Negli States una buona percentuale di jeans ha l`iniziale di Jeff

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Negli States una buona percentuale di jeans ha l`iniziale di Jeff
MISTER
DENIM
testo Kathryn Borel
fotografie Scott Pommier
Negli States una buona percentuale di jeans ha l’iniziale di Jeff Rudes, fondatore di J Brand.
Una rivoluzione nel mondo del denim cominciata
nel 75 quando, vedendo un paio di pantaloni
venduti a una cifra esagerata, Jeff si promise: «Li produrrò anch’io e li piazzerò a metà prezzo!»
I
n ogni intervista Jeff Rudes parla del lato provviso qualcosa attira la sua attenzione. Alza la
emotivo del denim. Di come un paio di jeans testa con uno scatto e saluta un tizio coi capelli
aderenti e alla moda siano unici nel far sen- scuri che indossa una camicia azzurra da lavoro:
tire una donna desiderata, di come un indi- «Hey, Jorge, tutto bene?». Jorge fa una smorfia e
viduo stabilisca un rapporto di fiducia con annuisce. È così che ci presenta il capospedizione
il suo jeans. E di come non esista altro capo nell’ar- e spiega che le cose non funzionerebbero se non
madio di una donna, eccetto un paio di scarpe ci fosse lui.
sexy, che le infonda altrettanta sicurezza. Rudes
Qualche istante dopo ci rimettiamo a parlare, è
ripete il suo mantra con sicurezza e disinvoltura, Rudes a dirigere la conversazione. Indica, descrive,
tanto che ci sconvolge vederlo visibilmente emo- spiega. È un dualismo particolare quello che semzionato quando prende in mano un paio di jeans bra distinguere uno come lui, un imprenditore
per contemplarli.
artista e filosofo. E a dire il vero non c’è da stupirIl brizzolato fondatore della J Brand Jeans ci sene, perché Rudes ha il compito di rendere elericeve nel cuore del suo magazzino da settemila gante e al contempo semplice il tessuto più funmetri quadri nel centro di Los Angeles, mentre zionale d’America. Quando ha aperto J Brand, nel
osserva un enorme scaffale di pantaloni di vari 2004, il mercato americano dei marchi del denim
colori pronti per essere spediti. Ci ha appena of- rispecchiava uno stile vistoso fatto di cuciture e
ferto un tour guidato del posto, mostrando gli rifiniture pacchiane: la R allungata di Rock & Reincredibili soffitti da cattedrale e gli eleganti tavo- public, il ghirigori dorato di 7 For All Mankind e il
li in legno riciclato. È immobile, fissa quasi osses- ferro di cavallo bianco di True Religion. Poi è arrisivamente i suoi jeans. Ne prende un paio, stretti vato Rudes, che rifuggendo da quasi tutte le
e di color rosso fiammante, accenna un sorriso e, convenzioni del tempo si è fatto strada nell’era
con un sospiro profondo, dice: «Beh, guarda questi!». del jeans con una nuova vestibilità e senza fronPoi indugia, quasi non ci fossero parole adatte o zoli, puntando soprattutto sullo stile. «Ho conabbastanza belle per descriverli. Ancora qualche cepito subito il mio primo jeans dal punto di vista
passo e si distrae nuovamente. Questa volta si stilistico. Volevo usare un tessuto nero, o comuntratta di un paio di pantaloni color lavanda, con que scuro, per un classico modello a cinque tasche.
un discreto ma comunque evidente motivo flore- Per me si trattava di una tela che doveva vestire
ale che si dispiega lungo la gamba. Rudes rimuove una donna: l’obiettivo era la sua identità, non
con un gesto rapido il cellophane, poi passa la l’identità del jeans». E funzionò. Tanto che il denim
mano lungo il tessuto, come se stesse accarezzan- oggi costituisce il 60 per cento della produzione
do un cucciolo. «Tingiamo il tessuto del capo fini- di J Brand. Chi si identifica con questa idea? Star
to, non la materia prima, è così che il capo acquista come Katie Holmes, Rihanna, Angelina Jolie e Kate
la sua anima». Il tono è profondo e solenne. All’im- Middleton, giusto per citare qualche nome.
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Jeff, la moto e il jeans
Jeff Rudes è l’uomo del
jeans in America. Mondo che
lo avvicina anche alla moto.
In questa foto è in sella
a un’Harley con motore tipo
Panhead e forcella springer.
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Ape hanger style
In questa pagina.
Rudes in sella a un chopper
Harley: Twin Cam moderno,
manubrio alto apehanger
e forcella springer.
Nella pagina accanto.
Jeff Rudes nel laboratorio
della J Brand, dove il tessuto denim viene modellato
e decorato prima di essere
messo in produzione.
Siamo seduti nell’arieggiato ufficio di Rudes. È
decorato in modo impeccabile con un mix di vetro,
legno, cemento e un immancabile paio di jeans
discretamente esposti su una mensola, in basso,
vicino all’enorme finestra dietro alla sua scrivania.
Jeff li srotola con attenzione prima di mostrarceli, ha lo stesso sorriso disorientato che aveva in
magazzino. I jeans sono del tipico blu del tessuto
lavato, un po’ sbiaditi sulle cosce come lo sono
quelli usati e vissuti. Li gira e indica il semplice
disegno delle cuciture sulle tasche posteriori.
Una piccola etichetta rossa li identifica come
Mac Keen. Racconta che sono del 1975, l’anno in
cui, ancora adolescente, iniziava ad affinare il suo
senso dello stile intrufolandosi nei club newyorchesi di Manhattan. «Nei locali mi si aprì un
mondo nuovo, le donne avevano un aspetto decisamente diverso: erano bellissime, a un altro livel110 Riders Cult
lo. Allora si puntava tutto su legging, scarpe sexy
e stivali. Così, iniziai a osservare le donne dai
piedi in su. Prima la scarpa, poi la gamba». E,
quando vide i Mac Keen, capì che il suo destino
sarebbe stato segnato. «Questo è il jeans da cui
tutto è cominciato, una tela francese che nel 75
costava 72 dollari, circa quattrocento dollari di
oggi. Così mi dissi: Jeff, devi produrli anche tu
e devi venderli a metà prezzo! Risultato: nel 78
fondai la società Paris 2000 e ricreai i Mac Keen».
Dopo i primi successi si trasferì a Los Angeles,
lasciando per qualche anno il mondo del jeans per
dedicarsi alla maglieria, alle T-shirt e a un abbigliamento che esaltasse la figura femminile. Ma aveva
l’indaco nel sangue e, a metà degli anni Novanta,
rientrò nel mercato del denim. In collaborazione
con il designer Adriano Goldshmeid, che oggi lo
definisce come «la migliore mano del jeans d’Ame-
rica», Rudes era deciso a trovare il modo per introdurre sulla piazza casual californiana uno
specifico stile europeo. «Fu come costruire una
Ferrari in America. Provaci, a costruire una Ferrari in America! Troppi dettagli, non è il tipo di
produzione adatto a Los Angeles». Eppure, ce l’ha
fatta. Insieme a Goldschmeid e al guru del settore
Ron Herman, Rudes lanciò la A. Gold. E., un apprezzato marchio di abbigliamento sportivo.
L’altro grande momento della sua carriera
arriva quando il colosso dell’abbigliamento
Abercrombie & Fitch bussa alla sua porta per
chiedergli aiuto nella produzione della loro linea
di jeans. Era una sfida, si trattava di coniugare gli
alti volumi di produzione con speciali lavaggi e
sofisticate procedure di sfregamento. Quando gli
domando quanti paia di jeans abbia contribuito a
creare durante la sua collaborazione con A&F,
scrolla le spalle e risponde: «Forse qualche milione?».
Rudes è così. Riesce a costruire in dieci anni la
Ferrari dei jeans, e in altri dieci ne produce a milioni per il mercato. È la J Brand che gli permette
di conciliare i due aspetti. Pur producendo senza
sosta 30mila paia di pantaloni alla settimana
(senza contare l’alto numero di top, abiti, giacche
e accessori), non c’è singolo stile o colore che non
venga esaminato o decorato dallo stesso Rudes.
Passeggiamo per il reparto uomo, stiamo per
concludere l’intervista. Il suo assistente lo
cerca con insistenza. Siamo a metà pomeriggio e deve tornare a casa dove è atteso per
scattare alcune foto con le sue moto, i suoi
cani e la fidanzata Terre che diventerà presto
sua moglie. Rudes si scusa per la fretta, ma
deve assicurarsi che la casa sia libera prima
delle 19, perché ha appuntamento con il rab-
«Ho concepito subito il mio
primo jeans dal punto di vista
stilistico. Per me si trattava
di una tela che doveva vestire
una donna: l’obiettivo era la sua
identità, non l’identità del jeans»
bino che celebrerà le nozze. Matt, il capo designer della linea maschile, lo chiama: «Ho dei
nuovi tessuti italiani da farti vedere! È roba
bella!». Indugia un attimo, sa che non ha molto tempo ma non si trattiene. Sul tavolo ci
sono quattro campioni di tessuto: blu, rosso,
marrone, anche uno color limone. Hanno un
lieve effetto a strisce mai visto prima. «Vedi,
è una tintura scura. Lo zolfo e i pigmenti si
mischiano insieme nell’ordito, così sbiadisce
in modo disomogeneo» spiega l’assistente.
Mentre controlla i campioni con le sue mani
abbronzate, tirandoli e accartocciandoli, cala
la sentenza: «Un po’ pungente. Il marrone dovrebbe essere più chiaro, però mi piace». Si rimetterà al lavoro domani e il giorno dopo ancora.
Perché, una volta trovato l’equilibrio perfetto tra
l’artistico e il popolare, non è facile fermarsi.
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