superare la fragilità in africa - Social protection for inclusive

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superare la fragilità in africa - Social protection for inclusive
SUPERARE LA
FRAGILITÀ IN AFRICA
FORGIARE UN NUOVO APPROCCIO EUROPEO
RAPPORTO EUROPEO
MOBILITARE LA RICERCA EUROPEA
PER LE POLITICHE DI SVILUPPO
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SVILUPPO
SUPERARE LA
FRAGILITÀ IN AFRICA
FORGIARE UN NUOVO APPROCCIO EUROPEO
RAPPORTO EUROPEO
MOBILITARE LA RICERCA EUROPEA
PER LE POLITICHE DI SVILUPPO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009 – Superare la fragilità in Africa, Robert Schuman Centre
for Advanced Studies, Istituto universitario europeo, San Domenico di Fiesole (FI).
© Comunità europee, 2009
Riproduzione autorizzata con citazione della fonte.
Disclaimer:
Le opinioni illustrate in questo rapporto appartengono agli autori e non sono in alcun modo
rappresentative del pensiero della Commissione europea né degli Stati membri dell’Unione
europea.
In caso di discrepanze tra le varie versioni linguistiche disponibili, fa fede la versione del testo in
lingua inglese.
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Premessa
PREMESSA
L’elaborazione di politiche richiede una conoscenza accurata, approfondita e tempestiva di qualsiasi
situazione. E l’ambito dello sviluppo non fa eccezione. In Europa abbondano le università e gli istituti
di ricerca che si occupano di sviluppo, elaborando analisi illuminate, ma il loro potenziale non è
ancora stato sfruttato appieno per varie ragioni, tra cui la frammentazione degli sforzi, la carenza
di risorse e una relativa disconnessione dalla sfera politica.
L’iniziativa “Mobilizing European research for development policies” (Mobilitare la ricerca europea
per le politiche di sviluppo) è intesa a porre rimedio a tale situazione. Attualmente sostenuta dalla
Commissione europea e da sei Stati membri (Finlandia, Germania, Lussemburgo, Regno Unito,
Spagna e Svezia), questa iniziativa congiunta si propone di potenziare il punto di vista e il progetto
europei in merito ad alcune delle più urgenti questioni relative allo sviluppo della nostra epoca, sulla
base dell’eccellenza della conoscenza, dell’innovazione e della costruzione di un terreno comune
d’intesa tra la comunità della ricerca e i politici a livello europeo.
Il Rapporto europeo sullo sviluppo (ERD), che sarà pubblicato con cadenza annuale, è il principale
risultato di questa iniziativa. Si tratta di un riesame indipendente, lungimirante e basato sulla
conoscenza delle questioni dello sviluppo che riflette il punto di vista europeo. Il rapporto aiuterà
l’Unione europea a perfezionare la sua idea di sviluppo, ad arricchire le proprie politiche e a
influenzare il dibattito internazionale in modo tale da avere un impatto decisivo. Inoltre, completerà
altri rapporti di spicco in materia, nel tentativo di rispecchiare la diversità delle opinioni esistenti
su varie questioni e (ove opportuno) gli approcci europei specifici, sulla base sia dei valori sociali e
politici dell’Europa, sia della sua storia ed esperienza. Siamo oltremodo convinti, infatti, che non vi
debba essere alcun monopolio di pensiero in un campo tanto ricco e complesso come quello della
politica per lo sviluppo.
Questa prima edizione, elaborata sotto l’egida dell’Istituto universitario europeo (IUE) di Firenze,
affronta la questione complessa e multidimensionale della “fragilità”, ponendo l’accento in
particolare sull’Africa subsahariana, dove si concentra la maggior parte dei paesi fragili: la sfida, si
dice, più difficile della nostra era. La necessità di affrontare tali situazioni di fragilità si fa, a buon
diritto, impellente sia per l’Europa sia per l’intera comunità internazionale ed è una priorità sempre
più importante nell’ambito delle politiche di sviluppo europee, oltre che una sfida chiave per la
strategia europea per la sicurezza.
Superare la fragilità è, prima di tutto, un imperativo morale. Un terzo dei poveri del pianeta vive nei
cosiddetti Stati fragili, in cui il progresso in direzione degli obiettivi di sviluppo del Millennio (OSM)
e il costo di una governance debole (soprattutto quando conduce a guerre e conflitti) è enorme
dal punto di vista economico, umano e sociale. Ciò è particolarmente importante alla luce delle
crisi (alimentare, dei carburanti e ora economica e finanziaria), strettamente collegate tra loro, che
minacciano di mettere a repentaglio i progressi recentemente compiuti sul piano dello sviluppo.
Anche i costi umani delle crisi sono oltremodo preoccupanti per i paesi fragili dell’Africa subsahariana,
che hanno una capacità limitata di resistere agli shock.
Le situazioni di fragilità sono inoltre una delle principali fonti di apprensione per quanto attiene
alla sicurezza. In un mondo sempre più interdipendente, affrontare il problema della fragilità è
anche nel nostro interesse, se vogliamo conseguire una stabilità e una prosperità di livello globale:
il ritorno della pirateria nel Golfo di Aden, strettamente correlato alle turbolenze in Somalia, o i flussi
di rifugiati economici, politici e di guerra che, comprensibilmente e spesso a malincuore, lasciano
la fragilità della patria per costruirsi vite migliori e più stabili in Europa e in altre regioni ricche del
mondo, sono solo alcuni esempi di questa crescente interdipendenza.
Queste situazioni, che comprendono un gruppo estremamente eterogeneo di società dalle
composizioni e realtà socioeconomiche, culturali e politiche molto diverse, richiedono approcci
specifici e su misura quando si parla di sostegno esterno. Il classico “mantra” dello sviluppo politico,
ovvero il programma per l’efficacia degli aiuti (dichiarazione di Parigi e agenda di Accra per l’azione),
il consenso europeo sullo sviluppo e l’approccio a sostegno delle riforme della governance, incontra
sfide specifiche quando viene applicato in contesti fragili. Come menzionato nella ricerca UE “MDG at
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III
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Premessa
midpoint” del 20081, guidata dal professor Bourguignon e realizzata nel contesto di questa iniziativa,
“bisogna affrontare la fragilità per ottenere progressi per quanto riguarda gli obiettivi di sviluppo
del Millennio. Ciò richiederà un impegno sostenuto e un uso nuovo, combinato e creativo di risorse
politiche, tecniche, finanziarie e talvolta militari, a fianco dei governi ma anche della società civile
e degli attori non statali”. In questo senso, i paesi partner e donatori sono attualmente impegnati
congiuntamente in un “dialogo internazionale sul potenziamento istituzionale e sulla costruzione
della pace”, con l’intendimento di arrivare a un consenso in merito agli obiettivi e ai principi di
intervento in queste difficili circostanze.
Per condurre questa ambiziosa iniziativa di ricerca politica è stato intrapreso un processo
partecipativo intensivo, che riunisce un ampio ventaglio di esperti, politici e rappresentanti della
società civile di primo piano provenienti sia dall’Europa sia dall’Asia. Costruendo un terreno analitico
comune relativo alle migliori modalità per cogliere appieno queste complesse situazioni, questa
prima edizione dell’ERD aiuterà l’Europa ad affinare il suo approccio strategico alla fragilità e a
definire politiche più coerenti in futuro. Si tratta di un passo in avanti importante per l’iniziativa
di ricerca europea che si propone di chiarire come conciliare gli obiettivi di sviluppo con le nuove
sfide globali.
Stefano Manservisi
Yves Mény
Direttore generale della DG sviluppo e relazioni
con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) della
Commissione europea
Presidente dell’Istituto
universitario europeo della
Commissione europea
1
Vedere “Millennium Development Goals at Midpoint: Where do we stand and where do we need to go?”, ricerca UE
di François Bourguignon et al., 2008,
http://ec.europa.eu/development/icenter/repository/mdg_paper_final_20080916_en.pdf.
IV
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Ringraziamenti
RINGRAZIAMENTI
Questo rapporto è stato preparato da un team guidato da Giorgia Giovannetti, che comprende
Franklin Allen, Simone Bertoli, Shailaja Fennell, Wendy Harcourt, Marta Reynal-Querol, Marco
Sanfilippo, Elisa Ticci, Pascal Vennesson e Thierry Verdier, presso il Centro Robert Schuman per gli
studi avanzati dell’Istituto universitario europeo (IUE). Il ruolo di project manager è stato affidato
a Ingo Linsenmann.
Il team ringrazia in particolare François Bourguignon per la consulenza scientifica e Luca Alinovi,
Nicolas Gérard, Seth Kaplan, Stephan Klasen, Ramon Marimon, Françoise Moreau, Yaw Nyarko,
Dorothée Starck e tutti i membri del comitato direttivo ERD per il loro continuo aiuto e sostegno.
Un grande ringraziamento va anche a Stefania Innocenti per la sua assistenza nella ricerca.
William A. Amponsah, Mina Baliamoune-Lutz, Stefano Bartolini, Victor Davies, Jörn Grävingholt,
Sven Grimm, Francesco N. Moro, Donato Romano, Alexander Sarris, Andrew Sherriff e Gianni Vaggi
hanno contribuito ampiamente al processo consultivo. Lubomira Bencova, Piera Calcinaghi, Monique
Cavallari, Angela Conte, Mei Lan Goei, Laetitia Jespers, Alexei Jones, Laura Jurisevic, Christine
Lyon, Serena Scarselli, Elisabetta Spagnoli e Valerio Pappalardo hanno contribuito a varie fasi del
rapporto. Bruce Ross Larson ne è stato il curatore principale. Chris Engert si è occupato della revisione
linguistica dei documenti informativi. Grazie a tutti loro.
Siamo in debito con gli autori dei documenti informativi e di riferimento: Ernest Aryeetey, Niagale
Bagayoko-Penone, Michael Barnett, Nicolas Berman, Elva Bova, Deborah Bryceson, Christian
Büger, Maurizio Carbone, Paul Collier, Lorenzo Cotula, Nasredin Elamin, Fernanda Faria, Patrick
Guillaumont, Sylvaine Guillaumont Jeanneney, Kenneth Harttgen, Damien Helly, Lelio Iapadre,
Zohra Kahn, José Maria Larrú, Francesca Luchetti, Alan Matthews, Philippe Martin, Jesse McConnell,
Mark McGillivray, Andrew Mold, Wim Naudé, Janvier Nkurunziza, Abena D. Oduro, Alina RochaMenocal, Sara Pantuliano, Jean-Philippe Platteau, Béatrice Pouligny, Prabirjit Sarkar, Ajit Singh,
Aysen Tanyeri-Abur, Necla Tschirgi, Margherita Velucchi e Tony Venables.
Un ringraziamento speciale va ai partecipanti dell’iniziativa New Faces for African Development,
che hanno contribuito entusiasticamente al rapporto arricchendolo con i loro punti di vista nuovi
e innovativi, hanno presentato il loro lavoro e hanno redatto documenti e note: Eme Akpan, Japhet
Biegon, Muslilhah Badmus, Christian B. Kamga Kam, Dorine Kanmi Feunou, Nicholas Kilimani, Albert
Makochekanwa Douzounet Mallaye, Ndubuisi Nwokolo Magidu Nyende, Isaac Oluwatayo, Thomas
Poirier, Afees Salisu e Sigismond Wilson.
Ringraziare tutti sarebbe impossibile, tanti sono coloro che hanno contribuito al processo che ha
condotto alla pubblicazione di questo rapporto partecipando agli eventi preparatori di Bruxelles
(6 febbraio), Cambridge (17-18 marzo), Firenze (16-17 aprile), Barcellona (7-8 maggio), Accra
(21-23 maggio), Firenze (22-23 giugno) e Bruxelles (4 settembre). Gli elenchi completi dei partecipanti
a questi eventi sono inclusi nel Volume 1B, ma desideriamo esprimere la nostra gratitudine in
questa sede per i contributi da essi recati al processo consultivo e al dibattito su questo controverso
argomento. Grazie anche agli istituti ospitanti, in particolare al Jesus College di Cambridge,
all’Universitat Pompeu Fabra e al CREMed (centro di ricerca sulle economie del Mediterraneo) di
Barcellona e all’ISSER (Istituto di ricerca statistica, sociale ed economica) di Accra.
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V
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Indice
INDICE
PANORAMICA
1. Per risposte comunitarie migliori alla fragilità
2. Definire le priorità
1
4
7
SEZIONE UNO
10
CAPITOLO 1
LA FRAGILITÀ DELLO STATO NELL’AFRICA SUBSAHARIANA: COSTI E SFIDE
1. Le politiche europee di sviluppo in un contesto mondiale in mutamento
2. Cosa significa fragilità dello Stato?
3. I costi della fragilità dello Stato nell’Africa sub-sahariana
11
11
16
18
CAPITOLO 2
CARATTERISTICHE DEGLI STATI FRAGILI
1. Caratteristiche comuni condivise dagli Stati fragili
2. Gli Stati fragili presentano molti elementi di eterogeneità
3. In sintesi
31
31
45
48
CAPITOLO 3
LE RADICI STORICHE DELLA FRAGILITÀ DELLO STATO
1. Cause specifiche e fattori soggiacenti comuni
2. La fragilità è un’eredità coloniale?
3. Gli Stati coloniali nell’Africa subsahariana
4. Decolonizzazione
5. Contesto internazionale e continuità
6. La dipendenza delle istituzioni dal percorso di sviluppo: distacco ed estroversione
7. Conclusioni
49
49
50
50
51
52
55
57
CAPITOLO 4
I FATTORI ECONOMICI POSSONO AGGRAVARE LA FRAGILITÀ
1. I fattori economici sono determinanti per la fragilità dello Stato, e la fragilità lo è per l’economia
2. L’apertura commerciale può aumentare o diminuire la fragilità dello Stato
3. Legami bidirezionali tra gli IED e la fragilità
4. La disponibilità di risorse naturali può danneggiare la governance
5. La governance influisce sulla relazione tra territorio e fragilità
6. Popolazioni affamate e istituzioni fragili
7. Conclusioni
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60
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63
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VI
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Indice
SEZIONE DUE
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CAPITOLO 5
DALLA FRAGILITÀ ALLA RESILIENZA
1. Potenziare la resilienza
2. Cosa implica un approccio basato sulla resilienza?
3. La fragilità statale mina la resilienza socioeconomica
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CAPITOLO 6
LA CRISI FINANZIARIA GLOBALE HA COLPITO DURAMENTE GLI STATI FRAGILI AFRICANI
1. Le impegnative sfide poste dalla crisi: uno stop improvviso ad anni di continui progressi
2. La fragilità va ad aggiungersi ai problemi relativi a generi alimentari, carburanti e finanze
3. I quattro canali di trasmissione ai paesi fragili
4. Gli Stati fragili possono affrontare la crisi?
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78
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80
88
CAPITOLO 7
POTENZIAMENTO ISTITUZIONALE E COESIONE SOCIALE
1. Riportare lo Stato al centro della scena
2. La coesione sociale e le dimensioni intangibili del potenziamento istituzionale
3. La necessità di una comprensione profonda del contesto locale
4. Complementarità fra assistenza umanitaria e interventi di potenziamento istituzionale in situazioni post-belliche
93
93
94
97
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SEZIONE TRE
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CAPITOLO 8
POLITICHE DELL’UE IN MATERIA DI FRAGILITÀ NELL’AFRICA SUBSAHARIANA
1. La preoccupazione dell’UE per gli Stati fragili negli anni
2. Il potenziale dell’UE in situazioni di fragilità
3. Per una risposta comunitaria migliore alla fragilità
109
110
116
117
CAPITOLO 9
CONCLUSIONI  PRIORITÀ E PRESCRIZIONI
1. Le politiche comunitarie possono sortire un effetto
2. Priorità e prescrizioni
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128
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RIFERIMENTI
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ALLEGATO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Tabelle e figure
TABELLE E FIGURE
Tabella 1 del riquadro:
Figura 1 del riquadro:
Figura 2 del riquadro:
Figura 0.1:
Figura 0.2:
Figura 1 del riquadro:
Tabella 1 del riquadro:
Tabella 1.1:
Figura 1.1:
Figura 1.2:
Tabella 1.2:
Tabella 1.3:
Figura 1.3:
Tabella 2.1:
Figura 2.1:
Figura 1 del riquadro:
Figura 2 del riquadro:
Figura 3 del riquadro:
Figura 2.2:
Tabella 2.2:
Tabella 2.3:
Tabella 2.4:
Tabella 2.5:
Tabella 2.6:
Tabella 2.7:
Figura 2.3:
Tabella 2.8:
Tabella 2.9:
Tabella 4.1:
Tabella 1 del riquadro:
Figura 5.1:
Figura 6.1:
Figura 1 del riquadro:
Figura 6.2:
Figura 6.3:
Figura 6.4:
Figura 1 del riquadro:
Figura 6.5:
Tabella 6.1:
Figura 6.6:
Tabella 8.1:
Paesi dell’Africa subsahariana in situazione di fragilità
Piramide delle fasce di età negli Stati fragili dell’Africa subsahariana
Piramide delle fasce di età nell’Unione europea
La resilienza degli Stati fragili dell’Africa subsahariana
La vulnerabilità degli Stati fragili dell’Africa subsahariana
Impatti incrementali degli aiuti sulla crescita
Aiuti agli Stati fragili, 2004
Sviluppo umano negli Stati fragili dell’Africa subsahariana
Variazioni assolute negli indicatori chiave riguardanti gli OSM (2000-2006)
Variazioni relative negli indicatori chiave riguardanti gli OSM (2000-2006)
Rifugiati e IDP, 2008
Indici di sicurezza alimentare per gli Stati fragili
Tendenze degli indicatori relativi alla governance, Stati fragili subsahariani
Imposizione fiscale, entrate pubbliche e facilità di fare impresa negli
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Flussi esterni (media aritmetica 2003-2007)
Esportazioni zambiane e prezzi del rame (2002-2009)
Prezzi del rame e kwacha zambiano (2002–2009)
Proventi dall’estrazione in mineraria Zambia (2001-2007)
Quote del PIL di agricoltura, industria e servizi, 2006
Elenco dei paesi importatori ed esportatori di generi alimentari dell’Africa subsahariana
Concentrazione delle esportazioni negli Stati fragili
Destinazione delle esportazioni degli Stati fragili, in percentuale, media 2004-2006
Spesa pubblica in percentuale del PIL
Popolazione
Infrastrutture e caratteristiche geografiche
Crescita reale del PIL degli Stati fragili, degli Stati fragili ricchi di risorse e degli
Stati fragili non ricchi di risorse, 2000-2008
Caratteristiche macroeconomiche
Classificazione generale della vulnerabilità
Garantire gli effetti di riduzione della povertà sortiti
dai nuovi investimenti nei terreni agricoli
Concessioni di terreni agricoli per il periodo 2000-2008
(impegni superiori ai 1.000 ettari)
Interazioni tra fragilità statale e resilienza socioeconomica
Esportazioni in crescita come percentuale del PIL
Il Sud Africa risponde al crollo della Lehman Brothers,
al contrario di Kenya e Nigeria
Le esportazioni sono in calo per la maggior parte dell’Africa subsahariana
Le esportazioni di materie prime e del settore manifatturiero
dell’Africa subsahariana in seguito alla crisi finanziaria nel paese partner
La riduzione prevista dei flussi di aiuti verso l’Africa per il 2009
La cooperazione economica della Cina con i paesi fragili africani e gli aiuti del CAS, 1998-2007
Molti migranti risiedono in Africa
Classifica della resilienza (in ordine ascendente)
L’impatto della crisi sul benessere sociale
Istituzioni e agenzie dell’Unione europea relative agli Stati fragili
VIII
1
3
3
6
6
13
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87
89
90
116
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Riquadri
RIQUADRI
Riquadro 0.1:
Riquadro 0.2:
Riquadro 0.3:
Riquadro 1.1:
Riquadro 1.2:
Riquadro 2.1:
Riquadro 4.1:
Riquadro 4.2:
Riquadro 4.3:
Riquadro 5.1:
Riquadro 5.2:
Riquadro 6.1:
Riquadro 6.2:
Riquadro 6.3:
Riquadro 7.1:
Riquadro 7.2:
Riquadro 7.3:
Riquadro 7.4:
Riquadro 7.5:
Riquadro 7.6:
Riquadro 7.7:
Riquadro 8.1:
Riquadro 8.2:
Riquadro 8.3:
Riquadro 8.4:
Riquadro 8.5:
Riquadro 8.6:
Riquadro 8.7:
Riquadro 8.8:
Riquadro 8.9:
Riquadro 9.1:
Riquadro 9.2:
Riquadro 9.4:
Riquadro 9.5:
Quali Stati dell’Africa subsahariana sono fragili?
Caratteristiche comuni degli Stati fragili e differenze sostanziali
Le conseguenze della crisi del 2008-2009 sugli Stati fragili subsahariani
Efficacia degli aiuti e assegnazioni agli Stati fragili
In che modo la fragilità è emersa nel dibattito sullo sviluppo?
Impennata e crollo dei prezzi del rame in Zambia
Codici di condotta e la Natural Resource Charter
Acquisizioni di terreni su vasta scala in Africa: le operazioni commerciali fondiarie
Investimenti internazionali in Sudan: il “granaio” della regione araba
Definire la resilienza e la vulnerabilità
Crescita economica, sviluppo e benessere nei paesi fragili
I mercati finanziari africani – Gli effetti diffusivi degli shock
La Cina sta colmando il vuoto?
Gli shock avversi e la protezione sociale: quale ruolo hanno le istituzioni finanziarie formali e informali?
Perché la resilienza locale può migliorare la sicurezza
Somalia e Somaliland
Un modello di governance africano
Impegno internazionale negli Stati fragili: la lezione del Sudan meridionale
Apprendere dalle comunità locali: programmi a sostegno delle ex combattenti
Transizione post-bellica: un’opportunità per l’emancipazione della donna?
Il bilancio di genere
„Intervenire sulla fragilità statale“ – Estratti dal Consenso europeo in materia di sviluppo 2005
Disposizioni specifiche in materia di fragilità della dichiarazione
di Parigi sull’efficacia degli aiuti e programma d‘azione di Accra
Principi OCSE/CAS per un adeguato intervento internazionale negli
Stati fragili e nelle situazioni di fragilità
Risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
Il “FLEX vulnerabilità”
La PAC dell’UE e la sicurezza alimentare negli Stati fragili africani
Aiuti al commercio
Accordi di partenariato economico
Sfide per la sicurezza e lo sviluppo in situazioni di fragilità: la lezione delle operazioni PESD
Una proposta per la stabilizzazione delle entrate
Politiche comunitarie e sviluppo del capitale umano africano
Il dilemma della leadership e dell’egemonia nel potenziamento della governance a carattere regionale
Rivalutare la gestione degli aiuti
1
2
5
13
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131
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IX
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Acronimi
ACRONIMI
ACP
Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico
APS
Aiuto pubblico allo sviluppo
AIDS/HIV
Sindrome da immunodeficienza acquisita / Virus dell’immunodeficienza umana
BAfS
Banca africana di sviluppo
CAS
Comitato di aiuto allo sviluppo
CIFP
Carleton University Country Indicators for Foreign Policy (Indicatori nazionali per le politiche estere
della Carleton University)
CPIA
Country Policy and Institutional Assessment (Valutazione delle istituzioni e delle politiche nazionali)
DFID
Department for International Development (Dipartimento per lo sviluppo internazionale)
DG Sviluppo
Direzione generale dello Sviluppo e delle relazioni con i paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico)
della Commissione europea
FAO
Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura
GTZ
Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit (Società tedesca per la cooperazione tecnica)
HDI
Human Development Index (Indice di sviluppo umano)
IED
Investimenti esteri diretti
IFPRI
International Food Policy Research Institute (Istituto internazionale per la ricerca sulle strategie
alimentari)
IIED
International Institute for Environment and Development (Istituto internazionale per l’ambiente
e lo sviluppo)
NATO
OCSE/CAS
Organizzazione del trattato dell‘Atlantico del Nord
Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico - Comitato di aiuto allo sviluppo
ODI
Overseas Development Institute (Istituto per lo sviluppo d’oltremare)
OIL
Organizzazione internazionale del lavoro
OMC
Organizzazione mondiale del commercio
OMS
Organizzazione mondiale della sanità
OSM
Obiettivi di sviluppo del Millennio
PAC
Politica agricola comune
PAM
Programma alimentare mondiale
PESD
Politica europea di sicurezza e di difesa
PIL
PSNU
RNL
SIPRI
UE
UNCTAD
UNDG
Prodotto interno lordo
Programma di sviluppo delle Nazioni Unite
Reddito nazionale lordo
Stockholm International Peace Research Institute (Istituto internazionale di ricerca sulla pace
di Stoccolma)
Unione europea
United Nations Conference on Trade and Development (Conferenza delle Nazioni Unite per il
commercio e lo sviluppo)
United Nations Development Group (Gruppo di sviluppo delle Nazioni Unite)
UNECA
United Nations Economic Commission for Africa (Commissione economica per l‘Africa
delle Nazioni Unite)
UNFPA
Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione
UNIFEM
United Nations Development Fund for Women (Fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per la donna)
UNMIS
Missione delle Nazioni Unite in Sudan
UNODC
Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine
UNRISD
United Nations Research Institute for Social Development (Istituto di ricerca delle Nazioni Unite
per lo sviluppo sociale)
WPF
ZCCM
World Population Foundation (Fondazione per la popolazione mondiale)
Zambia Consolidated Copper Mines (Miniere di rame consolidate dello Zambia)
X
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Panoramica
PANORAMICA
La crisi del 2008-2009 ha causato la peggior recessione mondiale dal 1929. La crisi economica e finanziaria ha colpito i bilanci dell’UE
e di altri paesi sviluppati, creando elevati livelli di indebitamento, disoccupazione e problemi sociali. Inoltre, è stata particolarmente
devastante per gli Stati fragili, quasi tutti nell’Africa subsahariana, inizialmente ritenuti al riparo a causa della loro scarsa integrazione
finanziaria con il resto del mondo. In un momento in cui la pesante situazione socioeconomica dell’Africa subsahariana richiede
un rinnovato impegno, la preoccupazione dell’UE circa i suoi problemi sociali interni rischia di distogliere attenzione e fondi
dalle politiche comunitarie di aiuto allo sviluppo. L’UE, invece, deve mantenere, e se possibile rafforzare, il proprio impegno nei
confronti dell’Africa subsahariana, evitando politiche di aiuto inefficienti. Si impone dunque una nuova valutazione della politica
comunitaria di sviluppo nei confronti degli Stati fragili dell’Africa subsahariana. È questo l’obiettivo del Rapporto europeo sullo
sviluppo (ERD) 2009.
L’ERD 2009 analizza i costi e le caratteristiche della fragilità (sezione 1), la capacità degli Stati fragili di gestire gli shock negativi
come la crisi finanziaria 2008-2009 (sezione 2) e l’attuale impegno dell’UE nei confronti degli Stati fragili, nonché le potenzialità
della politica comunitaria di sviluppo volta ad assistere le parti interessate nazionali nel potenziamento della resilienza (sezione
3). Ci si concentra sull’Africa subsahariana perché la regione appare particolarmente in ritardo nell’ambito del consolidamento
istituzionale; al netto di tutte le dispute teoriche circa la definizione e la misura della fragilità, rimane un fatto: i paesi dell’Africa
subsahariana rappresentano sempre la fetta più cospicua dell’insieme degli Stati fragili (riquadro 0.1) 1.
Riquadro 0.1: Quali Stati dell’Africa subsahariana sono fragili?
Esistono diverse classifiche e graduatorie della fragilità degli Stati: la tabella 1 contiene l’elenco operativo dei paesi dell’Africa
subsahariana in condizione di fragilità preso in considerazione per la stesura di questo rapporto.
Tabella 1 del riquadro: Paesi dell’Africa subsahariana in situazione di fragilità
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Repubblica democratica del Congo
Congo
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
L’elenco è stato proposto dall’OCSE (2009), che tuttavia non lo ha ufficialmente approvato. Si tratta del risultato di una
compilazione dei due quintili più bassi della CPIA 2007, dell’indice Brookings della debolezza dei paesi in via di sviluppo
2008 e dell’indice CIFP 2007 della Carleton University. L’ERD 2009 utilizza questo elenco a fini operativi, ma non lo approva,
poiché ritiene che la definizione stessa di fragilità sia dinamica (vedere capitolo 1).
I costi umani ed economici della fragilità richiedono l’orientamento di modelli di sviluppo, strategie e azioni verso la formazione
della resilienza delle società, ovvero l’aumento dell’abilità di un sistema socioeconomico di adattarsi e fare fronte alle crisi e al
mutamento delle condizioni senza compromettere le capacità della popolazione. In un mondo in cui le crisi globali diventano
sempre più violente, colpendo sempre più persone, la resilienza di un sistema socioeconomico è fondamentale per il percorso
di sviluppo di un paese e dovrebbe pertanto rappresentare un obiettivo centrale delle strategie nazionali di sviluppo, e dunque
dell’aiuto allo sviluppo.
Gli Stati fragili dell’Africa subsahariana hanno molte caratteristiche in comune (tutti presentano gravi problemi strutturali e istituzioni
disfunzionali), ma differiscono anche sotto diversi aspetti (riquadro 0.2). Per questi paesi, lo stato di emergenza è la regola e non
un’eccezione: per cercare di controbilanciare le crisi, spesso rinunciano a dare alle loro scelte un orizzonte di lungo periodo, e i
loro bisogni immediati distorcono gli obiettivi a lungo termine. L’UE può aiutarli a proseguire sul loro percorso di allontanamento
dalla fragilità verso la resilienza e la crescita sostenibile, ma a questo fine ha bisogno di un approccio flessibile a lungo termine
1
Ad esempio, 29 dei 49 paesi definiti fragili dall’OCSE (2009) si trovano nell’Africa subsahariana.
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SVILUPPO
Panoramica
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
per il suo impegno e di nuove forme di gestione degli aiuti, allo scopo di migliorarne l’efficienza. Dovrà dare vita a una politica a
lungo termine e a impegni di bilancio credibili, che non interferiscano con il principio della sovranità nazionale. Questi impegni
permetterebbero agli Stati fragili di prolungare gli orizzonti temporali delle loro politiche.
Il passaggio dalle priorità a specifiche prescrizioni e linee guida per l’intervento richiede una solida conoscenza di tali paesi, che sappia
tenere conto della notevole eterogeneità storica, culturale, economica e politica degli Stati fragili dell’Africa subsahariana. Infatti,
è possibile formulare prescrizioni dettagliate relative alle politiche soltanto abbinando alle competenze politiche la conoscenza
del contesto locale2.
I VANTAGGI COMPARATIVI DELL’UE: SVILUPPARE CAPITALE UMANO E SOCIALE
E SOSTENERE LO SVILUPPO ISTITUZIONALE
L’aiuto allo sviluppo da parte dell’UE e degli Stati membri presenta grandi potenzialità. Per la maggior parte degli Stati fragili
dell’Africa subsahariana, l’Europa è il maggior donatore, il primo partner commerciale, la principale fonte di investimenti stranieri
e una rilevante destinazione di migranti. Inoltre, l’UE è un importante blocco politico, diplomatico ed economico. Eppure, l’Europa
non può dimenticare che spesso la fragilità affonda le sue radici nei processi di colonizzazione e decolonizzazione, in certi casi
aggravati da pratiche irresponsabili di società straniere e da traffici illeciti e criminali da e verso l’Europa.
L’UE dovrà continuare a impegnarsi negli Stati fragili, rispettare la proprietà nazionale, andare al di là del semplice consolidamento
delle istituzioni, sfruttare appieno il suo vantaggio comparativo e concentrare i suoi sforzi sullo sviluppo del capitale umano e
sociale e sul sostegno allo sviluppo istituzionale a livello locale e regionale.
A differenza della maggior parte delle agenzie di aiuto3, per l’UE la gamma delle possibili politiche si estende molto al di là
dell’assistenza finanziaria, comprendendo commercio, agricoltura, pesca, sicurezza, migrazione, cambiamento climatico, ambiente,
dimensione sociale della globalizzazione, occupazione, ricerca e sviluppo, società dell’informazione, energia e governance4. Inoltre,
la storia dell’UE è la storia di uno sviluppo istituzionale all’interno di società eterogenee, caratterizzate da istituzioni con differenti
radici, tradizioni e passati storici. Per questo, durante il proprio percorso di allargamento, l’Unione europea ha dovuto affrontare
problemi legati alla transizione da dittature militari a democrazie (ad esempio in Grecia, Portogallo e Spagna negli anni Settanta),
nonché all’integrazione di paesi che solo recentemente hanno adottato un approccio di mercato. Queste esperienze offrono
indicazioni molto utili per affrontare la fragilità.
Le potenzialità dell’azione europea, tuttavia, non vanno sopravvalutate. L’ordine mondiale è diventato maggiormente multipolare,
e ai vecchi attori si sono affiancati centri politici ed economici emergenti. La configurazione USA-Cina-UE è diventata un perno del
sistema internazionale. Accanto alle principali organizzazioni internazionali, altri paesi si sono impegnati negli Stati fragili, dagli
Stati Uniti ai paesi dell’Asia orientale e ai paesi arabi del Golfo. In particolare, la Cina ha costruito infrastrutture, investito sui terreni
e aumentato il “potere morbido” (soft power) dei paesi più fragili.
Inoltre, le iniziative dell’UE per affrontare la fragilità dello Stato, come l’assistenza al potenziamento istituzionale e alla costruzione
della pace, potrebbero essere percepite come un’intrusione e come azioni non politicamente neutre da parte dei paesi partner
e, anche involontariamente, influire su processi e dinamiche intrinsecamente interni. Per giunta, la resistenza e i vincoli interni
all’UE possono indebolire l’impegno alle politiche di sviluppo. Ma anche l’invecchiamento della popolazione, l’enorme debito
accumulato durante la crisi e l’allargamento dell’UE possono fiaccare l’incentivo a destinare risorse pubbliche alla cooperazione
internazionale allo sviluppo.
Riquadro 0.2: Caratteristiche comuni degli Stati fragili e differenze sostanziali
I paesi fragili sono incapaci di mobilitare risorse nazionali e di ricavare entrate di bilancio considerevoli dall’imposizione
fiscale. Le entrate pubbliche degli Stati fragili dell’Africa subsahariana, escluse le sovvenzioni, costituiscono raramente più
del 20% del PIL. Le imposte variano fra il 6 e il 13% del PIL. Esiste pertanto un margine estremamente limitato per l’offerta
di beni e servizi pubblici.
2
3
4
GTZ (2008) esamina sei studi nazionali, sottolineando le diversità geografiche, le differenti fasi di governo e i diversi orientamenti allo sviluppo: “l’approccio
do no harm (non essere dannoso), la sensibilità verso il contesto e la conoscenza approfondita del paese rimangono indispensabili per lo sviluppo di qualsiasi
strategia” (pag. 12).
Le agenzie di aiuto e le istituzioni internazionali possono attuare una gamma di azioni più ridotta, che spesso si limita a misure di riparazione a breve termine
e, a causa delle loro funzioni istituzionali, si concentra su un problema specifico. Si veda, su questo punto, il documento informativo di Paul Collier (2009a)
nel Volume 1B.
Si veda la Relazione dell’UE sulla coerenza delle politiche per lo sviluppo 2009, che individua 12 settori d’intervento pertinenti.
2
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Panoramica
Scarso sviluppo umano. I ridotti investimenti pubblici nello sviluppo umano si riflettono in sistemi scolastici e sanitari
malfunzionanti. In effetti, benché molti Stati fragili abbiano ridotto la spesa militare, a questo calo non è corrisposto un
aumento nella spesa per sanità e istruzione.
Scarsa densità demografica. La maggior parte dei paesi fragili è caratterizzata, in media, da una densità demografica
molto ridotta: 15 paesi su 29 hanno meno di 40 abitanti per chilometro quadrato, laddove la densità demografica degli Stati
non fragili si attesta attorno agli 84 abitanti. La popolazione è giovane e in aumento (in chiaro contrasto con la piramide
demografica dell’UE). Inoltre, in questi paesi la maggioranza della popolazione vive in zone rurali.
Figura 1 del riquadro: Piramide delle fasce di età negli Stati fragili dell’Africa subsahariana
100+
95-99
90-94
85-89
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
5-9
0-4
50
40
30
20
0
10
Femmine
Maschi
0
10
20
30
40
50
Popolazione (milioni)
Figura 2 del riquadro: Piramide delle fasce di età nell’Unione europea
100+
95-99
90-94
85-89
80-84
75-79
70-74
65-69
60-64
55-59
50-54
45-49
40-44
35-39
30-34
25-29
20-24
15-19
10-14
5-9
0-4
20
10
0
Femmine
Maschi
0
10
20
Popolazione (milioni)
Fonte: U.S. Census Bureau International Data Base.
Debolezza delle infrastrutture materiali e immateriali. I paesi fragili hanno solo 8 metri di strada asfaltata per
chilometro quadrato, gli Stati non fragili 18. I costi di trasporto nei primi (specialmente per gli scambi commerciali intraafricani) sono più che doppi rispetto a quelli dell’Asia sudorientale. Sono necessari circa 116 giorni per trasferire un container
da una fabbrica della Repubblica centrafricana fino al porto più vicino. La stessa transazione da Copenaghen richiede cinque
giorni. Il volo più diretto fra il Ciad e il Niger passa per la Francia (oltre 4.000 km); esiste un solo volo a settimana che collega
Bangui, nella Repubblica centrafricana, e l’Europa; il numero di linee telefoniche mobili per 1.000 abitanti, malgrado un
enorme aumento in tempi recenti, è la metà rispetto ai paesi non fragili.
Esportazioni concentrate. L’indice di diversificazione delle esportazioni è inferiore alla metà di quello degli Stati non fragili,
a dimostrazione di un elevatissimo livello di concentrazione. Con rare eccezioni, gli Stati fragili esportano principalmente
prodotti primari: nel 2006, in media, tali prodotti hanno rappresentato oltre l’80% delle esportazioni, il 30% delle quali
costituite da combustibili, raggiungendo oltre il 90% in paesi come Angola, Ciad, Repubblica del Congo e Guinea equatoriale.
Elevata esposizione al rischio di scoppio di conflitti armati. Il 73% della popolazione del Bottom Billion, un indicatore
dell’elenco dei paesi fragili, ha vissuto di recente o vive attualmente una guerra civile. Inoltre, il rischio che questi paesi
precipitino in una guerra civile in un qualsiasi quinquennio è estremamente alto: una possibilità su sei5.
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Collier 2007.
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Panoramica
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Ma...
Crescita divergente. I paesi fragili sono cresciuti del 4% circa ogni anno fra il 2000 e il 2008. Ma gli Stati fragili ricchi
di risorse sono cresciuti del 6,3%, con un picco del 10% nel 2002 e dell’8,5% nel 2004, mentre i paesi fragili non ricchi di
risorse sono cresciuti del 2,3%.
Redditi. Il reddito reale pro capite, nel 2008 pari in media a 600 dollari negli Stati fragili dell’Africa subsahariana, varia fra
i 100 dollari della Repubblica democratica del Congo e i 4.500 della Guinea equatoriale.
Aspettativa di vita. A São Tomé e Príncipe, la popolazione ha un’aspettativa di vita alla nascita di oltre 65 anni, in linea
con la media dei paesi in via di sviluppo; i cittadini di Sierra Leone e Zimbabwe, invece, hanno un’aspettativa di vita poco
superiore ai 40 anni.
I flussi di IED vanno solo verso i paesi ricchi di risorse. Oltre il 70% di tutti gli IED in entrata verso i paesi fragili dell’Africa
subsahariana dal 2000 al 2007 si è concentrato in appena cinque paesi: Angola, Ciad, Guinea equatoriale, Nigeria e Sudan,
tutti ben forniti di risorse naturali.
Riserve estere scarse o adeguate. Alcuni paesi fragili hanno riserve in valuta estera molto ridotte (meno di 90 giorni
di copertura delle importazioni). Nell’aprile 2009, Etiopia, Guinea e Zimbabwe avevano riserve per appena un mese di
importazioni, mentre gli esportatori di petrolio raggiungevano i sei mesi.
Debito estero. Gli esportatori di petrolio hanno contenuto il debito estero, e gli indicatori dell’indebitamento sono
ampiamente sotto controllo. Ad esempio, il rapporto debito/prodotto nazionale lordo e il debito totale per le esportazioni
di beni e servizi sono notevolmente migliorati in Angola e Sudan dal 2000. I paesi fragili poveri di risorse, come la GuineaBissau e la Liberia, presentano ancora un elevato indebitamento, che ne minaccia lo sviluppo futuro.
1. PER RISPOSTE COMUNITARIE MIGLIORI ALLA FRAGILITÀ
Un riesame dell’attuale approccio comunitario alle condizioni di fragilità (capitolo 8) rivela la volontà di
progredire in molte direzioni.
La prima, e più generale, consiste nell’assottigliare il divario di attuazione che separa nettamente il quadro politico teorico e l’effettiva
elaborazione di interventi specifici sul campo. Si tratta di una sfida fondamentale, poiché gli effetti di una politica diventano visibili
soltanto quando questa viene attuata. L’attuazione, tra l’altro, deve essere attentamente calibrata, dal momento che le politiche
generiche non sono in grado di soddisfare le esigenze degli Stati fragili.
Successivamente, e più in particolare, è necessario compiere progressi al fine di:
• Ottenere una solida comprensione del contesto locale, in modo da poter predisporre interventi efficaci e informati6.
• Valutare in che modo il principio di partecipazione diretta debba essere adattato in presenza di paesi dotati di istituzioni statali
inadeguate o illegittime, che possono rendere il sostegno al bilancio particolarmente difficile: una situazione piuttosto diffusa
negli Stati più fragili. Anche nei paesi dotati di istituzioni democratiche, la legittimità del governo ha spesso vita breve, la qual
cosa rende estremamente complessa l’attuazione di politiche a lungo termine tramite il sostegno al bilancio, a meno che non
sia prevista una stretta sorveglianza.
• Evitare che l’ampiezza delle politiche comunitarie diventi un problema e che diverse politiche producano effetti avversi indiretti
sugli Stati fragili. La dimensione orizzontale della coerenza politica deve abbinarsi a una migliore ricerca di coerenza verticale al
fine di assicurare un migliore coordinamento nella CE e tra la CE e gli Stati membri dell’UE, spesso riluttanti a perdere il proprio
ruolo di protagonisti. Tale coordinamento consentirà all’UE di agire in maniera univoca, rendendo la sua politica di sviluppo più
affidabile e comprensibile per i beneficiari.
• Consentire che la politica commerciale dell’UE sia in grado di rispondere ai bisogni specifici degli Stati fragili dell’Africa
subsahariana e garantire che gli accordi bilaterali non minino il processo di integrazione regionale o multilaterale. Sebbene
esistano deroghe alle regole dell’OMC per i paesi in via di sviluppo e soprattutto per i paesi meno sviluppati, non esistono
disposizioni specifiche per gli Stati fragili o le situazioni di fragilità. In questo ambito si potrebbero dunque compiere progressi
significativi.
6
In situazioni post-belliche, “il contesto è soggetto a mutamenti estremamente rapidi ed è necessario affrontare contemporaneamente numerose sfide. Per
questo serve una formula flessibile” (GTZ 2008, pag. 22).
4
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Panoramica
• Passare dagli interventi di risposta alle misure preventive, in modo che i paesi che si trovano in situazioni di fragilità non
imbocchino una spirale che eroderebbe progressivamente la capacità e la legittimità delle loro istituzioni statali. Tale passaggio
potrebbe richiedere uno spostamento verso un approccio regionale alla fragilità, poiché gli “effetti di cattivo vicinato” potrebbero
mettere a repentaglio il potenziamento istituzionale e la coesione sociale7.
• Comprendere a fondo come gestire correttamente il nesso tra sicurezza e sviluppo. Pace e sicurezza sono questioni chiave del
partenariato strategico tra l’UE e l’Unione africana. Sebbene alcune esperienze si siano rivelate positive, in altri casi le azioni di
sicurezza hanno interferito con le politiche di sviluppo.
Per assottigliare il divario è necessario rivalutare le priorità, concentrare gli sforzi su pochi obiettivi attentamente definiti e concordati,
semplificare le procedure e, nei casi in cui le istituzioni statali non possono o non vogliono adempiere ai propri compiti, reperire
l’ente o il partner adeguato per l’attuazione delle politiche8. Non si tratta semplicemente di attuare politiche, ma anche di costruire
un rapporto di fiducia tra beneficiari e donatori e di apprendere dalle esperienze politiche.
Sebbene i progressi siano visibili e i documenti dell’UE adesso forniscano orientamenti politici più esaustivi, c’è ancora molta strada
da percorrere per tradurre gli impegni nella pratica. Le procedure e gli strumenti finanziari, che pure sono diventati più semplici e
flessibili, rimangono in ogni caso troppo complessi, ingombranti, verbosi e poco intuitivi per i beneficiari.
Riquadro 0.3: Le conseguenze della crisi del 2008-2009 sugli Stati fragili subsahariani
Gli Stati fragili, poco integrati nell’economia globale, sono stati inizialmente risparmiati dalle ripercussioni dirette della crisi
finanziaria, venendo però colpiti dalla successiva recessione globale e dal crollo degli scambi commerciali.
La crisi economica e finanziaria si è presentata in seguito a un periodo caratterizzato dall’inasprimento e dalla volatilità dei
prezzi dei generi alimentari e dei carburanti, le cui conseguenze, intorno alla metà del 2008, hanno messo a dura prova le
importazioni di alimenti e greggio dagli Stati fragili dell’Africa subsahariana, assottigliando le riserve di cambio e minando
la possibilità di importare e sostenere la crescita. Le fasi alternate di espansione e recessione hanno contribuito alla volatilità
della produzione, scoraggiando gli investimenti nella capacità produttiva a lungo termine.
La maggior parte degli Stati fragili dell’Africa subsahariana ha subito quasi contemporaneamente shock energetici, alimentari
e finanziari. Stime recenti indicano per il 2009 una crescita del PIL reale pari all‘1,5%, 4 punti percentuali in meno rispetto
alle stime di ottobre 2008: stando così le cose, nel 2009, per la prima volta dopo un decennio, la maggior parte dei paesi
dell’Africa subsahariana registrerebbe una crescita negativa del PIL reale pro capite, il che minaccerebbe il progresso in
direzione degli OSM e minerebbe la stabilità politica. La crescita rallentata non sempre minaccia di invertire lo sviluppo
umano, ma produce inevitabilmente battute di arresto, specialmente a causa dei tagli alle spese per l’istruzione e la sanità,
con pesanti conseguenze a lungo termine.
Gli Stati fragili dell’Africa subsahariana hanno piccoli sistemi bancari nazionali e mercati dei capitali quasi inesistenti.
Considerato lo scarso sviluppo finanziario della regione e i vincoli limitati degli Stati fragili con il sistema finanziario
globale, i principali canali di trasmissione della crisi sono i settori reali dell’economia. Ciò che espone questi paesi alla
crisi è essenzialmente il commercio: la riduzione dei proventi delle esportazioni si accompagna a un effetto negativo
sulle ragioni di scambio, rafforzato dall’eccessiva dipendenza di questi paesi dalle esportazioni di prodotti di base e dalla
polarizzazione delle esportazioni. I paesi dell’Africa subsahariana sono stati più colpiti di altri dal crollo degli scambi nel
2009 a causa dei tagli dei finanziamenti al commercio (chi si dimostra meno affidabile ha più probabilità di subire tali tagli)
e della composizione del loro paniere delle esportazioni. Gli Stati fragili sono esposti anche a causa dei flussi ridotti di IED,
imputabili all’atteggiamento temporeggiante degli investitori in situazioni di incertezza, delle (probabili) riduzioni degli flussi
di aiuti stranieri e del calo delle rimesse di denaro dei migranti. Tale calo ha interessato particolarmente i trasferimenti intraafricani, ovvero le rimesse dei migranti provenienti da Stati fragili che non possono permettersi di sostenere i costi elevati
della migrazione verso i paesi ad alto reddito e si spostano nelle vicinanze. Ma i loro principali mercati di destinazione, la
Nigeria e il Sud Africa, sono stati proprio gli unici paesi dell’Africa subsahariana a essere stati direttamente colpiti dalla crisi.
Gli Stati fragili sono stati colpiti duramente, ma l’impatto è fortemente eterogeneo nei vari paesi. Di conseguenza, non
si può dire che tali paesi siano più vulnerabili di altri: è invece molto inferiore la loro capacità di riprendersi dagli shock.
7
8
Molte esperienze storiche di risposta alla fragilità hanno evidenziato la necessità di un approccio regionale: i Balcani ne sono un esempio.
Vedere Collier 2009b, riquadro 9.5 nel capitolo 9, e GTZ 2008 per insegnamenti appresi sul campo.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Figura 0.1: La resilienza degli Stati fragili dell’Africa subsahariana
■ Non fragile
■ Fragile in assenza di dati
■ Resilienza elevata
■ Resilienza media
■ Resilienza scarsa
Figura 0.2: La vulnerabilità degli Stati fragili dell’Africa subsahariana
■ Non fragile
■ Fragile in assenza di dati
■ Vulnerabilità scarsa
■ Vulnerabilità media
■ Vulnerabilità elevata
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Panoramica
2. DEFINIRE LE PRIORITÀ
Imparando dalle esperienze passate e dagli errori commessi, adattandosi a contesti in rapido mutamento e
rispettando il principio di sovranità nazionale, l’UE deve stabilire le aree prioritarie di intervento. Le analisi
dell’ERD 2009 suggeriscono le cinque priorità che dovrebbero essere alla base degli impegni a lungo
termine dell’UE negli Stati fragili dell’Africa subsahariana con l’obiettivo di potenziare la resilienza.
1. Sostenere il potenziamento istituzionale e la coesione sociale: L’obiettivo fondamentale dell’impegno esterno negli
Stati fragili sta contribuendo al processo endogeno di potenziamento istituzionale9. L’UE ha sostenuto tale priorità essenziale
nel Consenso europeo sullo sviluppo10, e dunque il suo impegno nei confronti degli Stati fragili dell’Africa subsahariana devono
concentrarsi su questo obiettivo a lungo termine. La complessità di tale intendimento deriva dal fatto che non ci si può basare su
una visione esterna (europea) di questi processi: il processo di potenziamento istituzionale negli Stati fragili subsahariani, infatti,
non assomiglierà a quanto avvenuto in Europa nel XIX secolo; analogamente, la coesione sociale non sarà la stessa tra gruppi etnici
e religioni le cui differenze risalgono a centinaia di anni fa. La conoscenza del contesto locale riveste dunque un ruolo essenziale
nell’impegno esterno negli Stati fragili e permette di identificare quali fattori possono essere motori di cambiamento e consentire
a questi paesi di emergere dalla fragilità, magari imboccando percorsi differenti. Se da un lato è necessario rafforzare questi “fattori
di cambiamento”, in particolare incoraggiando la partecipazione delle donne al potenziamento istituzionale, è altresì importante
indebolire i possibili “fattori di impedimento” e sostenere i leader negli sforzi intesi alla ricostruzione di un nuovo patto sociale tra
Stato e cittadini e tra fazioni e gruppi etnici diversi. Se taluni gruppi vengono discriminati ed esclusi dalla rappresentazione politica,
la probabilità di conflitti si acuisce e diventa più difficile emergere dalla situazione di fragilità.
2. Colmare le distanze tra necessità a breve termine e resilienza a lungo termine: Per spostare l’enfasi dal soddisfacimento
di bisogni impellenti a breve termine agli obiettivi di più lungo periodo negli Stati fragili, l’UE potrebbe istituire un meccanismo
assicurativo per salvaguardare questi paesi dalla volatilità dei proventi delle esportazioni. Potendo contare su entrate (più) stabili,
gli Stati fragili potrebbero rafforzare i propri potenziali vantaggi comparativi a lungo termine.
3. Potenziare il capitale umano e sociale: I modi migliori per sostenere crescita e sviluppo e potenziare la resilienza consistono
nell’investire nell’istruzione dei cittadini degli Stati fragili, nell’assottigliare il divario di genere e nel formare il capitale sociale. Gli
Stati fragili e colpiti dai conflitti sono caratterizzati dalla disgregazione della pubblica istruzione, e dunque da percentuali di accesso
alla scuola ridotte e da un aumento del tasso di analfabetismo tra gli adulti. È quindi necessario concedere finanziamenti adeguati
non solo all’istruzione di base, ma anche all’istruzione post-secondaria, risolvendo le disuguaglianze di genere e stimolando la
conoscenza e l’innovazione locali. Anche progettare interventi destinati ai giovani può rivelarsi fondamentale, specialmente nei
contesti post-bellici, per rendere meno appetibili le attività illegali quali i traffici illeciti o il contrabbando.
4. Sostenere una migliore governance regionale, compresi i processi di integrazione regionale: Gli accordi commerciali
regionali consentono ai paesi africani di generare economie di scala significative con mercati regionali più ampi e dunque di
potenziare la competitività nazionale, aumentare i ritorni sugli investimenti e attrarre IED, aprendo la strada al trasferimento di
tecnologie e alla crescita. Potrebbero anche consentire a queste economie di mettere in comune risorse per la realizzazione congiunta
di un’ampia rosa di progetti infrastrutturali, sfruttando le economie di scala e internalizzando gli effetti regionali transnazionali di
tali investimenti. Inoltre, tali accordi consentirebbero ai piccoli Stati africani di negoziare in maniera più efficace riguardo a questioni
di politica economica con altri blocchi commerciali o grandi partner privati. Dal punto di vista istituzionale, gli accordi regionali
possono altresì condurre a meccanismi di impegno all’elaborazione di politiche e riforme, particolarmente utili per i paesi con una
capacità di impegno nazionale piuttosto debole. In questo senso, gli accordi di integrazione regionale possono essere utilizzati come
strumenti di potenziamento istituzionale. Entrare a far parte di un blocco commerciale dalle regole severe può infatti contribuire
al radicamento delle riforme democratiche e alla formazione di credibilità nei paesi membri.
5. Promuovere la sicurezza e lo sviluppo nella regione: Le azioni nel campo della sicurezza e dello sviluppo richiedono una
strategia multisfaccettata. È necessario uno sforzo a lungo termine per trasformare le culture politiche europee, tradizionalmente
neutrali e incentrate su sé stesse, e coinvolgerle nella governance mondiale. Collegare le responsabilità globali dell’UE al benessere
dei cittadini europei è dunque fondamentale. I politici europei dovrebbero comprendere che l’azione comunitaria in qualunque
ambito, dall’agricoltura alla pesca, fino al commercio o alla ricerca e sviluppo, può avere effetti sulla sicurezza e, viceversa, che
le iniziative in materia di sicurezza possono avere implicazioni per lo sviluppo e il commercio. L’UE dovrebbe abbandonare il
suo approccio lineare di ingegneria sociale incentrato sugli strumenti a disposizione per adottare un approccio strategico più
flessibile che riconosca il carattere politico e opinabile di molti obiettivi e di molte politiche dei donatori. Il ricorso, sempre più
frequente, a strumenti di gestione delle crisi civili e militari rappresenta un’opportunità non solo per incoraggiare la pianificazione
congiunta (militare, civile e dello sviluppo), ma anche per ragionare in maniera più strategica. Inoltre, costituisce un’opportunità
9
10
Vedere OCSE/CAS 2007.
Vedere Parlamento europeo, Consiglio, Commissione 2006.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
per compensare l’adozione di rischi da parte del personale comunitario, spesso essenziale in situazioni di fragilità. Ignorare questi
urgenti problemi di sicurezza è controproducente: anziché applicare un modello esistente, si può ottenere molto prendendo
seriamente in considerazione le esigenze di sicurezza della popolazione e vagliando, tra l’altro, le modalità per sconfiggere la
violenza di genere. Si tratta di un primo passo in direzione di una vera partecipazione diretta locale.
In sintesi, l’inazione avrebbe costi estremamente elevati sia per i donatori sia per i beneficiari. Per quanto riguarda gli Stati fragili,
i costi si traducono nello scarso sviluppo umano e nell’assenza di sicurezza correlati alla presenza di divari di sviluppo persistenti:
sono i costi del mancato raggiungimento della resilienza. Per l’Europa, geograficamente vicina all’Africa e ai suoi problemi di
crescita demografica esplosiva, traffici illeciti, contrabbando, pirateria, violenza di genere e minacce ambientali, gli effetti diffusivi
negativi possono essere considerevoli. È dunque necessario riesaminare le azioni dell’UE, che non può certo permettersi sprechi
o inefficienze. Affinché la politica di sviluppo sia efficiente e dia risultati, per l’UE è essenziale:
• Agire in maniera univoca (e definire le proprie politiche esprimendosi con una sola voce). Il dibattito fra gli Stati membri e con
la CE può essere aperto e vivace, ma una volta definita e adottata congiuntamente una politica, è necessario attenersi a essa.
• Perseguire politiche a lungo termine ed evitare di modificare i propri obiettivi politici e le proprie aree di interesse chiave, dal
momento che i problemi specifici dei paesi che si trovano in situazioni di fragilità sono essenzialmente strutturali e persistenti,
e un aspetto diffuso della fragilità è proprio l’incapacità di perseguire obiettivi a lungo termine.
• Stabilire deleghe adeguate per l’attuazione delle politiche. Delegare è cruciale, poiché donatori e beneficiari spesso non sono
nelle condizioni di attuare o monitorare al meglio i programmi, considerata la necessità di affrontare le complicazioni locali. In
questi casi, può essere opportuno separare le funzioni governative, e quindi la formulazione delle politiche dallo stanziamento
di fondi specifici e dalla sorveglianza, delegando quest’ultima ad agenzie indipendenti.
• Comprendere che il potenziamento istituzionale e la coesione sociale nei paesi dell’Africa subsahariana sono processi evolutivi
lenti e passibili di assumere forme nuove, eterogenee e imprevedibili a livello nazionale e regionale. Questi processi richiedono
pertanto un’attenzione costante e il sostegno istituzionale adeguato sul campo.
Tenendo conto di tutti questi elementi, è possibile che si evidenzi la necessità di approfondire le nostre conoscenze in molte aree,
ad esempio riguardo al ruolo delle disuguaglianze persistenti nelle situazioni di fragilità o all’esigenza di reti di sicurezza sociale e
di organizzazioni sociali per costruire la resilienza.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
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SVILUPPO
SEZIONE UNO
COMPRENDERE LA FRAGILITÀ
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 1
LA FRAGILITÀ DELLO STATO NELL’AFRICA SUBSAHARIANA:
COSTI E SFIDE
1. LE POLITICHE EUROPEE DI SVILUPPO IN UN CONTESTO MONDIALE
IN MUTAMENTO
Mai prima d’ora l’eradicazione
ione d
della
lla po
povertà
ertà e lo sviluppo sostenibile sono stati così importanti. Il
contesto
cont
sto in cui
ui si persegue l’eradicazione della povertà è que
quello
lo di un mond
mondo sempre più globalizzato e
che nu
ove sfide.
interdipendente: una situazione, questa, che ha creato nuove opportunità, ma an
anche
nuove
(Consenso europeo sullo sviluppo, 2005)
20 5)
L’impegno dell’Unione europea per la promozione di uno sviluppo più equo e sostenibile a livello globale deve fronteggiare le
sfide della globalizzazione del XXI secolo. I paesi, le società e le economie sono più interconnessi e meno isolati ed è pertanto più
probabile che vengano influenzati dall’evoluzione delle condizioni e dalla variabilità delle forze esterne che interagiscono con
le dinamiche interne. A questa maggiore integrazione si accompagna uno spostamento dell’attività economica verso est: per il
loro maggior peso nel PIL mondiale e nelle esportazioni, la Cina e l’India diventano attori fondamentali sulla scena internazionale
(specialmente la Cina nell’Africa subsahariana). Le politiche di sviluppo non possono ignorare i nuovi equilibri sociopolitici.
Le dinamiche demografiche rappresentano un’altra caratteristica della globalizzazione del XXI secolo. Mentre l’UE assiste
all’invecchiamento della propria popolazione, l’Africa subsahariana è al contrario caratterizzata da una popolazione giovane: nel
2010, il 40% della popolazione africana si troverà nella fascia 0-14 anni e il 20% in quella fra 15 e 24 anni, per un totale del 60%
al di sotto dei 25 anni, contro il 28% dell’UE. Queste tendenze, accanto alle difficoltà derivanti dal riscaldamento globale, dalle
organizzazioni criminali internazionali e dal recente shock dei prezzi dei generi alimentari, sono esempi lampanti delle sfide che
le società si trovano ad affrontare.
Su questo sfondo, quella del 2008-2009 è la peggior recessione mondiale dal 1929. La crisi economica e finanziaria ha colpito i
bilanci dell’UE e di altri paesi sviluppati, ed è stata particolarmente devastante per i paesi più poveri del mondo, la maggior parte
dei quali si trova nell’Africa subsahariana. Stime preliminari indicano che, a causa della crisi, fino a 90 milioni di persone potrebbero
ritrovarsi in condizione di povertà1, e l’eccedenza di decessi infantili potrebbe raggiungere le 400.000 unità2. Ma è molto difficile
far comprendere i costi umani della crisi tramite i numeri.
I costi umani ed economici richiedono l’orientamento di azioni e modelli di sviluppo verso strategie volte al potenziamento della
resilienza delle società: in altre parole, strategie che accrescano la capacità di un sistema socioeconomico di adattarsi e di fare fronte
alle perturbazioni e alle condizioni mutevoli senza compromettere le risorse della popolazione. In un mondo in cui le crisi globali
diventano sempre più violente e colpiscono sempre più persone, compresi molti poveri che in precedenza ne erano scarsamente
interessati, la resilienza dei sistemi socioeconomici è un aspetto fondamentale del percorso di sviluppo di un paese e dovrebbe
pertanto rappresentare un obiettivo centrale delle strategie nazionali di sviluppo, e dunque dell’aiuto pubblico allo sviluppo (APS).
1
2
DFID 2009 e Banca mondiale 2009a.
Banca mondiale 2009b..
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
1.1 IL PARADOSSO DELL’AIUTO ALLO SVILUPPO A FAVORE DEGLI STATI FRAGILI
Negli ultimi anni, gli Stati fragili si sono imposti come una priorità centrale per la comunità dello sviluppo a causa dei loro scarsi
risultati in materia di sviluppo e di gravi violazioni dei diritti umani3. Questo gruppo di paesi, caratterizzati da gravi carenze nelle
loro istituzioni statali, pone grandi sfide di sviluppo globale alla comunità internazionale. La fragilità impone costi umani notevoli,
diffusi e persistenti. Vivere in uno Stato fragile significa infatti subire gravi privazioni in termini di servizi pubblici fondamentali e
di garanzia della sicurezza e dei diritti umani. Inoltre, la fragilità produce effetti diffusivi negativi, a livello sia regionale sia globale.
L’aiuto allo sviluppo negli Stati fragili si trova ad affrontare difficoltà maggiori che in altri contesti. Questi Stati, infatti, tendono a
essere partner difficili. Inoltre, i flussi di aiuti possono innescare effetti perversi, e la loro efficacia è ostacolata dalla debolezza della
capacità dei governi nazionali. Negoziare con le istituzioni degli Stati fragili può dunque voler dire interagire con governi illegittimi,
non rappresentativi o deboli, ovvero con più attori in competizione fra loro. In queste situazioni, è meno probabile che l’assistenza
raggiunga le popolazioni interessate o che sia di sostegno a una prospettiva a lungo termine.
Per giunta, i donatori possono addirittura essere di ostacolo alla transizione dalla fragilità: i flussi di aiuti (fatta eccezione per
l’assistenza tecnica) possono effettivamente ridurre la probabilità di uscire dal gruppo degli Stati fragili4. Questa scoperta, cui si rifà
anche Dambisa Moyo nel suo bestseller Dead Aid, mostra l’esistenza di un margine di miglioramento per l’intervento internazionale
negli Stati fragili5. In tali contesti, il potenziamento istituzionale diviene l’obiettivo centrale di tale intervento, come si afferma nei
principi per un adeguato intervento internazionale negli Stati fragili e nelle situazioni di fragilità6.
I sistemi di assegnazione degli aiuti in base al rendimento, definiti genericamente come sistemi che premiano con flussi di aiuti
crescenti chi ottiene buoni risultati, hanno ridotto gli Stati fragili a “orfani degli aiuti” (riquadro 1.1). Gli Stati fragili dell’Africa
subsahariana hanno una probabilità ancora maggiore di rimanere indietro: su 48 Stati fragili, 29 paesi della regione hanno assorbito
il 49% dei flussi di APS nel periodo 2000–20077.
In Africa occidentale diversi paesi non si sono mai neanche avvicinati all’obiettivo del consolidamento istituzionale, e la regione
è una delle più povere e meno stabili al mondo. Fra il 1998 e il 2005, almeno 35 gruppi armati hanno operato in Costa d’Avorio,
Gambia, Guinea, Guinea Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal e Sierra Leone8. Il Sudan e la regione dei Grandi laghi hanno
vissuto i genocidi più recenti. Infine, il Corno d’Africa ospita un caso emblematico di Stato fallito: la Somalia.
L’Africa subsahariana, insomma, predomina fra gli Stati fragili. La fragilità degli Stati potrebbe avere una radice storica comune
ben definibile (capitolo 3), mentre concentrandosi sulla regione si potrebbe migliorare la comprensione delle sfide per lo sviluppo
da essa poste.
La comunità internazionale deve superare il paradosso per cui vengono assegnati meno aiuti a favore dei paesi più bisognosi,
adattando al contempo le pratiche di aiuto allo sviluppo alle condizioni, alle caratteristiche e alle dinamiche specifiche degli Stati
fragili. Questi ultimi rappresentano il banco di prova dell’impegno dell’UE, riaffermato dal Consenso europeo sullo sviluppo, volto
a offrire un aiuto migliore e più sostanzioso. Peraltro, non si tratterà di un processo facile: nell’attuale situazione di crisi economica
e finanziaria, infatti, i paesi dell’UE devono finanziare i propri disavanzi pubblici in crescita, e a causa del recente allargamento
dell’UE diventa più difficile raggiungere un consenso sull’assegnazione dei fondi.
3
4
5
6
7
8
Esistono diverse classificazioni e graduatorie della fragilità degli Stati. Laddove non diversamente specificato, questa relazione adotta l’elenco (non ufficiale)
di Stati fragili e in situazioni post-belliche utilizzato per il rapporto annuale 2008 Resource Flows to Fragile and Conflict-Affected States (OCSE 2009). Si tratta
di una compilazione di tre elenchi: i due quintili più bassi della CPIA 2007; l’indice Brookings della debolezza dei paesi in via di sviluppo 2008 e l’indice CIFP
2007 della Carleton University. L’elenco degli Stati fragili comprende Afghanistan, Angola, Burundi, Cambogia, Camerun, Ciad, Comore, Congo, Corea del Nord,
Costa d’Avorio, Gibuti, Guinea equatoriale, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea-Bissau, Haiti, Iraq, Isole Salomone, Kenya, Kiribati, Laos, Liberia, Mauritania,
Myanmar, Nepal, Niger, Nigeria, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Repubblica centrafricana, RDC, Ruanda, São Tomé e Príncipe, Sierra Leone, Somalia, Sudan,
Tagikistan, Timor orientale, Togo, Tonga, Uganda, Uzbekistan, Vanuatu, Yemen, Zimbabwe e Zone sotto amministrazione palestinese. Come si osserverà nella
sezione successiva, la compilazione di un elenco di Stati fragili è politicamente e analiticamente controversa. L’ERD 2009 non approva ufficialmente questa
classificazione, che è utilizzata soltanto a scopi operativi..
Chauvet e Collier 2008.
Moyo 2009.
OCSE/CAS 2007.
OCSE, Database statistico on line CAS, per gli anni 2000–2007.
UNODC 2009.
12
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
Riquadro 1.1: Efficacia degli aiuti e assegnazioni agli Stati fragili
Di Mark McGillivray, Capo economista, Australian Agency for International Development
La crescita economica negli Stati fragili sarebbe inferiore, superiore o equivalente in assenza di aiuti? Gli Stati fragili,
collettivamente e individualmente, ricevono aiuti insufficienti, eccessivi o adeguati in una prospettiva di crescita?
La letteratura sull’impatto degli aiuti sulla crescita economica ha compiuto molti progressi negli ultimi dieci anni, grazie a
dati migliori, a una teoria soggiacente più incisiva e all’applicazione di metodi empirici più rigorosi99. Ciò non significa che
non presenti limiti, i quali, anzi, permangono in buon numero. Probabilmente, la sua debolezza principale consiste nel non
essere riuscita a fare chiarezza sui canali mediante i quali gli aiuti influiscono sulla crescita.
Dalla letteratura in materia è emersa una conclusione forte, cui giungono praticamente tutti gli studi recenti, e cioè che la
relazione incrementale fra aiuti e crescita segue un andamento a U rovesciata: livelli più alti di aiuti sono associati a tassi
più elevati di crescita solo entro una certa soglia, oltre la quale la crescita diventa inferiore. Tale soglia è stata definita come
il livello di aiuti “efficiente per la crescita”, grazie al quale l’impatto incrementale degli aiuti sulla crescita del reddito pro
capite è massimizzato nei paesi beneficiari.
La scoperta di un rapporto a U rovesciata fra aiuti e crescita ha una rilevanza particolare per gli Stati fragili. Secondo
un’interpretazione del declino dell’impatto incrementale degli aiuti oltre la soglia, esistono dei vincoli alla capacità di
assorbimento dei paesi beneficiari. Si ritiene che tali vincoli sorgano per diversi motivi, il primo dei quali consisterebbe
nella scarsa qualità delle politiche e del comportamento istituzionale, una caratteristica fondamentale degli Stati fragili.
Su questa base, è stato ipotizzato da alcuni studiosi, e presupposto da alcuni decisori politici, che la relazione aiuti-crescita
negli Stati fragili e in altri paesi (non fragili) si presenti come nella figura 1 del riquadro. Per gli Stati fragili, ci si attende che la
relazione fra aiuti e crescita sia la stessa degli Stati non fragili, ma con un livello di aiuti efficiente per la crescita inferiore (ainf*),
oltre il quale il contributo incrementale degli aiuti alla crescita diventa negativo e il contributo incrementale complessivo
degli aiuti alla crescita è inferiore per qualsiasi livello di aiuti.
Figura 1 del riquadro: Impatti incrementali degli aiuti sulla crescita
gi
0
aif*
aif**
ainf*
ainf**
Stati fragili
ai
Stati non fragili
Nota: ai indica una misura degli aiuti al paese beneficiario i, gi indica la crescita reale del PIL pro capite di i, ainf* è il livello di aiuti
efficiente per la crescita per gli Stati non fragili e ainf** è il livello di aiuti oltre il quale il contributo incrementale degli aiuti alla
crescita in questi Stati è negativo.
McGillivray e Feeny (2008) esaminano i dati relativi agli aiuti e alla crescita per il periodo 1977-2001 al fine di stabilire se
esista una base empirica per le relazioni indicate nella figura 1 del riquadro. Gli autori ritengono che uno Stato sia fragile
se rientra nei due quintili inferiori dei punteggi CPIA. Nei paesi dell’ultimo quintile, gli “Stati altamente fragili”, come li
definiscono McGillivray e Feeny (2006), l’aiuto pubblico allo sviluppo ha contribuito per 1,37 punti percentuali alla crescita
reale del PIL pro capite nel periodo considerato. Si confronti questo dato con i 2,47 punti percentuali degli altri Stati fragili,
quelli inclusi nel penultimo quintile CPIA.
9
Un’analisi della letteratura in materia si trova in Morrissey (2001), Clemens et al. (2004) e McGillivray et al. (2006).
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Capitolo 1
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Quello di McGillivray e Feeny (2008) è l’unico studio su aiuti e crescita ad aver considerato specificamente gli Stati fragili,
anche se diversi studi si sono occupati degli aiuti e della crescita negli Stati della Africa subsahariana10. Gomanee et al. (2005)
hanno preso in considerazione gli aiuti concessi a 25 Stati dell’Africa subsahariana nel periodo 1970–1997, riscontrando
che ciascun punto percentuale di aumento degli aiuti in rapporto al PIL contribuisce in media per un quarto di punto
percentuale ai tassi di crescita di questi paesi. Clemens et al. (2004) hanno esaminato l’impatto a breve termine degli aiuti,
evidenziando che fra il 1973 e il 2001 questi hanno prodotto un aumento della crescita annuale media del reddito pro capite
nell’Africa subsahariana di almeno mezzo punto percentuale. Lensink e Morrissey (2000) hanno scoperto che nonostante gli
aiuti nell’Africa subsahariana abbiano avuto un impatto sulla crescita più debole che altrove, tale impatto è stato positivo
e significativo. Questi studi sembrerebbero fornire un certo sostegno ai risultati proposti da McGillivray e Feeny (2008).
Inoltre, McGillivray e Feeny (2008) e Feeny e McGillivray (2009) presentano stime di aif* e ainf* per gli Stati altamente fragili
(13,88% del PIL) e altri Stati fragili (38,38% del PIL): un confronto di questi valori con l’effettivo APS proveniente da agenzie
bilaterali e multilaterali nel 2004 suggerisce che gli Stati fragili ricevono aiuti insufficienti sul piano dell’efficienza per la
crescita (tabella 1 del riquadro). All’interno del gruppo degli Stati altamente fragili, quelli che hanno ricevuto le quantità
più inadeguate di aiuti rispetto al PIL sono risultati la Costa d’Avorio e la Nigeria. La definizione di livelli di aiuti adeguati,
rispetto alle assegnazioni effettive del 2004, avrebbe determinato un aumento della crescita media per tutti gli Stati fragili
in esame di 1,92 punti percentuali. Non tutti gli Stati fragili, tuttavia, hanno ricevuto aiuti insufficienti: in dieci hanno infatti
ottenuto livelli di aiuti superiori all’importo efficiente per la crescita, e di tutti gli Stati fragili in esame, quelli che più di tutti
hanno ricevuto aiuti in eccesso sono stati il Burundi e le Isole Salomone.
Tabella 1 del riquadro: Aiuti agli Stati fragili, 2004
APS (milioni di dollari)
APS efficiente per la crescita
(milioni di dollari)
Crescita con l’APS ricevuto (%, media)
Aumento di crescita con APS
efficiente per la crescita (%, media)
Paesi che ricevono una quantità
di aiuti superiore a quella efficiente
per la crescita
Paesi che ricevono una quantità
di aiuti inferiore a quella efficiente
per la crescita
Stati altamente fragili
Altri Stati fragili
Tutti gli Stati fragili
6.629
2.719
9.348
14.512
10.506
25.018
-0,46
3,43
1,25
1,43
2,47
1,92
8
2
10
9
13
22
Note: gli Stati altamente fragili si trovano nell’ultimo quintile CPIA; gli altri Stati fragili sono inclusi nel penultimo quintile CPIA.
McGillivray e Feeny (2008) e Feeny e McGillivray (2009) sottolineano che il livello di aiuti efficiente per la crescita costituisce
solo un’indicazione approssimativa dei quantitativi di aiuti che i donatori dovrebbero fornire agli Stati fragili. Inoltre, gli
autori fanno notare che i donatori hanno molti altri validi obiettivi di sviluppo che giustificano le deviazioni dagli importi
efficienti per la crescita. I loro risultati, in ogni caso, indicano che i donatori devono esaminare attentamente le assegnazioni
nazionali che differiscono notevolmente dagli importi efficienti per la crescita, chiedendosi se tali deviazioni possano essere
giustificate in base a criteri di sviluppo.
10
Si noti che, a seconda della definizione utilizzata, circa la metà di tutti gli Stati fragili si trova nell’Africa subsahariana
14
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
1.2 LA POLITICA DI SVILUPPO DELL’UE NEGLI STATI FRAGILI
L’aiuto allo sviluppo dell’UE e degli Stati membri presenta grandi potenzialità. Per la maggior parte dei paesi in via sviluppo,
l’Europa è uno dei donatori principali, un partner commerciale, un investitore e una destinazione per i migranti; inoltre, l’UE è un
importante blocco politico, diplomatico ed economico. I paesi europei hanno anche una grande responsabilità nei confronti degli
Stati fragili, poiché la loro fragilità affonda le radici nella colonizzazione e nella decolonizzazione ed è talora amplificata da pratiche
irresponsabili di società straniere e dai traffici illeciti e criminali da e verso l’Europa.
Le potenzialità dell’azione europea, tuttavia, non vanno sopravvalutate. L’ordine mondiale ha infatti acquisito una maggiore
multipolarità, e centri politici ed economici emergenti si sono affiancati ai vecchi attori: la configurazione USA-Cina-UE è ormai
diventata un perno del sistema internazionale. Accanto alle principali organizzazioni internazionali, altri paesi si sono impegnati
negli Stati fragili, dagli Stati Uniti ai paesi dell’Asia orientale, fino ai paesi arabi del Golfo. Inoltre, le iniziative dell’UE per affrontare la
fragilità dello Stato, come l’assistenza al potenziamento istituzionale e alla costruzione della pace, potrebbero essere percepite come
un’intrusione e come azioni non politicamente neutre da parte dei paesi partner e influire su processi e dinamiche intrinsecamente
interni. Infine, la resistenza e i vincoli interni possono indebolire l’impegno dell’UE per le politiche di sviluppo. L’invecchiamento
della popolazione, l’enorme debito accumulato nel corso della crisi e l’allargamento dell’UE possono infatti rafforzare gli incentivi
a dirottare risorse pubbliche dalla cooperazione internazionale allo sviluppo verso le necessità nazionali.
Alla luce di questa situazione, il Rapporto europeo sullo sviluppo 2009 (ERD 2009) riguarda la fragilità degli Stati nell’Africa
subsahariana e le politiche di sviluppo dell’UE in situazioni di fragilità dello Stato. Il rapporto analizza le possibilità di migliorare
l’attuale intervento dell’UE negli Stati fragili e le potenzialità che le politiche comunitarie di sviluppo offrono per aiutare le
parti interessate nazionali a superare la fragilità dello Stato. Ci si concentra sull’Africa subsahariana perché la regione appare
particolarmente in ritardo nell’ambito del consolidamento istituzionale e comprende la maggior parte dei paesi con istituzioni
statali fragili.
Questo impegno è coerente con un approccio basato sulla resilienza nella progettazione di priorità e politiche di sviluppo. Le
istituzioni statali, con la loro capacità di mobilitare risorse nazionali, sono un elemento chiave della resilienza di un sistema
socioeconomico: esse dovrebbero mantenere l’ordine interno, garantire la sicurezza dei cittadini, controllare il territorio, fornire
servizi sociali, far applicare le normative e, infine, proteggere dai rischi individuali e collettivi e adeguarvisi. Le istituzioni statali,
dunque, influiscono sul benessere dei cittadini e sulle sue variazioni in presenza di perturbazioni e mutamenti.
1.3 STRUTTURA DEL RAPPORTO
L’ERD 2009 contribuisce all’obiettivo di forgiare un nuovo approccio europeo volto a superare la fragilità dello Stato nell’Africa
subsahariana attraverso tre tappe principali. La prima è l’analisi del significato di fragilità dello Stato, nonché della sua portata e dei
suoi costi nella regione. Il rapporto delinea le caratteristiche economiche degli Stati fragili, esamina i fattori economici in grado di
influire sul funzionamento delle istituzioni statali, sulla governance e sulla stabilità sociopolitica e passa in esame le interpretazioni
proposte dalla letteratura in materia sulle radici politiche e storiche della fragilità dello Stato in Africa. Nella seconda parte del
rapporto, il nesso fra resilienza socioeconomica e fragilità dello Stato è studiato da un punto di vista teorico e valutato in relazione
alle ripercussioni della crisi economica mondiale del 2008-2009 sugli Stati fragili. Nell’ultima parte si affronta quindi il tema delle
politiche: il Capitolo 8 offre una panoramica dell’intervento dell’UE negli Stati fragili e un’analisi delle politiche di sicurezza. Vengono
esposte le sfide e le potenzialità dell’assistenza di attori esterni a sostegno del potenziamento istituzionale nei paesi partner, e si
tenta di individuare buone pratiche sulla base di esperienze internazionali in questo campo. L’ultimo capitolo propone i criteri e le
priorità per l’intervento dell’UE in situazioni di fragilità.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
2. COSA SIGNIFICA FRAGILITÀ DELLO STATO?
La letteratura attuale abbonda di definizioni di “fragilità” (riquadro 1.2), e l’impiego dell’espressione “Stato
fragile” è estremamente controverso. Paul Collier, ad esempio, ha inizialmente evitato di rivelare l’elenco
degli Stati che costituiscono il famigerato Bottom Billion (l’ultimo miliardo), generalmente identificato con
il gruppo degli Stati fragili11, “perché non si tratta di un club di cui gli Stati aspirano a diventare membri e
perché stigmatizzare un paese tende a creare una profezia che si autoavvera”12.
Nonostante le differenze nella definizione, alcuni punti fondamentali sono condivisi da tutta la letteratura accademica e sulle
politiche. Stewart e Brown (2009) ritengono che tutte le definizioni esistenti siano costruite intorno a tre dimensioni principali della
fragilità: carenze nell’autorità, nei servizi e nella legittimità, che si manifestano rispettivamente quando lo Stato non protegge i suoi
cittadini dalla violenza, non fornisce servizi fondamentali a tutti i cittadini e non è riconosciuto come legittimo dai suoi cittadini.
Questa visione della fragilità dello Stato è indirettamente compresa nella definizione dell’OCSE contenuta nei suoi principi per un
adeguato intervento internazionale negli Stati fragili e nelle situazioni di fragilità: “Gli Stati sono fragili quando le loro strutture
istituzionali non possiedono la capacità e/o la volontà politica di offrire le funzioni fondamentali necessarie per la riduzione della
povertà, per lo sviluppo e per la salvaguardia della sicurezza e dei diritti umani delle loro popolazioni”13. L’OCSE ha proposto di
spostare l’interesse sul ruolo cruciale della legittimità e delle aspettative dei cittadini, identificando nella definizione di Stati fragili
quelli “incapaci di soddisfare le aspettative delle proprie popolazioni o di gestire i mutamenti di aspettative e di capacità attraverso
il processo politico”14.
Riquadro 1.2: In che modo la fragilità è emersa nel dibattito sullo sviluppo?
Gli anni Novanta e i primi anni Duemila hanno visto un graduale spostamento dall’assistenza su base progettuale verso il
sostegno al bilancio e un crescente riconoscimento del fatto che le politiche nei paesi beneficiari mediano l’impatto dei
programmi di aiuti15. L’effetto di questi due importanti mutamenti è stato un aumento della selettività degli aiuti. La crescente
attenzione nei confronti di tale selettività, rispecchiata nel Consenso di Monterrey, ha determinato un notevole mutamento
nelle assegnazioni degli aiuti bilaterali16. I donatori si sono trovati di fronte a un dilemma: la selettività, infatti, ha avuto il
grande svantaggio di ridurre gli aiuti laddove erano più necessari, ma al contempo, forse, meno efficaci. Di conseguenza,
alcuni paesi sono diventati orfani degli aiuti, poiché le nazioni caratterizzate da una scarsa governance hanno registrato
flussi di aiuti volatili e in rapido calo17.
Così, il crescente timore circa la fragilità “è apparso come una risposta politica a una questione operativa” (Guillaumont
e Guillaumont Jeanneney 2009). Le agenzie donatrici hanno incontrato difficoltà nell’interagire con “paesi nei quali si
osserva una mancanza di impegno politico e un’insufficiente capacità di sviluppare e attuare politiche a favore dei poveri”18.
Questa definizione, fornita dal CAS dell’OCSE, indica che il concetto di Stato fragile è intrinsecamente relazionale, poiché fa
riferimento a uno scarto fra la volontà (o capacità) politica di un paese e le priorità universali della comunità dei donatori.
Le differenze di definizione sono in parte dovute all’estrema sensibilità politica di un concetto che, implicitamente o
esplicitamente, mette in dubbio le priorità politiche di un paese o la sua capacità di perseguirle. Gli Stati fragili erano
considerati, già prima dell’attentato dell’11 settembre negli Stati Uniti, come un possibile rifugio per gruppi terroristici, a
causa del controllo limitato che esercitano sui propri territori. Negli Stati fragili, la sicurezza e lo sviluppo sono strettamente
interconnessi, e alcuni autori invocano un insieme più ampio di strumenti, compreso l’intervento militare, per gestire la
sfida di sviluppo che questi paesi devono affrontare19.
Per questo motivo, il CAS dell’OCSE ha iniziato a fare riferimento anche alle situazioni di fragilità, estendendo il proprio
interesse rispetto al solo Stato20. I suoi principi per un adeguato intervento internazionale affermano che l’obiettivo a lungo
termine di un intervento in questi paesi è “aiutare i decisori che stanno attuando le riforme a realizzare istituzioni statali
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
Zoellick 2008.
Collier 2007, pag. 7.
OCSE/CAS 2007, pag. 2.
OCSE 2008.
Chhotray e Hulme 2009.
Dollar e Levin 2006.
Levin e Dollar 2005, Fielding e Mavrotas 2008.
OCSE/CAS 2006.
Bourguignon et al. 2008, Collier 2009.
OCSE/CAS 2007.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
efficaci, legittime e resilienti, in grado di impegnarsi in maniera produttiva con la popolazione per promuovere uno sviluppo
sostenibile”21. Il riferimento ai decisori nazionali che attuano le riforme aiuta a far passare l’idea che il potenziamento
istituzionale è un processo interno, solo marginalmente influenzabile da attori esterni.
Un’altra novità, collegata alla precedente, è il passaggio da una definizione di fragilità incentrata, seppur implicitamente,
sul rapporto fra un paese e la comunità dei donatori a definizioni che tentano di identificare le caratteristiche sostanziali
di uno Stato fragile. Il Consiglio dell’Unione europea ha riconosciuto che:
“si parla di fragilità nei casi in cui le strutture risultano deboli o carenti e il contratto sociale è minato alla
base dall’incapacità o dalla mancata volontà delle istituzioni di assolvere alle funzioni di base e di assumere
i doveri e le responsabilità connesse allo stato di diritto, alla protezione dei diritti umani e delle libertà
fondamentali, alla sicurezza e all’incolumità della popolazione, alla riduzione della povertà, alla fornitura
di servizi, alla gestione trasparente ed equa delle risorse e all’accesso al potere”22.
Il riferimento al contratto sociale, il risultato di un infinito negoziato fra la società e lo Stato, amplia in modo sostanziale la
portata degli effetti pervasivi della fragilità. Un concetto di fragilità dello Stato basato sulle aspettative della popolazione non
prende posizione rispetto ai contenuti del contratto sociale, e introduce un interessante aspetto dinamico nella definizione,
poiché la fragilità può essere considerata come l’incapacità di gestire le perturbazioni in grado di influire sui contenuti del
contratto sociale. Questa prospettiva è in linea con l’argomentazione di Baliamoune-Lutz e McGillivray, secondo i quali il
termine “Stato fragile” dovrebbe essere impiegato esclusivamente per “definire gli Stati solo in base alla loro probabilità
di subire un tracollo o alla loro vulnerabilità rispetto agli shock negativi”23, esattamente ciò che sostiene il CAS dell’OCSE.
La violazione del contratto sociale a causa dello scarto fra la capacità dello Stato e le aspettative della popolazione crea un
elemento di instabilità latente, che può portare a un conflitto, il quale rappresenta a sua volta la manifestazione estrema
di fragilità.
Kaplan fa un ulteriore passo in avanti, definendo gli Stati fragili in base alle caratteristiche presenti nel progetto dello
Stato, e a eventuali “incongruenze” fra istituzioni formali e informali. Secondo Kaplan, i confini che obbligano gruppi con
diverse identità e quasi privi di una storia comune a collaborare e i sistemi giuridici e politici che non riflettono i valori, le
convinzioni e le modalità di organizzazione della società possono facilmente allontanare lo Stato dalla popolazione che
lo Stato stesso dovrebbe servire; inoltre, è improbabile che tali condizioni sociopolitiche producano un governo in grado
di soddisfare le aspettative dei cittadini24.
Un’altra definizione è quella di Engberg-Pedersen et al., che rinunciano a concentrarsi unicamente sullo Stato, cioè
all’elemento che caratterizza le definizioni finora esaminate, e definiscono una situazione di fragilità come “un’instabilità
istituzionale che mette a rischio la prevedibilità, la trasparenza e la responsabilità dei processi decisionali pubblici e la
fornitura di sicurezza e servizi sociali alla popolazione”25.
In linea con questa argomentazione, Ikpe collega la fragilità alla “capacità dello Stato di adattarsi ai mutamenti di condizioni,
proteggere i cittadini, assorbire gli shock e gestire i conflitti senza ricorrere alla violenza”26. L’improvvisa disgregazione o la graduale
erosione della capacità dello Stato di soddisfare le aspettative dei cittadini, di adottare un processo politico reattivo allo scopo
di gestire i mutamenti nelle relazioni fra Stato e società o di mantenere il controllo del proprio territorio sono dunque fattori
chiave della fragilità dello Stato. Vale la pena sottolineare che le carenze nella legittimità, nell’autorità e nei servizi, sebbene
concettualmente distinte, si rafforzano reciprocamente e sono interconnesse. Ad esempio, anche se le aspettative dei cittadini
dipendono specificamente dalla cultura e dal paese, la capacità di soddisfare le esigenze fondamentali e di garantire i diritti umani
della popolazione può essere considerata una condizione per la legittimità delle istituzioni dello Stato.
La fragilità mostra un’ampia variazione, in termini sia qualitativi sia quantitativi, da paese a paese e può essere innescata da
diversi fattori (un conflitto violento, una graduale erosione della capacità e della legittimità dello Stato e via dicendo). Inoltre, può
evidenziare diversi gradi di intensità: le funzioni istituzionali sono infatti maggiormente a rischio di tracollo nei periodi di transizione
politica ed economica, di estrema instabilità politica, di ricostruzione politica e istituzionale in Stati interessati da conflitti, nelle fasi
iniziali della formazione dello Stato e nei periodi di esposizione prolungata a gravi e frequenti perturbazioni e crisi esogene. Una
21
22
23
24
25
26
OCSE/CAS 2007, pag. 1; enfasi aggiunta.
Consiglio dell’Unione europea 2007.
Baliamoune-Lutz e McGillivray 2008.
Kaplan 2008. Per un’analisi critica delle tesi di Kaplan, vedere il capitolo 3.
Engberg-Pedersen et al. 2008, pag. 6.
Ikpe 2007, pag. 86.
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
cattiva gestione di queste fasi delicate può condurre forze molteplici e auto-alimentate a dare vita alle più estreme manifestazioni
della fragilità dello Stato: conflitti e regimi autoritari con repressioni massicce e sistematiche, nonché violazioni dei diritti umani
di gruppi della popolazione.
L’eterogeneità, pertanto, è una caratteristica centrale delle manifestazioni di fragilità e degli Stati classificati come “fragili”. Alcuni
autori osservano inoltre che si tratta di un concetto “ampio”, nel senso che raggruppa paesi difficilmente confrontabili27. Come
afferma Brinkerhoff, “gli Stati fragili sono dinamici e percorrono traiettorie che conducono dalla stabilità verso il conflitto, la crisi e/o
il fallimento; ed emergono dalla crisi procedendo verso la ripresa e la stabilità”28. Ciò implica che ciascun paese può dover affrontare
vincoli specifici alla capacità e alla volontà politica. Alcuni autori arrivano a sostenere che non è nemmeno possibile tracciare una
linea netta che separi gli Stati fragili da quelli non fragili, e dubitano dell’utilità di raggruppare un certo numero di paesi in base
alla vaga definizione di Stati fragili29. Briscoe osserva che “il concetto di fragilità dello Stato è tenuto insieme da ben poco altro che
i suoi sintomi: povertà, insicurezza, tendenza ai conflitti, corruzione”30.
Il dibattito sulla fragilità ha riportato l’attenzione sulle istituzioni statali nel processo di sviluppo, sottolineando la necessità di adattare
interventi e priorità esterni sulla base di una conoscenza approfondita del contesto politico ed economico locale. L’eterogeneità
delle manifestazioni e dei gradi della fragilità implica che una conoscenza approfondita del contesto locale è essenziale per garantire
interventi esterni proficui negli Stati fragili.
Anche nelle sue peggiori forme di fallimento dello Stato, la fragilità non implica un vuoto politico, poiché esistono istituzioni
informali in grado, almeno in parte, di svolgere alcune funzioni dello Stato. Engberg-Pedersen et al. affermano che “in situazioni di
fragilità in cui lo Stato è assente o molto debole, vi sono spesso istituzioni non statali che svolgono funzioni parastatali per quanto
attiene alla fornitura di sicurezza e servizi sociali”31, un’osservazione in linea con le argomentazioni teoriche di Dixit32. Ad esempio,
il mantenimento dell’ordine pubblico in Somalia è garantito dai tribunali islamici, e “i tribunali della shari’a svolgono una funzione
strumentale nella creazione dell’ordinamento giuridico [...] in condizioni di anarchia, la risoluzione delle controversie è libera e
rapida rispetto agli standard internazionali”, come osserva Leeson33. Benché tutt’altro che ideale, la situazione attuale è migliorata
rispetto a prima del 1991, e tale miglioramento non si limita al sistema giudiziario. Nel Rapporto sullo sviluppo umano 2001, si nota
che oggi in Somalia esistono più scuole primarie che alla fine degli anni Ottanta e che il settore privato si occupa di fornire acqua
ed energia elettrica34.
Queste osservazioni mostrano che gli attori esterni non devono ignorare tali istituzioni quando intervengono in uno Stato che si
trova in una situazione di fragilità: al contrario, concentrarsi esclusivamente sullo Stato non porterebbe a una solida conoscenza
della fragilità e dei modi migliori per attenuarla.
3. I COSTI DELLA FRAGILITÀ DELLO STATO NELL’AFRICA SUBSAHARIANA
Il ruolo cruciale dello Stato nel forgiare la resilienza socioeconomica, le capacità umane e il benessere si
riflette negli scarsi risultati di sviluppo di Stati classificati come “fragili” a causa delle carenze delle loro
istituzioni. I meccanismi che conducono a risultati di questo tipo e a relazioni problematiche fra donatori
e governi beneficiari sono svariati. La fragilità dello Stato può evolvere lungo traiettorie diverse perché la
formazione dello Stato, il suo funzionamento e la sua stabilità sono l’esito di un processo complesso, che si
estende dal senso condiviso di cittadinanza al controllo del territorio. Nonostante questa differenziazione,
i costi della fragilità in termini di economia, sicurezza e sviluppo tendono a essere notevoli, diffusi e
persistenti in situazioni diverse.
3.1 CONSEGUENZE PESANTI PER LO SVILUPPO UMANO
Un quadro sintetico, ma eloquente, dei costi diretti della fragilità può essere ricavato a partire dallo sviluppo umano degli Stati
fragili. I paesi fragili dell’Africa subsahariana sono sovrarappresentati fra quelli che mostrano risultati negativi in termini di sviluppo
umano. Per quanto attiene all’HDI, si collocano fra il 128° posto di São Tomé e Príncipe e il 179° della Sierra Leone, l’ultimo degli
Stati per cui è disponibile l’indice. L’HDI medio degli Stati fragili è pari a 0,459 nel 2006 (0,329 per la Sierra Leone e 0,643 per São
Tomé e Príncipe).
27
28
29
30
31
32
33
34
Faria e Magalhães-Ferreira 2007.
Brinkerhoff 2007, pag. 3.
Easterly 2009.
Briscoe 2008, pag. 1.
Engberg-Pedersen et al. 2008, pag. 23.
Dixit 2004.
Leeson 2007, pag. 705.
PSNU 2001.
18
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
Tabella 1.1: Sviluppo umano negli Stati fragili dell’Africa subsahariana
Nome paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo. Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Stati fragili dell’Africa
subsahariana
Stati non fragili dell’Africa
subsahariana
Africa subsahariana
Tasso di
Posizione in
Tasso di mortalità
Indice di sviluppo Aspettativa di
alfabetizzazione
base all’Indice di
sotto i 5 anni
(1)
(1)
umano
vita alla nascita
degli adulti(2)
sviluppo umano(1)
(per 1.000)
157
172
150
178
170
137
177
130
166
151
115
164
169
160
167
171
144
176
140
174
154
165
128
179
n.c.
146
159
156
n.c.
Tasso di mortalità
materna
(per 100.000
nascite vive)(4)
0,484
0,382
0,514
0,352
0,389
0,572
0,361
0,619
0,431
0,513
0,717
0,442
0,389
0,471
0,423
0,383
0,532
0,364
0,557
0,370
0,499
0,435
0,643
0,329
n.c.
0,526
0,479
0,493
n.c.
42,1
48,9
50,0
44,0
50,4
64,5
46,1
54,5
47,7
54,2
50,8
57,2
52,2
59,0
55,3
46,0
52,7
45,1
63,6
56,2
46,6
45,8
65,2
42,1
47,5
57,8
58,0
50,5
41,7
67,4
59,3
67,9
48,6
25,7
74,2
67,2
86,0
48,7
…
87,0
…
35,9
…
29,5
62,8
73,6
54,4
55,2
29,8
71,0
64,9
87,5
37,1
…
60,9
53,2
72,6
90,7
202,7
164,4
142,6
178,5
209,7
61,3
121,9
128,6
196,4
123,7
166,9
73,6
129,3
115,3
145,2
194,5
102,4
138,2
119,4
170,2
185,9
153,4
94,0
145,8
177,9
109,6
96,7
120,9
92,3
1.400
1.100
1.000
980
1.500
400
1.100
740
810
…
680
450
720
690
910
1.100
560
1.200
820
1.800
1.100
1.300
…
2.100
…
…
510
550
880
0,469
51,2
59,2
138,3
976
0,545
53,2
66,4
97,5
614
0,500
52,2
62,9
123,2
824
Note: ... rappresenta i dati non disponibili; n.c. sta per “non classificato“; (1) dati riferiti all’anno 2006; (2) dati riferiti a individui di età superiore
ai 15 anni, per l’anno 2006;(3) dati riferiti all’anno 2008; (4) dati riferiti all’anno 2000, adattati in base alle revisioni di UNICEF, OMS e UNFPA
per tener conto dei problemi ben documentati di dichiarazioni incomplete ed errori di classificazione.
Fonte: elaborazione ERD in base a UNDP (2008) Rapporto europeo sullo sviluppo; OCSE e BAfS (2009) African Economic Outlook 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
I costi umani, sociali ed economici della fragilità non si limitano ai risultati negativi degli Stati fragili nelle componenti dell’HDI: gli
Stati fragili, infatti, hanno ottenuto risultati notevolmente più bassi nell’insieme degli OSM rispetto ad altri paesi in via di sviluppo35.
In effetti, esiste una forte correlazione negativa tra la fragilità e i risultati relativi agli OSM: i paesi fragili dell’Africa subsahariana
sono i più lontani dal raggiungimento degli obiettivi entro il 2015.
Adottando una classificazione degli Stati fragili basata sulla CPIA 2006, Harttgen e Klasen concludono che la fragilità è evidentemente
associata a risultati di sviluppo molto inferiori in termini di povertà, sottonutrizione, accesso all’istruzione e mortalità infantile
sotto i cinque anni36. Il numero di poveri nel 2006 per l’elenco CPIA degli Stati fragili è oltre tre volte superiore a quello degli Stati
non fragili. I tassi di completamento dell’istruzione primaria, il numero di bambini sottopeso, la mortalità infantile sotto i cinque
anni e il rapporto occupazione/popolazione rivelano che gli Stati fragili ottengono tipicamente risultati di sviluppo umano molto
inferiori a quelli non fragili. Gli Stati fragili dell’Africa subsahariana occupano tra l’altro i primi posti nelle classifiche della mortalità
infantile sotto i cinque anni e del rapporto disoccupazione/popolazione, e i risultati nel periodo 2000-2006 confermano questi dati.
Al contempo, gli indicatori dello sviluppo (come la povertà, l’aspettativa di vita e i tassi di mortalità infantile sotto i cinque anni)
evidenziano una certa differenziazione all’interno del gruppo. Benché sia sostanziale, infatti, la differenza aggregata fra Stati fragili e
non fragili nasconde una notevole eterogeneità. L’elevato tasso di crescita registrato di recente sembra ad esempio essersi tradotto
in obiettivi di sviluppo soltanto in alcuni paesi: decisamente non in Guinea, che presenta ancora un tasso di alfabetizzazione degli
adulti del 29%, né in Angola, dove il tasso di mortalità infantile sotto i cinque anni nel 2008 superava il 20% (203 bambini su 1.000;
vedere tabella 1.1).
Due recenti edizioni del Global Monitoring Report hanno rivelato che gli Stati fragili non stanno avanzando verso gli OSM, e in alcuni
casi stanno addirittura regredendo37. Rispetto ai paesi a medio e basso reddito, secondo la classificazione CPIA gli Stati fragili hanno
evidenziato un progresso notevolmente più limitato verso gli OSM fra il 1990 e il 2006.
Un quadro leggermente diverso è fornito da Harttgen e Klasen, che confrontano i risultati degli Stati fragili nel conseguimento
degli OSM adottando classificazioni differenti38. A loro parere, gli Stati fragili stanno ottenendo risultati analoghi ad altri paesi in
via di sviluppo in termini di progresso assoluto verso gli OSM, anche se conservano un sostanziale svantaggio39. Le variazioni negli
indicatori relativi agli OSM fra il 2000 e il 2006 mostrano una grande eterogeneità fra i diversi Stati fragili e fra i diversi indicatori al
loro l’interno, mentre gli andamenti di Stati fragili e non fragili non evidenziano differenze sistematiche. Concentrando invece l’analisi
sugli Stati fragili dell’Africa subsahariana, l’andamento cambia, e la fragilità dello Stato risulta influire maggiormente sul progresso
verso tali obiettivi. Le figure 1.1 e 1.2 mostrano che gli Stati fragili subsahariani sono in ritardo rispetto al continente nelle variazioni
assolute e relative verso gli OSM. Risultati più deludenti si riscontrano in paesi in cui la fragilità dello Stato è particolarmente grave. I
paesi con un basso punteggio CPIA 2007 in tutte le dimensioni (gestione economica, politiche strutturali, equità/inclusione sociale,
gestione del settore pubblico) sono sovrarappresentati nei paesi dell’Africa subsahariana.
35
36
37
38
39
Si veda il documento informativo di Harttgen e Klasen per avere un quadro completo di come le diverse definizioni influiscono sui risultati.
Harttgen e Klasen 2009.
Banca mondiale 2007, 2009a.
Harttgen e Klasen 2009.
Harttgen e Klasen 2009. Si noti che la conclusione di Harttgen e Klasen (2009) potrebbe essere esposta a una distorsione dovuta a una
mancanza di dati, poiché per un gran numero di Stati fragili i dati rilevanti per la valutazione del progresso verso gli OSM non sono
disponibili. Presupponendo che i paesi che presentano dati mancanti siano caratterizzati da risultati peggiori della media, anche il
progresso assoluto verso l’insieme degli obiettivi potrebbe essere inferiore per gli Stati fragili.
20
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
Figura 1.1: Variazioni assolute negli indicatori chiave riguardanti gli OSM (2000-2006)
14
6
12
4
10
2
8
0
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
6
-2
4
-4
2
-6
0
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
0
1,5
1
-2
0,5
-4
-6
0
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
-0,5
-8
-1
-10
-12
Note: “CPIA-ASS” indica i paesi dell’Africa subsahariana compresi nell’elenco CPIA 2007 (con un punteggio CPIA inferiore a 3,2); “CPIA-Tutti”
indica i paesi con un punteggio CPIA inferiore a 3,2 in uno qualsiasi dei sottoelenchi CPIA (gestione economica, politiche strutturali, equità/
inclusione sociale, gestione del settore pubblico) nel 2007; “ASS” indica tutti i paesi dell’Africa subsahariana; per il calcolo della media di
ciascun indicatore per stato di fragilità, le variazioni nel numero di poveri, nel completamento dell’istruzione primaria, nel sottopeso e
nel rapporto occupazione/popolazione sono misurate in percentuale, mentre la variazione nella mortalità infantile sotto i cinque anni è
misurata in variazione assoluta delle morti per 1.000 bambini.
Fonte: Harttgen e Klasen 2009.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
Figura 1.2: Variazioni relative negli indicatori chiave riguardanti gli OSM (2000-2006)
0,45
0,15
0,40
0,10
0,35
0,05
0,30
0,00
CPIA-ASS
ASS
0,25
CPIA-Tutti
-0,05
0,20
-0,10
0,15
-0,15
0,10
0,08
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
0
-0,01
0,06
-0,02
0,04
-0,03
-0,04
0,02
-0,05
0
CPIA-ASS
ASS
CPIA-Tutti
-0,06
-0,02
-0,07
-0,08
-0,04
Nota: vedere nota della figura 1.1.
Fonte: Harttgen e Klasen 2009.
22
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
3.2 I COSTI SONO PESANTI E SFACCETTATI
La fragilità si caratterizza anche per la sua gravità, che comprende le forme peggiori di privazione umana e violazioni dei diritti
umani fondamentali alla vita e alla sicurezza. Spesso colpisce la capacità di un governo di adempiere a uno dei suoi compiti
principali, come la gestione della sicurezza alimentare, o può scadere in violenti conflitti e guerre civili, comportando enormi costi
umani, sociali ed economici.
Conflitti. Il 73% della popolazione dell’ultimo miliardo, un indicatore dell’elenco degli Stati fragili, ha di recente vissuto o vive
attualmente una guerra civile. Inoltre, il rischio che questi paesi precipitino in una guerra civile in un qualsiasi quinquennio è
estremamente alto: una possibilità su sei40.
Il rapporto tra la fragilità e i conflitti è dinamico e complesso. I conflitti possono essere al tempo stesso un effetto della fragilità e
una delle sue forze propulsive. Gli Stati fragili sono spesso caratterizzati dall’esclusione sociale di gruppi specifici (etnici, religiosi,
proprietari di risorse naturali), che può innescare conflitti. Questi ultimi pregiudicano anche la capacità dello Stato di fornire servizi
pubblici, indebolendo le istituzioni e rallentando la performance economica e la riduzione della povertà. L’insieme di questi fattori
contribuisce ad accrescere le forze destabilizzanti.
I costi dei conflitti sono numerosi e diffusi41. Alcuni sono “diretti” e possono essere quantificati a grandi linee: decessi, vittime,
malattie, sfollati all’interno del proprio paese (IDP), migrazioni di massa. Altri sono invece “indiretti”: i conflitti sconvolgono infatti
l’attività economica, dirottando la spesa pubblica dalla sanità e dall’istruzione alla difesa, e ridistribuendo le entrate pubbliche
(provenienti, ad esempio, dalle imposte sulle esportazioni di petrolio, come nella crisi del delta del Niger). I conflitti possono inoltre
accrescere la disoccupazione, specialmente fra i maschi giovani, aumentando la probabilità di crimini e il richiamo dell’estremismo.
A seguito di un conflitto, è possibile che intere regioni siano convertite in aree di coltivazione di droghe (spesso a causa di un minor
controllo sul territorio) e che, essendo il contrabbando di stupefacenti un’attività facile (e redditizia), la gente si dedichi ad attività
illecite anziché ritornare alle proprie occupazioni (spesso distrutte). Alcuni costi, al contrario, non possono essere quantificati: in
molti casi i cittadini rimangono traumatizzati a lungo dopo la fine dei conflitti, ma i costi psicologici non sono facili da misurare.
In questa sede quantificheremo, per quanto possibile e consapevoli delle incertezze, i principali costi per l’Africa subsahariana42.
In linea di massima, si possono quantificare le morti sul campo43, ma lo stesso non è possibile per la maggior parte delle morti di
civili, legate alla violenza e alla diffusione delle malattie; pertanto, è difficile anche valutare il numero totale delle morti correlate ai
conflitti violenti. L’African Development Report 2009 riporta il numero dei morti in battaglia e dei decessi totali a causa della guerra
in alcuni paesi africani: in Angola (1975–2002) circa 160.000 persone sono morte in battaglia e 1,5 milioni in totale, nel Burundi
(1990–2002) si sono avuti circa 7.000 morti in battaglia e 200.000 decessi totali, mentre nella Repubblica democratica del Congo
(RDC; 1998–2008) sono stati 5,4 i milioni di morti nel complesso, una cifra che rende questo conflitto il più sanguinoso dalla fine
della seconda guerra mondiale44.
I dati relativi agli IDP, concentrati in Somalia, Sudan, Congo e Costa d’Avorio, sono più facili da ottenere e meglio confrontabili
(tabella 1.2). Lo sfollamento, già di per sé un costo, comporta anche la diffusione di malattie, malnutrizione, violenza (specialmente
per le donne, vittime di violenze estreme e spesso di stupri)45.
40
41
42
43
44
45
Collier 2007.
Collier, Hoeffler e Söderbom (2004) sostengono che le guerre civili durano in media circa sette anni, ma che occorrono intorno ai 21 anni perché il paese
ritorni al reddito pre-bellico. Il costo totale delle guerre civili si calcola in quasi 3 miliardi di dollari all’anno.
Si rimanda a Reynal-Querol 2009 e BAfS 2009 per un’analisi delle cause dei conflitti.
Le morti in battaglia rappresentano in media meno del 30% del totale degli eventi legati ai conflitti.
BAfS 2009, pag. 12.
BAfS 2009.
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
Tabella 1.2: Rifugiati e IDP, 2008
Paese d'origine
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Rifugiati totali
IDP protetti o assistiti
dall’ACNUR
171.393
281.592
13.870
125.106
55.105
378
19.925
367.995
22.227
650
384
186.398
63.878
1.352
9.495
1.065
9.688
75.213
45.601
796
14.169
72.530
35
32.536
561.154
419.248
16.750
7.548
16.841
2.628.765
2.592.920
35.844
0
100.000
0
197.000
166.718
0
0
1.460.102
683.956
0
0
0
0
0
0
0
404.000
0
0
0
0
0
0
0
1.277.200
1.201.040
0
853.000
0
6.343.016
6.343.016
0
Popolazione totale di
riferimento
185.186
483.626
16.803
323.357
267.222
418
25.069
1.918.424
737.792
716
431
201.094
95.552
2.489
11.517
1.342
762.617
88.413
53.421
1.067
24.645
90.428
35
35.480
1.860.373
1.749.536
22.679
1.466.792
51.639
10.530.951
10.478.161
52.789
Fonte: elaborazione ERD in base a Statistical Online Population Database (ACNUR).
I conflitti non determinano soltanto una contrazione della produzione, ma distruggono anche le infrastrutture, a causa di
bombardamenti e altre azioni e della riduzione delle spese di manutenzione e rinnovamento. Il capitale finanziario e umano
tende ad abbandonare i paesi, ma quantificare il fenomeno è difficile senza una controprova. Durante e dopo i conflitti si registrano
importanti cambiamenti nella composizione settoriale del PIL46. In effetti, alcuni settori sono più vulnerabili ai conflitti: un aumento
della spesa militare spesso implica una riduzione della spesa per l’istruzione, e ciò costituisce un costo maggiore nel lungo periodo
e può avere un impatto permanente sulla crescita di un paese. Un altro costo importante per il suo impatto sulle politiche interne
è la riduzione degli orizzonti temporali dei decisori politici e degli investitori privati. Fronteggiare conflitti persistenti crea una
continua situazione di emergenza, cui i governi reagiscono con risposte a breve termine47.
46
47
Collier 2007
Una questione connessa a questa è la “dimensione ottimale” del settore militare nei paesi interessati da conflitti (vedere Acemoglu et al. 2009).
24
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
Insicurezza alimentare. Il ruolo dello Stato nella messa a punto del quadro istituzionale e giuridico per la produzione e la distribuzione
alimentare e per gli interventi e le riforme del governo può influire sia sulla disponibilità alimentare sia sull’accesso all’alimentazione
di diversi gruppi della popolazione. La fragilità dello Stato può diventare una causa soggiacente di insicurezza alimentare attraverso
diversi canali48:
• Mancanza di capacità: quando la capacità di fornitura di uno Stato viene meno, o rischia di venire meno, una crisi alimentare è
più probabile. La fornitura insufficiente di servizi di base può produrre questo risultato. È possibile che istituzioni statali fragili
abbiano una capacità ridotta di mettere a punto meccanismi in grado di sostenere l’accesso al cibo da parte dei poveri o di
proteggere i cittadini (sia i consumatori sia i produttori) dalle fluttuazioni dei prezzi mondiali dei generi alimentari o da altre
variazioni nella fonte e nella dimensione dell’accesso all’alimentazione, ad esempio l’insicurezza alimentare ciclica legata alla
stagionalità di alcune attività economiche.
• Mancanza di autorità: quando l’autorità di uno Stato viene meno, gli ostacoli presenti nei sistemi di distribuzione alimentare e
l’incapacità di proteggere le risorse produttive per la produzione e la distribuzione agricola possono determinare crisi alimentari
ed emergenze umanitarie.
• Mancanza di legittimità: l’attuazione di sistemi di protezione sociale non è soltanto una questione di capacità, ma anche di
volontà e di responsabilità dello Stato. Alcune caratteristiche tipiche di istituzioni statali illegittime (mancanza di forme efficaci
di democrazia, persecuzione degli oppositori o di gruppi della popolazione, ruolo preminente delle forze armate nel governo,
controllo dei media) possono minacciare la sicurezza alimentare di ampi gruppi della popolazione. Secondo il premio Nobel
Amartya Sen, ad esempio, una stampa libera è essenziale per diffondere le informazioni sulle crisi alimentari e per mettere il
governo di fronte alla responsabilità di proteggere e garantire l’accesso all’alimentazione49.
La fragilità dello Stato e l’insicurezza alimentare, dunque, sono strettamente correlati (tabella 1.3). Negli Stati fragili subsahariani,
l’assunzione media di cibo era di 2.093 Kcal a persona, rispetto alle 2.303 di altri paesi subsahariani, mentre la prevalenza della
sottonutrizione era di 8 punti percentuali più elevata (35% contro 23%). Negli Stati fragili gli indicatori della malnutrizione non sono
soltanto mediamente più negativi, ma raggiungono anche picchi drammatici: nella maggior parte degli Stati fragili subsahariani
i livelli di sottonutrizione superano il 40%, raggiungendo il 68% in Eritrea e il 76% in RDC50. Il Global Hunger Index 2008, un indice
aggregato sviluppato dall’IFPRI per misurare la fame e la malnutrizione51, evidenzia una situazione della sicurezza alimentare e
della nutrizione da estremamente allarmante ad allarmante in 25 paesi dell’Africa subsahariana, 16 dei quali inseriti nel nostro
elenco operativo di Stati fragili. Inoltre, a livello globale, i 10 paesi la cui insicurezza alimentare è peggiorata dall’inizio degli anni
Novanta comprendono sei Stati fragili dell’Africa subsahariana52 (Burundi, Comore, RDC, Guinea-Bissau, Liberia e Zimbabwe). Questi
dati suggeriscono che la fragilità dello Stato tende a compromettere la situazione della sicurezza alimentare e della nutrizione.
48
49
50
51
52
Stewart e Brown 2009.
Drèze e Sen 1989.
FAO 2008.
Il GHI combina tre indicatori egualmente ponderati: la proporzione dei sottonutriti in percentuale sulla popolazione, la prevalenza dei
bambini sottopeso fra quelli al di sotto dei cinque anni e il tasso di mortalità fra bambini al di sotto dei cinque anni. I dati per il GHI 2008
riguardano il periodo 2002-2006, mentre i dati per il GHI 1990 riguardano gli anni 1988-1989 (IFPRI 2008).
IFPRI 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
Tabella 1.3: Indici di sicurezza alimentare per gli Stati fragili
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Prevalenza della denutrizione,
in percentuale(1)
Disponibilità alimentare
(kcal/persona/giorno)(2)
Indice di produzione
alimentare(3)
46
63
23
43
39
…
76
22
14
…
…
68
46
30
17
…
32
40
8
29
9
40
…
47
…
21
37
15
40
30
35
23
1.880
1.630
2.230
1.900
1.980
1.800
1.500
2.330
2.520
2.170
…
1.530
1.810
2.140
2.540
2.050
2.040
2.010
2.790
2.140
2.600
1.940
2.600
1.910
…
2.290
2.020
2.380
2.040
2.212
2.097
2.367
116
98
101
103
101
95
90
99
96
118
…
73
103
77
106
94
102
85
98
97
96
108
99
101
…
100
97
98
84
98
98
98
Note: … rappresenta i dati non disponibili; (1) dati riferiti al periodo 2003-2005; (2) dati in kcal per persona al giorno, riferiti al periodo
2003-2005; (3) dati riferiti al periodo 2002-2004 (media 1999-2001 uguale a 100).
Fonte: elaborazione ERD in base a OCSE e BAfS (2009) African Economic Outlook 2009 e FAOSTAT.
Violazioni dei diritti umani: l’attenzione sulla violenza contro le donne. La fragilità dello Stato implica costi pesanti soprattutto
per le parti più vulnerabili della società, che hanno maggiore bisogno di protezione sociale, come le donne, i bambini e gli anziani.
Gli effetti sul benessere delle donne sono ad esempio una delle più emblematiche manifestazioni di tali, gravosi costi. I paesi fragili
sono più esposti ai conflitti violenti, e le conseguenze non sono neutre rispetto al genere, anche se è difficile trovare cifre ufficiali
accanto alle prove empiriche. Nelle situazioni di fragilità, la scarsa crescita economica spinge le donne verso lavori che generano
reddito per orari più lunghi, tipicamente nel sommerso e in attività legate all’agricoltura. Le industrie della guerra sviluppate per
finanziare il conflitto possono essere una nuova fonte di reddito, come il petrolio, i diamanti e altri metalli preziosi in Angola,
Congo, Liberia, RDC, Sierra Leone e Sudan. I progressi economici delle donne possono essere tuttavia annullati dalla chiusura di
altre industrie e dal crollo delle strutture di governo e dalla conseguente perdita di posti di lavoro. In Angola, Eritrea, Mozambico e
Zimbabwe, le donne hanno dovuto rinunciare ai loro impieghi regolari a vantaggio degli uomini ritornati dai conflitti, nel corso dei
quali molte hanno però avuto l’incombenza esclusiva della gestione domestica. Inoltre, numerose donne non possono ereditare
né rivendicare le proprietà dei loro mariti defunti.
In Sudan, le donne e i loro figli hanno risentito pesantemente della guerra, una costante fin dall’indipendenza del 1956. La
maggioranza degli sfollati e degli abitanti dei campi per IDP, infatti, è costituita da donne con figli. Le donne sudanesi, soprattutto
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
nel Sud, vivono per lo più in estrema povertà, con elevati tassi di analfabetismo e un accesso limitato all’assistenza sanitaria e alle
risorse idriche. La mortalità materna è fra le più alte al mondo, con 1.700 decessi su 100.000 nati vivi nel Sudan meridionale e 509
nel Sudan settentrionale. Di tutte le donne del Sudan meridionale, inoltre, il 90% è analfabeta.
Le donne sono anche state vittime di violenza di genere, come la fecondazione forzata mediante stupro. Alla fine del 2005, quando
2,2 milioni di IDP vivevano nei campi, la situazione era diventata talmente pericolosa che le donne rischiavano di essere stuprate
ogni volta che lasciavano l’accampamento per andare a raccogliere legna da ardere53.
In RDC, una delle caratteristiche della guerra è stata l’utilizzo indiscriminato dello stupro come arma: fra il 1998 e il 2003, nella
provincia del Kivu meridionale e a Kalemie ne sono stati denunciati 51.000. Medici senza frontiere riferisce che il 75% di tutti i
casi di stupro trattati globalmente dall’organizzazione ha avuto luogo nel Congo orientale54. Lo stigma correlato alla violenza
sessuale è molto profondo: le donne, rivolgendosi alla polizia, temono di perdere qualsiasi prospettiva di matrimonio o di essere
abbandonate dai loro mariti oppure che i loro aguzzini le puniscano per aver denunciato l’abuso. La conseguenza della violenza
sessuale diffusa è un profondo danno alla società, a cominciare dalla dignità e dall’integrità fisica e morale delle vittime. La portata e
la natura dell’abuso sessuale hanno anche creato un grave problema di salute pubblica, con un aumento dell’HIV e di altre malattie
sessualmente trasmissibili. La mancanza di infrastrutture mediche, specialmente nelle zone più isolate, ha aggravato il problema.
Nell’Uganda settentrionale, secondo un rapporto di Amnesty International del 2007 (Doubly Traumatised) le donne e le ragazze
subiscono violenze sessuali e basate sul genere e affrontano notevoli difficoltà nel tentativo di far assicurare alla giustizia i loro
aguzzini55. Lo studio, condotto nel 2007 in cinque distretti, rivela le discriminazioni subite dalle donne che tentano di ottenere
giustizia in casi di stupro, violenza su minori, violenza domestica, molestie e altre forme di violenza56. Amnesty International ritiene
che l’attuale sistema giudiziario dell’Uganda settentrionale sia palesemente inadeguato, soprattutto nel garantire a donne e ragazze
la protezione dalla violenza sessuale e basata sul genere.
Come dimostrato da questi esempi, i conflitti violenti che caratterizzano gli Stati fragili colpiscono le donne in modo profondo e
complesso. La violenza e i danni che le donne subiscono nella comunità spesso impediscono loro di agire come cittadini a pieno
titolo e di partecipare alla ricostruzione delle istituzioni e delle riforme dello Stato.
Le donne possono essere esposte a gravi forme di violazioni dei diritti umani non soltanto in situazioni belliche, ma anche laddove il
sistema giudiziario non sia in grado di tenere sotto controllo le attività illecite e criminali. Un recente rapporto dell’UNODC rivela che
un pesante costo per le donne in Africa occidentale è costituito dal traffico per sfruttamento sessuale, spesso dovuto alla necessità
di pagare i debiti57. Nel 2006, 570 vittime di sfruttamento sessuale originarie dell’Africa occidentale sono state identificate in 11
paesi europei: “supponendo che ne venga identificata una su 30, come appare plausibile, ciò indicherebbe un totale di circa 17.000
vittime all’anno”58. Le tendenze della prostituzione sembrano stabili nel tempo, pur con variazioni fra un paese e l’altro. Il valore
del mercato del sesso è stimato in circa 850 milioni di dollari all’anno59.
3.3 LA FRAGILITÀ DELLO STATO E I SUOI COSTI PERSISTONO
Il limitato progresso verso il conseguimento degli OSM, nonché le variazioni della spesa durante e dopo un conflitto, dall’istruzione
alla difesa, danno un’idea dei costi umani, sociali ed economici di lunga durata. La persistenza della fragilità è legata alle caratteristiche
politiche e istituzionali radicate in un paese. 35 Stati considerati fragili dalla Banca mondiale nel 1979 sono tuttora fragili, a trent’anni
di distanza60, mentre la probabilità di un’emersione sostenuta dal gruppo degli Stati fragili era solo dell’1,85% all’anno nel periodo
1977–200461.
Questa tendenza è coerente con la storia della formazione degli Stati, che in Europa ha comportato secoli di lotte e profondi
mutamenti economici, sociali, politici e tecnologici. Il sostegno al potenziamento istituzionale da parte di attori esterni può aiutare
a consolidare lo Stato, ma il processo rimane interno, e nei paesi in cui la formazione dello Stato non è ancora stata completata si
prevede che il superamento della fragilità sarà un processo più lungo e difficile.
53
54
55
56
57
58
59
60
61
WILPF 2006.
The Guardian 2007.
Amnesty International 2007.
Amnesty International 2007.
UNODC 2009.
UNODC 2009, pag. 7.
UNODC 2009.
OCSE 2009.
Chauvet e Collier 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
La persistenza della fragilità dello Stato si riflette anche nei risultati relativi alla governance e nelle deludenti prove dei progressi
registrati nel garantire l’applicazione delle norme di legge. Una governance insufficiente è un sintomo e un parametro della fragilità
dello Stato: gli Stati fragili, infatti, ottengono risultati negativi negli indicatori a essa relativi (figura 1.3). Per la maggior parte,
questi paesi sono interessati da un’elevata instabilità politica, da una corruzione pervasiva e da una scarsa fiducia nello stato di
diritto. Inoltre, i bassi livelli di governance tendono a persistere e sono altamente dipendenti dal percorso: una scarsa efficacia del
governo o un inadeguato stato di diritto nel 2000 accresce la probabilità di bassi punteggi nel 2008, anno in cui molti Stati fragili
presentavano una minore efficacia del governo e uno stato di diritto più debole rispetto a otto anni prima62.
Figura 1.3: Tendenze degli indicatori relativi alla governance, Stati fragili subsahariani
STABILITÀ POLITICA 2000-2008
EFFICACIA DEL GOVERNO 2000-2008
0,50
0,50
0,00
-3,00 -2,50 -2,00 -1,50 -1,00 -0,50
0,00
0,00
0,50 1,00 1,50
2,00
-3,50
-3,00 -2,50
-2,00 -1,50 -1,00 -0,50
-0,50
-1,00
-1,00
-1,50
-2,00
-2,00
-2,50
-2,50
-3,00
-3,00
-3,50
1,00
1,50
2,00
0,50 1,00 1,50
2,00
-3,50
2000
2000
STATO DI DIRITTO 2000-2008
CORRUZIONE 2000-2008
0,50
0,50
0,00
-3,00 -2,50 -2,00 -1,50 -1,00 -0,50
0,00
0,00 0,50 1,00 1,50
2,00
-3,50
-3,00 -2,50 -2,00 -1,50 -1,00 -0,50
0,00
-0,50
-0,50
-1,00
-1,00
2008
2008
2008
2008
0,50
-1,50
2000
2000
-3,50
0,00
-0,50
2008
2008
2008
2008
-3,50
-1,50
-2,00
-1,50
-2,00
-2,50
-2,50
-3,00
-3,00
-3,50
-3,50
2000
2000
2000
2000
Nota: gli indicatori relativi alla governance sono misurati in unità che variano fra circa –2,5 e 2,5, dove i valori più alti corrispondono a
risultati di governance migliori. La Stabilità politica misura le percezioni della probabilità che il governo sia destabilizzato o deposto
tramite mezzi incostituzionali o violenti; l’Efficacia del governo misura la qualità dei servizi pubblici, la qualità dell’amministrazione civile
e il suo livello di autonomia rispetto alle pressioni politiche, la qualità della formulazione e dell’attuazione delle politiche e la credibilità
dell’impegno del governo rispetto a tali politiche; lo Stato di diritto indica la misura in cui i soggetti hanno fiducia nelle regole della società
e vi si adeguano, con particolare riguardo alla qualità dell’applicazione dei contratti, alla polizia e ai tribunali, nonché la probabilità di reati
e violenze; la Corruzione indica la misura in cui il potere pubblico è esercitato per un profitto personale, comprese la piccola e la grande
corruzione, nonché la sudditanza dello Stato rispetto alle élite e agli interessi privati.
Fonte: Kaufmann, Kraay e Mastruzzi 2008.
62
Kaufmann et al. 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La fragilità dello stato nell’africa subsahariana: costi e sfide
Le conseguenze della fragilità dello Stato sulla governance sono in grado di produrre forze che si oppongono al superamento
della fragilità stessa. L’erosione dei freni e contrappesi può creare, in contrasto con il benessere sociale, nuovi interessi che
puntano a difendere e riprodurre le possibilità di corruzione, interferenza politica e ricerca di rendite, indebolendo ulteriormente
la responsabilità dello Stato. Nei regimi autoritari, lo Stato può trasformarsi in un veicolo per l’arricchimento personale: benché
queste situazioni possano essere intrinsecamente instabili perché i tentativi di appropriarsi del “bottino” possono sfociare in violenti
cambi di governo, la dinamica predatoria soggiacente ha un’elevata probabilità di rimanere la stessa63.
3.4 GLI STATI FRAGILI SONO “CATTIVI VICINI”
I costi della fragilità sembrano inoltre ignorare i confini nazionali. Si stima infatti che l’80% del costo della fragilità, in perdita di
crescita economica, sia a carico dei paesi confinanti, che subiscono fortemente l’effetto del “cattivo vicino”: la perdita in termini di
crescita si attesta sullo 0,6% all’anno per ogni paese confinante. Considerando in media 3,5 paesi confinanti per ogni nazione, le
perdite dovute all’effetto del “cattivo vicino” possono raggiungere circa 237 milioni di dollari all’anno64.
Gli Stati fragili esercitano un’influenza negativa sui paesi confinanti anche attraverso altri canali. La fragilità non sembra contagiosa,
ma determina effetti transfrontalieri negativi, come la diffusione di disordine politico e instabilità65. Non esistono prove del fatto
che la fragilità conduca a un aumento sistematico della probabilità che i paesi confinanti vivano una guerra civile o siano coinvolti
in un conflitto fra Stati66, ma esistono casi noti in cui tale effetto ha avuto un ruolo, come per il governo liberiano di Charles Taylor,
che forniva mercenari, denaro, armi e infrastrutture a gruppi di ribelli opposti alla Sierra Leone nella speranza di ottenere il controllo
sulle miniere di diamanti e sulle reti economiche della regione.
La diffusione del rischio di instabilità e di conflitti violenti fra paesi è favorita dall’esistenza di estesi mercati regionali delle armi
in Africa67, un continente in cui i permeabili confini nazionali facilitano la circolazione di armi e munizioni da un paese all’altro: in
questo modo, la loro offerta può facilmente adeguarsi alla distribuzione geografica della domanda68.
Ulteriori effetti del “cattivo vicino” derivano dai movimenti transfrontalieri di rifugiati, principalmente diretti verso i paesi confinanti,
che impongono costi notevoli ai paesi ospitanti69. I movimenti dei rifugiati contribuiscono ad esempio alla diffusione della malaria
negli Stati subsahariani70. Ad esempio, i rifugiati provenienti dal Ruanda e dal Burundi e diretti nella regione del Kagera, nella
Tanzania nordoccidentale, hanno gravato pesantemente sulla situazione sanitaria e scolastica della regione71.
I movimenti di massa dei rifugiati possono anche destabilizzare i paesi confinanti72: come dimostrano le recenti violenze nella
regione dei Grandi Laghi, i campi profughi possono essere il luogo di formazione di gruppi violenti. I rifugiati e gli IDP dell’Africa
subsahariana provengono quasi esclusivamente dagli Stati fragili della regione (vedere tabella 1.2).
Anche altri flussi illeciti, attratti da paesi dotati di un controllo limitato sul territorio e di un debole stato di diritto, possono minacciare
la stabilità dei paesi confinanti, specialmente quelli con una ridotta capacità di garantire l’applicazione della legge. La Guinea-Bissau
è il centro di transito della cocaina che viaggia dal Sud America all’Europa, il che porta con sé notevoli implicazioni di sicurezza e
umanitarie73. In occasione del loro 11° incontro di alto livello, svoltosi a Dakar (Senegal) il 4 novembre 2007, i capi delle missioni
di pace delle Nazioni Unite in Africa occidentale nel 2007 hanno espresso “preoccupazione in merito all’allarmante aumento del
traffico di droghe e alla minaccia alla stabilità sia nel paese che nella sottoregione in generale”.
3.5 GLI STATI FRAGILI SONO FONTE DI MINACCE GLOBALI
Gli effetti negativi della fragilità possono avere una portata globale. Il concetto di fragilità dello Stato è emerso sulla scena dello
sviluppo in un momento di notevole preoccupazione rispetto alle minacce alla sicurezza mondiale dovute a strutture statali deboli
e inesistenti.
63
64
65
66
67
68
69
70
71
72
73
UNODC 2009, pag. 67.
Chauvet et al. 2007.
Iqbal e Starr 2008.
Iqbal e Starr 2008.
Lambach 2004; Studdard 2004.
Killicoat 2007b.
ACNUR 2009.
Montalvo e Reynal-Querol 2007.
Baez 2008.
Mandel 1997.
UNODC 2007.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 1
Tuttavia, un nesso causale tra la fragilità dello Stato e le minacce transnazionali, come il terrorismo, è stato spesso contestato74. La
relazione tra la fragilità e il terrorismo nell’Africa subsahariana rimane controversa: non tutti gli Stati fragili subsahariani, infatti,
sono interessati dal terrorismo, tanto meno da una sua forma con obiettivi e portata transnazionali. I gruppi terroristici sono emersi
e hanno agito anche in paesi dotati di uno Stato forte e stabile e dei più svariati sistemi di governo. Inoltre, l’importanza degli Stati
fragili per il terrorismo internazionale potrebbe essere in calo, poiché i terroristi si sono distribuiti in reti più globali con cellule
autonome in decine di paesi, sia ricchi sia poveri75.
Il ritorno della pirateria nel Golfo di Aden è descritto come un tipico esempio delle minacce transnazionali della fragilità76. La
risoluzione del Parlamento europeo del 23 ottobre 2008 sulla pirateria in mare sottolinea l’urgenza di questa minaccia, e la risposta
militare dell’UE nel Corno d’Africa attraverso la recente missione Atalanta ne evidenzia l’importanza. Il legame tra la fragilità e la
pirateria è facilmente intuibile, ma le condizioni di fragilità che favoriscono la pirateria e la rapina a mano armata rimangono poco
studiate77. La presenza della pirateria nel Golfo di Aden mostra inoltre che è riduttivo descrivere queste minacce come derivanti
dalla sola fragilità. I fattori esterni sono stati infatti essenziali nell’iniziale ripresa della pirateria78, con “l’ingresso aggressivo di
pescherecci stranieri nelle acque somale, ricche e non sorvegliate, a discapito dei villaggi costieri di pescatori”, a seguito della caduta
di Siad Barre nel 199179. Il risentimento dei pescatori contro i pescherecci stranieri, e contro il presunto scarico di rifiuti tossici nelle
loro acque80 non può comunque spiegare da solo l’ondata di pirateria81, suggerendo però che alcuni dei costi diffusi della fragilità
possano essere generati dalle opportunità di profitto sfruttate da attori esterni.
Sebbene vi siano pareri discordanti circa il rapporto causa-effetto, la distribuzione di aiuti da parte dei donatori del Comitato di aiuto
allo sviluppo (CAS) indica che la sicurezza è fra i primi criteri per l’assegnazione. Nel 2007, i primi quattro Stati fragili in termini di
flussi di aiuti ricevuti erano una fonte di estrema preoccupazione per la sicurezza (Afghanistan e Iraq) o un attore di rilievo in regioni
altamente instabili (Pakistan ed Etiopia). Nel complesso, questi quattro paesi assorbivano metà degli aiuti diretti agli Stati fragili82.
3.6 GLI STATI FRAGILI SONO TERRENO FERTILE PER LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA
E I TRAFFICI ILLECITI
Come si è detto, la criminalità organizzata è fiorente negli Stati fragili, poiché tende a emergere laddove le istituzioni statali sono
deboli. Alcune attività, come il furto di petrolio o il traffi co di droga, presentano effettivamente un valore elevato. Sono frequenti
anche il contrabbando di sigarette, la contraffazione (specialmente di compresse antimalariche), la frode finanziaria, la criminalità
ad alta tecnologia, il commercio di armi, lo sfruttamento sessuale organizzato e il riciclaggio di denaro. L’alto valore monetario di
tali attività sottostima la minaccia. Nel caso della cocaina, la maggior parte del valore viene realizzato al di fuori del paese (o della
regione) in cui è coltivata e commerciata. Circa 250 tonnellate di cocaina sono oggetto di traffici dall’Africa occidentale all’Europa
ogni anno, per un valore di 11 miliardi di dollari qualora raggiunga il mercato all’ingrosso83. Per quanto riguarda i furti di petrolio
e la contraffazione di sigarette, gran parte del denaro rimane nel paese (o nella regione). Pertanto, se il commercio della cocaina
impone costi a livello globale, l’impatto del petrolio e delle sigarette ha invece maggiori probabilità di concentrarsi a livello locale.
Le ripercussioni a livello ambientale dei furti di petrolio presentano rischi per la salute e peggiorano la qualità della vita nei paesi
confinanti con il delta del Niger. Il traffico illecito di farmaci contraffatti è sviluppato, e coinvolge specialmente paesi con molti
malati di malaria e di AIDS, nonché i paesi confinanti. L’assenza di pene per questo crimine è un sintomo della debolezza delle
istituzioni statali, le quali consentono in tal modo che si speculi sulla salute delle persone.
Il rischio di proliferazione degli armamenti ad alta tecnologia, come armi nucleari, chimiche e biologiche, è scarso84, ma la
proliferazione di armi di piccolo calibro e altre armi tattiche può pregiudicare la sicurezza regionale. I legami sono chiari: i gruppi
che tentano di mettere a rischio lo Stato sono i principali acquirenti di armi di piccolo calibro. Fra il 1998 e il 2004, oltre 200.000
armi di questo tipo sono state sequestrate o raccolte nella regione (Africa occidentale), di cui almeno 70.000 successivamente
distrutte. Sebbene impressionanti, queste cifre sono minime rispetto al numero stimato di armi di piccolo calibro presenti in Africa
occidentale (7-10 milioni)85.
74
75
76
77
78
79
80
81
82
83
84
85
Chandler (2006) sostiene che “l’idea che gli Stati falliti siano una minaccia per la sicurezza è [...] esagerata”, e Hehir (2007), Patrick (2007), Newman (2007) e
Stewart (2007) propongono ragionamenti analoghi.
Si veda, ad esempio, Korteweg 2008; Takeyh e Gvosdev 2002.
L’incapacità del governo federale transitorio della Somalia di pattugliare le acque appartenenti alla sua zona economica esclusiva ha spinto il Consiglio di
sicurezza delle Nazioni unite ad adottare la risoluzione 1816, che autorizza le marine straniere a combattere i pirati nelle acque somale (Guilfoyle 2008).
Nincic 2008.
Menkhaus 2009, pag. 22.
Secondo la FAO (2009), “700 navi di proprietà straniera sono impegnate a tempo pieno nella pesca non autorizzata in acque somale”.
Hansen 2008.
Menkhaus (2009) sostiene che “la pirateria somala è un caso tipico di spostamento delle motivazioni di un gruppo armato dal risentimento alla rapacità”.
OCSE 2009.
UNODC 2009.
Stewart 2007.
UNODC 2009, pag. 54.
30
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 2
CARATTERISTICHE DEGLI STATI FRAGILI
Vi è un ampio consenso sull’affermazione secondo cui la fragilità dello Stato può essere collegata agli
scarsi risultati ottenuti dalle istituzioni statali nella fornitura di servizi primari a causa dell’incapacità di
svolgere funzioni statali di base oppure di assegnare loro la giusta priorità.
I paesi dell’Africa subsahariana caratterizzati da istituzioni statali fragili presentano insiemi di caratteristiche sociali, strutturali ed
economiche marcatamente diversi. Tale eterogeneità è poco sorprendente, dato che ogni paese ha seguito un proprio percorso
socioeconomico e storico. Sebbene possano esistere alcune cause comuni alla base di tale situazione (si veda ad esempio il processo
di formazione degli Stati coloniali; capitolo 3), le ragioni determinanti della fragilità dello Stato sono specifiche per ogni paese.
Data l’assenza di un unico elenco di Stati fragili unanimemente riconosciuto, di seguito, come già accennato nel capitolo 1, ci
avvarremo a fini operativi dell’elenco degli Stati in situazione di fragilità adottato dall’OCSE (2009), limitando l’analisi ai paesi
situati nell’Africa subsahariana. L’elenco è il risultato di “una compilazione di tre elenchi: i due quintili più bassi della CPIA 2007;
l’indice Brookings della debolezza dei paesi in via di sviluppo 2008 e l’indice CIFP 2007 della Carleton University [...]. [Si tratta di]
un cambiamento rispetto ai rapporti 2005, 2006 e 2007. [...] I due indici supplementari, che rispecchiano la definizione del CAS
di fragilità e conflitto (considerazione della capacità e della legittimità dello Stato e inclusione della dimensione della sicurezza),
mirano a rendere l’elenco più esaustivo”1.
L’elenco include altri cinque paesi subsahariani (Guinea equatoriale, Etiopia, Kenya, Ruanda e Uganda) non considerati fragili
in precedenza. Il tumulto politico seguito alle elezioni presidenziali del 2007, ad esempio, ha portato all’inserimento del Kenya.
Alcuni paesi sono classificati ormai da tempo come fragili in base alla definizione della Banca mondiale, adottata per la prima volta
negli anni Settanta, mentre altri, quali la Costa d’Avorio e lo Zimbabwe, hanno smesso di essere considerati esempi da seguire
convertendosi in paesi fragili.
1. CARATTERISTICHE COMUNI CONDIVISE DAGLI STATI FRAGILI
1.1 INCAPACITÀ DI MOBILITARE RISORSE NAZIONALI E DIPENDENZA DALLE RISORSE ESTERNE
I paesi fragili sono incapaci di mobilitare risorse nazionali e di ricavare entrate di bilancio considerevoli dall’imposizione fiscale.
Le entrate pubbliche degli Stati fragili dell’Africa subsahariana, escluse le sovvenzioni, costituiscono raramente più del 20% del
PIL nazionale (vedere tabella 2.1). Solo 4 paesi su 29 (Angola, Repubblica del Congo, São Tomé e Príncipe e Guinea equatoriale)
presentano un elevato rapporto entrate pubbliche/PIL, un risultato, questo, imputabile non tanto alla loro capacità di riscuotere
imposte, quanto alla loro dotazione di risorse naturali, come illustrato dalla tabella 2.7.
1
OCSE 2009, pag. 21. Vedere anche capitolo 1, nota 2.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
Tabella 2.1: Imposizione fiscale, entrate pubbliche e facilità di fare impresa negli Stati fragili
dell’Africa subsahariana
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Africa subsahariana
Entrate pubbliche(1)
Gettito fiscale(2)
46,7
18,6
18,8
10,3
20,6
12,7
14,8
42,7
19,2
…
38,3
22,8
12,8
21,4
14,3
14,6
22,2
23,6
…
15,2
16
13,6
40,1
10,8
…
…
17
12,6
6,0
20,2
25,4
24,5
…
…
…
6,0
…
…
6,3
8,5
14,9
…
…
…
10,7
…
…
…
18,3
…
…
…
…
…
…
11,0
…
…
13,9
13,0
…
11,4
22,4
17,7
Posizione nell’indice di facilità
di fare impresa(3)
168
177
164
180
175
155
181
178
161
153
167
173
116
130
171
179
82
157
160
172
118
139
176
156
n.c.
147
163
111
158
Note: ... rappresenta i dati non disponibili; n.c. sta per “non classificato”; (1) i dati escludono le sovvenzioni, si riferiscono al 2007 e sono
espressi in percentuale del PIL; (2): il gettito fiscale, come percentuale del PIL, si riferisce ai versamenti obbligatori al governo centrale per
scopi pubblici e i dati sono riferiti all’ultimo anno disponibile; (3) dati riferiti al 2009.
Fonti: FMI (2009a) Regional Economic Outlook-Sub-Saharan Africa; Banca mondiale (2008a) World Development Indicators 2008; Banca
mondiale (2009) Ease of doing business ranking.
Gupta e Tareq (2008) sostengono che l’aumento del rapporto medio tra le entrate pubbliche dei paesi subsahariani e il PIL negli
ultimi 25 anni sia in larga misura imputabile ai diritti di sfruttamento o alle imposte societarie delle compagnie petrolifere e
minerarie, laddove l’incremento delle entrate da risorse non naturali è stato di circa l’1% dal 19802. In alcuni Stati fragili le imposte
sul commercio rappresentano una quota estremamente elevata rispetto all’imposizione fiscale totale, con picchi oltre il 20% per
Angola e Nigeria3. I dati relativi alle entrate fiscali sono tuttavia disponibili solo per nove nazioni e il rapporto medio tra imposizione
fiscale e PIL di questi paesi si attesta attorno all’11%, con un minimo del 6% per la Repubblica centroafricana e l’RDC: con una base
imponibile così ridotta, una fornitura adeguata di beni pubblici è, quanto meno, difficilmente conseguibile.
2
3
Secondo Stümer (2008), nel 2006 la RDC ha riscosso entrate fiscali dal settore estrattivo pari a 16,4 millioni di dollari, laddove nel 2004 il valore dei minerali
si attestava attorno al miliardo di dollari. L’Istituto federale tedesco per le geoscienze e le risorse naturali sostiene che dal paese sarebbero stati esportati
illegalmente prodotti minerali per un valore pari a un ulteriore miliardo di dollari.
Sono disponibili dati relativi alle imposte sul commercio solo per alcuni Stati fragili: Angola (22,2%), Kenya (8,0%), Nigeria (22,2%) e Uganda (9,0%). Vedere
Volkerink 2009.
32
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
La mancata mobilitazione di risorse nazionali allenta la pressione nei confronti del buon governo, di una spesa pubblica efficiente
e di uno Stato in grado di rendere conto del proprio operato. Lo Stato non viene altresì indotto ad attuare politiche orientate allo
sviluppo potenzialmente in grado di rafforzare il sistema economico o ad aumentare le entrate fiscali4. Una possibile causa potrebbe
risiedere nelle dimensioni ridotte delle élite dominanti: più limitata è la loro ampiezza, minori saranno gli incentivi a fornire beni
pubblici e a sviluppare politiche di ampio respiro in grado di stimolare le prospettive di crescita economica5.
Le basse entrate degli Stati fragili dell’Africa subsahariana possono essere imputate alla loro estroversione o alle loro relazioni politiche
ed economiche esterne (vedere capitolo 3). Storicamente, soprattutto durante l’era coloniale (ma anche prima di allora), questi
paesi dipendevano da fonti di reddito esterne. Per gli Stati più fragili, il peso complessivo degli aiuti, degli investimenti esteri diretti
(IED) e delle rimesse di denaro costituisce un’ampia quota del PIL, ben al di sopra della media dei paesi subsahariani, sebbene la sua
composizione differisca anche considerevolmente tra un paese e l’altro (figura 2.1). Per molti di loro i principali flussi di investimento
provengono dall’APS. Burundi, Repubblica del Congo, Eritrea, Guinea-Bissau, Liberia e Sierra Leone presentano quote di aiuti in
rapporto al PIL6 prossime o superiori a quelle delle entrate pubbliche. Le rimesse rivestono un ruolo fondamentale soprattutto in
Liberia e Togo7. Per altri Stati, quali Guinea equatoriale, Gambia, Ciad, Mauritania, São Tomé e Príncipe e Sudan, le entrate esterne
sono generate dall’esportazione di poche risorse naturali, quali petrolio e minerali, e da IED miranti al reperimento di risorse.
Queste fonti esogene riducono gli incentivi dei governi a mobilitare risorse a livello locale attraverso l’imposizione fiscale generale.
Per le élite politiche, la fiscalità potrebbe dare vita a una dinamica (indesiderata) che spingerebbe i cittadini a esigere che il governo
renda conto delle proprie spese. L’estroversione smorza l’instaurarsi di questa dinamica.
Figura 2.1: Flussi esterni (media aritmetica 2003-2007)
Burundi
Guinea-Bissau
São Tomé e Príncipe
Congo, Repubblica del
Gambia
Sierra Leone
Mauritania
Guinea equatoriale
Gibuti
Uganda
Ruanda
Eritrea
Etiopia
Ciad
Niger
Sudan
Togo
Congo, Repubblica democratica del
Guinea
Nigeria
Comore
Kenya
Repubblica centrafricana
Camerun
Angola
Zimbabwe
Costa d’Avorio
Rimesse dei migranti
Afflussi di IED
Afflussi netti di APS,
tutti i donatori
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
Note: non sono disponibili dati sulla Somalia; non sono disponibili dati sulle rimesse per Zimbabwe, Angola, Repubblica centroafricana,
Ciad, Eritrea, Gibuti ed RDC; i dati sulla Liberia non sono stati inclusi nella figura perché rappresentano valori fuori scala.
Fonte: elaborazione ERD in base alla relazione African Economic Outlook 2009 a cura di OCSE e BAfS (2009).
4
5
6
7
Tilly 1990.
Adam e O’Connell 1999.
Nel 2007, gli aiuti esteri hanno rappresentato in media il 15% del PIL degli Stati fragili. Tuttavia, in diversi paesi essi costituiscono oltre il 20% del PIL, a
testimonianza di un’elevatissima dipendenza dagli aiuti. I flussi di aiuti tendono a essere più volatili delle entrate nazionali e delle rimesse di denaro, ostacolando
così la pianificazione a medio termine e lo stanziamento efficace delle spese pubbliche, come segnalato da Gupta e Tareq (2008).
Si noti che sebbene la Liberia non sia riportata nella figura, le rimesse di denaro costituiscono più del 100% del PIL (107% in OCSE e BAfS 2009). Si noti inoltre
che la stima delle rimesse potrebbe essere inferiore a quella effettiva, in quanto i dati tengono conto unicamente di quelle ufficiali. Secondo stime recenti, le
rimesse informali sarebbero estremamente elevate (Banca mondiale 2008b): secondo gli African Development Indicators 2007 (Banca mondiale 2008b), ad
esempio, in Sudan potrebbero costituire addirittura l’85% del totale e in Ghana circa il 65%.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
La principale implicazione di un siffatto meccanismo di finanziamento è che gli Stati fragili dipendono principalmente dal settore
primario, un fattore che a sua volta si traduce in un paniere delle esportazioni scarsamente diversificato e in insufficienti investimenti
a favore dello sviluppo umano e delle infrastrutture.
Riquadro 2.1: Impennata e crollo dei prezzi del rame in Zambia
Di Elva Bova, Dottoranda presso la School of Oriental and African Studies, Università di Londra
A seguito dell’impennata della domanda di rame da parte di Cina e India, i prezzi di questo metallo hanno registrato una forte
crescita, passando da 1.800 dollari per tonnellata metrica nel 2002 a 8.000 dollari nel 2008. Questo boom ha avuto sensibili
ripercussioni sull’economia zambiana, in cui le esportazioni di rame costituiscono più del 60% del totale. Le esportazioni
sono aumentate da 61 milioni di dollari nel 2002 a 600 milioni di dollari nel 2008, mentre la crescita del PIL è stata costante,
attestandosi su una media del 5,6%, grazie anche ai flussi di IED, ai ridotti livelli di inflazione e alla solidità dei fondamentali
macroeconomici. Nel luglio 2008, il prezzo del rame è sceso, raggiungendo i 3.000 dollari per tonnellata metrica nel mese
di ottobre, mentre le esportazioni sono calate fino a 270 milioni di dollari nell’aprile 2009 con una previsione di crescita del
PIL per il 2009 inferiore al 4%8. Il drastico calo delle esportazioni del rame ha provocato la chiusura di una serie di miniere,
tra cui due stabilimenti a Luanshya, la principale sede minieraria del paese. Complessivamente, a tutto dicembre 2008 sono
andati persi 8.000 posti di lavoro nel settore del rame9.
Figura 1 del riquadro: Esportazioni zambiane e prezzi del rame (2002-2009)
800
8 000
600
6 000
400
4 000
200
2 000
0
Esportazioni
2009m01
2008m09
2008m05
2008m01
2007m05
2007m05
2007m01
2006m09
2006m05
2006m01
2005m09
2005m05
2005m01
2004m09
2004m05
2004m01
2003m09
2003m05
2003m01
2002m09
2002m05
2002m01
0
Prezzi del rame
Fonte: FMI - Statistiche finanziarie internazionali e Direzione delle statistiche commerciali
IMPATTO MONETARIO
L’impennata e il crollo delle esportazioni hanno amplificato la volatilità della valuta zambiana, che è prevalentemente
determinata dal mercato e mostra una stretta relazione con il prezzo del rame.
Durante il boom, l’incremento dei proventi delle esportazioni del settore minerario ha causato un apprezzamento della
valuta, potenziato dal contemporaneo avvento di flussi di aiuti, investimenti di portafoglio e IED. Tra luglio e novembre
2005, il kwacha zambiano ha fatto registrare un apprezzamento del 30% in termini nominali, il che ha provocato il crollo di
alcune delle principali esportazioni non tradizionali del paese. I comparti più colpiti sono stati quelli del cotone, del tabacco
e del caffè, che hanno assistito a perdite di profitti di oltre il 30% in una sola annata agricola10. Con il crollo dei prezzi del
rame, il valore della valuta si è deprezzato del 40% in soli tre mesi, da ottobre a dicembre 2008. Tale svalutazione è stata
causata anche dai considerevoli flussi in uscita dei portafogli di capitali, come dimostrato da una riduzione mensile del 5%
dell’indice della borsa valori di Lusaka11. Pur favorendo la competitività delle esportazioni non tradizionali, il deprezzamento
8
9
10
11
FMI 2009.
Ndulo et al. 2009.
Weeks et al. 2007; Weeks 2008; Fynn e Haggblade 2007; Commissione esportazioni dello Zambia 2007.
Ndulo et al. 2009.
34
Milioni di USD
USD per tonnellata metrica
10 000
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
valutario ha comunque innalzato i prezzi nazionali. A seguito del deprezzamento della valuta e dell’aumento globale dei
prezzi dei generi alimentari, l’inflazione a livello nazionale è cresciuta dall’8,5% nel gennaio 2008 al 16% nel dicembre
dello stesso anno, un’impennata dovuta principalmente all’incremento registrato dai prezzi dei prodotti alimentari, che
costituiscono il 20% delle importazioni totali del paese. Malgrado i tentativi della Banca dello Zambia volti a compensare
tale svalutazione mediante la vendita di valute estere, questa manovra ne ha causato la riduzione delle riserve del 23%, e
si è pertanto aggravato il rischio di un loro esaurimento12.
10 000
6 000
8 000
5 000
4 000
6 000
3 000
4 000
2 000
2 000
1 000
Kwacha zambiano per USD
USD per tonnellata metrica
Figura 2 del riquadro: Prezzi del rame e kwacha zambiano (2002–2009)
0
Prezzi del rame
2009m01
2008m09
2008m05
2008m01
2007m05
2007m05
2007m01
2006m09
2006m05
2006m01
2005m09
2005m05
2005m01
2004m09
2004m05
2004m01
2003m09
2003m05
2003m01
2002m09
2002m05
2002m01
0
Kwacha zambiano
Fonte: FMI - Statistiche finanziarie internazionali.
IMPATTO FISCALE
Le esportazioni di rame forniscono un esiguo contributo al bilancio pubblico zambiano. A metà degli anni Novanta, si
assistette alla privatizzazione dell’impresa di proprietà statale, la ZCCM, a seguito delle ingenti perdite registrate dalla
società in un periodo di ribasso dei prezzi dei prodotti primari. L’impresa venne suddivisa in sei diverse unità (sotto il
controllo e la gestione di società transnazionali), di cui il governo dello Zambia deteneva una quota pari al 15%-20% ciascuna,
controllandole direttamente mediante l’impresa statale ZCCM-International Holding. Ciononostante, poiché doveva ancora
rimborsare i debiti accumulati nei primi anni Novanta, la ZCCM-IH non ottenne nessuna entrata dal boom del rame.
Le imposte corrisposte dalle imprese minerarie fino al 2007 erano quasi trascurabili. Le società, infatti, erano riuscite a
negoziare segretamente accordi molto favorevoli con il governo zambiano (accordi di sviluppo) in cui si definivano diritti
di sfruttamento ridotti (0,6% anziché 3%), una riduzione delle imposte sulle esportazioni (15% anziché 25%) e una serie di
concessioni e deduzioni, come riporti delle perdite per un periodo di 20 anni.13 Quando, nel 2007, questi accordi vennero
divulgati, le organizzazioni internazionali e le ONG locali obbligarono il governo a rivedere il proprio regime fiscale e
una nuova legge venne promulgata alla fine dello stesso anno. Tuttavia, l’atteso aumento di bilancio del 9% dovuto
all’introduzione di nuove imposte non ebbe luogo e, nel 2008 le entrate fiscali sono aumentate solo del 3%.14
Il crollo dei prezzi del rame nel luglio del 2008 ha riaperto il dibattito sulle imposte minerarie e nel gennaio 2009 le imprese
hanno potuto contare su nuove concessioni che aboliscono l’imposta sui proventi straordinari (dovuta nel caso in cui i
prezzi del rame superassero un determinato livello) e consentono di ammortizzare il 100% di qualsiasi investimento quale
ammortamento fiscale nell’esercizio in cui sono state sostenute le spese in questione.15
Il crollo del rame e la conseguente chiusura di varie miniere hanno sollevato la questione relativa all’aumento della quota
statale detenuta nelle miniere quale possibile strategia per estendere la portata della gestione macroeconomica durante
impennate e crolli dei prezzi. La proposta, tuttavia, incontra una strenua opposizione da parte delle imprese minerarie e della
Banca mondiale. Con le parole di Obiagel Ezekwesli, vicepresidente della Banca mondiale per la regione africana, “la reazione
populista consiste nell’affermare ‘partecipiamo con una quota’. Ma si vuole veramente rischiare capitali in un comparto in cui
il settore privato può correre dei rischi? […] È un’industria che conviene lasciare alla gestione del settore privato”.16
12
13
14
15
16
Ndulo et al. 2009.
Fraser e Lungu 2007
Green 2008
Green 2008
Reuters 2009.
RAPPORTO EUROPEO
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
Figura 3 del riquadro: Proventi dall’estrazione in mineraria Zambia (2001–2007)
Miliardi di kwacha zambiani
10 000
Entrate
8 000
Tasse
6 000
Imposte minerarie
4 000
2 000
0
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
Fonte: Banca mondiale, World Development Indicators; Agenzia delle entrate zambiana.
1.2 DIPENDENZA DAI PRODOTTI PRIMARI
La maggior parte dei paesi fragili è caratterizzata, in media, da una densità demografica molto ridotta: 15 paesi su 29 hanno meno
di 40 abitanti per chilometro quadrato, laddove la densità demografica degli Stati non fragili si attesta attorno agli 84 abitanti.
Inoltre, in questi paesi, la maggioranza della popolazione vive in zone rurali: in Burundi, ad esempio, questo dato interessa ben il
90% della popolazione (vedere tabella 2.6). Questa proporzione comporta un elevato tasso di occupazione nel settore agricolo.
L’agricoltura rappresenta infatti una quota sostanziosa del PIL, soprattutto per quegli Stati fragili sprovvisti di risorse naturali (vedere
figura 2.2)17. Inoltre, per paesi quali Burundi, Etiopia, Gambia e Sierra Leone, il contributo dei prodotti agricoli alle esportazioni è
notevole e l’agricoltura è ancora la principale fonte di proventi delle esportazioni.
Figura 2.2: Quote del PIL di agricoltura, industria e servizi, 2006
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
0%
10 %
20 %
30 %
40 %
50 %
60 %
Agricoltura
Fonte: Banca mondiale (2008a), Indicatori dello sviluppo mondiale 2008.
17
Si noti che i redditi agricoli sono difficili da tassare. Vedere Volkerink 2009.
36
70 %
80 %
Industria
90 %
Servizi
100 %
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
L’agricoltura degli Stati dell’Africa subsahariana risente di problemi quali una bassa produttività, una tecnologia rudimentale, la
presenza di piccole aziende agricole e la difficoltà di accedere ai mercati. Inoltre, la mancanza di informazioni, il vasto potere di
mercato di un numero ristretto di attori e l’incompletezza dei mercati espongono i paesi fragili a insuccessi di mercato18.
Secondo Ng e Aksoy (2008), tutti gli Stati subsahariani sono importatori netti di generi alimentari (tabella 2.2). Tutti i paesi fragili
tranne cinque (Camerun, Costa d’Avorio, Kenya, Somalia e Sudan) appartengono a tale gruppo e sono afflitti da un’alta prevalenza
di sottonutrizione19. Molti di questi sono anche importatori netti di petrolio.
Tabella 2.2: Elenco dei paesi importatori ed esportatori di generi alimentari dell’Africa
subsahariana
Importatori di generi alimentari(1)
Angola Liberia
Benin Malawi
Burundi Mali
Capo Verde Mauritania
Rep. centrafricana Maurizio
Ciad Mozambico
Comore Niger
Congo, Repubblica democratica del Nigeria
Congo, Repubblica del Ruanda
Guinea equatoriale São Tomé e Príncipe
Eritrea Senegal
Etiopia Seychelles
Gabon Sierra Leone
Gambia Tanzania
Ghana Togo
Guinea Uganda
Guinea-Bissau Zimbabwe
Lesotho
Esportatori di generi alimentari
Botswana Namibia
Burkina Faso Somalia
Camerun Sud Africa
Costa d’Avorio Sudan
Kenya Swaziland
Madagascar Zambia
Note: i paesi inclusi nella definizione operativa di Stati fragili sono in
grassetto; (1) i generi alimentari sono definiti come alimenti crudi in SITC
Rev. 2, escluse le colture da reddito, gli alimenti lavorati e i frutti di mare;
un paese è considerato importatore di generi alimentari se la differenza
tra esportazioni e importazioni è negativa in base alla media 2004/05.
Fonte: elaborazione ERD in base a Ng e Aksoy (2008).
La dipendenza dalle importazioni di generi alimentari, non accompagnata da esportazioni di prodotti non agricoli meno volatili
(come quelli del comparto manifatturiero), costituisce un fattore strutturale in grado di aumentare la vulnerabilità dei paesi dell’Africa
subsahariana20. Quanto detto vale soprattutto in periodi caratterizzati da rincari dei prezzi alimentari, come quelli prevalenti nel
corso di giugno 2008. In realtà, sebbene non siano disponibili stime sistematiche relative all’impatto degli aumenti dei prezzi dei
18
19
20
PAM 2009.
La sottonutrizione affligge il 35% della popolazione degli Stati fragili dell’Africa subsahariana e il 23% di quella dei paesi non fragili. Vedere tabella 1.3 nel
capitolo 1.
Sarris e Rapsomanikis 2009.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
generi alimentari sugli Stati fragili21, vi sono già avvisaglie che sembrano suggerire che tali paesi siano tra i più colpiti. La maggior
parte dei paesi classificati dall’ultima State of World Food Security (la relazione sullo stato della sicurezza alimentare mondiale)
come a rischio di deterioramento della sicurezza alimentare a causa del rincaro dei prezzi alimentari è costituita dagli Stati fragili
dell’Africa subsahariana (19 paesi subsahariani su 26)22. Nel luglio 2009, 18 dei 30 paesi afflitti da una crisi alimentare che avevano
richiesto l’assistenza esterna della FAO erano Stati fragili dell’Africa subsahariana23.
I prezzi di alcuni generi alimentari, quali latticini, cereali e olio, erano cresciuti a livello esponenziale 24, e persino quando avevano
cominciato a scendere si erano mantenuti ben al di sopra dei valori storici.
Questa tendenza ha comportato un aumento del costo delle importazioni, incrementando considerevolmente il disavanzo delle
partite correnti e ripercuotendosi persino su variabili quali i tassi di interesse, la posizione di riserva delle banche nazionali e il
livello di indebitamento estero25. Tuttavia, l’impennata dei prezzi dei prodotti primari, che, unita a un calo del prezzo unitario
dei beni manifatturieri, ha indotto un miglioramento delle ragioni di scambio dei generi alimentari dopo una lunga tendenza al
ribasso comune alla maggior parte dei prodotti, è andata di pari passo con un’elevata volatilità del tasso di cambio e ha aumentato
l’incertezza, limitando le opportunità dei produttori di accedere ai mercati creditizi e di investire nelle tecnologie.
L’andamento dei prezzi alimentari incide in modo diverso sulle famiglie urbane povere e sulle famiglie rurali in funzione dell’accesso
ai mercati e della disponibilità di tecnologie e capitali. Le più colpite dal rincaro dei prezzi alimentari sono le famiglie rurali senza
terra e mantenute da donne. Un incremento del 50% del prezzo del mais in Malawi, Zambia e Uganda aumenta il numero di famiglie
in situazione di insicurezza alimentare in media di circa il 5%26. La popolazione al di sotto della soglia di povertà aumenterebbe del
3,5% se i prezzi alimentari rincarassero del 50%27.
Gli Stati fragili, tuttavia, risentono di disagi per via di condizioni sedimentate: tra le loro difficoltà a far fronte al rincaro dei prezzi
alimentari spiccano, ad esempio, l’elevata povertà, una ridotta capacità di livellamento dei consumi nel tempo all’interno della
famiglia a causa di ingenti spese nel comparto alimentare, estremi livelli preesistenti di insicurezza alimentare, una forte dipendenza
dalle importazioni alimentari e alcuni vincoli macroeconomici nell’adozione di misure di stabilizzazione dei prezzi (scarsa disponibilità
di riserve alimentari, carenze di riserve estere e ripercussioni sui tassi di cambio).
1.3 ESPORTAZIONI CONCENTRATE
L’indice di diversificazione delle esportazioni degli Stati fragili dell’Africa subsahariana corrisponde a meno della metà di quello
degli Stati non fragili (vedere tabella 2.3), a dimostrazione di un elevatissimo livello di concentrazione delle loro esportazioni.
Salvo rare eccezioni, gli Stati fragili di questa regione esportano principalmente prodotti primari: nel 2006, infatti, questi (carburanti
e prodotti di altra natura) costituivano in media più dell’80% delle loro esportazioni. I soli carburanti rappresentavano il 26,2%
dei proventi delle esportazioni con picchi di oltre il 90% in paesi quali Angola, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea equatoriale e
Nigeria. I generi alimentari di base, inclusi nel paniere dei prodotti primari, generano una notevole quota dei proventi totali dovuti
alle esportazioni, attestandosi in media sul 27%, ma con picchi di oltre l’80% per Gambia, Guinea-Bissau e São Tomé e Príncipe.
Per altri paesi, quali RDC, Guinea e Sierra Leone, sono i prodotti minerali a costituire i principali beni primari esportati. Con più
della metà dei loro proventi delle esportazioni generati da prodotti manifatturieri nel 2006, Eritrea, Liberia e Togo rappresentano
un’eccezione in questo contesto.
Anche la concentrazione dei mercati di destinazione è elevata: 15 Stati subsahariani devono più della metà dei proventi delle loro
esportazioni a commerci con un’unica area geografica. Nella fattispecie, 9 paesi ricavano più del 50% delle proprie entrate dalle
esportazioni verso l’Europa. In 3 nazioni (Gibuti, Togo e Zimbabwe), invece, predominano gli scambi commerciali intra-africani,
pari a oltre il 50% delle esportazioni totali (vedere tabella 2.4).
21
22
23
24
25
26
27
Il corpus della ricerca comprende studi esemplificativi di determinati paesi, nonché analisi regionali e globali delle crisi alimentari e degli shock dei prezzi
alimentari (Wodon e Zaman 2008; Aksoy e Isik-Dikmelik 2008; Ivanic e Martin 2008; Dessus 2008).
FAO 2008a.
FAO 2009.
Si noti che le variazioni di prezzo a livello mondiale non vengono trasferite sempre integralmente o simmetricamente ai mercati interni a causa di restrizioni
sulle esportazioni, imposte, ingenti spese di trasporto ed elevati margini commerciali. Ai fini di una valutazione dell’effetto sortito sui prezzi nazionali, è
importante considerare anche le tempistiche di trasferimento di tali variazioni. In alcuni casi, la discrepanza tra i prezzi nazionali e quelli mondiali è di breve
durata, ma nella maggior parte dei casi le opportunità di profitto persistono a lungo, con conseguenze ben più perturbatrici.
FAO 2008b.
Sarris e Rapsomanikis 2009.
Wodon e Zaman 2008.
38
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
Tabella 2.3: Concentrazione delle esportazioni negli Stati fragili
Paese
Indice di
diversificazione delle
esportazioni(1)
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
1,1
2,6
3,3
5,5
1,1
4,9
7,6
1,4
7,7
5,9
1,3
2,1
4,7
6,6
3,2
1,2
21,9
3,5
3,9
1,4
1,3
4,1
3,9
7,3
6,6
1,2
9,3
10,4
10,8
7,4
5,0
11,1
Generi
Prodotti di
Esportazioni
base, esclusi i Carburanti(4) alimentari di
(% del PIL)(2)
base(5)
carburanti(3)
72,7
9,6
24,7
13,6
12,8
15,2
80,7
34,3
49,0
…
88,6
6,4
14,2
44,2
30,1
27,9
25,9
34,2
…
17,4
43,4
9,6
13,3
23,2
…
…
41,9
14,1
31,1
36,1
31,1
40,3
2,0
97,0
33,2
95,5
4,5
…
83,4
7,6
43,5
16,9
1,4
43,6
93,9
85,9
89,4
82,3
57,3
15,8
93,1
87,4
3,6
92,3
95,1
90,4
86,4
10,8
45,5
77,1
69,8
58,5
57,3
60,2
97,5
0,0
61,6
0,2
94,6
…
12,6
90,3
36,9
0,7
94,5
0,0
0,0
0,0
5,5
0,5
7,3
14,6
…
1,5
95,0
0,7
0,0
0,1
0,2
87,5
0,8
4,4
1,1
22,6
26,2
13,3
0,1
42,0
11,6
1,1
0,0
…
1,4
0,2
34,6
11,6
0,0
27,5
70,5
80,7
8,8
80,0
38,8
0,4
28,3
22,6
1,5
54,7
91,7
9,1
55,0
5,4
20,1
50,3
8,4
23,8
27,0
19,0
Metalli(6)
1,8
50,8
4,9
60,7
0,0
…
73,0
4,2
0,5
2,7
0,0
6,2
6,8
0,9
78,0
0,6
2,8
0,7
64,7
60,1
0,3
34,0
0,0
80,4
10,3
3,1
11,2
15,0
29,5
24,1
21,5
26,6
Manufatti(7)
0,4
2,9
3,0
1,7
0,6
…
2,7
0,6
19,4
15,1
3,7
52,0
6,0
14,1
3,1
17,0
35,4
69,1
0,0
9,8
0,8
6,5
4,9
7,3
9,1
1,2
51,1
18,5
29,1
18,9
13,8
26,4
Note: (1) dati riferiti all’anno 2007, da 0 a 100; (2) esportazioni ottenute come media aritmetica dei flussi di esportazione dal 2003 al 2007;
(3)
dati espressi come percentuale delle esportazioni totali dei beni e riferiti al 2006 – i prodotti di base comprendono SITC 0, 1, 2, 4, 68,
667, 971; (4) dati espressi come percentuale delle esportazioni totali dei beni e riferiti al 2006 – i carburanti corrispondono a SITC 3; (5) dati
espressi come percentuale delle esportazioni totali dei beni e riferiti al 2006 – i generi alimentari di base comprendono SITC 0, 22, 4; (6)
dati espressi come percentuale delle esportazioni totali dei beni e riferiti al 2006 – i metalli comprendono SITC 27, 28, 68, 667, 971; (7) dati
espressi come percentuale delle esportazioni totali dei beni e riferiti al 2006 – i manufatti compredono SITC da 5 a 8, esclusi 667 e 68.
Fonte: elaborazione ERD in base a Banca mondiale (2008a) World Development Indicators 2008; OCSE e BAfS (2009) African Economic Outlook 2009;
UNCTAD, Handbook of Statistics, database on line.
RAPPORTO EUROPEO
SSULLO
SU
ULLLO
39
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
I prodotti esportati dagli Stati fragili fuori dall’Africa, principalmente carburanti28, differiscono da quelli esportati all’interno della
regione, comprendenti anche beni manifatturieri. Pertanto, le esportazioni verso il territorio africano sono più diversificate rispetto
a quelle destinate al resto del mondo. L’espansione degli scambi commerciali intra-africani potrebbe dunque ridurre l’impatto della
volatilità dei prezzi delle materie prime e, di conseguenza, la vulnerabilità degli Stati fragili alle crisi commerciali.
Il rapporto tra la fragilità dello Stato e le concentrazioni delle esportazioni può essere imputato alla disponibilità di risorse: la loro
abbondanza può ridefinire gli interessi e i comportamenti di un governo al potere, provocando un’eccessiva dipendenza dalle risorse
naturali, limitando l’espansione del settore manifatturiero e deteriorando la governance29. Chauvet e Collier (2008) ritengono che
le rendite derivanti dalle risorse riducano significativamente le possibilità di un’uscita in tempi brevi da una situazione di fragilità
dello Stato. A un raddoppio della quota del PIL costituita dalle rendite da risorse corrisponde un tempo di recupero pressoché
doppio. Inoltre, a causa della bassa diversificazione delle esportazioni, gli Stati fragili potrebbero essere più esposti alla cosiddetta
“malattia olandese”, un fenomeno che si verifica quando il tasso di cambio si apprezza a seguito di afflussi di capitali, riducendo
la competitività delle esportazioni.
Tabella 2.4: Destinazione delle esportazioni degli Stati fragili, in percentuale, media 2004-2006
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica del
Congo, Repubblica democratica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa
Asia orientale,
meridionale e
sudorientale
Asia occidentale
Economie
sviluppate America
Economie
sviluppate - Europa
1,7
15,2
9,5
7,1
0,6
1,6
2,5
6,8
28,9
87,4
0,2
9,7
9,9
1,9
17,5
42,7
5,4
16,8
27,4
9,0
2,8
4,2
2,7
5,0
3,3
64,1
20,8
56,9
41,0
10,2
14,1
14,1
19,3
16,4
61,7
14,1
5,0
2,0
36,2
11,8
47,3
8,6
70,6
10,6
10,9
11,5
0,7
5,0
35,5
7,5
3,4
10,4
61,1
13,8
7,9
9,1
0,0
1,2
1,1
5,8
0,0
6,1
0,4
0,0
0,8
7,0
0,2
11,9
0,3
0,0
..
2,3
1,2
0,6
0,1
0,7
0,3
3,0
0,3
83,3
7,1
0,3
4,4
1,5
39,6
0,8
6,5
4,9
75,5
18,3
23,9
10,9
11,9
0,6
30,9
6,9
1,7
6,3
7,9
6,9
9,6
1,5
16,2
49,9
3,2
1,7
10,8
0,2
1,1
0,8
4,4
6,6
11,0
49,1
64,0
66,0
4,5
50,1
8,4
58,9
45,0
2,9
27,4
40,7
38,2
45,4
3,7
29,3
71,9
53,1
45,9
22,1
19,2
79,3
78,1
0,7
3,1
15,5
51,3
23,3
Fonte: UNCTAD, Handbook of Statistics, database on line.
28
29
Poiché il petrolio è esportato principalmente al di fuori della regione, per gli Stati fragili esportatori di petrolio, gli scambi commerciali intra-africani sono
mediamente inferiori rispetto a quelli dei paesi non esportatori di petrolio.
Vedere capitolo 4 e Collier 2009 per un’ulteriore analisi di questi meccanismi.
40
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
1.4 SCARSO SVILUPPO UMANO
I ridotti investimenti pubblici nello sviluppo umano si riflettono in sistemi scolastici e sanitari malfunzionanti. In effetti, benché molti
Stati fragili abbiano ridotto la loro spesa militare, a questo calo non è corrisposto un aumento nella spesa per sanità e istruzione
(vedere tabella 2.5).
Tabella 2.5: Spesa pubblica in percentuale del PIL
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Spesa sanitaria Spesa sanitaria
1995(1)
2006(1)
3,3
1,1
0,9
1,4
2,0
2,8
0,2
1,8
1,2
4,3
3,3
2,6
2,7
1,7
0,7
1,6
2,0
1,4
2,0
1,8
1,1
1,6
9,1
1,1
1,2
0,5
1,5
1,6
4,5
2,0
1,7
2,5
2,3
0,7
1,5
1,4
1,3
1,8
1,6
0,9
0,9
5,1
1,2
1,7
3,0
2,5
0,7
1,5
2,2
3,6
1,5
2,1
1,2
6,6
9,0
1,7
1,2
1,4
1,5
1,9
4,4
2,6
2,0
3,5
Spesa per
l’istruzione
1991(2)
Spesa per
l’istruzione
2006(2)
Spesa militare
1990(3)
…
3,5
3,2
2,2
1,6
…
…
7,4
..
3,5
…
…
2,4
3,8
2,0
…
6,7
…
4,6
3,3
0,9
…
…
…
…
6,0
…
1,5
7,7
4,0
3,8
4,3
2,6
5,1
3,3
1,4
1,9
3,8
…
1,8
4,6
8,3
0,6
2,4
5,5
2,0
1,7
5,2
7,1
…
2,9
3,4
…
4,9
…
3,8
…
…
3,6
5,2
4,6
4,4
3,6
5,5
1,3
3,4
1,5
1,6
…
…
…
…
1,3
5,9
…
…
8,5
1,1
2,4
…
2,9
7,2
3,8
..
0,9
3,7
…
1,4
…
3,5
3,1
3,0
4,4
2,8
3,1
2,5
Spesa militare
2006(3)
3,7
4,7
1,4
1,1
0,9
…
1,9
1,2
1,5
4,2
…
24,1
2,1
0,6
2,0
3,9
1,6
0,8
3,0
1,0
0,6
1,9
…
2,1
…
4,4
1,6
2,0
1,9
2,3
2,9
1,5
Fonti: (1) OMS (2008); (2) Istituto di statistica dell’UNESCO (2008); (3) SIPRI (2008).
RAPPORTO EUROPEO
SSULLO
SU
ULLLO
41
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
Di conseguenza, come abbiamo già visto nel capitolo 1, gli Stati fragili subsahariani seguono il resto dei paesi del continente in
termini di alfabetizzazione degli adulti, la cui percentuale ammonta al 59,2%, rispetto al 66,4% nel resto dell’Africa subsahariana
(vedere tabella 1.1). I dati relativi allo scarso sviluppo umano sono confermati anche dal tasso di mortalità sotto i cinque anni pari
a 138 decessi per 1.000 nati vivi, molto più elevato rispetto ai 98 registrati in media dagli altri Stati dell’Africa subsahariana.
La scarsità di investimenti pubblici nei settori dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria non solo contribuisce a un insufficiente
sviluppo umano, ma genera anche disparità tra uomini e donne. La disuguaglianza di genere negli Stati fragili è dunque superiore
rispetto al resto dell’Africa subsahariana, dato che la fragilità delle istituzioni statali può ripercuotersi negativamente sulla condizione
delle donne. La differenza tra l’indice HDI e l’indice GDI, un indicatore della disuguaglianza di genere, è mediamente doppia per gli
Stati fragili subsahariani rispetto a quelli non fragili30. Il divario potrebbe essere persino maggiore, considerando che mancano dati
relativi a due paesi (Somalia e Sudan) presumibilmente caratterizzati da scarse prestazioni in questo ambito. La scarsità o la totale
assenza di finanziamenti pubblici a favore del settore sanitario innalzano anche la mortalità materna, che risulta molto più elevata
rispetto a quella registrata nei paesi non fragili (vedere tabella 1.1). Il mancato stanziamento di fondi adeguati per la fornitura di
servizi sociali colpisce l’intera popolazione, ampliando al contempo le disuguaglianze tra uomini e donne.
I tassi di fertilità degli Stati fragili sono più elevati e diminuiscono più lentamente rispetto a quelli dei paesi non fragili (vedere
tabella 2.6): si tratta di un fattore importante, perché è improbabile che le famiglie numerose riescano a farsi carico delle spese
scolastiche dei propri figli, mentre quelle con meno bambini potrebbero essere in grado di fornire loro una migliore istruzione.
30
Elaborazione ERD in base al PSNU (2008).
42
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
Tabella 2.6: Popolazione
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Quota
Densità
della
della
popolazipopolazi- one nella
one (1)
fascia di
età 0-14(2)
13
318
39
7
8
330
27
11
59
35
18
46
77
166
37
59
64
37
3
11
159
384
162
80
13
16
118
152
34
87
86
84
46,5
45,0
41,2
43,0
47,3
42,0
47,3
47,1
41,9
…
44,4
44,8
44,5
40,1
43,7
47,5
42,8
47,1
43,0
49,0
44,3
43,5
39,5
42,8
44,1
39,2
43,5
50,5
40,0
43,0
44,1
41,1
Quota
della
popolazione
rurale(2)
46,0
89,7
44,5
61,8
74,2
62,3
67,3
39,4
54,6
…
60,9
80,2
83,7
45,3
66,5
70,3
79,0
41,2
59,4
83,0
51,0
79,8
41,2
58,6
64,3
58,3
59,2
87,3
63,6
62,1
63,3
60,2
Tasso di
fertilità
totale,
media
19751980(3)
Tasso di
fertilità
totale,
media
20002005(3)
7,2
6,8
6,4
5,8
6,7
7,2
6,6
6,3
7,4
…
5,7
6,5
6,3
6,5
6,9
7,1
7,5
6,9
6,4
8,2
6,9
8,5
6,4
6,5
7,2
6,5
7,0
7,1
7,1
6,6
6,8
6,3
6,7
6,8
5,0
4,9
6,4
4,0
6,7
5,6
5,0
…
5,9
5,5
5,5
4,7
5,7
7,1
5,0
6,8
5,8
7,9
5,7
5,9
4,0
6,5
6,4
4,4
5,3
7,1
3,6
5,2
5,7
4,5
Distribuzione delle giovani donne che hanno
avuto figli(4)
Istruzione
Nessuna Istruzione
Istruzione
secondaistruzione primaria
superiore
ria
…
…
24,5
71,8
…
…
…
…
…
…
…
…
73,6
…
79,4
…
10,3
…
…
86,9
53,7
24,4
…
…
…
…
…
12,1
…
…
…
43,0
21,4
…
…
…
…
…
…
…
…
20,4
…
12,3
…
70,2
…
…
10,1
21,0
69,9
…
…
…
…
…
68,0
…
…
…
32,2
6,6
…
…
…
…
…
…
…
…
5,6
…
8,0
…
18,3
…
…
3,0
24,0
5,4
…
…
…
…
…
18,0
…
…
…
0,3
0,2
…
…
…
…
…
…
…
…
0,3
…
0,2
…
1,2
…
…
0,0
1,3
0,3
…
…
…
…
…
1,9
…
Note: … rappresenta i dati non disponibili; (1) individui per km2, dati riferiti al 2006; (2) data riferiti al 2006; (4) ultimo anno disponibile.
Fonti: (1),(2) e (3) Banca mondiale (2008a) World Development Indicators 2008; (4) Banca mondiale, Demographic and Health Surveys, vari
anni e paesi.
1.5 SCARSITÀ DELLE INFRASTRUTTURE MATERIALI E IMMATERIALI
La presenza di infrastrutture fisiche sottosviluppate è un’altra caratteristica comune agli Stati fragili dell’Africa subsahariana. I paesi
fragili hanno ad esempio solo 8 metri di strade asfaltate per chilometro quadrato, quelli non fragili 18 (tabella 2.7).
RAPPORTO EUROPEO
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43
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
Tabella 2.7: Infrastrutture e caratteristiche geografiche
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Densità
di strade
pavimentate(1)
4,3
46,2
10,5
0,0
0,2
361,7
1,2
2,5
20,1
…
0,0
7,4
4,5
64,0
17,7
26,7
15,4
5,9
0,8
3,0
31,4
101,0
227,0
12,6
4,1
1,7
41,8
67,5
47,3
11,4
7,8
18,5
Linee di
telefonia
mobile(2)
29,1
2,9
24,5
3,0
8,5
4,8
34,2
10,5
36,6
5,3
43,4
1,7
1,5
46,8
21,3
17,5
30,2
15,0
41,6
6,3
27,3
6,5
19,1
13,2
6,9
21,3
18,1
13,6
9,2
25,7
17,9
36,9
Ricco di
risorse(3)
Quota della
popolazione
priva di accesso
a fonti idriche
migliorate(4)
Senza sbocco
sul mare(5)
sì
no
sì
no
sì
no
no
sì
sì
no
sì
no
no
no
sì
no
no
no
no
no
sì
no
sì
sì
no
sì
no
no
no
49
29
30
34
52
15
29
54
19
8
57
40
58
14
30
43
43
36
40
58
53
35
14
47
71
30
41
36
19
no
sì
no
sì
sì
no
sì
no
no
no
no
no
sì
no
no
no
no
no
no
sì
no
sì
no
no
no
no
no
sì
sì
Numero di
frontiere
terrestri
3
3
6
5
5
0
9
4
5
3
2
3
5
1
6
2
5
3
4
7
3
4
0
2
3
8
3
5
4
Note: … rappresenta i dati non disponibili; (1) metri di strade pavimentate per km2, dati riferiti all’ultimo anno disponibile; (2) numero di
linee telefoniche per 1.000 persone, dati riferiti al 2007; (3) un paese è classificato come ricco di risorse se le entrate derivanti da prodotti
di base (petroliferi e non) superano il 10% del PIL; (4) dati riferiti al 2007; (5) classificazione dell’FMI.
Fonti: (1) Banca mondiale (2008a) World Development Indicators 2008; (2),(3) e (5) FMI (2009a) Regional Economic Outlook Sub-Saharan
Africa 2009; (4) Human Development Indices – A Statistical Update 2008.
L’inaffidabilità delle infrastrutture stradali31 ostacola la comunicazione e i trasporti tra il centro e la periferia, aggrava le distorsioni
delle spese pubbliche per il settore urbano e può essere un disincentivo all’integrazione regionale.
Negli ultimi anni, la Cina ha investito fortemente nelle infrastrutture africane, soprattutto in quelle degli Stati fragili, per migliorare la
qualità e l’accesso alle risorse naturali. Legati a doppio filo ai programmi di aiuto, i progetti di investimento cinesi stanno rapidamente
ricostruendo porti, dighe e strade in paesi in situazioni post-belliche, come l’Angola e l’RDC32.
Tuttavia, senza investimenti nelle infrastrutture immateriali (politiche; normative; procedure di frontiera e amministrazione doganale),
i costi di trasporto continueranno a rappresentare un problema per i paesi fragili.
31
32
I costi di trasporto in Africa sono maggiori del 136% rispetto ad altre regioni, con una forte disuguaglianza tra paesi e prodotti. È probabile che tali spese
siano persino superiori in Uganda, dove nei primi anni del nuovo millennio, avendo raggiunto il 40%, il tasso di imposizione fiscale effettiva dovuta ai costi
di trasporto era molto più elevato rispetto alla media del 15% dei paesi ACP (vedere UNCTAD 2009, pag. 38).
Vedere il riquadro 6.2, “La Cina sta colmando il vuoto?”, nel capitolo 6. Secondo Stümer (2008) (pag. 2), “nella Repubblica democratica del Congo, la Cina
costruirà infrastrutture comprendenti 3.800 chilometri di strade, 3.200 chilometri di ferrovie, 32 ospedali, 145 centri sanitari e 2 università per un valore di 6
miliardi di dollari in cambio di importazioni di rame e cobalto”.
44
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
Gli Stati fragili subsahariani presentano ritardi anche nel settore delle telecomunicazioni. Negli ultimi 10 anni, le linee di telefonia
fissa hanno segnato una battuta d’arresto, mentre gli abbonamenti ai telefoni cellulari hanno registrato un tasso di crescita
estremamente elevato. Questi Stati guidano pertanto la classifica dei paesi caratterizzati dal passaggio dalla telefonia fissa a quella
mobile33, dato che le linee mobili richiedono investimenti iniziali inferiori, generalmente sostenuti da imprese straniere. Malgrado tali
cambiamenti, in questi paesi il numero di telefoni cellulari per 1.000 abitanti è pari alla metà di quello degli Stati non fragili (vedere
tabella 2.7) e meno del 3% della popolazione utilizza Internet, rispetto al 4,2% dell’Africa e al 23% della popolazione mondiale34.
Queste caratteristiche comuni (l’incapacità di mobilitare risorse nazionali, la dipendenza dalle risorse esterne, il ridotto sviluppo del
capitale umano, la scarsità delle infrastrutture e la dipendenza dai prodotti di base e dalle esportazioni concentrate) permettono
di individuare un gruppo di Stati in situazione di fragilità. A ogni modo, considerando altri fattori, a prevalere sono le differenze
tra gli Stati fragili.
2. GLI STATI FRAGILI PRESENTANO MOLTI ELEMENTI DI ETEROGENEITÀ
Nel contesto della recente crescita sostenuta dell’Africa subsahariana, laddove l’Angola ha assistito a
uno sviluppo esponenziale, lo Zimbabwe ha segnato un calo, nonostante abbia un elevato livello di
alfabetizzazione e una ridotta mortalità infantile, al contrario dell’Angola, paese in cui la situazione è
diametralmente opposta (vedere la tabella 1.1).
Diversi indicatori forniscono un’idea delle differenze esistenti tra gli Stati fragili. I tassi di crescita economica, ad esempio, sono
aumentati in tutto il continente dalla metà degli anni Novanta, una tendenza seguita anche dal gruppo degli Stati fragili, con una
crescita nell’ordine del 4% l’anno tra il 2000 e il 2008. Tuttavia, diversi sottogruppi hanno registrato incrementi a tassi del tutto
diversi: gli Stati fragili ricchi di risorse sono cresciuti al 6,3%, toccando il 10% nel 2002 e l’8,5% nel 2004 (figura 2.3), mentre gli Stati
fragili non ricchi di risorse hanno fatto segnare un tasso di crescita del 2,3%; i tassi dei singoli paesi divergono considerevolmente
anche per anno e in media35.
Figura 2.3: Crescita reale del PIL degli Stati fragili, degli Stati fragili ricchi di risorse e degli Stati
fragili non ricchi di risorse, 2000-2008
12
Stati fragili non ricchi di risorse
10
Stati fragili ricchi di risorse
Percentuale
8
Stati fragili
6
4
2
0
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
2008
-2
Fonte: elaborazione ERD sulla base di FMI (2009b), World Economic Outlook – Crisis and Recovery, aprile 2009.
Il reddito reale pro capite, nel 2008 pari in media a 600 dollari negli Stati fragili dell’Africa subsahariana, varia fra i 100 dell’RDC e i
4.500 della Guinea equatoriale. Il rapporto tra i due estremi all’interno del gruppo dei paesi fragili subsahariani non si discosta da
quello esistente tra la media di questo gruppo di Stati e i paesi membri dell’OCSE e rappresenta un esempio piuttosto eloquente
del grado di eterogeneità all’interno del gruppo degli Stati fragili.
Tuttavia, il PIL e il PIL pro capite non sono le uniche dimensioni da prendere in esame. È infatti importante considerare anche altri
aspetti per ottenere una migliore panoramica della situazione e della sostenibilità economiche e sociali e adottare così misure
politiche adeguate36. Le componenti dell’indice di sviluppo umano, ad esempio, inglobano importanti aspetti di eterogeneità.
33
34
35
36
Vedere Unione internazionale delle telecomunicazioni 2009. Si noti che il paese che ha concorso maggiormente all’aumento dei telefoni cellulari è stato la
Nigeria con 11 milioni di linee, sebbene anche Kenya e Costa d’Avorio abbiano fornito un notevole contributo.
Vedere Unione internazionale delle telecomunicazioni 2009.
Vedere FMI 2009a.
Fitoussi et al. 2009.
RAPPORTO EUROPEO
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45
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
Anche l’aspettativa di vita alla nascita varia considerevolmente all’interno della regione subsahariana: gli abitanti di São Tomé e
Príncipe hanno una speranza di vita alla nascita di 60 anni, in linea con la media dei paesi in via di sviluppo, mentre per i cittadini
di Mauritania e Zimbabwe ci aggiriamo intorno ai 40 anni. L’aspettativa di vita media nel gruppo degli Stati fragili, tuttavia, non si
discosta molto da quella degli Stati non fragili37.
Tabella 2.8: Caratteristiche macroeconomiche
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Sudan
Togo
Uganda
Zimbabwe
Africa subsahariana
Stati fragili dell’Africa subsahariana
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
Composizione settoriale del PIL(3)
Debito esterno, Riserve, mesi di
(1)
(2)
% del PIL
importazioni
Agricoltura
Industria
Manifattura
Servizi
9,9
150,5
4,9
55,6
12,0
61,2
52,3
122,6
53,7
…
1,1
66,2
11,3
46,0
77,6
257,0
18,8
571,8
…
16,0
2,4
16,8
105,8
17,7
…
…
85,1
12,3
20,1
50,2
73,9
18,9
5,1
4,5
5,4
2,5
8,3
7,3
0,9
4,0
3,6
…
12,1
-2,2
1,8
5,1
1,1
8,0
4,1
-6,0
…
5,6
12,1
7,0
4,9
5,5
…
…
5,3
9,2
0,9
5,0
4,6
5,4
8,9
54,0
19,9
55,8
20,5
45,2
45,7
4,2
22,7
4,0
2,7
17,5
47,3
29,0
12,9
61,8
27,1
54,0
13,1
41,0
33,0
41,0
17,0
46,4
…
32,3
44,0
32,3
19,0
26,0
30,4
19,7
69,7
19,0
33,2
15,5
54,8
11,8
27,7
73,5
26,3
17,0
94,3
23,0
13,5
15,0
37,5
11,5
18,8
19,0
47,8
17,0
39,0
21,2
21,0
25,0
…
28,5
24,0
18,4
24,0
30,1
30,3
29,4
4,3
…
18,1
7,5
5,3
4,2
6,5
4,9
18,3
…
8,6
8,7
5,3
…
3,7
7,2
11,5
…
…
…
…
8,5
…
…
…
6,2
…
9,1
…
10,6
8,1
12,9
21,4
27,0
46,9
28,7
24,7
…
26,6
22,3
51,0
79,0
3,0
59,5
39,2
56,0
49,6
26,8
54,1
27,0
39,1
43,0
28,0
37,8
63,0
28,6
…
39,2
32,0
49,2
57,0
43,8
39,2
50,1
PIL reale pro
capite(4)
1.456
113
687
223
410
366
101
1.188
528
…
4.621
162
180
383
515
141
485
134
…
190
626
315
783
247
…
…
222
352
…
1.128
601
1.811
Note: … rappresenta i dati non disponibili; (1) e (2) dati riferiti al 2007; (3) dati riferiti al 2006, eccetto per Niger (2003) e Burundi, Togo e
Zimbabwe (2005); (4) dati riferiti al 2008.
Fonti: (1) OCSE e BAfS (2009) African Economic Outlook 2009; (2) e (4) FMI (2009a) Regional Economic Outlook-Sub-Saharan Africa 2009;
(3)
Banca mondiale (2008a) World Development Indicators 2008.
Oltre il 70% di tutti gli IED in entrata negli Stati fragili dell’Africa subsahariana dal 2000 al 2007 ha riguardato appena cinque paesi:
Angola, Ciad, Guinea equatoriale, Nigeria e Sudan, tutti ben forniti di risorse naturali38.
Non esiste un modello chiaramente riconoscibile nelle principali variabili macroeconomiche. Alcuni paesi fragili hanno riserve
in valuta estera molto ridotte (meno di 90 giorni di copertura delle importazioni)39: nell’aprile 2009, Etiopia, Guinea e Zimbabwe
avevano ad esempio riserve per appena un mese di importazioni, mentre quelle degli esportatori di petrolio raggiungevano i sei
mesi. La scarsità di riserve rende più vulnerabili agli shock esterni questi paesi, che, a lungo andare, si ritrovano senza risorse per
espandere il settore manifatturiero e diversificare le proprie economie.
37
38
39
Vedere tabella 1.1 nel capitolo 1.
OCSE 2008.
Il gruppo degli Stati dell’Africa subsahariana ha in media 5,2 mesi di riserve, gli Stati non fragili 5,0 mesi: malgrado la presenza di variazioni all’interno di ogni
gruppo, non esiste una differenza significativa tra i due.
46
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Caratteristiche degli stati fragili
Non esiste un modello comune nemmeno per il debito estero 40. Grazie agli ingenti ricavi, gli esportatori di petrolio lo hanno
contenuto, e gli indicatori dell’indebitamento sono ampiamente sotto controllo. Ad esempio, il rapporto debito/RNL e il debito
totale per le esportazioni di beni e servizi sono notevolmente migliorati in Angola e Sudan a partire dal 200041. I paesi fragili poveri
di risorse, come la Liberia e la Guinea-Bissau, presentano ancora un elevato indebitamento, che ne minaccia lo sviluppo futuro.
Il livello e lo sviluppo di indicatori macroeconomici possono essere usati per calcolare l’indice di vulnerabilità economica di un paese42.
Tabella 2.9: Classificazione generale della vulnerabilità
Classifiche
Paese
Angola
Burundi
Camerun
Repubblica centrafricana
Ciad
Comore
Congo, Repubblica democratica del
Congo, Repubblica del
Costa d’Avorio
Gibuti
Guinea equatoriale
Eritrea
Etiopia
Gambia
Guinea
Guinea-Bissau
Kenya
Liberia
Mauritania
Niger
Nigeria
Ruanda
São Tomé e Príncipe
Sierra Leone
Somalia
Togo
Uganda
Zimbabwe
Naudé (2009)
BAfS
Commissione europea, DG
Sviluppo
Elevata
Elevata
Media
Scarsa
Media
Scarsa
Elevata
Scarsa
Elevata
n.c.
Scarsa
Scarsa
Scarsa
Scarsa
Media
Media
Media
Elevata
n.c.
Scarsa
Elevata
Scarsa
Media
Scarsa
n.c.
Media
Scarsa
n.c.
Elevata
Molto elevata
Scarsa
Elevata
Moderata
n.c.
Elevata
n.c.
Elevata
n.c.
Scarsa
Molto elevata
Moderata
Elevata
n.c.
Moderata
Elevata
Elevata
n.c.
Molto elevata
Elevata
Elevata
Elevata
Elevata
n.c.
Molto elevata
Scarsa
n.c.
Scarsa
Media
Scarsa
Elevata
Scarsa
Media
Elevata
Scarsa
Media
Elevata
Scarsa
Media
Media
Elevata
Media
Media
Media
Elevata
Elevata
Media
Scarsa
Media
Elevata
Media
n.c.
Media
Media
Elevata
Note: n.c. significa “non classificato”; gli indici di vulnerabilità coniugano in un’unità di misura sintetica la posizione esterna e fiscale di un
paese e il grado di diversificazione del suo paniere delle esportazioni.
Fonte: Naudé (2009) e Commissione europea – DG Sviluppo, comunicazione personale.
Un paese viene definito economicamente vulnerabile quando è particolarmente sensibile agli shock esogeni. Di seguito valuteremo
pertanto l’esposizione agli shock e la capacità di risposta. Intendiamo verificare se gli Stati fragili, in linea con le aspettative, sono
più vulnerabili agli shock rispetto ad altri paesi subsahariani. Rifacendoci a Naudé (2009), considereremo la diversificazione,
40
41
42
Il debito pubblico medio degli Stati fragili dell’Africa subsahariana ammonta al 73,9% del PIL, mentre quello degli Stati non fragili si attesta sul 18,9%, ancora
una volta senza differenze tra i due gruppi.
Reisen 2007.
La vulnerabilità economica è soltanto un aspetto della vulnerabilità complessiva di un paese, dato che i fattori economici non sono che uno dei tanti elementi
da considerare, pur presentando il vantaggio di essere più facilmente misurabili rispetto agli aspetti sociali. La vulnerabilità strutturale, comprendente elementi
quali instabilità politica, istituzioni malfunzionanti e conflitti, viene trattata nel capitolo 5. Negli Stati fragili sono questi gli elementi predominanti, ma gravi
problemi di misurazione li rendono di difficile valutazione. La tabella 2.9 riporta le misurazioni della vulnerabilità economica solo per quei paesi caratterizzati
da una situazione di fragilità; il documento informativo di Allen e Giovannetti (2009), nel Volume 1b, riporta l’elenco completo comprendente tutti gli Stati
subsahariani per cui sono disponibili dati sufficienti. La classificazione non è disponibile per paesi come la Somalia, per cui vi era soltanto un’unica componente
dell’indice economico.
RAPPORTO EUROPEO
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47
SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 2
l’indebitamento estero, l’apertura dell’economia, i crediti transfrontalieri, il rapporto tra patrimonio e attività ponderate in base
al rischio e il tasso di crescita del credito al settore privato43. Più precisamente, per ogni Stato fragile per cui disponiamo di dati (a
esclusione, dunque, di Mauritania, Somalia, Sudan e Zimbabwe) analizzeremo:
• l’apertura, misurata come quota delle esportazioni rispetto al PIL;
• la concentrazione delle esportazioni, misurata secondo l’indice di Herfindal-Hirschman: a una maggiore diversificazione del
paniere delle esportazioni corrisponde una minore vulnerabilità del paese;
• l’indebitamento estero, misurato come quota del PIL rappresentata dal debito estero;
• il rapporto tra patrimonio di vigilanza e attività ponderate in base al rischio;
• i crediti transfrontalieri;
• la crescita del credito al settore privato.
Per evitare distorsioni, calcoleremo la classificazione dei paesi come media aritmetica. Classificheremo tutti gli Stati subsahariani,
fragili e non fragili, avvalendoci di un criterio in virtù del quale per “bassa” si intenderà una vulnerabilità ridotta e per “alta” una
vulnerabilità elevata. Quindi, suddivideremo i paesi in tre gruppi pressoché uguali, procedendo da una vulnerabilità bassa a una
vulnerabilità alta (tabella 2.9). I paesi in situazioni di fragilità, in base alla nostra definizione operativa, sono ripartiti ugualmente
fra i tre gruppi44.
3. IN SINTESI
Il ruolo fondamentale rivestito dalle funzioni statali ai fini dello sviluppo umano ed economico è
rispecchiato da alcune caratteristiche comuni agli Stati fragili analizzate nel presente capitolo. La scarsa
capacità di mobilitare risorse nazionali e di promuovere la diversificazione economica e l’ascesa nelle
catene di valore, l’elevata dipendenza da risorse finanziarie esterne, nonché il basso livello di capitale
umano e la persistenza di infrastrutture sottosviluppate e scollegate tra loro sono tutti sintomi della
fragilità dello Stato. Dietro a queste caratteristiche comuni, tuttavia, si cela anche un elevato grado di
eterogeneità dovuto a storia, disponibilità di risorse, geografia, coesione etnica e religiosa diverse. Da qui,
dunque, l’esistenza di situazioni estremamente difformi in termini di risultati e di grado di vulnerabilità
all’interno del gruppo degli Stati fragili.
Le diverse caratteristiche di fragilità (punti comuni ed eterogeneità) non solo si combinano in modi diversi, ma mutano anche
nel corso del tempo. Pertanto, tentare di classificare gli Stati fragili, persino in sottogruppi, è un’impresa ardua, dato che tale
categorizzazione implica ampie valutazioni soggettive.
43
44
Guillaumont e Guillaumont Jeanneney (2009) fanno riferimento alla vulnerabilità strutturale avvalendosi di un indice di vulnerabilità economica che combina
l’esposizione agli shock (dimensioni della popolazione, distanza dal mercato mondiale, concentrazione di esportazioni di beni e quota relativa di valore aggiunto
in agricoltura, silvicoltura e pesca) con le “dimensioni” dello shock stesso. La BAfS (2009) utilizza fattori macroeconomici strutturali quali una riduzione delle
riserve, un’elevata concentrazione di proprietari stranieri nel settore bancario, aspettative di inflazione e riduzioni della crescita del PIL, delle ragioni di scambio
e delle partite correnti. La DG Sviluppo della Commissione europea impiega tre insiemi di variabili: dipendenza dai proventi delle esportazioni, dipendenza
da flussi finanziari esteri e capacità di risposta.
Anche le classificazioni della BAfS e della DG Sviluppo della Commissione europea forniscono risultati analoghi. Gli Stati fragili sono suddivisi tra i diversi
gruppi malgrado le variabili considerate ai fini della classificazione dei paesi in base alla loro vulnerabilità siano in certo modo diverse.
48
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 3
LE RADICI STORICHE DELLA
FRAGILITÀ DELLO STATO
Il presente capitolo esamina la questione di una possibile origine storica comune della fragilità dello
Stato dei paesi dell’Africa subsahariana, prendendo le mosse da un dato di fatto che si spinge oltre
qualsiasi disquisizione teorica in merito alla definizione e alla misurazione della fragilità1: la maggior
parte degli Stati fragili è sempre costituita da paesi dell’Africa subsahariana. L’ampia varietà degli sviluppi
istituzionali nella regione sembra suggerire che tale radice storica comune non operi in modo isolato,
ma sia al contrario legata a doppio filo a dinamiche specifiche in ciascun paese. Il capitolo non fornisce
una panoramica dettagliata dei fattori alla base della fragilità dei singoli Stati subsahariani, né vuole
rappresentare una sintesi di un’accurata analisi del contesto locale o tanto meno sostituirsi ad essa.
Ciononostante, questa sezione fornisce importanti spunti di riflessione per l’attuazione di interventi esterni
efficaci in situazioni di fragilità.
La “spartizione dell’Africa”, attuata dai paesi europei alla fine del XIX secolo, appare una candidata naturale per l’origine storica
della fragilità che affligge gli Stati dell’Africa subsahariana. Questo avvenimento storico accomuna infatti gran parte della regione
e il periodo coloniale ha dimostrato di sortire effetti a lungo termine sul modello dello sviluppo istituzionale2. Se è vero che le
istituzioni statali possono essere fragili anche in paesi come l’Etiopia e la Liberia, non interessati da tale spartizione, ciò non toglie
che il colonialismo europeo abbia potuto ostacolare l’instaurazione di strutture statali più forti nella regione.
Malgrado sia da considerarsi uno spartiacque nella storia africana, l’esperienza coloniale ha però riguardato soltanto un breve
periodo di tempo. Per questo motivo il presente capitolo valuterà anche l’ipotesi, seguendo la falsa riga di Herbst (2000), secondo
cui la fragilità può essere collegata a caratteristiche regionali più fortemente radicate, che hanno reso e rendono tuttora difficile
seguire un cammino di sviluppo istituzionale in grado di condurre a Stati legittimi ed efficaci.
Così facendo non si vuole certo sminuire l’importanza attribuita al ruolo dell’esperienza coloniale nello sviluppo istituzionale degli
Stati postcoloniali, inquadrandola anzi in una prospettiva più ampia3. La spartizione dell’Africa non si verificò in una situazione
di vuoto istituzionale: la formazione degli Stati coloniali, difatti, interagì con le caratteristiche istituzionali preesistenti nei paesi
colonizzati, le quali, lungi dall’essere statiche e immutabili nel tempo, sono state fortemente influenzate dal periodo coloniale.
1. CAUSE SPECIFICHE E FATTORI SOGGIACENTI COMUNI
Nonostante gli Stati dell’Africa subsahariana presentino tratti distintivi comuni, “la fragilità dello Stato
è accomunata da pochi elementi a eccezione di tali tratti: povertà, insicurezza, propensione ai conflitti,
corruzione”4. Sebbene non si debba tralasciare la dimensione regionale della fragilità, le cause alla base
della fragilità dello Stato potranno essere rinvenute molto più probabilmente in fattori determinanti
caratteristici dei singoli paesi: tali fattori conferiscono infatti al gruppo degli Stati fragili quell’eterogeneità
di cui si è discusso al capitolo 2. Giungere a una profonda comprensione dei motivi che hanno gettato
un paese in una spirale discendente, accompagnata da un progressivo sfaldamento della capacità e della
legittimità delle sue istituzioni statali, è un’impresa pressoché impossibile avvalendosi soltanto di analisi
finalizzate a conclusioni generalizzate.
Il raggruppamento geografico degli Stati fragili suggerisce comunque l’esistenza di alcuni fattori regionali comuni, probabilmente
in grado di interagire con i fattori propri di ciascun paese nella determinazione della fragilità delle istituzioni statali. Se riuscissimo
a stabilire fattori comuni concorrenti alla manifestazione (e alla persistenza) della fragilità, potremmo gettare le basi di un ampio
contesto analitico potenzialmente in grado di contribuire alla strutturazione e alla comprensione del ruolo fondamentale rivestito
dai fattori specifici di ogni paese.
Gran parte del dibattito incentrato sulla fragilità dello Stato, tanto in ambito accademico quanto all’interno della comunità attiva
nel settore dello sviluppo, non tiene conto delle radici storiche della fragilità. Ponendo l’enfasi sulla sua dimensione storica, è
1
2
3
4
Bertoli e Ticci 2009.
Vedere, ad esempio, Acemoglu et al. 2001; Lange 2004; Angeles e Neanidis 2009.
Come osserva Robinson (2002), la valutazione degli influssi relativi di diversi fattori storici è ancora una questione empirica irrisolta.
Briscoe 2008, pag. 7.
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Capitolo 3
tuttavia possibile accrescere la solidità e la credibilità degli sforzi dell’Europa a sostegno del potenziamento istituzionale. L’Europa
potrà difficilmente aspettarsi che il suo impegno venga considerato un intervento neutrale o meramente tecnico: la percezione
della colpevolezza del vecchio continente per la fragilità delle istituzioni statali è infatti diffusa in tutta l’Africa subsahariana. Alcuni
autori, in realtà, considerano questo impegno una sfumatura della vecchia mission civilisatrice, che sarebbe stata alla base della
colonizzazione europea all’epoca della spartizione dell’Africa5. Procedere a un’accurata analisi del ruolo dei paesi europei rappresenta
pertanto un requisito indispensabile per fornire un sostegno europeo efficace al potenziamento istituzionale.
2. LA FRAGILITÀ È UN’EREDITÀ COLONIALE?
I paesi europei, detentori per secoli di roccaforti lungo la costa africana, ottennero il controllo politico della
maggior parte dell’Africa subsahariana nel giro di pochi decenni tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo.
Dalla Conferenza di Berlino all’indipendenza delle colonie portoghesi a metà degli anni Settanta trascorse
meno di un secolo, ma tanto bastò all’esperienza coloniale per segnare per sempre la storia dell’Africa.
Sono necessari almeno tre elementi per sostenere la tesi secondo cui la fragilità dello Stato sia uno dei lasciti dell’esperienza coloniale
in Africa. Innanzitutto, occorrerà individuare quelle caratteristiche salienti degli Stati coloniali, e del loro processo di formazione, che
richiamino i tratti distintivi di istituzioni statali fragili. Una volta stabilita tale similitudine, bisognerà capire perché l’indipendenza
politica dalle ex potenze coloniali non abbia eliminato, o quanto meno modificato significativamente, tali caratteristiche. Infine,
dovremo descrivere i fattori che hanno contribuito alla loro persistenza negli Stati postcoloniali, dato che è trascorso più di mezzo
secolo da quando la Costa d’Oro ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1957 spianando così la strada alla decolonizzazione
dell’Africa subsahariana.
3. GLI STATI COLONIALI NELL’AFRICA SUBSAHARIANA
Esistono quattro aspetti collegabili alla fragilità dello Stato nella formazione delle istituzioni statali
dell’Africa subsahariana.
• Il loro carattere artificiale: la creazione di Stati coloniali ha introdotto un elemento avulso dalle caratteristiche sociali, istituzionali
e culturali dei territori colonizzati.
• La loro natura estrattiva: la struttura delle istituzioni statali veniva concepita in funzione del trasferimento delle risorse verso
la potenza coloniale e non per promuovere lo sviluppo locale.
• La loro estroversione intrinseca: lo Stato instaurava stretti legami economici con la potenza coloniale in un rapporto di dipendenza
politica.
• Il cosiddetto “indirect rule” (governo indiretto): un sistema di amministrazione coloniale adottato inizialmente dall’Impero
Britannico6, ma applicato anche nelle colonie francesi e belghe7.
Le potenze coloniali europee hanno dunque trapiantato strutture istituzionali estranee al contesto locale8. Lo sviluppo delle istituzioni
statali in epoche precoloniali aveva infatti seguito un andamento diverso rispetto a quello europeo9: gli Stati coloniali non erano
emersi da un lungo processo di consolidamento delle istituzioni informali e di mediazione tra interessi divergenti all’interno della
società, venendo invece imposti dall’esterno dalla schiacciante potenza militare dei paesi europei. “Nella maggior parte dell’Africa,
lo Stato [è] essenzialmente artificiale, ‘sospeso al di sopra’ di una società che non l’avrebbe mai prodotto né richiesto”10.
Il carattere artificiale delle istituzioni statali contribuì pertanto al loro distacco dalla società11. La dipendenza dal sistema del governo
indiretto corrobora questa tesi, dato che solo le posizioni più basse dell’amministrazione locale potevano essere ricoperte dalla
popolazione indigena. Sebbene la maggior parte degli amministratori locali fosse costituita da capi tradizionali o consuetudinari,
i loro ruoli, e soprattutto le loro relazioni con le comunità locali, furono ridefiniti dalla potenza coloniale12. L’argomentazione di
Kaplan (2009) richiama un ragionamento già proposto dalla letteratura dell’economia dello sviluppo: Myrdal (1972) attribuiva la
debolezza della struttura statale nel periodo postcoloniale proprio all’introduzione esogena di istituzioni statali, che instillarono
nei cittadini un permanente senso di opposizione nei loro confronti e una certa riluttanza a osservarne le regole.
5
6
7
8
9
10
11
12
Paris 2002.
Lugard 1922.
Lange 2004.
Kaplan 2009.
Herbst 2000.
Luling 1997, pagg. 288–289.
Kaplan 2009.
Ranger 1983, pagg. 211–262; UNECA 2007.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Le radici storiche dellafragilità dello stato
Queste strutture artificiali, per giunta, non miravano a sostenere lo sviluppo economico dei territori colonizzati, bensì ad assecondare
gli interessi economici delle potenze coloniali. Il perseguimento di questi interessi non assumeva la forma di un meccanismo di
“sbocco per le eccedenze”, anzi: le potenze coloniali estraevano risorse naturali e attingevano alle entrate fiscali delle loro colonie
sottoponendole a livelli di imposizione talmente elevati da promuovere lo sviluppo delle infrastrutture locali solo in misura esigua.
Il carattere estrattivo dello Stato coloniale è strettamente collegato alla sua estroversione orientata verso la potenza coloniale13. Un
simbolo lampante di questo orientamento è rappresentato dall’ubicazione delle capitali lungo la costa. “Con una certa sistematicità,
gli europei creavano capitali che sospingevano il potere verso l’oceano, allontanandolo dai centri di potere più interni che gli africani
avevano instaurato poco a poco”14. Accra, ad esempio, divenne la capitale della Costa d’Oro al posto di Kumasi, città dell’entroterra
e centro dell’impero Ashanti, mentre Bamako si sostituì a Timbuctu quale fulcro politico del Mali. Il limitato orientamento degli Stati
coloniali verso l’interno è rispecchiato anche dallo scarso sviluppo delle strade che caratterizzò il periodo coloniale: la costruzione
di infrastrutture veniva infatti tralasciata qualora non sfociasse direttamente in un tornaconto finanziario. Le ferrovie, ad esempio,
venivano costruite per il trasporto delle materie prime dall’interno verso i porti, ma raramente collegavano i territori interni tra loro.
Anche gli elevati tassi di mortalità degli europei nell’Africa subsahariana influirono sulla forma assunta dal dominio coloniale,
limitando le opportunità di un loro diffuso stanziamento diretto15. Gli abitanti delle potenze coloniali (Gran Bretagna in primis,
ma anche, seppure in misura minore, Francia e Belgio) si stabilivano nelle colonie soltanto in rarissimi casi, ricorrendo piuttosto al
governo indiretto per la loro amministrazione. Le posizioni più importanti dell’amministrazione coloniale erano comunque ricoperte
dai colonizzatori, i quali facevano invece affidamento sulle istituzioni tradizionali o consuetudinarie per mantenere l’ordine al di
fuori della capitale16, poiché l’amministrazione aveva un’influenza diretta estremamente limitata nelle zone rurali.
Il sistema del governo indiretto alimentò il fenomeno del dispotismo decentralizzato17, in quanto le potenze coloniali avevano
ridefinito il rapporto esistente tra i capi consuetudinari e le comunità. Se è vero, infatti, che nel periodo precoloniale le comunità
potevano esautorare i propri capi, ora il potere poteva essere conferito o revocato soltanto dall’amministrazione coloniale18. Questo
sistema disgregò la responsabilità dei capi eletti per tradizione o consuetudine nei confronti delle loro comunità, perché adesso
potevano sfruttare la loro autorità locale per accumulare ricchezze personali, spianando la strada a quella che sarebbe diventata
poi la privatizzazione dello Stato19.
Queste quattro caratteristiche degli Stati coloniali dell’Africa subsahariana, strettamente intrecciate fra loro, richiamano alcuni
tratti distintivi della fragilità dello Stato. Il carattere artificiale della formazione di una nazione allontana le istituzioni statali dalla
società, ostacolando i processi politici in grado di assicurare un equilibrio tra le aspettative dei cittadini e la capacità dello Stato.
Lo scarso orientamento allo sviluppo degli Stati fragili ricorda il carattere estrattivo degli Stati coloniali, laddove la loro incapacità
di mobilitare risorse nazionali può essere rapportata all’estroversione delle istituzioni statali create in epoca coloniale. Inoltre,
la presenza di una duplice struttura statale rafforzata dal governo coloniale indiretto potrebbe essere alla base della posizione
neopatrimoniale di alcuni Stati fragili dell’Africa subsahariana20.
4. DECOLONIZZAZIONE
A eccezione delle colonie portoghesi, che furono coinvolte in una lunga e violenta lotta per
l’indipendenza, e di quelle sudafricane, gli altri paesi subsahariani ottennero l’indipendenza politica
dalle ex potenze coloniali pochi anni dopo il 1957, quando la Costa d’Oro acquisì l’indipendenza con il
nome di Ghana. Tuttavia, sebbene la transizione pacifica dal dominio coloniale all’autonomia politica
offrisse un’ottima occasione per sbarazzarsi delle caratteristiche istituzionali nocive degli Stati coloniali,
le élite politiche di questi nuovi paesi raramente si spinsero oltre una semplice africanizzazione della
burocrazia svincolata da profondi cambiamenti istituzionali. Come mai lo sviluppo istituzionale degli Stati
subsahariani non fu interessato da una svolta radicale una volta riconquistata l’indipendenza?
La diminuzione del carattere artificiale avrebbe richiesto l’indigenizzazione delle istituzioni statali, per riuscire ad accorciare il divario
esistente tra le istituzioni formali e quelle informali. Tuttavia, svariati fattori ostacolarono questo sviluppo. Innanzitutto, la debolezza
delle strutture amministrative (e della sfera di influenza) di diversi Stati coloniali induceva i leader politici nazionali a una certa
13
14
15
16
17
18
19
20
Clapham 1996.
Herbst 2000, pag. 16
. Acemoglu et al. 2001.
Lange 2004.
Lange 2004.
Lugard 1922.
Bayart 1999.
Mamdani 1996.
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Capitolo 3
cautela sul piano dell’introduzione di modifiche di peso alla struttura istituzionale che intendevano consolidare. “Avevano bisogno
di farsi carico di un apparato governativo funzionante, non di cercare di crearne uno dal nulla nel contesto dell’inimmaginabile
confusione generata dalla conquista dell’indipendenza e dal contemporaneo riassetto dell’intera struttura politica”21.
Inoltre, sistemi giuridici, di governo ed educativi eccessivamente occidentalizzati impedivano alle comunità locali di trarre vantaggio
dalle proprie risorse, capacità e reti sociali e generavano conflitti superflui tra le istituzioni formali e informali. La presenza di strutture
governative fortemente centralizzate in paesi in cui gli enti statali formali continuavano a essere inefficaci e caratterizzati da esigue fonti
alternative di reddito obbligò i vari gruppi a competere tra loro per le scarse risorse statali, accentuando la frammentazione politica.
A ciò si aggiunga il fatto che i leader di molti di questi Stati appena nati erano stati educati in paesi occidentali, ad esempio Julius
Nyerere nel Regno Unito, Léopold Sédar Senghor in Francia e Kwame Nkrumah negli Stati Uniti, e i leader formatisi in paesi africani,
come Milton Obote o Félix Houphouët-Boigny, avevano studiato presso istituti accademici che sostenevano fortemente le istituzioni
e i valori politici occidentali e ne consideravano l’indigenizzazione come un ritorno alle strutture politiche precoloniali nocivo per
lo sviluppo22. Il contributo fornito dalle istituzioni tradizionali al funzionamento degli Stati coloniali impediva di fare affidamento
su di esse per ridurre il divario tra le strutture statali e i valori culturali e politici locali23.
Nonostante andasse palesemente a scapito dello sviluppo degli Stati dell’Africa subsahariana, il carattere estrattivo delle istituzioni
statali nel periodo coloniale poteva ancora servire gli interessi faziosi dei leader politici. Acemoglu et al. (2001) sostengono che “in
molti casi, dopo aver dato vita a istituzioni assolutiste, le potenze europee delegarono la gestione quotidiana dello Stato a una ridotta
élite autoctona, che spesso controllava lo Stato dopo la riconquista della sua indipendenza e favoriva le istituzioni estrattive”24.
Fu impossibile eliminare istantaneamente l’estroversione degli Stati all’epoca dell’indipendenza, perché la dipendenza dalle fonti
di entrate estere rispecchiava caratteristiche profondamente radicate nei paesi subsahariani. La rete stradale, ad esempio, era
finalizzata al collegamento con i paesi stranieri e non alla promozione dello sviluppo economico locale. L’estroversione, inoltre,
poteva fare gli interessi dell’élite politica. Ad esempio, per Collier (2009a), Mobutu Sese Seko, che creò la propria ricchezza personale
grazie ai proventi delle esportazioni delle risorse naturali dello Zaire, non aveva alcun interesse a ridurre la dipendenza del paese
dalle fonti di entrate estere25: tale diminuzione, infatti, sarebbe dovuta andare di pari passo con l’introversione della generazione
delle risorse statali. Una maggiore dipendenza dall’imposizione fiscale avrebbe di fatto innescato un circolo al contempo virtuoso
(per la società) e vizioso (per lui), in grado di elevare la richiesta di responsabilità nei confronti dei cittadini e di un progressivo
rafforzamento delle istituzioni statali.
Alla mancanza di una volontà politica volta ad accrescere la mobilitazione delle risorse nazionali corrispondeva inoltre una
significativa limitazione in termini di capacità. L’aumento del gettito fiscale era un’impresa impegnativa per una struttura statale
poco sviluppata che stentava a proiettare il proprio potere al di fuori delle zone urbane, in una regione in cui la maggior parte della
popolazione viveva in aree rurali scarsamente popolate.
Perciò, l’indipendenza politica conquistata dai paesi subsahariani non segnò una svolta significativa nello sviluppo delle istituzioni
statali. Ne consegue che il secondo anello della catena necessario a collegare l’attuale fragilità dello Stato all’esperienza coloniale è
solido. Ci si può dunque basare su fondamenta profonde per giustificare il motivo per cui l’indipendenza politica conquistata dagli
Stati dell’Africa subsahariana non ha comportato un cambiamento radicale nello sviluppo delle loro istituzioni statali.
5. CONTESTO INTERNAZIONALE E CONTINUITÀ
Lo sviluppo istituzionale non è andato di pari passo con l’indipendenza politica. Tuttavia, poiché ormai
sono trascorsi più di tre decenni dalla fine della decolonizzazione, occorre integrare le argomentazioni
alla base della mancanza di un profondo cambiamento delle istituzioni con fattori in grado di spiegare la
persistenza di alcune caratteristiche istituzionali fondamentali. Sebbene nell’Africa subsahariana esistano
mirabili esempi di riuscito sviluppo istituzionale, come il Botswana, si tratta pur sempre di eccezioni che
confermano la regola. Perché?
Gli Stati indipendenti dell’Africa subsahariana nacquero grazie a un “colpo di penna di una mano internazionale”, in quanto ottennero
immediatamente il riconoscimento dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite26. Fu così che “nacquero gli Stati dell’ultimo
21
22
23
24
25
26
Clapham 1996, pag. 35.
Clapham 1996.
Si noti che la percezione dell’arretratezza delle istituzioni informali (poco dopo l’indipendenza) procedeva di pari passo con la dipendenza delle élite politiche
dai capi consuetudinari e tradizionali quali fonte di sostegno politico. Questo atteggiamento, pur non riducendo la discrepanza esistente tra istituzioni formali
e informali, contribuì alla persistenza nel tempo degli effetti collaterali nocivi del sistema coloniale del governo indiretto.
Acemoglu et al. 2001. Un’argomentazione analoga è illustrata anche in Mamdani 1996.
Collier 2009a.
Collier 2009a.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Le radici storiche dellafragilità dello stato
miliardo”, senza troppo considerare la loro sostenibilità economica o politica. In merito alla loro sostenibilità economica, Collier
(2009a) osserva che molti dei nuovi Stati erano minuscoli, in quanto il limitato lasso di tempo dell’esperienza coloniale aveva
impedito l’aggregazione dei cittadini dei territori coloniali attorno a un’identità nazionale condivisa.
L’indipendenza dell’Asia meridionale dal dominio coloniale britannico diede origine nel 1949 soltanto a due paesi indipendenti
(India e Pakistan) costituiti da una miriade di diverse entità politiche precoloniali, laddove l’Africa occidentale francese si suddivise
in numerosi piccoli Stati le cui frontiere furono tracciate arbitrariamente. Questi paesi erano troppo piccoli per essere uno stato: in
altre parole, le dimensioni ridotte impedivano loro di garantire sicurezza e affidabilità27. L’arbitrarietà dei confini coloniali creò
“popolazioni costituite da gruppi identitari eterogenei e spesso incompatibili tra loro”, compromettendo la sostenibilità politica
degli Stati postcoloniali28. Se è vero che le diverse identità tribali ed etniche erano chiaramente precedenti al periodo coloniale, è
vero anche che le amministrazioni coloniali determinarono l’“immobilizzazione delle popolazioni, il rafforzamento dell’etnicità e
una maggiore rigidità della definizione sociale”, quando invece l’Africa subsahariana precoloniale non era affatto caratterizzata da
un’“unica identità ‘tribale’, poiché per la maggior parte degli africani questa poteva variare, dando così origine a molteplici identità”29.
Ranger fa esplicito riferimento all’“invenzione delle tradizioni nell’Africa coloniale”, dimostrando che alcuni tratti distintivi delle
società africane postcoloniali, quali l’importanza delle affiliazioni etniche o tribali, non sono un lascito del periodo precoloniale,
bensì nacquero, o furono sostanzialmente rafforzate, all’epoca del dominio coloniale.
Per fornire un esempio eloquente di tale dinamica, Newbury (1998) rammenta che “l’amministrazione belga in Ruanda [...] tentò di
strutturare l’ordine sociale, di razionalizzare e standardizzare i rapporti sociali eterogenei [...]. Negli anni Trenta, venivano emesse
carte d’identità indicanti la categoria etnica di una persona. [...] Tali misure non crearono etnicità, ma servirono invece a forgiarne
la rilevanza sociale. Così, nel Ruanda coloniale, gli Hutu finirono per essere classificati come cittadini di seconda classe. Questa
situazione risultò palese nello stanziamento delle nuove risorse sociali ed economiche coloniali”30. Questo esempio suggerisce
che i gruppi divisi, sulla scorta di identità etniche e tribali, erano spesso il prodotto del dominio coloniale, non meno di quanto lo
fosse la struttura statale.
I neonati Stati dell’Africa subsahariana erano pertanto afflitti da due problemi strutturali (frammentazione dell’identità politica e
debolezza delle istituzioni nazionali) che insieme precludevano la formazione di un solido sistema di governo nazionale, minando
pesantemente la legittimità dello Stato e generando assetti politici altamente instabili e difficilmente riformabili. I due problemi
si alimentavano a vicenda, compromettendo qualsiasi tentativo di creare uno Stato legittimo ed efficace. Le divisioni etniche (e,
collegate a queste, le divisioni religiose e tra clan, nonché le varie forme geografiche e socioeconomiche di frammentazione politica)
impedivano la formazione di “uno dei principali requisiti per il funzionamento degli Stati, [...] la creazione di strutture burocratiche
apolitiche (pubblica amministrazione, magistratura, polizia, esercito) sostenute da un’ideologia che legittimi il ruolo dell’autorità
statale neutrale nel mantenimento dell’ordine sociale nelle forme prescritte e attraverso lo stato di diritto”31.
Laddove molti gruppi coesi caratterizzati da lunghe storie comuni hanno sviluppato sofisticati sistemi politici, economici e sociali
in grado di mantenere la stabilità e favorire il progresso economico, le popolazioni divise appaiono prive di tali meccanismi. Le
società frammentate, se accompagnate da strutture governative deboli, tendono a gravitare verso un’“atmosfera soffocante di
circoli viziosi” in cui, come segnalato da Putnam, “la defezione, la sfiducia, il lassismo, lo sfruttamento, l’isolamento, il disordine
e il ristagno si intensificano a vicenda”32. Una volta raggiunto il predominio all’interno di una società, tali modelli malfunzionanti
e improduttivi continueranno a esistere perché, come illustrato da North, l’elevato grado di dipendenza dal percorso di sviluppo
seguito da un determinato quadro istituzionale fornisce “disincentivi all’attività produttiva [creando] organizzazioni e gruppi
interessati al mantenimento dei vincoli esistenti”, il che “rappresenta un importante fattore per poter spiegare la persistenza di
bassi tassi di crescita nei paesi in via di sviluppo”33.
Nunn (2007) presenta un modello caratterizzato da molteplici equilibri dimostrando che un contesto istituzionale introdotto
dall’esterno, coniugato a diritti di proprietà incerti e a uno scarso livello di produzione, in cui lo Stato estrae risorse dal sistema
economico, è in grado di persistere persino una volta rimossa la fonte di estrazione esterna. “La società rimane intrappolata in
questo equilibrio subottimale anche al termine del periodo di estrazione esterna”, quindi l’indipendenza politica non si traduce
nella rimozione di un contesto istituzionale socialmente indesiderabile34.
27
28
29
30
31
32
33
34
Collier 2009a.
Kaplan 2009, pag. 2.
Ranger 1983, pag. 248.
Newbury 1998, pag. 11.
Easterly 2000, pag. 12.
Putnam 1993, pag. 177.
North 1990, pag. 99.
Nunn 2007, pag. 173.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 3
Sebbene la sostenibilità economica e politica della maggior parte degli Stati postcoloniali dell’Africa subsahariana fosse limitata,
la mappa politica della regione è rimasta inalterata dalla fine del processo di decolonizzazione. “È dal 1945 che non scompaiono
Stati a seguito di azioni militari intraprese da paesi vicini”35. Questi paesi non sono stati soggetti a quella minaccia militare esterna,
tanto cruciale nel consolidamento degli Stati europei36.
Per citare estesamente Collier (2009b), “la decolonizzazione avvenne in seguito alla guerra internazionale più spaventosa della
storia e nel contesto della corsa alle armi nucleari. Non sorprende che tale opzione non fosse più ritenuta un comportamento
accettabile per un governo: era troppo dispendiosa e le guerre tra paesi vicini sarebbero potute sfociare in una guerra globale.
A seguito della pressione internazionale, esercitata anche tramite la mediazione internazionale delle Nazioni Unite e di gruppi
regionali quali l’Organizzazione dell’unità africana, l’incidenza delle guerre internazionali diminuì radicalmente. […] Il processo
darwiniano per cui gli Stati forti assorbono quelli deboli, e in virtù del quale la Germania era passata da più di 300 stati a un unico
stato, si arrestò completamente”37.
Le minacce militari esterne avevano creato l’esigenza dell’introversione dello Stato, che doveva riscuotere imposte per finanziare
l’apparato militare necessario a farvi fronte. La necessità dello Stato di mobilitare risorse nazionali indusse i cittadini a esigere che
questo rendesse conto di come venivano impiegate le risorse fiscali, imponendo così dei vincoli alle sue azioni. Inoltre, il bisogno
di trovare risorse spinse gli Stati a creare istituzioni orientate allo sviluppo, come la garanzia dei diritti di proprietà, dato che la
mobilitazione delle risorse nazionali era strettamente collegata alla forza del sistema economico. Le minacce esterne consolidarono
anche un’identità nazionale condivisa e rafforzarono il processo politico mediando gli interessi dello Stato e della società.
Malgrado non fossero soggetti a insidie esterne, gli Stati subsahariani palesavano un’insicurezza elevata, anche se le minacce
provenivano dalla ribellione interna e non dagli Stati limitrofi38. La vitalità della ribellione era legata alle ridotte dimensioni dei
nuovi Stati, che accrescevano le possibilità dei ribelli di sconfiggere l’esercito e conquistare il potere, laddove, invece, “grandezza
è sinonimo di sicurezza”39. Se è vero che la protezione dalle minacce esterne (ritenuta un bene pubblico) porta a far collimare gli
interessi dell’élite politica con quelli della società, la tutela da minacce interne non conduce allo stesso risultato. La repressione di
una minaccia interna è infatti un bene privato che determinate parti della società potrebbero non caldeggiare, e non contribuisce
affatto al rafforzamento di un’identità nazionale condivisa.
Le minacce interne non costituiscono una grave minaccia alla stabilità di un governo: si stima infatti che solo un tentativo di ribellione
interna su cinque riesca a rovesciare un governo. Pertanto, la principale minaccia per le élite dominanti dell’Africa subsahariana
era costituita dall’esercito, considerato che i colpi di stato avevano più possibilità di successo delle ribellioni40. Questa situazione si
poneva come ostacolo anche per il funzionamento del principale meccanismo di consolidamento delle istituzioni statali in Europa:
il rafforzamento dell’esercito. Mobutu Sese Seko indebolì e divise deliberatamente l’esercito zairese in vari ambiti per ridurre il
rischio di un colpo di stato, ottenendo però un risultato paradossale: l’invasione dello Zaire da parte del vicino e piccolo Ruanda
negli anni Novanta41.
Pertanto, la fragilità dello Stato nei paesi dell’Africa subsahariana favoriva gli interessi ben definiti dell’élite politica locale. La
persistente debolezza delle istituzioni statali nel periodo postcoloniale, inoltre, collimava con gli interessi delle ex potenze coloniali42:
una volta abbandonato il controllo politico, queste volevano infatti mantenere il controllo economico per continuare a estrarre le
preziose risorse delle loro ex colonie.
Anche gli aiuti dei paesi donatori avrebbero potuto consolidare l’estroversione degli Stati postcoloniali, riducendo gli incentivi a
favore di una più efficace mobilitazione delle risorse nazionali. Il criterio della selettività degli aiuti sancito dal consenso di Monterrey
consisteva nel ricompensare i paesi beneficiari dotati di un ambiente nazionale favorevole alla mobilitazione delle risorse interne e
capaci di fare un uso efficace degli investimenti e dell’assistenza internazionali43. Tuttavia, si teme fortemente che gli aiuti possano
avere un effetto nocivo su questo importante fattore di rafforzamento delle istituzioni statali.
35
36
37
38
39
40
41
42
43
Collier 2009b, pag. 4.
Tilly 1990.
Collier 2009b, pag. 4.
Collier 2009b.
Collier 2009b.
Collier 2009b.
Collier 2009a.
Wallerstein 1975.
Dollar e Levin 2006.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Le radici storiche dellafragilità dello stato
6. LA DIPENDENZA DELLE ISTITUZIONI DAL PERCORSO DI SVILUPPO: DISTACCO ED
ESTROVERSIONE
Il modello di insediamento coloniale esercitò un’influenza forte e duratura sui parametri di misurazione
dell’attuale qualità istituzionale44. La teoria alla base dell’analisi empirica, non limitata all’Africa
subsahariana, vuole che i tassi di mortalità dei colonizzatori europei abbiano inciso notevolmente sul loro
modello di insediamento. Nelle colonie in cui gli europei si stabilivano in misura estremamente ridotta (a
causa, appunto, degli elevati tassi di mortalità), vi erano minori probabilità che fosse adottato il quadro
giuridico e istituzionale della potenza coloniale, che veniva trasferito soltanto dove richiesto da quei
coloni europei direttamente interessati alla creazione di una replica del quadro istituzionale improntato
allo sviluppo tipico dei paesi europei. Tuttavia, nelle zone di insediamento limitato (come la maggior
parte dell’Africa subsahariana, con le poche eccezioni delle colonie portoghesi), aumentava fortemente la
probabilità dell’adozione da parte degli Stati coloniali di un quadro istituzionale di carattere estrattivo45.
Ma oltre alla portata dell’insediamento diretto all’interno delle colonie, anche il sistema di dominio coloniale riveste un ruolo
importante46. Uno studio eseguito su 30 colonie britanniche, metà delle quali situate nell’Africa subsahariana, vaglia l’ipotesi della
nocività del dominio coloniale indiretto sullo sviluppo istituzionale nel periodo post-indipendenza. La portata del dominio indiretto,
definita come “il numero di cause di diritto consuetudinario riconosciute in ambito coloniale sul totale delle cause promosse nel 1955”,
ha una notevole influenza su diversi parametri di misurazione della qualità istituzionale, quali l’efficienza burocratica, l’onere normativo
dello Stato, lo stato di diritto e l’assenza di corruzione governativa47. Questo esempio, sebbene riferito unicamente alle ex colonie
britanniche, è in linea con le argomentazioni addotte a sostegno della pesante eredità del dominio indiretto nell’Africa subsahariana.
Finora abbiamo sostenuto l’idea secondo cui il periodo coloniale avrebbe contribuito a gettare le basi della fragilità delle istituzioni
statali dell’Africa subsahariana. Si potrebbe persino affermare che tali argomentazioni corroborino una determinata interpretazione
della fragilità dello Stato in Africa: quella del fallimento degli Stati della regione ancora prima della loro formazione48. Di fatto, “è
stato ampiamente dimostrato come la maggior parte degli Stati africani crollati sul piano istituzionale non si sia mai avvicinata
anche solo lontanamente, durante l’epoca postcoloniale, all’ideale forma di governo moderna adottata dai paesi occidentali”49.
Per questo motivo, il termine Stato fallito (spesso sostituito al termine Stato fragile senza un netto cambiamento del significato
soggiacente) può essere estremamente fuorviante50. La fragilità dello Stato ha afflitto di recente anche quei paesi considerati a
lungo esempi positivi di sviluppo economico e istituzionale all’interno della regione, come la Costa d’Avorio e lo Zimbabwe, ma è
innegabile che tale fattore, fortemente persistente nel tempo, si manifestasse soprattutto nei paesi che non avevano mai beneficiato
di istituzioni statali efficaci.
Va comunque detto che questa osservazione pone l’enfasi sulla colpa della breve vita del dominio coloniale europeo. Sebbene
il peso dell’eredità coloniale sullo sviluppo istituzionale degli Stati postcoloniali non debba essere ridimensionato, è importante
appurare se (e, in ultima analisi, come) il dominio coloniale abbia interagito con fattori preesistenti e più profondamente radicati.
Herbst (2000) sostiene in modo convincente che per decenni la sfera di influenza delle potenze coloniali dell’Africa subsahariana
fu scarsamente apprezzabile. La Conferenza di Berlino “consentì agli europei di conquistare l’Africa facendo tuttavia il minimo
possibile per controllarla”51. “Nel 1939, in media un commissario distrettuale britannico era responsabile, insieme al proprio personale
africano, di un’area grande all’incirca quanto il Galles. In quell’anno, i circa 43 milioni di abitanti dell’Africa tropicale britannica erano
governati da un totale di 1.223 amministratori e 938 funzionari di polizia. Analogamente, nel 1938, 3.660 funzionari governavano
sui 15 milioni di africani dell’Africa occidentale francese, 887 sui 3,2 milioni di abitanti dell’Africa equatoriale francese e 2.384 sui
9,4 milioni di cittadini del Congo belga”52.
Queste cifre la dicono lunga sulla limitata capacità degli Stati coloniali di esercitare la propria autorità amministrativa sui vasti
territori che dovevano controllare: oltre che dalle dimensioni ridotte del personale amministrativo, tale obiettivo era ulteriormente
ostacolato dallo scarso sviluppo delle strade durante il periodo coloniale.
44
45
46
47
48
49
50
51
52
Acemoglu et al. 2001.
Gli effetti persistenti del modello di insediamento coloniale sono stati recentemente confermati da Angeles e Neanidis (2009), che ne dimostrano l’influenza
sull’attuale orientamento allo sviluppo dell’élite dominante, e, tramite questo canale, sull’efficacia degli aiuti stranieri.
Lange 2004; Acemoglu et al. 2001.
Lange 2004.
Anderson 2004 citato in Englebert e Tull 2008.
Englebert e Tull 2008, pag. 111.
Cammack et al. 2006.
Herbst 2000, pag. 72.
Herbst 2000, pag. 78.
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Capitolo 3
Perché le potenze coloniali non optarono per un consolidamento del loro controllo sull’Africa subsahariana? La risposta più
convincente va ricercata nella loro capacità, piuttosto che nella loro volontà, di farlo. La sfida posta dall’Africa subsahariana ai paesi
europei non era dissimile da quella raccolta dai “dominatori precoloniali in Africa [che avevano] lottato per secoli per estendere
il proprio potere”53. L’autore sostiene che “il problema fondamentale per gli attori del potenziamento istituzionale in Africa (a
prescindere che si trattasse di re precoloniali, governatori coloniali o presidenti del periodo dell’indipendenza) era sempre stato
quello di proiettare la loro autorità su territori inospitali e caratterizzati da una densità demografica relativamente ridotta”54.
Questa tesi suggerisce che difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare che i paesi europei riuscissero a consolidare le istituzioni
statali nell’arco di pochi decenni, quando i dominatori precoloniali avevano in larga parte fallito nel loro intento o addirittura non
avevano nemmeno compiuto un tentativo in tal senso. Il fatto che alcune caratteristiche degli Stati coloniali non siano riferite solo
agli Stati del periodo post-indipendenza, ma anche a quelle delle entità politiche di epoca precoloniale, rivela una persistenza e
una dipendenza persino maggiori dal percorso di sviluppo istituzionale seguito nella regione. Il divario esistente tra i dominatori
e la società si rispecchiava in ciò che Herbst (2000) definisce “il primato dell’uscita”, una volta che gli interessi dei dominatori e di
alcuni gruppi sociali si rivelavano inconciliabili: l’“uscita” assumeva la forma della mobilità, poiché “la migrazione quale via di fuga dai
problemi sociali o politici era [...] comune tra gli Yoruba, gli Edo, i Fon e molti altri”55. La mobilità comportava un indebolimento dei
dominatori, come osservato da Barfield (1993) per le tribù del Sudan meridionale: “i poteri del capo dei Dinka erano deboli [...] perché,
anziché sottomettersi alla sua autorità, i gruppi di dissidenti potevano migrare verso un nuovo territorio in caso di malcontento”56.
La prospettiva dell’uscita tramite la migrazione riduceva considerevolmente le opportunità per i dominatori di ottenere risorse
dalla comunità dominata, dato che “è improbabile che una popolazione sparsa e mobile possa generare le risorse da cui dipendono
istituzioni governative permanenti o le strutture e i valori sociali necessari a mantenerle”57. Fu questa difficoltà intrinseca a
determinare l’estroversione anche delle istituzioni precoloniali, che raccoglievano risorse dall’esterno attraverso scambi commerciali
su lunga distanza. L’estroversione precoloniale assunse la sua forma più caratteristica nel commercio degli schiavi. Gli schiavi
da vendere venivano procurati all’interno della comunità, in cui le persone potevano essere condannate sulla base di presunte
accuse avanzate arbitrariamente dalle istituzioni giudiziarie58, o mediante incursioni ai danni delle comunità limitrofe, in modo
da annichilirne la fiducia e il capitale sociale. Questa tragica forma di estroversione precoloniale ha avuto sui paesi dell’Africa
subsahariana conseguenze istituzionali durature che, ancora una volta, possono essere correlate all’attuale fragilità delle loro
istituzioni statali. Nunn (2008) ha dimostrato come il commercio degli schiavi abbia intralciato lo sviluppo economico degli Stati
dell’Africa subsahariana e come l’effetto nocivo di tale pratica si sia ripercosso sulle istituzioni statali. Il commercio degli schiavi,
infatti, favorì un sentimento di sfiducia nei confronti delle istituzioni dello Stato e promosse il consolidamento di identità etniche
fortemente localizzate, impedendo così l’instaurazione di un rapporto efficace e armonioso tra lo Stato e la società a causa della
debolezza del primo59.
Un recente contributo di Nunn e Wantchekon (2009) ha dimostrato inoltre come il commercio degli schiavi abbia esercitato
un’influenza negativa e persistente sul capitale sociale, dato che “la fiducia degli individui nei confronti di parenti, vicini e governo
locale non può che essere minore, considerando la grave minaccia del commercio degli schiavi che incombeva sui loro antenati”60:
un fattore, questo, in grado di potenziare gli effetti avversi della fragilità dello Stato. Nunn e Puga (2009) hanno dimostrato che per
quanto riguarda il commercio degli schiavi il problema delle asperità del terreno fu in realtà una sorta di benedizione per i paesi
dell’Africa subsahariana: se è infatti vero che l’impatto diretto di tale caratteristica era quello di ostacolare lo sviluppo economico,
l’effetto indiretto e più rilevante era la protezione della popolazione dalle incursioni dei commercianti di schiavi.
53
54
55
56
57
58
59
60
Herbst 2000, pag. 35.
Herbst 2000, pag. 11.
Herbst 2000, pag. 39.
Barfield 1993, pag. 38.
Clapham 1996, pag. 28.
Nunn 2008.
Collier 2009b; Kaplan 2009.
Nunn e Wantchekon 2009, pag. 43.
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Le radici storiche dellafragilità dello stato
7. CONCLUSIONI
Il raggruppamento geografico degli Stati fragili dell’Africa subsahariana suggerisce l’esistenza di alcune
cause profonde comuni della fragilità che interagiscono con fattori determinanti specifici di ogni paese.
Le argomentazioni esaminate in questo capitolo corroborano l’esistenza di fattori storici che hanno posto
le basi della fragilità delle istituzioni statali. La formazione degli Stati coloniali all’epoca della spartizione
dell’Africa introdusse determinate caratteristiche istituzionali presenti tuttora nelle strutture statali
predominanti. Né il raggiungimento dell’indipendenza politica, né i decenni trascorsi da quel momento
hanno modificato in modo significativo l’evoluzione marcatamente dipendente dal percorso di sviluppo
degli Stati dell’Africa subsahariana.
Sebbene abbia probabilmente rivestito un ruolo cruciale, il periodo coloniale non esaurisce i fattori storici che incidono sulla
fragilità delle istituzioni statali dell’Africa subsahariana, dato che anche l’epoca precoloniale esercitò una certa influenza sul
successivo sviluppo istituzionale della regione. Infatti, entrambi i periodi produssero effetti duraturi non soltanto sulla struttura
formale delle istituzioni statali, ma anche su altri fattori sociali in grado di determinare la fragilità o la solidità di una forma di
organizzazione politica. In particolar modo, la definizione di etnicità venne fortemente influenzata sia dal commercio degli schiavi
in epoca precoloniale, sia dal suo irrigidimento e dalla sua accresciuta rilevanza sociale imputabili alle amministrazioni coloniali.
Pur riconoscendo l’incidenza della storia sulla fragilità, l’analisi presentata in questo capitolo rifugge da qualsiasi semplificazione
deterministica attribuibile alla storia dell’Africa subsahariana e da qualsiasi concessione all’attuale diffusa fragilità dello Stato.
Sebbene la diversità dello sviluppo delle istituzioni statali specifico di ogni paese sembri suggerire la possibilità della nascita di
Stati efficaci anche in contesti in cui le probabilità di successo siano ridotte da fattori storici o geografici, non andrebbero imposte
aspettative eccessivamente ottimistiche nei confronti del rafforzamento degli Stati dell’Africa subsahariana.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 4
I FATTORI ECONOMICI POSSONO
AGGRAVARE LA FRAGILITÀ
L’evoluzione della fragilità di uno Stato non è un semplice concatenarsi di cause ed effetti o il risultato
di un unico fattore, ma viene determinata dall’interazione e dalla combinazione di una serie di rischi,
pressioni, meccanismi virtuosi e spiragli di opportunità che influenzano il funzionamento e la legittimità
dell’apparato statale. Le attuali istituzioni statali derivano dalle radici storiche della formazione dello
Stato e dall’interazione di queste con altre variabili, quali le caratteristiche geografiche e i gruppi etnici e
religiosi.
La loro evoluzione nel tempo è a sua volta correlata ai fattori economici esogeni ed endogeni che, inserendosi nell’assetto
istituzionale, possono aumentare la fragilità dello Stato. Ciò può far precipitare le istituzioni statali in una spirale negativa che mette
progressivamente a repentaglio le loro capacità oppure può rafforzare lo Stato, promuovendone la legittimità, la responsabilità
e la stabilità politica. Le riforme, le politiche di sviluppo e le crisi e le forze economiche esterne (a seconda del retaggio storico e
degli impegni assunti dai governi nazionali e dalle istituzioni internazionali) possono costituire un motore di fragilità, ma anche
una piattaforma per uscire dalla stessa1.
1. I FATTORI ECONOMICI SONO DETERMINANTI PER LA FRAGILITÀ DELLO STATO,
E LA FRAGILITÀ LO È PER L’ECONOMIA
L’evoluzione e il livello dello sviluppo economico possono incidere sulla fragilità di uno Stato, ma allo stesso tempo possono esserne il
risultato2. Le relazioni economiche distinguono gli interessi e gli incentivi a cooperare o a competere, articolando la società in gruppi
sociali distinti. Inoltre, l’accumulo di risorse per il potenziamento istituzionale e per la condivisione sociale interna è condizionato
dal modello di sviluppo economico. Ad esempio, molti Stati postcoloniali, nel tentativo di emanciparsi dai loro ex colonizzatori, che
stavano comprando i loro prodotti (garantendo mercati di esportazione), attuarono politiche di sostituzione delle importazioni
incentrate sull’interno del paese, aumentando spesso il ruolo statale in modo assolutamente inefficiente.
Questo capitolo analizza i processi economici che caratterizzano gli Stati fragili e che sono connessi ai sintomi della fragilità dello
Stato (dalla governance debole e dalla corruzione fino ai comportamenti predatori e ai conflitti). Il capitolo esamina inoltre il
modo in cui questi fattori possono interagire e rendere gli Stati più fragili, oppure come possono creare circoli virtuosi di crescita
accelerata e istituzioni più forti. L’obiettivo è sottolineare l’importanza della tempistica e di una coerenza costante nell’affrontare
i vari aspetti della fragilità. Più precisamente:
• L’apertura commerciale interagisce con la fragilità attraverso i potenziali profitti derivanti dal commercio, che possono aiutare i
paesi a passare da una situazione di fragilità alla resilienza, ma anche attraverso il valore delle risorse contese, i costi di opportunità
della disputa e le opportunità di collusione tra attori privati e funzionari pubblici.
• Gli investimenti esteri diretti possono promuovere la concorrenza nell’economia a livello locale migliorando l’efficienza nella
distribuzione delle risorse interne e riducendo le rendite e gli effetti collaterali negativi per la governance pubblica. In questo
caso, gli IED hanno un impatto positivo sulla crescita, la cui entità dipende dal settore e dall’occupazione interna che viene
mobilitata. Tuttavia, senza normative e incentivi appropriati, gli investitori esteri possono contribuire a una cattiva forma di
governo e alla corruzione oppure partecipare, direttamente o indirettamente, all’”economia di guerra” e al finanziamento dei
signori della guerra e dei conflitti civili.
• La ricchezza derivante dalle risorse naturali può aiutare le istituzioni statali a svolgere le loro funzioni, visto che negli Stati fragili
il gettito fiscale generato dall’estrazione delle risorse costituisce la maggior parte delle entrate pubbliche (capitolo 2). Gli Stati
fragili rischiano però anche di cadere nei circoli viziosi che mettono in correlazione la gestione delle risorse e capacità statali
evanescenti: una sorta di “maledizione delle risorse”, per cui un’abbondanza di risorse sortisce un effetto positivo sulla crescita nei
1
2
Fosu 2009.
Robinson (2009) afferma che il Botswana rappresenta un esempio interessante per quanto attiene alle interazioni virtuali tra sviluppo economico e
consolidamento istituzionale. All’indomani dell’indipendenza raggiunta nel 1966, il Botswana presentava condizioni di partenza simili a quelle degli altri
paesi subsahariani che hanno seguito un processo di formazione dello Stato e una traiettoria economica meno riusciti e meno pacifici. Condivideva infatti
con quei paesi una profonda povertà, l’analfabetismo diffuso, infrastrutture carenti, un retaggio coloniale e gruppi etnici multipli. Il paese era ben fornito di
bestiame, come il Sudan e la Somalia, e di diamanti, come l’Angola e la Sierra Leone. Secondo Robinson, la formazione di uno Stato moderno (fondato su un
“lungo processo di formazione statale e istituzionale ereditato dagli stati Tswana”) rappresenta un primo indizio a motivazione del successo del Botswana,
dimostrando al contempo il ruolo fondamentale rivestito dalle istituzioni statali nello sviluppo economico e nell’efficacia delle politiche e dei paradigmi
economici.
58
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
paesi con istituzioni solide e un effetto negativo in quelli con istituzioni deboli3. Quindi, poiché gli Stati fragili sono caratterizzati
da istituzioni deboli, per loro le risorse naturali rappresenteranno più probabilmente uno svantaggio, a differenza degli altri
paesi africani, in cui le risorse naturali possono stimolare una crescita trainata dall’esportazione. I compromessi intertemporali
rivestono un’enorme importanza in una simile situazione: offrendo un reddito immediato, spesso al costo di un reddito minore
in futuro, le risorse naturali richiedono dunque una gestione efficiente, con un ampio orizzonte temporale, cosa non semplice
per governi che potrebbero essere illegittimi o che rischiano di essere rovesciati.
• I cambiamenti drastici nell’accesso alle risorse territoriali o idriche hanno implicazioni per la sostenibilità ambientale, la sicurezza
alimentare e le relazioni di potere. Essendo strettamente correlati al commercio e agli IED, questi fattori possono determinare
la stabilità sociale, la fragilità dello Stato e la crescita economica.
• La gestione della sicurezza alimentare è una funzione essenziale del governo, e su di essa può dunque ripercuotersi la fragilità.
La percezione dell’incapacità dello Stato o della sua riluttanza ad affrontare l’insicurezza alimentare cronica o a proteggere i
cittadini dalle crisi alimentari può minare la fiducia nelle istituzioni pubbliche e quindi la legittimità del governo.
2. L’APERTURA COMMERCIALE PUÒ AUMENTARE O
DIMINUIRE LA FRAGILITÀ DELLO STATO
Come la fragilità dello Stato può influenzare l’efficacia dell’apertura commerciale sui risultati economici,
così il commercio internazionale può avere ripercussioni sulla fragilità. Il primo effetto dell’apertura
commerciale consiste nella modifica della struttura dei prezzi relativi dei beni e servizi scambiati con il
resto del mondo.
In un contesto di imperfezione per quanto attiene a governance e applicazione della legge, l’apertura commerciale interagisce
con la fragilità per produrre conseguenze distributive, stimola la crescita economica e influisce sul valore delle risorse al centro
di controversie, sulle opportunità per la corruzione, sui costi di opportunità dei conflitti, sulle scelte tra le attività produttive e le
attività predatorie e sui margini per la ricerca di rendite.
In un contesto istituzionale ben definito, in cui lo Stato si fa garante della sicurezza, dei diritti di proprietà e dell’esecuzione dei
contratti, l’apertura commerciale produce generalmente profitti globali. Ma in contesti istituzionali deboli la situazione cambia.
Perfino dove si registrano profitti aggregati potenziali derivanti dal commercio, la loro distribuzione può essere all’origine di conflitti
e di destabilizzazione, soprattutto quando le istituzioni del paese preposte alla gestione dei conflitti non esistono o sono state
smantellate. In aggiunta, questo contesto può essere influenzato anche dalla struttura del vantaggio comparativo del paese. Difatti,
l’esclusione dalla condivisione delle risorse dello Stato di alcuni gruppi che costituiscono una minaccia è più probabile quando il
paese si fonda su risorse naturali provenienti da “fonti puntuali” (carburanti, minerali e piantagioni come zucchero e cotone) anziché
sul settore manifatturiero e su esportazioni agricole diffuse (animali e prodotti agricoli coltivati in piccole aziende familiari, come il
riso e il frumento)4. Sono numerosi gli esempi di tali situazioni, come la guerra del Biafra in Nigeria alla fine degli anni Sessanta e le
guerre civili in Angola e nell’RDC. Al contrario, quando la produzione e i benefici sono ampiamente distribuiti tra aree geografiche,
gruppi etnici o centri urbani, le possibilità di uno scoppio di violenza civile sembrano di molto ridotte.
L’apertura commerciale può anche ripercuotersi sulle relazioni verticali tra Stato e società. Ad esempio, può interagire con la natura
delle istituzioni statali e con il tipo di politiche di ridistribuzione scelte dalle élite, ma può anche indebolire i vincoli economici tra
queste ultime e gli altri gruppi sociali. A sua volta, questa situazione può generare incentivi negativi che inducono le élite a non
investire nei beni pubblici locali o a favorire politiche inefficienti di ricerca di rendite5.
Alcune analisi hanno approfondito l’evidenza empirica relativa ai rapporti esistenti fra l’integrazione commerciale e lo scoppio
di conflitti interni e guerre civili. Chauvet et al. (2007) considerano il commercio come una motivazione delle guerre civili o come
uno strumento per finanziare le ribellioni. In realtà, ci sono forze che spingono verso direzioni opposte: alcune riducono il rischio
di guerre, a causa degli alti costi di opportunità dei conflitti, ma altre lo aumentano perché il commercio offre fonti alternative di
consumo e di reddito rispetto alla produzione nazionale, che può essere distrutta dalla guerra.
3
4
5
Mehlum et al. 2006.
Isham et al. 2005.
Un esempio viene fornito da Segura-Cavuela (2006). Quando le élite politiche non sono disposte a contribuire alla fornitura di beni pubblici e non dispongono
della capacità impositiva dello Stato, generalmente cercano di appropriarsi delle risorse attraverso la distorsione dei prezzi. La portata di queste politiche di
appropriazione è tuttavia limitata dal fatto che le rendite societarie delle élite stesse possono, in qualche modo, essere complementari a quanto producono i
gruppi sociali non elitari. In tale contesto, l’apertura commerciale riduce i costi di opportunità delle politiche appropriative dei prezzi. Difatti, con l’integrazione
del commercio, è probabile che i prezzi dei prodotti vengano determinati esternamente all’economia nazionale, scollegando, in un certo senso, i benefici delle
élite dalle distorsioni che queste ultime impongono sull’economia locale. A sua volta, ciò le induce a manipolare i prezzi interni relativi in modo più intenso
per ottenere rendite dai gruppi non appartenenti al loro gruppo. Questo ragionamento suggerisce che l’integrazione commerciale può avere conseguenze
nefaste nei paesi caratterizzati da una bassa partecipazione politica e da una debole sensibilità delle élite nei confronti del resto della società.
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Capitolo 4
Alcune indagini quantitative transnazionali indicano che i paesi aperti sono più stabili dei paesi autarchici e meno esposti a guerre
civili, anche se si rilevano compromessi importanti. Secondo Martin et al. (2008), l’integrazione commerciale può fungere da
deterrente per i conflitti se i profitti tratti dal commercio sono messi a repentaglio durante una guerra civile. L’apertura può anche
agire da meccanismo assicurativo e ridurre i costi di opportunità delle guerre. Più concretamente, l’apertura commerciale esercita
effetti contrastanti sulla probabilità di guerre civili: può fungere da deterrente per quelle più nefaste (cioè quelle che distruggono
la quota maggiore di scambi commerciali), ma può anche incrementare il rischio di conflitti su scala minore.
Analizzando la situazione dell’Africa subsahariana e considerando gli effetti dell’apertura commerciale e della liberalizzazione sullo
scoppio dei conflitti interni in 37 paesi nel periodo 1980-2000, Bussman et al. (2005) esprimono il parere che l’apertura economica
abbia un effetto positivo sulla pace e sulla stabilità, una volta completato il processo di ristrutturazione economica. Nel breve
termine, comunque, la liberalizzazione del commercio può aumentare il rischio di guerre civili e conflitti durante il periodo di
attuazione delle misure di riforma.
La discussione precedente suggerisce la presenza di compromessi politici tra rischi a breve termine della riforma commerciale e
profitti a lungo termine derivanti dall’apertura (e tra la prevenzione di conflitti gravi e i rischi persistenti di tensioni su scala minore).
Una soluzione possibile a tali compromessi può essere quella di compensare chi accusa perdite immediate al fine di ridurre i rischi
di instabilità politica a breve termine e garantire all’economia abbastanza tempo da raggiungere la situazione sul lungo termine
in cui un gruppo sufficiente di persone trae beneficio dalla riforma.
3. LEGAMI BIDIREZIONALI TRA GLI IED E LA FRAGILITÀ
Se è vero che la letteratura riconosce l’impatto negativo di una cattiva forma di governo nazionale e della
corruzione sui flussi di IED, opere recenti offrono alcune indicazioni empiriche relativamente all’effetto
inverso degli IED sulle strutture di governance del paese beneficiario e sulle manifestazioni più estreme
di fragilità dello Stato: i conflitti e le guerre civili. Le più recenti ricerche non hanno però fornito evidenze
empiriche definitive sulla relazione tra IED e conflitti. Secondo Polachek et al. (2005)6, gli IED riducono le
probabilità di conflitti internazionali, mentre commercio e IED risultano complementari nella riduzione dei
conflitti. Gissinge e Gleditsch (1999)7 suggeriscono che nei paesi più poveri gli IED esercitano un effetto
tanto positivo sul benessere economico, quanto negativo sulla distribuzione e sull’instabilità politica.
Barbieri e Reuveny (2005)8, invece, affermano che nei paesi meno sviluppati gli IED riducono la durata delle
guerre civili, ma non la probabilità che si manifestino.
La letteratura empirica non offre un sostegno conclusivo all’ipotesi di un nesso positivo tra gli IED e un’altra dimensione della
fragilità dello Stato, come la corruzione. Una recente analisi transnazionale di Larrain e Tavares (2007) indica che gli IED riducono in
modo significativo la corruzione nel paese beneficiario e che i loro risultati sono in grado di resistere all’inclusione di diversi fattori
determinanti dell’apertura, oltre all’intensità commerciale e all’aliquota doganale media, tra cui la dipendenza dalle risorse naturali,
la frammentazione etnica e l’entità dell’economia e della spesa pubblica9. La relazione tra IED e corruzione, tuttavia, può dipendere
dal livello di sviluppo e di democrazia del paese beneficiario. Zhu (2007)10, ad esempio, offre un sostegno empirico all’opinione che i
flussi di IED possano ridurre la corruzione nelle democrazie più sviluppate e aumentarla nei paesi meno sviluppati e non democratici.
Anche se non conclusivi, questi risultati fanno luce sulle sfide delle politiche degli IED. Innanzitutto, il superamento della fragilità
dello Stato e la realizzazione di istituzioni democratiche forti possono essere elementi necessari per cogliere i benefici economici
degli IED. In secondo luogo, se da un lato è vero che può ridurre il rischio di conflitti all’interno degli Stati, dall’altro l’apertura agli
IED in contesti fragili richiede un contesto normativo allo scopo di promuovere la qualità degli investimenti anziché la loro quantità.
Affinché gli IED possano contribuire all’economia locale, è fondamentale un quadro giuridico e contabile che incoraggi la trasparenza
e la responsabilità nei paesi di origine degli investitori.
Osservando più attentamente i principali beneficiari dei flussi di IED nell’Africa subsahariana, è possibile fare maggior chiarezza
sul nesso tra IED e fragilità dello Stato. Su 29 Stati fragili dell’Africa subsahariana, soltanto in 13 la quota dei flussi di IED rispetto al
PIL è superiore alla media della regione (che, di per sé bassa, si attesta sul 3,2% rispetto al 4,8% dell’Asia sudorientale). La maggior
6
7
8
9
10
Polachek et al. 2005.
Gissinger e Gleditsch 1999.
Barbieri e Reuveny 2005.
Vedere Larrain e Tavares 2007.
Zhu 2007.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
parte di questi paesi è ricca di petrolio e risorse naturali (Angola, Ciad, Congo, Guinea equatoriale, Nigeria, São Tomé e Príncipe,
Sierra Leone e Sudan)11. Quindi, per comprendere l’impatto degli IED sulla fragilità dello Stato è necessario innanzitutto capire il
ruolo della disponibilità di risorse naturali.
Mentre gli IED possono avere potenzialmente un impatto positivo sulla crescita e sulla riduzione della povertà, i fattori esterni
negativi prevalgono quando la qualità delle istituzioni è scarsa, aumentando così le probabilità di conflitti e cattiva gestione. Il
circolo vizioso che ne deriva amplifica l’impatto degli IED sulla fragilità. Per trasformare questo circolo vizioso in virtuoso, i governi
(se legittimi) devono impegnarsi a creare un’equa distribuzione delle rendite imponendosi delle regole. La bassa credibilità dei
governi negli Stati fragili rende tuttavia improbabile il conseguimento di un circolo virtuoso, a meno che agenti esterni (quali le
organizzazioni internazionali) non esercitino pressioni e si facciano garanti degli impegni.
4. LA DISPONIBILITÀ DI RISORSE NATURALI PUÒ DANNEGGIARE LA GOVERNANCE
L’abbondanza di risorse naturali costituisce un’enorme opportunità per lo sviluppo economico e il
consolidamento di uno Stato. Un paese ricco di risorse dispone dei fondi per sviluppare la capacità
di svolgere le proprie funzioni, in particolare per finanziare la spesa pubblica ai fini dello sviluppo
economico e della riduzione della povertà. Tuttavia, alcuni meccanismi perversi possono compromettere
tale processo: la dipendenza dalle risorse può infatti creare instabilità economica, che a sua volta si può
tradurre in instabilità politica. L’abbondanza di risorse naturali può in effetti ostacolare la qualità della
governance, una componente fondamentale per il funzionamento dello Stato, aumentando perciò il
rischio di fragilità dello stesso. Affinché l’abbondanza di risorse si possa tradurre in prestazioni economiche
generali positive e in un tenore di vita più elevato, il buon governo riveste un ruolo probabilmente più
importante di quanto lo faccia nelle economie dotate di scarse risorse. Questa interazione fra disponibilità
di risorse e governance carente può spingere la fragilità dello Stato lungo una traiettoria negativa.
Le risorse naturali possono dunque rappresentare sia una benedizione sia una maledizione per i paesi che ne sono ricchi12. Studi
empirici confermano che le risorse costanti e le rendite da risorse aumentano la corruzione e ritardano lo sviluppo economico e
istituzionale. Poiché diversi Stati fragili godono di un’elevata disponibilità di risorse naturali e presentano bassi livelli di governance,
è necessario affrontare la problematica dell’aumento della fragilità dello Stato legata all’abbondanza delle risorse naturali (o
analizzare in che modo si può intervenire per selezionare le opportunità offerte dalla disponibilità di risorse e orientare l’economia
verso l’esportazione).
Lo sviluppo di un deposito di risorse naturali, dalla prospezione fino all’estrazione e alla gestione delle entrate, è correlato alla
responsabilità del governo. L’abbondanza di risorse aumenta le opportunità di sottrazione delle stesse al governo in carica (vedere
capitolo 2). La ricerca di rendite può assumere diverse forme, dalla corruzione al furto, fino al conflitto, e le rendite da risorse possono
effettivamente condurre al rovesciamento del governo tramite insurrezioni a livello regionale o nazionale. Poiché le variazioni nei
prezzi dei prodotti influiscono sulla portata e sulla durata delle guerre civili, i più recenti dibattiti si sono concentrati sui fattori
attraverso cui i prodotti primari sono in grado di incidere sul rischio di conflitto13:
• innanzitutto, le esportazioni dei prodotti di base possono finanziare la recrudescenza e la sostenibilità delle ribellioni;
• in secondo luogo, le ribellioni possono essere motivate dal desiderio di acquisire rendite, il che può rivelarsi più semplice in
assenza di leggi, cioè come nel contesto generato da un conflitto;
• infine, le risorse naturali aumentano la probabilità di guerre separatiste.
L’abbondanza di risorse può inoltre modificare gli interessi e i comportamenti del governo in carica. La governance
può peggiorare in diversi modi:
• Le rendite da risorse possono ridurre la responsabilità elettorale all’interno di un sistema democratico se il governo impiega parte
del denaro per mantenere il potere tramite il clientelismo. L’acquisto di voti è una forma più diretta di perdita di responsabilità
nell’ambito delle elezioni. Quindi, le rendite da risorse possono mettere a repentaglio il ruolo svolto dalle elezioni, inducendo
i governi a mantenere il potere.
• In un contesto di autocrazia, le rendite da risorse possono ridurre l’efficacia della responsabilità, limitando il controllo ed
esercitando quindi una minore pressione sul governo affinché soddisfi le esigenze dei cittadini.
11
12
13
La quota di IED rispetto al PIL in questi paesi varia dal 5% dell’Angola al 27% della Guinea equatoriale.
Per un’analisi approfondita di questo problema, vedere i documenti informativi di Collier (2009) e di Collier e Venables (2009).
Vedere il documento informativo di Reynal-Querol (2009).
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Capitolo 4
• Le rendite da risorse possono dunque influenzare la probabilità che la democrazia prevalga sull’autocrazia.
• Esse possono inoltre ritardare l’attuazione di modifiche essenziali a politiche estremamente malfunzionanti.
Il fatto che l’abbondanza di risorse tenda a garantire rendite, in particolare negli Stati fragili in cui lo stato di diritto non è
completamente attuato, può creare un ambiente in cui è difficile ottenere sviluppi economici stabili, un ambiente pertanto più
vulnerabile a disordini di natura sociale e politica. Nell’attuale letteratura è ampiamente dimostrato come la dipendenza dalle
risorse crei instabilità economica e l’incapacità di sviluppare strategie occupazionali non strettamente correlate alle risorse naturali14.
Se lo Stato non è in grado di definire un quadro giuridico per le licenze di prospezione e produzione per lo sviluppo e l’estrazione
di risorse, è probabile che si creino situazioni di distribuzione iniqua, ricerca di rendite e inefficienza. La distribuzione iniqua si
verifica a causa della distribuzione territoriale delle risorse naturali, la ricerca di rendite è dovuta al fatto che la proprietà è conferita
dal controllo fisico del territorio e l’inefficienza deriva dall’incertezza relativa al mantenimento dello stesso. Se il controllo viene
percepito come temporaneo, l’impulso individuale è di esaurire rapidamente il patrimonio, anche se ciò risulta più costoso da un
punto di vista sociale.
Un’ulteriore conseguenza è il fatto che l’assenza di diritti di proprietà, situazione estremamente diffusa negli Stati fragili, interagisce
con la mancanza di informazioni. Come accade con le invenzioni, gli incentivi a intraprendere ricerche sono molto limitati, a
meno che le scoperte non siano tutelate15. Risulta dunque più efficiente attendere che altri individuino patrimoni naturali per poi
prenderne il controllo, sebbene questo metodo possa implicare l’uso della violenza. È per tale motivo che numerose risorse non
vengono scoperte.
Riquadro 4.1: Codici di condotta e la Natural Resource Charter
Gli impegni assunti a livello internazionale tramite codici di condotta od obblighi previsti da trattati possono rivestire
un ruolo importante. Ne sono un esempio l’iniziativa per la trasparenza dell’industria estrattiva (Extractive Industries
Transparency Initiative, EITI), il processo di Kimberly (per il quale si richiede una certificazione volta a dimostrare che i
diamanti commerciati non provengono da aree di conflitto) e la più recente carta delle risorse naturali (Natural Resource
Charter), che propone una serie di principi per i governi e le società in merito all’utilizzo efficace delle opportunità generate
dalle risorse naturali. Il suo scopo è quello di assistere i governi e le società di paesi ricchi di risorse non rinnovabili nella
gestione di queste ultime, affinché generino crescita economica, promuovano il benessere della popolazione e siano
sostenibili dal punto di vista ambientale. La carta è tesa inoltre a garantire che non vengano sprecate le opportunità legate
a nuove scoperte e all’aumento della richiesta di materie prime.
Ciò che rende la Natural Resource Charter unica nel suo genere è il fatto di essere stata elaborata tramite un processo
partecipativo guidato dalla ricerca accademica.
“La carta è costituita da dodici principi […] che racchiudono le scelte e le strategie consigliate ai governi
per migliorare le prospettive di uno sviluppo economico sostenuto tramite lo sfruttamento delle risorse
naturali16:
• Lo sviluppo delle risorse naturali deve essere concepito in modo tale da garantire il massimo beneficio ai cittadini del
paese ospitante.
• Le risorse del settore estrattivo sono beni pubblici e le decisioni in merito al loro sfruttamento devono essere trasparenti
e soggette a un controllo pubblico informato.
• La concorrenza è fondamentale per salvaguardare il valore e garantire l’integrità.
• Le condizioni fiscali devono essere in grado di resistere all’evoluzione delle situazioni e garantire che il paese ottenga
il massimo valore dalle proprie risorse.
• Le aziende attive nel campo delle risorse nazionali devono essere competitive e non svolgere funzioni di regolamentazione
o altre attività.
14
15
16
La maggior parte della letteratura si concentra sul concetto di dipendenza dalle risorse e non su quello di semplice disponibilità: esistono dunque paesi che
si basano su un’economia maggiormente diversificata e che non dipendono così fortemente dalle risorse naturali.
Il problema è analogo a quello analizzato da Dixit (1989) per gli IED. Un esempio recente è rappresentato dal successo delle prospezioni petrolifere in Ghana,
che hanno seguito la riforma dei diritti di proprietà.
Tratto dal sito Web http://www.naturalresourcecharter.org/index.php/en/the-precepts, visitato il 5 ottobre 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
• I progetti legati alle risorse possono avere pesanti effetti ambientali e sociali che devono essere considerati e attenuati
in ogni fase del ciclo del progetto.
• Le entrate derivanti da risorse naturali devono essere impiegate principalmente per la promozione di una crescita
inclusiva sostenuta, mediante la creazione e il mantenimento di livelli elevati di investimenti nazionali.
• L’impiego efficace delle entrate derivanti da risorse naturali richiede un incremento graduale della spesa interna e la
minimizzazione dei flussi di entrate volatili.
• I governi devono impiegare la ricchezza costituita dalle risorse naturali per aumentare l’efficienza e l’efficacia della
spesa pubblica.
• I governi devono investire in modo tale che il settore privato possa adeguarsi alle trasformazioni strutturali dell’economia.
• I governi di origine delle aziende estrattive e le capitali internazionali devono esigere e applicare le migliori pratiche.
• Tutte le aziende estrattive devono attenersi alle migliori pratiche internazionali in materia di appalti, operazioni e
pagamenti”.
Diversi Stati fragili dell’Africa subsahariana hanno adottato l’EITI, al fine di migliorare la governance tramite la verifica e
la pubblicazione integrale dei pagamenti aziendali e delle entrate pubbliche provenienti da petrolio, gas ed estrazioni
minerarie. Le aziende attive in questi settori si sono dichiarate d’accordo nel sostenere l’iniziativa. La sottoscrizione dell’EITI
rappresenta un forte segnale di impegno alla trasparenza da parte del governo.
A livello nazionale, è possibile istituire meccanismi di impegno attraverso contratti a lungo termine e la creazione di
rispettabilità. Può essere inoltre possibile elaborare norme fiscali in virtù delle quali una quota delle entrate viene accantonata
per un suo utilizzo sul lungo termine.
Il Niger e la Liberia hanno chiesto ai rispettivi partner per gli aiuti assistenza tecnica in campo giuridico per l’aggiudicazione
degli appalti. In Mozambico, il lavoro di analisi sta promuovendo il dialogo in materia di gestione della spesa pubblica e
di responsabilità finanziaria nel contesto dell’aumento delle entrate provenienti dall’estrazione mineraria. Alcuni paesi
richiedono assistenza per la messa all’asta di licenze e la negoziazione di contratti con importanti investitori, per la gestione
di entrate volatili correlate ai prodotti e per il miglioramento della composizione e della qualità degli investimenti pubblici.
5. LA GOVERNANCE INFLUISCE SULLA RELAZIONE TRA TERRITORIO E FRAGILITÀ
I cambiamenti drastici nell’accesso ai terreni sono generalmente influenzati dall’azione del governo.
Risultano essere molto ampi sia l’ambito di applicazione delle riforme della struttura fondiaria sia quello
delle politiche fondiarie (tra cui l’imposta sui terreni, la registrazione dei titoli di proprietà, l’iscrizione nel
registro fondiario, nonché la regolazione di contratti e mercati), volte a ridurre la povertà, ad aumentare la
produttività agricola e a sostenere l’ambiente. Tuttavia, le politiche fondiarie non sono neutrali e possono
scatenare tensioni a livello sociale. I conflitti in territorio africano dimostrano che riforme fondiarie
non adeguatamente studiate ne sono state i fattori scatenanti o comunque aggravanti. La limitazione
dell’accesso ai terreni per ampi settori della società può sfociare in rimostranze, frustrazione, insicurezza
alimentare e squilibri a livello di potere politico17.
Nello Zimbabwe, la riforma fondiaria iniziata nel 1980 e il successivo reinsediamento degli agricoltori (fast-track resettlement) hanno
registrato un forte impatto sull’agricoltura, traducendosi in enormi perdite di posti di lavoro, insicurezza alimentare e reazioni
violente18. Il terreno rappresenta un problema anche in altri paesi che stanno attraversando una crisi prolungata, come RDC, Somalia
e Sudan19. Nella regione dei monti Nuba, in Sudan, la promulgazione della legge sui terreni non registrati del 1970 (che aboliva i
diritti consuetudinari di utilizzo dei terreni e forniva una base giuridica per le acquisizioni fondiarie da parte di programmi agricoli
meccanizzati su larga scala) si è tradotta in un’enorme privazione di diritti per i piccoli agricoltori e per i pastori nomadi: si stima
che circa la metà della superficie totale delle pianure (i terreni migliori della regione) sia stata occupata da questi programmi20.
17
18
19
20
Vlassenroot et al. 2006.
Sachikonye 2003; Pons-Vignon e Solignac Lecomte 2004.
Alinovi e Russo 2009.
Pantuliano 2008.
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Capitolo 4
Più di recente, nell’Africa subsahariana si è registrato un nuovo fenomeno che può incidere fortemente sull’accesso al terreno e sul
suo utilizzo. All’indomani della crisi alimentare e petrolifera, e nonostante la crisi economica e finanziaria, si è registrata un’ondata
di acquisizioni di terreni agricoli da parte di investitori locali ed esteri che ha dato vita a un acceso dibattito. I governi di Cina, Emirati
arabi uniti, India, Corea del Sud e dell’UE, nonché le aziende private, sembrano rappresentare i principali investitori nei terreni
africani. La stampa internazionale ha tuttavia segnalato anche operazioni commerciali fondiarie su larga scala che coinvolgono altri
paesi investitori, tra cui gli Stati Uniti, la Libia e l’Egitto. I primi dati21 indicano che gli IED nei terreni africani tendono a concentrarsi
in un piccolo gruppo di paesi (Sudan, Mozambico, Madagascar ed Etiopia). Questa tendenza si sta però diffondendo verso altre
aree del continente. Sono stati recentemente registrati importanti investimenti in terreni agricoli nell’RDC e in Angola, Ghana,
Liberia, Nigeria e Tanzania.
Le conseguenze di tale tendenza per l’agricoltura e per le popolazioni africane possono essere profonde, persistenti e difficilmente
reversibili. La loro portata è ancora in gran parte sconosciuta a causa delle informazioni limitate dal punto di vista qualitativo e
quantitativo, peraltro né affidabili né trasparenti, ma i dati disponibili indicano che la natura di questo fenomeno non è marginale.
In soli cinque Stati africani (Etiopia, Madagascar, Mali, Mozambico e Sudan), dal 2004 sono state approvate operazioni commerciali
di ingente entità22 per 2,5 milioni di ettari di terreno e i contratti in attesa di approvazione potrebbero innalzare ulteriormente
questa cifra23. Sebbene ancora agli inizi, quest’ondata è in crescita e può rivelarsi pericolosa per lo sviluppo di uno Stato fragile. Per
tale motivo, è importante monitorare ed evitare eventuali effetti negativi per la stabilità sociale e la fragilità dello Stato derivanti
da questa “speciale” tipologia di IED nell’agricoltura.
La percezione degli elevati livelli di disponibilità e accessibilità di terreni agricoli e risorse idriche sottoutilizzate in Africa ha destato
interesse, ma la causa scatenante di questa tendenza sono stati i recenti andamenti dei prezzi di generi alimentari e petrolio e le
reazioni protezioniste di alcuni tra i principali esportatori alimentari. La maggiore domanda di alimenti che impiegano tecniche
di produzione su vaste superfici (come accade per la carne e per il latte e i suoi derivati), la richiesta crescente di fonti energetiche
alternative ai combustibili fossili, il rapido esaurimento delle risorse idriche per scopi produttivi, la lenta crescita della produttività
delle aziende agricole e, in alcune zone, la riduzione della loro produzione sono tutti fattori in grado di esercitare pressioni in
direzione di un’espansione delle aziende agricole. Gli importatori alimentari potrebbero non essere disposti ad affidare la propria
sicurezza alimentare ai mercati internazionali, e l’esternalizzazione della produzione alimentare è ora una strategia nazionale
maggiormente attuabile.
Il nesso tra IED, politiche estere e interessi nazionali è stato ulteriormente rafforzato tramite il crescente coinvolgimento di imprese di
proprietà dello Stato e di fondi sovrani nei mercati internazionali. Sebbene la maggior parte delle operazioni commerciali fondiarie
coinvolga investitori privati ed esteri, e in alcuni paesi gli investitori nazionali siano sempre più interessati ad acquisizioni di terreni
agricoli, gli investimenti sono spesso sostenuti dal governo e sia gli Stati beneficiari sia quelli investitori promuovono e sostengono
gli investimenti fondiari su larga scala24.
Numerosi paesi africani stanno ora tentando di trarre vantaggio dal valore in aumento di terreni e risorse idriche, ed è per tale
motivo che nelle operazioni commerciali fondiarie viene generalmente richiesto all’investitore di sottoscrivere impegni a investire
e a creare infrastrutture o posti di lavoro. L’idea alla base di tali richieste è la promozione dello sviluppo economico locale e la
riduzione della povertà tramite lo scambio di risorse abbondanti con altre più scarse: terreno in cambio di capitali, infrastrutture,
tecnologie e competenze. In numerosi Stati africani, e in particolare in quelli fragili, la maggior parte degli abitanti vive in zone rurali.
Lo sviluppo dell’agricoltura può tradursi in riduzione della povertà e in crescita economica, mentre gli investimenti in infrastrutture,
competenze e tecnologia possono sortire importanti effetti diffusivi positivi.
Riquadro 4.2: Acquisizioni di terreni su vasta scala in Africa: le operazioni commerciali fondiarie
Di Lorenzo Cotula, ricercatore senior – Diritto e sviluppo sostenibile, IIED
Le operazioni commerciali fondiarie sono racchiuse in uno o più contratti, i quali devono essere esaminati assieme ad
altri testi giuridici che ne definiscono il contesto giuridico più ampio, diritto nazionale e internazionale inclusi. I contratti
sono complessi e variano enormemente da paese a paese e addirittura da progetto a progetto. È necessario ancora molto
lavoro per poter identificare le tendenze nella prassi contrattuale e confrontare le opzioni contrattuali. Ma l’analisi di alcuni
contratti in Africa fa emergere alcune questioni fondamentali.
21
22
23
24
Tali dati si basano su Cotula et al. 2009, von Braun e Meinzen-Dick 2009 e GRAIN 2008.
Oltre i 1.000 ettari.
Cotula et al. 2009.
Cotula et al. 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
LE PARTI E LA STRUTTURA GENERALE
Nella loro struttura di base, le operazioni commerciali fondiarie coinvolgono almeno due parti. Da un lato si trova l’acquirente,
generalmente un’azienda privata o di proprietà del governo, ma talvolta anche un governo straniero che acquista terreni
direttamente, come accade ad esempio in base allo speciale accordo di investimento agricolo sottoscritto nel 2002 da
Siria e Sudan. L’altro lato dell’operazione commerciale è rappresentato da un fornitore di terreni, da un governo o, più
raramente, da un privato.
Questa semplicità apparente nasconde una certa complessità. Ogni “operazione commerciale” può comportare molteplici
contratti e strumenti giuridici: da un accordo quadro che illustra le caratteristiche fondamentali dell’operazione, in cui il
governo ospitante si impegna a mettere terreni a disposizione dell’investitore, fino a strumenti più specifici (contrattuali
o d’altro tipo) che sanciscono fondamentalmente il trasferimento di un territorio o di alcuni appezzamenti. La misura in
cui le operazioni commerciali fondiarie vengono negoziate o standardizzate varia in base al paese e alle diverse fasi di
negoziazione, mentre gli strumenti per assegnare i terreni tendono a essere più standardizzati (come per i contratti di
locazione presso l’Office du Niger del Mali).
Ogni accordo coinvolge tradizionalmente un elevato numero di parti attraverso le molteplici fasi di preparazione,
negoziazione, contrattazione e attuazione del progetto. In primo luogo intervengono le diverse agenzie del governo
ospitante. Anche nei paesi in cui è presente un punto di contatto centrale (o sportello unico) per i futuri investitori, in
genere sotto forma di agenzia di promozione degli investimenti, i vari aspetti dell’operazione commerciale non vengono
gestiti da un unico ente.
Gli investitori privati hanno il vantaggio di poter agire quale entità giuridica unica con una serie di valori coesa, ma anche in
questo caso il quadro può presentare diverse sfumature. Tra gli scenari possibili, l’attuazione delle operazioni commerciali
siglate tra governi può essere gestita da operatori privati, sin dall’inizio o quale parte di sforzi successivi volti a ridare slancio.
Ad esempio, l’accordo tra Siria e Sudan consente alla prima di delegare l’attuazione al settore privato, previa autorizzazione
del governo sudanese.
DIRITTI FONDIARI TRASFERITI, MECCANISMI DI SALVAGUARDIA PER GLI INTERESSI LOCALI
In Africa, la locazione di terreni prevale sull’acquisto, per una durata che va dal breve termine ai 99 anni. I governi ospitanti
tendono a svolgere un ruolo chiave nell’assegnazione dei terreni in concessione, non da ultimo perché ne possiedono
formalmente la totalità o una buona parte. Diventa quindi fondamentale la misura in cui i governi prendono in considerazione
gli interessi locali nella gestione dei terreni, dell’acqua e delle altre risorse naturali.
I governi ospitanti possono però impegnarsi contrattualmente a fornire i terreni prima di consultare gli utenti locali. Inoltre,
la mancanza di trasparenza e di freni e contrappesi nei negoziati contrattuali incoraggia la corruzione e favorisce le élite. In
Mozambico e in altri paesi, la legislazione nazionale non obbliga gli investitori a consultare le popolazioni locali prima di
assegnare le terre. In Ghana sono invece diffusi gli accordi con i leader locali, ma anche in questi casi le carenze nell’attuazione
degli obblighi giuridici e la mancanza di responsabilità dei leader locali sono un problema ricorrente.
Anche la sicurezza dei diritti fondiari locali è fondamentale. Le legislazioni nazionali possono variare, ma alcune caratteristiche
ricorrenti mettono a repentaglio la posizione della popolazione locale, tra cui i diritti non certi di utilizzo delle terre di
proprietà dello Stato, le procedure di registrazione inaccessibili, le compensazioni unicamente per i mancati miglioramenti
(come possono essere le colture, non la terra in sé) e i tassi di compensazione obsoleti. Di conseguenza, la popolazione
locale ci rimette, e anche gli investitori che mirano a seguire le buone prassi soffrono della mancanza di procedure e
orientamenti governativi chiari.
L’EQUILIBRIO ECONOMICO DELLE OPERAZIONI COMMERCIALI FONDIARIE
I canoni sui terreni e i trasferimenti monetari sono generalmente assenti o di piccola entità, e ciò è dovuto al desiderio di
attrarre gli investimenti, ai bassi costi di opportunità percepiti e alla mancanza di mercati fondiari affermati. Questo però
non basta per poter dire che l’accordo sia squilibrato: i benefici per i paesi ospitanti possono includere una serie di impegni
da parte degli investitori in materia di livelli di investimento e di sviluppo delle infrastrutture, come i sistemi di irrigazione.
Considerato il rilievo degli impegni di investimento nell’equilibrio economico delle operazioni commerciali fondiarie,
l’esecutorietà è di particolare importanza. Le concessioni di terreni del governo sono generalmente subordinate alla
conformità da parte dell’investitore ai piani di investimento per i primi anni del progetto, dopo i quali la concessione viene
confermata. Ma i governi africani non hanno quasi mai fatto leva su questa possibilità per responsabilizzare gli investitori e
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Capitolo 4
la formulazione dei contratti non è abbastanza precisa da essere esecutoria. Una valutazione singola nella fase preliminare
di attuazione non consente un monitoraggio e un procedimento sanzionatorio regolari delle prestazioni dell’investimento
nell’arco di vita di un progetto.
Anche se la struttura delle operazioni commerciali fondiarie è estremamente eterogenea, un piccolo campione di contratti
indica che si può fare molto di più per inasprire alcune aree fondamentali che incidono sull’equilibrio economico, soprattutto
quando questi contratti sono messi a confronto con la prassi contrattuale di altri settori, come quello del petrolio e del
gas. Pur variando considerevolmente da caso a caso, i contratti tendono a essere carenti di meccanismi solidi volti a
monitorare o garantire la conformità agli impegni dell’investitore, a garantire benefici alla popolazione locale, a promuovere
la partecipazione di piccoli proprietari alle attività produttive (ad esempio, attraverso l’agricoltura a contratto, joint venture
con i proprietari di terreni locali o altre forme di produzione collaborative), a massimizzare le entrate pubbliche e trovare
un equilibrio nelle tematiche di sicurezza alimentare sia nel paese di origine sia in quello ospitante.
La modernizzazione dell’agricoltura può consentire agli Stati africani di risalire la catena del valore. Migliorando la situazione, infatti,
è possibile promuovere la diversificazione delle attività di sostentamento, generare occupazione e stimolare la produttività agricola
(tramite migliori varietà di sementi, know-how e tecnologie). Gli investitori fondiari e le aziende del settore agricolo potrebbero
stimolare gli investimenti o investire direttamente in infrastrutture, tecnologie e interventi per migliorare l’accesso ai mercati,
mentre le imposte fondiarie e le concessioni potrebbero garantire il gettito fiscale.
I rischi sono tuttavia preoccupanti, a partire dalle modifiche dell’accesso alle risorse idriche e territoriali, della gestione delle risorse
e delle tecniche di produzione, che possono incidere sulla sostenibilità ambientale, sulla sicurezza alimentare, sulle relazioni di
potere e sulla stabilità sociale, in particolare quando le transazioni sono caratterizzate da negoziazioni sbilanciate. Esiste poi il
rischio che ampi settori della società perdano il controllo del territorio, con conseguenti effetti negativi su sicurezza alimentare,
stabilità sociale e opportunità di lavoro e di reddito a livello locale. La gestione dei terreni da parte di investitori esteri può dare
vita a incentivi negativi legati all’utilizzo di tecniche di produzione non sostenibili, mentre le operazioni commerciali e negoziali
possono creare terreno fertile per la corruzione e l’appropriazione di profitti privati a scapito degli interessi nazionali a lungo termine.
In alcuni paesi subsahariani è probabile che le operazioni commerciali fondiarie siano motivo di attrito tra le controparti
(riquadro 4.3)25. Le acquisizioni avvengono maggiormente nelle zone più redditizie dotate di sistemi di irrigazione, accesso a risorse
idriche e infrastrutture e in prossimità dei mercati. Le risorse territoriali e idriche più produttive, obiettivo degli investimenti, non
sono tuttavia risorse “non utilizzate”: anche quando sono classificate in questo modo, sono probabilmente già state rivendicate
da utenti preesistenti. Questo fenomeno è stato documentato in Etiopia, Tanzania e Mozambico26. La situazione è in linea con il
fatto che in Africa l’utilizzo delle risorse tende a essere sottostimato, perché la vasta maggioranza degli utenti delle risorse locali
non detiene titoli formali, in particolare nelle zone rurali: sono infatti molto diffuse le tecniche di produzione che non richiedono
un utilizzo continuo del terreno (pascolo di animali, cicli di coltivazione a maggese prolungato) ed è per tale motivo che molte
persone fanno affidamento sull’accesso libero e condiviso alle risorse per garantire la propria sussistenza.
Le agenzie internazionali di sviluppo e la comunità di ricerca sono all’opera per fornire raccomandazioni e assistenza alle parti
interessate (investitori, governi, popolazioni locali e società civile), affinché queste possano usufruire dei vantaggi potenziali derivanti
dal rinnovato interesse negli investimenti agricoli. È tuttavia probabile che questi sforzi saranno costosi e i loro risultati incerti.
Garantire gli effetti di riduzione della povertà sortiti dagli investimenti nazionali ed esteri nei terreni agricoli dell’Africa può infatti
rivelarsi estremamente difficile, in particolar modo negli Stati fragili (riquadro 4.1), che dispongono di uno scarso potere negoziale
e di una limitata capacità per riconciliare i conflitti in materia di risorse.
25
26
Cotula et al. 2009 e GRAIN 2008.
Sulle 2009; Nhantumbo e Salomao 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
Tabella 4.1: Garantire gli effetti di riduzione della povertà sortiti
dai nuovi investimenti nei terreni agricoli
Condizioni per la povertà
sostenibile – riduzione degli
effetti degli investimenti in terreni
su vasta scala
Azioni che possono
contribuire a soddisfare le
condizioni
Osservazioni
Definizione e riconoscimento chiari
di diritti preesistenti di utilizzo delle
risorse.
Definizione dei titoli di proprietà
delle risorse; mappatura
delle risorse della comunità
e impiego informale delle
risorse; coinvolgimento delle
popolazioni locali nel processo
decisionale.
La maggior parte della popolazione africana
non detiene il diritto di utilizzo formale o di
proprietà delle risorse naturali a cui ha accesso.
Definire i titoli di proprietà richiede tempo e
processi onerosi dal punto di vista delle risorse.
L‘esperienza internazionale dimostra che una
riforma fondiaria mal concepita e i programmi
di definizione dei titoli di proprietà possono
escludere i gruppi più vulnerabili e creare
forze destabilizzanti. Un impegno trasparente
e consapevole da parte degli attori locali è
particolarmente difficile in paesi con bassi livelli
d‘istruzione e deboli contratti sociali tra cittadini e
istituzioni statali.
Attuazione di un processo
decisionale trasparente e
partecipativo. Assistenza tecnica
al potenziamento delle capacità
di progettazione, supervisione e
gestione dei contratti.
Vedere le osservazioni riportate qui sopra.
Progettazione di contratti utili a
trovare un equilibrio tra priorità,
prospettive e incentivi di investitori,
governi e popolazioni locali.
Valutazione di base delle
condizioni ambientali, sociali ed
economiche.
Le popolazioni locali di solito non dispongono
delle risorse finanziarie e umane per soddisfare
queste condizioni.
Monitoraggio dei contratti da
parte delle istituzioni statali
o delle parti internazionali
interessate.
È inoltre probabile che i governi beneficiari non
dispongano delle capacità e delle risorse fiscali o
della volontà necessarie per mantenere strutture
efficaci e imporre minacce credibili di sanzioni
in caso di non conformità. I problemi legati
all’asimmetria informativa possono ostacolare
la definizione, la valutazione e il controllo della
conformità.
Credibilità ed esecutorietà
degli impegni da parte degli
investitori e dei governi ospitanti.
Identificazione e compensazione
dei diritti delle persone colpite
negativamente.
Creazione di maggiori e migliori
opportunità di lavoro.
Azioni per garantire la
trasparenza e la divulgazione
delle informazioni.
Vedere le azioni elencate qui
sopra in merito all‘esecutorietà
e alla progettazione di
contratti. Rafforzamento del
coinvolgimento dei sindacati e
dei rappresentanti dei lavoratori.
Uno degli ostacoli principali a questa condizione è
lo squilibrio esistente nel potere di contrattazione
e nella capacità negoziale tra investitori, governi,
comunità locali e agricoltori.
La sostenibilità economica e finanziaria dei
progetti potrebbe dare ai nuovi investitori
motivazioni utili a ritrattare implicitamente
o esplicitamente i propri impegni in merito
all‘attuazione di norme sul lavoro e di tecniche a
largo impiego di manodopera. La partecipazione
dei lavoratori a sindacati potrebbe essere
contraria agli interessi dell‘élite nazionale.
Vedere le osservazioni riportate qui sopra.
I progetti agricoli dovrebbero
aumentare la produttività ed essere
ecosostenibili.
Vedere le azioni riportate
qui sopra. Creazione e
rafforzamento di istituzioni
(norme, agenzie e strutture)
per la regolamentazione e
la supervisione ambientale.
Fornitura di assistenza tecnica
ai nuovi investitori e creazione
di meccanismi per adottare
le conoscenze delle tecniche
agricole a livello locale.
In molte zone dell’Africa, la terra presenta una
bassa resilienza all’intensificazione agricola. Gli
investitori esterni potrebbero non disporre delle
conoscenze adeguate delle pratiche produttive
sostenibili e degli ecosistemi locali.
Accordi di agricoltura a contratto, joint venture
e sistemi di allevamento a contratto possono
migliorare l’assorbimento delle conoscenze
locali e aumentare la condivisione di benefici tra
gli investitori e le popolazioni locali. Ma questi
risultati possono essere messi a repentaglio da
posizioni asimmetriche economiche e di potere
delle controparti.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 4
L’Europa può sostenere le iniziative internazionali volte all’adozione di un codice di condotta, ma può anche aiutare direttamente
le popolazioni e gli agricoltori africani ad avvalersi dei vantaggi derivanti dal maggiore valore acquisito dai terreni agricoli della
regione nel contesto dell’attuale mercato globale, rafforzando le proprie azioni in merito ai programmi a lungo termine per lo
sviluppo agricolo e l’assistenza ai piccoli agricoltori. Può fare leva sul proprio ruolo di attore politico ed economico nel corso delle
negoziazioni a livello internazionale, nell’ambito delle relazioni diplomatiche e nei mercati alimentari globali e può cercare di
contenere i meccanismi che stimolano la richiesta di terreni, come i controlli sulle esportazioni effettuate dai principali esportatori
di prodotti alimentari e politiche energetiche che promuovono l’impiego di biorcarburanti piuttosto che l’efficienza energetica.
Riquadro 4.3: Investimenti internazionali in Sudan: il “granaio” della regione araba27
Di Aysen Tanyeri-Abura e Nasredin Elaminb
a
Northeastern University, Boston; b Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO),
Ufficio regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa.
Il Sudan è stato considerato per molto tempo il “granaio” della regione araba e una meta per gli investimenti agricoli, in
particolare da parte dei paesi arabi. Con i suoi 2,5 milioni di chilometri quadrati, è il più grande paese africano e uno dei pochi
nella regione a disporre ancora di un potenziale idrico e territoriale inutilizzato. Il paese occupa una posizione strategica, poiché
confina con altri nove Stati africani e garantisce l’accesso marittimo ad alcuni di essi. I suoi abitanti sono giovani, risultato della
rapida crescita della popolazione registrata negli ultimi 30 anni. Ma la ricchezza derivante dalle risorse nazionali del Sudan
è offuscata da insicurezza alimentare e povertà diffuse (il 21% dei sudanesi era denutrito nel biennio 2003-2005; FAO, 2008).
Alcune recenti tendenze degli investimenti agricoli nei paesi arabi stanno influenzando la portata e la
natura dei flussi di capitali in Sudan.
• L’agricoltura e le risorse idriche stanno emergendo come nuovi segmenti di attività per gli investimenti, a causa delle
radicali modifiche alle politiche in Arabia Saudita e alle preoccupazioni sorte nei paesi del Golfo in seguito all’innalzamento
dei prezzi degli alimenti e ai divieti all’esportazione del 2007, accompagnati da una riduzione del prezzo del petrolio.
• La maggior parte degli investimenti è dettata da iniziative del settore privato, sebbene lo Stato possa vantare
un’importante presenza in termini di sostegno e facilitazione.
• Il Sudan, che presenta uno dei livelli di insicurezza alimentare più elevati nella regione araba, rappresenta anche la meta
principale di tali investimenti. Oltre il 50% degli accordi di investimento fondiari della regione ha infatti luogo in Sudan.
• Recenti investimenti e fusioni potrebbero incoraggiare ulteriori investimenti nella regione, nonché promuovere il commercio
intraregionale tra paesi arabi. Inoltre, i nuovi blocchi commerciali per generi alimentari e petrolio, come quelli esistenti tra
il Consiglio di cooperazione del Golfo (CCG) e l’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (ASEAN)28potrebbero aprire
la strada ad altri accordi commerciali, al fine di facilitare ulteriori investimenti in prodotti alimentari e agricoltura.
Tali sviluppi comportano alcune implicazioni politiche. È necessario prestare particolare attenzione alle possibilità di
investimento sostenibile e a una prospettiva a lungo termine. Trarre insegnamenti dalle decisioni politiche del passato
dovrebbe costituire una priorità in una regione con scarse risorse idriche che deve confrontarsi con l’impossibilità di
divenire autosufficiente.
Il Sudan può essere relativamente ricco in risorse territoriali e idriche, ma si prevede che entro il 2025 il bacino del fiume
Nilo si trasformerà in una regione caratterizzata da penuria idrica29 . L’Arabia Saudita ha avuto esperienze negative legate
alla propria politica di autosufficienza alimentare, che ha portato a un grave esaurimento delle risorse30. Sebbene maggiori
investimenti nell’agricoltura e nella produzione di generi alimentari siano fondamentali per affrontare le problematiche
legate alla sicurezza alimentare in Sudan, investimenti non sostenibili possono incidere in modo negativo sui paesi investitori
e su quelli beneficiari, nonché su tutte le parti interessate coinvolte.
La scarsità di dati circostanziati aggiornati impedisce un esame esaustivo della struttura e delle prestazioni degli IED
nell‘agricoltura del Sudan.
27
28
29
30
Questo riquadro non rispecchia le opinioni delle rispettive organizzazioni di appartenenza degli autori, che devono essere considerati gli unici responsabili
dei suoi contenuti.
Il 30 giugno 2009, il CCG e l’ASEAN hanno annunciato l’intenzione di creare un nuovo blocco commerciale per generi alimentari e petrolio, in particolare per
il riso proveniente dai paesi ASEAN e per l’energia e i prodotti petrolchimici provenienti dai paesi del Golfo (Reuters 2009).
Revenga et al., 2000
Elhadj, 2008
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
È interessante evidenziare alcune osservazioni sui flussi di IED nell’agricoltura del paese:
• Fino a poco tempo fa, gli IED diretti all’agricoltura erano scarsi e rappresentavano in media meno dell’1% del totale.
• La maggior parte degli IED nell’agricoltura del Sudan mira al reperimento di risorse (tabella 1).
È possibile riassumere come segue gli investimenti nel Sudan:
Tabella 1 del riquadro: Concessioni di terreni agricoli per il periodo 2000–2008
(impegni superiori ai 1.000 ettari)
Investimento totale
(ettari)
Investitori esteri
Arabia Saudita
Emirati arabi uniti
Corea del Sud
Egitto
Altri
Locali
Investimento totale
713.010
365.190
71.820
84.000
5.500
186.500
2.363.000
3.782.650
Coinvolgimento di joint venture
(ettari)
706.640
48.300
32.340
500.000
126.000
Fonte: stime dell’autore in base a scambi di comunicazioni con il ministero degli Investimenti del Sudan.
• Sebbene la quota di IED totali sia bassa, gli IED nell’agricoltura hanno registrato una crescita continua nell’ultimo decennio:
in Sudan sono aumentati a una media del 23% tra il 2000 e il 2008, sebbene la quota in relazione agli IED totali si sia
mantenuta bassa, attorno al 2%31. Gli IED hanno raggiunto il 17% degli investimenti totali nel 2009 e si prevede che
raggiungeranno il 50% nel 201032.
• Gli IED tra paesi arabi costituiscono la maggior parte degli IED nel Sudan, circa il 93% degli investimenti totali, di cui il
38% proviene dall’Arabia Saudita.
• Gli IED da parte di paesi arabi nell’agricoltura del Sudan risalgono agli anni Settanta, in seguito all’istituzione di importanti
progetti attraverso l’Arab Authority for Agricultural Investment and Development (l’autorità araba per gli investimenti e
lo sviluppo in materia di agricoltura) e altre iniziative che coinvolgevano settore pubblico e privato. L’azienda produttrice
di zucchero Kenana Sugar Company ne è un esempio33. Gli impatti che hanno avuto questi investimenti sono stati vari.
• In Sudan, quasi tutti gli IED si sono concentrati nelle tre regioni più sviluppate del paese (Kharthoum, il fiume Nilo e
Gezira, che accentrano l’86% di tutti i progetti di investimento) e principalmente nella produzione agricola primaria34.
Le politiche devono affrontare le disuguaglianze negli investimenti a livello regionale.
• L’intensità di capitale degli IED in Sudan è particolarmente elevata grazie agli investimenti arabi. Dai risultati, si evince inoltre che
sebbene il 37% dei progetti totali degli IED e il 41% del capitale totale degli IED si concentrino in colture miste, solo il 25% dei lavori
totali derivanti dagli IED viene creato da questo sottosettore a causa delle tecniche di produzione ad alta intensità di capitali35.
Il quadro istituzionale e politico è fondamentale per garantire un flusso continuo di investimenti, tramite la definizione di incentivi
adeguati per la loro assegnazione, nonché attraverso la risoluzione di problemi correlati alla sicurezza alimentare a livello nazionale.
Colmando il divario di risorse presente nell’agricoltura, il Sudan si è concentrato nell’attrarre investimenti esteri, prestando poca
attenzione alla possibilità di massimizzarne gli impatti positivi e i legami domestici ai fini di una migliore sicurezza alimentare.
L’improvviso afflusso di investimenti nel settore agricolo ha indotto all’adozione di nuove politiche. In particolare, per gli
investimenti mirati al reperimento di risorse, come le nuove acquisizioni di terreni, entrano in gioco i canoni di locazione e
altre politiche che ne disciplinano l’utilizzo. La maggior parte dei terreni in Sudan viene affittata in base a canoni annuali
compresi tra i 2,7 e i 35 dollari all’ettaro (i canoni più bassi sono i più diffusi) e gli accordi in merito dipendono dai singoli
casi. Il governo del Sudan ha adottato diversi meccanismi di salvaguardia per garantire che l’utilizzo dei terreni avvenga in
31
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34
35
Nur, 2009
Reuters, 2008
La Kenana Sugar Company è stata fondata in Sudan negli anni Settanta grazie a finanziamenti pubblici e privati congiunti da parte di paesi arabi. Questa
iniziativa ha potenziato enormemente la capacità produttiva del paese e ha ampliato la produzione dello zucchero, rendendo il Sudan autosufficiente rispetto
a tale prodotto, nonché un suo esportatore. Tuttavia, si sono registrati altri impatti, contrastanti, di natura sociale ed economica.
Nur, 2009
Nur, 2009
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Capitolo 4
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
conformità agli aspetti socio-economici. Ad esempio, gli affitti vengono fissati inizialmente per tre anni e poi estesi ogni
sette fino a raggiungere i 99 anni. Gli investitori devono inoltre soddisfare alcuni requisiti fondamentali, come la costruzione
di strade secondarie, la fornitura di elettricità e l’assegnazione del 10–20% del terreno oggetto dell’investimento all‘utilizzo
da parte della comunità locale (da negoziare con gli abitanti del luogo)36.
Il Sudan continua a essere considerato il granaio della regione araba e la maggior parte dei recenti investimenti in terreni
viene indirizzata verso questo paese. Tuttavia, la questione rimane aperta: quali generi alimentari primari possono essere
prodotti in modo redditizio in Sudan, in particolare sul lungo termine? Per soddisfare le proprie esigenze alimentari, la
priorità degli investitori arabi consiste nell’investire nella produzione di generi alimentari di base, in particolare frumento.
Considerate le condizioni climatiche del paese, la capacità di produzione di frumento del Sudan e la relativa produttività
restano da verificare. Inoltre, pur essendo enormi le superfici coltivabili presenti nel paese, le risorse idriche disponibili
potrebbero non essere sufficienti a soddisfare le future esigenze di espansione, in base all’entità delle recenti locazioni di
terreni a investitori esteri, senza considerare nemmeno gli effetti secondari che tali investimenti potrebbero avere sulle
popolazioni rurali e gli addensamenti nelle aree urbane.
La valutazione del contributo degli IED alla sicurezza alimentare non costituisce un compito semplice. Infatti, non è soltanto difficile
prevedere lo sviluppo futuro di qualsiasi investimento, ma si rivela un compito arduo anche gestire gli interessi delle diverse parti
interessate (settore privato, nonché governi dei paesi investitori e ospitanti). Oltre a questo, esistono vari problemi inerenti alla
sicurezza alimentare e differenze tra paesi in termini di risorse e redditi. Al fine di tutelare gli interessi delle parti coinvolte, può
risultare utile sviluppare un quadro volto a evidenziare gli aspetti specifici degli investimenti, che è necessario valutare in modo
da minimizzare in futuro gli impatti negativi e rendere maggiormente sostenibili gli investimenti stessi. Un aspetto importante
risiede inoltre nell’analisi degli investimenti passati dello stesso tipo per trarne insegnamenti.
6. POPOLAZIONI AFFAMATE E ISTITUZIONI FRAGILI
L’insicurezza alimentare, strettamente connessa alla fragilità dello Stato, è chiaramente una delle minacce
principali per i paesi africani37. Qui l’accento viene posto sulle modalità secondo le quali la fragilità
istituzionale amplifica il rischio di insicurezza alimentare acuta e su cosa sia possibile fare per conseguire il
primo OSM (dimezzare la percentuale della popolazione che soffre la fame entro il 2015).
La recente crisi alimentare ha messo in luce l’estrema vulnerabilità della sicurezza alimentare negli Stati fragili subsahariani rispetto
a crisi esterne, soprattutto a causa della bassa (e stagnante) produttività dell’agricoltura africana nel corso degli ultimi due decenni.
Tale livello di produttività è andato di pari passo con una domanda crescente, parzialmente dovuta a fattori internazionali
(aumento della domanda in Cina e in India), ma anche all’incremento della popolazione, che ha trasformato i paesi africani più
fragili in importatori netti di prodotti alimentari e ne ha aumentato significativamente la vulnerabilità, rendendo la crisi alimentare
più probabile38. I pregiudizi nei confronti dell’agricoltura hanno provocato un esodo verso le aree urbane e hanno inasprito le
disuguaglianze tra aree rurali e città. Questa situazione ha di fatto causato un incremento della violenza e dell’insicurezza politica
nelle aree urbane, che, a loro volta, hanno aumentato le risorse per rispondere ai problemi di sicurezza nelle città a scapito dei
finanziamenti destinati alle aree rurali, creando così un circolo vizioso. L’elevato tasso di migrazione verso le città, accompagnato
dalla riduzione degli investimenti nelle aree rurali, ha avuto come conseguenza una minore produzione agricola e un aumento
delle importazioni di generi alimentari, che ha ulteriormente minato la capacità produttiva dell’agricoltura.
Una crisi alimentare può aggravare la fragilità dello Stato lungo l’asse della legittimità, come accaduto con i tumulti provocati dalla
recente impennata dei prezzi internazionali dei generi alimentari. Ma questa situazione può cambiare qualora gli acquirenti netti di
generi alimentari diventassero venditori netti (come è successo nell’Asia sudorientale durante la rivoluzione verde). I venditori di generi
alimentari aumenterebbero così i propri redditi e ridurrebbero i costi degli alimenti, facendo uscire dalla povertà le popolazioni degli Stati
fragili e di altri paesi grazie all’incremento della domanda39. Ma per generare l’effetto moltiplicatore, i mercati hanno bisogno di funzionare
adeguatamente. Negli Stati fragili esistono ancora molti ostacoli ai meccanismi di mercato, perché gli agricoltori devono affrontare un
accesso limitato al credito e costi elevati per ottenere informazioni ed eseguire i contratti. Con uno scarso accesso alla finanza formale,
i commercianti scambiano piccoli volumi, commerciano con aree geograficamente vicine e aumentano il rischio di volatilità dei prezzi.
36
37
38
39
Comunicazione personale, ministero degli Investimenti del Sudan.
L’UNCTAD (2009) stima che 300 milioni di africani soffrono la fame cronica.
I paesi africani, inoltre, importano i principali prodotti di base, come il frumento e il riso (UNCTAD 2009).
Questa tendenza si è verificata in Cina negli ultimi anni, fino al novembre 2008, quando la crisi economico-finanziaria ha minacciato di rispedire i “nuovi”
lavoratori urbani nella Cina rurale.
70
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
I fattori economici possonoaggravare la fragilità
Tra gli Stati fragili, quelli in conflitto sono maggiormente a rischio di insicurezza alimentare. Non è semplice stabilire una relazione
causale, ma l’instabilità politica spesso insorge in paesi colpiti da insicurezza alimentare. Si ritiene che i conflitti e i crolli economici
siano stati la causa di più di un terzo delle emergenze alimentari verificatesi tra il 1995 e il 2003, mentre le guerre civili e i profughi
o gli IDP sono stati individuati quale motivo principale di più della metà delle emergenze alimentari in Africa40. In genere, i conflitti
riducono la produzione agricola e i redditi derivanti dalle colture commerciali e dall’allevamento. Secondo la FAO, in Africa i conflitti
hanno causato la perdita di oltre 120 miliardi di dollari di produzione agricola nell’ultimo terzo del XX secolo. La produzione
alimentare ha registrato una flessione in 13 dei 18 paesi coinvolti in conflitti oggetto dello studio41.
Le conseguenze a lungo termine per le attività agricole possono essere nefaste, mentre gli effetti indiretti e i fattori esterni negativi
possono minacciare la sicurezza alimentare nei paesi vicini. Esiste una relazione interattiva, e forse multipla, tra le ripercussioni di
un conflitto o di una guerra e lo sviluppo agricolo. Durante i suoi 20 anni di guerra civile, ad esempio, il Mozambico ha perso il 40%
dei propri beni nell’ambito di agricoltura, infrastrutture e comunicazione42.
I problemi di produzione alimentare nei paesi afflitti da disordini sociali o conflitti possono acuire la necessità di importazioni di
generi alimentari e provocare l’aumento dei prezzi di tali prodotti nei paesi vicini. In Uganda, la recente crescita della domanda
di generi alimentari da parte dei partner commerciali regionali, come il Kenya e il Sudan meridionale, ha esercitato una pressione
al rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari43. Inoltre, una cattiva gestione del paese all’indomani di un conflitto ne può frenare lo
sviluppo agricolo ed economico. Il ritorno delle comunità agricole alle loro tenute originarie, ad esempio, non sempre produce il
risultato auspicato. In Sierra Leone, le misure attuate per consentire ai residenti di ritornare alle proprie terre e al proprio stile di
vita agricolo erano condizionate dall’acquisizione da parte delle élite44.
Per contro, l’insicurezza alimentare può aumentare la fragilità. Gli scarsi investimenti nel settore agricolo possono aumentare il
rischio di conflitti tanto quanto la concorrenza per i prodotti alimentari o la mancanza di diritti di accesso ai generi alimentari45.
Le rivolte, le cadute di governo e i conflitti in Etiopia, Ruanda e Sudan traggono origine dalle crisi alimentari provocate da fattori
naturali (come le siccità) e dalla cattiva gestione dell’assistenza agricola e degli aiuti allo sviluppo46.
La sicurezza alimentare è inoltre strettamente correlata all’accesso alle risorse idriche: negli Stati fragili, le carenze idriche incidono
infatti sul consumo umano e degli allevamenti, e l’irrigazione può diventare problematica. Anche l’utilizzo di fertilizzanti, la maggior
parte dei quali importati e costosi, è molto limitato.
7. CONCLUSIONI
Un paese potrebbe ritrovarsi in una situazione di conflitto o di pace (di crisi alimentare o meno oppure
essere esportatore di prodotti alimentari o meno, o ancora esportatore di minerali o meno) a seconda
della storia delle variabili pertinenti e dell’interazione a livello nazionale dei diversi fattori che incidono
sulla fragilità. “La storia conta”, e tale persistenza rende la fragilità una sfida ancora più grande.
L’interazione di diversi fattori economici che influenzano la fragilità può generare effetti non lineari: le relazioni fra IED e commercio,
conflitti e insicurezza alimentare, nonché conflitti e risorse naturali possono infatti promuovere un circolo virtuoso in grado di
attrarre ulteriori IED e stimolare la crescita, ma potrebbero anche avviare un circolo vizioso di istituzioni deboli e corruzione.
La persistenza non è l’unica questione rilevante. Anche il tempo conta: l’orizzonte breve del processo decisionale governativo può
tradursi in spese correnti eccessive e comportamenti opportunistici. E gli Stati fragili, che devono sempre reagire a situazioni di
emergenza, dispongono di un orizzonte temporale molto più limitato rispetto agli altri paesi. Ciò è aggravato dall’incapacità di
prendere impegni, tanto che anche le decisioni prese da un governo lungimirante potrebbero esserne influenzate.
Queste considerazioni sottolineano l’importanza del tempo e della persistenza, perché le probabilità che una crisi temporanea
possa avere un effetto permanente sulla fragilità di un paese sono molto elevate. Inoltre, questa riflessione dimostra quanto sia
importante rendere conto delle interazioni tra i vari fattori economici e di alcune questioni di coerenza temporale particolarmente
rilevanti per gli Stati fragili47.
40
41
42
43
44
45
46
47
Flores 2004.
Stewart et al. 2001.
Collier et al. 2003.
Benson 2008.
Maconachie 2008.
DFID 2001.
Messer e Cohen 2006; Messer et al. 1998.
Ad esempio, se i governi devono attirare società minerarie per investire nella prospezione o nello sviluppo di una miniera o di un campo petrolifero, le imprese devono
far fronte a un hold-up: una volta effettuato l’investimento e a prescindere dalle promesse fatte, gli investitori perdono infatti il loro potere negoziale, mentre i governi
hanno un incentivo a impadronirsi delle rendite derivanti dalle risorse. Il problema dell’impegno è una componente di tutti gli investimenti, ma risulta ancora più critico
nell’ambito dello sfruttamento delle risorse naturali, per di più in Stati fragili. L’investimento di capitali richiesto per l’estrazione delle risorse è generalmente molto più
elevato rispetto a quello necessario per altre attività: la posta in gioco è dunque maggiore e l’investimento è tradizionalmente irregolare e non può essere spostato.
Poiché l’investimento viene effettuato in Stati fragili, i governi sono meno responsabili.
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SEZIONE DUE
DALLA FRAGILITÀ ALLA RESILIENZA
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 5
FRAGILITÀ CONTRO RESILIENZA
La resilienza di un sistema socioeconomico dipende dalla capacità dei suoi diversi substrati (famiglia, comunità e paese) di adeguarsi
agli shock endogeni ed esogeni. Si tratta di una dimensione dello sviluppo che non può più essere trascurata: costruire e mantenere
la resilienza promuove il benessere dell’umanità. In un mondo statico, il grado di controllo che i membri di un sistema o gruppo
sociale (famiglie, comunità, Stati) hanno sul proprio destino dipende dai diritti, dall’identità, dal potere decisionale e dai meccanismi
di risoluzione dei problemi connessi all’appartenenza. La capacità dei singoli membri di perseguire i propri obiettivi e le proprie
aspirazioni dipende dalle modalità con cui il gruppo:
• genera solidarietà fra i suoi membri e garantisce una base minima di risorse, servizi e diritti;
• consente ai suoi membri di agire in seno a un sistema normativo;
• si è dotato di meccanismi istituzionali per risolvere i problemi di tali membri;
• offre ai membri un certo grado di influenza sulla governance del gruppo1.
In un mondo in evoluzione, i sistemi socioeconomici attraversano momenti di cambiamento e possono essere colpiti da crisi. Pertanto,
la capacità di mantenere o riorganizzare le condizioni summenzionate consente ai membri di esercitarle nel corso del tempo. In altre
parole, se la capacità di un sistema sociale promuove il benessere tra i suoi membri, la resilienza rende durevole tale funzionalità.
In che modo società diverse costruiscono la resilienza e su quali componenti e meccanismi si basa quest’ultima? Esistono due
premesse da considerare:
1. Il corretto funzionamento dello Stato sostiene la resilienza di un sistema socioeconomico, perché potenzia le capacità umane
sia in situazioni stabili sia, soprattutto, in momenti travagliati.
2. In un sistema socioeconomico, la gestione dei processi di adattamento in reazione ai cambiamenti non è limitata alle istituzioni
statali. In ogni società, gli attori non statali elaborano capacità e sistemi propri di auto-organizzazione, adattamento e
apprendimento. Le fonti di resilienza che hanno origine nella società civile comprendono la coesione e le reti sociali, la memoria
sociale2, i vincoli della fiducia reciproca e della penalizzazione dei comportamenti illeciti, gli enti informali e privati che disciplinano
le attività economiche, i diritti di utilizzo delle risorse e la risoluzione delle controversie.
Istituzioni statali fragili possono coesistere con società resilienti, ma è improbabile che il risultato sia stabile e benefico dal punto
di vista sociale: la fragilità statale tende anzi a erodere la resilienza dei sistemi della società civile e del sistema socioeconomico
in generale. Di contro, le famiglie, le comunità e le società civili resilienti possono contribuire a proteggere la popolazione dagli
effetti negativi della fragilità statale.
Le società civili dell’Africa subsahariana si sono adattate in maniera creativa ai ripetuti episodi di crisi e hanno sviluppato meccanismi
di sopravvivenza, adeguamento e adattamento radicati e sofisticati, che spaziano dai sistemi di assicurazione intrafamiliari e
comunitari alla gestione tradizionale delle terre adibite a pascoli.
Nonostante questi meccanismi di resilienza e i tentativi degli attori non statali di completare o sostituire parzialmente i servizi e
le funzioni dello Stato, le società civili non sono state in grado di attutire completamente i costi umani e di sviluppo degli shock
politici, economici o climatici o della fragilità statale.
1
2
Stinchcombe 1975.
Folke 2006.
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 5
1. POTENZIARE LA RESILIENZA
Il concetto di “resilienza”, inizialmente sviluppato nell’ambito delle scienze naturali, si riferisce all’abilità
di un sistema di adeguarsi a una perturbazione mantenendo inalterate le sue funzioni fondamentali3.
La resilienza di un sistema deve pertanto essere valutata in relazione alle sue funzioni. Applicata a un
sistema economico, la resilienza riguarda la capacità del mercato e delle sue istituzioni di supporto
di “stanziare risorse in maniera efficiente o assicurare servizi essenziali”4. Applicata a un sistema
socioeconomico, la resilienza è la sua capacità di consentire ai membri della società di perseguire il proprio
benessere e soddisfare necessità e desideri che non potrebbero realizzare da soli.
La resilienza di un sistema, un concetto intrinsecamente dinamico, può essere misurata in base alla sua capacità di reagire a
cambiamenti e shock attivando meccanismi di adattamento adeguati (riquadro 5.1).
Riquadro 5.1: Definire la resilienza e la vulnerabilità
Resilienza e vulnerabilità sono concetti adottati in discipline diverse, che spaziano dall’economia alla psicologia e
dall’ecologia alla sicurezza. Come altri attributi di un sistema, questi termini sono soggetti a imprecisioni, confusione e
diverse interpretazioni d’uso. Il presente rapporto utilizza le seguenti definizioni:
La resilienza è la “capacità di un sistema di assorbire le perturbazioni, subire mutamenti e tuttavia mantenere essenzialmente
inalterate funzione, struttura, identità e reazione”. Questa è la definizione elaborata nell’ambito di Resilience Alliance, una
rete di ricerca multidisciplinare che studia la materia dal 1999.
La vulnerabilità è la suscettibilità di una persona, un gruppo o un sistema ai danni causati dagli shock. È il risultato della
portata e della frequenza degli shock e delle crisi, dell’esposizione agli shock e della capacità di reazione agli shock (ovvero
la resilienza).
La vulnerabilità strutturale è la vulnerabilità a fattori durevolmente indipendenti dalla capacità di un sistema di reagire ai
cambiamenti e agli shock. La vulnerabilità strutturale dipende dunque dalla portata e dalla frequenza degli shock e delle
crisi e dall’esposizione agli shock.
La resilienza è anche un importante ingrediente della sostenibilità: sostenere il benessere umano nel tempo richiede che si limiti il
grado di stress a cui sono sottoposti i sistemi socioeconomico ed ecologico. La resilienza si riferisce all’adattabilità ai cambiamenti e
alle nuove sollecitazioni, ed è essenziale alla sostenibilità, poiché shock, perturbazioni e mutamenti sono inevitabili e generalmente
imprevedibili, ma anche ridurre la pressione di queste forze sui sistemi socioeconomici è fondamentale per la sostenibilità, perché
esse possono minare la resilienza.
2. COSA IMPLICA UN APPROCCIO BASATO SULLA RESILIENZA?
Un sistema basato sulla resilienza ha implicazioni multisfaccettate e spesso di vasta portata per lo
sviluppo. La resilienza condiziona infatti le priorità dell’agenda per lo sviluppo, l’elaborazione delle
politiche di aiuto e il quadro analitico di riferimento. La prospettiva della resilienza comporta l’accettazione
della limitatezza delle politiche basate sul concetto di stato stazionario5. Inoltre, dall’applicazione di questo
approccio possono emergere anche nuovi obiettivi e compromessi.
2.1 COMPROMESSI E COMPLEMENTARIETÀ FRA PROSPETTIVE A LUNGO E BREVE TERMINE
Le prassi attuali possono comportare l’affiorare di tensioni derivanti dalla necessità di reagire rapidamente alle emergenze, che
potrebbero mettere a repentaglio lo sviluppo a lungo termine. Ad esempio, gli aiuti alimentari e l’erogazione di servizi da parte
delle organizzazioni internazionali e non governative tutelano le persone in situazioni di rischio estremo, ma è probabile che lo
sviluppo agricolo sia carente in sistemi socioeconomici che vi fanno eccessivo affidamento6. E le strutture separate gestite da attori
3
4
5
6
Holling (1973) definisce il concetto di resilienza come la quantità di perturbazioni che un sistema può assorbire senza passare a un regime alternativo.
Perrings 2006, pag. 418
Folke 2006.
Alinovi e Russo 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Fragilità contro resilienza
esterni corrono il rischio di bypassare le istituzioni statali e impedirne il consolidamento7. Non bisogno tuttavia dare troppo peso a
questo compromesso. Gli interventi urgenti non escludono automaticamente le strategie a lungo termine: poiché un’esposizione
a shock ripetuti può erodere la resilienza, le risposte a breve termine possono essere in sintonia con un approccio basato sulla
resilienza8 ed evitare l’insorgenza di rischi di fragilità apprendendo dalle migliori pratiche elaborate in tanti anni di interventi
nell’ambito di crisi umanitarie complesse.
2.2 COMPROMESSI TRA RESILIENZA ED EFFICIENZA
L’efficienza dell’economia e la crescita economica sono condizioni necessarie, ma non sufficienti, per la riduzione della povertà.
Un approccio basato sulla resilienza metterebbe in dubbio la validità di politiche per lo sviluppo che le considerassero l’unico
ingrediente essenziale per il miglioramento del benessere umano. Al contrario, le politiche intese alla massimizzazione della
crescita potrebbero in taluni casi minare la resilienza di un sistema, mettendone a rischio la sostenibilità. Ad esempio, le politiche
orientate alle esportazioni che promuovono l’efficienza e incrementano il potenziale di crescita di un paese possono anche ridurne
la resilienza, creando pressioni verso la specializzazione in settori primari, largamente esposti alle fluttuazioni di prezzo nei mercati
internazionali. Come osserva Perrings (2006), concentrare le risorse in aree di attività che offrono il massimo rendimento a breve
termine riduce quasi sicuramente la resilienza del sistema nel suo complesso9.
2.3 NUOVI ELEMENTI DI ANALISI NELLA FORMULAZIONE DELLE STRATEGIE PER LO SVILUPPO
Un approccio basato sulla resilienza tende a espandere gli scopi e i requisiti di politiche per lo sviluppo efficaci, l’elaborazione
delle quali dovrebbe essere basata non soltanto su analisi statiche e monitoraggio dei risultati, ma anche sulle “valutazioni della
resilienza”. Un’analisi delle fonti di resilienza di un sistema socioeconomico richiederebbe una migliore comprensione dei meccanismi
di adattabilità, della capacità di apprendimento, dell’auto-organizzazione, dei processi decisionali e dell’azione collettiva. Questi
elementi di analisi potrebbero essere complementari allo studio del capitale sociale e della coesione sociale, dei beni familiari,
dell’esposizione a rischi e shock e delle opzioni a disposizione di cittadini e famiglie per affrontarli.
3. LA FRAGILITÀ STATALE MINA LA RESILIENZA SOCIOECONOMICA
I processi intesi al miglioramento del benessere dell’individuo dipendono dalle interazioni fra i diversi
livelli delle strutture sociali (quali la famiglia, la realtà locale, lo Stato e la comunità globale) e fra diversi tipi
di istituzioni, che vanno dai mercati ai sistemi politico, culturale e giuridico, dal capitale sociale a sistemi
formali e informali, fino alla regolamentazione dei diritti di utilizzo delle risorse e alla risoluzione delle
controversie e dei conflitti.
Riquadro 5.2: Crescita economica, sviluppo e benessere nei paesi fragili
Di J. Allister McGregor, Institute of Development Studies, Università del Sussex.
Qualche tempo fa, W. Arthur Lewis osservò che la crescita economica non è il fine dello sviluppo, ma un mezzo per
incrementare le possibilità di scelta delle persone. Questo messaggio chiave, ora ampiamente riconosciuto, è stato elaborato
da molti celebri teorici dello sviluppo, ma non sempre è applicato coerentemente nella politica e nella pratica.
Le recenti crisi multiple dell’economia, della governance e dell’ambiente a livello globale invocano la revisione della nostra
idea di sviluppo e delle modalità con cui organizziamo la politica e la pratica dello sviluppo su scala internazionale. Si stanno
diffondendo gli appelli a un approccio più umano alla teoria dello sviluppo (vedere il rapporto 2009 della Commissione
Sarkozy), basato saldamente sull’assunto che lo scopo della politica di sviluppo è assicurare ai cittadini le condizioni sociali
per il raggiungimento del benessere e attaccare le condizioni che causano la sofferenza umana.
Nei paesi fragili in via di sviluppo, i problemi della ricostruzione delle condizioni sociali per il benessere umano sono critici.
In molti di questi paesi, i cittadini e le comunità generano le proprie condizioni sociali per la sopravvivenza e la prosperità: si
uniscono in accordi locali, pagano milizie private per garantirsi la sicurezza fisica, possono dipendere dai boss delle imprese
locali per avere opportunità di mercato e possono tornare ai sistemi tradizionali di giustizia per far rispettare la legge e l’ordine
pubblico. Sebbene questi accordi possano assicurare le condizioni minime per la sopravvivenza, solitamente comportano
7
8
9
Manor 2007.
Guillaumont e Guillaumont Jeanneney 2009.
Perrings 2006.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 5
anche compromessi che non possono essere considerati positivi per lo sviluppo e il benessere umano. Nonostante alcuni
bisogni essenziali possano essere soddisfatti, il prezzo potrebbe essere il sacrificio delle libertà, senza contare che livelli
elevati di instabilità e insicurezza riducono la qualità della vita in generale.
Da questo punto di vista, gli sforzi intesi allo sviluppo in questi contesti di fragilità dovrebbero partire da un’analisi degli
elementi che già stanno garantendo alcune condizioni di benessere per poi partire dal loro esempio. In questo senso, è
quasi certamente necessario il coinvolgimento di una serie di attori diversi dallo Stato, quali le associazioni di auto-aiuto, le
organizzazioni locali della società civile, le milizie e le reti di imprese locali. Gli scopi di tale azione partecipativa in termini
di sviluppo sono il rafforzamento delle dimensioni positive dei requisiti sociali del benessere e l’allontanamento di queste
organizzazioni e istituzioni dalle loro pratiche e procedure, maggiormente pericolose.
Utilizzando questo quadro per il benessere, la priorità immediata negli Stati fragili e falliti è stabilire chi siano i soggetti più
vulnerabili e chi subisca le più aspre carenze di benessere in seguito al crollo dello Stato. Questa agenda di partecipazione
concentrata sul benessere può sostenere i primi passi nella ricostruzione di un contratto sociale di base e delle fondamenta
di una governance efficace.
La resilienza di un sistema socioeconomico, inteso come organismo complesso di attori statali e non statali interdipendenti dal
punto di vista funzionale, dipende dalla resilienza di tutti i suoi componenti nello svolgimento delle loro funzioni, dalla loro
influenza reciproca e dalla loro capacità di interagire in modo costruttivo per gestire l’intero sistema e la sua traiettoria. Il concetto
di resilienza può essere applicato con successo a tutti i livelli di un sistema socioeconomico, dalla famiglia alla comunità locale,
fino alle istituzioni statali10.
Le istituzioni statali sono un elemento essenziale di questo sistema complesso. La resilienza di un sistema socioeconomico può
essere assicurata o rafforzata dalle strategie di adeguamento e adattamento attuate ai suoi diversi livelli11. Al contempo, lo Stato
forgia la resilienza delle altre strutture sociali perché fissa i meccanismi di governance nella società, eroga beni pubblici, fornisce
servizi fondamentali e tutela la sicurezza e la tranquillità dei cittadini, tutti ingredienti essenziali per la costruzione delle capacità
umane (figure 5.1).
Figura 5.1: Interazioni tra fragilità statale e resilienza socioeconomica
Shock esogeni
Impatto sullo Stato (di-sponibilità
di beni pubblici, bilancio pubblico,
equilibrio di bilancio)
Impatto su istituzioni e attori non
statali: famiglie, società civile,
istituzioni economiche
Resilienza dei sistemi socioeconomici
Fragilità dello
Stato
Strategie di a-dattamento
e adeguamento
Reazioni politi-che
Benessere umano e sociale
Al contrario, la fragilità statale può minare la resilienza di un sistema socioeconomico. Sviluppo umano ed economico, resilienza e
rafforzamento delle istituzioni statali sono infatti strettamente correlati. Se lo sviluppo economico può rafforzare la capacità dello
Stato e creare domanda di “Stato”, i processi e gli elementi formativi di entità statali funzionali e legittime aiutano i cittadini nello
svolgimento delle proprie attività economiche e nel perseguimento del proprio benessere anche in un contesto di cambiamento.
La capacità e l’evoluzione delle istituzioni statali non possono essere analizzate isolatamente. Se, ad esempio, le famiglie o le
comunità sono in grado di ricorrere a strategie di adeguamento efficaci quando devono affrontare shock esterni, la portata e la
10
11
Per un’applicazione dell’analisi della resilienza a livello familiare, vedere Alinovi et al. 2009.
Engberg-Pedersen et al. 2008.
76
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Fragilità contro resilienza
pressione delle loro richieste politiche verrà ridotta. La fragilità statale può essere influenzata e mediata dalla resilienza sociale12.
Il potenziamento istituzionale può dunque essere efficacemente perseguito concentrandosi su tutti i diversi substrati del sistema
socioeconomico, e non solo sulle istituzioni statali.
Le lotte e le alleanze tra lo Stato e le altre organizzazioni sociali (famiglie, clan, partiti politici, aziende nazionali e multinazionali)
definiscono le modalità in cui la società e lo Stato creano e mantengono le regole che guidano l’azione collettiva, il potere e la
distribuzione dei costi e dei benefici13. Dall’interazione tra quelli che Migdal (1988)14 chiama Stati forti e società forti può sorgere un
processo di reciproco rafforzamento: “una società civile forte fornisce una base di legittimità e una capacità di agire da cui lo Stato
può partire, ma anche la società civile ha bisogno dello Stato per l’erogazione di taluni servizi”15. Il prossimo capitolo farà luce sul
nesso tra fragilità statale e resilienza socioeconomica discutendo degli impatti e dei canali di trasmissione della congiuntura globale
negativa negli Stati fragili dell’Africa subsahariana, oltre che della capacità potenziale dei loro sistemi macroeconomici di affrontare
la crisi. Riconoscendo che la resilienza macroeconomica è solo una parte della resilienza socioeconomica, l’analisi può aiutare a
comprendere la rilevanza della fragilità statale per la capacità dei paesi dell’Africa subsahariana di gestire e adattarsi ai grandi shock.
12
13
14
15
Engberg-Pedersen et al. 2008.
Migdal 1988.
Migdal 1988.
Spalding 1996, pag. 66.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 6
LA CRISI FINANZIARIA GLOBALE HA COLPITO DURAMENTE GLI
STATI FRAGILI AFRICANI
Al manifestarsi dell’attuale crisi economica, nell’estate del 2007, in molti pensavano che i paesi dell’Africa
subsahariana, compresi gli Stati fragili, ne sarebbero stati interessati soltanto in misura limitata1. La ridotta
integrazione dei loro sistemi finanziari deboli con i mercati dei capitali statunitensi ed europei sembrava
infatti metterli al riparo da gravi conseguenze. Con il passare del tempo, però, questa convinzione si
è rivelata sbagliata: sebbene gli effetti sulla ricchezza dovuti alla crisi siano meno pronunciati rispetto
a quanto avvenuto in altri paesi in via di sviluppo, i paesi dell’Africa subsahariana, e soprattutto gli
Stati fragili, hanno palesato una forte vulnerabilità ai collegamenti commerciali e agli sconvolgimenti
nell’ambito dei finanziamenti al commercio2.
La dipendenza degli Stati dell’Africa subsahariana dal commercio internazionale, e quindi la loro esposizione agli shock esterni,
è aumentata negli ultimi 10 anni. Le economie africane sono infatti diventate più sensibili al calo della domanda internazionale,
soprattutto nel contesto di un’inedita sincronizzazione dei cicli economici, che limita i benefici offerti dalla varietà dei partner
commerciali. Inoltre, poiché i fondi stanziati per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) generalmente variano in base al ciclo economico
del paese donatore (nonostante le promesse di mantenerli stabili, o persino di aumentarli), è probabile che gli Stati fragili dell’Africa
subsahariana rileveranno un calo nell’assistenza finanziaria ricevuta, almeno nel breve-medio periodo. In barba ai ripetuti appelli
lanciati nel corso degli incontri internazionali a rispettare gli impegni presi, e anche se i donatori riuscissero a mantenere le promesse
e a mantenere costante la quota del PIL loro destinata, gli aiuti potrebbero subire un notevole calo a causa del rallentamento nei
paesi donatori e, forse, dei movimenti sfavorevoli nei tassi di cambio (si veda, ad esempio, la recente svalutazione della sterlina
britannica nei confronti del dollaro statunitense). Anche per le rimesse è previsto un calo, che arriverà dopo un lungo periodo di
crescita costante.
1. LE IMPEGNATIVE SFIDE POSTE DALLA CRISI:
UNO STOP IMPROVVISO AD ANNI DI CONTINUI PROGRESSI
La crisi del 2008-2009 ha messo la parola fine a un periodo prolungato di crescita economica mondiale
e globalizzazione, nel corso del quale il commercio globale è cresciuto due volte tanto il PIL mondiale.
Nel 2008, la crescita del PIL ha iniziato a subire una flessione, che si è diffusa in tutte le regioni seguendo
un andamento (il peggiore degli ultimi decenni) simile a quello del crollo del 1929-1930. L’attuale crisi ha
dunque indebolito i fattori trainanti della recente fase di globalizzazione: i mercati aperti, le catene di
produzione integrate a livello globale e molte altre imprese internazionali indipendenti.
Il rallentamento del commercio mondiale è stato più drastico rispetto a quello del PIL, e addirittura rispetto a quello verificatosi
durante la Grande depressione3. L’effetto potrebbe essere stato provocato dalla sincronizzazione generale dei cicli economici fra
i vari paesi, ma potrebbe altresì essere ricondotto all’aumento del peso dei beni intermedi negli scambi commerciali, a sua volta
dovuto alla frammentazione della produzione, che, dopo aver stimolato una rapida crescita negli ultimi 10 anni, ora ha amplificato
la flessione.
La crisi economica e finanziaria si è manifestata all’apice di un periodo di estrema volatilità per quanto attiene ai prezzi dei beni
primari e ai tassi di cambio, per effetto della quale è aumentata l’incertezza e si è rafforzato il circolo vizioso relativo al declino dei
flussi commerciali e degli investimenti. Ha colpito proprio nel momento in cui l’Africa subsahariana era riuscita a imprimere un
solido slancio alla crescita4. Infatti, prima del luglio 2008 tale regione aveva fatto registrare una forte crescita, e i paesi fragili non
facevano eccezione. L’attuale crisi minaccia invece di interrompere questa tendenza positiva, ma rispetto alle recessioni verificatesi
in passato la regione è ora più pronta ad affrontarla5.
1
2
3
4
5
Vedere IDS 2008 e FMI 2008.
Berman e Martin 2009.
Eichengreen e O’Rourke 2009. L’elasticità stimata del commercio in rapporto al PIL a livello mondiale è di circa 2. Questa situazione ha sostenuto la globalizzazione,
ma con ogni probabilità ora avrà effetti contrari.
Arbache e Page 2008.
Fosu e Naudé 2009.
78
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Durante il recente periodo di crescita, l’Africa subsahariana si è maggiormente integrata con il resto del mondo, come si nota dalla
sua quota (in crescita, seppur ancora ridotta) delle esportazioni globali e del PIL (figura 6.1)6. Sebbene siano mediamente meno
integrati rispetto alle altre nazioni dell’Africa subsahariana, i paesi fragili hanno seguito lo stesso trend. Ma è stata proprio questa
crescente integrazione a livello internazionale a esporre più apertamente i paesi fragili subsahariani agli sconvolgimenti nel settore
del commercio e ad altri tipi di shock. L’integrazione ha inoltre avuto una chiara ripercussione sul gettito fiscale (e in alcuni paesi
anche sulle politiche in materia), provocando la diminuzione delle entrate provenienti dalle imposizioni sugli scambi commerciali.
Le sfide della globalizzazione per la mobilitazione delle risorse sono inasprite dalla recente crisi, che assottiglia la base fiscale.
Figura 6.1: Esportazioni in crescita come percentuale del PIL
50
45
40
Percentuale
35
30
Stati non fragili dell’Africa subsahariana
25
20
Stati fragili dell’Africa subsahariana
15
10
2006
2004
2002
2000
1998
1996
1994
1992
1990
1988
1986
1984
1982
0
1980
5
Fonte: Banca mondiale (2009c), World Development Indicators 2009.
2. LA FRAGILITÀ VA AD AGGIUNGERSI AI PROBLEMI RELATIVI A GENERI
ALIMENTARI, CARBURANTI E FINANZE
I picchi dei prezzi dei generi alimentari e del carburante, intorno alla metà del 2008, hanno messo a dura
prova le importazioni di alimenti e greggio dagli Stati fragili dell’Africa subsahariana, assottigliando le
riserve di cambio e minando la possibilità di pagare le importazioni e sostenere la crescita. Al contrario, i
paesi che esportano petrolio hanno beneficiato delle entrate in aumento, e molti sono riusciti a rafforzare
la propria posizione per quanto riguarda le riserve di cambio. Peraltro, le fasi alternate di espansione e
recessione hanno contribuito alla volatilità della produzione, scoraggiando gli investimenti nella capacità
produttiva a lungo termine.
Come sottolineato dall’FMI (2009a), la maggior parte degli Stati fragili dell’Africa subsahariana ha subito quasi contemporaneamente
shock energetici, alimentari e finanziari. Per il 2009, le stime più recenti indicano una crescita del PIL reale pari all’1,5% nell’Africa
subsahariana, cioè 4 punti percentuali in meno rispetto alle stime di ottobre 2008: stando così le cose, nel 2009, per la prima volta
dopo un decennio, la maggior parte dei paesi fragili dell’Africa subsahariana registrerebbe una crescita negativa del PIL reale pro
capite, il che andrebbe a discapito del progresso verso gli OSM e minerebbe la stabilità politica7. Una crescita rallentata in sé e per
sé non è sinonimo di inversione dello sviluppo umano, ma produce inevitabilmente battute di arresto, in special modo a causa dei
tagli alle spese per l’istruzione e la sanità, con pesanti conseguenze a lungo termine.
6
7
In alcuni paesi, specialmente per gli esportatori di petrolio dell’Africa centrale, il rapporto fra esportazioni e PIL risulta con ogni probabilità gonfiato dai prezzi
elevati delle materie prime.
In media, l’Africa subsahariana ha un tasso negativo di crescita del PIL reale pro capite (-0,6%). I paesi fragili registrano invece un tasso di crescita positivo
dello 0,2%, ma questa percentuale cela un elevato grado di eterogeneità (capitolo 2).
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Capitolo 6
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
3. I QUATTRO CANALI DI TRASMISSIONE AI PAESI FRAGILI
Considerato lo scarso sviluppo finanziario della regione e i vincoli limitati degli Stati fragili con il sistema
finanziario globale, i principali canali di trasmissione della crisi sono i settori reali dell’economia. La
maggior parte degli Stati fragili dell’Africa subsahariana dispone di piccoli sistemi bancari nazionali e di
mercati dei capitali quasi inesistenti. Inoltre, gli investitori stranieri e i fondi sovrani investono soltanto in
alcune nazioni esportatrici di petrolio.
Ciò che espone i paesi fragili dell’Africa subsahariana alla crisi è essenzialmente il commercio: la riduzione dei proventi delle
esportazioni si accompagna a un effetto negativo delle ragioni di scambio, rafforzato dall’eccessiva dipendenza di questi paesi
dalle esportazioni di beni primari e dalla polarizzazione delle esportazioni8. Gli Stati fragili sono inoltre resi vulnerabili dal calo
delle rimesse di denaro da parte dei migranti, dalle riduzioni dei flussi di investimenti esteri diretti (IED) e dalle probabili riduzioni
dei flussi di aiuti stranieri.
I canali finanziari di trasmissione diretta sono all’opera soltanto in paesi quali il Kenya e la Nigeria (e in due importanti paesi non
fragili, il Sud Africa e il Ghana), i cui mercati finanziari risultano più efficaci e integrati (riquadro 6.1). La Nigeria, ad esempio, è stata
vittima di flessioni del mercato azionario analoghe (o persino superiori) a quelle verificatesi nei paesi industrializzati9: l’indice
nazionale NSE-20 ha infatti perso il 55% da luglio 2008 a febbraio 2009, dopo essere già precipitato del 45% l’anno precedente10.
Tale calo e la conseguente mancanza di fiducia rendono ancora più difficile ottenere prestiti dai mercati dei capitali. Le ripercussioni
della crisi su alcuni importanti mercati di destinazione dei migranti interregionali (come Nigeria, Sud Africa, Uganda e Zambia)
causano effetti diffusivi molto marcati sui paesi fragili vicini (soprattutto mediante la diminuzione delle opportunità di lavoro per
i migranti e delle rimesse).
Riquadro 6.1: I mercati finanziari africani – Gli effetti diffusivi degli shock
A partire dai primi anni Novanta, diverse nazioni in via di sviluppo hanno dato vita a una propria borsa valori, da un lato
per soddisfare la ricerca di nuovi capitali, dall’altro per integrare taluni elementi del capitalismo di mercato nelle economie
nazionali. Anche l’Africa subsahariana ha seguito questa tendenza, tanto che il Sud Africa è diventato una delle maggiori
destinazioni dei mercati emergenti e numerosi fondi regionali sono stati destinati specificamente al continente. Sotto
l’egida dei governi nazionali, e con il sostegno dei donatori, le borse nazionali africane sono passate da 6 alla fine degli anni
Ottanta a più di 20 ai giorni nostri, anche se non tutte presentano lo stesso livello di sviluppo (tra gli Stati fragili, il Kenya e
la Nigeria avevano le borse più avanzate).
In che modo le vicende dei mercati finanziari più imponenti (Cina, Regno Unito e Stati Uniti) hanno influenzato i mercati
africani (Kenya, Nigeria e Sud Africa) nel periodo 2004-2009? Analizzando la volatilità dei mercati finanziari in base a un
modello econometrico, Giovannetti e Velucchi (2009) notano che, in media, gli shock positivi in Sud Africa e gli shock negativi
in Cina e nel Regno Unito hanno conseguenze su tutti i mercati considerati. Tutti i mercati africani, infatti, sono influenzati
dagli shock negativi che colpiscono gli USA, tranne il Kenya, influenzato soltanto dagli shock statunitensi positivi. Il Sud
Africa ha un’influenza sugli Stati Uniti, ma per contro subisce gli effetti soltanto del mercato nigeriano; non vi è invece
prova certa di un rapporto significativo tra Kenya e Nigeria. Anche la Cina è in stretta correlazione con i mercati africani.
Ulteriori risultati indicano che anche il Sud Africa svolge un ruolo di primo piano in tutti i mercati africani, in cui l’influenza
del Regno Unito e degli Stati Uniti è invece minore. La Cina è indipendente da questi due mercati.
La figura 1 del riquadro illustra in che modo il crollo della Lehman Brothers si sia propagato in tutti i mercati: il 15 settembre
2008 la Lehman Brothers dichiarò il fallimento e i mercati finanziari internazionali subirono forti perdite. La Cina e il Regno
Unito reagiscono con decisione allo shock statunitense, al contrario della Nigeria. Il Sud Africa è molto sensibile allo shock,
ma l’effetto è cumulativo e gli shock raggiungono l’apice dopo 20 giorni.
8
9
10
La maggior parte dei paesi fragili dipende quasi esclusivamente dalle esportazioni di un singolo prodotto. In media, le tre principali esportazioni incidono
per il 90% circa sul totale delle esportazioni, come evidenziato nel capitolo 2.
BAfS 2009a e ODI 2009a.
Kasekende et al. 2009 e ODI 2009a.
80
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Risposta
Figura 1 del riquadro: Il Sud Africa risponde al crollo della Lehman Brothers,
al contrario di Kenya e Nigeria
3,0
US
2,5
UK
2,0
Sud Afrika
1,5
Cina
Kenya
1,0
Nigeria
0,5
0,0
1
7
13
19
25
31
37
43
49
55
61
67
73
79
85
91
97
Giorni
Note: in questo riquadro viene utilizzato un approccio MEM (modello a errore moltiplicativo) per descrivere e prevedere le
interazioni e gli effetti diffusivi tra questi paesi (Engle, Gallo e Velucchi, 2008); il modello usa le dinamiche della volatilità prevista
in un mercato, incluse le interazioni con il quadrato dei residui passati degli altri mercati: la funzione di impulso-risposta viene
utilizzata per suggerire un’intensificazione degli effetti diffusivi.
Fonte: Giovannetti e Velucchi (2009).
Gli esportatori di minerali e prodotti agricoli hanno rilevato un calo nei ricavi che, a sua volta, ha avuto conseguenze negative sulle
entrate dello Stato. In Nigeria, ad esempio, il prezzo volatile del petrolio, che rappresenta il 90% circa delle esportazioni nazionali
(vedere tabella 2.3) e il 90% delle entrate dello Stato11, ha creato notevole incertezza, analogamente a quanto successo a causa
della flessione nei prezzi del metallo in RDC. In questo contesto, la crisi avrebbe potuto anche avere effetti positivi, stimolando il
reindirizzamento degli interessi al fine di ravvivare il potenziale di settori diversi da quello del petrolio e dei carburanti (o più in
generale delle materie prime), e dunque rafforzando le economie in vista di possibili shock futuri.
3.1 MENO RISORSE PER GLI INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI
Gli IED hanno rappresentato un’importante fonte di risorse per alcuni (pochi) Stati fragili dell’Africa subsahariana e un potente
motore di crescita, a seconda dei settori cui erano rivolti. Gli investimenti nell’industria del petrolio solitamente generano un livello
ridotto di occupazione domestica, dato lo scarso numero di dipendenti e le elevate abilità richieste, mentre i fondi stanziati per il
turismo o talune attività di artigianato tradizionale stimolano l’occupazione, i consumi e la crescita a livello nazionale12.
Gli IED come quota del PIL sono risultati inferiori nell’Africa subsahariana rispetto ad altri paesi in via di sviluppo, distribuiti
irregolarmente fra gli Stati e spesso collegati alla dotazione di risorse naturali. A partire dal 2000, questa tipologia di investimenti
aveva vissuto una crescita in termini assoluti e come quota del PIL, ma la crisi economica ha ridotto la somma totale dei fondi o ha
causato il rinvio di alcuni progetti. Oltre a ciò, la crisi ha assottigliato il credito e diminuito i profitti per le aziende nelle economie
sviluppate ed emergenti, inducendole a rivedere al ribasso i propri piani di investimento e a temporeggiare13. Elevata e ancora in
aumento, l’incertezza correlata alle crisi relative ai carburanti, ai generi alimentari e alla situazione finanziaria, tutte concomitanti,
spiega il calo generale negli IED, che provoca gravi danni a causa dei suoi effetti persistenti14, forse anche oltre quelli coperti dai
fondamentali di un determinato paese.
11
12
13
14
ODI 2009a.
Vedere Bonassi et al. 2006.
In passato, i modelli teorici di investimento in condizioni di incertezza (Dixit 1989) hanno fatto uso della teoria dell’opzione per spiegare questo atteggiamento
quando l’ambiente viene percepito come rischioso dagli investitori. Per valori dei fondamentali uguali, il comportamento di ogni azienda è differente in base alla
propria storia: se un’impresa sta già investendo in un paese, continuerà a farlo, mentre i nuovi investimenti vengono posticipati. Il comportamento delle aziende
potrebbe spiegare la situazione attuale: le discontinuità nel comportamento individuale (nella stessa situazione, imprese diverse potrebbero decidere di investire
o meno a seconda della propria storia, dando pertanto vita a equilibri multipli) rendono la funzione dell’investimento aggregato fortemente non lineare.
Ci vuole tempo per realizzare un investimento, e basta un calo nel corso di un solo anno per produrre un impatto che dura più anni.
RAPPORTO EUROPEO
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 6
Nella prima metà del 2008, Angola, Nigeria, RDC e Guinea hanno ricevuto più di un miliardo di dollari ciascuna in flussi di IED15. Per
contro, nella seconda metà del 2008 e nella prima metà del 2009 numerosi investimenti in risorse naturali e nel settore manifatturiero
sono stati sospesi o cancellati. In RDC e in Zambia sono stati ad esempio cancellati progetti riguardanti attività minerarie, mentre
si è deciso di posticipare la realizzazione di una raffineria in Sudan e progetti riguardanti attività minerarie in Botswana e Tanzania.
In un settore, però, gli IED non si sono mai fermati: i terreni (capitolo 4). Infatti, in cerca di sicurezza alimentare o al fine di aumentare
la produzione di biocarburanti senza mettere a rischio le proprie risorse idriche, gli Stati esteri stanno acquistando terreni nei paesi
dell’Africa subsahariana. Per questi ultimi, gli accordi possono rivelarsi poco favorevoli, soprattutto laddove le istituzioni statali
sono caratterizzate da un basso livello di applicazione della legge, un fattore che potrebbe essere sfruttato dai paesi esteri coinvolti
in tali accordi. Gli effetti di questi flussi sui paesi beneficiari sono dunque notevolmente controversi16: i fondi in entrata a breve
termine, necessari per attenuare i peggiori effetti della crisi, possono infatti rivelarsi una sottrazione di importanti risorse; se ben
gestiti, però, potrebbero incrementare la produttività agricola e addirittura sortire effetti positivi sulla crescita.
3.2 FLESSIONI NEL COMMERCIO
Molti paesi dell’Africa subsahariana, inclusi gli Stati fragili esportatori di materie prime, hanno fatto pressoché totale affidamento
sui mercati dell’esportazione per conseguire la crescita: la crisi è stata dunque trasmessa loro principalmente tramite la flessione
della domanda e dei prezzi delle esportazioni.
La valutazione degli effetti della crisi sui flussi commerciali richiede tempo, ma i primi segnali non sono certo rassicuranti: la domanda
europea, statunitense e cinese di prodotti degli Stati fragili subsahariani è precipitata, toccando livelli inferiori a quelli dei prodotti
di altre aree (figura 6.2). Ciò si deve in parte al fatto che le esportazioni di tali Stati sono costituite principalmente da materie prime,
ma in realtà anche nel settore manifatturiero, riguardante soprattutto prodotti di bassa tecnologia, la zona subsahariana risente
più di altre aree in via di sviluppo17. Inoltre, molti paesi fragili subsahariani sono stati colpiti dall’aumento della volatilità dei tassi
di cambio, che ha causato una profonda incertezza e costi elevati per il commercio internazionale. Poiché è vincolato all’euro,
il tasso di cambio di numerosi Stati della zona CFA ha subito un deprezzamento reale. Per certi versi, grazie a questa situazione
diventa più economico importare da questi paesi, che peraltro non sono in grado sfruttare l’opportunità a causa della loro limitata
capacità di aumentare le esportazioni18.
15
16
17
18
Vedere UNCTAD 2009, pag. 42.
Per una discussione al proposito, vedere il capitolo 4.
Vedere UNCTAD 2009; la flessione marcata nelle esportazioni si riscontra anche per quanto attiene all’Africa subsahariana nel complesso.
BAfS 2009b.
82
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Figura 6.2: Le esportazioni sono in calo per la maggior parte dell’Africa subsahariana
Importazioni USA
Indice (Settembre 2008=100)
150
America Latina
130
Medio Oriente e Nord Africa
110
Stati fragili Africa subsahariana
Africa subsahariana
90
Mondo
70
50
06/2009 05/2009 04/2009 03/2009 02/2009 01/2009 12/2008 11/2008 10/2008 09/2008 30
Importazioni UE
110
America Latina
Medio Oriente e Nord Africa
90
Stati fragili Africa subsahariana
80
Africa subsahariana
70
Mondo
60
05/2009 04/2009 03/2009 02/2009 01/2009 12/2008 11/2008 40
10/2008 50
09/2008 Indice (Settembre 2008=100)
100
Importazioni Cina
120
America Latina
110
Medio Oriente e Nord Africa
90
Stati fragili Africa subsahariana
80
70
Africa subsahariana
60
Mondo
50
40
07/2009 06/2009 05/2009 04/2009 03/2009 02/2009 01/2009 12/2008 11/2008 20
10/2008 30
09/2008 Indice (Settembre 2008=100)
100
Nota: settembre 2008 = 100.
Fonte: Global Trade Atlas.
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 6
La crisi finanziaria potrebbe inoltre aver diminuito la capacità di finanziare il commercio mondiale. Le imprese subsahariane, soprattutto
nei paesi fragili, dipendono in maggior misura dai finanziamenti al commercio e in gran parte fanno affidamento sulle lettere di
credito dei paesi di destinazione, soprattutto a causa dello scarso sviluppo del proprio sistema finanziario nazionale e della carenza di
autofinanziamenti. Ma i fornitori, in una situazione di elevata incertezza e mancanza di fiducia, hanno ridotto la propria esposizione
ai rischi e i crediti concessi, e le aziende e i paesi più colpiti da questa condizione sono anche quelli ritenuti più a rischio. Quindi, il
razionamento del credito, che aumenta i costi degli scambi commerciali, ha scoraggiato le esportazioni dei paesi fragili subsahariani.
Le analisi19 basate su 117 crisi sistemiche20 e i dati relativi a transazioni commerciali bilaterali indicano che le esportazioni dei paesi
dell’Africa subsahariana possono subire un duro colpo dall’attuale crisi: innanzitutto, quando il partner commerciale era un paese
industrializzato, l’impatto delle recessioni e delle crisi finanziarie passate sulle esportazioni dell’Africa subsahariana è stato più forte
e persistente; in secondo luogo, i paesi subsahariani sono stati colpiti più duramente, e più a lungo rispetto ad altre regioni, dalle crisi
che interessavano i loro mercati di destinazione. Non si tratta soltanto di un effetto della composizione dovuto all’eccessiva presenza
di prodotti primari nei panieri delle esportazioni, ma anche di una conseguenza della minore competitività delle esportazioni del
settore manifatturiero di tali paesi, maggiormente incentrate su prodotti a ridotto valore aggiunto. In effetti, sono state colpite
duramente tanto le esportazioni di prodotti lavorati quanto quelle di materie prime (figura 6.3). A renderli ancora più vulnerabili
concorrono anche le infrastrutture scadenti, che aumentano i costi (imposte, burocrazia, dogane). Per sfruttare le opportunità offerte
dalla crisi economica, le aziende devono riuscire a scovare delle nicchie, sviluppare prodotti di qualità più elevata o spostarsi verso
l’alto della catena del valore, ma queste azioni richiedono il capitale umano adeguato, la cui disponibilità nei paesi fragili è limitata.
Figura 6.3: Le esportazioni di materie prime e del settore manifatturiero dell’Africa subsahariana
in seguito alla crisi finanziaria nel paese partner
Rapporto scambi commerciali in eccesso
Fonte: Berman e Martin 2009.
0,5
Prodotti manifatturiori
0,3
Prodotti mari
0,1
-2
-1 -0,1
1
2
3
4
5
6
7
8
-0,3
-0,5
-0,7
Anni dalla crisi
Nota: il grafico mostra la deviazione delle esportazioni africane dopo una crisi finanziaria che ha luogo nell’anno t=0, in riferimento all’effetto
turbativo medio. L’indice delle eccedenze sull’asse Y rappresenta la deviazione delle esportazioni bilaterali subsahariane provocata da
una crisi finanziaria nel paese partner, in relazione alla deviazione media: un valore positivo/negativo indica che l’effetto della crisi sulle
esportazioni africane è più positivo/negativo dell’effetto medio sulle esportazioni.
3.3 FLUSSI DI AIUTI IN CALO: UNO SCENARIO DA EVITARE
Nel 2005, riunitosi a Gleaneagles, il summit del G8 aveva promesso di aumentare gli aiuti erogati ai paesi africani, e il suo impegno
è stato più volte riaffermato durante gli incontri internazionali. La recessione globale causata dalla crisi finanziaria del 2008-2009
getta però una serie di dubbi sull’attuale evoluzione degli aiuti da parte dei donatori OCSE/CAS. I bilanci per gli aiuti possono infatti
subire una riduzione (rispetto al massimo storico registrato nel 2008) per finanziare i pacchetti di incentivi fiscali volti a sostenere
la domanda interna nei paesi donatori. I primi segnali provenienti da alcuni membri OCSE/CAS non sono rassicuranti: il governo
irlandese ha annunciato di voler ridurre del 22% il bilancio per gli aiuti rispetto a quanto inizialmente pianificato per l’anno in corso,
mentre l’Italia potrebbe addirittura dimezzare il proprio budget nel 2009, raggiungendo così un minimo storico21. Nel breve-medio
periodo, la maggior parte dei bilanci per gli aiuti dei paesi industrializzati verrà ridotta a causa dei recenti deficit di bilancio, e nel
prossimo futuro sarà dunque probabile assistere a tagli alle spese o all’aumento dei tassi d’interesse.
19
20
21
Berman e Martin (2009) usano un modello di gravità per calcolare le funzioni di impulso-risposta; in questo caso l’analisi riguarda l’Africa subsahariana nel
suo complesso a causa della mancanza di serie temporali affidabili per il solo gruppo dei paesi fragili. Si rimanda al loro documento informativo nel Volume
1B per ulteriori dettagli.
La crisi sistemica è definita come un insieme di eventi, anche della durata di molti anni, in cui la maggior parte o la totalità dei capitali bancari è esaurita.
L’insieme dei dati relativi agli scambi commerciali bilaterali e alla crisi finanziaria riguarda il periodo 1972-2002.
Vedere One 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Le crisi passate, che mai avevano avuto un carattere tanto globale come quella attuale, indicano che i donatori ricorrono a un
profondo taglio del proprio bilancio per gli aiuti quando si trovano a dover affrontare una recessione di vasta portata (ad esempio,
nel 1991 la crisi delle banche nordiche fu seguita da una riduzione sostanziosa degli stanziamenti a favore degli aiuti da parte di
Norvegia, Svezia e Finlandia).
Anche qualora gli impegni presi in precedenza vengano mantenuti, gli Stati beneficiari non sono al riparo da una considerevole
riduzione nei flussi di aiuti, perché tali impegni sono generalmente espressi come quota dell’RNL, ma anche a causa delle oscillazioni
nei tassi di cambio bilaterali con il dollaro.
Bilanci per gli aiuti 2009 Per capire più a fondo i possibili effetti della crisi sui bilanci per gli aiuti, ci rifacciamo all’analisi econometrica
di Bertoli et al. (2007), che descrive le cause determinanti economiche, istituzionali e politiche dei contributi, definiti come il rapporto
fra aiuti e PIL, dei 22 membri dell’OCSE/CAS nel periodo 1970-2004. In questa sede estendiamo l’analisi fino al 2008 utilizzando
una versione modificata del modello di cui sopra, che ci consente di ottenere un rapporto non lineare fra le recessioni e gli aiuti
erogati. Questa versione corrobora l’impressione che le recessioni di vasta portata potrebbero avere un impatto molto forte e più
che proporzionale sugli aiuti stanziati dai donatori22.
Secondo le nostre previsioni, non è detto che i paesi con un deficit di bilancio elevato riducano lo stanziamento per gli aiuti, poiché
tale misura non basta a valutare la situazione finanziaria di un paese. Questa rivelazione, in linea con Round e Odedokun (2004), non
è rassicurante. L’analisi mostra che gli aiuti diminuiscono in presenza di un eccesso di debito, e lo fanno più che proporzionalmente
in risposta a un divario maggiore fra produzione reale e potenziale, un fattore che serve a misurare l’intensità della recessione. Le
stime vengono utilizzate per avanzare un’ipotesi in merito ai bilanci per gli aiuti di ciascun paese donatore per l’anno 2009 sulla
base delle previsioni macroeconomiche dell’Economic Outlook dell’OCSE.
Secondo le nostre previsioni, nel 2009 i flussi di aiuti dai paesi dell’OCSE/CAS potrebbero subire un calo di 22 miliardi di dollari
(rispetto ai 119 miliardi del 2008) se i donatori si comportassero come nelle passate recessioni23. La variazione aggregata dei flussi
totali di aiuti differisce radicalmente dal quadro che emerge dalle proiezioni ricavate da quanto annunciato pubblicamente dai paesi
membri dell’OCSE/CAS24, in linea con gli impegni presi in precedenza. Le nostre previsioni riguardano ciò che potrebbe accadere
ai bilanci per gli aiuti in risposta alle fluttuazioni dei cicli economici, ma va da sé che si tratta soltanto di uno scenario possibile, ed
evitabile a patto che la maggior parte dei paesi donatori assegnino la dovuta priorità agli aiuti.
Per far comprendere meglio quanto sia importante evitare questo scenario, proviamo a dare l’idea delle dimensioni dell’impatto
sui paesi beneficiari subsahariani, presumendo che i donatori mantengano gli stanziamenti bilaterali immutati dal periodo 2003200725. Questo esercizio dimostra che la maggior parte dei paesi dell’Africa subsahariana è esposta a una riduzione del 15-20%
circa dei flussi di aiuti (figura 6.4) che potrebbe ripercuotersi in particolare sui paesi con un’elevata quota di aiuti nella bilancia dei
pagamenti26. Le fluttuazioni negli aiuti sono particolarmente devastanti per i paesi fragili27.
Figura 6.4: La riduzione prevista dei flussi di aiuti verso l’Africa per il 2009
■ inferiore al 15%
■ tra il 15% e il 16%
■ tra il 16% e il 18%
■ tra il 18% e il 20%
■ oltre il 20%
Fonte: elaborazione degli autori.
22
23
24
25
26
27
Vedere Bertoli et al. 2007 per una descrizione del modello econometrico e il documento informativo di Allen e Giovannetti (2009), disponibile nel Volume
1B, per i risultati del modello econometrico esteso.
Vedere Allen e Giovannetti 2009 per le proiezioni relative a ciascun paese.
OCSE, 2009a
I dati sugli aiuti bilaterali per il 2008 non sono ancora disponibili.
Il capitolo 2 fornisce i dati sulla dipendenza dei paesi fragili dall’APS, in confronto a rimesse e IED. Secondo l’OCSE (2009b), in un contesto differente e con
stime differenti, ci sia aspetta che il Ciad, l’Eritrea e la Guinea debbano affrontare un calo negli aiuti di più di 20 milioni di dollari.
L’OCSE (2009b) sostiene che il Burundi, l’RDC, l’Eritrea, la Guinea-Bissau, la Liberia e la Sierra Leone avevano registrato fluttuazioni in eccesso del 5% del PIL
fra il 1990 e il 2005.
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Capitolo 6
È inutile dire che i donatori europei dovrebbero cercare di non ridurre gli aiuti agli Stati subsahariani in generale, e in particolare
ai paesi fragili, perché il canale degli aiuti andrebbe in questo modo ad aggiungersi agli effetti avversi che percorrono i tre canali
descritti in precedenza. Purtroppo, però, il timore che i paesi donatori (incappati in costi domestici elevati per affrontare la crisi)
possano ridurre i flussi non può essere spazzato via tanto facilmente, data l’esperienza storica e alcuni segnali iniziali preoccupanti.
L’FMI (2009c) sostiene che “nonostante esistano impegni internazionali ad aumentare gli aiuti, le previsioni non ne indicano la
presenza nell’agenda per il 2009”28 e suggerisce che i paesi a basso reddito potrebbero essere colpiti da una riduzione del 25%
rispetto all’anno precedente.
La Cina, che dispone di un surplus di bilancio (e nella bilancia dei pagamenti), potrebbe colmare il vuoto lasciato dai paesi OCSE
(riquadro 6.2).
Riquadro 6.2: La Cina sta colmando il vuoto?
Il FOCAC, inaugurato nel 2000 dalla Cina e dai suoi partner africani (fatta eccezione per i tre paesi che ancora riconoscono
Taiwan come provincia autonoma), è la piattaforma di cui fa uso il paese asiatico per illustrare i suoi piani per l’aiuto
allo sviluppo rivolti all’Africa29. La Cina fornisce aiuti internazionali ai paesi africani tramite la cooperazione economica,
principalmente su base progettuale, spesso in correlazione con IED e scambi commerciali. Per la fine del 2006, il gigante
asiatico aveva varato circa 800 progetti di aiuto in Africa: 137 nel settore dell’agricoltura, 133 relativi alle infrastrutture, 19
per le scuole e 38 per gli ospedali. La Cina ha inoltre inviato 16.000 operatori sanitari in 43 paesi africani, realizzato attività
di formazione per 15.000 persone e cancellato il debito africano per circa 1,2 miliardi di dollari30.
Sempre per la fine del 2006, il paese asiatico ha stanziato 5,6 miliardi di dollari in aiuti all’Africa. L’Exim Bank cinese, uno dei
principali attori nazionali nel campo della cooperazione allo sviluppo, ha annunciato di aver erogato 12,3 miliardi di dollari
in prestiti e crediti per le esportazioni a favore dell’Africa tra il 1995 e il 2006. Secondo il CCS31, a tutto settembre 2006 l’Exim
Bank aveva dato vita a 259 progetti in 39 Stati africani, l’80% dei quali relativi a infrastrutture (dighe, ferrovie, oleodotti e
miniere). Aggiungendo le sovvenzioni e altri crediti alle cifre riportate più sopra, Jacoby (2007) stima in 19 miliardi di dollari
gli aiuti finanziari erogati dalla Cina a favore dell’Africa a tutto il 2006.
Le tipologie di aiuto ai paesi africani si dividono in sovvenzioni (principalmente in natura), prestiti a interessi zero e prestiti
agevolati. Di recente, la Cina ha iniziato a ridurre ulteriormente il debito degli Stati africani. Sembra che i funzionari cinesi
preferiscano concedere aiuti nella forma di sovvenzioni in natura perché in tal modo si abbattono i costi di transazione
correlati alla fornitura dell’assistenza, a tutto vantaggio dell’efficacia32.
L’OCSE (2008b) riferisce che alcuni paesi fragili (ad esempio Angola, Camerun, Congo, RDC, Costa d’Avorio, Eritrea, Liberia,
Nigeria, Sudan e Togo) hanno già ricevuto prestiti agevolati dalla Exim Bank. Pehnelt (2007) rileva che quasi tutti i maggiori
partner africani della Cina non si distinguono affatto per libertà politica e qualità della governance, mentre Alves e Draper
(2007) sottolineano il basso rendimento nel Foreign Policy’s Failed States Index (l’indice degli Stati falliti di Foreign Policy).
Woods (2008) e Brautigam (2008) mettono in evidenza la presenza crescente della nazione asiatica negli Stati cosiddetti
“canaglia”, quali il Sudan o lo Zimbabwe, un sostegno che va oltre la semplice fornitura di aiuti, mentre Shinn (2008) si
concentra sugli stretti vincoli militari della Cina con questi due paesi.
La figura 1 confronta gli aiuti del CAS con la cooperazione economica cinese33 per un gruppo di paesi fragili africani34. L’APS
dei paesi CAS ha avuto carattere ciclico dal 2000, con un tendenza al ribasso negli ultimi anni. Al contrario, i flussi della
cooperazione economica cinese verso i paesi fragili sono cresciuti in maniera stabile, e nel 2006 erano quasi arrivati allo
stesso livello dei flussi di aiuti dei paesi CAS.
Il trend è ancora più marcato per alcuni paesi africani presi singolarmente (ad esempio in Angola, Guinea equatoriale,
Eritrea e Sudan, cioè laddove il sostegno finanziario da parte dei donatori occidentali si è attenuato dopo la metà degli anni
Novanta, quando una lunga serie di episodi di violenza e instabilità generale si diffuse nel continente35), che ora ricevono
la gran parte dell’assistenza finanziaria erogata dalla Cina.
28
29
30
31
32
33
34
35
FMI 2009c, pag. 30.
Gambia, Burkina Faso e São Tomé e Príncipe.
Vedere MOFCOM 2007.
Vedere CCS 2008.
Vedere Lancaster 2007.
Secondo la definizione fornita dall’Ufficio cinese di statistica, i dati relativi alla cooperazione economica con regioni o paesi terzi interessano progetti finanziati
dai programmi di aiuto della Cina e progetti a contratto attuati da contraenti cinesi. È dunque importante prendere con le pinze il confronto tra i flussi in
uscita della cooperazione economica cinese, che, secondo l’OCSE (2008a), include l’APS cinese, ma sovrastimandolo, e l’APS dei paesi industrializzati, una
categoria più mirata e autoesplicativa.
I paesi fragili sono stati selezionati in base alla definizione operativa proposta dall’OCSE (2009b) e adottata nel capitolo 2 di questo rapporto.
Vedere Tull 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Figura 1 del riquadro: La cooperazione economica della Cina con i paesi fragili africani e gli
aiuti del CAS, 1998-2007
Fonte: elaborazione ERD basata su database dell’OCSE/CAS e Ufficio nazionale di statistiche cinese (varie edizioni), Annuario
statistico cinese
Secondo alcuni osservatori, la Cina trarrà profitto da un possibile ritiro dei paesi occidentali dall’Africa36, ma la situazione
20 000
Cina
18 000
CAS
Milioni di USD
16 000
14 000
12 000
10 000
8 000
6 000
4 000
2 000
2007
2006
2005
2004
2003
2002
2001
2000
1999
1998
0
si chiarirà maggiormente soltanto dopo il quarto summit del FOCAC, in calendario a novembre 2009. All’inizio del 2009, i
leader cinesi hanno riaffermato il proprio impegno nei confronti dell’Africa, annunciando lo stanziamento di miliardi di euro
a favore di nuovi progetti e altre forme di aiuto, inclusa un’ulteriore riduzione del debito37. Prima della visita del presidente
Hu Jintao a un gruppo di paesi dell’Africa orientale, svoltasi a febbraio 2009, i funzionari cinesi avevano promesso che la
nazione asiatica avrebbe mantenuto stabile il livello di assistenza fornita al continente africano “indipendentemente dalla
crisi finanziaria” e che era già stato pianificato un aumento del 200% degli aiuti rispetto al 200638.
3.4 RIMESSE IN CALO
Le rimesse dei migranti dirette verso i paesi dell’Africa subsahariana raggiungono Stati in cui altri flussi privati, come gli IED, sono
limitati o inesistenti, e talvolta superano addirittura gli stanziamenti dell’APS39. Molti migranti degli Stati fragili subsahariani (come i
rifugiati) restano peraltro nelle vicinanze del loro paese di origine, perché non possono permettersi gli elevati costi della migrazione
verso paesi ad alto reddito (figura 6.5)40.
Figura 6.5: Molti migranti risiedono in Africa
■ meno del 20%
■ 20-40%
■ 40-60%
■ 60-80%
■ oltre l’80%
Fonte: elaborazione degli autori basata sui dati dell’Università del Sussex e della Banca mondiale inclusi in Ratha e Shaw (2007).
36
37
38
39
40
Vedere Cook e Lam 2009.
Vedere Brown e Chun 2009.
“China to maintain aid, investment in Africa regardless of financial crisis”, China View, 2 giugno 2009.
OCSE 2008.
Sander e Maimbo 2005.
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Capitolo 6
Le rimesse sono un elemento importante per i paesi beneficiari non soltanto per quanto attiene alle loro dimensioni, ma anche
perché sono generalmente stabili o addirittura tendono a muoversi in senso anticiclico lungo i cicli economici di tali Stati, riducendo
pertanto la probabilità di una crisi della bilancia dei pagamenti41. Quindi, come si sono comportate le rimesse verso i paesi fragili
africani durante l’attuale situazione di crisi?
Esistono differenti stime: dopo un iniziale ottimismo, Ratha e Mohapatra (2009) sostengono che le rimesse verso l’Africa subsahariana
registreranno un calo del 7% nel 2009, passando dai 20 miliardi di dollari ufficialmente registrati nel 2008 a circa 18-19 miliardi
(escludendo i canali informali, comunemente usati dai migranti intraregionali); l’FMI (2009b) ritiene che una riduzione dell’1% del
tasso di crescita economica nei paesi di destinazione dei migranti riduca le rimesse in uscita fino al 4%; per Calí e Dell’Erba (2009),
l’Africa subsahariana registrerà un calo moderato (rispetto all’America latina e ai Caraibi o all’Asia orientale e alla zona del Pacifico)
dei flussi ufficiali di circa il 6-9% nel 2009, dato che la sua quota di rimesse provenienti dai paesi ad alto reddito era piuttosto bassa
nel 200842.
Oltre alle rimesse in arrivo tramite i canali ufficiali e dai paesi di destinazione tradizionali, peraltro, bisogna aggiungere ad
esempio anche la migrazione intraregionale, cioè un importante canale di trasmissione dagli Stati africani emergenti ai paesi
fragili subsahariani. Una valutazione dettagliata per ogni paese richiederebbe previsioni ragionevoli sui flussi delle rimesse e
sull’evoluzione dei tassi di cambio bilaterali dei paesi di destinazione dei migranti rispetto al dollaro, perché solo in questo modo
è possibile definire il valore in dollari delle rimesse in entrata dei migranti. In assenza di tali previsioni, non è dunque possibile fare
una valutazione.
Una flessione delle rimesse può influire sulla composizione della spesa, poiché è più probabile che siano queste a essere investite
nell’istruzione e negli alloggi, piuttosto che i redditi provenienti da fonti domestiche43.
I paesi fragili dell’Africa subsahariana assisteranno quindi a un calo notevole dei proventi del commercio, a causa di una flessione
della domanda internazionale e di un peggioramento delle ragioni di scambio. Inoltre, sono esposti al calo delle rimesse provenienti
dai paesi industrializzati e da quelli emergenti dell’Africa subsahariana (principali destinazioni di migranti dai paesi fragili) e alla
riduzione dei flussi di IED. Questi effetti avversi potrebbero inoltre essere accompagnati da una riduzione dei flussi di aiuti dai paesi
CAS, nel caso in cui questi non riuscissero a tenere fede ai propri impegni nei confronti dell’Africa e rispondessero, come insegna
il passato, alla recessione con un taglio nel bilancio per gli aiuti.
4. GLI STATI FRAGILI POSSONO AFFRONTARE LA CRISI?
Gli Stati fragili subiranno un notevole calo nel commercio internazionale, ma anche il peggioramento
delle ragioni di scambio e la riduzione delle rimesse a causa dell’aumento della disoccupazione nei
paesi industrializzati e negli Stati emergenti dell’Africa subsahariana, il declino degli IED, la mancanza
di investimenti e, forse, una riduzione dei flussi di aiuti, almeno nel breve-medio periodo. Per capire in
che modo possono affrontare la recessione o altri shock negativi, proponiamo di applicare un indice
complessivo di resilienza.
La resilienza è una caratteristica multisfaccettata di un sistema socioeconomico, che viene compresa soltanto in parte e le
cui misurazioni sono controverse. Basandoci su Naudé (2009), in questa sede ci concentriamo soltanto sulla sua dimensione
macroeconomica, che si riferisce alla capacità di uno Stato di mettere in atto politiche adeguate di risposta a uno shock, come
la crisi del 2008-2009. Pertanto, le altre dimensioni della resilienza (ai livelli domestico e comunitario) non vengono considerate:
senza volerne sminuire l’importanza, riteniamo però che il pilastro della resilienza sia costituito dalle istituzioni statali. Tenendo ben
presente questa situazione, creiamo un indice della resilienza di ciascuno Stato subsahariano esaminando quattro dimensioni44:
• gestione macroeconomica, rispecchiata dalla bilancia dei pagamenti, dagli equilibri fiscali e dai livelli delle riserve di valuta;
• buon governo;
• efficienza del mercato, misurata dagli indicatori Doing Business in 2009;
• coesione sociale, misurata dall’indice di frazionamento etnolinguistico e dall’indice di instabilità politica.
41
42
43
44
Si rimanda a Ratha (2006) per le prove relative ai movimenti anticiclici delle rimesse e a Bugamelli e Paternó (2006) per una discussione sul ruolo delle rimesse
nelle crisi della bilancia dei pagamenti.
L’ODI (2009b) indica che le rimesse verso il Kenya, in larga parte provenienti dagli Stati Uniti, sono diminuite del 12% nella prima metà del 2009 rispetto allo
stesso periodo del 2008.
Maimbo e Ratha 2005.
Si rimanda al documento informativo di Naudé (2009) nel Volume 1B per ulteriori dettagli sull’indice.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Dopo aver aggregato queste quattro componenti si procede alla classificazione dei paesi dell’Africa subsahariana in tre categorie
(resilienza bassa, media e alta) in base alla capacità di affrontare gli shock esterni. Il sottogruppo dei paesi fragili si trova, nella sua
quasi totalità, all’interno della prima categoria (tabella 6.1).
Tabella 6.1: Classifica della resilienza (in ordine ascendente)
Scarsa
Congo, Repubblica democratica del
Ciad
Burundi
Repubblica centrafricana
Eritrea
Congo, Repubblica del
Guinea-Bissau
Costa d’Avorio
Guinea
Niger
Kenya
Liberia
Angola
Comore
Media
1
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
Etiopia
Sierra Leone
Zambia
Malawi
São Tomé e Príncipe
Camerun
Mali
Uganda
Nigeria
Ghana
Senegal
Capo Verde
Ruanda
Guinea equatoriale
Gambia
Elevata
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
Burkina Faso
Togo
Madagascar
Benin
Tanzania
Mozambico
Lesotho
Swaziland
Seychelles
Gabon
Namibia
Sud Africa
Maurizio
Botswana
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
Fonte: Naudé 2009.
Si può notare che i paesi più fragili sono inseriti nel gruppo degli Stati con resilienza bassa. È molto probabile che in ciascun paese
saranno i più poveri a essere colpiti, cioè quelli meno resilienti della media (a livello di comunità e nucleo familiare).
La capacità dei paesi fragili di rispondere alla crisi è stata indebolita non soltanto dalla fragilità, ma anche dalle passate crisi
alimentari e dei carburanti: i paesi fragili che importano generi alimentari e petrolio, infatti, sono stati colpiti dai reali effetti della
crisi del 2008-2009, quando la maggior parte di loro si trovava già in una situazione di elevato stress, che è andato ad aggiungersi
alla capacità limitata di reagire alla crisi dovuta alla fragilità delle istituzioni statali.
4.1 IL GRAVE IMPATTO SOCIALE DELLA CRISI
Gli effetti della crisi del 2008-2009 sull’Africa subsahariana variano da paese a paese e da regione a regione, ed è difficile valutarne
la portata a causa della scarsità di dati e delle differenze. La figura 6.6 schematizza l’impatto e indica in che modo esso sia aggravato
dalla fragilità delle istituzioni statali. La crisi del 2008-2009 ha conseguenze dirette sulle istituzioni statali e sugli attori privati:
l’effetto combinato delle strategie attuate da questi due attori per contrastarla determina l’impatto della crisi sul benessere sociale.
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Capitolo 6
Figura 6.6: L’impatto della crisi sul benessere sociale
Crisi finanziaria
Fragilità dello Stato
Canali di trasmissione: rimesse, aiuti, commercio, flussi di capitale
Gli impatti sulle istituzioni statali dipendono dalla fragilità dello Stato, dagli effetti delle crisi dei generi alimentari e del carburante e dalla vulnerabilità strutturale
Gli impatti sugli attori privati, quali le famiglie, la società civile
e le istituzioni economiche, dipendono dagli effetti delle
crisi dei generi alimentari e del carburante, dai risparmi, dalla
diversificazione del reddito e dai beni patrimoniali
Risposte politiche: riduzione della spesa per i servizi
sociali, inflazione, nessuna rete di sicurezza sociale
Strategie di contrasto: ritirare i bambini da
scuola, vendere i beni patrimoniali, lavorare
nel settore informale
Impatto sul benessere sociale
(povertà, livello di istruzione e salute, conflitti)
Secondo Chen e Ravaillon (2009), nel 2009 la crisi finanziaria, congiuntamente ai picchi dei prezzi di generi alimentari e carburanti,
farà aumentare il numero dei poveri di 53-64 milioni (in base alle stime di chi vive, rispettivamente, con meno di 2 e 1,25 dollari
al giorno). Previsioni alla mano, i paesi dell’Africa subsahariana perderanno almeno 50 miliardi di dollari in entrate nello stesso
anno e ci si aspetta anche un rialzo della mortalità infantile: Friedman e Schady (2009) stimano infatti che la crisi potrebbe causare
30.000-50.000 decessi infantili in più nella regione. L’IFPRI sostiene che la prevalenza della denutrizione fra i bambini subsahariani
salirà da un quinto (nel 2005) a un quarto (nel 2020).
Le donne povere (capofamiglia, agricoltrici, operaie, fornitrici di servizi informali, IDP e rifugiate) colpite dalle guerre sono le più
vulnerabili agli shock. Alcune ricerche dell’UNRISD45 rivelano che le donne capofamiglia aumentano le ore lavorate e hanno meno
tempo per riposare e prendersi cura della salute della famiglia e degli ammalati.
A maggio 2009, Obiageli Ezekwesili, vicepresidente della Banca mondiale per la regione africana, ha affermato che “la crisi economica
globale ridurrà drasticamente i redditi individuali delle donne africane nonché i budget che gestiscono per la propria famiglia,
e le conseguenze saranno gravi in particolare per le ragazze. […] La povertà ha il volto delle donne e la congiuntura economica
negativa avrà forti ripercussioni su di loro. In numero sempre maggiore, infatti, le donne perderanno il lavoro e saranno costrette a
gestire redditi familiari sempre più scarni”46. L’analisi della Banca mondiale rileva una flessione già in essere del reddito familiare in
Uganda e un calo dei proventi dall’agricoltura in Madagascar, dove le femmine sono le prime a venire ritirate da scuola. Ezekwesili
osserva inoltre che “la crisi in Africa sta progressivamente riducendo le opportunità occupazionali a disposizione delle donne. In
molte industrie orientate all’esportazione […] sono le donne, non gli uomini, a perdere il posto di lavoro a causa della crisi (e ciò
si verifica in tutto il continente). La flessione delle rimesse e l’irrigidimento dei prestiti microfinanziari stanno limitando i fondi a
disposizione delle donne per mandare avanti la propria famiglia”.
La capacità dei governi dei paesi fragili di rispondere alla crisi è stata indebolita non soltanto dalla fragilità, ma anche dalle passate
crisi alimentari e dei carburanti: i paesi fragili che importano generi alimentari e petrolio, infatti, sono stati colpiti dai reali effetti
della crisi quando si trovavano già in una situazione di elevato stress, che ne ha limitato i ricavi e gli investimenti.
Il crollo globale della domanda ha provocato la perdita di posti di lavoro in molte industrie: la BAfS (2009c) riferisce che in seguito
alla crisi nell’Africa subsahariana aumenteranno i poveri (+27 milioni), i posti di lavoro vulnerabili (+28 milioni, soprattutto nel
settore minerario, ma anche nella manifattura) e i disoccupati (+3 milioni); valutazioni recenti indicano infatti forti riduzioni nelle
ore lavorate, che costringono i lavoratori a migrare verso attività meno produttive o il settore informale, caratterizzato da un tasso
elevato di disoccupazione e dall’incertezza del reddito47.
45
46
47
UNRISD 2006.
Banca mondiale 2009d.
Banca mondiale 2009a.
90
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
La crisi finanziaria globale ha colpito duramente gli stati fragili africani
Strategie di adeguamento alla crisi a livello di nucleo familiare - L’impatto diretto sulle famiglie varia anche in base alla disponibilità
patrimoniale, alla diversificazione del reddito, ai risparmi e alle reti di sicurezza locali, come le associazioni funerarie. Le oscillazioni
dei prezzi hanno effetti sia sui produttori netti sia sui consumatori netti: una domanda globale inferiore per i beni primari spinge
infatti i prezzi al ribasso, riducendo in tal modo i ricavi dei produttori; per quanto riguarda il calo dei prezzi, pur a vantaggio dei
consumatori netti, sfortunatamente la trasmissione della riduzione non è mai completa e impiega molto tempo per raggiungere i
consumatori finali48. Essendo molto elevata, con il passare del tempo l’inflazione dei generi alimentari metterà a rischio la sicurezza
alimentare e ridurrà la somma che gli indigenti possono destinare a voci non alimentari, ad esempio l’istruzione e la salute.
È la combinazione di beni patrimoniali e meccanismi assicurativi a forgiare le strategie di adeguamento delle famiglie nei paesi
fragili. Per sopravvivere alla crisi, le famiglie possono infatti ricorrere alla vendita dei propri beni, ritirare i figli da scuola, ridurre il
ricorso all’assistenza sanitaria e tagliare le spese per i generi alimentari, acquistando prodotti di qualità inferiore e meno nutrienti.
Questa situazione dà vita a un circolo vizioso che mina le possibilità delle generazioni più giovani di uscire dalla povertà. Per
giunta, esiste una forte possibilità che i bambini non rientrino più nell’ambiente scolastico a crisi terminata o che non riescano più
a recuperare il divario cognitivo creatosi in seguito alle loro assenze. La flessione nel consumo di generi alimentari da parte dei
bambini, inoltre, può portare a effetti irreversibili (riquadro 6.3)49.
Riquadro 6.3: Gli shock avversi e la protezione sociale: quale ruolo hanno le istituzioni
finanziarie formali e informali?
Di Abena D. Oduro, Facoltà di economia, Università del Ghana
In Africa, gli indicatori oggettivi di rischio includono la variabilità delle precipitazioni atmosferiche, la stagionalità dei prezzi
dei raccolti e la proporzione delle famiglie senza accesso all’acqua potabile e a strutture igienico-sanitarie. L’incidenza
degli shock autoriferiti è un altro indicatore della portata e della natura dei rischi e degli shock che i nuclei familiari africani
devono affrontare. In Tanzania, ad esempio, circa i due terzi delle famiglie rurali intervistate nelle zone del Kilimangiaro e
di Ruvuma hanno riferito di shock che li hanno colpiti nel corso di un quinquennio50.
Inoltre, i nuclei familiari vengono generalmente colpiti da più di uno shock. Ad esempio, a Tema, un distretto prevalentemente
urbano del Ghana, la maggioranza delle famiglie ha riferito di aver subito uno o due shock nel corso di un biennio, mentre
a Builsa, un distretto al contrario prevalentemente rurale, le rilevazioni sono in aperto contrasto: oltre la metà delle
famiglie, infatti, ha riferito di essere stata colpita da più di quattro shock nello stesso biennio. La crisi globale in atto e le
sue ripercussioni sulle economie africane creano un ulteriore substrato di rischio e incertezza per comunità e famiglie già
di per sé soggette ai rischi.
Gli shock avversi hanno conseguenze nel breve e nel lungo termine. Ad esempio, le iscrizioni scolastiche (maschi e femmine)
in Costa d’Avorio sono diminuite dopo uno shock avverso meteorologico, e si è verificato un aumento della malnutrizione
infantile nelle aree colpite51.
La flessione degli investimenti in istruzione e salute dei bambini nel periodo immediatamente successivo a uno shock può
condurre a conseguenze negative nel lungo periodo. Il calo dei consumi significa che alcuni individui o famiglie potrebbero
diventare o, qualora già lo fossero, rimanere indigenti. In alcuni paesi, il numero di poveri transitori, cioè che entrano oppure
escono da una condizione di povertà, può essere davvero elevato.
In risposta a uno shock avverso, le famiglie si dividono fra riduzione dei consumi e privazione dei beni patrimoniali. Per
gestire i rischi e rispondere agli shock, fanno uso di numerose misure: questi meccanismi di adeguamento dipendono in
gran parte dalla famiglia (nucleo familiare ed estesa), da altre reti e dall’autoassicurazione (ad esempio, la vendita dei beni).
Il ricorso alla protezione sociale pubblica e agli strumenti creditizi e assicurativi formali è limitato.
La prevalenza delle soluzioni finanziarie informali può essere spiegata dalla legge della domanda e dell’offerta, poiché la
copertura geografica delle banche e di altri istituti finanziari formali è limitata. Le comunità rurali e remote sono infatti
scarsamente servite da questi istituti, mentre la copertura dei programmi di microcredito è molto più ampia. È peraltro
improbabile che gli istituti finanziari formali decidano di espandere la propria copertura raggiungendo l’economia rurale
fino a quando non saranno in grado di affrontare in modo adeguato la selezione avversa e l’azzardo morale. La domanda
48
49
50
51
ODI 2009b.
Banca mondiale 2009b.
Sango et al. 2007
Jensen 2000
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Capitolo 6
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
di credito e assicurazione di tipo informale persiste perché i costi di transazione dei prestiti informali potrebbero essere
inferiori a quelli dei prestiti formali, e lo stesso si può dire per i costi relativi all’inadempienza. In un ambiente ad alto rischio,
questa situazione potrebbe spingere la domanda di credito e assicurazione verso il settore informale. Tra gli esempi di
istituti finanziari informali troviamo le associazioni funerarie e le associazioni di credito e risparmio di tipo revolving, le
quali non sono pensate per fornire assicurazione in caso di shock avversi.
Le prove empiriche suggeriscono che le famiglie non sono in grado di ottenere un’assicurazione che le protegga totalmente
dai rischi. È più probabile che gli strumenti di condivisione dei rischi garantiscano l’assicurazione in caso di shock idiosincratici
che non in presenza di shock covariati. Ad esempio, le associazioni funerarie generalmente garantiscono protezione contro
gli shock idiosincratici, ma è comunque probabile che a essere esclusi da queste soluzioni siano i poveri52.
L’elevato rischio presente nelle economie africane e la prova che le famiglie non possono tutelare i consumi se colpite da
shock avversi suggeriscono la presenza di una forte domanda di assicurazioni. Uno studio condotto sulle famiglie rurali in
Tanzania ha dimostrato la presenza di una richiesta di assicurazioni contro le oscillazioni dei prezzi e gli shock dovuti alle
precipitazioni atmosferiche. La volontà di dotarsi di un’assicurazione dipende comunque dalla disponibilità economica
per pagarla53.
4.2 IL RISCHIO DI INSTABILITÀ POLITICA E DI RIAPERTURA DEI CONFLITTI
La fragilità delle istituzioni statali impedisce ai processi politici di trovare un equilibrio fra capacità dello Stato e aspettative dei
cittadini. La crisi economica e finanziaria globale mette ulteriormente a rischio le possibilità che tale equilibrio sia mantenuto nei
paesi dell’Africa subsahariana. Un possibile risultato del divario tra la capacità dello Stato e le aspettative dei cittadini è il conflitto
armato. Questo timore è stato sollevato da Dominique Strauss-Kahn, direttore generale dell’FMI, il quale sostiene che per i paesi a
basso reddito “non ci preoccupiamo soltanto della crescita in sé e per sé, ma intendiamo anche salvaguardare la pace e prevenire
la guerra. Infatti, all’andamento positivo dei paesi a basso reddito nell’ultimo decennio è corrisposta una diminuzione significativa
dell’incidenza della guerra. La nostra paura più grande è che questa tendenza potrebbe essere invertita”54.
Miguel et al. (2004) hanno analizzato le determinanti della guerra civile in 41 paesi africani, dimostrando come una riduzione del
5% del tasso di crescita economica aumenti del 50% il rischio di un conflitto. Secondo Brückner e Ciccone (2007), un crollo nel
prezzo di un bene esportato aumenta le probabilità di un conflitto armato, mentre Ciccone (2008) dimostra che una flessione del
reddito causata dalla siccità produce un effetto simile.
Una conseguenza tanto tragica nei paesi fragili dell’Africa subsahariana aumenterebbe i costi umani e sociali della crisi economica
e finanziaria globale. Se da un lato non è detto che i paesi dell’Africa subsahariana vengano colpiti più duramente da un forte shock
macroeconomico rispetto ad altri Stati della regione, dall’altro le conseguenze potrebbero essere più gravi, a causa della limitata
capacità di questi paesi di attuare le risposte politiche adeguate per contrastarlo. È per questo motivo che evitare che i paesi fragili
ricadano nella crisi dovrebbe essere una delle priorità dei paesi donatori.
52
53
54
Vedere Harrower e Hoddinnot 2005, Hoogeveen 2003 e de Weerdt 2009; le soluzioni di condivisione dei rischi possono fornire un’assicurazione parziale, non
completa. I contributi potrebbero infatti non essere abbastanza estesi da coprire il totale dei costi dello shock. È improbabile che le famiglie si assicurino
totalmente contro i rischi covariati (Harrower and Hoddinnot 2005; Hoogeveen 2003). Qualora nel tempo le famiglie entrino ed escano continuamente da
una situazione di povertà, è evidente l’assenza (o la debolezza) di meccanismi di gestione dei rischi che le tutelino adeguatamente contro l’indigenza al
manifestarsi di uno shock.
Sarris et al. 2007
Strauss-Kahn 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 7
POTENZIAMENTO ISTITUZIONALE E COESIONE SOCIALE
Il potenziamento istituzionale è divenuto una priorità sostanziale per la comunità internazionale dello
sviluppo. Oggi, virtualmente tutti i principali donatori identificano il potenziamento istituzionale come
uno dei propri obiettivi chiave, soprattutto negli Stati fragili1. Il crescente consenso in merito alla necessità
di impegni di vasta portata nei paesi fragili si è coniugato al riconoscimento, nell’era posteriore al
consenso di Washington, del ruolo cruciale delle istituzioni statali nel processo di sviluppo. Come rilevato
nella relazione della Commissione per l’Africa del 2005, le istituzioni sono essenziali per la promozione
dello sviluppo e gli Stati hanno un ruolo cardine nella realizzazione delle trasformazioni necessarie per
raggiungere e sostenere gli obiettivi di sviluppo del Millennio. La comunità internazionale è impegnata
nei paesi fragili anche con obiettivi di più breve periodo, che vengono perseguiti assumendo il contesto
istituzionale come un dato di fatto. Tuttavia, come asserito dai principi dell’OCSE, l’obiettivo a lungo
termine dell’impegno internazionale negli Stati fragili è aiutare i riformatori nazionali a creare istituzioni
statali legittime, efficaci e stabili2.
La comunità internazionale dovrebbe ad ogni modo avere aspettative realistiche in merito a quanto possa essere influenzato tale
processo domestico. Assicurare sostegno per rafforzare le istituzioni statali non è solo uno sforzo di natura tecnica: il potenziamento
istituzionale è un processo che richiede la creazione di un senso di cittadinanza e implica l’attribuzione di percezioni, aspettative
e valori collettivi allo Stato da parte degli individui, della società civile e delle comunità. Inoltre, la formazione di istituzioni statali
ricettive, capaci e affidabili richiede la promozione della capacità di esazione fiscale e di meccanismi per la consultazione dal basso
verso l’alto.
La formazione di Stati europei efficaci e robusti (un processo che affondava le radici nel clima di conflitto internazionale, come
spiegato nel capitolo 3) ha richiesto secoli, ed esistono scarse prove a sostegno dell’ipotesi che gli Stati fragili possano essere
trasformati, in un breve lasso di tempo, secondo l’ideale weberiano. Molti Stati fragili africani sono di fatto il risultato di norme
coloniali che intendevano forgiare i paesi in base al modello occidentale, imponendo regole di territorialità e controllo. Una sfida
importante per il potenziamento istituzionale nel continente consiste dunque nell’istituzionalizzazione di un senso di comune
identità e nello sviluppo di strutture formali durature, senza alcun riferimento al modello stilizzato del potenziamento istituzionale
seguito in Europa, di scarsa utilità per le popolazioni africane e per gli sforzi profusi dai governanti al fine di sviluppare Stati efficaci
e legittimi.
1. RIPORTARE LO STATO AL CENTRO DELLA SCENA
Il punto è come ricreare le basi formali e informali dello Stato per dare vita a Stati più legittimi e
rappresentativi, che servano il bene comune e non gli interessi miopi dei potenti. Per sua stessa natura,
si tratta di un’impresa a lungo termine, perché ridisegnare i concetti e gli accordi che sono alla base
dell’ordinamento politico e collegano lo Stato e la società impone di andare al cuore delle strutture
di potere radicate e trasformarle. Con ogni probabilità, si tratta di un’impresa complessa e delicata,
soprattutto se si considera che, all’atto pratico, i motori del potenziamento istituzionale, in particolare
nelle situazioni post-belliche, sono il negoziato e il compromesso, piuttosto che la trasformazione radicale.
Il potenziamento istituzionale è un processo endogeno, che la comunità internazionale può sostenere, ma non guidare. Nella sua
formulazione più semplice, il potenziamento istituzionale fa riferimento agli sforzi profusi dagli attori nazionali (a volte con l’aiuto
di attori internazionali) per stabilire, riformare e rafforzare le istituzioni statali laddove queste mancano o sono state pesantemente
erose3. In altre parole, ha a che fare con la costruzione della legittimità e della capacità delle istituzioni statali di erogare ai cittadini
i servizi fondamentali: sicurezza, giustizia e stato di diritto, ma anche scuole, assistenza sanitaria e strutture igieniche in grado di
soddisfare le aspettative dei cittadini.
Le esperienze degli interventi di potenziamento istituzionale dimostrano che le estremità del ventaglio dell’impegno internazionale
hanno possibilità di successo limitate: né un approccio minimo che si concentri unicamente sul mantenimento della pace né un
1
2
3
Fritz e Rocha Menocal 2007.
OCSE/CAS 2007.
Caplan 2005.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 7
tentativo a tutto tondo di ingegneria istituzionale possono difatti rivelarsi efficaci. Tende invece a essere più appropriato un approccio
graduale, basato su aspettative realistiche in merito agli obiettivi conseguibili. Il criterio generale alla base di qualunque intervento
di potenziamento istituzionale dovrebbe essere la messa a frutto di tutte le opportunità sul campo, evitando piani ambiziosi di
rifondazione completa delle istituzioni statali e del contratto sociale. Inoltre, poiché il potenziamento istituzionale è un processo
profondamente politico, la conoscenza del contesto locale e un approccio dal basso verso l’alto compatibile con gli incentivi sono
fondamentali per incrementare le possibilità di successo degli interventi internazionali.
2. LA COESIONE SOCIALE E LE DIMENSIONI INTANGIBILI DEL POTENZIAMENTO
ISTITUZIONALE
Il concetto del potenziamento istituzionale è evoluto in maniera considerevole negli ultimi anni. Negli
anni Novanta ci si concentrava sulla creazione e sul rafforzamento delle istituzioni formali e della
capacità statale, mentre di recente si è verificato uno spostamento verso l’idea che lo Stato non possa
essere trattato isolatamente e che le relazioni Stato-società abbiano un ruolo centrale nei processi di
potenziamento istituzionale. Il nucleo del potenziamento istituzionale, specialmente di quello “ricettivo”4,
viene ora considerato un processo politico efficace che permetta ai cittadini e agli Stati di negoziare
richieste, aspettative e responsabilità reciproche5. Si definisce fragile una situazione in cui tale processo
efficace non ha luogo. La debolezza nelle istituzioni statali, ad esempio, è collegata anche a meccanismi di
selezione del potere, talora distorti da vincoli etnici o religiosi, da controllo scarso o assente dell’esecutivo
o dalla non partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche. Lo spostamento in questione ha collocato il
concetto di legittimità (sia come mezzo per la costruzione della capacità dello Stato, sia fine a se stesso) al
centro dell’agenda del potenziamento istituzionale.
Pertanto, si è passati da un approccio di rafforzamento delle istituzioni dall’alto verso il basso (incentrato sugli attori statali e sulle
élite nazionali) a un approccio dal basso verso l’alto, che collega Stato e società (tramite la società civile)6. Eppure, troppo spesso si
pone l’accento sulle élite e sulle istituzioni centrali e formali (vedere riquadro 7.6), senza riuscire a promuovere un processo politico
più inclusivo e occupandosi solo del “nazionale” a scapito del “locale”7. Inoltre, la comunità internazionale tende a concentrarsi
sugli aspetti tecnici del potenziamento istituzionale (come i programmi di formazione per membri della pubblica amministrazione),
perché li considera apolitici e non intrusivi.
Se il potenziamento istituzionale non riguarda soltanto lo sviluppo della capacità delle istituzioni statali, ma più in generale si riferisce
al processo negoziale tra i cittadini, i gruppi sociali e lo Stato, un’attenzione che si limiti ai suoi aspetti tecnici rischia di trascurare
le dinamiche del processo politico di conciliazione tra capacità statale e aspettative sociali. La fragilità statale è un fenomeno
profondamente politico, caratterizzato dall’assenza di processi politici efficaci che possano creare un equilibrio tra capacità dello
Stato e aspettative sociali. Ponendo l’accento unicamente sugli aspetti formali è dunque improbabile che si possa ripristinare
l’efficacia dei processi politici alla base del contratto sociale. Gli interventi intesi a consolidare la capacità delle istituzioni statali
devono essere sostenuti e completati da azioni che tengano conto del ruolo delle percezioni e delle aspettative, delle consultazioni
dal basso e di quanto le popolazioni si sentano rappresentate dalle istituzioni pubbliche.
2.1 TENERE CONTO DELL’IMPORTANZA DELLE DIMENSIONI INTANGIBILI DEL POTENZIAMENTO
ISTITUZIONALE
Il coinvolgimento internazionale nel potenziamento istituzionale non può trascurare gli elementi sociali e culturali che sostengono
le istituzioni statali. La comprensione delle strutture di governo di un paese può essere migliorata da un’analisi delle modalità in cui
il contesto storico e quello culturale forgiano le percezioni dei cittadini in merito a chi siano le “autorità” e quali siano le istituzioni
informali più influenti. Queste dimensioni intangibili possono, ad esempio, influenzare le riforme politiche e giudiziarie. Le divisioni
della società lungo dimensioni etniche, religiose, razziali e spaziali possono avere effetti sul funzionamento dei processi elettorali.
Durante il processo di riesame o elaborazione di una costituzione, le campagne di educazione civica e i meccanismi di deliberazione
che includono il punto di vista della popolazione possono assicurare un consenso e creare un senso di fiducia e attaccamento nei
confronti della costituzione. I valori collettivi, i credo, le percezioni e i valori culturali sono anch’essi elementi importanti delle
riforme della sicurezza (riquadro 7.1).
4
5
6
7
Whaites 2008.
OCSE/CAS 2008.
Pouligny 2009.
Vedere Kaplan 2009 nel Volume 1B per un esame dettagliato del vantaggio del coinvolgimento di attori locali.
94
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Potenziamento istituzionale e coesione sociale
Riquadro 7.1: Perché la resilienza locale può migliorare la sicurezza
Di Béatrice Pouligny, Georgetown University
Gli elementi sociali e culturali che puntellano le istituzioni statali e ne assicurano il funzionamento hanno particolare rilievo
nelle situazioni di fragilità. È necessario ampliare le prospettive tradizionali ed esaminare la molteplicità e la diversità
delle istituzioni politiche (formali e informali) e delle culture che possono sostenere la resilienza dello Stato e i processi di
potenziamento istituzionale.
Dare attenzione ai punti di vista e agli atteggiamenti locali nei confronti dei problemi di sicurezza nei
contesti di fragilità
Ponendo un accento tecnico sulle riforme istituzionali si concentra l’assistenza sui sintomi del problema, anziché sulle cause.
Gli esperti tendono a riprodurre soluzioni tecniche e si affidano a strategie “modello” che non integrano una conoscenza
approfondita delle situazioni locali e sono ancora più digiune di norme e prassi locali. Tuttavia, le esperienze sul campo
dimostrano che le riforme e le politiche nel settore della sicurezza sono destinate al fallimento qualora non integrino le
dimensioni “intangibili” che definiscono in che modo vengono percepite le questioni della sicurezza e possono essere
affrontate in un dato contesto.
Ad esempio, uno dei problemi più urgenti sull’agenda di molti Stati “fragili” è la riduzione della diffusione delle armi leggere
e di piccolo calibro. La maggior parte degli studi ha dimostrato l’importanza di non concentrarsi unicamente sul lato
dell’offerta, ma di dedicare attenzione anche al lato della domanda, scoprendo perché gli individui o i gruppi desiderano
possedere armi. Bisogna ad esempio domandarsi perché le persone comprano e possiedono armi di piccolo calibro, quali
sono le funzioni politiche, economiche e sociali delle pistole e quali idee (su violenza, sicurezza, giustizia, autorità, persona e
genere) vi stanno alla base. L’analisi delle motivazioni alla base del possesso di armi di piccolo calibro impegna antropologi,
criminologi, psicologi, sociologi ed economisti comportamentali. Questi approcci pongono l’accento sul fatto che, dal
punto di vista della società, il disarmo non si esaurisce nella raccolta e nello smantellamento delle armi, ma consiste anche
nel cambiare i modi di pensare.
Lo stesso dicasi per il senso di sicurezza, un processo soggettivo. Le valutazioni dei problemi e delle esigenze di sicurezza
tendono a essere fortemente personali. Quando si adotta unicamente il filtro delle idee dei donatori riguardo alla sicurezza
umana, si corre il rischio di sottovalutare o ignorare le peculiarità delle percezioni locali in materia. Anche in uno stesso
paese, attori diversi potrebbero percepire e definire i propri problemi di sicurezza in modo diverso: ad esempio, potrebbero
essere influenzati da tutta una serie di perdite e di eventi emotivamente, socialmente e culturalmente traumatici e dalla
distruzione delle norme e dei codici di condotta locali. Questo è ciò con cui si scontra la maggior parte degli individui e
delle comunità in situazioni di fragilità, spesso caratterizzate quotidianamente da violenza e imprevedibilità. In contesti di
fragilità diversi, ad esempio nel Congo orientale (in RDC), una micro-analisi delle percezioni locali dell’insicurezza potrebbe
anche contribuire a prevenire la violenza contro i civili e proteggere le popolazioni locali, vale a dire problemi alla base di
una crescente apprensione per la comunità internazionale.
Fragilità non significa assenza: meccanismi comunitari per gestire le minacce alla sicurezza, assicurare la
giustizia e favorire la reintegrazione
In molti casi, le istituzioni sono devastate, disfunzionali o illegittime, o addirittura tutte e tre le cose insieme, l’infrastruttura
è devastata, la capacità umana è scarsa e il personale qualificato scarseggia o è del tutto assente, mentre la popolazione
è assai sospettosa e non ha fiducia nello Stato. In queste circostanze, potrebbe darsi l’impressione che l’apparato statale
e le nuove istituzioni debbano essere ricostruite da zero, in condizioni talora descritte come “anarchia virtuale”. Queste
condizioni spiegano il frequente riferimento a concetti quali “vuoto di sicurezza” o “assenza dello stato di diritto”.
Eppure, l’esperienza ha dimostrato più volte che questo vuoto non esiste, anche quando le strutture statali sono del tutto
collassate. Gran parte della sicurezza e della giustizia negli Stati fragili e nelle situazioni post-belliche non è assicurata
dalla polizia di Stato né dalla magistratura, quanto piuttosto dalle organizzazioni per la sicurezza e la giustizia non statali.
Prestare attenzione ai meccanismi esistenti consente di comprendere più a fondo le necessità delle persone e gli ostacoli,
le possibilità e le risorse per (ri)costruire una relazione Stato/società funzionante e in grado di offrire sostegno. Anche
in situazioni descritte come “anarchia”, come in Somalia e nel Congo orientale (RDC), una schiera di attori ha assolto
parzialmente alle funzioni in teoria a carico dello Stato, anche se in maniera disfunzionale.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 7
Gli sforzi comunitari per ridurre le minacce alla sicurezza create dalla proliferazione delle armi di piccolo calibro (o per
reintegrare gli ex combattenti e ricostruire la fiducia tra loro e le comunità locali) pongono l’enfasi sui valori locali e sugli
elementi intangibili delle culture locali allo scopo di forgiare istituzioni sostenibili. In Mozambico e nell’Uganda del Nord,
ad esempio, i rituali tradizionali hanno facilitato la reintegrazione degli ex bambini soldato. Queste azioni sono prova del
successo di strategie profondamente radicate nel contesto sociale e culturale e che considerano le dimensioni soggettive
e psichiatriche della reintegrazione.
• I rituali contribuiscono a trasformare le visioni del mondo e consentono di trovare un senso al conflitto. Quando le visioni
del mondo si infrangono, i rituali possono creare nuovi modi di pensare e modificare drasticamente il modo in cui gli
individui vedono il mondo. Inoltre, possono rendere il conflitto meno distruttivo riconsiderando le questioni in gioco e
consentendo di affrontare i problemi in modi nuovi.
• Questi sistemi (spesso definiti “tradizionali” e “informali”) risultano anche essere forme più ampie di governo che vanno
oltre la risoluzione delle controversie. I loro leader e operatori potrebbero inoltre essere coinvolti nel funzionamento
quotidiano del villaggio o della comunità. Nonostante possano essere gravemente colpiti e alterati dalla violenza, questi
sistemi hanno più probabilità di rimanere intatti rispetto ai sistemi formali.
• Un loro contributo imprescindibile è la capacità di promuovere la fiducia sociale e la reintegrazione nella comunità, in
particolare in seguito alla violenza. Questi sistemi sono quasi sempre basati su concetti di ordine e comunità: il problema
primario è il benessere della comunità, non solo della vittima.
Tuttavia, presentano anche inconvenienti e pericoli, specialmente per i diritti umani, l’uguaglianza di genere e i diritti
della gioventù. Pertanto, i meccanismi tradizionali e informali devono essere sottoposti a una valutazione dettagliata e
contestualizzata in relazione ai limiti osservabili in una rosa di contesti: l’erosione e la potenziale distorsione delle autorità
e delle norme tradizionali; il rischio di modelli di abuso di potere e dominio; il rischio di manipolazione politica; la questione
della legittimità e dell’efficacia del sistema; l’applicabilità limitata tra regioni/gruppi etnici. Si ritiene, generalmente, che a
questi limiti possano rispondere meglio gli attori della società civile locale, in grado di promuovere e sostenere l’adattamento
in sistemi che costantemente mutano e vengono mutati nel corso del tempo.
In sostanza, una priorità assoluta dei donatori e delle agenzie internazionali, e dell’UE in particolare, dovrebbe essere
il miglioramento della comprensione delle modalità con cui le popolazioni reagiscono ai propri problemi di sicurezza
quotidiani quando la portata del sistema statale è scarsa o gli Stati stessi sono la causa dei problemi.
2.2 TENERE CONTO DELLA SOCIETÀ CIVILE
Gli sforzi intesi al potenziamento istituzionale sono destinati al fallimento qualora nel rafforzamento delle capacità istituzionali
non venga ripristinata la legittimità dello Stato. La legittimità ha fonti diverse e muta nel corso del tempo, in modi che rendono
difficile la sua piena comprensione da parte degli attori esterni. A volte, infatti, quando lo Stato non è legittimo, le istituzioni non
statali mantengono la legittimità e il loro ruolo sociale viene riconosciuto dai locali: un’enfasi eccessiva sullo Stato rischia dunque
di trascurare attori importanti al di fuori dei confini delle istituzioni statali.
Un modo per creare fiducia e aumentare la legittimità statale consiste nel superare l’idea di uno Stato isolato e di considerare il
potenziamento istituzionale come un modo per intervenire sull’interfaccia delle relazioni tra Stato e attori non statali. Se da un
lato è importante potenziare le capacità delle istituzioni statali centrali, dall’altro è altrettanto cruciale sostenere la capacità della
società civile di assicurare freni e contrappesi allo Stato, monitorandone le azioni e ritenendolo responsabile delle sue politiche.
La sfida, tuttavia, è riuscire a non minare la posizione dello Stato, evitando allo stesso tempo la concorrenza tra attori statali e non
(rimanendo consapevoli del fatto che il potenziamento istituzionale potrebbe indebolire altre fonti di autorità e mettere dunque
a repentaglio l’intero processo).
2.3 PROMUOVERE UN SENSO DI CITTADINANZA COLLETTIVA E SOSTENERE MECCANISMI DI
RESPONSABILITÀ DEMOCRATICA
La promozione della coesione sociale e l’impiego di istituzioni formali che incoraggiano l’integrazione sono dimensioni intangibili
importanti del potenziamento istituzionale. Dovrebbero essere prese in considerazione quelle misure al contempo in grado di
unificare persone diverse negli Stati fragili a livello nazionale e di approfittare delle tasche di coesione a livello substatale. Gli Stati
africani di maggior successo hanno fatto leva su una geografia politica coerente e si sono appellati alla storia condivisa del loro
popolo per creare un senso di scopo e identità comuni.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Potenziamento istituzionale e coesione sociale
In Botswana, ad esempio, la coesione sociale potrebbe aver fatto sì che l’élite tutelasse i preziosi diamanti del paese a beneficio
dell’intera popolazione, evitando la “maledizione delle risorse” che ha colpito tutti gli altri paesi africani forniti di risorse simili8. Tali
paesi difettano infatti dei vantaggi geografici e storici del Botswana, e il perpetuarsi della politica predatoria delle élite ostacola
ulteriormente i processi inclusivi di potenziamento istituzionale.
Quando la fragilità dello Stato è connessa alla manipolazione della frammentazione lungo le succitate linee dell’etnicità, della
geografia o delle risorse naturali, un modo efficace e durevole di costruire l’unità è concentrarsi sull’istituzionalizzazione della
cooperazione tra gruppi e sulla riduzione delle disuguaglianze orizzontali. Il governo consociativo del Burundi, ad esempio, offre
numerose opportunità per costruire coalizioni e ridurre le tensioni attenuando o eliminando gli squilibri reali o percepiti nella
rappresentazione dei gruppi tra i ministri, tra i funzionari pubblici, nelle assemblee legislative e nelle forze militari. Analogamente,
il sostegno alle riforme per la spartizione equa e trasparente delle risorse naturali (e per migliorare la distribuzione della spesa
sociale) potrebbe dissipare parte dei possibili attriti nei governi divisi. Gli attori internazionali potrebbero inoltre recare un contributo
importante di assistenza e finanziamento dei sistemi per il monitoraggio dello stanziamento e della gestione delle spese e dei
fondi pubblici.
Ha più probabilità di successo la celebrazione della specificità di ciascun gruppo nel tentativo di costruire una “nazione delle
nazioni” che non il tentativo di costruire uno Stato sulla “negazione delle identità sociali”, cioè una “nazione contro le identità”9. La
promozione di forti sentimenti di comunanza tramite programmi didattici, sportivi e culturali può favorire l’emergere di identità
culturali complementari in grado di rafforzare i vincoli nazionali, diminuendo al contempo gli attriti fra i gruppi. Il Sud Africa, ad
esempio, ha utilizzato le attività sportive in modo creativo dalla fine dell’era dell’apartheid per unificare la nazione arcobaleno. I
programmi tesi a sanare le piaghe che lacerano il rapporto tra i gruppi, come la commissione per la verità e la riconciliazione in
Sud Africa e i programmi per la riconciliazione in Burundi, si sono rivelati preziosi in molti paesi.
In altri casi, la fragilità statale è meno collegata alle divisioni della popolazione o alla loro manipolazione e gli ostacoli prevalenti
alla stabilità sociale e all’erogazione di servizi pubblici possono essere invece attribuiti a una configurazione dello Stato che cela
una competizione tra i clan o che serve gli interessi della “classe-Stato”10, un’élite di potere che domina i ruoli chiave nella burocrazia
statale, nei partiti politici e nel settore economico. L’omogeneità etnica e culturale in Somalia, ad esempio, non ha impedito i conflitti
tra i clan11, e in RDC, nonostante la sua composizione etnica eterogenea, la classe politica consiste di 150-200 famiglie presenti in tutti
i raggruppamenti politici12. Anche in paesi in cui i conflitti sono generalmente interpretati come il risultato di una manipolazione
delle identità socio-etniche, come il Burundi, queste barriere sociali si sovrappongono a divisioni regionali, di classe e di clan13.
Quando il potenziamento istituzionale è ostacolato dalla classe politica che serve i propri interessi e da una disponibilità limitata a
cooperare, il sostegno internazionale alle sue dimensioni intangibili potrebbe includere la creazione di spazi di partecipazione utili
a dare voce ai gruppi di sensibilizzazione e della società civile, che possono far circolare informazioni e guidare la trasformazione
socio-politica. In linea con il principio “do no harm” (non essere dannoso) per un adeguato intervento internazionale negli Stati
fragili e nelle situazioni di fragilità dell’OCSE/CAS, gli attori esterni dovrebbero ridurre al minimo il rischio di mettere in pericolo i
partner. Tale approccio dovrebbe essere completato dalla ricerca di punti di contatto con le istituzioni statali.
Le riforme dovrebbero essere progressive e incrementali, in modo da non minacciare i fragili vincoli sociali. L’obiettivo dovrebbe
consistere nella creazione di un processo di cambiamento iterativo e autosufficiente in grado di introdursi in un sistema, intervenendo
sulla società e sullo Stato a molti livelli e trasformando le loro relazioni nel corso del tempo. Un tale approccio radicherebbe più
saldamente lo Stato nella società e renderebbe le élite più responsabili nei confronti delle popolazioni. La democrazia ha molte più
probabilità di affermarsi qualora venga introdotta gradualmente e progredisca da molti punti di vista: gli sforzi volti a introdurre
precipitosamente le elezioni, anche quando generosamente finanziati dalla comunità internazionale (come accaduto in RDC nel
2008), hanno più probabilità di fare a brandelli una società fragile che non di migliorare drasticamente la governance, soprattutto
nel breve periodo.
3. LA NECESSITÀ DI UNA COMPRENSIONE PROFONDA DEL CONTESTO LOCALE
Gli Stati devono cercare dentro di sé le risorse e i modelli istituzionali e adottare strutture e processi politici
ed economici che riflettano la storia, la complessità e la particolarità del loro popolo e del loro ambiente.
Troppi regimi post-coloniali hanno cercato al di fuori dei loro confini risorse e modelli di governance,
diventando in tal modo dipendenti dall’aiuto esterno e contribuendo a fare in modo che le proprie radici
domestiche restassero sempre troppo deboli per sostenerli.
8
9
10
11
12
13
Kaplan 2008.
Cahen 2005.
Keller 1991.
Mengisteab e Daddieh 1999.
GTZ 2008.
Brachet e Wolpe 2005.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 7
Ciò non significa che i modelli politici occidentali convenzionali non abbiano alcuna attinenza con le società non occidentali, ma che
devono essere adattati alle condizioni e agli usi politici, economici e sociali locali. L’obiettivo non dovrebbe essere quello di erigere
Stati centralizzati con leggi di stile occidentale e una democrazia definita unicamente da elezioni regolari, ma la promozione di
governi capaci, inclusivi, partecipativi, ricettivi e affidabili. Il Botswana, ad esempio, radica i propri sistemi politici in un paradigma
tradizionale che si avvale di norme di governo ampiamente accettate.
Se l’obiettivo è avere Stati legittimi e responsabili, è particolarmente importante collocare l’enfasi sulla ricerca di soluzioni appropriate
alla situazione locale per problemi di governance, gestione della terra e delle risorse e trasferimento di conoscenze. Di certo, nessuna
società che sia riuscita a svilupparsi è mai dipesa pesantemente da risorse straniere, modelli politici stranieri, lingue straniere e
leggi straniere come fanno oggi gli Stati fragili14.
I donatori dovrebbero investire maggiormente nella comprensione delle società locali e nella diagnosi delle sfide politiche che
si trovano ad affrontare. La globalizzazione ha con ogni probabilità mutato le strutture tradizionali nei paesi fragili, che non
possono essere considerati identici a prima. L’evoluzione delle istituzioni statali e non statali è costante e non lineare, e pone sfide
supplementari a coloro che vogliono mettervisi in relazione. La costruzione della capacità locale di studiare la “geografia umana”
degli Stati e analizzare i contesti socio-culturali è essenziale, come già alcuni donatori hanno compreso15.
Le agenzie di aiuto dovrebbero dedicare maggiori sforzi e risorse a una migliore comprensione e diagnosi delle divisioni sociopolitiche e istituzionali che affliggono gli Stati fragili (riquadro 7.2). Commissionare ricerche più estensive nel campo della politica
e delle scienze sociali sarebbe relativamente economico e potrebbe pagare molto in termini di sviluppo di politiche locali e
internazionali attentamente calibrate per affrontare i problemi inevitabilmente complessi degli Stati fragili. La diagnosi del contesto
sociale e politico è necessaria per comprendere cosa è richiesto e per identificare punti di ingresso e spazi per l’interazione con
le istituzioni statali. Un contributo prezioso alla capacità dell’UE di definire modalità di intervento calibrate può derivare da un
processo di gestione e screening del personale comunitario coinvolto negli Stati fragili sulla base di valutazioni periodiche, da
meccanismi di promozione del dialogo tra esperti in campi diversi (assistenza umanitaria, cooperazione allo sviluppo, politica
estera e diplomazia) e dalla specializzazione in determinati settori, paesi o regioni.
Riquadro 7.2: Somalia e Somaliland
Di Seth Kaplan, Managing Partner, Alpha International Consulting, Ltd.
La Somalia e il territorio secessionista del Somaliland offrono uno degli esempi più esemplificativi del contrasto tra il
potenziamento istituzionale che utilizza modelli importati e il potenziamento istituzionale che poggia invece su pilastri
indigeni.
Dalla dissoluzione dello Stato somalo, nel 1991, la comunità internazionale ha cercato non meno di 15 volte di ricostruirlo
dall’alto verso il basso, e per 15 volte ha fallito. Isolate dalla realtà politica del paese, le agenzie di aiuto, le ambasciate e le
organizzazioni multilaterali ne hanno ripetutamente frainteso le dinamiche e hanno imposto “risposte politiche scontate,
non strategiche e basate su modelli predefiniti scarsamente attinenti al contesto locale e lontane dal punto di vista delle
rappresentanze somale”. Di conseguenza, “i somali che cercano di liberare il paese da questa crisi protratta e mortale
devono agire nonostante il coinvolgimento della comunità internazionale (e non grazie a esso)”16.
Di contro, il Somaliland (un’area nel Nordovest della Somalia che dichiarò l’indipendenza nel 1991) ha costruito le proprie
istituzioni statali adottando un approccio dal basso verso l’alto che mette a frutto le tradizionali, e ampiamente accettate,
strutture di clan. Oggi, è lo Stato più democratico della regione e ha raggiunto una stabilità e una prosperità sufficienti ad
attirare migranti dal Corno d’Africa. Il Somaliland deve in parte il suo successo al fatto di aver ricevuto poco aiuto esterno,
fattore che l’ha costretto a fare affidamento sulle proprie risorse, capacità e istituzioni (alcuni sostenitori dell’indipendenza
del Somaliland temono addirittura che aiuti stranieri supplementari potrebbero avere un impatto negativo). Anche molte
altre parti della Somalia, come il Puntland, hanno istituito le proprie amministrazioni locali attorno alle strutture di clan.
Eppure, la comunità internazionale rifiuta di riconoscere il Somaliland e persevera nel suo intento sisifeo di forgiare uno
stato somalo centralizzato.
14
15
16
Kaplan 2009.
il ministero olandese della Cooperazione allo sviluppo sta finanziando organizzazioni locali che svolgono ricerca socialmente rilevante in 9 paesi in via di
sviluppo, mentre la Fondazione Hewlett assicura sostegno a lungo termine a 24 gruppi di esperti in 11 paesi africani
Menkhaus 2008, pag. 9.
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Potenziamento istituzionale e coesione sociale
Ciò che lo scienziato politico Ken Menkhaus ha detto della Somalia si applica a molti altri Stati falliti e fragili: “Questi
meccanismi [informali di autogoverno] estensivi e intensivi [...] sono virtualmente invisibili agli osservatori esterni, che
spesso si preoccupano soltanto dell’unica struttura che meno contribuisce allo stato di diritto per i somali: lo Stato centrale.
[…] Per gli attori esterni, è evidente che uno Stato ricettivo ed efficace è una condizione essenziale per lo sviluppo, un
principio sancito da qualunque strategia per lo sviluppo della Banca mondiale o delle Nazioni unite. Per molti somali, lo
Stato è invece uno strumento di accumulo e dominio, che arricchisce e conferisce potere solo a coloro che lo controllano e
sfrutta e tormenta il resto della popolazione. Spesso, queste diverse percezioni dello Stato fanno sì che gli attori nazionali
ed esterni siano sordi gli uni alle parole degli altri”17.
Uno dei modi per fare leva sulle capacità e sulle istituzioni locali e per migliorare la governance è concentrarsi sul rafforzamento dei
governi locali e sul consolidamento dei loro vincoli con la comunità. I governi locali non sono affatto perfetti, ma la devoluzione delle
funzioni di governo a villaggi, comuni e distretti cittadini può mettere a frutto il potere dell’interazione personale e incoraggiare
forme di governo più trasparenti e affidabili. I governi centrali possono garantire una valuta stabile, promuovere un vasto mercato
dei beni, realizzare collegamenti per i trasporti interurbani e fissare gli standard fondamentali in materia di banche, affari giuridici,
sanità e istruzione. Spetta peraltro ai governi locali o distrettuali fornire i servizi che hanno un impatto maggiore sulla quotidianità
delle famiglie e delle piccole aziende, ad esempio nel campo dell’istruzione, della sanità e della costruzione di strade.
Non è comunque ovvio che il sostegno al decentramento si traduca sempre in governi più efficienti e ricettivi. Al contrario, le
amministrazioni locali possono essere esposte a tentativi di appropriazione del potere e delle risorse da parte delle élite e dei
predoni locali. Il decentramento è coerente con il potenziamento istituzionale inclusivo soltanto se assicura freni e contrappesi
intergovernativi, fa udire la voce dei cittadini e associa le responsabilità dei governi locali con un’assegnazione adeguata di autonomia
decisionale e un quantitativo sufficiente di risorse umane e finanziarie.
I donatori dovrebbero dunque sostenere i processi di decentramento basati sulla strutturazione dell’opinione pubblica,
sull’integrazione sociale e sull’allineamento delle responsabilità e dei mezzi delle istituzioni pubbliche locali. In questo modo, si
possono ridurre i rischi di saccheggio da parte delle élite, potenziare l’affidabilità e contenere il ruolo di enti e istituzioni informali
alternativi e paralleli alle funzioni statali. Il Ruanda offre un esempio positivo di approccio governativo decentrato all’erogazione
di servizi in grado di ancorare concetti e istituzioni tradizionali al funzionamento dello Stato (riquadro 7.3). L’esigenza di trovare
meccanismi di governance radicati nella società implica inoltre che il ruolo del governo locale rispetto al governo nazionale dipende
anche dalla “storia” del paese. Non è dunque possibile applicare una soluzione unica a paesi molto diversi.
Riquadro 7.3: Un modello di governance africano
Di Jesse McConnell, Reform Development Consulting
Due sfide comuni al buon governo in Africa consistono nell’eterogeneità della cittadinanza che i leader devono governare
e nella limitata capacità dei funzionari pubblici di assicurare una leadership locale. Il Ruanda costituisce un esempio di
modello di governo squisitamente africano orientato all’erogazione di servizi e basato sulla responsabilità democratica
(nonché in grado di superare molte delle sfide). L’Imihigo, un concetto che appartiene alla cultura ruandese da secoli, è
qualcosa di molto vicino a un contratto legato ai risultati. Il concetto si basa infatti sull’idea di un impegno pubblico a
centrare un obiettivo specifico, ad esempio la vittoria su un nemico o la conquista di una regione, da parte di un leader
militare di spicco nei confronti del suo re: raggiungere l’obiettivo permetteva di accedere a una prestigiosa ricompensa e
al plauso per la vittoria.
Quest’idea è stata modernizzata e istituzionalizzata nel sistema politico: i sindaci, difatti, si impegnano ogni anno
pubblicamente con il presidente a perseguire obiettivi specifici enunciati nell’agenda di sviluppo nazionale e localizzati
nei piani di sviluppo distrettuali. L’Imihigo moderno è dunque una funzione della priorità di responsabilità democratica
del governo a ottenere un rapido sviluppo di base tramite l’erogazione di servizi incentrata sulle persone. Gli obiettivi sono
decisi tramite consultazioni a livello locale tra i sindaci e i membri delle rispettive comunità, e quindi trasmessi all’intero
paese, per donare trasparenza e affidabilità al processo. Il forum annuale nazionale è poi seguito da incontri trimestrali
relativi all’Imihigo a livello distrettuale, nei quali i sindaci presentano ai membri delle comunità e ai rappresentanti del
governo nazionale i progressi compiuti e i problemi affrontati nel perseguimento degli obiettivi.
17
Menkhaus 2007, pag. 87.
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Capitolo 7
Uno dei motivi alla base del successo dell’iniziativa è la sua capacità di sollecitare un miglior rendimento da parte dei
funzionari pubblici. Questo si deve:
• alla massiccia presenza dei cittadini sia all’incontro annuale iniziale sia alle presentazioni trimestrali;
• alla chiarezza di obiettivi instillata dal processo;
• al maggior coinvolgimento delle comunità come beneficiari, e dunque come pianificatori, nel processo di identificazione
delle necessità e selezione dei progetti pertinenti;
• al fatto che l’Imihigo si basi sulla tradizione e attinga alle conoscenze esistenti.
Dalla sua introduzione, l’Imihigo ha permeato ogni ambito della società, con impegni nei dipartimenti del governo, nelle
scuole e persino nelle famiglie.
Alcuni Stati fragili sono fratturati lungo linee culturali, linguistiche e identitarie e le loro regioni sono debolmente connesse a causa
di infrastrutture povere, geografie politiche svantaggiose e sistemi amministrativi deboli. Pertanto, i modelli di sviluppo a impulso
locale potrebbero riuscire dove i modelli centralizzati falliscono, soprattutto se i vantaggi vengono estesi nel corso del tempo sia
orizzontalmente ad altre località sia verticalmente a organismi di governo superiori (in special modo nei paesi di grandi dimensioni,
come la Repubblica democratica del Congo). In tal modo, inoltre, le comunità locali non sarebbero alla mercé delle disfunzioni del
governo nazionale. Concentrare gli aiuti su queste “tasche di opportunità” sarebbe più efficace a breve termine, e incoraggerebbe
altre aree a migliorare tramite la concorrenza per i fondi nel medio periodo.
Poiché alterare le istituzioni e la struttura sociale indigene potrebbe rivelarsi estremamente difficile, se non impossibile e a volte
anche indesiderabile, è importante saperne di più riguardo alle condizioni per cui le istituzioni formali e informali possono essere
collegate al meglio18. Riconoscere l’esigenza di diversità istituzionale, se non addirittura di molteplicità (per cui uno stato riconosce,
e integra ove possibile, tradizioni storiche differenti), e la necessità che i paesi siano tanto pratici quanto flessibili nel costruire i
governi attorno alla capacità e alle istituzioni già esistenti trasformerebbe l’approccio dei donatori al potenziamento istituzionale.
Le istituzioni informali locali possono fare molto per quanto riguarda il potenziamento istituzionale, ma è necessario non riporre in
loro eccessive aspettative ed evitare una “visione romantica” del loro ruolo19. Non tutte le istituzioni locali e informali, difatti, sono
gestite bene o meglio rispetto a quelle statali: ad esempio, possono essere discriminatorie, soprattutto nei confronti delle donne
e dei membri più giovani della comunità20.
Episodi verificatisi in situazioni diverse di fragilità dello Stato21 (Zimbabwe, Sierra Leone e RDC) suggeriscono che il sostegno alle
forme alternative e tradizionali di governance dovrebbe essere valutato nei contesti specifici di ciascun paese sulla base della loro
potenziale integrazione con il corpo dello Stato e della loro capacità di appoggiare o minare la legittimità statale. Gli insegnamenti
appresi da questi case study indicano inoltre che un atteggiamento pragmatico e flessibile può essere il modo migliore per tradurre
in pratica questi criteri generali per il sostegno alle riforme istituzionali. L’impegno internazionale può mettere a frutto eventuali
finestre di opportunità per le riforme identificando e creando relazioni stabili con attori orientati alle riforme tra le élite, i funzionari
pubblici, le organizzazioni della società civile, le associazioni professionali e gli istituti microfinanziari di un paese.
Pertanto, è opportuno adottare un approccio graduale al potenziamento istituzionale, saldamente radicato nel contesto locale.
I principi dell’OCSE raccomandano di considerare il contesto il punto di partenza per evitare l’imposizione di modelli esterni. Per
la comunità internazionale questa sfida può rivelarsi più rischiosa rispetto all’impegno tecnico, ma le possibilità di successo sono
superiori.
4. COMPLEMENTARITÀ FRA ASSISTENZA UMANITARIA E INTERVENTI DI
POTENZIAMENTO ISTITUZIONALE IN SITUAZIONI POSTBELLICHE
Una delle sfide per l’impegno internazionale nelle transizioni post-belliche è assicurare che il sostegno
agli attori della società civile promuova il potenziamento istituzionale e i bisogni fondamentali della
popolazione senza creare strutture parallele.
In molti contesti post-bellici, gli attori privati della società civile offrono servizi sociali: uno spostamento troppo rapido dall’assistenza
umanitaria al sostegno al bilancio potrebbe privare molti di questi attori delle risorse necessarie per continuare a garantire tali
18
19
20
21
Jütting 2003.
Pouligny 2009.
UNECA 2007.
GTZ 2008.
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servizi mentre lo Stato non è ancora pronto a svolgere le sue funzioni. Un passaggio prematuro verso il potenziamento istituzionale
potrebbe lasciare insoddisfatti i bisogni umanitari. Nel Sudan meridionale (riquadro 7.4), i bisogni umanitari sono stati più accesi
durante i cinque anni di transizione che nel corso del conflitto. Se lo Stato non possiede ancora la capacità di erogare servizi sociali,
privare del sostegno le entità locali che li forniscono crea un vuoto umanitario. Tutelare l’aiuto umanitario richiede dunque che il
sostegno al potenziamento istituzionale sia completato da un altrettanto importante processo parallelo di sostegno alla società
civile. In altro parole, il potenziamento istituzionale non può essere perseguito a spese dei principi umanitari: un approccio peraltro
coerente con la necessità di incrementare la legittimità statale.
Innanzitutto, l’incapacità di uno Stato di assecondare le esigenze umanitarie può metterne a repentaglio la legittimità. In secondo
luogo, il sostegno alle organizzazioni della società civile può contribuire a sviluppare Stati inclusivi e ricettivi. Nelle transizioni
post-belliche, molti accordi politici sono solitamente negoziati dalle élite, mentre la società civile viene esclusa dalla discussione.
Pertanto, impegnarsi nel sostegno alle istituzioni in seno alla società civile contribuirebbe a rafforzare la legittimità e a costruire
un contratto sociale più durevole.
L’assistenza dei donatori in contesti colpiti dal conflitto deve inoltre superare un’erronea giustapposizione di diversi strumenti di
intervento. L’azione dell’UE può essere minata dall’errato presupposto che esista una progressione lineare da una situazione di
emergenza, in cui l’assistenza umanitaria è lo strumento di intervento principe, a situazioni caratterizzate da maggiore stabilità,
per le quali la cooperazione allo sviluppo può ricorrere al sostegno al bilancio quale strumento di aiuto privilegiato (riquadro 7.4).
In realtà, l’impegno internazionale dovrebbe garantire uno spazio nel quale sia l’assistenza umanitaria sia la cooperazione allo
sviluppo vengono utilizzati contemporaneamente e con la stessa importanza. Entrambi gli strumenti possono rivelarsi preziosi e
dovrebbero essere impiegati con la stessa finalità, sebbene possano aver bisogno di perfezionamenti. L’aiuto umanitario collegato
a un quadro di erogazione annuale è inadeguato a rispondere ai fattori delle crisi prolungate e a livelli ridotti di conflitto.
Riquadro 7.4: Impegno internazionale negli Stati fragili: la lezione del Sudan meridionale
By Sara Pantuliano, Overseas Development Institute
Dopo la firma dell’accordo globale di pace, a gennaio 2005, il Sudan è entrato a far parte dei nove paesi della fase pilota
dell’OCSE/CAS per l’applicazione dei principi per un adeguato intervento internazionale negli Stati fragili. I nuovi principi, che
danno seguito alla dichiarazione di Parigi sull’efficienza degli aiuti del 2005 e ai principi del “buon donatore umanitario” del
2003, mirano ad affrontare la complessità e l’esigenza dell’azione internazionale coordinata in situazioni che comprendano
questioni umanitarie, di sicurezza e di sviluppo22. La fase pilota per il Sudan, limitata all’impegno internazionale nel Sudan
meridionale, si concentrava su tre questioni principali: meccanismi di coordinamento dei donatori, sostegno internazionale
al potenziamento istituzionale e sostegno internazionale alla costruzione della pace, con un’enfasi particolare sull’attuazione
dell’accordo globale di pace.
Sia durante sia dopo i negoziati di pace, in Sudan è stato collaudato un ampio ventaglio di meccanismi di coordinamento
degli aiuti, tra cui il processo della missione di valutazione congiunta (MVC), i fondi fiduciari multilaterali e il team di donatori
congiunti (TDC) a Juba. L’MVC consisteva in un esame approfondito delle esigenze di risanamento e ripresa transizionale in
otto cluster tematici da affrontarsi nel corso dei primi due anni del periodo interinale dell’accordo globale di pace (2005-2011).
La valutazione, durata 15 mesi e co-diretta dal PSNU/UNDG e dalla Banca mondiale, ha visto la partecipazione estremamente
attiva degli alti esponenti delle due principali parti belligeranti, il Partito del Congresso nazionale (PCN) e il Movimento/
Esercito di liberazione del popolo sudanese (SPLM/A), e di un gran numero di paesi donatori. L’MVC era ritenuta in
grado di assicurare un quadro per il sostegno della stabilità e offrire i dividendi della pace per rafforzare l’accordo di pace.
La valutazione, un esercizio estremamente costoso e ambizioso, ha generato aspettative in merito al suo ruolo di documento
guida e ha proposto meccanismi per la sua attuazione23. è inoltre riuscita a riunire le parti belligeranti intorno a un programma
comune per la ripresa e ha rappresentato il primo sforzo serio di inquadrare la risposta nel nuovo contesto, ma non è servita
da quadro di riferimento efficace per l’azione. Sono state espresse riserve in merito alla mancanza di priorità ben definite e
di una chiara sequenzialità nel piano operativo e alla validità dei metodi utilizzati per attribuire un costo e dedurre i livelli
delle necessità24, nonché all’accento inadeguato posto su sicurezza e costruzione della pace25. I limiti principali, in ogni caso,
22
23
24
25
Haslie e Borchgrevink 2007.
Murphy 2007.
Murphy 2007.
UNDG/Banca mondiale 2006.
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sono la modesta partecipazione alla valutazione da parte degli attori nazionali e la sua crescente inadeguatezza alla luce
di un contesto in rapido mutamento, man mano che facevano la loro comparsa nuove strutture di governo e sicurezza. La
missione di valutazione congiunta ha dunque fallito nel suo tentativo di offrire un canovaccio per l’impegno internazionale
anziché un quadro di riferimento dinamico e capace di adeguarsi ai mutamenti contestuali.
I principali meccanismi per l’attuazione dei risultati della valutazione erano i due fondi fiduciari multilaterali, uno per il
governo di unità nazionale e uno per il governo del Sudan meridionale. Questi fondi, amministrati dalla Banca mondiale,
erano intesi ad agevolare il finanziamento coordinato dei donatori esterni per sostenere la ripresa immediata, consolidare
la pace, potenziare le capacità e accelerare i progressi in direzione degli OSM fino al 2011. Nella pratica, il rendimento e
l’impatto sono stati decisamente deludenti.
I fondi sono stati ampiamente criticati per non aver ottenuto risultati rapidi e visibili26. Il tasso di esborso è stato penosamente
lento e la maggior parte dei progetti non è riuscita a erogare “beni tangibili” ai cittadini nemmeno entro il secondo anno27.
Le procedure burocratiche della Banca mondiale, i problemi di personale e il protrarsi dei negoziati tra le équipe dell’ONU e
della Banca mondiale in merito agli accordi di applicazione hanno ostacolato l’attuazione iniziale28. L’incapacità del governo
di rispondere alle esigenze burocratiche dei fondi è stata causa di gravi ritardi e inefficienze.
Le lacune dei fondi hanno fatto sì che molti donatori decidessero di bypassarli, incanalando più risorse a livello bilaterale o
tramite altri fondi comuni. Le regole e le procedure dei fondi sembrano essere più adatte alla ricostruzione e allo sviluppo
a medio termine anziché alla ripresa immediata dopo un conflitto. Non è in effetti la prima volta che questo strumento non
riesce a raggiungere i propri obiettivi in un contesto post-bellico, il che solleva un interrogativo: perché non si apprende
dalle esperienze maturate29?
Un altro meccanismo per potenziare l’armonizzazione tra i donatori del Sudan meridionale è stato l’istituzione del TDC,
a Juba, da parte di sei paesi. Una valutazione di medio periodo ha concluso che il team ha offerto un buon rendimento,
contribuendo a promuovere un sentimento di appartenenza nel Sudan meridionale e a rafforzare l’allineamento dei
donatori con le politiche del governo. D’altra parte, l’armonizzazione del TDC e l’aderenza ai principi dell’OCSE/CAS sugli
Stati fragili sono state molto più carenti30. In particolare, i partner non sono riusciti a elaborare un quadro politico comune
in cui operare, con obiettivi e approcci diplomatici e di sviluppo comuni. Di conseguenza, non sono riusciti a contenere
l’aumento dei programmi bilaterali.
La proliferazione di progetti ha continuato a rendere difficoltoso il coordinamento degli aiuti nel Sudan meridionale,
limitando la capacità del TDC di contribuire al potenziamento istituzionale in modo coerente e sostenibile31. La consulenza
tecnica sulla politica fondiaria e la risoluzione delle controversie territoriali sono state particolarmente scoordinate e spesso
conflittuali32. Il TDC, come molte organizzazioni internazionali nel Sudan meridionale, ha anche incontrato difficoltà ad
attrarre e mantenere personale preparato e qualificato, fattore che ne ha pregiudicato i risultati33.
Il potenziamento istituzionale nel Sudan meridionale, un obiettivo chiave dell’impegno internazionale, è una sfida immane,
dal momento che le strutture di governo formali devono essere create da zero. Sebbene siano stati profusi sforzi concertati
per dare vita all’apparato amministrativo del governo del Sudan meridionale, questi si sono basati su un approccio dall’alto
verso il basso. è stata posta troppa enfasi sulla costruzione delle istituzioni e sul potenziamento della capacità amministrativa
del governo centrale, mentre scarsa attenzione è stata dedicata alle questioni della legittimità e della responsabilità
democratica34. Sono stati certamente compiuti alcuni progressi nella creazione di strutture regionali e statali, ma l’erogazione
dei servizi di base è ancora molto limitata e la corruzione è ampiamente diffusa in molte aree35.
L’istituzione del governo del Sudan meridionale è stata interpretata (sia dagli attori nazionali sia da quelli internazionali)
come un’opportunità per la regione di passare dall’accettazione passiva dell’assistenza umanitaria erogata dall’esterno alla
preparazione, al finanziamento e all’attuazione di programmi di ripresa e sviluppo a gestione nazionale. Di conseguenza, i
donatori hanno aumentato i contributi per la ripresa a lungo termine e i fondi di sviluppo, mentre i finanziamenti umanitari
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
Scanteam 2007b.
Fenton 2008.
Pantuliano et al. 2007.
Pantuliano et al. 2008.
Bennet et al. 2009.
Bennet et al. 2009.
Pantuliano et al. 2008.
Bennet et al. 2009.
Haslie e Borchgrevink 2007.
Bennet et al. 2009.
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Potenziamento istituzionale e coesione sociale
sono stati ridotti. Tutto questo nonostante l’aumento dei bisogni umanitari, la costante incapacità del governo del Sudan
meridionale di affrontarli e gli scarsi risultati dei meccanismi di finanziamento a lungo termine.
L’architettura tradizionale degli aiuti si è dimostrata ancora una volta incapace di gestire situazioni lontane dalla divisione
netta tra assistenza umanitaria e aiuto allo sviluppo. Come in molti contesti post-bellici, nel Sudan meridionale vi è l’esigenza
di proseguire l’erogazione diretta di servizi potenziando al contempo le capacità del governo, anche per prevenire emergenze
più gravi come lo scoppio di epidemie di colera o crisi alimentari.
Promuovere la stabilità è un altro obiettivo essenziale per la transizione alla pace. Le strategie e i programmi tesi
a raggiungere questo obiettivo devono essere progettati in modo tale da contribuire al potenziamento istituzionale,
mantenendo l’equilibrio tra la creazione di istituzioni per la sicurezza nazionali e il ruolo di attori esterni quali le missioni di
mantenimento della pace. Nel Sudan meridionale, la missione UNMIS, con il mandato di monitorare l’attuazione dell’accordo
globale di pace, è stata un elemento importante dell’impegno internazionale.
L’UNMIS ha una presenza militare massiccia in tutta la regione e nelle aree di transizione, ma il suo rigido mandato, spesso
interpretato in maniera troppo ristretta, e le linee guida per la sicurezza interna l’hanno resa inefficace e avversa al rischio,
il che è inaccettabile. In molte aree, ha eseguito un monitoraggio irregolare dei conflitti effettivi e potenziali, e i programmi
DDR per il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento si sono scontrati con ritardi e resistenze36. Inoltre, altre questioni
di sicurezza (ad esempio la trasformazione dell’Esercito di liberazione del popolo sudanese in un corpo professionale, la
formazione di una forza di polizia e il problema della violenza tra comunità) hanno ricevuto sostegno limitato o tardivo. Molti
soldati dell’UNMIS mancano poi della formazione linguistica necessaria per interagire non solo con i locali, ma anche l’uno
con l’altro. Ne consegue che il rapporto tra gli osservatori militari e le comunità è, nella migliore delle ipotesi, frammentato.
Rispetto alle sue ingenti risorse, l’UNMIS sembra fare poco: la spesa internazionale per la missione contrasta fortemente
con il livello modesto di aiuti erogati visibile in tutto il Sudan meridionale37.
L’incapacità della comunità internazionale di offrire dividendi della pace immediati e tangibili nel Sudan meridionale e
nelle tre aree ha avuto un impatto negativo sulla costruzione della pace38. I ritardi e le lacune nell’erogazione di servizi e la
crescente insicurezza in alcune aree di rimpatrio hanno fatto sì che molti rimpatriandi si radunassero in città e insediamenti
già sovraffollati o posponessero il rientro. è stata dunque minata la fiducia delle comunità ospitanti e dei rimpatriandi nelle
capacità del governo del Sudan meridionale di assicurare servizi e altri dividendi della pace.
La complessità della situazione pone sfide non facilmente superabili per l’impegno internazionale. Nonostante i principi
OCSE/CAS siano un valido punto di partenza, possono essere contraddittori. Potrebbero rendersi necessari compromessi
importanti tra, poniamo, gli obiettivi di potenziamento istituzionale e di coordinamento dei donatori e l’aumento
proporzionale dei servizi di base come dividendi della pace39. L’applicazione dell’analisi degli Stati fragili è in ogni caso
utile soltanto se le cause della fragilità sono attentamente esaminate, comprese e scorporate per area o circoscrizione.
Ad esempio, nel Sudan meridionale le cause della fragilità e le risposte per affrontarle nelle tre aree potrebbero divergere
profondamente dalla situazione riscontrabile in alcune parti del Nilo superiore.
Troppo spesso l’impegno internazionale si basa sulla premessa errata che la transizione dalla guerra alla pace sia lineare:
in realtà, la firma di un accordo di pace spesso cambia ben poco la situazione sul campo. La transizione dalla guerra alla
pace non è un esercizio tecnico, ma un processo altamente politico nel quale principi, priorità e approcci diversi devono
coesistere ed essere realizzati congiuntamente40. Ciò comprende un’analisi circostanziata e sofisticata dei rapporti di
potere, della cause di vulnerabilità, dei fattori di conflitto e degli indicatori della resilienza. In particolar modo nei contesti
post-bellici dinamici, l’economia politica della transizione deve essere costantemente riesaminata e rivista per poter essere
autenticamente adeguata al contesto. Inoltre, dovrebbero essere profusi maggiori sforzi per identificare i fautori nazionali
del cambiamento e della riforma e le modalità per sostenerli. Il ruolo degli attori nazionali è fondamentale, perché il
cambiamento può prodursi solo come processo endogeno: l’impegno internazionale ha la facoltà di contribuire a stimolare
la stabilità, ma non può crearla.
36
37
38
39
40
Vaux et al. 2008.
Vaux et al. 2008.
Haslie e Borchgrevink 2007.
Haslie e Borchgrevink 2007.
Elhawary, comunicazione personale.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 7
4.1 OPPORTUNITÀ NELLA RICOSTRUZIONE POSTBELLICA
I contesti post-bellici non solo pongono sfide significative ai governanti nazionali e all’assistenza internazionale, ma offrono anche
grandi opportunità per risolvere problemi annosi di esclusione, ingiustizie e disuguaglianza. L’integrazione delle pari opportunità
nelle transizioni post-belliche, ad esempio, potrebbe rappresentare un progresso importante nella lotta per l’emancipazione della
donna e contro la discriminazione di genere. Inoltre, un’integrazione coerente tra il criterio della titolarità locale e un approccio
alla ricostruzione post-bellica sensibile al genere può rivelarsi più fruttuosa rispetto a programmi dal basso verso l’alto e formulati
in modo neutro rispetto al genere (riquadro 7.5).
Riquadro 7.5: Apprendere dalle comunità locali: programmi a sostegno delle ex combattenti
Le azioni intese a rafforzare la resilienza di una società richiedono il coinvolgimento delle comunità locali nei processi di
riforma e nei meccanismi decisionali pubblici. I cittadini hanno strategie di sopravvivenza che possono essere sostenute
per costruire istituzioni nuove e più resilienti. L’inadeguatezza di alcune politiche di aiuto è dovuta alla mancanza di
comprensione delle lingue e delle situazioni locali da parte degli operatori umanitari e alla conseguente incapacità di gestire
norme consuetudinarie, sistemi tradizionali e conoscenze locali. Queste barriere linguistiche, comunicative e conoscitive
impediscono la partecipazione dei gruppi poveri o emarginati all’elaborazione delle politiche: i cittadini perdono dunque
l’opportunità di essere coinvolti nella ricostruzione politica ed economica delle loro istituzioni.
Tali problemi sono emersi sull’onda delle apprensioni manifestate dal Forum sociale mondiale (l’ampio movimento sociale
globale che include il Forum sociale africano e riunisce migliaia di movimenti della società civile) in merito all’inadeguatezza
delle politiche di aiuto.
Il contributo della partecipazione locale alle fasi di progettazione e attuazione dei programmi di sviluppo in situazioni di
fragilità appare evidente nel contrasto tra programmi internazionali che hanno avuto esito positivo e insuccessi in materia
di reintegrazione delle ex combattenti in Liberia durante la transizione post-bellica.
In Liberia, nel 2004 erano state disarmate e smobilitate 22.000 donne e 2.740 ragazze su un totale di 103.000 ex combattenti41.
Nonostante l’intenzione fosse quella di integrare le questioni di genere nelle politiche e procedure del processo di disarmo,
questo non accadeva. Le organizzazioni femminili osservarono che le donne venivano mandate a casa senza un’adeguata
valutazione della loro salute riproduttiva e delle loro condizioni sessuali o psicologiche. La reintegrazione nelle famiglie
e nelle comunità era estremamente difficile, poiché le donne portavano un doppio “marchio di infamia”: l’esperienza
dell’abuso sessuale e l’affiliazione alle forze armate.
Lavorando fianco a fianco con le organizzazioni femminili locali e con i partner internazionali si escogitò una soluzione
innovativa: integrare le ex combattenti nelle forze di polizia. I primi membri della Polizia nazionale liberiana (PNL) hanno
completato la formazione nel 2005, e nel 2009 il 12,6% della forza era costituito da donne. Il PNL ha istituito l’unità WACPU
(Women and Children Protection Unit, Unità di protezione per donne e bambini), che collabora con enti governativi e
non, sostenuta dalla Gender-Based Violence Inter-Agency Task Force (task force interagenzie sulla violenza di genere), che
coordina il lavoro delle Nazioni Unite e di altri donatori. Anche il progetto “Women Peace Huts” di WIPNET sostiene le donne
della comunità che si rivolgono alle “peace huts” (vale a dire “rifugi di pace”) per cercare riparo e assistenza nell’affrontare
questioni quali lo stupro, la proprietà fondiaria, le differenze religiose e il tribalismo42.
Nei contesti fragili il rapporto delle donne con lo Stato è profondamente diverso da quello degli uomini ed è spesso mediato
dalla famiglia, dalla comunità e dalle istituzioni religiose o consuetudinarie. Le donne devono vedersela con un divario più ampio
tra cittadinanza formale e sostanziale, oltre che con tutta una serie di barriere economiche, sociali e culturali nell’esercizio dei
propri diritti e nella partecipazione ai processi decisionali. Inoltre, in molti Stati fragili, le questioni nazionali e personali che più
le interessano (il diritto familiare, l’eredità, l’accesso alla terra e la sicurezza) sono delegate alle istituzioni consuetudinarie o agli
attori non statali, e pertanto lo Stato non può garantire i loro diritti in queste aree. Per tutti questi motivi, le donne si scontrano
con ostacoli ben precisi nell’esercizio dei propri diritti, nella partecipazione alla governance e nel chiedere ragione delle attività
dello Stato (in sostanza, nell’agire da cittadine a pieno titolo) e dunque le misure intese a ricostruire o riformare lo Stato hanno su
di loro effetti diversi.
Le relazioni e i ruoli di genere possono creare opportunità e ostacoli per il potenziamento istituzionale. Essi mutano in maniera
considerevole durante i conflitti armati, e la riforma post-conflitto delle istituzioni politiche offre un’occasione di aumentare la
rappresentanza e l’influenza politica delle donne, specialmente nella nuova architettura dell’efficacia degli aiuti.
41
42
Campbell-Nelson 2008
UNIFEM 2007
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Potenziamento istituzionale e coesione sociale
Gli intensi processi di potenziamento istituzionale che hanno luogo nei contesti post-bellici e negli Stati fragili possono consentire
mutamenti nei rapporti di potere, nelle strutture statali e nelle istituzioni, nonché nella relazione tra Stato e cittadini (riquadro 7.6).
Nel processo di allontanamento dalla fragilità, la comunità internazionale ha grosse opportunità di sostenere gli attori nazionali
nella costruzione di uno Stato più affidabile. C’è, quindi, la possibilità di promuovere la cittadinanza delle donne in seno ai processi
di potenziamento istituzionale nei contesti degli Stati fragili, costruendo Stati capaci, responsabili e ricettivi e assicurando che non
vengano ricreati gli stessi modelli di oppressione preesistenti.
Riquadro 7.6: Transizione post-bellica: un’opportunità per l’emancipazione della donna?
Il dato straordinario relativo alla presenza femminile nella Camera dei deputati del Parlamento ruandese nel 2009 (56%)
può essere esaminato nel contesto di due tendenze: l’uso delle quote rosa e le opportunità di affrontare la disuguaglianza
di genere in una situazione post-bellica. Negli ultimi 40 anni, l’aumento del numero di donne in Parlamento è stato più
rapido nell’Africa subsahariana che in qualunque altra regione, principalmente grazie alle quote rosa. Secondo l’Unione
interparlamentare (UIP), i paesi in situazione post-bellica “occupano la maggior parte delle prime 30 posizioni nella classifica
UIP dei paesi con la più alta rappresentanza femminile in Parlamento” e hanno usato con efficacia le quote rosa e i seggi
riservati per “assicurare la presenza e la partecipazione femminile nelle nuove istituzioni”43.
Il Ruanda è un esempio di come il potenziamento istituzionale in situazioni post-belliche possa affrontare la disuguaglianza
di genere. Powley (2003) riferisce che questo successo si deve a un movimento femminile attivo e impegnato della società
civile, alla capacità delle donne di lavorare, a prescindere da differenze etniche o di partito, con l’obiettivo di cambiare la
costituzione e al sostegno tecnico della comunità internazionale che incoraggia le donne ad accedere al Parlamento tramite
il sistema delle quote. Powley sottolinea l’importanza del ruolo interpretato dall’organizzazione ombrello Pro-Femmes
nell’offrire consulenza al governo in merito alla partecipazione politica delle donne e nella promozione di una riconciliazione
in grado di riunire le donne, le ONG e i funzionari del governo. In Parlamento, anche il Forum of Women Parliamentarians (il
forum delle donne parlamentari) ha lavorato sulla parità di genere, superando le divergenze di partito. Fondamentale per
il successo sono stati l’assistenza tecnica e finanziaria e l’incoraggiamento di partner internazionali come USAID, DFID, UIP,
PSNU, AWEPA e International Alert. Inoltre, la revoca delle leggi che proibivano alle donne di ereditare la terra (nel 1999) e
l’approvazione di una nuova costituzione sensibile alle specificità di genere (nel 2003) hanno rappresentato progressi epocali
in campo legislativo. Nelle successive elezioni parlamentari, le donne ottennero il 49% dei seggi alla Camera dei deputati.
È necessario accordare un’attenzione tempestiva all’uguaglianza di genere e alla promozione del punto di vista e della partecipazione
della donna allo sviluppo politico, sociale ed economico nei contesti fragili e post-bellici. La ricostruzione dello Stato può forgiare
nuove dinamiche sociali, economiche e politiche in grado di infrangere gli stereotipi di genere. La ricostruzione degli Stati fragili
è ad esempio un’opportunità per confermare l’impegno a favore dei diritti della donna e della promozione dell’uguaglianza di
genere nei nuovi accordi di governo. La sfida nelle situazioni post-belliche consiste nel rafforzare i governi nazionali per assicurare
coerenza tra gli obiettivi di politica macroeconomica e di uguaglianza di genere. Gli intensi processi di potenziamento istituzionale
che hanno luogo nei contesti post-bellici e negli Stati fragili consentono mutamenti nei rapporti di potere, nelle strutture statali
e nelle istituzioni, nonché nella relazione tra Stato e cittadini e tra i cittadini. In tali contesti, si danno le potenzialità per mutare le
situazioni di discriminazione nel campo dell’istruzione e della sicurezza economica, le prassi e le norme socio-culturali discriminatorie,
la violenza e le molestie sessuali e l’esclusione di donne e giovani dai processi decisionali nel settore della sicurezza.
Castillejo (2008)44 sostiene che ridisegnare i confini dell’autorità fra i sistemi di governo statale formale e consuetudinario possa offrire
nuove opportunità di cittadinanza per le donne. Il mancato accento sul genere può consolidare sistemi che discriminano la donna.
A livello operativo, la sfida è collegata alla scarsa priorità attribuita al genere nel potenziamento istituzionale post-bellico. In molti
paesi dell’Africa subsahariana le donne hanno pochi contatti con lo Stato formale e la loro vita è governata da sistemi di governo
consuetudinario che limitano drasticamente i loro diritti e le loro opportunità di partecipazione politica45. Questa situazione ha
particolare rilievo negli Stati fragili, dove lo Stato formale è debole e inaccessibile.
Tuttavia, vi sono stati dei cambiamenti per quanto attiene ai diritti della donna, alla partecipazione politica femminile e alla
mobilitazione delle donne in paesi quali la Sierra Leone e la Liberia, esempi di come i donatori possano sostenere il rafforzamento
della partecipazione femminile al potenziamento istituzionale negli Stati africani fragili.
43
44
45
Powley 2003, pag. 5.
Castillejo 2008.
Castillejo 2008.
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Capitolo 7
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Un problema nella promozione e nella difesa dei diritti della donna negli Stati fragili è quello del pluralismo giuridico: molti paesi
africani hanno sistemi legali diversi basati sul diritto statutario, religioso e consuetudinario e ciascuno di questi ha una diversa
nozione dei diritti che spettano alla donna, il che complica l’agenda delle riforme.
Inoltre, i sistemi sono spesso sovrapposti, per cui è difficile capire quando si possano far valere determinati diritti. Ad esempio,
se qualcuno si è sposato secondo il diritto consuetudinario e vengono violati dei diritti, a quale codice si fa riferimento? Spesso
non è chiaro quale sia la legge suprema, perché alcuni di questi sistemi non sono regolati o riconosciuti. Se poi le istituzioni sono
deboli e compromesse, questa situazione può ulteriormente erodere i diritti. Nel vagliare le modalità utili a migliorare i sistemi
giuridici e le istituzioni di governo, è importante comprendere il ruolo delle relazioni sociali patriarcali, dell’alfabetizzazione, della
consapevolezza femminile e dell’accesso della donna ai propri diritti. Per affrontare tali nodi e costruire nuove strutture di governo
sono necessarie maggiori risorse che tengano conto delle disparità di genere e attuino azioni assertive.
Come suggerisce Castillejo (2008), è importante che i processi di potenziamento istituzionale si impegnino appieno con le strutture
di governo consuetudinario (che hanno un ruolo centrale nella vita della maggior parte delle donne), anziché costruire uno Stato
formale al vertice di strutture di governo consuetudinario non riformate che continuano a determinare la vita quotidiana delle
persone46.
Quella del rapporto tra genere e fragilità è una nuova area della politica di sviluppo. Sebbene i quadri di riferimento per l’aiuto
allo sviluppo invochino politiche sensibili al genere, in generale le risposte politiche alla fragilità non tengono propriamente conto
della parità, anche se la maggior parte delle caratteristiche della fragilità ha importanti dimensioni di genere.
Riquadro 7.7: Il bilancio di genere
Il bilancio di genere si è fatto strada come una delle principali risposte politiche utili ad affrontare le disuguaglianze di
genere tramite nuove modalità di aiuto. Tali modalità (sostegno settoriale e al bilancio) pongono sfide particolari in merito
al tracciamento dei risultati della parità tra i sessi. Il bilancio di genere è un modo per conseguirlo, perché impone ai
governi di applicare l’analisi di genere al processo di bilancio a livello nazionale e locale. Tale bilancio mira ad assicurare la
responsabilità democratica dei governi rispetto ai cittadini più poveri e a concedere diritti e democrazia alle donne47. L’analisi
del bilancio in funzione delle questioni di genere è stata svolta con utili risultati in molti paesi dell’Africa subsahariana,
compresi Mozambico, Sud Africa, Tanzania e Uganda48.
Si tratta di un’analisi funzionale alla misurazione dell’impatto differenziale dell’incremento del gettito e della spesa pubblica
sugli uomini e sulle donne nonché alla lotta a favore di cambiamenti o spostamenti di paradigma nella spesa pubblica in
linea con gli obiettivi politici49. Non si tratta di un bilancio separato per le donne, ma di uno strumento analitico per affrontare
la discriminazione basata sul genere che può rivestire un ruolo chiave nel consentire alle donne e ad altri cittadini poveri
di esercitare i propri diritti in merito a servizi di base, opportunità economiche e partecipazione politica; inoltre, serve ad
aumentare l’affidabilità del governo nell’erogazione dei servizi pubblici.
Il bilancio di genere mira a:
• migliorare lo stanziamento di risorse per le donne;
• integrare trasversalmente il genere nella macroeconomia e nello sviluppo;
• rafforzare la partecipazione della società civile all’elaborazione di politiche economiche;
• potenziare i legami tra risultati economici e di politica sociale;
• individuare la spesa pubblica per gli impegni connessi al genere e alla politica di sviluppo;
• contribuire a centrare gli obiettivi di sviluppo del Millennio50;
• consentire ai governi di ottemperare a obblighi internazionali quali la dichiarazione e la piattaforma d’azione di Pechino
e la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW).
46
47
48
49
50
Castillejo 2008.
Sharp 2003.
Claasen 2008.
Budlender e Hewitt 2002.
Budlender e Hewitt 2002.
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Il bilancio di genere ha tutte le carte in regola per consentire progressi verso uno stanziamento equo di risorse negli Stati
fragili. Affinché gli aiuti siano efficaci nell’affrontare la povertà e la disuguaglianza, è essenziale che i donatori e i governi
nazionali comprendano più a fondo le sfide specifiche con cui le donne devono confrontarsi. Tale bilancio è particolarmente
importante nel contesto della ricostruzione e del rafforzamento delle istituzioni statali, perché offre un importante punto
di accesso per l’integrazione trasversale delle pari opportunità.
Il Ruanda è un esempio di come il potenziamento istituzionale in situazioni post-belliche possa affrontare la disuguaglianza
di genere. Powley (2003) riferisce che questo successo si deve a un movimento femminile attivo e impegnato della società
civile, alla capacità delle donne di lavorare, a prescindere da differenze etniche o di partito, con l’obiettivo di cambiare la
costituzione e al sostegno tecnico della comunità internazionale che incoraggia le donne ad accedere al Parlamento tramite
il sistema delle quote. Powley sottolinea l’importanza del ruolo interpretato dall’organizzazione ombrello Pro-Femmes
nell’offrire consulenza al governo in merito alla partecipazione politica delle donne e nella promozione di una riconciliazione
in grado di riunire le donne, le ONG e i funzionari del governo. In Parlamento, anche il Forum of Women Parliamentarians (il
forum delle donne parlamentari) ha lavorato sulla parità di genere, superando le divergenze di partito. Fondamentale per
il successo sono stati l’assistenza tecnica e finanziaria e l’incoraggiamento di partner internazionali come USAID, DFID, UIP,
PSNU, AWEPA e International Alert. Inoltre, la revoca delle leggi che proibivano alle donne di ereditare la terra (nel 1999) e
l’approvazione di una nuova costituzione sensibile alle specificità di genere (nel 2003) hanno rappresentato progressi epocali
in campo legislativo. Nelle successive elezioni parlamentari, le donne ottennero il 49% dei seggi alla Camera dei deputati.
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SEZIONE TRE
SUPERARE LA FRAGILITÀ:
IL RUOLO DELL’UE
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
CAPITOLO 8
POLITICHE DELL’UE IN MATERIA DI FRAGILITÀ
NELL’AFRICA SUBSAHARIANA
La fragilità dello Stato è ormai da tempo una priorità politica per l’Unione europea. Per intervenire
nei paesi che si trovano in situazioni di fragilità, l’UE ha messo a punto un vasto corpus di politiche
comprendente un quadro generale in grado di definire gli orientamenti e gli obiettivi della politica estera
e di sviluppo dell’UE, nonché politiche specifiche in materia di fragilità. L’elevata priorità assegnata alla
problematica della fragilità dello Stato viene rispecchiata anche dal Consenso europeo sullo sviluppo,
adottato nel 2005.
Se quest’ampia serie di documenti politici sia in grado o meno di tradursi in strumenti adeguati all’esigenza di raccogliere
efficacemente le sfide lanciate dalla fragilità delle istituzioni statali nell’Africa subsahariana è ancora da vedersi. Il presente rapporto
non si propone l’obiettivo di valutare dettagliatamente le politiche esistenti, intendendo invece evidenziare il potenziale e i limiti
dell’UE nella lotta alla fragilità.
Un riesame dell’attuale approccio comunitario in materia rivela la necessità di progredire in molte direzioni. La prima, e più generale,
riguarda l’esigenza di assottigliare il divario di attuazione che separa il quadro politico teorico e l’effettivo processo di elaborazione
e messa in opera di interventi specifici sul campo. Si tratta di una sfida fondamentale, poiché gli effetti di una politica diventano
visibili soltanto quando questa viene attuata. L’attuazione, tra l’altro, deve essere attentamente calibrata, dal momento che le
politiche generiche non sono in grado di soddisfare le esigenze degli Stati fragili.
Successivamente, e più in particolare, è necessario compiere progressi al fine di:
• Ottenere una solida comprensione del contesto locale, in modo da poter predisporre interventi efficaci e informati.
• Comprendere in che modo il principio di titolarità debba essere adattato in presenza di paesi dotati di istituzioni statali inadeguate
o illegittime, che possono rendere inefficace il sostegno al bilancio.
• Evitare che l’ampiezza delle politiche comunitarie diventi un problema, nel caso in cui non si raggiunga la coerenza delle politiche
per lo sviluppo, e che diverse politiche producano effetti avversi indiretti sugli Stati fragili. La dimensione orizzontale della
coerenza politica deve abbinarsi a una migliore ricerca di coerenza verticale1 al fine di assicurare un migliore coordinamento
tra la Commissione europea e gli Stati membri dell’UE.
• Consentire che la politica commerciale dell’UE sia in grado di rispondere ai bisogni specifici degli Stati fragili dell’Africa
subsahariana e garantire che gli accordi bilaterali non minino il processo di integrazione multilaterale.
• Passare dagli interventi di risposta alle misure preventive, in modo che i paesi che si trovano in situazioni di fragilità non
imbocchino una spirale che eroderebbe progressivamente la capacità e la legittimità delle loro istituzioni statali. Tale passaggio
potrebbe richiedere uno spostamento verso un approccio regionale alla fragilità poiché gli “effetti di cattivo vicinato” descritti
nei capitoli precedenti potrebbero mettere a repentaglio le possibilità di affrontare la fragilità paese per paese.
• Comprendere a fondo come gestire correttamente il nesso tra sicurezza e sviluppo.
Per assottigliare il divario è necessario rivalutare le priorità, concentrare gli sforzi, semplificare le procedure e, in particolare, reperire
l’ente o il partner adeguato per l’attuazione delle politiche. Non si tratta semplicemente di attuare una serie di politiche, ma anche di
costruire un rapporto di fiducia tra beneficiari e donatori e di apprendere dalle esperienze politiche. Inoltre, l’UE dovrebbe adottare
un approccio più costruttivo partendo dal presupposto che lottare contro la fragilità equivale in realtà a potenziare la resilienza.
In questo contesto, il presente capitolo valuterà la situazione attuale delle politiche comunitarie nei confronti degli Stati fragili,
approfondendo la tematica delle direzioni dei cambiamenti2.
1
2
Vedere Carbone 2009.
Vedere Bakrania e Lucas 2009 per una panoramica delle attività dei donatori negli Stati fragili del Corno d’Africa riguardante la BAfS, la Commissione europea,
il PSNU, gli USA, la Banca mondiale e singoli paesi. Lo studio sottolinea come le attività dei donatori non rispecchino soltanto la loro esperienza, bensì anche
i loro interessi sul piano della politica estera.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 8
1. LA PREOCCUPAZIONE DELL’UE PER GLI STATI FRAGILI NEGLI ANNI
Sin dal 2001, la presidenza belga dell’Unione europea ha attribuito un’importanza prioritaria agli Stati
fragili, malgrado tale questione preoccupasse già da tempo gli istituti di ricerca indipendenti attivi nel
campo delle politiche comunitarie3. La strategia europea per la sicurezza del 2003, nel contesto del post11 settembre, ridefinisce la problematica degli Stati fragili come una questione di sicurezza4. Il Consenso
europeo sullo sviluppo del 2005, adottato da Parlamento europeo, Consiglio e Commissione europea, ha
raggiunto per la prima volta un accordo su una visione comunitaria condivisa in materia di sviluppo e ha
definito la fragilità dello Stato come una delle cinque sfide principali della politica di sviluppo dell’UE5.
Riquadro 8.1: „Intervenire sulla fragilità statale“ – Estratti dal Consenso europeo in materia
di sviluppo 20056
• L’UE migliorerà la sua risposta nel caso di partenariati difficili e Stati fragili, in cui vive il trenta per cento della popolazione
più povera del mondo. L’UE intensificherà i suoi sforzi nella prevenzione dei conflitti e sosterrà la prevenzione della
fragilità degli Stati mediante riforme di governo, stato di diritto, misure anticorruzione e lo sviluppo di istituzioni statali
sostenibili per aiutarli a svolgere una serie di funzioni fondamentali e a venire incontro ai bisogni dei loro cittadini.
L’UE si avvarrà di sistemi e strategie statali, ove possibile, per potenziare le capacità negli Stati fragili. L’UE auspica di
mantenere il proprio impegno, anche nei paesi in cui la situazione è più difficile, per impedire il fallimento degli Stati.
• Nei contesti di transizione, l’UE promuoverà legami tra l’aiuto di emergenza, la riabilitazione e lo sviluppo a lungo
termine. In una situazione di post-crisi, lo sviluppo sarà guidato da strategie integrate di transizione che mirano a
ristabilire le capacità istituzionali, le infrastrutture e i servizi sociali essenziali, maggiore sicurezza alimentare, nonché a
offrire soluzioni sostenibili per i rifugiati e i profughi, e, in genere, in materia di sicurezza dei cittadini. L’azione dell’UE si
collocherà nel quadro degli sforzi multilaterali, compresa la commissione per il consolidamento della pace delle Nazioni
Unite, e mirerà a ristabilire il principio di titolarità e di partenariato.
• Taluni paesi in via di sviluppo sono particolarmente vulnerabili alle catastrofi naturali, ai cambiamenti climatici, al degrado
ambientale e agli shock economici esogeni. Gli Stati membri e la Comunità sosterranno la prevenzione delle catastrofi e
la preparazione a far fronte a tali situazioni in detti paesi, allo scopo di aumentarne la resilienza di fronte a queste sfide.
Il Consenso delinea un approccio comunitario basato su riforme di governo, stato di diritto, misure anticorruzione e sviluppo di
istituzioni sostenibili, nonché sul potenziamento delle capacità degli Stati fragili7. Il documento sottolinea inoltre come, all’interno
dell’UE, si percepisca il bisogno di migliorare l’efficacia e la coerenza dell’assistenza fornita ai paesi in via di sviluppo e auspica di
mantenere l’impegno, anche nei paesi in cui la situazione è più difficile, per impedire il fallimento degli Stati.
Il lavoro eseguito da altre istituzioni, quali la Banca mondiale e l’OCSE, ha contribuito a far sì che il pensiero e il dibattito politici
si concentrassero su come intervenire negli Stati fragili8. Sono state queste istituzioni e i singoli Stati membri dell’UE, più che la
Comunità europea e l’UE collettivamente, ad avere spesso impugnato le redini del dibattito politico. Alcuni Stati membri dell’UE
disponevano già di proprie politiche bilaterali in materia di Stati fragili, altri, invece, hanno avvertito l’esigenza di svilupparle
invocando ulteriori discussioni politiche a livello europeo9.
Durante la presidenza portoghese del 2007, e in seguito a una vasta consultazione con gli Stati membri, gli attori della società civile
e altre istituzioni comunitarie, l’Unione europea ha definito la base analitica e concettuale per gestire in modo più sistematico e
strategico la propria cooperazione con paesi e regioni che si trovano in situazioni di fragilità. Ciò ha portato all’adozione, nell’ottobre
2007, di una comunicazione della Commissione intitolata “Verso una risposta dell’Unione alle situazioni di fragilità: l’intervento in
circostanze difficili per lo sviluppo sostenibile, la stabilità e la pace”, seguita dalle conclusioni del Consiglio e da una risoluzione del
3
4
5
6
7
8
9
Vedere Visman 1998.
Solana 2003.
Il presente capitolo fa riferimento al documento informativo di Faria e Sherriff (2009) disponibile nel Volume 1B.
Estratti da Parlamento europeo, Consiglio, Commissione 2006.
Vedere paragrafo 20, Parlamento europeo, Consiglio, Commissione 2006.
Vedere la rete internazionale dell’OCSE in materia di conflitti e fragilità (http:www.oecd.org/dac/incaf) e Banca mondiale (http://www.worldbank.org/ieg/
licus/index.html).
Il DFID, ad esempio, ha già messo a punto un approccio specifico nei confronti della fragilità, basato, tra l’altro, sull’attenzione rivolta al potenziamento
istituzionale quale obiettivo centrale, sull’utilizzo di diverse modalità di fornitura degli aiuti, sulla collaborazione più stretta con i partner internazionali e su
un impegno a lungo termine per il conseguimento di risultati. Vedere DFID 2009, Libro bianco, capitolo 4.
110
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
Parlamento europeo sulla stessa questione nel novembre dello stesso anno10. Parallelamente, sempre a novembre 2007, il Consiglio
ha adottato le sue conclusioni in materia di “Sicurezza e sviluppo”11 in cui si affermava che “il nesso tra la sicurezza e lo sviluppo dovrebbe
permeare le strategie e le politiche dell’UE al fine di contribuire alla coerenza dell’azione esterna dell’UE”.
Sulla base di questi impegni politici, la Commissione e il segretariato generale del Consiglio proporranno, entro la fine del 2009,
un piano d’azione dell’UE12 per far fronte alle situazioni di fragilità e conflitto e delineeranno misure concrete su come potenziare
la risposta dell’UE nei confronti di tali situazioni in quattro settori di intervento prioritari: approccio unico dell’UE, potenziamento
statale, aumento della capacità di risposta ed efficacia dell’assistenza dell’UE e partenariati strategici internazionali.
1.1 I QUADRI POLITICI DELL’UE IN MATERIA DI FRAGILITÀ NELL’AFRICA SUBSAHARIANA
Le politiche comunitarie rivolte agli Stati fragili subsahariani possono essere divise in generale in tre linee di azione:
• Quadri politici trasversali che sanciscono i principi guida e gli obiettivi generali in materia di politica estera e di sviluppo dell’UE
e di impegno internazionale in ambiti che, seppur non specifici degli Stati fragili o dell’Africa, sono generalmente fondamentali
in situazioni di fragilità, quali lo sviluppo, la sicurezza e l’assistenza umanitaria.
• Quadri politici congiunti per l’Africa che, malgrado non riferiti specificamente agli Stati fragili, danno forma all’azione dell’UE negli
Stati dell’Africa subsahariana (come l’accordo di Cotonou13 e la strategia comune UE-Africa) e alle sue relazioni con questi paesi.
• Politiche e orientamenti politici della Comunità europea o dell’UE (non necessariamente specifici per l’Africa) incentrati su
situazioni di fragilità o riguardanti aspetti dell’azione comunitaria particolarmente pertinenti (quali le missioni di gestione delle
crisi, la riforma del settore della sicurezza, il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento, le armi leggere e di piccolo calibro,
la governance, la prevenzione dei conflitti, i bambini e i conflitti armati, la priorità e le politiche di sicurezza e di sviluppo e la
dimensione dello sviluppo della crisi economica e finanziaria)14.
Oltre a queste misure specifiche, altre politiche comunitarie in materia di commercio, migrazione, ricerca e innovazione, pesca e
agricoltura incidono almeno su alcuni aspetti della fragilità e interagiscono con le misure ad hoc. Pertanto, è fondamentale guardare
oltre il tradizionale contesto della politica estera e di sviluppo per appurare se queste politiche comunitarie siano coerenti con
l’approccio adottato nei confronti della fragilità e con il potenziamento della resilienza.
Sebbene l’UE abbia registrato dei progressi negli ultimi anni grazie alla sua leadership nell’ambito della coerenza delle politiche
per lo sviluppo, resta ancora molto da fare per comprendere l’effettivo impatto dell’incoerenza politica dell’UE sugli Stati fragili in
settori esterni alla politica estera e di sviluppo e, come riconosciuto dall’Unione stessa, per superare le divergenze di interessi tra
gli Stati membri e perseguire politiche comunitarie uniche più coerenti15.
La nuova impostazione strategica in direzione della coerenza delle politiche per lo sviluppo volta a evidenziare la promozione della
pace e della sicurezza per lo sviluppo e a contribuire all’istituzione di un quadro politico finalizzato a un approccio unico dell’Unione
nei confronti dello sviluppo si sta muovendo nella giusta direzione.
Inoltre, i membri dell’UE e la Commissione europea si sono impegnati a tener fede alla dichiarazione di Parigi del 2005 sull’efficacia
degli aiuti e al programma d’azione di Accra (AAA), i cui principi sono applicabili anche alle situazioni di fragilità, sebbene questi
debbano essere adattati a quei contesti caratterizzati da scarse capacità e/o titolarità (vedere riquadro 8.2)16. Questo programma
per l’efficacia degli aiuti è stato trasposto dall’UE in diverse iniziative, tra cui un quadro comune per la programmazione pluriennale
congiunta, meccanismi di attuazione comuni (cofinanziamento, missioni di donatori congiunti) e un “Codice di condotta in materia
di divisione dei compiti e complementarietà”17, sinora tradotti in pratica “alquanto parzialmente”18. In vista del quarto forum di alto
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Commissione delle Comunità europee 2007, Parlamento europeo 2007 e Consiglio dell’Unione europea 2007.
Consiglio dell’Unione europea 2007.
Il piano sarà basato sulle attività di follow-up relative a entrambe le serie di conclusioni del Consiglio che saranno mantenute separate durante l’intero processo.
Il lavoro relativo alle situazioni di fragilità si fonda su: 1) piani d’azione, studi e relazioni elaborati da 6 paesi pilota sotto la direzione congiunta di uno Stato
membro e della delegazione della Commissione europea in 4 casi: Sierra Leone (codirezione DE), Burundi (codirezione NL), Guinea Bissau (codirezione PT),
Haiti (codirezione F), Timor orientale e Yemen; 2) uno studio di sostegno finalizzato alla mappatura di attori, strumenti e mezzi di valutazione nelle situazioni
di fragilità; 3) il lavoro congiunto svolto da Commissione, BM, BAfS ed FMI in merito a un approccio comune al sostegno di bilancio in situazioni di fragilità
e 4) l’adozione di procedure flessibili in situazioni di crisi ed emergenza. Per le attività di follow-up sul nesso tra sicurezza e sviluppo, vedere in particolare
RELEX/Studies/IFS/Security and Development, Rapporto finale libri 1 e 2 (progetto n. 2008/157766). Lo studio ha esaminato il nesso tra sicurezza e sviluppo
in Aceh/Indonesia, Afghanistan, Repubblica centrafricana, Ciad, Colombia e Sud Africa ed è stato distribuito agli Stati membri dell’UE nel febbraio 2009.
L’accordo di Cotonou (CPA) tra l’Unione europea e i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) comprende tutti gli Stati dell’Africa subsahariana tranne
il Sud Africa.
Per un elenco completo dei documenti sulle politiche della Comunità europea e dell’UE in materia di fragilità si rimanda al Volume 1B.
Commissione delle Comunità europee 2009b.
Programma d’azione di Accra, 2008, 3° forum di alto livello, 2-4 settembre.
Consiglio dell’UE 2007.
Parlamento europeo 2009.
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livello sull’efficacia degli aiuti (HLF IV), che si terrà a Seul (Corea del Sud) nel 2011, è attualmente in fase di elaborazione un quadro
operativo teso a promuovere ulteriormente l’efficacia degli aiuti e gli approcci congiunti a livello comunitario in ambiti quali la
divisione dei compiti, l’uso di sistemi nazionali e la cooperazione tecnica per lo sviluppo delle capacità (persino in contesti di fragilità).
Riquadro 8.2: Disposizioni specifiche in materia di fragilità della dichiarazione di Parigi
sull’efficacia degli aiuti e programma d‘azione di Accra
DICHIARAZIONE DI PARIGI SULL’EFFICACIA DEGLI AIUTI
Adattamento e applicazione a paesi in situazioni diverse
• Potenziare l’efficacia degli aiuti è necessario anche in situazioni difficili e complesse, come nel caso del disastroso
tsunami che si è abbattuto sui paesi sulle sponde dell’Oceano Indiano il 26 dicembre 2004. In tali situazioni, l’assistenza
umanitaria e allo sviluppo mondiale deve essere armonizzata all’interno delle agende politiche dedicate alla crescita
e alla riduzione della povertà dei paesi partner. Negli Stati fragili, considerato il nostro sostegno al potenziamento
istituzionale e alla fornitura di servizi primari, faremo sì che i principi di armonizzazione, allineamento e gestione dei
risultati siano adattati ai contesti caratterizzati da governi e capacità deboli. In generale, rivolgeremo più attenzione a
queste situazioni complesse mentre ci adopereremo per raggiungere una maggiore efficacia degli aiuti.
Fornitura di aiuti efficaci negli Stati fragili
• La visione a lungo termine dell’impegno internazionale a favore degli Stati fragili è quella di creare istituzioni statali e
nazionali di altro genere legittime, efficaci e resilienti. Se è vero che i principi guida dell’efficacia degli aiuti sono applicabili
anche agli Stati fragili, questi dovranno tuttavia essere adattati a quei contesti caratterizzati da scarse capacità e titolarità
e in funzione delle esigenze immediate di fornitura di servizi primari.
I paesi partner si impegnano a:
• Compiere progressi nel potenziamento delle istituzioni e nella creazione di strutture governative in grado di assicurare
governance efficace, pubblica sicurezza, sicurezza nazionale e un accesso equo ai servizi sociali primari per i cittadini.
• Intavolare un dialogo con i donatori in merito all’elaborazione di semplici strumenti di pianificazione, quali la matrice
dei risultati transitori, in cui non siano ancora state messe a punto strategie di sviluppo nazionali.
• Incoraggiare un’ampia partecipazione di una serie di attori nazionali alla definizione delle priorità di sviluppo.
I donatori si impegnano a:
• Armonizzare le proprie attività. L’armonizzazione riveste un ruolo ancora più importante in assenza di una forte
leadership di governo e dovrebbe concentrarsi su aspetti quali analisi a monte, valutazioni congiunte, strategie comuni,
coordinamento dell’impegno politico e iniziative pratiche, come l’istituzione di uffici di donatori congiunti.
• Allinearsi nella misura del possibile alle strategie guidate dal governo centrale o, se ciò non fosse possibile, fare il miglior
uso dei sistemi nazionali, regionali, settoriali o non governativi.
• Evitare attività che minino il consolidamento delle istituzioni nazionali, come aggirare le procedure di bilancio nazionali
o fissare salari elevati per il personale locale.
• Utilizzare un’adeguata commistione di strumenti di aiuto, tra cui il sostegno al finanziamento ricorrente, in particolar
modo per i paesi in situazioni di transizione promettenti, ma ad alto rischio.
PROGRAMMA D’AZIONE DI ACCRA
Adatteremo le politiche di aiuto per i paesi che si trovano in situazioni di fragilità
Nella dichiarazione di Parigi abbiamo convenuto che i principi relativi all’efficacia degli aiuti si applicano parimenti alla
cooperazione allo sviluppo in situazioni di fragilità, anche per quei paesi reduci da conflitti, ma che tali principi devono essere
adattati a contesti caratterizzati da debolezza in termini di titolarità e capacità. Da allora sono stati approvati i principi per
un adeguato intervento internazionale negli Stati fragili e nelle situazioni di fragilità. Per continuare a migliorare l’efficacia
degli aiuti in tali contesti, intraprenderemo le seguenti azioni:
• I donatori eseguiranno valutazioni congiunte della governance e delle capacità ed esamineranno le cause di conflitti,
fragilità e insicurezza, coinvolgendo, nella misura del possibile, le autorità dei paesi in via di sviluppo e altri soggetti
interessati.
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Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
• A livello dei singoli paesi, i donatori e i paesi in via di sviluppo collaboreranno e converranno su una serie di obiettivi
realistici per la pace e il potenziamento istituzionale atti a intervenire sulle cause profonde dei conflitti e della fragilità
e concorrere ad assicurare la protezione e la partecipazione delle donne. Questo processo sarà ispirato da un dialogo
internazionale tra partner e donatori incentrato su tali obiettivi intesi come requisiti fondamentali per lo sviluppo.
• I donatori forniranno un sostegno allo sviluppo delle capacità mirato, coordinato e basato sulla domanda per quanto
attiene alle funzioni essenziali dello Stato e a una ripresa precoce e sostenuta. Essi, inoltre, collaboreranno con i paesi
in via di sviluppo per predisporre misure provvisorie adeguatamente armonizzate e in grado di condurre a istituzioni
locali sostenibili.
• I donatori lavoreranno alla definizione di modalità di finanziamento flessibili, rapide e a lungo termine, ove necessario
in modo condiviso, per i) fungere da ponte tra le fasi umanitarie, di ripresa e di sviluppo a lungo termine e per ii)
sostenere la stabilizzazione, una costruzione della pace inclusiva e la creazione di Stati capaci, responsabili e reattivi. In
collaborazione con i paesi in via di sviluppo, i donatori promuoveranno partenariati con il sistema delle Nazioni Unite,
le istituzioni finanziarie internazionali e altri donatori.
• A livello nazionale e su base volontaria, i donatori e i paesi in via di sviluppo monitoreranno l’attuazione dei principi
per un adeguato intervento internazionale negli Stati fragili e nelle situazioni di fragilità e condivideranno i risultati nel
contesto di relazioni di avanzamento sull’attuazione della dichiarazione di Parigi.
L’approccio della politica dell’UE nei confronti della fragilità si rifà in larga misura a buona parte di quelle che vengono ritenute le
migliori pratiche internazionali per gli Stati fragili: il perseguimento di approcci unici di governo e la messa in atto dell’impegno
politico e dei principi per un adeguato intervento internazionale negli Stati fragili e nelle situazioni di fragilità dell’OCSE dell’aprile
del 2007 (riquadro 8.3).
Riquadro 8.3: Principi OCSE/CAS per un adeguato intervento internazionale negli Stati
fragili e nelle situazioni di fragilità19
1. Prendere il contesto come punto di partenza.
2. Assicurare che nessuna attività sia nociva.
3. Concentrarsi sul potenziamento istituzionale quale obiettivo centrale.
4. Dare priorità alla prevenzione.
5. Riconoscere i legami tra gli obiettivi politici, di sicurezza e di sviluppo.
6. Promuovere la non discriminazione quale fondamento di società inclusive e stabili.
7. Allinearsi con le priorità locali in modi diversi in contesti diversi.
8. Convenire meccanismi di coordinamento concreti tra gli attori internazionali.
9. Agire con prontezza [...] ma mantenere l’impegno abbastanza a lungo da garantire una possibilità di successo.
10. Evitare la formazione di sacche di esclusione (“emarginazione dagli aiuti”).
Poiché all’interno dell’UE e a livello internazionale esistono già un ampio quadro politico e una serie di iniziative politiche relative
alla fragilità dello Stato, il problema non consiste tanto nella creazione di un nuovo quadro, quanto piuttosto nel superamento
delle sfide politiche, finanziarie e istituzionali per la messa in opera di tali politiche. Tra le questioni che richiedono l’adozione di
orientamenti operativi negli Stati fragili spiccano il sostegno al bilancio, il legame tra la costruzione della pace e il potenziamento
istituzionale, il commercio, il cambiamento climatico, la decentralizzazione, l’integrazione regionale, la fornitura di servizi e la
coesione sociale e di genere. In alcuni di questi ambiti sono già stati effettuati degli interventi, mentre in altri l’attuale politica
dell’UE fornisce soltanto scarsi orientamenti pratici. Inoltre, è importante che gli attuali quadri politici dell’UE siano sufficientemente
sperimentati sul campo in termini di praticabilità, rilevanza e impatto in diversi contesti di fragilità.
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Estratto tratto da OCSE/CAS 2007.
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1.2 STRUMENTI DELL’UE PER L’ATTUAZIONE DEL QUADRO POLITICO
Come riconosciuto dalla strategia europea per la sicurezza del 2003 e da una serie di altri documenti politici in materia, l’UE deve
raccogliere la sfida di riunire i suoi diversi strumenti e le sue varie capacità in uno sforzo concertato e coerente, non solo avvalendosi
degli strumenti comunitari, ma anche abbracciando le attività esterne degli Stati membri. Di seguito, elenchiamo alcuni strumenti
in funzione.
Orientamenti, piani d’azione e strategie specifiche. Come già detto, è attualmente in fase di elaborazione un piano
d’azione che definisce l’approccio dell’UE nei confronti della fragilità e dei conflitti. L’UE ha messo inoltre a punto strategie e piani
d’azione20 specifici su altre questioni, quali l’attuazione delle risoluzioni 1325 e 1820 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La risoluzione 1325 sulle donne, la pace e la sicurezza è stato il primo documento ufficiale del Consiglio di sicurezza dell’ONU a
riconoscere l’impatto dei conflitti armati sulle donne, a sottolineare l’importanza di una loro piena ed equa partecipazione ai fini
della pace e della sicurezza e a imporre a tutte le parti in conflitto il rispetto dei diritti delle donne (riquadro 8.4). La partecipazione
dell’UE alla risoluzione 1325 è stata promossa dal gruppo responsabile per le pari opportunità, la pace e la sicurezza dell’Ufficio
europeo di collegamento per la costruzione della pace allo scopo di fornire una sede di discussione ai politici e potenziare il dibattito
e la comprensione delle prospettive di genere e l’attuazione di tale risoluzione all’interno dell’UE.
Riquadro 8.4: Risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite
La risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, adottata il 31 ottobre 2000, contribuirà a far fronte alla disuguaglianza
di genere nelle situazioni post-belliche e a una costruzione della pace più equa sul piano delle pari opportunità. Tale risoluzione
impone alle parti in conflitto di rispettare i diritti delle donne e di sostenere la loro partecipazione ai negoziati di pace e alla
ricostruzione post-bellica21. Affronta specificamente, inoltre, la questione dell’impatto sproporzionato e unico della guerra
sulle donne e quella dello speciale contributo, sottovalutato e poco sfruttato, fornito dalle donne alla risoluzione dei conflitti
e alla pace sostenibile. Il documento invoca una piena ed equa partecipazione delle donne in veste di agenti attive di pace e di
sicurezza. La costruzione della pace è un processo continuo negli Stati intenti a fuggire dalla fragilità e la parità di trattamento
tra uomini e donne è fondamentale ai fini della promozione del buon governo, della trasparenza e dell’affidabilità.
ACCORD, il Centro africano per la risoluzione costruttiva delle dispute, si occupa della formazione di uomini e donne nel
campo delle abilità di risoluzione, negoziazione e mediazione dei conflitti per aiutarli a sottoporre i loro problemi, bisogni e
interessi ai tavoli di pace in Burundi, RDC, Guinea, Kenya, Liberia, Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Sud Africa, Sudan e Uganda.
Le Reti delle donne del fiume Mano per la pace (MARWOPNET) in Sierra Leone, Liberia e Guinea, firmatarie dell’accordo di
pace di Lomé, sono state insignite del premio per i diritti umani delle Nazioni Unite per il loro ruolo nei processi di pace nella
regione dell’Africa occidentale nel 2003. Le loro attività raccolgono la sfida di inserire le donne in posizioni di leadership
sociale, politica ed economica nei processi di costruzione della pace e di ricostruzione ed evidenziano l’importanza delle
convenzioni internazionali e delle risoluzioni dell’ONU22 nel sottolineare il ruolo delle donne nel mantenimento della pace
e della sicurezza nelle loro società23.
Per sortire un impatto più incisivo nell’ambito della protezione e del conferimento di responsabilità alle donne in contesti
post-bellici, l’UE deve attuare meccanismi di rendicontazione, monitoraggio e segnalazione più efficienti e incrementare le
risorse finanziarie e umane stanziate in questo settore di intervento24. Si dovrebbe inoltre tener conto del ruolo dei fornitori
consuetudinari di sicurezza e giustizia nei processi di riforma del settore della sicurezza dal momento che, in molti Stati
fragili, i servizi forniti in questo ambito non si estendono oltre il centro della capitale e le persone che vivono nelle zone
rurali o nelle baraccopoli periferiche fanno principalmente affidamento su una rete informale di fornitori di sicurezza.
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Ad esempio, i piani d’azione dell’UE sul cambiamento climatico e sullo sviluppo.
Anche la Commissione europea, l’UNIFEM e il Centro di formazione internazionale dell’OIL hanno dato forma a questo partenariato a sostegno di un’azione
più vigorosa a favore dell‘uguaglianza di genere e del conferimento di responsabilità alle donne nei processi di sviluppo nazionali e nei programmi di
cooperazione appoggiati dalla Comunità europea. Il partenariato, tra l’altro, rivolge attenzione a un’efficace attuazione della UNSCR 1325 e si concentra su
12 paesi, la maggior parte dei quali reduci da conflitti.
Convenzioni globali, risoluzioni dell’ONU e “African Protocol on Gender, Peace and Security” (Protocollo africano sulle pari opportunità, la pace e la sicurezza):
“Convention on the Elimination of all Forms of Discrimination against Women” (CEDAW, Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione
contro le donne) 1979; piattaforma d’azione di Pechino 1995; risoluzione 1265 dell’ONU sulla “Protezione dei civili nei conflitti armati” adottata il 17 settembre
1999; risoluzione 1261 dell’ONU su “Bambini e conflitti armati” adottata il 25 agosto 1999; risoluzione 1296 dell’ONU sulla “Protezione dei civili nei conflitti
armati” adottata il 19 aprile 2000; risoluzione 1314 dell’ONU su “Bambini e conflitti armati” adottata l‘11 agosto 2000; risoluzione 1325 dell‘ONU su “Donne,
pace e sicurezza” adottata il 31 ottobre 2000; “Donne 2000: parità, svilippo e pace per il 21° secolo”, New York, 5-9 giugno 2000; Protocollo sui diritti delle
donne in Africa, Maputo, 11 luglio 2003.
Gli Stati membri dell’UE forniscono esempi di buone prassi replicabili nei contesti di fragilità. Sono attualmente in corso piani d’azione nazionali (PAN) della
risoluzione 1325 in nove paesi europei (Austria, Danimarca, Islanda, Paesi Bassi, Norvegia, Regno Unito, Spagna, Svezia e Svizzera). I PAN vengono visti come
tentativi innovativi e strategie onnicomprensive volti a promuovere l’attuazione degli impegni internazionali. Per un‘analisi più dettagliata dei PAN, vedere
Sherriff e Barnes 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
Strumenti e procedure finanziari. Dinanzi alle attuali prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013, la Commissione europea
si è impegnata in una riforma dei propri strumenti finanziari di intervento esterno, comprendenti, tra gli altri, lo strumento per
la stabilità, lo strumento per il finanziamento della cooperazione allo sviluppo (che include linee di bilancio tematiche come il
programma “Attori non statali e autorità locali nello sviluppo”) e l’iniziativa europea per la democrazia e i diritti umani, oltre al
Fondo europeo di sviluppo quale strumento di cooperazione con i paesi ACP esterno al bilancio dell’UE. Per il periodo 2007-2013, la
dotazione dello strumento di stabilità ammonta a 2,1 miliardi di euro25. Per il 10° Fondo europeo di sviluppo a favore dei paesi ACP,
invece, sono stati stanziati 22,7 miliardi di euro per il periodo 2008–2013: il Fondo offre un quadro integrato per il finanziamento
delle attività di sviluppo e inerenti alla sicurezza26.
Riquadro 8.5: Il “FLEX vulnerabilità”
Nel 2009, l’UE ha adottato diverse misure per fornire sostegno ai paesi in via di sviluppo alle prese con gli effetti della crisi
economica e finanziaria del 2008/2009: tra queste vi è la creazione del meccanismo ad-hoc “FLEX vulnerabilità” (V-FLEX)27.
Si tratta di uno strumento a breve termine e basato sulla domanda a sostegno dei paesi ACP più vulnerabili e dotati di
scarsa capacità di resilienza, destinato a consentire loro di mantenere inalterate le priorità di spesa, soprattutto nei settori
sociali, nel 2009 e nel 2010. Il meccanismo V-FLEX può intervenire per fornire sovvenzioni nei paesi ACP in cui le istituzioni
finanziarie internazionali concedono prestiti insufficienti o non sono operative. L’aiuto fornito può assumere la forma di un
sostegno al bilancio (modalità preferita) o di una partecipazione a progetti/programmi già esistenti (soluzione di ripiego).
Per il periodo 2009-2010 è stato stanziato un importo di 500 milioni di euro per il V-FLEX. L’ammissibilità di un paese al
meccanismo dovrà essere decisa caso per caso sulla base dei criteri fissati dalla Commissione.
Il Fondo per la pace in Africa, creato nel 2003 in risposta a una richiesta avanzata dall’Unione africana, si avvale del Fondo europeo
di sviluppo per sostenere le operazioni di mantenimento della pace nel continente. Più di recente, la Commissione europea ha
partecipato attivamente a un lavoro strategico in materia di sostegno al bilancio in situazioni di fragilità (affiancata da diversi Stati
membri, dalla Banca mondiale, dalla Banca africana di sviluppo e dal Fondo monetario internazionale) teso a elaborare linee guida
e a potenziare il coordinamento a livello comunitario e internazionale. Come già accennato in precedenza, è prevista l’adozione
di un documento su un approccio comune (Common Approach Paper, CAP) a tale riguardo entro la fine del 2009. La Commissione,
inoltre, ha riesaminato le proprie procedure per renderle più flessibili in situazioni di fragilità.
Risorse umane. Sebbene la disponibilità di risorse umane adeguate per l’attuazione di tali politiche rimanga un problema nelle
capitali degli Stati membri UE, a Bruxelles e nell’Africa subsahariana, le delegazioni della Commissione europea hanno acquisito una
maggiore consapevolezza e sensibilità politica. Malgrado tali delegazioni siano ancora principalmente incentrate sulla gestione di
progetti/programmi di assistenza, ora la dimensione politica è diventata più importante ed è improntata a un maggiore impegno
nei confronti di un uso più efficace dello strumento del dialogo politico. Alcune delegazioni possono contare su consulenti politici
ed è aumentata anche l’attenzione rivolta alle questioni di governance, da tempo un tema assente nell’ambito delle politiche
comunitarie. Ciononostante, la maggior parte di queste delegazioni non è in grado di esaminare i fattori sociali potenzialmente in
grado di scatenare situazioni di instabilità e la mancata presenza in loco le impedisce di avere una piena comprensione delle questioni
pertinenti. A ciò si aggiungono la mancanza di una chiara strategia politica e di un mandato sostenuto da tutti gli attori dell’UE in
questo ambito, nonché l’incapacità di tradurlo in pratica. Il trattato di Lisbona dell’UE, se adottato, potrebbe fornire l’occasione
di accrescere e caldeggiare questa dimensione politica attraverso una nuova architettura istituzionale, ma la Commissione deve
intervenire anche su quei vincoli procedurali che spesso ostacolano la sua capacità di tradurre gli impegni politici in attività28.
Capacità di gestione delle crisi. L’UE ha sviluppato le proprie capacità anche nell’ambito della gestione delle crisi civili e
militari. Nel giugno 2003, nel quadro della PESD, l’UE ha spiegato la sua prima forza militare fuori dall’Europa senza ricorrere alla
NATO nella provincia di Ituri, in RDC. Gli obiettivi erano stabilizzare la situazione relativa alla sicurezza e migliorare le condizioni
umanitarie nella città di Bunia e nelle sue zone limitrofe. Tra il 2004 e il 2006, sempre nel contesto della PESD, l’UE ha inviato agenti
di polizia europei in RDC (EUPOL-Kinshasa) nell’ambito di una missione di consulenza per la riforma del settore della sicurezza e
ha appoggiato la missione EUFOR RDC, uno spiegamento di personale militare a Kinshasa e dintorni e nel vicino Gabon teso a
sostenere la MONUC al fine di stabilizzare la situazione durante le elezioni e proteggere i civili. Dal gennaio 2008 al marzo 2009,
l’UE ha spiegato una forza militare nel Ciad orientale e nella parte nordorientale della Repubblica centrafricana per proteggere i
civili in pericolo, facilitare la consegna di aiuti umanitari e tutelare il personale e le strutture dell’ONU.
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Per una più ampia trattazione di questo strumento particolare, vedere Gänzle 2009.
Purché non si tratti di costi per attacchi militari, dato che le attività del FES non possono coprire tali spese in conformità alla definizione di Aiuto pubblico allo
sviluppo convenuta internazionalmente.
Commissione delle Comunità europee 2009.
Le procedure della Commissione europea, ad esempio, impediscono alle delegazioni di assumere ricercatori locali per farsi assistere nell‘ambito di alcune di
queste analisi del contesto. Koeb (2008) suggerisce, ad esempio, di insistere sull‘assunzione di personale qualificato.
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Capitolo 8
La struttura trasversale a pilastri e la suddivisione delle competenze, tuttavia, limitano l’instaurazione di legami tra le diverse
politiche e i diversi strumenti e attori dell’UE29. Nel punto di incontro tra sicurezza e sviluppo, dove le operazioni di gestione delle
crisi militari e civili convergono con il potenziamento istituzionale, la prevenzione dei conflitti e lo sviluppo economico, originano
seri problemi di demarcazione dei poteri tra pilastri30. In seno alle istituzioni europee non vi è un consenso universale sul fatto che
un ufficio integrato del Consiglio e della Commissione sia la migliore strada da seguire in futuro31. Attualmente, si sta cercando di
collegare le capacità civili e militari dell’UE attraverso la ristrutturazione delle responsabilità all’interno del segretariato del Consiglio:
un tentativo, questo, che potrebbe interessare anche il lavoro svolto congiuntamente con la Commissione europea.
Tabella 8.1: Istituzioni e agenzie dell’Unione europea relative agli Stati fragili32
Commissione europea32
Consiglio dell’UE
Stati membri dell’UE
• CAGRE
Azione
diplomatica
• DG Relazioni esterne
• Alto rappresentante
• DG Commercio
• CPS
• DG Sviluppo e relazioni con
i paesi ACP (Africa, Caraibi e
Pacifico)
• PMG
• Ministeri degli Esteri
• Gruppi di lavoro del Consiglio
(COHOM, CODEV, CIVCOM e
gruppi di lavoro regionali)
• Ambasciate/missioni
• Delegazioni della Commissione
europea
• RSUE
• Segretariato del Consiglio
• DG Sviluppo e relazioni con
i paesi ACP (Africa, Caraibi e
Pacifico)
Programmi
multilaterali
e bilaterali
• DG Relazioni esterne
• Ministeri/agenzie per la
cooperazione allo sviluppo
• DG ECHO (aiuti umanitari)
• Agenzie di sviluppo operativo
• DG EuropeAid
• Ambasciate/missioni
• Delegazioni della Commissione
europea
Gestione
delle crisi
• DG Relazioni esterne
• Missioni PESD
• Contributi alle missioni PESD
2. IL POTENZIALE DELL’UE IN SITUAZIONI DI FRAGILITÀ
L’UE è un importante attore politico, economico e diplomatico. L’UE è il principale blocco
commerciale del mondo e, collettivamente, il principale donatore internazionale di aiuti. Come altri
rilevanti attori sulla scena internazionale, inoltre, l’Unione europea è una grande potenza economica. Può
mettere in moto la sua forza diplomatica tramite la politica estera e di sicurezza comune, per cui i 27 Stati
membri collaborano in vari paesi e forum internazionali quali l’ONU. L’UE presenta anche alcuni vantaggi
rispetto ad altre organizzazioni internazionali in termini di approccio nei confronti della fragilità: l’ampia
gamma delle sue azioni potenziali, la possibilità di mobilitare risorse e il suo status di attore politico.
Inoltre, la storia stessa dell’UE, con la transizione dalla dittatura alla democrazia in alcuni dei suoi paesi
e da sistemi regolamentati a sistemi di mercato, rappresenta un’esperienza di valore inestimabile a cui
attingere.
L’impegno dell’UE con gli attori statali e non statali. L’Unione europea ha la capacità di assumere impegni con un’ampia
gamma di attori diversi dai governi, tra cui le autorità locali, gli attori non statali e le organizzazioni regionali, che contribuiscono
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31
32
Solana 2009.
Hoffmeister 2008.
Vogel 2009.
Le istituzioni rivestono ruoli diversi all’interno di ciascuno di questi ambiti e la Commissione europea non può avviare azioni diplomatiche a livello comunitario.
116
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
con diversi punti di vista alla comprensione da parte dell’UE del contesto locale, alimentano il dialogo politico con i governi e
aumentano la portata delle sue politiche. Tale potenziale, tuttavia, spesso non viene sfruttato a causa della complessità delle
procedure comunitarie e delle capacità limitate di alcuni degli attori33.
La prolungata presenza dell’UE. Grazie ai suoi Stati membri o alle delegazioni della Commissione europea, l’UE vanta una
lunga presenza nei paesi che si trovano in situazioni di fragilità. Persino in situazioni di conflitti aperti violenti, quando restano solo
pochi attori internazionali, l’Unione continua a mantenere una qualche sorta di presenza e sostegno tramite le delegazioni o gli
esperti operativi dell’Ufficio umanitario della Commissione europea (ECHO). In effetti, il fatto che la Commissione (tramite l’ECHO)
sia stata l’unico donatore sempre presente nella parte orientale dell’RDC nel corso dei primi anni di questo decennio le ha fornito
un vantaggio significativo rispetto ad altri donatori. L’UE, inoltre, ha guidato la prima missione di gestione della crisi mai condotta
in Africa (senza ricorrere a mezzi della NATO) a sostegno dell’operazione Artemis dell’ONU a Bunia (RDC nordorientale) nel 2003.
L’UE può creare partenariati globali. L’UE non è l’unica potenza economica, politica o militare coinvolta in Africa o che ne ha
cuore i suoi interessi34. La capacità dell’Unione di instaurare un vero e proprio dialogo trilaterale con Cina e Africa è stata messa a
dura prova dal fatto che pochi attori africani ritengono che tale dialogo sia nel loro interesse. In alcuni casi, l’UE dispone di capacità
uguagliate o superate da altri, ma la sua natura non egemonica, purché percepita come tale, potrebbe essere un plusvalore per la
sua presenza e la sua azione. Inoltre, l’UE può agire collettivamente con un bagaglio politico significativamente inferiore rispetto
a quello dei suoi singoli Stati membri, soprattutto quelli con un passato coloniale nell’Africa subsahariana. Fino a quando non
vedranno i singoli Stati membri perseguire i loro propri ristretti interessi economici e di sicurezza attraverso l’UE, i paesi partner
potrebbero essere più propensi ad assumere impegni con l’Unione e ad accettarla quale potenza in seno all’ONU. È importante,
tuttavia, essere realistici e non sopravvalutare l’influenza dell’UE in Africa: il suo ruolo effettivo potrebbe essere meno incisivo di
quanto si pensi e ciò, in parte, è dovuto al fatto che l’UE spesso non viene percepita come un’entità collettiva dai paesi partner, né
si comporta in quanto tale, assumendo un ruolo o intraprendendo un’azione generalmente inferiori alla somma delle sue parti.
L’UE dovrebbe esprimersi con una sola voce e agire in modo univoco. Il valore aggiunto dell’UE continuerà a non essere
sfruttato appieno fino a quando la Commissione europea e gli Stati membri dell’UE non agiranno e si esprimeranno con un’unica
voce (condividendo una strategia e un’idea comune su come procedere in tali contesti) e non opereranno un’incisiva suddivisione
dei compiti in grado di spingersi oltre l’agenda dell’efficacia degli aiuti. Come già detto, sono in corso diverse iniziative, tra cui il
prossimo piano d’azione sulle situazioni di fragilità e conflitto. La questione consiste nel comprendere in che modo l’ampia gamma
di politiche e strumenti, nonché i diversi attori dell’UE, siano collegati tra loro al fine di sviluppare e applicare una strategia coerente,
adeguatamente informata e basata sulle necessità in grado di aiutare al meglio questi Stati e queste società ad affrontare le cause
e gli effetti della fragilità e ad accrescere la loro resilienza.
Se è vero che il coordinamento e la coerenza dell’UE sono spesso difficili da conseguire a livello nazionale all’interno delle
amministrazioni degli Stati membri, tali aspetti si rivelano persino più complessi a livello comunitario (con 27 Stati membri, le
istituzioni dell’UE, la verbosità e la lentezza del processo decisionale e la macchinosità delle procedure interne e finanziarie).
Ciononostante, l’UE può conseguire risultati agendo come un unico attore in presenza di un’abile leadership e di una forte volontà
politica. La politica dell’UE in RDC, a metà degli anni Novanta, viene spesso considerata un esempio lampante di unità di intenti
e di impegni in seno alle istituzioni dell’UE (Stati membri compresi) a sostegno della stabilizzazione del paese. Tuttavia, affinché
questo risultato unificato sia di carattere più permanente, sono necessari accordi istituzionali più stabili. Non è possibile attuare
una politica a lungo termine unificata tramite un coordinamento creato ad hoc.
3. PER UNA RISPOSTA COMUNITARIA MIGLIORE ALLA FRAGILITÀ
Sebbene i progressi siano visibili e i documenti politici forniscano orientamenti più esaustivi, c’è
ancora molta strada da percorrere per tradurre gli impegni nella pratica. Le procedure e gli strumenti
finanziari, che pure sono diventati più semplici e flessibili, rimangono in ogni caso troppo complessi,
ingombranti, verbosi e poco intuitivi per gli attori non statali. Ciò vale anche per gli aiuti umanitari, che
peraltro beneficiano delle procedure più semplici seguite nella Commissione europea. La Commissione
e il Consiglio continuano a contendersi gli ambiti di competenza: sebbene la creazione di un servizio di
intervento esterno comune potrebbe fornire alcune risposte (se il trattato di Lisbona dell’UE sarà ratificato),
si rende necessario un lavoro essenziale molto più approfondito35.
33
34
35
Vedere Particip 2008.
Vedere Tadesse 2009.
Vedere Koeb 2008 per le implicazioni del trattato di Lisbona per quanto attiene alle relazioni dell’UE con i paesi in via di sviluppo. Nel contesto dell’approvazione
del trattato, Gaves e Maxwell (2009) propongono modelli organizzativi diversi per la ristrutturazione della politica di sviluppo dell’UE.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 8
Le politiche di sviluppo devono collegarsi alla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e alle missioni (gestione delle crisi civili e
militari) della politica europea di sicurezza e di difesa (PESD), e viceversa. Ciò è essenziale soprattutto nei casi in cui le problematiche
(diritti umani, stato di diritto) e le attività [riforma del settore della sicurezza (RSS) e disarmo, smobilitazione e reinserimento (DDR)]
di natura trasversale possono rivelarsi tanto importanti quanto i tradizionali ambiti di intervento della politica estera dell’UE (o
persino più rilevanti). Inoltre, anche il fatto che le probabilità di un incontro sul campo tra attori umanitari e militari siano maggiori
pone altre sfide relative alla percezione della diversità dei loro ruoli, alla chiarezza dei loro mandati e all’adeguatezza dei loro mezzi.
Finora, poi, non è stata affrontata realmente nemmeno la questione dei collegamenti esistenti tra sviluppo, sicurezza e ambiente,
malgrado questo punto sia oggetto di una crescente attenzione, soprattutto nell’Africa centrale (regione dei Grandi Laghi compresa).
I fattori che determinano il cambiamento sono primariamente locali: i donatori e le loro politiche possono essere di aiuto, di
intralcio o del tutto ininfluenti, ma spetterà sempre agli attori locali stabilire se e in che modo operare un cambiamento. È pertanto
importante che i ruoli e le attività dell’UE affondino le loro radici in ogni contesto specifico (in conformità con i principi OCSE/CAS).
Ciò presuppone una conoscenza e una comprensione delle dinamiche locali e regionali da un punto di vista antropologico, storico,
socioeconomico e politico. Pertanto, urge un impegno politico molto più sostenuto, anziché uno sforzo di carattere tecnocratico.
3.1 COLMARE IL DIVARIO TRA LA COMPRENSIONE DEL CONTESTO E UNA RISPOSTA POLITICA
ADEGUATA
Le recenti azioni politiche intraprese dall’UE, in particolare nel contesto delle situazioni di fragilità, sono state caratterizzate da uno
sforzo rinnovato volto a comprendere le dinamiche locali, a individuare le cause di (potenziale) conflitto e a elaborare strategie
per i paesi interessati alimentate da un’analisi politica, sociale, economica e regionale adeguatamente informata e frutto di più
fonti36. Spesso si dà un’analisi comune del contesto da parte della Commissione europea e degli Stati membri dell’UE e le strategie
per i singoli paesi elaborate dalla Commissione europea sono generalmente basate sulle necessità e sulle priorità individuate
nei documenti strategici, incrementando così il potenziale della titolarità. La misura in cui tale analisi è elaborata sulla scorta di
informazioni fornite da diverse fonti locali non è tuttavia sempre evidente, né, tanto meno, vi è una profonda comprensione riguardo
agli attori locali (boicottatori, promotori del cambiamento), alle loro motivazioni e all’evoluzione delle dinamiche sociali. Ciò può
essere parzialmente spiegato dalla necessità degli Stati membri dell’UE di mantenere un certo margine di manovra politica. Inoltre,
condividere una stessa visione del contesto non equivale ad affermare che i vari attori (sul campo, nelle capitali dell’UE o partner
locali) condividano la stessa strategia politica e operativa.
L’UE ha stentato a collegare una migliore analisi di economia politica alle strategie e alla programmazione. Alcuni ritengono che
ciò sia imputabile alla frequente divergenza dei dati disponibili o alla necessità di fare scelte politiche che l’UE (o il suo partner)
non vuole o non può operare: in Kenya, ad esempio, molti dei donatori non hanno reagito né adattato le proprie strategie fino agli
episodi di violenza politica del 2007, e questo malgrado i segnali d’allarme degli ultimi anni.
3.2 NECESSITÀ DI UN PRINCIPIO CALIBRATO DELLA TITOLARITÀ
In molti Stati fragili la legittimità ha vita breve anche quando il governo viene eletto per mezzo di un processo elettorale giusto e
libero: un evento che, in un contesto simile, costituisce un traguardo già di per sé. Le capacità del governo sono in genere di gran
lunga superate dalla mole dei bisogni manifestati. Il controllo governativo, ad esempio, spesso si limita soltanto ad alcune parti del
paese, senza estendersi ai perpetratori di violenza (talvolta persino all’interno delle strutture statali) e le politiche nazionali non
sono sempre presenti o adeguatamente definite. Ciononostante, le politiche di sviluppo dell’UE spesso sembrano presupporre
la presenza di un governo funzionante come interlocutore e partner legittimo. Sono perciò necessari approcci più creativi per
coinvolgere gli attori locali e regionali in qualità di partner in iniziative comunitarie di titolarità congiunta, il che rappresenta un
traguardo impegnativo da raggiungere.
I recenti interventi in Somalia illustrano la capacità e la volontà dell’UE di trovare strategie alternative a un’impostazione del dialogo
e delle relazioni quasi esclusivamente “da Stato a Stato”, per spingersi oltre una visione di titolarità “limitata al governo o allo
Stato” di questo tipo. Per quanto la strategia dell’UE possa non essere la soluzione a lungo termine auspicata per il potenziamento
istituzionale, l’Unione europea ha continuato a canalizzare gli aiuti, a sostenere la fornitura di servizi primari attraverso gli attori
della società civile e a promuovere i partenariati tra governo locale e società civile. L’UE potrebbe quindi basarsi su questo esempio
per rivedere e restringere l’applicazione del principio della titolarità e il suo rapporto con la società civile degli Stati fragili.
36
A tal riguardo, vedere il secondo paragrafo (pagg. 3-5) del “dossier di seduta”: Sintesi dei principali lavori politici in materia di fragilità attualmente in corso a
livello comunitario, Bruxelles, Commissione delle Comunità europee 2009a.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
3.3 COERENZA E COORDINAMENTO DELLE POLITICHE
Gli sforzi per raggiungere una maggior coerenza devono puntare alla costruzione di una visione e di una strategia politica comuni a
tutte le istituzioni dell’UE e a tutti gli attori chiave del settore, per stabilire in che modo devono essere affrontate le principali sfide,
quali sono le priorità e come bisogna intervenire nei confronti di chi e a che scopo, nell’eventualità di governi riluttanti e difficoltà
di governance. La leadership e il compromesso non sono così scontati come in altri contesti. Il concetto di coordinamento nel
settore consiste ancora soprattutto nel non invadere troppo il campo degli altri e nel costruire sinergie fra le attività dei donatori.
Un’efficiente divisione dei compiti all’interno della comunità dei donatori in aree più strettamente politiche della cooperazione allo
sviluppo appare peraltro meno appetibile (appare più facile compiere progressi nell’istruzione che offrire sostegno alla governance).
In particolare, si tende ancora a lasciare da parte le questioni politiche più spinose in qualsiasi intervento di coordinamento,
specialmente nei casi di scarsa governance e di governi piuttosto forti, ma riluttanti: la conseguenza è una mancanza di strategie
politiche chiare per affrontare ogni singola situazione di fragilità. Ciò deriva in parte dalla diversità delle culture e delle agende
politiche della Commissione europea e degli Stati membri dell’UE, e in parte dall’interazione fra chi lavora sul campo e i “quartieri
generali” (Bruxelles e/o le capitali), che risente di una scarsa chiarezza circa il ruolo dei primi, sia nel processo decisionale sia come
attore politico. Un nuovo Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dotato di maggiori poteri, nonché vicepresidente della Commissione europea, e un nuovo servizio diplomatico di proprietà comune (il Servizio europeo per l’azione
esterna, proposto dal Trattato di Lisbona) potrebbero apportare cambiamenti positivi rispetto ad alcune carenze dell’UE nella
coerenza e nel coordinamento. Tuttavia, il suo possibile ruolo nella trasformazione non va sopravvalutato.
Riquadro 8.6: La PAC dell’UE e la sicurezza alimentare negli Stati fragili africani
di Alan Matthews, Institute for International Integration Studies, Trinity College, Dublino, Irlanda
La politica agricola comune (PAC) dell’Unione Europea è stata aspramente criticata per i suoi effetti deleteri sulla sicurezza
alimentare nei paesi africani. Le critiche riguardano il modo in cui i prodotti agricoli dell’UE oggetto di sovvenzioni
indeboliscono i mercati locali per i produttori nazionali e competono con le esportazioni africane sui mercati di paesi terzi,
nonché il fatto che le barriere commerciali rendono più difficile, per i produttori africani, esportare sui mercati dell’UE.
Alcune ONG hanno prodotto case study sui danni causati alla produzione locale dalle esportazioni UE di latte in polvere,
zucchero, conserve e concentrato di pomodoro, carni bovine e cotone oggetto di sovvenzioni, nonché della vendita di
pollame surgelato37. Si teme che i requisiti di liberalizzazione degli APE possano esporre i settori agricoli vulnerabili a
ulteriore concorrenza da parte delle importazioni di aziende agroalimentari dell’UE38.
L’impatto della PAC sulla sicurezza alimentare va valutato alla luce delle significative riforme operate sui suoi regimi di
mercato in anni recenti. Anche le condizioni di accesso al mercato sono radicalmente mutate, grazie ai nuovi regimi di
scambi agricoli validi per i paesi africani. Occorre inoltre riconoscere la diversità delle economie africane vulnerabili,
spesso altamente specializzate in un numero ridotto di esportazioni agricole e dipendenti dalle importazioni alimentari
per soddisfare il proprio fabbisogno alimentare. In questi paesi, le risorse alimentari dell’UE influiranno in modo diverso
sui produttori e sui consumatori.
Il commercio agricolo dell’UE con l’Africa subsahariana si presenta in modo altamente differenziato: l’UE importa
principalmente cacao e prodotti derivati dal cacao, banane, caffè, zucchero di canna, tabacco, cotone e ortofrutticoli,
mentre esporta soprattutto frumento, farina, preparazioni alimentari, zucchero bianco, latte in polvere, malto e
pollame surgelato. La riforma della PAC ha ridotto il sostegno ai prezzi di mercato per la maggior parte dei prodotti
di base di origine comunitaria, continuando però a offrirlo ai redditi agricoli attraverso pagamenti diretti ampiamente
disaccoppiati. Pertanto, i prezzi di intervento per cereali, carni bovine, prodotti lattiero-caseari, zucchero e riso sono
stati significativamente ridotti. I pagamenti diretti disaccoppiati per tabacco e ortaggi trasformati e, in parte, per la
produzione del cotone sono stati invece eliminati. La dipendenza dalle sovvenzioni alle esportazioni è stata notevolmente
ridotta, benché siano state reintrodotte sovvenzioni alle esportazioni delle carni suine e avicole nel 2008 e dei prodotti
lattiero-caseari nel 2009. L’UE, tuttavia, si è impegnata a eliminare le sovvenzioni alle esportazioni dopo il 2013 e non
ha introdotto tasse sulle esportazioni di cereali durante la crisi alimentare del 2007-2008, come già aveva fatto durante
la precedente impennata dei prezzi, nel 1995-1996.
Minori sono stati i progressi per quanto attiene alla riduzione della protezione alle frontiere per la produzione agricola
dell’UE. I prelievi variabili all’importazione sono stati convertiti in tariffe fisse all’importazione e ridotti in media del 36%
37
38
Paasch 2008; Oxfam 2002.
Bertow e Schulteis 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 8
nel corso dell’Uruguay Round. Le tariffe agricole rimangono però elevate, in media al 20%, e molto più alte per prodotti
specifici come carni bovine, zucchero, banane e prodotti lattiero-caseari. Vi è anche prova di una scalata delle tariffe nella
struttura tariffaria dell’UE, in cui l’aumento va di pari passo con il grado di trasformazione.
D’altro canto, i paesi africani godono di un accesso preferenziale al mercato agricolo dell’UE: tutti i paesi africani meno
sviluppati usufruiscono infatti di un accesso DFQF, a parte un regime transitorio per lo zucchero che verrà gradualmente
introdotto entro il 2015. L’accesso DFQF è stato inoltre esteso ai paesi africani che non rientrano fra quelli meno sviluppati e
che hanno siglato APE interinali con l’UE, i quali concedono maggiori opportunità di accesso al mercato, specialmente per le
banane e, al termine di un periodo di transizione, per lo zucchero. Le norme d’origine previste nell’ambito degli APE offrono
un certo grado di flessibilizzazione e semplificazione per i prodotti agricoli e i prodotti agricoli trasformati, consentendo
agli agricoltori e ai produttori africani di esportare più facilmente nel mercato comunitario. L’accesso DFQF evita anche la
discriminazione contro la trasformazione a valore aggiunto dovuta alla scalata delle tariffe. I paesi africani che non rientrano
fra quelli meno sviluppati e che non hanno firmato APE possono servirsi del sistema delle preferenze generalizzate (SPG),
anche se le preferenze tariffarie sui prodotti PAC inclusi in questo accordo sono molto limitate.
Paradossalmente, la riforma della PAC riduce il valore di questo accesso preferenziale al mercato ed erode le rendite che gli
esportatori africani possono ottenere. L’accesso esteso per lo zucchero è stato ad esempio accompagnato dall’abbandono
del protocollo sullo zucchero, che assicurava un prezzo garantito dall’UE alle esportazioni africane di zucchero verso
l’Unione entro quote preassegnate. La riduzione dei prezzi d’intervento e delle tariffe ha diminuito la redditività del
mercato comunitario per gli esportatori africani di riso, zucchero, banane, carni bovine e ortofrutticoli39. Così, nell’ambito
dei negoziati commerciali del Doha Round dell’OMC, i paesi africani hanno richiesto scadenze prolungate per le riduzioni
tariffarie proposte per prodotti sui quali le preferenze sono rilevanti.
L’UE, riconoscendo che la riforma della PAC può provocare difficoltà di adeguamento ai paesi africani a causa dell’erosione
dell’accesso preferenziale, ha reso disponibili aiuti finanziari per contribuire a migliorare la competitività e assistere la
diversificazione. Le misure di accompagnamento per i paesi del protocollo sullo zucchero, con uno stanziamento indicativo
di 1,28 miliardi di euro per il periodo 2006-2013, sostengono i processi di adeguamento in 18 paesi ACP produttori di
zucchero. Al fine di promuovere l’adeguamento, nell’ambito della Disciplina speciale per l’assistenza agli esportatori ACP
di banane sono stati erogati oltre 450 milioni di euro nel periodo 1994-2008. L’UE e gli Stati membri sostengono inoltre
il partenariato UE-Africa per il settore del cotone dal 2004, e hanno destinato più di 300 milioni di euro a programmi e
progetti in materia di cotone.
Sono stati dunque compiuti notevoli progressi nel rendere la politica agricola dell’UE più coerente con gli obiettivi di sviluppo
e di sicurezza alimentare delle economie africane vulnerabili40. Ma i paesi continuano a esprimere timori sui potenziali effetti
avversi delle esportazioni alimentari dell’UE verso l’Africa nel contesto della reciproca liberalizzazione richiesta dagli APE.
Uno dei principali scopi della riforma della PAC è rendere più competitive le esportazioni dei prodotti agricoli dell’UE, ma
la stessa UE ha assicurato ai vari paesi che l’asimmetria della liberalizzazione insita in questi accordi potrà essere utilizzata
per escludere dalla liberalizzazione la maggior parte delle tariffe sui prodotti agricoli europei o per assoggettarli a lunghi
periodi di transizione (fino a 25 anni).
La riforma della PAC proseguirà, grazie al vivace dibattito sulla natura e sulla giustificazione dei pagamenti disaccoppiati
nell’UE, in particolare nel periodo successivo al 2013, e all’impegno a raggiungere un accordo sull’ulteriore liberalizzazione
del commercio agricolo nel Doha Round. Ciò stimolerà un livello più elevato di importazioni di prodotti di base nell’UE,
rafforzando al tempo stesso la competitività del settore dei prodotti alimentari trasformati dell’UE. Per le economie africane
fragili questo processo comporterà sia minacce sia opportunità, che devono però essere relativizzate. Nonostante l’alto
profilo dei dibattiti sull’impatto della PAC sui paesi africani, specialmente in Europa, la sicurezza alimentare africana in
Africa continua a dipendere principalmente dalle politiche e dagli investimenti agricoli nazionali.
3.4 LE POLITICHE COMMERCIALI DELL’UE NEI CONFRONTI DEGLI STATI FRAGILI
Ai sensi del CPA, il quadro delle politiche commerciali con l’Africa subsahariana si basa sugli accordi di partenariato economico
(APE) negoziati fra l’UE e sei regioni ACP allo scopo di dare slancio al commercio e allo sviluppo e contrastare l’emarginazione dei
paesi ACP. A Cotonou si è anche concordato che gli APE dovranno essere compatibili con le norme dell’OMC. Sebbene in tali norme
esistano margini per stabilire deroghe a favore dei paesi in via di sviluppo e soprattutto dei paesi meno sviluppati (PMS), non vi
39
40
Low et al. 2009.
Matthews 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
sono disposizioni specifiche per gli Stati fragili o le situazioni di fragilità. La capacità e lo spazio di manovra dell’UE nell’adattamento
o nella messa a punto di tali disposizioni nel settore del commercio risultano quindi alquanto limitati dai suoi attuali impegni
internazionali (pur rimanendo possibili).
Alcuni analisti hanno affermato che, “oltre a non essere un rimedio immediato per la crisi, gli APE potrebbero aggravare ulteriormente
le difficoltà incontrate da alcuni paesi africani, a meno che non si introduca un certo grado di flessibilità nel processo dei negoziati
APE e non vengano tempestivamente adottate e implementate misure adeguate di sostegno allo sviluppo”41. Le misure di aiuto al
commercio dell’UE potrebbero consentire di adattarsi in qualche misura alle specificità degli Stati fragili, o almeno garantire che la
loro capacità commerciale e la loro resilienza siano accresciute, e non pregiudicate, dagli impegni assunti in tali accordi commerciali.
Riquadro 8.7: Aiuti al commercio
L’UE è uno dei principali fornitori di aiuti al commercio, un’iniziativa di ampio respiro che comprende l’assistenza volta
alla promozione del commercio e allo sviluppo di politiche commerciali, nonché alla realizzazione di infrastrutture legate
al settore. Pertanto, benché non sia specificamente rivolta agli Stati fragili, l’iniziativa li riguarda, considerate le loro
caratteristiche strutturali.
La dichiarazione ministeriale dell’OMC di Hong Kong (2005), che invocava aiuti maggiori e migliori per il commercio, ha
avviato un processo volto ad aiutare i paesi a basso reddito a superare i limiti strutturali e le debolezze che ne inficiano la
capacità di competere e trarre il massimo beneficio dalle opportunità di commercio e di investimento. Nel 2007, il Consiglio
dell’UE ha adottato una strategia comunitaria in materia di aiuti al commercio, un’iniziativa congiunta della Comunità e
degli Stati membri. I suoi obiettivi sono “consentire ai paesi in via di sviluppo, e in particolare a quelli meno sviluppati
(PMS), di utilizzare gli scambi commerciali in modo più efficace per promuovere la crescita, l’occupazione, lo sviluppo e la
riduzione della povertà, nonché per conseguire i propri obiettivi di sviluppo”42. La strategia prevede un aumento dei fondi
specifici per l’assistenza in campo commerciale (ACC) fino a 2 miliardi di euro all’anno entro il 2010 e intende concentrare
maggiormente l’attenzione sui poveri, aumentare la capacità dell’UE e degli Stati membri in linea con i principi di efficacia
degli aiuti, sostenere il processo di integrazione regionale dei paesi ACP e monitorare gli impegni.
Per quanto attiene all’impegno dell’UE di erogare 2 miliardi di euro all’anno per l’ACC entro il 2010, nuovi dati indicano che
l’impegno comunitario collettivo è stato quasi onorato nel 2007, anno in cui l’impegno degli Stati membri e della Comunità
è stato pari, rispettivamente, a 0,96 e 1,02 miliardi di euro: il sostegno complessivo dell’UE nel 2007 ha quindi raggiunto gli
1,98 miliardi di euro, con un aumento dell’8% rispetto al 2006, quando l’ACC comunitaria totale era stata di 1,83 miliardi.
Rispetto al programma generale degli aiuti al commercio, il sostegno totale dell’UE ha raggiunto i 7,17 miliardi di euro
nel 2007, di cui l’Africa riceve la percentuale maggiore: 2,7 miliardi di euro nel 2007 e il 44% di tutti gli aiuti al commercio
dell’EU nel periodo 2005-200743.
La logica alla base degli aiuti al commercio, vale a dire aiutare i paesi in via di sviluppo a collegarsi con il mercato globale,
è importante, perché affrontare le questioni interne e i vincoli infrastrutturali è un obiettivo a lungo termine, essenziale
per la riduzione della povertà. Inoltre, stante la congiuntura negativa del 2009, gli aiuti al commercio possono avere un
effetto incentivante immediato.
Ciò che manca in molti Stati fragili non sono tanto gli scambi di merci, che sono prevalentemente informali e dirottano su di sé
entrate pubbliche preziose, ma istituzioni in grado di assicurare l’attuazione delle politiche e degli accordi commerciali. Gli Stati fragili
dell’Africa subsahariana devono fronteggiare molte barriere interne (mancanza di conoscenze, eccessiva burocrazia, finanziamenti
insufficienti, infrastrutture inadeguate) che causano difficoltà nell’effettuare scambi e, di conseguenza, nel beneficiare appieno degli
aiuti al commercio. Questo vale soprattutto per i paesi dell’Africa centrale, che a causa della loro posizione geografica rischiano di
diventare “orfani degli aiuti al commercio” e di essere ulteriormente emarginati dal processo di globalizzazione.
Anche se sarebbe possibile adottare altre misure creative nell’ambito del commercio, in generale l’UE mostra di avere possibilità
limitate di adeguare la propria politica commerciale al fine di renderla più sensibile alle situazioni di fragilità. Considerando le
ripercussioni dell’attuale crisi finanziaria, alcuni sostengono che “taluni elementi degli APE vanno evidentemente rivisti con
urgenza”44.
41
42
43
44
Bilal et al. 2009, pag. 1.
Commissione delle Comunità europee 2007, pag. 3.
Commissione delle Comunità europee 2009, pag. 3.
Jones 2009, pag. 7.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 8
Riquadro 8.8: Accordi di partenariato economico
Gli accordi di partenariato economico (APE) sono accordi asimmetrici che coprono non soltanto gli scambi di beni e servizi,
ma anche le questioni interne, come la concorrenza, gli appalti pubblici, la proprietà intellettuale e la facilitazione del
commercio, e incentivano l’integrazione regionale uniti agli aiuti. Secondo l’accordo di Cotonou, l’obiettivo è potenziare
la cooperazione in tutti i settori relativi agli scambi commerciali e favorire lo sviluppo sostenibile nei paesi ACP. Gli APE
dovrebbero essere orientati allo sviluppo, approfondire l’integrazione regionale, migliorare l’accesso al mercato dell’UE per i
prodotti dei paesi ACP e accrescere la cooperazione su questioni legate ai servizi e agli scambi. Migliorando la competitività,
gli APE dovrebbero favorire l’integrazione dei paesi ACP nell’economia globale e promuoverne la crescita economica.
Inizialmente, gli APE prevedevano sei raggruppamenti regionali ACP, in seguito divenuti sette con la CAO, cinque dei quali
nell’Africa subsahariana45. In un APE fra l’UE e un raggruppamento regionale, quest’ultimo negozia come blocco unitario,
benché l’accordo sia firmato bilateralmente. I paesi ACP non PMS che non intendono impegnarsi in un APE possono
comunque accedere all’UE mediante il sistema delle preferenze generalizzate46, che tuttavia è meno favorevole. I risultati
provvisori del processo APE47 sono stati oggetto di un vivace dibattito nella letteratura economica e politica48.
Molti studi sottolineano l’incertezza dei loro risultati49. Per alcuni paesi, gli APE interinali hanno scarse probabilità di generare
proventi significativi dagli scambi, perché i paesi ACP possono soddisfare una quota notevole degli sforzi di liberalizzazione
richiesti dagli APE senza compromettere in buona misura il proprio regime di protezione attuale50.
Sul piano della fragilità e del potenziamento istituzionale, una questione importante riguarda l’impatto potenziale degli
APE sulle entrate tariffarie dei paesi dell’Africa subsahariana. Data l’importanza delle imposte commerciali per le entrate
pubbliche dei paesi africani, una riduzione delle entrate tariffarie associata alla liberalizzazione degli scambi reciproci
potrebbe ridurre la capacità di soddisfare le funzioni basilari dello Stato. Secondo alcune stime sulla piena e immediata
liberalizzazione, le perdite potrebbero essere significative51. Ad esempio, è probabile che l’Africa occidentale sia la regione
più colpita: la CEDEAO stima che le perdite potrebbero variare tra il 30% circa e l’89,5% delle entrate tariffarie52. Una
liberalizzazione degli scambi più graduale ha buone probabilità di attenuare le perdite di entrate tariffarie, ma al costo di
una riduzione dei proventi dovuti all’apertura commerciale.
Pertanto, senza un’adeguata riforma dei sistemi impositivi e delle misure di compensazione, gli APE potrebbero produrre
conseguenze negative significative sulla capacità di alcuni paesi dell’Africa subsahariana di ricorrere a risorse pubbliche.
Ciò è a maggior ragione importante poiché, come è noto, i paesi poveri hanno difficoltà a sostituire le imposte commerciali
con imposte sul valore aggiunto53. Un elemento chiave nei tassi di recupero d’imposta è evidentemente il miglioramento
dell’esazione (magari con l’inclusione dell’economia sommersa). Le perdite di entrate potrebbero essere gestibili se la
liberalizzazione degli scambi fosse graduale e accompagnata da riforme delle finanze pubbliche. D’altra parte, per Stati
fragili dotati di una capacità ridotta o di una volontà politica limitata, tali riforme potrebbero essere difficili da attuare nel
breve-medio termine. È pertanto importante disporre di risorse esterne esplicitamente impegnate per assistere e facilitare
il processo di adeguamento per questi paesi.
Cosa ancora più importante, gli APE potrebbero costituire per i paesi africani un’occasione di razionalizzare la propria rete
di accordi di integrazione regionale ed essere utilizzati come meccanismi di impegno esterno affinché gli Stati africani
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Stevens e Kennan 2005.
Il primo SPG (sistema generalizzato di preferenze tariffarie) dell’Unione europea venne realizzato nel 1971. Nel febbraio 2001, il Consiglio ha adottato il
regolamento (CE) 416/2001, il cosiddetto regolamento “Tutto tranne le armi”. L’iniziativa “Tutto tranne le armi” è un accordo commerciale non reciproco che
concede ai 50 paesi (34 dei quali nella zona dell’ASS, compresi 22 Stati fragili) classificati ufficialmente come PMS dall’ONU l’accesso all’UE in esenzione da
dazio per tutti i prodotti, tranne armi e munizioni, e 41 linee tariffarie relative al riso e allo zucchero, per le quali sono stabiliti contingenti esenti da dazio fino
alla completa liberalizzazione nel settembre 2009 (riso) e nell’ottobre 2009 (zucchero). Fonte: http://ec.europa.eu/trade/issues/global/gsp/eba/index_en.htm.
I negoziati APE sono stati avviati nel settembre 2002, con una scadenza iniziale fissata al 31 dicembre 2007 per il raggiungimento della conformità alle norme
dell’OMC. In seguito, i negoziati sono stati estesi oltre la scadenza iniziale, poiché procedevano a rilento. Per questo, il 23 ottobre 2007 la Commissione europea
ha emesso una comunicazione che concedeva un accesso preferenziale provvisorio al mercato per i paesi non PMS dal 1° gennaio 2008, al fine di estendere
i tempi dei negoziati in vista degli APE completi. Pertanto, nell’ultima parte del 2007 sono stati conclusi molti accordi provvisori (anche detti “APE interinali”)
fra l’UE e le sottoregioni e i singoli Stati ACP, i quali contenevano impegni nei confronti della liberalizzazione in materia di scambi di beni tesi a raggiungere
la conformità al requisito di compatibilità dell’OMC. Fonte: http://www.acp-eu-trade.org/index.php?loc=epa/background.php.
Alla fine del 2007, 46 paesi africani erano diventati membri di un APE provvisorio, ma ne avevano siglato uno soltanto in 18, otto dei quali Stati fragili: Burundi,
Camerun, Comore, Costa d’Avorio, Kenya, Ruanda, Uganda e Zimbabwe (Bilal e Stevens 2009).
Vedere Sindzingre 2008 e Delpeuch e Harb 2007.
Stevens e Kennan 2005 e Delpeuch 2007.
Delpeuch e Harb 2007.
Busse et al. 2004
Baunsgaard e Keen 2005.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
con istituzioni deboli intraprendano le necessarie riforme interne, ancorandosi al contesto istituzionale più solido dell’UE.
Tuttavia, sono state avanzate preoccupazioni circa la possibilità che gli APE favoriscano l’integrazione regionale in Africa
e, in particolare, ci si è chiesti se gli APE siano elementi portanti o elementi di disturbo. Una notevole difficoltà deriva dalla
grande eterogeneità dei paesi dell’Africa subsahariana all’interno dei vari raggruppamenti degli APE. I paesi si differenziano
in termini di struttura delle esportazioni, classificazione (PMS contro paesi non-PMS), livello di impegno nei confronti
della liberalizzazione regionale ed elenchi di prodotti sensibili54. Se è vero che l’eterogeneità dei paesi non rappresenta
necessariamente un ostacolo all’integrazione regionale, e può anzi accrescerne i vantaggi economici, essa crea costi legati
al coordinamento delle politiche e alla contrattazione politica. Ad esempio, la difficoltà nell’armonizzazione delle norme
commerciali all’interno dei raggruppamenti regionali e fra un raggruppamento e l’altro potrebbe indurre controlli alla
frontiera e norme d’origine sulla circolazione di prodotti UE all’interno delle regioni, al fine di garantire che l’esclusione di
un prodotto in un certo paese non sia danneggiata dalle preferenze per lo stesso prodotto in un paese partner55. È dunque
importante avere la medesima offerta di accesso al mercato e gli stessi prodotti esclusi per tutta la regione, in modo da
favorire le possibilità di un mercato unico.
3.5 POLITICHE E AZIONI PREVENTIVE
I più recenti sforzi dell’UE si sono concentrati sulla necessità di rispondere alle situazioni di crisi e post-crisi e affrontarle in modo
migliore. La maggiore debolezza, tuttavia, rimane la mancanza di un’azione efficace e tempestiva sulla prevenzione. Sebbene,
infatti, si affermi che il dialogo politico nel consenso europeo sullo sviluppo presenta un’importante dimensione preventiva, alcune
prove dimostrano che non è sempre utilizzato a tale scopo56.
Oltre alla volontà politica, l’UE si scontra con numerosi vincoli istituzionali e operativi, come i limiti degli strumenti comunitari, i
processi organizzativi e decisionali interni e la capacità di rispondere pienamente ai requisiti delle politiche preventive a monte.
L’impianto istituzionale, che definisce ruoli e competenze di ciascun organo dell’UE, produce diversi punti di vista e priorità per i
vari servizi della Commissione e uno scollamento istituzionale fra la Commissione europea e il Consiglio. Il servizio europeo per
l’azione esterna (SEAE) potrebbe offrire maggiori possibilità per migliorare questa situazione e per creare un miglior collegamento
fra le politiche a breve e lungo termine dell’UE.
3.6 QUADRI POLITICI COMUNI CON ORGANIZZAZIONI REGIONALI AFRICANE
L’UE ha investito notevoli quantità di tempo e risorse nello sviluppo di partenariati con organizzazioni regionali dell’Africa
subsahariana e con l’Unione Africana. Meno evidenti sono i modi in cui tali partenariati e quadri politici comuni danno forma alle
politiche comunitarie volte ad affrontare la fragilità. Il CPA, il principale veicolo in materia di commercio, di aiuti e di dialogo politico
per le relazioni dell’UE con gli Stati subsahariani, non contiene un articolo specifico sulla fragilità o sugli Stati fragili, ma comprende
azioni rilevanti: dal dialogo politico alla governance democratica, dai diritti umani e dal commercio alla prevenzione dei conflitti
e alla costruzione della pace, fino alle misure punitive. Analogamente, la Strategia comune Africa-UE, siglata dai capi di stato in
occasione del vertice di Lisbona del 2007, non faceva esplicito riferimento alla fragilità dello Stato, un termine ampiamente rifiutato
dalle parti interessate africane nella fase precedente ai negoziati. L’UA e i suoi Stati membri sembrano tuttavia rendersi conto di
quanto sia importante affrontare tale fragilità e superare la questione delle definizioni, poiché in questo modo si potrebbero aprire
nuove opportunità per approcci concertati volti a contrastarla.
L’UE attua già un dialogo approfondito e un partenariato sulla pace e sulla sicurezza con l’UA ed è una grande sostenitrice
dell’architettura africana di pace e sicurezza, che comprende mediazione, allerta rapida e missioni di mantenimento della pace e
collega l’UA ai “meccanismi regionali”. La strategia comune Africa-UE e il suo piano d’azione offrono opportunità per affrontare le
questioni di governance, diritti umani, commercio, integrazione regionale e infrastrutture legate alla fragilità (riquadro 8.9). Nella
pratica, tuttavia, essa ha finora avuto un effetto limitato a livello nazionale, e la sua attuazione è complicata da questioni sulle
modalità di finanziamento e da discussioni sul suo reale valore aggiunto.
Sui problemi potenzialmente più controversi, come la governance democratica e i diritti umani, è stato difficile riconoscere un dialogo
autentico e il rispetto per il ritmo dei processi africani. La maggior parte delle organizzazioni regionali non ha interesse nel farsi
“strumentalizzare” ai fini del programma politico dell’UE e ritiene più importante sostenere le proprie priorità. Eppure, la qualità del
dialogo in alcuni ambiti dell’accordo di Cotonou e della strategia comune Africa-UE è migliorata, così come l’allineamento dell’UE alle
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Stevens et al. 2008.
Brenton et al. 2008.
Anche il dialogo politico è un importante elemento del CPA.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 8
priorità africane (quali pace e sicurezza). La strategia comune Africa-UE ha aiutato l’UE ad allinearsi con l’UA sui “gruppi di contatto
internazionali” per le attuali situazioni di crisi in Guinea, Guinea-Bissau, Madagascar, Mauritania e Somalia, e l’impegno dell’UE a
parlare con una sola voce con l’UA e le sue comunità economiche regionali (CER) ha rappresentato un significativo passo in avanti.
Una prospettiva regionale di “potenziamento della resilienza” sottolinea i “legami regionali” e la possibilità di “raggruppamenti
regionali della fragilità”. Inoltre, una visione più globale di questi problemi evidenzia i fattori esterni rilevanti a livello nazionale e
regionale. Coerentemente con questa prospettiva, la strategia comune Africa-UE potrebbe favorire un nuovo approccio complessivo
a livello regionale. Oggi, questa strategia definisce un quadro ampio per l’integrazione regionale in Africa secondo direttrici
politiche, economiche e sociali: il primo piano d’azione (2008-2010) prevede otto partenariati Africa-UE in settori come pace e
sicurezza, governance democratica e diritti umani, commercio e integrazione regionale. La maggior parte degli sforzi, finora,
è stata di natura organizzativa, e volta a stabilire dialogo, fiducia e coordinamento, ma si attendono ulteriori risultati concreti e
impegni di finanziamento.
3.7 L’UE COME ATTORE DELLA SICUREZZA E DELLO SVILUPPO
Il superamento della povertà e il miglioramento della sicurezza procedono di pari passo. Non è una novità: fin dalla dottrina Truman
e dal piano Marshall, la sicurezza è sempre stata integrata nelle politiche di sviluppo, in vario modo e in diversa misura.
L’interazione fra la sicurezza e lo sviluppo è largamente riconosciuta, e incarna gli obiettivi centrali dell’UE nella politica internazionale:
contribuire alla pace e alla stabilità e promuovere la democrazia, i diritti umani, lo stato di diritto e un multilateralismo efficace. Il
percorso verso obiettivi, piani operativi e programmi coerenti da parte dell’UE, finalizzati in ultima analisi ad azioni significative,
rimane pieno di ostacoli. Come si è detto in precedenza, l’UE ha realizzato un’ampia gamma di politiche, strumenti e iniziative per
affrontare le questioni legate allo sviluppo e alla sicurezza, in particolare nell’Africa subsahariana.
Gli obiettivi, i valori e le tempistiche di donatori e beneficiari sono vari e spesso in contrasto fra loro. Unire attori e risorse differenti,
operatori umanitari e soldati, diplomatici e imprenditori è una necessità impellente, ma anche un processo difficoltoso e lungo: in
fondo, la stessa UE è un attore internazionale complesso e, talvolta, mal coordinato.
Di fronte alla fragilità e all’insicurezza, la tentazione è cercare un “presupposto”, ad esempio una nuova misura economica o
un’istituzione politica diversa57. Ciò che suggeriamo, invece, è che le società che devono fronteggiare situazioni di fragilità possono
iniziare a operare cambiamenti in materia di sicurezza e sviluppo “così come sono, nonostante ciò che sono”58.
Basandoci sulla ricca esperienza delle iniziative e della capacità locali e sull’impegno dell’UE nel collegare la sicurezza e lo sviluppo
nei paesi africani che devono affrontare situazioni di fragilità, in particolare la riforma del settore della sicurezza e le missioni per la
gestione delle crisi59, sosteniamo che gli ostacoli noti e radicati che si oppongono ai cambiamenti nel nesso fra sicurezza e sviluppo
possono essere superati60. Di seguito, evidenziamo sei processi presenti nelle situazioni di fragilità.
1. Mettere in sicurezza e sviluppare: cambiamento ostile o non-ostile?
Spesso, i sostenitori di cambiamenti delle politiche che influiscano al tempo stesso sulla sicurezza e sullo sviluppo percepiscono le
riforme che propongono come non-ostili: uscire dalla fragilità, rendere la popolazione più sicura e, così facendo, liberare energie
per lo sviluppo può solo avvantaggiare tutti gli attori e, in ultima analisi, il paese. Questa ipotesi, tuttavia, è discutibile61. Infatti,
prima di tutto, nelle situazioni di fragilità l’insicurezza e le istituzioni pubbliche malfunzionanti che sopravvivono possono essere
utili sia ai governi sia ai ribelli. Alcuni soggetti potrebbero addirittura creare, preservare e sfruttare l’insicurezza per garantirsi la
sopravvivenza politica62. In Sierra Leone, ad esempio, i dirigenti hanno volutamente distrutto la capacità dello Stato per fornire
essi stessi beni pubblici63. In secondo luogo, nelle situazioni di fragilità spesso coesistono una relativa debolezza e una relativa
forza: le istituzioni statali dell’RDC, ad esempio, sono state indebolite, ma non sono scomparse del tutto64. Di fronte alle richieste
dei donatori, le autorità pubbliche, ben consce della situazione di fragilità del proprio paese, e proprio a causa di questo contesto
di fragilità e della loro posizione (relativamente) precaria, sono state in grado di mantenere, e addirittura rafforzare, la propria
posizione negoziale e di sviluppare una strategia di elusione e di resistenza. Anche quando la sovranità sembra aver raggiunto il
minimo, lo Stato residuo è in grado di proteggere dai donatori quello che considera il nucleo della propria autonomia65.
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63
64
65
Hirschman 1963, pag. 6; Hirschman 1967, pag. 5.
Hirschman 1963, pag. 6.
Brzoska 2006.
Hirschman 1963, pag. 6; Hirschman 1985, pagg. 3–34 e 56–76.
Englebert e Tull 2008.
Clapham 1996, pagg. 208–243; Chabal e Daloz 1999, pagg. 3–16.
Reno 2003.
Englebert 2003; Trefon 2004, 2007.
Ad esempio, nell’RDC due importanti servizi di sicurezza (i servizi di informazione militare e civile e le guardie confinarie) sono stati esclusi dalla riforma del
settore della sicurezza (Melmot 2008, Davis 2009).
124
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
Pertanto, l’insicurezza legata alla fragilità non è necessariamente negativa per tutti gli attori locali, e non implica debolezza per
tutti i soggetti interessati. Gli attori locali reagiscono e cercano di aggirare le forze dei donatori, sfruttandone le debolezze. È per
questo che i semplici approcci di ingegneria sociale hanno scarse probabilità di riuscita, e l’approccio lineare dell’UE in quest’ambito
dovrebbe dunque diventare più flessibile e strategico.
2. L’insicurezza come opportunità per le politiche di sviluppo
Generalmente, i critici del nesso tra sicurezza e sviluppo sollevano tre preoccupazioni. Innanzitutto, l’inclusione della sicurezza in
un programma politico già affollato e la presenza di decisori politici dotati di energie, capacità e risorse limitate sono destinate
a distrarre sia i donatori sia i paesi in via di sviluppo, rallentando le azioni rivolte all’obiettivo principale, cioè la riduzione della
povertà. In secondo luogo, la sicurezza è soltanto un problema superficiale, sintomo di disfunzioni strutturali più profonde. Terzo,
uno sforzo reale per affrontare le sfide della sicurezza andrebbe oltre le capacità del donatore e del paese partner. Al contrario,
suggeriamo che la connessione fra sicurezza e sviluppo può generare possibilità di riforme (riquadro 8.9).
In primo luogo, infatti, le popolazioni locali esprimono spesso una preoccupazione sentita e immediata per la sicurezza e la pace.
Ad esempio, in RDC i rappresentanti della società civile del Kivu hanno giustamente sostenuto che fosse necessario ristabilire la
pace prima di indire le elezioni, ma non hanno avuto ascolto66. Ignorare questi urgenti problemi è controproducente. In secondo
luogo, l’emergere di preoccupazioni legate alla sicurezza è, per i riformatori, un’occasione utile a trovare nuovi alleati e ad agevolare
analisi e strategie comuni. In terzo luogo, l’insicurezza può aiutare a individuare precocemente mali sociali che, qualora trascurati,
potrebbero diventare molto più difficili da gestire67. Infine, iniziative politiche timide o superficiali possono produrre l’effetto
indesiderato di mobilitare chi trae vantaggio dalla soluzione proposta, sia nei paesi donatori sia nei paesi partner.
Riquadro 8.9: Sfide per la sicurezza e lo sviluppo in situazioni di fragilità: la lezione delle
operazioni PESD
Di Damien Helly, Ricercatore, Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza (IUESS)
La PESD è nata dieci anni fa nei Balcani e da allora l’Unione europea l’ha impiegata come strumento assolutamente unico
per la gestione delle crisi militari o civili in varie situazioni di fragilità. Su 23 operazioni PESD, 8 sono state effettuate in
Africa, e alcune sono tuttora in corso. Tutte le operazioni PESD in Africa si trovano di fronte una qualche forma di fragilità.
Un recente volume a cura dei ricercatori dell’Istituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza offre dati completi e
una valutazione critica della PESD dopo 10 anni68. Alcuni dei risultati, che si basano principalmente su interviste condotte sul
campo, possono informare i dibattiti sulla sicurezza e sullo sviluppo, sulle situazioni di fragilità e sulla necessità di maggiore
coerenza fra gli strumenti e le politiche dell’UE.
• In 10 anni, l’UE ha potenziato il coordinamento della PESD con le politiche della Commissione europea in situazioni di fragilità.
Dal 1999, i legami fra le sfide relative alla sicurezza e allo sviluppo sono diventati un leit-motiv condiviso nel dibattito sulle
politiche. La sicurezza di base necessaria per la riduzione della povertà, per la creazione di posti di lavoro e per lo sviluppo
imprenditoriale è stata ben attestata nei documenti chiave relativi alle politiche europee, favorendone la consapevolezza
in sede di pianificazione politica. Ad esempio, nel 2008 a Bruxelles sono state pianificate azioni congiunte in Ciad volte a un
rafforzamento reciproco. Il programma di accompagnamento alla stabilizzazione, finanziato dalla Commissione europea,
era finalizzato a integrare la dissuasione militare, benché il coordinamento si sia rivelato difficoltoso e lento nella pratica.
• Malgrado i progressi compiuti a livello strategico, gli esperti di sicurezza, i promotori dello sviluppo, gli economisti e
gli operatori umanitari devono ancora intensificare il dialogo sulle situazioni di fragilità. La concorrenza per le risorse
volte a finanziare lo sviluppo e la sicurezza può essere elevata. Fra i gestori dei programmi di aiuti alla cooperazione e gli
esperti di sicurezza non esiste quasi scambio di informazioni in merito al potenziale impatto sulla sicurezza, ad esempio,
di un progetto relativo a infrastrutture per i trasporti. E sebbene alcuni tipi di esperti lavorino fianco a fianco, come gli
attori militari e umanitari, l’esperienza accumulata durante le operazioni di gestione delle crisi deve avere una migliore
diffusione. Ad esempio, l’operazione EUFOR Ciad/RCA ha fornito insegnamenti utili sia per la comunità militare che per
quella umanitaria, ma non è chiaro come questi insegnamenti verranno comunicati ad altri.
• Nelle situazioni di fragilità, le valutazioni qualitative hanno la stessa rilevanza dei dati quantitativi: mentre gli economisti
lavorano principalmente su dati tangibili, i politologi o gli analisti dell’intelligence utilizzano anche approcci qualitativi.
Nel caso della riforma della polizia o dell’esercito in RDC, una conoscenza solida della politica locale e dei relativi giochi
66
67
68
Autesserre 2009, pag. 271.
Hirschman 1981, pagg. 119, 149.
Grevi et al. di prossima pubblicazione.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 8
di potere è fondamentale per definire i meccanismi di raccolta dei dati, come i censimenti. L’EUSEC, una missione
incaricata di assistere le autorità congolesi nella riforma dell’esercito, ha dedicato i primi anni alla costruzione di una
fiducia reciproca con i soggetti interessati a livello nazionale mediante legami personali forti, raccolta di intelligence
umana e conoscenze specialistiche nel settore militare. Al contrario, in Guinea-Bissau, dove il numero ridotto di soldati
(meno di 6.000) farebbe pensare che una riforma dell’esercito sia semplice, diversi fattori legati alla governance e al
potere, come il potere simbolico dei veterani, l’intimidazione e i traffici illeciti, si sono dimostrati seri ostacoli: le realtà
umane, dunque, talvolta contraddicono i dati.
• Le iniziative europee in materia di sicurezza e di difesa dipendono sostanzialmente dal programma e dalla volontà politica
delle autorità locali: se queste sono riluttanti a ospitare operazioni PESD o stranieri che dovrebbero aiutare a riformare
il loro apparato di sicurezza, spesso per ragioni politiche o per interessi costituiti, si rivela estremamente difficile per gli
europei massimizzare il proprio impatto. Ciò è emerso con chiarezza in RDC quando, a seguito delle elezioni del 2006, il
governo ha espresso un interesse molto minore per la riforma del settore della sicurezza. Una conferma è arrivata anche
dalla Guinea-Bissau, dove la missione UE per la riforma del settore della sicurezza ha avuto enormi difficoltà ad avviare
un dialogo con il capo di stato maggiore dell’esercito, Tagmé Na Wai. La stessa situazione si è avuta in Sudan, dove la
leadership non ha voluto ospitare un’operazione UA/ONU per il mantenimento della pace e ha ritardato le procedure
di concessione dei visti al personale UE che forniva supporto alla pianificazione e alla catena di comando dell’AMIS, la
forza di pace dell’UA in Darfur.
• Dopo 10 anni, il personale PESD ha appreso quali difficoltà comporti attuare il coinvolgimento locale, specialmente negli Stati
fragili in cui le capacità dello Stato sono quasi nulle e i funzionari non dispongono della capacità di assorbire o di affrontare le
offerte o gli interventi dell’UE. I mandati brevi e i livelli elevati di avvicendamento delle operazioni di PESD si sono raramente
rivelati adeguati alle esigenze delle controparti, che consistevano nel potenziamento delle capacità a lungo termine.
• L’UE risente di carenze sul piano dell’attuazione delle politiche in situazioni di fragilità. Nonostante l’ampia disponibilità
di strategie, comunicazioni e documenti di programmazione per affrontare la fragilità, prevenire i conflitti e sostenere
la costruzione della pace, l’UE deve fare ancora molto per tradurre nella pratica i suoi orientamenti politici. Il personale
comunitario è difatti spesso all’oscuro di documenti strategici essenziali, che guidano il suo lavoro quotidiano e le sue
decisioni in situazioni di fragilità. Nonostante sia dotata di strumenti politici come il CARS (Collegamento fra aiuto,
risanamento e sviluppo), l’UE non li impiega sistematicamente sul campo. La formazione del personale che opera in
situazioni di fragilità dovrebbe essere trasversale e attuata in maniera più sistematica.
• Di fronte a situazioni di fragilità, l’UE deve ancora identificare le sue priorità di politica estera. Benché il fallimento dello
Stato sia indicato come una minaccia nella strategia europea in materia di sicurezza del 2003, gli interessi strategici
chiave dell’Europa nell’Africa subsahariana rimangono poco chiari. Alcuni Stati europei, principalmente le ex potenze
coloniali, esprimono preoccupazioni circa gli Stati fragili in Africa, in particolar modo perché rappresentano minacce
importanti come il terrorismo e la droga, le armi e la tratta di esseri umani: queste preoccupazioni possono tuttavia non
essere condivise ugualmente da tutti gli Stati membri dell’UE, e ciò comporta l’assenza di chiare priorità di politica estera
in Africa, tranne quelle definite da partenariati tra i due continenti o dal CPA. Su questo aspetto è necessaria ulteriore
ricerca, che sarà svolta dallo IUESS nel 2010.
• I funzionari degli Stati fragili spesso accusano l’UE di politiche contraddittorie: in particolare, il protezionismo commerciale viene
regolarmente additato come un ostacolo per lo sviluppo. Nonostante i nuovi meccanismi di compensazione, come il programma
di aiuti al commercio, il dialogo politico è dunque ancora segnato dalla diffidenza. Pertanto, gestire la fragilità comporterà sforzi
volti a un dialogo autentico e la volontà di superare vecchi pregiudizi e di riconoscere le reciproche responsabilità.
3. La fragilità porta alla creazione di istituzioni parallele per la sicurezza a livello locale
L’indebolimento della capacità dello Stato in situazioni di fragilità non implica un’assenza di governance. Al contrario, alcune
situazioni fragili hanno dato il via a “iniziative istituzionali locali che hanno facilitato la sopravvivenza e l’organizzazione della vita
sociale durante gli anni di conflitto e che potrebbero rivelarsi utili anche in futuro”69. I capi tradizionali, i gruppi della società civile,
le chiese e le agenzie di aiuto intervengono infatti per farsi carico della sicurezza70. Le situazioni di fragilità possono accentuare la
disparità di accesso alla sicurezza e alla giustizia, l’intolleranza esterna, la violenza, l’illegalità e l’irresponsabilità, ma in alcuni casi
l’inconsistenza della vigilanza e della sovranità da parte dello Stato ha rafforzato l’autocontrollo71. La conseguente “vigilanza a
69
70
71
Englebert e Tull 2008, pagg. 125, 127.
Vlassenroot 2008, pag. 2.
Baker 2008.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Politiche dell’ue in materia di fragilitànell’africa subsahariana
scelta multipla” fornisce una rete di sicurezza e approfondisce la democrazia locale. Al successo di questa modalità alternativa di
vigilanza contribuirebbero ulteriormente le reazioni positive degli Stati e il sostegno dell’UE.
4. Sequenze e squilibri possono contribuire alla riforma di sicurezza e sviluppo
Per affrontare il nesso fra sviluppo e sicurezza nelle situazioni di fragilità, le strategie comuni che uniscono contemporaneamente
tutti gli strumenti di azione politica in un pacchetto coerente, comprendente strumenti politici, di sicurezza, umanitari e di sviluppo,
sono spesso considerate adatte alla discontinuità del contesto72. Tuttavia, sebbene un certo livello di coordinamento sia auspicabile,
in particolar modo all’interno dell’UE, potrebbe non essere necessario investire un notevole impegno nell’integrazione precoce
e in un approccio simultaneo o equilibrato al nesso fra sicurezza e sviluppo. Nelle situazioni di fragilità è infatti inevitabile che le
politiche di sicurezza e di sviluppo procedano a fasi alterne e subiscano aggiustamenti. Ciò è peraltro auspicabile, poiché in questo
modo i decisori politici acquisiscono consapevolezza delle imperfezioni e degli squilibri della loro azione attraverso fallimenti,
irritazioni e disagi73. Ad esempio, in Sierra Leone non vi sono stati legami concettuali e sostanziali fra gli elementi della riforma
del settore della sicurezza, che è avanzata autonomamente74, eppure il paese è spesso presentato come un esempio di buone
pratiche, anche dall’OCSE/CAS.
La soluzione sequenziale dei problemi comporta di certo il rischio di stallo in un punto o in un ambito specifico, ma, data la
convinzione ampiamente condivisa a proposito della necessità di coordinamento, è utile ricordare che la duplicazione, la confusione
e la mancanza di comunicazione fra persone che operano lungo binari paralleli non sono sempre negative, essendo anzi in grado
di condurre a riforme meno costose e più rapide75.
5. La sicurezza e lo sviluppo non procedono necessariamente di pari passo
È importante sapere se garantire la sicurezza possa avviare uno sviluppo umano sostenibile. In questo senso, una valutazione di
17 operazioni di potenziamento istituzionale guidate dall’ONU a cinque anni dal loro inizio ha rivelato che, pur in presenza di un potenziale
legame fra varie dimensioni del potenziamento istituzionale (come lo sviluppo economico, la democrazia e la creazione di capacità
istituzionale) e la sicurezza, definita come assenza di guerra e ristabilimento di un pieno monopolio sui mezzi di violenza, quest’ultima non
comporta automaticamente conseguenze positive per lo stato di diritto, l’efficacia del governo, lo sviluppo economico e la democrazia76.
Il legame fra progresso della sicurezza e dello sviluppo può assumere diverse forme, e il modello non prevede sempre un’interrelazione
fra i due ambiti politici. Affermare che i due settori siano completamente separati rappresenterebbe comunque l’eccesso opposto.
Benché la sicurezza e lo sviluppo possano non essere sempre legati in modo funzionale, è possibile alternare interdipendenza e
autonomia in momenti e contesti diversi77.
6. Poco (a volte) è meglio
L’UE vanta un impegno continuo e una relativa stabilità dei suoi interventi per il potenziamento istituzionale e, più in generale, per
lo sviluppo. Tuttavia, guadagnare flessibilità in questo ambito e prevedere periodi di disimpegno selettivo potrebbe ampliare la
gamma delle iniziative. L’idea che “più potenziamento istituzionale c’è, meglio è” appare diffusa fra i decisori politici occidentali78,
che destinano maggiori risorse a Stati fragili considerati importanti, come Afghanistan, Bosnia, Iraq e Kosovo, rispetto a paesi
ritenuti periferici. Dal punto di vista della sicurezza, ciò implica che missioni militari UE e ONU più forti, con maggiori mezzi militari
e mandati più solidi, costituirebbero la migliore opportunità di successo.
L’esperienza delle politiche di sviluppo, specificamente nell’ambito della sicurezza e dello sviluppo, rivela invece che disaccoppiamento
e disimpegno possono anche avere conseguenze positive79. Un impegno minore, o più limitato e selettivo, può infatti aprire la
strada alla sperimentazione sociale e favorire la crescita di iniziative locali. Presentare l’RDC come banco di prova per gli interventi
dell’ONU nell’ambito del mantenimento della pace, con ad esempio un intenso spiegamento di forze, una situazione spesso
descritta come un “protettorato”, ha portato a scelte politiche problematiche durante la transizione dalla guerra alla pace e alla
democrazia nel periodo 2003-200680.
72
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76
77
78
79
80
Faria e Magalhães-Ferreira 2007.
Hirschman 1985, pagg. 74-75.
Horn et al. 2006, pagg. 110, 118.
Hirschman 1981, pag. 66.
Le missioni per il potenziamento istituzionale hanno raggiunto importanti obiettivi in materia di sicurezza: 13 delle 17 missioni hanno infatti portato alla fine
della guerra (1.000 morti in battaglia ogni anno o durante la guerra). Benché far terminare le guerre fosse più diffi cile nei paesi in situazione post-bellica più
poveri, le operazioni di potenziamento istituzionale hanno raggiunto il loro obiettivo anche in questo contesto (7 casi su 11). Le missioni di potenziamento
istituzionale hanno avuto meno successo nel ristabilire il pieno monopolio sui mezzi di violenza (9 casi su 17). Ma questo successo nell’ambito della sicurezza
presenta implicazioni limitate per altre dimensioni del potenziamento istituzionale (Zürcher 2006).
Hirschman 1981, pagg. 142-166; Hirschman 1995, pagg. 221-230.
Englebert e Tull 2008, pagg. 135-139.
Hirschman 1995, pagg. 190-192.
Autesserre 2009, pag. 258.
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CAPITOLO 9
CONCLUSIONI  PRIORITÀ E PRESCRIZIONI
L’Unione europea dispone di un’ampia gamma di strumenti politici che le consentono di affrontare le
sfide poste dagli Stati fragili e che ha riesaminato e ridefinito con cadenza regolare nel corso dell’ultimo
decennio. Tuttavia, gli sforzi profusi dall’UE nei confronti degli Stati fragili risentono di un “divario di
attuazione” che allarga la forbice tra gli impegni ufficiali e la messa in pratica delle sue politiche1.
1. LE POLITICHE COMUNITARIE POSSONO SORTIRE UN EFFETTO
L’UE ha il potenziale per incidere sulle prospettive di sviluppo degli Stati fragili dell’Africa subsahariana e,
in particolar modo, per aiutarli a potenziare la loro resilienza agli shock. A questo scopo, tuttavia, l’Unione
europea deve sviluppare condizioni di fiducia, apprendere dalle sue esperienze e farne tesoro. L’UE non è
lasciata a se stessa dinanzi a questo compito immane, che richiede un’azione congiunta da parte di tutti gli
attori impegnati nei confronti degli Stati fragili.
L’UE potrebbe migliorare l’efficacia del proprio impegno agendo con determinazione e definendo politiche univoche. Le discussioni
tra i membri dell’UE e all’interno della Commissione europea devono essere aperte e ad ampio spettro, tanto più se si considera
che gli sforzi a favore della fragilità costituiscono una questione particolarmente sensibile sul piano politico. Tuttavia, una volta
definita e convenuta congiuntamente una linea politica, l’UE dovrebbe impegnarsi nei confronti di politiche a lungo termine senza
riorientare i propri obiettivi e i propri ambiti di intervento prioritario. Poiché quelli degli Stati fragili sono principalmente problemi
strutturali e persistenti, l’approccio da adottare in materia richiede un impegno stabile e a lungo termine da parte degli attori
esterni. Concentrare gli sforzi su un numero ridotto di priorità ben definite faciliterebbe una semplificazione delle procedure e
snellirebbe la burocrazia. L’UE, peraltro, dovrebbe attivarsi per rendere credibile il suo impegno verso gli Stati fragili, aumentare
la comprensibilità delle sue politiche e sortire un impatto considerevole; essa, inoltre, dovrebbe calibrare le sue politiche generali
in modo tale da affrontare questioni specifiche adattandole ai singoli contesti.
Nei casi in cui vengono nutriti dubbi riguardo all’ammissibilità di un paese al sostegno al bilancio2, o laddove la conoscenza del
contesto locale riveste un’importanza particolare, i donatori e i beneficiari potrebbero non essere in grado di attuare o monitorare
efficacemente le politiche di aiuto. In tal caso queste potrebbero quindi venire delegate ad altri partner ufficiali, organizzazioni
della società civile e agenzie di servizi indipendenti (vedere riquadro 9.5). La delegazione di tali politiche potrebbe contribuire a
far fronte a complessi problemi locali e ad assicurare un impegno adeguato. Nelle situazioni in cui gli aiuti non vengono utilizzati
efficacemente o in cui i donatori ne canalizzano gran parte verso le istituzioni informali o le ONG, potrebbe essere utile scindere
le diverse funzioni dei governi separando la formulazione delle politiche dallo stanziamento o dal monitoraggio dei fondi. La
separazione della fissazione degli obiettivi di una politica di sviluppo a lungo termine dall’attuazione delle misure politiche renderà
tale compito indipendente da pressioni politiche immediate, eviterà problemi di assunzione degli impegni e svilupperà capacità
tecniche adeguate. Sebbene la base per operare una siffatta divisione già esista, saranno necessari cambiamenti sul piano della
governance per attuare efficacemente le politiche a lungo termine3.
1.1 I VANTAGGI COMPARATIVI DELL’UE
L’UE presenta un vantaggio comparativo nella formulazione di strategie in grado di aiutare gli Stati fragili a potenziare la propria
resilienza: per sfruttarlo l’Unione europea dovrebbe concentrare le sue azioni sullo sviluppo del capitale umano e sociale e sostenere
lo sviluppo istituzionale a livello locale e regionale. Questo vantaggio comparativo affonda le proprie radici nella sua storia di
allargamento, nonché in una vasta gamma di politiche a cui l’UE può attingere per forgiare la propria azione. Come illustrato nel
capitolo 8, a differenza della maggior parte delle agenzie di aiuto4, l’UE può avvalersi di una variegata combinazione di politiche in
materia di commercio, agricoltura, pesca, migrazione, cambiamento climatico, ambiente, dimensione sociale della globalizzazione,
ricerca e sviluppo, società dell’informazione, energia, sicurezza e governance. L’impatto (positivo o negativo) sortito da tali politiche
sulla fragilità dello Stato si estende ben al di là della fornitura di assistenza finanziaria.
La storia dell’UE, inoltre, è quella di uno sviluppo istituzionale all’interno di società eterogenee e complesse caratterizzate da
proprie istituzioni nazionali. L’Unione vanta peraltro una notevole esperienza nel campo della risoluzione di problemi di Stati dotati
1
2
3
4
Il capitolo 8 tratta approfonditamente gli ambiti che richiedono maggiori interventi per rendere più efficace l’impegno dell’UE.
Vedere OCSE 2009 per una trattazione delle condizioni in cui il sostegno al bilancio rappresenta una modalità di aiuto adeguata negli Stati fragili.
Collier 2009b.
Si veda, su questo punto, il documento informativo di Collier (2009a) nel Volume 1B.
128
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Conclusioni - priorità e prescrizioni
di istituzioni disfunzionali o in transizione nel corso della storia del proprio allargamento. Alcuni degli attuali Stati membri dell’UE
(Grecia, Portogallo e Spagna) sono riusciti a passare pacificamente da dittature militarizzate a democrazie durante gli anni Settanta.
Nel corso degli anni Novanta, inoltre, l’UE ha aiutato i paesi dell’Europa orientale ad attraversare una transizione economica che
ha imposto importanti riforme istituzionali e la trasformazione dei sistemi governativi e dei meccanismi dei servizi statali. Queste
esperienze costituiscono già di per sé un vantaggio comparativo dal momento che l’UE può avvalersi di questo insieme di strumenti
frutto della sua esperienza per affrontare situazioni di fragilità.
Le agenzie di aiuto e le istituzioni internazionali spesso si concentrano su misure di riparazione a breve termine o, a causa dei loro
doveri istituzionali, su un unico problema specifico5. Pur avendo una gamma di politiche analoghe a quelle dell’UE, gli Stati Uniti
presentano una storia diversa e, malgrado il loro rinnovato interesse per l’Africa subsahariana, sono geograficamente distanti6.
Inoltre, la tendenza della Cina (e degli Stati arabi) a concentrarsi sulla costruzione di infrastrutture e sugli investimenti esteri
diretti in terreni può essere una benedizione o una condanna per i paesi beneficiari. Anche l’UE può partecipare alla costruzione
di infrastrutture, ma dovrebbe concentrare i propri sforzi sullo sviluppo delle istituzioni e del capitale umano e sociale: gli ambiti
in cui l’Unione gode di un vantaggio comparativo.
1.2 LA NECESSITÀ DELL’INTERVENTO DELL’UE IN UN CONTESTO GLOBALE SFAVOREVOLE
La mobilitazione di risorse nazionali e il rafforzamento delle istituzioni statali e della coesione sociale sono i segreti del potenziamento
della resilienza. Entrambe queste azioni costituiscono, quasi per definizione, uno scoglio difficile da superare per gli Stati fragili da soli.
Perciò, malgrado si avverta la necessità di un intervento dell’UE, occorre ricordare che la lotta alla fragilità nell’Africa subsahariana
rappresenta una sfida impegnativa e rischiosa.
Tuttavia, anche l’inazione avrebbe costi elevati sia per i donatori sia per i beneficiari. Per quanto riguarda gli Stati fragili, i costi
si traducono nello scarso sviluppo umano e nell’assenza di sicurezza correlati alla presenza di divari di sviluppo persistenti. Per
l’Europa, geograficamente vicina all’Africa e ai suoi problemi di crescita demografica esplosiva, profughi, traffici illeciti, contrabbando,
violenza di genere e pirateria, gli effetti diffusivi negativi possono essere estremamente pesanti.
La sfida appare ancor più impegnativa perché l’UE deve impegnarsi nei confronti degli Stati fragili rispettando al contempo la
loro sovranità nazionale. Sebbene gli Stati fragili rendano raramente conto del loro operato ai cittadini, questi dovrebbero avere
la possibilità di partecipare alle proprie politiche. Se, da una parte, una scarsa capacità di attuazione mina l’imposizione fiscale,
dall’altra, l’incapacità di gestire efficacemente le risorse nazionali ostacola l’indipendenza e la capacità di governo.
La crisi finanziaria ed economica del 2009 ha reso l’impegno nei confronti degli Stati fragili un compito persino più gravoso. Gli Stati
fragili sono stati colpiti duramente da una crisi a loro non imputabile e che probabilmente spingerà ancora più paesi in situazioni
di fragilità, rendendo più difficile il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio entro la scadenza del 2015. La crisi
ha inferto un durissimo colpo al reddito pro capite ed è seguita ad altri due dissesti dagli effetti devastanti per i paesi fragili: la
crisi alimentare e quella dei carburanti. La quasi contemporaneità di queste tre crisi ha sortito un effetto moltiplicatore negativo,
facendo sì che le emergenze fossero la regola anziché l’eccezione. I paesi in situazioni di fragilità, intenti a rispondere a quelli che
reputavano shock a breve termine, hanno perso la prospettiva a lungo termine necessaria a superare la fragilità.
Il contesto economico ha risentito anche dell’indebitamento storico e dei gravi problemi sociali nazionali da cui sono afflitti i
paesi dell’UE. La crisi fa sì che l’impegno profuso a favore delle politiche a lungo termine, coniugato a un impiego degli aiuti allo
sviluppo più efficiente, rivesta un’importanza persino maggiore. L’adozione di politiche ad hoc a breve termine, la debolezza
dell’attuazione e del monitoraggio e la frammentazione e la duplicazione degli aiuti si sono rivelate fonti di inefficienza. Queste
prassi vanno sostituite sulla base delle semplici regole appena illustrate: esprimersi con una sola voce, concentrarsi sulle politiche
a lungo termine e delegare ai partner ove possibile.
1.3 IL RUOLO DEGLI ATTORI NON STATALI NEGLI STATI FRAGILI
Lo Stato costituisce da tempo il principale referente di contatto dei donatori, che vedono nell’intervento tramite le istituzioni statali
uno strumento per aumentare la responsabilità, affrontare le disuguaglianze di genere, creare fiducia, istituire un quadro giuridico
comune e garantire lo stato di diritto.
Tuttavia, le istituzioni statali di oggi sono influenzate dalle radici storiche della formazione dello Stato e dalle loro interazioni con
caratteristiche geografiche e gruppi etnici o religiosi. Inoltre, i governi dell’Africa subsahariana tendono a negare la loro parte di
responsabilità nei confronti della situazione di fragilità, imputandola a cause “esterne”.
Pertanto il potenziamento istituzionale e il raggiungimento della coesione sociale richiedono la mobilitazione di attori non statali
(talvolta esterni alla struttura degli Stati fragili), accompagnata da una conoscenza del contesto locale e da preziose risorse umane.
5
6
Vedere, ad esempio, World Food Price on food emergencies.
Gartner 2009.
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SVILUPPO
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 9
2. PRIORITÀ E PRESCRIZIONI
Durante la fase di definizione delle proprie priorità, l’UE dovrebbe prendere in considerazione tanto
le caratteristiche comuni quanto quelle specifiche nazionali degli Stati fragili dell’Africa subsahariana
(vedere capitolo 2), nonché il proprio vantaggio comparativo rispetto ad altri donatori e ad altre istituzioni
internazionali (per una trattazione dell’argomento si rimanda al capitolo 8).
Sebbene per molti versi differiscano tra loro, gli Stati fragili dell’Africa subsahariana condividono alcuni punti deboli che ostacolano la
creazione di uno Stato forte in grado di svolgere le proprie funzioni essenziali. Tali fattori di ostacolo vengono descritti qui di seguito.
• L’incapacità di mobilitare risorse nazionali e la conseguente forte dipendenza da fonti di finanziamento esterne.
• La dipendenza del sistema economico da pochi prodotti primari (nella maggior parte dei paesi da un unico prodotto), che
determina un modello instabile di crescita e una pesante concentrazione dei proventi delle esportazioni.
• La scarsità delle infrastrutture materiali e immateriali che esclude questi paesi dai vantaggi della globalizzazione, ostacolando
il loro accesso ai principali mercati di destinazione.
• Un limitato sviluppo umano, che si ripercuote sulla capacità di cogliere le opportunità che si presentano.
• Un’elevata esposizione al rischio di scoppio di conflitti armati.
Tali caratteristiche sono di intralcio al conseguimento di quello che costituisce l’obiettivo fondamentale dell’impegno esterno
negli Stati fragili: il contributo al processo endogeno di potenziamento istituzionale7. L’UE ha sostenuto tale priorità essenziale nel
Consenso europeo sullo sviluppo8, e dunque i suoi impegni nei confronti degli Stati fragili dell’Africa subsahariana devono concentrarsi
su questo obiettivo a lungo termine. Queste cinque caratteristiche comuni suggeriscono cinque aree di intervento prioritario su
cui imperniare l’impegno dell’UE nei confronti degli Stati fragili.
Priorità 1: individuare e sostenere le forze motrici e gli attori del potenziamento istituzionale e della coesione
sociale. La complessità dell’assistenza europea al potenziamento istituzionale è dovuta al fatto che essa non può ispirarsi a una
visione esterna di tale processo. Il processo di potenziamento istituzionale negli Stati fragili africani, infatti, non assomiglierà a
quanto avvenuto in Europa nel XIX secolo9. Analogamente, la coesione sociale non sarà la stessa tra gruppi etnici e religioni le
cui differenze risalgono a centinaia di anni fa. La conoscenza del contesto locale, pertanto, riveste un ruolo cruciale nell’impegno
esterno profuso negli Stati fragili ed è necessaria per identificare quali fattori possono essere motori di cambiamento, consentendo
a questi paesi di emergere dalla fragilità, magari imboccando percorsi differenti. Se, da un lato, è necessario rafforzare questi “fattori
di cambiamento”, in particolare incoraggiando la partecipazione delle donne al potenziamento istituzionale, dall’altro è altresì
importante, affinché la strategia di promozione della democrazia abbia successo, indebolire i possibili “fattori di impedimento”10
e sostenere i leader negli sforzi intesi alla ricostruzione di una nuova fiducia sociale tra Stato e cittadini e tra fazioni e gruppi etnici
diversi e potenzialmente conflittuali. Se taluni gruppi vengono discriminati ed esclusi dalla rappresentanza politica, la probabilità
di conflitti si acuisce e diventa più difficile emergere dalla situazione di fragilità.
Malgrado esista una certa capacità organizzativa negli Stati fragili11, questa deve essere reindirizzata verso altri obiettivi condivisi
quali la mobilitazione di risorse nazionali e una migliore governance delle entrate da risorse naturali. Malgrado i gruppi elitari
possano rivestire un ruolo di spicco, in alcuni Stati fragili le fazioni etniche o religiose possono essere poco incentivate a potenziare
l’efficacia delle capacità dello Stato o addirittura essere interessate a minarle. Da qui la loro mancanza di motivazione nei confronti
di un consenso a tale riguardo. L’assenza di coesione sociale, infine, indebolisce la domanda di buon governo a livello comunitario.
Priorità 2: colmare il divario tra necessità a breve termine e politiche e resilienza a lungo termine. Per spostare
l’enfasi dal soddisfacimento di bisogni impellenti a breve termine a una pianificazione sul lungo periodo negli Stati fragili, l’UE
potrebbe istituire meccanismi assicurativi per ridurre i rischi di volatilità dei proventi delle esportazioni. Potendo contare su entrate
più stabili (riquadro 9.1), gli Stati fragili potrebbero progettare politiche interne a lungo termine. Infatti, data la scarsa resilienza
degli Stati fragili agli shock esterni e, in particolare, alle fluttuazioni dei prezzi dei prodotti di base e delle ragioni di scambio,
sarebbe opportuno prendere in considerazione il potenziale di sviluppo dell’assistenza dei donatori per rafforzare i meccanismi di
assicurazione e adeguamento al rischio, nonché la possibilità di usare i flussi di aiuti per “attutire gli effetti degli shock internazionali”,
come osservato recentemente da Bourguignon et al. (2008).
7
8
9
10
11
Vedere OCSE/CAS 2007.
Vedere Parlamento europeo, Consiglio, Commissione 2006.
Le elezioni sono spesso considerate un fattore di potenziamento istituzionale essenziale. Ciononostante, il processo elettorale può essere oggetto di
manipolazioni a meno che i cittadini non siano concordi nell’esprimere la volontà collettiva del paese.
Vedere Magen e Morlino 2008, pagg. 256-257.
Alcuni paesi, per esempio, sono in grado di organizzare le proprie truppe, altri di garantire un funzionamento efficace del proprio sistema educativo, altri
ancora dispongono di sistemi di trasferimento di denaro efficienti.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Conclusioni - priorità e prescrizioni
Riquadro 9.1: Una proposta per la stabilizzazione delle entrate
Per aiutare gli Stati fragili ad allungare gli orizzonti temporali delle loro politiche, spesso limitate da condizioni di emergenza,
l’UE potrebbe impegnarsi in anticipo a reindirizzare i flussi di aiuti a paesi i cui prezzi all’esportazione scendono al di sotto
di un dato livello limite. Sapendo di poter contare sempre su entrate al di sopra di una determinata soglia, gli Stati fragili
potrebbero così perseguire i loro obiettivi a lungo termine.
L’attuazione può essere un’impresa ardua e la credibilità dell’impegno rappresenta il primo passo da compiere. Il paniere
di prodotti e il prezzo d’intervento devono essere prestabiliti per evitare interferenze con le scelte operate in materia di
produzione nazionale ed esportazione. Inoltre, il meccanismo di stabilizzazione dovrebbe essere chiaramente temporaneo.
I paesi interessati potrebbero essere premiati per lo stanziamento di fondi per politiche a lungo termine in settori quali
l’istruzione e la sanità.
La Commissione europea potrebbe avere un vantaggio comparativo rispetto ad altri donatori in termini di sostegno fornito
a tale meccanismo. Se da un lato è improbabile che i singoli paesi stanzino una quota considerevole degli aiuti erogati a
favore di un meccanismo automatico di questo tipo, la Commissione europea, in veste di mediatrice degli interessi degli
Stati membri, potrebbe impegnarsi con maggiore credibilità nei confronti di tale strumento. Il monitoraggio dei fondi
potrebbe essere assegnato a organizzazioni locali della società civile (stabilite anch’esse in precedenza, per evitare problemi
di credibilità).
Priorità 3: potenziare il capitale umano e sociale. L’investimento in istruzione negli Stati fragili, i tentativi di assottigliare il
divario di genere e il potenziamento del capitale sociale sono fondamentali per conseguire una crescita e uno sviluppo sostenuti.
Gli Stati fragili sono caratterizzati dalla disgregazione della pubblica istruzione e, dunque, da percentuali di accesso alla scuola
ridotte e da un aumento del tasso di analfabetismo tra gli adulti. È quindi necessario concedere finanziamenti adeguati non solo
all’istruzione di base, ma anche all’istruzione superiore. Nel 1970, gli adulti nell’Africa subsahariana in grado di leggere e scrivere
erano il 30%, mentre nel 1990 la percentuale era salita al 51% e nel 2006 al 63% (ma corrispondeva solo al 59% negli Stati fragili).
Il divario di alfabetizzazione deve essere colmato il più rapidamente possibile. Con tassi di alfabetizzazione più elevati, gli Stati
fragili potrebbero migliorare sostanzialmente i loro risultati in termini di sviluppo umano e promuovere la crescita economica.
L’istruzione delle donne svolge un ruolo particolarmente importante, dal momento che incide sui tassi di fertilità e sulla salute
e sul benessere dei membri della famiglia, bambini in primis12. Anche progettare interventi destinati ai bambini e ai giovani può
rivelarsi fondamentale, specialmente negli Stati fragili in contesti post-bellici, per rendere meno appetibili le attività illegali come
i traffici illeciti e il contrabbando. In questo contesto, poiché l’istruzione potrebbe non essere l’unica soluzione percorribile per gli
uomini di giovane età, potrebbero essere attuate anche misure (a costo zero) volte a ridurre il fardello normativo e ad assicurare un
contesto imprenditoriale adeguato, caratterizzato da minori barriere economiche o burocratiche. Ciò sarebbe fondamentale per
la creazione di posti di lavoro, e potrebbe dunque assicurare una speranza e un futuro alle generazioni più giovani, convincendole
del fatto che essere un ribelle non è l’unica alternativa disponibile per far fronte al domani.
I paesi membri dell’UE potrebbero aprire le loro frontiere a studenti provenienti dagli Stati fragili, consci del fatto che l’istruzione
impartita all’estero contribuisce allo sviluppo istituzionale nei paesi di origine (riquadro 9.2)13. L’UE potrebbe contribuire anche
mediante lo sviluppo di università e centri di ricerca locali e la creazione di incentivi tesi a stimolare l’innovazione in ambiti quali
l’uso efficiente delle risorse idriche in condizioni climatiche sfavorevoli e la lotta a problemi sanitari come AIDS e malaria.
Riquadro 9.2: Politiche comunitarie e sviluppo del capitale umano africano
Di Yaw Nyarko, Università di New York
Il capitale umano è un elemento fondamentale dello sviluppo economico. Nell’Africa subsahariana, malgrado gli ingenti
investimenti pubblici nel settore dell’istruzione, i livelli di capitale umano continuano a essere bassi. Il potenziamento dello
sviluppo del capitale umano nell’Africa subsahariana, una delle migliori strategie per migliorare gli standard di vita e lo
sviluppo economico, rappresenta un ambito in cui l’Unione europea può rivestire un ruolo efficace e unico.
12
13
Secondo dati empirici (vedere Gartner 2009), i figli di donne a cui vengono impartiti cinque anni di istruzione primaria hanno il 40% di probabilità in più di
superare i primi cinque anni di vita. Perciò, considerati gli elevati tassi di mortalità sotto i cinque anni negli Stati fragili, di cui ai capitoli 1 e 2, l’impatto di un
investimento simile potrebbe essere considerevole.
Vedere, ad esempio, Spilimbergo 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 9
Molti studi hanno mostrato i legami esistenti tra il capitale umano e lo sviluppo economico (vedere Spiegel e Benhabib
2005 e i riferimenti citati in tale opera). Sono necessari lavoratori qualificati per agevolare l’adozione di nuove tecnologie,
introdurre attività imprenditoriali, amministrare e gestire i sistemi di assistenza sanitaria e pianificare le economie nazionali.
Nonostante le cospicue quote dei bilanci pubblici destinate all’istruzione, in molti paesi africani il livello di studio raggiunto
è tutt’altro che elevato. Nel 2000, l’ultimo anno per cui si dispone di dati internazionali pressoché completi14, i ghanesi con
un titolo di istruzione terziaria, in un paese con più di 20 milioni di abitanti, erano circa 81.000. Per inquadrare questo dato in
un contesto, si pensi che all’Università di New York (presso cui insegno e che è solo una delle tante dello Stato di New York)
vi è un numero di iscritti pari circa alla metà di questa cifra. Molti altri paesi africani presentano dati altrettanto esigui: in
Kenya i cittadini con un’istruzione di terzo livello sono 124.000, in Uganda 63.000. In molti paesi africani, inoltre, la pertinente
fascia di età con un titolo di istruzione terziaria è compresa tra il 3 e il 5%, ben al di sotto degli standard internazionali, se
si pensa al 70% della Corea del Sud, di Singapore e di altri paesi. Il quadro inerente ai medici si rivela altrettanto desolante.
Nel 2004, in Ghana, si registrava un totale di 1.860 medici, un numero quasi uguale a quello degli attuali iscritti alla facoltà
di medicina dell’Università di New York. Questo dato implica un rapporto di 1 medico ogni 11.200 pazienti. In Malawi, nel
2004, si registravano 124 medici: un dato che si traduceva in un allarmante rapporto di 1 medico ogni 88.000 pazienti. In
Occidente tale rapporto è di 1/227 per l’Italia e di 1/476 per il Regno Unito.
Malgrado i paesi dell’Africa subsahariana abbiano compiuto passi da gigante in termini di capitale umano dalla conquista
dell’indipendenza nei primi anni Sessanta, la strada da percorrere è ancora molto lunga. Tuttavia, non appena si menziona
la questione dell’accumulo di competenze in Africa, la discussione si sposta quasi immancabilmente sulla fuga dei cervelli,
un tema impiegato per motivare la restrizione dell’assistenza esterna all’istruzione superiore in Africa, e sull’emigrazione di
personale qualificato in Occidente. Questo è un errore. Vi sono dei distinguo da fare quando si misurano la fuga e il rientro
dei cervelli. Si tratta di un ambito in cui l’Unione europea può rivestire un ruolo di punta adottando strategie potenzialmente
in grado di recare enormi benefici all’Africa subsahariana, nonché ai paesi dell’UE.
Le percentuali di africani dotati di istruzione terziaria residenti all’estero sono elevate: 52% per la Sierra Leone, 46% per il
Ghana, 44% per il Kenya e 35% per l’Uganda. Ciononostante, nella misurazione della fuga dei cervelli bisognerebbe tener
conto di una serie di aspetti: innanzitutto, questo fenomeno rappresenta un’istantanea delle competenze esistenti in
diverse aree geografiche in un determinato momento. Molti di coloro che sono attualmente alla guida di ospedali, ministeri
e altre istituzioni in Africa sono persone che, una volta ultimati gli studi all’estero, hanno fatto ritorno in patria in possesso
di migliori competenze. Questi individui, tuttavia, in un determinato momento sono stati computati nelle statistiche sulla
fuga dei cervelli. Le competenze delle persone che ritornano una volta conclusa la propria formazione sono estremamente
importanti per lo sviluppo del paese di origine. Poiché i dati evidenziano tassi di rientro al termine degli studi alquanto
elevati, è possibile parlare di un’intensa circolazione dei cervelli e non di una semplice fuga.
Ricerche recenti segnalano inoltre l’importanza dele rimesse di denaro da parte dei lavoratori all’estero per le economie
dei loro paesi di origine. Easterly e Nyarko (2009) hanno tentato di quantificare gli effetti positivi e negativi della fuga
dei cervelli, includendo tra i primi le rimesse e il rientro delle competenze. Questa ricerca sottolinea l’importanza della
circolazione dei cervelli per i loro paesi di provenienza.
Altri studiosi hanno mostrato un forte effetto di incentivazione alla fuga dei cervelli. La possibilità di abbandonare le
economie locali per proseguire gli studi all’estero od ottenere stipendi più elevati, ad esempio, accresce il desiderio di
acquisire un’istruzione superiore e, dunque, implica la possibilità di innalzare i livelli di istruzione nell’economia locale
anche in seguito all’emigrazione all’estero di alcuni individui. Inoltre, anche se tutti i medici ghanesi e malawiani residenti
all’estero facessero ritorno in patria, i rapporti numerici medico-pazienti continuerebbero a mantenersi ben al di sotto degli
standard internazionali. Ciò che serve è pertanto un sensibile innalzamento dei livelli delle competenze, un aumento di
10 volte o più dei tassi di iscrizione.
Da tale analisi scaturiscono diverse raccomandazioni:
• Istituire una carta blu UE, ispirata alla carta verde statunitense. L’attuazione di una delle varie proposte di carta blu
agevolerebbe l’immigrazione in Europa per l’acquisizione di competenze, accrescendo il benessere di quanti emigrano
e le rimesse di denaro ai loro familiari. Molti finiranno per tornare nei loro paesi di origine in possesso di competenze
migliori. Dovrebbe essere incoraggiato il rientro di lavoratori e professionisti qualificati nei propri paesi di origine (con
periodi “sabbatici” flessibili per i titolari di tale carta blu). Nel contesto della concorrenza globale per le qualifiche,
l’istituzione del sistema della carta blu UE consentirebbe all’Europa di competere più efficacemente con gli Stati Uniti e
con la carta verde americana nell’acquisizione di lavoratori altamente qualificati. Se predisposto adeguatamente, questo
sistema sarà benefico tanto per l’Africa subsahariana quanto per i paesi dell’UE.
14
Docquier e Marfouk 2005.
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Conclusioni - priorità e prescrizioni
• Estendere i contratti di migrazione bilaterali che consentono l’emigrazione di quote fisse di lavoratori dall’Africa all’Europa.
Tali contratti dovrebbero essere progettati in modo tale da consentire e incoraggiare il ritorno dei lavoratori qualificati
nei loro paesi di origine.
• Incrementare i sistemi di prestito agli studenti e gli investimenti a favore dell’istruzione professionale per soddisfare la
necessità di drastici aumenti dei lavoratori qualificati e specializzati in Africa. Questo processo potrebbe successivamente
autofinanziarsi, con tariffe di rimborso più elevate per gli studenti che emigrano e sconti per quelli che rimangono in
patria e con un rimborso dei prestiti da parte di tutti gli studenti in seguito al loro ingresso nel mondo del lavoro. I
finanziamenti elargiti dall’UE potrebbero contribuire all’istituzione di tali regimi.
La migrazione e la circolazione di individui, qualificati o meno, fanno da sempre parte della storia umana. La madre di
tutte le migrazioni fu probabilmente l’imponente esodo umano dalla Rift Valley dell’Africa orientale, che sfociò nel primo
insediamento umano dell’Europa odierna. A queste fecero poi seguito le massicce migrazioni degli europei che si stanziarono
nel nuovo mondo a partire dal XVI secolo. Nel XVIII secolo, gli africani venivano formati presso le università europee. Il
Fourah Bay College in Sierra Leone, una delle prime università in stile europeo dell’Africa subsahariana, nacque come centro
destinato agli schiavi tornati in patria per trasformarsi ben presto in un vivaio dei movimenti di indipendenza africani.
Commetteremmo un gravissimo errore permettendo che l’attuale crisi finanziaria e un’errata comprensione della fuga
dei cervelli distogliessero la nostra attenzione dall’importante processo di sviluppo delle qualifiche e dalla circolazione
dei cervelli, laddove l’incentivazione a migrare e i vantaggi della migrazione potrebbero invece essere impiegati in modo
creativo per innalzare i livelli di capitale umano nell’Africa subsahariana, recando benefici anche all’Europa.
Priorità 4: sostenere una migliore governance a livello regionale, compresi i processi di integrazione regionale. Le
risposte politiche a livello regionale potrebbero fare leva sui meccanismi di integrazione regionale che contribuiscono a internalizzare
gli effetti diffusivi tra paesi limitrofi o a sopperire ad alcune carenze istituzionali locali (riquadro 9.3).
Riquadro 9.3: Un adeguato livello di integrazione regionale
Nell’ambito della strategia comune Africa-UE (SCAU), l’UE potrebbe promuovere maggiormente il dialogo politico
subregionale e contribuire all’efficace attuazione del principio della sussidiarietà fondato sulla fiducia. La leadership
locale è importante, se si desidera che gli accordi regionali contribuiscano al potenziamento istituzionale. Inoltre, sono
necessari incentivi adeguati affinché leader regionali quali la Nigeria e il Sud Africa sottoscrivano pienamente gli accordi
di partenariato economico regionali e fungano da leader15.
A causa dell’ampia eterogeneità economica in seno ai raggruppamenti regionali africani, l’integrazione con la CE (e il mercato
globale) sortirà effetti considerevolmente diversi a seconda dei paesi. Potranno emergere o venire rafforzate configurazioni
subregionali “a raggiera” (hub-and-spokes), che potrebbero dare origine a tensioni e inasprire le disuguaglianze all’interno
del sottogruppo. Potrebbero essere necessari meccanismi di trasferimento per mitigare tali situazioni e ridurre le
sperequazioni regionali. Sarebbe opportuno ideare e sovvenzionare progetti di investimento subregionali per favorire la
convergenza regionale. Nel quadro della SCAU, i dialoghi politici con i leader subregionali possono essere calibrati in modo
tale da stimolarli a contribuire a detti meccanismi di compensazione subregionali. A tal riguardo, l’UE potrebbe avvalersi
della propria esperienza nel campo della promozione dei fondi strutturali subregionali.
Gli accordi commerciali regionali possono permettere ai paesi africani di generare economie di scala, potenziare la competitività
nazionale, aumentare i ritorni sugli investimenti e attrarre IED, consentendo il trasferimento di tecnologie e la crescita economica.
Tali accordi potrebbero inoltre consentire a queste economie di mettere in comune risorse per la realizzazione congiunta di progetti
infrastrutturali, internalizzando così gli effetti regionali transnazionali di tali investimenti16. Inoltre, questi accordi consentirebbero ai
piccoli Stati africani di avere maggiore voce in capitolo nella negoziazione di accordi con altri blocchi commerciali o partner privati.
15
16
Questi paesi non hanno firmato nessun accordo interinale e intrattengono scambi commerciali con l’UE nel quadro di altri regimi commerciali.
Vedere Collier 2006. L’UNCTAD (2009), ad esempio, sostiene che la cooperazione regionale dovrebbe incentrarsi sullo sviluppo delle infrastrutture e pone
l’accento sui vantaggi delle infrastrutture congiunte; nell’Africa orientale “la ferrovia era un mezzo di trasporto gestito a livello regionale e relativamente
economico che collegava l’Uganda all’oceano passando per il Kenya. La situazione cambiò nel 1977, quando le East African Railways furono suddivise in
segmenti amministrati a livello nazionale. Tale suddivisione ridusse l’efficienza della ferrovia, dal momento che introdusse costi supplementari inerenti alla
gestione, alla manutenzione, ai controlli di frontiera e ad altri costi di coordinamento” (pag. 41).
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 9
Osservando le economie di scala sul piano della fornitura di sicurezza e di altri beni pubblici, nonché la produzione di beni privati
non commerciabili, si potrebbe affermare che le dimensioni del tipico Stato africano sono troppo ridotte17. Inoltre, la teoria standard
sull’internalizzazione sembra suggerire che lo strumento migliore per procedere alla fornitura di beni pubblici regionali (quali il
trasporto transnazionale e le infrastrutture di rete) e alla regolamentazione di “mali” pubblici regionali (come le corse alle armi tra
paesi limitrofi, la diffusione di malattie e l’insicurezza nelle zone di frontiera) sia quello degli accordi intra-africani.
Gli accordi di integrazione regionale possono essere utilizzati anche come strumenti di consolidamento istituzionale. Tali accordi
possono infatti contribuire a far attecchire le riforme politiche costruendo meccanismi di impegno, particolarmente utili per i paesi
con una capacità di impegno nazionale piuttosto debole. Entrare a far parte di un blocco commerciale dalle regole severe può
infatti contribuire al radicamento delle riforme democratiche e al consolidamento della credibilità dei paesi membri.
Sinora l’approccio di integrazione regionale ha avuto un successo limitato nell’Africa subsahariana. L’applicazione delle regole
può costituire un problema, che si coniuga all’ambiguità associata alla leadership regionale. A causa di una governance scadente,
di strutture istituzionali nazionali deboli e della mancanza di volontà politica, l’attuazione delle politiche regionali è stata spesso
insoddisfacente. Gli effetti economici degli accordi commerciali sono stati alquanto deludenti, l’integrazione regionale del potere
politico si è rivelata particolarmente limitata e il trasferimento dei poteri alle organizzazioni regionali è stato esiguo18. L’insicurezza
e la fragilità pongono sfide a un’integrazione regionale di successo19. Inoltre, la logica iniziale di regionalismo politico in Africa
poggiava su un forte attaccamento alla sovranità statale e sul principio di non interferenza20.
La creazione del Nuovo partenariato per lo sviluppo dell’Africa (NEPAD, New Partnership for Africa’s Development) rispecchia
i tentativi più recenti intrapresi per la “messa in comune della sovranità” allo scopo di migliorare la governance attraverso il
meccanismo africano di valutazione inter pares (African Peer Review Mechanism). Questi recenti sviluppi sono coerenti con una
visione che riconosce sia l’importanza delle interdipendenze regionali, che conducono a cluster di fragilità21, sia il fallimento
di un puro approccio “incentrato sullo Stato” (di stile europeo) nei confronti del potenziamento istituzionale22. Per sostenere il
potenziamento delle capacità nei paesi fragili sarebbe opportuno promuovere maggiormente tali processi di potenziamento della
governance a carattere regionale (riquadro 9.4).
Riquadro 9.4: Il dilemma della leadership e dell’egemonia nel potenziamento della
governance a carattere regionale
Le considerazioni concettuali suggeriscono che le probabilità di un potenziamento efficace della governance a livello
regionale aumentino quando l’accordo comprende partner di un certo peso, più credibili in termini di applicazione delle
regole del blocco commerciale e, pertanto, in grado di fornire migliori appigli per il potenziamento delle istituzioni politiche.
Al contempo, l’applicazione di tali norme deve fondarsi a sua volta su un insieme di regole. Tuttavia, poiché questi partner
importanti non dovrebbero servirsi della loro posizione di superiorità (e credibilità) nell’applicazione delle suddette regole
per motivi opportunistici ed egemonici, emerge anche un grande dilemma politico, imputabile al fatto che le caratteristiche
che fanno di un partner importante un attore credibile sul piano dell’applicazione delle regole del blocco possono indurlo
anche ad assumere un ruolo egemonico. Tale ambiguità potrebbe generare sfiducia all’interno del blocco e limitare l’efficacia
del sistema fondato sulle regole.
In Africa, questa situazione è illustrata da due accordi regionali conclusi con partner dominanti: quello tra la Comunità
economica degli Stati dell’Africa occidentale (CEDEAO) e la Nigeria e quello sottoscritto dalla Comunità per lo sviluppo
dell’Africa australe (Southern African Development Community, SADC) con il Sud Africa. La presenza di un attore importante
nella regione ha creato una certa leadership, che ha permesso di condurre missioni di sicurezza africane nel continente
(in Liberia e Lesotho). In entrambi i casi, tuttavia, interpretazioni successive lasciavano presupporre che l’impiego dei
meccanismi regionali nascesse da motivazioni opportunistiche. La posizione del Sud Africa in qualità di attore credibile
nell’applicazione di “regole di buon governo” all’interno della SADC è stata inoltre minata dal pesante lascito dell’apartheid
e dalla sfiducia ereditata dal paese e nutrita tuttora nei suoi confronti dai partner regionali. Come fa notare un osservatore,
“la rivendicazione da parte del Sud Africa del suo status di ‘gestore della sicurezza’ dell’Africa meridionale, sebbene non
pronunciata ufficialmente, non è esente da contestazioni, avanzate soprattutto da quei paesi, come lo Zimbabwe, che
godevano di uno status di egemonia regionale prima che il Sud Africa venisse reintegrato nella SADC”23. Le enormi disparità
17
18
19
20
21
22
23
Collier 2006.
Yang e Gupta 2005.
UNECA 2006 e Fanta 2008.
Gandois 2005.
UNECA 2004.
Kaplan 2006.
Qobo 2007, pag. 17.
134
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Conclusioni - priorità e prescrizioni
economiche tra il Sud Africa e i suoi partner regionali, inoltre, hanno continuato ad alimentare sentimenti di invidia e timori
di egemonia regionale che ne hanno ridotto la legittimità quale leader regionale. Tali paure hanno anche spinto altri paesi
della SADC a concludere accordi regionali alternativi per controbilanciare il predominio del Sud Africa24.
Priorità 5: rafforzare la sicurezza nella zona. Per conservare e accrescere la volontà dei cittadini di mantenere il proprio
impegno e il proprio coinvolgimento sul piano della governance globale è necessario uno sforzo a lungo termine. Nella progettazione
di una politica di sicurezza, i decisori dell’UE dovrebbero tener conto del fatto che le azioni intraprese in diversi ambiti, dall’agricoltura
alla pesca fino al commercio, possono avere effetti sulla sicurezza e che le iniziative in materia di sicurezza possono avere implicazioni
per lo sviluppo e il commercio. L’UE dovrebbe abbandonare il suo approccio lineare di ingegneria sociale incentrato sugli strumenti
a disposizione per concentrarsi sul problema in sé e adottare un approccio strategico più flessibile che riconosca il carattere politico
e opinabile di molti obiettivi e di molte politiche dei donatori. Il ricorso, sempre più frequente, a strumenti di gestione delle crisi
civili e militari rappresenta un’opportunità non solo per incoraggiare la pianificazione congiunta (militare, civile e degli aiuti/dello
sviluppo), ma anche per ragionare in maniera più strategica. Inoltre, costituisce un’opportunità per ricompensare l’adattamento
e l’assunzione di rischi da parte del personale locale, spesso essenziale in situazioni di fragilità. Ignorare le necessità di sicurezza
della popolazione è controproducente: anziché applicare un modello esistente, si può ottenere molto prendendo seriamente in
considerazione le esigenze di sicurezza della popolazione. Si tratta di un primo passo in direzione di una vera titolarità locale.
2.1 L’ESIGENZA DI UN APPROCCIO FLESSIBILE A LUNGO TERMINE
Per far fronte all’eterogeneità in termini di prestazioni e di caratteristiche degli Stati fragili dell’Africa subsahariana, l’UE necessita di un
approccio flessibile e di nuove forme di gestione degli aiuti e di aiuto allo sviluppo per migliorare la propria efficienza (riquadro 9.5).
Riquadro 9.5: Rivalutare la gestione degli aiuti
Di Ramon Marimon, Istituto universitario europeo
L’efficacia di qualsiasi politica di finanziamento dipende dalla sua attuazione. E ciò è ancora più importante nel caso degli
aiuti destinati agli Stati fragili. Si tratta di un problema riconosciuto ormai da tempo e che ha costituito il fulcro della
Dichiarazione di Parigi sull’efficacia degli aiuti e del follow-up del programma d’azione di Accra del 2008.
La progettazione di una gestione efficace delle politiche di aiuto richiede innanzitutto l’identificazione degli attori (donatori,
governi dei paesi donatori, beneficiari, governi dei paesi beneficiari) e delle loro relazioni, accompagnata dall’individuazione
dei responsabili della definizione degli obiettivi generali e specifici e dei relativi programmi, nonché di coloro che sono
preposti alla loro attuazione. È particolarmente importante stabilire poi il ruolo delle agenzie di aiuto e la loro autonomia
rispetto ad altri attori.
La forma più semplice di governance degli aiuti è rappresentata dal sostegno al bilancio in situazioni in cui non esistono
problemi di ammissibilità o particolari esigenze di monitoraggio25. In una situazione ideale di questo tipo, il bisogno di
agenzie di aiuto è alquanto ridotto, dal momento che i governi beneficiari (in questo caso coincidenti con i beneficiari stessi)
mettono direttamente in atto le politiche opportune. I donatori potranno anche fissare degli obiettivi generali, ma sono i
governi beneficiari a definire quelli specifici (e di frequente anche quelli generali). Tuttavia, una siffatta forma idealizzata
di sostegno al bilancio presuppone che i paesi beneficiari siano dotati di istituzioni governative in grado di rappresentare
gli interessi dei beneficiari, estremamente sviluppate e impegnate nei confronti di politiche incisive. Questo, però, non è il
caso degli Stati fragili. Di fatto, il problema dell’impegno sorge anche in quei paesi in via di sviluppo caratterizzati da una
governance ragionevolmente efficace: le revisioni annuali di bilancio spesso prevedono tagli discrezionali ai danni delle
politiche di sviluppo a favore di altre necessità impellenti prioritarie. La recente crisi finanziaria ha fornito diversi esempi di
questo problema dell’impegno: uno scoglio aggirabile delegando le politiche di aiuto e assegnando l’impegno di bilanci
pluriennali alle agenzie di aiuto.
Ciononostante, i problemi legati all’impegno non si limitano a questioni di finanze discrezionali, ma emergono anche
laddove la fiducia viene intaccata da spontanei cambiamenti di rotta politica o laddove le politiche di aiuto sono vulnerabili a
manipolazioni da parte di gruppi potenti. Pertanto, la mitigazione dei problemi di impegno rappresenta la ragione primaria
24
25
Ad esempio, membri della SADC quali Malawi, Mauritius, Zimbabwe e Zambia, tra gli Stati fragili, fanno parte allo stesso tempo anche della COMESA.
Per le condizioni di ammissibilità e le relative questioni di monitoraggio, vedere Ufficio di cooperazione EuropeAid 2009.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Capitolo 9
alla base della necessità di disporre di agenzie di aiuto autonome capaci di perseguire gli obiettivi a lungo termine senza
variazioni discrezionali e distorsioni locali. Un secondo motivo a giustificazione della loro presenza risiede nel fatto che,
quando il sostegno al bilancio (fornito a governi o a organizzazioni non governative) impone uno stretto monitoraggio
o quando non rappresenta un meccanismo di aiuto efficiente e i programmi di aiuto devono essere attuati, la politica di
aiuto diventa un’attività estremamente complessa che richiede capacità, specializzazioni, conoscenza del contesto locale
e professionisti adeguati.
Tuttavia, né le agenzie dei donatori né quelle dei governi beneficiari sono immuni a problemi di impegno né, tanto meno,
possiedono capacità adeguate. Data la dipendenza dai loro governi, sono difatti incapaci di isolarsi dalla politica e dalle
variazioni di bilancio. Le agenzie dei donatori, distanti da quelle dei paesi beneficiari, sono prive di incentivi adatti, conoscenza
del contesto locale e non dispongono della fiducia per monitorare o attuare le politiche di aiuto in modo efficace e coerente.
Le agenzie dei governi beneficiari, troppo vicine ai beneficiari stessi, possono essere influenzate da potenti gruppi locali a
sviare gli aiuti dal loro impiego più efficiente o possono essere sprovviste degli adeguati incentivi a vigilare sullo stanziamento
degli aiuti (elargiti sotto forma di sostegno al bilancio o di programmi di aiuto) e, pur conoscendo il contesto locale,
potrebbero non essere in grado di apprendere da altri attori o di crearsi la reputazione o la fiducia necessarie ad attirare
fondi esterni.
Nell’ambito dei principi di Parigi e di Accra di “titolarità” e “allineamento26, si impone inoltre una rivalutazione della
governance degli aiuti. I donatori (e i governi dei paesi in via di sviluppo) dovrebbero definire gli obiettivi generali e
impegnarsi nei confronti di politiche di sviluppo a lungo termine. Il mantenimento di tale impegno può essere conseguito
al meglio delegando l’attuazione dei programmi ad agenzie di aiuto nell’ambito dei servizi e trasferendo loro i fondi. A
destare una preoccupazione immediata vi è però il dubbio che un approccio aperto e più competitivo di questo tipo possa
inasprire il problema della frammentazione27. Disporre di molteplici donatori e beneficiari può essere un punto a favore.
Il problema della frammentazione nasce da un’eccessiva disponibilità di agenzie, ognuna delle quali caratterizzata da
svariati rapporti ormai radicati, e/o da una capacità estremamente limitata di monitoraggio e di gestione di programmi di
aiuti complessi ecc. Come avviene in altri comparti dei servizi competitivi, esistono economie di scala nella prestazione di
servizi umanitari e le agenzie che forniscono servizi umanitari professionali dovrebbero cercare una propria dimensione e
una propria specializzazione specifica, evitando frammentazioni inefficaci28.
In sintesi, esistono diversi principi di governance e di fiducia nella politica di aiuto a cui sarebbe bene attenersi:
• I donatori e i governi dei paesi in via di sviluppo dovrebbero definire gli obiettivi generali a lungo termine (“intavolare
un dialogo aperto e inclusivo in materia di politiche di sviluppo”).
• I programmi di aiuto, o i programmi di sostegno al bilancio che richiedono monitoraggio, andrebbero delegati ad agenzie
di aiuto nell’ambito dei servizi, che dovrebbero applicare la conoscenza del contesto locale alla definizione di obiettivi
e di programmi specifici e le loro conoscenze locali e specializzate alla valutazione e al monitoraggio di programmi di
aiuto o sostegno al bilancio.
• Le agenzie di servizi dovrebbero essere indipendenti dai donatori, dai governi dei paesi in via di sviluppo e dai beneficiari finali.
• Le agenzie di aiuto dovrebbero essere professionali, stabili, adeguatamente finanziate e affidabili.
• I donatori dovrebbero essere in grado di assegnare fondi a diverse agenzie e le agenzie dovrebbero essere capaci di
dirigere gli aiuti in funzione dei risultati ottenuti, e non solo sulla scorta delle relazioni instaurate.
Il programma d’azione di Accra afferma che “il conseguimento di risultati nel campo dello sviluppo e una loro aperta
rendicontazione devono essere il fulcro di tutte le nostre azioni”. I cinque principi espressi qui ribadiscono, e definiscono
in maniera più specifica, tale obiettivo quale meccanismo di “sostegno al bilancio ideale” laddove non è possibile ottenere
risultati mediante un semplice trasferimento di fondi. L’applicazione di questi principi alla politica di aiuto allo sviluppo dell’UE
26
27
28
La dichiarazione di Parigi e il programma d’azione di Accra sottolineano l’importanza della “titolarità” (i paesi in via di sviluppo devono definire le proprie
strategie in materia di riduzione della povertà, potenziare le proprie istituzioni e lottare contro la corruzione) e di “allineamento” (i paesi donatori dovrebbero
allinearsi a questi obiettivi e avvalersi dei sistemi locali).
Secondo lo studio condotto da W. Easterly e T. Pfutze (2008) su 31 agenzie bilaterali e 17 agenzie multilaterali, “la probabilità che due dollari scelti a caso tra
i fondi di aiuti internazionali provengano da uno stesso donatore e siano destinati allo stesso paese per uno stesso settore è di 1 su 2658”.
P. Collier ha sottolineato anche la necessità di una struttura più competitiva di “agenzie di servizi” (che denomina “autorità di servizi indipendenti”; vedere
Bold, Collier e Zeitlin 2009). Collier fonda la sua argomentazione sulla complessità dello stanziamento e del monitoraggio dei fondi di aiuto. Le assimila ad
autorità per la fornitura di servizi nazionali o locali, mentre io le considero principalmente, ma non esclusivamente, agenzie di aiuto nell’ambito dei servizi
multilaterali operanti in diversi paesi.
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Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
Conclusioni - priorità e prescrizioni
nei confronti degli Stati fragili dell’Africa richiede una piena rivalutazione e ristrutturazione della governance degli aiuti. La
governance degli aiuti comunitari è dominata dalle agenzie degli Stati membri e, come riconosciuto dalla dichiarazione di
Parigi, risente di problemi quali la frammentazione e la mancanza di coordinamento, elevati costi di transazione per governi
con capacità amministrative limitate e mezzi di monitoraggio, valutazione e apprendimento inadeguati. Ciononostante,
facendo leva sull’esperienza delle agenzie esistenti e rispettando i cinque principi di cui sopra, sarà possibile creare strutture
di governance degli aiuti migliori.
Alcuni Stati fragili dell’Africa subsahariana devono rimettersi al passo principalmente sul piano degli indicatori dello sviluppo umano,
altri, invece, devono creare istituzioni statali credibili. La maggior parte di questi paesi deve inoltre fare maggiore affidamento sulla
società civile. Alcuni si trovano in situazioni di conflitto o post-belliche e necessitano di assistenza militare, altri, infine, devono
concentrarsi innanzitutto sulla lotta contro l’HIV/AIDS o la malaria. Tutti loro devono potenziare il proprio capitale umano e la loro
partecipazione attiva, rivolgendo particolare attenzione all’istruzione delle donne (un aspetto, questo, che si traduce in un maggiore
benessere per le famiglie) e dei giovani per ridurre il rischio di disordini sociali e attività illegali.
Una volta definite le priorità, l’UE dovrà dare vita a una politica a lungo termine e a impegni di bilancio credibili senza interferire
con il principio della sovranità statale. Questi impegni permetterebbero agli Stati fragili di prolungare gli orizzonti temporali della
formulazione e dell’attuazione delle loro politiche. Anche il monitoraggio e i meccanismi di valutazione inter pares sono fondamentali
per il conseguimento degli obiettivi di sviluppo e per il potenziamento della resilienza.
Il passaggio dalle priorità a specifiche prescrizioni e linee guida per l’intervento richiede una solida conoscenza delle condizioni
locali, data la notevole eterogeneità degli Stati fragili dell’Africa subsahariana. Per sortire un effetto, la formulazione di prescrizioni
politiche dettagliate deve andare di pari passo con la conoscenza del contesto locale. Inoltre, l’UE deve esprimersi con un’unica
voce ed essere cosciente del fatto che il potenziamento istituzionale e la coesione sociale in Africa sono processi a lungo termine
in grado di assumere forme diverse in qualsiasi momento e che richiedono un’attenzione costante e un adeguato sostegno sul
campo. La società è inglobata dallo Stato, ma lo Stato penetra nelle relazioni sociali e le ristruttura.
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Dichiarazione comune del Consiglio e dei rappresentanti dei
governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del
Parlamento europeo e della Commissione sulla politica di sviluppo
dell’Unione europea.
RIFERIMENTI PER IL RIQUADRO 8.1
Parlamento europeo, Consiglio, Commissione. 2006. “Il consenso
europeo” 2006/C 46/01. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
Dichiarazione comune del Consiglio e dei rappresentanti dei
governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del
Parlamento europeo e della Commissione sulla politica di sviluppo
dell’Unione europea.
Parlamento europeo. 2007. Risoluzione del Parlamento europeo
del 15 novembre 2007 sulla risposta della UE a situazioni di
fragilità nei paesi in via di sviluppo, P6_TA-PROV(2007)0540
RAPPORTO EUROPEO
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SU
ULLLO
149
SVILUPPO
Riferimenti
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
RIFERIMENTI PER IL RIQUADRO 8.3
RIFERIMENTI PER IL RIQUADRO 8.8
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Are Damaging Livelihoods in the Developing World. Londra:
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Trade Policy Violates Right to Food in Ghana – Chicken and
Tomatoes. Bonn: Germanwatch e.V.
Stevens, C., M. Meyn, J. Kennan, S. Bilal, C. Braun-Munzinger, F.
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Analysis of Their Content and the Challenges for 2008. Londra/
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sviluppo.
RIFERIMENTI PER IL RIQUADRO 8.7
RIFERIMENTI PER IL RIQUADRO 8.9
Commissione delle Comunità europee. 2007. Verso una strategia
dell’UE in materia di aiuti al commercio – il contributo della
Commissione. Comunicazione della Commissione al Consiglio,
al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo
e al Comitato delle regioni. COM (2007) 163 def., 4 aprile, Bruxelles.
Grevi, G., D. Helly, e D. Keohane (a cura di). Di prossima
pubblicazione. The European Security and Defence Policy: The
First 10 Years, Parigi: Istituto dell’Unione europea per gli studi
sulla sicurezza, 2009.
Commissione delle Comunità europee. 2009. Supporting
developing Countries in Coping with the Crisis – Aid for Trade
Monitoring Report 2009. Documento di lavoro della Commissione
che accompagna la comunicazione della Commissione al Consiglio,
al Parlamento Europeo, al Comitato economico e sociale europeo
e al Comitato delle regioni, aprile 2009, p. 3.
RIFERIMENTI PER IL CAPITOLO 9
Bourguignon, F., A. Bénassy-Quéré, S. Dercon, A. Estache, J.W.
Gunning, R. Kanbur, S. Klasen, S. Maxwell, J. P. Platteau e A.
Spadaro. 2008. Millennium Development Goals at Midpoint:
Where do we stand and where do we need to go?. Documento
informativo per il Rapporto europeo sullo sviluppo 2009.
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Riferimenti
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WP/05/36 dell’FMI. Washington DC: FMI.
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e S. Durlauf. Amsterdam: North-Holland.
Collier, P. 2009a. The Political Economy of Fragile States and
Implications for European Development Policy. Documento
informativo per il Rapporto europeo sullo sviluppo 2009.
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Educational Attainment - Release 1.1. versione aggiornata della
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pubblicato ad agosto 2004, Washington DC: Banca mondiale.
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Dangerous Places. New York: HarperCollins.
Fanta, E. 2008. Dynamics of Regional (non-) integration in Eastern
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delle Nazioni Unite, Centre for Comparative Regional Integration
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Easterly, W. e Y. Nyarko. 2009. “Is the Brain Drain Good for Africa?”.
In Skilled Immigration Today: Prospects, Problems, and Policies, a
cura di J. Bhagwati e G. Hansen. New York: Oxford University Press.
Gandois, H. 2005. Sovereignty as Responsibility, or African
Regional Organizations as Norm-setters. Presentazione del
workshop “Sovereignty and Its Discontents” nel corso della
conferenza “Beyond Sovereignty II: Global Regionalism: Africa,
Americas, Europe” della British International Studies Association.
University of Saint Andrews, 19-21 dicembre, St. Andrews, Regno
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Qobo, M. 2007. Regional Integration, Trade and Conflict
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in Fragile States: Independent Service Authorities as a New
Modality, Centre for the Study of African Economies University
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Paradigm?”. The Washington Quarterly 29 (4): 81–97.
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Worst Practices in Foreign Aid”. Journal of Economic Perspectives
22 (2): 29-52.
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Democratization and the Rule of Law – Anchoring Democracy?.
Londra e New York: Routledge.
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les situations de fragilité: Annexe méthodologique, giugno 2009.
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OCSE/CAS. 2007. Principles for Good International Engagement
in Fragile States and Situations. Parigi: OCSE.
Parlamento europeo, Consiglio, Commissione. 2006. “Il consenso
europeo” 2006/C 46/01. Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.
Dichiarazione comune del Consiglio e dei rappresentanti dei
governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del
Parlamento europeo e della Commissione sulla politica di sviluppo
dell’Unione europea.
Spilimbergo, A. 2009. “Democracy and Foreign Education”.
American Economic Review 99 (1): 528-543.
UNCTAD. 2009. Economic Development in Africa – Strengthening
Regional Economic Integration for Africa’s Development. New
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UNECA. 2004. Assessing Regional Integration in Africa. Addis
Abeba: UNECA.
UNECA. 2006. Assessing Regional Integration in Africa II;
Rationalizing Regional Economic Communities. Addis Abeba:
UNECA.
RAPPORTO EUROPEO
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SVILUPPO
Allegato
Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
ALLEGATO
1. DOCUMENTI INFORMATIVI PER IL RAPPORTO EUROPEO
Pouligny, B., State-society relations and intangible dimensions
SULLO SVILUPPO 2009
Allen, F., e G. Giovannetti, The impact of the 2008-09 financial crisis
on fragile countries in Sub-Saharan Africa.
of state resilience and state building: a bottom-up perspective.
Aryeetey, E., The global financial crisis and domestic resource
mobilization in Africa.
Rocha Menocal, A., “State-building for Peace” - A New Paradigm
for International Engagement in Post-Conflict Fragile States?
Bagayoko-Penone, N., Multi-level Governance and Security: the
Security Sector Reform Process in the Central African Republic.
Tschirgi, N., The Security-Politics-Development Nexus: The Lessons
of State-building in Sub-Saharan Africa.
Barnett, M., State Fragility, the Peacebuilder’s Contract, and the
Search for the Least Bad State.
Vennesson, P. e Büger, C., Coping with Insecurity in Fragility
Situations.
Berman, N. e Martin, P., The Vulnerability of Sub-Saharan Africa to
the Financial Crisis: The Case of Trade.
Verdier, T., Regional Integration, Fragility and the Institution
Building: An Analytical Framework Applied to the African Context.
Reynal-Querol, M., Fragility and Conflicts.
Bertoli, S. e Ticci, E., The Fragile Consensus on Fragility.
2. IL PROCESSO CONSULTIVO DEL
RAPPORTO EUROPEO SULLO
SVILUPPO 2009
Carbone, M., Desperately Seeking Policy Coherence: Aid and
Security in the Development Policy of the European Union.
Collier, P., The Political Economy of Fragile States and Implications
for European Development Policy.
Il processo consultivo del Rapporto europeo sullo sviluppo 2009
si è basato sugli eventi che seguono:
Collier, P. e Venables, T., Natural Resources and State Fragility.
• Workshop “Development in a context of fragility – Focus on
Africa” (Lo sviluppo in un contesto di fragilità – L’Africa in
primo piano), Bruxelles, Belgio, 6 febbraio 2009.
Faria, F. e Sherriff, A., EU Policies to Address Fragility in Sub-Saharan
Africa.
Fennell, S., State Fragility and African Agriculture.
• Workshop “Food crisis and the development potential of the
agricultural sector in fragile countries” (Le crisi alimentari e il
potenziale di sviluppo del settore agricolo negli Stati fragili),
Cambridge, Regno Unito, 17-18 marzo 2009.
Giovannetti, G. e Velucchi, M., African Financial Markets: A Spillover
Analysis of Shocks.
Guillaumont P. e Guillaumont Jeanneney, S., State Fragility and
Economic Vulnerability: What is Measured and Why?
• Workshop “Transforming Political Structures: Security,
Institutions, and Regional Integration Mechanisms”
(Trasformare le strutture politiche: sicurezza, istituzioni e
meccanismi di integrazione regionale), Firenze, 16-17 aprile
2009.
Harcourt, W., Gender and Fragility: Policy Responses.
Harttgen, K. e Klasen, S., Fragility and MDG Progress: How Useful
is the Fragility Concept?
Iapadre, L. e Luchetti, F. Trade Regionalisation and Openness in
Africa.
• Conferenza “The challenges of fragility to development
policy” (Le sfide poste dalla fragilità alla politica di sviluppo),
Barcellona, Spagna, 7-8 maggio 2009.
Kaplan, S., Enhancing Resilience in Fragile States.
• Conferenza “Financial markets, adverse shocks and policy
responses in fragile countries” (Mercati finanziari, shock
avversi e risposte politiche negli Stati fragili), Accra, Ghana,
21-23 maggio 2009.
Khan, Z., Gender Responsive Budgeting.
Mold, A. e Prizzon, A., Fragile States, Commodity Booms and
Export Performance: An Analysis of the Sub-Saharan African Case.
Naudé, W., Africa and the Global Economic Crisis: A Risk Assessment
and Action Guide.
• Conferenza “Moving Towards the European Report on
Development 2009” (Verso il Rapporto europeo sullo sviluppo
2009), Firenze, 21-23 giugno 2009.
New Faces for African Development, autori vari, contributi dalla
sessione poster della conferenza ERD di Accra, 21-23 maggio 2009.
• Conferenza “Overcoming fragility in Africa: ERD Policy
recommendations” (Superare la fragilità in Africa:
raccomandazioni politiche dell’ERD), Bruxelles, Belgio, 4
settembre 2009.
Nkurunziza, J., Why is Burundi’s Financial Sector Not DevelopmentOriented?
Nyarko, Y., EU Policies and African Human Capital Development.
Il Volume 1B documenta il processo consultivo raccogliendo i
programmi finali, gli elenchi dei partecipanti e, per gli eventi
dall’1 al 5, anche le relazioni relative alle conferenze. Le
presentazioni delle conferenze degli eventi dal 2 al 5 e i podcast
relativi agli eventi 3, 4 e 7 sono disponibili per il download sul
sito Web del progetto: http://erd.eui.eu.
Oduro, A.D., Adverse Shocks and Social Protection in Africa: What
Role for Formal and Informal Financial Institutions?
Platteau, J.P., Political Instrumentalisation of Islam, Persistent
Autocracies, and Obscurantist Deadlock.
152
MOBILITARE LA RICERCA EUROPEA
PER LE POLITICHE DI SVILUPPO
SUPERARE LA
FRAGILITÀ IN AFRICA
FORGIARE UN NUOVO APPROCCIO EUROPEO
http://erd.eui.eu/
RAPPORTO EUROPEO
SSULLO
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ULLLO
SVILUPPO