La Bella Lingua di Dianne Hales: Una proposta di traduzione

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La Bella Lingua di Dianne Hales: Una proposta di traduzione
La Bella Lingua di Dianne Hales: Una proposta di traduzione
da Alice Giorgi
Dichiarazione di un’Innamorata
QUANDO ARRIVAI PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA nel 1983 conoscevo
solamente una frase in italiano: “Mi dispiace ma non parlo italiano”. Nei primi
minuti in questo paese, la ripetei una mezza dozzina di volte, con crescente
panico palesato dalla mia voce, intervallata soltanto dal mio supplicare “Stop this
train!” (Fermate questo treno!)
Gli altri passeggeri reagirono con sguardi preoccupati e fiumi di parole in un
italiano incomprensibile. Solo il controllore, snervato, notò il mio sguardo fisso sulla mia
valigia nera abbandonata a se stessa, che il facchino aveva lasciato indietro sul binario
a Domodossola.
"La sua valigia?"
"Sì"annuii, disperata al pensiero che non l'avrei più rivista. "Non c'è problema"
assicurò a voce alta.
"Domani mattina a Milano." Le facce che mi attorniavano si aprirono in un sorriso sollevate. "Domani
mattina" ripeterono rassicuranti "Domani mattina".
Seduta al mio posto, mormoravo tra me e me assaporando quelle melodiose
sillabe. Sì, non appena fossi arrivata a Milano, avrei trovato il Signor Domani Mattina,
che mi avrebbe in qualche modo restituito il mio bagaglio. Nella sterminata desolazione
della stazione di Milano Centrale, mi infilai giù per scendere le massicce scale di pietra.
In quel tardo pomeriggio di domenica, tutto era chiuso. Fermai un uomo
dall’uniforme blu e chiesi: "Signor Domani Mattina?"
"No, signorina," disse, guardandomi con l'aria confusa. Tirai fuori il mio
dizionario tascabile Inglese-Italiano per trovare la parola per "where"che però venne
fuori dalla mia bocca come la parola inglese per quel delicato uccello bianco: "Dav?"
© Alice Giorgi 2013 (reprinted with permission)
1 "DOO-VEE!" scandì a voce alta l’uomo, prima di scoppiare in una
risata. "No signorina, the day after today. Domani mattina".
La ricerca di questo fantomatico Mr. Tomorrow Morning fu l’inizio del mio
viaggio nella lingua italiana. Durante quella prima escursione in Italia quasi del tutto
silenziosa, mi entusiasmavo per la bellezza di ciò che vedevo, ma allo stesso tempo
smaniavo per riuscire a comprendere ciò che ascoltavo. Avrei voluto capire la battuta
del cameriere quando mi ha servito il cappuccino, la barzelletta che il negoziante mi ha
raccontato strizzandomi l'occhio, gli scambi amorosi delle coppiette abbracciate che
andavano a passeggio al tramonto.
E così, diversamente dagli italofili che fanno lunghi viaggi attraverso chiese
affrescate o restaurano case di campagna, io scelsi di abitare nella lingua: tanto sconcia
quanto bella, speziata come uno spezzatino linguistico, piccante come il sugo alla
puttanesca, chiamato così dalle note signore della notte.
Negli ultimi venticinque anni, ho dedicato innumerevoli ore e sforzi - a
sufficienza, se applicati a scopi più pratici, come per la caparra di una villa in Umbria alla più astuta delle lingue occidentali. Ho studiato l'italiano in tutti i modi che trovavo dal metodo Berlitz ai libri, con cd e podcast, con tutorial privati e gruppi di
conversazione, e durante ciò che molti potrebbero considerare un'esorbitante quantità di
tempo trascorso in Italia.
Sono arrivata a pensare all'Italiano come a un briccone - un adorabile monello,
un intelligente birbante dagli occhi vispi al quale non riesci a resistere anche quando ti
sta prendendo in giro. Croce e delizia, tormento e piacere, come la canzone d’amore
della Violetta di Verdi. Lo stesso vale per la lingua che le sue opere hanno levato in
alto su ali dorate.
Eppure l’italiano per me è diventato, a un punto tale che non mi sarei
mai sognata, non solo una passione e un piacere, ma un passaporto per entrare nella
storia d’Italia – un’unica parola dal duplice significato: “storia” per l’appunto, ma
anche “narrazione”.
Come paese, l’Italia non ha alcun senso. Pensateci un po’: una penisola
dalla spina dorsale che si estende dalle cime innevate delle Alpi alle isole arse dal sole,
cosparsa di villaggi di pietra legati assieme da antichi giuramenti di fedeltà; un mosaico
© Alice Giorgi 2013 (reprinted with permission)
2 di dialetti, cucine e culture unite in una nazione appena un secolo e mezzo fa. Metternich
la liquidò come “espressione geografica”. “Troppo lunga per essere una nazione”,
sbuffò Napoleone. “Governarla non è impossibile, è inutile”, ringhiò Mussolini.
La vera Italia risiede in qualcosa che va oltre i legami di sangue o i confini territoriali,
in ciò che il Presidente Carlo Azzeglio Ciampi ha chiamato “la nostra prima patria”
– la sua lingua.
E che lingua! L’italiano fu plasmato da poeti e buone penne, incarna il più
grande genio dei suoi parlanti nativi: l’abilità di trasformare qualsiasi cosa
– dal marmo alla melodia, dalle più semplici tagliatelle alla vita stessa – in gioiosa
arte. L’inglese come un grosso pennarello dalla punta di feltro nero, si dichiara con
affermazioni in grassetto e commenti netti.
L’agile piuma a punta fine dell’italiano volteggia in delicati ghirigori e
sensazionali motivi floreali. Mentre le altre lingue fanno poco più che parlare, questa
lingua lirica eccita l’orecchio, seduce la mente, ammalia il cuore, rapisce l’anima
e più di ogni altro idioma si avvicina all’espressione dell’essenza di ciò
che vuol dire essere umano.
Secoli prima che ci fosse un’Italia, c’era l’italiano. Le sue radici affondano
nel tempo fino a quasi tre millenni fa. Secondo la leggenda, nel 753 AC, Romolo, figlio
del dio Marte e di una vergine vestale, dopo aver ucciso suo fratello gemello Remo,
fondò un insediamento per il suo gruppo di pastori e agricoltori nomadi sulle colline
sopra il Tevere.
Le loro prime parole progredirono nel volgare (dal latino sermo vulgaris, ovvero
la lingua comune del popolo), la lingua parlata alla bella e meglio. Fu proprio il latino
dei pezzenti di strada e non la classica e cadenzata retorica di Cesare e Cicerone, a dare
vita a tutte le lingue romanze, compresi l’italiano, il francese, lo spagnolo, il
portoghese e il rumeno.
Il primo “miracolo italiano” è il fatto che questa lingua sia
sopravvissuta. Nessun governo ne impose l’uso. Nessun grande impero la promosse
a lingua ufficiale. Nessun esercito o armata la divulgò a suon di tromba alle terre
lontane. Brutalmente divisa, invasa, e conquistata, la penisola mediterranea rimase una
trapunta di dialetti, spesso così diversi fra loro come il francese dallo spagnolo o
© Alice Giorgi 2013 (reprinted with permission)
3 l'inglese dall'italiano. I marinai di Genova non riuscivano a capire - o a farsi capire - dai
mercanti di Venezia o gli agricoltori del Friuli. I fiorentini che abitavano il centro, il
cuore della città, non riuscivano a parlare il dialetto di San Frediano, il mio quartiere
preferito, dall'altra parte dell'Arno.
L'italiano come lo conosciamo noi fu il risultato di un atto creativo, non si
originò dal nulla. Con lo stesso genio lampante che avrebbe trasformato l'arte nel
Rinascimento, gli scrittori della Firenze del XIV secolo - Dante primo fra tutti trasformarono l'effervescente dialetto toscano in una lingua ricca e potente abbastanza
da sfrecciare rapida dal Paradiso in giù e dall'Inferno in sù. Questo inestimabile lascito
vivente, al pari della poesia di Petrarca, delle sculture di Michelangelo, delle arie di
Verdi, delle pellicole di Fellini o dei vestiti di Valentino, è un opera d'arte maestra.
Durante secoli di dominazione straniera, spesso brutale, le parole rimasero tutto
ciò che il popolo italiano potesse reclamare come proprie. "Quando un popolo ha
perduto patria e libertà, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto"11 osservò Luigi
Settembrini, un "professore d'eloquenza" napoletano del XIX secolo che dedicò la sua
vita alla lingua che arrivò a definire la civiltà occidentale.
Furono gli Italiani a dare il nome "America" (in tributo al navigatore fiorentino
Amerigo Vespucci) agli americani; a creare le prime università, facoltà di legge e
medicina, banche e biblioteche pubbliche; ad insegnare la diplomazia e le buone
maniere all'Europa; a mostrare ai francesi come mangiare con la forchetta; a mappare il
suolo lunare (nel 1600); a dividere l'atomo; a produrre le prime cronache moderne,
satire, sonetti e diari di viaggio; ad inventare la batteria, il barometro, la radio e il
termometro; e a donare al mondo l'eterno regalo della musica…
© Alice Giorgi 2013 (reprinted with permission)
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