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la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014 NUMERO 501
Cult
La copertina. Autofiction, chi si scrive addosso
Straparlando. Lanza Tomasi e i fantasmi del Gattopardo
La poesia. De Musset, il dandy rimasto senza amore
TRUFFAUT DURANTE LE RIPRESE DI “LE DUE INGLESI” (1971) / © RAYMOND DEPARDON / MAGNUM PHOTOS/CONTRASTO
Archivio
Truffaut
M A R IO SERENELLI NI
F RA NÇOI S TRUF F A UT
PARIGI
RIMA d’ingaggiarmi, aveva già abbozzato il mio
«P
“profilo” di quattordicenne», ricorda Jean-Pierre Léaud: «E ha presente la foto infilata nella lettera in cui mi candidavo per i Quattrocento colpi? Sul retro François aveva scritto: “Bellino ma
un po’ femminile”». L’attore-feticcio di Truffaut, che ha oggi settant’anni, accetta di farci da guida virtuale alla mostra che Serge
Toubiana, direttore della Cinémathèque Française di Parigi, dedica
(fino al 25 gennaio) al regista scomparso il 21 ottobre di trent’anni
fa. Altra guida d’eccezione l’amica d’una vita, oggi ottantaseienne,
Jeanne Moreau, ventisette anni di complicità e due film insieme (Jules e Jim e La sposa in nero, oltre all’apparizione nei Quattrocento
colpi): «Ogni volta che ci vedevamo, François mi ascoltava e restava
muto: tornato a casa, mi scriveva subito una lettera. Le conversazioni con lui erano fatte della mia voce e dei suoi scritti». Un modo di
archiviare i pensieri, memorizzare e incorniciare momenti di vita.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN OMAGGIO DI STEVEN SPIELBERG
A Parigi una grande mostra celebra
il regista della Nouvelle Vague
Jeanne Moreau e Jean-Pierre Léaud
ci raccontano l’uomo
“più metodico del mondo”
ARO Signor Hitchcock,
prima di tutto faccio appello ai suoi ricordi. Qualche anno fa ero un giornalista di cinema quando alla fine del
1954 sono venuto con l’amico Claude Chabrol a intervistarla negli Studi Saint-Maurice, dove dirigeva la postsincronizzazione di Caccia al ladro. Lei ci aveva chiesto di andare ad
aspettarla al bar degli Studi: è stato allora che, per l’emozione di aver
visto quindici volte di seguito un girato che mostrava in un canotto
Brigitte Auber e Cary Grant, siamo caduti, Chabrol e io, nella piscinetta gelata del cortile degli Studi.
Molto amabilmente, lei ha accettato di rinviare l’intervista, che
poi ha avuto luogo la sera stessa nel suo albergo.
In seguito, ogni volta che lei è passato da Parigi, ho avuto il piacere di incontrarla con Odette Ferry, e l’anno dopo lei m’ha anche detto : «Penso a voi due ogni volta che vedo del ghiaccio in un bicchiere
di whisky».
C
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON LA RISPOSTA DI ALFRED HITCHCOCK
L’immagine. Quell’insegna è un capolavoro. L’inedito. “Mio papà Kurt Vonnegut e quei suoi scarabocchi non così male”
Spettacoli. Una vita da Tomas Milian: “Altro che Monnezza” L’incontro. Il teatro come manicomio, le follie di Angélica Liddell
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
La copertina. François Truffaut
Lettere, appunti, liste di titoli,
note sugli attori,
persino i biglietti dei film
visti da ragazzino. Il regista
dei “Quattrocento colpi”
non buttava via niente
Ecco il suo
incredibile archivio
La mia
droga
si chiama
cinema
<SEGUE DALLA COPERTINA
MA R IO SERENELLI NI
A MOSTRA PARIGINA è strapiena di lettere a registi, attrici, produttori,
scrittori. Lettere su lettere, inesausto internet cartaceo, permanente faccia a faccia con le persone desiderate. A volte, lettere di lettere, come quella inviata a tredici anni all’amico Robert Lachenay:
«Hai ricevuto le mie tre lettere?». E giù l’elenco. Da bambino e adolescente con la sua fame di cinema tempesta di richieste le rubriche
di posta dei giornali per informarsi su film, registi, filmografie complete (quando ancora il concetto di filmografia era vago e la parola
non appariva nel vocabolario): notizie e recensioni che andranno a
nutrire i suoi proverbiali dossiers bleus, muraglia cinefila di classificatori, enciclopedia del grande schermo in foglietti volanti. Fin dal
primo lungometraggio, la catalogazione è d’una minuzia sorprendente. L’appunto sul retro della foto, evocato da Léaud, diventa una mini-diagnosi nella fiche n.3 dei ragazzini provinati, con un apprezzamento sulla lettera («è ben scritta, semplice, netta»), l’aggiunta a penna, «intelligente» e, sotto, la promozione: «Antoine» (accanto,
cancellato, «o René»), cine-battesimo di quel Doinel cui delegherà il suo più intimo io.
Il puntiglio dell’appunto, del promemoria, della schedatura — abitudine metodica, che
ha finito per produrre l’archivio più sterminato e ordinato della Cinémathèque — fa ora da
testo a fronte dei suoi film, quasi un pre-cinema in forma di diario quotidiano. La mostra riporta così alla luce, nutrendo d’uno sguardo nuovo, il profilo Truffaut. La pignoleria di chi
non vuol lasciare nulla d’inesplorato l’induce a stillicidi di titoli possibili prima della scelta
definitiva, per La camera verde o per I quattrocento colpi (una ventina d’alternative, toletta, poi la fase-escargots, solo ed esclusitra cui il già godardiano Les petits soldats). vamente escargots… Ho vissuto quegli invi«Uomo d’una metodicità in alcuni casi esa- ti come una persecuzione: ma sono stati ansperante», ricorda la Moreau: «Si era con- che l’occasione di continui scambi culturali.
vinto che mi spettava un risarcimento per le Lui mi ha avvicinato alla letteratura giappopene sofferte l’anno prima sul set di La not- nese, io a quella anglosassone». Da quegli inte: lui non amava il cinema di Antonioni, tan- contri e dalla passione per la lettura erano rito che in Jules e Jim ha inserito una parodia nati gli uomini-libro nel film Fahrenheit 451,
dell’antonionismo. E così, per mesi, una vol- tratto dalla storia di Ray Bradbury, capaci di
ta alla settimana, m’invitava a pranzo: sem- archiviare nella loro memoria un intero ropre lo stesso ristorante, in rue du Colisée, al- manzo. Truffaut per primo era un uomo-lila stessa ora, lo stesso giorno della settima- bro, devoto al testo e all’autore (il suo Balna. E lui, sempre lo stesso piatto! O meglio, zac…), ma anche uomo-cinema, pronto a staperiodicamente lo stesso: c’è stata la fase-co- gliuzzare e ricomporre le pagine più amate,
miscelandole a appunti, spunti e notizie di
cronaca, ingombri autobiografici, facendone insomma quella poltiglia d’autore che si
chiama film. Il suo lavoro, per tutta la vita, è
stato un anelito di registrazione e archivio,
disciolto, in fasi successive, nella precoce vocazione cinèfila, poi nella pratica di critico e
infine nell’esposizione in prima persona, come regista, attore, produttore. L’archivio
Truffaut, dall’infanzia alla morte, al cuore
della mostra raduna gli archivi del cuore: cinematografici, letterari, sentimentali. Pratiche classificatorie, ossessioni alfabetiche,
calamitate dalla vita quotidiana e privata, a
© EREDI PIERRE ZUCCA
L
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la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
Monsieur Hitchcock,
sono quello che cadde
in piscina con Chabrol
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Incontri
ravvicinati
tra selvaggi
<SEGUE DALLA COPERTINA
STE V E N SP I E L BE RG
F R AN Ç O I S T R U F F AU T
ER Incontri ravvicinati del
terzo tipo, già in fase di
sceneggiatura avevo
modellato il personaggio dello
scienziato Claude Lacombe su
François Truffaut. Mi sentivo vicino a lui
per uno stesso sentimento dell’infanzia.
Avevo visto Il ragazzo selvaggio, mi aveva
impressionato la sua interpretazione del
dottore, insieme all’idea sottesa nel film:
voi volete entrare nel mondo e il mondo vi
tiene alla larga, vi respinge. Per questo lo
vedevo come tramite ideale tra alieni e
terrestri. Non avevo ancora visto altri suoi
lavori, non sapevo se lui conoscesse i miei.
Ma per me era il perfetto uomo-bambino,
il personaggio da me scritto. E a mia volta
mi sentivo un po’ anch’io un ragazzo
selvaggio. Quando ci siamo conosciuti
abbiamo scoperto di essere tutti e due
ragazzi selvaggi. Alla mia proposta
d’ingaggio, mi aveva chiesto il copione.
Dopo pochi giorni ho ricevuto un
telegramma : «Che tipo di guardaroba è
stato previsto per me?». Il suo modo di
rispondere sì. All’epoca stava lavorando a
Gli anni in tasca : io gli ho trovato il titolo
per la distribuzione in America, Money
Pocket.
Anche per me come per lui il cinema è
stato più importante della vita. Poi è nato
il mio primo figlio e per me è diventata
importante anche la vita.
(Testo raccolto da Mario Serenellini)
P
N ALTR’ANNO, mi ha invitato a
U
venire qualche giorno a
New York per seguire le
riprese de Il ladro, ma ho
dovuto declinare l’invito,
perché, qualche mese dopo Chabrol, ho a
mia volta affrontato la regia. Ho girato tre
film, di cui il primo, I quattrocento colpi,
ha avuto, credo, una certa eco a
Hollywood. L’ultimo, Jules e Jim, è
attualmente in sala a New York.
Vengo all’oggetto di questa lettera. Nel
corso delle mie discussioni con giornalisti
stranieri e soprattutto a New York, mi
sono reso conto che ci si è fatta spesso
un’idea un po’ superficiale del suo lavoro
(…)
© DR
Caro Signor Truffaut,
La sua lettera mi ha fatto venire le lacrime
agli occhi. Quanto le sono grato di
ricevere un tale omaggio da parte sua. Sto
ancora girando Gli uccelli: ne avrò fino al
15 luglio.
Dopo, dovrò cominciare il montaggio, che
mi terrà occupato qualche settimana.
Credo che aspetterò la conclusione delle
riprese de Gli uccelli. Dopo di che mi
metterò in contatto con lei, con l’idea di
incontrarci verso fine agosto. Grazie
ancora per la sua lettera deliziosa. Con
sincera amicizia, cordialmente suo
Alfred Hitchcock
© RIPRODUZIONE RISERVATA
UT
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DI TR
/ ERE
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RUA
© DR
© JE
© RIPRODUZIONE RISERVATA
HITCHCOCK E SPIELBERG
AN G
© ANDRÉ DINO / DR
(Traduzione dal francese
di Mario Serenellini)
Dalla lettera a Alfred Hitchcock
del 2 giugno 1962 : Truffaut chiede
al regista inglese
un’intervista. Nel ’66 diventerà
il fondamentale Hitchcock-Truffaut
IN ALTO LA LETTERA
A ALFRED HITCHCOCK
E SOTTO IL TELEGRAMMA
IN RISPOSTA. I DUE NEL 1973.
QUI A SINISTRA TRUFFAUT
INSIEME A SPIELBERG
NEL 1976 DURANTE LE RIPRESE
DI “INCONTRI RAVVICINATI
DEL TERZO TIPO”
JEAN-PIERRE LÉAUD
© MARILOU PAROLINI
NELLA FOTO GRANDE L’ATTORE
CHE A QUINDICI ANNI INTERPRETÒ
ANTOINE DOINEL NE “I QUATTROCENTO
COLPI” DEL 1959 (IL FILM RESTERÀ
NELLE SALE ITALIANE FINO A FINE MESE,
RESTAURATO DALLA CINETECA
DI BOLOGNA). SOTTO UNA LETTERA
DI LÉAUD A TRUFFAUT: “SIGNORE,
MIO PADRE LE HA TELEFONATO SABATO.
MI PIACEREBBE MOLTO PARTECIPARE
AL SUO FILM. SPERO CHE MI CHIAMERÀ
PER UN PROVINO”. E ACCANTO PROVE
DI TITOLO PER IL FILM. SOTTO ANCORA
TRUFFAUT E LÉAUD SUL SET
DI “NON DRAMMATIZZIAMO...” (1970).
TUTTE LE FOTO E I DOCUMENTI
SONO TRATTI DAL CATALOGO FLAMMARION
PER LA MOSTRA ORGANIZZATA
DALLA CINÉMATEQUE FRANCAISE A PARIGI
DALL’8 OTTOBRE 2014 AL 25 GENNAIO 2015
JEANNE MOREAU
L’ATTRICE NE “LA SPOSA IN NERO” (’68).
A DESTRA, BIGLIETTI DEL CINEMA
CONSERVATI DA TRUFFAUT RAGAZZINO
E LA SCENEGGIATURA DI “JULES E JIM” (’62)
sua volta risucchiata ciclicamente nei film,
dove si ripetono in analoghe situazioni e si richiamano tra loro, identici, i dialoghi, costanti sintagmi del suo cinema: il “lasciarsi o
impazzire” di L’uomo che amava le donne e
La signora della porta accanto, o BelmondoDeneuve in La mia droga si chiama Julie e,
dieci anni dopo (e dopo l’innamoramento
folle per Catherine Deneuve), DepardieuDeneuve in L’ultimo Metro: «La tua bellezza
è una sofferenza», «Ieri dicevi che è una
gioia», «È una gioia e una sofferenza».
Il cinema di Truffaut, deposito sempre aggiornato d’un archivio d’amori che rincorro-
no il suo “doppio” Antoine Doinel in L’amore fugge e la sua controfigura in L’uomo che
amava le donne, si costruisce anche su una
meno conosciuta tenacia documentaria:
«Per Non drammatizziamo... è solo questione di corna, dove ho un banchetto di fiori che
mi applico a ricolorare» ricorda Léaud
«François aveva condotto un’inchiesta capillare tra i fioristi e le imprese americane basate in Francia. Senza rinunciare alle informazioni d’occasione, come per la scena della bagarre in cortile: nata direttamente da
un aneddoto raccontato dal titolare d’un bristrot vicino». Ancora Léaud: «Prenda Baci ru-
bati, dove m’improvviso detective privato.
Per rendere più credibile il personaggio e le
scene nell’Agenzia Blady gli sceneggiatori
Bernard Revon e Claude de Givray hanno
trascorso la primavera del ‘67 a catturare
fatti di cronaca e a setacciare la Duby Detective, assistendo a riunioni dell’agenzia e sottomettendo a dodici ore d’intervista il patron, Albert Duchenne, divenuto poi collaboratore alla sceneggiatura».
Nel Truffaut rivelato dal suo archivio è
una solida, quasi spietata documentazione
a far da impalcatura segreta alle trame di
meravigliosa finzione del suo cinema e allo
RTV-LA EFFE
DOMANI IN RNEWS
(ORE 13.45 E 19.45,
CANALE 50 DEL DT
E 139 DI SKY) MARIO
SERENELLINI
RACCONTA
TRUFFAUT
scavo del cinema altrui, come nell’esemplare Hitchbook del ‘66, di cui, nella spiritosa allocuzione del ’79 all’American Film Institute di Los Angeles, parla come di «un libro di
cucina, raccolta di ricette per cuocere a puntino spettacolo e spettatori». È l’idea d’un cinema che ha nei dati d’archivio il puntello e
il trampolino per liberarsi delle imperfezioni quotidiane: archivio finale e irriconoscibile di tutti i veri, minuscoli archivi di cui è disseminato. Vale per il cinema come per l’esistenza: «La nostra vita è un muro», scriveva
a Isabelle Adjani: «Ogni film ne è una pietra».
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
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FOTO DI LOUISE FILI DA “GRAFICA DELLA STRADA”, PRINCETON ARCHITECTURAL PRESS
L’immagine.On the road
Dal Liberty al neon anni ’70, le scritte
dei negozi sono piccoli capolavori
ormai quasi perduti. Una designer
americana li ha raccolti in un libro
FILIPPO CECCARELLI
L
O SCORRERE DEL TEMPO purifica lo sguardo e al tempo stesso nobilita tutto ciò su
cui di proposito o accidentalmente si posa. Così sarebbe bellissimo se quelle
schifezze grafiche che si vedono oggi sui negozi e i cartelloni pubblicitari, sulle targhe o le indicazioni stradali diventassero un domani piacevoli a guardarsi, eleganti, rappresentative del genius loci, meritevoli di appassionata
attenzione perfino al di là dell’oceano. Questa specie di speranza estetica, e
magari anche un po’ civica, germoglia dopo aver sfogliato con crescente emozione Grafica della strada. The signs of Italy di Louise Fili. Studiosa e art director di fama, lei si definisce «italophile», in realtà non è solo di origini italiane, ma soprattutto così innamorata dell’Italia da confessare che il colpo di
fulmine l’afferrò nel suo primo viaggio, a sedici anni, e per sempre, davanti
al marchio, invero rimarchevole, dei Baci Perugina. E ogni anno vola qui, gira per mercatini e librerie dell’usato, colleziona lattine, cartoline, etichette e anche quelle meravigliose carte con cui tuttora in Sicilia si rivestono le arance. Per anni Fili ha girato le città italiane (Torino, Bologna, Lucca, Roma le preferite) fotografando, tra mille difficoltà di traffico e malumori, ogni
genere di insegne. Questo libro di immagini è perciò un tributo d’amore, tanto inaspettato perché
le sue scelte restituiscono a chi qui è nato, ma non ha più occhi per vederli, autentici tesori solo nostri, stupendi svolazzi di lettere sulla pietra, preziosi sbalzi di ferro battuto, rifiniture lignee degne
di grandi artisti, foglie d’oro di meravigliosa leggerezza, fregi sorprendenti, animali, conchiglie,
draghi, stemmi, medaglie, come pure creazioni di austera e miracolosa semplicità. Segni, sogni, lettere e numeri di fattura unica e irripetibile, ormai,
eco visiva di un tempo in cui le botteghe avevano nomi e funzioni antiche:
“Beccheria”, “Mesticheria”, “Aguzzeria del cavallo”, “Cordami”, “Mescita”,
“Albergo diurno”. Una sorta di cimitero segnaletico di mestieri scomparsi e
di merci perdute, misteriose, vietate: “Arrotino”, “Carni avicunicole”, “Sbigoli”, “Storini per finestra”, “Frattaglie”, “Zerbini”, “Elixir”, “Armi”, “Pantofole”, “Coca boliviana”, “Si riammagliano calze”.
L’umile Italia e frugale, variopinte visioni di un paese contadino — “Sementi”, “Cereali” — ma anche eclettico, neoclassico, capriccioso; un panorama che da un lato si riveste di Liberty, dall’altro non smette mai di dedi-
L’Italia
insegna
la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
carsi all’essenziale. Per cui la storia visiva del paesaggio urbano s’intreccia con quella del potere, il suo
stile, i suoi materiali. Il fascismo improvvisa una classicità romana su misura, adora i mosaici in bianco e
nero e del tutto ignaro dell’effetto bagno pubblico li
impone agli impianti sportivi e alle stazioni ferroviarie. Lunghe frecce appuntite, littoriade diffusa, scritte prescrittive, spesso a vuoto. Il razionalismo ingrossa i caratteri, squadra le lettere, ma sulle pollerie, sui negozi di vini e oli o su quelli di calzature il colpo d’occhio è fantastico.
Quando arriva il neon, l’Italia è già ripartita ed è
forse il tempo più felice perché vario nella sua nuova
e curiosa libertà. Storici ristoranti testimoniano del
benessere a portata, l’artigianato come una via felice che esprime insieme uno slancio e un’identità.
Poi succede qualcosa. Ecco le macchine, ecco la
grafica computerizzata. E sarà anche inevitabile, ma
si rompe un incanto, scompare una meraviglia, si
consuma una tradizione, si incrina un’estetica. Forse ha a che fare con quello che Pasolini, profeta di sciagure abbastanza veritiere, designava «sviluppo senza progresso». Sta di fatto che le merci non sono più
quotidiane o periodiche necessità, nel giro di un ventennio finiscono per vivere di vita propria. I caratteri tipografici, i colori, i fondali, le stesse indicazioni
sembrano di colpo uguali. L’omologazione è disumana, tanto più prepotente quanto meno percepita
come un rullo compressore che insieme alle latterie,
alle mercerie e alle legatorie di libri andava schiacciando anche la sobrietà dei numeri, la ricerca di
equilibrio, il calore, l’inventiva, il senso di un lavoro
L’arredo urbano e l’internet point
A LE S S A N D R O ME N D I N I
GUARDARE queste stratificazioni urbane di scritte, insegne, materiali dal
mosaico alla lamiera al vetro opalescente davanti al neon, bisogna
ammetterlo: la qualità estetica ed emotiva di queste cose la contemporaneità
non l’ha più saputa dare. L’arredo urbano, anche di grandi designer, rispetto a
questa abilità artigiana ha sempre qualcosa di insufficiente. Quello che
probabilmente ha perso è la radice nel gusto della decorazione barocca, che è senso dello
spazio. Da quello risulta una descrittività che è quasi un romanzo: la vita nel tabacchino, dal
barbiere, nel bagno diurno. Senza rinunciare a esprimere, a differenza delle odierne
grafiche da brividi di internet point, massaggi o paninerie, una dignità estetica che allude a
una qualità dell’interno, nei legni di una vecchia farmacia o drogheria.
Da parte sua, il design contemporaneo, che pure ha conquistato gli interni delle case, con
strade e piazze non ce l’ha fatta. Perché quando si è cimentato con l’arredo urbano si è
affidato più agli oggetti (panchine, pensiline) che allo spazio. Un vizio funzionalista tedesco
venuto dalla Bauhaus, direi, non superato nemmeno quando il postmodernismo, per
contrastarlo, si è riappropriato di un gergo più accattivante. L’eccezione? Le vetrine dei
grandi negozi del lusso: anche oggi “fatte a mano”, più raffinate di molti musei e certo con
più soldi a disposizione.
(Testo raccolto da Maurizio Bono)
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e in fondo di una civiltà. Non è solo una faccenda di
nostalgia, né di furbo recupero del vintage. Il piccolo
grande museo a cielo aperto di Louise Fili si ferma negli anni ’70. Con il che volendo misurare il vuoto di
bellezza arrecato dai segni del consumo basta soffermarsi su quanto faticosamente ha fin qui resistito sulle vie d’Italia in termini di premura individuale, sincerità di intenti ed efficacia del messaggio.
Così come basta scorgere i cieli azzurri dietro i cartelli degli stabilimenti balneari per cogliere un’atmosfera che è e per fortuna resta solo italiana. Basta
confrontare le botteghe di una città o dell’altra per
capire che la differenza è vitalità. Basta soffermarsi
sulle insegne-fantasma, veri e propri ectoplasmi murali, scritte logore e semi cancellate che annunciavano qualcosa che non c’è più, come se il loro disuso facesse meglio risaltare la superba umiltà fra intonaci
scrostati, macchie d’umido, ombre di fumo, abbagli
di plastica.
Perché le insegne, queste della Grafica della strada, non rispecchiano solo la storia sociale o estetica,
ma nascondono e insieme trasmettono potenza e
poesia. Si pensi alla “T” bianca su campo blu dei Tabacchi, con lo stellone; oppure alla candida colomba
che sembra essersi posata su una cartoleria “con fabbrica di registri all’insegna del Palombo”.
Come ogni bel libro d’immagini se ne consiglia l’osservazione insieme a qualcuno. Da soli, il rischio del
rimpianto nuoce allo sguardo. E se nel passato, in
realtà, c’è anche il futuro, non è detto che rassegnarsi al brutto sia l’unica via di fuga.
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LA DOMENICA
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L’inedito. Altrui mestieri
Lo scrittore americano amava
anche dipingere. Ma sua figlia Nanette,
pittrice, non lo prese mai sul serio
Almeno fino al giorno in cui non ritrovò
questi vecchi ritratti
fatti apposta per lei
LE IMMAGINI
IN QUESTA PAGINA, “AUTORITRATTO”
E ACCANTO UNO SCHIZZO “SENZA TITOLO”.
NELL’ALTRA, DALL’ALTO IN SENSO ORARIO:
“AUTORITRATTO” E “AUTORITRATTO
16 FEBBRARIO 1985”. A SEGUIRE
TUTTI GLI ALTRI DIPINTI ESEGUITI
DA KURT VONNEGUT TRA IL 1985 E IL 1987
NON HANNO NÉ TITOLO NÉ DATA.
LE IMMAGINI SONO TRATTE
DA “KURT VONNEGUT DRAWINGS”
PUBBLICATO NEGLI USA
DA MONACELLI PRESS/RANDOM HOUSE.
IN BASSO, A DESTRA, ALCUNI AFORISMI
DELLO SCRITTORE
Gli
scarabocchi
di papà
Vonnegut
GABRIELE PANTUCCI
UANDO NON SCRIVE SCARABOCCHIA”.
Nanette oggi si rammarica d’averlo ripetuto ogni volta che le
chiedevano cosa facesse suo padre. Aveva cominciato a usare
questo tipo di risposta da bambina, senza alcuna intenzione denigratoria. Poi, con gli anni, avendo
studiato arte ed essendo diventata un’artista professionista forse
quello sbrigativo modo di dire
aveva iniziato a assumere una
sfumatura lievemente critica, o almeno un carattere di condiscendenza. Suo
padre, Kurt Vonnegut, era uno scrittore famoso: addirittura uno dei più importanti e influenti scrittori americani contemporanei. Era naturale che lei —
pittrice per davvero — non potesse prendere in seria considerazione i soggetti con cui lui riempiva ogni pezzo di carta nei momenti in cui si voleva solo rilassare. Del resto Vonnegut stesso osservò, all’apice della carriera, che disegnava soltanto per reagire all’oppressione che gli procurava lo scrivere. E suo
figlio Mark ce lo confermò, quando raccolse e pubblicò gli scritti rimasti inediti alla morte del padre nel 2007: «Per lui lo scrivere era un esercizio spirituale».
La prosa di Kurt Vonnegut, che ammiriamo per immediatezza, freschezza, ironia e spontaneità, era il risultato di uno scrivere e riscrivere più volte finché
COURTESY OF MONACELLI PRESS+
‘‘Q
non avesse trovato la versione perfetta. E
dunque, per tornare agli “scarabocchi”, se
l’autore stesso interpretava i suoi disegni
come sfoghi per rilassarsi, era naturale che
Nanette non li considerasse al di sopra di
una camomilla.
Lo chiamava “lo scarabocchione” (the
doodler) e intorno alla metà degli anni Novanta addirittura gli suggerì di bruciare
tutti quei fogli di carta che gli riempivano i
cassetti di casa. Fu allora che suo padre le
spedì due pacchi di dimensioni scarsamente maneggiabili. In Nanette l’aspettativa
d’una sorpresa si dileguò con la stessa rapidità con cui scema l’attesa di una vincita alla lotteria dopo che il numero è stato annunziato: contenevano disegni e soltanto
disegni. Non ebbe neppure il tempo di aprire completamente quei grossi pacchi. «Con
i bambini che strillavano perché volevano o
non volevano qualcosa ebbi soltanto il tempo di metterli da parte... Li avrei guardati
poi, con calma, quando si fossero addormentati». I piccini si svegliarono e addormentarono parecchie volte, passarono gli
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Quando, come e perché
uno dei più grandi scrittori
del ’900 mi mandò una mail
LU C A R A S T E LLO
NA VOLTA NELLA VITA mi sono sentito membro di una comunità virtuale, e membro orgoglioso benché si trattasse di una comunità che evidentemente accetta
gente come me. È stato quando ho ricevuto una e-mail da Kurt Vonnegut. Com’era possibile che uno dei più grandi scrittori del Novecento, l’autore di quel Mattatoio n.5 che al momento buono mi porterò nella decina di libri da tenere sull’isola deserta, l’uomo che pur di raccontare l’orrore dei bombardamenti su Dresda si fece
rapire dagli alieni del pianeta Tralfamador, addirittura ex pompiere volontario e presidente della Società degli Umanisti Americani, rispondesse al messaggio di uno sconosciuto che
pone una domanda banale? Ovviamente non credevo ai miei occhi e ho anche pensato a uno
scherzo tralfamadoriano, ma l’evidenza era contro di me: a scrivere era proprio lui. Una quindicina d’anni fa stavo lavorando a un romanzo in cui il protagonista per rievocare il passato
e orientarsi nel caos della memoria usa come traccia (come le briciole di Pollicino nel bosco)
certe storie di fantascienza psichedelica pubblicate negli anni ‘70 nella collana Urania. Fra
queste la più folle, intitolata Venere sulla conchiglia, che raccontava l’odissea di un hippy alla guida di un’astronave fallomorfa dopo il nuovo diluvio universale, era firmata Kilgore
Trout. Da adolescente non lo sapevo, ma Kilgore Trout è uno dei personaggi-chiave ricorrenti proprio nei romanzi di Vonnegut, a partire da La colazione dei campioni. Ora ero diventato un fan dello scrittore americano e per non scrivere spropositi provai a mandare la
mia domanda all’indirizzo riportato sul suo sito: era davvero lui l’autore sotto pseudonimo
di Venere? Rispose con grande cortesia ed estrema semplicità: il libro non era opera sua ma
del suo amico Philip J. Farmer che con il nome di fantasia aveva voluto omaggiarlo, e Vonnegut mi ringraziava per il tempo «perso» a leggere le sue opere.
Non gli scrissi più, se non per ringraziarlo a mia volta, e per fortuna non gli dissi nulla di
quel mio orgoglio da membro di comunità virtuale (da qualche parte, in qualche server,
browser o comediavolo, c’erano ormai entrambi i nostri indirizzi), perché sarei rimasto gelato da uno dei suoi aforismi, che scoprii solo dopo la sua morte: “Le comunità virtuali non
costruiscono nulla. Non ti resta niente in mano. Gli uomini sono animali fatti per danzare.
Quant’è bello alzarsi, uscire di casa e fare qualcosa. Siamo qui sulla Terra per andare in giro
a cazzeggiare. Non date retta a chi dice altrimenti”. Anche l’aforisma fu una scoperta fulminante, purtroppo postuma e voglio comportarmi proprio come probabilmente avrebbe
fatto lui, sempre generoso con i suoi lettori, accumulandone qui di seguito un paio di altri,
formidabili: “Per favore, un po’ meno di amore e un po’ più di dignità”, “Consiglio all’aspirante scrittore: abbi pietà del tuo lettore”, “Non preoccupatevi del futuro. Oppure, preoccupatevene, ma sapendo che tanto è un gesto inutile. Non vi aiuterà più di quanto masticare un chewing gum vi possa aiutare a risolvere un problema di algebra”, “Fate ogni giorno
qualcosa che vi spaventi”. E poi quello che trovai inciso sopra il disegno di una lapide tombale, l’ultima volta che mi collegai al suo sito che stava per essere tolto dalla Rete: “La vita
non è la maniera di trattare un animale”. Così è la vita. Così (anche) era Vonnegut.
U
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ENTRAMBE LE MIE FIGLIE
FANNO QUADRI E POI
LI VENDONO MA IN REALTÀ
LI VORREBBERO TENERE
SEMPRE CON SÉ. È UN TERZO
INCOMODO A COSTRINGERLE
A OFFRIRLI IN ADOZIONE
GLI UOMINI SONO ANIMALI
FATTI PER DANZARE.
QUANT’È BELLO ALZARSI,
USCIRE DI CASA. SIAMO QUI
SULLA TERRA PER ANDARE IN GIRO
A CAZZEGGIARE. NON DATE
RETTA A CHI DICE ALTRIMENTI
anni e Nanette si dimenticò completamente di quei pacchi ingombranti e semiaperti
che aveva messo sopra uno scaffale. Suo padre le aveva persino telefonato per chiederle con discrezione se fossero arrivati,
ma non aveva spinto oltre la sua curiosità.
A posteriori potremmo dire che teneva a un
giudizio della figlia, ma che non s’azzardava a darlo a vedere.
Così su quei pacchi s’accumularono con
gli anni parecchi altri pacchi e oggetti, tutti assai poco importanti per la vita di Nanette e dei suoi familiari. Soltanto dopo la
morte del padre li aprì, si mise alla scrivania
e finalmente trasalì. Non erano i soliti scarabocchi ma disegni, ne vedete una selezione in queste pagine. Agli occhi esperti di
Nanette apparvero sì come «labirinti capricciosi in stile minimalista caratterizzati
da una sinuosità serpeggiante» ma anche
«dotati d’una policromia e qualità che affascinano». Dopo di lei furono visti da molti altri addetti ai lavori, e tutti concordano nei
loro giudizi positivi. C’è chi vi ha voluto ravvisare le metafore di certi romanzi labirin-
tici di Vonnegut, mentre le influenze cubiste, di Miró e di Calder, sono evidenti.
I centoquarantacinque disegni sono ora
pubblicati in un volume da Monacelli/Random House con un saggio di Peter Reed e
uno della figlia Nanette. Reed — professore
emerito di lingua e letteratura Inglese alla
University of Minnesota e grande esperto
di Vonnegut — ha stabilito che furono tutti
eseguiti tra il 1985 ed il 1987. Se è vero che
diversi lavori grafici dell’autore di Mattatoio n. 5 erano già apparsi in due mostre (alle quali lo scrittore partecipò con grande riluttanza, e lo invitavano solo perché il suo
nome era d’aiuto agli amici galleristi) va
detto pure che i lavori emersi dallo scaffale
delle cianfrusaglie di Nanette sono di gran
lunga superiori. È possibile, le chiediamo,
che suo padre non si sia dedicato al disegno
e alla pittura con gli stessi risultati anche in
altri momenti della sua vita e non solo nell’arco di quei due anni? «Possibilissimo —
risponde lei — ma ha idea di quanto tempo
mi ci vorrà per scoprirli?».
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NON PREOCCUPATEVI
DEL FUTURO. OPPURE
PREOCCUPATEVENE.
MA È COME MASTICARE
UN CHEWING GUM SPERANDO
CHE VI AIUTI A RISOLVERE
UN PROBLEMA DI ALGEBRA
SBEVAZZATE INNOCUE
SONO QUELLE CHE FANNO
I BAMBINI QUANDO
PER ORE SI UBRIACANO
DI QUALCHE FENOMENO.
OSSERVANDO L’ACQUA O LA NEVE
O IL FANGO O I SASSI O I COLORI...
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
38
Spettacoli. In anteprima
“Ho cominciato a recitare a dodici anni,
mio padre si era appena sparato davanti a me”
Autobiografia di Tomas Milian,
l’attore che preferì passare per trucido
MA R IA PIA FUSCO
«N
ON AMO LE CELEBRAZIONI,
ma sono molto contento, il Marc’Aurelio per
me è come un Oscar».
Così Tomas Milian commenta il premio alla carriera che riceverà al
Festival di Roma dove sarà anche protagonista di una master-class. E poi Roma è un richiamo irresistibile, «la considero mia, mi ha
accolto, mi ha dato il successo, mi ha dato Er
Monnezza». Trattato dalla critica con stizzita
sufficienza, il trucido ispettore Nico Giraldi,
protagonista del cinema poliziesco diretto da
Umberto Lenzi e poi da Sergio Corbucci, campione di incassi nella seconda metà dei Settanta, oggi personaggio di culto, ha significato per Milian uno dei momenti di maggiore
popolarità nella sua tormentata carriera,
un’alternanza di alti e bassi, scelte impreviste e improvvise, come se il suo carattere inquieto, segnato forse dal trauma infantile del
suicidio del padre, lo spingesse a una sfida
continua con se stesso.
Una carriera ricca la sua, varia, importante, prova di un attore di razza, formatosi all’Actor’s Studio, arrivato dall’off Broadway al
festival di Spoleto a recitare Cocteau, Il poeta
e la musa, con la regia di Zeffirelli, interprete
di cinema di autori come Bolognini, Visconti,
Pasolini, Zurlini, Lizzani, Lattuada. Di colpo si
lancia nell’ondata degli spaghetti western e
il successo dei suoi arruffati personaggi esplode, ma sfuma quando il genere tramonta.
Non dimentica il cinema alto — Identificazione di una donna con Antonioni o La luna con
IL LIBRO
IL TESTO E LE FOTO
PUBBLICATI IN QUESTE
PAGINE SONO TRATTI
DA “MONNEZZA AMORE MIO”
DI TOMAS MILIAN
(CON MANLIO GOMARASCA)
IN LIBRERIA PER RIZZOLI
(297 PAGINE, 18,50 EURO).
MILIAN RITIRERÀ
IL PREMIO ALLA CARRIERA
AL FESTIVAL DI ROMA
GIOVEDÌ 16 OTTOBRE
Tra Bombolo
e Gabo Marquez
quante sorprese
sotto la barba
Bertolucci — ma a riportarlo al clamore del
successo è l’ispettore Monnezza, un personaggio che non poteva essere più lontano da
lui. «Sono timido, borghese, educato a un linguaggio rispettoso. Confesso che per sentirmi a mio agio con Nico mi sono messo a bere,
ho esagerato, ne sono uscito con fatica», diceva negli anni Ottanta, quando prese la decisione di lasciare l’Italia dopo trentacinque anni. Oggi, a ottantadue, doppia cittadinanza
americana e italiana, vive a Miami, con continue incursioni nel cinema di Hollywood, ancora attore per Stone, Redford, Pollack,
Spielberg, Soderbergh, Ferrara.
Nella sua autobiografia da poco in libreria,
cruda e sferzante come una battuta del Monnezza, ripercorre impietoso la sua incredibile
storia di incontri (come quello col Nobel “Gabo” Marquez, ma anche con Fellini, Hopper,
Orson Welles), trionfi, capricci, sprechi, intuizioni (le battute del maresciallo Giraldi se
le scriveva da solo) ed eccessi privati (cocaina, alcol, donne, uomini). E chi non lo sapesse può scoprire che, oltre al Monnezza, c’è tanto, tanto altro. Un personaggio e un artista infinitamente più complesso, poliedrico e
profondo di quello che il grande pubblico,
quello che senza barba e tuta blu addosso
nemmeno lo riconosce, possa immaginare.
Milian è l’attore forse più ingiustamente
ignorato dalle istituzioni del cinema internazionale, il premio di Roma lo compensa solo in
parte. Glielo consegnerà Sergio Castellitto,
che lo ha già scritturato per il suo prossimo
film, Nessuno si salva da solo, dal romanzo di
Margaret Mazzantini. L’inizio di un’ulteriore
carriera italiana? Chissà.
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Lamia
vita
non è
solo
Monnezza
la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
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METAMORFOSI
1. IN “BOCCACCIO ’70” DI LUCHINO VISCONTI (1962) 2. NE “I DELFINI” DI FRANCESCO
MASELLI (1964) 3. IN “THE BOUNTY KILLER” DI EUGENIO MARTIN (1966) 4. NE “L’AMORE
CONIUGALE” DI DACIA MARAINI (1970) 5. IN “LA VITTIMA DESIGNATA” DI MAURIZIO LUCIDI
(1971) 6. IN “HAVANA” DI SIDNEY POLLACK CON ROBERT REDFORD (1990) 7. IN “REVENGE”
DI TONY SCOTT (1990) 8. IN “AMISTAD” DI STEVEN SPIELBERG (1997) 9. CON GABRIEL
GARCÍA MÁRQUEZ A MILANO (1974) 10. IN “TRAFFIC” DI STEVEN SODERBERGH (2000)
11. IN “ROMA NUDA” DI GIUSEPPE FERRARA (2010). NELL’IMMAGINE GRANDE A CENTRO
PAGINA LA LOCANDINA DI “SQUADRA ANTIFURTO” (1976)
1
4
5
TOMAS MILIAN
OMÁS Roberto Rodriguez-Varona y Estrada detto Tomín, cioè mio padre,
era un ufficiale dell’esercito che durante il colpo di Stato di Batista, nel settembre del 1933, quando io avevo solo sei mesi, resistette barricato nell’Hotel Nacional per più di una settimana. Alla fine lo catturarono e lo rinchiusero nella fortezza La Cabaña, dove, per disperazione, tentò di tagliarsi la gola. Per fortuna sua non ci riuscì. Appena rimarginata la ferita,
sua zia Carmen Jimenez, una persona molto influente a L’Avana, vedova
di uno dei più rispettati intellettuali del Paese e rettore dell’Università de
L’Avana, José (Pepe) Cadenas, intervenne perché mio padre fosse trasferito in una clinica privata per malattie nervose. Avevo quattro anni
quando mi portarono a visitarlo la prima volta. Da ufficiale mio padre diventò allevatore. Aveva due di tutto, come nell’Arca di Noè: gallo e gallina, vacca e toro, cavallo e cavalla, coniglia e coniglio, figlio e figlia. Mio padre era il capo dell’esercito
più piccolo del mondo che contava un solo soldato, io, e instaurò una ferrea disciplina militare... anche
violenta. Era il capodanno del 1945. Avevo dodici anni. Ci stavamo preparando per andare a fare colazione a casa dei nonni materni. Prima di uscire mio padre, seduto su una poltrona, mi fece un gesto,
battendo una mano sulla gamba, perché mi sedessi con lui. Mettendomi un braccio intorno alla vita
mi disse: «Tommy... sono molto stanco e voglio
che diventi un “bravo uomo”, così potrai aver cu- a mia moglie una dedica sulla sua copia di
ra di tua madre e di tua sorella». Non capivo quel- Cent’anni di solitudine: «A Rita, la Reina de los
lo che diceva ed ero sorpreso da quell’inaspetta- Moros y de los Cristianos». Del film che mi aveva
to gesto d’affetto. Il primo di sempre. Pensai: proposto si parlò soltanto all’ora dei saluti. «La
«Questi sono i buoni propositi per l’anno nuovo, mia agente ti chiamerà tra tre giorni» mi disse.
ma domani...». Arrivati a casa dei nonni, i miei ge- «Tomas, pensaci bene». Se avessi detto di sì, lanitori si chiusero in camera da letto. Eliana e io ci sciandomi persuadere dal prestigio del messagsedemmo a tavola insieme al resto della famiglia. gero, sarei stato amato per sempre dalla sinistra
Dopo qualche minuto, vidi mia madre passare italiana. Se invece avessi detto di no, il mio campiangendo attraverso il patio interno che porta- mino cinematografico sarebbe stato ancora più
va alle cucine. Domandai: «Por qué mami està llo- difficile perché mi sarei giocato tutti i registi mirando?». Senza aspettare risposta né chiedere gliori, quelli di sinistra. Al Premio Nobel dissi propermesso, mi alzai e andai verso la stanza dove prio questo. Siccome i western erano passati di
c’era mio padre. «Papi?». Silenzio. «Papiii?!?». moda in Italia, non potevo allontanarmi da qui.
Nessuna risposta. Piano piano aprii la porta e lo Dovevo fare un film di cassetta per provare a tevidi sdraiato sul letto con indosso l’uniforme mi- nere alto il nome. Se fossi andato in Colombia, tra
litare e i sempiterni occhiali da sole. In mano ave- una cosa e l’altra, sarebbero passati almeno due
va la sua pistola d’acciaio con la canna puntata anni e la gente si sarebbe scordata di me, il che
verso il cuore. BANG!
avrebbe danneggiato anche loro e il loro film. In
Sentii una caterva di sentimenti e pensieri con- pratica, gli stavo facendo un favore.
trastanti. Ricordo, però, che nessuno fu di dolore.
Mi sentivo come il protagonista di quei film weLA PIRA GALEAZZO
Dopo il successo di Milano odia, nel 1976 Lustern che vedevo al cinema. Mia madre e le persone che erano a tavola tentarono di entrare nel- ciano Martino mi offrì di lavorare di nuovo con
la stanza, ma io ostruivo loro il passaggio perché Lenzi in Roma a mano armata. C’era una scena in
quello era il mio film arrivato al duello finale tra il cui, uscito di prigione, mi fermavo a fare benzina
buono e il cattivo. Chi era il buono? Chi il cattivo? e, siccome non avevo i soldi per pagare, scappavo
Non avevo tempo di pensarci e mi misi a correre sgommando. Sentivo che mancava qualcosa, ci
verso il telefono per chiamare la madre di mio pa- voleva una frase a effetto da dire al benzinaio che
dre. Tirai su la cornetta e feci il numero di fretta. rendesse la battuta più incisiva. Così pensai a una
Occupato. Lasciai cadere la cornetta, ma il modo parola che facesse rima con «’azzo» e trovai la soin cui cadde non mi convinceva: «L’ho lasciata ca- luzione. «Ecco fatto. So’ cinquecento, dotto’».
dere male! Questo gesto non è vero, non è il gesto «Come te chiami te?». «La Pira Galeazzo». «A La
di un figlio che ha appena visto suo padre sparar- Pira Galeazzo, siccome nun c’ho una lira, t’attacsi al cuore. Questo gesto è falso! Sto facendo finta chi ar cazzo». Il giorno della prima, all’Adriano di
di soffrire». Ripresi la cornetta e la lasciai ricade- Roma, andai apposta per sentire la reazione del
re cercando di farlo meglio, ma mi venne peggio pubblico a quella «battuta del cazzo». Se fosse anperché ero già cosciente del gesto. Stavo recitan- data come credevo avremmo vinto. Quando ardo. E da quell’istante recitare, per me, è diventa- rivò il momento, il boato del pubblico fu strepitoso, quasi un coro da stadio. Quella battuta mi aprì
to l’equivalente di mentire, ingannare.
la strada. Sul set recitavo in romanesco perché volevo vivere questo essere romano, come avrei voUN NOBEL A CASA MIA
A Milano conobbi Gabriel García Márquez che luto viverlo nella vita reale. Essere romano mi
era di passaggio in città. Andammo insieme al ri- proteggeva il cuore e il cervello, perché un romastorante a gustare un’enorme «orecchia di ele- no non si lascerebbe mai andare a piagnistei penfante», in compagnia di un’amica giornalista che sando, per dirne una, che il padre gli si è suicidaera già stata avvisata che non volevo né foto né ar- to davanti agli occhi quando aveva dodici anni.
ticoli su quell’incontro: non mi è mai piaciuto far- Un romano, piuttosto, si farebbe una canna. Le
mi pubblicità alla faccia di una celebrità. Tre gior- idiosincrasie e le passioni dei romani, il fatalismo
ni dopo fu García Márquez stesso a dirmi che un e la generosità, l’arguzia e la saggezza erano il
suo amico voleva farci un servizio fotografico as- mio scudo per la vita. Che gli altri film del Monsieme. Accettai perché la richiesta arrivava da nezza fossero più o meno riusciti a me importava
lui. La sera dopo, Gabo e io camminavamo per poco, quel che contava era che piacessero al pubpiazza Duomo, bubbolando dal freddo, ognuno blico. Ciò che mi interessava era diventare, traimmerso nel rispettivo eskimo, come due gran- mite er Monnezza, membro di un popolo che
chi caraibici dentro al carapace. Mi parlò di un sdrammatizzava le tragedie con il sorriso, che atfilm diretto da un suo amico che si sarebbe dovu- traverso il potere della risata esorcizzava i propri
to girare nelle montagne colombiane e mi offrì la demoni. Lui mi faceva da corazza contro la vita e
parte principale. Nel cinema, quando qualcuno ti il dolore. A Cuba avevo avuto un’infanzia segnaoffre un lavoro senza passare dall’agente, signi- ta dall’assenza d’amore di mia madre e dal colpo
fica che ti vuole gratis o quasi. Non gli domandai di pistola di mio padre, ma a Roma riuscii a riemse il biglietto aereo sarebbe stato di prima classe pire quel vuoto esistenziale con i sentimenti di un
perché era sottinteso che si trattava di un film di personaggio che era diverso da me, migliore di
sinistra, regista di sinistra, intermediario di sini- me. A me Tomas non piace, mentre Monnezza sì.
stra. Siccome però lui era un Premio Nobel gli dis- Tomas è vulnerabile, ingenuo, timido. Monnezza
si che non potevo dargli una risposta subito. L’in- è coraggioso, saggio, estroverso. L’unica cosa che
domani Márquez sarebbe partito per Roma e, sic- abbiamo in comune è il senso dello humour.
come dovevo andarci anch’io per finire le riprese
Per conservarlo così com’era, ho preferito laa Cinecittà, lo invitai a mangiare da me. Rita ci fe- sciare Roma, in modo da poter invecchiare lontace moros y cristianos, un piatto tipico cubano a ba- no, mentre lui sarebbe rimasto sempre lì giovase di fagioli neri e riso bianco accompagnati da ne, gagliardo ed eterno come la città che gli ha dapezzi di maiale, banane fritte e insalata di avoca- to i natali.
do. Un mangiarino leggero, insomma, che valse
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ESSERE ROMANO MI PROTEGGEVA
IL CUORE E IL CERVELLO, PERCHÉ
UN ROMANO NON SI LASCEREBBE MAI
ANDARE A PIAGNISTEI. A ME TOMAS NON PIACE,
MENTRE MONNEZZA SÌ. TOMAS È VULNERABILE,
INGENUO, TIMIDO. MONNEZZA È CORAGGIOSO,
SAGGIO, ESTROVERSO. PER CONSERVARLO
COSÌ COM’ERA HO PREFERITO LASCIARE ROMA
IN MODO DA POTER INVECCHIARE LONTANO,
MENTRE LUI SAREBBE RIMASTO SEMPRE LÌ.
GIOVANE, GAGLIARDO ED ETERNO
COME LA CITTÀ CHE LO HA FATTO NASCERE
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LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
Next. Do it yourself
Dieci
piccole
invenzioni
Chi sono gli artigiani digitali
che stanno cambiando
il nostro futuro
BRUCE ST ER L I NG
HI SONO I MAKERS? Sono i nuovi
meccanici, i nuovi artigiani. Sono quelli che fanno le cose, per
esempio quelle che vedete qui.
Ma sono anche un movimento
controculturale che nasce in
California. Sono il “do it yourself”, il “fai da te” della cultura
hacker a cui si rivolge il mensile Make. Make nasce da un editore californiano, Tim O’Reilly,
che con la sua casa editrice O’Reilly Media pubblica da oltre trent’anni riviste di tecnologia. Il suo primo best seller è stato una guida a Internet. Quando Internet comincia a espandersi è il primo a pubblicare guide ad argomenti arcani quali l’HTML, Java, Linux e così via.
Tim O’Reilly ha un genio straordinario per diffondere trend
tecnologici. Make all’inizio era solo una rivista quadrimestrale rivolta agli attivisti di Internet che però da subito organizzava eventi e vendeva speciali “maker tool” elettronici.
Era un nuovo modello di business che trovò inaspettatamente un’ampia ed entusiastica nuova audience. Inoltre,
Make assomigliava di più a un vero movimento piuttosto che
a una semplice rivista tanto che nel 2006 organizza un evento che chiama “Maker Faire”: avrà un successo enorme
diffondendosi in tutto il mondo, dalla California a Tokyo fino
a Roma e da lì partiranno anche molti nuovi business come
Adafruit, Makerbot o l’italiana Arduino.
Oggi è ormai chiaro che la promessa fallita della prosperità
globale non potrà rivivere mai più. Quantomeno nelle modalità a cui si pensava prima della crisi. Inoltre il World Wide
Web sta soffrendo di un processo di trasformazione con mostri megacorporate come Apple, Google, Facebook, Microsoft e Amazon. Insomma, sono tempi bui. E però gli esempi
che invitano alla speranza non mancano. Uno arriva proprio
dall’Italia che ha saputo rispondere al fast food in stile McDonald’s con il movimento dello slow food. Ecco, l’equazione
è: slow food sta a McDonald’s come i makers stanno a Apple,
o a Google. Dunque ora la porta è aperta, e il grande successo
della Maker Faire di Roma (un altro esempio che viene dall’Italia) lo dimostra. Ma non è detto che tutti riescano a entrare. Voglio dire: siamo pronti ad abbandonare ciò che abbiamo per vivere davvero come «makers»? E che cosa succederà dopo? Una terza rivoluzione industriale?
Oppure quella dei makers si rivelerà essere
solo un’altra passeggera moda californiana? Nessuno lo sa. Ogni anno tuttavia, questo movimento sembra diventare sempre più importante.
C
ILLUSTRAZIONE DI HARRY CAMPBELL
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SIAMO AGLI ALBORI
DI UNA NUOVA ERA:
UNA RIVOLUZIONE
IN CUI MILIONI DI PERSONE
POTRANNO PRODURRE
DA SÉ QUELLO DI CUI
HANNO BISOGNO.
È LA DEMOCRATIZZAZIONE
DELLA MANIFATTURA
E L’INIZIO DI UN LUNGO
VIAGGIO PER RIPENSARE
I MODELLI PRODUTTIVI
JEREMY RIFKIN
ALLA MAKER FAIRE, ROMA 2014
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la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
L’UMANOIDE
INMOOV È UN ROBOT STAMPATO
IN 3D TOTALMENTE OPEN SOURCE,
COSÌ CHE PUÒ ESSERE REPLICATO
DA CHIUNQUE. È IN GRADO
DI RIPRODURRE I MOVIMENTI UMANI
CON GRANDE NATURALEZZA.
IL SUO INVENTORE È GAEL LANGEVIN,
SCULTORE E CREATIVO FRANCESE,
MA AL PROGETTO ORMAI LAVORA
UNA COMMUNITY DI ESPERTI,
TRA CUI L’ITALIANO
ALESSANDRO DIDONNA
WWW.INMOOV.FR
41
La “Maker Faire”
di Roma 2014
è stata un successo
Da lì e non solo
con un guru
dell’hi tech
abbiamo scelto
i prodotti
più belli
IL CARICABATTERIE
LIMOR FRIED È UNA DONNA INGEGNERE
DAI CAPELLI ROSA SHOCKING,
CREATRICE DELLE ADAFRUIT
INDUSTRIES, UN’AZIENDA CHE VENDE
CONGEGNI ELETTRONICI BIZZARRI
TIPO QUESTO PICCOLO MA UTILISSIMO
CARICABATTERIE PER IPHONE
WWW.ADAFRUIT.COM
LA LAMPADA MODULARE
IL LEGO HI-TECH
LA PIZZA DELL’ASTRONAUTA
UNA CASA DA STAMPARE
CON DRAGON LA LAMPADA TE LA FAI
COME VUOI TU ASSEMBLANDO MODULI
TRIANGOLARI CON LUCI LED CHE
POSSONO ESSERE PROGRAMMATE
E REGOLATE A DISTANZA GRAZIE
A UNA APP DEDICATA. DRAGON
E LA SORELLA CROMATICA
(UNO SPEAKER LUMINOSO) SONO STATE
PROGETTATE DALLO STUDIO ITALIANO
DI INDUSTRIAL DESIGN HABITS.
WWW.DIGITALHABITS.IT
AYAH BDEIR CON IL SUO SITO
LITTLEBITS STA TRASFORMANDO
L’ELETTRONICA IN UNA RISORSA
CHE QUALUNQUE DESIGNER
PUÒ USARE: SEMPLICE COME
ASSEMBLARE DEI LEGO, OGNI MATTONE
SVOLGE UNA SPECIFICA FUNZIONE
WWW.LITTLEBITS.CC
LA NASA HA DATO UN FINANZIAMENTO
DI 125.000 DOLLARI A ANJAN
CONTRACTOR, INGEGNERE
MECCANICO, FONDATORE
DELLA SMRC, AZIENDA SPECIALIZZATA
NELLO “STAMPAGGIO” DI CIBO
CHE HA PRESENTATO IL PROGETTO
PER UNA PERFETTA PIZZA IN 3D:
COME IL REPLICATOR DI “STAR TREK”
WWW.SYSTEMSANDMATERIALS.COM
IL SOGNO DI MASSIMO MORETTI
È DI COSTRUIRE UNA STAMPANTE 3D
DI DIECI METRI IN GRADO DI STAMPARE
CASE IN ARGILLA: SI CHIAMA PROGETTO
WASP E ALLA MAKER FAIRE DI ROMA
È STATO PRESENTATO
UN MODELLO DI CINQUE METRI
WWW.WASPROJECT.IT
LA TURBINA
UN TEAM ITALIANO HA PRODOTTO
VENTOLONE, LA TURBINA OPEN
SOURCE CHE PURIFICA L’ACQUA
E PRODUCE ENERGIA EOLICA.
GIÀ TESTATO IN ALCUNI PAESI
IN VIA DI SVILUPPO, FA CAPO
ALLA ONLUS SOLARE COLLETTIVO
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SAFEWALK È UN BASTONE
INTELLIGENTE PER PERSONE
NON VEDENTI CREATO DA MATTEO
MARINO CHE RIESCE A IDENTIFICARE
OSTACOLI E IRREGOLARITÀ
DEL TERRENO GRAZIE A DEI SENSORI.
LA BATTERIA DURA CINQUE ORE.
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IL ROBOTTINO
IL COSIDDETTO UOVO DI COLOMBO:
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UN SITO DOVE GLI INVENTORI POSSONO
METTERE IN VENDITA LE LORO OPERE
DI INGEGNO. A DECRETARNE
IL SUCCESSO È IL PUBBLICO STESSO
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CREATO DA DUE GIOVANI STUDENTI
INDIANI, EMISRO È UN PICCOLO
AUTOMA CAPACE DI SGUSCIARE
NELLE AREE PIÙ DIFFICILI
E IRRAGGIUNGIBILI. I ROBOT POSSONO
ANCHE COMUNICARE TRA LORO
E RICONOSCERE ALCUNI GESTI
DELLE PERSONE, IN MODO
DA CAPIRE COME SI SENTONO
WWW.MAITREYANAIK.WORDPRESS.COM
LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
42
Sapori. Post industriali
USARE PESTICIDI
È PIÙ DIFFICILE
SE SI È I PRIMI
A MANGIARE CIÒ
CHE SI PRODUCE.
ECCO PERCHÉ
LE PICCOLE
AZIENDE DANNO
SEMPRE PIÙ FIDUCIA
AI CONSUMATORI.
E IL MESTIERE
DEL CONTADINO
RIACQUISTA
DIGNITÀ. È AGLI UNI
E AGLI ALTRI
CHE QUEST’ANNO
SARÀ DEDICATO
“TERRA MADRE”
La vecchia fattoria.
Frutta, verdure e salumi
è l’ora degli star farmers
LICIA GRANELLO
OME SI CAMBIA. Un tempo, chi non voleva studiare veniva spedito a imparare la cucina, e di
chi non sapeva fare il suo lavoro si diceva, “braccia strappate all’agricoltura”. L’avvento
dell’era degli starchef ha scombinato la classifica dei mestieri più ambiti. Tra poco sarà
il tempo di pizzaioli e bartender, che già fanno capolino nei congressi e in televisione. Poi
sarà il turno degli star farmers, che hanno contribuito a innalzare in modo vertiginoso il
livello della ristorazione, grazie a frutta e verdura dal gusto intatto, piccoli gioielli di profumo e sapore. In realtà, il mondo della cucina è assai più faticoso e complesso, e l’agricoltura famigliare lo testimonia da millenni, condannata com’è a sopportare gran parte
del peso di nutrire il pianeta. Schiacciate dai potentati dell’agroindustria, vessate da norme e codicilli creati ad arte per ridurle a rassegnazione e silenzio, le famiglie contadine
resistono indomite, pur se ridotte nei numeri e negli spazi. Negli ultimi tempi, però, complice una crisi economica senza fine, il mestiere dell’agricoltore ha ricominciato a essere riconosciuto in termini di dignità e peso, un’inversione di tendenza che vale lauree e master. Se fino a ieri, quella
della campagna verso la città era una migrazione senza ritorno — si andava in città a studiare, trovare un lavoro e viverci — oggi la strada viene percorsa sempre più spesso a doppio senso. E in campagna ci si torna a vivere con una coscienza diversa, fatta di integrazione tra saperi tradizionali e nuove informazioni. Non è facile, essere agricoltori in miniatura. Perché significa rinunciare ai vantaggi della serializzazione e prendere su di sé fino in fondo la responsabilità
di ciò che si produce. Usare pesticidi e fungicidi con leggerezza è più difficile, se si è i primi a mangiare ciò che si coltiva. Avere cura della terra diventa il passaporto della salute dei propri figli che vivono dello stesso lavoro e negli stessi
luoghi. La stagionalità e i tempi della terra diventano la forma stessa del lavoro e non
intralci da bypassare forzando e truccando. Le malattie delle
piante si guariscono rendendole più forti, proprio come
indicano le nuove conoscenze mediche di psiconeuroimmunologia. La terra ricambia con
produzioni sane e buone, gonfie di sa-
C
L’appuntamento
Al Lingotto di Torino dal 23
al 27 ottobre la decima edizione
del biennale Salone del Gusto
e Terra Madre (che quest’anno
festeggia i dieci anni di attività).
In programma laboratori,
conferenze, percorsi didattici,
scuole di cucina e i prodotti
di oltre 400 comunità del cibo
in arrivo da cento nazioni
Il fenomeno
L’Onu ha dichiarato il 2014
anno internazionale
dell’agricoltura famigliare
Ben 350 associazioni e 60 paesi
si sono impegnati a censire
queste micro-imprese
(il 94 per cento ha a disposizione
meno di cinque ettari)
e analizzare il fenomeno, che
coinvolge 500 milioni di famiglie
Il libro
Dal 15 ottobre in libreria
la nuova Guida ai Presidi Slow
Food (Slow Food Editori,
14,50 euro), bibbia delle 243
produzioni censite e protette
dall’associazione,
molte declinate anche in termini
di ospitalità e buon cibo presso
le famiglie dei produttori:
384 pagine di schede e consigli
pore invece che di acqua e chimica. Le testimonianze virtuose, fino a pochi anni fa rare e bollate di bizzarria, oggi si moltiplicano e la rete le
fa viaggiare tra i continenti, dalle mucche felici
che l’ecochef Dan Barber alleva nella super fattoria didattica di Blue Hill, a nord di New York
(guadagnandosi il plauso pubblico del presidente Obama), a quelle della famiglia Masera,
che alle porte di Torino ha deciso di estirpare il
mais per seminare erba medica e favino. Risultato: le mucche sono così contente di brucare all’aria aperta, che in stalla non ci rientrano nemmeno per dormire e fanno un latte strepitoso,
nettamente meno allergenizzante di quello
prodotto negli allevamenti-catena di montaggio. Tutto questo e molto altro troverete nelle
storie di Via Campesina, l’organizzazione di
agroecologia che difende i diritti delle comunità
contadine di tutto il mondo. Addentate un pezzo di Fontina d’alpeggio e ringraziate il dio dei
pascoli liberi.
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la Repubblica
DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
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Quel grande
orticello
che salverà
il mondo
prodotti
e produttori
La ricetta
CA RL O P E TRI NI
Formaggio, castagne e zucca
per il mio riso d’autunno
INGRED
IALONE NANO GRUMOLO DELLE ABBADESSE;
10 DI SALE MARINO DI CERVIA; 20 G. DI FORMAGGIO FATULÌ AFFETTATO ;
CAPPERI PICCOLI DI SALINA;
20 DI FORMAGGIO BAGOSS GRATTUGIAT
4 FOGLIEDIVERZA; 20 G. DIFAGIOLICANNELLINI DENTEDI MORTODI ACERRA;
20 G. CARCIOFO VIOLETTO DI SANT’ERASMO; 20 G. DI MORTADELLA ;
DI CREMA DI CASTAGNE; 20 G. DI ZUCCA;
10 DI PAPACELLA NAPOLETANA SOTTO ACE
DI EXTRAVERG
IORI EDULI
PERLACREMADICASTAGNE: 500 G. DICASTAGNE BOLLITE ESGUSCIAT EZZO
LITRO DI BRODO VEGETALE; 4 FOGLIE DI ALLORO; 50 C
LIO DI ALLORO ;
1 PIZZICO DI SALE
IENTI:
160 G. DI RISO V
G.
G.
O; 5 G.
20 G.
G.
TO; 10 CL.
INE
;
F
E; M
L. DI O
er prima cosa, cubettare la mortadella e tagliare la papacella, poi sbollentare le foglie di verza, raffreddarle e spezzettarle. Intanto, cuocere i fagioli dopo averli lavati, scolare e
raffreddare. Cuocere anche la zucca e tagliare a
cubettini. Pulire i carciofi e cuocerli in acqua acidulata con qualche goccia di limone, raffreddarli e tagliarli a spicchietti. Cuocere al dente il riso e condirlo con la crema di castagne tiepida, poi aggiungere
gli altri ingredienti, e per ultimi i formaggi, rifinire con i fiori eduli e l’extravergine all’alloro. La
crema di castagne rimasta, suddivisa in ciotoline con poca verza saltata e un’acciuga, è un
delizioso accompagnamento all’aperitivo.
P
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LO CHEF
VITTORIO FUSARI
È UNO DEI PIÙ COLTI
E SENSIBILI CUOCHI
ITALIANI CHE
DA SEMPRE DIFENDE
L’AGRICOLTURA
FAMIGLIARE.
QUESTA RICETTA
SARÀ PRESENTATA
AL “SALONE
DEL GUSTO
E TERRA MADRE”
Pasta
Olio
Solo grani italiani, acqua
di sorgente ed essiccazione
lentissima per i maccheroni
prodotti nel pastificio storico,
appena ristrutturato,
da Giovanni e Ada Assante,
con la figlia Maria Elena
Marino Gabrielloni
ha costruito il suo frantoio
a metà anni ’50. Le nipoti
Elisabetta e Gabriella hanno
abbinato la raccolta manuale
agli impianti con azoto
per preservare i profumi
GERARDO DI NOLA
VIA ROMA 25
GRAGNANO (NA)
TEL. 081-8743652
GABRIELLONI FRANTOIO OLEARIO
VIA MONTEFIORE
RECANATI (MC)
TEL. 0733-852498
Mozzarella
Mortadella
A pochi km dalle sorgenti
della Ferrarelle, la famiglia
Cozzolino (fornitrice
del Quirinale da anni) alleva
bufale allo stato semibrado.
Solo erba e fieno,
lavorazione a latte crudo
Ha quasi un secolo di vita
il salumificio della famiglia
Palmieri. Per la “Favola”,
niente conservanti chimici
(un mese di conservabilità),
cotenna naturale
e cottura a vapore
LA FENICE
VIA VADO PIANO
PRESENZANO (CE)
TEL. 0823-989372
SALUMIFICIO PALMIERI
VIA CANALETTO 6 A
SAN PROSPERO (MO)
TEL. 059-908829
Carne
Biscotti
Marco Martini guida la terza
generazione della storica
famiglia di Boves,
la cui macelleria è aperta
dal 1929. In vendita, solo
tagli di animali allevati
nei pascoli della zona
Garzone della bottega
di Antonio Mattei, Ernesto
Pandolfini gli subentrò
nel 1908. I nipoti ancora
producono i Biscotti di Prato
con solo farina, uova,
zucchero, mandorle e pinoli
MARTINI BOTTEGA DELLE CARNI
VIA ROMA
BOVES (CN)
TEL. 0171-380207
BISCOTTIFICIO ANTONIO MATTEI
VIA BETTINO RICASOLI 20
PRATO
TEL. 0574-25756
Parmigiano
Reggiano
Farina
Figli d’arte (i genitori
aprirono l’attività nel 1953)
i fratelli Gennari gestiscono
l’intera filiera produttiva,
dai campi alle cagliate,
con lunghe stagionature
Quattro generazioni
di molitori alle spalle
dei fratelli Drago
e del moderno impianto
dove vengono macinate
a pietra farine biologiche
da varietà di grani antichi
CASEIFICIO GENNARI
VIA VARRA SUPERIORE 14/A
COLLECCHIO (PR)
TEL. 0521-805947
MOLINI DEL PONTE
VIA GIUSEPPE PARINI 29
CASTELVETRANO (TP)
TEL. 0924-904162
I
NSIEME alla tutela della biodiversità,
declinata con il progetto dell’Arca
del Gusto su cui caricare migliaia di
prodotti in via d’estinzione,
l’edizione 2014 del Salone
internazionale del Gusto e Terra Madre
sposa l’Anno internazionale della Fao
dedicato all’agricoltura famigliare. È, del
resto, la cosa più naturale che potesse
avvenire, visto che la quasi totalità dei
produttori, espositori del Salone e degli
appartenenti alle comunità del cibo di
Terra Madre sono fieri rappresentanti di
questo modo di coltivare e allevare a cui
ci aggrappiamo per garantire la
sovranità alimentare a tutti i popoli.
L’agricoltura famigliare di contadini che
lavorano per la propria autosussistenza e
che dunque consumano i propri prodotti
non operando soltanto in ottica
commerciale, rappresenta l’80 per cento
degli agricoltori del mondo. Nelle zone
rurali più a rischio povertà e
malnutrizione, situate in Africa, Asia,
America Latina e Medio Oriente, questa
forma secolare di presidio della terra
costituisce una risorsa insostituibile per
migliorare la propria condizione e, in
alcuni casi, evitare la sciagura della fame.
È necessario fornire tutto il supporto,
economico, culturale e politico, a questi
contadini. Ho avuto la fortuna di
conoscerne tanti, di andarli anche a
trovare a casa loro. In India, in Kenya, in
Brasile, ma anche negli Stati Uniti o nella
stessa Italia, dalle Langhe ai Nebrodi:
l’agricoltura famigliare è ovunque
perché ovunque ci sono uomini e donne
che si prendono cura della propria
piccola porzione di Terra. Questa forma
di coltivare, che potrà apparire ad alcuni
residuale o arcaica, in realtà nutre
ancora il pianeta e può fornire strumenti
di grande modernità. Con il progetto di
realizzare diecimila orti in Africa si è
compreso per esempio quanto un
semplice appezzamento dedicato ai
bisogni delle famiglie, delle scuole, delle
piccole comunità possa invertire il
destino di queste persone. Torno con la
mente a Bunanimi, in Uganda, quando
in un contesto molto problematico ho
visto come l’orto in una scuola
elementare possa rinvigorire anche le
coltivazioni famigliari tutto intorno, e
ridare concreta speranza a un’intera
comunità. O all’India invece, dove nello
stato di Meghalaya, per la piccola
comunità di Khweng, l’approssimarsi
dell’autunno porta con sé un’aria di gioia
e festa. I campi sono pieni di riso pronto
per essere raccolto e le acque si animano
dei movimenti dei pesci. È il tempo in cui
ogni famiglia celebra la fertilità della
propria terra. Qui infatti si producono più
di dieci varietà di riso, frutta e verdura e
sono circa quindici le specie di pesci
disponibili tutto l’anno. Insieme al
Comitato Italiano per le Agricolture
contadine e tante altre organizzazioni,
Slow Food, con numerose iniziative al
Salone del Gusto e Terra Madre cercherà
di coinvolgere tutti a seminare il
cambiamento attraverso il sostegno e la
pratica dell’agricoltura famigliare.
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DOMENICA 12 OTTOBRE 2014
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L’incontro. Trasgressive
Angélica
Liddell
ANN A B AND ET T I N I
ZAGABRIA
N
ESSUNO È COME LEI. Nessuno tanto elegante da violentare lo spettato-
re con grida, violenza, dolore senza dar fastidio al gusto. Nessuno
tanto audace da mescolare Shakespeare con il fango, l’amore con
lo stupro, senza essere volgare. Nessuno tanto matto da essere così attirato dalle zone più profonde dell’animo, più buie, e guardare
in quel caos senza spavento. «Ciò che gli altri chiamano lato oscuro della vita ai
miei occhi è lo splendore, una terribile bellissima luce. La luce proviene dalle tenebre. Si muore nella corruzione si resuscita nella gloria, come dice San Paolo».
Ecco Angélica Liddell, scrittrice, poetessa, regista, performer spagnola: critici e pubblico hanno riconosciuto da tempo il valore del suo teatro ansiogeno, antinarrativo, astratto, inadatto alle grandi folle, immancabile nei festival, spettacoli che folgorano o innervosiscono, entusiasmano o sono solo desolanti, dall’esordio nell’88 con Greta vuole suicidarsi, e poi Dolorosa nel ‘94, Cane morto
in tintoria: i forti, El año de Ricardo rabbiosa parodia del potere. Perfomance che sembrano ring dove prendere a pugni i muri delle nostre maschere, per guardare il peggio e il ridicolo della coscienza.
«Io e il pubblico siamo fatti della stessa merda. Il mondo là fuori non
mi interessa, mi interessa la vita emotiva, quello che succede quando
chiudiamo la porta della nostra stanza», dice terrorizzante, seduta immobile, come rannicchiata, in una austera sedia nel foyer del regale Teatro Comunale di Zagabria dove è andata in scena. A vederla così, sembra una ragazza del ‘66 col viso buono, bello, gli occhi spaesati della malinconia; piccina, esile, molto distinta in camicia e pantaloni neri («mi
piacciono i bei vestiti e la seta» confesserà a un certo punto). Ci pensa
lei a mettersi in una dimensione immaginaria: «Sono uno di quei patetici personaggi de Le particelle elementari di Houellebecq, una di
quelle donne brutte e vecchie che nessuno vuole». Vive a Madrid. La
MI PIACE LA LETTERATURA CHE NON HA UCCISO DIO
I MIEI ULTIMI LAVORI SONO PREGHIERE CON TUTTO
IL FERVORE CHE MI DÀ IL FATTO DI NON CREDERE
LA MIA FEDE NASCE DAL BISOGNO DI DIO,
NON DALLA SUA ESISTENZA
sua casa è un piccolo studio dove lavora, in genere, sul pavimento. «Ma preferisco gli alberghi, preferisco la terra di nessuno». Ha un telefono cellulare che non usa. «Comunico meglio per iscritto. E posso stare giorni senza dire una parola e
senza vedere nessuno». Cammina molto. Anche quattro, cinque ore al giorno. Sempre lo stesso percorso. «Se lo cambio mi
vengono gli attacchi di ansia o l’agorafobia». Parla dolcemente,
come staccata dalla vita: «Mi identifico di più con uno psicopatico che con Gandhi», dice con serenità. «In Canada mi spiegarono che il mondo interiore degli psicopatici e dei poeti è identi-
una donna possa disturbare e frastornare un uomo al punto tale da portarlo a
commettere un atto violento come lo stupro. Tarquinio, il personaggio maschile, non è un criminale, è un uomo innamorato, che riconosce la bellezza e il pericolo dell’essere attratto da essa, ma non c’è nulla che provoca più dolore del desiderio e dell’amore non corrisposto». Si porterà addosso l’ira delle donne che
lottano contro la violenza maschile. «Non mi interessa la morale, ma l’animo
umano che è fatto di fango e costole rotte. Io non sono femminista. Penso che l’odio verso mia madre mi ha fatto diventare misogina. O semplicemente sono realista. Io trovo che il “comunemente femminile” sia ripugnante esattamente come il “comunemente maschile”. Non mi interessa il mondo delle donne, mi interessa il mondo di persone eccezionali. Riconoscere qualcuno nella moltitudine. Il Capitano Achab».
Anche lei ha percorso i suoi viaggi ossessivi. Per esempio da bambina a Figueras, la città di Salvador Dalì dove è nata. «Mio padre era un militare. Ho vissuto tra suore e soldati, armi e crocifissi completamente isolata dalla società e
con una madre convinta che non ero del tutto normale. A cinque anni mi portò
da uno psichiatra, con la minaccia di internarmi... Alla fine non so dire se il mio
disturbo di personalità sia genetico o semplicemente il prodotto di un’infanzia
di merda». Di quel periodo ricorda nitidamente i libri: «Ho letto così tanto che mi
era stato proibito leggere almeno di notte. E allora io coprivo la fessura della porta della mia camera con un asciugamano per non far vedere ai miei genitori la
luce accesa mentre leggevo. In casa mia i libri si compravano per decorare gli
scaffali, i libri del Reader’s Digest, Steinbeck, Carson McCullers, molta letteratura nord americana o cose come La campagna di Napoleone in Egitto o la biografia di Maria Antonietta. Napoleone era il mio idolo e anche di Maria Antonietta mi affascinava il fatto che le tagliarono la testa. Mi piacevano anche le riviste pornografiche. A nove anni mettevo in scena dei giochi pornografici riveduti da me in chiave poetica. Scrissi Soledad e le monache chiamarono i miei genitori molto allarmati. Dal momento che anche oggi non scrivo d’altro, sono quasi quarant’anni che parlo delle stesse cose».
Ha un progetto su Gesualdo, uno sullo scrittore Henry Darger e uno su Emily
IO NON SONO FEMMINISTA, ANZI, FORSE
MISOGINA. NON MI INTERESSA IL MONDO
DELLE DONNE. MI INTERESSA IL MONDO
DI PERSONE ECCEZIONALI. MI INTERESSA
IL CAPITANO ACHAB
Dickinson, continua a leggere tanto e a vedere tanti film. I suoi prediletti To the Wonder di Malick, Il colore del melograno di Paradzanov, Luci
d’inverno di Bergman e tra i libri, Moby Dick, Winesburg, Ohio, la novella di Faulkner Absalom, Absalom!, e poi La lettera scarlatta, la Bibbia, Mishima. «Mi piace la letteratura che non ha ucciso Dio. I miei ultimi lavori sono preghiere con tutto il fervore che mi dà il fatto di non
credere. La mia fede nasce dal bisogno di Dio, non dalla sua esistenza.
Quando la speranza scompare completamente bisogna credere. E
penso che i miei lavori in futuro andranno in quella direzione».
Politicamente dice di essere «anarchica paradossale». Che
vuol dire? «Essere consapevoli del bene e del male senza bisogno di una ideologia o di un governo. Il fatto di vivere in
una società ignorante e decerebrata è un paradosso impossibile da risolvere. Quando incontro qualcuno malvagio o mediocre, penso, santo cielo, questa persona vota,
partecipa alla democrazia. Che democrazia è questa, una
società composta di cittadini ignoranti, malvagi, vili?».
Il vero nome di Angélica è González. «Sono diventata
Liddell il giorno in cui ho visto un ritratto di Alice Liddell in
un libro fotografico di Julia Margaret Cameron. Avevo circa ventitré anni. Ho visto la bambina dei racconti di Lewis
Carroll e sono rimasta scioccata perché eravamo uguali. Ho
sempre voluto essere un’altra persona. Quell’Alice dal ritratto mi diceva che potevo essere io. E l’idea che Lewis Carroll potesse aver scritto un libro su di me mi riempiva di gioia.
Una delle mie più grandi fantasie è che qualcuno scriva un libro pensando a me e se è un sacerdote meglio ancora. Mi piacciono gli amori difficili». Non è sposata, non è fidanzata, non ha
figli, né famiglia. «Dicono che sono una misantropa. È vero. Per
una come me la cosa più difficile è risolvere il conflitto tra la necessità di essere soli e il bisogno di essere amate».
FOTO: IVO VAN DER BENT
HO VISSUTO TRA
SUORE E SOLDATI,
ARMI E CROCIFISSI
A CINQUE ANNI MIA
MADRE MI PORTÒ
DA UNO PSICHIATRA
CON LA MINACCIA
DI INTERNARMI
NON SO DIRE
SE IL MIO DISTURBO
DI PERSONALITÀ
SIA GENETICO
O SIA DOVUTO
ALLA MIA INFANZIA
DI MERDA
Può stare giorni senza dire una parola e senza vedere nessuno, “comunico meglio per iscritto”. Ha una casa a Madrid ma preferisce gli
alberghi, “sono la terra di nessuno”. Regista, scrittrice, poetessa,
performer, nei suoi spettacoli ansiogeni e antinarrativi mescola
Shakespeare con il fango, l’amore con lo stupro. “Mi identifico più
con uno psicopatico che con Gandhi, il teatro è il mio personale manicomio: follia sotto controllo,
co. Ma nel mondo esterno lo traducono in modi diversi. Lo psicopatico diventa
il poeta scrive. Così si potrebbe dire che il mio mondo interiore è psicopatico ma non ha bisogno di uccidere qualcuno, perché può scrivere. Il teatro
sotto tonnellate di controllo”. La assassino,
è il mio personale manicomio. Il teatro è follia sotto controllo, sotto tonnellate di
controllo».
Si capisce perché Roma e Modena hanno atteso con trepidazione l’arrivo suo
sua più grande fantasia? “Che edella
sua compagnia, Atra Bilis Teatro (il nome indica in spagnolo uno dei quattro umori di Ippocrate, la bile nera corrispondente alla malinconia). Al Romaeuropa festival, Angélica ha portato Tandy al Teatro Argentina, un nuovo laqualcuno scriva un libro pensan- voro
che è «una elegia di amore, melanconia, pazzia e destino», dal romanzo Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson su una solitaria bambina che si fa chiaTandy dopo una profezia e del suo bisogno di amore, della disillusione e del
do a me. Se è un sacerdote meglio mare
dolore. Il 16 e 17 ottobre, al festival “Vie” di Modena porterà invece You are my
destiny — Lo stupro di Lucrezia da Shakespeare, presentato in forma di studio
alla Biennale del 2013 che la incoronò con il Leone d’Argento: vi esplora il femancora. Adoro le storie difficili”. minicidio e il dolore che provoca il desiderio. «Voglio capire perché la bellezza di
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