poeti italiani - Raffaele Pisani

Transcription

poeti italiani - Raffaele Pisani
Raffaele PisaNi
POETI ITALIANI
(con un’eccezione)
da san francesco d’assisi, a federico ii,
a Dante, Petrarca, sannazaro, leopardi, Pascoli,
De amicis, D’annunzio, Quasimodo,
Penna, Pier Paolo Pasolini…
interpretati in napoletano
secoNDa eDizioNe RiveDuta e coRRetta
Napoli, 2012
Raffaele Pisani
[email protected]
www.raffaelepisani.it
2
iNDice
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9
san francesco d’assisi
Il cantico delle creature
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11
federico ii . . . .
Oi lasso, non pensai
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17
Jacopo da lentini . . . . . . .
Io m’agio posto in core a Dio servire
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22
chiaro Davanzati . . . . . .
La splendiente luce, quando apare
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25
Guido Guinizelli . . . . . . .
Voglio del ver la mea donna laudare
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28
iacopone da todi .
O corpo enfracedafo
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31
Guido cavalcanti . . . . . . .
Tu m’hai sì piena di dolor la mente
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37
lapo Gianni . . .
Questa rosa novella
Premessa.
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40
cecco angiolieri . . . . .
S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo
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45
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3
cino da Pistoia . . . . . . . . . .
Ciò ch’i’ veggio di qua m’è mortal duolo
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48
Dante alighieri . . . . . . . . . . . .
La Divina Commedia - Inferno - Canto primo
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51
francesco Petrarca . . . . . . . .
S’al principio risponde il fine e ’l mezzo
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65
Giovanni Boccaccio . . . . . . . .
Quand’io riguardo me vie più che ’l vetro
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68
Marteo Maria Boiardo . . . . .
Datime a piena mano e rose e zigli
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71
lorenzo de’ Medici . . . . . . . .
Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge
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74
Jacopo sannazaro . . . . .
Cari scogli, dilette e fide arene
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77
Niccolò Machiavelli . . . . . .
Io spero e lo sperar cresce ’l tormento
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80
ludovico ariosto . . . . . . . .
Dopo mio lungo amor, mia lunga fede
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83
Michelangelo Buonarroti
O notte, o dolce tempo
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88
torquato tasso . . .
Ecco mormorar l’onde
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91
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4
Giovanbattista Marino .
Primavera
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94
Pietro Metastasio
La libertà
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99
Jacopo andrea vittorelli
Guarda che bianca luna
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108
vittorio alfieri . . . . . . . . .
Malinconia, perché un tuo solo seggio
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111
vincenzo Monti . . . . . . . . .
Per il giorno onomastico della sua donna
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114
ugo foscolo
Alla sera
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121
alessandro Manzoni .
Autoritratto
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124
Giacomo leopardi.
La sera del dì di festa
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127
Niccolò tommaseo
Caronte
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132
Giosuè carducci
Passa la nave mia
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136
edmondo De amicis.
Mia madre
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5
Giovanni Pascoli
Il sole e la lucerna
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142
Gabriele D’annunzio
O giovinezza
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145
umberto saba
Da un colle
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148
Guido Gozzano . . .
La morte del cardellino
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151
sergio corazzini. . . . . . . . . .
Desolazione del povero poeta sentimentale
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154
vincenzo cardarelli
Ottobre
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161
Giuseppe ungaretti
La madre
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164
umberto Galeota
Ecco il Vesuvio
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167
salvatore Quasimodo
Alle fronde dei salici
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170
sandro Penna. . . . .
Ride su me la primavera
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173
cesare Pavese . . . .
Tu sei come una terra
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176
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6
alfonso Gatto
Il pupo
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179
vittorio Bodini . . . .
Conosco appena le mani
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182
Pier Paolo Pasolini.
Il centro del mondo
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185
Riccardo Bacchelli .
Lettera
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192
eugenio Montale
Maestrale
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197
Giuseppe Porcaro . . .
Come una foglia tremante
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200
antonio Gallo
Al Crocifisso
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203
luigi compagnone
L’autunno
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206
alberto Mario Moriconi . .
La ringhiera e il marciapiede
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211
Domenico Rea
Nube
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214
lanfranco orsini
Altruismo
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217
7
Rosario De crescenzo
C’era l’orma del lupo
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220
serafina Bissanti. .
Il freno di provincia
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223
ettore capuano .
Non ho serenità
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228
Pasquale Maffeo
Orfeo
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231
aldo onorati . . . .
Toccata di primavera
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236
vincenzo landolfi .
Presentimento
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241
vittorio De asmundis .
Lettera a Gesù, da Napoli
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244
stefania Buccini
Davvero
Karol Wojtyla
Lo schizotimico
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262
Bibliografia della critica
Note critiche .
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in una cittadina della provincia modenese, convenuto come
altri, in occasione del premio «Guido Modena» per la poesia dialettale (organizzato dalla Banca Popolare di san felice e dall’accademia della carriola), mi ritrovavo tra idiomi ed interpretazioni ricchi di espressioni e di profondi contenuti.
Dall’estensione, dalla musicalità delle parole ottenute dalle
diverse forme dialettali riaffiorava, ancora una volta, la matrice
di ciascuna di esse e la musicalità da vera poesia.
sì che le parole dall’apostrofo mozzate od iniziate confermavano che la nostra realtà linguistica ritrova sempre nel dialetto la
sua origine storica e che la continuità di essa è viva, al di là di
ogni tentativo di contraffazione, nelle diverse tonalità ed inclinazioni,
così la città di san felice sul Panaro mi ha suggerito l’idea di
ritentare la congiunzione della lingua italiana con la lingua napoletana in una ricerca letteraria un po’ insolita.
Quanti altri centri di cultura potrebbero offrire spunti ed occasioni per un ripensamento di ciò che siamo dal punto di vista
etnico culturale, per rendere accessibile ad una parte del popolo
quella poesia che rischia ancora di rimanere nota soltanto a gruppi di pochi.
traduzione non per riduzione, ma per interpretazione che
stimoli la conoscenza.
Questa la chiave di lettura che offro, nella mia semplicità tutta napoletana, alla città di san felice ed a tutti coloro che vorranno curiosare tra queste pagine.
9
Maestri,
le vostre voci cantano nel tempo intatte e
pure. L’omaggio di questa mia interpretazione in lingua napoletana, cui ho messo
mano in assoluta umiltà, muove da amore:
per la poesia e per chi, pagando in proprio,
la vive e la crea.
Mi perdoni la vostra grandezza.
R.P.
10
san francesco d’assisi - assisi 1181 c.-Porziuncola 1226
Tra le figure più importanti e più alte della spiritualità religiosa
del secolo XIII, Figlio di Pietro Bernardone agiato mercante, aiutò
il padre nella mercatura, partecipando alla vita mondana del tempo, finché, caduto prigioniero dei Perugini nel 1204, subì una crisi
religiosa, per la quale si distaccò dal padre, e, accusato da questo di
prodigalità, rinunciò davanti al vescovo di Assisi a tutti i suoi beni.
Dopo qualche anno di vita solitaria e operosa, cominciò ad accogliere intorno a sé, nel 1209, i primi discepoli, iniziando un fervido
apostolato. Nel 1210 compose una prima regola, poi perduta, per la
quale ottenne l’approvazione di Innocenzo III. Nel 1219 partì per
l’Oriente, a convertire gl’infedeli, ma l’anno seguente tornò in Italia,
dove rivide e definì la regola. Dopo il ’23 si abbandonò alla solitudine e alla preghiera.
L’importanza di San Francesco e del suo ordine fu immensa,
specie per il secolo XIII, quale elemento non tanto e non solo di diffusione e rinnovamento del fervore religioso, quanto soprattutto di
una interpretazione nuova e popolare della fede: l’interiorità del sentimento religioso del santo, il carattere evangelico della sua predicazione, il suo rivolgersi agli umili, il suo disprezzo dei beni e degli
onori terreni, vennero incontro ai fermenti di religiosità democratica
che già da tempo erano vivi nella società italiana e che già si venivano esprimendo in numerosi moti di tipo ereticale. Per queste ragioni, mentre le plebi accettarono largamente la parola di San Francesco, la Chiesa ufficiale si sforzò presto di incanalare il movimento
nell’alveo della sua politica, e tutto il Duecento e parte del Trecento
furono corsi da polemiche aspre, talvolta cruente, fra coloro che
intendevano restare fedeli allo spirito e alla lettera della regola del
fondatore, e coloro che tendevano a mitigarne l’asprezza per adattarla ai bisogni della Chiesa. Il notevolissimo fascino dell’uomo – canonizzato due anni dopo la morte –, l’incontro tra lo spirito di quella
11
predicazione e esigenze vive della società comunale italiana, quelle
stesse polemiche, fecero di San Francesco una figura centrale e quasi
mitica della spiritualità e della letteratura, per almeno due secoli. Si
ebbe perciò tutta una corrente di letteratura francescana, nei moduli
tipici dell’agiografia cristiana, o che delineasse una leggenda francescana, o che narrasse, in forme più o meno fantasiose e popolari, la
vita edificante ed esemplare del santo, o che combattesse le battaglie
interne all’ordine e le altre con ordini rivali, soprattutto con i domenicani, e, più tardi, con Bonifacio VIII. Di tutta questa letteratura
i monumenti più significativi, anche se assai diversi tra loro, sono i
fioretti di s. francesco e il canto XI del Paradiso di Dante.
Di san Francesco restano alcuni brevi scritti latini, tra cui la
Prima regola, la seconda regola, il testamento, ecc. L’opera sua
più importante è il cosiddetto cantico delle creature, che è tra i
monumenti più antichi della letteratura italiana in volgare.
12
caNtico Delle cReatuRe
altissimu, onnipotente, bon signore,
tue so le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
ad te solo, altissimo, se konfano
et nullo homo ene dignu te mentovare.
laudato si’, mi signore, cum tucte le tue creature,
spezialmente messor lo frate sole
lo quale jorna et allumini noi per loi;
et ellu è bellu e radiante cum grande splendore,
da te, altissimo, porta significazione.
laudato si’, mi signore, per sora luna e le stelle;
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
laudato si’, mi signore, per frate vento
et per aere et Nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dai sustentamento.
laudato si’, mi signore, per sor’acqua
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
laudato si’, mi signore, per frate focu
per lo quale ennallumini la nocte,
et ello è bellu, et jocundo et robustoso et forte.
laudato si’, mi signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi, con coloriti fiori et herba.
laudato, si’, mi signore, per quilli ke perdonano per lo tuo
[amore
et sustengo infirmitate et tribulatione.
13
Beati quilli ke sosterranno in pace,
ka da tè, altissimo, siràno incoronati.
laudato si’, mi signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po skappare.
Guai a quilli, ke morrano ne le peccata mortali.
Beati quilli ke se trovarà ne le tue sanctissime voluntati
ka la morte secunda nol farrà male.
laudate et benedicete lu signore e rengratiate
e serviteli cum grande humilitate.
14
il caNtico Delle cReatuRe
Dio, signore d’ ’o munno,
patrone d’ ’o bene,
surgente d’ammore,
onnipotente,
tutto nasce pe’ te
e l’ommo nun è degno
manco ’e t’annummenà.
Beneditto, signore mio,
cu tutte ’e ccose
ca tu hê vuluto,
primmo fra tutte quante ’o sole d’oro
ca ce dà luce e gioia,
ca è testimmonio d’ ’a grandezza toia.
Beneditto
p’ ’a luna e p’ ’e stelle
ca ’n cielo he’ criato
chiare, lucente e belle.
Beneditto p’ ’o viento,
p’ ’e nnuvule,
pe’ l’aria doce e cujeta, p’ ’a tempesta;
cu ’a staggiona, ’a vernata,
l’autunno, ’a primmavera,
tu daie ’o ppane a ttutte ’e figlie tuoie.
Beneditto
pe’ l’acqua chiara, fresca, prezïosa,
nicessaria.
15
Beneditto
p’ ’o ffuoco ca fa luce quann’è notte,
p’ ’o ffuoco bello e allero,
ardente e forte.
Beneditto p’ ’e ccampagne
ca ce danno
grano e ffrutte ’e tutte ’e specie,
Beneditto pe’ ’sta terra
ca dà sciure ’e ogni culore.
Beneditto
pe’ tutte ll’uommene
ca pe’ l’ammore tuio
perdonano ogni tuorto,
ca supportano
angarìe e afflezzïone:
biata ’a gente
ca fa d’’a pace ’o ppane ’e tutte ’e juorne:
iarrà sicuramente ’n Paraviso:
Beneditto
p’ ’a morte ca cunzuma
sultanto ’e ccarne noste,
p’ ’a morte ca è sicura
pe’ tuttuquante.
Guaie pe’ chilli llà ca murarranno
dint’ ’o peccato;
biate a cchille ca se truvarranno
dint’ ’a santissima
vuluntà toia.
uommene, frate mieie, benedicitelo,
stimatelo, servitelo ’o signore,
mettite ’a faccia ’n terra e ringraziatelo
cu tutt’ ’o core.
16
federico ii, imperatore - iesi 1194-castello di fiorentino (Puglia) 1250
Figlio di Enrico VI imperatore e di Costanza d’Altavilla, nipote
di Federico I Barbarossa, è tra le figure più complesse e più interessanti del Duecento. La sua prodigiosa attività non si limita alla politica, ma si estende alla cultura e alla scienza. Allevato in Sicilia,
dove il mondo latino veniva a contatto con quello greco e arabo, accolse in sé esperienze e influssi diversi. Uomo di larghi interessi culturali e scientifici, dotato di una versatilità prodigiosa, si circondò
dei dotti più famosi del tempo e tenne relazioni con numerosi altri
dotti di ogni parte d’Europa. Fondamentale la sua attività nell’istruzione con il riordinamento della Scuola di Salerno e la fondazione dell’Università di Napoli. Raccolse intorno a sé la scuola poetica siciliana, favorendo la formazione di una lingua letteraria e di
una poesia meditata e elaborata, e il costituirsi di un gusto concorde
e ben definito. Poeta egli stesso, i manoscritti hanno tramandato di
lui quattro componimenti, che per altro non si distinguono per originalità, ma sono legati ai modi e alle forme della scuola.
17
oi lasso, NoN PeNsai
oi lasso non pensai
sì forte mi parisse
lo dipartire da madonna mia!
Da poi ch’io m’alontai
ben paria ch’io morisse,
membrando di sua dolce compagnia:
e giamai tanta pena non durai,
se non quanto a la nave adimorai:
ed ora mi credo morir certamente,
se da lei non ritorno prestamente.
tutto quanto eo via
sì forte mi dispiace,
che non mi lascia in posa in nessun loco;
sì mi stringe e desia
che non posso aver pace,
e fami reo parere riso e gioco:
membrandomi suo’ dolze segnamente
tutti diporti m’escono di mente;
e non mi vanto ch’a disdotto sia,
se non là ov’è la dolce donna mia.
o Deo! come fui matto,
quando mi dipartive
là ov’era stato in tanta degnitate!
ed or caro l’accatto,
e scioglie come nive,
pensando ch’altri l’àia in potestate.
ed e’ mi pare mille anni la dia
ched eo ritorni a voi, madonna mia.
18
lo reo pensero sì forte m’atassa,
che rider né giocare non mi lassa.
canzonetta gioiosa
va a la fior di soria,
a quella che in prigione ha lo mio core.
Di’ a la più amorosa,
cà per sua cortesia
si rimembri del suo servidore,
quelli che per suo amore – va penando,
mentre mi faccio tutto al suo comando.
e priègalami, per la sua bontade,
che la mi degia tenere lealtade.
19
oi lasso, NoN PeNsai
ahimmé, nun ce penzaie
ch’era triste accussì
quanno lassaie ’a nnammurata mia:
comme m’alluntanaie
io stevo pe’ murì:
quant’era bella e chiena ’e simpatia.
ah, che tristezza! e chi ’o ccredeva maie:
cunfromme me ne iette l’appuraie.
’a nustalgia me spezza ’o core ’n pietto
e nnotte e ghiuorno nu me dà arricietto.
chesta malincunia
m’abbrucia dint’ ’e vvene
e nun me fa truvà n’àttemo ’e abbiento;
me struio ’e pucundria,
nun pozzo truvà bene,
nun saccio che vo’ di’ cchiù l’alleria.
’a penzo sempe, appassiunatamente,
essa è ’a patrona ’e tutte ’e sentimente;
chella nnammuratella aggrazzïata
è ’a sola gioia ’e ’st’anema malata.
che pazzo songo stato!
Dio, quanto me ne pento!
s’io fosse muorto, meglio mo sarria.
i’ proprio tale e quale
comme se scioglie ’a neva
me stongo cunzumanno ’e gelusia.
Pare n’eternità ca sto’ luntano:
me vòlle ’o sango comm’a nu vurcano;
20
’a gelusia se fa sempe cchiù forte,
cchiù penetrante, amara cchiù d’ ’a morte.
canzuncella gentile,
vola addu chillu sciore
signora ’e chistu core nnammurato,
dille ch’ ’a penzo sempe,
essa è ’a riggina mia
e i’ tutta ’a ténnerezza l’aggio dato;
dille ch’è ’a primmavera ’e chistu core,
puortele ’o chianto ardente ’e chist’ammore,
dille ch’ ’a voglio sempe tantu bene,
ch’essa sultanto po’ sanà sti ppene.
21
Jacopo da lentini (Giacomo da lentini)
Pochi i dati biografici sicuri su questo che è considerato il più
antico rimatore della scuola poetica siciliana.
Nato a Lentini, forse alla fine del secolo XII, e vissuto nella prima metà di quello seguente, fu contemporaneo di Federico II, presso
il quale esercitò la funzione di notaio, tanto da diventare il «Notaro» per antonomasia. Grande fu la sua fama presso i contemporanei
e i poeti della generazione seguente, che lo riconobbero come maestro.
Dante lo proclama caposcuola della lirica siciliana. Poesia difficile,
la sua, e più ardua a comprendersi di quella di quei poeti siciliani
che variano la cultura della scuola con l’immissione, nei loro componimenti, di elementi realistici, ma più coerente nel suo sviluppo e
più importante storicamente nei riguardi dell’evoluzione della lirica
aulica.
22
io M’aGio Posto iN coRe a Dio seRviRe
io m’agio posto in core a Dio servire
com’io potesse gire in Paradiso,
al santo loco, ch’agio audito dire,
o’ si mantien sollazo, gioco e riso.
sanza mia donna non vi voria gire,
quello c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudire,
istando da la mia donna diviso.
Ma non lo dico a tale intendimento
perch’io peccato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento,
e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché ’l mi terria in gran consolamento
veggendo la mia donna in gloria stare.
23
io M’aGio Posto iN coRe a Dio seRviRe
fino a cche moro a Dio voglio servì
ca ’n Paraviso vaco una vutata,
pecché llà ncoppa, aggio sentuto ’e dì,
è allero ogni minuto d’ ’a iurnata.
Però cu ’ammore mio ce aggia trasì,
cu ’ammore mio ca è bella e delicata
si sto luntano è peggio d’ ’o mmurì,
manco ce traso senza chella fata.
Ma i’ nun vogl’î, v’ ’o giuro, ’n Paraviso
cu ’ammore mio pe’ fa’ na malacosa:
voglio vedé sultanto ’o pizzo a rriso
ch’essa me fa guardannome, sultanto
chesto: sunnà chella vucchella ’e rosa:
cchiù ’a guardo, cchiù m’attacco, cchiù me ncanto.
24
chiaro Davanzati
Non si ha quasi alcuna notizia sulla sua vita: visse senza dubbio
nel secolo XIII, e probabilmente va identificato con un fiorentino del
popolo di S. Maria sopra Arno. Dai suoi componimenti sappiamo
che partecipò attivamente alle vicende politiche della sua città e fu
fra l’altro con i fiorentini nella battaglia di Montaperti nel 1260. Il
suo canzoniere comprende circa duecento componimenti di varia natura: politici, morali, didascalici, amorosi. Questa varietà di temi
mette in luce la molteplicità degli interessi del Davanzati e si spiega
assai bene con l’ambiente culturale della Toscana del tempo, aperto
a tutti gli influssi e in evoluzione continua. Anche l’evoluzione letteraria del Davanzati passa attraverso varie fasi, dall’imitazione dei
provenzali a quella di Guittone, fino alla formulazione di una poesia amorosa che anticipa quella dello stilnovo.
25
la sPleNDÏeNte luce, QuaNDo aPaRe
la splendïente luce quando apare,
in ogni oscura parte dà chiarore;
cotanto ha di virtude il suo guardare,
ché sovra tutti gli altri è il suo splendore.
così madonna mia face allegrare,
mirando lei, chi avesse alcun dolore;
adesso lo fa in gioia ritornare,
tanto sormonta e passa il suo valore.
e l’altre donne fan di lei bandiera,
imperadrice d’ogni costumanza,
perché di tutte quante la lumiera.
e li pintor la miran per usanza,
per trarre assempro di sì bella cera,
poi farne all’altre genti dimostranza.
26
la sPleNDÏeNte luce, QuaNDo aPaRe
Quanno p’ ’o cielo ’o sole se trattene
a ttutte ’e ccose attuorno dà chiarore;
pittata ’a stessa luce ’nfaccia tene
’a nnammurata mia: chillu sbrennore
a ognuno porta pace e porta bene.
Guardatela e se sana ogni dulore,
e ride ’o core e n’armunia ve vene
tant’essa è bella, bella cchiù ’e nu sciore.
P’esempio raro ’a porta ogni figliola:
signora nata, tutta passïone,
gioia ca ’ntennerisce e te cunzola;
’a guardano ll’artiste a cciente a cciente:
ce trova ognuno l’ispirazïone
e ognuno parla d’essa a ll’ata gente.
27
Guido Guinizelli - Bologna 1230-40-Monselice 1276 c.
Assai scarse e modeste le notizie che si hanno sulla sua vita. Figlio di Guinicello di Magnano e di Guglielmina di Ugolino Ghisilieri, seguì come il padre gli studi giuridici, addottorandosi a Bologna e quivi esercitando la professione di giudice e di consultore legale
fin dal 1268; precedentemente si era sposato, ancor giovane, con
Beatrice della Fratta, da cui ebbe il figlio Guiduccio. Come tutta la
famiglia, partecipò attivamente alla vita politica della sua città,
schierandosi per la fazione ghibellina dei Lambertazzi contro quella
guelfa dei Geremei; intorno al ’70 fu podestà a Castelfranco, nel
’74, in conseguenza del trionfo dei Geremei, fu bandito da Bologna
insieme alla moglie, il figlio e i fratelli. Stabilitosi a Monselice, vi
morì poco dopo, certamente non oltre il 1276.
28
voGlio Del veR la Mea DoNNa lauDaRe
voglio del ver la mea donna laudare,
e assembrarli la rosa e lo giglio:
como la stella Diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.
verde rivèra a lei rassembro e l’âre,
tutti colori e fior, giallo e vermiglio,
oro ed argento e ricche gioi’ preclare;
medesmo amor per lei raffina miglio.
Passa per via adorna e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fal di nostra fe’ se non la crede.
e non si può appressar omo ch’è vile:
ancor ve dico c’ha maggior vertute:
null’om può mal pensar fin che la vede.
29
voGlio Del veR la Mia DoNNa lauDaRe
ve voglio dì quant’è affatata e bella
’a nnammurata mia: pare na rosa;
luceno ll’uocchie suoie comm’a na stella;
’n terra, c’ ’arrassumiglia, nun c’è cosa.
cchiù chiara ’e l’acqua; ’e zuccaro e cannella
so’ ffatte ’e ccarne; addora ’e malvarosa;
tene ’e capille d’oro anella anella
e cchiù ’e nu dïamante è prezïosa.
se ncanta ’ammore, tanta è doce e cara;
e si chi ’a ncontra, proprio fino a ttanno
nun ’a creduto a Dio, doppo ce crede.
tanta bellezza tene e è tanta rara
ca femmene accussì nun ce ne stanno,
e l’ommo penza ’o bene quanno ’a vede.
30
iacopone da todi - todi 1236(?)-collazzone 1306
Iacopo de’ Benedetti, di nobile famiglia tudertina, dopo aver
studiato diritto, sembra a Bologna, esercitò la professione di procuratore legale nella sua città; sposò una Vanna di Bernardino di Guidone dei conti di Coldimezzo, conducendo nel contempo vita gaudente e libertina, per altro poi accentuata nelle biografie antiche, indotte da intenti agiografici a sottolineare il contrasto fra la vita licenziosa precedente la conversione, e la seguente tutta dedita a pratiche di pietà e di penitenza.
Intorno alle cause che determinarono la sua conversione non si
hanno notizie sicure: secondo la leggenda, la morte tragica della moglie per il crollo di un pavimento durante una festa da ballo, e la
scoperta sul corpo di lei di un cilicio, lo indussero a fare un riesame
spietato di tutta la propria vita precedente e a maturare il proposito
di ritirarsi dal mondo.
La tradizione ci ha trasmesso, come opere di Iacopone, un certo
numero di laude in volgare, religiose in gran parte, ma alcune satiriche, un breve trattato ascetico e una raccolta di Detti, pure in
volgare; alcuni componimenti in latino, tra cui lo stabat Mater.
31
o coRPo eNfRaceDato
– o corpo enfracedato, eo so’ l’alma dolente;
lévate amantenente, ca si’ meco dannato.
l’agnelo sta a trombare voce de gran paura:
opo n’è appresentare senza nulla demura.
stàvime a predecare che no avesse paura:
male te crese allura, quanno fice ’l peccato!
– o’ eri tu, alma mia cortese e conoscente?
Puoi che t’andasti via, retornai a niente.
famme tal compagnia ch’eo non sia sì dolente:
veio terribel gente con volto esvaliato.
– Quiste so le demonia, con chi t’è opo avetare;
non t’è opo far istoria: che te oporà portare,
non me trovo en memoria de poterlo narrare:
si ententa fosse el mare, non ne sería pontato.
– Non ce posso venire, ché so’ en tanta affrantura,
che sto su nel morire, sento la morte dura.
sí facisti al partire: rompeste onne iontura;
recata hai tal fortuna, che onne osso m’ha spezato.
– como da tene a mene fo appicciato amure,
simo rerunti en pene con etterno sciamure;
l’ossa centra le vene, nervi centra ionture,
sciordenati onne umure de lo primero stato.
– unquanco Galieno, avicenna, ipocrate
non sàpper lo conveno de mei enfermetate;
tutte enseme iongono e sómmese adirate:
sento tal tempestate, che non vorria esser nato.
– lévate, maledetto, ca non pòi piú morare;
ne la fronte n’è scritto tutto el nostro peccare:
quel che nascusi a letto volevamo operare,
oporasse mustrare, vegente onne omo nato.
32
– chi è questo gran sire, rege de granne altura?
sotterra vorria gire, tal me mette paura.
ove porria fugire da la sua faccia dura?
terra, fa’ copretura! ch’eo nol veia adirato.
– Quisto sì è iesú cristo, lo figliolo de Dio:
vedenno el volto tristo, spiacegli el fatto mio.
Potemmo fare acquisto d’aver lo renno sio:
malvascio corpo e rio, or che avem guadagnato!
33
o coRPo eNfRaceDato
(L’anema)
«tu, cuorpo nfracetato,
io, anema perduta;
iammo, fa’ ampressa, aizete,
nzieme simmo dannate.
l’angelo sta chiammanno,
’a voce fa paura:
pe’ forza nuie ce avimma
llà nnanze appresentà.
tu me dicive sempe:
nun hê ’a tené timore.
che male ca facette
quanno te dette audienzia».
(’O cuorpo)
«tu si’ l’anema mia,
curtese e assaie gentile:
comme t’alluntanaste
pòvere addeventaie.
torna, cumpagna mia,
lèvame ’a dint’ ’e ppene:
veco facce terribbele
attuorno attuorno a mme».
(L’anema)
«chiste songo ’e demmonie,
hê ’a sta’ nzieme cu lloro,
nun ’e ppuò cchiù scanzà
e ’o mmale ch’hê ’a patì
io nun t’ ’o ssaccio dì:
34
si ’o mare fosse ’e gnosta
io manco putria scrivere
chello ch’hê ’a suppurtà».
(’O cuorpo)
«venì, no, no, nun pozzo
ca è tanta ’a pena mia
mo ca murenno stongo:
’a morte è brutta overo.
Quanno t’alluntanaste
fuste accussì manesca
ca me spezzaste ll’osse».
(L’anema)
«comme l’ammore, primma,
vicino ce teneva,
accussì l’odio, mo,
ce tenarrà attaccate;
ll’osse schiattano ’e vvene,
so’ ’nfracetate ’e ccarne,
niente è cchiù tale e quale
comm’a quann’ire vivo».
(’O cuorpo)
«Manco Galeno e manco
ipocrate, avicenna
sapettero quant’erano
tutte sti male mieie:
se songo scatenate
nzieme, ’a ntrasatta, tutte;
tant’è ’o dulore ch’io
maie vularria, crideme,
ca fosse nato, maie».
35
(L’anema)
«Îzete, maleditto,
nun ce sta niente ’a fa’.
’N fronte tu puorte scritto
tutte ’e peccate fatte:
chello ch’annascunnuto
vulévemo tené,
a ttuttaquanta ’a gente
l’avimma fa’ vedé».
(’O cuorpo)
«e chi è mo stu signore
bello comm’a nu rre?
tant’è ’a suggezzïone
ch’io sprufunnà vurria;
me guarda, io p’ ’a paura
mmo mmo me ne fuiesse;
aràpete, tu, terra,
e famme zeffunnà».
(L’anema)
«chistu signore è cristo,
è cristo, ’o figlio ’e Dio:
è addeventato triste
vedenno ’e ppene mie.
Putévemo felice
campà int’ ’o Regno suio.
ah, cuorpo maleditto,
che bene avimmo perzo!
36
Guido cavalcanti - firenze 1255 c.-1300
Il maggior poeta dello stilnovo; riconosciuto da Dante come il
suo migliore amico e maestro, ricordato nelle loro cronache da D.
Compagni e G. Villani, protagonista di una famosa novella del Decameron e di un’altra di F. Sacchetti. Figlio di Cavalcante, appartenne per tradizione familiare al partito guelfo, sebbene avesse sposato Beatrice, figlia del ghibellino Farinata degli Uberti, per suggellare la pace tra le fazioni avverse. Scarse notizie sicure si hanno anche dei suoi studi come relativamente poco si sa della sua vita.
Le liriche del Cavalcanti sono circa una cinquantina: ballate,
sonetti, canzoni di argomento quasi sempre amoroso.
37
tu M’Hai sÌ PieNa Di DoloR la MeNte
tu m’hai sí piena di dolor la mente
che l’anima si briga di partire,
e li sospir che manda il cor dolente
mostrano a li occhi che non pòn soffrire.
amor, che lo tu’ grande valor sente,
dice: – Mi duol che ti convien morire
per questa fera donna, che neente
par che pietade di te voglia udire –.
io vo come colui ch’è fuor di vita,
che pare, a chi lo guarda, ched el sia
fatto di rame o di pietra o di legno,
che sé conduca sol per maestria,
e porti ne lo core una ferita
che sia, com’egli è morto, aperto segno.
38
tu M’Hai sÌ PieNa Di DoloR la MeNte
tant’è ’o dulore ca m’hê miso ’n pietto
e tanta pene tu me faie suffrì
ca me se spezza ’o core pe’ st’apprietto:
comm’io nun moro nun t’ ’o ssaccio dì.
’ammore s’è piazzato derimpetto
e dice: – Ma che razza ’e scemo si':
pe’ chella ’ngrata tu nun haie ricietto
mentr’essa gode a tte vedé murì. –
e i’ cchiù m’attacco, pare nu mbriaco;
l’anemia mia sulo chill’uocchie sape:
le dongo giuventù, suspire, vita;
’a veco sempe, sempe, pe’ ddo’ vaco,
e ogni àttemo ca passa cchiù s’arape
e cchiù me straccia ’o core ’sta ferita.
39
lapo Gianni
Rimatore duecentesco per molto tempo identificato con il notaio
Lapo Gianni Ricevuti da Firenze, che esercitò la sua attività fra il
1298 e il 1328. Questa identificazione è stata peraltro messa in
dubbio e niente di certo si può affermare sulla sua vita, se si eccettuano le notizie che si possono ricavare dai componimenti suoi e da
quelli dei poeti suoi amici. Come appare da un sonetto dantesco
(Guido, i’ vorrei che tu e lapo…), amò una donna Lagia, e fu
molto amico di Guido Cavalcanti (che lo nomina in un suo sonetto)
e di Dante, che lo ricorda anche nel De vulgari eloquentia fra gli
eccellenti poeti toscani in volgare.
40
Questa Rosa Novella
Questa rosa novella
che fa piacer sua gaia giovanezza,
mostra che gentilezza,
amor, sia nata per vertù di quella.
s’i’ fossi sufficiente
di raccontar sua maraviglia nova,
dirìa come natura l’ha ’dornata;
ma io non son possente
di saver allegar verace prova:
dillo tu, amor, ché serà me’ laudata.
Ben dico: una fiata,
levando li occhi per mirarla fiso,
presemi ’l dolce riso
e li occhi suoi lucenti come stella.
allor bassai li miei
per lo tuo raggio che mi giunse al core
entro ’n quel punto ch’io la riguardai.
tu dicesti: «costei
mi piace signoreggi ’l tuo valore,
e servo a la tua vita le sarai».
ond’io ringrazio assai,
dolce signor, la tua somma grandezza,
ch’i’ vivo in allegrezza
pensando cui mia alma hai fatt’ancella.
41
Ballata giovenzella,
girai a quella ch’à la bionda trezza;
ch’amor, per la su’ altezza,
m’à comandato i’ sia servente d’ella.
42
Questa Rosa Novella
comm’a na rosa è bella,
e tant’è cara e chiena ’e giuventù
ca i’ dico: ’a gentilezza
è nata quann’è nata ’sta figliola.
e s’io fosse capace
’e ve cuntà quanta bellizze tene,
ve diciarria comme ’a Natura ’ha fatta;
ma i’ nun ne so’ capace,
e nnè saccio purtà nisciuna prova:
ammore, parla tu, dì quant’è bella.
Na vota, me ricordo,
guardanno int’a chill’uocchie suoie lucente,
vedette duie brillante … e mme ’ncantaie …
e accussì forte ’o core me sbatteva
ca quase se spezzava.
ammore, parla tu, tu ca diciste:
chesta figliola
sarrà ’a riggina,
e tu, pe’ tutta ’a vita,
’o schiavo suio.
e i’ te ringrazio, ammore,
pe’ stu destino doce, pe’ ’sta gioia
ca me mantene notte e ghiuorno allero
e ca m’ha fatto schiavo ’e ’sta riggina.
43
canzona piccerella,
curre a vvasà chilli capille d’oro,
puòrtele tutto ’o bene ’e chistu core,
dille ca i’ so’ felice d’ ’a servì.
44
cecco angiolieri - siena 1260 c.-1311-13
Di famiglia benestante, di parte guelfa, nacque intorno al 1260,
come si può desumere da un documento in cui figura quale semplice
soldato all’assedio che i guelfi senesi posero nel 1281 ai ghibellini di
Turri di Maremma. Ebbe moglie e almeno sei figli, ma non condusse una vita dedita alle cure familiari; dal tono generale del suo
canzoniere e dagli scarsi documenti che lo riguardano si trae l’impressione che fosse uomo superficiale e dissipatore, amante della vita
godereccia, privo di qualsiasi preoccupazione etica e religiosa.
45
s’i’ fosse foco, aRDeRei ’l MoNDo
s’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo;
s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutt’i cristiani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzerei lo capo a tondo.
s’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similmente farìa da mi’ madre.
s’i’ fosse cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre,
e vecchie e laide lasserei altrui.
46
s’i’ fosse foco, aRDeRei ’l MoNDo
s’io fosse fuoco, ’appicciarria stu munno;
s’io fosse viento, tutto ’o schiantarria;
’mparanza, s’io foss’acqua, ’affunnarria;
s’io fosse Dio ’o mannarria a zzeffunno;
s’io fosse papa, quant’è largo e tunno
d’affanne e ppene amare ’o iencarria;
s’io fosse nu rignante, ammuzzarria
a ogn’ommo ’a capa e po’ ’e ghiettasse ’nfunno.
fosse ’a morte? e addu pàtemo iarria;
s’io fosse vita nun ce rummanesse:
e ’o stesso faciarria cu mamma mia.
s’io putarria fa’ tutte sti sbafate,
femmene belle e scicche io me tenesse:
’e zzoppe e ’e vvecchie ’e llassarria a ll’ate.
47
cino da Pistoia - Pistoia 1265-70-Napoli 1336-37
Poeta e studioso di leggi, appartenne alla scuola del dolce stil novo. Insegnò in varie università italiane: a Siena, Perugia, Napoli.
Ricoprì anche cariche politiche in patria: fu gonfaloniere e membro
del Consiglio del popolo. Fu amico e corrispondente di Dante e di
Petrarca, che lo pianse in un famoso sonetto (Piangete, donne). Restano di Cino da Pistola 165 componimenti in massima parte amorosi, per una donna che chiama Selvaggia, tra i quali sono intercalate rime politiche, morali, di corrispondenza. I modi della sua poesia sono essenzialmente quelli del dolce stil novo; ma Cino vi introduce di suo una concezione appassionata e drammatica dell’amore,
un’attenzione più precisa ai moti della passione, una maggiore ricchezza di determinazioni psicologiche e realistiche, per cui sembra
dare inizio a quell’umanizzazione del sentimento amoroso che culminerà poi nel Petrarca.
48
ciÒ cH’i’ veGGio Di Qua M’e’ MoRtal Duolo
ciò ch’i’ veggio di qua m’è mortal duolo,
perch’i’ son lunge e fra selvaggia gente,
la quale i’ fuggo, e sto celatamente,
perché mi trovi amor col penser solo:
ch’allor passo li monti, e ratto volo
al loco ove ritrova ’l cor la mente,
e, imaginando intelligibilmente,
mi conforta il penser, che testé involo.
così non morragg’io, se fie tostano
lo mio reddire a star sì ched io miri
la bella gioia da cui son lontano:
quella ch’io chiamo basso ne’ sospiri,
perché udito non sia da cor villano,
d’amor nemico e de li suoi desiri.
49
ciÒ cH’i’ veGGio Di Qua M’e’ MoRtal Duolo
stu cielo, sti mmuntagne, chistu mare
niente a stu core diceno; sti gente
ch’io veco attuorno songo ’nfame, amare:
e i’ fuje, fuje, voglio sulamente
restà nzieme ’e penziere amate e care
ch’io porto strinte int’a stu core ardente,
ch’io dedico a cchill’uocchie doce e chiare
d’ ’a nnammurata mia, bella e ’nnucente.
sulo! fin’ ’o mumento, nun luntano,
ca torno n’ata vota a mm’ ’abbraccià.
l’ammore vene e sulo ha dda truvà
stu core mio ch’ ’a chiamma chianu chiano,
ca le suspira chello ch’isso tene:
’e sentimente, ’a passïona, ’o bene.
50
Dante alighieri - firenze 1265-Ravenna 1321
Poeta. Nato da famiglia guelfa di piccola nobiltà, allievo di
Brunetto Latini, si dedicò presto alla poesia, stringendo amicizia con
i poeti stilnovisti Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Cino da Pistoia
e dedicando rime d’amore, poi raccolte nella vita Nuova, a Beatrice
Portinari, che, morta nel 1290, fu dal poeta trasfigurata in simbolo.
Le altre poesie giovanili, d’imitazione siculo-toscana, sono raccolte
nelle Rime, insieme alle «petrose» (ispirate dalla passione violenta
per una donna Pietra) e a composizioni allegoriche e dottrinali. Sposatosi con Gemma Donati, ebbe da lei tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia. Prendeva intanto parte attiva alla vita politica: dopo aver
combattuto a Campaldino contro i ghibellini d’Arezzo, iscrittosi
all’arte dei medici e speziali, fu tra i priori di Firenze. Guelfo bianco, mentre era ambasciatore presso il papa Bonifacio VIII, i Neri,
prevalsi a Firenze con l’aiuto di Carlo di Valois, lo bandirono dalla
città, condannandolo in contumacia, sotto l’accusa di baratteria, a
una multa e poi al rogo. Isolatosi dai compagni d’esilio, andò pellegrinando, tra il 1304 e il 1310, per varie città e corti. Dopo l’ultima condanna a morte, dimorò a Verona e infine a Ravenna, presso
Guido Novello da Polenta: qui morì il 13 settembre 1321 e fu sepolto nella tomba che tuttora ne conserva le ceneri. L’esilio, esperienza centrale della vita di Dante, fu anche il più notevole elemento
ispiratore delle opere della maturità: mentre il poeta affida al Convivio le sue residue speranze di tornare a Firenze grazie ai meriti
della sua dottrina, rivendica, nel De vulgari eloquentia, la funzione insostituibile dello scrittore nella formazione del linguaggio di un
popolo e, nel De Monarchia, l’autonomia dell’Impero rispetto alla
Chiesa, come garanzia per l’attuazione della felicità temporale; nella
Divina commedia, infine, si sente investito di una missione provvidenziale che prepari l’imminente riforma; ma il poema trascende
ogni motivo occasionale ed è capolavoro di universale bellezza per la
51
ricchezza dei sentimenti umani che vi trovano espressione ed insieme
per la vigorosa ed armonica struttura dottrinale, sintesi della civiltà
che conclude il Medioevo e prepara il Rinascimento.
52
la DiviNa coMMeDia
inferno (Canto Primo)
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
tant’ è amara che poco e più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
io non so ben ridir com’ i’ v’intrai,
tant’ era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
e come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
53
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.
ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,
anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vólto.
temp’ era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’ alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
54
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.
e qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia senza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi riponeva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parca fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patria ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poera fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’anchise che venne di troia,
poi che ’l superbo ilïón fu combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
55
«or se’ tu quel virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’ io lui con vergognosa fronte.
«o de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«a te convien tenere altro viaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra ne peltro,
ma sapienza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
56
Di quella umile italia fia salute
per cui morì la vergine cammilla,
eurialo e turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.
ond’ io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
a le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna;
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’ i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
in tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».
e io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch’io fugga questo male e peggio,
57
che tu mi meni là dov’ or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
allor si mosse, e io li tenni dietro.
58
la DiviNa coMMeDia
inferno (Canto Primo)
trentacinch’anne, l’età mia chest’era
quanno dint’a nu vuosco me perdette:
m’ardeva ’o core comm’a na vrasera,
tenevo ’e ccarne carreche ’e sanguette.
avevo abbandunato ’a bona via,
campavo p’ ’e burdelle e cu ’e carnette.
comm’era triste ’o vuosco! ’N fantasia,
si ’o veco ancora, ancora mo m’agghiaccio:
a ffronte a isso ’a morte è n’alleria.
io comme ce trasette nun ’o ssaccio,
e restarrà pe’ sempe nu mistero:
nun ero cchiù crestiano, ero nu straccio.
c’ ’a tremmarella ch’era forte overo,
io me truvaie a ’e piere ’e na cullina
addò ferneva ’a sérva. allero allero
spanneva ’o sole ’a luce soia cchiù fina
e cummigliava ’o monte sano sano.
Quanno vedette ’o cchiaro d’ ’a marina,
m’assicuraie nu poco e cu na mano
’o pietto me tuccaie: assaie cchiù lento
’o core me sbatteva, assaie cchiù chiano.
e comme a cchillo ca, pe’ bia ca ’o viento
’a varca ’n miez’ ’o mare l’ha affunnato,
ha dda natà cu tutto ’o sentimento
59
pe’ se salvà, e po’ quanno, spurmunato,
arriva ’n terr’ ’arena e guarda ’e guaie
e ’o càncaro ’e periculo scampato,
a guardà arreto io pure m’avutaie:
che cosa triste, cupa, abbelenata:
nisciuno ’a llà era asciuto vivo, maie!
Po’ chianu chiano, m’avviaie p’ ’a strata
ca ncopp’a ’sta cullina me purtava;
ma tècchete na belva nfurïata
me trovo ’e faccia … e comme me fissava:
era nu lïopardo: ’o farabbutto
cu ’e diente ’a fore già m’assapurava.
io me sentevo scunucchià, distrutto,
guardanno ’e ddoie mascelle marïole;
fuie nu mumento overamente brutto.
Ma po’, me repigliaie, vedenno ’o sole
ca, cchiù lucente ’e ll’oro, ’a miez’ ’o cielo,
pareva me parlasse cu parole
gentile e chiare: ’o vide chistu velo?
i’ ’o calo ncopp’a ttutta ’sta tristezza,
e faccio addeventà calore ’o gelo.
Redeva quase st’anema ’e priezza,
quanno po’ nu lïone accumparette:
teneva ’o ffele ’n mocca e na sveldezza
ca ’e me n’avarria fatto doie purpette
si ’e pressa ’e pressa ’a llà nun me scanzava,
e, quanno ’e sta’ sicuro me parette,
60
’e faccia n’ata bestia s’aparava
e me puntava comm’ ’o cane ’a quaglia:
era na lupa, ’a vocca chiena ’e bava
aperta tale e quale a na tenaglia,
’e diente comm’ ’e spate, ll’uocchie ’e fuoco …
’o core me diceva: priesto! squaglia!
si no ’sta lupa, chiena ’e famme e ’e sfoco,
’e te ne fa uno muorzo … e bonanotte.
e ’a chella overamente fuie pe’ poco
ch’io me salvaie, e pe’ scanzà sti botte,
stevo pe’ turnà propio ’a do’ ero asciuto,
da ’o vuosco niro cchiù d’ ’a malanotte,
e mme sentevo già bell’e perduto
quanno vedette n’ombra, l’ombra ’e n’ommo
ca proprio nnanze m’era accumparuto,
e ca nun se trattava ’e nu malommo
io subbeto ’appuraie. isso teneva
signate ’n faccia ’e tratte ’e galantommo.
– Pietà! – sultanto ’sta parola asceva
da ’a vocia mia, spaventata assaie.
sultanto aiuto ’o core mio vuleva.
Po’ me facette forza e le spiaie:
– Ma tu, dimme, chi si’? Dimme, ’a do’ viene? –
a ’sti pparole l’ombra suspiraie:
– io vengo ’a Roma, na città ca tene
iurnate ’e storia scritte p’ogni preta;
d’ ’a gloria soia ’e ccronache so’ chiene.
61
campavo llà cuntento, ero pueta
o tiempo d’ ’e ddie fauze e pagane.
l’opera mia cchiù bella, ’a cchiù cumpleta,
è ’a storia ’e enea, d’ ’e tiempe suoie luntane.
Ma tu – rispunne a mme – ccà, che nce faie,
dint’a stu sito triste e fore mane?
Pecché nun saglie ’o monte e te ne vaie
addò ce sta allerezza e ce sta pace? –
io rispunnette: – chi ’o ccredeva maie:
ma allora si’ virgilio, ’o cchiù capace
’e tutte ’alletterate: ncopp’a Dio
te giuro ca cchiù ’e tutte tu me piace.
tu si’ o’ cchiù bravo; tu si’ ’o masto mio;
i’ ncopp’ ’e libbre tuoie me so’ mparato;
ogni cumpunimento è n’arrecrio.
Mo vuo’ sapé pecché songo scappato?
Pe’ chella brutta bestia ca sta llà.
e tu, ca si’ ’o cchiù saggio d’ ’o ppassato,
’a chelli granfe vieneme a salvà. –
virgilio rispunnette: – figlio bello,
propio pe’ n’ata parte hê ’a cammenà,
ca st’animale è ’o peggio mustriciello,
p’ ’a strata soia nisciuno s’ ’a fa fora:
se magna n’ommo comm’a nu paniello.
Ma priesto venarrà ’a Giustizia, e allora
’sta lupa int’a l’inferno iettarrà,
e ogni peccato fatto ’a ’sta mmalora
62
overo caro assaie farrà pavà.
sarranno vendicate tutte ’e tuorte,
tutte ll’aggràvie e ogni marvaggità,
sarranno vendicate tutte ’e muorte:
’a vergine camilla, eurialo, Niso …
e ’a lupa murarrà senza cunfuorte.
e mmo, mio caro Dante, aggio deciso:
stu viaggo t’ ’o farraie nzieme cu mme.
fa’ chello ca dich’io, tutto preciso,
e io te porto subbeto a vvedé
dint’a l’inferno ’a gente comme chiagne,
patisce e se dispera comm’a cché;
che strille sentarraie, e allucche e llagne!
Po, doppo, ’n Purgatorio venarraie;
llà ’o ffuoco ardente scenne da ’e mmuntagne;
gente ca soffre ’e meno vedarraie:
ognuno spera ampressa ’e scuntà ’a pena
pe’ se levà pe’ sempe ’a miez’ ’e guaie.
si po’ te sentarrie ’e bona lena,
tu ’n Paraviso pure può arrivà:
na femmena cchiù bella ’e na sirena
p’ ’o cielo azzurro t’accumpagnarrà.
io nun t’ ’o pozzo fa’ passà ’o gulio,
nun songo degno ’e chillu posto llà,
pecché me ribbellaie a’ legge ’e Dio. –
– chello ca dice assaie me dà dammaggio –
io rispunnette – chiagne ’o core mio. –
63
e po’ cuntinuaie: – Pueta, ’o viaggio
’o voglio fa’ cu te sempe vicino,
pecché ’a sapienza toia me dà curaggio. –
e nzieme ce mettetemo ’n cammino.
64
francesco Petrarca - incisa (arezzo) 1304-arquà 1374
Gli studi del Petrarca cominciarono a Carprentas, e nel ’17 intraprese quelli di legge all’università di Montpellier. Francesco preferiva però le letture dei poeti classici, tanto da suscitare le ire del padre, che gli bruciò i libri di letteratura. Lasciati gli studi di diritto,
fu poi costretto dalle necessità economiche a entrare nella corte di
Giacomo Colonna, creato allora vescovo di Lombez. L’amicizia del
vescovo e la fama conseguita con i primi scritti gli valsero l’invito a
entrare al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Il venerdì santo
del 1327 Petrarca incontrò Laura che tanta importanza doveva
avere nella sua vita. Nel 1341 fu incoronato poeta in Campidoglio.
Famoso in tutta Europa, viaggiò moltissimo, svolgendo anche varie
missioni diplomatiche. Dal 1353 visse in Italia, a Milano, a Venezia e infine ad Arquà, sui colli Euganei, dove morì. Petrarca è il
primo grande lirico moderno; enorme è stata la sua influenza su tutta la letteratura europea. Le sue liriche in volgare furono da lui raccolte nel canzoniere e divise dalla tradizione in rime in vita e in
morte di madonna Laura; in italiano scrisse anche i trionfi. La fama del Petrarca è oggi raccomandata prevalentemente alle poesie in
volgare, ma ai suoi tempi egli fu celebre soprattutto per le sue opere
in lingua latina.
65
s’al PRiNciPio RisPoNDe il fiNe e ’l Mezzo
s’al principio risponde il fine ’l mezzo
del quartodecim’anno ch’io sospiro,
più non mi può scampar Paura ne ’l rezzo;
sì crescer sento ’l mio ardente desiro.
amor, con cu’ i pensier mai non han mezzo,
sotto ’l cui giogo giammai non respiro,
tal mi governa, ch’ i’ non son già mezzo,
per gli occhi, ch al mio mal sì spesso giro.
così mancando vo di giorno in giorno
sì chiusamente, ch’io sol me n’accorgo,
e quella che, guardando, il cor mi strugge.
appena infin a qui l’anima scorgo;
né so quanto fia meco il suo soggiorno;
ché la morte s’appressa, e ’l viver fugge.
66
s’al PRiNciPio RisPoNDe il fiNe e ’l Mezzo
Quattuordice anne so’, laura mia,
quattuordice anne ca te voglio bene:
niente me po’ acquità ’sta frennesia,
st’arzura ca m’abbrucia dint’ ’e vvene.
fisso è ’o penziero e maie nun cagna via:
st’ammore priggiuniero me mantene!
i’ me cunzumo p’ ’a malincunia
e tu manco t’adduone ’e chesti ppene.
songo pe’ ll’uocchie tuoie nu scanusciuto,
e tu pe’ mme si’ vita, grazia, ammore:
quanto ’sta passïona è traditora!
e i’ nun capisco comme aggio pututo
campà cu chesta spina dint’ ’o core,
né saccio quanto pozzo campà ancora.
67
Giovanni Boccaccio - Parigi o certaldo 1313-certaldo 1375
Avviato dal padre alla mercatura in Napoli, si diede alle lettere
e frequentò la corte di Roberto d’Angiò, la cui figlia naturale, Maria
d’Aquino, fu da lui amata e poeticamente ricordata col nome di
Fiammetta. Richiamato a Firenze per il dissesto economico del padre
(1340), ebbe incarichi diplomatici ad Avignone e a Roma. Conobbe
il Petrarca e, influenzato da lui, si diede con fervore agli studi umanistici. Fondatore della prosa d’arte italiana, è il più grande narratore del Trecento. Nella sua opera dominano un poetico realismo ed
un gusto tutto terreno dell’intelligenza nella rappresentazione dell’umana società.
68
QuaND’io RiGuaRDo Me vie PiÙ cHe ’l vetRo
Quand’io riguardo me vie piú che ’l vetro
fragile, e gli anni fuggir com’il vento,
sí pietoso di me meco divento,
che dir nol porra lingua, non che metro;
piangendo il tempo, ch’ho lasciat’arietro
mal operato e prendendo spavento
de’ casi, i quai talora a cento a cento
posson del viver tórmi il cammin tetro.
Né mi può doglia, per ciò, né paura
la vaga donna trarre della mente,
dov’amor disegnò la sua figura.
Per che, s’io non m’inganno, certamente
la fine a quest’amor la sepoltura
darà, ed altro no, ultimamente.
69
QuaND’io RiGuaRDo Me vie PiÙ cHe ’l vetRo
io, quanno penzo a cchesta vita mia,
a ’o tiempo ch’è vulato comm’ ’o viento,
me vene tanta na malincunia
ca nun so’ cchiù capace ’e truvà abbiento;
penzo a sti ccose e chiagno ’e nustalgia:
io tutto aggio sbagliato, e me turmento!
Po’, all’intrasatta, a farme cumpagnia
’a morte vene, e sana ogni lamiento.
essa sultanto putarrà levà
chi voglio bene ’a dint’a sti penziere;
’a morte venarrà, piglia, m’afferra
e tutte chesti ppene accuietarrà:
sulo accussì se stutarrà ’o vrasiere
ca m’arde ’n pietto, sulo sottaterra.
70
Matteo Maria Boiardo - scandiano 1441-Reggio emilia 1494
Poeta. Al servizio degli Estensi, dettò in latino i canti in loro lode. In volgare compose un canzoniere petrarchesco in onore di Antonia Caprara. Nel suo capolavoro, orlando innamorato confluiscono il ciclo bretone e il ciclo carolingio in un canto energico e primitivo di forti generose passioni.
71
DatiMe a PieNa MaNo e Rose e ziGli
Datime a piena mano e rose e zigli,
spargete intorno a me viole e fiori;
ciascun che meco pianse e mei dolori,
di mia leticia meco il frutto pigli.
Datime e fiori e candidi e vermigli:
confano a questo giorno e bei colori;
spargete intorno d’amorosi odori,
ché il loco a la mia voglia se assomigli.
Perdon m’ha dato ed hami dato pace
la dolce mia nemica, e vuoi ch’io campi
lei che sol di pietà si pregia e vanta.
Non vi maravigliate per ch’io avampi,
che maraviglia è più che non se sface
il cor in tutto d’allegrezza tanta.
72
DatiMe a PieNa MaNo e Rose e ziGli
Dateme giglie e rose ’n quantità;
spannesse ognuno attuorno a mme vïole;
chi nzieme a mme chiagnette, trezzïole
cu mme sparasse p’ ’a felicità.
Menate giesummine ’a ccà e ’a llà:
oggi ’sta casa e’ chiena chiena ’e sole;
cuntento io so’ e nun bastano parole
pe’ ve di’ ’n pietto ’o ffuoco ca ce sta:
avimmo fatto pace io e chillu sciore:
cchiù ’e primma me vo’ bene e arde ’e gulio;
cchiù ’e primma ’a voglio bene e ardo ’e priezza.
Nun ve maravigliate ’e tant’ammore,
s’ha dda maraviglià stu core mio
ca sbatte comm'a ll’onne, e nun se spezza.
73
lorenzo de’ Medici - firenze 1449-careggi 1492
Letterato, uomo politico, tipico rappresentante dell’uomo del Rinascimento, detto il Magnifico; pur restando privato cittadino, esercitò di fatto il potere nello stato di Firenze, sviluppò una politica di
alleanze con tutti gli altri stati italiani mirando a consolidare una
situazione di equilibrio (per cui fu detto l’ago della bilancia d’italia). Si circondò di artisti, scrittori e studiosi, ed egli stesso compose
opere letterarie, che testimoniano una partecipazione viva all’umanesimo rinascimentale.
74
cHi teMPo asPetta, assai teMPo si stRuGGe
chi tempo aspetta, assai tempo si strugge;
e ’l tempo non aspetta, ma via fugge.
la bella gioventù giamai non torna,
ne ’l tempo perso giamai riede indrieto;
però chi ha ’l bel tempo e pur soggiorna,
non arà mai al mondo tempo lieto;
ma l’animo gentile e ben discreto
dispensa il tempo, mentre che via fugge.
oh quante cose in gioventù si prezza!
Quanto son belli i fiori in primavera!
Ma, quando vien la disutil vecchiezza
e che altro che mal più non si spera,
conosce il perso dì quando è già sera
quel che ’l tempo aspettando pur si strugge.
io credo che non sia maggior dolore
che del tempo perduro a sua cagione:
questo è quel mal che affligge e passa il core,
questo è quel mal che si piange a ragione;
questo a ciascun debbe essere uno sprone
di usare il tempo ben, che vola e fugge.
Però, donne gentil, giovani adorni,
che vi state a cantare in questo loco,
spendete lietamente i vostri giorni,
ché giovinezza passa a poco a poco:
io ve ne priego per quel dolce foco
che ciascun cor gentile incende e strugge.
75
cHi teMPo asPetta, assai teMPo si stRuGGe
si troppo tiempo aspiette, po’ ch’acchiappe?
’o tiempo vola e llassa sulo ’e rrappe!
N’attemo, ’a giuventù, n’attemo dura:
’o tiempo perzo cchiù nun turnarrà;
chi nun ce penza e stu parlà trascura
mai saparrà che d’è ’a felicità;
sti ccose l’ommo furbo ’e ssape bone,
tene judizio e nun se fa mbruglià.
e’ bella ’a giuventù pe’ chi l’apprezza!
so’ belle ’e sciure dint’ ’a primmavera!
Quanno vene ’a vicchiaia e mena ’a rezza
l’ommo s’addona ch’è arrivata ’a sera:
chi a ttiempo nun gudette ’a giuventù,
mo ’a va cercanno e nun ’a trova cchiù!
Niente, cred’io, ca da’ cchiù dulore
d’ ’o tiempo cunzumato inutilmente;
chest’è ’afflizione ca te straccia ’o core;
chist’è ’o cchiù brutto e amaro d’ ’e turmiente;
ognuno a sti pparole stesse attiento:
’o tiempo vola comma vola ’o viento!
Pirciò, vuie, giuvinotte e figliulelle,
guditavelle sti ghiurnate belle;
campate sti poch’anne cu accurtezza
ca ’a giuventù se struie a ppoco a ppoco:
e stateme a sentì pe’ chill’ammore
ca ’mpiett’ a vvuie v’abbrucia comm’ ’o ffuoco.
76
Jacopo sannazzaro - Napoli 1456-1530
Poeta. Vissuto alla corte di Federico d’Aragona, lo seguì nell’esilio in Francia. Scrisse in latino: elegie, epigrammi, il poema il
parto della vergine e le ecloghe Piscatorie; in italiano: Rime e
l’arcadia, romanzo pastorale ove idealizza, con raffinata eleganza,
la sua predilezione per il genere bucolico, e che costituì a lungo il
modello della favola pastorale.
77
caRi scoGli, Dilette e fiDe aReNe
cari scogli, dilette e fide arene,
che i miei duri lamenti udir solete,
antri che notte e dì mi rispondete,
quando dell’arder mio pietà vi viene,
folti boschetti, dolci valli amene,
fresche erbe, lieti fiori, ombre segrete,
strade sol per mio ben risposte e quete,
d’amorosi sospir già calde e piene,
o solitarii colli, o verde riva,
stanchi pur di veder gli affanni miei,
quando fia mai che riposato io viva,
o per tal grazia un dì veggia colei,
di cui vuol sempr’amor ch’io parli e scriva,
fermarsi al pianger mio quant’io vorrei?
78
caRi scoGli, Dilette e fiDe aReNe
scugliere e spiagge, care e appassiunate,
ca chiagnere vuie sempe me sentite;
grotte e caverne ca me rispunnite
e a cchistu core mio pietà purtate;
vuosche ’nzeppate d’albere, vallate,
erbe, sciure, ombre ca ve ntennerite;
strade ca pe’ sti ppene v’abbelite,
strade ca nuie facevemo abbracciate;
culline sulitarie, arena bella,
quanno se stracquarrà tanto dulore?
Quanno avarrà stu core n’arrecrio?
Quanno sarrà ca chella figliulella
– unica gioia, unico e sulo ammore –
se fermarrà a sentì stu chianto mio?
79
Niccolò Machiavelli - firenze 1469-1527
Scrittore, poeta e uomo politico. Segretario della seconda cancelleria della repubblica, fu incaricato di missioni diplomatiche presso
Cesare Borgia, l’imperatore Massimiliano e il Re di Francia e di organizzare la milizia cittadina da lui stesso propugnata. Dopo il ritorno dei Medici fu privato dell’ufficio e confinato nella solitudine
di San Casciano, ove maturò il suo pensiero politico. Dopo un effimero ritorno alla vita politica, restaurata la repubblica, fu messo in
disparte e mori in povertà.
80
io sPeRo e lo sPeRaR cResce ’l toRMeNto
io spero e lo sperar cresce ’l tormento,
io piango e il pianger ciba il lasso core,
io rido e il rider mio non passa drento,
io ardo e l’arsion non par di fore,
io temo ciò che io veggo e ciò che io sento,
ogni cosa mi dà nuovo dolore:
così sperando, piango, rido e ardo,
e paura ho di ciò che io odo e guardo.
Nasconde quel con che nuoce ogni fera:
celasi adunque sotto l’erbe il drago,
porta la pecchia in bocca mèle e cera
e dentro al piccol sen nasconde l’ago,
cuopre l’orrido volto la pantera
e ’l dosso mostra dilettoso e vago:
tu mostri il volto tuo di pietà pieno,
poi celi un cor crudel dentro al tuo seno.
81
io sPeRo e lo sPeRaR cResce ’l toRMeNto
spero e speranno cresce stu turmiento,
chiagno e stu core mangia chianto amaro;
io rido, ma nun è ca stongo allero;
ardo, ma chesta freva nun se vede;
tengo paura ’e tutte 'e ccose attuorno,
me da ogni cosa nu dulore nuovo:
speranno chiagno, rido e sto’ int’ ’o ffuoco;
chello ca sento o veco, m’atterrisce.
ogni animale s’annasconne ’e ggranfe:
nun mmosta ’o dente avvelenato ’a serpe;
’a vèspera ’o spumone l’accamuffa
dint’ ’a vucchella chiena ’e céra e ’e mèle;
cummoglia ’a faccia ’e tuosseco ’a pantera
e fa vedé ’a pelliccia aggrazzïata:
tu tiene ’n faccia ’o pizzo a rriso ’e n’angelo;
’n pietto, annascunne ’o core ’o cchiù crudele.
82
ludovico ariosto - Reggio emilia 1474-ferrara 1533
Poeta. Visse alla corte di Ferrara, al servizio del cardinale Ippolito d’Este e poi del duca Alfonso, che gli affidò il governo della Garfagnana, infestata dai banditi. Sposò nel ’27 Alessandra Benucci e
visse gli ultimi anni in contrada Mirasole, attendendo alla paziente
rielaborazione del suo poema. Scrisse i carmina in latino, alcune liriche in volgare e le satire in terza rima, sul modello dei sermoni
oraziani, trasfigurazione ironica e bonaria della propria personalità.
Il capolavoro è l’orlando furioso poema in ottava rima, massima
espressione poetica del Rinascimento.
83
DoPo Mio luNGo aMoR, Mia luNGa feDe
Dopo mio lungo amor, mia lunga fede
e lacrime e suspiri ed ore tetre,
deh! sarà mai che da Madonna impetre
al mio leal servir qualche mercede?
ella vede ch’io moro, e che nol vede
finge, come disposta alla mia morte.
ahi dolorosa sorte,
che di sua perfezion cosa sì bella
manchi, per esser dì pietà ribella!
lasso! ch’io sento ben che in que’ dolci ami,
ove all’esca fui preso, o mia nimica,
è l’amaro mio fin. Né perché ’l dica
mi giova, perché amor vuol pur ch’io v’ami,
e ch’io tema e ch’io speri e ’l mio mal brami,
e ch’io corra al bel lampo che mi strugge,
e segua chi mi fugge
libera e sciolta e d’ogni noia scarca,
con esta vita stanca e di guai carca.
Né mi pento d’amar, né pentir posso,
quantunque vada la mia carne in polve,
sì dolce è quel velen nel qual m’involve
amor, che dentro ho già da ciascun osso,
e d’ogni mio valor così mi ha scosso
che tutto in preda son del gran disio
che nacque il giorno ch’io
mirai l’alta beltà, ch’a poco a poco
m’ha consumato in amoroso foco.
84
se mai fu, canzon mia, donna crudele
al suo servo fedele,
tu puoi dir che l’è quella, e non t’inganni
che vive, acciò ch’io mora de’ miei anni.
85
DoPo Mio luNGo aMoR, Mia luNGa feDe
Doppo tutto l’ammore, ’a passïona,
’e llacreme, ’angarìe e sti turmiente,
essa me dignarrà ’e quacche suspiro
o sarrà fredda e ngrata eternamente?
io moro, ’o vvede, e ffa l’indifferente;
chiagno e ’e stu chianto mio nun se ne ’mporta.
ah, maledetta sciorta,
essa pe’ quant’è nfama tant’è bella,
e tu m’hê fatto schiavo ’e chella stella!
ahimmé! Buono sacc’io ca stu dulore
me purtarrà deritto a ’o campusanto.
’o ssaccio buono e nun ce sta remmedio:
cchiù guardo chella vocca e cchiù me ’ncanto.
’a cerco ogni minuto, ogni mumento;
’o core mio ’a stu ffuoco nun se scanza,
more, ma cchiù se lanza,
cchiù soffre e se turmema int’a sti ppene,
cchiù se ’ncatena dint’a sti ccatene.
Ma i’ nun me pento ’e te vulé stu bene,
crideme: pe’ tte moro e so’ cuntento:
è doce stu veleno ca me daie
e ogni attemo ca passa cchiù addevento
pazzo pe’ tte, cchiù cresce ’o desiderio,
l’ardore, ’a passïona pe’ st’ammore
nato dint’a stu core
quanno guardaie chill’uocchie belle, e ’a tanno
pe’ st’uocchie tuoie me stongo cunzumanno.
86
si maie c’è stata femmena crudele
cu nu schiavo fedele,
chella si’ stata tu:
te voglio bene, appassiunatamente;
moro, tu ’o vvide, e rieste ’ndifferente.
87
Michelangelo Buonarroti - caprese 1475-Roma 1564
Scultore, pittore, architetto. Giovinetto, visse alla corte di Lorenzo il Magnifico, a Firenze, ove tornò dopo aver soggiornato a Venezia, a Bologna, a Roma. Chiamato dal papa Giulio II, fu poi al servizio di Leone X e di Clemente VII. Cacciati i Medici da Firenze,
fu al servizio della repubblica per fortificare la città. Dal 1534 si
stabilì definitivamente a Roma. Formatosi sullo studio delle opere di
Donatello e di Jacopo della Quercia per la scultura, e di Giotto e
Masaccio per la pittura, sintetizzò nella sua arte tutti i valori del
Rinascimento, preannunciando e preparando per molti versi l’esplosione del barocco. Nella scultura, che predilesse fra tutte le arti,
espresse con estremo vigore la sua visione plastica tormentata e drammatica, la stessa che domina nelle sue opere di pittura in cui disegno
e volume sopraffanno il colore. Fu anche poeta, e i suoi versi ispirati
dall’amicizia per Vittoria Colonna sono un interessantissimo documento della sua tormentata vita interiore.
88
o Notte, o Dolce teMPo
o notte, o dolce tempo, benché nero,
con pace ogn’opra sempr’al fin assalta.
Ben vede e ben intende chi ti esalta,
e chi t’onor’ha l’intellett’intero.
tu mozzi e tronchi ogni stanco pensiero,
che l’umid’ombra et ogni quiet’appalta;
e dall’infima parte alla più alta
in sogno spesso porti ov’ire spero.
o ombra del morir, per cui si ferma
ogni miseria a l’alma, al cor nemica,
l’ultimo delli afflitti e buon rimedio,
tu rendi sana nostra carn’inferma,
rasciugh’i pianti e posi ogni fatica
e furi a chi ben vive ogn’ir’e tedio.
89
o Notte, o Dolce teMPo
Notte ca viene, cu st’oscurità,
a ttuttuquanto ’o munno puorte pace,
e int’a nu lietto còmmodo, ’e vammace,
faie ll’uommene, cuntente, arrepusà.
tu adduorme ogni penziero, ogni anzietà;
si’ ’a meglia mmericina, ’a cchiù capace;
notte, sapisse quanto me pïace
sunnà sti suonne ca me faie sunnà.
tu, comm’ ’a morte, ogni dulore ammanche
e a ogni miseria bàrzamo saie dà;
d’ ’o munno afflitto tu si’ ’o vero bene.
forza tu daie a cchesti ccarne stanche;
asciutte ’o chianto, ’e stiente faie stracquà,
e all’uommene tu sane affanne e ppene.
90
torquato tasso - sorrento 1544-Roma 1595
Poeta. Giovinetto, seguì il padre Bernardo in varie città italiane. Nel 1562 pubblicò il Rinaldo, poema cavalleresco. Nel 1565
entrò alla corte del duca di Ferrara, Alfonso II. Qui compose il
dramma pastorale in versi aminta e condusse a termine il suo capolavoro, la Gerusalemme liberata, poema in ottave, in venti canti:
ispirato alle vicende conclusive della prima crociata, si rispecchia in
esso l’età della Controriforma e si preannuncia il secentismo, ma si
avvertono soprattutto notevoli anticipazioni della sensibilità romantica. Il Tasso cominciò quindi a dare segni di squilibrio mentale e fu
chiuso per sette anni nell’ospedale di Sant’Anna a Ferrara. Liberato
visse anni infelicissimi, peregrinando per tutta l’Italia. Morì a Roma
dove si era recato per essere incoronato poeta.
91
ecco MoRMoRaR l’oNDe
ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli,
e sovra i verdi rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’orïente:
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare,
e rasserena il cielo,
e le campagne imperla il dolce gelo,
e gli alti monti indora.
o bella e vaga aurora,
Paura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor restaura.
92
ecco MoRMoRaR l’oNDe
e murmureano ll’onne,
e pampaneano ’e ffronne,
e ll’albere
vasate ’a ll’aria fresca d’ ’a matina;
pe’ ncopp’ ’e rame verde ll’aucelluzze
cantano doce doce;
sponta cuntento ’o sole:
’a primma luce ’e l’alba
se specchia ’n miez’ ’o mare
e abbraccia ’o cielo attuorno,
ride ’a rusata p’ ’e ccampagne ’n fiore
e d’oro fa ’e mmuntagne.
aurora, chiara e bella,
a laura arrassumiglie, a laura mia,
sullievo d’ogni core
arzo d’ammore.
93
Giovambattista Marino - Napoli 1569-1625
Poeta. Il più rappresentativo di quella corrente letteraria barocca
che da lui prese nome di marinismo. Ebbe vita avventurosa e sregolata: a Torino, ove fu insignito da Carlo Emanuele I dell’ordine
mauriziano, ebbe una contesa con il rivale Murtola che per poco
non gli costò la vita. Recatosi in Francia, vi ottenne fama e onori.
Virtuoso della parola, la sua poesia, viziata dall’uso eccessivo della
metafora, è tuttavia pregevole per la sua vena musicale e sensuale.
94
PRiMaveRa
fuggon per l’erba liberi i ruscelli
poiché ’l sol torna a delivrare il gelo.
van tra i folti querceti i vaghi augelli
disputando d’amor di stelo in stelo.
treman l’ombre leggiere ai venticelli,
ch’empion d’odori il disvelato cielo,
e scotendo e ’ncrespando i rami e l’onde
si trastullan con l’acque e con le fronde.
Di naturali arazzi intappezzato,
riveste ogni giardin spoglie superbe,
né d’un sol verde si colora il prato,
ma diverso così come son l’erbe.
a bei fiorami il verde ricamato
lava e polisce le sue gemme acerbe,
ch’a la brina ed al sol formano apunto
quasi di lidia un serico trapunto.
apre le sbarre, e ’l caro armento mena
il bifolco a tosar l’erba novella.
scinta e scalza cantando a suon d’avena
sta con l’oche a filar la villanella.
scherzando col torel per l’ombra amena
va la giovenca, e col monton l’agnella.
su per lo pian, che flora ingemma e smalta,
con la damma fugace il daino salta.
95
langue anch’egli d’amor l’angue feroce,
e deposta tra’ fior la scorza antica,
dov’amor più ’l sol lo scalda e coce,
ondeggia e guizza per la piaggia aprica.
96
PRiMaveRa
se squaglia ’a neve sot’ ’o sole d’oro;
corrono a mmare ’e sciumme alleramente;
cantano ’aucielle, tutte quante a ccoro;
suspira ’ammore, appassiunatamente.
se sceta ’o viento, lieggio e ’nnammurato,
e s’accarezza ’e rame chine ’e fronne,
porta n’addore ’e sciure p’ogni lato,
mena ricame ’e perle ’n miez’a ll’onne.
Mille culure vestono ’e ciardine;
scorre p’ ’e vvene sango cchiù carnale;
’o pprato è verde; verde so’ ’e cculline;
s’affaccia ’o iuorno cchiù sentimentale.
cammina ’o campagnuolo p’ ’a scampia
e vva taglianno ll’èvera nuvella;
scàveza e allera, for’ ’a massaria,
fatica e canta na cuntadenella.
Pazzeano sott’a ll’ombra d’ ’a pagliara
na vaccarella cu nu vaccariello;
dint’ ’a ducezza ’e ’sta matina chiara
ogni bucciuolo pare nu giuiello.
Rideno ’e core chine ’e sentimento;
ride ’a natura; l’aria è fina e cujeta;
gocce ’e rusata, tutte d’oro e argiento,
vesteno ’a terra cu nu manto e seta.
97
oggi pure ’animale cchiù feroce
se sente cchiù appaciato. cchiù sincera
è l’anema d’ognuno. Bella e doce
trase, nzieme ’e vvïole, ’a primmavera.
98
Pietro Metastasio - Roma 1698-vienna 1782
Poeta. Discepolo del Gravina, fu amato e protetto dalla cantante
Marianna Benti Bulgarelli, interprete di molti suoi melodrammi.
Raggiunta la fama, fu poeta cesareo alla corte di Vienna. Tra i
maggiori esponenti della poesia arcadica, il Metastasio è soprattutto
noto come autore di melodrammi nei quali sulla materia eroica prevale un’ispirazione patetica, d’una languida musicalità, compiuta
espressione della società galante e raffinata del ’700.
99
la liBeRtÀ
Grazie agl’inganni tuoi,
alfin respiro, o Nice;
alfin d’un infelice
ebber gli dei pietà:
sento da’ lacci suoi,
sento che l’alma è sciolta;
non sogno questa volta,
non sogno libertà.
Mancò l’antico ardore,
e son tranquillo a segno
che in me non trova sdegno
per mascherarsi amor.
Non cangio più colore,
quando il tuo nome ascolto:
quando ti miro in volto,
più non mi batte il cor.
sogno, ma te non miro
sempre ne’ sogni miei:
mi desto, e tu non sei
il primo mio pensier.
lungi da te m’aggiro
senza bramarti mai:
son teco, e non mi fai
né pena né piacer.
100
Di tua beltà ragiono,
né intenerir mi sento;
i torti miei rammento,
e non mi so sdegnar.
confuso più non sono
quando mi vieni appresso:
col mio rivale istesso
posso di te parlar.
volgimi il guardo altero,
parlami in volto umano,
il tuo disprezzo è vano,
è vano il tuo favor;
ché più l’usato impero
quei labbri in me non hanno,
quegli occhi più non sanno
la via di questo cor.
Quel che or m’alletta o spiace,
se lieto o mesto or sono,
già non è più tuo dono,
già colpa tua non è;
ché senza te mi piace
la selva, il colle, il prato,
ogni soggiorno ingrato
m’annoia ancor con tè.
odi s’io son sincero:
ancor mi sembri bella,
ma non mi sembri quella
che paragon non ha:
101
e (non t’offenda il vero)
nel tuo leggiadro aspetto
or vedo alcun difetto,
che mi parea beltà.
Quando lo stral spezzai
(confesso il mio rossore),
spezzar m’intesi il core,
mi parve di morir.
Ma, per uscir di guai,
per non vedersi oppresso,
per riacquistar se stesso,
tutto si può soffrir.
Nel visco, in cui s’avvenne
quell’augellin talora,
lascia le penne ancora,
ma torna in libertà;
poi le perdute penne
in pochi dì rinnova,
cauto divien per prova,
né più tradir si fa.
so che non credi estinto
in me l’incendio antico,
perché sì spesso il dico,
perché tacer non so:
quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
per cui ciascun ragiona
de’ rischi che passò.
102
Dopo il crudel cimento
narra i passati sdegni,
di sue ferite i segni
mostra il guerrier così.
Mostra così contento
schiavo, che uscì di pena,
la barbara catena,
che trascinava un dì.
Parlo, ma sol parlando
me soddisfar procuro:
parlo, ma nulla io curo
che tu mi presti fè;
parlo, ma non dimando
se approvi i detti miei,
né se tranquilla sei
nel ragionar di me.
io lascio un’incostante,
tu perdi un cor sincero:
non so di noi primiero
chi s’abbia a consolar.
so che un sì fido amante
non troverà più Nice;
che un’altra ingannatrice
è facile trovar.
103
la liBeRtÀ
tiempo ce n’è vuluto
ma ’e stu dulore mio
se n’è addunato Dio,
ha avuto ’e me pietà.
s’è rotta ogni catena,
sanato ogni malanno;
’sta vota nun me nganno:
è vera libbertà.
’o ffuoco s’è stutato,
muorto è l’antico ammore;
fernuto ogni dulore
ca me puteva dà.
si sento ’o nomme tuio,
nun tremmo int’ ’e ddenocchie;
guardannote int’a ll’uocchie
cchiù nun me faie ’ncanta.
sonno, ma dint’ ’e suonne
mieie cchiù nun ce staie;
’e st’anema, oramaie,
padrona cchiù nun si’.
vaco luntano? e resto
– t’ ’o giuro – ’ndifferente;
te sto’ vicino? niente,
niente pe’ tte sent’ i’.
104
si’ bella, ma a stu core
nun faie cchiù tennerezza;
cchiù ’o pietto nun se spezza
’e gelusia pe’ tte.
Né càvero e né friddo
si staie cu n’ato io sento;
fernuto è ’o sentimento,
niente ’o farrà turnà.
Me guarde cu superbia?
Me parle cu crianza?
io nun ce do’ ’mpurtanza,
nun me faie specie cchiù.
’sta vocca toia, chist’uocchie,
mo songo rrobba ’e poco:
nun teneno cchiù fuoco,
nun sanno cchiù appiccià.
si ’e vvote sto’ arraggiato,
si canto e rido ’e gioia,
nun è pe’ mmezza toia,
cchiù forza toia nun è.
sienteme: so’ sincero:
si’ ancora aggrazziatella,
però nun si’ ’a cchiù bella
ca ncopp’ ’a terra sta;
guardannote io ce trovo
pure quacche difetto,
nun è pe’ nu dispietto
ca i’ mo te voglio fa’,
105
pecché te dico pure
ca quanno ’sta catena
spezzaie, fuie tanta ’a pena
ca i’ stevo pe’ murì,
ma, pe’ levarme ’a pietto
na spina accussì forte,
amara cchiù d’ ’a morte,
tutto se po’ suffrì.
N’auciello, priggiuniero
d’ ’e spine, nun s’arrenne;
ce lassa tutte ’e ppenne
ma torna a llibertà;
’e ppenne n’ata vota,
cresceno, e belle assaie,
e l’aucelluzzo, maie,
maie cchiù ce ’ncapparrà.
’o ssaccio, nun ce cride
ca ’o ffuoco s’è stutato;
io parlo troppo? è stato
pe’ dirte ’a verità:
è ’a troppa sufferenza,
è ’a spina tradetora
ca me turmenta ancora
e ca me fa parlà.
io lasso ’a cchiù nfamona;
tu pierde ’o cchiù sincero;
fra nuie, chisà, ’o cchiù allero,
chisà chi maie sarrà.
106
aneme comm’ ’a mia,
Dio una n’ha criata;
chi è comm’a tte, ’na ’ngrata,
ne truove ’n quantità.
107
Jacopo andrea vittorelli - Bassano 1749-1835
Poeta. Epigono dell’Arcadia, imitò il Chiabrera nelle anacreontiche a irene e a Dori, notevoli per il linguaggio raffinato e la melodiosità popolaresca.
108
GuaRDa cHe BiaNca luNa!
Guarda che bianca luna!
guarda che notte azzurra!
un’aura non sussurra,
non tremola uno stel.
l’usignoletto solo
va dalla siepe all’orno,
e sospirando intorno
chiama la sua fedel.
ella, che il sente appena,
già vien di fronda in fronda,
e par che gli risponda:
«Non piangere, son qui».
che dolci affetti, o irene,
che gemiti son questi!
ah! mai tu non sapesti
rispondermi così.
109
GuaRDa cHe BiaNca luNa!
Guarda che luna ianca!
Guarda che notte bella!
Nun tremma na frunnella,
’o viento fermo sta.
sulo nu russignuolo,
cu voce appassiunata,
da ’a cumpagnella amata
cerca ’e se fa sentì.
essa, ca ’o sente appena,
vola pe’ mmiez’ ’e ffronne
e pare ca risponne:
– Nun chiagnere, sto’ ccà. –
iré, tu tant’ammore
pe’ mme maie l’hê sentuto!
ahimmé! maie tu hê saputo
risponnerme accussì.
110
vittorio alfieri - asti 1749-firenze 1803
Poeta e drammaturgo. Anticipatore del Romanticismo. Di carattere inquieto e ribelle, viaggiò per l’Europa finché non scoprì la
sua vocazione di poeta, sulla quale influì anche la passione per la
contessa d’Albany. L’odio al tiranno e l’amore per la libertà informano i trattati: Della tirannide (1777) e Del principe e delle lettere (1786) sono i temi delle sue 19 tragedie. Inoltre Rime di imitazione petrarchesca; vita dove si riflette la sua personalità; commedie, epigrammi e il Misogallo, satira della Francia rivoluzionaria.
111
MaliNcoNia, PeRcHÉ uN tuo solo seGGio
Malinconia, perché un tuo solo seggio
questo mio core misero ti fai?
supplichevol, tremante ancor tel chieggio;
deh! quando tregua al mio pianger darai?
l’atra pompa del tuo feral corteggio
ben tutta in me tu dispiegasti omai:
infra larve di morte, or di’, mi deggio
viver morendo ognor, né morir mai?
Malinconia, che vuoi? ch’io ponga fine
a questa lunga insopportabil noia,
pria che il dolor giunga a imbiancarmi il crine?
Dunque ogni speme di futura gioia,
che amor mi mostra in due luci divine,
caccia; e fa’ ch’una intera volta io muoia.
112
MaliNcoNia, PeRcHÉ uN tuo solo seGGio
Malincunia, na casa int’a stu core
tu te si’ fatta; e ccà te piace ’e sta’.
Ma, dimme: chesti ppene, stu dulore,
ce sta ’a lusinga ca m’ ’e ffaie sanà?
tutte ll’affanne tuoie, tutto ’o scurore,
comme te si’ spassata a mm’ ’e rrialà.
so’ n’ommo ca nun campa e ca nun more;
quant’anne stu turmiento durarrà?
Malincunia, che vvuò? ch’io accorcio ’e tiempe?
m’accido e metto fine a stu destino?
si tu vuo’ chesto, l’urdema speranza
ca i’ tengo ’e sta’ cu ’ammore mio vicino
levame ’a pietto, famme ’sta crianza:
sulo accussì pozzo murì pe’ sempe.
113
vincenzo Monti - alfonsine (Ravenna) 1754-Milano 1828
Poeta e letterato neoclassico. A Roma, godendo del mecenatismo
di don Luigi Braschi, nipote di Pio VI, scrisse l’ode al signor di
Montgolfier, il poemetto la bellezza dell’universo e iniziò la feroniade; compose inoltre le tragedie aristodemo e Galeotto Manfredi e un poemetto contro la Rivoluzione francese: la Basvilliana.
Trasferitosi a Milano, orientò in senso democratico-rivoluzionario e
anticattolico la sua poesia; esule a Parigi, si fece interprete della stanchezza dell’opinione pubblica per gli eccessi rivoluzionari nel poema
Mascheroniana e fu poi esaltatore di Napoleone. Compose intanto
la sua migliore tragedia, il caio Gracco, e tradusse la Pucelle
d’orléans di Voltaire e l’ iliade di Omero (1810, il suo capolavoro).
114
PeR il GioRNo oNoMastico
Della sua DoNNa
Donna, dell’alma mia parte più cara,
perché muta in pensoso, atto mi guati,
e di segrete stille
rugiadose si fan le tue pupille?
Di quel silenzio, di quel pianto intendo,
o mia diletta, la cagion. l’eccesso
de’ miei mali ti toglie
la favella, e discioglie
in lagrime furtive il tuo dolore.
Ma datti pace, e il core
ad un pensier solleva
di me più degno e della forte insieme
anima tua. la stella
del viver mio s’appressa
al suo tramonto; ma sperar ti giovi
che tutto io non morrò: pensa che un nome
non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno
fra le italiche donne
ti fia bel vanto il dire: «io fui l’amore
del cantor di Bassville,
del cantor che di care itale note
vestì l’ira d’achille».
soave rimembranza ancor ti fia,
che ogni spirto gentile
a’ miei casi compianse: e fra gl’insùbri
quale è lo spirto che gentil non sia?
Ma con ciò tutto nella mente poni
115
che cerca un lungo sofferir chi cerca
lungo corso di vita. oh mia teresa,
e tu del pari sventurata e cara
mia figlia, oh voi che sole d’alcun dolce
temprate il molto amaro
di mia triste esistenza, egli andrà poco
che nell’eterno sonno lagrimando
gli occhi miei chiuderete! Ma sia breve
per mia cagion il lagrimar: ché nulla,
fuor che il vostro dolor, fia che mi gravi
nel partirmi da questo
troppo ai buoni funesto
mortal soggiorno, in cui
così forte le gioie e così lunghe
vivon le pene; ove per dura prova
già non è bello il rimaner, ma bello
l’uscirne e far presto tragitto a quello
de’ ben vissuti, a cui sospiro. e quivi
di te memore, e fatto
cigno immortal (che de’ poeti in cielo
l’arte è pregio e non colpa), il tuo fedele,
adorata mia donna,
t’aspetterà cantando,
finché tu giunga, le tue lodi; e molto
de’ tuoi cari costumi
parlerò co’ celesti, e dirò quanta
fu verso il miserando tuo consorte
la tua pietade: e l’anime beate,
di tua virtude innamorate, a Dio
pregheranno, che lieti e ognor sereni
sieno i tuoi giorni e quelli
dei dolci amici che ne fan corona:
principalmente i tuoi, mio generoso
116
ospite amato, che verace fede
ne fai del detto antico,
che ritrova un tesoro
chi ritrova un amico.
117
PeR il GioRNo oNoMastico
Della sua DoNNa
teré, core ’e stu core, anema mia,
pecché me guarde e nun me dice niente?
Pecché st’uocchie tuoie belle
se nfonneno ’e sti llacreme lucente?
’e stu silenzio, ’e chistu chianto, io saccio
qual’è ’a raggiona: te turmiente assaie
pe’ mme ca moro,
e, annascunnuta, chiagne
p’ ’a malatia ca me sta cunzumanno.
Ma datte forza e ’o core
nun fa’ penà; ’o pueta
nun more maie; pure si è vicino
l’àttemo d’ ’a partenza,
nu t’ammalincunì;
si ’a lampa ’e chesta vita mia se stuta,
nun t’abbelì:
’o nomme ch’io te lasso,
stu nomme mio, maie putarrà murì,
e tu, fra tutte ’e ffemmene,
te può avantà e può dicere: io so’ stata
l’unica passïona
’e nu pueta ca me rialaie
vita e penziere.
e sarrà doce assaie pure ’o ricordo
’e tutte chill’amice
ca m’hanno amato, e ne so’ state tante,
118
sincere e affezziunate tuttuquante.
Nun chiagnere s’io moro: cchiù se campa,
cchiù ’a vita è longa, cchiù s’ha dda patì.
teresa, ammore doce,
e tu, figlia mia bella, figlia cara,
cu ’a tennerezza vosta, cu stu bene,
’a sufferenza amara
’e chesta malatia vuie l’addurmite;
io me ne moro, e quanno st’uocchie mieie
venite a mme nzerrà.
ve prego, prumettiteme ca poco,
poco pe’ mme chiagnite,
sulo accussì me pozzo alluntanà
cuntento ’a chesta terra tanta triste,
addò nun dura niente
na gioia, mentre durano assaie tiempo
affanne e ppene; addò nun è aggrazziato
restà, mentre è assaie bello
lassarla ampressa e ghî p’ ’e vie d’ ’o cielo
’n miez’a ll’aneme bone. llà, a ’e puete,
ognuno lle vo’ bene.
llà nun è comme a ccà addò l’arta nosta,
pe’ ll’uommene gnurante e mmediuse,
nun è cunziderata,
e i’ llà, ’n cielo, t’aspetto,
tutte ’e vvirtù e ’a buntà toia cantanno,
dicenno a ttutte ll’angele
quanto fuie cara e tènnera
’a pietà toia pe’ mme,
e lloro, ’nnammurate
’e tanta gentilezza,
119
Dio priarranno ca, serenamente,
hê a sta’ tu, fino a ll’urdemo,
nzieme ’e pperzone ca te vonno bene:
e tu , pe’ primma, amico bello e caro,
ca dint’ ’a casa toia cu tte me tiene
e spieche comm’è giusto ’o ditto antico
ca dice: overo trova nu tesoro
chi ncopp’ ’a strata soia trova n’amico.
120
ugo foscolo - zante 1778-turnham Green (londra) 1827
Poeta. Trascorsa l’adolescenza a Venezia, aderì con entusiasmo
alla Rivoluzione francese, partecipando a diversi fatti d’arme; si susseguivano intanto i suoi amori travolgenti e incostanti. Chiamato
alla cattedra d’eloquenza nello Studio di Pavia poté appena tenervi
una celebre prolusione. Caduto il Regno Italico, preferì l’esilio alle
offerte allettanti fattegli dagli Austriaci. Rifugiatosi in Svizzera e poi
in Inghilterra, si dedicò prevalentemente alla critica letteraria. Temperamento per eccellenza romantico, lottò tenacemente per placare il
suo tumulto interiore e assoggettarlo ad una misura di armonia classica. La sua arte, dopo lo sfogo autobiografico dell’ortis e dei sonetti
e l’ispirazione neoclassica delle odi, assurge alla lirica meditazione
nei sepolcri e nelle Grazie. Grande è anche l’importanza del Foscolo critico per il suo gusto dell’individualità creatrice e il senso vivo
della storia.
121
alla seRa
forse perché della fatal quïete
tu sei l’immago, a me sì cara vieni,
o sera! e quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquïete
tenebre e lunghe all’universo meni,
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
vagar mi fai co’ miei pensier sull’orme
che vanno al Nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
122
alla seRa
forze pecché a’ cuietùtene d’ ’a morte
tu arrassumiglie, me si’ tanta cara
sera ca viene. e quanno allera scinne
e puorte ’o viento doce d’ ’a staggiona;
e quanno, int’ ’a vernata, ’e gelo, d’acqua
e d’aria amara e cupa ’a terra astrigne,
io sempe tè desidero, t’aspetto,
e dint’ ’e braccia toie trovo arreparo.
Me puorte cu ’e penziere miee p’ ’e strade
ca m’avvicinano all’eternità;
e ’o tiempo vola, e pare ca se stracquano
’e ppene ca turmentano stu core,
e appena t’appresiente, sera amata
tutte ll’affanne ’e ’st’anema s’addormeno.
123
alessandro Manzoni - Milano 1785-1873
Scrittore, poeta. Nella sua biografia spiccano il soggiorno parigino (1805-10), che lo mise in contatto con l’ambiente degli ideologi
francesi e col Fauriel, e la conversione al cattolicesimo (1810). Testimonianza più diretta della conversione sono gli inni sacri e le
osservazioni sulla morale cattolica, mentre la meditata adesione al
Romanticismo portava a maturazione la poetica manzoniana, incentrata sul concetto del «vero» poetico; all’evoluzione di tale poetica
si accompagnavano le meditazioni sulla questione della lingua polarizzate intorno alla necessità di abolire il secolare diaframma tra la
lingua dei letterati e quella viva del popolo attraverso l’adozione del
fiorentino parlato dagli uomini colti. Ma la più alta meditazione
del Manzoni si svolge intorno alla storia, direttamente studiata sotto
il profilo morale di alcuni saggi (Discorso sopra alcuni punti della
storia longobardica in italia, storia della colonna infame, la rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859),
ma soprattutto poeticamente interpretata nelle odi Marzo 1821 e
cinque Maggio, nelle tragedie il conte di carmagnola e adelchi
e infine nei Promessi sposi ove il Manzoni, dalla pessimistica considerazione della presenza del male nel mondo, dominante nelle opere precedenti, si eleva ad una concezione più ampia e più serena, per
cui la sofferenza degli umili si inserisce in un disegno provvidenziale
e il contrasto fra il bene e il male si ricompone in una dialettica
unità.
124
autoRitRatto
capel bruno: alta fronte: occhio loquace:
Naso non grande e non soverchio umile:
tonda la gota e di color vivace
stretto labbro e vermiglio: e bocca esile:
lingua or spedita or tarda, e non mai vile,
che il ver favella apertamente, o tace.
Giovin d’anni e di senno; non audace;
Duro di modi, ma di cor gentile.
la gloria amo e le selve e il biondo iddio;
spregio, non odio mai: m’attristo spesso:
Buono al buon, buono al tristo, a me sol rio.
a l’ira presto, e più presto al perdono:
Poco noto ad altrui, poco a me stesso:
Gli uomini e gli anni mi diran chi sono.
125
autoRitRatto
capille nire; ll’uocchie ardite; ’o fronte
àuto; ’o naso nun è gruosso assaie
né piccerillo; ’a faccia tonna e chiara;
labbra suttile; ’a vocca delicata;
’a lengua ’e vvote lesta, ’e vvote moscia:
parla sincera opùro se sta zitta.
Giòvene d’anne e giòvene ’e iudicio;
aspro ’e maniere ma gentile ’e core.
’a grolia, ’a sulitudine, ’a poesia
io voglio bene; so’ sincero sempe;
spisso ’n malincunia; buono cu tutte;
cu mme ngrugnato; facile a ’o perdono;
poco me sanno; io poco m’accanosco:
chi songo ’o ddiciarranno ’a gente e ’o tiempo.
126
Giacomo leopardi - Recanati 1798-Napoli 1837
Poeta. Di ingegno precocissimo, incompreso dai familiari, si acquistò una prodigiosa cultura con studi intensissimi che gli rovinarono la salute. Lasciata Recanati nel 1822, fu a Milano e Bologna
e, nel 1827-28, a Firenze, ove entrò in contatto con il circolo culturale dell’Antologia, e a Pisa; ritornato a Recanati nel 1828, visse il
periodo più tormentoso della sua esistenza, scrivendo i suoi più grandi idilli; lasciato per sempre il «natio borgo selvaggio», assunse un atteggiamento più combattivo di fronte alla vita e più solidale nei confronti della società (amore per Fanny Targioni Tozzetti, sodalizio
con Antonio Ranieri, contatti con i circoli politici napoletani). La
poesia leopardiana, dal pessimismo individuale dei primi idilli, attraverso la meditazione delle operette morali, che attribuisce a quel
pessimismo portata cosmica, raggiunge la sua più pura e musicale
espressione nei grandi idilli, per concludersi nel titanismo eroico
dell’ultimo periodo. I canti (41 poesie) furono pubblicati nel 1831;
di grande importanza l’epistolario.
127
la seRa Del DÌ Di festa
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. o donna mia,
già tace ogni sentiero, e pei balconi
rara traluce la notturna lampa:
tu dormi, che t’accolse agevol sonno
nelle tue chete stanze; e non ti morde
cura nessuna; e già non sai né pensi
quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
appare in vista, a salutar m’affaccio,
e l’antica natura onnipossente,
che mi fece all’affanno – a te la speme
nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
non brillin gli occhi tuoi se non di pianto –.
Questo dì fu solenne; or da’ trastulli
prendi riposo; e forse ti rimembra
in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
piacquero a te: non io, non già ch’io speri,
al pensier ti ricorro. intanto io chieggo
quanto a viver mi resti, e qui per terra
mi getto, e grido, e fremo. o giorni orrendi
in così verde etate! ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto il mondo passa,
e quasi orma non lascia. ecco è fuggito
128
il dì festivo, ed al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceàno?
tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
bramosamente il dì festivo, or poscia
ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
premea le piume; ed alla tarda notte
un canto che s’udia per li sentieri
lontanando morire a poco a poco,
già similmente mi stringeva il core.
129
la seRa Del DÌ Di festa
’a notte è doce e chiara, senza viento,
e cujeta ncopp’ ’e titte e int’ ’e ciardine
se posa ’a luna, e attuorno attuorno pare
serena ogni muntagna. ammore mio,
sulagne songo ’e strale e dint’ ’e ccase
rare songo ’e llanterne e ’a luce è poca:
tu duorme ’n bracci’ ’o suonno ca gentile
trasette dint’ ’a stanza; tu nun suoffre
nisciuno affanno; né tu saie, né pienze;
quanta turmiente me mettiste ’n pietto.
tu duorme: io chistu cielo, ca stanotte
è accussi bello, e chesta terra antica,
ca me rialaie na vita tanta nfama,
a salutà m’affaccio: – «a tte ’a speranza
te nego – me dicette – ogni speranza;
e ll’uocchie tuoie sultanto ’e chianto amaro
p’ ’a vita sana sana luciarranno» –.
fuie festa aiere; tu t’arrecriaste,
mo t’arrepuose; forse dint’ ’e suonne
te suonne tu a quant’uommene piaciste
e quante ’e chilli llà te ne piacettero:
io no, dint’a sti suonne nun ce stongo,
’o ssaccio buono, e po’ manco ce spero.
e pe’ ttramente io m’addimanno quanto,
quant’ato tiempo aggia campà e suffrì,
dint’ ’a disperazione m’abbandono.
Quanta tristezza int’a ’sta giuventù.
130
Nu lavurante torna a ttarda notte
– doppo ca s’è spassato – a’ casa soia
e canta; io sento ’a voce sulitaria
e all’intrasatta me s’astregne ’o core
penzanno comme tutto cose passa,
comme tutto se scorda. ’o iuorno ’e festa
passato è già, dimane se fatica:
passano, nzieme ’o tiempo, tutte ’e ccose
succiese aiere: mo addò stanno ’e vvoce
d’ ’e ggente antiche, mo addò sta ’a presenza
d’ ’e genie nuoste, ’e Roma, ’e chill’impero
ca ’a destinaie patrona ’e terre e ’e mare?
tutt’è silenzio e pace, ’o munno dorme,
d’aiere quase nun se parla cchiù.
Quann’ero guagliunciello, ’o iuorno ’e festa
cu tanto desiderio io l’aspettavo,
e tanno, tanno, proprio comm’a mmo,
’o canto sulitario ca ’a luntano
saglieva ’a miez’ ’a strata int’ ’a nuttata
e doppo, malinconico, mureva
a ppoco a ppoco, m’astrigneva ’o core.
131
Niccolò tommaseo - sebenico 1802-firenze 1874
Scrittore, poeta e patriota; membro del Governo provvisorio di
Venezia subì carcere ed esilio. Ebbe cultura multiforme e ingegno
versatile; scrisse moltissimo, sui più svariati argomenti; è famoso soprattutto come lessicografo. La sua narrativa, dominata dal contrasto
fra misticismo e sensualità, apre la strada al romanzo psicologico.
opere: Dizionario dei sinonimi; Fede e bellezza (romanzo);
Canti popolari toscani, corsi, greci, illirici; Poesie; Dizionario della
lingua italiana; Diario intimo.
132
caRoNte
Perché neri son eglino i monti, e stanno squallidi?
o il vento li combatte? o li batte la pioggia?
Né il vento li combatte né li batte la pioggia;
ma li passa caronte co’ morti.
trae i giovani innanzi, i vecchi dietro,
e i teneri bambinelli in sulla sella in fila.
Pregano i vecchi, e i giovani supplicano:
«caronte caro, posa in una terra, posa ad una fresca fonte,
che beano acqua i vecchi, e i giovani facciano al disco,
e i piccoli bambinelli colgano fiorellini».
«Né in paese poso io, né a fresca fonte.
vengon le mamme per acqua, e conoscono i lor figliuoli.
si conoscono i consorti, e non si dividono più».
133
caRoNte
oggi, pecché ’e mmuntagne
so’ nere e addulurate?
P’ ’o viento ntussecuso?
pe’ l’acqua ca ’e tturmenta?
Nun è p’ ’o viento e manco
pe’ l’acqua d’ ’a tempesta:
passa caronte e porta
a ccentenare ’e muorte.
annanze ’e giuvinotte,
arreto viecchie e vvecchie,
e ’n quantità ’e nennille,
felere senza fine.
Pregano ’e viecchie; ’e giuvene
scungiurano; è una voce:
– «férmate a nu paese,
vicino a na surgente:
’e viecchie vonno vévere,
’e giuvene pazzià,
’e ccriaturelle cogliere
sciure pe’ mmiez’ ’o pprato» –.
– «Né dint’a nu paese,
né affianco a na surgente
me pozzo io maie fermà.
io, si v’accuntentasse,
cchiù ’o schianto assummarria:
venessero a’ surgente
pe’ piglià l’acqua ’e mmamme:
vedessero ’e nennille,
134
tutte ’e nennille lloro
’a pochi iuorne muorte,
e ’a pena cchiù criscesse
pecché ogni mamma ’o figlio
suio vularria abbraccià,
e nun lassarlo cchiù» –.
135
Giosuè carducci - valdicastello 1835-Bologna 1907
Poeta e critico. Antiromantico, fondò in gioventù il gruppo degli
«Amici pedanti», col proposito di reagire al romanticismo languido
e sentimentale. In realtà, pervenuto, dopo la polemica giacobina e
repubblicana, alla più serena poesia della natura e della storia, fu il
continuatore del romanticismo nella sua tendenza realistica, offrendo lo spunto, coi suoi motivi naturalistici e panici, alla poesia successiva di Pascoli e D’Annunzio. Come critico, animò il metodo storico-positivistico col senso vivo dell’arte; e, come docente di letteratura italiana all’Università di Bologna, esercitò un vasto impulso sulle
giovani generazioni. Nel 1906, ricevette, primo fra gli scrittori italiani, il premio Nobel.
136
Passa la Nave Mia
Passa la nave mia, sola, tra il pianto
de gli alcïon, per l’acqua procellosa;
e la involge e la batte, e mai non posa,
de l’onde il tuon, de i folgori lo schianto.
volgono al lido, omai perduto, in tanto
le memorie la faccia lacrimosa;
e vinte le speranze in faticosa
vista s’abbatton sovra il remo infranto.
Ma dritto su la poppa il genio mio
guarda il cielo ed il mare, e canta forte
de’ venti e de le antenne al cigolio:
– voghiam, voghiamo, o disperate scorte,
al nubiloso porto de l’oblio,
a la scogliera bianca de la morte.
137
Passa la Nave Mia
Passa ’sta varca mia ’n miez’ ’a tempesta,
’o chianto d’ ’e gguaguine l’accumpagna.
ll’onne mpazzute ’a schiantano; ’e ssaette
stracciano ’e vvele e nun le danno cujete.
Guardano ’arena ll’uocchie mieie chiagnenno:
penzano ’e iuorne belle ca so’ muorte,
e morta è ogni speranza, ogni ricordo,
nzieme a ’sta varca ca nun trova abbiento.
Ma ’o core mio resiste a ppoppa, guarda
’o cielo chino d’acqua, ’o mare scuro,
e canta, senza l’ombra d’ ’a paura:
vucate nzieme a mme, ricorde antiche,
vicino è ’o scoglio ca ce sana ’e ppene,
vicino è ’o puorto addò truvammo pace.
138
edmondo De amicis - oneglia 1846-Bordighera 1908
Scrittore, poeta, fu per lunghi anni ammirato come la voce più
espressiva dell’Italia post-risorgimentale, tipico rappresentante letterario dell’età umbertina, contro cui si scagliava Giosuè Carducci,
dei cui strali polemici anche il De Amicis fu bersaglio, in maniera
clamorosa. Ufficiale, combattè nel ’66 e assistì poi i colerosi, inviato
a Firenze fu chiamato a collaborare alla rivista «Italia militare»,
per la quale scrisse articoli e bozzetti che piacquero e furono poi riuniti nel volume la vita militare (Milano, 1868). A questo primo
volume seguirono le Novelle (Firenze, 1872) e i Ricordi del 187071 (ivi, 1872). Dedicatosi completamente alla letteratura, incoraggiato dal successo di pubblico che non gli venne mai meno, seguitò a pubblicare con ritmo assai serrato opere varie, ma che rientrano tutte in uno stesso genere, moralistico, educativo, didascalico,
dal tono briosamente bonario. Questo carattere istruttivo hanno anche i libri di viaggi (spagna, Firenze, 1872; olanda, ivi, 1874;
Ricordi di londra, Milano, 1874; Marocco, ivi, 1876; costantinopoli, ivi, 1879; Ricordi di Parigi, ivi 1879), che hanno però tutti una forma aneddotica, non pesantemente didascalica.
Fortuna enorme ebbe cuore, libro per i giovani, cui il De Amicis si rivolgeva come a pubblico ideale per le sue finalità pedagogiche.
La facile emotività dello scrittore, la sua bontà troppo spesso ingenua, il blando impegno morale fecero di questo libro la lettura ideale di varie generazioni di ragazzi.
139
Mia MaDRe
Non sempre il tempo la beltà cancella,
o la sfioran le lacrime e gli affanni:
mia madre ha sessant’anni,
e più la guardo e più mi sembra bella.
Non ha un detto od un guardo, un riso, un atto
che non mi tocchi dolcemente il core…
ah, se fossi pittore!
farei tutta la vita il suo ritratto.
vorrei ritrarla quando china il viso
perché le baci la sua treccia bianca,
o quando inferma e stanca
nasconde il suo dolor dietro un sorriso.
Pur se fosse il mio priego in cielo accolto,
non chiederei del gran pittor d’urbino
il pennello divino
per coronar di gloria il suo bel volto…
vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei,
veder me vecchio e lei
dal sacrificio mio ringiovanita.
140
Mia MaDRe
Niente ha sciupato ’o tiempo, oj vicchiarella,
nienie t’hanno lévato chianto e affanne:
mo tiene sissant’anne
e i’ cchiù te guardo e cchiù me pare bella.
songo chist’uocchie tuoie na calamita;
tu parle? e ride ’e gioia chistu core.
ah, s’io fosse pittore,
te faciarria ritratte tutta ’a vita!
te pittarria quanno vicina viene
e io te vaso chella trezza janca,
o quanno triste e stanca
c’ ’o pizzo a rriso m’annascunne ’e ppene.
Ma si cercà putesse a Dio na cosa
nun le cercasse ’e addeventà Raffaello
p’arritrattà a ciammiello
’sta faccia toia gentile cchiù ’e na rosa.
le cercarria ’e cagnà cu na parola
vita cu vita e darte ’a giuventù,
vederme io vecchio e tu
p’ ’o sacrificio mio turnà figliola.
141
Giovanni Pascoli - san Mauro di Romagna 1855-castelvecchio 1912
Poeta. L’uccisione del padre e gli altri lutti familiari incisero dolorosamente sulla sua vita. Nel 1905 successe al Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna. Nella prima raccolta di liriche, Myricae già si rivela chiara la sua ispirazione poetica, frammentaria, musicale, volta alle sensazioni suggestive, impregnata del
senso di smarrimento che dà al poeta il mistero inesplorabile della
vita. Le altre raccolte sono: Primi poemetti; canti di castelvecchio; Nuovi Poemetti; Poemi conviviali; odi e inni in cui il Pascoli si stacca dall’ispirazione individuale per cantare la patria e tentare un’epica italiana. La stessa ispirazione è nei Poemi del Risorgimento, Poemi italici e canzoni di re enzio. Nei carmina, in
latino, celebra gli aspetti più intimi e pensosi della romanità.
142
il sole e la luceRNa
i
in mezzo ad uno scampanare fioco
sorse e batté su taciturne case
il sole, e trasse d’ogni vetro il fuoco.
c’era ad un vetro tuttavia, rossastro
un lumicino. ed ecco il sol lo invase,
lo travolse in un gran folgorìo d’astro.
e disse, il sole: – atomo fumido! io
guardo, e tu fosti. – a lui l’umile fiamma:
– Ma questa notte tu non c’eri, o dio;
e un malatino vide la sua mamma
alla mia luce, fin che tu sei sorto.
oh! grande sei, ma non ti vede: e morto! –
ii
e poi, guizzando appena:
– chiedeva te! che tosse!
voleva te! che pena!
tu ricordavi al cuore
suo le farfalle rosse
su le ginestre in fiore!
io stavo lì da parte…,
gli rammentavo sere
lunghe di veglia e carte
piene di righe nere!
stavo velata e trista,
per fargli il ben non vista. –
143
il sole e la luceRNa
luntano e lento ’o suono d’ ’e ccampane
accumpagnava ’o sole ca nasceva:
p’ ’e ccase se stutava ogn’ata luce.
sultanto ’a luce ’e na lanterna ancora
arreto ’e llastre ’e na fenesta steva.
’o sole ’arravugliaie dint’ ’o chiarore
e le dicette: – «stùtete, si’ niente!» –
a sti pparole ’a povera lanterna
scurnosa rispunnette; – «Nu nennillo
buono malato, cu ’sta luce mia,
stanotte ha visto ’a mamma. tu si’ grande,
ma nun te vede; stu nennillo è muorto» –.
e po’ cuntinuaie:
– «cercava a tte! che tosse!
vuleva a tte! che pena!
penzannote vedeva
vulà pe’ ncopp’ ’e sciure
palomme culurate.
io stevo ccà, a’ spartata …
e ’a ccà l’arricurdavo
serate longhe annanze
ô libbro, a nu quaterno;
a ffarle tantu bene
io stevo ccà, a’ spartata,
scurnosa, triste, pàllida …
e manco me vedeva.
144
Gabriele D’annunzio - Pescara 1863-Gardone 1938
Poeta e scrittore. Condusse vita fastosa e brillante nei salotti romani e nella villa della Capponcina presso Settignano. Partecipò alla vita politica, schierandosi nel 1915 con gli interventisti e prendendo parte alla guerra, poi, anche con imprese audaci e clamorose
come la beffa di Buccari e il volo su Vienna; nel 1919 marciò con i
legionari su Ronchi e occupò Fiume, restando a capo per un anno
della Reggenza italiana del Carnaro. Concepì la vita come attuazione di forza e di bellezza, rappresentando, con il suo estetismo, l’espressione più significativa del decadentismo italiano con larga influenza anche sul costume del tempo. Chiuse la sua vita in una villa
presso Gardone trasformata in Vittoriale degli italiani, pieno di cimeli della sua «vita inimitabile». Fu poeta di estrema raffinatezza
formale.
145
o GioviNezza
o Giovinezza, ahi me, la tua corona
su la mia fronte già quasi è sfiorita.
Premere sento il peso de la vita,
che fu sì lieve, su la fronte prona.
Ma l’anima nel cor si fa più buona,
come il frutto maturo. umile e ardita,
sa piegarsi e resistere; ferita,
non geme; assai comprende, assai perdona.
Dileguan le tue brevi ultime aurore,
o Giovinezza; tacciono le rive
poi che il tonante vortice dispare.
odo altro suono, vedo altro bagliore.
vedo in occhi fraterni ardere vive
lacrime, odo fraterni petti ansare.
146
o GioviNezza
Muorte so’ tutte ’e suonne ’e chistu core
’nzieme a ’sta giuventù ca se n’è ghiuta;
’sta vita ch’era bella cchiù ’e nu sciore
comm’è cagnata, comme s’è ’ngialluta.
l’anema mia però tene cchiù ammore;
scurnosa ’e vvote, ’e vvote sustenuta;
se chiéja ma resiste; p’ ’o dulore
nun chiagne; ’ntenne assaie, assaie aiuta.
speranze e ssuonne tutte so’ fernute,
e io m’accquieto tale e quale a ’o mare
quanno ’a tempesta forza cchiù nun tene.
iuorne ’e na vita nova so’ venute:
chiammo ’e pperzone frate, amice care;
sento pe’ lloro cchiù pietà, cchiù bene.
147
umberto saba - trieste 1883-Gorizia 1957
Nato da padre ariano e madre ebrea, ebbe un’adolescenza malinconica. Lasciati presto gli studi, fu alcun tempo mozzo su un bastimento. Più tardi si arruolò volontario in un reggimento italiano
di fanteria. Tornato a Trieste, si dedicò al commercio dei libri,
aprendo un negozio d’antiquariato librario, che divenne presto luogo
di incontro di scrittori triestini e italiani. Dopo la promulgazione
delle leggi razziali, visse alcun tempo a Parigi; stette poi nascosto a
Roma per tornare a Trieste dopo la Liberazione. Nel 1946 ha avuto
il premio Viareggio, nel ’51 quello dell’accademia dei Lincei, nel ’53
la laurea honoris causa dell’Università di Trieste, nel ’57 il premio
Marzotto.
148
Da uN colle
era d’ottobre; l’ora mattutina
di pace empiva di dolcezza il cuore.
con me l’aspro sentier della collina
saliva, dietro ai buoi, l’agricoltore.
Giunto alla vetta, scorsi in un fulgore
trieste con le chiese e la marina;
e in un boschetto, rossa come un fiore,
tra cupe frondi, l’amata casina.
Delle squille veniva a me il richiamo.
e come all’orizzonte il sol levato
faceva i vetri delle case ardenti,
d’un pino al tronco m’appressai beato,
ne svelsi, come a festa, un verde ramo,
e, sospirando, dissi un nome ai vènti.
149
Da uN colle
era d’uttombre; l’alba aggraziata
enchieva chistu core d’armunia.
cu’ mme, p’ ’a stratulella d’ ’a cullina,
saglieva, arreto ’e voie, ’o campagnuolo.
’N cimma i’ vedette, int’a na luce ’e fata
trieste cu ’a marina e cu ’e cchiesielle;
e ’n miez’ ’o vverde, comm’a nu papagno
lucente ’e fuoco, ’a casarella mia.
M’affatturava ’o suono d’ ’e ccampane.
e quanno ’o sole, vivo e allero, ascette
facenno d’oro ’e llastre ’e tutte ’e ccase,
m’abbicinaie a n’albero, ’ncantato,
accarezzaie ’e ffronne delicate
e, suspiranno, murmuliaie nu nomme.
150
Guido Gozzano - agliè canavese 1883-1916
Di salute assai cagionevole, riuscì appena a terminare gli studi
universitari, laureandosi in giurisprudenza, ma non esercitò mai la
professione. Fino dagli anni giovanili, invece, si dedicò con passione
alle lettere e alla poesia. Temperamento malinconico e riservato, non
si ambientò mai completamente nei circoli culturali e mondani, dove pure riscosse un successo pronto e vivace; ma, preferendo rinchiudersi in se stesso e tornare alle immagini di un mondo più sincero e
pulito, anche se più rozzo e limitato, cominciò a mitizzare figure, situazioni e ambienti del suo Canavese piccolo-borghese, e nello stesso
tempo a operare una specie di cammino all’indietro verso periodi storici il cui costume fosse più consono ai suoi gusti decisamente intimistici e decadenti: la Torino albertina, il Piemonte solido e vecchiotto dell’Ottocento, magari i fantastici tropici del Paolo e virginia di
Bernardin de Saint-Pierre. Questa inclinazione verso le piccole cose
di un piccolo mondo borghese, privo di slanci di ideali, di passioni,
non è, del resto, che il contrappeso di una reale impossibilità d’amare e di sentirsi vivo, simile agli altri: chiuso in una incomunicabilità, che le numerose esperienze d’amore non faranno che rendere
sempre più evidente agli occhi del poeta stesso, egli non sa trovare
scampo che in quest’angolo di nostalgia malinconica e di rimpianto
sottile.
151
la MoRte Del caRDelliNo
chi pur ieri cantava, tutto spocchia,
e saltellava, caro a tita, è morto.
tita singhiozza forte in mezzo all’orto
e gli risponde il grillo e la ranocchia.
la nonna s’alza e lascia la conocchia
per consolare il nipotino smorto:
invano! tita, che non sa conforto,
guarda la salma sulle sue ginocchia.
Poi, con le mani, nella zolla rossa
scava il sepolcro piccolo, tra un nimbo
d’asfodeli di menta e lupinella.
Ben io vorrei sentire sulla fossa
della mia pace il pianto di quel bimbo.
Piccolo morto, la tua morte è bella!
152
la MoRte Del caRDelliNo
chillu cardillo che cantava aiere,
e zumpettiava alleramente, è muorto.
chiagne nu piccerillo dint’a ll’uorto
lacreme chiene ’e lutto e ’e despiacere.
’a nonna, cu ’e ccarezze soie sincere,
curaggio dà a ’o nennillo, ’o dà cunforto,
ma ’o nepusciello, pallido ’e scunforto,
chiagne ’o cumpagno d’ ’e mumente allere.
Doppo, cu ’e mmane, ’n miez’ ’a terra rossa
tutta fiurita, scava cu attenzione
e atterra l’aucelluzzo cu ’a manella.
comme senti’ vurrïa ncopp’ ’a fossa
d’ ’a pace mia ’o chianto ’e stu guaglione.
cardillo mio, ’a morte toia è bella.
153
sergio corazzini - Roma 1887-1907
Poeta. Fra il 1905 e il 1906 pubblicò con alcuni amici (F. M.
Martini, C. Covoni, Vannicola, ecc.) la rivista «Cronache latine»,
fra le prime espressioni di quello stato d’animo che fu definito in seguito «crepuscolare». Le sue poesie, pubblicate originariamente in
opuscoli, furono raccolte dopo la morte in un volume curato dagli
amici e poi ristampato più volte. È visibile in esse l’influenza di
Giovanni Pascoli e Gabriele D’Annunzio, ma soprattutto quella del
decadentismo francese e belga. Il tema elegiaco del «piccolo fanciullo
che piange», del «dolce fanciullo dimenticato da tutti gli umani»,
costituisce il nucleo della poesia del Corazzini, che possiede una sua
gracile eppure affascinante personalità.
154
DesolazioNe
Del PoveRo Poeta seNtiMeNtale
i
Perché tu mi dici: poeta?
io non sono un poeta.
io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
vedi: non ho che le lagrime da offrire al silenzio.
Perché tu mi dici: Poeta?
ii
le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
le mie gioie furono semplici,
semplici, così che se io dovessi confessarle a te arrossirei.
oggi io penso a morire.
iii
io voglio morire, solamente perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio, come un povero specchio
[melanconico.
vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.
iv
oh, non maravigliarti della mia tristezza.
e non domandarmi;
155
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente,
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.
v
io mi comunico del silenzio, cotidianamente come di Gesù.
e i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.
vi
Questa notte ha dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto,
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.
vii
io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
156
Ma tu non mi comprendi e sorridi,
e pensi che io sia malato.
viii
oh, io sono, veramente malato!
e muoio, un poco, ogni giorno.
vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta;
io so che per esser detto poeta, conviene
viver ben altra vita!
io non so, Dio mio, che morire.
amen.
157
DesolazioNe
Del PoveRo Poeta seNtiMeNtale
i
Pecché tu me chiamme: pueta?
io nun so’ nu pueta.
so’ sultanto nu povero nennillo che chiagne.
Guarda: sultanto lacreme
io rialo a ’o silenzio.
Pecché tu me chiamme: Pueta?
ii
tutte ’e ttristezze mie
so’ tale e quale a ll’ate.
’e gioie mie so’ state poca cosa,
tanto ca nun ce tengo
nemmeno a t’ ’e cuntà.
oggi
io penzo sulo a’ morte.
iii
voglio murì,
sulo pecché so’ stanco, stanco assaie;
sultanto pecché ll’angele
ca stanno arritrattate ncopp’ ’e llastre
d’ ’e cchiesie belle
me fanno tremmà d’ammore,
’e paura;
sulamente pecché oramaie io songo
rassignato
158
comm’a nu specchio,
comm’a nu poveru specchio malinconico.
’o vvi’ ca io nun songo nu pueta:
so’ nu nennillo triste ca ve’ murì.
iv
No, ’e ’sta’afflezíone mia,
nun te maraviglià.
e nun spiarme niente;
io te dicesse sulo
cose sceme,
ah, Dio! accussì sceme
ca me mettesse a chiagnere
quase come si stesse pe’ murì.
sti llacreme dicessero tutte ’e turmiente mie
a st’anema già tanto afflitta e cupa,
ma i’ nun sarria nu pueta;
sarria sultanto nu nennillo buono
e appecundruso
ch’abbiasse a prià, accussì, sinceramente
comme sinceramente canta e dorme.
v
campo ’e silenzio, sempe; e stu silenzio
è ’a cummuníone mia ’e tutte ’e mmatine.
e ’e ccose belle d’ ’o silenzio songo
’e vvoce, ’e suone, ’e palpite
d’ ’a vita:
io senza ’e lloro
nun avarria cercato,
nun avarria truvato
a Dio.
159
vi
stanotte aggio durmuto cu ’e mmane ’n croce.
Parevo un nennillo delicato,
scurdato ’a tutte lluommene,
pronto p’addeventà l’urdemo schiavo
d’ ’o primmo ca veneva;
che desiderio d’essere vennuto,
maletrattato,
custretto a sta’ diuno,
e chiagnere, chino ’e tristezza,
chino ’e disperazione,
sulo,
int’a nu pizzo scuro.
vii
io voglio bene sulo ’e ccose semplice.
Murì aggio visto tanta desiderie,
a ppoco a ppoco,
pe’ bbia d’ogni cosa ca mureva!
Ma tu, tu nun me ’ntienne,
e ride, e pienze ch’io so’ nu malato.
viii
i’ songo, ahimmé, malato overamente!
iuorno pe’ ghiurno, a ppoco a ppoco, io moro.
Guarda: comm’ogni cosa more.
Pe’ chesto io no, nun songo nu pueta;
io saccio ca ’o pueta
’a vita ’a vo’ campà!
Mentr’io nun cerco ca nu suonno ’e morte.
accusì sia.
160
vincenzo cardarelli - corneto tarquinia (viterbo) 1887Roma 1959
Nato in terra etrusca, Cardarelli amerà sottolineare più volte
nella sua opera questa origine e i caratteri che, secondo lui, glie ne
sarebbero derivati: purezza, dignità, sensibilità, gusto, macerati e assimilati attraverso il tempo nello spirito di un popolo civile e forte; e
paesaggi, figure, personaggi della terra natale torneranno assai frequentemente nelle sue opere. Modello ideale del Cardarelli fu il Leopardi, che tuttavia egli ammirò e seguì soprattutto come maestro di
stile e di eloquenza, svuotandolo quindi della sua carica di pensiero
e di ideologia. Dietro questa esigenza classicistica – che non era del
resto priva di buone ragioni se si pensi a certi sviluppi assurdamente
involutivi della letteratura italiana nel primo quindicennio del secolo – si nascondeva però una concezione della letteratura e del letterato pericolosamente schiva e tradizionalista.
161
ottoBRe
un tempo, era d’estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
inclino adesso all’autunno
dal colore che inebria,
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest’aria che odora
di mosto e di vino,
di questo vecchio sole ottobrino
che splende sulle vigne saccheggiate.
sole d’autunno inatteso,
che splendi come in un di là,
con tenera perdizione
e vagabonda felicità,
tu ci trovi fiaccati;
vòlti al peggio e la morte nell’anima.
ecco perché ci piaci,
vago sole superstite
che non sai dirci addio,
tornando ogni mattina
come un nuovo miracolo,
tanto più bello quanto più t’inoltri
e sei lì per spirare.
e di queste incredibili giornate
vai componendo la tua stagione
ch’è tutta una dolcissima agonia.
162
ottoBRe
Na vota, era d’està
era vecin’ ’e llengue ’e chellu ffuoco
ca se scetava chesta fantasia.
Mo me ne vaco verzo l’autunno
e me mbriaco dint’a sti culure,
voglio bene a ’sta vecchia staggiona
ca già ha vennegnato.
Niente cchiù m’arrassumiglia,
niente cchiù me cunzola,
’e chest’aria ch’addora ’e vino nuovo
’e chist’antico sole d’uttombre
ca luce ncopp’ ’e vvigne sacchïate.
sole d’autunno asciuto all’intrasatta,
ca luce quase comme
nun fusse ’e chistu munno,
stanche ce truove
cu na felicità ca nun se ferma,
cu ’a morte dint’a ll’anema.
Pe’ chesto tu ce piace,
sole liggiero
ca nun saie dirce addio,
turnanno ogni matina
comm’a nu miràculo nuovo,
tanto cchiù bello quanno
cchiù t’abbicin’ ’o tramonto.
e ’e sti jurnate chiene ’e maraviglia
inche ’a staggiona toia
ca è tutta na ducezza malinconica.
163
Giuseppe ungaretti - alessandria d’egitto 1888-Milano 1970
Poeta ermetico. Movendo dal simbolismo francese, la sua poesia
esprime inizialmente la pena derivante da una solitudine senza rimedio in versi di scabra e rarefatta liricità (il porto sepolto, 1916;
allegria di naufragi, 1919). Attraverso lo studio di Petrarca e Leopardi e le traduzioni da poeti stranieri, il linguaggio di Ungaretti si
fa quindi più disteso e meditativo (sentimento del tempo, 1933)
per ripiegarsi ulteriormente su motivi autobiografici ( il dolore,
1947; un grido e paesaggi, 1952) e approdare a una più pacata e
mitica poesia della memoria (la terra promessa, 1950; il taccuino
del vecchio, 1960).
164
la MaDRe
e il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al signore,
come una volta mi darai la mano.
in ginocchio, decisa
sarai una statua davanti all’eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: – Mio Dio, eccomi.
e solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai di avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
165
la MaDRe
Quanno l’urdemo pàlpito ’e stu core
farrà cadé chella muntagna d’ombra
pe’ me purtà nnanz’ ’o signore, mamma,
comm’a na vota me darraie ’a mano.
addenucchiata, sicura ’e tè,
na statua sarraie nnanz’a Dio,
proprio comm’io te vedevo allora
quann’ire ancora viva.
aizarraie tremmanno ’e bbraccia stanche,
comme quanno muriste
dicenno: – Dio, sto’ ccà –.
e sulo quanno me perdunarrà
’e me guardà te venarrà ’o gulio.
Ricurdarraie
d’avé aspettato tanto stu mumento,
e ll’uocchie tuoie luciarranno ’e gioia.
166
umberto Galeota - Napoli 1892-1975
Umberto Galeota – scriveva Vincenzo Perna su la «Palestra» (n.
2 - 1967) – è uno degli artisti napoletani che per tutta una vita è
stato (e lo è ancora validamente) sulla breccia, lavorando intensamente a cose di prosa o di poesia e a studi critici con una onestà e
una chiarezza rare. Un uomo che è stato sempre in prima linea e,
quando è capitato, ha pagato di persona, senza peraltro lasciarsi corrompere da vantaggiosi compromessi o dall’astio, ma rispondendo alle ingiurie con l’aiutare i giovani scrittori e poeti partenopei, i quali
tutti – prima o dopo – sono passati per la sua casa all’Arenella.
Quindi, a ragione, lo si può considerare il decano, se non il maestro
degli scrittori napoletani, io che ho avuto più di un’occasione di incontrarlo e di conversare con lui, posso dire che Galeota è fra gli uomini più interessanti della cultura napoletana: e non solo perché è
uno dei superstiti della grande stagione napoletana del primo Novecento, ma anche perché dimostra una straordinaria vitalità nel seguire e verificare le situazioni artistiche più recenti. E d’altronde,
chiunque lo ha ascoltato, non potrà non ricordare il suo pungente
humour di verace napoletano e di intelligente uomo di cultura; come non potrà non riconoscergli, chiunque lo abbia appena frequentato, una suprema bontà e comprensione verso i giovani, e apprezzare i suoi giudizi netti e caustici sul presente o il vivace ricordare
del passato.
Pubblicazioni: Il Poema della Terza Armata, 1928; Inno a
Napoli, 1932; La sete, 1933; Colloqui con mia madre, 1936; Preghiera per Giacomo Leopardi, 1937; I Canti della Vittoria, 1938;
Il Poema di Lerò, 1952; Poesia del Porto di Napoli, 1958; Poesia
dell’Italia Unita, 1961; La Processione del SS. Sacramento, 1964;
Poesie, 1966; L’Angelo del Silenzio, 1970.
167
ecco il vesuvio
ecco il vesuvio: ardente blocco bronzeo
che in sé cova la forza del tuo fuoco,
o terra Madre! e innalza sopra il verde
dei tuoi giardini garruli di nidi
e sul tuo mare carico di vele
il segno della sua vana minaccia.
ed or l’ammanta nuvola cinerea
ed ora l’alba gli tesse il suo velo
di rose e d’oro
ed or l’irraggia sfolgorante il sole.
Ma bello è più quando a corona stanno
sul suo respiro gli astri immacolati,
e profumano i pini le sue balze
e tra le forre si lamenta il chiù.
se da lungi lo miro, in tutte l’ore,
Napoli, questo tuo custode ignito,
che pulsa negli ascosi
vortici azzurri delle fiamme arcane,
penso al vano girare dei millennii,
ed al cinereo ingombro, anch’esso vano,
delle, sue lave immobili di pietra,
mentre mi ride in cuore
la festa dei villaggi incoronati
di viti che ne cerchiano la balza,
e par che il segno delle sue rovine
dica alla Morte d’essere immortale
in tanta eccelsa volontà di vita.
168
ecco il vesuvio
’o î ccà ’o vesuvio: ’sta muntagna ’e brunzo
ca dinto tene tutt’ ’o ffuoco tuio,
terra napulitana! e aiza
’ncopp’ ’o vverde d’ ’e ciardine
càrreche ’e nide
e ’ncopp’ ’o mare arricamato ’e vele
tutta l’arraggia soia
ca maie te farrà male.
e mmo ’arravoglia ’a nuvola cchiù nera
e mmo ’accarezza l’alba cu nu velo
’e rose e d’oro
e mmo s’ ’o vasa ’o sole ’o cchiù lucente.
Però quant’è cchiù bello quanno ’e stelle
le fanno na curona attuorno ’o sciato,
quanno ll’albere ’e pigne
prufumano ’e ccampagne
e ’a miez’ ’e ffronne fa sentì ’o lamiento
nu paparascianne.
Napule,
quann’io guardo ’a luntano
chistu gigante ardente
ca palpita int’a cciento lengue ’e fuoco
penzo tutte ’e mistere
d’ ’e sècule, d’ ’a vita, pe’ ttramente
dint’a stu core
me ride ’a festa d’ ’e paisielle attuorno
e pare ch’ogni cosa è vera, è viva
e allucca ’nifacci’ ’a morte: io maie nun moro.
169
salvatore Quasimodo - Modica (Ragusa) 1901-Napoli 1968
La sua prima produzione, nel quadro dell’ermetismo, fu caratterizzata dalla sensuale evocazione d’una Sicilia mitica e primordiale, sfondo di una esistenza già vissuta come stato perfetto e ricuperata
nella memoria (acque e terre, 1930; oboe sommesso, 1932; erato e apollion, 1936; Poesie, 1938; ed è subito sera, 1942). Dagli
anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza, la poesia di
Quasimodo ha subito una lenta ma costante evoluzione verso una
ricerca di valori storico-sociali come risposta alle angosce e alle speranze del tempo (Giorno dopo giorno, 1947; la vita non è sogno,
1949; il falso e vero verde, 1953). A tale poesia dell’«ingegno» è
subentrata nella produzione più recente (la terra impareggiabile,
1958; Dare e avere, 1966) una nuova ricerca d’interiorità come
reazione alle delusioni della storia. Quasimodo ha svolto un’opera
notevole di traduttore di poeti greci (lirici greci, 1940) e latini e
dall’inglese (Shakespeare). Nel 1959 Quasimodo fu Premo Nobel.
170
alle fRoNDe Dei salici
e come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
alle fronde dei sàlici, per vóto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
171
alle fRoNDe Dei salici
e comme nuie putevemo cantà
cu ’o père d’ ’o straniero ncopp’ ’o core,
fra ’e muorte abbandunate ’n miez’ ’e strade
’ncopp’a ll’èvera ’e gelo, c’ ’o lamiento
nnucente d’ ’e nennille, c’ ’o turmiento
d’ ’a mamma ca curreva verz’ ’o figlio
’nchiuvato ’n croce a ’o palo d’ ’o telegrafo?
Ncopp’ ’e rame d’ ’e sàlice, pe’ llutto,
steveno appese pure ’e vvoce noste,
’o viento, triste, chiano ’e cunnuliava.
172
sandro Penna - Perugia 1906-Roma 1976
Poeta. Dopo aver trascorso la giovinezza a Milano, si trasferì a
Roma. Estraneo alle correnti e ai circoli letterari e libero da qualsiasi
vincolo professionale. La sua poesia è stata avvicinata da alcuni critici ai frammenti degli antichi lirici greci. Penna è riuscito a ricreare
con i suoi versi una delle condizioni fondamentali della «classicità»:
l’assoluta, infallibile naturalezza del ritmo e dell’immagine. Ma dietro tanta perfezione e trasparenza non è difficile indovinare una
parte, dolorosa e insondabile, di mistero, il racconto di un’esperienza
umana segnata da una struggente vocazione alll’estraneità e tuttavia
resa luminosa da una quasi mistica capacità di letizia.
Nel 1957 ha vinto il premio Viareggio.
Il suo primo libro di versi è del 1939. La raccolta completa di
tutte le poesie è stata pubblicata da Garzanti nel 1970, mentre le
sue prose sono uscite, sempre presso Garzanti, nel 1973 con il titolo
un po’ di febbre.
173
RiDe su Me la PRiMaveRa. toRNaNo
Ride su me la primavera. tornano
le rondini, si sa. volano via
via le parole degli amici stolti.
Ritornano, per me, ora le antiche
parole dell’amore. in te, fanciullo,
splendono. Giuocano nei tuoi passi
incerti. Ma certa in me cammina
solitaria e tranquilla la felicità.
174
RiDe su Me la PRiMaveRa. toRNaNo
spanne surrise attuorno ’a primmavera.
’e rrundinelle tornano, se sape.
a ppoco a’ vota volano luntano
tutte ’e pparole d’ ’e cumpagne nzìpete.
e tornano pe’ mme ’e pparole antiche
d’ammore. Dint’a ll’uocchie tuoie, guaglione,
lùceno. Dint’ ’e passe tuoie mbriache
pazzeano. Ma sicura
cammina nzieme a mme ’a felicità
sulagna e cujeta.
175
cesare Pavese - santo stefano Belbo (cuneo) 1908-torino
1950
Narratore, saggista, poeta.
Nel 1936 pubblicò lavorare stanca, in cui, in polemica con
l’ermetismo, tentò di realizzare una forma nuova di poesia-racconto.
Nel 1935 fu arrestato per antifascismo, e l’esperienza di un anno di
confino si rispecchiò nel racconto il carcere. Nel primo romanzo.
Paesi tuoi (1941), per la prima volta Pavese presentò, sia pure in
termini ancora grezzi, la trasposizione a un paesaggio italiano della
tecnica narrativa americana, che egli contribuì, anche con la sua
opera di traduttore, a far meglio conoscere in Italia. Durante la
guerra Pavese scrisse il racconto, fra i migliori, la casa in collina, in
cui trovò voce un momento di crisi e di solitudine, superato alla fine
del conflitto mondiale, quando una rinnovata spinta sociale lo portò
a iscriversi al partito comunista, a collaborare a vari giornali, a scrivere saggi. Nel 1946 pubblicò feria d’agosto; nel 1947 il compagno e i Dialoghi con leucò, rielaborazione problematica di miti
classici; nel 1949 la bella estate. L’ultimo romanzo. la luna e i
falò (1950), imperniato sul dissidio tra l’amara esperienza cittadina
e la nostalgia struggente della campagna, è considerato il suo capolavoro; ad esso seguì, postuma, la raccolta di racconti Notte di festa
(1953). Morì suicida. Nella raccolta di liriche verrà la morte e
avrà i tuoi occhi, nel diario il mestiere di vivere e nelle lettere
1945-1950 (1966) restano i segni evidenti della sua fermentata vicenda di uomo e di scrittore: una delle figure chiave della letteratura
italiana del dopoguerra.
176
tu sei coMe uNa teRRa
tu sei come una terra
che nessuno ha mai detto.
tu non attendi nulla
se non la parola
che sgorgherà dal fondo
come un frutto tra i rami.
c’è un vento che ti giunge.
cose secche e rimorte
t’ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
tu tremi nell’estate.
177
tu sei coMe uNa teRRa
tu si’ comm’a na terra
ca maie
nisciuno ha annummenato.
tu nun aspiette niente
’a for’ ’e sentimente
ca schiupparranno ’a dint’ ’o ffuto ’e ll’ànema
comm’a nu frutto ’n miez’ ’e ffronne ’e ll’albere.
ce sta nu viento lieggio ca le parla.
Penziere senza vita
te scócciano e camminano int’ ’o viento.
carne e penziere stanche.
tu triemme int’a ll’està.
178
alfonso Gatto - salerno 1909-capalbio (orbetello) 1976
Nato da una famiglia di marinai e armatori, si iscrisse all’università nel 1926, ma non portò a termine gli studi. Fece diversi mestieri, indirizzandosi poi decisamente verso il giornalismo. Fu collaboratore dell’«Ambrosiano», poi, dopo la Resistenza cui partecipò attivamente, direttore di «Settimana», condirettore di «Milano-sera»,
inviato speciale dell’«Unità». Un’esperienza per lui molto importante fu quella di «Campo di Marte», il periodico letterario e culturale
fiorentino, che egli diresse fra il 1938 e il 1939 insieme con V. Pratolini. I suoi interessi particolari convergevano sulla poesia. Formatosi in un ambiente decisamente ermetico, Gatto ha portato fin dall’inizio della sua opera un atteggiamento d’inquietudine e di ricerca,
che è forse il segno più evidente della sua personalità. Il proposito di
aderire in forme immediate e drammatiche ai problemi umani della
realtà contemporanea è sempre presente in lui, e raggiunge il suo culmine proprio nei versi dedicati ai dolori e ai drammi della Resistenza nella raccolta la storia delle vittime, per cui ottenne il Premio
Viareggio 1966.
Ha pubblicato: Isola, 1932; Morto ai paesi, 1937; Poesie,
2939; La sposa bambina, 1943; Il duello, 1944; Amore della vita,
1944; La spiaggia dei poveri, 1944; Il sigaro di fuoco, 1945; Il capo
sulla neve, 1949; La coda di paglia, 1949; Nuove Poesie, 1950; La
forza degli occhi, 1954; La madre e la morte, 1959; Poesie 192941, 1961; Osteria flegrea, 1962; Il vaporetto, 1963; Rime di viaggio per la terra dipinta, 1969; Poesie d’amore, 1973.
179
il PuPo
sul declivio del prato una fanciulla
soffia sui pappi d’aria e del suo gioco
triste è delusa come di un contento
svanito in nulla.
tutto il cielo è in cammino, fila un vento
silenzioso di nuvole, un trasloco
di spazi sembra, dalla luce a un cupo
smeraldo di maremma.
tu rimani così al tuo dilemma
«m’ama-non m’ama-m’ama», col bottone
che gira tra le dita:
gli occhi fissi sul giallo di quel pupo
improvvisato reciti la vita,
di spalle come a dartene ragione.
180
il PuPo
Ncopp’ ’o vverde d’ ’o pprato na figliola
sfronna c’ ’o sciato ’e sciure e ’e chistu iuoco
triste è scuntenta comme ’e n’allerezza
ca s’è perduta.
cammina ’o cielo tuttuquanto, scioscia
nu viento muto ’e nuvole, me pare
nu quatto ’e maggio, da ’o chiarore ’nfi’
a nu scurore futo.
Rieste accussì spianno
«me penza-nun me penza», e avuote ’o sciore
sfrunnato ’n miez’ ’e ddeta:
tenenno mente chillu pupo nato
all’intrasatta tu cumbine ’a recita,
annascunnuta quase pe’ te da’
’e chesta vita toia na raggiona.
181
vittorio Bodini - Bari 1914-Roma 1970
Le sue prime poesie sono state pubblicate dalla rivista «Letteratura». Ha cambiato paesi e mestieri. Dal 1946 al 1950 ha fatto
prima il lettore poi l’antiquario a Madrid ed è stato poi insegnante
di letteratura spagnola all’Università di Bari fino alla morte.
Del 1952 è il suo primo libretto, la luna dei Borboni. Dal
1954 al 1956 ha diretto «L’Esperienza poetica», rivista che fece il
punto sulla situazione della poesia e della critica del dopoguerra.
Nel 1956, con Dopo la luna, ha vinto il premio Carducci.
Vittorio Bodini è stato uno dei più apprezzati interpreti della
letteratura ispanica nel nostro paese: ha tradotto, tra l’altro, il teatro
di Garcia Lorca, il Don chisciotte, i poeti surrealisti spagnoli, le
poesie di Pedro Salinas e quelle di Rafael Alberti.
Poesie (1972) edito da Mondadori nella collezione lo specchio può essere considerato la summa del lavoro poetico di Vittorio
Bodini, e racchiude un’opera che va dal 1959 al 1970.
182
coNosco aPPeNa le MaNi
conosco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
i volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
ah, dove son le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell’avventura?
183
coNosco aPPeNa le MaNi
canosco a stiento ’e mmane,
’e scarpe ca me metto a ’e piere.
canosco ’o iuorno e ’a notte
e ’o schianto d’ ’o viento.
Ma ll’anne? addò stanno ll’anne,
e ttutte ’e libbre ch’aggio liggiuto?
’e ffacce ch’aggio vuluto bene se sfrónnano
’e tutto ’o ppassato lloro,
rummàneno sulo ’e nomme.
tutto dint’ ’e ricorde
se sfrantumma, sprufonna
senz’ammuina
dint’ ’e ffosse d’ ’e muorte.
ahimmé, addò stanno tutte ’e ccose vive
d’ ’o ppassato, tutto ’o calore suio,
’a speranza addò se cunnuliavano
’e sentimente mieie?
addò s’annasconne ’a raggione
d’ ’e ccose
ca i’ aggio campato,
e ’e pàlpite smaniuse
e ’e ccarezze d’ ’e suonne?
184
Pier Paolo Pasolini - Bologna 1922-Roma 1976
Nella sua intensa vita intelletuale, Pasolini si è sperimentato in
diverse direzioni: la letteratura, gli studi critici e filologici, la regia
cinematografica, il giornalismo, l’analisi sociologica, conservando
sempre una grande coerenza di impegno sociale e civile. Nelle sue
opere si riconoscono spesso due luoghi: Casarsa, in Friuli, la terra di
sua madre e della sua infanzia e adolescenza, e Roma, la città adottata per il lavoro. Al primo, sono legati i ricordi contadini e le poesie
in friulano, e le ricerche che lo hanno portato a scoprire in quel dialetto dignità di lingua; al secondo, il periodo più intenso delle sue
esperienze di poeta, di saggista, di regista, di sociologo. È da questo
momento che egli rivolge il suo interesse al sottoproletariato urbano
nei confronti del quale egli si è posto in modo contraddittorio in un
rapporto di amore-odio, ora esaltandone la spontaneità espressiva e
la vitalità, ora finendo col denunciarne il conformismo consumistico
che lo ha reso ottuso e brutale. Nell’ambito di questa sfera di interessi, in sintonia con le sue scelte politiche, si può collocare anche la vasta ed acuta opera di ricerca svolta sulla poesia popolare. Nelle opere
poetiche come in quelle cinematografiche, Pasolini ha dimostrato un
rigore di impegno critico che si accompagna ad un singolare talento
creativo e ad una complessa problematica.
185
il ceNtRo Del MoNDo
Povero come un gatto del colosseo,
vivevo in una borgata tutta calce
e polverone, lontano dalla città
e dalla campagna stretto ogni giorno
in un autobus rantolante:
e ogni andata, ogni ritorno,
era un calvario di sudore e di ansie.
lunghe camminate in una calda caligine,
lunghi crepuscoli davanti alle carte
ammucchiate sul tavolo, tra strade di fango,
muriccioli, casette bagnate di calce
e senza infissi, con tende per porte …
Passavano l’olivaio, lo straccivendolo,
venendo da qualche altra borgata,
con l’impolverata merce che pareva
frutto di furto, e una faccia crudele
di giovani invecchiati tra i vizi
di chi ha una madre dura e affamata …
un’anima in me, che non era solo mia,
una piccola anima in quel mondo sconfinato,
cresceva, nutrita dall’allegria
di chi amava, anche se non riamato.
e tutto si illuminava, a questo amore
forse ancora di ragazzo, eroicamente,
186
e però maturato dall’esperienza
che nasceva ai piedi della storia.
ero al centro del mondo, in quel mondo
di borgate tristi, beduine,
di gialle praterie sfregate
da un vento sempre senza pace,
venisse dal caldo mare di fiumicino,
o dall’agro, dove si perdeva
la città fra i tuguri; in quel mondo
che poteva soltanto dominare,
quadrato spettro giallognolo
nella giallognola foschia,
bucato da mille file uguali
di finestre sbarrate, il Penitenziario
tra vecchi campi – sopiti casali.
le cartacce e la polvere che cieco
il venticello trascinava qua e là,
le povere voci senza eco
di donnette venute dai monti
sabini, dall’adriatico, e qua
accampate, ormai con torme
di deperiti e duri ragazzini,
stridenti nelle canottiere a pezzi,
nei grigi, bruciati calzoncini,
i soli africani, le piogge agitate
che rendevano torrenti di fango
le strade, gli autobus ai capolinea
187
affondati nel loro angolo
tra un’ultima striscia d’erba bianca
e qualche acido, ardente immondezzaio …
era il centro del mondo, com’era
al centro della storia il mio amore
per esso: e in questa
maturità che per essere nascente
era ancora amore, tutto era
per divenire chiaro – era,
chiaro! Quel borgo nudo al vento,
non romano, non meridionale,
non operaio, era la vita
nella sua luce più attuale:
vita, e luce della vita, piena
nel caos non ancora proletario …
188
il ceNtRo Del MoNDo
Povero comm’a nu muscillo abbandunato
campavo dint’a na barracca sfravecata
luntano d’ ’a città
e d’ ’a campagna, stritto ogni ghiuorno
dint’a n’autobbusse scancariato:
e ogni ghiuta, ogni benuta,
era nu turmiento ’e surore, n’apprietto ’e core.
cammenate longhe scamazzato d’ ’o calore,
iurnate sane nnanz’ ’e ccarte
ammuntunate ncopp’a na tàvula
’n miez’ ’e strate ’e lota, casarelle ’nfose ’e càuce
e senza porte, cu na tenna pe’ porta …
Passava ’o verdummaro, ’o sapunaro,
venenno ’a ati barracche, cu ’a mercanzia
tutta chiena ’e pòvere ca pareva
rrobba arrubbata, e na faccia ncarugnuta
d’ ’e guagliune viecchie p’ ’e vizie
’e chi tene na mamma senza maniere e morta ’e famme …
N’anema dint’a mme, ca nun era sulo ’a mia,
n’anema piccerella dint’a cchillu munno senza fine,
crisceva mangianno l’allerezza ’e chi vuleva bene
pure si nun era vuluto bene.
e tutto luceva nnanz’a st’ammore
forse ancora ’e guaglione, chino ’e curaggio,
189
e tutto s’ammaturava p’ ’a canuscenza
ca nasceva a ’e piede d’ ’a storia.
io stevo ’n miez’ ’o munno, chillu munno
’e barracche triste, senza speranze,
’e campagne fatte ’e streppune e sfruculiate
’a nu viento sempe senza pace,
’a quala parte veneva, o da ’o mare
o da ’a terra addò se perdeva
’a città fra ’e ccasùppule; ’n miez’a cchillu munno
ca puteva sultanto cummannà,
fantasma sculurito
int’a na neglia ’ngialluta,
spertusato ’a mille felere eguale
’e feneste spaparanzate, ’o carcere
fra campagne spugliate – casarelle addurmute.
’e ccarte vecchie e ’a pòvere ca ’o viento
cecato strascenava ’a ccà e ’a llà,
’e vvoce abbrucate e senza risposta
d’ ’e ffemmene venute da ’e cculline attuorno,
accampate ccà oramaie
cu na carretta ’e figlie
malaticce e mmalandrine
ch’alluccaveno int’ ’e ccammeselle stracciate,
dint’ ’e cazuncielle spuorche, abbruciate,
’o sole ca stupetiava, ’o cchiovere a llavarone
ca criava sciumme ’e lota
p’ ’e strade, ll’autobbusse a ’o stazziunamento
190
affunnate
fra n’urdema striscia d’èvera ianca
e mmuntagne ’e munnezza ’nfracetata …
era ’o centro d’ ’o munno, comme steva
a ’o centro d’ ’a storia l’ammore mio
pe’ stu munno: e int’a cchesta
’sperienza piccerenella
ma chiena d’ammore, tutto steva
p’addeventà chiaro – era,
chiaro! chelli barracche annure ’n miez’ ’o viento,
ca nun erano né ’e Roma, né ’e Napule,
né ’e lavurante, erano ’a vita
dint’ ’a luce soia cchiù overa d’ogge:
vita e luce d’ ’a vita, chiena
int’ ’ammuina
ca nun era ancora pezzentella.
191
Riccarbo Bacchelli - Bologna 1891-Monza 1985
Studiò a Bologna dove frequentò, senza terminare gli studi, i
corsi di lettere dell’Università. Iniziò giovanissimo la sua attività di
scrittore; collaborò per qualche tempo a «La Voce» e, dopo la Prima
guerra mondiale, nella quale combattè come volontario, partecipò
alla fondazione de «La Ronda» di cui fu uno dei più attivi ed eminenti collaboratori. Poeta di genuina vocazione; narratore di vena
inesausta e di doviziosa fantasia, ha scritto novelle e romanzi tra i
più felici e tradotti del nostro tempo, in molti dei quali si mostrano
i suoi interessi e i suoi impegni storici e sociali; scrittore di teatro di
autentica disposizione drammatica; biografo musicale di squisita
sensibilità; giornalista sostanzioso e nutrito; storico e critico tra i più
acuti e addottrinati; autore di saggi di penetrante ingegno e di finissimo gusto su molti scrittori italiani e stranieri; traduttore egregio di
autori stranieri e illuminato commentatore di classici italiani; fu
chiamato a far parte dell’Accademia d’Italia, ma si dimise nel gennaio ’44; oltreché membro onorario di vari corpi accademici, socio
dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia della Crusca e dell’Istituto
Lombardo di Scienze e Lettere, e doctor honoris causa in lettere e
filosofia delle Università di Bologna e di Milano.
192
letteRa
ti scrivo questa lettera per dirti
che quando incontrai te in questo mondo
nuovo d’antiche cose da quel giorno,
da tempo già credevo che l’amore
fosse inganno da fare o da patire.
amore
che rechi tu negli occhi, vincitrice
del triste tempo e della accidia astiosa,
sol che mi guardi tu, che mi rischiari
il tuo sorriso serio e la sua luce
d’affetto ed il suo lume d’intelletto.
ti scrivo questa lettera per dirti,
sol che mi guardi, e tu restituisci
vigor d’amare all’animo;
e morremo! se tu amorosamente
mi guardi,
l’istante compie il tempo e vi si colma
l’amore.
ti scrivo questa lettera per dirti
che nel tempo di prima il malcontento
era di non conoscerti; la noia,
di non saperti al mondo, ignota ancora
e già da sempre attesa; ravvisata
in un lampo di memore speranza.
Promesse,
speranze che tu dai, tu le coroni
di giorno in giorno, come con la sera
di notte in notte tornano le stelle.
193
credevo
che amore e che poesia non fosser d’altro
naturate che d’un inesauribile,
perché inesaudibil, desiderio,
d’un fatale soffrire d’impossibile;
ma scrivo questa lettera per dirti
che tu m’hai persuaso ad una gioia
più forte della pena, più intensa
del desiderio, e più forte e più vera
della disperazione più convinta.
ti scrivo questa lettera per dirti,
quel che morto credei riebbe vita
da te,
quel che falso, riebbe verità
da te:
per te all’amor rinacque e alla poesia
quel per cui ti ringrazia questa lettera.
194
letteRa
’sta lettera te scrivo pe’ te di’
ca quanno te ncuntraie ncopp’a stu munno
’e cose antiche – nuovo ’a chillu iuorno –
’a tiempo io me credevo ca l’ammore
era na nfamità ’a fa’ o patì.
ammore
ca dint’a ll’uocchie puorte tu, me leva
’a pucundria ca me destina ’o tiempo;
abbasta ca me guarde e ’a primmavera
me porta ’o pizzo a rriso tuio nnucente
e tennerezza e pace a sti penziere.
’sta lettera te scrivo pe’ te di’
ca ll’uocchie tuoie rialano
cchiù forza ’e vulé bene:
îmma murì! Ma si tu appassiunata
me tiene mente
l’ammore vence ’o tiempo e vence ’a morte.
’sta lettera te scrivo pe’ te di’
ca stevo malinconico pecché
io nun te canuscevo; sfastediuso
’e nun te sape’ ancora
ncopp’a ’sta terra,
ancora scanusciuta
però aspettata ’a sempe; suspirata
int’a nu suonno, n’attimo ’e speranza.
Prumesse,
speranze ca tu daie, ca ’e mmantiene
iuorno pe’ ghiuorno, tale e quale comme
notte pe’ nnotte ’e stelle ’n cielo tornano.
195
io me credevo
ca ’ammore e ’a poesia
ato nun erano
ca suonne ’e fantasia, desiderio
’e nu destino nato pe’ suffrì
e senza cchiù speranza ’e se salvà;
ma chesta lettera
te scrivo pe’ te dì
ca tu m’hê fatto nascere na gioia
cchiù forte ’e tutte ’e ppene, cchiù putente
e assaie cchiù viva e vera
d’ ’a disperazione cchiù afflettiva.
’sta lettera te scrivo pe’ te di’
ca tutto chello ch’era muorto, vita
ha avuto ’a te,
ca ’e ccose fàuze tu l’hê fatte overe:
all’ammore e a’ poesia
pe’ tte
io so’ turnato a nnascere
pe’ chesto te ringrazio cu ’sta lettera.
196
eugenio Montale - Genova 1896-Milano 1981
Dopo aver studiato lettere a Genova, fu ufficiale nella Prima
guerra mondiale. Nel primo dopoguerra si dedicò allo studio del
canto lirico; nel 1922 fondò la rivista «Primo tempo». La sua prima
raccolta di poesie, ossi di seppia, venne pubblicata nel 1925. Nelle
liriche degli ossi è già presente il nucleo caratteristico della poesia
montaliana: un senso di stanchezza e di solitudine, una sfiducia angosciata nella vita, la coscienza che dietro le apparenze si nasconde
il vuoto, affetti connessi, però, a una pietà acuta per gli altri. Tali
temi e atteggiamenti, in stretto legame con la tradizione poetica del
Novecento italiano, da Pascoli ai crepuscolari, esercitarono subito un
notevole fascino per la caratteristica antiletterarietà del discorso del
Montale, che rifiuta programmaticamente ogni forma di eloquenza,
e per la ricerca di una essenzialità scabra e nuda, che i fatti modesti
della vita quotidiana tramuta in simboli emblematici del «male di
vivere». L’opera poetica di Eugenio Montale, per la sua evoluzione
in armonia con il corso della storia fra la Prima guerra mondiale e
il secondo dopoguerra; per i suoi legami scoperti o sotterranei con
tutta la cultura decadente europea; per l’originalità delle sue soluzioni poetiche; per la dignità che la caratterizza, appare pertanto la voce più alta di quella parte della letteratura italiana che, nella coscienza della crisi del nostro tempo, si è sforzata di dire, con dignitoso pudore, la propria protesta.
197
MaestRale
s’è rifatta la calma
nell’aria: tra gli scogli parlotta la maretta.
sulla costa quietata, nei broli, qualche palma
a pena svetta.
una carezza disfiora
la linea del mare e la scompiglia
un attimo, soffio lieve che s’infrange e ancora
il cammino ripiglia.
lameggia nella chiarìa
la vasta distesa, s’increspa, indi si spiana beata
e specchia nel suo cuore vasto codesta povera mia
vita turbata.
o mio tronco che additi,
in questa ebrietudine tarda,
ogni rinato aspetto co’ tuoi raccolti diti
protesi in alto, guarda:
sotto l’azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: ché su tutte le cose pare sia scritto:
«più in là».
198
MaestRale
e’ turnata int’a ll’aria
’a cujete: ’n miez’ ’e scoglie ’o mare chiacchiareia.
Ncopp’a ll’arena calma, int’ ’e ciardine
quacch’albero
se move appena.
chiano na rèfola ’e viento
s’accarezza pe’ n’àttemo ’o mare,
sciuscio lieggio
ca se perde int’a ll’acqua e ancora
’a smove.
Pare na lama ’acciaro
’o mare senza fine,
se ’ncrespa, po’ se schiana biato
e specchia dint’ ’o core suio
chesta povera turmentata
vita mia.
albero, tu ca stienne,
int’a st’àttemo ’e pace,
’e rame chine ’e fronne, chine ’e vita
verz’ ’o sole, guarda:
sotto all’azzurro càrreco d’ ’o cielo
quacche auciello ’e mare se ne va;
né se ferma maie: pecché
’ncopp’a ttutte ’e ccose
pare ca vede scritto:
«cchiù ’nnanze».
199
Giuseppe Porcaro - Bayonne (usa) 1911- (?).
Scrittore, storico, saggista, poeta. Laureato in Giurisprudenza.
Socio della Società Napoletana di Storia Patria. Socio dell’Accademia Pontaniana.
Ha pubblicato: La Marina Mercantile Napoletana dal XVI e
XIX secolo; Piedigrotta: leggenda-storia-folclore; Una pagina inedita
di storia napoletana; Napoli, il suo mare e il porto visti da viaggiatori illustri; Il vento nel roseto (poesie); Ricordi storici a Napoli dopo
la battaglia di Lepanto; Lo stendardo di Lepanto; Elogio di Mergellina; Francesco Caracciolo; Apocalisse su Napoli; Le Porte di Napoli; Taverne e Locande della vecchia Napoli; La Real Cappella della
Sommaria in Castelcapuano; Napoli Gran Teatro; Chiesa e Stato a
Napoli dopo l’Unità; Processo a un anarchico (Giovanni Passannante); La festa borbonica dell’Immacolata Concezione; Duelli famosi nella Napoli dell’Ottocento; Te voglio bene assale (storia di un
poeta e di una canzone); Gaeta con Formia, Sperlonga, Fondi e
Terracina dalle incursioni barbaresche a dopo la battaglia di Lepanto.
200
coMe uNa foGlia tReMaNte
la sera
è tra le braccia del silenzio.
insonne,
un passero pispiglia
tra le rame della quercia antica.
e’ insonne come me,
il passero.
sfinito,
stordito come me
dalla follia canicolare
del lungo giorno estivo,
che andare mi vide affannoso
per rupi scoscese
per aspri sentieri
per rive di mare
per strade nemiche
dietro un sogno
smarrito,
svanito.
sulla quercia antica,
stremata,
dove il sole ha dissolto
il suo ultimo oro,
s’è addormentato il passero
dopo un ultimo palpito d’ali.
come foglia tremante
l’anima mia s’inchina
alla Notte
che scende coi suoi brividi
a catturare il mondo.
201
coMe uNa foGlia tReMaNte
’a sera sta int’ ’e braccia d’ ’o silenzio.
Nu pàssero piuléa ’a miez’ ’e ffronne
d’ ’a cèrqua antica,
e sta scetato tale e quale a mme.
stracquato,
stunato comm’a mme
d’ ’a pazzaria d’ ’o càvero
’e ’sta iurnata longa d’ ’a staggiona,
ca me vedette cammenà abbascuso
pe’ derrupe sulagne,
pe’ buscaglie pruibbite,
ncopp’ ’arena d’ ’o mare,
’n miez’ ’e strate nemiche
ienno appriesso a nu suonno
perduto,
squagliato.
Ncopp’ ’a cèrqua antica,
stracquata,
addò ’o sole ha lassato gocce d’oro,
s’è addubbechiato
’o pàssero
doppo n’ùrdemo triemmolo ’e scelle.
tale e quale
a na fronna ca tremma
l’anema mia saluta
’a Notte ca s’affaccia
e cu ’e paure soje
s’arrobba ’o munno.
202
antonio Gallo - torre annunziata 1914-Napoli 1987
Chiamato alla vita religiosa, per «ansia di bellezzenuove », indossa il saio di san Francesco.
Negli anni di noviziato con studi severi si prepara ad interpretare il francescanesimo nel suo genuino pensiero: povertà, nascondimento, silenzio, preghiera, studio.
Nel 1937 gli viene conferita l’ordinazione sacerdotale che gli
apre la via ad un grande apostolato.
S’impegna in attività culturali e religiose. È alla direzione della
rivista «Luce Serafica», fonda la «Cattedra francescana» a Napoli Vomero.
Il vasto e profondo possesso di cultura umanistica, di letteratura
moderna, di storia agiografica gli permette di cimentarsi sempre
brillantemente su argomenti diversi, rivelandosi forte e ricercato prosatore, agile e fine poeta.
i numerosi scritti, tra i quali: L’Assunta, 1951; Il martire dell’obbedienza, 1957; Momenti (poesie), 1958; Francescanesimo ed
altri pretesti, 1959; La castità, 1960; Alla conquista di due corone,
1961; Io non credo (poesie); Luce sul mondo: l’immacolata; Epistolario della gioia; Donna sempre; Teresa Musco, attestano una non
comune versatilità di quest’umile francescano napoletano.
203
al cRocifisso
io ti farò compagno delle notti
che la tenebra appiatta
ed il silenzio fascia di mistero,
mio tormentato amore,
e nella veglia lunga e senza pace
a te,
che sei dentro di me più di me stesso,
dirò quel che tu sai
di me ch’io stesso ignoro
o non so dire o temo.
alle tue mani ruvide e chiodate
salderò queste mie
smaniose,
alla fronte tua spinosa
dove son rovi i grumi del peccato
appoggerò la mia febbricitante,
le labbra screpolate dall’arsura
sulle tue livide labbra
e nel costato aperto
travaserò quest’anima inquieta
sospirosa di te.
204
al cRocifisso
cumpagno tu sarraie d’ ’e nnuttate
ca ’o scurore annasconne e ca ’o silenzio
enchie ’e mistero.
ammore mio angariato,
e dint’ ’a veglia longa e senza pace
a te,
ca int’a stu core mio si’ cchiù ’e me stesso,
io diciarraggio chello ca tu saie
’e me ca io nun aggio maie capito
o nun ’o ssaccio di’ o me fa paura.
vicino ’e mmane toie chiene ’e rappe,
nchiuvate,
ce mettarraggio ’e mmie
smaniose,
ncopp’a ’sta fronte ’e spine
ce appuiarraggio ’a mia chiena ’e freva,
’e llabbra ntesetate ’a tant’arzura
ncopp’ ’e ttoie
e dint’ ’o pietto male straziato
devacarraggio st’anema scuieta
guliosa ’e te.
205
luigi compagnone - Napoli 1915-1998
Scrittore. Laureato in lettere. Giornalista professionista, da moltissimi anni nella redazione napoletana del «Giornale Radio».
Nella sua opera, ironia, grottesco, umana pietà si intrecciano
strettamente, in una deformazione della realta, che pur mira a coglierla, così stravolta, nel suo intimo senso.
Ha pubblicato: La festa, ed. sud, Napoli 1946; La vacanza
delle donne, longanesi, Milano 1954 (Premio Margotto); La chitarra del pìcaro, est, Napoli 1956; I santi dietro le porte, sciasela,
caltanissetta 1957; L’onorata morte, vallecchi, firenze 1960
(Premio Napoli); L’amara scienza, vallecchi, firenze 1965 (Premio chianciano); Commento alla vita di Pinocchio, Marotta, Napoli 1966; Capriccio con rovine, vallecchi, firenze 1968 (Premio
selezione campiello); Lunario del viaggiatore, sciasela, caltanissetta 1968; Le notti di Glasgow, vallecchi, firenze 1970; La vita
nova di Pinocchio, vallecchi, firenze 1971 (Premio villa s. Giovanni 1972); L’onorata morte (ristampa accresciuta), vallecchi,
firenze 1972; Città di mare con abitanti, Rusconi, Milano 1973
(Premio Napoli 1973); Epigrammi e nonsense, scheiwiller, Milano 1973; Ballata e morte di un Capitano del Popolo, Rusconi, Milano 1974 (Premio Basilicata 1974); I Pulcinella di Corrado Cagli, Marotta, Napoli 1974; Dentro la Stella, Rusconi, Milano
1977; L’allegria dell’orco, Rusconi, Milano 1979.
206
l’autuNNo
i
settembre mi porta le lumache
ottobre le castagne e il vino
novembre i morti e il fuoco della legna
e la faccia cristiana dei gufi.
ii
la prima pioggia
sulla chitarra mi danza
e sul petto. addio
addio lucenti foglie dal colore del vino, fra poco
mi balleranno sul ventre e nella barba
gli umidi elfi del bosco.
iii
s’incappucciano sotto le foglie
che la pioggia tintinna, i pavidi ragni.
ora il ladro di trecce si scalda
ai fuochi delle castagne.
iv
le belle trecce che rubavo a luglio
nella pietà degli occhi mi danzano.
stagione di lumache e di fuochi
come l’uva vendemmi la speranza.
v
il lungo suono d’un corno, ed ecco
i giorni come ulivi: fugge la rossa
volpe fra i cespugli e la tagliola
207
risplende e il vino sveglia
l’estate di san Martino.
Ma il mare è già un lamento
di chitarra
ai villaggo ove i pìcari portavano
vergini
come la primavera porta foglie.
ora queste rovine affollano
le pernici che volano lungamente al tramonto.
vi
la vigilia dei morti è un allegro
pensiero che dilaga da boschi a fontane
fino a un’alta collina dove sventola
superba la loro bandiera:
mi son messo il mantello della festa
all’acqua del mio fiume ho bagnato le mani
come un monaco mi sono incamminato …
208
l’autuNNo
i
settembre me porta ’e mmaruzze
uttombre ’e ccastagne e ’o vino
nuvembre ’e muorte e ’o ffuoco d’ ’o llignammo
e ’a faccia crestiana d’ ’e paparascianne.
ii
’a primm’acqua
ncopp’ ’a chitarra abballa
e ncopp’ ’o core. addio
addio fronne lucente pittate ’e vino, n’atu ppoco
e ’nzino e dint’ ’a barba m’abballarranno
’e diavulille d’ ’o vuosco.
iii
s’annasconneno sott’ ’e ffronne
ca l’acqua martella
’e pappamosche pauruse.
Mo ’o mariuolo d’ ’e ttrezze se scarfa
vicino ’o ffuoco d’ ’e ccastagne.
iv
’e ttrezze belle ch’arrubbavo a luglio
int’ ’a pietà ’e chist’uocchie mo m’abballano.
tiempo ’e maruzze e ’e fuoche
’a speranza venigne comm’a ll’uva.
v
’o suono luongo ’e nu cuorno, e ’e bbi’ ccà
’e iuorne comme aulive: fùje ’a vorpe
209
rossa pe’ mmiez’ ’e ccéppe e ’a tagliola
luce e ’o vino sceta
l’estate ’e san Martino.
Ma ’o mare è già nu lamiento
’e chitarra
p’ ’e paisielle addò ’e brigante purtavano
figliulelle
comme ’a primmavera porta fronne.
Mo pe’ sti mmure sgarrupate ’aucielle
se vanno a ammasunà.
vi
’a vigilia d’ ’e muorte
è nu penziero allero ca se stenne
da ’e vuosche a ’e ffuntane
fino a ’ncimma a ttutto a na cullina
addò pazzea c’ ’o viento
bella ’a bannera lloro:
me so’ mmiso ’o mantiello d’ ’a festa
dint’a l’acqua d’ ’o sciummo mio aggio nfuso ’e mmane
comme a nu monaco me so’ mmiso ’n cammino …
210
alberto Mario Moriconi - terni 1920-Napoli 2010
Penalista, professore di storia del teatro, collaboratore letterario
di quotidiani e riviste, titolare – anche sotto lo pseudonimo di Morik – di una rubrica settimanale sulla terza pagina de «Il Mattino».
Ha pubblicato le opere di poesia: Vortici rupi mammole,
1952; Trittico fraterno, 1955, ceschina; Anno Mille, 1958, Rebellato; Le torri mobili, 1963, Guanda; La ballata del guano,
1966, ediz. uomini e idee, Dibattito su amore, 1969, laterza; Un
carico di mercurio, 1975, laterza.
Ha vinto i premi di poesia: «Zancleo», «Ridotto», «Marvasi»,
«Firenze», «Tirreno», «Villaroel», «Calabria», «David», «Piacenza», un premio «Brandy» di giornalismo, e, fuori concorso, per il
complesso della sua opera di poeta, ha ricevuto i premi «Pisa», «Enna», «Terni», «Sybaris Magna Graecia» e, con Rafael Alberti, Betocchi, Fratini e Penna, il «San Valentino d’oro» per la poesia. È incluso in un gran numero di antologie e sue poesie sono state tradotte
in più lingue.
211
la RiNGHieRa e il MaRciaPieDe
(la meretrice)
«io non uscivo, non uscivo mai
sola.
e sono scivolata, appena…».
la nonna e la sua vecchia
bàlia.
e quando le morì
la nonna, uscì
per allattar la vecchia
bàlia.
Non trasferibile alla nipote
nubile la pensione avita,
«anita», così l’ava, «si chiude
una porta, si apre un portone. occhieggiano
il balcone, sei
carina, istruitina»
(affacciata fra la bàlia e l’ava).
la bara, dal portone, e la pensione
e anita;
che incespicava.
212
la RiNGHieRa e il MaRciaPieDe
(la meretrice)
«i’ nun ascevo, nu ascevo maie
sola.
e so’ sciuliata, appena…».
’a nonna
e ’a vecchia nutriccia soia.
e quanno le murette
’a nonna, ascette
p’allattà ’a vecchia
nutriccia.
’a penziona d’ ’a nonna
nun ’a po’ ave ’a nepota signurina.
«anita», diceva ’a nonna, «se nzerra
na porta, s’arape nu purtone.
’o vvi’
comme guardano ’o balcone,
si’ bellella,
pure nu pucurillo struita»
(affacciata ’n miez’ ’a nutriccia e ’a nonna).
’o tavuto, da ’o purtone, e ’a penziona
e anita;
ca nciampecava.
213
Domenico Rea - Napoli 1921-1994
Scrittore, saggista, novelliere, articolista, collaboratore fisso del
«Corriere della Sera».
Ha pubblicato: Spaccanapoli; Le formicole rosse; Ritratto di
maggio (considerato un classico e inserito da «la ligue française
de l’enseignement» in una collana in cui figurano opere di Kipling, twain, Maka-renko, ecc.); Gesù, fate luce! ; Quel che vide
Cummeo; Una vampata di rossore; Il rè e il lustrascarpe; I racconti;
L’altra faccia; Questi tredici; Pulcinella; La signora è una vagabonda; Diario napoletano; Il regno perduto; Fate bene alle anime del
Purgatorio; Nubi (poesie); Tentazione.
Ha vinto i premi: «Viareggio» 1951; «Salento» 1955; «Napoli»
1959; «Mestre-Settembrini» 1965; «Ceppo» 1976.
Le sue opere hanno avuto traduzioni in francese, inglese, americano, svedese, danese, russo, lettone, estone, polacco, bulgaro, ungherese, iugoslavo, argentino.
Sul suo lavoro gravita una imponente bibliografia critica: da
Flora a Cecchi, da Russo a De Robertis, da Bo a Pampaloni, a Baldacci, a Dallamano, a Bàrheri-Squarotti, a Barilli.
214
NuBe
o nube casalinga che mi porti
i messaggi dei prati di altri mondi,
fermati ai margini della mia riviera.
Dimmi di un universo senza guerra,
pien di triboli, sì, ma di una specie
forse più audace e di soccorso a noi,
girini intrappolati in uno speco
con poche mutazioni di rilievo.
Nube filante, lieve, con la prua
sulla rotta di oceani e di Misteri,
bagnami il viso di rugiada e manna,
cibo dell’anima, ostia saporita
e ridammi dei giorni il segno ardito.
215
NuBe
Nuvola ianca e cujeta ca me puorte
mmasciate d’ati tterre, d’ati munne,
férmate ncoppa a ’sta riviera mia
e pàrleme ’e nu munno senza guerra,
chino ’e turmiente, sì, però cu gente
forse cchiù ardita, ca ce desse aiuto,
a nnuie priggiuniere int’a na rótta
senza speranza quase d’ascì fore.
Nuvola chiara, lèggia, che cammine
strade d’ ’e Mare e strade d’ ’e Mistere,
nfùnneme ’a faccia ’e bàrzamo e rusata,
pane pe’ st’anema, ostia sapurita,
e rïaleme ancora ’na speranza.
216
lanfranco orsini - Napoli 1926-1981
Scrittore, saggista, poeta.
Ha pubblicato: Confessione agli specchi (racconti, 1956); Elegia sul monte Faito (poesie, 1958); L’eclisse (romanzo, 1962); Il
silenzio e la voce (poesie, 1965); Le anestesie (racconti, 1970); La
cantina di Auerbach (saggi, 1971); L’animale malato (epigrammi,
1974); In pubblico e in privato (poesie, 1977); Taccuino dell’anno
mille (prose, 1977).
Sue poesie sono accolte nella maggiore antologia francese della
poesia italiana contemporanea «Italie poétique contemporaine», di
G. Burckhardt (Paris, 1968).
Ha curato insieme ad Elena Croce per la collana «I Meridiani»
di Mondadori la nuova edizione (1977) delle opere di Salvatore Di
Giacomo.
Collabora alle più importanti riviste di letteratura, ai programmi culturali Rai e ad alcuni quotidiani di diffusione nazionale.
Per la sua opera di scrittore ha vinto diversi premi, tra i quali il
«Settembrini-Mestre» per le anestesie, precedentemente finalista al
«Campiello».
217
altRuisMo
Quando sarò tutto vuoto
anche del dolore,
senza idee nella testa senza voglie
in quello che chiamano cuore,
forse mi colmerà
per la prima volta l’amore
– gli altri dentro di me
diventati cuore.
218
altRuisMo
Quanno sarraggio tutto sbacantato
pure d’ ’o dulore,
senza penziere nuove dint’ ’a capa
senza desiderie
int’a chillo ca chiammano core,
forze me enchiarrà
p’ ’a primma vota l’ammore
– tuttuquanne ll’ate
’n piett’a mme
so’ addeventate core.
219
Rosario de crescenzo - Napoli 1927
Ha pubblicato tre raccolte di poesie, frutto di premi conseguiti: Rivoglio la speranza, ed. Presenza; Stagioni addormentate,
ed. Grafedit; Imperfetti per favole, ed. terza Pagina.
Hanno espresso giudizi critici sulla sua opera, tra gli altri, Piero
Bargellini, Carlo Bo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Margherita Guidacci, Mario Sansone, Eraldo Miscia, Mario Pomilio, Bruno Lucrezi, Antonio Caggiano, Emilio Milan, Giuseppe Porto.
220
c’eRa l’oRMa Del luPo
c’era l’orma del lupo
sulla neve.
Gli avanzi della pecora sgozzata
non erano lontani.
i pastori si armarono; la caccia
non aveva problemi.
Già altre volte
era accaduto che l’atroce fame
l’avesse spinto fino ai casolari
nelle tenebre, a notte.
la tormenta ovattava gli ululati
e i passi disperati erano sfida
alle stelle nascoste. Rosso il sangue
e caldo della preda;
la morte per la vita, senza scampo.
lo stanarono a monte; la sua corsa
fu vigore
fu rabbia
fu speranza
ma durò poco; cadde
ruzzolando per l’erta senza un grido
insieme all’eco asciutta degli spari.
lo portarono a valle; con le donne
lo videro i bambini, lo toccarono;
era bello disteso nella neve.
e un bimbo chiese:
perché l’avete ucciso?
221
c’eRa l’oRMa Del luPo
ce steva
’a pedata d’ ’o lupo ncopp’ ’a neve.
’a remmasuglia
d’ ’a pecura scannata
pe’ llà ttuorno.
s’armaieno ’e pecurare; ’a caccïata
nun deva apprenzïone. Già ati vvote
era succieso ca p’ ’a famme acuta
– int’ ’a nuttata –
era arrivato fino a nnanz’ ’e ccase.
’o viento forte cummigliava ’allucche;
erano ’e passe nu dichiaramento
a ’e stelle annascunnute. Russo ’o sango
e càvero d’ ’a pecura;
na morte pe ’na vita, senza scampo.
a ’e piede d’ ’a muntagna fuie ncucciato;
’a corza soia
fuie forza
fuie arraggia
fuie speranza
’e n’àttemo; cadette
ruciulianno senza nu lamiento
’nzieme a ll’eco
d’ ’e scuppettate.
’o purtaieno int’ ’o paese;
cu ’e ffemmene ’o vedettero ’e guagliune,
’o maniaieno;
comm’era bello stiso ncopp’ ’a neve.
Nu nennillo spiaie:
pecché l’avite acciso?
222
serafina Bissanti - Manfredonia 1928-Rapallo 2011
Scrittrice. Psicologa. Sociologa.
Interessata ai problemi napoletani osservati da diverse angolature (dal teatro, alla fabbrica, ai manicomi, al carcere) ha partecipato
a riviste e giornali con studi e ricerche di carattere vario.
Ha pubblicato: Ai contadini della mia terra; La ballata dello
schizofrenico; Il treno di provincia; Carcere e territorio.
223
il tReNo Di PRoviNcia
Hai mai incontrato
il dolore vestito a festa
tra la gente indifferente?
Hai mai udito
un uomo
gridare la sua solitudine
ridendo degli altri?
Hai mai raggiunto
lo sguardo nel vuoto
di chi
non conta più i giorni
più le ore
tanto gli sono uguali
tanta è l’uggia
della sua esistenza
aderita alla sua pelle
che gli fa schifo?
Hai mai sentito parlare
una prostituta ubriaca?
Hai mai raccolto
il commento
di un mendicante
alla tua persona?
ti ha mai colpito
uno sguardo allucinato
224
che cerca
invano
qualcuno
o il canto esasperato
di un bimbo minorato?
Hai mai inseguito
gli ossessivi
pensieri erotici
di un frate questuante?
ti ha mai rivolto
la parola
un trafficante di compromessi?
ti ha mai invaso
l’alito di una bettola
dalla bocca sbavata
di un vecchio?
Hai mai avvertito
la tua miseria
nell’ambito
dei tuoi limiti… no?
Hai perso il treno della provincia:
un contatto con l’umanità.
225
il tReNo Di PRoviNcia
l’hê visto maie
vestuto a ffesta ’o chianto ’n miez’ ’a gente
’ndifferente?
Hê maie sentuto
n’ommo alluccà tutta ’a paura soia
redenno ’e ll’ate?
Hê maie guardato
cu ll’uocchie tuoie dint’a ll’uocchie ’e chi
sperduto int’ ’o bacante
nun conta ne cchiù ore ne cchiù juorne
tant’é ’a malincunia d’ ’a vita soia
tant’é ’o sfastidio ca s’azzecca ’ncuollo
e le fa schifo?
Hê maie ’ntiso
na bagascia mbriaca chiacchiarià?
Hê maie penzato
chello ca nu pezzente penza ’e te?
t’ha ’ntenneruto maie
chi spierto va cercanno
quaccuno ca nun trova
o ’a voce strazzïata
’e nu nennillo scemo?
te si’ sunnato maie
malepenziere e spàseme
d’ ’o monaco cercante?
226
Hê chiacchiariato maie
c’ ’o vennetore d’ ’e ffauzarie?
t’ha maie ’nfuscato ’o sciato ’e na cantina
da ’a vocca nera e fràceta ’e nu viecchio?
Hê maie capito
quant’e piccereniello ’o munno tuio…
no?
Hê perzo l’unico
treno ca porta dint’ ’o core ’e ll’uommene.
227
ettore capuano - Napoli 1931
Presidente delle Edizioni Letteratura Internazionale (NapoliBucaresti-Yokohama); presiede il Gruppo Realtà Umana, il premio
internazionale di Poesia Napoli Ospite ed il premio Targa d’Oro
Mergellina.
Ha curato le antologie di letteratura: la maternità e la natività
nella poesia (poesia dal 2000 a.C. ad oggi), ed. Ombre e Luci
1965, ed. Breve 1971; ii tempo e la voce, ed. Napoli 1967; Panorama di poesia napoletana, ed. Breve 1968; «Targa d’oro Mergellina 1968», ed. Breve 1968; «Targa d’oro Mergellina 1969», ed.
Breve 1969; «letteratura a Napoli», Graus ed. 2007.
Ha pubblicato volumi di versi: E resta solo Viride, ed. verso
il sublime 1964; Poema d’amore, ed, leti. ini. 1970; I codia, ed.
leti. int. 1979.
Ha pubblicato racconti: Le mani, ed. verso il sublime 1966
e 1967, atheneu ed. Bucaresti 1969; Bacau ed. Bucuresti 1970.
Ha tradotto dal romeno: Mariana Costescu «Dopo l’esplosione», ed. lett. ini. 1969; dal latino: P. Virgilio Marono «Egloghe»,
ed. verso il sublime 1966 e 1967; dal greco: saffo «Liriche e
frammenti», 1966 e 1967.
Ha pubblicato saggi su Mario Stefanile, Michele Prisco, Alberto
Moravia, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Italo Maione,
Bruno Lucrezi, Gino Grassi, Alberto M. Moriconi, Francesco Galante, Vincenzo Gemito.
Ha fondato e dirige la rivista di cultura lettere ed arti «Breve»
dal 1967 (tredici annate) riportando ogni anno il premio come rivista di elevalo valore culturale.
Socio della società di Storia Patria Napoletana.
228
NoN Ho seReNitÀ
le parole del bene
le ho scritte soltanto sull’onda del mare;
ma dal mio cuore
esse sono scomparse.
volevo donare al mio cuore
la gioia di beni infiniti;
ma la mia carne ha vinto
per sempre la lotta.
Povero sciocco
tu che credevi di poter portare
in alto le colonne
appoggiate alla sabbia.
Povero cuore mio,
il forte vento ti ha spazzato via
ogni serenità.
229
NoN Ho seReNitÀ
’e pparole d’ ’o bene
io ll’aggio scritte sulo ’ncopp’a ll’onne,
ma ’a dint’ ’o core mio
se ne so’ asciute.
vulevo dà a stu core
gioie ’e rricchezze senza fine, eterne,
e m’ha vinciuto na carnalità,
trìbbule e ssufferenza.
ah, scemo, scemo
e che credive ’e fa’?
vulive purtà ’n cielo
’e cculonne appuiate ncopp’ ’arena?
Povero core mio,
’o viento apprettatore t’ha schiantato
tutta ’a serenità.
230
Pasquale Maffeo - capaccio (Paestum) 1933
Poeta, saggista e traduttore di rara duttilità, ha maturato, sia
pure in un arco di disparati interessi, una pienezza inventiva e stilistica non catalogabile, né a prima vista né dopo meditata lettura,
tra le correnti o le avanguardie della più recente letteratura.
Ha pubblicato:
«Poesia»: Acque chiare, intelisano, Milano 1955; Paese innocente, caM, Napoli 1960; Il sogno di Lincoln, silarus, salerno
1966; La melagana aperta, le Petit Moineau, Roma 1970; Uccello di passo, selenia, Roma 1974; il sonno sulla pietra, Russo, caserta 1977; Straniero alla finestra, città armoniosa, Reggio emilia, 1978.
«Prosa»: I poeti del Cilento, acc. salernitana, salerno 1964;
Dentro il meriggio, Di Mambro, latina 1975; Salvator Rosa
com’era, fiorentino, Napoli 1975; L’angelo bizantino, città armoniosa, Reggio emilia 1978.
«traduzioni»: Isabella, di J. Keats, ceschina, Milano 1963;
Iperione e altro, di J. Keats, Rizzoli, Milano 1968; Odi, di W.
collins, ceschina, Milano 1969; Visioni d’Italia, di c. Dickens,
ceschina Milano 1971; Cielo e inferno, di W. Blake, fiorentino,
Napoli 1977.
Rientra nel quadro della sua attività la collaborazione a quotidiani e riviste con interventi di critica d’arte e letteraria: «Corriere
di Napoli», L’«Osservatore Romano», «Vita».
Negli ultimi anni ha scritto cinque opere di teatro, di cui due
rappresentate: «Il giro della ruota» nel 1976 e «Laude del testimone» nel 1977.
231
oRfeo
Non chiedete al poeta
da quale salga
antica ombra
il fiore a illuminarsi.
il poeta cammina
vie profonde.
compagno, uomo di lotte
che ami la birra
e a proletarie porpore
un pugno alzi di rabbia
il primo maggio,
non sputare sul libro dei versi.
solo il poeta
ti darà giustizia.
Madre, donna che grida
sperdi a un’impietosa
solitudine di giorni
dove aspro si fa il gesto
e vanno i figli a notte,
porta nel grembo il libro dei versi.
solo il poeta
ti darà l’amore.
Giovani, fresco battere
di sogni violenti,
bocche schiuse
in tremori di corolle,
ogni petalo un bacio
232
nella rossa primavera,
non gettate il libro dei versi.
solo il poeta
vi darà l’aroma.
torna come dei fiumi
dentro l’eguale riva del tempo
la voce inviolata,
ancora è l’alba.
l’aquila ha cuore
per ceruli abissi.
233
oRfeo
Nun spiate a ’o pueta
’a qual’ombra antica
’o sciore saglie
a piglià luce.
’o pueta cammina
vie fute.
cumpagno, ommo ’e cumbattimento
ca t’abbuffe ’e birra
e ’o primmo ’e maggio
mane nzerrate ’e collera
aize nnanz’a bannere rosse,
nun sputà ncopp’ ’o libbro d’ ’e vierze.
sulo ’o pueta
te darrà giustizia,
e tu femmena e mmamma
ca manne allucche ’e dulore
a ghiurnate sulagne ’e pietà
addò spuntuto se fa ’o singo
e vanno ’e figlie int’a ll’oscurità,
l’hê a purtà dint’o core ’o libbro d’ ’e vierze.
sulo ’o pueta
te darrà l’ammore.
Giuvinuttielle, palpite nuove
’e suonne furiuse,
vocche ca s’arapeno
int’ ’o triemmolo d’ ’e sciure,
ogni sciore nu vaso
234
dint’ ’a primmavera,
nun ’o iettate ’o libbro d’ ’e vierze.
sulo ’o pueta
ve darrà ’o prufumo.
torna tale e quale a cchella d’ ’e sciumme
dint’ ’a strata d’ ’o tiempo
’a voce sincera,
è ancora l’alba.
l’aquila tene core
pe’ ciele azzurre senza fine.
235
aldo onorati - albano di Roma 1939
Laureato in lettere. Collabora ai quotidiani L’«Osservatore Romano», «Avvenire», «Il popolo» ecc. È redattore capo della rivista
pedagogica del CIAS-UNESCO «Amici della scuola», è vice direttore del mensile dello Snais «Punto interrogativo» e direttore della
rivista di attualità e cultura «Quadrifogli». Dirige una radio libera
(Albaradio) regionale nel Lazio e una (Voce Libera) nella Sicilia.
Scrive su diversi organi di stampa specializzati.
Tiene incontri culturali periodici in varie parti d’Italia (da ricordare le diverse conferenze in occasione del VII centenario della
nascita di Dante, e gli interventi anche in Francia, nella Akademie
Duncan, sulla letteratura contemporanea).
fra le varie opere, in versi: uomo + Uomo e arriveremo a Dio
(Marietti 1964); Le speranze illecite (con introduzione critica di
G. Bàrberi squarotti, ed. Marzano, Roma 1974); di narrativa:
Gli ultimi sono gli ultimi (armando, Roma 1966, ii ed. 1977);
Nel frammento la vita (armando, Roma, 1970, ii ed. 1977, ristampa per le scuole 1978); La sagra degli ominidi (s.a.i.R., Roma 1972, X migliaio 1978); Università undicesima bolgia (armando, 1973: oggetto di una tesi di laurea da parte del dott.
Giuseppe tosoni); Casualmente… (ed. albaradio, 1978); studi
critici: Spunti critici («Quaderni di filologia e critica», Roma
1971); Il crepuscolo del Novecento (ed. setiM, Modica, 1976);
La crisi culturale del Novecento, ecc.
Numerose volte premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la cultura, premio «San Francesco d’Assisi» per la poesia e
«Cimento d’Oro» per la letteratura ecc. È fondatore del Premio nazionale di Narrativa «Città di Scala». Dirige alcune collane di impegnate case editrici. Ha insegnato Stona della Letteratura Italiana
Moderna e Contemporanea.
236
toccata Di PRiMaveRa
cantate lungo i viali che domani le viole
fiancheggeranno.
all’alito mite del marzo il mandorlo
è divenuto bianco
insieme al mio cuore sepolto
nelle cantine.
Riluttante fanciulla,
non disprezzare i baci,
più teneri ora che il gregge
già cerca l’ombra,
ora che sulle tue guance
errompe il sangue dell’adolescenza.
Dalle viti rigonfie,
dai belati d’agnello,
sboccia l’aprile.
l’uomo nacque tra i pescheti fioriti
mentre il placido armento risuonava
nelle tumide valli.
tua sorella, o inibita, o crudele,
prima ancora dell’alba assaporò gli amplessi
di giovani
che dipanarono la rosa
anticipando l’abbraccio del sole…
Quei giovinastri assetati di baci,
come le api dai fiori più dolci hanno preso
il velluto dei suoi quindici anni…
237
Busserai alla mia porta, in autunno,
i denti guasti, il mento
peluginoso…
aprirò a tua sorella – resa umana
da un passato d’amore –
ma a te, muffa di desideri
repressi,
a te non aprirò. Da dietro ai vetri
ti indicherò la valle delle nebbie…
ma neppure quegli umidi fantasmi
accoglieranno il tuo grido pentito
dell’estremo autunno…
in autunno, fanciulla, piangerai
per aver indugiato in un aprile
creduto eterno.
238
toccata Di PRiMaveRa
cantate
p’ ’e strate ca dimane
se enchiarranno ’e viole.
all’aria doce ’e marzo
l’albero ’e ammennule
è addeventato ianco
nzieme a stu core mio annascunnuto
dint’ ’e ccantine.
figliola cuntignosa
nun m’ ’e nnegà sti vase,
cchiù tiennere e gentile
mo ca sti core già cercano l’ombra,
mo ch’ ’a faccella toia
se tegne ’e scuorno.
Da ’e vvigne chiene,
da ’e picce delicate
d’ ’e ppecurelle,
schioppa abbrile.
l’ommo nascette ’n miezo
a ll’albere fiurite
nfromme cujete
pascevano ’animale p’ ’e vvallate.
sòreta,
o paurosa, o malamente,
ancora primma ca nasceva l’alba
assapuraie carezze appassiunate
’e giuvinotte
ce se scialaieno
239
cu chella rosa
ancora primma ch’ ’a vasava ’o sole…
chilli scapricciate
arrapate ’e vase,
comme ’e vvèspere
s’hanno zucato
da ’e sciure chiù gentile ’a primmavera
d’ ’e quinnice anne suoie…
tuzzuliarraie a’ porta mia quanno
l’autunno venarrà,
’e diente fracete,
’a vàvera
appassuliata…
araparraggio a’ sora toia – fatta
carnale e femmena
’a na ventata ’e ammore –
ma a tte, perimma ’e desiderie accise,
io nun t’araparraggio. ’a reto ’e llastre
te mmustarraggio
’a vallata d’ ’a neglia…
ma llà nemmeno ll’ombre d’ ’o ppassato
vularranno sentì ’o lamiemo tuio
’e l’autunno cchiù futo…
figliola, int’all’autunno chiagnarraie
pe’ nun avé’
vuluto bene
dint’a n’abbrile
ca tu penzave eterno.
240
vincenzo landolfi - Napoli 1940
Ha vissuto varie esperienze e mestieri, non ha fatto parte di nessun clan letterario. Sin da ragazzo ha cominciato ad approfondire
gli studi sulla letteratura francese ed inglese, in special modo, interessandosi particolarmente di poesia.
Ha pubblicato saggi su artisti e letterati del nostro Novecento su
vari giornali, settimanali e riviste.
Contemporaneamente si volgeva alla pittura, riuscendo anche in
questo settore a farsi notare dai critici, e a diplomarsi maestro d’arte.
Suoi racconti e poesie, inoltre, sono stati pubblicati da importami
periodici.
Una nota biografica sull’autore è molto chiara nel suo romanzo
la forza dei sogni ove la disperata lotta per sopravvivere alla miseria, dà la misura di un’atmosfera d’angoscia di fronte ai problemi
creati dall’epoca attuale.
Pubblicazioni: Trilogia lirica, 1960; Il grido del gabbiano,
1962; La forza dei sogni, 1963; La terra arida, 1973; Insonnia
Mediterranea, 1975; Una corazza di ghiaccio, 1977.
241
PReseNtiMeNto
Quando tutti questi mandolini sul golfo taceranno,
la luna svanirà tra i sogni di una favola marinaresca.
sono solo, io e il mare…
e i miei pensieri turbolenti.
Nessuno vede quest’ombra che scivola nella notte.
tra poco lo stridio dei bianchi gabbiani
dirà del futuro: la vita sarà sempre inquieta.
e l’amore giungerà solo come una favola marinaresca.
242
PReseNtiMeNto
Quanno sti manduline, tuttuquante,
p’ ’o golfo nun se sentarranno cchiù
’a luna sarrà morta
nzieme ’e suonne ’e nu cunto ’e marenare.
sto’ sulo, io e ’o mare…
e sti penziere mieie
ca nun me danno abbiento.
Nisciuno vede st’ombra
ca sciulia int’ ’a nuttata.
N’atu ppoco
e doppo ’e strille d’ ’e guaguine ianche
diciarranno
qual è ’o destino:
sempe senza cuietutene
sarrà ’sta vita.
e ’ammore venarrà
sulo
tale e quale a nu cunto ’e marenare.
243
vittorio De asmundis - vietri sul Mare 1941
Vive da sempre a Napoli dove insegna. Collabora alla terza pagina de «Il Mattino», a «Critica Meridionale», a «Dove», e a numerose riviste letterarie.
Ha pubblicato: La morte è qui, Rebellato editore, Padova
1972; Resistenza sempre (poesie), edizione Premio la Madia
d’oro, l’aquila 1975; Al compagno di fabbrica (poesie), edizione
Premio carlo Goldoni, venezia, 1975; Poesie selvagge, edizione
forum Premio asprea, Milano, 1976; Lettera a Gesù (poesie),
edizione terza Pagina Premio Rotunda Maris, Matera, 1976.
244
letteRa a GesÙ, Da NaPoli
tu non sai la fatica
di stare come un palo, in piazza,
a braccio teso, a vendere
sigarette col filtro,
contrabbando, tre-pacchetti-pagatemille lire. forse
non ti sono simpatico,
(mai una volta
sei venuto a trovarmi)
È vero, non ti prego,
qualche volta ti ho odiato
(così grande e potente)
ma,
se è proprio come dicono
che hai sorrisi per tutti,
perché non mi sorridi?
io
ne ho bisogno.
Mi trovi sempre qui,
in piazza, come un palo,
a braccio teso, vendo
sigarette col filtro.
245
letteRa a GesÙ, Da NaPoli
tu nun saie ’a fatica
’e sta’ mpalato, ’n miez’ ’a strata,
c’ ’o vraccio stiso, a vénnere
sicarrette c’ ’o filtro,
cuntrabbanno, tre-pacchette-pavatemille-lire. forze
nun te vaco a genio,
(maie na vota
si’ venuto a mme truvà)
e’ overo, nun te dico urazione,
quacche vvota t’aggio iastemmato
(accussì gruosso e putente)
ma,
si è propio comme diceno
ch’aiute a tuttuquante,
pecché nun me riale nu surriso?
io n’aggio tanto abbesuogno.
Me truove sempe ccà,
’n miez’ ’a strata, mpalato,
c’ ’o vraccio stiso, a vénnere
siccarette c’ ’o filtro.
246
stefania Buccini - Napoli 1959
È una delle voci più interessanti della nuova poesia italiana. È
stata premiata in vari importanti concorsi nazionali.
Ha pubblicato: Ritratto d’anima, 1975; Poesie di un giorno,
1977, Russo editore.
247
DavveRo
Davvero
può il mare calmare l’impeto dei suoi flutti
dileguandoli in un tramonto…
davvero
può la brezza al crepuscolo alleviare il canto
di un grillo nascosto musicando l’intera natura…
davvero
può un sorriso specchiarsi di un altro sorriso
quando un uomo sa di non esser più solo…
davvero…
… ma se davvero tutto nel creato
è un arcano prodigio,
se tutto è celato
in una cometa terrena,
anche tu
puoi amarmi,
e se mi amerai
null’altro sarà che mistero
in un travolgente uragano.
248
DavveRo
ovèro
’o mare po’ accuietà
’a forza ’e ll’onne soie
facennole addurmì int’a nu tramonto…
ovèro
nu ventariello lieggio
po’ dà sullievo a ’e palpite ’e n’arillo
annascunnuto
enchienno ’e museca
tutta ’a natura…
ovèro
nu pizzo a rriso
se po’ mmirà int’a n’ato pizzo a rriso
appena n’ommo ’ntenne
ca sulo cchiù nun sta…
ovèro…
si allora è ovèro
ca tutto ’e chistu munno è nu miràculo,
si tutto sta ’nzerrato
annuscunnuto dint’a na cumeta,
tu pure
me può vulé nu bene senza fine,
e si me vularraie ovèro bene,
sarrà nient’ato ca mistero, dinto
a na tempesta ’e vase e passïone.
249
l’eccezioNe
Perché una poesia di Karol Wojtyla?
Ti ho cercato anche nei Tuoi scritti, Padre,
ed in essi ho trovato l’Uomo ed il Tuo sublime
modo di essere fra gli esseri.
Non saprò interpretarTi totalmente: la Tua
grande globalità mi rende ancor più piccolo e
povero, ma mi arricchisco di Te attraverso la
coerenza della Tua parola, la forza del Tuo spirito, il Tuo credo nell’umanità.
È un atto di amore che compendia il mio
sentimento e quello del mio popolo per Te.
Karol Wojtyla (Papa Giovanni Paolo II) - Wadovice (Polonia)
1920-città del vaticano 2005)
Primo papa polacco nella storia della Chiesa.
Filosofo, teologo, poeta, attore, sportivo. Durante l’ultima guerra
collaborò con la Resistenza polacca. Cominciò a pensare di diventare
prete a 22 anni, mentre lavorava come operaio in una miniera. Apparteneva a una famiglia povera, ma molto unita. Il padre era un
sottufficiale di carriera dell’esercito. Dal 1927 al 1931, Karol frequentò le scuole elementari della cittadina natale. Fu durante questo
periodo che conobbe il primo grande dolore della sua vita. Nel 1929
morì improvvisamente la madre, a cui era affezionatissimo.
Nel 1938, Karol si trasferì a Cracovia e si iscrisse alla facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università Jagellonica. Poté continuare gli
studi solo per un anno e mezzo. I nazisti, quando invasero la Polonia nel 1939, chiusero tutte le scuole, e Karol, per non essere depor250
tato, andò a lavorare: prima come minatore a Zakrzowek, e poi negli stabilimenti chimici «Solvey» di Falecki.
In quel periodo fu colpito da altre due tremende sciagure: morirono suo fratello maggiore, già laureato in medicina, e suo padre. In
quel periodo tanto doloroso sfogava la sua tristezza scrivendo poesie
e dedicandosi allo studio della letteratura. Fece amicizia con l’attore
Mieczyslaw Kotlarczyk e con lui fondò un teatro d’avanguardia,
clandestino, chiamato «Teatro rapsodico».
L’incontro che cambiò la vita di Wojtyla avvenne all’inizio del
1942, nella miniera di Zakrzowek. Tra i suoi compagni di lavoro,
Karol fece amicizia con un certo Janem Tyranowskim, 40 anni, di
professione sarto, col quale trascorreva molto tempo a parlare dei
problemi fondamentali del mondo e della vita. Karol era sempre stato religioso, ma non aveva mai pensato, fino a quel momento, di dedicare la sua vita a Dio. Fu Janem a prospettargli questa possibilità,
e in poche settimane Karol vide chiaramente che quella era la sua
strada. Il primo novembre del ’46 fu ordinato sacerdote. Il 13 gennaio 1964, Paolo VI lo nominò arcivescovo di Cracovia e tre anni
dopo lo fece cardinale. Il 16 ottobre 1978 è stato eletto Papa.
251
lo scHizotiMico
vi sono momenti sordi, momenti disperati
– sarò ancora capace di emettere un pensiero, di trarre calore
[dal cuore?
Non rompere con me, non preoccuparti della mia rabbia.
Non è rabbia, no – è solo un litorale deserto.
Ma allora mi pesa tanto anche il fardello più lieve.
cammino, ma sono immobile, non sento alcun movimento.
Ricòrdati – non sei fermo, ma nel silenzio si tendono le forze
che troveranno la loro strada, forze che esploderanno.
e anche allora – non d’improvviso, non con tutto te stesso
[in una volta sola.
suddividi i momenti del cuore, suddividi la pressione
[della volontà.
Non bruci in un attimo nel chiarore febbrile delle pupille
ciò che cresce nei periodi di calma.
252
lo scHizotiMico
ce stanno mumente cupe,
mumente ’e disperazione
– sarraggio capace ancora ’e fa’ nascere nu penziero,
’e fa’ ascì nu poco ’e calore ’a stu core?
Nun t’ appiccecà cu mme,
nun t’apprennetì d’ ’arraggia mia.
Nun è arraggia, no – è sulamente
na spiaggia sulagna.
Ma allora
me pesa assaie pure ’o piso cchiù lieggio.
cammino, ma nun me movo, nun cagno posto.
Ricuordete – nun staie nchiummato,
ma int’ ’o silenzio s’attesano ’e fforze
ca truvarranno ’a strata lloro,
forze ca scuppiarranno.
e pure allora – no all’intrasatta,
nemmeno cu tutto te stesso
int’a na vota sola.
spàrtele ’e mumente d’ ’o core,
spàrtela ’a ncasata d’ ’a vuluntà.
Dint’ ’o chiarore ’e ll’uocchie
nun s’ha dda fa’ cennere
int’a n’attemo
tutto chello ca nasce int’ ’e ghiurnate ’e pace.
253
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261
Note cRiticHe
conobbi Raffaele Pisani il giorno che lessi di lui il vibrante, commosso saluto rivolto alla memoria di e.a. Mario. si tratta di un vero poeta. la
sua rettitudine si sposa egregiamente con la sua ispirazione. sull’una e
sull’altra, brilla un lume di dolce malinconia, però serenamente consolata,
come la bruma del mattino che vela, senza pur offuscarla, la luce del suo
golfo. Ne deriva lo splendore incerto, e pure così attraente di versi come
quelli del Tramonto, di Notte ’e settembre, di Vint’anne. Ma in Palomma il
canto torna libero, lieve e felice qual è il volo della farfalla descritta. (Marco Ramperti, Prefazione a Vint’anne, 1961).
il linguaggio poetico di Pisani è quanto di più suadente, lieve e musicale ci porga la tradizione. Meraviglia la maturità dialettica del giovane, e
meraviglia l’equilibrio espressivo suo. (Paolo Perrone, «la voce di Napoli», 8 febbraio 1965).
Poesie di limpida ispirazione, sempre interessanti. una voce nuova
che fa tanto bene ascoltare tra lo schiamazzo di troppi versificatori. (ettore De Mura, «Ribalta artistica», 1966).
ciò che di nuovo, di veramente nuovo, ci sembra di cogliere nelle
poesie di Raffaele Pisani è la sorprendente capacità dell’autore di tradurre
in versi, in lirica, in poesia sentimenti e stati d’animo profondamente vivi,
attuali, «moderni» nel senso più vero della parola, universali in quanto riscatto della privata vicenda del compositore nella più generale condizione
dell’uomo di oggi nel mondo di oggi. (andrea Geremicca, «la voce di
Napoli», 20 maggio 1967).
la particolarità di Raffaele Pisani è che riesce sempre a dire ciò che gli
canta nel cuore senza tuttavia andare in prestito da nessuno per idee, sentimenti e modo di esprimersi. la sua vena è genuina, il suo stile è facile
ma mai banale, il verso musicalissimo, i metri spesse volte quasi preziosi.
Poesia vera, dunque, la sua e sorretta sempre da una esemplare sincerità
d’ispirazione oltre che da una esuberante ma sorvegliata sensibilità espressiva. con i tempi che corrono sono, queste, qualità non da poco e su di
esse si può fare pieno affidamento. (Giovanni sarno, «un secolo d’oro»,
ed. Bideri, 1968).
262
È una voce possente contro l’indifferenza del mondo il lavoro di Pisani attraverso poesia scorrevole e semplice eppure rigoristica. (Guido della Martora, «Roma sera», 2 maggio 1973).
l’interpretazione in poesia napoletana dei «Promessi sposi» è ricca di
pregi, e la prova da lui affrontata è superata brillantemente, sia per la fluidità del verso, che con costante naturalezza (quella naturalezza di così difficile realizzazione) esprime con nitida essenzialità gli stati d’animo e le
reazioni psicologiche dei personaggi delle diverse categorie sociali, di cui è
folto il romanzo, di fronte alle più diverse situazioni; sia per il palpito di
schietta umanità che tutta la pervade; sia per il tono di liricità, che nei momenti culminanti arricchisce il racconto. (sebastiano Di Massa, Prefazione a I Promessi Sposi in poesia napoletana, 1974).
Pisani è tra i pochi a coltivare ancora la poesia dialettale napoletana; e
vi si applica con amore umile e appassionato e con risultati spesso felici.
le intenzioni del giovane poeta riescono quasi sempre a venir fuori, con
una loro accattivante e disarmante freschezza. (Michele Prisco, «il Mattino», 15 gennaio 1975).
amore e poesia fanno tutt’uno; il bel sole del golfo e la chiara luna di
Posillipo hanno la loro parte, ma la loro parte l’hanno, soprattutto, la freschezza e la perfetta arte del verso.
Raro poeta, il Pisani, in questi nostri giorni che hanno dimenticato i
temi popolari ed esigono forme di poesia cerebrale, per trascinarla nei contrasti civili, cruda e aspra e povera di armonia e di canto. (carlo Ravasio, «la Notte», Milano, 5 maggio 1976).
Raffaele Pisani è un poeta che spesso merita l’aggettivo «delicato»:
però ha il merito di sapere che Napoli è un giardino dove tra i molti fiori
si nascondono spine. e lui, fra fiori e spine, non ha paura di pungersi.
(Giuseppe Di Bianco, «Roma», 2 febbraio 1977).
Raffaele Pisani, valido combattente per la rinascita della poesia napoletana. (settimia cicinnati, «Roma», 24 marzo 1978).
con Raffaele Pisani la poesia napoletana smette marsine logore, abbandona gli antri bui e piagnucolosi di Boheme in piazza, si fa istrione, sale sugli autobus della metropoli, si avvinghia ai muri di cemento macchiati
dai segni di cuori solitari, di repressi politici e repressi comuni.
chi ha il coraggio di scrivere: «Dio aveva criato Napule tale e quale a
’o Paraviso: l’avimmo nchiavecata e ognuno ’e nuie ce ha miso ’o ssuio»?
263
chi ha l’ardire di scrivere e per giunta su un muro di cemento: «Nun
aspettammo ca ce scenne sempe tutto ’a cielo… Mparammoce ca malasciorta e bonasciorta c’ ’e ffacimmo cu ’e mmane noste».
e lui, Raffaele Pisani, che a dieci anni leggeva viviani, a 15 conobbe
e.a. Mario, a 19 pubblicò il suo primo libro, a 40 predilige i muri per dipingere poesia. (luciano Giannini, «Paese sera», 10 ottobre 1980).
Raffaele Pisani, napoletano e poeta, e per questo doppiamente genuino. (Mattias Mainiero, «il Giornale d’italia», 16 luglio 1981).
Raffaele Pisani, poeta di Napoli che da più di vent’anni si dedica con
accanita passione alla «riabilitazione letteraria» del dialetto partenopeo.
(Pietro treccagnoli, «il Mattino», 30 luglio 1983).
Raffaele Pisani tra i più fervidi e fecondi poeti della nuova generazione, d’ispirazione schietta… sempre spontaneo e appassionato. (Giovanni
artieri, «Napoli scontraffatta», a. Mondadori, 1984).
coscienza critica, adulta sensibilità, questo testimoniano i versi di Pisani. (Pasquale Maffeo, «il campano», 15 marzo 1986).
il Pisani è la migliore dimostrazione che si può fare poesia, e vera poesia, su Napoli. (vincenzo fuso, «Ribalta», 1986).
Pisani, un poeta napoletano contemporaneo che da anni si stacca dalla pletora degli improvvisatori per serietà di studi. (Gianni infusino, «il
Mattino», 19 gennaio 1988).
Pisani si muove su una linea di estrema sincerità espressiva, in una tessitura linguistica raggiungibile e fruibile da ogni lettore. (aldo onorati,
«il Domani», 30 maggio 1989).
il poeta visivo Pisani si esalta nella immediatezza dei sentimenti semplici e mostra, in più casi, di essere riuscito a conseguire una felice osmosi
tra parola scritta ed elaborazione grafica. (Gino Grassi, «Giornale di Napoli», 9 dicembre 1989).
i sentimenti di Pisani sono scoperti, finanche spudorati, senza ritegno.
e pudore e ritegno sono stati da sempre le sue caratteristiche che pure non
gli hanno impedito di lanciare invettive (ricordiamone una per tutte: «vestimmoce ’e serietà»). (Mario forgione, «Napoli oggi», 30 maggio 1991).
264
l’ispirazione e i germi dei buoni sentimenti, di cui ogni lirica di Raffaele Pisani è pregnante, contagiano anche chi è distratto o chi non ha una
frequentazione assidua con la poesia. (Nello Pappalardo, «Giornale di
sicilia», 21 dicembre 1991).
Pisani è un poeta verace, serio, coerente e comunicativo al massimo.
(ines lupone, incontro culturale, settembre 1992).
Pisani, pioniere e maestro del «Graffiti metropolitani», vincitore di
premi nazionali per intensità e qualità della produzione, servendosi del
dialetto napoletano (in realtà acquisito a linguaggio universale) come mezzo anche di comunicazione immediata, ha proseguito in quell’attività nella
quale crede come in una missione, così come da sempre fa professione d’amore e di speranza per una Napoli che egli mai dimentica. (enzo Perez,
«il Mattino», 31 ottobre 1992).
Pisani si è sempre distinto per il suo convinto impegno in favore di
Napoli e della sua cultura. Per stimolare i suoi concittadini, li ha punzecchiati, persino offesi: «Non dovete essere lampadine fulminate», «vestitevi
di serietà!». (vincenzo fasciglione, «Ribalta», ottobre 1992).
Pisani si distingue per schiettezza di ispirazione e per impegno civile
cogliendo riconoscimenti critici di rilievo ed entrando anche nelle antologie scolastiche. il suo canto corrisponde perfettamente a quell’ansia di rinnovamento e di ricostruzione che oggi viviamo. il poeta torna ad essere
quello che era una volta l’interprete della coscienza del popolo, lo sprona
per fare prevalere i valori positivi, per «riaccendere» quelle «lampadine»
che ancora spesso sono spente. (sergio sciacca, «espresso sera», 8 maggio 1993).
Raffaele Pisani è oggi una delle voci più limpide della tradizione dialettale napoletana. (salvatore Di Marco, «Giornale di Poesia siciliana»,
maggio 1993).
Pisani rappresenta l’autentica e schietta voce di Napoli, e con i suoi
versi semplici ed efficaci spinge quella città a ribellarsi contro l’ingiustizia
ed il degrado morale. (Maurizio Giordano, «Giornale di sicilia», 17 luglio 1993).
la poesia di Pisani, con solennità, parla alle «lampadine fulminate»,
agli uomini della sua terra che egli avrebbe voluto più fattivi, più coscienti,
costruttivi, fuoco vivo, acqua sorgiva, stelle lucenti d’esempio di vita. il
265
dolore dell’uomo di fronte al proliferare delle lampadine fulminate si
stempera nella natura che ancora fa bella Napoli. il poeta parla di sé, parla
d’amore, poi, torna severo, accusa, mette a nudo piaghe antiche e recenti
per gridare forte: «frate mieie napulitane, / v’avarria vuluto stelle, / comme ’e stelle ’e cchiù allummate, / tutte luce d’oro e no / lampadine fulminate! ecco il monito della poesia di Pisani: si vesta di serietà la città che si
è fatta punto di riferimento del degrado. (angelo calabrese, «il Domani», Napoli, 5 luglio 1994).
una vita dedicata alla poesia dialettale, erede del bagaglio culturale e
della tradizione vernacolare napoletana di e.a. Mario, ed ecco presentato
Raffaele Pisani, con una sintesi estrema imposta dallo spazio ma non da
ciò che realmente si potrebbe dire di questo napoletano illustre, in modo
semplice e schivo, che ai versi ha davvero dedicato la vita.
con amore, perché la poesia è amore, malinconia perché la poesia è
malinconia e una fervidissima immaginazione, perché la poesia è anche
questo. fantasia che viene in soccorso della Realtà a spiegare i sentimenti
attraverso le immagini lì dove anche la parola ha bisogno di un supporto
visivo per dare maggiore vigore al suo significato.
Pisani non è nuovo a questo gioco avendo già dato vita nel 1989 a
«Poesigrafie», in cui segno grafico e verso venivano uniti in un tutt’uno
perfetto e armonioso dove poesia e immagine che la raffigura e richiama si
riflettono l’una nell’altra dandosi sempre maggiore vigore per elevarsi nel
loro più alto significato.
avviene così anche per «stelletelle», la più recente raccolta di versi di
Pisani, circa 130 poesie, delle quali ventitré entrano a far parte di questa
singolare esposizione grafica. (costanza falanga, dalla presentazione di
«Ritagli da stelletelle», Galleria d’arte «il Diagramma 32», Napoli,
29 ottobre 1994).
ebbene, lo confesso, mi è piaciuta davvero questa poesia (’o sole) di
Raffaele Pisani. tutto concorre a farla bella: gli elementi cromatici forti,
vividi, che l’autore getta sulla carta a pennellate energiche e precise. il poeta ricrea la vita, come il suo adorabile «guagliunciello» sul quaderno di
scuola. Grazie Raffaele. anche se spesso, per il mondo editoriale, dialettale
vuol dire marginale, la tua poesia non lo è. (ippolita avalli, «Pratica»,
novembre 1994).
Pisani si fa voce e interprete del popolo napoletano condannando lo
stato dei fatti e delle cose in cui versa la città; egli implora il suo prossimo
(dello stesso retaggio di sangue) perché insorga ideologicamente contro le
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ingiustizie messe in atto da persone senza scrupoli e perciò chiede, anzi rivendica un riscatto perché Napoli si ritrovi ancora in una condizione il cui
privilegio le spetta per diritto e per censo. (enzo Manzoni, «ii Giornale
di Napoli», 19 gennaio 1997).
Raffaele Pisani è una voce importante della poesia napoletana contemporanea. (salvatore Palomba, Napoli, parole e poesie, Napoli, liguori, 1998).
Pisani scrive poesie capaci di generare nel lettore grandi emozioni e
intense vibrazioni armoniche. i suoi versi si tingono di una napoletanità
dalle tinte forti, dalla sinfonia dolce che chiunque, napoletano e non, può
sentire facendosi trasportare da note sincere e ispirate. (Daria Raiti, «la
sicilia», 23 maggio 2000).
Nell’arco di un quarantennio la selezione dei temi ha reso originale e
inconfondibile la poesia di Raffaele Pisani nel panorama della recente poesia dialettale. tre sono i nuclei tematici prevalenti: la ricerca religiosa, l’impegno sociale e civile, l’amore. Queste diverse direzioni tematiche sono tenute insieme da una intrinseca qualità delle poesie di Pisani o, per meglio,
da una disposizione mentale e caratteriale del poeta, che si configura in effetti come una precisa scelta di poetica. Pisani infatti non è un poeta concentrato su se stesso, non limita a se stesso il proprio orizzonte d’osservazione, ma è sempre proiettato verso l’altro. Nelle poesie d’amore al centro
dell’attenzione non è il proprio sentimento, ma è la donna con la quale
l’amore si realizza. lo si vede molto bene nelle poesie che fanno da sottofondo a un saldo e delicato sentimento che lega l’autore a francesca. […]
la propensione verso l’esterno, verso gli altri, della poesia di Pisani è
ancora più evidente nei tanti versi dedicati a Napoli, città amata – questa
volta con sofferenza – e continuamente presente nelle diverse raccolte. come l’amore, anche Napoli è un argomento che ritorna spesso nella poesia
in dialetto, ma anche in questo caso l’angolazione scelta da Pisani si allontana dalla prospettiva più prevedibile. […]
se la visione dei problemi non conduce mai il poeta al cupo pessimismo o alla desolazione è anche perché i versi di Pisani sono animati e sorretti da una fede profonda che impedisce all’autore di perdere fiducia
nell’uomo. anche in questo senso la sua poesia è aperta all’esterno: le intense e delicate preghiere di Llà, cu ’a speranza (1988) nascono da un dialogo con il signore che raggiunge momenti di una freschezza quasi francescana. […]
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in particolare per questo suo impegno cristiano la poesia di Pisani acquista una sua collocazione originale nella poesia italiana contemporanea;
ma, d’altra parte, nel suo insieme essa merita di essere letta con attenzione
e considerata non solo in rapporto alla poesia napoletana, ma nel quadro
ricco e movimentato di tutta la poesia in dialetto dell’ultimo cinquantennio. (Nicola De Blasi, dalla Prefazione a Pisani, un poeta per compagno
di francesca Musumeci, c.u.e.c.M., catania, 2005).
Raffaele Pisani è un napoletano doc, un gentiluomo autentico, di
quelli che Napoli non sforna più. Dalla figura fine, signorile, elegante.
Dalla parlata accattivante. Pisani pensa e scrive in dialetto. Più che un
poeta di salotto, Pisani è un poeta di strada, poeta dell’amore… ma la sua
poesia si fa ardita, cambia registro, quando in opposizione alle moderne
correnti e alla noia del quotidiano, confeziona versi fulminanti per una
Napoli che non piace, che non va. (umberto franzese, «albatros», Napoli, maggio 2006).
la produzione poetica di Raffaele Pisani è di una vastità sorprendente: oltre ai volumi di versi propri egli ha arricchito di esperienze singolari
la letteratura di Napoli. Geniale, infatti, fu la sua idea di realizzare sulle
pareti della collina di Posillipo Un muro di poesie. Questa ci pare un’iniziativa che andrebbe sostenuta e sviluppata. […]
la tecnica del verso di Pisani respira i tempi nuovi e segue nel canto fatto di perizia ed intelligenza una vena genuina e personale vibrante di musica e di armonie. (ettore capuano, «letteratura a Napoli»,
Graus/editore, 2007).
Nel panorama della poesia dialettale napoletana Pisani ricopre un posto di primo piano e tutti dobbiamo essere grati al Poeta per quanto fa da
oltre un cinquantennio per tenere vivo un dialetto che da molti, a giusto
motivo, viene considerato una vera e propria lingua. (Nicola squitieri,
«avanti», 30 luglio 2009).
«Mettiteve scuorno», sfogo sacrosanto di un poeta ferito nell’animo
dal degrado della sua terra dove affaristi e speculatori agiscono indisturbati
nel più assoluto disprezzo delle leggi. Questa volta il poeta mette da parte
la sua tradizionale vena idilliaca, il suo linguaggio aulico per tuonare con
decisione contro i «nuovi barbari». (santo Privitera, «la sicilia», 3 agosto 2009).
«Mettiteve scuomo» è un grido di dolore che dà voce all’indignazione
di tutti i napoletani, un’intensa invocazione di giustizia, una richiesta di
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aiuto a Dio, che non si ferma di fronte a tutto il marcio che ha fatto scempio di una terra meravigliosa. un’intera vita, quella di Pisani, dedicata alla
poesia di Napoli. (alfredo tommaselli, «Roma», 7 agosto 2009).
Raffaele Pisani da anni con le sue poesie canta il suo amore per la
città, portando avanti la sua resistenza contro le ingiustizie sociali. Mettiteve scuomo esprime la volontà di risvegliare le coscienze dall’indifferenza
rispetto ai problemi che affliggono la città. il Poeta lancia invettive e invita
i napoletani ad assumersi le proprie responsabilità e a ribellarsi a tanto degrado. (elda oreto, «la Repubblica», 29 agosto 2009).
Raffaele Pisani vive quotidianamente di pane e Napoli. un poeta di
cui si vengono riconoscendo nei nostri giorni qualità e aspetti finora non
rilevati. autore di esperimenti letterari di non piccolo impegno. cantore
musicale e tenero della bellezza di Napoli, ma anche pronto, con energici
scatti di passione ed efficace espressione, a buttar via come zavorra tanti
luoghi comuni su questa città, nella prospettiva di un suo riscatto. (ugo
Piscopo, «corriere del Mezzogiorno», 1 novembre 2009).
la poesia di Pisani ci invita ad una presa di coscienza per farci riflettere su ciò che abbiamo combinato e darci un appiglio cui aggrapparci per
uscire dalla lota in cui ci siamo pericolosamente immersi. (luigi antonio
Gambuti, «dodici pagine», afragola, 5 dicembre 2009).
Raffaele Pisani, una vita tutta dedicata alla poesia napoletana per un
solo sogno: vedere Napoli riconquistare il ruolo di città di arte, cultura e
bellezza, il ruolo di «capitale d’europa» amata e rispettata in tutto il mondo. («Quotidiano di sicilia», 17 dicembre 2009).
Questo libretto di Pisani (Mettiteve scuorno) bisognerebbe farlo studiare a scuola, bisognerebbe recitarne qualche brano nelle assise nazionali
dove si radunano gli egregi che si sentono eterni ma che – è una legge di
natura – finiranno pure loro. (sergio sciacca, «la sicilia», 15 agosto
2009).
Metti una sera a cena tra poesia e buffet condominiale. Non è una
boutade o una chimera, ma l’originale formula conviviale ideata e messa in
pratica in queste serate estive da Raffaele Pisani, napoletano verace e
amante della poesia, ormai catanese d’adozione. Pisani ha infatti deciso di
sperimentare questa pratica di possibile armonia condominiale in un palazzotto di via Plebiscito, a ridosso di san Domenico, a catania. Ha fatto
269
circolare inviti ai condomini, a qualche parente e amico et voilà: ecco servita una sorprendente serata nel cortile condominiale a base di recital letterari e pietanze cucinate in casa da ciascuno dei convitati. e tra versi della
Centona di Martoglio, poesie d’autore e sceneggiature teatrali fatte in casa
e recitate dall’intera famiglia, in un groviglio di dialetti tra il siciliano, il
pugliese e il napoletano, un intero condominio ha scoperto il piacere di
trascorrere un momento di spensieratezza tra cultura e gastronomia (e anche qui c’è da fare le lodi ai presenti!). (Gianluca Reale, «vivere - la sicilia» 2 settembre 2010).
leggendo i versi di Pisani si scopre la musicalità del napoletano, la
duttile freschezza riscontrata con Di Giacomo di cui si sente allievo, benché fra i temi si scoprano interpretazioni personali di altri versanti letterari
e pure rifacimenti biblici con richiami alla religione, agli affetti familiari e
all’amore che pongono il poeta napoletano fra i più apprezzati. (Pasquale
almirante, «la sicilia», 18 dicembre 2010).
ci sono da operare due preliminari considerazioni per comprendere e
giustificare il coraggio di quelli che come quest’abile cantore di Napoli,
“fanno” poesia. la prima cosa da dire, è che la capacità di vincere le resistenze poste da un’idea malintesa di modernità (purtroppo tragicamente
e nervosamente trionfante) è oramai una cosa rara, quindi solo l’amore vero e la passione sfrenata verso la poesia, possono affrontare il silenzio che
spesso circonda le parole dei poeti e trarre nonostante ciò, la forza necessaria per continuare a percorrere la strada povera ed in salita della poesia
nell’epoca attuale. la seconda cosa da dire, è che sembra impresa donchisciottesca, “fare”, in questo spazio ed in questo tempo, non solo poesia,
ma poesia in dialetto. Poesia in dialetto, in un mondo che nell’inseguire
la globalizzazione, sembra quasi voler perdere le differenze, che spesso sono le caratteristiche ontologiche del sentire di un popolo, soprattutto,
quando si tratta di quelle linguistiche, per arrivare ad un lingua unica ed
universale e senza dubbio più povera. (fabrizio Grasso, «i vespri», catania, 31 dicembre 2010).
Questa città, si racconta nel componimento che apre «coMMe Nascette NaPule» (ed. c.u.e.c.M. catania, 2011), è stata creata per
essere donata a Maria, indice di grandezza e “nu paese accussì bello / c’ha
dda essere p’’a gente / un autentico giuiello!”, un pezzo di Paradiso scelto
da Dio per essere portato sulla terra. un frammento perfetto di un mondo
immacolato portato qui, nel nostro mondo, una responsabilità data a chi
ancora non riesce a conservare la bellezza di questa città; i napoletani ven-
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gono ritratti come “lampadine fulminate” di questo cielo blu perché rimangono immobili davanti ai cambiamenti di questa città eterna che piano piano sta cadendo. Pisani, inoltre, dedica a tutti gli innamorati e al suo
amore uno spazio di poesie d’amore come “l’albero tuio” dove si concede
un po’ d’ombra e di riposo al proprio amante e scene di vita quotidiana
insieme come in “Nnanz’ ’o ffuoco”.
un poeta e uno scrittore sincero che attraverso l’accostamento di parole e versi si fa voce dei pensieri altrui; di un uomo che vuole spogliarsi
del completo grigio da ufficio e tornare nella sua terra di colori, di sole e
di amore. evadere da un mondo triste, innamorarsi, avere fede e combattere, questi sono gli elementi che fanno della poesia di Pisani un’opera nuova, semplice, diretta. (Naomi Mangiapia, «RoMa», 1 novembre
2011).
figura amabile da signore di altri tempi, Raffaele Pisani, nato nel
1940, è autore di una trentina di raccolte di poesie in dialetto napoletano.
Pubblica adesso fRaNce’, con la c.u.e.c.M. editrice catanese di Magistero, storica e benemerita casa editrice nata dall’intelligenza di un altro
gentiluomo, Nicola torre, troppo precocemente scomparso. l’amore non
soltanto giustifica la vita, ma la origina, la attraversa, la illumina, la redime, è questo il filo discorsivo sotteso al libro. un amore che è comune a
luoghi anche distanti, apparentemente diversissimi. “l’amore si fa insomma esperienza totale, attraverso cui viene filtrato ogni altro aspetto della
realtà, e diviene condizione esistenziale che dispone a un amore più grande” annota Nicola De Blasi nella prefazione. Pisani è un poeta fondamentalmente lirico, che nei suoi versi raccoglie e traspone emozioni, colori dell’anima, che esprime un sentire complesso, ma tutto sommato positivo,
della realtà e del nostro destino. (Marco scalabrino, «osservatorio della
poesia in dialetto», scordia, ct, 2011).
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