V. Insediamento e gestione della terra dall`età longobarda a

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V. Insediamento e gestione della terra dall`età longobarda a
V. INSEDIAMENTO E GESTIONE DELLA TERRA
DALL’ETÀ LONGOBARDA A QUELLA CAROLINGIA
1. LA TRANSIZIONE VERSO L’INSEDIAMENTO DI
ETÀ LONGOBARDA: IL MODELLO CAOTICO E LA
L’intera organizzazione produttiva collassa definitivamente intorno alla fine del V-inizi VI secolo, decenni che segnano una selezione della rete insediativa rurale. Il processo degenerativo del popolamento
è riconoscibile in tutto il centro-nord dell’Italia, con
il sistema delle ville entrato in fase terminale97.
Oltre agli indizi delle ricognizioni di superficie,
alcuni scavi toscani mostrano con chiarezza gli
effetti della crisi.
Torretta Vecchia (Collesalvetti), era un complesso di
grande estensione caratterizzato da almeno cinque
fasi edilizie e frequentato fra il I secolo a.C. e la metà
del VI secolo. Tra la fine del IV e gli inizi del V seco-
SUA INTERPRETAZIONE CONTROVERSA
La prima stesura del modello caotico, sulle trasformazioni del popolamento rurale nel passaggio fra
tarda antichità e altomedioevo, è stata presentata
in occasione del convegno di Pontignano del 199293,
con successive rielaborazioni fino al 199994.
Si è posto l’accento sulla disgregazione della rete
insediativa ordinata secondo un progetto economico e fiscale di gestione della terra, sostituita nel
corso del VI secolo da uno sfruttamento disarticolato e di scarso peso demografico.
Era ed è ancora un modello valido per alcune zone
della Toscana, con riscontri nel senese (Chianti,
Val d’Elsa e Val di Merse, Valdorcia), fra grossetano e livornese (Ager Cosanus-Valle dell’Albegna,
Valle dell’Osa), nella lucchesia (Versilia e bassa
Valle del Serchio). Queste aree attestano una prima crisi delle strutture rurali intorno al III-IV secolo, alla quale consegue una stabilizzazione delle
aziende superstiti, in pochi casi una loro trasformazione, per almeno i due secoli successivi95. Nella
sola lucchesia, pare allargarsi lo spazio messo a
coltura dietro spinte economiche di vario tipo96.
bardia (Desenzano – BS e Palazzo Pignano) e della Romagna (Meldola – FO; Galeata – FO; Palazzolo – RA), collegandosi con la presenza della corte rispettivamente a Milano ed a Ravenna. Si vedano GELICHI 2001, pp. 226-227 per
una sintesi e BROGIOLO 1996.
97. In Emilia tra V e VI secolo è attestata un’involuzione del
modello di gestione della campagna incentrata sulle ville,
che si conclude con un marcato degrado ambientale ed un
drastico collasso “spaziale” degli edifici (per esempio Casteldebole propone una riduzione dell’ambiente abitativo da
7000 a 110 mq): ORTALLI 1996; ORTALLI 2000. In Piemonte,
dopo una relativa prosperità della regione ancora verso gli
inizi del V secolo (indizi di un rinnovato benessere e vitalità
sono percepibili sia nei centri minori sia nelle campagne,
dove si diffondono ville anche di un certo rilievo, come a
Ticineto e Centallo), le strutture mostrano decadenza e segni di trasformazione. In molte ville si inserirono degli edifici di culto (per esempio nel Novarese a Carpignano e
Sizzano, nel Cuneese a Centallo) ed altri ambienti continuano ad essere usati per scopo abitativo, attestandone la contrazione od una differente organizzazione distributiva: MICHELETTO 1998. In Lombardia a partire dalla metà del V secolo si assiste ad un decadimento progressivo delle strutture; delle 70 fra ville e fattorie individuate solo 12 hanno
continuità dal I al V secolo e 17 vengono parzialmente riusate tra V e VI secolo. A Monzambano, dopo una fase di
degrado e spoliazione ascritta entro la prima metà del V secolo, i muri presentano una fase di legno o di argilla. La
villa di Sirmione-via antiche mura è abbandonata intorno
alla fine del V secolo; più o meno contemporaneamente viene distrutta per incendio la villa di Desenzano; a Pontevico
la frequentazione fu prolungata tra IV e VI secolo con la
costruzione di edifici con zoccolo in muratura e alzato in
legno, una capanna, un “muro rustico” successivo ad una
fase di esondazione del vicino fiume Oglio; a Nuvoleto tra
fine VI e VII secolo viene demolito l’edificio termale poi
riutilizzato successivamente per realizzare dei piccoli vani
con alzato in legno: BROGIOLO 1996; inoltre interventi specifici in ROSSI 1996; ROFFIA 1996; BOLLA 1996; SCAGLIARINI
CORLAITA 1997. Nel basso Trentino, sulla piana di Riva-Arco,
gli edifici in muratura vennero sostituiti da strutture lignee;
a Nago furono riutilizzati dei piccoli ambienti di un edificio
e gli archeologi hanno scavato un sistema di campi chiusi da
muri utilizzati almeno sino a tutto il VI secolo; a Varone si
procede ad inumare negli ambienti interni di una villa: CAVADA 1996; CAVADA 1997; CAVADA 2000; PACI 2000.
93. FRANCOVICH , NOYÉ 1994.
94. CAMBI et alii 1994; VALENTI 1995b e VALENTI 1999. Per
la situazione riscontrata nell’Ager Cosanus e nella Valle
dell’Albegna si vedano CAMBI 2002; CAMBI , FENTRESS 1989.
95. Nella Toscana interna, sino al V secolo, sono riconoscibili almeno cinque tipi di forme insediative collegate allo
sfruttamento fondiario organizzato: 1) complessi tipo fattorie come centri di riferimento per fondi coltivati tramite
poderi contadini a conduzione monofamiliare posti sulle
superfici distanti dalla città (zone più settentrionali del senese, Ager Cosanus-Valle dell’Albegna, forse bassa Valle del
Pecora); 2) ville occupanti le zone di pianura più distanti
dalla città (Val d’Elsa senese, Ager Cosanus-Valle dell’Albegna, Valle del Pecora e Pian d’Alma, zona Roccastrada); 3)
ville con villaggi vicini abitati da manovalanza servile (Ager
Cosanus-Valle dell’Albegna); 4) ville disposte a cerchio nei
pressi della città (nell’immediato nord e sud di Siena, Ager
Cosanus-Valle dell’Albegna); 5) una serie di complessi medio-piccoli tipo fattoria sembrano organismi autonomi a
controllo diretto di fondi non molto estesi (bassa Valle del
Pecora e Pian d’Alma). Si vedano CAMBI et alii 1994; VALENTI 1996b e F RANCOVICH , VALENTI 2000.
96. Anche nel nord Italia si assiste in questa fase ad una
ripresa, che si manifesta soprattutto in opere di edilizia residenziale rurale con caratteri di lusso; la sua portata sembra comunque modesta e limitata ad alcune aree della Lom-
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lo una parte dell’edificio principale, che raggiungeva un’estensione di circa 3000 mq, sembra essere
stata in condizioni rovinose ed in altre parti, cioè
nelle terme e nella zona orientale, vennero impiantate delle attività artigianali fra le quali un fabbro ed
abitazioni; alla metà del VI secolo l’abbandono era
già definitivo98. La villa di Settefinestre (Orbetello),
pur se abbandonata forse a seguito di un’epidemia
verso la fine del III secolo, tra IV e VI secolo sembra
essere stata rioccupata per uso abitativo occasionale
e come area cimiteriale99. La villa in località La Tagliata (Orbetello) fu anch’essa rioccupata da una piccola comunità che sfruttava le risorse della laguna e
che forniva appoggio al cabotaggio tra V e VI secolo100. La villa di Poggio del Molino (Piombino) dopo
un’intensa occupazione che raggiunse la metà del V
secolo venne frequentata saltuariamente sino alla fine
del VI-inizi VII secolo101.
La villa di San Vincenzino (Cecina), anch’essa un
complesso di grandi dimensioni con caratteri di
lusso e successive fasi di trasformazione per scopi
produttivi, poco prima del definitivo abbandono
nel V secolo, vide gran parte degli spazi andare in
disuso ed un’occupazione limitata solo ad alcune
sue parti102. La villa di Linguella (Isola d’Elba), dopo
il momento di massimo splendore nel III secolo, fu
oggetto progressivamente di una destrutturazione
fino all’abbandono avvenuto nel V secolo103. Anche altri complessi come la grande villa di
Giannutri104, la villa o mansio di Torre Saline (Orbetello)105, la villa di Talamone (Orbetello)106, la villa
di Santa Liberata (Orbetello)107, la villa dell’Isola
del Giglio108, la villa alla Befa di Buonconvento (Siena)109, la villa di Pieve a Bozzone presso Siena110
mostrano le medesime vicende e cronologia.
Nella metà del VI secolo il territorio toscano presentava bassi indici demografici ed ampie fasce spo-
polate, un’occupazione polarizzata su molti terreni in precedenza compresi in complessi latifondistici. Il popolamento si distribuisce soprattutto in
case monofamiliari edificate ex novo, o approntate
su ville e complessi in abbandono, che compongono una rete a maglie relativamente strette; lo sfruttamento della terra non restituisce un’immagine di
pianificazione piuttosto mostra la scelta di vivere
su terreni già dissodati da lungo tempo.
Il fenomeno del riuso delle ville si manifesta in
tutta Italia con aspetti simili: «occupazione parziale della villa/fattoria (generalmente l’antica pars
urbana); abitazioni con largo impiego del legno e
recupero, ma solo strettamente funzionale, di precedenti strutture; nuclei più o meno estesi di sepolture» e «complessivamente, il maggior numero dei siti indagati indica un definitivo abbandono nel corso dell’età gota»111.
In Toscana, però, la rioccupazione di complessi
romani sembra essere stata più limitata di quanto
si possa pensare. Le ville rintracciate nei territori
provinciali di Siena e Grosseto, su 1979 kmq campionati, ammontano a 427 e quelle con tracce di
frequentazione ascrivibili nel maturo VI secolo
sono solo 42. Proiettando tali cifre sui 22.990 kmq
della regione possiamo ipotizzare un potenziale
di 4960 ville (che si dividevano in media poco più
di 4,5 kmq) ed un loro riuso in percentuale del
9,83%: 487 complessi, mediamente una rioccupazione ogni 47 kmq circa.
In pochi casi si osserva l’esistenza di piccoli centri
agglomerati nei quali si dovevano concentrare delle
attività di scambio a carattere locale come a Pantani-Le Gore presso Torrita di Siena, un insediamento
che si colloca nella fase iniziale del modello caotico.
Nel corso del V secolo venne rioccupata parzialmente
una statio databile fra I-II secolo; è stata riconosciuta una massicciata realizzata con materiale di recupero sulla quale vennero impiantate strutture lignee
caratterizzate dalla presenza di ceramica d’imitazione africana. Dopo la distruzione del complesso ed
una sua ristrutturazione, si sviluppò un abitato di
dimensioni ridotte, con edifici in materiali deperibili e testimonianze di attività collegate all’allevamento bovino ed alla lavorazione del ferro. Il sito, che
prima dell’abbandono definitivo di metà VI secolo
era già frequentato occasionalmente (forse per fiere
o mercati periodici), sembra potersi identificare con
la statio Manliana indicata dalla Tabula Peutengiriana. Il suo abbandono viene collegato dai ricercatori
agli effetti della guerra greco-gotica112.
Un contesto apparentemente molto simile a Pantani-Le Gore, ancora inedito, è stato individuato
98. AA.VV. 2003, pp. 50-53.
99. CARANDINI 1985a, 1, pp. 184-185. La frequentazione
viene attribuita a gruppi di pastori, senza prendere in considerazione la presenza di un insediamento più stabile che
riusa le strutture cadenti della villa. Il riconoscimento del
fenomeno del riuso di complessi fatiscenti era in quegli anni
appena agli inizi e percepito in relazione ad un paesaggio
soprattutto di tipo pastorale.
100. CARANDINI 1985b; CIAMPOLTRINI , RENDINI 1990.
101. SHEPHERD 1986-87; DE TOMMASO 1998; AA.VV. 2003,
pp. 136-137.
102. DONATI et alii 1989; AA.VV. 2003, pp. 94-101 con
bibliografia.
103. AA.VV. 2003, pp. 174-175.
104. CELUZZA 1993, pp. 252-253.
105. CIAMPOLTRINI , RENDINI 1988.
106. CARANDINI 1985b; CELUZZA 1993, pp. 184-186.
107. CARANDINI 1985b.
108. CELUZZA 1993, pp. 243-254.
109. DOBBINS 1983.
110. CRISTOFANI 1979, p. 196.
111. GELICHI 2001, p. 227.
112. Si veda CAMBI , MASCIONE 1998 e soprattutto MASCIONE
2000.
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Fig. 43 – Territori provinciali di Siena e Grosseto: rinvenimenti di I-IV secolo.
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durante le ricognizioni sul territorio provinciale senese, nella Valdorcia. Tra V e VI secolo, lungo una
probabile direttrice che sarà poi la via Francigena,
il popolamento continuava a polarizzarsi su un insediamento degradato che sembra svolgere attività
di tipo artigianale e commerciale; si tratta di una
grande emergenza di reperti mobili in superficie,
posta a circa 500 m dalla frazione di Briccole (stazione citata nell’itinerario di Sigerico ed oggi in
comune Castiglion d’Orcia) con una vasta concentrazione di ossa animali e scorie di ferro.
I caratteri della circolazione ceramica a livello regionale riflettono la rarefazione del popolamento
rurale, quindi la diminuzione della domanda, il
decadimento e più in generale la scomparsa di
organizzazioni aziendali, il collegamento con i
mercati urbani che cessa. La distribuzione si restringe divenendo locale, i campionari tipologici
vengono semplificati, le importazioni hanno una
riduzione drastica fino a cessare113.
Ancora alla fine del V secolo esisteva un quadro
variegato nella diffusione dei prodotti, con zone
dotate di modalità e capacità di accesso differenziate ai mercati. Sono riconoscibili particolarità
sub-regionali in cui operano fornaci, la cui ubicazione non è nota, ma che producono vasellame in
serie, diffondendolo a medio-largo raggio.
Nel senese esistono due fasce diverse di consumatori: i residenti dei grandi complessi e le singole
famiglie contadine. Per i primi è chiara la frequentazione di un mercato ancora vivace, dove era
possibile reperire oggetti e derrate d’importazione. Il singolo coltivatore si limitava invece ad acquistare solo le merci in circolazione nelle zone
rurali interne, soprattutto produzioni locali di
minore costo; osserviamo corredi domestici composti da ceramiche acrome da cucina ad impasto
grezzo, ceramiche da mensa verniciate parzialmente o in toto di rosso e grandi dolia, rari gli oggetti
in vetro, quasi sempre assenti forme in sigillata
africana ed anfore. Con gli inizi del VI secolo le
produzioni locali divengono vincenti.
La valle dell’Albegna e l’Ager Cosanus restituiscono invece corredi molto articolati (prodotti africani, iberici, siro-palestinesi ed egeo-orientali) sino
alla fine del V secolo; la vicinanza alla costa ed
una vivacità mercantile che tocca anche l’interno
ed i siti più lontani dalle principali vie di comunicazione, accentuano la diffusione delle merci d’importazione. Nel VI secolo, con un radicale cambiamento di tendenza, si conferma anche in tali
aree la preponderanza della circolazione di merci
prodotte localmente sulle importazioni114.
Nella lucchesia (dalla Valle del Serchio all’area versiliese) si verifica una trasformazione progressiva
dello scambio. Sino al IV secolo sono diffuse quasi
in modo capillare sia le importazioni sia le ceramiche locali. Tra V-inizi VI secolo, cambia tutto: una
fortissima diminuzione di ceramiche d’importazione che con gradualità scompaiono, mentre i prodotti ceramici d’imitazione aumentano prepotentemente; l’agricoltura si specializza e tende il più
possibile all’autosufficienza, con la conseguente circolazione di anfore vinarie provenienti da aree vicine ed in particolare i contenitori valdarnesi.
Alcune indagini mostrano la composizione del corredo ceramico di singole abitazioni, lasciando constatare i cambiamenti nello spazio di un secolo e
mezzo.
Colle Carletti (Orentano di sotto-Pisa)115, esemplifica la dotazione ceramica di edifici frequentati nel
IV secolo e per tutto il V secolo. Il deposito restituisce 31 recipienti da mensa in africana, 29 imitazioni e 19 esemplari di forme chiuse ad impasto
depurato; il rapporto tra importazioni e produzioni locali si inverte per la ceramica da fuoco: le africane sono rappresentate da 13 attestazioni mentre
le forme ad impasto grezzo corrispondono a circa
447. Le anfore sono invece scarsamente attestate,
pochi frammenti di contenitori africani non definibili, una di produzione adriatica ed una Dressel
20. Calcolando una frequentazione di almeno tre
generazioni nell’arco di un secolo si può pensare
ad una media di 30 forme da mensa, di circa 150160 forme da fuoco e 2-3 anfore usate nell’arco di
30-40 anni.
Nei pressi di Orbetello (Gosseto)116, per la fine del
V secolo, un’emergenza di reperti mobili in superficie interpretata come casa in materiale deperibile era
caratterizzata dalla presenza di almeno 22 diverse
forme in africana e 7 in depurata per i tipi da mensa,
una decina di forme ad impasto grezzo per la ceramica da fuoco, 7 esemplari di anfore. Mancano riscontri di scavo per scandire ulteriormente il rapporto tra reperti affioranti e presenze in giacitura,
non crediamo però che il panorama delle forme attestate possa mostrare variazioni eccessive nelle sue
componenti; sicuramente cambierà l’ammontare dei
singoli recipienti ma non forniranno ulteriori indicazioni per quello che riguarda le informazioni di
tipo economico: diffusione di importazioni e circolazione capillare di merci nelle zone extraurbane.
In località S. Quirico (Chianti senese)117, un’abitazione databile alla metà del VI secolo rivela la
mutata composizione del vasellame impiegato da
un nucleo familiare nel corso di una generazione:
113. Si vedano al riguardo FRANCOVICH , VALENTI 1997; VALENTI 1999.
114. CAMBI 2002, p. 239.
115. ANDREOTTI, CIAMPOLTRINI 1989.
116. CIAMPOLTRINI, RENDINI 1989.
117. VALENTI 1994; VALENTI 1995b.
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22 esemplari da mensa imitanti le ceramiche africane, 45 da fuoco, 2 dolia.
Le restituzioni ceramiche dei contesti urbani fanno
riconoscere un processo analogo a quello verificato
nelle zone rurali. Sino a tutto il V secolo osserviamo
una duplice realtà: città nelle quali continuano a circolare grandi quantitativi di ceramiche sigillate norditaliche e africane, di anfore prodotte sia nel Mediterraneo occidentale (Africa e Spagna) sia nelle fornaci regionali (anfora di Empoli) accanto a produzioni locali; città nelle quali le importazioni sono
numericamente più limitate e dove le produzioni
locali risultano invece in grande abbondanza. In tutti i casi con il maturo VI secolo le importazioni risultano un fatto episodico e contemporaneamente è
osservabile la decadenza di centri produttivi operanti in economia pienamente di mercato anche se
in un raggio sub-regionale. Questa tendenza è ben
riconoscibile osservando l’evoluzione tipologica di
tutte le ceramiche con coperta rossa118.
Il “caotico” definisce sia la caoticità della distribuzione insediativa, sia l’assenza di progettualità; caratterizza decenni problematici e di instabilità del
governo centrale, segnati da uno stato di guerra più
o meno permanente119, da carestie e da epidemie120.
Ad esse si accompagnava il declino demografico
nelle campagne121, sul quale aveva influito sino
dagli anni della guerra greco-gotica l’imposizione
sempre più esosa della tassa sul terreno e sulla
proprietà122, complicando una situazione economica già in fase recessiva.
Rappresenta l’interfaccia tra il mondo tardoantico
e quello altomedievale123. Essendo un periodo di
passaggio non ha il significato di completa e radicale rottura, un day after; bensì di anni in cui scompaiono alcuni elementi della società tardoromana
mentre altri caratteri, seppur alterati ed in via di
ulteriore traformazione, persistono ancora.
I cambiamenti avvengono con progressione nel corso del VI secolo, con un processo che si mostra compiuto agli inizi della seconda metà. In generale non
sono più riconoscibili archeologicamente sul territorio indizi di organismi dominanti. Questo elemento
ha fatto ipotizzare una popolazione rurale, di scarsa
entità numerica, che si è trasformata. I contadini, da
mografica. Pur senza estremizzare la portata degli eventi, è
innegabile lo svolgersi di decenni fortemente critici. Per la
successione delle epidemie dall’età giustinianea e quelle dei
tre secoli successivi si veda comunque CORRADI 1972. Nello
scavo di Settefinestre si sono riconosciuti indizi indiretti sulla
presenza di malaria nella Maremma di V e VI secolo. I resti
umani rinvenuti nelle sepolture ricavate negli strati di crollo
della villa, appartenevano ad individui giovani che si nutrivano quasi esclusivamente di carne e che erano affetti da
anemia mediterranea, un’alterazione congenita del sangue
che però rende immuni dalla malaria. Le epidemie di malaria erano quindi diffuse in forme tali da innescare una selezione naturale che favoriva solo gli individui immuni dalla
malattia (CARANDINI 1985a; CELUZZA 1993).
121. Sulle stime demografiche dell’Italia intorno alla metà
del VI secolo (valutazione pari a 4.000.000 di abitanti) si
vedano soprattutto CIPOLLA 1959; PINTO 1996; CAMMARO SANO 2001; CHIAPPA M AURI 2002 (significativo il titolo del
primo paragrafo sull’alto medioevo: I secoli dell’uomo raro)
e bibliografie indicate. Si legga inoltre sulla crisi demografica delle campagne P RAT E S I 1985, pp. 61-76; infine
BELLETTINI 1973. Per i criteri sui quali si è fondata la stima
demografica per il medioevo si veda PICCINNI 1986.
122. Si veda STUMPO 1983 per la pesantezza e gli effetti
negativi della jugatio-capitatio, associazione dell’imposta
prediale ereditaria e della capitazione, alla base del sistema
fiscale del tardo impero. Si veda inoltre TRAINA 1994, p.
89: «la crisi economica colpì l’equilibrio di ciò che chiamiamo il sistema della villa, accellerandone l’evoluzione
verso nuove soluzioni: l’eccessiva tassazione, nei momenti
di crisi, portava all’abbandono dei campi; al tempo stesso,
le misure a favore dei contribuenti dovevano essere ammortizzate in altra maniera, ad esempio intensificando le
opere pubbliche militari. Il problema non poteva essere risolto con periodiche misure ad hoc; ciò può contribuire a
spiegare le ragioni del rinnovato interesse per gli agri deserti. (…) Si tratta quindi di un processo di avvicinamento
alla natura che ritroveremo nel medioevo in forma compiuta, ma che si era avviato già in età romana».
123. Per l’Emilia centrale è stato sottolineato un processo
molto simile: «La contrazione del popolamento antico, iniziato con le vicende della guerra greco-gotica si accentuò
inesorabilmente tra la fine del VI e la prima metà del VII,
fase cronologica alla quale si riferisce un vero e proprio
abbandono dell’insediamento sparso nelle campagne per
dare vita a nuove forme organizzative che preludono a quelle di età medievale» (GIORDANI , LABATE 1994, p. 164).
118. Particolarmente significativa è l’evoluzione tipologica dei
boccali e delle brocche. Sino alla metà del VI secolo sono attestate forme che mostrano ancora stretti legami con gli esemplari tardoantichi. Il boccale caratterizzato da bordo estroflesso, collo breve, corpo spesso ovoidale, fondo piano e apode in uso tra V e VI secolo, viene affiancato dal boccale con
ventre decisamente ovoidale ed il collo molto stretto nel V
secolo avanzato, che raggiunge la metà VI-VII secolo (come
attestano gli esemplari di Massaciuccoli e Fiesole). Quest’ultimo è strettamente legato ai tipi con ansa a nastro leggermente insellata e complanare o impostata poco sotto il bordo, bocca appena trilobata o circolare, corpo quasi a sacchetto in parte coperto da vernice rossa, databili tra fine VI-VII
secolo. Nel complesso si tratta delle ultime forme diffuse a
livello regionale e distribuite da più centri produttivi (attestate a Fiesole, Arcisa, Massaciuccoli, Pistoia, nel Chianti senese); le stesse bottiglie rinvenute a Fiesole rimandano decisamente ad una produzione specializzata. Sembra poi proponibile una netta diversificazione delle forme (sia acrome sia a
bande rosse) sino a tutto il X secolo che sottintende ad elaborazioni locali; in altre parole i boccali in uso dal VII secolo
potrebbero essere stati prodotti da vasai operanti per una committenza composta da più nuclei di popolamento dislocati in
più circondari.
119. Citando uno dei tanti autori che hanno descritto questo periodo: «Gli anni 554-68 costituiscono un breve intervallo nell’arco dei settant’anni di una guerra che riprese
nel 568 con le invasioni dei Longobardi e continuò, con
qualche interruzione, fino al 605. Pur se l’Italia medicò le
proprie ferite dopo il 605, come aveva già iniziato a fare
durante la breve pace, non c’è dubbio che il colpo era stato
forte» (WICKHAM 1983, p. 41).
120. Si veda per la criticità della situazione economica, sociale e politica dell’Italia CAPITANI 1992, pp. 32-43. Come
ricorda ancora Wickham più volte (WICKHAM 1983; WICKHAM
1998), Procopio descrive carestie tremende sin dal 538; la
peste bubbonica si manifestò ad ondate a partire dagli anni
quaranta del VI secolo; nel 556 papa Pelagio I affermava
che i propri possedimenti italiani erano disabitati; papa Gregorio Magno descriveva un quadro di desolazione e crisi de-
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Fig. 44 – Territori provinciali di Siena e Grosseto: rinvenimenti di IV-VI secolo.
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Fig. 45 – Territori provinciali di Siena e Grosseto: rinvenimenti di VI-VII secolo.
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Gli indicatori archeologici mostrano la povertà
delle strutture, l’uniformità economica ed un popolamento regionale che si localizza distribuendosi ad isole dalle maglie molto larghe; fanno pensare a territori caratterizzati da una semplificazione progressiva delle strutture sociali, che pare indiziare la scomparsa dell’impronta organizzativa
della classe dei medio-grandi possidenti romani126.
Mancano quindi i segni di una gestione del lavoro
ed emerge invece un quadro di crisi; le condizioni
di vita non sembrano ottimali, anzi l’immagine è
quella di una decadenza e miseria diffuse. È in
gran parte questa la campagna toscana tra la prima e la seconda metà del VI secolo, segnata dalla
disarticolazione del rapporto con la città, dall’assenza di progettualità economica, da famiglie contadine che sopravvivono, da larghe fasce di territorio incolte e boschive127.
Significativo è il parallelismo tra l’abitazione scavata nel Chianti senese128 e quella scavata a Siena
nella piazza del Duomo129. Ambedue sono quasi dei
tuguri, occupano circa 20 mq, la pianta è rettangolare, gli elevati sono in terra (nel caso di Siena con
fondazione in pezzame di pietra legata da grumi di
calce e sabbia), il tetto ad uno spiovente (in materiale deperibile a Siena in tegole e coppi nel Chianti), il focolare circoscritto da pietre; in un angolo
alcuni grandi contenitori fungevano da dispensa
(un’anfora di produzione orientale a Siena; due
dolia nel Chianti).
Il parallelismo prosegue anche per la fine del VIVII secolo, con il passaggio ad un’edilizia per capanne, come evidenziano le strutture semiscavate
poggibonsesi e quella rinvenuta recentemente al
di sotto del Duomo di Siena o nello scavo della
città abbandonata di Cosa.
A Siena, su un’area d’intensa frequentazione in
età imperiale e adibita a discarica in età tardoantica per livellare il pendio, fu impiantata una piccola necropoli poco distante da una capanna tipo
grubenhaus circolare, dal diametro di circa 4 m e
profonda 2 m; doveva avere alzati in terra e canniccio ed essere divisa in due parti: quella più bassa sembra riconducibile ad una cantina sottostan-
semplice strumento di produzione soggetto a rapporti personali di vario titolo e ad obblighi fiscali,
divengono forse una massa di individui tendenzialmente liberi per brevissimo tempo.
Non possiamo però definire questo fase “l’età d’oro”
delle famiglie rurali, anche se doveva essere venuta
meno la pesante pressione fiscale tardoromana124.
Ma allo stesso modo non possediamo elementi per
ricondurre le evidenze riscontrate nelle campagne a
poderi affidati a servi od a coloni e compresi nei
patrimoni di proprietari residenti in città. Osservando
le condizioni della campagna, il carattere delle abitazioni, il loro basso numero e la collocazione su
terreni in precedenza compresi in latifondi ormai
decaduti, non si ha questa impressione.
Interessante si rivela il ricorso alla statistica per comprendere meglio i processi insediativi realizzatisi.
Le ricognizioni sui territori provinciali di Siena e
di Grosseto si sono estese su 1979 kmq pari
all’8,60% dei 22.990 kmq circa del territorio regionale. Hanno rivelato 2521 strutture dell’insediamento databili tra I-IV secolo, 506 tra IV-VI secolo e 201 tra VI-VII secolo. Mostrano così una
prima crisi molto forte, con una diminuzione di
strutture pari al 498%, nel periodo IV-VI secolo ed
un crollo significativo fra VI e VII secolo quando il
decremento risulta del 251% e del 1254% dal periodo di maggiore popolamento. Proiettando tali
valori sull’intera Toscana si ottengono risultati ipotetici molto indicativi: il popolamento si dirada
quasi a dismisura nello spazio di 300 anni circa,
periodo per il quale la crisi demografica e la scomparsa di un’organizzazione quasi capillare della produzione e della terra viene evidenziata indiscutibilmente dai numeri. Tra I-IV secolo è possible ipotizzare 29.286 siti in vita con una media di 1,27 per
kmq, tra IV-VI secolo 5878 siti con una media di
0,25 per kmq (cioè un sito ogni 4 kmq) e tra VI-VII
secolo 2335 siti con una media di 0,10 per kmq
(cioè 1 sito ogni 10 kmq)125. (Figg. 43-45)
124. WICKHAM 1988, pp. 108, 121-122.
125. Ricorda Capitani «Anche senza poter racchiudere in una
formula complessiva le condizioni dello sfruttamento della
terra (…) sembra plausibile che si indichi, nel periodo considerato, il protrarsi ed in taluni casi l’aggravarsi di condizioni
che erano proprie del paesaggio agrario tardo-romano: ciò
perché, in molti casi, le ragioni che avevano determinato certi fenomeni di insediamento, anziché certi altri, persistevano,
pur nella varietà del succedersi di invasioni, frantumazioni di
aggregazioni territoriali di antica tradizione, calamità naturali di vaste proporzioni (la degradazione del suolo, dovuta ad
alluvioni e sedimentazioni per abuso della terra coltivata; incuria ed abbandono delle opere idrauliche ed irrigue romane;
cambiamenti climatici); pestilenze terribili e gravi endemie
(malaria) indubitabili (una peste nera è attestata nel 543).
Anche se è sempre possibile porsi la classica domanda se furono queste le cause o gli effetti dello spopolamento che è un
dato costante del periodo considerato, rimane certo un fatto:
quello dello spopolamento» (CAPITANI 1992, p. 87).
126. Come sottolinea anche Pasquinucci in un’analisi recente
del territorio livornese, basata su dati di ricognizione e di scavo, «Il paesaggio e le strutture produttive e commerciali “romane”, pur con modificazioni sempre più evidenti nel tempo,
si conservarono sino al VI secolo d.C. Negli anni 535-553 la
guerra fra Goti e Bizantini interessò anche questa regione,
portando distruzioni, rovine e carestie. Infine, la conquista
longobarda, a partire dalla fine del VI secolo, pose le premesse per il passaggio all’età medievale» (PASQUINUCCI 2003).
127. Sulla destabilizzazione del sistema fondiario romano
tra VI e VII secolo si vedano CARANDINI 1993 e GIUSTECHI
CONTI 1992, pp. 17-20.
128. VALENTI 1994 e VALENTI 1995b.
129. BOLDRINI , PARENTI 1991.
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vece di una scelta occasionale nell’Alta Valle del Serchio e nelle alture della Garfagnana (Lucca)138, con
frequentazioni isolate di cavità rocciose naturali sparse sui rilievi costeggiati dal fiume. Grotte abitate limitatamente al periodo tardoantico sono state rintracciate sulla Pania di Corfino (Grotta del Cinghiale), a Soraggio (Caverna delle Fate), a Fabbriche di
Vallico (Buca di Castelvenere). Erano scelte come
ripari temporanei o stagionali nello sfruttamento dei
boschi per la produzione di legname. Più che nella
spelonca vera e propria, occupata solo occasionalmente, la frequentazione si svolgeva all’interno del
riparo che ad essa introduce; qui sono stati rinvenuti i nuclei maggiormente cospicui di materiale ceramico indizio d’uso. Anche nell’alta valle dell’Albegna è attestato un riparo in grotta in località Montemerano nei pressi di una villa abbandonata139. Il caso
senese deve essere ancora investigato; in linea di
massima propone similitudini con l’area lucchese
nella scelta della grotta (vengono sfruttate cavità
naturali) e la vicinanza dei rilievi amiatini potrebbe
fare sospettare la medesima finalità.
Su alcuni punti del modello sono sorte delle controversie. La proposta di un breve periodo di indipendenza delle famiglie contadine e di un mancato
controllo della città sul territorio, è stata dibattuta
soprattutto da Brogiolo140. Delle obiezioni sono
lecite; è vero che «conosciamo ancora troppo poco
dei castelli, diffusi particolarmente nella lucchesia
e nel grossetano e delle città, dove potevano risiedere i proprietari di poderi lavorati da servi e coloni». La presunta indipendenza contadina non riguarda comunque il periodo dell’occupazione longobarda; la mancata organizzazione in larga scala
del territorio rurale da parte delle prime aristocrazie longobarde toscane non è stata proposta come
segno di un’assenza di gerarchie sociali141.
Diverso è il caso della ceramica dipinta di rosso la
cui presenza «mal si accorda inoltre con la presunta
disorganizzazione del “modello caotico”»142. Questa produzione, pur diffusa sull’intera regione (Roselle, Fiesole e Firenze-Piazza della Signoria, zona di
Asciano, Lucca e suo entroterra, Volterra, Pistoia,
Siena ed il senese, Arezzo) mostra peculiarità regionali e spesso sub-regionali; intorno alla metà del VI
secolo, come già esposto in precedenza, si localizza
te il pavimento in assito del quale sono visibili gli
alloggi sul piano di appoggio (una cornice circolare di circa 50 cm di larghezza alla base dell’escavazione più alta)130. (Figg. 46-47)
A Cosa, nel primo periodo longobardo, venne rioccupata l’area del Foro attraverso la costruzione di
una chiesa dotata di cimitero con oltre duecento
tombe e la popolazione sembra aver vissuto in piccole capanne, con pianta rettangolare ed angoli
stondati, elevati in materiale deperibile sorretti da
basamento in pietra o da un’armatura di pali posti ai limiti dell’escavazione131. I confronti più stretti, soprattutto con Brescia-S. Giulia132, sembrano
dare conferma alla cronologia proposta in via preliminare dagli archeologi.
Un’ulteriore forma abitativa attestata, cioè l’uso
delle grotte in zone morfologicamente predisposte, rafforza ancora di più l’immagine decadente.
Sembra essere una tipologia insediativa caratteristica della lucchesia settentrionale133 e del territorio grossetano meridionale134, anche se recentemente sono stati individuati esempi nel senese a
Pienza135 ed al Vivo d’Orcia136.
Si riconoscono due diversi tipi e due diverse durate
del loro sfruttamento. Nella Toscana meridionale
interna il fenomeno rupestre è riscontrabile in modo
significativo sui comprensori comunali di Sorano e
Pitigliano (Grosseto) collegandosi a realtà abitative e funerario-religiose con una complessa gamma
tipologica e lunghe frequentazioni137. Si tratta in130. CAUSARANO, FRANCOVICH, VALENTI 2003.
131. CELUZZA , FENTRESS 1994.
132. Si vedano per esempio BROGIOLO 1991, pp. 104-105;
BROGIOLO 1994a, pp. 108-109. A Brescia-S. Giulia due capanne relative alla prima occupazione longobarda avevano pianta quadrangolare con angoli stondati, dimensioni ridotte (edificio III: 3,80×3 m ed escavazione compresa tra 40-15 cm;
edificio IV: 2,5×2,5 m ed escavazione di 80 cm), armatura di
pali laterali ed alzati in rami intonacati. Altre capanne dello
stesso periodo, circa una decina, erano anch’esse in tecnica
mista con riuso di murature romane superstiti integrate da
armatura di pali poggianti su basi in pietra o inseriti nelle
murature, elevati in ramaglia rivestita d’argilla.
133. CIAMPOLTRINI et alii 1991; si veda anche VALENTI 1994
con bibliografia.
134. Si veda BOLDRINI 1987 per un’ampia disamina sulla
zona; inoltre PARENTI 1980 e BOLDRINI , DE L UCA 1985.
135. In FRANCOVICH , VANNINI 1981 sono presentati i materiali medievali rinvenuti nella Grotta del Beato Benincasa
durante uno scavo preistorico. Una revisione della ceramica, effettuata nella relazione di Francovich-Valenti al convegno di Aix-en-Provence del 1995, ha proposto una cronologia di VI-VII secolo: FRANCOVICH, V ALENTI 1997.
136. GALIBERTI et alii 1996.
137. L’area, caratterizzata dalla presenza di tufi vulcanici,
è stata indagata per meglio comprendere l’insediamento a
lunga frequentazione di Vitozza. La ricerca, pur condizionata dagli effetti di uno sfruttamento delle grotte tufacee
perdurato sino agli anni sessanta producendo sistemazioni
degli ambienti e tecniche di scavo simili nel tempo o comunque difficilmente distinguibili dalle antiche, dà modo
di ricostruire le tendenze insediative del territorio e datare
l’inizio della stessa facies rupestre.
138. CIAMPOLTRINI et alii 1991.
139. FENTRESS 2002, p. 262.
140. BROGIOLO 1997, p. 109.
141. L’esempio proposto in FRANCOVICH, HODGES 2003 a
sostegno della presenza di segni di distinzione sociale non
riscontrabili archeologicamente nella casistica insediativa
ma ancora da individuare (sono presenti per esempio in
traccia nei corredi delle necropoli di Castel Trosino e Nocera Umbra) è senz’altro giusto e centrato ma non inerente
ai decenni del “caotico”.
142. BROGIOLO 1997, p. 109.
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Fig. 46 – Siena: ricostruzione dell’abitazione di metà VI secolo indagata in Piazza Duomo.
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Fig. 47 – Siena: ricostruzione della grubenhaus di VII secolo individuata nei locali sottostanti il Duomo.
selle146, forse Talamonaccio147, Capalbiaccio148, Sovana, Saturnia ed altre piccole località; una linea
settentrionale estesa fra la zona di altura di TirliScarlino e le alture di Roccastrada) parallele al corso dell’Albegna e facenti parte di una frontiera fluttuante, benché l’ipotesi tenga conto soprattutto di
vecchi rinvenimenti occasionali e dell’analisi toponomastica149.
Anche per la zona di Vitozza si è ipotizzato una
situazione simile. I dati, comparati con studi relativi alla zona dell’Alto Lazio (limitrofa, paesaggisticamente simile talvolta collegata: per esempio
il limes longobardo-bizantino del tardo VI-VII secolo) hanno evidenziato che gli abitati rupestri si
situano con regolarità su speroni naturalmente difesi alla confluenza di due fiumi, componendo una
rete insediativa molto fitta. Decine di piccoli villaggi in grotta, la cui vicinanza impedisce un ampio controllo visivo del territorio. In molti casi
sono preesistenti alla costruzione di castelli collocati nei loro pressi. Prove in tal senso sarebbero
riscontrabili nelle grotte tagliate dai fossati artificiali delle fortificazioni aldobrandesche di Vitozza apparentemente realizzate alla fine del XII secolo; in altri siti, nelle grotte poste fuori dai circuiti fortificati.
Sono oggetto di frequentazione almeno sino dall’età tardoantica e per tutto l’alto medioevo come
indiziato dai loculi di deposizione paleocristiana
di IV-V secolo e dalla chiesa rupestre riconosciuti
a Vitozza. In questo periodo i villaggi in grotta,
affiancati da capanne sparse poste sui pianori, sono
spesso difesi da fortificazioni e installazioni di tipo
militare delle quali rimangono tracce di fossati o
evidenze di torri.
Solo apparentemente più chiara (analisi archeologica abbinata a lettura di documenti, verifica
della continuità toponomastica e rilettura di vecchi rinvenimenti) si rivela la situazione del nord,
dove pare stabilizzata una rete di roccaforti a protezione di Lucca. Erano in gran parte castella bizantini o di età gota (il castellum de Carfaniana, il
Castrum Novum, il castellum Aghinulfi nella Gar-
e si semplificano le forme fabbricate, differenziandosi anche notevolmente, fino a scomparire143.
Il modello caotico non è stato esteso all’intera Toscana, mettendo in rilievo come la situazione poteva essere più articolata in quelle zone che possono
considerarsi strategiche o di frontiera144. Qui l’insediamento pare essersi organizzato soprattutto in
centri fortificati di altura, anche se sono pochi i
riscontri da ricognizione e di scavo. Per il sud viene
proposta la presenza di fortificazioni bizantine (una
linea meridionale composta da Cosa145, forse Ro143. La classe in questione ha da poco ricevuto un’adeguata
attenzione da parte degli archeologi e un riconoscimento
come produzione con caratteristiche proprie. Per questi motivi viene identificata in modi diversi; i più diffusi sono ceramica verniciata di rosso, ceramica a vernice rossa tarda,
ceramica dipinta, ceramica a copertura rossa, ceramica ingobbiata di rosso. Si tratta di recipienti con impasti molto
farinosi e teneri, coperta di colore rosso (talvolta con tonalità bluastre causate da cotture eccessive) o tendente all’arancio. Sono comunque individuabili tre principali tipi di manufatto: con coperta di buona qualità molto somigliante ad
una vernice sintetizzata; con coperta molto diluita ed evanide, in pratica un ingobbio colorato (rappresentano largamente le più attestate); con coperta parziale e distribuita in
superficie a formare motivi decorativi di carattere geometrico (si vedano al riguardo le restituzioni di Fiesole-Via
Portigiani e Lucca). Le ceramiche con motivo decorativo
dipinto vengono rappresentate soprattutto dai grandi piatti
da portata e da brocche-boccali; la vernice impiegata è la
stessa presente nei prodotti qualitativamente peggiori. Nel
senese, a Fiesole, a Lucca, le tre produzioni elencate, non
mostrano differenze per quanto riguarda forme ed impasti e
s’ipotizza che tutti i prodotti, sia con copertura uniforme sia
con decorazione, uscissero dalle medesime officine; in altre
parole siamo di fronte ad un’unica classe sulla cui definizione influiscono soprattutto la funzionalità ed i criteri stilistici rivelati dalle foggie. Per quanto riguarda le forme aperte,
il filo di congiungimento sembra soprattutto la destinazione
di tali ceramiche ad uso mensa e talvolta cucina, la costante
ripetizione e rielaborazione di archetipi in sigillata africana
D, ma non si escludono forme estrapolate da modelli in sigillata microasiatica ed in sigillata adriatica. Le forme chiuse non trovano invece confronti precisi ed è stata proposta
recentemente per le restituzioni romagnole e fiesolane una
derivazione da prototipi metallici; si tratta di un repertorio
limitato soprattutto a pochi tipi con varianti interne, essenzialmente boccali, brocche e bottiglie. Si vedano al riguardo
FRANCOVICH, VALENTI 1997; VALENTI 1995a; VALENTI 1999.
144. VALENTI 1995b; VALENTI 1999.
145. A Cosa, dopo una lunga crisi demografica, è riconoscibile una rioccupazione nel corso del VI secolo circa,
quando sull’arx venne costruita una mansio con granaio,
fienile ed una grande stalla per cavalli; nella zona del Foro
furono impiantate costruzioni in gran parte destinate ad
uso civile ed anch’esse cinte da mura di fortificazione. Sono
inoltre riconoscibili case in muratura, una chiesa con cimitero ed un forno da pane. Potrebbe trattarsi della fondazione del nuovo centro amministrativo di Ansedonia, imperniato su una cittadella con carattere militare nella zona
dell’arx e su una zona popolare circostante (si veda CELUZ ZA , F ENTRESS 1994 con bibliografia; inoltre F ENTRESS 2003).
Questa interpretazione è stata parzialmente contestata. Pur
restando valido il modello di città-fortezza, la nuova strutturazione dell’arce viene vista come una vera e propria fattoria fortificata che poteva qualificarsi come castellum privato; in pratica si propone, dietro la spinta della nuova
classe di proprietari goti (molto consistente in questa zona),
uno «sfruttamento di aree urbane come “ville” secondo il
modello che segnalava Rutilio Namaziano» (si veda CIAMPOLTRINI 1994, p. 603).
146. Roselle, alla fine del V-inizi VI secolo, subì alcuni interventi nella zona centrale: viene costruita una grande
chiesa sulle rovine delle terme adrianee, dotandola di fonte battesimale e cimitero ordinato su terrazzi; la strada basolata di età imperiale venne obliterata innalzando il livello di calpestio attraverso gettate di terra e materiali di crollo,
mentre l’edificazione di un muro di terrazzamento coprì
parzialmente gli ingressi di case-bottega adiacenti alle pendici della collina nord. In questa fase la città, uno degli
ultimi caposaldi bizantini sulla costa toscana, doveva essere dotata di una fortezza, per il momento ipotizzata nell’anfiteatro (si veda CELUZZA , FENTRESS 1994 con bibliografia).
147. VON VACANO 1988; FENTRESS et alii 1991, p. 208.
148. DYSON 1985.
149. KURZE, CITTER 1995.
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fagnana, il castellum Uffi in Versilia), sfruttati poi
dai longobardi per garantire i confini con Luni e
presidiare la via di penetrazione per la Maremma
e Chiusi (zona intorno al quale si ipotizzano almeno altri tre centri fortificati: il castrum Faolfi,
Montepulciano e Sant’Antimo), chiave di volta per
raggiungere Roma150. Nei loro immediati entroterra, la popolazione si raccoglieva in abitazioni
la cui disposizione e collocazione geografica rientra nello schema tracciato per il periodo caotico:
sorgono in zone già coltivate in età tardoromana
e sfruttano talvolta i ruderi di ville abbandonate
verso gli inizi del VI secolo.
È stato ipotizzato che le fortezze fungessero anche da centri amministrativi in embrione del popolamento circostante, per lo meno fino a tutto il
periodo bizantino151. Ma in questo caso, pur con i
limiti di teorie che non hanno il supporto di ricognizioni sistematiche o di scavi estesi, la traccia di
un’organizzazione del territorio si basa sulla compresenza di più elementi: le fortezze come centri
di riferimento, l’abitato sparso nei loro entroterra, la presunzione dell’imposta fondiaria annuale
che i bizantini avrebbero continuato pur con difficoltà a riscuotere, tentando di generalizzarla alla
fine del conflitto poiché essenziale per il mantenimento dell’esercito.
L’impressione che però si ha guardando ai pochi
casi di scavi effettuati in coincidenza di castra, è
quella di una rete di fortificazioni abbastanza elementari e mai di complessi imponenti come negli
esempi dell’Italia alpina. Una sorta di avamposti
dai quali sembra difficile organizzare ed amministrare organicamente un territorio. Il loro peso
sulle vicende della rete insediativa dovrebbe essere quindi ridimensionato. Con le parziali eccezioni di Cosa e Roselle (dove le fortificazione sono
comunque ridotte e limitate ad una sola parte del
centro), l’unico contesto realmente indagato in Toscana corrisponde a Filattiera, ricostruibile come
una fortificazione in pietra presso Montecastello
ed in un campo trincerato presso Castelvecchio,
anche se gli scavi qui condotti non hanno interessato un’area particolarmente estesa.
A Monte Castello, castrum bizantino databile alla
fine del VI secolo, la fortificazione era costituita
da una spessa cinta muraria, conservata su un lato
per circa 100 m, e cingeva una superficie di circa
3500 mq. Affiancato alla cinta muraria, verso l’interno, era collocato un edificio rettangolare in
pietra (30×8 m circa), diviso in tre ambienti, con
un focolare rettangolare delimitato da lastre litiche, che è stato interpretato come una ‘caserma’ e
rappresentò poco più di un presidio. L’insediamento dovette essere frequentato saltuariamente.
A Castelvecchio sono stati trovati i resti di un campo trincerato, che occupava un’area estesa 800 mq
circa, interamente attraversato da una strada acciottolata, difeso mediante due valli affiancati (profondi e larghi 2 m) e da un aggere in ciottoli sormontato da una palizzata. La povertà dell’insediamento, datato fra V-VII secolo, ha fatto avanzare
l’ipotesi di una realizzazione legata a mercenari
germanici al soldo dell’Impero bizantino. Si tratta
forse di un elemento di difesa piuttosto limitato e
direttamente connesso al sottostante villaggio della pieve di Sorano: una specie di rifugio fortificato152 (Fig. 48).
2. INSEDIAMENTO
ACCENTRATO
Il modello caotico, in sostanza, fotografa una Toscana dove convivevano delle realtà solo in parte
diverse. Esistevano zone nelle quali il peso della
grande e media proprietà pare essere stato ormai
azzerato e la scarsa popolazione viveva per la propria sussistenza, dove il legame città-campagna
sembra essere venuto meno e le due forme insediative si omologano all’interno di un quadro economico, sociale e demografico livellato verso il
basso. Esistevano anche zone nelle quali si individuano le stesse manifestazioni di crisi e dove un
governo delle scarse risorse territoriali doveva essere tentato soprattutto per sovvenzionare le truppe bizantine ancora presenti per alcuni anni dopo
la guerra greco-gotica153.
Ciò non toglie che, in altre aree della regione, future ed auspicabili ricerche impostate su ricognizione e scavi mirati non possano rivelare tipi diversi di occupazione e di gestione della terra. Per
esempio l’esistenza di zone nelle quali, di fronte
ad un abbandono generalizzato della campagna
sopravvissero forse delle deboli forme di organizzazione della proprietà con attardamenti sino alla
fine del VI secolo, come da recenti ricognizioni
152. Si veda G IANNICHEDDA 1998; inoltre G IANNICHEDDA,
LANZA 2003.
153. Recentemente Wickham, tentando una sintesi sull’archeologia dell’alto medioevo italiano degli ultimi venti anni
(WICKHAM 1998) nella quale ha affrontato anche il “caotico”, ha messo in evidenza che per quanto carico di suggestione non può essere esteso all’intera Italia ed all’intera
Toscana. Inoltre, come già nel corso del VII secolo, i villaggi dovevano essere stati parte di una gerarchia insediativa. Le osservazioni sono giuste ma d’altro canto si deve
sottolineare che il modello non è mai stato esteso all’intera
regione né tantomeno all’intera Langobardia. Allo stesso
modo il modello non investe la realtà insediativa di VII
secolo.
150. Si veda CIAMPOLTRINI 1990.
151. CIAMPOLTRINI 1995.
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Fig. 48 – Toscana: distribuzione degli abitati in grotta ed ipotesi di distribuzione dei castra tardoantichi/altomedievali.
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nel grossetano, tra la valle dell’Alma e la valle dell’Osa154.
L’eventuale incremento delle casistiche insediative confermerà ulteriormente che il periodo del
caos segnò la frattura definitiva con l’organizzazione tardoantica delle campagne. La fine del VI
e gli inizi del VII secolo rappresentano così una
fase cruciale per la storia insediativa del medioevo, come sottolineano anche i modelli elaborati a
livello italiano evidenziando nel loro insieme
un’eterogenea geografia nazionale del popolamento proprio perché legata a decenni di trasformazione. Il confronto con il nord dell’Italia, per esempio, propone senza dubbio delle differenze sostanziali con la Toscana. Se tendenzialmente le aree
dell’antica Emilia non differiscono molto dal quadro tracciato155, il panorama insediativo settentrionale sembra invece non aver visto mai la cessazione di un potere effettivo sulle campagne, collegandosi alla tenuta dei centri demici fortificati
(i castra) sviluppatisi pienamente tra VI e VII secolo, inoltre con l’affermazione di «una costellazione di insediamenti nucleati minori che allentano, e in taluni territori spezzano il rapporto città
campagna, anticipando fenomeni che avranno pieno sviluppo in età feudale»156.
Il contributo dell’archeologia è quindi insostituibile per comprendere la novità dell’insediamento
altomedievale; una realtà che si va rivelando molto complessa e differenziata, oltre che regionalmente anche tra aree territoriali vicine, dove l’inserimento dei longobardi non fece altro che accentuare i processi in corso e, da lì a breve, dare
luogo a nuove forme insediative.
La ricerca storica tende invece a proporre una rete
di popolamento più semplice e quasi lineare, articolata in centri di villaggio e per lo più in case
costruite direttamente sui fondi coltivati, poi cresciute di numero nell’VIII secolo157. L’immagine,
dedotta dai contratti di livello pervenutici, proiettata retroattivamente anche a tutto il VII secolo, è quella di una campagna caratterizzata in
maniera considerevole da singole unità poderali
in cui risiedevano famiglie contadine dipendenti
e spesso piccoli allodieri158.
In realtà la portata di queste ipotesi deve essere
valutata proprio per i limiti di fondo che presentano; come è stato osservato gli «atti privati, per
parte loro, rivelano un campionario di patrimoni
che deve essere trattato con molte precauzioni. I
trasferimenti che interessano parcelle isolate, gruppi di parcelle o complessi fondiari modesti non
costituiscono la prova di una forte prevalenza del
piccolo allodio rurale» e di conseguenza «ci sfugge, fino al secolo VIII, qual’era la distribuzione
reale delle ricchezze, quali erano le dimensioni dei
patrimoni, la loro struttura e la loro mobilità, le
loro tendenze al frazionamento o alla concentrazione. Anche se la situazione diventa meno disperata in Italia che in altre parti dell’occidente, le
conclusioni alle quali si può legittimamente arrivare rimangono modeste e banali»159.
Le fonti archeologiche toscane, indirizzano verso
conclusioni opposte nella ricostruzione dei quadri insediativi160. Tra la fine del VI ed il VII secolo
le abitazioni di “caotico” sono già abbandonate a
favore di un nuovo tipo di popolamento raggruppato in centri. Le espressioni abitative «rilevate
nelle fasi tardive di occupazione (precedenti all’età longobarda) non ebbero quasi mai esito»161,
segnando la formazione ed il successo secolare
delle comunità agrarie162.
L’assenza dell’insediamento sparso pare dimostrata
dal “vuoto” archeologico sul territorio. Le ricognizioni di superficie raramente rintracciano le
evidenze di una o più abitazioni altomedievali isolate o gli edifici di piccole fattorie ed il campione
di territorio esplorato (nell’insieme dei progetti
di carta archeologica delle provincie di Siena,
Grosseto e delle Colline Metallifere) è decisamente
154. Si ringrazia per le informazioni Emanuele Vaccaro,
che svolge le indagini territoriali nell’ambito del XIX ciclo
del dottorato in Storia e Archeologia del Medioevo dell’Università di Siena.
155. GELICHI , GIORDANI 1994.
156. BROGIOLO 2001.
157. Si veda per il ruolo dell’insediamento sparso nell’Italia
longobarda SETTIA 1982, pp. 460-470 e SETTIA 1991, pp. 167284. Inoltre la trattazione in ANDREOLLI, MONTANARI 1983,
pp. 177-200 dove, pur riconoscendo la contemporaneità di
villaggi e case singole e diversità regionali da appurare, si
afferma (p. 180) che «In Italia, nei secoli VIII-IX, il modello
prevalente di habitat sembra essere quello sparso» e più avanti
«Sembra dunque che ci troviamo di fronte ad un modello
insediativo di tipo prevalentemente “poderale”: il manso
appare un’unità aziendale compatta, autonoma nei suoi confini, delimitata con chiarezza nella sua individualità». Più
avanti stemperano le loro affermazioni (pp. 181-182), per
poi riprenderle nuovamente con forza (p. 188) scrivendo
«non infirma l’impressione che nell’Italia altomedievale, fino
a tutto il secolo IX, il modello di gran lunga prevalente di
occupazione del suolo sia stato quello dell’insediamento sparso (…). Un paesaggio anch’esso “decentrato”».
158. In PASQUALI 2002, p. 10, nella sintesi sugli studi concernenti l’economia rurale fra VI e XI secolo, si sottolinea
come la presenza della piccola proprietà degli allodieri,
ormai assunta a certezza nella letteratura, sia in realtà una
supposizione poiché scarsamente documentata.
159. TOUBERT 1995, p. 188.
160. Ci riferiamo soprattutto alla parte centrale e meridionale del territorio toscano poiché il nord della regione non
è stato indagato in modo estensivo, né tramite ricognizioni
di superficie né attraverso scavi.
161. GELICHI 2001, p. 230.
162. Recenti ricerche per esempio, confermano anche per
l’esteso territorio compreso tra le diocesi di Massa e Populonia, come il VII secolo si caratterizzi per la presenza rigorosa di villaggi (DALLAI 2003).
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La causa del vuoto di presenze deve essere quindi
ricercata nelle modalità di sviluppo della rete insediativa, che sin dalla fine del VI-VII secolo ebbe
inizio prevalentemente attraverso la costituzione
di villaggi. Furono frequentazioni di lungo periodo, talvolta ininterrotte sino ad oggi, dove le testimonianze più antiche venivano obliterate con
il succedersi delle fasi di occupazione e delle ristrutturazioni funzionali degli spazi168. Rappresentarono l’ossatura sulla quale s’impostò l’insediamento dei secoli centrali del medioevo e le cui
tracce sono riconoscibili solo scavando.
Tutto ciò non vuol dire che l’insediamento sparso
sia in assoluto improponibile. Su basi documentarie, per la piana di Lucca e la Garfagnana (Toscana settentrionale) e per il Chianti e le zone amiatine (Toscana centro-meridionale), Wickham ha
continuamente presentato reti insediative articolate su centri di popolamento alternati ad aree di
significativo per ampiezza (pari al 23,77% delle
due provincie e, come abbiamo già ricordato,
all’8,60% dei 22.990 kmq circa della Toscana).
Spesso la causa dei mancati rinvenimenti viene
collegata dagli stessi archeologi alla labilità dei
depositi ed alla scarsa conoscenza dei materiali
ceramici: «un ritorno al modello preromano di
autosufficienza, con capanne in legno a graticcio
ricoperto di argilla e ceramiche fatte a mano, li
esclude dall’analisi archeologica»163. Ma ambedue
le spiegazioni non convincono; per giustificare il
vuoto archeologico, ci si nasconde dietro spiegazioni oggi inaccettabili.
Grazie ad un lavoro puntuale sui materiali provenienti dai contesti della Transizione164 e da scavi
sui castelli165, disponiamo infatti di seriazioni ceramiche sempre più approfondite. Inoltre è lecito
domandarsi per quale ragione solo i depositi altomedievali, formatisi conseguentemente all’abbandono degli edifici in materiale deperibile, dovrebbero rimanere celati nel terreno od irriconoscibili, quando ogni indagine di superficie individua i
resti di capanne protostoriche, etrusche, romane
e tardoantiche? Non convincono neppure alcune
recenti e troppo semplicistiche ipotesi sullo scarso interro dei depositi altomedievali rispetto a
quelli di più antica formazione e conseguentemente un loro depauperamento più accellerato166. La
questione è quindi più complessa e archeologicamente non possiamo che sottolineare l’esistenza
di popolamento rurale raccolto in forme accentrate per tutto l’altomedioevo167.
svolta sui monti del Chianti (VALENTI 1995b) dove sono
stati individuati contesti con ceramiche databili tra IX-XI
secolo. In particolare, in località Istine (Radda in Chianti),
una sommità collinare di forma allungata, a dominio del
torrente Pesa, si presenta come una piattaforma intagliata
nella roccia. Lo scavo di trincee ha mostrato l’esistenza di
alcune strutture tipo capanna, con grande palo centrale,
forse elevati in materiali misti (pietra e legno) e spessi strati carboniosi. La superficie non mostrava alcun tipo di materiale; la visibilità era inoltre quasi azzerata dalla vegetazione stabile. Si vedano come esempio del secondo tipo di
rinvenimento ancora le esperienze svolte nella provincia di
Siena. Nella zona del Chianti senese e della Berardenga, le
ricognizioni in località Sestano hanno permesso di trarre
informazioni da spazi boschivi e da sezioni occasionali, create dall’apertura di un sentiero. Presso La Fonte, due rilievi collinari in successione continua, con sommità arrotondata e versanti in lieve pendenza, coperti da bosco e delimitati dalla confluenza fosso di Calceno-fiume Ombrone,
contengono depositi archeologici relazionabili ad un insediamento composto da più edifici in materiali deperibili.
Le strutture del complesso si estendono inoltre su ambedue i versanti dei rilievi collinari e sulle loro sommità. Si
tratta probabilmente dello scomparso castello di Cerrogrosso attestato nella metà dell’XI secolo dalle fonti scritte, che
descrivono un nucleo di estensione ridotta, una chiesa e la
probabile origine da una curtis. La ceramica proveniente
dalle sezioni è ascrivibile nel corso del X secolo e mette in
risalto la presenza di un nucleo aperto preesistente al castello stesso. Anche il caso di Valcortese rappresenta un
esempio ottimale. Citato sino dagli inizi dell’XI secolo, oggi
è un’emergenza monumentale in completo disfacimento ed
invasa da vegetazione boschiva. La ricognizione ha rivelato la presenza di due lunghe sezioni occasionali, distanti
alcune decine di metri dal castello, con tracce di stratificazioni ascrivibili al X-XI secolo e relative ad abitazioni in
materiale deperibile con tetto in laterizi. Questi depositi
sono indizi di un villaggio aperto più antico del castello;
non si esclude che possa trattarsi di un nucleo aperto poi
fortificato con la recinzione della parte più innalzata. A
Murlo presso la località Poggio Castello (CAMPANA 2002),
un insediamento fortificato attestato nelle fonti scritte dalla metà dell’XI secolo con il toponimo di Montepescini,
l’indagine di superficie ha rivelato sugli spazi circostanti
molte presenze di materiali mobili; tra esse si distinguono
sette concentrazioni con ceramiche databili tra IX e XI secolo. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un nucleo aperto poi trasformato in castello con la recinzione
della parte più innalzata.
163. CHRISTIE 1995, p. 145.
164. In generale si veda SAGUÌ 1998. Per la Toscana si ricorda ancora VALENTI 1995a; FRANCOVICH, VALENTI 1997.
165. Si vedano i recenti studi sui materiali provenienti da
Poggibonsi, Montarrenti e Scarlino (VALENTI 1996a; CAN TINI 2003; MARASCO 2003; inoltre CANTINI 2000; CANTINI
2003 c.s.) nonché il confronto fra Rocca di Campiglia e
Rocchette Pannocchieschi (BOLDRINI , GRASSI 2003).
166. FELICI 2004.
167. Per una trattazione più estesa di questo tema si veda
FRANCOVICH , VALENTI 2000 e FRANCOVICH, VALENTI 2001.
168. In generale, l’eventualità di rintracciare depositi altomedievali tramite la prospezione è risultata possibile di fronte ad una casistica particolare di emergenze, legata a contesti con cronologia di IX-XI secolo: siti definibili “fallimentari” e siti incastellati abbandonati con superfici circostanti non urbanizzate. Si tratta in tutti i casi di insediamenti accentrati. La definizione di “siti fallimentari” individua quei nuclei di popolamento che, costituitisi durante
una congiuntura favorevole allo sviluppo della rete insediativa, furono abbandonati precocemente. Per adesso tali
centri sono stati localizzati in aree d’altura coperte da vegetazione boschiva; spazi connotati da terreni leggeri e ad
alto tasso di acidità che, non adatti all’insediamento od a
seguito di vicende proprie, hanno visto occupazioni di breve durata. Le indagini sui siti incastellati abbandonati e con
superfici circostanti non urbanizzate hanno dato modo di
rintracciare stratificazioni altomedievali, confermando l’esistenza di agglomerati aperti successivamente cinti da mura.
Si veda per alcuni esempi di “siti fallimentari” l’esperienza
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insediamento più rarefatto169. Ma l’evidenza negativa della ricerca archeologica, non sta fornendo conferme e se, a dire il vero, sono mancati finora dei progetti di ricerca estensivi nella
lucchesia, le ricognizioni di superficie hanno invece interessato ampie parti del territorio amiatino e del Chianti senese170.
Esiste quindi una discrepanza tra quanto si può
evincere dalle fonti scritte e quanto invece dalle
fonti materiali. Dal punto di vista archeologico,
però, la scarsità dei rinvenimenti suggerisce che il
ruolo dell’insediamento sparso nelle vicende insediative della regione, soprattutto per le aree centro-meridionali (cioè quelle sottoposte a ricerche
territoriali), dovette essere molto marginale, mentre un posto centrale fu occupato dai villaggi.
Alcune emergenze ascrivibili al maturo alto medioevo, per esempio, sono state identificate durante le prospezioni nei dintorni di Follonica nel
grossetano171 e nella Val d’Elsa senese. Nel primo
caso si tratta di reperti mobili ascritti al IX secolo
ed interpretati come indizio di un podere legato
alla vicina corte di Valli; la datazione si basa però
su indicatori cronologici molto dubbi. Nella Val
d’Elsa, presso le località Staggia (castello dall’anno 994 sorto su un centro preesistente), Talciona
(castello già nell’anno 998) e Valle (castello già
nel corso del X secolo), alcune emergenze di superficie ascrivibili in un ampio lasso cronologico
di trecento anni (VIII-X secolo) sono forse interpretabili come componenti di villaggi a maglie larghe anteriori alla fondazione dei castelli. Questi
esempi, pur con un tasso di affidabilità incerto
per lo scarso stato di conservazione dei reperti e
degli ipotetici depositi172, non prospettano eccezioni al modello “siti di successo”, confermando
una tendenza verso l’insediamento nucleato; la
loro collocazione spaziale sottolinea di nuovo
come il villaggio sembra rappresentare una realtà
dominante.
Altre apparenti evidenze di insediamento sparso
interpretato come piccole case di legno in connessione con una rete di abitati accentrati, sono
state recentemente presentate per alcune aree della
bassa valle dell’Albegna. Le caratteristiche delle
emergenze dei materiali in superficie (circa 5×5
m, alcune tegole da copertura ed in genere prive
di pietre), la cronologia ampia ad esse attribuita
(VII-IX secolo), i criteri stessi di datazione (basati
sulla presenza di frammenti ceramici riconducibili ad una brocca globulare a fondo piatto ed ansa
a nastro complanare al bordo individuata come
“fossile guida” che trova in realtà confronto con
analoghe forme datate tra metà VI-inizi VII secolo) fanno suscitare dei dubbi. Non sembra trattarsi di piccole case di legno altomedievali, piuttosto
di quelle stesse case in terra e copertura laterizia
dell’età della transizione173.
3. LA
FORMAZIONE DEL VILLAGGIO
Un problema di difficile soluzione è comprendere
come nacque la nuova rete insediativa. In un’elaborazione iniziale del modello caotico erano state proposte una serie di eventualità che, cercando di trovare una spiegazione all’evidente accentrarsi del popolamento, ipotizzavano nella funzione attrattiva
degli edifici religiosi e, più o meno contemporaneamente, nelle iniziative di carattere aristocratico i promotori della nascita dei villaggi174. Ad essi si aggiungeva l’ulteriore possibilità di un’aggregazione spontanea delle famiglie rurali; l’abbandono delle case di
caotico e la loro sostituzione con centri di popolamento più complessi sarebbe così derivata anche dalla
necessità dei contadini di vivere raggruppati.
Oggi possiamo discutere questi aspetti tramite una
disponibilità maggiore degli elementi di riflessione.
Il ruolo accentratore della chiesa deve essere ridimensionato; i riscontri archeologici evidenziano
soprattutto come l’edificio religioso sia stato assente
dai villaggi altomedievali riconosciuti al di sotto
dei castelli toscani. Nei rari casi in cui è invece attestato, sembra rimandare a realtà insediative particolari e meno frequenti, che ebbero un carattere
più importante del semplice agglomerato rurale.
Pensiamo in particolare al contesto di San Genesio (vico Uualari) nell’empolese, indagato da pochi anni ma con risultati già indicativi. Si tratta di
un centro di grande estensione, cresciuto probabilmente intorno ad una chiesa sorta a sua volta
su spazi di intensa frequentazione tardoantica (non
è però ancora accertata la continuità) ed assurta
nel tempo ad un ruolo prestigioso, come testimonia l’assemblea ivi tenuta nel 715 per redimere la
famosa controversia tra i vescovi di Arezzo e di
173. FENTRESS , WICKHAM 2002, pp. 260-261 in particolare
e nota 4.
174. Questa ipotesi, priva di riscontri di scavo, si basava
sulla coincidenza fra gli abbandoni delle abitazioni di età
caotica e la comparsa di chiese nelle loro vicinanze. La riconversione delle aree rurali nell’orbita di poteri ben definiti veniva collocata in tale periodo, parallelamente al ritrovato interesse della chiesa e l’avvento di organismi fondiari legati all’aristocrazia.
169. WICKHAM 1989a; WICKHAM 1995; WICKHAM 1997. Sulle
stesse posizioni per la zona aretina si veda DELUMEAU 1996.
170. CAMBI 1996; VALENTI 1995b.
171. CUCINI 1989.
172. VALENTI 1999. Tali emergenze sono state impiegate per
calcolare un’eventuale divisione in unità di coltura del territorio legato ai centri di villaggio e proporre così modelli
grafici e spaziali dell’insediamento e del territorio stesso.
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Siena175. Un abitato sviluppatosi progressivamente più in forma di agglomerato urbano e aderente
alla definizione di vicus proposta da Castagnetti
per la Langobardia: il villaggio contadino che rappresentava, nell’ambito di un’accentuata ruralizzazione delle strutture politico-amministrative, il
punto di coagulo dei vincoli di solidarietà fra i
suoi abitanti ed in grado di configurarsi con una
certa autonomia amministrativa176. Lo ritroviamo
citato tra fine X e XII secolo nell’itinerario di Sigerico ed in quello di Nikulas abate di Thingor.
Inoltre fra il 1055 ed il 1164 fu la sede prescelta
per le diete indette dai messi del potere imperiale,
raccogliendovi i rappresentanti delle città e delle
alte aristocrazie toscane177.
Nella casistica dei contesti insediativi altomedievali toscani l’edificio ecclesiastico, quindi, non
sembra essere stata un elemento “fondamentale”
del villaggio. Azzara, in un contributo recente di
sintesi, ha osservato: «la capacità di attrazione di
una specifica chiesa potrebbe aver pur sempre favorito lo svilupparsi nel tempo di un nuovo nucleo demico attorno ad essa» e «a sua volta, avrebbe
potuto farle ottenere il rango di pieve, se già non
lo possedeva»178. Ciò non toglie che le manifestazioni archeologiche individuate nella nostra regione sembrano indicare nei centri privi di chiesa la
forma insediativa predominante e piuttosto negli
esempi archeologici più chiari come San Genesio
(che rientra a pieno titolo nella casistica di Azzara)
le eccezioni.
Oltretutto, non si potrà ignorare, anche di fronte
ad una futura ed eventuale dimostrazione del contrario, come questo sia il fenomeno finora più
macroscopico; in tutti i centri indagati (con la sola
eccezione di Scarlino per il IX secolo) l’edificio
ecclesiastico continua a non far parte delle strutture comunitarie. Riconoscere la presenza e la
destinazione funzionale della struttura quando non
venne costruita in muratura è difficile, soprattutto in contesti insediativi caratterizzati da grandi
quantità di buche di palo spesso appartenenti a
fasi diverse e molto ravvicinate nel tempo. Ma una
gamma di casi per effettuare confronti, seppure
quantitativamente non estesa, esiste179. Pertanto
la non evidenza archeologica di questo tipo di
edifici è interpretabile come assenza certa tra le
componenti del villaggio: una tendenza forse confermata anche dalle fonti scritte per i centri di
popolamento rurale della Toscana dell’intero periodo longobardo che propongono chiese isolate
e sparse nel territorio180.
Alcune congetture, che sostanzialmente non differiscono dal quadro tracciato, sono proponibili
sulla base dei dati di ricognizione per chiese poste
nella Versilia, in Val d’Elsa, nel Chianti senese e
nella Garfagnana. Alla Pieve di San Giovanni e
Santa Felicita nei pressi di Pietrasanta, documentata dalle fonti scritte dal IX secolo, le arature nei
campi circostanti hanno portato alla luce alcuni
reperti mobili; attestano una frequentazione da
porsi nel VI secolo conclusasi agli inizi del VII secolo, sottoforma di pochi edifici in legno e con
riutilizzi di strutture precedenti181. A Galognano
in comune di Colle Val d’Elsa, la chiesa esisteva
già nel VI secolo come rivela il rinvenimento di
un tesoretto composto da suppellettili dedicate182;
179. I casi indagati di chiese in legno, provenienti soprattutto dall’Italia settentrionale, sono pochi: San Pietro a
Gravesano (sacello di IV secolo), San Martino a Sonvico (prima metà del VII secolo), Chiesa Rossa a Castel San Pietro
(VII secolo?), Sant’Ilario a Bioggio (prima metà VIII secolo), San Vittore a Terno d’Isola e Santa Maria Nullate a Fermo alla Battaglia (generico altomedioevo), infine San Tomè
a Carvico (prima metà VII secolo). De Marchi, tipologizzando gli impianti edilizi fra tardoantico ed altomedioevo,
ha sottolineato che le strutture in legno possono presentarsi
come un semplice sacello rettangolare od essere provviste di
abside trapezoidale o semicircolare sia realizzato tramite pali
sia in pietre; in un secondo momento vennero ricostruite in
muratura. Si veda DE MARCHI 2001. San Tomè rappresenta
ottimamente questo tipo di successione nella tipologia degli
edifici (BROGIOLO 1986; BROGIOLO 1990; BROGIOLO, GELICHI
1996). Lo scavo ha identificato quattro fasi principali. La prima è rappresentata da un edificio absidato in legno, poi ristrutturato (seconda fase) attraverso l’aggiunta di basamenti
in pietra per l’appoggio dei pali lungo l’asse centrale (datati
da una fibula ageminata di VII secolo). La terza fase vede l’abbattimento dell’edificio in legno per far posto ad una costruzione absidata in muratura, interessata successivamente da una
ripavimentazione. Nell’ultima fase si realizzano opere difensive, costituite da un fossato con terrapieno, all’interno del
quale si è rinvenuta una moneta di Carlo Magno. Nell’area
del nartece, contemporaneo alla chiesa in muratura, erano
presenti cinque sepolture, di epoca leggermente più tarda.
Una ricca tipologia di églises en bois du haut moyen-âge riconosciute da scavo è invece disponibile per la Svizzera; al
riguardo si vedano BONNET 1997 e SENNHAUSER 2001.
180. SETTIA 1991, pp. 167-284.
181. PARIBENI ROVAI 1995, pp. 170-177.
182. Si tratta di un corredo eucaristico noto con il nome di
«Tesoro di Galognano». La scoperta è stata effettuata casualmente nel 1963 in un campo distante 80 metri dalla chiesa
romanica di San Lorenzo in Pian dei Campi (VON HESSEN et
alii 1977; KURZE 1989; SANTI 1994; MUNDEL MANGO 1986;
VON H ESSEN 1990; ARCAMONE 1984). Il corredo è costituito
da manifatture in argento: un calice grande, due calici medi,
un calice piccolo, una patena, un cucchiaio. Si distingue da
analoghi tesori altomedievali rinvenuti in Italia perché sicuramente ex proprietà di una chiesa, quella di Galognano,
175. Nell’assetto territoriale della Toscana di età longobarda, Siena fu favorita con un accrescimento della sua giurisdizione civile a spese di Arezzo. Di conseguenza i vescovi senesi pretesero l’ampliamento della diocesi fino alla sovrapposizione con il distretto cittadino, dando così inizio
alla plurisecolare questione dell’appartenenza delle chiese
battesimali poste nella fascia di confine. Tra i tanti interventi sulla questione si vedano S CHNEIDER 1975; S ETTIA
1982; TABACCO 1966; TABACCO 1969; TABACCO 1973a; VIOLANTE 1982.
176. CASTAGNETTI 1982; CASTAGNETTI 1991; inoltre GALETTI
1991.
177. CANTINI 2002.
178. AZZARA 2001, p. 5.
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Fig. 49 – Toscana: distribuzione delle chiese con frequentazione tardoantica presunta o accertata.
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le ricognizioni hanno mostrato la presenza di tre
piccole emergenze con la stessa cronologia183. A
San Marcellino, nel Chianti, la pieve altomedievale fu edificata sul sito di una villa frequentata
fino in età tardoantica ed i campi circostanti evidenziano l’esistenza di uno scarso popolamento
che non si pone oltre alla metà-fine del VI secolo184. Santa Cristina in Caio a Buonconvento, pieve attestata per la prima volta nell’anno 815 sorse
anch’essa nelle vicinanze di una grande villa lungamente frequentata che tra IV e VI secolo ospitava un’area cimiteriale185. I pochi frammenti ceramici posteriori al V-VI secolo rinvenuti durante
accurate ricognizioni nei suoi dintorni, non concedono di ipotizzare la presenza di un villaggio
sviluppatosi in connessione all’edificio religioso e
non retrodatano la chiesa stessa186. Allo stesso
modo è difficile collegare le ceramiche di metà
VI-inizi VII secolo rinvenute in passato alla villa
di Massaciuccoli ad un centro di popolamento stabile187 (Fig. 49).
In molti dei casi elencati, le ricognizioni attestano
presenze di scarso conto, da leggere come un semplice addensamento demografico intorno agli edifici ecclesiastici. Le emergenze di reperti mobili
in superficie potrebbero poi rappresentare abitazioni di “caotico” abbandonate prima della costruzione degli edifici religiosi; le frequentazioni
hanno termine tra VI-forse inizi VII secolo e non
abbiamo indizi della continuità di popolamento
nell’alto medioevo: sembrano delle brevi esperienze insediative fallite quasi sul nascere188. Manca-
no sia dati di scavo sia di ricognizione che indichino una delle molte chiese rurali toscane ergersi a promotrice o perno della formazione di un
nuovo insediamento agricolo o silvo-pastorale di
lunga frequentazione sino dal VI-VII secolo189.
Se si deve riconoscere che le indagini archeologiche su edifici religiosi e sui loro dintorni non sono
state perseguite con sistematicità come è avvenuto in altre regioni, al tempo stesso non si può chiudere gli occhi di fronte alla esiguità numerica delle presenze di materiali mobili rivelata dalle stesse
ricerche di superficie sugli spazi circostanti. Troppo spesso, inoltre, una bassa percentuale di reperti databili nel corso del VI secolo raccolti su
un’emergenza riconoscibile come villa o complesso produttivo non viene più interpretata come una
rioccupazione di scarso profilo delle sue strutture. Bensì, ingigantendo la portata degli indizi, il
segno di una continuità come centro di organizzazione della proprietà terriera e del popolamento, che si vuole confermata dall’esistenza di una
chiesa (attestata da fonti documentarie altomedievali o più tarde ma retrodatata sulla base delle
ceramiche tardoantiche in superficie), seguendo
le suggestioni di quanto si va elaborando nel nord
e senza considerare che la campagna toscana fu
interessata da una severa destrutturazione tra V e
VI secolo190.
In generale nell’Italia settentrionale altomedievale, la presenza di chiese isolate sul territorio ha
fatto ipotizzare la loro relazione con una rete insediativa sia di tipo accentrato sia, soprattutto, di
come attesta l’iscrizione presente su uno dei calici medi: «+
HUNC CALICE (M) PUSUET HIMNIGILDA AECLISIAE
GALLUNIANI». Sulla patena corre invece la scritta incisa a
bulino e poi niellata (si scorge il residuo in corrispondenza
della “S”) «+ SIVEGERNA PRO ANIMAM SUAM FECIT».
Dal punto di vista linguistico si tratta di un latino ormai
lontano dalle forme classiche e con elementi estranei alla
declinazione; per esempio «CALICE» è privo della terminazione dell’accusativo, «PUSUET» sostituisce pusuit,
«AECLISIAE» sostituisce invece ecclesiae. I nomi delle due
donatrici, cioè «HIMNIGILDA» e «SIVEGERNA» sono di
origine ostrogota; il secondo, per esempio (ARCAMONE 1984,
p. 254), è un nome composto con i temi germanici sibajo(stirpe) e -gerno (premurosa). Attestano la presenza di nuclei goti nella zona.
183. VALENTI 1999.
184. VALENTI 1995b.
185. GOGGIOLO et alii 1995.
186. I rinvenimenti sono stati effettuati durante le ricognizioni di superficie svolte nell’ambito del progetto Carta Archeologica della Provincia di Siena; si veda la tesi di laurea
CENNI 2002.
187. CIAMPOLTRINI , NOTINI 1993.
188. Gelichi afferma che in generale l’archeologia «forse non
potrà chiarire il falso problema del rapporto plebs-pagus,
ma aiuterà certamente a conoscere l’evoluzione materiale di
tali insediamenti, come nel caso, non infrequente, di chiese
sorte su ville o strutture rustiche tardo romane. Può anche
capitare che intorno ad una chiesa si sviluppi un insediamento; più facile la presenza di edifici abitativi connessi con
il luogo di culto o resti di attività artigianali e produttive.
Alcune di queste sono strettamente collegate con la produzione di oggetti di pertinenza liturgica» (GELICHI 1997).
189. Patrick Périn e Jean-François Reynaud, interrogandosi
sulle prime chiese e sulle origini delle pievi rurali francesi,
riconoscono un processo di cristianizzazione delle campagne
per mezzo dei vici, ad opera dei grandi proprietari (quindi
attraverso le villae) e dei monasteri. Le prime chiese battesimali sono attestate sino dal V-VI secolo e tra VI-VII secolo
nella Gallia del Nord. Durante l’VIII secolo, la moltiplicazione delle chiese contribuisce a riunire ed a stabilizzare la popolazione, senza essere però all’origine della formazione dei villaggi. In questa fase le necropoli sono abbandonate, i cimiteri
vengono trasferiti nei pressi della chiesa e quest’ultima diviene uno degli elementi fondamentali del paesaggio francese. È
tra VIII e X secolo che si costituisce una vera e propria rete
parrocchiale: segna una mutazione profonda del mondo rurale e la sua definitiva cristianizzazione. La costituzione del
territorio di una pieve nasce comunque in modo progressivo,
iniziando come una copertura delle campagne più che di una
rete organizzata. Si veda PÉRIN, REYNAUD 1990. Recentemente
Reynaud ha precisato ancora i modelli di riorganizzazione ecclesiastica in Gallia tra VII e VIII secolo (REYNAUD 1999).
190. Come viene proposto nel paragrafo 5.1, le ricognizioni mostrano un notevole collasso della rete insediativa
rurale tra I-IV secolo (in media 1,27 siti per kmq), IV-VI
secolo (in media 0,25 siti per kmq) e VI-VII secolo (in media di 0,10 siti per kmq); il decremento delle strutture è
pari al 498% nel periodo IV-VI secolo con un crollo ulteriore del 251% tra VI-VII secolo (e del 1254% dal periodo
di maggiore popolamento).
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tipo sparso191 (che parrebbe trovare fondamento
nelle fonti storiche)192; sinora le ricognizioni territoriali, nei pochissimi casi nei quali sono state
svolte, non hanno però portato delle conferme.
Anche quelle chiese che sono state oggetto di scavi193, pur fornendo dati sulla loro fondazione già
in età tardoantica od agli inizi dell’alto medioevo,
non mostrano un chiaro rapporto fra edificio religioso e popolamento194, così come con la nascita
dell’insediamento accentrato195. I numerosi interventi effettuati in Piemonte, Lombardia, Friuli e
Trentino evidenziano per il V-VII secolo soprattutto un processo capillare di cristianizzazione
svoltosi attraverso chiese edificate sfruttando i resti
delle ville abbandonate e, in minor numero, scegliendo nuovi spazi. Talvolta i complessi tardoromani continuano ad essere impiegati anche come
area cimiteriale o come zona abitativa contemporaneamente all’uso della chiesa; sono però frequentazioni che allo stato attuale dei dati non permettono di ipotizzare comunità di grandi o medie
dimensioni e soprattutto di lunga durata. La sola
parziale eccezione sembra costituita dal contesto
piemontese di Desana dove una chiesa di V secolo edificata sugli spazi di una villa in rovina, vide
lo sviluppo di un cimitero fra VII e VIII secolo
affiancato da capanne che non sono riconducibili
però ad un modello chiaro di habitat196.
I problemi da risolvere sono ancora molti per chiarire il rapporto tra chiesa ed abitato circostante.
Innanzitutto di scala: quanto erano estesi questi
insediamenti? In secondo luogo di tipo numerico: a quanti individui ammontava la comunità?
Infine di tipo socio-economico; come si è chiesto
Brogiolo «l’archeologia non è attualmente in grado di chiarire la posizione sociale dei nuovi abitanti e rimane perciò aperto un problema di fondo per ricostruire l’evoluzione delle campagne in
questa fase cruciale: il gruppo insediatosi nella villa
era formato da liberi coltivatori, sostituitisi (in che
modo?) agli antichi proprietari, o da servi e affittuari dipendenti da un ricco possessore che abitava altrove?»197.
Applicare i modelli interpretativi dell’Italia del
nord alle scarse evidenze toscane è quindi ancora
difficile. Non abbiamo alcuna prova materiale per
proporre anche qui l’azione decisiva dei possessores
nella cristianizzazione delle campagne tra V e VII
secolo198 e leggere la rioccupazione delle ville quasi
in chiave ideologica: il recupero dei luoghi simbolici del potere per affermarsi e legittimarsi come
detentori della proprietà fondiaria; il tentativo di
trasferire sulle nuove forme insediative (abitazione del possessor, chiesa, area cimiteriale e addensamento demografico nei loro dintorni) il ruolo
di organismo di dominio e di ammassamento della popolazione legato ai complessi produttivi tardoromani199.
Con l’avanzare di ricerche, soprattutto tramite
scavi mirati, in futuro il modello potrebbe essere
esteso alla Toscana, oppure rivelare alcune sue
variabili; ma sulla base del record archeologico
odierno non siamo autorizzati a confermare alcuna tendenza in tal senso.
La sovrapposizione complesso tipo villa-chiesa non
è automaticamente riconducibile a una continuità
insediativa e ad un ruolo importante nell’organizzazione delle campagne poiché, nella maggior
191. CANTINO WATAGHIN in BROGIOLO, CANTINO WATAGHIN
1994, p. 143: «Il prevalere di un habitat disperso è tuttavia
suggerito in più circostanze dalla posizione delle chiese battesimali, la cui individuazione rappresenta una delle acquisizioni più significative della ricerca archeologica recente».
192. SETTIA 1982, pp. 466-467; S ETTIA 1991, pp. 167-284.
193. Si vedano BROGIOLO 2001 e BROGIOLO et alii 2003.
194. Brogiolo sottolinea con rammarico che nelle indagini
archeologiche condotte «il rapporto tra chiese ed insediamenti è stato tuttavia considerato solo marginalmente: gli
scavi di emergenza si sono in genere limitati ad investigare il
deposito stratigrafico collegato alla chiesa, senza poter ampliare la ricerca all’habitat circostante. Anche quando si riesce a dimostrare che la chiesa sorge su un insediamento preesistente, rimangono sovente irrisolti problemi centrali. Ad
esempio quale fosse la vitalità economica e la composizione
sociale dell’insediamento al momento della fondazione della chiesa e quale la sua evoluzione successiva, quale il rapporto con i siti circostanti, quando si sia sviluppata un’organizzazione ecclesiastica e con quali relazioni e dipendenze
tra i singoli luoghi di culto» (BROGIOLO et alii 2003, p. 11).
Anche Gelichi aveva ricordato che «l’archeologia delle chiese, (…), risente troppo dei condizionamenti di una ricerca il
più delle volte casuale e parcellizzata, che raramente prende
spunto dallo specifico dell’edificio di culto per estendere l’indagine al territorio circostante» (GELICHI 1997).
195. DE M ARCHI 2001, pp. 63-64, trattando la Lombardia
e parte del Canton Ticino tra VII e VIII secolo: «Le fonti
archeologiche disponibili relativamente agli edifici di culto e agli insediamenti presentano ancora carattere di discontinuità, nel caso degli insediamenti sono del tutto carenti»; «risulta difficile sapere se e quali luoghi di culto a
noi noti si trovassero vicino o presso centri abitati preesistenti o di nuova fondazione (vici), al loro interno, al centro di una corte presso le case signorili, o in posizione isolata, ma centrale rispetto al territorio, in modo da potere
essere raggiunti da una popolazione rurale che viveva in
villaggi sparsi o distribuita nei terreni (loci, fundi, capanne, case massariciae), dove lavorava la terra».
196. PANTÒ, PEJRANI B ARICCO 2001, pp. 30-34: il contesto
«sembra comunque configurarsi secondo un assetto sparso, caratterizzato dalla commistione tra le aree insediate e
funerarie, sorte in adiacenza alle strutture abbandonate di
un edificio rustico di età tardoantica».
197. BROGIOLO et alii 2002, p. 290.
198. Oltre alla bibliografia già citata si vedano soprattutto
per la Lombardia anche ANDENNA 1990; LUSUARDI SIENA et
alii 1992; SANNAZZARO 1992.
199. In Francia, nella territorio di Metz, la rioccupazione
delle ville dopo una fase di abbandono è stata interpretata
come la scelta delle élite, che dal maturo V secolo tentano
di legittimare il possesso della terra in un’epoca segnata da
un notevole tasso di competizione sociale nonché dalla necessità di asserzione del potere a livello locale presso le
comunità rurali: ville come «unità fiscali di affermazione»
(HALSALL 1995, pp. 248-253; al riguardo AUGENTI 2003).
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male di Massaciuccoli la cui fondazione nel corso
del VI secolo con l’edificio tardoantico ancora in
vita208 è comunque solo una supposizione209. Ad
esse possiamo aggiungere alcuni casi di fondazione ex novo come Santo Stefano a Filattiera dove
un intervento di scavo ha mostrato un primo edificio ecclesiastico nel VI secolo210, la chiesa di Galognano già esistente in età gota, San Paolo a San
Polo nell’aretino che forse insiste su un precedente impianto paleocristiano211.
Anche se il binomio villa-chiesa troverà delle conferme numericamente più consistenti sembra comunque plausibile prospettare il fallimento quasi
sul nascere di un’eventuale politica di controllo e
di accentramento della proprietà rurale; la fondazione di una serie di edifici religiosi sul territorio
non riuscì a modificare i processi sociali ed economici di una campagna affossata demograficamente a partire dalla metà del V secolo e nella
quale le forme insediative che andavano nascendo seguirono logiche diverse sin dal secolo successivo.
Questa ipotesi si accorderebbe con il quadro storico tracciato da Violante per le campagne toscane tardoantiche e del primo altomedioevo212, nel
quale si intravede una scarsa diffusione del processo di cristianizzazione con una rete di insediamenti religiosi insufficiente e non strutturata, con
conferme fornite dai carteggi di papa Gelasio I e
di Gregorio Magno213. Il recupero dei ruderi di
edifici rurali potrebbe collegarsi alle fondazioni
che fra la fine del VII e gli inizi dell’VIII secolo
crearono nuovi centri di vita religiosa nel territorio, quando ormai l’assetto territoriale con distretti
pievani si andava definendo; non è un caso che in
questo periodo si verificarono la ben nota disputa
tra i vescovi di Siena e di Arezzo, così come quelle
tra i vescovi di Lucca e Pistoia per il distretto della baselica Sancti Petri locus ubi dicitur Neure214.
È più probabile che le chiese esistenti, delle quali
non conosciamo le vicende (furono veramente
edificate tutte in età tardoantica? di fronte alla
crisi demografica ed economica delle campagne
continuarono ad essere attive?) servissero una serie di insediamenti posti nei loro dintorni e costi-
parte dei casi l’edificio religioso si inserisce sulle
strutture romane già esistenti dopo una lunga fase
di abbandono.
Cantignano fu costruita nell’VIII secolo su un complesso di generica età imperiale200, a San Bartolomeo a Triano, Santa Giulia di Caprona201, Santa
Felicita a Pietrasanta e Casale Marittimo202 su contesti della stessa cronologia ed a San Lorenzo a
Vaiano203 su un complesso di V secolo furono impiantate chiese pre-romaniche e romaniche,
Gropina a Loro Ciuffenna vide una successione
di due chiese tra VII e VIII secolo su un insediamento genericamente di periodo romano204, Santa Cristina presso Bonconvento, San Marcellino a
Gaiole in Chianti e Pacina presso Castelnuovo Berardenga205, pur attestate dall’alto medioevo, non
mostrano alcun rapporto di continuità con le vicine emergenze romane.
Le eccezioni sembrano rappresentate soprattutto
dalla pieve di Sant’Ippolito ad Anniano nel Valdarno inferiore (su un abitato trasformato in mausoleo nel IV secolo fu edificata nello spazio di un
cinquantennio una piccola chiesa ad aula rettangolare poi sostituita nel VI secolo da un edificio
più esteso)206 e dalla Pieve a Nievole per la quale,
però, la fondazione della chiesa alla fine del VI
secolo su un complesso romano già destinato ad
area cimiteriale nel V secolo e con riusi a scopo
abitativo è solo un’ipotesi sinora scarsamente comprovata207; ed allo stesso modo la chiesa battesi200. CIAMPOLTRINI 1995.
201. CIAMPOLTRINI 1995.
202. CIAMPOLTRINI 1994; CIAMPOLTRINI 1995.
203. MILANESE , PATERA, PIERI 1997.
204. GABRIELLI in FRANCOVICH et alii 2003.
205. VALENTI 1995b.
206. CIAMPOLTRINI , MANFREDINI 2001.
207. CIAMPOLTRINI, PIERI 1998; CIAMPOLTRINI, PIERI 1999;
C IAMPOLTRINI , P IERI 2004. Ciampoltrini, in quest’ultimo
contributo afferma che «La presenza di un edificio tardoantico di tono “alto”, qualificabile come “villa”, (…), a Pieve
a Nievole è – come si è visto – solo congetturale, indiziata
indirettamente dal materiale laterizio di reimpiego» (CIAMPOLTRINI , P IERI 2004, p. 26); prosegue poi «Seppure solo
per suggestione, si potrebbe quindi concludere che nei calamitosi frangenti della seconda metà del VI secolo l’antico complesso di Pieve a Nievole (…), fosse stato scelto come
sede di un edificio religioso destinato a fungere da polo di
riferimento di un vasto distretto» (CIAMPOLTRINI , PIERI 2004,
p. 28). In realtà l’autore, che si è occupato in più occasioni
del rapporto villa/complesso tardo romano-pieve,
propugnandone la continuità e vedendo nella maggior parte degli edifici fondazioni in età della transizione, non dispone mai di elementi decisamente convincenti, forse con
l’eccezione della Pieve di Sant’Ippolito dove l’esiguità dello scavo ed una strategia per trincee non permette comunque di proporre dati certi. L’impressione che si ha è di un
riferimento e di una lettura dei dati archeologici all’interno di un modello preconcetto.
208. Recentemente si sono posti dei dubbi sull’interpretazione dell’intero complesso come villa; in C IAMPOLTRINI
1998, Massaciuccoli viene così ripartito in una grande villa d’otium ed in una mansio.
209. CIAMPOLTRINI, NOTINI 1993.
210. GIANNICHEDDA, LANZA 2003, pp. 80-86.
211. GABRIELLI 1990, pp. 46-51, 124 n. 17, 149-150.
212. VIOLANTE 1982; GABRIELLI in FRANCOVICH et alii 2003.
213. Gelasio I sottolineava lo scarso popolamento della Tuscia, l’esiguità numerica e l’insicurezza delle fondazioni ecclesiatiche dipendenti dai vescovi, la presenza di chiese private. Gregorio Magno lamentava invece l’assenza di vescovi, preti e chierici, il basso numero di chiese battesimali, la
vacanza delle sedi vescovili, le numerose chiese in rovina,
crollate o incendiate (VIOLANTE 1982, pp. 989-990; 10071013; GABRIELLI in FRANCOVICH et alii 2003, pp. 267-268).
214. CIAMPOLTRINI , PIERI 2004, p. 27; REDI 1991.
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2
Fig. 50 – Poggibonsi (SI), depositi di VI secolo: casa di terra in corso di scavo (1), disfacimento di muri in terra tagliato da buche di palo altomedievali (2), struttura di una casa in
terra (3), resti fossilizzati di orto (4).
3
1
87
tuitisi a partire dalla fine del VI e dal VII secolo.
In altre parole: non fu la rete del popolamento a
modellarsi in relazione alle chiese esistenti, bensì
il contrario.
Le origini del popolamento accentrato altomedievale sono spesso da riconoscere nella scelta spontanea delle famiglie rurali di vivere raccolte oppure, forse nella decisione di un proprietario, con
modalità di costituzione che sottolineano sia la
scelta di colonizzare nuovi spazi sia la persistenza
su aree di popolamento già collaudate.
In alcuni casi l’occupazione risulta ex novo come
a Montarrenti, Miranduolo, Rocca di Campiglia,
Rocchette Pannocchieschi. In altri, cioè nei due
esempi di più antica attestazione, ovvero Scarlino
e Poggibonsi, e in un contesto dove la ricerca è
ancora agli inizi (Donoratico) ricalca dei rilievi
collinari già occupati più o meno intensivamente
fino dall’età tardoantica.
A Scarlino il primo impianto di capanne alla fine
del VI-VII secolo avvenne su depositi, seppur alterati, databili fra l’età ellenistica e IV-V secolo. A
Poggibonsi fra metà V e VI secolo, la collina ospitava un nucleo di carattere agricolo ed allevatizio,
del quale sinora sono state riconosciute alcune
componenti. Si tratta di cinque abitazioni a pianta rettangolare, con muri in terra fondati su zoccoli in pietra e tetto in laterizi ad uno spiovente.
Hanno dimensioni standardizzata di circa 30 mq,
si dislocano intorno ad una profonda e larga calcara, erano affiancate da alcune infrastrutture (un
deposito per acqua in mattoni, una zona per la
macellazione di animali) e da un tratto di campo
arato od un ampio orto fossilizzato. Tali evidenza
lasciano intravedere uno spazio organizzato che
potrebbe essere stato parte di un complesso produttivo tipo un’azienda od una villa di età gota
andata in graduale declino215. Nella seconda metàfine del VI secolo, assistiamo ad un cambiamento
radicale degli spazi insediati. Il complesso costituito da case di terra venne abbandonato e ad esso
si sovrappose un insediamento di capanne. (Figg.
50-51)
Le fasi d’età longobarda di Scarlino e Poggibonsi
attestano la presenza di una popolazione priva di
differenze sociali ed economiche al suo interno;
le capanne risultano per lo più tutte uguali e non
si riconoscono segni di gruppi o di individui segnalati da un maggior grado di benessere o per
articolazione e topografia delle proprie abitazioni. La mancanza di tracce archeologiche che rive-
lino una gerarchia sociale sembrerebbe accordarsi con il potere limitato delle aristocrazie, almeno
sino a poco dopo l’VIII secolo, e la relativa autonomia delle comunità rurali formate da contadini
proprietari in molte parti dell’Italia216? È difficile
fornire risposte in un senso o nell’altro; gli unici
elementi certi che si possono proporre sono l’uniformità economica della popolazione residente e
l’assenza della figura signorile nel villaggio per la
durata di oltre un secolo.
In questa direzione un problema di difficile soluzione a livello regionale è sapere chi erano e
da dove venivano le famiglie rurali presenti nei
nuovi centri di insediamento. Con questo non
intendiamo semplicemente appurare se si trattò
di autoctoni o di invasori poiché è vero che l’attenzione deve essere spostata «dalle relazioni tra
i gruppi etnici alla costruzione di una società
nuova nell’Italia longobarda»217. La questione è
invece diversa ed affrontarla significa contribuire a capire la formazione degli insediamenti rurali del primo altomedioevo; avere degli esempi
del tipo di organizzazione che fu data alla proprietà fondiaria e quale ruolo ebbero le famiglie
contadine locali218.
216. Sul potere limitato delle aristocrazie sino all’VIII secolo si veda soprattutto W ICKHAM 1998, pp. 153-170 e
WICKHAM 1999, pp. 15-16. Tra i tanti si vedano poi gli accenni in PASQUALI 2002; ANDREOLLI 1983 e più approfonditamente i contributi ANDREOLLI 1999; TOUBERT 1995; FUMAGALLI 1978b e bibliografie riportate. Cammarosano sostiene
una posizione ancora più radicale; colloca negli anni che
vanno dal 950 al 1100 circa la fase fondamentale di assestamento locale delle aristocrazie, vedendo una fragilità di fondo
nell’insediamento delle élite laiche per tutto l’altomedioevo
(CAMMAROSANO 1998; inoltre CAMMAROSANO 2003).
217. DELOGU 1997, p. 430.
218. Oltre quindici anni fa, nelle zone campione di Torino, Brescia e Verona, processando i dati registrati nelle necropoli (caratteristiche delle sepolture, dei resti scheletrici, dei manufatti di corredo ecc.) e la stratificazione toponomastica, furono proposti quattro modelli insediativi: una
sovrapposizione longobarda accanto alla popolazione locale, la ristrutturazione della rete insediativa creando ex
novo insediamenti con proprio territorio tramite acquisizione di terra dagli insediamenti confinanti, la fondazione
di nuovi insediamenti in zone incolte, insediamenti misti
dove si verifica una commistione razziale (L A R OCCA ,
HUDSON 1987). Questi schemi interpretativi, se applicati
alla Toscana, farebbero pensare ad una popolazione dei
centri rurali molto differenziata al suo interno e che poteva comprendere, sia separatamente sia in commistione, le
famiglie contadine prelevate dalle case e dai centri di periodo caotico, popolazione convogliata dalle città, piccoli
proprietari longobardi e servi di arimanni longobardi. Non
possiamo però proporre ipotesi ben fondate e l’unica soluzione percorribile è senza dubbio individuare e scavare i
cimiteri connessi ai centri d’insediamento, effettuare indagini di tipo antropologico e soprattutto analisi del DNA:
attribuire «a ciascun scheletro un passaporto» come ha scritto alcuni anni fa, polemicamente, Settia (SETTIA 1994, pp.
64-69). Questi risultati dovranno poi essere valutati e confrontati con elementi più “archeologici”, come per esempio
il tipo di cultura materiale delle abitazioni e la tipologia delle capanne, riflettendo su coincidenze e discordanze.
215. SALVADORI, VALENTI 2003. L’interpretazione della villa è
solo un’ipotesi ancora da comprovare. Se, con il prosieguo
dello scavo, non verrà individuata l’eventuale area padronale, si dovrà forse proporre la presenza di un piccolo centro
rurale simile a quello scavato in località Pantani-Le Gore presso
Torrita di Siena (CAMBI, MASCIONE 1998; MASCIONE 2000).
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dove un esponente dell’aristocrazia longobarda
convogliò dei rustici. La specializzazione delle attività nella pastorizia pare attestare per questo
periodo delle famiglie soprattutto dipendenti221.
Inoltre, l’unica spia pervenutaci di una serie di
vincoli a cui la popolazione era sottoposta sembra riconoscibile, come ha rilevato l’analisi archeozoologica, nell’assenza rigorosa di selvaggina dalla dieta quotidiana; la mancanza di ossa pertinenti ad animali selvatici dai depositi di queste fasi
potrebbe indicare spazi il cui uso per attività venatorie era vietato o riservato ad altri soggetti222.
L’assenza di un potere signorile sarebbe stata quindi
solo “virtuale” e collegata alla scelta del signore
stesso di non vivere nel villaggio223 (Fig. 52).
Di fronte all’eventualità di villaggi che non nacquero dall’azione spontanea dei contadini ma che
facevano parte di patrimoni, dobbiamo comprendere dove potevano vivere i detentori (in toto od
in maggioranza) della proprietà fondiaria. Gelichi ha sottolineato che «è plausibile pensare che i
nuovi possessores risiedettero prevalentemente in
città o nei castra, alcuni dei quali acquisirono una
funzione nel controllo del territorio»224.
In quelle parti della Toscana, dove il modello proposto per la Valdelsa troverà conferme (cioè centri di popolamento sorti anche per iniziativa aristocratica e non solo per le necessità comuni di
un gruppo di famiglie contadine), è più probabile
la prima eventualità. I castra, allo stato attuale della
ricerca, sembrano limitarsi solo a determinate
zone, peraltro mai indagate esaurientemente e
quindi non definibili con sicurezza come centri di
potere225.
Alcuni indizi, in realtà, sembrano mostrare che la
formazione dell’insediamento accentrato doveva
essersi svolta con modalità proprie da zona a zona,
collegandosi sia a decisioni spontanee delle famiglie rurali (dietro la necessità di sfruttare nel migliore dei modi la terra) sia guidata da esponenti
dell’aristocrazia. Scarlino potrebbe rientrare nella prima categoria, mentre nella Valdelsa si ha l’impressione in alcuni casi dello svolgersi di un processo di ammassamentum hominun. La ricognizione nei territori di Poggibonsi e di Colle Valdelsa mostra la persistenza del popolamento nelle aree
in cui si era articolato l’insediamento di periodo
caotico. Dove esistevano famiglie contadine attive e dove la terra era ancora coltivata, vennero
impiantati i nuovi organismi fondiari; il processo
realizzatosi, pare corrispondere alla formazione
di centri che controllavano il territorio agricolo
circostante sostituendosi alla maglia dei poderi esistenti tra fine VI-VII secolo, la cui popolazione
potrebbe essere stata fatta trasferire nei nuovi villaggi. In molti centri del poggibonsese, dove si
presume continuità d’insediamento per tutto l’altomedioevo, possiamo immaginare la presenza di
gruppi di origine longobarda ai quali erano stati
assegnati dal potere regio territori più o meno estesi; per tutti citiamo l’esempio della famiglia dominante di Staggia219.
L’ipotesi è ancora da comprovare. Nel caso del
contesto scavato a Poggibonsi, il passaggio repentino dalle case in terra alle capanne, potrebbe però
anche rappresentare l’avvenuto esproprio di un
fundus sfruttato in età gota o forse l’occupazione
di un piccolo nucleo di popolamento abbandonato220 e la costituzione di un nuovo insediamento
221. Sui pastori e sui porcari in età longobarda si vedano
in particolare BARUZZI, MONTANARI 1981; ANDREOLLI , MON TANARI 1983; A NDREOLLI 1999; P ASQUALI 2002, pp. 75-98.
Per una sintesi sulla servitù in generale si veda soprattutto
PANERO 1999 e l’ampia bibliografia citata.
222. L’assenza di cacciagione potrebbe indicare aree boschive nelle quali era concesso svolgere soprattutto attività
di allevamento e pascolo ed approvvigionamento di legname. L’esistenza di divieti venatori sottolinea ancora di più
l’appartenenza del villaggio ad un signore che regola in qualche forma lo sfruttamento delle risorse naturali. Per la funzione della caccia nell’economia e nell’alimentazione dei
ceti rurali in età longobarda e più in generale per tutto l’alto medioevo, sul carattere solo “virtualmente” libero della
sua pratica e sulle restrizioni ad essa connesse (che gradualmente si allargarono a tutte le risorse dell’incolto) si
vedano in particolare SERENI 1962; MONTANARI 1984, pp.
159-168, 174-183 (soprattutto per l’espropriazione dei
diritti di caccia), MONTANARI 1988 in particolare pp. 3-4;
G ALLONI 1993, pp. 65-105: quest’ultimo sottolinea con
chiarezza le forti limitazioni a cui andò soggetto il diritto
di caccia fino dall’età longobarda.
223. Sul ruolo decisivo della proprietà fondiaria come base
per garantire la continuità dei gruppi parentali aristocratici si veda TABACCO 1973b.
224. GELICHI 2001, p. 228.
225. Forse ha ragione Gelichi quando afferma che tuttavia
«anche di questa presenza non si rilevano, fino ad oggi,
219. La genealogia della famiglia dei Lambardi di Staggia,
raffigurata in una pergamena miniata nella metà del XII
secolo proveniente dall’archivio della Badia a Isola (CAMMAROSANO 1993, n. 75, ante 1164 gennaio; il documento è
riprodotto in CAMMAROSANO 1993 ed in KURZE 1989), attesta l’antichità di tale gruppo e non dobbiamo escludere che
il primo nucleo fondiario intorno a Staggia possa risalire al
regno longobardo. Kurze, basandosi sui primi documenti
di Isola e sugli antenati di Ildebrando citati dalla Genealogia deduce che Ildebrando stesso (in età virile nel 953 e
morto già nel 994) doveva essere nato intorno al 930. Adottando quindi i trenta anni come intervallo generazionale
(un valore plausibile; il cimitero altomedievale scavato a
Poggio Imperiale a Poggibonsi vede infatti la maggioranza
della popolazione deceduta tra i 30 ed i 35 anni) passa in
rassegna cinque generazioni (i nomi citati sembrano provenire dalla tradizione orale tramandatasi nella famiglia
stessa: CAMMAROSANO 1993, pp. 39-41), cioè Rodulfiatus,
Odalberto, Gisalprando ed infine il quadrisavolo e capostipite Reifredo, collocando la nascita di quest’ultimo nel
decennio 770-780 (KURZE 1989, pp. 234-235).
220. In caso affermativo, cioè di un complesso rurale ancora organizzato, si tratterebbe di una delle poche forme
di controllo della campagna senese, se non l’unica, poiché
i contesti individuati nelle indagini territoriali nel corso di
tredici anni (l’inizio del progetto Carta Archeologica della
Provincia di Siena data al 1990) mostrano continuità di frequentazione episodica e marginale.
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Fig. 51 – Poggibonsi (SI): ricostruzione dell’insediamento tardoantico.
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Fig. 52 – Poggibonsi (SI): ricostruzione dell’insediamento di VII-prima metà VIII secolo.
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Alcuni casi, come quelli della Lunigiana, base territoriale dalla quale è stato ipotizzato l’inizio della
conquista definitiva della Toscana entro il primo
decennio del VII secolo da parte di Agilulfo, meriterebbero un serio approfondimento attraverso
scavi mirati226. Finora l’unico sito sottoposto a indagini, il castrum Aghinolfi (documentato in una
carta dall’VIII secolo che attesta l’esistenza del
castello di Aginulfo, forse un alto funzionario longobardo lucchese), sembra deporre in senso negativo. Ha messo in luce solo i resti di una torre
quadrangolare, con un lato lungo 8 m, priva di
cinta muraria o di altro tipo di recinzione o di
difesa, databile tramite radiocarbonio in una cronologia compresa tra il 775 ed il 980227. Poco per
essere interpretata come una delle fortezze protagoniste nell’assoggettamento della regione.
“strutture” comunitarie risultano forse ancora
deboli, ma esisteva una pianificazione degli spazi
determinata perlomeno dal carattere economico
del centro e probabilmente una forma di prelievo
fiscale229.
Se si crede che per attribuire la definizione di villaggio ad un nucleo di popolamento sia condizione indispensabile la presenza degli elementi strutturali sottolineati nel modello proposto da
Fossier230 e che la presenza di molteplici proprietari all’interno dell’insediamento sia una variabile
indispensabile, allora il popolamento altomedievale toscano non può essere definito come una
rete di villaggi231.
Ma i caratteri urbanistici non sembrano fare riconoscere solo una serie di piccoli poderi ravvicinati tout cour. Sono insediamenti compatti, organizzati intorno ad uno spazio aperto o con unità
abitative contigue, la cui disposizione in apparenza casuale trova una sua logica nella strutturazione dello spazio disponibile per ogni singola famiglia: capanna, recinto od annesso e presumibilmente l’orto, evidenziato da quei livelli di terra
spesso annerita, di forma irregolare ed esterni alle
capanne, contenenti alcune pietre, frammenti ce-
4. I
VILLAGGI TRA VII E VIII SECOLO:
VERSO UNA PROGRESSIVA TRASFORMAZIONE
I centri di popolamento di più antica formazione,
Poggibonsi e Scarlino, costituiscono due esempi
dei villaggi che caratterizzavano le campagne del
regno longobardo e per i quali la ricerca storica
non è in grado di definire con chiarezza articolazione e realtà insediativo-produttiva a causa dei
limiti oggettivi delle fonti scritte228.
Le fonti materiali mostrano insediamenti di medie dimensioni e la loro popolazione è stimabile
solo per le aree indagate dallo scavo (quindi in
difetto sul computo reale) rispettivamente fra 60
e 30-40 persone circa. Queste comunità agrarie
rappresentano le forme insediative dominanti nella
campagna per tutto l’alto medioevo, con dinamiche interne i cui effetti sono riconoscibili nelle loro
trasformazioni materiali e nella grande fluttuazione mostrata dall’urbanistica nella diacronia. Le
229. Delogu ha messo in dubbio le affermazioni di Wickham
(WICKHAM 1984; WICKHAM 1988) sulla rinuncia dei longobardi «ad imporre le tasse sulla proprietà e la produzione
della terra, che erano state fondamento della finanza pubblica nell’impero tardoantico, determinando con questo una
sostanziale redistribuzione delle risorse economiche interne, da cui vennero modificate sia le attività statali in tutto
quel che comportava spesa, sia il tenore di vita delle popolazioni rurali, che migliorò sostanzialmente. Le forme strutturali dell’insediamento e della produzione non si sarebbero perciò modificate per l’innesto delle tradizioni degli
occupanti, ma piuttosto, liberate dal peso dei prelievi fiscali, avrebbero più liberamente esplicato le loro tradizionali funzioni». Ha invece ipotizzato, sulla scorta delle analisi sui prelievi longobardi e sulla produzione agraria dei
romani (GOFFART 1980 e DELOGU 1990) e sull’esistenza di
tributi pubblici almeno dall’VIII secolo (GASPARRI 1990),
che questo periodo potesse essersi accompagnato a «mutamenti nella distribuzione dell’insediamento e nelle tecniche di gestione, se non proprio nel sistema agrario, che
poterono risentire delle concezioni sociali tipiche dei longobardi anche se presentano analogie con evoluzioni attestate nei territori bizantini, sicché non si può nemmeno
escludere che si collegassero alle trasformazioni già in corso prima dell’invasione» (DELOGU 1994, p. 15).
230. In area germanica, per esempio, tra VII e XII secolo
prevalsero delle tipologie insediative composte da aggregati a maglie larghe di nuclei tipo mansi, mentre il villaggio con organizzazione delle strutture comunitarie, come
inteso da Fossier, non esisteva (DONAT 1980, p. 137).
231. Brogiolo, soprattutto, accetta in pieno il modello di
Fossier, proiettandolo però sul primo altomedioevo. Trattando il protagonismo delle chiese nella formazione dei
centri di popolamento tra VI e VII secolo (questi ultimi, in
ultima analisi, sarebbero sorti a seguito della cristianizzazione delle campagne) ritiene che un insediamento, per non
essere considerato di tipo sparso od un’azienda, doveva
presentarsi come «una comunità organizzata, e dunque con
una dimensione spaziale del villaggio con aree comunitarie, tra le quali in primo luogo una chiesa, e relazioni economiche e sociali» (BROGIOLO et alii 2002, p. 290).
tracce archeologiche a livello di edilizia abitativa: questo
dato può essere in parte dovuto ad arretratezza nella documentazione archeologica, ma anche a modelli di vita sicuramente più spartani» (GELICHI 2001, pp. 228-229). Sui
castra longobardi (la cui questione è affrontata più estesamente in BROGIOLO, GELICHI 1996, pp. 63-78 e 177-220)
precisa comunque che «salvo l’area padana o la fascia centrale della penisola (Tuscia), dove i dati storico-archeologici forniscono un quadro ancora discordante, i Longobardi
non sembrano particolarmente attivi nella realizzazione di
castelli» (GELICHI 2001, pp. 230-231).
226. Si veda CIAMPOLTRINI 1990 per l’ipotesi sulla rete di
castra posta tra Luni e Chiusi.
227. Si vedano GALLO 1997 e GALLO 2001. Inoltre il seguente indirizzo web: http://www.studioarx.it/massalunense/
aghinolfi/index.html.
228. Sullo sviluppo e la gestione della proprietà agraria
privata e regia in forme di villaggio-azienda nel periodo
longobardo si veda soprattutto MODZELZWSKI 1978.
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ramici di frequente privi di attacchi e reperti osteologici232.
Indipendentemente dal tipo di popolazione residente (solo servi, composta da liberi, oppure di
carattere misto?) sono pur sempre riconoscibili
come villaggi imperniati su uno spazio insediato e
su zone di catchment nelle quali si esercitavano
delle attività lavorative soggette a regolazioni e
consuetudini, ovvero su territori agrari sfruttati
dalla comunità.
A livello europeo si osservano situazioni molto simili a quelle descritte per la Toscana. Gli scavi
degli agglomerati altomedievali hanno rivelato soprattutto insediamenti accentrati, legati ai grandi
patrimoni di abbazie o inseriti in proprietà regie
(le ville alla base dell’organizzazione fondiaria
francese) o gruppi di mansi molto estesi e vicini
(cioè villaggi originati dalla contiguità degli edifici che costituivano le fattorie). Questi centri, di
dimensioni molto simili ai nostri, furono soggetti
anch’essi a ricambi strutturali e cambiamenti urbanistici che attestano la lunga continuità dell’insediamento ed una sua articolazione comunitaria
che non sembra essere mai venuta meno. Anche
quando si è trattato di aziende, spesso legate ad
un solo proprietario, la letteratura archeologica
non ha mai smesso di definirle come villaggi anche se prive di chiesa233.
In Toscana le realtà di villaggio più antiche scavate sembrano collocarsi a pieno titolo in un quadro della prima età longobarda caratterizzato da
un’azione di basso profilo svolta dalle aristocrazie nell’organizzazione delle campagne, dove i
centri di popolamento dovettero spesso formarsi,
come già detto, dietro l’esigenza della popolazione rurale di vivere insieme e sfruttare meglio la
terra. Aristocrazie prive di strategie progettuali di
tipo economico che si ponessero aldilà della semplice produzione per autoconsumo, agli inizi di
un lento processo di stabilizzazione sul territorio234. Ad esse si affiancava un potere regio che si
consolida per gradi, sino a raggiungere una più
complessa dimensione di sovranità territoriale solo
alle soglie dell’VIII secolo.
Non è un caso che proprio questi decenni siano in
assoluto uno dei periodi della storia italiana meno
documentati da fonti scritte, che però testimoniano nuovamente la natura del popolamento nelle
campagne ed i rapporti sociali ed economici in
esse attivi con l’VIII secolo235, quando la gestione
stessa della proprietà fondiaria inizia a cambiare
strutturandosi in forme più articolate e complesse. Delogu, dopo la fase iniziale del radicamento
longobardo in città e nel territorio, proposta come
continuità nella decomposizione e nello snaturamento dell’organizzazione socio-economica e politica della tarda antichità, sottolinea il verificarsi
232. Galetti, nella sua inchiesta sulle forme insediative altomedievali, descrive la casa contadina ideale; un podere
od una piccola fattoria «organizzata come un nucleo edile,
nel quale si configuravano unitariamente strutture insediative diverse, ognuna con una specifica funzione. L’abitazione in senso stretto aveva accanto a sé come edifici a se
stanti, il forno, a volte la cucina, la cantina, il locale adibito alle operazioni di vinificazione, magazzini, stalle, granai, tettoie per gli attrezzi, fienili. Un cortile centrale e l’aia
ne costituivano l’elemento di raccordo; spesso era presente un pozzo per il rifornimento idrico, oltre a un orto, una
piccola vigna, un piccolo frutteto, immediatamente e facilmente sfruttabili sul piano alimentare. Tutti questi elementi erano racchiusi in una “clausura” da siepi, recinzioni,
fossati ed erano recepiti dagli uomini del tempo come una
realtà unitaria» (GALETTI 1997, p. 20). L’archeologia mostra in realtà situazioni molto più semplici.
233. Alcuni esempi. In Germania a Tornow l’insediamento
occupava due ettari con dieci capanne tra inizi VII-VIII secolo, quattordici nella seconda metà del IX secolo, dieci
tra seconda metà IX-inizi XI secolo (65-78 abitanti stimati) e diciotto tra XI-XII secolo (90-108 abitanti stimati;
DONAT 1980, pp. 138-146, 178-179). A Gladbach, nel VIVII secolo, il villaggio era imperniato su una struttura abitativa molto estesa definita casa-mercato, circondata da ventisette capanne delle quali le più grandi erano recintate,
otto granai e molti silos (SAGE 1969; per una riproduzione
della pianta del villaggio, di facile consultazione, si veda
anche ARIÈS , DUBY 1988, fig. 4.21). In Francia, a Villier-LeSec, due ettari videro l’alternarsi di sessantotto strutture in
età merovingia (capanne, laboratori, magazzini, forni ecc.)
e novantaquattro strutture in età carolingia: anche per questa fase suddivise in capanne, laboratori, magazzini e forni
ai quali si aggiungeva un’area cimiteriale composta da
cinquantatre sepolture ed una piccola piazza luogo di mercato (CUISENIER , GUADAGNIN 1988, pp. 142-145). Nella repubblica Ceca, a Brezno, le capanne si disponevano a cer-
chio su un’area di due ettari ed ammontavano a ventidue
nella prima metà del VI secolo, a dieci nel VII secolo, nuovamente a ventidue tra VIII-IX secolo (DONAT 1980, pp.
138-146, 199).
234. Come ha osservato Delogu «sotto il profilo dell’evoluzione delle strutture, non è necessario attribuire ai longobardi una rottura qualitativa ed una ricostituzione dell’organizzazione economica e culturale su basi diverse: come
già si è detto, il loro ruolo potè consistere nell’accentuazione data ai processi in corso, già volti alla decomposizione dell’organizzazione tardo imperiale» (DELOGU 1994, pp.
16-17).
235. È stato posto l’accento su una campagna che nel centro-nord vive lunghi decenni di stallo (scarsa espansione
degli spazi coltivati e bassi indici demografici) letti come
fase di faticosa espansione della media e grande azienda
fondiaria che trovava ostacolo nella presenza di molti poderi di impressionante estensione, tra i 35 ed i 28 iugeri
(uno iugero = 7.900 mq): si veda FUMAGALLI 1978b, pp.
XII-XIII. Durante l’VIII secolo la disponibilità fondiaria
dei maggiori proprietari contava ancora pochissime aziende, molte delle quali di piccola dimensione o con un
dominico molto ridotto rispetto all’insieme dei poderi aggregati (V IOLANTE 1953; F UMAGALLI 1974). È comunque
dopo il 730-740 che un numero maggiore di informazioni
permette di riconoscere una decisa tendenza alla concentrazione, con proprietà a struttura bipartita (sala sundrialis/
casae tributariae), gestite secondo le norme di un sistema
curtense in via di formazione: si veda TOUBERT 1995, p.
188. Sulla progressiva affermazione della grande proprietà
e sulla conseguente crisi della piccola proprietà contadina
in epoca carolingia e soprattutto nei decenni fra VIII-IX
secolo si vedano anche FUMAGALLI 1976 e ANDREOLLI , MON TANARI 1983, pp. 69-128 con un esame molto approfondito dei meccanismi di appropriazione fondiaria dei potentes.
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società che tendeva a farsi sempre più differenziata socialmente con la crescita di una massa indicata dalle leggi come pauperes o rustici241. «Gli
arimanni o exercitales nel secolo VIII coincidono
quindi con i possessores. Per cui lo schema tribale
di riferimento, sul quale si innestava il potere politico all’interno del popolo longobardo, entrava
in crisi nella realtà concreta dei rapporti sociali.
In teoria non veniva però mai ripudiato del tutto:
ufficialmente l’esercito era sempre formato da tutti
i Longobardi, i membri del gruppo tribale originario. Di fatto, ormai quello che esisteva era invece un esercito formato da possessori – o
negotiantes – dalle origini etniche in parte almeno contestabili»242.
A livello nazionale, la progressiva trasformazione
e stabilizzazione delle aristocrazie della terra pare
trovare una corrispondenza sia negli scavi di alcune chiese sia nei caratteri delle sepolture. Come
in alcuni casi piemontesi (Mombello e Centallo)243
e lombardi (per esempio Trezzo, Palazzo Pignano,
Garbagnate Monastero, ecc.)244 databili fra VII e
VIII secolo, dove è stata riconosciuta l’associazione chiesa privata con cimitero e abitazione del proprietario terriero longobardo posta a breve distanza245. Si tratta di oratori privati, con sepolture privilegiate, la cui fondazione sembra riconducibile
ad un modello di riferimento fornito dai sovrani
(per i secoli VII e VIII abbondano le notizie circa
la fondazione di chiese da parte dei re longobardi); sono indizio di un ceto di fideles del re che si
sta territorializzando (esponenti di spicco della
nuova classe dei possessores), facendosi seppellire
nel luogo in cui vivevano. Tra essi si distinguono
anche alti funzionari, dei gasindi, che operano per
conto della corona e che da essa erano beneficiati
e protetti, ben rappresentati dai cosiddetti “signori
degli anelli” delle tombe di Trezzo e di Palazzo
Pignano246.
Le tendenze mostrate dai corredi funerari di età
longobarda rappresentano anch’esse indicatori
di cambiamenti verso la fine del VII secolo. Sembrano trovare origine nel raggiungimento di un
equilibrio interno delle diverse regioni, permesso
anche dalla fine degli scontri con i bizantini ed in
una crescente capacità di iniziativa manifestata dai
poteri politici, ma probabilmente diffusa in tutta
la società236. Anche Wickham non differisce troppo da questa linea interpretativa, individuando nel
VII secolo un’aristocrazia fondiaria ancora debole e nell’VIII secolo, pur con il persistere di una
disponibilità economica relativamente scarsa, l’iniziale sviluppo di ricchezze rurali private237.
Fu quindi un’«integrazione dal basso», avviata con
l’inserimento dei Longobardi in una campagna ed
in una società fortemente impoverite238 ed in progressiva crisi almeno dalla fine del V secolo che,
inizialmente, furono ancor più affossate. La riorganizzazione rurale si svolse come un processo lento, incentrato su territori degradati che richiesero
quasi un secolo prima di vedere in vita una rete di
villaggi numericamente consistente, la cui stabilizzazione fu affiancata da un graduale «processo
di divaricazione sociale che portò da una parte ad
una ristretta aristocrazia (che deteneva ed esercitava il potere) e dall’altra ad una classe, sempre di
uomini liberi, ma che da questa di fatto andava a
dipendere»239. Gasparri, sulla scia delle riflessioni
di Tabacco240, affronta ancor più in profondità
questo tema, riconoscendo nei possessores dell’VIII
secolo la classe dirigente vincente, quindi i nuovi
componenti dell’exercitus composto ora da tutti
coloro che erano longobardi di diritto (ovvero dai
proprietari terrieri affermatisi tra VII e VIII secolo indipendentemente dall’origine etnica), ed una
236. I segni sono da leggere nell’unità ecclesiastica del regno con la conclusione dello scisma dei Tre Capitoli (per la
Toscana in una ricostituzione del territorio rurale sotto il
profilo ecclesiastico), nella ripresa dei centri urbani, nella
fondazione o rifondazione di alcuni importanti monasteri
come Farfa, San Vincenzo al Volturno e Montecassino. Il
gruppo di monetazioni longobarde dell’VIII secolo, che per
la prima volta non sembrano più imitare tipi bizantini. La
stessa ricomparsa della documentazione scritta, così come
la nuova monetazione dell’ultimo decennio del VII secolo,
s’inquadrano in quest’insieme coerente di indizi di riorganizzazione e vitalità (DELOGU 1994, pp. 20-21). Sul regno
longobardo nell’VIII secolo ed i mutati comportamenti delle aristocrazie si veda la sintesi BERTELLI, BROGIOLO 2000. Sul
ruolo di re Liutprando nella riorganizzazione del regno si
legga GASPARRI 2000, pp. 26-27: «Liutprando poteva contare su un palazzo ben organizzato, su un patrimonio fiscale i
cui territori – organizzati in curtes, che erano al tempo stesso unità di produzione agraria e centri amministrativi pubblici – si estendevano su vaste zone sparse in tutto il regno,
su uno stuolo di funzionari (talvolta, è vero, dalla fedeltà un
po’ incerta) addetti a tale patrimonio e alla riscossione delle
pochissime imposte esistenti e, infine, su una rete di clienti
– i gasindi – ramificata e socialmente qualificata».
237. WICKHAM 1994.
238. DELOGU 1990.
239. GELICHI 2001, pp. 234-235.
240. TABACCO 1967 e TABACCO 1973b.
241. GASPARRI 1983a, pp. 107-113.
242. GASPARRI 1983a, pp. 108-109.
243. PANTÒ, PEJRANI BARICCO 2001, pp. 17-25.
244. DE M ARCHI 2001; BROGIOLO 2001.
245. Gelichi sottolinea come il campione che abbiamo a
disposizione, per quanto abbastanza casuale nella distribuzione geografica, «sembrerebbe indicare piuttosto chiaramente come anche il fenomeno di recupero, parziale o parassitario, delle antiche ville/fattorie, non fu praticato in
maniera capillare dai Longobardi. Se le occupazioni tardive non sono ancora una volta sfuggite all’esame degli archeologi, dovremmo dedurne che il quadro che emerge dei
casi ora analizzati tenda parzialmente a coincidere con quanto restituito dalle ricognizioni di superficie, nel senso di
una forte selezione degli insediamenti nella fase del primo
alto medioevo» (GELICHI 2001, p. 227).
246. Si veda per tutti la recente messa a punto in LUSUARDI
SIENA 2004.
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Fig. 53 – Poggibonsi (SI): ricostruzione dell’insediamento di seconda metà VIII-IX secolo.
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dei processi sociali in corso247. Il carattere degli oggetti contenuti nelle sepolture degli strati dirigenti
cambia dalla fine del VI secolo e per tutto il VII
secolo. I simboli con i quali si affermava il proprio
status divengono mano a mano più prestigiosi, indicando l’esistenza di flussi commerciali regolari
riattivati dalla nuova committenza. Gli elementi del
corredo non sono più destinati a rappresentare l’etnicità248 piuttosto ad ostentare il prestigio sociale
raggiunto e negoziato localmente.
Gli oggetti del banchetto deposti ai piedi del corpo si accompagnarono sempre più di frequente in
questi decenni all’abito funebre decorato con fibule, cinture e vesti di broccato d’oro e ad una
gamma di armi ampliata con accentuazione degli
elementi decorativi nelle sepolture maschili. Nelle sepolture femminili sono introdotti i gioielli;
oltre a modifiche nell’uso delle fibule a staffa o a
disco, compaiono anelli, orecchini, gemme incise
di tradizione mediterranea.
Questa evoluzione può essere letta come il segno
di un processo di progressiva trasformazione dell’aristocrazia longobarda. La partecipazione
all’exercitus rimane la principale occupazione dell’uomo libero, che però evolve nella nuova condizione di proprietario fondiario. Le sole armi, componenti principali dei corredi maschili pannonici,
non sono più sufficienti a rappresentare la sfera
di relazioni delle aristocrazie249.
Sulla stessa scia sembrerebbero inserirsi quelle sepolture dette dei cavalieri. In alcune aree, infatti,
dalla fine del VI secolo, i longobardi tesero a sottolineare il proprio rango equestre ed a qualificare
quindi il sepolto come un uomo armato a cavallo.
La manifestazione di status avvenne attraverso oggetti di corredo riferiti all’equipaggiamento del cavaliere ed alla bardatura dell’animale (speroni, briglie, morso) e talvolta con la sepoltura dello stesso
cavallo insieme all’inumato od anche in fosse separate. Si trattava quindi della spia di un forte mutamento nella composizione sociale delle élite e l’ostentazione equestre, caratterizzata da un apparato ridondante di corredo, a testimoniare il notevole investimento della famiglia per caratterizzare appieno
le qualità del morto, sembra rimandare all’esistenza
di veri e propri parvenus250. Si sottolinea inoltre come
le tombe equestri sono spesso accompagnate da tombe femminili anch’esse riccamente dotate251.
Gli effetti prodotti da un maggior radicamento
delle aristocrazie nella campagna sono riconoscibili archeologicamente in Toscana solo con l’VIII
secolo. Non si manifestano come nel settentrione, dove alcuni possessores longobardi vivevano
in centri di riferimento sul territorio, che abbiamo visto articolarsi in una residenza ed un oratorio privato con cimitero (ma ancora non sono noti
archeologicamente i nuclei in cui si raccoglieva la
massa dei lavoratori).
Si osserva invece dagli scavi un’evoluzione nei villaggi già esistenti ed anche quelli di nuova fondazione (Montarrenti e Miranduolo) mostrano ca-
250. Le tombe caratterizzate dall’armamento del cavaliere
sono state intepretate anche dalla Melucco Vaccaro come
segno di un complesso fenomeno di mutamento e diversificazione sociale tra coloro che vengono seppelliti con le armi.
Collega la loro presenza ad una disposizione di legge aggiunta all’edictus di Astolfo di metà VIII secolo che ratificava delle consuetudini preesistenti: sulla base della proprietà
fondiaria venivano stabiliti per censo gli obblighi militari
degli arimanni. La qualità e la composizione del corredo sono
quindi ricondotti all’appartenenza a tre fasce: proprietari di
più di 7 casae massariae = cavalli, armi, armamento per sé e
per i propri uomini; proprietari fino a 7 casae massariae =
armi personali, corazza, cavallo; proprietari di 40 iugeri =
cavallo, scudo e lancia personali. (MELUCCO VACCARO 1988).
Il fenomeno è stato riscontrato diffusamente nell’Europa
dell’est; per esempio nell’area tra il Reno ed il Neckar viene
collegato all’emergere di nuove stratificazioni e gerarchie:
membri di famiglie aristocratiche alamanne subentrati nel
possesso di terre fiscali sino dalla prima metà del VI secolo
che, soprattutto nella seconda metà del VII secolo ed a supporto del potere ducale, avrebbero ricevuto compiti di vigilanza militare, amministrazione civile e fiscale. In Italia le
tombe con cavallo sono attestate in varie località tra le quali
Trezzo, Nocera Umbra e Vicienne in Molise (dove sono state scavate dieci tombe di questo genere).
251. Se fino alla fine del VI secolo i corredi femminili indicavano caratteri distintivi del diverso stato sociale, con gli
inizi del VII secolo pare manifestarsi l’intenzione di mostrare con chiarezza un modello di deposizione femminile
definito come “le donne del cavaliere”. In questa fase di
mutamento, le donne sembrano poter utilizzare e condividere, ma soprattutto contribuire ad affermare, i simboli
dello status del proprio gruppo parentale.
247. Su questi temi si vedano LA R OCCA 1997 e LA R OCCA
1998.
248. Le caratteristiche fondamentali del rito funebre di tipo
merovingico si mantengono immutate anche in Italia (la disposizione delle fosse in file orientate est-ovest, la frequente
presenza di bare lignee, la struttura dei sepolcreti per gruppi
familiari) mostrando una certa corrispondenza tra intensità
e precocità dell’occupazione territoriale. Le tombe più ricche riferibili alla generazione immigrata, oltre alle armi
(spatha, lancia e scudo) ed oggetti del banchetto, presentano gioielli personali di tradizione germanica, spesso consunti
dall’uso (soprattutto le fibule), comprendono qualche raro
bene suntuario, che non si collega a nessuna serie (quindi
non appartenenti ad una fase di committenza consolidata)
ma che doveva essere stato sottratto a quella parte del ceto
dirigente romano a cui i longobardi sono subentrati nel possesso della terra (per esempio: l’anello traianeo e la fibula a
disco sbalzata di tipo bizantino dalla tomba 39 di Nocera
Umbra). Si veda MELUCCO VACCARO 1988.
249. Nell’VIII secolo la pratica risulta definitivamente abbandonata, affermandosi un nuovo ceto di possessori in
controtendenza con il precedente ed un diverso atteggiamento delle aristocrazie nei confronti dei rituali legati alla
morte. Il disprezzo delle forme usuali di ostentazione del
proprio prestigio sociale si ricollega alle rielaborazioni delle
celebrazioni funebri di un gruppo sociale teso a ridefinire
continuamente la propria specificità. In questo cambiamento, che appare come una risposta aristocratica alla diffusione generalizzata dei corredi funebri, si manifestò anche
l’influenza ecclesiatica. Su tali aspetti si veda in particolare
la sintesi in LA R OCCA 2000 e l’epigrafia funeraria trattata
in D E RUBEIS 2000.
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ratteri convergenti verso un nuovo tipo di comunità. Le trasformazioni riguardano aspetti economici e strutturali, presentandosi in alcuni casi gradualmente, mentre in altri il nuovo tipo di organizzazione è già impostata all’origine.
Nel villaggio di Poggibonsi la popolazione continuava
ad essere economicamente uniforme; erano presenti capanne abitative, stalle od altri ricoveri per animali, spazi aperti destinati allo svolgimento di attività rurali ed artigianali. Intorno alla metà dell’VIII
secolo le strutture già esistenti furono affiancate da
un nucleo composto da sei edifici raccolti intorno
ad una piccola corte, due dei quali con destinazione
di magazzino-rimessa. La costruzione di questo complesso (le cui prime tracce sono presenti agli inizi
del secolo in forma già evidente) è interpretabile
come l’inserimento di un signore o di un suo actor
(agente incaricato di raccogliere le rendite e sorvegliare il lavoro dei contadini dipendenti) nel villaggio; rappresenta non solo l’indizio di gerarchizzazione sociale, ma anche un cambiamento ed un maggiore controllo diretto sulla produzione.
La presenza del nuovo complesso è parallela ad
altri due elementi di novità: un apparente aumento della popolazione residente, ipotizzabile in un
centinaio di persone circa e quindi quasi raddoppiata (dato che però potrà accrescersi solo con
l’ampliamento dello scavo) e la variazione delle
attività produttive. Accanto all’allevamento ed alla
pastorizia inizia ad avere un peso maggiore l’agricoltura, come rivela lo studio archeozoologico
sulla base dei rapporti percentuali delle specie e
dell’età di morte stimate. In questo senso l’aumento dei bovini e la presenza di soli individui anziani sembra indicare un loro utilizzo esclusivo per
la coltivazione. Tra i maiali, inoltre, non sono stati rinvenuti soggetti abbattuti prima del secondo
anno, indice di una maggiore attenzione verso la
massima resa in carne, anche a seguito di una diminuzione del numero di capi allevati e forse di
una contrazione delle superfici boschive, derivanti dalla messa a coltura di nuovi spazi (Fig. 53).
La trasformazione dell’insediamento e un’economia che si diversificava divenendo anche agricola, segnano la riorganizzazione urbanistica e produttiva del villaggio ed un controllo più forte sul
lavoro. La costruzione dei due magazzini può infatti implicare l’accumulo di prodotti provenienti
da campi gestiti direttamente dalla casa del signore ma anche il prelievo di quote. Ci troviamo di
fronte ad un’azienda di età longobarda che ricorda, pur non essendolo, una curtis di piccola estensione, compatta e con elementi pertinenti sia ad
una casa dominica sia ad un nucleo massaricio all’interno dello stesso centro; un esempio tangibile di quelle forme pre-curtensi intuite da molti
autori, ma mai tratteggiate urbanisticamente, la
cui comparsa facilitò l’applicazione dei modelli
franchi di un maturo sistema curtense252.
Un villaggio imperniato quasi esclusivamente sull’agricoltura e dove la presenza di due zone distinte
attesta gerarchizzazione, è Montarrenti. Tra la metà
del VII e la metà dell’VIII secolo, decenni nei quali
l’insediamento si formò, esisteva una divisione netta
fra gli spazi sommitali ed i versanti. Se l’intera comunità risultava difesa da un’estesa palizzata, la parte più innalzata venne ulteriormente rinforzata, e
distinta fisicamente dal resto delle superfici insediate, attraverso una seconda cortina. Questa zona
può essere paragonata, per il ruolo svolto, al complesso di sei edifici intorno ad una corte scavati a
Poggibonsi e quindi leggervi la presenza di un controllo signorile diretto sul villaggio-azienda.
Mentre a livello di restituzioni ceramiche non si
osservano differenze fra le due aree dell’insediamento, la distribuzione dei reperti archeozoologici
è concentrata solo nella parte sommitale. Su questi
spazi sono stati riconosciuti soprattutto maiali e
caprovini; le giovani età d’abbattimento tendono a
far riconoscere una pratica allevatizia finalizzata
soprattutto al consumo di carne. Ai maiali ed ai
caprovini si aggiungevano in percentuale minore i
bovini, macellati quando ormai inutilizzabili nei
lavori di trazione. Il consumo della carne, in un
villaggio la cui popolazione era impegnata quasi
esclusivamente nel lavoro dei campi, sottolinea un
elemento di distinzione sociale nell’alimentazione
differenziata e più ricca; inoltre mostra come il
controllo degli animali sia stato direttamente esercitato dal signore. Elementi questi che si rivelano
molto più chiari con la piena età carolingia.
Il caso di Montarrenti, in questa fase, può essere
riconosciuto come una curtis, ma solo nel significato attribuito al termine nelle prime attestazioni
documentarie centro-settentrionali che risalgono
al secolo VIII, quando corrisponde all’esigenza di
individuare una casa rurale padronale, protetta da
un recinto (è questo il significato originario di
curtis), cui demandare sia la gestione economica
del dominico, sia la raccolta e l’uso delle rendite
del massaricio253.
Il villaggio di Miranduolo, tra VIII-IX secolo, sem252. Per le differenze di fondo fra l’azienda di età longobarda e quella carolingia si vedano in particolare VIOLANTE
1953; FUMAGALLI 1976; TOUBERT 1983; TOUBERT 1995, pp.
183-196; ANDREOLLI , MONTANARI 1983; ANDREOLLI 1978. Si
veda PASQUALI 2002 per un confronto fra le posizioni degli
autori citati e per un’estesa bibliografia.
253. Al riguardo si vedano le precisazioni in PASQUALI 2002,
p. 43. Azzara e Gasparri sulla base delle leggi di Rotari commentano: «La corte è la fattoria, cinta da siepi e fossati, in
cui risiede il libero e che costituisce il centro delle sue proprietà; al suo interno convivono proprietari e lavoratori e
vi si trovano tutti gli strumenti e i servizi all’attività agricola e pastorale» (AZZARA, GASPARRI 1992, p. 109 nota 37).
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Fig. 54©–2004
Montarrenti
(SI): ricostruzione dell’insediamento di metà VII-metà VIII secolo e IX-X secolo.
All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale
Fig. 55 – Scarlino (GR): ricostruzione del villaggio di IX secolo.
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bra assimilabile a Montarrenti ed a Poggibonsi per
la presenza di un’area insediativa distinta; in questo caso, il segno di una gerarchizzazione non viene letto nell’esistenza di fortificazioni o di una alimentazione migliore ma nella costruzione di edifici in cui si raccolgono ed immagazzinano derrate agricole. Lo scavo dei livelli più antichi è comunque ancora in corso e per esporre conclusioni definitive si deve attendere. Ma i dati disponibili indirizzano in tal senso, così come la trasformazione nel IX secolo parrebbe confermare l’ipotesi, oltre che accordarsi con le vicende riscontrate su tutti i centri indagati254 (Fig. 54).
Le attività produttive riconosciute nei villaggi indagati sembrano riconducibili solo parzialmente
all’interno del modello tracciato da Fumagalli per
l’economia agraria longobarda, costituita da una
stretta integrazione tra allevamento e sfruttamento delle aree incolte255. Si conferma invece, osservando le trasformazioni urbanistiche dei centri e
l’emergere di spazi con una strutturazione particolare e distinta, come la proprietà agraria in età
longobarda anticipava alcuni degli elementi del
sistema curtense e quindi come costituisse «un terreno in parte già preparato per la diffusione della
curtis»256. Nel loro insieme, tali villaggi possono
rappresentare le curticelle degli storici? Cioè dei
centri di piccole dimensioni, con un dominico ridotto e spesso contrapposto al massaricio, che
rappresentano forme di gestione pre-curtense della
proprietà257? In essi esisteva un sistema di prelievo canonario sul lavoro dei rustici ma non si verificava una funzionale compenetrazione fra
dominico e massaricio attraverso quelle corvées
definite la «vera e propria forza motrice dell’azienda curtense»258. La presenza di una casa dominica
poco estesa potrebbe essere un indizio di insediamenti così tipologizzabili; ma come archeologi sottolineiamo solo il nostro modello di villaggioazienda per la matura età longobarda, che si presenta con le caratteristiche indicate.
254. Le trasformazioni alle quali fu soggetto Miranduolo
sono illustrate nel paragrafo 4.3.
255. FUMAGALLI 1992, pp. 38-43.
256. ALBERTONI 1997, pp. 125-126.
257. In particolare Toubert e Fumagalli hanno sottolineato
che nel centro-nord la fisionomia delle campagne altomedievali non fu caratterizzata da grandi latifondi almeno sino
al maturo VIII secolo. Questi erano privi spesso di una parte
centrale efficiente, che emergesse al ruolo di nucleo forte
nella coesione con i poderi degli affittuari. Si vedano TOUBERT
1973a (soprattutto pp. 100-104); TOUBERT 1973b; TOUBERT
1995, pp. 181-245. Inoltre FUMAGALLI 1966; FUMAGALLI 1968;
FUMAGALLI 1970; FUMAGALLI 1976; FUMAGALLI 1978.
258. ANDREOLLI , MONTANARI 1983, pp. 45-55. Sulla stessa
posizione FUMAGALLI 1976 e FUMAGALLI 1980a; FUMAGALLI
1980b; ANDREOLLI 1999, pp. 69-85, 111-127. Di diversa
idea (sistema curtense già maturo nell’VIII secolo almeno
per l’Italia centro-settentrionale): TOUBERT 1983; VIOLAN TE 1953; P ASQUALI 1992.
5. TRASFORMAZIONE
DEI VILLAGGI IN CURTES
Tutti i contesti scavati mostrano, con l’età carolingia, l’inizio di una stagione di rinnovamento
urbanistico legato ad un controllo decisamente
forte sulla popolazione e sul lavoro, ad una nuova
capacità di organizzare la società locale. L’effetto
più evidente fu una sistematica riprogettazione dei
villaggi che si lega all’introduzione dell’organizzazione latifondistica di modello franco.
Il villaggio di Scarlino cambiò quasi del tutto fisionomia fra VIII e IX secolo; venne fortificato e
furono erette due strutture che implicano la probabile presenza di un possessor di età carolingia:
la grande capanna259 e soprattutto la chiesa per la
cui costruzione furono impiegate delle maestranze specializzate esterne e che doveva avere carattere privato260. Questi eventi segnano la costituzione del villaggio in curtis e la parte sommitale,
dotata ora di clausura, sembra rappresentare la
casa dominica. È possibile che il massaricio si dislocasse sui versanti della collina, ma in queste aree
non è stato scavato e non possiamo dare conferme. La presenza di una chiesa estesa 77 mq, con
uno spazio di circa 60 mq utilizzabile escludendo
l’area presbiteriale, quindi in grado di ospitare almeno 120-150 persone (considerando che in 1 mq
potevano raccogliersi almeno 2-3 individui), rappresenta un indizio della probabile popolazione.
Avendo calcolato in 30-40 unità gli abitanti della
zona sommitale, Scarlino doveva avere un massaricio tre volte più popolato e posto a distanza tale
da raggiungere facilmente la chiesa (Fig. 55).
Un fenomeno simile è osservabile a Montarrenti e
Miranduolo. Nel villaggio di Montarrenti la palizzata che cingeva gli spazi di sommità fu sostituita da una cortina muraria ed al suo interno alcune capanne vennero soppiantate da strutture che
attestano il controllo della produzione, la riscossione di quote canonarie, il loro trattamento e
conservazione: un grande granaio, una macina e
un fornetto per essiccare le granaglie.
Le trasformazioni indicano, anche per Montarrenti, la presenza di un possessore in grado di esercitare prerogative di signoria fondiaria, capace di defi259. La struttura è presentata nel capitolo 2, sezione Capanne in armatura di pali a livello del suolo.
260. La fondazione di un oratorio privato tra IX e X secolo,
oltre che per motivi devozionali, era finalizzata all’acquisizione di diritti e privilegi da parte della famiglia del fondatore. Si veda al riguardo VIOLANTE 1977, pp. 673-674; SETTIA 1991, pp. 5-6. Sullo scavo di chiese rurali databili tra VII
e VIII secolo si veda BROGIOLO 2001, pp. 199-204. Si veda
inoltre come esempio recentissimo il caso, un po’ più tardo,
della chiesa del castello fiorentino di Monte di Croce in comune di Pontassieve, una cappella privata signorile d’inizi
XI secolo (CAUSARANO, FRANCOVICH, TRONTI 2003).
100
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nire il nuovo assetto economico del villaggio accentrando beni e strutture di servizio nella parte
alta della collina, cinta ora da mura di pietra. Il
complesso di IX secolo è identificabile come il centro di una curtis cum clausura, un nucleo insediativo e di raccolta, dotato di strutture difensive a controllo della “ricchezza”. I versanti del rilievo e le
capanne qui edificate possono essere invece riconosciute come la zona massaricia dell’azienda.
A Montarrenti il controllo dei beni sembra essere
stato capillare. Per gli animali ad esempio, la distribuzione dei reperti osteologici mostra il persistere di una concentrazione pressoché totale nell’area di sommità: dei 472 frammenti rinvenuti
solo 20, pari ad una percentuale del 2,54%, provengono dalle zone di versante. È possibile che le
ossa fossero in gran parte gettate all’esterno dell’insediamento ma, a parere nostro, questo dato
sembra indicare che nella casa dominica si gestissero quasi interamente i capi presenti nel villaggio; inoltre che solo un numero molto ristretto di
famiglie del massaricio poteva disporne, come la
capanna dell’area 2000 con almeno una vacca (tutte le ossa rinvenute appartengono ad uno stesso
individuo) o quella dell’area 8000 con alcuni maiali ed un piccolo allevamento di animali da cortile. Viene da chiedersi, constatata la rigorosa concentrazione di animali all’interno degli spazi cinti
da mura, se la disponibilità di capi in abitazioni
del massaricio non possa essere collegata alla presenza di liberi, legati a vario titolo al signore, dotati di bestie proprie o fornite contrattualmente261.
I dati esposti lasciano avanzare ipotesi sulla ripartizione delle attività economiche nell’azienda. Il
lavoro dei campi era svolto soprattutto dai massari. La casa dominica funzionava essenzialmente
come centro di raccolta di prodotti agricoli già
semi-lavorati sotto forma di canone (come mostra l’alto grado di ripulitura dei resti archeobotanici), di allevamento finalizzato soprattutto all’alimentazione (il 50% del totale delle ossa è rappresentato da porci macellati in giovane età) ed allo
sfruttamento delle attività casearie e della lana
(37% del totale è rappresentato da caprovini quasi tutti abbattuti in tarda età). Alcuni campi dovevano inoltre essere gestiti direttamente dal dominico attraverso i propri dipendenti, impiegando
dei buoi a tale scopo (presenti in percentuale
dell’11% e destinati alla mensa in età matura).
Anche l’uso dei boschi pare essere riservato al
dominico per il pascolo dei suini e per la caccia:
le uniche attestazioni di selvaggina provengono
ancora dall’area di sommità (Fig. 56).
261. Si veda fra i tanti FUMAGALLI 1976, p. 33 sugli animali
di grossa taglia affidati dal proprietario al livellario.
Miranduolo, nella metà del IX secolo, faceva parte di una signoria fondiaria che promosse la sua
definitiva trasformazione in azienda. I profondi
cambiamenti topografici realizzati sono indizio di
manovalanza da impiegare in un’impegnativa escavazione della roccia. Mostrano per la prima volta
la presenza di una gerarchizzazione elementare,
articolata in una bipolarità fra signore e contadini
dipendenti, che venivano impiegati sia nelle attività rurali sia in opere decise dal signore stesso.
La parte sommitale del rilievo, estesa 750 mq, fu
fortificata tramite una robusta palizzata e probabilmente da un fossato.
Il carattere dell’insediamento, che da aperto si cinge di difese, evidenzia una nuova realtà in cui è
necessario proteggere persone, animali, strumenti e derrate agricole. Il villaggio è divenuto un centro economico distinto fisicamente dal circondario; si trasformò anch’esso, come Montarrenti, in
una curtis cum clausura. La parte sommitale deve
essere letta come una casa dominica di piccola
estensione ed essenzialmente luogo di residenza
del proprietario o di un suo agente e luogo di raccolta. Si caratterizzava come una fattoria composta da pochissime abitazioni (sinora sono state scavate quella padronale ed una capanna in cui si svolgevano attività artigianali), contornate da edifici
per l’accumulo di scorte alimentari. Le considerevoli restituzioni archeobotaniche attestano un’economia agricola tesa a impiegare intensivamente
tutto il territorio di catchment tramite campi seminati a cereali (grano duro, segale, orzo) e legumi (favino e cicerchia), coltivando vite, olivo, peschi e noci, sfruttando le risorse di boschi (castagne e ghiande) e di probabili piantumazioni nel
loro insieme composte da querce, castagni, carpini, eriche, aceri, olmi, frassini e pioppi.
Il ruolo dell’allevamento non è calcolabile essendo lo studio dei reperti archeozoologici ancora in
corso. Ma alcune indicazioni lasciano intravedere
(va però detto che il prosieguo dello scavo confermerà o smentirà) come la casa dominica controllasse anche la gestione degli animali; nei magazzini, infatti, oltre alle derrate destinate all’alimentazione della famiglia dominante, si sono rinvenute ampie quantità di prodotti finalizzati al loro
sostentamento. Il dato sembra confermare quanto osservato per Montarrenti, ed anche per Poggibonsi come si esporrà più avanti, dove la gestione degli animali compare come un’esclusiva del
dominico.
Ugualmente non è stimabile l’ammontare della
popolazione. Se l’ipotesi sulla presenza di capanne
per l’intero mezzo ettaro del rilievo troverà conferma (alcune buche di palo stanno già comparendo sugli spazi a nord ovest del fossato), il villaggio
aveva una notevole entità demografica. Al tempo
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Fig. 56 – Montarrenti (SI): ricostruzione spaccato della zona dominica.
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stesso preciserà l’articolazione del villaggio-azienda in una casa dominica difesa e di piccole dimensioni ed un massaricio molto esteso.
La consistenza della popolazione e del territorio
della curtis, possono essere ipotizzate per il momento attraverso un processo di analisi retroattiva fondata su due supposizioni: coincidenza spaziale fra villaggio altomedievale e castello fondato alla metà del X secolo e coincidenza dei loro
distretti. Il risultato mostra un carico demografico sulle 130-150 persone262 ed un territorio di 16
kmq circa263 (Figg. 57-60).
A Poggibonsi, le strutture d’età carolingia nascono da una nuova ridefinizione urbanistica dell’abitato intorno al grande edificio tipo longhouse. Il
villaggio, anche in questo caso, fu riprogettato
secondo la logica di un controllo forte sugli uomini e sul loro lavoro e su un uso ottimizzato degli spazi. Il costante aumento della frequenza di
bovini a scapito delle altre specie domestiche, accompagnato dalla presenza del grande granaio e
262. Un confronto con Rocca S. Silvestro (Campiglia M.ma
– LI; si veda FRANCOVICH 1991) castello più vicino tra quelli scavati in ampia estensione (80% del complesso), svolto
attraverso calcoli e comparazioni sulle rispettive piattaforme GIS, lascia congetturare l’entità delle strutture abitative e quindi della popolazione. Per Miranduolo possiamo
così immaginare la presenza di 20 abitazioni circa, che attesterebbero un carico demografico intorno alle 100 persone (nucleo familiare medio di 5 unità) che sale intorno
alle 130-150 anime includendo i residenti all’interno del
cassero. Si veda NARDINI , VALENTI 2003.
263. Per dare un aspetto “spaziale” alla rete dei castelli
appartenenti ai Gherardeschi, è stato costruito un modello dimensionale dei loro distretti, ricorrendo all’applicazione dei poligoni di Thiessen intesi come territorio teorico di pertinenza. Per diminuire il rischio di misure falsate, sono stati presi in considerazione tutti i castelli in
vita fra XI e XII secolo compresi nella fascia degli attuali
comuni di Chiusdino, Roccastrada, Montieri, Monticiano, Sovicille, Radicondoli e Casole d’Elsa; la maglia ottenuta mostra una serie di territori con dimensioni variabili
(dai 36 kmq ai 7 kmq). Ai castelli gherardeschi, posti ad
una distanza variabile fra i 3-3,5 Km, si legano distretti
estesi mediamente 21 kmq, che investono tre quarti circa
dell’Alta Val di Merse; definiscono così un progetto di
dominio territoriale attraverso la fondazione di un “gruppo” organico di centri fortificati. Nel caso di Miranduolo, il poligono delimita un territorio di circa 16 Kmq e
racchiude tutte quelle località indicate nelle fonti documentarie di metà XIII secolo come confini del suo comprensorio od in esso inserite. Si veda N ARDINI , V ALENTI
2003. I valori registrati per la Val di Merse trovano sufficiente corrispondenza nella Val d’Elsa. In questo caso la
taratura dei poligoni è stata effettuata considerando le
attestazioni dei territori limitrofi (Castellina, San Gimignano e Monteriggioni per Poggibonsi; Casole, San Gimignano e Monteriggioni per Colle). Il risultato ha materializzato 6 poligoni intorno a Staggia, Talciona, Lecchi,
Marturi, Papaiano e che rivelano un’estensione media di
poco superiore ai 13 kmq (13,47962) ed i seguenti valori
unitari: Staggia = 18,608462 kmq; Talciona = 14,788310
kmq; Lecchi = 13,820152 kmq; Bibbiano = 13,491514
kmq; Papaiano = 14,133508 kmq; Marturi = 6,035817
kmq. Nel complesso i territori ipotetici di dominio del
centro di riferimento mostrano, una rete di grandi aziende che si sono divise più o meno equamente la terra (VA LENTI 1999).
di un magazzino molto articolato interno alla
longhouse, testimoniano l’emergere di un’economia spiccatamente agricola, alla quale sopravvive
solo l’allevamento di caprovini.
Le differenze con il più antico villaggio di età longobarda e con quello di VIII secolo sono sensibili.
Sino dal VII secolo l’economia silvopastorale aveva il ruolo di attività trainante e raggiunse l’apice
agli inizi dell’VIII secolo, incentrandosi soprattutto
sui suini; i decenni successivi mostrano l’affiancarsi di attività agricole e la comparsa di nuove
strutture funzionali ad un loro controllo, poi molto
più stretto con le trasformazioni del villaggio di
IX secolo.
L’area indagata dallo scavo264 è interpretabile
come il centro di un’organizzazione produttiva
di tipo curtense; sembra riconducibile al modello delle curtes di tipo “classico”, divise in parte
domocoltile e massaricia, quest’ultima da collocare sulle superfici sud della collina non ancora
sottoposte a scavo (ipotesi più plausibile) o in
altra zona del territorio circostante. Nel massaricio dovevano svolgersi le stesse attività lavorative attestate nel dominico, cioè agricoltura e
pastorizia specializzata; le quote canonarie venivano raccolte nel grande granaio o, nel caso di
prodotti alimentari in carne, portate direttamente
alla casa dominica265.
La presenza del proprietario in loco sembra accertata dalla stessa centralità della longhouse e dalle
restituzioni di una struttura adiacente. Si tratta di
una piccola capanna con pianta a “T” affacciata
sulla strada in terra, in pratica un’abitazione-magazzino, con reperti che rivelano l’identità del signore: una lancia a foglia, una punta di freccia,
elementi della bardatura di un cavallo. La piccola
capanna era quindi occupata da un diretto dipendente, forse un servo, che custodiva alcuni beni
fra i quali le armi del suo padrone identificabile
in un miles od un exercitalis che traeva sostentamento e profitto dall’azienda affidatagli in beneficio266.
Lo spazio intorno alla capanna dominica fu organizzato come una specie di fattoria dotata di annessi e strutture di servizio; gli animali erano custoditi all’interno del centro e le attività artigianali venivano svolte sotto il diretto controllo del
proprietario. La forgia da ferro e la fornace da
ceramica, disposte poco lontano dalla longhouse,
lasciano intravedere come la fabbricazione di al264. Lo scavo è descritto più in dettaglio nel paragrafo 4.1.
265. Sulla tipologia dei modelli di azienda curtense si veda
soprattutto la sintesi in TOUBERT 1995.
266. Sugli exercitales, i liberi possessori con obblighi di
servizio militare e, in relazione ai beni posseduti, tenuti
anche ad altri servizi come la manutenzione di ponti e strade o la custodia armata dei placiti, si veda TABACCO 1966.
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Figure 57 – Miranduolo (SI): distretto ipotetico del castello tra XI e XII secolo.
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Fig. 58 – Miranduolo (SI): depositi di metà IX secolo.
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Fig. 59 – Miranduolo (SI): depositi di metà X secolo.
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cuni beni necessari alla vita ed al lavoro quotidiano avveniva nella casa dominica e può rappresentare sia una tendenza all’autosufficienza, sia una
produzione di attrezzi destinati per contratto ai
livellari267, sia l’esercizio di una bannalità: i contadini ed i pastori del massaricio potrebbero essersi dovuti approvvigionare presso il centro268.
L’autosufficenza è comunque da interpretare alla
stregua di una limitata dipendenza economica dall’esterno, che non significa totale chiusura e completa autarchia come dimostrano la ceramica a vetrina pesante ed i molti reperti vitrei rinvenuti269
(Fig. 61).
La letteratura storica mette in dubbio la presenza
di strutture funzionali alla produzione di manufatti artigianali, poiché nella maggior parte dei casi
oggetto di canoni e quindi forniti dai massari. Gli
inventari redatti nella seconda metà del IX secolo
nel monastero di Bobbio mostrano la fornitura di
prodotti artigianali da parte dei coloni del massaricio: per esempio la corte di Luliatica nel pavese
era adibita alla produzione ed alla lavorazione del
ferro, altre a fornire il vestimentum cioè l’abbigliamento dei monaci270. Gli inventari di seconda
metà IX-inizi X secolo del monastero di Santa
Giulia di Brescia attestano infatti che circa un quinto dei coloni dipendenti (su un totale di quasi 1000
capifamiglia suddivisi in 80 aziende curtensi) fornivano annualmente censi sottoforma di beni materiali271. Anche se esistono casi in cui si attesta
l’esistenza di laboratori artigianali nella casa
dominica, si precisa comunque che non si trattava di un elemento frequente272. Ancora Fumagalli
sottolinea come gli stessi inventari di Santa Giulia
di Brescia testimoniano raramente l’esistenza di
personale impiegato nel centro della curtis per attività di tipo artigianale: così nella curtis di
267. FUMAGALLI 1976, p. 33 per la pratica del proprietario
di affidare gli attrezzi al livellario.
268. Potevano svolgere attività di tipo artigianale nei laboratori del centro dominico i massari stessi, come prestazione
d’opera; su tali aspetti si veda anche DHONT 1990, pp. 33-36.
269. Sul tema dell’autosufficienza del sistema curtense, non
s’intende il raggiungimento di un’autarchia in una singola
curtis bensì nell’ambito dell’insieme complessivo delle
aziende. Autarchia comunque parziale, ricorrendo al mercato per beni che il “sistema” non produceva. Si veda PASQUALI 1981, in particolare p. 94 che riprende un concetto
già illustrato in LUZZATTO 1910, pp. 73-74. A livello più
generale, con un’enfasi maggiore posta sui centri curtensi
come promotori e organizzatori di scambi e distruggendo
definitivamente il concetto curtis = economia chiusa si
vedano in particolare TOUBERT 1983 e TOUBERT 1988.
270. Si veda FUMAGALLI 1969, pp. 38-49.
271. Sono stati calcolati circa 170 kg di ferro grezzo, attrezzi in metallo (3 falci, 2 forconi, 3 scuri, 1 mannaia, 29
vomeri), oggetti in legno (400 scandolas cioè tegole lignee
per tetto), quantitativi di lana e lino, tele e stoffe grezze. Si
veda FUMAGALLI 1980a.
272. Si veda TOUBERT 1995, pp. 216-218 con bibliografia.
Nuvolera, si tratta di generici manufatti e nella
curtis di Cervinica erano invece prodotte 18 libbre di lana273.
L’archeologia toscana sta però evidenziando l’esistenza di strutture artigianali e la loro collocazione sugli spazi interpretati come centro del
dominico (oltre a Poggibonsi, Scarlino, Montarrenti, forse Rocchette Pannocchieschi). Probabilmente il tipo di organizzazione registrata dai Polittici è relativa soprattutto alla grande proprietà
monastica274, mentre casi di curtes più piccole,
come quelle che sono state scavate in Toscana e
che dovevano essere le più diffuse, articolarono
rapporti e strategie diverse nella produzione di
strumenti ed oggetti, preferendo gestirli direttamente e, come già esposto, rendendoli eventualmente oggetto di bannalità275.
Tornando a Poggibonsi, il centro della curtis risulta articolato nella residenza padronale, in strutture artigianali ed ausiliarie, in abitazioni più piccole che sembrano essere state occupate essenzialmente da prebendari e ministeriales, quindi dai
servi casati e dai dipendenti operanti nel dominico
ed incaricati di presiedere all’amministrazione, al
controllo dell’esecuzione delle corvées ed alla riscossione dei canoni, all’allevamento degli animali,
alla produzione di generi alimentari e di strumenti di lavoro276. In tal senso va letta la presenza e la
gestione delle strutture per la macellazione e per
la lavorazione della carne, per la produzione di
beni e per l’accumulo di derrate e sementi; ed allo
273. Si veda FUMAGALLI 1980a, pp. 26-27.
274. Pasquali, per esempio, ha stimato il patrimonio di Santa Giulia di Brescia, pur tratto da documentazione giunta
incompleta, suddiviso in 93 fra corti e possessi ubicati in
73 località diverse, comprese entro una distanza massima
di 60 km dalla città, con terre coltivate che raggiungevano
quasi 3.000 ettari e boschi per oltre 10.000 ettari. Cifre
non molto distanti dalla dotazione del grande monastero
parigino di Saint Germain-de-Prés (rispettivamente 4.848
ettari e 11.173 ettari). Si veda PASQUALI 1981, pp. 96-97
anche per l’organizzazione spaziale della produzione.
275. Duby sottolinea con chiarezza la natura dei Polittici
altomedievali: «Questi polittici, in verità, proiettano sulla
realtà delle campagne una luce del tutto particolare, che
forse la deforma. Ciò per tre ragioni principali. Anzitutto,
gli inventari non descrivono che le aziende contadine sottoposte all’autorità e al potere economico di un padrone.
Sennonché, ne esistevano certamente altre, indipendenti,
delle quali, in mancanza di fonti, non si conoscerà mai né
il numero, né la collocazione, né la consistenza. D’altra parte, niente prova che i ruoli in cui, nei polittici, sono registrati gli oneri incombenti ai dipendenti abbiano sempre
coinciso con la vera ripartizione del possesso fondiario nell’agro, dato che, per semplificare il lavoro di riscossione,
gli amministratori di signorie responsabili della redazione
degli inventari continuavano a far valere artificiosamente
ruoli vecchi e non più rispondenti alla realtà. Un polittico
infine non è un catasto» (DUBY 1984, pp. 46-47).
276. Si veda PASQUALI 2002, in particolare pp. 76-87, per
approfondimenti sulla figura dei servi nella casa dominica
e l’estesa trattazione in FASOLI 1983. Inoltre LUZZATTO 1910;
PASQUALI 1992; PANERO 1999.
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Fig. 60 – Miranduolo (SI): ricostruzione della casa dominica e sua evoluzione nel X secolo.
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Fig. 61 – Poggibonsi (SI): ricostruzione dell’area del dominico.
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stesso modo devono essere interpretate le informazioni scaturite dall’analisi archeozoologica.
La distribuzione dei reperti osteologici, il loro numero e natura, confermano la presenza di un
dominus, mostrandone alcune prerogative e le scelte effettuate. Egli provvedeva al mantenimento dei
dipendenti operanti nel caput curtis e gestiva il consumo della carne regolandone l’accesso (la differenziazione dei consumi in carne si rivela quindi
un indicatore di gerarchia sociale). Inoltre, il grande quantitativo di reperti osteologici, interpretabile come indizio della specializzazione economica dei dipendenti operanti nel dominico, lascia ipotizzare che i lavori dei campi (la preponderanza
dell’agricoltura nell’economia del villaggio è infatti confermata dalle attestazioni di bovini macellati in età avanzata, nonché dalle strutture di
accumulo) potessero essere svolti in gran parte
tramite corvées.
Il dominico in definitiva fu organizzato come un
centro tendenzialmente autosufficiente e collettore di derrate alimentari, che in parte venivano
prodotte in loco (carne, latte, prodotti caseari,
prodotti agricoli dalle terre in gestione diretta) ed
in parte provenienti dal massaricio. La distribuzione delle specie animali evidenzia come negli
spazi dominici venivano allevati soprattutto caprovini mentre il maiale era legato ad approvvigionamenti esterni. Sono stati infatti rinvenuti
unicamente elementi anatomici che corrispondono alla spalla dell’animale: i suini giungevano quindi nell’insediamento già macellati e come parti
scelte di carne lavorata. Era la corresponsione di
un canone tipo amiscere proveniente dal massaricio, la parte dell’azienda in cui evidentemente venne concentrato l’allevamento dei suini277.
Mangiare la carne diviene poi un fattore discriminatorio; il consumo dei tagli di bue qualitativamente migliori ed in notevoli quantità appare come
una prerogativa degli abitanti della longhouse.
277. Il dato è stato interpretato, in base al concetto di
schleep effect, come evidenza dell’importazione di carne di
suino, ovvero il maiale non era allevato nella parte del villaggio che abbiamo scavato. Trova inoltre riscontri nelle
fonti documentarie di X secolo dell’Italia centro-settentrionale, dove sono riportate le corresponsioni che i livellari,
insediati nei mansi di proprietà di una curtis, dovevano al
dominico (ANDREOLLI 1981; ANDREOLLI, MONTANARI 1983).
In particolare, a partire dal X secolo, in alcune zone d’Italia si diffuse una contribuzione nuova riportata con il termine di amiscere, ad indicare in genere un canone che equivaleva ad una spalla del maiale (oppure sostituibile con alcuni denari). La coincidenza dei dati documentari ed archeozoologici rinforza quindi l’ipotesi del centro curtense
nel quale, a differenza del villaggio di età longobarda, sembra svilupparsi un’economia variegata, dedita in parte all’agricoltura ed in parte all’allevamento dei capriovini e ovviamente dei bovini impiegati come forza lavoro nei campi. Si veda per una chiara esposizione sul significato del
termine amiscere DU CANGE 1954; inoltre ANDREOLLI 1999,
pp. 206-208.
Nella struttura adiacente, la capanna a “T”, si ritrovano, invece, tagli di seconda scelta ed in particolare quelli relativi alla spalla dell’animale, appartenenti a soggetti generalmente anziani. Infine
alle famiglie residenti nelle altre capanne, erano
riservati unicamente gli scarti e nella fattispecie le
estremità degli arti. Oltre alla carne di bue e di
cavallo, era appannaggio quasi esclusivo del proprietario quella di capre e di pecore abbattute tra
il primo ed il secondo anno di vita; i soggetti più
anziani, invece, venivano equamente distribuiti tra
le famiglie del dominico. In altre parole, la famiglia residente nella longhouse mangiava molta carne di prima scelta e di tipo diversificato, i dipendenti più stretti accedevano a tagli di seconda scelta, il resto della popolazione a tagli di terza scelta.
Anche la distribuzione delle spalle di maiale (presenti soprattutto nella longhouse) mostrano un accentramento di tale bene ed una possibile redistribuzione di alcune spalle fra gli stessi dipendenti.
Infine, le caratteristiche mostrate dalla ripartizione della carne all’interno delle strutture indagate,
così come le ipotesi sulla gestione delle terre legate al dominico già presentate, sembrano confermare l’esistenza di una “signoria domestica”, dato
che rinforza ulteriormente l’interpretazione di pars
dominica del complesso sinora scavato a Poggibonsi278.
Lo scavo e lo studio del cimitero legato al villaggio di capanne sottolinea un dato interessante,
tendenzialmente a conferma della presenza di
un’articolazione gerarchica all’interno della popolazione; gli indizi sembrano rilevabili in un nucleo di quattro tombe con copertura in lastre di
travertino inserite al centro di un’area connotata
rigorosamente da tombe a fossa terragna. La particolarità di questo gruppo è rafforzata anche dalla loro collocazione spaziale (una zona ben definita) e dalla presenza di un neonato all’interno di
una piccola cassetta di travertino e deposto ai piedi di un uomo, l’unico sinora rinvenuto.
Il cimitero ci mostra inoltre le caratteristiche dell’abitante del villaggio di Poggibonsi, confermando la presenza di una popolazione impegnata prevalentemente nei lavori agricoli, con un tenore di
vita pressoché uniforme; inesistenti sono le morti
violente e molto rari i traumi.
Il 45% circa degli uomini e delle donne moriva
tra i 25 e i 35 anni di età ed avevano lavorato
278. La particolare forma di signoria che il dominus esercitava sui contadini residenti nella pars dominica o su terreni a
gestione diretta è stata individuata nella letteratura con il termine di “signoria domestica” per effettuare una distinzione
con la signoria fondiaria; questa implica infatti «la superiore
capacità del padrone di controllare e condizionare tutti i lavoratori dipendenti» e che spesso portava a poteri coercitivi
su tutti i coloni (SERGI 1986, p. 379; si vedano inoltre ALBERTONI 1997, pp. 11-115; SERGI 1993, p. 17; VIOLANTE 1991).
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duramente per tutta la loro esistenza come dimostrano le patologie collegate al tipo di attività svolta; erano di costituzione robusta e di alta statura.
Lo studio ergonomico non rivela una netta separazione sessuale del lavoro. Le donne, come gli
uomini, seppure in percentuale inferiore, presentano le ossa molto modellate, con impronte muscolari marcate e con entesopatie, tanto da far supporre che fossero impegnate in lavori altrettanto
pesanti di quelli maschili; avevano quindi un ruolo molto importante nell’economia del villaggio279.
Ambedue i sessi rivelano patologie comuni che
derivano da impegni considerevoli della parte inferiore del corpo. Sono attestate lesioni da sovraccarico (sindesmopatie), soprattutto a livello del
cingolo scapolare, conseguenti ad attività fisicamente molto impegnative, spesso collegate al lavoro dell’aratura (lo sforzo di affondare l’aratro
nel terreno sollecita fortemente il legamento costo-clavicolare). Inoltre gli indici postcraniali, in
particolare dei femori che sono caratterizzati da
pilastrismo e platimeria, indicano una forte sollecitazione dei muscoli impegnati nella marcia.
Uomini e donne si distinguono nettamente, invece, per quanto riguarda una particolare patologia
vertebrale, riscontrata sulle superfici dei corpi delle
vertebre toraciche e lombari: le ernie di Schmorl.
Ben il 55% dei maschi ne risulta affetto, mentre
nessuna delle femmine presenta questa patologia.
È una lesione che si manifesta nella colonna vertebrale se soggetta a sollecitazioni compressive fino
dalla giovane età. Sembra quindi che i maschi, a
differenza delle femmine, fossero avviati precocemente al lavoro ed in età adolescenziale. Alcuni
individui sono affetti da periostite, soprattutto a
livello delle gambe, lesioni alle quali le popolazioni agricole e pastorali risultano particolarmente soggette in quanto, camminando su terreni impervi, sono esposte a microtraumi ripetuti a livello delle creste tibiali.
La famiglia contadina media era rappresentata da
un uomo alto 175,5 cm e da una donna alta 163
cm. Il numero dei figli non è precisabile ma sappiamo che erano avviati al lavoro prima dei 15
anni, contribuendo quindi fin da piccoli all’eco279. Tali caratteristiche sono osservabili a livello degli arti
inferiori dove particolarmente forti sono le impronte del muscolo grande gluteo (70%), dell’ileopsoas (51,61%), del femore e del soleo della tibia (60%); l’entesopatia del tendine
di Achille riguarda poi il 50% dei calcagni osservati. Le inserzioni molto marcate e le entesopatie del grande gluteo
sono conseguenti ad intensi e ripetuti movimenti di rotazione esterna ed estensione della coscia; quelle dell’ileopsoas
indicano ripetuti movimenti di flessione della gamba; il muscolo soleo è flessore plantare del piede. Nell’osso dell’anca, per il 28% dei casi, particolarmente forte è l’area d’inserzione del semimembranoso situata sull’ischio, muscolo che
flette la gamba sulla coscia, imprimendole anche un leggero
movimento di rotazione mediale.
nomia del nucleo. La vita si svolgeva in condizioni ambientali poco salubri causando alle persone
forti dolori artrosici e reumatici.
La popolazione era spesso soggetta a malattie infettive che colpivano soprattutto la superficie delle
ossa, mentre molto rari sembrano essere stati i tumori (due casi di carattere benigno ed un caso di
cisti alla mano). La dieta quotidiana si basava su
cibi non raffinati e carenti di minerali, quali calcio
e ferro; tali deficit portavano in oltre il 40% degli
individui ad anemie benché non gravi. Talvolta
questa patologia, come nel caso della iperostosi porotica, può essere ricondotta anche a parassitosi. I
denti, molto consumati, venivano colpiti da tartaro anche sotto le gengive (causandone la caduta) e
mediamente da circa due carie280.
L’intera famiglia era impegnata in un’attività lavorativa che sollecitava tutto il corpo con una prevalenza nei maschi per la parte inferiore della colonna vertebrale. Il fatto che camminassero molto indica che i campi erano disposti al di fuori
dell’area del villaggio ed in alcuni casi anche ad
una certa distanza. Non si doveva disporre di animali di grossa taglia poiché l’aratro sembra trainato dalle persone. Anche attrezzi e prodotti dei
campi erano trasportati dall’uomo come mostrano il 36% dei radii con impronte muscolari molto
marcate e le entesopatie del bicipite; l’ipertrofia
di queste inserzioni suggerisce un’attività frequente
di sollevamento di pesi e di trasporto di carichi
con gomiti flessi281 (Figg. 62-63).
Considerando nel loro insieme caratteristiche degli spazi insediati, tipi di strutture indagate, presenza significativa degli animali accanto agli uomini, alimentazione e patologie, si osserva inoltre
che le condizioni di vita nel villaggio di Poggibonsi dovevano essere più o meno le stesse sia per gli
individui che sembrano inumati in sepolture di tipo
“privilegiato” sia per la massa della popolazione.
Il confronto incrociato fra le anamnesi delle due
tipologie di scheletri rivela in realtà poche differenze sostanziali. Sia la probabile élite sia i dipendenti vivevano nello stesso ambiente, in case umide per gran parte dell’anno, a contatto continuo
con buoi e caprovini, con un’alimentazione che
pur differenziandosi probabilmente non copriva
con efficacia i bisogni vitaminici e proteici indispensabili per una dieta salutare e per evitare disfunzioni fisiche282.
280. Si veda al riguardo F RANCOVICH , N ARDINI , V ALENTI
2000.
281. Si vedano per tutti i dati illustrati WALKER 1996a e
WALKER 1996b. Inoltre si devono molte delle osservazioni
ad Angelica Vitiello dell’Istituto di Patologia medica dell’Università di Pisa che sta analizzando l’intero cimitero.
282. Lo scheletro 36 e lo scheletro 111 rappresentano rispettivamente un individuo che fa parte del gruppo distinto
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Fig. 62 – Poggibonsi (SI): cimitero altomedievale.
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Fig. 63 – Poggibonsi (SI): abitante medio e patologie riscontrate.
Le reali differenze tra la famiglia detentrice della
curtis ed il resto della popolazione contadina sono
quindi percepibili nell’appartenenza del capofamiglia all’esercito, nella maggiore disponibilità di cibo
e nel decidere la sua distribuzione (non significa
però una migliore e più sana alimentazione), nel
vivere in un edificio circa tre volte più grande degli
all’interno del cimitero ed un individuo ben rappresentativo
della massa e propongono delle carte d’identità fisica che
non differiscono molto. Lo scheletro 36 apparteneva ad un
individuo di sesso maschile, di età compresa fra i 35-45 anni,
un soggetto colpito da artrosi primaria. Le patologie degenerative riconosciute nelle vertebre lombari e cervicali lasciano ipotizzare un’attività che impegnava in modo omogeneo tutta la struttura scheletrica. L’esostosi alla clavicola
sinistra, può ricondursi ad un precoce episodio infiammatorio, occorso prima dei 15 anni; la patologia infatti si manifesta in età puberale, prima che si completi il processo di
ossificazione delle cartilagini. Lo scheletro 111 era un individuo di sesso maschile, di età compresa fra 35-45 anni, in
cattivo stato di salute con numerose patologie a carico dell’apparato scheletrico e di quello articolare. L’attività svolta
e la malnutrizione, causarono un processo degenerativo delle ossa, normalmente sollecitate dai pesanti sforzi, sviluppando forme di artrosi anche agli arti superiori.
altri, nell’avere servi e dipendenti ai quali si doveva provvedere per il sostentamento e che svolgevano mansioni diverse legate all’economia del centro. Gli stimoli creati dalla lettura congiunta dei
dati di Poggibonsi sono indubbiamente affascinanti. Rimandiamo però ogni conclusione più certa ad
un futuro in cui avremo a disposizione molti più
campioni dagli scavi di villaggi altomedievali.
Un esempio di villaggio-azienda diverso dalle curtis
scavate, od in corso di scavo, fra Val di Merse e Valdelsa283, è rappresentato dal contesto indagato a
283. Un ultimo caso interessante che, pubblicato recentemente, è stato presentato come una sorta di villaggio-azienda è a Cosa (Orbetello – GR); città abbandonata che nel
maturo altomedioevo vide la costruzione di nuove strutture
insediative che interessarono una parte dell’antico abitato
urbano. La datazione finale è stata fissata tra la metà del X
secolo e gli inizi dell’XI secolo tenendo conto di due fattori:
l’assenza di un’abbondante cultura materiale e la datazione
più tarda (XI secolo) che potrebbe solo definire la fase di
abbandono (la ceramica datante della cisterna della Casa di
Diana è infatti presente negli strati di riempimento e non di
uso). Se le indicazioni fornite dagli archeologi sono attendibili ci troveremmo di fronte ad un contesto insediativo rura-
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Campiglia Marittima che si propone nel X secolo
come un insediamento uniforme di capanne, con
occupazione specializzata in attività silvo-pastorali
ed in particolare nell’allevamento di maiali. La vocazione economica del centro campigliese è testimoniata dalla presenza di un cospicuo numero di
capi di suino e dalla distribuzione delle età di decesso dell’animale: si nota una prevalenza di soggetti consumati molto giovani (entro il primo anno)
a discapito di una loro migliore resa in carne, che
non trova riscontri in altre zone italiane. Mentre di
minor incidenza, se non quasi insignificante, doveva essere l’attività agricola ad integrazione delle
necessità alimentari del villaggio; è stato rinvenuto
infatti un solo bovino anziano presumibilmente
impiegato nei lavori agricoli284.
Si trattava quindi di un centro abitato da porcari,
che potrebbe essere riconoscibile come componente del massaricio di una curtis, il cui villaggio di
riferimento non è stato individuato ma che non
doveva essere molto distante285 (Fig. 64).
In tal senso, il confronto con Poggibonsi sembra
rivelare la differenza fra un centro dominico ed
un centro del massaricio. Il confronto tiene conto
dei caratteri discordi d’immediata percezione, riguardanti topografia e articolazione delle strutture (a Campiglia sono assenti edifici destinati all’accumulo, le capanne risultano tutte uguali e non
si rileva una gerarchizzazione tra gli abitanti o la
chiara presenza di attività artigianali) e soprattutto della diversa economia.
Nella curtis di Poggibonsi l’agricoltura rappresentava sicuramente l’attività principale interagendo
con pratiche di pastorizia incentrate in particolare sull’allevamento dei capriovini, che risulta invece quasi assente a Campiglia. A Poggibonsi non
era praticato l’allevamento del maiale che arrivava nel villaggio come corresponsione, Campiglia
invece doveva fornire dei prodotti al proprio ed
eventuale centro di riferimento.
Ed è singolare e significativa la coincidenza rilevabile nei due insediamenti fra corresponsioni ricevute e corresponsioni fornite. Contrariamente
al centro domocoltile di Poggibonsi, in quello che
le caratterizzato da difese: un ridotto fortificato in materiale deperibile nella zona alta dell’Eastern Height con una concentrazione di strutture abitative (almeno tre capanne), un
fossato alle sue pendici, altre capanne nella zona del Forum
V con campi ed orti (tracce di sfruttamento agricolo riconosciute sui crolli della Casa di Diana) e sistemi di drenaggio e
raccolta delle acque, altri due fossati con muri di difesa o di
rafforzamento collegati al riuso di preesistenze (si veda
FENTRESS 2003). Viene comunque il dubbio che possa trattarsi di un castello di prima fase non riconosciuto dagli scavatori, in quanto la conformazione urbanistica e la cronologia lasciano aperta questa possibilità.
284. SALVADORI 2004.
285. L’azienda di riferimento di Campiglia non è nota ma
probabilmente da collocare nella Val di Cornia.
pare rivelarsi a Campiglia come un villaggio massaricio i quarti posteriori del maiale (praticamente assenti dalle restituzioni) e forse anche dei capriovini (che sono poco attestati) sembrano (suggestivamente) costituire i canoni che i pastori, insediati nel villaggio, dovevano forse per l’usufrutto delle aree boschive in cui venivano ingrassati i
maiali.
Un ulteriore elemento distintivo tra i due nuclei
di popolamento riguarda la presenza di una gerarchizzazione sociale evidenziata, oltre che dall’urbanistica dei centri, dalla stessa alimentazione. A Poggibonsi il consumo di carne bovina, e
quello d’altri animali di grossa taglia come il cavallo e l’asino o di particolari pennuti da cortile
come l’oca, era riservato esclusivamente alla famiglia residente nella longhouse; mentre la dieta
di carne riscontrata in coincidenza delle adiacenti
capanne (occupate da personale accasato e probabilmente sfamato dal signore stesso) era molto
più limitata, basandosi su consumi il cui accesso
sembra essere stato regolato in base alla posizione
occupata nella gestione e nelle mansioni svolte nel
dominico.
I segni di una gerarchizzazione dei consumi proteici non sono stati invece riscontrati nel villaggio
campigliese. L’analisi quantitativa delle specie presenti, in associazione all’età di decesso ed all’elemento anatomico, non ha rilevato alcun segno
distintivo che possa essere attribuibile a ragioni di
tipo sociale nelle tre strutture rinvenute. Ciò non
significa che le famiglie delle capanne di Poggibonsi mangiassero meglio; anzi, confrontando le
restituzioni degli edifici dei due centri (con l’eccezione della longhouse), la dieta sembra più completa per le famiglie di pastori che vivevano a Campiglia. Significa invece che l’alimentazione, all’interno di un villaggio con presenza signorile, rappresenta uno dei segni principali per confermare
l’esistenza di gerarchia e di controllo e di una strutturazione dei consumi di tipo piramidale.
Campiglia è riconoscibile come una forma insediativa ad economia specializzata e di rottura di
fronte all’incolto, caratteri che molti autori attribuiscono all’insediamento definito come casale286?
286. Il casale ha avuto una serie di definizioni più o meno
coincidenti. Un’unità agricola dispersa impegnata nello sforzo di ridurre a coltura gli spazi intercalari (TOUBERT 1995,
p. 65); più spesso un villaggio, originariamente semplice
unità agraria di nuovo impianto, sviluppatasi in un’insediamento rurale di una certa qual consistenza; può divenire spesso un’azienda agricola autonoma (MIGLIARIO 1988,
p. 56); proponendosi come gruppi di poderi accentrati (PETRACCO S ICARDI 1980, p. 363) privi di dominico (F UMAGALLI
1976, p. 29). Si veda anche CAPITANI 1992, pp. 87-88. È
paragonabile al villaggio tedesco destinato al dissodamento, tipologizzato all’interno del modello Waldhufendorf
(ROSENER 1989). Si veda inoltre per la definizione proposta
nel Lexicon des Mittelalters (F UMAGALLI 1983).
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Il paragone potrebbe essere fatto, non siamo però
in grado di affermarlo con certezza, in quanto l’urbanistica dell’insediamento, l’organizzazione del
lavoro e l’ammontare del popolamento ipotizzati
trovano confronti abbastanza precisi anche in alcuni insediamenti di metà IX secolo della Berardenga, in territorio senese. Si tratta di piccoli centri, dei villaggi-azienda che facevano parte del
patrimonio di un grande proprietario, quel Winigi
già conte di Siena che, pur descritti con grande
precisione (citando persino tutti i nomi dei servi
ceduti e dei dipendenti operanti, nonché il numero degli abitanti), non vengono però definiti in tal
senso287.
Nell’867 vengono citate «res nostra in Casprina
(…) cum casis et hedificiis, cum greges ovium et
greges porcorum et greges armentorum, cum servos
et ancillas, et cum ipsos pastores qui animalia
custodiunt»288, per un totale di 22 abitanti raccolti in 3 nuclei familiari e una specializzazione delle
attività nella pastorizia e nell’allevamento; la citazione degli uomini ceduti mostra l’assenza di coltivatori: il pecorario e il porcario. Nell’881 si descrivono «Canpi, hubi dicitur Fontebona, super flu-
287. Per i Berardenghi si veda lo studio proposto in CAMMAROSANO 1974. Per l’edizione del Cartulario della Berardenga si veda CASANOVA 1927.
288. CARTULARIO DELLA BERADENGA, LIII anno 867.
vio Cogia, pago senese, cum ipsa terra et silva uno
tenente ipsa silva nuncupante Acceptoraria et silva
et terra de Piscina sancta et villa qui nuncupante
Septiminula, ibidem prope ipsa ecclesia cum casis,
terris, vineis, silvis, servis pro servis, aldiis pro
aldiis, liberis pro liberis, omnia et omnibus ad ipsa
villa pertinentes et casa in ipso soprascripto Canpi,
cum servos et ancillas, cum greges porcorum,
greges caprarum, greges iumentorum, greges
armentorum»289. Canpi e Septiminula si estendevano su uno spazio formato da poche abitazioni e
conducevano tipi diversi di attività produttiva.
Septiminula doveva il suo aspetto accentrato alla
contiguità di poderi contadini destinati alla coltivazione dei seminativi e della vite integrando con
le risorse dell’incolto. Canpi pare invece legato a
manovalanza specializzata nell’allevamento e non
c’è traccia di terra coltivata; la conferma viene dallo stesso elenco dei servi ivi residenti: il befulcus
(quattro esempi), il pecorario (due esempi), lo
iumentario (un esempio) divisi in sette nuclei familiari per 28 abitanti. Un ulteriore elemento di
differenziazione si rivela nelle condizioni personali degli individui residenti nei due villaggi; fanno parte del primo uomini con condizioni personali diversificate (servi, semiliberi, liberi), del secondo esclusivamente persone di rango servile.
289. CARTULARIO
DELLA
B ERADENGA , III anno 881.
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Fig. 64 – Campiglia M.ma (LI): ricostruzione dell’insediamento di X secolo.
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