La voce del popolo

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La voce del popolo
la Voce
del popolo
MIRANDOLINA
AI PIEDI
DELL’ARENA
la Voce
del popolo
palcoscenico
LA LOCANDIERA GOLDONIANA CAMBIA
AMBIENTAZIONE, CALENDARIO E PARLATA,
MA NON PERDE IL SUO FASCINO,
LA SUA FRESCHEZZA E SOPRATTUTTO
NON PERDE IL CARATTERE.
IN SCENA AL TEATRO POLESE «OŠTARICA MIRANDOLINA»
www.edit.hr/lavoce
Anno 9 • n. 75
martedì, 4 giugno 2013
UN CAFFÈ CON
RECENSIONI
PROPOSTE
TEATRALIA
L’INTERVISTA
Simone Leonardi
Chiamatemi Italo.
Italo Svevo
Mirandolina...
d’Asburgo
Addio a Franca Rame
David Petrović
Quando le donne
erano di sinistra
La locandiera tradotta
e rivisitata
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Per mordere la gustosa crêpe
che è la vita
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palcoscenico
martedì, 4 giugno 2013
UN CAFFÈ CON...
la Voce
del popolo
di Rossana Poletti
SIMONE
LEONARDI
N
ato a Roma, studia recitazione con il regista Giovanni Nardoni.
Fondamentale per la sua formazione l’approfondimento sul metodo realista con
John Strasberg e il soggiorno di studio in Gran Bretagna, presso il Charioteer
Theatre, dove perfeziona la conoscenza del repertorio shakespeariano. Studia canto
con maestri prestigiosi fra i quali Jana Mrazova e Anna Maria Di Marco, tap-dance
e repertorio musical con Ann Amendolagine. Per il teatro di prosa prende parte ad
Adelchi, con la regia di E. Zingaro e per il teatro musicale interpreta il conte Gustav
nell’operetta Il Paese del Sorriso di Lehár. Sotto la direzione di Gino Landi, veste i panni
di Caderousse nel Conte di Montecristo al Teatro Brancaccio e quelli del nipotino del
topo più famoso d’Italia in Geronimo Stilton Supershow. Nel 2007 è protagonista in Alta
Società, nel ruolo di Dexter, prima ancora è Frank in Lady Day accanto ad Amii Stuart.
Scelto come cover di Mr Higgins in My fair Lady per il Nazionale è qui in scena anche
nel 2006 con Rent di J. Larson e prodotto da Pavarotti Int. nel ruolo di Mr Jefferson.
Ancora è stato Malcolm in Full Monty, l’abate Narciso in Boccadoro The Traveller, Bob
Cratchit in Canto di Natale al Sistina di Roma. Come doppiatore per la tv collabora a
serial come Fastlane e Medium e documentari per NatGeo. Sulle reti Rai in Stellina,
dove Simone è il clown Tataglio ed Elements, dove dà la voce al simpatico Merc. Nel
2010 a Roma cura l’adattamento della versione italiana del musical The Last Five Years.
Nel frattempo Simone Leonardi è apprezzato interprete nel ruolo di Din Don ne La Bella
e la Bestia a Milano e Roma. La sua fama va alle stelle quando diviene protagonista
in Priscilla la regina del deserto, assieme ad Antonello Angiolillo e Mirko Ranù. A
novembre 2012 riceve a Trieste, durante una serata di gala, il Premio Nazionale Sandro
Massimini, assegnato annualmente ad un giovane attore brillante del teatro musicale
leggero italiano che abbia dimostrato particolari doti di talento e di versatilità nella
recitazione, nel canto e nella danza.
Bernadette Bassenger, Mitzi Del Bra, e Felicia Jollygoodfellow sono i nomi d’arte di
Ralph, Anthony “Tick” Belrose ed Adam Whitely, una transessuale e due drag queen che
si esibiscono nei gay bar di Sydney. Dopo la morte del compagno di Bernadette, i tre
partono alla volta di Alice Springs per esibirsi al Lasseters Casinò, del quale la ex-moglie
di Tick è direttore. Le tappe del viaggio sono cittadine abitate da gente rude, che non
ama confrontarsi con il mondo delle nostre tre “amiche”. Ne succedono di tutti i colori,
compresa una zuffa nella quale per fortuna farà da paciere Bob, meccanico frustrato da
una mogliettina troppo esuberante, che riparerà anche il pullman e andrà con loro ad
Alice. Prima dell’inizio dello spettacolo nel casinò salta fuori che Tick ha avuto un figlio,
un bambino molto sveglio che non farà nessuna difficoltà ad accettare la diversità del
padre. Happy end sorprendente con tutti in scena in un sfarfallio di piume di struzzo,
lustrini, costumi esorbitanti, l’eccesso è di rigore.
Partiamo dal personaggio di Bernadette,
protagonista assoluta del musical Priscilla
la regina del deserto.
Non solo protagonista ma emblema dello
spettacolo, in quanto rappresenta tutto
ciò che lo spettacolo vuole essere: lotta
per l’accettazione, tolleranza, capacità
di credere nei propri progetti sfidando
l’opinione pubblica, irriverenza con cui certi
temi vengono affrontati e totale mancanza
di autocommiserazione nell’affrontarli. Lo
spettacolo riflette tutto ciò e Bernadette lo
incarna in prima persona. È un personaggio
che offre una duplice sfida: gli autori
Stephan Elliot e Allan Scott hanno deciso
di difendere drammaturgicamente il
personaggio, scovandone la forza e anche
la poesia. L’attore è così protetto da questa
forza drammaturgica ma nel contempo è
minacciato dalla potenza drammaturgica
del personaggio, che è rischiosissimo da
interpretare perché si può facilmente
sbagliare. Non si può portare in scena
Bernadette esprimendo un giudizio su di
essa. Noi attori siano portati ad esprimere
giudizi su ciò che interpretiamo e questa
è la nostra debolezza, perché vorremmo
compartecipare al pensiero del pubblico.
Ma non possiamo farlo, noi dobbiamo
produrre la catarsi negli spettatori. È il
pubblico stesso che deve riflettere sul
personaggio e sentirlo, noi ci limitiamo a
rappresentarlo. Rappresentare Bernadette
significa rinunciare al proprio pensiero ed
abbracciare a 360 gradi la sua visione. Io non
la interpreto, cerco semplicemente di vedere
con i suoi occhi. Questa è ovviamente una
visione moderna del recitare, espressa da
Declan Donnellan, che io stimo moltissimo,
regista inglese di musical come di commedie
shakespeariane.
Che cosa dice Donnellan?
Afferma che bisogna imparare a vedere con
gli occhi del personaggio, senza chiedersi chi
sia, semplicemente operando una rinuncia
al proprio giudizio. Per me quando esiste
Bernadette non esisto io; ciò che ci accomuna
è la totale mancanza di giudizio nei confronti
degli altri, io non giudico mai le persone
che incontro, tento di capire e mettermi nei
loro panni pur che mi lascino fare lo stesso.
Bernadette è un uomo che ha fronteggiato
molte difficoltà nella vita, avvicinandosi al
mondo femminile come Drag Queen e poi
addirittura affrontando un cambio di genere
che l’ha portata a diventare una donna. Io
ho certamente avuto meno difficoltà. Vengo
comunque dalla periferia, da una famiglia
molto umile, senza conoscenze e senza
basi, ho cominciato un percorso a cui ho
fortemente creduto, nonostante la vita mi
desse molte spinte per farmi tornare indietro.
E invece sei andato avanti.
Mi bocciarono all’Accademia Silvio
D’amico e rifiutarono il mio accesso alla
scuola del Piccolo Teatro di Milano e,
quando chiesi ragione di questo, mi fecero
capire esplicitamente che dovevo lasciar
perdere, che non era la strada giusta per
me. Nonostante la sofferenza provata,
ho creduto che avessero torto. Loro sono
ancora “istituzioni” e io non sono “nessuno”,
ma nell’essere nessuno sono comunque
quattordici anni di felice lavoro. Con la Stage
Entertainment e con Priscilla ho vissuto
straordinarie prime volte: 509 repliche in due
anni de La Bella e la Bestia, nel ruolo di Din
Don, primo spettacolo “residente” in Italia,
quello che ha incassato di più dal dopoguerra
ai giorni nostri. E con Priscilla ho vissuto
un’altra prima volta, nel senso che il format
dello spettacolo è lo stesso in Italia e a New
York. Il team creativo, venuto da America,
Germania, Olanda, non si è chiesto chi fossi,
da che scuola provenissi, mi hanno messo
sotto torchio, alla prova duramente e hanno
deciso che io ero adatto a quel ruolo.
Tu reciti molto bene, cosa non comune nei
musical, dove gli interpreti non brillano
nelle doti attoriali. Interpreti Bernadette
in maniera sobria e non caricaturale,
come un trans potrebbe apparire
nell’immaginario collettivo. In Italia si vive
purtroppo ancora di un cliché, se fai parte
di un certo giro passi se no sei fuori. Non
così all’estero.
Io volevo fare teatro, la prima pièce
che vidi fu Natale in casa Cupiello. Amo
particolarmente il teatro dialettale, perché
credo che il dialetto, la lingua che parliamo,
sia un tesoro per noi. Capisco che ci debba
essere un italiano standard e lo conosco
profondamente. In questi giorni studiare
dizione inglese mi ha fatto comprendere
quanto sia importante comprendere bene il
lessico, la morfologia, ogni aspetto di una
lingua per poter recitare bene con essa. I
napoletani, o i veneti con il Goldoni, recitano
con una lingua reale e realistica, mi vien
da dire. Noi italiani abbiamo il problema di
essere veri e reali in scena perché parliamo
una lingua che non gode di uno standard
nella società. Mi spiego. Gli inglesi recitano
nella lingua che la regina parla, che una fetta
della popolazione parla, e che viene difesa a
spada tratta. Noi non abbiamo una lingua,
per come si presenta da Accademia della
Crusca, che sia parlata da una parte della
popolazione. Ai miei allievi faccio lezioni
di grammatica storica, gli faccio vedere
come il latino si è evoluto non solo nel
toscano emendato, ma in tutte quelle lingue
italiane che costellano il paese. Un percorso
affascinante che sarebbe bene studiare
a scuola. Quando vidi appunto Natale in
casa Cupiello ebbi la netta sensazione che il
teatro dovesse rappresentare la vita e sono
cresciuto con questa idea. Tutto quanto
è intellettualismo, retaggio romantico,
ingerenza cattolica nei testi lo rifiuto, perché
il teatro deve tornare a parlare al popolo,
senza dogmatismi e intellettualismi che
separano il pubblico dal teatro. Quando
ho scoperto Shakepeare a Londra, ho
capito che noi allestiamo spettacoli pesanti,
mentre il teatro shakespeariano è grande,
lì sta l’invenzione della drammaturgia
moderna, del gioco teatrale e filmico, lì c’è
tutto: che festa popolare è quel teatro! E
quanto perdiamo nelle traduzioni e quanto
peggioriamo ancora le cose con le nostre
costruzioni intellettuali. Questo deve farci
riflettere sui limiti nel bene e nel male
della nostra lingua, in modo da dare agli
attori un’indipendenza e capacità personale
di elaborare la propria performance. Se
proponessi questo alle varie istituzioni
e intellighenzie del nostro paese, mi
scaccerebbero.
Infatti è ciò che ti è successo.
Con Bernadette ho potuto invece dimostrare
che, se posso lavorare liberamente, al
pubblico arriva il messaggio e il pubblico è
pronto a riceverlo, non è stupido, il pubblico
è sovrano.
In Italia abbiamo forse un teatro drogato
da un intellettualismo figlio del ’68, la
classe dirigente teatrale è quella di quel
periodo, non è cambiata, come del resto
tutte le classi dirigenti di questo paese, e
tiene stretto nelle proprie mani il potere
di interdizione nei confronti delle spinte
nuove. Della serie “deve essere reso serio
anche ciò che serio non”.
L’hai detto. L’altro giorno leggevo un articolo
in cui si diceva che “il teatro può educare,
può far ridere, l’importante è che interessi”.
Non può e non deve essere una predica.
Priscilla sta facendo passare un messaggio
tostissimo, con leggerezza e divertimento.
Ci preoccupavamo all’inizio del gergo, delle
parolacce, delle drag queen, del senso, dei
bambini. Le preoccupazioni pongono un
freno all’emancipazione, nel momento in
cui non le vivi, nel momento in cui ti fidi del
messaggio e credi che sia forte e necessario
da comunicare, ecco che improvvisamente
si supera tutto. Non abbiamo mai dovuto
spiegare niente ai bambini con cui abbiamo
la Voce
del popolo
lavorato. Amo profondamente la prosa Ibsen,
Shakespeare, ma anche i musical, i miei
preferiti sono quelli della Golden Age, di
Lerner e Loewe, di Rodgers e Hammerstein,
ma anche alcuni moderni come Stephen
Schwartz e Jason Robert Brown. Ci sono
messaggi importanti, mediati in forma
leggera, anche nel musical: come non
ricordare Tutti insieme appassionatamente,
quando la famiglia von Trapp esce dalla villa
di notte di nascosto per sfuggire ai nazisti. A
volte è il mezzo espressivo che interessa le
persone e l’aspetto noioso e predicatorio di
certi mezzi crea distanza.
Un atteggiamento etico, nel senso
negativo del termine.
Ho studiato molto pur essendo un selfmade man, leggo molto, sono in continua
formazione, cerco una conoscenza diffusa.
Mi è capitato di tenere una lezione di dizione
ad alcuni ragazzi. Mi soffermai sul primo
coro dell’Adelchi del Manzoni per circa
due ore e mezza e allora dissi di fare una
pausa, temevo di averli stancati e questi
invece presi dalla curiosità e dalla passione,
che probabilmente trasmettevo loro, su
tutto ciò che storicamente era avvenuto in
quel frangente e che il Manzoni racconta, i
Longobardi, Carlo Magno, cosa ha significato
per la nostra lingua l’invasione dei Franchi
e l’annientamento della civiltà longobarda,
mi dissero di continuare. Scopro una
generazione di ventenni, che contrariamente
a quello che si pensa ha molta voglia di
contenuti, bisogna darglieli con i mezzi giusti
senza pontificare.
È la passione quella che passa.
Certo se gli insegnanti amano la materia
anche i loro allievi la ameranno.
Per il teatro vale lo stesso concetto.
Il pubblico è come una persona, che a
volte reagisce di più, a volte di meno, in
un modo o in un altro. Nella vita incontri
palcoscenico
una persona che ha bisogno di comunicare
un suo dramma e lo fa in modo noioso,
tu lo ascolterai con sufficienza, se invece
ti dimostra che vuole condividere con te
la sua difficoltà, magari ti offre un caffè,
mette un po’ di ironia nel suo racconto,
tu lo ascolterai più volentieri. Questo non
cancella il dramma ma ti permette di
condividerlo meglio. Bisognerebbe fare il
dramma con ironia e affrontare la comicità
con un po’ più di serietà, affinché non sia
becera e pecoreccia. La comicità fa parte
del quotidiano, va proposta. Andai a vedere
Romeo e Giulietta al Global di Londra,
spettacolo che durò quattro ore e mezzo, per
le prime due il pubblico si scompiscò dalle
risate, perché Shakespeare offriva la risata
per far entrare pian piano il dramma. Cosa
c’è di più elementare di questo?
Menphis, New Orleans, Nashville,
Chicago, Detroit…
Pensa che a Roma hanno fatto un’ordinanza
per impedire agli artisti di strada di utilizzare
la musica. Una mia amica faceva il tip tap
a piazza Navona in mezzo ai turisti che la
applaudivano felicemente, ora senza musica
non può fare più niente. Mentre quando vai
al nord d’Europa, anche nel gelo delle città
innevate trovi artisti che si esibiscono, è
un’abitudine antica.
Questa è la grande differenza tra noi e
gli altri. In America i grandi attori fanno
tournée con le nuove produzioni di
musical.
In inglese si dice Musical Theatre, perché per
loro sempre di teatro si tratta.
Credo che l’Italia, se mi è permessa
un’opinione, abbia un retaggio di regole
bizantine e alcuni poteri consolidati,
come la Siae (società italiana autori ed
editori), per fare un esempio ma non
solo, che se vedono sfuggire un loro
utile ed è impossibile “agguantarlo”
fanno di tutto per impedire che la cosa
si faccia. Vale per l’arte, ma in Italia è
un po’ così per qualsiasi cosa. Ci stiamo
tarpando le ali, soffochiamo la nostra più
grande qualità, fantasia, inventiva, arte
dell’arrangiarsi, sotto un cumulo di regole
che ci porteranno a picco. L’istituzione è
tutelata protetta e non viene mai messa
in discussione, vale anche per il teatro e
tutto ciò che esce da questo contesto va
frustrato ed annientato.
Pensa alle selezioni dei teatri e delle scuole
pubbliche, ti costringono a portare pezzi
ben precisi, che “loro” ritengono giusta
mediazione culturale: ma perché? cosa
cambia se io scelgo cose diverse, testi
classici, ma anche contemporanei. È solo un
esercizio di potere. Benedico il giorno in cui
sono stato scartato da queste scuole, perché
sono tiranniche, lì c’è indottrinamento. Mi
chiedo se producano attori validi. Un attore
senza spirito critico, non so quanto possa
comunicare al pubblico.
Negli Stati Uniti la musica di strada è vita,
gli artisti, i grandi musicisti si esibiscono
dovunque, si confrontano continuamente:
Il motivo forse va cercato nel fatto che
questi signori si sono chiusi in un recinto
nel quale si difendono, perché quello
Il dramma a teatro da noi deve per forza
di cose essere “martirizzazione”.
Io combatterò per sradicare questo pensiero.
Ed è attraverso queste asserzioni che
passa la demonizzazione del musical da
parte dell’”intellighenzia”.
E siccome si considera il musical un teatro di
serie B, è passato il concetto che non serva
insegnare recitazione ai giovani performer.
Le scuole di musical devono invece insegnare
i classici, la tragedia greca, Shakespeare,
Moliere, Goldoni, i ragazzi devono sapere
recitare, non deve essere considerato un
optional.
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sanno e niente di più. Il confronto con
quello che c’è fuori potrebbe essere letale.
Come in un organismo vivente per rinnovarsi
devono morire le cellule vecchie, così anche
la nostra società ha bisogno di tempo per
il cambiamento, ci vorranno alcune decine
d’anni perché qualcosa succeda. In natura le
cellule vecchie sono generose nei confronti
di quelle nuove, ecco nella società le cellule
vecchie non sono affatto generose, per cui
dobbiamo aspettare che muoiano perché
possa nascere qualcosa di nuovo. Noi giovani
o ce ne andiamo o stiamo qui ad aspettare
che il ricambio generazionale avvenga,
soffrendo però molto. Sto studiando dizione
inglese proprio perché vorrei andarmene.
Vivo però un conflitto, perché sento che c’è
bisogno di me. Non lo dico per presunzione:
quando parlo con i miei coetanei, sento che
li ispiro. Questa cosa mi commuove più di
tutto, più dell’applauso del pubblico, più
dello stare in scena. Mi fa pensare che forse
devo restare perché ho una missione, ma nel
contempo mi costa un grande sforzo perché
devo troppo spesso lottare contro i mulini a
vento. L’Italia è un paese serioso e poco serio.
Per concludere in bellezza, Priscilla ha
una colonna sonora splendida fatta di
grandi successi, bellissimi, un punto di
forza del musical.
Un jukebox, una collezione di pezzi che
già esistono e che sono incastonati in
maniera esemplare. La nostra produzione
reca la song-list di New York, ce n’è stata
una australiana, una inglese. Credo che
questa sia la più azzeccata: ascolti il
grande successo e vivi lo stato d’animo
del momento, nel senso che le canzoni
sono coerenti con il testo, con la storia. La
musica è un coronamento di un intreccio
drammaturgico, di un impasto emotivo, che
è forte in Priscilla, che colpisce l’immaginario
comune. Canzoni, costumi e scene sono
l’addobbo di un albero che è già molto bello
di suo.
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lalaVoce
Voce
del popolo
del popolo
martedì, 4 giugno 2013
LA RECENSIONE
di Rossana Poletti
CHIAMATEMI ITALO.
LA RECENSIONE
di E
ITALOSVEVO
T
rieste. Sala Bartoli. Italo Svevo
e Umberto Saba sono in campo
letterario il culmine di una grande
cultura che si formò a Trieste, grazie
alla particolare condizione della città:
il porto, l’impero, la ricchezza dei
traffici, le tante etnie e religioni capaci
di creare un brodo di cultura fervido
e prolifico. Per Svevo l’essere vissuto
immerso in quel mondo mitteleuropeo
che diede i natali alla psicanalisi,
averne assorbito profondamente e
naturalmente lo spirito di innovazione
nel pensiero umano, fu la svolta che
determinò i suoi successi letterari. Egli
è infatti considerato a posteriori un
precursore nella letteratura, mentre i
suoi contemporanei non si accorsero
della sua grandezza, anche dopo aver
pubblicato due romanzi, “Una vita” e
“Senilità”, che da soli sarebbero stati
sufficienti a riconoscerne la qualità.
Ci vollero l’incontro con Joyce e le
recensioni favorevoli di Larbaud e
Montale de “La coscienza di Zeno”,
uscito nel 1923, affinché il mondo si
accorgesse che Svevo era stato il primo
a cogliere il grande cambiamento che
la nuova attenzione verso l’io profondo
produsse nella psicanalisi, nella
letteratura e diversamente nella società.
Lo scrittore triestino racconta di un
uomo solo, sconfitto, privo di valori
saldi a cui ancorare la sua esistenza.
Sembra, e lo è, il racconto di se stesso.
Svevo visse in un mondo di ricchezza
e benessere, soprattutto dopo il
matrimonio con Livia Veneziani, in
un’epoca in cui a godere di questa
condizione nella società erano
ancora pochissimi. Sperimentò però,
soprattutto negli anni del tracollo
finanziario del padre e del suo lavoro
in banca, periodo durato vent’anni, il
fatto che la felicità non sia questione
di ricchezza, o perlomeno non solo. Il
protagonista di “Una vita” è un giovane
impiegato di banca, che non riesce
ad accettare la vita di città, le regole
della piccola borghesia, l’angusto
spazio vitale, fino al suicidio. In
“Senilità” un non più giovane letterato
vive drammaticamente l’amore con
Angiolina, una giovane popolana
sfuggente e prepotentemente vitale.
In Zeno trova spazio una maggior
consapevolezza dell’analisi della psiche
e dell’inconscio e anche la capacità di
guardare a questo aspetto umano con
una buona dose di ironia.
Con Svevo si sono misurati tanti grandi
registi nella storia del teatro italiano:
Sandro Bolchi, Aldo Trionfo, Edmo
Fenoglio, Giulio Bosetti, Furio Bordon,
Andrea Camilleri, Francesco Macedonio,
Gianfranco de Bosio, Marco Sciaccaluga
e l’elenco non finisce qui. Mai nessuno
però aveva avuto l’ardire e il discutibile
gusto di farsi citare in scena, come
invece avviene in questo testo di Lino
Marrazzo, dedicato al grande scrittore
triestino. E dopo interpreti del passato
del calibro di Cesco Baseggio, Franca
Nuti, Luigi Vannucchi, Massimo de
Francovich, Tino Buazzelli, Ariella
Reggio, Aroldo Tieri, Giuliana Lojodice
e Tino Carraro, troviamo in scena alla
Bartoli i bravi Sara Alzetta e Lorenzo
Acquaviva ad interpretare i personaggi
della vita di Svevo e della sua fantasia
in questo “Chiamatemi Italo. Italo
Svevo”. Sul fondale della sala scorrono
le immagini di uno Svevo in un letto
di ospedale. Accanto a lui la moglie
Livia, la figlia Letizia e il nipote medico,
Aurelio Finzi, che non smette mai di
fumare (come Zeno Cosini). E’ appena
accaduto l’incidente stradale in cui lo
scrittore rimase coinvolto, nei pressi di
Motta di Livenza, il 13 settembre 1928,
e in conseguenza del quale morirà.
Nel delirio si confondono realtà e
fantasia, sogni e ricordi, vita privata e
personaggi.
Annetta, la coprotagonista del
romanzo “Una vita”, pone domande a
Ettore Schmitz, scrittore condannato
all’inconsistenza. Svevo incontra poi la
moglie “per la prima volta” nel giardino
di casa Veneziani, e qui si compie il
suo destino in mezzo alle vernici, lui
che vorrebbe fare il letterato. E ancora
in Austria durante una vacanza nella
quale, fatto probabilmente accaduto, la
figlia si è smarrita e Svevo non sa dove
sia finita, perso com’è dietro alla sua
creatività letteraria in una stanza senza
finestre perché altrimenti l’ispirazione
potrebbe volare via. E ancora Angiolina
e Livia, fantasia e realtà, gelose una
dell’altra. E per concludere il momento
in cui si chiudono i conti con la vita,
chiamando in causa la coscienza,
l’intimo e i desideri repressi.
QUANDO
R
ibellarsi per un perfetto ordine
universale a misura di donna. E nel
frattempo continuare a guardare al
centro delle piccole cose. Questo potrebbe
essere uno dei messaggi portanti dello
spettacolo “Quando le donne erano di
sinistra”, andato in scena a Gorizia lo
scorso 20 maggio. Il testo, al suo debutto
al Kulturni dom, è firmato da Marino
Zanetti, un uomo che ha evidentemente
voluto lanciarsi in una serie di gineprai
come la politica, il rapporto uomo-donna,
l’essere veramente comunisti, l’essere
veramente comuniste. Un’avventura che
oltretutto deve fare i conti con la Storia,
con quello che ha lasciato ma anche con
la rievocazione di un’epoca in cui il Sol
dell’avvenir per qualcuno era all’orizzonte.
Tematiche importanti, scelte per concludere
la 18.esima edizione della rassegna “Un
castello di… Musical & Risate”, organizzata
dal collettivo “Terzo Teatro”. A posteriori,
cercando qualche notizia sull’autore di
Quando le donne erano di sinistra, si
scopre tra l’altro che Zanetti è tutto fuorché
un militante comunista, essendo stato
consigliere comunale per il centrodestra e,
più in generale, un esponente del mondo
politico centrista-cattolico. Quindi, tutto
sommato, ripensandoci il taglio dato alla
storia in scena è politicamente corretto
e intellettualmente onesto, sia sotto il
profilo politico che di genere. Certo, poi
bisogna essere nello stato d’animo giusto
per assorbire alcuni argomenti forti del
testo, che pur con molto ironia, non
rinunciano a prendersi tremendamente
la Voce
palcoscenico
del popolo
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Emanuela Masseria
OLEDONNEERANODISINISTRA
sul serio. D’altronde, era anche un fattore
ben presente nel costume di certe donne
e di certi uomini nel primo Dopoguerra.
Tra le battute delle protagoniste, l’aria
che si respira è quella di un comunismo
domestico, dove solo gli uomini si occupano
di vedere “lontano”. Già in questa frase
si potrebbe ipotizzare del malsano, come
può capitare quando si ha a che fare
con concetti tagliati col coltello, dove
le due metà del cielo diventano due lati
distanti e contrastanti. Ma questo non
significa che manchino delle sfumature
e delle sottigliezza in tutta la storia, che
diventa così più gradevole e agile, su
uno sfondo dove l’uguaglianza dei diritti
è ben lontana per tutti, per quanto per
tutti auspicata. Tra le vicende raccontate
si intuisce, fortunatamente, che la vita
è più complessa non solo delle idee del
singolo, ma, soprattutto, delle idee delle
moltitudini irregimentate. A caratterizzare
con il loro apporto l’opera in scena sono
poi cinque protagoniste, abbastanza diverse
fra loro ma tutte divertenti: Elena Bertuzzi,
Giuliana Colella, Antonella D’Addato,
Claudia Foscolini, Valeria Marchi e Arianna
Remoli (ma del cast va ricordata anche la
comparsata piccola Stella Nunin). Le cinque
“compagne”si rapportano ogni giorno
coi problemi di una condizione difficile
come quella della provincia italiana del
Dopoguerra, col boom economico raggiunto
a suon di stenti e sacrifici. Un boom che poi
non è per tutti e dove ancora le ragazzine
sgobbano nelle fabbriche come nei decenni
precedenti. Qui si tratta di mettere al centro
un gruppetto ben assortito di donne dai
vestiti lisi, lavoratrici ingenue e soprattutto
madri e mogli di una volta. Nei loro
dialoghi c’è tutto l’orgoglio di un genere che
si spacca la schiena, guardando, talvolta
in modo sconsolato e cinico, alle prodezze
ideali dei propri mariti. Uomini che non ci
guadagnano molto, poi, dai loro slanci di
pensiero. Ma i nemici in realtà qui non sono
gli uomini, quanto piuttosto un sistema
oppressivo che potrebbe essere rovesciato,
se solo le donne lo volessero. Certo, qui
si vola abbastanza in alto, come a voler
sottolineare una certa ingenuità magari
velata di ignoranza. “In cinque minuti
cambieremmo, se potessimo, questo mondo
stupido e cattivo”- dice a un certo punto
una delle protagoniste. Tra queste figure
emerge poi anche un altro modo di faticare
nella vita nel caso si nasca femmina. Chiara
(Arianna Remoli), ad esempio, è giovane e
se ne frega delle ideologie. Quello che vuole
è solo evitare le lunghe ore alla catena
di montaggio ma, “tradendo” la madre
operaia, va solo incontro ad un futuro di
stenti come prostituta. Il messaggio finale
non è però per niente triste e dipinge, mano
a mano che la storia si dipana, un quadro
fatto di umorismo e buon senso, di orgoglio
personale e di volontà di riscatto, oltre
che di un’inarrestabile voglia di cantare.
Rimane da dire che tutte le attrici se la
sono cavata bene con le note, in particolare
forse Arianna Remoli, con un contralto
rauco ed emozionante. L’accompagnamento
strumentale era di Fabrizio Battista alla
chitarra e del noto batterista goriziano
Gino Pipia alle percussioni, (le scene erano
invece di Claudio Mezzelani, le luci di
Giuliano Petterin, i costumi di Maria Nives
Cernic; direttore di scena Gino Marchi).
Un altro personaggio fuori dagli schemi è
Milanta - Antonella d’Addato, che spunta
dopo un po’ nella compagnia delle amiche
operaie. In realtà i loro rapporti non sono
né ottimi né trasparenti, ma sono illuminati
da quella solidarietà di paese che nasce dal
dialogo e dalla reale vicinanza. Milanta è
l’anello di congiunzione naturale tra l’uomo
comunista e la donna di un comunista.
E’, fondamentalmente, una militante
esaltata che riporta le gesta dei mariti
delle altre ad una sedicente clamorosa
manifestazione di protesta. Dalle sue parole
di arguiscono anche i caratteri dei consorti
delle “compagne”. Alcuni in prima fila, altri
partecipi con lo sguardo basso, altri ancora
“assenti giustificati” da una precedente
morte in guerra. C’è anche chi, tra le
più giovani e per il momento solo figlie,
nasconde un pretendente di destra, ovvero
un “padrone” che come tale è tacciato dei
peggiori crimini. Milanta in qualche modo
è pure lei l’uomo della situazione, di quelli
“con una bandiera per parte e una fra le
gambe”. E proprio per questo non viene
presa troppo sul serio dalle amiche, che
conoscono l’animo femminile, in questo
caso quello di una zitella, che non può
pretendere, ad esempio, di fingere di
appartenere ad uno certo “standard” di
sinistra votato all’amore libero. Nel dubbio,
sia come sia, Milanta porta mutande
rosse, un fazzolettone rosso, scarpe da
arrampicata ed un irrimediabile entusiasmo
per il partito. Di lei ricordiamo alcune
tra le migliori battute contro il Creatore
(personalmente vissute seduta casualmente
accanto a un prete, che non rideva granché
Ndr). Va da sé che Milanta in Dio non ci
crede affatto, in quanto se ci fosse, avrebbe
lasciato, con ogni evidenza, i poveri poveri
e i ricchi ricchi. Ergo: “Dio è di destra”. Ma
non Gesù, verrebbe da dire, visto che poco
dopo la convintissima militante si lancia in
svariate lodi sperticate per questo “giovane
uomo dai capelli lunghi, dal portamento
altero e sempre vestito di rosso”. Sia come
sia, il calice delle cinque donne si alza,
a un dato momento della discussione “A
noi, madri, figlie, vedove, compagne. A
noi, donne”. Ma chi sono queste persone
che impugnano “falce e mattarello”,
(come evidenzia pure la locandina dello
spettacolo)? Sono, se non tutte noi, quelle
che la vita riescono a darla e difficilmente
a toglierla, come anche le protagoniste
di favole tutte uguali dove il personaggio
femminile è quasi sempre indifeso e in
attesa di un qualche salvatore. Nella dura
realtà, in scena c’erano le operaie di una
volta, che con i calli alle mani avevano
ancora occhi che splendevano alla sera,
non si sa come. E gli si perdona facilmente
battute come “il disastro è lo sbocco
naturale del maschio”, in considerazione
delle doppie fatiche che le attendevano
ogni giorno. Ma se la vita non è perfetta
per alcune, lo è meno anche per i loro
Compagni, perché “se Marx è musica,
bisogna saperlo suonare”.
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palcoscenico
martedì, 4 giugno 2013
UNA LOCANDIERA CIAKAVA
la Voce
del popolo
di Cierre
MIRANDOLINA...D’ASBURGO
D
alla locanda sull’Arno ad una
sull’Adriatico. Mirandolina,
la locandiera goldoniana,
cambia panni, geografia, tempo. E
cambia lingua, perché da locandiera
si fa “oštarica” e nella traduzione e
rivisitazione ciakava viene messa in
scena dal Teatro Popolare Istriano, nel
filone che vuole portare sul palco testi originali o traduzioni o libere ispirazioni
- nella parlata dialettale della penisola.
Firma la traduzione e l’adattamento
Daniel Načinović, la regia è di Jasminko
Balenović. Diciamo subito che non si
tratta di una traduzione e trasposizione
“pure”: Načinović ci ha messo un po’ di
casa, e nemmeno la lingua è una, bensì
il fiume di varianti ciakave e di parlata
veneta.
La messinscena è gustosa, per quanto
inusuale, abituati come siamo alla
locandiera goldoniana. Ma è questione
di un attimo, perché l’ossatura della
commedia è quella, e poi si viene presi
dall’azione, condita da faccende di casa.
In fondo, il teatro, come dire, è qui per
questo: per puntare il dito contro i mali
della società, per mettere in luce pecche,
fatti e personaggi.
Siamo a Pola, quindi, che sostituisce
Firenze nell’ambientazione, l’anno è
il 1913: un secolo fa. Belle epoque,
che sta per essere sconquassata dalla
bruttura della Prima guerra mondiale.
Ma ancora nulla si sa del destino che
incombe, non si ha sentore della gran
catastrofe. Si vive. Si fa, si disfa, si
litiga, ci si innamora. Tutto succede
tra le quattro mura della locanda “3
soldata” (3 soldati), tra Arena e Casino
Marina. Attorno a Mirandolina ruotano i
personaggi maschili che troviamo anche
nella commedia di Goldoni, manco a
dire tutti innamorati della donna abile,
si potrebbe dire emancipata, dotata di
fascino e carattere. Tutti meno il solito
misantropo.
Ma chi sono questi uomini? Bartolo conte
Škampavija (indaffarato uomo d’affari),
Albino Ladrunkovitsch (dipendente
delle Ferrovie), entrambi innamorati
di Mirandolina e impegnati a fare
bella, lucida figura. Poi c’è Felix Srećko
Kosovits, capitano di fregata e ufficiale
dei servizi segreti dell’imperial e regia
marina e misantropo da morire. Il tempo
di portare la commedia alle battute finali:
nel suo destino c’è il cambiamento e
l’innamoramento.
Leggiamo i nomi: Škampavija e
Ladrunkovitsch, come dire, il destino nel
nome. E Kosovits di suo rimanda anche
alla memoria i servizi segreti.
All’osteria “3 soldata” si fanno un po’
beffe dell’oggi: c’è chi vorrebbe una sorta
di Prater in Bosco Siana, c’è chi vorrebbe
un ponte sullo stretto di Fasana per
collegare la località alle Brioni, e metterci
sopra una bella statua del granitico
ammiraglio Tegethoff: un po’ insomma
una parodia dei grandi progetti di oggi.
Ah, dimenticavamo, tra Scampavia e
Ladrunkovitsch, Mirandolina sceglie
Mikula, il cameriere. Come nell’originale
goldoniano, tra il Marchese di Forlipopoli
e il Conte di Albafiorita sceglie Fabrizio,
anche per una promessa fatta al padre.
Gli attori. Lana Gojak è Mirandolina,
Robert Ugrina è Felix Srećko Kosovits,
Teo Tiani è Albino Ladrunkovitsch, Denis
Brižić è Bartolo Conte Škampavija, Luka
Juričić è Mikula. Poi ci sono Romina
Vitasović ed Elena Orlić, nella pièce
interessate a mettere in piedi una poco
decorosa attività in proprio.
Quella della locandiera Mirandolina è
storia che si sa: un po’ per reminiscenze
scolastiche, un po’ perché è impossibile
parlare e trattare di teatro senza
incontrarla: del resto l’hanno impersonata
nomi grandi del palcoscenico (uno per
tutti, Eleonora Duse). La commedia
va gustata per il suo fascino e le sue
punzecchiature, per ridere. Per teatro.
palcoscenico
la Voce
del popolo
TEATRALIA
ADDIO A
FRANCA RAME
LA SUA VITA ORMAI RACCHIUSA IN DUE DATE. IL
SALUTO ALLA DONNA E ALL’ARTISTA AL PICCOLO DI
MILANO. IL COMMIATO SULLE NOTE DI «BELLA CIAO» E
DELL’INTERNAZIONALE
L
a biografia di Franca Rame è
racchiusa tra due date: Parabiago
(Milano 18 luglio 1929) – Milano
29 maggio 2013. Si è spenta una grande
attrice e una grande donna. Nata nello
e per lo spettacolo, essendo figlia d’arte.
Suoi, da bambina, i teatri di Lombardia e
del Piemonte, per i quali girò con il padre
Domenico, la madre Emilia, il fratello, gli
zii, i cugini. Famiglia di teatranti, la sua,
e lei è nata con la passione nel sangue.
Non solo passione per il teatro. La
passione proprio. Quella che l’ha portata
sempre in prima linea, con forza, energia,
coerenza. Donna di azione. “Una bionda
mozzafiato, quando me la son trovata
davanti il cuore ha cominciato a danzare
a ritmo forsennato. Però poi è stata lei a
spingermi contro un muro e a baciarmi
la prima volta”, ha detto Dario Fo, con
il quale è stata inseparabile compagna
nella vita e sul palcoscenico, protagonista
femminile di tutti gli spettacoli di Fo.
Convinta e convincente sul palcoscenico
come nella vita, protagonista indiscussa
e mai comparsa in entrambi i casi. Ed è
impossibile ricordare Franca Rame per
quanto ha dato al teatro senza ricordare
il suo grande impegno nel “movimento”,
che
l’ha portata a girare
l’Italia con le collette per il Soccorso
Rosso e per l’aiuto ai “compagni in
galera”. L’impegno l’ha portata e mettere
in gioco la sua carriera teatrale “per un
ideale di militanza politica totalizzante
e onnivora”. Impegno che ha pagato ad
un prezzo dolorosamente alto: il 9 marzo
1973 fu sequestrata e stuprata per la
sua attività nelle carceri con Soccorso
rosso. Un Dramma che Franca portò sul
palcoscenico per un gesto liberatorio e di
condanna.
Con Dario furono anche momenti di crisi:
stanca per i tradimenti, annunciò in tv
l’intenzione di divorziare. Un “sabato
pomeriggio” tentò anche il suicidio. Ma
poi restò accanto a Fo, “sul palcoscenico,
nella vita privata, nella comunanza
ideologica, nell’impegno politico attivo,
nella scrittura, nell’amore per il figlio
Jacopo e per i nipotini, nelle delusioni,
nella coerenza, nella resistenza ai soprusi,
nei litigi, nella messa al bando da
una società vile, nell’ostracismo
martedì, 4 giugno 2013
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Hanno detto
Un’altra come lei (Dario Fo)
“Apprendo con personale commozione la triste notizia della scomparsa di Franca
Rame, che ho conosciuto in anni lontani quando ebbe modo di dispiegarsi e
affermarsi pienamente il suo talento in profonda e inseparabile unione con Dario Fo
e con il mondo del suo teatro. Ricordo il suo appassionato impegno civile.” (Giorgio
Napolitano)
“Ha percorso, insieme alla società, i cambiamenti di un Paese in evoluzione, dal
movimento femminista, alle battaglie per i diritti civili e sociali a fianco di studenti
e lavoratori, fino al suo impegno nelle istituzioni.. Milano piange non solo una
concittadina, ma una protagonista della storia italiana.” (Giuliano Pisapia, sindaco
di Milano)
“Ricorderò sempre la sua umanità. Il suo saluto: una carezza sul viso. Ciao Franca.
(candidato del centrosinistra a sindaco di Roma, Ignazio Marino)
“Ho sempre ammirato e apprezzato le sue straordinarie qualità umane e
artistiche, la sua passione civile e l’impegno instancabile con cui ha portato avanti
innumerevoli battaglie politiche in difesa dei diritti dei cittadini e dei più deboli.”
(Antonio Di Pietro)
“È morta Franca... non c’è mai fine a questo orrido massacro... Ma vive con lei,
il simbolo dell’emancipazione e della lotta femminile e femminista in Italia. Una
donna vera che ha cercato, con tutte le sue forze, di far rispettare in tutte le sue
forme fisiche, morali e politiche l’universo femminile. Un abbraccio a Dario, suo
fedele compagno di vita.” (Antonello Venditti)
“Era una donna straordinaria, di una generosità davvero rara” (Gad Lerner)
da parte del potere, nella generosità
munifica, nella solidarietà e affetto per
e degli altri. Insieme anche nei premi:
quando a Stoccolma, nel dicembre del
1997 fu conferito a Fo il Nobel per la
Letteratura, lui mostrò una foto della
moglie, dedicandole parole bellissime
per dividere con lei, com’era giusto, l’alto
riconoscimento”. (Cit. Natalia Aspesi).
si sono accomiatati da Franca in tanti, il
teatro, la Politica, gli Amici... Tanti.
Il suo impegno nelle istituzioni passa
per le Politiche del 2006, quando si
candidò capolista al Senato in Piemonte,
Lombardia, Veneto, Emilia Romagna,
Toscana e Umbria tra le file dell’Italia dei
Valori. Venne eletta senatrice in piemonte.
Nello stesso anno Di Pietro la propose
come Presidente della Repubblica: franca
ebbe 24 voti. Lasciò il Senato nel 2008,
dichiarando che “le istituzioni mi sono
sembrate impermeabili e refrattarie
a ogni sguardo, proposta e
sollecitazione esterna, cioè
non proveniente da
chi è espressione
organica di un partito o di un gruppo di
interesse organizzato”. Nel 2009 scrisse,
con Dario Fo, l’autobiografia intitolata
“Una vita all’improvvisa” e poi nel
2011 riportò in scena “Mistero Buffo”.
Nell’aprile del 2012 l’ictus.
Oltre al teatro e all’impegno sociale,
anche il cinema. Ricordiamo alcuni
titoli: Lo sai che i papaveri (1952, regia
Marcello Pavesi), Rosso e Nero (1954,
Domenico Paolella), Rascel-Fifi (1956,
Guido Leoni), Lo svitato (1956, Carlo
Lizzani), Il cocco di mamma (1957,
Mauro Morassi), Caporale di giornata
(1958, Carlo Ludovico Bragaglia), Amore
in quattro dimensioni (1963, Massimo
Mida), Extraconiugale (1964, Mino
Guerrini), Nobel per due (1998, Filippo
Piscopo).
Ma quanta tristezza nel condensare così,
nero su bianco una vita grande, di una
donna che non si è risparmiata, che è
bruciata per le sue passioni e le sue idee
e i suoi ideali. Bisognerebbe (ri)pensarla
sul palcoscenico, rivederla nei ruoli che
ha sostenuto. pensarla nella sua forza e
nella sua struggente malinconia, nella sua
solitudine.
“Non sarà una commemorazione, ma un
commiato”, aveva detto Fo prima della
cerimonia di addio. Così è stato.
“C’è una regola antica nel teatro: quando
hai concluso non c’è bisogno che tu dica
un’altra parola: saluta e pensa che quella
gente che hai accontentato nel pensiero
e nella parola ti sarà riconoscente.
Ciaooo!”. E così, Dario Fo si è accomiatato
da Franca. Che si è inchinata alla fine
della vita. Mentre il sipario si chiude sulle
note di “Bella, ciao.”
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martedì, 4 giugno 2013
L’INTERVISTA palcoscenico
la Voce
del popolo
di Patrizia Chiepolo Mihočić
DAVIDPETROVIĆ
UN ONE MAN SHOW PER
UN PROGETTO D’AUTORE
TEATRALGASTRONOMICO
EDUCATIVO. MA
ACCANTO AL TEATRO
DEGLI OGGETTI IL SOGNO
DI GIRARE UN FILM
“I
l teatro è la mia vita”. Si presenta
così David Petrović, giovanissimo
attore del teatro dei burattini
di Fiume, il quale, grazie al suo amore
verso quest’arte, vanta tantissimi premi
e riconoscimenti, tra i quali l’ultimo,
conquistato a Spalato, al Festival “Mali
Marulić” per la rappresentazione “La crêpe
della mia vita” (Palačinka mog života).
Oltre al riconoscimento per la particolare
rappresentazione artistica, David è stato
premiato anche da una mini giuria
formata da alunni delle elementari, che
all’unanimità hanno proclamato la pièce
quale miglior spettacolo in assoluto.
“La decisione delle giuria formata da
ragazzi è quella che mi ha entusiasmato
di più. Io lavoro per i giovanissimi e
quindi il loro parere è per me la cosa più
importante”.
David Petrović, classe 1986, fa parte
dell’ensemble del Teatro del Burattini
di Fiume dal 2004. In questi nove ha
interpretato un centinaio di ruoli.
Questo è sicuramente un premio molto
significativo. Parlaci dello spettacolo:
quando e perché nasce l’idea di fare una
rappresentazione dedicata alla crêpe? Di
solito i personaggi sono animali o esseri
umani...
Lo scorso settembre, a Charleville-Mézières,
in Francia, ho preso parte a dei laboratori
di perfezionamento, condotti dall’attore e
animatore di burattini inglese Rod Burnett,
dal titolo “Punch and Judy“. La sua idea era
quella di insegnarci a creare degli spettacoli
con un solo attore e tanti burattini. L’idea
mi ha entusiasmato tantissimo. Al mio
rientro a casa ero pieno di idee. La prima
era quella di creare un pezzo portato avanti
solamente con burattini sotto forma di
generi alimentari, il cosiddetto teatro degli
oggetti. In questo caso si trasformava in
teatro del cibo. Ma un cibo sano. Decisi
allora di dedicarmi alla crêpe, forse
perché è la prima cosa che ho imparato
a preparare da piccolo. Sarà stato il mio
subconscio a suggerirmelo!
Si parla della crêpe più gustosa che
sia mai stata preparata. Però sul palco
“salgono” anche altri ingredienti che
con essa non hanno troppo a che vedere.
Come mai?
Volevo inserire nello spettacolo anche tanti
ingredienti sani, con lo scopo di invogliare i
bambini a mangiarli. Troviamo così diverse
verdure, tra cui la bietola e la melanzana
che non sono tanto amate dai piccoli. Ci
sono poi bambini ai quali non piacciono le
uova e magari non sanno nemmeno che
la Voce
del popolo
Anno 9 /n. 75 / martedì, 4 giugno 2013
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
Edizione
Progetto editoriale
Caporedattore responsabile
Errol Superina
PALCOSCENICO
Silvio Forza
Redattore esecutivo
Carla Rotta
Impaginazione
Željka Kovačić
Collaboratori
Rossana Poletti, Emanuela Masseria, Patrizia Chiepolo Mihočić
Foto
Goran Žiković, Teatri
sono l’ingrediente principale della crêpe. Lo
spettacolo è poi un susseguirsi di momenti
improvvisati, a seconda della reazione del
pubblico. I pargoletti non appena vedono
che la crêpe viene fatta ‘in diretta’, sul
palco, vanno letteralmente in delirio.
E ci sono grida, risate a non finire. Un
successone. L’unico attore in pelle ed ossa
sono io, accompagnato poi con la chitarra
da Srđan Badurina.
Quali sono i vantaggi di uno spettacolo
con un solo attore, the one man show?
Il nostro ensemble è formato da nove
attori. Siamo in pochi, quindi, e nei vari
spettacoli siamo sempre ingaggiati quasi
tutti. Avendo uno spettacolo come il mio,
il teatro può presentarsi in due luoghi allo
stesso tempo, in quanto io porto avanti il
mio pezzo e allo stesso tempo c’è un’altra
rappresentazione da un’altra parte. Per
questo motivo la mia idea è stata subito
ben vista da parte dei miei colleghi.
Oltre al premio “Mali Marulić”, nella tua
carriera d’attore ci sono stati anche altri
riconoscimenti.
Nell’ambito dello SLUK 2011 (Rassegna
dei teatri dei burattini) sono stato premiato
per la migliore animazione nello spettacolo
‘Gulliver nel paese dei piccoli uomini’,
mentre al Festival internazionale de teatri
dei burattini (PIF), sempre nel 2011,
ho vinto il premio per il miglior ruolo
maschile (Peter Pan) nella pièce ‘Peter Pan
Perdigiorno’ (Petar Pan Zgubidan).
Questa è stato il tuo primo progetto
d’autore. La parte del regista invece
l’hai fatta più volte. Basta nominare
spettacoli come “Il mago di Oz”, “Hocus
pokus Brioni”, “Il castello magico”.
L’ultima fatica da regista si intitola “La
scelta di Lara è Solimano” (Larin izbor je
Sulejman), che poi si è trasformato in un
breve film.
Il mio sogno è stato da sempre quello di
girare un film. Mi piace stare dietro alla
telecamera. L’idea principale però era
quella di fare uno spettacolo teatrale in
collaborazione con il RI Teatar di Fiume,
durante il quale ci sarebbe stato un breve
filmato. Alla fine però, lavorando giorno
dopo giorno, il progetto ha cambiato un
po’ la veste diventando un breve film
ma che inizia dopo una presentazione
puramente teatrale. Il progetto nasce
come risposta a tutte le soap opera che
ultimamente vengono trasmesse sulla
tv nazionale, da “Larin izbor” (La scelta
di Lara) a “Sulejman Veličanstveni“
(Solimano il Magnifico). Noi abbiamo
deciso di unire proprio questi due e il
risultato è stato più che soddisfacente;
ne è scaturita una commedia che vi farà
ridere un’ora intera. La trama, in breve,
è questa: Lara, a bordo di una Renault
4, parte in giro per il mondo alla ricerca
di suo figlio. Le situazioni nelle quali si
ritroverà sono a dir poco esilaranti. Da
vedere! La sceneggiatura è stata scritta
assieme a Nisa Hrvatin. Devo ringraziare
tutti gli attori che hanno dimostrato
di non aver nulla da invidiare a quelli
professionisti. Colgo anche l’occasione
per ringraziare la mia direttrice, Zrinka
Kolak – Fabijan (direttrice del Teatro dei
burattini, ndr), la quale mi ha permesso
di lavorare al di fuori della mia casa
madre.
Progetti per il futuro?
Ho tante idee che mi frullano per la testa.
Quella principale è di continuare con
spettacoli ai quali prenderò parte come
attore unico. Vorrei creare una pièce
dove ci sarebbe una comunicazione non
verbale, ma fatta solo di suoni e gesti,
probabilmente con un clown. Non voglio
svelare altro per ora…vedremo in futuro!