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INDIA E CINA: LA DIGA TIENE ANCORA di Stefano Chiarlone
LA TIGRE E L’ELEFANTE AL BANCO DI PROVA di Maria Weber
A PECHINO MANCA UN PO’ DI STRATEGIA di Giovanni Andornino
L’ANNO DEL BUE PARTE CON MOLTA INCERTEZZA di Alessandro Arduino e Cristina Bombelli
CONTRORDINE COMPAGNI: LA CRISI C’È di Claudia Astarita
INDIA: UN MODELLO DA RIPENSARE di Marco Masciaga
Test Asia
Grazia Neri_/AFP
DOSSIER
DOSSIER
Sembrava
che la chiave per la sostenibilità globale risiedesse in un rallentamento della Cina
e dell’India. Il deflagrare della crisi economica mondiale ha cambiato rapidamente lo
scenario: ai giganti asiatici non si chiede più di frenare la crescita per ridurre l’inflazione
DOSSIER
India e Cina:
la diga tiene ancora
di Stefano Chiarlone
Grazia Neri_B. Sacha
Sembra ragionevole pensare che Cina e India manterranno una
crescita economica sostenuta. Questo consentirà ai due Paesi di
accrescere il proprio ruolo nella governance mondiale. Analogamente
aumenterà il peso delle aziende cinesi e indiane nell’economia
mondiale. Tuttavia, in linea teorica, non si può escludere che la diga
asiatica non possa subire cedimenti. E questo aprirebbe scenari molto
inquietanti per l’economia mondiale
Dall’inizio degli anni Ottanta, India e Cina hanno intrapreso un
ampio percorso di riforme economiche finalizzato a guadagnare in
competitività e a ridurre la povertà1. Caratteristica comune è stato
un ripensamento del ruolo dello Stato nell’economia e una forte
crescita del ruolo dell’imprenditoria privata. Pur fra le molte ombre
relative alla crescente ineguaglianza e al permanere di situazioni di
povertà, aggravate da sistemi di welfare inadeguati, la crescita ha
offerto nuove opportunità alle popolazioni e ha contribuito alla
nascita ed espansione di gruppi multinazionali cinesi e indiani di
rilievo globale, affermando la ritrovata centralità globale di questi
Paesi, secoli dopo l’isolamento innescato dalla prima rivoluzione
industriale.
Dal punto di vista domestico, il successo delle riforme e il
costante incremento del reddito pro-capite e del potere d’acquisto
ha accresciuto la fiducia della popolazione, favorendo gli
investimenti e innescando meccanismi di spesa di stampo simile a
quelli occidentali, sebbene il crescente benessere non abbia
beneficiato i milioni di famiglie rurali, accentuando la discrasia fra
l’India e la Cina moderne e urbane e quelle rurali e agricole. A
livello internazionale, la crescita economica cinese e indiana ha
favorito quella mondiale, e le delocalizzazioni che hanno attratto
quote importanti di manifattura (Cina) e servizi (India) hanno
consentito un riduzione dell’inflazione mondiale che ha favorito la
lunga fase di politica monetaria accomodante della prima metà
degli anni Duemila.
Dalla seconda metà del decennio corrente, gli squilibri cinesi
(inflazione da materie prime e forte avanzo commerciale dovuto
all’inflessibilità del renminbi) hanno iniziato ad affliggere
(insieme a quelli statunitensi) la sostenibilità dell’economia
internazionale. Sembrava che la chiave per la sostenibilità globale
risiedesse, anche e in misura non secondaria, in un rallentamento
cinese (e indiano). Il deflagrare della crisi economica mondiale ha
cambiato rapidamente lo scenario: a India e Cina non si chiede più
di frenare la crescita per ridurre l’inflazione mondiale ma,
piuttosto, di agire per mantenerla elevata e sostituire
la locomotiva americana. Al contempo, Cina e India devono
fronteggiare gli impatti della crisi sulle loro imprese
e le reazioni di una popolazione che, in molti casi, rischia
di scoprire sulla propria pelle la fragilità di modelli di crescita
fortemente collegati alla domanda estera nel settore
manifatturiero e dei servizi commerciabili.
La stabilità politica di Cina e India non sarà indipendente dalla
capacità dei governanti di attenuare l’impatto della crisi sulla
popolazione, dato che in Cina la crescita economica è un fattore
importante della tenuta del Partito comunista, e in India la
frammentazione del sistema partitico si presta a una crescita del
populismo. Non sembra difficile, quindi, prevedere interventi
monetari e fiscali protratti e sostanziosi, probabilmente più in Cina
che in India per le maggiori risorse disponibili. Dal successo di
queste misure dipenderà l’impatto della crisi sulla fiducia della
popolazione nell’affermazione internazionale del Paese e nel
governo e la forza delle imprese.
Sembra ragionevole pensare che se manterranno una crescita
economica sostenuta, il ruolo di Cina e India nella governance
mondiale e delle loro imprese nell’economia globale crescerà con
ovvi impatti benefici sulla ricchezza nazionale. Al contrario un
rallentamento profondo e un aumento significativo della povertà
oltre ad aggravare la crisi mondiale, potrebbe rimettere in
discussione molti dei successi della lunga fase espansiva e riportare
indietro le lancette del tempo per ciò che concerne la loro apertura
internazionale.
1 Per una analisi dettagliata dei percorsi di riforma e crescita economica di Cina e India si vedano: S. Chiarlone,
L’Economia dell’India, Carocci Editore, Roma 2008 e S. Chiarlone e A. Amighini, L’Economia della Cina: dalla pianificazione al mercato, Carocci Editore, Roma 2007.
Grazia Neri_R. Raveendran/AFP
Corbis_Construction Photography
mondiale, ma piuttosto di agire per mantenerla elevata e sostituire così la locomotiva
americana. Senonché Cina e India devono anche fare i conti con le conseguenze della crisi
sulle proprie economie. Conseguenze che evidenziano la fragilità dei loro modelli di sviluppo
Contrasto_D.Dainelli
La Tigre e l’Elefante
al banco di prova
di Maria Weber
Come si ripercuote la crisi mondiale sulle due locomotive asiatiche, la
Tigre cinese e l’Elefante indiano? Le cifre indicano un rallentamento
della crescita, che resta pur sempre sostenuta. In alcuni settori, per
esempio quello dell’informatica, che pesa significativamente sul Pil
dell’India, la decelerazione desta qualche preoccupazione
supplementare. Ma le incognite non si fermano all’economia. Nei due
Paesi, infatti, la crisi pesa su assetti politici e sociali che…
Nel secondo semestre del 2008, lo scenario entro il quale la Cina stava
perseguendo i suoi programmi di sviluppo accelerato è drammaticamente
mutato. Durante i primi sei mesi del 2008, l’economia cinese aveva
continuato a crescere a un tasso superiore all’11%, nonostante la battuta
d’arresto dovuta al “disastro della neve e del ghiaccio”, la terribile ondata
di maltempo che all’inizio di febbraio aveva paralizzato le regioni
industriali del Sud-est. In particolare, nei primi tre mesi del 2008 la
produzione industriale della Cina era cresciuta del 16% su base annua,
nonostante i fattori congiunturali negativi, come il costante aumento di
valore del renminbi rispetto al dollaro, il rallentamento dei consumi negli
Usa e la stagnazione in Europa. Con anticipo sulle previsioni più
ottimiste, la Cina si avviava a diventare la seconda economia del pianeta
scavalcando il Giappone, subito alle spalle degli Stati Uniti.
Nel nuovo scenario che si profila all’inizio del 2009 in seguito alla
100
crisi dei mercati finanziari internazionali, anche la Cina è costretta a
rivedere al ribasso tutti i parametri economico-finanziari di riferimento.
Le previsioni di crescita del Pil sono scese intorno al 7-8%, i consumi
energetici hanno smesso di crescere, le esportazioni regrediscono di
qualche punto percentuale. Il fatto che l’attivo commerciale cinese
continui ad aumentare, nonostante l’accentuarsi della recessione globale
e la diminuzione dei consumi nei mercati occidentali, trova spiegazione
nella netta contrazione delle importazioni di materie prime e di energia.
Anche il crollo dell’inflazione, scesa dal 10% al 2% in meno di sei mesi,
deve essere interpretato come il segnale non di un funzionamento più
efficiente dell’economia cinese, ma di un suo brusco rallentamento.
Il governo cinese, nel 2009, riuscirà a salvaguardare la crescita della
propria economia reale? In tal caso, riuscirà la Cina anche nell’impresa di
“salvare il mondo dalla recessione”? Se lo chiedeva nel novembre 2008
un articolo dell’«Economist», Can China Save the World? (November
15th-21st, 2008). Appena un mese dopo l’«Economist» era meno
ottimista: dedicando il numero di metà dicembre al tema China and
India. A Tale of two Vulnerable Economies (December 13th-19th, 2008),
la rivista metteva sì in evidenza i risultati ottenuti in trent’anni di
“politica della porta aperta” (1978-2008), ma sottolineava anche il fatto
che l’evoluzione delle riforme economiche cinesi lascia irrisolti numerosi
problemi. Molti di essi sono dovuti alla sopravvivenza di strategie e
politiche impostate con una mentalità da “economia socialista a
pianificazione centralizzata” che è poco compatibile con uno scenario
globale avviato alla recessione, per affrontare il quale sono necessarie
flessibilità, iniziativa e capacità di adattamento ai cambiamenti dei
mercati. Ecco alcuni dei punti critici.
1) Le aziende statali (State Owned Enterprises, Soes) costituiscono
ancora il 60% della produzione industriale. Le Soes sono in costante
ridimensionamento, come si può dedurre dalla graduale diminuzione del
numero degli addetti (nel 2002 hanno dato lavoro solamente al 28%
degli operai delle aree urbane, a fronte del 69% nel 1992), ma sono
ancora determinanti per il raggiungimento degli obiettivi di crescita del
Pil. Purtroppo, in quasi tutti i settori merceologici rappresentano la parte
meno efficiente e più rigida dell’apparato produttivo cinese, quella più
lenta ad adeguarsi alle tendenze evolutive dei mercati, sia a livello
nazionale che internazionale.
2) Il sistema bancario e finanziario, controllato ancora in massima parte
dallo Stato, è appesantito da percentuali molto elevate di crediti
inesigibili (Non Performing Loans, Npl), in gran parte imputabili alla
inefficienza delle aziende statali e alla loro mancata riorganizzazione,
prevista entro il 2002, ma non ancora ultimata a inizio 2009.
Corbis_A.Hofford/epa
3) Nonostante i continui richiami ufficiali alla necessità di estendere le
iniziative di sviluppo industriale a zone sempre più ampie del Paese (la
cosiddetta Go West Policy) e a un numero maggiore di settori industriali,
la Open Door Policy è rimasta sostanzialmente limitata alle aree costiere
dell’Est della Cina.
4) Molta parte degli investimenti esteri (Foreign Direct Investments,
Fdi) si è concentrata nella creazione e nello sviluppo di aziende di medie e
piccole dimensioni, con una limitata autonomia operativa locale e una
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DOSSIER
notevole dipendenza dalle scelte strategiche di decisori spesso molto
lontani dalla realtà cinese, sia come mentalità che come collocazione fisica.
5) In molte province cinesi, certe tipologie di impresa non riescono a
fornire un livello di output industriale significativamente superiore a
quello raggiunto negli anni Novanta, per carenza di competenze
manageriali o per un mancato adeguamento delle tecnologie produttive.
Ricadono in questa categoria molte aziende private ma soprattutto le Tves
(Township and Village Enterprises), assai diffuse nelle zone rurali, e le
Fies (Foreign Invested Enterprises), agevolate e ampiamente finanziate
dai governi provinciali.
Quelle elencate sono caratteristiche strutturali del sistema
produttivo cinese che non possono certo venir modificate rapidamente.
Per rimediare sul breve termine ai contraccolpi della crisi finanziaria
mondiale, il governo cinese ha deciso di sostenere l’economia reale con
misure non molto dissimili da quelle dei governi capitalisti occidentali.
Facilitazioni a favore dell’acquisto di automobili, per cercare di limitare
il crollo nelle immatricolazioni. Sgravi fiscali all’export di acciaio, in
controtendenza a quanto deciso proprio all’inizio del 2008. Quasi 600
miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture: autostrade, porti,
aeroporti, canali. I provvedimenti adottati con rapidità e
determinazione dal governo cinese non sembrano però aver fatto
cambiare idea a quattro tra le principali banche occidentali presenti da
alcuni anni sul mercato cinese (Bank of America, Citigroup, Royal
Bank of Scotland, Ubs), che nel mese di gennaio 2009 hanno deciso di
liquidare le partecipazioni a suo tempo acquisite in banche cinesi.
Resta il dubbio se si tratti di una manifestazione di sfiducia nelle
prospettive di sviluppo del mercato finanziario cinese o più
semplicemente di una decisione obbligata, vista la necessità di queste
banche di porre rimedio alle loro difficoltà di bilancio anche mediante
dismissione di asset strategici.
In una prospettiva di lungo periodo la Cina sta cercando di porre
rimedio all’arretratezza tecnologica di molta parte delle proprie
industrie: le università e gli istituti di ricerca ricevono crescenti
investimenti, alle imprese vengono concessi incentivi e sgravi fiscali.
La protezione brevettuale si va diffondendo, al punto che si prevede
che entro il 2012 la Cina diventerà leader mondiale per numero di
brevetti internazionali depositati.
Corbis_S.Touhig
Per la Cina che si affaccia al secondo decennio del nuovo secolo,
salvaguardare lo sviluppo dell’economia non è però soltanto un problema
di organizzazione produttiva o di corretta allocazione delle risorse
finanziarie. È l’evoluzione stessa del sistema-Paese che comporta grandi
cambiamenti e provoca squilibri che richiedono una ricomposizione.
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1) Il reddito medio degli abitanti delle zone urbane è pari a tre-cinque
volte il reddito medio degli abitanti delle zone rurali. Si tratta di un
differenziale persino superiore a quello di alcuni Paesi dell’America
Latina, come il Brasile. In queste condizioni, non può stupire che un
contadino su cinque vada a ingrossare le fila dei migrant workers, la
manodopera non qualificata che nelle città si fa carico di tutti i lavori più
pesanti e pericolosi. Secondo fonti governative, il loro numero può essere
valutato intorno ai 150 milioni.
2) Il drastico miglioramento nella speranza di vita, salita da meno di 40
anni negli anni Cinquanta a 73 anni nel 2008, sta rendendo indispensabile
la costruzione di un efficiente sistema di welfare: una popolazione in
rapido invecchiamento richiede una più ampia assistenza pensionistica e
sanitaria. Negli ultimi anni, la Cina ha adottato per pensioni e sanità un
insieme di schemi basati su una combinazione di pagamenti individuali e
collettivi. Si tratta di una soluzione che può risultare efficace per creare un
soddisfacente sistema sanitario, ma non sembra adatta alla creazione di un
valido sistema pensionistico: le pensioni necessitano di una condivisione
intragenerazionale e comportano un rischio intergenerazionale. Se si
considera la scala demografica cinese e le ridotte capacità finanziarie della
popolazione rurale (che ammonta al 60% del totale), gli schemi di
finanziamento del welfare attualmente adottati nella maggior parte delle
province cinesi sembrano comportare un alto rischio economico e bassi
benefici per la popolazione.
Ai tanti problemi irrisolti dopo trent’anni di riforme economiche e
sociali, si aggiungono ora le conseguenze della crisi finanziaria
internazionale. Il difficile compito di traghettare la Cina fuori dalla crisi
spetterà ai componenti della cosiddetta “generazione dei cinquantenni”. Il
primo cinquantenne al potere che si appresta a occupare posizioni chiave
nel governo del Paese è Xi Jingping, 54 anni, nominato vicepresidente
della Commissione Militare Centrale. Le altre nomine previste all’interno
del Consiglio di Stato (il principale organo governativo cinese) sono
quelle dei nuovi vice primo ministro: Li Keqiang, che nel 2013 potrebbe
succedere al premier Wen Jiabao, l’ex sindaco della capitale Wang Qishan
(di qualche anno più anziano degli altri) e Zhang Dejiang, l’ex capo del
Partito comunista nella provincia meridionale del Guangdong, la più
industrializzata del Paese. Come sempre, l’arrivo di personaggi
relativamente nuovi ai posti di comando di un sistema a partito unico
porta con sé promesse di approfondimento delle riforme e in particolare
della “riforma politica”, cioè l’introduzione di elementi di democrazia in
un sistema che è rimasto autoritario e centralizzato nonostante il
liberismo estremo adottato in alcuni settori dell’economia.
Per ora le riforme annunciate sono principalmente organizzative:
riguardano una serie di accorpamenti e la creazione di tre nuovi ministeri.
Uno di questi è il ministero dell’Energia, osteggiato dalle lobby che
controllano la politica energetica, come la Commissione Nazionale per lo
Sviluppo e le Riforme, la compagnia petrolifera PetroChina e quella
elettrica State Grid. Numerosi erano già stati i tentativi di riorganizzare il
framework istituzionale del settore dell’energia nel tentativo di renderlo
Grazia Neri_DE TORQUAT Catherine
3) Anche l’introduzione, all’inizio del 2008, della tanto attesa legislazione
per la regolamentazione del mercato del lavoro costituisce un insieme di
opportunità ma anche di minacce. Una delle novità più rilevanti è
l’imposizione del pagamento di contributi sociali da parte dei datori di
lavoro pari al 12-18 % dello stipendio base, destinati a finanziare i
programmi di welfare. Le resistenze non sono mancate, sia da parte degli
imprenditori (che mal sopportano la riduzione del vantaggio competitivo
garantito dal basso costo del lavoro), sia da parte dei lavoratori (molti dei
quali avrebbero preferito veder comparire quei denari nella loro busta
paga). Un’altra conseguenza della nuova legislazione è la creazione di
rappresentanze sindacali nei posti di lavoro, che però di fatto risultano
essere una ramificazione locale della struttura del Partito.
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Contrasto_Jonkmanns/Leif
più efficiente. Cosciente dei costi che la vulnerabilità energetica può
avere per lo sviluppo economico, il governo cinese ha adottato, dalla fine
degli anni Novanta, una serie di provvedimenti e di misure per
migliorare la sicurezza degli approvvigionamenti. In particolare, al fine di
limitare la dipendenza dalle importazioni di petrolio, Pechino ha deciso di
incentivare le esplorazioni nazionali, diversificare i fornitori di petrolio,
estendere l’influenza della Cina verso i Paesi produttori e avviare la
creazione di riserve strategiche di petrolio. L’attuale direttore dell’Ente di
Stato per l’Energia, Zhang Guobao, ha dichiarato che la Cina deve trarre
beneficio dalla riduzione dei consumi energetici mondiali, per aumentare
le sue riserve. Tuttavia la dipendenza dalle importazioni di petrolio
rimane forte, anche se maggiormente diversificata, così che i blackout di
energia elettrica, dopo un periodo di relativa calma, sono oggi tornati ad
essere fonte di preoccupazione. Il programma annunciato di costruzione
di un numero imponente di nuove centrali nucleari non sembra tale da
poter cambiare significativamente i termini della questione. Neppure
l’aumento dei ritmi di estrazione del carbone, che entro il 2012 dovrebbe
portare il dato annuale da 2,2 miliardi a 3 miliardi di tonnellate, sembra
una soluzione convincente, visto che se da un lato accrescerà la
disponibilità di energia a basso prezzo, dall’altra innalzerà
drammaticamente l’inquinamento già elevatissimo dell’aria e del suolo.
La strada che la Cina deve percorrere per far fronte ai fabbisogni
energetici è in realtà ancora lunga e tortuosa, anche se non devono essere
sottovalutati gli sforzi di Pechino per trovare una risposta positiva al
simultaneo profilarsi delle sfide energetiche, ambientali e istituzionali.
MIGLIORI RELAZIONI CON L’INDIA…
L’inizio degli attuali problemi della Cina con l’India può essere fatto
risalire al 1962, quando New Delhi cercò di reagire all’annessione del
Tibet da parte della Cina. Poco dopo, Pechino cominciò a sostenere la
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posizione del Pakistan nella disputa relativa al Kashmir. Il problema del
Kashmir ha bloccato ogni possibilità di creare un clima di fiducia in cui
negoziare accordi di pace: mentre l’India non può permettere la
secessione di uno Stato a maggioranza musulmano (pena il rischio di
incoraggiare altre secessioni), il Pakistan non può abbandonare il
Kashmir, non tanto perché costituisce una parte del suo territorio, ma
perché è una componente fondamentale della sua identità. Né l’India né
il Pakistan hanno firmato il trattato contro la proliferazione delle armi
nucleari (Nuclear Non-Proliferation Treaty, Npt): mentre l’India
giustifica la sua opposizione con la natura discriminatoria dell’Npt, il
Pakistan motiva la sua posizione con la difesa dell’Islam (da cui il
concetto di “bomba islamica”) e come reazione alla natura egemonica del
presente ordine mondiale. Sul piano geopolitico, le consolidate relazioni
politiche e militari tra Pakistan e Cina, che da decenni inquietano New
Delhi, sono state in parte compensate da legami più stretti che l’India ha
di recente intrecciato con gli Stati Uniti, compresa una inattesa
collaborazione nel campo dell’energia nucleare. La diplomazia
statunitense ha negli ultimi anni conseguito un risultato di rilievo, in
Asia meridionale, ottenendo di intrattenere contemporaneamente buoni
rapporti sia con l’India sia con il Pakistan. L’India non potrebbe
ovviamente essere soddisfatta di lasciare al Pakistan il monopolio di un
rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, tanto più in un momento nel
quale si tenta di riannodare il dialogo sul Kashmir.
…E CON LA “PROVINCIA RIBELLE” DI TAIWAN…
Dal dicembre 2008 si è avuta una conferma molto concreta del fatto
che i passi di avvicinamento tra Cina e Taiwan costituivano un processo
difficilmente reversibile: sono iniziati i collegamenti aerei diretti tra la
terraferma e l’isola, con sedici voli e un cargo non stop al giorno, senza
dover più passare per Hong Kong o altri scali. È ripresa anche la
navigazione mercantile: evidentemente entrambe le controparti si sono
convinte che in tempi di crisi è meglio mettere da parte i contrasti tra
investitori e produttori, ovvero tra fornitori e clienti, e collaborare per
ridurre i costi e sfruttare insieme ogni opportunità.
Grazia Neri_A. Digaetano/Polaris
Molto interessante l’evoluzione delle relazioni tra Cina e Taiwan.
Nelle elezioni presidenziali del 22 marzo scorso, la vittoria del partito
Kuomintang, nella persona di Ma Ying-jeou e del suo vice Vincent Siew,
ha messo fine ad un periodo teso nei rapporti tra le cosiddette “due
sponde dello Stretto di Taiwan”. Durante tutti gli otto anni precedenti,
nell’isola secessionista erano stati al potere gli indipendentisti del Partito
democratico progressista. Nel discorso tenuto in occasione del suo
insediamento, il presidente Ma Ying-jeou si è impegnato a non
dichiarare l’indipendenza nel corso del suo mandato che dura quattro
anni. Però ha aggiunto che Taiwan chiede di essere ammessa in alcuni
organismi internazionali, cosa che non ha certo tranquillizzato i
dirigenti della Cina Popolare, che hanno sempre interpretato queste
intenzioni come un passo verso la separazione definitiva. Taiwan, ha
detto il neopresidente, non vuole solo sicurezza e prosperità ma anche
dignità. A coronamento di questa serie di mosse tattiche, il 28 maggio
2008 il presidente cinese Hu Jintao ha ricevuto il presidente del
Kuomintang, Wu Poh-hsiung, nel corso di una cerimonia a Pechino.
Wu era arrivato in Cina per una visita di sei giorni, che è stata subito
interpretata come una riapertura dei colloqui tra Pechino e Taiwan
dopo oltre dieci anni di interruzione.
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DOSSIER
Quote di Cina e India sulla produzione industriale mondiale, 1975-2003
25%
20%
CINA
INDIA
15%
10%
5%
0%
1975 1978 1981 1984 1987 1990 1993 1996 1999 2002
Fonte: elaborazione su dati contenutu in World Bank Indicators, vari anni
…E UNA NUOVA DISPONIBILITA’ NEI CONFRONTI DEL GIAPPONE
Olycom_ SIPA PRESS
I rapporti istituzionali tra Cina e Giappone si possono ben definire
“rarefatti”: l’ultima visita in Cina dell’imperatore Akihito e della
imperatrice Michiko risale al 1992. D’altra parte, è pur vero che il
presidente Hu Jintao ha visitato il Giappone agli inizi di maggio 2008,
ma si trattava soltanto della seconda visita di un capo di Stato cinese
dal 1972, anno della ripresa dei rapporti diplomatici tra Cina e
Giappone, dopo quella di Jiang Zemin del 1998. Le relazioni tra le
due grandi potenze asiatiche hanno avuto momenti di tensione in
particolare durante il mandato del primo ministro giapponese
Junichiro Koizumi (2001-2006) che aveva, con le sue prese di
posizione e con le sue visite al tempio scintoista di Yasukuni,
riaperto le ferite dell’occupazione nipponica in Cina negli anni
Trenta e Quaranta.
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Su un piano non istituzionale ma pragmatico, una possibile
collaborazione si profila oggi dopo lo scoppio della crisi finanziaria
internazionale: Cina e Giappone, con il coinvolgimento della Corea
del Sud, hanno recentemente formulato un’ipotesi congiunta per la
creazione di un comune argine alla crisi. Si tratta della Tripartite
Partnership, varata il 13 dicembre 2008 in seguito al primo vertice tra
Giappone, Cina e Corea del Sud tenuto a Fukuoka in Giappone. Il
premier giapponese Taro Aso, il premier cinese Wen Jiabao e il
presidente sudcoreano Lee Myng-bak si sono mostrati disposti a
mettere da parte le tensioni passate per sostenere la ripresa della
crescita dell’economia, e si sono ripromessi di fare il punto della
situazione con cadenza annuale. I tre paesi asiatici intendono giocare
“un ruolo di centro della crescita al fine di invertire il trend globale e
far tornare l’economia mondiale sul sentiero della crescita
sostenibile” (I tre grandi dell’Asia insieme contro la crisi, in «Il Sole
24ore», 14 dicembre 2008). È stato siglato un accordo di
collaborazione finanziaria per scoraggiare attacchi speculativi alle
principali monete del Sud-est asiatico e per ridurre le fughe di
capitali. È stato anche messo a punto un piano di azione per
promuovere la cooperazione trilaterale, che invita a portare a
conclusione il Doha Round, ad approfondire gli studi su un possibile
Free Trade Agreement a partire dal 2009, e a chiudere il tavolo
negoziale con Pyongyang sul nucleare. I colloqui a sei (Usa, Russia,
Corea del Nord, Corea del Sud, Cina e Giappone) avevano prodotto a
febbraio del 2007 un accordo con il quale Pyongyang si impegnava a
rendere noti i suoi programmi nucleari in cambio di assistenza e aiuti
a titolo di compensazione, ma i negoziati multilaterali erano entrati in
stallo dalla fine del 2007, dopo il mancato rispetto della scadenza che
impegnava la Corea del Nord a compilare un inventario completo dei
propri programmi nucleari.
L’INDIA: UN ELEFANTE, NON UNA TIGRE
L’economia indiana, definita da «The Economist» “un elefante, non
una tigre”, ha avuto nell’ultimo decennio una crescita costante, anche se
non così accentuata come la crescita cinese, mantenendosi su una media
del 6% e raggiungendo per brevi periodi livelli del 9%. Il reddito
pro-capite è aumentato, anche se rimane ancora basso in valore assoluto
(meno di 1000 dollari l’anno). Più alti rispetto alla Cina sono stati sia il
tasso di inflazione (6,1% nel 2007), sia il tasso ufficiale di disoccupazione
(7,8%). L’economia indiana non è ancora fortemente orientata
all’esportazione, anzi negli ultimi due anni ha riportato un deficit della
bilancia dei pagamenti, stimato nel 2007 pari a 23 miliardi di dollari.
Le riforme economiche sembravano soffrire dei primi segnali di crisi
economica già nell’ultimo biennio. Sul fronte delle acciaierie, il gruppo
Tata cominciava ad avere il fiato grosso, dopo l’ondata di acquisizioni
internazionali degli anni ???. La filiale siderurgica Tata Steel ha chiesto
aiuti governativi a Gran Bretagna e Olanda per affrontare la
ristrutturazione delle acciaierie Corus. Colpita da un calo di produzione
del 30%, licenzierà 1100 dipendenti sugli 11.000 che ha in Olanda.
Ma la crisi finanziaria internazionale si accanisce ora sul fiore
all’occhiello dell’economia indiana: i servizi informatici. Dopo lo scandalo
dei bilanci truccati alla Satyam, un buco di un miliardo di dollari, causato
da manipolazioni di utili e attivi di bilancio, il 13 gennaio 2009 è toccato
alla Wipro essere messa al bando dalla World Bank per corruzione,
avendo offerto a un alto funzionario della Banca degli stock option a
prezzo di favore in cambio di vendita di contratti in outsourcing.
All’inizio di gennaio 2009, New Delhi si cimenta ora annunciando il suo
New Deal antirecessione. Il governo indiano intende raddoppiare gli
investimenti pubblici in infrastrutture nell’arco di un quinquennio, con
un investimento complessivo di 500 miliardi di dollari americani. Sulla
base di esperienze passate, molti osservatori indiani esprimono
scetticismo sulla capacità del governo di realizzare il piano di
investimenti nei tempi stabiliti.
Il vero problema indiano è da sempre un’eccessiva instabilità politica:
le tendenze centripete e scissioniste approfittano delle tensioni tra le
diverse religioni in perenne conflitto, mentre corruzione e corruttibilità
dei politici alimentano la frammentazione partitica, che a sua volta
incrementa l’instabilità politica. L’India appare governabile solo da
coalizioni multipartitiche guidate dal Partito del Congresso (il partito
“panindiano” fondato dal padre dell’indipendenza indiana, il presidente
Nehru), e composte da un coacervo di partiti regionali e castali. Il Partito
del Congresso ha governato il Paese per molte legislature e si considera
Grazia Neri_/AFP
INSTABILITA’ POLITICA, MASSIMO VINCOLO ALLA RIPRESE ECONOMICA
107
DOSSIER
INCIDENZA DELLA POVERTÀ
Linea di povertà % di popolazione che vive al di sotto di 2 dollari al giorno
100
80
60
40
20
1981 1984 1987 1990 1993 1996 1999 2002 2004
CINA
INDIA
Est Asia ex Cina
Sud Asia ex Cina
Africa Sub-Sahariana
depositario dell’eredità politica e intellettuale di Nehru; punto di
riferimento resta l’italiana Sonia Ghandi, vedova del figlio di Indira
Gandhi, Rajiv. I partiti regionali, sempre più determinanti nel sistema di
alleanze e di coalizioni a causa della frammentazione sociale, castale e
religiosa del Paese, possono diventare facilmente strumenti di potere di
clan locali o addirittura di mafie.
Corbis_F.Hoffmann
Il recupero politico del Partito del Congresso, tornato al potere nella
scorsa legislatura dopo un periodo dominato dalla presenza sulla scena
politica del Partito fondamentalista indù (Bjp), non deve illudere sulle
sue possibilità di successo nelle ormai imminenti elezioni nazionali. I
temi dell'inflazione, della crisi economica, del terrorismo renderanno
assai complessa la campagna elettorale del Partito del Congresso e della
Upa, la United Progressive Alliance guidata dal partito di Sonia. L’attuale
Parlamento è stato a lungo contestato: almeno un terzo dei suoi
componenti sono stati inquisiti per corruzione e già condannati, e un
sesto di essi è attualmente indagato. La situazione non è nuova: nel 1995
un rapporto ufficiale dell’ex ministro dell'Interno parlava di un “sistema
mafioso parallelo di governo che indebolisce gli apparati dello Stato”. Un
politologo della Jnu di Delhi (Jawaharlal Nehru University), la più
prestigiosa università in materia di scienze sociali dell'intero
subcontinente indiano, ha recentemente affermato in un’intervista che il
problema della corruzione (quella che alcuni commentatori indiani
definiscono ormai la “criminalizzazione della politica”) è collegato
all'affermazione e al ruolo crescente dei partiti regionali.
All’interno dello schieramento politico, la destra nazionalista risulta
108
Corbis_Z. Ming/Xinhua Press
divisa in due correnti: da un lato coloro che continuano a ritenere il tema
sicurezza e lotta al terrorismo assolutamente prioritario nell'agenda
elettorale; dall'altro lato, coloro che vorrebbero puntare a un’agenda “di
sviluppo”, comprendente temi economici, sociali, infrastrutturali, di
governance. Questa seconda impostazione prende come esempio i
risultati elettorali ottenuti nel dicembre 2008 dal Partito del Congresso,
che ha vinto negli Stati dove i governi locali si erano impegnati proprio
su questo terreno. La scelta di una delle due strategie alternative ha una
forte importanza per la destra nazionalista indù: privilegiare il tema del
terrorismo significherebbe ovviamente rilanciare in chiave estremista il
fondamentalismo indù.
Insistere sul tema sicurezza e terrorismo riporta al delicatissimo
rapporto fra India e Pakistan. Gli attacchi dei terroristi islamici estremisti
rinfocolano le tensioni indo-pakistane e portano acqua al mulino della
destra indù più estremista, aggravando ulteriormente la tensione e
condizionando gli atteggiamenti del governo laico di Manmohan Singh,
che ovviamente non può apparire debole con il Pakistan. Ciò crea nuove
tensioni e favorisce nuovi attentati in un cortocircuito potenzialmente
molto pericoloso fra due potenze nucleari. Dopo i recenti attentati a
Mumbay, il capo della diplomazia indiana ha annunciato di aver fatto
pervenire a Islamabad le prove della “pista pakistana”. Il governo
pakistano ha subito fatto sapere che “esaminerà le prove” indiane, ma lo
ha fatto sapere tramite un canale significativo, cioè tramite il
vicesegretario di Stato americano per la regione, Richard Boucher, in
missione nella capitale pakistana.
109
Corbis_R.Pyle
Notizie interessanti arrivano dal fronte più conteso del confine indopakistano: il Kashmir, dove lo scorso dicembre si sono tenute le elezioni
per il rinnovo della locale Assemblea legislativa. Omar Abdullah, leader
del partito regionale National Conference alleato del Partito del
Congresso, è stato infatti designato primo ministro e ora si prepara a
costituire il suo gabinetto, dichiarando l’intenzione di “aprire colloqui
con i leader separatisti”. Su un altro fronte, la diplomazia indiana ha
chiesto alla diplomazia cinese di fare pressioni su Islamabad affinché il
Pakistan cooperi nella lotta al terrorismo internazionale. L'incontro sinoindiano è durato, secondo la stampa indiana, due ore: il viceministro
cinese degli Esteri ha suggerito a Delhi e Islamabad di parlarsi per
“risolvere il problema”.
Il miglior meccanismo disponibile per neutralizzare l’esplosiva
situazione nel Kashmir è il perseguimento di forme di integrazione
regionale. Un approccio di questo tipo facilita gli scambi e permette la
redistribuzione dei costi e dei vantaggi della cooperazione economica.
Esso inoltre offre un’utile cornice di riferimento nell'ambito della quale
concedere reale autonomia e democrazia agli abitanti delle due parti –
Valle del Kashmir e Azad Kashmir – ora separate dalla linea del cessate il
fuoco imposta dall’Onu. Su questo tema l’India ha maggiori margini di
manovra e potrebbe essere interessata ad accettare un compromesso
riguardante il Kashmir per due importanti ragioni: in primo luogo, il
Kashmir assorbe risorse militari ed economiche che sarebbero meglio
utilizzate altrove; in secondo luogo una pacificazione del Kashmir e
migliori relazioni con il Pakistan rafforzerebbero il potere negoziale
dell'India e permetterebbero una maggiore espansione dell’influenza
indiana in Asia centrale.
110
A Pechino manca
un po’ di strategia
L’inizio del 2009 in Occidente è stato contrassegnato dal
richiamo a due virtù che nel recente passato sembravano essere
tanto fuori moda da apparire anti-patriottiche: l’umiltà e la
lungimiranza. La crisi finanziaria, ormai maturata in aperta
recessione dell’economia reale, obbliga a fare i conti con una verità
tanto più difficile da accettare quanto più la precedente epoca di
continua espansione appariva inarrestabile. I Paesi occidentali si
trovano oggi privi della componente più immediatamente
persuasiva (benché certamente non l’unica, e a ben guardare
neanche la più importante) del proprio “modello” di vita: la
prospettiva che la mano invisibile del mercato consentisse ipso facto
la crescita del Pil e del tenore di vita della popolazione. Ne consegue
che insieme con l’inevitabile ridefinizione dell’orizzonte di sviluppo
dell’Occidente viene meno anche la legittimità di quel “pensiero
unico” di matrice reaganiana, incarnatosi progressivamente nei vari
Washington consensus e post-Washington consensus.
Verrebbe da commentare come anche l’ultimo bastione che
contrastava il multiculturalismo imperante nel nome di una
superiore omogeneità globale delle regole del libero mercato sia
crollato rovinosamente. Improvvisamente, Paesi come l’Italia, fino a
ieri indicati come esempi di capitalismo arretrato, se non deviante,
appaiono posizionati meglio di altri grazie a una struttura
produttiva ancora fortemente innervata da partecipazioni pubbliche
e a istituti finanziari ben radicati sul territorio.
Finché l’esempio è l’Italia, peraltro, simili argomentazioni hanno
più che altro il sapore di una pur amara rivincita “interna” ai ranghi
di un Occidente che continua a riconoscersi in un ampio catalogo di
valori condivisi. Ma cosa accade quando a osservare il declino della
credibilità economica dei campioni del “modello occidentale”, Stati
Uniti in testa, è un Paese come la Cina, efficace artefice di una
formula alternativa di capitalismo di Stato? Gli esiti immediati sono
subito almeno due: l’aumento della stima per la leadership cinese –
da sempre fautrice del controllo statale sull’economia nazionale,
ricetta che oggi viene invocata da Washington a Berlino, passando
per Londra e Parigi – e il corrispettivo arretramento dell’Occidente
dal moral high ground che tradizionalmente occupava e che è
peraltro già stato ampiamente compromesso dalle politiche
dell’amministrazione di George W. Bush.
Viene quindi da domandarsi se il gioco dei modelli di sviluppo e
di quelle che potremmo chiamare le odierne “ideologie deboli”, in
consonanza con lo zeitgeist contemporaneo, non sia a somma zero.
Di fronte al declino della visione del mondo (e del ruolo dell’uomo
nel mondo) proposta dall’Occidente, assumono una rinnovata
Corbis_A.Hofford/epa
di Giovanni Andornino
E’ la considerazione avanzata da alcuni osservatori autorevoli. Che
notano come, al di là dei dati sulla tenuta o meno dell’economia, dopo
le Olimpiadi il gruppo dirigente cinese si sia trovato unito soltanto
nell’allentare i cordoni della borsa fiscale. Al contrario, su una serie di
terreni strategici…
111
DOSSIER
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112
plausibilità le proposte altrui, a partire da quelle del Paese che da anni
cresce a ritmi superiori al 10% annuo, costituendo in sé il più efficace
programma contro la povertà che l’umanità abbia mai conosciuto.
Nel suo piccolo, il fatto che la Mongolia abbia recentemente rivolto a
Pechino – e non ad altri – la richiesta di un prestito di tre miliardi di
dollari per infondere liquidità nelle proprie banche e realizzare
infrastrutture che favoriscano il commercio transfrontaliero, attesta
un significativo riassetto dell’orientamento strategico di un Paese già
“vassallo” dell’Unione Sovietica. Né dovrebbero passare sotto silenzio
notizie come il fatto che il sindaco di Shanghai Han Zheng abbia
affermato che la città offrirà a professionisti di alto livello la
possibilità di trasformare il proprio status di residente temporaneo in
permanente, con l’obiettivo di fare della città un “centro di talenti
globale”. Nel momento in cui le procedure di mero ingresso negli
Stati Uniti e in Paesi come l’Italia restano incredibilmente restrittive,
la Cina si candida a battere la strada opposta.
Secondo il proprio calendario, il 26 gennaio 2009 la Cina festeggia
l’inizio dell’anno del Bue, un segno zodiacale che simboleggia la
prosperità ottenuta attraverso la perseveranza e il duro lavoro, oltre a
indicare stabilità di carattere e tolleranza. La coincidenza è
singolarmente appropriata per chi voglia cogliere le due dimensioni
insite nell’idea cinese di crisi, weiji. Come ricorda Remo Bodei
nell’ultimo domenicale de «il Sole 24 Ore» del 2008, wei indica il
pericolo, mentre ji sta per “punto/momento cruciale”. Ebbene, per
Pechino il biennio 2009-2010 sarà quello del pericolo, in termini
strettamente economici, con la necessità di preservare i fondamentali
dell’economia dall’effetto domino dovuto al disastro della finanza
speculativa. Ma sarà anche un frangente politico cruciale per la
leadership del Paese, chiamata a interpretare il proprio slogan a
favore di una “società armoniosa” nel quadro di uno scenario in
rapida – e critica – evoluzione.
Il Piano quinquennale varato nel 2006 era stato concepito per
facilitare un soft landing dell’economia nazionale, anche in vista di
una crescita del Pil di oltre il 12% nel 2007. Nell’arco di appena due
anni la situazione si è capovolta, con Banca centrale e governo
impegnati a difendere “quota 8%” per il 2009. Wen Jiabao, il
dinamico premier cinese, ha pubblicamente ammesso la necessità di
procedere a nuovi e più ampi interventi statali nell’economia,
indicando come il modello di crescita fondato sull’export perseguito
negli ultimi trent’anni sia ormai desueto. D’altronde, i dati sulle
importazioni statunitensi rilasciati dal Dipartimento del Commercio
Usa per il mese di novembre segnano il calo più repentino dal 1942,
passando dai 208 miliardi di dollari di controvalore per il mese di
ottobre ai 183 miliardi di novembre. Per quanto riguarda la sola
Cina, il calo delle importazioni negli Stati Uniti è stato di 5,5 miliardi
di dollari, da 33,8 a 28,3 miliardi. E questo mentre l’Unione Europea,
il primo partner commerciale di Pechino, valuta con crescente
attenzione l’opinione di quanti auspicano l’imposizione di restrizioni
sull’import dal colosso asiatico.
Non mancano le voci, anche autorevoli, che pongono l’enfasi sulle
enormi risorse che la Cina può mobilizzare per far fronte alla crisi.
Mentre gli Stati Uniti sono costretti a tentare il rilancio economico
gonfiando un debito che rischia di toccare la cifra astronomica di
2500 miliardi di dollari (qualora il pacchetto di stimolo del neopresidente Obama venisse approvato dal Congresso), la Repubblica
Grazia Neri_H. Bredehorst
_Il Premier cinese Wen Jabao si trova ad affrontare
un biennio critico per l'economia
Popolare ha dentro di sé la forza per uscire dal tunnel. Sarebbe
sufficiente mobilizzare il mercato interno, stimolando la domanda
domestica e incentivando la riduzione degli elevati tassi di risparmio
propri di famiglie e imprese. In una parola, occorrerebbe passare a
un modello di sviluppo più equilibrato di quello attuale, con
rilevantissime ricadute sociali e politiche. Come è stato più volte
notato, l’istituzione di una forma pur blanda di welfare
rappresenterebbe un passaggio cruciale in questa direzione.
Secondo altri economisti, invece, vale l’opposto, per cui Stati Uniti
ed Europa possono riorganizzare il proprio sistema economico in
tempi relativamente brevi, stimolando il risparmio e riducendo
quindi il debito. La Cina invece non sarebbe in grado di sostituire il
repentino calo dell’export facendo leva sul mercato interno, per
stimolare il quale occorrerebbero interventi massicci almeno sui
fronti delle pensioni e dell’assistenza sanitaria, operazioni che
richiedono anni di aggiustamenti.
Il problema, poi, è che una simile scelta implicherebbe per la
dirigenza cinese una transizione pressoché “cieca”. Dal momento
che i trent’anni di politica della “porta aperta” sono stati incentrati
intorno a un paradigma di export-led growth, e che prima di allora
vigeva il socialismo reale di stampo maoista, non si può dire che il
Partito comunista cinese abbia molti esempi cui riferirsi nella storia
recente. Né devono apparire rassicuranti le esperienze di paesi
“affini” come Taiwan e Corea del Sud, dove l’incremento della
qualità media della vita oltre certi livelli ha condotto all’erosione o
all’abbattimento dei regimi a partito unico.
D’altra parte, un’eccessiva riduzione della crescita economica
avrebbe effetti altrettanto deleteri per il sostegno interno alla
leadership del presidente Hu Jintao e del Politburo che egli presiede.
per rendere più efficiente il lavoro
di chi interagisce con la Cina:
- TheChinaCalendar: un calendario
dinamico, ideale per mantenersi aggiornati
su conferenze, seminari ed eventi relativi
alla Cina organizzati nelle principali
città del mondo;
- TheChinaCommunity: un forum per docenti,
studenti e appassionati che desiderano
interagire in un ambiente dedicato;
- TheChinaConnoisseur: un “localizzatore
di esperti” per trovare al volo persone
e istituzioni che si occupano di Cina
nel mondo (in corso di implementazione).
113
DOSSIER
Grazia Neri_L.manqing/Imaginechina
Non a caso i massimi dirigenti, sui quali Hu esercita un’influenza
molto meno pervasiva del predecessore Jiang Zemin (per non
parlare di Deng Xiaoping), si sono trovati concordi nell’approvare
il piano di stimolo senza precedenti (580 miliardi di dollari) varato
nei mesi scorsi. L’orizzonte perseguito dal governo è stato
additato con chiarezza da Wen: tornare a una crescita sostenuta
già nella seconda metà del 2009, portando la Cina fuori dalla crisi
prima di ogni altro Paese del mondo. È probabilmente in relazione
a questo auspicio che il «Guardian» di Londra ha indicato Cina (e
India) come i potenziali “vincitori” all’indomani della crisi.
In realtà, le prospettive sono assai meno definite. Ad esempio,
non è chiaro come il piano di rilancio cinese sarà finanziato.
Sembra che la formula sia 1:1:2, ossia un quarto a carico del
governo centrale, un quarto a spese delle amministrazioni
provinciali e metà da segnare sui libri contabili di altri attori,
verosimilmente le banche. Secondo diversi economisti, però, molti
governi provinciali non si trovano in disponibilità di liquidità
sufficienti. Ancor più delicata la situazione delle banche cinesi:
dopo una fase acuta di corsa all’acquisto, gli investitori occidentali
stanno cedendo importanti partecipazioni nel settore bancario
della Repubblica Popolare. C’è chi considera queste mosse come
un semplice tentativo di rastrellare liquidità, ma viene il sospetto
che siano accelerate dal timore che le banche cinesi siano costrette
a contrarre grandi quantità di bad loans for good friends
nell’ambito del piano di stimolo varato da Pechino. Quel che
appare certo è che la ritirata dell’Occidente dal settore bancario
cinese rischia di privare quest’ultimo di importanti risorse umane
e annesso know-how per il proprio sviluppo interno.
Al di là delle considerazioni strettamente economiche, resta il
severo giudizio di osservatori come Yongnian Zheng, direttore
dell’East Asian Institute di Singapore, che denuncia la carenza di
visione strategica da parte della dirigenza cinese. Abbandonate le
pur contraddittorie aperture che avevano caratterizzato il periodo
olimpico, il Partito sembra aver trovato vera compattezza soltanto
intorno alla ben nota equazione che vuole l’allentamento dei
cordoni fiscali a sostegno dell’economia e il restringimento dei
margini di manifestazione del dissenso politico. Non è un caso che
Jia Qinglin, il quarto esponente politico in ordine di importanza
nella Rpc, abbia recentemente scritto un saggio sulla principale
rivista del Partito in cui chiede a tutti i funzionari dello stato di
sostenere il Pcc senza sbandamenti. Al contempo molti attivisti
vengono incarcerati in modo più o meno silenzioso (ad esempio
diversi firmatari della Charta 08), mentre un gran numero di
blog, tra cui Bullog.cn, forse il più influente blog liberale in Cina,
sono stati oscurati senza spiegazione.
La scelta è chiaramente quella della deterrenza, tanto a livello
interno, quanto sulla scena internazionale. La cancellazione del
summit Ue-Cina a seguito dell’incontro del presidente francese
Sarkozy con il Dalai Lama è un chiaro indicatore in questo senso.
Anche la proclamazione di una “Giornata della liberazione dalla
schiavitù”, da celebrarsi in Tibet il 28 marzo in memoria della
dissoluzione del governo di Lhasa nel 1959, va in questa direzione
ed è stata interpretata dal governo tibetano in esilio come un
segno del timore di manifestazioni violente in occasione della
ricorrenza. Il Dalai Lama ha per la prima volta ammesso di aver
114
Corbis_M.Reynolds/epa
perso la speranza di una composizione pacifica della controversia
con Pechino. Si tratta di uno sviluppo preoccupante in quanto
potrebbe lasciare campo libero alle frange più estreme di un
movimento per la liberazione del Tibet finora mantenuto entro i
confini di rivendicazioni di autonomia tutto sommato ragionevoli.
Vi è poi tutto il catalogo di problematiche strutturali collegate
alla crescita cinese e ora destinate a essere nuovamente spostate
in posizione secondaria, a partire dal tema dell’inquinamento.
Anche intorno a questo snodo si giocherà una partita cruciale, a
cominciare proprio dall’altipiano tibetano.
China Dialogue, un’organizzazione londinese impegnata su
temi ambientali, ha posto l’accento sul rapido contrarsi delle
superfici occupate dai ghiacciai himalayani. Le ricadute anche in
termini di sicurezza internazionale sono destinate a essere
pesanti, considerando che è da questi ghiacciai che traggono
sostentamento tutti i principali sistemi fluviali dell’Asia, da cui a
sua volta dipende circa il 40% della popolazione mondiale,
localizzata in India settentrionale, Bhutan, Nepal, Pakistan,
Bangladesh, Cina, Cambogia, Thailandia e Vietnam. Il problema è
di rilevanza globale, ma le responsabilità vanno assunte a livello
nazionale e quella di essere esentato dall’azione in quanto Paese
tuttora “in via di sviluppo” comincia ad apparire come una
scusante piuttosto logora da parte di Pechino.
I nati sotto il segno del Bue credono nel successo attraverso la
perseveranza e la costanza nel lavoro. Non cullano sogni di
arricchimento repentino. È forse il miglior augurio che si possa
formulare alla Cina all’inizio del suo nuovo anno: che sappia
rinnovarsi evitando scelte di breve periodo dettate da mediocri
istinti di sopravvivenza, a favore di una visione di effettivo
progresso, magari più graduale ma senz’altro umanamente e
materialmente più sostenibile.
115
Corbis_A. Martane
L’anno del Bue parte
con molta incertezza
di Alessandro Arduino e M. Cristina Bombelli
Per molti lavoratori cinesi, soprattutto nelle campagne, l’anno del Bue,
iniziato il 26 di gennaio, presenta numerose e inquietanti incognite.
Ritorna lo spettro di una fame da poco sconfitta e di una indigenza che
si riteneva superata. Se gli investimenti promessi si trasformeranno
rapidamente in posti di lavoro, i loro problemi potranno avere una
risposta. Ma gli sviluppi infrastrutturali…
Il clima d’incertezza è ormai una costante: esperti,
professionisti, ma soprattutto la gente comune si chiedono quale
sarà lo svolgimento della crisi, la profondità della recessione e le
ricadute reali sul tenore di vita, l’occupazione e in ultima analisi
la qualità del futuro.
Le domande che s’intrecciano e le relative preoccupazioni sono
però diverse a seconda dei punti d’osservazione del globo e se gli
operai di Detroit aspettano il risultato del sostegno governativo,
nella Cina del grande sviluppo non è facile formarsi un’idea precisa
di quanto stia accadendo e, conseguentemente, di quali possano
essere gli impatti sulla realtà quotidiana. Gli stessi dipendenti della
General Motors di Shanghai sono fieri da qualche mese or sono del
loro status cinese tanto da fregiarsene per differenziarsi dalla casa
madre, come se la sola dicitura Shanghai dopo il logo Gm li
schermasse dalla crisi del settore automobilistico e dell’economia in
116
CONTRORDINE COMPAGNI:
LA CRISI C’E
di Claudia Astarita
Grazia Neri_L.junfeng/Imaginechina
Per mesi la crisi internazionale è stata ignorata
dalla stampa cinese. Ma da settembre tutto è
cambiato. Il governo di Pechino non poteva
continuare a sostenere che tutto va bene quando i
primi effetti della crisi cominciavano ad essere
percepiti dalla popolazione. Così, per non perdere
autorevolezza e credibilità, dal Partito è arrivato
l’input a….
generale. La differenza di base è proprio nella fiducia riposta nel
governo centrale e nella locomotiva del socialismo di mercato che da
trent’anni traina lo sviluppo della Repubblica Popolare di Cina.
Fiducia ora messa a seria prova nelle campagne e nelle aree costiere
ove la crisi del tessile è già arrivata allo stadio terminale.
Anche da Occidente, le idee che circolano su quale sarà il ruolo
delle economie asiatiche sul futuro globale, sono disparate: si va
dall’attesa messianica che esse salveranno il sistema con le loro
riserve di liquidità e di consumi ancora in ascesa, fino al
catastrofismo di un crollo legato a un indebitamento estero,
soprattutto americano, difficilmente solvibile.
In questa situazione magmatica si possono rintracciare alcuni
spunti legati ai dati economici e agli stimoli governativi già in essere
o in progetto, legandoli alla percezione di alcuni osservatori
privilegiati, ma anche della gente comune.
Se, come si sostiene, l’economia reale è anche il risultato della
somma degli atteggiamenti psicologici individuali diffusi, può essere
utile avere traccia di come in Cina le persone, di differenti età ed
estrazione, vedono il loro futuro.
Vi sono due aspetti preliminari da considerare quando si pensa
alla Repubblica Popolare di Cina: la prima è la capacità di sviluppare
progetti a lungo termine, molto più dilatati di quanto l’Occidente
possa immaginare. È importante considerare questo elemento in un
momento storico in cui gli Usa pagano un prezzo enorme per la
sopravvalutazione generale dei tempi brevi se non addirittura
brevissimi, un atteggiamento che ha portato migliaia di operatori,
spesso non in buona fede, a non alzare lo sguardo oltre l’orizzonte
Da settembre a oggi, i toni con cui la stampa cinese ha
descritto la crisi economica internazionale sono
progressivamente mutati. Citando solo alcuni titoli, gli
incoraggianti “Wen [Jiabao] è certo di poter superare le
difficoltà, L’economia cinese è in forma nonostante il
caos finanziario globale” di settembre si sono
trasformati nei più cauti “La crisi economica fa soffrire
le regioni centrali e occidentali del Paese”, pur
ribadendo che La Cina è in grado di uscire dalla morsa
della crisi di novembre e dicembre, sfociando poi negli
allarmistici ma mai catastrofici “Wen [Jiabao] esorta
l’approvazione di misure che possano porre fine al
rallentamento dell’economia”, “La Cina può farcela
nonostante Il 2009 sarà l’anno più duro del decennio”
di gennaio.
Cosa è cambiato? Per quale ragione la stampa, che in
Cina è la voce del partito, ha cambiato prospettiva? È
possibile immaginare che fino a qualche mese fa la
classe dirigente non si fosse ancora resa conto che la
crisi finanziaria internazionale avrebbe avuto forti
ripercussioni anche in Oriente?
Secondo il premier Wen Jiabao, la Cina non avrebbe
avuto problemi con la crisi visto che “un partito e un
governo forte [sarebbero stati] in grado di prendere le
scelte migliori per la Nazione”. La Repubblica Popolare,
infatti, non solo sarebbe riuscita a mantenere una
crescita annuale del Pil superiore al 9%, ma si sarebbe
anche assunta l’onere (e l’onore) di diventare il nuovo
leader dell’economia mondiale.
È evidente che dichiarazioni tanto altisonanti erano
orientate a intensificare il legame di fiducia
incondizionata tra classe dirigente e popolazione e allo
stesso tempo a rafforzare l’orgoglio nazionale cinese. E
va riconosciuto che in un primo momento la
popolazione ha effettivamente creduto o quanto meno
sperato che il Partito fosse in grado di gestire la crisi
rendendo la Repubblica Popolare il più impermeabile
possibile alle sue ripercussioni. D’altronde, agli occhi
dei cinesi nel 2008 Pechino era già riuscita a gestire in
maniera impeccabile una lunga serie di situazioni
delicate: la crisi tibetana di marzo, il tragico terremoto
117
Grazia Neri_A. Digaetano/Polaris
che ha colpito il Sichuan in maggio e le Olimpiadi di
agosto.
Tuttavia, mentre la popolazione leggeva con una
malcelata soddisfazione che la crisi finanziaria stava
creando non pochi problemi alle economie americane
ed europee e che la Repubblica Popolare non ne
sarebbe stata quasi neppure sfiorata, gli intellettuali
orientali sono stati i primi a mettere in dubbio la
proiezione troppo ottimista del governo. Ritrovandosi,
come ogni dicembre, a scegliere il carattere che meglio
riassume i dodici mesi dell’anno appena concluso, nel
2008 hanno optato per luan (caos). I letterati cinesi si
sono trovati d’accordo su questo ideogramma perché
ritengono che le questioni di Tibet, Sichuan e Olimpiadi
avrebbero potuto essere gestite meglio, visto che
nell’anno in cui la Cina avrebbe dovuto dimostrare al
mondo intero di essere una grande potenza pacifica,
tollerante e matura, il Partito non ha fatto altro che
stringere ulteriormente la morsa repressiva sulla
popolazione, lasciandola nel caos più completo. Del
resto, la fiducia nel sistema e nel Partito sottolineata in
così tante occasioni da Wen Jiabao è stata messa a
dura prova anche negli ultimi mesi del 2008. Dallo
scandalo del latte alla melamina, dalle polemiche
legate a una nuova ondata di repressione che sta
colpendo la stampa, internet, e gli attivisti politici in
generale, ma soprattutto dalla crisi economica, temuta
dal Partito per le sue ripercussioni sociali.
Persino il «China Daily», la voce del partito, riportando
la notizia delle difficoltà eonomiche che si trovano a
dover affrontare le regioni centrali e occidentali del
118
del profitto in pochi giorni, con la conseguenza di non riuscire a
prevedere l’effetto sistemico dei singoli comportamenti
irrazionalmente “ego riferiti”.
Il secondo aspetto, ancorato ad una situazione politica
contingente, ma molto presente nella cultura collettiva, è la
dimensione dirigista, ovvero la possibilità di prendere decisioni
anche di natura molto ampia, in tempi brevi e di far seguire a una
moltitudine di persone, i comportamenti conseguenti. Un’idea
estranea ai contesti democratici nei momenti di sviluppo
economico, ma che in questo frangente di crisi sta tornando in
auge con particolare riferimento alla tendenza keynesiana nella
nuova politica economica americana rispetto al puro liberismo dei
ragazzi di Chicago, dominante durante la presidenza di Alan
Greenspan alla Fed.
Da un punto di vista macroeconomico i segnali di crisi sono
evidenti: l’onda lunga della caduta dei mercati azionari non ha
risparmiato la Cina; le borse di Shanghai e Shenzhen hanno subito
un drastico ridimensionamento passando dalla vetta dei 6000 punti
dell’indice di Shanghai nel terzo trimestre 2007 ai 1800 del quarto
trimestre 2008. Per la seconda volta dopo lo scoppio della bolla
speculativa del 1999, il mercato immobiliare si rivela in lento ma
costante calo. Inoltre rimane l’incognita della situazione dei crediti
non riscossi (bad loans) delle banche cinesi non solo verso i singoli,
ma anche nei confronti delle società costruttrici, fortemente esposte
ad un riassestamento del mercato. Un tema, quello dei crediti
inesigibili, sempre presente ma di cui nessuno degli attori in gioco
ha mai quantificato la reale entità poiché permette la sopravvivenza
delle Soes , società statali, che occupano ancora una parte non
indifferente dei lavoratori cinesi.
La risposta centrale alla crisi non si è fatta attendere e dopo un
triennio di tendenza a calmierare l’afflusso di liquidità per contenere
uno sviluppo eccessivamente tumultuoso e non governabile
attraverso l’innalzamento del costo del denaro, la Banca centrale
cinese ha tagliato i tassi d’interesse riportando l’indice al 5,31%
su base annua, decisamente più basso del precedente 7,47%, ma
molto distante dallo 0% giapponese e dal vicino 0,5%
attualmente deciso dalla Fed.
La contrazione dei consumi a livello mondiale ha evidentemente
l’aspetto di un siluro lanciato nella fabbrica del mondo: molte
aziende cinesi sono costrette a ridimensionare i propri piani, iniziano
– anche in questo caso per la prima volta dagli anni Ottanta – i
licenziamenti collettivi. Precursore di questa tendenza, il settore
tessile, che già dalla fine del 2007 ha visto un effetto domino nella
chiusura di fabbriche nella provincia del Guangdong e in quella
dello Jiangsu. Il settore dell’acciaio segue di pari passo con la
chiusura di molti dei piccoli stabilimenti nati durante lo scorso
decennio del boom edilizio cui si assomma la tendenza governativa
alla fusione dei maggiori produttori per razionalizzare il settore, il
tutto con un impatto negativo sull’occupazione. Per il 2009 le
maggiori nubi all’orizzonte si concentrano sul settore aereo e delle
commodities, mentre solo nell’Ict con l’apertura delle licenze 3G e il
boom dei nuovi media (online advertising, Iptv, etc.) vi è ancora uno
sprazzo di sole.
Una situazione nuova che preoccupa le persone e gli
imprenditori ma in cui si possono vedere due sbocchi, considerando
la situazione su tempi medio-lunghi.
La prima risposta possibile è il sostegno al mercato interno e allo
sviluppo dei consumi dei molti che ancora vivono sotto la soglia di
povertà.
La Cina, in questi ultimi tre decenni, si è resa protagonista di un
fenomeno unico nella storia: l’uscita dall’indigenza di una quantità
di persone non immaginabile da ogni previsione. È questo un tema
che spesso gli occidentali, nei loro sguardi tendenzialmente radicati
più nelle loro preoccupazioni che affrancati in una visione obiettiva,
tendono a sottovalutare. Un elemento di indubitabile successo di
una classe dirigente e di una politica, benché distante dai principi di
liberismo economico che l’occidente propugna come universali.
Contemporaneamente non va sottovalutata la tendenza cinese a
giocare secondo le proprie regole non soltanto in ambiente
domestico, ma anche nel mercato comune dell’Organizzazione
Mondiale del Commercio. A partire dal suo ingresso nel 2001
nell’Omc, la Cina ha sviluppato un sistema da molti definito di
barriere non tariffarie, atte a discriminare le aziende straniere che
tentano di inserirsi nel mercato e nel contempo favorire le
esportazioni mediante la detassazione di quote per l’export e sussidi
ad hoc, come nel caso delle società tessili del Guangdong. Si
definisce barriera non tariffaria una trafila burocratica complessa
che richiede di produrre innumerevoli certificazioni, da quelle
tecniche a quelle fitosanitarie, attraverso un iter volutamente
cavilloso e ridondante. Nel contempo molte delle aziende statali
continuano a ricevere in maniera diretta e indiretta sussidi e linee di
credito preferenziali in netto contrasto con quanto previsto dagli
Paese, riconosce quanto meno come insolito il fatto che
Pechino abbia iniziato a parlare della crisi con toni
allarmistici. L’obiettivo del governo resta quello di
evitare che la popolazione metta in dubbio la propria
autorità. Di conseguenza, “prendendo spunto dagli
errori compiuti nella gestione delle crisi precedenti”, il
Partito ha scelto di dimostrare il proprio impegno a
risolvere quella economica parlandone apertamente. In
realtà, sembra più realistico immaginare che la classe
dirigente sia talmente preoccupata per le ripercussioni
che la turbolenza finanziaria internazionale sta creando
nel Paese da scegliere di parlarne quotidianamente
tramite la stampa per evitare che i cittadini possano
sentirsi abbandonati in un momento di profonda
incertezza.
Per quanto Pechino stia facendo del suo meglio per
dare speranza e stabilità al Paese, l’approvazione
frenetica, talvolta irrazionale, di manovre ad ampio
raggio nasconde i tentennamenti e le indecisioni del
Partito stesso. Quasi ogni giorno i quotidiani cinesi
ricordano che è stato approvato un finanziamento di
400 miliardi di euro per stimolare l’economia nazionale,
dall’agricoltura ai servizi, dalle industrie alle
infrastrutture. Il calo delle esportazioni e degli
investimenti diretti esteri ha portato alla chiusura di
670mila fabbriche e alla cancellazione di 6,7 milioni di
posti di lavoro, ma secondo il governo si tratterebbe di
una ristrutturazione necessaria a trasformare la costa
dal paradiso delle produzioni economiche e a basso
valore aggiunto a quello delle lavorazioni sofisticate e
tecnologicamente avanzate. Dal momento che la
maggior parte delle materie prime per le produzioni più
semplici vengono dalle regioni interne, sarebbe
opportuno che gli stabilimenti che hanno chiuso sulla
costa si trasferissero in queste aree. In questo modo, il
crollo del prezzo delle materie prime verrebbe bilanciato
dalla riduzione dei costi di trasporto permettendo alle
nuove aziende di rimanere competitive.
Contemporaneamente, gli operai non specializzati che
hanno perso il lavoro e che non riusciranno ad essere
riassorbiti nel settore agricolo potranno essere
facilmente assunti in questi nuovi stabilimenti, e
magari anche riavvicinarsi a casa, visto che la
manodopera cinese proviene soprattutto dalle regioni
meno sviluppate dell’interno. I dirigenti di Pechino
hanno trovato una soluzione anche per i sei milioni di
laureati che nel 2009 entreranno nel mercato del lavoro.
A molti di loro è stato chiesto di tornare nelle
campagne, per mettersi al servizio dello sviluppo del
Paese come insegnanti o come consulenti delle unità
locali del Partito. Infine, convinto che la ricetta migliore
per uscire rapidamente dalla crisi sia quella di
stimolare la domanda interna, il governo ha approvato
una serie di sussidi per stimolare l’acquisto degli
elettrodomestici nella Cina rurale, in grado di
119
DOSSIER
migliorare, contemporaneamente, la qualità della vita
della stessa (elettricità permettendo).
Sfogliando la stampa cinese è quindi facile farsi
convincere che la classe dirigente sia in grado di offrire
una soluzione per tutto e tutti. Il bombardamento di
informazioni ottimiste e incoraggianti orchestrato da
Pechino è certamente ideale per instillare fiducia, ma
quello che ci si chiede oggi, di fronte a previsioni di
disoccupazione in rapidissimo aumento e di crescita
economica in continuo ribasso, è se sia sufficiente a
frenare la delusione, la rabbia e l’eventuale
disperazione di milioni di cinesi per i quali la perdita
del lavoro cancella definitivamente la speranza in un
futuro migliore.
Ecco perché è interessante, al di là della stampa,
cercare di capire come stiano effettivamente reagendo i
cinesi. Per farlo, è opportuno distinguerli in due
categorie: colletti bianchi e colletti blu. Al di là di ogni
aspettativa, i primi sembrano non essere stati neppure
sfiorati dalla recessione. Si tratta di cittadini urbani
regolari (ovvero non emigrati dalle campagne
dell’interno), in genere molto giovani e con un livello di
istruzione medio alto. Quasi tutti impiegati nel terziario
con stipendi decisamente al di sopra della media
nazionale, non hanno nessuna intenzione di risparmiare
per far fronte alla crisi poiché convinti che la loro
posizione lavorativa non sia in alcun modo minacciata.
«In caso di difficoltà – aggiungono un paio di
intervistati – potremo sempre fare ricorso alle carte di
credito, per dilazionare i pagamenti nel tempo».
Nei distretti industriali, invece, settimana dopo
settimana i colletti blu stanno raccogliendo i loro averi
per poi ritornare in campagna. Sono almeno dieci
milioni (e purtroppo il numero è destinato ad
aumentare) gli operai-emigranti cinesi che, a causa
della turbolenza finanziaria, hanno perso la capacità di
provvedere al sostentamento economico del proprio
nucleo familiare. Progressivamente, la delusione lascia
spazio alla frustrazione e a nuove incertezze per il
futuro. Prima della crisi, gli stabilimenti lavoravano a
ciclo continuo, ma con il crollo delle esportazioni sono
stati cancellati gli straordinari di tutti gli operai.
Successivamente, i titolari delle fabbriche sono stati
costretti a ridurre i salari, anche del 50%, e a tagliare i
posti di lavoro. In alcuni casi le municipalità locali sono
intervenute direttamente per pagare gli insoluti delle
aziende, ma quando non si sono più potute permettere
di farlo hanno suggerito ai datori di lavoro di concedere
ai dipendenti ferie non pagate. Decisione che ha
alimentato nella forza lavoro la convinzione che il
Partito e le aziende vogliano ridurli alla fame.
Quando descrive il controesodo dalla città alla
campagna, la stampa occidentale mette in risalto le
storie più tragiche, come quella di Song Guiying,
diciannovenne che, dopo essere stata licenziata, passa
120
accordi di accesso all’Omc e alla possibilità di Pechino di essere
riconosciuta come economia di mercato in tempi brevi dalla
Comunità Europea.
Una seconda risposta alla crisi viene dal consolidamento delle
imprese ritenute strategiche e dalla gestione dei flussi migratori.
Dopo il consolidamento nel settore dell’acciaio che ha visto nel 2008
un calo vertiginoso del valore delle azioni e delle materie prime,
seguirà l’accorpamento delle linee aeree. Nel primo caso si è trattato
di uno scambio azionario all’interno dei tre maggiori produttori,
Tangshan Iron & Steel Co., Handan Iron & Steel Co. e Xinxin
Vanadium & Titanium Co., teso all’ottimizzazione del mercato sia in
termini di efficienza che in chiave ambientalista con la chiusura
degli impianti più obsoleti e inquinanti. La Cina come primo
consumatore al mondo di acciaio, grazie anche allo sviluppo della
cantieristica edile, ha visto nascere più di un migliaio di piccoli
produttori che adesso si trovano a fronteggiare un eccesso di capacità
produttiva a seguito del rallentamento della costruzione di nuovi
edifici. Nel solo 2008 il consumo di acciaio è calato quasi del 13% e
il gruppo Baoshan Steel & Iron ha visto le proprie azioni perdere più
della metà del loro valore raggiunto nel 2007. Queste tipologie di
consolidamento affiancate alla chiusura quasi giornaliera di
centinaia di piccole e medie imprese del tessile e al rallentamento dei
lavori nei cantieri edili, hanno obbligato una fiumana di lavoratori
migranti a ritornare alle loro città di origine che, pure delle
dimensioni di qualche milione di abitanti, vivono principalmente
sulle rimesse mensili dei lavoratori migranti che costituiscono la
fonte primaria di reddito per le famiglie di giovani e anziani rimaste
in loco. Le autorità si trovano oggi a gestire una situazione non
facile, in quanto molti di coloro che desiderano ritornare non
trovano più lavoro in agricoltura. I terreni sono stati utilizzati per lo
sviluppo edile e industriale o quelli rimasti a uso agricolo vengono
ottimizzati per evitare una frammentazione improduttiva e con
meno necessità di braccianti. Secondo un recente rapporto del
ministero dell’Agricoltura la cifra dei lavoratori ritornati alle proprie
famiglie supera gli otto milioni di unità, mentre secondo cifre non
ufficiali del ministero dell’Industria, dalle 660mila piccole e medie
imprese che hanno chiuso nel 2008 si è generato un eccesso di dieci
milioni di lavoratori.
Come appare evidente la situazione non si presenta di facile
lettura e, di conseguenza, contraddittori sono i sentimenti con cui i
cinesi si preparano al futuro.
Da un lato la storia prima dell’apertura al socialismo di
mercato ha abituato ai capovolgimenti rapidi e a reazioni inattese,
ma dall’altro, lo sviluppo accelerato di questi ultimi anni, la
presenza di un gruppo dirigente tecnocratico, in grado di gestire
apparentemente con consapevolezza un cambiamento epocale,
favorisce la fiducia nella capacità di utilizzare le strategie descritte
in modo consono. In linea con l’azione di altri Paesi, anche il
governo cinese è corso ai ripari promettendo un’iniezione di
quattro trilioni di yuan (585 miliardi di dollari) da impiegarsi
essenzialmente in progetti infrastrutturali nel prossimo biennio,
accompagnati da una riduzione del costo del denaro e un
abbassamento sui dazi per il gasolio.
Grazia Neri_K. Nogi
Questo fa sperare che il richiamo del presidente Hu per uno
sviluppo sostenibile non sia solo una dichiarazione di principio, ma
che venga perseguita in termini concreti.
Contemporaneamente vi sono milioni di lavoratori che non
hanno una percezione di sicurezza del loro immediato futuro. È
tradizione per i lavoratori migranti ritornare dalle proprie famiglie
per il capodanno lunare cinese colmi di doni e con i risparmi
accumulati durante un anno di turni massacranti presso lontani
cantieri. Per il nuovo anno del Bue che ha inizio il 26 di gennaio non
si paventa un facile rientro. Per molti di loro, se il viaggio sarà di sola
andata, rappresenterà una sconfitta e, soprattutto, la paura che a
breve non vi sarà nessuna soluzione all’orizzonte. Ritorna lo spettro
di una fame da poco sconfitta e di una indigenza che si riteneva
superata. Se gli investimenti promessi si trasformeranno
rapidamente in posti di lavoro, le loro domande potranno avere una
risposta, ma gli sviluppi infrastrutturali, che peraltro la Cina ha già
sistematicamente prodotto negli anni passati, possono costituire un
volano in attesa del rilancio di una domanda complessiva.
L’ondata d’incertezza sul futuro non ha ancora toccato le grandi
città ove i giovani perdurano in richieste professionali
sovradimensionate cambiando più impieghi nel corso dello stesso
anno alla ricerca di aumenti salariali immediati. Una prima
avvisaglia dei tempi in arrivo è recepita essenzialmente dai
neolaureati che a differenza dei loro predecessori abituati a essere
corteggiati dalle aziende straniere trovano un’offerta di impiego
limitata e indifferente alle loro aspettative.
Le incognite, per concludere, rimangono e stanno minando un
patrimonio intangibile di cui la Rpc aveva goduto ampiamente in
questi anni, la fiducia che lo sviluppo sarebbe stato progressivo e si
sarebbe esteso dalle zone costiere più ricche, via via verso le aree
interne più remote. Oggi, questa attesa, è tutta da dimostrare.
il tempo a guardare la televisione visto che nessuna
delle aziende in cui si è presentata sembra intenzionata
ad assumerla, o quella di Chen Xiaohong che è stato
costretto a rientrare a Beiya, nel Sichuan, con la moglie
e una mezza dozzina di parenti, tutti impiegati nella
stessa fabbrica (oggi chiusa) di lettori dvd, con la
consapevolezza che coltivando riso, mais e patate dolci
in un minuscolo appezzamento di terra non riuscirà
nemmeno a sfamare tutti i familiari. I quotidiani cinesi,
al contrario, preferiscono continuare a trasmettere un
messaggio di speranza. Raccontano di Zhou Xiong,
classe 1986, che ha abbandonato Canton per ritornare
nel Sichuan, dove ha deciso di iscriversi a una scuola
professionale. «Dopo quattro anni trascorsi nel
Guangdong, vedo il ritorno a casa come l’inizio di una
nuova fase della mia vita. Voglio imparare a riparare
macchinari per le industrie, in modo da poter aprire
un’attività tutta mia a Mianyang, la mia città». Anche
Wang Shanjian, trentacinque anni, tornerà a lavorare in
campagna. «Una serie di tasse sui raccolti agricoli
sono state eliminate, quindi sarà più facile ricavare un
profitto più alto. Se si parla di salario nominale, per me
e mia moglie sarebbe comunque più conveniente
rimanere in città, ma tira una brutta aria e il costo
della vita sta aumentando, quindi meglio rifugiarsi in
campagna: si guadagna di meno, ma almeno le spese
sono ridotte a zero». A sentire il Partito, i milioni di
operai che torneranno nelle campagne dove verranno
guidati dai dirigenti locali, che a loro volta potranno
avvalersi della consulenza di primissimo livello di
migliaia di laureati, permetteranno al Paese di uscire
vincitore da una crisi economica che anziché metterlo
in ginocchio, ne sta ridisegnando la geografia dello
sviluppo economico coinvolgendo, questa volta, l’intera
nazione.
Fino ad oggi il governo cinese ha ancorato la propria
legittimità alla crescita economica del Paese ed è
evidente che se quest’ultima continuerà a rallentare le
basi del consenso verranno a mancare. Ecco perchè la
stampa deve trasmettere ai lettori la convinzione che
una nuova strategia di sviluppo economico sia stata
studiata dalla classe dirigente e alla popolazione spetti
ora il compito di contribuire alla sua attuazione. Senza
mai eccedere in trionfalismi sempre meno credibili,
nelle ultime settimane Wen Jiabao non si è mai
stancato di ripetere che le misure anti-crisi approvate
fino ad oggi sono state utili ed efficaci tanto da gettare
le basi per “un buon inizio nel 2009”. Tuttavia non è
detto che i salariati senza lavoro o con paghe dimezzate
e i laureati che dopo anni di sacrifici per avere un buon
contratto dovranno fare ritorno nelle campagne
condividano l’opinione del premier. Ma per Pechino
l’importante è che il Paese non perda la speranza in un
futuro migliore, perché, se succedesse, diventerebbe fin
troppo facile attizzare la miccia dell’instabilità sociale.
121
Olycom_M. Macsweeney/Rex Features
India: un modello
da ripensare
di Marco Masciaga
Prima l’attacco terroristico di Mumbay, poi lo scandalo Satyam hanno
calamitato l’attenzione. Così l’opinione pubblica ha tardato ad
accorgersi della gravità e dell’estensione della crisi. Il richiamo alla
realtà è venuto quando le previsioni sull’economia indiana hanno
cominciato a registrare una riduzione del Pil del 2%. La crisi
rappresenta tuttavia una grande opportunità per affrontare alcuni
nodi strutturali del modello di sviluppo indiano
Negli ultimi anni, all’incirca a partire dalla pubblicazione negli
Stati Uniti nel 2005 del saggio The World is Flat di Thomas L.
Friedman, l’India e la sua economia hanno goduto di buona stampa.
Anzi, di ottima stampa. Nonostante i tassi di scolarità reali
continuassero a essere estremamente bassi, a dispetto del tasso di
malnutrizione infantile più alto del mondo, nonostante il fatto che
mezzo miliardo di indiani continuassero a vivere con meno di 1,25
dollari al giorno, e nonostante la società fosse ancora attraversata da
spaccature etniche, religiose e castali profonde, nel giro di pochi
anni l’immagine dell’India è cambiata in maniera radicale.
L’idea di trovarsi di fronte a una sconfinata popolazione umile e
istruita, capace di fornire assistenza a noi occidentali, grazie un
mondo “appiattito” dalla banda larga, era talmente seducente da
spingere più di un osservatore allo strabismo. Come quel ministro
122
XINHUA / Gamma / Eyedea Presse /
europeo che, in visita a Delhi, parlò commosso “di quei bambini che
pur vivendo negli slum danno ripetizioni di matematica ai loro
ricchi coetanei americani dall’altra parte del pianeta”. Un’immagine
talmente stereotipata e poco rappresentativa dalla realtà vissuta
dalle decine di milioni di indiani che vivono nelle migliaia di
baraccopoli del Paese che da sola dava la misura di quanto fosse
ubriacante l’idea di un popolo riscattatosi da decenni di miseria
grazie a ingegno e tecnologia.
Nelle ultime settimane, complici una serie di avvenimenti
slegati gli uni dagli altri – il diffondersi anche nei Paesi in via di
sviluppo degli effetti della recessione mondiale, l’attacco terroristico
che per due giorni e tre notti ha paralizzato Mumbay e lo scandalo
Satyam (un buco di bilancio di un miliardo di dollari nella quarta
società indiana dell’information technology) – quell’immagine
sembra essere andata in pezzi. Sostituita da una altrettanto emotiva
che sembra prefigurare una tempesta perfetta prossima ad
abbattersi sul miracolo economico indiano. La verità è un po’ più
complessa. L’India dell’ultimo quinquennio non era, sotto più di un
punto di vista, un modello di sviluppo praticabile per larghissimi
strati della sua popolazione e non è una tigre di carta oggi.
L’impatto sulla società indiana delle ultime drammatiche vicende si
annuncia senza dubbio traumatico, ma in ultima analisi potrebbe
non essere privo di ricadute positive.
«L’India funziona così, attraverso processi di management by
crisis» – mi spiegava a fine novembre Rajiv Kumar, direttore
dell’Indian Council of Research in International Economic
Relations mentre dalle guglie dall’hotel Taj Mahal di Mumbay
continuavano ad alzarsi delle tristi colonne di fumo nero. Stavamo
parlando di terrorismo, di come il mondo avrebbe reagito al più
spettacolare e ambizioso attacco mai lanciato contro l’India e di
come il ceto politico di New Delhi avrebbe risposto. Il succo della
sua risposta era il seguente: non tutto il male di questi giorni sarà
venuto per nuocere e Mumbay potrebbe essere la tardiva presa di
coscienza di un pericolo reale.
La conferma della bontà dell’intuizione di Kumar è venuta nei
giorni successivi alla strage. Quando poco alla volta sono emerse le
spaventose inadeguatezze che hanno messo in condizione un
commando di dieci uomini di tenere in scacco per sessanta ore la
capitale finanziaria della terza potenza economica asiatica. Il
susseguirsi delle rivelazioni e la rabbia crescente di quei ceti
abbienti che per la prima volta sono stati presi apertamente di mira
dagli attentatori hanno scatenato una reazione che non ha
precedenti nei quindici anni in cui il terrorismo ha ripetutamente
colpito il Paese. Il fatto che le vittime fossero anche influenti
imprenditori, professionisti e banchieri (e non i soliti pendolari e
frequentatori dei mercati popolari) ha fatto sì che questa volta il
ceto politico indiano fosse brutalmente chiamato a interrogarsi
sulla catena di errori che ha reso possibile l’umiliazione di un intero
Paese. E ha ricordato a una parte minoritaria e influente del Paese,
ma spesso restia all’impegno politico nel senso più alto del termine,
che l’idea di poter vivere nel più completo isolamento dai drammi
attraversati dal resto della popolazione non è più possibile. La
stampa indiana in lingua inglese, solitamente schierata compatta in
difesa dell’onore nazionale, non ha potuto che intercettare i
sentimenti dei propri lettori, chiedendo e ottenendo la testa di
123
Contrasto_Zuder / laif
_Le difficoltà e gli scandali che negli ultimi
mesi hanno colpito l'economia e penalizzato le
esportazioni potrebbero contribuire alla crescita della classe dirigente post liberalizzazione.
Nella pagina accanto Ratan N. Tata, dal 1991
presidente di Tata Group
124
amministratori a livello nazionale e locale. I tanti canali all news
nati negli ultimi anni si sono rivolti a un ceto politico avvezzo a
domande mansuete e ritratti accomodanti con toni mai così aspri.
Lo sfregio alla più popolosa, affascinante e contraddittoria città del
Subcontinente è destinato a lasciare segni profondi nell’immagine
del Paese, ma almeno il tema della sicurezza nazionale, troppo a
lungo trascurato, è finalmente al centro del dibattito politico.
Trarre nell’immediato delle conclusioni altrettanto ottimistiche
dagli altri due colpi assestati all’immagine del Paese – il brusco
rallentamento dei fortissimi ritmi di crescita dell’ultimo triennio e
lo scandalo che ha travolto la Satyam – non è facile. Ma al di là
delle ovvie ricadute negative per le aziende esportatrici (siano esse
fornitrici di prodotti tessili destinati ai supermercati occidentali o di
software per aziende) le difficoltà di questi ultimi mesi potrebbero
contribuire alla maturazione di quella classe dirigente postliberalizzazioni economiche che è cresciuta nel mito
dell’inevitabilità del successo indiano.
È passato circa un anno da quando i titolisti dell’«Economic
Times», il più venduto e sopra le righe dei quotidiani finanziari
indiani, giorno dopo giorno si superavano nel trovare nuove
spericolate metafore per raccontare l’inarrestabile crescita del
Sensex, l’indice dei trenta titoli guida del Bombay Stock Exchange,
allora vicino ai 20mila punti. Parlare di bolle e sopravvalutazioni
all’epoca non era neppure contemplato. Significava venire tacciati di
disfattismo, sentirsi rispondere cose tipo “il futuro è nostro e voi
europei dovete farvene una ragione”, forse addirittura venire
sospettati di rimpiangere segretamente l’India povera e perdente di
un tempo. Ed è passato ancora meno da quando con una buona dose
di chest thumping l’India degli affari ha celebrato l’acquisizione di
Contrasto_G.Boutin/Hoa-qui/Eyede
Olycom_SIPA PRESS
Jaguar e Land Rover, due prestigiose quanto poco redditizie case
automobilistiche britanniche, da parte di Tata Motors. Oggi che il
Sensex si stiracchia sotto i 10mila punti e il colosso automobilistico
di Mumbay, stretto tra il credit crunch e un brusco calo delle
vendite sul mercato domestico, è alla ricerca dei fondi per
rifinanziare i debiti contratti per le acquisizioni, l’inascoltato partito
dei prudenti può prendersi qualche amara rivincita.
Se l’attacco terroristico di Mumbay, come pare ormai certo, è
stato progettato in Pakistan e la crisi economica mondiale è
originata dagli Stati Uniti, gli indiani, nel caso dello scandalo
Satyam, non sembrano avere nessun altro da biasimare se non loro
stessi. L’ammissione da parte del fondatore della società, Ramalinga
Raju, di avere contraffatto i bilanci della quarta impresa indiana nel
settore dell’outsourcing per circa un miliardo di dollari non poteva
giungere in un momento meno opportuno. In una fase in cui la
fiducia nel Paese e nel suo boom sono per la prima volta messe in
dubbio, il più grande scandalo finanziario della storia indiana ha
gettato un’ombra proprio sul settore simbolo della rinascita del
Paese, l’It. È bene che gli organismi incaricati di vigilare sulla
trasparenza delle società di capitali traggano rapidamente una
lezione dalla caduta di uno degli dei dell’outsourcing indiano.
Cercando di scoprire se Satyam è un caso isolato o se gli standard di
corporate governance praticati nel Subcontinente non abbiano
tenuto il passo della crescita economica degli ultimi due decenni. In
una fase in cui i mercati e gli investitori sono più che mai risk
averse, le ombre gettate dal caso Satyam su India Inc. vanno
spazzate via nel più breve tempo possibile.
Per queste ragioni, le scelte che attendono il governo uscente e
quello che s’insedierà dopo le elezioni di aprile non sono semplici.
125
Grazia Neri_P. Menzel
L’esecutivo (che nei mesi trascorsi dalla fine dell’alleanza con i partiti
comunisti che lo hanno appoggiato per quattro anni non ha
introdotto le liberalizzazioni che sarebbe stato lecito attendersi) si
trova di fronte alla necessità di stimolare un’economia che, nell’anno
fiscale in corso, rischia di perdere almeno due punti in termini di
crescita del Pil. E l’operazione di rilancio non potrà avvenire
semplicemente pompando capitali nel sistema sul modello cinese. Il
deficit fiscale, complici i generosi aumenti concessi ai dipendenti
statali e la cancellazione dei debiti a milioni di contadini, decisi con
l’approssimarsi delle elezioni, è destinato a raggiungere livelli che,
pur senza creare le precondizioni per una crisi, limiteranno i margini
di manovra. Senza contare che, nella congiuntura attuale, l’ipotesi di
liberalizzare gli scambi con il resto del mondo (per via delle ovvie
implicazioni negative per gli introiti fiscali in un momento in cui le
entrate sul fronte delle corporate tax stanno crescendo meno
rapidamente del previsto) rischia di risultare impraticabile.
Le sfide sono quindi complesse e i paletti che limiteranno le
scelte a livello di politica economica non mancano. Eppure
l’asprezza dell’attuale fase di crisi potrebbe convincere la classe
dirigente dell’urgenza di compiere alcune di quelle scelte
politicamente rischiose che gli ultimi anni di crescita forsennata
hanno contribuito troppo spesso a fare percepire come differibili.
Parallelamente la presa di coscienza da parte di imprenditori e
investitori che successo e crescita non possono essere date per
scontate, neppure in una democrazia di 1,2 miliardi di persone
all’alba del secolo asiatico, non potrà che essere salutare alla crescita
di un’India conscia sia della propria centralità nell’economia
mondiale che delle responsabilità che il suo nuovo status comporta.
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