rivista dell`istituto nazionale d`archeologia e storia dell`arte

Transcription

rivista dell`istituto nazionale d`archeologia e storia dell`arte
RI VI STA
DE LL’IS TIT UTO NA ZI ONA L E
D’ARC H E OLOG I A
E S TOR I A DE L L’ARTE
Direttore
Adriano La Regina
Comitato di redazione
Nicola Bonacasa · Andrea Emiliani · Francesco Gandolfo
Pier Giovanni Guzzo · Eugenio La Rocca · Giovanna Nepi Scirè
Bruno Toscano · Fausto Zevi
Redazione
Fausto Zevi · Francesco Gandolfo
Segretario di redazione
Enrico Parlato
«Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte» is a Peer to Peer Reviewed Journal
RIV ISTA
D E L L’ I S T I T UTO NAZ IO NAL E
D ’ A RCHE O LO G IA
E S T O R I A DE L L’ARTE
59
iii serie · anno xxvii · 2004
p i s a · ro m a
fa br izi o se rr a e di to re
mmx
Amministrazione e abbonamenti
Fabrizio Serra editore ®
Casella postale n. 1, succursale n. 8, I 56123 Pisa,
tel. +39 050542332, fax +39 050574888,
[email protected]
I prezzi ufficiali di abbonamento cartaceo e/o Online sono consultabili
presso il sito Internet della casa editrice www.libraweb.net.
Print and/or Online official subscription rates are available
at Publisher’s web-site www.libraweb.net.
Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa,
tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888,
[email protected]
Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma,
tel. +39 06 70493456, fax +39 06 70476605,
[email protected]
Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti,
per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc.,
senza la preventiva autorizzazione scritta dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, Roma
e della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma.
Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.
Proprietà riservata · All rights reserved
© Copyright 2010 by
Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte, Roma and Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma
Stampato in Italia · Printed in Italy
www.libraweb.net
issn 0392-5285
isbn 978-88-6227-201-8
SOMMARIO
Sergio Aiosa, La Casa C dell’insula iv di Tindari: impianto e trasformazioni
Maria Elisa Micheli, Rilievi romani con scene di nascita e ‘presentazione’ divina: assunzioni, resistenze e
metamorfosi di modelli fidiaci e post-fidiaci
Stefania Pinsone, Sant’Urbano alla Caffarella: nuove indagini e scoperte
Francesco Gandolfo, Francesco Perrini e i rapporti tra Abruzzo e Molise ai primi del Trecento
Cristina Quattrini, Bernardino Luini nel secondo decennio del Cinquecento
Fausto Nicolai, La committenza del Cardinale Giovanni Garzia Mellini a Roma: Giovanni da San Giovanni,
Agostino Tassi e Valentin de Boulogne
Piera Ciliberto, Tradizione ed interpretazione letteraria, magia ed etica nelle raffigurazioni di Circe di Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto
Giorgia Pollio, Il Prospetto della piazza del Popolo di Lievin Cruyl della raccolta Lanciani
Stefano Bruni, Cristina Cagianelli, Per una storia delle collezioni di antichità dei Duchi d’Este. Appunti
sul cosiddetto ‘Apollo di Ferrara’: da Alfonso II a Louis XV
Piera Bocci Pacini, Vera Laura Verona, Il “Gabinetto delle miniature” nell’assetto lanziano della Galleria degli Uffizi a Firenze
Anna Maria Riccomini, Artisti neoclassici a Roma: studi dall’antico dalle collezioni Lante, Conti, Varese,
Nari e altre raccolte minori
Michela Scolaro, Linee di fuga e parallele
9
59
99
121
155
199
207
215
223
247
281
299
LA CASA C DELL’INSULA IV DI TINDARI:
IMPIANTO E TRASFORMAZIONI
Sergio Aiosa
a Casa C dell’insula iv di Tindari costituisce uno
degli esempi più rilevanti di architettura domestica della Sicilia ellenistica (Fig. 1). A seguito di una
nostra puntuale indagine del manufatto architettonico,1 seguita alla realizzazione di un nuovo rilievo
(Tavv. i-iv) oltre che fondata sull’analisi stratigrafica
degli elevati,2 siamo in grado di restituire un’immagine assolutamente inedita dell’abitazione e di indicare alcuni confronti con ben più noti esempi di architettura domestica.
In questa sede vogliamo presentare i risultati delle
nostre ricerche relative all’impianto originario della
Casa C, tuttora riconoscibile nonostante le alterazioni che essa ha subito nel corso del tempo, rendendo
conto, al contempo, di tutti i particolari costruttivi,
delle caratteristiche progettuali e della complessa
storia delle sue trasformazioni.
L’esame di un organismo architettonico deve tenere conto anche del contesto nel quale esso è in-
serito. Pertanto, in prima istanza, è utile premettere
alcune considerazioni di carattere generale che riguardano l’intero isolato, benché le nostre osservazioni abbiano condotto spesso alla formulazione di
interrogativi riguardo i quali, stante lo stato delle
ricerche a Tindari, non è sempre possibile prospettare soluzioni.3
1 Il presente studio è frutto dell’elaborazione di parte della mia tesi
sull’architettura domestica di età ellenistica in Sicilia, svolta per il dottorato di ricerca presso l’Università di Messina, e degli approfondimenti condotti durante il post-dottorato presso la stessa Università e
proseguiti presso la Sezione Archeologica del Dipartimento di Beni
Culturali dell’Università di Palermo. Devo alla ben nota liberalità dello
scomparso Luigi Bernabò Brea e di Madeleine Cavalier, l’aver potuto
affrontare lo studio di questa abitazione. Rivolgo un vivo ringraziamento a Giovanna Bacci e Maria Costanza Lentini, allora rispettivamente Soprintendente e Direttore della sezione archeologica della
Soprintendenza di Messina, per avermi concesso le relative autorizzazioni, permettendo e agevolando in ogni modo le mie ricerche a Tindari. La mia gratitudine va anche al personale di custodia dell’area
archeologica di Tindari per la cortese collaborazione. Sono lieto e
onorato che questa mia ricerca sia pubblicata nella medesima prestigiosa sede in cui apparve il corposo studio di Luigi Bernabò Brea sul
Teatro di Tindari, nel segno di una continuità di studi e ricerche dedicati ad uno dei più importanti siti della Sicilia di età ellenistica e romana.
2 Tale analisi non poteva confidare sulla documentazione grafica
esistente. Pertanto, in prima istanza, ci siamo dedicati al rilievo dell’abitazione, restituito in scala 1:50, documentando per la prima volta,
attraverso tre sezioni, anche gli alzati. In questa fase, è stato fondamentale il contributo dell’arch. Rosa Di Liberto, cui si deve anche la
restituzione grafica degli elaborati. I nostri sentiti ringraziamenti
vanno anche all’amico Rossano Zapparrata che ha assunto l’ingrato
ruolo del canneggiatore.
3 Ad esempio, alcune ipotesi circa la configurazione originaria
dell’isolato non possono ricevere conferma dal raffronto con quelli
adiacenti, ancora da indagare (vd., infra, pp. 15 sg. e 34 sgg.).
4 Una descrizione degli «ultimi scavamenti» alle rovine di Tindari
si deve a D. Lo Faso Pietrasanta Duca di Serradifalco, Antichità
di Sicilia esposte ed illustrate, v, Palermo, 1842, p. 52, il quale, dopo
aver illustrato i resti del teatro e della c.d. “Basilica”, della quale rigetta l’identificazione con il ginnasio menzionato da Cicerone, aggiunge: «Esistono inoltre due vasti pavimenti a musaico, il di cui
campo di pietruzze bianche è contornato di meandri gentilmente
colorati di rosso, di giallo e di azzurro. Nulla rimane dell’edificio al
quale si appartenevano, se non un qualche avanzo di piccole mura
laterizie, delle quali non può cavarsi alcun costrutto». Un resoconto
di queste prime indagini è in B. Neutsch, Archäologische Grabungen
und Funde im Bereich der Soprintendenzen von Sizilien (1949-1954), aa,
69, 1954, p. 615.
5 Non mancano scritti anteriori a queste indagini. Una compiuta
raccolta di queste opere a carattere generale nonché una rassegna bibliografica sull’antica Tindari è in L. Bernabò Brea, A. M. Fallico,
Tindari, in eaa , vii, 1966, pp. 865-868.
6 Plin. nat., 2, 206. Per una completa raccolta delle testimonianze
antiche su Tindari si rimanda a K. Ziegler, Tyndaris, in re , viia, 1948,
cc. 1776-1790; S. N. Consolo Langher, Siracusa e la Sicilia greca tra
età arcaica ed alto ellenismo, Messina, 1996, p. 577, nota 2.
7 Ad esempio, Serradifalco, op. cit. a nota 4, p. 52; G. M. Columba, I porti della Sicilia, Roma, 1906, p. 82, nota 4; R. J. A. Wilson,
Towns of Sicily during the Roman Empire, in anrw , 11.1, Berlin-New
York, 1988, p. 436. In questo senso, questi studi poco differiscono da
quanto già annotava T. Fazello, De Rebus Siculis decades duae, Palermo, 1558, trad. it. a cura di R. Fiorentino, Palermo, 1817, rist. anast.,
Catania, 1985, i, pp. 539-543, part. p. 541.
L
I primi scavi archeologici nell’insula iv di Tindari risalgono al 1842, quando veniva alla luce il mosaico
policromo della Casa B.4 In quegli stessi anni venivano pubblicati numerosi studi a carattere prevalentemente storico, basati su una disamina delle fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche.5 In essi una
considerevole attenzione viene riservata alla notizia,
tratta da Plinio, secondo il quale, a seguito di un terremoto, circa la metà della città sarebbe precipitata
in mare,6 nel tentativo di stabilire quanto esagerata
fosse l’affermazione pliniana.7
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 9-58
10
sergio aiosa
Fig. 1. Tindari, Casa C, veduta generale.
Le indagini sull’insula, connesse ad ingenti opere
di restauro, sono riprese ad opera di L. Bernabò Brea
e M. Cavalier i quali, alla fine degli anni ’50, hanno
proceduto al suo scavo sistematico. Gli esiti della loro ricerca sono tuttora inediti, fatta eccezione per
una breve nota, corredata da una planimetria schematica dell’intero isolato8 (Fig. 2). In essa vengono
descritte le parti costitutive dell’insula a partire dalle
sei tabernae che prospettano sul decumano inferiore.
In ciascuna delle tre tabernae a Nord-Est, lungo il muro di fondo, è praticato un passaggio ad un ambiente
posto sul retro. Seguono un’altro grande ambiente
voltato cui si accede dal cardo D, probabilmente un
magazzino, quindi la Casa B e la Casa C – che, non
essendo stato ultimato lo scavo, viene sommariamente descritta – infine, l’impianto termale con i
mosaici.9 Dai risultati di tali indagini, ma non solo,
dipendono i rapidi cenni che all’insula dedica R. J. A.
Wilson.10 Lo studioso propende per una datazione
delle abitazioni al ii sec. a.C., nel quadro di un intenso rinnovamento edilizio che avrebbe interessato la
città sul finire del secolo, testimoniato anche dai resti
pertinenti ad edifici pubblici, tra cui i frammenti
delle due nikai, considerate due statue acroteriali di
età ellenistica, e la scena del teatro, la cui datazione
sarebbe da porre attorno al 100 a.C.11
Per il resto, sono ben pochi i cenni dedicati all’insula iv, sempre presa in considerazione nel suo com-
8 L. Bernabò Brea, M. Cavalier, Tindari. Area urbana. L’insula
iv e le strade che la circondano, BdA, 1965, 3-4, pp. 205-209. La pianta, redatta a scala 1:100, utilizza un criterio misto rappresentativo-ricostruttivo che rende spesso non facile l’interpretazione di singoli particolari. In essa si registra lo stato di fatto, senza che siano segnalate alcune
evidenti modifiche dell’impianto originario.
9 Per il peristilio delle terme e la sua probabile pertinenza ad un
edificio privato si veda R. J. A. Wilson, Sicily under the Roman Empire. The archaeology of a Roman province, 36BC-AD535, Warminster,
1990, p. 91.
10 Wilson, op. cit. a nota 7, pp. 136-143; Wilson, Sicily, op. cit. a nota 9, p. 24 sg., 32, 120-122.
11 Wilson, op. cit. a nota 9, p. 25 e p. 27 e 32 per la datazione delle
case, attribuite al ceto medio-alto della Tindari di ii-i sec. a.C. Sul teatro di Tindari si veda L. Bernabò Brea, Due secoli di scavi e restauri
del teatro greco di Tindari, in riasa , n.s. xiii-xiv, 1964-1965, pp. 99-144.
Per le due statue di Nikai si rimanda a P. Zanker, Zwei Akroterfiguren
aus Tyndaris, in rm , 72, 1965, pp. 93-99. Le sculture, provenienti da un
edificio sconosciuto, si datano al ii-i sec. a.C. Alcune perplessità sulla
funzione delle statue quali elementi acroteriali nonché sulla questione della loro provenienza sono espresse da N. Bonacasa in N. Bonacasa, E. Joly, L’ellenismo e la tradizione ellenistica, in Sikanie. Storia e
civiltà della Sicilia greca (= Antica Madre, viii), Milano, 1985, p. 291 e
part. p. 297, fig. 325.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
Fig. 2. Tindari, insula iv, planimetria generale.
11
12
sergio aiosa
plesso, in rapporto alla scansione urbanistica, più
che per gli esempi di cultura abitativa ellenistico-romana compresi al suo interno.12
Nelle più recenti sintesi storiche, il tentativo di rintracciare nelle emergenze archeologiche un riscontro puntuale alle notizie desunte dalle fonti si fa più
intenso, ma altrettanto poco produttivo.13 Di fatto,
numerose questioni rimangono ancora aperte.
In primo luogo, è da porre in rilievo il problema
insito nella stessa attribuzione ad età timoleontea,
piuttosto che dionigiana, delle strutture messe in luce sotto un ambiente della casa B.14 Tali frustuli murari sono senz’altro insufficienti per ricostruire in
dettaglio l’impianto originario di questi edifici. La
scarsa accuratezza con cui sono costruiti i muri e il
loro stesso esiguo spessore ci inducono a considerarli pertinenti ad un’abitazione privata di qualità piuttosto modesta.
Da questo punto di vista, quindi, Tindari non si discosterebbe dagli altri centri siciliani in cui sono state
identificate unità abitative della seconda metà del iv
sec. a.C. Tuttavia, resta troppo poco per verificare se
le case tindaritane di iv secolo presentino caratteri tipologici analoghi a quelli riscontrati nelle abitazioni
delle altre città siceliote. Si sarà trattato probabilmente di un esiguo numero di ambienti gravitanti
attorno ad un semplice cortile privo di peristilio e di
pastas. Tutt’al più, considerata anche la posizione
lungo il pendio, poteva essere prevista una sopraele-
vazione sul lato meridionale, ovvero quello a monte.
Il muro perimetrale ovest dell’insula iv si sovrappone ad uno dei muri delle strutture attribuite ad età timoleontea,15 mantenendo il medesimo andamento
in senso nord-sud, ma con un evidente cambiamento di tecnica muraria.
Nel caso di Tindari, città fondata da Dionigi I di
Siracusa, le valutazioni espresse a proposito della ‘rinascita’ posta in essere da Timoleonte diventano, naturalmente, più stridenti e, come per altri centri, si
impone una revisione dei reperti, in particolare numismatici, oltre che la conduzione di ricerche mirate
a determinare la consistenza e le caratteristiche della
città dionigiana.16 In atto, qualche elemento si ricava
dallo studio del circuito murario. È stato possibile distinguere una fase dionigiana, quindi coeva alla fondazione, da un successivo intervento agatocleo.17 A
questo primo momento costruttivo sarebbero da attribuire alcuni tratti della cinta urbica contraddistinti
dall’impiego di una tecnica simile a quella punica ‘a
telaio’.18
Per il resto, questa singolare assenza di testimonianze dionigiane dalla città è, in qualche modo, decretata dalle stesse fonti. Secondo Diodoro19 la città
ebbe il nome di Tindari dai Messeni del Peloponneso. Inoltre, dal momento che «È discusso se il nome,
collegato evidentemente al culto dei Dioscuri …
preesistesse alla città»,20 è stata anche considerata
l’ipotesi che questa prendesse il nome da un toponi-
12 Fra i contributi che, a loro volta, dipendono dalla sintesi di R. J.
A. Wilson, senza alcun apporto originale e con valutazioni di insieme
sui caratteri dell’architettura domestica siciliana alquanto discutibili
dal punto di vista storico ed archeologico, menzioniamo Ch. Olegaard Olsen, A. Rathje, Ch. Trier, H. C. Winther, The Roman Domus of the Early Empire: A case study: Sicily, in ActaHyp, 6, 1995 (Ancient
Sicily edited by T. Fischer-Hansen), pp. 245-247. Tra i molti contributi
sull’architettura domestica di età ellenistica pubblicati successivamente alla consegna di questo studio (2004), segnaliamo quelli relativi
a Tindari: G. F. La Torre, Urbanistica e architettura ellenistica a Tindari,
Eraclea Minoa e Finziade: nuovi dati e prospettive di ricerca, in Sicilia ellenistica, consuetudo italica. Alle origini dell’architettura ellenistica d’Occidente, (Spoleto, Complesso monumentale di S. Nicolò, 5-7 novembre
2004), a cura di M. Osanna, M. Torelli, Roma, 2006, pp. 83-95, part. 9092 (per un precedente contributo dello stesso autore, vd., infra, p. 27,
nota 77); U. Spigo, Tindari. Considerazioni sull’impianto urbano e notizie
preliminari sulle recenti campagne di scavo nel settore occidentale, ivi, pp.
97-105. Quest’ultimo tiene conto di una brevissima sintesi del presente
articolo: S. Aiosa, La casa C dell’insula IV di Tindari, in P. Mina (a cura
di), Urbanistica e architettura nella Sicilia greca, Palermo, 2005, p. 158.
13 In un recente studio di insieme sulla Sicilia ellenistica viene, ad
es., trascurato il riferimento all’unico rapporto di scavo relativo all’insula iv, l’unica ad essere stata scavata integralmente (cfr. Consolo
Langher, op. cit. a nota 6, pp. 577-589).
14 Ciò sulla base di rinvenimenti numismatici di età timoleontea,
agatoclea e geroniana (G. V. Gentili, in fa , vii, 1952, n. 2108 che non
menziona monete di età geroniana; Neutsch, op. cit. a nota 4, p. 615).
15 Per le strutture identificate sotto la Casa B si veda anche F. Barreca, Tindari dal 345 al 317 a.C., in Kokalos, iv, 1958, p. 148, nota 7. Lo
studioso fa un generico riferimento ai resti di una strada greca con
lo stesso orientamento di quelle romane. L’esatta ubicazione dei resti di questa strada avrebbe potuto forse costituire un ulteriore elemento per comprendere quali fossero le dimensioni degli isolati di
età greca.
16 La necessità di rivedere le cronologie di numerosi contesti archeologici siciliani precedentemente datati ad età timoleontea è stata
oggetto di un’approfondita riflessione al Congresso Internazionale
dedicato ai due Dionisi: vedi La Sicilia dei due Dionisî, Atti della settimana di studio Agrigento, 24-28 febbraio 1999, a cura di N. Bonacasa,
L. Braccesi, E. De Miro (= Progetto Akragas 2), Roma, 2002.
17 F. Barreca, Tyndaris, in fa , x, 1955, n. 2658; Id., Tindari colonia
dionigiana, in RendLinc, xii, 1957, p. 125-130; Id., op. cit. a nota 15, con
bibl.; Id., Precisazioni circa le mura greche di Tindari, in RendLinc, xiv,
1959, p. 105 ss. Si veda anche, da ultimo, M. Cavalieri, Le fortificazioni
di età ellenistica della Sicilia: il caso di Tyndaris, in SicArch, xxxi, 1998,
96, pp. 185-201.
18 Barreca, op. cit. a nota 15, p. 146 s. e nota 4. Le mura presentano
anche interventi successivi, come attestano monete di Iceta e di Gerone II rinvenute tra il pietrame di riempimento fra i due paramenti
a conci squadrati (Bernabò Brea-Fallico, op. cit. a nota 5, p. 866).
19 Diod. xiv 78, 5-6.
20 Bernabò Brea-Fallico, op. cit. a nota 5, p. 865. Il sito di Tindari
mostra tracce di occupazione a partire dall’età del Bronzo, identificate al di sotto dell’insula iv (L. Bernabò Brea, in fa , vii, 1952, n. 2107).
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
13
mo legato al promontorio, come avvenne per la quauna simile modifica del tracciato viario urbano ha
si contemporanea fondazione di Lilibeo.21 Non
quale conseguenza di ordine pratico la necessità di
manca di sorprendere che Dionigi I, il ‘dinasta’ di Siarretrare i muri perimetrali degli isolati determinanracusa, non fosse direttamente responsabile dell’asdo una modifica, sostanzialmente una riduzione,
segnazione del nome alla città da lui fondata.
delle loro misure generali. Ciò ha anche delle conseA partire da una recente ipotesi, secondo la quale
guenze sulla loro articolazione interna. Infatti, stannella monetazione macedone con i Dioscuri a cavalte il carattere certo di struttura portante di tali muri,
lo sia da cogliere un nesso con l’idea della discendenuna loro eventuale rimozione implica necessariaza regale,22 avanziamo con cautela la possibilità che
mente una nuova configurazione dell’assetto statico
già il nome di Tindari esprimesse lo stesso concetto
degli edifici soggetti a simili contrazioni. Il carattere
e che la monetazione della città supportasse tale
generalizzato che avrebbe assunto il fenomeno
messaggio propagandistico.23
dell’ampliamento delle carreggiate a Tindari preSe l’esiguità delle tracce superstiti non consente
suppone, pertanto, il concorso di un potere forte,
di giungere ad alcuna conclusione circa la tipologia
probabilmente in concomitanza con un cambiamendelle abitazioni, l’ubicazione dei lacerti murari, unito, nel senso di un miglioramento, dello statuto giutamente ad alcune considerazioni sulle conseguenridico della città.25
ze che il nuovo impianto e le sue successive trasforÈ stato giustamente posto in rilievo26 come, oltre
mazioni ebbero sul precedente tessuto urbano,
alla mancanza di norme generali che possano renpermettono di delineare la conformazione generale
derci certi dell’esistenza di piani regolatori o di un
degli isolati che furono obliterati dalle strutture delcomplesso normativo ben definito, una variabile sia
l’insula iv.
costituita dallo specifico ordinamento giuridico dei
Poniamo all’attenzione un problema specifico, posingoli centri e dall’assunto generale secondo il quasto dalla più volte affermata coincidenza fra l’impianle gli interventi pubblici sul tessuto urbano venivato della Tindari greca e quello di età romana, nonono affidati ai magistrati locali solo in seguito ad una
stante il raddoppiamento delle carreggiate stradali.24
lex, in quanto, di norma, di pertinenza dello Stato.
Il riuso della preesistente scansione urbana riAnche in assenza di precisi riscontri, non ci sembra
sponde certamente ad un principio di economia ravproponibile che le molteplici trasformazioni del tesvisabile in molteplici esempi di interventi urbanistici
suto urbano abbiano potuto trovare una serie di sodi età romana su siti fortemente stratificati. Tuttavia,
luzioni pratiche di carattere empirico e che i probledal punto di vista del diritto di proprietà, l’allargami di ordine giuridico siano stati risolti, di volta in
mento delle sedi stradali dei principali assi di percorvolta, a seguito di singoli interventi da parte delrenza genera una restrizione, in termini tanto di spal’amministrazione pubblica sulle varie proprietà prizio quanto di diritto, della proprietà privata. Infatti
vate di cui si costituiva ciascun isolato.
21 Ziegler, op. cit. a nota 6, col. 1777.
22 Ci riferiamo ad un interessante seminario tenuto all’Università
di Messina da M. Caccamo Caltabiano, nell’ambito delle attività didattiche del Dottorato di Ricerca. La studiosa presta attenzione al
nesso che unisce i Dioscuri ai Cabiri. Come tali, essi erano anche protettori dei naviganti. È significativo che a Tindari, città proiettata sulla costa tirrenica, i Dioscuri abbiano questo rilievo. Per il concetto di
“dualità” e il riferimento ai due rami familiari, conseguenti al doppio
matrimonio del tiranno, ribaditi dalle emissioni tindaritane vd. D.
Musti, Tindari. La città dei Gemelli, Sicilia Antiqua, 2, 2005, pp. 141-143.
23 Per alcune emissioni tindaritane, precedentemente datate ad
età timoleontea, è stata proposta una cronologia più alta (Consolo
Langher, op. cit. a nota 6, p. 581). Le monete in bronzo di Tindari con
il tipo dei Dioscuri a cavallo, anch’esse in prima istanza datate all’età
timoleontea (Barreca, op. cit. a nota 15, p. 145 s. e nota 3), recano la
leggenda ÛÔÙÂÚ˜ attributo che sarà poi consueto dei sovrani ellenistici. Una datazione all’età del secondo Dionigi conferirebbe un forte
valore propagandistico a queste emissioni.
24 F. Barreca, in fa , xi, 1956, n. 2878. Le ricerche lungo il decumano i hanno permesso di distinguere quattro diversi livelli databili
dall’età ellenistica all’età «postclassica». Nel i sec. d.C. la larghezza
della strada sarebbe stata portata dai 4÷5 m ai 9 m. Nonostante ciò
Tindari «[…] dovette avere, fin dall’origine, la pianta regolarissima
che già conosciamo per l’età romana […] la città doveva, anche in età
timoleontea, essere attraversata in direzione NO-SE da tre grandi vie
rotabili, intersecate ogni m. 30 da vie minori, orientate da NE a SO,
lunghe m 72. […] L’ampiezza originaria delle strade è tutt’ora incerta,
ma è sicuro che in età timoleontea la strada longitudinale attraversante il settore sud-occidentale della città era più stretta che in età imperiale romana» (Barreca, op. cit. a nota 15, p. 149).
25 La città di Tindari, a parte un brevissimo periodo in cui fu alleata di Gerone II, passò immediatamente dalla parte romana cui rimase
fedele per tutta la durata del conflitto con Cartagine (Diod. xxiii, 5
e 18). Come è noto, i Romani seppero ricompensare tali attestazioni
di fedeltà da parte delle città siciliane. Ricordiamo che Cicerone definisce Tindari «nobilissima civitas» (Cic., ii Verr., iii 43, 103) e che la città
è tra le sei colonie siciliane di età augustea.
26 A. Zaccaria Ruggiu, Spazio privato e spazio pubblico nella città
romana, (= Collefr, 210), Roma, 1995, p. 187 e pp. 191-199, sulle questioni legate all’ambitus. Per i riferimenti alle normative di età romana ci
siamo avvalsi interamente di questo studio.
14
sergio aiosa
L’insula (m 72,40 × 28,30)27 si dispone in senso NESO, lungo un pendio piuttosto ripido, attestandosi
con i lati brevi a due decumani tra i quali è un dislivello di oltre 12 metri. Gli ambienti delle terme che
prospettano sul decumano superiore sporgono rispetto al fronte degli altri isolati. Viene il dubbio che
essi non costituissero il prospetto originario sul decumano, ma che la loro costruzione ne avesse determinato la parziale invasione, dunque costituendo un
fenomeno di segno opposto a quello, precedentemente descritto, che implica una contrazione degli
isolati. La mancanza di un rapporto esatto tra le misure dei lati potrebbe essere dovuta ad una tale alterazione del suo perimetro. Tanto più che il muro che
invade la carreggiata recingeva un cortile scoperto,
forse adibito all’immagazzinamento del legname.28
Oltre al problema del rapporto tra pubblico e privato, si pone quello dei confini tra le proprietà. Come è noto, già le ‘xii tavole’ fissavano una specifica
distanza tra i diversi lotti, da ricavarsi a scapito di entrambi, detta ambitus – termine poi metonimicamente passato ad indicare lo stesso canale tra i singoli corpi di fabbrica degli isolati – con lo specifico
divieto di mantenere muri comuni. Ciò nonostante,
causa la pluristratificazione della quasi totalità dei siti antichi, anche a Tindari, quattro complessi distinti
occupano lo spazio di un intero isolato, avendo in comune i lati brevi interni.
Spesso un evidente segno di demarcazione tra due
proprietà è dato dallo spessore doppio dei muri comuni rispetto a quello degli altri. Nella pianta dell’insula essi sono tutti della stessa misura, fatta eccezione
per quello meridionale del magazzino posto a valle
della casa B. L’articolazione su terrazze dell’intera insula, determinata dal forte dislivello tra il decumano
a monte e quello a valle, invita alla cautela nel valutare in senso giuridico piuttosto che funzionale tale
ispessimento del muro, da intendersi piuttosto come
una delle opere di contenimento del terreno a monte.
Circa il rapporto intercorrente tra la proprietà privata urbana, l’ambitus e le strade pubbliche, preziosa
è la notazione di Vitruvio che ci informa del diritto
dei privati di costruire nello spazio pubblico un muro dello spessore di un sesquipedale (ca. 45 cm).29 Se
ciascuno dei due confinanti, quindi, sottraeva allo
spazio pubblico una misura pari ad un sesquipedale,
la larghezza dell’ambitus veniva ridotta di 90 centimetri circa.
Nel caso specifico dell’insula di Tindari manca
tanto una separazione in senso trasversale quanto il
lungo ambitus longitudinale tipico degli isolati per
strigas di età greca. Ma la presenza di un canale mediano, visibile in pianta nella parte nord dell’isolato,
fa ritenere probabile che esso riprendesse il percorso
di un analogo apprestamento di età ‘timoleontea’,
connesso alle strutture di cui si è trovata traccia sotto
la Casa B. Tanto più che, in corrispondenza di
quest’ultima, dove il grande ambiente a Nord del
peristilio confina con le tabernae, due muri corrono
parallelamente ad una distanza di meno di 1 m. Ciò
fa ipotizzare che, in età ellenistica, ciascuna delle due
abitazioni a peristilio avesse occupato due lotti distinti e affiancati, dove precedentemente erano state realizzate strutture di più modesta entità. Considerato il
notevole dislivello esistente tra il calpestio del cortile
delle terme e quello della Casa C (m 2,50 ca.), rimane
problematico stabilire se l’ambitus proseguisse verso
Sud, attraversando l’intero isolato,30 anche se è probabile che l’insula iv nella sua prima configurazione
dovesse essere simile agli isolati allungati divisi in due
da un lungo ambitus mediano. Essi infatti costituiscono la cellula base di molti impianti urbani isolani.
Una trattazione esaustiva sulle caratteristiche dell’insula dovrebbe comprendere anche la Casa B, del
cui impianto di età ellenistica è tuttavia difficile cogliere tracce significative. Infatti l’abitazione presenta una serie di modifiche nella sua ripartizione interna, ben più sostanziali di quelle riscontrate nella
Casa C. Nonostante ciò, è stato proposto il confronto con la Casa Pappalardo di Morgantina, per la posizione decentrata del peristilio.31 Significativi elementi portano a ritenere che l’originaria sostanza
architettonica della casa sia da porre nel ii sec. a.C.
A tale cronologia è da ricondurre il noto mosaico
27 Riportiamo le misure indicate in Bernabò Brea-Cavalier, op.
cit. a nota 8, p. 205. È da supporre che le misure di m 75 × 30 ca. indicate da R. Wilson, op. cit. a nota 9, p. 165, siano state “scelte” in quanto
rimandano ad un rapporto esplicito di 1:2,5 tra i lati dell’isolato.
28 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 205 e p. 208. Cfr.
Wilson, op. cit. a nota 7, p. 141, fig. 15 per una pianta delle terme
dell’insula iv in cui sono evidenziate graficamente le diverse fasi costruttive, ma nella quale il muro che prospetta sul decumano, quindi
il perimetro complessivo dell’edificio, viene attribuito all’impianto
originario.
29 Vitr. De Archit. ii, 8. Come è stato giustamente rilevato, al
problema dell’occupazione di suolo pubblico da parte dei privati
prestava attenzione anche Platone (Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota
26, p. 106).
30 Così in Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 206.
31 B. Tsakirgis, The Domestic Architecture of Morgantina in the Hellenistic and Roman Periods, diss., Princeton, 1984, p. 481 sg., menziona
entrambe le abitazioni dell’insula iv quali esempi del persistere dei
modi greci anche in età romana.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
15
Fig. 3. Tindari, Casa C, pianta con numerazione degli ambienti (rilievo dell’Autore).
con motivo a ‘cane corrente’ prospettico e soglia con
rosone,32 noto fin dagli scavi del 1842. Che il mosaico
sia legato ad una precedente redazione dell’ambiente è testimoniato dal tompagno, sul quale corre l’intonaco dipinto che decora le pareti, che ne chiude
l’originaria porta d’accesso, in corrispondenza della
quale era appunto la soglia col mosaico policromo.
Il mosaico, a sua volta, si sovrappone ad un precedente livello pavimentale, ma non è noto se la configurazione dell’ambiente fosse quella attuale.
Particolarmente evidente nella Casa B la necessità di postulare l’esistenza di un piano superiore,
in quanto tutti i vani attualmente riconoscibili
sembrano legati a funzioni di rappresentanza e
non si individua la possibilità di delimitare un’area
privata. Ma, soprattutto, il dislivello è talmente forte che il secondo piano della Casa B verrebbe a trovarsi alla stessa quota del pianterreno della adiacente Casa C, posta più a monte e certamente
articolata su due livelli, riducendo le variazioni al-
32 D. Von Boeselager, Antike Mosaiken in Sizilien. Hellenismus
und römische Kaiserzeit. 3 Jahrhundert v. Chr.-3 Jahrhundert n. Chr., Roma, 1983, p. 39-46, tavv. D-E, tav. vii, fig. 12-15, in particolare, p. 46 per
i frammenti di un pavimento più antico in signino con inserti marmorei dall’ambiente 10 che, secondo la studiosa, sono da attribuire alla stessa fase dei frammenti di capitelli in t.c. della casa C e del frammento della decorazione in stucco della Casa B che «[…] dürfte in der
Zeit des I. Stils entstanden sein.» (vd., infra, nota 140). Pertanto, il mosaico di Tindari sarebbe da datare tra la seconda metà del ii e gli inizi
del i sec. a.C. Per una datazione al I sec. a.C. si veda anche U. Spigo,
Tyndaris (Messina), in Sicilia orientale e isole Eolie, a cura di A. M. Bietti
Sestieri, M. C. Lentini, G. Voza (= Guide Archeologiche. Preistoria e protostoria in Italia, 12), Forlì, 1995, pp. 153-169, part. p. 156.
16
sergio aiosa
Fig. 4. Tindari, Casa C, soglia dell’ingresso principale.
timetriche tra un edificio e quello immediatamente
confinante e conferendo all’intera insula un’organicità anche in elevato.
La Casa C (Fig. 3, Tav. i) si inserisce in un lotto rettangolare di m 21 × 28 ca., occupando dunque una superficie
complessiva di m2 588 ca. L’abitazione si compone di diciassette ambienti33 gravitanti attorno ad un peristilio dorico a
due piani. I vani del lato nord sono inframmezzati da corridoi, a loro volta collegati da uno stretto passaggio, suddiviso da ante in più tratti, che costituisce una soluzione di
continuità tra la Casa B e la Casa C.34
Nel dare una descrizione dell’abitazione ci soffermere33 Fatta eccezione per i vani 5, 6, 8, 9 e 12, del tutto o in parte interrati, lo scavo si è arrestato ad una quota appena superiore a quella
dei livelli pavimentali. La mancanza di informazioni sulle caratteristiche tecniche e formali di questi pavimenti riduce la possibilità di riconoscere la funzione specifica dei singoli ambienti.
34 Al fine di permettere una più facile individuazione dei singoli
tratti di corridoio, abbiamo assegnato un numero a ciascuno di essi.
Per comodità di esposizione, con la denominazione di ambiente 19 e
ambiente 21 si sono designati rispettivamente i tratti a Nord dell’ambiente 18 e dell’ambiente 22. Il corridoio 19-21 è stato per la prima volta evidenziato nel nostro rilievo. L’allineamento irregolare dei suoi lati lunghi non permetteva di rilevarne in un’unica soluzione le misure;
esse derivano pertanto dalla somma di misurazioni parziali tra i punti
individuati lungo i muri per la costruzione di poligonali chiuse.
mo più diffusamente solo sugli ambienti che la caratterizzano, limitandoci a descrivere brevemente quelli restanti.
L’ingresso principale dell’attuale vestibolo (1) è marcato
da una grande soglia ricavata da un unico concio (Fig. 4).
L’ambiente (m 4,80 × 3,67)35 comunica con la galleria nord
del peristilio attraverso un vano leggermente disassato rispetto all’ingresso principale. Un accesso nel muro nord,
spostato dalla metà della parete e posto all’estremità ovest
di essa, permette di raggiungere l’ambiente 22 (m 4,60 ×
4,50), accessibile solo dal vestibolo.36 Il peristilio (2) di 3 × 4
colonne si inserisce in una posizione eccentrica tanto all’interno del lotto occupato dalla casa quanto entro l’area della
corte stessa,37 rispetto alla quale è traslato verso Nord di
35 A titolo puramente orientativo, per ciascun ambiente riportiamo la lunghezza di due pareti contigue, benché le misure delle altre
due spesso presentino una differenza considerevole.
36 Le dimensioni dell’ambiente (m 4,60 × 4,58) sono troppo grandi
perché esso potesse costituire la stanza del portiere a fianco del vestibolo d’ingresso. Il vano di accesso, all’estremità del muro divisorio
tra esso e l’ambiente 1 potrebbe far pensare ad uno di quegli andrones
connessi all’ingresso e riservati agli ospiti di cui parla Vitruvio (Vitr.
De Archit. vi 7, 4), ma null’altro, se non la collocazione, legittima una
tale ipotesi.
37 Le misure complessive sono di m 16,79 × 10,58; quelle della corte scoperta m 9,72 × 6,09.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
17
Fig. 5. Tindari, Casa C, peristilio, veduta generale.
circa 1 m (Fig. 5, Tavv. ii-iii). Trascurabili le differenze registrate nelle profondità dei portici est e ovest (massima
differenza 6 cm), ed è da notare il grande risalto conferito
alle gallerie sul lato dell’ingresso e su quello opposto, sul
quale prospetta il grande andron (13).
Se è logico che la galleria più profonda sia quella di fronte all’ambiente 13, considerata la sua importanza, questo
stesso criterio viene contraddetto dal portico settentrionale, in assoluto il più stretto dei quattro,38 benché vi prospettino gli ambienti 16 (il c.d. tablinum) e 18, fra i più grandi dell’intera abitazione. La galleria opposta è di larghezza quasi
corrispondente ad una volta e mezza, pur dando accesso alla serie di piccoli ambienti 6-11, certamente non legati a funzioni di rappresentanza.
Le dieci colonne poggiano su plinti quadrangolari di dimensioni non omogenee39 (Figg. 6-7) e sono costruite in
muratura di mattoni frammentati e legati con abbondante
malta di calce. Solo nel caso della colonna posta all’angolo
nord-est, si nota l’impiego di mattoni anulari40 (Fig. 8).
Una colonna è stata restaurata interamente41 e su di
essa è stato ricollocato un capitello dorico in pietra dal pro-
38 I portici misurano m 1,81 (nord); m 2,78 (sud); m 3,54 (est); m
3,48 (ovest).
39 Essi variano dai cm 60,5 ai cm 98.
40 L’impiego di mattoni anulari sarebbe costante nelle colonne del
peristilio della Casa B (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p.
207). Tuttavia di queste ultime si conservano solo i primi elementi.
41 Si tratta della seconda colonna del lato nord, a partire dall’angolo nord-ovest. Le colonne del peristilio sono state rinvenute in posizione di crollo. I frammenti superstiti hanno consentito di calcolare
approssivamente l’altezza complessiva dei fusti in m 4,95 (Bernabò
Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207). Tuttavia, la misura da noi rilevata è di m 4,45, cioè minore di 50 cm di quella riportata.
Fig. 6. Tindari, Casa C, peristilio, colonna su plinto grande.
18
sergio aiosa
Fig. 7. Tindari, Casa C, peristilio, colonna su plinto piccolo.
Fig. 8. Tindari, Casa C, peristilio, colonna a mattoni anulari.
42 I capitelli, solo grossolanamente sbozzati, erano completati
con uno spesso strato di intonaco di cui rimangono labili tracce.
Pertanto, in merito alla questione cronologica, siamo propensi a non
attribuire eccessivo valore alla curvatura dell’echino, piuttosto accentuata, in quanto la rifinitura a stucco ne alterava sostanzialmente il
profilo.
43 H. complessiva cm 32,5; ∅ cm 52,5; abaco: 73,6 × 72,4 cm; H. 11,2
cm.
filo non troppo rigido42 (Fig. 9); un secondo esemplare,
sul quale ci siamo basati per il rilevamento dettagliato delle misure,43 è attualmente conservato nell’ambiente 13
(Fig. 10). Capitelli di modulo inferiore44 (Fig. 11), il cui diametro appare compatibile con quello dei mattoni circolari
pieni rinvenuti tra gli elementi di crollo del peristilio,45 di
cui restano parecchi campioni, rendono certa l’esistenza di
un secondo ordine colonnato, anch’esso dorico, al piano
superiore.
Le dimensioni e le caratteristiche di tali mattoni inducono a riflettere sull’altezza dell’ordine superiore del peristilio, ma anche sulla conformazione che doveva assumere il
loggiato. L’assenza di un foro centrale, oltre che di qualsiasi
traccia di malta, porterebbe a ritenere che le colonne del
piano superiore non dovessero raggiungere un’altezza
considerevole e che al di sopra di esse dovesse poggiare un
architrave ligneo.
44 I due esemplari superstiti sono delle seguenti misure: H. complessiva cm 19 e 22,3; ∅ cm 35,5 e 35,8; abaco: largh. cm 49 (entrambi);
H. cm 7,3 e 7,5.
45 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207, fig. 24. I quaranta esemplari, trentaquattro dei quali integri, conservati all’interno
dell’ambiente 13 misurano da cm 8,5 a cm 11,3 di altezza e presentano
diametri che variano dai 29 ai 44,7 cm. Nel magazzino ricavato
nell’ambiente sotto l’esedra sono conservati alcuni di questi mattoni
circolari.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
19
Fig. 10. Tindari, Casa C, peristilio,
capitello dorico del primo ordine.
Fig. 9. Tindari, Casa C, peristilio, colonna con capitello.
Fig. 11. Tindari, Casa C, peristilio,
capitello dorico del secondo ordine.
Nella Maison des Comédiens a Delo, piuttosto che essere prevista una chiusura degli intercolunni mediante balaustre addossate alle colonne, queste ultime poggiavano su
un parapetto continuo di una certa altezza.46 Ma riguardo
l’ordine superiore della Casa C di Tindari occorre specificare che uno dei mattoni circolari presenta il diametro, non
trascurabile, di 44,7 cm e, almeno tre esemplari, un diametro di 38,5 cm.47 Applicando lo stesso rapporto tra diametro
e altezza riscontrato per le colonne del pianterreno (oltre
1:8), si giungerebbe ad un’altezza al piano superiore di oltre
3,50 m, non ipotizzabile, considerata la tecnica impiegata
per le colonne.
Nello stesso ambiente 13 si conserva un capitello dorico
frammentario, di misura intermedia.48 Uno spesso strato
di intonaco, del quale si conservano pochi lacerti, era impiegato per rivestire interamente il fusto delle colonne,
senza che vi fossero riprodotte le scanalature.
La totale assenza di elementi architettonici pertinenti
alla trabeazione non sarebbe da imputare a spoliazioni
successive al crollo delle strutture.49 Piuttosto, è senz’altro
46 Per una restituzione del peristilio della Maison des Comédiens
si veda Ph. Bruneau, Délos xxvii . L’Ilot de la Maison des Comédiens,
Paris, 1970, fig. 30.
47 Uno dei dischi presenta un diametro troppo piccolo per essere
pertinente alle colonne del primo piano (29 cm), ma all’interno del
grande capitello corinzio esposto nell’Antiquarium sono inseriti
dischi dal diametro di cm 29,5. Posti all’interno del capitello, essi ne
aumentano la capacità di resistenza a compressione. In ogni caso,
l’esistenza di un architrave ligneo è da postulare anche per l’esedra.
48 H. complessiva cm 17,8; abaco: largh. cm 63,2. La superficie superiore del capitello presenta un incasso centrale, profondo cm 1,5/2
ed ampio cm 53,4, che lo attraversa interamente. L’abaco ha pertanto
due margini rilevati in corrispondenza dei quali la sua altezza è di cm
10,2, mentre nella parte centrale esso è alto cm 7,8. Tale incasso sembra costituire una guida per un elemento orizzontale posto al di sopra
del capitello. Sono troppe le incognite per giungere ad un’ipotesi
attendibile circa la collocazione di quest’ultimo, considerato che non
è neppure certa la sua pertinenza all’abitazione.
49 La rioccupazione dell’area da parte di modeste unità abitative
non avrebbe interessato l’area della Casa C (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 208). Tuttavia, nell’ambiente 12 sono state
identificate modeste strutture murarie che si impostano sul riempimento del vano. Altri muri si rintracciano nel vestibolo 1. Per la rioccupazione dell’isolato si veda anche Wilson, op. cit. a nota 9, p. 185.
20
sergio aiosa
Fig. 12. Tindari, Casa C, ambiente 3, soglia tompagnata dell’ingresso principale originario.
da accogliere l’ipotesi secondo la quale l’architrave dovesse
essere ligneo,50 come si evince chiaramente dalle misure
degli intercolunni. Sui lati lunghi essi misurano m
2,421÷2,452 e sui lati brevi m 2,12÷2,18. A fronte di un diametro medio51 di ca. 60 cm, il rapporto diametro/intercolunnio supera 1:4 sui lati lunghi e 1:3,5 sui lati brevi.52 La corte scoperta è attualmente sistemata a giardino nella parte
centrale, mentre sui margini il pavimento è costituito da
mattoni quadrati e grandi solenes di terracotta, ma non è noto se tale allestimento rifletta la configurazione originaria.
In corrispondenza dell’angolo tra il portico nord e quello est è un gradino sul quale si imposta un breve setto murario mediano che crea due ingressi alla galleria orientale
e, allo stesso tempo, costituisce un diaframma che doveva
consentire di isolarla dal portico settentrionale (Tav. ii).
Un’anta, addossata alla colonna posta all’angolo sud-est del
peristilio, si trova sullo stesso allineamento di un concio
che sporge alla base del muro di prospetto dell’ambiente 6.
Nel portico meridionale è una porzione di un altro muro
di partizione delle gallerie, addossato alla seconda colonna
a partire da Ovest. Tutti gli intercolunni del peristilio sono
chiusi da setti murari che conservano lacerti di uno spesso
rivestimento ad intonaco di qualità scadente. L’accesso alla
corte scoperta avveniva tramite un unico varco lasciato tra
la colonna all’angolo nord-est e quella centrale del portico
orientale.
La preminenza conferita alle gallerie est e ovest assume
un preciso significato se si osservano le caratteristiche
dell’ambiente 3, piuttosto stretto (m 4,85 × 2,25), del quale
colpiscono la peculiare conformazione e la posizione pressoché al centro del lato est dell’abitazione. L’analisi del paramento del muro perimetrale est della Casa C in corri-
50 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. Non sono
noti dati sul rinvenimento di elementi metallici, chiodi e grappe, dagli strati di crollo.
51 Trattandosi di colonne realizzate con frammenti di mattoni di
terracotta, esse presentano una forma non perfettamente circolare.
Complessivamente, il loro diametro di base varia dai cm 58,5 ai cm
61,5 e, in più di un caso, in una stessa colonna si registrano variazioni
di cm 1,5 tra due diametri ortogonali fra loro. La misura più ricorrente è comunque di cm 60.
52 Le misure degli intercolunni sono piuttosto variabili. Riportiamo in dettaglio le singole misure, indicate a partire dalla colonna all’angolo nord-ovest, procedendo in senso orario. Lato nord: m 2,44;
m 2,57; m 2,347. Lato est: m 2,305; m 2,06; Lato sud: m 2,566; m 2,29;
m 2,408. Lato ovest: m 2,07; m 2,175. Nel testo abbiamo riportato la
media dei valori di ciascun lato. Anche a Morgantina, ancorché nella
Casa della cisterna ad arco sia stata rinvenuta parte di una cornice in
calcare che, con prudenza, viene attribuita alla trabeazione del peristilio, per le altre abitazioni si è giunti alla stessa conclusione (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 312).
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
21
Fig. 13. Tindari, Casa C, ambiente 16, anta destra dell’esedra.
spondenza di questo ambiente ha rivelato l’esistenza di due
grandi conci che costituivano una soglia (Fig. 12), segno
questo che, in origine, qui si trovava l’ingresso alla casa,
successivamente spostato nell’adiacente ambiente 1, probabilmente in seguito alla chiusura delle gallerie orientale
e meridionale del peristilio.
L’asse di percorrenza Est-Ovest, determinato dalla posizione dell’ingresso originario, dalla disposizione assiale del
peristilio e ribadito dalla notevole profondità dei portici su
questi due lati, si conclude con l’ambiente 13 (m 5,22 × 8,35),
l’unico accessibile dalla galleria ovest.
Esso attualmente presenta tre ingressi: uno mediano,
più largo (m 1,825), e due alle estremità di misura minore
(rispettivamente m 0,63 quello sud e m 0,627 quello nord).
Tali ingressi sono stati chiaramente aperti a strappo in un
momento successivo, come dimostra la ripresa in mattoni
di terracotta delle ante.
Soluzioni di continuità nella tessitura del muro di prospetto dell’ambiente, particolarmente evidenti nel paramento interno, indurrebbero a pensare ad una sua riparti-
zione originaria in due vani di dimensioni più contenute,
in seguito alterata per creare questo grande andron. Uno
spesso strato di intonaco bianco – non sono visibili tracce
di pittura – rivestiva interamente le pareti.
Sul lato nord, lungo un asse ortogonale a quello principale, si dispone l’ambiente 16 (m 6,98 × 6,32). Esso presenta
una pavimentazione che imita l’opus signinum a copertura
di un moderno solaio latero-cementizio. Dalla peculiare
conformazione dell’ingresso, articolato ad esedra53 con
due colonne comprese fra ante a terminazione semicircolare, è dipesa la sua identificazione quale tablinum.54 Le due
ante non sono realizzate con la stessa tecnica. L’anta destra
presenta – unico caso in tutta l’abitazione – dei conci di notevoli dimensioni e grossi mattoni in terracotta rettangolari con un’estremità semicircolare55 (Fig. 13). Di quella sinistra si conservava solo la traccia e la parte visibile è
interamente di restauro.
Dal punto di vista costruttivo e, per così dire, formale, le
due colonne sono del tutto identiche – a parte l’altezza – alla maggior parte di quelle del peristilio. Come queste ulti-
53 Usiamo il termine esedra nell’accezione ‘convenzionale’ (S.
Settis, “Esedra” e “ninfeo” nella terminologia architettonica del mondo romano. Dall’età repubblicana alla tarda antichità, in anrw , 4.1 BerlinNew York, 1973, p. 662 sgg.).
54 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207 e fig. 19. Sulla
pertinenza di tale denominazione vedi, infra, pp. 49-53.
55 I mattoni misurano cm 28,3 × 56,6 × 9,7, si noti il rapporto di 1:2
tra i lati.
22
sergio aiosa
Fig. 15. Tindari, Antiquarium,
capitello corinzio in terracotta della Casa C, particolare.
me, esse si impostano direttamente su plinti quadrangolari, raccordati fra loro da un allineamento di conci che costituiscono uno stilobate assai irregolare.
Le colonne, secondo una delle ricostruzioni proposte,56
reggevano grandi capitelli siculo-corinzi in terracotta57 dei
quali, oltre ad alcuni frammenti, si conserva un unico
esemplare integro, alto ca. 90 cm., esposto nell’Antiquarium di Tindari (Fig. 14).
Esso è ritenuto uno degli elementi di datazione dell’impianto originario della Casa C. Ma circa la cronologia di
questo straordinario manufatto non vi è accordo fra gli
studiosi. Prescindendo da un primo inquadramento cronologico al i sec. a.C.,58 altri propende per una datazione
al ii sec. a.C.59 Una più serrata analisi si deve ad H. Lauter-Bufe, secondo la quale l’esemplare di Tindari, per il
forte sviluppo verticale e la conformazione dell’abaco, fa
parte di quel gruppo dei capitelli c.d. ‘siculo-corinzi’ che
dipende tipologicamente dai capitelli della tholos di Epidauro e sarebbe da porre ancora nella prima metà del iii
sec. a.C. Fra gli elementi che la inducono a proporre simile cronologia vi è il motivo vegetale che ne decora la parte
inferiore60 (Fig. 15).
56 È stato sollevato un problema circa l’effettiva pertinenza del capitello in terracotta alla Casa C che nell’allestimento decorativo non
mostra ulteriori caratteri di lusso. Alcuni frammenti di un capitello
del tutto analogo all’esemplare integro furono rinvenuti, a quanto
sembra, nel 1842 (H. Lauter-Bufe, Die Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitells. Der sogenannte italisch-repubilikanische Typus,
Mainz am Rhein, 1987, p. 17). È da tenere presente che già dalle prime
campagne di scavo dell’insula iv, che portarono alla scoperta del mosaico della Casa B, fu in parte sterrata anche la Casa C il cui scavo regolare fu intrapreso a partire dal 1960 (Bernabò Brea-Cavalier, op.
cit. a nota 8, p. 207). La questione della pertinenza dei capitelli corinzi
alla Casa B sulla base della data del rinvenimento non è dunque dirimente (cfr. E. C. Portale, I mosaici nell’apparato decorativo delle case
ellenistiche siciliane, in aiscom iv . Atti del iv Colloquio dell’Associazione
Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico (Palermo, 9-13 dicembre 1996), a cura di R. M. Carra Bonacasa, F. Guidobaldi, Ravenna,
1997, pp. 85-106, part. p. 95 nota 35).
57 I capitelli corinzi avrebbero dunque poggiato su colonne prive
di base.
58 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207.
59 Wilson, op. cit. a nota 9, p. 120 ss., fig. 13b. La Casa C sarebbe una
testimonianza tangibile della fioritura di Tindari in questo periodo,
fioritura che interessa altri centri come Solunto. La datazione tiene
conto della cronologia proposta per i mosaici della Casa B. Il capitello
sarebbe da datare allo stesso periodo del pavimento rinvenuto al di
sotto del mosaico ellenistico della Casa B (Von Boeselager, loc. cit. a
nota 32). Le peculiarità del capitello, a partire dalle sue dimensioni eccezionali, non fanno escludere che esso sia stato reimpiegato nell’abitazione. La successione di più mani di colore, indizio di un periodo
d’uso piuttosto prolungato, non permette di dirimere la questione.
60 Lauter-Bufe, op. cit. a nota 56, pp. 17 sgg., 71 sgg. I capitelli della
tholos di Epidauro, ma aggiungeremmo anche quelli del propylon
nord, hanno dei successori anche in alcuni capitelli di Alessandria (G.
Roux, L’Architecture de l’Argolide aux iv e et iii e Siècles av. J.-C., Paris,
1962, p. 379. Per un esemplare in basalto realizzato in due metà sovrapposte datato fra il iii ed il i sec. a.C. si veda A. Adriani, Repertorio d’arte dell’Egitto Greco-Romano, ser. c, i-ii, Palermo, 1966, p. 78, tav. 19, fig.
68 n. 35; P. Pensabene, Elementi architettonici di Alessandria e di altri siti
egiziani. Repertorio d’arte dell’Egitto Greco-Romano, ser. c, iii, Roma,
1993, p. 111 e pp. 115-120). A sostegno della cronologia del capitello tin-
Fig. 14. Tindari, Antiquarium,
capitello corinzio in terracotta della Casa C.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
23
Dal nostro punto di vista, sarebbe metodologicamente
improprio estendere la cronologia del capitello a tutta
l’abitazione. Inoltre, le ante dell’esedra sono realizzate in
parte in muratura di mattoni e, come si è detto, altrettanto
in mattoni sono ricucite le ante degli ingressi laterali all’andron 13. La trasformazione di quest’ultimo ambiente e la
creazione dell’esedra sembrano, dunque, rispondere alla
volontà di monumentalizzare l’abitazione facendo ricorso
ad una tecnica muraria, contraddistinta dall’impiego di elementi di terracotta,61 che, per certi aspetti, non sembra potersi ascrivere alla fase originaria.62 Ma, soprattutto, si pone la questione delle notevoli dimensioni e della stessa
qualità del capitello – di gran lunga superiori a quelle di
analoghi esemplari nello stesso materiale provenienti da
abitazioni private, come i capitelli in terracotta rinvenuti a
Morgantina, anch’essi impiegati con la medesima collocazione63 – le quali potrebbero suggerire anche una provenienza da un altro edificio, verosimilmente pubblico, e un
suo reimpiego nell’abitazione.64
La collocazione dei capitelli corinzi sulle colonne dell’esedra pone alcune difficoltà di ordine costruttivo cui è il
caso di accennare. L’altezza massima del fusto della colonna più alta è di 4,52 m. A ciò si aggiunge l’altezza del capi-
tello corinzio (89,2 cm). Pertanto, l’altezza complessiva delle due colonne sarebbe di almeno m 5,41 ca. In questo caso,
le colonne dell’esedra, complete di capitello, sarebbero più
alte di quelle del portico. Il dislivello di ca. 1 m tra le quote
superiori degli abaci crea difficoltà per l’impostazione di
una copertura orizzontale delle gallerie. Esso non può essere compensato dalla sola altezza dell’architrave del peristilio. Il problema non sussisterebbe se la trabeazione del
peristilio fosse completa di architrave, fregio e cornice, ma
nessun elemento permette di ipotizzarne l’esistenza.65 Risulta difficile pervenire ad una soluzione, a meno che il peristilio non si sviluppasse completamente su due piani, ma
tale ipotesi sembrerebbe da escludere.66
L’esedra comunica con il solo ambiente 14 (m 5,18 ×
3,435), altrimenti non accessibile.67 Il muro di fondo della
galleria ovest del peristilio, nella parte corrispondente a tale
ambiente, mostra un vistoso cambiamento di tecnica. Ciò
ci induce a sostenere che, in origine, vi fosse un vano accessibile dalla corte, tompagnato in seguito. Non si può fare
alcuna valutazione sugli ipotetici ingressi segnati nei muri
laterali dell’esedra sulla pianta pubblicata da L. Bernabò
Brea, in quanto essi sono interamente di restauro. Gli accessi laterali non avrebbero dato luogo al noto schema del-
daritano, H. Lauter Bufe propone il confronto con i vasi di Centuripe,
sulle cui cronologia e fonti d’ispirazione tuttavia ancora molto si discute. Per una datazione al primo trentennio del iii sec. a.C. si veda U.
Wintermeyer, Die polychrome Relief keramik aus Centuripe, in JdI, xc,
1975, p. 136-241; P. W. Deussen, The polychromatic ceramics of Centuripe,
Ann Arbor, 1988; per una datazione più bassa si veda, ad esempio, W.
Von Sydow, Die hellenistische Gebälke in Sizilien, in rm , 91,2, 1984, p.
272. La produzione dei vasi centuripini è stata considerata un ulteriore
esito di quella liparese facente capo al Pittore di Lipari. Pertanto, il 251
a.C. – anno della distruzione romana di Lipari – viene considerato un
terminus post quem per questa classe ceramica (E. Joly, Teorie vecchie e
nuove sulla ceramica di Centuripe, in ºÈÏ›·˜ X¿ÚÈÓ. Miscellanea di studi
classici in onore di Eugenio Manni, iv, pp. 1241-1254, passim; Ead., La ceramica: botteghe e Maestri della Sicilia ellenistica, in Bonacasa - Joly, op.
cit. a nota 11, p. 350 sg. Un parziale aggiornamento bibliografico è in F.
Giudice, s.v. Centuripini vasi, in eaa ii Suppl., ii, 1994, p. 100 sg. Riteniamo che, a prescindere dalla datazione dell’inizio della produzione
centurpina, il girale alla base del capitello tindaritano sia necessariamente trattato più schematicamente, sia in considerazione della sua
collocazione in un’area particolarmente esposta, sia per la diversa tecnica con cui è realizzato. Il richiamo ai vasi di Centuripe è certamente
lecito, ma bisogna tenere in considerazione la specificità del manufatto. Circa la stessa terminologia adottata da H. Lauter-Bufe per questa
classe di capitelli sono state espresse alcune riserve, considerata l’ampia diffusione del tipo. Altre osservazioni mettono in rilievo la difficoltà di basarsi su criteri stilistici, postulando uno sviluppo secondo modalità uniformi nelle diverse regioni in cui ne è attestata la presenza
(vedi la recensione a Lauter-Bufe, op. cit. di P. Gros, in ra , 1989, 2,
p. 418 sg.; e di M. Pfanner, in Gnomon, 61, 5, 1989, pp. 425-430). Per
quanto riguarda i capitelli siciliani, gli esemplari di Siracusa e di Gela
sono considerati i capostipiti della serie; se ciò è probabile dal punto
di vista dei caratteri stilistici, è da sottolineare la difficoltà a istituire
capisaldi cronologici inoppugnabili, considerato che, in particolare, la
cronologia dell’abitazione gelese, da cui proviene uno dei due capitelli, è lungi dal trovare concordi tutti gli studiosi.
cm; lungh. max 30,4 cm; H. 5,3 cm), sulla cui pertinenza all’abitazione
e, quindi, sulla cui collocazione si possono solo fare alcune congetture. Esso avrebbe potuto trovarsi su una delle ante dell’esedra del piano
superiore, ammettendo che qui vi fosse un’esatta iterazione della
scansione interna del pianterreno, pur con una riduzione di modulo
ma, evidentemente, nessun dato può suffragare una simile ipotesi.
62 La questione della pertinenza dell’ingresso monumentale dell’esedra alla stessa fase dell’impianto della casa a peristilio non è di facile soluzione e verrà affrontata più avanti (vd., infra, pp. 34-36).
63 Tra i frammenti architettonici rinvenuti all’interno della Casa
del Magistrato, vi sono un capitello corinzio di terracotta pressoché
integro ed un frammento relativo ad un secondo esemplare. Le dimensioni del capitello si aggirano attorno ai 41 cm di altezza per un
diametro di 38 cm. Secondo Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 212 sg., i
frammenti di volute, pertinenti a capitelli corinzi in terracotta, meno
probabilmente ionici, potrebbero appartenere tanto alle due colonne
dell’ambiente 2, quanto ai portici a squadra del cortile, alle cui estremità erano brevi ante, mentre all’angolo era forse un pilastro.
64 La datazione del capitello tindaritano al iii sec. a.C. sarebbe invece da condividere e da estendere all’intera abitazione (H. Lauter,
Die Architektur des Hellenismus, Darmstadt, 1986, pp. 149 e 269). Lauter-Bufe, op. cit. a nota 56, p. 19 sg. e nota 40, distingue la cronologia
del capitello da quella della Casa C, da porsi nel ii o i sec. a.C., pertanto avanza l’ipotesi di un reimpiego del capitello, originariamente
destinato all’abitazione precedente o ad altro edificio.
65 È da rilevare che il problema sussiste anche postulando che vi
sia stato un errore nella ricostruzione delle colonne, a meno di non
immaginare che quelle del peristilio fossero considerevolmente più
alte.
66 «Tutta la casa doveva avere, al di sopra del piano terreno conservato, un primo piano» (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8,
p. 207).
67 Anche questo ambiente è parzialmente interrato. Al suo interno si trovano accumulati elementi di crollo, probabilmente pertinenti al piano superiore, tra cui frammenti di una pavimentazione in cocciopesto decorata a scaglie irregolari. Un riferimento a resti di
pavimenti del piano superiore rinvenuti nello strato di crollo è in Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207.
61 Tra gli altri elementi in terracotta è da segnalare un capitello dorico di pilastro, assai piccolo (H. 10,8 cm; ∅ 32,5 cm; abaco: largh. 36,4
24
sergio aiosa
la suite di tre ambienti – caratteristico delle architetture reali macedoni e pergamene, ma ben attestato nelle abitazioni
private siciliane68 – ma avrebbero assolto solo la funzione
di passaggi funzionali, il primo di essi, al raggiungimento
dell’ambiente 15 (m 5,05 × 4,69 ca.),69 per il quale una comunicazione con l’esedra si rende necessaria,70 considerata la sua posizione angolare e che nessuna traccia di un vano si nota lungo il paramento del muro che lo separa
dall’ambiente 14. L’altro, dal lato opposto, avrebbe consentito l’accesso alla serie di corridoi che caratterizzano il lato
nord dell‘abitazione, benché l’ipotesi di passaggio diretto
dall’esedra al corridoio-ambitus (17) posto immediatamente
ad Est sembra poco probabile, soprattutto se a questo tratto del corridoio si attribuisce la funzione di latrina71 (Tav.
iii). La sua parte meridionale appare interrata e delimitata
da un muro di contenimento realizzato in tecnica visibilmente diversa, non riportato nella planimetria generale.72
Al corridoio, per il quale è da escludere una comunicazione
con la galleria settentrionale del peristilio, si accedeva dall’ambiente 18 (m 5,28 × 4,38),73 il cui muro di fondo presenta un ispessimento in corrispondenza dell’estremità ovest,
con tutta probabilità un consolidamento dell’angolo in
prossimità del dislivello creato dall’ambitus.
Tutti gli ambienti disposti lungo il fronte meridionale
dell’abitazione (5-12) si trovano su un piano più alto di m
0,35 ca. rispetto alla quota pavimentale della galleria sud
(Tav. iv).
Data la sua posizione angolare, l’ambiente 5 (m 4,77 ×
2,935) non poteva essere dotato di un ingresso autonomo
dal peristilio. Esso era dunque raggiungibile dall’ambiente
4 (m 4,795 × 3,765), posto subito a Sud del vestibolo originario e dotato di un ingresso, spostato dal medio della parete,
che si affaccia sulla galleria orientale, probabilmente proprio per consentire un immediato raggiungimento dell’ambiente d’angolo. Per tale ragione, non riteniamo che si
possa prescindere dalla funzionalità della posizione dell’ingresso e attribuire uno specifico valore a questo nesso fra i
due ambienti, in quanto non ci sembra che essi riproducano planimetricamente uno schema significativo nei termini della riconoscibilità della funzione, in base al quale condurre specifici confronti.
L’ambiente 6 (m 2,93 × 2,915) è accessibile dalla galleria
sud del peristilio. La posizione dell’ingresso, del tutto
spostato su un lato, non essendo vincolata, come nel caso
precedente, dall’ubicazione dell’ambiente rispetto all’impianto complessivo della casa, dovrà intendersi come determinata dalla funzione. Come è noto, gli ingressi decentrati sono considerati un indizio per riconoscere gli
ambienti in cui erano le klinai.74 Tenuto conto delle dimensioni contenute dell’ambiente e, soprattutto, dell’iterazione dello stesso schema in quelli contigui, non si tratta certo
di un andron. Proponiamo dunque di riconoscere nella serie di ambienti del lato sud i cubicula. Tale interpretazione
risulta, a nostro parere, avvalorata anche dall’isolamento
delle gallerie est e sud del peristilio, cui abbiamo già fatto
riferimento, che conferiva indubbiamente un carattere privato a questa parte dell’abitazione.
Un cenno particolare merita l’ambiente 7 (m 3,165 × 2,71),
l’unico della casa il cui piano pavimentale è stato posto in
luce. Si tratta di un pavimento in opus signinum di qualità
68 Per le suites di tre ambienti di Monte Iato si veda H. P. Isler,
Monte Iato. L’abitato di epoca ellenistica, in Atti delle giornate di studio sul
tema Wohnbauforshung in Zentral- und Westsizilien (Zürich, 28. Februar3. März 1996), a cura di H. P. Isler, D. Käch, Zürich, 1997, p. 33, con bibl.
Il confronto tra le attestazioni di Monte Iato e gli esempi, aulici e non,
del mondo greco è condotto in K. Dalcher, Das Peristylhaus 1 von Iaitas: Architektur und Baugeschichte, in H. P. Isler (a cura di), Studia Ietina
vi , Universität Zürich, Archäologisches Institut, Zürich, 1994, pp. 129-150.
A Morgantina la suite è attestata nella Casa del Capitello dorico, nella
Casa della cisterna ad arco e nella Casa di Sudovest (Tsakirgis, op. cit.
a nota 31, pp. 390-392). Non convincente il riconoscimento di una suite
di tre ambienti negli ambienti 16-18 della Casa di Ganimede a Morgantina: cfr. U. Wulf, Die Stadtgrabung. Teil 3. Die hellenistischen und
römischen Wohnhäuser von Pergamon. Unter besonderer Berücksichtigung
der Anlagen zwischen der Mittel- und der Ostgasse (= AvP xv,3), BerlinNew York, 1990, p. 180 e nota 871. Per la recente identificazione di un
altro esempio di suite nel c.d. ‘Ginnasio’ di Solunto si veda M. Wolf,
Das Ginnasio in Solunt, in Bericht über die 39. Tagung für Ausgrabungswissenschaft und Bauforschung der Koldewy-Gesellschaft in Leiden (Leiden, 1519 Mai 1996), Bonn, 1998, pp. 51-57; Id., Die Häuser von Solunt und die
hellenistische Wohnarchitektur (= Sonderschriften Deutsches Archäologisches Institut Rom, 14), Mainz am Rhein, 2003, pp. 16 sg., 26-29, fig. 5.
69 Considerate le caratteristiche del vano, non definito esattamente da muri di pertinenza dell’abitazione, abbiamo riportato solo misure orientative.
70 Il restauro del muro divisorio con l’esedra trascura la necessità
di dotare l’ambiente 15 di un accesso dall’esterno. Esso è tuttavia riportato sulla planimetria edita. Ad una quota di molto inferiore l’ambiente è accessibile da un vano della casa B e presenta lungo le quat-
tro pareti una fodera muraria di notevole spessore che doveva fungere da contrafforte per contenere le spinte del terreno in declivio e, al
contempo, essere funzionale all’appoggio di un solaio il cui calpestio
risulta infatti compatibile con quello degli ambienti adiacenti. La stessa fodera appare realizzata in tempi diversi. In particolare, i tratti disposti in senso nord-sud, non ammorsati e conservatisi ad una quota
considerevolmente più bassa, appaiono essere ulteriori opere di consolidamento dei muri perimetrali dell’ambiente.
71 Cfr. Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. Ci sembra che una simile ipotesi, basata sulla presenza del canale mediano,
non tenga in considerazione la logica distributiva degli ambienti. Nella Casa C i servizi e gli ambienti di rappresentanza sarebbero posti
immediatamente a contatto, senza nessuna separazione.
72 Il muro, che non si ammorsa a nessuna altra struttura, potrebbe
essere stato approntato durante i lavori di restauro per contenere la
terra della parte meridionale del corridoio, non scavata.
73 Come sembra suggerire la planimetria edita, l’accesso all’ambiente 18 è stato successivamente ristretto con l’apprestamento di un
tompagno che avrebbe inglobato una colonna, della quale non rimane alcuna traccia. In pianta è riportato un vano che avrebbe messo in
comunicazione l’ambiente con il corridoio 20 (m 1,57 × 5,19), posto
immediatamente ad Est. Prescindendo dal problema della notevole
differenza di livello tra i rispettivi piani di calpestio (il corridoio, il cui
scavo non è ultimato, si trova ad una quota più bassa di almeno cm
80), il restauro ha cancellato del tutto le tracce di questo ingresso. Il
piano di calpestio dell’ambiente è sottomesso anche rispetto a quello
della galleria settentrionale del peristilio.
74 G. Roux, Salles de Banquets à Délos, in bch , Suppl. i, 1973, pp. 544546.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
25
Fig. 16. Tindari, Casa C, ambiente 7, pavimento in opus signinum.
piuttosto scadente, decorato da due file parallele di tessere
bianche, allineate per i vertici, che corrono ad angolo retto
lungo la parete d’ingresso e quella est, ad una distanza di cm
45 ca. da esse (Fig. 16). L’area centrale è stata impreziosita,
probabilmente in un secondo momento, con inserti in brecce e marmi policromi, quadrangolari e a losanga alternati,
di cui restano per lo più le impronte, secondo una tecnica e
un disegno attestati anche a Solunto75 e che, in generale,
trova confronti con pavimenti di ii-i sec. a.C.
La zona riquadrata dalle file di tessere doveva essere
quella in cui era disposto il letto. La posizione della porta
non è dunque coerente con la disposizione del motivo, in
quanto l’accesso all’ambiente si troverebbe di fronte al letto. Ma tale incongruenza ha trovato una spiegazione in seguito all’esame del rapporto tra le strutture murarie e il pavimento. Esso continua al di sotto del muro ovest, per altro
non ammorsato a quello di fondo e realizzato con una tecnica muraria del tutto differente da quella utilizzata per le
restanti tre pareti che delimitano il vano.
Il muro divisorio tra l’ambiente 7 e il successivo è stato,
dunque, aggiunto in seguito, costituendo la ripartizione di
un vano più ampio. Pertanto, la posizione pressoché mediana rispetto al lato sud della casa dell’ambiente 8 (m 3,125
× 2,65), così come il suo ingresso centrale,76 risultano determinate da tali rimaneggiamenti.
Un’analoga suddivisione ha interessato gli ambienti 9-11,
immediatamente ad Ovest. Come si deduce chiaramente
dalla planimetria generale (Tav. i), il fronte dello stretto
ambiente 9 (m 0,91 × 3,11) e di quelli che seguono non prosegue sul medesimo allineamento del muro di prospetto di
quelli precedentemente descritti (ambienti 5-8), ma è decisamente in aggetto. Tale differenza si coglie tra le stesse
due ante dell’ambiente che si trovano su piani diversi, raccordati fra loro da una rudimentale soglia.
Per questo ambiente, assai stretto, è stata proposta la
funzione di vano scala, unicamente in considerazione delle
sue dimensioni e della posizione a ridosso del muro sud
della casa.77 Della scala non resta alcuna traccia sui muri la-
75 Per un’ulteriore descrizione di questo pavimento, in cui i sectilia
sarebbero stati inseriti successivamente, si veda Wilson, op. cit. a nota 9, p. 120-122. Alcune impronte di forma quadrangolare si trovano
allineate lungo i lati sud ed est della fascia marginale o sparse senza
un disegno coerente. È dunque possibile che non tutti gli inserti siano
successivi alla prima redazione.
76 La soglia con cardine, ricavata da un unico concio, potrebbe es-
sere quella che originariamente costituiva l’accesso all’unico vano
costituito dagli ambienti 7 ed 8.
77 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 209. Tale interpretazione è ripresa in G. F. La Torre, Il processo di “romanizzazione” della Sicilia: il caso di Tindari, in Sicilia Antiqua, 1, 2004, p. 138 ove non si
tiene conto che l’ambiente 9 è il risultato della seriore suddivisione
degli ambienti su questo fronte (vd., infra, p. 32 sg.).
26
sergio aiosa
Fig. 17. Tindari, Casa C, ambiente 13, muro sud con l’ingresso dell’ambiente 12 tompagnato.
terali o sul muro di fondo. Essa, secondo questa interpretazione, non avrebbe condotto al secondo piano, ma al retrostante cortile delle terme che si trova ad una quota più alta
di 1,75 m. Considerato tale dislivello, non eccessivo, la misura in profondità dell’ambiente avrebbe consentito di inserire una scala non troppo ripida.
In ogni caso, considerata la seriorità dell’intervento, la
comunicazione tra la Casa C e le terme non ha nulla a che
vedere col progetto originario.
Un’altra possibilità, che potrebbe essere confermata solo ultimando lo scavo, è che si sia trattato di una latrina.
Ciò anche tenendo conto della posizione del vano quasi
sul prolungamento del canale mediano tra l’esedra 16 e
l’ambiente 18. Proseguendo verso Sud, l’ambitus avrebbe
potuto intercettare una canalizzazione di scarico dell’ambiente 9.
Tale funzione è, peraltro, compatibile, oltre che con le
misure esigue dell’ambiente, anche col suo essere, di fatto,
una sorta di spazio di risulta determinato dalla costruzione
dei muri relativi all’ambiente 8 e all’ambiente 10 (m 1,97 ×
2,785). L’ambiente 11 (m 3,195 × 2,745), il cui ingresso è quasi
sull’asse della galleria ovest, chiude la serie degli ambienti
che prospettano sul portico meridionale.
Originariamente dal grande vano 13, superando un gradino, si accedeva all’ambiente 12 (m 4,54 × 2,43), all’angolo
sud-ovest dell’abitazione. In seguito l’ingresso è stato chiuso da un tompagno (Fig. 17) e il muro divisorio è stato rivestito con una fodera muraria che si segue fino al muro di
prospetto dell’ambiente 11. (Fig. 18).78 L’ambiente 12, allo
stato attuale, non è dunque accessibile dalla Casa C, ma
appare connesso alle soprastanti terme, in particolare
all’ambiente pavimentato con il noto mosaico con il toro e
i pilei dei Dioscuri, simbolo della città di Tindari.79
Già da un primo esame degli ambienti emerge come l’attuale conformazione della Casa C di Tindari sia il frutto di
notevoli trasformazioni, per altro comprensibili se si pensa
che la struttura è stata in uso fino al iv secolo d.C., quando
un terremoto ne determinò il crollo.80
78 L’anta che si appoggia alla fodera muraria è ricoperta dallo stesso intonaco che riveste il muro sud e la chiusura dell’ingresso all’ambiente 12, ma l’obliterazione dell’apertura non può precedere la riconfigurazione del vano, in quanto la fodera rispetta tale accesso, come
appare particolarmente evidente osservando il suo stipite destro.
79 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, fig. 34. All’interno
dell’ambiente 12 resta infatti una porzione di pavimentazione in coc-
ciopesto ad una quota compatibile con quella del mosaico. Tracce di
un probabile focolare e di una ripartizione interna devono considerarsi relative ad una frequentazione tarda.
80 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 208. Secondo
Wilson, op. cit. a nota 7, p. 139, dal ii sec. a.C. al iv sec. d.C. nella casa
non sarebbero intervenute sostanziali modifiche, a parte la chiusura
degli intercolunni del peristilio.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
27
Le alterazioni succedutesi nel corso del tempo, benché
di una certa entità, non sono state determinanti nel modificare l’assetto generale dell’abitazione ancorché, come vedremo, si siano realizzate alcune partizioni degli ambienti
non previste originariamente e la chiusura degli intercolunni del peristilio.
La scarna bibliografia sulle case dell’insula iv e la mancanza di capisaldi cronologici cui potersi riferire per proporre una datazione ci hanno suggerito di tentare un approccio diverso allo studio di questa abitazione. Pertanto,
contestualmente al rilievo degli alzati, si è condotto un esame accurato dei paramenti murari di ciascun ambiente della Casa C, al fine di cogliere e registrare le numerose soluzioni di continuità fra le diverse murature, secondo le
procedure dell’analisi stratigrafica degli elevati.81 A dispetto di un’apparente uniformità, tale metodologia ci ha consentito di articolare una tipologia delle tessiture murarie
che, ancorché non basata su differenze macroscopiche, per
via di un quasi costante utilizzo degli stessi materiali e,
spesso, del reimpiego di elementi più antichi, si rivela comunque indicativa di rifacimenti più o meno radicali che si
è cercato di disporre all’interno di una cronologia relativa.
Nel procedere in questa direzione, abbiamo tenuto presente che le porzioni di muratura superstiti, in molti casi di
estensione assai limitata, portano ad attribuire all’intero
paramento in esame le caratteristiche di suoi singoli tratti.
Pertanto, piuttosto che aggiungere varianti su varianti,
dando luogo ad una classificazione tanto articolata quanto
poco funzionale, abbiamo tenuto presente un numero
maggiore di parametri, quali le dimensioni dei singoli elementi, la qualità e la frequenza dei materiali, la presenza di
ricorsi e la loro altezza.
Questo procedimento ci ha consentito di mettere in relazione fra loro murature non contigue, senza esasperare
differenze più apparenti che sostanziali, determinate anche dalla funzione e dalla posizione dei muri. La preponderante presenza di murature di restauro e l’altezza assai
modesta di molti dei muri della casa hanno reso per lo più
superfluo l’impiego sistematico di schede di unità stratigrafica muraria (usm),82 ma alla loro concezione generale
ci siamo riferiti per la registrazione dei dati relativi alle
unità campione prescelte per un’esemplificazione delle di-
verse tipologie attestate all’interno dell’abitazione. Per
molti tratti murari si è dovuto rinunciare a qualsiasi considerazione perché il restauro ha interessato l’intero elevato
sovrapponendosi alle fondazioni la cui tecnica, di conseguenza, non è più osservabile. La scala prescelta per la restituzione grafica ci ha consentito di evidenziare nelle di-
81 I rapporti stratigrafici tra le diverse strutture murarie vengono
cioè valutati analogamente a quelli tra gli strati, al fine di istituire una
cronologia relativa tra tessiture murarie differenti, spesso ricorrenti
in una stessa struttura, e, quindi, fra le diverse fasi costruttive. Non
riteniamo sia il caso di dilungarci sulla descrizione di un procedimento assai noto che spesso fornisce risultati cui le comuni indagini non
riescono a pervenire. Se l’analisi stratigrafica degli elevati costituisce
una prassi abbastanza consolidata, il dibattito circa le procedure da
adottare è assai sviluppato e riguarda tanto gli architetti e gli archeologi classici, quanto i medievisti. Pertanto si è fatto riferimento a diversi contributi a carattere teorico, prescindendo dalla cronologia degli organismi architettonici oggetto di indagine, al fine di cogliere
spunti e suggerimenti utili all’attuazione di questa metodologia. Per
i principi dell’analisi stratigrafica basti il rimando ai ben noti studi di
A. Carandini e E. C. Harris (A. Carandini, Storie dalla terra. Manuale
dello scavo archeologico, Bari, 1981; E. C. Harris, Principi di stratigrafia
archeologica, Roma, 1983). Per l’applicazione della metodologia all’analisi complessiva degli elevati si veda R. Parenti, Le tecniche di documentazione per una lettura stratigrafica dell’elevato, in Archeologia e restauro dei monumenti, I ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia
(Certosa di Pontignano, 28 settembre-10 ottobre 1987), a cura di R. Francovich, R. Parenti, Firenze, 1988, pp. 249-279, con bibl. Utili spunti per
un’applicazione pratica sono in diversi contributi pubblicati in Archeologia dell’architettura, Suppl. «AMediev», pubblicato a partire dal 1996.
Per un’applicazione degli stessi principi all’architettura domestica di
età classica si veda Carandini et alii, Per lo studio delle insulae di Pompei, in ArchCl, 1996, pp. 321-327.
82 Abbiamo preso a riferimento la scheda usm elaborata
dall’i.c.c.d. (Norme per la redazione della scheda del saggio stratigrafico,
a cura di F. Parise Badoni, M. Ruggeri Giove, Roma, 1984, pp. 25-26).
Fig. 18. Tindari, Casa C, peristilio, profilo del muro sud
(in primo piano la fodera dell’ambiente 12).
28
sergio aiosa
verse sezioni la linea di demarcazione tra le parti originarie e quelle di restauro.83
L’analisi stratigrafica degli elevati è stata particolarmente produttiva per gli ambienti del fronte meridionale
dell’abitazione, i cui muri si conservano per un’altezza
massima di ca. 1,50 m (Tav. iv). Trattandosi di porzioni di
muratura comunque limitate, non è possibile specificare se
per l’elevato si procedesse con una selezione di materiali
progressivamente più leggeri.
In generale, la tecnica muraria in uso nella Casa C è piuttosto povera84 e grande parte doveva avere la finitura ad intonaco delle pareti, della quale si conservano, in alcuni ambienti, sporadici lacerti che non presentano tracce di
pitture.85 Le diverse stesure degli intonaci, complessivamente di qualità piuttosto scadente, sono un chiaro indizio
di rifacimenti.
Di norma, i paramenti che costituiscono il prospetto
esterno degli ambienti sono eseguiti con maggiore perizia
costruttiva e, pertanto, necessitano di intonaci di modesto
spessore per la loro regolarizzazione. Quelli interni ai vari
ambienti dell’abitazione sono eseguiti più grossolanamente e gran parte del loro aspetto, senz’altro liscio e regolare,
era affidato alla rifinitura della loro superficie.86
Nell’esporre le caratteristiche delle murature della Casa
C, abbiamo scelto di seguire, laddove possibile, un criterio
cronologico. È stato possibile distinguere chiaramente cinque differenti tecniche murarie di cui riassumiamo sinteticamente le caratteristiche principali. Per le tecniche iii-v,
identificate in strutture sufficientemente estese, tali descrizioni sono state corredate da disegni di campioni di muratura elaborati in scala 1:10.87
Alla fase più antica è da riferire un breve tratto del muro
perimetrale est dell’abitazione, evidenziato da una risega in
corrispondenza dell’angolo sudorientale dell’ambiente 4.
La tecnica costruttiva, che non trova riscontro in altri muri
della Casa C, si caratterizza per l’impiego di pietrame minuto e scaglie di pietra e di terracotta, posti in opera senza
malta. La tessitura dei paramenti è del tutto analoga a quella delle strutture ‘di età timoleontea’ identificate al di sotto
del vano a Nord del peristilio della Casa B e, in parte, del
muro perimetrale ovest dell’isolato in corrispondenza di
quest’ultimo. È proprio tale circostanza che induce a ritenere che questa sia la tecnica muraria più antica fra quelle
riscontrate all’interno della Casa C, quasi certamente relativa a strutture preesistenti all’impianto della casa a peristilio (tecnica i).
In generale, nelle strutture murarie dell’abitazione si nota la totale assenza di muri interamente costruiti con conci
squadrati di grandi dimensioni, fatta eccezione per un breve tratto del muro che separa l’ambitus dall’ambiente 18
(tecnica ii). Questo vano è chiaramente successivo a tale
tratto murario, come risulta evidente dalla sua ripresa con
materiali di natura e dimensioni totalmente differenti (Tav.
iii).
La scarsa attestazione di questa tecnica non permette di
affermare che essa fosse impiegata per definire il perimetro
della casa, costituendo una sorta di basamento in opus quadratum. Il ricorrere di blocchi di analoghe dimensioni e caratteristiche sul prolungamento dello stesso muro, in corrispondenza della Casa B, porta a riferire la tecnica ad un
precedente assetto dell’insula iv, prima dell’impianto della
Casa C. L’impiego di una muratura così robusta potrebbe
spiegarsi considerando che la quota cui si fondano i muri
lungo l’ambitus è notevolmente inferiore a quella delle restanti strutture dell’intero isolato.
Queste le tecniche che abbiamo riferito alle strutture
preesistenti alla Casa C. Più complesso e articolato è il ragionamento circa quelle che ne caratterizzano l’impianto
complessivo e le sue successive trasformazioni.
Lungo i muri perimetrali est e ovest dell’abitazione si
registra l’impiego abbastanza sistematico di grandi conci
assai allungati (da cm 70 × 30 a cm 110 × 30), diversi per finitura e dimensioni da quelli precedentemente descritti, disposti alla base di tali muri per formare i piani orizzontali
su cui si imposta la muratura, costituita da pietre di piccolo
e medio modulo abbastanza ben sbozzate e rinzeppate da
scaglie più minute.
Un simile accorgimento, riscontrato lungo tutta la base
dei muri laterali dell’insula, era reso necessario dall’andamento in pendio dei due cardines che la fiancheggiano (Fig.
19). Con il medesimo sistema, venivano collocate le soglie
degli ingressi ai vari corpi di fabbrica, in corrispondenza
83 Seguendo un procedimento ben noto, i moderni interventi di
restauro sono stati evidenziati frapponendo fra le murature antiche e
quelle rifatte nello stesso materiale minuti frammenti di terracotta
che permettono di riconoscere con facilità le strutture originali, altrimenti difficilmente distinguibili. Infatti, l’azione degli agenti atmosferici ha inevitabilmente uniformato l’aspetto dei materiali impiegati, molti dei quali di recupero, quindi della stessa pezzatura. Questo
accorgimento ha fortunatamente evitato indebite ricostruzioni della
conformazione originaria della casa.
84 In P. Pelagatti, Camarina. Relazione preliminare della campagna
di scavi 1961-1962, BdA, 1962, 2-3, p. 261 viene fatto riferimento ad «[…]
un edificio ad est della strada occidentale» di Camarina, nei pressi della Casa dell’altare e più ampio di quest’ultima, in quanto il fronte noto misura 35 m, nel quale sono stati identificati sei vani, due pavimentati in opus signinum. Nei muri, spessi 50 cm, sono impiegate piccole
pietre e tegole. La povertà tecnologica, a Tindari come a Camarina,
non è dunque necessariamente indizio della pertinenza delle strutture murarie ad edifici di modesta qualità architettonica.
85 Isolati frammenti di intonaco alla base del muro dell’ambiente
7 recano labilissime tracce di colore rosso, un probabile zoccolo che
correva tutto attorno alle pareti.
86 Ad esempio, è stridente la differenza di esecuzione fra i due paramenti dello stesso tratto di muro dell’ambiente 13, pesantemente
rivestito all’interno del vano da uno spesso strato di intonaco stuccato e da un sottile strato di rifinitura verso la galleria.
87 Si è scelto di documentare fotograficamente tutti i prospetti,
impiegando un reticolo di m 1 × 1,50 o di m 1 × 1, a seconda dell’estensione dei tratti murari da campionare, suddiviso in quadrati di 10 cm
di lato che, congiuntamente a misurazioni di dettaglio, ha permesso
un’efficace documentazione grafica delle caratteristiche di ciascuna
porzione di muro esaminata.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
29
Fig. 19. Tindari, Insula iv, conci disposti a gradini nel muro di prospetto est.
delle quali si prestava maggiore cura nella rifinitura superficiale dei conci.
Blocchi lapidei del tutto analoghi sono adoperati alla base di alcuni muri interni della casa, specialmente in quelli
che, fondandosi ad una quota più bassa, raggiungevano
un’altezza complessiva maggiore. In particolare, ci riferiamo ai muri divisori tra gli ambienti 20 e 22 e tra gli ambienti
18 e 19. Ma tali conci ricorrono anche nei muri di fondo dei
portici orientale e meridionale, marcando uno degli stipiti
dell’ingresso tra il vestibolo e la galleria settentrionale e gli
stipiti degli ambienti 5, 6 e 8 (Tav. iv).
Nelle murature ammorsate a questi monoliti sono impiegate pietre di piccolo e medio modulo, sbozzate irregolarmente, legate con malta di calce e poste in opera con
scarsa attenzione per una rifinitura anche parziale dei paramenti. L’irregolarità dei piani di posa è attenuata dall’impiego di rinzeppature costituite da scaglie minute o lastre
rettangolari della stessa pietra, mattoni e tegole di terracotta che creano ricorsi abbastanza regolari (dai 30 ai 50 cm)
(tecnica iii, Figg. 20-21).
Questo tipo di muratura non si presenta sempre con le
stesse caratteristiche. Nel caso del muro fra gli ambienti 4
e 5, a pietre sbozzate grossolanamente si alternano con
maggiore frequenza porzioni di muratura, dimensional-
mente simili, costituite da mattoni frammisti ad elementi
lapidei. La varietà anche dimensionale del materiale impiegato determina un aspetto più frammentario del paramento, permettendo di isolare una variante della medesima
tecnica costruttiva (tecnica iiia). Pertanto, non vi è nessun fondato motivo per attribuire questo tratto murario ad
un intervento seriore e si può senz’altro ascrivere la tecnica iii al momento dell’impianto della casa a peristilio, per
il suo ricorrere nella quasi totalità delle strutture murarie
dell’abitazione.
Palesemente diversa dalle precedenti è la tecnica del muro che fodera l’originario prospetto dell’ambiente 12 e che
costituisce l’anta destra dell’ambiente 11. La definizione del
prospetto sulla galleria è certamente posteriore all’impianto di un muro precedente che si conserva per un tratto di
ca. 60 cm in corrispondenza dell’angolo nord-ovest dell’ambiente. Tale fodera muraria è costituita da blocchetti
pseudo-parallelepipedi di medio modulo, sbozzati abbastanza regolarmente e spesso rifiniti in facciavista. Legati
con malta di calce, sono disposti per filari pressoché della
stessa altezza (cm 25 ca.), i cui piani di posa sono talmente
regolari da limitare il ricorso alle rinzeppature, prevalentemente in scaglie di pietra. L’inserimento di mattoni di
grandi dimensioni contribuisce alla formazione di stipiti re-
30
sergio aiosa
Fig. 20. tecnica iii: campione.
golari. La generale uniformità del paramento consente di
apprestare un rivestimento di spessore ridotto (tecnica iv,
Figg. 22-23).
La tecnica dei muri laterali dell’ambiente 10, realizzati
contestualmente a quello di prospetto e palesemente aggiunti successivamente, differisce da quella adottata nei
muri degli altri ambienti del lato sud, trovando qualche
analogia solo con quella che ricorre nel successivo ambien-
te 11. Tuttavia, si distingue da quest’ultima per il più approssimativo taglio dei blocchetti e l’assenza di finitura superficiale. L’inserimento di elementi lapidei di vario modulo, legati con malta di calce, determina un andamento ben
più irregolare dei piani di posa e, conseguentemente, un
maggiore impiego di rinzeppature in pietra e in terracotta,
cui è affidato il compito di regolarizzare i filari (Figg. 24-25)
(tecnica v). Tali diversità trovano una precisa corrispondenza nel vistoso aggetto del prospetto dell’ambiente rispetto a quello dell’intera sequenza di ambienti del lato sud
dell’abitazione. Le differenze riscontrate nonostante l’apparente somiglianza fra le tecniche e l’assenza di un allineamento fra i prospetti inducono ad attribuire a due distinti
momenti costruttivi la realizzazione degli ambienti 10 e 11.
Ne consegue che anche la conformazione dell’ambiente 9
è stata determinata solo in seguito alla realizzazione di queste strutture.
Entrambe le tecniche sono relative a rifacimenti che,
nondimeno, rispettano l’impianto generale dell’abitazione. Appare evidente che l’inserimento dell’ambiente 10 ha
costituito un frazionamento della superficie complessiva di
un vano rettangolare allungato, corrispondente a quella
degli attuali ambienti 9-11. Pertanto, dal punto di vista della
cronologia relativa, siamo propensi a considerare la tecnica v come più recente rispetto alla tecnica iv. È la tecnica
Fig. 21. Tindari, Casa C, muro tra gli ambienti 4 e 5 (tecnica iii).
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
31
Fig. 22. tecnica iv: campione.
dell’ultima ristrutturazione della casa che ha determinato
l’attuale configurazione degli ambienti 7-8 e 9-11.
Nella costruzione del setto murario che ha diviso il vano
pavimentato in opus signinum in due diversi ambienti (7 e 8)
le rinzeppature assecondano il contorno delle pietre, contribuendo ad accentuare l’aspetto irregolare dei paramenti.
Ma, nel caso specifico, riteniamo di potere attribuire alla
modestia dell’intervento, poco o nulla impegnativo dal
punto di visto statico, oltre che al ruolo determinante del
rivestimento parietale (ancora presente lungo la faccia occidentale del muro), la vistosa differenza fra questo muro
(Tav. iii) e quello di prospetto dell’ambiente 10. Siamo propensi ad attribuire tali strutture alla medesima fase costruttiva anche in considerazione del fatto che esse sono relative
ad interventi che rispondono alla medesima logica, determinando entrambi una frammentazione dei vani rettangolari allungati che dovevano caratterizzare in origine l’intera
sequenza di ambienti del lato sud dell’abitazione.
È probabile che simili modifiche siano connesse ad un
più generale progetto di riconfigurazione che ha previsto
lo spostamento dell’ingresso principale della Casa C e la
privatizzazione degli ambienti che si aprono sulle gallerie
est e sud del peristilio. Ma, i tratti di muratura che chiudono gli intercolunni, quando non interamente di restauro, si
conservano per un’altezza assai modesta. Si tratta di realizzazioni assai grossolane, come dimostra la diversa attenzione con cui è curato l’addossamento di ciascun setto murario alle colonne. Né una maggiore accuratezza era
necessaria, considerato che essi, a differenza dei muri di
prospetto degli ambienti del fronte sud, non assolvono ad
alcuna funzione portante.
Nel descrivere le caratteristiche dei muri della Casa C,
abbiamo fatto frequentemente accenno alla presenza di
elementi in terracotta, costantemente frammisti ad altri
materiali. Prescindendo dall’uso dei mattoni nella realizzazione delle colonne e nelle ante dell’esedra, il loro impiego
esclusivo nelle murature88 è prevalentemente limitato alla
riconfigurazione delle ante di nuovi vani di accesso aperti
88 Oltre a quelli inseriti nelle strutture murarie, all’interno del
perimetro della casa si conservano undici esemplari di mattoni, sette
dei quali integri, rettangolari (cm 44,5 × 34,2 × 9; cm 47 × 32 × 8,5 = ca.
1:1,5; cm 35,3 × 19 × 11; cm 35,5 × 26 × 10,3; cm 41,2 × 18 × 7,5) e quadrati
(cm 36/36,5 × 36/36,5 × 11). Ad un esame macroscopico, non si rivela
alcuna differenza negli impasti.
Fig. 23. Tindari, Casa C,
muro di prospetto dell’ambiente 11 (tecnica iv).
32
sergio aiosa
Fig. 25. Tindari, Casa C,
muro di prospetto tra gli ambienti 10 e 11 (tecnica v).
Fig. 24. tecnica v: campione.
‘a strappo’, come abbiamo avuto modo di documentare
per i tre ingressi dell’ambiente 13 (Fig. 26). Un’altra breve
anta in mattoni costituisce lo stipite destro dell’apertura
che dal vestibolo d’ingresso immette nella galleria settentrionale del peristilio, ma tale particolare costruttivo non è
sufficiente, da solo, per attribuire tutti questi interventi alla
medesima fase. L’impiego dei mattoni nelle murature rimane comunque sporadico e non appare legato ad una specifica prassi costruttiva.
Il tratto più esteso in cui sono impiegati i mattoni, disposti irregolarmente, è costituito da una breve porzione superstite alla base del muro tra l’esedra e l’ambitus (Fig. 27).
La differenza di tecnica fra questo paramento e quello sul
89 Le modeste porzioni di elevato conservate non permettono di
comprendere quanto fosse esteso l’uso dei mattoni e con che frequenza corressero i ricorsi. Non vi sono elementi per giungere ad
una puntualizzazione della cronologia di questa tecnica che può ben
datarsi ancora nel ii sec. a.C. A Morgantina, sito che abbiamo frequentemente richiamato per l’identità di molte soluzioni tecnologiche riscontrate nella Casa C, i muri che utilizzano mattoni di t.c. sono
sicuramente posteriori alla distruzione del 211 a.C. (Tsakirgis, op. cit.
a nota 31, p. 316). L’impiego dei mattoni per le colonne invece sarebbe
già attestato prima di questa data (R. Stilwell, E. Sjöqvist, Excavations at Serra Orlando. Preliminary Report, in aja , 61, 1957, p. 157). Tuttavia, nella Casa di Ganimede e in quella della cisterna ad arco l’esi-
lato opposto del canale è uno degli elementi che indurrebbero a ritenere che l’esedra sia stata realizzata successivamente.89 Ci si è chiesto perché i due muri che fiancheggiano l’ambitus avrebbero dovuto essere realizzati in tecniche
così palesemente diverse se la loro realizzazione fosse stata
contestuale. Ma, come si è detto, la sequenza degli interventi che hanno determinato la creazione degli ambienti sul lato nord dell’abitazione non è chiara in tutti i suoi aspetti.
Il muro di prospetto sul cardo D in corrispondenza del
corridoio 19-21 (m 14,41 × 1,635) è integralmente di restauro
(Fig. 28). Dalla minima porzione di muratura originaria
conservatasi risulta, pertanto, difficile stabilire se in questo
punto fosse prevista una soglia, quindi un accesso dal cardo,
tanto più che lo scavo del corridoio non è mai stato ultimato. Considerato che esso cade circa a metà dell’isolato,90 è
da chiedersi se esso non ne costituisse un’originaria partizione trasversale – come prescritto dalle note leggi in materia – in seguito obliterata dall’inserimento dell’esedra e
dell’ambiente 15 che, lo ricordiamo, si sovrappone ad un
ambiente di pertinenza della sottostante casa B. Il lotto occupato da quest’ultima non sarebbe pertanto regolare, ma
stenza in situ di un tamburo di colonna dorica(?) in calcare rivela una
molteplicità di fasi costruttive la cui sequenza non è del tutto chiara
(Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 128). Da quest’ultima abitazione proviengono anche «one complete block, and numerous fragments, of a
late type of Doric stone entablature, wich, if it indeed belongs to the
peristyle, is the first such example in a Morgantinian house» (R. Stilwell, Excavations at Morgantina (Serra Orlando). Preliminary Report v ,
in aja , 65, 1961, p. 279).
90 Soprattutto se si esclude la parte delle terme che aggetta sul decumano superiore, come si è detto, assai probabilmente aggiunta in
seguito.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
Fig. 26. Tindari, Casa C, esempio di impiego dei mattoni di t.c. negli stipiti degli accessi all’ambiente 13.
Fig. 27. Tindari, Casa C, muro orientale dell’esedra, porzione di muratura in mattoni.
33
34
sergio aiosa
Fig. 28. Tindari, Casa C, corridoio 19-21,
il muro sul cardo est.
Fig. 29. Tindari, Casa C, esedra, colonne.
avrebbe questa ‘appendice’ che potrebbe spiegarsi quale occupazione parziale di suolo precedentemente pubblico.91
L’ipotesi di un più tardo inserimento dell’esedra incontra alcune difficoltà che è il caso di sottolineare.
In primo luogo, circa la cronologia relativa fra l’esedra e
l’ambitus, una delimitazione sul lato ovest di quest’ultimo
doveva esistere anche in precedenza. La presenza dei mattoni, ad una quota assai bassa, potrebbe anche denunciare
un intervento di manutenzione del canale, piuttosto che
leggersi in relazione alla realizzazione dell’esedra in quanto, a ben vedere, il perimetro di quest’ultima risulta determinato dallo stesso impianto dell’abitazione. Infatti, il prospetto colonnato è sull’allineamento degli ambienti del
lato nord, il muro di fondo corrisponde al limite nord dell’abitazione, il muro ovest resta determinato una volta individuato geometricamente il fronte degli ambienti ovest
e, infine, il muro est coincide con il limite dell’ambitus. Tanto più che in seguito dimostreremo come tutti gli ambienti
dell’abitazione, compresi dunque l’esedra e l’ambiente 13 e
con la sola eccezione dei più tardi fra quelli del lato sud, siano tutti posizionati ricorrendo ad un’unica concezione
geometrica e dimensionati secondo multipli, per lo più
interi, di un unico modulo di base. La riconfigurazione dell’esedra deve dunque intendersi relativa alla sola monumentalizzazione del suo prospetto. Infatti anche il tompagno che chiude l’accesso dal portico all’ambiente 14 può
spiegarsi esclusivamente in funzione di una più tarda realizzazione dell’anta sinistra dell’esedra e della conseguente
creazione di una comunicazione diretta tra i due ambienti,
con lo spostamento dell’apertura nella posizione attuale.
Benché gli interventi qui descritti rimandino a cambiamenti nella configurazione degli ambienti di rappresentanza della Casa C, espliciteremo i motivi per i quali siamo
propensi a ritenere che essi siano intervenuti piuttosto precocemente, costituendo una variante in corso d’opera che
aderisce alla medesima logica progettuale, rispettando la
91 È evidente che per dirimere una simile questione sarebbe necessario in primo luogo completare lo scavo della Casa C, ma anche in-
dagare gli isolati vicini al fine di comprendere se una simile partizione
fosse prevista sistematicamente.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
35
Fig. 30. Tindari, Casa C, peristilio,
colonne con fusti a mattoni sottili.
Fig. 31. Tindari, Casa C, peristilio,
colonne con fusto a blocchetti.
stessa scansione modulare dell’impianto generale dell’abitazione anche nella disposizione delle colonne dell’esedra
(Fig. 29).
Esse hanno «la stessa struttura a piccoli tasselli di quelle
del peristilio»; queste ultime sono «costruite non con grandi mattoni discoidali unitari, con foro mediano, come quelle della sottostante Casa B, ma con piccole scaglie di mattone sottile o con blocchetti litici alternati con strati di calce
e rivestite di intonaco»92 (Figg. 30-31). Tuttavia, è il caso di
ricordare che nella colonna all’angolo nordest sono impiegati mattoni anulari. Ma questa, come quella all’angolo sudest si conserva solo per tre ricorsi di mattoni e non è dunque possibile determinare come fosse realizzata la parte
restante del fusto. Infatti le due tecniche, a scaglie di mattoni e a blocchetti, non sono usate in maniera esclusiva. Le
colonne di spezzoni del peristilio, che sono in maggior numero, hanno comunque alla base da due a quattro ricorsi
di blocchetti e si differenziano per questo solo aspetto da
quelle dell’esedra, formate da spezzoni fin dalla base. Le altre colonne del peristilio alternano ricorsi di spezzoni a ricorsi di blocchetti.
Abbiamo provato a considerare la distribuzione delle colonne realizzate in ciascuna delle due tecniche, presupponendo che i restauri moderni non abbiano alterato le caratteristiche tecnologiche e la posizione relativa di ciascuna
colonna.93 Anche se la tecnica ‘a blocchetti’ appare impiegata nella terza colonna del lato nord e, continuando in
senso orario, nelle tre colonne del lato est (con certezza solo in quella centrale) non sembra che un eventuale rifacimento sia stato determinato dall’intenzione di modificare
92 Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207. In realtà, non
abbiamo riscontrato l’uso di elementi litici, ma di mattoni di vario
impasto e di altezza assai maggiore di quelli usati nelle altre colonne,
tagliati in frammenti pressoché triangolari.
93 Circa il restauro delle colonne viene specificato che, «[…] poiché i materiali di cui esse erano composte conservavano un ordine re-
golare sul terreno, fu possibile calcolare con sufficiente approssimazione l’altezza di una di esse e quindi rialzarle o meglio ricostruirle,
filare per filare, inserendo ogni tanto qualche blocco in muratura ancora conservante la propria compattezza» (Bernabò Brea-Cavalier, op. cit. a nota 8, p. 207).
36
sergio aiosa
il numero o la posizione delle colonne e, dunque, la forma,
le dimensioni e la collocazione del peristilio nell’ambito
della corte. Infatti la presenza di almeno una colonna a
blocchetti nei lati nord ed est fissa gli allineamenti del peristilio su entrambi i lati ed è da escludere che il colonnato
sia stato prolungato verso Ovest, in quanto sarebbe difficile
prevedere un peristilio meno allungato entro una corte così marcatamente rettangolare. Dal momento che le colonne poggiano su plinti94 e non su uno stilobate continuo
non riteniamo neppure che ulteriori indagini archeologiche possano rivelare la presenza di una fondazione con
diversa estensione o orientamento che rimandi ad un peristilio anteriore a quello attualmente visibile. E che il colonnato dovesse essere previsto fin dal momento dell’impianto
dell’abitazione appare scontato, considerate le dimensioni
della corte (10,50 × 16,80 m), difficilmente immaginabile
sprovvista di colonne.
Ci sembra che non sia da enfatizzare la seppur palese differenza tra le diverse tecniche riscontrate e che essa sia da
attribuire al modo di procedere di diverse squadre di costruttori, anche in relazione alla disponibilità in cantiere del
materiale da costruzione. Altrimenti l’ipotesi di un più tardo
inserimento dell’esedra porterebbe a ritenere che la tecnica
a spezzoni sia successiva e che, quindi, il peristilio sia stato
rifatto quasi integralmente. Infatti, l’assoluta analogia tra la
tecnica costruttiva delle colonne dell’esedra e di molte fra le
colonne del peristilio dovrebbe far ritenere che tale ristrutturazione fosse avvenuta contestualmente alla realizzazione dell’esedra stessa. Inoltre, posto che il peristilio ha un piano superiore, un rifacimento così radicale non potrebbe che
considerarsi anteriore o contestuale alla sopraelevazione. In
definitiva, benché aver distinto la fase di impianto della casa
a peristilio da quella in cui furono aperti a strappo i tre
ingressi dell’ambiente 13 e fu realizzata l’esedra, determinando una monumentalizzazione dell’abitazione abbia una
sua logica, in quanto in entrambi gli interventi ricorre l’uso
di mattoni di terracotta oltre che per le ragioni di natura
storico-architettonica che verranno esplicitate più avanti, ci
sembra che connettere tali lavori ad una più ampia fase di ristrutturazione dell’abitazione che abbia coinvolto anche il
peristilio significhi avventurarsi troppo avanti nel campo
delle ipotesi. Semmai l’identità tra le tecniche impiegate nelle colonne dell’esedra e del peristilio induce a considerare la
creazione del prospetto monumentale dell’esedra come
pertinente ad una fase distinta, ma immediatamente successiva a quella dell’impianto dell’abitazione.
Pertanto, le cronologie relative desunte dall’analisi diretta dell’impianto complessivo della Casa C e delle sue singole strutture permettono di proporre una pianta articolata
in quattro fasi costruttive, la prima relativa alle preesistenze e le altre tre al momento della costruzione dell’abitazione e alle sue trasformazioni successive (Fig. 32).
Sintetizzando brevemente i risultati cui siamo giunti
possiamo affermare che la Casa C si sovrappone, con ogni
probabilità, su due lotti separati dall’ambitus, occupati da
abitazioni che per tecnica costruttiva richiamano le strutture identificate al di sotto della Casa B. Di tali preesistenze
rimangono sporadiche tracce lungo la parte superstite
dell’ambitus (Fig. 32, i) e in una breve porzione di muratura
all’interno dell’ambiente 4. L’impianto dell’abitazione prevedeva già in origine il peristilio in posizione centrale, circondato su ogni lato da ambienti, ma l’ingresso principale
si trovava nello stretto corridoio posto pressoché sul suo asse longitudinale. Sul lato meridionale vi era una sequenza
di ambienti più larghi che profondi (Fig. 32, ii). In seguito,
l’abitazione fu interessata da un processo di monumentalizzazione cui sono ascrivibili la configurazione ad esedra
del prospetto dell’ambiente 16, con la necessità di spostare
l’apertura del vano 14 dal portico ovest all’attuale posizione
e le trasformazioni dell’andron, con l’apertura dei tre ingressi (Fig. 32, iii). Gli ultimi interventi, probabilmente
ascrivibili ad un unico momento, consentirono di isolare
una parte privata, mediante la chiusura degli intercolunni
del peristilio e la frammentazione della teoria di ambienti
del lato meridionale della casa. Ciò determinò la necessità
di spostare l’ingresso principale nella posizione attuale
(Fig. 32, iv).
94 Anche le dimensioni dei plinti su cui poggiano le colonne non
aiutano a dirimere la questione. Sostanzialmente si rilevano due
gruppi di misure anche se prevalgono i plinti piccoli. Tuttavia questi
appaiono sotto colonne realizzate in entrambe le tecniche (vd., infra,
nota 104).
L’analisi stratigrafica degli elevati è stata fondamentale per l’individuazione delle caratteristiche salienti
dell’impianto della Casa C, relativamente al momento in cui essa assunse l’assetto monumentale
definitivo.
L’aver chiarito la posteriorità di alcune strutture
era operazione necessaria per ricercare l’eventuale
presenza di un criterio compositivo, non tenendo
dunque in conto quei muri pertinenti a fasi successive che hanno determinato partizioni dell’abitazione
non previste nel progetto originario. Tali superfetazioni, specialmente se meramente funzionali e di entità modesta piuttosto che legate a vere e proprie riconfigurazioni, potrebbero non seguire una logica
progettuale o seguirne una diversa da quella dell’impianto precedente. Viceversa, il riscontrare un medesimo criterio generale non è di per sé sufficiente per
postulare la contemporaneità di alcune realizzazioni,
in quanto ogni intervento può inserirsi in un contesto in maniera coerente, specialmente quando si tratti di schemi progettuali piuttosto elementari, come è
da aspettarsi nell’ambito dell’architettura domestica.
Prima di entrare nel merito delle questioni attinenti la decodifica della geometria della Casa C è op-
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
37
Fig. 32. Tindari, Casa C, pianta delle fasi costruttive.
portuno premettere alcune considerazioni. Il tratto
del muro perimetrale sud dell’abitazione, in corrispondenza degli ambienti 5 e 6, non è allineato con
la parte restante. Difficile comprenderne la ragione,
in quanto la parete di fondo di questi due vani non è
osservabile se non per una breve porzione, interamente di restauro, dal momento che gli ambienti
non sono stati mai scavati.95
Oltre alle irregolarità proprie della tecnica muraria impiegata, di cui si è detto, e ad una certa trascuratezza generale riscontrata negli allineamenti e nella regolarità degli spessori murari,96 sono evidenti le
variazioni nell’assetto statico delle strutture, nelle
quali sarebbe forse possibile leggere precise indicazioni circa le modalità con cui l’abitazione è stata
danneggiata da uno o più eventi sismici. Ciò è particolarmente palese osservando le colonne del peristilio, le quali presentano un’alterazione della loro posizione particolarmente sensibile nei lati nord e
ovest. Tutto ciò comporta la difficoltà di giungere a
misure ben definite, indispensabile premessa per poter cogliere una logica progettuale. Benché nell’ambito dell’architettura privata sia da prevedere in anticipo un rigore nella progettazione e nell’esecuzione
95 Dalla terra affiorano elementi di crollo, fra cui grossi frammenti di intonaco ed uno dei dischi di terracotta che costituiscono il fusto
delle colonne del piano superiore del peristilio.
96 Ad esempio, un unico allineamento è costituito dal muro che
divide gli ambienti 5 e 6, dai muri di prospetto degli ambienti posti sul
lato est dell’abitazione e dal muro ovest dell’ambiente 22, che prose-
gue nelle due ante che delimitano il corridoio 21. Come si può verificare agevolmente dalla planimetria generale, quest’unico fronte presenta un andamento irregolare e spessori che variano, anche nello
stesso tratto murario, dai 44,7 ai 49,5 cm. Considerando globalmente
tutti i muri dell’abitazione, si ha una variazione anche maggiore, dai
35 ai 50 cm.
38
sergio aiosa
minore di quello riscontrabile in un edificio pubblico, probabilmente anche per il ricorso ad architetti le
cui conoscenze matematiche non dovevano essere
particolarmente approfondite, riteniamo improbabile che la Casa C di Tindari, un edificio dotato di un
peristilio a due piani, sia da valutare alla stessa stregua di un esempio di architettura ‘spontanea’, escludendo a priori l’esistenza di un criterio compostitivo,
solo per la scarsa intelligibilità di quest’ultimo.97
E che un criterio vi fosse è rivelato dal riscontro di
alcuni rapporti proporzionali, più o meno esatti, i
quali inducono a ritenere che, prescindendo dallo
stato attuale, la Casa C sia stata progettata in maniera semplice, ma rigorosa.
È evidente come qualsiasi modello teorico si discosti dalla realtà materiale per quell’ovvio slittamento tra progetto ed esecuzione. Ciò è tanto più
vero per la Casa C nella quale è possibile constatare
agevolmente come muri che costituirebbero un unico allineamento, hanno un andamento in pianta assai irregolare, proprio a partire dagli stessi muri perimetrali. Appare ovvio che, in questo caso, sia
legittimo considerare nullo tale scarto.
Nel caso dei muri di perimetro nord e sud, si pone
anche il problema della loro pertinenza alla Casa C
o agli edifici confinanti: la Casa B a Nord e le terme
a Sud. Nel computo della superficie dovrebbe, a rigore, essere esclusa la metà di ciascuno di questi due
spessori murari benché, dal punto di vista della proprietà, la soluzione potrebbe essere anche diversa.98
Pertanto, conformemente a procedure sperimentate altrove, abbiamo ritenuto di dover in primo luogo cogliere l’eventuale presenza di rapporti proporzionali, trascurando provvisoriamente la questione
dell’unità di misura impiegata.99
cesima parte del lato lungo del peristilio (ca. m 0,70), nella
quale proponiamo di riconoscere la misura modulare, in
quanto – come vedremo – essa determina anche la scansione di singoli ambienti e ricorre, in multipli interi o frazionari, in tutte le parti dell’abitazione. Anticipiamo il riferimento alla misura modulare per comodità espositiva, ma
l’identificazione del modulo è logicamente successiva al riconoscimento dei rapporti proporzionali fra le parti dell’abitazione.
Tabella 1.
,8021
16,80
16,80
10,50
10,50
15,60
19,10
19,10
15,60
15,60
10,50
16,80
,8107
,8107
,8107
,8107
,8107
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
28,80
28,80
21,80
21,80
16,80
9,101
21,80
28,80
28,80
21,80
5,601
5,601
3,501
21,80
28,80
10,50
5,601
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
30M
24M
24M
15M
15M
18M
13M
13M
18M
18M
15M
24M
10M
10M
10M
10M
10M
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
40M
40M
30M
30M
24M
13M
30M
40M
40M
30M
18M
18M
15M
30M
40M
15M
18M
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
=
13
13
14
11
15
18
13
13
11
14
15
13
12
11
11
12
15
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
:
4
5
5
2
8
13
30
40
5
15
8
1
1
3
4
3
4
Le misure complessive della Casa C (ca. m 21 × 28), quelle
della corte (ca. m 16,80 × 10,50), quelle del peristilio (ca. m
9,10 × 5,60), nonché quelle della profondità degli ambienti
nord e sud (ca. m 7 e m 3,50) sono tutte in rapporto fra loro
(tabella 1). Esse inoltre appaiono tutte divisibili per la tredi-
Le misure generali dell’abitazione stanno fra loro nel rapporto di 3:4. Tale rapporto non è casuale, dal momento che
la tripartizione del lato breve del rettangolo di 30M × 40M
individua esattamente il fronte degli ambienti nord (10M).
La profondità della teoria di piccoli ambienti sud (5M) è, a
sua volta, la metà di quella degli ambienti nord. Di conseguenza, il lato breve della corte (15M) risulta essere la metà
del lato breve del rettangolo in cui si inscrive l’abitazione e
una volta e mezza una delle tre parti in cui esso si scompone. Ne deriva anche che, rispetto all’asse longitudinale
dell’abitazione, quello della corte si trova spostato a Sud di
una misura pari ad ¼ di questa stessa parte, ovvero 2½M.
Rispetto all’asse trasversale la corte appare centrata, a
meno della differenza di uno spessore murario.100
97 Non è sempre vero che «il y a loin, dans le domaine de l’architecture privée tout au moins, des prescriptions trop ingégneusement
rigoureuses d’un théoricien comme Vitruve à la pratique des architects» ( J. Chamonard, Le Quartier du Thèatre. Étude sur l’habitation délienne a l’époque hellénistique. Exploration archéologique de Délos faite par
l’École Française d’Athènes et de Rome, 8, 1-2, Paris, 1922-1924, p. 260).
98 I muri nord e sud, benché di confine, non presentano alcun raddoppiamento del loro spessore; ciascuno di essi potrebbe essere del
tutto pertinente all’edificio confinante. Prescindendo dalla questione
degli edifici confinanti, vi è chi afferma che, nell’evidenziare le linee
guida del progetto, gli spessori murari possano essere inclusi o esclusi
oppure tali linee possono appunto attestarsi sull’asse dei muri, rite-
nendo plausibile anche una combinazione di questi due criteri. È opportuno precisare che l’ambiente all’angolo nord-ovest (amb. 15) della Casa C si ‘incastra’ con la Casa B. I muri perimetrali, proprio all’angolo, sono conservati ad una quota più bassa.
99 H. Geertman, Geometria e aritmetica in alcune case ad atrio pompeiane, in BABesch, lix, 1984, p. 32. La misura del diametro di base delle
colonne, compresa tra 58 e 60 cm, rimanda evidentemente all’impiego di un piede compreso tra 29 e 30 cm. Ma l’imposizione preliminare
di un piede romano di 29,6 cm potrebbe condurre a fraintendimenti.
100 Più esattamente, la sequenza di ambienti lungo il lato est, computando gli spessori murari, è pari alla profondità di quelli ad Ovest,
non calcolando lo spessore del muro perimetrale ovest.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
39
Posto che la diagonale di un rettangolo ABCD di 30M ×
40M è pari a 50M, è evidente altresì che il semplice ribaltamento delle semidiagonali (25M) sui lati brevi individua la
posizione esatta del prospetto degli ambienti del lato sud. I
lati brevi della corte risultano determinati dall’intersezione
tra la diagonale e un arco di cerchio di raggio pari a 10M
(Fig. 33,1). Ciò equivale a iscrivere nel rettangolo di 30M ×
40M una circonferenza, considerando la proiezione delle
sue intersezioni con le diagonali del rettangolo stesso sul
suo lato maggiore. Naturalmente, ogni intersezione individua sulla diagonale un segmento di 40M e, dunque, ciascuna diagonale è ripartita secondo il rapporto 1:3:1 (Fig.
33,2).
Ne deriva che la misura del lato lungo della corte (24M)
è pari a tre volte la profondità degli ambienti est e ovest
(8M), in quanto la partizione del lato lungo dell’abitazione
(8M:24M:8M) esprime lo stesso rapporto 1:3:1 che si ottiene
sulla diagonale di 50M. I lati del rettangolo della corte (15M
× 24M)101 sono in rapporto di 5:8.
Tale rapporto si può ottenere mediante costruzioni diverse (Fig. 33,3). Ad esempio, se si esclude la fascia degli
ambienti nord e si considera il rettangolo euclideo di 20M
× 40M residuo (A1B1CD), possiamo ripartire il lato di un
quadrato di 20M in due segmenti di 8M e 12M, secondo il
sistema delle partizioni armoniche, ovvero ribaltando il
lato sulla diagonale e la parte restante di quest’ultima sul
lato opposto, ottenendo la profondità degli ambienti est e
ovest (a meno di uno spessore murario) e la misura del lato
lungo della corte. Rimane evidente che quest’ultima (24M)
è la parte armonica di un segmento di 40M.
Le vistose irregolarità del peristilio e l’assenza di uno
stilobate che delinei i margini della corte scoperta hanno
reso più difficile cogliere una precisa relazione fra i suoi lati
e, di conseguenza, verificare se, come abbiamo ipotizzato,
le misure degli interassi angolari entrassero in una precisa
relazione con quelle della corte e quindi dell’intera abitazione.102
Un rapporto prossimo a 2:3 si ha considerando il filo
esterno delle colonne angolari, ma l’interasse complessivo
del lato breve e quello del lato lungo sono fra loro in rapporto di 8:13, numeri consecutivi della serie di Fibonacci il
cui quoto esprime in maniera abbastanza precisa il numero
d’oro. Il rettangolo del peristilio è quindi un rettangolo aureo (Fig. 33,4) benché, considerata la qualità complessiva
dell’abitazione, concordiamo con quanti affermano che
spesso questa circostanza sia piuttosto una risultante non
intenzionale di un procedimento progettuale diverso. Essa,
al massimo, poteva costituire un valore aggiunto.103 Infatti, a proposito del rapporto di 5:8 riscontrato tra le misure
dell’intera corte, è da notare che anche 5 e 8 sono numeri
che nella serie di Fibonacci costituiscono la coppia imme-
Per la stessa ragione per cui è stato difficile indicare le misure complessive del peristilio, altrettanto problematico è
risultato risalire alla profondità di ciascun portico.
Misurata in diversi punti, essa non appare costante. Ciò
è particolarmente evidente nel caso del portico nord. Il
fronte dell’ambiente 18 appare considerevolmente arretrato rispetto a quello dell’esedra 16 e le colonne del peristilio
non sono allineate, pertanto la misura da ciascuna di esse
101 Si noterà anche che (10M + 10M/2) × (10M + 10M√2) = 15M ×
24M.
102 Le colonne del lato est del peristilio sono quelle per cui il computo dell’interasse complessivo è più attendibile perché di esse si con-
servano solo i primi elementi e i loro assi sono sul medesimo allineamento. Altrettanto in asse appaiono le colonne del lato sud benché la
loro congiungente non sia parallela al fronte degli ambienti sud.
103 Geertman, op. cit. a nota 99, p. 48.
diatamente precedente, ancorché – come è noto – il numero d’oro risulti espresso in maniera più esatta da coppie di
numeri successivi (5:8 = 0,625>0,618).
La corte sarebbe dunque inquadrata entro un rettangolo
aureo, adottando tra i suoi lati un rapporto meno preciso,
ma che consentisse anche di raccordare modularmente le
sue misure a quelle generali (Fig. 33,5).
Le gallerie del peristilio sui lati est e ovest sono sostanzialmente di uguale profondità mentre una sensibile differenza si riscontra tra i lati nord e sud. È dunque evidente
che la corte scoperta non insiste sulle diagonali del rettangolo del cortile, ma appare traslata verso Nord. Il numero
di colonne non riflette il rapporto fra i lati del peristilio, ma
quello di 3:4 dell’intera abitazione. Pertanto, a prescindere
dalle notevoli disomogeneità all’interno dello stesso lato,
gli interassi sui due lati sono variati.
Nella tabella 2 abbiamo espresso il calcolo degli interassi
a partire dagli intercolunni rilevati, elencati a partire dall’angolo nord-ovest in senso orario. In grassetto abbiamo
indicato gli interassi più vicini all’interasse teorico, pari a
4M 1/3 (m 3,033) sui lati lunghi (nord e sud) e a 4M (m 2,80)
sui lati brevi (est e ovest).
Tabella 2.
Intercolunni
+ 2P=(2 × 29,6 cm)
Lato N: media 304,43
244,7
303,2
257,7
316,2
234,7
293,9
Lato E: media 277,45
230,5
289,7
206,7
265,2
Lato S: media 301,33
256,6
315,8
229,7
288,2
240,8
300,7
Lato O: media 270,95
207,7
266,2
217,5
276,7
40
sergio aiosa
Fig. 33. Schemi per la decodifica della geometria della Casa C: 1-3 la corte; 4-10 il peristilio; 11-13 gli ambienti.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
41
al muro di fondo del portico è soggetta a variazioni non trascurabili.
Non essendovi traccia di uno stilobate che individui nettamente un rettangolo di inquadramento della corte scoperta, abbiamo considerato come punto di riferimento gli
assi delle colonne angolari e, quindi, gli interassi complessivi sui due lati.
La misura della distanza dal prospetto degli ambienti
sud alle colonne varia dai m 2,70 ai m 2,80. Dal momento
che l’interasse complessivo sul lato breve è di m 5,60 (8M),
abbiamo considerato la possibilità che la profondità del
portico sud corrispondesse alla sua metà, cioè 4M, ipotizzando dunque una scansione, da Sud a Nord, di 1 + 2 +
½ = m 2,80 + 5,60 + 1,40 = 4M + 8M + 2M = 14M.
Dato che il lato breve della corte è di 15M e che la misura
del lato breve del peristilio, pari ad 8M, è calcolata sugli assi
delle colonne, se ne ricava necessariamente che il modulo
non corrisponde al diametro delle colonne (59-60 cm), ma
alla misura del plinto sottostante (70 cm).104
Pertanto, alla misura della profondità di ciascun portico
sopra indicata va aggiunto ½M per parte, ottenendo dunque: m 3,15 + 5,60 + 1,75 = 4½M + 8M + 2½M = 15M.
La nostra ipotesi incontra una difficoltà solo apparente.
Secondo il nostro computo, la profondità del portico nord,
dall’asse della colonna al prospetto degli ambienti nord,
sarebbe di m 1,75. Misurando tale distanza sulla pianta,
ponendosi ortogonalmente al prospetto dell’ambiente 18
giungiamo invece a ca. m 2. La differenza (cm 25) non è
certo trascurabile, ma il già menzionato arretramento del
prospetto dell’ambiente 18 rispetto all’anta destra della vicina esedra 16 suggerisce la possibilità che vi sia una rotazione in senso orario del rettangolo teorico rispetto a quello reale, tale da annullare questa differenza.
E, a ben vedere, lo spostamento verso Nord del peristilio
sembrerebbe incongruo se non determinasse un allineamento delle colonne mediane dei suoi lati brevi con il vano
che dal vestibolo originario (ambiente 3) immette nella corte. Tale allineamento risulta più evidente ammettendo appunto tale rotazione del rettangolo di inquadramento della
corte rispetto alla planimetria generale.
Rimane da evidenziare come sia stato possibile determinare geometricamente dimensioni e posizione del peristilio. Il lato FG di un quadrato di 10M interseca la diagonale
del rettangolo ABCD di 30M × 40M nel punto o, individuando un segmento pari a ¼ della diagonale stessa (12½M). Il
ribaltamento del quarto di diagonale sul lato BC determina
l’allineamento del lato nord del peristilio e, di conseguenza,
la profondità del portico settentrionale (Fig. 33,6).
I vertici nordest e nordovest del peristilio sono individuati dall’intersezione di una retta passante per tale allineamento e una circonferenza con centro all’incrocio tra le
due diagonali del rettangolo ABCD e raggio pari a 7M, determinato dall’altezza relativa all’ipotenusa dei triangoli
ACD e BCD (Fig. 33,7). Una circonferenza con centro in
uno dei vertici così individuati (o) e raggio pari alla distanza
tra detto centro e l’asse longitudinale della corte ripartisce
il lato maggiore del rettangolo del peristilio in due segmenti di 5M e 8M (il cui rapporto dunque è pari a Ê). Quest’ultima misura corrisponde al lato breve del peristilio ed è data anche dalla somma delle profondità delle gallerie nord
ed est (Fig. 33,8-9).
Secondo questa ipotesi, rispetto all’asse longitudinale
dell’abitazione quello del peristilio si troverebbe 1½M più
a Sud e quello della corte 2½M più a Sud. Quindi il centro
del peristilio si troverebbe 1M più a Nord di quello della corte. Ciò equivale a dire che una circonferenza di diametro
13M con centro al centro del peristilio (o) è tangente al punto medio del lato lungo della corte (vedi Fig. 33,4).
Ma se i lati della corte (15M × 24M) sono in rapporto di
5:8, un quadrato di lato 15M, per la proprietà dei rettangoli
aurei, individua un secondo rettangolo, anch’esso aureo, di
9M × 15M.
Nella Fig. 33,10 si evidenzia come a determinare la posizione del lato meridionale del peristilio sia anche la parte
subarmonica del lato del quadrato di 15M, ovvero 10M e ½.
Essa, pari alla semidiagonale del quadrato di 15M, corrisponde alla somma della profondità del portico nord (2½M)
e del lato breve del peristilio (8M). Pertanto, lo spostamento
del peristilio verso Nord avviene, in qualche misura, proprio in ragione del rapporto di 5:8 tra i lati della corte.105
Inoltre, il quadrato stesso individua una partizione significativa del lato sud dell’abitazione, corrispondente al muro tra gli ambienti 7-8 e 9-11. Questo punto, riportato sul lato ovest determina il limite nord dell’ambiente 13.
Individuati i rapporti principali tra le parti caratterizzanti l’abitazione (le sue misure generali, la corte, il perisitilio),
è possibile verificare come anche la collocazione dei singoli
ambienti segua una logica altrettanto semplice e rigorosa.
Le diagonali del rettangolo di 30M × 40M individuano i
triangoli ACD e BCD, le cui altezze relative all’ipotenusa
identificano sulle diagonali stesse due segmenti che, ribaltati sul lato AB del rettangolo, individuano la larghezza dell’ambitus, compresi i muri che lo delimitano, quindi restano
determinate anche le larghezze dell’esedra 16 e dell’ambiente 18, il cui limite est coincide con il lato di un quadrato
di 30M × 30M (Fig. 33,11).106
104 I plinti su cui poggiano le colonne sono assai irregolari e alcuni
di essi presentano misure notevolmente maggiori, ma le più ricorrenti sono quelle comprese fra i cm 66 e i cm 75 ca.
105 La centralità di questo rapporto nel dimensionamento dell’abitazione emerge riflettendo già sul rettangolo di 30M × 40M, la cui
diagonale di 50M lo scompone in due triangoli pitagorici. Pertanto, il
rapporto tra il cateto maggiore (40M) e la semidiagonale (25M) è
40:25 = 8:5 = Ê.
106 Tale proiezione scompone il lato AB del rettangolo in 18M
(parte armonica di 30M) e 22M (10M√5). Si noterà che 30M × 40M:50M
= 24M. Pertanto, il lato lungo della corte (10M + 10M√2) è uguale all’altezza relativa all’ipotenusa e, come si è detto, questa è la parte armonica di 40M.
42
sergio aiosa
L’intera sequenza di ambienti 7-12 è pari a alla lunghezza
della diagonale di un quadrato avente per lato una misura
pari a 2/3 del lato breve dell’abitazione (o metà del suo lato
lungo):107 20M√2 = 28M. La relazione con le altre misure è
evidente, in quanto 20M + 8M = 28M. Evidentemente vengono determinate, per differenza, le dimensioni dell’ambiente 6. Le dimensioni dell’ambiente 7-8 sono di 5M × 5M√5.
La semidiagonale di un quadrato di 10M, pari a 7M, ribaltata sul lato BC del rettangolo determina il punto a, che
segna la profondità degli ambienti 18 e 22. La stessa operazione condotta sul lato CD, individua il punto b, quindi la
larghezza dell’ambiente 12. Tale misura è la parte subarmonica di un quadrato di 10M.
Un arco di circonferenza con centro in o e raggio pari a
15M, è tangente in c all’asse longitudinale dell’abitazione,
su cui insiste il limite sud dell’ambiente 1, e individua sul lato CD il punto d, che segna il limite tra gli ambienti 7-8 e 911. Ribaltando il segmento Dd sul lato AD del rettangolo si
individua il punto e, su cui insiste il limite nord dell’ambiente 13 (Fig. 33, 12).108
Le misure complessive degli ambienti 14 e 15, larghi rispettivamente 5½M e 7½M,109 corrispondono a 8M × 13M,
cioè sono le stesse del peristilio. Se per quest’ultimo la scelta di un rapporto che esprimesse il numero d’oro avrebbe
potuto sembrare anche voluta espressamente, costituendo
il colonnato un elemento di prestigio dell’abitazione, il riscontrare il medesimo rapporto in una coppia di ambienti
meno importante conferma come la sezione aurea sia spesso una risultante non intenzionale della progettazione.110
Per l’andamento leggermente obliquo del muro divisorio, meno precisa (ca. 5 cm sulla misura totale) risulta
essere la scansione modulare degli ambienti 3 e 4, la cui larghezza è rispettivamente di 4M e 6M. Il medesimo procedimento impiegato per determinare la posizione dei muri che
delimitano l’ambitus applicato al rettangolo FGCH, simile al
rettangolo ABCD e pari ad ¼ della sua superficie, individua
anche il muro che divide questi due ambienti (Fig. 33,13).
107 Posto che il rapporto tra i lati dell’abitazione è di 3:4 è chiaro
che il lato di siffatto quadrato è pari all’ipotenusa del triangolo pitagorico di 3 × 4 × 5 cui è stato sottratto il cateto minore. In altri termini,
la parte armonica della diagonale è costituita dal cateto minore (i.e.
50M = 30M + 20M, laddove 30M è appunto la parte armonica). Viceversa, 28M è la parte subarmonica di 40M.
108 Vd. Fig. 33,10.
109 Si noterà che 7½M è equivalente ad ¼ della lunghezza del lato
breve dell’abitazione e che 7,5M:10M = 30M:40M. Non necessaria
dunque una costruzione particolarmente complessa per determinare
la posizione del muro divisorio tra questo ambiente e il successivo
ambiente 14. Tuttavia, un rapporto con altri punti fondamentali dell’abitazione è illustrato alla Fig. 33,13 nella quale parimenti si evidenzia come il medesimo principio illustrato alla Fig. 33,9 sia utile a determinare la profondità della galleria ovest e, al contempo, il limite
tra gli ambienti 14 e 15.
110 È stato fatto notare che Vitruvio, dopo essersi soffermato sul
triangolo “egizio” di 3 × 4 × 5, non fa menzione di altri triangoli rettangoli i cui lati sono espressi da numeri interi, tra cui il triangolo di
5 × 12 × 13 (P. Gros, Nombres irrationels et nombres parfaits chez Vitruve,
mefra , 88,2, 1976, p. 672. Il riferimento è a Vitr. De Archit. ix, praef.,
6-7. Su questo passo si veda Vitruvio, De Architectura, ed. a cura di P.
Gros, trad. e commento di A. Corso e E. Romano, Torino, 1997, p.
1250, note 22-23). Tuttavia, riflettendo sulle misure della Casa C di
Tindari, si noterà che 13M è pari alla lunghezza del lato lungo del peristilio, 12M a metà del lato lungo della corte e 5M è pari alla profondità degli ambienti del lato sud oltre ad essere una misura che concorre alla determinazione di molte altre parti dell’abitazione. La
stessa tripartizione del lato lungo del rettangolo secondo il rapporto
8M:24M:8M (1:3:1) illustrata alla fig. 33,2 determina ogni 10M due coppie di rettangoli di 5M × 12M, le cui diagonali sono appunto pari a
13M, compresi fra rettangoli aurei di 8M × 5M. (Si noti che 2.5M√5 +
2.5M = 5M × 1.6 = 8M. L’ambiente 5, all’angolo sudest dell’abitazione
è inquadrato proprio entro uno di questi rettangoli aurei.) Da questo
punto di vista, il triangolo di 5M × 12M × 13M e quelli aurei di 5M × 8M
si possono dunque considerare ‘generati’ dal triangolo ‘egizio’ di base di 30M × 40M × 50M.
111 Valore vicino a quello del c.d. pes Cossutianus. Un regolo conservato al Bristish Museum attesterebbe un piede di cm 29,4795 (L. C.
Stecchini, A History of Measures, www.metrum.org/measures/romegfoot.htm)
112 Le incertezze sull’altezza effettiva delle colonne del peristilio
non ci permettono di affermare che quest’ultima abbia costituito
l’unità modulare base per il dimensionamento dell’abitazione, tanto
più che essa semmai può considerarsi una misura derivata, considerato che le dimensioni del lotto edificabile sono vincolate da criteri
esterni alla progettazione dell’abitazione stessa.
Stabiliti i rapporti proporzionali tra le dimensioni dell’abitazione e quelle delle sue singole parti (la corte, il peristilio
ecc.) abbiamo cercato di tradurre tali misure in un numero
di piedi che fosse congruo. Ciascuna di esse deve cioè potersi tradurre in un multiplo intero dell’unità di misura impiegata o in frazioni il cui uso nell’antichità sia attestato.
Abbiamo dunque ricercato un divisore comune che desse
come risultato multipli interi del ‘piede’ adottato. Considerate le misure rilevate, tale divisore è 28, ma un piede di 28
cm non è ipotizzabile. Ugualmente è possibile ottenere frazioni non troppo illogiche dividendo tutte le misure per 30.
Ma, piuttosto che postulare l’adozione di un piede di 30 cm,
abbiamo anche seguito il procedimento inverso, individuando multipli interi o frazionari in cui era possibile tradurre le nostre misure e abbiamo calcolato lo scarto rispetto ad un piede romano ‘canonico’ di 29,6 cm, valore per il
quale non è possibile dividere le misure della casa C, in
quanto i decimali ottenuti non conducono a frazioni attestate. Operando in questo modo, il massimo scarto registrato è di cm 12 (su una misura totale di 28 m) mentre, annullando lo scarto, si giungerebbe ad un piede di 29,473 cm,
valore probabilmente troppo basso, benché non manchino
riferimenti ad un piede di 29,44.111 Pur rinunciando a determinare in maniera rigorosa il valore esatto del piede
adottato nella casa C di Tindari, in quanto la qualità complessiva dell’abitazione e le stesse modalità del rilevamento
non lo consentono, ci sembra che il risultato ottenuto confermi l’adozione di una misura modulare, secondo 1M≈70
cm (2P e 6 digiti), per la scansione di tutte le parti dell’abitazione. Come si è detto, essa è suggerita dal rapporto di
8:13 tra i lati del peristilio, ma anche dalle verifiche condotte
sul prospetto dell’esedra 16:112
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
po geometrico, presuppone l’adozione di approssimazioni
di misure legate da rapporti irrazionali.113 Ciò allo scopo
di fornire ai costruttori lunghezze espresse in multipli interi dell’unità di misura.
Pertanto, una serie di rettangoli ‘dinamici’, costruiti a
partire da un quadrato di 5M all’angolo sudovest della corte, individua i vertici del peristilio e la sua posizione rispetto
alla corte stessa e all’abitazione:
11M = anta sinistra
13M = tangente colonna sinistra
15M = asse esedra
16M = tangente colonna destra
19M = tangente anta sinistra
10M = larghezza esedra
11M = fine anta sinistra
Il procedimento adottato e i risultati ottenuti sono esemplificati dalla Tabella 3 (le misure sono espresse in metri):
5M√2 = 17M ≈ angolo sud-ovest del peristilio
5M√3 = 18,5M = asse longitudinale del peristilio
5M√4 = 10M = asse longitudinale dell’abitazione
5M√6 = 12,5M = angolo nord-ovest del peristilio
5M√9 = 15M = lato breve della corte
Tabella 3.
Lato lungo casa
Lato breve casa
Ambienti 5-12
Lato lungo corte
Quadrato di base
Lato breve corte
Lato lungo peristilio
Ambienti nord
Lato breve peristilio
Ambienti sud
Portici nord e sud
Portico nord
Portico sud
Portici est e ovest
43
Misure
Piedi
0,296
Scarto
1,128
1,121
19,60
16,80
1,114
10,50
19,10
11,17
15,60
13,50
14,90
11,75
13,15
13,85
95
71¼
66½
57
47½
35 ⅝
30⅞
23¾
19
11⅞
16⅝
1515⁄16
1011⁄16
131⁄16
28,12
21,09
19,684
16,872
14,06
10,545
19,139
17,03
15,624
13,515
14,921
11,757
13,163
13,866
+ 0,12
+ 0,09
+ 0,084
+ 0,072
+ 0,06
+ 0,045
+ 0,039
+ 0,03
+ 0,024
+ 0,015
+ 0,021
+ 0,007
+ 0,013
+ 0,016
Oltre che ai rettangoli ‘dinamici’, abbiamo più volte fatto
riferimento alle partizioni armoniche e subarmoniche.
Nelle Tabelle 4 e 5 abbiamo applicato entrambi i principi,
iterandoli benché, trattandosi di multipli, non sarebbe necessario, perché risulti più agevole constatare come da essi
derivino tutte le misure rilevanti dell’abitazione.
Con A e S si sono designate rispettivamente la parte armonica e quella subarmonica; RA e RS indicano i segmenti
rimanenti sottraendo a ciascuna misura ciascuna delle due
parti. In neretto sono state evidenziate le misure principali
dell’abitazione.
Se le numerose irregolarità riscontrate, cui si è più volte fatto riferimento, non permettono di sovrapporre un unico
reticolo alla planimetria della Casa C, una pianta schematica regolarizzata che rifletta le misure teoriche individuate
illustra come ciascun ambiente sia inquadrabile entro una
griglia di 30 × 40 quadrati di 1M, di volta in volta includendo
o escludendo uno o entrambi gli spessori murari (Fig. 34).
Nel corso di questa esposizione abbiamo illustrato una
serie di costruzioni che, stante la presenza di rapporti di ti-
In definitiva, geometria e aritmetica hanno concorso
alla determinazione di tutte le parti dell’abitazione
pertinenti alla fase ellenistica. Benché l’esposizione
del procedimento probabilmente impiegato possa
apparire complessa, il progetto tiene conto di semplici proprietà dei triangoli pitagorici e, diremmo
conseguentemente, dei rettangoli aurei, non presupponendo necessariamente una cultura particolarmente elevata dell’architetto. La posizione delle parti rilevanti dell’abitazione poteva essere determinata
in maniera ‘quasi’ esatta mediante il ricorso ad altre
semplici costruzioni che abbiamo trascurato di evidenziare, ma che possono considerarsi la traduzione
Tabella 4.
1
3,50
5M
7
10M
√2 = 1,4
4,90
7M
9,80
14M
√3 = 1,7
5,95
8,5M
11,90
17M
√4 = 2
7
10M
14
20M
√5 = 2,2
7,70
11M
15,40
22M
113 Sulle approssimazioni si veda J. J. Coulton, Toward understanding Greek Temple Design: General Considerations, in bsa , lxx, 1975, p.
62; Gros, op. cit. a nota 110, pp. 672-679; Geertman, op. cit. a nota 99,
p. 33-35; Id., Vitruvio e i rapporti numerici, in BABesch, lix, 1984, p. 57 sg.,
62. Non sembra invece si sia fatto ricorso alle approssimazioni
derivate, secondo le quali se la diagonale di un quadrato di 5 è 7 la
√6 = 2,5
8,75
12,5M
17,50
25M
√7 = 2,6
9,10
13M
18,20
26M
√8 = 2,8
9,80
14M
19,60
28M
√9 = 3
10,50
15M
21
30M
diagonale di un quadrato di 7 non è 9,8 (i.e. 7 × 1,4) ma è 10, ovvero il
doppio di 5 (L. Frey, Médiétés et approximations chez Vitruve, in ra ,
1990, 2, p. 286; Id., La transmission d’un canon: les temples ioniques, in Le
Projet de Vitruve. Objet, destinataires et réception du De Architectura,
Actes du colloque international organisé par l’École française de
Rome, 26-27 mars 1993, Roma, 1994, p. 144, fig. 1.
44
sergio aiosa
Tabella 5.
Misure
M
√2
M
S
√2/2
M
RS
1-√2/2
M
A
2-√2
M
RA
√2-1
M
S+A
M
3,50
7
10,50
14
17,50
21
28
35
5
10
15
20
25
30
40
50
4,90
9,80
14,70
19,60
24,50
29,40
39,20
49
7
14
21
28
–
–
–
–
2,45
4,90
7,35
9,80
12,25
14,70
19,60
24,50
3½
7
10½
14
–
21
28
–
1,05
2,10
3,15
4,20
5,25
6,30
8,40
10,50
1½
3
4½
6
7½
9
12
15
2,10
4,20
6,30
8,40
10,50
12,60
16,80
21
3
6
9
12
15
18
24
30
1,40
2,80
4,20
5,60
7
8,40
11,20
14
2
4
6
8
10
12
16
20
–
9,10
–
–
–
–
–
–
–
13
–
–
–
–
–
–
S+RA M
3,85
–
–
–
–
–
–
–
5½
–
–
–
–
–
–
–
in prassi cantieristica di un pensiero geometrico più
rigoroso. Tutte le partizioni della Casa C trovano
una spiegazione mediante il ricorso ad uno stesso
principio geometrico e non sono dettate né dalla casualità né tanto meno, come spesso si afferma, dall’arbitrio di una committenza che, in nome di una
funzionalità, sacrificherebbe sempre e comunque la
linearità di un progetto. L’aver evidenziato il criterio
compositivo è particolarmente rilevante in quanto
riteniamo che anche l’equazione tra povertà tecnologica e assenza di progettualità sia spesso posta arbitrariamente. Anzi, in qualche misura, proprio il ricorso alla geometria legittima il confronto con
esempi più illustri di architettura domestica colmando il divario tra la tecnica costruttiva assai corrente
della Casa C e quella di questi stessi esempi.
Volendo indicare alcune analogie con altre abitazioni siciliane riguardo certi particolari costruttivi e
formali, è da segnalare, in primo luogo, Morgantina,
dove è altrettanto documentata la presenza di capitelli in terracotta ‘siculo-corinzi’.114 Questo centro
costituisce un sito da privilegiare, in ambito siciliano,
anche per i confronti concernenti singole soluzioni
tecnologiche, quali le colonne a mattoni circolari e
in muratura di mattoni su plinti lapidei, ma si nota
un uso più esteso di mattoni anulari.115
Né mancano confronti tra determinate soluzioni
adottate nella Casa C e quelle riscontrate in alcune
abitazioni del quartiere ellenistico-romano di Agrigento.116 In particolare, la ‘Casa del peristilio’ documenta un’analoga fila di piccoli ambienti su un lato
del colonnato.
Altresì è possibile trovare dei paralleli anche per
una più sostanziale trasformazione intervenuta nella
Casa C: nella Casa del criptoportico, ancora ad Agrigento, muri secondari chiudono gli intercolunni del
peristilio, soluzione questa che troviamo adottata frequentemente anche in altri centri (fra gli altri, ancora
a Morgantina, nella Casa della Cisterna ad arco).117
Tuttavia, a Tindari, come si è detto, la presenza di
ante addossate alle colonne del peristilio potrebbe
rappresentare, più che un semplice adeguamento
del cortile alla logica romana del viridarium, una
sorta di divisione tra pubblico e privato di parte del
114 Lauter-Bufe, op. cit. a nota 56, cat. nn. 27-29, pp. 17-21, tavv. 911. Ulteriori frammenti di capitelli corinzi di terracotta, volute e fiori
d’abaco, provengono da trincee scavate nelle colline orientale ed occidentale, su cui sorgono le grandi case a peristilio di Morgantina
(Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 89 e p. 231 sg.).
115 Lauter, op. cit. a nota 64, p. 55, nel porre in rilievo le analogie
tra le colonne di Tindari e quelle di Morgantina, fa notare che nelle
colonne del peristilio della casa della Cisterna ad arco, si trovano impiegati tanto mattoni anulari quanto scaglie di mattoni rivestite di
stucco in cui sono riprodotte le scanalature. Le misure dei diametri
sono più contenute rispetto a quelle rilevate nella Casa C di Tindari:
a fronte di un diametro medio di m 0,60 per le colonne di Tindari, le
colonne di tutti i peristili di Morgantina hanno diametri di m 0,40-0,45
(Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 310 e nota 27 a p. 346). Nella Casa della
cisterna ad arco le tre colonne sul lato sud, le due colonne del lato
nord, di fronte l’ambiente 12 e tre colonne del lato ovest sono tutte su
una base circolare di pietra lavorata in uno stesso concio con lo stilobate, particolare che ricorre nella Casa del Magistrato e nella Casa
della doppia cisterna. Sul plinto quadrangolare della base si sovrappone la pavimentazione in cocciopesto del portico (Tsakirgis, op. cit.
a nota 31, p. 127 sg.).
116 I confronti con le due abitazioni di Agrigento qui richiamate sono stati già proposti da Wilson, op. cit. a nota 9, p. 122, ma le analogie
si fondano su caratteri dell’impianto della Casa C non contestuali alla
sua prima redazione. Tali confronti sono ribaditi in Holegaard Olsen-Rathje-Trier-Winther, op. cit. a nota 12, p. 252. Sarebbe possibile indicare altri paralleli che, tuttavia, ci sembrano poco determinanti per affermare il diffondersi di una cultura architettonica unitaria, in
quanto concernono singole soluzioni funzionali e non rispecchiano
l’adozione di uno specifico impianto e, meno che mai, l’assimilazione
di specifici aspetti di una cultura abitativa diversa da quella locale.
117 Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p. 128.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
45
Fig. 34. Tindari, Casa C,, pianta schematica con la scansione modulare.
peristilio conseguente alla nuova configurazione
dell’abitazione.
I setti murari creano delle ante alle estremità delle
gallerie sud ed est, con il cui probabile scopo di isolare, quindi privatizzare, una parte del peristilio e degli ambienti che vi si affacciavano. Infatti, la presenza
di queste ante induce a ritenere che la chiusura degli
intercolunni non si limitasse ai pochi ricorsi di pietre
superstiti, ma costituisse la trasformazione del peristilio in criptoportico.118
Una recente rilettura operata, a seguito di nuove
indagini archeologiche, sulla Casa B di Piazza della
Vittoria a Palermo propone di riconoscere nei brevi
setti murari che chiudono gli intercolunni del peristilio non un basso parapetto, ma pareti continue
nelle quali si aprivano ampie finestre.119 Analogamente a quanto riscontrato a Tindari, in uno degli
intercolunni era lasciato un varco per l’accesso alla
corte scoperta.
Ma, ancora una volta, un intervento di questo tipo, anche se cospicuo, non fa parte di una cultura architettonica di una specifica regione. Tenuto conto
delle differenze cronologiche, una simile concezione
si ritrova anche ad Eretria nella Casa ii (Fig. 35) e rappresenta una soluzione comune in molti altri casi.
Questo esempio dimostra che può trattarsi di un ti-
118 Sul termine ‘criptoportico’ si vedano le utili precisazioni in F.
Coarelli, Crypta, cryptoporticus, in Les cryptoportiques dans l’architecture romaine (= Colléfr 14), Rome, 1973, pp. 10-12.
119 C. A. Di Stefano, Nuovi dati archeologici sull’edificio B di piazza
della Vittoria a Palermo e interventi di restauro del mosaico della caccia, in
Carra Bonacasa-Guidobaldi, op. cit. a nota 56, p. 11 sg., fig. 9.
L’ipotesi non è più seguita in G. Montali, Analisi architettonica e
ipotesi ricostruttive, in F. Spatafora, G. Montali, Palermo: nuovi scavi
nell’area di Piazza della Vittoria, in Osanna-Torelli, op. cit. a nota 12,
p. 142, note 4-6, figg. 28-29.
46
sergio aiosa
po di partizione che non comporta lo sdoppiamento
della casa in due diverse unità abitative, ma soprattutto che non si tratta di un fenomeno necessariamente ascrivibile ad età tarda.120
Ma, di norma, questi accorgimenti sono di gran
lunga successivi al primo impianto ed è ipotesi plausibile che essi segnino, più che una specializzazione
delle varie funzioni degli ambienti, un impoverimento dei proprietari. Riteniamo, cioè, possibile che
la partizione tra spazio pubblico e spazio privato,
realizzata in una prima fase sui due livelli, sia ottenuta ‘orizzontalmente’ in un momento successivo, per
una riduzione della proprietà determinata dalla necessità di alienare il piano superiore, mentre il pianterreno rimane indiviso. Infatti, a Tindari non vi è
traccia dell’apertura di un ingresso indipendente dal-
l’esterno relativo agli ambienti della parte della casa
delimitata dalle ante e nella quale proponiamo di vedere l’area privata dell’abitazione.
L’accresciuto numero di ambienti su questo lato,
frutto di suddivisioni seriori, potrebbe essere in relazione con la chiusura della galleria sud, in seguito alla sua trasformazione in criptoportico.
Pertanto, pur non potendo affermare con certezza la pertinenza di quest’ultimo intervento alla medesima fase costruttiva che ha visto la formazione
degli ambienti 7-8 e 9-11, possiamo ragionevolmente
supporre che tali modifiche siano avvenute se non
contemporaneamente, in rapida successione di tempo, essendovi una innegabile consequenzialità tra il
delimitare una parte privata dell’abitazione con la
chiusura delle gallerie e il comprendere al suo interno una serie di ambienti che, per le dimensioni contenute e la posizione dei vani d’accesso, potevano essere destinati a camere da letto.
Il problema della ripartizione di un edificio a più
piani è stato posto da J. Chamonard121 e da R. Vallois
per Delo. Questi osserva che «l’ñÂÚáÈÔÓ d’une maison particulière peut appartenir à une autre personne que le rez-de-chaussée: dans les habitations décrites par J. Chamonard nombreux sont les étages qui
ont une entrée indépendante. Parfois le rez-dechaussée lui-même semble avoir été divisé entre
plusieurs propriétaires.». Si tratterebbe cioè di esempi di synoikìai, quali attestati abbondantemente a
Delo dall’epigrafia.122 Non necessariamente ciò implica una pertinenza delle abitazioni a schiavi o cittadini poco abbienti, come poteva avvenire in alcuni
quartieri di Atene.123 Tale questione, ripresa più di
recente,124 è stata considerata con qualche riserva,
adducendo anche esempi moderni.125 In realtà, per
una simile disposizione di scale private si potrebbero
citare anche esempi tratti dalla realtà siciliana di
qualche decennio addietro, specialmente dei piccoli
120 Per altri esempi di chiusura degli intercolunni ancora in età ellenistica si veda W. Hoepfner, Zum Typus der Basileia und der königlichen Andrones, in Basileia. die Paläste der hellenistischen Könige, Intern.
Symposion Berlin, 16-20/12/1992, Mainz, 1996, p. 23. Nessuna valenza
‘culturale’ va attribuita dunque al fenomeno. Altra cosa è la trasformazione della corte centrale scoperta in giardino. Tale intervento riguarda la Casa della cisterna ad arco e la Casa del Magistrato(?) a
Morgantina e si daterebbe al 10 a.C. (Tsakirgis, op. cit. a nota 31, p.
477). L’ipotesi si fonda sulla mancanza della pavimentazione. È da ritenere che l’attuale sistemazione a giardino della corte della Casa C
di Tindari sia basata sulla stessa circostanza.
121 Chamonard, op. cit. a nota 97, p. 193.
122 R. Vallois, L’architecture hellénique et hellénistique à Délos jusq’à
l’eviction des Déliens (166 avant J.-C.), (= befar , i), Paris, 1944, p. 216.
123 B. Carr Rider, Greek Ancient House, Cambridge (1916), rist.
1965, p. 212.
124 Ad esempio, in M. Kreeb, Das delische Wohnhaus. Einzelprobleme, aa 1985, p. 109.
125 Hoepfner, op. cit. a nota 120, p. 41, nota 144, osserva: «Wahrscheinlicher ist jedoch, daß die Häuser in Delos und auch in Pergamon keine horizontale, sondern eine vertikale Teilung aufwiesen,
wobei die Privaträume natürlich oben lagen […] Wenn Treppen direkt von der Straße nach oben führen, muß das nicht unbedingt dafür
sprechen, daß oben eine andere Familie wohnte, denn auch im islamischen Bereich war es üblich, daß der Privatbereich des Hauses
(Harem) direkt von der straße aus erreicht werden konnte. Im übrigen haben häufige Teilungen der Häuser (Erbschaft und andere Ereignisse) das ursprüngliche Bild verändert».
Fig. 35. Eretria, Casa ii.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
47
centri rurali, ma riteniamo che rifarsi ad impianti repiù che a questioni di ordine culturale, attribuiamo
lativi a culture per le quali una forte componente
gli adattamenti finora descritti alla serie di interventi
ideologica può condizionare le forme architettonidi ordine funzionale sottolineando, fra l’altro, che esche, significhi andare troppo oltre. Ne deriverebbe,
si rappresentano la ‘negazione’ dell’impianto assiale
fra l’altro, la negazione di una specificità regionale
che originariamente caratterizzava la Casa C. Ma vi
dell’architettura domestica attraverso tutte le eposono numerosi interventi sulla struttura originaria
che e tutte le culture. E ancora, la presenza di due acdell’abitazione che ci sembrano invece rimandare a
cessi indipendenti dalla strada può senz’altro non cospecifici esempi.
stituire una prova definitiva della pertinenza dei due
Le proporzioni allungate dell’ambiente 13 e la
livelli dell’abitazione ad un unico nucleo familiare
stessa presenza dei tre ingressi, dei quali il mediano
ma, perché sia così, deve essere documentato un colpiù largo, non trovano confronti in nessuna delle calegamento interno tra le due parti dell’abitazione, a
se a peristilio dei siti della Sicilia, ma riprendono
meno di non ritenere possibile – e, francamente, ci
chiaramente una tipologia che, anche trascurando le
sembra poco probabile – che fosse necessario uscire
questioni filologiche circa l’origine dell’impianto, diin strada per potersi spostare da una parte all’altra di
verrà poi certamente una caratteristica pressoché
una stessa unità abitativa. È anche da ricordare che la
costante delle case delie.127
bipartizione del pianterreno della Casa C di Tindari
Nella Casa C di Tindari queste aperture sono reaè con ogni probabilità da riferire ad età assai tarda e
lizzate a strappo e gli stipiti sono reintegrati utilizgli esempi di suddivisioni di unità abitative, condotte
zando mattoni di terracotta. L’analisi del muro di
senza alcun criterio estetico, proprie dei momenti di
prospetto, conservatosi per poche assise, non concrisi economica e sociale dei cosiddetti ‘bassi tempi’,
sente di stabilire se i due ingressi laterali fossero in
sono molteplici in tutto il bacino del Mediterraneo.
origine due finestre trasformate in porte128 o se la
Le dimensioni delle diverse sezioni del corridoio
loro apertura sia del tutto successiva ad una prima
che corre lungo il limite nord della Casa C sono larredazione dell’ambiente in cui era un solo accesso
gamente compatibili con l’inserimento di rampe di
centrale, come sembra probabile.
scale che avrebbero potuto condurre al piano supeMa, soprattutto, nella Casa C di Tindari si può
riore. Ciò non fa escludere la possibilità che esso fosscorgere l’applicazione di un principio di assialità che
se raggiungibile direttamente dal cardo D tramite
non è da interpretarsi quale il frutto dell’introduzioun ingresso autonomo.126 Ma anche in questo caso,
ne di modi romani nell’architettura domestica siciè ugualmente possibile che un’unica abitazione avesliana del ii sec. a.C., in quanto costituisce già un’acse due ingressi, uno dei quali poteva immettere diquisizione ellenistica.
rettamente nella parte privata, posta in origine al
Infatti tale schema, lungi dal richiamare la sepiano superiore.
quenza assiale fauces-atrium-tablinum della casa italica, ci sembra piuttosto ricalcare fedelmente una sucA seguito di questa analisi, una volta chiarita la crocessione di ambienti anch’essa più volte riscontrata
nologia relativa delle modifiche sull’articolazione
a Delo.
planovolumetrica dell’abitazione, ci si è imposta una
Tuttavia, si è ritenuto di dover ricavare elementi di
riflessione sui possibili modelli tipologici cui riferire
giudizio sulla pertinenza di alcune abitazioni delie a
l’impianto della Casa C nella fase precedente la sua
determinati gruppi nazionali in ragione di alcune caultima trasformazione, tesa a distinguere al suo inratteristiche planimetriche.129 Ci riferiamo al probleterno un percorso pubblico da uno privato. Infatti,
ma dell’assialità di alcune case, attestata sporadica126 Considerata la conformazione del corridoio, la scala avrebbe
potuto essere raggiungibile tanto dall’esterno quanto dalla galleria
settentrionale del peristilio, mediante una rampa posta nel corridoio
17 o in quello 20.
127 A proposito dei grandi ambienti oblunghi a tre ingressi, tipici
delle case di Delo, C. Krause, Grundformen des Griechischen Pastashauses, in aa , 1977, pp. 164-173, p. 178 sg., nel notare una possibile derivazione dagli esempi di Olinto, in cui comunque essi restano piuttosto
un’eccezione, ne fa risalire l’origine al tipo degli oeci preceduti da Vorhalle. Sul tipo del c.d. ‘Breitraum’, diffuso in ambiente orientale, ma
anche a Delo, si veda W. Hoepfner, E. L. Schwandner, Haus und
Stadt im klassischen Griechenland (= Wohnen in der klassischen Polis, i),
München 1986, pp. 277, 288 sg., 291, 296, 327 sg.
128 Ai lati dell’ingresso all’andron della Casa del Tridente non vi sono due porte, ma due finestre (Chamonard, op. cit. a nota 97, p. 171
sg.), ma J. Chamonard tende a minimizzare la differenza che intercorre tra le tre aperture.
129 Il problema della nazionalità dei committenti era stata già posta in rilievo dallo stesso Chamonard, op. cit. a nota 97, p. 218 e nota
5, che, naturalmente, invitava ad esercitare una certa cautela, specialmente se le informazioni in merito erano desunte da reperti mobili
o dalle dediche, facilmente trasportabili da una casa all’altra. Altri ele-
48
sergio aiosa
Fig. 36. Delo, Maison du Trident.
Fig. 37. Delo, Maison des Dauphins.
mente, segnatamente nella Maison du Trident130 e
nella Maison des Dauphins (Figg. 36, 37).
Queste due abitazioni che, datandosi alla fine del
ii secolo a.C., sono esempi cronologicamente affini
al nostro,131 presentano anche le maggiori analogie
nell’impianto. In queste due case e nella Maison du
Diadumène (Fig. 38), l’andron a tre aperture si trova
dal lato opposto all’ingresso, in asse con il peristilio
e prospetta sul portico più profondo. Nella Maison
du Trident la disposizione assiale di vestibolo, peristilio e andron è ulteriormente ribadita dalla presenza di un portico di tipo rodio.
menti di giudizio derivano dall’esame dell’apparato decorativo interno delle case, con particolare riferimento – è ovvio – ai pavimenti e,
solo in seconda istanza, alle pitture. È logico infatti che, pur non trattandosi in entrambi i casi di reperti mobili, il rifacimento delle pitture
parietali è cosa più facile da attuarsi rispetto a quello delle pavimentazioni. Evidentemente, le caratteristiche dell’impianto, ancor meno
facilmente suscettibili di modifiche, potrebbero ritenersi indicatori
inconfutabili, ma ciò solamente ad alcune condizioni. Per la questione dei gruppi nazionali, in particolare italici, operanti a Delo, ‘porto
franco’ del bacino del Mediterraneo, si rimanda a M. Rostovtzeff,
Rodi, Delo e il commercio ellenistico, in cah , vi, 1965, 2ª ed. it. Milano,
1982, pp. 727-744; N. K. Rauh, The Sacred Bonds of Commerce. Religion,
Economy, and Trade Society at Hellenistic Roman Delos, Amsterdam,
1993, part. p. 193 sgg.
stata ripresa di recente da Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota 26, p. 324,
secondo la quale essa deriva dall’assonanza che, in queste case, assume la sequenza vestibolo-peristilio-andron con quella, «tipica» della
casa romana, fauces-atrium-tablinum. In particolare, la studiosa afferma che «È sicuramente di importazione romana l’assialità tra ingresso, peristilio e andròn posto al centro del portico in asse con la porta
d’entrata, della Casa del Tridente a Delo, datata alla fine del ii sec.
a.C.».
131 Va ricordato che numerosi contributi successivi allo studio sul
Quartiere del Teatro riconsiderano le cronologie proposte escludendo, nella sostanza, una datazione al iii sec. a.C. per la maggior parte
delle più note abitazioni dell’isola. Tra i vari contributi di Ph. Bruneau, segnaliamo la serie di articoli pubblicati in bch , ad alcuni dei quali
ci siamo riferiti per queste nostre considerazioni: Ph. Bruneau,
Contribution a l’histoire urbaine de Délos a l’époque hellénistique et a
l’époque impériale, bch , xcii, 1968, pp. 633-709; Id., Deliaca, bch , xcix,
1975, pp. 267-311; Id., Deliaca (ii ), bch , cii, 1978, pp. 109-171.
130 La questione, posta in J. W. Graham, Origin and Interrelations
of the Greek House and the Roman House, in Phoenix, xx, 1, 1966, p. 11, è
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
49
Fig. 39. Delo, Maison du Lac.
Il medesimo schema ricorre in molte abitazioni di
Delo, sia del Quartiere del teatro, sia di altre zone
della città. Tale schema base, che si conclude costantemente con un andron oblungo a tre aperture, è sottoposto a varianti nella disposizione dei singoli elementi costitutivi, in ragione della posizione della
casa all’interno degli isolati che, come è noto, nel caso del Quartiere del teatro, sono assolutamente irregolari.
È dunque l’irregolarità del Quartiere del teatro di
Delo a determinare le variazioni nell’impianto delle
singole case. Tale dato emerge con chiarezza verificando la posizione relativa di ciascuna abitazione rispetto alle altre e può sfuggire qualora si analizzino
planimetrie di singole case estrapolate dal contesto
più generale dell’isolato nel quale sono inserite.
Pertanto, l’uso generalizzato di questo schema,
dal quale si deroga solo per concreti problemi di impianto, sconsiglia di ricavarne indicazioni sulla nazionalità dei committenti o di spiegarne la presenza
con «…l’assunzione di compiti pubblici da parte del
proprietario»,132 estendendo ai peristili di Delo le
considerazioni vitruviane sul tipo di abitazione che
più conviene ai magistrati e, viceversa, sulle persone
che non necessitano di vestiboli, tablinii e atrii perché sono loro a far visita ai cittadini facoltosi e non a
riceverli.133
Trova riscontro con questi esempi anche la
connessione tra l’ambiente 13 della Casa C e quello
immediatamente a Sud, originariamente comunicante attraverso una porta, in seguito tompagnata.
Simili piccoli ambienti affiancano allo stesso modo
gli andrones delle case di Delo. Alla più comune disposizione di tali vani a fianco di quello principale
si associa quella che ricalca la disposizione del
gruppo di tre ambienti costituito da un’antisala
rettangolare e due ambienti retrostanti a pianta
quadrata come, ad esempio, nella Maison du Lac
(Fig. 39).
Altrettanto comune ad alcuni esempi delii (ad
esempio, nella stessa Maison du Lac e nella Maison
des Dauphins) è la disposizione dell’esedra 16 della
132 Zaccaria Ruggiu, op. cit. a nota 26, p. 324. Ci sembra legittimo e molto ben documentato il nesso istituito tra gli impianti assiali
e l’organizzazione della società romana, tuttavia è da supporre una
tendenza all’emulazione da parte di cittadini che dispongono di sufficienti risorse finanziarie per realizzare impianti analoghi, ma che non
necessariamente rivestono cariche pubbliche.
133 «Igitur is, qui communi sunt fortuna, non necessaria magnifica
vestibula nec tabulina neque atria, quod in aliis officia praestant ambiundo quae ab aliis ambiuntur. […] nobilibus vero, qui honores magistratusque gerundo praestare debent officia civibus, faciunda sunt
vestibula regalia alta, atria et peristylia amplissima» (Vitr. De Archit.
vi 5, 1-2, ed. cit. a nota 110).
Fig. 38. Delo, Maison du Diadumène.
50
sergio aiosa
Casa C di Tindari lungo un asse ortogonale a quello
principale.
Tutte queste analogie e, principalmente, la disposizione assiale degli ambienti 3, 2 e 13 pongono, come
è ovvio, il problema dei riferimenti culturali, se non
degli specifici modelli, del costruttore della Casa C.
Pertanto, la mancanza di assialità e simmetria non
può interpretarsi come una sorta di resistenza all’introduzione di caratteri romani o quale sopravvivenza di vecchi schemi, né costituisce un elemento utile
per ricavare conclusioni circa la provenienza dei proprietari.
L’abitudine, poi, a riferirsi alle case del Quartiere
del Teatro non deve però portare a ritenere che l’irregolarità sia una sorta di norma urbanistica vigente
sull’isola,134 specialmente se da ciò si pensi di poter
ricavare che ‘la casa greca’ sia sempre e comunque
contraddistinta da un patente disinteresse per l’assialità e la simmetria. Riteniamo che esempi quali la
Maison du Fourni,135 posta ben lontano dal quartiere del teatro, costituisca un esempio inequivocabile
di come si attuasse una prassi compositiva e costruttiva a Delo, una volta che non fossero presenti numerosi condizionamenti dettati dalle preesistenze e
dalla conformazione generale dei quartieri di abitazione.
I caratteri riscontrati nella Maison du Trident e
nella Maison des Dauphins sono peculiari dell’architettura domestica delia,136 E proprio le due case costantemente prese ad esempio dell’attuazione del
principio romano dell’assialità in un contesto grecoellenistico sfuggono a questo inquadramento. Infatti, è stato fatto rilevare come si tratti dei pochi casi in
cui sia possibile giungere alla determinazione dell’origine della committenza con relativa certezza. In
particolare la Maison du Trident «semble avoir été
construite par un Syrien; les protomés du péristyle
rhodien seraient celles des taureaux de Hadad et des
lions d’Atargatis»137 e, in ragione di ciò, sarebbe da
isolare dalle altre venticinque abitazioni che hanno
restituito pitture liturgiche romane, riguardo le quali permane la possibilità che siano successive all’impianto primitivo. Infatti, a proposito della Maison
des Dauphins è stato fatto notare che tanto la firma
del mosaico della corte, realizzato da un certo Asklepiades di Arado, quanto il segno di Tanit rappresentato nel mosaico del vestibolo legittimino l’ipotesi di
un’attribuzione della casa ad un proprietario di origine orientale e che, tutt’al più, le pitture liturgiche
romane indichino una successiva acquisizione dell’abitazione da parte di un italico.
Le architetture domestiche dell’isola, pur abitate
da proprietari di origine diversa – greca, orientale o
italica – si presentano con una notevole uniformità
per cui, a ragione, si è parlato di una «koiné architecturale».138
134 L’aver fatto assurgere a caso emblematico il Quartiere del Teatro non è una responsabilità degli archeologi francesi. È stato posto
in evidenza che i nuovi isolati di Skardhana hanno un impianto più
coerente, come hanno confermato le indagini archeologiche intraprese tra il 1961 ed il 1975: G. Siebert, Un programme d’architecture
privée à Délos. L’Îlot des bijoux, in Le Dessin d’architecture dans les sociétés
antiques (Actes du Colloque de Strasbourg, 26-28 janvier 1984), Strasbourg, 1985, p. 177. Alla maggiore regolarità del quartiere di Skardhana e degli isolati della Casa delle maschere allude anche J. Raeder,
Vitruv, De Architectura vi ,7 (aedificia Graecorum) und die hellenistische
Wohnhaus- und Palastarchitektur, in Gymnasium, xcv, 1988, p. 340.
135 Per un primo tentativo di decodifica dello schema progettuale
di questa abitazione si veda Ch. Le Roy, Le tracé et le plan d’une villa
hellénistique. La Maison du Fourni à Délos, in Le Dessin d’architecture cit.
a nota 134, pp. 167-173.
136 «Im allgemeinen aber entwickelt sich das delische Haus mehr
in die Tiefe als in die Breite, wobei der Hauptoecus tendenziell die
Achse des Peristyls sucht (Maison du Trident, des Dauphins, du
Diadumène). In diesen Häusern liegt der Großoecus als selbständiger Raum an der Rückwand des Hauses und kommuniziert allenfalls mit setilich gelegenen Nebenräumen (Maison du Trident, des
Dauphins)» (Krause, op.cit. a nota 127, p. 178).
137 Bruneau, Contribution cit. a nota 131, p. 665. Sulla presenza a
Delo di cittadini altolocati di provenienza orientale si veda anche M.
T. Le Dinahet-Couilloud, Une famille de notables tyriens à Délos,
bch , cxxi, 1997, pp. 617-666.
138 Bruneau, Contribution cit. a nota 131, p. 666. Le medesime valutazioni sulle pitture quali attestazioni di un più tardo passaggio di
proprietà ed il riferimento alla Maison des Dauphins sono riproposti
in F. Pesando, “Domus”. Edilizia privata e società pompeiana fra iii e i
secolo a.C., (= Soprintendenza Archeologica di Pompei, Monografie, 12),
Roma, 1997, p. 323 sg.
Questo excursus ha inevitabilmente toccato problematiche di notevole complessità che non possono
certo ridursi alle considerazioni qui richiamate. Tuttavia, ci è sembrato necessario rendere conto delle
valutazioni sugli esempi cui abbiamo fatto riferimento in quanto esse sono pienamente estendibili
anche alla Casa C di Tindari. Riteniamo che i confronti proposti non siano basati su generiche somiglianze, ma arrivino a comprendere gli elementi peculiari di alcune fra le più rappresentative case di
Delo. Tali sono la disposizione assiale dell’ingresso
rispetto al peristilio e, soprattutto, al tipico ambiente
trasversale che ricorre, sia pure con varia collocazione, in moltissimi esempi di case dell’isola, nonché
l’altrettanto frequente presenza dell’esedra lungo
l’asse trasversale a quello principale. Un così puntuale ricorrere di analogie, benché sorprendente, non
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
51
può certo indurre ad ipotizzare che la Casa C di Tincerta libertà o – se si vuole – con un certo eclettismo,
dari fosse abitata da genti venute da Delo. A questa
dal momento che le esedre delle case di Delo non
conclusione potrebbe condurre più che la scarsa inhanno colonne.
cidenza che questo tipo di impianto ha a Tindari
Pertanto, pur attingendo ad un repertorio di mostessa (per quel che è possibile valutare dai due unici
tivi formali di diversa ispirazione, la Casa C di Tinesempi noti di abitazioni private), la mancanza di aldari non mostra alcun carattere che possa considetre attestazioni in Sicilia.139
rarsi, dal punto di vista della tipologia, tipicamente
Le stringenti analogie con gli esempi delii, in qualromano
che misura confortate da analoghe, ma più generiNotiamo, a questo proposito, che a Morgantina,
che, considerazioni sui mosaici e la decorazione in
dove pure si assiste ad una ripresa e ad una trasformastucco della Casa B,140 non devono far dimenticare
zione degli impianti ellenistici in età romana, il caratche Delo è diventata un esempio emblematico in virtere “italico” di determinate soluzioni viene affermatù dell’ampia serie di contributi che sono stati dedito con estrema cautela e solo per alcune modifiche
cati alle sue architetture.
agli impianti delle abitazioni, quali la trasformazione
Con maggiore prudenza, siamo propensi ad insedei peristili in criptoportici o la creazione dei due atri
rire la Casa C di Tindari all’interno di una cultura artetrastili nella Casa dei capitelli tuscanici.
chitettonica ancora tipicamente ellenistica, quale si
Anche nell’ambito dell’architettura domestica la
va diffondendo nel corso del ii sec. a.C., con un’inciSicilia conferma il più generale quadro, ben evidendenza assai scarsa della concezione romana dell’abiziato a proposito delle arti figurative,142 secondo il
tare. Per questa ragione, la terminologia adottata
quale la cultura isolana sarebbe rimasta in ogni amper la designazione degli spazi dell’abitazione appare
bito legata alla tradizione ellenistica anche a seguito
piuttosto forzata all’interno di una tipologia che
delle particolari vicende storiche che determinano
sembra, almeno esteriormente, ripercorrere quanto
assai presto il gravitare della Sicilia in orbita romana,
già noto in Sicilia in tempi precedenti.
dapprima con l’esclusione del regno di Siracusa, goLa Casa C, a differenza della contigua casa B nella
vernato dall’alleato Gerone II, e dell’estrema parte
sua redazione più tarda,141 si inserisce nel filone delle
occidentale dell’isola, ancora in mano cartaginese.
case a peristilio allungato, documentato anche a
La romanizzazione dell’isola sarà un processo lunMorgantina, anche se con caratteristiche sue proprie
ghissimo e, per molti aspetti, largamente incompiuche ci hanno indotto a cercare altrove i confronti più
to ancora in età imperiale.143 A parte gli aspetti polisignificativi. Non proponiamo di riconoscere in essi
tici, la Sicilia rimarrà a lungo culturalmente greca.
veri e propri modelli, considerato che a Tindari queCiò premesso, non deve tuttavia sfuggire un
sto tipo di impianto viene reinterpretato con una
aspetto sostanziale. La presenza romana, ancorché
139 Sul lato nord della Casa dell’altare di Camarina un ambiente
trasversale (3 × 5 m) comunica con due vani laterali di dimensioni ben
più contenute, ma non presenta i tre ingressi. Per cenni sull’abitazione, di impianto quadrato (m 19 × 19), che si daterebbe alla metà del III
sec. a.C., in un epoca immediatamente successiva alla distruzione romana del 258 a.C., ma che ha subito numerosi rifacimenti fino all’età
augustea, si veda Pelagatti, op. cit. a nota 84, p. 259-261, figg. 27-33;
Ead., Per il parco archeologico di Camarina. Le fasi edilizie dell’abitato greco, in BdA, 1976, 1-2, p. 128; F. Ceschi, E. Tonca, La programmazione
del parco archeologico, ivi, p. 132, figg. 27-28; R. Martin, G. Vallet,
L’architettura domestica, in Storia della Sicilia, i, 2, Napoli, 1979, p. 337
sg.; P. Pelagatti, Ricerche nel quartiere orientale di Naxos e nell’agorà di
Camarina, in Kokalos, xxx-xxxi, 1984-1985, ii, 2, p. 686 (a nota 19 per il
riferimento ad uno studio architettonico dell’abitazione ad opera di
H. Broise che avrebbe dovuto essere pubblicato sul Bollettino d’Arte,
ma che non è mai apparso); Camarina. Museo Archeologico, Palermo,
1995, p. 42 sg.
140 La decorazione in stucco proviene da uno degli ambienti della
Casa B, il n. 14 oppure il n. 15. Si tratta di un esempio, che non trova
confronti in Sicilia, di fregio dorico con metope figurate a rilievo, raffiguranti due figure femminili con krotaloi e doppio flauto W. Von Sydow, Späthellenistische Stuck-gesimse in Sizilien, in rm , lxxxvi, 1979,
cat. 35, pp. 207-209 e p. 218, nota 92, tav. 47,3, che dedica una breve sche-
da ai frammenti, prende in considerazione alcuni esempi nei quali,
tuttavia, la decorazione delle metope è dipinta. Per un frammento di
fregio dorico in stucco dalla Casa di Cleopatra a Delo, con cinque triglifi e quattro metope, riproducente teste di toro, probabilmente alternate a bucrani, motivo che ricorre frequentemente in numerosi
fregi dorici lapidei di Delo, si veda P. A. Webb, Hellenistic Architectural
Sculpture. Figural Motifs in western Anatolia and the Aegean Islands, Univ.
Wisconsin Press, 1996, p. 138.
141 Tuttavia, a proposito dell’impianto della Casa B, Neutsch, op.
cit. a nota 4, p. 615, ha giustamente posto in evidenza che «Die Bauanlage weicht von pompejanischen Grundformen erheblich ab.».
142 Si veda Bonacasa, op. cit. a nota 11, p. 277 e p. 280.
143 La questione della romanizzazione della Sicilia costituisce un
problema per molti aspetti ancora da indagare. A rendere più complessa la questione è la persistenza di locali tradizioni politiche ed
economiche, culturali e, per quel che concerne le architetture, costruttive. Una lucida analisi è stata condotta da Wilson, op. cit. a nota
7, e, in maniera più estesa, Idem, op. cit. a nota 9, qui richiamati più
volte. Interessanti precisazioni sono nella recensione a quest’ultimo
contributo condotta da M. Bell iii, Roman Sicily, in jra , 7, 1994, p. 374,
il quale, facendo sua una considerazione dello stesso Wilson, sottolinea la necessità di una riflessione approfondita sul periodo compreso
tra la prima guerra punica ed il 36 a.C.
52
sergio aiosa
non immediatamente percepibile in termini di
cultura materiale, è fondamentale per determinare
un assetto economico che è il principale responsabile di un certo sviluppo dei centri siciliani nel tardo
ellenismo.
In Sicilia il fenomeno assume proporzioni notevoli e l’indagine in diversi centri non fa che aggiungere
conferme al quadro di sostanziale sviluppo che interessa globalmente l’isola a partire dalla seconda metà del iii secolo. Riteniamo che i segni di crisi riscontrati in alcuni centri non costituiscano una smentita
a questa interpretazione, ma possano essere la manifestazione di una nuova gerarchizzazione dei siti determinata principalmente da fattori economici.
In un excursus sulla Sicilia di età repubblicana, F.
Coarelli ritiene di cogliere i segni di una crisi in molti
siti siciliani, percepibile anche dall’esame dell’architettura domestica, per il periodo compreso tra il ii e
il i sec. a.C.144 Contrario a questa impostazione – e
con fondati motivi – è R. J. A. Wilson che consiglia di
non generalizzare i sintomi di regresso economico e
segnala il grande sviluppo di molti centri urbani della Sicilia nel ii secolo.145
D. Mertens accoglie tale punto di vista sottolineando come «Specialmente nella Sicilia occidentale, si
conservano ancora per tutto il ii secolo a.C. condizioni favorevoli alla prospera evoluzione di tutta una
serie di centri tra i quali Tindari, Solunto, Monte Iato, Segesta sono per ora i più noti».146
Tale quadro risulta confermato da alcuni studi
specifici su singoli aspetti della produzione artistica e
artigianale legata all’architettura domestica di singoli centri, quali Solunto. Lo scorcio del ii e parte del i
sec. a.C. sono contraddistinti da una attenta parteci-
pazione della città ad una koiné medio- e tardoellenistica. Quest’ultima è caratterizzata da un allargamento ulteriore della geografia culturale, come testimonierebbero le analogie nella più tarda produzione
pavimentale in opus signinum della Sicilia, della Campania e dell’Italia centro-settentrionale.147
Le città che con la prima guerra punica si schiereranno immediatamente dalla parte romana non conosceranno neppure quella battuta di arresto che si
può cogliere nella storia dei singoli centri negli ultimi due decenni del iii secolo. I pur funesti avvenimenti connessi alle due guerre servili, che coinvolsero numerosi centri isolani a partire dalla metà del
secolo successivo, non devono – a nostro parere – divenire un nuovo facile riferimento storico cui rifarsi
per un’interpretazione globale dei fenomeni architettonici. Il carattere generalizzato dei saccheggi e
delle distruzioni è sicuramente da considerarsi una
esagerazione delle fonti.148 Numerosi centri dell’isola sfuggono a questa catastrofe o sembrano reagire
in breve tempo.149
I molteplici indizi di una fioritura dei centri siciliani nel corso del ii secolo inducono a verificare di volta in volta gli effetti della pur pericolosa rivolta degli
schiavi. Il quadro che è possibile desumere dal lungo
elenco di oggetti preziosi che Verre sottrae ai Siciliani è quello di una classe emergente che ha saputo
reagire ai torbidi del secolo precedente o ne è rimasta del tutto immune.
Per comprendere la storia dell’architettura domestica della Sicilia ellenistica, architettura ancora siceliota, non si può prescindere dal riconoscimento di
Roma quale elemento catalizzatore, altrettanto responsabile della circolazione di modelli in quanto, a
144 F. Coarelli, La cultura figurativa in Sicilia dalla conquista romana a Bisanzio, in Storia della Sicilia, ii,1, Napoli, 1979, part. pp. 374-377.
145 Wilson, op. cit. a nota 7, p. 113; Id., op. cit. a nota 9, p. 23 sgg.
Un noto studio sugli insediamenti della Sicilia romana, basato sulle
informazioni desumibili dalla schedatura di 600 siti, sottolinea la continuità di frequentazione di molti di essi (ca. 100), tra cui un notevole
numero di impianti a carattere rurale, dal iii sec. a.C. alla tarda età
imperiale romana, ad esempio nel territorio di Eraclea Minoa (G. Bejor, Gli insediamenti della Sicilia romana: distribuzione, tipologie e sviluppo da un primo inventario dei dati archeologici, in Società romana e Impero
tardoantico, iii, Le merci gli insediamenti, a cura di A. Giardina, Bari,
1986, pp. 466 e 468 sg.).
146 D. Mertens, L’architettura del mondo greco d’Occidente, in I Greci
in Occidente, cat. mostra, Venezia 1996, a cura di G. Pugliese Carratelli,
Milano, 1996, p. 342. Su questo tema si veda anche L. Campagna, Architettura pubblica ed evergetismo nella Sicilia di età repubblicana, in La Sicilia romana tra Repubblica e Alto Impero. Atti del Convegno, Caltanissetta, 20-21 maggio 2006, a cura di C. Micciché, S. Modeo, L. Santagati,
Caltanissetta, 2007, p. 110 sgg.; E. C. Portale, A proposito di “romanizzazione” della Sicilia. Riflessioni sulla cultura figurativa, ivi, p. 150 sgg.
147 C. Greco, Pavimenti in opus signinum e tessellati geometrici da
Solunto: una messa a punto, in Carra Bonacasa-Guidobaldi, op. cit.
a nota 56, p. 44; più in generale, su Solunto vd. E. C. Portale, Problemi di archeologia della Sicilia ellenistico-romana: il caso di Solunto, ArchCl,
lvii, n.s. 7, 2006, p. 49 sgg.
148 Si veda il resoconto delle due guerre servili in Diod. xxxivxxxv; xxxvi, 1-11. È stato notato come «[…] sarebbe una seria limitazione interpretativa prendere alla lettera la descrizione dello storico
siciliano» (M. Mazza, Il lavoro dipendente nella Sicilia antica. Antropologia e ideologia in un passo di Diodoro, in I Mestieri. Organizzazione,
Tecniche e Linguaggi (= Atti del ii Congresso Internazionale di Studi
Antropologici Siciliani, Palermo, 26-29 marzo 1980) (= Quaderni del
Circolo Semiologico Siciliano, xvii-xviii), Palermo, 1982, p. 6.
149 Von Sydow, op. cit. a nota 140, p. 225. E ancora: «Die Sklavenkriege haben bei weitem nicht die ganze Insel heimgesucht. Gerade die Nordküste blieb fast vollständig verschont. Aber auch Städte, die wie Marsala und Solunt näher an den eigentlichen Zentren
der Aufstände lagen, aber nicht erobert wurden, zeigen gerade im
späten 2. Jahrhundert eine besondere Blüte.» (Von Sydow, op. cit.
a nota 60, p. 331).
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
53
sua volta, inserito nell’ambito della koinè ellenistica.
estesa all’insieme delle abitazioni siciliane, fra cui la
La tarda e sporadica apparizione di elementi della
Casa C di Tindari, per le quali questo principio non
‘casa romana’ rimane difficilmente inquadrabile nel
può essere applicato. Seguendo una consueta imposuo preciso significato e, più che essere interpretabistazione, si potrebbe obiettare che l’abitazione tindale come il riflesso dell’avvenuta assimilazione di una
ritana rappresenti uno stadio successivo di quel ‘pronuova cultura abitativa, proprio in virtù della sua
cesso evolutivo’ che muoverebbe dalla ‘casa greca’
scarsa incidenza, sembra doversi attribuire alla prealla ‘casa romana’ e, dunque, spiegare in questi tersenza di elementi italici nell’isola.
mini le differenze con le case di Morgantina. In queUn’ultima considerazione riguarda un tentativo
st’ottica, altrettanto legittimo potrebbe considerarsi
di interpretazione globale dei caratteri dell’architetil ricorso ad una denominazione latina per la sequentura domestica siciliana di età ellenistica. Come già
za ingresso-peristilio-andron e per l’esedra posta sul
ricordato, di recente si è ritenuto di poter distinguere
lato nord, definita tablinum.151 Tuttavia, riteniamo
gli impianti delle abitazioni siciliane, in particolare
che una più serena valutazione che muova, in primo
quelle di Morgantina, da quelli delle case di Delo. Taluogo, dall’analisi degli impianti architettonici conle contrapposizione si fonda sulla priorità che, nelle
senta sia di operare un ripensamento della tradizioabitazioni siciliane, sarebbe data allo sviluppo oriznale lettura storico-architettonica delle case ellenistizontale, rispetto allo sviluppo verticale della più
che e romane, attenuando la contrapposizione tra
parte delle case di Delo. Se tale considerazione può
tipologie che mostrano ampi tratti di convergenza,
ritenersi valida per le case del tipo Zweihof haus di
sia di articolare in forma meno schematica la tipoloMorgantina,150 essa risulta meno convincente se
gia delle case a peristilio siciliane.
150 B. Tsakirgis, “Lovely Mute Ghosts”. The Greek Houses of Ancient
Sicily, in aja , xcviii, 1994, p. 298. Tuttavia, restano da approfondire le
ragioni di una simile ‘preferenza’, a nostro avviso non riconducibile
esclusivamente ad una maggiore abbondanza di spazio, ma anche alla selezione di altri modelli di riferimento.
151 Benché non vi sia dubbio che «È il tablinum che fissa lo sviluppo planimetrico assiale della casa italica» (Zaccaria Ruggiu, op. cit.
a nota 26, p. 384), le nostre riserve sull’adozione di questo termine
non si fondano certamente sul fatto che tale ambiente non si trova
sul medesimo asse dell’ingresso e del peristilio, ma sulla lettura complessiva dell’intero impianto della Casa C. Considerate le differenze
tra l’impianto dell’esedra 16 della Casa C ed il c.d. ‘tablinum’ della Casa B, è da ritenere che il confronto con l’ambiente B della ‘Casa del
Navarca’ di Segesta si fondi solo sull’opinabile scelta di una terminologia latina (B. Bechtold, Una villa ellenistico-romana sull’acropoli sud
di Segesta, in Atti delle seconde giornate internazionali di studi sull’area
elima (Gibellina, 22-26 ottobre 1994), Pisa-Gibellina, 1997, p. 102 sg. e p.
110 nota 63).
Referenze fotografiche: Figg. 1, 4-19, 21, 23, 25-31: foto autore. Fig. 2: da Bernabò Brea-Cavalier 1965. Fig. 35: da Krause 1977.
Figg. 36-39: da Chamonard 1922-1924.
Tav. i. Tindari, Casa C, planimetria generale.
54
sergio aiosa
Tav. ii. Tindari, Casa C, sezione A-A.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
55
Tav. iii. Tindari, Casa C, sezione B-B.
56
sergio aiosa
Tav. iv. Tindari, Casa C, sezione C-C.
la casa c dell ’ insula iv di tindari: impianto e trasformazioni
57
RILIEVI ROMANI CON SCENE DI NASCITA
E ‘PRESENTAZIONE’ DIVINA: ASSUNZIONI, RESISTENZE
E METAMORFOSI DI MODELLI FIDIACI E POST-FIDIACI
Maria Elisa Micheli
1. Lo stato delle ricerche
ochi rilievi romani in marmo pentelico esibiscono soggetti discendenti dalle raffigurazioni realizzate da Fidia e dalla sua diretta cerchia per le grandi
basi di culto innalzate nella seconda metà del v sec.
a.C. (dal 439/8 a.C. al 415 a.C.) ad Atene e nell’Attica,
così come queste risultano soprattutto dalle citazioni
delle fonti. Quasi tutti noti nella storiografia archeologica almeno dal Settecento, i rilievi, per lo più di
provenienza urbana, ma decontestualizzati, hanno
ricevuto nel corso del Novecento un’interpretazione
liminare che, se li ha ascritti all’ambito dell’assunzione a Roma di temi e soggetti della Grecia classica, ha
però negato loro un’identità definita, giungendo infine a escludere – nella dismissione del procedimento
ricognitivo di matrice filologica – la derivazione da
quei prestigiosi modelli.1 Sotto il profilo manifatturiero, i rilievi sono stati riferiti alla produzione di officine attiche altamente specializzate nel soddisfare le
esigenze di rappresentanza e di lusso dell’alta società
romana. Sono stati interpretati come esito di un’industria artistica che, selezionate alcune delle più celebri creazioni dell’Atene di v sec. a.C., mediante un
complesso procedimento di scomposizione e rielaborazione, ha prodotto pinakes, candelabri, putealia,
vasi, lampadari fornendo alla clientela, sia per i grandiosi complessi pubblici che per le sontuose dimore
private, un arredo marmorizzato nelle coordinate di
un ri-composto codice espressivo. Attraverso questi
materiali si assiste infatti alla capillare e pervasiva riproposizione a Roma di un patrimonio figurativo
che, provvisto di un cospicuo pregio formale ora declinato nelle cifre stilistiche del nuovo linguaggio, era
in origine carico di specifiche valenze religiose, nonché portatore di messaggi solidali con il sistema di attese dell’Atene dell’avanzato v sec. a.C. Il carico di
P
1 Sintesi in O. Palagia, Meaning and narrative techniques in statuebases of the Pheidian circle, in Word and image in ancient Greece, Edinburgh 2000, pp. 53-78; cfr. L. A. Touchette, The Dancing Maenad re-
una nave affondata a Mahdia intorno al 100 a.C. (come risulta dalle ceramiche e dalle lucerne usate sulla
nave stessa) ed i materiali di Delo lasciano almeno in
parte ricostruire fasi e modalità di questa progressiva
ellenizzazione della società romana, in cui Atene e le
sue botteghe di marmorari, anche dopo il sacco di
Silla, rivestono un ruolo di primaria importanza,
benché non esclusivo e – nel corso del tempo – sottoposto a molteplici mediazioni. Quanto meno dalla
tarda repubblica e più massicciamente durante il
principato di Augusto (per proseguire poi con quello
di Adriano), Atene – come già era accaduto sui versanti filosofico e letterario – è assunta a prioritario riferimento artistico; viene così scalzato l’apprezzamento (egualmente sentito in alcuni circoli della
tarda età repubblicana) per le grandi creazioni dell’Ellenismo, specie microasiatico.
Localizzazione della fonte e «forza attiva» del
prototipo sono alcuni dei presupposti intellettuali
per questa produzione, coerente nella tecnica applicativa della manifattura che, sotto l’aspetto materico, si volge all’uso preferenziale del marmo pentelico. Sono però le nuove forme acquisite dai soggetti
che offrono indizi importanti per comprendere i
cambiamenti sopraggiunti nel corso del tempo secondo una prospettiva socio-antropologica; le diverse tecniche di lavorazione, di decorazione ed i temi
(con la contaminazione degli schemi iconografici) si
prestano ad illustrare le vocazioni dei nuovi fruitori
ed il loro sostrato culturale ed offrono un piccolo
spaccato su usi e comportamenti sociali. Mostrano
come l’adesione romana al mondo culturale greco
non si sia limitata agli aspetti utili a tradurre visivamente le gesta dei ceti dominanti in un nuovo sistema di segni, ma abbia voluto impadronirsi di modi e
stili di comportamento nelle forme di una vera e propria appropriazione che si configura, al tempo stesso,
liefs: Continuity and Change in Roman Copies, (BICS Suppl. 62), London
1995, pp. 22-23.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 59-98
60
maria elisa micheli
come una concreta espressione d’imperialismo. Non
a caso tale modello verrà esportato nelle diverse aree
dell’impero, imponendo un’ecumenica omologazione alle aristocrazie locali che aderiranno a forme
ideologiche e stili di vita ‘indirizzati’, testimoniati appunto da tipologia e qualità degli arredi marmorei
nelle loro residenze. Per oltre due secoli, quindi, ‘riproduzioni’ e ‘citazioni’ dei cicli figurativi dei maestri
dello stile classico saturano l’ambiente pubblico e
privato dell’intellettualità e del potere politico romano, diventando garanzia di uno stato sociale elitario.
In taluni casi, poi, un atteggiamento rievocativo del
passato concorre a ricreare atmosfere sacrali, di gusto retrospettivo, che vengono rafforzate con la presenza di rilievi originali votivi e funerari, spogliati da
santuari (anche periferici) e necropoli in abbandono:
un aspetto che a Roma è appena apprezzabile nelle
sistemazioni – architettoniche e decorative pluristratificate – dei lussureggianti horti periurbani.
Se, dunque, le molte indagini intraprese hanno
sufficientemente chiarito il più ampio contesto socioculturale nel quale si inseriscono i rilievi in esame,
hanno però lasciato aperti numerosi aspetti posti dai
rilievi in sé, non ultimi, la selezione dei soggetti, la
stratificazione degli schemi iconografici e la loro
intersezione, il codice classicistico che li unifica,2
nonché l’epoca di realizzazione e – soprattutto – la
finalità. Sono tutti elementi che, proprio per la specificità del tema proposto, sfuggono a questo sistema ‘aperto’, ma anche ‘pianificato’, tanto da far sospettare una diversa intentio. Questa è peraltro
indiziata dalla morfologia stessa dei marmi che li apparenta a quella originaria se non altro nell’adozione
del ‘rilievo’ come «strumento espressivo». Il medium
medesimo si presta quindi ad alcune considerazioni
preliminari che investono un doppio fronte: la soluzione scelta per i ‘virtuali’ modelli presenti nell’Atene classica; la successiva redazione di epoca romana
nelle forme del pinax concluso. Nonostante l’incompletezza e l’episodicità delle evidenze, è un aspetto
che il raffronto tra il basamento originale della statua di culto di Nemesi a Ramnunte ed il rilievo di età
adrianea oggi a Stoccolma permette di non sottovalutare, offrendo un interessante elemento valutativo
(infra, § 4).
Per quanto concerne la Grecia, partendo dalla destinazione architettonica, von Hesberg3 indica proprio
nel rilievo un elemento nodale nella strategia visiva
di comunicazione, pienamente affermata già in età
arcaica. Le sue argomentazioni possono venire estese a diverse categorie di ‘rilievo’, in quanto interessano la polifunzionalità del mezzo espressivo che, come giustamente apprezza lo studioso, è dotato di una
sua «autonoma e specifica forma d’arte». Questa si
sostanzia nell’apparentemente ovvio legame – di reciprocità e/o concorrenza – con la pittura, la scultura
e i più ampi (talora effimeri) allestimenti scenici. La
forza comunicativa del rilievo comprende fattori che
ne indirizzano la pervasività: anzitutto, forma, materia e destinazione, dalle quali dipende una produzione più o meno massificata. È una considerazione,
questa, tanto più vera in relazione a determinate classi: ad esempio, stele funerarie e tavole votive o documentarie come sono restituite dall’Attica. L’intensità
della comunicazione è peraltro calmierata dalla
quantità di prodotti immessi nel circuito d’uso che,
in dimensione allargata, coinvolge ogni aspetto della
prassi, dal sacro al quotidiano. Tuttavia, ciò che innesca una maggiore capacità di risonanza è l’immagine
la quale, stilizzando la materia prima ed il supporto,
concorre a modellarne efficacemente la peculiarità,
tanto struttiva quanto funzionale. È l’immagine che
con la propria specificità favorisce il processo comunicativo; nella dinamica fattuale, il suo statuto –
tematizzato o mantenuto individuale4 – incanala la
penetrazione secondo direttrici pragmatiche o normative. Se nella canonizzazione e nella ripetizione
del formulario è pragmatica la modalità comunicativa dei rilievi documentari, di quelli funerari come
anche della gran parte di quelli votivi, diverso è il caso di alcuni rilievi votivi che, nell’individualità del
soggetto, acquistano una connotazione devozionale,
assumendo valore di immagine di culto: una funzione possibile nelle ultime decadi del v sec. a.C. per il
grande rilievo con la Triade Eleusina, in certa misura
mantenuta pure nelle sue repliche, realizzate in età
romana tardo-repubblicana e proto-imperiale come
indiziano i contesti di rinvenimento.5 Nell’ambito di
2 In generale: S. Böhm, Klassizistische Weihreliefs. Zur römischen Rezeption griechischer Votivbilder (Palilia 13), Wiesbaden 2004.
3 H. von Hesberg, Das griechische Relief als Medium, in Medien in
der Antike. Kommunikative Qualität und normative Wirkung, Köln 2003,
pp. 93-121.
4 Cfr. H. G. Niemeyer, Semata. Über den Sinn griechischer Standbilder, Hamburg 1996, pp. 23-24, 28-29.
5 M. E. Micheli, Il grande rilievo con la Triade Eleusina e la sua recezione in età romana, in ASAtene, 80, 2002, pp. 92-111. Contra: E. Lippolis, I primi scavi di Eleusi: Trittolemo e i ‘Giganti’ di Atene, in ASAtene,
a. Il rilievo come mezzo espressivo delle basi di culto
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
61
tale individualità, che acquista valore di norma,
ovvero alla capacità di un abile oratore di volgere il
possono a mio parere rientrare i rilievi sui basamenti
suo discorso su una serie di argomenti collaterali per
delle statue di culto della seconda metà del v sec. a.C.
dare maggiore incisività all’assunto principale; in arrealizzate da Fidia e dai suoi allievi; queste intromonia, dunque, con l’agire intellettuale dei circoli
ducono un cambiamento non solo ‘formale’, ma
riuniti attorno al filosofo Anassagora e al sofista Proesteso al significato complessivo del monumento,
tagora. È, più in generale, un procedimento coerennon circoscrivibile alla sola sfera religiosa. Esse
te con le tendenze culturali del periodo sintetizzate
propongono:
da Castriota,7 che ha sottolineato come le immagini
- dal punto di vista strutturale una tipologia omosiano un elemento chiave nell’azione ufficiale ateniemorfa di supporto, realizzato in pietra e di grandi
se, in quanto prodotti estremamente elaborati, desidimensioni;
gnati a dare forma ed espressione visibili a valori,
- dal punto di vista tecnico, una complessità maniaspirazioni e propensioni dell’intera comunità: imfatturiera dovuta alla compresenza di materiali dipegnate, al pari della poesia e delle pratiche letteraversi, non solo lapidei, usati per le raffigurazioni;
rie, in un complesso sistema di mimesis. Da valutare,
- dal punto di vista figurativo, un’omogeneità che si
quindi, sono soprattutto i temi scelti per le basi:
declina anzitutto nella selezione del soggetto (naquesti ruotano attorno alla ‘nascita,’ sciolta nell’acscita e/o presentazione) e nella sua traduzione sia
cezione di ‘presentazione’ e anche di ‘rinnovamencompositiva che formale;
to’.8 Sono soggetti in armonia con un più generale
- dal punto di vista concettuale, un intenso legame
entusiasmo per il ‘ringiovanimento’ che a quel temcon l’immagine della divinità soprastante.
po – come ha suggerito la Burn9 – investe la redazioTutti questi elementi contribuiscono da un lato a
ne iconografica di divinità ed eroi, la quale concorre
fortificare l’intensità del messaggio inviato dai rilievi
ad esaltare il loro carattere ‘straordinario’.
presenti sulle basi, dall’altro a costringerlo entro un
doppio circuito, sacrale e ‘civico’, che dà risalto alb. Le basi di culto fidiache
l’ethos della divinità. Secondo questa prospettiva, mi
sembra pertanto da subito condivisibile l’affermaEntro queste coordinate si iscrivono bene i nuovi e
zione che i rilievi sui basamenti delle statue di culto
grandiosi apparati ‘scenici’ di culto realizzati in Attinon siano elementi esornativi, ma siano stati in orica e ad Olimpia da Fidia e dai suoi allievi. Assumengine progettati per rafforzare l’eikon della divinità sodo alcuni indicatori selezionati da Gladigow,10 oltre
prastante.6 Ad essa si correlano proprio nella scelta
le dimensioni, la bellezza, lo splendore, nella realizdel tema in maniera tale da accentuare le competenzazione della statua di culto sono fattori importanti
ze della divinità in un più ampio quadro religioso,
gli schemi di identificazione che, distinguendo dividifficilmente rapportabile ad un denominatore uninità ed umani, prevedono elementi attributivi e
co. Non a caso, questa potente innovazione fidiaca è
forme di fisicizzazione utili a traslare visivamente
stata posta dagli stessi autori antichi in parallelo ad
un’epifania. Questa nelle creazioni fidiache, proprio
una pratica retorica, messa a punto in quell’epoca,
in ragione del materiale scelto (mi riferisco all’oro e
81, 2003, pp. 177-184 note 123, 144. Cfr. anche il rilievo doppio da Roma
dove sullo zoccolo di base, verosimilmente della faccia principale,
sono i resti di un’iscrizione incisa con ductus abbastanza regolare che
menziona un L(ucius) Roscius L(uci) f(ilius) Oto[…]. Con buona probabilità, dovrebbe trattarsi di quel Lucius Roscius Otho, oriundo di Lanuvio, particolarmente impegnato nella politica a Roma, dove nel 67
a.C. come tribuno della plebe cercò di opporsi al conferimento dell’incarico triennale a Pompeo nella lotta contro i pirati. Sopra lo zoccolo si conserva parte di un personaggio femminile, con il piede destro calzato di sandalo e peplo dalle pieghe rigorosamente parallele,
riferito da La Rocca alla Demetra del grande rilievo; sull’altro lato rimane il frustulo di un personaggio panneggiato (incerto se maschile
o femminile) seduto su un trono (E. La Rocca, Copia del rilievo eleusinio, in A. Bottini (a cura di), Il rito segreto. Misteri in Grecia e a Roma, (Catalogo della mostra, Roma 22 luglio 2005-8 gennaio 2006),
Milano 2005, pp. 152-155). Dubbio se il marmo riproduca davvero il
grande rilievo eleusino o non proceda piuttosto ad una sua rielabo-
razione, eseguita nelle modalità concettuali e lavorative dell’aemulatio, ovvero reinterpretando i tipi-base ed inserendoli in un nuova
composizione dal significato traslitterato.
6 A. Kosmopoulou, The Iconography of Sculptured Statue Bases in
the Archaic and Classical periods, Madison 2002, pp. 111-125.
7 D. Castriota, Myth, ethos and actuality. Official art in fifth-century
Athens, Madison 1992.
8 Cfr. L. Beaumont, Mythological childhood: a male preserve? An
interpretation of classical Athenian iconography in its socio-historical
context, in BSA, 90, 1995, pp. 339-361 e infra.
9 L. Burn, The Art of the State in late fifth-century Athens, in Image
of Authority. Papers presented to J. Reynolds on the occasion oh her seventieth Birthday, Cambridge 1989, pp. 62-74.
10 B. Gladigow, Epiphanie, Statuette, Kultbild. Griechische Gottesvorstellungen in Wechsel von Kontext und Medium, in VisRel, 7, 1989, pp.
98-110.
62
maria elisa micheli
all’avorio) ed alle modalità di lavorazione, si configurava visivamente ai devoti come un’epifania ‘luminosa’.11 È il luogo a conferire specificità rituale all’immagine della divinità, celebrata collettivamente
nelle cerimonie del suo festival. In tal senso, quindi,
le figurazioni sulle basi di culto fidiache e post-fidiache non possono che connettersi ed aumentare il valore, religioso ma anche civile, dell’immagine divina
che le sovrasta, benché rimanga multivalente il significato della scena in sé. Aspetto concretamente testimoniato dall’unica statua di culto originale, comprensiva del suo basamento, che – frammentaria – ci
è giunta: la Nemesi di Ramnunte (§ 4).
Le scene sui basamenti, tuttavia, non condividono
nel tempo il processo di circolazione e di trasmissione delle eikones soprastanti attuato attraverso media
diversificati: affermazione da subito possibile guardando, in particolare, alla ‘fortuna’ della Parthenos.
Una ragione può scaturire dal fatto che i temi
prescelti sono espressamente pensati per quel determinato evento in quel determinato momento e – potremmo suggerire – sono loro a conferire ‘individualità’ all’eikon, mentre della divinità viene assunta
l’iconografia ‘esemplare’ (atemporale e atopica), che
dà luogo ad un lungo processo di immagini derivate,
duttili alle esigenze di nuovi contesti cultuali. È un
aspetto ‘moltiplicativo’ che proprio le ricerche di Vlizos sullo Zeus di Olimpia12 e di Nick sulla Parthenos13 mi sembra abbiano ben evidenziato; al tempo
stesso hanno mostrato un notevole e divaricato scarto nell’applicazione degli schemi delle due sculture.
Del resto, modalità di assunzione, stadi e gradi di
metamorfosi – come pure le resistenze – dei ‘modelli’ emergono bene dal complesso delle statue di culto
di età ellenistica, quale risulta dal censimento di
Faulstich,14 ed altrettanto bene insegna la ‘puntuale’
rielaborazione partenonica nella statua di culto di
Atena a Priene15 che – in sintonia con l’interpretazione di Dinsmoor – documenta i legami amicali tra
Atene ed i nuovi signori delle regioni orientali.
Nel caso dello Zeus fidiaco, se lo schema iconografico diventa ‘canonico’ nell’elaborazione delle statue
di culto maschili (soprattutto per i paredri del massimo degli Olimpi fino all’adozione nell’iconografia
imperiale),16 soltanto quello permette oggi una virtuale ‘ricostruzione’ in prospettiva del colosso crisoelefantino i cui dettagli si presentano, purtroppo,
del tutto incostanti nelle diverse tradizioni figurate.
L’applicativo oblitera il complesso apparato decorativo del trono che viene riproposto raramente in età
successiva e comunque sempre frazionato (esemplare testimonianza al riguardo offrono le riprese dei
Niobidi).17 Il repertorio figurato è stato tradotto in
materiale e formato diversi per classi di oggetti di varia funzione, destinati a spazi diversi (privati o pubblici) come attesta, fra l’altro, la base con Amazzonomachia rinvenuta a Nicopoli,18 risalente al momento
della rifondazione augustea. Mi chiedo se questo fenomeno sia in certa misura dipeso dal significato dei
soggetti che già nell’interpretazione di Schrader19
erano profondamente innervati nel culto di Olimpia
e nelle contese che avevano a teatro il santuario stesso: non ultime quelle politiche che, tra il 433 a.C. e il
420 a.C., contrapponevano gli Elei, appoggiati da
Corinto, agli Ateniesi sì da far ritenere esito di una
tensione ‘conciliatoria’ la compresenza sul trono di
eroi ‘connotati’ come Eracle e Teseo.
Le oltre 200 edizioni filiate dalla Parthenos permettono una ricostruzione virtuale più aderente
all’originale rispetto a quella dello Zeus, talvolta
comprensiva dei dettagli. Solo la copia di età medioellenistica della statua di Atena Parthenos da Pergamo20 lascia però percepire la concreta volontà di
duplicare – in marmo – l’originale (completo del ba-
11 In tale accezione mi sembrano condivisibili le considerazioni di
B. S. Ridgway, Cult Images and their Media, in J. Barringer - J. Hurwit (a cura di), Periclean Athens and its legacy: problems and perspective,
Austin 2005, pp. 111-118.
12 S. Vlizos, Der thronende Zeus. Eine Untersuchung zur statuarischen
Ikonographie des Gottes in der spätklassischen und hellenistischen Kunst,
Leidorf 1999, pp. 5-21. Cfr. W. Alzinger, Zeus Olympios und Athena
Parthenos, in G. Erath - M. Lehner - G. Schwarz (a cura di), Komos.
Festschrift für Thuri Lorenz zum 65. Geburstag, Wien 1997, pp. 13-14.
13 G. Nick, Die Athena Parthenos. Studien zum griechischen Kultbild
und seiner Rezeption, (AM 19.Beiheft), Mainz 2002, pp. 158-205.
24 E. I. Faulstich, Hellenistische Kultstatuen und ihre Vorbilder,
Frankfurt 1997.
15 Nick, op. cit. a nota 13, p. 249, n. A 36.
16 K. D. S. Lapatin, The Ancient reception of Pheidias’ Athena Parthenos and Zeus Olympios. The visual evidence in context, in L. Har-
dwick - S. Ireland (a cura di), The January Conference 1996: the Reception of Classical Texts and Images, Milton Keynes 1996, p. 15.
17 W. Fuchs, Die Vorbilder der neuattischen Reliefs, (JdI Erg.H. 20),
Berlin 1959, pp. 131-132.; Ch. Vogelpohl, Die Niobiden vom Thron des
Zeus in Olympia. Zur Arbeitsweise römischer Kopisten, in JdI, 95, 1980, pp.
197-226.
18 J. Fink, Der Thron des Zeus in Olympia, München 1967, pp. 40-15
(base a Nicopoli: p. 18 e tav. 2); in generale, M. Kantiréa, Les dieux
et les dieux Augustes. Le culte impérial en Grèce sous les Julio-claudiens et
les Flaviens, ME§ETHMATA 50, Athènes 2007, pp. 89-93.
19 H. Schrader, Das Zeusbild des Phidias in Olympia, in JdI, 56, 1941,
pp. 1-71; K. D. S. Lapatin, Chryselephantine Statuary in the Ancient Mediterranean World, Oxford 2001, p. 84.
20 H. m 3, 51: N. Leipen, Athena Parthenos. A Reconstruction, Toronto 1971, p. 7, n. 21; Nick, op. cit. a nota 13, p. 249, n. A 35.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
63
samento figurato, ma privo dello scudo), attuandone
presa in età medioellenistica, come si evince dallo
una compiuta riduzione modulare, laddove l’estrescudo realizzato da Timokles e Timarchides, figli di
ma miniaturizzazione della più tarda Atena LenorPolykles, per la statua di Atena Kraneia a Elatheia:
mant rinvenuta ad Atene ad O della Pnice la carattescudo in seguito così famoso da venire attribuito allo
rizza già di per sé come elemento d’arredo.21 La
stesso Fidia.23 Del pari, quanto meno dalle fonti, sostatuetta non è finita, ma anch’essa si presenta con la
no noti i restauri realizzati con estrema perizia allo
base scolpita e, a differenza della più pregevole staZeus (ad esempio, da Damophon di Messene24 come
tua pergamena, completa di scudo e del supporto alpiù tardi in età cesariana), di cui rimaneva l’ergastela mano con la Nike. Tuttavia, si può dire che anche
rion che ha restituito alcune matrici (di incerta pertila destinazione nella Biblioteca ‘desacralizza’ il ben
nenza ‘cronologica’ alla statua fidiaca).
più ragguardevole pezzo pergameno, sicché viene
Il patrimonio di abilità tecniche non dové certo
attuato uno slittamento semantico rispetto al prestiandare disperso, piuttosto tramandato (almeno per
gioso prototipo e la statua è trattata alla stregua di
un certo periodo, conservando verosimilmente moun «bene evocativo» che deve venire musealizzato.
delli e matrici originali), applicato per grandi comLa scultura, comunque, sembra frutto di un procesmissioni: quelle che prevedevano i costi più alti tanto
so che non rientra solo nello sguardo rivolto dagli
per il pregio intrinseco delle materie utilizzate quanAttalidi verso Atene, ma più espressamente nella
to per la perizia e l’esperienza profuse nella lavoracondivisione da parte dei signori di Pergamo del culzione.25 C’è da chiedersi, piuttosto, se nel procedito poliadico della dea, praticato su due livelli: sia sul
mento derivativo non abbia davvero inciso la scelta
piano umano con la partecipazione alle Grandi Padel tema, ovvero come poteva essere percepito nel
natenee (178-162 a.C.) sia sul piano divino. Una statua
prosieguo del tempo un soggetto «circostanziato»,
colossale di un Attalide (verosimilmente Attalo II)
legato sia alla divinità sia al luogo nel quale essa era
era stata infatti innalzata su un pilastro situato all’anvenerata. È un’affermazione valida per la raffiguragolo N-E del Partenone, peraltro quello stesso angozione di Pandora sulla base fidiaca della Parthenos;
lo che segnava la fine della processione panatenaica,
di Erittonio su quella alcamenica di Efesto ed Atena
in maniera che il dinasta potesse assistere, da pari, al(due soggetti concepiti quasi come due miti parallela nascita della dea così come questa era rappresenli, entrambi innervati nella storia della polis); di Elena
tata sul frontone orientale del tempio.22
su quella agoracritea di Nemesi. Di contro, è una
Citazione e ripresa delle figurazioni sulle basi di
considerazione meno stringente se rivolta alla base
culto, attestate da pochi – e, come s’è accennato,
fidiaca di Zeus ad Olimpia, dove era esposto un tema
dubbi – rilievi in marmo di epoca romana, non posdi valenza ecumenica – e trasversale nello scorrere
sono che inserirsi in un contesto socioculturale radidel tempo – quale la nascita di Afrodite.
calmente mutato di cui, allo stato attuale delle evidenze, è capostipite proprio la Parthenos della
c. La nascita di Afrodite sulla base di Zeus ad Olimpia
Biblioteca di Pergamo. Nel ‘mancato’ processo di iterazione, escludo però la suggestione, da più parti
Paradossalmente, di questo soggetto restano tracce
avanzata, che abbia pesato la difficoltà ‘tecnica’ di riancora più scarne sia di recezione in contesti seconprodurre i basamenti originali, polimaterici e realizdari che di adattamento in funzioni multiple a fronte
zati secondo nuove e complesse modalità lavorative:
dei temi effigiati sul trono di Zeus: fra l’altro, un feun’ipotesi che già le numerose traduzioni in marmo
nomeno in assoluta disgiunzione rispetto alla fama
dei singoli attributi della egualmente polimaterica
– quanto meno di trasmissione letteraria, se non icoParthenos rendono poco o nulla sostenibile. Peralnografica – goduta dalla scultura nel suo complesso
tro, parti di essa erano state già oggetto di attenta ri(Fig. 1). Non credo, però, che i motivi – scartati quel21 H. cm 42: Leipen, op. cit. a nota 20, p. 3, n. 1; Nick, op. cit. a nota
13, p. 239, n. A 14. Stante il fatto che la scultura non è finita, rimane incerta anche la sua destinazione se rivolta all’arredo domestico o sacro.
22 F. Queyrel, Les portraits des Attalides. Fonction et représentation,
(befar 308), Paris 2003, pp. 307-308.
23 Nick, op. cit. a nota 13, pp. 180-182.
24 P. G. Themelis, Damophon von Messene. Sein Werk im Lichte der
neuen Ausgrabungen, in AntK, 36, 1993, pp. 24-40.
25 K. D. S. Lapatin, Pheidias ÂÏÂÊ·ÓÙÔ˘ÚÁÔ˜, in AJA, 101, 1997, pp.
663-682; Lapatin, op. cit. a nota 19, pp. 79-86. C’è da chiedersi se la cura e la sorveglianza del simulacro dello Zeus fidiaco da parte dei Phaidyntai – o Phaidryntai – ricordati da Pausania (V, 14, 4) non contemplasse anche la capacità di intervenire sulla scultura in quanto quelli
erano custodi e depositari delle conoscenze circa le tecniche usate
nella messa in opera del simulacro.
64
maria elisa micheli
Fig. 1. A. C. Quatremère de Quincy, Le Jupiter olympien, ou l’Art de la sculpture antique, Paris, 1814.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
65
li riportabili a presunte difficoltà tecniche – debbano
essere ricercati nell’ambito di un significato ‘politico’
o ‘religioso’ derivato da una virtuale dipendenza della scena dal culto che Afrodite, come Urania, aveva
‘localmente’ in Elide, dove peraltro il santuario accoglieva una statua crisoelefantina realizzata da Fidia.
Se mai, potrebbero non essere da accantonare del
tutto le note di Pollitt circa il fatto che la quantità dei
miti raffigurati sullo Zeus ne faceva un multistrato
di particolare complessità interpretativo-devozionale, come non hanno mancato di avvertire gli stessi
autori antichi: interessante, al riguardo, Dione di
Prusa che forse non a caso fa precedere riflessioni filosofiche e teologiche a quelle inerenti la concezione
estetica della scultura.26 Era un simulacro che doveva bilanciare l’aspetto sovrannazionale con quello
locale di Zeus (sul piano sia del mito che della prassi), presentando l’ampio spettro di competenze della
divinità, visivamente esplicitato dalle numerose (a
Fig. 2. Parigi, Louvre. Medaglione d’argento da Galaxidi
volte antitetiche) tematiche del mito. Recinzione,
con Eros e Afrodite.
basamento e trono erano di fatto i contenitori primi
dell’eikon i quali, attraverso le figurazioni, introducesistita da Eros che l’accoglieva e da Peithò che l’incovano la divinità, quasi sublimando (ora introiettata)
ronava, laddove la teoria degli Olimpi presenziava alla soluzione già proposta ad Amicle per Apollo.
l’evento. Sono menzionati Zeus, Hera, Efesto, ChaNella quasi totale assenza di documenti figurati,
ris, Hermes, Hestia, Apollo, Artemide, Atena,
comunque, l’eccezione è offerta dal medaglione
Eracle, Poseidone e Anfitrite; Helios sul carro e Sed’argento da Galaxidi oggi al Louvre,27 che conserva
lene a dorso di cavallo o di mulo nella stessa clausola
un’eco – estremamente debole – del gruppo centrale
usata per la base della Parthenos (così è visivamente
con Afrodite e Eros; sono corredati di un’iscrizione
restituita dalla statuetta Lenormant, infra: § 2)
che, posta tra di loro, ne corrobora l’identificazione
chiudevano la composizione e, comprendendo l’oi(Fig. 2). Eros, di profilo, sta sulle onde e si tende ad
kumene, ponevano sul piano cosmico l’accadimento.
aiutare la dea che dalle ginocchia in su emerge dalCome è stato ampiamente sottolineato, tematiche
l’acqua, mentre il resto del corpo si intravede tra le
partenoniche sono state assunte nell’organizzazione
increspature del mare. La dea ha le gambe di profilo,
della scena, dal momento che la nascita di Afrodite,
il dorso frontale e la testa rivolta in alto; è nuda e con
al pari di quella di Atena esibita però sul frontone, è
la mano sinistra tira a sé un telo per schermarsi. Tansituata nell’ambito di una riunione divina ed è intesa
to il gesto quanto il telo, che serve a celare l’avvenicome un avvenimento che coinvolge il kosmos. La
mento anche in senso rituale, accennano al mystenascita di Afrodite viene esaltata tramite la teoria
rion. Schema compositivo e soluzione iconografica
delle principali divinità olimpie presenti all’actio, che
sono congrui con gli stilemi elaborati nella seconda
la sacralizzano nel segno dell’ortodossia (forse la più
metà del v sec. a.C., documentati bene su un’hydria
alta forma di theophania). È una differenza sostanziaa Genova e su una pisside ad Ancona28 che visualizle rispetto a quanto era stato sino allora più comunezano il tema. Secondo il resoconto di Pausania (v, 11,
mente proposto per la dea sui monumenti figurati,
8), la nascita dal mare di Afrodite proposta sul basala cui nascita vi compariva con maggiore frequenza
mento prevedeva al centro la dea, in età adulta,29 as26 Cfr. B. Bäbler, Der Zeus von Olympia, in Dion von Prusa.
OÏ˘ÌÈÎÔ˜ Ë ÂÚÈ Ù˘ ÚˆÙ˘ ÙÔ˘ ıÂÔ˘ ÂÈÓÔÈ·˜. Olympische Rede, oder
über die erste Erkenntnis Gottes. Eingeleitet, übersetzt und interpretiert. Mit
einem archäologischen Beitrag, Darmstadt 2000, pp. 217-238.
27 Parigi, Louvre, MNB 1290: Fink, op. cit. a nota 18, p. 15 nota 22;
A. Kossatz-Deissmann, Osservazioni sulle nascite di Afrodite ed Atena
nell’arte greca, in Coloquio sobre el puteal de la Moncloa (Actas del coloquio, Madrid 14 y 15 de noviembre de 1983), Madrid 1986, pp. 133-138.
Mi chiedo se la riproposizione toreutica non sia di per sé un ulteriore
indizio su materiale e tecnica usati per gli originali.
28 Fink, op. cit. a nota 18, pp. 14, 15.
29 Beaumont, art. cit. a nota 8, pp. 349-360.
66
maria elisa micheli
‘ridotta’ e/o ‘abbreviata’: o quale motivo singolo o
con pochi personaggi sussidiari.30 Peraltro, concordo con Beaumont quando nota che in questo periodo solo le nascite di Afrodite e di Atena si affrancano
dalla posizione ambivalente che il soggetto assume
in relazione al sesso del neonato. Nella documentazione materiale superstite si registra, infatti, una dicotomia nelle modalità di raffigurazione tra maschi
e femmine (anche divini) e proprio in età classica alle
femmine è per lo più negata l’infanzia o, se accennata, resta estremamente elusiva (come per Pandora,
infra: § 2); un’eccezione è costituita da Artemide, votata ad uno speciale rapporto con le fanciulle, come
documenta la dedica rituale che queste facevano nella celebrazione del culto della dea a Brauron. Viceversa, i maschi godono di un’infanzia e anche la nascita di Zeus, raffigurata sull’altare di Atena Alea a
Tegea,31 mostrava il dio neonato in compagnia di
Rea e della ninfa Enoe.
Attraverso la succinta menzione di Pausania può
venire ricostruita «un’unità potenziale» della scena,
ricavandone suggerimenti impliciti quanto alle modalità compositive: doveva essere stata realizzata in
raffinata paratassi una trama con figure statiche, distanziate fra di loro (anche se con buona verosimiglianza organizzate a coppie, secondo un principio
chiastico non disgiuntivo). Doveva trattarsi di un
modulo tendente ad escludere ogni aspetto narrativo, in netta controtendenza rispetto alla teatrale
scenografia del visuale perseguita sul trono.32 Stasi e
paratassi erano i mezzi usati per rimarcare sia la straordinarietà che la solennità dell’evento, ma poche o
nulle informazioni si recuperano sullo schema compositivo nel suo insieme a prescindere, appunto, dalla citazione del gruppo centrale di Afrodite ed Eros.
Nonostante l’innovazione nella strategia di rappresentazione, escludo che accanto ad ogni personaggio fosse dipinto il nome il quale ne avrebbe garantito l’individuazione sul modello attuato nel più tardo
medaglione:33 ma attributi e postura delle divinità
erano elementi identificativi del tutto sufficienti nella seconda metà del v sec. a.C. per un devoto di qualsiasi ethnos e provenienza
Del basamento34 si conservano oggi pochi blocchi frammentari, alcuni modanati, in poros e pietra
nera di Eleusi dei quali rimane incerta l’esatta posizione nel grande piedistallo e che non permettono
serie ipotesi restitutive. Solo a giudicare dai segni nel
pavimento della cella e dalle informazioni desunte
da Callimaco (Giambo vi: Frag. 196), il basamento doveva misurare quasi dieci metri di lunghezza, circa
sei e mezzo di profondità (un rapporto di 3:2), mentre rimane più vago il computo dell’altezza: sono misure congrue con le dimensioni della scultura soprastante e con la volumetria dell’ambiente, al di là
dell’aneddotica riferita dagli stessi antichi.35 I blocchi
rimanenti, peraltro, non consentono neppure di definire la consistenza materica delle figure; la critica
tende oggi ad interpretarle come prodotti toreutici,
che dovevano essere applicati (ma egualmente sfuggente è il procedimento tecnico di affissione) sul fondo scuro della pietra. Nell’estrema frammentarietà
di evidenze, sono pur sempre i basamenti della Parthenos, dell’Hephaisteion ad Atene e, soprattutto,
del Nemeseion a Ramnunte che permettono di verificare alcune delle considerazioni esposte, specificamente indirizzate alla ripresa ed assunzione dei temi
in età romana.
30 Sintesi in Kossatz-Deissmann, art. cit. a nota 27, pp. 125-149.
31 Pausania, VIII, 47, 3. Del pari ‘infante’ avrebbe potuto essere
Dioniso sul basamento realizzato da Alkamenes (cfr. Lapatin, op. cit.
a nota 19, p. 98).
32 Cfr. W. Drost, Strukturwandel der griechischen Kunst im Zeitalter
des Euripides, in Gymnasium, 77, 1970, pp. 375-391.
33 Palagia, op. cit. a nota 1, p. 54.
34 Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 240-242, n. 60 (ivi bibl. prec.).
35 D. Kreikenbom, Griechische und römische Kolossalporträts bis
zum späten ersten Jahrhundert n. Chr., (JdI Erg.H. 27), Berlin 1992, p. 4 e
nota 16. In generale, H. Cancik, Grösse und Kolossalität als religiöse
und aesthetische Kategorien. Versuch einer Begriffsbestimmung am Beispiel
von Satatius Silvae I, 1, in Genres in visual representations. Proceedings of
a conference held in 1986 by invitation of the Werner-Reimers-Stiftung in
Bad Homburg, Leiden 1990, pp. 51-64.
36 Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 236-240, n. 59.
2. La base di Atena Parthenos
e i rilievi tipo Del Drago
La grande statua di culto di Atena Parthenos poggiava su una larga base a pianta rettangolare di cui
si conservano le fondazioni in poros, resti di ortostati sul nucleo in marmo pentelico e coronamento
(in forma di cavetto) in pietra nera di Eleusi: lunga
poco più di otto metri e larga poco più di quattro
(secondo un rapporto modulare di 1:2), era sagomata in alto e in basso, benché il compiuto profilo
delle modanature non sia determinabile a pieno
per la scarsità (e controversia) delle evidenze.36 Le
tracce rinvenute sui pochi blocchi superstiti non
consentono di sciogliere la riserva circa il loro originale posizionamento, né se siano tutti riferibili al
momento della realizzazione o non a successivi in-
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
67
terventi di restauro, dei quali è peraltro discussa la
Le scene scolpite sui basamenti delle due statue
cronologia in quanto legati dalla critica o ad Antionon contribuiscono neppure a sciogliere la riserva
co IV o ad Adriano e agli Antonini o, a seguito della
circa ordine e relazioni tra le divinità, poiché attuano
distruzione dovuta agli Eruli, all’azione di Giuliano
anzitutto una drastica diminuzione rispetto al numel’Apostata.37 Le fonti (Plinio, NH, 36, 18; Pausania,
ro degli dei riportato da Plinio: 6 figure sono grossoi, 24, 7) ricordano che la base era decorata con la
lanamente tratteggiate sulla statuetta Lenormant
nascita di Pandora alla presenza di venti divinità; se
(Fig. 4); ne rimangono, invece, 6 sicure e 1 a mala pePlinio riferisce il numero delle divinità omettendona accennata sulla base dell’Atena di Pergamo. None i nomi, Pausania si limita ad indicare solo il sognostante le grosse lacune (tanto che tutte le figure
getto, aggiungendo una breve nota su come quel
sono acefale e, ad eccezione della prima da sinistra,
tema fosse stato cantato da Esiodo e da altri (innoprive delle gambe), la base della statua pergamena
minati) poeti. E sui testi di Esiodo si è di fatto apavrebbe ancora spazio per altri personaggi alle due
puntata la critica per denominare i partecipanti e
estremità sino a raggiungere il virtuale numero di
per decrittare la scena.
10. Nella base, da sinistra a destra, sono parzialmente
La statua dalla Biblioteca di Pergamo (circa 1/3
conservate tre peplophoroi (le Cariti) rivolte verso la
dell’originale) e quella Lenormant (circa 1/10 delloro sinistra, diversificate dal movimento delle bracl’originale) – unite alle evidenze monumentali concia; sono seguite da una quarta figura femminile di
servate – hanno fatto stimare l’altezza dell’intero
minori proporzioni di cui resta solo la zona centrale
basamento poco meno di un metro e mezzo (quasi
del torso, coperto da un rigido peplo (Pandora).
a livello dell’occhio) e quella delle figure in esso preFrontale, le braccia distese lungo il corpo, questa dosenti attorno a cm 75.38 Queste – in accordo con
veva verosimilmente marcare il fuoco della compol’analisi di Praschniker – avrebbero dovuto essere
sizione, come segnala la posizione della successiva firealizzate a parte, in metallo (verosimilmente brongura femminile che, appena ripresa verso sinistra, le
zo dorato), benché sia incerto se fossero rifinite con
si volge (Atena). Segue una sesta figura che il tipo di
altri materiali (differenti metalli pregiati, pietre preabbigliamento superstite, con un lembo della veste
ziose, vetro, avorio) per far risaltare meglio la scintilfermato in vita a creare un triangolo all’altezza del
lante policromia del fregio, accentuata dal posiziofianco destro, sembra indicare come maschile (Efenamento sulla scura pietra e promossa secondo
sto); di una settima figura si intravede una minima
modalità tecnico-operative che restano del pari inporzione del profilo sulla destra. La base della piccocerte.39 Il basamento della statua da Pergamo (Fig.
la statua Lenormant stilizza ancora di più la figura3) presenta le figure che emergono nettamente dal
zione del basamento, il cui centro è segnato dalla fifondo, seguite da un solco di contorno deciso il quale
guretta femminile frontale (Pandora), mentre le
ne modella i corpi (elemento ben evidente dalle tre
estremità sono chiuse a sinistra da un carro e a destra
conservate sulla sinistra), quasi a riproporre con feda un personaggio femminile a dorso di cavallo o
deltà sul marmo aggetto, compiutezza e ratio degli
mulo: Helios e Selene, appunto, che, come per Afrooriginali. Ugualmente dibattuta rimane la sistedite sul basamento dello Zeus di Olimpia, partecipamazione delle 21 figure40 – cioè se queste erano colvano all’evento restituendone degnamente la dilocate tutte soltanto sulla fronte o erano, viceversa,
mensione cosmica.
proiettate anche sui fianchi, secondo la soluzione
Benché molto sbiadita, le due sculture filtrano
concretamente attuata sul basamento della statua di
un’eco dei modi compositivi della scena, caratterizculto a Ramnunte (§ 4) –, nonché le loro esatte sezata da simmetria, assialità, ritmo ed associazioni biquenza ed identità, quest’ultima di fatto ipotizzata in
narie dei partecipanti, con il fuoco costituito probase ai testi esiodei più che ai realia.41
prio dalla figura di Pandora, sistemata al centro
37 Leipen, op. cit. a nota 20, pp. 23-26; Kosmopoulou, op. cit. a nota
6, pp. 112-117.
38 Sintesi in Leipen, op. cit. a nota 20, pp. 23-24; N. Leipen, Athena
Parthenos, Problems of reconstruction, in Parthenon-Kongress Basel. Referate und Berichte. 4. bis 8. April 1982, Mainz 1984, pp. 177-181, 405-406; J.
H. Hurwit, Beautiful Evil: Pandora and the Athena Parthenos, in AJA,
99, 1995, p. 173 nota 6.
39 Solo ipotesi quelle di Palagia, op. cit. a nota 1, pp. 54-55 che pen-
sa ad un fregio ad alto rilievo in marmo; a mio avviso è ancora valido
C. Praschniker, Das Basisrelief der Parthenos, in ÖJh, 39, 1952, pp. 712. In generale, Lapatin, op. cit. a nota 19, pp. 63-79.
40 L. Berczelly, Pandora and Panathenaia. The Pandora Myth and
the sculptural Decoration of the Parthenon, in ActaArchH, 8, 1992, pp. 5960 nota 20.
41 Leipen, op. cit. a nota 20, p. 26 con tabella delle diverse proposte.
68
maria elisa micheli
Fig. 3. Berlino, Pergamonmuseum. Base della statua di Atena dalla Biblioteca di Pergamo.
Fig. 4. Atene, Museo Nazionale. Base della statuetta di Atena Lenormant.
della rappresentazione. Come hanno suggerito
molti critici, solo ipotetica (sebbene estremamente
plausibile) è la sua collocazione in asse con un
percorso visivo, fattuale (e concettuale) dell’intero
edificio che avrebbe legato in un intenso sistema di
rimandi incrociati le scene scolpite su frontone, metope, fregio, statua di culto e basamento appunto.
Di Pandora le due statue da Pergamo e da Atene lasciano comunque intuire lo schema iconografico,
coerente con quanto è noto da un numero circoscritto di raffigurazioni ceramiche attiche antece-
denti la creazione fidiaca (terminata, come bene informano fonti letterarie ed epigrafiche, nel 438
a.C.): in specie, la kylix a fondo bianco del Pittore di
Tarquinia (dove è l’iscrizione Anesidora da intendere, in accordo con l’esegesi più accreditata, come un
sinonimo per la stessa Pandora) ed il cratere del Pittore dei Niobidi da Altamura42 (Fig. 5). In entrambi
i vasi, Pandora è raffigurata al pari di una ‘bambola’
(probabilmente, un’allusione sia alla materia che alle modalità della sua ‘creazione’), rigida e frontale,
con un surplus di elementi antiquari utili a sottoline-
42 Pandora. Women in Classical Greece, E. D. Reeder (a cura di),
Princeton 1995, pp. 282-284, n. 80; 279-281, n. 78 e J. Boardman, Pan-
dora in the Parthenon: a grace to mortals, in K·ÏÏÈÛÙÂ˘Ì·. MÂÏÂÙ˜ ÚÔ˜
ÙÈÌËÓ Ù˘ OÏÁ· T˙·¯Ô˘-AÏÂÍ·Ó‰ÚË, Athinai 2001, p. 238, fig. 2.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
69
Fig. 5. Londra, British Museum. Cratere da Altamura del Pittore dei Niobidi (da «jhs», 11, 1890, tav. xi).
arne l’arcaicità: fra questi si distingue il peplo. Accogliendo il suggerimento di Berczelly,43 proprio il peplo viene in certo modo a qualificarsi come archetipico di quello che le donne future (discendenti da
Pandora) indosseranno ed anche come quello che,
nelle cerimonie di Atene, costituiva il prezioso dono
per la dea. Non a caso nelle due pitture Atena è
presso Pandora e sul cratere l’accoglie, porgendole
una corona; sulla kylix la dea è insieme ad Efesto, viceversa assente nel cratere dove compaiono altre sei
divinità (Ares, Hermes, Afrodite?, Iris, Zeus e Poseidone: verosimilmente una parte di quelle stesse che
l’attorniavano sul basamento). Pandora ha dimensioni minori rispetto agli altri personaggi sia per enfatizzare il suo status mortale rispetto ai compagni
divini sia meglio, a mio parere, per visualizzare il
momento della nascita/creazione; questo è espresso tramite l’indicazione dell’età adolescenziale
dell’eroina44 – prodromo al suo destino di generatrice della stirpe umana – piuttosto che mediante quella di donna più matura (una maturità che è viceversa cifra di Afrodite).
A fronte di questa redazione, altre sporadiche raffigurazioni ceramiche attiche coeve o di poco successive presentano, però, Pandora emergente dalla
terra (nella soluzione iconografica di Ghe: infra, § 3)
sempre tra divinità – oscillanti sia nel numero sia nel
genere. Su un cratere a Oxford45 sopra Pandora coronata e velata, emergente dalla terra, vola un erote
a segnalare forse il futuro matrimonio con l’uomo
che – in veste corta, il martello nella mano destra –
l’accoglie, tendendole la mano sinistra (probabilmente, Epimeteo). Boardman ha notato come le
parche occorrenze di questo specifico motivo in Occidente non indizino una penetrazione del mito (presumibilmente noto da fonti varie e diverse, comprendenti solo in maniera indiretta anche Esiodo)
che appare veicolato tramite le ceramiche attiche e
legato in via preferenziale al ruolo ‘locale’ di Pandora ad Atene.46 Secondo Boardman, infatti, nelle modalità di presentazione le scene non riprendono il
momento della nascita/creazione narrato nella versione esiodea (artefici Efesto che modella Pandora
ed Atena che la veste) alla presenza degli dei (che
riempiono di doni l’eroina). Viceversa, prospettano
visivamente una genealogia ‘autoctona’ di Pandora
in quanto ‘nata dalla terra’ e procedono nella direzione che pone la nascita di un eroe quale paradigma
di autoctonia47 (infra: § 3); ne insinuano al contempo
una dimensione ctonia cui non sarebbe estranea la
43 Berczelly, art. cit. a nota 40, pp. 75-85.
44 Contra: Beaumont, art. cit. a nota 8, pp. 355-356.
45 Hurwit, art. cit. a nota 38, p. 177, fig. 7; Pandora cit. a nota 42,
pp. 284-286, n. 81.
46 J. Boardman, Pandora in Italy, in BCH Suppl. 38, 2000, pp. 51-56.
47 H. A. Shapiro, Autochthony and the Visual Arts in Fifth-Century
Athens, in D. Boedeker - K. A. Raaflaub (a cura di), Democracy, Empire and the Arts in Fifth-Century Athens, Cambridge 1998, pp. 127-151.
70
maria elisa micheli
componente di fertilità. Per Boardman48 è proprio
questo duplice aspetto ‘locale e ctonio’ che permette
di comprendere al meglio la presenza di Pandora sul
basamento della statua di Atena Parthenos, sia perché lascia aperta la possibilità dell’esistenza di un culto per l’eroina (forse sulla stessa Acropoli), smorzandone la funzione di anti-Atena suggerita da Hurwit,
sia perché in tal modo svincola gli dei che assistevano all’evento dall’accusa di perfidia nei confronti del
genere umano cui li assoggettavano i testi esiodei.
Nell’interessante lettura di Hurwit,49 Teogonia e
Opere e Giorni sono usati per rispondere alla domanda circa la scelta del tema: in consonanza con la
poetica esiodea, sarebbe la misoginia ad assumere il
ruolo di elemento fondante – per le sue molteplici
implicazioni – nella costruzione mitologica attuata
ad Atene ed esibita sulla base partenonica. Una tale
costruzione sarebbe imperniata sì sull’autoctonia,
ma soprattutto sul patriarcato, secondo ripartizioni
di gender garantite proprio da Atena; la scelta di Pandora sarebbe pertanto espressione dell’élite maschile
alla quale dà corpo il modo di presentare iconograficamente l’eroina. Rigida e frontale, Pandora si mostra assolutamente passiva: in questa sua condizione
offrirebbe una dissonante anomalia a fronte della divinità la cui eikon la sovrasta, ponendosi con essa in
relazione oppositiva. Tuttavia, mi sembra che Pandora – sul basamento Parthenos come la dea – sia
piuttosto in relazione di reciprocità con Atena: significativa, in tal senso, mi sembra la circostanza che
l’arrivo di entrambe sia salutato, alludendo quasi ad
un’apoteosi, da un’assemblea costituita dagli stessi
personaggi divini. Pandora è ovviamente dipendente da Atena che non la crea ma, come nel caso di
Erittonio, è il tramite primo del suo inserimento nel
consorzio civile, messo in atto attraverso la presentazione agli Olimpi; in tal modo viene accennato il
legame profondo tra Atena e la città di cui la dea è
garante nello svolgimento delle pratiche rituali e,
più ampiamente, sociali e civiche.50 In questa prospettiva, non c’è affatto bisogno – come fa Robertson51 – di rivolgersi all’ethnos di Esiodo per prospet-
tare una tradizione beotica del mito (per di più politicizzandolo in relazione al controllo ateniese sulla
Beozia seguito alla battaglia di Cheronea), accentuando inoltre il ruolo di Atena come dea protettrice
del lavoro femminile.
La scelta del tema si iscrive entro il sistema relazionale innescato dalla ‘novità’ della stessa statua di culto e, più che le opere di Esiodo sulle quali si è concentrata la critica, deve tenere nel giusto conto la
popolarità del mito di Pandora in Attica (in periodo
non lontano dalla creazione fidiaca), così come divulgato dal dramma satiresco di Sofocle: non a caso, a
questo potrebbe alludere il choros di satiri e l’aulistra
sul cratere da Altamura. La connotazione negativa
del mito di Pandora in Esiodo è un ostacolo ad ogni
comprensione più ‘positiva’, mentre il dramma satiresco sofocleo, rendendo popolare la tradizione attica di Pandora, riusciva a far risaltare al meglio il ruolo
di Atena che, con la sua liberalità, viene a stemperare
le conseguenze tragiche della creazione dell’eroina e
dei doni offertile dagli dei. In tal senso mi sembra
condivisibile la lettura di Fehr,52 poiché ribadisce come la Parthenos nel suo complesso legittimi gli
aspetti del programma politico pericleo, trasgredendo dal concetto tradizionale di divinità poliadica per
acquisire una valenza universale, coerente con le
nuove strutture della polis. È questa sua immagine, in
quanto manifestazione tangibile dell’autorità dello
Stato, ad essere proposta sui rilievi di decreto.
La scultura contempera aspetti all’apparenza
antitetici, conservativi ed innovativi promossi dal
circolo intellettuale del filosofo Anassagora, dal momento che smorza la recepta religio con i temi dell’attualità politica e della lectio orientalis che, sul piano
fattuale, investono i materiali usati per la sua realizzazione. Il formato, ma soprattutto lo schema (con
gli attributi quasi autonomi) trovano un referente
nel colossale Apollo Delio, opera di Tektaios e Angelion, al quale si riconnette anche nel significato.53 Rispetto ad altre statue di divinità femminili coeve,
Atena mantiene una vocazione da signora della
natura (sottesa dagli animali favolosi posizionati
48 Boardman, art. cit. a nota 42, pp. 241-242.
49 Hurwit, art. cit. a nota 38, pp. 171-186.
50 In questo contesto verrebbe fatta salva anche la partecipazione
‘attiva’ delle donne, come è inferibile dalle raffigurazioni ceramiche
che recuperano il concetto di ‘cittadinanza religiosa’ per le donne ateniesi a fronte del loro ruolo più marginale come ‘soggetti’ politici: cfr.
O. Borgers, Religious Citizenship in Classical Athens. Men and Women
in Religious Representations on Athenian Vase-painting, in babesch , 83,
2008, pp. 73-97.
51 N. Robertson, Pandora and the Panathenaic Peplos, in The
Parthenon and its Sculptures, Cambridge 2004, pp. 98, 102-106.
52 B. Fehr, Die Parthenos im Parthenon zwischen Recepta Religio
und politischen Kalkül, in Hephaistos, 19/20, 2001/2002, pp. 39-66.
53 M. E. Micheli, La statua di Apollo Delio, opera di Tektaios e Angelion, in Prospettiva, 79, 1995, pp. 17-18 (ivi bibl.).
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
71
nell’elmo) che, nell’attualità, si declina come impreb) uno proveniente da Roma, ma di cui si ignora il
scindibile strumento di civilizzazione; rimarca il
luogo di rinvenimento prima della sua collocazione
concetto di aretè – concretamente richiamato da
nel Palazzo Del Drago (già Massimo alle Quattro
Nike esibita nella mano – che, oltre all’azione politiFontane), di epoca tardoadrianea;
ca, allude alle qualità condivise mediante le quali si
c) uno venuto alla luce a Corinto nel corso degli
tende al raggiungimento di un fine elevato. Le tescavi condotti nell’Asklepieion, di età protoantonina.
chnai sono ostentate nell’opulenza degli ornamenti,
Sono questi i documenti che le ricerche attuali, a
che aumentano la ‘grazia’ della dea: se per Apollo
fronte della discreta credibilità goduta fino alla metà
Delio il concetto di Charis/Metanoia era fisicamendel Novecento, hanno espunto dal corpus fidiaco, nete ricordato dal gruppo delle tre Charites, per Atena
gando loro un’identità, poiché insistono sulla dispaesso si dispiega scomponendo i singoli attributi (perità (stilistica e cronologica) dei modelli dai quali deraltro ambivalenti) e guardando specificamente alla
rivano le singole figure divine che, nel caso dei
presenza di Pandora, sul basamento attorniata dalle
marmi b-c, sono amalgamate da stilemi e codice fordivinità olimpie. Proprio lì verrebbe a concretarsi il
male classicistici.
concetto collettivo di oi theoi ai quali si coordina Pana) Il frustolo di rilievo a Rodi (Fig. 6) – insieme alla
dora che sarebbe da intendere non come un’antistatua pergamena – si presenta come una delle testiAtena, ma piuttosto come una proiezione della dea
monianze più antiche, se non altro a livello di tradialla quale apporta una componente erotica: nella cozione e recezione iconografica di uno schema iconostruzione di gender, potremmo dire che attraverso
grafico e compositivo che doveva comunque essere
Pandora vengono bilanciati maschile e femminile
rappresentato sul basamento fidiaco. Innegabile è,
tanto che dall’unione di suo figlio e di sua figlia oriinfatti, la stretta concordanza tra la figura femminile
gineranno uomini e donne. Nonostante l’accezione
scolpita sul frammento a Rodi e la peplophoros sulpositiva così ammessa al mito, dubito però che quel’estremità sinistra della base dell’Atena da Pergamo
sta sua specifica valenza si sarebbe potuta mantenere
(Fig. 7), dove compone un gruppo coeso di tre donscissa dalla statua soprastante; anche in forza di quene (le Cariti) tutte vestite di peplo. Identica è la posta osservazione, mi sembra da escludere l’ipotesi
stura della figura che, stante sulla gamba sinistra con
che vuole riconoscere la vicenda di Pandora nella sela destra di poco flessa, ha il torso appena inclinato
rie molto lacunosa di frammenti marmorei rivenuti
all’indietro (un movimento proposto in modo più
nei pressi dell’Agorà,54 di cui restano incerte funziomarcato nel rilievo da Rodi rispetto alla scultura da
ne e collocazione, interpretandoli come parte di un
Pergamo, tanto che le pieghe del peplo formano un
fregio ad altorilievo nello stile e nella forma di quello
arco più accentuato e un rotolo più rigonfio sopra il
dell’Eretteo che, realizzato a poca distanza temporabacino, secondo modi di un linguaggio stilistico più
le dalla statua di culto partenonica, avrebbe riproporecente); il braccio sinistro è piegato al gomito, con
sto un analogo soggetto.
la mano impegnata a reggere un lembo dell’himaAl di là delle interpretazioni possibili circa il signition. Questo è passato a coprire il capo lievemente
ficato connesso alla scelta di un tale mito, rimane
piegato in basso come rivela proprio il rilievo a Rodi,
comunque vago individuare la formulazione comladdove il marmo da Pergamo mostra una lacuna
plessiva della teoria divina che sul basamento partenella figura che, dal petto, si spinge fino alla testa; la
nonico accoglieva Pandora, riempiendola di doni. A
donna conserva, però, il braccio sinistro piegato e
tal riguardo non apportano informazioni incontrosollevato con un gesto congruo a trattenere, discovertibili tre rilievi in marmo, tutti frammentari, per
sto dal volto, il panneggio. Schuchhardt,55 indivil’appunto oggetto di discussione:
duando i resti di una cetra e la punta delle dita dietro
a) uno rinvenuto a Rodi risalente all’avanzata età
il personaggio femminile sul rilievo a Rodi, ne ha
ellenistica;
suggerito la pertinenza ad Apollo (nel tipo, vestito,
54 E. B. Harrison, The Classical High-Relief Frieze from the Athenian Agora, in H. Kyrieleis (a cura di), Archaische und klassische griechische Plastik, II, Mainz 1986, pp. 109-117 suggerisce, senza comunque
insistere, che avrebbero potuto decorare il grande altare sull’Acropoli
o un parapetto (?) elevato attorno al santuario di Atena Ergane sull’Acropoli (Berczelly, art. cit. a nota 40, pp. 70-75; Hurwit, art. cit.
a nota 38, p. 177 nota 19). Un’altra ipotesi propone di riferire i fram-
menti alla decorazione della base di culto del tempio di Ares: sintesi
in Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, p. 136.
55 W. H. Schuchhardt, Zur Basis der Athena Parthenos, in Wandlungen. Studien zur antiken und neueren Kunst Ernst Homann-Wedeking
gewidmet, Waldassen 1975, pp. 120-130. Cfr. anche Fuchs, op. cit. a nota
17, p. 131, n. 17.
72
maria elisa micheli
Fig. 6. Rodi, Museo Archeologico.
Rilievo frammentario con peplophoros.
del citaredo), prospettando che fosse seguito da Artemide e Latona. In tal caso, anche la lacuna sull’estremità sinistra della base di Pergamo potrebbe
venire completata con quella divinità; la presenza di
Apollo si integrerebbe bene nella teoria divina, pur
senza certezza nei realia. Guardando ai modi stilistico-formali del marmo, Schuchhardt ha ritenuto le figure derivate da convenzioni formali più tarde rispetto all’epoca di realizzazione della statua di culto
fidiaca: a suo avviso, nella figura femminile sono accentuate le linee curve a fronte delle clausole statiche, espresse con rigore dalle solenni peplophoroi
della processione partenonica. Facendo perno su tale elemento, espunge il pezzo dalla virtuale ricostruzione dell’apparato figurativo della base partenonica: ma, come accennato sopra, la recenziorità del
codice espressivo è dovuta al linguaggio proprio dell’epoca di realizzazione del marmo e non è a mio parere un elemento imputabile (e quindi da valutare in
relazione) al modello originario.
b) Egualmente dissonante rispetto al virtuale modello, è il rilievo Del Drago a Roma (Fig. 8) in cui lo stile
classicistico lega in maniera eccellente le figure di
Fig. 7. Peplophoros: particolare dalla base della statua
di Atena dalla Biblioteca di Pergamo.
Zeus, Ade, Kore, Poseidone, Anfitrite. Prese ad una
ad una, queste sono lessicalmente distanti tra di loro
pur se tutte derivate da prototipi interpolati sulla
traccia dell’esperienza fidiaca in consonanza con
quanto attuato sul puteale della Moncloa o – pur nella recenziorità dei modelli – dal tracciato proposto
sull’altare dei dodici dei a Ostia. Le modalità compositive, che mostrano figure spazieggiate e secondo
raggruppamenti binari, sono viceversa sintatticamente congrue con la teoria divina attorno a Pandora come è appena indiziata dalla base della statua
pergamena: la scena, infatti, non avrebbe dovuto
avere un intento narrativo, ma, attraverso lo schema
giocato sulla paratassi e la simmetria, avrebbe dovuto corrispondere con immediatezza a ciò che stava
accadendo. L’ambivalenza dei tipi iconografici è stato uno degli elementi usati per declassare il rilievo
dal ruolo fondante, già attribuitogli da Schrader, Becatti e dalla Leipen56 nell’ambito delle derivazioni fi-
56 Leipen, op. cit. a nota 20, pp. 25-27; contra Palagia, op. cit. a nota 1, p. 73 con altra bibl.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
73
Fig. 8. Roma, Museo Nazionale di Palazzo Altemps. Rilievo Del Drago.
diache, e per interpretarlo come nuova creazione,
scartata pure una proposta ‘di mediazione’ ossia che
si tratti della ri-proposizione da un rilievo di età tardoclassica. Sarebbe un’opera di bottega classicistica
di epoca adrianea-protoantoniniana che, combinando modelli diversi, riesce ad ottenere una composizione ‘rispettosa’ di norme in vigore nel pieno periodo classico. Così, in ultimo, la Böhm cui si deve il più
recente contributo sul rilievo che, dopo avere ripercorso la letteratura precedente, esamina ciascuna figura, censendone con minuzia lo stemma.57 Tuttavia, anche ricorrendo alla ‘nuova creazione’, va
comunque considerato quanto incida nella pratica
lavorativa di una bottega – che dobbiamo pensare altamente specializzata – la conoscenza delle virtuali
(?) fonti iconografiche di riferimento, le quali consentono la creazione di un tale pezzo. Nel caso dei
materiali derivati dalla Parthenos, la forza propulsiva
del prototipo è certamente ben esemplificata dalle
numerose ‘riprese’ dello scudo: sia da quei marmi
che miniaturizzano (e semplificano) il modello nella
sua interezza, sia dalle singole raffigurazioni – talvolta combinate con diverso ordine – trasferite sui pinakia. Del resto, questo medesimo procedimento
‘scompositivo’ è documentato dalla base di candelabro nei Musei Vaticani,58 che itera con fedeltà tre del-
le figure (Kore, Ade, Poseidone) scolpite sul marmo
in esame. In accordo con la ‘più vecchia’ letteratura,
preferisco da subito orientarmi nel considerare il rilievo ancora una blanda filiazione dalla creazione fidiaca, anziché un mero centone di tipi; è una derivazione certo ‘stratificata’ nella descrizione dei singoli
personaggi, attualizzati nei dettagli, ma non nell’impostazione generale (procedimento per certi versi
apprezzabile nella ‘sintesi’ attuata sul puteale della
Moncloa). Esercizio accademico è, però, usare il rilievo per ricostruire l’originaria teoria divina fidiaca,
per di più collocando i personaggi alla destra o alla
sinistra di Pandora, benché vada riconosciuto che, rispetto al virtuale fuoco offerto dall’eroina, la direzione di Zeus e di Poseidone ne lascerebbe supporre
il posizionamento nella metà a destra. La possibile
sequenza delle divinità, infatti, è resa ancora più ‘aerea’ se consideriamo insieme la base della statua pergamena ed il rilievo a Rodi: prendendo a valore facciale il rilievo rodio, dietro al gruppo delle Cariti –
alla destra di Pandora – avrebbe dovuto trovarsi
Apollo, che quasi tutte le ipotesi ricostruttive, presentate in un quadro sinottico dalla Leipen, tendono
viceversa a sistemare nella zona a sinistra di Pandora. La destra, infatti, sarebbe occupata dalla serie divina proposta dal rilievo Roma-Corinto.
57 Böhm, op. cit. a nota 2. pp. 93-105.
58 H. U. Cain, Römische Marmorkandelabre, Mainz 1985, p. 190, n.
108, tavv. 13, 1-2; 17, 4; 75, 4.
74
maria elisa micheli
Fig. 9. Roma, Istituto Nazionale per la Grafica. Disegno di Raymond Lafage riproducente il rilievo Del Drago.
Realizzato in pentelico,59 il rilievo Del Drago è un
pezzo in sé famoso, citato nelle immagini barocche
e discusso negli studi di antiquaria: un’incisione in
controparte negli Admiranda di P. S. Bartoli (tav. 28)
con la didascalia «in aedibus Cardinalis de Maximis»
ne documentava la presenza nelle collezioni d’arte di
una figura di grande spicco nel mecenatismo romano del secondo Seicento. Un disegno (Fig. 9), nel taccuino del narbonese Raymond Lafage datato al 1679,
permette di verificarne meglio lo stato di conservazione, offrendo al contempo una preziosa testimonianza della sua permanenza nel palazzo alle Quattro Fontane, quando questo era passato in proprietà
del cardinale Nerli. Rispetto al marmo, nel disegno
la conformazione della testa di Zeus e la terminazione della spalliera del trono sembrano antecedenti a
quella attuale; è assente la phiale tenuta nella mano
destra di Ade; mancano il basso polos e il mantello
sulla testa di Kore, mentre il panneggio sotto il braccio sinistro è tratteggiato a matita (forse per indicarne lo stato lacunoso) al pari di una piccola porzione
di panneggio sotto il braccio sinistro di Anfitrite.
Questi elementi sono stati obliterati nell’incisione
nei Monumenti Inediti (i, tav. 19) di Winckelmann e in
quella successiva nei Bassirilievi di Zoega (i, 1808, pp.
1-5), dove è tuttavia assente la spalliera del trono ed
una linea indica la lacuna alle spalle della divinità. Sono infatti moderne la finitura a pigna della spalliera
del trono di Zeus e le dita della mano sinistra, mentre la testa ed il collo della divinità sono di fattura antica, anche se profondamente rilavorati (in coerenza
con l’informazione di Lafage); è stata ribassata la superficie originale in corrispondenza della parte inferiore sinistra del trono per renderla omogenea a
quella di restauro. Sono esito di integrazioni moderne il braccio destro e la mano con la phiale di Ade; la
mano sinistra di Kore e la zona superiore della testa;
l’indice sinistro di Poseidone e risulta integrata la zona sinistra (piede, parte della veste, braccio e mano)
di Anfitrite, compresa nell’aggiunta apposta al margine destro della lastra. Il rilievo è chiuso in alto e in
basso da una cornice – articolata in listello piatto e
gola rovescia – che funge da piano di posa per le figure, resa nella medesima scansione di quella sul rilievo a Stoccolma (infra: § 4); sono stati sagomati i risvolti angolari superiori per limitare la scena entro
uno spazio uniformemente incorniciato; nella metà
superiore uno scialbo rosato unificava le parti ag-
59 Il rilievo, completo dei restauri, è lungo cm. 148, alto cm. 61,
spesso cm. 9. Tracce di doratura moderna presenta la testa di Anfitrite, mentre i piedi di Ade conservano pigmenti giallini; questi elementi hanno fatto pensare alla presenza di una cornice dorata, che avrebbe dovuto completare il marmo quando era collocato nella loggia di
Palazzo Massimo alle Quattro Fontane, secondo quanto emerge dai
pagamenti relativi al 1670 della famiglia Massimo a Rocco Lolli (M.
Pomponi, La collezione del Cardinale Massimo e l’inventario del 1677, in
Camillo Massimo, collezionista di antichità. Fonti e materiali, (Xenia Antiqua Monografie 3), 1996, inv. 1677 nota al n. 19).
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
75
giunte a quelle antiche. Becatti60 suggeriva che la
porzione antica nella sezione inferiore sinistra del rilievo, privo di cornice, poteva lasciar credere che la
lastra si collegasse ad altre per comporre un fregio
più lungo dell’attuale, benché nulla sul pezzo sia effettivamente riscontrabile in tal senso. Zeus, rivolto
a destra, è seduto in trono; è nudo nella parte superiore del corpo, mentre l’himation dal braccio sinistro sollevato (che nella mano avrebbe dovuto stringere lo scettro) ricade parallelo al busto fino ad
avvolgere completamente le gambe; nella mano destra abbassata tiene i fulmini. Segue Ade stante, avvolto nel mantello, con la cornucopia nella sinistra
mentre nella destra scesa avrebbe forse potuto tenere la chiave (o, secondo altra ipotesi, lo scettro) al posto della phiale; gli è accanto Kore frontale, che comFig. 10. Corinto, Museo Archeologico. Rilievo frammentario.
pie un gesto ampio con il braccio sinistro sollevato
all’altezza del capo. La figura è matronale e nella postura assimila il modo di rappresentare Demetra, di
nella medesima modalità usata sul marmo a Roma.
cui assume anche l’abito – il peplo – a differenza di
Come sul rilievo Del Drago, l’appoggio del braccioquanto avviene quando Kore è in compagnia della
lo del trono è costituito da una piccola sfinge, che lamadre. La coppia seguente propone Poseidone ed
scia pensare ad una semplificazione rispetto al grupAnfitrite. Di profilo a destra, il dio ha il piede sinistro
po Sfinge/fanciullo tebano sul trono dello Zeus di
poggiato su uno scoglio ed il lungo scettro puntato
Olimpia. Sul frammento a Corinto, dietro a Zeus è
a terra tenuto nella mano corrispondente serve anperò scolpita un’imponente figura femminile, priva
che a bilanciarlo; lo schema recepisce echi di figure
della testa e di parte del torso che integra la sequenza
partenoniche avvolte nel mantello, benché ad epoca
Del Drago. Frontale, vestita di chitone altocinto,
più tarda rimandi la posizione dei piedi. Egualmente
pondera sulla destra ed avanza appena la sinistra; il
Anfitrite, che porta le braccia alla spalla sinistra per
braccio sinistro è sceso lungo il corpo e la mano
allacciare il mantello, propone un gesto peculiare ad
stringe un lembo del mantello che risale dietro le
Afrodite (così ripresa sull’oinochoe del Pittore di
spalle ed avrebbe potuto coprire il capo. Più che HeHeimarmene),61 successivamente esibito a tutto
be, preferisco con Becatti interpretare il personaggio
tondo nell’Artemide di Gabi. Tutte le figure – al di là
come Hera, che insieme a Zeus continua la serie deldei riferimenti ad opere a tutto tondo o di quelli dele coppie divine secondo la modulazione ritmica e
sunti dalle citazioni sulle ceramiche – rientrano in un
parca di gestualità, suggerita dal rilievo Del Drago.
repertorio ben attestato in Attica su rilievi votivi, documentari e funerari postfidiaci.
I modi di lavorazione dei marmi a Roma e Corinto,
in cui spicca il trattamento metallico delle pieghe,
c) La stessa figura di Zeus ritorna su un rilievo estrerinviano ad epoca adrianea e protoantoniniana. A
mamente frammentario a Corinto (Fig. 10), rinvenuquesta si confà il codice formale classicistico, coerento nell’area dell’Asklepieion:62 rispetto al pezzo Del
te, pur nelle diversità della manifattura, con le soluDrago, è appena variata, nel più opulento dispiegarsi
zioni attuate sul rilievo con gli Asclepiadi al Louvre,
della stoffa, la sovrapposizione dei lembi dell’himagià nella collezione Borghese,63 sul rilievo Vaticano
tion sulle gambe realizzati con solchi profondi e pecon la nascita di Erittonio da Villa Adriana (infra: § 3)
santi propri dell’età protoantonina. Acefalo, privo
e sul rilievo a Stoccolma di provenienza urbana (indelle gambe da sotto il ginocchio e del braccio sinifra: § 4). La conformazione del rilievo Del Drago e le
stro, nella mano destra Zeus trattiene i fulmini resi
60 G. Becatti, Problemi fidiaci, Milano 1951, pp. 53-70.
61 ARV2, p. 1173, nº. 1.
62 Marmo pentelico; h. cm 52, l. cm 57, spess. cm 9. Carpenter
1933, p. 65, fig. 23; Becatti, op. cit. a nota 60, pp. 53-70; Palagia, op. cit.
a nota 1, p. 73 e fig. 12. Cfr. Micheli, art. cit. a nota 5, pp. 94-95.
63 Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 111-120, fig. 68
76
maria elisa micheli
Fig. 11. Parigi, Louvre. Rilievo con la nascita di Erittonio.
sue dimensioni (comprese quelle delle figure, che
emergono in plastico aggetto) rendono ipotizzabile
una collocazione ancorata ad una struttura ad un’altezza non superiore ai due metri se non meglio, puntando sulle dimensioni delle figure, a livello dell’occhio. Dubbio resta, come s’è accennato, se la scena
proseguiva o meno su una lastra contigua in modo
che a Zeus (come prospetta il marmo a Corinto) fosse affiancata la compagna. Comunque, per quanto
concerne la sistemazione ‘funzionale’, va valutato se
può essere in toto accettata la considerazione della
Nick64 circa il fatto che i rilievi di età romana con temi desunti dalle diverse raffigurazioni presenti sulla
statua partenonica rivestano una pura funzione decorativa e, non lasciandosi circoscrivere ad un contesto unidirezionale, servano soltanto come oggetti da
esibire in aree pubbliche e private in quanto articoli
di lusso. In questo caso specifico, però, il soggetto
appare concepito come un universo spaziale chiaramente ordinato in cui i gesti sobri dei personaggi raffigurati contribuiscono a corroborare l’identità delle
figure divine e la pur raggelata teoria sembra andare
oltre l’intento semplicemente decorativo, mantenendo una timida valenza cultuale che può alludere
a paradigmi ideali (voluta o casuale l’assenza dell’elemento denotativo, costituito da Pandora).
I dati di rinvenimento noti per il frammento a Corinto non apportano elementi utili per una sua collocazione e l’assenza di informazioni topografiche
‘mirate’ per il rilievo a Roma, al di là delle vicende
antiquarie che ne documentano le manipolazioni subite, gioca a sfavore per formulare ipotesi relative al
suo posizionamento. È il soggetto, tuttavia, che sollecita alcune considerazioni potenzialmente utili a
tal fine: rivela anzitutto un atteggiamento retrospettivo il quale si adegua al modello greco e, tramite le
modalità stilistico-formali, si configura come una
precisa scelta culturale. Soggetto e codice di presentazione corrispondono in pieno ad alcune delle tendenze perseguite sotto Adriano, che affermano una
fase atticizzante65 promossa a Roma almeno con
una doppia strategia: sia attraverso il linguaggio
artistico sia attraverso la selezione di temi e saghe
mitiche. Il soggetto recupera nei fatti una solenne
teoria olimpia (apparentemente scissa da un determinato episodio mitico) che, nella cadenza stessa,
suscita un’attitudine cultuale, suggestionando una
possibile collocazione in un contesto a vocazione sa-
64 Nick, op. cit. a nota 13, p. 179.
65 Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 9-20.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
77
cra. Secondo tale prospettiva non sarebbe da escludere nemmeno una sistemazione che evoca quella
del presunto modello, ovvero la decorazione di un
basamento (possibilmente) ‘di culto’. In tal caso, viene spontaneo pensare alla base che avrebbe dovuto
accogliere le immagini nell’imponente tempio di Venere e Roma se non a quella nel tempio eretto per
onorare una nuova dea: Matidia. Matidia (come riferiscono le fattezze idealizzate nella testa maggiore
del vero dagli Horti Calyclani sull’Esquilino) andava
ad occupare degnamente il suo posto tra gli Olimpi,
ai quali già Adriano si era già omologato, fra l’altro
imponendo ad Atene una sua immagine nella cella
del Partenone (infra: § 3): e non credo si tratti di casualità il fatto (evidenziato dalle indagini della Karanastasses)66 che, proprio a partire dall’età adrianea,
si verifica in Grecia una ripresa del tipo della Parthenos. Sarebbe una sistemazione in sintonia con quanto è stato suggerito per una serie di rilievi con donne
ghirlandofore e tempio, ascritti con buona verosimiglianza alle celebrazioni della diva Sabina.67 Sono peFig. 12. Musei Vaticani. Rilievo frammentario
raltro aspetti di una tendenza culturale ‘indirizzata’
con la nascita di Erittonio da Villa Adriana.
che è percepibile con maggiore forza nella villa tiburtina dell’imperatore, dalla quale proviene per
staurato nell’atelier di Bartolomeo Cavaceppi, del ril’appunto il rilievo frammentario nei Musei Vaticani
lievo Albani non è conosciuta una provenienza ancon la nascita di Erittonio.
che solo virtuale; trasferito a Parigi dopo il trattato
di Tolentino, non rientrò in Italia a seguito degli
3. I rilievi Vaticano-Louvre
accordi
di Vienna. Presente fin dal 1806 nella descricon la nascita di Erittonio
zione delle antichità del Museo Chiaramonti, del
frammento in Vaticano sono noti il generico rinveniDue rilievi in pentelico raffigurano la nascita di Eritmento, avvenuto alla fine del xviii secolo, a Villa
tonio: più completo al Louvre, dalla collezione AlbaAdriana, nonché la messa in vendita da parte di Anni68 (Fig. 11); frammentario nei Musei Vaticani, da
tonio Gastaldi.70 Due disegni di Agostino Penna,71
Villa Adriana69 (Fig. 12). Le notizie antiquarie sulla
uno dei quali tradotto in incisione alla tavola cxxvi
storia dei due marmi si possono riassumere così: re-
66 P. Karanastasses, Untersuchungen zur kaiserzeitlichen Plastik in
Griechenland, 2. Kopien, Varianten und Umbildungen nach Athena-Typen
des 5. Jhs. v.Chr., in AM, 102, 1987, pp. 390-393, 396-400.
67 L’ipotesi è stata avanzata considerando sia la provenienza sia la
scena scolpita sul rilievo Borghese con donne ghirlandofore e tempio
al Louvre. L’evento, proposto con un formulario compositivo, stilistico e formale di ascendenza classica, verrebbe così appena accennato
e la scena risulterebbe sospesa nel tempo e nello spazio. Per esso
sarebbe confacente la sistemazione in un hortus deliciarum (M. E. Micheli, Rilievi con donne offerenti, danzanti e ghirlandofore a Ravenna e a
Roma. II, in Prospettiva, 101, 2001, pp. 48-49).
* Il paragrafo riprende, con alcune varianti, il testo edito: Rilievi romani con la nascita di Erittonio, in RendPontAcc, 79, 2006-2007, pp. 13-34.
68 H. cm 65; l. cm 110. Fuchs, op. cit. a nota 17, p. 134; U. Kron, Die
zehn attischen Phylenheroen. Geschichte, Mythos, Kult und Darstellungen,
(AM 5.Beiheft), Berlin 1976, pp. 63-64, 251, n. E 18; Les antiques du Louvre.
Une histoire du goût d’Henri IV à Napoléon Ier, Paris 2004, p. 193, fig. 212;
Böhm, op. cit. a nota 2, p. 35, fig. 18.
69 H. cm 44; l. cm 41. Fuchs, op. cit. a nota 17, p. 134; Kron, op. cit.
a nota 68, pp. 63, 251, n. E 17; Bildkatalog der Skulpturen des vaticanischen
Museum, 1. Museo Chiaramonti, Berlin 1994, n. 643, tav. 430; Böhm, op.
cit. a nota 2, p. 35.
70 Si tratta di Antonio Gastaldi, venditore di antichità, che aveva
una bottega ‘in strada Condotti sotto il palazzo del Marchese Nunez
al nº. 18’: B. de Divitiis, New evidence for Sculptures from Diomede Carafa’s Collection of Antiquities, in JWCI, 70, 2007, p. 103 nota 11.
71 P. Baldassarri, L’opera grafica di Agostino Penna sulla Villa Adriana (Mss. Lanciani 138), in RIASA, 11, 1998, pp. 30-31, n. 9. Disegni a matita sono in Ms. Lanciani 138, f. 7r; Ms. Lanciani 36, f. 157r. Qui, sopra
il margine superiore del disegno, è l’indicazione a penna “tav. 122”; sul
verso è annotato: “Frammento di bassorilievo con la nascita di un
qualche nume, o eroe sono della Villa Adriana. Acquistati dal sig. Antonio Gastaldi e ora nel Museo Chiaramonti nº. 642 e 643 nel tomo
primo del Museo Chiaramonti”.
78
maria elisa micheli
del tomo iv del Viaggio pittorico a Villa Adriana, ne visualizzano lo stato di conservazione intorno agli anni ’20 dell’Ottocento. Dal Penna vengono riportate
poche informazioni sulla scoperta, a suo dire avvenuta insieme ad un piccolo frammento di rilievo con
figura femminile (una Hora), meglio conosciuta dalla serie Roma-Firenze-Monaco.72 Ma una tale notizia sembra dipendere piuttosto dalla circostanza che
anche quel pezzo fu venduto nel medesimo lasso di
tempo ai Musei Vaticani dallo stesso personaggio,
Antonio Gastaldi.
Dal fondo di entrambi i marmi emerge fino a
mezza coscia un’imponente figura femminile, vestita di peplo (Ghe). Volge in alto la testa cinta dal
diadema, accompagnando così il gesto delle braccia
levate a porgere un infante (Erittonio) ad un’altrettanto imponente figura femminile che le sta davanti
(Atena), vestita di chitone e himation. Questa è stata
integrata come una vezzosa Ninfa sul marmo al
Louvre, mentre sul frammento in Vaticano è conservata soltanto dalle anche ai piedi, calzati di sandali intrecciati. Sul pezzo a Parigi Atena è poi seguita da un
personaggio maschile (le gambe di profilo, volto e
torso di prospetto) che doveva impugnare nella mano destra un lungo scettro di cui resta un lacerto
presso la coscia; in scala minore rispetto alle dimensioni delle altre figure, è seduto su un blocco, conformato a zampa leonina ad una estremità. Inoltre, alle
spalle del gruppo Ghe/Erittonio è un personaggio
stante, appoggiato ad un pilastrino (sul frammento
in Vaticano si conserva solo il piede sinistro), che sul
rilievo al Louvre è stato integrato come femminile:
della parte antica rimane la metà inferiore del corpo,
dai piedi ai fianchi. Si tratta in realtà di una figura
maschile, così già riconosciuta nel Clarac in base al
dettaglio antiquario della veste, il ÙÚ›‚ˆÓ appunto,
estraneo al costume femminile.
La giusta individuazione del soggetto scolpito sul
marmo al Louvre compare già nel Clarac73 dove nella tavola a stampa una linea puntinata segnala correttamente l’intervento di restauro, mentre nella didascalia è proposto ancora «Bacchus. (Naissance de)» in
contrasto con il commento offerto nella scheda
analitica. Qui, infatti, viene emendata la precedente
lettura di Visconti che aveva inteso la scena come
pertinente al bios di Dioniso; per l’antiquario, il dio
infante sarebbe stato affidato alle Ninfe – di Nysa o
Dodona – incaricate da Zeus di prendersi cura del
piccolo, in coerenza con quanto raffigurato sul celebre cratere di Salpion portato a confronto.74 Seguendo Panof ka, invece, il soggetto viene ora interpretato per la nascita di Erittonio: è il momento della
consegna del piccolo ad Atena da parte della dea della terra, Ghe. Come evidenziò il Duca di Luynes in
una brevissima nota edita nel 1829, fondamentale per
questo riconoscimento era stata la raffigurazione dipinta su un vaso in proprietà del Principe di Canino;
la stessa permetteva anche di escludere l’interpretazione avanzata da Guattani per il frammento in Vaticano, letto in relazione alla nascita di Zeus.75
L’identificazione della scena, ben definita agli inizi
dell’Ottocento, ha ricevuto conferma soprattutto
dalla documentazione nella ceramica attica a figure
rosse; in particolare, la scena dipinta sulla kylix del
Pittore di Kodros a Berlino,76 corredata di didascalie
indicanti i nomi dei diversi protagonisti (sia le divinità che gli eroi), mostra in un gruppo chiuso Ghe/
Erittonio/Atena seguita da Efesto (Fig. 13) secondo
72 Fuchs, op. cit. a nota 17, pp. 63-65; Bildkatalog cit. a nota 69, n.
642, tav. 432. Nel disegno del Penna (Ms. Lanciani 36, f. 157r) il frammento con Hora è rappresentato fedelmente; il frammento con Erittonio mostra invece qualche inesattezza rispetto all’originale. La linea di frattura superiore non ha lo stesso andamento del marmo; la
testa dell’infante è posta più in alto di quella del personaggio femminile ed in maniera imprecisa è riprodotto il piede che compare sull’estremità destra.
73 Qui è il marmo è definito pario: F. de Clarac, Musée de sculture
antique et moderne, II, 1, Paris 1841, n. 104, tav. 123. Procedendo da sinistra a destra, l’intervento di restauro interessa il braccio destro con lo
scettro, collo e testa del personaggio maschile seduto; la metà superiore del corpo di Atena; le dita della mano destra di Erittonio; il braccio sinistro e la sommità della calotta di Ghe; la metà superiore del
corpo del personaggio appoggiato al pilastrino.
74 D. Grassinger, Römische Marmorkratere, Mainz 1991, pp. 175177, n. 19. Interessante, comunque, la fortuna della kourotrofia dionisiaca in età romana: cfr. il rilievo da Falerii, F. Sinn (a cura di), Vatikanische Museen, Museo Gregoriano Profano ex Lateranense. Katalog der
Skulpturen III, Reliefgeschmückte Gattungen römischer Lebenskultur. Grie-
chische Originalskulptur. Monumente orientalischer Kulte, (Monumenta
Artis Romanae xxxiii), Wiesbaden 2006, pp. 200-202, n. 71, tav. 61.
75 AnnIst, 1, 1829, pp. 298, 397-399. (Cfr. Monumenti inediti pubblicati
dall’Istituto di Corrispondenza Archeologica, I, Parigi-Roma 1829, tav. xii,
1 a); Il Museo Chiaramonti aggiunto al Pio Clementino da N. S. Pio VII P.
M. con l’esplicazione dei sigg. Filippo Aurelio Visconti e Giuseppe Antonio
Guattani, I, Roma 1808, tav. xliv, 3.
76 Da Tarquinia, databile intorno al 430 a.C. All’interno della kylix
è la raffigurazione di Eos e Kephalos: ARV2, p. 1268, 2; C. Bérard,
Anodoi. Essai sur l’imagerie des passages chthoniens, (BiblHelveticaRom,
xiii), Roma 1974, tav. 2, fig. 4; H. Metzger, Athéna soulevant de terre le
nouveau-né: du geste au mythe, in Mélanges d’histoire ancienne et d’archéologie offerts a Paul Collart, Lausanne 1976, pp. 295-296, fig. 2; Kron, op.
cit. a nota 68, p. 250, n. E 5; Pandora cit. a nota 42, pp. 258-260, n. 70.
Va comunque ricordato che, nonostante ciò, Ch. Picard, Trois basreliefs «éleusiniens», in BCH, 55, 1931, pp. 36-37 interpretava il marmo al
Louvre entro una prospettiva eleusina, pertinente cioè alla presentazione ufficiale del piccolo Ploutos (ipotesi che non ha però trovato seguito neanche in K. Clinton, Myth and Cult. The Iconography of the
Eleusinian Mysteries, (SkrAthen 11), Stockholm 1992).
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
79
Fig. 13. Berlino, Staatliche Museen. Kylix del Pittore di Kodros.
la stessa clausola compositiva dei rilievi, mentre dietro a Ghe sono Cecrope e le sue figlie che, insieme
ad alcuni eroi attici, assistono all’evento. Egualmente, sul cratere attribuito alla cerchia del Pittore di
Talos a Palermo,77 variando di poco lo schema (ma
con una ridondanza di accessori, accompagnata da
un’opulenta descrizione delle vesti), una solenne
Ghe dà l’infante ad Atena; la dea ha alle sue spalle
Cecrope invece di Efesto (vestito di corta exomis e
con le pinze in mano), situato ora dietro a Ghe dalla
quale è separato da un alberello di olivo. Due piccole
Nikai volanti, che recano ciascuna una corona, completano la scena; una sovrasta il piccolo Erittonio, a
differenza di quanto mostra l’hydria al British Museum dove, in accordo con l’interpretazione di Metzger, Nike alata con una larga tenia nelle mani segue
Atena lievemente chinata in avanti ad accogliere il
bimbo.78 In relazione ai marmi è da notare comunque che sui due vasi la disposizione dei tre protagonisti della scena (Ghe/Erittonio/Atena) viene specu-
77 Da Chiusi, databile alla fine del v sec.a.C.: ARV2, p. 1339, 3;
Metzger, art. cit. a nota 76, p. 296, fig. 3; Kron, op. cit. a nota 68, p.
250, n. E; Pandora cit. a nota 42, pp. 262-264, n. 72. Cfr. anche il cratere
a calice a Richmond, Virginia Museum of Fine Arts, databile attorno
al 410 a.C., in cui Ghe è raffigurata come sul cratere a Palermo ed
Erittonio è sovraddipinto in bianco; sulla faccia opposta è dipinta la
stessa scena (Eos e Kephalos) dell’interno della kylix a Berlino: Pandora cit. a nota 42, pp. 260-262, n. 71.
78 ARV2, p. 580, 35; Metzger, art. cit. a nota 76, pp. 297-299, fig. 1.
Escludo, pertanto, la possibilità di leggere la scena in chiave dionisiaca.
80
maria elisa micheli
larmene invertita; le due rappresentazioni sulla ceramica permettono però di recuperare con sicurezza
l’identità del personaggio appoggiato al pilastrino,
che si connota senz’altro come Efesto. Viceversa,
non aiutano a definire quella della figura maschile
seduta, presente sul solo pezzo al Louvre.
Andando al di là dell’immediato riconoscimento
del soggetto, i rilievi aprono almeno due serie di
questioni: una pertinente all’originale dal quale dipendono, all’epoca ed alle finalità della sua creazione; una rivolta alla loro valutazione oggettiva. Ma,
come s’è accennato sopra, questa va oltre la definizione cronologica e l’apprezzamento dei modi
formali, dello schema compositivo e dei modelli di
riferimento per i singoli personaggi; interessa il momento culturale al quale rinviano i due marmi. In
questa prospettiva, pertanto, sorge la domanda se vi
sia oppure no uno speciale intento dietro la proposizione a Roma di un tale episodio, estremamente
indirizzato nelle sue coordinate religiose e geo-politiche. Se ripercorriamo brevemente la storiografia,
si deve a Semni Karouzou avere attribuito la raffigurazione scolpita sui due rilievi alla decorazione della
base della statua di culto nel cd. Theseion sul Kolonos Agoraios ad Atene, riconoscendone la derivazione da Alkamenes.79 Ed è un’attribuzione che ha
incontrato, e tuttora incontra, un notevole consenso nella critica.80 Oltre che per i modi stilistici sapientemente commentati dalla Karouzou, che sono
esplicitati bene dal motivo delle pieghe delle vesti
(tracciate secondo progressioni regolari le quali aumentano visivamente la percezione delle caratteristiche formali dell’originale, toccate con migliori
cura e perizia sul frammento in Vaticano) e dall’attenzione quasi pittorica nel trattamento di Ghe (che
lascia intravedere echi della maniera ionica), l’attribuzione ad Alkamenes verrebbe rafforzata81 in base
a due altri elementi, intrinseci uno alla ‘poetica’ ed
uno alla ‘strategia compositiva’ dello scultore. La
concezione poetica propria di Alkamenes si rivela
infatti nella sospensione dell’elemento centrale, costituito dall’eroe-fanciullo, tra i due diversi momenti temporali della nascita e dell’affidamento; la stra-
tegia compositiva, distesa e pacata allo stesso tempo, trova la sua formula nel peculiare appoggio (il
pilastrino) che caratterizza la stasi di Efesto. Questi
sono, tra l’altro, due elementi usati nell’ultimo ventennio del v sec.a.C. ad Atene nella costruzione del
ciclo di rilievi a tre figure, noti solo da repliche di
età romana, in cui vi è una voluta sospensione dell’evento raffigurato, sottolineato proprio dalla stasi
dei protagonisti che contribuisce ad accentuare la
forte carica emozionale della scena;82 del resto, questo è un ottimo stratagemma per celebrare la solennità e l’importanza di un accadimento come attesta
bene il grande rilievo con la Triade Eleusina.
Rispetto all’approvazione più o meno esplicita per
una simile identificazione, una più blanda adesione,
invece, ha ricevuto la proposta della Karouzou di
riconoscere nei due ortostati rinvenuti all’interno
della cella del tempio sul Kolonos Agoraios i blocchi
originali della base di culto, che per Cooper e Delivorrias sarebbero pertinenti ad una base al Sounion.
Egualmente scarsa è stata l’accettazione dell’Atena
Cherchel-Ostia per il tipo della statua di culto di Atena, tanto che la Harrison83 si è orientata sul tipo Velletri e Delivorrias su quello Ince, a fronte di una valutazione generalmente più positiva per il tipo della
statua di culto di Efesto, noto dalla raffigurazione su
una lucerna nel Museo Nazionale di Atene, da un
torso ad Atene e dalla testa nei Musei Vaticani. Dubbi, sebbene in percentuale minore, ha suscitato anche l’identificazione del tempio, che per la Harrison
non andrebbe denominato Hephaisteion, bensì tempio di Eukleia. Senza discutere in dettaglio le singole
questioni, accetto la denominazione di Hephaisteion per il tempio, iniziato attorno al 449 a.C. ed inaugurato verosimilmente nel 416/5 a.C. È un tempio
del quale Reeber84 ha messo bene in luce la valenza
democratica legata sia alla riorganizzazione del culto di Efesto, avvenuto nel 421/0 a.C., sia alla valorizzazione politica di quello di Atena Ergane, nell’ambito di un più complesso sistema di ridefinizione di
culti (e luoghi di culto) ad Atene, forse realizzato sotto l’abile, ma sommessa, regia di Nicia. Del pari,
mantengo l’associazione dei due ortostati situati al-
79 S. Papaspyridi Karouzou, Alkamenes und das Hephaisteion, in
AM, 69-70, 1954/55, pp. 79-94.
80 Contra: Kron, op. cit. a nota 68, pp. 63-64; Palagia, op. cit. a nota
1, pp. 55, 68-71; a favore Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 126-130,
242-244, n. 61, figg. 97-100 (con bibl. prec.).
81 A. Delivorrias, The Sculpted Decoration of the so-called Theseion: Old Answers, New Questions, in D. Buitron Oliver (a cura di),
The Interpretation of Architectural Sculpture in Greece and Rome. Studies
in the History of Art 49, 1997 (Center for Advanced Study in the Visual
Arts), pp. 83-107.
82 M. E. Micheli, I rilievi a tre figure: dalla redazione romana al
monumento greco, in ASAtene, 82, 2004, pp. 87-92.
83 E. B. Harrison, Alkamenes’ Sculptures for the Hephaisteion: Part
I, The Cult Statues, in AJA, 81, 1977, pp. 137-178.
84 K. Reeber, Das Hephaisteion in Athen. Ein Monument für die
Demokratie, in JdI, 113, 1998, pp. 31-48.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
81
l’interno della cella con la base di culto per le statue
Sulla lekythos a Cleveland, attribuita al Pittore di
di Efesto ed Atena (per le quali non apro, però, la diMeidias, interessante è la circostanza che solo figure
scussione circa la determinazione del tipo che pure
femminili assistono alla nascita del piccolo eroe. Lì,
non mi vede dissentire dalla Karouzou), secondo
in accordo con l’interpretazione della Neils,90 il thiaquanto si legge nella succinta notizia riferita da Pausos potrebbe comprendere divinità (Afrodite, Igea) e
sania (i, 14, 6).
personificazioni (Eukleia, Eunomia, Paidia, EudaiSul basamento, dunque, verosimilmente nella
monia, Eutychia e Armonia). Le tre mezze figure
tecnica à journ,85 viene rappresentato un mito stretche dall’alto presenziano all’evento indicano forse le
tamente legato alle divinità venerate nel tempio,
tre figlie di Cecrope: Pandroso sarebbe quella che, riEfesto ed Atena, ed al contempo alla storia delle orispetto alle sorelle Herse ed Aglauro,91 presta maggini della città. L’episodio rappresentato mostra la
giore attenzione alla triade Ghe/Erittonio/Atena e
consegna del neonato Erittonio, figlio biologico di
reca in mano una ghirlanda dorata, da intendere proEfesto, da parte della madre naturale Ghe ad Atena
babilmente come un’offerta al bimbo. Oltre che un
di cui, in accordo con quanto proposto da Loraux,86
fausto messaggio di augurio per il nuovo nato, queil piccolo diventa ‘figlio sociale’: accogliendolo, la
sta scena ‘al femminile’ lascia intravedere anche un
dea gli garantisce lo status di polites e, contemporaaltro più profondo significato, ovvero lo struggente
neamente, lo immette nel consorzio civile. Nato
ricordo del glorioso passato della città riverberato
dalla terra (e questa nascita ha soprattutto un senso
dal regno di Erittonio. Ma questo viene ora quasi cirpolitico, sebbene ciò non escluda affatto la comprecoscritto entro un giardino paradisiaco (indiziato fra
senza di un complesso rituale iniziatico),87 l’eroe è
l’altro dall’esuberante presenza femminile), i cui
autoctono e come tale identitario per tutti gli Ateniecontorni si confondono con l’Elysion, il luogo dove
si. Il suo iniziale dimorfismo (di uomo anguipede,
ineluttabilmente approderà la ‘migliore gioventù’
che viene volutamente obliterato nella redazione
ateniese secondo quanto esibisce la ben più complesplastica) si lascia comprendere anche nel passaggio
sa hydria eponima del Pittore, conservata a Londal caos all’ordine del kosmos regolato dal nomos, perdra.92 Non a caso, la produzione ‘elegiaca’ del Pittotanto nel passaggio dalla natura alla civiltà. Tale rafre di Meidias si colloca in una fase delicata per Atene,
figurazione è cronologicamente coordinata alla coimpegnata con alterne sorti nella guerra del Pelostruzione dell’Eretteo (senza entrare nella questione
ponneso. La città vuole ricordare il suo passato (e,
relativa all’ipostasi/duplicazione di Erittonio/Eretperché no, celebrare i suoi caduti), attualizzandolo
teo)88 e ha significativo riscontro nella produzione
attraverso il filtro del mito, in tal senso già oculataceramica contemporanea.
mente impiegato nella decorazione architettonica
Come ha indicato la Burn, infatti, la scena della
(nel fregio dell’Ilisso, ad esempio, e nel più articolato
nascita così organizzata ricorre su almeno dodici vasistema figurativo del tempietto di Atena Nike). Sesi databili nelle ultime due decadi del v sec. a.C.89
condo la Kosmopoulou,93 dunque, anche il tema
85 Quest’ipotesi formulata dalla Karouzou (art. cit. a nota 79), tenendo conto anche della conformazione degli ortostati, mi sembra
convincente, tanto più se la si mette in relazione con quanto realizzato nel monumento con le Saltantes Lacaenae, accettando la lettura
di Fuchs, op. cit. a nota 17, pp. 91-94. Cfr. Kosmopoulou, op. cit. a nota
6, pp. 13-18.
86 N. Loraux, Les enfants d’Athéna. Idées athéniennes sur la citoyenneté et la division des sexes, Paris 1981, pp. 132-136; Ead., Né de la terre.
Mythe et politique à Athènes, Paris 1996, pp. 51-58; J. P. Bonnard, Le
complexe de Zeus. Représentations de la paternité en Grèce ancienne, Paris
2004, pp. 82-88.
87 Nell’accezione, però, suggerita da Metzger, art. cit. a nota 76,
p. 302 che, a mio parere giustamente, esclude l’anodos come pure il
passaggio ctonio, sostenuti invece da Bérard, op. cit. a nota 76, p. 37.
88 Kron, op. cit. a nota 68, pp. 52-56.
89 Burn, art. cit. a nota 9, pp. 62-68. Per una lettura delle modalità
costruttive la scena: K. Lorenz, The anatomy of metalepsis: visuality
runs around on late fifth-century pots, in R. Osborne (a cura di), Debating the Athenian Cultural Revolution. Art, literature, philosophy and politics 430-380 B.C., Cambridge 2007, pp. 131-138.
90 J. Neils, A Greek nativity by the Meidias Painter, in BullClevMus,
70, 1983, pp. 274-289.
93 Pandora cit. a nota 42, pp. 39-48.
92 L. Burn, The Meidias Painter, Oxford 1987, pp. 17-19. Qui, tra l’altro, è concretamente evidenziato anche il giardino delle Esperidi con
Eracle seduto presso l’albero dai pomi favolosi (cfr. ancora: E. B.
Harrison, Hesperides and Heroes: a note on Three-figure reliefs, in Hesperia, 33, 1964, pp. 76-82). Escludo la prioritaria lettura in senso erotico delle presenze femminili nelle raffigurazioni del Pittore di Meidias
seguita da B. E. Borg, Der Logos des Mythos. Allegorien und Personifikationen in der frühen griechischen Kunst, München 2002, pp. 190-194, p.
217 nota 720, fig. 78.
93 Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, p. 130. Vale allora la pena di ricordare che un altro eroe ateniese (Teseo) compare nella decorazione
architettonica dell’edificio. Anche per Delivorrias, art. cit. a nota
81, pp. 85-86 gli eroi e le divinità associate ad Erittonio ricorderebbero
l’orgoglio patriottico degli Ateniesi e le battaglie raffigurate nei fregi
del pronao e dell’opistodomo e nelle metope proporrebbero il drammatico confronto tra ratio umana e forze irrazionali.
82
maria elisa micheli
della nascita di Erittonio – l’eroe autoctono – esibita
sulla base di culto dell’Hephaisteion acquisterebbe
un’accezione più propriamente ‘patriottica’, nel momento in cui serpeggia in città un collettivo sentimento antidorico sollecitato dai drammatici fatti
della guerra: così, la raffigurazione, di rigorosa coerenza formale, si sarebbe piegata a dare voce alle vocazioni dell’intera comunità. Purtroppo, non è affatto chiaro come si sviluppasse la scena sul basamento,
che avrebbe dovuto comprendere quanto meno dodici figure a giudicare dalle dimensioni del rilievo al
Louvre, più congruo (come, a mio parere, ha convincentemente dimostrato la Karouzou) con le misure dei blocchi conservati rispetto al frammento Vaticano, che è appena sovradimensionato. Non mi
sembra comunque proponibile né la serie dei mitici
re di Atene, come voleva la Karouzou, né il thiasos
delle Aglauridi e delle Horai, come ha ipotizzato la
Harrison,94 sebbene la scelta ‘al femminile’ sia allineata con le raffigurazioni ceramiche di poco posteriori; più probabilmente, in stretta coerenza con i basamenti fidaci, si potrebbe immaginare una teoria di
divinità olimpie, e – fra di esse – quelle più consone
al pantheon ateniese. In tal caso, si potrebbe riconoscere Zeus nel personaggio seduto sul marmo a
Parigi; forse, accogliendo un suggerimento della
Harrison, anche quello Zeus Ombrios venerato
sull’Imetto. Né mi sembra condivisibile la proposta
di Delivorrias di unire al frammento in Vaticano un
altro frammento, sempre da Villa Adriana e anch’esso nei Musei Vaticani, in cui sono raffigurati Afrodite, Hermes e Paride quest’ultimo da intendere però
(proiettandolo nella redazione originale) come un
Ares,95 sì da restituire in tal modo un’originaria sequenza delle divinità presenti all’actio.
Se, dunque, pur tra molte incertezze momento
della creazione e finalità della scena acquistano una
loro specificità nel clima dell’Atene dell’ultimo ventennio del v sec. a.C., non è inutile chiedersi perché
venga ripreso a Roma proprio questo determinato
episodio mitico, così profondamente innervato nella
tradizione ateniese religiosa e politico-istituzionale.96 Poco risolutive appaiono infatti le considerazioni della Böhm rivolte al solo aspetto compositivo e
stilistico-formale dei marmi Vaticano-Louvre, tendenti ad escludere la discendenza da un modello unitario in base alla scomposizione dei possibili referenti a tutto tondo per le singole figure.97 Modalità di
esecuzione e codice stilistico-formale dei due rilievi
con Erittonio sono rispondenti alle tendenze di età
adrianea: interessanti le dissimiglianze rispetto ai rilievi Del Drago-Corinto nel modo di trattare le superfici, che li riportano ad un diverso atelier (e che,
forse, indiziano anche della ‘diversità artistica’ dei
‘prototipi’). Alcuni elementi utili per tale collocazione cronologica si recuperano dalla maniera con la
quale è reso il taglio delle pieghe; dalla conformazione dell’orlo della veste ricadente sul piede di Efesto
nel frammento in Vaticano; dalla metallica scansione
dei capelli, specie nelle ciocche di Ghe del pezzo vaticano. Più significative sono le consonanze con il
rendimento delle superfici nel rilievo con la nascita
di Dioniso dalla coscia di Zeus nei Musei Vaticani98
(Fig. 14), derivato da un originale di iv sec. a.C. e
possibile parte di un articolato monumento coregico ateniese. Va notato ancora che il trattamento delle superfici, l’impaginato entro un campo largo, la
generale sintassi compositiva tornano di nuovo, declinati con differenti esiti formali, su un cospicuo numero di rilievi proto e tardoadrianei a soggetto mitologico dipendenti da originali plastici e pittorici,
per lo più di provenienza urbana. Qui il formulario –
di diversa matrice figurativa (tardo-classica, ellenistica) – è stato volutamente amalgamato proprio attraverso le cifre del linguaggio formale classicheggiante, cosicché ai temi selezionati corrisponde un
codice lessicale omogeneo, evocativo delle storie
rappresentate, che riescono a visualizzare bene le
94 E. B. Harrison, Alkamenes’ Sculptures for the Hephaisteion: Part
II, The Base, in AJA, 81, 1977, pp. 265-287.
95 A. Delivorrias, A new Aphrodite for John, in O. Palagia (a cura
di), Greek Offerings. Essays on Greek Art in honour of John Boardman, Oxford 1997, pp. 113-115, fig. 6.
96 Seguendo Fuchs e la Simon (W. Helbig, Führer durch die öffentlichen Sammlungen klassischer Altertümer in Rom4, I, Tübingen 1963, pp.
35-36, n. 43: E. Simon - W. Fuchs) una redazione romanizzata della nascita di Erittonio si lascia eventualmente apprezzare su un piccolo rilievo frammentario tardo-repubblicano conservato nei Musei Vaticani (h. della parte antica cm. 26; l. cm. 40), la cui provenienza da Ostia
è stata di recente revocata a favore di una da Porto (I. Bignamini,
Ostia, Porto e isola Sacra: scoperte e scavi dal Medioevo al 1801, in riasa ,
58, 2003 [2004], p. 48, fig. 3). A livello iconografico, la traduzione figurata nel nuovo linguaggio è meglio percepibile nel tipo di Efesto/Vulcano; a livello compositivo, si può cogliere nella distribuzione dei
diversi personaggi che sono sfalsati su piani diversi. È un riconoscimento escluso da Meyer, con un’alternativa interpretativa – Vulcano
e Iside – secondo me poco convincente (H. Meyer, Vulcan und Isis in
der Sala Rotonda. Ein Beitrag zur Kunst um Pompeius d. Gr., in RendPontAcc, 43-44, (1980-1981), 1981-1982, pp. 247-271).
97 Böhm, op. cit. a nota 2, pp. 35-37.
98 Sala delle Muse: Touchette, op. cit. a nota 1, pp. 28-29, fig. 54b.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
83
Fig. 14. Musei Vaticani. Rilievo con la nascita di Dioniso.
vocazioni culturali proprie della società urbana della
media età imperiale.99
Più che ai materiali censiti dalla Böhm, mi riferisco, in specie, alla serie tardoadrianea-protoantoniniana dei rilievi Spada, che offrono un repertorio
coerente sia nelle soluzioni stilistico-formali sia nelle
tematiche, relative ad episodi mitici rari (Adone, Bellerofonte e Pegaso, Anfione e Zeto, Pasifae e Dedalo,
la morte di Ofelte, il ratto del Palladio, Paride ed
Eros, Paride ed Enone). Come ha segnalato la Kampen,100 sono temi noti dalle mitografie di Apollodoro e Igino e dai più tardi romanzi di Longo o Eliodoro di Emesa; esibiscono un mondo lontano, nel
tempo e nello spazio, che non è organizzato in una
narrazione continua, nonostante un apparente impianto teleologico. A questa coesa serie si aggiungono i due rilievi con Satiro e Ninfa e con Paride ed
Enone documentati dal 1623 nella collezione Ludovisi: e non sono affatto sicura, come è stato suggerito
più di recente da Stephan Lehmann,101 che siano
entrambi moderni, esemplati sui rilievi Spada. Non
va infatti dimenticato che proprio del rilievo con
Anfione e Zeto Spada esiste a Ravenna una redazione frammentaria, protoadrianea, che documenta
un’iterazione del soggetto secondo modalità operative peraltro note, ad esempio, dalla serie augustea e
protoclaudia dei rilievi con eroti e troni vuoti o dai
più tardi cicli con choroi femminili.102 Ancora, si iscrivono entro queste coordinate i rilievi con Amaltea
ed il piccolo Zeus; con Artemide a Villa Borghese;
con Perseo ed Andromeda; i tre Colonna, rispettivamente con Ermafrodito, Narciso ed Olimpo; con Endimione dormiente (per il quale escludo la datazione, recentemente avanzata, in epoca claudia); con
Satiro e Pantera al Louvre e con Satiro già a Ince
Blundell; con Dedalo e Icaro, con Teseo e Minotauro.103 Le dissonanze nel lessico e nel codice stilistico
tra i rilievi citati offrono un ulteriore piccolo indizio
della compresenza di officine scultoree di diversa
provenienza geografica e di differente tradizione
manifatturiera operanti nell’Urbe a seguito delle
grandiose commesse imperiali. Ed alcune di queste
99 Cfr. A. Sharrock, Representing Metamorphosis, in J. Elsner (a
cura di), Art and Text in Roman Culture, Cambridge 1996, pp. 103-110;
T. Whitmarsh, The Cretan lyre paradox: Mesomedes, Hadrian and the
poetics of patronage, in B. E. Borg (a cura di), Paideia: the world of the
Second Sophistic, Berlin-New York 2004, pp. 385-415.
100 N. B. Kampen, Observations on the Ancient Uses of the Spada Reliefs, in AntCl, 48, 1979, pp. 583-600. Cfr. S. Lehmann, Mythologische
Prachtreliefs, Passau 1996, pp. 13-26. Rifiuto la datazione al 30-20 a.C. e
l’attribuzione ad un atelier orientale attivo anche nella decorazione
del palazzo di Giuba II di Mauretania, avanzate da H. Herdejürgen,
Östliche Bildhauerwerkstätten im frühkaiserzeitlichen Rom. Bemerkungen
zu den Spadareliefs, in AntK, 44, 2001, pp. 24-35.
101 S. Lehmann, Die Reliefs im Palazzo Spada und ihre Ergänzungen,
in Antikenzeichnung und Antikenstudium in Renaissance und Frühbarock.
Aktens des internationalen Symposions, 8.-10. September 1986 in Coburg,
Mainz 1989, pp. 221-263. Sono, inoltre, apparentati a questa serie due
frammenti a Palazzo Rondinini: E. Paribeni, in E. Salerno (a cura
di), Palazzo Rondinini, Roma 1966, p. 211, n. 25, fig. 119; p. 212, n. 26,
fig. 120.
102 Lehmann, op. cit. a nota 100, pp. 136-140; L. Beschi, I rilievi ravennati dei “Troni”, in Felix Ravenna, 127-130, 1984-1985, pp. 37-80; T.
Hölscher, Fromme Frauen um Augustus. Konvergenzen und Divergenzen
zwischen Bilderwelt und Lebenswelt, in F. Hölscher - T. Hölscher (a
cura di), Römische Bilderwelten. Von der Wircklichkeit zum Bild und
zurück, Heidelberg 2007, pp. 112-115; V. Saladino, Un nuovo rilievo con
l’immagine del tempio di Vesta, in RendPont Acc, 80, 2007-2008, pp. 309339.
103 Rispettivamente: Sinn, op. cit. a nota 74, pp. 203-206, n. 72, tavv.
62, 1-3, 63; Böhm, op. cit. a nota 2, p. 15, fig. 6; Lehmann, op. cit. a nota
100, pp. 103-109, tav. 32; pp. 111-115, tav. 33; pp. 117-123, tav. 34; pp. 87-90;
pp. 129-135. Cfr. M. Cipriani, Il rilievo con Endimione dormiente del
Museo Capitolino, in BC, 97, 1996, pp. 197-212
84
maria elisa micheli
botteghe sono attive anche nella lavorazione di statue di piccolo formato, spesso a soggetto mitologico, analogo a quello proposto sui rilievi: un buon
esempio è costituito dal piccolo gruppo con Perseo
e Andromeda di provenienza urbana, la cui attuale
sistemazione deve tenere conto degli interventi integrativi di Bartolomeo Cavaceppi.104 Riguardo ad esso è da valutare l’esistenza in Spagna di un gruppo
del tutto simile (nelle proporzioni, nella tecnica di lavorazione, oltre che nello schema compositivo) rivenuto nella Villa di El Ruedo, dove faceva parte di un
multiforme, ma raffinato arredo scultoreo, allineato
a quello di prestigiosi modelli urbani.105
I soggetti esibiti sui rilievi appena ricordati, quasi
nei toni di una celebrazione antiquaria, si rifanno per
lo più a miti greci, di colta tradizione letteraria,
estranei alla religione olimpica; a miti che, nella
maggior parte, non sono stati figurativamente elaborati prima dell’età ellenistica. Trovare un carattere
‘significante’ che li unifichi è forse possibile solo considerando l’ambiguità, la nostalgia, l’elegia di amori
non corrisposti, la fragile caducità delle sorti che
vengono proiettati dalle storie scolpite sui marmi.
Tuttavia, anche i cicli (e penso a quello Spada e a
quello Colonna) mancano di centralità e le associazioni tra i vari soggetti non colmano lo iato tra passato mitico e tempo presente, sicché un’ipotetica attualizzazione delle tematiche rimane generica e
poco credibile.106 Da questo tipo di considerazioni
potrebbero rimanere ai margini i due rilievi, databili
forse in età tardoflavia, con Dedalo e Icaro, Teseo e
Minotauro rinvenuti nel 1734 sul Palatino, che dovevano far parte della decorazione del complesso imperiale. Purtroppo, poi, la scarsità di notizie relative
al ritrovamento rende arduo ipotizzare la destinazione dei marmi, le modalità di alloggiamento e gli spazi ad essi destinati:107 prendendo ancora una volta a
campione il ciclo Spada, se sono note le circostanze
del rinvenimento risalente ai primi del Seicento, più
vago rimane circoscrivere l’originario contesto antico.108 Le grandi dimensioni delle lastre implicano
senz’altro l’incasso alle pareti ed i soggetti selezionati non fanno affatto escludere la possibilità di un inserimento in uno spazio aperto quale un monumentale giardino (comprensivo di porticati e ricche
architetture mistilinee), a delimitare euripus e bacini;109 del resto, il rilievo con Zeus bambino ed Amaltea era pertinente alla decorazione di un lacus (verosimilmente pubblico), di cui furono rinvenute anche
le strutture murarie, distrutte dalle fabbriche secentesche.
I due rilievi con Erittonio, apparentati ai materiali
citati per la ‘rarità’ del soggetto, se ne distaccano sotto più aspetti: sotto il profilo formale e quello contenutistico. Per quanto concerne la costruzione della
scena, questa non è realizzata sulla scorta di motivi
letterari né rendendo uniformi prototipi diversi secondo il codice classicistico; i due rilievi sono filiati
da un prototipo definito e circoscritto nelle sue coordinate geo-culturali. Per quanto riguarda il contenuto, infatti, il soggetto propone un episodio mitico
coerente e chiuso in sé: in origine, inscindibile dalle
origini di Atene. Da non sottovalutare poi è la circostanza che di uno dei due marmi è conosciuta la provenienza: come s’è visto dalla sua storia antiquaria,
il frammento nei Musei Vaticani è stato scoperto a
Tivoli, nell’area della villa di Adriano. Quest’ultimo
elemento rafforza l’ipotesi che si sia di fronte ad una
scelta mirata del tema. Nell’intentio, pertanto, proprio il tema si dissocia dai contemporanei cicli di rilievi mitologici e si avvicina, piuttosto, alla riedizione della figurazione sul basamento della statua di
culto di Nemesi a Ramnunte (infra: § 4), se non anche ai marmi Del Drago-Corinto. Quella della nasci-
104 Göttingen. Archäologisches Institut der Universität Göttingen. Ausstellung zum Gedenken an Christian Gottlob Heyne (1729-1812), Göttingen
1979, pp. 25-27, n. 1.
105 J. Beltrán Fortes - M. L. Loza Azuaga (a cura di), El Mármol de Mijas. Explotación, commercio y uso en época antigua, Mijas 2003,
pp. 76-79, n. 9.
106 Cfr. M. Erasmo, Roman Tragedy. Theatre to Theatricality, Austin
2004, pp. 52-56: “Dramatizing History”; 122-16: “Metatragedy”.
107 Dei rilievi citati sappiamo che quello: con Amaltea ed il piccolo
Zeus fu rinvenuto nel 1635 durante i lavori per le fondamenta di palazzo Giustiniani in via della Dogana Vecchia; con Perseo ed Andromeda, ai primi del Seicento durante i lavori per Palazzo Muti a Piazza
Santi Apostoli; con Endimione, sull’Aventino, sotto il pontificato di
Clemente XI; con Satiro, già a Ince Blundell, fu acquistato a Roma
nella prima metà del Settecento.
108 I rilievi furono scoperti nel 1621 durante i lavori promossi dal
cardinale Fabrizio Veralli per il rifacimento dello scalone nella chiesa
di Sant’Agnese, dove erano stati reimpiegati capovolti nella pavimentazione medievale (M. G. Picozzi, Restauri del xviii secolo per sculture
appartenute alla collezione Vitelleschi, in Illuminismo e Ilustración. Le
Antichità e i loro protagonisti in Spagna e in Italia nel xviii secolo, Atti del
Convegno Internazionale, Roma 30 novembre-2 dicembre 2001, Bibliotheca Italica 27, 2003, p. 316 nota 21) verosimilmente recuperati da
uno dei contesti imperiali o privati situati –come ha indicato U. Fusco, Considerazioni sul rinvenimento di sculture antiche da S. Agnese fuori
le mura, in ACl, 55, 2004, pp. 399-419 – sulla finitima via Nomentana
(escludo l’intrigante proposta, già avanzata dalla Kampen, art. cit. a
nota 100, e argomentata da Lehmann, op. cit. a nota 100, pp. 195-198,
di una loro provenienza da Villa Adriana).
109 Cfr. R. B. Lloyd, Three Monumental Gardens on the Marble Plan,
in AJA, 86, 1982, pp. 91-100.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
85
ta di Erittonio sembra, infatti, una scelta intenzionaldella frontescena del teatro, nonché la ripresa della
mente perseguita, che ha quasi il sapore di una erutradizione dei monumenti coregici classici nella Via
dita ‘riesumazione’; viene spontaneo attribuirla solo
dei Tripodi in coerenza con il revival del costume
ad un colto e sensibile conoscitore del ‘passato clasdella coregia.112
sico’ quale era Adriano. Per di più, si sa bene che
Se ci soffermiano su questi ultimi aspetti, risulta
l’imperatore seguiva con competenza i lavori della
che l’imperatore (mystes ed evergete insieme) fu atvilla tiburtina, che si rivela come un ‘microcosmo’ –
tento e rispettoso delle più venerande divinità della
mentale e fattuale – estremamente complesso, tanto
città di Atene: non a caso volle nell’Olympieion la
a livello architettonico quanto a livello di elementi
statua di culto crisoelefantina e modellata su quella
d’arredo (mobili e non).110 È quasi un gigantesco
olimpica di Fidia. Ma osò spingersi oltre: come ricormonumento di autorievocazione, un luogo della
da un’iscrizione edita da Raubitschek,113 in quanto
memoria, portato avanti di pari passo con il sussefiglio di Zeus Eleutherios, Adriano volle che la sua
guirsi degli itinera, anche se la gamma delle citazioni
statua affiancasse quella della Parthenos nel tempio
messe in opera non significa ovviamente nostalgica
sull’Acropoli. È un segnale forte, che testimonia anadesione ad un mondo passato.111
che la piena compartecipazione dell’imperatore con
Nei viaggi di Adriano in Grecia, al di là dell’aspetla ‘storia’ ateniese; del resto, quella religiosa verrà
to propriamente politico, colpisce in particolare il
riassunta – quasi nei toni di una fabella – e trascritta
culto tributato dall’imperatore alle reliquie. Come
su un piccolo fregio a destinazione architettonica
non pensare, allora, che la visita a Cizico, nel temrinvenuto a Ostia.114 In questo ‘percorso a ritroso’
pio dove erano ancora esibiti i celebri stylopinakia,
compiuto da Adriano, il richiamo alle origini ed il
possa avere fornito la spinta per la creazione di un
senso di orgogliosa appartenenza alla polis erano
ciclo che, al pari dei famosi pannelli pergameni, proquindi egregiamente rappresentati da Erittonio,
poneva miti rari e di impianto letterario anche se
l’eroe nel quale si era identificata l’autoctonia degli
non legati a scelte di carattere politico? Un’eco poAteniesi ed il primo polites; ed Adriano, nuovo ed effitrebbe venire forse colta proprio nei rilievi noti dalla
mero ecista della città, avrebbe potuto proiettare di
redazione Spada. È un culto che passa anche attrasé l’immagine dell’antenato mitico, di Erittonio apverso le visite alle tombe degli eroi e degli uomini ilpunto, re di una nuova stirpe.115
lustri, in bilico tra eusebeia, aretè e sophia come si coNella villa di Tivoli poteva trovare degna collocaglie dagli omaggi rivolti alla tomba di Archiloco, ma
zione la celebrazione della nascita dell’eroe, così
anche a quelle di Alcibiade, di Epaminonda (assurto
come era stata concepita ad Atene da un grande
ad icona di una fabula tragica), tanto che in Egitto si
maestro di v sec. a.C. a suggello delle vocazioni di
solidifica nella pietas per la tomba di Pompeo. Un’atun’intera comunità; nel nuovo contesto romano,
titudine ‘antiquaria’ sembra caratterizzare pure la
questa diventa però una ‘citazione’, decisamente audevozione verso alcune divinità, sublimata dalle initoreferenziale in uno spazio riconosciuto come ‘priziazioni rituali (ad Eleusi, ma anche a Delfi), e che,
vato’. Dubbio resta se il principio della reduplicaziose riferita a Dioniso, ad Atene si concreta nella carine,116 che guida tante delle proposte allestitive
ca di agonoteta ricoperta da Adriano durante lo
restituite dalla villa, possa venire esteso anche al risvolgimento delle Grandi Dionisie. Con una tale cirlievo al Louvre, o se questo, secondo una possibile
costanza è verosimilmente da legare la decorazione
gerarchia dei luoghi, abbia invece trovato sistema110 Cfr. sempre J. Raeder, Die statuarische Ausstattung der Villa
Adriana bei Tivoli, Frankfurt - Bern 1983 e, per i contributi più recenti,
Villa Adriana. Paesaggio antico e ambiente moderno. Elementi di novità e
ricerche in corso, Atti del Convegno Roma 23-24 giugno 2000, Milano
2002.
111 E. Calandra, Arcaismi della memoria: il rilievo da Villa Adriana
al British Museum di Londra, in Ostraka, 6, 1997, pp. 23-34.
112 M. Sturgeon, The reliefs on the Theater of Dionysos in Athens, in
AJA, 81, 1977, pp. 31-53 e G. I. Despinis, Hochrelieffriese des 2. Jahrhunderts n. Chr. aus Athen, München 2003, pp. 75-78. Dubbio resta il posizionamento di un fregio frammentario ad altorilievo con Amazzonomachia (Despinis, ibidem). Per la ripresa della coregia: P. Wilson,
The Athenian Institution of the Khoregia. The Chorus, the City and the Sta-
ge, Cambridge 2000, pp. 276-279. In generale, A. Galimberti, Adriano
e l’ideologia del principato, (Centro Ricerche e Documentazione sull’Antichità Classica, Monografie 28), Roma 2007, pp. 123-132.
113 Ancora: A. E. Raubitschek, Hadrian as the son of Zeus Eleutherios, in AJA, 49, 1945, pp. 128-133 (cfr. Lapatin, op. cit. a nota 19, p. 127).
114 F. Zevi, Un fregio tra Ostia e Berlino, s.l, s.a [Ostia 2003].
115 È solo suggestivo pensare che con l’eroe nato dalla terra – entrato per il tramite di Atena nel consorzio civilizzato – potevano immedesimarsi le ascendenze del nuovo imperatore, la cui adozione (e
conseguente assunzione al trono) era avvenuta proprio per volere di
una domina, che sarà da lui innalzata a diva.
116 Villa Adriana cit. a nota 110, pp. 52-61.
86
maria elisa micheli
Fig. 15. Stoccolma, Museo Nazionale. Rilievo con quattro figure dalla base di Nemesi a Ramnunte.
zione in un contesto urbano altrettanto prestigioso
ed interessato dai rifacimenti edilizi adrianei: a questi può essere virtualmente riferito anche il rilievo a
Stoccolma che, nei termini del reinterpretato linguaggio classicistico atticizzante di età adrianea, riprende parte della figurazione sulla fronte della base
di culto a Ramnunte.
4. Il basamento di Nemesi a Ramnunte
e il rilievo a Stoccolma
Documentato a Roma nel 1763 nella collezione di
Giovanni Battista Piranesi, il rilievo (Fig. 15) venne
acquistato nel 1784 per le raccolte svedesi da Gustavo
III; nell’elenco di vendita sono riferiti sia il prezzo (40
zecchini) che la provenienza «pescato a caso nel Tevere verso Marmorata da un frate di S. Carlo a Catinari», nonché le modalità di recupero «con un ordegno d’un forbice con cui vastò il Tevere in diversi
siti». Questo secondo dettaglio permette di non dubitare troppo della bontà circa la provenienza e, al
tempo stesso, di valutare lo stato di conservazione
del marmo. La descrizione inventariale riporta «bassorilievo rappresentante 4 deità Giove, Marte Diana,
Giunone» corredata di un blando giudizio qualitativo «di buona maniera e ben conservato»; omette gli
117 E. Kjellberg, Piranesis antiksamling, Nationalmusei Årsbok,
Stockholm 1920, pp. 146-147, 169 n. 69; A. M. Leander Touati, Ancient Sculpture in the Royal Museum, 1, Stockholm 1998, p. 76. In gene-
interventi integrativi, attuati dal venditore-proprietario in conformità con quanto noto dalle altre
sculture cedute nel medesimo lotto.117 In marmo
pentelico, il rilievo – lungo cm 120 ed alto cm 54 – si
presenta abbastanza manipolato; sono stati anzitutto risarciti tre grossi frammenti (più un quarto di minori dimensioni) e regolarizzati i lati, in origine chiusi in basso da un listello che funge da piano di posa
per le figure, mentre in alto (e anche sui due fianchi)
corre la modanatura composta da listello piatto e gola rovescia; sono state integrate le singole figure.
Della prima a sinistra sono stati completate le braccia e la mano destra; della successiva, oggi priva della
mano destra, la mano sinistra; della seguente, il naso
e la mano destra, mentre è stata rimodellata la sinistra; dell’ultima figura, tutto il braccio destro disteso
in fuori. Uno scialbo giallastro, di cui restano dense
tracce, unificava le superfici e, rendendole omogenee, mascherava meglio le fratture.
Da sinistra a destra il rilievo esibisce quattro figure
ben aggettanti dal piano di fondo. Sono due maschili
e due femminili, spazieggiate e – a differenza del rilievo Del Drago – non prive di una qualche coloristica teatralità, conferita dal movimento delle braccia,
ancora avvertibile nonostante i restauri; sono i gesti,
infatti, che stemperano la postura di per sé rigida di
rale, C. Gasparri, La Galleria Piranesi da Giovan Battista a Francesco,
in Xenia, 3, 1982, pp. 91-107.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
87
ciascuna figura. Il primo personaggio a sinistra è matiene ciascuna figura isolata dall’altra, sebbene (e lo
schile, barbato, panneggiato nell’himation che, creasi recupera dalla direzione di ognuna) tutte partecito un triangolo, dal fianco destro risale sulla spalla sipino ad uno stesso evento: la ‘presentazione’ di Elenistra, lasciando scoperto il torso muscoloso in cui
na a Nemesi, sua vera madre, come riferito dalle pasono evidenziati i pettorali. Ripreso con il torso lierole di Pausania (i, 33, 7-8). Il fatto avrebbe dovuto
vemente ruotato alla sua sinistra (direzione verso cui
consumarsi subito dopo la seconda figura femminivolge lo sguardo), a causa del restauro tende entramle, che l’impianto medesimo nel rilievo a Stoccolma
be le braccia in fuori, piegandole all’altezza dell’adindica coinvolta nell’actio. Al di là delle specifiche
dome; reca i fulmini in mano. È seguito da un persodenominazioni dei personaggi (come si vedrà, a
naggio giovanile in nudità eroica con il mantello
tutt’oggi fonte di discussione), l’inventario settecenche, dalla spalla destra, ricade sul braccio in una serie
tesco aveva dunque colto nel segno sia nel riconoscidi pieghe parallele le quali colmano così il vuoto tra
mento del soggetto (una teoria divina) sia nell’apil torso ed il braccio, piegato al gomito ed alzato in
prezzamento qualitativo della raffigurazione. Nelle
avanti. Il giovane, dal corpo tonico, pondera sulla
forme alquanto raggelate del linguaggio artistico
gamba destra e scarta di lato la sinistra, sicché il pieadrianeo, le quattro figure si stagliano con autorevode risulta di poco arretrato rispetto all’altro; a questo
lezza dal fondo neutro; acquistano consistenza
movimento si conforma l’inclinazione a sinistra delgrazie al modellato delle membra ed al gioco dei
la testa. La figura seguente è femminile, frontale, vepanneggi che, nella descrizione dei personaggi femstita di peplo altocinto, rimborsato sopra il ventre;
minili, alterna con sapienza linee verticali e linee curpoggia sulla gamba destra, coperta dalle pieghe rigive, reinterpretando con finezza le clausole formali
damente parallele della veste, la sinistra è portata di
degli originali ai quali conferisce una più decisa spetlato iterando l’andamento delle gambe del giovane.
tacolarità, sottomessa al codice accademico. L’attenCon la mano destra scesa all’altezza del fianco (un
zione ai particolari, trattati con calligrafica minuzia,
restauro che non osta il movimento originario), tratsi sostanzia nel modo di rendere i capelli (che nella
tiene un lembo del mantello che, passato dietro alle
prima figura femminile è prossimo a quello della
spalle, viene sollevato all’altezza della guancia dalla
donna su un rilievo a due figure a Villa Albani)118 e
mano sinistra in modo che ampie pieghe dall’andadi ritmare i margini: un leggero cordolo marca, ad
mento curvilineo ricadano fino a terra, offrendo una
esempio, le palpebre ed un solco continuo profila i
scenografica quinta alla donna. Di impianto matrolembi dei panneggi. È questo pezzo, benché isolato,
nale è anche la figura successiva, presentata con la
che consente di valutare bene due aspetti tra di loro
ponderazione invertita rispetto alla precedente e con
complementari, appena impliciti nei rilievi Del Drala testa appena girata alla sua sinistra. Veste il peplo
go/Corinto echeggianti il basamento fidiaco del
con il kolpos incurvato in alto ed è tutta avvolta nel
Partenone (§ 2) e soltanto sottesi dai rilievi Vaticanomantello, che le copre la sommità del capo: con la
Louvre riferiti, nella prospettiva di lettura seguita, a
mano sinistra sollevata tiene discosto il mantello dal
quello alcamenico dell’Hephaisteion (§ 3):
corpo, laddove il braccio destro, di restauro, è tutto
a) l’aderenza all’originale;
teso in fuori. Come alla precedente, anche a questa
b) la ripresa a Roma, in età adrianea, di un soggetfigura il dispiegarsi del mantello, che si apre in ricche
to che, carico di specifiche valenze cultuali legate alle
pieghe attorno al corpo, aumenta l’impressione di
vicende dell’Atene dell’ultimo trentennio del v sec.
maestosa imponenza.
a.C., viene rifunzionalizzato qualificandosi come auIl rilievo propone con discreto grado di aderenza
tonomo ornamentum architettonico.
quattro delle figure scolpite sulla fronte del basamento della statua di culto di Nemesi a Ramnunte
a) Per quanto riguarda il primo aspetto, dal confron(Fig. 16); la loro altezza (cm 45-47) è in scala rispetto
to tra le figure scolpite sul rilievo – sottostimato
all’originale e del pari aderente al modello è la clauanche nelle indagini più recenti, con l’eccezione di
sola compositiva. Questa dà risalto alla stasi e manLapatin119 – e quelle originali possono essere guada118 Forschungen zur Villa Albani. Katalog der antiken Bildwerke, iii,
Berlin 1992, p. 113, n. 291, tav. 77 (P. C. Bol); Böhm, op. cit. a nota 2, pp.
81-84, fig. 46.
119 K. D. S. Lapatin, A family gathering at Rhamnous? Who’s who on
the Nemesis base, in Hesperia, 61, 1992, pp. 110-111; P. Karanastasses,
Wer ist die Frau hinter Nemesis? (Studien sur Statuenbasis der Nemesis von
Rhamnus), in AM, 109, 1994, p. 124. Cfr. Palagia, op. cit. a nota 1, p. 64,
fig. 47.
88
maria elisa micheli
Fig. 16. Fronte del basamento della statua di Nemesi a Ramnunte (da Petrakos 1986).
gnati elementi utili per ricomporre movimenti e
rapporti tra i personaggi (se non le loro identità),
che nel basamento sono estremamente lacunosi.
Noto dai primi dell’Ottocento, sono state le ricerche
condotte dalla seconda metà del Novecento da Petrakos120 a chiarire che il basamento, giunto in stato
molto frammentario, misura cm 238-241 × 166 × 50; è
composto da due blocchi di marmo pentelico; è articolato in tre parti: zoccolo modanato, fascia decorata (entrambi in marmo pentelico), coronamento –
costituito da un cavetto – in pietra nera di Eleusi.
Davanti ad esso, nel pavimento della cella era collocata una lastra di marmo ed una barriera (verosimilmente mobile) impediva ai fedeli di avvicinarsi alla
statua della dea. Questa è stata magistralmente ricomposta da Despinis che, dopo avere individuato i
frammenti originali, ha ricostruito il tipo, lo ha
riconosciuto nelle copie di età romana121 e lo ha attribuito con sicurezza ad Agoracrito a dispetto delle
discordanti fonti antiche.122 A differenza della de-
120 B. Petrakos, La base de la Némesis d’Agoracrite, in BCH, 105,
1981, pp. 227-253; Id., ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· Ù˘ ‚·Û˘ ÙÔ˘ ·Á·ÏÌ·ÙÔ˜ Ù˘ NÂÌËÛˆ˜, in Kyrieleis, op. cit. a nota 54, pp. 89-107.
121 G. I. Despinis, ™˘Ì‚ÔÏ‹ ÛÙË ÌÂÏÂÙË ÙÔ˘ ÂÚÁÔ˘ ÙÔ˘ AÁÔÚ·ÎÚÈÙÔ˘, Athinai 1971, pp. 55-59.
122 W. Ehrhardt, Versuch einer deutung des Kultbildes der Nemesis
von Rhamnus, in AntK, 40, 1997, pp. 30-31.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
89
Fig. 17a. Fianchi del basamento della statua di Nemesi a Ramnunte (da Petrakos 1986).
scrizione offerta da Pausania, il posizionamento
(non ancora concluso) dei frammenti scultorei superstiti effettuato da Petrakos (ed accolto dalla critica) ha accertato che la decorazione, organizzata con
calcolata simmetria, si snoda su tre lati della base di
culto (fronte e fianchi), mentre il retro, situato a circa cm 70/75 dal muro di fondo della cella, è liscio. Su
ciascun fianco (Fig. 17a-b) sono scolpiti tre perso-
90
maria elisa micheli
Fig. 17b. Fianchi del basamento della statua di Nemesi a Ramnunte (da Petrakos 1986).
naggi ed un cavallo, una quarta figura è posizionata
all’angolo con la fronte, dove sono pertanto sistemate otto figure: quattro femminili e quattro maschili.
Le femminili occupano la zona centrale, due rivolte
a sinistra e due a destra, in maniera da fronteggiarsi;
il fuoco della composizione cade nello spazio vuoto
tra le due donne che convergono rispettivamente da
sinistra e da destra. Il numero delle figure (cavalli
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
91
esclusi) assomma a 14 (4 donne e 10 uomini) ed è,
le’ della battaglia di Maratona segna il ruolo di Ramquindi, superiore alle 12 (3 donne e 9 uomini) mennunte tra gli altri demi ed è, forse, un motivo in più
zionate dal Periegeta che, oltre ad indicare il tema,
per spiegare la presenza di eroi locali sul basamento.
nomina alla rinfusa i diversi personaggi implicati
In tale contesto acquista una più definita credibilità
nella scena: la ‘presentazione’ di Elena a Nemesi,
anche l’aneddotica sulla statua di culto, ricavata dal
sua vera madre, da parte di Leda, sua madre adottiblocco di marmo pario dal quale Dario avrebbe vova, alla presenza di Tindaro, Menelao, Agamennoluto fare inalzare un monumento per la sua (mancane, dei Dioscuri, degli eroi Hippeus ed Epochos, di
ta) vittoria: così la statua poteva essere percepita coun giovane sconosciuto e di Pirro, al quale viene agme segno tangibile della punizione della hybris
giunta la chiosa di essere stato il marito di Ermione
(prima di tutto quella del Gran Re e dei Persiani), a
(figlia di Elena e Menelao). Stile e tecnica dei framriprova della potenza della dea. Viceversa, poco comenti evidenziano strette corrispondenze con quelli
strutto hanno le discussioni circa la riconversione di
pertinenti alla statua di culto, in specie nell’impiego
una statua di Afrodite come Nemesi (che ne suggedi incisioni continue e costanti che risaltano nelle
rirebbero una ‘profanizzazione’), valide solo se lette
pieghe delle vesti; inoltre, partendo da sinistra, la
in funzione della redazione iconografica che, però,
terza figura femminile molto frammentata – identigli attributi legano efficacemente alla dea, dichiaranficata come Nemesi – richiamerebbe il tipo della
done qualità e specificità (Fig. 18). Nikai e cervi sulla
statua di culto. Come ribadito da Despinis, statua di
corona manifestano la sua invincibilità ed ineluttabiculto e basamento debbono essere stati realizzati
lità (accolgo la lettura di Ehrhardt);127 gli Etiopi sulla
nello stesso arco di tempo, il decennio 430-420
phiale tenuta nella mano destra ed il ramo con i poa.C.:123 a questa cronologia si accordano tipologia e
mi, esibito nella sinistra, alludono alla sua genealomodi costruttivi usati nel tempio, per il quale
gia e rappresentano il suo dominio, esteso ovunque
Miles124 ha enucleato le tangenze stilistiche con le
nel mondo fino alla terra delle Esperidi che, vale la
membrature dei Propilei ad Atene, della Stoa a
pena ricordare, in uno dei rilievi a tre figure (come
Brauron e del Tempio degli Ateniesi a Delo.
sull’hydria del Pittore di Meidias) è una terra allusiva
La coesistenza di fonti archeologiche e letterarie
all’Elysion.128
permette di conguagliare le informazioni su tempio,
Anche il rilievo sulla base è per l’appunto «geneastatua e basamento e di tracciare un più articolato
logico»: connesso alla dea ed al luogo in cui ella è vequadro storico entro cui va ad innestarsi il culto di
nerata come propongono ‘geograficamente’ gli eroi
Nemesi nel demo di Ramnunte nel primo decennio
Hippeus, Epochos e – secondo la proposta di Petradella guerra del Peloponneso. Il Nemeseion risulta
kos – Oinoe e Neanias. In virtù di questi, la ‘presenben integrato nel sistema di culti dislocati lungo la
tazione’ di Elena avverrebbe nel sito stesso in cui sorzona costiera nord-orientale, finitima ad Atene, che
ge il santuario della dea, che assurge a ‘spazio del
nella seconda metà del v sec. a.C. furono interessati
mito’. Così facendo, viene recuperata anche l’atticità
da un’intensa attività, legata alla loro riorganizzaziodi Elena che, non bisogna dimenticare, godeva di un
ne tanto strutturale quanto rituale.125 Satellite nella
suo autonomo culto non lontano da Ramnunte, a
tetrapoli di Maratona, Ramnunte acquista una più
Thorikos. In confronto alle basi fidiache, dal fregio
spiccata rilevanza a seguito della battaglia quando,
emerge una (apparente?) distorsione delle genealoancora nel racconto di Pausania (i, 33, 2-3), contro i
gie mitiche ed una nuova edizione di queste: tre gePersiani si era rivelato provvidenziale l’aiuto della
nerazioni di divinità ed eroi sono infatti presentate
dea. Non è dunque da sottovalutare la considerazio‘sincronicamente’, circostanza che sembrerebbe corne di Petrakos126 che proprio il significato ‘universaroborare l’interpretazione, fuori dal coro, di Deli123 Intervento di Despinis in Petrakos, ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· cit. a nota
120, p. 107; dalle prime indagini risultava uno scarto cronologico tra
statua di culto, datata da Despinis al 430 a.C., e basamento, per Petrakos di un decennio più recente. Cfr. anche Karanastasses, art. cit. a
nota 119, pp. 126-127.
124 M. M. Miles, A reconstruction of the temple of Nemesis at Rhamnous, in Hesperia, 58, 1989, pp. 223-240.
125 B. Knittlmayer, Kultbild und Heiligtum der Nemesis von Rhamnous am Beginn des peloponnesischen Krieges, in AM, 114, 1999, pp. 15-18.
126 B. Petrakos, TÔ NÂ̤ÛÂÈÔÓ ÙÔ˘ P·ÌÓÔÓÙÔ˜, in ºÈÏÈ· ÂË ÂȘ
°ÂÔÚÁÈÔÓ E. M˘ÏÔÓ·Ó, Athinai 1987, pp. 295-326.
127 Ehrhardt, art. cit. a nota 122, pp. 33-39; Knittlmayer, art. cit.
a nota 125, pp. 8-9 n. 36.
128 Micheli, art. cit. a nota 82, pp. 128-130; A. Delivorrias, T¿
TÚ›ÌÔÚÊ· ·Ó¿ÁÏ˘Ê· ÁÈ· Ì›· ·ÎÔÌË ÊÔÚ¿, in AÌ˘ÌÔÓ· ÂÚÁ·, Athinai
2007, p. 385.
92
maria elisa micheli
vorrias sullo svolgimento della scena (relativa a suo
avviso alla deificazione di Elena). Questa non avverrebbe in un luogo fisico e geograficamente definito
(Ramnunte, appunto), bensì nell’Aldilà, dove possono coesistere tutti i partecipanti:129 vero è che ad
Atene la celebrazione delle Nemesie era collegata al
culto dei morti. Rispetto alla lezione fidiaca, sulla base è dismessa la teoria olimpia ed un ‘declassamento
divino’ emerge anche a fronte del basamento alcamenico, in cui la nascita di Erittonio – l’eroe autoctono, il fondatore della stirpe dalla quale per i dossografi attici130 nascerà Teseo – avviene davanti alle
divinità poliadiche (Atena, Efesto, Ghe). È un ‘declassamento’ presumibilmente funzionale al contesto, peraltro riflesso dall’ambiguità delle fonti coeve
pertinenti sia a Nemesi, dissonanti dall’immagine arcaica della dea come tracciata nelle opere di Esiodo,131 sia ad Elena, il cui profilo si differenzia da quello imposto nell’epica. Riguardo all’eroina, è nelle
opere di Euripide che si coglie appieno l’antinomia
tra il giudizio negativo espresso nelle Troiane ed il
conclamato riscatto nella tragedia omonima, dove
Elena è presentata come vittima innocente; due
aspetti che, nella lettura di Shapiro,132 erano ben presenti anche agli artisti, non ultimi i ceramografi attici
(in specie il Pittore di Meidias), pienamente partecipi
al dibattito sulla ‘natura’ di Elena. L’anforisco a Berlino del Pittore di Heimarmene mostra infatti l’eroina ‘assediata’ da Afrodite e Peithò che quasi la ‘sospingono’ verso Paride presso cui è Eros, mentre a
distanza proprio Nemesi, che assiste vicino a Tyche,
punta il dito: un monito per le conseguenze dell’evento.133 Nell’ambivalenza dei testimonia corre
forse un sottile legame con la complessità del mito
di Pandora, allusivo al suo legame con Atena, qual è
proposto sulla base partenonica. Sul basamento del
Nemeseion, infatti, è del pari dialogico il rapporto
Nemesi/Elena, poiché – grazie alla compresenza –
entrambe ricevono una dignità che dalla religio sfuma nell’etica, alla quale per l’appunto rinvia Ó¤ÌÂÛȘ;
questo aspetto ‘concettuale’ (parallelo al fiorire ad
Atene di monumenti per personificazioni ‘cittadine’
e ‘morali’) sembrerebbe peraltro tradotto e sostenuto dallo schema compositivo, privo di una figura centrale a marcare il fuoco.134 Le contraddizioni ‘cronologiche’ implicite nei partecipanti e le innovazioni
dei loro significati affermate all’epoca avrebbero dovuto contribuire a fortificare il messaggio inviato
dalla figurazione, di cui rimangono comunque impalpabili alcuni elementi nodali: l’occasione (ed il
motivo) della ‘presentazione’ – che riterrei avere lo
stesso valore di una ‘rinascita’ – di Elena, nonché il
ruolo di Nemesi. Si può discutere se riabilitazione
(culminata nell’Encomio dell’occidentale Gorgia),
doppia genealogia divina (Nemesi e Zeus) ed atticizzazione di Elena (concretata nel culto a Thorikos)
non abbiano subito un incremento durante il (e/o a
seguito del) conflitto peloponnesiaco e se, in certo
qual modo, anche la figura dell’eroina – qui nel suo
stato di dea – non abbia avuto un ruolo strumentale
nella ‘propaganda di guerra’ tra Atene e Sparta (che
giunge a toccare pure il santuario). Cratino nella Nemesi paragonava Pericle a Zeus (specificamente indicato come il padre di Elena), mentre nel Dionysosalexandros avanzava un parallelo tra Pericle e Paride, tra
la guerra del Peloponneso e la guerra di Troia.135 Peraltro, la guerra di Troia era l’equivalente mitico della guerra persiana che aveva il suo monumento celebrativo a Maratona, dove proprio Nemesi aveva
concorso alla sconfitta dei Persiani. Attraverso il linguaggio polisemico del mito la scena si apre dunque
alla multivocalità, sottraendosi ad una lettura unidirezionale: situazione che, nel contingente, è però
gravata dall’incertezza sull’esatta identificazione dei
partecipanti, stante l’estrema frammentarietà delle
figure superstiti.
Non vi è unanimità tra gli studiosi nel riconoscimento dei protagonisti e le diverse denominazioni
suggerite finora aprono, ovviamente, scenari interpretativi non conciliabili.136 Questi si legano anche
al nome della quarta figura femminile (quella assente nella descrizione di Pausania), di cui si conserva
un lacerto: Oinoe, Ermione, Clitemnestra o Themis. A livello ermeneutico, pertanto, la prima viene
129 A. Delivorrias, in H oros, 2, 1984, pp. 83-102.
130 Shapiro, art. cit. a nota 47, p. 151.
131 Karanastasses, art. cit. a nota 119, pp. 129-130; Ehrhardt, art.
cit. a nota 122, pp. 32-33; Knittlmayer, art. cit. a nota 125, pp. 12-14.
Del resto, è stato notato come le altre statue raffiguranti Nemesi obliterino la creazione di Agoracrito.
132 H. A. Shapiro, The judgment of Helen in Athenian Art, in J. Barringer - J. Hurwit (a cura di), Periclean Athens and its legacy: problems
and perspectives, Austin 2005, pp. 47-62.
133 ARV2, p. 1173. Lo stesso soggetto è noto da tre rilievi in marmo
(frammentari) di età tardo repubblicana-protoaugustea: Micheli,
art. cit. a nota 82, p. 86 nota 22.
134 Cfr. anche Petrakos, ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· cit. a nota 120, p. 97.
135 Palagia, op. cit. a nota 1, p. 68.
136 Cfr. la sintesi in Kosmopoulou, op. cit. a nota 6, pp. 130-135, 244248, n. 62.
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
Fig. 18. Nemesi di Ramnunte. Ricostruzione della statua e della base di culto.
93
94
maria elisa micheli
ad accrescere la componente locale dell’evento; la
seconda e la terza aiutano a rafforzare i legami
parentali di Elena e prospettano la possibilità sia di
proiettare l’attualità nel mito sia di trasporre
quest’ultimo sul piano filosofico; la quarta insiste
sulla storia locale del santuario, dove si sa bene che
Themis affianca Nemesi, entrambe garanti dell’ordine e della misura nel kosmos. Egualmente ondivaga è la denominazione – e conseguente collocazione – dei personaggi maschili e, nella proposta di
Lapatin, anche l’individuazione della stessa Elena.
In questo senso mi sembra di una qualche utilità
proprio il rilievo a Stoccolma:
- il primo personaggio maschile stante, panneggiato nel mantello, corrisponde perfettamente (nella
ponderazione, nell’andamento delle pieghe della veste, specie nel lembo di stoffa triangolare ricadente
tra le gambe) a quello posto sull’angolo sinistro della
fronte, di cui è conservata la metà inferiore del corpo. Considerato il tipo statuario, non escludo affatto
che l’originale fosse completato da una testa barbata
(quale appare sul rilievo), ad indicare la ‘maturità’
dell’uomo. Non dovrebbe trattarsi di Zeus come
prospetta Lapatin (ovviamente i fulmini nella mano
sono di restauro, e perché non pensare che la scelta
di un tale attributo possa essere stata suggestionata
da quelli che Zeus – simile è anche la conformazione
della testa – impugna sul rilievo Del Drago?), ma di
un personaggio di rango: Tindaro, in accordo con
l’opinione più diffusa;
- il personaggio successivo corrisponde ai frammenti che sul basamento restituiscono i pettorali ed
il bacino di un giovane; in particolare, analogo è l’andamento delle anche, le quali lasciano ricostruire il
movimento delle gambe come visualizzato dal rilievo. Anche la lieve rotazione del torso originale indica
che avrebbe dovuto essere appena rivolto alla sua sinistra. Incerto, benché molto probabile, è se dal
braccio destro ricadesse il mantello in armonia con
quanto appare sul pezzo a Stoccolma, sebbene non
con il gesto ampio del braccio portato in fuori (amplificato dal copista romano ed esacerbato dal restauro settecentesco), ma con uno appena più contenuto, come è segnalato proprio dall’inclinazione
della spalla. Circa la sua identità, non è da scartare il
suggerimento che si tratti di uno dei Dioscuri (un
frammento originale della testa calza il pileo) e, con
migliore probabilità, quello mortale;
- la seguente figura femminile concorda con il
frammento del torso sistemato sul basamento dopo
il giovane sia nella disposizione della veste, larga at-
torno al collo e scesa a formare un motivo a V tra le
mammelle (interpretato con rigidità sul rilievo tramite un’alquanto meccanica serie di triangoli inscritti), sia nell’inclinazione delle spalle. Sulla sinistra ricade il mantello di cui si conservano le doppie pieghe
ammassate sulla spalla della quale evidenziano il
movimento verso l’alto. Questo è coerente con la
posizione del braccio che il rilievo, a causa del restauro settecentesco, mostra però troppo sollevato al fine di tenere discosto il mantello dal capo, che è scoperto. Difforme dal rilievo a Stoccolma è invece il
frammento posizionato in basso, che restituisce dai
piedi al ginocchio le gambe del personaggio: la gamba destra è scartata, tornita dalle pieghe circolari della veste, mentre la sinistra, stante, è celata dalla ricaduta a bande parallele dell’abito. Rispetto alla
redazione romana, è clamorosamente invertita la
ponderazione. Nel frammento originale risulta, però, con chiarezza la disposizione delle gambe come
è esibita dal successivo personaggio femminile sul rilievo a Stoccolma che, nel linguaggio del freddo formulario accademico il quale annulla la raffinatezza
del marmo agoracriteo, riproduce con acribia tanto
l’andamento circolare delle pieghe modellanti la
gamba destra, quanto le rigide scanalature parallele
che obliterano la sinistra. Considerando la vigile attenzione al modello espressa dal pezzo a Stoccolma
(ben apprezzabile nei due personaggi maschili come
anche nel torso femminile in oggetto), sorge il dubbio se il frammento lì collocato non sia invece pertinente alla figura successiva. Al riguardo non sottovaluterei che: il modulo di entrambe le figure è
costante; mancano punti di attacco con la parte superiore conservata del tronco della prima donna; la
ricaduta delle pieghe parallele si attaglia egregiamente a ciò che rimane della figura seguente;
- la seconda figura femminile concorda con ciò
che resta della quarta, ovvero una piccola parte a sinistra del bacino (con l’attacco delle pieghe del peplo) presso cui è un lacerto del mantello del quale si
recupera l’andamento circolare, a pieghe concentriche. Questo stesso effetto è restituito dalla redazione
romana tramite una serie di increspature che dal fondo piatto – con effetto virtuosistico – acquistano
consistenza volumetrica fino a formare un rotolo
più pesante per avvolgere scenograficamente l’intera figura. Valutando la posizione del bacino, a questa
figura si conformerebbe bene il frammento di gambe che sulla base è riferito alla precedente, della quale segnala la direzione a sinistra verso il personaggio
successivo: Nemesi. Questa è costruita con anda-
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
95
mento opposto, sì da formare con l’altra donna una
ro/Neottolemo. Ma allo stato attuale è forse inutile
coppia convergente che viene ad occupare la zona di
spingersi oltre, introducendo e sottomettendosi al
rispetto della fronte. In accordo con quanto anticipagioco dei nomi.138
to sopra, è proprio questa seconda figura femminile
scolpita sul rilievo a Stoccolma che – non solo per
b) Dunque, il rilievo a Stoccolma è aderente all’oril’impianto complessivo in sé, ma soprattutto dal
ginale tanto nell’impianto complessivo quanto nella
confronto con l’originale – appare maggiormente
descrizione delle singole figure (unica discrasia la
coinvolta nell’accadimento e permette di verificare
metà inferiore della prima donna, come è presentata
al meglio direzione e strategia compositiva dell’intenella ricomposizione di Petrakos), attualizzate nel
ra scena. Essa è incentrata sulle quattro donne, due
linguaggio espressivo di epoca adrianea. C’è da chierivolte alla loro sinistra e due alla loro destra in madersi se del rilievo ci sia arrivata solo una parte – cioè
niera da ricreare – con cadenza quasi processionale –
se la redazione originaria riproduceva o meno tutta
l’atmosfera sacrale dell’incontro, tutto consumato al
la raffigurazione della fronte ramnusia – o se sia finifemminile.
to in sé. Ovviamente, guardando soltanto alle modaAnche in base agli elementi appena riferiti, apprezlità di lavorazione di una bottega, non vi sarebbe bizo la proposta di riconoscere Leda nel primo persosogno di supporre l’intero: un segmento sarebbe
naggio femminile (quello che la redazione romana
stato sufficiente; anzi, la scena nel suo complesso pomostra a capo scoperto: forse un indizio del suo stato
teva venire parcellizzata, scomposta e ricomposta, sì
mortale) ed Elena nel secondo137 che, velata, impoda risultare innescato quel processo di desemantiznente ed accompagnata dalla sua famiglia umana
zazione del modello originario, rifunzionalizzato
(Leda, un Dioscuro e Tindaro), è presso la madre bioper le esigenze dei fruitori romani. Il ‘nuovo’ pezzo
logica, Nemesi. La dea – egualmente velata – è seguipoteva così inviare messaggi altri dal prototipo, disota da un personaggio femminile, a mio parere ‘l’indimogenei comunque per livello di emittenti e desticatore’ della localizzazione dell’evento (Oinoe o
natari. Ma, come s’è visto, il rilievo mantiene sia la
Themis) attraverso il quale si materializzava con più
forma che la figurazione dell’originale, allineandosi
immediatezza il rapporto con l’eikon soprastante; dal
ad esso per lo meno a livello ‘rappresentativo’. A
secondo Dioscuro, verosimilmente il gemello imsciogliere il virtuale quesito non aiutano né il rilievo
mortale (un significante, funzionale a trasmettere
Del Drago (di cui la maggior parte degli studiosi nel’accadimento dalla geografia circostanziale al piano
ga relazioni con il basamento della Parthenos e che,
degli astri – ed anche degli Inferi – dove si estendevaperaltro, si presenta ‘parziale’ a fronte della virtuale
no le competenze della dea); da un personaggio mae labile derivazione) né i rilievi con la nascita di Eritschile più anziano (i frammenti superstiti indiziano
tonio (che, grazie alla provenienza da Villa Adriana
circa la geminatio del tipo posizionato sull’angolo opdel frustolo nei Musei Vaticani, si prestano, però, a
posto). L’identità di quest’ultimo (scartata la possibiconsiderazioni culturali utili a motivarne la scelta
lità di creare un rapporto binario con la metà sinistra
‘indirizzata’). Se, poi, la riconoscibilità del soggetto
della fronte, determinabile dall’introduzione di Zeus
era affidata ad un elemento significante, nel rilievo a
che con Nemesi fornirebbe il corrispettivo divino alla
Stoccolma questa ‘spia’ (quanto meno oggi) è sfugcoppia mortale Leda/Tindaro) rientra nei nomi forgente, come non ha mancato di avvertire il venditore
niti da Pausania. È allora plausibile Menelao, lo sposo
settecentesco che, con acutezza, ha attribuito nomi
‘umano’ di Elena, che immette nel fregio la compo‘tradizionali’ alle figure scolpitevi: risultano identità
nente spartana (quella declinabile pure nell’attualità
divine che avrebbero potuto essere così percepite da
politica), nonché il grande tema della guerra di Troia
un indeterminato destinatario antico.
(da intendere positivamente, quale collante per tutti
Tuttavia, nonostante il fatto che la porzione sui Greci come nei fatti era avvenuto nella lotta contro
persiste presenta una sequenza di personaggi ‘neui Persiani), cui rinviavano anche Agamennone e Pirtri’ ed all’apparenza duttili ad un più ampio spettro
137 Contra: Lapatin, art. cit. a nota 119, pp. 111-113, che inverte le
identità delle due donne.
138 Secondo la ricostruzione di Petrakos, sul fianco sinistro avrebbero dovuto trovarsi Agamennone o Menelao, Pirro, Hippeus o Epochos con il cavallo e poi all’angolo con la fronte Tindaro; su quello
destro, Neanias (il giovane sconosciuto ricordato da Pausania), Hippeus o Epochos con il cavallo e sull’angolo con la fronte Menealo o
Agamennone (Petrakos ¶ÚÔ‚ÏËÌ·Ù· cit. a nota 120; cfr. Lapatin,
art. cit. a nota 119, p. 110 e nota 9).
96
maria elisa micheli
semantico, non ascriverei il pezzo ad una generica attività manifatturiera per un altrettanto generico destinatario,139 piuttosto ad una specifica committenza: un aspetto che, più che dall’oggetto in sé, mi
sembra possa acquisire una sua sostanza da alcune
(indubbiamente tenui) argomentazioni collaterali. E
queste ruotano attorno al ‘perché’ di un qualcosa legato a Nemesi (ma alla dea di Ramnunte), nel più
ampio contesto culturale adrianeo. Certo è che a Roma Nemesi rimane una divinità straniera (nel nome
stesso: altrimenti, è Fortuna o anche Iustitia ed Aequitas), anche se Plinio (nh , 28, 22) ricorda una sua
statua sul Campidoglio, di cui restano purtroppo
ignoti lo schema iconografico, la cronologia ed il nome dell’artista. Con l’epiclesi di Rhamnusia è chiamata da Ovidio nei Tristia (5, 8, 3: ultrix Rhamnusia), che
ne accentua il carattere di vendicatrice della hybris
degli uomini; si sa che a lei Cesare era devoto, tanto
da fondare un Nemeseion ad Alessandria a seguito
della morte di Pompeo. Comunque, se ci volgiamo
ai periodi successivi e ad un allargato ambito romano, le competenze della dea si esplicano negli agoni
(nei teatri ed anfiteatri) ed attecchiscono soprattutto
negli accampamenti militari, specie tra le truppe di
origine orientale, forse il maggiore veicolo di diffusione del culto in Occidente. Sono state altresì suggerite tangenze cultuali tra Apollo e Nemesi, mettendo in parallelo il rilievo da Fourni con quello da
Brindisi in cui trionfa ‘Dea Nemesis Regina’: ma queste
si limitano per me alla sola impaginazione, organizzata secondo precisi criteri di taxis, con la divinità al
centro e personaggi sussidiari distribuiti attorno in
maniera simmetrica e speculare secondo la soluzione a pannelli propria dei rilievi mitriaci.140
In età adrianea, però, a Roma un culto di Nemesi
(nella sua declinazione di Rhamnusia) è attestato –
certo nella sfera del privato – da un sacello nel contesto del Triopio della grande villa che Erode Attico
possedeva tra il ii ed il iii miglio della via Appia (ig
xiv 1389, ii, 1-5); riguardo alla figura di Erode e ad un
suo legame con quella divinità, vale la pena di ricordare che nella replica frammentaria della Nemesi
rinvenuta a Corinto va probabilmente riconosciuta
una statua-ritratto di Annia Regilla.141 La quantità e
la qualità dei materiali recuperati nella villa extraurbana a partire dalle esplorazioni cinquecentesche
mostrano non solo una naturale adesione (rispettosa
delle origini del proprietario), ma una programmatica citazione dell’Atene classica.142 Essa è praticata
sia attraverso la ripresa di alcuni suoi imponenti monumenti143 sia attraverso la ricomposizione dei più
venerandi culti attici (non ultimi quelli eleusini), del
tutto in sintonia con le propensioni filoelleniche del
grande etairos di Erode, l’imperatore Adriano.
Questa attestazione – pur circostanziata e sporadica
– invita nondimeno a non escludere che il rilievo, recuperato dal Tevere secondo la testimonianza settecentesca, sia proprio una voluta edizione del basamento ramnusio, mirato ad una nuova collocazione
a Roma. L’impossibilità di prospettarne una contestualizzazione nel sistema urbano non permette comunque di andare oltre, nonostante il fatto che (casualità o meno) non lontano dal luogo del recupero,
sull’altra sponda del fiume, si estendevano proprietà
che, nei passaggi di mano imperiali, vedevano una
parte dei lussureggianti Horti Domitiae occupati dal
Mausoleo di Adriano.
139 Sul problema generale, cfr. le posizioni contrarie di Böhm, op.
cit. a nota 2.
140 Micheli, art. cit. a nota 53, pp. 10-11.
141 E. Brigger, Roman adaptations of classical Greek cult Statues.
The case of Nemesis of Rhamnous, in MedA, 15, 2002, p. 78 nota 36.
142 Del resto, un atteggiamento ‘musealizzante’ non è estraneo alle opere recuperate nella villa che Erode possedeva a Loukou: G. Spyropoulos, Drei Meisterwerke der griechischen Plastik aus der Villa des
Herodes Atticus zu Eva, Loukou, Frankfurt 2001.
143 Valgano, tra i tanti, le due imponenti statue di Cariatidi (una
oggi nei Musei Vaticani, Braccio Nuovo; una seconda al British Museum, dove è entrata per il tramite della collezione di Ch. Townley)
venute alla luce sotto Sisto V; da ultimo: F. Rausa, L’album Montalto
e la collezione di sculture antiche di Villa Peretti Montalto, in Pegasus, 7,
2005, pp. 102-103 (ivi bibl. prec.). Per la valenza cultuale del luogo, cfr.
M. Galli, Die Lebenswelt eines Sophisten. Untersuchungen zu den Bauten
und Stiftungen des Herodes Atticus, Mainz 2002, pp. 124-125. Sintesi:
LTUR Suburbium, V, 2008, pp. 189-201, s. v.
144 Cfr. la sintesi di Böhm, op. cit. a nota 2.
5. Una nota conclusiva
Il rilievo a Stoccolma permette dunque di verificare
la fedeltà al modello per quanto concerne sia morfologia che figurazione ed impaginato; al tempo stesso
mostra bene l’acquisizione in età adrianea del linguaggio formale ‘atticizzante’, secondo un codice
espressivo che permea anche il rilievo Del Drago ed
il frammento da Villa Adriana nei Musei Vaticani.144
Per entrambi, tuttavia, la derivazione ‘diretta’ dal
modello classico si pone con maggiore margine di
incertezza: nel caso del frammento con la nascita di
Erittonio, questa va anzitutto ad intersecarsi con
l’accoglimento o meno dell’ipotesi della Karouzou
circa la pertinenza alla base della statua di culto nel
cd. Theseion sul Kolonos Agoraios e solo in seconda
scene di nascita e ‘ presentazione ’ divina
97
istanza si estende all’esplicita intonazione dello scheNuma Pompilio. Attutito (ma non del tutto dismesma compositivo e dei tipi iconografici (§ 3); nel caso
so) il significato cultuale, i rilievi conservano comundel marmo Del Drago, invece, investe soprattutto i
que un forte valore culturale, forse di segno autorapreferenti iconografici usati per costruire la scena, che
presentativo come indizia il frammento a Villa
a mio parere va ancora letta nei termini di un’assunAdriana; la ripresa dei temi deve essere ovviamente
zione – attuata attraverso mediazioni – della rapprescaturita dagli interventi che l’imperatore attuò in
sentazione sulla base dell’eikon partenonica (§ 2).
Grecia e, più specificamente, ad Atene. Se lì la costiLa mancanza di informazioni affidabili sui nuovi
tuzione di un Panhellenion, organismo eminentecontesti d’impiego e di fruizione dei rilievi non conmente religioso e preposto al culto imperiale, dovesente tuttavia di postulare ipso facto un mantenimenva diventare strumento e garanzia di integrazione
to consapevole dei significati peculiari ai soggetti oriper le élites greche, una risposta dialogica ed applicaginari che pure, nell’ottica della politica (anche
tiva nell’Urbe non avrebbe che potuto venire assunta
religiosa) perseguita da Adriano,145 potrebbe non esattraverso una redistribuzione dei signa della storia
sere del tutto escluso: come neos Teseo, Adriano è so‘comunitaria’ ateniese, vivido riflesso di un atteggiater e ktistes ad Atene; a Roma è un Romulus Conditor
mento – anche retrospettivo – che nella villa tiburtiche, sul versante dei culti, rivolge però lo sguardo a
na trova una sua organica specificità.
145 Galimberti, op. cit. a nota 112.
SANT’URBANO ALLA CAFFARELLA:
NUOVE INDAGINI E SCOPERTE
Stefania Pinsone
a storia di questo monumento è stata, senza dubbio, tra le più travagliate in rapporto all’importanza davvero incommensurabile dell’edificio, antico tempio del ii sec., fra i pochissimi pervenutici
pressoché intatti; in seguito convertito in chiesa,
stando all’affresco nella cripta, circa nella seconda
metà del ix sec., e secondo la testimonianza di uno
dei cicli più importanti della pittura monumentale
romana e probabilmente italiana dell’xi sec. La storia del monumento è stata contrassegnata da ripetute e cicliche “escursioni” d’interesse antiquario, archeologico, artistico e religioso dal momento della
sua riscoperta e restauro nel xvii sec., durante il pontificato di Urbano VIII.
La letteratura al riguardo è piuttosto avara: le fonti, pur preziosissime, degli antiquari del xvii e del
xviii secolo, tendono a privilegiare o solo la fase antica o solo quella medievale ed in entrambi i casi, ci
restituiscono prevalentemente informazioni parziali
ed ideologicamente orientate. Studi moderni e monografici risalgono solo all’inizio del secolo scorso
grazie, soprattutto, alla scuola romena (Busuioceanu, 1924), con la focalizzazione sui soli affreschi, poi
a quella tedesca (Kammerer-Grothaus, 1971; 1974) e
francese (Gros, 1969), che per converso hanno analizzato la sola struttura antica ed, infine, agli studiosi
anglosassoni (Williamson 1984; 1987 e Noreen, 19982002), che hanno segnato la sintesi, specie con la Noreen, dell’approfondimento su entrambe le fasi. Dal
fronte italiano sono pervenuti studi sporadici, per lo
più nel contesto della manualistica d’approfondi-
mento, di solito relativa alla pittura medievale romana (Matthiae, 1987), oppure nell’ambito dell’analisi
suburbicaria di Roma, in relazione alla catacomba di
Pretestato (Spera, 2004). Attualmente, le monografie degli studiosi americani hanno riacceso il dibattito e l’interesse verso Sant’Urbano, che ha visto
l’Andaloro schierarsi nuovamente in prima fila nel
rivendicare la correttezza della tradizione attributiva
italiana, relativa alla cronologia degli affreschi (Andaloro, 2007).
L’antico tempio, originalmente costruito poco
dopo la metà del ii sec. d. C. da Erode Attico per il
suo “Triopio”, fra il ii e iii miglio della via Appia, si
trova attualmente sulla sinistra della via Appia Pignatelli, all’interno del parco della Caffarella, a circa
3 Km di distanza dalla porta di San Sebastiano. L’edificio pagano, successivamente assimilato al culto
cristiano, fu associato ai martiri sepolti nelle vicine
catacombe di Pretestato e Callisto ed ebbe una specifica importanza per la venerazione di Papa Urbano
I (222-30), che la tradizione voleva sepolto nella limitrofa catacomba di Pretestato.1
Nel corso degli studi e degli scavi archeologici che
hanno interessato l’edificio, il tempio ebbe le più disparate denominazioni, nonché notevoli tentativi di
ricostruzioni ideali: Tempio delle Camene,2 Tempio
di Bacco,3 Tempio dell’Onore e della Virtù4 (Fig. 1),
Tempio della Caffarella,5 infine la denominazione,
condivisa dalla critica attuale, di Tempio di Cerere e
Faustina,6 che rimanda all’antica proprietà del fondo
e alle vicende di cui fu protagonista.
1 Vedi principalmente: K. Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella:
Eleventh Century Roman Wall Painting and the Sanctity of Martyrdom,
Baltimora 1998, pp. 76-77 e Ead., Sant’Urbano alla Caffarella, Rome: the
Reconstruction of an Ancient Memorial, in MAAR, 46, 2002, pp. 51-57.
2 A tale riguardo vedi F. Nardini, Roma Antica, ed. quarta, riscontrata, ed accresciuta delle ultime scoperte, con note ed osservazioni criticoantiquarie di Antonio Nibby, membro ordinario dell’accademia romana di
archeologia e con disegni rappresentanti la faccia attuale dell’antica topografia di Antonio De Romanis membro della stessa accademia, tomo I, Roma 1843, pp. 150-151.
3 G. Piranesi, Varie vedute di Roma antica e moderna, Roma 1748.
4 F. Piranesi, Raccolta De’ Tempj Antichi. Parte i - I Tempj di Vesta
Madre, ossia della Terra e della Sibilla, ambedue in Tivoli, e dell’Onore e
della Virtù, fuori di Porta Capena, Roma 1780; così G. Guattani, Roma
descritta e illustrata dall’Abbate Giuseppe Antonio Guattani Romano,
Roma 1805, p. 44-45.
5 J. B. L. G. Seroux D’Agincourt, Historie de l’art par les monuments, depuis sa dècadence au iv siècle jusqu’à son renouvellement au xvi e,
Parigi 1823-29, vol. 4, p. 20, per la cripta, vol. 5, pp. 116-117, tavole 94-95.
6 Per L. Quilici, La Valle della Caffarella e il Triopio di Erode Attico, in
Capitolium, xliii, n. 9-10, settembre ottobre 1968, p. 339. J. Griesbach,
Villa e mausoleo: trasformazioni nel concetto della memoria nel suburbio romano; in Suburbium. Il suburbio di Roma dalla crisi delle ville a Gregorio
Magno, (Atti del Convegno), a cura di Ph. Pergola, Santangeli, R. Valenzani, R.Volpe, Roma 2003, pp. 4-6. Vedi anche H. Kammerer-Grothaus, Der Deus Ridiculus in des Herodes Atticus Untersuchung am Bau
L
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 99-120
100
stefania pinsone
Fig. 1a. Piranesi F., Pianta del Tempio dell’Onore e della Virtù, in
Raccolta De’ Tempj antichi. Parte I - I Tempj di Vesta Madre, ossia
della Terra e della Sibilla, ambedue in Tivoli, e dell’Onore e Della
Virtù, fuori di Porta Capena, Roma, 1780 (foto da originale, per
gentile concessione dell’Accademia di Belle Arti di Tokyo).
Lungo l’Appia si trovavano le proprietà agricole
degli Annii di là di una fascia d’orti coltivati, esistenti intorno al centro di Roma. Queste proprietà furound Polychromer Ziegelarchitektur des 2. Jharhunderts nach Chr. in Latium,
in RM, 81, 1974, pp. 131-252. Vedi anche K. Noreen, Sant’Urbano alla
Caffarella, Rome, op. cit. a nota 1, p. 71. Per l’identificazione della Caffarella con un tempio: Rodolfo Lanciani (Christian and Pagan Rome,
Houghton, Mifflin e Company, Boston e New York, 1892, p. 290-93),
Giuseppe Lugli (La tecnica edilizia romana con particolare riguardo a Roma e Lazio, Roma, 1975, pp. 608, 610), Mariano Armellini (Le Chiese di
Roma dal sec. iv al sec. xix , Tipografia Vaticana, 1891, p. 909-910), Lorenzo Quilici (op. cit. in questa nota, p. 339), Pierre Gros (Un décor
d’époque antonine et sa significations: le stucs du «temple de Céreè s et de
Faustine, mefra 81,1969, pp. 167-169), Rita Volpe (R. Volpe, Il Suburbio,
in Roma Antica a cura di Andrea Giardina, Milano, 2000, pp. 201-202),
Lucrezia Spera (Il paesaggio suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo: il comprensorio tra le vie Latina e Ardeatina dalle Mura di Aureliano al
iii miglio, L’Erma di Bretschneider, Roma 1999, p. 426); per quella con
una tomba: Giuseppe Tomassetti (La campagna romana antica, medievale e moderna, a cura di L. Chiumenti, Bilancia F., vol. ii, Via Appia,
Ardeatina ed Aurelia, Firenze 1979, p. 115), Christian Hülsen (Le chiese di
Roma nel Medio Evo, Firenze 1927, pp. 26-43), Helke Kammerer-Gro-
no portate in dote da Appia Annia Attilia Caucidia
Tertulla quando andò sposa, intorno al 140 c.a., ad
Erode Attico. Annia Regilla era imparentata con
l’imperatrice Annia Galeria Faustina, moglie di Antonino Pio, e con l’omonima imperatrice, moglie di
Marco Aurelio. Lucio Vibullo Ipparco Tiberio Claudio
Attico Erode (101-175 d. C.),7 filosofo sofista, retore,
precettore dei futuri imperatori Marco Aurelio (161180) e Lucio Vero (161-169), di famiglia ateniese illustre, fu tra le più eminenti personalità dell’impero,
durante la metà del ii sec. d. C. Erode fu accusato
nel 160 ca. dal fratello di Annia, Appio Annio Attilio
Bradua, di averla uccisa, incinta del quinto figlio. Assolto dall’accusa, secondo quanto ci riferiscono Filostrato e le “iscrizioni triopee”, Erode, per dimostrare il dolore vero o presunto che fosse, si diede
ad onorarne la memoria con manifestazioni di lutto
esagerate ed innalzò il tempio consacrato alle dee
elusine, per le quali Regilla era stata sacerdotessa,
ed un tèmenos con statue, dedicato ad Atena ed a
Nemesi di Ramnunte, posti all’interno dei praedia
sull’Appia e ristrutturati in forma di comunità religiosa, cui impose il nome di Triopio. Il pagus era il
luogo dove abitava la popolazione rurale del fondo
e dove si svolgeva la sua amministrazione agricola.
Il fondo sacro si poteva circoscrivere approssimativamente a sinistra della via Appia, dal colombario
dei Liberti di Livia, al colle occupato dal forte dell’Acquasanta fino all’Almone, valle compresa. Il palazzo di rappresentanza doveva sorgere probabilmente tra le due vie, Appia e Appia Pignatelli, ed il
circo di Massenzio. Restaurata e ricostruita sempre
nel medesimo luogo, inglobando ed interrando
man mano gli impianti più antichi, la villa fu alla fine a sua volta in gran parte distrutta ed interrata,
thaus (op. cit. in questa nota, pp. 131-252), Paul Williamson (Notes on
the Wall-painting in Sant’Urbano alla Caffarella, Rome, Papers of the British School at Rome 55, 1987, pp. 224-28), Kirstin Noreen, Sant’Urbano
alla Caffarella: Eleventh Century (op. cit. a nota 1, p. 27-28), Jochen Greisbach (Villa e mausoleo: trasformazioni nel concetto della memoria nel suburbio romano; in Pergola Ph., Santangeli, Valenzani R., Volpe R. (a cura di), Suburbium. Il suburbio di Roma dalla crisi delle ville a Gregorio
Magno, Atti del Convegno, Roma 2003, pp. 4-6), benché questi ultimi
vi vedano più una fusione di entrambe le funzioni: tomba e tempio,
per la Noreen, e cenotafio per Griesbach.
7 G. Pisani Sartorio e R. Calza, La villa di Massenzio sulla Via
Appia, Roma 1976, p. 139. Vedi anche Quilici, op. cit. a nota 6, p. 332.
Vedi inoltre G. Tomassetti La campagna romana antica, medievale e
moderna, vol. II, via Appia, Ardeatina ed Aurelia, a cura di L. Chiumenti, F. Bilancia, Firenze 1979, pp. 115-116 (il Tomassetti ci rammenta
che Filostrato ha iniziato il ii libro delle sue Vite dei Sofisti, proprio da
quella di Erode). Vedi anche E. Caetani Lovatelli, Il triopio e la villa
di Erode Attico, p. 129 e 131-32 e R. Lanciani, op.cit. a nota 6, p. 289-290.
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
101
Fig. 1b. Piranesi F., Spaccato per lungo dell’interno del Tempio e suo portico
(per gentile concessione dell’Accademia di Belle Arti di Tokyo).
per far posto alla costruzione del grandioso complesso massenziano.8
Due colonne furono trovate all’inizio del ’600 di
fronte a San Sebastiano, consistenti di un lungo
panegirico in versi, scolpito su due cippi di marmo
pentelico.9 Queste due iscrizioni metriche scritte da
Marcello di Sidone, in esametri omerici, facevano
probabilmente parte dell’ingresso al Triopio sull’Appia di fronte all’attuale basilica di San Sebastiano, dove è oggi la tomba c.d. di Romolo. Le iscrizioni, come si evince dal testo, descrivevano il
complesso indicando la presenza del “recinto” sacro
a Nemesi e Minerva e comminavano pene severissime a chi avesse voluto violare il Triopio. S’invitavano le donne romane al tempio delle “due Cereri”,
innalzato nel Pagus e si celebrava la defunta Regilla,
la cui statua si trovava all’interno del tempio stesso.
Nell’archivio di Documentazione Archeologica a
Palazzo Altemps, un documento registra la presenza di una statua femminile, posta all’interno del
pronao di Sant’Urbano, che chi scrive rende pubblico per la prima volta (Fig. 2); dietro la foto, che ri-
8 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 334-335 e Pisani Sartorio, Calza,
op. cit. a nota 7, p. 113 e sgg.; vedi anche Caetani-Lovatelli, op. cit. a
nota 7, p. 137; facevano parte del complesso anche il ninfeo comunemente detto della “ninfa Egeria” presso la valle dove scorre l’Almone,
attuale marrana della Caffarella, forse il “lacus Salutaris” e la tomba
cosiddetta di Annia Regilla (morta nel 160-161 d. C., in laterizio a due
colori: sepolcro del tipo a tempio).
9 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 333-40: secondo le notizie che ne forniscono il Ligorio ed il Canina, le colonne sostenevano il pronao di
un edificio circolare; il testo in greco e la traduzione sono stati pubblicati in E. Q. Visconti, Le iscrizioni triopee ora borghesiane, Roma
1794. Altra fonte per le iscrizioni triopee e relativa traduzione, è quella
di G. Leopardi, Epistolario con le iscrizioni greche triopee da lui tradotte
e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all’autore, Napoli 1860, Vol. II,
pp. 147-172. Vedi anche L. Spera, S. Mineo, Via Appia. I. Da Roma a
Bovillae, Roma 2004, p. 104. Pisani Sartorio, Calza, op. cit. a nota 7,
pp. 133-137.
102
stefania pinsone
di lì. Per tale furto vi fu un procedimento penale. Em.
(En?) Gatti 1971)”.10
La critica attuale si è trovata in disaccordo su quale “tempio” potesse essere realmente identificato
con la tomba di Regilla. Nella valle della Caffarella,
nella parte quasi certamente appartenente al Triopio, si conoscono almeno tre edifici di tipo templare:
il cosiddetto “Dio Redicolo”, “Sant’Urbano” ed il
mausoleo erroneamente denominato “Colombario
Costantiniano”.11 Il tempio di Cerere e Faustina descritto nelle “iscrizioni triopee”, il tempio dedicato
alle due dee per le quali Regilla aveva una particolare
reverenza: Cerere e Faustina, la moglie di Antonino
Pio (soprannominata anche la nuova Cerere), è stato
identificato, infine, con l’attuale chiesa di Sant’Urbano;12 doveva svettare scenograficamente sulla bassa
valle della Caffarella, al centro di un vastissimo recinto rettangolare, oggi in gran parte interrato, che fungeva da terrazzamento artificiale alla collina e su cui
si aprivano, forse, portici, colonnati ed ambienti.
trae la statua di profilo, è scritto testualmente: “Foto
di statua posta nel pronao di Sant’Urbano alla Caffarella, proveniente da ?, la cui faccia fu rubata nel 1970 o giù
Nel vi sec., dopo le devastazioni seguite alla guerra
greco-gotica iniziò il fenomeno della traslazione dei
corpi dei martiri all’interno dell’Urbe. Non meno
devastatrice fu l’invasione saracena dell’anno 846,
che dopo il saccheggio della città interessò anche il
suburbio. Nel ix-x sec., di fatto la via Appia aveva cessato di essere la principale strada di collegamento con
il sud. In questo periodo va facendosi più evidente il
processo di smembramento dei terreni, da patrimonio di pubblica utilità a proprietà privata o controllata da nuclei nobiliari. Si registra, infatti, una presenza
preponderante della proprietà d’enti religiosi, ma limitata alla coltivazione dei terreni. Nel ix sec. la valle
della Caffarella, per i cumuli di marmi degli antichi
edifici crollati e sparsi per tutta l’antica tenuta, porta
il nome di La Marmorea ed il fondo valle acquitrinoso
è diviso in due fondi: una Terra Sancti Zenonis è ricordata a metà strada sul diverticolo che unisce l’Appia
alla Latina ed altri fondi appaiono di proprietà del Vestiario di Roma.13 Il Tomassetti indicò la tenuta del
Triopio come il Fundus Tertium, inteso toponimo per
la sua posizione al iii miglio, termine che compare in
10 Soprintendenza Archeologica di Roma, Palazzo Altemps,
Archivio di Documentazione Archeologica, Istituto Centrale per il
Catalogo e la Documentazione, Archivio Storico di Palazzo Altemps.
Id: 607, Collocazione: 31/28, Toponimo: Sant’Urbano alla Caffarella,
Oggetto: Sant’Urbano alla Caffarella: statua, foto. Data Iniziale: Non
specificata. Data Finale: Non specificata.
11 Per Quilici, op. cit. a nota 6, p. 339, il cosiddetto tempio del
Dio Redicolo era il sepolcro di Annia: doveva trovarsi proprio di
fronte a coloro che accedevano al Triopio dalla via Latina, mentre il
vero tempio del Dio Redicolo doveva sorgere all’inizio del rettifilo
dell’Appia, di fronte alla porta San Sebastiano. Griesbach, op. cit. a
nota 6, pp. 4-6. Vedi anche Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 6,
pp. 131-252.
12 Ibidem. Vedi anche Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Rome,
op. cit. a nota 1, p. 71.
13 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 342.
Fig. 2. Foto della statua già nel pronao di Sant’Urbano
(nel retro la testimonianza del furto avvenuto nel 1970).
(Soprintendenza Archeologica di Roma, Palazzo Altemps
Archivio Documentazione Archeologica. Id: 607,
Collocazione: 31/28).
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
un atto di permuta del 1043, fra la basilica di San Lorenzo ed il monastero gregoriano del Celio; tale nome si conserverà fino a tutto il Medioevo.14
Nel frattempo, il trasferimento del culto d’Urbano I alla chiesa di Sant’Urbano ai Pantani, monastero
e chiesa ubicati presso il foro di Nerva e d’Augusto
da Urbano IV (1261-64), forse accelerò il declino del
molto meno accessibile Sant’Urbano alla Caffarella.15 D’altro canto, la prima volta che si attesta la denominazione della chiesa in assoluto, è solo con il
“Catalogo di Torino” del 1320 ca., che però include la
chiesa in una lista di strutture ecclesiastiche non più
funzionanti.16 Difatti, all’inizio del xv sec., entrambi
le vie Appia e Latina erano di nuovo in disuso per via
degli sbarramenti militari creati sull’Appia e sulla Latina dai castelli dei Caetani e dei Savelli; all’inizio del
1400 il territorio del secondo e terzo miglio della via
Appia, inclusa la chiesa di Sant’Urbano, erano accessibili solo dalla distante Porta Lateranense. All’inizio
del xvi sec., l’antica tenuta appare smembrata nei vicini latifondi, specialmente fra quelli dei Torlonia ed
altri minori, con ingenti distruzioni delle antiche vestigia. Nel 1521, la valle della Caffarella sarà incorporata nelle proprietà di San Sebastiano e solo nel marzo 1529, la famiglia Caffarelli otterrà il possesso della
Valle dell’Almone dalla Casa Cenci; questa transazione territoriale, che includeva anche la chiesa di
Sant’Urbano, dava alla zona il suo nome corrente:
Valle della Caffarella. Nel 1547, la valle appare aver riottenuto la sua antica unità: una mappa di Eufrosino
della Volpaia mostra la vigna dei Caffarelli insieme
alla fonte Egeria, Sant’Urbano (non nominato), l’Almone (non nominato), le due torri Valca, una fonte
e la torre “Mormorata” (Fig. 3).17
La restituzione grafica su Sant’Urbano esiste solo
dal xvi sec.: attualmente, i disegni rinascimentali sono contenuti nel Codex Destailleur a Berlino (fogli 67,
67v. 68, 68v) e nel Codex Albertina a Vienna.18 I disegni
14 Tomassetti, op. cit. a nota 7, p. 115. Al riguardo vedi anche G.
M. De Rossi, I monumenti dell’Appia da Porta San Sebastiano alle Frattocchie, in Capitolium, 9-10, settembre-ottobre 1968, pp. 307-328.
15 F. Lombardi, Roma: le chiese scomparse. La memoria storica della
città, Roma 1996, p. 139. La chiesa con l’annesso monastero verranno
ricostruiti all’inizio del xvii sec., a spese del cardinal Baronio e degli
Sforza, accanto agli antichi edifici, presso il foro di Traiano.
16 Torino, Biblioteca dell’Università degli Studi, cod. Miscell. E.V.
17: “Ecclesia sancti Urbani non habet servitorem”. La lista delle chiese è
riprodotta anche in C. Hülsen, Le chiese di Roma nel Medio Evo, Firenze 1927, pp. 26-43. Vedi anche in Lombardi, op. cit. a nota 15, in appendice. Vedi inoltre R. Valentini, G. Zucchetti, Codice topografico
della città di Roma, ii, Roma 1942, p. 311.
103
Fig. 3 La mappa di Eufrosino della Volpaia del 1547
(da Quilici L. La valle della Caffarella ed il Triopio di Erode Attico
Capitolium 9-10, settembre-ottobre 1968, p. 347).
si focalizzano sull’antica struttura nominata Tempio
di Marte ed ignorano completamente la decorazione
medievale. Nel xvi sec. il pronao era ancora aperto,
ed almeno tre gradini del podio erano visibili (Fig. 4).
Dopo la morte di Callisto I (il 14 ottobre, 222), Urbano
fu scelto come Vescovo di Roma. Il “catalogo liberiano” dei papi pone l’inizio del suo pontificato nell’anno 223 e la fine nel 230.19 Nel 222, Alessandro Severo,
17 Quilici, op. cit. a nota 6, p. 346. Vedi anche Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1, p. 9, nota 4.
18 H. Kammerer-Grothaus, Sant’Urbano della Caffarella. Nach
Renaissancezeichnungen des Codex Destailleur in Berlin, in RM, 78, 1971,
pp. 203-207.
19 Sulla passio di Urbano vedi: Acta Sanctorum Maii sub felicissimis
auspiciis Innocentii 11. Romani Pontificis optimi maximi et Caroli 2. Hispaniarum Indiarumque Regis catholici in septem tomos digesta auctoribus
Godefrido Henschenio & Daniele Papebrochio operam & studium Francisco
Baertio & Conrado Janningo Societatis Iesu Fiandro-belgica presbyteris teologis. Belgio, 1685, vol. vi, pp. 7-14. Vedi anche A. Bosio, Historia Passionis B. Caeciliae Virginia, Valeriani, Tiburtii et Maximi Martyrum. Necnon Urbani et Lucii Pontificum et Mart. vitae, Roma 1600. Vedi inoltre, J.
P. Kirsch, s.v. Urbano, in Catholic Encyclopedia, New York 1907-1914.
104
stefania pinsone
Fig. 4. Sant’Urbano alla Caffarella, sezione trasversale, dal Codex Destailleur, foglio 67v, sinistra
(da Kammerer-Grothaus H., Sant’Urbano della Caffarella, Nach Renaissancezeichnungen des Codex Destailleur in Berlin.
Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Bd. 78, 1971, tavola 100).
divenuto imperatore, favorì l’eclettismo religioso
proteggendo anche i cristiani. Gli Acta di Santa Cecilia (vi sec.)20 collegano la santa stessa, così come il
marito Valeriano ed il cognato Tiburzio, ad Urbano,
che li avrebbe battezzati. I particolari della morte di
Urbano sono sconosciuti, ma, giudicando dal momento storico pacifico, egli dovette morire di morte
naturale. Il Liber Pontificalis dichiara che egli divenne
confessor sotto il regno di Diocleziano, ma la data aggiunta è senza autorità. Il suo nome non compare
nella Depositio Episcoporum del iv secolo, nel calendario Philocalianum. Due affermazioni differenti emergono dalle fonti sulla deposizione di Urbano, di cui,
tuttavia, una sola si riferisce al papa con questo nome. Negli Acta di Cecilia e nel Liber Pontificalis, si sostiene che Urbano era stato sepolto nella catacomba
di Praetextatus sulla Via Appia. Gli Itinerari del vii sec.
accennano alla tomba di Urbano in relazione a quelle
di altri martiri sepolti nella catacomba medesima.
Nella Notitia Ecclesiarum Urbis Romae (il c.d. “itinerario salisburghese”, la prima guida, scritta probabilmente sotto Onorio I, 625-38), arrivati alla Via Appia
si legge: Postea pervenies via Appia ad sanctum Sebastianum martire…et in occidentali parte ecclesiae per gradus
descendis ubi sanctus Cyrinus papa et martir pausat¸ et
eadem via ad aquilonem ad sanctos martires Tiburtium et
Valerianum et Maximum. Ibi intrabis in speluncam
magnam et ibi invenies sanctum Urbanum episcopum et
confessorem.21 Il titolo di episcopum et confessorem comportò come conseguenza, fin dal iv secolo, che la tradizione romana abbia venerato il papa con questo
nome, nell’Urbano della catacomba di Pretestato.
Un dettaglio tratto dalla passio di Urbano, sulla
traslazione del corpo del martire narra, che la ma-
20 Biblioteca Sanctorum, xii, 837, riportato in L. Spera, Il paesaggio
suburbano di Roma dall’antichità al Medioevo: il comprensorio tra le vie
Latina e Ardeatina dalle Mura di Aureliano al III miglio, Roma 1999, pp.
283-286. Vedi anche A. Amore, I martiri di Roma, Roma 1975, pp. 183-
184: Amore ha dimostrato che la passio di Santa Cecilia è destituita di
ogni fondamento storico.
21 Valentini, Zucchetti., op. cit. a nota 16, pp. 67-87.
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
105
Fig. 5b. Studio dell’anfora trovata nella volta.
(Anacleto Bonserini, 1962).
trona Marmenia aveva recuperato le sante spoglie
dal locus in quo sancta corpora erant humata, per riporle in un sepulchrum, completamente foderato di marmo, in quo recondiderunt cum aromatibus corpus Beatissimi Urbani et Mamiliani presbyteri e sul quale (desuper
quod) fu costruito un ingens antrum…quadratum et firmissime fabricae. Alcuni studiosi hanno ritenuto che
questo spostamento cultuale presente nel racconto
leggendario, possa essere il sintomo di una confusione formatasi già in antico, in relazione al luogo originario di sepoltura di papa Urbano. La stessa Domus
Marmeniae, in base alle indicazioni fornite dallo stesso autore della passio è suggerita essere collocata al
iii miglio della via Appia, oltre il palatium Vespasiani
(vale a dire il circo di Massenzio) e presso una struttura colonnata che, secondo la Spera, potrebbe verosimilmente essere l’ingresso al Triopio di Erode
Attico. L’uso del termine antrum per alludere al sepolcro, descritto, appunto, come un ingens antrum
quadratum et firmissime fabricae non è insolito, nel latino medievale, come sinonimo di templum o sepulcrum; quindi quello dell’agiografo deve considerarsi
un riferimento ad un monumento, forse da situare
nell’area tra il circo di Massenzio ed il sepolcro di Cecilia Metella.
La Domus Marmeniae, prima ancora, era stata già
ricercata ed identificata nel vano della Cripta quadrata (Ax) e nel sepolcro in laterizio rinvenuto nella proprietà Lugari al iv miglio dell’Appia,22 ma difatti
queste interpretazioni sono state respinte,23 benchè
studi recenti puntino ad identificarla, in un loculo del
22 G. B. Lugari:, La domus Marmaniae ed il Sepolcro di Sant’Urbano
al IV miglio all’Appia, in Dissertazioni della Pontificia Accademia Romana
di Archeologia, ii, 3, 1888, pp. 87-114.
23 Vedi F. Tolotti, Ricerca dei luoghi venerati nella spelonca magna
di Pretestato, in Rivista di Archeologia Cristiana, 53, 1977, pp. 55-57, G. B.
De Rossi, Le cripte storiche del cimitero di Pretestato, in Bullettino di Archeologia Cristiana, Serie II, 1872, p. 79; M. Armellini, Lezioni di archeologia cristiana, Roma 1898, pp. 113-116 e soprattutto: L. Spera, Il
complesso di Pretestato sulla via Appia, storia topografica e monumentale
di un insediamento funerario paleocristiano nel suburbio di Roma, Città
del Vaticano 2004, pp. 182-183. De Rossi aveva ravvisato un collegamento fra il vano Ax in Pretestato ed il santuario di papa Urbano (conosciuto col nome di S. Gennaro per l’attribuzione ad esso dell’epigrafe Beatissimo Martyri Januario Damasus Episcopus Fecit, recuperata
in frammenti davanti alla porta); De Rossi vi aveva, all’inizio, identi-
ficato la cripta quadrata di Urbano: la cripta quadrata rivestita di marmi, costruita da “Armenia”, correzione del De Rossi per Marmenia,
nome inteso in rozzo latino e trovato in una delle lapidi ivi emerse.
Ma dopo la scoperta dell’epigrafe damasiana per Gennaro, De Rossi
ritenne che la cripta di Urbano dovesse ancora emergere dai futuri
scavi. Quest’ipotesi è stata riconsiderata più recentemente dal Tolotti, e secondo la Spera: “…ciò muove soltanto dall’analogia descrittiva tra questo cubicolo e l’ingens antrum…quadratum et firmissimæ fabricæ, descritto dall’autore della passio di Urbano come luogo di
sepoltura del papa. Le difficoltà insite in tale interpretazione emergono, in effetti, proprio attraverso la lettura del racconto agiografico, che non può essere utilizzato come una descrizione realistica di
un ambiente del complesso di Pretestato: nella successione narrativa, infatti risulta chiaramente che il sito cui si fa riferimento non va
identificato né in un vano della catacomba di Pretestato (come per
Fig. 5a. Prospetto della trabeazione di Sant’Urbano
rilevata in occasione dei restauri degli anni ’60.
(Anacleto Bonserini, 1962).
106
stefania pinsone
vano Ak a Pretestato.24 Resta problematica, tuttavia,
la comprensione, nell’economia della passio, dell’origine dell’idea di una traslazione delle spoglie di Urbano dal complesso di Pretestato e l’attribuzione ad
un edificio molto probabilmente subdiale, di una
funzione cultuale. Tale dato ha indotto gli studiosi a
ritenere che, al tempo della compilazione del racconto agiografico, esistesse anche una chiesa memoriale dedicata a Sant’Urbano, cui poi nel medioevo fu
consacrata l’attuale chiesa; tuttavia i dati topografici
forniti dal compilatore del racconto agiografico non
sembrano concordare con l’identificazione nella
chiesa medesima.25
Si tratta di un edificio prostilo, tetrastilo, con la cella
quasi quadrata (Fig. 6: 9,48 × 11,91 m). Con l’esclusione dell’elegante colonnato corinzio in marmo pentelico, che sostiene un pronao con architrave a fasciae
non decorate, anch’esso di marmo, l’intera struttura
e l’ornamentazione sono in Opus Testaceum.26 Il materiale del fregio, dell’attico, del frontone e delle pareti laterali presenta dimensioni e gradi di cottura disuguali, ma il modulo rimane costante: da 22,5 a 25
cm. Ben datato al tempo di Marco Aurelio (161-80),
per un bollo laterizio trovato da Francesco Piranesi
sul tetto, questa costruzione testimonia il gusto
dell’architettura antonina per le strutture ed i rivestimenti dei mattoni. La parte superiore della facciata
secondo il Gros, ritmata da pesanti modanature, separate da vaste superfici prive d’ornamenti, l’attico
molto alto senza proporzione con gli altri elementi
architettonici, meriterebbe un esame attento.27
Il timpano è caduto in avanti di 50 cm ca., anche i
muri laterali minacciavano il crollo e sono stati rinforzati con contrafforti obliqui, durante il restauro
barberiniano. Il bollo laterizio, circolare, lunato orbicolato ed a doppia riga concentrica copiato da Francesco Piranesi offre una più specifica datazione al
Tolotti 1977), dove era la tomba originaria, da cui, come precisamente attestato dal passo agiografico, i corpi vennero traslati, né con il
sepolcro in laterizio rinvenuto nella proprietà Lugari al iv miglio dell’Appia.”.
24 Spera, op. cit. a nota 23, pp. 199-206, 343.
25 Vedi anche Spera, op. cit. a nota 20, p. 303. Per la studiosa il sito
potrebbe coincidere con il futuro fondo Sex Columnas di un documento del 961 ed il possedimento Tres Columnas di uno del 1158, che anche
il Tomassetti ritenne coincidenti, parte della tenuta Statuario, nell’area dei Quintili: L. Spera, Il territorio della via Appia, forme trasformative del paesaggio nei secoli della tarda antichità, in Suburbium, op. cit.
a nota 6, p. 326.
26 Lugli, op. cit. a nota 6, p. 608. Gros, op.cit. a nota 6, pp. 161-193.
Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 6, pp. 131-252, ma vedi anche
tempo di Marco Aurelio (161-180); nel bollo è, infatti,
impresso: ex re faustinae aug figlin ponticl
opus dol aeli asclepi.28
Per quanto riguarda l’interno, la cella è di 9,48 metri
d’ampiezza e di 11,91 m di lunghezza. La volta è a botte ed è portata in avanti fino all’attico e nel pronao è
protetta da un soffitto di legno. L’entrata della cella
consiste in una porta sormontata da un bassorilievo
con lo stemma barberiniano, databile al xvii sec., che
oscura ciò che rimane della porta ancora nella sua
posizione originale, stando alla piattabanda tuttora
presente. Di sotto lo stemma vi sono ancora tracce
della cornice marmorea, con perline e fusarole ed un
motivo d’alloro in fasce che restituiscono la misura
dell’antica porta.29 All’attacco della volta, sul lato
nord, è rimasto ancora il “fregio d’armi” con armature e scudi oblunghi. La volta è coperta interamente
con medaglioni ottagonali, che formano fra di loro
dei campi quadrati; gli uni e gli altri sono uniti per
mezzo di una larga fascia con depressione centrale,
le cui modanature laterali si ornano alternativamente di una fila d’ovoli ed una banda di foglie “lesbiche”.
La ricomposizione dello schema è stata tramandata
tramite le incisioni dei Piranesi.I restauratori hanno
scelto di dissociare gli ottagoni ed i quadrati nella serie che sovrasta immediatamente i fregi; in questo
modo, la base degli ottagoni combacia con la parte
superiore del rilievo d’armi. Il presupposto è basato
sulla presenza delle tracce sul bordo dello stucco e
sulla testimonianza di G. B. Piranesi, che non è d’accordo, su questo punto, con l’opinione del figlio;
secondo il disegnatore Destailleur tutti gli ottagoni
erano dissociati tra loro e su questa testimonianza
riteniamo di poterci, infine, affidare (Fig. 1b, 4).30
Il resto di un piccolo cassettone ad angoli retti,
con stucchi ad ovuli ed una rosetta al centro, è antico
come lo è anche il medaglione ottagono con le due
figure in stucco. All’imposta, nella parete settentrioKammerer-Grothaus, op. cit. a nota 18, pp. 98-100. Piranesi, op. cit.
a nota 4. Quilici, op. cit. a nota 6, p. 139, nota 44, osserva che le colonne e l’architrave di Sant’Urbano, come pure le due lastre con le
iscrizioni di Marcello, non ultimo lo stadio in Atene, sono in marmo
pentelico, rafforzando così il legame fra Sant’Urbano, il Triopio ed
Erode Attico. Al riguardo vedi anche Caetani Lovatelli, op. cit. a
nota 7, p. 142: Erode possedeva alcune cave di questo marmo.
27 Gros, op. cit. a nota 6, p. 161.
28 Piranesi, op. cit. a nota 4. Vedi anche Noreen, Sant’Urbano alla
Caffarella: Rome, op. cit. a nota 1, p. 70.
29 Il portale originale è così inventariato nella scheda dei Beni storici ed artistici del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, ufficio
centrale per il catalogo e la Documentazione, Roma: 3,3 m. di altezza
e 2, 65 m di larghezza.
30 Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 18, pp. 203-207.
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
Fig. 6. Pianta della chiesa (Hvorslev-Pinsone).
107
108
stefania pinsone
nale, una cornice rettangolare meno lunga della cella stessa, contiene un fregio d’armi in alto rilievo;
tracce di stucco poste orizzontalmente e parallelamente al livello opposto, suggeriscono che quest’area ospitasse un fregio simile, che deve essere
sparito, indubbiamente, piuttosto presto, poiché “gli
antiquari” del xviii sec. non lo vedevano già più.
La muratura interna è frammentata da paraste
nella parte superiore, un bancale corre lungo i lati
della cella. Sotto il cornicione marcapiano scorrono
gli archi orizzontali (piattabande) e le imposte d’arco
(i “cunei” trapezoidali), che secondo la maggior parte degli studiosi, rispecchiano la divisione superiore.
Questa piattabanda era una volta stuccata ed affrescata con motivi di viti ed uccelli su uno sfondo bianco. Sono presenti undici cunei sul lato lungo, sette
sul lato corto occidentale e sei sul lato corto orientale (parete d’ingresso); i cunei sono, alternativamente, in travertino e malta. La presenza dei cunei, secondo la Noreen indicherebbe che mensole o pilastri
avevano dovuto occupare la zona inferiore, un’ipotesi supportata dallo scolorimento dei mattoni sotto i
cunei; per la Kammerer-Grothaus, gli elementi architettonici che si trovavano sotto ai cunei, dovevano
essere probabilmente colonne, perché più facili da rimuovere non avendo, difatti, lasciato tracce sulle pareti.31 Di là delle teorie contrapposte, è innegabile
che sotto alcuni cunei, in particolare quelli dispari in
travertino, sia ben distinguibile, nonostante i rattoppi in malta, la forma lasciata dallo strappo dei capitelli; dunque di colonne doveva trattarsi (Fig. 7).
Chi scrive ha rinvenuto un altro bollo laterizio,
sfuggito agli studiosi precedenti, all’interno della
cella dell’antico tempio. Il bollo, piuttosto differente
da quello trovato dal Piranesi sul tetto, è coperto di
malta per poco meno della sua metà, rendendo indecifrabili una o due lettere, ma nel complesso è ben
leggibile: si trova nel ii bipedale (tagliato per metà)
partendo da sinistra, della piattabanda del registro
inferiore, nella parete occidentale. Il bipedale, lungo
62 cm. e largo 27 cm., presenta impresse le orme di
un bambino e di un cane (Figg. 8-9), e nel margine
adiacente alla parete, quasi alla sua metà, mostra il
bollo circolare, orbicolato, ad unica riga concentrica,
su cui è impresso: ( + + )i∙ (?)mis∙e∙(?)p∙/. La S è rovesciata, il punto fra la E la P è in posizione eccentrica,
quasi a ridosso della sommità dell’asta della P, rimandando, forse, ad una forma d’abbreviazione, mentre
l’orbicolo presenta a sua volta, nel centro, ciò che
sembra essere una C con un punto al suo centro.
L’iscrizione impressa è indecifrabile, anche per la sua
lacunosità, tuttavia la mancanza della forma lunata,
la presenza dell’unica riga concentrica, l’esilità delle
lettere, la scrittura poco elegante rimandano ad una
produzione più tarda delle figline,32 che non si può
escludere essere pertinente ai restauri d’età massenziana del tempio. Si può ipotizzare, forse, che sia stato lo stesso Massenzio ad asportare le colonne del registro inferiore ed a reintegrarne la piattabanda.
Una notizia riportata esclusivamente dal Parker,
riferisce della presenza di tessere di mosaico trovate
dallo stesso studioso nel pavimento della cella: egli
ne dedusse che una decorazione in mosaico doveva
decorare l’intero pavimento.33
All’esterno, un muro, ancora visibile sopra terra,
è parallelo alla parete sud, ad una distanza di 1.8 m.:
in opera listata, consiste, infatti, di ricorsi doppi di
mattoni separati da una singola fila di tufelli; questo
sistema di costruzione era frequentemente usato
nelle fabbricazioni massenziano-costantiniane e negli edifici tardo-antichi riutilizzati dai cristiani. È,
probabilmente, tutto ciò che rimane delle evidenze
archeologiche menzionate da Francesco Piranesi e
finalizzate alla creazione dell’ambito, che separasse
il luogo sacro dagli ambienti circostanti destinati alla
custodia degli oggetti sacri.34 Un’incisione del 1853,
tratta dalla Raccolta Lanciani sui monumenti della
via Appia, ricostruisce il complesso di edifici e portici
che una volta circondavano Sant’Urbano. In aggiunta alle tre mura ed alle stanze adiacenti a nord, sud e
ovest del monumento, l’incisione descrive anche un
largo quadriportico con una serie di scalini ad est e
stanze chiuse ad ovest, tuttavia questa ricostruzione
non sembra essere corretta dal punto di vista di
un’oggettiva restituzione delle condizioni tardoantiche del luogo.35 Nel 1893, il Ministero dell’Istruzione
31 Kammerer-Grothaus, op. cit. a nota 6, pp. 155-161. Benché studiosi successivi, come Kirstin Noreen, siano stati propensi a ritenere
questi elementi equivalenti a paraste, io ritengo corretta l’ipotesi delle semicolonne: vedi al riguardo i disegni del Codex Destailleur (figg.
22-24) e Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit.
a nota 1, p. 27-28. Anche il cosiddetto libro di disegni di Giulio Romano (Biblioteca civica Passionei, Fossombrone, fol. 19r), include colonne nel livello inferiore.
32 Vedi al riguardo: Lugli, op. cit. a nota 6, pp. 554-559.
33 J. H. Parker, The Archaeology of Rome, Oxford, 1874-1877, vol
viii, p. 78: “the soil…was decorated with mosaics, but there is no other trace
of them”.
34 Vedi anche Spera, op. cit. a nota 20, pp. 203-204 e ASR, Camerlangato, Parte ii, titolo iv, busta 217, f. 1727.
35 Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, Roma, xi.
34. 113 e 34.119-2. In tal senso si sono pronunciati sia Vincenzo Fiocchi
Nicolai, sia Lucrezia Spera in occasione di un sopraluogo.
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
109
Fig. 7. Particolare della piattabanda nell’angolo nord-occidentale,
con i cunei in travertino ed i rattoppi in malta a forma di capitello (foto dell’autrice).
Pubblica registra che “un muro vi fu costruito nei bassi
tempi tutt’attorno al tempio, alla distanza di metri 1.80Ora questo muro è stato demolito, e ne restano soltanto
alcuni tratti dal lato di mezzogiorno”.36 Una finestra è
ancora visibile in questo muro meridionale e, correntemente, essa si affaccia sul contrafforte aggiunto
nel restauro barberiniano, mentre originariamente
doveva permettere l’ingresso della luce nello spazio
chiuso a sud-ovest.
In un altro documento dell’Ufficio Tecnico per la
Conservazione dei Monumenti del Regno d’Italia,
sempre dell’archivio Altemps, datato al 1908 ed oggi
conservato nell’Archivio (anche questo inedito), si fa
menzione al ritrovamento di alcune “strutture romane”. Nel documento è scritto testualmente: “Il signor Venanzio Dalboccio custode per casa Barberini della
Chiesa di Sant’Urbano alla Caffarella, nell’aprire un cavo
per costruire una grotta da vino, mise allo scoperto alcuni
avanzi di una costruzione romana che merita l’attenzione
della S. V. Illustra. Il dottor Valli di quest’ufficio recatosi
sul luogo e constatato che il Dalboccio avea nell’avviso del
custode dell’Appia Antica sospeso i lavori appena vennero
in luce gli antichi avanzi, gli ha intimato di non riprendere l’escavazione finché la S. V. non avrà dato il suo parere
al riguardo, consegnando il permesso del Ministero. L’Architetto Direttore F. Marchetti (?)”.37 Non è da esclude-
36 Archivio centrale dello Stato, Direzione Generale Antichità e
Belle Arti, Divisione Musei e Oggetti d’Arte, 1891-97, Busta 421, fasc.
4662, anche in Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century,
op. cit. a nota 17, p. 33, nota 31.
37 Archivio di Documentazione Archeologica, Istituto Centrale
per il Catalogo e la Documentazione, Archivio Storico di Palazzo
Altemps: Id: 758, Collocazione: 39/9, Toponimo: Sant’Urbano alla
Caffarella, Oggetto: Resti di strutture antiche. Data Iniziale: 1908. Data
Finale: 1908.
110
stefania pinsone
Fig. 8. Particolare del bipedale con impronte e bollo, nella parete occidentale (foto dell’autrice).
re che queste “strutture antiche” fossero pertinenti
proprio alle costruzioni massenziane, tuttora presenti e sepolte sotto il piano di calpestio.
Nella sua dissertazione probante la funzione templare dell’antica struttura, Gros notava, prima di tutto, l’assenza di una stanza sotterranea ove depositare
i sarcofagi. La maggior parte delle tombe “a camera”
dell’epoca contenevano, infatti, proprio a differenza
dei templi, da uno a tre hypogea, più la camera superiore riservata alle cerimonie funerarie. L’attuale
cripta, molto piccola, della chiesa non poteva dunque
essere una sala sepolcrale antica. Le dimensioni molto ridotte, l’ubicazione ed il rapporto con l’altare dimostravano chiaramente che essa doveva essere stata concepita fin dall’inizio come una “confessione”.38
Una scala adiacente al muro sud della cella fornisce l’accesso allo spazio rettangolare, voltato a botte,
della cripta della Caffarella, uno spazio angusto di
1,72 m. di larghezza per 2,50 m. di lunghezza e 2,60
m. d’altezza. Sebbene la camera in Sant’Urbano sia
stata chiamata sia confessio (come dal Gros), sia cripta
per il suo carattere di piccolo sacello sotterraneo, il
collegamento con l’altare e la decorazione pittorica,
il fatto di essere, in breve, il discendente più tardo
dell’hypogeum o del cubicolo delle catacombe cristiane, lo fa propriamente identificare come cripta (Fig.
10).39 Nella parete settentrionale è stata ricavata una
nicchia di 1.20 m. di larghezza, 1.14 d’altezza e 0.30 di
profondità, che contiene l’affresco con l’immagine
della Vergine e del Bambino tra Sant’Urbano e San
Giovanni Evangelista. L’immagine è sistemata in asse perpendicolare a quella dell’altare superiore, in
contrasto con simili altre rappresentazioni nelle cripte, come quella di Santa Prassede, la cui orientazione
è la medesima dell’altare. La nicchia è in posizione
asimmetrica e presenta, sulla sinistra, un riempi-
38 Gros, op. cit. a nota 6, p. 164. Per lo studioso anche il colonnato
doveva costituire un’aggiunta insolita perché escluso, generalmente,
dall’organizzazione romana delle tombe “a tempietto”, che non nascondevano le facciate con il portico; l’hypogeum, solitamente più lungo della cella, impediva la messa in posa di colonne, che si sarebbero
sovrapposte direttamente alla volta sotterranea
39 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a
nota 1, p. 61, nota 110. Vedi anche Kirsch, op. cit. a nota 19. A tal ri-
guardo vedi anche D. De Bernardi Ferrero, Cripte presbiteriali romane e cripte carolinge, in Roma e l’età Carolingia, Roma 1976, pp. 125129. Alcune cripte più tarde, all’interno della città, tentarono di riprodurre uno spazio catacombale; per esempio, nella crypta confessionis
in San Marco, all’inizio del ix sec., si usarono lastre di marmo trasportate dai cimiteri, per creare un nuovo sito funerario, vedi al riguardo:
Rilevamento delle decorazioni in stucco altomedievali di Roma, in Roma e
l’età Carolingia, Roma 1976, p. 310.
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
111
Fig. 9. Dettaglio del bollo laterizio (foto dell’autrice).
mento in malta che sembra indicare l’esistenza di
una primitiva apertura sulla parete settentrionale od
un suo ripensamento e che, comunque, indica che la
sua esecuzione dovette essere successiva a quella della cortina laterizia e non contestuale o pianificata.
Mattoni, malta, tufo e concreto formano le pareti
e la volta della cripta. L’ingresso alla cripta appare
formato da materiale eterogeneo per lo più di riuso,
tufelli e mattoni, che sembrano essere stati originati
da bipedali. I mattoni occupano anche la quota superiore delle pareti laterali, estendendosi per cinque filari. La lunghezza dei mattoni varia fra i 30-40 cm. ed
i 19 cm., la malta è molto grossolana e spessa (da 3 a
5 cm.) nonché ricca d’inclusi. Intorno alla nicchia affrescata nella parete nord, invece, il suo spessore si riduce sensibilmente (da 2,50 a 3 cm), la grana stessa si
affina ed il modulo laterizio risulta più regolare. Sot-
to i filari di mattoni, il tufo si estende fino al livello
del pavimento.
Sulla mensola antistante la nicchia è stata scavata
nella superficie del tufo, una cavità posta ortogonalmente all’immagine della Madonna e del Bambino.
Questa cavità è visibile nelle mensole di alcune
nicchie affrescate in Santa Maria Antiqua e nell’atrio
del Coemeterium di San Valentino. Nella prima, una
nicchia è al di sotto dell’icona della Vergine e del
Bambino – databile al pontificato di Giovanni VII
(705-707) – nella navata centrale, vicino alla schola
cantorum; l’altra, ben conservata è quella di Sant’Abbakyros a destra della parete orientale nell’atrio della
stessa chiesa, tradizionalmente assegnata al pontificato di Paolo I (757-767).40 Infine, un’altra nicchia è
visibile nella parete sinistra dell’atrio, nella catacomba di San Valentino.41 David Knipp, riportando il pa-
40 J. Osborne, The atrium of Santa Maria Antiqua, Rome: a History
in Art, in Papers of the British School at Rome, 55, 1987, pp. 186-228, in
particolare pp. 193-199. Le datazioni proposte da Osborne rispecchiano quelle già in J. Wilpert, Die römischen Mosaiken und Malereien der
Kirchlichen Bauten vom iv bis xiii Jarhundert., Friburgo 1916, vol. 2, pp.
990-99, vol. 4, p. 229. Su Santa Maria Antiqua vedi anche C. Hülsen,
Il Foro Romano - Storia e Monumenti, Roma 1905, pp. 142-153 e M. Petrassi, Mille anni di fede, Roma Cristiana da Costantino a Bonifacio VIII,
Roma 1992, p. 134.
41 D. Knipp, The chapel of the physicians at Santa Maria Antiqua,
Washington 2002, pp. 19-20, nota 100: lo studiso avanza una serie di
ipotesi circa la funzione della nicchia e si ricollega alle proposte già
del Rushfort, che ha proposto che la cavità poteva servire a tenere un
lume e del Weis, che ha ammesso la possibilità che potesse essere un
sepulcrum per piccole reliquie indirette; infine cita il Tea, che per
quanto riguarda la nicchia di Sant’Abbaciro aveva proposto che la cavità una volta potesse contenere strumenti chirurgici come reliquie
del santo medico.
112
stefania pinsone
Fig. 10. Spaccato laterale della Chiesa di Sant’Urbano alla Caffarella, proposta ricostruttiva.
Con integrazioni antiche e di età barocca (Stefania Pinsone).
rere sia del Rushforth, sia del Weis, mette in rapporto queste nicchie con quella della cripta della Caffarella, ritenute tutte contenitori per piccole reliquie
indirette. Nel caso della Caffarella questa tesi sembra
confermata anche dal fatto che non ci sono tracce
sull’affresco o nella mensola stessa, indicanti la
presenza lasciata da olea. In particolare è stato il Weis
a notare la similarità fra la nicchia della cripta della
Caffarella e le nicchie sopramenzionate, come quella
di San Valentino, che lo studioso datava al pontificato di Paolo I (757-767) o successivamente.42 La giustapposizione fra mensa, nicchia e probabile concavità per le reliquie ricorre, anche, con l’altare del ix
sec., nella cripta anulare in Santa Maria in Vescovio,
presso Rieti.43
Sulla parete orientale, una sorta di fenestella attraversa la volta a botte, diagonalmente, verso l’alto,
fornendo una comunicazione diretta con il pavimento della cella superiore: la galleria della fenestella punta direttamente verso l’oculo della controfacciata della cella, da cui, precedentemente alla
“chiusura” del pronao, doveva ricavarne illuminazione; la galleria della fenestella si apre direttamente
di fronte ai gradini dell’altare, ricoperta da una
griglia metallica. La costruzione della galleria diagonale, poco comune rispetto a quelle verticali,
troverebbe una spiegazione nella necessità di dover
oltrepassare l’“ipogeo” superiore: questo secondo
spazio voltato, localizzato fra la cripta inferiore ed il
pavimento della cella, aiuta ad illustrare l’apparenza
42 A. Weis, Ein vorjustinianischer Ikonentypus in Santa Maria Antiqua, in RömJb, 8, 1958, pp. 17-61, in particolare pp. 49-50, fig. 20. Raffaella Farioli, invece, ha datato l’affresco della Vergine con il Bambino,
nella catacomba di San Valentino al VII sec., anche se con non troppa
certezza: F. Farioli, Pitture di epoca tarda nelle catacombe romane, Ravenna 1963, p. 40.
43 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a
nota 1, p. 62, nota 113.
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
113
originale e spiegare la funzione iniziale dell’ambiente sotterraneo.
Chi scrive ha potuto effettuare un sopralluogo
all’interno dello spazio voltato superiore ed effettuare alcuni rilievi e fotografie. L’accesso è possibile solo tramite una piccola apertura ellittica (alta ca. 42
cm), sulla fronte dell’altare seicentesco, da cui, affacciandosi oggi, si scorge solo una discarica per legname e pietrisco, che ne ha pregiudicato lo studio come spazio sacro ed elemento importante per la
ricostruzione storica e archeologica del sito (i rilievi
del Bonserini, del 1961, per esempio hanno sorvolato
su tale spazio).
Questo spazio non fu l’esito di una creazione barberiniana, operazione, tra l’altro, che sarebbe stata
priva di senso. Nel 1636, poco tempo dopo la riscoperta della cripta, l’Holstenio ricordò l’evento in una
lettera a Nicolas-Claude Fabri de Peiresc. L’Holstenio propose che l’ambiente della volta a botte, sopra
la cripta, fosse originalmente il coenaculum superius e
suggestionato dalla lettura degli Acta di Urbano e
Marmenia, concluse che il “loculo” superiore era
stato una volta il sito delle tombe dei martiri del iii
sec., Urbano, Cecilia e Tiburzio: “Supra cryptam alius
est locus cavus, in quo SS. Urbani, Caeciliae, Tiburtii,
aliorumque corpora reposita jam olim fuere: Acta S. Urbani coenaculum superius (sic) appellant.”.44 Il locus cavus era preesistente alla riscoperta barberiniana e la
sacralità del sito fu talmente presa sul serio, che il
cardinale Barberini restaurò la volta reintegrandola
con una gettata di malta, senza toccare il pavimento
e le pareti, e lasciò aperto un foro rettangolare largo
ca. 55 cm all’apice, cui sovrappose un altare asimmetricamente cavo, dalla cui apertura frontale si poteva
mirarne l’interno. Non solo, la funzione presunta
del locus cavus fu rimarcata anche dall’affresco aggiunto all’interno dell’altare, con angeli che reggono
le corone del martirio e guardano in basso.
Pubblichiamo qui per la prima volta il risultato
delle ricerche svolte e delle scoperte effettuate. Gismondi45 e la Noreen46 hanno rappresentato lo spazio voltato dell’ipogeo superiore completamente assiale all’altare, ma non è così (Fig. 11). Il loculo
superiore ha il disegno ed i mattoni simili a quelli
della cripta inferiore, con la volta in concreto (calce-
struzzo) e le pareti dei lati corti in mattoni (Fig. 12);
le misure sono corrispondenti, benché l’ipogeo superiore risulti leggermente più corto di 10 cm e più
stretto d’altrettanti 10, misurando: 1,60 × 2,40 × 1,0
m ed, inoltre, non è completamente in asse con la
cripta inferiore, poiché è sfalsato di ca. 40 cm verso
ovest.
Dal lato lungo occidentale è rimasta traccia di un
saggio perlustrativo verso l’alto, sopra la superficie
tufacea, che, oltre uno strato di calcestruzzo (rudus)
e malta (nucleus), ha scoperto una porzione dei mattoni e tufelli che dovevano, forse, costituire la base
per l’antico pavimento della cella (Fig. 13).
Il pavimento del loculo, ricavato nel tufo e sito a
ca. un metro sotto il livello del pavimento attuale, è
coperto di bipedali romani (ca. 60 × 60 cm), ben visibili, ancora, nel tratto nord-occidentale e nordorientale (Figg. 14-15), i quali conservano uno strato
superiore di malta, denunciando, così, un’ulteriore
sovrapposizione materica. Che si tratti di bipedali di
tradizione romana non v’è dubbio: la qualità e la
fattura sono ottime, l’impasto è molto depurato, lo
spessore non supera i 2,5 cm. ed il colore è giallorossastro, come nella migliore tradizione dell’età antonina;47 anche la malta che li ricopre è molto fine,
priva d’inclusi e chiara. Il tratto meridionale è completamente ricoperto dai detriti esito del saggio perlustrativo e lì abbandonati, che, una volta rimossi,
potrebbero svelare gli altri eventuali bipedali rimasti.
Come spiegare la presenza dei bipedali ad un metro
dal livello del pavimento dell’antica cella?
Sempre al livello del pavimento, una cavità rettangolare di 108 × 60 cm, distante 63 cm dal lato occidentale, 34 da quello orientale e 33 da quello settentrionale, potrebbe implicare la precedente presenza di
una lapide od epigrafe rettangolare: la cavità profonda ca. 18 cm, più lo spessore dei bipedali (2,5 cm), è
in posizione asimmetrica rispetto all’affaccio dell’apertura ellittica dell’altare moderno, ma da questo, comunque, ben visibile. Ciò potrebbe indicare,
per via del tutto ipotetica, che l’apertura nell’altare
moderno funzionasse, di nuovo, quasi come fenestella confessionis per qualcosa che era inserito in questa
cavità nel pavimento, ovvero forse, per la visione dello spazio intero, in se stesso.48
44 Holstenii Lucae-Holstenio, Epistolae ad diversos, ed. J. F.
Boissonade, Parigi 1817, pp. 496-498.
45 A. Busuioceanu, Un ciclo di affreschi del secolo xi : Sant’Urbano
alla Caffarella, in Ephemeris Dacoromana, ii, 1924, p. 6.
46 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a
nota 1, pp. 63-64. Secondo la Noreen, che ha potuto solo compiere dei
rilievi indiretti senza potervisi introdurre, i due spazi voltati avrebbero avuto misure corrispondenti.
47 Vedi Lugli, op. cit. a nota 26, p. 608.
48 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a
nota 1, p. 65, nota 122: la Noreen ha annotato che tale la concavità nel
pavimento poteva datarsi anche al xvii sec., quando gli esploratori
114
stefania pinsone
Fig. 11. Sezione trasversale degli ipogei, la linea indica il livello ipotetico del pavimento antico (Hvorslev-Pinsone).
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
115
Fig. 12. Parete laterale della camera ipogea superiore, lato settentrionale (foto dell’autrice).
L’intervento barberiniano ha innalzato un basamento gradinato per l’altare moderno, alto 28,5 cm
ca., ma se si considera il livello generale del pavimento della cella, che pure è di restauro, l’apice della volta del loculo superiore si troverebbe direttamente a
pochi centimetri dal livello di calpestio del pavimento stesso (Fig. 11), rendendo veramente pericolosa,
proprio in quel punto, la percorribilità del tratto;
senza contare, che il livello del pavimento antico,
probabilmente, era più alto di quello attuale, visto
che le basi delle colonne del pronaos sono rialzate rispetto al pavimento moderno (i probabili mosaici
dell’antico pavimento erano stati completamente
asportati).
Paolo Aringhi, nel suo testo sulla Roma sotterranea,49 descrive il ritrovamento fortuito della cripta:
mentre un muratore stava pulendo delle macerie
dalla chiesa cadde in una cavità nascosta. Dopo aver
gridato aiuto ai suoi compagni, egli ricevette assistenza e ritornò in superficie: “…Accidit enim, ut dum
quis è caementariorum numero pavimentum Ecclesiae
ruderibus expurgaret, humus sub pedibus extemplo dehisceret, quapropter ruinam ille repentino è lapsu pertimescens, caeteros, qui aderant, ut sibi periclitanti opem fer-
della chiesa avrebbero “disturbato” l’area mentre cercavano evidenze
dei siti funerari d’Urbano e dei suoi seguaci. È dubbio se tale cavità
possa essere il frutto di un “disturbo” degli esploratori, che per saggiare il terreno non avrebbero di certo proceduto di pochi centimetri
formando, così, una cavità di dimensioni ben definite e ben livellata
alla sua base!
49 P. Aringhi, Roma Subterranea Novissima., (Fascimile reprint of
1659 edition), Portland 1972, ii, pp. 290-91, sez. 10. Pubblicato in
Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a nota 1,
p. 70, nota 136.
116
stefania pinsone
Fig. 13. Dettaglio dell’ispezione archeologica sulla volta della camera ipogea superiore, lato occidentale (foto dell’autrice).
rent, inclamavit: sed dicto citius ab accurrentibus sociis è
fovea, in quam labi coeperat, erutus, liber omnino evasit
…”; la testimonianza dell’Aringhi appare preziosa in
questo contesto, perché alla luce dei rilevamenti qui
documentati, sembra plausibile ritenere che il muratore sia caduto, proprio, all’interno del locus cavus.
La superficie tufacea del pavimento del loculo superiore dista solo 60 cm dall’apice della volta della
cripta, posta leggermente fuori asse, al di sotto.
L’esame della camera superiore rende persuasiva
l’ipotesi della loro contestuale edificazione: per l’assialità quasi diretta e le dimensioni e la tecnica costruttiva; anche l’ipogeo superiore, infatti, sopra una
“scaffalatura” costituita da filari di mattoni (qui due,
alti 10 cm.), eleva una volta a botte cementizia. Inoltre, la cortina laterizia dei lati corti è inequivocabilmente simile a quella della parete settentrionale della cripta inferiore – quella dell’affresco – parete che
appare più regolare nella sua cortina.
Osservando lo schema architettonico, effettivamente, la suggestione di ritenerli eseguiti in una prima fase, alla medesima maniera, id est, solo lo spazio
della volta più qualche filare di mattoni (1,10 m d’altezza per entrambi, mentre i filari restanti di mattoni
nei lati lunghi della cripta inferiore, sarebbero spolia
aggiuntive), appare fortissima. Come spiegare la storia e la funzione di queste due camere poste verticalmente l’una sopra l’altra? E come interpretare i bipedali romani nel pavimento del locus cavus? Frutto di
un reimpiego? A prima vista, pare di trovarsi di fronte ad un vero e proprio rebus.
La cortina laterizia delle pareti brevi dei due spazi,
non appare, concretamente, altomedievale ed è arduo supporre, altrettanto, che i bipedali siano il frutto di un reimpiego altomedievale o, peggio, seicentesco (oltretutto nell’archivio Camerale i, relativo
alla campagna di restauri barberiniana, che pure è
molto dettagliata, non è menzionato nessun inter-
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
117
Fig. 14. Ipogeo superiore, dettaglio dei bipedali sul pavimento, lato settentrionale (foto dell’autrice).
vento di questo genere),50 tant’è accurata la loro
messa in opera, che non appare per nulla l’effetto di
un’operazione di recupero materico. Allo stesso
tempo, non è meno arduo ipotizzare la singolare invenzione delle due camere ipogee sovrapposte, che
sarebbe stata attuata da Erode Attico in età antonina
o, al massimo, in seguito, massenziana, certamente
un unicum nel panorama architettonico funerario romano, perché di spazi simbolicamente funerari doveva trattarsi, vista la scala dimensionale adottata.
La tipologia funeraria comunemente adottata era
quella del sepolcro a “camera” e del “tempietto”,
edificio funerario a due o tre piani che prevede l’uso
di rivestimenti laterizi anche policromi e che trova a
Roma ampio favore per tutto il ii secolo d. C. e fino
agli inizi del seguente. Tali edifici documentati nella
necropoli dell’Isola Sacra, in quella scavata sotto la
Basilica Vaticana ed in altri nuclei cimiteriali isolati e
fuori della stretta continuità degli allineamenti sepolcrali o inseriti nel complesso di ville padronali,
presentavano un piano centrale, utilizzato per i riti
funebri, un piano inferiore, la camera funeraria, comunemente seminterrata o ipogea, che poteva ricevere luce sia da finestre a feritoia, sia da un cortile seminterrato a cielo aperto, in cui si discendeva per
mezzo di scalette. Edifici sepolcrali, religiosi e con
altra destinazione d’uso, così contraddistinti per tipologia e per caratteri figurali nell’ambito della cultura architettonica romana sono stati ampiamente
studiati. All’interno di questo panorama emerge,
50 I documenti del Camerale i, Registro dé Chirografi, del Registro dei mandati ed il Libro della Depositeria, nell’Archivio di Stato
di Roma, relativi alla Campagna di restauri barberiniana, sono stati
pubblicati in Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op.
cit. a nota 1, pp. 229-232.
118
stefania pinsone
Fig. 15. Dettaglio dei bipedali sul pavimento, lato occidentale (foto dell’autrice).
dunque, per singolarità la tipologia adottata in
Sant’Urbano, con le due piccole camere, identiche e
sovrapposte. Se frutto di un intervento d’Erode Attico stesso, potrebbero trovare una loro posizione all’interno di quella volontà di ricreare una funzione
cenotafica, per sé e per Regilla, che, forse, spiegherebbe il “binomio” adottato per i due ipogei. Non
potendo proporre, comunque, altro che ipotesi non
comprovabili in mancanza di scavi scientifici, si può
solo fornire qualche suggestione: i fedeli altomedievali dovettero rimanere altrettanto impressionati
dalla singolarità del sito funerario (che forse nei secoli precedenti era stato sfruttato come tale) e che
forse dovette suggerire loro il collegamento con il
papa martire, con l’altrettanto singolare sepolcro costruito dalla matrona Marmenia e con la vicina cata-
comba di Pretestato. Ricavarono, dunque, lo spazio
per una cripta, scavandolo nel tufo, che rimase angusto perché anguste erano le dimensioni di partenza
e fornendolo di un nuovo accesso; aprirono una nicchia nella parete settentrionale, di fronte ad un’approntata, rozza, mensa cementizia, e dipinsero l’immagine votiva. Ciò, in definitiva, potrebbe anche
spiegare perché l’immagine della cripta è perpendicolare, ma non assiale all’altare.
51 Spera., op. cit. a nota 23, pp. 317-18: Pasquale I (817-824) spostò le
reliquie di Tiburzio, Valeriano e Massimo e di papa Urbano da Prete-
stato nella chiesa trasteverina di Santa Cecilia, benché sussista qualche incertezza sul valore di questa notizia. La presenza nella chiesa di
Il fenomeno della traslazione delle reliquie, che divenne sistematico nel corso del ix sec. (traslazione
di Sisto II e Cecilia da San Callisto, di Tiburzio, Valeriano e Massimo e dello stesso Urbano, da Pretestato),51 comportò l’abbandono graduale dei tradizionali luoghi del pellegrinaggio; un nuovo assetto
sant ’ urbano alla caffarella: nuove indagini e scoperte
119
degli insediamenti cultuali si sviluppò, così, nel suburbio, con la nascita d’edifici legati al valore memoriale d’alcuni luoghi leggendari, basti citare i casi
rappresentativi della Chiesa di Santa Maria Domine
Quo Vadis? che sorge nel luogo dove la tradizione
colloca l’incontro tra Cristo e San Pietro (in seguito
al quale l’apostolo ritorna in città per affrontare il
martirio) e, appunto, la Chiesa di Sant’Urbano alla
Caffarella, in cui gli affreschi dell’xi sec. rappresentano il ciclo agiografico d’Urbano, di Tiburzio, Valeriano e Massimo e scene del martirio di Papa Sisto, avvenuto probabilmente nell’area dell’antico
Clivus Martis.
Robert Coates-Stephens, all’interno del suo saggio sull’architettura del Medioevo a Roma,52 parlando delle chiese riconvertite da antiche strutture nel
secondo medioevo, ha rilevato come, dopo la pausa
intercorsa fra la metà dell’viii sec. (Santa Petronilla
è del 750), fino al ix sec., con il “secondo medioevo”
ricominciò la tendenza al riuso delle antiche strutture da convertire in chiese, principalmente per ragioni economiche; tale pratica veniva incontro, in particolar modo, alle esigenze della nobiltà in ascesa.
L’aspetto più rilevante, soprattutto durante il x sec.,
è che nessuno di questi esempi corrisponde a fondazioni papali né, perfino, a sue iniziative eccetto San
Bartolomeo all’Isola e Santo Stefano degli Ungari,
che però erano nuove costruzioni. Tutte le altre
chiese sorsero per iniziativa privata. In un certo qual
modo sembrò di ritornare al periodo della tardoantichità. La tipologia di queste chiese, circa ventidue53
– di cui quelle riconvertite, circa cinque: Santa Maria
Egiziaca, San Basilio, Santa Barbara dei Librai, San
Lorenzo in Miranda e lo stesso Sant’Urbano alla Caffarella – era di essere, in generale, piccole, a singola
navata, con piccole finestre ma con interni piuttosto
ricchi, soprattutto per mezzo di cicli pittorici ed arredamenti liturgici marmorei. Esattamente come
Sant’Urbano alla Caffarella.
Per quanto riguarda, in particolare, l’area rurale,
Settia ha rilevato come fra l’viii ed il ix sec., nell’Italia centro-settentrionale, si sia assistito alla moltiplicazione degli edifici religiosi, ben oltre le reali necessità delle popolazioni locali. Secondo lo studioso,
questo fenomeno dimostrerebbe l’incidenza della
committenza privata, in oratori che dovevano fondamentalmente soddisfare la devozione individuale.
Queste chiese “curtensi”, tra l’altro, fungevano prevalentemente da “necropoli” per le famiglie dei fondatori.54 L’interno stesso della chiesa, nonostante le
ricorrenti proibizioni canoniche, era destinato a luogo di sepoltura, come prova il formulario databile al
sec. vi, conservato nel liber diurnus: la consacrazione
di un oratorio privato era permessa solo se “nullum
corpus ibi constat humatum”, ma a testimonianza
dell’elusione della proibizione, sta il ritrovamento di
tombe di quell’epoca, sotto il pavimento delle chiese.55 Il Monastero di Sant’Erasmo al Celio, proprietario dell’area del ii e iii miglio dell’Appia, nei secoli
ix-x sec., concedette molti fondi di sua proprietà a
privati cittadini, benché nessuna registrazione accordi specificatamente con il terreno di Sant’Urbano.56
Si sa, inoltre, per quanto riguarda la “dinamica dell’insediamento rurale” che, in generale, talvolta fu il
villaggio a chiamare la chiesa, altre volte fu la chiesa
che creò il villaggio. L’attitudine di una chiesa a richiamare attorno a sé gli abitanti “diventa sicuramente
molto più spiccata se custodisce un prestigioso corpo santo, il quale ha, dunque, un rilevante potere d’attrazione.
In luoghi come questi, non solo le dimenticate necropoli
Santa Cecilia di un’iscrizione ex-voto con dedica a Tiburzio, Valeriano e Massimo ed il ricordo del loro dies natalis, generalmente attribuita al vi sec. e con probabilità proveniente proprio da Pretestato,
può assumere un qualche significato a garanzia di un reale spostamento delle spoglie sante nell’edificio intramuraneo: tra l’altro qui
nel xvi secolo, Pompeo Ugonio ricordava non solo la presenza delle
reliquie di Urbano, ma anche di “più corpi…trasferiti qua dal Cemeterio
di Pretestato dal Papa Pascale I”. Reliquie del papa e dei suoi tradizionali
compagni sono annoverate tra i furta sacra effettuati nella prima metà
del ix sec., dalla “banda” del diacono Deusdona, mentre, a proposito
delle spoglie di Urbano si ha notizia del dono di Nicolò I nell’862 ai
messi dell’imperatore Carlo il Calvo, che portarono tali reliquie ad
Auxerre. Allo stesso Pasquale I si deve probabilmente anche la traslazione di Zenone a Santa Prassede, tra i multa corpora sanctorum dirutis
in cimiteriis iacentia, che il papa, stando ad un’iscrizione corrente
nell’abside, subter haec moenia ponit.
53 Per quanto riguarda il periodo dal 860 al 1015: Santa Maria in
Aventino, San Sebastiano al Palatino, San Tommaso in Formis, Santa
Maria Dominae Rosae, Santa Maria in Via Lata, San Pietro in Horrea,
Santa Maria in Monasterio, San Ciriaco in Via Lata, San Cosimato,
Santa Maria in cella Farfae, San Benedetto di Thermos, San Teodoro,
Porta Maggiore, Santi Benedetto e Scolastica, San Bartolomeo, San
Trifone, Santo Stefano degli Ungari. Vedi: Coates-Stephens R., op. cit.
a nota 51, p. 222; più in generale si rimanda a Hülsen, op. cit. a nota 6.
54 A. Settia, Pievi e Cappelle nella dinamica del popolamento rurale,
in Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto medioevo: espansione e resistenze, (Settimane di studio del Centro
Italiano di Studi sull’alto medioevo, 27), Spoleto 1982, pp. 445-93.
55 Ibidem, p. 455.
56 Noreen, Sant’Urbano alla Caffarella: Eleventh Century, op. cit. a
nota 1, p. 90, nota 202: i documenti 84 e 106 del registro di Subiaco dell’xi sec. descrivono transazioni catastali fra il monastero di Sant’Erasmo e privati cittadini.
52 R. Coates-Stephens, Dark Age Architecture in Rom, in Papers of
the British School at Rome, 1997, pp. 215-220.
120
stefania pinsone
forniscono corpi santi da scoprire, ma le rovine, ancora vistosamente emergenti dal piano di campagna, offrono un
copioso materiale da costruzione, per la gente richiamata
ad abitare accanto alla chiesa che custodisce le reliquie miracolosamente ritrovate e a dissodare le terre vicine da
lungo tempo in abbandono”.1 Non sembra questa una
suggestione piuttosto proponibile per la “sorte altomedievale” di Sant’Urbano? Quella gente che osservando la magnificenza del tempio ancora intatto, la
singolarità delle due camere ipogee sovrapposte,
volse il pensiero agli Acta di Urbano e Marmenia, alle
vicine catacombe ed ai numerosi martiri ivi custoditi
e che forse proprio in quell’antico tempio avevano
trovato il martirio o si erano nascosti a battezzare,
come si narrava del papa Urbano, o di Cecilia, Lorenzo, Sisto II, i suoi diaconi e suddiaconi le cui passiones
sono ancora oggi narrate sulle pareti della cella.
Abbreviazioni citate
maar = Memoirs of the American Academy in Rome.
mefra = Melanges de l’Ecole Francaise de Rome - Antiquite.
rm = Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts, Römische Abteilung.
1 Settia, op. cit. a nota 54, p. 462.
FRANCESCO PERRINI E I RAPPORTI
TRA ABRUZZO E MOLISE AI PRIMI DEL TRECENTO
Francesco Gandolfo
l nome di Francesco Perrini compare scritto, a
grandi caratteri gotici, come autore dell’opera,
sul fondo della lunetta del portale (Fig. 1) della chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano, dove si associa
alla data del 1317, apposta al di sotto del gruppo formato dal Cristo crocifisso, affiancato dai due dolenti
I
e incoronato da un angelo.1 Non abbiamo altre testimonianze documentarie relative alla sua attività e
dunque, per rintracciarne la presenza e ricostruirne
il percorso, occorre inevitabilmente partire da
quell’opera. La sola altra notizia che viene dall’iscrizione è che l’artista era originario della stessa Lan-
Fig. 1. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini, lunetta del portale, Crocifissione.
1 Esiste a proposito dello scultore una questione che investe la
lettura del suo cognome. Nella epigrafe disposta sul fondo della
lunetta del portale sia il nome sia il cognome sono riportati in maniera abbreviata. Lo scioglimento della abbreviazione del nome
[FRA(N)C(ISCUS)] è del tutto naturale, molto meno giustificata
quella del cognome [P(ER)RINI] in Petrini e non Perrini come impone il fatto che la P con l’asta tagliata può valere soltanto come abbreviazione di PER e non certo di PET, per la quale non esistono riscontri. V. Bindi, Monumenti storici e artistici degli Abruzzi, Napoli 1889, p.
713 non fece minimamente caso alla questione, dando per scontato
che lo scultore si chiamasse Petrini, verosimilmente sulla scia delle
tradizioni locali, mentre I. C. Gavini, Storia dell’architettura in Abruzzo, (ristampa dell’edizione Milano-Roma 1926-1927), Pescara 1980, II,
p. 445 qualche dubbio in proposito lo dovette avere, perché nell’indice
introdusse le due possibilità, utilizzando però nel testo la sola versione Petrini; anche in P. Toesca, Il Trecento, Torino 1951, p. 77 il dubbio
rimase ma venne fornita una improbabile alternativa di lettura tra
Prini o Petrini, dopo di che la versione Petrini fu definitivamente e inspiegabilmente ufficializzata e il problema della lettura di quel cognome non fu più posto.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 121-154
122
francesco gandolfo
ciano, mentre la sua ambigua collocazione, in rapporto al contesto, non chiarisce se l’opera alla quale
si fa riferimento sia l’intero portale o solo il gruppo
statuario della lunetta. In realtà ciò che venne realizzato in quella occasione nella chiesa andava ben
al di là, perché l’edificio fu mutato nell’orientamento e dotato di una nuova facciata, con un intervento
del quale fanno parte anche le due finestre ai lati del
portale e l’ampio rosone che si apre al di sopra di
esso.2
Nel panorama della scultura abruzzese del primo
Trecento il portale (Fig. 2) rappresenta una indubbia
novità, non tanto per la varietà dei motivi decorativi,
quanto per la loro sovrabbondanza, in virtù di un ricercato sistema di ampliamento del numero delle
ghiere e dei passaggi da un piano all’altro. Da questo
punto di vista propone una monumentalità nuova di
cui il suo autore doveva certamente andare fiero, il
che potrebbe giustificare la speciale collocazione e il
grande risalto dati alla sua firma. Con la creazione di
questo portale si portava a compimento un processo
significativo, quello di realizzare un ingresso di tipo
monumentale, in linea, in termini assolutamente generali, con il gusto e con le tendenze del momento,
utilizzando però i mezzi e il repertorio decorativo
che facevano parte della tradizione locale precedente. Per valutare a pieno il valore di questa novità, un
utile confronto può essere fatto con il portale di facciata (Fig. 3) della cattedrale di Atri che dovette essere realizzato negli stessi anni.3
Il portale atriano utilizza ancora l’arco a tutto sesto, mentre quello di Lanciano sfrutta al massimo
l’arco a sesto acuto, al fine di dare all’insieme una
maggiore altezza e lo fa mettendo in campo anche
un altro passaggio determinante. Una nuova e insolita enfasi monumentale viene attribuita alla successione degli stipiti, in modo tale da ottenere una
strombatura marcatamente profonda, a fronte invece di una sostanziale compressione dei motivi decorativi dell’altro portale. Tanto è vero che, pur in presenza di un numero di ghiere pressoché eguale e di
motivi decorativi spesso identici, perché tipici del repertorio utilizzato dai lapicidi attivi nella regione,
l’effetto che ricaviamo dalla visione comparata delle
due opere è diametralmente opposto e distante. In
un caso si ha l’impressione di una formicolante compressione, nell’altro di una ariosa espansione.
Questo processo si accompagna a tutta una serie
di espedienti come l’introduzione dei nodi nel corpo
delle colonnine, per permettere di diversificare il tipo dell’ornato, nel passaggio da un troncone all’altro, o come la inserzione di bande decorative in corrispondenza degli spigoli degli stipiti, così da creare
il senso di una vasta e movimentata varietà di decorazioni che, tuttavia, non intendono mai prevaricare,
con la loro presenza, nei confronti della forma architettonica che rimane limpidamente presente, al contrario di quelle che sono invece le intenzioni rifuse
nel portale della cattedrale di Atri, dove l’ornato finisce per fagocitare qualunque altra componente architettonica. Da questo punto di vista si può dire che
mentre il portale atriano resta volutamente ancorato
a quella che era stata la tradizione locale in voga negli anni precedenti, bene testimoniata dai portali disposti sul fianco meridionale dello stesso edificio e
realizzati tra il 1287 e il 1305, quello di S. Maria Maggiore a Lanciano, pur continuando sul piano formale
a parlare abruzzese, pretende di conquistare, più che
le forme, il sapore di un portale ‘moderno’, ossia intriso degli stessi spiriti di quelli delle grandi cattedrali
del momento.
In realtà l’intenzione non era nuova e occorre
mettere alle spalle del portale di S. Maria Maggiore
a Lanciano almeno un precedente: il portale (Fig. 4)
della cattedrale di S. Tommaso a Ortona.4 Vincenzo
Bindi ha riportato il testo di una perduta iscrizione
che ne attribuisce la realizzazione all’ortonese Nicola Mancino nel 1312, una indicazione che stride violentemente al confronto con il portale che lo stesso
artista firma nel 1321 in S. Maria della Civitella a Chieti, del tutto diverso per intenzioni e qualità.5 Comunque, prescindendo da questa questione che, forse, può generare soltanto dai comportamenti della
bottega, a fronte delle disponibilità finanziarie messe
sul tavolo dai committenti, e dunque essere il frutto
di uno scarso interesse da parte dello scultore che ne
era a capo per un lavoro minore, dall’esecuzione tutta affidata a modesti collaboratori, resta il fatto che
il portale ortonese per primo si impegna in un’opera
di modernizzazione delle forme.
2 Bindi, op. cit. a nota 1, pp. 712-713; Gavini, op. cit. a nota 1, pp. 337341; Toesca, op. cit. a nota 1, pp. 76-77; M. Moretti, Architettura
medioevale in Abruzzo (dal vi al xvi secolo), Roma 1971, pp. 376-389.
3 F. Aceto, La cattedrale di Atri, in Dalla valle del Piomba alla valle
del basso Pescara. Documenti dell’Abruzzo teramano, V, 1, a cura di L.
Franchi dell’Orto, Teramo 2001, pp. 187-206.
4 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 317-320; Toesca, op. cit. a nota 1,
p. 77; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 538-539.
5 Bindi, op. cit. a nota 1, pp. 686-687. Per il portale di S. Maria della
Civitella a Chieti cfr. Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 320-321; Toesca,
op. cit. a nota 1, p. 77; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 540-541.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
Fig. 2. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini, portale di facciata.
123
124
francesco gandolfo
Fig. 3. Atri, Cattedrale, Rainaldo (attribuito a), portale di facciata.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
Fig. 4. Ortona, Cattedrale, Nicola Mancino, portale.
125
126
francesco gandolfo
Distrutto da un bombardamento nel corso dell’ultima guerra mondiale, il portale ha visto riuniti i pochi frammenti superstiti in una raggelata ricostruzione che solo in parte riesce a esprimere l’antico
sapore di novità. Eppure il portale si muoveva già
con grande coerenza nella direzione di attribuire enfasi monumentale alle forme decorative locali, ad
esempio introducendo l’arco a sesto acuto, la spezzatura in tre tronconi delle colonnine della strombatura, con la relativa diversificazione nell’ornato, infine la cesura decorativa imposta sugli spigoli degli
stipiti, ossia tutti quegli elementi che, cinque anni
dopo, ricompaiono nel portale di S. Maria Maggiore
a Lanciano che li sfrutta a fondo, aggiungendo di suo
soltanto l’insinuarsi violento e corposo dello stipite
nel passaggio da una colonnina all’altra. In più il
portale di Ortona suggeriva il ritorno alla lunetta
con decoro figurato, dopo il lungo periodo in cui
l’Abruzzo era stato dominato dalla sobrietà cistercense imposta dai portali di S. Maria della Vittoria.6
Su questa stessa linea di recupero dei temi caratteristici del grande portale monumentale, si poneva anche la novità rappresentata dall’utilizzo di elementi
figurati nelle ghiere dell’archivolto, come la corona
di angeli, posti in successione, di cui rimane oggi solo qualche isolato esemplare, reso con forme che
spesso rivelano una disinvolta capacità descrittiva.
Nel quadro dell’Abruzzo meridionale il vero momento di svolta è dunque rappresentato dal portale
della cattedrale di Ortona, in cui è del tutto evidente
l’intenzione di recuperare una serie di passaggi formali tipici delle cattedrali transalpine, calandoli all’interno delle forme suggerite in precedenza dal
portale (Fig. 5) di S. Pietro a Vasto, ammesso che, per
la sua datazione, si possa utilizzare l’ambigua indicazione del 1293, fornita dalla iscrizione posta nella lunetta del portale della cattedrale di S. Giuseppe, nella
stessa città, e la comunanza di ornati che esso ha con
il rosone di quest’ultimo edificio.7 Al di là di questo
però, il portale di S. Pietro pone bene in risalto il
debito contratto, in sede locale, nei confronti del
portale laterale (Fig. 6) di S. Maria Maggiore a
Lanciano, realizzato prima del 1240, nel pieno del
classicismo federiciano.8 Da lì infatti derivano l’arco
a tutto sesto dell’archivolto, i capitelli a crochet e le
paraste scanalate laterali che salgono in direzione del
timpano conclusivo, a dimostrazione del fatto che la
riflessione sulle forme del portale monumentale che
si conclude con quello di facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano è decisamente circoscritta, fino a questo momento, all’Abruzzo costiero e meridionale.
Sul piano stilistico niente ci autorizza a riconoscere la presenza del Perrini nel cantiere della cattedrale
di Ortona e dunque il rapporto tra questa impresa e
quella della facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano
deve essere mantenuto nei termini della elaborazione di un modello di suggestiva novità. Per cercare di
definire meglio compiti e personalità dello scultore
occorre confrontare la sua opera maggiore con un altro intervento che egli dovette condurre negli stessi
anni a Lanciano, quello sulla facciata della chiesa di S.
Agostino.9 In questo caso la committenza decise a favore di una più tradizionale sobrietà di forme, maggiormente adatta a una chiesa mendicante. Dunque
venne scelto un tipo di portale (Fig. 7) di modesta
strombatura, con un solo passaggio tra gli stipiti interni e quelli esterni e, di conseguenza, con una sola
coppia di colonnine a separarli, tra l’altro divise in
due tronconi da un solo nodo intermedio, come del
resto quelle esterne, connesse alla risalita in direzione del timpano, data anche la limitata altezza dell’insieme. Quello a cui non si rinunciò fu di collocare
una statua all’interno della lunetta ed è proprio questo gruppo della Madonna con il Bambino ad aiutarci
nel definire la personalità e il ruolo del Perrini.
Non vi possono essere dubbi sul fatto che vi sia
una totale parentela stilistica tra questa statua (Fig.
8) e quelle che si accampano nella lunetta (Fig. 1) del
6 Per il ruolo di modello svolto in Abruzzo, per tutto l’ultimo
quarto del Duecento, dai portali della fondazione angioina di S. Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana cfr. Gavini, op. cit. a nota 1, ii,
pp. 133-140.
7 L’epigrafe, oltre alla data, riporta anche il nome di un magister
Rogerius de Fragenis: il problema nasce dal fatto che la lastra su cui è
scritta è collocata, all’interno della lunetta, in una posizione che nulla
assicura che sia quella originaria, di conseguenza non è categorico
che la sua testimonianza fornisca indicazioni puntuali in merito al
portale della cattedrale e, di riflesso, a quello della chiesa di S. Pietro,
come riteneva invece Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 174-181, ripreso in
questo anche da Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 500-505.
8 Per la dimensione federiciana della chiesa di S. Maria Maggiore
a Lanciano cfr. M. Righetti Tosti Croce, La chiesa di S. Maria Maggiore a Lanciano: un problema dell’architettura italiana del Duecento, in I
Cistercensi e il Lazio. Atti delle giornate di studio dell’Istituto di Storia
dell’Arte dell’Università di Roma. 17-21 Maggio 1977, Roma 1978, pp. 187211. Per le ragioni che debbono portare a una datazione del portale
immediatamente precedente all’avvio dei lavori a Castel del Monte,
con il cui portale questo di Lanciano viene costantemente paragonato, cfr. F. Gandolfo, Scultura medievale in Abruzzo. L’età normannosveva, Pescara 2004, pp. 210-213.
9 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 342-343; Moretti, op. cit. a nota 2,
pp. 546-547; E. La Morgia, La chiesa e il convento di S. Agostino a Lanciano, Pescara 1998.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
Fig. 5. Vasto, S. Pietro, Ruggero De Fragenis (attribuito a), portale.
127
128
francesco gandolfo
Fig. 6. Lanciano, S. Maria Maggiore, portale laterale.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
Fig. 7. Lanciano, S. Agostino, Francesco Perrini (attribuito a), portale.
129
130
francesco gandolfo
Fig. 8. Lanciano, S. Agostino, Francesco Perrini (attribuito a),
lunetta del portale, Madonna con il Bambino.
portale di S. Maria Maggiore. Basta confrontare la
stesura dei panneggi per pieghe grandi e pacate o la
definizione dei volti per passaggi larghi e inespressivi, per cogliere all’opera lo stesso scultore. Ma ciò
che conta non è tanto questo, quanto la comunanza
negli ornati che corre tra i due portali (Figg. 2 e 7),
nel senso concreto di un unico repertorio di tipi e di
soluzioni che coinvolge colonnine, stipiti, capitelli e
ghiere in un solo sentire, così da poter pensare che a
eseguire entrambi i portali sia intervenuta una stessa
bottega, capeggiata dal Perrini e dotata al suo interno di varie specificità operative. In questo modo si risponde anche alla domanda che ci si era posti all’inizio: se al Perrini si dovessero solo le sculture della
lunetta del portale di S. Maria Maggiore oppure l’in-
tera facciata. Il suo ruolo dovette essere piuttosto
quello di un capobottega che aveva al suo seguito varie e articolate competenze, una sorta di impresa al
cui interno si dovevano diversificare i ruoli, visto che
ciò che contava era il risultato finale, piuttosto che il
singolo dettaglio.
Questo aspetto è messo in evidenza dai rosoni che
si accampano al di sopra dei due portali lancianesi e
che debbono essere stati eseguiti entrambi dalla bottega del Perrini. Si può arrivare con facilità a questa
conclusione attraverso dei rimandi interni ai due edifici. Nel caso di S. Maria Maggiore la cornice che cinge l’oculo (Fig. 9), fatta di grandi foglie di acanto spinoso, trova una ragione di immediato confronto con
quella che borda il timpano immediatamente sottostante (Fig. 2), rivelando con questo una diretta continuità operativa. Nel caso di S. Agostino il legame si
crea invece tra la cornice fogliata che sormonta
l’oculo (Fig. 10) e quella subito a ridosso della lunetta del portale (Fig. 7), segno evidente della continuità operativa ma anche del giuoco combinatorio che,
volta a volta, presiedette alla scelta dei motivi e alla
loro distribuzione all’interno delle opere.
I rosoni realizzati dalla bottega del Perrini in questi due edifici sono simili ma non identici, soprattutto propongono una novità che godrà in zona di una
certa fortuna e che è stata certamente ricavata da
modelli pugliesi, come quello fornito dall’oculo in
facciata della cattedrale di Bitonto.10 Mi riferisco alla
cornice che circonda la porzione superiore dell’oculo e che va a poggiare su due colonnine, tangenti alla
circonferenza, rette da elementi figurati poggianti su
mensole. A S. Maria Maggiore (Fig. 9) si tratta di telamoni, stilisticamente imparentati con le sculture
della lunetta del portale e assai espressivi, memori di
quelli (Fig. 11), altrettanto vitali, che reggono l’architrave del portale della cattedrale di Ortona. In S.
Agostino (Fig. 10) si utilizzano invece dei più tradizionali leoni stilofori, ma si sperimenta anche qualcosa di diverso, perché, nella porzione superiore, la
cornice viene sollevata in un andamento a cuspide
che permette di inserire subito sotto, nello spazio fino alla ruota vera e propria, un’aquila ad ali patenti.
Proprio il rosone di S. Agostino è lo strumento
migliore per associare all’attività della bottega del
Perrini anche la facciata della cattedrale di Larino e
aprire così un ulteriore scenario, caratterizzato dalla
diretta presenza dello scultore, malgrado che questo
10 Il carattere pugliese di questi rosoni è stato colto da Toesca, op. cit. a nota 1, pp. 76-77.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
Fig. 9. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini, rosone.
Fig. 10. Lanciano, S. Agostino, Francesco Perrini (attribuito a), rosone.
131
132
francesco gandolfo
Fig. 11. Ortona, Cattedrale, Nicola Mancino, portale,
telamone a sostegno dell’architrave.
sia stato messo in dubbio da chi si è occupato più
diffusamente dell’edificio molisano.11 Diversi sono
gli aspetti di immediato e diretto rapporto. La cornice che corre intorno all’oculo di Lanciano ritorna,
con le stesse fattezze e in una identica posizione, a
Larino (Fig. 12), dove, ancora una volta, si accompagna, nell’ornato soprastante, a una sequenza di foglie di acanto che ritornano intatte nella cuspide del
sottostante portale (Fig. 13). In questo poi, a separare
il percorso delle colonnine più esterne, sovrapposte
l’una all’altra e terminanti nella cuspide, intervengono figure leonine di fattura analoga rispetto a quelle
poste alla base delle colonnine che reggono la cornice esterna del rosone (Fig. 10) di S. Agostino a Lanciano.
Una particolarità soprattutto le accomuna: malgrado che le belve siano rappresentate sedute sul tre11 M. S. Calò Mariani, Due cattedrali del Molise. Termoli e Larino,
Roma 1979, pp. 72-79 ritiene che a Larino abbia operato «un maestro
affine per formazione ma non identico a Francesco Petrini», privilegiando in alternativa una prospettiva di provenienza pugliese. Di
maestranze abruzzesi, in stretto rapporto con quelle operanti alla
no posteriore, esse reggono con le groppe le colonnine soprastanti, ma questo provoca la singolarità di
una ricaduta in falso delle due basi che non si appoggiano su di esse, ma semplicemente si incastrano tra
loro e il muro, una situazione che la dice lunga sui
metodi di lavoro della bottega, strettamente legati a
una ripetizione artigianale e meccanica dei tipi e per
questo fortemente condizionati nelle possibilità di
scelta a seconda delle circostanze. Un limite questo,
del rapporto tra tipo e funzione e della difficoltà a
uscire dai confini del tipo in relazione alla funzione,
che è messo bene in risalto dal fatto che, nello stesso
portale di Larino, i grifoni che si dispongono al di sopra dei capitelli e che fanno da stilofori per le colonnine che reggono la cuspide sono posizionati correttamente, con le groppe in relazione a quella loro
funzione, segno che essa era già insita nel modello di
partenza, come non avveniva invece per i leoni sottostanti, dei quali non ci si avventurava a mutare la
posa, nella trascrizione dall’ipotetico modello, per
tema di incappare in un errore.
Queste considerazioni appaiono più che sufficienti per attribuire al Perrini e al suo certamente nutrito
gruppo di collaboratori la facciata della cattedrale di
Larino. Da un punto di vista architettonico l’impresa
ha tutte le caratteristiche di una elaborazione del
progetto di S. Maria Maggiore a Lanciano, nel senso
che le due finestre che in quel caso erano state poste
ai lati del portale, qui vennero sollevate ai lati del rosone, a occupare le due zone a vento della facciata a
coronamento rettilineo, tagliata al mezzo da una
cornice di foglie di acanto a doppia banda, la superiore legata ai modi dell’ornato esterno del rosone,
la inferiore a quelli della cornice interna dell’archivolto, a sintetizzare visivamente l’unicità progettuale e operativa dell’intero sistema architettonico.
Sull’architrave del portale (Fig. 14) della cattedrale di
Larino è scritta la data del 1319. È da pensare che
questa indicazione coinvolga in maniera diretta il
portale, al cui interno l’architrave è collocato, e che
la conclusione di tutta la facciata sia avvenuta solo
successivamente. L’indicazione cronologica interviene a due anni soltanto da quella relativa ai lavori
a S. Maria Maggiore di Lanciano e, tra l’altro, è fornita anch’essa in una situazione di contesto pressoché identica, in quanto collocata in rapporto con la
facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano, aveva parlato Gavini, op.
cit. a nota 1, ii, pp. 343-345, mentre non disdegnavano l’ipotesi di una
diretta attribuzione al Perrini Toesca, op. cit. a nota 1, p. 77 e L. Mortari, Molise. Appunti per una storia dell’arte, Roma 1984, p. 20.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
133
Fig. 12. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), rosone.
lunetta del portale, dunque con le stesse conseguenze in relazione ai tempi di esecuzione dell’intera facciata. Questo mette bene in risalto la solida capacità
operativa della bottega capeggiata dal Perrini, il cui
pregio maggiore doveva consistere proprio nel saper
tradurre nella pietra, con millimetrica precisione ripetitiva e con grande celerità, il ricco repertorio decorativo di cui era in possesso, così da essere in grado
di garantire una qualità e una eleganza insolite, anche in una realtà come quella abruzzese, da sempre
abituata alla straordinaria abilità, nella resa degli ornati, da parte dei suoi lapicidi.
Il portale (Fig. 13) della cattedrale di Larino, dal
punto di vista tipologico, è sostanzialmente una ripetizione di quello (Fig. 2) di S. Maria Maggiore a
Lanciano e la scelta del Perrini, come organizzatore
dell’opera, da parte del vescovo Raone de Comestabulo, dovette avvenire sulla scorta delle indicazioni
ricavate da quel monumento. Nello stesso tempo il
Perrini, nel riprendere nella lunetta (Fig. 14) il tema
della Crocifissione, cercò di migliorarne il rapporto
con l’architettura, alzando l’angelo che incorona il
Cristo e ribaltandone la posizione, mettendolo non
più, poco credibilmente, in piedi, dietro la testa, ma
scendente in volo, al di sopra di essa. Nello stesso
tempo fece reclinare di lato il capo del Cristo, conquistando una posa decisamente più patetica che tuttavia non nasconde gli stretti rapporti con l’altro
analogo gruppo statuario (Fig. 1). Sul piano stilistico
però le due figure dei dolenti sono ancora più saldamente legate ai modi della Madonna con il Bambino
(Fig. 8) della lunetta del portale di S. Agostino a Lanciano, con una identità, nella sintesi e nella laconicità
dei passaggi plastici, che conferma non solo la comunanza ma la sostanziale contemporaneità dei tre interventi.
Ciò che di veramente diverso compare a Larino è
tutto concentrato nel rosone (Fig. 12) dove, ancora
134
francesco gandolfo
Fig. 13. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), portale.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
135
Fig. 14. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a), lunetta del portale, Crocifissione.
una volta, il Perrini sviluppa in termini nuovi il rapporto tra l’oculo e la cornice, retta da colonnine, che
lo abbraccia nella porzione superiore. La novità in
questo caso è fornita dal suo generale andamento a
cuspide poligonale, riprendendo il tipo di soluzione
tradizionalmente utilizzata nei portali, in modo tale
che il distacco totale, rispetto all’oculo vero e proprio, permetta l’inserzione, nello spazio murario intermedio, di un Agnus Dei, accompagnato dai simboli dei quattro evangelisti. Che sia sempre il Perrini
a intervenire a questo livello della facciata lo dimostrano gli stretti legami che gli animali dei simboli
hanno con quelli stilofori del sottostante portale e
soprattutto il nesso che l’angelo di Matteo (Fig. 15)
mostra con le sculture della lunetta (Fig. 14), per via
del volto largo e inespressivo e dei panneggi ricadenti per pieghe ondulanti e cadenzate, come quelle del
pallio della Vergine.
Le due finestre ai lati del rosone (Fig. 16) riprendono, nel gusto decorativo, quelle (Fig. 17) ai lati del
portale di S. Maria Maggiore a Lanciano, ma si caratterizzano per una nuova e più convinta enfasi monumentale, dettata dalla presenza di animali stilofori a
reggere le colonnine, dal ricco decoro, che ne spartiscono in due la luce e soprattutto dall’idea di introdurre a incorniciarle una struttura a timpano,
analoga a quella (Fig. 12) che abbraccia il rosone e
Fig. 15. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a),
rosone, simbolo dell’evangelista Matteo.
136
francesco gandolfo
Fig. 16. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a),
bifora sulla sinistra del rosone.
Fig. 17. Lanciano, S. Maria Maggiore, Francesco Perrini
(attribuito a), monofora sulla sinistra del portale.
realizzata con le stesse forme decorative. La variante
più consistente è rappresentata dalla presenza di protomi umane, una maschile e una femminile, secondo una formula iconografica largamente sfruttata
nel corso del Duecento, a reggere le colonnine sulle
quali appoggia il sistema poligonale. È un motivo del
tutto assente, in questa funzione, negli altri cantieri
guidati dal Perrini, visto che a Lanciano, sia in S. Maria Maggiore sia in S. Agostino, la testina umana
viene utilizzata per chiudere il percorso, all’apice superiore, delle bande decorative che smussano lo spigolo degli stipiti, come del resto avviene anche a Larino, ma non in funzione di mensola, carica ad
evidenza di ricordi federiciani.12 La ragione formale
però impedisce di pensare che il loro autore sia qualcuno diverso rispetto al Perrini, perché i volti delle
protomi, in particolare quelli delle due disposte sulla
destra, per via del modulo facciale dilatato, dei grandi occhi spalancati e fissi, con le pupille destinate ad
essere riempite con il piombo, rimandano, in modo
diretto e immediato, alle sculture nella lunetta del
portale, indicando di essere tutte opere di uno stesso
scultore e ribadendo dunque, se mai ve ne fosse bisogno, la unitarietà progettuale ed esecutiva dell’intera facciata.
Sulla base di dati stilistici confrontabili in maniera
affidabile, l’attività accertabile della bottega guidata
da Francesco Perrini si conclude con la realizzazione
della facciata della cattedrale di Larino, dunque essa
si incentra prevalentemente nel secondo decennio
del Trecento. È questo un dato sul quale riflettere nel
momento in cui si voglia dare un giudizio sulla scul-
12 Il rinvio più immediato è ovviamente alle teste mensola del
donjon nel castello di Lagopesole su cui cfr. M. Righetti TostiCroce, La scultura del Castello di Lagopesole, in Federico II e l’arte del
Duecento italiano. Atti della III settimana di studi di storia dell’arte medie-
vale dell’Università di Roma. 15-20 maggio 1978), a cura di A. M. Romanini, Galatina 1980, pp. 237-252, in particolare pp. 247-250: anche in
questo caso si tratta di una coppia, formata da una testa maschile e
da una femminile.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
137
Fig. 18. Fossacesia, S. Giovanni in Venere, particolare della lunetta del portale di facciata, Deesis.
tura figurata di cui l’artista si fa portatore. Non ha
nessun senso porsi nell’ottica di un confronto con
ciò che contemporaneamente accade in altri ambiti
culturali. Anzitutto perché le sue sculture rispondono a canoni compositivi, di silenziosa fissità cerimoniale e di ruvida solennità, che sono tradizionali per
i non molti portali figurati della tradizione plastica
abruzzese, a partire dal primo e più antico, quello
dell’abbazia di S. Clemente a Casauria.13 Se si guarda
al portale più vicino e significativo, in questo senso,
per l’ambiente di formazione del Perrini, quello
(Fig. 18) dell’abbazia di S. Giovanni in Venere, non si
può non consentire sul fatto che lo scultore ne abbia
tratto più di una indicazione nel dimensionare e col-
locare in reciproco rapporto i protagonisti del suo
dramma sacro, così come del resto era già accaduto
per l’autore del portale della cattedrale di Ortona
(Fig. 4), ammesso che sia stato il Mancino.14 Questo
malgrado che certi passaggi iconografici come la
croce a Y e l’uso di tre soli chiodi, nelle lunette di
Lanciano e di Larino, o il tipo della Madonna con il
Bambino in S. Agostino a Lanciano lascino intendere
che il Perrini aveva conoscenza anche di altri fatti,
certamente più moderni, ma che non aveva modi,
ma soprattutto ragioni per scindere il legame con le
logiche della tradizione locale, come fattore di identità, che è il tratto preponderante di tutta la scultura
medievale abruzzese e che si manifesta nella qualità,
13 F. Gandolfo, S. Clemente a Casauria. I portali e gli arredi interni,
in Dalla valle del Fino alla valle del medio e alto Pescara, Documenti dell’Abruzzo teramano, vi , 1, a cura di L. Franchi dell’Orto, Teramo
2003, pp. 272-297, in particolare pp. 272-283; Gandolfo, op. cit. a nota
8, pp. 116-123.
14 Sul portale dell’abbazia di S. Giovanni in Venere cfr. F. Aceto,
“Magistri” e cantieri nel “Regnum Siciliae”: l’Abruzzo e la cerchia federiciana, in BdA, serie vi, lxxv, 1990, n. 59, pp. 15-96, in particolare pp.
49-58 e Gandolfo, op. cit. a nota 8, pp. 181-184.
138
francesco gandolfo
nella ricchezza e nella fantasia profuse nella resa
dell’apparato ornamentale, fino a farlo diventare di
gran lunga l’aspetto di maggiore originalità e di più
marcata autonomia.
Del resto l’approvazione dei modi decorativi elaborati dalla bottega del Perrini è bene testimoniata
dalla loro fortuna locale che davvero, malgrado il valore desueto del termine, configura quel radicamento nel territorio che Gavini definiva come ‘scuola di
Lanciano’.15 È anzitutto nella città stessa in cui il
Perrini si forma che si colgono i segni di una ripresa
del suo modo di fare. È questo il caso della chiesa di
S. Lucia dove, emblematicamente, al portale si contrappone il soprastante rosone, a segnalare l’acquisizione delle novità intervenute nell’arco di tempo che
passa dalla esecuzione dell’uno rispetto a quella
dell’altro.16 Il portale (Fig. 19) è infatti del tipo, fatto
di poche e semplici modanature, prive di ornato, se
si esclude la ghiera interna della lunetta, sobrio ed essenziale, prevalso in città sulla scia del modello fornito dalla eleganza raffinata del portale laterale (Fig.
6) di S. Maria Maggiore, secondo una formula che si
ripete anche nei portali di S. Francesco, di S. Biagio,
di S. Spirito e del Seminario Arcivescovile, che è poi
quello dell’antica cattedrale della città.17 Sulla scia di
ciò che era avvenuto poco prima tra Vasto e Ortona,
la furia decorativa del Perrini rompe e rende obsoleta quella soluzione e così quando a S. Lucia, dopo
una evidente interruzione dei lavori, si arriva all’altezza del rosone (Fig. 20), non si può evitare di rifarsi
a quello di S. Maria Maggiore.
I tratti formali indicano in maniera evidente che
gli scultori che sono all’opera non sono più quelli
della bottega del Perrini, perché le varie componenti
decorative, pur tenendosi fedeli al modello in termini generali, si muovono con disinvolta libertà esecutiva. Sono soprattutto la cornice esterna, quella che
circonda l’oculo, e la raggiera che rivelano l’utilizzo
di schemi esecutivi diversi, dunque di un formulario
di bottega che è stato costruito ex novo, sulla falsariga di quello a disposizione dei lapicidi agli ordini del
Perrini, ma che non si identifica con esso e dunque
rivela la presenza di un gruppo di lavoro diverso ed
estraneo. Questo aspetto è messo in risalto anche dai
pochi elementi figurati rappresentati dai leoni stilofori e dai telamoni che reggono le mensole sulle quali essi poggiano perché, pur fondendo motivi presenti nelle soluzioni introdotte a Lanciano dal Perrini,
tra S. Agostino e S. Maria Maggiore, le rendono stilisticamente in maniera diversa e indifferente nei
confronti di un qualsiasi ricordo della metallica ruvidità del modello, visto che, al contrario di quello, appaiono inclini a una certa morbidezza di tratti.
Una situazione analoga si proponeva nella chiesa
di S. Francesco a Monteodorisio dove, al di sopra di
un portale dalle forme assai semplici, si disponeva
un rosone chiaramente modellato su quello della
cattedrale di Larino, per via della grande incorniciatura cuspidata che avvolgeva la ruota, retta da colonnine poggianti su leoni stilofori.18 La insensata
demolizione del monumento nel 1964, per fare posto all’attuale palazzo comunale, rende ormai impossibile rendersi conto, in concreto, della situazione stilistica e formale dell’opera, né è utile in questo
senso una vecchia fotografia della facciata, troppo
indeterminata nel dettaglio.19 Né si ricavano indicazioni positive dagli sparsi frammenti dell’insieme
che sono oggi conservati tra le sale del Museo Civico e un magazzino comunale, anche perché sembrano provenire in prevalenza dal portale, almeno
rapportandoli a ciò che si intuisce dalla fotografia.
In ogni caso almeno a una conclusione si può arrivare e cioè che anche qui non operava la bottega del
Perrini. Ci aiuta in questo senso la considerazione
che nessuno dei frammenti superstiti può essere
associato alla sua maniera, visto che è totalmente
estraneo a quell’ambiente il carattere morbido e
flessuoso con cui sono realizzati i capitelli, a foglia
allungata e a crochet, che formano la parte più cospicua dei resti (Fig. 21). Dunque, in considerazione
anche del fatto che l’insediamento venne fondato
nel 1334, occorre arrivare alla conclusione che quel
tipo di rosone fu indicato come modello da seguire
a scultori di tutt’altra estrazione, con ogni probabilità provenienti dalla vicina Vasto, nella cui tradizione
più agevolmente si colloca la fattura di quei capitel-
15 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 337-346.
16 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 341-342; Moretti, op. cit. a nota
2, pp. 444-445.
17 Su questi portali cfr. Gavini, op. cit. a nota 1, II, pp. 155-156 e
Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 440-449.
18 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, pp. 345-346 e p. 397; L. Bartolini
Salimbeni, Architettura francescana in Abruzzo dal xiii al xviii secolo,
Roma 1993, pp. 89-90; P. Cerella, Monteodorisio. Convento di S. Fran-
cesco d’Assisi, in Fabbriche francescane in antologia. Gli insediamenti dei
Frati Minori Conventuali e delle Clarisse tra il xiii e il xv secolo, a cura di
M. Massone, Vasto 2000, pp. 91-94.
19 C. Robotti, Monteodorisio. Ambiente, immagini, documenti, Cavallino di Lecce 1990, pp. 49-51 pubblica una buona fotografia del
monumento prima della distruzione e fornisce anche ragguagli
documentari sulle vicende della sua non ottimale conservazione.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
Fig. 19. Lanciano, S. Lucia, portale.
139
140
francesco gandolfo
Fig. 20. Lanciano, S. Lucia, rosone.
li, largamente utilizzati, sul finire del Duecento, in
S. Giuseppe e in S. Pietro (Fig. 5).
Del resto è proprio partendo da Vasto che è possibile avviare una ricognizione che metta in risalto il
fatto che la diffusione della maniera divulgata dal
Fig. 21. Monteodorisio, Museo Civico,
capitello proveniente dal portale di S. Francesco.
Perrini non coinvolse, in quell’area, soltanto gli
aspetti decorativi, ma fu altrettanto incisiva in termini figurativi. Al culmine della facciata barocca (Fig.
22) della chiesa di S. Maria Maggiore, ai lati di un leone reggicroce, forse anch’esso di recupero ma decisamente più tardo, sono stati collocati due leoni stilofori, accosciati sul treno posteriore, secondo la
soluzione resa popolare dallo scultore. Anche i tipi
riflettono la sua maniera, per via dei musi tondeggianti, della finta ferocia, espressa dalle lingue protruse all’infuori e fatte aderire alla mandibola, delle
criniere rese per grandi ciocche piatte e dall’andamento a punta di lancia. Le due belve tengono delle
prede tra gli artigli. Quella sulla sinistra ha il busto di
un uomo e ancora una volta il tratto formale appare
essere quello, statico e inespressivo, suggerito dal
Perrini, per via dei grandi occhi, dilatati e fortemente segnati al mezzo dalla pupilla, e delle gote, rese
per piani larghi e continui. Eppure, malgrado così
tanta comunanza, è altrettanto evidente che lo scultore che ha realizzato le due belve non è il Perrini né
tantomeno un qualche diretto appartenente alla sua
bottega, perché il suo modo di fare, nell’insieme, è
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
141
Fig. 22. Vasto, S. Maria Maggiore, facciata, leoni erratici.
ancora più greve e violento di quello che poteva essere suggerito dai modelli utilizzati. Basta vedere
l’enfasi esagerata con cui sono resi gli artigli o i musi,
segnati da linee e scarti di livello che fanno pensare
ad esotiche stilizzazioni del tipo, estranee alla maniera del Perrini, così come indifferente al suo modo di
fare appare l’insistere sul motivo del labbro superiore fesso al mezzo e degli occhi ingigantiti e resi spiritati. Dunque la conclusione non può essere altro che
quella di riferire le due sculture a un convinto imitatore di quel modo di fare.
Allo stesso risultato occorre arrivare anche a proposito delle sculture che si dispongono sulla facciata
della chiesa di S. Leucio ad Atessa.20 Si tratta di una
struttura cinquecentesca che ingloba al suo interno,
in condizione di reimpiego, sparsi resti di quello che
era stato l’ornato della struttura medievale della
quale, in sostanza, non rimane più traccia, salvo il
breve tratto di parato lapideo che si dispone al di sotto del rosone (Fig. 23) e che è stato conservato all’interno del rifacimento, in virtù del fatto che la porzione sottostante della facciata non è altro che una
fodera applicata sulla muratura più antica, come evidenzia la sua vistosa sporgenza. Come già notava il
Gavini, ciò che resta di antico nei portali non ha nulla
a che vedere con la maniera del Perrini e deve appartenere a una fase di intervento immediatamente precedente. È nel rosone che è invece facile riconoscere
un adeguamento alle novità che sono state divulgate
dalla bottega dello scultore nel corso del secondo decennio del Trecento, visto che si riprende in toto,
nella forma e nella tipologia dell’apparato decorativo, la soluzione (Fig. 9) introdotta entro il 1317 nella
facciata di S. Maria Maggiore a Lanciano. Le varianti
20 Gavini, op. cit. a nota 1, ii, p. 345; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 394-395.
142
francesco gandolfo
Fig. 23. Atessa, S. Leucio, rosone.
Fig. 24. Atessa, S. Leucio, mensola sulla sinistra del rosone.
sono fornite dalla diversa qualità di esecuzione degli
elementi decorativi, decisamente più rigidi e spinosi,
e dalla sostituzione dei telamoni con due protomi
leonine dall’aria fintamente feroce, molto più banali
e sgangherate rispetto a quelle a cui ci ha abituato il
Perrini.
Tuttavia che ci si muova, anche sul piano figurativo, nella scia del suo modo di fare lo puntualizza, in
modo inequivocabile, la testa umana (Fig. 24) che è
stata posta a fare da ornamento alla fronte della
mensola che regge il leone sulla sinistra e nella quale
tornano tutti i tratti tipici della maniera, slargata e attonita, con cui in quel contesto viene reso il volto.
Anche in questo caso che l’autore non possa essere
identificato nel Perrini in prima persona, ma in un
suo distaccato imitatore, è nei fatti, nel senso che alla
fin fine mancano il garbo e la delicatezza che lo scultore sapeva comunque imprimere alle sue opere,
mentre qui si scivola sempre più in una resa tutta di
maniera. Ciò malgrado quel volto è utile perché permette di associare allo stessa fase di intervento e agli
stessi realizzatori anche le altre sculture che si dispongono sulla facciata, anzitutto i quattro simboli
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
143
Fig. 25. Atessa, S. Leucio, facciata, simboli degli evangelisti Matteo e Giovanni.
degli evangelisti entro nicchie che oggi si collocano
al di sopra del portale, ai lati della statua del santo titolare della chiesa, ma che un tempo, come prova
una vecchia fotografia, si trovavano ai lati del rosone
e non è detto che questa non fosse anche la loro collocazione originaria, se si riflette sul rapporto che
esiste, nella perriniana facciata della cattedrale di Larino (Fig. 12), tra quelle figure e quella struttura.21
L’ipotesi viene confermata dalla sopravvivenza, subito tangente alla porzione superiore del rosone, di
un Agnus Dei, chiuso all’interno di una cornice che
potrebbe benissimo avere fatto parte di quel sistema,
mentre non sembra avere avuto nulla a che fare con
esso il piccolo Crocifisso, dai toni brutalmente sbrigativi, che lo sormonta.
In ogni caso, se confrontato con quello dell’angelo simbolo di Matteo (Fig. 25), il volto umano che
compare sulla mensola (Fig. 24) del rosone conferma la presenza, a operare nei due casi, dello stesso
scultore. Il quale forza, fino all’inverosimile, le possibilità di immota e metallica resa delle forme che ricava da quello che possiamo cogliere come il suo
inevitabile punto di riferimento: le opere del Perrini.
La scelta, oggi inspiegabile, di dover collocare i
simboli degli evangelisti entro nicchie lo costringe a
soluzioni ai limiti dell’ingenuità, come quella di
disporre il leone di Marco e il bue di Luca (Fig. 26)
seduti in una maniera del tutto innaturale come se,
trovandosi all’impiedi, fossero stati ruotati, finendo,
senza molto senso, con le zampe tese in avanti, mal-
21 La fotografia è pubblicata da Gavini, op. cit. a nota 1, ii, p. 345,
fig. 645. Debbo correggere l’ipotesi che ho formulato, circa la datazione e l’ambiente di riferimento di queste sculture, in Gandolfo, op.
cit. a nota 8, p. 167, legandole ai tardi esiti del cantiere di S. Clemente
a Casauria, dunque a quella che può essere considerata soltanto la
preistoria del modo di fare del Perrini.
144
francesco gandolfo
Fig. 26. Atessa, S. Leucio, facciata, simboli degli evangelisti Marco e Luca.
grado la posa. Più logico appare il rapporto degli
altri due simboli con la nicchia, perché sia l’angelo
di Matteo sia l’aquila di Giovanni risultavano più facilmente adattabili a quella forma da parte di uno
scultore che, evidentemente, non aveva la capacità
di uscire dagli schemi in base ai quali si era abituato
ad operare.
L’angelo simbolo di Matteo (Fig. 25), per la compattezza e la sintetica essenzialità delle forme, è lo
strumento migliore per verificare la vicinanza dello
scultore che lo ha realizzato con la maniera del Perrini. Nel senso che è partendo dal suo esempio che
egli ha disteso la trama dei panneggi che imbozzolano il corpo, come se fosse chiuso all’interno di una
conchiglia. La differenza pesante è data dal fatto che
nel rendere questo effetto, per semplificare il procedimento, egli ha agito per falde sovrapposte, accavallando una piega sopra l’altra, con un andamento a
salire coscienziosamente disteso lungo tutto il percorso, mentre il Perrini procede per piani continui,
ondulando morbidamente i passaggi, là dove sia ne-
cessario in conseguenza delle pose e degli atteggiamenti. In questo modo la condizione imitativa, ma
semplificatoria, dello scultore di Atessa rimane fissata in maniera indiscutibile. A lui appartiene certamente anche il S. Leucio (Fig. 27) collocato entro la
nicchia disposta tra i simboli degli evangelisti, realizzato ancora una volta sulla base del solito copione. Il
suo modello è il S. Pardo (Fig. 28) posto al di sopra
della cuspide che circonda il rosone (Fig. 12) della
cattedrale di Larino, dunque proviene ancora una
volta dall’ambiente del Perrini. Come sempre questo è confermato anzitutto dal carattere della statua,
tutta chiusa in un blocco compatto e in una immobile fissità, resi più freddi dalla forzata frontalità dello
sguardo, suggerita dai grandi occhi spalancati e dalle
pupille segnate con il piombo. Ancora una volta
però, nel ricavare suggerimenti dalla maniera del
Perrini, lo scultore di Atessa semplifica i passaggi,
trasformando in secche incisioni quelle che sono le
ondulazioni che danno sostanza lineare al ricadere
della pianeta e delle altre vesti che compongono l’ab-
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
145
Fig. 27. Atessa, S. Leucio, facciata,
ritratto del santo titolare.
Fig. 28. Larino, Cattedrale, Francesco Perrini (attribuito a),
ritratto di S. Pardo.
bigliamento vescovile, dimostrando di essere soltanto un imitatore di quel modo di fare.
Forse fu proprio la laconica sinteticità di espressione inventata dal Perrini, a proposito della scultura figurativa, più ancora dell’ornato profuso a piene mani nei portali, ad avere fortuna nell’area di confine tra
l’Abruzzo e il Molise, nella quale egli svolse la sua attività e nella quale dovette indubbiamente lasciare
un segno. Una volontà imitativa della sua maniera,
sotto il profilo decorativo, segna in modo chiaro il
portale (Fig. 29) della chiesa di S. Emidio ad Agnone.
Malgrado che il portale venga di frequente ritenuto
quattrocentesco, per via della notizia di un ampliamento della chiesa primitiva promosso, nel 1443, da
alcuni mercanti ascolani, occorre arrivare alla conclusione che esso è trecentesco e prossimo al tempo
di attività del Perrini, dalla cui maniera deriva molte
delle sue componenti.22 Le ragioni per arrivare a tale
conclusione sono sostanzialmente due. Nella facciata si colgono chiari i segni di due tempi costruttivi,
con il più recente che muove dalla zona immediatamente soprastante al portale. All’interno poi, le forme e i confini di quello che è stato l’ampliamento
quattrocentesco, operato su un precedente edificio a
navata unica, si colgono bene, grazie alla presenza
del grande arcone che sfonda la parete destra, introducendo la presenza di una seconda navata inizialmente non prevista. I capitelli che stanno alla base
della ghiera che ne cinghia il percorso non hanno
nessuna parentela possibile con quelli utilizzati nel
portale, dai quali si distinguono per un fare più morbido e dinamico nella resa della foglia di acanto, dun-
22 La notizia dell’intervento quattrocentesco nella chiesa è riportata da G. B. Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, iii, Cava
dei Tirreni 1952, p. 45 ed è stata interpretata come una sostanziale
ricostruzione da A. Trombetta, Arte medioevale nel Molise, s.l. 1971, p.
118; Mortari, op. cit. a nota 11, p. 20; A. Trombetta, Arte nel Molise
attraverso il Medioevo, Campobasso 1984, pp. 431-432.
146
francesco gandolfo
Fig. 29. Agnone, S. Emidio, portale.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
147
que appartengono a un momento nettamente diverso rispetto a quelli e non disdicono al confronto con
quella che era la ragione formale della scultura architettonica nella zona alla metà del Quattrocento.
In conclusione il portale di S. Emidio può essere
tranquillamente sganciato dalla sua tradizionale datazione quattrocentesca e portato sulla scia del Perrini, nei confronti del quale ha debiti, ma anche una
certa libertà di azione. Strettamente legati ai modi
posti in auge dallo scultore lancianese sono gli apparati decorativi e il sistema di incorniciatura, retto dai
due leoni stilofori, poggianti su mensole sovrapposte alle colonne addossate lateralmente a chiudere la
strombatura. Proprio le due belve sono il punto di
maggiore contatto con il Perrini, perché riprendono
la posizione accosciata e le forme di quelle poste ai
lati della strombatura del portale della cattedrale di
Larino. Vi è tuttavia un particolare che non può essere trascurato: al contrario di quelli di Larino, che
hanno una valenza puramente araldica, i due leoni
tengono stretta tra gli artigli una testa umana che,
nel caso di quello sulla sinistra (Fig. 30), è vicinissima, per tipo e ragione formale, a quella afferrata dal
leone posto al di sopra della facciata (Fig. 22) di S.
Maria Maggiore a Vasto. Non vi è spazio per pensare
di trovarsi in presenza dello stesso scultore, perché la
resa della belva è nei due casi troppo distante, ma la
situazione fa almeno pensare che entrambe derivino
da un comune e perduto prototipo, da assegnare al
Perrini, a testimonianza della sua larga penetrazione
in quella zona.
Malgrado il peso di questo rapporto, chi ha realizzato il portale (Fig. 29) ha mantenuto una sostanziale autonomia progettuale, almeno su due punti. Anzitutto, giudicandola inadatta a un portale di non
troppo marcata impronta monumentale, come, nel
caso specifico, quello destinato a un piccolo edificio
a navata unica, ha rifiutato la formula delle colonnine della strombatura spezzate dai nodi intermedi,
che è essenziale nel segnare il gusto compositivo del
Perrini, il quale la usa anche in un portale di modeste
dimensioni come quello (Fig. 7) di S. Agostino a Lanciano, sia pure con la riduzione a un solo nodo. Poi
ha fatto proprio il tipo del portale, privo di architrave
e di lunetta, con la specchiatura dominata da un
grande arco a sesto acuto, che in quella zona del Molise si propone come una formula dominante, di sobria ed essenziale eleganza, segnalando con questo il
suo radicarsi nel territorio e la libertà con la quale ha
utilizzato i modelli ricavati dal Perrini.
Sempre ad Agnone un altro ricordo dello scultore
lancianese va colto nel rosone (Fig. 31) della chiesa di
S. Francesco.23 In questo caso però deve trattarsi di
una citazione tarda. Il tipo è quello imposto dalla facciata (Fig. 9) di S. Maria Maggiore a Lanciano, ma
realizzato in termini formali che, da un punto di vista qualitativo, hanno ormai in sé ben pochi ricordi
delle modalità decorative che erano state messe in
atto in quella occasione. Il motivo della cornice a
dentelli che abbraccia la porzione superiore della
ruota è del tutto estraneo nei confronti della tradizione decorativa imposta dal Perrini che pretendeva,
in quel caso, la presenza di grandi foglie a punta di
diamante. Lo stesso vale per la cornice fogliata che
corre intorno all’oculo e che, nella semplicità della
stesura a ventaglio, non ha più nulla della complessa
articolazione dell’acanto perriniano. Infine i due leo-
23 Trombetta (1971), op. cit. a nota 22, pp. 116-117; Mortari, op. cit.
a nota 11, p. 20; Trombetta (1984), op. cit. a nota 22, p. 427; A. Ardui-
no, Convento di S. Francesco d’Assisi, in Massone, op. cit. a nota 18, pp.
120-122.
Fig. 30. Agnone, S. Emidio, portale,
particolare del leone stiloforo sulla sinistra.
148
francesco gandolfo
Fig. 31. Agnone, S. Francesco, rosone.
ni stilofori rievocano la soluzione architettonica, ma
non certo i tipi imposti dal Perrini.
Ora tutte queste considerazioni vanno confrontate, da un lato, con la notizia della fondazione della
costruzione nel 1343 riportata dalle fonti, una data
che tutto sommato calza bene con il portale, dall’altro, con la somiglianza di ornato e di gusto che
corre tra il rosone di S. Francesco e quello di S. Emidio (Fig. 32), collocato nella porzione della facciata
che, come si è visto in precedenza, deve appartenere all’ampliamento successivo al 1443. La comunanza è data essenzialmente dalla presenza, anche in
quel caso, di una cornice a dentelli, a circondare la
porzione superiore dell’oculo, una scelta singolare
che rende inevitabile la dipendenza dell’una dall’al-
tra. Ovviamente nulla esclude che sia S. Emidio a
ricalcare S. Francesco, tuttavia la logica dei fatti e le
scelte formali impongono di pensare che la realizzazione del rosone di quest’ultimo si allontani di
parecchio rispetto alla fondazione del 1343. Il che sta
comunque a significare una radicata continuità di
utilizzo nel tempo dei tipi imposti in quell’area dal
Perrini.
Di questo fenomeno sono insieme testimonianza
e conferma le due statue in pietra (Fig. 33), oggi collocate nella lunetta del portale di ingresso alla canonica della chiesa di S. Maria Maggiore o ad Nives a
Casacalenda, con la quale non hanno nessun documentabile rapporto diretto, se non quello derivante
dalla occasionale disposizione che le ha coinvolte.24
24 Trombetta (1971), op. cit. a nota 22, p. 131 interpretava le due
sculture come rappresentanti una Visitazione, datandole tra xiii e
xiv secolo; ipotesi entrambe modificate successivamente, in Trombetta (1984), op. cit. a nota 22, pp. 452-453, a favore di un più ragio-
nevole riconoscimento come una coppia di dolenti provenienti da
una Crocifissione, da porre in rapporto con le sculture nella lunetta
del portale della cattedrale di Larino e da datare agli inizi del xiv
secolo.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
149
Fig. 32. Agnone, S. Emidio, rosone.
Che si tratti di due dolenti, il S. Giovanni a sinistra e
la Vergine a destra, provenienti da un gruppo della
Crocifissione, simile, come composizione d’insieme,
a quello collocato nelle lunette dei portali di S. Maria
Maggiore a Lanciano (Fig. 1) e della cattedrale di Larino (Fig. 14), è nei fatti, anche se non abbiamo nessuna notizia utile per individuare il portale per il quale furono creati. Che poi ricavino il loro modo di
essere dalla tradizione di silenzioso e composto dolore inaugurata dal Perrini è altrettanto evidente. In
questo senso, al di là dell’immobile distacco dei volti
tondeggianti e della struttura colonnare dei corpi,
infagottati nei panneggi, esistono anche dei dettagli
significativi nell’indicare il rapporto, come il lembo
del pallio che, raccolto davanti al corpo, viene girato
intorno all’avambraccio, per essere trattenuto e farlo
poi ricadere in avanti, piatto e aguzzo come una punta di lancia, riprendendo la soluzione utilizzata dal
Perrini nella Madonna (Fig. 8) del portale di S. Agostino a Lanciano.
È proprio partendo dal confronto di questo motivo che è possibile mettere in evidenza anche le molte
differenze che vi sono nelle due statue, rispetto alla
maniera del Perrini. La prima e più vistosa consiste
in una marcata diversità nel trattamento dei panneggi che non hanno mai la cadenzata ondulazione del
tipo da cui partono, ma si organizzano per linee seccamente incise, inclini a ricordare il modo di fare dello scultore dei simboli degli evangelisti di Atessa
(Fig. 25), piuttosto che quello del Perrini. Il risultato
è una dura compattezza di forme che sembra quasi
voler spingere nuovamente le due figure nel blocco
di pietra dal quale sono state cavate. Un altro aspetto
di diversità è fornito dai gesti di espressione del dolore. Nei casi che conosciamo, il Perrini ha fatto ricorso a formule tradizionali in questo senso, come le
mani giunte protese in avanti, il capo reclinato di lato, la mano appoggiata alla guancia o la mano che
stringe il polso dell’altro braccio, tutte soluzioni che
avevano alle spalle una lunga storia di uso, non solo
150
francesco gandolfo
Fig. 33. Casacalenda, S. Maria Maggiore o ad Nives, casa canonica, lunetta del portale.
Fig. 34. L’Aquila, S. Biagio, Monumento Camponeschi,
ritratto di Ludovico Camponeschi a cavallo.
in scultura. In questo caso invece sembra quasi che
lo scultore non volesse rompere la tondeggiante uniformità delle due statue, perché in entrambe ha disposto le mani, congiunte in posizione di preghiera,
all’altezza del ventre, con il margine delle palme appoggiato al corpo, mentre le dita sono, nel S. Giovanni, protese all’infuori e nella Vergine intrecciate,
con una espressione del dolore che tende, almeno
nelle intenzioni, a farsi tutta interiore.
Spingendo in questa stessa direzione, cambiano
anche i volti che sono ancora confrontabili con quelli, tondi e immobili, messi in voga dal Perrini, ma
che, rispetto ad essi, si sforzano di esprimere una vitalità interiore che si coglie bene nel tipo delicato
della Vergine, incorniciato dai lunghi capelli ricadenti con garbo sulle spalle, il quale, nella ragione
compositiva d’insieme, riflette soluzioni che debbono ormai risalire almeno al pieno Quattrocento.
Analoghe considerazioni valgono anche per il S.
Giovanni, nel cui volto, non segnato, come del resto
quello della Vergine, dal piombo fuso nel foro delle
pupille e dunque destinato a una finitura tutta pittorica, traspare la delicatezza di un paggio, piuttosto
che lo sgomento di un dolente, con un passaggio
che, ancora una volta, fa pensare alla trasposizione,
nei modi della ormai vecchia messa in scena perriniana della Crocifissione, di tipi degni dell’avanzato
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
151
Fig. 35. Trivento, Cattedrale, cripta, lunetta di portale erratica.
Quattrocento, come può suggerire un confronto
con il volto (Fig. 34) di Ludovico Camponeschi, rappresentato a cavallo nella tomba conservata in S. Biagio a L’Aquila.25
Il caso delle due statue di Casacalenda, in bilico tra
i ricordi del passato e un presente che ci si rifiuta di
fare proprio fino in fondo, non è isolato. Nella cripta
della cattedrale di Trivento si conserva la lunetta di
un portale (Fig. 35) che deve provenire dall’edificio
medievale. Già sul piano iconografico la struttura è
insolita, perché presenta al centro una imponente figura di Dio Padre che regge con le mani il Cristo crocifisso, rappresentato vivo, mentre l’aquila dello Spirito Santo gli si dispone, ad ali patenti, davanti al
petto. Questa immagine trinitaria è affiancata da due
angeli oranti, di proporzioni decisamente più piccole. Il tutto è poi chiuso lateralmente tra due giganteschi delfini, disposti a muso all’ingiù, con le code che
terminano ai lati della testa del Dio Padre in due fiori
assai stilizzati, un giglio a sinistra e una rosa a destra.
Per quanto sia stata proposta per questa scultura, sia
pure con qualche dubbio, una datazione al xiii secolo, occorre pensare che si tratti di un’opera di epoca
decisamente più tarda.26 Peraltro quel tipo di rappresentazione della Trinità è già usato nel xii secolo,
dunque non possono essere iconografiche le ragioni
che debbono portare a pensare alla sua esecuzione in
un momento assai più tardo.27
25 Bindi, op. cit. a nota 1, p. 814-815; Gavini, op. cit. a nota 1, iii, pp.
10-11; Moretti, op. cit. a nota 2, pp. 620-623; V. Pace, Il sepolcro Caldora
nella Badia Morronese presso Sulmona: una testimonianza delle presenze
tedesche in Italia nel primo Quattrocento, in Skulptur und Grabmal des
Spätmittelalters in Rom und Italien. Akten des Kongresses «Scultura e
monumento sepolcrale del tardo medioevo a Roma e in Italia». Roma. 4-6
luglio 1985, a cura di J. Garms e A. M. Romanini, Wien 1990, pp. 413422, in particolare, pp. 420-421; L. Cavazzini, Il crepuscolo della scultura medievale in Lombardia, Firenze 2004, p. 51.
26 Trombetta (1971), op. cit. a nota 22, p. 35 data, sia pure dubitativamente, al secolo xiii la scultura, con una proposta che viene ribadita anche in Trombetta (1984), op. cit. a nota 22, pp. 194-200.
27 W. Braunfels, Dreifaltigkeit, in Lexikon der christlichen Ikonographie, a cura di E. Kirschbaum, Rom-Freiburg-Basel-Wien 1994, I,
coll. 526-537.
152
francesco gandolfo
Fig. 36. Amatrice, S. Francesco, lunetta del portale, Madonna con il Bambino tra angeli.
Il guizzo naturalistico con cui sono colti i due delfini, con una calcata attenzione alla descrizione dei
musi, la posa garbata dei due angeli, dominata dalle
grandi ali svolazzanti e dai lunghi capelli che ricadono sulle spalle, sono tutti aspetti che, ancora una volta, fanno pensare al Quattrocento, come momento
più plausibile di esecuzione. Dal punto di vista tipologico un buon confronto può essere quello con i due
angeli che, nel portale (Fig. 36) della chiesa di S. Francesco ad Amatrice, affiancano la statua della Madonna con il Bambino perché, per posa e qualità di forme, riflettono bene il tipo di soluzione che lo scultore
della lunetta di Trivento ha inteso fare propria.28 Del
resto nel motivo dei due delfini si coglie una eco di
ornati marginali ormai di sapore umanistico, di certo
male intesi e per questo gonfiati a dismisura. Resta
comunque il fatto che, soprattutto la figura del Dio
Padre mostra una parentela assai stretta con il modo
di fare delle due statue di Casacalenda (Fig. 33), visto
che esibisce lo stesso sistema, piatto e lineare, di
rendere i panneggi e la stessa struttura del volto che,
dietro la immobile fissità dei tratti, lascia intravedere
il ricordo di soluzioni più duttili ed espressive.
Suggerire che lo scultore di Casacalenda possa essere lo stesso che opera a Trivento è operazione che
si può anche compiere, sulla base delle risultanze
formali, ma che sul piano della valutazione storica
non aiuta più di tanto ad andare al di là dell’anonimato che coinvolge entrambi i casi, né fornisce gli
strumenti per ricostruire una ben precisa personalità di artista. Ciò che va colto piuttosto è la testimonianza che quelle opere portano di una lunga sta-
28 Gavini, op. cit. a nota 1, iii, pp. 72-75 pone il portale della chiesa
di S. Francesco ad Amatrice in rapporto con quello, datato al 1428,
della chiesa di S. Agostino nella stessa località. Sull’edificio cfr. G.
Carbonara, Gli insediamenti degli ordini mendicanti in Sabina, in Lo
spazio dell’Umiltà. Atti del Convegno di Studi sull’edilizia dell’Ordine dei
Minori, Fara Sabina, 3-6 novembre 1982, Fara Sabina 1984, pp. 123-223, in
particolare pp. 150-160.
francesco perrini e i rapporti tra abruzzo e molise
gione di fortuna delle soluzioni compositive che il
Perrini aveva introdotto, nel corso del secondo decennio del Trecento, in quell’area di confine tra
l’Abruzzo e il Molise che solo la geografia politica
moderna tende a cogliere come non omogenea. In
maniera più netta i due dolenti di Casacalenda, ma
a suo modo anche la Trinità di Trivento, si rifanno
al senso di impaginazione del racconto e alla spazialità gerarchica delle lunette del Perrini. È ovvio che
queste operazioni non possono essere valutate sulla
scorta del confronto con i risultati plastici raggiunti
in ambienti contemporanei ad esse estranei. Esse
stesse dicono con chiarezza che vogliono essere giudicate all’interno delle tradizioni e delle scelte formali, sorte in quell’area, che riconoscono come proprie e necessarie alla loro identità culturale. Il che
mette altrettanto bene in risalto il ruolo determinante svolto, in quell’ambiente, da Francesco Perrini, nel suggerire dei modi, facili ed essenziali, con i
quali realizzare un tipo di scultura che, sia sul piano
decorativo, sia su quello figurativo, per un lungo periodo di tempo si ritenne che soddisfacesse in pieno
a quelle istanze.
Bibliografia
Aceto F. 1990, “Magistri” e cantieri nel “Regnum Siciliae”:
l’Abruzzo e la cerchia federiciana, «Bollettino d’arte», s. vi,
lxxv, n. 59, pp. 15-96.
Aceto F. 2001, La cattedrale di Atri, in Franchi dell’Orto
(a cura di) 2001, pp. 187-206.
Arduino A., Convento di S. Francesco d’Assisi, in Massone
M. (a cura di) 2000, pp. 120-122.
Bartolini Salimbeni L. 1993, Architettura francescana in
Abruzzo dal xiii al xviii secolo, Roma.
Bindi V. 1889, Monumenti storici e artistici degli Abruzzi, Napoli.
Braunfels W. 1994, Dreifaltigkeit, in Kirschbaum (a cura
di) 1994, i, coll. 526-537.
Calò Mariani M. S. 1979, Due cattedrali del Molise. Termoli
e Larino, Roma.
Carbonara G. 1984, Gli insediamenti degli ordini mendicanti
in Sabina, in Lo spazio dell’Umiltà, pp. 123-223.
Cavazzini L. 2004, Il crepuscolo della scultura medievale in
Lombardia, Firenze.
Cerella P., Monteodorisio. Convento di S. Francesco d’Assisi,
in Massone (a cura di) 2000, pp. 91-94.
Franchi dell’Orto L. (a cura di) 2001, Dalla valle del
Piomba alla valle del basso Pescara. Documenti dell’Abruzzo
teramano, v , 1, Teramo.
153
Franchi dell’Orto L. (a cura di) 2003, Dalla valle del Fino
alla valle del medio e alto Pescara, Documenti dell’Abruzzo
teramano, vi , 1, Teramo.
Gandolfo F. 2003, S. Clemente a Casauria. I portali e gli
arredi interni, in Franchi dell’Orto (a cura di) 2003,
pp. 272-297.
Gandolfo F. 2004, Scultura medievale in Abruzzo. L’età
normanno-sveva, Pescara.
Garms J., Romanini A. M. (a cura di) 1990, Skulptur und
Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien. Akten des
Kongresses «Scultura e monumento sepolcrale del tardo
medioevo a Roma e in Italia». Roma. 4-6 luglio 1985, Wien.
Gavini I. C. 1980, Storia dell’architettura in Abruzzo, (ristampa dell’edizione Milano-Roma 1926-1927), Pescara.
I Cistercensi e il Lazio = I Cistercensi e il Lazio. Atti delle giornate di studio dell’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università
di Roma. 17-21 Maggio 1977, Roma, 1978.
Kirschbaum E. (a cura di) 1994, Lexikon der christlichen
Ikonographie, Rom-Freiburg-Basel-Wien, 1994.
La Morgia E. 1998, La chiesa e il convento di S. Agostino a
Lanciano, Pescara.
Lo spazio dell’Umiltà = Lo spazio dell’Umiltà. Atti del Convegno
di Studi sull’edilizia dell’Ordine dei Minori, Fara Sabina, 3-6
novembre 1982, Fara Sabina, 1984.
Masciotta G. B. 1952, Il Molise dalle origini ai nostri giorni,
iii, Cava dei Tirreni.
Massone M. (a cura di) 2000, Fabbriche francescane in antologia. Gli insediamenti dei Frati Minori Conventuali e delle
Clarisse tra il xiii e il xv secolo, Vasto.
Moretti M. 1971, Architettura medioevale in Abruzzo (dal vi
al xvi secolo), Roma.
Mortari L. 1984, Molise. Appunti per una storia dell’arte,
Roma.
Pace V. 1990, Il sepolcro Caldora nella Badia Morronese presso
Sulmona: una testimonianza delle presenze tedesche in Italia
nel primo Quattrocento, in Garms e Romanini (a cura di),
pp. 413-422.
Righetti Tosti Croce M. 1978, La chiesa di S. Maria
Maggiore a Lanciano: un problema dell’architettura italiana
del Duecento, in I Cistercensi e il Lazio, pp. 187-211.
Righetti Tosti-Croce M. 1980, La scultura del Castello di
Lagopesole, in Romanini A. M. (a cura di) 1980, pp. 237-252.
Robotti C. 1990, Monteodorisio. Ambiente, immagini, documenti, Cavallino di Lecce.
Romanini A. M. (a cura di) 1980, Federico II e l’arte del
Duecento italiano. Atti della iii settimana di studi di storia
dell’arte medievale dell’Università di Roma. 15-20 maggio
1978), Galatina.
Toesca P. 1951, Il Trecento, Torino.
Trombetta A. 1971, Arte medioevale nel Molise, s.l.
Trombetta A. 1984, Arte nel Molise attraverso il Medioevo,
Campobasso.
BERNARDINO LUINI
NEL SECONDO DECENNIO DEL CINQUECENTO*
Cristina Quattrini
D
urante il secondo decennio del Cinquecento
Bernardino Luini divenne uno dei maggiori pittori di Milano, dopo una formazione oscura e dopo
una permanenza in Veneto nella quale credono molti studiosi.1 Nello stesso periodo, che corrisponde alla dominazione francese con la breve parentesi della
restaurazione di Ercole Massimilano Sforza fra il 1512
e il 1515, è difficile seguire i maestri delle generazioni
precedenti: Bernardo Zenale, che muore nel 1526,
Andrea Solario e Bramantino, scomparsi rispettivamente nel 1524 e nel 1530. È possibile, ma non provato, che Cesare da Sesto sia stato a Milano fra 1515 e il
1518, prima del rientro definitivo nel 1519.2 Poco si sa
di Giovanni Agostino da Lodi,3 che risulta abitare a
Milano nel 1510, e di Giampietrino4 e sfugge del tutto
la fisionomia di Niccolò Appiani, nonostante i molti
documenti.5
La più antica attestazione della fama di Luini si
trova nel commento al De Architectura di Vitruvio di
Cesare Cesariano, stampato nel 1521 ma intrapreso
intorno al 1508.6 All’incirca coetaneo di Luini, Cesariano, nato nel 1477 o nel 1478 e collaboratore nel 1493
di Matteo de Fedeli, è di nuovo documentato a Milano nel 1513, dopo anni trascorsi fra Parma, Reggio
Emilia, Ferrara, forse Roma nel 1508-1509 e Piacenza.7 Nel commento al terzo libro di Vitruvio stila un
elenco di artisti che non si erano limitati a studiare le
proporzioni dal naturale e a leggere Plinio, Vitruvio,
* Questo articolo è l’aggiornamento di un testo consegnato alla
«riasa» nel 2003, tratto a sua volta dalla mia ricerca di post-dottorato
svolta negli anni 1998-2000 presso il Dipartimento di Storia delle Arti
Visive e della Musica dell’Università di Padova con Alessandro Ballarin, al quale va la mia gratitudine.
Ringrazio inoltre per la loro generosità Raffaella Besta e Anna
Orlando.
5 Cfr. R. Sacchi, Il disegno incompiuto. La politica artistica di Francesco II Sforza e di Massimiliano Stampa, Milano, 2005, i, pp. 192-196.
6 Sul commento a Vitruvio di Cesariano B. Agosti, Qualche novità
su Cesare Cesariano, in Istituto Lombardo. Accademia di Scienze e Lettere.
Rendiconti. Classe di Lettere e Scienze morali e Storiche, cxxvii, 1993, n. 2,
pp. 231-239; Ead., Riflessioni su un manoscritto di Cesare Cesariano, in Cesariano e il classicismo di primo Cinquecento, atti del seminario di studi
(Varenna 1994), a cura di M. L. Gatti Perer e A. Rovetta, Milano, 1996,
pp. 67-74; A. Rovetta, Cesariano, Bramante e gli studi vitruviani nell’età
di Ludovico il Moro, in Bramante milanese e l’architettura del Rinascimento
lombardo, atti del Seminario Internazionale di Studi (Vicenza 2001) a
cura di C. L. Frommel, L. Giordano e R. Schofield, Venezia, 2002, pp.
83-98; Id., I Francesi a Milano: il punto di vista di Cesariano attraverso
l’erudizione vitruviana, in Louis XII en Milanais. xli Colloque International d’Études Humanistes (Parigi 1998), a cura di P. Contamine e J. Guillaume, Parigi, 2003 pp. 355-367. Per la formazione milanese e i possibili
rapporti con Bramante R. Schofield, Gaspare Visconti, mecenate del
Bramante, in Arte, committenza ed economia a Roma e nelle corti del Rinascimento. 1420-1530, atti del Convegno Internazionale (Roma 1990) a
cura di A Esch e L. Giordano, Torino, 1995, pp. 297-324; Id., Il periodo
giovanile di Cesare Cesariano, ivi, pp. 325-330. Inoltre M. G. Albertini
Ottolenghi, Cesare Cesariano: un inedito, in Arte Lombarda, cliii,
2008, n.1, pp. 25-35.
7 La notizia di Cesariano a Roma è data da G. Vasari, Le vite de’
più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568, ed. consultata
G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle
redazioni del 1550 e del 1568, a cura di P. Barocchi e R. Bettarini, 6 voll.,
Firenze, 1966-1987, vi, p. 179, secondo il quale Jacopo Sansovino da
giovane vi avrebbe conosciuto lui, Bramantino, Pintoricchio e Signorelli. Tale viaggio è stato ritenuto possibile fra il 1508 e il 1509 da M.
Pirondini, La pittura del Cinquecento a Reggio Emilia, Milano, 1985, pp.
13, 88-91, e da G. Agosti, Bambaia e il classicismo lombardo, Torino,
1990, p. 81. Per Cesariano pittore A. Pattanaro, Garofalo e Cesariano
in Palazzo Costabili a Ferrara, in Prospettiva, 1994, nn. 73-74, pp. 97-110;
A. Bacchi, A. De Marchi, Francesco Marmitta, Torino 1995, pp. 286-
1 Questa ipotesi ha come perno la pala raffigurante la Madonna
con il Bambino e due angeli musici firmata e datata «bernardinus
mediolanensis faciebat mdvii» del Museo Jacquemart-André di
Parigi, attribuita a Luini quando ancora si trovava nella collezione
Manfrin di Venezia da A. Nicoletti, La Pinacoteca Manfrin a Venezia, Venezia, 1872, p. 28. Intorno a quest’opera, nella quale si combinano una cultura milanese fra Zenale e Bramantino e caratteri
che ricordano Cima da Conegliano, il giovane Lorenzo Lotto e
Pier Maria Pennacchi, è stato nel tempo riunito un piccolo gruppo
di dipinti, la cui attribuzione a Bernardino Luini non trova tuttora
un consenso unanime. Per un riepilogo della questione rimando a
C. Quattrini, I primi anni di Bernardino Luini dal soggiorno in Veneto
alla Madonna di Chiaravalle, in Nuovi Studi, vi-vii, 2001-2002, n. 9,
pp. 57-76.
2 Sul problema della presenza di Cesare a Milano in questi anni cfr.
M. Carminati, Cesare da Sesto. 1477-1523, Milano, 1994, pp. 93-108 cui rimando per la bibliografia precedente. La questione è stata poi riaperta da F. Frangi, Una traccia per la storia della pittura a Milano dal 1499
al 1535, in Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1998, pp. 23-36, 241.
3 Per Giovanni Agostino da Lodi L. Simonetto, Giovanni Agostino
da Lodi, in DBI, 56, Roma, 2001, pp. 272-276.
4 Il punto sulla difficile cronologia di Gianpietrino in C. Geddo,
Appunti sulla cronologia del Giampietrino, in Arte e Storia di Lombardia.
Scritti in memoria di Grazioso Sironi, Roma, 2006, pp. 255-262; G. Agosti, in Restituzioni 2008. Capolavori restaurati, catalogo della mostra
(Cornuda 2008), Vicenza, 2008, pp. 344-353 scheda 45.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 155-198
156
cristina quattrini
Filostrato e altre fonti classiche e si erano recati a
Roma per conoscere direttamente l’antico.8 La nota
lista di scultori e pittori annovera Michelangelo,
Gian Cristoforo Romano, Bartolomeo Spani, Tullio
Lombardo e una serie di rappresentanti illustri dell’ambiente milanese: Cristoforo Solari, il Bambaia,
Giovanni Antonio Boltraffio, Marco d’Oggiono,
Bernardo Zenale,9 Bramantino e Bernardino Luini,
gli ultimi tre segnalati per l’abilità nel dipingere architetture negli affreschi.10 Il passo, che continua a
provocare ipotesi differenti sulla data del viaggio a
Roma, accosta Luini proprio a Zenale e a Bramantino, due maestri che lo influenzarono per buona parte del suo percorso, e dimostra inoltre come all’epoca egli apparisse ormai uno dei principali artisti sulla
piazza milanese. Una fama di pittore colto è indirettamente confermata da anche da un brano del settimo libro,11 nel quale Cesariano enumera i notabili
milanesi appassionati di architettura e fra loro Gerolamo Rabia, committente di Bernardino per la decorazione della villa Pelucca nei pressi di Monza e del
palazzo di Milano, e un commitente possibile, Giovanni Angelo Selvatico, che fu forse il primo proprietario di una casa costruita da Cristoforo Solari vicino
a San Maurilio, nella quale Venanzio De Pagave scrive di avere visto un vestibolo ottagonale affrescato
dal nostro artista.12
Un documento di rilievo per il periodo qui preso
in considerazione è costituito dall’atto di dote monacale della figlia di Zenale, Maria Lucrezia, che nel
1516 entrava nel monastero domenicano di San Lazzaro. Luini vi compare come testimone, a prova di
287; per una nuova attribuzione M. Lucco in Pinacoteca Civica di Vicenza. Dipinti dal xiv al xvi secolo, a cura di M. E. Avagnina, M. Binotto, G. C. F. Villa, Vicenza, 2003, pp. 254-256 scheda 100. Per l’attività a
Reggio Emilia cfr. A. Rovetta, E. Monducci, C. Caselli, Cesare
Cesariano e il Rinascimento a Reggio Emilia, Cinisello Balsamo, 2008.
8 Sui viaggi degli artisti Lombardi a Roma in questo periodo cfr.
Agosti, op. cit., alla nota 7, pp. 68-85; Id., Cronaca delle «Antiquarie», in
Antiquarie prospettiche romane, a cura di G. Agosti e D. Isella, Busto Arsizio, 2004; V. Farinella, Archeologia e pittura a Roma tra Quattrocento
e Cinquecento. Il caso di Jacopo Ripanda, Torino, 1992 pp. 3-26.
9 Il viaggio di Zenale a Roma è ora collocato poco prima del 1521
da S. Buganza, Bernardo Zenale: un’aggiunta al catalogo e una nuova
prospettiva sugli anni tardi, «Nuovi Studi», xi, 2006 [2007], 12, pp. 55-70,
p. 62
10 Vitruvio, De architectura, traslato, commentato et affigurato da
Caesare Caesariano, Como, Gottardo da Ponte, 1521 ed. anastatica a cura di A. Bruschi, A Carugo e F. P. Fiore, Milano, 1981 p. xlviiiv.
11 Vitruvio, op. cit., alla nota n. 10, p. cxr-v.
12 V. De Pagave, Dialogo fra un forestiere ed un pittore che si incontrano nella basilica di S. Francesco in Milano, ms., 3 voll., s.d. [seconda metà
del xviii secolo], Milano, Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco, ms.
D 21, pp. 305-310 Per S. Gatti, Il palazzo di Giovanni Angelo Salvatico a
un’amicizia che in quel momento riguardava anche
il modo di dipingere.13
Per questi anni, durante i quali avvenne l’ascesa di
Luini, si può contare su un certo numero di opere
datate, ma non su una cronologia assestata. Questo
articolo ricostruisce per confronti stilistici questa fase della sua carriera, che verosimilmente precede
l’esperienza romana.
Dalla Madonna di Chiaravalle
alla pala del duomo di Como
La prima opera documentata di Bernardino Luini è
la Madonna con il Bambino e due angeli musici affrescata
su una scala che portava al dormitorio dell’abbazia di
Chiaravalle Milanese (Fig. 1), per la quale i libri contabili registrano un pagamento di 55 lire nel 1512.14 La
commissione cadeva in un momento particolare:
nello stesso 1512 l’abate Agostino Sansoni partecipò
al concilio di Pisa-Milano che elesse il cardinale Bernardino Lopez da Carvajal antipapa con il nome Martino VI e quest’ultimo fu per un certo periodo ospite
di Chiaravalle. Contemporaneamente la cappella
maggiore fu rinnovata e affrescata, e si fecero eseguire un’ancona dell’Adorazione dei Magi e un palio e un
piviale ottenuti dai resti del sontuoso drappo impiegato per le esequie di Gaston de Foix nel Duomo di
Milano. Imponente benché ridotta da una cornice
marmorea settecentesca, questa Madonna è un testo
rivelatore dell’influenza su Luini di Bramantino e di
Zenale,15 del quale ricorda la pala del 1510 per la cappella di Santa Maria della Vittoria in San Francesco
Milano. Contributo allo studio della corrente classicheggiante nell’architettura lombarda del primo Cinquecento, in Quaderni dell’Istituto di Storia
dell’Arte Medievale e Moderna, Università degli Studi di Messina, ii,
1976, pp. 21-30, in part. p. 26 potrebbe essere questa la provenienza
dell’affresco raffigurante Curio Dentato rifiuta i doni dei Sanniti del
Louvre, mentre per M. T. Binaghi Olivari, Bernardino Luini, Milano 2007, pp. 36-38, tavv. 21 e 22, verrebbero da questo palazzo le Storie
di Cefalo e Procri della National Gallery di Washington, sulle quali si
veda più avanti nel testo a proposito di Palazzo Rabia.
13 Pubblicato in V. Pini, G. Sironi, Bernardino Luini. Nuovi documenti biografici, Milano, 1993, ii, pp. 39-40, doc. 28.
14 A. Ratti, Il secolo xvi nell’Abbazia di Chiaravalle di Milano. Notizia di due altri codici manoscritti chiaravallesi, in Archivio Storico Lombardo, xxiii, 1896, pp. 91-161, in part. p. 99, cui si fa riferimento per le successive notizie sull’abbazia.
15 Questa lettura stilistica, proposta da G. Romano in Zenale e
Leonardo. Tradizione e rinnovamento della pittura lombarda, catalogo
della mostra (Milano 1982-1983), p. 104 e da Id., La ‘Sacra Famiglia’ del
Bramantino già in casa Silva, in Arte all’incanto. Mercato e prezzi dell’arte
e dell’antiquariato alle aste Finarte 1988/89, Milano, 1990, pp. 36-39, in
part. p. 38, è stata accolta da molti studiosi. Cfr. A. Di Lorenzo in
Pittura a Como e nel Canton Ticino dal Mille al Settecento, a cura di M.
Gregori, Cinisello Balsamo, 1994, pp. 284-285; Frangi, op. cit., alla
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 1. Bernardino Luini, Madonna con il Bambino e due angeli musicani,
Milano, abbazia di Chiaravalle Milanese, 1512.
157
158
cristina quattrini
Grande ora al Denver Art Museum. Non sono invece
palesi le componenti leonardesca e raffaellesca talvolta rilevate dagli studiosi. Forse precedono di poco
la Madonna di Chiaravalle gli affreschi realizzati per
Gerolamo Rabia nella villa suburbana della Pelucca
(ora nel comune di Sesto San Giovanni e adibita a casa di riposo), conservati per la maggior parte a Brera,
dai connotati fortemente bramantineschi.16
All’incirca fra il 1513 e il 1515 Luini intraprese a mio
avviso la decorazione della cappella di San Giuseppe
nella chiesa milanese Santa Maria della Pace dei
Francescani amadeiti, uno dei punti più controversi
del suo catalogo.
Dopo la soppressione del convento nel 1805, gli affreschi – raffiguranti Storie dei santi Gioacchino e Anna, della Vergine e di san Giuseppe, una Sibilla, Profeti
che ornavano l’arco d’ingresso e Arcangeli e angeli sulla volta (Figg. 3-6, 9) – entrarono a Brera in fasi successive.17 Un primo lotto di stacchi dei dipinti murali
del complesso della Pace fu deciso da Andrea Appiani, commissario delle Belle Arti della Repubblica
Italiana, e affidato forse a Giuseppe Appiani. Fra le
pitture della cappella di san Giuseppe vi erano comprese per certo la Presentazione di Maria al Tempio,
pubblicata e incisa da Ignazio Fumagalli nel 1811 insieme alla frammentaria Visitazione, stilisticamente
affine ma che era detta ubicata in origine sul pianerottolo di una scala.18 Nel 1816 furono prelevati quattro storie non specificate, una Sibilla, e i brani raffiguranti San Giuseppe e la Vergine dopo le nozze e Tre
giovani. Fra il 1819 e il 1820 Stefano Barezzi staccò altri
affreschi, fra i quali l’Infanzia di Maria al Tempio, l’Angelo inventariato nel Registro Cronologico di Brera
con il numero 13, una lunetta della volta con Angeli
musicanti (Registro Cronologico 25), forse anche San
Giuseppe eletto sposo della Vergine. Infine nel 1875 Antonio Zanchi compì il trasporto degli affreschi della
volta. Dopo queste vicissitudini il ciclo, ricomposto
per approssimazione nel museo, risulta tutt’altro
che integro e mostra di avere perduto intere scene.
La cappella era un corpo quadrangolare addossato al presbiterio in fondo alla navata sinistra, confinante con un ambiente che era stato la cella del
beato Amadeo Mendez da Silva, il fondatore del convento e della provincia dei francescani amadeiti.
L’iconografia di San Giuseppe eletto sposo della Vergine
(Fig. 6) corrisponde al racconto dell’episodio nell’Apocalypsis Nova, il testo delle visioni del beato, dove si parla dell’annuncio dell’angelo a Giuseppe e dei
due sposi in preghiera dopo le nozze.19 L’aspetto
dell’ambiente è parzialmente tramandato da un acquerello di Ludovico Pogliaghi, all’epoca allievo
dell’Accademia di Brera, che nel 1875, alla vigilia
dell’intervento di Zanchi, lo ritrasse dando le spalle
all’altare e mostrando sulle pareti laterali e d’ingresso gli affreschi, ormai quasi tutti staccati, distribuiti
su due registri (Fig. 2). È poco verosimile che le scene, alcune tuttora inquadrate da modanature dipinte
e forse in origine scandite da finte colonne o paraste,
fossero incorniciate in stucco come le opere romane
di Baldassarre Peruzzi, come si è pensato equivocando un passo della guida settecentesca di Milano di
Carlo Bianconi.20 L’affermazione di Bianconi che
nella cappella di san Giuseppe Luini avrebbe dipinto
su stucco bianco sembra piuttosto riferirsi all’opus albarium o ‘marmorino’ – impasto di calce e polvere di
marmo da impiegare come base – e alla tecnica della
pittura a calce descritti da Vitruvio nel terzo e nel
settimo libro del De architectura.21 La notizia è ripresa
poco dopo da Luigi Lanzi, che negli appunti di viag-
nota n. 2, p. 30; Id., in Pittura a Milano, op. cit. alla nota n. 2, p. 231; P.
C. Marani, Luini, Bernardino, in DBI, 66, Roma 2006, pp. 510-518, in
part. p. 514; Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, pp. 66-67. Per l’iconografia dell’opera cfr. M. T. Binaghi Olivari, L’immagine sacra in Luini e
il circolo di Santa Marta, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 49-76,
pp. 101-102; G. Mulazzani, Chiaravalle: la pittura nel Quattro e Cinquecento, in Chiaravalle. Arte e storia di un’abbazia cistercense, a cura di P.
Tomea, Milano, 1992, pp. 374-403, in part. pp. 393-395.
rappresentati sono: Cacciata di Gioacchino dal Tempio; Gioacchino e
l’angelo; Annuncio a sant’Anna; Incontro alla Porta Aurea; Natività della
Vergine; Presentazione di Maria al Tempio; Infanzia di Maria al Tempio;
Congedo di Maria dal Tempio; San Giuseppe eletto sposo della Vergine; Tre
giovani; San Giuseppe e la Vergine dopo le nozze; Sogno di san Giuseppe e
inoltre un frammento con un Angelo in volo e un altro con una veduta
di città.
18 I. Fumagalli, Scuola di Lionardo da Vinci in Lombardia, o sia
raccolta di varie opere eseguite dagli allievi e imitatori di quel gran maestro,
Milano, 1811, s.p.
19 Come accertato da Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 15,pp.
49-76, pp. 62-63; Ead., op. cit., alla nota n. 17, p. 251. La maggior parte
delle altre scene si può invece ricondurre a fonti tradizionali, come il
Proto Vangelo di Giacomo, il Vangelo dello Pseudo Matteo, il Vangelo dell’infanzia armeno, la Storia di Giuseppe il falegname, la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze e le Meditationes vitae Christi di Giovanni de Calvoli.
20 Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 17, p. 238.
21 C. Bianconi, Nuova guida di Milano per gli amanti delle Belle Arti
e delle sacre e profane antichità, Milano, 1787, pp. 109-110.
16 Per un riepilogo della letteratura sulla controversa datazione
della Pelucca Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, pp. 60-64; Ead. Bernardino Luini, Gerolamo Rabia e l’“Ovidio Metamorphoseos Vulgare” di Giovanni Bonsignori. Un’interpretazione degli affreschi mitologici della villa
Pelucca, in BdA, lxxxix, 2004, n. 130, pp. 25-44. Una collocazione più
avanzata, sul 1524, è tuttora proposta da Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, p. 39.
17 Ricostruite da M. T. Binaghi Olivari, in Pinacoteca di Brera.
Scuole lombarda e piemontese 1300-1535, Milano 1988, p. 234. Gli episodi
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
159
Fig. 2. Ludovico Pogliaghi, La cappella di San Giuseppe,
acquarello, Milano, Pinacoteca di Brera.
gio del 1793 dice come Bianconi dipinse allo stesso
modo gli affreschi di Luini in San Maurizio al Monastero Maggiore, dove di stucco non c’è traccia.22
Secondo Luca Beltrami23 e Maria Teresa Binaghi
Olivari24 la scena di San Giuseppe eletto sposo della Vergine, molto più grande delle altre superstiti (315 × 178
22 L. Lanzi, Il taccuino lombardo. Viaggio del 1793 specialmente pel milanese e pel parmigiano, mantovano e veronese. Musei quivi veduti: pittori
che vi sono vissuti, a cura di P. Pastres con prefazione di G. C. Sciolla,
Udine, 2000, pp. 204, 206; Bianconi, op. cit. alla nota 21, pp. 272-273.
23 L. Beltrami, Luini 1512-1532. Materiale di studio raccolto a cura di
Luca Beltrami, Milano 1911, p. 113.
24 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17, p. 251.
160
cristina quattrini
cm, contro i 176 × 109 della più alta fra le altre scene,
la Cacciata di Gioacchino dal Tempio) si sarebbe trovata
in posizione centrale, sopra l’altare. Una conferma a
questa ipotesi sembra venire da alcune notizie sulla
chiesa del convento amadeita di Santa Maria della
Pace a Genova. Riedificata dagli Amadeiti nell’area
della piccola chiesa di san Martino da loro acquisita
nel 1489 e distrutta alla fine dell’Ottocento, Santa
Maria della Pace di Genova possedeva una pianta e
una distribuzione degli altari del tutto simile a quelle
dell’edificio di Milano e una cappella dedicata a san
Giuseppe nella stessa posizione.25 Sull’altare di questa si trovava una pala raffigurante proprio lo Sposalizio della Vergine, datata 1523 e riferita a un anonimo
toscano, conservata presso la Curia Vescovile.26 San
Giuseppe eletto sposo della Vergine non doveva essere
l’unico episodio di grandi dimensioni nel ciclo affrescato da Luini: il taccuino di viaggio di Lanzi segnala
infatti come particolarmente bella una «[…] disputa
di Gesù fra i dottori che occupa una parete […]».27 A
immaginare l’aspetto dell’insieme possono aiutare
gli affreschi di Nicola Moietta in Santa Maria Assunta
ad Abbiategrasso (1519), palesemente influenzati da
Luini.28
Non si sa chi abbia commissionato gli affreschi
della cappella di San Giuseppe in un periodo in cui la
chiesa e il convento di Santa Maria della Pace erano
uno dei cantieri più vivaci di Milano e vi lavoravano,
oltre a Luini, Giovanni Agostino da Lodi, Marco
d’Oggiono, Bernardino Ferrari, Niccolò Appiani e lo
scultore Ambrogio Montevecchia.29 La tradizione
che riferiva il patronato ai Castiglioni non regge a
una rilettura delle fonti. Il manoscritto settecentesco
del francescano Bernardino Burocco segnala infatti
una sepoltura di quel casato, ornata da un gruppo
marmoreo del Compianto su Cristo morto, nella quinta
cappella della navata sinistra, che all’epoca appariva
decorata da Gerolamo Chignoli e Melchiorre Gherardini e che dalla fine del Seicento conteneva anche
la tomba dei Rosales.30
Non si può confermare neppure l’ipotesi di Binaghi Olivari, che collegava la decorazione della cappella agli ingenti legati di Bartolmeo e Pietro Pagnani nel 1521 e nel 1524.31 I legati di membri di questa
famiglia proseguirono fino al Settecento; nel 1687
Carlo Pagnani destinò una somma alla celebrazione
di messe presso le cappelle di San Francesco e di Sant’Antonio da Padova. Della decorazione di quest’ultima, dovuta anch’essa a Luini ma più tardi rifatta dai
Fiammenghini e da Cristoforo Storer,32 resta l’Annunciazione con i santi Giovanni Battista e Caterina
d’Alessandria che ornava l’arco d’ingresso, trasportato in due parti su tela nel 1900, passato nella collezione Lurani nel 190533 e attualmente di proprietà della
Compagnia di San Paolo di Torino. Nella totale mancanza di notizie, si può immaginare che la cappella
di San Giuseppe fosse di patronato di una delle
numerose confraternite dedicate al santo che si diffusero, incoraggiate dai Francescani, tra la fine del
Quattrocento e l’inizio del Cinquecento.34 Farebbe
25 R. Besta, Un episodio di francescanesimo in Liguria. Chiesa e convento di Santa Maria della Pace, tesi di laurea, Università degli Studi di
Genova, Facoltà di Lettere Filosofia, relatrice E. Parma, anno accademico 1993-1994, p. 104; Ead., Un duplice ritratto di Amadeo Mendezes da
Sylva in un affresco genovese, in Studi di Storia delle Arti, viii, 1995-1996,
pp. 265-275.
26 G. Zanelli, Genova e Savona nel primo Cinquecento, in La pittura
in Liguria. Il Cinquecento, a cura di E. Parma, Genova, 1999, pp. 27-67,
p. 37.
27 Lanzi, op. cit., alla nota n. 22, p. 204. Non c’è modo di confermare l’ipotesi di Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 27, che ritiene si possa forse collegare a una scena perduta di questo ciclo il disegno raffigurante il Bagno del Bambino Gesù con un committente degli
Uffizi (Gabinetto Disegni e Stampe, inv. 13276 F), per il quale cfr. G.
Agosti, Disegni del Rinascimento in Valpadana, Firenze, 2001, pp. 227230 scheda 44.
28 Cfr. F. Cavalieri, L’ arte, in Il convento dell’Annunziata di Abbiategrasso, a cura di M. Comincini, Mazzo di Rho, 2006, pp. 107-160, pp.
119-130.
29 Per la pittura e la scultura del primo Cinquecento in Santa Maria della Pace cfr. V. Zani, Ambrogio Montevecchia, scultore nel Duomo
di Milano e per Battista Bagarotti, in Nuovi Studi, iv, 1999, 7, pp. 35-56; C.
Quattrini, Giovanni Agostino da Lodi e Marco d’Oggiono. Quadri a due
mani da Santa Maria della Pace, catalogo della mostra, Brera mai vista,
3, Milano, 2002; F. Frangi, Bernardino Ferrari, in Nuovi Studi, ix, 20012002 [2003], pp. 77-102, 90-91.
30 B. Burocco, Chronologia Serafica. Origini e Felici progressi dei
Frati Minori Osservanti della Provincia Milanese, 1716, ms., 2 voll., Milano, Biblioteca Francescana di Sant’Angelo, ii, pp. 63 e seguenti. I testi
della lapide del medico Paolo Donato Castiglioni, morto nel 1490, e
di quella posta nel 1561 da Francesco Abbondio Castiglioni, che commemorava il nonno Branda e il padre Gerolamo, scomparso nel 1528,
sono riportate senza specificarne la collocazione da V. Forcella,
Iscrizioni delle chiese e degli altri edifici di Milano dal secolo viii ai giorni
nostri, Milano, 1889, i, pp. 293, 302.
31 Archivio di Stato di Milano, Fondo Religione, Archivio Generale, Cartella 1457, cfr. Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17, pp. 237-238.
32 Come scrivono C. Torre, Il ritratto di Milano diviso in tre libri,
Milano, 1674, pp. 303-304 e S. Latuada, Descrizione di Milano ornata
con molti disegni in rame, 5 voll., Milano, 1737-1738, ed. anastatica consultata Assisi 1995-1998, i, p. 274. In Burocco, op. cit. alla nota n. 30,
p. 107 la cappella di Sant’Antonio è ricordata come altare privilegiato
per morti.
33 Cfr. Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, pp. 132-135; A. Ottino
Della Chiesa, Bernardino Luini, Novara, 1956, p. 70 scheda 29.
34 Cfr. A. Dallaj, Aspetti della produzione figurativa delle confraternite di S. Giuseppe nel ducato di Milano agli inizi del Cinquecento, in Il
pubblico dei Santi. Forme e livelli di ricezione dei messaggi agiografici,
Atti del iii Convegno di Studio dell’Associazione italiana per lo studio della Santità, dei culti e dell’agiografia (Verona 1998), Roma,
2000, pp. 251-283. La diffusione del culto di san Giuseppe in ambito
milanese è collegata anche alla figura del domenicano Isidoro Iso-
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
161
pensare a una committenza di questo tipo il fatto
che, diversamente da quasi tutte le altre, la cappella
di San Giuseppe mantenne la propria intitolazione
anche al tempo della Controriforma e nel secondo
quarto del Seicento venne dotata di una pala raffigurante la morte del Santo di Gerolamo Chignoli.35
La letteratura sulla cappella di san Giuseppe registra una grande difformità di pareri riguardo alla datazione e all’autografia. Bianconi,36 seguito da Lanzi37 sostenne che Luini vi sarebbe intervenuto prima
del 1520. Una collocazione analoga o di poco successiva è stata sostenuta anche da Mongeri38 (circa 1524),
Beltrami39 (fra 1516 e 1521, ma più vicino a quest’ultima data), Venturi,40 Ottino Della Chiesa,41 Berenson42 (circa 1518/1520), Freedberg;43 Bandera44 e in un
primo momento da Roberta Battaglia.45 Il ciclo è stato riferito agli anni 1517/1522 da Mallé;46 Rio47 lo considerò giovanile, come poi Mazzini,48 che vi ravvisava
un amalgama non del tutto riuscito di influssi di
Foppa Bramantino e Leonardo e riflessi di Raffaello,
visto a suo avviso prima della Madonna di Chiaravalle.
Williamson,49 Bertini50 e Autelli51 hanno collocato la cappella di san Giuseppe entro gli anni dieci. In
seguito una datazione entro la prima metà di quel de-
cennio è stata sostenuta da Giovanni Romano,52 da
Francesco Frangi,53 da Giulio Bora,54 dalla scrivente,55 da Federico Cavalieri,56 che ritiene la cappella di
San Giuseppe un possibile precedente degli affreschi
del 1519 di Nicola Moietta in Santa Maria Annunziata
ad Abbiategrasso, e da Roberta Battaglia.57
Sulla base dell’iconografia di San Giuseppe eletto
sposo della Vergine, Maria Teresa Binaghi Olivari ha
supposto che la decorazione della cappella di san
Giuseppe segua l’arrivo a Milano nel 1514 di Giorgio
Benigno Salviati, che vi diffuse l’Apocalypsis Nova del
beato Amado Mendez presso gli ambienti filofrancesi. Salviati trascrisse e interpolò l’Apocalypsis Nova
dopo che nel 1502 Bernardino da Carvajal era venuto
in possesso del manoscritto originale e ne aveva intrapreso la diffusione in un disegno di opposizione a
Giulio II, sostenuto dal re di Francia. La sua venuta a
Milano, tuttavia, non sembra un discrimine troppo
rigido per la conoscenza del testo in area lombarda.
La studiosa ha pensato inizialmente a una datazione
fra il 1516 e il 1521,58 poi sul 1520/1521,59 infine negli
anni 1518/1520,60 comunque subito dopo un soggiorno a Roma che avrebbe fatto conoscere a Bernardino
Raffaello e Peruzzi.
lani, autore della Summa de donis Sancti Joseph pubblicata nel 1522,
da C.C. Wilson, St. Joseph in Italian Renaissance Society and Art.
New Directions and Interpretations Philadelphia 2001, p. 81; Forse alla
nascita delle confraternite in quel periodo contribuitì anche il prestigio di quella che aveva sede nel Duomo di Milano, per la quale
nel 1472 Galeazzo Maria Sforza aveva commissionato un grande altare marmoreo, portato a termine solo nel 1499 e in seguito disperso, al quale lavorò un gruppo di scultori che annoverava Gian Giacomo Dolcebuono, Antonio Piatti, Lazzaro Palazzi, Benedetto
Briosco e in seguito Giovanni Antonio Amadeo. Sui possibili riflessi
di quell’opera perduta cfr. M. T. Binaghi Olivari, Lorenzo da Mortara e l’Amadeo, in Giovanni Antonio Amadeo. Scultura e architettura
del suo tempo, Atti del Convegno (Milano-Bergamo-Pavia 1992) a cura di L. Castelfranchi e J. Shell, Milano, 1993, pp. 462-468.
45 R. Battaglia, in Pittura a Milano, Rinascimento e Manierismo, a
cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1998, p. 232.
46 L. Mallé, Incontri con Gaudenzio. Raccolta di studi e note su problemi gaudenziani, Torino, 1969, pp. 227-233.
47 A. F. Rio, Leonardo da Vinci e la sua scuola, Milano, 1856, p. 151.
48 F. Mazzini, La pittura del Cinquecento, in Storia di Milano, viii,
Milano, 1957, pp. 567-655, in part. pp. 627-628.
49 C. G. Williamson, Bernardino Luini, Londra, 1899, ed. consultata 1907, pp. 26-27, 32, 121.
50 A. Bertini, La giovinezza di Bernardino Luini. Revisioni critiche,
in Critica d’Arte, serie 9, iii, 1962, 53-54, pp. 20-61, pp. 42, 43.
51 F. Autelli, Pitture murali a Brera, Milano, 1989, pp. 83-93.
52 Romano, op. cit. alla nota n. 15, p. 104.
53 Frangi, op. cit. alla nota n. 2, p. 32; Id., in Pittura a Milano, op.
cit. alla nota n. 2, p. 239.
54 G. Bora, Firenze 1510-Milano 1515 circa, in Settanta Studiosi per
l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte di Firenze, a cura di C. Acidini
Luchinat, L. Bellosi, M. Boskovits, P. P. Donati e B. Santi, Firenze,
1997, pp. 239-246, in part. pp. 242-245; Id. Bernardino Luini, in I leonardeschi. L’eredità di Leonardo in Lombardia, Milano, 1998, pp. 325-370, pp.
34-340; Id., Nicola Moietta “de Mangonis” da Caravaggio a Abbiategrasso,
1519: l’anello mancante, in Rinascimento ritrovato, cit., ii, Nell’età di Bramante e Leonardo tra i Navigli e il Ticino, pp. xiii-xlii, p. xviii.
55 C. Quattrini, Lo Scherno di Cam. Un dipinto riscoperto di
Bernardino Luini, catalogo della mostra a cura di V. Maderna e C.
Quattrini, Milano, 2006, pp. 11-14, 37-39.
56 Cavalieri, op. cit. alla nota n. 28, p. 128.
57 R. Battaglia, Leonardo e i leonardeschi, Firenze, 2007, allegato a
«Il Sole 24 Ore», p. 375.
58 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 15, p. 61.
59 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17,, p. 231.
60 Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, pp. 21, 27, tavv. 16, 17.
35 Il dipinto è ricordato da Torre, op. cit., alla nota n. 32, pp. 302304 e Latuada, op. cit., alla nota 32, i, pp. 275-277, 279.
36 Bianconi, op. cit. alla nota n. 21, pp. 108-110.
37 Lanzi, op. cit. alla nota n. 22, p. 204.
38 G. Mongeri, La cappella di San Giuseppe della Pace e gli ultimi suoi
avanzi, in Archivio Storico Lombardo, S. i, iii, 1876, n. 3 pp. 101-116.
39 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 107.
40 A.Venturi, Storia dell’arte italiana, ix, La pittura del Cinquecento.
Parte ii , Milano 1926, p. 748.
41 Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 96-97 scheda 115.
42 B. Berenson, Italian Pictures of the Renaissance. Central Italian &
North Italian Schools, 3 voll., New York 1968, p. 231.
43 S. J. Freedberg, Painting in Italy 1500-1600, New York, ed. italiana
La pittura in Italia dal 1500 al 1600, Bologna 1988, p. 468.
44 S. Bandera, Testimonianze pittoriche rinascimentali nel territorio
di Abbiategrasso, in Rinascimento ritrovato, catalogo della mostra (Abbiategrasso 2006) a cura di P. De Vecchi e G. Bora, Milano, 2006, 2
voll., i, La chiesa e il convento di Santa Maria Annunziata ad Abbiategrasso, pp. 151-166, p. 165.
162
cristina quattrini
Fig. 3. Bernardino Luini e bottega, Natività di Maria, Milano,
Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace.
L’autografia stessa delle pitture della cappella di
San Giuseppe è tuttora dibattuta. Giovanni Morelli
le attribuì a un seguace di Bramantino influenzato da
Gaudenzio Ferrari. 61 Giulio Bora ha ritenuto di
mano diversa la volta con Arcangeli e angeli, l’Annuncio a Sant’Anna, l’Incontro alla Porta Aurea (Fig. 4) e la
Natività della Vergine (Fig. 3).62 Lo studioso ha pensato inoltre che questo pittore abbia collaborato con
61 Lermolieff [G. Morelli], Die Werke Italienisches Meister in
den Galerien von München, Dresden und Berlin: ein Kritischen Versuch,
Lipsia, 1980, ed. italiana Le opere italiane nelle Gallerie di Monaco, Dresda
e Berlino: saggio critico, Bologna, 1886, p. 450.
62 G. Bora, Firenze 1510-Milano 1515 circa, op. cit. alla nota n. 54, pp.
242-245; Id., Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, pp. 34-340; Id., Nicola
Moietta…, cit., p. xviii.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
163
Luini stesso e con Zenale alla pala di Brera che rappresenta l’Annunciazione alla presenza degli arcangeli
Ecudiele e Barachiele e di angeli secondo il testo
dell’Apocalypsis Nova, opera che Stefania Buganza ha
ultimamente ricondotto all’altare di Bernardino Bascapè in Santa Marta e attribuito alla fase estrema
Zenale.63
In effetti l’intervento di un aiuto, tradita dai tratti
zenaliani di certi personaggi, si coglie in più parti, ad
esempio nell’Incontro alla Porta Aurea, nei Tre giovani
o in alcune figure angeliche della volta.64 In anni di
grande affinità stilistica e di amicizia fra Luini e Zenale, si tratta di un dato indubbiamente interessante, ma
non tale da incoraggiare una drastica distinzione di
mani in un ciclo stilisticamente omogeneo. Luini
stesso doveva ritenere questa commissione molto
prestigiosa, se inserì, come sembra, un autoritratto in
San Giuseppe eletto sposo della Vergine.65 L’uomo con il
berretto sotto l’arco, infatti, ricomparirà nella cappella maggiore di Santa Maria dei Miracoli a Saronno,
del 1525 nell’Adorazione dei Magi e nello Sposalizio della
Vergine, e ancora fra gli astanti nella grande Crocifissione in Santa Maria degli Angeli a Lugano, del 1529.
Gli sfondi della Presentazione di Maria al Tempio e
di San Giuseppe eletto sposo della Vergine (Figg. 5, 6), il
cui bramantinismo è stato sottolineato da Wilhelm
Suida,66 fanno comprendere a cosa si riferissero le lodi di Cesariano a Luini, al Suardi stesso e a Zenale
per le architetture raffigurate negli affreschi.
Rispetto alla Madonna di Chiaravalle, presumibilmente di poco precedente e interamente caratterizzata dai riferimenti a Zenale e a Bramantino, nella
cappella di San Giuseppe si avverte un certo un cambiamento, ma nulla costringe imputarlo al viaggio a
Roma. L’opinione di Morelli, che vedeva in questi affreschi un anonimo influenzato da Gaudenzio Ferrari, offre un utile suggerimento.
Il rapporto fra Bernardino Luini e il maestro valsesiano fu brevemente trattato da Luigi Mallé,67 che
escluse la comune formazione presso Stefano Scotto
tramandata da Lomazzo68 e finora confermabile su
basi stilistiche soltanto per Gaudenzio e negò l’influenza di Luini su quest’ultimo. Lo studioso parlò
tuttavia di carattere preluinesco degli affreschi di
Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia: della cappella di santa Margherita, del 1507 e del tramezzo,
63 S. Buganza, op. cit. alla n. 9, p. 62. È così venuta meno l’ipotesi
di Romano, op. cit. alla nota n. 15, p. 104, che sulla base dell’iconografia dipendente dall’Apocalypsis Nova del beato Amadeo indicava l’Annunciazione come possibile pala della cappella di san Giuseppe.
64 Come ho rilevato in altra occasione (Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, p. 39) e come accenna in modo più generico Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 21.
65 La presenza del probabile autoritratto in questo affresco è stata
segnalata per la prima volta da Ottino Della Chiesa, op. cit. alla
nota n. 33, p. 26.
66 W. Suida, Bramante pittore e il Bramantino, Milano 1953 p. 143.
67 L. Mallé, op. cit. alla nota 46, pp. 227-233
68 G. P. Lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, della scoltura e
dell’architettura, Milano, 1584, ed. consultata in G. P. Lomazzo, Scritti
sulle arti, a cura di R. P. Ciardi, 2 voll., Firenze, 1973-74, ii, p. 366. Sul
problema degli esordi di Gaudenzio Ferrari E. Villata, Gaudenzio
Ferrari, gli anni di apprendistato, in E. Villata, S. Baiocco, Gaudenzio
Ferrari. Gerolamo Giovenone. Un avvio e un percorso, Torino, 2004, pp. 1396, con bibliografia precedente; G. Romano, Pittori in bottega: Gaudenzio Ferrari, tra avanguardia e tradizione, in Fermo Stella e Sperindio Cagnoli seguaci di Gaudenzio Ferrari. Una bottega d’arte nel Cinquecento padano,
catalogo della mostra (Bergamo 2006) a cura di G. Romano, Cinisello
Balsamo, 2006, pp. 11-37, pp. 13-17; D. Mirabile, Un nuovo documento per
Santa Maria delle Grazie a Varallo Sesia: un nuovo appiglio per Gaudenzio
giovane?, in Sacri Monti. Rivista di arte, conservazione, paesaggio e spiritualità dei Sacri Monti piemontesi e lombardi, i, 2006, pp. 365-379.
Fig. 4. Bernardino Luini e bottega, Incontro alla Porta Aurea,
Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella
di san Giuseppe in Santa Maria della Pace.
164
cristina quattrini
Fig. 5. Bernardino Luini, Presentazione di Maria al Tempio,
Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 6. Bernardino Luini, San Giuseppe eletto sposo della Vergine,
Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace.
165
166
cristina quattrini
concluso nel 1513. Per quanto concerne la cappella di
san Giuseppe, che faceva risalire agli anni 1517/1522,
giustificò gli elementi di contatto apparenti come
«[…] rielaborazioni personali su Bramantino, senza
alcun appoggio né tramite ferrariano», dati gli esiti
molto differenti dei due maestri a date che credeva
fossero le stesse.
È verosimile che al momento di questo lavoro
Luini avesse visto gli affreschi di Gaudenzio nella
chiesa francescana di Varallo e che esso si possa leggere come reazione a quelle novità. Sebbene si debba anche pensare a modelli comuni, gli edifici monumentali della Cacciata di Gioacchino dal Tempio, della
Presentazione di Maria al Tempio e di San Giuseppe eletto sposo della Vergine assomigliano molto a quelli di
Gaudenzio Ferrari nella Disputa con i dottori nella
cappella di Santa Margherita o sul tramezzo nella Lavanda dei piedi (Fig. 7), in Cristo davanti a Pilato (Fig.
8) o nella Flagellazione. La figure su quinte sopraelevate nella Presentazione di Maria al Tempio e nel Sogno di San Giuseppe (Fig. 9) ricordano anch’esse le soluzioni adottate da Gaudenzio nella Disputa con i
dottori nella cappella di Santa Margherita o in alcune
scene del tramezzo.
Il secondo punto fermo nella cronologia di Luini
in questo decennio sono le tavole e gli affreschi della
cappella della scuola del Santissimo Sacramento in
San Giorgio al Palazzo a Milano [Figg. 10, 13-15], che
nel 1516 fece costruire e decorare Luca Terzaghi, consigliere e sindaco fin dai primi documenti che riguardano il sodalizio dal 1506.69
Le società del Santissimo Sacramento o del Corpo
di Cristo risultano molto diffuse a partire dalla fine
del Quattrocento. A Milano quella di San Giorgio al
Palazzo era una delle più importanti e la famiglia
Terzaghi, dedita alle professioni mercantili e forensi,
ne fece parte per tutto il Cinquecento.70 La commissione venne poco dopo un evento importante: nel
1513 Massimiliano Sforza aveva dotato la confraternita dei diritti in campo patrimoniale e giudiziario di
cui godevano dal 1486 i principali enti caritativi di Mi-
lano.71 Si tratta dunque di un’ulteriore attestazione
dell’ascesa di Bernardino Luini e anche di un testo illuminante sulla sua cultura in quel momento.
La decorazione consta della pala d’altare con il
Compianto su Cristo morto con due santi vescovi (Fig.
10), di altre due tavole con la Flagellazione (Fig. 15) e
l’Ecce Homo, di una lunetta con l’Incoronazione di spine (Fig. 14) e dalla Crocifissione affrescata sulla volta
(Fig. 13). Le scene sono commentate da iscrizioni,
delle quali non si è ancora individuata l’eventuale
fonte. La combinazione di tavole e affreschi ha un
precedente nella sacrestia di Santa Maria della Passione, decorata da Bergognone nella prima parte dello stesso decennio.
Il quadro centrale, un disegno preparatorio per il
quale è conservato al Louvre (Département des
Arts graphiques, inv. rf 476)72 (Fig. 11), presenta alcuni elementi iconografici inconsueti. Oltre alla
Vergine, a san Giovanni Evangelista, alle pie donne,
a Nicodemo e a Giuseppe d’Arimatea prendono
parte alla lamentazione altri personaggi, alcuni dei
quali con cappelli che li connotano come ebrei. È
probabile che all’origine di questa rappresentazione
vi sia la Passione di Niccolò Cicerchia, della cui recezione in campo artistico si contano numerosi esempi.73 Nel cantare trecentesco, infatti, Giuseppe
d’Arimatea e Nicodemo sono accompagnati da
«[…] certi amici e sergenti/devoti di Iesù […]», che
assistono alla deposizione di Cristo dalla croce e poi
partecipano al compianto: «Ioseppe e Niccodemo
allor s’appressa/a la donna, e Giovanni con lor
gía./Intorno a le’ di gente avie gran pressa,/con dolenti sospir ciascun piangía./Giunser a lei e ‘nginocchiarsi ad essa./Ioseppe parla e piangendo dicía:/–
No’ vi preghiam, Madonna, che vi piaccia/che seppellir Iesù omè si faccia –».74 In secondo piano a destra una giovane donna e un bimbo con un cardellino, simbolo della Passione, apparentemente
estranei all’evento guardano lo spettatore e sembrerebbero dare alla scena il senso di una visione della
Vergine del destino di Cristo. I due santi vescovi so-
69 G. C. Sacco, Stato della Venerabile e Insigne Confraternita del Santissimo Sacramento, Monza, 1652, p. 8. Cfr. Il cardinale Giuseppe Pozzobonelli e gli atti della visita pastorale nella collegiata di San Giorgio al Palazzo, a cura di M. L. Gatti Perer, Milano, 1970, p. 53.
70 D. Zardin, Solidarietà di vicini. La confraternita del Corpo di Cristo
e le compagnie devote di S.Giorgio al Palazzo tra Cinque e Seicento, in Archivio Storico Lombardo, cxviii, 1992, pp. 361-604, in part. p. 369 nota 17.
71 Zardin, op. cit. alla nota n. 70, p. 371.
72 Cfr. F. Viatte, in Léonard de Vinci. Dessins et manuscrits, catalogo
della mostra a cura di V. Forcione e F. Viatte, Parigi 2003, p. 378 scheda
141, con bibliografia precedente. Per i pochi disegni di Bernardino
Luini cfr. Agosti, op. cit. alla nota n. 27, pp. 223-230 schede 43 e 44.
73 L. Sebregondi, La Deposizione di Cristo dalla croce, prima scena
della “tetralogia funebre”, in Filippino Lippi e Pietro Perugino. La deposizione della Santissima Annunziata e il suo restauro, catalogo della mostra
(Firenze 2004) a cura di F. Falletti e J. Katz Nelson, Livorno, 2004, pp.
50-65, pp. 54-55.
74 N. Cicerchia, La Passione, in Cantari religiosi senesi del Trecento,
a cura di G. Varanini, Bari, 1965, pp. 309-379, pp. 363 e 367.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 7. Gaudenzio Ferrari, Lavanda dei piedi, Varallo Sesia, Santa Maria delle Grazie, 1513.
167
168
cristina quattrini
Fig. 8. Gaudenzio Ferrari, Cristo davanti a Pilato, Varallo Sesia, Santa Maria delle Grazie, 1513.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 9. Bernardino Luini, Sogno di san Giuseppe,
Milano, Pinacoteca di Brera, dalla cappella di san Giuseppe in Santa Maria della Pace.
169
170
cristina quattrini
Fig. 10. Bernardino Luini, Compianto su Cristo morto coi santi Leone Magno e Natale,
Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516.
no presumibilmente sant’Agostino e san Natale, al
quale si riferisce la fondazione di San Giorgio al Palazzo dove è sepolto.
Anche nel caso della cappella del Santissimo Sacramento sono stati espressi dubbi sull’autografia integrale, che credo si possano accantonare.75
La cappella del Santissimo Sacramento rappresenta un punto di estrema vicinanza di Luini a Bernardo
Zenale e la stessa sofisticata impostazione prospettica ha fatto pensare a una collaborazione di quest’ultimo come architetto.76 Proprio nel 1516, come si è
detto Luini fece da testimone all’atto di stesura della
75 Bianconi, op. cit. alla nota n. 21, p. 253 accennò alla presenza
di aiuti ma trovò estremamente originale l’ideazione del complesso;
Williamson, op. cit. alla nota n. 49, pp. 17-18 e Beltrami, op. cit. alla
nota n. 23, pp. 34-51 parlarono di opera giovanile non del tutto risolta, seguiti Venturi, op. cit. alla nota n. 40, p. 744 (in una lettura complessivamente negativa dell’artista, sulla linea di Berenson), da G. R.
Ansaldi, Il primo tempo dell’arte di Bernardino Luini, in Nuova Antologia, lxviii, 1933, n. 1473, pp. 439-451, pp. 449-451, che vide l’intervento
della bottega nelle scene laterali, e da. Mazzini, op. cit. alla nota n.
48, p. 626. Infine Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 21, asserisce che nella cappella del Santissimo Sacramento collaborerebbe
con Luini il pittore dell’Annunciazione di iconografia amadeita di
Brera, data a Zenale negli anni venti da S. Buganza, Bernardo Zenale,
op. cit. alla nota n. 9, p. 62.
76 Bora, Bernardino, Luini, op. cit. alla nota n. 54, pp. 333-334; F.
Frangi, in Pittura a Milano, op. cit. alla nota n. 2, pp. 233-234.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
171
Fig. 11. Bernardino Luini, Compianto su Cristo morto, penna e inchiostro bruno, acquarello bruno, matita nera,
biacca su carta nocciola, Parigi, Museo del Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. RF 476.
dote monacale di Maria Lucrezia, figlia del maestro
di Treviglio, entrata come suor Mansueta nel monastero domenicano di San Lazzaro.77 L’ascendente del
pittore più giovane su Zenale è dimostrato nello
stesso momento dalla pala per l’altare di Antonio
Busti in Santa Maria di Brera, ora in Pinacoteca, restituita a quest’ultimo da un documento ritrovato di
recente. Zenale, infatti, nel 1518 ricevette un saldo
insieme all’intagliatore Bernardino da Legnano, autore della perduta cornice.78 L’ancona, pertanto, do-
vrebbe essere stata dipinta fra il 1515, anno della
consacrazione dell’altare indicato dall’iscrizione sul
basamento del trono della Vergine (che sembra aggiunta poco dopo la sua esecuzione) e quell’anno.
Di Zenale, in San Giorgio al Palazzo Bernardino
Luini ha chiaramente presente il Compianto di San
Giovanni Evangelista a Brescia (Fig. 12), commissionato anch’esso da una confraternita del Santissimo
Sacramento, forse concluso poco prima del 1509,
quando fu ordinata la cornice a Stefano Lamberti,79
77 Archivio di Stato di Milano, Notarile 4591, notaio Angelo Galli,
3 maggio 1516, pubblicato in Pini, Sironi, op. cit. alla nota n. 13, II,
doc. 28 pp. 39-40.
78 C. Geddo, G. Sironi, Luini o Zenale? Un pagamento per la pala
Busti, in Archivio Storico Lombardo, cxxviii, 2002 [2003], pp. 313-324, dove, sulla scia di una cospicua letteratura che attribuiva la pala all’uno
o all’altro dei due maestri, il Bernardino menzionato con Zenale nel
documento è ritenuto un collaboratore la cui fisionomia è resa problematica dalla fortissima vicinanza ai modi di Bernardino Luini che
la pala presenta. Che si tratti di Bernardino da Legnano è stato invece
segnalato da M. Ceriana, C. Quattrini, Per Vincenzo Foppa e per
Bernardino Luini in Santa Maria di Brera, con alcune note sulla cappella
Bottigella in San Tommaso a Pavia, in BdA, lxxxviii, 2003, serie vi, 124,
pp. 27-46, p. 34; M. Tanzi, Siparietti cremonesi, in Prospettiva, 113-114,
2004, pp. 117-162, p. 157 nota 38; S. Facchinetti, Estremi di Zenale: nuovi
documenti figurativi, in Paragone, lv, 2005, 659, terza serie, n. 59, pp. 1435, pp. 27-28. Cristina Geddo in seguito è tornata sulla questione sostenendo che il pagamento potrebbe riferirsi alla sola cornice (C.
Geddo, Postilla alla pala Busti, in Arte e storia di Lombardia, cit., pp. 263264). Sulla pala Busti si veda la lettura stilistica di Romano, op. cit. alla
nota n. 15, p. 104.
79 Come proposto da A. Ballarin, La “Salomè” del Romanino ed
altri studi sulla pittura bresciana del Cinquecento, a cura di B. M. Savy, 2
voll., Cittadella, 2006, i, pp. 58-59.
172
cristina quattrini
Fig. 12. Bernardo Zenale, Compianto su Cristo morto, Brescia, San Giovanni Evangelista.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 13. Bernardino Luini, Crocifissione, Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516,
particolare durante il restauro del 1989.
173
174
cristina quattrini
Fig. 14. Bernardino Luini, Incoronazione di spine, Milano, San Giorgio al Palazzo, cappella del Santissimo Sacramento, 1516.
e comunque dopo il 1505.80 Il gesto del san Giovanni
dell’ancona bresciana è infatti ripreso nella pia donna che piange a mani giunte sulla sinistra del Compianto di San Giorgio al Palazzo. Inoltre nel disegno
del Louvre la figura femminile che urla con le braccia levate, poi eliminata, è un’altra citazione dell’opera di Zenale, a monte della quale c’è però una
delle due incisioni di Mantegna con il Seppellimento
di Cristo.
Nella stessa tavola il san Giovanni sostiene Cristo
in ginocchio come nei Compianti fiorentini del Perugino di Palazzo Pitti per Santa Chiara (1495) e degli
Uffizi per San Giusto fuori le Mura e come in quello
della National Gallery of Ireland di Dublino. Questo
motivo nei primi anni del Cinquecento incontrò
grande fortuna e fu adottato, fra gli altri, da Gaudenzio Ferrari, Sodoma, Gerolamo Savoldo.81 Luini po-
Fig. 15. Bernardino Luini, Flagellazione,
Milano, San Giorgio al Palazzo,
cappella del Santissimo Sacramento, 1516, particolare.
80 S. Buganza, in Édouard e Nélie a Milano: i loro rapporti con gli antiquari, i restauratori e i collezionisti, in Due collezionisti alla scoperta
dell’Italia. Dipinti e sculture da Museo Jacquemart-André di Parigi, catalogo della mostra a cura di A. Di Lorenzo, Cinisello Balsamo, 2002, p.
95 nota 27.
81 A. Griseri, Gaudenzio e il suo cantiere: i viaggi, la provincia, il
teatro e i cartoni. una fortuna critica dal 1956 al 1981, in Gaudenzio Ferrari e la sua scuola. I cartoni cinquecenteschi dell’Accademia Albertina,
catalogo della mostra (Torino 1982) a cura di G. Romano, Milano,
1982 pp. 7-25, p. 24; M. Gregori, Savoldo ante 1521: riflessioni per una
inedita ‘Crocifissione’, in Paragone, l, 1999, 583, serie iii, 23, pp. 46-85,
pp. 54-55.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
175
trebbe averlo conosciuto tramite qualche disegno di
Filippino Lippi o di Fra’ Bartolommeo e Mariotto
Albertinelli per la mai realizzata pala dell’altare
maggiore della Certosa di Pavia,82 come per il primo
il foglio n. 129 del Fogg Art Museum di Cambridge
(Mass.) e per Fra’ Bartolommeo il n. 6827 F del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi e i nn.
164, 165 e 182 del Museo Boymans Van Beuningen di
Rotterdam.83 In San Giorgio al Palazzo si riscontra –
specie nel Compianto – un dialogo ancora molto serrato con Bramantino, che fino all’inizio degli anni
venti influì su Bernardino in modo determinante. Le
figure tornite, i panneggi ridondanti e alcuni profili
volti quasi interamente all’indietro si prestano al
confronto con opere di Bramantino che si fanno risalire agli anni dieci, come il Compianto e la Pentecoste
della parrocchiale di Mezzana o la Sacra Conversazione degli Uffizi (Fig. 20). A quadri come questi sembra rivolto il commento di Giovanni Paolo Lomazzo
sulla maniera di Bramantino dopo il viaggio a Roma,
quando «[…] usò un’altra foggia di panni, che parevano all’incontro troppo molli e rilasciati»,84 commento che avrebbe potuto estendere ai panneggi di
Luini nelle cappelle di San Giuseppe e del Santissimo
Sacramento o alle opere coeve di Giovanni Agostino
da Lodi e di Marco d’Oggiono. L’impianto teatrale
della Crocifissione sembra una personale reazione alle
Storie di Cristo di Gaudenzio Ferrari in Santa Maria
delle Grazie a Varallo Sesia; i manigoldi nelle scene
della Passione mostrano la suggestione delle «teste
caricate» di Leonardo ma anche quella delle stampe
di Martin Schongauer e Albrecht Dürer,85 condivisa
in quegli anni da tanti pittori di area padana ma nel
caso di Luini depurata dagli aspetti più brutali.
Per finire è palese il rapporto con la pittura smaltata di Andrea Solario,86 un rapporto che in questi
anni riguarda anche temi iconografici e tagli
compositivi – Salomè con la testa del Battista (Figg.
16, 17), i dittici Cristo portacroce/Mater dolorosa, San
Gerolamo penitente87 – e che negli ultimi dipinti di
82 Come propone Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, p. 23,
che vede una diretta influenza di Fra’ Bartolommeo e Mariotto Albertinelli su Luini.
83 Cfr. C. Fischer, Filippino Lippi, Mariotto Albertinelli, Fra’ Bartolommeo e l’ancona per l’altar maggiore della certosa di Pavia, in Perugino, Lippi e la bottega di San Marco alla Certosa di Pavia. 1495-1511, catalogo della mostra (Milano 1986) a cura di B. Fabjan, Firenze. 1986,
pp. 59-64.
84 Lomazzo, op. cit. alla nota n. 68, ii, p. 395, il passo è ricordato
da G. Agosti… Disegni, op. cit. alla nota n. 27, p. 213. Per la cronologia
di Bramantino si rimanda ad A. Ballarin Dosso Dossi. La pittura a
Ferrara negli anni di Alfonso I, 2 voll., Cittadella, 1995, i, pp. 12-13; G.
Romano La ‘Sacra Famiglia’ del Bramantino, già in casa Silva, in Arte
all’incanto. Mercato e prezzi dell’arte e dell’antiquariato alle aste Finarte
1989/90, Milano, 1990, pp. 36-39; Id., Per un documento sul Bramantino,
in Quaderno di studi sull’arte lombarda dai Visconti agli Sforza per gli 80
anni di Gian Alberto Dell’Acqua, a cura di M. T. Balboni Brizza, Milano
1990, pp. 85-93; Id. U n seminario su Bramantino, in Intorno a Giovan
Battista Cavalcaselle. Il caso Bramantino, «Concorso arti e lettere», i,
2007, pp. 39-69; Agosti, op. cit. alla nota n. 27, pp. 207-214 schede 37 e
38 e con una ricostruzione in parte diversa M. Natale in Capolavori
da scoprire. La collezione Borromeo, catalogo della mostra a cura di M.
Natale con la collaborazione di A. Di Lorenzo, Milano 2006, pp. 130137 scheda 9.
85 Come rilevato da Bertini, op. cit. alla nota n. 50, pp. 34-36. Non
mi pare invece necessario ritenere un diretto precedente del Compianto di Luini quello di Giovan Francesco Caroto dipinto nel 1515 a Casale
Monferrato, ora in collezione privata, secondo una proposta di M. T.
Franco Fiorio, Giovan Francesco Caroto, Verona, 1971, pp. 40, 44-45,
90, ripresa da G. Fossaluzza, Pittori veneti a Milano nel Cinquecento, in
Pittura a Milano. Rinascimento e Manierismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1998, pp. 44-52, in part. p. 45; Viatte, loc. cit. alla nota
n. 72, p. 378; Marani, loc. cit., alla nota n. 15, e nemmeno parlare di
un confronto con Giovan Angelo Del Maino, come Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 12, pp. 25-26. Per Giovan Angelo Del Maino e il
suo rapporto con Gaudenzio Ferrari, cfr. M. Albertario, Giovanni
Angelo Del Maino e Gaudenzio Ferrari, alle soglie della maniera moderna,
«Sacri Monti. Rivista di arte, conservazione, paesaggio e spiritualità
dei Sacri Monti piemontesi e lombardi», i, 2005-2006, pp. 339-364.
86 Venturi, op. cit. alla nota n. 40, p. 744; W. Suida, Leonardo und
sein Kreis, Monaco di Baviera 1929, ed. italiana a cura di M. T. Fiorio,
Vicenza, 2001, p. 274; Bertini, op. cit. alla nota n. 50, p. 36; P. C. Marani, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, p. 196; Id., loc. cit. alla
nota n. 15; M. Ceriana, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota 17, p.
196; Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 240; Frangi, op. cit.
alla nota n.2, p. 31; Id., in Pittura a Milano, op. cit alla nota n. 2., pp. 233234; Viatte, loc. cit. alla nota n. 72; Quattrini, op. cit. alla nota n. 55,
p. 26. Per il rapporto fra Luini e Solario si veda inoltre D. A. Brown,
Andrea Solario, Milano, 1987, pp. 20-21, 26, 29.
87 Si vedano ad esempio il San Gerolamo penitente del Museo Poldi
Pezzoli di Milano (cfr. M. Natale, Museo Poldi Pezzoli. Dipinti, Milano, 1982, p. 94 scheda 45) collocabile intorno al 1520 e simile a quello
di Solario del Bowes Museum di Barnard Castle a County Durham
(circa 1515) anche negli inserti di vita campestre sullo sfondo, il dittico
Mater dolorosa/Cristo porta croce dello stesso Museo, di analoga datazione, che riprende modelli solariani noti in diversi esemplari (Natale, op. cit. in questa nota, pp. 93-94 scheda 44: circa 1525) e delle Salomè
del Louvre [Fig. 19], della collezione Borromeo all’Isola Bella, degli
Uffizi, del Museum of Fine Arts di Boston e del Prado. Fra queste i
quadri del Louvre e dell’Isola Bella dovrebbero risalire all’epoca di
San Giorgio al Palazzo e della pala di Como, insieme alla Salomè del
Kunsthistorisches Museum di Vienna, mentre le altre sembrano riferibili agli anni venti. Binaghi Olivari (M. T. Binaghi Olivari, Partita
doppia milanese per Tiziano, in Venezia Arti, viii, 1994, pp. 37-46, pp. 3839; Ead. op. cit. alla nota n. 12, p. 15) ha messo in relazione questa iconografia e di quella affine della Testa del Battista e la loro diffusione ai
Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, supponendo che tutte le
Salomè di Luini e in generale l’affermazione di questo tema a Milano
risalgano al periodo 1503-1512, quando fu gran maestro dell’ordine Aimery d’Amboise, fratello del cardinale Georges e zio del governatore
di Milano Charles, al quale ipotizza sia appartenuta la Salomè di Solario della Galleria Sabauda di Torino. Un esempio del rapporto fra i
Cavalieri e questo genere di oggetti è, come nota la studiosa, il bellissimo piatto del Battista del Duomo di Genova (dove si conservano dal
xi secolo le reliquie del Precursore), composto da una testa del santo
in smalto en ronde-bosse legata in oro e pietre preziose a un piatto di
calcedonio del x-xi secolo, donato nel 1492 da Innocenzo VIII e prima
appartenuto a Jean Balue, vescovo di Evreux e di Angers e nel 1491 di
176
cristina quattrini
Fig. 16. Andrea Solario, Salomè con la testa del Battista,
Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Solario si manifesta anche come influsso del più
giovane Luini.88
Senza volere dare qui un elenco esaustivo, per
confronto con i dipinti di Bernardino Luini visti finora i se ne possono riferie altri al medesimo periodo.
Appaiono all’incirca coevi alla cappella di san Giuseppe il frammento di una Circoncisione unico avanzo delle pitture di una cappella in Santa Maria Nuova
ad Abbiategrasso,89 il San Cristoforo e il San Sebastiano
affrescati nel vestibolo della Certosa di Pavia e la MaPalestrina, cardinale di Santa Susanna e protettore dell’Ordine di San
Giovanni Battista (cfr. C. Di Fabio, in I gusti collezionistici di Leonello
d’Este. Gioielli e smalti en ronde-bosse a corte, catalogo della mostra
(Modena 2002-2003) a cura di F. Trevisani, Modena, 2002, pp. 173-179).
È altrettanto vero, però che i piatti del Battista potevano essere legati
alle confraternite di Disciplini, dedicate a san Giovanni e dedite all’assistenza ai condannati a morte, all’epoca numerose (per un esempio
marchigiano, l’esemplare ligneo da San Giovanni Decollato a Matelica e ora in San Filippo, cfr. A. Delpriori, in I pittori del Rinascimento
a Sanseverino. Bernardino di Mariotto, Luca Signorelli, Pinturicchio, catalogo della mostra (San Severino Marche 2006), Milano, 2006, p. 138,
scheda 21). Per questa iconografia si veda B. Baert, “The Head of St.
John the Baptist om a Tazza” by Andrea Solario (1507): the transformation
and the transitino of the “Johanneschüssel” from the Middle Age to the Renaissance, in Critica d’arte, lxix, 2007, pp. 60-82.
88 Luini non è estraneo alla svolta classico e monumentale che
contraddistingue gli ultimi dipinti di Solario: il Cristo benedicente del
Metropolitan Museum di New York e l’ancona dell’Assunzione della sacrestia nuova della Certosa di Pavia, rimasta incompiuta alla morte dell’artista nel 1524 e portata a termine da Bernardino Campi (cfr. Brown,
op. cit. alla nota n. 86, pp. 285-286 schede 71 e pp. 287-288 scheda 74). In
quest’ultima Andrea si ricorda di un’opera licenziata due anni prima da
Luini e dalla bottega: il polittico dell’Assuntadi Bobbio (per i documenti
Fig. 17. Bernardino Luini, Salomè con la testa del Battista,
Parigi, Museo del Louvre.
donna con il Bambino dal xix secolo nella sacrestia del
lavabo. Per quest’ultima, in origine sul muro esterno
di una cella, si può accettare il termine post quem
dell’inizio di lavori nel chiostro grande fornito dalle
Memorie della Certosa di Pavia di Matteo Valerio, da
estendere anche alle due figure di santi.90
P. Ceschi Lavagetto, Due lettere e qualche documento per il polittico di
Luini a Bobbio, in Scritti di Storia dell’arte in onore di Sylvie Béguin, Napoli,
pp. 205-218) dal quale ha ripreso ripresi i gesti degli Apostoli.
89 Cavalieri, op. cit. alla nota n. 28, p. 130; M. Comincini, La
storia, in Il convento dell’Annunziata di Abbiategrasso, op. cit. alla nota n.
28, pp. 9-104, pp. 61-62, 245.
90 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 52. Questa ipotesi è stata accolta da Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 130-131 schede 212 e 213; F. R. Pesenti, La pittura, in La Certosa di Pavia, Milano
1968, pp. 83-113, p. 93; R. Battaglia, La Certosa, in Pittura a Pavia dal
Romanico al Settecento, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1988,
pp. 86-95; Ead., Bernardino Luini, ibidem, p. 232; Quattrini, op. cit., alla
nota n. 1, p. 66. Una datazione alla fine del primo decennio è stata
invece proposta da Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 17, pp. 190192. e ripresa da P. C. Marani, in Il Museo della Certosa di Pavia. Catalogo generale, a cura di B. Fabjan e P. C. Marani, Firenze, 1992, pp. 171172 e G. Giacomelli Vedovello, ivi, pp. 173-174. Dopo il restauro
recentemente ultimato da Luigi Parma, condivido ora la collocazione
nei primi anni venti, proposta da Dario Trento (comunicazione riferita da L. Lodi, in Certosa di Pavia, Parma, 2006, pp. 331-332), delle tavole
di polittico con Sant’Ambrogio e del San Martino del Museo della Certosa, in precedenza poste anch’esse sul 1514/1515 da Battaglia, op. cit.
in questa nota, p. 93 e in Pittura a Pavia, cit., p. 232, e da me (op. cit., alla
nota n. 1, p. 66 e Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, p. 37).
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
177
Sono vicini alla cappella di San Giuseppe l’affresco
di Brera con la Madonna con il Bambino e sant’Anna,91
di provenienza ignota, e la bella Madonna del grappolo
d’uva già nella collezione di Angelo Costa a Genova
(Fig. 18).92 In quest’ultima l’aquilegia stretta dal
Bambino e il cardellino alludono alla Passione, l’uva
al vino eucaristico e alla salvezza attraverso il sacrificio di Gesù («Io sono la vite»: Giovanni 15:15) ed è
probabile che la committenza sia da cercare nell’ambiente delle confraternite dette del Corpo di Cristo
o del Santissimo Sacramento, le cui relazioni con
Luini alla stessa epoca sembrerebbero non limitate
alla cappella di San Giorgio al Palazzo. Per la loro
iconografia sembrano infatti legate a quest’ambito
altre due opere databili intorno alla metà degli anni
dieci e contraddistinte da un intenso rapporto di
scambio con Zenale: la Pietà del Museum of Fine
Arts di Houston93 e lo Scherno di Cam di Brera, denso
di riferimenti eucaristici e salvifici.94 Alla stessa epoca dovrebbe risalire la Madonna del roseto di Brera95
(Fig. 19), anch’essa da leggere fra Zenale e Bramantino, nella quale il Bambino deriva dagli studi di Leonardo per la Madonna del gatto, mentre la spalliera di
rose ricorda soprattutto esempi di area renana, come
quelli di Stephan Lochner del Museo Wallraf-Ri-
chartz di Colonia e di Martin Schongauer nella chiesa dei Domenicani di Colmar.
Sono da porre all’incirca nel periodo 1515/1517
anche il polittico di Sant’Andrea a Maggianico,96 gli
affreschi del Louvre staccati nell’Ottocento da un
oratorio annesso a una residenza suburbana dei marchesi Litta nel quartiere milanese di Greco e – a giudicare dalle fotografie che lo ritraggono prima dei
danni subiti durante la seconda guerra mondiale –
quello raffigurante Curio dentato rifiuta i doni dei Sanniti, presumibilmente tolto da quella casa.97 Ricostruendo i passaggi di proprietà Binaghi Olivari è risalita al probabile committente, Giovan Pietro
Porro, membro della famiglia che possedeva il fondo
nella prima metà del Cinquecento.98
Un’altra testimonianza della fortuna di Luini pittore di dimore aristocratiche negli stessi anni è il
grande affresco a chiaroscuro della Pinacoteca del
Castello Sforzesco con Ercole e Atlante (Fig. 21), proveniente dalla parete di fondo di Palazzo Landriani a
Milano (ora sede dell’Istituto Lombardo Accademia
di Scienze e Lettere) e forse avanzo di un ciclo perduto. È uno dei testi che meglio illustrano l’ascendente di Bramantino su Luini e va collocato poco dopo il 1513,99 anno in cui Tommaso Landriani acquistò
91 Entrato a Brera con il legato Oggioni nel 1855, l’affresco è già
stato accostato a quelli della cappella di San Giuseppe da Beltrami,
op. cit. alla nota n. 23, p. 145. Cfr. G. B. Sannazzaro, in Pinacoteca di
Brera, op. cit. alla nota 17, pp. 320-322, scheda 141, con bibliografia precedente.
92 Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 76-77 scheda
55; A. Orlando, Angelo Costa e la pittura genovese: per la genesi e la storia
di una collezione, in Genova e il collezionismo del Novecento. Studi nel centenario di Angelo Costa (1901-1976), a cura di A. Orlando, Torino, 2001,
pp. 151-159, p. 152.
93 La Pietà di Houston è ritenuta di poco anteriore alla cappella di
San Giorgio al Palazzo da Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n.
33, p. 77 scheda 56, da Mazzini, op. cit. alla nota n. 48, p. 626; L. Cogliati Arano, Andrea Solario, Milano 1965, p. 41; F. R. Shapley, Paintings from the Samuel H. Kress Collection. Italian Schools, xv-xvi Century,
Oxford, 1968, p. 140 e Freedberg, op. cit. alla nota n. 43, p. 468, e di
poco successiva da Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 344. Per
gli aspetti iconografici cfr. C. C. Wilson, Focus on Luini’s Houston
Pietà, in Arte Lombarda, xxx, n.s., 1995/1, pp. 39-42; Ead., Italian Paintings xiv-xvi Centuries in the Museum of Fine Arts, Houston, Londra 1996,
pp. 300-302 scheda 29, con datazione agli anni 1515/1520.
94 Quattrini, op. cit. alla nota n. 55, cui rimando anche per la
bibliografia.
95 Tradizionalmente ritenuta proveniente dalla Certosa di Pavia,
la Madonna del roseto prima di essere acquistata per Brera nel 1825 da
Francesco I d’Austria presso l’antiquario monzese Giuseppe Bianchi
si trovava presso casa Bellingeri a Pavia. Cfr. D. Vicini, I leonardeschi
nelle collezioni civiche di Pavia, in I leonardeschi a Milano. Fortuna e collezionismo, atti del Convegno (Milano 1991) a cura di M. T. Fiorio e P.
C. Marani, Milano, 1993, pp. 235-252, che ipotizza che in origine l’opera appartenesse al distrutto oratorio pavese di Santa Maria della Rosa.
Ritenuta tarda da P. Gauthiez, Notes sur Bernardino Luini. Deuxième
article, in Gazette des Beaux Arts, xli, 1899, 22, pp. 89-197, p. 114, essa è
stata collocata intorno alla metà degli anni venti da Beltrami, op. cit.
alla nota n. 23, p. 535; Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33,
pp. 34, 102-103 cat. 126; Freedberg, op. cit. alla nota n. 43, cit., p. 320;
Natale, op. cit. alla nota n. 87, p. 92 e Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 356. M. T. Binaghi Olivari, in Disegni e dipinti leonardeschi
dalle collezioni milanesi, catalogo della mostra (Milano 1987-1988), Milano 1987, p. 143 vedendo nel quadro influssi di Raffaello, Sodoma e
Baldassarre Peruzzi ha supposto che Luini l’abbia dipinto sul 1508, dopo un viaggio a Roma molto precoce. P. C. Marani, in Pinacoteca di
Brera, op. cit. alla nota 17, pp. 193-195 scheda 119, rilevando la derivazione dagli studi di Leonardo per la Madonna del gatto, ha pensato a
un’opera giovanile, poi (Luini Bernardino, cit., p. 513) a una datazione
fra primo e secondo decennio, notando l’influsso di Zenale e le somiglianze con il ciclo di San Giorgio al Palazzo; anche S. Bandera, La
Madonna del roseto della Pinacoteca di Brera in un dipinto di Bernardino
Luini, Lions Club Milano al Cenacolo Vinciano 2000 ha ritenuta la tavola successiva alla Madonna di Chiaravalle del 1512.
96 Questa proposta di Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp.
24-25, cui sembra pensare anche Marani, op. cit. alla nota n. 15, p. 513,
posticipa di qualche anno la datazione del polittico rispetto al 1511/1512
proposta da F. Moro, Il polittico di Maggianico e gli esordi di Bernardino
Luini, in Archivi di Lecco, ix, 1986, 1, pp. 129-171, seguito da Quattrini,
op. cit., alla nota n. 1, p. 66; Ead., op. cit. alla nota n. 55, p. 33.
97 Cfr. J. Habert, S. Loire, C. Scailliérez, D. Thiébaut, Catalogue des peintures italiennes du musée du Louvre, a cura di É. FoucaurtWalter, Parigi, 2007, pp. 84-85, con bibliografia precedente.
98 Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 27-29.
99 Tale datazione è sostenuta da Suida, op. cit. alla nota n. 66, pp.
143, 220; Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, p. 106 scheda
137; M. T. Fiorio in Disegni e dipinti, op. cit. alla nota n. 95, p. 146
scheda 76; Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, pp. 332-333; F.
178
cristina quattrini
Fig. 18. Bernardino Luini, Madonna del grappolo d’uva, Genova, collezione privata.
Frangi in Pittura a Milano, op.cit. alla nota n. 2, p. 229; Agosti, op.
cit. alla nota n. 27, p. 226. Bertini, op. cit. alla nota n. 50, p. 43 anticipa
l’affresco al primo decennio, G.B. Sannazzaro, in Museo d’arte antica del Castello Sforzesco. Pinacoteca. Tomo I , Milano, 1997, pp. 329-331
scheda 225 lo pone intorno al 1524, N. Forti Grazzini, L’arazzo fer-
rarese, Milano 1982, p. 92 nota 96 e S. Leydi, Sub umbra imperialis
aquilae. Immagine del potere e consenso politico nella Milano di Carlo V,
Firenze 1999, p. 148 nota 124 sul 1520. Per l’iconografia, tratta dalla
Bibliotheca Storica di Diodoro Siculo, cfr. Forti Grazzini, op. cit. in
questa nota, p. 92 nota 96.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
179
Fig. 19. Bernardino Luini, Madonna del roseto, Milano, Pinacoteca di Brera.
la casa dalla famiglia Bossi e ne intraprese la ristrutturazione, forse affidandola a Cesariano. L’edificio,
che secondo una fonte seicentesca avrebbe vantato
bellissimi busti di marmo antichi, conserva tuttora
un ambiente al piano terreno con affreschi raffiguranti scene di storia romana e segni zodiacali, riferiti
180
cristina quattrini
Fig. 20. Bramantino, Madonna col Bambino e santi, Firenze, Galleria Nazionale degli Uffizi.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
181
Fig. 21. Bernardino Luini, Ercole e Atlante, Milano, Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco.
recentemente a Niccolò Appiani.100 Tommaso apparteneva a una grande famiglia di tradizione sforze-
sca. Giureconsulto nel 1497, condottiero al servizio
del re di Napoli, di Alessandro VI, di Venezia e di
100 Nel 1539 Tommaso Landriani, poco prima di morire, incaricò
di affrescare la propria cappella in San Dionigi Niccolò Appiani, al
quale gli affreschi della Sala del Centenario di Palazzo Landriani sono
attribuiti in via ipotetica da M. Rossi, Cesariano in Duomo, in Cesariano
e il classicismo di primo Cinquecento, Atti del Seminario di Studi (Varen-
na 1994) a cura di M. L. Gatti Perer e A. Rovetta, Milano, 1996, pp. 4566, pp. 47-48, che li ritiene posteriori a un incendio che colpì l’edificio
nel 1526, da Agosti, op. cit. alla nota n. 8, p. 128 nota 3, da Sacchi, op.
cit. alla nota n. 5, i, p. 193.
182
cristina quattrini
Fig. 22. Bernardino Luini, Madonna con il Bambino, i santi Gerolamo, Domenico, Antonio da Padova,
Agostino e il cardinale Scaramuccia Trivulzio. Como, Cattedrale.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
183
Firenze,101 nel 1518 era decurione del consiglio generale del sestiere di Porta Nuova nel 1518 e nel 1519
membro dell’ufficio di provvisione.102 Il fratello Luchino, commendatario di Sant’Antonio a Piacenza
avrebbe portato a Milano da Roma statue antiche; la
nipote Angela, figlia del fratello Maffeo, sposò Francesco Melzi.103 La figura più interessante per i rapporti con gli ambienti artistici sembrerebbe però il
fratello Maffeo, presente nella Fabbrica del Duomo
come deputato per la Porta Orientale negli anni 1509,
1510, 1515, 1516, 1519 e come membro dei Dodici di
Provvisione nel 1520 e nel 1529, e inoltre rappresentante del Luogo Pio delle Quattro Marie nel 1524.104
Segue a breve la cappella di San Giorgio al Palazzo la solenne pala di San Gerolamo del Duomo di
Como (Fig. 22), ricondotta qualche anno fa da Maria Teresa Binaghi Olivari alla committenza di Scaramuccia Trivulzio, vescovo della città fra il 1507 e
l’otto gennaio del 1518, che vi è ritratto in abito cardinalizio, particolare che rende possibile circoscrivere la commissione fra l’investitura avvenuta nel
luglio 1517 e la conclusione del mandato.105 Questo
prestigioso incarico è preceduto dal contratto del
20 ottobre del 1516106 con l’arciprete di Santa Maria
del Tiglio a Gravedona, Antonio Curtoni, per un
polittico che probabilmente non fu realizzato, poiché entro il novembre seguente il committente fu
assassinato.107
Nessuno dei lavori considerati finora presenta
tracce significative di incontri con la cultura centroitaliana e nemmeno quell’accentuarsi di elementi leonardeschi che si riscontra nelle opere degli anni venti. Questa fase stilistica si interrompe dopo
l’ancona di Como ed è probabile che Bernardino
Luini sia andato a Roma poco dopo averla eseguita.
La prima opera datata successiva, l’affresco del 1521
di Santa Maria di Brera a Milano (Fig. 32) raffigurante l’Eterno benedicente, la Vergine con il Bambino, i
Santi Antonio Abate e Barbara e un angelo musico,108
riflette la visione di opere di Raffaello. I riferimenti
al Sanzio e ai suoi incisori compariranno sul tramezzo di San Maurizio al Monastero Maggiore fra
la fine degli anni dieci e i primi anni venti109 e diverranno espliciti con quelli a Michelangelo negli
affreschi della cappella Maggiore di Santa Maria dei
Miracoli a Saronno, del 1525, probabilmente anche
per effetto del ritorno di Cesare da Sesto a Milano
nel 1519.110
101 M. F. Sansovino, Origine e fatti delle famiglie illustri d’Italia, Venezia, 1670, p. 90.
102 A. Salomoni, Memorie storico-diplomatiche degli Ambasciatori,
Incaricati d’affari, Corrispondenti e Delegati, che la città di Milano inviò a
diversi suoi principi dal 1500 al 1796, Milano, 1806, ed. anastatica Milano,
1975, pp. 16-17; F. Calvi, Famiglie notabili milanesi, 4 voll., Milano, 18751885, iii, s.p.
103 F. Ciceri, Epistolae, ms., s.d. [seconda metà del xvi secolo}, Milano, Biblioteca Trivulziana, cod. 756, f. 41; cfr. R. Sacchi, op. cit. alla
nota n. 5, i, p. 194.
104 Annali della Fabbrica del Duomo di Milano dall’origine fino al presente pubblicati a cura della sua amministrazione, 9 voll., Milano 18771885, iii, pp. 145, 148, 171, 176, 206, 212, 242; R. Schofield, J. Shell,
G. Sironi, Giovanni Antonio Amadeo. I documenti, Milano 1988, pp. 438
doc. 1181, 528 doc. 1490; 534 doc. 1509. Si trova il nome di Maffeo Landriani in atti che riguardano Giovanni Stefano Scotti e Giovan Francesco Niguarda (pagamento per la pittura della copertura dell’altare
dell’albero e la doratura della trave cui è appeso il crocifisso nel 1509),
Cristoforo Lombardi (autorizzato dalla Fabbrica nel 1515 a ultimare il
monumento a Lancino Curzio in San Marco), Paolo Solari, figlio di
Cristoforo (pagamento nel 1515), Cristoforo Lombardi, Antonio Porro e Ambrogio Ferrari (pagamento per una piramide a guglia nel
1519), Zenale (commissione del modello del Duomo nel 1519) e Pietro
da Velate (pagamento per «[…] aptatura […]» della vetrata di san
Giorgio nel 1519).
105 M. T. Binaghi Olivari, I vescovi Trivulzio e il Duomo di Como,
in Le arti a Como durante i vescovi Trivuzio, atti del Convegno, Como
1998 (Como 1996), pp. 11-19, 15-19.
106 Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile, notaio Giovanni
Antonio Taegi, fasc. 5339, documento pubblicato da J. Shell, Bernardino Luini’s lost altarpiece for the Church of S. Vincenzo at Gravedona, in
Arte Lombarda, xxiv, n.s. 1989, 90/91, pp. 189-191; Pini, Sironi, op. cit.
alla nota n. 13, ii, pp. 42-43. La carpenteria avrebbe dovuto essere ese-
guita da Francesco de’ Donati e dorata da Alessandro da Vaprio. Il miniatore Gerolamo Taegio avrebbe dovuto compiere la stima del lavoro ultimato.
107 L’omicidio fu perpetrato per vendetta dal soldato di ventura
Giovanni da Brenzio il cui padre Antonio, brigante e partigiano dei
Grigioni, sarebbe stato ucciso su istigazione di Gian Giacomo Trivulzio, come narra B. Giovio, Historiae patriae libri duo, Biblioteca Civica
di Como, ms. 8.i.21, s.d., ed. consultata Como 1982, p. 134.
108 Per un’ipotesi sulla committenza di questo affresco, diviso in
due frammenti e ora in deposito da Brera al Museo Nazionale della
Scienza e della Tecnica “Leonardo da Vinci” di Milano, cfr. Ceriana,
Quattrini, op. cit. alla nota n. 78, pp. 33-38.
109 Per Luini a San Maurizio P. C. Marani, Gli affreschi di Bernardino Luini in San Maurizio tra circoli letterari, tradizione lombarda e classicismo centro-italiano, in Bernardino Luini e la pittura del Rinascimento
a Milano. Gli affreschi di San Maurizio al Monastero Maggiore, a cura di
S. Bandera e M. T. Fiorio, Milano, pp. 53-77; D. Trento, Alessandro e
Ippolita Bentivoglio in San Maurizio, ivi, pp. 37-44; Id., Alessandro Bentivoglio, Bernardino Luini e la sua scuola in San Maurizio al Monastero Maggiore, in Ricerche di Storia dell’Arte, XXV, 2000, 77, pp. 61-83; Sacchi, op.
cit. alla nota n. 5, I, pp. 328-355; Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n.
12, pp. 25-26.
110 Cfr. Quattrini, op. cit. alla nota n. 16, pp. 37-39; Ead., Tangenze
centroitaliane nella pittura del ducato di Milano al tempo di Bernardino
Ferrari, in Viglevanum, xvi, 2006, marzo, pp. 34-57, pp. 47-49. Un secondo viaggio a Roma nel 1523/1524, a ridosso di questa impresa, è
ipotizzato da P. C. Marani, Pittura e decorazione dalle origini fino al
1534. Giorgio da Saronno, Alberto da Lodi, Bernardino Luini e, Cesare
Magni, in Il Santuario della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno, a cura
di M. L. Gatti Perer, Milano, pp. 144-169, pp. 154 e 183 nota 38; Id., op.
cit. alla nota n. 109, p. 62.
184
cristina quattrini
Il viaggio romano è spesso evocato per un’impresa
di Bernardino Luini dalla datazione incerta: la decorazione di palazzo Rabia a Milano, che doveva comprendere molte stanze, un vestibolo dove figurazioni a chiaroscuro del Laocoonte e di altre statue
antiche erano ancora visibili ai primi dell’Ottocento,111 una cappella dedicata al culto della Vergine e
dei Sette Dormienti di Efeso, la facciata e il cortile
con tre ordini di logge. La perdita della gran parte
delle pitture e il distacco delle poche superstiti avvenne dopo il 1786, quando il Luogo Pio di Santa
Corona, che si era insediato nel palazzo nel 1577, dopo un ultimo ampliamento nel 1781 si trasferì all’Ospedale Maggiore. L’edificio venne destinato ad
uso privato e subì successive modifiche che ne compromisero l’aspetto originario. All’inizio dell’Ottocento nell’albergo della Croce di Malta, che occupava una parte dello stabile, si vedevano ancora le
Storie di Europa ora alla Gemäldegalerie di Berlino112 (Figg. 25, 27-29); poco dopo Carlo Morbio riferiva che Giovan Battista Silva le aveva fatte staccare dalla stanza al piano superiore nella quale si
trovavano e le aveva trasferite nel vestibolo della
propria casa nello stesso stabile, insieme ad altri lacerti di soggetto imprecisato che riferiva in parte alla bottega di Bernardino e in parte al figlio Aurelio.113 In quel momento le scene raffiguranti Europa
e le compagne raccolgono fiori ed Europa e il toro si dirigono verso Creta con un corteo di divinità marine furono divise in due e ridotte di dimensioni: le si vede
ancora intere nelle incisioni di Gaetano Zancon.114
Nel 1845 nove frammenti delle Storie di Europa furono acquistati dal Kupferstichkabinett di Berlino, poi
passarono al Kaiser Friederich Museum.
Una sorte analoga ebbero i due brani di vedute
architettoniche offerte nel 1911 da un abitante del
palazzo, Franco Bordini, all’Ambrosiana e i tre
frammenti con teste della Pinacoteca Civica del Castello Sforzesco, donati nel 1865 dalla contessa Lidia
Attendolo Bolognini e già appartenuti ad Andrea
Appiani, per i quali iscrizioni sul retro attestano la
provenienza dal cortile.115 Non è invece documentata la provenienza dalla ex casa Rabia delle nove
Storie di Cefalo e Procri della National Gallery di Washington (Figg. 23, 24), entrate a far parte in data
imprecisata della collezione di Michele Cavaleri,
passate nel 1874 al Museo di Enrico Cernuschi a Parigi e in seguito nelle raccolte Kann e Duveen,116 e
del cosiddetto Silenzio del Louvre, già di proprietà
Vallardi a Milano e His de la Salle a Parigi.117 È disperso un affresco staccato con San Rocco su sfondo
architettonico e più grande del naturale che intorno al 1865 si trovava in un ambiente divenuto la scuderia del dottor Marco Palletta, allora proprietario
dell’immobile, e che alla stessa epoca fu acquistato
da Giuseppe Baslini, restautato e trasportato su tela
da Giuseppe Bertini e venduto per sedicimila lire a
Gerolamo Napoleone Bonaparte.118 Per finire provengono forse dal medesimo complesso anche due
frammenti con le teste di una giovane donna e di
un personaggio con elmo già nella collezione Cologna.119
Questa rovina consumata in breve tempo ha ridotto a pochi lacerti uno dei più celebri capolavori
di Bernardino Luini. Nel Cinquecento inoltrato casa
Rabia era ancora molto rinomata, tanto da essere
111 Tutte le stanze e il cortile cinto da colonne su due lati sono detti affrescati da Luini da Torre, op. cit., alla nota n. 32, p. 138. Il vestibolo affrescato è menzionato come da poco distrutto da G. Zancon,
Galleria inedita raccolta da privati gabinetti milanesi, Milano 1812, s.p.
112 Zancon, op. cit. alla nota n. 111, con le incisioni degli affreschi; G. B. Carta, Nouvelle description de la ville de Milan, Milano,
1819, p. 201.
113 C. Morbio, Cenni storici e descrizione delle pitture di Bernardino
Luini rappresentanti il ratto d’Europa possedute dal vv. Gio. Battista Silva
abitante nella Piazza di San Sepolcro n. 3176, ms., s.d., Milano, Biblioteca
Ambrosiana, miscellanea R. 185 Inf.
114 Zancon, op. cit. alla nota n. 111; Beltrami, op. cit. alla nota n.
23, pp. 169-171.
115 Sannazzaro, op. cit. alla nota n. 99, pp. 331-332 schede 226-228
116 Per questo motivo Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12,
pp. 35-38, suppone che le Storie di Cefalo e Procri vengano da un vicino
palazzo di via San Maurilio, di proprietà fra il 1514/1515 e il 1521 di
Giovan Angelo Selvatico, altro nobile milanese cultore di architettu-
ra ricordato da Cesariano, che nel 1520 ne aveva fatto trasformare il
cortile da Cristoforo Solari. L’ipotesi parte dalla testimonianza di De
Pagave, op. cit. alla nota n. 12, ff. 305-310, che alla fine del Settecento
segnalava nel vestibolo della casa, all’epoca dei conti Bossi, pitture
di Luini di tema imprecisato. In mancanza di elementi più stringenti
che permettano di legare gli affreschi di Washington a qesto edificio,
si preferisce qui continuare a riferirli a casa Rabia. Potrebbero essere
state fra gli affreschi che Morbio, op. cit. alla nota 113, segnalava in
casa Silva riferendoli alla bottega e non dicendone il soggetto, o fra
le pitture cui fa cenno P. Canetta, Storia del Pio Istituto di Santa Corona di Milano, Milano, 1883, pp. 7-20 riferendo che secondo alcuni
un tale Carisio, residente nel complesso nel 1778, le avrebbe vendute
all’estero.
117 J. Habert, S. Loire, C. Scailliérez, D. Thiébaut, op. cit. alla nota n. 97, p. 85.
118 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 173.
119 F. Wittgens, Alcune opere della collezione Cologna in Milano, in
L’Arte, xxxii, 1929, n. 1, pp. 210-222, pp. 218-219.
Gli affreschi del palazzo
di Gerolamo Rabia
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 23. Bottega di Bernardino Luini, Cefalo punito da Diana,
Washington, National Gallery of Art,
dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano.
185
186
cristina quattrini
Fig. 24. Bottega di Bernardino Luini, La disperazione di Cefalo,
Washington, National Gallery of Art,
dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
187
Fig. 25. Bernardino Luini, Europa in mare sul toro, Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano.
fra le pochissime opere di Luini menzionate da
Giorgio Vasari nell’edizione del 1568 delle Vite. Vasari, reduce da un soggiorno a Milano due anni prima
ospite di Leone Leoni, tratta in realtà del nostro
pittore molto sbrigativamente, nominandolo in
margine alla biografie di Boccaccino e Lorenzetto e
di Garofalo e Girolamo da Carpi e accenna così al
palazzo: «i[…] dipinse già in Milano vicino a San
Sepolcro la casa del signor Gian Francesco Rabbia,
cioè la facciata, le logge, sale e camere facendovi
molte Trasformazioni et altre favole […]».120 La di-
mora, in realtà, non appartenne mai a Giovan Francesco Rabia, di un diverso ramo della famiglia, ma a
Gerolamo, il patrizio appassionato di ‘scienza vitruviana’ ben noto a Cesariano, che lo descrive «[…]
amicissimo dei francesi […]» ed «[…] egregio e di
magnificenza come uno Lucullo […]» e ne ricorda le
splendide «[…] fabrice […]», ossia la Pelucca, dove
120 Vasari, op. cit. alla nota n.7, iv p. 312 per casa Rabia e v, p. 435
per gli affreschi di San Maurizio al Monastero Maggiore e di Santa
Maria dei Miracoli a Saronno.
188
cristina quattrini
Fig. 26. Agostino Busti detto il Bambaia, Apostolo,
Milano, Musei Civici del Castello Sforzesco, dalla tomba di Gaston de Foix in Santa Marta.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 27. Bernardino Luini, Corteo di divinità marine,
Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano.
189
190
cristina quattrini
Fig. 28. Bernardino Luini, Europa in mare e una fanciulla,
Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
191
Fig. 29. Bernardino Luini, Europa consolata da Venere e Imeneo,
Berlino, Gemäldegalerie, dal palazzo di Gerolamo Rabia a Milano.
verosimilmente Luini lavorò sul 1510/1512, e la residenza urbana.121 Gerolamo Rabia era un intellettuale in vista nella Milano di primo Cinquecento. Lancino Curzio († 1515) gli dedicò tre oscuri epigrammi,
stampati postumi nel 1521;122 i suoi interessi letterari
e le sue belle residenze sono ancora evocati in una
lettera dell’umanista Francesco Ciceri (Lugano 1521Milano 1596), scritta forse nel penultimo decennio
del secolo, che fa riferimento alla casa di Milano decorata dal «pittore di nobilissima arte».123
121 Vitruvio, op. cit., alla nota n. 10, f. cxr.
122 Lancinus Curtius, Lancini Curtii Epigrammaton libri decem,
Milano, Rocco e Ambrogio de Valle, 1521. Per Lancino Curzio cfr. D.
Isella, Lo sperimentalismo dialettale di Lancino Curzio e compagni, in In
ricordo di Cesare Angelini. Studi di letteratura e filologia, Milano, 1979, pp.
146-179, ripubblicato in D. Isella, Lombardia stravagante. Testi e studi
dal Quattrocento al Seicento e per i suoi rapporti con gli artisti Agosti,
op. cit. alla nota n. 7, pp. 120-122; Id., Scrittori che parlano di artisti, tra
Quattro e Cinquecento in Lombardia, in B. Agosti, G. Agosti, C. B.
Strhelke, M. Tanzi, Quattro pezzi lombardi (per Maria Teresa Binaghi), Brescia, 1998, pp. 57-60.
123 F. Ciceri, Epistolae, ms., s.d., Milano, Biblioteca Trivulziana,
cod. 756, ff. 25v-26v. La lettera in questione è pubblicata in in Francisci
Cicereri epistolarum libri xii et orationes quatuor. M. Maphaei filii epistolarum liber singularis et aliorum varia quae omnia ex mss. codicibus nunc
primum in luce prodent adiectis illustrationibus et Francisci vita cura et studio D. Pompei Casati, 2 voll., Milano, 1782. Un tentativo di identificare
i testi della biblioteca di Gerolamo Rabia è stato fato da G. Ferri Piccaluga, Il sincretismo religioso e culturale nell’età dei Della Rovere: la pittura “profana” in Lombardia tra Quattrocento e Cinquecento, in Sisto IV e
Giulio II mecenati e promotori di cultura, atti del Convegno internazionale di Studi a c. di S. Bottaro, A. Dagnino e C. Rotondi, Savona, 1989
(Savona 1985), pp. 140-141.
192
cristina quattrini
Qualcosa dei gusti letterari di Gerolamo si può
capire dai soggetti degli affreschi delle sue case, molto
meno eterodossi di quanto si sia voluto credere.124 Il
fortunatissimo Ovidio Metamorphoseos vulgare di Gerolamo Bonsignori, versione in volgare di Ovidio non
sempre fedele, e le xilografie dell’edizione a stampa
del 1490 sono utilizzati per alcuni soggetti mitologici
della Pelucca e per le Storie di Europa.125 La fonte delle
Storie di Cefalo e Procri è stata individuata da Irvin Lavin126 nel dramma Cefalo di Niccolò da Correggio, il
quale alla fine del Quattrocento aveva lungamente
soggiornato alla corte sforzesca ed era certo noto agli
ambienti letterari e cortigiani milanesi.
Della famiglia di Gerolamo sappiamo che il padre
Aloisio, dal quale egli ereditò la Pelucca nel 1506,127
fu membro dei Dodici di Provvisione negli anni 1469
e 1475 e deputato dell’Ospedale Maggiore nel 1471, fece parte del Luogo Pio della Rosa e fu tra i fondatori
della chiesa domenicana di Santa Maria della Rosa
nel 1480 e delle Scuole Taverna nel 1492.128 Il fratello
maggiore Giacomo risulta in rapporto con la Fabbrica del Duomo fin dal 1507, quando l’Amadeo compì
la stima di una lapide da lui richiesta,129 poi come
deputato per la Porta Ticinese fra il 1508 e il 1510 e in
seguito come tesoriere.130 Il 20 ottobre 1510 prese
parte alla commissione degli stalli del coro della Cattedrale insieme ai nobili Marco Antonio Dugnani e
Francesco Corio, a Leonardo da Vinci, a Giovanni
Antonio Amadeo, ad Andrea Fusina e a Cristoforo
Solari detto il Gobbo.131
Proprio quest’ultimo, morto nella peste del 1524 al
vertice di una fama che scavalcava i confini dello
stato di Milano,132 era l’architetto di palazzo Rabia.
Lo si sa grazie a una delle lapidi che nel Settecento
ancora si vedevano nei basamenti delle semicolonne
del portico trasformato nella farmacia dei confratelli
di Santa Corona, dove presumibilmente erano state
murate in seguito ai rimaneggiamenti della casa, e
dove furono viste e trascritte da Giuseppe Allegranza.133 Alla fine dell’Ottocento Vincenzo Forcella po-
124 Si veda la letteratura legata alla cabala e alle presunte origini
sefardite della famiglia Rabia proposta da Ferri Piccaluga, loc. cit.
alla nota n. 123; Ead., Bernardino Luini tra Milano e Saronno nella cultura
milanese del Cinquecento, in Arte religione, comunità nell’Italia Rinascimentale e barocca, Atti del convegno di studi in occasione del v centenario
di fondazione del Santuario della Beata Vergine de Miracoli di Saronno
(1498-1998) (Saronno 1998) a cura di L. Saccardo, Milano, 2000, pp. 140154, pp. 152-154.
125 Cfr. per la Pelucca Quattrini, op. cit. alla nota n. 16, pp. 25-44.
In precedenza una lettura degli affreschi mitologici della Pelucca in relazione a un carme di Lorenzo il Magnifico dedicato al mito di Amore
e Psiche è stata proposta da G. Mulazzani, Temi profani in Luini: gli
affreschi per Gerolamo Rabia, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino
Luini, catalogo della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 2947, pp. 35-38, mentre K. Windt, Kunst unter Fremdherrschaft. Bernardino
Luinis Bei, Parigi 1849.trag zur Profanmalerei in der Lombardei zu Zeiter der
französischen Beisetzung, Berlino, 1994, ha rilevato corrispondenze con
l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna.
126 I. Lavin, Cephalus and Procris. Trasformations of an Ovidian
Myth, in Journal of the Warburg and Courtald Institutes, xvii, 1954, pp.
260-286, 366-372. Per Niccolò da Correggio P. Farenga, Correggio
(Correggio Visconti) Niccolò Postumo, in DBI, 29, Roma, 1983, pp. 466-474:
S. Cavicchioli, Le Metamorfosi di Psiche. L’iconografia della favola di
Apuleio, Venezia, 2002, pp. 55-64. Per la sua attività di ideatore di programmi iconografici V. Farinella, L’immagine del nuovo duca: le prime
commissioni di Alfonso I d’Este e l’avvio dello “studio dei marmi” di Antonio Lombardo, in Tullio Lombardo scultore e architetto nella Venezia del
Rinascimento, atti del convegno di studi (Venezia 2006) a cura di M.
Ceriana, Verona, 2007, pp. 291-319, 309-311. Cefalo fu rappresentato la
prima volta a Ferrara nel 1487, per le nozze di Lucrezia d’Este e Annibale Bentivoglio, la prima edizione a stampa uscì a Venezia presso
Manfrino Bono da Monferrato nel 1507.
127 Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile, notaio Stefano
Cardano, faldoni 2064 e 2065, documenti pubblicati da Binaghi Olivari, in op. cit. alla nota n. 17, pp. 267-268; Ead., Gerolamo Rabia, Luini
e la Pelucca: documenti inediti, in Gli affreschi di Sesto San Giovanni. Cicli
decorativi nelle ville del territorio, Milano, 1988, pp. 45-51; Ead., Il giardino di Gerolamo Rabia nella villa Pelucca a Sesto San Giovanni, in Giardini
e parchi di Lombardia dal restauro al progetto, atti della giornata di studio
(Cinisello Balsamo 2000) a cura di G. Guerci, Cinisello Balsamo, 2001,
pp. 59-67.
128 G. Gattico, Descrizione succinta e vera delle cose spettanti alla
chiesa e al Convento di Santa Maria delle Grazie e di Santa Maria della Rosa, e suo luogo, et altre loro adherenze in Milano dell’ordine de’ Predicatori,
ms., Milano, 1638, edizione consultata Milano, Ente Raccolta Vinciana, 2004, p. 84; M. Gazzini, Scuola, libri e cultura nelle confraternite
milanesi fra tardo medioevo e prima età moderna, in La Bibliofilia, ciii,
2001, 3, pp. 215-261.
129 Archivio della Fabbrica del Duomo, Giornale di cassa 1507, n.
86, f. 6v, pubblicato in Schofield, Shell, Sironi, op. cit. alla nota n.
104, pp. 393-394. Più avanti, divenuto tesoriere, Giacomo Rabia dà ordine di effettuare un pagamento al lapicida Andrea Candiano per un
lavoro stimato da Amadeo: Archivio della Fabbrica Del Duomo, Liber
mandatorum 1509-11, n. 701, f. 48r, pubblicato in Schofield, Shell,
Sironi, op. cit. alla nota n. 104, p. 433.
130 Annali, op. cit. alla nota n. 104, iii-iv e Archivio della Fabbrica
del Duomo, Giornale di cassa 1507, n. 86, f. 6v, documenti pubblicati
in R. Schofield, J. Shell, G. Sironi, Giovanni Antonio Amadeo, cit.,
pp. 393-394; 431, 433.
131 Annali, op. cit. alla nota n. 104, pubblicato anche in Schofield,
Shell, Sironi, op. cit. alla nota n. 104, p. 440 e in Leonardo da Vinci. I
documenti e le testimonianze contemporanee, a cura di E. Villata con presentazione di P. C. Marani, «Raccolta Vinciana», Milano, 1999, p. 236.
132 G. Agosti, La fama di Cristoforo Solari, in Prospettiva, 46, 1986,
pp. 57-65; Id., op. cit. alla nota n. 7, pp. 83, 112, 121, 173-174; 177; Id., Su
Mantegna I. La storia dell’arte libera la testa, Milano 2005, pp. 389, 425
nota 131; A. Markham Schulz, Cristoforo Solari at Venice: Facts and
Suppositions, in Prospettiva, nn. 53-56, 1988-1989, pp. 309-316; B. Jestaz,
Les rapports des Français avec l’art et les artists lombarda: quelques traces,
in Louis XII en milanais. xii colloque international d’études humanistes, a
cura di P. Contamine e J. Guillaume, Paris, 2003 (Paris 1998), pp. 293298; S. Zanuso, Cristoforo Solari tra Milano e Venezia, n Nuovi Studi, v,
2000, 8, pp. 17-34; M. T. Binaghi Olivari, Cristoforo Solari: notizie da
Vigevano, in Arte e storia di Lombardia, cit., pp. 216-223; C. R. Morscheck Jr., Grazioso Sironi and the unfinished Sforza Monument for
Santa Maria delle Grazie, ivi, pp. 227-242.
133 G. Allegranza, lettera a Pompeo Casati in Francisci Ciceri epistolarum libri, op. cit. alla nota n. 123, ii, pp. 287-294.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 30. Andrea Fusina, Maddalena, Milano, Museo del Duomo.
193
194
cristina quattrini
té osservarne solo alcune abbandonate in un giardino adiacente, mentre delle altre si erano perse le
tracce. I testi, non del tutto comprensibili nelle trascrizioni di Allegranza e Forcella, erano stati composti dallo stesso Gerolamo Rabia. Tre celebravano la
magnificenza di «Ieronimus Arabus» e la bellezza
della sua dimora, una era dedicata a Priapo custode
degli orti, una ai piaceri della vita, una riguardava un
sacello dedicato alla Vergine e ai Sette Dormienti di
Efeso, altre due ricordavano rispettivamente Solari,
paragonato a Dedalo, e il defunto Giacomo, invocato come lare protettore.134 Probabilmente proprio
grazie al fratello Gerolamo si poté permettere il
Gobbo, che era architetto del Duomo dal 1501 e poteva essere ingaggiato da altri solo con il benestare
dei fabbricieri.
La decorazione di casa Rabia è legata al termine
ante quem della scomparsa di Cristoforo Solari nel
1524 e apparentemente al termine post quem di quella
di Giacomo Rabia, che nel 1506 aveva ereditato una
casa presso la chiesa del Santo Sepolcro destinatagli
dal testamento del padre nel 1500 e che nel 1519, morendo senza figli, lasciò una casa nella stessa area a
Gerolamo.135 A ripercorrere per quanto si riesce la
storia del palazzo, quest’ultimo termine non risulta
però vincolante e si può proporre per gli affreschi
una datazione agli anni 1517/1520, in anticipo rispetto
a quella al principio del decennio seguente generalmente accolta.136
Un primo indizio importante, ma poi poco considerato, fu segnalato da Luca Beltrami che pure
poneva gli affreschi in apertura degli anni venti.137
Il Fondo Fagnani della Biblioteca Ambrosiana, una
raccolta di attestati di nobiltà delle famiglie milanesi risalente al 1575, contiene la testimonianza dell’ottantacinquenne Giovanni Antonio da Fossate, che
dichiara di avere assistito in gioventù alla costruzione del palazzo di Girolamo «[…] circa il 1516 […]» e
ne ricordava il successivo acquisto da parte di Domenico Sauli, nel 1531.138 Altre notizie rilevanti si
trovano nei libri mastri della confraternita, in parte
pubblicati nella Storia del Pio Istituto di Santa Corona
pubblicata da Pietro Canetta nel 1883. Nel 1577 il
Luogo Pio di Santa Corona traslocò nell’ex palazzo
Rabia dalla sua sede più antica nella stessa piazza
San Sepolcro, della quale rimane la cappella con
l’Incoronazione di spine affrescata dallo stesso Luini
fra il 1521 e il 1522 ora inglobata nell’Ambrosiana. Il
devoto sodalizio aveva acquistato l’edificio e il complesso dei corpi di fabbrica annessi dai fratelli Ambrogio e Camillo Rho.139 L’anno seguente la casa fu
oggetto di migliorie fra le quali l’adattamento del
portico a farmacia, mentre la vecchia sede fu affittata e poi venduta nel 1584 agli oblati di Sant’Ambrogio. Nel 1581 Pietro e Aurelio Luini furono pagati per pitture nell’oratorio, fra le quali «[…] li
ritratti delli signori Deputati Vecchi quali erano
pincti nell’Oratorio vecchio nella casa dove si faceva la Spezieria vecchia di S. Corona […]», probabilmente una replica dell’affresco di Bernardino nell’antica sede; fra il 1600 e il 1601 lavorarono nel Pio
Luogo anche Camillo Landriani detto il Duchino e
Drago Cornelio, autori di dipinti nella sala del capitolo. Il complesso acquistato dai confratelli di
Santa Corona nel 1577 è così descritto in un atto del
notaio Ambrogio Spanzotta del 20 settembre di
quell’anno:140
134 Forcella, op. cit. alla nota n. 30, v, pp. 48-56.
135 Archivio di Stato di Milano, Fondo finanze, Confische, P.A.,
cart. 2428, documenti resi noti da Binaghi Olivari, op. cit., alla nota
n. 17, p. 267.
136 L. Beltrami, op. cit., pp. 160-174; Freedberg, op. cit. alla nota
n. 43, pp. 468-469 (che ritiene gli affreschi di casa Rabia coevi a quelli
della Pelucca e li taccia tutti di arcaismo); M. T. Binaghi Olivari, Regesto, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo della
mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 77-85, p. 83, limitatamente alle Storie di Europa, Windt, op. cit. alla nota n. 125; M. Rossi, Trasformazioni dell’immagine urbana e decorazione pittorica fra Quattrocento
e Cinquecento, in Milano ritrovata. L’asse di via Torino, catalogo della
mostra a cura di M. L. Gatti Perer, Milano, 1986, pp. 157-177, pp. 167,
168-172; F. Moro, Pittura in Brianza e in Valsassina dall’Alto Medioevo al
Neoclassicismo, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo, 1993, p. 262;
Gemäldegalerie Berlin. Gesamtverzeichnis, Berlino, 1996, p. 73 (con errata provenienza dalla Pelucca).
137 Beltrami, op. cit. alla nota n. 23, p. 164.
138 R. Fagnani, Carte e documenti riguardanti famiglie diverse, Milano, Biblioteca Ambrosiana, T 160 Sup., vol. xiii, f. 42. L’unica fonte che
menziona il palazzo all’epoca della proprietà Sauli, B. Taegio, La villa, Milano, 1559, p. 105, non parla degli affreschi, ma solo del giardino
fra i più belli di Milano.
139 P. Canetta, Storia del Pio Istituto di Santa Corona in Milano, Milano , 1883, pp. 7-20. Le pitture della casa Rho sono ricordate come di
Bramante da I. Valerio, Cose degne d’esser viste et considerate nella
grande città di Milano, ms., s.d. [prima metà del xvii secolo?], in P.
Mazzucchelli, Miscellanea, Milano, Biblioteca Ambrosiana, ms. S.
117 Sup., ff. 250-257, f. 257r. La stessa fonte (f. 256v) ricorda anche Luini
nel Luogo Pio di Santa Corona, ma non è chiaro se si riferisca alla
prima sede o all’ex casa Rabia.
140 Archivio di Stato di Milano, Fondo Notarile,cartella 10733. notaio Ambrogio Spanzotta, 20 settembre 1577, trascritto da Canetta,
op. cit. alla nota n. 139, p. 15.
Nominative de sedimine uno sito in porta ticinense parrocchia Sancti Sebastiani Mediolani quod est cum suis benefitiis, cameris, salis, curiis, porticibus, viridario, canepis, stallis, portis, tribus putheis, necessarii et aliis suis locis juribus
etc. cui toto sedimini coheret ab una parte plathea Sancti
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 31. Cristoforo Solari, Sant’Elena, Milano, Museo del Duomo.
195
196
cristina quattrini
Sepulcri et Alia parte monacorum Sancti Ambrosii Majoris
Mediolani, et in parte d. Hercoli Fontanae ab alia haeredum
q.m. spect. Domini Francisci de Ello, et ab alia in parte bona
et domus Sancti Sebastiani et in parte mediante accessio.
Non penso che, come credeva Canetta, l’immobile
acquistato da Santa Corona nel 1577 fosse la proprietà venduta da Gerolamo Rabia nel 1520.
Sebbene non si riesca a ricostruire puntualmente
tutti i passaggi delle case dei Rabia e delle proprietà
di Santa Corona, si deduce che sul lato di piazza San
Sepolcro attualmente occupato dal palazzo costruito dal Savoldi si trovavano più edifici. È probabile
che il sedime venduto da Gerolamo Rabia nel 1520
fosse quello ereditato da Giacomo l’anno precedente, ma non il palazzo in cui egli abitava, già edificato
da Cristoforo Solari secondo Ambrogio da Fossate
intorno al 1516 e almeno in parte già dipinto da Bernardino Luini.
Il quadro è reso ancora più complicato dall’esistenza di un altro immobile sullo stesso lato della
piazza, annesso alla prima sede del Luogo Pio di Santa Corona nel 1540, come recita una lapide murata
sulla facciata del palazzo costruito nel 1875 dall’architetto Angelo Savoldi per Angelo Palletta, realizzata
presumibilmente in occasione dell’ampliamento del
1781-«christo redemptore/sanctae coronae sa-
cro nomine dicata societas/hic pavperibvs maximeqve aegrotantibvs/opportvna svbsidia liberaliter elargitvr/mdxl/laxitas et amplitvdo/aedibvs adivncta/mdcclxxxi» – e dal fatto
che nel 1661 il Luogo Pio di Santa Corona aveva comprato dai da Ello – gli armaroli Missaglia – una casa
con l’intento mai realizzato di costruire una chiesa.
Collocare approssimativamente la decorazione di
casa Rabia nel periodo 1517/1520 non contraddice lo
stile degli affreschi e in particolare delle Storie di Europa, le più significative riguardo alla cultura di Luini
in quel momento. Il dislivello fra le Storie di Europa e
le Storie di Cefalo e Procri, più rigide e sommarie, è
motivo di un imbarazzo che percorre la letteratura
sul’artista e che talvolta si è tentato di risolvere
immaginando uno scarto cronologico in parallelo a
quanto sarebbe avvenuto alla Pelucca.141 È però
ragionevole riferire le Storie di Cefalo e Procri alla
bottega, data anche la vastità che dovevano avere le
superfici affrescate della casa di Gerolamo Rabia. Il
classicismo dei frammenti berlinesi è stato visto come conseguenza del soggiorno a Roma, dove Luini
avrebbe potuto vedere Raffaello e Baldassarre Peruzzi nel cantiere della Farnesina.142 Dato il poco che
resta di un’impresa di così vaste proporzioni, non si
può scartare del tutto la possibilità che il viaggio sia
avvenuto mentre essa era in corso, ma le Storie di
Europa, ancora molto bramantinesche, eludono
confronti diretti con modelli romani.
Già negli affreschi della Pelucca alcune figure facevano pensare alla conoscenza di opere di Antonio
Lombardo forse, avvenuta durante il viaggio in Veneto. Nelle Storie di Europa si legge un riflesso della
scultura milanese coeva. I veli leggeri e trasparenti,
talvolta gonfiati dal vento, sembrano volere tradurre
gli effetti ottenuti sul marmo dal Bambaia; è possibile, del resto, che Luini fosse all’opera nella distrutta
chiesa di Santa Marta proprio mentre nel 1517 questi
141 Ottino Della Chiesa, op. cit. alla nota n. 33, pp. 27-29, 113-116
scheda 154 collocò l’inizio della decorazione di casa Rabia intorno al
1520 e ipotizzò postulare che gli affreschi di Washington – con le eccezioni della Preghiera di Procri a Diana e di Procri trafitta – fossero stati
dipinti per primi e seguiti a breve dagli affreschi mitologici della Pelucca, ponendo invece quelli di Berlino a conclusione di entrambi i cicli per Gerolamo Rabia e dopo le Storie Esodo della villa suburbana.
L’idea di una distanza temporale fra il gruppo di Washington e quello
berlinese è stata in seguito ripresa da Mazzini, op. cit. alla nota n. 48,
p. 629 da Mulazzani, op. cit. alla nota n. 125, pp. 40-42 e da L. Tognoli Bardin, in Sacro e profano nella pittura di Bernardino Luini, catalogo
della mostra (Luino), Cinisello Balsamo, 1975, pp. 89-91, che hanno
datato i secondi intorno al 1523, e da F. R. Shapley, National Gallery
of Art, Washington. Catalogue of the Italian Paintings, 2 voll., Washin-
gton 1979, i, pp. 285-288, che ha posto le Storie di Cefalo e Procri prima
del 1520 e le Storie di Europa sul 1522. G. Bora, I leonardeschi e il disegno,
in I leonardeschi. L’eredità di Leonardo in Lombardia, Milano 1998, pp. 93120, pp. 111-115 e Bora, Bernardino, op. cit. alla nota n. 54, p. 332 ha ipotizzato una distanza di circa un ventennio fra le due serie, collocando
la seconda nei primi anni venti dopo il viaggio di Luini a Roma. Infine
Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12, pp. 34-38 le ha datate entrambe agli anni 1519/1523, dopo il soggiorno romano, supponendo però
che le Storie di Cefalo e Procri, imputabili alla bottega, vengano dal palazzo di Giovan Angelo Selvatico (cfr. nota 115)
142 Cfr. Bora, I leonardeschi, op. cit. alla nota n. 141, p. 115; Ceriana,
Quattrini, op. cit. alla nota n. 78, p. 37, con datazione di entrambi i
gruppi intorno al 1519/1520; Binaghi Olivari, op. cit., alla nota n. 12,
pp. 34-38.
La proprietà che il 5 luglio 1520 Gerolamo Rabia
aveva venduto ai fratelli Giovanni Paolo e Giovanni
Filippo Roma è così definita in un atto del notaio Freganeschi già all’Archivio di Stato di Milano, trascritto da Beltrami e ora non più esistente:
De sedimine uno sito in P.T.P.S. Sebastiani Mediolani cui
toto sedimini coheret ab una parte strata et platea Sancti
Sepulcri, ab alia illorum de Ello in parte et in parte hospitii
puthei, ab alia parte haeredes q.m d.omini de Brone in parte et in parte quoddam accessum seu steciolum inter ecclesia Sancti Sebastiani.
bernardo luini nel secondo decennio del cinquecento
Fig. 32. Bernardino Luini, Madonna col Bambino, i santi Antonio abate e Barbara e un angelo musico,
Milano, Pinacoteca di Brera (in deposito presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica
“Leonardo da Vinci”), da Santa Maria di Brera, 1521.
197
198
cristina quattrini
vi iniziava a lavorare alla tomba di Gaston de Foix
(Fig. 26).143
Le teste pettinate ‘alla greca’ ricordano, ad esempio, la Maddalena del Duomo di Andrea Fusina, insieme al Giuda Maccabeo documentato al 1497 sole
statue note di uno degli scultori più importanti di
Milano al passaggio tra Quattro e Cinquecento (Fig.
30).144 Le imponenti fanciulle assomigliano alle statue di Cristoforo Solari, in particolare a quelle più
tarde come la Sant’Elena (anteriore al 1514) (Fig. 32)
e la Giuditta del Duomo145 ed evocano i commenti
di Pomponio Gaurico sulle membra erculee delle
statue del Gobbo.146 L’affinità con il classicismo
degli scultori è una delle chiavi della modernità di
Bernardino Luini, che nel secondo decennio del
Cinquecento gli valse il favore di committenti colti e
aristocratici e lo fece diventare uno dei pittori più
importanti di Milano.
143 La portata e i tempi dell’intervento di Luini in Santa Marta, del
quale parlano le antiche guide a partire da Torre, op. cit., alla nota n.
32, pp. 123-124 ma sopravvivono pochi frammenti a Brera, sono difficili da determinare. Si può solo contare sul termine post quem della
consacrazione dell’edificio appena riedificato nel 1516 e sull’indicazione fornita dalla Nota di quelli sepolti nella nostra chiesa esteriore, redatta
fino al 1517 dalla tesoriera e cancelliera delle agostiniane e proseguita
fino al xviii secolo da altre monache (Biblioteca Ambrosiana, ms. A.
198 Suss.), di numerose sepolture avvenute nella chiesa claustrale e in
quella esterna nel 1514, quando la ricostruzione doveva dunque essere
a buon punto. Cfr. F. Frangi, in Pinacoteca di Brera, op. cit. alla nota
17, pp. 224-234 schede 130a-g; Quattrini, op. cit., alla nota n. 1, p. 65;
per l’ambiente delle agostiniane di Santa Marta cfr. Binaghi Olivari, op. cit. alla nota n. 15, in part. pp. 56-60. Per la tomba di Gaston de
Foix cfr. Agosti, op. cit. alla nota n. 8, pp. 136-169 e p. 149; S. Leydi,
«Con pompa más triunfante que fúnebre». I funerali milanesi di Gaston de
Foix (25 aprile 1512), in Milano e Luigi XII. Ricerche sul primo dominio francese in Lombardia (1499-1512), a cura di L. Arcangeli, Milano 2002, pp.
70-73, Jestaz, op. cit. alla nota 132, pp. 280-281. M. T. Fiorio, “Una archa molto superba”: il monumento di Gaston de Foix, in Lombardia rinascimentale. Arte e architettura, a cura di M. T. Fiorio e V. Terraroli, Milano, 2003, pp. 237-245. Per Bambaia si veda inoltre V. Zani, Il Bambaia.
Madonna Taccioli, catalogo della mostra, Trinity Fine Art s.r.l., Milano, 2000.
144 Per una revisione della figura di Andrea Fusina Zani, op. cit.
alla nota n. 29, p. 44.
145 Per questa fase dell’attività di Cristoforo Solari Zanuso, op. cit.
alla nota n. 132. La Sant’Elena sembra nota anche a Giovan Francesco
Caroto nella Santa Caterina d’Alessandria del Museo di Castelvecchio.
146 P. Gauricus, De sculptura [1504], edizione a cura di A. Chastel
e r. Klein, Parigi, 1969, p. 255.
Appartiene al periodo considerato in questo articolo
anche un’Annunciazione in due pannelli già nella collezione Breadalbane a Taymouth Castle, vicine in
particolare al polittico di Maggianico. La tavola con
l’Annunciata, ora in collezione tedesca, è pubblicata
come opera di Leonardo da I. ed E. Bubenik, Leonardo da Vinci’s Madonna Immaculata rediscovered, Wolnzach, 2009, volume del quale sono venuta a conoscenza al momento di correggere le bozze del mio
contributo.
LA COMMITTENZA
DEL CARDINALE GIOVANNI GARZIA MELLINI A ROMA:
GIOVANNI DA SAN GIOVANNI, AGOSTINO TASSI
E VALENTIN DE BOULOGNE
Fausto Nicolai
a fonte più importante per ricostruire la vita del
cardinale Giovanni Garzia Mellini (1562-1629) è
rappresentata dalla biografia che il suo segretario
personale, Decio Memmolo, diede alle stampe nel
1644, a pochi lustri dalla morte del prelato.1 Vi si celebrano con toni encomiastici le azioni di carità e
magnificenza, quest’ultima spesso legata alla promozione e al sostegno di importanti imprese artistiche: «se egli fusse stato men liberale, ò più ricco –
scrive il segretario –; si sarebbe fatto scorgere anco
magnifico: e per quel poco che poté ne diede qualche
saggio nelle fabriche, che fece nella Chiesa de Santi
Quattro coronati suo titolo; nella cappella della sua
Fameglia nella chiesa del Popolo; e nelle proprie case…certamente egli haveva quello che è proprio del
magnifico di pensare, non quanto si habbia a spendere; ma come l’opera debba riuscire nobile e grata».2
Il biografo elenca le varie opere finanziate dal Mellini senza alcun riferimento agli artisti coinvolti, limitandosi a sottolineare l’alto profilo del personaggio,
più interessato alla buona riuscita dei lavori che preoccupato degli oneri per realizzarli. Più di recente
nuovi studi hanno approfondito l’attività di committente e di collezionista del Mellini con aggiunte significative su tempi e modi delle imprese promosse.3
La scoperta di nuovi documenti permette ora una
migliore conoscenza di questi aspetti con particolare
riferimento ai cicli pittorici della tribuna della chiesa
dei Ss. Quattro Coronati, della cappella di famiglia a
S. Maria del Popolo, del palazzo avito a piazza Navona e della villa a Monte Mario, commissionati dal
Mellini e da altri componenti del casato durante il
terzo decennio del Seicento. Inoltre, grazie alla lettura comparata di alcuni inventari è stato possibile
individuare nelle raccolte del cardinale opere di
autori celebri, alcune delle quali identificabili con
certezza.
La tribuna e la calotta absidale della chiesa dei Ss.
Quattro Coronati a Roma, come noto, furono affrescate con storie dei santi omonimi da Giovanni da
San Giovanni su richiesta del cardinale Giovanni
Garzia Mellini titolare della chiesa dal 1606 al 1627.4
Un’iscrizione rinvenuta lungo l’arco del catino absidale in occasione dei restauri dei primi del Novecento ricorda che l’opera fu eseguita dal Mannozzi nel
1623.5 Anna Banti suggeriva per questi affreschi una
cronologia prossima al ciclo di San Carlo Borromeo
nella cappella Baccini a S. Maria dei Monti, opera che
secondo la studiosa Mannozzi realizzò nel 1623, appena dopo i lavori per il Mellini.6 Una lettera pubblicata da Orbaan nel 1927 e ripresa dalla studiosa ricorda che il 16 gennaio 1623 l’ambasciatore mediceo a
Roma Francesco Niccolini chiese aiuto alla Granduchessa Cristina di Lorena per trovare in tempi rapidi
un collaboratore da affiancare al Mannozzi nella
conduzione degli affreschi ai Ss. Quattro.7 Pur man-
1 D. Memmolo, Vita dell’Eminentissimo Signor Cardinale Gio. Garzia
Mellino Romano, Roma, 1644.
2 Ivi, p. 59.
3 A. Banti, Giovanni da San Giovanni pittore della contraddizione, Firenze, 1977, in part. pp. 15-18, pp. 58-59; S. Neuburger, Zur Apsis der
SS. Quattro Coronati in Rom, «Storia dell’Arte», 58, 1986, pp. 207-222;
per gli affreschi a S. Maria del Popolo si veda: E. Bentivoglio, S.
Valtieri, S. Maria del Popolo, Roma, 1976, p. 86; M. P. Mannini, Alcune lettere inedite e un ciclo pittorico di Giovanni da San Giovanni, «Rivista d’Arte», 38, 1986, p. 192. Per l’inventario dei quadri lasciati in eredità dal cardinale al nipote Urbano Mellini nel 1629 cfr.: F. Nicolai,
La collezione di quadri del cardinale Scipione Cobelluzzi. Cavarozzi, Grammatica e Ribera in un inventario inedito del 1626, «Studi Romani», nn. 3-
4, 2004, pp. 440-462, part. 461-462. Sulla raccolta di Pietro Mellini nel
1680 con alcune opere provenienti dall’eredità di Giovanni Garzia si
veda: Jorge Fernandez-Santos Ortiz-Iribas, The inventory of Pietro Mellini’s collection at the palazzo del Rosario in 1680, «The Burlington
Magazine», 150, 2008, pp. 512-520.
4 G. Moroni, Dizionario di erudizione ecclesiastica, 1857, vol. xlv,
p. 141.
5 A. Munoz, Il restauro della chiesa e del chiostro dei SS. Quattro Coronati, Roma, 1914, p. 80: «Gio. de S(anct)o Gio(van)ni Toschano fecit
1623».
6 Banti, op. cit., p. 58.
7 J. A. F. Orbaan, An unknown Giovanni da San Giovanni, «Apollo»,
iv, 1927, p. 28.
L
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 199-206
200
fausto nicolai
Fig. 1. Giovanni da San Giovanni, Episodio di conversione, Ss.
Quattro Coronati, Roma, 1622-1624.
tenendo la medesima datazione (1623 ca.) Suzanne
Neuberger, al contrario, collocava l’intervento del
Mannozzi alla Madonna dei Monti appena prima di
quello dei Ss. Quattro Coronati.8 Per quest’ultimo
intervento la Neuberger proponeva come termini
cronologici di avvio e conclusione dei lavori, rispettivamente il 16 gennaio 1623, data della lettera inviata
dall’ambasciatore Niccolini a Cristina di Lorena, e il
8 Neuburger, op. cit., pp. 207-210.
9 Ivi, pp. 209-210.
10 Carolyn H. Wood, Giovanni da San Giovanni and Innocenzo
Tacconi at the Madonna dei Monti, Rome, «The Burlington Magazine»,
143, 2001, pp. 11-18. In precedenza già Maria Barbara Guerrieri Borsoi
aveva approfondito la vicenda degli affreschi del Mannozzi alla Madonna dei Monti, pubblicando in sintesi gli stessi documenti poi ripresi in forma più estesa dalla Wood. M. B. Guerrieri Borsoi,
Un’eredità e i suoi frutti: opere di Giovanni da San Giovanni e Innocenzo
Tacconi nella cappella Baccini in Santa Maria dei Monti a Roma, «Paragone», 46, 1995, pp. 115-125.
11 I registri contabili consultati sono conservati tra le carte dell’Archivio Mellini conservato nel palazzo Serlupi-Crescenzi di Roma.
Ringrazio il marchese Giovanni Serlupi-Crescenzi per la gentile disponibilità nel concedermi l’accesso alla frequentazione dell’archivio.
12 Archivio Mellini (palazzo Serlupi-Crescenzi Roma, d’ora in poi
am), Tomo 91, Entrate e Uscite 1608-1613, s.f., 13 agosto 1622. Il volume
riporta i mandati di pagamento effettuati dal cardinale attraverso il
banco di Giovanni Rotoli per un periodo di tempo più esteso rispetto
a quanto indicato sulla costa, dal 1608 al 1628.
periodo settembre-ottobre 1624, quando vennero sistemate a ridosso dell’abside le reliquie dei Ss. Quattro, rinvenute pochi anni prima.9
La recente pubblicazione del contratto per il ciclo
di San Carlo datato 10 giugno 1622 sembrava confermare la priorità temporale di questi affreschi, ritenuti la prima commissione romana al pittore toscano e,
quindi, precedenti l’attività per il Mellini.10 Il rinvenimento delle carte contabili del cardinale Giovanni
Garzia permette ora di datare con precisione le varie
imprese decorative di cui fu promotore, a partire dalla decorazione dei Ss. Quattro Coronati commissionata al Mannozzi.11 Il primo pagamento di 30 scudi
all’artista «a bon conto delli lavori che fa a Sancti
Quattro» è riportato nel libro delle Entrate e Uscite del
cardinale in data 13 agosto 1622.12 La registrazione
contabile testimonia che Mannozzi nell’agosto del
1622 stava già lavorando in quel cantiere e che, trattandosi di un primo acconto, il contratto per l’opera
doveva già essere stato stipulato qualche tempo prima, in modo da dare possibilità al pittore di preparare modelli e attrezzature tecniche necessari all’impresa. I compensi al Mannozzi si susseguono con
una certa regolarità fino ai primi di aprile del 1624,
data di conclusione del ciclo, contestualmente al termine per la realizzazione delle decorazioni in stucco
e pietra dell’altare eseguite dagli scalpellini Daniele
Guidotti e Giovanni de Rossi.13
Le nuove carte dimostrano che nell’estate del 1622
Mannozzi entrò in contatto con il cardinale Mellini
e che in quello stesso momento furono avviati i lavori nella tribuna dei Ss. Quattro Coronati. Questi dati
permettono ora di rivedere la cronologia da assegna13 am, Tomo 91, Entrate e Uscite 1608-1613, 25 gennaio 1623: «Alli 25
di Genaro 1623 si fece mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 20 moneta
da pagare a m[astr]o Gio: Pictori a bon conto, sc. 20»; Idem, 6 aprile
1623: «Adi 6 di aprile 1623 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi
30 moneta da pagarsi al Pictore a bon conto, sc. 30»; Idem, 13 settembre 1623: «Alli 13 di sectembre 1623 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli
di scudi 100 si moneta da pagarsi a M[astr]o Gio. Pictori a bon conto»;
Idem, 20 ottobre 1623: «Adi 20 di ottobre 1623, facto un mandato al Sr.
Gio. Rotoli di scudi 100 di moneta da pagarsi al Pictore a bon conto
di lavori che fa a Sancti Quattro»; Idem, 12 gennaio 1624: «Adi 16 genaro 1624, si fece un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 50 moneta da
pagarsi al Pictore a bon conto di quello che ha da havere»; Idem, 5 febbraio 1624: «Alli 5 di febraro facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 30 da pagarsi al Pictore a bon conto»; Idem, 5 marzo 1624: «Adi 5
marzo facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 25 da pagarsi al Pictore a bon conto»; Idem, 2 aprile 1624: «Adi 2 aprile 1624 facto un mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 15 da pagarsi al Pictore a bon conto»;
Idem, 30 maggio 1624: «Adi 30 magio 1624 facto un mandato al Sr. Gio.
Rotoli di scudi 43 moneta da pagarsi a mastro Daniele Guidottti e
Giovanni de Rossi scarpellini per intiero pagamento di tutto quello
ch’hanno fatto a Sancti Quattro».
la committenza del cardinale: giovanni garzia mellini a roma
201
Fig. 2. Giovanni da San Giovanni, Temperanza, S. Maria del Popolo, Roma, 1627.
re alle pitture della cappella di S. Carlo Borromeo
nella chiesa della Madonna dei Monti, opera commissionata al Mannozzi dall’Arciconfraternita di S.
Giuseppe dei Catecumeni e Neofiti e per la quale
l’artista toscano aveva siglato il relativo contratto il
10 giugno del 1622. Secondo il contratto Mannozzi si
impegnava a concludere l’opera entro il novembre
successivo per un ammontare di 120 scudi, divisi in
un primo acconto di 20 scudi, un secondo di altri 30
da versare entro agosto e il resto man mano che l’impresa veniva svolta fino al saldo finale.14 Se si esclude
l’acconto iniziale di 20 scudi «per le pitture da farsi»
sborsato contestualmente alla stipula del contratto il
10 giugno 1622, gli altri pagamenti al pittore riportati
nei registri dell’Arciconfraternita datano rispettivamente 10 gennaio 1623 (trenta scudi) e marzo 1626
(settanta scudi).15 La sequenza dei compensi, come
già evidenziato da Maria Barbara Guerrieri, non
sembra rispettare le clausole contrattuali e lascia,
quindi, supporre, in presenza delle nuove carte d’archivio qui riportate, che Mannozzi dopo la stipula
del contratto nel giugno del 1622 abbia poi abbandonato l’opera non ancora iniziata o appena approntata per dedicarsi esclusivamente al ciclo dei Ss. Quattro finanziato da Giovanni Garzia Mellini.16 Pur
considerando la possibilità che il pittore abbia potuto lavorare contemporaneamente in entrambi i cantieri, i pagamenti a suo nome registrati nella contabilità del cardinale Mellini provano, tuttavia, che il
ciclo dei Ss. Quattro Coronati venne concluso nella
primavera del 1624, mentre per la decorazione della
cappella di San Carlo i tempi di realizzazione si protrassero, probabilmente, fino al 1626.
I nuovi dati a disposizione dimostrano che gli affreschi ai Ss. Quattro furono la prima opera romana
del Mannozzi e che solo in seguito l’artista portò a
termine i lavori alla Madonna dei Monti, secondo
una cronologia che su base stilistica aveva già proposto Anna Banti.17 Non è ancora chiaro il contesto
all’interno del quale Mannozzi mosse i suoi primi
passi romani né per quali vie entrò in rapporti con
l’Arciconfraternita di S. Giuseppe dei Catecumeni e
14 Wood, op. cit., p. 18.
15 Guerrieri Borsoi, op. cit., p. 118; Wood, op. cit., p. 13 n. 16.
16 Nel leggere i documenti relativi alla decorazione pittorica della
cappella di San Carlo Maria Barbara Guerrieri rilevava alcune incongruenze tra i contenuti del contratto del giugno 1622 e i relativi compensi per l’opera, distanti dal contratto al punto da offrire due possibili ipotesi, da un lato, che la confraternita a corto di denari abbia
temporeggiato dilazionando i pagamenti e lasciando protrarre i lavori, dall’altro, che Mannozzi nel frattempo si fosse impegnato in altre
imprese che lo indussero ad allungare i tempi di consegna dell’opera.
La Guerrieri quindi notava la sequenza incongrua dei pagamenti rispetto ad una ipotetica campagna di lavori coerente e continua. Cfr.
Guerrieri Borsoi, op. cit., p. 118.
17 Banti, op. cit., pp. 58-59.
202
fausto nicolai
Fig. 3. Domenico Barrière e Carlo Rainaldi, Veduta di piazza Navona in occasione della processione di Pasqua, incisione, 1650,
(Bibliotheca Hertziana, Max-Planck-Institut fur Kunstgeschichte, Roma, palazzo Mellini è evidenziato dalla linea nera)
Neofiti e con il cardinale Mellini. Quest’ultimo era
legato da lunga amicizia al cardinale Fabrizio Veralli,
protettore dell’Arciconfraternita negli anni in cui
furono realizzati gli affreschi della cappella di San
Carlo (1622-1626).18 I buoni rapporti tra i due prelati
sarebbero confermati sia dalla presenza del ritratto
del Veralli tra i quadri posseduti da Giovanni Garzia,
sia dalle trattative, poi fallite, per il matrimonio tra
Urbano Mellini, nipote del cardinale e Maria Veralli,
figlia di Giovan Battista e a sua volta nipote del cardinale Veralli.19 Tuttavia, non sono finora emersi riscontri inequivocabili di un eventuale legame diretto
tra il Mellini e l’Arciconfraternita di S. Giuseppe,
istituzione assente dall’elenco dei legati disposti da
Giovanni Garzia nel proprio testamento.20 Forse, la
scelta del Mannozzi da parte del Mellini potrebbe essere stata favorita dalla comune provenienza geografica, dal momento che anche Giovanni Garzia come
il pittore era originario di Firenze, città dove nacque
nel 1562 durante l’esilio del padre da Roma.21
Giovanni da San Giovanni compare di nuovo
nella contabilità del Mellini per l’anno 1627, in particolare a suo nome è registrato un esborso di 130 scudi datato 27 ottobre «per resto e final pagamento di
diversi lavori fatti nella nostra cappella di S. Maria
del Popolo come anco di qualsivoglia altro lavoro
fatto di nostro ordine [Giovanni Garzia] quanto della bo: me: del Sr. Gio Batta Mellino nostro nipote».22
18 Wood, op. cit., p. 11; Guerrieri Borsoi, op. cit., p. 120.
19 Nicolai, op. cit., p. 462. Sul tentativo di matrimonio tra Urbano
Mellini e Maria Veralli nel 1632 si veda: Santolini, op. cit., p. 240.
20 Archivio di Stato di Roma, 30 notai capitolini, uff. 31, vol. 125, 4
ottobre 1629, ff. 823-826, 841-844.
21 Giovanni Garzia Mellini nacque a Firenze nel 1562 poiché il padre era esule da Roma. Dopo aver intrapreso la carriera ecclesiastica
Giovanni Garzia si riavvicinò a Roma fino a ricoprire incarichi di alto
prestigio quali Vicario Generale e Segretario del Supremo Tribunale
dell’Inquisizione. Nel conclave del 1623 che portò alla nomina di Ur-
bano VIII Barberini, il cardinale Mellini ottenne ben 22 voti, sfiorando
il soglio pontificio. Memmolo, op. cit., pp. 32-36.
22 am, Libro dei Mandati, 27 ottobre 1627. Lo stesso pagamento è
riportato con una trascrizione diversa e relativa ai soli lavori del
Mannozzi nella cappella Mellini a S. Maria del Popolo nel volume
siglato Entrate e Uscite 1608-1613, alla medesima data: «Adi 27 ottobre
facto mandato al Sr. Gio. Rotoli di scudi 130 di moneta da pagarsi a
Gio. Mannozzi Pictore per resto di quello che ha fatto alla cappella
del Popolo».
la committenza del cardinale: giovanni garzia mellini a roma
203
Fig. 4. Valentin de Boulogne, Negazione di San Pietro, Firenze, Fondazione Longhi.
A questa data il pittore fiorentino aveva ormai
concluso l’altra importante opera commissionata
dal cardinale Mellini gli affreschi della cappella di
famiglia a S. Maria del Popolo, ricevendone il saldo
finale.23 Oltre a fissare un termine preciso per la
cronologia delle pitture nella cappella, il documento
lascia intendere che Mannozzi lavorò anche per
Giovan Battista Mellini, nipote del cardinale e proprietario agli inizi del ’600 della villa a Monte Mario,
poi trasformata negli anni ’30 del secolo scorso in
osservatorio astronomico.24 Forse, l’artista fiorentino potrebbe aver eseguito quelle «molte pitture
moderne buone» ricordate da Giulio Mancini nel
suo Viaggio per Roma risalente ai primi anni ’20 del
Seicento.25 Le profonde modifiche architettoniche
subite dall’edificio nel corso dei secoli non hanno
lasciato nulla dell’originaria decorazione seicentesca e le uniche pitture ancora esistenti risalgono al
1915 e al 1935, eseguite rispettivamente da T. Sordini
e Giuseppe Boscarino.26
23 L’impresa, come accennato in precedenza, è già ricordata nella
biografia del cardinale compilata da Decio Memmolo nel 1644 (Vedi
supra). Memmolo, op. cit., p. 59.
24 Sulla villa Mellini a Monte Mario e la trasformazione dell’edificio in osservatorio astronomico si veda: S. Santolini, Due esempi di residenze suburbane sul Monte Mario a Roma: la villa Mellini e i casali Strozzi, in Delizie in villa: il giardino rinascimentale e i suoi committenti, a cura
di G. Venturi, Firenze, 2008, pp. 229-253; M. Carisi, C. Moraschini,
La Villa dei Mellini sul meridiano di Monte Mario, «Capitolium», n.s., iv,
8, maggio 2006, pp. 41-44.
25 G. Mancini, Viaggio per Roma, 1622ca., ed. a cura di A. Marucchi
e L. Salerno, Roma, 1956-1957, f. 1.
Tra le voci di spesa riportate nella contabilità del cardinale per
l’anno 1623 risulta al 20 ottobre un pagamento di 100 scudi versato al
«Sr. Giulio Medico per sua provisione per l’anno 1623». Forse si tratta
di Giulio Mancini, medico personale di Paolo V Borghese e che potrebbe aver svolto la sua attività anche per il cardinale Mellini dopo la
morte del pontefice (1621).
26 P. Hoffmann, Le ville di Roma, Roma, 2001, pp. 555-557; M. Carisi, C. Moraschini, op. cit., pp. 41-44. I soggetti di entrambi i cicli
pittorici oggi presenti sono legati al tema moderno dell’aviazione militare e, pertanto, non sono riconducibili in nessun modo ad eventuali
immagini preesistenti.
204
fausto nicolai
Fig. 5. Ricevuta firmata da Agostino Tassi e Fausto Tucci
per i perduti affreschi nella villa di Giovan Battista Mellini
a Monte Mario (Archivio Serlupi-Crescenzi, Roma).
Una ricevuta firmata da Agostino Tassi conservata tra le carte contabili di Casa Mellini rivela che l’artista e un suo collaboratore Fausto Tucci realizzarono nel 1625 alcune imprecisate «pitture» nella villa di
Giovan Battista Mellini a Monte Mario, opere delle
quali oggi non rimane più traccia.27 Qualche anno
più tardi nel 1629 il nome del Tassi torna di nuovo nei
registri contabili del cardinale Giovanni Garzia per
alcuni lavori eseguiti nel palazzo a piazza Navona. Al
pittore e al suo collaboratore, l’indoratore Fausto
Tucci, furono elargiti diversi compensi nel luglio di
quell’anno, prima di un saldo finale di 500 scudi a carico degli eredi del cardinale da estinguere dopo la
morte di quest’ultimo (ottobre 1629).28 Il conto da
saldare andava a coprire le spese «per la pittura e indoratura dei soffitti di tutte le stanze» eseguite dal
Tassi e dal Tucci su richiesta del cardinale.29 Non si
conoscono i soggetti di questi affreschi presumibilmente andati distrutti in seguito all’inglobamento di
palazzo Mellini nel cantiere della nuova chiesa di S.
Agnese a partire dal 1652, data della cessione dell’edificio da Urbano e Mario Mellini eredi di Giovanni
Garzia a Camillo Pamphilj.30
Per quanto riguarda l’attività collezionistica svolta
dal cardinale Mellini notizie interessanti possono essere tratte dall’inventario dei quadri appartenuti a
Pietro Mellini nel 1680, recentemente pubblicato da
27 am, Ricevute del SR. Gio. Garzia Mellino, 1586-1629, Tomo 9a, 7
agosto 1625: «Adi 7 agosto 1625. Noi infrascritti avemo ricevuto dall’Ill.mo Sig.re Gian Battista Milino scudi sessanta di moneta quali sono a bon conto delle pitture che si fanno alla vignia di detto Sig.re. Io
Agostino Tassi mano p(ro)p(ria). Io Fausto Tucci o ricevuto come di
sopra mano propria». Nel ricostruire la vicenda della villa Mellini a
Monte Mario Santolini non ricorda Giovan Battista Mellini tra i proprietari durante i primi decenni del xvii secolo. Lo studioso rileva che
nel 1632 la villa rientrava tra i beni ereditari di Urbano Mellini (Santolini, op. cit., p. 240). Come provato da alcuni documenti, all’inizio
del Seicento la villa apparteneva a Giovan Battista prima di passare
nel 1627 al cardinale Giovanni Garzia e da questi nel 1629 al nipote Urbano. La villa e i mobili in essa contenuti sono citati nell’inventario
post mortem di Giovanni Battista stilato a favore del cardinale Giovanni Garzia nel 1627: asr, 30 notai capitolini, uff. 31, vol. 118, ff. 774-788.
La villa è citata come «casino del Sr. Gio. Batta alla Croce di Monte
Mario», f. 782. La cronologia di questi affreschi, completamente perduti, non sembra collegabile alla testimonianza del Mancini (1621ca.)
sulle “buone pitture” presenti nell’edificio, considerando la differenza temporale che separa la fonte dalla realizzazione dei cicli pittorici
(1625).
28 am, Libro dei Mandati, luglio 1629: «Sig.re Herede di Gio. Rotoli
piacerà pagare ad Agostino Tassi Pittore e Fausto Tucci indoratore
scudi 50 moneta sono a bon conto delli lavori che fanno per servitio
del nostro Palazzo, dandone debito che con loro ricevuta saranno
ben pagati. Di Casa li 10 di Luglio 1629… Sig.re Herede di Gio. Rotoli
piacerà pagare ad Agostino Tassi Pittore e Fausto Tucci indoratore
scudi 50 moneta sono a bon conto delli lavori che fanno per servitio
del nostro Palazzo, dandone debito che con loro ricevuta saranno
ben pagati. Di Casa li 15 di Luglio 1629… Sig.re Herede di Gio. Rotoli
piacerà pagare ad Agostino Tassi Pittore e Fausto Tucci indoratore
scudi 50 moneta sono a bon conto delli lavori che fanno per servitio
del nostro Palazzo, dandone debito che con loro ricevuta saranno
ben pagati. Di Casa li 21 di Luglio 1629».
29 am, Ricevute del SR. Gio. Garzia Mellino, 1586-1629, Tomo 9a, f.
648: «Denari pagati dalla Bo: Me: del Sig.r Cardinale Mellini come da
suoi Heredi a diversi muratori e altri per la fabrica della casa a Piazza
Navona come costa per saldi e ricevute. A mastro Niccolò Valle muratore scudi 3419, A mastro Viano Lucatelli falegname scudi 1174, A
mastro Daniele Scarpellino scudi 230, A mastro Luca Ferraro scudi
582, al Sig.r Agostino Tassi e Fausto Tucci per pittura et indoratura de
soffitti di tutte le stanza scudi 500». Le spese complessive da saldare a
carico degli eredi del cardinale per la costruzione e sistemazione del
palazzo di famiglia a piazza Navona ammontano a 6815 scudi.
30 Sulla vicenda edilizia della chiesa di S. Agnese a Piazza Navona
si veda: G. Simonetta, L. Gigli, G. Marchetti, Sant’Agnese in Agone a Piazza Navona: bellezza, proporzione, armonia nelle Fabbriche Pamphilj, Roma, 2003. (il riferimento all’acquisto e all’inglobamento di palazzo Mellini p. 82); J. Garms, Quellen aus dem Archiv Doria-Pamphilj
zur Kunsttätigkeit in Rom unter Innocenz X, Wien, 1972. Garms pubblica
una trascrizione parziale dell’atto di cessione del palazzo dai Mellini
ai Pamphilj nel 1652, pp. 33 n. 104, 41 n. 144, 67 n. 246. Una copia dell’atto di vendita del palazzo è conservata anche nel tomo vi dell’Archivio Mellini ai fogli 420-432 in data 6 agosto 1652. Nell’atto è chiaramente espressa da parte degli acquirenti la volontà di costruire di
nuovo sul palazzo per ingrandire la chiesa di S. Agnese: «il palazzo dei
SS.ri Mellini…oggi vendutoci ad effetto di fabricar di nuovo et ampliare la suddetta chiesa di S. Agnese… (f. 442)».
la committenza del cardinale: giovanni garzia mellini a roma
205
Jorge Fernandez-Santos Ortiz-Iribas. Alcune opere
riportate nell’elenco provengono direttamente
dall’eredità di Giovanni Garzia per il tramite del nipote Urbano Mellini, zio di Pietro, morto a Roma
nel 1667.31 Ho avuto già modo di presentare la lista
dei quadri presenti nell’eredità di Giovanni Garzia
ma la mancanza di riferimenti agli autori aveva impedito in quell’occasione una più approfondita riflessione sugli interessi artistici del cardinale, al di là
dell’evidente favore nei confronti dei tipici temi della
scuola caravaggesca.32 Le informazioni tradite dal
nuovo inventario del 1680 permettono ora di precisare meglio questa tendenza, in particolare grazie
alla presenza di opere di Bartolomeo Manfredi e Valentin de Boulogne, provenienti dalla raccolta di Giovanni Garzia. Di Manfredi sono ricordate due tele,
una con I Ss. Pietro e Paolo, l’altra raffigurante David
con la testa di Golia, di Valentin è invece citata una
Negazione di San Pietro. I tre quadri compaiono nell’inventario post mortem del cardinale Mellini (1629)
con la sola indicazione del soggetto, prima di passare
in eredità ad Urbano e da questi nel 1667 al nipote
Pietro.33
La puntuale descrizione delle opere riportata nel
documento del 1680 con dettagli precisi sulla composizione e sulle misure permette di identificare con
certezza la Negazione di San Pietro riferita al Valentin
con il dipinto oggi in Fondazione Roberto Longhi a
Firenze.34 La grande tela (174,5 × 241 cm) segnalata da
Roberto Longhi nel 1943 in raccolta privata milanese
poi pervenuta nella raccolta del critico intorno ai primi anni Sessanta del secolo scorso corrisponde esattamente per dimensioni e descrizione del soggetto al
quadro originariamente appartenuto al cardinale
Millini: «S. Pietro, che si scalda al foco, scoperto
dall’Ancella, che stà ad una tauola assieme con cinque soldati, che giocano a dadi Stà in tela di p[alm]i
dieci di larghezza, e sette d’altezza Orig[ina]le eccellentiss[im]o di Monsù Valentino».35 Il dipinto del celebre caravaggista francese, databile tra la fine del secondo e l’inizio del terzo decennio del Seicento,
forse fu realizzato direttamente per il cardinale Giovanni Garzia o pervenne a quest’ultimo comunque
entro il 1629. Nella contabilità del cardinale ancora
conservata risalente ai primi decenni del Seicento
non sono rintracciabili riferimenti né al dipinto, né al
suo autore, condizione che tuttavia non esclude la
possibilità di una commissione diretta, magari assolta da un agente incaricato del pagamento.
I due dipinti attribuiti al Manfredi, invece, non
sembrano corrispondere a nessuna delle opere note
del pittore lombardo. Il Trionfo di David ricordato
nelle carte Mellini presenta una composizione con la
figura del giovane che tiene in mano la testa del gigante e «quattro donzelle, che sonano uarij instrum[en]ti» a grandezza naturale non riscontrabile
nel dipinto di analogo soggetto attribuito al Manfredi oggi conservato al Louvre dove le figure femminili sono soltanto due. Un discorso analogo vale per i
Ss. Pietro e Paolo ritenuto opera del Manfredi (raccolta privata, Stati Uniti), di dimensioni molto più ridotte rispetto all’esemplare ricordato nella collezione
Mellini.36
I dati sin qui raccolti gettano una nuova luce sul
mecenatismo del cardinale Giovanni Garzia Mellini
e sui suoi rapporti con la scena artistica romana del
primo Seicento. I cicli pittorici commissionati a Giovanni da San Giovanni e ad Agostino Tassi, nonché
le tele del Valentin e del Manfredi, forse anch’esse
eseguite su commissione, testimoniano l’attenzione
del Mellini verso le novità offerte dalla cultura figurativa di quegli anni e contribuiscono a far luce su un
personaggio rimasto finora ai margini degli studi sul
collezionismo romano del Seicento.
31 Vedi n. 3. Urbano Mellini, erede testamentario del cardinale, ricevette i dipinti e a sua volta nel 1667 li lasciò al nipote Mario nell’inventario del quale risultano ancora citati, come confermato più di recente da Jorge Fernadez-Santos Ortiz-Iribas. Cfr. Fernadez-Santos
Ortiz-Iribas, op. cit., pp. 513, 519-520.
32 Nicolai, op. cit., pp. 453-454.
33 Nell’inventario dei beni ereditari del cardinale Giovanni Garzia
figurano: un «Quadro con S. Pietro e S. Paolo…David con la testa del
Gigante Golia…un Quadro grande con San Pietro quando nega con
diverse figure». Cfr. Nicolai, op. cit., pp. 461-462.
34 Sul quadro si veda la recente scheda offerta da Mina Gregori nel
catalogo Caravaggio e l’Europa, a cura di Luigi Spezzaferro, Milano,
2005, cat. iv.8, con ampia bibliografia precedente.
35 La trascrizione completa dell’inventario Mellini del 1680 è reperibile on-line sul sito: www.burlington.org.uk/ferandezsantosappx.
php.
36 N. Hartje, Bartolomeo Manfredi (1582-1622): ein Nachfolger Caravaggios und seine europäische Wirkung; Monographie und Werkverzeichnis, Weimar, 2004, p. 379 con bibliografia precedente.
TRADIZIONE ED INTERPRETAZIONE LETTERARIA,
MAGI A ED ETICA NELLE RAFFIGURAZIONI DI CIRCE
DI GIOVANNI BENEDETTO CASTIGLIONE IL GRECHETTO
Piera Ciliberto
T
ra i personaggi femminili raffigurati da Giovanni Benedetto Castiglione il Grechetto in una delle pose più ricorrenti nelle sue opere pittoriche e grafiche, posti, cioè, a sedere in un ambiente aperto, fra
oggetti dalla disposizione casuale al suolo o nella vegetazione incolta, reperti antichi privi di decoro e
simboli della vanità, la maga Circe assume preminenza per frequenza di rappresentazione, complessità e coerenza di soluzione, problematiche connesse.
Le opere attualmente note del Grechetto dedicate
all’incantatrice omerica che abita con le sue ancelle
fra i boschi dell’isola di Ea ed esprime i propri poteri
trasformando gli esseri umani in animali o mostri1 si
situano prevalentemente negli anni Quaranta e
Cinquanta del Seicento. La critica infatti data agli anni attorno al 1650 la Circe conservata presso la Galleria
degli Uffizi a Firenze;2 allo stesso decennio è stata
riferita la tela conservata a New York in collezione
privata (Fig. 1);3 all’aprile del 1652 è registrato il
pagamento di Ansaldo Pallavicino al Grechetto per il
quadro oggi conservato a Genova presso la Galleria
Nazionale di Palazzo Spinola di Pellicceria;4 firmati e
datati 1653 sono il dipinto di proprietà del Sovrano
Ordine Militare di Malta (Fig. 2) e quello di ubicazione ignota, ma già a Genova nella collezione
Sanguineti.5 Al quinto decennio o agli inizi di quello
successivo si situa l’acquaforte firmata G. Bened. S Castilionus / Genuensis. In Pin, di cui si conservano esemplari relativi a due stati (Fig. 3)6 e che presenta una figura di Circe molto simile a quella del dipinto
passato dalla Collezione Robiati ai depositi del Museo Poldi Pezzoli di Milano (Fig. 4).7 Della tela comparsa sul mercato antiquario fiorentino alla fine degli
anni Sessanta del Novecento si sono perse le tracce,8
mentre trova ubicazione in collezione privata un dipinto reso noto nell’ultimo decennio, affine alla tela
del Sovrano Ordine Militare di Malta e, nella posa ed
atteggiarsi della maga, a quella degli Uffizi.9
Altre opere del Grechetto raffiguranti la maga
Circe sono note per citazione documentaria. L’inventario dei lasciti di Gerolamo Balbi del 1649 segnala un quadro del Castiglione con la maga Circe e uomini trasformati in pesci; un «quadro piccolo» con
Circe fu acquistato da Gio Luca Durazzo nella vendita in pubblica callega dei beni di Giovan Battista
Raggio il 22 gennaio 1659,10 mentre fonti più tarde
1 Omero, Odissea, x, 133-574; Ovidio, Metamorfosi, xiv, 242-440;
Apollonio Rodio, Argomentiche, libro iv, vv. 659-752. Cfr. inoltre M.
Warner, Gli incantesimi di Circe. La fuga di Ulisse e la scelta di Grillo, in
«Intersezioni», xvi, 1936, n. 2 agosto, pp. 225-239.
2 L. Lanzi, Storia pittorica della Italia dal risorgimento delle arti fin
presso alla fine del secolo xviii , Bassano, 1795-1796, ed. 1809, v, p. 336; M.
Chiarini, I quadri della collezione del Principe Ferdinando di Toscana, Paragone, xxvi, 301, marzo 1975, p. 69; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi.
Catalogo generale, a cura di C. Caneva, Firenze, 1979, p. 211; M. Newcome, in Kunst in der Republik Genua 1528-1815, cat. mostra, Frankfurt,
1992, n. 60, p. 131, tav. 61.
3 B. Suida Manning, The Transformation of Circe. The Significance
of the Sorceress as Subject in 17th Century Genoese Painting, in Scritti di storia dell’arte in onore di Federico Zeri, Milano, 1984, ii, p. 692; Il genio di
G. B. Castiglione il Grechetto, cat. mostra, Genova, 1990, n. 28.
4 P. Boccardo, Per la storia della Quadreria di Palazzo Spinola, in
Palazzo Spinola a Pellicceria. Due musei in una dimora storica, QuadPalazzoSpinola, 10, 1987, pp. 63-86.
5 G. Delogu, G. B. Castiglione detto Il Grechetto, Bologna, 1928, pp.
25-26, tav. 22. Una copia settecentesca del dipinto, proveniente dal
soppresso Ospedale di Pammatone (1836), è conservata presso il
Museo dell’Ospedale di S. Martino a Genova.
6 Un esemplare è conservato a Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni
e Stampe, inv. 100902, mm. 213 × 301 (inciso), mm. 219 × 308 (lastra).
Altri due si trovano a New York, l’uno al Metropolitan Museum of
Art, 1980.ii 35.i, l’altro nella Collezione Manning. Cfr. Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697; G. Dillon, in Il genio di G. B. Castiglione,
cit. a nota 3, 1990, n. 89, p. 229, fig. 217 (con bibl. prec.). Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697, fig. 688, ha considerato preparatorio per
l’incisione il disegno conservato conservato a Darmastadt, Hesschisches Landesmuseum, AE 1857.
7 Suida Manning, op. cit. a nota 3, pp. 697-700, fig. 690; G. Albricci, La vera ‘Malinconia’ del Castiglione, QuadConStampe, xvi, 1973,
marzo-aprile, pp. 40-43; F. Lamera, Miti, allegorie e tematiche letterarie
per la committenza privata, in E. Gavazza, F. Lamera, L. Magnani,
La Pittura in Liguria. Il Secondo Seicento, Genova, 1990, p. 176, fig. 211.
8 Albricci, op. cit. a nota 7, p. 43, nota 5.
9 A. Orlando, Anton Maria Vassallo, Genova, 1999, p. 35, fig. 44.
10 F. Lamera, Opere di Gio. Benedetto Castiglione nelle collezioni genovesi del xvii e del xviii secolo, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3,
p. 33 nota 15.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 207-214
208
piera ciliberto
Fig. 1. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, New York, Collezione privata.
attestano la presenza di quadri di analogo soggetto,
ed attribuiti sempre al pittore genovese, nella collezione del marchese del Carpio a Madrid nel 1688 e
un’altra versione nella raccolta Gonzaga nel 1705,
1707 circa e 1708.11
Nelle opere del Castiglione la figura di Circe
mantiene posa e caratteri costanti, è circondata da
animali e da oggetti dalla ricca e complessa simbologia e solo in una tela è raffigurata la metamorfosi in
atto di un uomo in cinghiale. Non vi è dunque il riferimento ad episodi che possano essere individuati
con precisione nella narrazione letteraria – quello
più celebre la trasmutazione dei compagni di Ulisse
in porci – ma la maga è raffigurata in un momento
successivo al compimento dei suoi sortilegi, in posizione sovrastante e dominante sul contesto, ed in
atteggiamento che assume due diverse ed opposte
connotazioni: di imperturbabile, se non divertito,
distacco dagli avvenimenti di cui è stata artefice; di
assorta e melanconica meditazione sugli esiti del
proprio operato e della sua arte. Anche gli attributi
iconografici non subiscono sostanziali variazioni,
ma la presenza, o per contro, l’assenza di un elemento in una raffigurazione indica valori specifici
conferiti al soggetto, un significato univoco nel suo
complesso fatto sfociare tuttavia in problematiche
diverse e di moderna attualità.
Gli abiti orientaleggianti, dal tessuto pregiato e
ricco di preziosi ornamenti di alcune tele – il damasco rosso dei dipinti del 1653 o della Circe già in Collezione Sanguineti12 – completati in molti casi dal
turbante piumato con gemme, indicano una collocazione esotica del mito circeo, sulla scia di una tradizione più solida di quella che pone il regno della
11 V. Meroni, Fonti per la storia della pittura, i, Il Grechetto a Mantova, Genova, 1971, p. 108; ii, G.B. Castiglione il Grechetto, Genova, 1973,
pp. 38, 39, 41; F. Simonetti, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3,
n. 28, p. 145.
12 A proposito della Circe, al tempo nella Collezione Sanguineti,
Delogu, op. cit. a nota 5, p. 26, parla di una figura «in regali vesti, che
il genio pittorico del Castiglione ha tessuto con abilità prodigiosa trapungendo d’oro una seta del più bel scarlatto e pieghettando i veli azzurri delle maniche, cinto il capo d’un turbante adorno di piume e di
gemme».
magia ed etica nelle raffigurazioni di circe di giovanni benedetto castiglione
209
Fig. 2. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, proprietà Sovrano Ordine Militare di Malta.
maga sul territorio laziale13 e che è decisamente
prevalente in pittura fin dalla tela eseguita a Ferrara
da Dosso Dossi e oggi conservata presso la Galleria
Borghese di Roma – un’opera soggetta soltanto nel
Novecento all’ampio dibattito interpretativo risolto
di volta in volta a favore di soluzioni diverse e nota
per tutta l’età moderna come Maga Circe.14
L’aspetto sfarzoso e solenne del personaggio, figlia del dio Sole, trova riscontro nei versi delle Metamorfosi ovidiane, dove è descritta – nelle edizioni di
età moderna – al suo apparire ai compagni di Ulisse,
seduta «nel modo reale […] vestita de uno vestimento splendidissimo circondata de fino oro»,15 maestosa, cordiale, accogliente e dunque facilmente trionfante sugli ospiti ignari.
Ad identificare la sua arte e far intendere i fatti
antecedenti, di cui il contesto rimane profondamente segnato, immancabile, è la bacchetta magica che
Circe stringe nella mano in tutte le raffigurazioni
del Castiglione. La ricorrenza di tale attributo pare
motivata soprattutto da ragioni di ordine visivo e di
consuetudine inerente la pratica magica, poiché la
sua importanza è, in realtà, assai sminuita nelle ampie descrizioni dei sortilegi di Circe presenti nel testo ovidiano, in cui una funzione determinante ai fini della metamorfosi è attribuita alle erbe che la
maga fa raccogliere alle sue serve e di cui mostra di
conoscere a fondo proprietà ed effetti.16 Se nell’Odissea il filtro servito da Circe agli uomini di Ulisse ha l’unica funzione di far perdere agli eroi la me-
13 Una tradizione meno diffusa situa Ea in Italia, nei pressi di Gaeta e Terracina, sull’attuale Monte Circeo.
14 Cfr. A. Ballarin, Dosso Dossi. La pittura a Ferrara negli anni di
Alfonso I, Cittadella (Padova), 1994, scheda n. 372, p. 312, tav. 484; P.
Humfrey, scheda n. 12, in Dosso Dossi pittore di corte a Ferrara nel Rinascimento, cat. mostra Ferrara-New York-Los Angeles, 1998-1999, a
cura di P. Humfrey, M. Lucco, Ferrara, 1998, pp. 114-117, part. 114.
15 A. Ermans, Ovidio Methamorphoseos Vulgare, s.l., s.d., xiiii, cap.
xxi.
16 A questa occupazione sono intente le serve della maga allo
sbarco dei compagni di Ulisse sull’isola di Ea, mentre l’attenzione di
Circe è volta a selezionare le erbe. Per le variazioni apportate da Ovidio al testo omerico, A. M. Tupet, La magie dans la poésie latine, Paris,
1976, pp. 395-397.
210
piera ciliberto
Fig. 3. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe (incisione), Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 100902.
moria dei loro affetti e della patria, nelle Metamorfosi
gli sono riferite le cause stesse della trasformazione
e per tale ragione solo Euriloco, che non ha preso
parte al banchetto offerto dalla signora dell’isola,
scampa la sorte comune.17
In ambito genovese il momento della preparazione del filtro magico da parte di Circe, seduta al
suolo e in atto di mestare il liquido contenuto in
un vaso metallico che le sta innanzi, è raffigurato
da Gioacchino Assereto nella tela conservata all’Art Institute di Dayton, Ohio, datata generalmente attorno alla metà del terzo decennio del Seicento.18 Tale iconografia tuttavia non sembra portare
ad ulteriori sviluppi e rimane prerogativa della cultura e dell’aggiornamento del repertorio figurativo
dell’Assereto. Nelle opere del Castiglione il riferimento all’impiego di erbe dalle proprietà magiche
è limitato alla presenza della coppa vuota, che ella
sfiora con la mano sinistra, sul grembo o sulle ginocchia di Circe. Fanno eccezione l’acquaforte, il
dipinto già in Collezione Bacarelli, quelli di Palazzo Spinola di Pellicceria e del Poldi Pezzoli e l’assenza di questo elemento è significativa della maggior forza che la bacchetta ha di qualificare ed
alludere alle arti magiche e alle scienze occulte per
tradizione, forza ed impatto visivo. È agitando la
bacchetta magica che Circe, la cui comparsa al
centro della scena è sottolineata da vari accorgimenti ‘scenotecnici’, realizza i suoi prodigi nelle
numerose produzioni teatrali dell’età moderna.19
17 Un’altra pianta magica, chiamata moli, è l’antidoto alle pozioni
di Circe e rende inoffensivo il colpo di bacchetta da lei inferto ad Ulisse: cfr. Tupet, op. cit. a nota 17, p. 398.
18 Cfr. Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 689, fig. 677; F. R. Pesenti, La pittura in Liguria. Artisti del primo Seicento, Genova, 1986, p.
374, fig. 324; T. Zennaro, Sull’attività giovanile di Gioacchino Assereto,
Paragone, 4, 549, nov. 1995, p. 36.
19 Chiara testimonianza rimane per Le Ballet comique de la Royne,
tenuto nel 1581 e pubblicato l’anno successivo a Parigi da Ballard, e
per il Ballet de Circé chassée de ses Etats, che nel 1627 chiudeva gli spettacoli carnascialeschi organizzati dal duca di Savoia: cfr. J. Rousset,
La letteratura dell’età barocca in Francia. Circe e il pavone, Bologna 1985,
pp. 22-38; ed anche Jacque Callot 1592-1635, cat. mostra Nancy 1992, Paris, 1992, pp. 194-195.
magia ed etica nelle raffigurazioni di circe di giovanni benedetto castiglione
211
Fig. 4. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, Milano, Museo Poldi Pezzoli.
Sono proprio le ammirate testimonianze relative a
tali spettacoli, tuttavia, a far emergere con chiarezza l’idea che qualsiasi mirabile accadimento, al di
là del ricorso ad uno strumento materiale, è subordinato alla volontà di agire della maga.20 Nella tela
della collezione privata di New York21 l’incantatrice solleva appena la sua verga, rimanendo impassibile dinnanzi all’uomo dal capo mutato in cinghiale che si protende energicamente verso di lei con
le braccia distese in avanti in un estremo, vano,
tentativo di reazione, mentre al ragazzo con il berretto rosso piumato sulla sinistra, atterrito e sgomento, non resta che prendere la via della fuga
compiendo un movimento affine, ma in direzione
opposta, a quello dell’uomo-cinghiale.
In nessun’altra opera il Grechetto ha rappresentato la metamorfosi in atto, ma ha delineato un
contesto dal quale emergono con evidenza le tracce
dei prodigi di cui esso è stato teatro. Le armature degli
eroi che hanno perso il sembiante umano giacciono
al suolo insieme a drappi ed armi, alla faretra con le
frecce, confuse fra altri oggetti, mentre la massiccia
presenza animale non attiene alla narrazione mitologica. Attorno a Circe infatti non compaiono mai i
porci in cui furono trasformati gli uomini dell’equipaggio di Ulisse, Pico22 o il mostro marino Scilla – e
20 Tupet, op. cit. a nota 17, p. 395.
21 Due disegni sono in relazione alla tela. Quello conservato a Firenze, Uffizi, Gabinetto Disegni e Stampe, n. 7054S (fig. 5), è privo del
busto di Pan e aggiunge un’architettura sullo sfondo: cfr. Suida
Manning, op. cit. a nota 3, p. 692; Disegni genovesi dal xvi al xviii secolo,
cat. mostra, a cura di M. Newcome Schleier, Firenze, 1989, n. 53, pp.
119-121, fig. 67; L. Tagliaferro, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, n. 43, pp. 169-170. Il disegno a Windsor Castle, n. 4067, può essere
collegato alla tela per la figura del giovane in atto di fuggire ed è affi-
ne al disegno a Stoccolma, Nationalmuseum: cfr. A. Percy, in Giovanni Benedetto Castiglione Master Draughtsman of the Italian Baroque,
cat. mostra, a cura di A. Percy, Philadelphia, 1971, n. 71, pp. 98-99; Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 692, figg. 682, 683.
22 La trasformazione in atto di Pico in uccello è raffigurata nel dipinto di Luca Giordano (olio su tela, cm 98 × 128), conservato a
Braunschweig, Herzog Anton Ulrich Museum, che la critica data agli
anni attorno al 1652: cfr. O. Ferrari, G. Scavizzi, Luca Giordano,
Napoli, 1966, i, p. 60.
212
piera ciliberto
Fig. 5. G. B. Castiglione, Il Grechetto, Circe, disegno, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n. 7054S.
non i leoni, lupi ed orsi che, secondo la letteratura
classica, accolsero i naufraghi allo sbarco su Ea.23 Prevalgono nettamente gli animali domestici, giovenche
e buoi, pecore e capri, conigli e volatili da cortile,
tacchini, anatre, galli e galline, accompagnati spesso
da cane o gatto, mentre la fauna selvaggia appare in
funzione di un ambiente esotico: pavone, tartarughe,
scimmia, alce o cerbiatti. Se per alcuni di essi il valore
simbolico, connotato in senso morale – di solida
ascendenza medievale – è di immediata percezione,24
l’estrema libertà interpretativa del mito sciolta da una
stretta aderenza filologica rivela l’influsso di fonti
moderne ed appare sminuito il carattere allegorico
della grande varietà di bestie raffigurate.
Animali in veste di protagonisti compaiono nel
dialogo di Giambattista Gelli e animali passati a tale
condizione per trasformazione dalla primitiva natura umana sono presenti anche nel Cantus Circaeus di
Giordano Bruno. In entrambe le opere la rivisitazione del celebre racconto mitologico è l’occasione per
demolire le antiche teorie umanistiche sulla dignità
dell’uomo e per un’aspra critica sociale che ha come
presupposto il ribaltamento di segno della valutazione e del ruolo del personaggio, le cui trasformazioni
acquisiscono – pur nella diversità di impostazione ed
intenti – valore e funzione benefica.25
I rapporti tra le raffigurazioni del Castiglione e il
testo del Gelli si sono imposti all’attenzione della cri-
23 Leoni e lupi in Omero, Odissea, x, 135; Virgilio, Eneide, vii, 17,
e Ovidio, Metamorfosi, xiv, 255 aggiungono gli orsi: cfr. Tupet, op.
cit. a nota 17, p. 397.
24 Per il pavone simbolo di vanagloria e lussuria: il Libro della natura degli animali, il Bestiario moralizzato e L’Acerba, in Bestiari medievali, a cura di L. Morini, Torino, 1996, pp. 449-450, 516, 594-595; per la tartaruga sinonimo di lentezza, fisica e intellettiva: C. Ripa, Iconologia
overo Descrittione di diverse Imagini cavate dall’antichità, & di propria inventione trovate, et dichiarate da Cesare Ripa perugino, cavaliere de Santi
Mauritio, & Lazaro, Roma, L. Facij, 1603, ed. anastatica, a cura di E.
Mandowsky, Hildesheim-New York, 1979, p. 78. Il Fisiologo medievale,
il Bestiaire di Philippe de Thaün, il Libro della natura degli animali, in
Bestiari, cit. supra, pp. 51, 211, 441, interpretano la scimmia come figura
del demonio.
25 Cfr. Opere di Giovan Battista Gelli, a cura di I. Senesi, Torino, 1968,
Introduzione, pp. 18-22; A. L. De Gaetano, Giambattista Gelli and the
Florentine Academy. The rebellion against Latin, Firenze, 1976, pp. 51-54,
164-173. Cfr. M. Ciliberto, Introduzione a Il canto di Circe di Filoteo Gior-
magia ed etica nelle raffigurazioni di circe di giovanni benedetto castiglione
213
tica in riferimento all’indicazione contenuta nell’inventario dei beni di Gerolamo Balbi, in cui la descrizione del soggetto del quadro dell’artista genovese è
parso chiaro rimando al dialogo di Ulisse con il primo degli undici personaggi incontrati ed interrogati
sull’isola di Circe, il pescatore greco Ittaco, ossia
l’Ostrica.26 Il clima dominante nell’opera, caratterizzato dalla libertà di agire e dalla coincidenza fra essere e volere dei protagonisti,27 dall’esclusione di
qualsiasi inganno e, in apertura, dalla pacata discussione fra Circe ed Ulisse, sembra appartenere ai dipinti di Jan Roos28 e Francesco Castiglione,29 nei
quali la donna – stante nel primo quadro, a sedere
nel secondo – accostata all’eroe omerico, indica con
la bacchetta stretta nella mano destra il gruppo compatto di animali radunato sulla sinistra, in un paesaggio privo di elementi di perturbazione o segnali di un
equilibrio ricomposto. Una condizione che si ripropone anche nel quadro, oggi a Palazzo Bianco a Genova, di Sinibaldo Scorza, che ripete la scena con la
variante dell’incedere dei due personaggi e di una
marcata ‘umanizzazione’ delle bestie, evidente nella
reazione alla vista dell’eroe greco.30
Le implicazioni delle opere del Grechetto appaiono tuttavia più complesse della mera valenza positiva insita nella metamorfosi – il passaggio, per assurdo, ad una condizione più felice di quella umana e la
trasformazione come consapevole scelta personale
e non soccombenza. Lo lasciano intendere l’atteggiamento pensoso di Circe nella tela del Museo Poldi Pezzoli, nell’incisione, nel disegno a penna ad
Amsterdam, J. Q. Van Regteren Altena,31 in quello al
Hessisches Landesmuseum di Darmstadt32 o in
quello di incerta identificazione iconografica presso
la Royal Library di Windsor Castle,33 gli strumenti
delle attività conoscitive e i testi scritti raffigurati
senza emergenza o evidenza specifica, i frammenti
dell’antichità classica ed un paesaggio antico ‘usurato’ dallo scorrere del tempo e dalla storia. La colonna istoriata nel dipinto del museo milanese, l’elegante colonna scanalata dell’acquaforte, le anfore, le
anfore istoriate e i vasi dalla foggia antica in tutte le
raffigurazioni della maga del Castiglione sono testimonianza di una civiltà soggetta alle medesime mutazioni di quelle operate dalla maga, allusione ad
uno stato di precarietà che diviene assoluto. Trovano così fondamento l’inserimento nell’iconografia
del personaggio del teschio, oggetto di meditazione
e contemplazione da parte della protagonista nel disegno di Windsor Castle, e le affinità, nella posa –
ravvisabile oltre che nelle opere citate anche nel dipinto già appartenente alla Collezione Bacarelli – e
nella presenza di strumenti scientifici e di indagine
conoscitiva34 con l’allegoria della Melanconia, a cui
l’accomuna lo stesso intendimento della vanità come ‘disordine’ dell’ordine naturale determinato dal
sovrapporsi dei cicli storici e dalle vacue pretese
intellettive dell’uomo.35
Il busto del dio dei boschi, della natura, Pan, che
campeggia nel regno di Circe – assente solo nell’acquaforte e nel dipinto al Museo Poldi Pezzoli – pur
non avendo attinenza specifica con la figura della
maga36 si pone in rapporto alla cura e all’attenzione
che ella riserva alle piante da cui ricava i suoi filtri e
dano Bruno nolano composto per una ordinata esposizione di quella prassi
della memoria che egli stesso chiama prassi del giudicare, Parigi, presso
Egidio Gillio, mdlxxxii, ed. Milano, 1997, trad. e note di N. Tirinnanzi.
Le coincidenze nella scelta degli animali fra i due testi e le raffigurazioni del Grechetto sembrano casuali. Nella Circe del Gelli essi sono,
nell’ordine di presentazione: Ostrica, Talpa, Serpente, Lepre, Capra,
Cerva, Leone, Cavallo, Cane, Vitello, Elefante; nel Cantus Circaeus del
Bruno sono porco, cani, muli, capri, scimmie, cammelli, orsi, pavoni.
30 Cfr. Orlando, op. cit. a nota 9, fig. 36.
31 Penna e inchiostro marrone su carta color camoscio di formato
irregolare, mm. 163 × 259. Cfr. Percy, op. cit. a nota 21, n. 129, p. 131; Il
genio di G. B. Castiglione cit. a nota 3, p. 169; Suida Manning, op. cit.
a nota 3, p. 697.
32 N. AE 1857, mm. 198 × 280: cfr. Percy, op. cit. a nota 21, n. 70, p.
98; Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 697, fig. 688. Un disegno affine,
la cui attribuzione al Grechetto appare assai dubbia, è a Parigi, Institut
Néerlandais, Collezione M. Frits Lugt: cfr. Percy, op. cit. a nota 21, p.
98; L. Tagliaferro, in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, p. 163.
33 N. 3924, penna marrone su carta color camoscio con una traccia
di pastello rosso, mm. 220 × 345: Cfr. Percy, op. cit. a nota 21, n. 66, p.
97; C. Dempsey, Castiglione at Philadelphia, BurlMag, cxiv, 1972, pp.
117-120, in part. p. 119. L’interpretazione che divide la critica oscilla fra
la figura di Circe e quella di Melanconia.
34 La sfera armillare e volumi non necessariamente di argomento
magico sono presenti nel dipinto conservato al Museo Poldi Pezzoli
di Milano.
35 Cfr. P. Ciliberto, Le raffigurazioni della Melanconia di Giovanni
Benedetto Castiglione il Grechetto: tradizione e modernità nelle elaborazioni secentesche di un’allegoria antica, StStorArti, x, 2000-2003, pp. 77-92.
36 L’osservazione è di Suida Manning, op. cit. a nota 3, p. 692.
Il busto di Pan è assai ricorrente nelle opere a carattere allegorico
26 «sopra porta di Circe con Ulisse che parla a diversi trasformati
in pesci», Lamera, op. cit. a nota 7, p. 173, ma cfr. anche pp. 174-176.
27 Come è noto, solo l’Elefante Aglafemo, che nella precedente
esistenza umana fu filosofo, acconsente a riguadagnare la natura
umana.
28 Già presso la Galleria Ravasco. Cfr. O. Grosso, A. M. Vassallo e
la pittura d’animali nei primi del ’600 a Genova, Dedalo, iii, fasc. viii, gennaio 1923. Jan Roos è uno di quegli artisti che «possono aver fatto
scuola» al Grechetto: cfr. E. Gavazza, Giovanni Benedetto Castiglione e
Genova (1640-1650), in Il genio di G. B. Castiglione, cit. a nota 3, p. 35.
29 Lugano, collezione privata. Cfr. Suida Manning, op. cit. a nota
3, p. 701, fig. 698. Per Francesco Castiglione (1642-1710) cfr. Allgemeines
Künstler Lexikon. Die Bildenden Künstler aller Zeiten und Völker, München-Leipzig, 1997, band 17, pp. 225-226.
214
piera ciliberto
da cui deriva gran parte del suo potere sugli uomini,
ma è anche riferimento agli appetiti amorosi a cui
soggiace Circe e a cui sono sottomessi anche i suoi
visitatori, al trionfo dei vizi sulla ragione e sull’intelletto,37 per cui può essere sostituito, nel dipinto di
proprietà del Sovrano Ordine Militare di Malta, dalla
statua di Priapo.38
La metamorfosi fisica acquista il valore di allegoria della metamorfosi spirituale che ha investito l’individuo. Il concetto che l’anima «disumana e prende
qualità ferina», di ascendenza medievale,39 trova infatti nuova riformulazione agli inizi del Seicento nella Pittura, Diceria Prima di Giovan Battista Marino
sulla scorta dei versetti dei Salmi con l’originale connotazione del passaggio dell’anima umana alla natura animale come palangenesia,40 una visione che può
essere considerata affine a quella sottesa al Cantus di
Giordano Bruno.
La saggia Circe creata dal letterato nolano, infatti,
consapevole del fraintendimento in cui possono incorrere i suoi incantesimi, ne spiega la ratio obbiettiva, lascia trapelare attraverso il proprio «lamento», il
«principio ‘obbiettivo’ di giustizia» che anima il suo
operato, dal momento che esso non fa che ripristinare la corrispondenza violata fra anime e corpi, essere
ed apparire.41 Il grave stato di decadenza, il caos che
ha travolto l’ordine naturale delle cose ha alterato i
normali criteri di percezione del reale e di senso della
giustizia, per cui la barbara, benefica magia di Circe
riplasma l’effettiva natura degli individui, ripara alla
corruzione universale disarmando i malvagi che so-
no privati della loro potenza offensiva.42 Solo pochi
mantengono il loro aspetto umano, i giusti e gli onesti che, atterriti, corrono a mettersi al riparo. Proprio
quest’immagine, raccontata nel suo compiersi dall’interlocutore di Circe, Meri, richiama la figura del
giovane che si dà alla fuga mentre il compagno si trasforma in cinghiale nel dipinto del Castiglione conservato in collezione privata a New York, riprova dei
caratteri fortemente ‘plastici’, ‘figurativi’ della narrazione di Giordano Bruno, ricercati anche in riferimento alla prassi dell’ars memoriae che l’autore intende esporre.43
Accanto all’interpretazione tradizionale, di stampo moraleggiante, dei commentari medievali perpetuata ancora, ad esempio, da Andrea Alciati e
dalle xilografie di Bernard Salomon e Virgil Solis,44
Circe è, per la cultura più libera e non costretta entro i limiti e le imposizioni della cultura ufficiale, figura mitologica che permette di proporre la magia
quale unico mezzo possibile di riappropriazione di
una realtà sfuggente, che può essere dominata dal
libero pensiero soltanto attraverso la costruzione di
apparati simbolici.45 Con tale cultura il Castiglione
entrò sicuramente in contatto a Genova, Roma,
Napoli46 ed il coinvolgimento personale dell’artista
nei problemi etici e morali sollevati dalla sua arte
emerge proprio con il personaggio spaventato e in
fuga del dipinto di New York, intaccato dagli incantesimi della maga, che indossa il berretto piumato
con cui Giovanni Benedetto si è ritratto e ha alluso
a sé.47
o mitologiche dell’artista. Ad es., nell’Allegoria della Poesia (o Musica) in collezione privata o nell’opera di soggetto specifico Sacrificio
a Pan a Mosca, Museo Puskin: cfr. T. J. Standring, schede nn. 60,
58, in Genova nell’età barocca, cat. mostra Genova 1992, a cura di E.
Gavazza, G. Rotondi Terminiello, Bologna, 1992; e in altra versione
a Ottawa, National Gallery of Canada: cfr. Il genio di G. B. Castiglione cit. a nota 3, n. 23, tav. 109. Per Bacco cfr. V. Cartari, Imagini
delli Dei de gl’Antichi, Venezia, Ziletti, 1587, ed. Vicenza, 1996, pp.
230-232.
sia, arte. Saggi sulla tradizione ovidiana nel Rinascimento, Roma, 1997,
part. p. 26.
40 Marino, op. cit. a nota 37, 1960, p. 123.
41 M. Ciliberto, Introduzione a Bruno, Roma-Bari, 1996, pp. 40-42.
42 Tali strumenti sono principalmente la lingua e le mani: cfr. Ciliberto, op. cit. a nota 25, p. 23.
43 Ciliberto, op. cit. a nota 41, p. 39.
44 Guthmüller, op. cit. a nota 39, cap. x, Picta poesis ovidiana, pp.
213-236, part. a 213 l’indicazione dell’emblema con il motto Cavendum
a meretricibus dell’Alciati. Per Virgil Solis cfr. anche I. O’Dell-Franke, Kupferstiche und Radierungen aus der Werkstatt des Virgil Solis, Wiesbaden, 1977, fig. d29.
45 C. Mongardini, Sociologia del pensiero magico, in La strega, il
teologo, lo scienziato (Atti del Convegno Magia, stregoneria, superstizione
in Europa e nelle zone alpine, Borgosesia 1983), a cura di M. Cuccu, P. A.
Rossi, Genova, 1986, p. 342.
46 Si rimanda agli studi, più volte citati, di Gavazza-Lamera-Magnani, op. cit. a nota 7, e al catalogo della mostra Il genio di G. B. Castiglione cit. a nota 3. Ancora da verificare i rapporti fra il Grechetto e
Anton Maria Vassallo, il cui atteggiamento nei confronti del soggetto
appare tuttavia di mera illustrazione più che di interpretazione e approfondimento delle tematiche connesse.
47 Cfr. L. Magnani, Tra Muse, iconografie della lettura e un berretto
rosso, in «Studi di Storia delle arti», numero speciale in onore di Ezia
Gavazza, Università degli Studi di Genova, d.i.r.a.s., 2003, pp. 146-147.
37 Il concetto – come osservato da L. Magnani, Cultura laica e scelte religiose: artisti, committenti e tematiche del sacro, in Gavazza-Lamera-Magnani, op. cit. a nota 7, pp. 272-273, part. 273, che indaga gli
aspetti della cultura del Castiglione più vicini alle accademie di marca
stoica e libertina e al Mascardi – è ne La pittura. Diceria Prima di G.B.
Marino del 1614: cfr. G. B. Marino, Dicerie Sacre e La Strage degl’innocenti, ed. a cura di G. Pozzi, Torino, 1960, p. 123.
38 La statua è affine a quella raffigurata all’estrema destra nel dipinto con Deucalione e Pirra a Berlino, Staatliche Museen zu Berlin,
Gemäldegalerie, inv. 2078: cfr. T. J. Standring, scheda n. 59, in Genova
nell’età barocca cit. a nota 36. Per Priapo, «detto da gli antichi dio de gli
orti», cfr. Cartari, op. cit. a nota 36, pp. 390-391, part. 391; R. Graves,
I miti greci, Milano, 199612, pp. 89-91.
39 Riscontrabile, ad esempio, nell’Allegoriae super Ovidii Metamorphosin di Arnolfo d’Orléans (sec. xii): cfr. B. Guthmüller, Mito, poe-
IL PROSPETTO DELLA PIAZZA DEL POPOLO
DI LIEVIN CRUYL DELLA RACCOLTA LANCIANI*
Giorgia Pollio
G
li anni del pontificato di Alessandro VII (15991667) sono cruciali per l’immagine di Roma.
Proprio nell’epoca che segna l’inizio del declino del
prestigio politico papale sullo scacchiere internazionale, e forse proprio in virtù di questa consapevolezza, Alessandro VII, profondamente interessato in
prima persona all’urbanistica e all’architettura, imprime un nuovo assetto alla città con una serie di iniziative edilizie su larga scala. A questa inesausta attività urbanistica, che si configura come una vera
‘politica d’immagine’, Alessandro VII affianca sapientemente un’altrettanto energica propaganda,
sostenendo anche con investimenti economici imprese editoriali che avessero favorito la diffusione su
larga scala della rinnovata immagine di Roma. Fioriscono così nuove pubblicazioni che divulgano il
volto della Roma moderna con pari dignità rispetto
all’immagine della Roma classica e cristiana consacrata dalla tradizione, imprimendo ulteriore dinamismo all’editoria romana, già florida per la richiesta di
prodotti come guide e vedute destinati ai visitatori e
ai pellegrini. Ne ricevono impulso non solo la trattatistica,1 ma anche le raccolte di vedute della città abbellita dalle recenti fabbriche.2 È in questo febbrile
contesto che bisogna inquadrare gli esordi dell’attività romana di Lievin Cruyl (Gand 1634-1720 ca. ?),
giunto a Roma nel 1664 ormai trentenne, già cimentatosi con studi di architettura, e subito ingaggiato
dall’editore Giovan Battista De Rossi con stamperia
in Piazza Navona. A Cruyl viene conferito l’incarico
di elaborare una serie di vedute della città di Roma
destinate ad una raccolta di stampe che vedrà la luce
nel 1666.3 Il Prospetto della Piazza del Popolo della Raccolta Lanciani, firmato e datato 1664, è stato realizzato nell’ambito di questa commitenza e appartiene
quindi alla primissima produzione di Cruyl durante
il suo soggiorno romano.
Il disegno (Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, xi. 11. ii. 66, proprietà dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte) è realizzato con penna ad inchiostro seppia e
con matita nera, su entrambe le facce di un foglio di
carta giallo avorio, non filigranata (Figg. 1-2). Misura mm. 336 × 528 ed è in buono stato di conservazione: presenta infatti solo rare macchie per ingiallimento della carta e la traccia di una piegatura al
centro, segno che dovette essere conservato piegato
a metà. La firma e la data sono apposte in basso a destra, in carattere corsivo, mense dec. 1664 L. Cruyl delineavit. Inoltre il disegno reca le seguenti iscrizioni:
Prospetto della Piazza del Popolo, in alto al centro; A. ordine dorico, in basso a sinistra, riferita al prospetto
meridionale della Porta del Popolo presso al fornice
della quale è replicata la lettera A; infine, in basso a
destra, dall’alto, S.a Ludovico Casali Mrg de strada (?),
in una corsiva poco leggibile e, sotto Campo Marzio.
Queste ultime annotazioni hanno forse una funzione di pro memoria per l’artista. Alle iscrizioni autografe si aggiungono un titolo e dei numeri di catalogo
apposti da mani successive. Secondo due diverse
* Un sentito ringraziamento a Ursula Fischer Pace per aver ‘controllato’ il presente lavoro e a Valentino Pace per il suo sempre generoso sostegno.
254-257; Ead., Declino dello stato e trionfo dell’architettura, ivi, pp. 226231; sempre sull’uso politico delle incisioni, cfr. anche R. D’Amico, La
veduta nell’incisione fra ’600 e ’700. G. B. Falda e G. Vasi, RicStorArte, I-II,
1972, pp. 81-101, part. 81-83.
3 L. Cruyl, Prospectus locorum urbis Romae insignium, Roma, G. G.
De Rossi, 1666. Per la biografia di Lievin Cruyl cfr. B. Jatta, Lievin
Cruyl e la sua opera grafica, Bruxelles-Roma, 1992, pp. 7-11, alla quale
spetta anche il merito di aver precisato, sulla base di documenti di archivio, la data di nascita dell’artista all’anno 1634, anziché al 1640 precedentemente indicato; anche la data di morte indicata attorno al
1720 appare discutibile a Jatta, dal momento che l’ultimo disegno noto di Cruyl è datato 1690.
1 Come i due volumi di G. Alveri, Roma in ogni suo stato alla Santità di N. S. Alessandro VII, Roma, 1664.
2 Sulla Roma di Alessandro VII cfr. R. Krautheimer, La Roma di
Alessandro VII (1655-1667), Roma, 1987, part. il cap. x dedicato a Urbanistica e politica. In relazione alla propaganda dell’attività urbanistica
del papa, si vedano i due contributi di D. Del Pesco, Le incisioni e la
diffusione internazionale dell’immagine di Roma di Alessandro VII, in Alessandro VII Chigi (1599-1667). Il papa senese di Roma moderna, cat. mostra,
Siena 2000, a cura di A. Angelini, M. Butzek, B. Sani, Siena, 2000, pp.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 215-222
216
giorgia pollio
Fig. 1. L. Cruyl, Veduta di Piazza del Popolo,
Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, xi. 11. ii. 66, recto
proposte, non necessariamente alternative, il Ludovico Casale citato nell’appunto a margine del disegno è identificabile con un maestro di strada di Alessandro VII, in servizio tra 1662 e 1667,4 oppure come
il figlio di Marco Casali e Margherita Teofili.5 Sappiamo, grazie ad Ashby, che il disegno faceva parte della
ricca collezione del senatore Lanciani.6 Alla morte
del senatore, nel 1929, parte della sua raccolta fu acquisita dall’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte e con essa anche questo disegno.
La veduta, orientata verso est, spalle al Tevere, abbraccia l’intera Piazza del Popolo dalla Porta urbica
all’imbocco del tridente, includendo però sul recto
solo Via del Babuino, la Chiesa di S. Maria di Montesanto e il Corso. Il disegno deve poi proseguire sul
verso per completare il panorama con la Chiesa di S.
Maria dei Miracoli e il tratto iniziale di Via di Ripetta.
Appare dunque evidente che Lievin Cruyl non avesse ben calcolato il rapporto tra le dimensioni del foglio e l’estensione della veduta. L’intero prospetto è
realizzato con una mano veloce, appena abbozzato:
pochi tratti a matita costituiscono una sommaria griglia di riferimento prospettica, con linee di fuga e ortogonali, secondo le modalità verificate da Barbara
Jatta in altri disegni.7 Molti elementi sono tracciati
direttamente con l’inchiostro, con un tratto sottile e
preciso ma poco accurato nei particolari minuti.
L’ausilio di strumenti per il disegno appare saltuario:
l’impiego di una riga sembrerebbe riscontrabile, oltre che nelle linee di fuga, solo in pochi casi, come
4 H. Hager, Zur Plannung und Baugeschichte der Zwillingskirchen auf
der Piazza del Popolo, in RömJb, xi, 1967/68, 191-306, pp. 215-220, part.
216 nota 59.
5 C. Pietrangeli, Vedute romane di Lievin Cruyl al Museo di Roma,
BMusCom, 1972, pp. 7-21, part. 21 n. 34, che trae la notizia da T. Ashby,
Lievin Cruyl e le sue vedute di Roma (1664-1670), MemPontAcc, serie iii,
vol. i, parte i, Roma, 1923, p. 225.
6 Ashby, loc. cit. a nota 5.
7 Jatta, op. cit. a nota 3, p. 12.
il prospetto della piazza del popolo di lievin cruyl della raccolta lanciani
217
Fig. 2. L. Cruyl, Veduta di Piazza del Popolo,
Roma, Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, xi. 11. ii. 66, verso.
nel fusto dell’obelisco, oggetto di un trattamento
più accurato, eseguito prima a matita e poi ripassato
ad inchiostro. La facciata della Chiesa di S. Maria del
Popolo è delineata solo a metà e non rifinita nei dettagli. L’intero proscenio appare inconsuetamente
deserto: sono accennate sinteticamente solo due figurette, con la verosimile funzione di indicatori di
dimensioni. In questo disegno risulta evidenziato il
modo di procedere tipico di Cruyl, che affianca distinte vedute facenti riferimento a diversi coni visivi
e le compone in un’unica panoramica, al fine di ampliare il più possibile la visione senza alterare i rapporti prospettici.8 Infatti l’intero blocco delle chiese
gemelle è schizzato direttamente a penna e a mano
libera e parrebbe inserito in un secondo momento rispetto alla realizzazione dell’impianto generale, il
che spiegherebbe l’errato calcolo dell’estensione
complessiva del panorama rispetto alle dimensioni
del foglio e la conseguente prosecuzione dell’abbozzo sul retro. D’altro canto le chiese gemelle di Piazza
del Popolo, lungi dall’essere completate come appaiono nei disegni di Cruyl, all’epoca erano state appena fondate.9 L’artista per rappresentare artificiosamente i due edifici come ultimati dovette far ricorso
a progetti fatti circolare apposta, coerentemente con
la politica di propaganda papale, o comunque entrati
in possesso del suo editore. Non a caso nella veduta
di Cruyl le due chiese presentano lungo i lati dei portici assenti nella loro effettiva redazione finale: evidentemente il progetto fornito a Cruyl fu cassato in
corso d’opera. La variante dei portici laterali delle
chiese gemelle, peraltro, non è altrimenti documentata, nemmeno dalla medaglia di fondazione nel
1662 della chiesa di S. Maria in Montesanto.10 Tale
8 Per la tecnica prospettica di Cruyl cfr. Jatta, op. cit. a nota 3, pp.
15-23; M. Furnari, Progetto e tecnica delle immagini della città nelle vedute di Lievin Cruyl, ivi, pp. 369-381.
9 Per la vicenda edilizia delle chiese gemelle cfr.: Hager, op. cit. a
nota 3; vedi inoltre, con qualche divergenza rispetto ad Hager circa la
cronologia dei progetti e del cantiere, il contributo di Krautheimer,
op. cit. a nota 2, p. 126 e note a pp. 195-196.
10 Per una riproduzione della medaglia di fondazione della chiesa,
cfr. Hager, op. cit. a nota 4, fig. 144.
218
giorgia pollio
versione delle chiese gemelle è ascrivibile, secondo
Krautheimer, ad una delle innumerevoli revisioni
operate, negli anni 1661-’65, da Carlo Fontana e da
Bernini sul progetto di Rainaldi, per meglio conformarlo al classicismo neo-cinquecentesco prediletto
da Alessandro VII. I portici furono alla fine eliminati,
probabilmente perché troppo ingombranti rispetto
alla sede stradale.11
La rapidità di esecuzione, la scarsa finitezza, il
forzoso inserimento di S. Maria dei Miracoli sul verso e la presenza di annotazioni non destinate ad un
eventuale pubblico concorrono a dimostrare che
questa tavola è uno schizzo preparatorio, come già
suggerito da Ashby che la mise giustamente in relazione con un’altra Veduta di Piazza del Popolo, sempre di Cruyl, oggi conservata nel Cleveland Museum of Art (Dudley P. Allen Fund 43.261), ma
proveniente dall’Albertina di Vienna (Fig. 3).12 Il disegno della Raccolta Lanciani, infatti, differisce per
pochi ma significativi dettagli dalla Veduta di Cleveland, nella quale l’intera estensione della piazza è
correttamente raffigurata sul recto, peraltro adattandosi ad un foglio dal formato meno allungato (mm
388 × 492). Inoltre la veduta della Raccolta Lanciani
non è eseguita in controparte, come invece quella
di Cleveland, evidentemente destinata a trarne una
copia calcografica per la traduzione a stampa. Le
note ad uso dell’artista, presenti in questo bozzetto,
sono sostituite nella veduta di Cleveland da un apparato di didascalie esplicative dei singoli monumenti. Inoltre nell’esemplare in esame manca il palazzo che nella veduta di Cleveland è posto in
proscenio, a mo’ di quinta. La facciata di S. Maria
del Popolo, abbozzata a metà nel nostro schizzo, è
invece completa di tutti i dettagli nella replica di
Cleveland, dove ogni particolare architettonico è
meticolosamente registrato. Anche la piazza, in
questo schizzo quasi deserta, nel disegno di Cleveland brulica di una folla di piccoli personaggi minuziosamente descritti, a piedi o in carrozza, tipica del
gusto del pittoresco comune agli artisti fiamminghi,
cui Cruyl non fa eccezione. Infine mancano nel-
l’esemplare romano le acquarellature ad inchiostro
che rifiniscono la tavola statunitense. È quindi evidente che il nostro disegno rappresenta un studio
preparatorio della veduta conservata a Cleveland,
destinata a sua volta ad essere tradotta a stampa.
Cruyl stesso trasse dal disegno di Cleveland l’incisione ad acquaforte edita da Giovan Battista De
Rossi nel Prospectus del 1666.13 Le varianti tra il disegno e l’incisione si limitano all’eliminazione, nella
stampa, della recinzione che nel disegno delimita a
ovest la piazza, al cambiamento dei personaggi in
primo piano e all’ulteriore aggiunta di qualche figurina per aumentare l’animazione della piazza. Nella
seconda edizione del Prospectus, edita negli anni ’90
del Seicento da Matteo Gregorio De Rossi, la Veduta
di Piazza del Popolo fu ristampata con poche varianti,
tra le quali la principale è l’inserimento delle figure
allegoriche in alto a sinistra.14 Una terza edizione
del Prospectus vide la luce nel xviii secolo per i tipi
di Carlo Losi, con poche ulteriori modifiche.15
Lo schizzo in questione era stato dato per disperso da quasi tutta la moderna letteratura critica, pur
essendo rimasto, molto probabilmente, sempre
presso la Raccolta Lanciani. Ashby fu il primo a darne notizia, quando era ancora presso la collezione
privata del senatore Lanciani, ma lo pubblicò senza
alcuna riproduzione fotografica.16 Parecchio tempo
dopo, il disegno, nel frattempo acquisito dall’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte, fu
esaminato per il suo saggio sulla vicenda edilizia
delle chiese gemelle da Hager,17 il quale, allo scopo
di documentare la variante progettuale dei portici
addossati ai fianchi delle chiese gemelle, affiancò al
testo anche la riproduzione fotografica dei due dettagli della veduta relativi ai due edifici. Trascorsi solo cinque anni, Pietrangeli, nel presentare la serie
dei disegni di Lievin Cruyl appena entrati in possesso del Museo di Roma, dichiarò la scomparsa della
veduta della Raccolta Lanciani,18 notizia che fu rapidamente ripresa e da quel momento ribadita fino ai
nostri giorni.19 L’unica eccezione è costituita da
Krautheimer che, nel capitolo dedicato a Piazza del
11 Krautheimer, op. cit. a nota 2, p. 132.
12 Ashby, op. cit. a nota 5, p. 225. La veduta allora all’Albertina di
Vienna era stata pubblicata in Römische Veduten. Handzeichnungen aus
dem xv.-xviii . Jahrhundert, a cura di H. Egger, Wien-Leipzig, 1911, i,
p. 20, Taf. 5. In seguito, delle 21 vedute conservate a Vienna, 18 confluirono al Museo di Cleveland e 3 al Rijksmuseum di Amsterdam.
Sulla Veduta di Piazza del Popolo di Cleveland cfr. Jatta, op. cit. a nota
3, cat. 69, fig. 71, tav. xxi, con bibl. prec.; D. Del Pesco, Lievin Cruyl,
Prospetto della Piazza del Popolo, in Alessandro VII Chigi, cit. a nota 2, p.
264, cat. 162.
13 Jatta, op. cit. a nota 3, p. 157, cat. 9 S, fig. 72.
14 Ivi, p. 157, cat. 9 S, fig. 73.
15 Ivi, p. 153.
16 Ashby, op. cit. a nota 5, p. 225.
17 Hager, op. cit. a nota 4, figg. 148-149.
18 Pietrangeli, op. cit. a nota 5, p. 21, n. 34.
19 Roma sparita. Donazione Anna Laetitia Pecci Blunt, cat. mostra a
c. di G. Incisa della Rocchetta, Roma 1976, p. 17, cat. 10;Vedute romane di Lievin Cruyl: paesaggio urbano sotto Alessandro VII, cat. mostra,
a cura di B. Jatta, J. Connors, Roma, 1989, p. 49, cat. 5; M. G. Massafra, Roma: l’immagine della memoria, in Una collezionista e mecenate
il prospetto della piazza del popolo di lievin cruyl della raccolta lanciani
219
Fig. 3. L. Cruyl, Veduta di Piazza del Popolo, Cleveland (usa), The Cleveland Museum of Art, Dudley P. Allen Fund 43.261.
Popolo nel suo magistrale saggio sulla Roma di
Alessandro VII, mostra di aver consultato de visu
proprio questo disegno e proprio presso la Raccolta
Lanciani, ma, forse inconsapevole che la veduta da
lui esaminata fosse quella ritenuta sparita, la cita solo en passant, nelle ricchissime note.20 Così il riferimento è passato inosservato. È invece proprio grazie all’indicazione di Krautheimer che mi è stato
possibile constatare la permanenza di questo schizzo di Cruyl nella pertinente sede, ovvero nella Raccolta Lanciani presso la Biblioteca di Archeologia e
Storia dell’Arte di Roma.21
Questa curiosa sorte ha ovviamente condizionato
la ‘fortuna critica’ del disegno della Raccolta Lanciani. Dopo la sua pubblicazione per merito di Ashby, lo
schizzo è stato preso in considerazione solo in saggi
romana. Anna Laetitia Pecci Blunt (1895-1971), cat. mostra a cura di L.
Cavazzi, Roma, 1991, pp. 19-49, p. 25, cat. 7; Jatta, op. cit. a nota 3, cat.
69; E. Marconcini, Lievin Cruyl. Serie di vedute di Roma, in Il Museo di
Roma racconta la città, cat. mostra, a cura di R. Leone, F. Pirani, M. E.
Tittoni, Roma, 2002, p. 124 sgg., part. 128, cat. i. d. 41.
Archeologia e Storia dell’Arte, Raccolta Lanciani, Roma, xi, ii, 1, c.
115r.
21 Colgo l’occasione per esprimere la mia viva gratitudine all’arch. Luciano Arcadipane e alla dott. Ludovica Mazzola, entrambi
della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte di Roma, per la cortese sollecitudine con cui mi hanno aiutato a trovare il presente disegno, malgrado la collocazione datata.
20 Krautheimer, op. cit. a nota 2, p. 196, ne indica la seguente collocazione, non corrispondente a quella odierna: Roma, Biblioteca di
220
giorgia pollio
di interesse eminentemente storico-architettonico,
legando quindi la sua notorietà al solo valore storico-documentario, quale testimonianza di una variante progettuale altrimenti ignota delle chiese gemelle di Piazza del Popolo, peraltro ovviamente
presente anche nella ‘versione in bella’ di Cleveland
e nelle stampe che da essa derivano. Lo schizzo della
Raccolta Lanciani può invece presentare uno specifico interesse anche come documento della tecnica di
ripresa di Cruyl, se non altro a conferma dei dati già
acquisiti circa il suo metodo di lavoro. Tanto più che
gli studi preparatori per le vedute di Cruyl sono pervenuti in numero davvero esiguo. In qualche caso
l’artista ha realizzato sul verso dei suoi disegni degli
accenni di schizzi per registrare varianti della tavola
in corso di elaborazione o propedeutici a vedute diverse, ma si tratta solo di sintetiche annotazioni, non
confrontabili con il complesso e articolato esempio
in esame.22 L’unico esemplare analogo al Prospetto
delle Piazza del Popolo romano potrebbe essere quello
di una Veduta di Piazza Navona, recentemente battuta
ad un’asta di Christie’s, che parrebbe anch’essa un
bozzetto. Secondo l’expertise di Barbara Jatta, in questo disegno si può riconoscere una rappresentazione
preliminare alla Veduta di Piazza Navona pubblicata
nel Prospectus del 1666.23 Questo studio per una veduta di Piazza Navona, in base alla riproduzione fotografica ed alla relativa scheda, si direbbe più rifinito del disegno della Raccolta Lanciani: realizzato su
due foglietti di carta attaccati, a matita nera e penna
ad inchiostro marrone, è perfezionato con le acquarellature ad inchiostro. È interessante notare come il
prospetto della Chiesa di Santa Agnese vi sia raffigurato con una sola delle due torri campanarie, peraltro incastellata nei ponteggi, mentre nella corrispondente incisione del Prospectus le torri sono entrambe
presenti e per di più quasi del tutto ultimate. Inoltre
la facciata del palazzo che chiude la piazza in fondo
a sinistra è definita solo in parte, con le file di finestre
abbozzate a metà, secondo un espediente che abbia-
mo osservato anche per la facciata di S. Maria del Popolo nella veduta della Raccolta Lanciani. Infine
nemmeno questo studio è disegnato in controparte,
come invece tutti i disegni noti destinati alle incisioni
per il Prospectus. La ‘versione in bella’ dello studio
per Piazza Navona in esame, finalizzata alla traduzione a stampa, risulta invece smarrita.24
Si conoscono altre due vedute di Piazza del Popolo
successivamente eseguite da Lievin Cruyl. Una di
queste è il disegno su pergamena oggi a Palazzo Braschi (Museo di Roma, gs 854): non datato, si può tuttavia ascrivere alla più tarda produzione romana di
Cruyl, nella quale l’artista ha ormai messo a punto la
sua tecnica di ripresa a ‘volo d’uccello’.25 Il punto di
vista è esterno alla Porta del Popolo e lo sguardo spazia non solo sulla piazza vista dall’alto, ma su tutto il
circostante tessuto urbano, fino alle colline all’orizzonte. Come per il precoce esemplare della Raccolta
Lanciani, anche qui le distanze sono irrealisticamente dilatate, per cui Villa Medici e Trinità dei Monti si
stagliano sull’orizzonte, apparendo ben più lontane
di quanto non siano davvero. In questa veduta, che
rappresenta la summa del talento di Cruyl, i soggetti
centrali sono delineati con tratti sfumati, mentre i
contorni degli edifici più lontani sono ispessiti con
l’inchiostro per meglio esaltare la ricchezza dei dettagli, meticolosamente raffigurati malgrado la distanza. Questa tecnica peculiare varrà alle vedute di
Cruyl la definizione «telescopiche e grandangolari».
La Veduta di Piazza del Popolo di Palazzo Braschi si ritiene proveniente dalla collezione dell’editore Conrad Ruysch di Leida, in quanto da essa, o da un esemplare identico, è stata tratta una delle incisioni che
compongono il iv volume del Thesaurus di Graevius,
edito ad Amsterdam nel 1697.26 Un altro disegno
pressoché uguale, sempre eseguito con inchiostro su
pergamena, battuto ad un’asta di Sothesby’s a Montecarlo nel 1984,27 si differenzia dal disegno di Palazzo
Braschi per il solo ragguardevole dettaglio della cupola di S. Maria dei Miracoli, che non vi appare anco-
22 Sul verso della Veduta di Piazza del Popolo di Cleveland è raffigurato un autoritratto dell’artista intento a disegnare sotto un arco romano. L’immagine è stata riconosciuta da Jatta, op. cit. a nota 3, catt.
69, 4S, come preliminare alla dispersa Veduta di S. Giovanni in Laterano
stampata nel Prospectus. Il verso della Veduta del Collegio di Propaganda
Fide, anch’essa conservata a Cleveland (ivi, cat. 75), presenta uno
schizzo delle finestre e dei pilastri del piano superiore del palazzo. Infine, sul retro del I foglio delle tavole progettuali per la Torre del S.
Michele di Gand (Gand, Stadsarchief.: ivi, cat. 4) è annotata una possibile variante architettonica.
23 Christie’s London, Old Master Drawings, Jul. 6, 1999, lot 61, p. 56,
fig. 61; il parere di Barbara Jatta non è riferito nel catalogo a stampa
dell’asta, ma solo nella versione di esso riportata nelle pagine del sito
web artfact.com.
24 Jatta, op. cit. a nota 3, cat. 5S, figg. 55-58.
25 Su questo disegno: Pietrangeli, op. cit. a nota 5, p. 21, n. 74; Roma sparita cit. a nota 19, p. 17, cat. 10; Vedute romane, cit. a nota 19, p. 9;
Massafra, op. cit. a nota 19, p. 25, cat. 7; Jatta, op. cit. a nota 3, p. 114,
cat. 60; Marconcini, op. cit. a nota 19, p. 128, cat. i. d. 41. C. De Seta
in: Imago urbis Romae: l’immagine de Roma in età moderna, catalogo della mostra (Roma 2005), a. c. di C. De Seta, Milano 2005, p. 23, fig. 9.
26 Jatta, op. cit. a nota 3, p. 161, cat. 16 S.
27 Ivi, p. 114, cat. 100.
il prospetto della piazza del popolo di lievin cruyl della raccolta lanciani
ra costruita. Da notare che in entrambe queste seriori vedute Cruyl ha ormai modificato l’impianto delle
due chiese gemelle, eliminando il particolare dei portici laterali e adeguandone quindi l’aspetto ad una
versione più aderente all’attuale.
La carrellata dallo schizzo della Raccolta Lanciani
alle ultime due vedute su pergamena esemplifica
l’evolversi del percorso artistico di Lievin Cruyl, da-
221
gli esordi al raffinamento di una tecnica di ripresa
che, innalzando il punto di vista, consente uno straordinario ampliamento dell’orizzonte di riferimento
per realizzare vedute non vere ma verosimili. Vedute
che con la loro dovizia di particolari coniugata alla
vertiginosa ampiezza dell’orizzonte costituiscono
un autentico resoconto ed un omaggio alle imprese
urbanistiche della Roma di seconda metà Seicento.
PER UNA STORIA DELLE COLLEZIONI
DI ANTICHITÀ DEI DUCHI D’ESTE.
APPUNTI SUL COSIDDETTO ‘APOLLO DI FERRARA’:
DA ALFONSO II A LOUIS XV*
Stefano Bruni · Cristina Cagianelli
C
omponente centrale del collezionismo estense
fin dai tempi di Leonello, l’interesse per l’antico
della corte estense di Ferrara è stato finora oggetto
di indagine solo per gli aspetti relativi ai marmi,1 alle
iscrizioni2 e alle monete,3 mentre sono rimaste in
ombra, anche per l’oggettiva difficoltà a rintracciare
i vari monumenti, le raccolte di gemme4 e quella dei
bronzi.5 La dispersione dei materiali dopo la devoluzione di Ferrara allo Stato della Chiesa, da un lato, e
la limitata conoscenza dei materiali conservati a Mo-
* Il testo è una versione più ampia di quello letto in occasione del
convegno Cultura nell’età delle Legazioni, svoltosi a Ferrara dal 20 al 22
marzo 2003 (cfr. il volume degli Atti, Firenze 2005, pp. 287-327), ed è
frutto del lavoro comune degli autori; a C.C. si deve in particolare la
ricerca sulla fortuna dell’Apollo di Ferrara nella letteratura antiquaria
settecentesca. Un caloroso ringraziamento per l’aiuto prestato va a
tutto il personale dell’Archivio di Stato di Modena e a quello dell’Archivio di Stato di Ferrara, nonché alle signore della sala manoscritti
della Biblioteca Ariostea di Ferrara e ai dr. Giuseppe Moscardini e Elena Bonati dei Musei Civici d’Arte Antica di Ferrara. Gli autori tengono
a ringraziare in particolare il prof. Gehrard Wolf, attuale direttore del
Kunsthistorisches Institut di Firenze, la cui biblioteca è stata di fondamentale aiuto per lo svolgimento della ricerca, e il prof. Salvatore Settis, che da anni coordina il gruppo di lavoro a cui è stata affidata la pubblicazione dei bronzetti della Galleria Estense di Modena, con cui è
stato possibile discutere alcuni dei problemi qui affrontati e che ha più
volte incoraggiato gli autori a portare avanti questa ricerca. Il lungo
tempo trascorso da quando fu consegnato alla redazione della Rivista
e il proseguimento delle ricerche sul collezionismo estense avrebbero
imposto una revione massiccia; tuttavia si è preferito non stravolgere
il testo, limitandoci ad un sommario aggiornamento delle note, permettendoci di rinviare per alcuni problemi alla relazione di S.Bruni,
Pirro Ligorio e l’Antichario di Alfonso II, in stampa nel volume degli atti
del convegno “Collezionismo e mercato negli Stati Estensi e nella Legazione
di Ferrara” svoltosi a Ferrara dal 13 al 14 novembre 2008.
gna, 1987, p. 155 sg.; F. Rebecchi, Il ritratto di età traianea della Galleria
Estense di Modena. Storie parallele di un busto romano e della sua iscrizione
(cil xi 818), in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, a cura di F.
Rebecchi, iii, Modena, 1990, p. 221 sg. S.Corsi, in Sulture a corte. Terrecotte, marmi e gessi della Galleria Estense dal xvi al xix secolo, a cura di
J.Bentini,Modena 1986, p. 6 sgg. nn. 3, 4, 5 [ora in S. Corsi, Virtù e conoscenza. Scritti di Stefano Corsi, Firenze 2009, p. 59 sgg.]; Idem, Dal
“Lecto de Policrate” al “Letto di Policleto”. Prima ipotesi sulla genesi di
un’attribuzione, «Prospettiva» 117-118, 2005, p. 145 sgg. [ora in S.Corsi,
Virtù e conoscenza. Scritti di Stefano Corsi, Firenze 2009, p. 127 sgg.].
2 Per le iscrizioni cfr. S. Grandini, Pandolfo Collenuccio e i duchi
d’Este. Collezioni ed antichità epigrafiche a Ferrara, in L’ideale classico a
Ferrara e in Italia nel Rinascimento, a cura di P. Castelli, Firenze, 1998,
p. 89 sg. Cfr. anche F. Rebecchi, La contraffazione di antiche epigrafi di
Girolamo Falletti, in “In supreme dignitatis…”. Per la storia dell’Università
di Ferrara (1391-1991), a cura di P. Castelli, Firenze, 1995, p. 405 sg.; G.
Gregori, Genealogie estensi e falsificazione epigrafica, Girolamo Falletti
e lo studio delle iscrizioni del Cinquecento, in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, a cura di F. Rebecchi, iv, Modena, 1995, p. 155 sg. (una
prima versione in OpEpigr, i, 1990); F. Rebecchi, Girolamo Falletti storiografo estense e la stele cil xi , 928, ivi, p. 209 sg.
3 Per la raccolta numismatica cfr. E. Corradini, Il medagliere dei
Duchi d’Este: i 550 anni di una Collezione, in Atti xi Congresso Internazionale di Numismatica (Bruxelles 8-12 settembre 1991), ??? ????; G. Missere, F. Missere Fontana, Una silloge numismatica del secolo xvi : Celio
Calcagnini e la raccolta estense, Modena, 1993; F. Missere Fontana,
Raccolte numismatiche e scambi antiquari del xvi secolo. Enea Vico a Venezia, QuadTic, xxiii, 1994, p. 00 sg.; G. Poggi, Le collezioni numismatiche
estensi tra xvii e xviii secolo, in J. Bentini (a cura di), Sovrane passioni.
Studi sul collezionismo estense, Milano, 1998, p. 215 sg. Cfr. anche A.
Maestri, Il Marchese Scipione Maffei e il Medagliere Estense 1720-1722,
AttiAccVerona, s. iv, xxiii, 1921, p. 99 sg. Per la raccolta di monete auree di Ercole II, conservate entro piccole teche a vetri predisposte da
Pistofilo, segretario di Alfonso, si veda ora L. Tondo, Celio Calcagnini:
l’uomo e l’umanista, in Castelli, “In supreme dignitatis…”, cit. a nota
2, p. 173 sg.
4 Per la raccolta di gemme si veda adesso F. Trevisani (a cura di),
I gusti collezionistici di Leonello d’Este. Gioielli e smalti en ronde-bosse a
corte, cat. mostra, Modena 2003. Cfr. anche P. L. Calvani, Statue e
cammei della Galleria delle medaglie nella seconda metà del Settecento:
incrementi e dispersioni, in Bentini, op. cit. a nota 3, p. 237 sg.
5 Su cui si veda, per quanto divulgativo, Corradini, Le raccolte cit.
a nota 1, p. 175 sg.
1 Sulle collezioni di antichità della corte estense di Ferrara si veda,
oltre al fondamentale A. Venturi, La R. Galleria Estense in Modena,
Modena, 1882, p. 14 sg.; E. Corradini, Per una storia delle collezioni di
antichità dei duchi d’Este, in Da Borso a Cesare d’Este, Ferrara, 1985, p.
179 sg.; Ead., Le raccolte estensi di antichità. Primi contributi documentari, in L’impresa di Alfonso II, a cura di J. Bentini, L. Spezzaferro, Bologna, 1987, p. 163 sg.; S. Corsi, Le antichità Carpi a Ferrara. Cronaca di
un acquisto, Prospettiva, lxiv, 1993, p. 66 sg. Cfr. anche G. F. Ferrari
Moreni, Notizia di alcuni pregevoli bassi rilievi in marmo esistenti nella
R. Galleria Palatina di Modena, AttiMemModenaParma, iv, 1868, p. 65
sg.; G. Campori, Enea Vico e l’antico Museo Estense delle Medaglie, AttiMemModenaParma, vii, 1874, pp. 37-45; R. Weiss, La scoperta dell’antichità classica nel Rinascimento, Padova, 1989, p. 229 sg.; V. Di Pietro,
Notizie intorno ad un frammento perduto di sarcofago dionisiaco, in Miscellanea di studi archeologici e di antichità, a cura di F. Rebecchi, ii, Modena, 1986, p. 257 sg.; E. Corradini, Le raccolte estensi di antichità, in La
Galleria Estense di Modena. Guida illustrata, a cura di J. Bentini, Bolo-
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 223-246
224
stefano bruni · cristina cagianelli
dena – dei quali sono noti alla letteratura scientifica
solo pochi pezzi, alcuni peraltro confluiti nelle collezioni estensi nel 1803 con l’eredità del marchese
Tommaso Obizzi6 – dall’altro, non contribuiscono,
certo, a diradare la nebbia che ancora avvolge
quest’ultimo aspetto del collezionismo degli Este.
Pur tuttavia anche da una semplice lettura degli inventari superstiti appare con una certa chiarezza come i bronzi debbano essere stati una componente affatto secondaria dell’interesse collezionistico dei
Duchi di Ferrara.
Ancora assai poco riusciamo a sapere sull’origine
di questa raccolta e sulle vicende della sua formazione, e solo uno studio complessivo, a cui stiamo attendendo da tempo, che allo spoglio integrale del vasto
materiale archivistico, conservato principalmente
nell’Archivio di Stato di Modena, ma non solo in
quello, unisca il riconoscimento, non sempre agevole, dei singoli pezzi dispersi in numerose collezioni
italiane ed europee, potrà chiarire i termini della
questione e far emergere il significato che i bronzi
hanno avuto nel quadro del collezionismo dei Duchi
di Ferrara. In questa sede vorremmo fin d’ora richiamare l’attenzione su alcuni problemi che – com’è
ovvio nel caso di raccolte rinascimentali e come ha
recentemente ricordato Salvatore Settis – coinvolgono, intrecciandole intimamente fra loro, archeologia
e storia dell’arte rinascimentale,7 puntando infine il
discorso su un singolo monumento, il cosiddetto
“Apollo di Ferrara” (Figg. 1-2)8 che, come vedremo,
6 Dalla raccolta Obizzi – su cui, oltre a I. Favaretto, Arte antica e
cultura antiquaria nelle collezioni venete al tempo della Serenissima, Roma
1990, p. 243 sg., si veda G. Tormen, “Una piccola Atene sempre crescente”: aspetti e problemi della collezione Obizzi, in Gli Estensi e il Cataio.
Aspetti del collezionismo tra Sette e Ottocento, a cura di E. Corradini, Milano 2007, p. 87 sgg. – provengono certamente il celebre “danzatore
armato” (per il quale cfr. F. A. Visconti, Museo Chiaramonti descritto
e illustrato, Milano 1820, tav. Agg. a.iii, n. 7; C. Cavedoni, Indicazione
antiquaria del Reale Museo Estense del Catajo, Modena 1843, p. 10, nota
7; A. Furtwängler, Aegina. Das Heiligtum der Aphaia, München,
1906, p. 347, figg. 409-410; H. Bulle, Der schöne Mensch in Altertum,
München, 1922, p. 61, tav. 94; P. Ducati, Storia dell’arte etrusca, Firenze, 1927, p. 260; G. M. A. Richter, The Sculptures and Sculptors of the
Greeks, New Haven 1929, fig. 128; U. Zandrino, Il thymiaterion della
Boncia, StEtr, xxii, 1952-1953, p. 338; Mostra dell’arte e della civiltà etrusca,
cat. mostra, Milano, 1955, p. 90 n. 320; Kunst und Leben der Etrusker, cat.
mostra, Zürich, 1955, p. 111 n. 283; H. e I. Jucker, L’art des Étrusques,
Paris, 1955, p. 21, figg. 83-84; A. Hus, Les Etrusques, Paris, 1959, fig. a p.
137) e la c.d. “Proserpina” (su cui cfr. ora M. Bonamici, La Proserpina
del Catajo ritrovata, Prospettiva, 81, 1996, p. 2 sg., figg. 1-4, con bibl.
prec.). Gli altri bronzi antichi della raccolta di Modena noti nella letteratura archeologica si limitano a un Discoforo (per il quale cfr. P. E.
Arias, Discoforo della Galleria Estense di Modena, StEtr, xxii, 1952-1953,
p. 69 sg.; M. Cristofani, StEtr, xlvii, 1979, p. 90), al celebre Fufluns
(cfr. M. Cristofani, I bronzi degli Etruschi, Novara, 1985, p. 283 sg. n.
99, con bibl. prec.; P. J. Riis, Vulcentia vetustiora. A Study of Archaic Vulcian Bronzes, Copenhagen, 1997, p. 51; E. Corradini, in Gli Etruschi,
cat. mostra, Venezia, 2000, p. 604 n. 197, con altra bibl.), all’altrettanto
celebre Menerva (Cristofani, I bronzi, cit. supra, p. 280 n. 88, con bibl.
prec.; Corradini, op. cit. supra, p. 605 n. 198, con altra bibl.), ad un
kouros greco (cfr. R. Thomas, Athletenstatuetten der spätarchaik und der
strengen Stils, Roma, 1981, p. 131, con altra bibl. a nota 621, tav. lxxxii,
1) e ad un offerente verosimilmente selinuntino (cfr. Thomas, op. cit.
supra, p. 114 e nota 533, tav. lxvi, 2).
7 S. Settis, Collecting Ancient Sculpture: the Beginnings, in Collecting
Sculpture in Early Modern Europe, a cura di N. Penny e E. D. Schmidt,
[Studies in the History of Art 70 Center for Advanced Study in the Visual
Arts. Symposium Papers xlviii], Washington 2008, p. 13 sgg. In particolare per i bronzetti si vedano le osservazioni di M. G. Ciardi Duprè,
I bronzetti toscani del Quattrocento, AntViva, xviii, 2, 1979, p. 31 e nota 18.
8 Per questo bronzetto cfr. S. V. Pighius Campensis, Hercules Prodicius seu Principi iuventuti vita et peregrinatio. Historia Principis adulescentis institutrix, et antiquitatum, rerumque scitu dignirum varietate non
minus utilis quam iucunda, Antverpia, ex officina Christophori Plautini, 1587, p. 353; Copia del testamento solenne e codicilli Del Molto Illustre Si-
gnor Roberto Canonici, Ferrara, appresso Gioseppe Gironi, mdcxxxii,
p. 57; G. Fontanini, De antiquitatibus Hortae coloniae Etruscarum. Libri
tres, Romae mdccviii (tre edizioni, la terza del 1723), p. 146; B. De
Montfaucon, L’Antiquité expliquée et représentée en figures, iii, tomo
ii, Paris, 1719, p. 268, tav. clvii; F. Buonarroti, Ad Monumenta Etrusca
Operi Dempsteriano addita Explicationes et conjecturae, in T. Dempster,
De Etruria Regali, Florentiae mdccxxiv, ii, p. 12 sg., 92 e nota [c]; A. F.
Gori, Museum Etruscum exibens insignia veterum Etruscorum Monumenta, Florentiae mdccxxxvii, i, tav. xxxii; ii, pp. 95-96; F. De Thoms,
Onuitgegeven af beelingen van eenige der voornaamste antieke stukken …
voormaals behoord hebbende aan den Graeve van Thoms, Amstelodami
mdccxl, tav. 3; A. F. Gori, Storia Antiquaria Etrusca…, Firenze 1742, p.
ccli sg.; G. B. Passeri, Continuazione delle Lettere Roncagliesi di Giovan
Battista Passeri … Lettera undecima, in A.Calogerà, Raccolta d’opuscoli
scientifici e filologici, tomo xxiii, in Venetia mdccxli, p. 339 n. 4, 350 sg.;
M. Guarnacci, Origini italiche o siano memorie istorico-etrusche sopra
l’antichissimo Regno d’Italia, e sopra i di lei primi abitatori nei secoli più
remoti, Roma mdcclxvii, i, p. 69; Antiquitates Etruscae a viro amplissimo doctissimoque Antonio Francisco Gorio in florentino lyceo olim historiarum professore celeberrimo concinnatae; nunc vero in commodum antiquitatis litterarumque cultorum in compendium redactae schematibusque
minori forma exornatae, ita quidem ut Montofauconiani operis supplementa haberi possint, a M. Nicolao Schwebellio illustr. Carol. Onold. P.P. Et
Rect. Accademiarum, imperial. Theres. Roboret. Elector. Bavar. nec non Societ. Hist. Goetting. Et Ienens. Lat. Collega, impensis Georgii Lichtenstegeri, calcographi Norimb. mdcclxx, p. 17, tav. v, 6; L. Lanzi, Saggio
di lingua etrusca, Roma, 1789, ii, p. 525; iii, tav. xi.3; D. Raul Rochette, JSav, mai 1834, p. 289; T. Marion du Mersan, Histoire du Cabinet
des Médailles Antiques et pierres gravées, avec une notice sur la Bibliothèque
royale et une description des objects exposés dans cet établissement, Paris,
1838, p. 69 n. 206; C. Cavedoni, Indicazione antiquaria del Reale Museo
Estense del Catajo, Modena, 1843, p. 10, nota 6; E. Gerhard, Über die
Göttheiten der Etrusker, AbhBerlin, 1845, p. 575, tav. ii.4; A. Chabouillet, Catalogue général et raisonné des cammées et pierre gravées de la
Bibliothèque impériale, suivi des autres monuments exposés dans le Cabinet
des Médailles et Antiques, Paris, 1858, n. 2939; A. Bertani, Essai de
déchiffration de quelques inscriptions étrusques, Paris, 1860, tav. ii, n. 7; G.
Conestabile, BullInst, 1862, p. 73; A. Fabbretti, Corpus Inscriptionum
Italicarum, Roma, 1867, n. 2613; Venturi, op. cit. a nota 1, p. 65; J.
Martha, L’art étrusque, Paris, 1889, pp. 321, 314 fig. 209; E. Babelon,
J. A. Blanchet, Catalogue des bronzes antiques de la Bibliothèque
Nationale, Paris, 1895, p. 46 sg. n. 101; A. Torp, Etruskische Beiträge, i,
1902, p. 43; S. P. Cortsen, Die etruskischen Standes- und Beamtentitel,
DanskMedded, xi, 1, 1925, p. 75; B. Nogara, in Antike Plastik. Festschrift
für W. Amelung, Berlin, 1928, p. 165 sg.; G. Buonamici, Epigrafia etru-
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
Fig. 1. L’Apollo di Ferrara,
Parigi, Bibliothèque Nazionale, inv. 101.
sca, Firenze, 1932, p. 368; G. Q. Giglioli, Arte etrusca, Milano, 1935, tav.
347; U. Coli, Saggio di lingua etrusca, Firenze, 1947, pp. 294, 300; R.
Herbig, Zur Bedeutung von etruskischen “Fler”, SBHeidelberg, 1950, p. 15;
E. Richardson, The etruscan origins of early roman sculpture, maar ,
xxi, 1953, p. 91 sg.; A. J. Pfiffig, Untersuchungen zum “Cippus Perusinus”, StEtr, xxix, 1961, p. 150; R. Herbig, E. Simon, Götter und Dämonen der Etrusker, Mainz, 1965, pp. 6, 41; TLE2, n. 737; C. De Simone,
Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen, Wiesbaden, 1968, p. 25;
E. Simon, Die Tomba dei Tori und der etruskische Apollonkult, JdI,
lxxxviii, 1973, p. 36; A. J. Pfiffig, Religio Etrusca, Graz, 1975, p. 253 sg.;
A. Hus, Les bronzes étrusques, Bruxelles, 1975, p. 119, tav. 52; J. Krauskopf, s.v. Apollon/Aplu, in limc , i, p. 352 n. 124; G. Colonna, StEtr,
li, 1983, p. 274 n. 181; G. Gualandi, Sul tipo dell’Apollo liricine nella piccola plastica etrusca, in Studi di antichità in onore di G. Maetzke, Roma,
1984, p. 301; A. M. Adam, Bibliothèque Nationale. Bronzes, Paris, 1984, p.
166 sg. n. 244; Gli Etruschi. Una nuova immagine, Firenze, 1984, p. 155 e
fig. a p. 154; M. Torelli, La religione, in Rasenna, Milano, 1985, p. 201,
fig. 124; Cristofani, I bronzi, cit. a nota 6, p. 284 n. 100; J. Krauskopf,
s.v. Aplu, in Dizionario della civiltà etrusca, a cura di M. Cristofani, Firenze, 1985, p. 13, figg. 1-2; E. Richardson, in Etruscan Life and Afterlife. A Handbook of Etruscan Studies, a cura di L. Bonfante, Detroit,
1986, p. 222, fig. vii.11; M. C. Galestin, Etruscan and Italic Bronze Statuettes, Warf hurizen, 1987, p. 00; Corradini, in Bentini-Spezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 186, nt. 70; M. Bentz, Etruskische Votivbronzen
des Hellenismus, Firenze, 1992, p. 187 sg.; G. Colonna, Le iscrizioni vo-
Fig. 2. L’Apollo di Ferrara,
Parigi, Bibliothèque Nazionale, inv. 101.
225
226
stefano bruni · cristina cagianelli
Fig. 3. Bertoldo di Giovanni, Eracle a cavallo,
Modena, Galleria Estense.
tive etrusche, ScAnt, iii-iv, 1989-1990, p. 893 sg.; Les Etrusques et l’Europe,
cat. mostra, Paris, 1992, p. 386 n. 403; P. Grenier, Le antichità etrusche
greche e romane 1766-1776 di Pierre Hughes d’Hancarville. La pubblicazione
delle ceramiche antiche della prima collezione Hamilton, Roma, 1992, p. 63,
fig. 15.1; ET, OB 3.2; M. Cristofani, Sul processo di antroponorfizzazione ne pantheon etrusco, in Miscellanea etrusco-italica i, Roma 1993, p. 17
e n. 44; B. Schulze-Thulin, Zur Wortstellung im Etruskischen, «StEtr»
lviii, 1992, p. 194; L. Malnati, Le istituzioni politiche e religiose a Spina
e nell’Etruria Padana, in Spina. Storia di una città tra Greci ed Etruschi,
cat. mostra, Ferrara, 1993, p. 165; F. Lissarague, M. Reed, The
Collector’s Books, JHistColl, 9, 2, 1997, p. 277, figg. 1-2; A. Maggiani, Vasi
attici figurati con dediche a divinità etrusche, Roma, 1998, p. 34 sg.; N.
Spivey, Etruscan Art, London, 1997, p. 176, fig. 172; J. Krauskopf, Influences grecques et orientales sur les répresentations de dieux étrusques, in
Les Etrusques, les plus religieux des hommes, Actes du Colloque Paris 1719 novembre 1992, Paris 1997, p. 180 sg.; E. Simon, Apollo in Etruria,
«Annali della Fondazione per il Museo Claudio Faina» v, 1998, p. 124;
A. Cohen, Bulle auree dal Piceno nel Museo Archeologico Nazionale delle
Marche, Prospettiva, 89-90, 1998, p. 93 (ove per un evidente lapsus calami
il bronzetto è detto al Louvre); D. H. Steinbauer, Zur Grabinschrift
der Larthi Cileni aus Aritim/Arretium/Arezzo, zpe , cxxi, 1998, p. 269; J.
R. Jannot, Devins, Dieux et Démons. Regards sur la religion de l’Etrurie
antique, Paris 1998, p. 154, fig. 86; D. H. Steinbauer, Neues Handbuch
des Etruskischen, St. Katharinen, 1999, p. 302 sg. n. S. 64, 400; C. Cagianelli, Bronzi a figura umana. Museo Gregoriano Etrusco, Cataloghi, n. 5,
Città del Vaticano, 1999, pp. 35, 40, fig. 12; K. Wylin, Il verbo etrusco.
Ricerca morfosintattica delle forme usate in funzione verbale, Roma 2000,
p. 96 n. 184; M. Bentz, D. Steinbauer, Neues zum Aplu-kult in
Etrurien, aa , 2001, p. 75; L. Agostiniani, [G. Giannecchini], Sulla
iscrizione di Larthi Cilnei, StEtr, lxv-lxviii, 2002, p. 209 nota 2; G. M.
Della Fina, La scoperta degli Etruschi, Milano, 2004, p. 91, fig. 28; N.
T. de Grummond, Etruscan Myth, Sacred History, and Legend, Philadel-
è certamente il bronzo più famoso dell’intera raccolta estense e che già nel secondo Cinquecento doveva
costituire il pezzo più celebre della collezione.
Costituitasi verosimilmente sull’esempio della
raccolta fiorentina di Lorenzo il Magnifico e dei vari
studioli del primo Rinascimento, dei quali Carpaccio
con la Visione di s. Agostino nella Scuola di S. Giorgio
degli Schiavoni (1505) ci lascia intravedere la realtà,9
la collezione di bronzi estense sembra acquistare
contorni più definiti sul finire del xv secolo con Ercole I, per quanto il suo studio sia praticamente sconosciuto a causa della mancanza di documenti.10
Tuttavia, se rimane ancora piuttosto vago il riferimento al secondo Duca di Ferrara di alcuni pezzi
(«un cavallino mirabilissimo […] uno morino d’Augusto mirablissimo […] uno Bacco piccolo bellissimo») ricordati nell’inventario del 1584 come «antiquamente di casa»,11 non sembra un caso che nella
prospettiva dell’esaltazione dei temi erculei, particolarmente cari alla corte estense – che riconosceva
nell’eroe antico una sorta di speculum principis, personificazione della ragione e delle virtù vincenti sulle avversità della natura12 – figuri tra gli arredi del
Castello il bellissimo Heracle a cavallo del fiorentino
Bertoldo di Giovanni (Fig. 3).13
phia 2006, p. 103, fig. v.34; D. F. Maras, Il dono votivo. Gli dei e il sacro
nelle iscrizioni etrusche di culto, Pisa-Roma 2009, p. 313 sg. n. OB do.1.
9 Il quadro è stato più volte richiamato nell’ambito delle ricerche
sul collezionismo rinascimentale. Si veda per tutti Z. Wazbinski,
Portrait d’un amateur d’art de la Renaissance, ArtVen, xxii, 1968, p. 21 sg.;
W. Liebenwein, Studiolo. Die Entstehung eines Raumtyps und seine
Entwicklung bis um 1600, Berlin, 1977 (trad. it. Modena, 1992), p. 107 sg.,
fig. 103.
10 Cfr. S. Hickson, Bishop-Elect Ludovico Gonzaga, Ercole d’Este and
Isabella d’Este and the Pietre Dure Vases of Lorenzo deí Medici, CivMant,
xxxv, n. 111, 2000, p. 89 sg. Di nessun aiuto nella prospettiva del nostro lavoro uno stralcio di inventario, privo di indicazioni relative al
luogo (ma verosimilmente il Castello), all’anno di compilazione e
all’autore, ma certamente del xv secolo, rintracciato tra le carte
estensi a Modena, Archivio di Stato, Cose d’arte b, fasc. 18/1, in cui è
registrata solo una serie di statue, tra cui un ritratto di Adriano.
11 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale Estense, Archivio
per materie, Gallerie e Museo: Inventario delle statue vasi ed altre cose di
guardaroba del Duca Alfonso II (d’ora in poi citato: Inventario 1584), pubblicato in Documenti inediti per servire alla storia dei Musei d’Italia, iii,
Firenze-Roma, 1880, p. 6 sg. (i tre bronzi sono ricordati a p. 15).
12 Su questi aspetti si veda, ora, T. Matarrese, Il mito di Ercole a
Ferrara nel Quattrocento tra letteratura e arti figurative, in Castelli,
L’ideale classico, cit. a nota 2, p. 191 sg. Cfr. anche A. Tissoni Benvenuti, Il mito di Ercole. Aspetti della ricezione dell’antico alla corte estense
del primo Quattrocento, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova, 1993, p.
773 sg.
13 A. Ghidiglia Quintavalle, La Galleria Estense di Modena, Genova, 1959, p. 32, tav. 7; J. Pope Hennessy, Bronzetti italiani del Rinascimento, cat. mostra, Firenze 1962, n. 15 (con altra bibl.). Cfr. anche
Bentini, op. cit. a nota 3, p. 476.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
227
Fig. 4. Scuola fiorentina xv secolo, Gnudo della paura, Modena, Galleria Estense inv. 2240.
Per quanto difettino al momento riscontri archivistici, possono rientrare tra le acquisizioni di Ercole I o di Alfonso I altri bronzetti all’antica di origine
fiorentina, quali, ad esempio, quello che ripete un tipo iconografico tra i più fortunati nella storia della
piccola plastica rinascimentale e noto nell’ambiente
fiorentino con il singolare appellativo di “ignudo
della paura”, originato dalla mancanza del doppio
flauto e dalla conseguente errata interpretazione
del gesto (Fig. 4).14 Molto è stato scritto su questa
iconografia dai tempi dello studio dedicatogli dal
Mitteldorf nel 1956 e non è qui il caso di ripercorrere
il problema;15 la citazione del bronzetto nell’affresco patavino della Natività della Vergine della Chiesa
14 Modena, Galleria Estense, inv. 2240, bronzo che compare come
«Il Villano della Paura» nell’inventario redatto nel 1559 alla morte di
Ercole II: Ferrara, Biblioteca Ariostea, coll. Antonelli n. 963, fasc. vi:
Inventario di oggetti d’arte e di antichità lasciati dal Duca Ercole II (d’ora
in poi cit.: Inventario 1559), pubblicato in L. N. Cittadella, Il Castello
di Ferrara, Ferrara, 1875, p. 98 sg., ed ora in A. Marchesi, La collezione
d’arte nelle stanze di Ercole: l’inventario Antonelli, in Il Camerino di alabastro. Antonio Lombardo e la scultura all’antica, cat. mostra, Ferrara
2004, p. 119 sg. Nell’Inventario 1584, c. 11 (p. 18) è descritto come «Un’altra simile a quella uno poco più granda quasi con il medemo atto di
sonare uno strumento de bocca. Alcuni lo nominano il nudo dalla
paura». Per il bronzetto cfr. Venturi, op. cit. a nota 1, p. 98, fig. 30;
Natur und Antike in der Renaissance, Frankfurt am Main, 1985, p. 388
sg., n. 84 (con altra bibl.); W. Stedman Sheard, Antonio Lombardoís
reliefs for Alfonso d’Este’s studio di marmi: their significance and impact to
Titian, in Titian 500, Atti convegno Washington, 25-27 ottobre 1990, a
cura di J. Manca, Washington, 1993, p. 323; Marchesi, op. cit. supra,
p. 124 sub. D, fig. 1.
15 U. Middeldorf, Su alcuni bronzetti all’antica del Quattrocento, in
Il mondo antico nel Rinascimento, Atti del v Conv. Int. di studi sul Rinascimento, Firenze 2-6 settembre 1956, Firenze, 1958, p. 170 sg., tav. vii.
Sul tipo si veda L. Beschi, Bronzi antichi nel Rinascimento fiorentino: alcuni problemi, Alba Regia, xxi, 1984, p. 120 sg., tav. lviii; P. P. Bober, R.
Rubinstein, Renaissance Artists and Antique Sculpture. A Handbook of
Sources, London, 1986, p. 73 sg., n. 30; P. P. Bober, The Census of Antiquities Known to the Renaissance, in Roma, centro ideale della cultura
dell’Antico, a cura di S. Danesi Squarzina, Milano, 1989, p. 375; e da ultimo G. Agosti, V. Farinella, scheda n. 3, in Il Giardino di San Marco. Maestri e compagni del giovane Michelangelo, a cura di cat. mostra, P.
Barocchi, Firenze, 1992, p. 38 sg.
228
stefano bruni · cristina cagianelli
del Carmine, eseguito da Giulio Campagnola nel
1505, ne conferma la notorietà anche nell’ambiente
veneto.16 Preme tuttavia ricordare come solo gli
esemplari delle collezioni fiorentine siano accompagnati dalla denominazione di «gnudo della paura»,
denominazione che appare per la prima volta nell’inventario laurenziano del 149217 e come forse non
casualmente il bronzo estense sia ricordato nell’inventario redatto alla morte di Ercole II come «il villano della paura» e in quello del 1584 come «il nudo
dalla paura».18 La presenza della statuetta a Ferrara
non sorprende, ma anzi sembra inserirsi compiutamente nel quadro dei rapporti, politici e culturali,
tra la capitale del Ducato degli Este e Firenze che segnano la seconda metà del Quattrocento e i primi
decenni del Cinquecento e che vedono, tra l’altro, il
trasferimento di docenti dallo Studio Ferrarese a
quello fiorentino e viceversa, la presenza di membri
degli Strozzi residenti sia a Firenze che a Ferrara,
ovvero la predicazione del ferrarese Savonarola nella Firenze post laurenziana, per non ricordare che i
casi più noti.19 Nella stessa prospettiva può essere
inserito anche un bronzo di Ercole appoggiato alla clava, significativamente riprodotto assieme allo Gnudo
della Paura estense in un disegno degli inizi del xvi
secolo dell’Ashmolean Museum di Oxford20 e ricordato nell’inventario del 155921 – che deve riconoscer-
si in un bronzetto alto cm 35 della Galleria modenese, recentemente riferito ad un atelier attivo nell’Italia settentrionale, forse ferrarese, nell’ultimo quarto
del xv secolo,22 ma verosimilmente anch’esso fiorentino e comunque espletato su coevi modelli
fiorentini23 – ovvero in una statuetta di Pier Jacopo
Alani Bonacolsi ora a Modena:24 entrambi sono descritti nell’inventario del 1584.25
Non è possibile in questa sede seguire passo passo
l’accrescersi della collezione. Tuttavia andrà ricordato come la documentazione d’archivio risulti per gli
anni di Alfonso I, per quanto riguarda questo specifico settore, drammaticamente poco eloquente. Alfonso, infatti, impegnato nella realizzazione dei suoi
celebri Camerini secondo un ben preciso programma volto ad esaltare il Duca e la dinastia degli Este,
oltre che con le grandi tavole dipinte – anche con le
copiose citazioni dell’antico e con i riferimenti
eruditi alle più famose statue antiche, dal Torso del
Belvedere al Laocoonte, alla c. d. Madonna Ferrara,
della decorazione scultorea del Lombardo26 – sembra prediligere nei suoi gusti collezionistici il settore
delle monete e delle medaglie.27 Tuttavia se alcune
lettere dei suoi ambasciatori testimoniano come il
Duca ricercasse a Roma «medaglie, teste e figure»,
contando sull’aiuto, oltre che del suo rappresentante
Beltramo Costabili,28 anche di Raffaello, nominato
16 L. Grossato, Affreschi del Cinquecento a Padova, Padova, 1966, p.
42. Cfr. anche A. M. Massinelli, Bronzi ed anticaglie nella Guardaroba
di Cosimo I, cat. mostra, Firenze, 1991, p. 31, figg. 23-24. Per la fortuna
del tipo nella produzione veneta del xvi secolo si veda, inoltre, A. Augusti, Bronzetti veneti del Rinascimento nelle collezioni pubbliche a Venezia, in Lo statuario pubblico della Serenissima. Due secoli di collezionismo
di antichità 1596-1797, cat. mostra, Venezia, 1997, p. 120, fig.
17 Si veda la bibl. citata nella scheda di G. Agosti, V. Farinella,
op. cit. a nota 15.
18 Cfr. nota 14.
19 Per i rapporti dello Studio Ferrarese con l’ambiente fiorentino
si veda A. F. Verde, Studenti e professori fra l’Università di Ferrara e
l’Università di Firenze: fine del Quattrocento-inizio del Cinquecento, in Castelli, L’ideale classico, cit. a nota 2, p. 75 sg. (con altri rifer.). Per gli
Strozzi si veda, per ora, il volume Gli Strozzi Sacrati a Ferrara. Gli splendori estensi e la raffinatezza fiorentina rivivono nella storia del marchese
Massimiliano, Ferrara, 1997. Per l’arrivo del Savonarola a Firenze la
bibliografia è sterminata.
20 K. T. Parker, Catalogue of the Collection of Drawings in the Ashmolean Museum. 2. The Italian School, Oxford, 1956, n. 624.
21 Inventario 1559: «Un Hercole con la clava».
22 Modena, Galleria Estense inv. 6924: cfr. Natur cit. a nota 14, p.
395 sg., n. 92.
23 Natur cit. a nota 14, p. 396, n. 93 (con altra bibl.).
24 L. Planiscig, Die estensische Kunstsammlung. i . Skulpturen und
Plaketten des Mittelalters und der Renaissance, Kunsthistorisches Museum
Wien, Wien, 1919, p. 146, n. 231, fig. 231; A. H. Allison, Un riesame
dell’opera di Antico, in Bonacolsi l’Antico. Uno scultore nella Mantova di
Andrea Mantegna e di Isabella d’Este, cat. mostra, Mantova, 2008, p. 18
sg., figg. 2-6.
25 Inventario 1584, c. 20 (p. 19): «Un Hercole grande in piedi si posa
su la clava con un poco di panno alla man manca. Un altro pur simile
a quello quasi in tutto».
26 M. J. Marek, Alfonso I d’Este e il programma del suo studiolo, in Frescobaldi e il suo tempo, Venezia, 1983, p. 77 sg. Cfr. anche K. Faber, Il
trionfo di Bacco. Capolavori della scuola ferrarese a Dresda, cat. mostra,
Ferrara, 2003, p. 28 sg.; C. Hope, Cacce e baccanali nei Camerini d’Este,
in Un Rinascimento singolare. La corte degli Este a Ferrara, cat. mostra,
Bruxelles, 2003, p. 279 sg.; Idem, I Camerini d’alabastro: la collocazione
e la decorazione pittorica, in Il Camerino di alabastro, cit. a nota 14, p. 83
sg.; J. Bentini, La via coperta e i camerini: ipotesi per la restituzione di un
percorso artistico, in Il Castello e la città. Esperienze di restauro, riuso e musealizzazione, Atti del convegno Ferrara 13-14 novembre 2000, Ferrara
2002, p. 31 sgg; C. Hope, Il Camerino di marmo: ipotesi per una ricostruzione, in Atti di convegni di studi “Il restauro del Camerino dei Marmi di
Alfonso I d’Este ed i rilievi di Antonio Lombardo. Studi dei bassorilievi del
museo Ermitage e ricerche per ilrestauro dei camerini di Alfonso”, Ferrara,
7 aprile 2005 e 30 settembre 2005, Ferrara 2008, p. 21 sgg.; cfr. anche in questo stesso volume la relazione di M. Borrella, Il camerino dei marmi
nell’appartamento di Alfonso I e le tracce architettoniche nella via Coperta,
p. 17 sgg. Sugli indirizzi collezionistici di Alfonso I cfr. ora W. Gunderscheimer, Alfonso I d’Este and the Limits of Princely Patronage, in
L’età di Alfonso I e la pittura del Dosso, Atti convegno Ferrara, 9-12 dicembre 1998, Modena, 2004, p. 3 sg.
27 Su cui si veda ora M. Ceriana, Materia e ornamento dello Studio
dei marmi, in Il Camerino di alabastro, cit. a nota 14, p. 55 sg., con bibl.
prec.
28 Corradini, Per una storia, cit. a nota 1, p. 180, con rifer.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
dal 1515 commissario alle antichità di Roma,29 i bronzi dovevano costituire per Alfonso un tema particolarmente caro, stante la sua passione per la fusione
in metallo di cui offre testimonianza Paolo Giovio,30
riverberata anche dalla centralità del mito di Vulcano a Ferrara in quegli stessi anni.31
L’assenza di un inventario e di altri documenti impedisce, al momento, di diradare la nebbia che avvolge la collezione di Alfonso e di dare una più precisa
consistenza all’immagine di quel «bellissimo camerino fatto tutto di marmoro da carrara et di meschi con
figure et fogliamenti molto belli excellentemente lavorati, adornato de vassetti et figurine antiqua et moderne i di marmor i di metall» che Stazio Gadio, agente dei Gonzaga, decantò ad Isabella il 1 giugno 1517
nel resoconto della visita alle stanze della Via Coperta del figlio Federico, futuro signore di Mantova, durante il suo soggiorno ferrarese.32 Ciononostante, se
resta assai incerta l’appartenenza alla collezione del
terzo duca di Ferrara del bronzetto di Eracle, modellato sul tipo del Torso del Belvedere, opera di Andrea
Brioso detto Il Riccio conservata a Madrid,33 certa è
la presenza nella raccolta del terzo Duca di un Ercole
29 G. Campori, Notizie inedite di Raffaello da Urbino tratte dai documenti dell’Archivio Palatino di Modena, Modena, 1863, p. 6 sg.; Corradini, Per una storia, cit. a nota 1, p. 180 e nota 13.
30 P. Giovio, La vita di Alfonso d’Este duca di Ferrara, Firenze, 1553;
Id., La vita di Alfonso d’Este duca di Ferrara, tradotta in lingua toscana da
Giovanbattista Gelli Fiorentino, Venezia, 1597. Cfr. E. Milano, Casa
d’Este dall’Anno Mille al 1598, in Gli Estensi. i. La corte di Ferrara, a cura
di R. Iotti, Modena, 1997, p. 61.
31 A. Ballarin, in Il Camerino delle pitture di Alfonso I, a cura di A.
Ballarin, i-iv, Padova, 2002, i, p. 91 sg.
32 Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, busta 1246. La
lettera è riportata in C. Hope, The “Camerini di Alabastro” of Alfonso
d’Este, in BurlMag, cxiii-cxiv, 1971, p. 649.
33 Madrid, Museo Arquéologico Nacional, inv. 52.72.9. Cfr. M. Erwel, I. von zur Mühlen, Il torso del Belvedere da Aiace a Rodin, cat.
mostra, Città del Vaticano, 1998, p. 179 n. 110.
34 Corradini, in Bentini-Spezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 163.
35 Verosimilmente opera dell’Antico (così ora anche Marchesi,
op. cit. a nota 14, p. 124) sono tre bronzi descritti nell’Inventario 1559 come «Una figura grande con li capelli adorati […] Una figura con un
panno adorato […] Un’altra figura con un panno adorato», nei quali
le dorature dei particolari sembrano rimandare alle cifre stilistiche di
questo artista, per il quale si veda ora A. H. Allison, The Bronzes of
Pier Jacopo Alari-Bonacolsi called Antico, JbKuSammlWien, lxxxix-xc,
1993-1994, p. 37 sg.; su questo artista si veda ora il bel catalogo dell’esposizione tenutasi a Mantova nel 2008, cit. a nota 24. Non rientra
tra questi il “Meleagro” conservato al Victoria and Albert Museum di
londra (inv. A.27-1960), o una sua replica ad oggi sconosciuta, in cui
Radcliffe ha proposto di riconoscere il “Villanello” ricordato nell’inventario del 1584 della Guardaroba di Alfonso II (Inventario 1584, p. 8.
Cfr. A. Radcliff, in Splendors of the Gonzaga, cat. Mostra London
1981, p. 46 sgg., p. 134 sg. n. 54; e ora M. Hammett - P. Motture, in
Bonacolsi l’Antico cit. a nota 24, p. 192 n. 3). Su questa identificazione
gravano, tuttavia, non pochi dubbi: la scarna descrizione dell’inventario (“Uno Villanello già donato all’Ill.mo sig.Don Francesco”), che
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
229
di Antonio Elia, spedito a Ferrara da Roma nel 1517 da
Beltramo Costabili,34 mentre solo congetturale può
considerarsi l’assegnazione agli anni di Alfonso I di
alcuni bronzi riconducibili con verosimiglianza all’opera di Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto L’Antico,
ricordati nell’inventario del 1559 come posti sopra la
cornice del «Camerino minor» ovvero il «Camerino
di marmo»,35 acquisiti forse grazie all’influenza della
sorella Isabella,36 che negli stessi anni andava favorendo questo settore collezionistico, riunendo nell’appartamento della Grotta nella Corte vecchia della
Reggia di Mantova una coerente raccolta di piccoli
bronzi,37 e che aveva sollecitato proprio l’opera
dell’Alari.38 Del pari priva di riscontri inventariali la
presenza già negli anni di Alfonso I del cosiddetto
“Apollo di Ferrara”,39 che – come vedremo – risulta
invece acquisizione del nipote, Alfonso II.
Un notevole impulso a questo settore delle raccolte dei duchi di Ferrara sembra essere stato dato da
Ercole II, come lascia intravedere, ad esempio, l’acquisto nel 1553 dal veneziano Monsignor Martini di
«una figura di bronzo antiquo e bella di un giovine»40
(che ancora non siamo riusciti ad identificare) o il doperaltro non fa cenno alle estese dorature esibite dal bronzo dell’Antico, sembra infatti riferirsi piuttosto ad una scultura in marmo e non
ad un bronzo, ricordando la statua già donata a Francesco d’Este, fratello di Ercole II e marchese di Massalombarda, tra le sculture in pietra poste a terra di fianco alla porta d’ingresso dell’Antichario, sotto
la pianta di Roma disegnata da Pirro Ligorio.
36 Per i rapporti di Alfonso I con la sorella Isabella cfr. ora C. M.
Brown, Per dare qualche splendore a la gloriosa cità di Manta. Documents
for the Antiquarian Collection of Isabella d’Este, Roma, 2002, p. 324 sg.
37 Sulla raccolta ha scritto pagine importanti C. M. Brown, op.
cit. a nota 36; Id., “Lo Insaciabile desiderio nostro de cose antique”: New
Documents on Isabella d’Este”s Collection of Antiquities, in Cultural
Aspects of the Italian Renaissance. Essays in Honour of P. O. Kristeller,
Manchester, 1976, p. 324 sg.; Id., La Grotta di Isabella d’Este. Un simbolo
di continuità dinastica per i duchi di Mantova, Mantova, 1985; Id., “Fruste
et strache nel fabbricare”: Isabella d’Este’s apartments in the Corte Vecchia
of the Palazzo Ducale in Mantua, in La Corte di Mantova nell’età di Andrea
Mantenga: 1450-1550, a cura di C. Mozzarelli, R. Oresko, L.Ventura, Roma, 1997, p. 295 sg.; Id., Isabella d’Este Gonzaga’s Augustus and Livia cameo and the Alexander and Olympias gems in Vienna and Saint Petersburg,
in Engraved Gems: Survival and Revival, a cura di C. M. Brown, Hannover-London 1997, p. 85 sg.; cfr. anche C. M. Brown, A. M. Lorenzoni, The Grotta of Isabella d’Este, gba , lxxxix, 1977, p. 155 sg. e xci, 1978,
p. 72 sg.; Id., Collecting Greco-Roman Art in Mantua in the Age of Francesco I Gonzaga and the documentation for the date of Isabella d’Este’s move
in the Corte Vecchia, QuadPalTe, n.s. iii, 1996, p. 19 sg.; C. M. Brown,
L. Ventura, Le raccolte di antichità dei duchi di Mantova e dei rami cadetti di Guastalla e Sabbioneta, in Gonzaga. La Celeste Galleria. L’esercizio
del collezionismo, cat. mostra, a cura di R. Morselli, Mantova, 2002, p.
53 sg.
38 M. Leithe-Jasper, Isabella d’Este und Antico, in “La prima donna
del mondo” Isabella d’Este. Fürstin und Mäzenatin der Renaissance, cat.
mostra, Wien, 1994, p. 317 sg.
39 Ipotizzata da Venturi, op. cit. a nota 1, p. 65.
40 Venturi, op. cit. a nota 1, p. 71 e nota 2.
230
stefano bruni · cristina cagianelli
no di «uno cingiaro sul piedistallo di marmor molto
bello» da parte del fratello,41 card. Ippolito, che nella
sua villa di Tivoli conservava, tra le altre antichità,
anche una piccola raccolta di bronzi.42
Alla morte del quarto Duca di Ferrara, nel 1559,
l’inventario della guardaroba del Castello di Ferrara
registra trentotto pezzi distribuiti sopra la cornice
del «Camerino minor», definito anche «studio overo
Camerino di marmo». Non tutti i bronzi sono stati
al momento rintracciati e per alcuni di essi l’identificazione, stante la genericità della descrizione dell’inventario, è operazione disperante, se non del tutto illusoria. Oltre all’Ercole e allo Gnudo della paura,
nonché l’Ercole a cavallo di Bertoldo di Giovanni prima ricordati, l’inventario ricorda, tra gli altri, due
statuette di «Hercole con Cacho», un «Mercurio»,
«un bambino che ha sulle spalle una cornucopia»
che ancora non è stato possibile recuperare al godimento nel loro concreto aspetto, ma certamente
non antiche; inoltre, un satiro verosimilmente da riconoscersi nel bel bronzo di Severo da Ravenna43 e
il giovane elmato con trofeo, di scuola nord-italica,
della prima metà del xvi secolo,44 nonché tre teste,
una di «donna mora […] bellissima e comodata»,
forse da identificare in un bronzo veneto della Galleria Estense, e verosimilmente i due busti femminili della bottega dei Lombardo, forse fusi da Severo
da Ravenna, anch’essi a Modena.45 Con ogni probabilità antiche dovevano essere, invece, «una piccola
figura con un sol braccio», «una figura che non ha
braccia», per quanto non manchino opere rinascimentali concepite come frammentarie ad imitazione di reperti antichi,46 e «una figura granda con uno
scudo in mano» che, per quanto finora non rintracciata, è meglio descritta nell’inventario del 1584 co-
me «una figura d’uno piede s’un piedistallo vestita
molto vagamente con uno scudo alla man manca
con conciero di capo assai minuto, la man drita alta
come che tenga una hasta in mano, così potrebbe
essere una Pallade come un altro soldato».47 Per
quanto le dimensioni – la statua sembra essere alta
una quarantina di centimetri – sembrino coerenti
più con un bronzo rinascimentale che non antico,
anche se non mancano esempi di altezza similare,48
la statua sembra restituire, come ha ben visto
l’estensore dell’inventario del 1584, l’iconografia di
una Athena Promachos, tipo conosciuto attraverso
non pochi bronzetti etruschi e di area centro-italica
di età tardoarcaica e classica,49 ma pressoché estraneo – per quanto è noto – nel repertorio dei soggetti
della piccola plastica del Rinascimento.
Le caratteristiche di scritto amministrativo dell’inventario e la genericità delle descrizioni dei vari
bronzi, ventiquattro dei quali collocati sulla cornice
del Camerino di marmo e gli altri distribuiti in alcuni
di quelli che l’estensore del documento definisce
«quadri», verosimilmente scansie lignee, assieme a
ceramiche e altri oggetti, impediscono di valutare il
rapporto di queste sculture con il programma concettuale dello studio, di cui, peraltro, la perdita della
cornice architettonica e le difficoltà di interpretazione, quanto alla funzione decorativa e alla collocazione, dei raffinati rilievi di Antonio Lombardo consentono in forme solo estremamente congetturali, se
non disperanti ed illusorie, una valutazione. Tuttavia se le vicende che hanno segnato la storia del Camerino di marmo e dei suoi apparati – di cui dovevano essere parte integrante anche le «varie teste
antiche et moderne de sculptori» collocate «sopra
tutti li ussi», ricordate da Bernardino de’ Prosperi in
41 Inventario 1584, c. 7v (p. 15).
42 Venturi, op. cit. a nota 1, p. 66.
43 Recentemente Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 124, ha proposto
di riconoscervi un’opera di Andrea Brisco detto Il Riccio (su cui si veda ora C. Avery, Andrea Brioso detto Il Riccio, in Donatello e il suo tempo.
Il bronzetto a Padova nel Quattrocento e nel Cinquecento, cat. mostra,
Padova, 2001, p. 93 sg. nonché adesso il monumentale catalogo della
mostra tenutasi a Trento nel 2008 a cura di A. Bacchi e L. Giacomelli,
Rinascimento e passione per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo) L’ipotesi, per quanto verosimile e seducente, resta tuttavia altamente congetturale, mancando di qualsiasi riscontro oggettivo.
44 Modena, Galleria Estense, inv. 2126. Cfr. Venturi, op. cit. a nota
1, p. 98 sg., fig. 32; Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 124.
45 Modena, Galleria Estense, inv. 2123. Cfr. Venturi, op. cit. a nota
1, p. 98 sg., fig. 34; W. Bode, Die italienischen Bronzestatuetten de
Renaissance, Berlin, 1907, tav. 85.3. A. Luchs, Tullio Lombardo and ideal
portrait sculpture in Renaissance Venice: 1490-1530, Cambridge 1995, p. 99
e p. 288, fig. 164; T. Rago, in Rinascimento e passione per l’antico. Andrea
Riccio e il suo tempo, cit. a nota 43, p. 310 n. 34..
46 Pope Hennessy, op. cit. a nota 13, n. 35.
47 Inventario 1584, p. 18.
48 Si vedano, a titolo di esempio, la statuetta da Apiro (alt. cm 40:
cfr. Cristofani, I bronzi, cit. a nota 6, p. 270, n. 55, con bibl.); il c. d.
Laran di Ravenna (alt. cm 37: cfr. ora C. Cagianelli, Sulla provenienza
del Marte cosiddetto di Ravenna, StClOr, lxvii, 1, 1999, p. 367 sg., tav. i);
il Guerriero di Berlino (alt. cm 36: cfr. Cristofani, I bronzi, cit. a nota
6, p. 272, n. 58, con bibl.); un Offerente già nella collezione di Francesco
de Medici ed ora al Museo Archeologico di Firenze (alt. cm 35: Cristofani, I bronzi, cit. a nota 6, p. 270, n. 56, con bibl.).
49 Si veda G. Colonna, s.v. Athena/Menerva, in limc , ii, p. 1056 sg.,
n. 53 sg. Per il tipo cfr. anche H. G. Niemeyer, Promachos. Untersuchungen zur Darstellung der bewaffneten Athena in archaischer Zeit, Waldsassen, 1960, p. 89 sg. Per i tipi greci cfr. P. Damargne, s.v. Athena, in
limc , ii, p. 969 sg.; I. Kasper Butz, Die Göttin Athena im klassischen
Athen, Frankfurt-Bern-New York-Paris, 1990, p. 178 sg.; per i rari esempi romani cfr. F. Canciani, s.v. Athena/Minerva, in limc , ii, p. 1090,
nn. 224-226.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
231
una lettera del 4 ottobre 1518 ad Isabella d’Este50 –
non permettono di riguadagnare il programma
ideologico del complesso, le annotazioni dell’inventario del 1559 circa la distribuzione dei bronzi lasciano supporre che essi non rientrassero nel programma iconografico del Camerino, ma costituissero
solo una delle componenti la collezione dei Duchi di
Ferrara, di cui il Camerino di marmo con il suo apparato decorativo rappresentava – per dirla con un
brutto termine oggi anche troppo abusato – il prezioso contenitore. I bronzi, assieme agli altri oggetti
(maioliche, ceramiche, vasi in pietre dure, medaglie,
mirabilia, sculture ed altri manufatti antichi e rari),
erano, apparentemente, parte di quella raccolta che
rappresentava, secondo un costume che affondava le
proprie radici nel xv secolo,51 uno degli aspetti caratterizzanti le forme autocelebrative della ricchezza e
del potere degli Este. Una conferma a questa ipotesi
sembra venire dal destino dei bronzi e degli altri oggetti negli anni immediatamente successivi, quando,
verso il 1571, Pirro Ligorio mise mano, su incarico di
Alfonso II, alla realizzazione del nuovo complesso
dell’Antichario, realizzato, assieme alla biblioteca, al
piano superiore del lato sud-orientale del Castello
(Fig. 5),52 progetto che si inserisce nel quadro degli
interventi ligoreschi nel Castello dopo il terremoto
che colpì Ferrara il 16 novembre del 1570, in particoFig. 5. Pirro Ligorio,
lare con la realizzazione del grande appartamento di
Progetto per la libreria e per l’Antichario di Alfonso II,
rappresentanza, noto come “dello Specchio”, da
Torino, Archivio di Stato, ii. 20, J.7, f. 87r.
50 Mantova, Archivio di Stato, Archivio Gonzaga, busta 1246. La
lettera è stata pubblicata da Hope, op. cit. a nota 32, p. 649.
51 Si vedano al riguardo le osservazioni di Liebenwein, op.cit. a
nota 9, part. p. 62 sg.
52 Sul progetto della Libraria e dell’Antichario, e il suo coerente inserimento nella cultura erudita ed antiquaria del secondo Cinquecento, si veda C. Franzoni, “Rimembranze d’infinite cose”. Le collezioni rinascimentali di antichità, in Memoria dell’antico nell’arte italiana. I.
L’uso dei classici, a cura di S. Settis, Torino, 1984, p. 314. Le piante di
questo progetto sono conservate a Torino, Archivio di Stato, ms.
J.a.ii.7, vol. xx, cc. 87r-88v, riprodotte qui alle figg. 00-00. Per Pirro
Ligorio cfr. E. Mandowsky, C. Mitchell, Pirro Ligorio’s Roman Antiquities, The Drawings in ms.xiii .B.7 in the National Library in Naples,
London, 1963; Pirro Ligorio. Artist and Antiquarian, Atti del colloquio
Settignano 1983, a cura di R. W. Gaston, Milano, 1988; G. Vagenheim, Les inscriptions ligoriennes. Notes sur la tradition manuscripte, ItMedUman, xxx, 1987, p. 199 sg. [p. 264 per Ferrara]; A. Schreurs, Das
antiquarische und das kunsttheorische Konzept Pirro Ligorios, KölnJb,
xxvi, 1993, p. 57 sg. Cfr. anche Pirro Ligorio e le Erme tiburtine I. 1. Le Erme tiburtine e gli scavi del Settecento, a cura di B. Palma Venetucci, i, 2,
Roma, 1992; G. Vagenheim, La falsification chez Pirro Ligorio. A la lumière des Fasti Capitolini et des inscriptions de Préneste, Eutopia, III, 1994,
n. 1-2, p. 67 sg.; F. Rausa, Pirro Ligorio. Tombe e mausolei dei Romani,
Roma, 1997; B. Palma Venetucci (a cura di), Pirro Ligorio e le Erme
di Roma, Roma 1998; A. Schreurs, Antikenbild und Kunstansschauungen des Pirro Ligorio (1513-1583), Köln 2000; A. Ranaldi, Pirro Ligorio e
l’interpretazione delle ville antiche, Roma 2002. Si veda ora anche D. R.
Coffin, Pirro Ligorio. The Renaissance Artist, Architect an Antiquarian,
University Park, Pennsylvania, 2004. R. W. Gaston, Merely antiquarian: Pirro Ligorio and the critical tradition of antiquarian scholarship, in
The Italian Renaissance in the twentieth century, Atti del colloquio Firenze 9-11 giugno 1999, Firenze 2002, p. 355 sgg.; G. Vagenheim, Pirro
Ligorio et les descriptions de la Ville d’Hadrien à Tivoli, in M. Mosser e
H. Lavagne (a cura di), Hadrien, empereur et architecte: la Ville Hadrien,
Genève 2002, p. 63 sgg.; A. Schreurs, Ein Blick auf die Statuen im Belvederehof: Pirro Ligorio, Benvenuto cellini und die Antike, in A. Nova e A.
chreurs (a cura di), Benvenuto Cellini: Kuns und Kunsttheorie im 16. Jahrhundert, Böhlau 2003, p. 275 sgg.; G. Vagenheim, Pirro Ligorio e le
false iscrizioni della collezione di antichità del cardinale Rodolfo Pio di
Carpi, in Alberto III e Rodolfo Pio da Carpi, collezionisti e mecenati, Atti
del seminario Carpi 22-23 novembre 2002, Udine 2004, p. 109 sgg.; C.
Volpi, La favola moralizzata nella Roma della Controriforma: Pirro Ligorio e Federico Zuccari, tra riflessioni teoriche e pratica artistica, «Storia
dell’arte» n.s. 9 (109), 2004, p. 131 sgg.; G. Vagenheim, “Manus epigraphicae”: Pirro Ligorio et d’autres érudits dans les recuils d’inscriptions latines de Jean Matal, in M. Deramiax e G. Vagenheim (a cura di), L’Italie
et la France dans l’Europe latine du xiv e au xvii e siècle: influences, émulation, traduction, Rouen 2006, p. 233 sgg.; Eadem, Appunti per una posopografia dell’Accdemia dello Sdegno a Roma. Pirro Ligorio, Latino Latini,
Ottavio Pantagato e altri, «Studi umanistici piceni» 26, 2006, p. 211sgg.;
A. Schreurs, Lo studio dell’antico a Napoli: il tempio dei Dioscuri, disegnato da Pirro Ligorio, «Journal de la Renaissance» 4, 2006, p. 89 sgg.;
232
stefano bruni · cristina cagianelli
identificarsi con ogni probabilità negli ambienti affrescati oggi noti come “Salone” e “Saletta dei Giochi” o “delle Stagioni” e “Sala dell’Aurora”.53 I bronzi, unitamente agli altri oggetti che nel Camerino di
marmo si trovavano nei “quadri”, sulla “panca” e
sulle “tavole”,54 furono trasferiti nell’Antichario e
vennero collocati assieme agli altri monumenti acquisiti dall’ultimo Duca di Ferrara senza tener conto
della loro originaria provenienza.55
In questo stato di cose, se è pur vero che Ercole II
sembra, al pari di suo nonno, particolarmente attratto nei propri gusti collezionistici dalla ricerca di soggetti erculei – sia perché esempio di virtus e di fortitudo, sia in forza della sua omonimia con l’eroe
greco, come testimonia, da un lato, il poema che nel
1557 gli dedica Giovan Battista Cinzio Giraldi,56 e dall’altro, la serie di statue di Ercole che ora il fratello,
card. Ippolito, ora altri personaggi legati alla corte
estense a più riprese gli inviano –,57 per quanto riguarda i bronzi enfatizzare questo aspetto, come pure è stato recentemente fatto,58 risulta operazione
sostanzialmente illusoria. Infatti per quanto la mag-
gior parte dei bronzetti del Camerino di marmo celi
il proprio aspetto dietro le generiche descrizioni
dell’inventario, che ricordano il più delle volte solo
«una figura di metallo», limitandosi a indicare solo
gli aspetti dimensionali dei singoli pezzi, le immagini di Ercole sembrano costituire una componente
nettamente minoritaria della raccolta, risultando solo tre (quattro considerando anche l’Ercole equestre
di Giovanni di Bertoldo).
Tuttavia è con Alfonso II che la raccolta di bronzi
di Ferrara acquista un rilievo inusitato che la pone,
senza ombra di dubbio, sia per il numero dei pezzi
che per lo spettro dei tipi rappresentati, sullo stesso
piano di importanza della collezione medicea.
Se l’inventario della guardaroba compilato tra il
febbraio e il giugno del 1561 da Francesco Contugi
non ricorda nessun bronzo,59 certamente tra il 1561
e il 1584 le acquisizioni di bronzi, e non solo di
quelli, devono essere divenute sempre più frequenti,
tanto che pare fuorviante, se non errato, il ritratto,
recentemente delineato, di un Alfonso «meno determinato del padre a raccogliere testimonianze di
C. Bragaglia Venuti, Etienne Dupérac and Pirro Ligorio, «Print
Quarterly» 23, 2006, p. 408 sgg.; S. Russell, Pirro Ligorio, Cassiano dal
Pozzo and the Republic of Letters, «Papers of the British School at Rome» lxxv, 2007, p. 239 sgg.; C. Occhipinti, Pirro Ligorio e la storia cristiana di Roma. Da Costantino all’Umanesimo, Pisa 2007; G. Vagenheim, La collaboration de Benedetto Egio aux Antichità romane de Pirro
Ligorio: à propos des inscriptions grecques, in Testi, immagini e filologia
nel xvi secolo, Atti delle giornate di studio Pisa 30 settembre - 1 ottobre 2004, Pisa 2007, p. 205 sgg.; S. Tomasi Velli, Pirro Ligorio tra ricostruzione antiquaria e invenzione: i circhi e le naumachie di Roma, ibidem,
p. 225 sgg.; G. Vagenheim, Une lettre inédite de Pirro Ligorio à Ercole
Basso sur la “Dichiaratione delle medaglie antiche”: naissance de la numismatique à la Renaissance, in L’antiche e le moderne carte. Studi in memoria di Giuseppe Billanovich, Padova 2007, p. 569 sgg.; S. Tomasi Velli,
Le immagini e il tempo. Narrazione visiva, storia e allegoria tra Cinque e
Seicento, Pisa 2007; G. Vagenheim, Una collaborazione tra antiquario e
erudito: i disegni e le epigrafi di Pirro Ligorio nel De arte gymnastica di Girolamo Mercuriale, in Girolamo Mercuriale: medicina e cultura nell’Europa del Cinquecento, Atti del convegno Forlì 8-11 novembre 2006, Firenze 2008, p. 127 sgg.; C. Cieri Via, Tempus vincit omnia: Pirro Ligorio
fra Roma e Ferrara, in Programme et invention dans l’artde la Renaissance, Paris 2008, p. 127 sgg.; C. Bragaglia Venuti, Per l’interretazione
dei cicli decorativi di Pio IV: alcune considerazioni di Pirro Ligorio, ibidem,
p. 109 sgg.; C. Occhipinti, Daniele Barbaro, Pirro Ligorio e Andrea Palladio: incontri romani, in Palladio 1508-2008, Atti del simposio PadovaVicenza-Verona-Venezia 5-10 maggio 2008, Venezia 2008, p. 109 sgg.;
U. Peter, Die Münzprägung des Galba in der Interpretation von Pirro Ligorio, «Pegasus. Berliner Beiträge zum Nachleben der Antike» 10,
2008, p. 123 sgg.; G. Vagenheim, Le “Antichità Romane” de Pirro Ligorio
et l’Accademia degli Sdegnati, in Les Académies dans l’Europe humaniste:
idéaux et pratiques, Atti del colloquio Parigi 10-13 giugno 2003, Genève 2008, p. 99 sgg. Per l’attività del Ligorio a Ferrara, dove giunge nel
1568-1569 raccomandato dal card. Ippolito II d’Este (cfr. ?. Pacifici,
Ippolito secondo d’Este, dove quando, p. 399) e dal card. Alessandro
Farnese (cfr. la lettera pubblicata in C. Lamb, Die Villa d’Este in Tivoli.
Ein Beitrag zur Geschichte der Gartenkunst, München 1966, p. 86) e vi ri-
mane sino alla morte, si veda, in part., D. R. Coffin, Pirro Ligorio
and the Decoration of the late Sixteenth Century at Ferrara, ab , xxxvii,
1955, p. 167 sg.; A. Cavicchi, Appunti su Ligorio a Ferrara, in BentiniSpezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 137 sg.; B. Palma Venetucci, Pirro
Ligorio and the Rediscovery of Antiquity, in The Rediscovery of Antiquity.
The Role of the Artist, a cura di J. Fejfer, T. Fischer Hansen, A. Rathje,
(= ActaHyp, X), Copenhagen 2003, p. 74 sg.; Coffin, Pirro Ligorio. The
Renaissance Artist cit.supra, p. 107 sg. Per la biblioteca di Alfonso II cfr.
D. Fava, Alfonso II raccoglitore di codici greci, RendIstLom, 41, 1918, p.
481 sg.; Id., La biblioteca estense nel suo sviluppo storico, Modena.
53 Importante per le precisazioni e le proposte di identificazione
degli interventi ligoriani J. Bentini, Precisazioni sulla pittura a Ferrara
nell’età di Alfonso II, in Bentini-Spezzaferro, op. cit. a nota 1, p. 84
sg., nota 17. Per il Castello di Ferrara si veda, ora, M. Borella, Il Palazzo di Corte dei duchi d’Este in Ferrara (1471-1598), in Il trionfo di Bacco,
cit. a nota 26, p. 17 sg.; Il Castello Estense, a cura di J. Bentini, M. Borella,
Ferrara, 2003.
54 Per i vasi si veda ora Le Ceramiche dei Duchi d’Este. Dalla Guardaroba al collezionismo, cat. mostra, a cura di F. Trevisani, Sassuolo, 2000,
ed in particolare il saggio di C. Ravanelli Guidotti a p. 30 sgg., con bibl.
55 Vedi infra p. 00.
56 Dell’Hercole di M. Giovanbattista Giraldi Cinthio nobile ferrarese,
secretario dell’illustrissimo et eccellentissimo Signore Hercole Secondo da
Este, duca quarto di Ferrara, canti ventisei, Modena, 1557.
57 Corradini, Per una storia, cit. a nota 1, p. 180 sg., con rifer.
58 Marchesi, op. cit. a nota 14, p. 123 sg.
59 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale Estense, 12 Amministrazione della Casa. Guardaroba, 185: Inventario delle robbe della Ducale gardarobba principiato alli 16 di febraro 1561, et li quali robbe furono
consegnate insieme con le chiavi di essa guardarobba al molto Ill. Sign. Hercole Bonaccioni fatto et pubblicato da Sua Ecc.zia Suo Ducale Guardarrobbiero il di ultimo di giugno 1561. Si segnala che alle cc. 142r-v sono registrati «Diversi retratti et pitture et impronti» e alla c. 90 «figure di santi
et altre cose di marmore», tra cui varie statue di santi, madonne, un
S. Francesco ed infine «figurine di marmore a più sorti».
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
antichità».60 L’inventario della Guardaroba compilato nel 1584 da Agostino Mosti elenca, infatti, ben 166
bronzi più «parecchi fragmenti antiqui et non antiqui umani et d’animali et alcune metope non mala
robba, e manine, pedini, et gambe», raccolti, assieme ad «una tazza granda col piede», in una «tavoletta da medaglie» posta in fine sulla prima «scaffa».61
Per quanto la realizzazione del progetto ligoriano
dell’Antichario debba aver verosimilmente provocato una ricerca e una raccolta dalle varie residenze
estensi dei piccoli bronzi e delle altre sculture e sebbene non tutti i monumenti, certamente, siano stati
trasferiti nella nuova sede, come insegna il caso
dell’Ercole equestre di Giovanni di Bertoldo – forse rimasto nel Camerino di marmo, non comparendo
nell’inventario della Guardaroba del Mosti –, molte
devono essere state le nuove acquisizioni, che la documentazione d’archivio finora rintracciata non
consente di seguire puntualmente. E se Pirro Ligorio a proposito di una moneta di Pirro il Molosso
che si trovava a Ferrara “nelle preciose cose antiche
dell’Altezza e serenità de Duca Alfonso secondo”
annotava che “lo quale principe, è stato lo primo
che habbi fatta una grande et bella ricolletta delle
cose antiche più degne di laude”,62 non sembra dovuto alla sola pratica cortigiana la dedica al quarto
Duca di Ferrara della raccolta di Antichità, sorta di
monumentale enciclopedia in xxxiii libri rimasta
manoscritta e conservata a Torino, che lo stesso Ligorio premette al primo libro, rivolgendosi ad Alfonso “come a quel Signore benigno, et amatore degli huomini virtuosi, et amatore della fama di
coloro che furono pria triomphanti, et tanto prudenti et forti, che ascesero perlo mezzo della verità
sul carro dell’oro, et hebbero le corone, et le imagini del valore nelli Templi d’essa virtù et dell’Hono60 J. Bentini, “Rabeschi, frisi e grottesca”. Un esempio di decorazione
pittorica nel Castello Estense di Ferrara fra Ercole I e Alfonso II, in Torquato
Tasso e la cultura estense, Atti convegno Ferrara, 10-13 dicembre 1995,
Firenze, 1999, ii, p. 685.
61 Inventario 1584, p. 14 sg.
62 Torino, Archivio di Stato, ms. a.ii.14: Libri di Antichità. Vol.
xxvii : Medaglie, c. 70v. (il passo è trascritto in A. Schreurs, op. cit., a
nota 52, p. 370 n. 180).
63 Torino, Archivio di Stato, ms. a.iii.3: Libri di Antichità. Vol. i , c.
1r. (il passo è trascritto in A. Schreurs, op. cit., a nota 52, p. 340 sg.).
Su quest’opera si veda anche L. Mercando, L’opera manoscritta di un
erudito rinascimentale: le Antichità di Pirro Ligorio. Alcune note di lettura
dei libri 1-23, in I. Massabò Ricci e M. Gattulo (a cura di), L’Archivio di
Stato di Torino, Fiesole 1994, p. 201 sgg.
64 Inventario 1584, p. 13. Per i due busti a Adriano e di Vibia Sabina
in sembianze di Cerere (quest’ultimo da riconoscere in Modena, Galleria Estense inv. 2621), attribuiti alla cerchia di Ludovico Lombardo,
cfr. V. Avery, The production, display andreception of bronze heads and
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
233
re, nei quali ogni huomo nobile deve sedere nella
sua gloria. Sendo concultore et Amico della tristitia,
et amico della Fortezza, et della salda constantia, de
i buoni, et prudenti huomini, lhavemo voluto perciò
porre davante a cui degnamente le ama, et le honora. Sapendo io quanto sia l’Amore grande portato
da quelle alle Cose buone et eccellenti, lho voluto
darle cosi raccolte a vostra Altezza come conserator
de molte cose nobile dell’antichi. […]”.63
La collocazione degli oggetti nell’Antichario doveva seguire schemi appena intuibili nei documenti di
archivio, ma tuttavia ispirati a criteri largamente diffusi presso i grandi collezionisti e la precedenza nell’inventario dell’elencazione dei marmi riflette evidentemente i criteri amministrativi del documento e
non la reale successione dei vari pezzi nell’ambiente.
Alcuni bronzi – una testa di Adriano e una di Cerere
acquistate a Brescia e «una figurina di bronzo d’uno
puttino» – sono ricordati come esposti tra i marmi
collocati «sotto la finestra ultima et anco in capo di
detta Sala».64 I piccoli bronzi erano invece posti su alcune scafe lungo le pareti, secondo una prassi espositiva nota nel Rinascimento e di cui l’affresco di Carpaccio ricordato all’inizio restituisce, tra gli altri,
un’idea. Per quanto l’impossibilità di riguadagnare
nel loro reale aspetto molte di queste fusioni ponga
non poche limitazioni, dalle indicazioni dell’inventario pare di poter vedere che l’ordinamento non dovesse essere casuale, ma sembra seguire criteri classificatori che distinguono tra i due comparti della
stanza. Su un lato, dopo le statuette di animali – tema che proprio nel Cinquecento aveva visto il crescente interesse dei collezionisti, anche a seguito dei
nuovi procedimenti tecnici che prevedevano la riproduzione attraverso il calco su animali veri –,65 erano
posti i bronzetti di soggetto erotico, le veneri, un arbusts in Renaissance Venice and Padua: surrugate antiques, in J. Kohl (a
cura di), Kopf-Bild: die Buste in Mittelalter und Früher Neuzeit, München
2007, p. 85 sgg.; M. Negri, in Rinascimento e passione per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo, cit. a nota 43, p. 528 n. 126.
65 Si vedano le osservazioni di C. Cennini, Trattato della pittura,
cap. clxxv. La realizzazione di piccoli bronzi di animali attraverso il
calco di esemplari reali doveva essere in quegli anni particolarmente
di moda, come testimonia M. de Montagne, Journal du voyage de Michel de Montagne em Italie par la Suisse et l’Allemagne en 1580 et 1581, ed.
A. D’Ancona, Città di Castello, 1889, pp. 179 sg., 464, a proposito della
Chimera di Arezzo, da lui vista nel maggio del 1581 a Firenze e di cui
ricorda come gli fosse stato detto che la statua riproducesse un mostro «trové dans une caverne de montagne de ce pais, et mené vif il y
a quelques années» (cfr. anche M. Cristofani, Per una storia del collezionismo archeologico nella Toscana granducale. i. I grandi bronzi, Prospettiva, 17, 1979, p. 12). Sul tema N. Gramaccini, Das genaue Abbild der Natur. Riccios Tiere und die Teorie des Naturabgusses seit Cennino Cennini, in
Natur und Antike, cit. a nota 14, p. 198 sg.
234
stefano bruni · cristina cagianelli
pocrate, putti ed amorini, tra i quali anche una replica dello Spinario,66 alcuni di quelli di soggetto bacchico e quelli considerati in relazione con la sfera
agraria, nonché teste e busti. Sull’altro le lucerne e i
bronzi raffiguranti eroi e divinità.
La collezione di Alfonso divenne ben presto oggetto dell’interesse di visitatori ed eruditi, come testimonia l’eco che del complesso ligoriano resta negli scritti di Ulisse Aldrovandi, il celebre naturalista
ed antiquario bolognese,67 che, oltre ad una descrizione della raccolta «in palatio Ducis Ferrariae»,
scritta dopo il 1573 – registrando anche il busto di Lucio Vero, la testa di Polifemo, il c.d. Letto di Policleto e
altre sculture acquistate nel 1572 dagli eredi del card.
Rodolfo Pio di Carpi e giunte a Ferrara tra l’aprile e
il maggio dell’anno successivo –,68 nei suoi appunti
ricorda sia la «novi castelli structura magnifica et
sumptuosa», sia i «Bibliothecae novae praeparamenta esimia: magna vidilicet vetera manuscriptorum
librorum copia, at[que] rarissimae antiquitatum reliquiae, nimirum statuae marmoreae. Item nummorum antiquissimorum et elegantissimorum ex auro,
argentq[ue] et aere omnis generis. Item gemmarum
celatarum capsulae plurimae, quae toto quatriduo
exacte perlustrari non possunt. Instrumenta Longo-
bardicis literis peririnis exaratum, ex antiquissimo
volutine papiraceo descriptum».69
Le note dell’Aldrovandi, finora non richiamate
nei vari lavori che sono stati dedicati ai vari aspetti
della corte ferrarese di Alfonso II e dell’attività di Pirro Ligorio al suo servizio, offrono una preziosa testimonianza non solo per collocare con maggior puntualité nel tempo la realizzazione della Libraria e
dell’Antichario di Alfonso II, ma anche per sottolineare come il progetto ligoriano della biblioteca e della
galleria avesse fin dall’origine carattere unitario e
ben definito. La galleria, a cui non a caso viene dato
– in luogo delle più usuali denominazioni di camerino, studium, museum, theatrum, microcosmus, ovvero
archivio o galleria70 – il nome di antichario, non altrimenti attestato per nessun altra raccolta, se non il
«camerino nominato el studio delle Antiquità» di Federico II Gonzaga,71 rappresenta, nella sua netta distinzione dalla biblioteca, il luogo deputato dove,
pur nella convivenza tra antico e moderno – ma
comunque un moderno che consentiva quella sorta
di viaggio iniziatico verso l’antico che impronta tutto il collezionismo rinascimentale – ritrovare quegli
esempi tangibili della grandezza degli antichi che costituiva l’exemplum per il principe.
66 Modena, Galleria Estense, inv. 2249, riferito alla bottega de l’Antico: E. Corradini, in Bentini, op. cit. a nota 3, p. 475. Per la fortuna
del soggetto cfr. Bober-Rubinstein, op. cit. a nota 15, p. 235 sg. A. H.
Allison, art. cit. a nota 24, p. 212 sgg.; V. Avery, in In the Light of Apollo. Italian Renaissance amd Greece, cat. mostra Athens 2003, p. 373 n.
viii.7; A. Augusti, Riflessi delle scoperte archeologiche sui bronzetti veneti
del Cinquecento, in Tullio Lombardo scultore e architetto nella Venezia del
Rinascimento, Atti del convegno Venezia 4-6 aprile 2006, Verona 2007,
p. 378 e p. 387, nota 5, fig. 1; K. Malatesta, in Rinascimento e passione
per l’antico. Andrea Riccio e il suo tempo, cit. a nota 43, p. 302 n. 30; D.
Gasparotto, in Bonacolsi l’Antico cit. a nota 24, p. 204 n. v.3. Priva, al
momento, di oggettivi riscontri nei documenti d’archivio l’ipotesi –
recentemente proposta da T. Previdi, in Gli inventari dell’eredità del
Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, a cura di C. Franzoni et Alii, Pisa, 2002,
p. 117 sub n. 93-che il bronzetto estense sia quello già nella collezione
del card. Rodolfo Pio da Carpi, di cui Alfonso II acquistò nel 1572 alcune sculture (cfr. infra, nota 70).
67 Su Ulisse Aldrovandi, che trascorse gran parte della sua vita
(1522-1605) a raccogliere, studiare e catalogare animali, piante e minerali per il suo Theatrum Naturae, si veda Il teatro della natura di Ulisse
Aldrovandi, cat. mostra, a cura di R. Simili, Bologna, 2001, in part. l’intervento di A. M. Brizzolara, Lo studio dell’antichità, p. 95 sg. (con
bibl. prec.). Per la sua collezione cfr. A. M. Brizzolara, Il Museo di
Ulisse Aldrovandi, in Dalla stanza delle antichità al Museo Civico. Storia
della formazione del Museo Civico Archeologico di Bologna, cat. mostra, a
cura di C. Morigi Govi, G. Sassatelli, Bologna, 1984, p. 119 sg.; Eadem,
Collezioni di antichità nello Studio, in Il contributo dell’Università di Bologna alla storia della città: l’evo antico, Atti convegno Bologna, 11-12 marzo 1988, Bologna, 1989, p. 131 sg. L’Aldrovandi fu a Ferrara, presso i
fratelli Alfonso e Alessandro Panza, nel 1569 e poi nel 1571, come si ricava dalla sua autobiografia: Bologna, Biblioteca Universitaria, Fondo Aldrovandi, ms. 97, cc. 647-670, La vita di Ulisse Aldrovandi comin-
ciando dalla sua natività sin a l’età di 64 anni vivendo ancora, ora in Simili, op. cit. supra, p. 131 sg. Per i rapporti dell’Aldrovandi con l’ambiente
ferrarese si veda L. Frati, Ulisse Aldrovandi e Ferrara, AttiMemFerrara,
s. i, xvii, 1908, p. 75 sg.
68 Bologna, Biblioteca Universitaria, fondo Aldrovandi, ms. 143/
iii, Peregrinorum rerum catalogi, cc. 18r-21r. Il ms. cartaceo, in 4º, in forma di vacchetta, terzo di quattordici volumi legati in mezza pergamena, contiene pagine solo in parte autografe dell’Aldrovandi: cfr. Catalogo dei manoscritti di Ulisse Aldrovandi, a cura di L. Frati, Bologna, 1957,
p. 176 sgg.; la descrizione in parola è di mano di un copista ed è stata
pubblicata, non senza errori di trascrizione e omissioni, in L. Frati,
op. cit. a nota 69, p. 97 sgg. Per quanto riguarda i bronzi, nella descrizione dell’Aldovrandi sono ricordati a c. 20v solo «Lynx ex aere antiquus a/nostro diversus/Venus Anadiomene e mari/egrediens/Bubo
ex aere dedicatus Isidi/Harpocrates ex aere/Aper ex aere antiquissimus». Per i marmi della collezione Carpi acquistati da Alfonso II si
veda ora Corsi, op. cit. a nota 1, p. 66 sg. Per il busto di Lucio Vero si
veda anche E. Corradini, in Bentini, op. cit. a nota 3, p. 178 sg. n. 19.
Per la collezione del card. Rodolfo Pio da Carpi si veda ora anche C.
Franzoni, Rodolfo Pio e una discussione antiquaria, in Prospettiva, 65,
1992, p. 66 sgg.; H. Wrede, Ein imaginierter Besuch im Museo Carpi, in
Le collezioni di antichità nella cultura antiquaria europea, Atti convegno
Varsavia-Nieborow 1996 = RdA, Suppl. 21, Roma, 1999, p. 18 sgg.; F.
Capanni, Rodolfo Pio da Carpi (1500-1564) diplomatico, cardinale collezionista. Appunti bio-bibliografici, Meldola, 2001; Franzoni et Alii, op. cit.
a nota 68.
69 Peregrinorum rerum catalogi cit. a nota 70, c. 29r e 30v.
70 Cfr. P. Findlen, The Museum: its classical etymology and Renaissance genealogy, JHistColl, i, 1, 1989, p. 59 sg.
71 H. P. Hermann, Pier Jacopo Alari-Bonacolsi, genannt Antico,
JbKuSammlWien, xxviii, 1909-1910, p. 217; Franzoni, op. cit. a nota 55,
p. 314.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
L’Antichario di Alfonso II doveva risultare agli occhi dei contemporanei una raccolta del più alto interesse: ne è testimonianza la descrizione che ne dette
l’umanista olandese Stephanus Winadus Pighius,
che in veste di precettore accompagnò in giro per
l’Italia il principe Karl Friederich von Jülich Cleve e
che nel 1574 fu ospite di Alfonso II a Ferrara.72 La
descrizione non si discosta molto dalla nota dell’Aldovrandi;73 tuttavia se la si confronta con le poche
parole con cui è ricordata la collezione di Cesare
Gonzaga a Mantova.74 si può intravedere la meraviglia e lo stupore che la quantità di materiali messa insieme dagli Este deve aver destato nel visitatore.
Il Pighius, vecchia conoscenza del Ligorio, a cui
viene attribuito il merito di aver raccolto molte delle cose riunite nell’Antichario, si sofferma infine su
quattro monumenti: il codice con «Langebardicis literis» ricordato già dall’Aldrovandi, una lastra di
bronzo con un’iscrizione latina che menzionava
Marco Aurelio, un rilievo di marmo con una scena
di sacrificio e un’iscrizione latina, nonché una sta72 Pighius, op. cit. a nota 8, pp. 350-353. L’opera, di cui nel 1609 venne pubblicata una nuova edizione postuma a Colonia, deve aver avuto una certa fortuna tra gli eruditi e i viaggiatori del tardo Cinquecento e del primo Seicento: cfr. M. Azzi Visentini, Le collezioni
veneziane d’arte antica nelle testimonianze dei viaggiatori dell’Europa centrale tra ’500 e ’600, in Venezia e l’archeologia. Un importante capitolo nella
storia del gusto dell’antico nella cultura artistica veneziana (= RdA, Suppl.
7), Roma 1990, p. 57 sgg. Fortuna testimoniata ancora, nell’ambiente
degli eruditi della prima metà del xviii secolo, in una lettera a Gori
del 25 settembre 1734 (Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Gori,
ms. B.viii.4, c. 328; cfr. F. Borroni Salvadori, Tra la fine del Granducato e la Reggenza: Filippo Stosch a Firenze, AnnPisa, s. iii, viii, 2, 1979,
p. 569, nota 15), nella quale Filippo Stosch chiede che sia riservata a lui
la copia della Biblioteca del Doni. L’ipotesi (avanzata da Mandowsky-Mitchell, Pirro, cit. a nota 55, p. 22), che la visita del Pighius sia
stata fatta dopo la morte a Roma del principe di Cleves nel 1575, durante il viaggio di ritorno a casa, non sembra trovare conferma nei
dati a disposizione. Su questo umanista, amico di Pirro Ligorio (Pighius, op. cit. a nota 8, p. 351: «Gavisus etiam vehementer est, quod
repperisset ibidem bona fortuna valentem et sanum Pyrrhum Ligorium, quemante multos annos Romae familiariter noverat»), si veda
A. Roersch, Pighius, E.W., in Bibliographie Nationale de Belgique, xvii,
1903, p. 502 sg.; J. H. Jongkees, Stephanus Winadus Pighius Compensis,
MededRome, viii, 1954, p. 120-185; H. de Vocht, History of the foundation and rise of the Collegium Trilingue Lovaniense 1517-1750, iii, Louvain,
1954, p. 309-311; J. H. Jongkees, De brieven van Stephanus Pighius, BijdrGeschNederland, xvi, 1961, pp. 228-243. Cfr. anche de Vocht, Literae
Virorum Eruditorum ad Franciscum Craneveldium, Louvain, 1928, p. 256260; Vagenheim, Les Inscriptions cit. a nota 55, passim. In particolare
per la sua attività antiquaria si veda O. Jahn, Die Zeichnungen antiker
Monumente im Codex Pighianus, BerVerhLeipzig, xix, 1867, p. 161 sgg.
Cfr. anche A. Nesselrath, I libri di disegni di antichità. Tentativo di una
tipologia, in Memoria dell’antico nell’arte italiana. iii . Dalla tradizione
all’archeologia, a cura di S. Settis, Torino, 1986, p. 140, figg. 140-141; Bober-Rubinstein, op. cit. a nota 15, pp. 47, 465; Franzoni, op. cit. a nota
70, p. 66 sg. In generale anche A. Gerlo, H. Vervliet, Bibliographie
générale de l’humanisme des anciens Pays-Bas, Bruxelles 1972.
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
235
tuetta di bronzo, nella cui descrizione si può facilmente riconoscere il c. d. Apollo di Ferrara, uno dei
più famosi bronzetti etruschi della prima metà del
iv secolo a.C.75
L’interesse del Pighius appare rivolto essenzialmente a monumenti iscritti; tuttavia se non sembra
senza conseguenza che una pari attenzione non si sia
appuntata sul gruppo di iscrizioni collocate nell’Antichario che ricordavano personaggi con il nome di
Atius o Attius – riconosciute solo in epoca moderna
come contraffazioni erudite – procurate negli anni
1560-1561 da Girolamo Falletti76 e che dovevano avere
un’estrema importanza agli occhi dello stesso Alfonso, impegnato in quegli anni in una vera e propria
guerra diplomatica con i Medici per il primato della
casata ed intento a ricercare ossessivamente le radici
della genealogia della famiglia,77 del pari colpisce
l’interesse per il bronzetto, in cui l’erudito riconosce
correttamente l’immagine di Apollo e di cui ricorda
l’«inscriptio Etrusca in femore sinistro antiquissimis
characteribus insculpta».
73 Pighius, op. cit. a nota 8, p. 350: «Mostrata Carulo et hospitibus
Palatis insignia atque regalia monumenta: item novi castelli structurae magnificae et sumptuosae: bibliothecae novae praeparamenta
esimia: magna videlicet veterum manuscriptorum librorum copia,
atque rarissimae antiquitatum reliquiae, nimirum statuae marmoreae artificis singularis, signa, tabulae, sigilla aerea, ac marmorea;item
nummorum antiquissimorum et elegantissimorum ex auro, argento
et aere omnis generis: item gemmarum caelatarum capsulae plurimae, quae toto quatriduo exacte perlustrari non possent».
74 Pighius, op. cit. a nota 8, p. 305: «Post meridiem a nobilitate
ductus ad aedes opulentas Caesaris Gonzagae, ubi ostensae Deorum
artificiosae statuae plures et aliquae Imperatorium marmoreae ad
vinum factae imagines, Corinthia signa ac aurea sigilla infinita». Per
la collezione di Cesare Gonzaga, in particolare, si veda C. M. Brown,
Our accustomed Discorse on the Antique. Cesare Gonzaga and Gerolamo
Garimberto. Two Renaissance Collectors of Greco-Roman Art, New York London 1993, p. 22 sgg. e (per la visita di Pighius) 127.
75 Pighius, op. cit. a nota 8, p. 353: «Erat et iuvenis laurea coronati
signum aeneum pulcherrimum et vetustissimum: in cuius collo torques, in sinistro superiore braccio armillae bullis dependentibus planae, rotundis alternatim et umani cordis specie factis: dicere Apollinis
bullati signum esse, qui et BÂÏËÊÔ˜ vel BÂÏ·È appellatus est propter
oracula: et a BÂÏË bullam dictam Festus auctor est; quae a collo in
pectore praetextatorum dependebat nobilium, aurea et umani cordis
figurata, teste Macrobio, ut ita denum se homines cogitarent, se corde praestarent et consilio uterentur. In femore quidam signi sinistro
antiquissimis characteribus insculpta est inscriptio Etrusca: quae paucis legi, a nemine fere intelligi potest».
76 Sulla questione si vedano Rebecchi, op. cit. a nota 2; Gregori,
op. cit. a nota 2.
77 Si veda al riguardo V. Santi, La precedenza tra gli Estensi e i Medici
e l’Historia de’ Principi d’Este di G. Battista Pigna, in AttiMemFerrara,
ix, 1897, p. 37 sgg.; G. Mondaini, La questione di precedenza tra il duca
Cosimo I deí Medici e Alfonso II d’Este, Ferrara 1898; L. Chiappini, Gli
Estensi, Milano 1967, p. 283 sg. Cfr. anche R. Bizzocchi, Genealogie
incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna, Bologna 1995, pp. 13 sg.,
197 sg., 206 sg., 255 sg.
236
stefano bruni · cristina cagianelli
Figg. 6-7. Sacerdote etrusco (xvi secolo), Ferrara, Musei Civici, inv. 8462.
Il bronzetto non compare nell’inventario del 1559,
o quanto meno nessuna indicazione permette di riconoscerlo tra quelli ricordati, ed è verosimilmente
un’acquisizione di Alfonso II. Tuttavia le ricerche finora fatte tra le carte dell’Archivio di Modena non
hanno permesso di recuperare elementi sulla sua
origine e l’ipotesi di una sua provenienza da Spina,
proposta recentemente,78 non sembra fondarsi su
alcun elemento oggettivo e pare doversi rigettare,
anche in considerazione del fatto che l’inventario del
1584 registra solo per «una tromba antiqua […] di
metallo» il ritrovamento in Comacchio.79 Né l’iscrizione sul bronzo, per quanto molta strada sia stata
fatta nella conoscenza dell’etrusco da quando il Pighius concludeva «pauci legi, a nemine fere intelligi
potest», offre indicazioni in questa direzione.80
78 Torelli, op. cit. a nota 8, p. 201; Malnati, op. cit. a nota 8, p. 165;
Maggiani, op. cit. a nota 8, p. 34 sg.
79 Inventario 1584, p. 19.
80 Per le conoscenze sull’etrusco nel xvi secolo si veda, per ora, G.
Bartoloni - P. Bocci Pacini, Tentativi di lettura dell’etrusco nella To-
scana del Cinquecento: un alfabeto “dal Vasari”, AnnSiena, xxi, 2000, p.
143 sgg. Eaedem, La divulgazione di scoperte di antichità etrusche a Firenze da Lorenzo a Cosimo I, «ArchCl» lvi, 2005, p. 378 sgg. Per quanto riguarda l’ambiente emiliano particolare interesse rivestono le notazioni sulla lingua etrusca di Ulisse Aldrovandi, che si trovano in
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
L’interesse archeologico, e in particolare per il
mondo etrusco, dell’ultimo Duca di Ferrara non
sembra comunque casuale e se molti dei piccoli
bronzi apparentemente antichi della sua raccolta nascondono ancora il loro volto, una conferma a questa prospettiva viene da un bronzo descritto nell’inventario del 1584 come «un figura s’un base con una
patera in la man destra, et l’altra vota con uno pertuso che li poteva esser qualche stilo, et un gran panno che la vela quasi tutta»,81 collocato dal Ligorio poco dopo l’Apollo, lo Gnudo della Paura e subito a
seguire l’Athena Promachos prima ricordati. La statua
è, infatti, verosimilmente da riconoscere, per quanto
manchino immediati riscontri inventariali, in uno
straordinario bronzetto ‘all’etrusca’ del Museo Civico di Ferrara (Figg. 6-7),82 che con un polito e compiuto linguaggio cinquecentesco ripropone, invertendolo, lo schema iconografico e l’impostazione
stilistica di un bronzetto della piena età ellenistica
(Fig. 8) forse rinvenuto nel 1554 ad Arezzo assieme
alla Chimera, ora al Museo Archeologico di Firenze,
ma presente negli inventari delle raccolte granducali
fin da quello del 1589.83
Ma è forse il caso di tornare all’Apollo.
La situazione creatasi alla morte di Alfonso II con
la devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio e la conseguente dispersione delle raccolte ducali sembra
colpire in modo particolare questo settore dell’Antichario e non sempre facile è seguire la sorte dei vari
pezzi descritti nell’inventario del 1584. Le carte d’archivio non offrono che un quadro dai contorni piuttosto incerti e riflettono assai bene il clima che caratterizzò Ferrara dall’ottobre del 1597, quando il 27 morì
Alfonso e Clemente VIII non riconobbe la successione a Cesare d’Este, alla scomunica dello stesso Cesare
il 23 dicembre 1597 e alla ribellione nel ferrarese, culun’opera, composta tra il 1579 e il 1582 e rimasta inedita, conservata a
Bologna, Biblioteca Universitaria, Fondo Aldrovandi, ms. 83 ms 124:
De Academiis et De Linguiis, vol. ii, cc. 221r-222v. Su quest’opera cfr. A.
Adversi, Ulisse Aldrovandi. Bibliofilo, bibliografo e bibliologo del Cinquecento, in AnnScuolaArchivRoma, viii, n. 1-2, 1968, p. 85 sgg. Per l’iscrizione (TLE2, n. 737; ET, OB 3.2), la cui lettura è mi : fleres : spulare : aritimi/fasti : rufris : trce : clen : ce¯a, si veda Colonna, StEtr, cit. a nota 8,
p. 274 n. 181. Maras, op. cit. a nota 8, p. 313 sgg. L’ipotesi di riconoscere
in aritimi un locativo da identificare con ‘Arezzo’, recentemente proposta da Steinbauer, Zur Grabinschrift, cit. a nota 8, da cui discenderebbe una provenienza del bronzetto da questo centro, non sembra
avere possibilità di essere accolta: su questo cfr. Agostiniani [G.
Giannecchini], op. cit. a nota 8, p. 209 nota 2.
81 Inventario 1584, p. 18.
82 Ferrara, Civici Musei d’Arte Antica, inv. 8462: R. Varese, Ferrara, Civici Musei d’Arte Antica. Placchette e bronzi nelle Civiche Collezioni,
Firenze 1975, p. 202 n. 196, con bibl. prec.
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
237
Fig. 8. Bronzetto di età ellenistica,
Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 15.
minata a Comacchio nel sacco del Palazzo estense
delle Casette, all’abbandono di Ferrara nella notte tra
il 28 e il 29 gennaio 1598 da parte di Cesare e all’ingresso in città, lo stesso 29 gennaio, delle truppe papali e
del card. Pietro Aldobrandini, ai mesi successivi.84
Perdute nel corso del secondo conflitto mondiale
le carte della Legazione apostolica conservate nell’Archivio di Ferrara, andate disperse quelle di Anna83 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 15: A. Maggiani,
I “compagni” della Chimera. Qualche spunto sulla stipe di Porta S. Lorentino ad Arezzo, in Etruschi nel tempo. I ritrovamenti di Arezzo dal Cinquecento ad oggi, cat. mostra, Arezzo 2001, p. 61 n. 1.
84 Per il quadro storico si veda A. Biondi, Ferrara: cronache della caduta, in A. Prosperi (a cura di), Storia di Ferrara. VI: Il Rinascimento:
situazioni e personaggi, Ferrara 2000, p. 494 sgg., nonché la bibliografia
raccolta in G. Guerzoni, Le Corti Estensi e la devoluzione di Ferrara del
1598, Modena 2000, p. 33 nota 1. Cfr. anche C. L. Masetti Zannini,
La capitale perduta. La devoluzione di Ferrara 1598 nelle carte vaticane,
Ferrara 2000. Molte notizie, anche minute, su quello che avvenne in
Ferrara si trovano in D. Rainaldi, Relatione di quello che è successo in
Ferrara dopo la morte del duca Alfonso fino al possesso preso dal Signor Cardinale Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Barb.lat. 5259,
c. 79 sgg. (ricordata in G. Ricci, Il principe e la morte. Corpo, cuore, effigie
nel Rinascimento, Bologna 1998, p. 183 nota 10).
238
stefano bruni · cristina cagianelli
bale Foschieri, fattore generale della corte ferrarese
di Cesare d’Este, non molti sono i dati che si ricavano
dai documenti conservati a Modena e in altri fondi
archivistici e solo a fatica, in forme sostanzialmente
congetturali, si può intravedere la situazione subita
dall’Antichario e dai suoi materiali. Infatti se, al pari
dell’inventario testamentario di Alfonso II redatto il
21 ottobre 1598,85 di nessuna utilità risulta la «Stima
fatta li 17 aprile 1598 di case e beni lasciati in Ferrara
e in Voghiera dal Duca Cesare d’Este»,86 che, mirata
essenzialmente verso gli aspetti immobiliari, non riporta nessuna suppellettile artistica, è certo che Cesare, sebbene in base alla convenzione stipulata a Faenza con l’Aldobrandini il 13 gennaio 1598 avesse
facoltà di portare a Modena «tutte le sue gioie, ori,
argenti & altre cose pretiose; […] & altri mobili se
moventi, siano di qualunque qualità»,87 già prima del
28 gennaio abbia mandato a Modena oggetti che aveva riunito nel Palazzo dei Diamanti.88 Tuttavia dopo
la partenza da Ferrara dell’Este molte cose devono
essere state trafugate e perdute, se nel giugno del
1598 il Duca lamenta che «v’è stato robato roba del
valore di scuti 500 milia dopo la morte del duca Alfonso, sin ora, da Ferraresi», come registra lo Spaccini nella sua Cronaca.89
Non sappiamo nel dettaglio cosa si celi dietro quel
generico «roba» ricordato dallo Spaccini. Oltre al caso delle pitture del Camerino,90 quello del ritratto di
fanciulla detta La Violante di Tiziano, donato ad Alfonso II ed ora alla Gemäldegalerie di Dresda, in possesso di Alessandro Balbi, architetto ferrarese, «superiore della munizione ducale», è il solo di cui si abbia
contezza con un certo agio di particolari.91 Tuttavia
la stima di 500 milia scuti fatta dal Duca per le cose
trafugate e perdute lascia intravedere lo scenario di
un saccheggio piuttosto ampio e diffuso, la cui eco
deve essersi riverberata anche dalle vendite pubbliche, come si può ricavare, indirettamente, dalla notizia offerta da una lettera di Lucio (ma in realtà Lucilio) Gentiloni – Cameriere di Cesare d’Este fino al
1606 e dall’anno successivo Gentiluomo di Sua Altezza – inviata da Modena il 15 giugno 1607 al conte Giustiniano Masdoni a Ferrara sulla proposta di vendita
a Cesare d’Este da parte di un certo Abram di un
quadro del Dosso, già in Castello, da quest’ultimo
acquistato sulla pubblica piazza a Ferrara.92
Per quanto riguarda i bronzi, è noto da tempo che
il 27 luglio 1601 Annibale Foschieri, fattore generale
della corte ferrarese di Cesare d’Este, spedì a Modena quanto restava della raccolta in tre piccole casse.93
L’inventario allegato alla lettera del Foschieri non è
stato rintracciato tra le carte degli agenti estensi a
Ferrara; tuttavia se almeno una parte del contenuto
delle tre piccole casse inviate alla nuova reggia di
Modena è noto,94 è comunque certo che in esse non
avesse trovato posto l’Apollo etrusco.
85 Città del Vaticano, Archivio Segreto, Armadio 46, vol. 16. L’inventario, che riporta solo i beni immobili, è pubblicato in P. Sella,
Inventario testamentario dei beni di Alfonso II d’Este, in AttiMemFerrara,
xxxviii, 1931, p. 131 sgg.
86 Ferrara, Biblioteca Ariostea, Fondo Deputazione di Storia Patria, cart. 8, fasc. 56. L’originale risulta attualmente (ottobre 2002)
scomparso; una copia fotostatica si conserva a Ferrara presso la biblioteca dei Musei Civici di Arte Antica. Il documento è pubblicato,
in parte, in A. Mezzetti, Il Dosso e Battista ferraresi, Milano 1965, p.
138 sg.
87 Il testo della “Convenzione faentina”, conservato a Modena,
Archivio di Stato, e pubblicato per la prima volta in A. Frizzi, Memorie per la storia di Ferrara, v, Ferrara 1848, p. 13 sg., è ora riprodotto integralmente in Ballarin, op. cit. a nota 31, iii, Regesto generale, p.
259 sg.
88 A. Ballarin, M. L. Menegatti, I camerini di Alfonso I nella via
Coperta in Castello. Analisi dei documenti di archivio. Restituzione dei cantieri edilizi. Cronaca della dispersione, in Ballarin, op. cit. a nota 31, iv,
p. 260.
89 G. B. Spaccini, Cronaca di Modena, a cura di A. Biondi, R. Bussi,
C. Giovannini, Modena, 1993, p. 126.
90 Sulla questione esiste ormai una vasta letteratura; si veda in
ultimo Ballarin - Menegatti, op. cit. a nota 90, p. 481 sg., con bibl.
prec.
91 Sulla questione, oltre a O. Baracchi Giovannardi, Arte alla
corte di Cesare d’Este, AttiMemModena, serie ix, vol. xviii, p. 157, si veda
ultimo Ballarin - Menegatti, op. cit. a nota 90, p. 543 sg. Per Alessandro Balbi si veda il breve profilo in C. Cavicchi - G. Marcolini,
Il Castello Estense di Ferrara in epoca ducale, in Bentini - Borella, op.
cit. a nota 56, p. 66, nota 186.
92 Venturi, op. cit. a nota 1, p. 116, doc. xi.
93 Modena, Archivio di Stato, Camera Ducale, Carteggio degli
Agenti Estensi a Ferrara, busta 7, fasc. 12. Cfr. Venturi, op. cit. a nota
1, pp. 16, 115 doc. ix.
94 Stante la genericità delle descrizioni relative ai bronzi, di scarso
aiuto appare al riguardo l’inventario della Galleria Ducale di Modena
del 1668-1669: Modena, Archivio di Stato, Archivio per materie. Gallerie e Musei Estensi, Inventario delle robbe della ducal Galleria che tiene
in consegna il Cavagliere Donzi, cc. 21r-23v. Cfr. Ducal Galleria Estense.
Dissegni, Medaglie e altro. Gli inventari del 1669 e del 1751, a cura di J. Bentini, P. Curti, Modena, 1990, p. 18 sgg. Tuttavia, oltre all’Ercole equestre
di Bertoldo di Giovanni (cfr. supra, nota 13), allo Gnudo della Paura (cfr.
supra, nota 14), alle due statuette di Herakles appoggiato alla clava, a
Modena (cfr. supra, nota 23, nota 24), al Giovane con trofeo sulla spalla
(cfr. supra, nota 49), allo Spinario (cfr. supra, nota 69), al Satiro di Severo da Ravenna (cfr. supra, nota 48), alla Testa di donna mora (cfr. supra, nota 50) e ai due busti femminili su modello dei Lombardo (cfr.
supra, nota 51), sono certamente giunti nel 1601 a Modena i seguenti
bronzetti documentati nell’Inventario 1589: «quattro tigri di metalo
d’appoggio tutti ad uno modo» (Venturi, op. cit. a nota 1, p. 99, fig.
35); «un bambozo asentato, forsi moderno moderno» (Modena, Galleria Estense inv. 2114); «una lucerna ad uso d’uno bambozo con la testa fra le gambe, si crede sia moderna» (Modena, Galleria Estense inv.
2179; cfr. Da Borso a Cesare d’Este cit. a nota 1, p. 152 s. n. 89, tav. lxxx.2);
«una lucernina moderna ad uso di maschera. Un’altra lucerna pur
mostruosa» (Modena, Galleria Estense, inv. 2177 e inv. ?: cfr. Bode, op.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
Al pari del «sacerdote etrusco»,95 il piccolo bronzo
non ha comunque abbandonato Ferrara, ricomparendo, attraverso vicende che restano per noi solo
ipotizzabili, nella raccolta che Roberto Canonici ha
messo insieme nel suo palazzo in Via S. Benedetto su
il Canton del Pavone.96 La descrizione che viene fatta
nell’inventario allegato al testamento del Canonici
redatto il 26 giugno 1627 non lascia dubbi in proposito: «Una figura di un giovine in piedi di bronzo, la mano dritta l’appoggia al galone, e intorno al braccio gli
ha un panno, manca del braccio stanco, ha in gamba
i burracchini, e nella stanca tiene certe lettere».97
L’incendio che il 26 marzo 1639 divampò nel Palazzo Canonici e investì il museo, la biblioteca e la quadreria, distruggendoli in parte,98 nonché la perdita di
quasi tutte le carte di Roberto, di cui restano nell’archivio di famiglia, conservato nell’Archivio di Stato
di Ferrara, solo pochi fogli,99 pongono forti limitazioni alla possibilità di recuperare fonti documentarie che offrano dati sulle modalità e le motivazioni
dell’acquisizione del bronzetto ducale. Non sembra,
tuttavia, casuale che la statuetta sia entrata a far parcit. a nota 46, tav. 55, 2-3; «testa di uno Bacco coronata di vite, e barba
molto ricia» (Modena, Galleria Estense, inv. 2090: cfr. Venturi, op.
cit. a nota 1, p. 81, fig. 29); «uno satiro cornuto con uno bello manto
atorno senza il brazzo destro et senza gambe assai bello» (Modena,
Galleria Estense, inv. ?, attribuito al Riccio: cfr. R. Salvini, Bronzetti
veneti al Museo Estense di Modena, ArtVen, ii, 1948, p. 108, fig. 118); «una
figuretta che fa certi sforci con le bracie et la gamba destra» (Modena,
Galleria Estense, inv. ?, bottega padovana degli inizi del xvi secolo:
cfr. Salvini, op.cit. supra, p. 106, fig. 117; L. Martini, in Piccoli bronzi
cit. a nota 46, p. 15 n. 14). Forse, oltre ad un bronzetto raffigurante
«uno tauro belissimo, manca dui piedi» (Modena, Galleria Estense,
inv. ?: cfr. Krahn, op.cit. a nota 48, p. 230), facevano parte del gruppo
anche il bronzetto di Herakles con clava nella destra e pomi delle Esperidi nella sinistra della Galleria Estense di Modena (cfr. Bode, op. cit.
a nota 46, tav. 86.2), verosimilmente da riconoscersi nella statuetta descritta nell’Inventario 1584 come «un’altra della medema invenzione,
ma non simil della testa» subito dopo un Ercole imberbe con clava e
i pomi delle Esperidi.
95 Cfr. supra, nota 95.
96 Per Roberto Canonici (1568-1631) si veda A. Superbi, Apparato
degli Huomini illustri della città di Ferrara, Ferrara, mdcxx, dedica e s.v.
Antiquari; nonché A. Borsetti, Supplemento al Compendio Historico del
Signor D. Marc’Antonio Guarini Ferrarese, Ferrara mdclxx, p. 61 sg.; L.
Ughi, Dizionario degli uomini illustri ferraresi, Ferrara, 1804, i, p. 113 sg.
Per la collezione Canonici cfr. Superbi, op. cit. supra, p. 120; M. A. Guarini, Compendio Historico dell’origine, accrescimento, e prerogative delle
Chiese e luoghi Pii della città e diocesi di Ferrara, Ferrara, 1621, p. 342; A.
Frizzi, Memorie per la Storia di Ferrara, v, Ferrara, 1809, p. 88; G. Campori, Raccolta di cataloghi e inventari inediti di quadri, statue, disegni,
bronzi, dorerie, smalti, medaglie, avori, ecc. dal secolo xv al secolo xix , Modena, 1870, p. 104 sg.; N. Barbantini, La pinacoteca del comune di Ferrara, Ferrara, 1906, pp. 21 sg., 67-99; C. Padovani, La critica d’arte e la
pittura ferrarese, Rovigo, 1954, pp. 132-136; A. Chiappini, Immagini di vita ferrarese nel secolo xvii , in La Chiesa di San Giovanni Battista e la cultura
ferrarese del Seicento, cat. mostra, Ferrara 1981, p. 48 sg.; A. M. Fiora-
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
239
te di quella che fra le raccolte ferraresi del xvii secolo
appare come la più organica e consapevole di quel fenomeno collezionistico che aveva nell’esperienza
estense il proprio modello di riferimento.
Tra le personalità più in vista della Ferrara del tardo
Cinquecento e delle prime decadi del xvii secolo,100
Roberto Canonici, «inclinato al diletto e alla bellezza
delle lettere e all’amore di ogni virtuoso» e «dilettandosi sommamente di ogni sorte di antichità, e avendone non mediocre intelligenza», fu, «si per questo effetto, come per altri affari» – come ricorda Agostino
Superbi, che nel 1620 gli dedicò la propria serie di
medaglioni dei personaggi che avevano reso illustre
Ferrara101 – al servizio di Alfonso II e del suo ruolo,
nonché della considerazione che doveva godere all’interno della corte estense, di cui offrono una significativa cartina di tornasole i doni fattigli da regnanti e cardinali importanti. Se una lettera del 30 aprile 1605
indirizzata al card. d’Este a Roma, relativa all’invio di
alcune reliquie,102 documenta i rapporti con gli Este
ancora dopo la devoluzione di Ferrara, le annotazioni
registrate nell’inventario della collezione allegato al
vanti Baraldi, La pittura a Ferrara nel secolo xvii , ivi, p. 118; A. M. Visser Travagli, Primi appunti per la storia del collezionismo a Ferrara nel
secolo xvii , ivi, p. 180 sg.; J. Bentini, Il collezionismo ferrarese: una tradizione ininterrotta, in La leggenda del collezionismo. Le quadrerie storiche ferraresi, cat. mostra, Ferrara, 1996, p. 52 sg.; Inventari d’arte, a cura di G.
Agostini, L. Scardino, Ferrara, 1997, p. 59 sg.; L. Majoli, in Il Paradiso
perduto. Per un archivio della memoria estense, cat. mostra, Ferrara 1999,
p. 21 sg.; M. Mazzei Traina, L. Scardino, Fughe e arrivi. Per una storia del collezionismo d’arte a Ferrara nel Seicento, Ferrara, 2002, p. 00. Per
il Palazzo Canonici cfr. G. A. Scalabrini, Guida per la città e borghi di
Ferrara in cinque giornate, Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, ms.
Cl. I.58, p. 85 (ricordato in A. Chiappini, Catalogo dei manoscritti di
G.A.Scalabrini conservati presso la Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara
e loro descrizione, in Giuseppe Antenore Scalabrini nel secondo centenario
della morte (Atti dell’incontro di studio Ferrara 11 dicembre 1976 = AttiMemFerrara, s. iii, xxv, 1978, p. 154 sgg. Cfr. anche G. Melchiorri,
Nomenclatura ed etimologia delle piazze e strade di Ferrara, Ferrara 1918,
p. 161; A. Mezzetti - E. Mattaliano, Indice ragionato delle “Vite de’
pittori e scultori ferraresi” di Gerolamo Baruffali, Bergamo 1981, ii, p. 137.
97 Copia del testamento cit. a nota 8, dove il bronzetto è ricordato a
p. 57. Il testamento è stato ripubblicato da Campori, loc. cit. a nota 98;
Barbantini, loc. cit. a nota 98; e in ultimo da Visser Travagli, loc.
cit. a nota 98.
98 Per l’incendio si veda Ferrara, Archivio di Stato, Archivio Canonici-Mattei, Serie Patrimoniale, busta 40, mazzo vvv: Attestati dell’incendio della casa padronale di Ferrara di giacinto Canonici, Aprile 1539. Il documento è pubblicato in E. Mattaliano, Il Baccanale di Dosso Dossi:
nuove acquisizioni documentarie, in Titian 500 cit. a nota 14, 1993, p. 363.
99 Ferrara, Archivio di Stato, Archivio Canonici-Mattei, Serie
Patrimoniale, busta 44, fasc. 3: Memorie di Roberto Canonici.
100 Per l’ambiente ferrarese del periodo, oltre a Chiappini, op. cit.
a nota 98, p. 9 sg., si veda W. Angelini, Economia e cultura a Ferrara
dal Seicento al tardo Settecento, Urbino, 1979.
101 Superbi, op. cit. a nota 98, dedica.
102 Modena, Archivio di Stato, Cancelleria Ducale, Particolari,
Roberto Canonici.
240
stefano bruni · cristina cagianelli
suo testamento ricordano come Giacomo Serra, card.
Legato di Ferrara, gli avesse donato «una Tazzetta di
terra antica» e «un vaso antico di rame», nonché altre
curiosità;103come il card. Sacchetti, Legato di Ferrara,
gli avesse fatto dono di «un vasetto di corno di Rinoceronte», che si diceva avesse virtù taumaturgiche
«contro Veneni» e «altre cose bellissime»;104 come il
Patriarca di Venezia, il card. Francesco Vendramin, gli
avesse inviato due bronzetti etruschi trovati, assieme
ad altri duecento, nel corso di alcuni lavori alla Chiesa
della Madonna della Tomba ad Adria;105 e come il
Granduca di Toscana, Francesco I, che nel 1600 aveva
cercato di acquistare l’intera raccolta Canonici,106
avesse cercato di avere, in cambio di «una croce di San
Stefano con una commenda di scudi trecento», «una
Gabieta d’Ebano, & Avorio in uno scatulino d’Argento cosa rara unica, e singolare».107
La rarità di questi oggetti e l’importanza dei donatori, unitamente alla qualità della quadreria e dei disegni che componevano la collezione,108 se, da una
parte, facevano del museo di Roberto Canonici una
raccolta di particolare rilievo, meta di «qualsivoglia
virtuoso e gran signore che capita in questa città»,
come orgogliosamente affermava Agostino Superbi
nel 1620,109 dall’altra, il museo Canonici, come si sottolineava ancora nel corso della seconda metà del
xvii secolo, «poteva stare a paragone di qualsivoglia
principe».110 Se alcuni pezzi, come il Baccanale del
Dosso ora alla National Gallery di Londra, forse proveniente dalle collezioni estensi,111 furono acquistati
103 Copia del testamento cit. a nota 8, p. 53: «Una Tazzetta di terra
antica fu trovata sopra la testa d’Antonino Imperatore, aprendosi la
sua sepoltura, & mi fu donata dal Signor Cardinal Serra, e lustre, che
pare inverniciata, e ha nel fondo alcuni bolli»; p. 58: «Un vaso antico
di rame con il manico d’honesta grandezza, assai ben fatto, fu ritrovato nel sepolcro d’Antonino Imperatore con un tal ferro, che gl’è
dentro, & una tazza di terra, mi fu donato dal Signor Cardinale Serra». Cfr. anche p. 55: «Una Scatola tonda di legname rosso lavorata di
sopra, e d’intorno di lavoro indiano, dentro segli trovano dodici scodelline poste una nell’altra, dell’istesso legno è lavorata di dentro ciasched’una d’esse, ma di differente lavoro, […], mi fu donata dall’Illustr. Sig. Card. Serra nostro Legato»; p. 59: «Un bichiero di legno
fatto à torno con il suo piede alto, di fattura più sotile della carta da
scrivere, dentro al quale gli sono quarantacinque mastelline dell’istessa qualitade, […] questo mi fu donato, dall’Illustrissimo Signor Cardinale Serra nostro Legato».
104 Copia del testamento cit. a nota 8, p. 59: «Un vasetto di corno di
Rinoceronte, che hà del bislungo, d’abasso ha un cerio d’intorno, che
gli serve per piede, del quale si partono tre rami, che formano un poco più di sopra tre fogliami, che hanno assai del bizaro, cioè uno per
parte, & uno d’avanti, dalla parte di dietro, nel spigolo di sopra gl’è
una tal cosa, che pare una vespe con le alli aperte, di dentro hà dui segni, che per la longa vanno da un capo all’altro, & uno, che và da una
parte all’altra, hà virtù mirabili contro Veneni, mi fù donato dall’Illustrissimo Signor Cardinale Sacchetti nostro Legato, con altre cose
bellissime, pesa onzie due, carati venti».
105 Copia del testamento, cit. a nota 8, p. 58: «Una figurina di bronzo
con un berrettino aguzzo in testa, hà le braccia distese alla longa della
vita, mà non hà forma di mani, ne meno di gambe, ò piedi, mà hà due
punte, che guardano inanzi con un poco di coda, che è alquanto storta, la figura è tutta piena disegni. […] Una figurina di bronzo con il
brazo drito solevato in alto, senza gambe, e piedi, mà con due punte,
che gardano inanzi con un buso nel mezo è tutta piena di segni, queste due figurine sono in una scatola, furono ritrovate nel fondare la
Chiesa della Madonna della Tomba, nella Città di Adria in una camera tutta lavorata di musaico finissimo, che mai non si è visto il più bello, appresso delle quali, gli erano tre altre, mà non così belle, e pure
seguitavano altre fabriche, le figure che erano in questa camera furro
duecento, queste due mi furono donate dal Signor Cardinale Vendramino patriarcha di Venetia, senza dubio queste furno le prime figure,
che mai furno fabbricate al Mondo, poiché si tiene, che Adria ruinasse prima del Diluvio universale, e però se bene le figure sono mal fatte, hanno da esser tenuto in grandissima stima per l’antichità loro, come anco molte altre di sopra descrite, si per la bellezza loro, come
anco per l’antichità, essendo fatte nel tempo della Repubblica Roma-
na». Su Vendramin, oltre a G. Savi, Orazione in funere Francisci Cardinalis Vendramini, Venetiis, mdcxix, si vedano le notizie in G. Moroni,
Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da San Pietro fino ai nostri
giorni, xc, Venezia, 1858, p. 181 sg. Il ritrovamento è, verosimilmente,
lo stesso di cui tratta L. Pignoria, Le origini di Padova, Padova, 1625,
p. 66, tav. tra le p. 60-61, e deve essere avvenuto prima dei lavori del
1622, di cui dà notizia A. Bocca, Annali Adriesi (1506-1649), a cura di A.
Lodo, Rovigo, 1985, p. 38. Per il tipo dei bronzetti cfr. M. Tombolani,
Osservazioni su un gruppo di bronzetti di produzione adriese, AquilNost,
xlv-xlvi, 1974, p. 57 sg.; E. H. Richardson, Etruscan Votive Bronzes. I.
Geometric, Orientalizing, Archaic, Mainz, 1983, p. 326, The Kore, Late
Archaic, Series C, Group 6.A, n. 1, tav. 234, fig. 786; e da ultimo S. Bruni, Interessi fiorentini per le antichità di Adria nel xviii e nel xix secolo, in
Commerci e produzione in età antica nella fascia costiera fra Ravenna e
Adria (Atti giornata di studi Ferrara 21 giugno 2001) = Suppl. AttiAccFerrara, lxxviii, 2000-2001, p. 67 sg., figg. 2-3.
106 La notizia è in E. Penolazzi, In memoria del compianto Don
Cipriano Canonici-Mattei Marchese di Montebigio dei Duchi di Giove, Ferrara, 1899, p. 00.
107 Copia del testamento, cit. a nota 8, p. 52.
108 La quadreria, che alla morte di Roberto Canonici avvenuta il 15
agosto 1631 contava 136 pezzi, sembra riflettere i gusti di un collezionista informato dalla lettura delle Vite del Vasari, con una netta predilezione per la pittura del Cinquecento e in minor misura del secolo
precedente, nonché una scarsissima incidenza di autori contemporanei e del tutto assenti i primitivi e opere antecedenti al Quattrocento.
Le descrizioni fornite nell’inventario allegato al testamento, corredate sovente da attribuzioni che la moderna critica storico-artistica ha
spesso confermato, presentano il quadro di una raccolta dal carattere,
per così dire, internazionale, con dipinti, oltre che dei più importanti
artisti ferraresi, di Giovanni Bellini, Giorgione, Tiziano, Tintoretto,
Veronese, Schiavone, Raffaello, Mantenga (ma rivelatosi poi Carpaccio), della scuola dei Carracci, ecc. Le stesse caratteristiche presentava
anche la raccolta di disegni, che comprendeva, oltre agli ovvi maestri
ferraresi, opere di Annibale Carracci, di Giulio Romano, del Primaticcio, di Tintoretto, del Veronese, di Mantenga, di Dürer, ecc.
109 Superbi, op. cit. a nota 98, dedica.
110 A. Maresti, Teatro genealogico et istorico dell’Antiche Famiglie &
Illustri di Ferrara, i, Ferrara, mdclxviii, p. 42.
111 Su questo cfr. Mattaliano, op. cit. a nota 100, p. 359 sg. Il quadro, pur verosimilmente proveniente dalle raccolte estensi, non è certamente il dipinto commissionato da Alfonso I per il Camerino delle
Pitture, non corrispondendo alla descrizione che di questa pittura si
ha nell’inventario della collezione Aldobrandini del 1603: cfr. da ultimo Hope, I Camerini d’alabastro cit. a nota 26, p. 84 sg. (con rifer.).
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
dopo il 1 gennaio 1627, come attesta il Codicillo aggiunto il 22 luglio 1631 al testamento redatto quattro
anni prima,112 la collezione può considerarsi già
compiutamente strutturata prima della data del testamento. E prima del 1627 l’Apollo di Alfonso II era
entrato a far parte della raccolta. In assenza di documenti non è possibile diradare l’ombra che offusca la
storia del passaggio di questo bronzetto alla collezione Canonici e le considerazioni che possono essere
fatte restano confinate in un campo altamente congetturale. Al pari di alcuni dipinti, come il ritratto di
Alfonso I del Dosso o quello dello stesso duca in età
infantile del Costa,113 anche il piccolo bronzo etrusco è verosimile che sia stato acquistato da Roberto
sul mercato ferrarese dopo la partenza di Cesare
d’Este da Ferrara, sembrando meno probabile –
quanto meno per la statuetta – pensare a un dono ricevuto dall’ultimo Duca di Ferrara in cambio dei
propri servigi.
Tuttavia, al di là di ogni considerazione, i dubbi e
le incertezze sull’acquisizione risultano aspetto di
poco momento, rientrando nella dimensione dell’aneddoto. Quello che preme sottolineare è il fatto
che Roberto Canonici si sia dato animo di avere nel
proprio museo, quale che sia la particolare storia
dell’acquisizione, il bronzetto di maggiore notorietà
delle raccolte estensi. In questa prospettiva, se non
poca parte deve aver avuto la fascinazione del
modello collezionistico della vecchia casa regnante
ferrarese subita dal Canonici nelle sue scelte, non
sembra potersi escludere, nel caso specifico, un particolare interesse di Roberto per le antichità e le testimonianze della plastica antica, quale traspare,
non tanto dai pochi pezzi di scavo presenti nella sua
raccolta,114 quanto dalle osservazioni stese a margine delle due statuette da Adria donategli dal card.
112 Copia del testamento, cit. a nota 8, p. 73 sg.
113 Per il primo cfr. A. Ballarin, Dosso Dossi. La pittura a Ferrara
negli anni del ducato di Alfonso I, Cittadella, 1994-1995, p. 364 n. 489, fig.
1: 224 (con bibl. prec.). Per il ritratto, attribuito da Carlo Volpe a Battista Dosso, si veda anche C. Cieri Via, Il Principe in maschera: i ritratti
allegorici di Dosso Dossi, in L’età di Alfonso I, cit. a nota 26, p. 170 sg., fig.
67. Il secondo, descritto come «Il Ritratto del Duca Alfonso primo di
Lorenzo Costa Ferrarese, qua.do era Bambino, ha la cornice nera» e
valutato scudi 25 nel testamento del 1632, è verosimilmente quello
che G. Baruffaldi, Vite de’ pittori e scultori ferraresi, 1697-1722, ed. a cura di G. Boschini, Ferrara 1844-1846, p. 108, ricorda in possesso di suo
padre (cfr. anche C. Cittadella, Catalogo istorico deí pittori e scultori
ferraresi e delle opere loro, Ferrara, 1782-1783, ii, p. 100. Si veda anche
Barbantini, op. cit. a nota 98, p. 10; C. Padovani, La critica d’arte e la
pittura ferrarese, Rovigo, 1954, p. 133; Mattaliano, op.cit. a nota 100,
p. 362. Per questo quadro, attualmente disperso, cfr. E. Negro, N.
Roio, Lorenzo Costa 1460-1535, Modena, 2001, p. 151 n. 143.P.
114 Cfr. supra, nota 104.
115 Cfr. supra, nota 106.
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
241
Vendramin nell’inventario allegato al testamento
del 1 gennaio 1627.115
L’incendio del 1639 – sulla cui origine grava il sospetto dell’intenzione da parte dell’erede di sottrarsi
alle disposizioni di tipo fidecommissorio imposte
con il testamento di Roberto Canonici116 – nonostante le affermazioni di storici locali di poco posteriori,117 non distrusse completamente il museo e la
galleria, sebbene la cronaca dell’incendio ricordi, pur
nella lacunosità del documento, come «la maggior
parte dei [materiali] andarono a male consumarsi dal
fuoco, ò portati via da genti di puoca coscienza sotto
gli occhi dei peritissimi uomini, et persone onoratissime, et il restante per la maggior parte gettato
senz’alcun riguardo dalle finestre restò grandissimamente dannificato».118 Giacinto Canonici ottenne
così in breve tempo da Urbano VIII lo scioglimento
dei vincoli che Roberto, suo zio, aveva stabilito con
il testamento del 1627,119 iniziando una serie di alienazioni che, unitamente ai danni provocati dall’incendio, portarono in pochi anni alla quasi totale dispersione della collezione di Roberto Canonici,
come conferma l’inventario redatto dal figlio Paris
alla morte di Giacinto nel 1655.120
A questa data l’Apollo di Alfonso II risulta già alienato e della statuetta si perdono le tracce fino all’inizio del xviii secolo, quando il bronzetto – nel frattempo ricordato del 1708 da Giusto Fontanini sulla
scorta della descrizione del Pighius,121 la cui opera
ha conosciuto una certa fortuna nell’ambiente degli
eruditi del primo Settecento, come conferma l’interesse per il volume dell’Hercules Prodicius appartenuto al Doni da parte di Filippo von Stosch122 – viene
segnalato in Olanda da Bernard de Montfaucon, che
ne dà la prima immagine nei rami del terzo volume
del L’Antiquité expliquée (Fig. 9),123 ricordando il pic116 Sulle disposizioni e le sanzioni imposte con il testamento di
Roberto Canonici si veda Mattaliano, op.cit. a nota 100, p. 361 sg.
117 Guarini, op. cit. a nota 98, p. 342; G. Baruffaldi, Dell’Istoria
di Ferrara … dall’anno mdclv fino al mdcc , Ferrara, mdcc, iiii, p. 131132; Frizzi, op. cit. a nota 98, p. 89.
118 Cfr. supra, nota 99.
119 Baruffaldi, op. cit. a nota 119, iii, p. 132; cfr. anche Mattaliano, op. cit. a nota 100, p. 363.
120 Ferrara, Archivio di Stato, Archivio Canonici-Mattei, Serie Patrimoniale, busta 49, fasc. 9: Inventario dell’eredità di Giacinto Canonici
fatta da Paris Canonici, suo erede ab erede abintestato. Cfr. Mattaliano,
op. cit. a nota 100, p. 363 sg.
121 Cfr. supra, nota 74.
122 Cfr. E. Borroni Salvadori, art. cit. a nota 71.
123 B. de Montfaucon, L’Antiquité expliquée et représentée en figures,
iii, tomo ii, Paris, 1719, p. 268, tav. clvii.: «Les athletes Hetrusques nous
conduisent à l’explication d’une figure fort curieuse trouvée en Italie,
qui est presentement en Hollande. C’est un athlete Hetrusque d’un
beu dessin; il est victorieux, couronné de laurier, orné d’un bracelet
242
stefano bruni · cristina cagianelli
Fig. 9. L’Apollo di Ferrara (incisione, 1719),
da B. de Montfaucon, L’Antiquité expliquée, tav. clvii.
Fig. 10. L’Apollo di Ferrara (incisione, 1737),
da A. F. Gori, Museum Etruscum, i, tav. xxxii.
colo bronzo nel corso della trattazione sugli atleti
etruschi. Con l’opera del Montfaucon l’Apollo di Ferrara inizia la sua fortuna moderna nella letteratura
antiquaria, prima, ed in quella propriamente archeologica, poi, comparendo in tutti i manuali relativi al
mondo antico, in genere, e a quello etrusco, in particolare.124
Se quest’ultimo aspetto non interessa in questa
sede, non sarà inutile, anche ai fini della ricostruzione delle sue vicende museali, ripercorrere per som-
qui paroit être la recompense de sa victoire; nous avons dejà vu, et
nous verrons encore dans la suite que les colliers et les bracelets se
donnoient aux victorieux. Son collier a des bulles pendantes; ces bulles
etoient une marque d’honneur, non seulement pour les jeunes
garçons de qualité, mais encore pour ceux qui triomphoient, comme
nous avons dit sur l’article des bulles. L’inscription sur la cuisse paroitroit extraordinaire, si nuos n’avions vu de pareilles inscriptions
Hetrusques sur la cuisse, et quelque fois sur les habits. Sa chaussure est
remarcable, c’est un ocrea ou un campagus». Ricorda quindi altri bronzi con iscrizioni ed in particolare un bronzetto del card. Gualtieri (tav.
clvii, seconda figura a destra) e il cosiddetto Asklepio di Bologna (tav.
clviii, in alto). Per quest’opera cfr. E. Vaiani, L’Antiquité expliquée di
Bernard de Montfaucon: metodi e strumenti dell’antiquaria settecentesca, in
Dell’antiquaria e dei suoi metodi (Atti giornate di studio = QuadAnnPisa,
ii], Pisa, 1998, p. 155 sgg.; cfr. anche A. Schnapp, De Montfaucon à Caylus: le nouvel orizon de l’Antiquité, in La fascination de l’Antique 1700-1770.
Rome découverte, Rome inventèe, a cura di F. de Polignac, J. Raspi Serra,
Paris-Lyon, 1998, p. 142 sgg.; Cagianelli, op. cit. a nota 8, p. 39 sg.
124 Cfr. supra, nota 8.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di
mi capi il suo passaggio nella letteratura antiquaria
della prima metà del xviii secolo. Ricordato da
Filippo Buonarroti nelle sue aggiunte al testo del
Dempster stampato nel 1724,125 il bronzetto è il
soggetto di una delle tavole del primo volume del
Museum Etruscum pubblicato nel 1737 da Anton Francesco Gori (Fig. 10),126 che, sia detto per inciso, riprende l’ipotesi, già proposta dal Pighius e ripresa
dal Fontanini e dal Buonarroti, che la statuetta raffiguri Apollo.127 Il celebre antiquario fiorentino conosce, a questa data, la statuetta solo attraverso la
tavola del Montfaucon, che, infatti, utilizza, modificandone alcuni particolari, per la propria incisione.
Risulta tuttavia di estremo interesse la notizia,128
già nelle Explicationes del Buonarroti, che il bron125 F. Buonarroti, Ad Monumenta Etrusca Operi Dempsteriano addita. Explicationes et conjecturae, in T. Dempster, De Etruria Regali, Florentiae, mdccxxiv, ii, pp. 12 sg., 92 nota [c]. Su Filippo Buonarroti si veda,
oltre a N. Parise, s. v. Buonarroti, Filippo, in dbi , xv, 1972, p. 145 sg.; M.
Cristofani, La scoperta degli Etruschi. Archeologia e antiquaria nel Settecento, Roma, 1983, p. 22 sgg.; D. Gallo, Filippo Buonarroti tra Roma, Firenze e Cortona, in Filippo Buonarroti e la cultura antiquaria sotto gli ultimi
Medici, Firenze, 1986, p. 9 sgg.; Cagianelli, op. cit. a nota 8, p. 38 sg.
126 A. F. Gori, Museum Etruscum exhibens insignia veterum Etruscorum Monumenta, Florentiae, mdccxxxvii, i, tav. xxxii; ii, pp. 95-96,
dove è riportato anche il passo del Pighius relativo al bronzetto. Sul
Gori si veda, oltre a F. Vannini, s. v. Gori, Anton Francesco, in dbi ,
lviii, 2002, p. 25 sg., C. Cagianelli, La collezione di antichità di Anton
Francesco Gori. I materiali, la dispersione e alcuni recuperi, «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere “La Colombaria”»
lxxi, n.s. lvii, 2006, p. 99 sgg. (con altra bibl. a nota 1); S. Bruni,
Anton Francesco Gori, Carlo Goldoni e «La famiglia dell’antiquario». Una
precisazione, «Symbolae Antiquariae» i, 2008, p. 11 sgg.; C. Cagianelli, La scomparsa di Anton Francesco Gori fra cordoglio, tributi di stima e
veleni, ibidem, p. 71 sgg.; B. Gialluca, Anton Francesco Gori e lasua
corrispondenza con Louis Bourguet, ibidem, p. 121 sgg.; C. Gambaro,
Anton Francesco Gori collezionista. Formazione e dispersione della raccolta di antichità, Firenze 2008; M. E. Masci, Picturae Etruscorum in vasculis. La raccolta Vaticana e il collezionismo di vasi antichi nel primo Settecento, Roma 2008; M. Bernardini, “Il principio non può desiderarsi
né più felice né più magnifico”. L’acquisto della raccolta Gori e la rifondazione della biblioteca dell’Università di Pisa, «Symbolae Antiquariae» ii,
2009, in corso di stampa; M. A. Morelli Timpanaro, Note su Ippolito Montelatici e su Anton Francesco Gori, i patrimoni librari e manoscritti
dei quali entrarono, nel xviii secolo, nelle biblioteche di Pisa e di Firenze,
ibidem; S.Paolinetti, L’antiquaria aretina nel Settecento attraverso la corrispondenza di G. Redi e di A. F. Gori, Firenze 2009; C. Cagianelli, Il
Settecento, in G. Camporeale e G. Firpo (a cura di), Arezzo nell’antichità, Arezzo 2009, p. 15 sgg.
127 Sulla questione cfr. infra.
128 Il rame del Museum Etruscum, non firmato, ma verosimilmente
dovuto a Vincenzo Franceschini, autore di molte delle incisioni pubblicate nell’opera del Gori, si discosta dall’immagine del Montfaucon
solo per la diversa angolazione della base – non più di tre quarti, ma
frontale – e per l’eliminazione della foglia cache-sexe, nonché per la diversa resa della faccia, più tondeggiante, e per l’errata resa della bulla
centrale della collana sul collo.
129 C. Malvasia, Marmora Felsinea innumeris non solum Inscriptionibus exteris hucusque ineditis sed etiam quamplurimis Doctissimorum Virorum expositionibus roborata et aucta, Bononiae, mdclxxxx, p. 365, fig.
ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
243
zetto fosse conservato allora in Olanda, a Leiden,
nella raccolta di Roberto de Neuwille, della quale
non si hanno molte notizie; ma non sembra un caso
che anche il bronzetto greco di età classica con dedica ad Asklepio – rinvenuto nel xvii secolo a Bologna nel fare le fondamenta per il palazzo di Annibale Ranuzzi e già nella raccolta del pittore Gioseffo
Magnavacca129 – facesse parte del museo di Roberto de Neuwille a conferma dei suoi contatti con
l’ambiente antiquario emiliano.
I rami del Montfaucon, prima, e del Gori, poi,
consacrano la fortuna del bronzo già nelle raccolte
di Alfonso II e il conte Frédérich de Thoms, una delle
più interessanti figure di collezionista e mecenate del
xviii secolo,130 quando nel 1739 entrò in possesso del
a p. 367; de Montfaucon, op. cit. a nota 125, iii, tomo ii, p. 268, tav.
clviii; di recente cfr. Thomas, op. cit. a nota 6, p. 121 sg., tavv. 73.1-2,
74, 1; M. Cristofani, Una dedica ad Asclepio da Felsina e i culti salutari
in Etruria settentrionale, AnnPisa, s. iii, xv, 1, 1985, p. 1 sg., tav. 2, con
bibl. (ora ristampato in M. Cristofani, Scripta selecta, Pisa-Roma,
2001, i, p. 297 sgg.); G. Sassatelli, L’Etruscheria e gli studi etruscologici,
in Il contributo del’Università di Bologna alla storia della città: l’evo antico,
Atti del convegno, Bologna 11-12 marzo 1988, Bologna, 1989, p. 219; G. Sassatelli, Ex voto, culti, divinità dell’Etruria padana, in Culti pagani nell’Italia settentrionale, Trento, 1994, p. 136 sg.; F. Gilotta, Note di plastica spinetica, Prospettiva, lxxvii, 1995, p. 55 nota 46, con altra bibl. Su
Gioseffo Magnavacca, nato a Bologna il 29 giugno 1639 e ivi morto il
3 giugno 1724, pittore e antiquario, si veda G. Zanotti, Storia dell’Accademia Clementina di Bologna, aggregata all’Istituto delle Scienze e delle
Arti, tomo i, In Bologna mdccxxxix, p. 187 sgg.; L. Crespi, Felsina pittrice. Vite de’ pittori bolognesi, tomo iii, Roma mdcclxix, p. 252; M. G.
Bottari - S. Ticozzi, Raccolta di lettere sulla pittura, scultura e architettura scritte da’ più celebri personaggi dei secoli xv , xvi e xvii , tomo vii,
Milano 1822, p. 44 sgg.; A. Lombardi, Storia della letteratura italiana
nel secolo xviii , tomo iv, Modena 1830, p. 63 sgg.; F. de Boni, Biografia
degli artisti, Venezia 1840, p. 597; O. Bonfait, Les tableaux et les pinceaux: la naissance de l’école bolonaise 1680-1780, Paris 2000, p. 311 sg.; «Bollettino di numismatica» 36-39, 2001, p. 269 sg.; C. E. Dekesel - Th.
Stäcker, Europäische numismatische Literatur im 17. Jahrhundert, Köln
2005, p. 327 e p. 333.
130 Per il conte Fréderich De Thoms cfr. H. L. Stoltenberg, De
vooronders van Frederick (graaf) de Thoms, NedLeeuw, lxviii, 1951, p. 84
sg.; cfr. anche W. J. J. C. Bijleveld, Boerhaaveís schoonzoon, JbLeiden,
xxxi, 1939, p. 157 sg. Della collezione esiste un catalogo redatto dallo
stesso F. De Thoms, Onuitgegeven af beelingen van eenige der voornaamste
antieke stukkenÖvoormaals behoord hebbende aan den Graeve van Thoms,
Amstelodami, mdccxxxx, con venti tavole; un catalogo manoscritto,
in francese, Les Antiquitées du Cabinet du Comte de Thoms si conserva nella Koninklijke Bibliotheek de L’Aja, ms. 72.A.20 (una copia anche presso la Bibliothèque Nationale di Parigi); cfr. H. Brunstings, Geschiedenis van het verzameien in Nederland, in Klassieke Kunst uit particulier Bezit.
Nederlandse verzamelingen 1575-1975, cat. mostra, a cura di L. ByvanckQuarles van Ufford, Leiden, 1975, p. 16, nn. 31-33, figg. 6-7; cfr. anche F.
L. Bastet, H. Brunsting, Corpus Signorum Classicorum. Museii Antiquarii Lugduno-Batavi. Catalogus van het klassieke Beeldhouwwerk in het
Rijksmuseum van Oudhedente Leiden, Zutphen, 1982, p. 56 sg. n. 118, tav.
31, p. 106 sg. n. 197, tav. 53. In part. per la raccolta di gemme ed intagli
cfr. M. Maaskant Kleinbruik, Catalogne of the Engraved Gems in the
Royal Coin Cabinet, The Hague. The Greek, Etruscan and Roman Collection,
The Hague-Wiesbaden, 1978, p. 22 sg., con bibl. prec.
244
stefano bruni · cristina cagianelli
bronzetto, in una lettera del 4 giugno – con cui informava Anton Francesco Gori dell’acquisto fatto sul
mercato antiquario di Amsterdam – si riferiva ad esso come al «famosissimo Idolo Etrusco di bronzo
con 40 o 50 lettere etrusche».131
Abbandonata la proposta del Montfaucon che,
come ricordava il de Thoms nella stessa missiva, riteneva che la statuetta raffigurasse un «Heroem sabinum», e correttamente riconosciuto in essa un
Apollo, identificazione già avanzata dal Pighius, dal
Fontanini e dal Buonarroti, al bronzetto accenna
ancora nel 1749 Anton Francesco Gori,132 che, a proposito della collezione del Conte de Thoms, ricorda
come in questa raccolta «è poc’anzi passato il
bell’Apollo Toscanico di metallo con due linee di lettere etrusche incise nel fianco e gamba sinistra, il
quale prima nella Galleria dei Duchi di Mantova si
conservava», aggiungendo che «questo Signore ha
[…] donato all’autore del Museo Etrusco i disegni di
queste sue rarità allorché si trattenne in Firenze nel
1740». Sorprende in questo caso il riferimento della
statuetta ai Gonzaga e a Mantova, i cui nomi – ripresi
ancora nel 1767 dal Guarnacci, evidentemente per influenza di questo passo del Gori133 – fanno solo ora
la loro comparsa nella storia collezionistica dell’Apollo: tuttavia, in assenza di qualsiasi riscontro a questa
notizia sia tra le carte del Gori conservate nella Biblioteca Marucelliana di Firenze, sia nelle altre opere
a stampa dello stesso, sia nella documentazione d’archivio relativa al bronzetto, sembra evidente che il
riferimento a Mantova debba essere considerato un
lapsus calami in luogo di Ferrara, fenomeno questo
non ignoto nell’opera del Gori e che potrebbe trovare analogia con il caso del Marte Corazzi cosiddetto
“di Ravenna”, recentemente segnalato.134
Alla morte del de Thoms, avvenuta nel 1746, la vedova mise in vendita la raccolta, che cinque anni dopo venne acquistata, in gran parte, da Guglielmo IV
d’Orange, andando a formare il nucleo principale
delle raccolte reali olandesi. L’Apollo di Ferrara, assieme ad un altro straordinario bronzetto di origine
emiliana, la già ricordata statuetta con dedica ad
Asklepio di Bologna, venne invece acquistato nello
stesso 1751 da Gros de Boze, antiquario di Louis XV,
131 Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo Gori, ms. b.viii.5, c.
30r. Il carteggio del de Thoms con il Gori si trova nei mss. a.cxcviii,
cc. 208r-239r; a.ccxcvi, cc. 537r-545v; b.viii.5, cc. 23r-64r. Stralci di alcune lettere sono trascritti in Documenti per la storia del collezionismo
di vasi antichi nel xviii secolo. Lettere ad Anton Francesco Gori (Firenze,
1691-1757), Trascrizioni, annotazioni e commento di M. E. Masci, Napoli, 2003, p. 164 sgg. (a p. 12 la curatrice, che sembra ignorare completamente tutta la bibliografia sul conte de Thoms, accenna cursoriamente, e non senza ampie lacune ed imprecisioni, alla biografia del
personaggio. Per i rapporti con Gori, mi limito a ricordare come il de
Thoms acquistasse dal grande antiquario fiorentino una scultura trovata a Roma, che, donata da Violante Beatrice a Francesco Bianchini,
era entrata, alla morte di questo, nella collezione del Gori: si tratta
della nota statua marmorea raffigurante una civetta con lunga iscrizione in greco sulla base (cfr. bibl. alla nota prec.), pubblicata dal Gori
nel 1743 nel terzo tomo delle Inscriptiones Antiquae (pp. lxviii-lxxii,
tav. vi) con una tavola dedicata allo stesso de Thoms (cfr. p. clv) e
l’anno successivo in un’operetta monografica dedicata sempre al
Conte de Thoms (cfr. A. F. Gori, Archatis Bubonis vatis Assoriorum Statua marmorea quae antea in Goriano, nunc in Thomsiano museo exstat
commentariolo illustrata quod illustrissimo ac nobilissimo Friderico Comiti
de Thoms monumentorum eruditae antiquitatis cultori et investigatori eximio lubens merito D.D.D. Antonius Franciscus Gorius, Florentiae, in typographio Vivianio, mdccxliv). La vendita destò un certo clamore
nell’ambiente fiorentino dell’epoca, come testimonia una lettera del
1739, in cui il Barone von Stosch esprime a Filippo Venuti tutto il proprio stupore per la cessione al de Thoms da parte del Gori di tutte le
sue antichità più belle, tra cui la «statue de marbré d’un Hiboux avec
l’inscription Grecque en bas d’un Pronosticateur de choses à venir»:
cfr. R. Engelmann, Vier Brief en Filippo und Ridolfino Venuti, ArchKultGesch, vii, 1909, p. 322 sgg.). Si riporta, a ulteriore chiarimento dei
rapporti di stima che legarono il Gori al de Thoms, i due passi dell’operetta del Gori nei quali l’antiquario fiorentino si riferisce al conte
olandese: «Postmodum vero ipse tibi Nobilissimo Comiti de Thoms,
rerum antiquarum aestimatori et conquisitori laudatissimo, ut gratiam referre, obtuli, quod mihi complura Musei tui locuplentissimi
Etrusca monumenta digna publica luce, quae proferam, egregie delineata dono dederis, quum Florentiam lustrares» (p. 4); ed ancora (p.
8): «Hoc commentariolum offero tibi, amplissime Comes, tamquam
auspicatissimam perennis obsequii mei tesseram, maiorem aliquando, ut sperare lubet, tibi daturus, dummodo studia mea humanissime
foveas atque amplifices; praesertim, vero Syntagma, quod paro, antiquorum Diptychorum, et Monumenta Etrusca, dum interim tertium
huius Operis mei Volumen in lucem prodit. His enim aliisque prisci
aevi deliciis refertum maxime est Museum tuum celeberrimum,
quod et in dies auges, eoque ita curas litterariam Republicam ornare
ac locupletare, ut nomen tuum omni laude semper sit praedicandum». Nelle lettere del de Thoms al Gori si fa sovente cenno all’invito
del conte all’antiquario fiorentino a comporre un catalogo della collezione, di cui invia i disegni dei materiali più importanti e sigillando
le missive con l’impronta delle più belle gemme della raccolta. Il 18
aprile 1741 il de Thoms comunica di aver consegnato al celebre filologo e numismatico Sigebert Havercamp, amico e corrispondente del
Gori, una «figuram Apollinis mei Etrusci, ut adjungat libris, quos tibi
mittere in animo habet» (Firenze, Biblioteca Marucelliana, Fondo
Gori, ms. a.ccxcvi, c. 537v).
132 Gori, Storia, cit. a nota 8, p. ccli sg.
133 Guarnacci, op. cit. a nota 8, p. 69: «In varie Gallerie della Germania e in Olanda si conservano illustri monumenti etrusci. Si ammira in Leida quello del Conte di Thoms, in cui oltre a molti vasi, idoli, patere, ed altro, passò il celebre Apollo tuscanico di bronzo, con
due linee di caratteri etrusci incisi nel fianco, e gamba sinistra; e che
(come è scritto) trovato in Mantova, città degli Etrusci, e da essi, come si è detto, perduta dopo i tempi di Tarquinio Pisco, era stato prima posseduto il detto Apollo dai Duchi di Mantova». Sui rapporti Gori-Guarnacci si veda Mario Guarnacci (1701-1785). Un erudito toscano alla
scoperta degli Etruschi (Atti convegno Volterra, 14-15 giugno 2002) =
RassVolter, lxxxix, 2002, part. le relazioni di G. Camporeale, C. Cagianelli, G. Cateni, M. Bonamici e E. Spalletti.
134 Cagianelli, op. cit. a nota 51, p. 367 sg. Si veda ancora G.
Colonna, Ravenna o Perugia? A proposito della provenienza del Marte
Corazzi a Leida, ACl, liv, 2003, p. 443 sgg.
appunti sul cosiddetto ‘ apollo di ferrara ’ : da alfonso ii a louis xv
245
Fig. 11. Fantasia di antichità con l’Apollo di Ferrara (incisione, 1766),
da P. H. d’Hancarville, Antiquitées Etrusques, Grecques et Romaines, i, p. 112.
per il Cabinet du Roi135 e da allora l’Apollo di Alfonso
II costituisce una delle perle più splendenti delle raccolte parigine, tanto che nel 1766 Pierre Hughes
d’Hancarville (Fig. 11) scelse proprio questo bronzetto quale exemplum emblematico per illustrare la
sua teoria artistica e l’origine della scultura antica, riconoscendo nell’Apollo la compiuta realizzazione di
quel processo creativo che secondo la sua teoria farebbe emergere la divinità dalla natura informe attribuendole i tratti di una bellezza sovrumana.136
135 Per questo personaggio si veda ora I. Aghion, Collecting antiquities in eighteenth-century France: Louis XV and Jean-Jacques Barthélemy, JHistColl, xiv, 2002, n, 2, p. 193 sgg.
136 P. H. d’Hancarville, Antiquitées Etrusques, Grecques et Romaines tirées du Cabinet de M. Hamilton, envoyé extraordinaire de S.M.Britannique en Cour de Naples, Napoli, 1766, I, p. 112. Per quest’opera cfr. Grenier, op. cit. a nota 8. Cfr. anche Lissarague-Reed, op. cit. a nota 8,
p. 275 sg. Su d’Hancarville cfr. F. Haskell, The “Baron D’Hancarville”,
an adventurer and Art historian in Eighteenth century Europe, in Past and
present in Art and Taste, New Haven, 1987, p. 32 sgg.; A. Schnapp, La
pratica del collezionismo e le sue conseguenze nella storia dell’Antichità: il
Cavaliere D’Hancarville, in La Grecia antica mito e simbolo per l’età della
grande rivoluzione. Genesi e crisi di un modello nella cultura del Settecento
(Atti convegno Salerno 11-15 dicembre 1989), Milano, 1991, p. 147 sgg.
IL “GABINETTO DELLE MINIATURE”
NELL’ASSETTO LANZIANO
DELLA GALLERIA DEGLI UFFIZI A FIRENZE
Piera Bocci Pacini · Vera Laura Verona
I
n precedenti annate di questa stessa Rivista1 sono
stati affrontati temi riguardanti l’accrescimento del
nucleo della statue della Galleria degli Uffizi e lo sviluppo del corridoio occidentale. Nel mutamento che
viene impresso da Pietro Leopoldo nei primi anni
ottanta del Settecento, oltre al completamento del
corridoio occidentale con la Sala della Niobe, significativo esempio di spazio progettato in vista della sistemazione del gruppo di statue dei Niobidi, i lavori
coinvolgono anche le sale più antiche del corridoio
orientale, nucleo originario del collezionismo scientifico e artistico mediceo, che trovava il suo fulcro nella Tribuna. Ogni singola sala viene ora legata alle altre
in un percorso continuo all’interno del quale consolida una propria specifica fisionomia. Luigi Lanzi ne La
Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata per comando di S.A.R. l’Arciduca Granduca di Toscana del 1782
precisa che «quantunque nell’uscire dalla Tribuna
possa ciascuno ripetere seco stesso quel noto verso
non vide me’ di me chi vide il vero; tuttavia non dee credere, che nulla, o poco di bello contengano gli altri gabinetti, che le succedono e il primo massimamente.
Esso è dedicato alla scultura e pittura minuta» (p. 193).
Il nuovo ordinamento leopoldino della Galleria
degli Uffizi dei primi anni ottanta del Settecento si
ispira a un piano organico che ha in Luigi Lanzi e in
Giuseppe Pelli Bencivenni i suoi ideatori. Lo studio
della Galleria è stato affrontato sia nel suo insieme
che per specifici argomenti da singoli specialisti.2
L’argomento che vogliamo trattare è quello del nuovo allestimento dato alla sala che sarà denominata
nel 1784 Gabinetto delle Miniature per l’esistenza di
un nucleo di ritrattini passati in Galleria dalla collezione del Cardinale Leopoldo de’ Medici.3
Giuseppe Pelli nel Saggio Istorico del 1779 definisce
il numero 8 della pianta della Galleria come “gabinetto delle Miniature ove già stava l’Ermafrodito” e
anticipa così la denominazione della sala ancora in
via di allestimento.4 Nella guida della Real Galleria
di Luigi Lanzi del 1782 il gabinetto risulta già sistemato ed è interessante seguire i criteri esposti dal regio
antiquario per un allestimento che obbedisce a un disegno razionale, con implicazioni ancora oggi notevoli dal punto di vista museologico-museografico.
L. Lanzi si sofferma a descrivere la saletta n. 8
(Fig. 1) adiacente alla Tribuna, ove gli strumenti di
fisica e di matematica disegnati nel soffitto ricordano la più antica utilizzazione del vano5 in vigore dal
1 P. Bocci Pacini, Le statue classiche di Francesco I de’ Medici nel giardino di Pratolino, in Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia
dell’Arte, iii Serie, viii-ix, 1985-86, pp. 151-203; P. Bocci Pacini, La Galleria delle statue nel Granducato di Cosimo III, in riasa , iii Serie, xii,
1989, pp. 221-255; P. Bocci Pacini - V. L. Verona, Lo sviluppo della Galleria degli Uffizi sotto Ferdinando II con l’incremento e i restauri delle statue
classiche, in riasa , 54, iii Serie, xxii, 1999, pp. 233-310.
2 P. Barocchi, La storia della Galleria e la storiografia artistica, in Gli
Uffizi quattro secoli di una galleria, Atti del Convegno Internazionale di
Studi (Firenze 20-24 settembre 1982), a cura di P. Barocchi - G. Ragionieri, Firenze, 1983, vol. i, pp. 49-150. C. Gasparri, I marmi antichi
degli Uffizi. Collezionismo mediceo e mercato antiquario romano tra il xvi
e il xviii secolo, in Gli Uffizi quattro secoli, cit., vol. i, pp. 217-231. D. Heikamp, La Galleria degli Uffizi descritta e disegnata, in Gli Uffizi quattro
secoli, cit., vol. ii, pp. 461-541. D. Heikamp, Zur Geschichte der UffizienTribuna und der Kunstschränke in Florenz und Deutschland, in ZKGesch,
xxvi, 1963, pp. 193-268. D. Heikamp, Le sovrane bellezze della Tribuna,
in Magnificenza alla Corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento, Milano, 1997, pp. 329-345 con bibliografia precedente. W. Prinz,
Die Sammlung der Selbstbildnisse in den Uffizien, Berlin, 1971.
3 Le miniature sono state indagate di per sé da S. Meloni Trkulja
e da M. Casarosa nell’attuale sistemazione agli Uffizi. S. Meloni
Trkulja, Le miniature degli Uffizi, in Gli Uffizi, cat. gen., Firenze, 1979,
pp. 1167-1172 e qui nota 17. M. Casarosa, La collezione granducale delle
gemme dal Settecento ad oggi, in Arte illustrata, vi, 54, 1973, p. 286 sgg.
Vedi anche qui nota 20.
4 Pelli testimonia i preparativi per la nuova sistemazione della sala: «Serbasi sempre lo stipo che in 60 quadretti contiene una copiosa
serie di piccoli ritratti miniati di varie qualità. Altri sciolti ho fatto
adattare in quadretti». G. Pelli Bencivenni, Saggio Istorico della Real
Galleria di Firenze, Firenze, 1779, vol. ii, p. 256, nota 9.
5 D. Heikamp, L’antica sistemazione degli strumenti scientifici nelle
collezioni fiorentine, in Antichità Viva, ix, 6, 1970, pp. 3-25. P. Galluzzi,
Il mecenatismo mediceo e le scienze, in Idee Istituzioni Scienza e Arti nella
Firenze dei Medici, Firenze, 1980, pp. 189-214. M. Bacci, Le collezioni
scientifiche, in Gli Uffizi. Storia e Collezioni, prefazione di G. C. Argan,
presentazione di L. Berti, Firenze, 1983, p. 244 sgg. P. Bocci Pacini,
Un progetto di Giuseppe Del Moro per una Sala di Galleria, in Governare
l’arte. Scritti per Antonio Paolucci dalle Soprintendenze Fiorentine, Firenze 2008, pp. 213-227.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 247-280
248
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 1. Pianta da Lanzi.
1599 al 1635; gli strumenti nel 1677-82, oltremodo
accresciuti per i lasciti di Mattias de’ Medici e del
Cardinale Leopoldo, che li aveva studiati, oltre a
quelli di Robert Dudley, vengono spostati da questa
stanza un tempo denominata delle matematiche
sull’antica terrazza, chiusa nel 1589 e dal 1613 diventata sala delle carte geografiche. La sistemazione
del nuovo gabinetto viene progettata accostando le
miniature moderne a piccole sculture classiche.
Questo abbinamento segue il gusto, già espressione
dei vecchi direttori G. Querci e R. Cocchi, che continuava ad associare antico e moderno perché una
classe di materiali «può servire di ornamento all’altra».6 Lo spazio scelto per la realizzazione di questo
progetto è la piccola sala (m 6 × 3) in cui negli anni
immediatamente precedenti erano stati esposti qua-
dri, bronzetti e statue di piccolo formato su scaffali
e in armadi e, dal 1704, la statua dell’Ermafrodito al
centro. Il riordinamento di età leopoldina implicò
anche modifiche strutturali nella distribuzione delle
stanze, con mutamenti riconoscibili a posteriori
nella pianta del Ruggieri (1742), da cui si evince che
la sala aveva un accesso sul corridoio orientale ed
era divisa dalla Tribuna dalla scaletta che portava al
teatro. Nella nuova sistemazione, dovuta all’architetto Zanobi Del Rosso, vengono aperte le porte (v.
nota 29) che la rendono comunicante con le sale
adiacenti, come del resto accade per le altre stanze
affacciate sul corridoio orientale. La Memoria del
Pelli inerente al nuovo piano per la Galleria informa
come «la stanza ove era l’Ermafrodito, quantunque
luminosa, per la sua figura lunga potrebbe conte-
6 agu, Filza ii, 1769-70, 46.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
249
nere le miniature e le piccole sculture e i lavori a
sti, quali la c. d. Cleopatra e la c. d. Livia, visto che il
scagliola».7
ruolo primario della scena cominciava a essere svolto
Il Gabinetto viene ora adibito alla scultura e alla
dalle statue e principalmente dalla Venere dei Medici.
pittura minuta, «genere così separato dagli altri
Al precedente e progressivo arricchimento della sala,
com’è il talento per riuscirvi»;8 la precisazione è incolma di oggetti preziosi, seguirà in epoca neoclassiteressante perché Lanzi evidentemente ritiene queca lo smembramento dei materiali considerati minosti oggetti antichi e moderni parte di un ‘genere’ a sé
ri e la conseguente irrimediabile perdita della facies
stante da inserire fra le arti minori. Egli vuol mettere
cinque-seicentesca di questa Wunderkammer.
insieme piccole sculture di ascendenza classica con
Oltre alla Tribuna il Ricetto decorativo dell’inuna serie di miniature dell’eredità del Cardinal Leogresso dalla scala buontalentiana, uno dei cardini
poldo, facendo un accostamento tra la scultura rodella sistemazione di Cosimo III, risulta ugualmente
mana miniaturizzata e le pitture moderne miniatusuperato per gli accostamenti ornamentali entro inristiche. In realtà tra le sculture romane sono anche
crostazioni marmoree di pezzi appartenenti a classi
inclusi Eroti di proporzioni normali, per cui questa
diverse, come epigrafi e frammenti di sarcofagi misti
divisione risulta parzialmente impropria. Si può tuta ritratti e sculture moderne e antiche. Questo tipo
tavia apprezzare l’interesse dimostrato dal Lanzi per
di musealizzazione diffuso in dimore patrizie, in cui
l’artigianato minore in pietre dure e la continuità
i marmi antichi erano inseriti in strutture architettonell’accostare il moderno con l’antico, avvicinando
niche o in un’artificiale ambientazione decorativa,
ritratti di personaggi famosi in miniatura con bustini
viene ormai abbandonato per una nuova valutaziodi divinità e di imperatori, che si rifanno rispettivane del pezzo antico classificato ‘scientificamente’. In
mente a prototipi della grande pittura e della grande
effetti non si ha più in stima l’assemblaggio fogginiascultura, miniaturizzati a scopo decorativo.
no del vecchio Ricetto e si pensa di fornire un nuovo
Per la creazione di questa saletta e per il suo arreingresso alla Galleria dalla parte di levante prolundo saranno scelti determinati pezzi dagli ambienti
gando la scala vasariana.
più prestigiosi della Galleria, tra cui la Tribuna, l’ArQuesti mutamenti della Galleria non passano
meria, la sala di Madama, il Ricetto in cima alla scala
inosservati neanche ai contemporanei e specialmenbuontalentiana, la sala dei Vasi Etruschi nonché
te all’avvertito e colto ambiente inglese della Firenze
Palazzo Pitti. Questa osservazione basta di per sé a
dell’epoca, come si può cogliere dalla corrispondenevidenziare quanto radicale sia stata la trasformazioza di Sir Horace Mann:10 «You would not know the
ne della Galleria all’epoca di Pietro Leopoldo di
Gallery in the present transformation of it». Con
Lorena. Disinvoltamente vengono tolti dalla Tribugrande sensibilità egli capta la rivoluzione cui è sotna «il Morfeo bello» e «il Morfeo con 4 ale» che erano
toposta la Tribuna: «by these means the Tribuna is
ai lati della porta, secondo il disegno di G. Bianchi
perforated. The octagon table is removed and only a
nel Catalogo Dimostrativo9 (Fig. 2), insieme con l’Erfew principal statues and pictures remain in it. All the
cole bambino che strozza i serpenti, acquisito dal
hidden scaffali are taken away». L’assetto dei corridoi
Granduca Francesco I, e il Neroncino dell’eredità del
non è stato snaturato, tuttavia i muri dietro alle staCardinale Leopoldo.
tue e ai busti «are covered with bad pictures, and striDopo l’arrivo delle grandi statue classiche all’epokes one with the idea of a magazine or an upholsteca di Cosimo III la sinfonia della Tribuna aveva subito
rer’s shop». Viene anche criticato lo smantellamento
una sua violenta drammatizzazione, per cui gli acdell’Armeria per fare delle brutte stanze e si irride alcordi di prima erano mutati e si potevano così togliel’uso di vendere i materiali medicei all’asta.11 Infine
re alcuni arredi, come anche asportare alcuni dei bula Sala di Niobe, l’espressione più rappresentativa
7 agu, Filza xiii, 1780, 30. Cfr. anche asf, mf a 323, 18 aprile 1780,
in M. Fileti Mazza - B. Tomasello, Galleria degli Uffizi 1775-1792. Un
laboratorio culturale per Giuseppe Pelli Bencivenni, Modena, 2003, p. 155.
8 L. Lanzi, La Real Galleria di Firenze accresciuta e riordinata per
comando di S.A.R. l’Arciduca Granduca di Toscana, in Giornale de’ Letterati, 1782, p. 193.
9 P. Barocchi - G. Gaeta Bertelà, Per una storia visiva della
Galleria fiorentina. Il Catalogo Dimostrativo di Giuseppe Bianchi del 1768,
in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, s. iii, xvi, 4, 1986, pp.
1117-1230.
10 The Yale Edition of Horace Walpole’s Correspondence, a cura di W.
S. Lewis, New Haven, 1971, vol. ix, pp. 168-171, in particolare la lettera
di H. Mann del 24 luglio 1781.
11 In effetti la signora Damer e W. Beckford, autore del diario di
viaggio Italy; with Sketches of Spain and Portugal, pubblicato a Londra
solo nel 1834, sono scandalizzati da questa consuetudine fiorentina; a
titolo esemplificativo si fa riferimento all’acquisto delle trine poste a
coprire le sedie che, cucite insieme, sono diventate una magnifica
tovaglia.
250
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 2. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxii a).
della sistemazione leopoldina e del gusto neoclassico, incorre nelle critiche più accese sia per il costo eccessivo, sia per il suo aspetto «like an appurtenance
to a Church», sia per la dislocazione dei Niobidi, non
più raccolti in gruppo ma distanziati e sparsi, che appaiono come «our Riot Act». A questo giudizio fa
eco J. Waldie che nei suoi Sketches of Italy li paragona
a «opera-dancers practising to die gracefully»12 e anche in Italia A. Fabroni condivide: «i Niobidi pajon
tanti pazzi».
Ritornando al nostro argomento possiamo notare
che quello che in età leopoldina sarà il Gabinetto delle Miniature era in precedenza denominato sala
dell’Ermafrodito, in quanto vi era posta la statua giacente sul letto, decorato con statuette in legno dorato inserite in nicchie, che segnava uno degli acquisti
più vistosi effettuato da parte di Ferdinando II a Roma della collezione Ludovisi, grazie alla mediazione
del Cardinale Leopoldo. A questo marmo si era aggiunto in età successiva alla morte del Cardinale un
mobile, prezioso scrigno di miniature, rimasto in un
primo tempo a Palazzo Pitti, come del resto molti altri oggetti della collezione, che vengono acquisiti a
mano a mano a seconda dell’interesse che suscitano
al momento. Nonostante questi due pezzi significativi, Ermafrodito e mobile dell’eredità del Cardinale,
la stanza non doveva avere un aspetto particolarmente attraente, secondo quanto testimoniano le parole
di E. Gibbon, viaggiatore inglese13 che nel 1764 così
la descrive: «Le mura di questo piccolo gabinetto sono tappezzate di quadri e gli scaffali coperti di frammenti di scultura o di bronzo, accolti tutti senza mol-
12 J. Waldie, Sketches of Italy, London, 1820, vol. iv, p. 35.
13 E. Gibbon, Viaggio in Italia, Milano, 1965, p. 178. La testimonianza di questo viaggiatore, che soggiorna a Firenze nel 1764, è ricordata
anche in D. Heikamp, Le Musée des Offices au xviii siècle, un inventaire
dessiné, in L’Oeil, clxix, 1, 1969, p. 2 e nella Mostra storica della Tribuna
degli Uffizi, premessa di L. Berti, catalogo di S. Rudolph - A. Biancalani, Firenze, 1970, p. 27.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
251
Fig. 3. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxvii a).
ta critica né scelta. Il numero di quelli che appaiono
veramente buoni o antichi è di pochissimo rilievo».
La descrizione del Gibbon conferma come l’allestimento sia sempre quello descritto nel Ragguaglio
del 1759 da G. Bianchi,14 che nel Catalogo Dimostrativo
del 1768 fa uno schizzo della sala con l’arredo (Fig. 3):
del Cardinale Leopoldo risultano una statua di marmo di Priapo15 e il mobile denominato «la Galleria di
viaggio». Il Priapo viene descritto dal Marchese de
Sade durante la sua visita agli Uffizi: «Si vede anche,
sempre in questa stanza [dell’Ermafrodito], il famoso
Priapo, un oggetto antico raro e ben conservato. A
far da piedistallo è un leone, emblema della forza; la
statua consiste tutta di un priapo o membro virile,
ma di così prodigiose dimensioni che è possibile vederla senza indovinarne il senso. In alto si scorge la
parte peculiare del sesso femminile che sembra adattarvisi, senza dubbio un’allusione all’operazione praticata su questa statua dalle ragazze e dalle donne che
le erano devote. Questo marmo è situato dietro la
porta, coperto da una testa di leone di cartone, e non
viene mostrato se si è in compagnia di persone giovani di cui si tema di risvegliare l’immaginazione,
anche se in verità ritengo che la donna meglio edotta
potrebbe vederlo senza comprendere, ed è necessario essere prevenuti per riconoscere la figura».16 A
14 G. Bianchi, Ragguaglio delle antichità e rarità che si conservano
nella Galleria Mediceo-Imperiale di Firenze, Firenze, 1759, pp. 222-223.
15 Il Priapo del Museo Archeologico (M.A.) 13973 da Antiche Collezioni, neg. fot. 50119 si trova oggi nella Villa Corsini a Castello (vedi
I marmi antichi conservati nella Villa Corsini a Castello, a cura di A. Romualdi, Città di Castello, 2004, n. 46 e anche Villa Corsini a Castello, a
cura di A. Romualdi, Firenze, 2009). Nel 1687 secondo quanto
testimonia il documento in asf, gm 932, c 237 era ancora a Palazzo
Pitti e così è nel 1688 secondo asf, gm 741. Segnalato nell’eredità di
Leopoldo, arriva nel 1771 in Galleria. Vedi G. Capecchi, La collezione
di antichità del Cardinale Leopoldo de’ Medici: i marmi, in Atti e memorie
dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere La Colombaria, xliv, 1979, pp.
125-145. Altri pezzi leopoldini come la famosa anfora dipinta sono
segnalati dal Bianchi nella sala dei Vasi Etruschi.
16 D.A.F. de Sade, Viaggio in Italia, Torino, 1996, p. 32. Il viaggio
a Firenze risale al 1775.
252
piera bocci pacini · vera laura verona
proposito del mobile invece il disegno del Bianchi
suggerisce una cassa leggera sorretta da lunghi piedi
a mo’ di cavalletto; è noto nella letteratura l’amore
che Leopoldo nutriva per i ritratti in miniatura che lo
seguivano nei viaggi e anche in conclave. Per Magalotti questa raccolta era il merito maggiore del Cardinale. G. Bianchi riprende la prima formulazione del
concetto di galleria di viaggio che si deve a Paolo del
Sera. Questi, mercante veneziano e collezionista,
suggeriva a Leopoldo nel 1664, dopo un reciproco
scambio di un elenco di 20 ritrattini, l’idea di raccogliere tali miniature in «uno stipetto bizzarro che fosse come una Gallerietta di simili cose».17 Questo genere di microcollezionismo segue il gusto più intimo
e domestico del connoisseur per il quale i ritrattini,
«doppo la stanchezza de’ gravi negotij, servono di
gran divertimento, e senza muoversi di sedia, e senza
disturbi si possono ad uno ad uno godere, mettendo
a fronte l’una maniera con l’altra, con grandissima
sodisfatione, e diletto, oltre che comodamente si trasportano per le ville, e si riportano, il che non si può
fare delle cose grandi».18 Non sembra che all’epoca
della suddetta lettera il Cardinale avesse già il mobile,
di cui invece parla nella lettera senza data a Giovan
Battista Bolognetti, dove dichiara che i ritrattini sono
«accomodati in uno stipo in modo singolare, et anco
ricco».19 La realizzazione di questo mobile si può presumibilmente porre intorno al 1672 quando Paolo del
Sera, poco prima di morire, insiste su «quel pensiero
altre volte avuto» e che «né mai ho potuto adempiere
per mancanza di numero» (di ritrattini), cioè di fare
«una Gallerietta in uno stipetto che sarebbe cosa ammirabile e regia».20 A questa data, accrescendo infatti
la propria collezione di miniature con l’acquisto della
raccolta di Paolo del Sera, Leopoldo realizza il progetto di costruire un mobile apposito.
Lo stipo di Leopoldo si colloca come un estremo
esemplare rispetto alla serie degli imponenti studioli
dei vari membri della famiglia medicea, di cui si sono
avute le rappresentazioni più vistose nel mobile erudito di Cosimo I e nel tempietto ottagonale, cuore
della Tribuna di Francesco I, poi sostituito dallo studiolo di Ferdinando I altrettanto imponente e signi-
ficativo posto nella nicchia di fronte all’entrata della
Tribuna. Tali studioli vistosi e ingombranti, che spesso insieme ai tavoli di pietre dure definivano un ambiente, non appaiono più congeniali. Da una parte ci
sono le proporzioni pesanti e dall’altra non sembra
più consono ammucchiare pretiosa di epoche e tipi
diversi in uno stesso mobile-museo. Lo stipo di Leopoldo, più leggero e intimo, accoglie con vistosa anticipazione una sola ‘classe’ di oggetti; del resto Leopoldo aveva già fatto suddividere le monete dal
Fitton, considerandole un genere separato, cui aveva
dedicato uno stipo di ebano con sportelli, suddiviso
in due parti con 128 cassetti a tirella con bottoncini
d’argento (asf, gm 826, c 99, n. 3070). I due mobili sono assai simili, tanto che il Marchese de Sade nel diario del suo viaggio in Italia (vedi nota 16) menziona
il mobile con le miniature e significativamente lo
chiama «medagliere», aggiungendo che Leopoldo
portò con sé i quadretti anche in conclave per ornare
la sua cella.21 I precedenti studioli granducali del resto accoglievano nei cassetti monete antiche, con
una predilezione per le serie imperiali, e per le moderne di uomini illustri e «padroni delle città».22 Nel
nostro caso le miniature assolvono il compito, altrove delegato alle medaglie moderne, di ricordare gli
uomini illustri come pendant ai busti antichi di dei e
di imperatori. Il quadro di Giulio Pignatta, raffigurante Andrew Fountaine e i suoi amici in Tribuna,23
mostra dal vivo il significato e l’importanza del mobile inteso come contenitore di oggetti preziosi, che
attira principalmente l’interesse dei virtuosi intenti
ad ammirare un tiretto colmo di monete, appoggiandosi negligentemente sulle tre Veneri classiche,
descritte da E. Wright nel 1721-22: «What they always
reserve for the Buon Boccone, to make up your mouth
with, is the glorious octangular Room called the Tribuna, inhabited by Goddesses […]. Round the Table
of Lapis Lazuli stand six admirable Statues, all of
white Marble; three of them are of Venus, in different attitudes: One of them soon distinguishes herself to be the Venus of Medicis, so well known by the
Copies in England, and all over Europe […]. If the
other two have not so many Beauties as this, they
17 S. Meloni Trkulja, Leopoldo de’ Medici collezionista, in Paragone, 1975, n. 307, pp. 25-26.
18 asf, Carteggio d’Artisti, vi, cc 131r-v, già in Prinz, op. cit. a nota
n. 1, e in Meloni Trkulja, art. cit. a nota n. 17, p. 26.
19 asf, Carteggio d’Artisti, xviii, 1, cc 538r-v, già in Prinz, op. cit.
a nota n. 1, doc. 1, p. 165 e in Meloni Trkulja, art. cit. a nota n. 17,
pp. 24-25.
20 M. Fileti Mazza, Notizie su Paolo del Sera e Marco Boschi, in P.
Barocchi, Il Cardinale Leopoldo, Milano-Napoli, 1987, vol. i, p. 51 sgg.
e doc. 3581, pp. 96-97.
21 de Sade, op. cit. a nota n. 16, p. 32.
22 L. Lanzi, Viaggio nel Veneto, a cura di D. Levi, Firenze, 19841988, p. 89.
23 B. Ford, Sir Andrew Fountaine, One of the keenest Virtuosi of his
Age, in Apollo, cxxiii, 1985, pp. 352-363.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
253
have more than are to be found in most others […]:
mello, con una nappa di seta e fili d’argento. Ogni
Venus Urania, which stands on the left hand of it
cassetto consiste in un quadretto, coperto per di so[…]; Venus Victrix which stands on the right».24
pra di velluto nero; una volta tirato fuori il quadretQuesto genere di arredo non risponde più al gusto
to, Gibbon può osservare una piccola cornice in cui
classificatorio dell’epoca illuministica che divide gli
sono incastonati in argento su un fondo di velluto azoggetti per serie, per cui gli antichi mobili saranno
zurro nove piccoli ritratti, il più grande dei quali è
allontanati dalla Galleria. Allo stipo di Leopoldo sarà
posto al centro. L’inventario precisa che i ritratti soriservato un trattamento particolare, che oggi pono «aovati, tondi e quadri in rame e carta di più grantrebbe essere definito di rifunzionalizzazione: esso
dezze… con cristalli sopra», o ancora «esangoli o otsarà disfatto e il suo contenuto esposto sulle pareti
tangoli», secondo le parole dello stesso Leopoldo
del nuovo Gabinetto delle Miniature. E. Gibbon può
nella citata lettera al Bolognetti (v. nota 19). Gibbon
essere considerato uno degli ultimi ad aver ammiraricorda che nel mobile erano custodite 540 miniatuto il mobile nella sua integrità. Più che lo schizzo di
re, numero probabilmente non verificato, ma preG. Bianchi che risulta fuorviante, la descrizione di
sunto da calcoli matematici (60 × 9 = 540), mentre G.
Bianchi ne ricorda 530 (Fig. 3), l’inventario del 1753 ne
questo viaggiatore illumina sulle peculiarità del
menziona 520 e 511 quello del 1769. Nel Gibbon, da
mobile e sui modi della sua fruizione. Per rappresenquello storico che diventerà, cogliamo una valutatarne l’aspetto servono anche le descrizioni degli inzione dei ritratti miniati molto più accurata e critica
ventari della Galleria del 175325 e del 1769,26 che replirispetto ai toni enfatici del Pelli: egli ritiene che il locano il n. 3190 di asf, gm 826, c 101, dove è citato in
ro valore sia sminuito dalla mancanza di cartellini
data 20 febbraio 1676 lo stipo de’ ritrattini restato in
con nomi di identificazione e nota una varietà cronocamera di S. A. Serenissima dopo la morte del Cardilogica dei pezzi in base al costume.27 Un’idea visiva
nale Leopoldo: “Uno stipo d’ebano a sportelli con
di come doveva apparire lo stipo si può ricavare dal
mastiettature d’argento, contiene dentro numero 60
mobile ottocentesco conservato al Museo Archeolocassette con ritrattini, con campanella d’argento alle
gico, nel quale era custodita la collezione granducale
dette cassette e rosetta simile, alto b 1 s 9 largo b 2 1/6
di glittica, sia per la struttura con sportelli intarsiati
grosso 7/8, nelle quali cassette vi sono più e diversi
in argento, sia per la fitta schiera di cassettini all’inritrattini come appresso”. Gli inventari della Galleria
terno.28
ricordano uno stipo impiallacciato d’ebano, alto cirDagli inventari ricaviamo che dal 1781 il mobile del
ca 90 cm e largo un metro e mezzo, sorretto da un
Cardinale Leopoldo sarà rimesso alla Guardaroba;29
piede di pero intagliato, tinto di nero. Il mobile è coevidentemente questa data può indicare come alperto da due sportelli con chiusure in trafori d’argenl’epoca il Gabinetto delle Miniature fosse già allestito e paletti. Quando Gibbon visita la sala gli vengono
to o in via di allestimento. Nel 178030 infatti «la Galaperti gli sportelli da un custode ed egli si trova daleria rimanda alla Guardaroba un palchetto di legno
vanti a 60 cassettini, ciascuno munito, secondo gli inretto da alquante mensole intagliate e venate d’oro
ventari, di una rosetta d’argento, a fungere da po24 E. Wright, Some Observations Made in Travelling through France,
Italy, & c. in the Years 1720, 1721 and 1722, London, 1730, vol. ii, p. 405
sgg.; V.L. Verona, dalla tesi di dottorato Le vicende delle sculture antiche degli Uffizi attraverso la letteratura odeporica e il fenomeno del Grand
Tour, vol. i, p. 80 e vol. ii, pp. 259-263.
25 bu, ms 95, inv. 1753, n. 1493. Cosimo III ha nuovi apporti (Meloni Trkulja, op. cit. a nota n. 17, p. 26) e così Vittoria della Rovere e
Violante di Baviera.
26 bu, ms 98, inv. 1769, n. 2378.
27 Un altro illustre visitatore, l’imperatore Giuseppe II, si sofferma
invece su aspetti più lievi ed esteriori: «Nella stanza dell’Ermafrodito,
osservando sempre S.M.C. con la stessa attenzione le cose più singolari, gli è stato fatto vedere, nello stipo dei ritratti, quello che nella cassetta prima è collocato al n. 4 e che rappresenta un ritratto di femmina creduta una delle favorite di Carlo II re d’Inghilterra, miniata da
Arlaud da un originale di Pietro Lillo e sopra del quale, nella sua venuta del dì 22 aprile 1769, si era trattenuto ad ammirarne la bellezza,
ed ha confermato ora che veramente questa donna era d’un’avvenenza che incontrava il suo genio». agu, Filza viii, n. 23 e bncf, n.a. 1050,
Efemeridi, s. ii, iii, c 473v, 7 giugno 1775, in Fileti Mazza-Tomasel-
lo, op. cit. a nota n. 7, pp. 122-123. Viene ripresa la stessa segnalazione
presente nel Catalogo Dimostrativo (Fig. 3).
28 A. Giuliano, I cammei della collezione medicea nel Museo Archeologico di Firenze, Firenze, 1989, p. 61 e per un mobile simile al Museo
Archeologico di Rimini cfr. Storia e Archeologia per un Museo, 1980,
tav. lxv. Sulle gemme del Cardinale Leopoldo si veda anche M.E.
Miche li, Storia delle collezioni e regesto, in Giuliano, op. cit. a nota n.
28, pp. 300-301 con elenco dell’eredità di Leopoldo (asf, gm 826).
29 bu, ms 98, ii, 4, Giornale, c 746: 14 Agosto 1781, Filza xiii, 75:
«Ricevuta della Guardaroba alla Galleria di uno stipo impiallacciato
d’Ebano convi 60 quadretti di miniature». 16 agosto: «Altra fatta alla
Galleria di porte di noce impiallacciate, ivi a 58». Durante la ristrutturazione leopoldina viene infatti aperta una serie di porte fra le sale
del corridoio orientale, tra cui le porte del Gabinetto delle Miniature. Nella pianta del Ruggieri del 1742 si vedono ancora delle aperture
intermittenti; con Pelli e con Lanzi si aprono queste tre sale che riprendono simmetricamente il percorso aperto delle sale dell’Armeria, dal lato opposto della Tribuna.
30 agu, Filza xiii, 65.
254
piera bocci pacini · vera laura verona
che si rigira attorno alla stanza dell’Ermafrodito su
cui posavano dei bronzi», avallando così la testimonianza di Gibbon (vedi nota 13) e di G. Bianchi. Secondo l’ordine di S.A.R. le miniature dovevano essere estratte dai cassetti e messe in vista «affinché il
pubblico ne godesse». Lanzi si trova ora davanti al
delicato compito di esporre i ritratti in miniatura
contestualizzandoli con le statuette e i bustini. Egli
non ha ancora approfondito la trattazione della storia pittorica secondo una suddivisione per scuole,
ma agisce da antiquario eseguendo una classificazione per tipologia. Si deve presumere che si sia proceduto a un disegno preparatorio secondo uno spirito
di simmetria che Lanzi stesso considerava utile «ad
accrescere mirabilmente la comparsa e la stima dei
pezzi», in modo da alternare sulle pareti le miniature
con le statue classiche, che sarebbero state inserite in
piccole nicchie, venute alla luce nel 1970 nei lavori di
riordino della Tribuna e dell’annessa Saletta xvii, e
quindi databili in età leopoldina.31 Lanzi nelle nicchie riprende una tradizione e una tematica che affondano le radici nel Rinascimento. Del resto lo stesso Lanzi considerava come il metodo più sicuro
consistesse nel prendere spunto «da qualche buona
stampa o imitargli da’ musei migliori di Roma». A
Roma infatti erano frequenti gli esempi di pareti nicchiate per statue in palazzi e cortili e a Firenze restava il ricordo del primo antiquarium di Cosimo I nella
Sala delle Nicchie a Palazzo Pitti. Gli architetti rinascimentali avevano voluto anche visivamente riprodurre l’effetto dei grandi edifici romani, decorati da
statue inserite in absidi ed esedre, come si può per
esempio vedere in un disegno di Marten van Heemskerck rappresentante Villa Madama.32 Anche nei
grandi mobili medicei del resto si potevano vedere
bronzetti e busti di imperatori romani inseriti in nic-
chie, come nel mobile-museo di Cosimo I.33 Questo
modulo a nicchie continua nel tempo, tanto che nel
Guardaroba relativo alla morte del Cardinale Carlo
Decano (gm 779 del 1666) è segnalato a Villa Medici
uno «studiolo grande rabescato nero e oro all’indiana con 22 nicchie entrovi 29 statuine di metallo dorate di più grandezze che 3 essendo state rubate».
Proprio per questo ricordo classicheggiante delle
nicchie, pur avendo spostato la statua dell’Ermafrodito, il suo piedistallo ligneo viene mantenuto al centro della sala a sorreggere un Morfeo di dimensioni
minori. Quindi il modulo a nicchie della sala sembra
quasi ispirarsi a questo letto in cui erano intagliate le
armi del Cardinale Ludovisi e inserite 10 figurine
dorate entro una serie di nicchie con colonnette. Il
piedistallo, che probabilmente data al momento del
restauro dell’Ermafrodito nel 1623 e che poteva rappresentare le più famose statue Ludovisi34 nelle figurine lignee dell’Apollo con lira, dell’Afrodite con
Eros, del Bacco con uve, del Saturno con putto, di
Diana con arco fino a Marte, Ercole e alle teste di
Giove e Nettuno,35 riprodotte anche nelle incisioni
del Perrier, enfatizza come in un gioco di specchi il
motivo ispiratore della sala36 (Figg. 4 a-b).
Nelle pareti del gabinetto le nicchie dovevano avere dimensioni diverse per adattarsi alle sculture e ai
busti ed essere disposte una sopra l’altra a creare delle file che Lanzi definisce «liste». Questo intervento
alterava in modo definitivo la sistemazione precedente con scaffali e palchetti, come ricordavano E.
Gibbon e G. Bianchi (Fig. 5). F. Zacchiroli nel 1783 attesta: «on a ensuite creusé dans la muraille une grande quantité de niches, dans les quelles son placés
vingt-une petites statues, et vingt-trois petits bustes
en marbre».37 «Lo spazio compreso fra le due liste è
rivestito di quadretti con cornici d’ebano e in essi
31 Mostra storica della Tribuna degli Uffizi, op. cit. a nota 13, p. 6: «Il
riordinamento della Tribuna si connette con quello dell’adiacente Saletta xvii che è stata restaurata a cura di Nello Bemporad. Qui abbiamo avuto la sorpresa anche di un recupero, perché durante i lavori è
stato scoperto tutto un ordine di piccole nicchie affrescate in finto
porfido, come le basi delle statue che sono posteriori, che aprendosi
lungo le pareti caratterizzavano nettamente questo ambiente. Nel
fregio di base e nel soffitto (a stoia affrescata) c’è tutta una serie di
strumenti meccanici … che si riferiscono alla prima testimoniata destinazione dell’ambiente, creato al tempo di Ferdinando I». Le nicchie
affrescate a finto porfido segnano un uso posteriore che ritroviamo
espresso anche sulle basi delle statue dei corridoi.
32 E. Filippi, Maarten van Heemskerck. Inventio Urbis, Milano, 1990,
tavv. 4, 42.
33 Vedi A. M. Massinelli, Magnificenze medicee: gli stipi della Tribuna, in Antologia di Belle Arti, ns. xxxv-xxxviii, n. 5, 1990, pp. 111-134.
34 B. Palma, I marmi Ludovisi: storia della collezione, in Museo Nazionale Romano, a cura di A. Giuliano, Roma, 1983, i, 4, doc. 11: Inven-
tario 2 novembre 1623, n. 50 «Una statua di Ermafrodito a giacere attorno ad una coperta d’ermisino rossa ricamata d’oro». Per l’Ermafrodito vedi I marmi Ludovisi dispersi, in Museo Nazionale Romano, op.
cit., Roma, 1986, i, 6, n. 111,4, p. 105.
35 L. Giovannini, L’acquisto di marmi Ludovisi per la Galleria degli
Uffizi, in Annali della Fondazione Longhi, i, Pisa, 1984, pp. 139-164 con
appendice n. 5. La descrizione del piedistallo è acclusa in una lettera
di Leonardo Agostini al principe Leopoldo del 1669.
36 Giovannini, art. cit. a nota n. 35, p. 163 presenta la foto del letto
tinto di un marrone brunito su cui era tornato a riposare l’Ermafrodito nella sala delle Iscrizioni. Il letto ha avuto vari passaggi: i drappi
rossi che lo rivestivano nella prima fase Ludovisi diventano nel 1667
di «damasco turchino con frangetta d’oro e seta foderata di taffettano
torchino» (Palma, art. cit. a nota n. 34, doc. 17, p. 99). Le stoffe amate
nei periodi più antichi non sono più usate nella Galleria degli Uffizi.
37 F. Zacchiroli, Description de la Galerie Royale de Florence,
Florence, 1783, p. 24. La guida dello Zacchiroli, ripubblicata in tante
edizioni, segue quella del Lanzi. All’agu, Filza xvi, 1783, 1 abbiamo
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
255
Fig. 4a. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxviii c).
dove in più numero e dove in meno sono riportati
ritrattini e piccole miniature contornate tutte in argento».38 Si presume che in ogni specchiatura fossero disposte 6 tavolette, ciascuna delle quali corrispondeva a un tiretto del mobile. In realtà sappiamo
dagli inventari che ai 60 tiretti con miniature del mobile vero e proprio se ne erano aggiunti 12 da altre
provenienze per un totale di 72 tavolette, per cui le
due pareti lunghe accoglievano ciascuna 36 quadretti, disposti a gruppi di 6 nei 6 intervalli tra le liste con
nicchie di ogni parete (tre al di qua e tre al di là della
porta) (Fig. 6). Il visitatore dunque non era più esterno allo studiolo: vi era inglobato. Il mobile aveva riversato i suoi tesori sulle pareti e il vano stesso era diventato uno studiolo, con le pareti che come cassetti
aperti mostravano le loro meraviglie.
Con questo assetto espositivo le miniature trovavano dunque una nuova collocazione all’interno di
una stanza strutturata in modo da assumere i connotati del mobile, fino alla completa sovrapposizione e
identificazione di funzioni. Il Gabinetto in questo
aspetto ha avuto breve vita: da una pagina dell’inventario relativa al 1796,39 al momento del disfacimento
ad opera di T. Puccini quando i mobili vengono rimessi alla Guardaroba, possiamo ricavare qualche
ulteriore elemento per immaginare più compiutamente l’aspetto della sala curata da Lanzi, che pensava non dovesse «risparmiarsi diligenza per ben riuscire» nel creare una situazione museale adeguata ai
pezzi. Le «liste» lanziane definiscono la parete con
suddivisioni verticali in un’alternanza di pieni e vuoti; il numero delle nicchie assomma a 44, divise in 26
una lettera del Pelli in cui viene presentato al consigliere Schmidweiller il progetto dello Zacchiroli di scrivere una descrizione della Galleria in francese ad uso dei forestieri. In realtà sarà soprattutto il libro
del Lanzi a servire da riferimento per la numerosa serie di diari di
viaggio che renderanno conto della Galleria.
38 Lanzi, op. cit. a nota n. 8, p. 194.
39 bu, ms 113, ii, 2, c 327. Anche Pelli bu, ms 463,37 e 463,38: «C’era
nella camera delle Miniature disfatta dal Puccini […]».
256
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 4b. Letto dell’Ermafrodito.
piccole, 8 medie e 10 grandi, per accogliere 23 busti e
21 statue. Negli intervalli delle nicchie sono le miniature disposte nei «voti della parete» ricoperti «di parato di mantino verde con cornicetta di legno dorata» per un’altezza di b 3.12. Il documento di Galleria
fa riferimento a 13 pezzi di stoffa (sei su ciascuna parete lunga e uno su quella corta) e a 26 «tirali di reggetta di ferro soppannati di mantino verde per sostenere i quadretti delle miniature con loro gangi e
nappe». L. Pellegrini Boni40 riporta un documento
che cita «i contorni a tutti gli scomparti fatti per le
suddette miniature, e piccole statuine che in gran
numero sono situate nelle loro nicchie», per cui il
termine ‘lista’ usato dal Lanzi nel suo valore semantico sembra tradursi in incorniciature atte a suddivi-
dere le singole ripartizioni verticali sia per gli spazi
adibiti ai quadri di miniature, sia per le file di nicchie
sovrapposte. La saletta doveva dunque apparire, sotto il soffitto affrescato da G. Parigi e F. Lucci,41 come
un gioco di accordi tra il verde delle pareti con cornici dorate, i peducci dei bustini in «verde di Prato»,
le basi bianche e oro. Inoltre il candore delle statue
era enfatizzato dall’asse cromatico che divideva in
due la stanza con il Morfeo nero sul letto tinto ora di
bianco e oro dell’Ermafrodito e il Nerone di basalto
sulla colonna d’alabastro intagliata a spirale con il
piedistallo di giallo antico e lo zoccolo di pavonazzetto, descritta dal Pelli, che chiama anche la stanza
adiacente «camera verde»,42 confermando il gusto
neoclassico di tutto l’insieme.
40 L. Pellegrini Boni, La Galleria degli Uffizi in età neoclassica: alcuni documenti inediti nell’Archivio di Stato di Firenze, in Paragone,
xxxiii, 1982, n. 387, p. 83, nota 23 e p. 84, note 30-33, tav. 53 con ulteriori
notizie riguardanti lo zoccolo con lambrì, la «cornice, e fregio, che
serve d’impostatura alla volta», lavori eseguiti da Agostino Fortini.
41 Lucci raccorda il fregio sotto la volta alla decorazione affrescata
nel 1599-1600 da Giulio Parigi.
42 Pellegrini Boni, art. cit. a nota n. 40, pp. 81-82, nota 5 si riferisce a un conto di Antonio e Giovanni Battista Chigi del 1 ottobre
1779 per aver «dato di color verdognolo alle mura di una stanza a levante, che ha dipinto il lambrì lo Spiombi».
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
257
Fig. 5. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxvii b).
Fig. 6. Schema delle nicchie alle pareti.
Le miniature si trovano oggi nell’ultima saletta
del corridoio orientale degli Uffizi, in quella che a
seconda delle epoche ha assunto i nomi di sala
degli Idoli, sala di Madama, sala dell’Ermafrodito,
oggi Gabinetto delle gemme e delle miniature
(Fig. 7).
258
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 7. Il Gabinetto delle gemme odierno con le miniature del Cardinale.
Per quanto attiene alla sistemazione dei pezzi archeologici nel Gabinetto delle Miniature sul piano
del pavimento erano dieci statue di dimensioni maggiori di quelle poste nelle nicchie, secondo una sistemazione che aveva già visto i precedenti nella Tribuna. In questa prima fascia l’Herakliskos, i putti e gli
eroti ricordavano vivamente anche la tematica infantile che caratterizzava la statuaria antica nel primitivo
assetto della Tribuna. Poiché il Lanzi inizia la descrizione del Gabinetto con le parole «nell’uscire dalla
Tribuna», seguendo il suo ipotetico percorso, potremmo immaginare una sistemazione delle statue
che inizi dalla porta della Tribuna e giri a destra lungo
il perimetro della sala, per cui avremmo due statuette
ai lati delle due porte opposte lungo l’asse interno
della sala, quattro statue ai quattro angoli, la colonna
con il cd. Britannico, poi considerato Nerone fanciullo,43 spostata un po’ al centro della sala rispetto alla
parete finestrata in fondo e una statua al centro della
sala. Tale ipotetica sistemazione può essere riassunta
visivamente in uno schema (Fig. 8) con i numeri
dell’inventario del 178444 che rispondono nell’ordine
alle seguenti statue: Ercole in atto di strozzare il serpente (n. 83);45 Bacco da putto in atto di cogliere un
43 Sull’interpretazione della statuetta come Britannico già Lanzi
dubitava, confrontandola con la medaglia della collezione Biondacca
poi Visconti: L. Lanzi, Taccuino di Roma e di Toscana, a cura di D. Levi, Pisa, 2002, p. 49. Nella guida della Real Galleria (p. 200) Lanzi racconta di averne discusso con Horace Benedict de Saussure, rendendo
palese anche l’apporto dei viaggiatori che iniziano la ricognizione
delle Alpi studiando i tipi di marmo: «Il marmo della statuetta si era
tenuto per basalte ma è forte in contrario l’autorità di Mr de Saussure
che nel suo viaggio dell’Alpi lo crede marmo di altra specie». Questa
attenzione petrografica al materiale è rilevata anche da Pelli che nel
ms 463,4 annota a margine del pezzo: «Monsieur De Saussure asseri-
sce di aver veduta ‘un espece de grisverdatre extremement tacheté
fort dur d’un grain treffin et tres different descrais basaltes volcaniques’ e di questa poter esser forse la presente preziosa statuina». Per
il viaggiatore ginevrino, padre dell’alpinismo, si veda M. Ferrazza,
Il Grand Tour alla rovescia. Illuministi italiani alla scoperta delle Alpi, Torino, 2003.
44 I numeri dell’inventario del 1784 riportato in G. A. Mansuelli,
Galleria degli Uffizi. Le sculture, Roma, i-ii, 1958-1960 scorrono di uno
a partire dal n. 82 (che equivale al n. 83), mentre i riferimenti dell’inventario del 1825 riportano il numero corretto.
45 1825: 88; 1914: 322; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 63, fig. 60.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
259
TRIBUNA
84
83
91
90
F
I
N
E
85
CORRIDOIO
ORIENTALE
92
S
T
R
A
86
87
88
89
Fig. 8. Schema della sistemazione delle statue sul pavimento del Gabinetto delle miniature.
grappolo d’uva (n. 84);46 Nerone fanciullo togato (n.
85);47 Ermafrodito con Satiro (n. 86);48 due putti con
anatra (nn. 87-88);49 due putti che dormono (nn. 8990);50 Sileno nudo a sedere (n. 91)51 e Morfeo (n. 92).52
Tutte queste statue si conservano attualmente alla
Galleria degli Uffizi, ad eccezione del Sileno (n. 91)
oggi al Museo Archeologico.
La disposizione delle statue evidenzia la collocazione simmetrica dei due putti con l’anatra accanto
alla porta e dei tre amorini ai vertici di un triangolo,
con il Morfeo nero al centro della sala spostato sulla
lunga base dell’Ermafrodito al posto di quella appositamente intagliata dal Balatri su cui si trovava quando era collocato davanti alla stanza di Madama.53
Dal piano terra con statue su basi tinte di bianco
e oro si procede nei registri superiori a un progressivo alleggerimento fino alle nicchie minori in alto
adatte ai piccoli busti. Tutta la parete sopra lo zocco-
lo risulta decorata da un gioco di nicchie più grandi
e più piccole simmetricamente disposte. A rendere
più decorativo e omogeneo l’insieme molti bustini,
che negli inventari più antichi hanno un peduccio di
pero tornito tinto di nero e che potevano forse far
parte dell’arredo degli antichi stipi, vengono ora uniformati con un peduccio di marmo di verde di Prato.
Del resto la presenza di due testine ‘femminili’ (nn.
153 e 155)54 (Figg. 9 a-b) di marmi preziosi con borchie di lapislazzuli, parte integrante dell’arredo della
cinquecentesca Tribuna, di divinità di alabastro trasparente quali Iside (n. 165) e Serapide (n. 161) e di imperatori con testa e busti di marmi colorati dimostra
come nella saletta si desse la preferenza a oggetti di
materiali pregiati. Alcuni piccoli marmi preziosi,
quali i c. d. busti di Nerone, Livia, Cleopatra, Marco
Aurelio, Vitellio e Traiano, erano già stati ricordati
dal Marchese de Sade in Tribuna.55
46 1825: 145; 1914: 184; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, Schede
aggiunte n. viii.
47 1825: 125; 1914: 400; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, n. 51, fig. 51.
48 1825: 86; 1914: 309; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 129, fig.
128. Vedi agu, Filza iii, 1771 e nota 15.
49 1825: 147-148; 1914: 323 e 329; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i,
nn. 59-60, figg. 59 e 61. Vedi Palazzo Pitti. La reggia rivelata, Firenze-Milano, 2003, nn. 164-165.
50 1) 1825: 84; 1914: 279; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 107,
fig. 109. 2) 1825: 81; 1914: 169; Id., op. cit. a nota n. 44, i, n. 106, fig. 107.
51 1825: 105; M.A. 13848 (?); L. A. Milani, Il R: Museo Archeologico
di Firenze, Firenze, 1923, n. 165. Il Sileno vecchio recumbente su
un masso con grappoli d’uva può infatti probabilmente identificarsi
in quello del Museo Archeologico dichiarato recumbente su
un’anfora anziché su un piano roccioso, con patera nella destra e che
si appoggia su grappoli d’uva con la sinistra, di cui coincidono le
misure.
52 1825: 79; 1914: 279.
53 Bocci Pacini - Verona, art. cit. a nota n. 1, p. 266. Al tempo di
Leopoldo la statua dell’Ermafrodito viene spostata dalla parte del
corridoio occidentale tra la sala delle Iscrizioni e quella di Niobe,
mentre la base rimasta in situ è destinata all’Erote nero. Per quest’ultima vedi L. Giovannini, Lettere di Ottavio Falconieri a Leopoldo de’
Medici, Firenze, 1984, p. 58.
54 1) 1825: 405; M.A. 14180. 2) 1825: 406; M.A. 14216, neg. fot. 40055.
55 “Va notata ancora in questa stanza [Tribuna] che può senz’altro
essere considerata la più ricca della Galleria la presenza del busto di
Nerone, raffigurato nella sua giovinezza, e di quelli di Livia, Cleopatra, Marco Aurelio, Vitellio e Traiano. Si ammirano inoltre parecchie
altre teste romane, fatte di marmi preziosi, e numerosi bronzi antichi
della più grande bellezza”. de Sade, op. cit. a nota n. 16, p. 31.
260
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 9a. C. d. Livia (Dionisio?) M.A. 14180.
Fig. 9b. C. d. Cleopatra (Venere?) M.A. 14216.
Anche per la disposizione delle statuette nelle
nicchie è plausibile un ordinamento non casuale
che tuttavia risulta difficoltoso ricostruire, perché
l’inventario del 1784 divide le figure dai busti secondo uno schema tipologico e non più strettamente
topografico. Lo stesso fa il Pelli nel Ristretto in preparazione all’inventario,56 limitandosi a segnare con
una croce le 10 statue di maggiori dimensioni desti-
nate alle 10 nicchie più grandi (Fig. 10): Venere (n.
93)57 (ancora oggi in situ, Fig. 11), Igea (n. 97)58 (Fig.
12), Venere e Amore (n. 99)59 (ancora agli Uffizi),
Pocillatore (n. 101)60 (Fig. 13), Fauno con Genio sulla spalla (n. 102)61 (tuttora in situ), due Satiri (nn.
105-106)62 (Figg. 14 a-b), Sileno (n. 109)63 (Figg. 15 ab), Uomo nudo alto 1 b (Apollo?) (n. 110)64 (Fig. 13)
e Amore con arco (n. 113)65 (Fig. 13). Sembra di co-
56 bu, ms 461,1; Catalogo delle pitture della Regia Galleria compilato da
Giuseppe Bencivenni già Pelli. Gli Uffizi alla fine del Settecento, a cura di
M. Fileti Mazza - B. Tomasello, Firenze, 2004, Appendice, pp. 326-327.
57 1825: 62; 1914: 443; ancora oggi in una nicchia della sala dell’Ermafrodito agli Uffizi.
58 1825: 57; M.A. 14005.
59 1825: 70; 1914: 553. Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 156, tav.
vii, ancora oggi agli Uffizi.
60 1825: 139; M.A. 13807 da provenienza ignota; Milani, op. cit. a
nota n. 51, n. 122 e tav. clvii, Arcata x nel giardino (la quarta figura da
sinistra nella seconda fila in cui si nota l’antico restauro del braccio
sinistro con un corno potorio che agevola l’identificazione con il
«Pocillatore» di Galleria, restituendogli il numero di inventario del
Museo Archeologico 13807 attribuito alla statuetta del Meleagro
segnalata da Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, i, n. 10, figg. 7a-b); Romualdi, op. cit. a nota 15, nn. 7 e 28.
61 bu, ms 38, c 271: descritto da Lanzi nell’Armeria. 1825: 110; ancora oggi in una nicchia della sala dell’Ermafrodito agli Uffizi. Ritenuto
antico nella Filza x, 1777, 28, n. 4091 con segnalazione della provenienza dalla Guardaroba Generale.
62 1) 1825: 99; M.A. 13804; Milani, op. cit. a nota n. 51, n. 119. 2) 1825:
100; M.A. 13814; Id., op. cit. a nota n. 51, n. 129.
63 1825: 104; M.A. 13805; Milani, op. cit. a nota n. 51, n. 120; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 29.
64 1825: 134; M.A. 13811; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 11. Già considerato Apollo negli inventari di Galleria, dal 1704 (203), 1753 (1689),
1769 (1229).
65 1825: 72; M.A. 13813, che riporta nell’inv. «prov. Ignota»; Milani,
op. cit. a nota n. 51, n. 128; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 47.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
261
TRIBUNA
93
113
110
109
97
F
I
N
E
CORRIDOIO
ORIENTALE
S
T
R
106
A
99
101
102
105
Fig. 10. Schema della sala con indicazione delle 10 nicchie più grandi.
Fig. 11. La parete della sala con la statuetta di Venere ancora in situ nella prima nicchia.
262
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 12. Igea M.A. 14005.
gliere comunque una volontà preordinata nella sistemazione di una Venere (n. 93) e di un Cupido con
l’arco (n. 113) a formare una coppia nella prima e
nell’ultima nicchia registrate dall’inventario: le due
divinità legate all’amore, presenti pure in un’altra
nicchia nel gruppo di Venere con Eros (n. 99), si dovevano probabilmente trovare affiancate, ai lati della porta, ad apertura e chiusura di tutta la serie. La
presenza della statuetta marmorea di Venere ancora
in situ, insieme con altre, ci assicura come l’originale sistemazione della sala ospitasse nelle nicchie
esemplari marmorei o busti di marmi preziosi. La
Venere alta 1 b (n. 93), ancora oggi esposta nella sala, poteva del resto essere accostata alla figura virile
nuda (n. 110) cui Pelli attribuisce il nome di Paride.66
In effetti le due statuette di marmo sono pressoché
della stessa altezza e hanno una base rotonda, con
toro e scozia. La coppia si potrebbe considerare replicata in misure minori dalla Venere allo specchio
(n. 103) (Fig. 16) e da un ulteriore Paride (n. 112)
(Fig. 17). Inoltre a proposito del Pocillatore (n. 101),
visibile in due differenti fotogrammi del Museo Archeologico (1341 e 50120) (Fig. 13 e Fig. 18), nel primitivo aspetto con la base ottagonale di legno dipinto di nero e con il braccio sinistro ancora con un
Fig. 13. Pocillatore (foto Milani con l’antico restauro) M.A. 13807, “Apollo” e Amore con arco M.A. 13811 e 13813.
66 Era già presente in Tribuna nel 1704: 2036; 1753: 1689; 1769: 1229 con l’appellativo di Apollo.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
corno potorio e nella fase successiva depauperato
della base e dell’attributo, è interessante notare come i restauri puristi non siano stati rispettosi della
storia collezionistica rendendo più difficile, se non
impossibile, il ripristino della situazione originaria.
È degno di attenzione anche il fatto che il Pocillatore divideva il suo numero d’inventario 252 nel 1753
con una «Venere nuda con un pomo nella destra
che appoggia il fianco sinistro a un masso». Si trovavano ancora nel Ricetto d’ingresso nel 1769 con lo
stesso numero 237. Il disegno De Greyss ugds 4573f
ne presenta l’aspetto (Fig. 19). Le due statuette sono su mensole ai lati di un tondo con busto e appaiono corrispondersi non solo nella nudità ma nella
gamba sinistra flessa, mentre le teste sono piegate sì
che sembrano guardarsi. Al braccio sinistro piegato
del giovane corrisponde il destro della Venere strettamente flesso con la mano appoggiata al seno de-
263
Fig. 14b. Satiro M.A. 13814.
stro, mentre entrambi hanno l’altro braccio disteso.
Le due statuette, una di seguito all’altra, sono segnalate in asf, gm 740 e 741 dell’eredità del Granduca Ferdinando II de’ Medici, con l’annotazione della
c 155 di un precedente inventario in cui compariva
anche l’Amorino afferrato all’orecchio, attestato fin
dal 1560 nel Guardaroba di Cosimo, ma inventariato
in Galleria solo dal 1753.67 Per le nostre «due figurine
di marmo alte b 1 incirca un giovane et una giovane
ignuda sopra a una basetta di legno nero» possiamo
anche ritornare indietro nel tempo quando erano
sistemate nella seconda camera accanto al Salone
delle Nicchie secondo la descrizione del gm 525 di
Palazzo Pitti del 1638 al n. 20.
Fig. 14a. Satiro M.A. 13804.
67 Vedi la scheda di V. Saladino, in Palazzo Pitti. La reggia rivelata,
op. cit. a nota n. 49. Per Venere non abbiamo trovato al Museo Archeologico una corrispondente figura.
264
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 15b. Sileno nel Ricetto (De Greyss 4575f).
Le rimanenti 11 statue minori trovavano posto
nelle 8 nicchie medie e in 3 nicchie piccole: due Diane Efesie (nn. 94-95),68 Musa con tibie (n. 96)69 (Fig.
Fig. 15a. Sileno M.A. 13805.
68 1) 1825: 24; M.A. 13997. 2) 1825: 23; M.A. 13999. La prima (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 9) per la catena inventariale si può riportare all’eredità Bassetti, riprodotta in Gori e in Tribuna (ugds 4583f
nel disegno di G. Magni). Risale infatti nell’inv. 1704 al n. 776. Una Dia-
na Efesia simile senza restauri è edita in Mansuelli, op. cit. a nota n.
44, i, n. 161 ed è stata studiata da F. Magi che l’ha considerata come la
Diana Efesia edita da Gori, senza i restauri di completamento. In realtà quest’ultimo frammento, diverso anche per la mancanza delle
due Nereidi su ippocampo, è un dono di Sua Altezza Reale nel 1790
segnalato nel Giornaletto di Galleria bu, ms 114, c 25. La seconda Diana (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 32), che si distingue negli inventari
per la corona foliata anziché turrita, arriva in Galleria nel 1771 da Palazzo Pitti e si può considerare appartenuta al Cardinale Leopoldo,
visto che è elencata nell’eredità «una figuretta di marmo alta 2/3 figurata per la Natura vestita fino a terra con molte figurine di bassorilievo nella veste».
69 1825: 31; M.A. 13996; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 16. Nell’inventario del 1825 la Musa è descritta con le doppie tibie nella destra e
un pomo nella sinistra; negli inventari precedenti che risalgono fino
al 1704 è chiamata Pomona (1769: 1280; 1753: 1740; 1704: 1990). È disegnata in Tribuna da G. Magni (ugds 4584f) e può risalire con Igea e
altre statuette femminili di piccole dimensioni al Guardaroba di
Cosimo. Potrebbe identificarsi con «Una Tersicore con flauto nella
destra, il globo che ha nella sinistra è moderno e non conviene al
soggetto» descritta da Lanzi in Tribuna (bu, ms 38, c 275).
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
265
Fig. 17. Paride M.A. 14002.
20), tre Esculapi (nn. 98, 100, 108)70 (Figg. 21 a-b-c),
Venere allo specchio (n. 103),71 Venere tipo Medici (n.
104)72 (Fig. 22), Meleagro (n. 107),73 Giunone con
globo (n. 111)74 (Fig. 23) e Paride (n. 112).75
Si può supporre che tra le statuette potesse esistere una relazione tematica; si ricordano per esempio
Fig. 16. Venere allo specchio M.A. 13998.
70 1) 1825: 54; M.A. 13995. 2) 1825: 55; M.A. 14004. 3) 1825: 53; M.A.
14000; Romualdi, op. cit. a nota 15, nn. 50-51. Descritti da Lanzi (bu,
ms 38, cc 274-275): «Un Esculapio assai bello: oltre al serpe ha torto il
bastone ha un coperchio di tripode (omphalos) è nella Stanza delle
Miniature. Altro ivi. Altro che tiene da man destra una patera … pasce un lungo serpente la cui estremità si annoda sopra la base».
71 1825: 63; M.A. 13998; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 26.
72 1825: 61; M.A. neg. fot. 50295.
73 Le misure non permettono di identificare la statuetta con quelle finora edite, né con quella M.A. 13823 (Romualdi, op. cit. a nota 15,
n. 27) riconosciuta a torto nella tav. 67 del Gori (A. M. Massinelli,
Intorno ad una statua di Ercole dell’Anfiteatro di Boboli, in Boboli ’90, Atti
del Convegno Internazionale di Studi per la salvaguardia e la valorizzazione del giardino, Firenze, 1991, pp. 71-81, figg. 21-24), né con quella
M.A. 14007 identificata da A. M. Massinelli, Bronzi e anticaglie nella
Guardaroba di Cosimo I, Firenze, 1991, p. 50 (tav. 68 del Gori). Vedi V.
Saladino, Sculture antiche per la reggia di Pitti, in Magnificenza alla Corte dei Medici, op. cit. a nota 2, p. 319.
74 1825: 4; M.A. 14012, neg. fot. 41039. Tav. 15 del Gori. Nel 1704 al n.
2070 è «una figura di marmo antica alta 2/3 che rappresenta Giunone
con globo nella sinistra»; 1753: 1651.
75 1825: 138; M.A. 14002, negg. fot. 46090/1-4 e 60866/7-10.
266
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 19. De Greyss 4573f.
le divinità salutari: Igea e tre Esculapi, di cui è già stata messa in luce la valenza rivestita a Firenze, dove
una statua di questo dio si trovava nel Giardino dei
Semplici.
Poi erano anche due Diane Efesie a far parte del
vario consesso di dei e ancora figure femminili vestite intervallate con figure maschili nude.
Infine erano più figure del corteo dionisiaco, tra
cui il gruppo di Fauno con Genio sulla spalla,76 ancora oggi nella stanza, considerato di epoca barocca,
oltre ai Satiri antichi riconoscibili nei marmi del
Museo Archeologico.
Lo stesso tema dionisiaco ha larga parte nella serie
dei busti in cui figurano quattro Fauni (nn. 157, 158,
Fig. 18. Pocillatore nello stato attuale.
76 Per confronto si veda Il Museo Civico archeologico di Bologna, a cura di C. Morigi Govi - D. Vitali, Imola, 1982, fig. p. 178, p. 179. In realtà
la nostra statuetta si rifà al prototipo creato nel tardo ellenismo del
gruppo del Satiro con Dioniso bambino, anche se sulle spalle ha un
genio alato. Ne esiste un altro esemplare della collezione ModiglianiRossi a Firenze, M.A. 85083; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 83.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
166, 168)77 (Fig. 24) con petto nudo e pelle di cerbiatto o coronati di edera.
Ci sono poi busti di divinità tra cui Giove (n. 150),78
Plutone (n. 148)79 e due Serapidi in alabastro (nn. 161,
164)80 e di dee come Iside (n. 165)81 (Fig. 25).
La serie dei 23 busti è completata da sei imperatori
(nn. 147, 149, 152, 154, 156, 160),82 sei donne «Auguste»
(nn. 151, 153, 155, 159, 163, 167)83 (Figg. 26-27) e da due
teste, una di incognito con pileo (n. 162),84 l’altra di
un giovane eroe (n. 146)85 (Fig. 28) riconducibile al
Diadumeno policleteo.86 Nelle nicchie più piccole si
alternano le teste maschili con quelle femminili secondo quanto può confermare l’inventario in cui i
numeri dispari delle donne sono intervallati a quelli
quasi tutti pari degli uomini.
Quasi tutte le statuette del Gabinetto delle Miniature sono già presenti nei precedenti inventari di
Galleria: particolarmente utili per il riconoscimento
risultano quelli relativi al 1753 in cui le descrizioni
possono trovare il riscontro sia nelle incisioni dei volumi di A. F. Gori che negli album De Greyss disegnati prima dell’incendio della Galleria e del grande rinnovamento leopoldino. Il maggior numero dei
marmi del Gabinetto delle Miniature, grazie alle correlazioni inventariali, risale all’inventario di Galleria
del 1704 anche se a ritroso si può trovarne traccia nelle sommarie descrizioni dei Guardaroba Medicei in
cui sono elencate le consistenze ereditarie. I marmi
menzionati nell’inventario del 1704 erano descritti in
Tribuna, in cui erano presenti molte delle nostre statuette fin dal 1589. La Tribuna di Francesco I accoglieva infatti Ercole che strozza i serpenti (n. 83),87
77 1) 1825: 181; M.A. 14911 (scritto sul pezzo, tuttavia è diverso il busto con leontè inerente a Eracle forse sostituito). 2) 1825: 182; M.A.
14182. 3) 1825: 185; M.A. 14176. 4) 1825: 186; M.A. 14175, neg. fot. 49748.
78 1825: 172. Considerato Serapide nell’inv. 1825, Giove nell’inv. del
Museo Archeologico. Visto al Museo Archeologico senza numero.
M.A. 14192 altro Serapide in marmo nero dalle Antiche Collezioni.
79 1825: 175; M.A. neg. fot. 38589.
80 1) 1825: 173; M.A. 14181. 2) 1825: 174; M.A. 14172.
81 1825: 192; 1881: 387; 1914: 554; Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, I,
n. 69, fig. 66.
82 1) 1825: 331? 2) 1825: 364. 3) 1825: 366; M.A. neg. fot. 38588?. 4) 1825:
240; M.A. 14173. 5) 1825: 362; M.A. 14195. 6) 1825: 244; M.A. 14198.
83 1) 1825: 415; M.A. 14179. 2) 1825: 405; M.A. 14180. 3) 1825: 406; M.A.
14216, neg. fot. 40055. 4) 1825: 396; M.A. 14177, neg. fot. 49735. 5) 1825:
412; M.A. 14185, neg. fot. 50285. 6) 1825: 392; M.A. 14167.
84 1825: 363.
85 1825: 384; M.A. 14174, neg. fot. 49746.
86 D. Kreikenbom, Bildwerke nach Polyklet, Berlin, 1990, pp. 188203. Il pezzo è sconosciuto.
87 Potrebbe trattarsi de «l’Ercole che amaza li serpi grando cinque
palmi» citato nel doc. 18, lettera del 26 febbraio 1577, in P. Barocchi - G. Gaeta Bertelà, Collezionismo mediceo Cosimo I Francesco I e
il Cardinale Ferdinando. Documenti 1540-1587, Modena, 1993, pp. 124-125.
Fig. 20. Musa M.A. 13996.
267
268
piera bocci pacini · vera laura verona
due putti con anatra (nn. 87-88),88 Morfeo nero (n.
92),89 Venere alta 1 b (n. 93),90 Venere con amore (n.
99),91 Venere con specchio (n. 103),92 Venere tipo Medici (n. 104),93 due Satiri (nn. 105-106),94 un giovane
nudo alto 1 b (n. 110),95 Giunone con globo (n. 111)96
e Amore con arco (n. 113).97 In particolare la Venere
Attestato in Tribuna nell’inventario del 1589, bu, ms 70, c 1 (G. Gaeta
Bertelà, La Tribuna di Ferdinando I de’ Medici. Inventari 1589-1631, Modena, 1997, n. 6; 1635: 424 (manca in Mansuelli, op. cit. a nota n. 44);
1676: 45 (Massinelli, op. cit. a nota n. 73, p. 133); 1704: 2125 (nella quinta
stanza cioè nella camera di Madama); 1753: 1859 (Tribuna); 1769: 1397;
Pelli, ms 463,1: braccio con parte del serpe e gamba sinistra moderna.
Fig. 21a. Esculapio M.A. 13995.
88 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, nn. 4, 7);
1704: 2123; 1753: 1855; 1769: 1393; Pelli: il primo con braccio destro moderno, gamba destra, punta del piede sinistro e testa dell’anatra; il secondo con
braccio destro, punta del piede sinistro e coda dell’anatra moderno.
89 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 10); 1676:
4 (Massinelli, o p. cit. a nota n. 73, p. 130 tra i marmi moderni); 1704:
114 (nella facciata del corridoio grande cioè corridoio sud); 1753: 111; 1769:
101; Pelli: nel mezzo della stanza, mezz’ala destra e punta del piede sinistro moderno.
90 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87,n. 272); 1704:
1977; 1753: 1767; 1769: 1307. Disegnata in Tribuna su una mensola da G.
Neri nell’album De Greyss ugds 5487f (Massinelli, op. cit. a nota n.
73, fig. 84).
91 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 305); 1638
(Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171: la Carità ignuda con un bambino a’ piedi a sedere che si porgon la mano); 1676: 56; 1704: 1963; 1753: 1678;
1769: 1218.
92 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 295); 1635:
298 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 167); 1638 (Id., op. cit. a nota
n. 44, ii, p. 171); 1704: 2054; 1753: 1676; 1769: 1216. Disegnata in Tribuna
da G. Sacconi nell’album De Greyss (2ª parete dell’ottagono, 3ª da sinistra in Heikamp, Le sovrane bellezze, art. cit. alla nota n. 2, p. 336, n. 11).
93 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 416); 1635:
283 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 167); 1638 (Id., op. cit. a nota
n. 44, ii, p. 171); 1704: 2058; 1753: 1661; 1769: 1201.
94 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, nn. 391, 426);
1635: 372, 398 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op.
cit. a nota n. 44, II, p. 171); 1704: 2004, 2014; 1753: 1725, 1716; 1769: 1265,
1256. Una raffigurazione di un Satiro viene data da Gori, Museum Florentinum, tav. 60 e da G. Magni in Tribuna (ugds 4585f). Lanzi (bu, ms
38, c 274) ricorda in Tribuna «due satiri che d’una mano tengon dell’uva, dall’altra pare che amendue avevano un corno potorio, compagni in grandezza, ma in atteggiamento diverso. Uno di questi in atteggiamento di ebrioso è riferito nel Museum Florentinum». Si veda
anche Massinelli, op. cit. a nota n. 73, figg. 106-107 e pp. 128-129.
95 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 341); 1635:
337 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota
n. 44, II, p. 171); 1704: 2036; 1753: 1689; 1769: 1229. Lanzi (bu, ms 38, c
275) cita in Tribuna «Un Apollo con frammento di arco nella sinistra,
è meno svelto di quel che veggasi comunemente nelle statue antiche
e più complesso, fu lavorato per un Bacco, i lunghi e discriminati capelli che intorno a una vitta son ripiegati e raccolti possono convenire
all’uno e all’altro».
96 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 402); 1635:
391 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota
n. 44, ii, p. 171); 1704: 2070; 1753: 1651; 1769: 1191 (manca in Mansuelli).
97 Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 357); 1635:
352 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota
n. 44, ii, p. 171?); 1704: 2046; 1753: 1752; 1769: 1292; Pelli cita la tav. 42 del
Gori: un Amorino in atto di aver scoccato una freccia; Lanzi (op. cit. a nota
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
269
Fig. 21b. Esculapio M.A. 14004.
Fig. 21c. Esculapio M.A. 14000.
con specchio nella destra e la sinistra appoggiata su
un vaso di marmo mistio, identificata nella statuetta
oggi al Museo Archeologico n. 13998, era già stata disegnata in Tribuna da G. Sacconi nell’album De
Greyss 4588f, come la Venere del tipo Medici, identificabile con una molto frammentaria al Museo Archeologico (neg. 50295), che può essere riconosciuta
in Tribuna nello stesso disegno.
Per alcune di queste statuette è possibile risalire
alla precedente sistemazione nella Sala delle Nicchie, in cui era il primo museo di scultura classica di
Cosimo I a Palazzo Pitti (due putti con anatra nn. 8788, Morfeo nero n. 92).98 Per altre A. M. Massinelli
aveva già indicato gli studioli di Cosimo I a Palazzo
Vecchio.99 Potremmo ricordare come bronzi e marmi fossero divisi in due ambienti diversi, cioè nello
n. 8): «…amorino assai conforme nella mossa a quello del gabinetto
ix se non che a differenza di quello che saetta in senso orizzontale
questo saetta in alto». Disegnato nell’album De Greyss su un palchetto della Tribuna dove lo ricorda anche Lanzi (bu, ms 38, c 274).
mana un uccello assomigliante a un’anitra, et l’altro braccio alzono».
E. Müntz, Les collections d’antiques formées par les Médicis au xvi e
siècle, in Mémoires de l’Academie des Inscriptions et Belles Lettres, xxxv, 2e
partie, 1895, p. 81. Nella stessa sala si trovava il Morfeo nero per cui
vedi la scheda di P. Bocci Pacini, in La giovinezza di Michelangelo,
Firenze-Milano, 1999, p. 320 con bibl.
99 E. Allegri - A. Cecchi, Palazzo Vecchio e i Medici, Firenze, 1980.
98 Giorgio Vasari ricorda nella Sala delle Nicchie: «Sopra la terza
porta vi sono due putti posti a sedere in terra, che tengono sotto una
270
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 22. Venere M.A. neg. fot. 50295.
Fig. 23. Giunone con globo M.A. 14012.
scrittoio di Calliope e in quello di Minerva. Per quest’ultimo il Vasari chiede in una lettera a Cosimo se
ci vuole «banco o cassette o scafali che melo avvisi,
perché i palchetti per mettere le statue piccole di
marmo già gli ho ordinati».100 A.M. Massinelli ha
identificato alcuni pezzi oggi al Museo Archeologico
come i due Esculapi (nn. 98, 100) giunti da Roma nel
1560,101 Igea (n. 97),102 le due Veneri (la Venere con
Amore n. 99 e quella alta 1 b n. 93),103 oltre alla Cibele
seduta su trono affiancato da due leoni (Fig. 29) o la
Venere con base con lettere etrusche104 (Figg. 30 ab). Al nucleo cosimiano si può ricondurre anche la
100 K. Frey, Der literarische Nachlass Giorgio Vasaris, München,
1923-30, i, cclxix, p. 665.
101 asf, gm 65, Inventario generale della Guardaroba, 1560-67, c
170 (facevano parte dello scrittoio di Calliope): due Esculapi alti b ½
hauti come di sopra (da Roma); asf, gm 87, 1574, c 9 (Pitti): Esculapi di
marmo n 2 di 0/2 di braccio. Per la sequenza inventariale vedi V. Saladino, L’Asclepio del Giardino di Boboli, in Boboli, ’90, op. cit. a nota n. 73,
ii, p. 600, note 39-40-41, figg. 189-190-191. Per il terzo Esculapio si può
ugualmente ricordare asf, gm 75, c 65r: un Erchole che sappoggia in su
un bastone di braccia 0/2.
102 Si veda Massinelli, op. cit. a nota n. 73, pp. 114, 117, 135: dal
Guardaroba del 1570 descritta come femmina con due teste, consegnata nel 1723 in Galleria a Francesco Bianchi, in Tribuna dal 1753:
1802; 1769: 1342. In Tribuna è descritta da Lanzi (bu, ms 38, c 275: “Un
Igia di buon gusto, con soliti attributi. Ha sopra la tunica e la crocchia
un manto assai grande. La sinistra è moderna”).
103 Attestata come venuta da Roma in asf, gm 65, 1560-67. Massinelli, op. cit. a nota n. 73, p. 104 ne ricostruisce il percorso più antico.
In Tribuna dal 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 305); 1638
(Mansuelli, op. cit. a nota n. 44,, ii, p. 171); 1676: 56; 1704: 1963; 1753:
1678; 1769: 1218. La catena inventariale della Venere alta 1 braccio è stata ricostruita in Massinelli, op. cit. a nota n. 73, pp. 104-105, comprese
le sequenze dell’inventario della Tribuna.
104 Massinelli, op. cit. a nota n. 73, pp. 117-118, figg. 98-99 e p. 106,
figg. 88-89: Venere con lettere etrusche attestata fin dal gm 30 del 1559,
ma in realtà documentata anche nel gm 25 del 1553. L. Beschi, Le sculture antiche di Lorenzo il Magnifico, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo,
Convegno Internazionale di Studi (1992), a cura di G. Garfagnini,
Firenze, 1995, pp. 291-317: G. Bartoloni - P. Bocci Verona, La divulgazione di scoperte di antichità etrusche a Firenze da Lorenzo a Cosimo I,
in Archeologia Classica, n. s. 6, lvi, 2005, pp. 373-406.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
271
Fig. 24. Fauno M.A. 14175.
statuetta del Sileno seduto (n. 91),105 ricordata nel gm
28 del 1553 come «Un Bacco di marmo antico piccolo
a sedere», probabilmente al Museo Archeologico
(13848?; Milani n. 165?).
Per altri pezzi che risultano introdotti più tardi in
Galleria si possono ugualmente postulare precedenti
attestazioni nelle collezioni medicee. Questo riguarda per esempio il cosiddetto Paride (n. 112)106 che
viene utilizzato per il Gabinetto delle Miniature, come dimostra il plinto di serpentino aggiunto all’an105 In Tribuna dal 1704: 2121; 1753: 1854; 1769: 1392; Pelli ne segna i
restauri: braccio destro e braccio sinistro moderno con mano antica, gamba
destra e punta del piede sinistro quasi moderno. Invece che a sedere recumbente su un masso con grappoli d’uva forse da identificare con
quello del Museo Archeologico dichiarato recumbente su un’anfora
anziché su un piano roccioso, con patera nella destra e che si appoggia su grappoli d’uva con la sinistra, di cui coincidono le misure. Il
pezzo compare in Tribuna anche nei disegni di G. Magni e G. Sacconi
(ugds 4588f).
106 asf, gm 399, Casino di San Marco, 1621, c 259r (nella Galleria):
«Una figura di marmo di un giovane nudo con panno sulla spalla alto
2/3 con basa di marmo». Nel 1723 è consegnato a Francesco Bianchi:
asf, gm 1292, c 146r, 280: «una figurina di marmo nuda alta 2/3 con
palla di marmo si crede Paride». 1769: 3812: «Cinque statuette di marmo che tre rappresentano Ercole con clava in diverse attitudini sopra
base di marmo simile e le altre due giovani appoggiati nudi ad un
Fig. 25. Iside (Mansuelli i, fig. 66).
tica base in marmo che reca ancora sul tronco il n.
3812 del 1769. A questa data la figura si trovava nella
sala dei Vasi Etruschi di cui abbiamo uno schizzo nel
Catalogo Dimostrativo di G. Bianchi107 (Fig. 31) e sotto
lo stesso numero erano compresi altri quattro pezzi,
tra cui tre Ercoli e un cd. Meleagro (n. 107),108 che
tronco con panno avvolto alla spalla sinistra; ed una posa sopra base
di marmo simile e l’altra sopra base di marmo mistio di più grandezze che il maggiore braccia 1 circa». Vedi Massinelli, op. cit. a nota n.
73, p. 129.
107 Cfr. nota 9. In quel momento la denominazione della sala si riferiva solo ai due grandi vasi apuli di Cosimo I, mentre in realtà la
stanza doveva apparire come una congerie di materiali eterogenei
con i pezzi raccolti dal Casino dei Medici e quelli tolti dalla Tribuna,
quali la famosa e ammirata maschera di pietra «igiada» (Magnificenza
alla Corte dei Medici, art. cit. a nota n. 2, p. 127), insieme alla copia in
bronzo della Lotta del Soldani e all’«olla» dipinta leopoldina (vedi
scheda di M. G. Marzi, in L’Idea del Bello. Viaggio per Roma nel Seicento
con Giovan Pietro Bellori, Roma, 2000, vol. ii, pp. 540-541, n. 22).
108 1769: 3812; Pelli, ms 463,1: Modello del Meleagro tutto antico di
marmo greco.
272
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 26. Busto femm. M.A. 14177.
Fig. 27. Busto femm. M.A. 14185.
dovrebbe trovarsi al Museo Archeologico. A. M.
Massinelli ha identificato uno degli esemplari in un
Ercole moderno del Museo degli Argenti attestato
fin dal 1587 nel Casino di S. Marco dove Francesco I
aveva trasportato piccoli marmi della collezione paterna, che in parte con Ferdinando, in parte più tardi
saranno reinseriti nell’inventario di Galleria. Ugualmente dal Casino proviene la statua di Bacco da putto (n. 84).109 Del resto a seconda delle vicende familiari e dell’interesse dei vari personaggi si notano
traslochi di marmi e di bronzi: possiamo offrire
un’esemplificazione con il caso dei due «putti con cagnoli»110 esistenti a Villa Medici fin dal 1598, passati a
Firenze nel 1616 e poi da Pitti mandati alla Villa dell’Imperiale dove nel 1768 era segnato anche «un putto di marmo con cane» che potrebbe aver seguito la
sorte degli altri due fino al Giardino del Museo Archeologico111 (Fig. 32).
Inoltre occorre ricordare che Cosimo III riceve le
eredità dai familiari, il Cardinale Carlo Decano, il
109 P. Bocci Pacini, Nota in margine a Boboli ’90. i , in Prospettiva,
95-96, 1999, p. 72 ipotizza che si trovasse in pendant con un altro putto,
a lato del rilievo con bagno di Diana del Moschino.
110 Cfr. C. Gasparri, La collection d’antiques du Cardinal Ferdinand,
in La Villa Médicis, 2, Rome, 1991, p. 479, cc 141-142 ripreso poi in Bocci
Pacini - Verona, art. cit. a nota n. 1, p. 252, nota 42.
111 Neg. fot. 20085/7-8, 11-12 (M.A. 14321), 10 (M.A. 14318); Romualdi, op. cit. a nota 15, nn. 30 e 33. Una coppia di fanciulli in marmo che
abbracciano «un orsacchino», nel 1687 ancora a Pitti secondo il gm
932, ritorna in Galleria nel 1792, secondo il Giornaletto bu, ms 114, c
31 e sono descritti nell’inventario dal 1825 ai numeri 151 e 152. Oltre ai
«2 Putti di marmo che tengono 2 cagnoli in braccio alti p. 2 2/3» (F.
Boyer, Un inventaire inédit des antiques de la Villa Médicis (1598), in Revue Archéologique, xxx, 1929, nn. 40-41), che considerati pendant hanno
avuto uguali vicissitudini, si può ricordare anche il fanciullino con cane (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 34), per il quale dati i pesanti restauri potrebbe ugualmente reperirsi la descrizione in Boyer n. 73: «1
Puttino di marmo che sta a sedere con un cagniolo in braccio alto p.
13/4». Per quest’ultimo si può inoltre ricordare asf, gm 79, Inventario
Generale del Guardaroba dell’Illustrissimo e Rev. Card. Ferdinando
de’ Medici poi Granduca di Toscana (in E. Müntz, art. cit., a nota n.
98): «Uno putto di marmo che piange con un canino in braccio comperò insieme con altri arnesi dalli eredi dell’Illmo sig. Cardinale da
Est (d’Este) sotto dì 11 di maggio 1583».
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
273
Fig. 28. Diadumeno M.A. 14174.
Cardinale Leopoldo e il Gran Principe Ferdinando,
per cui anche da queste fonti i materiali archeologici
vengono acquisiti a mano a mano a seconda dello
sviluppo della Galleria e messi negli inventari in diverse riprese.
Oltre ai beni di famiglia, Cosimo riceve l’eredità
del segretario Canonico Apollonio Bassetti in cui
erano anche molte epigrafi,112 «preziosamente
112 Molti sono anche i recuperi che il Bassetti riesce a ottenere attraverso le sue amicizie, come il Provveditore di Volterra Benedetto
Lisci, i Falconcini di Volterra, il Padre Provinciale Agostino Franceschini e Paolo Antonio Conti di Siena che gli procurano idoli da Chiusi e da Volterra, urne da Chianciano e da Montepulciano, marmi e
iscrizioni lapidee da Castiglion della Pescaia e fino un miliario romano da Colle Salvetti.
113 Nel disegno dell’album De Greyss ugds 4578f, rappresentante
la parete del Ricetto con il rilievo della Tellus dell’Ara Pacis (Gasparri, art. cit., a nota n. 110, p. 446, nota 9 per la storia collezionistica del
Fig. 29. Cibele M.A. 14001.
lapidate», che vengono utilizzate per i riquadri del
nuovo Ricetto allo sbocco della scala buontalentiana, insieme a rilievi, a piccole sculture e a una serie
di testine113 e frammenti marmorei, che secondo
quanto racconta Lorenzo Magalotti nella sua lettera
rilievo, arrivato a Firenze nel maggio 1569 per un acquisto di Cosimo
I), compaiono pezzi dell’eredità Bassetti, segnatamente teste senza
busto né collo: in particolare sembra di ravvisare nel primo puttino a
sinistra la testina M.A. 14075, neg. fot. 50567, mentre a destra si riconoscono due vecchi con barba (M.A. neg. fot. 38590/2, 5). L’elenco
dell’eredità Bassetti (asf, gm 1026) menziona infatti al n. 25 «Undici
teste di marmo senza busti e senza peducci tutte di uomini cioè due
di vecchi con barba, quattro con barba rasa e il resto di putti minori
del naturale».
274
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 30a. Venere con lettere etrusche M.A. 14008.
del 19 luglio 1695 avevano fatto parte «della sua bella
stanza delle antichità». Grazie alla collazione tra i disegni De Greyss e gli inventari di Galleria si possono
identificare alcuni marmi oggi al Museo Archeologico,114 dove è anche una delle Artemidi Efesie del Gabinetto delle Miniature.115
Il Gabinetto delle Miniature è decorato anche di
pezzi provenienti dalla collezione di Leopoldo,116
già esposti come il Britannico della Tribuna117 o depositati in Guardaroba o rimasti a Pitti e riutilizzati
in un secondo momento agli Uffizi. Fra questi ultimi
sono l’Artemis Efesia,118 il gruppo di Satiro con Ermafrodito119 e il busto di Iside in alabastro che doveva avere come pendant il Serapide ugualmente in alabastro e con lo stesso tipo di «peduccio di Porto
Venere scannellato nella scozia», passato sotto lo
stesso numero da Pitti in Galleria nel 1771.120 Il secondo busto di Serapide del Gabinetto delle Miniature è
ugualmente proveniente da Pitti, anche se non abbiamo una convalida che fosse appartenuto a Leopoldo. In effetti assecondando l’amore per la simmetria il Cardinale aveva dei pendant: ne è un esempio
anche il busto della cd. Plautilla bambina (Mansuelli
ii, 141), che doveva accompagnarsi ad Annio Vero,121
il cui busto (Mansuelli ii, fig. 120) ripete gli stilemi
della fanciulla. Un altro marmo leopoldino è segnalato a Pitti nel 1687 (asf, gm 932, c 70v) come «base di
marmo antica abbracciata di tre figure di mezzo ri-
114 Nel disegno De Greyss ugds 4570f si può riconoscere il Giove
(Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 63) presente in Galleria dal 1704 (vedi
Bocci Pacini, art. cit. a nota n. 109, p. 70, fig. 9), mentre in ugds 4574f
è l’altro Giove (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 68) cui si può restituire
il numero d’inventario M.A. 13812 (Bocci Pacini, art. cit. a nota n.
109, p. 69, fig. 14) riconducibile a Uffizi n. 779 dell’inv. del 1704 proveniente dalla collezione Bassetti. Nel De Greyss ugds 4575f è disegnato il Sileno (Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 29) che nel 1704 ha il n.
780; 1753: 254; 1769: 269, come in ugds 4576f è Cauthes (Id., op. cit. a
nota 15, n. 52) completo della face cui si può restituire il numero d’inventario M.A. 13806. Era in Galleria nel 1704: 3469; 1753: 280; 1769: 265.
Nella tavola De Greyss 4578F troviamo Ulisse (Id., op. cit. a nota 15, n.
64) inventariato nel 1704: 3548; 1753: 322 denominato gladiatore moderno, per cui è stato successivamente omesso negli inventari Mansuelli.
Nello stesso disegno è presente Giunone-Fortuna (Id., op. cit. a nota
15, n. 24) completa della patera nella destra e con testa velata per cui
era giudicata una Vestale; in Galleria dal 1704: 3476; 1753: 326; 1769: 311
appartenuta alla collezione Bassetti.
115 1704: 776; 1753: 1791; 1769: 1331 (vedi nota 68).
116 La formazione della collezione Bassetti sarà studiata in un
prossimo contributo.
117 Per la statua vedi scheda di M. G. Marzi, in L’Idea del Bello, op.
cit. a nota n. 107, vol. ii, pp. 496-497, n. 3 con bibl. prec.: la statua doveva appartenere all’antico arredo della domus dei Valerii, dove fu scoperta da L. Agostini che la vendette al Cardinale Leopoldo de’ Medici.
Fu descritta dal Bellori come «Britannico pretestato di selce verde
Egittia». Per la datazione vedi R. Belli Pasqua, Sculture di età romana
in “basalto”, Roma, 1995, scheda n. 17, tav. xx con bibliografia.
118 Cfr. Capecchi, art. cit. a nota n. 15, p. 134.
119 Capecchi, art. cit. a nota n. 15, p. 131, nota 30 con riferimento
ad agu, Filza iii, 1771, 28, c 17. Si veda anche asf, gm 932, anno 1687, c
69v relativa alla settima camera di Palazzo Pitti con finestra sulla piazza: «Un gruppo di due figure di marmo antiche d’un Satiro ritto et
una Ermafrodita più che mezza nuda quale è a sedere e con la mano
sinistra tiene il capo del Satiro, et esso con la mano sinistra tiene un
papavero. Alto b 1 1/3».
120 agu, Filza iv, 1771-B, 25 registra sotto la stessa A 45, come mandati dal R. Palazzo dei Pitti alla R. Galleria, «2 busti d’alabastro alti b
1/2 che uno di femmina e l’altro di uomo con piccolo vaso in capo.
Inv. 180 replicato nella Ricapitolazione con inv. 182». L’inv. del 1784 rimanda infatti per entrambi alla precedente segnatura A 45.
121 Per questo busto Beschi (L. Beschi, Bronzi antichi nel Rinascimento fiorentino: alcuni problemi, in Alba Regia, xxi, 1984, p. 120, tav. lvii,
4) aveva pensato a un possesso da parte di Lorenzo de’ Medici, dato
che la testina di bronzo di Desiderio da Settignano di Palazzo Davanzati (L. Berti, Il Museo di Palazzo Davanzati a Firenze, Firenze, s.d., fig.
161) la riecheggia in maniera vistosa. Tuttavia per questo marmo la catena inventariale non risale in Galleria oltre il 1753 n. 114. Leopoldo potrebbe tuttavia aver fatto imbustare una testina già in possesso mediceo per farne un pendant alla Plautilla. K. Fittschen, Ritratti antichi
nella collezione di Lorenzo il Magnifico e in altre collezioni del suo tempo, in
La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Politica Economia Cultura Arte, Convegno di Studi 1992, Pisa, 1996, vol. i, p. 14, tav. vi, 1, 2 riprende
l’ipotesi di L. Beschi; in effetti il bronzo di Desiderio si limita alla testa
con collo di cui esistono copie moderne (tav. vi, 3, 4) anche al Museo
Civico di Bologna e all’Ermitage di San Pietroburgo.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
275
Fig. 30b. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxxxix e).
lievo alta 7/8 con un imbasamento di marmo mischio». La descrizione combacia con la nota di Lanzi
che ricorda nell’Arsenale una «colonna trilatera che
in ognuno dei lati ha una statuetta di vergine: due di
esse sono tutte involte nel pallio, la terza con vestito
più svelto. Si tengono per mano», per cui si può identificare con lo Hekateion del Museo Archeologico.122 Più incerta risulta la storia dello Hekateion arcaistico del Museo Archeologico (Romualdi n. 85)
cui andrà ridato il numero d’inventario 14003 che riporta a una puntuale descrizione dell’inventario di
Galleria del 1825, n. 25, esposto nel 1784 nel Gabinetto
delle Monete (n. 81), proveniente da antichi fondi del
museo (Figg. 33 e 34).
Gli imperatori e le donne auguste che servono di
coronamento alla parete non appartengono a una
serie omogenea tanto è vero che, come abbiamo già
detto, per uniformare l’insieme i vari peducci vengono sostituiti con quelli nuovi di verde di Prato. Per alcuni busti possiamo risalire nell’inventario precedente a un unico numero, sotto cui vengono raccolti
pezzi eterogenei probabilmente accorpati a seconda
della più antica provenienza. Per esempio i numeri
148, 149, 151, 152, 156 del 1784 risalgono al 3781 dell’in-
122 M.A. 13994; Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 86. Questi risultati
erano già in P. Bocci Pacini - M.E. Micheli, Note in margine agli acquisti di sculture per la Galleria degli Uffizi negli anni 1669 e 1675. I marmi
Ludovisi e la collezione di Leopoldo de’ Medici, studio che non è stato ancora edito causa la difficoltà di aggiornamento dopo i vari contributi
usciti sulla collezione del Cardinale. Si veda anche il Giove Romualdi, op. cit. a nota 15, n. 43 che C. Gasparri ha espunto dalla collezione
Valle per le sue misure: C. Gasparri, Marmi senza pace. A proposito di
un recente catalogo di sculture del Museo Archeologico Nazionale di Firenze,
in Prospettiva, 115/116, 2004 (2005), fig. 6, p. 100. «Una figuretta di marmo anticha di un Giove alto 7/8 con aguila ai piedi e fulmine nella destra rotto» passa in Galleria al tempo della riforma leopoldina (agu,
Filza xii, 1780, 116, n. 245) da Pitti dove era attestato nel gm 932 del 1687
c 128v.
276
piera bocci pacini · vera laura verona
Fig. 31. Bianchi (Cat. Dim. Tav. cxx).
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
277
Fig. 33. Hekateion M.A. 13994.
Fig. 32. Putto con cane.
ventario del 1769, numero che comprendeva 11 testine, parte antiche e parte moderne, probabilmente
riunite in gruppo al momento che erano state tolte
da un arredamento e appoggiate nella sala cd. dei Vasi Etruschi. La stessa situazione si ripete per il busto
muliebre n. 159 di cui Pelli nel Ristretto dà la provenienza dalla Tribuna. Ha ancora il numero 3821 del
1769 relativo a quattro pezzi ugualmente sistemati
nella sala dei Vasi Etruschi. L’inventario recita: «3821
4 busti di marmo con peducci simili che due alti in
tutto 2/3 circa, rappresentanti due Cesari uno con
barba e l’altro senza, altro alto … rappresenta un
putto alato e l’altro alto s 11 rappresenta una donna
278
piera bocci pacini · vera laura verona
Augusta con treccia dietro annodata». Per il gruppo
di 11 testine segnate 3781 nell’inventario del 1769 troviamo a margine la nota «trovate cinque delle di contro undici testine, le altre a Pitti». Da ciò si deduce
che in questi anni precedenti alla sistemazione leopoldina si registrano vasti spostamenti di statue e busti dalla Galleria ai palazzi residenziali e viceversa.
Presumibilmente i pezzi moderni sono inviati a Pitti.
Il nucleo raggruppato sotto il 3821 subisce uno
smembramento se troviamo sotto questo numero
passato a Palazzo Pitti solo un busto imperiale; la Filza xiii, 117 del 1780 con «Nota dei marmi mandati dalla Galleria al R. Palazzo di Residenza presi in consegna dal Granduca» riporta infatti accanto al 3821 «un
busto di marmo con peduccio rappresenta un Cesare» e rimanda alla sigla 89G.
Del resto a Pitti esistevano anche più serie di busti imperiali moderni di piccole proporzioni, confluiti poi al Museo Archeologico, che si potrebbero
far risalire al Cardinale Leopoldo. In effetti nella Filza iv, 1771-B, 25 (vedi nota 120) si trovano tra i diversi
generi segnalati in alcuni mezzanini del R. Palazzo
di Pitti due serie di Cesari precedute dai numeri 38 e
39. Più sotto al numero A 45 sono registrati i due piccoli busti leopoldini di Iside (n. 165) e Serapide (n.
161) di cui si è parlato. Interessante notare che nella
serie mandata al Poggio Imperiale la menzione dei
12 Cesari ha conservato oltre al numero 38 la lettera
A che contrassegna «i capi e generi pervenuti dai
magazzini del R. Palazzo dei Pitti» come si deduce
dal Giornaletto di Galleria del 1769 alla c 706 datata
25 febbraio 1771. Accanto alle serie più preziose per
lo più moderne esistono anche copie affini nella preziosità dei materiali come i bustini di Domiziano (n.
147)123 e di Ottone (n. 154)124 in marmo giallo di Siena per i quali come prima verifica si può risalire negli inventari di Galleria almeno fino all’esposizione
in Tribuna del 1753.
Per il Vespasiano (n. 160),125 con tutta l’incertezza
dovuta alle vecchie iconografie, si può ricordare oltre al bustino del 1753 il gm 30 di Cosimo I in cui alla
c 33 è attestata «una testa di marmo piccola pare di
Vespasiano auta da messer Paulo Banchelli a dì 6 di
maggio 1574 come al Giornale 64» che potrebbe identificarsi con la testa 14068 del Museo Archeologico
alta cm 18.
All’epoca di Francesco I riportavano anche, come
già detto, le due donne nn. 153 e 155126 ugualmente
con vesti in marmi policromi; per la c. d. Cleopatra
possiamo ricordare che nel gm 75 del 1570 (c 64v) oltre
a «una testa di marmo antica senza busto di una
Cleopatra» è segnata anche «una testa d’alabastro
con il busto moderno di una Creopata» con il rimando alla pagina 67 di un inventario precedente. Del re-
123 1753: 1764; 1769: 1304.
124 1753: 1777; 1769: 1317.
125 1753: 1753; 1769: 1293.
126 1) Tribuna 1589 (Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 306);
1635: 306 (Mansuelli, op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit.
a nota n. 44, ii, p. 171); 1704: 1949; 1753: 1784; 1769: 1324. 2) Tribuna 1589
(Gaeta Bertelà, op. cit. a nota n. 87, n. 304); 1635: 304 (Mansuelli,
op. cit. a nota n. 44, ii, p. 168); 1638 (Id., op. cit. a nota n. 44, ii, p. 171);
1704: 1952; 1753: 1786; 1769: 1326.
Fig. 34. Hekateion M.A. 14003.
il “ gabinetto delle miniature ” della galleria degli uffizi a firenze
279
sto in un documento ancora più antico che risale al
ture. Il programma museografico della sala su cui si
1553 (gm 28) sono ricordate nello scrittoio di Cosimo
erano esercitati il gusto per l’antico di L. Lanzi e la
«tre teste piccole di marmo, una con barba» e nel
passione per l’oggetto prezioso di G. Pelli non dovetGuardaroba «due testoline di marmo antiche» (c 30v)
te riscuotere un particolare successo se, appena noe «due teste di marmo antiche piccole» (c 31r).
minato, il direttore T. Puccini smantellò la sala135
Per le altre donne la catena inventariale di Galleria
dando prova del suo purismo e avviando così quel
si arresta al 1753 (n. 167)127 e al 1704 (n. 163);128 sempre
processo che portò gli Uffizi a diventare una pinacoalmeno al 1704 risale l’attestazione più antica per i buteca; al di là della grande statuaria, funzionale alla
sti del Diadumeno (n. 146),129 di Giove barbato (n.
decorazione dei corridoi, le importanti reliquie del
150),130 di incognito con pileo (n. 162)131 e di due Faucollezionismo mediceo dell’antico, dopo aver gironi (nn. 158 e 166),132 mentre gli altri due pezzi di tema
vagato per varie dimore da Pitti a Poggio Imperiale,
dionisiaco sono immessi in Galleria nel 1753 (n. 157)133
vennero trasferite in blocchi al Museo Archeologico
e nel 1704, se non addirittura nel 1676 (n. 168).134
che all’epoca, per regio decreto,136 si configurava coNel momento dell’allestimento del Gabinetto delme il primo museo italiano della civiltà etrusca, per
le Miniature i piccoli marmi antichi del Cardinale
cui i marmi degli Uffizi risultavano oggetti di accesLeopoldo vengono utilizzati insieme con altri delle
sorio, disposti per lo più sotto le arcate del giardietà precedenti per correlare la preziosità delle miniano137 a intervallare la decorazione floreale.
127 1753: 1757; 1769: 1297.
128 1704: 3450; 1753: 1398; 1769: 2334?.
129 1704: 789; 1753: 1455; 1769: 2342.
130 1704: 798; 1753: 1677; 1769: 1217.
131 1704: 775; 1753: 1391; 1769: 2279. La catena inventariale rimanda
nel 1769 al n. 2279 (bu, ms 98, non in Mansuelli) sotto cui sono indicate «due teste con poco busto di marmo antiche alte s 6 per ciascuna,
che rappresentano due filosofi, che uno con berretto in testa, con piede alto 1/6 di serpentino». Nel 1753 sotto il n. 1391 è replicata la stessa
descrizione che rimanda nel 1704 al n. 775, disposto nella «iv stanza
con finestra che tiene tutta la facciata di esso e guarda verso levante».
132 1) 1704: 792; 1753: 1381; 1769: 2269. 2) 1704: 795; 1753: 1675; 1769: 1215.
133 1753: 1718; 1769: 1258.
134 1676: 130?; 1704: 781; 1753: 1377; 1769: 2265.
135 Gli oggetti furono spostati nel cd. Magazzino dei Piatti. Per la
proposta di una sala dedicata alle piccole sculture si veda C. Gasparri, I marmi Farnese nel Museo Nazionale di Napoli e le sculture antiche
degli Uffizi, in Le sculture antiche. Problematiche legate all’esposizione dei
marmi antichi nelle collezioni storiche, Atti della giornata di studio,
Galleria degli Uffizi, 10 aprile 2002, a cura di A. Romualdi, Firenze,
2003, pp. 108-109.
136 L’istituzione del Museo Etrusco risale al 17 marzo 1870.
137 Per la nuova sistemazione del giardino vedi Il Giardino del
Museo Archeologico Nazionale di Firenze, a cura di A. Romualdi, Firenze, 2000.
ARTISTI NEOCLASSICI A ROMA:
STUDI DALL’ANTICO DALLE COLLEZIONI
LANTE, CONTI, VARESE, NARI E ALTRE RACCOLTE MINORI
Anna Maria Riccomini
S
cendevano a Roma più o meno tutti per lo stesso motivo, molti vi arrivavano per la prima volta,
a spese di una qualche accademia italiana (ma più
spesso straniera) che aveva dato loro fiducia, giovani
allievi mandati ad impratichirsi nell’arte del disegno
attraverso lo studio dei maestri antichi e a conoscere
le regole armoniche della statuaria classica. Alcuni,
artisti già affermati, vi tornavano per la seconda o la
terza volta, portando con sé gli studenti più dotati,
come nel caso di Jacques Louis David (1748-1825), che
nell’ottobre del 1784 giungerà di nuovo a Roma in
compagnia del giovane Jean-Germain Drouais, l’allievo prediletto e sfortunato (morirà a soli venticinque anni nel 1788), insieme al quale David si impegnerà ad esplorare i tesori di arte antica celati nelle
tante raccolte romane: i loro disegni, a volte semplici
schizzi, fatti in contemporanea e quasi sempre dallo
stesso punto di vista, ben ci documentano di queste
uscite comuni e svelano i tentativi del più anziano
maestro nel saggiare l’abilità dell’allievo, tentativi
ben riusciti tanto che ancora oggi gli studiosi si confondono, talvolta, nell’attribuire all’uno o all’altro
artista un qualche studio dall’antico.1 È lo stesso gio-
co di imitazione, quasi una gara, che unirà nelle loro
scorribande per la città e la campagna romana il romagnolo Felice Giani (1758-1823) e il friulano Franz
Caucig (1755-1828), compagni di appartamento in vicolo S. Isidoro tra il 1785 e il 1787:2 una pratica, quella
della copia in simultanea e dallo stesso angolo visuale che, unita all’abitudine di scambiarsi fogli, schizzi
e disegni (gesto inevitabile tra compagni di studio),
continua ancora oggi a mettere alla prova gli storici
dell’arte sulla corretta attribuzione di questo abbondante e prezioso materiale grafico.
È il caso, ad esempio, del taccuino di copie da rilievi e sculture antiche conservato tra i manoscritti
Lanciani a Palazzo Venezia (Ms. Lanc. 35), la cui antica attribuzione a Felice Giani è stata sostituita da
Ksenija Rozman con quella a Caucig e che l’Ottani
Cavina preferisce dare ad un anonimo artista attivo
a Roma nella loro stessa cerchia.3
Ma anche a prescindere dai problemi di precisa attribuzione, i taccuini di disegni dall’antico fatti per
studio a Roma dai pensionnaires e dai tanti artisti italiani, tedeschi, scandinavi, britannici, solo in parte
editi, ma spesso ancora nascosti nelle biblioteche di
1 Sui disegni dall’antico di David vedi David e Roma, catalogo della
mostra (Roma dic. 1981-feb. 1982), Roma 1981 pp. 42-63; P. Rosenberg, L.-A. Prat, Jacques-Louis David 1748-1825. Catalogue raisonné des
dessins, Milano 2002; P. Rosenberg, B. Peronnet, Un album inédit de
David, in Revue de l’art, 142, 2003-2004, pp. 45-83. Per i disegni dall’antico del giovane Drouais, purtroppo solo in parte pubblicati, vedi A.
Sérullaz, A propos d’un album de dessins de Jean-Germain Drouais au
musée de Rennes, in La revue du Louvre et des Musées de France, 26, 5/6,
1976, pp. 380-387 e P. Ramade, Jean-Germain Drouais 1763-1788, catalogo
della mostra (Rennes, giu.-set. 1985), s.l. 1985.
2 Su Felice Giani si veda A. Ottani Cavina, Felice Giani (1785-1823)
e la cultura di fine secolo, Milano 1999, con ricca bibliografia precedente
e, in particolare, per alcuni interessanti studi dall’antico, C. Stefani,
Gli studi di Felice Giani del taccuino 2604 dell’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, in Xenia Antiqua, iv, 1995, pp. 119-158. L’attività artistica
di Franz Caucig è stata da tempo indagata da Ksenija Rozman: in
particolare, per i disegni dall’antico, vedi K. Rozman, Painter Franc
Kavcic/Caugig and his Drawings of old Masterpieces, in Zbornik za Umetnostno Zgodovino, n.s. xi-xii, 1974-1976, pp. 39-69, in part. pp. 67-68 e
ancora ead., Franc Kavcic/Caucig 1755-1828, Ljubljana, 1978, ead. 1980,
ead., Franc Caucig 1755-1828. Drawings from the Narodna Galerija in
Ljubljana, catalogo della mostra (Cambridge, ott. 1984-gen. 1985),
Cambridge 1984; vedi anche A. Drigo, Francesco Caucig, un artista
goriziano tra Roma e Vienna, in Ottocento di frontiera. Gorizia 1780-1850.
Arte e cultura, Milano 1995 e soprattutto U. Müller-Kaspar, Franz
Caucigs Aufnahmen antiker Skulpturen in Rom, in Jahresheften des Österreichischen Archäologischen Institutes, 61, 1991/1992, pp. 113-127 e K.
Rozman, U. Müller-Kaspar, Franz Caucig. Ein Wiener Künstler der
Goethe-Zeit in Italien, catalogo della mostra (Wien-Stendal, dic. 2004feb. 2005), Tübingen 2004 in part. pp. 66-95. Per il confronto tra alcune
vedute romane eseguite, in contemporanea, da Caucig e da Giani, vedi Rozman 1980. Ringrazio sentitamente la dott.ssa Monika Knofler,
dell’Akademie der bildenden Künste di Vienna, per avermi facilitato
la consultazione dei disegni dall’antico del Fondo Caucig.
3 L’album, conservato alla Biblioteca Nazionale di Archeologia e
Storia dell’Arte di Palazzo Venezia, Fondo manoscritti Lanciani, con
l’antica attribuzione a Felice Giani (proposta in Faldi 1952), si compone di 166 fogli, di cui 96 numerati dall’autore (vedi M. P. Muzzioli,
P. Pellegrino, Schede dei Manoscritti Lanciani, in RIASA, s. iii, xivxv, 1991-1992, pp. 399-422, in particolare p. 417). Per le più recenti ipotesi attributive, vedi Rozman, Franc Kavcic, op. cit. a nota 2 e Ead.,
Franc Caucig, op. cit. a nota 2, p. 9, nota 10; Ottani Cavina, op. cit. a
nota 2, ii, pp. 759 e 908.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 281-298
282
anna maria riccomini
mezza Europa e d’oltreoceano, sono, come è noto,
una imprescindibile fonte di informazione sulla consistenza, negli ultimi decenni del Settecento, delle
principali collezioni romane di antichità,4 come la
Pamphilj, la Giustiniani, l’Aldobrandini, l’Altemps,
la Barberini, la Borghese, la Mattei e, ovviamente,
quella del cardinale Albani, di cui i disegni di Caucig
conservati a Vienna e soprattutto quelli dell’anonimo manoscritto Lanciani ci documentano oltre
un’ottantina di pezzi (e vien quasi da sorridere a pensare alla segrete e un po’ illecite manovre con cui, solo pochi anni anni prima, il padre Paciaudi aveva tentato di procurarsi, per conto dell’amico conte di
Caylus e con l’aiuto del giovane Hubert Robert, alcune riproduzioni delle sculture Albani).5
Ma persino più utili si rivelano questi taccuini laddove si tenti di ricostruire una collezione minore,
magari di recente formazione e non altrimenti documentata, una di quelle raccolte un po’ snobbate dagli
antiquari del tempo, ma per fortuna visitate dagli artisti, attratti forse dalla singolarità iconografica o dal
pregio artistico di qualche scultura o forse semplicemente incoraggiati da una più semplice e disinvolta
modalità di visita, non sempre garantita per le storiche raccolte cardinalizie.
Questo studio non ha, certo, la pretesa di ricostruire per intero nuclei collezionistici ormai dispersi, né l’ambizione di maneggiare con disinvoltura
l’immenso patrimonio di studi tardo-settecenteschi
dall’antico giunto sino a noi, neppure di quello edito.
Si tenta qui, con l’aiuto di alcuni, selezionati, fondi di
disegni (solo in parte pubblicati) di ridare un nome a
raccolte di antichità ancora poco note, se non addirittura sconosciute, e di fornire un volto a sculture
un tempo ammirate nelle guide della città o anche
solo apprezzate dagli artisti di fine secolo e oggi
scomparse.
Di grande utilità si sono rivelati, a questo scopo, i
già ricordati disegni dall’antico di David, tanto quelli
eseguiti nel corso del primo soggiorno romano, tra il
1775 e il 1780, che quelli elaborati insieme al giovane
Drouais, tra il 1784 e il 1785, e naturalmente i disegni
dello stesso Drouais (spesso corredati di interessanti
annotazioni topografiche); preziose indicazioni si sono invece ricavate dall’album di disegni del pittore irlandese Henry Tresham, a Roma tra il 1775 e il 1789:
pubblicato (con uno scarso apparato illustrativo) già
alla fine dell’Ottocento, il taccuino raccoglie centinaia di studi da sculture delle grandi collezioni romane
(Albani, Borghese, Medici, Barberini, Aldobrandini,
Farnese, Ludovisi, Negroni, Santacroce), senza trascurare, come vedremo, alcune raccolte minori, individuate da utili (ma, purtroppo, non sempre corrette)
didascalie.6 Ben più affidabili sono invece le didascalie
apposte da Franz Caucig ai suoi disegni viennesi, tra
cui oltre settecento studi dall’antico (in prevalenza
statue e rilievi) eseguiti quasi certamente dal vero e
con incredibile accuratezza filologica, un vero e proprio repertorio di statuaria classica, quasi un manuale
di iconografia antica (e certo questo voleva essere nelle intenzioni dell’artista, che di lì a poco si sarebbe servito di questo materiale per le sue lezioni di all’Accademia di Vienna): esaminati a più riprese, anche di
recente (compreso il fondo conservato nella Narodna
Galerija di Lubiana), in studi che ne hanno ben valorizzato l’importanza per lo studio delle collezioni
romane di antichità, i disegni viennesi del Caucig
rimangono, tuttavia, ancora in parte inediti e mai
pubblicati prima sono anche i fogli discussi in queste
pagine. Probabili copie un po’ corsive e frettolose degli studi romani del Caucig, frutto forse dell’esercizio
di un giovane seguace o di un compagno degli anni di
formazione, sono i disegni raccolti in un album
venduto all’asta a Londra nel 1981 e oggi disperso,7 un
corpus di rilievi e sculture selezionati per temi e iconografie, secondo una pratica già adottata dall’anonimo
4 Per una panoramica sulla situazione, alla fine del Settecento, delle principali raccolte romane di antichità, vedi P. Liverani, La situazione delle collezioni di antichità a Roma nel xviii secolo, in Antikensammlungen des europäischen Adels im 18. Jahrhundert als Ausdruck einer
europäischen Identität, a cura di D. Boschung e H. von Hesberg,
Mainz am Rhein 2000, pp. 66-73.
5 Nell’estate del 1760 Paolo Maria Paciaudi aveva istruito il giovane Hubert Robert nel disegno documentario dall’antico e tentato di
far giungere all’amico in Francia alcuni studi delle antichità Albani,
all’epoca ancora in gran parte inedite. Sull’intera vicenda, vedi F. G.
Pariset, Notes sur Victor Louis, I. Louis, Hubert Robert et le comte de Caylus, in Bulletin de la Société de l’Histoire de l’Art Français, 1959, pp. 41-47.
Sull’attività di Hubert Robert come disegnatore di antichità per conto del Paciaudi e del conte di Caylus vedi anche J. Raspi Serra, La
Roma di Winckelmann e dei «pensionnaires», in Eutopia, 2, 1993, pp. 79-
132, in particolare pp. 97-98 e Ead., Caylus et les artistes in J. Raspi
Serra e F. de Polignac, La fascination de l’antique 1700-1770. Rome découverte, Rome inventée, catalogo della mostra, (Lyon, dic. 1998-mar.
1999), Paris 1998, pp. 170-178, in particolare p. 174.
6 C. Robert, Römisches Skizzenbuch aus dem achtzehnten Jahrundert
im Besitz der Frau Generalin von Bauer geb. Ruhl zu Kassel, in Zwanzigstes
Hallisches Winckelmannsprogramm, Halle, 1897. Sulle frequentazioni
romane del Tresham vedi Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, i, pp. 64 e
80-81.
7 L’album (indicato d’ora in poi come Album londinese), con una
generica attribuzione ad un anonimo di scuola romana, è segnalato
nel catalogo d’asta di Chaucer Fine Arts di Londra (Autunno 1981):
Collecting in the 18th Century. Paintings and Drawings. Works of Art, n. 23
(ringrazio vivamente il dott. Marcello Violante, di Chaucer Fine Arts,
per avermi fornito le riproduzioni dei disegni). Si tratta di un album
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
artista del Ms. Lanciani 35, che negli oltre centosessanta fogli dall’antico ha spesso indicato il soggetto
delle sculture (e quasi mai, purtroppo, la collocazione). Ancora del tutto aperta, come abbiamo visto, è
l’attribuzione del Ms. Lanciani, molto vicino allo stile
di Caucig, tanto da essergli attribuito, ma un poco più
debole nel tratto e non troppo lontano, in fondo, dal
ductus dell’album londinese, così che verrebbe da
chiedersi se non possano essere entrambi opera dello
stesso (ancora anonimo) artista, anzi, se i due fondi
non siano, in realtà, parti di un unico progetto di studio, un’ipotesi suggerita dalla omogeneità dei modelli scelti e rafforzata dalla perfetta complementarità,
senza inutili ripetizioni, tra i soggetti copiati, proprio
come se i due album avessero formato, in origine, un
continuum di sculture e rilevi antichi, un unico corpus
della statuaria classica visibile all’epoca a Roma, nei
musei e nelle raccolte private: album che vanno quasi
certamente intesi come copia e, forse, come selezione degli studi dall’antico realizzati a Roma dalla cerchia del Caucig, probabilmente da qualche compagno della casa di vicolo S. Isidoro.8
Collezione Lante
Nel 1744 Francesco de’ Ficoroni segnalava, nel cortile
di palazzo Lante, sulla piazza dei Caprettari, «non
di 94 fogli numerati, quasi tutti con l’indicazione del soggetto, raffiguranti statue e rilievi antichi (vedi anche Rozman, Franc Caucig, op.
cit. a nota 2, pp. 4-5, che individuava in questi disegni confronti tanto
con le tipologie, soprattutto dei volti, tipiche di Caucig, che con il
tratto disegnativo e chiaroscurale di Giani). Già la Rozman, Painter,
op. cit. a nota 2 e Ead, Franc Kavcic, op. cit. a nota 2 aveva suggerito
che i disegni eseguiti a Roma dal Caucig fossero destinati alla pubblicazione (mai realizzata) di un corpus di sculture antiche.
8 Mentre il Ms. Lanciani 35 documenta sculture antiche all’epoca
conservate, soprattutto, nelle collezioni Albani, Mattei, Pamphilj,
Borghese, Giustiniani, Barberini e nel Museo del Campidoglio, l’Album londinese riproduce prevalentemente marmi antichi delle raccolte minori, come quelle Altieri, Altemps, Lancellotti, Varese, Nari,
Falconieri, Conti, oltre a documentare diverse sculture Albani e Capitoline non inserite nel Ms. Lanciani: e anche quando uno stesso monumento antico si trova riprodotto in entrambi gli album, i disegni
non sono mai coincidenti, come nel caso della cd. Ara di Domizio
Enobarbo, all’epoca ancora nel palazzo Santacroce, di cui il Ms. Lanciani 35 conserva quattro disegni relativi al lato lungo del thiasos marino (foll. 124-127), mentre l’Album londinese raccoglieva quelli raffiguranti i lati brevi del monumento (foll. 57-58). Non si tratta,
comunque, di parti smembrate di uno stesso taccuino, considerate
anche solo le diverse misure dei fogli (mm 271 × 190 per il Ms. Lanciani
e 315 × 217 per l’Album londinese). Gli album presentano una simile
mescolanza di disegni rifiniti con ombreggiature all’acquatinta e studi più sommariamente delineati a china; molti, in entrambi i casi, sono i soggetti comuni anche ai disegni del Caucig (spesso si tratta di
vere e proprie copie) e talvolta si riscontrano sovrapposizioni anche
283
poche buone statue, come pure busti e dipinture»9 e
intorno alla fine del secolo il Vasi precisava che i pezzi più degni di nota erano quelli di «une femme sur
la fontaine qu’on y voit; un Bacchus; deux Muses, un
Apollon et une Diane»,10 un gruppo di marmi che
Antonio Nibby vide ancora, con una diversa distribuzione all’interno del palazzo, nella sua ricognizione del 1838.11
Sulla statua di donna seduta che ornava la fontana siamo bene informati dalle fonti dell’epoca: oltre
alla breve menzione del Vasi, questa scultura, tradizionalmente identificata come Ino/Leucotea che allatta Bacco, fu inserita (con una tavola illustrativa) nei
Monumenti inediti del Guattani, che ancora nel 1805 si
stupiva di come un monumento così singolare fosse
sino ad allora sfuggito all’attenzione degli antiquari
e rimasto sconosciuto persino al Winckelmann.12 A
notarlo, già prima della segnalazione del Vasi, saranno invece gli artisti, il David, il Caucig, gli architetti
Pierre-Françoise-Léonard Fontaine e Charles Percier e l’anonimo autore del Ms. Lanciani (Fig. 1),
che del gruppo ci hanno lasciato diversi studi.13 È
questo l’unico marmo antico, tra quelli celebrati
nelle Guide di Roma, ad essere rimasto, fino ad anni
recenti, al suo posto, nel cortile del palazzo; di quasi
tutte le altre statue si sono invece, nel tempo, perse
le tracce.
con studi dall’antico già attribuiti a Giani, come nel caso del foglio
con quattro vasi antichi dell’Album londinese (fol. 56), identico a uno
studio del fondo Giani al Cooper-Hewitt Museum di New York
(Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, ii, A1.9, fig. 1097).
9 F. de’ Ficoroni, Le Vestigia e rarità di Roma antica ricercate, e spiegate, ii. Le Singolarità di Roma moderna ricercate, e spiegate, Roma 1744.
p. 49.
10 M. Vasi, Itinéraire instructif de Rome ou Description générale des
monumens antiques et modernes, et des ouvrages les plus remarquables de
peinture, de sculpture et d’architecture de cette célèbre ville et d’une partie de
ses environs, Rome 1792, pp. 400-401.
11 A. Nibby, Roma nell’anno 1838, iv, Roma 1841, pp. 785-786.
12 G. A. Guattani, Monumenti antichi inediti, ovvero notizie sulle
antichità e belle arti di Roma, vii, Roma, 1805, pp. xxv-xxxiii, tav. v (“Ino
allattante Bacco”): nella sua pubblicazione del pezzo, il Guattani ricordava i restauri commissionati dal cardinale Marcello Lante allo
scultore Gaspare Sibilla e si interrogava sulla provenienza del gruppo,
ipotizzandone (ma molto dubitativamente) l’identità con la figura
femminile seduta, acefala e senza braccia (e senza il putto) incisa in
controparte alla fine del Cinquecento dal de’ Cavalleriis, come pertinente alla collezione del cardinale di Ferrara, Ippolito II d’Este, sul
Quirinale. Su questo gruppo, oggi rimosso dal cortile, vedi C. Pericoli Ridolfini, Guide rionali di Roma. Rione viii, S. Eustachio, iii, Roma 1984, pp. 109-110 e Randolfi 2003, pp. 439-40 e 458 nota 80 (il gruppo, già trasferito nel giardino di Villa Grazioli Lante, si trova oggi in
collezione privata: ringrazio per questa informazione Rita Randolfi,
che ha in corso di pubblicazione uno studio su questo pezzo)..
13 Rosenberg e Prat 2002, i, p. 489, nn. 616 e 617 (“al pallazzo del
duca lanti”); Rozman 1978, p. 216, fig. 13 e Eadem 1984, p. 29, n. 53 (“Pa-
284
anna maria riccomini
Fig. 1. Anonimo della seconda metà del xviii sec.,
Leucotea con Bacco bambino,
disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190.
Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 118.
Fig. 2. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Apollo,
disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190.
Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 116.
Insieme al gruppo della Leucotea, l’altro ‘pezzoforte’ della collezione, anch’esso esposto nel cortile,
era una «copia del rinomato Apollo di Delfo, tanto celebre nell’Antichità»,14 una statua del Dio di tipo arcaistico, dall’eccezionale stato di conservazione, ele-
menti entrambi che ne incoraggiavano il confronto
con l’allora celeberrimo Apollo della raccolta Conti,
accrescendone a dismisura il valore commerciale.15
Ancora una volta le fonti antiquarie tacciono su questo marmo, ma la particolare iconografia del pezzo
lazzo Lanti”); per il disegno del Fontaine e quello di Charles Percier,
che documentano entrambi anche la fontana su cui era collocato il
gruppo, vedi Di Castro e Fox 2007, p. 20, fol. ii.2 e Fondo Percier, Bibliothèque de l’Institut, Paris, Ms. 1007, fol. 109, n. 256; Ms. Lanciani
35, fol. 118. Ringrazio sentitamente il prof. Henri Lavagne per avermi
facilitato la consultazione del Fondo Percier.
15 «Questa statua è rarissima per una curiosa particolarità, mentre è opinione che possa essere la copia del rinomato Apollo Delfico,
quel che è sicuro che altre copie così conservate non si conoscono.
Lo stile della suddetta è del cosiddetto Etrusco, ma in sostanza Greco
del rigido stile»: così è descritta la nostra statua nella stima dei marmi
Lante fatta da Antonio D’Este poco dopo il 1808 (vedi Randolfi, op.
cit. a nota 14, p. 440). L’Apollo della collezione Conti (discusso più
avanti) è forse identificabile con la statua acquistata a Roma nel 1777
dal langravio d’Assia Federico II e oggi a Kassel, probabile replica
dell’Apollo Parnopios di Fidia (M. Bieber, Die antiken Skulpturen und
Bronzen des Königl. Museum Friedericianum in Cassel, Marburg 1915, n.
1, p. 1, tavv. i-viii; ma vedi, per una diversa identificazione con una
replica romana dell’Apollo dell’Omphalos, nella collezione Torlonia,
L. Guerrini, Due disegni di Pier Leone Ghezzi, in Studi Miscellanei, 15,
1970, pp. 27-32).
14 Come è descritto nell’elenco delle opere che il duca Vincenzo
Lante dovette dare in assegna al pontefice, in ottemperanza del Chirografo di Pio VII, del 1802, riportato in R. Lanciani, Storia degli scavi
di Roma e notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma 19892002 (ed. orig. dei voll. i-iv, Roma 1902-1912), vi, p. 263: vedi anche R.
Randolfi, Albacini, Cades, Ceccarini, D’Este, Landi e Pacetti e la collezione di sculture dei Lante Vaini della Rovere nel palazzo di piazza dei Caprettari, in Sculture romane del Settecento, III, La professione dello scultore,
a cura di E. Debenedetti, (Studi sul Settecento romano, 19), Roma
2003, pp. 439-440.
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
285
Fig. 3. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Diana,
disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190.
Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 113.
non sfuggì invece all’anonimo autore del Ms. Lanciani (Fig. 2), che dell’Apollo ci ha lasciato un disegno
molto accurato, uno studio (il fol. 116) impaginato a
poca distanza da quello con la Leucotea (fol. 118) e in
mezzo ad altri disegni (foll. 113-115) riferibili, come
vedremo, a sculture della collezione Lante. L’artista
ha riprodotto con buona fedeltà lo stile arcaizzante e
gli elementi distintivi di questa scultura (come la corona d’alloro e la faretra appesa al tronco d’albero),
così da facilitarne l’identificazione con l’Apollo messo in vendita, alla fine dell’Ottocento, sul mercato
antiquario romano, con una provenienza da palazzo
Odescalchi e oggi conservato al Museo di Belle Arti
di Budapest (Fig. 2a):16 pendenze creditizie, ben documentate dall’archivio Lante, avevano infatti spinto
gli Odescalchi ad avanzare pretese, fin dai primi anni
16 Ancora nel 1893 il pezzo si trovava presso l’antiquario Marcocchia, in piazza di Spagna, dopo essere stato dell’antiquario Jandolo e
prima ancora nel palazzo Odescalchi (ea 1986), dove ancora si trovava
intorno al 1880 (F. Matz, F. von Duhn, Antike Bildwerke in Rom, mit
Ausschluss der grösseren Sammlungen, i-iii, rist. anast. Roma 1968 (ed.
orig. Leipzig 1881-1882), n. 180): sulle vicende collezionistiche di questo pezzo vedi A. Hekler, Museum der Bildenden Künste in Budapest.
Die Sammlung Antiker Skulpturen, Wien 1929, n. 173, p. 174.
Fig. 2a. Apollo arcaistico, marmo, età romana. Budapest,
Museo di Belle Arti. (Foto: Gisela Fittschen-Badura)
286
anna maria riccomini
Fig. 4. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Musa,
disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190.
Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 115.
Fig. 5. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Musa,
disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190.
Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 114.
del xix secolo, sui beni dei Lante, così che nel 1827
numerose sculture antiche finirono per migrare dal
Palazzo di piazza dei Caprettari a quello degli Odescalchi, e tra queste il nostro Apollo, uno dei pezzi più
quotati dell’intera raccolta.17
La statua di Diana del fol. 113 del Ms. Lanciani
(Fig. 3) corrisponde allo stesso modello antico copiato dal Caucig in un disegno viennese,18 con la didascalia “Palazo Lanti”: si tratta certamente della sta-
tua già esposta nel cortile del palazzo, descritta come «succinta» (e dunque in chitone corto) nella stima della statue Lante fatta nel 1794 da Vincenzo Pacetti e che un inventario del 1826 ricordava «con
mezza luna in testa, e coturni alli piedi».19 Finita anch’essa sul mercato antiquario nel 1827,20 la Diana entrò a far parte del cabinet parigino del conte di Pourtalès, per essere nuovamente messa all’asta nel 1865,
e infine dispersa.21
17 Sulle vertenze economico-giuridiche tra i Lante e gli Odescalchi, vedi M. G. Picozzi, D. Candilio, S. Brusini, Statue antiche restaurate a Palazzo Odescalchi, in Bollettino di Archeologia, 41-42, 1996, pp.
15-63, in particolare pp. 20-21 (in cui si fa riferimento anche all’Apollo
arcaistico) e Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 441.
18 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig, hz 702.
19 La statua, giudicata «di buona stile» nella stima redatta da Antonio D’Este nel 1811, aveva braccia e gambe moderne (Randolfi,
op. cit. a nota 14, p. 440 e p. 456, nota 74).
20 All’epoca della grande vendita all’asta dei marmi Lante, nel
1827, la Diana venne acquistata dall’antiquario Francesco Capranesi
(Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 443).
21 Tra i marmi messi invendita a Parigi dal conte di Pourtalès, nel
1865, figurava anche una Diana già a Palazzo Lanti (Catalogue des objets d’art et de haute curiosité antiques, du Moyen Age et de la Renaissance
qui composent les collections de feu m. le comte de Pourtalès-Gorgier, Paris
1865, p. 16, n. 56), e molto somigliante alla nostra statua è, in effetti,
l’incisione della Diana Pourtalès edita dal Clarac (Musée de sculpture
antique et moderne, Paris 1826-1853, tav. 577, n. 1243; vedi S. Reinach,
Répertoire de la Statuaire Grecque et Romaine, I, Paris 1897, p. 310, n. 1).
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
287
Fig. 6. Anonimo della seconda metà del xviii sec., Apollo,
disegno a china con ombreggiature in seppia, mm 271 × 190.
Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 117.
Fig. 7. F. Caucig, Atena, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone, Vienna,
Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 701), mm 333 × 215
Come disperse sono anche le due statue di Muse,
tanto celebrate dalle Guide di Roma e di cui i disegni
viennesi del Caucig22 e quelli del Ms. Lanciani ci conservano, almeno, l’immagine (Figg. 4-5): una, con
una maschera nella destra abbassata, corrisponde
quasi certamente alla statua «con maschera in mano» toccata, nella ripartizione dei beni Lante ai vari
creditori, conclusasi nel 1828, a Mario e Guglielmina
Massimi, mentre l’altra, con un flauto nella mano
destra, nella iconografia della Euterpe dell’Antikmuseum di Stoccolma, rientra in un tipo statuario troppo generico per riuscire a ripercorrerne le vicende
collezionistiche.23
Tra i marmi Lante stimati dal Pacetti nel 1794 si fa
menzione anche di una seconda, e assai meno
pregiata, statua di Apollo, «nudo colla cetra», certo
coincidente con la «statua di Apollo restaurata con
lira accanto ora però mancante dove appoggia la
mano sinistra», acquistata per pochi soldi dall’antiquario Ignazio Vescovali, nel 1826:24 si tratta forse
dello stesso pezzo disegnato, ancora integro, nel Ms.
Lanciani (Fig. 6), al fol. 117 (proprio accanto al più
celebre Apollo arcaistico), ma oggi disperso. Non
segnalata dalla guide, ma degna di nota per gli artisti
del tempo doveva poi essere una statua di Atena, del
tipo Ince, copiata dal Caucig in uno dei suoi studi
22 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig, hz 585 e 635 (entrambi con la didascalia “Palazo Lanti”); Ms. Lanciani 35, foll. 114 e 115, senza alcuna didascalia.
23 Ma è forse utile segnalarne la somiglianza (ad eccezione della
testa, girata dal lato opposto) con la statua documentata a Palazzo
Valentini, alla fine dell’Ottocento (ea 2389), pubblicata in M. Conticello De’ Spagnolis, La collezione di sculture antiche, in Palazzo Valentini, a cura di G. Farina, Roma 1985, pp. 246-247, n. 10.
24 Randolfi, op. cit. a nota 14, p. 443 e pp. 455-456, note 67 (vendita
Vescovali) e 72 (stima del Pacetti).
288
anna maria riccomini
Fig. 8. F. Caucig, Imperatore romano, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 51), mm 333 × 215.
Fig. 9. F. Caucig, Sacerdote romano, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 233), mm 333 × 215.
viennesi (Fig. 7),25 ma anch’essa oggi di difficile
identificazione.
Tra i primi incarichi di Vincenzo Pacetti, da poco alla guida dello studio ereditato dal Pacilli, ci fu quello di restaurare una statua della raccolta Conti:26
all’epoca di questo giovanile ricordo del Pacetti, risalente all’aprile del 1773, il pezzo più noto della collezione di antichità riunita nel palazzo dei duchi di
Poli, che ancora domina la Fontana di Trevi, era
senza dubbio la statua di Apollo scoperta tra il 1721
e il 1724 presso il Lago di Soressa (oggi Lago di Paola), a nord del Circeo, che parte della critica archeologica ha proposto di identificare con l’Apollo oggi
a Kassel.27 Ben noto a Pier Leone Ghezzi e ad Anton Francesco Gori, già a pochi anni dal suo ritrovamento, sarà questo l’unico marmo antico della
collezione Conti ad essere citato nella Storia dell’arte
del Winckelmann,28 in riferimento alle sculture di
stile arcaistico, mentre del tutto ignorate rimasero,
dalle fonti settecentesche e del primo Ottocento, le
altre antichità della famiglia. Una statua di impera-
25 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig, hz 701 (“Palazo Lanti”).
26 Come ricorderà lo stesso scultore nel suo Giornale, conservato
manoscritto presso la Biblioteca Alessandrina di Roma (ms. 321): vedi
Honour 1960, p. 174.
27 Bieber, op. cit. a nota 15, n. 1, pp. 1-2; E. Schmidt, Der Kasseler
Apollon und seine Repliken, in Antike Plastik, V, Berlin 1966, pp. 10-14,
tavv. 1-11; C. Gasparri, s.v. Collezioni archeologiche, in EAA, Suppl. II,
2, s.l. 1994. Vedi anche supra nota 15.
28 Vedi G. G. Winckelmann, Opere, Prato 1830, ii, pp. 48-49 e p.
555. Per le descrizioni di questo pezzo lasciateci da Pier Leone Ghezzi
e da Anton Francesco Gori, vedi Guerrini, op. cit. a nota 15.
Collezione Conti
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
289
Fig. 10. F. Caucig, Musa, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 115), mm 333 × 215.
Fig. 11. F. Caucig, Musa, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 253), mm 333 × 215.
tore, con corta tunica e mantello, integrata con una
testa di Settimio Severo, venne però disegnata, prima della sua dispersione,29 da Henry Tresham, negli anni del suo soggiorno romano (1775-1789), da
Franc Caucig (Fig. 8) e copiata anche dall’anonimo
autore dell’Album londinese;30 un pezzo cui forse
faceva da pendant un’altra statua virile, dalla curiosa
iconografia, riprodotta dal Tresham e ormai nota
solo grazie ad un disegno del Caucig (Fig. 9):31 ve-
stita di lunga tunica fermata sui fianchi e con ampie
maniche a sbuffo, la figura ha sul petto un grosso
collare a due giri, con teste di serpente affrontate
che mordono una gemma ovale, e regge nella destra la patera per i sacrifici,32 elementi che, in età romana, dovevano caratterizzare i sacerdoti di Bellona, come dimostra anche il ritratto di L. Lartius
Anthus, cistophorus del tempio di Bellona, scolpito a
rilievo sul suo monumento funebre, oggi perduto.33
29 La statua si trovava ancora nel palazzo ormai noto come Palazzo Poli (i Conti erano duchi di Poli), ancora negli anni Ottanta dell’Ottocento (Matz, Duhn, op. cit. a nota 16, n. 1314).
30 Per questi disegni, vedi rispettivamente Robert, op. cit. a nota
6, p. 44, n. 185 (iii 6); Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz 51 (“Pallazo Conti”) e Album londinese (vedi supra nota 7), fol. 72 (“Palazo Conti”).
31 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig, hz 233 (“Pallazo Conti”). Il disegno del Tresham è descritto (senza riproduzione fotografica) in Robert, op,. cit. a nota 6,
p. 45, n. 194 (iii 14).
32 Ancora negli anni Ottanta dell’Ottocento la statua si trovava a
Roma, nel palazzo Poli (Matz, Duhn, op. cit. a nota 16, n. 1316). Per
questo pezzo, vedi anche J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie. Die
Bildnisse der römischen Kaiser und ihrer angehörigen, II, 3, Stuttgart-Berlin-Leipzig 1894, n. 21, p. 23; A. M. Mc Cann, The Portraits of Septimius Severus (A.D. 193-211), in MAAR, xxx, 1968, p. 188, App. 1, cat. i (che
già lo dava per disperso) e D. Soechting, Die Porträts des Septimius
Severus, Bonn 1972, p. 245, n. 6.
33 Il cippo, rinvenuto a Roma nel 1729, è documentato dalla descrizione di Anton Francesco Gori (cil vi 2233): Matz, Duhn, op. cit. a
nota 16, n. 3876.
290
anna maria riccomini
Fig. 12. F. Caucig, Atena, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 59), mm 333 × 215.
Fig. 11a. Musa, marmo, età romana,
collocazione attuale sconosciuta.
ta, nella grande statuaria; colpisce invece, ancora
una volta, il silenzio degli antiquari.
Collezione Varese
La strana foggia dell’abito e il bizzarro collare di
questi sacerdoti, attestati entrambi anche nel culto
di Cibele,34 avevano già da tempo incuriosito gli artisti, e infatti anche Nicolas Poussin, nei suoi studi
romani di antichità, si era soffermato a copiare (forse da un rilievo funerario), una simile figura con
collare a forma di serpente,35 e dunque non stupisce
che anche il Caucig abbia scelto di documentare
questa strana iconografia, poco attestata, per giun-
Commissionato a Carlo Maderno da monsignor
Diomede (ca. 1582-1652), il palazzo Varese è ancora
oggi una delle più eleganti presenze architettoniche
tra quelle che prospettano su Strada Giulia ma, a dispetto dell’illustre nome del suo architetto, sono
davvero poche le antiche guide di Roma che dedicano anche solo qualche parola all’edificio, e nessuna
fa mai menzione della collezione di sculture antiche
qui raccolta alla fine del Settecento.
34 Vedi ad esempio J. Vermaseren, Corpus Cultus Cybelae Attidisque (CCCA), III. Italia-Latium, Leiden 1977, nn. 249, 250 e 466.
35 Vedi P. Rosenberg, L.-A. Prat, Nicolas Poussin (1594-1665). Catalogue raisonnée des dessins, Milano 1994, I, p. 324, n. 169r e P. Rosen-
berg, Un ensemble de copies de dessins d’après l’Antique de Poussin, in Studiolo, 4, 2006, pp. 129-166, in particolare p. 132, fig. 7 (Album de Louviers,
fol. 67, da uno studio del Poussin. Il collare con teste di serpente è indicato con la scritta “torques”).
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
291
Fig. 13. Anonimo della seconda metà del xviii sec.,
rilievo con ara, disegno a china con ombreggiature in seppia,
mm 271 × 190. Roma, Palazzo Venezia, Ms. Lanciani 35, fol. 8.
Due statue, forse di Muse, sono però documentate
a “Pallazo Varese” dai disegni viennesi del Caucig
(Figg. 10-11): la prima, vestita di un lungo chitone
con maniche e mantello frangiato, rimane ancora di
difficile identificazione, mentre l’altra, anch’essa in
chitone e mantello, con un flauto (?) nella destra abbassata e una tavoletta (o un volumen ripiegato) nella
mano sinistra, va riconosciuta, credo, nella statua
(ormai priva dell’attributo) in vendita, alla fine
dell’Ottocento, sul mercato antiquario romano e di
cui oggi si sono perse le tracce (Fig. 11a).36
Presenza più significativa, nella raccolta di sculture del palazzo, doveva certo essere la statua di Atena, replica di quella Giustiniani, appoggiata ad un
vistoso supporto a tronco d’albero intorno a cui si
attorciglia un enorme serpente: si tratta, senza dubbio, della statua entrata nell’Ottocento nella collezione Torlonia ed erroneamente elencata da Pietro
Ercole Visconti tra i marmi rinvenuti negli scavi di
Porto, promossi dal principe Alessandro a partire
dal 1856.37 L’Atena venne disegnata da Henry Tresham, che la segnala a “Villa Medici”,38 una collocazione diversa da quella indicata nello studio viennese del Caucig (Fig. 12), sempre piuttosto affidabile
nelle annotazioni topografiche e che invece la vide a
“Pallazo Varese” (dove la statua è indicata anche dall’anonimo artista dell’Album londinese):39 si potrebbe facilmente pensare ad un errore del Tresham, già
altrove inesatto sulla collocazione dei pezzi copiati
36 Per i disegni di queste statue, vedi rispettivamente Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig, hz
115 e 253 (entrambi con didascalia “Pallazo Varese”). La statua di Musa
con tavoletta, in vendita presso l’antiquario Simonetti, è documentata in ea 1185.
37 Visconti 1876, p. 74, n. 277; vedi anche Schreiber 1879. Sul ma-
teriale proveniente dagli scavi eseguiti a Porto, presso Fiumicino, dai
principi Torlonia, vedi Gasparri 1980.
38 Robert, op. cit. a nota 6, p. 24, n. 58 (ii 42).
39 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig, hz 59 (“Pallazo Varese”) e Album londinese, fol. 83
(“Palazo Varese”).
Fig. 12a. Atena tipo Giustiniani, marmo, età romana,
Roma, Museo Torlonia.
292
anna maria riccomini
nei suoi taccuini,40 o pensare che l’artista abbia disegnato da un gesso dell’Accademia di Francia, a Villa
Medici, appunto. Il pezzo era comunque già noto
fin dalla metà circa del Cinquecento, quando venne
riprodotto da Jacopo Strada nel suo Codex Miniatus
di Vienna, con l’aggiunta di una base votiva a Pallade Vincitrice, probabilmente falsa;41 quando e per
quali vie collezionistiche l’Atena sia giunta in possesso della famiglia Varese e da lì ai Torlonia non è
possibile dire, considerate le nostre scarsissime (o
quasi inesistenti) conoscenze sulla collezione di antichità riunita alla fine del Settecento nel grande palazzo di Strada Giulia.
E proprio tra queste antichità doveva trovarsi, alla
fine del secolo, anche la Stele Borgia, uno dei pezzi più
celebri e ammirati della collezione formata dal cardinale Stefano Borgia e riunita nel suo palazzo di
Velletri: l’amico e antiquario del cardinale, il danese
Georg Zoega, la ricorda infatti, nel 1791, ancora a Roma, nel Palazzo Varese, dove quasi certamente la copiò anche il Tresham;42 di lì a poco, forse per interessamento dello stesso Zoega, la stele sarebbe passata
nelle raccolte borgiane e infine a Napoli, dove ancora si trova. Sono questi, infatti, gli anni in cui il cardinale è maggiormente impegnato nella formazione
del suo museo, destinato ad ospitare anche importanti reperti archeologici, frutto in parte di scavi condotti nell’agro veliterno, e di certo le critiche condizioni finanziarie in cui ormai versavano molte
famiglie della nobiltà romana, costrette a vendere intere collezioni d’arte, dovettero giocare a suo favore.
È questo, forse, il caso del curioso rilievo raffigurante un’ara accesa (Fig. 13a), un frammento di un
pannello marmoreo con scena idillico-sacrale, documentato a Velletri almeno dal 179443 ma riprodotto,
quando ancora si trovava a Roma, dal Caucig (con
l’indicazione “Cavaceppi”) e dall’anonimo autore
del Ms. Lanciani (Fig. 13):44 lo studio dello scultore
Bartolomeo Cavaceppi, con il suo inesauribile patrimonio di frammenti marmorei, gessi e repliche
dall’antico rappresentava, come è ben noto, una forte attrazione per i giovani artisti bisognosi di far pratica e anche il Caucig non mancò di disegnarvi alcune riproduzioni in gesso di pezzi della collezione
Albani,45 ma in questo caso viene da chiedersi se nella bottega dello scultore ci fosse non il gesso, ma il
rilievo originale, già noto al Piranesi (che ce ne ha la-
40 Come sottolinea lo stesso Robert, nell’edizione degli album
Tresham (Robert, op. cit. a nota 6, p. 3).
41 Wien, Österreichische Nationalbibliothek, Codex Miniatus 21,2,
fol. 27; l’iscrizione leggibile sulla base (“Palladi Victrici sacrum … sum
… g … d.d.”) non è riportata nel cil .
42 Per la notizia riferita dallo Zoega (nei suoi Appunti di antichità
conservati a Copenhagen, fol. 108r) e il disegno di Henry Tresham,
vedi Robert, op. cit. a nota 6, p. 48, n. 221 (i 2). Sulle collezioni riunite
dal cardinale Stefano Borgia, vedi La collezione Borgia, curiosità e tesori
da ogni parte del mondo, catalogo della mostra (Velletri, mar.-giu. 2001Napoli, giu.-sett. 2001), a cura di A. Germano e M. Nocca, Napoli
2001, in part. p. 108, n. iv.1 per la stele Borgia (documentata in proprietà della famiglia del cardinale a partire dall’inventario del 1814).
Per il pezzo, oggi al Museo Archeologico di Napoli, vedi A. Ruesch,
Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli, Napoli 1911, p. 26, n. 98
e R. Cantilena, E. La Rocca, U. Pannuti, L. Scatozza, Le colle-
zioni del Museo Nazionale di Napoli I, 2, Roma-Milano 1989, p. 152, n.
270.
43 Il pezzo fu infatti disegnato “Dans le museum de M. Borgiani a
Velletri” dal Fontaine, a Roma tra il 1785 e il 1791 (Di Castro e Fox 2007,
p. 22, fol. iii.1) e, in quegli stessi anni, anche da Charles Percier (Fondo
Percier, Bibliothèque de l’Institut, Paris, Ms. 1009, fol. 105, n. 196. Nel
1794 il rilievo venne visto, sempre nel Museo Borgiano, anche da Luigi Lanzi, che lo descrisse nel suo taccuino di viaggio: Germano e
Nocca 2001, p. 111, n. iv.6 e Nocca 2001, pp. 165 e 166.
44 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig, hz 764 (“Cavaceppi”) e Ms. Lanciani 35, fol, 8.
45 Per i disegni da repliche in gesso di marmi Albani, eseguiti dal
Caucig nello studio del Cavaceppi, vedi U. Müller-Kaspar, Franz
Caucigs Aufnahmen antiker Skulpturen in Rom, in Jahresheften des Österreichischen Archäologischen Institutes, 61, 1991/1992, pp. 113-127, in particolare, pp. 118-127.
Fig. 13a. Rilievo con ara, marmo, età romana. Napoli,
Museo Archeologico Nazionale (inv. man, igmn 128/82)
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
293
Fig. 14. F. Caucig, Figure femminili, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 351), mm 333 × 215.
sciato un’incisione)46 e poi finito, forse per essere integrato, nello studio dello scultore romano: e sarebbe allora per tramite del Cavaceppi che il cardinale
Borgia poté aggiungere questo curioso pezzo antico
alla sua collezione.
Collezione Nari
Fig. 14a. Rilievo con Ninfa seduta su una roccia, marmo,
età romana. Berlino, Staatliche Museen (inv. Sk 899).
Formata già a partire dal Cinquecento, la collezione
di antichità raccolta nel palazzo di piazza Campo
Marzio, che alla fine del secolo contava ancora solo
una statua di Venere nuda ed un Ercole acefalo,47
venne notevolmente accresciuta nei primi decenni
del Settecento grazie agli scavi condotti nella vigna
dei marchesi Nari, sulla via Salaria, poco al di fuori
delle mura. Qui, in località Grotta Pallotta, furono
rimessi in luce, tra il 1733 e il 1754, decine di titoli sepolcrali pertinenti, in gran parte, ai colombari dei Vigelli e degli Octavii,48 un prezioso patrimonio epigrafico che si andava ad affiancare alle importanti
testimonianze archeologiche scoperte nel primo mi-
glio dell’Appia Antica, presso il Casino suburbano
dei marchesi: ricordati quasi in tutte le guide settecentesche, erano infatti l’iscrizione «della prima latinità», commemorativa dei lavori di spianamento del
clivo presso l’antico tempio di Marte, oggi nella Galleria Lapidaria dei Musei Vaticani,49 ma che all’epoca
faceva ancora bella mostra di sé nel palazzo di città,
e la colonna miliaria relativa al primo miglio della via
(partendo dall’antica porta Capena), presto finita a
decorare la balaustra del Campidoglio.50 Celebre,
nel Settecento, era anche il rilievo con fasci consolari
46 G. B. Piranesi, Raccolta di vasi antichi, Milano 1834, tav. 87, 1.
47 Sono le statue ricordate in J. J. Boissard, Romanae Urbis Topographiae, I, Francofurti 1597, p. 106.
48 Sui risultati di queste ripetute campagne di scavo, che restituirono oltre centoquaranta titoli sepolcrali, vedi C. Fea, Frammenti di
Fasti consolari e trionfali, Roma, 1820, p. 58; G. Kaibel, Inscriptiones
graecae. Inscriptiones Italiae et Siciliae, xiv, Berolini 1890, nn. 1580 e 1582
e Lanciani, op. cit. a nota 14, vi, pp. 120-121 e 146. L’esito dei primi anni di ricerche è stato illustrato nell’opera di Domenico Giorgi, Monumenta eruderata annis 1733-1735 in vinea Naria ad viam Salariam, conservata manoscritta alla Biblioteca Casanatense (ms 1125). Per le
iscrizioni provenienti dai colombari dei Vigelli e degli Octavii, vedi anche cil vi, 7845-7859 e 7860-7877.
49 Vedi A. Uncini, Il «Registro generale» del 1823-1824, in BMonMusPont, ix, 1989, pp. 141-177, in particolare pp. 148 e 174, n. 316: a vendere
l’iscrizione ai Musei Vaticani, nei primi anni dell’Ottocento, fu l’antiquario Ignazio Vescovali.
50 Vedi ad esempio Ficoroni, op. cit. a nota 9, i, pp. 156-157 (iscrizione) e ii, p. 50 (colonna miliaria) e N. Roisecco, Roma antica e moderna ossia nuova descrizione di tutti gl’edifizj antichi e moderni sagri e profani della città di Roma, Roma 1765, I, p. 494 (iscrizione). Sull’iscrizione
relativa al Tempio di Marte, nota fin dal Medioevo, vedi cil vi 1270.
294
anna maria riccomini
Fig. 15. F. Caucig, Diana, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 223), mm 333 × 215.
Fig. 16. F. Caucig, figura femminile, 1780-87.
Disegno a china acquerellato in marrone,
Vienna, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett
(inv. hz 82), mm 333 × 215.
e tre littori, murato sulle scale di Palazzo Nari, un
pezzo forse di recente scoperta (sarà ricordato, infatti, dal Winckelmann nei Monumenti antichi inediti) e
oggi non più rintracciabile.51
Ma i marchesi dovevano vantare una ben più ricca
collezione di antichità, se già la guida di Filippo Titi
ricordava i «molti marmi antichi» del palazzo e il Ficoroni elencava, nel solo cortile, «le statue di Minerva, d’Alessandro, e altre ignote».52 Una raccolta destinata, tuttavia, ad essere ben presto dispersa, tanto
che oggi si fatica persino a farsi un’idea della sua
originaria consistenza: le iscrizioni funerarie provenienti dagli scavi sulla Salaria entrarono, già nel
corso del Settecento, nelle principali raccolte private
del tempo (quella del Ficoroni, del barone Astuto a
Catania, di Scipione Maffei a Verona, del cardinale
Guarnacci a Volterra) o finirono nei grandi musei di
antichità, come quello Capitolino; almeno quattro
statue antiche, oggi a Dresda, furono vendute nel
1778 dal marchese Nari al re di Polonia53 e delle altre
si persero ben presto le tracce.
Sono, ancora una volta, i disegni degli artisti attivi
all’epoca a Roma a dirci qualche cosa di più su questa
raccolta ormai quasi dimenticata: alcuni studi romani
di Drouais indicano “al Palazo Nari” un curioso rilievo
raffigurante una coppia con un bambino (un’ico-
51 Winckelmann, op. cit. a nota 28, v, p. 400. Il rilievo (descritto
come altorilievo dal Winckelmann e con i tre littori «disbarbati e coronati d’alloro») non è identificabile con sicurezza tra i pezzi elencati
in T. Schäfer, Imperii insigna. Sella curulis und Fasces. Zur repräsentation römischer Magistrate, Mainz 1989.
52 F. Titi, Studio di pittura, scoltura et architettura nelle chiese di Roma (1674-1763), ed. a cura di B. Contardi e S. Romano, Firenze 1987,
p. 106 e Ficoroni, op. cit. a nota 9, p. 50.
53 Gasparri, op. cit. a nota 27.
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
nografia inedita e dalla difficile identificazione), e
permettono di aggiungere a questa collezione anche
un secondo rilievo, con figura di ninfa seduta su una
roccia,54 un pezzo riprodotto (con la stessa indicazione topografica) anche da David, dal Caucig (Fig.
14) e dall’anonimo artista dell’album londinese55 e
quasi certamente identificabile nel rilievo neoattico
conservato oggi a Berlino (e di generica provenienza
romana), che ancora conserva il tronco d’albero
fedelmente documentato dal Caucig (Fig. 14a).56
Completavano la raccolta dei marchesi due statue
femminili oggi perdute, o comunque di difficile
identificazione (Figg. 15-16): una Diana del tipo Dresda, con arco e faretra, e una peplophoros dal lungo
mantello ricadente sulla schiena e con un mazzo di
spighe (?) nella sinistra, un’attributo che farebbe pensare ad un’interpretazione della figura come Cerere;
a palazzo Nari la Diana venne riprodotta, verso la
fine del Settecento, da David, oltre che dal Caucig e
dall’anonimo dell’Album londinese,57 i due artisti
cui si deve anche la testimonianza della presenza, nel
palazzo, della peplophoros.
295
ne e insieme studio d’artista del pittore Joahnn Riedel, condivisa per alcuni anni da Franz Caucig e da
Felice Giani e in seguito abitata da altri artisti stranieri interessati, come loro, allo studio dall’antico: ed è
probabilmente all’interno di questa cerchia di artisti,
dalla loro comune curiosità per la statuaria classica,
che dovette nascere l’ambizioso progetto di un nuovo corpus delle sculture antiche di Roma, un repertorio aggiornato alle nuove scoperte settecentesche e
ricco di curiosità inedite o poco note, un materiale
prezioso che, se pubblicato, avrebbe forse orientato
in modo diverso le ricerche degli antiquari e, magari,
arginato l’incontrollata dispersione di tanti marmi
antichi.
Bibliografia
Ancora tutte da indagare restano le vicende che portarono al formarsi di altre collezioni minori, come
quella di palazzo Pedroni, documentata da alcuni disegni del Caucig e del Ms. Lanciani 35 e presto dispersa,58 e certo interessante sarebbe anche ricostruire la
piccola raccolta (di marmi antichi? di gessi?) riunita
nella casa di vicolo S. Isidoro,59 la modesta abitazio-
Bernoulli 1894 = J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie.
Die Bildnisse der römischen Kaiser und ihrer angehörigen, ii,
3, Stuttgart, Berlin, Leipzig, 1894.
Bieber 1915 = M. Bieber, Die antiken Skulpturen uns Bronzen des Königl. Museum Friedericianum in Cassel, Marburg,
1915.
Boissard 1597 = J. J. Boissard, Romanae Urbis Topographiae, i, Francofurti, 1597
Catalogue des objets d’art = Catalogue des objets d’art et de
haute curiosité antiques, du Moyen Age et de la Renaissance
qui composent les collections de feu m. le comte de PourtalèsGorgier, Paris, 1865.
Collezioni Napoli = R. Cantilena, E. La Rocca, U. Pannuti, L. Scatozza, Le collezioni del Museo Nazionale di
Napoli I,2, Roma-Milano, 1989
54 Vedi rispettivamente Ramade, op. cit. a nota 1, p. 91, n. 125 (il
modello, non identificato, è interpretato come una scena raffigurante
Ettore, Andromaca e Astianatte) e n. 124.
55 Rosenberg, Prat, op. cit. a nota 1, n. 831 (“nel palazzo Nari”);
Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo
Caucig hz 351 (“Pallazo Narri”) e Album londinese, fol. 69 (“Palazo
Narni”).
56 Hauser 1889, p. 32, n. 39 e Fuchs 1959, p. 180, n. 13, tav. 27,b. Il
rilievo appartiene ad una serie di repliche neoattiche riproducenti la
scena di Hermes che conduce Bacco bambino alle Ninfe di Nysa, nota in repliche parziali (col solo Dioniso o, come qui, con la sola Ninfa
pronta a prendere il bambino) e ben documentata, per intero, nel celebre “Cratere di Salpion”, reimpiegato fin dal Cinquecento come
fonte battesimale nel Duomo di Gaeta e oggi al Museo Archeologico
Nazionale di Napoli (Ruesch, op. cit. a nota 42, n. 283). Vedi anche Saladino 2007-2008, p. 329, figg. 10-11.
57 Numerosissime sono le repliche conservate della Diana del tipo
Dresda e dunque molto difficile diventa l’identificazione, senza ulteriori elementi documentari, della statua già nella raccolta Nari. Per il
disegno di David, databile tra il 1775 e il 1780, vedi Rosenberg, Perronet, op. cit. a nota 1, p. 59, feuillet 5, n. 18 (“nel palazzo/nari”).
Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo
Caucig hz 223 (“Pallazzo Narri”) e Album londinese, fol. 63 (“Palazo
Narni”). La statua di peplophoros, disegnata in Wien, Akademie der
bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig hz 82 (“Palla-
zo Narri”) e in Album londinese, fol. 62 (“Palazo Narni”), sembra dipendere tipologicamente dal modello dell’Apollo Patroos creato ad
Atene da Euphranor intorno al 330 a.C.: una replica romana dell’Apollo si conserva nel torso antico già nella collezione Odescalchi e
oggi a Madrid (S. F. Schröder, Katalog der antiken Skulpturen des Museo del Prado in Madrid, II: Idealplastik, Mainz am Rhein 2004, n. 120, p.
135), reintegrato già nel Seicento, così da ottenere una statua che, curiosamente, presenta molte somiglianze con la scultura Nari (ma le
vicende collezionistiche del torso Odescalchi permettono di escludere la sua presenza a Roma ancora alla fine del Settecento).
58 Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett,
Fondo Caucig hz 194 e 270 (“Palazo Pedroni”), corrispondenti a Ms.
Lanciani 1 e 158 (raffiguranti rispettivamente una Vittoria in volo e
una Flora, entrambe non identificate). Il Palazzo è forse da riconoscere nel Palazzo Petroni, poi Cenci Bolognetti, dalla bella facciata di
Ferdinando Fuga (1737), prospiciente su piazza del Gesù.
59 Due disegni a Wien, Akademie der bildenden Künste, Kupferstichkabinett, Fondo Caucig (hz 722 e 723), raffiguranti rispettivamente un rilievo con Vittoria alata (non rintracciato) e un rilievo (probabilmente tratto da un sarcofago romano) con filosofo e Musa (non
identificabile tra i tanti simili editi in Ewald 1999), recano infatti la didascalia “in meiner Wohnung”). Compagni di casa in vicolo di S. Isidoro furono, tra gli altri, anche Michael Köck, Franz Schmidt, e il tedesco Joseph Bergler, che avrebbe copiato numerosi disegni eseguiti
dal Caucig (Ottani Cavina, op. cit. a nota 2, ii, pp. 908 e 938).
296
anna maria riccomini
Conticello De’ Spagnolis 1985 = M. Conticello De’
Spagnolis, La collezione di sculture antiche in Palazzo
Valentini, a cura di G. Farina, Roma, 1985.
David e Roma = David e Roma, cat. mostra (Roma dic. 1981feb. 1982), Roma 1981.
Di Castro, Fox 2007 = D. Di Castro, S. P. Fox, PierreFrançoise-Léonard Fontaine (1762-1855). Architetto di Napoleone, Firenze, 2007.
Drigo 1995 = A. Drigo, Francesco Caucig, un artista goriziano tra Roma e Vienna, in Ottocento di frontiera. Gorizia
1780-1850. Arte e cultura, Milano, 1995.
ea = Photographische Einzelaufnahmen antiker Skulpturen,
nach Auswahl mit Text von P. Arndt und W. Amelung,
München, 1893 sgg.
Ewald 1999 = B. C. Ewald, Der Philosoph als Leitbild. Ikonographische Untersuchungen an römischen Sarkophagreliefs, Mainz am Rhein, 1999.
Faldi 1952 = I. Faldi, Opere romane di felice Giani, «Bollettino d’Arte», 000, 1952, pp. 234-246
Fea 1820 = C. Fea, Frammenti di Fasti consolari e trionfali,
Roma, 1820.
Ficoroni 1744 = F. de’ Ficoroni, Le Vestigia e rarità di
Roma antica ricercate, e spiegate, ii. Le Singolarità di Roma
moderna ricercate, e spiegate, Roma, 1744.
Fondo Caucig = Wien, Akademie der bildenden Künste,
Kupferstichkabinett, Fondo Caucig.
Fuchs 1959 = W. Fuchs, Die Vorbilder der neuattischen
Reliefs (20. Erg.-Heft JdI), Berlin, 1959.
Gasparri 1980 = C. Gasparri, Materiali per servire allo
studio del Museo Torlonia di scultura antica, «Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie», s. viii, 24, 1980.
Gasparri 1994 = C. Gasparri, v. Collezioni archeologiche, in
Enciclopedia dell’Arte Antica, Suppl. ii, 2, 000, 1994.
Germano, Nocca = La collezione Borgia, curiosità e tesori da
ogni parte del mondo, cat. mostra (Velletri, mar.-giu. 2001Napoli, giu.-sett. 2001), a cura di A. Germano e M. Nocca, Napoli, 2001.
Guattani 1805 = G. A. Guattani, Monumenti antichi
inediti, ovvero notizie sulle antichità e belle arti di Roma, vii,
Roma, 1805.
Guerrini 1970 = L. Guerrini, Due disegni di Pier Leone
Ghezzi, «Studi Miscellanei», 15, 1970, pp. 27-32.
Hekler 1929 = A. Hekler, Museum der Bildenden Künste in
Budapest. Die Sammlung Antiker Skulpturen, Wien, 1929.
Honour 1960 = H. Honour, Vincenzo Pacetti, «The Connoisseur», 146, 1960, pp. 174-181.
Kaibel 1890 = G. Kaibel, Inscriptiones graecae. Inscriptiones
Italiae et Siciliae, xiv, Berolini, 1890.
Lanciani Storia = R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma e
notizie intorno le collezioni romane di antichità, Roma,
1989-2002 (ed. orig. dei voll. i-iv: Roma, 1902-1912).
Liverani 2000 = P. Liverani, La situazione delle collezioni
di antichità a Roma nel xviii secolo, in Antikensammlungen
des europäischen Adels im 18. Jahrhundert als Ausdruck einer
europäischen Identität, a cura di D. Boschung e H. von
Hesberg, Mainz am Rhein, 2000, pp. 66-73.
Matz, Duhn 1968 =F. Matz, F. von Duhn, Antike Bildwerke in Rom, mit Ausschluss der grösseren Sammlungen, iiii, rist. anast. Roma, 1968 (ed. orig. Leipzig, 1881-1882).
Mc Cann 1968 = A. M. Mc Cann, The Portraits of Septimius Severus (A.D. 193-211), «Memoirs of the American
Academy in Rome», xxx, 1968.
Ms. Lanciani 35 = Biblioteca Nazionale di Archeologia e
Storia dell’Arte, Roma, Pal. Venezia, Fondo Mss. Lanciani, Ms. Lanciani 35.
Müller-Kaspar 1991/1992 = U. Müller-Kaspar, Franz
Caucigs Aufnahmen antiker Skulpturen in Rom, «Jahresheften des Österreichischen Archäologischen Institutes»,
61, 1991/1992, pp. 113-127.
Muzzioli, Pellegrino 1991-1992 = M. P. Muzzioli, P.
Pellegrino, Schede dei Manoscritti Lanciani, «riasa», s.
iii, xiv-xv, 1991-1992, pp. 399-422.
Nibby 1841 = A. Nibby, Roma nell’anno 1838, iv, Roma, 1841.
Nocca 2001 = Le quattro voci del mondo: arte, culture e saperi
nella collezione di Stefano Borgia 1731-1804 (Giornate Internazionali di Studi, Velletri 13-14 mag. 2000), a cura di M.
Nocca, Napoli, 2001.
Ottani Cavina 1999 = A. Ottani Cavina, Felice Giani
(1785-1823) e la cultura di fine secolo, Milano, 1999.
Pariset 1959 = F. G. Pariset, Notes sur Victor Louis, I. Louis,
Hubert Robert et le comte de Caylus, «Bulletin de la Société
de l’Histoire de l’Art Français», 1959, pp. 41-47.
Pericoli Ridolfini 1984 = C. Pericoli Ridolfini, Guide rionali di Roma. Rione viii , S. Eustachio, iii, Roma, 1984.
Picozzi, Candilio, Brusini 1996 = M. G. Picozzi, D.
Candilio, S. Brusini, Statue antiche restaurate a Palazzo
Odescalchi, «Bollettino di Archeologia», 41-42, 1996, pp.
15-63.
Piranesi 1834 = G. B. Piranesi, Raccolta di vasi antichi,
Milano, 1834.
Ramade 1985 = P. Ramade, Jean-Germain Drouais 1763-1788,
cat. mostra (Rennes, giu.-set. 1985), 000, 1985.
Randolfi 2003 = R. Randolfi, Albacini, Cades, Ceccarini,
D’Este, Landi e Pacetti e la collezione di sculture dei Lante
Vaini della Rovere nel palazzo di piazza dei Caprettari, in
Sculture romane del Settecento, iii . La professione dello scultore, a cura di E. Debenedetti («Studi sul Settecento romano», 19), Roma, 2003.
Raspi Serra 1993 = J. Raspi Serra, La Roma di Winckelmann e dei «pensionnaires», «Eutopia», 2,2, 1993, pp. 79-132.
Raspi Serra 1998 = J. Raspi Serra, Caylus et les artistes in
J. Raspi Serra e F. de Polignac, La fascination de l’antique
1700-1770. Rome découverte, Rome inventée, cat. mostra
(Lyon, dic. 1998-mar. 1999), Paris, 1998, pp. 170-178.
Reinach, Rép. Stat. = S. Reinach, Répertoire de la Statuaire
Grecque et Romaine, i, Paris, 1897
Robert 1897 = C. Robert, Römisches Skizzenbuch aus dem
achtzehnten Jahrundert im Besitz der Frau Generalin von Bauer geb. Ruhl zu Kassel, «Zwanzigstes Hallisches Winckelmannsprogramm», Halle, 1897.
Roisecco 1765 = N. Roisecco, Roma antica e modernaossia
nuova descrizion, di tutti gl’edifizj antichi e moderni sagri e
profani della città di Roma, Roma, 1765.
dalle collezioni lante, conti, varese, nari e altre raccolte minori
Rosenberg 2006 = P. Rosenberg, Un ensemble de copies de
dessins d’après l’Antique de Poussin, «Studiolo», 4, 2006, pp.
129-166.
Rosenberg, Peronnet 2003-2004 = P. Rosenberg, B. Peronnet, Un album inédit de David, «Revue de l’art», 142,
2003-2004, pp. 45-83.
Rosenberg, Prat 1994 = P. Rosenberg, L.-A. Prat, Nicolas Poussin (1594-1665). Catalogue raisonnée des dessins,
Milano, 1994.
Rosenberg, Prat 2002 = P. Rosenberg, L.-A. Prat, Jacques-Louis David 1748-1825. Catalogue raisonné des dessins,
Milano, 2002.
Rozman 1974-1976 = K. Rozman, Painter Franc Kavcic/
Caugig and his Drawings of old Masterpieces, «Zbornik za
Umetnostno Zgodovino», n.s. xi-xii, 1974-1976, pp. 39-69.
Rozman 1978 = K. Rozman, Franc Kavcic/ Caucig 1755-1828,
Ljubljana, 1978.
Rozman 1984 = K. Rozman, Franc Caucig 1755-1828. Drawings from the Narodna Galerija in Ljubljana, cat. mostra
(Cambridge, ott. 1984-gen. 1985), Cambridge,1984.
Rozman, Müller-Kaspar 2004 = K. Rozman, U. Müller-Kaspar, Franz Caucig. Ein Wiener Künstler der GoetheZeit in Italien, cat. mostra (Wien-Stendal, dic. 2004-feb.
2005), Tübingen, 2004.
Ruesch 1911 = A. Ruesch, Guida illustrata del Museo Nazionale di Napoli, Napoli, 1911.
Saladino 2007-2008 = V. Saladino, Un nuovo rilievo con l’immagine del Tempio di Vesta, «Rendiconti della Pontificia
Accademia Romana di Archeologia», 80, 2007-2008, pp.
309-339.
Schäfer 1989 = T. Schäfer, Imperii insigna. Sella curulis
und Fasces. Zur repräsentation römischer Magistrate, Mainz,
1989.
297
Schmidt 1966 = E. Schmidt, Der Kasseler Apollon und seine
Repliken, «Antike Plastik», v, Berlin, 1966.
Schreiber 1879 = T. Schreiber, Museo Torlonia in Trastevere, «Archäologische Zeitung», 37, 1879, pp. 63-78.
Schröder 2004 = S. F. Schröder, Katalog der antiken
Skulpturen des Museo del Prado in Madrid, ii : Idealplastik,
Mainz am Rhein, 2004.
Sérullaz 1976 = A. Sérullaz, A propos d’un album de dessins de Jean-Germain Drouais au musée de Rennes, «La revue
du Louvre et des Musées de France», 26, 5/6, 1976, pp.
380-387.
Soechting 1972 = D. Soechting, Die Porträts des Septimius
Severus, Bonn, 1972.
Stefani 1995 = C. Stefani, Gli studi di Felice Giani del taccuino
2604 dell’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, «Xenia
Antiqua», iv, 1995, pp. 119-158.
Titi 1987 = F. Titi, Studio di pittura, scoltura et architettura
nelle chiese di Roma (1674-1763), ed. a cura di B. Contardi e
S. Romano, Firenze, 1987.
Uncini 1989 = A. Uncini, Il «Registro generale» del 1823-1824,
«Bollettino Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie», ix,
1989, pp. 141-177.
Vasi 1792 = M. Vasi, Itinéraire instructif de Rome ou Description générale des monumens antiques et modernes, et des
ouvrages les plus remarquables de peinture, de sculpture et
d’architecture de cette célèbre ville et d’une partie de ses environs, Rome, 1792.
Visconti 1876 = P. E. Visconti, Catalogo del Museo Torlonia di sculture antiche, Roma, 1876.
Vermaseren 1977 = M. J. Vermaseren, Corpus Cultus
Cybelae Attidisque (ccca ), iii . Italia-Latium, Leiden, 1977.
Winckelmann Opere = G. G. Winckelmann, Opere, Prato, 1830.
LINEE DI FUGA E PARALLELE
Michela Scolaro
En essayant d’écarter les ténèbres avec ses doigts.
Il s’est déchiré la figure et le cœur.
Parigi, 1917, rue Gabrielle.
È quasi sera, nella stanza del poeta Max Jacob, Pierre Reverdy, più giovane amico, poeta a sua volta, si avvicina incuriosito e incauto a un baule pieno di carte. È un attimo.
Un lampo che frantuma la dolcezza della sera. L’ideale
d’una sensibilità condivisa. È il gesto che abbassa brusco il
coperchio e cambia la storia.
Adieu Paris. Addio belle speranze, nasce il Ladro di talento.1
Qui non ci sono coperchi e, propriamente, non ci sono ladri. Al contrario, in questa storia il talento emerge alimentato dallo scambio, si rafforza nel confronto, le labbra bruciate a ogni parola dall’urgenza di comunicare, gli occhi
dilatati dall’ansia di non perdere nulla. Ma se è vero, come
è vero, che l’arte cresce sull’arte e che ogni opera è il risultato positivo di un’influenza e della sua angoscia,2 allora
questo, a ben guardare, al contrario di quanto detto e fuor
d’invenzione poetica, è proprio il tentativo di raccontare
l’incontro di ladri di talento.
La scena è diversa, all’inizio, ma non meno suggestiva e,
anche in questo caso, si tratta di due artisti.
Venezia, 1910, Ca’ Pesaro
ll ’ esposizione primaverile della Fondazione
Bevilacqua La Masa un giovane trevigiano, Arturo Martini (1889), si era soffermato a lungo davanti
alle opere presentate da un pittore quasi coetaneo,
Gino Rossi (1884), lasciandosi pervadere dalla poesia
e dalla forza che le informava, dalla capacità di sovvertire senza clamori un orizzonte così stanco oramai d’attese da risultare quasi indifferente al nuovo,
come insensibile al suo valore, ai suoi significati.
Non fosse stato per l’attenzione sempre vigile a evitare l’ignoto, col suo potenziale pericolo e le conseguenti, inevitabili, derive incontrollate.
Proprio nella città assurta a simbolo di un passato
tanto splendido quanto opprimente, dal quale occor-
A
1 P. Reverdy, Il ladro di talento, ed. it., Torino 1972. Tutti i versi citati nel testo sono tratti da quest’opera.
2 L’angoscia dell’influenza teorizzata da Harold Bloom, si ricorda,
è una categoria elaborata per comprendere il rapporto di un autore
con i suoi precursori e le strategie messe a punto per difendersi e
poter creare, comprende: clinamen, correzione; tessera, integrazione;
kenosis, svuotamento; daemonization, repressione; askesis, limitazione; apophrades, ritorno del precursore.
reva liberarsi a ogni costo, proclamavano i Futuristi,3
era maturata l’offerta di un’espressione inedita, capace di corrispondere allo spirito del tempo, che,
giovane ancora, richiedeva dell’altro, agli artisti, ai
teorici, ai governanti. Pretendeva di non fermarsi
alla superficie delle cose, che Albert Einstein aveva
rivelato aver più dimensioni, di scendere nelle profondità ancora inesplorate dell’uomo, come insegnava a fare Sigmund Freud, di cercare al di là del
mutevole, dell’accessorio, dell’effimero, l’essenziale,
il durevole, ragioni e verità.
Grazie all’arte a dispetto del tempo, che scorre, e
dello spazio, che cambia, è possibile ricostruire alcuni passi del dialogo tra Gino Rossi e Arturo Martini.
Il sentimento provato da Arturo Martini davanti ai
dipinti di Gino Rossi trama le parole di Nino Barbantini: «i fasti di Ca’ Pesaro non ebbero inizio che nel
1910, quando ci raggiunsero due tele, Il muto e La
fanciulla del fiore, che a me e a pochi amici con gli
occhi aperti apparvero bellissime. Era arrivata la
gioventù».4
I giovani in questione si erano incontrati pochi
mesi prima, alle spalle avevano origini e storie diverse ma li univa un ideale comune e la stessa appassionata volontà di perseguirlo.
Il fascino degli oggetti d’arte e l’influenza del luogo svolsero certamente un ruolo più importante
nella formazione del pittore veneziano che non i rudimenti appresi non appena lasciati gli studi presso
gli Scolopi di Badia Fiorentina. Grazie al padre agente per il conte Bardi, collezionista d’arte orientale in
palazzo Vendramin, Rossi conobbe presto e da vicino la squisita raffinatezza dei manufatti che avevano
incantato l’Europa. Porcellane, smalti, cristalli, avo3 Si veda il testo del volantino lanciato Il 27 aprile 1910 dalla Torre
dell’Orologio di piazza San Marco, Contro Venezia passatista: «Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica del passato», in Archivi del Futurismo, a cura di M. Drudi Gambillo e T. Fiori, Roma 1958, vol. 1, p. 19.
4 N. Barbantini, Quindici anni di sodalizio con Gino Rossi, in Scritti
d’arte, a cura di G. Damerini, Venezia s.d., p. 271.
«rivista dell ’ istituto nazionale d ’ archeologia e storia dell ’ arte», 59 (iii serie, xxvii, 2004), pp. 299-308
300
michela scolaro
ri, materie lisce e preziose la cui forma esalta, con
l’ornamento, il valore della linea. Chine e acquerelli.
Crebbe tra gli arabeschi e l’oro, prodigi millenari
della Serenissima che le Secessioni dovevano riportare in uso, imparando a scorgere dietro alle cupole
e agli archi che interrompevano l’orizzonte basso
della laguna, l’onda fluida e continua di Bisanzio. Le
Biennali gli avrebbero proposto alcuni esempi. Ma
soprattutto dalla sua città in forma di museo, in cui
passato e presente, natura e artificio convivono in
miracolosi accordi, doveva ricevere il suggerimento
fondamentale: occorre muoversi nel tempo oltre
che nello spazio. Prima di De Chirico e di Carrà, prima di Casorati, ladro di talento come è inevitabile
sia il genio, Rossi si volse proprio a quei templi della
memoria, ai musei – i cimiteri dei Futuristi – per trovare risposte ai dubbi, ai mille interrogativi d’esistenza e d’arte che l’avrebbero portato ben presto
sotto altri cieli.
Superato il trauma della scuola dell’obbligo, Arturo
Martini era cresciuto nella magia medioevale della
Treviso prebellica, rievocata nei Colloqui con Gino
Scarpa:5 «fatale come luogo di nascita. Ora lo capisco, lo vedo dopo trent’anni […] Quei portegheti, i
Buranelli, la Pescheria con quell’isola centrale le acque, la disposizione delle chiese (o chiuse?), le vie
particolari». Gli affreschi di Tomaso da Modena e i
giornali umoristici. Apprendista orafo dal 1904, seguì
i corsi serali d’arte e mestieri tenuti da Giorgio Martini, incisore e grafico, padre di Alberto. Disegnava e
modellava con passione, come attestano le note positive sulla stampa locale che accompagnarono il suo
debutto – con un busto di Giuseppe Mazzini – alla
mostra di fine corso (agosto 1905, poi Roma, iniziativa del Ministero dell’industria). Gli furono utili, inoltre, le lezioni dello scultore Antonio Carlini, che gli
insegnò «a formare, a cavare le forme dalla creta in
gesso, e io so cosa vale saper questo. È un lavoro quasi mitologico; levare la forma mi ha dato in tutti i periodi possibilità diverse».
Di questi primi anni d’attività rimangono scarse
testimonianze, Martini realizzò piccole sculture, che
lo rivelano portato a rendere i soggetti con vivace
immediatezza, già sicuro delle sue capacità espressi5 A. Martini, Colloqui sulla scultura 1944-1945, raccolti da G. Scarpa, a cura di N. Stringa, Treviso 1997, p. 179.
6 Di quelle avventure serbano vivace ricordo alcuni brani di Martini, op. cit. a nota 5, in cui l’artista racconta dei viaggi in terza classe,
premiati dai pidocchi, dei brevi sonni notturni in un capannone vici-
ve, sia nella plastica di gusto impressionista sia nella
stilizzazione sinuosa d’ascendenza Liberty. Anche le
caricature eseguite per il foglio satirico «L’oca», al
quale collaborava dal marzo del 1905, confermano la
sua vocazione alla sintesi lineare. Intanto, per lui, si
moltiplicarono le occasioni di incontro, di conoscenza, di riflessione. Visitò la mostra di Belle Arti presso
l’Esposizione Universale di Milano (1906), si recò
spesso a Venezia «per imparare»,6 fino a che la sovvenzione del Comune di Treviso gli consentì di allungare le sue permanenze in laguna.
Profondamente affascinato della Serenissima,
Martini frequentava i musei, copiava bassorilievi e
mosaici, seguiva la linea. Le sale del bianco e nero
della Biennale, che fornivano aperture sulle novità
europee ben oltre le singole pur eccellenti occasioni,
gli avevano offerto numerosi spunti di riflessione: James Ensor, Odilon Redon, Felicien Rops sono alcuni
degli incisori presentati in quell’inizio di secolo.
Non un coperchio bensì un cassettone doveva risultare fatale per il giovane scultore nel 1908, nello
studio di Urbano Nono. Vi erano contenute venti fotografie di opere di Medardo Rosso, allora sconosciuto in Italia. Fu una rivelazione: «E mi, che aspettavo qualche cosa di vitale, è stato come buttare
dell’aceto sul latte». E un trauma. Quelle forme dissolte dalla luce smentivano ogni convinzione. E il finale della storia si ripete: «El me ga mandà via».
Il faut couper toutes les entraves et partir
les mains devant.
Versione ridotta del Grand Tour che, storicamente,
compiva la formazione della gioventù europea dotata di talenti o di fortune, fu la prima, fondamentale esperienza di viaggio condotta da Rossi a Parigi e
in Bretagna, e da Martini a Monaco di Baviera, quasi
un preludio all’avventura comune che li attendeva
nel 1912.
Ai loro occhi doveva offrirsi l’Europa della più
straordinaria modernità, quella solo intuita per
frammenti attraverso le sale della Biennale o dalle
pagine delle riviste.
A Parigi, nel 1907, incerto ancora sulla solidità delle sue basi e sulla qualità della strabiliante offerta che
caratterizzava la scena artistica della capitale, Rossi
no alla stazione, della fame, della stanchezza e delle lacrime per
l’emozione e il senso d’impotenza provate al cospetto delle opere dei
maestri del suo tempo: Segantini, Morbelli, Mancini, Nomellini,
Grubicy, Bistolfi … lo affascina anche l’aggraziato realismo di Troubetzkoj, già apprezzato alla Biennale del 1903.
linee di fuga e parallele
301
frequentò per qualche tempo lo studio dello spagnolo Hermenegildo Anglada y Camarasa,7 apprezzato
e superficiale pittore di soggetti ‘à la page’. «Maestro
delle corride, tenebre con i verdesini» – ricorderà
Martini – «Si ispirava da quella barbarietà dell’arte
minore spagnola», Anglada, l’unico inciampo di Rossi al debutto parigino, doveva trattenerlo ben poco.
La Ville Lumière, in quegli anni effervescenti
d’inizio secolo, era una festa, secondo Hemingway,
il capolinea del mondo nell’opinione comune, la
Nouvelle Athène per le arti. Era un incredibile concentrazione di energie provenienti dal vecchio continente e dal Nuovo, difficile non sentirla come la tensione
stessa che alimentava la folgorante Fée Electrique. Solo dall’Italia, nel breve giro di quei mesi, erano giunti
Amedeo Modigliani, Leonardo Dudreville, Gino Severini, Anselmo Bucci, precursori di una intera legione d’artisti, della feconda compagine che sarebbe
stata detta des Italiens de Paris.
Il Salon d’Automne del 1907, scorrendo i resoconti
di Guillaume Apollinaire,8 non presentava novità di
rilievo e le opere di Cézanne, scomparso da pochi
mesi, lo rappresentavano ‘scientemente’ in modo
inadeguato. Occorreva integrare la conoscenza con
una visita alla galleria Bernheim, dove facevano bella
mostra di sé dodici capolavori, tra i quali un Ritratto
di M.me Cézanne, alcune nature morte e un incredibile paesaggio capace di afferrare, di assorbire l’ignaro osservatore: «On vit revenir Frantz Jourdain [presidente del Salon d’Automne], rouge et essoufflé. Il
apparut d’abord tout petit dans le fond du paysage et
grandit en approchant». Nessuna sorpresa che Jourdain ritenesse quei dodici dipinti «quanto di più pericoloso».
Alcuni Matisse, «le fauve des fauves», tra i quali Le
luxe I, Vlaminck e Braque ricordavano le polemiche
divampate per via della ‘prova del fuoco’ alla quale
gli intrepidi coloristi, resi gruppo da una giuria
ansiosa di circoscrivere il nuovo in una sola sala – la
vii –, avevano sottoposto i visitatori del 1905. Nonostante le migliori intenzioni d’Elie Faure: «Nous devons avoir la liberté et la volonté de comprendre un
langage absolument neuf»,9 non condivise dal presidente della Repubblica Emile Loubet, che si rifiutò
d’inaugurare la mostra, e da buona parte della stam-
pa, che sosteneva: «un pot de peinture a été jeté à la
tête du public».
Una situazione difficile, assolutamente sgradevole, che Gino Rossi e Arturo Martini dovevano sperimentare direttamente e in più occasioni, di lì a poco,
negli «anni eroici di Ca’ Pesaro».
Al momento, a Parigi, il giovane artista moltiplicava le emozioni, le scoperte e gli studi.
Evento clou della stagione culturale appena trascorsa era stata la retrospettiva dedicata a Paul
Gauguin, che aveva riportato l’attenzione sull’intera cosiddetta Scuola di Pont-Aven e sui Nabis. Altrettanti esempi e conferme fondamentali per l’artista,
che completava altresì la sua formazione alternando al caos vitalissimo delle mostre, delle strade e
degli ateliers la riflessione nelle sale silenziose del
Louvre, negli ambienti suggestivi e raffinati del Musée de Cluny e Guimet, della casa museo di Jacquemart-André. Se pure molti elementi acquisiti in
questa prima esperienza avrebbero dato esiti evidenti in un più distante futuro, il pittore che intraprendeva la strada per la Bretagna, ripercorrendo
con fiducia i passi di Gauguin, ancora una volta riconosciuto maestro, aveva già ben chiari i termini
fondamentali del discorso. Il vibrante accordo tra
l’uomo e la natura, la luce e la retina, istituito per
un attimo dagli Impressionisti, era già stato ampiamente superato. Doveva rivelarsi a breve quanto
insanabile fossa la ferita causata dal crollo dell’illusione positivista. Ancora teneva l’ideale di una
possibile armonia, nella vita e nell’arte, ma, come
dimostrato al più alto livello proprio dall’esule di
Pouldu, della Martinica e delle isole Marchesi, per
cercare di stringerlo e renderlo concreto occorreva
lasciare la città e la civiltà, le conquiste della scienza
e della tecnica, il benessere equivoco del comfort, il
progresso e i falsi miti dell’evoluzione progressiva.
Si trattava ancora di una linea, erroneamente ritenuta retta, continua e solida.
Gino Rossi aveva piena consapevolezza, invece,
che tra le qualità della linea, l’eleganza e il dinamismo, il suo potere d’evocare, era insita la stessa fragilità che si ammira nei cristalli finemente intagliati,
nelle trasparenze opaline delle porcellane. Sentiva
con precisione che un quadro è in primo luogo una
7 Presente alle Biennali del 1903-1907.
8 G. Apollinaire, Chroniques d’art 1902-1918, Paris 1960.
9 E. Faure, catalogo della mostra, préface: «Il a le bonheur de
grouper les jeunes énergies que le belles manifestations trop inquiètes, trop dispersées des Indépendants n’avaient pas pu nous faire pres-
sentir, et c’est au spectacle des plus vivants efforts qu’ait accomplis
depuis trente ans l’art français que convient ces étendards d’or». Per
un quadro più ampio, si veda l’eccellente: Le fauvisme ou “l’épreuve du
feu”, catalogo della mostra, Paris 2000.
302
michela scolaro
superficie dipinta e poi il soggetto a volta a volta raffigurato, come aveva spiegato Maurice Denis,10 che
va, di conseguenza, voluto e costruito. Sovrapponendo alla realtà apparente quella immaginata, ricreata con emozione sincera e mestiere. Con gli
strumenti figurativi dell’ideale, dell’astrazione: il ricordo, la linea, il colore unito.
Dalla Bretagna si spinse al nord, fino alla baia di
Douarnenez. Eseguì una serie di opere di straordinaria intensità e lirismo, raccolse spunti e motivi
che il tempo avrebbe rivelato fecondi. La luce più
netta che definisce i contorni e appiattisce i colori
valorizza la lezione dei maestri giapponesi, ben presente all’artista anche a livello di composizione. Essenziale e rigorosa. Al disegno e al colore, si affida
l’espressione di una poesia interamente concentrata
nella pittura.
Al rientro in patria è un sovrapporsi di orizzonti,
di linee basse d’acqua e terre affioranti. L’isola di
Burano lo accolse insieme alla moglie pittrice, al
triestino Umberto Moggioli e, ben presto, a Pio Semeghini. Personalità diverse che esprimevano con
accenti e modi originali la stessa vocazione, strette
per un breve tratto nel sodalizio creativo della Scuola
di Burano.
È una linea drammaticamente tesa, meno lirica e più
moderna quella seguita da Martini a Monaco. La linea delle Secessioni e dell’Espressionismo, quella solo allusa dalla Giuditta II presentata da Klimt alla
Biennale del 1899, ben motivata da Max Sauerlandt:
«chi non è in grado di avvertire che il divino, l’umano, il diabolico e tutti i moti dell’anima possono essere espressi nella forma astratta di una linea o di una
decorazione mossa resterà interdetto anche davanti
a un quadro o a un’immagine».11
Lo stesso Martini commentava i fatti, le circostanze, le persone, conferendo vero spessore di vita a
quello che riteneva il suo «periodo più infelice».12
«Tragedia monegasca. Era di moda in Italia di andare
a Monaco. Mi ha fregato dieci anni per cavarmi la
nebbia decorativa. Andato a Monaco invece che a
Parigi, dove avrei trovato Renoir e i grandi. E invece
ho trovato Hildebrand, che era un tecnico, ma l’opposto della mia mentalità. E mi sono incantato di
10 M. Denis: «Se rappeler qu’un tableau – avant d’être un cheval
de bataille, une femme nue, ou une quelconque anecdote – est essentiellement une surface plane recouverte de couleurs en un certain
ordre assemblées», 1890. Al proposito, si vedano: Maurice Denis, catalogo della mostra, Paris 2007; Nabis 1888-1900, catalogo della mostra,
Paris 1994.
Franz Stuck […] Mi sono messo nel movimento secessionista».
Al di là delle ragioni pratiche contingenti e del
giudizio negativo retroattivo sono più interessanti le
considerazioni di Martini sulle difficoltà che un giovane artista deve superare per essere se stesso: «in
questo viaggio alla ricerca della sua personalità l’artista cammina come allucinato in balia di ogni Fata
Morgana, deviando a ogni apparenza, e dopo mille
speranze deluse si volta a chiedere aiuto ad altri disperati che ne sanno come lui e meno di lui […] questo è il tempo del suo più grande supplizio, è l’epoca
delle eroiche prove, delle grandi fatiche aumentate
dall’inesperienza e delle grandi speranze liquidate da
mediocri risultati fino a credersi dei perfetti imbecilli. Nessuno sa cosa voglia dire per un artista giovane,
che sente di aver qualcosa da dire, sentirsi ogni giorno più degradato e smarrito e che più fa per sciogliere la matassa dell’arte e più invece la complica, e che
più discute e sente, più si confonde, e più non cede
in purezza più si sprofonda nella miseria».13
Per Gregorio Gregorj realizzò una serie di disegni
con motivi decorativi per piastrelle, vasi e piccole
sculture. A prescindere dalla valutazione negativa
che avrebbe dato in seguito, si tratta di opere esemplari che attestano la qualità di adesione a un’estetica
meno distante di quanto sembri dai suoi esiti. La linea dinamica che spiritualizzava le superfici, l’arabesco ideale per esprimere l’élan vital, dovevano trasformarsi ben presto nell’inquietante tracciato di un
labirinto. Le rose senza spine dello Jugendstil sarebbero sbocciate in una foresta di rovi, simbolo scoperto
della realtà che circondava l’uomo contemporaneo.
Una volta sollevato il velo di Maya, non c’era ottimismo sufficiente a credere che i sogni intessuti da
Olbricht riuscissero a nascondere l’abisso per più di
un istante. Bastava esasperare lo slancio della linea o,
al contrario, raggelarla. Come faranno gli artisti
espressionisti. Come avrebbe fatto Arturo Martini
che, in quell’anno scarso di soggiorno monacense,
compì un tratto importante della sua evoluzione,
perfettamente coerente sotto tutti i punti di vista.
Frequentò gli ambienti artistici all’avanguardia e
seguì attentamente l’azione esercitata dalla caricatura, protagonista influente della vita sociale in virtù
11 M. Sauerlandt, Im Kampf um die moderne Kunst. Briefe 1902-1933
[In lotta per l’arte moderna. Carteggio 1902-1933], Monaco 1957, p. 8.
12 Martini, op. cit a nota 5, p. 158.
13 Martini, op. cit. a nota 5, pp. 156-157.
linee di fuga e parallele
della capacità di diffusione dei periodici di critica e di
satira. «Avevo abbandonato il secessionismo per i caricaturisti tedeschi che mi parevano più interessanti.
I tedeschi non hanno di artistico, anche adesso, che i
caricaturisti». Di autentico, tuttavia, e intensamente
percepibile, vi era altresì quella particolare disposizione dello spirito riconosciuta propria dell’animus
germanico, la vocazione all’assoluto. Una tensione
del tutto connaturata all’artista veneto.
Fa che io serva solo a me stessa.
Fa di me un arco dello spirito.
Fa che io non sia più rupe, ma acqua e cielo.
Fa che io non sia piramide, ma clessidra per essere capovolta.
Fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione.
Fa che io non sia un confronto, ma un’unità
Fa che io non sia un’immagine, così non mi esalteranno
Fa che io non sia una pietra miliare dell’uomo, ma della mia
natura.
Fa che io non sia una vistosa virtù, ma un oscuro grembo.
Fa che io non sia un peso, ma una bilancia.
Fa che io non serva come una moneta, per comodità pratiche.
Fa che io non resti nelle tre dimensioni, dove si nasconde la
morte.
Fa che io non sia prigioniera di uno stile, ma di una disinvolta sostanza.
Fa che io sia l’insondabile architettura per raggiungere
l’universale.14
A scorrere le immagini delle opere riferite a quei primi anni d’attività, siano plastiche o siano disegni e incisioni, emerge la straordinaria capacità di Martini di
governare tecniche, materie e registri, di passare con
estrema nonchalance dal riso al pianto, dal bozzetto
impressionista al figurino di linearismo impeccabile,
dalla caricatura, che sintetizza soggetti e significati
nell’ironia di pochi segni, alla dilagante necessità
gestuale assorbita dalle cheramografie. Nel ricordo
sono coinvolte suggestioni lontane, del miglior
Ottocento italiano, di Adriano Cecioni e Vincenzo
Gemito, echi di Francia, da Honoré Daumier a
Medardo Rosso, di riprese neoclassiche alla von
Stuck o dal Simbolismo, fino alle più recenti scoperte
di «Ver Sacrum», «Simplicissimus» e dell’opera di
Ernst Barlach, scultore e ceramista. E se il mezzo uti14 È la preghiera che la scultura rivolge all’artefice, in A. Martini,
La scultura lingua morta, s.l. 1945.
15 C. E. Oppo, Alla Esposizione Primaverile di Firenze. Valori Plastici,
in L’idea Nazionale, 15 luglio 1922, ripreso in Cipriano Efisio Oppo. Un legislatore per l’arte. Scritti di critica e di politica dell’arte 1915-1943, a cura
di F. R. Morelli, Roma, 2000, pp. 98-101, e da F. Fergonzi, nell’approfondita analisi delle fonti scultoree dell’artista trevigiano effettuata in occasione della mostra Arturo Martini, a cura di C. Gian Ferrari, E. Pontiggia, L. Velani, Milano 2006-2007, pp. 69-80.
303
lizzato seleziona spontaneamente, seguendo l’istinto, i modelli d’elezione, non si può fare a meno di
sottolineare quanto ampio, vario e raffinato fosse il
repertorio a disposizione dell’artista già nei primi anni del secondo decennio del secolo. Quanto fosse già
radicata l’attitudine che doveva farlo definire di lì a
poco, da parte di Cipriano Efisio Oppo, «l’uomo più
assimilatore che si conosca».15 Da Balla e Boccioni
prefuturisti, che traspaiono nell’intenso Ritratto della
madre, alla libertà del tratto matissiano di Luxe calme
et volupté, al quale rimandano le curve carezzevoli
delle figure del Sogno, della Musica, delle Bagnanti.
Per quanto abbandonata, la Secessione ritorna tanto
nelle macabre anatomie dei baudelairiani Fiori della
morte (1911), quanto nel più avanzato Ritratto di Giovanni Comisso (1916). Sciolto da qualsiasi abbraccio è
il Superuomo di spalle, memore del Fregio di Beethoven16 realizzato da Gustav Klimt nel 1902 e riproposto nella Biennale del 1910. Mentre è alla grafica
espressionista dei maestri di Die Brücke che rimandano le xilografie delle Due Bagnanti e del ciclo de La
talpa. La linea continua delle stampe giapponesi, gli
alberi con le chiome a nuvola che ripartiscono lo spazio de l’Ultima strada (1913), come il Cespo di rosa, la
Pastora, la Fanciulla che legge e quella piena d’amore
richiamano i nomi di Gauguin, di Modigliani, dietro
a quello più familiare e immediatamente accostabile
di Gino Rossi.
È ora di tornare a Ca’ Pesaro.17
Al suo interno, intorno alla figura di Eugenio
(Nino) Barbantini, primo direttore della Fondazione
Bevilacqua La Masa dal 1907, si riunì, infatti, sono parole di Martini, «Il primo movimento vero in Italia,
precursore dei movimenti moderni in Italia […] io e
Gino Rossi, ancora i due artisti più veri che abbia
l’Italia».
La stessa consapevolezza sosteneva altresì Gino
Rossi, araldo della «giovinezza ignota» chiamata da
Barbantini a esprimersi – come da regolamento –
nell’ammezzato del palazzo del Longhena affacciato
sul Canal Grande, prestigiosa sede della Fondazione.
Il poetico maestro della Fanciulla del fiore, era l’altra
16 In occasione della xiv Esposizione della Secessione viennese.
17 Fondamentale per la ricostruzione non solo delle vicende
dell’Istituzione e dei personaggi che vi furono coinvolti ma della più
ampia scena italiana di riferimento, sono gli studi contenuti nel catalogo: Venezia. Gli anni di Ca’ pesaro, 1908-1920, a cura di F. Scotton,
Milano 1988.
304
michela scolaro
anima, combattiva e appassionata, dell’Istituzione,
alternativa inevitabile alla Biennale, alla quale venivano invitate a partecipare solo autorità accertate,
interpreti di valori tradizionali secondo modalità altrettanto codificate. L’attrito era inevitabile.18 E nella lotta, intrapresa con vera giovanile irruenza, sarebbe rimasto sul campo proprio il più fragile e
arrischiato.
Il tratto aristocratico, nella persona e nei modi, la
buona formazione, le esperienze di vita e le conoscenze aggiornate confluite in una precisa coscienza
artistica, si univano in Gino Rossi a un’innata capacità di coinvolgere, di convincere arrivando nell’intimo. Fu un naturale e subito riconosciuto capofila,
che conquistava con la pittura, con la parola, con
l’esempio. La sua arte, il suo impegno, non erano
volti solo a esprimere una visione personale ma aspiravano a conseguire un benefico fine collettivo:
«l’ideale sarebbe di coordinare tutto il movimento
giovanile italiano – scriveva nel 1910 – di raccogliere
tante belle forze diverse, tante energie che noi ignoriamo ancora, altrimenti la nostra opera rimarrà limitata, e non riusciremo mai a svecchiare l’ambiente
italiano». È quanto avrebbe contribuito a realizzare
insieme a Nino Barbantini e ai colleghi più ardenti,
da Felice Casorati a Umberto Boccioni, passando,
naturalmente, per Arturo Martini. A legare fino a
formare «tutti una famiglia» personalità così diverse
e originali, non fu un’ideologia di gruppo strutturato o una declinazione di stile comune ma il «doppio
filo», avrebbe ricordato Barbantini, di «una passione
tale per l’arte […] una tal fede nella vita e in noi stessi», da non precludere alcun apporto purché «onesto» e «sincero». Così scriveva Rossi, firmatario insieme alla moglie, a Martini, Malossi e Pavan, della
dichiarazione d’intenti indirizzata al direttore di Ca’
Pesaro: «anima libera e forte, che solo tra tutti ci inviò la sua entusiastica e giovanile adesione che comprende i nostri sforzi, le nostre idealità, e che ci seconda nella nobile e bella battaglia, il gruppo
giovanile trivigiano manda il suo fervido ringrazia-
mento e prende impegno fin d’ora di fare il possibile
acciò la prossima permanente veneziana, sia fiera risposta, e monito insieme, alla grande camarilla, piaga di favoritismi, e di dedizioni vergognose che si
chiama la biennale veneziana».
Era il 1911 e di lì a poco, chiuse le sale personali offerte da Barbantini alla mostra primaverile, nel 1912
Rossi e Martini sarebbero partiti alla volta di Parigi,
in compagnia di Bepi Fabiano.
È adesso, più che mai, in questo tratto della straordinaria avventura condivisa che li vide, ennesimi
emuli di Rastignac, affacciarsi sulla capitale del xx secolo, che assumono definitiva consistenza gli elementi che inducono a riconoscerli protagonisti della
versione italiana del sodalizio più illustre e tragico
dell’arte contemporanea, quello tra Vincent Van
Gogh e Paul Gauguin.19 Tra le testimonianze biografiche e quelle eloquenti delle opere prende corpo
questa riprova, con minime varianti, dell’eterno ritorno dell’identico. I precursori evidenti sulla via
della creazione si trasformano, a ben vedere, in funesti modelli occulti. Anche tra loro era una distanza di
cinque anni e l’arte il valore primario, il nucleo centrale della vita, quello in cui confluiscono ragioni e
aspirazioni irragionevoli, in cui esplodono i conflitti
e si compongono. Vicine, sostanzialmente, le strategie individuate per raggiungere l’obiettivo. Ma non
poteva bastare. Gauguin aveva la «legittima ferocia
dell’egoismo produttivo», Van Gogh coltivava l’illusione di una comunione totale, di un’intesa perfetta
fino all’annullamento dell’io nel noi. L’assoluto presagito da entrambi sarebbe stato il precario collante
di un impossibile accordo, il motivo di un incontro/
scontro fecondo e mortale. La sensibilità estrema,
l’inclinazione al patetismo e l’incapacità di far fronte
a una realtà ben diversa da quella colorata e vibrante
dei suoi quadri, dovevano scontrarsi con la durezza
allenata dal selvaggio, incline «alla tirannia» pur di
conservarsi integro e libero. Echi esaltanti di quel
dialogo sono i capolavori realizzati a gara, a fianco a
fianco o a controcanto, gli autoritratti con dedica re-
18 Se alla prima occasione, nel 1908, Antonio Fradeletto, Segretario onnipotente della Biennale, richiamava Barbantini per aver osato
richiedere la presenza di artisti già noti – Ciardi, Fragiacomo, Laurenti e Milesi –, venendo meno alla norma che riservava soltanto ai giovani la vetrina di Ca’ Pesaro, Barbantini criticava duramente la immotivata pretesa della Biennale di mostrare il nuovo: «Lei sempre dice e
torna a dire e fa giurare e spergiurare dalla falange compunta dei critici ufficiosi pendenti dalle sue labbra, che l’arte di tutto il mondo di
ieri e di oggi fu riassunta dalle mostre che si sono susseguite dal 1895
in giù […] lei invece ha fatto pochissimo, e quel poco l’ha fatto male…». La lettera è datata 1912 e nel gruppo dei ribelli, dei novatori
ospitati in quei pochi anni di attività nelle salette dell’ammezzato di
Ca’ Pesaro, si annoveravano Boccioni, Casorati, Moggioli, Garbari,
Marussig, Scopinich, Wolf Ferrari e altri, oltre, naturalmente, a Gino
Rossi e Arturo Martini. A questa prima lista sono da aggiungere, appena pochi mesi dopo, i nomi di Ubaldo Oppi, Mario Cavalieri e Vittorio Zecchin. Erano i prodromi di una lotta che sarebbe stata senza
esclusione di colpi.
19 Per orientarsi nella bibliografia sterminata relativa ai due artisti
è fondamentale strumento il catalogo della mostra: Van Gogh e Gauguin, Milano 2002.
linee di fuga e parallele
ciproca, espressa o celata. Con gli autolesionismi esibiti, omaggi ben più che colpevolizzanti. Indizi sulla
strada di un’ulteriore affermazione di amore e di
morte.
Anche quella di Gino Rossi e di Arturo Martini,
pure modelli l’uno per l’altro, fu una ricerca dell’assoluto, tesi a superare se stessi e il proprio tempo, per
realizzare nell’arte una dimensione ideale, per rendere concreto un sogno individuale e collettivo.
Di Van Gogh Gino Rossi condivideva la piega
amara del sorriso, la tendenza a innamorarsi e a
drammatizzare, a eliminare ogni filtro tra sé e il
mondo. Un’operazione altamente pericolosa che,
per quanto ripagasse con una visione più intensa e
trasfigurata sulla superficie della tela, accumulava ferite sul cuore. È la stessa umanità derelitta che l’olandese ritraeva a Nuenen, quella privilegiata dal maestro del Muto, del Bevitore, dei pescatori buranesi o
dell’Uomo dal canarino. Definizioni che colpiscono
per il contrasto tra lo stile, energico, corposo, e la totale assenza della partecipazione emotiva che perfino l’ironia, con il suo accento amaro, prevede.
L’umanità, per quanto al suo più elementare livello,
ha per Rossi una capacità di imporsi che non richiede
altro, per farsi figura significante, che di registrarla,
di seguire la verità cieca della natura, facendo emergere col gesto il soggetto dalla materia indistinta.
Proprio come faceva Martini nelle plastiche tormentate di quegli anni, nel Ritratto di Omero Soppelsa, nel
Figliol prodigo, nella Maternità, repliche dirette all’amico pittore quanto esperimenti paralleli.
Del tutto opposta l’attitudine di Rossi che si rileva
nel rapporto col modello femminile. Se la Fanciulla
del fiore è l’icona giovanile che riassume l’ideale amoroso dell’artista, rispettoso e devoto come un poeta
del Dolce Stil Novo, la Signora ritratta nel 1914, così
come l’Educanda, la Ragazza del 1920 o la Fanciulla
che legge del 1922, accolgono nelle loro forme un sentimento maturo e affinato. I contorni più larghi, la
stesura asciutta, il cromatismo severo costruiscono
l’immagine di un riferimento che si afferma ideale e
concreto al contempo. Sono presenze ammirate senza effusioni, che concentrano il senso della solidità
dell’affetto e dell’essere, rappresentanti di un universo equilibrato a cui tendere. Quando sono popolane
le donne di Rossi vestono anche panni colorati e portano fazzoletti in testa, possono avere fisionomie più
marcate ma sono indenni da quel grado zero dello
305
spirito che si riscontra nei corrispettivi maschili, rilevato senza alcun enfasi dal pittore, egualmente indenne da ogni vicinanza emotiva.
Di Gauguin Arturo Martini condivideva l’urgenza
e l’irruenza, era animato dallo stesso senso di dover
affermare sempre «il diritto di osare tutto». Al pari
dell’esule volontario nei mari del Sud era completamente assorbito da una necessità imperiosa di essere
se stesso. Che conquistava e travolgeva chi gli era vicino, che lo isolava, condannato alla solitudine, o lo
costringeva a gettarsi nella mischia, sottoposto al logorio del contrasto continuo. Come Gauguin era curioso e sperimentale: materiali, generi, stili, tutto era
oggetto di ricerca e si trasformava in espressione.
Perfino le avverse condizioni economiche che lo privarono, come Gino Rossi del resto, della possibilità
di acquistare l’occorrente per lavorare, divennero
l’occasione per provare altre tecniche, rinnovando
procedimenti quasi sconosciuti, come l’incisione su
placche di ceramica che Giovanni Comisso riteneva
avesse addirittura inventato. Nulla di ciò che faceva
o che creava rimaneva inosservato. Conobbe presto
il favore della critica e del mercato, così come il rifiuto e il rumore dello scandalo. Seppe modulare tutti i
toni e tutti i registri. Dolce, ironico, raffinato e popolare, fiabesco e realistico. Quando inventava, come
Gauguin non temeva «le astrazioni più spinte» e vinceva «ogni timidezza».
Eppure, proprio a causa di Gauguin, Martini
avrebbe formulato un giudizio severo su Rossi, che
ritiene debole nella composizione. «Amava immensamente Gauguin, amore pericoloso, perchè non si
accorse dei più grandi, e che fu il principio di tutta
la malattia, cioè di quella fastosa inesperienza che
passò poi per originalità. Amore dell’antico. Rossi
studia a Parigi i cinesi (o i giapponesi) del Museo
Guimet, e Gauguin. Tanto è vero che di tutti e due
(di Rossi e di Gauguin) la pittura deriva dai vasi ceramici cinesi (opere popolari). Era geloso. Mi ha nascosto l’esistenza del Museo Guimet».20 E ancora:
«Non dobbiamo credere che tutto nascesse da là
[dai movimenti parigini]. Nasceva contemporaneamente questo bisogno di esotico, di infantilismo
ecc. […]. Gino Rossi non mi parlava che di stile, talmente inebetendomi che m’imprigionava anche lui.
[…] Mentre Gino Rossi nasceva coi cinesi, mi nasceva colla storia della Pavona e del Gallo (Storia della
ceramica). E quelli erano i nostri cinesi […] lui è an-
20 Martini, op. cit. a nota 5., p. 160.
306
michela scolaro
dato molto giovane in Francia e ha visto che tutta
una modernità (di Gauguin) nasceva da una figura
disegnata dei piani, con contorno blu o nero, e campita di tinte color giallo. Noi gavemo delle cose più
autentiche».21
A Parigi, in ogni caso, queste riserve non avevano
ancora preso forma.22 E il dialogo si faceva più serrato e costruttivo, alimentato dall’emozione, dalle
scoperte, dagli incontri con altri artisti. A partire da
Amedeo Modigliani, con il quale si potevano scambiare i ricordi, condividere le impressioni di Venezia
e la fascinazione per le arti primitive, considerate –
come era stato per Gauguin e come ribadivano allora i pittori cubisti – parte essenziale di una dimensione creativa da recuperare interamente per fare nuovo. Grazie a Medardo Rosso, che Martini non tardò
a cercare, i due veneti parteciparono al Salon d’Automne di quell’anno, accanto, tra i numerosi espositori italiani, allo stesso Modigliani, Libero Andreotti,
Bugatti, Troubetzkoj e De Chirico. Rossi, che aveva
portato anche un’opera della moglie, Bice Levi Minzi, presentava otto dipinti, Martini quattro incisioni
e un dipinto. I Fauves che tanto avevano scandalizzato erano oramai ben ‘addomesticati’ e la mostra non
presentava quell’aspetto da champ de bataille, sono
parole di Apollinaire, che aveva avuto nel 1907, nel
1908 e nel 1911. Esponevano i cubisti, i futuristi e i postcubisti della Section d’or. L’arte dell’affiche, grazie a
Cappiello, e il ritratto del xix secolo godevano di spazi esclusivi.
È adesso che Gino Rossi si rivela sensibile alla lezione di Cézanne, che considera con una nuova attenzione, non distratto dalle conferme di Gauguin,
di Van Gogh e di Matisse. Martini, da parte sua,
osserva e replica, trasforma e estremizza i modelli
accolti, elaborati e proposti dall’amico in opere
stranamente vicine e, al contempo, lontane. Così
alcuni paesaggi di Rossi, lieti di colore e di armoniche sovrapposizioni di piani, paiono virati da quella
che sembra la fantasia bruciante di un regista di
noir nei fogli di Martini, mentre alcuni tratti sembrano presenti al ricordo solo per essere alterati.
21 Martini, op. cit. a nota 5, pp. 176-77.
22 Mentre si fissavano con forza le suggestioni di un altro Oriente,
non dei ‘cinesi’ di Rossi ma degli artisti giapponesi del Musée Guimet, autori delle statue di Buddha dei quali doveva riprendere attitudini e dettagli ne L’Amante morta (1921) e ne Il poeta e la moglie (1922).
Cfr. Fergonzi, op. cit. a nota 15, p. 69.
23 A risarcire della sostanziale indifferenza che aveva accolto le
precedenti proposte, la mostra del 1913 suscitò un interesse davvero
clamoroso. Ne fu richiesta la chiusura, che il Comune avrebbe forse
Difficile non ricordare il profilo regolare del Ritratto
della moglie di Rossi, con la sua bizzarra acconciatura che cerca di comprometterne l’equilibrio all’indietro, osservando la straordinaria invenzione della
Fanciulla piena d’amore, una ceramica presentata da
Martini a Venezia nel 1913. Al ritorno da Parigi,
quindi, dove lo scultore aveva ben meditato anche
sulle sette Teste arcaizzanti esposte da Modigliani. E
se il dipinto dell’amico dedicato alla moglie era un
riferimento consapevole, il dato biografico lo carica
di una cupa ironia, poiché il pittore – precoce
amante e sposo nel 1903 – era stato abbandonato
proprio in quei mesi.
Altre avventure comuni li aspettavano in Italia, la
mostra dello scandalo a Ca’ Pesaro, nel 1913,23 la replica dei Rifiutati dalla Biennale dell’anno successivo, nelle sale dell’Hôtel Excelsior, al Lido di Venezia,
la partecipazione alla Mostra libera futurista di Roma, presso la galleria Sprovieri, la Secessione romana.24 Un secondo breve viaggio a Parigi e, per tutti,
il baratro della Grande Guerra.
«È una buona espressione: sconvolti. Io so perchè lo
sono […]. Credi che ci possano essere guerre così,
guerre terribili, terribili, e poi che si possa dire: bene,
adesso è finita, torniamo alla normalità. Niente è
normale ormai».25
Rientrato dal campo di prigionia di Restatt, dove
era stato inviato dopo la rotta di Caporetto, Rossi
ritorna alla pittura con l’ansia implacabile di un
sopravvissuto. Battagliero ancora come un tempo,
intimamente è disarmato e ferito. Ha ritrovato gli
affetti degli amici, Barbantini, Casorati, Martini, e lo
segue la stima conquistata negli anni precedenti.
Ma, a ripristinare gli equilibri, individuali e collettivi, così tragicamente infranti, non potevano tuttavia
bastare i risultati pur entusiasmanti della Mostra di
Ca’ Pesaro del 1919,26 alla quale Rossi partecipa anche in qualità di giurato. Né il senso rinnovato di
una piena corrispondenza di motivi e di obiettivi
che era parte imprescindibile della Mostra dei Dissidenti di Ca’ Pesaro, allestita dietro istanza di Casoraconcesso se non fossero intervenuti alcuni artisti belgi ospiti della
Biennale, propensi piuttosto a esporre «tra i vivi di Ca’ Pesaro invece
che tra i morti dei Giardini».
24 Secessione romana 1913-1916, catalogo della mostra, a cura di R.
Bossaglia, M. Quesada, P. Spadini, Roma 1987.
25 D. Lessing, Il sogno più dolce, ed. it., Milano 2001, p. 140.
26 Secondo Barbantini per Rossi la mostra del ’19 era «stata la sua
ultima felicità in terra».
linee di fuga e parallele
307
ti nelle sale della Galleria Geri Boralevi su piazza
San Marco, pochi mesi più tardi.
Il destino di Ca’ Pesaro è compromesso, la casa
della gioventù riformatrice dell’arte del xx secolo sarebbe stata ben presto trasformata in Sindacale Veneta. Già nel 1920, a voler credere così ciecamente
nella possibilità di un suo futuro Rossi era, forse, rimasto l’unico.
«Quando penso che le tradizioni di Ca’ Pesaro
sono ora affidate a gente simile, verrebbe voglia di
piangere. Fanno sentire la inutilità d’ogni più nobile
sforzo […] Com’è possibile far opere d’arte se giorno per giorno, ora per ora cadono le più belle illusioni?».27
Era davvero il crollo dell’ideale. Ca’ Pesaro era
per Rossi il luogo dove assicurargli forma concreta,
trovare corrispondenza, consonanza tra sé e gli altri. In quelle salette mezze buie, inoltre, era racchiusa parte luminosa della sua esistenza: «valeva la
pena di aver data a un’istituzione tutta la propria
giovinezza per assistere al suo sabotaggio compiuto
da poche nullità […] non voglio esporre con quella
gente; non intendo fare gli interessi dei manigoldi.
Ho 36 anni».28
Ma l’evoluzione che ha compiuto la sua pittura,
già presagita nelle opere del ’13 e annunciata con determinata chiarezza a Barbantini,29 non incontra lo
stesso consenso. È l’inizio di una valutazione al ribasso spesso riaffiorante, che trasforma Rossi nel peggior nemico di se stesso.30
Nell’estate del 1921 il pittore spiegava all’amico
critico: «Non condivido completamente le tue
opinioni per quel che riguarda le mie ultime cose,
risultati di una sensibilità nuova […] Andiamo verso un’architettura del quadro, che non ha proprio
nulla a che fare con l’Accademia, almeno per conto
mio […] Monet, Pissarro, Guillaumin ci avranno
lasciato indubbiamente delle belle cose dal punto
di vista del colore. Ma non si costruisce col colore,
si costruisce colla forma. Un’arte dove il colore
comanda è un’arte incompleta fin dalla base. Lo
sforzo ostinato di Cézanne è stato, durante tutta la
sua vita, quello di costruire dei volumi e subordinare il colore all’espressione della forma. Andare
più innanzi a dipingere come prima di Cézanne è
impossibile. Un pittore che non sente così è
morto».31
La linea aerea e sapiente che definiva con slancio
le descrizioni asolane si è fatta segno piatto e spesso,
spezzato di continuo. Tratto, non più linea e forse,
neppure possibilità di fuga. La campitura che conosceva le trasparenze dei soffiatori di vetro e i timbri
puri delle murrine, sembra ora trarre dalla terra,
dalle ombre bruciate la forza di trasformarsi in volume. Hanno una nuova, vera poesia queste composizioni severe, che potrebbero essere risentite ma sono solo spente, prosciugate, come passate attraverso
l’antico fuoco. Non sorride più nulla nelle opere dell’ultima stagione di Gino Rossi. Ma vi sono giunti a
maturazione elementi importanti: la lezione di Cézanne, del Cubismo e dell’amico Martini. Se il continuo parlare di stile certo impazientiva lo scultore,
non meno frequente doveva essere per Rossi l’ascolto del discorso sulla plastica e il modellare o sul rapporto tra pieni e vuoti o tra il bianco e il nero, la luce
e l’oscurità. Sui valori assoluti. Infine intimamente
compresi.
Anche per quanto riguarda Martini, oramai scultore in pieno possesso di un’espressione originale
in grado di modularsi in infinite varianti, il tempo
e la memoria dovevano rivelarsi custodi fedeli. A distanza il dialogo proseguiva e nella perfezione della
Fanciulla col passero, nella purezza lineare di Ofelia
tornano eco molteplici del «più bel poema» di Gino
Rossi.
27 Lettera a Barbantini, in Scritti d’arte, op. cit. a nota 4, p. 275.
28 La lettera continua: «Vedo che tutti i nostri sforzi hanno avuto
un risultato opposto a quello che speravo, Venezia mi fa schifo, e io
ho bisogno di star lontano dal fango».
29 «Non farò più i quadretti leggiadri per i colori che accarezzano
l’occhio, simpatici per la composizione decorativa, come una volta.
Sono divenuto più aspro, più duro, più violento e sto facendomi una
coscienza plastica», alla quale è certo che Martini abbia dato un contributo di tutto rilievo.
30 Basta sfogliare gli scritti dedicati alla sua opera, qui vale la nota
di Fortunato Bellonzi: «…la svolta radicale che ne seguì fu pagata […
] con la perdita di quell’eccezionale freschezza della “image mentale”
che aveva brillato nell’adesione al misticismo visionario della cosiddetta Scuola di Pont-Aven…», in Gino Rossi, catalogo della mostra,
Milano 1984, p. 36.
31 Gino Rossi, op. cit. a nota 30, pp. 276-277.
Et là où ce qu’on aime devient plus intense
Tout se fond pour rester à jamais immobile.
Come in quella di Van Gogh e di Gauguin anche in
questa storia, in qualche modo, si perde la vita. Rossi
è colpevole, si è abbandonato alla malattia, l’ultima,
imperfetta linea di fuga, percepita e rincorsa tra i fantasmi di una realtà opaca e ostile. Ha lasciato Martini
e chi credeva nella sua luce, nella sua forza, soli a
308
michela scolaro
combattere. Ma chi cercava di resistere, di non perdere il filo, forse, non era meno ferito.
«La mia situazione è disperata – scriveva il pittore
a Barbantini – la mia testa è stanca». L’epilogo è più
che triste e noto.
Le memorie dei pochi amici che di tempo in tempo cercavano di forzare la solitudine, fisica e psichica,
di Gino Rossi riferiscono che la notizia della morte
di Martini, sopraggiunta nel marzo del 1947, lo lasciò
del tutto indifferente. Per lo scultore lui, d’altra parte, era morto già oltre vent’anni prima.
j’oublie ton nom
Et ton passé qui me ressemble
Nous avons trop longtemps marché ensemble
Et rien ne pourra m’obliger à te suivre
Si je suis fatigué.
Rossi l’avrebbe seguito nel dicembre dello stesso
1947.
co m p o sto i n c a r attere da nte m onotype da lla
fa b ri z i o se rr a edito re, pisa · ro m a .
sta m pato e rilegato nella
t i p o gr a f i a d i ag na no, ag na no pisa no (pisa ).
*
Gennaio 2010
(cz 2 · fg 21)
Riviste · Journals
AGRI CENTURIATI
An International Journal of Landscape Archaeology
Rivista diretta da Guido Rosada e Pier Luigi Dall’Aglio
ARCHAEOLOGIA
MARITIMA MEDITERRANEA
An International Journal on Underwater Archaeology
Rivista diretta da Roberto Petriaggi
ARCHAEOLOGIAE
Research by Foreign Missions in Italy
Rivista diretta da Giuseppe M. Della Fina
CALABRIA ANTICA
Rivista internazionale diretta da Gioacchino Francesco La Torre
EIDOLA
International Journal on Ancient Art History
Rivista diretta da Irene Favaretto e Francesca Ghedini
FABRIZIO SERRA EDITORE
PISA · ROMA
www.libraweb.net
Riviste · Journals
FACTA
A Journal of Roman Material Culture Studies
Rivista diretta da Daniele Malfitana, John Lund e Jeroen Poblome
KWKALOS
Studi pubblicati dall’Istituto di Storia Antica dell’Università di Palermo
Rivista diretta da Pietrina Anello
LYBIA ANTIQUA
Rivista diretta da Antonino Di Vita e Saleh R. Akab
MARE INTERNUM
Archeologia e culture del Mediterraneo
Rivista diretta da Nicola Bonacasa
MARMORA
An International Journal for Archaeology,
History and Archaeometry of Marbles and Stones
Rivista diretta da Lorenzo Lazzarini
FABRIZIO SERRA EDITORE
PISA · ROMA
www.libraweb.net
Riviste · Journals
PASIPHAE
Rivista di filologia e antichità egee
diretta da Louis Godart e Anna Sacconi
MEDITERRANEA
Quaderni annuali dell’Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche
e del Mediterraneo Antico del Consiglio Nazionale delle Ricerche
MEDITERRANEO ANTICO
Economie, Società, Culture
Rivista diretta da Mario Mazza
ORIZZONTI
Rassegna di archeologia
Rivista diretta da Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli
PADUSA
Bollettino del Centro Polesano di studi storici, archeologici e etnografici
Rivista diretta da Paolo Bellintani
PARTHICA
Incontri di culture nel mondo antico
Rivista diretta da Antonio Invernizzi
FABRIZIO SERRA EDITORE
PISA · ROMA
www.libraweb.net
Riviste · Journals
RIVISTA DELL’ISTITUTO NAZIONALE
D’ARCHEOLOGIA E STORIA DELL’ARTE
Annuale diretta da Adriano La Regina
RIVISTA DI STUDI FENICI
A cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche
Rivista fondata da Sabatino Moscati
SARDINIA, CORSICA
ET BALEARES ANTIQUAE
An International Journal of Archaeology
Rivista annuale
SCIENCE AND TECHNOLOGY
FOR CULTURAL HERITAGE
Rivista diretta da Stefano Bruni
SCRIPTA
An International Journal of Palaeography and Codicology
Rivista diretta da Mario Capasso e Francesco Magistrale
FABRIZIO SERRA EDITORE
PISA · ROMA
www.libraweb.net
Riviste · Journals
SICILIA ANTIQUA
An International Journal of Archaeology
Rivista diretta da Ernesto De Miro
STUDI DI EGITTOLOGIA
E DI PAPIROLOGIA
Rivista diretta da Mario Capasso
SYMBOLAE ANTIQVARIAE
Rivista diretta da Stefano Bruni e Mario Rosa
TECHNAI
An International Journal for Ancient Science and Technology
Rivista diretta da Carlo Santini
VESUVIANA
An International Journal of Archaeological
and Historical Studies on Pompeii and Herculaneum
Rivista diretta da Fabrizio Pesando
WORKSHOP
di archeologia classica
Rivista diretta da Andrea Carandini e Emanuele Greco
FABRIZIO SERRA EDITORE
PISA · ROMA
www.libraweb.net
F ABRI Z I O S E RR A E D I TO R E
Pisa · Roma
www.libraweb.net
Fabrizio Serra
Regole editoriali,
tipografiche & redazionali
Seconda edizione
Prefazione di Martino Mardersteig · Postfazione di Alessandro Olschki
Con un’appendice di Jan Tschichold
Dalla ‘Prefazione’ di Martino Mardersteig
O
[…]
ggi abbiamo uno strumento […], il
presente manuale intitolato, giustamente, ‘Regole’. Varie sono le ragioni per raccomandare
quest’opera agli editori, agli autori, agli appassionati di libri e ai cultori delle cose ben fatte e
soprattutto a qualsiasi scuola grafica. La prima
è quella di mettere un po’ di ordine nei mille
criteri che l’autore, il curatore, lo studioso applicano nella compilazione dei loro lavori. Si
tratta di semplificare e uniformare alcune norme redazionali a beneficio di tutti i lettori. In
secondo luogo, mi sembra che Fabrizio Serra
sia riuscito a cogliere gli insegnamenti provenienti da oltre 500 anni di pratica e li abbia inseriti in norme assolutamente valide. Non possiamo pensare che nel nome della proclamata
‘libertà’ ognuno possa comporre e strutturare
un libro come meglio crede, a meno che non si
tratti di libro d’artista, ma qui non si discute di
questo tema. Certe norme, affermate e consolidatesi nel corso dei secoli (soprattutto sulla
leggibilità), devono essere rispettate anche oggi: è assurdo sostenere il contrario. […] Fabrizio Serra riesce a fondere la tradizione con la
tecnologia moderna, la qualità di ieri con i
mezzi disponibili oggi. […]
*
Dalla ‘Postfazione’ di Alessandro Olschki
Q
[…]
ueste succinte considerazioni sono
soltanto una minuscola sintesi del grande
impegno che Fabrizio Serra ha profuso nelle
pagine di questo manuale che ripercorre minuziosamente le tappe che conducono il testo
proposto dall’autore al traguardo della nascita
del libro; una guida puntualissima dalla quale
trarranno beneficio non solo gli scrittori ma anche i tipografi specialmente in questi anni di
transizione che, per il rivoluzionario avvento
dell’informatica, hanno sconvolto la figura
classica del ‘proto’ e il tradizionale intervento
del compositore.
Non credo siano molte le case editrici che
curano una propria identità redazionale mettendo a disposizione degli autori delle norme di stile
da seguire per ottenere una necessaria uniformità nell’ambito del proprio catalogo. Si tratta di
una questione di immagine e anche di professionalità. Non è raro, purtroppo, specialmente nelle pubblicazioni a più mani (atti di convegni,
pubblicazioni in onore, etc.) trovare nello stesso
volume testi di differente impostazione redazionale: specialmente nelle citazioni bibliografiche
delle note ma anche nella suddivisione e nell’impostazione di eventuali paragrafi: la considero
una sciatteria editoriale anche se, talvolta, non è
facilmente superabile. […]
2009, cm 17 × 24, 220 pp., € 34,00
isbn: 978-88-6227-144-8
Le nostre riviste Online,
la nostra libreria Internet
www.libraweb.net
*
Our Online Journals,
our Internet Bookshop
www.libraweb.net
Fabrizio Serra
editore®
Accademia
editoriale®
Istituti editoriali
e poligrafici
internazionali®
Giardini editori
e stampatori
in Pisa®
Edizioni
dell’Ateneo®
Gruppo editoriale
internazionale®
Per leggere un fascicolo saggio di ogni nostra rivista si visiti il nostro sito web:
To read a free sample issue of any of our journals visit our website:
www.libraweb.net/periodonline.php