Estratto Francesca Romana Berno, Seneca, Catone e due citazioni

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Estratto Francesca Romana Berno, Seneca, Catone e due citazioni
DI
CIV annata
quarta serie
Volume IX, Fascicolo II
Estratto
Francesca Romana Berno, Seneca, Catone e due citazioni virgiliane
(Sen. epist. 95, 67-71 e 104, 31-32)
le monnier – firenze
2011
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Seneca, Catone e due citazioni virgiliane
(Sen. epist. 95, 67-71 e 104, 31-32)
0. Catone Uticense, come universalmente riconosciuto, è personaggio
di grande importanza per la cultura romana. Si è scritto molto sulla presentazione e sull’evoluzione di questa figura, nella letteratura latina in
generale e in Seneca in particolare. Il filosofo, come è stato autorevolmente sostenuto, assume un ruolo chiave nella trasformazione del personaggio
storico, già idealizzato dalla tradizione, nella «figurazione emblematica
delle virtù del saggio stoico» 1.
All’interno della complessa e talvolta contraddittoria raffigurazione
senecana, vorrei ritagliare una particolare modalità espressiva: quella che
ricorre alla citazione poetica – precisamente, virgiliana 2 – per tratteggiare
1
NARDUCCI 2002: 407. Sul mito di Catone cf. PECCHIURA 1965 (59-71 su Seneca); GOAR 1987
(35-41 su Seneca); TANDOI 1992; con particolare riguardo a Seneca HARDY ALEXANDER 1946;
MAISONOBE 1979; FRANCIA SOMALO 1997: 578-579; ISNARDI PARENTE 2000: 217-223 (221 per il passo
in esame); N A R D U C C I 2002: 370-383; G O W I N G 2005: 76-79; I N W O O D 2005: 306-308.
2
Virgilio è il poeta più citato da Seneca, che soprattutto nelle opere tarde ricorre ai suoi
versi per supportare una determinata affermazione o teoria scientifica (nat. 4b, 4, 2; 6, 13, 5;
6, 22, 4; epist. 21, 5; 28, 1; 28, 3; 70, 2; 84, 3; 95, 68-69; 115, 4-5; 122, 2), talvolta correggendo il dettato poetico (ad es. epist. 59, 3, sulla definizione dei vizi; 86, 15-16, su questioni inerenti la coltivazione; 104, 24-25, sull’aspetto terribile degli Inferi). I versi virgiliani vengono
utilizzati per illustrare i precetti filosofici, spesso a scapito della lettera del testo poetico, che
viene decontestualizzato e risemantizzato: il filosofo si giustifica spiegando che i precetti
salutari vengono adornati di versi al fine di imprimerli più efficacemente nelle anime rozze
(cf. epist. 108, 9: [a philosopho] salutaribus praeceptis versus inseruntur, efficacius eadem illa demissuri in animum imperitorum); le citazioni rivestono dunque una funzione non solo esornativa,
ma anche per così dire didattica: nel sottolineare un concetto, lo rendono maggiormente
comprensibile e memorizzabile. Su questo tema, fondamentale seppure non recente il
lavoro di SETAIOLI 1965; cf. DOPPIONI 1939; MAZZOLI 1970: 215-232; BATINSKI 1984; AUVRAY 1987:
29-34; MAZZOLI 1988; DE VIVO 1992: 21-33; 49-74; MOTTO, CLARK 1993; MANN 2006. In particolare sulle citazioni dalle Georgiche cf. PASOLI 1977: 461-469 (con riferimento a epist. 86, 15);
MAZZOLI 1983-1984; BAÑALES LÉOZ 1997: 554-555 sulla citaz. in esame. Il problema delle citazioni nell’antichità è stato dibattuto di recente in due lavori miscellanei, che pur senza
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l’esemplarità di Catone. Seneca la adotta in due epistole, in contesti per
certi versi simili, accomunati dal tema della guerra civile e dall’esplicito
intento di fornire un ritratto, una imago di Catone. Dall’analisi di queste
due lettere, la 95 e la 104, emergono, a riprova della capacità del filosofo
di reinterpretare il testo poetico in funzione del contesto d’arrivo, aspetti
peculiari e per certi versi sorprendenti dell’eroe stoico, paragonato in un
caso ad un cavallo di razza, nell’altro ad Achille.
1. 1 La lettera 95 è una lunga e complessa dissertazione sui praecepta
nello stoicismo 3. In questo testo, Seneca mira principalmente a dimostrare
la necessità dei precetti, resi indispensabili dall’inarrestabile evolversi del
vizio, che la filosofia deve fronteggiare ricorrendo a strategie e tecniche
sempre più raffinate e complesse.
A tale proposito, Seneca si sofferma fra l’altro sull’utilità delle esemplificazioni (descriptiones, §§ 65-66), e osserva che come è opportuno conoscere le caratteristiche di un buon cavallo dovendone comperare uno, così
a maggior ragione devono essere note a tutti quelle di un animo virtuoso.
Un’immagine che ricorre anche altrove 4 (47, 16; 80, 9), in passi in cui
l’opportunità di togliere le bardature ad un cavallo per valutarlo oggettivamente diviene metafora dell’importanza di distinguere la realtà dall’apparenza. Nella lettera 95, invece, l’interesse di Seneca è focalizzato sull’analisi
delle virtù dell’uomo ideale. E il filosofo inserisce (95, 68) la descrizione
virgiliana del cavallo di razza (georg. 3, 75-81; 83-85) 5 come ritratto esemplare del vir fortis, adatto in particolare a Catone.
Proponamus laudanda, invenietur imitator. [67] Putas utile dari tibi argumenta per
quae intellegas nobilem equum, ne fallaris empturus, ne operam perdas in ignavo?
affrontare la questione relativamente a Seneca si segnalano soprattutto per gli aspetti più
propriamente teorici: DARBO-PESCHANSKI 2004 (di cui vd. in particolare BONADEO 2004), e
NICOLAS 2006.
3
Su cui cf. BELLINCIONI 1979; SCHAFER 2009, spec. 85-119 .
4
Cf. infra, pp. 239-241. Un’altra similitudine realtiva ai cavalli si trova, ad altro proposito, nel De ira (2, 2, 6): sic enim militaris viri in media pace iam togati aures tuba suscitat equosque
castrenses erigit crepitus armorum.
5
Si tratta di un passo che doveva essere particolarmente caro al filosofo, che manifesta
una preferenza per i libri primo e terzo dell’opera (MAZZOLI 1970: 230), e cita i versi di poco
precedenti a quelli in esame in altri due contesti (brev. 9, 2; epist. 108, 25-28). Su questa citazione cf. DOPPIONI 1939: 123-125 (che la interpreta come «allegoria»; cf. BATINSKI 1984: 141142); SETAIOLI 1965: 144-147 (carattere metaforico e non allegorico dell’interpretazione);
MAZZOLI 1970: 224-225 (si tratta di «allegorismo immanente»: l’interpretazione non vuole
essere espressione degli effettivi intenti del poeta); BERNO 2006a: 57-64. Tutti gli studiosi
sono concordi sul fatto che Seneca tralascia i versi meno opportuni al suo scopo (relativi al
colore del manto del cavallo), e che gli elementi messi in rilievo dal filosofo sono «invincibile ardire» e «fiera costanza» (DOPPIONI 1939: 125).
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Quanto hoc utilius est excellentis animi notas nosse, quas ex alio in se transferre permittitur.
[68] «Continuo pecoris generosi pullus in arvis
altius ingreditur et mollia crura reponit;
primus et ire viam et fluvios temptare minantis
audet et ignoto sese committere ponti,
nec vanos horret strepitus. Illi ardua cervix
argutumque caput, brevis alvus obesaque terga,
luxuriatque toris animosum pectus…
… Tum, si qua sonum procul arma dederunt,
stare loco nescit, micat auribus et tremit artus,
conlectumque premens volvit sub naribus ignem.» [Verg. georg. 3, 75-85]
[69] Dum aliud agit, Vergilius noster descripsit virum fortem: ego certe non aliam imaginem magno viro dederim. Si mihi M. Cato exprimendus <sit> inter fragores bellorum
civilium inpavidus et primus incessens admotos iam exercitus Alpibus civilique se bello
ferens obvium, non alium illi adsignaverim vultum, non alium habitum. [70] Altius certe
nemo ingredi potuit quam qui simul contra Caesarem Pompeiumque se sustulit et aliis
Caesareanas opes, aliis Pompeianas [tibi] foventibus utrumque provocavit ostenditque
aliquas esse et rei publicae partes. Nam parum est in Catone dicere ‘nec vanos horret strepitus’. Quidni? Cum veros vicinosque non horreat, cum contra decem legiones et Gallica
auxilia et mixta barbarica arma civilibus vocem liberam mittat et rem publicam hortetur
ne pro libertate decidat, sed omnia experiatur, honestius in servitutem casura quam itura.
[71] Quantum in illo vigoris ac spiritus, quantum in publica trepidatione fiduciaest! Scit
se unum esse de cuius statu non agatur; non enim quaeri an liber Cato, sed an inter liberos sit: inde periculorum gladiorumque contemptus. Libet admirantem invictam constantiam viri inter publicas ruinas non labantis dicere ‘luxuriatque toris animosum pectus’ 6.
Dal punto di vista lessicale e stilistico, noteremo brevemente che, oltre
ai motivi del coraggio e della forza, vi sono nella lettera puntuali riprese del
testo virgiliano 7 con variatio (inpavidus et primus incessens 8, § 69: cf.
primus […] ire viam […] audet, vv. 77-78 del passo citato; altius […] ingredi, § 70: cf. altius ingreditur, v. 76), fino alla rinnovata citazione di una
sezione di verso: nec vanos horret strepitus (v. 79) ribadito da horreo (§ 70).
Un’altra sezione viene ripetuta alla fine del paragone: dopo aver elencato il
vigor e lo spiritus di Catone, la sua fiducia e invicta constantia (§ 71), Seneca
ripete luxuriatque toris animosum pectus (v. 81), il verso in cui si concentra
la rappresentazione fisica e psicologica dell’ardore guerriero del cavallo.
Il testo riprodotto, qui e infra, è quello curato da REYNOLDS 1965.
Sulla terminologia poetica in Seneca cf. HINE 2005 (con ampia bibliografia). Per un
esempio analogo a quello in esame cf. il mio comm. ad epist. 56, 13 (BERNO 2006b: 309-313),
con riferimento alla citazione, nel § 12, di Verg. Aen. 2, 726-729.
8
Cf. anche se bello ferens obvium, § 69, e ignoto sese committere ponti, v. 78; provocavit,
§ 70, e temptare, v. 77.
6
7
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Come in altri casi in cui la citazione è abbastanza estesa 9, un segmento
di essa viene reduplicato all’interno del testo, sia per focalizzare l’attenzione del lettore, potenzialmente dispersa data la lunghezza del passo poetico
citato, sia per ribadire la principale caratteristica comune a Catone e al
destriero: il coraggio, considerato in positivo come ardimento e in negativo come assenza di timore. Quest’ultima caratterizzazione, nec vanos
horret strepitus (v. 79), fa riferimento ad una delle qualità principali del
saggio stoico: l’indipendenza dagli eventi esteriori. Un atteggiamento che
trova eco inquietante nella produzione tragica di Seneca, e precisamente
nelle improvvide parole di un abile domatore di cavalli, Ippolito, di fronte
al mostro che ne provocherà la morte: haud frangit animum vanus hic
terror meum (Phaedr. 1066; cf. v. 47). L’auriga è impassibile 10, ma i cavalli
terrorizzati 11 lo condurranno ad una fine atroce: e la sua morte straziante
viene paragonata a quella di un altro personaggio mitico messo in relazione da Seneca con il saggio stoico, Fetonte 12 (vv. 1090-1093).
Nel commentare la citazione dalle Georgiche, Seneca, come si è detto,
ripete anche un’altra sezione di verso, luxuriatque toris animosum pectus,
che sottolinea la centralità della disposizione d’animo ai fini della virtù.
Animosa è la virtus (epist. 71, 18; Herc. f. 201) e l’esortazione dei filosofi
(epist. 108, 35; in particolare quella di Demetrio, prov. 5, 5), animose e fortiter il saggio sopporta le avversità (prov. 4, 5; vit. b. 24, 4; epist. 67, 4; cf.
70, 21); Catone stesso, nel riaprire le sue ferite mortali, agisce animosius 13
quam fecerat (epist. 71, 17). Analoghe considerazioni si possono fare per
un altro attributo del cavallo, generosus (georg. 3, 75), che troviamo fra
l’altro riferito a Catone (epist. 24, 8) 14.
9
Cf. epist. 56, 13-14; 108, 24-26. Nella lettera 104 (§ 24) un singolo verso (Aen. 6, 277)
viene ripetuto due volte.
10
Queste parole non sono le uniche a testimoniare tale atteggiamento: Ippolito,
all’apparire del mostro, è solus immunis metu (v. 1054) […] nec ora mutat (v. 1065). A questo
proposito va ricordato che per Seneca perfino del saggio, in determinate circostanze, mutabitur color (epist. 57, 3; cf. 74, 31); e che lo stesso filosofo accoglie interritus l’ordine di darsi
la morte (Tac. ann. 15, 62, 1). Sull’aspetto eroico di Ippolito, che si distingue nettamente dal
personaggio euripideo, cf. BOYLE 1985: 1336 nota 102; GIANCOTTI 1986: 39-42 e 71-72 nota 17
(la fine di Ippolito evoca «tipiche immagini di morte stoica», p. 41); CAVIGLIA 1990: 129-133.
11
Il campo semantico della paura è frequentissimo nel racconto, con riferimento prevalentemente ai cavalli imbizzarriti di Ippolito, e al toro che li terrorizza: cf. terror (v. 1079);
horridus (v. 1081); pavidus (v. 1082); timor (v. 1089).
12
Vd. infra, p. 242.
13
Comparativo che spetta anche ad Alessandro Magno (ira 2, 23, 2) e Rutilio Rufo
(benef. 6, 37, 2).
14
Il generosus equus è spesso termine di paragone in Seneca, ma non certo emblema di
sereno equilibrio: in clem. 1, 24, 2 esemplifica l’indocilità della natura umana (natura contumax est humanus animus et in contrarium atque arduum nitens, sequiturque facilius quam ducitur,
et ut generosi ac nobiles equi melius facili freno reguntur, ita clementiam voluntaria innocentia
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Ma la ripresa di luxuriatque toris animosum pectus ci mostra anche
l’unica possibile applicazione in positivo della luxuria, il principale vizio su
cui si incentra la lettera 95 15. Il valore di sovrabbondanza insito nel significato di questo termine, che si adatta ad ogni manifestazione dell’eccesso
(dallo sfarzo all’ingordigia), è lecito – come dice lo stesso Seneca – solo se
relativo al valore del cavallo: e dunque del vir fortis, a cui è necessario eccedere la misura per combattere ad armi pari contro lo strapotere dei vizi 16.
Luxuria, dunque, seppure in accezione antitetica a quella del resto dell’epistola, contribuisce a integrare i versi virgiliani nel tessuto della lettera.
Ancora qualche considerazione sul paragone fra Catone e il generosus
pullus. Si tratta, in termini generali, di una comparazione abbastanza
usuale 17. Non c’è bisogno di scomodare Platone, che a quanto pare ne fa il
simbolo della parte irascibile dell’anima (cf. phaedr. 253d) 18, per vedere
nel cavallo di razza un emblema di ardimento e impazienza: è lo stesso
Seneca che, in una descrizione dell’elemento irrazionale dell’anima chiaramente debitrice al filosofo ateniese, distingue una parte in qualche modo
inpetu suo sequitur…); in brev. 18, 4 dei nobiles equi si esalta la generosa pernicitas; esempio di
generosa indoles è chi si affatica lungo la strada della virtù (vit. b. 13, 4; epist. 44, 5; prov. 4,
11; cf. epist. 102, 21); d’altra parte, l’indole generosa è incline all’ira (ira 3, 7, 2; cf. 2, 16, 1):
emblema di tale natura è Fetonte, caduto in un’impresa tanto nobile quanto sproporzionata
per le sue forze (prov. 5, 11). L’animo generosus va spronato alla virtù (epist. 39, 2: generosus
animus […] concitatur ad honesta; cf. 71, 18: virtutem […] incitat quidquid infestat). In generale,
non si tratta di immagini negative; tuttavia, l’ardore impetuoso che le accomuna le rende del
tutto inadatte a caratterizzare il saggio (cf. infra, pp. 238-239).
15
cf. i §§ 18 (le malattie supplicia luxuriae); 19 (la luxuria che mescola i cibi); 27 (gravest
luxuriari per singula); 33 (in avaritiam luxuria praeceps est); 41. Su luxuria in Seneca cf. TORRE
1997; BORGO 1998: 119-122, s. v. luxuria; luxuriosus; luxus.
16
Epist. 95, 32: adversus tam potentem explicitumque late furorem operosior philosophia facta
est et tantum sibi virium sumpsit quantum iis adversus quae parabatur accesserat. cf. 51, 13: sed
satis diu cum Bais litigavimus, numquam satis cum vitiis, quae, oro te, Lucili, persequere sine modo,
sine fine; nam illis quoque nec finis est nec modus.
17
«Une variante, un duplicata, parfois même un modèle de l’éthique humaine» (AYMARD
1960: 123: il discorso è riferito in generale alla valutazione dei comportamenti animali da
parte dei Romani). cf. SCHNAPP-GOURBEILLON 1981: 169-178; SAUVAGE 1975: 63-72; GOGUEY 2003:
55-56; 68-69; GRIFFITH 2006: 307-336; sulle rappresentazioni iconografiche JOHNS 2006; sulla
psicologia ‘umanizzata’ del cavallo VIGNERON 1968: 15-20; RUCH 1971; BRIGGS 1980: 44-52 (con
particolare riferimento al cavallo preso da amore); ROCCA 1983: 84-88 (Aristotele come fonte
di Virgilio; 85-86 sull’ardore del cavallo come elemento topico); GIEBEL 2003: 104-119 (incentrato sugli usi del cavallo); infra, nota 21. Per quanto riguarda Seneca, sulle comparazioni
con animali in generale cf. HUSNER 1924: 92-103; in particolare sul cavallo ARMISEN-MARCHETTI
1989: 90-92; TORRE 1995.
18
Questa diffusa ma non incontrovertibile interpretazione si basa sulla tripartizione
dell’anima fra logistikovn, qumwvdh" e ejpiqumhtikovn esposta da Socrate nella Repubblica (439d441c). Sul cavallo immagine dello qumov" cf. FRÈRE 1997: 431-434 (altri animali-simbolo dello
qumov" sono il leone, il caprone, il cane da guardia).
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positiva da quella concupiscibile, asservita alla voluptas: e la definisce, non
a caso, animosa (epist. 92, 8) 19. D’altra parte, tale caratteristica è pur
sempre, secondo la tassonomia veterostoica, una passione, riconducibile in
particolare all’ejpiqumiva, una delle quattro passioni fondamentali 20.
Da queste pur sommarie considerazioni segue che il cavallo – e in particolare il cavallo delle Georgiche 21 – non è certo adatto a caratterizzare un
saggio atarassico. Si tratta infatti di una similitudine per lo più riservata a
eroici guerrieri tutt’altro che sereni 22. Che non manca neppure nell’Eneide, ove troviamo in particolare una similitudine (di origine omerica) 23 fra Turno, che si prepara per la battaglia, e un cavallo da guerra,
19
Inrationalis pars animi duas habet partes, alteram animosam, ambitiosam, inpotentem, positam in adfectionibus, alteram humilem, languidam, voluptatibus deditam: illam effrenatam, meliorem tamen, certe fortiorem ac digniorem viro… Animosus può ragionevolmente ritenersi
traduzione di qumwvdh" (cf. ThlL II, 89, 16, s. v.).
20
La dottrina del portico concepiva infatti, com’è noto, due coppie polari di passioni
riferite rispettivamente al presente e al futuro, ossia dolore/piacere (luvph/hJdonhv, dolor/voluptas) e timore/desiderio (fovbo"/ejpiqumiva, timor/cupiditas): tutte le altre passioni sono specificazioni di queste categorie principali (SVF III, 391; cf. 392-414). Su questo argomento cf. le
osservazioni e la sintesi aggiornata di CITTI 2004, con bibliografia. Cicerone, che nelle Tusculanae espone nel dettaglio questa teoria (4, 14-22), elenca la quvmwsi" fra le sottospecie
dell’ira nello Stoicismo (e la traduce excandescentia: 4, 21= SVF III, 398); nei cataloghi di
Andronico e Diogene Laerzio troviamo, sempre rubricati come derivati del desiderio, sia
qumov" (intepretato come fase iniziale dell’ira, come pure in Cicerone) che filonikiva (SVF III,
396-397). Due caratteristiche che Senofonte attibuisce precisamente, al superlativo, a certi
cavalli da guerra, il cui adore va placato con la solitudine (equ. 9, 8).
21
Sulle fonti di questa descriptio (principalmente Xenoph. equ. 1, 4-14; Varro rust. 2, 7, 56; un’ampia ripresa in Colum. 6, 29) cf. BIANCO 1985: 349 e bibl. ivi citata (solo un breve riassunto del passo in R INALDI 1985: 675); C ORTI 1986: 27-29; comm. ad l. di M YNORS 1990:
191-192, e E RREN 2003: 601-604. In particolare per Senofonte V IGNERON 1968: 4-15;
BRIND’AMOUR 1972; per Varrone SALVATORE 1978: 83-89; comm. ad l. di FLACH 1997: 297-299.
Che il cavallo da guerra sia descritto analogamente all’eroe epico è notato da molti studiosi:
oltre ai commenti citati cf. PUTNAM 1979: 177-180; ROCCA 1984: 174; BIANCO 1985: 349.
22
Un celebre precedente è Tideo nei Sette contro Tebe di Eschilo (vv. 391-394). L’eroe,
che assedia la prima porta della città, è rappresentato con i caratteri iliadici, ma «virati verso
il registro del bestiale, del mostruoso, dell’eccessivo»; è paragonato ad animali (il cavallo,
appunto, ma anche il serpente) e come un animale freme di impazienza ed emette suoni
inarticolati (cf. il comm. ad l. di CENTANNI 1995: 153-154). Lo stesso Tideo degenera ulteriormente in Stazio (in cui non c’è la similitudine con il cavallo, ma rimane quella con il serpente, 4, 95-100, nonché il leone, 2, 675-681, e il toro, 3, 330-335) a livello puramente bestiale
(cf. TAISNE 1994: 137-144, e soprattutto D’ESPEREY 1999: 174-176; 190-197). Eschilo applica il
paragone con il cavallo (sfrenato) anche a Cassandra vista da Clitennestra (Ag. 1066-1067);
Euripide compara Oreste malato che salta giù dal letto a un puledro che sfugge al giogo
(Or. 44-45), e raffigura sullo scudo di Polinice le cavalle cannibali di Glauco in preda al
fovbo" (Phoen. 1124-1125).
23
cf. Il. 6, 506-511 = 15, 263-268. Si tratta di una comparazione che ritorna in Ennio e Apollonio Rodio, su cui cf. VON ALBRECHT 1969 (con particolare attenzione all’aspetto letterario);
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descritto in termini simili a quelli utilizzati nelle Georgiche: [ecus] emicat
arrectisque fremit cervicibus alte [cf. ardua cervix, georg. 3, 79] / luxurians
luduntque iubae per colla, per armos (Aen. 11, 496-497: si noti l’uso di
luxurio, unica occorrenza virgiliana oltre a quella citata) 24. Il paragone fra
cavallo ed eroe instaurato da Seneca era già in Virgilio. Con riferimento,
nel poeta come nel filosofo, ad un personaggio destinato alla morte 25.
1. 2 L’immagine delle Georgiche gode di una certa fortuna anche in
altri autori, che la inseriscono in descrizioni dell’ardimento guerriero
oppure in aneddoti relativi all’acquisto di un cavallo, anch’essi, come si è
visto, ricorrenti nelle Epistulae senecane.
A questo proposito la ritroviamo, seppure appena accennata, ben prima
di Seneca, in una satira di Orazio, in cui il poeta intende esprimere il medesimo precetto del filosofo – non bisogna lasciarsi condizionare dalle apparenze
– ma con un’immagine specularmente antitetica a quella senecana. Infatti,
mentre Seneca osserva che dovendo comprare un cavallo è opportuno
togliergli la bardatura, per osservarlo accuratamente 26, Orazio 27, al contrario,
narra che i re sono soliti coprire l’animale, affinché il suo aspetto esteriore
non comprometta l’equilibrata valutazione delle sue qualità essenziali.
Hor. sat. 1, 2, 86-89
Regibus hic mos est: ubi equos mercantur opertos
inspiciunt, ne si facies, ut saepe, decora
molli fulta pede est, emptorem inducat hiantem,
quod pulchrae clunes, breve quod caput, ardua cervix.
La iunctura di sapore ossimorico opertos/inspiciunt, evidenziata
dall’enjambement, introduce una descrizione in cui ardua cervix (v. 89) è
chiara tessera virgiliana 28 (georg. 3, 79), mentre nello stesso verso breve caput
comm. ad l. di HORSFALL 2003: 292-294, con attenta disamina bibliografica; O’ NEAL 2005: 76-77;
GRIFFITH 2006: 313-314 (solo su Omero). Altre similitudini incentrate sui cavalli (elencate in
ROCCA 1984: 175) in Aen. 5, 144-147 (le navi in gara); 12, 331-340 (Turno auriga come Marte).
24
Vi sono poi due ricorrenze del sostantivo, in riferimento all’abbondanza di erba
(georg. 1, 112; 1, 191).
25
THOMAS 1981 rileva come il cavallo sia sempre associato a personaggi «condamnés»
come Turno e Didone, mai ad Enea (p. 44), e ne sottolinea perciò la sua descrizione, in Virgilio, come animale guerriero, ma anche forza ctonia e potenzialmente violenta (pp. 43-45).
26
Cf. supra, p. 234.
27
Su questo aneddoto cf. le note ad l. di MÜLLER 1891: 25-26, e di LEJAY 1966: 52 – che
rimanda, senza confronti puntuali, ai versi virgiliani –, nonché le osservazioni di GIGANTE
1993: 80-81. In particolare su reges, HOLMES 2000.
28
Sui rapporti intertestuali fra Orazio e Virgilio cf. FACCHINI TOSI 1996 (938 per i versi in
esame), con ampia bibliografia.
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richiama argutumque caput, brevis alvus (georg. 3, 80). L’operazione oraziana
è un raffinato rovesciamento di senso, che mira apparentemente a dare massimo rilievo alla sostanza rispetto all’apparenza: tuttavia, il contesto non è filosofico ma erotico (e ironico). Si tratta infatti della scelta dell’amante, in cui un
particolare affascinante può distrarre da difetti fisici anche gravi. Il nobile
destriero di Virgilio viene qui ricondotto a pascoli decisamente poco epici.
In tutt’altri tempi e tutt’altro contesto, Lucano trasceglie fra i versi virgiliani che descrivono il destriero quello che più insiste sull’impazienza
dell’animale – stare loco nescit, 3, 84 –, e lo utilizza per definire non l’eroe
della virtù, ma l’eroe negativo, campione della fortuna: Cesare 29.
Lucan. 1, 143-146
… Sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus
stare loco solusque pudor non vincere bello:
acer et indomitus…
Allo stesso Cesare è riferita altrove l’unica – a quanto mi risulta – similitudine a tema equino del poema (1, 293-294) 30.
Lucano, dunque, porta il ricordo virgiliano alle estreme conseguenze,
ricorrendo ad un verso – stare loco nescit, 3, 84 – che non a caso Seneca
aveva citato senza però richiamarlo nel contesto.
Al contrario Apuleio, che nel De Deo Socratis (§ 173) replica la citazione 31 senecana al medesimo fine del filosofo – ossia definire l’uomo di
valore – ne vanifica la potenziale pericolosità, sia selezionando alcune
immagini (vv. 78-79) senza riportarne altre, sia abbinando questo exemplum al paragone, sempre senecano, dell’acquirente che per valutare accuratamente un cavallo deve togliere le bardature 32. Si tratta di un’immagine
29
Cf. NOSARTI 2002-2003: 188-189, che nota come questa allusione intenda sottolineare
proprio l’irascibilità di carattere di Cesare; NARDUCCI 2002: 188-189; SKLENAŘ 2003: 105-106.
Quest’ultimo, pur senza citare il riscontro virgiliano, osserva opportunamente che questa
espressione definisce la virtù di Cesare come la fortuna: mutevole e incostante.
30
Cf. HUNDT 1886: 8; 12; AYMARD 1951: 67-69. Aymard individua in particolare, come
fonti di Lucano, versi di Tibullo (1, 4, 32) e Ovidio (her. 18, 166).
31
Sulle citazioni virgiliane in Apuleio cf. GATSCHA 1970: 144-147; BARRA 1960-1961: 100113 (citaz. di Lucrezio); MORESCHINI 1984; LA PENNA 1985; LAZZARINI 1985; MATTIACCI 1986: 162165; GRAVERINI 1998 (bibl. 123-124 nota 2, specifica sull’epica); BOCCIOLINI PALAGI 1999: 63-78.
Per quanto riguarda in particolare il motivo del cavallo, che ritorna fra l’altro, sempre corredato da una citazione poetica (Lucil. 1278 Marx), in uno dei Florida (21), nonché nell’esordio delle Metamorfosi (1, 2), cf. MARANGONI 2000: 45-49.
32
Si tratta dei passi ricordati supra (epist. 47, 16; 80, 9). Nel commentare i §§ 167-178 del
De deo Socratis, BEAUJEU 1973: 244-246, richiama numerosi passi senecani, fra cui, a proposito
del cavallo, la lettera 80.
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presente, come si è visto, anche nella lettera 95, ma che lascia poi il passo
alle raffigurazioni di Catone come eroico guerriero: in Apuleio viene
invece isolata e approfondita fino a dipingere un ritratto del cavallo del
tutto svincolato dall’ardimento guerriero.
Apul. Socr. 172-174
Neque enim in emendis equis phaleras consideramus [… 173] sed istis omnibus exuviis amolitis equum ipsum nudum et solum corpus eius et animum contemplamur, ut sit et ad speciem
honestus et ad cursuram vegetus et ad vecturam validus: iam primum in corpore si sit
«Argutum caput, brevis alvus obesaque terga
luxuriatque toris animosum pectus honesti» [Verg. georg. 3, 78-79]
[… 174] similiter igitur et in hominibus contemplandis noli illa aliena aestimare, sed
ipsum hominem penitus considera, ipsum ut meum Socratem pauperem specta.
Apuleio circoscrive la descrizione virgiliana al distico che comprende
luxuriatque toris animosum pectus (vv. 78-79), riassumendo poi in prosa
altre caratteristiche fisiche del cavallo (evitando quelle psicologiche connesse all’essere animosus: l’eccitamento ad ogni squillo di tromba, il nec
vanos horret strepitos, ecc.), e si sofferma sull’analogia fra l’antitesi bardature/aspetto fisico del cavallo da un lato, beni esteriori/essenza intima
dell’uomo dall’altro. L’affinità psicologica fra l’uomo e il cavallo, che
Seneca aveva sfruttato nella lettera 95 per descrivere Catone come un
eroico guerriero, qui viene del tutto ignorata a favore di un discorso più
generale, non incentrato su un singolo individuo, ma su un astratto modello di uomo ideale, come negli altri contesti senecani in cui ricorre l’immagine equina. Apuleio fa dunque interagire più ipotesti senecani,
riprendendo formalmente il contesto della lettera 95, ma avvicinandosi
concettualmente alle lettere 47 e 80.
1.3 Dopo questa parentesi diacronica, mi pare si possa concludere
provvisoriamente, in merito alla lettera 95 di Seneca, che la scelta del focoso
cavallo da guerra come termine di paragone con Catone sia motivata da due
ordini di esigenze. Su un piano generale, vi è l’intento pedagogico di ricorrere ad un’immagine che sia ad un tempo familiare al lettore e straniante, in
quanto non corrispondente alle aspettative: un cavallo saggio è figura paradossale, e proprio per questo facilmente memorizzabile. Su un piano specifico, focalizzato su Catone, Seneca mira a mettere in luce il suo status di
saggio tutt’altro che atarassico: in lotta contro la sorte, contro Cesare e
Pompeo, contro la sua stessa vita – gli si addice perciò l’impazienza e la bellicosità del destriero. Della lunga citazione virgiliana Seneca si serve, in
sostanza, per sottolineare il coraggio di Catone. Un coraggio che l’eroe
dimostrò storicamente con una scelta paradossale e titanica: si oppose ad
entrambe le parti in lotta (Cesare e Pompeo: simul contra Caesarem Pompeiumque se sustulit, § 70), assumendo una posizione tanto anacronistica
quanto ammirevole per coerenza e devozione allo Stato repubblicano. La
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scelta di darsi la morte, ricordata eufemisticamente anche in questa lettera
(§ 72: Catonis illud ultimum ac fortissimum vulnus per quod libertas emisit
animum), era conseguenza necessaria di tale presa di posizione. In questo
contesto (vd. anche supra, pp. 238-239), il saggio assume dunque i tratti
dell’eroe epico, necessari per lottare contro la sorte come contro i vizi 33.
L’atteggiamento del saggio così rivisitato si avvicina però, più che all’ideale
veterostoico, al titanismo 34 di Fetonte (chiamato in causa da Seneca stesso
come exemplum positivo nel De providentia, e definito generosus, come il
destriero virgiliano e il Catone senecano: prov. 5, 11): il paragone paradossale con il cavallo veicola in effetti una sorta di attualizzazione della figura del
sapiens 35, a conclusione di un lungo discorso sull’evoluzione della filosofia
necessaria a contrastare la degenerazione politica e sociale.
2. Nei versi delle Georgiche successivi a quelli citati da Seneca, Virgilio
osserva che cavalli come quello descritto erano aggiogati al carro di Marte
o a quello di Achille (3, 91). Proprio a quest’ultimo, l’emblema dell’ira,
Seneca paragona Catone in un’altra lettera, la 104.
Tema principale dell’epistola è l’importanza dell’acquisizione della
serenità interiore: a questo proposito, i due principali esempi citati sono
Socrate e Catone.
Questo il contesto della citazione 36:
[30] Denique in illla rei publicae trepidatione, cum illinc Caesar esset decem legionibus
pugnacissimis subnixus, totis exterarum gentium praesidiis, hinc Cn. Pompeius, satis
33
E la caratterizzazione della filosofia come lotta è, qui come altrove, esplicita: cf. in
particolare i §§ 35 e 38. Su questo tema, frequente in Seneca e comune al pensiero romano,
cf. LÉVY 2005 (in partic. 73-76); KROPPEN 2008; per un’attualizzazione di queste tematiche funzionale ad uno stoicismo per i soldati di oggi (da quelli del Vietnam a quelli dell’Iraq), cf.
SHERMAN 2005.
34
Significativo il confronto fra epist. 24, 8, in cui Catone g e n e r o s u m i l l u m c o n t e m p t o r e m q u e omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit, ed epist. 24, 25, in cui Seneca critica
la libido moriendi come inconsulta animi inclinatio […] quae saepe g e n e r o s o s atque acerrimae
indolis viros corripit, saepe ignavos iacentesque: illi c o n t e m n u n t vitam, hi gravantur.
35
CAMBIANO 2001 riconduce le contraddizioni rintracciabili nella figura del saggio senecano alla necessità di proporre un’etica «per tempi difficili» (60); cf. GRIMAL 2001: 253-257;
INWOOD 2005: 271-352. Un’interpretazione affine alla presente del Catone lucaneo viene proposta da STOK 2007, con riferimento all’esegesi delle ricorrenze di furor nel discorso fra
Bruto e Catone (2, 247-295).
36
Molto meno studiata della precedente: non ne fanno parola SETAIOLI 1965, MAZZOLI 1970,
MOTTO, CLARK 1983; DOPPIONI 1939 osserva che Seneca «più che insistere sulla discutibile somiglianza dei personaggi di cui parla con quelli virgiliani, ha voluto piuttosto cogliere l’elemento di terribilità di Achille verso gli Atridi e Priamo, per ridare più efficacemente la terribilità di Catone verso
le due parti contendenti» (126). Lo studioso è evidentemente concentrato su saevus e sull’elemento
più significativo, la lotta di Catone contro entrambi i contendenti. Cf. COSTA 1988, 221.
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unus adversus omnia, cum alii ad Caesarem inclinarent, alii ad Pompeium, solus Cato
fecit aliquas et rei publicae partes. [31] Si animo conplecti volueris illius imaginem temporis, videbis illinc plebem et omnem erectum ad res novas vulgum, hinc optumates et
equestrem ordinem, quidquid erat in civitate sancti et electi, duos in medio relictos, rem
publicam et Catonem. Miraberis, cum animadverteris
«Atriden Priamumque et saevom ambobus Achillen» [Verg. Aen. 1, 458]
Utrumque enim improbat, utrumque exarmat 37. [32] Hanc fert de utroque sententiam:
ait se, si Caesar vicerit, moriturum, si Pompeius, exulaturum. Quid habebat quod timeret
qui ipse sibi et victo et victori constituerat quae constituta esse ab hostibus iratissimis
poterant? Perît itaque ex decreto suo.
L’affinità con la lettera 95 è evidente: il medesimo personaggio,
descritto con le parole di Virgilio, assume i tratti dell’eroe epico per dimostrare che aliquas esse et rei publicae partes: espressione che ritorna identica nei due contesti (95, 70; 104, 30).
Veniamo ora alla citazione dall’Eneide. Il verso virgiliano (1, 458) 38 è
tratto dalla celebre scena delle lacrimae rerum, in cui Enea giunto a Cartagine contempla una rappresentazione figurata delle vicende di Troia:
accomunano i due contesti il tema della guerra e il motivo della visione,
reiterato nel poema dalle opere d’arte contemplate da Enea (lustro,
v. 453; miror, video, v. 456), nella lettera dagli exempla moralistici presentati ai lettori (prima Socrate e Catone: accipite Socraten, § 27; accipe
Marcum Catonem, § 29, poi, con riferimento alle imprese di questo, vides
… vides … vides, § 33). La descrizione senecana, esplicitamente presentata come rappresentazione iconica del periodo della guerra civile – illius
imago temporis, § 31 –, tiene fede al suo carattere visivo attraverso la raffigurazione quasi pittorica di due gruppi sullo sfondo (populares e optimates) e un personaggio al centro, in primo piano: Catone, associato allo
Stato. Una simile rappresentazione avvicina non poco il contesto a quello
virgiliano. Ma la citazione consente a Seneca di condensare gli eventi storici drammatizzandoli: riduce infatti il conflitto a tre personaggi (Achille,
Agamennone, Priamo da un lato; Catone, Pompeo, Cesare dall’altro), di
cui uno (Achille/Catone) è opposto agli altri due – opposizione sottolineata dall’insistita anafora di uterque. Di qui Seneca è legittimato a presentare la guerra civile come l’epopea di Catone (così come la guerra di
Troia fu per Achille).
Si noti inoltre che anche la iunctura con cui si apre la rappresentazione
di Catone, imago temporis, è gravida di riecheggiamenti drammatici: oltre
37
Si noti come in questa rappresentazione Catone ricordi la Giocasta delle Phoenissae,
immobile fra i fratelli in guerra: nella tragedia ricorre più volte uterque, nonché l’unica
occorrenza poetica in Seneca di exarmo (v. 482).
38
Il passo di Seneca viene ricordato nel comm. ad l. di AUSTIN 1989: 156. Sull’ekphrasis
dei versi virgiliani cf. RAVENNA 1985, e bibliografia ivi citata.
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a ricordare quella virgiliana ben più famosa mortis imago 39 (Aen. 2, 368,
con riferimento alla distruzione di Troia), ha un preciso (e per quanto mi
risulta unico) antecedente poetico in Ovidio: ricorre infatti nel racconto di
Achemenide circa il pasto cannibalesco del Ciclope (met. 14, 204-205) 40.
In entrambi i casi si tratta di scene del passato, ricordi visualizzati dal racconto e accomunati da temi tragici.
L’esempio di Catone così drammatizzato è finalizzato, come Seneca esplicita nel prosieguo della lettera, a debellare il timore dell’esilio, della morte,
dei potenti (quid habebat quod timeret, epist. 104, 32; vides posse non timeri
potentiam superiorum, § 33); ma anche in questo intento di Seneca possiamo
verificare una vicinanza con il modello virgiliano: infatti Enea, dopo aver contemplato l’opera che ritrae la guerra di Troia ed essersi commosso per la partecipazione alle sofferenze umane che da essa traspare, condensa il suo
pensiero nell’esortazione al compagno Acate: solve metus (1, 463). L’imperativo di Enea e la parenesi di Seneca hanno motivazioni diverse: ma analoga è
la struttura argomentativa, l’uso dell’ekphrasis come exemplum inconfutabile.
D’altra parte, se le somiglianze dei contesti giustificano una citazione,
il verso riportato proietta su Catone l’immagine del meno atarassico fra gli
eroi, Achille, che per ovvi motivi, a differenza di Ercole e Ulisse, considerati per certi versi esempi di saggezza 41, non viene citato da Seneca come
modello di virtù 42; al contrario, è esplicitamente annoverato fra gli stulti a
causa della sua nota propensione all’ira (benef. 4, 27, 2). Già Cicerone,
nell’elencare esempi emblematici di ira folle, esclamava: quid Achille
Homerico foedius? (Tusc. 4, 52).
Inoltre, tale eroe, nel verso citato, viene definito attraverso l’attributo
chiave dei delittuosi protagonisti delle tragedie, saevus. Saevus non ha in
Virgilio le implicazioni ‘sadiche’ che assumerà in Seneca 43: tuttavia, letto in
un contesto senecano acquista di necessità, per la risemantizzazione operata
Altra espressione frequente in Virgilio è pietatis imago (6, 405; 9, 292; 10, 821).
… mentique haerebat imago / temporis illius, quo vidi bina meorum / ter quater adfligi
sociorum corpora terrae… cf. Quint. 6, 1, 19.
41
cf. const. 2, 1 e nota ad l. di RAMONDETTI 1999: 166. MAZZOLI 1997: 153 ha bene messo in
luce come «Catone Uticense, quale romano exemplar sapientis viri, può risultare omologo,
anzi assurgere a un piedistallo ancora più elevato rispetto a Ulisse ed Ercole, gli ideali mitici
dello stoicismo greco».
42
cf. tranq. 2, 12 – l’angosciato riposo del vizioso paragonato a quello di Achille
nell’Iliade; epist. 27, 6 (elenco di personaggi mitici); 88, 6 (questioni filologiche oziose). Le
irae di Achille sono ricordate anche nelle tragedie senecane (Tro. 194). Per una sintetica
panoramica sulle rivisitazioni latine del personaggio omerico – interessante anche Hor. epist.
2, 3, 120-122 – cf. KING 1987: 110-130 (122-128 su Virgilio, 128-129 sulle Troades).
43
Come ha mostrato MANTOVANELLI 2001: 63-64. A proposito di questo verso dell’Eneide
De Grummond, autore di uno studio monografico su saevus in Virgilio (DE GRUMMOND 1968:
167), lo considera attributo particolarmente adatto ad Achille in quanto connesso, più che
39
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dal contesto d’arrivo, la valenza negativa propria dell’uso del filosofo, o se
non altro si carica di un’aura inquietante assente nel testo di partenza.
Certamente esistono citazioni poetiche il cui valore è piuttosto estetico
che non etico-moralistico: potrebbe essere questo un caso, in cui la somiglianza fra contesti e situazioni (in particolare la presentazione in un unico
verso di due contendenti e di un terzo avverso ad entrambi) può bastare
da sola a rendere ragione di una scelta. Tuttavia mi sembra che, come nel
caso del cavallo saggio, così per Achille, inserito anch’egli come alter ego
di Catone in un contesto in cui si parla di guerre civili e di decadenza
morale, si possa ipotizzare una funzione parenetica.
Catone infatti viene tratteggiato con toni enfatici e drammatici, come
un eroe guerriero sullo sfondo della rovina dello Stato: un riferimento alla
tragica vicenda di Troia e al più celebre eroe ad essa legato non stona affatto, anzi contribuisce a dare rilievo al successivo passaggio alla dimensione
etica. La forza dell’exemplum si trasferisce così, veicolata dalla duplice
natura di Catone (politico e generale, ma anche saggio), dalla lotta politica
all’accettazione della sorte: il che spiega anche perché, fra gli esempi citati
a tal fine nella lettera, Seneca si soffermi maggiormente sull’Uticense che
sul greco Socrate (104, 27-28), forse più saggio, ma certo meno guerriero
del suo corrispettivo romano (104, 29-33). Nell’utilizzare in tal modo il
dettato virgiliano, Seneca dimostra di aver compreso che, contro Cesare
come contro Nerone, l’unico comportamento eroico era quello che contemplava la morte, e non potendo combattere contro il degrado politico
era necessario ripiegarsi dentro di sé e lottare, ferocemente, contro il peggiore dei nemici: l’arcano timore della fine.
3. Nella lettera 95 il cavallo è imago di Catone (§ 69), così come nella
104 Achille fa parte dell’imago del tempo delle guerre civili (§ 31). I due
casi in cui Seneca ricorre ai versi virgiliani per descrivere l’Uticense sono
dunque accomunati dal motivo del ritratto 44, particolarmente importante
nel momento in cui si tratta di un uomo che fu virtutium viva imago
(tranq. 16, 1), e nell’ottica di Seneca doveva dunque sostituire, nella sua
funzione di modello, le imagines degli antenati 45, custodi dei mores. Di qui
l’insistere su una caratterizzazione quasi pittorica dell’eroe, da parte di un
con il coraggio, con la sua «martial prowess» e la sua «combativeness». Saevus in Seneca
caratterizza la figura del tiranno (clem. 1, 11, 4; 1, 25, 1; 2, 4, 2 e relativi comm. ad l. di MALASPINA 2005: 367; 392) e in particolare Atreo (thy. 715; 737; 743) e Edipo (Oed. 925).
44
Imago in questo senso ricorre anche in epist. 40, 1; 45, 3; 58, 19; 84, 8; Marc. 2, 4;
benef. 3, 26, 1
45
Per cui cf. benef. 3, 28, 2; clem. 1, 9, 10 (e comm. ad l. di MALASPINA 2005: 307-308); ad
Pol. 14, 3; epist. 64, 9; 76, 12. Per Seneca l’alto lignaggio testimoniato dalle imagines non
comporta affatto nobiltà d’animo (epist. 44, 5): di qui la necessità di autentiche imagines vir-
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filosofo che, come sappiamo da un noto passo di Tacito (ann. 15, 62, 1),
lasciò in eredità agli amici proprio l’imago della sua vita.
Un secondo motivo comune ad entrambi i passi è la raffigurazione
drammatica del saggio in lotta disperata contro tutti – cioè contro la fortuna 46. Un saggio calato in quella realtà non poteva non somigliare, più che
a Zenone o Cleante, ad un guerriero (un vir fortis 47, epist. 95, 69; 104, 29)
consapevolmente votato alla sconfitta e alla morte (cf. epist. 37, 1-2). Non
a caso, non solo, come si è visto, nella lettera 104, ma anche nella 95
Seneca insiste a lungo nella rappresentazione di Catone eroicamente in
lotta contro Cesare e Pompeo (§§ 69-71), e proprio il suo concreto ardore
bellico, che rimanda ad una analoga forza morale, è l’elemento che maggiormente giustifica le comparazioni con il cavallo da guerra e con Achille.
Il codice epico si sovrappone dunque a quello filosofico, e il ricorso
alla citazione poetica diviene il tramite ideale per una simile, problematica,
compresenza. Nel momento in cui il saggio Catone viene rappresentato
come eroico guerriero, è giocoforza ricorrere alla poesia come massimo
strumento descrittivo e celebrativo 48. Così, grazie a Virgilio, Catone viene
raffigurato come un cavallo di razza nato per le battaglie; o addirittura
come Achille, un eroe accecato dall’ira ma integerrimo nelle sue convinzioni, e pronto – come sarà Catone – a morire per esse. Forse, se Achille
avesse combattuto per i sacri ideali di una res publica e per i mores antiqui,
sarebbe divenuto anch’egli, per Seneca, un modello di sapiens.
FRANCESCA ROMANA BERNO
[email protected]
Riferimenti bibliografici
ARMISEN-MARCHETTI 1989:
M. ARMISEN-MARCHETTI, Sapientiae facies. Étude sur les images dans l’œuvre en
prose de Sénèque, Paris.
AUSTIN 1989:
R. G. AUSTIN (ed.), Virgil. Aeneid, Oxford (19711).
tutis, come Catone, ma anche come Fabrizio e Orazio Coclite, eroici exempla tratti dalla
storia romana (epist. 120, 6-8).
46
[Cato] ostendit tamen virum fortem posse invita fortuna vivere, invita mori (104, 29).
47
Una «antica formula dell’ideale quiritario» che Seneca ha reso caratteristica del saggio
stoico (TRAINA 1995: 21, 67). Sulla semantica di questa espressione, con particolare riferimento a Virgilio (e alle figure di Enea e Turno), cf. LAZZARINI 1982.
48
Anche altrove Seneca utilizza la poesia a scopo descrittivo, per fornire l’imago di qualcosa: cf. frg. 59, 6 V. = 93, 11 H. (Verg. Aen. 1, 285-290: il Diluvio universale).
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Seneca, Catone e due citazioni virgiliane
247
AUVRAY 1987:
C. AUVRAY, La citation virgilienne dans les Lettres à Lucilius de Sénèque: des
praecepta aux decreta du Stoïcisme, in G. FREYBURGER (éd.), De Virgile à
J. Balde. Hommage à Mme A. Thill, Mulhouse, pp. 29-34.
AYMARD 1951:
J. AYMARD, Quelques séries de comparaisons chez Lucain, Montpellier.
AYMARD 1960:
J. AYMARD, L’animal et les vertus ‘romaines’, in AA. VV., Hommages à Léon
Herrmann, Bruxelles-Berchem, pp. 118-123.
BAÑALES LÉOZ 1997:
J. M. B AÑALES L ÉOZ , Las Geórgicas de Virgilio en las cartas de Séneca, in
M. RODRIGUEZ-PANTOJA (ed.), Séneca dos mil años después, pp. 551-560.
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