo di battaglia in rovina.
Una guerra barbara aveva preteso le vite di oltre 55 milioni di persone, altri milioni —
un numero incalcolabile — furono sradicati, milioni furono gli sfollati e le persone costrette a lasciare le loro case; genitori persero figli, mogli persero mariti, figli persero
padri. Alla fine di marzo 1945, mio padre, un soldato dell’esercito, scomparve. Solo
molto tempo dopo abbiamo saputo che era fra i caduti. Io non l’ho mai visto. Nel 1945,
molte delle città d’Europa erano distrutte; l’economia era in rovina. Nel mondo, il
nome dell’Europa evocava paura e terrore. Di chi fosse la responsabilità per lo scoppio
della seconda guerra mondiale non è oggetto di dubbio: il regime illegale nazionalsocialista in Germania trasformò le sue manie razziali e la sua sete di potere in un inferno
di aggressione contro tutti gli altri popoli d’Europa. Il tentato sterminio degli ebrei era
destinato a essere il peggiore dei suoi crimini. Il totalitarismo nazionalsocialista portò
alla rovina l’intera Europa. Quando giunse la fine nel 1945, lo stesso popolo tedesco era
fra le sue vittime, in un momento in cui i vincitori erano ben pochi. Piuttosto che vincitori, c’erano superstiti, alcuni fortunati, altri no; i primi in Occidente, i secondi nell’Europa centrale e orientale. Il lungimirante appoggio americano rese possibile la
rinascita nella parte occidentale del continente, che poteva godere della libertà, del
rispetto per la dignità umana, della democrazia e di un’economia di mercato fondata
sul diritto. È stato Winston Churchill, come ci è stato ricordato poco fa, a delineare la
visione degli Stati Uniti d’Europa — e consentitemi di aggiungere che l’Europa non
avrebbe mai potuto considerarsi completa senza la Gran Bretagna. Dopo il 1945, a cominciare dalla costa atlantica, l’Europa fu resuscitata; i suoi popoli, esausti ma felici
di poter ricominciare in libertà, si ravvicinarono. Robert Schuman sarà sempre ricordato
e celebrato per essersi rivolto ai tedeschi e averli invitati a unirsi a questo nuovo inizio. Senza la magnanimità francese, l’Europa sarebbe rimasta di nuovo nulla più di
un’idea inconsistente — e consentitemi di aggiungere che, ora che l’Unione europea
sta vivendo un altro nuovo inizio con un’unica Costituzione, l’Europa avrà bisogno anche
in futuro, più che mai, di una partecipazione costruttiva da parte della Francia. (Applausi)
Nel 1945 anche i popoli dell’Europa centrale, orientale e sudorientale erano pieni
della speranza di un nuovo inizio, di avere, come quelli che appartenevano alla stessa
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
cultura europea che noi tutti condividiamo, una nuova opportunità di vita nella libertà
e nella pace. Hanno dovuto imparare dall’amara esperienza che la pace senza la libertà
equivale a una liberazione solo parziale dal giogo dell’ingiustizia totalitaria. Le loro
speranze furono schiacciate dalla presa di potere sovietica. Anche se il totalitarismo nazionalsocialista era stato sconfitto nel 1945, il totalitarismo stalinista divise l’Europa e
impose il proprio dominio ingiusto ai popoli dell’Europa centrale, orientale e sudorientale. La speranza, tuttavia, non abbandonò i superstiti meno fortunati della seconda
guerra mondiale — la speranza di un’Europa condivisa, intellettualmente, moralmente
e politicamente rinnovata, con la prospettiva della prosperità per tutti i suoi cittadini.
A questa speranza hanno infine dato forma in una rivoluzione pacifica, la cui parola
d’ordine era Solidarność. Ci sono voluti decenni per abbattere il muro. (Applausi) Essendo un deputato al Parlamento europeo sin dalle prime elezioni dirette nel 1979,
considero la discussione odierna — una discussione che stiamo svolgendo insieme con la
dignità e la solennità che merita — un momento di esultanza per l’Europa ora unita, un
momento per rallegrarci anche della presenza fra noi di deputati provenienti da otto
paesi dell’Europa centrale, che godono degli stessi diritti di cui godiamo noi. (Applausi)
Fu nel 1989 che l’Europa si liberò dal duplice peso del totalitarismo. Il 1989 ci ha
insegnato il potere che hanno per tutti noi i valori dell’Europa e quanto contiamo sull’esempio di uomini e donne coraggiosi, se vogliamo mantenere la nostra libertà. Dopo
il 1989, l’Europa ha potuto ricominciare a respirare con entrambi i polmoni, per citare
le parole usate dal grande Papa di immortale memoria, Giovanni Paolo II. (Applausi) I
popoli dell’Europa occidentale avevano compiuto un lavoro prezioso, indispensabile, in
preparazione di quel giorno e ciò che hanno fatto perdurerà. La creazione dell’Unione
europea con valori comuni incentrati sulla dignità umana, l’unione soprannazionale in
una comunità libera con le proprie leggi vincolanti, è stata la risposta conseguente all’opportunità presentata dalla fine della guerra. L’unificazione europea è un progetto
di pace e di libertà. Tutti gli europei hanno ora l’opportunità e il dovere di percorrere
la strada presentata da un’Europa riunita. Ora siamo impegnati, insieme, a costruire
un’Europa che difende i suoi valori nell’interesse di tutti i cittadini. L’Europa ora può
dare una sola risposta alla guerra e al totalitarismo, procedendo lungo la strada dell’Unione europea di popoli e di Stati, con perseveranza, con convinzione interiore e
con un’accettazione della diversità che è la forza e lo splendore dell’Europa. Il dibattito in corso sulla Costituzione europea è una grande opportunità per ricordare a noi
stessi queste cose fondamentali, perché, per la prima volta nella storia europea, i nostri valori e i nostri ideali sono sanciti in una Costituzione. L’Europa non è soltanto una
costruzione politica, ma uno spazio vitale intellettuale. Per questa ragione la risposta
al terribile conflitto, la cui fine oggi commemoriamo con gratitudine, doveva essere di
tipo morale, “mai più” alla mancanza di libertà che conduce alla guerra, “mai più” alla
guerra che sottrae agli uomini la loro libertà. Questo riassume la motivazione dietro alla
costruzione di una nuova Europa, un’Europa che ripudia il totalitarismo, l’arroganza
nazionalista e la disumanità egualitaria, un’Europa che rifiuta qualsiasi aspirazione egemonica dei suoi singoli Stati, un’Europa che afferma la dignità inconfondibile di ogni singolo essere umano, il bilanciamento degli interessi tra gruppi sociali e popoli, un’Europa
del rispetto e della diversità origine della sua forza, un’Europa della democrazia e del
diritto.
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Si sono compiuti grandi progressi in termini di riconciliazione interna, tra i popoli
e gli Stati d’Europa. Vogliamo — e dobbiamo — completare questo lavoro di riconciliazione interna e desideriamo anche riconciliarci con il popolo della Russia e con i popoli
della Federazione russa. Nel periodo della nostra storia che sta ora cominciando, l’Europa dovrà tuttavia perseguire la riconciliazione nel mondo e con il mondo attorno a noi
più di quanto abbia mai fatto prima. Le guerre dell’Europa divennero guerre mondiali.
L’unificazione dell’Europa deve andare a beneficio del mondo. Possiamo essere grati ai
deputati al Parlamento europeo — e desidero ringraziare in particolare l’onorevole collega Elmar Brok — che hanno elaborato una risoluzione che domani esprimerà i nostri
valori. In questo momento, ricordiamo tutte le vittime della seconda guerra mondiale
e tutta la sofferenza e la distruzione. Ricordiamo che la pace e la libertà sono strettamente legate e che il nostro lavoro deve essere al servizio dell’umanità, non ultimo nel
promuovere il dialogo tra le culture. Dove questo dialogo con il mondo sarà fruttuoso,
difenderemo i valori che ci sostengono lungo il nostro cammino verso il futuro. In tal
modo questo giorno dedicato al ricordo può darci una nuova missione, invitandoci a lavorare insieme per costruire un mondo migliore — un mondo più pacificato e più libero.
(Vivi applausi)
Martin Schulz, a nome del gruppo PSE — (DE) Signor Presidente, onorevoli colleghi, pensando all’8 maggio 1945 e ricordando ciò che accadde quel giorno, pensiamo al
periodo che l’ha preceduto e anche al periodo che seguì. È impossibile per qualsiasi
deputato tedesco al Parlamento europeo pensare a quella data senza ricordare la propria nazionalità. Il gruppo a nome del quale parlo comprende deputati provenienti dalla
Germania, che rappresentano il paese che ha voluto questa guerra, che l’ha preparata,
l’ha intrapresa ed è stato spietato nell’organizzarla. Tuttavia, parlo anche a nome di deputati provenienti dalla Polonia, il paese che per primo è stato invaso dall’esercito tedesco, nonché di deputati provenienti dai paesi che furono i primi fra gli Alleati — il
Regno Unito e la Francia — senza le cui forze combinate Hitler non avrebbe potuto essere sconfitto. Vicino a me siede Poul Nyrup Rasmussen, per molti anni Primo Ministro
della Danimarca, un paese che la Germania di Hitler invase e occupò dall’oggi al domani
— uno dei soldati occupanti era mio padre. Parlo anche a nome di deputati provenienti
da paesi che hanno sofferto sotto la dittatura per molto tempo dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il mio gruppo comprende un avvocato che difese le vittime del
regime di Franco e un altro deputato che ne fu vittima, essendo stato torturato nelle
prigioni sotterranee della polizia segreta. Alcuni dei miei colleghi del gruppo vengono
dal Portogallo e dalla Grecia, uomini e donne che — come lei, signor Presidente della
Commissione — nei loro anni giovanili esultarono nel vedere i dittatori espulsi dai propri paesi. Il mio gruppo comprende il mio amico Józef Pinior, che sarà il prossimo oratore a intervenire per il gruppo, torturato nelle prigioni comuniste perché sindacalista
e socialdemocratico. Per me è un privilegio poter parlare a nome di tutte queste persone, un privilegio che devo all’Unione europea. È qualcosa di cui tutti possiamo essere
grati agli uomini e alle donne che hanno dovuto assumersi la responsabilità, dopo l’8
maggio 1945, per il lavoro di unificazione che hanno realizzato. Come ha detto il Presidente in carica del Consiglio, quel giorno, l’8 maggio 1945, c’era una lezione da imparare e ne abbiamo tratto i giusti insegnamenti. La storia dell’Unione europea, la
storia dell’Europa dopo l’8 maggio 1945, è una storia di successo. È la storia della ferma
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
determinazione emersa dalle rovine, la storia di un “mai più!” Questo “mai più!” non
è rimasto inascoltato. Ha preso forma, le forme del lavoro che svolgiamo oggi, di cui beneficiamo attualmente, le forme che mi consentono di rappresentare deputati di religione ebraica, che rendono possibile la presenza nel mio gruppo di deputati musulmani,
di deputati che hanno sofferto e che hanno imparato da coloro che hanno sofferto. In
tal modo possiamo trovare un terreno comune affermando un’unica convinzione: la lezione dell’8 maggio deve essere che, perché questo “mai più!” sia permanente, dobbiamo lottare per affermarlo ogni giorno. Per la nostra democrazia, per la nostra
Europa, la nostra lotta continua giorno dopo giorno. Ricordiamo oggi le cause, il periodo
precedente, segnato da un’unica idea. È un caso unico nella storia della razza umana
che uno Stato si caratterizzi e definisca il suo scopo in termini di sterminio di altri popoli e razze. Né prima né dopo è mai esistito uno Stato che giustificasse la propria esistenza per sterminare gli ebrei, gli slavi, i rom, i sinti e gli handicappati. Si tratta di un
caso unico nella storia della razza umana. Questo è l’aspetto straordinario del Terzo
Reich; i nazisti volevano che non rimanesse traccia degli ebrei d’Europa.
Qualche settimana fa ero a Yad Vashem, il luogo della memoria a Gerusalemme.
Sono sceso nei corridoi e nelle sale sotterranei in cui sono illustrate le sorti dei milioni
di vittime. Il direttore di Yad Vashem, che mi guidava, mi disse: «Ogni giorno discendo
in questo inferno e le vedo — le fotografie, solo quelle. È un inferno». Poi risalii le scale
e attraverso un corridoio giunsi al nuovo museo, che ha un’ampia vetrata e là, alla luce
del sole, si può vedere la città di Gerusalemme. «Ogni giorno — disse il direttore di Yad
Vashem — quando esco da quell’inferno e vedo questo panorama, so che non ci sono riusciti. Noi siamo vivi. Noi ce l’abbiamo fatta; i nazisti no». Ogni ricordo, ogni giorno dedicato alla memoria, ogni nome che leggiamo, è una vittoria sui criminali che volevano
che non rimanesse nulla. Se noi li ricordiamo, il popolo ebreo rimane, come i rom e i
sinti, come coloro che furono assassinati per ragioni politiche o perché disabili. Rimangono nel nostro ricordo e così sopravvivono. (Applausi) Tante vittime, tanti nomi!
Anna Frank era una ragazza ebrea, il cui unico crimine era quello di essere una ragazza
ebrea ad Amsterdam. In questo giorno, ricordiamo Anna Frank. Sophie Scholl era una
giovane studentessa tedesca, il cui unico crimine era quello di essere una persona retta,
e che fu decapitata all’età di 18 anni per aver distribuito volantini che denunciavano il
regime nazista. Penso anche a Krzysztof Baczynski, un giovane poeta polacco, ucciso a
Varsavia da un tiratore tedesco. Tre nomi su 55 milioni di vittime! Tre nomi, menzionati
per rappresentare tutte le altre vittime. Lo ripeto: tre nomi che ricordiamo e che rappresentano tutti quelli che dovremmo ricordare.
Nelle scorse settimane, abbiamo spesso posto la questione dell’utilità di questa nostra Unione europea e ci è stato domandato quale ne sia lo scopo. La risposta è nei nostri discorsi di oggi. Il proseguimento fino a oggi di questo lavoro di unificazione, che
sta ancora superando divisioni, che rifiuta ancora il razzismo, che esclude ancora dalla
comunità democratica tutti gli antisemiti, i razzisti e i nazisti, che ancora disprezza
questi criminali, che ne enumera ancora i crimini e che ancora li ricorda — questa è la
base, il fondamento morale e intellettuale della nostra Unione europea, l’Unione costruita dai nostri padri e dai padri dei nostri padri. Nel frattempo, l’Europa ha un’eredità; l’Unione europea non è più una novità. Ora ha 60 anni, essendo nata, in teoria,
l’8 maggio 1945. Adesso, abbiamo un patrimonio da gestire, se vogliamo lasciarlo ai no-
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Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...
stri eredi. Se ci interessa questo patrimonio, sapendo di avere il dovere di ricordare che
il Terzo Reich rappresentò l’abisso morale della razza umana, dal quale abbiamo tratto
le giuste conclusioni creando questa Unione, allora noi politici europei consentiremo ai
giovani uomini e donne che siedono nelle tribune di quest’Aula di avere un più brillante
futuro a cui guardare rispetto ai loro padri e ai loro avi in passato. (Prolungati applausi)
Graham Watson, a nome del gruppo ALDE — (EN) Signor Presidente, il poeta britannico John Donne osservò: «Nessun uomo è un’isola, intero per se stesso; ogni uomo
è un pezzo del continente, parte della terra intera. E se una sola zolla vien portata via
dall’onda del mare, qualcosa all’Europa viene a mancare». Questo scritto risale al 1624,
ma per oltre 300 anni popoli e Stati hanno continuato a guerreggiare in tutto il nostro
continente. Il tribalismo e l’odio sono il nefasto retaggio dell’Europa. Se non l’avessimo imparato prima, la “guerra per mettere fine a tutte le guerre” avrebbe dovuto mostrarci la futilità e il trauma della guerra organizzata. Il nostro risveglio da quell’incubo
ha condotto alla Lega delle Nazioni, ma abbiamo continuato a distillare i frutti del progresso scientifico per creare armi di distruzione di massa. Quando finì la seconda guerra
mondiale in Europa, l’8 maggio 1945, avevano perso la vita oltre 40 milioni di persone.
Un cinico direbbe che gli europei del XX secolo sono stati lenti a imparare la lezione.
Ci sono volute due guerre sanguinose e un continente in rovina per insegnarci che un’Europa unita vale più della somma delle sue parti. Anche allora, non tutti siamo stati in
grado di realizzare le nostre aspirazioni di pace e libertà. Mentre per la maggior parte
degli europei il maggio 1945 segnò la liberazione dei loro paesi dalla tirannia nazista e
l’inizio di un nuovo cammino verso la libertà e la ricostruzione, per coloro che si trovarono sul lato sbagliato della Cortina di ferro, una tirannia fu sostituita rapidamente
da un’altra. Ad altre due generazioni fu negata la libertà di cui ora godiamo. Come studente all’Università Karl Marx di Lipsia nel 1976, ne sono stato testimone diretto. Le nostre prospettive storiche sono inevitabilmente diverse. Questa però deve essere una
discussione sul futuro, non sul passato.
Rallegriamoci del fatto che l’Europa è unita nella pace e che possiamo sedere insieme nella stessa Aula parlamentare con un insieme di Istituzioni soprannazionali comuni di governo che decidono sulle questioni di reciproco interesse. È stata
l’imprescindibile necessità di interdipendenza che ha portato alla creazione dell’Unione
europea e che ha visto crollare infine il blocco sovietico. Abbiamo cominciato con il
carbone e l’acciaio, gli elementi basilari dell’Europa del dopoguerra; abbiamo costruito
il mercato comune, la base di una prosperità insperata dai miei genitori; abbiamo realizzato la moneta unica per 300 milioni di europei all’alba di questo nuovo secolo. Celebrando il sessantesimo anniversario di una pace durevole, vediamo che l’Europa ha
fatto molta strada, con passi graduali per costruire la solidarietà tra i nostri popoli.
Non c’è dubbio che l’Unione europea sia un successo: liberté, egalité, fraternité sono
diventate parte del nostro comune tessuto legislativo e sociale. Non esiste, tuttavia, alcuna garanzia che sarà sempre così, e ora ci troviamo a un bivio, rappresentato dal
Trattato costituzionale. Saremo in grado di procedere e di consolidare questa era senza
precedenti di pace, stabilità e prosperità oppure tutto questo si dissolverà davanti ai
nostri occhi, sostituito da una nuova rivalità nazionale e da una politica del rischio calcolato? Un giornalista del Financial Time ci ha ricordato la settimana scorsa quanto è
sottile la vernice di civiltà, quanto è debole la voce della coscienza umana quando è
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
tentata di allontanarsi dal principio della legalità e dal rispetto per i nostri simili. Questa è la sfida che si pone agli Stati membri nel momento in cui sono chiamati a ratificare la Costituzione. Un’Europa pacifica e prospera è sempre stata basata sulla
premessa che la forza sta nella convergenza e nei mandati condivisi. La cooperazione
è cresciuta, a partire dal commercio sino ad abbracciare la politica sociale, l’occupazione, l’immigrazione, la giustizia, la polizia e la politica estera. Le rivoluzioni nell’Europa centrale e orientale hanno tolto dalle nostre spalle il giogo di Jalta, ma ora
dobbiamo affrontare nuove sfide. Ad esempio, la sfida di dare cibo, vestiti e case a una
popolazione mondiale in crescita, mentre un numero crescente di persone è spinto alla
migrazione dalla guerra, dalla fame o dalla vera e propria disperazione. La sfida di affrontare il problema del buco nello strato di ozono, dello scioglimento delle calotte di
ghiaccio, dell’innalzamento dei livelli marini e dei mutamenti climatici. O la minaccia
della criminalità organizzata internazionale, in cui alcune bande criminali sono più potenti di certi governi nazionali, causano sofferenze a molti con il traffico di droga e di
armi di piccolo calibro e con la tratta di esseri umani e collaborano con il terrorismo.
Nessuna di queste sfide può essere affrontata dai nostri paesi individualmente. Per offrire la sicurezza, la prosperità e le opportunità che i cittadini europei si aspettano dal
governo, dobbiamo lavorare insieme. Dobbiamo collaborare anche con gli Stati Uniti e
il Canada, ai cui popoli dobbiamo tanto e di cui condividiamo in linea di massima i valori, non solo per affrontare con loro le sfide comuni, ma per farli sentire più sicuri con
un’Europa nuova e più potente.
L’Europa ha il potenziale per essere un faro di speranza, un modello di tolleranza,
diversità e stabilità in un mondo in cui questi attributi sono ancora rari. Possiamo insistere su una carta dei diritti oppure possiamo vedere erosi i nostri diritti. Possiamo ratificare la Costituzione europea e accordare fiducia alla democrazia e a un governo
responsabile oppure possiamo continuare a lasciare un potere eccessivo nelle mani di
persone non elette. Possiamo tendere una mano amichevole ai diseredati o compiacerci in un rifugio illusorio di prosperità. Possiamo accogliere la Romania, la Bulgaria,
la Turchia e i Balcani occidentali e accettare che l’Europa sia pluralistica ed eterogenea oppure possiamo continuare a trattarci reciprocamente con ostilità e sospetto. La
convergenza non è solo un ideale, è una necessità economica e politica. È ora di superare gli interessi nazionali orientandoci verso una maggiore convergenza. La cooperazione è la via da seguire, che ci consentirà di affrontare insieme le sfide globali.
L’Europa ha un ruolo di guida da svolgere nell’era della governance globale. È una forza
stabilizzante e un punto di riferimento per altri paesi e popoli. Il commercio e la cooperazione possono portare ad altri i frutti che hanno portato a noi e per tale ragione il
mio gruppo è favorevole a maggiori contatti con la Russia e la Repubblica popolare cinese. La storia dovrebbe insegnarci a non diventare uno strumento di sostegno ai regimi
autoritari. I Liberali e i Democratici vedono con preoccupazione la direzione presa da
alcune politiche del Consiglio: battere gli americani in una sorta di asta olandese al ribasso degli standard in materia di diritti umani sarebbe un affronto alla dignità per la
quale il popolo d’Europa ha lottato duramente.
Proprio come nessun uomo è un’isola, nessun paese è un’isola. Siamo uniti nel custodire un mondo fragile e nel servire i suoi abitanti. Facciamo in modo che l’Europa
sia l’esempio della dignità della differenza e raccolga la sfida. (Applausi)
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Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...
Daniel Marc Cohn-Bendit, a nome del gruppo Verts/ALE — (FR) Signor Presidente,
sono nato un mese prima del 1945. I miei genitori lasciarono la Germania 72 anni fa. Nel
1933, mio padre era avvocato, difendeva il Soccorso rosso e avrebbe dovuto essere arrestato. Sono nato esattamente nove mesi dopo lo sbarco degli alleati in Normandia.
Sono un figlio della liberazione, di un’invasione militare che ha liberato il suolo europeo e ha permesso ai miei genitori di avere un bambino, un “figlio della libertà”. Perciò la nostra memoria, la mia memoria, è lastricata di orrori. Auschwitz, l’orrore, l’anus
mundi che ha mostrato il peggio di cui l’essere umano è capace. Kolima, l’anus mundi
che ha mostrato ciò che può fare l’ideologia politica più barbara. Oradour-sur-Glane,
che ha mostrato ciò che può generare un’occupazione militare. Katyń, che ha mostrato
che si può liberare e distruggere allo stesso tempo. Tutta l’élite polacca è stata massacrata dall’Armata Rossa per impedire che il popolo polacco potesse unirsi e creare uno
Stato indipendente. Abbiamo continuato poi a commettere massacri incomparabili e
tuttavia comparabilmente mortali e crudeli. Ci sono stati i massacri delle guerre coloniali, c’è stata Srebrenica esattamente dieci anni fa.
È in seguito a questi massacri che uomini e donne, che non appartengono al mio
partito politico, ma dei quali riconosco la grandezza per essere riusciti — perché ci sono
davvero riusciti — a costruire questa Europa: che si tratti di De Gaulle o di Adenauer, di
Willy Brandt o di Helmut Kohl, di François Mittérand, poco importa, hanno fatto qualcosa di straordinario. E noi, che siamo nati dopo il 1945, siamo figli dell’Europa, ma
siamo anche figli dell’antitotalitarismo. Questa Europa è stata creata per evitare per
sempre il risorgere del totalitarismo, che sia di sinistra o di destra. Per riprendere una
canzone conosciuta da qualcuno: non esiste un salvatore supremo, né Dio, né re, né tribuno, né comunismo, né neoliberismo. Non esiste alcuna ideologia liberatrice degli esseri umani. Esiste solamente una piccola cosa molto fragile che molti scherniscono e che
si chiama semplicemente “democrazia”.
(DE) Cari amici, onorevoli colleghi, è sempre facile o difficile per un tedesco parlare sul tema “la guerra, sessant’anni dopo”. La Germania, tuttavia, ha sperimentato
sia il nazionalsocialismo, con tutta la sua barbarie, sia il totalitarismo comunista. La
Germania è quindi anche un simbolo dell’Europa e, se esiste un obbligo per la nostra
generazione, è quello di dire la verità. La mia preoccupazione non è esporre all’Assemblea i compiti politici dell’Europa, perché possiamo farlo in ogni momento. La mia
preoccupazione riguarda soltanto quanto seriamente prendiamo quest’obbligo di antitotalitarismo. Se agiamo davvero su questa base, non possiamo trascurare i diritti umani
e il rispetto della dignità umana nell’interesse di nessuna Realpolitik. (Applausi) Dobbiamo parlare con i russi, ma dobbiamo anche parlare della Cecenia. Dobbiamo parlare
dei crimini. Dobbiamo parlare con i cinesi, ma dobbiamo parlare dell’oppressione del
popolo cinese. Non possiamo dire semplicemente «togliamo l’embargo» e passare al
prossimo punto all’ordine del giorno. Così i cinesi avranno un po’ di armi. Così potranno
comprare qualche Transrapid. Con una storia passata come quella dell’Europa, non possiamo agire così! (Applausi) Poiché siamo vincolati alla verità, poiché crediamo nell’Europa, tutti dobbiamo ricordare, nel dare forma e nell’organizzare l’Europa del
futuro, ciò che è stata in passato l’Europa e quello che non deve più ripetersi. In momenti come questi io — poiché sono tra coloro che pensano alla storia dell’Europa in
questi termini — sono orgoglioso di partecipare alla campagna per una Costituzione che
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incarna l’eredità dell’Europa antitotalitaria. Sono convinto che vinceremo; questa Costituzione diverrà reale in Europa. Questo è quello che credo; è un obbligo che ci incombe nell’interesse dei nostri figli, che erediteranno ciò che i nostri genitori ci hanno
lasciato da custodire. (Applausi)
Francis Wurtz, a nome del gruppo GUE/NGL — (FR) Signor Presidente, la bella dichiarazione del Presidente Junker e la particolare enfasi degli interventi successivi contrastano con il contenuto deludente e preoccupante del progetto di risoluzione che ci
è presentato a nome della maggioranza dei gruppi in occasione del sessantesimo anniversario della capitolazione nazista. Sono convinto che nella maggior parte dei gruppi
politici rappresentati in seno alla nostra Assemblea, uomini e donne proveranno un
senso di disagio davanti a questo testo di stampo quasi revisionista. Quando un’istituzione come la nostra rievoca questo avvenimento fondatore dell’Europa e del mondo di
oggi che fu la vittoria di tutti gli alleati — statunitensi, britannici e sovietici — della coalizione contro Hitler, ogni parola ha il suo peso. In una dichiarazione di questo tipo molti
si aspettavano di leggere una frase come questa: «L’8 maggio 1945 fu un giorno di liberazione per l’Europa». Perché no, visto che è la verità? Fu un giorno in cui l’Armata
sovietica contribuì in modo decisivo. Senza ignorare in alcun modo l’oppressione stalinista, molti europei, di fronte a varie manifestazioni di nostalgici del Terzo Reich, avrebbero probabilmente voluto sentirci dichiarare che giustificare le atrocità naziste
puntando il dito sui crimini stalinisti è inaccettabile da un punto di vista intellettuale
e morale e — riguardo alla guerra della memoria che attualmente oppone le repubbliche baltiche alla Russia — che dovremmo tenere a mente la parte di responsabilità della
Germania nazista nella tragedia degli Stati baltici. Una precisazione, onorevoli colleghi:
tutte le argomentazioni che ho appena menzionato sono tratte da un articolo pubblicato l’altro ieri sul quotidiano francese Le Figaro a firma di Michael Mertes, ex consigliere dell’ex cancelliere Helmut Kohl. È la vostra famiglia politica, onorevoli deputati
del PPE! Grazie a Dio, abbiamo perso la guerra, conclude Mertes, aggiungendo una frase
su cui vi propongo di meditare: il modo in cui consideriamo il passato ci insegna di più
sui nostri atteggiamenti attuali che non sul passato stesso.
In un momento in cui l’Unione europea consulta i suoi cittadini su un progetto di
Costituzione, come interpreteranno questi ultimi il concetto di un’Europa allargata che
rimette in discussione la pietra angolare della visione dell’Europa e del mondo, nata l’8
maggio 1945, vale a dire che il nazismo non è stata una dittatura o una tirannide come
qualsiasi altra, ma la rottura assoluta con qualsiasi civiltà? Da parte nostra, siamo pronti
a un dibattito senza tabù sui crimini dello stalinismo come sul patto tedesco-sovietico
di sinistra memoria o ancora sulla storia dei paesi baltici. Ma niente, niente deve permetterci di banalizzare il nazismo, il cui scopo dichiarato — dobbiamo ricordarlo? — era
quello di sterminare le razze inferiori e di allargare lo spazio vitale della razza superiore mediante la guerra totale. Per questa ragione avevamo il diritto di aspettarci dal
Parlamento europeo un testo sull’8 maggio 1945 con un punto di vista completamente
diverso. E forse non sarebbe stato superfluo rendere omaggio anche agli anonimi combattenti che, senza altra ambizione se non quella di vivere e di agire come uomini e
donne retti, hanno partecipato alla resistenza mettendo a rischio la loro vita e sacrificandosi per la nostra libertà. Analogamente, non sarebbe stata di troppo una parola,
una sola, sull’orrore di Hiroshima e Nagasaki e sulle loro decine di migliaia di morti in
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un paese sconfitto. Questa volta il Parlamento europeo ha davvero perso un appuntamento con la storia. Perciò il mio gruppo rifiuta unanimemente di avallare questa risoluzione, ben lontana dall’idea dell’Europa a venticinque, a ventisette o a trenta. Lascio
l’ultima parola a un leader europeo che, vent’anni fa, aveva trovato le parole giuste per
parlare dell’8 maggio 1945 nel paese in cui era più difficile pronunciarle apertamente.
Sto parlando dell’ex Presidente tedesco Richard von Weizsaecker. Mi permetto di citarlo. (DE) «Abbiamo la forza di guardare in faccia la verità come meglio possiamo,
senza abbellimenti e senza distorsioni. [...] Giorno dopo giorno, un concetto è diventato sempre più chiaro e questo deve essere affermato oggi a nome di tutti noi: l’8
maggio è stato un giorno di liberazione. Ci ha liberati tutti dalla disumanità e dalla tirannia dei nazisti.» (Applausi)
Maciej Marian Giertych, a nome del gruppo IND/DEM — (PL) Signor Presidente,
onorevoli colleghi, la seconda guerra mondiale è scoppiata nel settembre 1939, quando
il mio paese, la Polonia, fu invaso e occupato dalla Germania e dall’Unione Sovietica.
Questa spartizione della Polonia fu il risultato del Patto Molotov-Ribbentrop, che era
stato firmato una settimana prima a Mosca. La Polonia non fu conquistata dalle squadre di combattimento del partito nazista o del partito comunista, ma dalle forze armate
regolari dei paesi vicini, in altri termini dalla Wehrmacht, dalla Luftwaffe e dalla Kriegsmarine tedesche e dall’Armata Rossa. Va aggiunto che il partito nazionalsocialista, capeggiato dal Cancelliere Hitler, governava la Germania a quel tempo, dopo essere
asceso al potere sulla base di una decisione democratica dall’elettorato tedesco. Stalin e il partito comunista governavano la Russia, portati al potere dalla rivoluzione. Noi
ora stiamo celebrando il sessantesimo anniversario della capitolazione della Germania,
avvenuta l’8 maggio 1945 e divenuta simbolo della fine degli atti criminosi commessi
dalla Germania nazista nei paesi occupati. Tuttavia, non significò la fine dei crimini cominciati con l’invasione della Polonia da parte dell’Unione Sovietica nel 1939. Abbiamo
vinto la guerra contro la Germania, ma la perdemmo contro la Russia. Questo significò
che ci vennero imposti un potere straniero, un sistema economico straniero e un’ideologia straniera. Combattemmo su tutti i fronti nella seconda guerra mondiale ed eravamo là quando furono sparati i primi e gli ultimi colpi. Dal 1941 tra i nostri alleati
nella guerra contro la Germania c’era l’Unione Sovietica. Riconosciamo il ruolo svolto
dalla Russia nella sconfitta della Germania nazista e l’enorme perdita di vite umane
che il paese subì in tale circostanza. Tuttavia, questo non cambia il fatto che la Russia
agì come se avesse conquistato la Polonia. Inoltre, i nostri alleati occidentali nella lotta
contro la Germania erano anche alleati dell’Unione Sovietica e a Jalta diedero il loro
beneplacito al nostro asservimento. Fummo costretti a liberarci a poco a poco, in primo
luogo decollettivizzando l’agricoltura, poi liberando la Chiesa, poi ottenendo l’autorizzazione per piccole imprese private e infine ottenendo la libertà di costituire sindacati, oltre alla libertà di parola e alla libertà politica. L’unico aiuto che abbiamo
ricevuto dal resto del mondo in questo processo giunse mediante la corsa agli armamenti, che fu vinta con il tempo dagli Stati Uniti, e, in particolare, mediante il successo
del programma di “guerre stellari” di Reagan, che indebolì l’Unione Sovietica. La presenza di truppe americane in Europa e l’esistenza della NATO hanno permesso all’Europa occidentale di godere della pace in questi sessant’anni. Ora anche i paesi
dell’Europa centrale e orientale, che sono membri della NATO o hanno formato intese
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
per la pace, stanno raccogliendo i benefici. Ciascuno di noi condivide un desiderio di
pace e libertà e di un futuro plasmato secondo i nostri desideri.
Le persone della mia generazione, che vissero in prima persona la seconda guerra
mondiale, non saranno con noi ancora a lungo e dobbiamo assicurarci che le generazioni
future ricorderanno la verità su questa guerra. Per noi Polacchi è fonte di grande angoscia il fatto che tanti mezzi di informazione occidentali continuino a usare frasi che
troviamo ingiuriose, come “campi di concentramento polacchi” o persino “camere a
gas e forni crematori polacchi”, come il Guardian britannico ha avuto la temerarietà di
scrivere per riferirsi a tali orrori. In realtà, alcune di queste fabbriche di morte si trovavano in territorio polacco, ma resta il fatto che erano tedesche, non polacche. Non
tutti i tedeschi sono responsabili per questi crimini e riconosciamo che la nazione tedesca ha preso le distanze dalla sua vergognosa eredità nazista, ma ci teniamo ad assicurare che le future generazioni non associno la Polonia ai crimini commessi dai
nazisti, poiché la Polonia non era in alcun modo responsabile. Allo stesso modo, il popolo russo non è responsabile per i crimini commessi durante il periodo di Stalin, vale
a dire per le deportazioni, i gulag, il genocidio commesso a Katyń e l’assoggettamento
dell’Europa centrale e orientale. Sono i leader comunisti dello Stato sovietico a essere
responsabili per questi crimini e lo stesso popolo russo patì l’asservimento. Noi desideriamo riconciliarci con il popolo e lo Stato russo, ma ci aspettiamo che prendano inequivocabilmente le distanze dal loro retaggio comunista. Tuttavia, gli attuali leader
della Germania e della Russia, ovvero dei paesi che hanno fatto scoppiare la seconda
guerra mondiale, hanno concesso un’intervista congiunta al giornale tedesco Bild in cui
cercano di distogliere l’attenzione da qualsiasi argomento all’infuori delle loro reciproche relazioni e delle perdite subite. Attualmente stiamo cercando di stabilire relazioni di buon vicinato con la Germania e la Russia. Già nel 1961 i vescovi polacchi
inviarono una famosa lettera ai vescovi tedeschi, che conteneva la frase: «noi perdoniamo e chiediamo perdono». Adottiamo lo stesso approccio per le nostre attuali relazioni con la Russia, ma perdono e riconciliazione non significano che dobbiamo
dimenticare. Chiediamo quindi che non si ripetano mai più orrori come il genocidio,
l’assoggettamento di una nazione ad opera di un’altra, l’aggressione e la guerra.
Wojciech Roszkowski, a nome del gruppo UEN — (PL) Signor Presidente, le singole
nazioni hanno vissuto esperienze molto diverse della seconda guerra mondiale e la discussione odierna è quindi forse la più importante discussione sull’identità europea che
sia stata svolta da anni. Se desideriamo sinceramente unirci per formare un’unica comunità spirituale europea, dobbiamo tutti sforzarci di giungere a una piena comprensione delle esperienze storiche delle nazioni d’Europa. A tal fine, dobbiamo parlare con
franchezza di certe questioni. La risoluzione per celebrare il sessantesimo anniversario
della fine della guerra è il risultato di un compromesso raggiunto a fatica e nel complesso è un ritratto accurato delle conseguenze della guerra. Ciò che manca, tuttavia,
è qualsiasi riferimento al collegamento che esiste tra l’inizio e la fine della guerra, o
alle opinioni sulla guerra attualmente diffuse in Russia. Monaco e la partizione della Cecoslovacchia sono stati i primi atti di aggressione di Hitler, ma non si può negare che il
Patto Molotov-Ribbentrop sia stato la vera dichiarazione di guerra. La Polonia cadde
vittima della cooperazione tra il Terzo Reich e l’URSS nel settembre 1939 e a questo
fatto seguirono le invasioni da parte della Germania della Norvegia, della Danimarca,
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Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...
del Belgio, dell’Olanda, del Lussemburgo, della Francia, della Jugoslavia e della Grecia, nonché le invasioni sovietiche della Finlandia, della Lituania, della Lettonia e dell’Estonia. Stalin non si unì agli Alleati di sua spontanea volontà nella loro lotta contro
la Germania. Di fatto, è vero l’opposto, poiché rifiutò di cooperare con la Francia e la
Gran Bretagna. Fu soltanto dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica nel giugno 1941
che si assicurò l’assistenza degli inglesi e degli americani entrando in una nuova coalizione, che alla fine sconfisse il Terzo Reich. Eppure, anche se fu l’Armata Rossa a reggere l’urto principale della guerra, il sistema sovietico non subì alcun cambiamento.
L’arcipelago gulag continuò a espandersi e il numero di vite che ha mietuto è paragonabile al numero di cittadini sovietici caduti nella guerra. La cooperazione tra i Tre
Grandi era quindi basata su una mera apparenza di valori comuni, motivo per cui si dimostrò impossibile da mantenere dopo la fine della guerra. Poco prima della sua morte,
Roosevelt ammise che l’America non poté accordarsi con Stalin, poiché questi era venuto meno a tutte le promesse che aveva fatto. Tuttavia, questa ammissione giunse
troppo tardi. L’Europa fu divisa e l’Europa orientale fu gettata nelle braccia del totalitarismo stalinista. Tra i paesi colpiti vi era anche la Polonia, che era stata la prima a opporre resistenza a Hitler, persino quando il suo alleato era Stalin. Le forze armate
polacche costituivano un quarto delle forze alleate e in termini relativi il paese subì la
maggiore perdita di vite umane durante la guerra. Purtroppo la Russia è oggi restia a
riconoscere il ruolo ambiguo svolto dall’URSS durante la guerra. Il Presidente Putin è tornato indietro a un’interpretazione stalinista della seconda guerra mondiale e delle sue
conseguenze e ha affermato che il Patto Molotov-Ribbentrop era un normale trattato internazionale. La Russia ha negato ufficialmente che Stalin attaccò la Polonia nel 1939,
che fu commesso un genocidio a Katyń e che l’URSS occupò gli Stati baltici. Ha persino
affermato che la Conferenza di Jalta portò la democrazia in Polonia.
Viktor Yerofeyev, un noto scrittore russo, ha scritto di recente che la Russia è abbastanza illuminata da non fare distinzione tra il totalitarismo di Stalin e il regime di
Hitler. Se la Russia fosse davvero illuminata, vi sarebbe ogni ragione per sperare che
possa riconciliarsi con l’Europa. I segnali di una riabilitazione di Stalin però dovrebbero
essere un monito per tutti noi. Perché questo fatto è così importante al momento attuale? Il Presidente Putin ha detto che la riconciliazione tra la Russia e la Germania potrebbe dare un esempio all’Europa. Purtroppo, qualsiasi riconciliazione basata su
un’interpretazione stalinista della storia fa invece scattare l’allarme, che risuona particolarmente forte a Varsavia, a Vilnius, a Riga e a Tallinn. Sia il popolo polacco che le
altre nazioni dell’Europa centrale credono che sarà impossibile realizzare la pace e la
riconciliazione in Europa se le nazioni situate tra la Germania e la Russia sono escluse
dall’equazione in questo modo. L’Assemblea deve capire che noi in Polonia e in Europa
centrale ci sentiamo stretti in una morsa ogniqualvolta le superpotenze dell’Europa occidentale e la Russia si stringono la mano sopra le nostre teste.
Presidenza dell’On. Mauro Mauro, Vicepresidente
Philip Claeys (NI) — (NL) Signor Presidente, è davvero importante in questo momento commemorare la fine della seconda guerra mondiale, avvenuta sessant’anni fa.
È altresì positivo che in questa occasione si sottolinei ancora una volta che la libertà e
la democrazia non dovrebbero essere date per scontate e devono essere difese attiva-
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
mente. Le atrocità del nazionalsocialismo costituiscono una pagina nera nella storia
d’Europa e gli oratori precedenti avevano ragione a sottolineare che c’è poco o nulla
da aggiungere. È deplorevole, tuttavia, che l’Europa occidentale stia prestando così
poca attenzione al fatto storico che sessant’anni fa venne dato ufficialmente il consenso
a consegnare i popoli dell’Europa orientale all’occupazione sovietica, ai regimi comunisti dittatoriali, che certamente non erano da meno dei nazisti in termini di orrore e
di crimini. L’Armata Rossa era già a Varsavia nel 1944, aspettava semplicemente che i
nazisti reprimessero la sollevazione. Sessant’anni fa in Occidente si esprimevano ovunque lodi e onore per Stalin, un tiranno che aveva già ucciso milioni di persone e che,
con la connivenza dell’Occidente liberato, avrebbe continuato a ucciderne molti altri
milioni, fuori e dentro la Russia. È ora che la Russia segua la Germania nel mettere ordine nel suo passato. Ufficialmente, paesi come l’Estonia, la Lettonia e la Lituania furono liberati dall’Armata Rossa. La Presidente della Lettonia Vaira Vike-Freiberga ha
sottolineato che il 1945 non ha portato agli Stati baltici alcun genere di liberazione, al
contrario. Vorrei citare le sue parole: «Significò schiavitù, occupazione, sottomissione
e terrore stalinista». I leader europei che qualche giorno fa erano a Mosca non si sono
quasi per niente preoccupati di affrontare tale realtà né di mettere in rilievo che il momento che sessant’anni fa ha segnato la liberazione per gli europei occidentali, è stato
un altro calvario per l’Europa orientale, con la differenza che le nuove dittature potevano contare sull’appoggio attivo e sulla comprensione di tanti politici, media, intellettuali e molti altri nell’Europa occidentale, alcuni dei quali infatti erano, a quanto
pare, sul libro paga dei servizi segreti sovietici. Forse, sessant’anni dopo, è opportuno
affrontare tali questioni. Forse l’Europa non sarà capace di lasciarsi completamente
alle spalle il passato a meno che non si svolga una sorta di processo di Norimberga al
comunismo, non per riaprire vecchie ferite, ma con l’intenzione di non dimenticare
mai, pensando al futuro dei nostri figli e nipoti. Sono sbalordito che un Commissario europeo inserisca nel suo sito web fotografie in cui dimostra la sua ammirazione per un
personaggio come Fidel Castro. Sono scioccato quando gli intellettuali e i responsabili
delle politiche continuano a negare o a minimizzare l’avvento dell’estremismo islamico. Jean-François Revel ha già parlato di tentation totalitaire — la tentazione totalitaria. Se c’è una lezione da imparare dalle atrocità della seconda guerra mondiale, è
che il totalitarismo non deve avere un’altra opportunità, ovunque possa emergere.
József Szájer (PPE-DE) — (HU) «Dal sangue versato dai nostri padri nelle battaglie
fluisce la pace, attraverso il nostro ricordo e il nostro rispetto: mettere ordine nelle nostre questioni comuni, questo è il nostro dovere; e sarà un arduo compito». Il grande
poeta ungherese Attila József, nato un secolo fa, ci ricorda che noi, ovvero le nazioni
europee, che abbiamo combattuto molte guerre l’uno contro l’altro, abbiamo molte
questioni comuni da mettere in ordine. Nella lettera che ha inviato a Vytautas Landsbergis e a me, il Commissario Frattini ha scritto di recente che la vostra storia è anche
la nostra storia. Quando celebriamo la fine della guerra mondiale in Europa, non dobbiamo dimenticare che la fine della guerra portò qualcosa di diverso per ognuna delle
nazioni europee. Nel caso delle nazioni più fortunate, segnò sessant’anni fa la fine di
lunghe sofferenze e di incommensurabili distruzioni. Chiniamo il capo di fronte a tutti
coloro che si sacrificarono per la pace. Tuttavia, un’altra nefasta dittatura attendeva
l’altra metà dell’Europa, senza minor sofferenza e distruzione. Notte dopo notte senza
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Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...
luce del giorno, occupazione dopo occupazione senza indipendenza, dittatura disumana
dopo dittatura disumana senza libertà. Dietro di me siede qui fra noi una rappresentante
slovacca, Zita Pleštinská, il cui padre ungherese, István Kányai, fu perseguitato ugualmente dai nazisti e dai fascisti e successivamente soffrì nove anni negli inferni dei campi
di concentramento sovietici. Chi libera il prigioniero innocente da una prigione e lo
chiude in un’altra è un carceriere, non un liberatore. E il prigioniero non lo vedrà come
qualcuno che gli ha dato la libertà, ma come qualcuno che gliel’ha tolta.
Per molte nazioni europee, la libertà tanto desiderata giunse cinquant’anni dopo
l’8 maggio 1945. E l’ultimo passo è stato compiuto il 1° maggio 2004, che ha segnato
la fine dell’ordine mondiale di Jalta. In realtà, la seconda guerra mondiale è finita il 1°
maggio 2004. La fine della guerra dovrebbe quindi essere celebrata più propriamente
qui, nella capitale dell’Europa riunificata, invece che a Mosca. Le nazioni dell’Europa
guardavano i due lati dello stesso muro: il filo spinato ci ha divisi a metà per mezzo secolo. Abbiamo sopportato l’insopportabile, abbiamo resistito al sistema instaurato dall’Armata Rossa sovietica, che rimase dopo la liberazione, al genocidio, alla pulizia
etnica e di classe, alle uccisioni, alle torture, alla deportazione e alla privazione dei diritti civili inflitta a persone innocenti impegnate nel nome dell’idea socialista progressista. Il sistema imposto alle nazioni dell’Europa centrale dal comunismo sovietico era
una conseguenza diretta del piano di cui Stalin parlò il 19 agosto 1939 di fronte al Politbjuro, dando una spiegazione per il Patto Molotov-Ribbentrop. Cito le sue parole:
«L’esperienza degli ultimi vent’anni ha dimostrato che in tempo di pace è impossibile
mantenere un movimento comunista in tutta Europa che sia abbastanza forte perché un
partito bolscevico possa prendere il potere. La dittatura di tale partito diverrà possibile soltanto come risultato di una guerra di grandi proporzioni». Le nostre nazioni si
sollevarono molte volte contro tale dittatura dei partiti bolscevichi: nel 1956 a Berlino,
nell’ottobre 1956 in Ungheria e a Poznań, nel 1968 in Cecoslovacchia e nel 1980 in Polonia. L’Occidente guardò con favore alle nostre rivoluzioni, simpatizzò con noi, poi tollerò quando l’Unione Sovietica represse e schiacciò sanguinosamente queste espressioni
di desiderio di libertà. Onorevoli colleghi, la nostra storia è anche la vostra storia. Tuttavia, noi, le nazioni liberate un decennio fa dall’occupazione sovietica, non troviamo
alcuna compassione esaminando la nostra storia recente. Dopo la guerra, l’Europa occidentale si rialzò orgogliosamente e cominciò a prosperare in pace. Anche se non per
colpa nostra, noi siamo rimasti fuori da questo processo. Tale evoluzione ha originato
la situazione attuale in cui vi sono persone dal lato più fortunato dell’Europa e addirittura qui in Parlamento che vogliono generare capitale per sé suscitando nella popolazione la paura nei confronti dei cittadini a basso costo dei nuovi Stati membri, di
persone il cui paese è caduto in una crisi economica a causa dell’inefficace economia
socialista che fu loro imposta. Molti nell’Europa occidentale tuttavia non capiscono
neppure perché la stella rossa a cinque punte, come la svastica, sia divenuta simbolo
di odio e oppressione. La nostra storia è anche la vostra storia. Sessant’anni fa i poteri
nazisti furono sconfitti congiuntamente dalle nazioni d’Europa. La classe politica screditata scomparve. Non ci sono piazze intitolate a Hitler, né monumenti per commemorare gli assassini nazisti. Mezzo secolo più tardi anche l’Unione Sovietica e il regime
comunista sono crollati. Analogamente, il comunismo jugoslavo, che ha seguito la sua
strada separata senza l’occupazione sovietica, ha subito una ignominiosa sconfitta. I
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n. 1 — Ricordare la seconda guerra mondiale
successori del caduto sistema comunista sono eloquenti uomini d’affari che chiedono rispetto, politici responsabili, per così dire. In Russia, le statue di Stalin sono state di
nuovo erette e ancora una volta si fa riferimento all’occupazione sovietica come alla
liberazione. Sembra che vogliano sentire sempre meno parlare delle atrocità della dittatura comunista.
Onorevoli deputati, non dobbiamo pensare con due metri diversi. Auschwitz, il
massacro della foresta di Katyń, il nazismo e l’occupazione sovietica degli Stati baltici
in due tempi, dittature ingiuste che smembrano le sfere di interesse dell’Europa, confini tracciati con la forza e con i patti, la deportazione di interi popoli, assassinii, torture, mutilazioni, la negazione dei diritti civili, muri che dividono nazioni, il disprezzo
dei diritti umani e delle minoranze: sono tutte gravi ingiustizie, a prescindere da chi le
ha commesse. Sessant’anni dopo la fine militare della guerra, è ora di affrontare questi problemi. L’enorme sacrificio dell’Armata sovietica esige rispetto e onore. L’esercito
di occupazione, tuttavia, non merita il nostro rispetto; ha imposto la sua dittatura oppressiva su una parte degli Stati europei. Finché non saremo capaci di chiamare un’atrocità con il suo nome, di giudicare un assassinio come tale, finché misuriamo un peccato
con un altro, la guerra continuerà nella nostra testa e le ferite non guariranno. Gesù
dice che la verità ci farà liberi. La riunificazione dell’Europa ci dà l’opportunità di un
nuovo inizio. Vincitori e vinti, oppressori e oppressi di un tempo, possiamo costruire insieme un’Europa comune, democratica, basata sulla virtù della dignità umana radicata
nella tradizione cristiana, con la speranza di un avvenire più luminoso e di generazioni
più felici in futuro. Diamo ascolto ad Attila József, ascoltiamo il poeta e mettiamo ordine nelle nostre questioni comuni!
Józef Pinior (PSE) — (PL) Onorevoli colleghi, oggi il Parlamento commemora il sessantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, la guerra più terribile
della storia. È costata la vita a milioni di persone e ha condotto all’annientamento degli
ebrei, oltre a precipitare l’Europa nell’abisso della ferocia, della devastazione economica e del decadimento morale. Dovremmo chinare il capo in memoria di quell’epoca
e commemorare le vittime di questa guerra. Onorevoli colleghi, anche se esistono alcuni momenti chiave nella nostra memoria collettiva che ci permettono di unirci nella
costruzione di una comunità politica, ciascuna delle nazioni europee ricorda il XX secolo dal suo punto di vista. La ragione di questo è che i nostri Stati e i nostri popoli
hanno vissuto eventi storici e politici diversi. C’è, comunque, un elemento che ci unisce, poiché noi tutti ricordiamo le vittime della guerra e la lotta per la libertà e la democrazia. È il ricordo di questi fatti che fornisce una base per la nostra identità comune
europea. Oggi commemoriamo le vittime del terrore nazista nei paesi occupati dal Terzo
Reich. Onoriamo anche le vittime dell’Olocausto, il genocidio commesso contro gli ebrei
in Europa durante la seconda guerra mondiale, che è stato un crimine senza confronti
nella storia umana. Commemoriamo la vittoria delle nazioni alleate sul Terzo Reich, in
particolare il ruolo svolto dagli Stati Uniti d’America nella liberazione dell’Europa. Ricordiamo tutti i soldati che morirono per liberare il mondo dal nazismo e i 14 milioni di
soldati che combatterono nell’Armata Rossa. Commemoriamo le perdite subite da tutte
le parti nella seconda guerra mondiale, nonché coloro che caddero vittime di Stalin durante il conflitto. Il massacro di circa 22.000 cittadini polacchi e prigionieri di guerra a
Katyń e in altri campi e prigioni nell’Unione Sovietica nella primavera del 1940 è dive-
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Il Parlamento Europeo sul 60° anniversario...
nuto un simbolo. Rendiamo omaggio a coloro che lottarono per la libertà, la democrazia e i diritti umani e ricordiamo in particolare l’eroico movimento della resistenza,
che lottò contro il fascismo e l’occupazione nei vari paesi. Gli ideali di questo movimento e la volontà dei suoi membri a sacrificarsi in una guerra unilaterale, sono ora una
vera eredità per noi, nonché qualcosa di cui tutti possiamo essere orgogliosi e un buon
esempio per i giovani d’Europa. Vorrei oggi commemorare il movimento della resistenza
nel ghetto di Varsavia e coloro che aderirono all’Organizzazione militare ebraica e imbracciarono le armi il 19 aprile 1943 per difendere il ghetto ebraico creato a Varsavia
dalle potenze occupanti. Anche se in termini militari non avevano alcuna possibilità di
vincere, lottando nel mezzo della guerra e nel cuore di un’Europa dominata dai nazisti, la loro lotta assunse di fatto un significato più profondo. Oggi consideriamo il loro
eroismo la testimonianza più potente di tutti i tempi dello spirito umano e parte delle
fondamenta morali dell’Europa che abbiamo costruito. Per riecheggiare i sentimenti
espressi in un manifesto dell’Organ