Rassegna stampa 8 febbraio 2011

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Rassegna stampa 8 febbraio 2011
RASSEGNA STAMPA di martedì 8 febbraio 2011
SOMMARIO
L’Osservatore Romano di sabato scorso ha pubblicato un intervento del Patriarca card.
Angelo Scola sull’iniziativa di Papa Benedetto XVI di istituire il Pontificio Consiglio per
la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Lo riprendiamo oggi: “«Sceso dalla
barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come
pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Marco, 6, 34).
Un’intensa partecipazione allo struggimento di Gesù traspare dal motu proprio
Ubicumque et semper, quando il Papa, citando Giovanni Paolo II, considera la
situazione di «interi Paesi e Nazioni ora messi a dura prova e talvolta perfino
radicalmente trasformati dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del
secolarismo e dell’ateismo». La Chiesa, infatti, ogni giorno mendica dal Signore Gesù
il suo sguardo sul mondo. Quello che, nel Canone romano, a conclusione del momento
più importante della celebrazione eucaristica, ci fa pregare con queste parole: «Per
Cristo nostro Signore tu, o Dio, crei e santifichi sempre, fai vivere, benedici e doni al
mondo ogni bene». Questo sguardo di autentica com-passione non solo mette i
cristiani al riparo dalla tentazione, sempre incombente, di pensarsi separati dal
«fratello uomo», ma al contrario li spinge a cercare ogni strada percorribile per
condividere l’umana condizione. Oggi in particolare tutti i battezzati sono chiamati
dal Papa a riconoscere e ad affrontare l’inedito frangente in cui Nazioni e popoli di
antica tradizione cristiana sono immersi. Possiamo descriverne in estrema sintesi i
contorni? L’espressione «dura prova» a cui sia Giovanni Paolo II sia Benedetto XVI
hanno fatto ricorso per delineare la situazione attuale è molto eloquente.
L’occidente, che un tempo si poteva dire cristiano, si trova oggi a fare i conti con
quello che Henri de Lubac chiamò «il dramma dell’umanesimo ateo». Queste parole ci
aiutano a diagnosticare il nucleo centrale della dura prova: «Non è vero che l’uomo,
come sembra che talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È
vero, però, che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo contro l’uomo.
L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». L’indifferentismo, il secolarismo
e l’ateismo che, in modi e versioni diversi, si sono imposti lungo il XX secolo e fino ai
nostri giorni come strade per la liberazione dell’uomo e per il raggiungimento della
sua piena statura, si sono rivelati spesso fallaci. E quella che si annunciava come
un’aurora piena di promesse, si presenta ora con i tratti di una «dura prova». Lo
vediamo nell’incidenza che, almeno in Europa, l’abbandono della fede cristiana ha
avuto sulle forme di vita personale - basti pensare a quanto oggi si afferma e si pratica
nell’ambito degli affetti e del lavoro - e comunitaria, come mostrano le precarie
soluzioni offerte ai problemi più urgenti, per esempio quello della crisi economica,
dell’immigrazione e dello sviluppo integrale dei popoli. Il crudo realismo della diagnosi
proposta dai due Pontefici è lontano dal negare il carattere di affascinante anche se
contraddittoria adventura proprio dei nostri tempi. Ha come scopo di stimolare i
cristiani a non vivere da «uomini impagliati» (Eliot). Davanti alla «prova» il cristiano è
sempre chiamato a decidere per una rinnovata sequela sulle orme del suo Signore che
con fermezza «camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme» (Luca, 19, 28)
per vivere la sua pasqua di morte e risurrezione. Innumerevoli testimoni lungo la
storia della Chiesa ci hanno documentato la possibilità reale di vivere la prova come
occasione privilegiata perché si manifesti la potenza del crocifisso risorto. E l’hanno
fatto sostenuti dallo Spirito che ha donato loro fortezza e speranza. Nella bimillenaria
avventura del popolo cristiano non c’è stato un solo momento in cui non si sia potuto
far conto sulla consolante convinzione di san Paolo (Filippesi, 1, 6): «Sono persuaso
che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al
giorno di Cristo Gesù». E così l’iniziativa del Papa di creare il Pontificio Consiglio per
la Promozione della Nuova Evangelizzazione, si rivela come una preziosa decisione
per condividere la prova degli uomini e delle donne in travaglio entro una società in
drammatica transizione. È una testimonianza di «speranza affidabile» (Spe salvi, n.
1). Poiché Dio si è reso familiare agli uomini, egli è a tutti vicino. Per questo il cuore
di ogni uomo, lo sappia o meno, ha sempre nostalgia di Dio e desidera incontrare Colui
che - si legge nella Gaudium et spes (n. 22) - «svela pienamente l’uomo a se stesso e
gli manifesta la sua altissima vocazione»” (a.p.)
1 - IL PATRIARCA
L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 5 febbraio 2011
Pag 1 Di fronte alla dura prova di Angelo Scola
Riflessioni su «Ubicumque et semper»
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Il sale, la luce, la vita
All’Angelus Benedetto XVI ricorda che il malato è anzitutto una persona
Pag 1 Una sfida sempre nuova di Lucetta Scaraffia
Riflessioni su “Ubicumque et semper”
Pag 7 Internet in seminario per formare il sacerdote del futuro
Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’Educazione
Cattolica. L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole favorisce l’educazione in
una società multiculturale
AVVENIRE
Pag 19 L’Eucaristia ci chiama. Andiamo ad Ancona
Dai vescovi italiani l’invito al Congresso eucaristico in programma a settembre: “Una
sosta preziosa per tutti”
CORRIERE DELLA SERA
Pag 26 Bagnasco: “Mondo femminile? Da ragazzo ebbi una simpatia” di Gian
Guido Vecchi
Genova: il cardinale risponde a una domanda di un liceale
Pag 41 Se la chiesa è come un palasport di Paolo Valentino
Ravasi e Portoghesi: ci si perde. Galantino e Mandara: no, esprimono il sacro
IL FOGLIO
Pag 2 Così 143 teologi vogliono svegliare la chiesa dalla “tomba” del celibato di
Paolo Rodari
4 – MARCIANUM / ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI, ISTITUTI E GRUPPI
LA NUOVA
Pag 36 Teologia e cultura nella Divina Commedia
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Gli invisibili che sfuggono all’aiuto degli altri di Dario Di Vico
Welfare e paradossi. L’esperienza della diocesi di Milano
Pag 1 Facebook, sì al dialogo con i prof ma senza pacche sulle spalle di Paolo Di
Stefano
Pag 29 “Prof, vuoi diventare un mio amico?”. I dubbi degli insegnanti su
Facebook di Lorenzo Salvia
Contatti con gli alunni via Internet. “Un’opportunità”. “No, confusione di ruoli”
AVVENIRE
Pag 2 Per crescere più famiglia di Giuseppe Pennisi
Il passato, l’oggi e la sfida del futuro
Pag 12 Un minore su 4 meno imbarazzato se “parla “ on-line di Giovanna
Sciacchitano
Con internet si evita il confronto diretto. Via di fuga per chi non lega coi coetanei
6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ
CORRIERE DEL VENETO
Pag 10 Bocciato il centro anti-tumori: “Ci guadagnano solo i privati” di Michela
Nicolussi Moro
Padoan: se non firmo, penale da 50 milioni di euro
LA NUOVA
Pag 9 Centro protonico verso la bocciatura. Ispezione secretata di Renzo Mazzaro
I costi della sanità: lente sul project di Mestre
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XXXV All’Ospedale San Camillo elevati livelli di assistenza per tutti i pazienti
del Veneto (intervento del commissario straordinario Pietro Gonella)
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 12 Il decreto Calderoli resta un giallo di Alberto Vitucci
Canal Grande: il ministro ha veramente sbagliato, la competenza è passata allo Stato
Pag 17 Pm10 alle stelle da una settimana di Mitia Chiarin
La Regione convoca i sindaci. A Mestre blocco del traffico il 20 febbraio
Pag 21 Trovati i vandali di Villa Elena di Giorgio Cecchetti
E’ la stessa banda che ha agito in Regione e alo Iuav
Pag 22 Lettera dell’Unità, fotocopie in chiesa di Marta Artico
Il parroco di Dese: “Messaggio valido”. La Onisto non ci sta: “Strumentalizzazione”
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag V Reagiamo da grande città di Pieralvise Zorzi
Pag IX Una forcola speciale da regalare al Papa di L.M.
Pag XIII Rubygate, parrocchiani “contro” di Alberto Francesconi e Alvise Sperandio
Contestati i sacerdoti per le loro esternazioni sulla vita privata del premier Berlusconi:
“Usate la stessa veemenza con i pedofili”. Don Angelo Favero: “Politica? No, solo un
richiama morale”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 L’asfalto dei futuristi, i dogi e il moto ondoso. Di chi è il Canal Grande? di
Sara D’Ascenzo
Comune, Stato, architetti: storia della “strada magica”
8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 1 Immigrazione, per il 70% del Nordest è necessaria di Giancarlo Corò
Pagg 18 – 19 Gli immigrati a Nordest, per il 70% sono necessari di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
Ma il 27% li vede in competizione con gli italiani (giovani soprattutto) per il lavoro.
Pittau (dossier Caritas): “I veneti hanno capito il valore degli stranieri”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 Unità, Regione assente a Roma. Il Quirinale chiede spiegazioni di Marco
Bonet
Zaia non aderisce al Comitato statale, Ruffato pronto a sostituirlo
Pag 3 Abrogata per errore dal governo l’annessione del Veneto all’Italia di
Alessio Antonini
Nel “taglianorme” finisce anche il decreto regio del 1866
… ed inoltre oggi segnaliamo…
L’ESPRESSO di giovedì 10 febbraio 2011
Pag 13 Una realtà inventata di Massimo Cacciari
Il politico deresponsabilizzato non produce più né analisi, né programmi. Solo narrazioni
fantastiche
PANORAMA di giovedì 10 febbraio 2011
Pag 19 La triste parabola del Pd, l'unico partito d'opposizione al mondo che
sceglie l'Aventino e non vuole discutere di nulla di Giuliano Ferrara
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Una debole appartenenza di Giovanni Belardelli
Dietro le polemiche sul 17 marzo
Pag 1 Cultura al femminile, le occasioni perdute di Antonio Polito
Pag 19 La vita dietro un cellophane dei quattro piccoli fantasmi di Goffredo
Buccini
Pochi giochi, niente scuola. Così si cresce nelle baracche
Pag 40 Rom, una questione di responsabilità di Mauro Magatti
Dopo la morte dei 4 fratellini
LA REPUBBLICA
Pag 1 Il fantasma azionista di Ezio Mauro
Pag 1 Sneja la zingara e le baracche della morte: "Ecco come vivono gli
invisibili di Roma" di Francesco Merlo
Pag 56 Riscopriamo l'etica di Marco Aldi
Agamben: "Provate a vivere secondo le vostre idee"
LA STAMPA
La vera partita comincia soltanto ora di Gian Enrico Rusconi
AVVENIRE
Pag 1 Crudele e ingiusta di Lucia Bellaspiga
L’ira di Englaro contro le suore di Lecco
Pag 2 In Sud Sudan vittoria senza ombre ma la partita resta da giocare di Giulio
Albanese
Il “contagio” egiziano e il ruolo delle grandi potenze
Pag 5 I conti non tornano
Pag 27 Atei e credenti, insieme oltre la crisi di Lorenzo Fazzini
Parla il prete psicoanalista Bellet
LA NUOVA
Pag 1 Federalismo, in troppi danno i numeri di Mario Bertolissi
AVVENIRE di domenica 6 febbraio 2011
Pag 2 L’Europa orfana ritrovi la sua memoria di Carlo Cardia
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1 - IL PATRIARCA
L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 5 febbraio 2011
Pag 1 Di fronte alla dura prova di Angelo Scola
Riflessioni su «Ubicumque et semper»
«Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano
come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Marco, 6,
34). Un’intensa partecipazione allo struggimento di Gesù traspare dal motu proprio
Ubicumque et semper, quando il Papa, citando Giovanni Paolo II, considera la situazione
di «interi Paesi e Nazioni ora messi a dura prova e talvolta perfino radicalmente
trasformati dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo».
La Chiesa, infatti, ogni giorno mendica dal Signore Gesù il suo sguardo sul mondo.
Quello che, nel Canone romano, a conclusione del momento più importante della
celebrazione eucaristica, ci fa pregare con queste parole: «Per Cristo nostro Signore tu,
o Dio, crei e santifichi sempre, fai vivere, benedici e doni al mondo ogni bene». Questo
sguardo di autentica com-passione non solo mette i cristiani al riparo dalla tentazione,
sempre incombente, di pensarsi separati dal «fratello uomo», ma al contrario li spinge a
cercare ogni strada percorribile per condividere l’umana condizione. Oggi in particolare
tutti i battezzati sono chiamati dal Papa a riconoscere e ad affrontare l’inedito frangente
in cui Nazioni e popoli di antica tradizione cristiana sono immersi. Possiamo descriverne
in estrema sintesi i contorni? L’espressione «dura prova» a cui sia Giovanni Paolo II sia
Benedetto XVI hanno fatto ricorso per delineare la situazione attuale è molto eloquente.
L’occidente, che un tempo si poteva dire cristiano, si trova oggi a fare i conti con quello
che Henri de Lubac chiamò «il dramma dell’umanesimo ateo». Queste parole ci aiutano
a diagnosticare il nucleo centrale della dura prova: «Non è vero che l’uomo, come
sembra che talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero,
però, che, senza Dio, non può alla fine dei conti che organizzarlo contro l’uomo.
L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». L’indifferentismo, il secolarismo e
l’ateismo che, in modi e versioni diversi, si sono imposti lungo il XX secolo e fino ai
nostri giorni come strade per la liberazione dell’uomo e per il raggiungimento della sua
piena statura, si sono rivelati spesso fallaci. E quella che si annunciava come un’aurora
piena di promesse, si presenta ora con i tratti di una «dura prova». Lo vediamo
nell’incidenza che, almeno in Europa, l’abbandono della fede cristiana ha avuto sulle
forme di vita personale - basti pensare a quanto oggi si afferma e si pratica nell’ambito
degli affetti e del lavoro - e comunitaria, come mostrano le precarie soluzioni offerte ai
problemi più urgenti, per esempio quello della crisi economica, dell’immigrazione e dello
sviluppo integrale dei popoli. Il crudo realismo della diagnosi proposta dai due Pontefici è
lontano dal negare il carattere di affascinante anche se contraddittoria adventura proprio
dei nostri tempi. Ha come scopo di stimolare i cristiani a non vivere da «uomini
impagliati» (Eliot). Davanti alla «prova» il cristiano è sempre chiamato a decidere per
una rinnovata sequela sulle orme del suo Signore che con fermezza «camminava davanti
a tutti salendo verso Gerusalemme» (Luca, 19, 28) per vivere la sua pasqua di morte e
risurrezione. Innumerevoli testimoni lungo la storia della Chiesa ci hanno documentato
la possibilità reale di vivere la prova come occasione privilegiata perché si manifesti la
potenza del crocifisso risorto. E l’hanno fatto sostenuti dallo Spirito che ha donato loro
fortezza e speranza. Nella bimillenaria avventura del popolo cristiano non c’è stato un
solo momento in cui non si sia potuto far conto sulla consolante convinzione di san Paolo
(Filippesi, 1, 6): «Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona,
la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù». E così l’iniziativa del Papa di
creare il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, si rivela
come una preziosa decisione per condividere la prova degli uomini e delle donne in
travaglio entro una società in drammatica transizione. È una testimonianza di «speranza
affidabile» (Spe salvi, n. 1). Poiché Dio si è reso familiare agli uomini, egli è a tutti
vicino. Per questo il cuore di ogni uomo, lo sappia o meno, ha sempre nostalgia di Dio e
desidera incontrare Colui che - si legge nella Gaudium et spes (n. 22) - «svela
pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione».
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3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 1 Il sale, la luce, la vita
All’Angelus Benedetto XVI ricorda che il malato è anzitutto una persona
Un appello perché l’Egitto ritrovi «la pacifica convivenza, nell’impegno condiviso per il
bene comune» è stato lanciato dal Papa all’Angelus di domenica 6 febbraio. Ai fedeli
riuniti in piazza San Pietro il Pontefice ha anche richiamatola necessità di accogliere la
vita di ogni essere umano, tanto più - ha sottolineato - «quando la persona stessa è
debole, invalida e bisognosa di aiuto».
Cari fratelli e sorelle! Nel Vangelo di questa domenica il Signore Gesù dice ai suoi
discepoli: «Voi siete il sale della terra... Voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 13.14).
Mediante queste immagini ricche di significato, Egli vuole trasmettere ad essi il senso
della loro missione e della loro testimonianza. Il sale, nella cultura mediorientale, evoca
diversi valori quali l’alleanza, la solidarietà, la vita e la sapienza. La luce è la prima opera
di Dio Creatore ed è fonte della vita; la stessa Parola di Dio è paragonata alla luce, come
proclama il salmista: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino»
(Sal 119,105). E sempre nella Liturgia odierna il profeta Isaia dice: «Se aprirai il tuo
cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce,
la tua tenebra sarà come il meriggio» (58,10). La sapienza riassume in sé gli effetti
benefici del sale e della luce: infatti, i discepoli del Signore sono chiamati a donare
nuovo «sapore» al mondo, e a preservarlo dalla corruzione, con la sapienza di Dio, che
risplende pienamente sul volto del Figlio, perché Egli è la «luce vera che illumina ogni
uomo» (Gv 1,9). Uniti a Lui, i cristiani possono diffondere in mezzo alle tenebre
dell’indifferenza e dell’egoismo la luce dell’amore di Dio, vera sapienza che dona
significato all’esistenza e all’agire degli uomini. Il prossimo 11 febbraio, memoria della
Beata Vergine di Lourdes, celebreremo la Giornata Mondiale del Malato. Essa è occasione
propizia per riflettere, per pregare e per accrescere la sensibilità delle comunità ecclesiali
e della società civile verso i fratelli e le sorelle malati. Nel Messaggio per questa
Giornata, ispirato ad una espressione della Prima Lettera di Pietro: «Dalle sue piaghe
siete stati guariti» (2,24), invito tutti a contemplare Gesù, il Figlio di Dio, il quale ha
sofferto, è morto, ma è risorto. Dio si oppone radicalmente alla prepotenza del male. Il
Signore si prende cura dell’uomo in ogni situazione, condivide la sofferenza e apre il
cuore alla speranza. Esorto, pertanto tutti gli operatori sanitari a riconoscere
nell’ammalato non solo un corpo segnato dalla fragilità, ma prima di tutto una persona,
alla quale donare tutta la solidarietà e offrire risposte adeguate e competenti. In questo
contesto ricordo, inoltre, che oggi ricorre in Italia la «Giornata per la vita». Auspico che
tutti si impegnino per far crescere la cultura della vita, per mettere al centro, in ogni
circostanza, il valore dell’essere umano. Secondo la fede e la ragione la dignità della
persona è irriducibile alle sue facoltà o alle capacità che può manifestare, e pertanto non
viene meno quando la persona stessa è debole, invalida e bisognosa di aiuto. Cari fratelli
e sorelle, invochiamo la materna intercessione della Vergine Maria, affinché i genitori, i
nonni, gli insegnanti, i sacerdoti e quanti sono impegnati nell’educazione possano
formare le giovani generazioni alla sapienza del cuore, perché raggiungano la pienezza
della vita.
Pag 1 Una sfida sempre nuova di Lucetta Scaraffia
Riflessioni su “Ubicumque et semper”
«Affrontare con rinnovate forze la sfida dell’annuncio del Vangelo nel mondo, impiegare
tutte le nostre forze perché vi giunga - ha detto Benedetto XVI rispondendo alle
domande di Peter Seewald - fa parte dei compiti programmatici che mi sono stati
assegnati». Il Papa lo afferma con parole chiare, anche se è ben consapevole che non si
tratta di una novità: come è scritto nel motu proprio Ubicumque et semper, «tale
missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi,
delle situazioni e dei momenti storici». Non è da oggi che il problema di inventare nuove
forme di evangelizzazione costituisce una sfida per la Chiesa. Una costante nel tempo,
che ha accompagnato l’attività apostolica cristiana, e nei momenti di più forte crisi
religiosa e istituzionale ha rappresentato una sfida fondamentale e vitale. La storia ci
insegna che proprio in questi frangenti Gesù ha donato alla Chiesa le donne e gli uomini
necessari al rinnovamento; persone eccezionali che hanno saputo capire sino in fondo il
loro momento storico e trovare le risposte giuste, cioè vie, modalità e linguaggi nuovi
per far comprendere e vivere il messaggio evangelico. Certamente, possiamo
considerare che sia stata un segno della grazia divina l’esistenza quasi contemporanea
dei grandi santi che hanno rinnovato la Chiesa in crisi dopo la Riforma: Teresa d’Avila,
Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, Filippo Neri, Carlo Borromeo, che hanno dato
contributi diversi e decisivi per il rinnovamento del cattolicesimo. Un modello di vita
monastica e mistica per le donne è stata Teresa, che fu anche una delle prime e più
grandi scrittrici in lingua spagnola, mentre l’autobiografia di Ignazio costituì un classico
su cui si formarono tanti cristiani, così come i suoi Esercizi spirituali, rivoluzionari in una
società adagiata in una religiosità che si era impoverita. La poesia di Giovanni, il mistico
che ha saputo riconoscere Dio anche nella notte dello scoramento e della depressione,
viene a concludere questo grande trittico spagnolo. Nuovi ordini dinamici e creativi,
come i gesuiti, innovative proposte di vita monastica e di esperienza mistica che hanno
trovato subito accoglienza nella Chiesa ferita dalla Riforma, così come l’Oratorio di
Filippo Neri, e le importanti iniziative nate al suo interno, tra cui gli Annales ecclesiastici
di Baronio. Ed è interessante notare come in questo periodo così fecondo di novità il
rinnovamento culturale sia andato di pari passo con la riforma della vita e
dell’esperienza religiosa. Meno fervido sul piano della cultura, forse, ma altrettanto
positivo su quello del rinnovamento della vita religiosa, è stato il periodo successivo alla
rivoluzione francese e al conseguente attacco subito dagli ordini contemplativi. Le nuove
congregazioni di vita attiva, femminili e maschili, avevano infatti creato le condizioni per
assistere materialmente e spiritualmente le masse stravolte dalla rivoluzione industriale,
aiutandole a non perdere le radici religiose sull’onda della secolarizzazione. I ragazzi di
strada educati da don Bosco, gli immigrati assistiti da madre Cabrini ritrovavano, nella
mano che li accoglieva con amore, anche la ragione per non allontanarsi dalla fede. Nel
difficile, e per molti versi drammatico, secolo appena trascorso dobbiamo ammettere che
molti tentativi di rendere il cristianesimo più attuale si sono rivelati sbagliati, e non
hanno avuto esiti positivi: pensiamo per esempio ad alcune forme di teologia della
liberazione, o all’avvicinamento a esperienze di multireligiosità, anche a costo di mettere
in secondo piano la verità cristiana. Oggi ci troviamo davanti a una strada ancora poco
chiara, a un compito che la sovrabbondanza di voci mediatiche contrarie rende molto
difficile. Ma è anche vero che, dopo decenni, ci troviamo in un momento di nuovo aperto
all’ascolto del Vangelo. Le grandi utopie secolari che hanno cercato di sostituire la
religione nel mondo occidentale si sono rivelate illusioni pericolose: dopo il crollo del
comunismo, oggi assistiamo a una crisi del modello di vita incentrato
sull’autorealizzazione individuale, a un fallimento della rivoluzione sessuale che doveva
assicurare a tutti la felicità e invece ha portato solo solitudine e dolore, e quindi a una
più reale possibilità di essere ascoltati. Ci sono settori, come l’educazione, in crisi
drammatica, e altri, come la sanità, dove si vivono nella concreta emergenza quotidiana
gravi problemi bioetici, che richiedono attenzione da parte della Chiesa, e offrono
occasioni di evangelizzazione che bisogna imparare a cogliere. In attesa di nuovi santi e pregando perché arrivino - bisogna tutti lavorare su questo progetto che segna un
altro inizio per la trasmissione del messaggio cristiano. Una sfida, che si presenta
sempre sotto vesti diverse, da affrontare e vincere ancora una volta.
Pag 7 Internet in seminario per formare il sacerdote del futuro
Benedetto XVI ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per l’Educazione
Cattolica. L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole favorisce l’educazione in
una società multiculturale
L’emergenza educativa; internet in seminario; l’educazione interculturale; il ruolo
educativo dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole: sono alcuni degli
argomenti proposti dal Papa ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per
l’Educazione Cattolica, ricevuti lunedì mattina, 7 febbraio, nella Sala del Concistoro.
Signori Cardinali, Venerati fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli e sorelle.
Rivolgo a ciascuno di voi il mio cordiale saluto per questa visita in occasione della
riunione plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica. Saluto il Cardinale
Zenon Grocholewski, Prefetto del Dicastero, ringraziandolo per le sue cortesi parole,
come pure il Segretario, il Sottosegretario, gli Officiali e i Collaboratori. Le tematiche che
affrontate in questi giorni hanno come denominatore comune l’educazione e la
formazione, che costituiscono oggi una delle sfide più urgenti che la Chiesa e le sue
istituzioni sono chiamate ad affrontare. L’opera educativa sembra diventata sempre più
ardua perché, in una cultura che troppo spesso fa del relativismo il proprio credo, viene
a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso parlare di verità, instillando
così il dubbio sui valori di base dell’esistenza personale e comunitaria. Per questo è
importante il servizio che svolgono nel mondo le numerose istituzioni formative che si
ispirano alla visione cristiana dell’uomo e della realtà: educare è un atto d’amore,
esercizio della «carità intellettuale», che richiede responsabilità, dedizione, coerenza di
vita. Il lavoro della vostra Congregazione e le scelte che farete in questi giorni di
riflessione e di studio contribuiranno certamente a rispondere all’attuale «emergenza
educativa». La vostra Congregazione, creata nel 1915 da Benedetto XV, da quasi cento
anni svolge la sua opera preziosa a servizio delle varie Istituzioni cattoliche di
formazione. Tra di esse, senza dubbio, il seminario è una delle più importanti per la vita
della Chiesa ed esige pertanto un progetto formativo che tenga conto del contesto sopra
accennato. Varie volte ho sottolineato come il seminario sia una tappa preziosa della
vita, in cui il candidato al sacerdozio fa l’esperienza di essere «un discepolo di Gesù».
Per questo tempo destinato alla formazione, è richiesto un certo distacco, un certo
«deserto», perché il Signore parla al cuore con una voce che si sente se c’è il silenzio
(cfr. 1 Re 19, 12); ma è richiesta anche la disponibilità a vivere insieme, ad amare la
«vita di famiglia» e la dimensione comunitaria che anticipano quella «fraternità
sacramentale» che deve caratterizzare ogni presbiterio diocesano (cfr. Presbyterorum
ordinis, 8) e che ho voluto richiamare anche nella mia recente Lettera ai seminaristi:
«Sacerdoti non si diventa da soli. Occorre la “comunità dei discepoli”, l’insieme di coloro
che vogliono servire la comune Chiesa». In questi giorni studiate anche la bozza del
documento su Internet e la formazione nei seminari. Internet, per la sua capacità di
superare le distanze e di mettere in contatto reciproco le persone, presenta grandi
possibilità anche per la Chiesa e la sua missione. Con il necessario discernimento per un
suo uso intelligente e prudente, è uno strumento che può servire non solo per gli studi,
ma anche per l’azione pastorale dei futuri presbiteri nei vari campi ecclesiali, quali
l’evangelizzazione, l’azione missionaria, la catechesi, i progetti educativi, la gestione
delle istituzioni. Anche in questo campo è di estrema importanza poter contare su
formatori adeguatamente preparati perché siano guide fedeli e sempre aggiornate, al
fine di accompagnare i candidati al sacerdozio all’uso corretto e positivo dei mezzi
informatici. Quest’anno, poi, ricorre il LXX anniversario della Pontificia Opera per le
Vocazioni Sacerdotali, istituita dal Venerabile Pio XII per favorire la collaborazione tra la
Santa Sede e le Chiese locali nella preziosa opera di promozione delle vocazioni al
ministero ordinato. Tale ricorrenza potrà essere l’occasione per conoscere e valorizzare
le iniziative vocazionali più significative promosse nelle Chiese locali. Occorre che la
pastorale vocazionale, oltre a sottolineare il valore della chiamata universale a seguire
Gesù, insista più chiaramente sul profilo del sacerdozio ministeriale, caratterizzato dalla
sua specifica configurazione a Cristo, che lo distingue essenzialmente dagli altri fedeli e
si pone al loro servizio. Avete avviato, inoltre, una revisione di quanto prescrive la
Costituzione apostolica Sapientia christiana sugli studi ecclesiastici, riguardo al diritto
canonico, agli Istituti Superiori di Scienze Religiose e, recentemente, alla filosofia. Un
settore su cui riflettere particolarmente è quello della teologia. È importante rendere
sempre più solido il legame tra la teologia e lo studio della Sacra Scrittura, in modo che
questa ne sia realmente l’anima e il cuore (cfr. Verbum Domini, 31). Ma il teologo non
deve dimenticare di essere anche colui che parla a Dio. È indispensabile, quindi, tenere
strettamente unite la teologia con la preghiera personale e comunitaria, specialmente
liturgica. La teologia è scientia fidei e la preghiera nutre la fede. Nell’unione con Dio, il
mistero è, in qualche modo, assaporato, si fa vicino, e questa prossimità è luce per
l’intelligenza. Vorrei sottolineare anche la connessione della teologia con le altre
discipline, considerando che essa viene insegnata nelle Università cattoliche e, in molti
casi, in quelle civili. Il beato John Henry Newman parlava di «circolo del sapere», circle
of knowledge, per indicare che esiste un’interdipendenza tra le varie branche del sapere;
ma Dio e Lui solo ha rapporto con la totalità del reale; di conseguenza eliminare Dio
significa spezzare il circolo del sapere. In questa prospettiva le Università cattoliche, con
la loro identità ben precisa e la loro apertura alla «totalità» dell’essere umano, possono
svolgere un’opera preziosa per promuovere l’unità del sapere, orientando studenti ed
insegnanti alla Luce del mondo, la «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1, 9). Sono
considerazioni che valgono anche per le Scuole cattoliche. Occorre, anzitutto, il coraggio
di annunciare il valore «largo» dell’educazione, per formare persone solide, capaci di
collaborare con gli altri e di dare senso alla propria vita. Oggi si parla di educazione
interculturale, oggetto di studio anche nella vostra Plenaria. In questo ambito è richiesta
una fedeltà coraggiosa ed innovativa, che sappia coniugare chiara coscienza della
propria identità e apertura all’alterità, per le esigenze del vivere insieme nelle società
multiculturali. Anche a questo fine, emerge il ruolo educativo dell’insegnamento della
Religione cattolica come disciplina scolastica in dialogo interdisciplinare con le altre.
Infatti, esso contribuisce largamente non solo allo sviluppo integrale dello studente, ma
anche alla conoscenza dell’altro, alla comprensione e al rispetto reciproco. Per
raggiungere tali obiettivi dovrà essere prestata particolare cura alla formazione dei
dirigenti e dei formatori, non solo da un punto di vista professionale, ma anche religioso
e spirituale, perché, con la coerenza della propria vita e con il coinvolgimento personale,
la presenza dell’educatore cristiano diventi espressione di amore e testimonianza della
verità. Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per quanto fate con il vostro competente lavoro
al servizio delle istituzioni educative. Tenete sempre lo sguardo rivolto a Cristo, l’unico
Maestro, perché con il suo Spirito renda efficace il vostro lavoro. Vi affido alla materna
protezione di Maria Santissima, Sedes Sapientiae, e di cuore imparto a tutti la
Benedizione Apostolica.
AVVENIRE
Pag 19 L’Eucaristia ci chiama. Andiamo ad Ancona
Dai vescovi italiani l’invito al Congresso eucaristico in programma a settembre: “Una
sosta preziosa per tutti”
1. “Signore, da chi andremo?” (Gv 6,68) è l’icona biblica scelta per illuminare il nostro
cammino personale e comunitario in vista della celebrazione del Congresso Eucaristico
Nazionale, che si terrà ad Ancona dal 3 all’11 settembre prossimi. “Signore, da chi
andremo?” è la confessione che l’apostolo Pietro rivolge a Gesù, a conclusione del
discorso sulla Parola e sul pane di vita, nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. È
anche la provocazione che, dopo duemila anni, ritorna come questione centrale nella vita
dei cristiani. In un contesto di pluralismo culturale e religioso, il problema fondamentale
della ricerca di fede si traduce ancora nell’interrogativo: “La gente chi dice che sia il
Figlio dell’uomo?… Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,13.15). Riscoprire e aiutare a
riscoprire l’unicità singolare di Gesù di Nazaret era già l’intento del Giubileo
dell’Incarnazione del 2000, come pure degli Orientamenti pastorali per il primo decennio
del Terzo millennio. Ha accompagnato la scelta di ripartire dal giorno del Signore, che ha
caratterizzato il Congresso Eucaristico Nazionale di Bari (2005), ed è stato riproposto
con forza ed efficacia dal Santo Padre Benedetto XVI al IV Convegno Ecclesiale Nazionale
di Verona (2006), quando ci ha invitato a far emergere nei diversi ambiti di
testimonianza quel “grande ‘Sì’ che in Gesù Cristo Dio ha detto all’uomo e alla sua vita,
all’amore umano, alla nostra libertà e alla nostra intelligenza; come, pertanto, la fede
nel Dio dal volto umano porti la gioia nel mondo”. Sullo stesso cardine dell’unicità
singolare di Gesù deve svilupparsi la nostra azione pastorale nella catechesi, nella
liturgia, nella spiritualità e nella cultura: occorre ripartire sempre dalla salvezza cristiana
nel suo preminente carattere di avvenimento, che è l’incontro con il Risorto, Gesù il
Vivente. Anche il prossimo Congresso Eucaristico Nazionale intende collocarsi in questo
cammino: riscoprendo e custodendo la centralità dell’Eucaristia e la stessa celebrazione
eucaristica come il “culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da
cui promana tutta la sua virtù” , le nostre Chiese particolari potranno diventare
autentiche comunità di testimoni del Risorto. Preparato e vissuto così, il Congresso
Eucaristico non sarà certo una “distrazione” o una “parentesi” nella vita quotidiana delle
comunità, ma una “sosta” preziosa per metterci di fronte al Mistero da cui la Chiesa è
generata, per riprendere con rinnovato vigore e slancio la missione, confidando nella
presenza e nel sostegno del Signore.
2. Anche il Santo Padre Benedetto XVI, nell’Esortazione postsinodale Sacramentum
caritatis, avverte la necessità di insistere sull’efficacia dell’Eucaristia per la vita
quotidiana. “In quanto coinvolge la realtà umana del credente nella sua concretezza
quotidiana, l’Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno, la progressiva
trasfigurazione dell’uomo chiamato per grazia ad essere ad immagine del Figlio di Dio
(cfr Rm 8,29s). Non c’è nulla di autenticamente umano - pensieri ed affetti, parole ed
opere - che non trovi nel sacramento dell’Eucaristia la forma adeguata per essere
vissuto in pienezza”. Il Papa fa così suo il proposito dei Padri sinodali: “i fedeli cristiani
hanno bisogno di una più profonda comprensione delle relazioni tra l’Eucaristia e la vita
quotidiana”. È questo il punto focale del prossimo Congresso Eucaristico e il senso della
proposta tematica e di approfondimento che si svilupperà sull’arco della settimana
congressuale. Quale pastorale e quale spiritualità fluiscono dall’Eucaristia per la vita
quotidiana? Quali sono i luoghi della testimonianza che il cristiano è chiamato a dare di
Gesù Parola e pane di vita negli ambiti del vissuto quotidiano? Quest’ultima
sottolineatura non rimanda a un livello mediocre di esistenza, bensì mette a fuoco la
concretezza e la profondità della vita, che ogni giorno ci è chiesto di rispettare e amare
come dono e promessa e, insieme, di onorare con impegno e responsabilità. In questo
modo, viene ripresa e completata la tematica del precedente Congresso di Bari, Senza la
domenica non possiamo vivere. È l’invito a non dare per scontato il nucleo essenziale
della fede, a tenere aperto il senso del Mistero che si celebra lungo l’anno nella pratica
della domenica, “giorno del Signore”, da custodire anche come giorno della comunità
cristiana e giorno dell’uomo, del riposo e della festa, tempo per la famiglia e fattore di
civiltà. È forte, infatti, il rischio che una pratica religiosa assidua resti rigorosamente
circoscritta entro spazi e tempi sacri, senza incidere davvero sui momenti quotidiani
della vita familiare, del lavoro e della professione e più in generale della convivenza
civile. È doveroso preoccuparsi dei molti fedeli che non partecipano alla Messa
domenicale, ma dobbiamo anche chiederci come escano dall’Eucaristia domenicale
quanti vi hanno preso parte.
3. “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”. Il testo giovanneo rivela che
Gesù è pane disceso dal cielo per la vita secondo una doppia modalità: non solo come
pane eucaristico, ma anche come pane della Parola di Dio. Nella celebrazione
eucaristica, questi due modi di presenza del Signore prendono la forma di un’unica
mensa, intrecciandosi e sostenendosi mutuamente. È una sinergia che già i Padri
sottolineavano nei loro commenti alla preghiera evangelica del Padre nostro, meditando
l’invocazione: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” (Mt 6,11; cfr Gv 6,32.34-35). Basti
qui citare sant’Agostino, che così si rivolgeva ai “catecumeni” o iniziandi alla preghiera:
“L’Eucaristia è il nostro pane quotidiano, ma dobbiamo riceverlo non tanto per saziare il
nostro stomaco, quanto per sostentare il nostro spirito… Anche quello che vi predico, è
pane; e le letture che ogni giorno ascoltate nella chiesa, sono pane quotidiano, e gli inni
sacri che ascoltate e recitate, sono pane quotidiano”. Con la Costituzione conciliare Dei
Verbum, ripresa dalla recente Esortazione postsinodale Verbum Domini, la Chiesa si è
prodigata perché la Parola di Dio fosse portata con abbondanza al cuore delle
celebrazioni liturgiche e in una lingua percepita dal popolo con immediatezza,
raccomandando al tempo stesso di incrementare la pastorale biblica non in
giustapposizione ad altre forme della pastorale, ma come animazione biblica dell’agire
ecclesiale, avendo a cuore l’incontro personale con Cristo, che si comunica a noi nella
sua parola. Aiutare a scorgere in Gesù, Parola e pane per la vita quotidiana, la risposta
alle inquietudini dell’uomo d’oggi, che spesso si trova di fronte a scelte difficili, dentro
una molteplicità di messaggi: è questo l’obiettivo posto al cuore del cammino verso il
Congresso Eucaristico. L’uomo ha necessità di pane, di lavoro, di casa, ma è più dei suoi
bisogni. È desiderio di vita piena, di relazioni buone e promettenti, di verità, di bellezza e
di amicizia, di santità. Si apre qui un prezioso campo di lavoro, affinché, nel cammino
verso il Congresso Eucaristico e nelle stesse giornate congressuali si promuovano
iniziative di ascolto della Parola, di meditazione e di preghiera. A questo scopo, è stato
preparato il sussidio Signore, da chi andremo?, dove vengono proposte alcune tracce
destinate a sostenere la lettura orante e una più profonda conoscenza del capitolo sesto
del Vangelo di Giovanni. Prima delle tante iniziative, che spesso affaticano e
frammentano l’azione pastorale, è necessario ricuperare anzitutto l’andare e lo stare con
Gesù, credendo nella sua Parola e mangiando il pane dato da lui stesso. Troviamo qui il
punto nevralgico del movimento di attrazione che il Risorto esercita dall’interno della
celebrazione eucaristica. Qui anche noi veniamo attirati nel dinamismo della donazione
che Gesù ha fatto di sé al Padre, animando la sua intera esistenza fino alla morte in
croce per i suoi e per tutti, e manifestando la sua bellezza e forza di trasfigurazione nella
nostra esistenza quotidiana. Non è un caso che Benedetto XVI richiami il rapporto tra
liturgia e bellezza del Mistero celebrato: “La bellezza della liturgia è parte di questo
Mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso,
un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo
dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio
stesso e della sua Rivelazione”. Dall’unità di Parola di Dio ed Eucaristia nasce così un
atteggiamento contemplativo, in grado di dare “forma eucaristica” ai contenuti della vita
quotidiana: il senso di gratitudine per i doni di Dio, la coscienza umile della propria
fragilità, la capacità di accoglienza e di relazioni positive con le persone, il senso di
responsabilità nei confronti degli altri nella vita personale, familiare e sociale,
l’abbandono in Dio come attesa e speranza affidabile.
4. Riscoprire l’unità di Parola ed Eucaristia significa tenere aperta la celebrazione alla
vita quotidiana, tanto nella contemplazione quanto nell’azione. L’agire che ne consegue
è soprattutto la testimonianza, l’evangelizzazione, la missione. Usciamo dalla Messa
cresciuti nella fede e più responsabili. Scopriamo così il volto missionario della tematica
congressuale. Sappiamo quanto i cristiani siano riconosciuti e apprezzati come uomini e
donne di carità, esperti di umanità, socialmente solidali, anche da quelli che non
frequentano la vita della comunità cristiana. Nello stesso tempo, la presenza cristiana
nella società rischia di non essere presa in considerazione, quando addirittura non viene
contestata, come testimonianza di Dio, di Cristo Risorto, di vita eterna e di valori
soprannaturali. Siamo consapevoli e preoccupati del fatto che oggi si sperimenti una
“distanza culturale” tra la fede cristiana e la mentalità contemporanea in tanti ambiti
della vita quotidiana. Tuttavia, abbiamo compreso che questa distanza non ha da essere
considerata con fatalismo, ma al contrario come sollecitazione per scelte incisive nel
nostro modo di essere cristiani. Rientra in questa prospettiva l’opzione di coltivare in
modo nuovo e creativo la caratteristica popolare del cattolicesimo italiano. “Popolarità”
non significa una soluzione di basso profilo, ma la scelta di una fede che si fa presente
sul territorio, capace di animare la vita quotidiana delle persone, attenta alle esigenze
della città, pronta a orientare le forme della coscienza civile. Una sfida in particolare confermata negli Orientamenti pastorali per il decennio, Educare alla vita buona del
Vangelo, - intende raccomandare e incoraggiare la declinazione del tema eucaristico:
l’agire pastorale deve concorrere a suscitare nella coscienza dei credenti l’unità delle
esperienze della vita quotidiana, spesso frammentate e disperse, in vista di ricostruire
l’identità della persona. Essa, infatti, si realizza non solo con strategie di benessere
individuale e sociale, ma con percorsi di vita buona, capaci di stabilire una feconda
alleanza tra famiglia, comunità ecclesiale e società, promuovendo tra i laici nuove figure
educative, aperte alla dimensione vocazionale della vita.
5. L’Eucaristia per la vita quotidiana diventa così anche il luogo di germinazione delle
vocazioni. La storia della Chiesa è la grande prova di questa affermazione: in ogni
stagione, l’Eucaristia è stata il luogo di crescita silenziosa di splendide vocazioni al dono
di sé e all’amore. La ricchezza delle vocazioni a servizio dell’edificazione comune trova
nell’Eucaristia il luogo di espansione nella dedizione incondizionata al ministero ordinato,
alla vita religiosa e monastica, alla consacrazione secolare, al matrimonio e all’impegno
missionario. Riscoprire l’Eucaristia come “grembo vocazionale” è compito della comunità
cristiana, della famiglia – valorizzando non solo i genitori ma anche i nonni –, di quanti si
dedicano all’educazione dei giovani, dei credenti impegnati nel lavoro, nella professione
e nella politica. Ritroviamo qui un invito implicito a impegnarci a dare forma e valore
all’idea della “santità popolare”, che si manifesta nella vitalità del costume cristiano,
nell’unità della famiglia, nella qualità educativa della scuola e degli oratori, nella
ricchezza della proposta cristiana rivolta a tutti nelle parrocchie e offerta nelle
associazioni e nei movimenti. Ciò di cui oggi si sente più bisogno è proprio rendere
visibile giorno per giorno la vita credente, che è altro rispetto al modo corrente con cui si
esprime il sentire diffuso nella gestione del tempo, degli affetti e della presenza sociale.
Nel cammino verso il Congresso Eucaristico vogliamo impegnarci perché cresca e sia
condivisa una rinnovata spiritualità della vita quotidiana. È questa la sfida che abbiamo
di fronte: lo stile di vita nuovo dei credenti deve trasparire in tutta la sua bellezza e
piena umanità. La nostra confessione di fede diviene persuasiva e promettente tutte le
volte in cui noi, discepoli del Signore, testimoniamo con i fatti e non solo a parole la
gioia, la bellezza e la passione di seguire Gesù passo dopo passo.
6. A dare volto a questo obiettivo contribuirà anche la dimensione territoriale del
Congresso Eucaristico, che coinvolgerà direttamente le diocesi che compongono la
metropolìa di Ancona-Osimo: Fabriano-Matelica, Jesi, Loreto e Senigallia. Sarà
l’occasione nello stesso tempo di evidenziare il rapporto tra l’Eucaristia e i “cinque
ambiti” della vita quotidiana, individuati a Verona: affettività, lavoro e festa, fragilità,
tradizione, cittadinanza. Non sarà trascurata la prospettiva ecumenica: oltre alle ragioni
storiche che legano Ancona al vicino Oriente, a dare attualità al dialogo tra Chiesa
d’Occidente e Chiese d’Oriente è il fenomeno dell’immigrazione, con la crescente
presenza di comunità ortodosse nelle nostre terre.
7. Facendo nostre le parole di Benedetto XVI, affidiamo il cammino di preparazione al
Congresso Eucaristico Nazionale e la sua celebrazione alla protezione della Vergine
Maria, venerata con particolare fervore a Loreto, la cui statua le Chiese delle Marche
hanno accolto lungo un anno nella peregrinatio Mariae: “La Chiesa vede in Maria, Donna
eucaristica – come l’ha chiamata il Servo di Dio Giovanni Paolo II –, la propria icona
meglio riuscita, e la contempla come modello insostituibile di vita eucaristica”.
Ancona, 27 gennaio 2011
PERMANENTE
IL
CONSIGLIO
EPISCOPALE
CORRIERE DELLA SERA
Pag 26 Bagnasco: “Mondo femminile? Da ragazzo ebbi una simpatia” di Gian
Guido Vecchi
Genova: il cardinale risponde a una domanda di un liceale
Roma - «Eminenza, ma lei nella sua vita si è mai innamorato di una donna?» . Se sei il
presidente della conferenza episcopale italiana, va da sé, ti devi rassegnare a sentire
una quantità di domande d’ogni genere. Tra conferenze stampa e interviste, però, mai
nessuno gli aveva fatto una domanda così: i ragazzi sanno essere più imprevedibili dei
giornalisti. E il cardinale Angelo Bagnasco, uomo di poche parole, riservato e schivo fino
alla timidezza, ha accennato a un sorriso mentre dialogava, ieri mattina, con i ragazzi
del liceo Martin Luther King di Genova. Un attimo di silenzio, e poi: «Nella scuola media
mi sono accorto di una simpatia nei confronti del mondo femminile. Erano gli anni
Cinquanta e frequentavo una scuola mista». Una «simpatia» che poi «è rimasta così»,
ha raccontato, perché già dalle elementari aveva sentito la vocazione a diventare
sacerdote «e poi sono entrato in seminario e ho seguito la mia strada» . Erano stati i
genitori, entrambi cattolici - il papà Alfredo lavorava in una fabbrica di pasticceria, la
mamma, Rosa era casalinga - a decidere di iscriverlo alla scuola pubblica, prima che il
ragazzo decidesse di frequentare il ginnasio e il liceo classico al seminario arcivescovile
di Genova e proseguisse la sua formazione fino ad essere ordinato sacerdote a ventitré
anni, il 29 giugno 1966, dal cardinale Giuseppe Siri, tra l’altro senza poter sospettare
che proprio lui sarebbe stato il prossimo genovese a diventare arcivescovo di Genova.
Nulla di strano, in fondo. I sacerdoti non arrivano dall’iperuranio, tanto più che le
vocazioni si fanno sempre più mature e nell’ultimo secolo l’età media delle ordinazioni è
progressivamente salita fino a superare la soglia dei trent’anni. Che un giovane prima di
diventare prete abbia potuto innamorarsi - o provare un sentimento di «simpatia», se
era un ragazzino che stava ancora alle medie - è una cosa normale. Del resto, come ha
raccontato pochi mesi fa lo stesso cardinale Bagnasco, si tratta di una scelta libera e
consapevole: «Accogliere liberamente il dono del celibato e percorrerne il sentiero non
implica alcuna mutilazione psicologica o spirituale, né tradisce visioni inadeguate o
immature della sessualità umana». Anche diventare preti, d’altra parte, è «una risposta
d’amore ad una dichiarazione d’amore», ha spiegato il presidente della Cei l’anno scorso,
durante l’anno sacerdotale: «In realtà, vissuto con lo sguardo fisso in Gesù e con cuore
indiviso per il bene della comunità, il celibato richiesto dalla Chiesa latina è
un’esperienza di amore realizzante che fa fiorire l’umanità del sacerdote e la trasforma
in una dedizione incondizionata, che in maniera decisiva contribuisce alla responsabilità
della comunione, alla possibilità dunque che i fratelli "si aggrappino alla cordata", in
ultima istanza alla bellezza divina della Chiesa stessa».
Pag 41 Se la chiesa è come un palasport di Paolo Valentino
Ravasi e Portoghesi: ci si perde. Galantino e Mandara: no, esprimono il sacro
Se diciamo chiesa, il pensiero corre ai grandi templi cristiani del passato, luoghi deputati
della nostra memoria. Ma chi ha modellato le maestose cattedrali del ricordo? Potremmo
citarne una, da San Pietro a Notre-Dame, pensata, eseguita e portata a termine da un
solo architetto? «No - dice Francesco Dal Co, direttore di "Casabella" - a modellarle è
stato il tempo. E noi, oggi, non possiamo più permetterci di avere il tempo come
modello». Forse sta tutto in questa semplice verità la chiave del rebus, che da anni
lacera il colto e l’inclita, la comunità religiosa e quella degli architetti: cos’è o come
dev’essere oggi una chiesa? È solo un luogo di culto, ovvero, per usare le parole di padre
Enzo Bianchi, priore di Bose, la «trasformazione in realtà dell’idea che ogni chiesa è
metafora della presenza della Chiesa di Dio nella città degli uomini» ? E quali sono i
canoni estetici e funzionali, attraverso cui le nuove chiese possono arricchire la polis,
dandole un contributo di solidarietà, aiutandola a integrare il nuovo e il diverso? Curata
da Carlotta Tonon e Massimo Ferrari, aperta dal 21 marzo al 3 aprile al Casabella
Laboratorio di Milano (via Marco Polo 13), la mostra «Quattro chiese italiane» cade nel
mezzo di un dibattito che negli ultimi mesi ha avuto impennate polemiche e curiose
torsioni dialettiche. I progetti scelti per l’allestimento sono la chiesa di San Giovanni a
Ponte d’Oddi, Perugia, di Paolo Zermani; il complesso parrocchiale di San Pio da
Pietrelcina a Malafede, nella periferia sud di Roma, dello studio Anselmi & Associati; la
chiesa di San Carlo Borromeo a Tor Pagnotta, altra marca romana, firmata da
Monestiroli Associati e la chiesa di Gesù Redentore a Modena, realizzata da Mauro
Galantino. È stata proprio quest’ultima a innescare la più recente fiammata della
controversia sull’architettura religiosa: a tre anni di distanza dall’inaugurazione,
ancorché accolto dall’apprezzamento dei fedeli, il tempio emiliano è stato oggetto di
forte critica nientemeno che da Paolo Portoghesi, uno dei padri del movimento postmoderno, per di più ospitato sulle pagine dell’ «Osservatore Romano»: quella di Modena,
sarebbe «la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell’architettura non
basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a
sentirsi pietre viventi». L’attacco mirato di Portoghesi ha spalle poderose, all’interno
della gerarchia ecclesiastica, su cui poggiare. Pochi giorni prima, infatti, era stato il
cardinale Gianfranco Ravasi, in una lectio magistralis alla facoltà di Architettura di Roma,
a lanciare l’allarme, stigmatizzando «l’inospitalità, la dispersione, l’opacità di tante
chiese... dove ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un
palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa
pretenziosa e volgare». Chiamato in causa, Galantino rimanda alle riflessioni maturate
intorno al concorso, indetto nel 1989 dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo
Maria Martini, e da lui vinto con il progetto della chiesa di Sant’Ireneo a Cesano
Boscone: «Non ci s’inventa una chiesa ogni cinque anni. Il principio dello spazio liturgico
nasce dalla ricerca sulle indicazioni del Concilio Vaticano II che sancivano l’indissolubilità
tra celebrante e assemblea, cambiando una tradizione secolare». A Portoghesi, che pur
lodando la qualità dell’opera, lo accusa di mettere in crisi la «tradizionale unità della
comunità orante» e si domanda «perché ci si guarda in faccia?», l’architetto milanese
risponde che nel «recinto sacro della chiesa di Modena, declinato come spazio esterno,
terra-acqua-luce-sole che attorniano l’assemblea, i fedeli si dispongono, su specifica
richiesta della comunità parrocchiale, come intorno al tavolo, ricostruendo idealmente
l’ultima cena». È però dall’interno stesso di Santa Romana Chiesa, che salgono voci e
opinioni dissonanti da Ravasi, a difesa appassionata del vasto programma di costruzione
dei nuovi edifici sacri lanciato dalla Cei e rivelatosi una straordinaria opportunità
urbanistica, non ultimo per la puntigliosa assegnazione degli incarichi attraverso concorsi
d’architettura tutti andati a buon fine, autentica anomalia positiva nel panorama italiano.
«Probabilmente, se guardiamo al passato, troviamo esempi d’interventi non riusciti, che
danno ragione al cardinale Ravasi - ammette monsignor Ernesto Mandara, vescovo
ausiliario responsabile dell’edilizia di culto nella diocesi di Roma - ma dei risultati degli
ultimi anni io sono profondamente soddisfatto. Le chiese realizzate esprimono molto
bene sia il senso del sacro sia quello dell’accoglienza». Mandara rivendica il rigore dei
criteri con cui seleziona gli architetti, soprattutto «il rispetto del legame tra liturgia e
edificio» che si aspetta da ogni progetto, anche se è poi «l’architetto, in piena autonomia
e secondo la sua sensibilità, a doverlo leggere nel modo più appropriato». E quanto
all’obiezione, sollevata da alcuni, secondo cui le chiese dovrebbero farle i progettisti
credenti, il monsignore sorride: «Resto perplesso, mi sembra un visione talebana della
fede». Dal Co prende spunto dal concetto dell’accoglienza: «Si guarda solo all’oggetto,
ma nessuno si preoccupa di ricordare se ciò che sta intorno sia bello o brutto». È un
fatto che i nuovi edifici di culto sorgano tutti dove ce n’è più bisogno, cioè in luoghi
sperduti, nelle aree disagiate, degradate o abbandonate dei centri urbani: «Così come le
chiese anticamente erano non solo i luoghi del culto, ma anche il posto dove le persone
s’incontravano, cercavano rifugio e protezione, così oggi le nuove chiese nelle periferie
emarginate affrontano anche il problema della comunità, rispondono cioè al bisogno
d’integrazione delle nuove moltitudini, sono luoghi d’incontro che si esprimono nelle
forme e nei linguaggi del nostro tempo». Che non sono poi forme e linguaggi così
esecrabili. In fondo, ricorda Dal Co, se c’è stato un secolo attraversato dall’architettura
religiosa, questo è stato il Novecento. «Il secolo nato all’insegna della morte di Dio,
proclamata da Nietzsche, è quello che ne ha visto una straordinaria fioritura, dalla
Sagrada Família a Ronchamp, visitate ogni anno da milioni di persone. La cattedrale
gotica era il frutto della Scolastica. Ma di fronte a un pensiero che escludeva la presenza
di Dio, mentre rimaneva forte il bisogno del sacro, l’architettura moderna ha saputo
mobilitare muscoli e tendini in cerca di una risposta».
IL FOGLIO
Pag 2 Così 143 teologi vogliono svegliare la chiesa dalla “tomba” del celibato di
Paolo Rodari
Roma. Quando Judith Könemann, pedagoga delle religioni di Münster, ha scritto assieme
ad altre otto persone un appello per. una "profonda riforma della chiesa cattolica"
(s'intitola "Chiesa 2011: una svolta necessaria'') non pensava di riscuotere tanto
successo. Dice: "Evidentemente abbiamo colpito nel segno". Infatti, in pochi giorni, i
teologi firmatari dell'appello sono diventati 143, per la maggior parte tedeschi, austriaci
e svizzeri: "Le adesioni sono state tante e molti sono quelli che in privato hanno
espresso il proprio consenso ma non hanno firmato per timore di ritorsioni da parte del
loro vescovo". Insomma, si tratta di un agguerrito gruppo di persone che grazie al
grande spazio che hanno dato loro i principali quotidiani tedeschi è riuscito a fare
arrivare la propria voce fino a Roma. Chiedono la fine dell'obbligo del celibato,
l'ordinazione di donne prete, più partecipazione del popolo nella scelta dei vescovi, la
fine del "rigorismo morale" che attanaglia Roma, il Vaticano, le gerarchie. Sull'agenzia di
stampa cattolica della diocesi di Vienna, Kath.net, è Guido Horst, direttore in Germania
di Vatican Magazine, a dire che i cattolici non si scompongono perché si tratta
semplicemente di richieste di "stampo protestante che nulla hanno a che vedere con la
vita della chiesa", Eppure, lo scrive lo stesso Horst, qualcuno Che si scompone c'è. Sono
i vescovi tedeschi, le gerarchie di una chiesa che dopo l'annus horribilis delle rivelazioni
sulla pedofilia nel clero di Germania - i casi verificatisi nel collegio Canisius di Berlino
sono una ferita che 'ancora sanguina - sembrano incapaci di reagire. L’origine della
protesta è qui: la pedofilia nel clero. E' nello sconquasso che ha investito la chiesa
tedesca nei mesi trascorsi che i 143 trovano lo spunto per chiedere che tutto cambi.
Forti del montare dell'indignazione in molti fedeli, i teologi affondano il coltello nella
carne dei vescovi, trovandola particolarmente molle. E, infatti, è principalmente a loro,
ai vescovi della Germania, che il Papa sembra si sia voluto rivolgere due giorni fa.
L’occasione è stata l'ordinazione episcopale di cinque presbiteri nella basilica di San
Pietro. Benedetto XVI ha tenuto un'omelia dedicata alla figura del vescovo il cui testo,
non a caso, è stato diffuso da subito in tedesco. Fatto inusuale, che dice della volontà
del Papa di dire qualcosa ai confratelli del suo paese. Che cosa? Una chiamata il non
cedere allo spirito del mondo. "Il pastore non deve essere una canna di palude che si
piega secondo il soffio del vento, un servo dello spirito del tempo", ha detto il Papa. E
ancora: "L’essere intrepido, il coraggio di opporsi alle correnti del momento appartiene
in modo essenziale al compito del pastore". Erano ventidue anni che in Germania non
c'era una "rivolta" di teologi comparabile a questa dei 143: nel 1989 più di 220 studiosi
protestarono nella "Kölner Erklärung" (la "Dichiarazione di Colonia'') contro lo stile
direttivo di Giovanni Paolo II, che tra le sue "colpe" aveva la nomina del cardinale
Joachim Meisner ad arcivescovo di Colonia nonostante il parere contrario delle anime
liberai della chiesa. Allora come oggi il tema è generale. Non si tratta soltanto del
celibato dei preti. Si tratta di una riforma che investa tutta la chiesa, il suo governo, la
sua organizzazione, l'esercizio del potere. Certo, il celibato è uno dei temi forti. Anche
perché, come hanno ricordato sempre i media tedeschi, negli anni Settanta diversi
teologi (tra loro anche Joseph Ratzinger, Karl Lehmann e Walter Kasper) firmarono un
documento nel quale consideravano l'abolizione del celibato per i preti una delle possibili
risposte alla scarsità di vocazioni. Nell'ultimo libro con Peter Seewald "Luce del mondo",
Ratzinger torna sull'argomento: non chiude alla possibilità che vi siano sacerdoti sposati.
Ma dice: "Il difficile viene quando bisogna dire come una simile coesistenza dovrebbe
configurarsi". Ciò che chiedono i 143 è che sul tema non vi sia silenzio. Scrivono: "Dopo
la tempesta dello scandalo pedofilia non può seguire la quiete, perché sarebbe solo la
quiete della tomba. Ora c'è bisogno di cercare soluzioni in uno scambio di opinioni libero
e onesto, per tirare' fuori la chiesa dalla sua paralizzante autoreferenzialità".
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4 – MARCIANUM / ASSOCIAZIONI, MOVIMENTI, ISTITUTI E GRUPPI
LA NUOVA
Pag 36 Teologia e cultura nella Divina Commedia
Oggi alle 18, al centro Pattaro (S. Marco 2760), primo dei tre appuntamenti del ciclo
«Teologia, spiritualità e cultura nella Divina Commedia»: Ylenia Venzo parla su
«Contemplazione e azione nella Divina Commedia: come realizzare la propria umanità
nel pensiero dantesco».
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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Gli invisibili che sfuggono all’aiuto degli altri di Dario Di Vico
Welfare e paradossi. L’esperienza della diocesi di Milano
I sociologi li definiscono «i vulnerabili» e sono coloro che hanno subito più di altri i
contraccolpi della Grande crisi. Prima che scoppiasse la recessione non vivevano in
condizione di povertà o marginalità assoluta, ora però vi sono precipitati a causa di una
sorta di mobilità sociale alla rovescia. Sono operai ed ex operai generici o specializzati
delle piccole imprese della subfornitura, lavoratori e piccoli imprenditori del terziario
debole o del sommerso. I motivi della retrocessione che ricorrono con maggiore
frequenza sono il licenziamento, la fine del contratto a termine o della cassa
integrazione, la riduzione dell’orario di lavoro oppure il fallimento dell’attività
indipendente che con tanti sacrifici avevano messo su e poi la crisi ha spazzato via.
Messi tutti assieme potremmo definirli «il popolo del cardinale» , perché sono proprio
quelli che si sono rivolti al Fondo famiglia lavoro, lanciato dall'arcivescovo di Milano
Dionigi Tettamanzi nella notte di Natale del 2008, come concreta iniziativa di secondo
welfare per un target preciso: le famiglie di lavoratrici e lavoratori colpiti dalla crisi. Alle
quali il Fondo ha erogato da un minimo di 500 euro a un massimo di 4 mila. A due anni
di distanza grazie alla mappa degli interventi siamo in grado di avere una fotografia
estremamente aggiornata dei guasti e del disagio sociale che la crisi ha creato in una
delle zone più ricche del Paese, perché il perimetro dell'arcivescovado di Milano - che
comprende Varese, Lecco, Monza e Sesto San Giovanni - coincide de facto con il
distretto numero uno dell'economia italiana. Laddove si incrociano il capitalismo delle
reti e la piccola/piccolissima impresa manifatturiera. Una fotografia che dobbiamo al
sociologo Aldo Bonomi, che prima ha collaborato con l'arcivescovo per far conoscere il
Fondo ai potenziali sottoscrittori e poi con la sua «Aaster» ha raccolto tutti i dati che via
via emergevano. Complessivamente il Fondo ha erogato aiuti per 10 milioni, uno è stato
inizialmente donato direttamente da Tettamanzi, un altro dalla Fondazione Cariplo, il
resto è stato raccolto con sottoscrizioni e aste organizzate sul territorio (un esempio: il
Golf Club di Carugate) oppure direttamente dalle parrocchie. Tra il marzo 2009 e il
giugno 2010 sono arrivate al Fondo 6.500 domande di sostegno al reddito delle quali
oltre 4.600 sono state accolte. Il picco di richieste si è avuto tra aprile e luglio 2009 e
nell'autunno dello stesso anno, successivamente l'intensità è diminuita non perché fosse
venuto meno nel frattempo il bisogno ma per l'assottigliarsi del Fondo che ha costretto il
consiglio di gestione ad adottare criteri più restrittivi. Alla fine comunque sono state 18
mila le persone che in totale hanno goduto del welfare del cardinale. Un dato spicca da
subito: il 56,5%è di nazionalità straniera a conferma di come le strutture ecclesiastiche,
a cominciare dalla Caritas, rappresentino lo sportello ordinario a cui si rivolgono gli
extracomunitari. Se le nazionalità più numerose tra gli stranieri residenti in Lombardia
sono la rumena e l'albanese, la mappa del disagio segnala nettamente in testa la
componente africana dell'immigrazione con Marocco, Egitto e Tunisia. Un dato che
proprio in questi giorni segnati dall'instabilità politica e sociale dei paesi del Nord Africa
non può che far riflettere. Esaminando la quota degli italiani che si sono rivolti al fondo,
un’annotazione dei ricercatori dell'«Aaster» ci dice che la presenza di un 30%di
beneficiari nati nelle regioni del Mezzogiorno di età inferiore ai 40 anni segnala un
fenomeno di cui non si era mai parlato: le difficoltà di inserimento nella zona di Milano
(anche) dell'immigrazione più recente proveniente dal Sud d'Italia, da dove non
dobbiamo dimenticare negli anni scorsi si è mossa una quantità annua pari a una città di
provincia come Reggio Calabria. C'è dunque nell'area più ricca del Paese una larga fascia
di lavoro vulnerabile che sta passando dalla disoccupazione di breve durata a quella di
lunga e che in assenza di adeguati sostegni e appropriate politiche sociali rischia
l'ingresso nell'area della povertà assoluta e dell'esclusione sociale cronica. Due terzi dei
beneficiari del Fondo infatti sono operai dell' industria e dell'edilizia, in buona parte
generici (49,5%) ma talvolta specializzati (15,4%). Annota Bonomi: «Si può intuire
come dietro questi numeri vi sia soprattutto la popolazione operaia emersa con la
destrutturazione delle grandi concentrazioni manifatturiere fordiste che avevano scritto
la storia di Milano». Ma il nuovo lavoro vulnerabile non è fatto di sole tute blu. È
presente anche una robusta componente di lavoro dequalificato dei servizi, spesso
organizzato da non meglio precisate cooperative di lavoro che prestano braccia
all'edilizia, alla distribuzione commerciale e alla logistica. È un terziario fragile e
fragilissimo che non conosce regole e che cresce soprattutto attorno alle grandi realtà
urbane. Appartiene all'area del lavoro debole l'occupazione femminile nelle attività di
pulizia e in quelle di cura e assistenza alle persone. Non è tutto. Sommando i dati di chi
svolgeva o svolge professioni impiegatizie (4,4%) e che era o è titolare di attività
commerciale o artigianale in proprio (5,7%), si può concludere che almeno un 10%del
popolo del cardinale sia tradizionalmente identificabile con la piccola borghesia. Se poi
depuriamo dalla componente straniera questo dato vediamo che tra i soli italiani che si
sono rivolti al Fondo impiegati, commercianti e artigiani vulnerati arrivano almeno al
15%mentre fa capolino anche un drappello pari all'1,5%composto di imprenditori,
dirigenti e professionisti. È facile pensare, suggerisce Bonomi, che quest'area sia
decisamente più vasta perché impiegati e commercianti sono meno propensi a chiedere
l'intervento delle strutture di sostegno in virtù di una certa «vergogna della miseria» che
ancora influenza i loro comportamenti sociali. Colpisce che il 44%del totale di coloro che
si è rivolta al Fondo dopo aver subito un provvedimento di licenziamento non abbia
inoltrato domanda per ottenere il sussidio di disoccupazione, a dimostrazione di una
sfiducia preventiva verso le istituzioni e di una conseguente lontananza dalle strutture
territoriali del welfare. Solo il 27%dei beneficiari del Fondo ha presentato domanda per il
sussidio post licenziamento, solo il 9,2%ha richiesto la social card e una fetta
ridottissima, il 2,5%, il bonus famiglia della Regione Lombardia. «La limitata efficacia di
questi strumenti - dicono i ricercatori - si accompagna spesso alla scarsa tempestività
delle risposte. Oltre il 40%di coloro che hanno richiesto aiuti pubblici ha ottenuto una
risposta positiva ma al momento della presentazione della domanda al Fondo il numero
di coloro ancora in attesa di una risposta era ancora superiore». E particolarmente
lunghi si sono rivelati i tempi di risposta per il sussidio di disoccupazione. Se
scomponiamo i dati di cui sopra secondo le varie tipologie del territorio
dell’arcivescovado possiamo vedere come per Milano prevalgano le richieste di
intervento del Fondo tra gli impieghi dei settori a basso reddito del mercato del lavoro
metropolitano, mentre a Varese o Lecco la componente operaia raggiunga percentuali
tra il 75 e l'80%. Le cause del disagio/retrocessione sono principalmente il licenziamento
(36,7%) e la fine del contratto a termine (28,1%), seguiti dalla cassa integrazione per il
12,6. Secondo i ricercatori la Grande crisi ha fatto sì che si combinassero due fattori di
vulnerabilità, l'irregolarità dell'impiego e il basso reddito, per cui coloro che si sono
trovati in difficoltà per la perdita del lavoro non avevano risparmi o addirittura erano
indebitati, anzitutto per l'acquisto dell'abitazione. I dati provenienti dal Fondo ci sono
utili anche per analizzare la destrutturazione dei nuclei familiari tradizionali che sta
mutando profondamente la composizione della famiglia italiana. Il trend sembra essere
più pronunciato di quanto ci si potesse aspettare visto che la maggior parte dei
beneficiari del welfare del cardinale vive in famiglie mononucleari tipiche (75%), ma è
anche vero che spicca un 17%di famiglie mono genitoriali nella larga maggioranza dei
casi imperniate sulla madre. Ma, fatta la fotografia, quali considerazioni si possono
metter giù «oltre il Fondo» ? Forse l'iniziativa dell'arcivescovo e i dati di Bonomi ci
segnalano una nuova composizione sociale di Milano e un pezzo della Lombardia.
Mostrano una nuova questione operaia, l'esigenza di capire meglio dove stia andando il
terziario urbano, l'inconsistenza per i vulnerabili degli ammortizzatori sociali ereditati dal
Novecento, i ritardi nell'aggiornare il welfare. Bonomi aggiunge che «i mercati del lavoro
secondari nel nostro Paese sono sempre esistiti però ora i confini sono divenuti troppo
sottili». E la stessa distinzione tra insider e outsider sembra perdere consistenza, per
sfumare in un'articolazione di posizioni concatenate. Pericolosamente concatenate, viene
da aggiungere.
Pag 1 Facebook, sì al dialogo con i prof ma senza pacche sulle spalle di Paolo Di
Stefano
Perché no? Del resto, come potrebbe la scuola ignorare le nuove tecnologie? E
soprattutto: perché dovrebbe? Dunque, che gli allievi dialoghino sempre più con i loro
prof via Facebook non è in sé una cattiva notizia. Anzi. Inutile sposare l’anacronismo di
una scuola che imponga steccati insormontabili manco fossimo al tempo di De Amicis:
come se nulla fosse successo, come se le case fossero sempre senza riscaldamento,
come se l’aria fosse quella salubre cantata da Parini, come se fossimo costretti a
muoverci ancora in carrozza per la città. Se il computer rende più facile la
comunicazione, nel lavoro come a scuola, ben venga. Se aiuta a tenere vivo il dialogo
tra le generazioni, se contribuisce a dissipare le ansie in ragazzi sin troppo ansiosi, sia il
benvenuto. In fondo non c’è niente di più simile a una classe scolastica che un sito
sociale: non per nulla, Facebook nacque proprio nell’ambito dei college americani per
semplificare la comunicazione all’interno dei campus. Purché il dialogo non si accontenti
di passare attraverso l’iperspazio per rimanere sospeso nel vuoto pneumatico della
quotidianità scolastica: ma chi lo dice che lo spiraglio del web non apra varchi più ampi,
face to face, per un sano scambio tra maestro e allievo? Certo, le distanze (gerarchiche)
tra un quindicenne e il suo insegnante non si possono (non si devono) cancellare
neanche nel 2011, ci mancherebbe. I rischi sono lì che incombono. Primo tra tutti, che
l’uso di Facebook, così per definizione friendly, autorizzi l’allievo a una sorta di
confidenza da pacche sulle spalle con il prof. Si sa che il canale non è mai neutro, e
spesso e volentieri finisce per incidere sul linguaggio e persino sui comportamenti. È in
quel limite impercettibile che si nasconde il pericolo che la familiarità del mezzo
assecondi la sciatteria della comunicazione. E a complicare le cose, non mancheranno gli
insegnanti che nel social network ci tengano a mostrarsi cyber amicissimi più del lecito
per presentarsi tutti d’un pezzo in cattedra il mattino dopo. E poi. E poi, c’è la solita
minaccia della dipendenza da automatismo compulsivo: «Non ricordo... non so... Già,
chiedo al prof! Anche se è mezzanotte, io sono collegato e sicuramente lo sarà anche
lui». E così avanti, dalle elementari fino all’università.
Pag 29 “Prof, vuoi diventare un mio amico?”. I dubbi degli insegnanti su
Facebook di Lorenzo Salvia
Contatti con gli alunni via Internet. “Un’opportunità”. “No, confusione di ruoli”
Roma - Ricordate il professor Talarico, l’insegnante del film «La scuola è finita» che
vuole fare il giovane, suona la chitarra e durante un’occupazione organizza pure un
concerto sul tetto del disastrato Istituto Pestalozzi? Il professor Gianni Fibbi non c’entra
nulla. Ha 60 anni, non suona la chitarra e insegna grafica al Professionale Datini di
Prato. È su Facebook, per chi non lo sapesse è il secondo sito internet più visitato al
mondo, quello dove si può chiacchierare con l’aggiunta di foto e video. E tra i 200 amici
in lista una trentina sono suoi studenti. «Chi insegna deve conoscere gli allievi - dice ed è su quelle pagine che loro parlano davvero. È una grandissima opportunità per
motivarli allo studio». Non è un caso isolato questo simpatico professore toscano.
Qualche settimana fa il portale skuola. net ha organizzato un sondaggio. «Oltre ai tuoi
coetanei chi hai tra gli amici su Facebook?». Ha risposto «professori» l’8% dei quasi
mille partecipanti. Normale evoluzione della chiacchiera post campanella, oppure c’è
qualcosa di più, qualcosa di diverso e magari di sbagliato? Ieri sul tema si interrogava
Libération, il quotidiano della sinistra francese: è un modo per accendere l’interesse dei
ragazzi oppure si rischia di confondere i ruoli, un po’ come quei genitori che pensano di
essere i migliori amici dei figli? Torniamo al Datini di Prato. Adriano Bolognesi insegna
italiano, di anni ne ha 37, potrebbe essere figlio del suo collega formato internet. Ma la
pensa all’opposto: «Su Facebook neanche ci sono e penso sia sbagliato usarlo con gli
studenti. Il professore deve essere vicino allo studente, per carità. Ma deve rimanere
professore senza trasformarsi in amico. Gli amici loro li hanno già». Chi ha ragione? Tra
pochi giorni negli Stati Uniti, in Virginia, voteranno un documento che raccomanda agli
insegnanti di evitare scambi via sms e via internet con gli studenti. C’è chi teme che il
contatto diretto e «segreto» possa portare a pericolose degenerazioni, peraltro possibili
anche dal vivo. «Non sono mai io a chiedere l’amicizia - dice ancora il professor Fibbi ma se me la chiedono loro perché dovrei dire di no?». Lui racconta che proprio grazie a
Facebook è riuscito a riportare a scuola un ragazzo che aveva deciso di smettere di
studiare. «Non lo vedevo più da giorni, l’ho trovato sulla rete e dopo una settimana è
tornato in classe. Vi sembra poco?». Qualche rischio, ma solo scolastico, lo vede anche
Caterina Grimaldi, docente di italiano allo Scientifico Newton di Roma. A lei, su
Facebook, gli studenti hanno dedicato addirittura un fan club. Ma non l’ha nemmeno
voluto vedere: «Possono nascere simpatie, mettendo a rischio la serenità di giudizio e
l’imparzialità che noi dobbiamo avere ogni giorno. Se c’è qualcosa da dire, parliamoci al
mattino». «È vero - ribatte Antonio, docente in un liceo torinese che invece su Facebook
ha 20 amici studenti - ma i favoritismi sono possibili anche senza internet. E infatti ci
sono sempre stati». Il punto è che Facebook non è per forza un buco della serratura. In
realtà molti insegnanti lo usano come bacheca, certi che quella virtuale sarà controllata
molto più spesso di quella reale in fondo al corridoio. Giulia Marcedda, 18 anni, è una
delle studentesse amiche su Facebook del professore di Prato: «Ma cosa pensate? La
maggior parte dei messaggi sono rivolti al gruppo in cui c’è tutta la classe. Roba di
servizio: domani interrogo, studiate questo, ripassate quest’altro. E funziona».
Funziona? Giuseppe Bertagna, ordinario di Pedagogia all’Università di Bergamo,
premette che «dipende da caso a caso». Ma poi molla il colpo: «I professori parlino con i
loro studenti, costruiscano una scuola che non sia distante e burocratica invece di fare i
confidenziali a distanza. Il rischio è che siano amiconi su Facebook solo per avere un
alibi e farsi i fatti propri in classe. E invece l’educazione ha bisogno di inflessioni della
voce, movimenti delle mani, corrugamenti della fronte...».
AVVENIRE
Pag 2 Per crescere più famiglia di Giuseppe Pennisi
Il passato, l’oggi e la sfida del futuro
Da quindici anni, l’Italia è piatta: il tasso di crescita del Pil è rasoterra. Siamo l’unico
Paese del G7 in cui dal 2001 al 2010 il reddito procapite ha segnato una riduzione dello
0,4% rispetto ad aumenti dell’1% in quasi tutti gli altri. Le prospettive per l’avvenire,
poi, non sono incoraggianti. Venerdì scorso, venti istituti econometrici internazionali
hanno stimato una crescita media attorno all’1,5% per l’eurozona nei prossimi
ventiquattro mesi, ma non superiore all’1% per l’Italia. Ora il Piano nazionale di riforme
(Pnr) varato dal governo a fine 2010 (e all’esame dell’Ue in aprile) propone un
programma di liberalizzazioni per portare al 2% il tasso di crescita entro 2013. In realtà i
primi passi – con le ulteriori concessioni all’oligopolio dei taxi – non sono stati compiuti
nella direzione indicata nel Pnr, ma la decisione di imprimere un’accelerata alla crescita
sembra portare a riforme, anche costituzionali, che rendano fattibili liberalizzazioni (e
vantaggi per i consumatori) là dove più sono necessarie: al livello degli enti locali.
Sarebbe un’illusione, però, pensare che i 'lacci e i lacciuoli' siano il vincolo principale alla
crescita. Le diagnosi sull’appiattimento e il declino, infatti, tengono conto di determinanti
importanti – le restrizioni finanziarie per entrare nell’euro, la recessione internazionale –
ma non della principale: la mancanza di una politica per la famiglia che ha portato a
riduzione della natalità, invecchiamento delle popolazione, contenimento dei consumi
familiari, scelte d’investimento molto prudenziali. Oggi con il 14% degli italiani in età
scolare, e il 20% ultra65enne, solo due terzi della popolazione è in età da lavoro e l’età
media del lavoratore italiano supera i 45 anni. Se le tendenze in atto non muteranno – e
in demografia il cambiamento richiede tempi lunghi – nel 2050 meno del 14% della
popolazione sarà in età scolare e il 34% circa avrà più di 65 anni. Per fare un confronto,
nel periodo del 'miracolo economico', il 24% degli italiani era in età scolare e appena il
9% aveva superato i 65 anni. Due studiosi – uno americano di scuola liberal-liberista,
Charles Kindleberger, e uno ungherese, rigorosamente marxista, Ferenc Jannossy –
esaminando negli anni 70 le determinanti del miracolo economico italiano giunsero alla
medesima conclusione: a determinarlo furono una forza lavoro giovane e ben preparata,
assieme a una famiglia coesa e forte non solo come rete di sicurezza ma come nucleo in
cui veniva sviluppata l’etica del lavoro (e l’etica più in generale). Sia Kindleberger sia
Janossy arrivarono a risultati analoghi per un altro 'miracolo economico', quello del
Giappone, un Paese da 15 anni in ristagno a ragione dell’invecchiamento. Tanto in Italia
quanto in Giappone – aggiungevano i due studiosi – la famiglia era pure il principale
elemento di controllo sociale su scuola e università. Dalla fine degli anni 60, però, quel
poco che c’era, in Italia, di politica per la famiglia è stato via via sbriciolato (svuotando
perfino le poste di bilancio per gli assegni familiari per finanziare le pensioni di
anzianità). La famiglia si è di fatto indebolita, diventando più precaria (anche se la si
descrive con lessico espansivo 'multipla' e 'allargata'). Ha perso il ruolo che aveva in
molti comparti. Primo tra tutti la scuola, leva della buona preparazione della forza lavoro
giovane, motore della crescita, anzi del 'miracolo'. Nonostante i miglioramenti nell’ultimo
lustro, gli studenti italiani di 15 anni d’età, nel 2009 erano ventiquattresimi in classifica
(su 30 Paesi Ocse) nell’indice aggregato del test Pisa di comprensione di lettura, di
scienze e di matematica. L’analisi Ocse precisa che una delle cause è da attribuirsi al
diminuito ruolo della famiglia nell’istruzione. Nel mettere a punto una strategia di
crescita, dunque, occorre fare attenzione a non soffermarsi
secondarie tralasciando la principale.
sulle determinanti
Pag 12 Un minore su 4 meno imbarazzato se “parla “ on-line di Giovanna
Sciacchitano
Con internet si evita il confronto diretto. Via di fuga per chi non lega coi coetanei
Per un quarto dei ragazzi italiani dagli 11 ai 16 anni è più facile essere se stessi su
internet piuttosto che di persona. Il dato sconcertante che dovrebbe indurre a riflettere
genitori ed educatori emerge dal progetto europeo "Eu kds on-line II" che ha raccolto le
interviste di un campione di oltre 25mila studenti e altrettanti genitori. In occasione
della giornata mondiale della sicurezza on-line cerchiamo di capire come viene percepita
e utilizzata la rete dai più giovani e quali sono i pericoli a cui sono esposti. In base alla
ricerca emerge che i ragazzi italiani usano internet per svolgere attività utili e divertenti,
allacciare nuovi legami di amicizia e di intimità o coltivare quelli vecchi. Un terzo di loro
riesce a parlare di più cose su internet rispetto a quando si trovano con qualcuno di
persona. Mentre il 19% parla on-line di cose private che non condivide di persona con
altri. Internet un pericoloso surrogato dei rapporti personali diretti? Secondo la ricerca
non è così. Per "Eu kids on-line" opportunità e rischi della rete sono fortemente
connessi. Perciò quello che può essere divertente per qualcuno può risultare rischioso
per un altro. Bisogna considerare che sperimentare ed esprimere la propria personalità è
un po’ l’essenza dell’adolescenza. Dunque i ragazzi che dicono che è "abbastanza vero"
che è più facile esprimere se stessi on-line (20%) potrebbero semplicemente sfruttare le
opportunità offerte dalla rete. Magari perché discutere di questioni personali on-line è
meno imbarazzante. È invece fonte di qualche preoccupazione il fatto che per il 5% dei
ragazzi italiani è "molto vero" che è più facile essere se stessi on-line. La risposta
potrebbe essere che hanno qualche problema nelle relazioni interpersonali faccia a faccia
oppure perché passano molto, troppo tempo al computer. In base alla ricerca emerge
che non tutti hanno buoni rapporti con i coetanei. Così l’11% non si sente ben accettato,
mentre il 38% solo in parte (dichiarando un "abbastanza"). Sono i ragazzi che hanno
maggiori difficoltà relazionali a sentirsi più se stessi on-line. Proprio per questo secondo
gli esperti questi soggetti sembrano essere i più vulnerabili e quindi più esposti a
pratiche rischiose. In effetti il 57% di coloro secondo cui è più facile essere se stessi online che di persona ha cercato negli ultimi dodici mesi nuovi amici in rete, il 40% ha
aggiunto alla lista degli amici o dei contatti persone mai incontrate off-line, il 16% ha
inviato informazioni personali a persone che non ha mai visto, il 14% ha finto di essere
un’altra persona e il 16% è stato in contatto su internet con persone mai incontrate offline. Dunque secondo gli esperti è importante discutere dei rischi delle relazioni on-line
soprattutto con i ragazzi che hanno problemi con i propri coetanei. Detto questo, resta il
fatto che i ragazzi, per la maggior parte, hanno relazioni positive, si sentono più liberi di
esprimere se stessi on-line, ma evitano a esporsi a situazioni o rapporti di
comunicazione rischiosi su internet. L’82% dei ragazzi italiani è in contatto su internet
con persone che ha conosciuto off-line, il 43% comunica on-line con "amici di amici",
mentre solo il 16% è entrato in contatto con persone mai incontrate off-line. La
percentuale dei ragazzi che hanno un profilo in un sito di social network e che sono in
contatto con "sconosciuti" è del 10%. Il 35% dei ragazzi che usano i siti di "social
network" ha un profilo pubblico, ma solo il 16% pubblica nel profilo il proprio indirizzo o
numero di telefono e solo il 20% dichiara un’età diversa on-line. Il consiglio dei
ricercatori per i ragazzi è molto semplice: mano sul mouse e piedi per terra. Perché con
le vite virtuali si mette in gioco la propria vita.
In Europa i ragazzi trascorrono molto tempo on-line. Il 93% di quelli di età compresa fra
i 9 e i 16 anni navigano almeno una volta alla settimana, mentre il 60% tutti i giorni o
quasi. La ricerca effettuata nei 25 Paesi dell’Unione registra che i bambini cominciano a
usare internet sempre prima. L’età media in cui si inizia a familiarizzare con la rete è 7
anni in Danimarca e Svezia, 8 negli altri Paesi nordici e 10 in Grecia, Italia,Turchia,
Cipro, Germania, Austria e Portogallo. In tutti i Paesi europei un terzo dei bambini di 9 e
10 anni e più dei due terzi (l’80%) dei quindici-sedicenni usano internet ogni giorno. In
Italia il 60% dei ragazzi naviga in rete tutti i giorni o quasi. Non tutto quello che si fa on-
line è negativo. Molte attività sono potenzialmente utili. I ragazzi europei dai 9 ai 16
anni usano internet per i compiti (85%), per giocare (83%), per guardare video (76%) e
comunicare con i propri amici nei programmi di messaggistica istantanea (62%). Una
percentuale più bassa condivide immagini (39%) o messaggi (31%), usa una webcam
(31%), accede ai siti di condivisione di file (16%) o blog (11%). Il 59% dei ragazzi fra i
9 e i 16 anni ha un profilo su un sito di social network, percentuale che in Italia scende
al 57%. Di questi in Italia il 35% ha un profilo pubblico.
Molto spesso i genitori europei non sono consapevoli dei rischi sperimentati dai propri
bambini. Basti pensare che il 40% dei genitori i cui figli hanno dichiarato di aver visto
immagini a sfondo sessuale esclude che i piccoli si siano imbattuti in simili situazioni. In
Italia, ma anche in Portogallo, la percentuale sale al 54% e risulta la più alta tra tutti i
Paesi dell’Unione. Il 56% dei genitori europei i cui bambini hanno ricevuto messaggi
offensivi on-line non ne è a conoscenza. Anche in questo caso in Italia la percentuale
supera la media europea con un 81%. Se si guarda al caso di ragazzi destinatari di
messaggi sessuali, il 52% dei genitori esclude che la navigazione on-line dei propri figli
sia stata disturbata da questo tipo di esperienze. In questa tipologia di rischi l’abitudine
della condivisione dell’esperienza risulta più diffusa in Italia e la percentuale di genitori
inconsapevoli non supera in questo caso il 48%. C’è poi un altro dato che fa riflettere: il
61% dei genitori di ragazzi che hanno incontrato faccia a faccia persone conosciute online ignora quanto sperimentato in prima persona dai propri figli. In Italia la percentuale
di genitori inconsapevoli sale al 67%.
«Anche quando si è diffusa la telefonia mobile dalle ricerche emergeva una maggiore
facilità degli adolescenti a comunicare tramite sms e a sentirsi più sicuri, quando erano
'protetti' dal cellulare». Questo il commento di Giovanna Mascheroni, ricercatrice
dell’Osservatorio sulla comunicazione dell’Università Cattolica e referente nazionale del
Progetto 'Eu kids on-line'. «I ragazzi usano i media anche per sperimentare con la
propria identità e le relazioni sociali in un modo che li espone meno rispetto ai contesti
faccia a faccia».
Non è una fuga dalla realtà?
Analizzando i dati ci siamo resi conto che i ragazzi più a proprio agio on-line sono quelli
che hanno difficoltà relazionali faccia a faccia con i coetanei. Per loro l’uso di internet
potrebbe essere un rischio perché sarebbero esposti rispetto agli altri coetanei in misura
maggiore a situazioni comunicative potenzialmente rischiose. Però non farei
dell’allarmismo. I dati incoraggianti sono per esempio che pochissimi ragazzi divulgano
on-line informazioni personali, quali numero di telefono e indirizzo. Non solo, rari quelli
che danno un’età falsa.
Quali sono in generale i pericoli?
Fortunatamente i rischi che sono percepiti come più pericolosi e più dannosi sono anche
quelli meno diffusi. Pensiamo al bullismo che è un’esperienza che i ragazzi considerano
molto dolorosa e negativa e che però riguarda solo il 2% dei ragazzi italiani. O quello di
incontrare off-line persone conosciute on-line, che interessa solo il 4% dei ragazzi
italiani. Senza contare che spesso si tratta di coetanei e non di persone adulte. Il rischio
di esposizione a contenuti pornografici, immagini sessuali e a contenuti generati da
utenti potenzialmente pericolosi (informazioni su pratiche autolesionistiche o anoressia o
bulimia) sono quelli più comuni, ma verso cui i ragazzi sembrano avere più difese.
Come proteggere i ragazzi?
Si deve cercare di bilanciare le opportunità e i rischi. Cioè rendendoli più consapevoli,
educandoli a essere cittadini digitali. Spiegare loro cosa si può trovare e quali rischi si
corrono.
Cosa possono fare i genitori?
Hanno un ruolo molto importante. I genitori perché il contesto domestico è il contesto
d’uso più diffuso. Se il 49% degli europei ha un computer in camera, in Italia si sale al
62%. Ai genitori italiani bisogna ricordare che è importante condividere e discutere con i
figli quello che fanno on-line. Ma non si può trascurare il contesto scolastico perché
internet è uno strumento che viene usato per socializzare e quindi si deve sensibilizzare
a usi sicuri e responsabili della rete.
Ci sono differenze fra maschi e femmine?
Le ragazze sono più vittime di bullismo e di messaggi a sfondo sessuale. Ai maschi
piacciono i giochi di ruolo e sono più esposti al contatto con sconosciuti.
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6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ
CORRIERE DEL VENETO
Pag 10 Bocciato il centro anti-tumori: “Ci guadagnano solo i privati” di Michela
Nicolussi Moro
Padoan: se non firmo, penale da 50 milioni di euro
Venezia - Nuova mazzata per l’Usl 12 e per il suo dg Antonio Padoan, già nel mirino della
Regione perché responsabile del maggiore disavanzo veneto, accumulato anche a causa
del project financing relativo all’ospedale di Mestre. Gli ispettori guidati da Egidio Di
Rienzo e inviati dalla V commissione su richiesta del segretario della Sanità, Domenico
Mantoan, hanno bocciato l’altro progetto di finanza sottoscritto nel 2005 dall’azienda
lagunare con l’autorizzazione della giunta Galan e riguardante il centro protonico per la
cura del cancro. Tale struttura comporta per il privato (la cordata composta da Varian,
Hideal srl PPP, Gemmo spa, Medipass spa e Impresa società italiana per condotte
d’acqua spa) una spesa di 159.575.000 euro, che in 19 anni e 6 mesi Usl e Regione
rimborseranno con 738.685.200 euro, comprensivi dei servizi di gestione. La relazione
dei tecnici si apre con una bordata: «Allo stato attuale gli studi pubblicati in letteratura
non hanno riscontrato evidenze scientifiche che provino la maggior efficacia clinica della
terapia protonica rispetto alla terapia con acceleratore lineare convenzionale. Sebbene la
terapia protonica susciti grandi aspettative, gli investimenti in questa costosa tecnologia,
soprattutto in un sistema pubblico, non devono quindi seguire l’onda dell’entusiasmo
emotivo ma dovrebbero essere basati sui dati solidi che dimostrino il reale beneficio.
Non è da escludere in via assoluta l’opportunità di una futura acquisizione, tuttavia vista
la contingente situazione economico finanziaria della Regione è opportuno chiedersi se
sia corretto in questo momento investire capitali di ampia portata, sapendo che detto
investimento toglie inevitabilmente risorse ad attività mediche di efficacia ed
appropriatezza già accertate». La mancanza di certezza scientifica rende poi
«impossibile definire un corretto bacino di utenza, quindi non risulta sussistere un
numero di pazienti sufficienti a garantire la produttività ed economicità del centro di
Mestre», nonostante la stima potenziale di 1900 all’anno provenienti dal Veneto più altri
2100 di fuori regione. Ma c’è da considerare la concorrenza di Trento e Pavia, con
relativo «forte rischio» che l’obbligo di raggiungere i 4 mila malati crei domanda
inappropriata, cioè l’utilizzo di terapia protonica su pazienti «che avrebbero potuto
essere curati con acceleratore lineare» . Infine la convenienza. Acquistare adesso una
tecnologia appena uscita comporta una spesa maggiore: in un secondo momento il
prezzo potrebbe scendere. Secondo gli ispettori inoltre il project «tutela particolarmente
il privato, che comunque raggiungerà l’equilibrio finanziario riversando sul pubblico i
maggiori rischi», dunque suggeriscono l’esame di formule alternative. Ora la palla passa
all’assessore Luca Coletto: l’orientamento della giunta è di rescindere il contratto. «Sono
costernato - ammette Padoan - ho agito per nome e per conto della Regione che ha
voluto questo centro, esigendo tutte le garanzie del caso e senza alcuna fretta di firmare
il contratto. Che comunque sottoscriverò, altrimenti dovremo pagare 50 milioni di danni.
Come fanno gli ispettori a dire che non esiste certezza scientifica per una cura adottata
in tutto il mondo, riconosciuta dalla Ue e meno costosa della chemio, pagata 100/150
mila euro a ciclo contro i 22 mila della terapia protonica? Sono sbigottito, i tecnici sono
arrivati a tali conclusioni non parlando nemmeno con me e non valutando i guadagni per
l’Usl di Venezia, che già ora conta 20 mila malati di tumore. Altro che 4 mila all’anno. E
la concorrenza con Trento e Pavia? Il primo centro deve ancora aprire, il secondo è di
nicchia. E’ vergognoso mettere in dubbio un lavoro di 5 anni».
LA NUOVA
Pag 9 Centro protonico verso la bocciatura. Ispezione secretata di Renzo Mazzaro
I costi della sanità: lente sul project di Mestre
Venezia. Arriva il rapporto del servizio ispettivo sul futuro Centro di Terapia Protonica
dell’ospedale di Mestre ed è subito giallo. Come un regista di film polizieschi Leo Padrin,
presidente della commissione sanità, «secreta» il rapporto spiegando ai colleghi che
preferisce parlarne prima con l’assessore Luca Coletto, perché la questione è delicata.
Talmente delicata, parole sue, che «le ricadute potrebbero mettere in discussione la
stessa valenza strategica del Centro». Come urlare in un megafono che gatta ci cova. Si
mette in moto il controspionaggio, tutti si lanciano a caccia del rapporto. Padrin spegne
il telefono e si dà alla macchia. I giornalisti tartassano i commissari in ordine alfabetico.
Quelli del centrosinistra protestano: il servizio ispettivo in sanità è appena passato dalla
competenza della giunta a quella del Consiglio. «Dovrà essere la commissione a decidere
cosa fare - insorge Pietrangelo Pettenò, Rc - ma se tu Padrin te la vedi prima con loro
che con noi, abbiamo azzerato il cambiamento, introdotto peraltro con una legge». La
pensa uguale il Pd: «Con un rapporto ispettivo non si gioca a nascondino», avverte
Claudio Sinigaglia, vicepresidente della commissione. Tutti sono decisi a metterci le mani
a stretto giro. Compreso Dario Bond, capogruppo del Pdl, che peraltro aveva già visto il
rapporto giovedì scorso. Ma solo da fuori: «E’ un malloppone di un centinaio di pagine,
poco più grandi del formato A4 - dice -. Padrin me ne stava parlando ma ero occupato a
fare un’altra cosa». Magari la pubblicità della tisana bunga-bunga che ha messo in
vendita nel suo negozio? «Eh, hanno scritto che è andata a ruba - informa Bond - invece
ne ho venduto solo un centinaio di pezzi». Per forza, la tisana rilassa, il bunga-bunga
eccita, la combinazione è eccentrica, chi la beve a fare? Gira voce che ci sarebbero
«irregolarità sul piano giuridico-aministrativo»: parole che Pettenò ha sentito
pronunciare da Padrin. «No, questa è una sua interpretazione» dice Sandro Sandri,
leghista, ex assessore alla sanità. La dietrologia ricostruisce così le irregolarità: 1) il
Centro realizzato in project financing costa un occhio della testa rispetto a prezzi
praticati altrove; 2) ma non si può più fare marcia indietro perché ormai è affidato e le
penali sono ancora peggiori. «Se è così è l’ultimo attacco al direttore generale Padoan»,
commenta Sinigaglia. Ecco allora Toni Padoan, dg dell’Usl 12 di Mestre: «Escludo nel
modo più assoluto irregolarità o scorrettezze, chi ne parla non sa niente di diritto né di
procedura e ne renderà conto, perché ci sono anche le querele». - Minaccioso? «No, ma
queste discussioni tediose mi hanno scocciato. Tutti parlano di questa vicenda e nessuno
mi ha mai interpellato». - Neanche il segretario regionale alla sanità? «Nessuno. Con
Mantoan ne ho parlato casualmente e quando ho finito di spiegargli la situazione era
d’accordo con me». - Ma non è lui che ha avviato l’ispezione? «Il nuovo segretario viene
da fuori, non sapeva nulla, ha acquisito informazioni come suo diritto. Ma l’ispezione è
un’attività ordinaria della giunta. Non è vero che il Centro di Mestre sarà in concorrenza
con quello di Trento: a Trento hanno bandito una gara per trovare chi lo costruisce non
chi lo gestisce, come noi. Saranno senza il know-how mentre noi l’avremo. Hanno una
sola postazione contro 4 di Mestre. Neanche Pavia regge il confronto, lì trattano ioni
pesanti, non protoni, terapia meno invasiva. In Italia non c’è niente di uguale, siamo
unici in Europa con Monaco di Baviera. La realizzazione ci è stata proposta dalla
Regione, ne stiamo parlando dal 2005 e io ho così tanta fretta di concludere che sono
ancora all’inizio».
Mestre. Il nome in sigla è Ptc, Proton therapy center: ospiterà una macchina che utilizza
fasci di protoni per curare i tumori, in particolare quelli pediatrici, del cervello,
dell’occhio, della prostata. Il fascio punta alla zona tumorale senza coinvolgere tessuto
circostante, senza gli effetti invasivi di chemioterapia e radioterapia. Il centro è
progettato su 4 piani, collegati con l’ospedale all’Angelo. La realizzazione è in projet
financing (finanziamento privato), costo 160 milioni di euro.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag XXXV All’Ospedale San Camillo elevati livelli di assistenza per tutti i pazienti
del Veneto (intervento del commissario straordinario Pietro Gonella)
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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
LA NUOVA
Pag 12 Il decreto Calderoli resta un giallo di Alberto Vitucci
Canal Grande: il ministro ha veramente sbagliato, la competenza è passata allo Stato
Il ministro ha sbagliato decreto. Nuovo giallo sull’abolizione della norma del 1904 che
assegna al Comune in concessione la giurisdizione sul Canal Grande. «E’ stato un
equivoco, quel decreto non può essere abrogato perché è un Testo unico», aveva
tranquillizzato il ministro per la Semplificazione Roberto Calderoli. Peccato che il Regio
decreto a cui si riferiva non sia quello incriminato. La norma abrogata con un colpo di
penna dal ministro è infatti il decreto 721 del 1904. Quello a cui fa riferimento lo stesso
Calderoli nella smentita è invece il 523, sempre del 1904, che parla di «opere idrauliche
in laguna». Dunque il problema esiste. Dal 15 dicembre scorso il Canal Grande non è più
sotto la competenza del Comune. In teoria i vigili urbani non potrebbero più contestare
multe, Ca’ Farsetti non potrebbe decidere sui limiti di velocità e sulle concessioni di spazi
acquei. «E’ stata commessa una grave leggerezza, speriamo siano in buona fede»,
rincara la dose l’assessore alla Mobilità e Traffico acqueo Ugo Bergamo, «e il
ravvedimento deve essere operoso, nero su bianco. Occorre rimediare alla svelta». Non
bastano insomma, secondo l’assessore, le rassicurazioni fatte avere a voce al sindaco
Orsoni. Bisogna agire, «abrogando l’abrogazione» e risolvendo il problema. Un fatto è
certo. Mentre si parla di federalismo e di nuova Legge Speciale viene cancellata una
norma che assegnava al Comune la competenza sulla principale via d’acqua della città.
Proteste generali in città, da destra e da sinistra, categorie economiche, politici e
intellettuali. «Un errore madornale, da dilettanti allo sbaraglio», attacca il senatore del
Pd Felice Casson, primo firmatario della proposta di riforma di Legge Speciale depositata
in Parlamento, «e non è la prima volta che succedono questi guai: anche nella proposta
di legge Brunetta sono state cancellate le due Leggi del 1963 e 1966, qyelle che
prevedevano sanzioni a chi inquina la laguna». Occorre invece, insiste Casson, invertire
la rotta, e riportare il controllo delle acque lagunari sotto un organismo unico presieduto
dal sindaco della città più importante, cioè Venezia. «Certo non si può delegare tutto a
Roma: in questo modo si darebbe ancora spazio ai grandi consorzi e a opere discutibili,
portando via lavoro alle imprese locali». All’attacco del ministro leghista anche Italia dei
Valori. «Calderoli è un ministro centralista e antifederalista», dice il consigliere dell’Idv
Gennaro Marotta, «e ha fatto un bel pasticcio: o è un incompetente oppure prova a fare
qualche porcata, come lui stesso aveva definito la sua riforma elettorale. Non sarebbe la
prima volta, visto che aveva provato ad abolire la legge che puniva le sofisticazioni
alimentari». Comunque finisca la vicenda del Canal Grande, Venezia intende dare una
«svolta» all’intero sistema del dominio statale sulle acque della città. «Al Porto devono
restare solo i canali navigabili», dice Bergamo, «non esiste che il Comune paghi centinia
di migliaia di euro le concessioni al Porto e al Magistrato alle Acque a San Marco». Linea
condivisa anche dai gondolieri. «Le acque e le rive devono essere governate dal
Comune», dice il presidente Aldo Reato.
Pag 17 Pm10 alle stelle da una settimana di Mitia Chiarin
La Regione convoca i sindaci. A Mestre blocco del traffico il 20 febbraio
A Mestre siamo al settimo giorno consecutivo di valori oltre misura per le polveri sottili e
al 21esimo sforamento da inizio anno. Ancora due settimane così e avremo esaurito il
«bonus» di 35 giornate sopra il limite dei 50 microgrammi per metrocubo, previsti
dall’Unione Europea. Smog alle stelle in tutto il Veneto. Dopo il primo allarme lanciato
agli enti locali venerdì scorso, ieri l’Arpav, agenzia regionale per la prevenzione
ambientale, ha confermato che l’aria è pessima. L’alta pressione che mantiene il cielo
sereno su tutto il Veneto «determina condizioni sfavorevoli per la qualità dell’aria».
Conte convoca i sindaci. La lettera partita dal Comune di Venezia più di una settimana
ha prodotto un risultato. E’ di ieri l’annuncio della convocazione del tavolo regionale da
parte dell’assessore regionale all’Ambiente Maurizio Conte. Presidenti di provincia e
sindaci delle città capoluogo sono convocati a palazzo Balbi il 16 febbraio, dicono dalla
segreteria dell’assessore, «per decidere assieme come agire». Bettin: il 20 blocco. «Sì, è
arrivata la convocazione - conferma l’assessore comunale Gianfranco Bettin - speravamo
arrivasse prima. A Mestre il 20 febbraio ci sarà la prima domenica ecologica dell’anno,
con un blocco del traffico. Ci aspettiamo che si prendano decisioni tutti assieme, per una
vera politica di area vasta. Targhe alterne e blocchi se riguardano solo noi sono inutili,
se si agisce su un’area vasta invece no. Mi aspetto una decisione che veda la Regione
assumersi un ruolo forte di coordinamento. Comunque noi di idee e iniziative ne
abbiamo già molte». I dati allarmano. Da mercoledì previsto un miglioramento della
ventilazione sulla costa ma la situazione resta preoccupante nel resto della Regione,
dicono da Arpav. Le centraline anti-smog di Mestre parlano chiaro. Sette giorni
consecutivi di sforamento per la centralina urbana del parco Bissuola, in costante
aumento da una settimana fino al valore di domenica di 129 microgrammi, più del
doppio del limite di 50 microgrammi. Da inizio anno è il 21esimo sforamento, ancora 14
giornate con i valori del Pm10 oltre misura ed esauriremo il bonus di 35 giornate
concesso dall’Unione Europea. A Venezia, la centralina di Sacca Fisola ha calcolato
anch’essa per una settimana di seguito valori oltre misura del Pm10: ultimo dato,
sempre 129 microgrammi. Spenta la centralina di via Fratelli Bandiera a Marghera che a
breve, spiegano dall’Arpav, si trasferirà in via Da Verrazzano per misurare lo smog da
traffico. La protesta. L’associazione Veneto Radicale oggi a Mestre in Municipio presenta
la costituzione come parte civile, con un atto di azione popolare, di un gruppo di
cittadini, a nome delle amministrazioni locali di Venezia, Padova, Treviso, Verona e
Vicenza nel processo contro l’ex assessore regionale Giancarlo Conta, indagato per
omissioni in atti d’ufficio per non aver impedito l’emergenza smog in Veneto, tra il 2005
e il 2010. La «torta» dello smog. E’ bene rilevare come lo smog sia un problema in città
ma anche nel resto della Provincia. 23 sforamenti da inizio anno a Mira, 22 a Spinea
(vicino al nuovo Passante), 18 a Chioggia. L’emergenza coinvolge tutto il territorio.
Secondo dati del 2007 sulla qualità dell’aria che respiriamo incidono per il 31% le
centrali elettriche, per il 21% le attività produttive e per il 17% il traffico su strada. In
questi ultimi anni, complice la crisi, si è notevolmente ridotta l’attività delle centrali e
molte aziende dalle forti emissioni, come Vynils e Montefibre, hanno chiuso i battenti.
Nonostante ciò, il problema delle polveri sottili continua a riproporsi in tutta la sua
gravità. Malattie polmonari e asma sono fortemente correlati con l’inquinamento delle
città.
Pag 21 Trovati i vandali di Villa Elena di Giorgio Cecchetti
E’ la stessa banda che ha agito in Regione e alo Iuav
Cipressina. Gli investigatori del Commissariato di Venezia avrebbero dato un nome e un
volto ai ladri e vandali che in gennaio hanno devastato villa Elena e hanno portato via
tubi di rame, rubinetti e impianti, provocando un danno per circa un milione di euro. Si
tratta di una banda di Favaro Veneto composta da cinque elementi: i poliziotti non
cercavano gli autori di quella devastazione, bensì i ladri che avevano compiuto due furti
in centro storico, quello della notte del 9 gennaio nella sede degli uffici della Sanità della
Regione, a due passi da San Giovanni Evangelista, e il secondo alla facoltà di
Architettura dei Tolentini la notte del 23 gennaio. I sospettati sono stati perquisiti e nelle
loro case sono stati trovati centinaia di buoni mense spariti dagli uffici della Regione (ne
erano stati rubati ben 2500 per un valore di circa 225 mila euro), prova evidente che gli
inquirenti avevano individuato i responsabili. In una delle case perquisite, però, è
spuntato un oggetto in rame che lega la banda anche al colpo a villa Elena. Muri in
cartongesso sfondati, impianti elettrici spariti, rubinetti strappati, stanze allagate,
pavimenti lordati. Da rifare gli spazi pronti per ospitare l’hospice, stanze per i malati di
Alzheimer e altre strutture gestite dall’Opera Santa Maria della Carità. Questo hanno
trovato coloro che sono entrati il 24 gennaio scorso. La devastazione sarebbe durata
poco meno di un mese. Infatti, il responsabile dell’Opera Santa Maria Della Carità c’era
entrato il mese scorso. Non c’erano guardiani, nonostante fosse tutto già pronto per
l’inaugurazione e quindi per ospitare i malati terminali oncologici, chi soffre di Alzheimer,
un centro di riabilitazione e i parenti dei ricoverati. Eppure la Regione, attraverso l’Asl,
aveva speso parecchi milioni di euro per ristrutturare parte dell’ex villa e renderla
operativa. I ladri, all’interno, avevano anche bivaccato, lavorando in grande tranquillità.
Al gruppo di Favaro, gli investigatori del Commissariato veneziano sono arrivati quasi
per caso. Ritenevano di aver individuato alcuni extracomunitari che spacciavato sostanze
stupefacenti in centro storico e avevano messo alcuni cellulari sotto controllo. Un giorno
uno dei telefonini passa di mano e ascoltano una voce di donna che parla di refurtiva di
uno dei due furti di Venezia. Tra l’altro, anche allo Iuav, i ladri avevano devastato cinque
uffici prima di andarsene con 200 euro e alcune merendine. La perquisizione ha poi
confermato i sospetti, quelli di aver individuato non solo gli autori dei colpi a Venezia,
ma anche quello di villa Elena.
Pag 22 Lettera dell’Unità, fotocopie in chiesa di Marta Artico
Il parroco di Dese: “Messaggio valido”. La Onisto non ci sta: “Strumentalizzazione”
Dese. Non lo vuole neanche nominare, il signor B, il parroco di Dese, don Enrico Torta.
Per il pastore della comunità della Natività di Maria il caso Ruby è solo la punta
dell’iceberg. Per questo domenica mattina, a fianco al bollettino parrocchiale, i fedeli
hanno trovato anche le fotocopie della lettera di Concita De Gregorio, direttrice de
L’Unità, dal titolo «Le altre donne». Un articolo nel quale la giornalista parla
dell’esistenza di un altro genere di donne, che non sono piegate al dio denaro. Don
Enrico cassa il signor B e non vuole neppure essere etichettato: «Giudico gli articoli e le
persone, dobbiamo smetterla di catalogare la gente: non ci sono sacerdoti rossi, gialli,
verdi. Quello del prete comunista è un refrain morto da vent’anni. Ho sentito Concita De
Gregorio in tivù: è una donna di grande valore, non sapevo che giornale dirigesse e non
mi interessa neanche. Si tratta esclusivamente di una questione di valori. “B” si
arrangerà con il Padre eterno, il fatto grave è che ci stiamo degradando, non ci sono
punti di riferimento etici, la morale non esiste, tutto è mercificabile, anche le cose più
sacre della vita. Urge il rispetto dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo: invece
per il denaro e il piacere si svende tutto. Questo messaggio può venire da chiunque, da
un vescovo o da una giornalista, non c’è nulla di ideologico nella fotocopia che ho messo
a fianco al foglietto parrocchiale: è un problema antropologico, stiamo discutendo del
tipo d’uomo che vogliamo adesso. Non è una battaglia contro Berlusconi, lui è solo il
rappresentante di un malcostume generale, ma per una nuova moralità contro lo
smarrimento etico». Qualcuno però non l’ha presa bene. Deborah Onisto, parrocchiana
ed esponente del Pdl, in una lettera aperta al sacerdote lancia una frecciatina a don
Enrico. «Nell’invettiva dei parroci di questi giorni - scrive - vedo sicuramente
indignazione ma anche tanta insidiosa strumentalizzazione: la vedo nel preciso momento
in cui alle parole del Signore si affianca la distribuzione di un articolo di una giornalista di
una precisa collocazione politica che interroga gli italiani su personalissime scelte
politiche. Caro don Enrico, partecipo alla tua messa per la grande capacità che hai di
trasferirmi la parola del Signore contestualizzandola, ma ognuno faccia il suo». «Non
sposo alcuna ideologia - ribatte il parroco - tantomeno quella di un giornale di una parte
politica. Concita De Gregorio per quel che mi riguarda è solo una persona per bene, che
scrive cose condivisibili. “B” è il rappresentante di un malcostume generale, al quale i
cristiani debbono rispondere con una proposta forte: oggi l’unica garanzia di serietà
arriva dal presidente della Repubblica Napolitano».
Mogliano. Non è il primo, non sarà l’ultimo don Enrico Torta a cercare di far riflettere i
propri fedeli sul senso della vita e sull’importanza dei valori. Anche don Giorgio Morlin,
parroco della chiesa del Cuore Immacolato a Mazzocco-Torni, due domeniche fa ha
affisso fuori della chiesa e reso disponibile con qualche fotocopia il pezzo della De
Gregorio, intitolato «Le altre donne», dove si parla del caso Ruby e dell’esistenza di un
genere femminile diverso da quello che frequenta certi palazzi del potere. «Ritengo sia
fonte d’ispirazione e di riflessione sullo stato attuale delle cose in Italia, su un certo
esempio - da non imitare - che ci arriva da una classe politica sbandata - ha spiegato
don Giorgio - Non era certo impeto politico il mio, ma spunto costruttivo per una lettura
intelligente, come faccio molte altre volte con altri articoli di quotidiani diversi. Di
Berlusconi, sinceramente, poco mi importa, se non quando coi suoi comportamenti
fornisce un esempio poco gradevole e ancor meno edificante per i giovani e per il
Paese». Nei giorni scorsi anche il parroco della Santissima Trinità, don Angelo Favero,
per molti anni preside del liceo Franchetti, sul foglietto parrocchiale della comunità di
villaggio Sartori, ha pubblicato una discussione colorita che ha per tema i festini di
Arcore.
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag V Reagiamo da grande città di Pieralvise Zorzi
Pag IX Una forcola speciale da regalare al Papa di L.M.
Pag XIII Rubygate, parrocchiani “contro” di Alberto Francesconi e Alvise Sperandio
Contestati i sacerdoti per le loro esternazioni sulla vita privata del premier Berlusconi:
“Usate la stessa veemenza con i pedofili”. Don Angelo Favero: “Politica? No, solo un
richiama morale”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 L’asfalto dei futuristi, i dogi e il moto ondoso. Di chi è il Canal Grande? di
Sara D’Ascenzo
Comune, Stato, architetti: storia della “strada magica”
Venezia - Nemmeno i futuristi (quelli doc: Marinetti, Boccioni, Russolo e Carrà, non gli
uomini del presidente Fini) erano arrivati a tanto. Nemmeno loro, nella follia visionaria
con la quale avevano ridisegnato Venezia togliendola dalle sabbie mobili di un’immagine
cristallizzata per trasformarla nell’avamposto di una modernità industriale e operosa,
avevano osato formulare il pensiero che per ogni veneziano è un tabù: togliere il Canal
Grande a Venezia. Certo, fosse stato per loro l’avrebbero scavato e allargato per farne
un porto commerciale con tutti i crismi e avremmo perso cent’anni esatti (il manifesto
«Contro Venezia passatista» è dell’aprile del 1910) di serenate in gondola al chiaro di
luna, di motoscafi che sfrecciavano ((ora molto meno) lungo la «s» più famosa del
mondo, di ristoranti dai conti a tre zeri che devono la loro fortuna all’affaccio sul
«canalazzo». Ne abbiamo goduto per secoli, per millenni: quel Canale che attraversa la
città lambendo come un serpente il pesce di case e palazzi è molto più antico di Venezia
e la costruzione della città sulle sponde ha dovuto adattarsi al percorso del canale, senza
mai violarlo. Ora che quelle acque, che non sono certo più «chiare e fresche» come
quelle di Petrarca, ma sono sicuramente l’arteria attraverso cui scorre il sangue della
città, potrebbero - ma solo sulla carta! - passare dal Comune allo Stato, Venezia non
può non reagire ferocemente anche solo all’idea che Roma possa mettere le mani su
acque che da sempre è la città a gestire, ad amministrare. A difendere, anche. A vederla
da fuori, pigramente adagiati su un tavolino a godersi il chiaro di luna riflesso nel
«canalazzo», a qualcuno potrebbe pure apparire - provocatoriamente - come una bella
liberazione. Quanto tempo passa il sindaco a dirimere questioni di moto ondoso? Quante
beghe nascono all’ombra degli spruzzi che vaporetti, motoscafi e taxi alzano in Canal
Grande? All’epoca delle riprese ad alto tasso d’azione del film The italian job con Donald
Sutherland e Charlize Theron - era il 2003 - l’allora sindaco Paolo Costa fu accusato di
aver dato alla troupe licenza di moto ondoso per aver concesso ai motoscafi del set, per
esigenze di scena, di sfrecciare indisturbati sollevando tutta l’acqua vietata ai mezzi
nostrani: «Portano indotto e ricchezza», fu la giustificazione. Il film si girò e quelle scene
furono la sola cosa emozionante del remake. Idem per le tariffe degli stazi, i controlli
dell’autovelox, le rive che si rompono, la polizia locale che perderebbe la sua
competenza su chi esagera in Canale, chi corre come un matto, chi entra senza averne il
permesso. Via, tutto dello Stato. Mah... Anche se il parallelo può sembrare azzardato, è
un po’ come nella disfida tra Stato e Regione quando, dopo l’apertura del Passante, il
governo centrale tentò di riacciuffare la riscossione dei pedaggi che aveva affidato alla
Cav. Adesso, per dire, bisognerebbe creare una società statale ad hoc controllata
dall’Anas: semplice, la Canal Grande spa! Perché è indubbio a tutti che quella veneziana
più che una strada semplice è un’autostrada. Non più per la velocità - negli anni ’70 si
correva tre volte tanto - ma per il traffico e l’importanza strategica e storica che il canale
ha da sempre. Basti pensare alla fatica che si è fatta nei secoli solo per costruire i ponti
che permettevano di passare da una riva all’altra dell’acqua. Il primo e più simbolico fu
certamente il ponte di Rialto, che riunì una città fino ad allora letteralmente divisa in
due: de citra una città, de ultra un’altra, come ricorda nel suo I segreti del Canal Grande
Alberto Toso Fei, due mondi affacciati uno nell’altro. Per convincere le autorità a
sostituire il ponte di legno con uno di pietra ci vollero più di tre secoli e i lavori furono
conclusi solo alla fine del ’500: pur essendo sicuri della fedeltà del proprio popolo, i Dogi
ritenevano fosse meglio tenere la città divisa o tutt’al più unita da un ponte malfermo
che era già crollato diverse volte, piuttosto che da un ponte in pietra destinato a durare
fino ai nostri giorni. Le rivoluzioni in acqua, si sa, non riescono bene. Ancora. Provate a
chiedere all’architetto catalano Santiago Calatrava quanto bene vuole a quel progettino
che tanto generosamente regalò a Venezia per fare il sospirato "Quarto Ponte sul Canal
Grande": nemmeno nei suoi incubi peggiori avrebbe immaginato che la burocrazia gli
avrebbe appiccicato un’ovovia per disabili fonte di innumerevoli polemiche. È la vis
veneziana, sempre pronta ad alzare polveroni se si tocca l’acqua «sacra» alla città.
L’acqua della Regata Storica e delle nuotate estenuanti di lord Byron, che amava
misurare se stesso e le sue abilità natatorie in quel canale tanto fascinoso. L’acqua che
vide l’ultimo giorno da uomo libero di Giordano Bruno e l’acqua che appariva più bella
che in tutta la città vista dalle finestre di palazzo Foscari, tanto che i Dogi, quando
avevano ospiti stranieri, domandavano ospitalità ai Foscari. O ancora, e infine, l’acqua
lugubre che scortò l’ultimo viaggio di Wagner nel finale del Fuoco di Gabriele
D’Annunzio. E oggi? Oggi è l’acqua che bagna incessante i palazzi in restauro con le
maxi-pubblicità: dove un tempo il tour in vaporetto regalava le facciate di quel tipico
stile veneto-barocco che ha reso immortale la città, oggi spesso è un fiorire di tacchi a
misura di Kong Kong e dettagli fetish a coprire l’Accademia, o il Ponte dei Sospiri. I
turisti, che a Venezia tornano bambini, ci restano male. Ma che deve fare la città per
sopravvivere? E se davvero il problema passasse allo Stato? Stiamo al gioco: i tassisti
smetterebbero di andare in corteo a Ca’ Farsetti e prenderebbero la strada di palazzo
Chigi per protestare contro nuove licenze. E pagare una multa per eccesso di velocità nel
Canalazzo vorrebbe dire mettere la famiglia su un treno e farsi tutti una bella gita a
Roma. Neanche male, tutto sommato.
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8 – VENETO / NORDEST
IL GAZZETTINO
Pag 1 Immigrazione, per il 70% del Nordest è necessaria di Giancarlo Corò
Testo non disponibile
Pagg 18 – 19 Gli immigrati a Nordest, per il 70% sono necessari di Natascia
Porcellato e Annamaria Bacchin
Ma il 27% li vede in competizione con gli italiani (giovani soprattutto) per il lavoro.
Pittau (dossier Caritas): “I veneti hanno capito il valore degli stranieri”
CORRIERE DEL VENETO
Pag 2 Unità, Regione assente a Roma. Il Quirinale chiede spiegazioni di Marco
Bonet
Zaia non aderisce al Comitato statale, Ruffato pronto a sostituirlo
Venezia - Due sedie vuote, in prima fila. Un brutto colpo d’occhio, visto che si tratta
della presentazione in pompa magna delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità e certo un
buco in platea non è esattamente l’immagine che meglio richiama alla mente i Fratelli
d’Italia. La prima sedia destinata a rimanere orfana, giovedì al Vittoriano, è quella del
presidente della Provincia di Bolzano, Luis Durnwalder, che ieri ha avvertito: «I 150 anni
ci ricordano la separazione dalla nostra madrepatria austriaca. Non volevamo l’Unità nel
1919 non la volevamo nel 1945. Successivamente abbiamo solo accettato il
compromesso dell’autonomia amministrativa» . La seconda, invece, verrà occupata in
extremis dal presidente del consiglio regionale Clodovaldo Ruffato, visto che il
governatore Luca Zaia non ha mosso un dito per far sì che il Veneto aderisse al Comitato
nazionale per le celebrazioni. Un’inerzia che ha fatto del Veneto l’unica Regione del
Paese a rimanere ai margini della festa, provocando l’irritazione del Quirinale, che difatti
ha chiamato chiedendo spiegazioni. La telefonata, partita venerdì dalla presidenza della
Repubblica, è stata dirottata sulla cornetta di Ruffato, caduto letteralmente dalle nuvole.
L’adesione al Comitato interministeriale, infatti, era questione di competenza
dell’esecutivo ed anzi, a voler essere precisi, del governatore in persona. I funzionari del
Colle hanno chiesto per quale ragione, a meno d’una settimana dall’appuntamento nella
capitale dove verrà presentata la mostra delle Regioni delle eccellenze territoriali
allestita al Vittoriano e a Castel Sant’Angelo, il Veneto risultava l’unica Regione d’Italia
mancante all’appello non solo all’evento ma pure nel board del Comitato presieduto da
Giuliano Amato. Errore? Dimenticanza? Precisa volontà politica? «Non ne ho idea» ha
risposto Ruffato, prendendo tempo visto che l’idiosincrasia di Zaia per l’Unità è nota ed
arcinota ed è bastato fare un giro di telefonate per aver conferma che l’inquilino di
palazzo Balbi, semplicemente, fino a quel momento aveva fatto spallucce, se n’era
infischiato. A quel punto, pare sia stato lo stesso Quirinale a suggerire a Ruffato di farsi
attribuire i poteri sostituitivi, così da risolvere lo spiacevole inconveniente e così stamani
si riunirà l’ufficio di presidenza del consiglio per approvare la delibera che sancirà
l’adesione della Regione al Comitato, «così da garantire la presenza del Veneto a queste
importanti celebrazioni, alle quali davvero non possiamo e non vogliamo mancare» dice
Ruffato. Il Pdl, dietro di lui, va giù piatto: «Stavamo rischiando una figuraccia galattica.
Con che faccia andiamo poi a Roma a chiedere più soldi per le Usl, più aiuti per
l’alluvione, più autonomia?». Zaia però non si scompone: «E’ vero, non mi sono mosso
ma la mia inerzia era dovuta al rispetto che nutro per il consiglio. Abbiamo fatto una
legge che, istituendo il Comitato regionale per le celebrazioni, dà pieni poteri
all’assemblea ed al presidente Ruffato su questa materia, compresi, per quel che ne so,
quelli necessari per partecipare al Comitato interministeriale di Amato». Poi il
governatore non rinuncia al contropiede: «Ciò chiarito e rispettando le idee e le
sensibilità di tutti, a cominciare dal presidente Napolitano, mi auguro che non si
trasformi l’Unità nell’ennesima ricorrenza dei dibattiti infiniti, come accadde per i 100
anni, i 120 anni e via discorrendo. L’Italia ha ben altri problemi e la gente lo sa. Evitiamo
per cortesia la paralisi delle elucubrazioni».
Pag 3 Abrogata per errore dal governo l’annessione del Veneto all’Italia di
Alessio Antonini
Nel “taglianorme” finisce anche il decreto regio del 1866
Venezia - Ci hanno provato raccogliendo firme per complessi referendum separatisti, ci
hanno riprovato processando la Repubblica italiana in piazza -e condannandola
ovviamente -e hanno perfino comprato terreni su terreni alle pendici dei monti per
dichiarare indipendente un'intera vallata del bellunese. Hanno perfino costituito bande
armate e hanno sfidato la prigione arrampicandosi sulla cima del campanile di San
Marco, entrando in piazza con un carro armato. Mai nessun indipendentista però
avrebbe pensato che fosse proprio Roma a regalare l'indipendenza al Veneto. Eppure è
andata così: per una leggerezza di qualche tecnico romano -che verrà probabilmente
santificato da una certa porzione di veneti e crocifisso dai vertici politici -nel decreto
«ammazzanorme» entrato in vigore il 16 dicembre 2010 con la firma del ministro per la
Semplificazione normativa Roberto Calderoli, del ministro della Giustizia Angelino Alfano
e perfino del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è finito anche il Regio Decreto
3300 del 4 novembre del 1866 con il quale «le provincie della Venezia e quelle di
Mantova fanno parte integrante del Regno d'Italia». Insomma, con una mano Roma ha
tolto il Canal Grande alla città lagunare abrogando il trasferimento delle competenze e
con l'altra ha restituito alla Serenissima i confini della antica Repubblica di Venezia con
tanto di dominio sulle provincie lombarde fino a Mantova. «Per un momento abbiamo
avuto la fortissima tentazione di dichiararci astro-ungarici - scoppia a ridere il direttore
generale del Comune di Venezia Marco Agostini - ma adesso i tecnici del ministero
stanno lavorando per rimettere le cose a posto». Innanzitutto per scrivere un nuovo
decreto che restituisca il Canal Grande a Venezia che, anche se Calderoli ha
tranquillizzato tutti è, secondo i giuristi del Comune, effettivamente passato a Roma, poi
un secondo decreto per evitare che gli indipendentisti intasino i tribunali combattendo la
loro battaglia per l'indipendenza con la possibile beffa delle vie legali. D'altra parte i
giuristi - dopo essersi ripresi da una lunga serie di risate incredule - concordano sul fatto
che non basta abrogare un Regio Decreto del 1866 per cancellare centocinquanta anni di
storia scritti a chiare lettere sulla Costituzione (la Repubblica resta «una e indivisibile »)
e slegare così il Veneto dal resto d'Italia. Anche alcuni leghisti potrebbero in effetti
restarci male a sapere che l'eventuale -molto eventuale -indipendenza del Veneto
cancellerebbe con un colpo di spugna anche l'istituzione della Regione mettendo fuori
legge lo stesso Luca Zaia e tutta la Giunta a maggioranza verde-Carroccio. E non c'è
dubbio che la mossa di Calderoli abbia ben poco di volontario visto che insieme a un
pezzo dell'Italia con il decreto «taglianorme» del 2009 erano sparite anche le leggi che
fondavano il Comune di Follonica, di Sabaudia, di Aprilia e di Carbonia (già reintegrati
con un decreto salvanorme fatto d'urgenza) e il Tribunale dei minori per cui il ministero
ha dovuto emanare un decreto abrogativo del decreto abrogativo. Mal di testa giuridici a
parte, la confusione generata dal taglio legislativo di Calderoli è destinata ad avere
conseguenze anche sul piano economico. «Indipendenza del Veneto a parte, se il
ministero non chiarirà bene la vicenda sulle competenze sul Canal Grande -ammette
l'assessore veneziano ed ex cassazionista Ugo Bergamo -Il primo ricorso contro una
contravvenzione avrà conseguenze spiacevoli per tutti». Basta pensare che dal 16
dicembre, i vigili non hanno teoricamente più poteri sul controllo del moto ondoso e sulla
velocità delle imbarcazioni che attraversano i quattro chilometri di strada acquea più
famosa del mondo. La «svista» ministeriale sul Canal Grande infatti ha messo a nudo la
giungla intricata di norme che regola le competenze veneziane. Solo per fare un
esempio, l'area del bacino acqueo di fronte a piazza San Marco è divisa tra quattro enti
di competenza - Magistrato alle Acque, Autorità Portuale, Autorità Marittima e Comune
di Venezia - che non sempre si coordinano tra loro per gli interventi. Non solo: sul
bacino San Marco il Comune paga un affitto di seicentomila euro all'anno per avere il
controllo degli stazi e delle rive dove sostano le gondole e i taxi acquei. «E' obiettivo
dell'amministrazione comunale - conclude il consigliere comunale Beppe Caccia che è da
sempre a fianco del sindaco Giorgio Orsoni su questa battaglia - ottenere il trasferimento
di tutta la sovranità e delle risorse che riguardano le acque lagunari. Speriamo che la
"porcata"del ministro Calderoli sia l'occasione per farla finita con il groviglio di poteri e
interessi che complicano ogni giorno la vita di chi voglia vivere, lavorare e difendere la
Laguna di Venezia» .
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… ed inoltre oggi segnaliamo…
L’ESPRESSO di giovedì 10 febbraio 2011
Pag 13 Una realtà inventata di Massimo Cacciari
Il politico deresponsabilizzato non produce più né analisi, né programmi. Solo narrazioni
fantastiche
Tutto sommato potremmo dire che dalla vera tragedia della fine della prima Repubblica
siamo giunti alla farsa-pochade che conclude la mai nata seconda, e così consolarci. Per
apprezzare il "salto d'epoca" basterebbe paragonare il discorso in Parlamento di Craxi
alle autodifese televisive di Berlusconi. Non c'entra nulla. Appunto. Lì un politico di
razza, nel bene e nel male, che denuncia una crisi di sistema e, indirettamente, si
appella ad un generale discorso" di verità", che avrebbe forse anche potuto aprire una
nuova fase della Repubblica; oggi un privato, che vuole giustificare vizi privati, e che
con ogni mezzo difende affari e interessi soltanto suoi. Lì partiti, organizzazioni di
massa, radicati nella vita e nella storia del Paese, che vivevano la propria catastrofe nel
destino dei loro leader; oggi una moltitudine di cortigiani, favoriti, cooptati che non
possono (ancora) abbandonare il padrone per quanta voglia ne abbiano, e che
trasformano il Parlamento non, come si diceva una volta, nell'anticamera dei partiti, ma
nell'alcova di Arcore. É tuttavia temo che le squallide vicende che siamo costretti a
vivere abbiano un significato per certi aspetti ancora più drammatico di quelle di allora.
Sarebbe forse utile alzare lo sguardo per coglierlo. So che è difficile farlo quando
attraversi un pantano, o qualcosa di peggio. So che si corre il rischio di passare per
quelli che vogliono parlar d'altro. Ma bisogna anche scommettere che questo Paese
saprà tornare a ragionare di politica e sul proprio futuro. Il berlusconismo, depurato da
tutte gli evidenti "disturbi" di ordine psicologico che caratterizzano chi lo incarna,
rappresenta la fase estrema di un processo generale di de-responsabilizzazione
dell'agire politico. Il principio di responsabilità implica il "primato" dell'analisi, della
definizione razionale di obiettivi e programmi, che si ritengono rispondenti, appunto,
all'interesse comune, sulla base di trasparenti "calcoli" costi-benefici, e la messa tra
parentesi di ogni altra finalità. Ma questo modello è in radicale crisi da molto tempo. E di
questa crisi il berlusconismo è un prodotto, non certo la causa. Le sue ragioni sono
diverse, ma tutte radicate nell'attuale sistema: dalla formazione di blocchi economicopolitici, dentro i quali è inevitabile collocarsi se si vuoi competere sul mercato politico,
alla fisiologica autoreferenzialità dei grandi apparati tecnocratici, dall'organizzazione
della stessa ricerca, all'economia e alla finanza globali. Di fronte a queste potenze,
quella dell'agire politico tradizionale decade di minuto in minuto. E in proporzione diretta
si accresce la funzione dell'annuncio, della promessa, della ricerca a breve del consenso,
che può essere garantita solo dal possesso di importanti mezzi di informazione e
manipolazione dell'opinione pubblica. L'immaginazione va allora "al potere". Il politico
de-responsabilizzato non produce più né analisi, né programmi, e neppure utopie, ma
narrazioni fantastiche, "spettacoli", "irresponsabili" per natura. Non si tratta di "bugie",
ma di invenzioni. La scena ha realmente sostituito la realtà. Il mondo si è trasformato
davvero in "volontà e rappresentazione". Chi ne è più intimamente convinto, saprà
essere anche il più convincente nel trasmetterne l'immagine. Nessun "piano", nessun
complotto, nessun "grande fratello" a dirigere la partita. Si tratta di processi
intimamente connessi a questa fase del mondo occidentale e dei regimi democratici. È in
gioco lo stesso principio della rappresentanza, poiché l'eliminazione di ogni "principio di
realtà" ha come conseguenza logica l'idea di una "simbiosi" tra il politico e il suo
rappresentato - idea che sta al fondamento di ogni demagogia e di ogni populismo. Il
potere politico tende allora a farsi immanente alla vita dell'individuo. Come il sistema
produttivo è anzitutto produzione dello stesso consumo, così l'agire politico si fa mera
produzione di consenso. Ogni altra finalità tramonta. Berlusconi, a modo suo, interpreta
questo drammatico passaggio. Non ne è né inventore, né regista, ma piuttosto il
perfetto burattino - quello ontologicamente legato alla sua scena, incapace anche solo di
concepirsi fuori di essa. Qualunque sia la parte che è chiamato a recitarvi (e infatti le
vorrebbe tutte per sé), per lui si tratta di vita, non di finzione. I costumi degli italiani
erano forse i più disposti al mondo a condividere questo processo di deresponsabilizzazione dell'agire politico. Anche per questo non sarà affatto né semplice né
breve risalire la china. E non raccontiamoci che basterà pensionare il signore di Arcore.
PANORAMA di giovedì 10 febbraio 2011
Pag 19 La triste parabola del Pd, l'unico partito d'opposizione al mondo che
sceglie l'Aventino e non vuole discutere di nulla di Giuliano Ferrara
Il Partito democratico è oggi l'unico partito di opposizione al mondo a non avere un
candidato per la guida del governo. O, meglio, ad averne due e tutti e due membri
dell'esecutivo in carica: Giulio Tremonti e Roberto Maroni. Il Partito democratico è
l'unico partito di opposizione al mondo che pratica una specie di aventinismo
istituzionale, dedicandosi alle raccolte di firme e alla mobilitazione di piazza senza
trovare la voglia e il tempo per discutere in Parlamento le proposte del governo
sull'economia, il lavoro, il Sud, il debito pubblico e la cresciti, in totale spregio degli
appelli al ripristino della normalità istituzionale fatti a più riprese da Giorgio Napolitano,
capo dello Stato. Non so fino a che punto il segretario dei democratici, Pier Luigi
Bersani, afferri questi concetti politici semplici e li padroneggi. Bersani è intelligente e
duttile, di sua natura, ma il curriculum personale è quello di un amministratore di
regione e di un ministro, due ruoli politici eminenti ma diversi dalla leadership di un
partito. Finché il capo del Pd raccoglie firme, corteggia in piazza il moralismo
postfemminista delle nuove ideologhe del puritanesimo, e discute di scandali sessuali,
sulla scia dell'incredibile e pretestuosa incursione nella vita privata del premier realizzata
con brutalità dalla procura di Milano; il suo personale ruolo di leader e di possibile
candidato a un'alternanza di governo non si costruirà, piuttosto continuerà a disfarsi
nella diaspora politica del tutti contro tutti, e delle discussioni limacciose sul sì o sul no a
un'imposta patrimoniale che espropri la ricchezza sociale italiana a vantaggio di un
rigurgito statalista. Quanto a Tremonti e Maroni, che fanno con rigore ed efficacia il loro
mestiere di badare ai conti pubblici e alla sicurezza, Bersani non può non capire che le
ambizioni sono le ambizioni, questo è vero, ma prima di un passaggio elettorale, e
comunque in una posizione di slealtà verso Silvio Berlusconi e il suo Pdl, nessuno dei
due potrebbe e vorrebbe formalmente o informalmente prestarsi al tipo di manovra di
palazzo auspicata da quanti nel Pdl li indicano come perfetti successori sicari di
Berlusconi e interlocutori credibili. Ernesto Galli della Loggia ha impeccabilmente scritto,
nel Corriere della sera, che quest'incapacità del Pd di darsi una leadership di partito e di
governo, questa sua subalternità organica alla propaganda e al circuito vizioso
dell'antiberlusconismo fondamentalista sono anch'esse un'anomalia italiana. All'origine
di tutto c'è l'attivismo giustizialista dei pm d'assalto. Un attivismo che ammazza i
governi (anche quello di Romano Prodi, fatto fuori da un'indagine che mise in galera la
famiglia del ministro della Giustizia); un attivismo che abbaglia e trascina nel suo gorgo
le opposizioni. Senza di quello, è dal tempo della «vocazione maggioritaria» bipolarista
di Walter Veltroni che sarebbe nata una dialettica virtuosa capace di dare all'Italia la più
elementare delle normalità: un governo in grado di governare, un'opposizione in grado
di controllarlo e di definire una convincente alternativa.
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Una debole appartenenza di Giovanni Belardelli
Dietro le polemiche sul 17 marzo
Poteva sembrare una decisione scontata quella che ha istituito per il prossimo 17 marzo,
e solo per quest’anno, una festa per celebrare i 150 anni dalla nascita dello Stato
italiano. Invece, le critiche sollevate da Emma Marcegaglia e da vari dirigenti
confindustriali hanno mostrato che così, evidentemente, non è. Indirettamente hanno
dunque confermato la capacità che abbiamo nel nostro Paese di dividerci quasi su tutto,
perfino sul festeggiare (e come) una data così particolare e unica. C’è stato anche chi ha
proposto di cancellare semmai il 25 aprile, chi ha proposto di riunificare 2 giugno e 17
marzo (ma qui i pareri si sono divisi tra chi collocherebbe la riunificazione il 17 marzo,
chi preferisce invece spostarla al 2 giugno). Per un estremo paradosso, perfino il
presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni del centocinquantenario, Giuliano
Amato, ha sostenuto che la data del 17 marzo andrebbe ricordata «in modo operoso», e
cioè senza fare vacanza a scuola o al lavoro. Resta inspiegabile perché analoghi
festeggiamenti operosi non siano mai stati fin qui proposti per altre giornate festive. Il
punto non è stabilire se le singole motivazioni dei contrari alla festa (non contrari però,
aggiungo a scanso di equivoci, all’unità nazionale in sé) siano o meno da buttar via. Il
punto è che quelle motivazioni e perplessità sembrano non cogliere che, se gli Stati non
vivono certo solo di feste, bandiere e inni, di simboli insomma, non possono nemmeno
vivere senza queste cose. Una nazione, sostenne più di un secolo fa il francese Ernest
Renan, è fatta di due elementi: una «ricca eredità di ricordi» e la volontà attuale di
vivere insieme. Festeggiare, per una volta sola, il 17 marzo ha a che fare evidentemente
con la prima delle due cose. E colpisce che nessuno dei contrari all’istituzione di un
giorno festivo abbia apprezzato come - in un Paese abituato a dividersi non poco sulla
propria storia - alla fine la Lega abbia accettato la decisione del governo di cui fa parte
di istituire una festa per ricordare l’Unità d’Italia. È evidente che i festeggiamenti del 17
marzo non avranno (e come potrebbero avere?) la capacità di dare o restituire agli
italiani quella consapevolezza delle ragioni del vivere insieme che sembra da tempo
appannata. Cos’altro indicano le altissime percentuali di evasione fiscale (e dunque il
mancato rispetto di un principio base della moderna democrazia rappresentativa: no
taxation without representation) se non che molti sentono di non appartenere davvero
al loro Paese? Cosa indica il rapporto conflittuale e problematico di milioni di italiani con
l’autorità dello Stato nelle sue varie forme se non una percezione assai debole (almeno
rispetto ad altri Stati europei) della loro appartenenza a una comunità nazionale?
Certamente non sarà l’alzabandiera disposto in tutta Italia per il 17 marzo, non saranno
gli inni e i discorsi di quel giorno, non saranno i fuochi d’artificio finali, non sarà
insomma il semplice giorno di festa a rafforzare un sentimento di appartenenza
nazionale da tempo indebolito e in crisi. Ma che Paese sarebbe - anzi, in un certo senso,
esisterebbe davvero - un’Italia che non ritenesse il 150° anniversario della propria
nascita meritevole di un’apposita festa?
Pag 1 Cultura al femminile, le occasioni perdute di Antonio Polito
Le invereconde notti di Arcore sollecitano molte riflessioni sul Drago (per usare la
metafora di Veronica Lario) ma ancor più ne stanno provocando sulle vergini, o presunte
tali, che gli si offrivano. Soprattutto da parte del movimento delle donne, resuscitato
dallo scandalo eppure già diviso tra chi vuol far la morale e chi teme il moralismo.
L’incertezza deriva dal silenzio talvolta complice con cui una parte delle donne ha
accettato in questi anni il diffondersi di stili di vita e modelli culturali che sono apparsi
moderni e avanzati, e in realtà altro non erano che l’accettazione di una cultura porno e
machista, un trionfo per l’immaginario maschile. Le protestanti scrivono oggi sui loro
striscioni: «L’Italia non è un bordello». Ma ne siamo così sicuri? Tra le donne emergono
posizioni diverse, e il dibattito in corso sul Corriere ne è testimonianza di grande
interesse. Cominciamo col dire che l’uso dell’avvenenza femminile per avere successo
nella vita è stato sdoganato da una messe di messaggi culturali. Le cosiddette teen
comedy al cinema, per esempio. Qualche anno fa ne vidi una che mi lasciò allibito: una
specie di favola di Cenerentola in cui l’adolescente bruttina ma studiosa e onesta
decideva di trasformarsi in una pantera su tacco 12, che rubava per comprarsi i vestiti
giusti e partecipare alla feste dove si sniffa la cocaina, e riusciva così a conquistarsi un
fidanzato e a strappare un posto di assistente all’anziano e sbavante professore. Non
provocò molto scandalo tra le donne. Così come ottenne solo qualche sciovinista alzata
di spalla quel povero giornalista inglese il quale si permise di segnalare che in nessun
posto del mondo civile, nemmeno in luoghi più moderni e laici di questo, la pubblicità e
la tv fanno uso del corpo femminile con la stessa compiaciuta e pornografica evidenza.
Neanche la linea di confine tra chi si prostituisce e chi no è ormai tanto chiara. Un tempo
c’era un solo modo di vendere il proprio corpo, e una generale riprovazione sociale per
chi lo faceva. Oggi trans ed escort sono figure tollerate e ben frequentate, le
accompagnatrici sono usate dagli uomini d’affari nei viaggi di lavoro e i giovani leoni
della City si incontrano nei locali di lap dance, dove si esibiscono studentesse non
professioniste. Né la condanna della società, che si abbatteva un tempo sulle donne di
strada, né a quanto pare quella delle famiglie, sempre più conniventi, colpisce più le
multiformi e moderne incarnazioni del sesso a pagamento, alcune delle quali sono anzi
ormai considerate un modo come un altro per guadagnare e - come direbbe qualcuno «concedersi un po’ di relax». La stessa chiave interpretativa classica della cultura
progressista nei confronti della prostituzione - lo fanno per bisogno economico, perché
sfruttate, e se emancipate e liberate dal bisogno non lo farebbero più - non regge di
fronte a quello che leggiamo. Le ragazze protagoniste delle notti di Arcore, talvolta
laureate, spesso occupate, sempre fidanzate, sono libere dal bisogno ma non dalla
bramosia del denaro, e sembrano emancipate fino al punto di sfruttare il loro anfitrione
più che farsene sfruttare. Naturalmente non imputo al movimento delle donne la
radicale trasformazione dei costumi dell’ultimo trentennio, anche perché un movimento
delle donne ormai non c’è più (e bisognerebbe chiedersi perché non c’è più e perché le
ragazze di oggi sembrano così lontane e diverse, e così ostili ai valori che avrebbero
dovuto emanciparle). Ma imputo alla cultura progressista una timidezza nel contrastare
questa presunta modernizzazione. Per farlo, avrebbe dovuto riconoscere che c’erano
aspetti della tradizione che sarebbe stato meglio conservare, avrebbe dovuto sforzarsi di
comprendere la morale sessuale della Chiesa, avrebbe dovuto ammettere la necessità di
un’etica privata, dopo essere diventata la paladina dell’etica pubblica; perché, come si
diceva un tempo, il privato è pubblico. Non pretendo che un novello Berlinguer indichi
alle nostre figlie il modello di Santa Maria Goretti, ma francamente non si può fare una
battaglia sulla morale dopo aver esaltato l’indifferentismo morale di chi ripete che
«ognuno sotto le lenzuola fa quello che vuole», Roman Polanski compreso. Qualcuno
avrebbe dovuto dire prima, anche quando il satiro non era il presidente del Consiglio,
che quello che vedeva non era libertà ma licenza, non liberalismo ma libertinaggio, non
società aperta ma casa chiusa. La sinistra liberal non l’ha fatto per paura di apparire
bacchettona, e perché è ormai schiava di una cultura dei diritti che è stata declinata
soprattutto in chiave di libertà sessuale. Solo se comincerà a farlo adesso, la sua
campagna contro il bordello-Italia potrà evitare l’accusa di ipocrisia e di strumentalismo.
Pag 19 La vita dietro un cellophane dei quattro piccoli fantasmi di Goffredo
Buccini
Pochi giochi, niente scuola. Così si cresce nelle baracche
Roma - C’è l’orsetto rosso di Raoul, c’è la finta Barbie di Patrizia. Dettagli buttati su un
materasso sopravvissuto alle fiamme, in mezzo al prato stento e al fango secco, sotto il
sole del mattino che da queste parti illumina di contraggenio persino quando risplende.
Sempre ci sono, in ogni strage, bambolotti e peluche per i taccuini, a raccontare in due
righe e una foto com’era la vita dei bambini morti. Ed è così anche qui, anche oggi, in
fondo all’Appia Nuova, dietro un recinto verde sbarrato dalle catene, in una campagna
che fu deposito Stefer e poi Cotral, trasporti e oblio ai bordi di periferia e ai confini della
buona coscienza dei romani che s’offusca un po’ oltre il civico 800, accanto al
concessionario Volkswagen e di fronte al green di un esclusivo campo da golf. È così
pure per queste vite e per questi bambini: benché fossero nascoste da tende di
cellophane e tettoie d’amianto, le vite; benché fossero poco più che fantasmi, i bambini;
e benché stavolta il racconto dell’orsetto e della bambola suoni falso, «taroccato» come
un’istantanea di pietà tardiva. Nella notte un disperato delle baracche accanto ringhia ai
cronisti cruda rabbia e nuda verità, «venite adesso che bimbi bruciano, bastardi, prima
ve ne fregavate!», per poi sparire nel nulla perché con tanti sbirri nei paraggi non si sa
mai. E in effetti pure al mattino continua l’assurdo balletto sui nomi e le storie dei
quattro piccoli ammazzati dall’incendio della loro catapecchia: chissà se Raoul era il figlio
o il nipote di mamma Liliana, chissà se la bambina si chiamava Patrizia o Elena, chissà
se Fernando e Eldeban sono lo stesso ragazzino di sette anni col nome tradotto o
storpiato, chissà se Sebastian coi suoi undici anni è il fratello maggiore di Raul o un suo
giovanissimo zio; tra questura, Nono municipio e associazioni, nonostante le migliori
intenzioni di tutti, il rompicapo di identità e parentele sta lì a raccontare ciò che nessuno
dice: che a dispetto di censimenti e regolarizzazioni promesse, di questi spettri infossati
nella campagna di Roma sud nessuno sa e sapeva un accidente. Sicché le vite dei
bambini, quelle degli adulti, le esistenze di sette gruppi familiari, venti o venticinque
persone stipate quaggiù nella borgata di Tor Fiscale, in mezzo al parco dell’Appia e a
una manciata di metri dall’acquedotto romano e dai tesori archeologici della zona,
bisogna svelarle per immagini. Quella della Barbie e dell’orsetto è vera per metà, perché
i bambini non erano bambini come i loro coetanei fuori dalle baracche, il gioco era forse
un angolo dove nascondersi dagli incubi. «Li mandavano in giro a chiedere l’elemosina»,
dice una voce malevola e da prendere con cautela perché per certa gente tutti i bambini
rom vanno a chiedere l’elemosina, e questa può essere un’infamia postuma. Però la vita
era dura. «Non andavano a scuola», racconta Susi Fantino, la vendoliana presidente del
municipio che ha duellato l’altra notte con Alemanno davanti alla scena dell’orrore. Ora
di quella scena resta un largo spiazzo dopo il cancello verde e gli uomini della Scientifica
chini tra i reperti: sullo stendino di plastica bianca, un giaccone, un vestito da donna,
forse di mamma Liliana; una sedia e una bombola col tubo ancora attaccato; gli
strumenti di sopravvivenza in cucina, un bacile, due pentole di ferro, una teglia, un
flacone di detersivo, una grande brocca. Non c’era luce e per scaldarsi si riempivano
d’alcol scatole di tonno e s’accendeva la fiamma. Non c’era acqua e il bagno è un
riquadro di assi di legno smangiucchiate con un buco in mezzo e un’altra tenda di
cellophane a simulare mura inesistenti. Qui le baracche ci sono sempre state da
quarant’anni, sono cambiati gli occupanti e tutti se sono infischiati. Vecchi capannoni
sono stati abbattuti come per esorcismo, dopo una storiaccia di pedofilia. Tanti disperati
di un tempo hanno adesso la casetta abusiva in zona, si intuisce una specie di assurdo
ascensore sociale in questi viottoli dove officine, casupole e vestigia della Roma antica si
mescolano ciabattando sciatte come solo nella Roma postmoderna è possibile. I tuguri
anche adesso s’assomigliano tutti - quattro travi, due tende da campeggio comunicanti,
un po’ di eternit per tettoia, sacchi a pelo e materassi, bagni rifiuti: sicché, dodici ore
dopo il rogo e la strage, ci si affaccia nella baracca di Mia, la vicina, a nemmeno cento
metri, per sbirciare senza pudore brandelli della vita degli altri, di quelli che non possono
più raccontare. Mia è gentile, spaventata, parla male l’italiano, meglio il romanesco. Dice
che per l’acqua c’è il «nasone» due vicoli qua dietro. Dice che si campa svuotando
cassonetti, «rovistiamo, puliamo e rivendiamo al mercatino»: e ci fa vedere un
lampadario sgarrupato che per cinque euro verrebbe via. Dice che i volontari di Madre
Teresa di Calcutta le portano da mangiare ogni settimana, la sede sta proprio vicino al
«nasone» dell’acqua, la più antica aperta in Europa da Madre Teresa che coi suoi occhi
da santa capiva e vedeva prima di chiunque. Di assistenti sociali o vigili, quaggiù,
«manco l’ombra». E anche adesso, mentre telecamere, poliziotti e carabinieri rivoltano
zolla per zolla il terreno della strage qui accanto, nessuno degna Mia e la sua baracca di
un’occhiata: si resta invisibili fino alla morte in certe vite. Della sua vita, metà sta fuori
dalla tenda, la dispensa è un ammasso di pacchi di pasta e barattoli di pomodoro sotto
un ombrello viola sdrucito. Per traslocare basta un carrello. Per morire basta una
scintilla che schizza dalla scatola del tonno. Mia sospira: «Quattro bambini piccoli, non
ho dormito, stanotte... poveretti, quattro bambini». Poi giura di non conoscerne i
genitori: «I bambini erano abituati a stare soli». Venivano da lontano Raoul e la sua
famiglia disgraziata. Dal sud della Romania alla Roma della Caffarella, altro rifugio, altro
ghetto, altro incubo fino agli sgomberi e alla storiaccia di uno stupro che nel 2009 fece
traballare l’immagine della città. Ancora sballottati, appresso a quelli di Action al Regina
Elena occupato, di nuovo alla Caffarella e infine fuori, a Colleferro: «Volevamo stare in
campagna ma ci hanno cacciato anche da quella casa perché eravamo troppi», ha detto
ieri piangendo disperata mamma Liliana. In certe vite si è sempre troppi, in certe vite si
fugge sempre. Di queste vite restano infine due grandi dalie, una arancione e una rosa,
nella rete di recinzione. Ma deve averle infilate lì qualche fotografo furbo per ricavarne
un bello scatto: chi amava Raoul e i suoi è già scappato lontano e forse non aveva il
tempo per deporre fiori.
Pag 40 Rom, una questione di responsabilità di Mauro Magatti
Dopo la morte dei 4 fratellini
D avanti al laconico ripetersi di notizie terribili che riguardano i campi rom - negli ultimi
due anni, ci sono stati almeno 5 casi di incendi di baracche con morti e feriti, senza
contare sgomberi e violenze - non ci si può nascondere dietro al dito della fatalità: una
sequela così impressionante di incidenti può avvenire solo laddove esiste un terreno di
coltura adatto. Al di là dell’emergenza, e persino al di là dell’indignazione, c’è qualche
cosa di più profondo che deve essere messo in discussione, perché alla base di questa
impressionante sequela di eventi non ci sono semplicemente problemi di inefficienza
tecnica o burocratica. Chi sostiene questo, come il sindaco Alemanno, sbaglia. Dietro
alla morte dei quattro fratellini rom del campo di Roma sta il fallimento nella costruzione
delle condizioni idonee a forme di convivenza civile. Le polemiche pretestuose che su un
tema come questo vengono quotidianamente rilanciate paiono fermarsi solo di fronte a 4
corpicini senza vita: come sempre, sono il dolore e la morte a costringerci a prendere
atto della realtà che ci pone il problema. In questi frangenti, per un momento almeno,
risulta chiaro ciò che non solo il buon senso, ma anche le migliori esperienze straniere
suggeriscono: la via da seguire per modificare le condizioni su cui questi incidenti hanno
luogo è quella di non tollerare il dato di fatto. Occorre, piuttosto, prendere l’iniziativa e
lavorare per definire i termini di uno scambio che, nel rispetto reciproco, punti a fissare
diritti e doveri reciproci. La costruzione di condizioni minime (abitative, scolastiche,
lavorative) corrispondenti ai nostri criteri di civiltà è ciò che le istituzioni possono
mettere in campo; in cambio, la comunità rom (ma qualcosa di simile si potrebbe dire
anche per altre minoranze quali i cinesi o gli arabi fondamentalisti) deve essere
chiamata a riconoscere e rispettare una serie di regole che valgono per tutti coloro che
vivono all’interno della comunità politica circostante. Il problema è: perché, superata
l’indignazione, questa strada viene regolarmente abbandonata? La ragione di fondo sta
nel fatto che, per poter sussistere, uno scambio di questo tipo necessita di condizioni
pre-istituzionali che lo rendono possibile. Prima di tutto c’è bisogno di fiducia - un bene
sistematicamente distrutto dall’uso polemico che in questi anni è stato fatto dell’idea di
straniero. Come una profezia che si autoavvera, una volta che vengono distrutte le
condizioni di un’intesa, l’altro non può che diventare un problema intrattabile. In
secondo luogo, c’è bisogno di comunicazione. Uno scambio di questo tipo deve sempre
scontare zone d’ombra e difficoltà, dato che l’alterità reciproca non potrà mai essere
superata, pena l’omologazione completa della minoranza alla maggioranza. Ciò
comporta una grande flessibilità, che è possibile solo quando si dispone di buoni canali
di comunicazione. Condizione, però, del tutto irrealistica quando si ha a che fare con le
istituzioni del nostro Paese (basti guardare l’indecoroso palleggio di responsabilità tra chi
avrebbe dovuto intervenire in una situazione più volte segnalata). Tutto ciò mi porta ad
una conclusione: provare ad affrontare la questione dei campi rom nell’Italia
contemporanea significa mettere al lavoro i soggetti che siano in grado di costruire una
mediazione tra minoranze marginali, soggetti istituzionali e comunità locali. È curioso
che in un Paese che dispone di una società civile intraprendente e qualificata non si
riesca a comprendere che la relazione diretta tra le istituzioni e questo tipo di comunità
è impraticabile per una serie di ragioni. Non ultima il fatto che le istituzioni si trovano a
trattare una materia - quella della irregolarità - che è del tutto estranea alla loro cultura
e quindi di principio rifiutata. Riconoscere e introdurre una terza parte mediatrice
potrebbe rivelarsi un buon suggerimento e aiutarci nel giro di qualche anno a trovare
soluzioni concrete a problemi concreti. Senza limitarci, di fronte alle prossime morti,
all’urlo di indignazione, fugace e, come tale, sterile.
LA REPUBBLICA
Pag 1 Il fantasma azionista di Ezio Mauro
L'unica cosa su cui vale la pena ragionare, nell'attacco furibondo di Giuliano Ferrara a
Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" 1 di sabato scorso
a Milano, non sono gli insulti - di tipo addirittura fisico, antropologico - e nemmeno la
rabbia evidente per il successo di quell'appuntamento pubblico che chiedeva le
dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l'ossessione permanente ed ormai eterna della
nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell'"azionismo torinese", come si
dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un'aggravante politica
misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente
e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione
condizionante". Eppure la storia breve del Partito d'Azione è una storia di fallimenti, che
nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di
quell'avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle
professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati
com'erano vissuti, in case piene di libri più che di potere. Ma l'idea dev'essere davvero
formidabile se ha attraversato sessant'anni di storia repubblicana diventando il bersaglio
dell'intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove,
mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come
il fantasma d'elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana
normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti. È
un'ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel
rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei
pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa
nell'Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da
Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico:
tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul
"Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la
testimonianza di una vita per quell'errore iniziale, in modo da poter affermare una
visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi
fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più. Oggi, Zagrebelsky, e si capisce
benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di
ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla
prevalenza dell'interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un'Italia che
si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando
ritorna la cifra intellettuale dell'azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si
avverte che quell'impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la
piccola e velleitaria organizzazione nel '47, ecco l'allarme ideologico. Parte l'invettiva
contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo
severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi
rapporti con il comunismo. Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli
italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che
diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di
consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a
spettatore delegante, ma liberato dall'impaccio di regole e leggi. Un'Italia dove il peggio
non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un'Italia in cui tutti sono uguali nei
vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù
civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un
nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il
sentimento dell'abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l'elogio del
malandrino, in cui l'avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento
additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una
vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione
diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una
delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve,
da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come
diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della
nazione". Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi
che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa
nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell'azionismo residuale
e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il
vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest'epoca,
attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica
per sessant'anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base
della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo
italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e
rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée,
concessa dagli alleati. Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza
attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l'antifascismo (Vittorio Foa diceva
che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di
Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e
politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l'azionismo era il
crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di
gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di
coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l'anticomunismo.
Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il
peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e
perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi,
questo liberalismo di sinistra rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il
partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa
della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento
nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica
a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e
anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un'altra equidistanza,
"abominevole": quella tra fascismo e antifascismo. Ce n'è abbastanza per capire. Debole
e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un'Italia di
minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista,
praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che
nell'Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come
diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata
"miserabile". Guglielmo Giannini, d'altra parte, sull'"Uomo Qualunque" derideva gli
azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia,
dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si
scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della
grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro",
che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono
"la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei
regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti".
Pag 1 Sneja la zingara e le baracche della morte: "Ecco come vivono gli invisibili
di Roma" di Francesco Merlo
Roma - "Hai mai visto - mi dice Sneja - un funerale di bimbi celebrato in slavo antico?
Gettano fiori lungo la strada, e nelle bare ci mettono di tutto, anche l'Efferalgan e il
Vicks Vaporub perché non si sa mai, ci si può raffreddare durante il viaggio verso il
paradiso". Sneja è magra e non somiglia allo stereotipo della fattucchiera, quella che
Walt Disney fa vivere ai piedi del Vesuvio. Il suo pessimismo allegro è contagioso:
«Cosa credi? Anche noi zingari abbiano i nostri zingari» e quei bimbi sono morti «perché
non avevano soldi sotterrati nelle pentole» ai piedi di quegli alberi solitari e scarni lungo
le sterpaie dell´Appia Nuova. «Sono morti perché erano i nostri barboni» dice Sneja e
ride, ma senza rumore. «Non ci sono tra di voi famiglie povere che muoiono perché
esplodono le stufe, perché il fuoco li assale di notte?». Le racconto che sono stato lì
dove c´era il campo e adesso non c´è più nulla, una sedia, una bottiglia vuota, i sigilli
su un reticolato che delimita una distesa brulla e la polizia scientifica che ancora
esamina - mi pare - ciuffi solitari di erbacce selvatiche. Sneja mi conferma che per
scaldarsi riempiono di alcol la solita, immancabile pentola di ferro e incendiano carta,
stracci, legno, plastica, «e perciò i bambini d´inverno hanno sempre addosso delle
ustioni, ma quelli del tribunale dei minori non vogliono capire che non si tratta di
maltrattamenti». E mi dice che c´è una preghiera bellissima che finisce così: «Dio che
non sei di pietra, Dio che non sei di marmo, ti scongiuro apri le porte del carcere». Nella
notte una ruspa benedetta ha distrutto quelle quattro baracche che ospitavano una
ventina di disperati e su Youtube al mattino presto c´erano già le immagini che ora
guardo insieme a Sneja: «Per chiedere l´elemosina bisogna sapere piangere a comando
e uno storpio o un cieco possono essere una ricchezza, ma qui è tutto vero, il lamento
della madre, le coperte bianche sulle spalle, le autobotti dei pompieri, il fumo, mi
vengono i brividi». E a me vengono in mente le deportazioni e l´ultimo bel libro di
Roberto Calasso ("L´ardore") dedicato alla cultura indù, ai Veda: « I nazisti hanno
perseguitato e assassinato a centinaia di migliaia proprio gli unici veri Ariani d´Europa,
gli zingari, Rom, Sinti. È ben noto che parlano una lingua arcaica neo indiana, che è
strettamente imparentata con il dardi, il panjabi e lo hindi moderni». Qui invece si parla
romanesco. Mi avvicino a un vigile urbano che si mette a fare sociologia: «A dotto´, te
auguro d´avercelo sotto casa un bel campo rom». I corpicini sono all´obitorio del
Verano, per i genitori non c´è pena che la giustizia possa loro infliggere paragonabile a
quella che hanno già subito. «Che posso fare io senza i miei figli?» ripete la mamma a
cantilena e subito arriviamo noi giornalisti che sogniamo le lacrime dei lettori. Sneja mi
ha accolto e mi porta in giro perché in Sicilia abbiamo un caro amico comune che mi ha
molto raccomandato. Ha trent´anni ma ne dimostra cinquanta, la camminata è davvero
elegante, si vanta di conoscere tutti i Rom di Roma. E mi racconta che c´è un giostraio
che li cerca così, giovani e poveri come quei bimbi che sono morti, li arruola, li alleva e li
addestra «topi per infilarsi negli appartamenti, serpenti per sgusciare nelle
metropolitane, rane per…». Ehi, Sneja, sei più razzista di un´italiana dei Parioli!,
reagisco senza crederci. Mi dice che il giostraio ha un dente d´oro, «è bellissimo». A
Roma i denti d´oro li mette un certo Dragan che di mestiere fa il pentolaio e l´allevatore
di cavalli. «È un grande capo. Ma scordati di incontrare Dragan, è alto due metri, se vuoi
te lo faccio vedere da lontano». Sono circa le 15 e questo campo Rom, a cento metri
dalla pista d´atterraggio di Ciampino, è quello che gli urbanisti chiamano un non luogo,
che sarebbe credo un "dove" che sta tra l´essere e il non essere e nel quale non vorresti
mai entrare e dal quale temi di non potere uscire. Sneja mi dice di non fare domande:
«Vedi, quello si chiama Gringo» e scopro l´integrazione dei western all´italiana.
Quell´altro col cappello con la piuma di pavone si chiama Idriz: « Riscuote gli affitti». E
quanto costa una baracca con la porta di cartone rosso? «Duecento euro al mese, e ti
danno pure forchette e coltelli». Quell´altro che mastica tabacco «è Stevo, ed è nobile,
porta l´anello con lo stemma, nessuno si permetterebbe di farlo lavorare, il Re lo vuole
sempre nelle cerimonie più solenni». E dove vive il re, in una roulotte? Ogni tanto sbuca
dal nulla un mozzicone di arredamento che sembra abbandonato, un divano, una
lavatrice, un carrello di supermercato. A quest´ora ci sono soprattutto uomini, quasi
tutti disoccupati, e pochissime donne, conto in totale sei bambini, fumano Marlboro, tre
sono senza scarpe e corrono tra l´immondizia, non ci sono gabinetti. Il campo non
sembra organizzato secondo un´estetica, ho visitato in passato campi mongoli, le
favelas in Brasile e le baraccopoli sulla sabbia tra Catania e Siracusa. Erano meno brutti
di questi. Qui c´è armonia solo nelle corde che qualche volta reggono le casupole, forse
perché è una perizia da allevatori di cavalli. E ci sono tutti i rottami della modernità,
asciugacapelli, telefoni cellulari, un apparecchio per l´aerosol... Capisco che mi sfugge il
codice, che c´è un cifrario che forse non si vede. «Le cose belle qui sono nascoste. I
vestiti con lo strascico, i gioielli... A mio zio Halija, quando è morto, da solo, accanto ad
un bidone che usava come stufa, gli hanno trovato addosso un sacco di soldi cuciti
dentro un nastrone di cotone che portava attorno alla vita, sotto la camicia». Non c´è
l´acqua corrente ma ci sono il caravan, le automobili, e davanti ad ogni baracca c´è un
odore diverso e non mi pare che siano profumi di cucina. Con Sneja vado al campo di
via del Salone e poi mi porta in una piccolissima baraccopoli sulla Pontina, una ventina
di casupole, è un campo abusivo come quello dei quattro bimbi morti «eccoli, i nostri
barboni» mi dice. «Ma non pensare che i più poveri siano i più buoni, la povertà rende
feroci, spesso sono i genitori che cercano il giostraio, per i bimbi è il debutto in società,
l´ingresso nella vita che è durissima, ma tutti hanno una chance di diventare come
Dragan. Eccolo, è quello lì». Vedo un ometto solido, panzuto, baffi neri, un caffettano
nero sino ai piedi... «Ma non mi avevi detto che era alto due metri? Sarà si e no un
metro e sessanta». «Che c´entra. Solo noi possiamo misurarne la vera altezza» e ride.
E questa volta sta ridendo di me.
LA STAMPA
La vera partita comincia soltanto ora di Gian Enrico Rusconi
In Egitto siamo alla vigilia di una transizione quasi-istituzionale verso la democrazia?
Oppure ad un tentativo di normalizzazione che elude la richiesta di dimissioni di
Mubarak con conseguenze imprevedibili? Siamo al punto di svolta della crisi. La
questione delle dimissioni del presidente autocratico diventa decisiva, non solo
simbolicamente ma politicamente. Dietro a lui infatti c’è un’intera classe dirigente,
intimidita, ma decisa a giocare la sua partita. La posta in gioco ora è il consenso di
milioni di egiziani che non dispongono ancora di strumenti di espressione democratica salvo la protesta. Lo spettacolo straordinario di centinaia di migliaia di persone che
coraggiosamente e pacificamente hanno messo in ginocchio un regime, è stata una
grande lezione di spontaneità politica. Ma ha tenuto nascosto l’altro spettacolo di
quartieri impauriti, di negozi sbarrati, di mercati deserti - l’altra città che stava a
guardare - verosimilmente con simpatia. Ma adesso aspetta la soluzione. Ecco perché è
diventato decisivo governare questa fase di transizione. E’ facile per i governi occidentali
dare agli egiziani saggi consigli per una strategia graduale. In fondo è una nuova
versione della raccomandazione per l’unica cosa che sembra stare a cuore all’Occidente:
la stabilità nella regione. Si tratta di una giusta preoccupazione, naturalmente. Ma non è
per questo che sono in piazza migliaia di uomini e di donne. Loro vogliono cambiare
radicalmente. Per loro la parola «democrazia» ha ancora il sapore esplosivo della
rivoluzione. Non è quindi per testardaggine poco diplomatica che esigono
l’allontanamento di Mubarak E’ il loro modo di dire un chiaro no ad una classe politica
complice con il regime mubarakiano che ora pretende di gestire il passaggio verso una
democrazia, di cui non sa tracciare alcun profilo convincente, Nessuno sa esattamente
che cosa succederà. E’ un momento sospeso tra voglia di normalizzazione della vita
quotidiana e attesa di innovazione politica ancora tutta da inventare. Protagonisti
speciali di questo momento sono due soggetti che per ragioni diversissime sono ancora
un po’ misteriosi: i giovani e il movimento dei «Fratelli musulmani». Parlare dei giovani
come di soggetto collettivo è un’abitudine che abbiamo preso in occidente e che sembra
confermata dalla vicenda egiziana. Anzi questa ha inventato un nuovo pezzo di mito quella della irresistibile forza espressiva e comunicativa dei nuovi mezzi Internet,
Facebook ecc. assurti a indicatori dell’identità giovanile. Ma la dura sostanza della
questione giovanile va ben più in profondità del nuovo mito Facebook. La contraddizione
tra la maturità espressiva della gioventù egiziana e la sua miseria materiale - la
mancanza di futuro - ha innescato una rivolta che non si fermerà tanto facilmente. Chi
saprà incanalare, governare e guidare le aspettative giovanili oltre una provvisoria
transizione istituzionale? A proposito di espressione e comunicazione, non ci è sfuggita
l’insistenza con cui le televisioni occidentali hanno mostrato e intervistato, durante le
manifestazioni di protesta, donne e ragazze con il corpo e il volto coperto dal velo nero.
Sembravano del tutto a loro agio nella folla a fianco degli altri manifestanti. Accostate
magari intenzionalmente dai cameramen a barbuti giovani copti con un crocifisso sul
petto. Vuol essere un segnale rassicurante all’Occidente: la domanda di democrazia
politica, la libertà religiosa e l’adesione ai precetti più rigorosi dell’Islam sono
compatibili. Così si afferma in Tunisia. Cosi è accaduto in Turchia. Ebbene questo ruolo davvero rivoluzionario - di movimento di ispirazione islamica che si fa interprete delle
libertà democratiche viene ora assegnato in Egitto ai Fratelli musulmani. In realtà sulla
natura effettiva e soprattutto sull’orientamento strategico di questo movimento le
opinioni sono molto controverse. In Egitto e in Occidente. Non è chiaro quindi se
l’aspettativa di un suo contributo alla democratizzazione sia un augurio o non piuttosto
uno scongiuro. Molti temono che si tratti di mero tatticismo, ma altri ricordano
esperienze di altri movimenti radicali che hanno attraversato felicemente fasi di
trasformazione. E’ presto per saperlo. La storia politica del nuovo Egitto incomincia
appena ora.
IL GIORNALE
La strage dei fratellini. Non tutti possono piangere i bimbi rom di Paolo Granzotto
La colpa di questa "tragedia orribile"? Per i buonisti di professione è del governo e di una
società razzista nemica del multiculturalismo. Ma chi rifiuta l'integrazione sono gli zingari
che del disprezzo della legge hanno fatto una cultura
La morte dei bambini nel campo nomadi alle porte di Roma è davvero «una tragedia
veramente orribile», come ha detto il sindaco Gianni Alemanno. Ma non più orribile di
altre di identica, drammatica portata solo perché le vittime sono quattro piccoli rom.
Però è questo, il voler dare alla tragedia una portata esorbitante addossandone poi la
responsabilità a una parte politica e alla società «razzista» in generale, ciò che si
propongono le prefiche della sinistra col loro vile, ipocrita piagnisteo. In casi simili deve
prevalere la partecipazione e il sentimento di pietà, su questo non si discute. Ma
escludere a priori una anche marginale responsabilità di «mamma Liliana» e «papà
Mirko» che per recarsi al fast food lasciarono i quattro bambini soli - in una baracca di
legno, cartone e lamiera dove ardeva una stufetta se non addirittura un falò -,
escluderla per poter addossare l’intera colpa della tragedia alla «latitanza delle
istituzioni» (cioè del governo, cioè di Berlusconi) e a un sindaco «incapace di gestire la
politica dell’accoglienza» (così Vannino Chiti, commissario del Pd nel Lazio), è né più né
meno che sciacallaggio. La politica dell’accoglienza: diciannove anni di amministrazione
capitolina della sinistra di Vannino Chiti hanno forse mostrato, nella pratica, non a
parole, quale sia la retta politica dell’accoglienza? O si vuol far credere che migliaia e
migliaia di zingari si sono accampati a Roma solo a partire dal 28 aprile 2008, data
dell’insediamento di Gianni Alemanno? Esempio di esemplare politica dell’accoglienza è
forse il rogo nel campo nomadi a Livorno, città saldamente in mano alla sinistra, dove
nell’agosto 2007 morirono tra le fiamme quattro fratellini? Non è la «maledetta
burocrazia» denunciata da Alemanno la sola responsabile del persistere dell’«emergenza
nomadi». Conta, in modo preminente, l’ipocrisia buonista e solidarista, gli sdilinquimenti
salottieri per il multietnico e il multiculturale che precludono, agitando lo spauracchio del
razzismo, ogni iniziativa. La Germania di Angela Merkel e l’Inghilterra di David Cameron
hanno, quasi all’unisono, annunciato l’abbandono delle aspirazioni alle società
multiculturali dimostrando che il multiculturalismo si risolve in un danno, grave, per la
società essendo deleterio sia per la comunità ospite sia per quella ospitante. La Merkel e
Cameron, non certo eredi di Goebbels o di Oswald Mosley, hanno dovuto ammettere ciò
che era un’evidenza lampante, e cioè che il multiculturalismo rappresenta il più serio
ostacolo all’integrazione. Eppure, affrontando il problema e, anzi, l’emergenza rom, da
noi si seguita a insistere sulle bellurie del contrasto culturale. «È nella loro cultura», si
dice degli zingari, e dobbiamo non solo rispettarla, ma anche apprezzarla e amarla. È
nella loro cultura l’accampamento e dunque la baraccopoli; è nella loro cultura lo
scansare il lavoro continuativo; è nella loro cultura la mendicità (aggiungendo, come
non bastasse, che essa rappresenta il retaggio della antica e virtuosa cultura della
condivisione dei beni, chiedi e ti sarà dato); è nella loro cultura, che non contempla il
concetto - ovviamente culturale - della proprietà privata, l’appropriazione indebita; è
nella loro cultura di cittadini del mondo, liberi come il Mistral, non adattarsi a leggi,
regole e consuetudini che non siano le loro. È evidente che con questi presupposti non
dico risolvere, ma dare un ordine alla migrazione e al conseguente soggiorno
continuativo dei rom diventa difficile, molto difficile. Perché lo smantellamento dei campi
abusivi diventa un oltraggio anticulturale e c’è subito chi ricorre al Tar. E così la richiesta
di affidamento di bambini cenciosi, sballottati da madri questuanti allo scopo di
impietosire il passante. O la semplice pratica del censimento, subito denunciata (al Tar)
come violenta intromissione nella privatezza di gente che al solito, libera come il vento,
non conosce il concetto culturale dell’anagrafe. Ruspe. Di questo si ha bisogno per far
fronte all’emergenza. Ruspe e ferme richieste al governo romeno di collaborare nei
rimpatri perché non ci son santi: non abbiamo - e non avevano i governi Prodi o
D’Alema o Amato o Ciampi - risorse e strutture per dare accoglienza alle decine di
migliaia di zingari che sciamano in una Italia che grazie alle sue pulsioni e isterie
multiculturaliste è evidentemente ritenuta - sennò starebbero a casa loro - Paese della
cuccagna.
AVVENIRE
Pag 1 Crudele e ingiusta di Lucia Bellaspiga
L’ira di Englaro contro le suore di Lecco
“Me l’hanno violentata per quindici anni”. Lo disse subito, Beppino Englaro, non appena
da Udine gli arrivò la telefonata che Eluana era morta, il 9 febbraio di due anni fa. A
violentarla – intendeva – non era stato chi le aveva tolto la vita, ma le suore
Misericordine di Lecco, cui lui stesso l’aveva affidata due anni dopo l’incidente, nel 1994,
quando ormai il futuro di sua figlia si presentava come un’immensa incognita senza
spazi e soprattutto senza tempi prevedibili. Un anno? Dieci? Venti? Quanto sarebbe
durata la grande incognita? Nella sua mente – ormai lo sappiamo, ce lo ha raccontato
decine di volte in conferenze e convegni, e lo ha scritto nei suoi libri – c’era già la
determinazione a spegnere quella vita disabile, così diversa dalla sua bellissima figlia,
ma nel frattempo chi si sarebbe preso cura di lei? Lo ricorda lo stesso Englaro, nella
lunga intervista apparsa sul "Corriere" di domenica: «Ce la lasci, ce ne occupiamo noi»,
gli avevano subito aperto le braccia le suore di Lecco. Ma persino questo nelle sue
parole ha il tono aspro dell’accusa. Come se quel «ce la lasci» non fosse stato un gesto
affettuoso di accoglienza, come se quella figlia le suore gliel’avessero presa con la forza,
per assisterla – anche per tutta la vita – al posto suo. Non racconta, Englaro, che in
quella clinica di Lecco l’aveva condotta lui stesso, dopo due anni di ricovero a Sondrio,
che non è dietro l’angolo, ma dove quotidianamente sua moglie si recava pur di stare
con Eluana. E lì, per la seconda volta, la vita fragile della sua unica figlia veniva raccolta
dalle stesse mani: perché proprio alla "Talamoni" ventun anni prima Eluana era venuta
al mondo. Ora al mondo continuavano a tenercela, con amore infinito, finalmente a due
passi da casa, consentendo a mamma Saturna di poter accudire la sua creatura come lei
sapeva e voleva fare. Ma così la racconta Englaro dalle pagine del "Corriere": «Le suore
avevano visto consumarsi anche la mamma di Eluana accanto al suo letto. Volendola lì
con loro, erano state un po’ crudeli con Eluana e con sua madre. E io invece dovevo
difendere mia figlia e mia moglie». Crudele – è ora di dirlo – è la pervicacia con cui
Englaro all’amore risponde col disprezzo, continuando a riversare sulle Misericordine una
rabbia incomprensibile. Descrivere come crudeli quelle mani è sconvolgente e ingiusto.
Sarebbero state crudeli con la madre e con la figlia: obbligando l’una a una tenerezza di
mamma che lui non capiva più, e l’altra a un attaccamento di figlia, forse la sola forza
ancora in grado di tenere acceso il lumino di una coscienza ben nascosta, ma che a volte
faceva capolino (i neurologi conoscono bene il fenomeno e lo chiamano appunto "effetto
mamma"). Lo scrissero chiaro i medici di Sondrio osservando l’andamento della giovane
paziente: se a stimolarla era la madre, Eluana sembrava «rispondere», obbediva cioè «a
ordini semplici». Una notte, appuntano, pronunciò più volte e in modo inconfondibile la
parola «mamma»… È vero, finché grazie alle Misericordine ne ha avuto la forza, mamma
Saturna ha potuto restare accanto a sua figlia, senza che nessuno la costringesse. È
vero, le suore le hanno dato tutto, assolutamente tutto ciò che in genere manca ad altre
persone in stato vegetativo a causa dei costi economici, e ad ammetterlo è ancora
Englaro nella sua intervista, quando dice che «Eluana ha avuto le cure migliori», anche
se poi cade nella sua contraddizione: tutto era «inutile». Come la vita di Eluana, inutile
perché ormai imperfetta. «Dipendeva in tutto da mani altrui», specifica, di nuovo con
orrore per quelle mani, ben diverse dalle sue, mani di un padre che per «rispettarla»
avevano scelto di «non toccarla con un dito». Mai. E invece sono ancora i neurologi a
dircelo: toccateli, accarezzateli, parlate con loro, non sappiamo quanto ci ascoltano,
sappiamo però che poco o tanto ci percepiscono. E allora, almeno in questo, ha detto
bene Englaro, spiegando al giornalista perché a differenza di sua moglie lui con Eluana
non parlava più: «Sapevo di parlare a me stesso». Sua figlia è morta, spiega, da quando
non ha più potuto «percepirla». Lui.
Pag 2 In Sud Sudan vittoria senza ombre ma la partita resta da giocare di Giulio
Albanese
Il “contagio” egiziano e il ruolo delle grandi potenze
Uno spirito euforico, marcato da una profonda sensazione di libertà mai provata prima,
ha riempito i cuori e le menti della popolazione sud sudanese. Sono innumerevoli gli
slogan che, ostentati con fierezza sui cartelloni stradali, si trovano sparsi per tutto il
Paese: «Benvenuti nel 193esimo Stato del mondo», oppure, «Siamo il 54esimo Paese
dell’Unione Africana», e ancora, «Benvenuti nella più giovane nazione dell’Africa». Con
l’ufficiale conferma dell’indipendenza del Sud Sudan, e l’accettazione dei risultati del
referendum da parte del governo di Khartum, ieri sera è terminato uno dei processi di
pace più lunghi della moderna storia africana. Nella cittadina di Bor, capitale dello stato
di Jonglei, a sud-est del Governo del Sud Sudan (Goss), le radio continuano a
trasmettere musica di vario genere basandosi su un’unica regola: «Che sia allegra e
vivace – afferma Joseph, un sorridente ragazzo di trent’anni, e proprietario di un
negozio di cd musicali, – Questo è un giorno di festa, la nostra festa!». Con il 98,83%
dei voti a favore della totale indipendenza dal nord, il Sud Sudan ha quindi scelto la
separazione, avvenuta grazie a un processo elettorale che, secondo gli osservatori
elettorali, «ha registrato pochissime irregolarità». A Bor, località polverosa e che rimane
irraggiungibile via terra durante gran parte dell’anno per via della stagione delle piogge,
l’umore, sebbene rilassato, non tradisce il sentimento di gioia che si sentirà ancor di più
con la cerimonia ufficiale del 9 luglio. «Sono felicissimo, da troppo tempo non
aspettavamo altro», ammette Juma Andrew, logista dell’organizzazione non governativa
italiana Intersos, una delle pochissime agenzie umanitarie che riesce ad operare in
questa zona. «Solo chi ha sofferto per tutti questi anni non può che essere contento dei
risultati. Abbiamo avuto pazienza e ce l’abbiamo fatta – continua Juma – e nonostante
tutte le sfide che dovremo affrontare, sono più che fiducioso riguardo al nostro futuro».
Il conflitto civile tra Nord e Sud Sudan, durato cinquant’anni, con una pausa a cavallo
degli anni Settanta e Ottanta, e terminato con la firma dell’Accordo di pace comprensivo
(Cpa) nel 2005, ha ucciso e disperso milioni di persone. La miscela esplosiva fatta di
enormi quantità di petrolio e un apparente accesso illimitato alle armi da fuoco, ha
causato continui conflitti inter-etnici, epidemie, e un numero imprecisato di sfollati e
rifugiati. Ed è questa la parte più oscura del Sud Sudan, spesso ignorata sia dalle
autorità sudanesi sia dalla comunità internazionale. «Abbiamo bisogno di forti
cambiamenti, soprattutto a livello sanitario», afferma Philip Alier, uno dei pochi
infermieri che lavorano all’ospedale di Bor, e che da settimana scorsa ha in cura tre
bambini di etnia dinka con ferite da proiettile causate da un attacco dei murle, un’altra
etnia presente nella zona. «Spero quindi che l’indipendenza spinga il nostro governo a
migliorare la sicurezza del Paese, affinché si riesca a dimostrare che la pace, come
l’indipendenza, è un obiettivo possibile», aggiunge. Anche Martha Deng, ragazza di
trent’anni, ha molte speranze per il futuro di quello che ora può chiamare, senza
fraintendimenti, il «suo Paese»: «Sono sempre stata la prima a ballare e battere le mani
ogni volta che il tema dell’indipendenza veniva discusso», afferma con un sorriso, «Ora
che siamo liberi di decidere del nostro destino senza dover trattare prima con il nord,
farò pressione affinché il settore educativo sia una delle priorità di questo governo. Non
lo faccio solo per me ma anche per i miei figli e i miei nipoti». Ci vorrà però ben più che
un voto elettorale per fare del Sud Sudan uno Stato indipendente a tutti gli effetti. Nelle
principali negoziazioni si affronteranno il tema della condivisione dei proventi petroliferi,
presenti soprattutto al sud, ma finora gestiti soprattutto dal nord. Oltre alla definitiva
demarcazione del confine tra nord e sud, che comprende anche la volatile regione
centrale di Abyei. La nascita del più nuovo Stato al mondo è il risultato di una realtà
molto difficile. La sua crescita, probabilmente, lo sarà ancora di più.
Pag 5 I conti non tornano
Duemila; tre milioni; quattro: i conti non tornano. Eppure il programma era chiaro fin
dall’insediamento della prima giunta Alemanno: smantellare i campi abusivi e sostituirli
con aree attrezzate, sorvegliate, dotate di servizi, con abitanti censiti per impedire che
delinquenti comuni cerchino (e trovino) rifugio nell’intrico di baracche e roulotte
spuntate negli anni ai bordi o nel cuore delle periferie romane. Quel piano, che adesso
anche il presidente della Repubblica chiede di completare in fretta, è partito senza
decollare. Con la sacrosanta chiusura del "Casilino 900" (una ferita alla dignità umana
che le precedenti amministrazioni lasciarono ingigantirsi fino alla setticemia) e del "La
Martora", si è proceduto allo sgombero di oltre trecento campi abusivi e alla
realizzazione di sette villaggi attrezzati. Ora i nomadi che a Roma vivono in condizioni
del tutto "abusive" sono poco più di duemila. Non dubitiamo degli ostacoli burocratici
lamentati dal sindaco: sussistono. Ci chiediamo però se, per trovare una soluzione
sicura e decorosa, in una capitale europea di circa tre milioni di abitanti (stando solo ai
residenti) non ci siano altre strade da percorrere, magari provvisorie, in attesa che i
nodi della burocrazia finalmente si sciolgano o vengano tagliati. La morte orribile di
quattro innocenti ne fa (anche) una questione, urgente, di proporzioni. I numeri reali del
problema sono esigui, le tragedie che produce sono enormi.
Pag 27 Atei e credenti, insieme oltre la crisi di Lorenzo Fazzini
Parla il prete psicoanalista Bellet
Non confinarsi nella mistica meditativa, ma interrogarsi (e agire) insieme sull’umanità
comune e l’amore vero. Acuto come suo solito, sferzante nella critica vista come
occasione di crescita, Maurice Bellet, filosofo e teologo francese, chiede al prossimo
«Cortile dei gentili» di Parigi un soprassalto di umanesimo.
Nel suo «Dio? Nessuno l’ha mai visto», lei ha scritto che credenti e non credenti «sono
sullo stesso cammino». Eppure constata ancora «ripartizioni classiche: fede e ragione,
religione e laicità, teologia e filosofia». Perché tale contrapposizione?
«La mia idea è che tale distinzione sia ambigua. Certo, credenti e non credenti sono
diversi. Ma parlare di opposizione significare sostenere una falsità. In realtà, su certe
questioni importanti, si trovano non credenti più vicini alla fede di quanti si dicono
uomini di religione. E incontro atei molto più vicini al Vangelo di chi si proclama
cristiano».
Un esempio?
«Il criterio fondamentale del cristianesimo è l’amore, "amatevi gli uni gli altri come io vi
ho amato". Qualche giorno fa ho incontrato un medico, ateo: la sua concezione della
medicina, rispettosa e umanistica, lo avvicina parecchio al cristianesimo. Non voglio dire
che basta essere generosi per diventare cristiani. Affermo solo che l’esperienza ci
interroga su cosa sia il credere. La mia proposta non vuol dissipare l’idea di fede bensì
cercare un discorso più rigoroso sul cristianesimo. Se Dio è Dio, egli deve stare al suo
posto e ogni relazione cambia. Il nodo è far ordine nel cuore della modernità. Il punto da
cui iniziare, il più necessario, è non divaricare i cammini dell’uomo».
Oggi – cito una sua espressione – siamo davanti al «crollo della speranza». Ad essa
Benedetto XVI ha dedicato la sua prima enciclica. Quale speranza può offrire il cristiano
al mondo?
«Penso sia necessaria un’esperienza di speranza capace di superare la caduta delle
speranze. È crollata la fiducia nel progresso e nel pensare di essere in cammino verso il
meglio. Per questo vi è necessità di un’esperienza che vada più lontano di ogni
orizzonte. Il credente deve indicare le realtà che stanno oltre l’orizzonte della storia. In
teologia parliamo di escatologia, cioè il cristianesimo quale portatore di una speranza
che supera ogni scoraggiamento. Tutto ciò trae origine dalla resurrezione di Cristo. Dopo
il Calvario i discepoli erano disperati; quando parlano a Gesù sulla via di Emmaus, i due
dicono: "Pensavamo fosse lui il messia". "Pensavamo": un verbo all’imperfetto,
eccezionale, che parla della disperazione che provavano verso Cristo. Oggi siamo in una
fase creatrice in cui il cristiano deve annunciare all’uomo la non rassegnazione. Tale
annuncio deve avvenire in tutti i luoghi, ma il più fondamentale, affinché l’uomo resista
alla follia, riguarda il creare luoghi di accoglienza. Nella vita sociale, nella politica, nella
crisi economica, c’è sempre un lavoro da fare per migliorare la situazione. Mi piace
parlare dell’uomo di fede come di un lavoratore incrollabile. La radice del suo impegno è
quel Vangelo che suscita in lui un risveglio. Questa capacità di futuro non è presente in
altre saggezze religiose: nel Vangelo esiste un’incrollabile volontà di vita».
Lei è psicoanalista: quest’ultima può offrire un contributo positivo allo scambio fra atei e
credenti?
«Bisogna intendersi su cosa significhi psicoanalisi. In Francia coloro che la praticano
sono praticamente tutti atei. Ma fondamentalmente la psicoanalisi è un’esperienza: si
tratta di fare ordine nella propria vita per essere nella verità, e non vivere secondo le
costruzioni moralistiche che ci diamo. Perciò la psicoanalisi può stare a fianco di quella
Parola che parla alla realtà e non alla teoria».
Lei ha dedicato molto del suo impegno intellettuale al tema dell’idolatria.
«La relazione con Dio non è mai definita: può capitare che diventi alienante. Io posso
arrivare a sottomettere Dio e imporgli le mie idee: questa è l’idolatria. Qui interviene la
psicoanalisi: Cristo stesso ha lottato con le ideologie religiose. Ho scritto un libro sul "Dio
perverso": si può affermare che Dio sia amore, ma arrivare a considerarlo crudele in
nome della colpevolezza umana e così giungere alla perversione. Bisogna purificare la
nostra relazione su Dio».
Lei considera l’impegno per la giustizia (ad esempio, la Resistenza contro il nazismo)
come una possibilità per unire credenti e atei. Il giusto però crea divisioni. In che modo
uscire da tale confusione?
«Un tempo il dibattito si svolgeva su fede e ateismo. Oggi si attesta su chi, per dirla con
Marx, lavora a favore dell’umanità e chi si preoccupa del guadagno in nome
dell’egoismo. Di recente ho incontrato alcuni atei i quali mi hanno ricordato come il
centro del cristianesimo sia l’agàpe. Ma il nodo è capire cosa vi sia dentro questa
espressione, che vale molto più dei diritti umani o della giustizia retributiva. Occorre
ripartire dalla comunione fra gli uomini per arrivare a Dio. Bisogna iniziare da Cristo e
dal suo rapporto verso la violenza da lui subita dalla religione e politica del suo tempo. A
chi dichiara: "Preferisco parlare di Dio, occuparmi di mistica, interessarmi della
meditazione…", io dico: "Sbagli! Esiste un’altra possibilità, ripartire dalla nostra umanità
e da quella di Cristo". La più forte tentazione d’oggi consiste nel cercare un cristianesimo
del tutto compatibile con la mentalità moderna. Serve una fede che parli alla nostra
società, ma che non piaccia ad ogni costo».
Su quali aspetti la fede cristiana dovrebbe sfidare la società moderna?
«La riduzione di ogni cosa ai propri umori e voglie. Ovvero la questione della
trascendenza di Dio. Feuerbach denunciava l’immanenza del cristianesimo: se Dio è
amore, allora l’amore è Dio. Egli invitava a far senza Dio perché inutile. Tanti cristiani
hanno un Dio a loro somiglianza, e poi non ne hanno bisogno. Però bisogna avere
rispetto per quanto nato dal cristianesimo (tutt’altro rispetto al tradizionalismo): non
dobbiamo abbattere nulla della tradizione. Al contempo serve la capacità di innovare,
purificare il linguaggio e superare il dottrinarismo (altra cosa è la dottrina)».
LA NUOVA
Pag 1 Federalismo, in troppi danno i numeri di Mario Bertolissi
Un campetto di periferia. Pomeriggio di un sabato. Ultimi bagliori di un’infuocata contesa
calcistica. Da strapaese. Una voce, nel silenzio. È quella di un arzillo vecchietto.
Allenatore di una tra le squadre contendenti. «Gigi, mona, alza la testa e cerca di
ragionare!». «Mona» è una parola sublime. Stempera anche gli ardimenti estremi e li
piega alla razionalità. Esprime una visione del mondo e la materializza nel candore. Il
mio è, appunto, il candore del «mona», che non comprende quel che sta accadendo in
tema di federalismo fiscale. Che ho sempre accompagnato al termine «cosiddetto»,
perché dà visibilità a istituti che hanno a che fare con la più tradizionale autonomia
finanziaria. Lo ha sottolineato - da ultimo - pure il Presidente della Corte costituzionale
Ugo De Siervo. Tutto questo significa una cosa soltanto: riprendiamo possesso di una
nostra facoltà fondamentale. Della ragione. E, per darne prova, procedo sinteticamente
per punti.
1) Cominciamo dalla saggezza popolare, che è una sorta di precondizione per lavorare.
«Presto e bene non vanno insieme». «La fretta è cattiva consigliera». Traduco: capisco
che la politica abbia le sue esigenze, ma, al pari dell’economia e di mille altre
componenti della vita, le istituzioni hanno le loro. Hanno i loro tempi. Dunque, per
attuare la legge n. 42/2009, bisogna procedere non con ritmi forsennati, ma secondo il
preoccupato suggerimento di Ferrer: «Adelante, Pedro, con juicio».
2) La materia è non complessa, ma complessissima. Almeno per due ordini di ragioni.
Perché, da un lato, ha a che fare con le risorse di cui uno Stato ha bisogno per
mantenersi e progredire, risorse che ottiene mettendo le mani nelle tasche dei cittadini,
molti dei quali non hanno nessuna voglia di essere contribuenti: preferiscono l’evasione
fiscale all’imposizione. Perché, d’altro lato, è intimamente avviluppata con l’insieme dei
capisaldi sui quali si regge l’intero ordinamento della vita associata: con famiglie,
imprese, pubblica amministrazione e via dicendo.
3) Oggi, in Italia, abbiamo due questioni, non una, da risolvere, che sono strettamente
correlate al federalismo fiscale. La questione Meridionale e la questione Settentrionale.
Solo per impostarle correttamente ed avere un’idea almeno approssimativa su come
procedere, con l’obiettivo di edificare sulla roccia e non sulla sabbia, si sarebbe dovuto
programmare un impegno dannatissimo per l’intera legislatura. Non se ne sono accorti,
ma il problema è, innanzi tutto, di educazione civica e di cultura. Come si può pensare di
risolverlo se non si parte dalla scuola? Dare in mano il federalismo fiscale a chi non è in
grado di comprenderne il senso - per lo più risuonano parole vuote - è come mettere
un’auto in mano a chi non ha la patente di guida.
4) Danno i numeri. Quanti numeri circolavano prima della crisi planetaria del 2007?
Sosteneva Wiston Churchill di credere solo nelle statistiche che aveva direttamente
manipolato. Ciascuno sa, riflettendo sul giorno dopo giorno, quanti ostacoli si
frappongono tra il dire e il fare. E quanti danni possono seguire a una decisione
sbagliata. C’è chi afferma che la pressione fiscale non aumenterà e chi il contrario. Tutti
hanno ragione, tutti hanno torto.
5) Certo, il torto e la ragione si possono sottoporre a verifica e stabilire, alla fine, chi ha
l’uno e chi l’altra. Ma come si fa quando sono stati presentati - nella materia
dell’autonomia finanziaria locale - quattro testi diversi in sei mesi, ed è accaduto che
dall’articolato presentato alla Commissione parlamentare per l’attuazione del
federalismo fiscale il 3 febbraio sia scomparsa la compartecipazione all’Irpef sostituita
con quella all’Iva? Irpef e Iva sono tributi analoghi oppure no e che cosa hanno a che
fare con la responsabilità dell’amministratore locale?
6) La prova provata che così non va è stata offerta, poi, dal flop della procedura,
troncata dal Presidente della Repubblica con una dichiarazione di «irricevibilità» del
decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri. Scrive Manzoni che «non si può
spiegare quanto sia grande l’autorità d’un dotto di professione, allorché vuol dimostrare
agli altri le cose di cui sono già persuasi». Il Consiglio dei ministri era persuaso. I suoi
consulenti erano, quindi, persuasi... Ma io non ero e non sono persuaso!
7) Sostiene Jean Paul Fitoussi - illustre economista e collega in un prestigioso consiglio che, quando non si comprende il significato di una proposta, si vota contro. È un ottimo,
salutare insegnamento. Al pari di quello dato dall’on. Bubbio alla Costituente, a
proposito del tema in esame, il quale suggeriva la «gradualità» e di attendere sempre
«il collaudo dell’esperienza». Era il 3 giugno 1947!
8) Infine, qui non c’è spazio per la polemica, anche perché ho sempre apprezzato chi
lavora: con chiunque e per chiunque. Ed anche perché siamo sulla stessa barca.
Cerchiamo, tutti insieme, di non affogare. Non vorrei fosse la sola, vigorosa
manifestazione di unità della Repubblica nel 150º anniversario dell’unità d’Italia.
AVVENIRE di domenica 6 febbraio 2011
Pag 2 L’Europa orfana ritrovi la sua memoria di Carlo Cardia
L’Europa torna ad interrogarsi criticamente sulla propria identità e futuro, in rapporto
all’immigrazione e alla multiculturalità. Dopo Angela Merkel, che nell’ottobre scorso
aveva dichiarato fallita l’ideologia multiculturalista perché favorisce la separazione tra
popolazioni e culture diverse, oggi è la volta di David Cameron che, proprio incontrando
la cancelliera tedesca, ha sostenuto che bisogna cambiare strada. Per il premier inglese,
«con la dottrina del multiculturalismo di Stato abbiamo incoraggiato culture differenti a
vivere vite differenti, separate l’una dall’altra e da quella maggioritaria. Non siamo
riusciti a fornire una visione della società in grado di far desiderare loro di
appartenervi». Più chiaramente, lo Stato non può «compiacere gruppi e associazioni
islamiche che sono ambigue e passive verso gli estremisti, non condividono valori
fondamentali come l’uguaglianza tra i sessi, la democrazia, l’integrazione». Esistono
organizzazioni che «sono inondate di denaro pubblico, ma fanno molto poco per
combattere l’estremismo al loro interno. Giudichiamole adeguatamente. Credono nei
diritti umani universali? Anche per le donne e per chi crede in un’altra religione?
Credono nell’eguaglianza delle persone davanti alla legge?» La Gran Bretagna dovrà
riflettere sulle parole di Cameron, che seguono quelle recentissime dell’ex arcivescovo di
Canterbury, lord Carey of Clifton, che ha denunciato la tendenza a considerare il
cristianesimo una cosa vecchia, inutile, dannosa, e mentre si accettano i simboli di altre
religioni, quelli cristiani sono nascosti quasi se ne provi vergogna. Facilitata dal sistema
di common law, ha adottato un multiculturalismo senza limiti, fino a respingere semplici
e legittime espressioni della tradizione cristiana. Da tempo la sharia si è insinuata nelle
pieghe dell’ordinamento attraverso l’attività di tribunali islamici in materie delicate come
quelle familiare e personale. Domina una strisciante e maniacale ostilità verso i simboli
cristiani, come catenine e crocifissi, se portati da un insegnante o da un’infermiera.
Addirittura, pochi giorni fa, la Gran Bretagna di Cameron – che dovrebbe rendersi conto
della contraddizione – si è distinta perché dal documento dell’Unione Europea sulla
libertà religiosa fosse eliminato il riferimento alle persecuzioni dei cristiani. Oggi i più
grandi Paesi democratici comprendono che il rischio del multiculturalismo è quello della
perdita di identità dell’Europa e di nuove lacerazioni sociali, e che occorre cambiare
rotta. Ma come, in che modo, quale strada intraprendere, non è del tutto chiaro. Dopo
l’autocritica, è necessaria una riflessione che coinvolga anche un Paese come l’Italia, sul
futuro dei nostri ordinamenti e delle nostre società. Nel settembre del 2010, al bureau
dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, Benedetto XVI ha ricordato che nel
«contesto della società attuale, nella quale si incontrano popoli e culture differenti, è
imperativo sviluppare sia la validità universale di questi diritti, sia la loro inviolabilità,
inalienabilità e indivisibilità». Questo è il primo punto cardine di ogni politica di
integrazione: far sì che gli immigrati fruiscano effettivamente dei diritti umani e le loro
comunità accettino e rispettino la libertà di religione, l’eguaglianza delle persone, il
diritto di ciascuno a vivere con gli altri, respingendo ogni forma di estremismo,
comunque motivata. Ma c’è poi l’altra faccia della medaglia. Un’Europa che nasconda se
stessa, i valori cristiani che l’hanno formata e che sono alla base dei diritti umani, non
realizzerà mai una vera politica di accoglienza e di integrazione. Offrirà, come dice
Cameron, ospitalità materiale, magari tanto «denaro pubblico», ma non una concezione
dello Stato e della società rispettosi della dimensione spirituale e morale dell’uomo.
Quando le comunità di immigrati sono inserite in una società anonima e povera, priva di
identità e princìpi nobili, si chiudono inevitabilmente in un’identità propria, separata,
ostile, terreno di conquista dei fondamentalismi. Se la società che le accoglie si dimostra
aperta, rispettosa dei loro diritti, ma anche ricca e orgogliosa dei propri valori civili e
spirituali, l’estremismo cede, nasce la voglia di confrontarsi, prendere il meglio di sé e
degli altri. Credere nei propri valori è una condizione pregiudiziale perché siano rispettati
e riconosciuti dagli altri.
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