novelle di Giambattista Casti

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novelle di Giambattista Casti
Giovanni Battista Casti
Le novelle di Giambattista Casti.
Tomo primo
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1
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TITOLO: Le novelle di Giambattista Casti. Tomo primo
AUTORE: Casti, Giovanni Battista
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LE
NOVELLE DI
GIAMBATTISTA CASTI
TOMO I
Dai torchi di H. Fournier
Via di Senna n. 14
PARIGI
Presso Brissot – Thivars, Librajo
Via de l'abbate n. 14
Aimè – Andrè, Librajo
Quai Malaquais n. 13
MDCCCXXIX
Si vende pure a Baudry
Rue du coq S. – Honorè n. 9
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PROTESTA DELL'AUTORE
Giacchè vi compiacete, o Donne care,
Di qualche mia galante novelletta,
Istantemente vi voglio pregare
Che avanti a tutte voi mi si permetta
Una protesta pubblica di fare,
Che bramo sia da tutt'intesa, e letta
E intendo, e dico, e vo' che vaglia al paro
D'un rogito di pubblico notaro.
Molti vi son che senza mio permesso
Sparser le mie novelle, e v'han cangiato
Ordine, e senso, e versi, e strofe, e sesso.
Mi fan dir ciò che non ho mai pensato.
Che appena omai mi vi conosco io stesso;
Tanto m'han contraffatto e sfigurato;
Qua non v'è connession, là un verso è zoppo,
E dove manca e dove v'è di troppo.
Tal guasto in somma io v'ho trovato dentro,
E disordine tal ch'onta n'ebb'io.
S'entro i limiti miei io mi concentro,
S'usurpar l'altrui merto io non desio,
Se in ciò che mio non è io mai non entro,
Perchè altri entrar mai deve in ciò ch'è mio?
Per carità si tenga ognun sul suo,
E il dritto rispettiam del mio, e del tuo.
Qualche novella inoltre v'è che passa
Per mia, siccome due che in frontespizio
Una ha per titol La bella Circassa,
L'altra La Figlia che non ha giudizio;
Opra d'alcun che a' parti miei si spassa
Un parto frammischiar suppositizio.
Chi che ne sia l'autor, gli fo mie scuse,
Ma le dichiaro apocrife ed intruse.
Non biasmo nè l'autor, nè quelle due,
Nè se altre ve ne son d'altri o di lui;
Che per accreditar le figlie sue
Nessun dee screditar le figlie altrui;
Ma per dar ciò ch'è giusto ad ambedue
Dico sol che di lor padre io non fui:
Saran belle, e leggiadre poesie,
Tutto quel che si vuol; ma non son mie.
E benchè a prima vista e in apparenza
Alcun talvolta equivocar potesse,
Se con attento esame e indifferenza
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Farsene giusta analisi volesse,
(Senza entrare a parlar di preferenza)
Chiaro apparrebbe che non son le stesse
Che, se non sia supposta, in una figlia
Sempre si trova un'aria di famiglia.
Ma ciò che m'ha scandalizzato assai,
E che per modo alcun tacer non posso,
È che certe parole io vi trovai.
Che divenir mi fecer rosso rosso.
E seriamente fin d'allor pensai
Una tal taccia a togliermi di dosso.
Non lo faccio per dir: sarò una bestia;
Ma sempre il debol mio fu la modestia.
Io so ben che lo stil delle novelle
Esser libero dee, gajo ed ameno,
Ma trattar certe cose in pelle in pelle
Conviensi, e porre alla licenza un freno,
Nè offendervi le orecchie, o Donne belle,
Con termin grossolani o tuono osceno;
Tutto si può spiegar, tutto dir lice,
Ma bisogna veder come si dice.
Prescrivere però legge o precetto,
O dar regola altrui non intend'io
Di tal prosunzion non ho il difetto,
E prego ben che me ne guardi Dio.
Dirò quel che anche METASTASIO ha detto,
Ciascun segua il suo stil, io seguo il mio
Ma sol per evitare il qui pro quo
Di mie novelle l'indice vi do.
Al pubblico finor son note solo
Geltrude, l'Incantesimo, e Pandora,
La Bolla, l'Anti-Cristo, e il Rusignuolo,
Il Diavolo, l'Arcangelo, e l'Aurora,
La Comunanza, il Maggio, e lo Spagnuolo,
Diana, e Don Fabrizio, uniamci ancora
Il Quinto Evangelista, Urgella maga,
Le Brache, e l'Arcivescovo di Praga.
Non ostante però, Donne garbate,
Queste proteste mie, queste mie ciarle,
Guari non è che le vid'io stampate.
Stamparle poi! poffar Iddio! stamparle, E come dissolute, e svergognate
Prostituirle al pubblico, e spacciarle
Senza farne all'autor neppur un cenno,
Senza i riguardi usar che usar si denno!
Per procurarvi poesie galanti
Voi sapete che studio io non sparagno
Per quanto son le forze mie bastanti;
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E per avidità di vil guadagno
Miscuglio informe or vi si pone avanti!
Solo di questa, o Donne mie mi lagno;
Onde, acciocchè sedurvi alcun non osi,
Vo' confidarvi i miei pensier più ascosi.
Oltre a quelle novelle, onde la lista
Vi presentai poc'anzi, io n'ho qualcuna
Che finor da nessun fu letta o vista,
Nè mai venuta è in man per sua fortuna
D'alcuno stampator, d'alcun copista,
Che a farne spaccio quel che trova aduna,
E quante ne farò non vi sia grave,
Che in riserva le tenga e sotto chiave.
Perchè non hanno a far le libertine,
Come fan quelle che vagando or vanno,
E finchè non sian giunte a due dozzine,
Rinchiuse e ignote rimaner dovranno;
E dal mio scrigno allor sortendo alfine,
Forse alla luce pubblica verranno,
E mi lusingo, ed ho presentimento
Che incontreranno il vostro gradimento.
Ed io mi prenderò tutte le pene,
Che ripurgate sian, che sian corrette
Dagli sfiguramenti onde son piene
Quelle che ora dal pubblico son lette.
Ma per or, Donne mie, scusar conviene; Che pria compir m'è d'uopo altre cosette.
Io la promessa manterrò, ciò basta;
Se differisco, il differir non guasta.
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NOVELLA I
IL BERRETTO MAGICO
Io non parlo alle rigide matrone,
Non parlo alle ritrose verginelle,
Non alle vecchie austere bacchettone;
Parlo a giovani, a spose, e parlo a quelle
Che accoppian la virtù colla ragione
In somma parlo a voi, Donne mie belle,
Che amate senza smorfia e ipocrisia
Gl'innocenti piaceri e l'allegria.
Che se alcuna havvi poi, che un'apparenza,
Un'ombra sol ne' conti miei travegga,
Che le debba turbar la coscienza,
Conservisi illibata, e non li legga;
Che non v'è male alcun, se stanne senza;
Ma se legger più tosto, o udirli elegga,
Che poi non stiami a fare il muso schincio.
Or dunque patti chiari, ed incomincio.
O Donne amabilissime, cui piace
Le novellette udir galanti e liete,
Quest'oggi quella del sultano Arsace,
Che regnava in Ormùs, da me udirete.
Ormùs è una bell'isola che giace
Dentro il persico sen, come sapete,
Avendo voi la favola e la storia
E la geografia tutta a memoria.
Fu Arsace successor di quell'Orcano,
Di cui fa menzion Torquato Tasso,
Che per un colpo di femminea mano,
Colpo che al campo fe' cotanto chiasso.
Là di Soria sull'arenoso piano,
Dal suo destrier fu rovesciato al basso,
Quando Buglion fe' il glorioso acquisto,
E il gran sepolcro liberò di Cristo.
Arsace non cercò bellici onori.
Nè l'esempio seguì del signor padre,
Nè cinto il crin di sanguinosi allori
Marciò alla testa di guerriere squadre;
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Amò le donne, i cavalier, gli amori,
Cacce, giostre, tornei, feste leggiadre,
E allegre danze e sontuose cene.
Che dite, Donne mie, non fece bene?
Quanta magnificenza ivi grandeggia,
E il lusso e il fasto io qui a narrar non entro
Dirò sol, che d'Ormùs era la reggia
Dell'eleganza e del buon gusto il centro.
Ivi la gioja, ivi il piacer pompeggia,
D'Asia e d'Europa si vedean là dentro
Brillar le donne e i giovinetti amanti,
E i più famosi cavalieri erranti.
Or tutto questo splendido apparato
Arsace fea per divertir la sposa,
Non guari essendo ch'erasi ammogliato
Con Irene, beltà rara e famosa;
Nè in tutta Asia non che nel vicinato
Erasi vista ancor più bella cosa;
E se l'udite assicurar da me,
Siate sicure pur, che così è.
A cagione di lei fra i pretendenti
Era digià più d'un duel seguito;
E se badato avesse ai concorrenti,
Mille trovati avria, non che un marito;
Ma dovette ciascun sciacquarsi i denti;
Che Arsace a tutti lor fu preferito.
Un principe più o meno è sempre bello;
Ma di bellezza Arsace era un modello.
Per alcun tempo in ottima armonia
Vissuto avea la gentil coppia insieme,
Nè sospetto avea mai, nè gelosia
Sparso fra lor della discordia il seme.
E forse ancor continuato avria
A viver lieta sino alle ore estreme;
Se Belzebù, che invidia il bene altrui,
Ficcato non vi avesse i corni sui.
Arsace passion costante e forte
Avea per l'arti magiche; e a far paghi
I curiosi suoi desiri in corte
Avea turba d'astrologi e di maghi,
Che di futuri eventi e della sorte
Propizia o trista si dicean presaghi;
E per scoprir del core uman gli arcani
Mezzi solean usar del tutto strani.
Gran smania Arsace avea di discoprire
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Ciò ch'altri pensa e ciò che asconde in petto;
Un di color perciò vennegli a offrire
Misterioso magico berretto,
Con cui qualor ci vengasi a coprire,
Chiunque sia che seco parla è astretto,
Senza ch'ei stesso se ne accorga, il vero
A palesar che ha in core o nel pensiero.
Ma il mago esige che il sultan prometta,
Che qualunque pensier scopra o disegno
In virtù della magica berretta,
Non ne debba mostrar cruccio nè sdegno,
Non che punizion trarne o vendetta,
Nè dar d'esserne inteso ombra nè segno.
Tutto Arsace promette ed assicura;
Ma il mago vuol ch'ei giuri, ed ei lo giura.
Poichè il furbo sapea, che se mai tanto
Ei giunge ad ottener che Arsace giuri,
Inviolabil era e sacrosanto
Il giuramento suo, e ben sicuri
Starsi potea, ch'ei non lo avrebbe infranto;
Ma bench'ei fosse un de' più esatti e puri
Settatori dell'arabo profeta,
Vita traea voluttuosa e lieta.
Appreso avea mezzo Alcorano a mente,
E staccarsi solea mattina e sera
All'ora fissa indispensabilmente
Da qualunque opra sua, per far preghiera
Giusta lo stil dell'ottomana gente;
Su di che colla bella sua mogliera
Sempre avea forti dispute e contrasti;
E di religion tal prova basti.
Pensate voi, se d'un acquisto tale
Non si dovesse reputar felice.
Riguardavasi già più che mortale;
Che dato è a lui ciò che a mortal non lice.
O cecità degli uomini fatale!
O fiducia bugiarda, ingannatrice!
Talun trovar felicità si crede
In ciò che brama, ed il suo mal non vede.
Egli pertanto si tenea sicuro
Da qualunque menzogna, insidia o inganno;
E spingendo lo sguardo entro all'oscuro,
Schivar si pensa e prevenire il danno.
Ma i guai che dal destin fissi già furo,
Conosciuti o ignorati accaderanno;
E il mal che accader dee, nè accadde ancora,
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Duro e grave non è, finchè s'ignora.
Il portentoso far saggio primiero
Volle il sultan del magico berretto
Sopra un suo favorito cameriero,
Ch'ei presso alla sua camera da letto
Fea giacer, acciò, s'era di mestiero
Per qualunque bisogno, ad un fischietto
Tosto potesse accorrere; perchè ogni
Principe ed ogni sposo ha i suoi bisogni.
Per esempio una candida pezzuola
Per asciugar il coniugal sudore,
Che dalla fronte degli sposi cola
Per troppo attivo e veemente amore;
O essenza ed elisire che consola,
E dà forza agli spiriti e vigore,
E cose tai dai celibi ignorate,
E dalle verginelle immacolate.
L'aneddoto però più singolare
È che sovente non tant'ei, quant'ella,
Ora per uno or per un altro affare,
O col fischietto o al suon di campanella,
In camera facea Marzuc entrare,
(Poichè Marzuc il camerier s'appella)
E godea di vederlo appunto allora,
Che l'immaginazion vie più lavora.
Entrava quegli in bianco farsettino,
E in bianchi calzoncin stretti alle cosce,
Come, secondo un certo autor latino,
Che gli aneddoti storici conosce,
Ad Adrian si presentava Antino.
In Marzucco però si riconosce
Di vigoria maschile aria decisa,
Che d'Irene lo sguardo attira e fisa.
Ei quante in se bellezze Irene assembra
Sbircia frattanto, e scorre a parte a parte
E le nevose dilicate membra,
E il rilevato sen scoperto ad arte;
E s'ella per beltà Venere sembra,
Al vigoroso aspetto ei sembra Marte,
E a un certo tal non dai riguardi domo
Visibile e palpabile sintomo.
Talor di tai diagnostici s'avvide
Arsace, e offeso non però si chiama;
Anzi all'effetto natural sorride,
Che in quei produce la beltà ch'egli ama.
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Nè piacer reo nè compiacenze infide
In lei suppon, nè men che onesta brama;
Poichè Arsace, sebben non fosse un cavolo,
Presolo tutto insieme, era un buon diavolo.
E passargli neppur può per l'idea,
Ch'una consorte d'un sultan, d'un sire
Risentir possa inclinazion plebea,
O vil bassezza di plebeo desire.
Lo stesso è farsi di tal fallo rea,
Che di natura l'ordine invertire;
E di massime tai ben persuaso
Di sospettar non si credea nel caso.
Un giorno in una camera rimota
Standosi sopra un seggiolon disteso
Con quel berretto di virtude ignota
Ad un bracciuol del seggiolone appeso,
Colà Marzucco entrò con certa nota
Del danar che nel mese erasi speso,
Sendo ogni mese premuroso e pronto
Del dato e ricevuto a render conto.
Allor la fantasia venne ad Arsace
Di porsi in testa il berretton, per cui
Vien suo malgrado il mentitor verace,
E far sì che Marzuc favelli, e i sui
Pensier tutti palesi, e si compiace
Scoprir le vere intenzion di lui.
Ponsi il berretto, e quegli parla, e cose
Svela per lo sultan poco gustose.
M'ama la bella Irene, il so, ma prove
Ahi troppo rare darmene si degna;
Ed amo io lei, più ch'ella me; che dove
Dove donna trovar d'amor più degna?
Raro il sultan dal lato suo si muove;
Ma tosto ch'ei, come pur far disegna,
Per poco alfin s'assenti, è già concluso
Della propizia occasion far uso.
Chi fia che allor ne difficulti e vieti
Di render pur alfin, se tu il consenti,
Gli amorosi desir paghi e completi?
O bramati dolcissimi momenti!
O fortunata assenza! o giorni lieti!
O giorni di delizie e di contenti!
Sì, cara Irene, sì, mia dolce speme,
Noi giacerem liberamente insieme.
Più a lungo Arsace a tal parlar non resse
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Strinse il ferro, e volea... ma gli sovvenne,
Ch'ire e vendette a lui non son permesse.
Tolse il berretto e d'infierir s'astenne,
E dello sdegno gl'impeti ripresse,
E quanto più potè contegno tenne;
Che presso quella gente eterodossa
Qualunque giuramento è cosa grossa.
La berretta fatal di capo toglie,
E sopra eburnea tavola la posa;
E la narrazion tronca e discioglie
Della pratica rea vituperosa
Del servo infido e dell'infida moglie;
Che il solo udir gli è intollerabil cosa.
E rotti i scandalosi suoi racconti,
Torna Marzuc a favellar di conti.
Così, qualor letargico riposo
S'aggrava sulle torpide palpebre,
Odesi anfaneggiar egro affannoso
Nel parosismo di maligna febre,
E in quel calor violento e smanioso
L'urto d'idee disordinate e crebre
Lui dal sensato ragionar distorna,
Finchè si scuote e alla ragion ritorna.
Talmente Arsace sbalordito resta
A sì malvagia infedeltà che ha intesa,
E talmente lo punge e lo molesta
Solo il pensier di sì crudele offesa,
Che s'ange e smania, ed ha ben altro in testa
Che saldar conti e riveder la spesa.
A Marzucco fa un cenno e lo congeda,
E s'abbandona a' suoi pensieri in preda.
Dunque, dicea fra se, quei che colmati
Fur da me di più grazie e più favori,
Quegli stessi saran dunque gl'ingrati
Di cotanta onta mia perfidi autori?
E dura legge impon che in sen celati
Tenga e soffoghi i giusti miei furori?
Giurai purtroppo, e un Musulman che giura
Osservar dee la legge, e sia pur dura.
Io stesso a me la dura legge ho imposta,
E osservamento inviolabil santo
Santa religion comanda, ed osta
Alle giuste ire. Oh giuramento! oh quanto
Or l'osservanza tua quanto mi costa!
Ma violato non però, nè infranto
Da me sarai, se anche da capo a fondo
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Ormùs perir dovesse e l'Asia e il Mondo.
Più che altrove il pensier rivolger tenta
Dalla riflession su quel delitto,
Di cui solo l'idea sì lo spaventa;
Più stagli impresso intimamente e fitto
Nella mente e nel cor, e ne diventa
Estremamente addolorato e afflitto.
Ahi Donne mie, quanto fallaci e vane
Le basi son delle fortune umane!
Amarezza trovò, smania e tormento,
Ove gioja trovar sperò colui;
Sperò d'esser appien pago e contento,
Il cor scoprendo ed il pensiero altrui,
Ed infelicità nel compimento
Solo trovò de' desideri sui.
Ciò ch'ei desia talun non sa sovente,
E d'ottener ciò che bramò si pente.
Pur malgrado il rancor, l'onta e l'oltraggio
Da lungi vede, o di vedergli pare
Di lusinghiera speme un debil raggio;
Come al nocchier sul tempestoso mare
A richiamar lo smarrito coraggio
L'amica luce di sant'Elmo appare,
O rapido balen le nubi squarcia,
E all'errante pedon segna la marcia.
Forse il mago in virtù di sortilegio,
Fra se dicea, (per qual ragion, Dio sallo)
Fe' contro il conjugal talamo regio
Parlar Marzucco come un pappagallo:
Forse dei pari loro è un privilegio
Far che, talun parlando, altri oda in fallo:
Forse... chi sa?... Marzuc non ben compresi,
Nomò altra Irene, e per la mia la presi.
Mentre di sogni tai, di tai chimere
Pascea la conturbata fantasia,
E alle sventure sue reali e vere
L'illusion sostituendo gia;
Onde parea qualche conforto avere
L'alma agitata da inquietudin ria,
In camera improvvisa Irene apparve,
Nè mai più bella agli occhi suoi comparve.
Candido lino avea d'attorno al crine
Con ingegnosa trascuranza attorto,
Sparso di bei coralli e perle fine,
E con istudio ricercato e accorto
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Ricoperte le membra alabastrine
Con ampio manto e guarnellino corto,
Che oggi in disabigliè francescamente
Diciam per vezzo e per buon tuon sovente.
Se avesse anch'ella al grand'onor preteso,
Ed al frigio pastor su i colli Idei
L'aureo per conquistar pomo conteso
Presentata si fosse ancor costei;
Le Dee, di cui parlar avrete inteso,
Certo non si sarebbero con lei
Al paragon della bellezza esposte,
E per vergogna si sarian nascoste.
E che lo stesso assicurar vi posso
Saria stato e anche più, se, come quelle,
Ella venia senza ornamento addosso.
Esponendosi nuda in carne e in pelle.
Ma senza farmi per modestia rosso
Descriver tutte le sue parti belle
Non vi potrei: sol basta, ch'io concluda,
Che bella era vestita, e meglio nuda.
O voi, cui non si può beltà negare,
Io non vo' mica la beltà d'Irene
Colla vostra beltà paragonare;
Poichè confronti far non istà bene
Ciascheduna ha il suo bel particolare,
A ciascheduna il suo dar si conviene.
Quell'era una bellezza orientale,
E la vostra è bellezza occidentale.
Tosto che Arsace entrar la vide in stanza,
Dispetto, gelosia, sdegno, onta e amore,
E di quanto ascoltò la rimembranza
Fiero tumulto gli eccitar nel core.
Ella intanto ver lui franca s'avanza,
E con aria di tenero languore
Gli appicca un bacio sì lascivo e molle
Da por foco persino alle midolle.
Chiunque ha belle e infide amanti o mogli,
Che si ponga in quel critico momento,
E di parzialità, se può, si spogli.
L'infedeltà... la rabbia... il giuramento...
Amor... vendetta... alfin son brutti imbrogli.
Pur o fosse costume o complimento,
Sposo a un tempo, divoto, amante e becco,
Diè anch'egli un bacio a lei, ma freddo e secco.
Ella a tal novità chiamasi offesa
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Da lui si stacca, e con occhi iracondi
Altero cruccio in guisa tal palesa
Così dunque, così mi corrispondi?
Cotal mercede all'amor mio vien resa?
Certo iniquo disegno in sen nascondi.
Qual di tal cangiamento è la cagione?
Cotal freddezza infedeltà suppone.
Bel bel d'Arsace intepidia lo sdegno,
Parlando Irene, e in se tacitamente
Dicea: se colpa tal non lascia segno,
E qual prova potrei così evidente
Dell'atto aver vituperoso indegno,
Che del ver mi convinca!... Ah se innocente
Foss'ella mai?... scommetterei che sì.
Le adultere non parlano così.
Dell'opra dei folletti e dei demoni
Si sogliono valer gl'incantatori,
I maghi, i negromanti e gli stregoni.
Non è dunque da farsi gran stupori,
Se spirti sì malefici e birboni,
Bugiardi per natura e ingannatori,
Certi gusti talor troppo crudeli
Si prendono co' poveri fedeli.
Timidamente pria le palpa e tocca
La man, la gota, ed ella il rigettava:
Fassi coraggio e d'unir bocca a bocca
Per riparar l'offesa in atto stava,
E quasi il bacio espiatorio scocca;
Allor che vide il berrettin che scava
Dal più fondo del cor il pretto vero,
E squarcia il vel d'ogn'intimo mistero.
E ciò gli fe' desiderar d'udire
Ciò che quella stranissima malia
La bella Irene indotta avrebbe a dire,
Convinto appien che in guisa tal potria
Più l'innocenza sua chiara apparire,
Quella essendo la sola unica via
I dubbi suoi di dissipar capace,
E all'agitato cor render la pace.
Il formidabil berrettino prende,
E a porselo disponsi in sulla testa;
Ma l'atto climaterico sospende,
E colle man tremanti in aria resta.
Se ciò, dicea, ch'è dubbio ancor, m'offende,
Che fia s'essa il conferma e se l'attesta?
Un male allor solo temuto e incerto
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Si cangerebbe in mal reale e certo.
Ma incertezza crudel forse è men dura?
Fors'ella è un mal d'un vero mal minore?
E sembra pellegrin che in selva oscura
Di cupa notte al procelloso orrore
Va smarrito ed errante alla ventura,
E di mille spaventi ha ingombro il core.
E ognor fra la speranza ed il sospetto
Dicea fra se: lo metto o non lo metto?
Mentre così con anima indecisa
Tituba Arsace e di parer si muta;
Irene in volto il guarda fisa fisa,
E non sa cosa siagli accaduta,
Che stupido lo rende in simil guisa,
Come istrion talor far scena muta
Colla sposa infedel che si camuffa
in qualche itala vidi opera buffa.
Scossosi alfine il povero marito
Quella troncò sospension mortale,
E in mezzo ai dubbi suoi prese un partito.
Giacchè, dicea, soffrir si debbe un male,
E ciò nel ciel sta scritto e stabilito,
Il ver, si soffra almen, non l'ideale.
E in questo dir la magica berretta
Oh coraggio immortal! Sul capo assetta.
Senza ritegno Irene allor s'espresse,
E del cor vomitò tutti i segreti;
Così forse energumeni ed ossesse,
Così gli entusiastici profeti
E Trofoni e Cassandre e Pitonesse,
Così d'Ammon, così di Belia i preti,
Così svelar la volontà del cielo
E di Delfo gli oracoli e di Delo.
Quel Marzucco, dicea, sta sempre avante
Agli occhi miei, non ch'io non ami Arsace,
Quanto esser puossi di marito amante;
Ma quel Marzucco ha non so che, che piace,
Una fisonomia significante,
E qual cosa d'ardito e di salace,
E un certo personal viril robusto,
Che seduce, solletica e dà gusto.
Un'abitudin farsi è necessario,
Perocchè d'abitudini si vive;
Ma i sensi ottusi rende uso ordinario,
Onde esigenza natural prescrive
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Supplemento talor straordinario;
Che queste cose son correlative,
E quel Marzucco, a dirla schiettamente.
Straordinario è in verità eccellente.
Marzuc da Irene prendersi per tema
In quel suo vaniloquio udendo Arsace,
E di più por l'infedeltà in sistema
Con sofismi di logica mendace,
In cor si turba, impallidisce e trema.
Pur a forza il rancor comprime e tace,
Fedel custode e martire incruento
Di sacro inviolabil giuramento.
Ma prosiegue ella nel medesmo tuono:
Il povero Marzuc so quanto m'ama,
E all'amor suo non insensibil sono,
Che non convien durezza a gentil dama;
E chi ha caratter dilicato e buono,
Riconoscente ognor mostrarsi brama;
Non corrispondere a cotanto amore
Prova saria d'ingrato ignobil core.
Ma no, Marzucco mio, nè me chiamare
Insensibil tu puoi nè sconoscente;
E se prove non hai che scarse e rare
Di reciproco amor, ciò veramente
A colpa mia non lo potrai imputare
Ma dell'assiduo mio sposo insistente.
Verrà il dì che con libero piacere
Potremo appien del nostro amor godere.
Arsace nell'udir che Irene stessa
Di bocca sua senza rossor, senz'onta,
Sfrontatamente il fallo suo confessa,
E i vergognosi intrighi suoi racconta,
Ambo i discorsi di Marzucco e d'essa
Combinando rapprossima e confronta,
E diviene or azzurro or giallo or verde,
E di ragione ogni scintilla perde.
Oh capriccio d'incanti! oh stravaganza
I fisici difetti della testa,
Escrescenza, tumor, protuberanza,
Suol turbante celar, cappello o cresta,
O altro d'antica e di novella usanza:
Ma il berretto d'Arsace manifesta
Le armature taurine, ed i morali
Tuberi delle teste maritali.
Alla camera annessa una ringhiera
17
Sulla marina altissima sporgea,
Ove il sultan venire in sulla sera
Per respirar le fresche aure solea;
Colui, che più di se padron non era
Per le malvagità che udite avea,
Tratta tosto la magica berretta,
Lungi da se fuor del balcon la getta.
Il vaniloquio suo troncando Irene,
Della berretta il vol rimira estatica;
E quella rotolando a cader viene
Sul mar giusta le leggi della statica.
Ma voi, Protei, Nereidi e Sirene,
Glauchi e Tritoni ed ogni Ninfa acquatica,
Venite a galla dagli algosi fondi,
Salvate il berrettin, che non s'affondi.
Gran sventura saria, se si perdesse
Cotal virtù straordinaria ignota,
Che al magico berretto il ciel concesse,
Acciò l'occulta verità fia nota.
E le nequizie sue ciascun confesse.
Prendetelo finchè sull'onde nuota,
Prendetel, pria che il mar non l'assorbisca,
E sì rara virtù non si smarrisca.
Che prendasi, che in giro indi si porti
Alli sultan che occupan d'Asia i sogli,
Poscia d'Europa visiti le corti.
Quante ivi scoprirà cabale e imbrogli!
Passi ivi pur sotto silenzio i torti
Che fanno ai sposi lor le regie mogli,
Purchè scopra i disegni empi e sinistri
Dei furbi cortigiani e dei ministri.
Nelle cancellerie, ne' gabinetti
Penetri e ne' politici congressi;
Ove gli scaltri aggiratori eletti
De' principi a trattar degl'interessi,
E a discuter del mondo i grandi oggetti,
Mercanteggiano i deboli e gli oppressi;
E con tuon di candore e d'amicizia
Ricopron la menzogna e la malizia.
Ma tutta de' marini abitatori
Sorda rimansi la cerulea truppa,
E dalle grotte sue non esce fuori,
E fra i giunchi e i coralli si raggruppa.
E intanto il berrettin dei salsi umori
Gravitando s'imbevera e s'inzuppa,
E dall'ondoso dorso alfin dispare,
18
E nel fondo precipita del mare.
O voi, che un con sincero in pregio avete,
Voi, che sempre del vero andate in traccia,
Del berretto la perdita piangete,
Che più del sol non rivedrà la faccia.
Non più dai cupi cuori il ver trarrete,
Che menzogna su i labbri ognor s'affaccia.
L'uom sincero deriso è assai sovente,
E più merto ha colui che meglio mente.
Presso ad Ormùs si pescano le perle,
Che stan nelle conchiglie in fondo al mare;
L'ardito nuotator, che per averle
Sott'acqua colaggiù valle a pescare.
Oh se fra l'alghe brancolando e per le
Cieche profondità, su riportare
Quel berretto potesse! oh come cosa
D'ogni perla saria più preziosa!
Arsace per l'affanno e per la smania
Si contorce e divincola qual'angue,
E invaso par da frenesia, da insania.
Entro le vene se gli agghiaccia il sangue,
L'occhio offuscato è da caligin strania,
E cade a terra semivivo, esangue,
E tutti in lui gli spiriti animali
Sospese avean le funzion vitali.
Irene sbalordisce alla caduta,
E chiama e grida ignara del secreto.
Accorron servi e Paggi, ognun l'ajuta,
Chi acqua fresca gli spruzza, e chi l'aceto,
Chi la menta a fiutar dagli o la ruta,
Chi l'essenza di rose, e chi l'orvieto,
Finchè con stento l'anima assopita
Tornò di nuovo a dar segni di vita.
Pallido e smorto i torbidi occhi attorno
Gira attonito in volto, e par che tema
Per fin la luce riguardar del giorno;
Insensibil riman, palpita e trema,
E a vista del suo fato e del suo scorno
Cade in una mortal tristezza estrema;
E lui distrar dalla tetraggin nera
L'afflitta corte in van procura e spera.
Quanto idear si può, quanto far lece
Per richiamar la gioja e l'allegria,
Tutto in opera pose e tutto fece;
Ma profonda crudel melancolia
19
Nella reggia d'Ormùs regnava in vece
Della brillante ilarità di pria;
Poichè il sultan già pien d'amenità
Or a vederlo sol facea pietà.
Ed intanto con tenere parole
La cagion de' suoi mali Irene istessa
Co' dolci vezzi suoi, com'ella suole,
Per recargli conforto a lui s'appressa,
E consolarlo e sollevar lo vuole.
Mutolo ei fissa il torbo guardo in essa,
E con languida man la spinge indietro,
E ne divien d'umor più nero e tetro.
Ma tolga il cielo, o Donne mie vezzose,
Che prolisso e nojoso a voi mi renda
Colle immagini triste e lacrimose
Di quella strana oriental leggenda.
Permettete però, ch'io mi ripose,
Ed il racconto mio per or sospenda.
Che se la stessa compiacenza avrete,
Poi della storia il seguito udirete.
20
NOVELLA II
LA CAMICIADELL'UOMO FELICE
Arsace a sollevar dalla mortale
Melancolia crudel, che sì l'afflisse,
Senza sapersen la cagion del male,
Che non si fece mai, che non si disse?
Tutta la facoltà medicinale
Pillole, droghe e farmachi prescrisse;
E tutti i venturieri e gl'impostori
Divenuti eran medici e dottori.
S'immaginar spettacoli novelli,
E piacer ricercati e pellegrini;
Ed uno fu dei lor pensier più belli
Di far venir d'Europa i burattini,
E da Napoli i cola e i pulcinelli,
E da Bergamo i zanni e gli arlecchini;
E se altri sono in altre regioni
Più luminosi e celebri buffoni.
Vecchie donne, che in ciò diceansi pratiche,
Tinto in olio pennel (pensier bisbetico!)
Volean passargli lieve in sulle natiche,
Perchè stimola al riso un tal solletico;
E il riso per le sue virtù simpatiche
Della melancolia è un grande emetico;
Ma la decenza di quel buon sultano
Ricusò d'espor nudo il deretano.
Ma tutti eran rimedi incerti e vaghi,
E vani espedienti e senza effetto;
Onde per ritrovar cosa che appaghi
Le speranze de' sudditi e l'affetto,
Fu convocata l'assemblea de' maghi,
A cui credeasi risedesse in petto
D'ignote cose la scienza arcana
Superiore a intelligenza umana.
Talor, ma raro assai, quell'adunanza
Soleasi unir con potestà plenaria
In casi di grandissima importanza,
21
O in qualche occasion straordinaria,
O grave perigliosa circostanza,
Che indispensabil renda e necessaria
Determinazion pronta, e pront'ordine
Per por riparo a qualche gran disordine.
Così i Greci in affar di conseguenza
Consultavan gli oracoli dei numi;
Così i Romani giusta l'occorrenza
Delle Sibille aprivano i volumi;
Così in casi talor di coscienza
Imploriamo anche noi consiglio e lumi
Da paffuti dottor, per lo più frati
Nella teologia laureati.
Il grave esterior, le rase chiome
Dan lor d'opinion l'alto vantaggio,
Con barbe lunghe sino al basso addome
Veniano lenti lenti, e al lor passaggio
La man sul petto il popol ponsi, come
Far suole in segno di rispetto e omaggio
Che color riveriti e riguardati
Eran come del cielo i deputati.
Io dir non vi saprei per qual sventura,
O piuttosto per qual fatalità
Da noi credito ottien più l'impostura,
Che la semplice e nuda verità;
Forse non se le bada e non si cura
Per quella stessa sua semplicità,
E il tren dell'impostor colpisce gli occhi,
Appaga i sensi e impon rispetto ai sciocchi.
In un ampio salon quei babbuassi
Siedonsi a corte, e custodisce e guarda
Truppa i passaggi attorno, e all'erta stassi
Brusca, e indietro a respingere non tarda
Chiunque colà volga incauto i passi
A colpi di spuntone e d'alabarda.
Di soldatesca a duri modi avvezza
Son privilegi impertinenza e asprezza.
Quali oracoli allor aprir la bocca
Quei vasi di saper; ma non l'apriro
Che per dir cosa stravagante e sciocca.
D'ogni scempiezza e d'ogni lor deliro
Non vi farò nojosa filastrocca;
Dirovvi sol che a maraviglia uniro
A interesse, ad orgoglio, ad arroganza
La superstizion e l'ignoranza.
22
Chi disse, che il sultano una moschea
Bella più ancor delle moschee più belle
Al gran profeta edificar dovea;
E chi doversi consultar le stelle,
E che al sultan trovarsi sol potea
Rimedio dalla inspezion di quelle;
Chi disse, acciò il sultan s'allegri e svaghi,
Il governo lasciar doversi ai maghi,
Chi disse, ch'ire a visitar la Mecca
Dee lo stesso sultan, ma da suo pari,
Cioè non far visita magra e secca;
Ma seco aver camelli e dromedari
Carchi di doni, e che d'Ormùs la zecca
Quanti occorran fornir debba danari;
E se alla Mecca al mal la medicina
Non troverà, la troverà a Medina.
Ma il venerando Abumelek già sorge,
Ed alto arcano espettorar già vuole.
Nell'adunanza al sorger suo si scorge
Muto rispetto, ed alle sue parole
Riverente ciascun l'orecchia porge.
La sapienza sua venera e cole
Ormùs, l'Eufrate, il Tigri e le disperse
Nazion sulle sponde arabe e perse.
Il guardo pria solleva al ciel, poi dice
Solo indicar ciò che si cerca io posso.
Al sultan ricovrar soltanto lice
La sua primiera ilarità, se indosso
La camicia si pon d'un uom felice.
Solo per modo tal da lui rimosso
Fia l'estremo languor, che sì l'affanna.
Chi altri rimedi a lui propon l'inganna
Chi trovar tal camicia avrà la sorte
Gran premio s'abbia, ed il sultan l'ammetta
Fra li primari satrapi di corte.
Tal camicia si cerchi, a che s'aspetta?
Si trovi tosto ed al sultan si porte,
E calda calda indosso se gli metta;
E tosto che il sultan indosso avralla,
Tornerà lieto, Abumelek non falla.
D'Abumelek alla proposta strana
Ciascun s'acqueta e replicar non osa;
E del gran mago la dottrina arcana
Passò per certa, anzi infallibil cosa;
E ciaschedun lodò la sovrumana
Virtù della camicia portentosa,
23
Ciascun chiose vi fa, ciascun ne parla;
Resta solo a saper, dove trovarla.
Prima in Ormùs e in ogni suo contorno
Cercar felici, e non trovar niente;
Onde d'Asia spedir per ogni intorno
E satrapi e bascià, chi ad occidente,
E chi a settentrion, chi a mezzogiorno,
E chi all'ampie contrade d'oriente.
Color partiro e scoser quinci e quindi
Persi, Fenici, Armeni, Arabi ed Indi.
Vider d'orgoglio turgidi monarchi,
Ch'eterna ambizion rode e divora;
Viderli ognor del pubblico odio carchi,
Tremanti e mai sicuri in lor dimora,
E a cui dei veri ben gli Dei fur parchi.
Falso splendor, che i vani oggetti indora
Sui mortali elevarli invan pretende,
E fra loro i più miseri li rende.
Vider chi profondea ricchezze immense,
D'avaro genitor ampi tesori,
In lusso, in feste, in equipaggi, in mense;
Ma dell'oro i satelliti timori,
E d'ammassar l'avide voglie intense
Agitavano il cor dei possessori;
E la noja maggior d'ogni altra pena
Lor la vita amareggia ed avvelena.
Un Dervis poi trovar di quel turchesco
Ordine monacal, l'institutore
Di cui l'opposto fe' di san Francesco:
L'uno è di penitenza e di rigore,
L'altro è un ordin d'un genere burlesco.
Che qui ciascun, secondo il proprio umore
Giudichi, in quanto a me son buon cattolico;
Ma l'allegro amo più che il melancolico.
Or come aver colui la gioja in viso,
E negli atti lo scherzo ognor fu visto,
E sulle labbra la facezia e il riso,
Per lo sultano addolorato e tristo
I due bascià d'Ormùs furor d'avviso
Della camicia sua di far acquisto;
Ma poi s'avvider, ch'arte e non natura
Quella ancor sostenea gaja impostura.
Chi vantava splendor di ceppo antico,
E le fumose immagini degli avi,
E profusi favor di prence amico,
24
E privilegi e onor, tracolle e chiavi;
Ma dell'invidia e dell'astuto intrico,
E di lor vanità vittime e schiavi;
Sollievo certamente al mesto sire
Le lor camice non potean fornire.
Chi fra vezzi lascivi e lusinghieri
Vita traea voluttuosa e molle;
Ma l'eccesso del vizio e dei piaceri
Gli fiacca i sensi ed il vigor gli tolle,
E fra sospetti immaginati e veri
Per gelosia spregevol fassi e folle,
Nè le camice loro al tristo tedio
D'Arsace offrir potranno alcun rimedio.
Poi fra le malabariche galanti
Seducente, gentil, vezzosa e bella
Baiadera trovar, che in danze e in canti
Giorni lieti menava, e intorno d'ella
Mille drudi eran sempre e mille amanti
E all'andamento, agli atti, alla favella
Credendo che per la melancolia
La sua camicia un anodin saria,
Domandar quei d'Ormùs un testa a testa,
E piena la trovar di compiacenza.
Tosto che fur con lei le alzar la vesta,
Nè moto ella fe' mai di resistenza
Breve camicia avea, perchè detesta
Gl'imbarazzi d'incomoda decenza;
Ma sotto in osservar la baladera
S'avvider, che felice ella non era.
Altri col perspicace alto intelletto
L'opre e gli arcani di natura apprese,
E quanto in ogni età fu fatto e detto;
Onde fra i dotti celebre si rese
Pien di filosofia la lingua e il petto;
Ma intollerante zel di mira il prese,
La letteraria cabala, il livore,
La possente ignoranza e il vecchio errore.
Massa infelice è il resto de' viventi,
Allo scherno, all'insulto, ed all'oltraggio
Esposta ognor de' forti e de' potenti;
Onde nella fatica e nel servaggio
Mena dì mesti fra miserie e stenti;
E dal penoso lor lungo viaggio
Trar non avean potuto alcun profitto
I messaggieri del sultano afflitto.
25
E sospirando ripetean talora:
O uomini felici, ove voi siete!
Fate soggiorno sulla terra ancora,
O nojati di noi sdegnato avete
Coi mortali comune aver dimora
E cercaste spirar aure più liete?
E immersi in quel pensier torbido e tetro
Tornavan mesti e mal contenti indietro.
Dall'Egeo sino all'Indico oceano
Per borghi, per castella, e per città
La camicia fatal cercata invano,
Che reca al possessor felicità,
A far fedel rapporto al lor sovrano
Ritornavano i satrapi e i bascià;
Che la camicia tanto ricercata
Del felice mortal non s'è trovata.
Così al can notator talun per spasso
Getta pietra sul fiume, e il can nell'onda
Per addentarla gettasi, ma il sasso
Sotto acqua rotolandosi s'affonda:
Indarno il can lo cerca, onde alfin lasso
Torna al padron che aspetta in sulla sponda,
E a lui par che confuso e sconsolato
Dica, caro padron, non l'ho trovato.
Dunque, fra lor dicean cammin facendo,
Abumelek, che ne' prestigi suoi
Fu infallibile ognor, grande e stupendo
Oracol di magia, ei stesso poi
Sì crudelmente or valsi divertendo.
Con tai ciance a ingannar Arsace e noi,
Noi bracchi di chimerica camicia
D'ambasciador col titolo invernicia?
La costa occidental di Natolia,
E dell'Eussin le region rimote,
E d'entrambe le Armenie, e di Soria
Le città scorse più famose e note;
Un pajo di quei satrapi venia,
Andar vedendo le speranze volgi,
Per imbarcarsi a Bassora, e per mare
Alla reggia d'Ormùs di là passare.
Dell'Eufrate perciò varcar le rive,
E nella terra entrar, che la Scrittura
Nel libro della Genesi descrive,
Ov'aura allor spirò nitida e pura,
E fur delizie d'amarezza prive,
Ed ove nello stato di natura
26
La prima madre e il primo genitore
Visser felici almen ventiquattr'ore.
Anzi un arabo autor perito e dotto
In ciò, che ha di più raro il tempo antico,
(Che però ciecamente io non adotto)
Marca il sito preciso, ov'era il fico
Che fra noi tanto mal poscia ha prodotto.
Io non vo' garantirvelo; ma dico,
Che quella terra oltre ogni dir feconda
Di bellissimi fichi anch'oggi abbonda.
Progredendo incontrar valletta amena,
Onde esalava odor di paradiso;
Di campestri vaghezze adorna e piena.
Ivi un pastor sopra l'erbetta assiso
Gia modulando boscareccia avena.
Due villanelle leggiadrette in viso
Presso lui canestrin con mano industre
Fean di giunco e di vimine palustre.
Il fido can giace al pastore accanto,
E svelto, agil di membra e vigoroso
Contadinotto e danza e canta intanto
Avanti a lor sul praticello erboso,
E coro fan le villanelle al canto
Con gajo intercalar melodioso,
E di letizia il bosco, e i colli attorno,
E tutto empian quel pastoral soggiorno.
Soffermansi i due messi in sul sentiero
Del silvestre spettacolo all'aspetto.
La pura gioja ed il contento vero
Di quella gente avventurosa in petto
Trasfonde ai due messaggi un lusinghiero
Non conosciuto pria dolce diletto,
E ad osservar quel boscareccio crocchio
Stansi senza aprir bocca e batter occhio.
Stati alcun tempo taciti ed attenti,
Al compagno un di lor fe' manifesta
L'emozion che prova in cor: non senti
Tenero senso, gli dicea, che desta
La gioconda armonia di quei concenti
A veder tanta gioja e tanta festa,
Caro satrapo mio, di', che ne dici?
Color non si diria che son felici?
Ma come in gente mai povera e sbricia
Possibil fia che un giubilo si veggia,
Che non si suol fra nobiltà patricia,
27
E in gran città trovare in alta reggia?
Possibil fia che la fatal camicia
Cercar fra alberghi pastoral si deggia,
Che in van finor fra le mollezze e gli agi
Trovar sperossi e in splendidi palagi?
Amico, quei risponde, io tel confesso,
Sorpreso a primo colpo anch'io restai;
Di cotal gente l'esultanza io stesso
Con maraviglia e con piacer mirai;
Ma più maturo poi fatto riflesso,
Vidi e compresi ben, che non può mai
Gente d'ogni agio priva e altrui soggetta
Aver felicità solida e schietta.
Di rozzi abitator di boschi e valli
Quelle le usate son rustiche ferie;
Ma non già di coloro i canti e i balli
Son vere gioje e contentezze serie;
Ma rapiti momenti ed intervalli,
Che frappongono ai stenti e alle miserie,
E dopo quel brevissimo sollazzo
Tornano alla fatica e allo strapazzo.
Così se asino ancor la fune snoda,
A cui legato lo lasciò il villano;
Con ritte orecchia e con arcata coda
Saltar lo vedi sull'erboso piano,
E ragghia e scherza, e ti parrà che goda
Ma dopo il breve ruzzo e il gaudio vano
Di nuovo il vettural lo sottopone
Alla fune, alla soma ed al bastone.
Troppo, satrapo mio, l'altro ripiglia,
Fitte in capo ti stan l'idee di corte,
Troppo quel tuono al cortigian somiglia.
Qualunque stato abbia destino o sorte
Assegnato a ciascun, chi si consiglia
Colla ragion sa ben, come sopporte
Privazion di ciò ch'agi tu appelli,
Nè sua felicità ripone in quelli.
Poich'ei fatti ebbe questi e altri riflessi,
D'interrogar per ischiarir le cose
Sul loro stato quei pastori istessi
Al cortigiano satrapo propose;
Onde mezzi non sieno e modi ommessi
Di pervenire al ver; e quei rispose:
Giacchè così filosofar t'aggrada,
Disinganniam le astratte idee: si vada.
28
Sovr'essi, poichè viderli appressare,
Fissar gli sguardi e li stimar coloro
Ai gran turbanti, all'abito talare,
E al satrapesco esterior decoro
Personaggi di rango e d'alto affare;
E interrupper la danza e i canti loro,
Non sapendo, qual fin, qual interesse
Satrapi e cortigian colà traesse.
Perchè, o pastor, diceano i messaggieri,
Perchè per noi cessar? noi gl'innocenti
A turbar non veniam vostri piaceri:
Ditene sol, quai fausti avvenimenti,
Qual ragion (poichè qui noi siam stranieri)
Sì lieti oggi vi rende e sì contenti?
E da quei che la danza avea sospesa
Franca risposta ai messaggier fu resa.
Chiunque siate voi, non già vedeste
Rare cose fra noi straordinarie.
Pastorali abitudini son queste,
E costumanze solite ordinarie;
Onde non dure sembranci e moleste
Le cure nostre giornaliere e varie.
E quai cure elle son? chi ve le impose?
Richieser quelli, e il villanel rispose:
Stranier, noi grazie al ciel, di gran signori
Al dominio il destin non sottopone.
Siam poveri, ma liberi pastori.
Non qui d'avaro burbero padrone
Denno il lusso nudrir gli altrui sudori,
Nè qui gli ordini altieri alcun c'impone.
Non ci turbano il cor avide voglie,
E quel poco che abbiam, nessun cel toglie.
L'industrioso provvido cultore
Dolce compenso della sua fatica
Gode, quando al benefico favore
E di pioggia feconda e d'aura amica
Dal suol vede spuntar l'erbetta e il fiore,
Crescer le piante e biondeggiar la spica,
E in copia il nudrimento uscir del seno
Dell'ubertoso fertile terreno.
Guidiamo ai paschi or sull'aprico colle
Le pecorelle, or nell'ombrosa valle;
Poscia del sole al tramontar satolle
In rozze le chiudiamo umili stalle,
E fornisconci il latte e il cacio molle,
E lane e pelli, onde coprir le spalle.
29
Talor proviam, se a noi di trar riesce.
Nelle reti gli augelli, all'amo il pesce.
Sol queste son nostre ricchezze: figlio
Di quel pastor che là vedete io sono.
Fresco e robusto è ancor: al suo consiglio,
Poichè sempre il trovai sensato e buono,
E con profitto e con piacer m'appiglio.
Allorchè Mostanser era sul trono,
Fu in Bagdad giovinetto, e ad anni venti
Era già guardian dei regi armenti.
Ma de' ministri l'alterigia stolta
Sdegnando, del sultan dopo la morte
Qua venne; e delle iniquità talvolta
Della città parlando e della corte,
Coll'esempio la voglia a noi ne ha tolta,
E contenti viviam di nostra sorte.
Le due che assise son su quell'erbosa
Piaggia, una è suora mia, l'altra è mia sposa.
Il colto suol ci nutre e ci sostenta,
L'opra di nostre man di che abbisogna
Fornisce ognun di noi, nè il più ci tenta;
Nè di ammassar e primeggiar s'agogna,
Desir che tanto mal tra voi fomenta.
La danza, il canto, il suon della zampogna
Dopo l'usato giornalier lavoro
A noi son di sollievo e di ristoro.
Stupiti i due bascià davangli ascolto,
Domandar poscia: e nulla brami o speri?
E quegli: ho l'uopo mio, nè cerco il molto.
Restar mutoli alquanto, e fra pensieri
Fiso un l'altro guardandosi sul volto;
Al pastor poi rivolti i messaggieri
Dissergli alfin: dunque tu sei felice.
E il pastor rispondeva: il cor mel dice.
Ambo allor se gli stringono alla vita,
E di dosso il sajon traggongli intanto.
Agli assassin, grid'ei, correte, aita,
E alte grida si levano e gran pianto
In tutta la famiglia sbigottita.
E i bascià: non temer, cedi soltanto
La tua camicia e guiderdon ne avrai
Ed ei: camicia a me? non l'ebbi mai.
In fatti il ricercaron, ma delusi
Trovar, ch'ei non avea camicia indosso;
Onde mesti partivansi e confusi,
30
E ch'esister potesse un grande e grosso
Garzon senza camicia contro gli usi
Comuni, parea lor un paradosso;
E credendo ottenuto aver l'intento
Vider svanire ogni speranza al vento.
Così amante talor sogna, che in letto
Seco la bella sua nuda si giaccia,
E già anelante a coglierne diletto
Pargli esser presso, e stendele le braccia;
Quando si desta e trovasi soletto,
Di mal sparso sudor molle la faccia;
Perchè sognando il suo desir gli finse,
Ch'ei stringea la sua bella, e l'aria strinse.
Tornati dunque a Ormùs con tristi auspici
Sparser della camicia i cercatori,
Che gli astri ai voti lor non furo amici,
E che delle camice i possessori,
Come all'esterno appar, non son felici,
Sebben gli dicon tai gli adulatori,
E il volgo come tai li cole e officia.
Quei che felici son non han camicia.
31
APPENDICE ALLA NOVELLA
DELLA CAMICIADELL'UOMO FELICE
Io so ben il racconto antecedente
Sulla camicia dell'uomo felice
Da taluno si termina altrimente;
Pertanto aggiungo qui per appendice
Ciò ch'un certo assai noto in oriente
Scrittore di conti arabi ne dice;
Dal che comprenderete quanto sia
Grande il rigor dell'esattezza mia.
Qui forse, Donne mie, qualcun non loda
Ch'io far voglia la coda a una novella;
Poichè ognun fa sonetti colla coda
Massimamente in itala favella;
Ma le novelle poi non è di moda.
sofistico cavillo! oh questa è bella!
Non son dunque io padron di dire e fare,
E di metter la coda ove mi pare?
Narra l'autor, che i due bascià tornati
Dalla lor mission, discesi appena
All'isola d'Ormùs, del mar nojati
Sdrajarsi presso a un kiosc su piaggia amena.
Dì campagna casin da noi chiamati
I kioschi son, di cui l'Italia è piena,
E il Turco situarli ha per costume
Sulle rive del mare, o presso a un fiume.
Il sultano a quel kiosc per suo diporto
(Poichè al sultano il kiosc appartenea)
Pria che foss'ei nella tristezza assorto,
Con Irene venir spesso solea;
Benchè i bascià veruno avesser scorto,
Voce là dentro udiron, che dicea;
No, di me più felice il ciel non serra
Negli ampi spazi suoi, non che la terra.
Conoscer quella voce a color parve;
Non d'Arsace ella è già, poich'ei non esce,
E colà da gran tempo ei non comparve,
Che la luce del sol perfin gl'incresce.
E chi altri fuor che lui potrebbe andarve?
Onde stupian, ma lo stupor più cresce,
Ripeter dentro udendo: oh me felice!
E conobber chi è quei che così dice.
32
Era Marzucco: e in ver chi mai colà
Entrar potria, se non gente di corte?
Onde alzatisi tosto i due bascià
Picchiar più volte e ripicchiar sì forte,
(Che d'osar tutto han piena facoltà)
Che sembra che atterrar voglian le porte;
Quando sentiro alfin qualcun venire
Tratto da quello strepito ad aprire.
Sovvengavi, che Irene già promise
Di giacer con Marzucco a lor grand'agio,
Quando possibil fosse; e or che il permise
D'Arsace il favorevole disagio,
La sua promessa d'adempir decise.
Ma far nol volle entro il real palagio;
Onde nel kiosc per mantener parola
Quel giorno con Marzuc venn'ella sola.
Marzuc, ch'era nel colmo del diletto,
A quel picchiar entrò di mal umore,
E le mutande postesi e il farsetto
Per veder cosa fosse quel romore,
Chiuso l'uscio e lasciata Irene in letto,
Prese una scimitarra ed uscì fuore,
E in tale arredo e con cipiglio fosco
La porta alfin venne ad aprir del kiosco.
Quando i bascià Marzuc vide alla sbarra,
Divenne per timor or bianco or rosso,
E gli cadde di man la scimitarra,
Se reo sapendo d'attentato grosso.
Non temer, quei diceangli, e per arra
Glien dier la lor parola, indi di dosso
Gli traean la camicia, ei cheto stava,
E per rispetto ei stesso se la cava.
Se sapesser quei satrapi non so,
Ch'ei con Irene osato avea giacere.
Forse ch'essi il sapeano e forse no;
Ma sembiante ambo fer di nol sapere.
Rassicurandol dunque, a lor bastò
D'aver la sua camicia in lor potere:
Portanla a corte, e per l'orribil tedio
Presentano ad Arsace il gran rimedio.
Ella esser per lui dee l'asta d'Achille,
Questa la noja avria prodotta e sciolta,
Quella fe' le ferite e poi guarille.
Cotal camicia, ei chiede, a chi fu tolta.
Ma come conservar le idee tranquille.
33
Quand'esser ella di Marzucco ascolta?
Fu presso a divenir pazzo e frenetico,
E tocco da mortal colpo apopletico.
Stettesi pria per alcun tempo invaso
Dai più tetri pensier, stupido e muto;
Poscia appressossi la camicia al naso,
E parvegli sentirvi Irene al fiuto;
E ne rimase tanto persuaso,
Che disse: un tal rimedio io lo rifiuto,
Pria che pormela indosso, io ve' crepare;
E fuori del balcon gettolla in mare.
Gonfia dal vento iva ondeggiando in aria,
E ove andasse a cader non vi so dire.
Per quei, cui gelosia tormenta e angaria,
E suol di quella ipocondria patire,
Una cotal camicia è necessaria.
Vada a cercarne chi ne vuol guarire.
Quest'è la coda che qui far conviene
Ditemi or voi: non ce l'ho messa bene?
NOVELLA III
LE DUE SUNAMITIDI
Divina gioventù, che degli Dei
Non che del germe uman fai la delizia,
Non men t'esalterò, s'io ti perdei.
Di piacer, di contento e di letizia
Sorgente abbondantissima tu sei;
Da te la noja fugge e la mestizia,
Tutto è vita con te, tutto è vigore,
E senza te tutto languisce e muore.
Che s'uom costantemente esser felice,
E se te posseder con permanenza
Ad un mortal, o gioventù, non lice;
Attorno emana dalla tua presenza
Vivifica virtù benefattrice,
E salutiferissima influenza.
E ciò appunto col fatto oggi son pronto
A dimostrarvi in questo mio racconto.
Guari, o Donne, non è, che in un'antica
Città della Calabria ulteriore,
Il di cui nome uopo non è ch'io dica,
Era vescovo un certo monsignore,
34
Che sempre un'esemplar, casta e pudica
Vita menata avea; sicchè l'amore
Co' dolci modi affabili ed umani
Guadagnossi de' suoi diocesani.
Era all'incirca, a dirvela in secreto,
Dell'età mia, vo' dire ottogenario;
Ma sempre ameno per natura e lieto.
Don Gianmaria chiamossi il secretario,
Tranquillo, buon vivente ed uom faceto;
E mastro era di casa un tal Macario,
Credo, anch'ei galantuom, ma d'umor strambo;
Eran però gran donnajuoli entrambo.
Quantunque monsignor d'una natia
Forte complession fornito fosse,
Onde ognor sano avea vissuto pria,
Col tempo ad abbiosciar incominciosse,
E dell'età gl'incomodi soffria,
Suppurato catarro, affanno, tosse,
Svogliatezza o altro tal cronico insulto;
Onde chiamò li medici a consulto.
Pieni costor di medica dottrina
Tastargli il polso, e cogli occhiali al naso
Esaminar l'episcopale urina,
E ciaschedun quei, che più crede al caso,
Aforismi d'Ippocrate sguaina,
Di Celso, di Galeno, d'Oribaso;
Chi palpa il ventre, e chi gli preme il tergo,
E borbottan fra lor medico gergo.
E con termini poi tondi e majuscoli
Van grecizzando, e in tuono grave e serio
Parlan d'eterogenei corpuscoli,
Che imbarazzan l'addome e il mesenterio,
E fanno urto sui nervi, ovver dei muscoli
Comprimon l'azione e l'elaterio,
E d'improvvisa ostruzion di pori,
E di corruzion d'inerti umori.
Le lor riflession poich'ebber fatte,
Tutti alla fin d'accordo fur, che cura
Miglior non v'era in caso tal che il latte.
Doversi sol, per ire alla sicura,
Saper qual più allo stomaco si adatte
Di monsignor ed alla sua natura,
Se caprino, vaccino, bufalino,
Cavallino, asinino o pecorino.
V'era un medico, detto don Andronico,
35
Assai di monsignor familiare,
E amico fin d'allor ch'ei fu canonico,
E vicario di poi capitolare;
E or l'assisteva in quel suo male cronico
Con un'attenzion particolare
E quando erano soli, assai sovente
Burlavano fra lor liberamente.
Don Andronico stavasi in disparte.
Le tante a udir opinion contrarie,
E siccome uom, che nella medic'arte
Cognizioni avea non ordinarie,
Levossi e disse: io lascio qui da parte
Ogni discussion sopra le varie
Specie di latte più o men forti e dolci
Latte di giovin donna è quel che vuolci.
E tanti irrefragabili argomenti,
Tante ragioni e tante prove addusse,
E tanti ripetuti esperimenti,
E tanti fatti autentici produsse,
Che, riuniti alfine i sentimenti,
I consultori al suo parer condusse.
Laonde a quanto egli propose e disse
Ciascuno uniformossi e si soscrisse.
Di gravide fanciulle in cerca andaro,
Che amor sedusse e stimolo di carne,
Capriccio o altrui promesse, arte o danaro.
La gran difficoltà non fu a trovarne;
Che non è di tal merce il gener raro:
Difficil fu bensì la scelta farne;
Ma cerca cerca, alfin trovossen una,
Che all'uopo adatta parve ed opportuna.
Foresozza trovar bella ragazza,
Che un puttin partorito avea di poco,
Tarchiatella, frescoccia, un po' brunazza,
Un pajo d'occhi avea pieni di foco,
Con due poppotte di sì bella razza
Da tentar e sedur l'uom più bizzoco,
Colme di latte, ed avea nome Gnesa,
E monsignor per allattar fu presa.
Narrav'ella, che un tal contadinotto,
Appostatala un dì dietro un macchione,
Poste a vista le avea le mani sotto
Senza chieder neppur permissione
Che a tale ardir ella impregnò di botto
Contro la sua decisa intenzione;
Ma di colui per poca esperienza,
36
O per distrazione e inavvertenza.
Nessun cercò verificar la cosa.
Gnesa il dottor due volte al dì mugnea,
E ber di latte al vescovo una dosa
Mattina e sera in un bicchier facea.
Poi fe' riflession giudiziosa,
Che s'ei stesso sul sen poppar volea
Del latte, qual natura lo formò,
Meglio ei farebbe; e monsignor poppò.
Ma siccom'era monsignor costretto
Dagli anni e dagl'incomoducci sui
A star gran tempo agiatamente in letto;
In tal situazion mal puossi altrui,
Che giaciuto non sia, succiare il petto;
Onde alla donna incomod'era e a lui.
Il medico però fu di parere
Di far colei con monsignor giacere.
Che oltre all'agio maggior ch'una simile
Orizzontal congiacitura offriva,
Del benefico effluvio giovanile
L'aura salubre e la virtude attiva
Scuote l'inerzia, e dal torpor senile
Gl'illanguiditi spiriti ravviva
Come fecondità per l'atmosfera
Spande zeffiro lieve in primavera.
Ed in prova di quanto egli dicea
Del buon vecchio David l'esempio espose,
Che colla Sunamitide giacea,
Di cui si dicon tante belle cose,
E per cui il figliuol di Bersabea
Il cantico dei cantici compose,
Che avea le poppe del sapor del vino,
E simile a una torre il bel nasino.
Send'un de' primi cardini del tempio,
A monsignor in pria scrupolo nacque;
Ma di quel sant'adultero l'esempio
Lo persuase, e colla donna giacque,
Dicendo: se David senz'esser empio
Seco ebbe nuda, e all'Adonai non spiacque,
Sunamitide bella in letto stesa,
Perch'io non potrò poi giacer con Gnesa?
Natura in ver de' doni suoi più parca
Meco fu, che con lui: santo ei, profeta,
Frombolier, danzator dinanzi all'arca,
Sonator d'arpa, musico, poeta,
37
E ciò che d'altro assai più val, monarca,
Cui nulla far che in capo vien si vieta
Ma con donne David non coricosse
Per poppar latte, e non avea la tosse.
Pertanto monsignor regolarmente
Giacque con Gnesa, e sen trovò contento;
Che in tal guisa assai più piacevolmente
Senza punto scomporsi a suo talento
Allor potè da natural sorgente
Trar dolce salutifero alimento;
Cioè con Gnesa in linea paralella
Steso, il latte succiar dalla mammella.
Mentre una notte il nostro semi-etico
Al solito poppava a suo grand'agio.
Gnesa a quel succio un tal maggior solletico
Provando, inchinò il volto e adagio adagio,
Quasi per improvviso estro poetico,
Diegli senza malizia un piccol bagio.
Ed egli, oh gran bontà! non entra in collera,
A cotal atto, e sorridendo il tollera.
Ed iscusando tai donnesche lezie,
Via, pazzarella, non far la buffona.
Passò il tempo, dicea, di tali inezie.
Per gioventù, non per la mia persona
Sono gli scherzi di cotesta spezie.
Son vecchio, figlia mia, dunque sii buona.
E intanto con man lieve il tippe tappe
Le facea mollemente in sulle chiappe.
Il dottor, che dal metodo prescritto
Vedea tuttor la sanità dell'egro
Di dì in dì trar visibile profitto,
E sempre divenir più sano e allegro,
Di lasciar gli propose ogni altro vitto,
E ad ottener risanamento integro
Sempre uso far di latte sol, che stretta
Cura lattea dai medici vien detta.
Ma non potea sol d'una donna il seno
Tanto latte fornir, quanto bastasse
Per necessario nutrimento pieno;
Laonde convenia, che si trovasse
Un'altra giovin lattatrice almeno,
Che il servizio lattifero alternasse,
(Pazienza se per stupro o adulterio)
Uscita poco fa di puerperio.
E a sorte in una terra lì vicina
38
Trovaron la moglier d'un legnajuolo,
Che per lavor da un tempo era in Messina,
Giovine e fresca anch'essa, e che un figliuolo
Avea che la medesima mattina
A sei mesi mort'era di vajuolo.
Nina avea nome, e lei don Giammaria
Propose per lattar sua signoria.
Questo don Giammaria, com'io dicea,
Era di monsignore il secretario,
E tutta la diocesi credea,
Ch'ei fosse di colei concubinario.
Forse ragion di crederlo s'avea,
Non però d'appurarlo è necessario.
Io per me assicurarvelo non posso,
Ma alfine alfin non parmi un paradosso.
Pertanto Nina ancor fu in letto messa
Allato a monsignor nuda e distesa;
E siccome qualor cantava messa
Fra il diacono e il suddiacono era in chiesa,
Di diaconessa e di suddiaconessa
L'offizio Nina in letto fero e Gnesa;
Che ancor la primitiva chiesa santa
Suddiaconesse e diaconesse vanta.
E qualor a man dritta o a man mancina
Giaciuto monsignor si rivolgea,
Dava sempre di faccia o in Gnesa o in Nina
E da quattro capezzoli traea
Alimento ad un tempo e medicina.
Uscian così, giusta la storia ebrea,
Dal beato Eden, se Mosè non erra,
I quattro fiumi a fecondar la terra.
Ben anche il primo albor non apparia,
E desti tutti e tre fra le lenzuola
Giacean di buon umore e in allegria,
Parlando or d'una, ora d'un'altra fola:
Venne al vescovo allor la fantasia
A Nina di narrar la pazziuola
Di Gnesa, che mentr'ei sorbiva il succhio,
Vicino al naso gli appiccò un baciucchio.
Or mentre monsignor la cosa narra,
A Nina pazzacchiona per natura
Saltò in capo improvvisa idea bizzarra,
E disse: cotestei se si figura
Ch'esser debb'io da men di lei, la sgarra.
Ogni riguardo in questo dir trascura,
Si stringe addosso al vescovo, e gli dette
39
Quattro baciozzi e cinque e sei e sette.
Perdette a tanto ardir la sofferenza,
E dall'insolentissimo attentato
Lesa credè l'episcopal decenza
Quel venerabilissimo prelato.
Cosa dunque vuol dir tanta impudenza?
Con gravità dicea: son diventato
Un qualche bamboccion? Via, ragazzacce,
Finiamola; e fa lor delle minacce.
Ma da riguardi esente ognor si tenne
La donna in letto, e docil mai non fue;
Nè il corruccio di lui color contenne,
Sicchè non iscoppiassero ambedue
Di risa in uno scroscio alto e solenne.
E possibil non fu, che l'ire sue
E il tuon grave alla lunga ei sostenesse;
E alfin si pose a ridere con esse.
E involontario e col pensier distratto
Fra questi abituali incitamenti
Intangibil non può rendersi affatto,
E compiacenze semplici e innocenti
Provò d'inevitabile contatto,
Bocca applicando o man con lievi e lenti
Scocchi di labbra or languidi or mordaci,
Che in ver non eran, ma parevan baci.
Sì fatti aneddotucci e coserelle,
E il latteo saluberrimo liquore,
Ch'ei di color traea dalle mammelle,
Feron si buon effetto in monsignore;
E il traspirar benefico di quelle
Tal gajezza inspirogli e tal vigore,
Che segni e marche in lui furon vedute
Di lussuria non già, ma di salute.
Nina fu la primiera che osservolle,
E già volea... ma monsignor s'oppose
Al petulante ardir di quella folle,
E più contegno in grave tuon le impose.
Scherzi sì, ma non oltre; onde non volle
Neppure udir parlar dì tali cose.
Ciò a monsignor fa onore, io nol contrasto;
Ma facile a ottant'anni è l'esser casto.
Pertanto in monsignor per più e più mesi
Costante un cotal metodo a seguire,
Mercè li savi espedienti presi,
Cominciar di salute a comparire
40
Effetti sempre più chiari e palesi,
Come poc'anzi ebbi l'onor di dire.
Acquistò il buon umore e l'appetito,
Sicchè quasi parea ringiovinito;
Poichè di gioventù l'alito attivo,
E il latte salutar di poppa umana
Con efficace corroborativo
Reser sua signoria vegeta e sana;
Lo che di Speusippo redivivo
La dottrina provò creduta strana.
Ma non peranche, o Donne, andate via,
Che non è tutta la novella mia.
Le cose a sì buon termine ridotte,
Come di monsignor le sonnolente
Mani da casual moto condotte
A posar sulle donne ivan sovente,
Sonnacchioso rivolsesi una notte,
Come tuttor solea sbadatamente,
Dalla parte di Nina, ed in quel mentre
A caso le posò la man sul ventre.
E gli parve tastandolo all'oscuro
Sentirvi enfior, durezza... onde le chiese:
Nina cos'hai, che il corpo hai tu sì duro?
Ed ella: eh nulla. Ed ei, così, riprese,
Sempre non fosti: ed ella: oh no sicuro.
Ma stamattina fantasia mi prese
D'andar nell'orto per mangiar baccelli,
E la pancia ben ben m'empii di quelli.
Voltosi monsignor dall'altro canto
Stese la man di Gnesa al ventre allora,
E trovato anche quel durotto alquanto,
Le disse: certo neppur tu finora
Il ventre avesti mai teso cotanto.
Forse baccelli hai tu mangiato ancora?
Ed ella: in verità, monsignor mio,
Amo i baccelli, e gli ho mangiati anch'io.
Monsignor biasimò sì pazze cose,
E mostrò ch'una tal replezione
Potea sequele aver pericolose;
E ad esse question su questione
Lor gia facendo, e Nina allor rispose:
Con baccelli per far colazione
Già dissi, ch'io colla compagna mia
Fui qui nell'orto di vossignoria.
Per allor monsignor altro non disse;
41
Ma la mattina poi fe' a se venire
Il maestro di casa, e gli prescrisse
Di dire all'ortolan di non aprire
A chi nell'orto per entrar venisse.
Macario andò sollecito a eseguire
Quanto monsignor vescovo comanda,
Fa chiuder l'uscio, nè il perchè domanda.
Per altro, Donne mie, se si volesse
Su ciò saper l'opinione mia;
Io vi direi, che dalle donne stesse
Tanto Macario, che don Giovammaria,
Di quanto monsignor facea con esse
Pienamente informati erano pria.
Perch'io creda così, palese a voi
Apparirà da quel ch'io dirò poi.
Osservando però che giornalmente
La pancia lor si fea più gonfia e dura,
S'avvide esser d'un gener differente
Quella straordinaria gonfiatura,
Cioè quel tal gonfior, cui volgarmente
Il nome diamo d'ingravidatura;
ch'esse però diversi assai da quelli,
ch'ei già credè, gustato avean baccelli.
Grandemente ne fu turbato e afflitto,
Ma in femminili sintomi inesperto,
E cauto ognor ne' suoi giudizi, e dritto,
Far non ne vuol risentimento aperto,
Nè il fatto pubblicar finchè il delitto
Non sia provato ad evidenza e certo;
Poichè un qualunque sbaglio, ei saria cosa
Ridicola ad un tempo e scandalosa.
E fra di se dicea: gli effluvi loro
In me vigor trasfondono e salute;
Forse con un analogo lavoro
Potrian qualità tali aver avute
Gli effluvi miei da ingravidar coloro.
Quante cose impossibili credute
Gran tempo fur, che poi l'esperienza
Possibili ha mostrate ad evidenza.
E inteso avea nomar scirri, tumori,
Ostruzion, durezze ed escrescenze,
E altri donneschi incomodi e malori,
Che ingannati talor dalle apparenze
Reputar gravidanze i professori,
Malgrado le lor lunghe esperienze.
Frettoloso somier sovente intoppa;
42
La prudenza però non è mai troppa.
E si ristrinse a dar qualche bottone,
Motto o parola equivoca allusiva
Riguardo a quella lor colazione,
Ed ai baccelli che han virtù enfiativa
Ma quelle per schivar la questione
Davan risposta ognor dubbia, evasiva.
Di monsignor conobbero il sospetto,
Ma stetter sempre ferme al primo detto.
Il medico chiamar fe' allora, e i suoi
Sospetti monsignor comunicogli.
Caro dottor, da un certo tempo in poi
Io mi ritrovo, disse, in brutti imbrogli.
Coteste donne, come è noto a voi,
Presi per lattatrici e non per mogli;
Eppure ho gran timor, ch'esse sian pregne,
Vedete ben, che sarian cose indegne.
Mi rallegro con vostra signoria;
Scherzevolmente il medico rispose,
Io mi rallegro assai, ch'ella ancor dia
Prove di sanità sì vigorose.
Lasciam le celie, amico; all'età mia
Più non si tratta di sì fatte cose,
Riprese monsignor: ma don Andronico
Proseguendo pur gia lo scherzo ironico.
Di lei tutto è l'onor: chi di giacere
Con ambedue le donne si compiacque
Della lor gravidanza ei debbe avere
La gloria sol: con una donna giacque
Il coronato autor del Miserere,
Nè frutto dal concubito ne nacque.
Son l'opre vostre di più gloria degne;
Con due giaceste, ed ambedue son pregne.
Nè repugnante alla natura umana
In vecchia età il fenomeno vi paja,
Nè cosa affatto senza esempio e strana.
Di padri, ch'ebber figli in lor vecchiaja
Della storia potrei sacra e profana
D'esempi a voi citar le centinaja;
Quantunque d'anni assai di voi più carchi
Forse non ebber figli i patriarchi?
E monsignor: de' patriarchi, amico,
Per carità non mi citar gli esempi.
A ottant'anni eran essi a tempo antico
Giovin come a vent'anni in questi tempi.
43
Attienti dunque, attienti a ciò ch'io dico,
Nè cotesti mi far discorsi scempi.
Del fatto mio sicuro io son; vegghiando
Certo non fu, se pur non fu sognando.
E quei: nè in ciò trov'io gran maraviglie,
Nè la Scrittura disfiguro o storco.
Poichè Lot tracannò più e più bottiglie,
Sonnacchioso e ubriaco come un porco;
Vecchio, com'era, ingravidò le figlie,
Quantunque il fatto fosse un pochin sporco.
Nè due donne impregnar potreste voi
Non ebbro e immune dagl'incesti suoi?
Monsignor già un pochin nojato essendo,
Alle dottrine tue medicinali,
Rispose, volontier cedo e mi rendo:
Ma non entrarmi in fatti scritturali;
Poichè assai più di te io me n'intendo.
Son vescovo, e delle alme episcopali
È sempre il vecchio e il nuovo testamento
Cibo spirituale ed alimento.
Ma come diavol mai, come in pensiero
Ti vien di Lot la lubrica avventura?
Il fatto in ver non è il più bello, e spero,
Salva l'autorità della Scrittura,
Che per l'onor di Lot non sia il più vero,
Ma detto solo in simbolo e in figura.
Or torniamo all'affar, se non ti spiace,
E lasciam Lot e il re Davidde in pace.
Don Andronico in tuon di più importanza
Allora disse, che ad un tempo egli ebbe
Forte sospetto di lor gravidanza;
Ma che or le donne esaminate avrebbe,
Onde poi far ciò che la circostanza
E la decenza suggerir potrebbe;
Ch'ei per altro astener doveasi omai
Da un latte, che potea nuocergli assai.
Poi portossi da lor che cotant'avide
Stat'eran di baccelli, e sull'autore
Le interrogò, che rese aveale gravide.
I riguardi obbliando ed il pudore,
Da pria color volean sfrontate e impavide
Sostener, che l'autor fu monsignore.
Se sol con lui, dicean, giacemmo noi,
Come si puote altri imputar che lui?
Crucciossi don Andronico, e a coloro
44
Disse: non è l'arar un tal terreno
Di vomere senil l'opra e il lavoro,
Nè rende a calde vacche il ventre pieno
Infermo e vecchio bue, ma giovin toro.
Svelate il vero autor del fatto osceno,
O la calunnia e l'impudenza ardita
In voi sarà da monsignor punita.
D'Andronico lo sdegno e la minaccia
D'ambo color la pervicacia scosse.
Intimorite al suol bassar la faccia,
Poi disser: solo un retto fin ci mosse,
Nè crediam che delitto a noi sen faccia.
Volemmo sol, che rinnovata fosse
La pratica per noi, che ad uscio chiuso
Fu nella chiesa primitiva in uso.
Restò il dottor sorpreso e stupefatto,
Da ambo color sì stravagante scusa
Udendo addur, che a parer suo col fatto
Nulla ha che far, di cui le donne accusa.
Qual mi fanno costor discorso matto
Della pratica antica a porta chiusa?
Fra se dicea: la primitiva chiesa
Che diavol ha che far con Nina e Gnesa?
Scosso alfin da quel torbido pensiero
Disse a color: se il debito gastigo
schivar volete, senza alcun mistero,
Senza inviluppo di menzogne, esigo
Che schiettamente confessiate il vero.
Tutto esse allor svelar l'occulto intrigo;
Ma perchè chiaramente il comprendiate,
Dirovvi com'eran le cose andate.
Messer don Giammaria, dacchè di Nina,
Come già dissi, il legnajuol marito
Andato per lavori era a Messina,
Dall'assenza di lui trasse partito,
E colei si tenea per concubina.
E direm, ch'ei si sia poscia ingerito,
Ch'ella dovesse monsignor lattare
Sol per vederla e per lasciarla stare?
Circa al mastro di casa è altra faccenda.
Egl'impiegò della sua industria i frutti,
Che accumulati avea coll'azienda,
Come in cotal mestier fan quasi tutti.
A tali assalitor forz'è s'arrenda
Avida donna, o essi sian belli o brutti;
Sperienza l'insegna, e tanto più
45
Se han, com ei, bell'aspetto e gioventù.
Avend'ei tutto dì sotto le mani
Popputa foresozza e fresca e bella,
Vedi oggi, vedi jer, vedi domani,
Bel bel, siccome avvien, s'invaghì d'ella.
Con modi la trattò dolci ed umani.
Borchie le regalò, cuffia, gonnella,
Manigli, od altro tal ch'ella bramasse,
E facilmente ai suoi voler la trasse.
Ma come a lor di delicato amore
La nobil fiamma non ardea nel petto,
Che a pensier grandi eleva l'alma e il core
Ma in traccia solo di carnal diletto
D'impuro accesi e sregolato ardore
Cercando gian sovra qualunque oggetto
D'impudicizia immersi entro il letame
Ad isfogar le viziose brame;
Perciò comun la mensa avendo e i lari,
Per poco che del mondo uso egli avesse,
Possibile non fu, che degli affari
Del compagno ciascun non s'accorgesse.
Amici eran fra lor familiari,
Per donne avean le passioni istesse;
Onde convenner contro ogni decoro
D'accomunar le donne infra di loro.
Narra in fatti una cronaca secreta,
Che ser Macario e don Giovammaria,
Non curando ciò che decenza vieta,
Senza riguardi e senza gelosia
In continuo bagordo e in tresca lieta
Godevansi le donne in compagnia.
E udite quali usar ragion barocche
In quelle orgie per trar quelle due sciocche.
Disser, che nella chiesa primitiva
E mensa e domicilio e donne e letto
Tutto in comun ogni cristian gioiva,
E che or di rinnovar quel benedetto
Uso l'occasione a lor si offriva;
E cotal uso, che agape fu detto,
A usci chiusi i neofiti cristiani
Celebrar per escluderne i profani.
Che l'uso in vescovadi s'introduca
Esser giusto, e fer dire a Luca, a Pavolo,
Ciò che non disse Pavolo nè Luca.
Color però non comprendendo un cavolo,
46
L'uso adottar: purchè a goder conduca,
Accettato l'avrian per fin dal diavolo.
Nè mai la cosa traspirò, che chiusi
Stavansi allor, e n'eran gli altri esclusi.
E forse per sciocchezza ed ignoranza
Credean color far meritorio offizio
In rinnovar la primitiva usanza;
Ma il dissoluto ognor nell'esercizio
Di sua lussuriosa intemperanza
Ama di spinger all'eccesso il vizio,
Nè più conosce nel trasporto osceno
O di modestia o di decenza il freno.
Ben vide il senso che ascondeasi sotto
Al gergo dalle femmine tenuto
Don Andronico allor, nè fe' più motto;
Ma in lor discolpa altro argomento arguto
Oltre di ciò fu dalle donne addotto,
Che nè scandalo v'era intervenuto,
Nè la cosa al di fuori erasi spasa;
Ma in casa fatta e ognor rimasta in casa.
Ma poichè monsignor tutta ebbe intesa
Per mezzo del dottor la tresca rea,
Disdegnoso lo scandalo e l'offesa
Punir esemplarmente in pria volea;
Poi Macario obbligò di sposar Gnesa,
E a tal condizion lo ritenea,
Ed a dotarla monsignor s'incarica;
Ond'ei sposolla, e non perdè la carica.
Ma le cose non mica andar sì chete
Potean riguardo al secretario e Nina;
Poich'ella è maritata ed egli è prete,
E insieme una tal coppia non combina;
Onde dielle una somma di monete,
Ed al marito la mandò a Messina.
Cacciò don Giammaria, ma don Andronico
Raccomandollo al cardinal Rezzonico.
Nondimen poi quell'ottimo prelato
Un benefizio conferigli ei stesso;
Ma restò sommamente amareggiato,
Che la famiglia sua con tal eccesso
Profanasse in tal guisa il vescovato,
E che le donne fossersi permesso
Di far passare un povero impotente
Per adultero e per incontinente.
Ma se d'impudicizia alzò il sipario,
47
Bugia non v'è che femmina non dica.
Per malizia o altro suo fin secondario
Nelle calunnie sue sovente implica
Persino l'impotente ottogenario.
Certamente non fu tanto impudica,
Giusta la scrittural storia veridica,
La bella Sunamitide davidica.
Di santità la sacra Bibbia è tempio,
Non dà che lezion savie e istruttive;
Sempre propone un qualche bell'esempio,
E se, siccome spesso avvien, descrive
Osceno fatto, scellerato ed empio,
Son cose ognor simboliche, allusive.
Ella d'oscuri ognor simboli è mista,
E i simboli sol denno aversi in vista.
48
NOVELLA IV
LA DIAVOLESSA
Tutto omai, Donne mie, prova ed attesta
Che la filosofia da un tempo in qua
È del diavol puranche entrata in testa,
Perchè lascia a ciascun la libertà,
E tanto, come pria, non ci molesta.
Come vuol, ciascun pensa e parla e fa,
Ei non s'impaccia più ne' fatti altrui,
E neppur noi più c'impacciam di lui.
E finalmente essendosi avveduto,
Che col perseguitar nulla s'acquista;
Bel bel, siccome accade, è divenuto
Tollerante, indolente ed egoista.
E da tal svogliataggine è avvenuto,
Che omai per far delle anime conquista
Non più cotanto s'agita e s'affanna
Chi vuol si salva, e chi non vuol si danna.
Altre volte però così non era.
Il tentator costantemente allato
Stavasi a ciaschedun mattina e sera
Intento a fargli far qualche peccato.
Sovente nella sua figura vera
Con gran coda e gran corna ei s'è mostrato.
Se ciò non era, e chi pensar potea
Ch'egli gran corna e lunga coda avea?
Sebben chi dell'Apocalisse il passo(1)
Ha letto, in cui fra le altre cose belle
Ci si racconta, come Satanasso
Trasse la terza parte delle stelle
Sol colla coda sua dall'alto al basso,
Sciamar dovrà: quelle son code, quelle;
Queste che conosciam son raperonzoli,
E tutto al più ridicoli codonzoli.
Sulle anime talor per via di patti
Acquistava legittime ragioni.
(1)
Apoc. cap. XII, v. 4.
49
Spesso in forma legal facea contratti
Con queste o quelle tai condizioni,
Siccome innumerabili ne ha fatti
Co' maghi, colle streghe e coi stregoni.
Ma rompendo talor patti e riguardi,
Se li portava via; Dio ce ne guardi!
Nella fe converrebbe esser novizio
Per non saper che in Roma il diavol spesso
A comparir citavasi in giudizio,
Quando se gli facea qualche processo,
Avanti al tribunal del sant'offizio;
Ch'entrò sovente in corpo a qualche ossesso,
E che malgrado impertinenza tanta
Allo spruzzo tremò dell'acqua santa.
In sembianza talor di giovin bella
Comparve a innamorato giovinetto,
O in forma dell'amante a una donzella
Apparve ancor, quand'era sola in letto.
E questa metamorfosi era quella,
Che ottenea per lo più sicuro effetto.
E questo è ciò, se mi darete orecchio,
Che a raccontarvi, o Donne, io m'apparecchio.
Era una volta in Spagna uno Spagnuolo...
Ma qui sento scoppiar riso indiscreto.
Spagnuoli in Spagna! ah ah! Sibben, non solo
Spagnuol, ma spagnolissimo ripeto.
Iva egli involto in ampio ferrajuolo
Con lunga spada, che gli uscia per dreto,
Cercando senza scrupoli e paure
Giorno e notte d'amor varie avventure.
Don Ignazio ei chiamossi, e un de' più noti
Casati avea: la nobil sua famiglia
Drittamente scendea fin dai re goti,
Da cui l'ispana nobilezza piglia
Della più illustre antichità le doti.
Nacque, e l'infanzia sua passò in Siviglia,
Allora capital di tutta Spagna,
Vasta e ricca città che il Betis bagna.
Avito possedeva ampio retaggio,
Che a dissipazion mezzi forniva.
Bell'aspetto, vigore, ardir, coraggio,
E naturale avea persuasiva;
Ma eccessivo e brutal libertinaggio
D'onta e d'infamia i pregi suoi copriva;
Detestabil costume, e sentimenti
Ignobili, malvagi e violenti.
50
Ebb'ei la stessa educazione e scuola,
Che quel famoso don Giovan Tenorio,
Che uccise il buon commendator Lojola,
Che l'atto impedir volle infamatorio,
Di cui la statua e moto ebbe e parola;
Onde il verrai, verrò tanto è notorio,
E lo spettacol della cena tetra,
Che il Convitato si chiamò di Pietra.
Entrambo giunti a dodici anni appena,
E di costumi e d'indole concordi
Si mostraron del mondo in sulla scena,
E uniti sempre in crapule, in bagordi,
Vita menar licenziosa, oscena,
Immersi in vizi obbrobriosi e lordi.
Sempre da lor condotta tal si tenne,
E mai freno d'onor non li ritenne.
E quasi non potesse angusto spazio
D'ambedue soddisfar l'incontinenza,
Per far vie più solenne ed ampio strazio
Della verginità, dell'innocenza,
Si diviser la Spagna; e don Ignazio
Scorse Granata, Andalusia, Valenza:
Pascol di don Giovanni alla lussuria
Diè Castiglia, Leon, Navarra, Asturia.
Ma fer pia di dividersi scommessa,
Sedotte chi di lor più donne avria.
Partiron poscia, e la condotta istessa
Tennero entrambi per diversa via.
E allor parve in Ispagna essersi messa
Della verginità la carestia;
E che avesse Asmodeo salaci, arditi
Due pro-diavoli suoi colà spediti.
Ma voi più volte, o Donne mie, vedeste
Sovra le scene pubbliche e private
Di don Giovan le scandalose geste,
E le azion più infami e scellerate;
Finch'ei fu dalle orribili e funeste
Mense tratto fra le anime dannate,
E udiste replicar con gridi atroci
Il sempre e il mai da sgangherate voci.
Allor spande in quell'orrido baratro
Globi di foco acceso zolfo e pece,
Di fumo e di fetor s'empie il teatro,
Che fa disgusto di spavento invece.
Ma il foco, il grido, il luogo opaco ed atro
51
Impressione in semplici alme fece.
Dicon perciò, tornando a casa i putti:
Mamma mia, come i diavoli son brutti!
Ma se spettacol tal taluni attedia
Filosofetti, io non la prendo a scherno;
Poichè quella bellissima commedia
Chiaro ci fa veder, cosa è l'inferno;
E fa gran bene, e a molto mal rimedia;
Onde gran sapienza io vi discerno,
Anzi la preferisco alla dottrina
Del padre Busembaum, del Bonaccina.
Di don Ignazio ora vediam che avvenne,
E vi dirò ciò ch'io dicea, che anch'ei
Di don Giovanni la condotta tenne.
Di lussuria, com'ei, piantò trofei
Ovunque, e formidabile divenne
Ai padri, ai sposi, ai drudi, ai cicisbei.
Fu della pudicizia il gran flagello,
E d'ogni iniquità turpe modello.
Finse con maritate antico amore,
Propose alle zitelle un imeneo,
Colle divote e colle sacre suore
Ipocrita mostrossi e gabbadeo;
E se sposo s'oppose o genitore,
Assassinare o avvelenar lo feo,
E per via di delitto e tradimento
A conseguir giungea sempre l'intento.
Ma non crediate già, che ognor si serri
Di racchiuse città dentro le mura;
Seguito da satelliti e da sgherri
Iva talor vagando alla ventura.
Quegli, a un suo cenno sguainando i ferri,
Fean fuggire i villan per la paura;
E don Ignazio, alzate le gonnelle,
Godea le spaventate villanelle.
Presso Cordova giunti a scura notte,
Ov'era un suburbano monistero,
Sgherri e padron, svelte le porte e rotte,
Camuffati nel chiostro impeto fero.
Atterrite le caste giovinotte
Madonne e croci ad impugnar si diero
Ma gli osceni satelliti e feroci
Di madonne ridevansi e di croci.
La bella suor Clotilde avendo visto,
L'attacca un di color nomato Alzierro.
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D'un cristo è quella, ei d'un coltel provvisto.
D'argento è il cristo, ed il coltel di ferro;
Onde tosto al coltel cedette il cristo;
Poichè tolse e intascò l'iniquo sgherro
L'argenteo cristo dell'afflitta suora,
E poi verginità le tolse ancora.
Nella confusion, nello scompiglio
Un di quei manigoldi Astriglio detto
A suor Anastasia diede di piglio;
Pur si stacca ella, ed entra sotto al letto;
Ma colà, raro ardir! seguilla Astriglio,
E ivi l'impresa sua mise ad effetto;
Nè so, che in altro caso una tal'opra
Fatta alcun sotto il letto abbia, e non sopra.
Un di lor che di nulla si ributta
Disse, e scommise allor, che la badessa
Stuprata avrebbe, ancorchè vecchia e brutta,
Tenne parola e vinse la scommessa.
Che m'è giovato trar la vita tutta
In darmi, ella dicea fra di se stessa,
Per la verginità votanti affanni,
Se tormisi doveva a settant'anni?
Eravi un pappagallo in monistero
Di vaghe piume e di bizzarro umore,
Cui del Te Deum quasi un versetto intero
A cantare insegnato avean le suore;
Onde di suora vecchia il canto vero
Imitando, all'oscuro in quel romore
Empio, innocentemente intender feo
L'usato canto, ed intonò il Te Deo.
Ma come scempio suol far delle agnelle
Lupo dentro a un ovil, tal don Ignazio
Della lussuria sua le monachelle
Fe' pasco, e quando alfin ne fu ben sazio,
Chiappò, rapì la più gentil fra quelle;
E poichè ne godè per breve spazio,
Un dì che l'aer divenia già fosco,
Soletta abbandonolla in mezzo a un bosco.
Noto il mattin fu il fatto, e gran romore
In città se ne fece ed in campagna.
Ciascun fra sè ne indovinò l'autore,
Ma niun l'osa nomar, niun se ne lagna,
Poich'egli era un potente e gran signore.
Ciò ch'era allor ovunque, er'anche in Spagna;
Titol, feudo, natal, rendean taluni
Pronti al delitto e dalla pena immuni.
53
Conti, marchesi, duchi e feudatari,
Conservan le famiglie illustri e grandi.
L'asse avito e la massa dei danari
In molte mani fan che non si spandi.
I feudi e i privilegi ereditari
Preziosi però stimo e ammirandi.
Che se alcun di costor qualch'insolenza
Si permette o attentato... eh... pazienza.
La sola, a cui del nostro eroe gl'inganni
Invan tentaron di sedurre il core,
Una donzella fu, che da' primi anni
Desir nel sen gli avea destato e ardore,
Fin d'allor ch'era unito a don Giovanni.
Ardor dissi e desir; che vero amore
In anima sì perfida e maligna,
E in sì perverso cor, no, non alligna.
Ermenegilda si nomò: Siviglia
Fu la sua patria, ivi ella nacque e crebbe;
Educazion nel sen di sua famiglia,
Che nobil era, convenevol ebbe.
Bella, gentil, leggiadra a maraviglia,
E i pregi suoi lungo a narrar sarebbe
Vi dirò sol, che in tutta la città
Fur poche o niuna a lei pari in beltà.
Or don Ignazio, dopo la famosa
Gesta seguita a Cordova vicino,
Udì ch'Ermenegilda era già sposa
D'un suo parente e suo concittadino,
Giovin d'indole onesta e generosa,
E differente assai dal suo cugino;
E che ad un feudo lor, ch'è verso il mare,
Con gran treno un tal dì dovean passare.
Punto d'orgoglio fu, che conseguisse
Altri ciò ch'egli avea tentato invano.
Giurò farne vendetta, e si prefisse
Di tor la sposa al cavalier di mano;
E immaginò nel suo pensiero e fisse
Il modo ond'eseguir l'atto villano
Di rapire la sposa in sulla via,
Allorchè da Siviglia al feudo gia.
Mise insieme ed armò marmaglia rea
Di ladri e malfattor tutti a cavallo,
Di cui valersi in casi tai solea,
E che in delitti avean già fatto il callo.
E appostolli in un bosco, che sorgea
54
Dal mare alla città nell'intervallo,
E alla lor testa per dar più coraggio
Si pose, e ad aspettar stette al passaggio.
E intanto un bastimento di pirati
Spalmato, leggerissimo, veloce,Che più navigli avea presi e annegati,
Del Betis pronto stavasi alla foce.
Color ladri eran tutti e scellerati,
Gente senza pietà, d'aspetto atroce.
Tal impiego sovente i gran signori
In quei tempi facean dei lor tesori.
Ed ecco in suon di rustici strumenti
A poco a poco avvicinar s'udiva,
E strepito d'applausi e di concenti
Viva gli sposi, Ermenegilda viva.
Stansene i briganton cheti ed attenti
Il lieto treno ad aspettar che arriva,
E rimpiattati stringonsi, ove il bosco
Di tronchi e cespi è più serrato e fosco.
Ecco appressar, ecco apparir gli sposi;
Snudano i ferri allor, calan la buffa
E sbucano dal bosco i sgherri ascosi,
Ed improvvisi attaccano la zuffa.
Quei si sbandano inermi e paurosi;
Ma don Ignazio Ermenegilda acciuffa,
Nè badando ai singulti, ai gridi, ai pianti,
A traverso al caval ponsela avanti.
E da pochi satelliti seguito
Per prevenir qualunque impedimento
A tutta corsa col trofeo rapito
Giunse al cader del sole al bastimento,
Che già pronto attendea vicino al lito.
S'imbarcan tosto, e i marinari al vento
Sciolgon le vele, e il largo a tutta possa
Prendono, acciò nessun seguir li possa.
Don Ignazio comanda ai marinari,
Che di Sicilia prendano la via,
Ch'ivi terre ei possiede e feudi vari,
Senza saper dove Sicilia sia,
Quasi non debba un cavalier suo pari
Avvilirsi a imparar geografia.
Onde drizzar speditamente allora
Verso Sicilia i marinar la prora.
L'affanno in cui quell'infelice han posta,
L'alto spavento, il rio dolor, la troppa
Pena, i sensi le tolse; onde deposta
55
Sul letticciuol del camerin di poppa
La semiviva, il rapitor le accosta
Alle narici aureo vasetto o coppa
D'elisir rari e di liquor squisiti
Per richiamar gli spiriti smarriti.
Apre i languidi lumi, e gira attorno,
Attonito lo sguardo, e se ritrova
In strano, ignoto, instabile soggiorno;
E ciò che vede il suo dolor rinnova.
Al fin di sua sventura e del suo scorno
L'autor vede e conosce, e tal ne prova
Ferita al cor, che restò immobil, muta,
Come avesse la Gorgone veduta.
A consolarla il cavalier s'accinge,
Ma con ribrezzo Ermenegilda il guarda,
E con orror lungi da se il respinge.
A riprender però colui non tarda
Il costume natio, forte la stringe,
E ponla sotto colla man gagliarda;
E brutalmente indi il piacer ne coglie,
Che da lei non ottien, ma a forza il toglie.
A che non hai tue vittime ridotte,
Ria passion ch'osi chiamarti amore!
Così colei quell'affannosa notte
Scorse, e del giorno appresso anche molte ore,
In lagrime da gemiti interrotte,
In amari singulti e nel dolore.
E intanto un fresco vento di ponente
Il naviglio spingea prosperamente.
Eran la sera al gran canale in faccia,
Che lo stretto chiamiam di Gibilterra,
Ove gonfio e ristretto il mar si caccia
Fra l'europea e l'africana terra,
Il mar che tutto ciò, che arresta e impaccia
I suoi liberi moti, apre ed atterra;
Quando il naviglio impetuoso e tetro
Improvviso uragan respinge indietro.
In fretta i marinar serran le vele,
E chiudon gli sportelli; che ogn'incuria
Divenir può funesta. Il mar crudele
Gonfiasi e bolle, e freme il vento e infuria.
Solo regna il terror, forza è si cele
Sdegno ed orgoglio, avidità e lussuria.
Ed ogni cor più intrepido e più forte
Ai modi pensa di scampar da morte.
56
Onda maggior, che le minori incalza,
Con fiero urto previene arte e consiglio,
Su i bordi incavalcandosi s'innalza,
Tutto da capo a piè copre il naviglio,
E timone e nocchier nel mare sbalza.
Tu tremi, o Ermenegilda, in tal periglio,
Misera! eri pocanzi in gioja e in festa,
E or l'aspetto di morte a te sol resta.
Rotto l'arbor maestro e l'artimone,
Coll'acqua nella stiva alta sei piè
La nave agli urti d'Austro e d'Aquilone
Senza temo e nocchier naufragio fè.
(Badate, temo qui vuol dir timone,
Nella Crusca cercatelo, che c'è).
Il quarto dì contro uno scoglio urtò
D'Africa sulle coste e si spezzò.
Il naviglio così franto e distrutto,
Soffocati altri furo, altri percossi
Perir dall'assi, e l'equipaggio tutto
Nelle ondose voragini annegossi.
Te inghiottì pure il procelloso flutto,
Misera Ermenegilda, e niun salvossi.
Solo l'autor di tanti mali, solo
Scampò da morte il cavalier spagnuolo.
Vi venero, o divini eterni arcani;
Ma in ciel virtù se non si premia e merto,
Se in altro mondo i gran delitti umani
Punizion non han, fra noi no certo.
Quei con coraggio e con vigor di mani
Si trasse a terra, essendo al nuoto esperto;
E si trovò sopra deserta piaggia,
Arsa, arenosa, inospita, selvaggia.
D'Africa sulla costa occidentale
Quella piaggia del regno di Marocco
Si stende in sul confin meridionale.
Non lungi il capo Non scopre a sirocco,
E s'internano dietro al littorale
Le terre ove regnar Giugurta e Becco.
Ma il pover don Ignazio non intese
Mai parlar d'altro che del suo paese.
Pien di sozzure e quasi nudo, il passo
Muover potendo e con istento appena,
Sdrajò sopra la sabbia il fianco lasso;
Ed appoggiò l'indolenzita schiena
Ad un di musco ricoperto masso,
Che del lido torreggia in sull'arena,
57
E fissi i torbidi occhi al suol tenendo,
Tristi pensieri iva fra se volgendo.
Ove son io? dicea, qual di malori
Tetro mi si presenta aspetto nuovo!
Ove sono i miei servi? ove i tesori?
Qual rovescio di cose a un tratto io provo!
Misero, nudo, in mezzo a tanti orrori,
In qual parte di mondo io mi ritrovo?
Se qui d'inedia io non morrò, già parmi
Che voraci verran fere a sbranarmi.
Ma la grazia del ciel, che a lui d'intorno
Fin allor svolazzando er'ita invano
Come colomba, e giva e fea ritorno,
E sempre ei la tenea da se lontano;
Facil l'accesso in lui trovò quel giorno,
Che ne' malor sovente è il cor più sano.
Serrò su don Ignazio i vanni sui,
E parve di voler posarsi in lui.
Ond'ei pon mente alla passata vita,
E ne prova acerbissimi rimorsi.
Dovea pur tosto o tardi esser punita,
Fra se stesso ei dicea, de' miei trascorsi
La serie innumerabile, infinita:
Ah! ch'io ben nelle mie sventure scorsi,
Che giustamente omai sul capo mio
La vindice s'aggrava ira di Dio.
Ma s'io mi son senza ribrezzo e senza
Ritegno in tanta iniquità gittato,
Non minor ne farò la penitenza.
Ed io so ben, che d'ogni gran peccato
È più grande, o Signor, la tua clemenza;
Che se a tanti birboni hai perdonato,
Spero, Signor, che accorderai il perdono
Anche a me, che un idalgo alfin pur sono.
L'orgoglio, che perfin nelle preghiere
Fatte a Domineddio ponea colui,
Creder non me le fa troppo sincere,
E mi fa molto dubitar di lui.
A decider tardiam, stiamo a vedere
Se veri sono i pentimenti sui,
O se, come è lo stil delli suoi pari,
Proponimenti son di marinari.
Ma fra le nubi omai sull'orizzonte
Del mesto sol la dubbia luce appare.
Grave ei solleva l'affannosa fronte,
58
E volge il guardo al tempestoso mare.
Tutti ha gli orrori del naufragio a fronte,
E le sventure sue più appajon chiare.
Giace la nave rovesciata e affonda,
E vede l'assi galleggiar sull'onda.
Fra i sparsi arnesi, che alla sponda getta
Il flutto tempestoso e la procella,
Con chiave in sulla toppa una cassetta
Vide sul lido, l'apre e trova in quella
Chiodi, martel, tanaglie, ascia ed accetta,
E di forbici un pajo e una coltella,
Ferramenti, utensili o tal strumento
Spettante al legnajuol del bastimento.
Lo sguardo attorno allor più attento gira,
E ondeggiante sul mar vede un fagotto,
Corre, il prende, lo svolge e vi rimira
Due camice, un giubbon, scarpe e un cappotto.
Presso un casson galleggia, ei lo ritira,
E frutta vi trovò, cacio e biscotto.
O santa provvidenza, io ti ringrazio,
Allor sclamava il cavalier Ignazio.
E quella memorabile giornata
In dare un sesto ai ripescati arnesi
Da don Ignazio fu tutta impiegata,
E in asciugar i panni all'aria stesi;
Poichè già s'era alquanto dissipata
La terribil tempesta, e i raggi accesi
Il sol dall'alto tratto tratto invia,
Quando fra i sparsi nuvoli apparia.
Tante volte quel dì con pesi in collo
Passò dal masso al mar, che quel passaggio,
Per quanto breve fosse, alfin stancollo. Onde fe' del biscotto e del formaggio
Suo pasto, e squisitissimo trovollo,
E bel bel racquistò forza e coraggio.
Che ciascun s'accostuma anche agli stenti,
E la necessità fa gran portenti.
E a trar dell'onde fuor sovente giva
E a far dell'assi e dei bagagli ammasso,
Che rigettava il mar sovra la riva;
Ed a portarli al consueto masso,
Ove con bronchi e sassi li copriva.
Indi la sera affaticato e lasso
Si sdraja sulla sabbia, e colla cappa
Per ivi pernottar si copre e tappa.
Sorse di gran mattino, e non attese
59
Che tutto il suo chiaror spandesse aurora.
Ponsi scarpe e giubbon, contro le offese
Prende la scure e la coltella ancora;
Poichè vuol riconoscere il paese,
Cercando ove fissar la sua dimora;
E coll'orazion, coll'astinenza
Ivi de' falli suoi far penitenza.
Ma prima di partir cela e sotterra
Il magazzino delle vettovaglie,
Per la bocca non men che per la guerra,
Cesoje, ascia, martel, chiodi e tanaglie;
Poichè in quella deserta ignota terra
Preziose per lui son tai bagaglie;
E co' sterpi le copre e colla sabbia,
Acciò qualcuno a depredar non l'abbia.
Con daga al fianco e colla scure in spalla
Qualche stanza a trovar, che gli convenga,
Vassen: lasciamlo andar, che troveralla.
E acciò l'intento ad ottener pervenga,
Aspro cammin, suol che s'eleva o avvalla,
Difficoltà non han che lo rattenga.
Dopo cinque o sei miglia una foresta,
Presso cui scorre un chiaro rio, l'arresta.
Abbandonata rustica baracca
Mira alla destra man su verde poggio,
Che dalla macchia un pocolin si stacca.
Stabil le fa massiccia rupe appoggio,
A cui con doppi vimini s'attacca,
Forse di pescatori antico alloggio;
Pargli opportuno, onde montò sul colle,
E più d'appresso esaminar lo volle.
Ameno è il luogo, e attorno una fragranza
Spira di fior silvestri e di viole.
D'erba grata al sapor havvi abbondanza,
E nespole e carube e lazzeruole.
Havvi il bosco, havvi il rivo; onde la stanza
Piacquegli, e quivi stabilir si vuole.
Di legni è il casottin, piccola grotta
Ha in fondo entro la rupe, e qui pernotta.
Si desta, e sente allo spuntar del giorno
Degli augelli gli armonici concenti
Alla capanna risonar d'intorno;
Sorge, e dove i bagagli e gli alimenti
Lasciò nel giorno avanti, ei fe' ritorno;
Ed in cinque o sei dì con pena e stenti
Dal masso littoral tutti sul tergo
60
Gli attrezzi trasportò nel nuovo albergo.
Della rupe nel concavo ricetto,
O vogliam dir nel grottoncin, compose
Di salici e di strame un picciol letto,
Ed il casson dell'armeria vi pose,
E quel che contenea, come ho già detto,
Noci, cacio, biscotto, e altre tai cose,
Per esempio zibibbo e fichi secchi,
Ed altri comestibili parecchi.
Le veci d'anticamera poi fagli
L'anterior baracca, ove ammassati
Legnami e tronchi avea, pali e bagagli,
L'alloggio a garantir da tutti i lati,
Briga, che occupazion non poca dagli;
E in penitenza delli suoi peccati
Colpi di fune al cul vollesi dare;
Ma sentì farsi male e lasciò stare.
Il diavol per natura e per mestiero
Nemico capital dell'òpre buone
A temer cominciò, che daddovero
Non gli scappi di man quel suo campione;
Onde distorto vuol da quel pensiero,
Acciò non abbia a dir qualche babbione:
Il diavolo oggidì non val più nulla,
In barba se gli fa, quando ci frulla.
E un dì che avanti a quel selvaggio ostello
Don Ignazio facea la passonata
Per ridurla a una specie di rastrello,
Che alle bestie impedir debba l'entrata,
In forma gli apparì di villanello,
E disse: perchè tutta la giornata
Veggo prendervi qui cotante brighe?
Eh! che non son per voi queste fatighe.
E lo Spagnuol: son io gran peccatore,
Perciò, caro fratel, la penitenza
Qui venni a far d'ogni commesso errore.
E quei: scusate s'ella è impertinenza;
Ma voi mi fate ridere di core.
Che possa idea di tanta inconseguenza
Porsi in testa un par vostro, egli è incredibile.
Un signor come voi... pare impossibile.
Lo Spagnuol dopo un tal ragionamento,
E tu chi sei? come sai tu chi io sia,
Interrogollo allor, poichè ti sento
Così parlar della prosapia mia?
61
E il villanello: il nobil portamento,
La vostra signoril fisonomia,
A me, benchè villan, chiaro dimostra,
Che cospicua esser dee la stirpe vostra.
Se chi stassen tranquillo colassù
Si fosse contro voi voluto irascere
Per qualche bizzarria di gioventù,
Sì gran signor non v'avria fatto nascere.
Godete dunque, e vi dirò di più,
Che quei, che menan qui la greggia a pascere,
Spettri veggonvi e mostri, e venir nudi
Colle streghe a danzar spesso i lor drudi.
Lasciate dunque quest'infausta cella,
E sì tetri pensier posti in obblio,
Tornate tosto ove il piacer v'appella.
No, don Ignazio allor rispose, il mio
Signor mi chiama, e qual smarrita agnella,
La voce del pastor seguir vogl'io.
Il villanel discorsi tai deride
Partì, nel bosco entrò, nè più si vide.
Rimaso il cavalier pensoso e solo,
Non sa da tutto ciò che mai dedurre.
Gli elogi e la ragion, che il campagnuolo
Sovra la sua gran signoria produrre
A tempo seppe, il cavalier spagnuolo
Incominciato avean quasi a sedurre;
E astratto e fra se stesso borbottava
Alfin colui non tanto mal parlava.
Ma rinvenendo in se, molto a proposito
Il diavol, disse, esser potria colui,
Che a distormi dal mio santo proposito
Impiega i soliti artifici sui.
Ma non mi farà far questo sproposito,
Anzi l'iniqua furberia di lui
Me nell'impegno mio conferma ed anima.
O ch'io qui crepo, o ch'io salverò l'anima.
In forma di serpente, immenso mostro,
Un altro dì gli apparve: occhi di foco,
D'asin gli orecchi, e d'avoltojo il rostro,
Coda lunga sei pertiche a dir poco,
E pelle nera avea più dell'inchiostro,
Empì di puzzo e di sozzura il loco.
Gesù, allor sclama lo Spagnuol, Gesù
E il mostro sparve, e non si vide più.
Venne anche a celebrar colà il demonio,
62
Nefando drudo colla lorda sposa,
Le infami danze e l'empio matrimonio.
Tal di pennel con forza immaginosa
Delle tentazion di sant'Antonio
L'idea ci presentò Salvator Rosa,
Quando figure mostruose e laide
Sovente gli apparian nella Tebaide.
Ma vedendo che a un sol segno di croce
Ogni fantasma ed ogni mostro strano,
E ogni spettro sparia più brutto e atroce,
Il furbo Ignazio indovinò l'arcano.
Questi è il diavol che tenta, e se può, nuoce
Disse fra se: perciò da buon cristiano
All'inganno e all'insidia diabolica
Lo scudo oppose della fe cattolica.
E v'era da sperar, ch'ei saria giunto
(Se fosse di quel passo andato avanti)
Di santità ben, tosto al più alto punto,
E che Spagna al catalogo de' santi
Altro santo spagnuolo avrebbe aggiunto,
Mediante qualche somma di contanti,
Nel teatro del ciel, com'era giusto,
Appaltandol dei santi a un palco augusto.
Ma la costanza e il cristian vigore,
Che spiegò lo Spagnuolo anacoreta
Contro cotanti assalti, il tentatore
Omai secca non poco ed inquieta;
E onta provonne, e si piccò d'onore
Di giunger tosto alla prefissa meta;
E pensa, e dopo aver pensato assai,
Un modo scelse, che non falla mai.
Prese d'Ermenegilda il tuon, l'aspetto,
La voce, il portamento e la favella.
Agli occhi neri, al rilevato petto,
Sembrava Ermenegilda, e ancor più bella.
E poichè si sdrajò sul picciol letto
Lo Spagnuol nell'angusta grotticella,
Tutta vezzi gli apparve all'improvviso.
E salutollo con gentil sorriso.
Mezza vestita e mezza nuda ell'era
Da risvegliar le più lascive idee.
Una specie di clamide leggiera,
Come le belle usar galanti Achee,
Le scendea dalle spalle alla maniera
Che le ninfe si pingono e le Dee;
Che il diavol, quando vuol, l'arte perfetta
63
Possiede anch'ei di far la sua toletta.
Guardava quegli con pupille immote
Di maraviglia e di stupore pieno
Di Ermenegilda le sembianze note.
Sbircia il ricolmo fianco, e il nudo seno
Par cogli occhi divori, e più non puote
Porre al desir lussurioso il freno.
E in lei tenendo le pupille fisse,
Tentò parlar più volte, e alfin pur disse:
E chi sei tu che sola ed a quest'ora
Vieni a trovarmi in solitaria stanza?
Ed ella: in me non riconosci ancora
Questa altre volte a te cara sembianza?
E quei: mi parve inver... parmi tuttora
Una certa trovar rassomiglianza
In quel sembiante tuo, mentr'io miravolo...
Pur dimmi... tu... saresti forse il diavolo?
E qual follia in tanto orror t'indusse?
Mira, diss'ella, Ermenegilda io sono,
Per cui soverchio amor già ti sedusse.
Ma amor ne fu cagione, e ti perdono.
Di vederti desir qua mi condusse,
Quando sepp'io, che divenuto buono
Eri a far penitenza in questo speco,
E qui pur io, se vuoi, farolla teco.
Ma per qual via venisti? ei le chiedea.
Per miracol scampai da quel naufragio,
Colei rispose, e non puoi farti idea
Quante soffersi poi pene e disagio.
Un villanel, che te veduto avea,
Nuova men diè; soletta e adagio adagio
Per istar teco allor qua mi rendetti,
Ed è gran crudeltà, se mi rigetti.
Per dare ai detti suoi maggior risalto
Colei ciò disse in tuon sì dolce e molle,
Che intenerito avrebbe un cor di smalto.
Nell'ossa a don Ignazio il zolfo bolle,
Nè più resiste al violento assalto.
Figuratevi un giovine, che folle
Fu il più gran bordellier de' suoi paesi,
Poi restato digiun cinque o sei mesi.
Pur nella conturbata fantasia
Tornano i dubbi soliti e i sospetti,
Quella esser del demon trappoleria.
Troppe le assurdità sono in effetti
64
Per creder che real la cosa sia.
Ma la ragion che val negl'intelletti,
Quando i cor son corrotti? onde tuttora
in lui lussuria abitual lavora.
Le dice alfin: deh sgombra, e rassicura,
Cara la mia ragazza, i dubbi miei.
Certamente un'umana creatura
Ad una illusion preferirei.
Ma fino che cotesta tua figura
Conservi, se anche il diavolo tu sei,
Sempre mi piaci, e se ingannato sono;
Ingannami così, che ti perdono.
In questo dir verso di lei si mosse
Con gran trasporto e indifferente assai
Se vera Ermenegilda, o diavol fosse,
Tutto già in treno pel grand'atto omai;
Ma colei colla man da se il rimosse,
Dicendogli, da me nulla otterrai;
Se pria con mutuo giuramento e patto
Di matrimonio non facciam contratto.
Si stupì don Ignazio in tal maniera
Sentendola parlar di matrimonio;
E cercò immaginaria e lusinghiera
Ragion per creder, che colei un demonio
Della razza di quelli almen non era
Apparsi al santo anacoreta Antonio;
Perchè niuna di quelle insidiose
Figure un matrimonio a lui propose.
E disse: ebben, se qui conviver meco
Senza matrimonial vincol ti grava,
(E ridea fra di se) convengo teco,
Che ottima cosa è il matrimonio, brava.
Vivrem marito e moglie in questo speco
E d'abusarne in guisa tal pensava;
E non sapea, che il nuovo testamento
Distingue fra contratto e sacramento.
Pertanto si giurar fe rigorosa,
Ed entrambo in giurar poser la mano
Sopra... sopra... non so sopra che cosa.
E con atto diabolico ed umano
Il diavolo così divenne sposa
Del cavalier anacoreta ispano;
E con patto reciproco ambedui
Egli unissi con lei, ella con lui.
Oh mal fermi dell'uom proponimenti!
65
Oh troppo mal intesa penitenza!
Non eran che pochissimi momenti,
Che don Ignazio giusta l'apparenza
Parea già presso ad operar portenti:
Ma una volta che presa ha consistenza,
E ha penetrato il vizio insino all'ossa,
Facil non è che sradicar si possa.
Consumando con copule infernali
Il nefando imeneo, sei giorni o sette
L'eremita spagnuòl fra i conjugali
Amplessi diabolici si stette;
Finchè sopra di lui dritti reali
Il diavolo acquistati aver credette.
E per quello ch'egli era allor scoprissi,
E sprofondollo vivo entro gli abissi.
Ripreso il ceffo orrendo e il biforcuto
Capo, afferrollo colle adunche mani.
Ajuto, ohimè! santi del cielo, ajuto
Don Ignazio gridò con stridi strani;
E intanto da quell'agnolo cornuto
Staccarsi vuol, ma i sforzi suoi son vani,
Quei colla coda l'attortiglia e cinge,
E colle branche l'incatena e stringe.
Ah che in narrarlo sol tutto commosso
Dentro mi sento, e alto terror mi chiappa!
Siam buoni, Donne mie, ch'è un guaio grosso,
E il diavol stassi all'erta, e se s'incappa
Nelle sue man, s'ei ci pon l'unghie addosso,
Più rimedio non v'è, non se ne scappa.
La diavolessa intanto e il suo consorte
Eran già presso alle tartaree porte.
Bestemmie da tremendi urli interrotte,
De' diavoli il mugghiar confuso e roco,
Che s'udia rimbombar per quelle grotte,
Le grida, i pianti, il puzzo, il forno, il foco,
Il cupo orror di sempiterna notte,
Da lungi annunziati delle pene il loco.
Scritto è all'ingresso: uscite di speranza,
O voi, ch'entrate nella trista stanza.
Chi può i modi narrar con cui le felle
Anime ree son tormentate e afflitte?
Son queste entro infocate ampie padelle
Su fervente olio eternamente fritte.
Da diavoletti guatteri son quelle
Girate arrosto entro schidon confitte.
In vasti calderoni altre son messe
66
Sovra bollente pece ed ivi lesse.
A talun'altra un diavol boja imbrocca,
E lunghissimo spinge un palo dietro,
E fattoglielo uscir fuor della bocca,
Cielo rificca con lo stesso metro.
Con cucchiajoni a forza ad altre imbocca
Di rospi e di scorpioni un pasto tetro,
Ad altre cogli unghion le carni sbrana,
Siccome il cardator carda la lana.
E a che turbarvi più con sì funeste
Idee la mente, se in Virgilio e in Dante
Sovente, o Donne mie, voi le leggeste?
Venne l'inferno tutto a quei davante,
Che ormai, deposta la femminea veste,
Colla preda sen torna trionfante,
E d'ogni intorno fe', quanto più seppe;
il chioccio rimbombar Pape ed Aleppe.
L'alunno suo quel diavolo impudico
Nel tartaro introdusse, e presentollo
A don Giovanni, suo compagno antico,
E quegli appena il vide e ravvisollo:
Venisti alfin, sclamò, venisti, amico.
Ed incontro gli corse ed abbracciollo.
Quei, quasi da tanaglia allor compresso,
Sentissi soffogar da quell'amplesso.
Sulle avventure ch'ebbero nel mondo
S'interrogaron poi, come si suole;
Ciascuno allor quel ch'egli tenne immondo
Tenor di vita all'altro imputar vuole.
E inaspriti ambedue con iracondo
Rancor ben tosto vennero a parole;
E si presero poscia a tizzonate,
E divertiron l'anime dannate.
Stuolo di spirti incitator, (penuria
Mai non ve n'ebbe) acciò vie più gli attizzi,
Non per calmarne l'impeto e la furia,
S'attruppa intorno e lor fornisce i tizzi.
Lo scherno insultator, l'onta, l'ingiuria,
L'irrision, l'acre motteggio, i frizzi
Pungenti aggiunge; il riso no, che loco
Riso non ha nel sempiterno foco.
Ma, o Donne mie, nella dolente stanza
Omai lasciam di peccator quel paro.
La violenza lor, la scelleranza,
S'ivi punita vien, sel meritaro.
67
Nell'inferno noi siam stati abbastanza.
Torniamo a respirar aer più chiaro.
Dolci son l'alme nostre, e i sentimenti
Destinati ai piacer, non ai tormenti.
E spero che da voi mi si perdoni,
Se invece di narrar liete novelle,
Vi favellai di rospi e di scorpioni,
Di calderon bollenti e di padelle,
D'orrori, di tormenti e di demoni.
Ma voi sapete ben, Donne mie belle,
Che o pinti in tela o in tavola o sul muro,
Ne' quadri vi vuol sempre il chiaroscuro.
E osserviam di passaggio e leggermente,
Che i pensier vostri e le vostr'opre a degni
Fini dirette son costantemente.
Se ne abusaste, i femminili ingegni
Di che capaci non sarian? Sovente
Mancan diavoli, è ver, nei lor disegni,
Come in questo racconto io vi mostrai;
Diavoli sì, ma diavolesse mai.
68
NOVELLA V
LA CELIA
Ah signora marchesa, ah lo sapete,
Quanto questo mio cor v'ama e v'adora!
E voi con me sempre crudel volete,
Che ognor così per voi languendo io muora
Nè mai di me a pietà vi moverete?
Alla marchesa donna Eleonora
Diceva l'abatin don Sigismondo
Il più importun seccatorel del mondo.
E in canzoncina o in madrigal solea
Spiegar sue pene e gli amorosi lagni,
O in sonettin che copiato avea
Da qualche libro tolto ai suoi compagni,
Somigliandola a Giuno o a Citerea.
Lodava i capei d'or, ch'eran castagni,
E gli astri, ch'eran occhi; o di tal sorte
Altre scempiezze, e l'annojava a morte.
Talor con passion cupida e calda
In sulla man baci le imprime; e s'ella
Nella freddezza sua costante e salda
Grave contegno tien, seria favella,
Prostrato al piè dell'abito la falda
Sospirando le bacia o la pianella.
E de' capelli suoi ruba un gruppetto,
E qual reliquia se l'appende al petto.
Col marito era in villa allor madama,
E v'eran altri di città venuti,
Che la stagione a villeggiar richiama,
Coll'abatin, di cui son conosciuti
Gli amor per lei che liberarsen brama;
Ond'erano fra lor già convenuti
Di fargli celia di cotal tenore
Da trargli dalla testa alfin l'amore.
E omai non potendo ella il lezioso
Assiduo lagno e l'insistenze e i pianti
Più sofferir dell'abatin nojoso,
Coll'intesa di tutti i villeggianti,
E col previo consenso dello sposo,
69
Un dì che a far gli usati lai davanti
Soletto a lei don Sigismondo venne,
In dolce tuon discorso tal gli tenne.
Caro don Sigismondo, ho troppo omai
Del costante amor tuo troppo gran prove.
Insensibil non son, premio ne avrai,
Tenera alfin per te pietà mi muove.
Vo' che tu sii contento, io già pensai
Come ciò farsi possa e quando e dove.
Ma tre cose prometter tu mi dei,
Perchè abbian compimento i pensier miei.
Dite, ordinate, l'abatin rispose,
Che non farei per voi, bella marchesa!
Le più difficil, le più strane cose
Facil saran per me leggiera impresa.
Voi calmate le mie pene amorose,
E voi la pace al cor m'avete resa.
Ed anelante e in volto acceso e rosso
Già le correva a braccia aperte addosso.
Piano, ella disse allor, non tanto foco;
Pian pian, don Sigismondo, e lo respinge.
Convien proceder sempre a poco a poco.
Spesso guasta gli affar chi più li spinge.
Tutto ciò dovrà farsi a tempo e loco.
Eccoti intanto (ed a giurar l'astringe)
Le tre condizion ch'hai da osservare,
Pria di venire al principale affare.
Primo, tu dei far sì, che mio marito
In campagna o in cittade almen due giorni
Resti per cacce o festa o per convito,
Acciocchè a disturbarne ci non ritorni.
Secondo, che ove io ti farò l'invito,
Venghi tu al bujo e al buio si soggiorni.
Terzo, che quando sarem solo e sola,
Da nessun s'abbia a proferir parola.
Delle condizion che voi mi fate
L'ultime due, diss'ei, fin da or vi giuro,
Che con rigor saran da me osservate.
Ben volontier starommene all'oscuro,
E non aliterò, non dubitate.
E riguardo alla prima, io v'assicuro,
Che da me tai misure saran prese,
Che per più dì s'assenterà il marchese.
Ma vane esser cautele e alquanto stolte
Oscurità e silenzio, uopo è, ch'io mostre.
70
Spariscono le tenebre più folte
All'apparir delle pupille vostre;
E senza che di voci il tuon s'ascolte,
S'intendono fra lor l'anime nostre.
Ed ella: per pietà taci, ch'io svengo;
Ed ei: sì, parto, e di parlar m'astengo.
Partissi, e a procurar si pose appena
Per qualche dì del marchesin l'assenza,
Tosto vi riuscì senza gran pena;
Poichè quei, ch'eran già d'intelligenza,
Concordemente secondar la scena.
E il marchese di tutti alla presenza
Disse indi a poco, che l'invito egli ebbe
Per caccia, che durar più giorni debbe.
Alla marchesa apportator di liete
Nuove, di gioja il cor pieno e la faccia,
Va l'abatino, e dice e lei: vedete
Che il marchese partir dee per la caccia
Più dì lungi ei sarà: libera siete.
Muto e al buio starò quanto vi piaccia.
Tutto adempii per parte mia, voi stessa
Compir dovrete omai la gran promessa.
Sì volontier, don Sigismondo mio,
Sì sì volontierissimo, diss'ella:
Son d'abbracciarti impaziente anch' io.
Vieni domani a mezza notte, quella
L'ora è ch'appagherà d'ambo il desio.
Tu rinunzia alla vista e alla favella;
Che fra le amiche tenebre soletta
Donna Eleonora tua colà t'aspetta.
De' suoi desiri al termine vicino
D'un'amorosa ed inquieta arsura
Il cor brulicò in petto all'abatino.
E già pone l'ingegno alla tortura,
Che insieme accozzar vuole un sonettino
Su quella felicissima avventura
Fra lo stil di Nasone e quel di Baffo,
Da far dimenticar Omero e Saffo.
In una villa non di là lontana
Nella stessa stagion facea dimora
D'un'ampia signoria la marchesina,
Al cui servizio era una vecchia Mora
Presa sopra corsal barca africana.
Alla padrona donna Eleonora,
Per le ragion che da lei furo addotte,
La domandò per la seguente notte.
71
A istanze tai quella compita dama,
Che molta stima e con ragion sempr'ebbe
Per donna Eleonora e molto l'ama,
Rispose, che la Mora invierebbe
La susseguente sera, e in ciò che brama
Sempre con gran piacer la servirebbe;
Che le nate contesse e le marchese
Tengon sempre fra loro un tuon cortese.
Appena incominciava ad apparire
Il primo albor del susseguente giorno,
Giù nel cortil fe' il postiglion sentire
Lo scoppio della frusta e il suon del corno.
Gridare il mozzo, ed i caval nitrire,
E mugolar s'udiro i cani intorno.
Sul calessin monta il marchese, e va...
Alla caccia? non mica: e ove? chi sa?
Non tanto si rallegra entro il pertugio
Il rannicchiato pauroso topo,
Se da quel fondo, ove cercò rifugio,
Rimira il gatto insidiator, che dopo
Inutile aver fatto e lungo indugio
Parte, mancato avendo omai 'l suo scopo;
Come don Sigismondo, allorch'egli ode
Il marchese partir, esulta e gode.
Di quell'eterno dì raccorciar l'ore
Vorria l'avido amante, e pigro e lento
Pargli il sol nel suo corso, e prega Amore
Portento a far contrario a quel portento,
Che fe' di Gabaon l'espugnatore;
E intanto con maligno intendimento
Le persone digià di tutto intese,
Buona caccia auguravano al marchese.
Quel dì, pria che la notte oscura sorga,
La Mora entrò per l'usciolin di dreto,
Acciocchè l'abatin non se ne accorga;
E passò poi per corridor secreto,
Onde a sospetti occasion non porga,
Finchè dietro una serva a passo cheto
In appartata camera s'è resa,
Ove le donne son della marchesa.
Nelle solite camere frattanto
Furon poste le tavole da gioco
E donna Eleonora: a me quì accanto,
All'abatin dicea, prendete loco.
E fa mille attenzioni a lui soltanto,
72
Ad ogni altro badando o nulla o poco.
Quegli ridean, già prevenuti pria,
Invidia simulando e gelosia.
Ed egli or collo gomito la tocca,
E con vezzosi ghigni e grazìette
Furtivi sguardi ad or ad or le scocca,
E a lei sovente il piè col piè premette.
Si divertian della letizia sciocca
I circostanti e delle lezie inette.
Il gioco poscia terminato appena,
S'assiser tutti a preparata cena.
Ma lagnandosi donna Eleonora,
Ch'emicrania fierissima soffriva,
La cena terminò più di buon'ora,
E tutta congedò la comitiva,
Che battute non son le undici ancora,
Dicendo ch'ella a riposar sen giva.
E i commensali allor si separaro,
E nelle stanze lor si ritiraro.
Sente in sen l'abatin stimoli ardenti,
E di caldo desio l'acuta punta.
Coll'orologio in man conta i momenti;
E quando alfin la mezza notte è giunta,
S'avvia tremante a passi brevi e lenti
Per lo bujo, dei piedi in sulla punta
Sostiensi, e tacitissimo s'avanza
Dell'adorato ben verso la stanza.
La Mora intanto avean le cameriere,
Nuda e di rosso tintale la faccia,
Nel letto conjugal posta a giacere;
Dicendo, che contrasto alcun non faccia,
S'ode alcuno appressar, ma ritenere
Stretto mutola il dee fra le sue braccia.
Che se ciò esattamente eseguirebbe,
Dalla marchesa un bel regalo avrebbe.
Eccolo alfin sulla bramata soglia,
E per la gioia il cor, gli balza in petto,
Come a soffio leggier tremola foglia.
Apre, ed entra pian pian, s'appressa al letto,
Tocca, sente, non alita, e si spoglia
Lascivo per goder pieno diletto.
Si corica, l'abbraccia, ed alle prime
Mosse su lei fervidi baci imprime.
E d'amoroso giubilo ricolmo
Così tenacemente a lei si stringe,
73
Come l'edera al pioppo e vite all'olmo;
E tutto foco a pervenir s'accinge
Delle delizie e dei piaceri al colmo.
Già il fervido corsiero in giostra spinge
Contro il bersaglio, e in amorosa pugna
Già nell'agon la rigid'asta impugna.
La Mora allor che per la stanza oscura
Al venir di colui temuto avea,
Sentendo di che specie è l'avventura,
Che certo all'età sua non attendea,
Si conforta, e deposta la paura,
L'ignoto avventuriero al sen stringea.
Non fiata, ma lo stimola e lo scuote
Per far seria la celia più che puote.
Qui forse i cacadubbi obbietteranno,
Come mai l'abatin non s'accorgesse
D'equivoco sì grosso e dell'inganno.
Le More i moti inver, le grazie istesse,
Quel saper far, quel non so che non hanno,
Che han tutte le marchese e le contesse.
A questa obbiezìone io non rispondo,
Vi ci risponderà don Sigismondo.
Confuso intanto un pissi pissi intese
Di molta gente, che improvvisa e in folla
Doppieri in man tenendo e torce accese,
Spinse a un tratto la porta e spalancolla.
Era colla marchesa e col marchese
Tutto lo stuol, che intorno a lui s'affolla,
E l'abatino attonito dileggia,
E con scherni amarissimi il motteggia.
Egli invece di donna Eleonora
S'accorge allor d'aver fra le sue braccia
La bruttissima vecchia orrida Mora,
Che impiastrata di rosso avea la faccia,
Ond'era ei tinto pel contatto ancora.
Sdegno, rabbia, furore, il cor gli straccia,
E smania e freme, e senza far parola
Tutto s'involge dentro le lenzuola.
Ed ivi sbuffa e in tanta stizza monta,
Che in sì schifa attitudine l'han colto;
E il punge a segno tal dispetto ed onta,
Che nel sen della terra esser sepolto
Vorrebbe; e s'egli aveva un'arma pronta,
Forse allo scorno si sarebbe tolto
Con qualche colpo disperato e tristo,
Per mai più non veder nè più esser visto.
74
Le donne nate pel supplizio altrui,
Della marchesa il perfido raggiro,
Ed i mal consigliati amori sui
Maledì con frenetico deliro.
Ebber color compassion di lui.
Fer partire la Mora, e poi partire.
E l'abatin ravvolto entro il lenzuolo
Nella disperazion lasciaron solo.
Dallo sbalordimento alfin riscosso,
Non più udendo lo stuol che beffa e strilla,
L'aggruppato lenzuol da se rimosso,
Volge attorno la torbida pupilla.
Levasi, e si ripor gli abiti in dosso,
E senza indugio alcun sparve di villa
Nascostamente, e andò non si sa dove,
E per gran tempo non se n'ebber nuove.
Non so, se l'abatin più saggio rese
Quella celia crudel, quel brutto affare;
Ma in guisa tal, cosa vuol dire apprese
Col sonettin, col madrigal seccare
Le ritrose contesse e le marchese.
Le marchese convien lasciarle stare,
Nè le marchese sol, ma qualsivoglia
Donna (intendiamci ben) se non ne ha voglia.
75
NOVELLA VI
LA DIVOTA
Poiche' il fragor della guerriera tromba,
O Donne mie, per l'europee contrade
Lo spavento spargendo, alto rimbomba,
E il fiero scontro d'inimiche spade
Manda alme innumerabili alla tomba;
Noi che abbiamo in orror la crudeltade,
E sensibilità nudriamo in core,
Sediamci a crocchio e favelliam d'amore.
Nè perchè brilla in voi la giovinesca
Vivacità congiunta alla beltate,
Creder vo', Donne mie, che a voi rincresca
D'amore favellar con vecchio vate.
L'alma ancor sento in sen vegeta e fresca,
E giovanil gajezza in vecchia etate;
Nè intende a voi spiegar la mia rettorica
La pratica d'amor, ma la teorica.
Quella forte e soave affezione,
Che il desir porta a tutto ciò che s'ama,
E per cui con ignota impulsione
L'alma alla cosa amata unirsi brama,
In cui la sua felicità ripone,
È un sentimento in noi che amor si chiama.
Tende alla creatura umano amore,
E amor divin si porta al Creatore.
Se quell'umano amore è giusto e saggio,
Benevolenza ed amicizia crea
Se traligna, divien libertinaggio,
O simil passion oscena e rea.
È l'altro caritade, è zelo, è un saggio
Di quell'amor che in ciel l'anime bea;
Ma divien, se dal fin retto devia,
Superstizione e bacchettoneria.
Di tai diramazion ceppo comune
È amor: figli ha legittimi e anche spuri.
Or se fia, che abitudine in talune
Deboli teste e in certi cor non puri,
76
O malintesa educazione adune
Falsa devozione e affetti impuri;
Dal ceppo stesso essendo discendenti
Si trattano fra lei, come parenti.
E questa è la ragion chiara, evidente,
Per cui l'incontinenza andar congiunta
Con bacchettoneria veggiam sovente;
Se poi da tal divozion compunta
Di buona le veggiamo alma innocente,
Da stimol sensual ben presto è punta.
Or questa verità, mie Donne, è quella
Che vo' mostrarvi in questa mia novella.
La vaga, la gentil, la colta Siena
Del tosco suol fra le città più note
Di belle donne e di conventi è piena.
E quel fra i primi annoverar si puote,
Che il Rifugio appellar; poichè vi mena
Santa vita uno stuol d'alme divote,
Che in quel chiostro si chiude e si rifugia
Del mondo per fuggir la tafferugia.
A quella istituzion cristiana e pia
Le docili innocenti verginelle
La materna pietà sovente invia,
E che son per lo più leggiadre e belle.
Le suore della vergine Maria,
E di Gesù religiose ancelle
Con carità le guidano e con zelo
Per lo cammin della virtude al cielo.
Ma sulle altre una certa Teresina
Per la città notissima si rese
Per grazia e per beltade, e da bambina
Maravigliosa e inalterabil prese
Divozion per santa Caterina,
Che, com'è noto, anch'ella era Sanese,
E purissimo autor di lingua etrusca,
E temuta però fin dalla Crusca.
Oltre il confessor solito ordinario,
Che ognidì ascolta i lievi lor difetti,
Soglionsi procurar qualche divario
In certi tempi a cotal uopo eletti,
Prendendo confessor straordinario,
Che ne oda i falli un poco più grossetti,
E a cui quelle solean buone figliuole
Alcune riserbar confidenziuole.
Frate di fresca età, di bell'aspetto,
77
Di quelle intatte verginelle intanto
Fu confessor straordinario eletto.
Er'ei creduto poco men che santo.
E oltre di ciò per professor perfetto
Passò nel suon dell'organo e nel canto;
Ma fu dottrina sua caratteristica
La biblica, l'ascetica e la mistica.
Onde bravo era in quello studio strano,
Che fa un mestier della pietà, del zelo;
Mestier che l'alma guida per arcano
Imperscrutabil laberinto al cielo,
Con leggi assoggettando il core umano
D'amore al foco e d'aridezza al gelo,
Dottrine ignote ed a nessun concesse,
Se li misteri ascetici non lesse.
Forse ebb'egli (e anche tor possiamo il forse)
Da quelle che parean diverse idee;
Ma le nascose, poichè ben s'accorse,
Che credute sarian d'empietà ree,
Ben persuaso che nessuno opporse
Alla comune opinion non dee;
Onde altro in mente e del suo cor nel fondo
Er'egli, altro mostrossi in faccia al mondo.
Qual ingordo ghiotton, che a lauta e grande
Mensa talor famelico s'asside,
L'occhio divorator sulle vivande
Gira prima di scerre e poi decide;
Tal, poichè delle giovani educande
Custode il padre e direttor si vide,
Girando attorno il guardo incerto e vago,
Fu di Teresa più che d'altre pago.
Gentili modi e verginal pudore
In colei scorse e una dolcezza in viso,
Indizio certo di sensibil core,
Una soavità di paradiso,
E sguardi fatti per destare amore.
In rimirarla il padre Urban conquiso
Rimansi, e un desir caldo in sen gli bolle,
E gli scorre per l'intime midolle.
Quando videla poi sua reverenza
In aria a se venir di penitente,
E con sue question la coscienza
Scandagliando ne andò minutamente,
Semplicità trovovvi ed innocenza;
onde in lui a confidarse interamente
L'incoraggisce e per la man la piglia,
78
La stringe, e ognor titol le dà di figlia.
Alla tenera e dolce espressione,
E al discorso che il padre Urban le tenne,
Per lui vie più prese ella affezione,
Vie più ai consigli suoi docil divenne.
Ma quando della pia divozione
Per santa Caterina a parlar venne,
Quasi invaso da zel quel sacerdote
Tosto abbracciolla e le baciò le gote.
Si scosse la fanciulla, e di modesto
Rossor si tinse a quell'insolit'atto;
Perchè, o padre, dicea, fate voi questo?
Ed egli accarezzandola: l'ho fatto,
Perchè a far di nostre anime un innesto
Da trasporto simpatico son tratto.
Affetto, o figlia, hai tu divoto e pio
Per santa Caterina, ed hollo anch'io.
Per allor la faccenda andò così;
Ma benchè non avesse un fin compiuto,
Pur della conferenza di quel dì
Non era alla donzella il tuon spiaciuto;
Ma l'altro giorno ei non si tenne lì.
Si reca a lei, l'abbraccia, e per saluto
O raro ardir! lascivamente in bocca
Tre a quattro baci fervidi le scocca.
Insolito nel sen calore e smania
Sentend'ella, il respinse e lo represse.
Qual vi prese, dicea, subita insania?
Ed ei: sai ben che il ciel ci diè le stesse
Propensioni; e sana cosa strania
Far per ribrezzo van, che sian compresse.
Si baciano li cristi e le madonne,
Nè baciarsi potranno uomini e donne?
Baci a madonne e a cristi ognor si danno,
Diss'ella, e di tai baci io soglio darne;
Ma quei provar quel non so che non fanno,
Quel non so che, che i vostri fan provarne;
E poi cristi e madonne in lor non hanno
La molle cute e la sensibil carne.
Ma ad ogni obbiezion; ch'ella propose,
Ei da gran professor sempre rispose.
Dissele poi: giacchè sì schiva sei,
Avvezzarti alla santa obbedienza,
E darmi un picciol bacio anche tu dei
Dell'indocil contegno in penitenza.
79
E come ognor coll'indole di lei
Incompatibil fu la resistenza,
Le labbra appressa e appicca adagio adagio
Al padre Urban verginalmente un bagio.
Potea senza frappor lungo intermedio,
Potev'ei senza farla cader d'alto;
Pronto cercando a tanto ardor rimedio,
Sulle difficoltà passar d'un salto;
Ma preferendo il regolar assedio
Al violento e mal sicuro assalto,
Sperò il forte espugnar, ma cosa accadde
Per cui la rocca per allor non cadde.
Un tal don Carlo, giovine sanese,
Di vago aspetto e d'ottimi natali
Tornando di Germania, ov'egli prese
Servizio nelle truppe imperiali,
In patria per congedo allor si rese;
Poichè per via di certi generali,
Che conoscean la sua signora madre,
Capitan fu nomato in quelle squadre.
Quando don Carlo Teresina bella
Vide di quel castissimo Rifugio
Fra l'educande, arse d'amor per ella.
In isposa la chiese, e senza indugio
Contenti entrambo e col consenso della
Lor parentela strinsero il conjugio.
E unitamente dieronsi a godere
Il conjugal reciproco piacere.
Godendon ella ognor più se ne invoglia,
E fra di se dicea: or ben capisco,
Perchè bramar sì ardentemente soglia
L'uom d'unirsi alla donna, e non stupisco
Se n'ebbe il padre Urban cotanta voglia.
Poverino! ha ragion, lo compatisco,
Il padre Urban oh non è gonzo, no,
Lo so quel che da me volea, lo so.
Ma non, benchè a lui tolta, il padre Urbano
La pecorella sua perde di vista
Da lungi attorno ognor le ronza, e invano
Cerca talor trovarla alla sprovvista;
Che presso erale sempre il capitano,
Geloso guardian di sua conquista.
E chi non sa quanto i novelli sposi
Sieno agli amanti incomodi e nojosi?
Dalla sposa però, cui dispiaciuto
80
In qualità di suo straordinario
Non era il padre Urban, fu ritenuto
Per confessor suo solito ordinario;
Poichè pel tuon che seco avea tenuto
E dentro e fuori del confessionario
Bel bello a fargli s'era accostumata
I raccontucci delle sue peccata.
Fuorchè in confessional, diceale intanto
Il padre Urban, non potrò dunque, o figlia,
Mai più vederti? ed ella: ho sempre accanto
Lo sposo, e addosso ognor mi si attortiglia.
E io gli vo' ben, perchè i dover del santo
Matrimonio adempisce a maraviglia.
Inver pur anche a Teresina piacque
Il padre Urhan, ma per modestia il tacque.
E col cor per natura intenerito
Costantemente affezion professa
Per santa Caterina e pel marito,
Come pel padre Urban che la confessa,
Dal quale avea sì bei precetti udito,
Con ciascun osservando ognor la stessa
Sensibilissima indole amorosa,
Divota, penitente, amante e sposa.
Avidi intanto di sangue e di guerra
I troni, i principati e le potenze,
E le dominazioni della terra,
Rancidi dritti e vecchie pretendenze
Ravvivaro e scavaron di sotterra;
Onde sorser litigi e differenze
Fra sua reale maestà cattolica
E sua imperiale maestà apostolica.
Tosto il re cristianissimo dei Galli,
Alleato e cugin del re di Spagna
Mosse a favor di lui fanti e cavalli,
E l'acquatico re della Brettagna,
Che i mari ha per legittimi vassalli,
S'unì all'imperador dell'Alemagna;
Poichè senza il politico equilibrio
Del più forte ciascun saria ludibrio.
Come voraci uccelli di rapina
E ingordi lupi ed affamati cani
S'azzuffano per far carnificina
Del bue lasciato morto dai villani;
Così tutti costor sulla meschina
Italia si gettar per farla in brani;
E l'estraneo invasor gridando gia:
81
Lungi, inermi coloni, Italia è mia.
Dall'Istro, dalla Senna e dall'Ibero,
Rivali armati in sanguinosa giostra
Scendon d'Italia a contrastar l'impero;
Ond'ella sempre al vincitor si prostra
Dannata a sofferir giogo straniero.
E se osassero dir, l'Italia è nostra,
I natii naturali abitatori,
Riguardati sarian quai traditori.
Staccossi Carlo dalla sposa amata
Per ire a unirsi ai micidiali eroi,
Ed appena che fu giunto all'armata,
Senza che il come a raccontar v'annoi,
Colpito da solenne archibusata
Terminò glorioso i giorni suoi
Dell'immortale alloro incoronato;
Che in sostanza vuoi dir che fu ammazzato.
Del pianto e delle lagrime non parlo,
Che in gran copia versò la poverina,
Quando la morte udì del suo don Carlo.
Raccomandossi a santa Caterina
E pregolla a voler resuscitarlo.
Ma quella santa apparve a Teresina,
E disse: che da un tempo alcuni ostacoli
Nati eran, che impedian di far miracoli.
Poichè morto restar dunque dovea
L'ucciso sposo suo senza un portento,
Vedovella colei si rimanea;
Ma Carlo pria d'andare al reggimento
Lasciata in caso di malor l'avea
Erede universal per testamento;
Onde libera, bella e giovinetta
Potè cogli agi suoi viver soletta.
E ciò in parte scemò la sua disgrazia,
E soffribil la rese in certi punti;
Onde di vero core il ciel ringrazia,
Che all'antica non dee fra i suoi congiunti
Dipendenza tornar, di ch'ella è sazia.
Che supplir puossi ai conjugi defunti;
Ma perder col marito anche i danari
E roba e libertà son brutti affari.
S'avviva allor del padre Urban la speme
Di rattaccarsi a Teresina bella,
E a solo a solo intrattenersi insieme,
E consolar l'afflitta vedovella;
82
Poichè badessa o sposo omai non teme,
O chi abbia dritto o autorità sovr'ella,
E nel più bello della conferenza
Non li disturbi colla sua presenza.
A lei portossi, che con volto mesto
La perdita piangea del suo consorte,
Sotto il caritatevole pretesto
Di confortarla nella trista sorte.
Pien d'avido desir quell'immodesto,
Religioso allor venne alle corte;
E con lussurioso estro l'abbraccia,
E la bacia sul petto e sulla faccia.
Riprovando colei quei slanci audaci,
Sdegnosetta con man lo respingea:
Ed eccovi ancor qui co' vostri baci,
Nè altri modi sapete? ella dicea.
Ed ei: dolce mio ben, troppo mi piaci,
Dell'ardir mio la tua beltade è rea.
E a conjugali giostre assuefatta
Ella omai ben capia di che si tratta,
E disse: io credo che innocentemente
Ardito abbiate ciò che avete ardito,
Ma vi esorto a non far l'intraprendente;
Poichè si fatte cose al sol marito
Son permesse, al marito unicamente,
E non ad altri: avete voi capito?
Ed ei: si, ma il marito è un ordinario,
E tu sai ben che io son straordinario.
Non ostante più o men sempre s'oppose
A' suoi desir la vedovella amata
Dio guardi, e che diria, talor rispose,
L'immagin della mia santa avvocata,
Se mi vedesse far sì fatte cose?
Mi farebbe tremar con un'occhiata.
Ella neppur guardava oggetti maschi,
E voi volete che in tai falli io caschi?
Non abbandona il padre Urban l'impresa,
E assalti replicar vie più procura;
Che una devozion sì male intesa
Alle propension della natura
Sa ben che non può far lunga contesa.
Ogni opposizion cade e non dura,
Se sostener con false idee la speri,
Non con principi ragionati e veri.
Perciò co' baci al solito e col tatto
83
Preluso avendo alquanto una mattina
Il padre Urban, toltala in braccio a un tratto
Sul vicin letto la gettò supina,
E di brocco venir volle al grand'atto.
Grid'ella, ajuto, santa Caterina;
Ma quei nulla badando, alza il sipario,
E si accinge al lavor straordinario.
Di santa Caterina e di madonne
Immagini vedeansi attorno al letto;
Un cristo a una pendea delle colonne,
E del cero pasqual v'era un pezzetto,
E in oltre, com'è stil delle pie donne,
L'acqua santa e l'ulivo benedetto,
Lumen cristi e agnusdei contro la streghe,
E scritte a lettre d'or divote prieghe.
Allo scoprir di quegl'incitativi
Il padre Urban fu da lussuria invaso,
E in quei primi suoi moti ardenti e vivi,
Fosse urto inavvertito o fosse caso,
(Che per caso e non per altri motivi
Che ciò avvenisse sol son persuaso)
Il cristo allor, comunque fosse, accadde,
Che si staccò dalla colonna e cadde.
Quel cristo nel cader diè sì gran botto
Che Teresina tutta spaventata
Si volse e vide a terra il cristo rotto,
E il padre Urban con una grande urtata
Indietro spinse e gli squillò di sotto.
Misericordia, grida, io son dannata,
Cristo, misericordia, io non ci ho colpa;
E il padre Urban dell'attentato incolpa.
Ma il padre Urban, che tutto quanto inteso
Al grande affar l'attenzion non svia,
Allo scatto improvviso, al non atteso
Strepito si riman confuso in pria;
Ma poichè meglio il caso ebbe compreso,
Sì, dicea, non temer, la colpa è mia;
La cosa tal qual è buona o cattiva,
Io son l'operator, tu sei passiva.
Padre Urban ch'era un logico profondo,
E di tai sillogismi esperto mastro, Le più grandi si diè pene del mondo
Per provar che accaduto un tal disastro
Non era per orror dell'atto immondo,
Ma perchè omai vecchio era e logro il nastro
Con cui quel cristo era attaccato al chiodo;
Ma persuader colei non vi fu modo.
84
E sì la mente le ingombrò il terrore,
E d'inferno l'idee tetre ed opache,
Che, preso il cristo, il bacia e con fervore
Prega che le perdoni e che si plache.
Poi brusca si rivolse al seduttore,
E gli dicea, tirate su le brache,
Queste cosacce non si fanno più,
Tirate su, via via, tirate su.
Chi ha un po' di sperienza e di talento,
Che si metta su i piè del padre Urbano
Pien di sorpresa e di sbigottimento,
Slacciato tutto e colle brache in mano,
Dalla grand'opra in sul più bel momento
Distolto a un tratto da quel caso strano;
D'irritata lussuria acceso in faccia
Facea pietà, ma pur le brache allaccia.
Ma piange tuttavia la sconsolata
Vedovella e s'affanna e si dispera.
Part'ei, poichè vedea che la giornata.
È omai perduta, e nulla a far più v'era,
E altra volta compir la cominciata
Opra, e meglio i talenti impiegar spera,
Che avea quel dì con poco frutto spesi
Cruccioso contro i cristi male appesi.
Talun ch'esercitato ed incallito
Non fosse nella pratica del mondo,
Sgomentato sarebbesi e smarrito
A tante smanie, a tanto finimondo;
Ma il padre Urban nell'animo agguerrito
Possedea di vigore un sì gran fondo,
Che il coraggio mantenne e la costanza,
Nè rinuncia all'impresa e alla speranza.
Fralle contradizion cui son soggette
Le picchiapetto e le baciamadonne,
Le spigolistre e le pinzocherette,
E altre deboli tai divote donne,
Or una (una però che val per sette)
Nel proposito nostro a voi dironne.
Andossi Teresina il giorno appresso
A confessar dal padre Urbano stesso;
E raccontogli ciò che ben sapea
Circa all'affar del giorno precedente.
Il padre Urban calmolla, e le dicea,
Che tai cose accadean naturalmente.
Il ciel, figliuola mia, le soggiungea,
85
Alle fragilità sempre è indulgente,
Che non possono affatto esser rimosse
Da quei che fatti son di carne e d'osse.
L'amor, seguiva, egli è una certa cosa,
Ch'entro limiti mai chiuso non fue;
A quella nostra Santa gloriosa
Di cui divoti siamo tutti e due,
Cristo in persona diè l'anel di sposa;
Ma chi può numerar le spose sue?
Di sposo tal tutte far ponno acquisto
Le vergin tutte son spose di Cristo.
Or se di spose tal pluralità,
Se tal spiritual poligamia
Par nello stato di verginità,
Che spiritualmente ammessa sia;
Se poi prendonsi un po' di libertà,
Credo che per ragion d'analogia
Coloro che più vergini non sono
Debban scusa ottener, non che perdono.
Qui, Donne mie, di dirvi io mi dispenso,
Che tai bisticci e bubbole sì fatte
Lusingaron quel cor digià propenso
A certe dolci affezion contratte.
Benchè prevalga ognor la carne, il senso,
Sulle idee metafisiche ed astratte,
Pur l'inquieta ognor, se veglia o dorme,
Divoto e sensuale amor biforme.
Del contrasto profitta il padre Urbano,
E ha il vantaggio di giudice e di parte,
E sapea ben, che lottar tenta in vano
Divozion contro natura ed arte.
Crede aver di vittoria i pegni in mano,
E dal proposto fin non si diparte.
Insiste, insidia, assale, e bacia, e tocca
Tanto, che alfin capitolò la rocca.
Dico, che il padre Urbano e Teresina
I brutti a prevenir casi previsti
Capitolar, che attorno la cortina
Del letto si tirasse avanti ai cristi
E alle madonne e a santa Caterina,
Acciò non vedan più gli atti già visti,
Nè si stacchin giammai, ma fissi e sodi
Restin tranquillamente affissi ai chiodi.
Dunque tirato attorno il cortinaggio
Avanti ad ogn'immago o pinta o sculta
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Per non fare alla lor modestia oltraggio,
E acciò che resti la faccenda occulta,
Incominciar di nuovo a far il saggio,
Se inconveniente alcun indi risulta.
Ma i santi, le madonne e i crocifissi
Rimaser tutti ai loro chiodi affissi.
Così colei nell'amorosa giostra
Di sensibilità piena e di foco
Dimentica dei scrupoli si mostra;
Finito poscia il favorito gioco,
Ritorna al pissi pissi e spaternostra,
Giusta il costume suo lieve e bizzoco,
Si pente, si confessa, e dell'errore
Complice allor l'assolve il confessore.
Talor se all'atto il padre Urban la pressa,
Risponde ella: oggi no; di castitate
Oggi al bambin Gesù fatt'ho promessa
Domani, se Dio vuol, non vel scordate.
Tal'altra volta: andar or deggio a messa,
Fate intanto un giretto e poi tornate;
E sempre, pria che all'opera si metta,
Scaccia il diavol coll'acqua benedetta.
Se ticchio al padre Urban talor venia
(E spesso viengli) di ripeter l'atto,
Questo no certo, ella dicea, se pria
Non mi confesso del peccato fatto.
Ed egli: ebben, se il vuoi, figliuola mia,
Qui ti confesso e qui t'assolvo a un tratto.
E la contrizione allor, diss'ella,
Credete io l'abbia qui pronta in scarsella?
Un giorno il padre Urban seco il geloso
Fece, dicendo aver veduto spesso
Ronzar d'intorno un giovin scandaloso.
Portato per le femmine all'eccesso,
E che correa susurro ingiurioso,
Ch'ella talor l'avesse in casa ammesso;
Ma Teresina accusa tal non tollera,
Gli fece il broncio, e gli rispose in collera.
Non vi sareste forse in capo messa
L'idea, che a giovinastro io mi sia resa,
Che appena il dì di pasqua si confessa,
E ch'entrar mai non ho veduto in chiesa,
E, Dio sa, se neppur mai sente messa?
Sì fatte cose non le fa Teresa;
Foss'ei, giacche così mi si strofina,
Divoto almen di santa Caterina.
87
Così quel cor che fu sì puro e casto,
Appena entrò nei claustri verginali
Il lupo insidiator, fu infetto e guasto
Dai stimoli lascivi e sensuali
E colui troppo forti in quel contrasto
Armi impiegò, troppo ella inferme e frali.
Ma interruppe moral riflessione
L'opre di quel monastico bertone.
Sensatamente il padre Urban riflette,
Che le frequenti visite d'un frate
In alcune ore ai monaci interdette
Cominciavano ad essere osservate,
E in breve tempo diverrian sospette
E nel convento e in tutta la cittate;
E sa che colla monacal livrea
Piena aver libertà non si potea.
Pensa e ripensa, altro partito a prendersi
Che ragionevol fosse e non fantastico
Veder non può, se non che a Roma rendersi
Per uscire dell'ordine monastico,
Lo che non può che per grazia pretendersi,
E prete secolar l'ecclesiastico
Corto abito portar; poichè portandolo
Per tutto entrar si può senza dar scandolo.
Svelato a Teresina il suo pensiere,
Partì raccomandato ad una dama
Molto amica del gran penitenziere,
D'alto lignaggio, e avea credito e fama
D'esser portata a far altrui piacere.
Per lei dunque l'intento ottien che brama.
Passa dal chiostro al secolo, e da frate
Il padre Urban per lei diviene abate.
Donna Cornelia era colei, per cui
Il padre Urban di smonacarsi ottenne.
Donna Cornelia in conversar con lui
In breve innamorata ne divenne;
E per questa ragion, malgrado i sui
Disegni, in Roma a lungo ei si trattenne;
Che un vigoroso er'ei bell'abatone
Da innamorar le putte e le matrone.
Dai Metelli, dai Lentuli e dai Gracchi
Famiglie in Roma traggono splendore,
Senza che ambizion forzi o stiracchi
L'alta progenie lor; nè tanto onore
Le dame temon che s'imbratti o macchi
88
Per atto alcun di compiacente amore;
Onde gli atti d'amor donna Cornelia
Atti non riputò di contumelia.
Donna Cornelia giovinetta e bella
Inver non era al par di Teresina;
Ma di figura avea gran pregi anch'ella,
E parea veramente una regina
Agli atti, al portamento, alla favella.
Molta in mestier d'amor arte e dottrina,
E grandi possedea rari talenti,
E vari pel piacer raffinamenti.
Onde poichè fra l'una e l'altro nacque
Reciproca amorosa intelligenza,
Donna Cornelia il suo desir non tacque;
E don Urbano allor con sua eccellenza
Su molli piume agiatamente giacque
Fra lenzuola finissime di lenza
Con larghe trine di sottil lavoro
E sotto baldacchin co' fiocchi d'oro.
Vizio nudrito ognor dall'abitudine
Facil destò della lussuria il foco
Nello sfratato drudo, e gratitudine
Con vanità preser d'amore il loco.
Nè scrupol nè divota inquietudine
Egli in colei trovò molto nè poco;
Frivolezze cotai che il volgo noma
Devozion non son che finte in Roma.
Due volte i dì menò più corti ed atri
La stagion fredda, all'erbe e ai fior nemica,
Due volte il duro suol fesser gli aratri,
Verdi i prati tornar, bionda la spica,
Mentre ai passeggi e ai pubblici teatri
Mostrossi con Urban l'illustre amica;
Che vedove, zitelle e maritate
In Roma al fianco lor sempre han l'abate.
Ed ei co' primi personaggi spesse
Volte a gran mense e in assemblee trovossi
Di principi talor, di principesse,
E di prelati e di cappelli rossi.
Nè più le sue maniere eran le istesse;
Di vano orgoglio a segno tal gonfiossi,
Che di colei si sovveniva appena,
Che già la fiamma sua stat'era in Siena.
Con solenni promesse e con regali
Spesso il suo patrocinio era implorato,
89
Ed egli ricevea memoriali,
E già credea di divenir prelato,
E posto ottener poi fra i cardinali,
E infin cangiar condizione e stato.
E quai produr non può follie sì strane
Ambizion dentro le teste umane!
Quando per don Urban di quella dama
Cessò a un tratto l'amor, cangiò d'oggetto,
Siccome avvien se per virtù non s'ama;
Ma solo a fin di sensual diletto.
Al fianco suo più don Urban non chiama,
E non curato e ogni dì più negletto
Tosto si vide, e al fin con brusco muso
Dal portinar fu dal palagio escluso.
Favola allor dei cavalier serventi,
E ludibrio del pubblico divenne.
E tai sofferse altieri trattamenti,
Che quasi pazzo per rancor ne venne.
Allor delle natie grazie innocenti
Di Teresina sua si risovvenne:
Sperò che ancor per lui la stessa fosse,
E a Siena speme tal lo ricondusse.
Ma qual in cor dispiacimento e pena
Provò, quando colà più non trovolla!
L'anno volgea che di passaggio in Siena
Venuto un giovin veneto adocchiolla,
E due o tre volte insiem trovarsi appena,
Che l'una all'altro piacque, ed ei sposolla.
Era un garzon lo sposo suo novello
Di gran famiglia, amabil, ricco e bello;
Discreto in oltre ed in oprar sensato,
E saviezza avea più che dottrina.
Marco (così lo sposo era nomato)
Dopo non molti dì la Teresina
Menò con pompa e splendido apparato
Alla città, dell'Adria un dì regina,
E presentolla a tutti i suoi parenti,
E a gara ognun le diè divertimenti.
Dei Veneti l'ameno e gajo umore,
Il tuon di città grande e popolosa,
E più il buon senso unito al savio amore
Del buon consorte alla novella sposa
La bacchettoneria tolser dal core;
Ond'ella la dolce indole amorosa
Dai vani oggetti frivoli distolse,
Ed allo sposo suo tutta la volse.
90
Deposte allor le scrupolose inezie,
E dall'inganno altrui non più sedotta,
La sensibilità di buona spezie
Fu in legittimi limiti ridotta;
Nè inorpellò colle divote lezie
D'allora in poi la savia sua condotta;
E ciò che pria difetto e vizio fu,
Poscia divenne conjugal virtù.
Così amor se provien da fonte impura
Libertinaggio o ipocrisia diventa,
Rimorso e inquietudine procura
E il delitto consiglia o lo fomenta.
Se con virtù s'associa, il cor depura
Da' vizi e rende l'anima contenta;
Ond'esser dee da onesti cori escluso
Non già l'amor, ma dell'amor l'abuso.
Intanto don Urban stavasi in Siena
Pien di tristezza e da dolor conquiso;
Ma vi restò tre o quattro mesi appena,
Che più omai non potè viver diviso
Dalla dolce cagion della sua pena;
E avendo di raggiungerla deciso,
Parte, e senza frappor dimora alcuna
Si rende sulla veneta laguna.
Colà giunto, a più d'un di quella gente
Nuove chiedea della sanese sposa;
E tutti rispondean concordemente,
(Ciò che ben raro avvien) la stessa cosa,
Che passava in città generalmente
Per bella, per gentil, per virtuosa;
E don Urban fessi insegnar da quei
Il suo palagio, e si portò da lei.
E disse al portinar: dite a madama,
Che don Urban, suo quondam confessore,
Giunto da Siena in quest'istante, brama
A lei di presentarsi aver l'onore.
Quei l'annunzia; ella in mente allor richiama
Gli antichi falli del carpito amore;
Fecelo entrar, e con sereno aspetto
Lo accoglie e lo introduce in gabinetto.
Esultante di giubilo l'ex-frate
Credè, ch'ella colà lo introducesse
Per rinnovar le confidenze usate,
E l'ardor suo con tal parole espresse
Dunque, o mia Teresina, ancor m'amate?
91
Dunque mia cara … e senza altre premesse
A braccia tese incontro andolle a un tratto
Per abbracciarla e per venire al fatto.
Sdegnosa ella il respinge e in grave tuono
Disse: di mia semplicità con ree
Arti un tempo abusaste, e vel perdono;
Ma più ella omai facilità non dee
Al delitto prestar: cangiati sono
I luoghi e i tempi, ed io cangiai d'idee.
Esser vittima omai più non vogl'io
Dell'altrui frodi e dell'inganno mio.
Or tai cose scordiam; ma d'ora in poi
Ciò ch'io potrò, ch'util vi sia, nè offenda
L'onestà mia, pronta il farò per voi.
Benchè discorso tal colui sorprenda,
Pur a dispetto dei disegni suoi
Forz'è che alla virtù tributo renda.
S'ama il vizio, si segue e s'accarezza;
Ma solo la virtù s'onora e apprezza.
Teresina così finchè disposta
Fu all'infantil divozion fattizia,
Alla seduzion rimase esposta,
E agli artifici dell'altrui nequizia;
La bacchettoneria poscia deposta,
L'ingenuo e franco tuon dell'amicizia
Con virtù vera e solida congiunse;
E questo è quel che a dimostrar s'assunse.
92
NOVELLA VII
PROMETEO E PANDORA
Sempre dunque dovrem, Donne amorose,
Parlar di ciò che accade ai tempi nostri?
Sempre d'umane e d'usuali cose?
Che mal v'è che talvolta ancor vi mostri
Straordinari fatti, e alle famose
Avventure i forbiti orecchi vostri,
E a udir le belle imprese io gli accostumi
Dei prischi eroi, dei semidei, dei numi?
E poichè siete vaghe d'ascoltare
Le curiose novellette ognora,
Vi voglio questa sera raccontare
La storia di Prometeo e di Pandora.
So che a suo modo ognun la vuol narrare,
Come voi stesse avrete udito ancora;
Ma io che l'ho letta in un antico foglio,
Come l'ho letta raccontar la voglio.
Altri conti, altre storie, altre novelle
Trovato ho in oltre in questo testo antico,
E cento graziose coserelle
Scritte da un bravo autor detto Gianfico.
Ma datevene pace, o Donne belle,
Che al certo da ora in poi non ve le dico,
Se voi non mi pregate e ripregate,
E qualche carezzina non mi fate.
E allor vi do parola infin d'adesso,
Che vincer mi farò dai vostri prieghi;
Ma per altro il farò con patto espresso,
Che se avverrà giammai che anch'io voi preghi,
Voi meco far dobbiate ancor lo stesso,
E il richiesto favor non mi si nieghi.
Dopo questo preambolo son pronto
A farvi questa volta il mio racconto.
Poichè in mente ideò l'impresa ardita,
E col foco immortal dal cielo tolto
L'industre Prometèo diè moto e vita
93
A un freddo marmo di sua mano scolto;
Apparve al mondo di beltà compita
Di amabili maniere e amabil volto
La prima donna; perchè avanti a lei
Eran tutte deesse e tutti dei.
Ma che altra donna non sia stata pria,
Da taluno si nega o si contrasta.
Egli è ver che rispondersi potria,
Che fu la prima di marmorea pasta;
Ma senza starvi a far l'apologia,
L'asserisce Gianfico, e tanto basta.
E proseguiam la storia incominciata,
Nè ci arrestiamo a questa ragazzata.
Talmente l'opra sua piacque all'autore,
Che in rimirarla sì perfetta e bella
Diletto pria, poi concepinne amore,
E finalmente si sposò con ella.
La donna in guisa tal dopo poche ore
Che venne al mondo non fu più zitella.
E da madre d'origine sì strana
Si propagò tutta la specie umana.
Pandora, che così poscia chiamossi,
Vide un giorno nell'onda il suo bel viso,
Indi del gran potere assicurossi
Del dolce sguardo suo, del dolce riso,
E infin d'ogni arte femminile armossi;
Onde il buon Prometèo restò conquiso,
E sendo egli il primo uom che fu marito,
Fu il primo dalla moglie a esser tradito.
D'altro allor per lo ciel non si discorse,
Che della nuova bella creatura,
E ciascun dio determinò di porse
A tentar seco lei qualche avventura.
Tutte le dee ne fur gelose, e opporse
Ciascuna ai lor disegni invan procura;
Che ogni nume voll'esser cicisbeo
Della sposa gentil di Prometèo.
Giove che pria d'ogni altro i rari apprese
Pregi dell'opra portentosa e strana,
La prima volta allor dal ciel discese
Per desio di gustar la carne umana;
E all'amorose voglie ella si arrese
Della divina autorità sovrana.
Se anche voi, Donne mie, foste a tai prove,
E chi sana che non cedesse a Giove?
94
Con militar franchezza il dio guerriero
Appresso Giove a visitarla venne.
L'ampio scudo, e sul lucido cimiero
Le tremolanti peregrine penne,
E le robuste membra e il guardo fiero,
Tutto piacque alla donna, e Marte ottenne
Sollecita di lei facil vittoria,
Di che con gli altri dei poi si fe' gloria.
Dopo il dio della guerra, il dio dell'acque
Venne colla corona e col tridente
Alla novella sposa, e non le tacque
L'amoroso desio: naturalmente
Vana è la donna, e perciò si compiacque
Un amante d'aver così possente,
E sol per vanità fu concubina
Di sua reale maestà marina.
Febo, che nella lucida carriera
Cose discopre sì diverse e tante,
Ciò vedendo, calò dalla sua sfera,
Ed a Pandora presentossi avante.
La bionda inanellata capelliera,
Il maestoso giovanil sembiante,
Feron su lei così potente effetto,
Ch'egli fu di Pandora il prediletto.
Ma Mercurio ch'è dio dell'eloquenza
Ancor egli sen venne a ritrovarla,
E giunto della donna alla presenza
Seppe sì ben convincerla e obbligarla,
Che di sua porzion non restò senza,
Mercè la sua destrezza e la sua ciarla;
Poichè un fecondo parlator sagace
Volge gli animi altrui, come a lui piace.
Lasciò persin di Venere il marito
L'incude, il maglio e la fornace accesa,
E benchè zoppo e mezzo abbrostolito
Ebbe coraggio di tentar l'impresa.
Dalla donna in sul primo ei fu schernito,
E derisa l'istanza e vilipesa;
Ma tanto importunò, che alfin pur ebbe
Ciò che avuto altrimenti ei non avrebbe.
Venne anche Momo, l'inventor d'irridere
E mormorar con arte e con astuzia.
Seppe sì ben tutti gli dei deridere,
Esagerando ogni atto, ogni minuzia,
Che divertì la donna e la fe' ridere
Co' satirici motti e coll'arguzia.
95
E in guisa tal ebbe il favor di lei
Al paro e meglio ancor degli altri dei.
E come dopo l'ora della mensa
Turba di mendicanti e pellegrini
Colle ciotole in man corre e s'addensa,
Dove di zoccolanti e cappuccini
Brodosi avanzi il portinar dispensa
Così correan gli dei grandi e piccini
Ad isfogare le lascive voglie
Di Prometèo coll'indulgente moglie.
Ed ella nel vedersi dalla schiera
Degli immortali numi attornìata
A poco a poco interamente s'era
Dell'origine sua dimenticata;
E di se stessa unicamente altera,
Dispensando a chi un detto, a chi un'occhiata,
Tutti allettava, e a chi la man stringea,
E a chi furtivamente il piè premea.
Opportuno chiamava in un momento
Quando il rossor, quando il pallor sul viso,
E sempre pronto aveva a suo talento
Sugli occhi il pianto e sulle labbra il riso.
Il deliquio, il tremor, lo svenimento
A tempo comparir facea improvviso;
Or lieta or mesta or tacita or loquace
Or fingea sdegno ed or tornava in pace.
Sparia sovente e poi ricomparia
Accesa in volto, ovver scomposta il crine;
E se talor sospetto e gelosia
In talun comprendea, con sue moine
A porsegli vicin tosto venia,
E il consolava colle paroline,
Co' languidi sospir, co' vezzi sui,
E tutte le finezze eran per lui.
Oltre all'ore per altro in cui ciascuno
Soleva andare a lei pubblicamente,
In altre ore appostate ad uno ad uno
Ricevea tutti separatamente.
E se talun vi sorprendea taluno,
La facea comparir cosa innocente;
Che avea pronti i raggiri e tanti e tali,
Quali e quanti non hanno i curiali.
E come la civetta in sul mazzuolo
Al zufolar del cacciatore e al fischio
Or s'innalza or s'inchina or spiega il volo;
96
E intento ai lazzi non badando al rischio
Degi'incauti augellini il folto stuolo,
Svolazza attorno e resta alfin nel vischio
Così con sue civetterie costei
Nella pania d'amor traea gli dei.
Da questa di finzion prima maestra
Le femmine imparar le tante frodi;
Onde ciascuna è sì perita e destra
In tender lacci ed in formare i nodi,
Con che gli amanti semplici incapestra
Tratti dai dolci e lusinghieri modi.
Da lei impararo i detti, i moti e le altre
Arti in amore insidiose e scaltre.
Ma voi per altro, o Donne mie, che siete
Di costumi sì docili e sì buoni,
So ben che approfittar non vi vorrete
Di sì perfidi esempi e lezioni;
Perchè odiate l'inganno e vi potete
Della regola dir l'eccezioni,
E amate di buon cor, di buona fede,
E peggio per colui che non lo crede.
Che se talun vi critica e vi accusa,
Che attorno aver più adoratori amate,
Senza mettermi a far la vostra scusa,
Io vo' che a questo tal voi domandiate,
Se da lui ne sarebbe alcuna esclusa,
Quando potesse aver più innamorate.
E purchè il ver volesse dir, direbbe
Che averne molte anch'ei non sdegnerebbe.
Che quell'esercitar sovrano impero
Sulla suddita turba numerosa
Di tanti adoratori, a dire il vero,
Bisogna pur che sia la bella cosa.
Ma voi che non avete animo altero
Regnate senza tirannia orgogliosa,
Voi che superbo non avete il core
Pagate amor con altrettanto amore.
E se ancor voi le vostre scappatelle
Di far talvolta non avete a schivo,
Compatirvi convien, Donne mie belle;
Perchè giovani siete e caldo e vivo
Avete il sangue, e alfin son bagattelle;
Perchè il fondo del cor non è cattivo,
Nè a voi Pandora assomigliar potrei;
Perchè valete voi più assai di lei.
97
Di lei, che usar sapea le più secrete
Arti per adescar nuovi amatori,
E poi per ritenerli entro la rete
Fingea con tutti tenerezze e amori;
Ma siccome poc'anzi udito avete
Sapea a tempo accordar grazie e favori,
Ed or con le parole ed or co' fatti
Tutti tenea contenti e soddisfatti.
Io non lodo Pandora, o Donne mie,
Nè dico già che non facesse male;
Perchè quell'usar tante furberie,
Quell'esser tanto vaga e universale,
Sebben si soglion dir galanterie,
Pur se una donna usasse in guisa tale,
La gente avvezza a dir potrebbe dire...
Basta, voi mi potete ben capire.
Ma d'altra parte, a dirla schiettamente,
Quel volersi tenere al cintolino
Sempre attaccato un cavalier servente,
E solo a lui parlar pianin pianino,
E a tutti gli altri non badare niente,
La cosa a lungo andar secca un tantino;
Perchè alla fine, per parlar sincero,
A nessun piace far da candeliero.
Di Pandora allorchè s'innamoraro,
Come suol farsi ai tempi nostri ancora,
Gli dei, chi più chi men la regalaro.
Perciò la donna si chiamò Pandora,
Cioè dono di tutti, come è chiaro
A chi la greca lingua non ignora.
Che se voi, Donne mie, sapeste il greco,
Ancora voi ne converreste meco.
Ma da gran tempo Prometèo vedea
Le tresche della moglie e il proprio scorno,
E nondimen dissimular volea;
Ma poi vedendo che di giorno in giorno
De' concorrenti il numero crescea,
E sempre più di nuovi fregi adorno
Se gli aggravava in fronte il diadema,
Determinò di variar sistema.
E in se stesso dicea: dunque non basta
Farsi una moglie con le proprie mani,
Acciò da altri non sia sedotta e guasta,
E tenga i numi insidiator lontani?
E chi agli dei le dive lor contrasta,
Che sulle donne altrui fan da sovrani?
98
Stian colle dee, lascin le donne a noi,
E viva ognuno colli pari suoi.
Sicchè quando egli in casa ritrovava
Liberamente colla moglie a crocchio
Starsen gli dei, neppur li salutava,
E guardavali brusco e di mal occhio;
Ma nessuno per nulla a ciò badava,
Nè il marito stimavano un finocchio;
E seguian francamente a darsi spasso,
E a scherzar colla moglie e a far del chiasso.
Ond'ei, la cosa andando ognor più avanti,
Prese la moglie un dì fra l'uscio e il muro,
E in termini le disse alti e lampanti,
Con autorevol tuono e muso duro
Per casa io non vo' più questi galanti;
O facciamla finita, o ch'io ti giuro,
Se mi saltano un giorno in testa i fumi,
Prima a te rompo l'ossa e poscia ai numi.
La donna, che giammai non si ritenne
Di dire i propri fatti e i fatti altrui,
Il discorso che a lei lo sposo tenne
Narrò a ciascuno degli amanti sui,
E ne pianse di cruccio; onde ne avvenne
Che tutti gl'irritò contro di lui
A segno, che fra lor fu stabilito
Di rovinare il povero marito.
Sicchè, fatta una specie di congiura,
Concordemente l'accusaro a Giove
D'aver rapito l'immortale e pura
Fiamma del ciel con temerarie prove;
E formata l'umana creatura
In guise affatto inusitate e nuove,
Ed animando l'opra di sua mano,
Usurpato il divin dritto sovrano.
Onde allor dagli dei mosso e instigato
Giove ordinò che Prometèo dovesse
Del Caucaso a una rupe esser legato,
E un avoltojo il fegato gli avesse
Svelto dal sen col rostro e divorato,
E quel di nuovo sempre rinascesse,
(Supplizio atroce!) onde non mai rimasto
Fosse il vorace augel senza tal pasto.
Così di Giove gli ordini eseguiti,
E fatto a Prometèo cangiar soggiorno,
Gli dei da niuno ostacolo impediti
99
Stavansi con Pandora e notte e giorno.
Esempio memorabile ai mariti,
Per non tenersi i sommi numi intorno.
Fan da padroni in casa loro ognora,
E con ciò credon d'onorarli ancora.
Supplizio sì crudel, pena sì dura
Ella è ben altro, o Donne mie dilette,
Che in testa aver chimerica armatura.
So che gran torto a Prometèo si dette
Perchè quella animò sua creatura.
Terribil degli dei son le vendette,
E pe' gelosi grandi e pe' potenti
Sempre furon delitti i gran talenti.
Allor l'invitto eroe per buona sorte
Sterminator dei mostri iva pel mondo,
E delle sue prodezze Ercole il forte
Empia la terra e l'erebo profondo.
Sciolse quel miser dalla rupe, e morte
Diè co' suoi strali all'avoltojo immondo,
E poi colazion con Prometèo
Col fegato di quello Ercole feo.
Dall'empio masso Prometèo disciolto
Più omai non volle in sua magion por piede.
D'Ercole alle alte imprese util fu molto,
E alla filosofia tutto si diede.
Pel mondo anch'egli errò, ne fu sì stolto
Di voler dalla donna esiger fede.
Fuggì costante il femminil consorzio,
E diè l'esempio del primier divorzio.
Ha il divorzio, per far digressione,
Gl'inconvenienti suoi e il suo vantaggio.
Se a fin di prole ei fassi, o per ragione
D'antipatia o delitto, è giusto e saggio
Ingiusto e assurdo egli è, se n'è cagione
Noja, capriccio, umor, libertinaggio.
Ma se di quel di Prometèo vi parlo,
Niun più di lui ebbe ragion di farlo.
Degl'immortali drudi in compagnia
Finchè Pandora poi libera visse,
Spesso restava incinta e partoria.
Anzi v'è un qualche antico autor che scrisse,
Che per accrescer l'umana genia
Ella una volta al mese partorisse.
De' parti che seguian ciaschedun mese
Poi mensual sintomo il loco prese.
100
Le grazie intanto e le bellezze rare,
Onde amor dagli dei la donna ottenne,
A poco a poco vennero a mancare,
E il vezzo e il brio sempre minor divenne;
Sicchè s'incominciaro ad annojare
I numi, e più sì folta a lei non venne
Degli amanti la turba, e finalmente
L'abbandonaron tutti interamente.
La donna, che passò degli anni il fiore
Fra i dolci allettamenti del piacere,
Avvezza a variare amanti e amore
Far non puote invecchiando altro mestiere;
Perciò Pandora omai senza amatore,
Le vespertine e fresche aure a godere
Soletta alla campagna un dì sen giva
Nel gran calor della stagion estiva.
E in vedersi da tutti abbandonata
S'assise sotto un albero fronduto,
Pensando alla felice età passata;
Quando dal vìcin bosco un nerboruto
Satiro uscì, che avendola adocchiata
A lei corse lascivo e risoluto
Di prenderne piacer, e volontieri
Ella di lui compiacque ai desideri.
Forse a Pandora in quell'età natura,
In cui d'amanti non avea più speme,
Non dispiacque la cinica avventura.
Se v'è attempata femmina che teme,
Si consoli: non è nella natura
De' satiri peranche estinto il seme.
E spesso a grinza cute, a chioma bianca,
Se manca amante, un satiro non manca.
Scuso perciò le donne attempatelle,
Se l'albicante crin, se il volto scabro
Celano e l'inegual flaccida pelle
Con finta capelliera e con cinabro,
Per comparir più giovani e più belle,
E all'occhio per dar brio, freschezza al labro;
Onde pascol fornire agli appetiti
Possano ancor dei sensuali arditi.
Or da origine tal deriva ognuno;
Perciò i costumi, i spiriti, i talenti,
Le passioni e i geni di ciascuno
Vari sono fra loro e differenti.
I torbidi per padre ebber Nettuno,
Mercurio i furbi, e Marte i violenti;
101
E dei lascivi e dei mormoratori
Momo e il Satiro fur progenitori.
Ma nell'immensa turba dei mortali,
Che coprono la terra in ogni dove,
Quanto pochi son quei che i lor natali
Possano riferire a Febo e a Giove,
E con esimie e belle opre immortali
Dian dell'origin lor non dubbie prove,
E facciano vedere a chiari segni,
Che degli autori lor non sono indegni!
Dura il costume della donna ancora
D'aver più amanti e variar sovente;
Ed il mestier ch'esercitò Pandora,
Quantunque sì comune e sì frequente,
Sopra ogni altro del mondo oggi s'onora,
E divenuto è nobile e potente
Dolce mestier che col femmineo sesso
Ebbe principio, ed avrà fin con esso.
Donne, il conto è finito, e o finto o vero,
Util moralità trarne potete.
Passa tosto degli anni il fior primiero,
Nè sempre belle e giovani sarete;
Onde chi v'ama con amor sincero,
Amar voi ancora e conservar dovete;
Nè cominciar da Giove, e a poco a poco
Darsi a un satiro immondo al fin del gioco.
102
NOVELLA VIII
IL PURGATORIO
O donne mie, voi certamente udiste
Del purgatorio ragionar sovente;
Ma poichè cose son che niun le ha viste,
Ne parla ciaschedun confusamente;
Onde voi forse non ne concepiste
Infin ad or l'idea conveniente;
Perciò vo' far stasera al mio uditorio
Quattro parole sopra il purgatorio.
Il purgatorio altro non è che un loco,
Ove espiar si suol colpa o difetto,
E ove talun rimane o molto o poco,
Fintantochè n'esca purgato e netto.
Nè sempre è ver, che vi si trovi il foco,
Come hanno molti immaginato e detto;
Ma vi si soffre o fame o sete o sonno,
Ed altre cose che dir non si ponno.
V'han purgatori ove ad un'alma impura
Fassi il bucato con ranno e sapone
Per toglierne le macchie e la sozzura;
Od all'aereo sventolar s'espone,
Come appunto si purga e si depura
Da peste e infezion lana o cotone;
O s'inzuppa di sal, come si fa
Al prosciutto, al merluzzo, al baccalà.
S'io talor obbiettai per celia e gioco,
Essersi messe fuori idee sì matte;
Ecco la gente che ci crede poco,
Ecco qui le risposte, che m'han fatte.
L'anime l'azion soffron del foco,
Da cui bruciate son, nè mai disfatte.
E perchè l'azion del sal, del ranno
E dell'acqua soffrir poi non potranno?
Dopo sì mostruose e strampalate
Stranezze, assurdità, sogni e follie,
Onde le teste o furbe o riscaldate
Composero le lor teologie;
Se per compir i suoi disegni un frate,
103
Come da me udirete, o Donne mie,
Un purgatorio fe' d'un gener nuovo,
Nulla di sorprendente io vi ritrovo.
Badia nel tosco suol famosa e nota
Su collina che domina un vallone,
Dal consorzio degli uomini remota,
Fu de' suoi falli per espiazione
Eretta da una vedova divota,
E poi dotata dalle pie persone.
L'abate nome avea don Benedetto,
E passava per uom santo e perfetto.
E in fatti possedea qualità rare
Ed insigni virtù; ma un tal trasporto
Per le femmine avea particolare,
Che inver potuto avria fargli gran torto.
Ma sempre lo sepp'ei sì ben celare,
Che nessuno giammai sen'era accorto.
In chi cautamente asconder sallo,
Divien più perdonabile tal fallo.
Ricco villan vi fu, detto Ferondo,
Che non lungi di là facea soggiorno,
Ed era un badalon gaglioffo e tondo,
E noto in tutto quel contado attorno.
Sendo il più gran pinzochero del mondo,
Portavasi in badia quasi ogni giorno;
E con sue scioccherie spropositate
Divertia molto i monaci e l'abate.
Moglie per altro avea giovine e bella
(Rosa avea nome) più ch'altra mai fosse;
Ma essendo gelosissimo di quella,
In pubblico giammai non la produsse.
Un giorno alfin venne in badia con ella,
E lei nell'orto a passeggiar condusse.
Fu presente l'abate, e di stupore
Restò colpito e d'inquieto amore.
L'ebbe don Benedetto appena vista,
Che gran desir glien venne, e fe' disegno
Di farne ad ogni costo la conquista.
E avendo molto spirito ed ingegno,
E in testa di compensi ampia provvista,
Tutti impiegolli a un fin di lui sì degno.
Lor venne incontro, e grave e sostenuto
Fe' gentilmente ai conjugi un saluto.
Dell'inferno parlò, del ciel, dei santi,
Lodò l'amore conjugale e puro;
104
E con tali discorsi andando avanti,
Una vergin trovar pinta sul muro.
Ciascun, dicea, le litanie qui canti,
E può del paradiso esser sicuro.
E l'abate e Ferondo e la sua donna
Le litanie cantar della Madonna.
Gli sposi poi preser congedo, ed ei
Con dignità la man sopra la testa
Pose a Ferondo: indi rivolto a lei,
Che stavasi tutt'umile e modesta,
Regalolle un bellissimo agnusdei.
Soggiunse poi, tientelo caro, questa,
Poichè t'insegnerò certe mie prieghe,
Arma sicura ch'è contro le streghe.
Per via madonna Rosa col marito
Del padre abate le virtù decanta,
E gli dicea: l'hai tu, Ferondo, udito?
Oh come parla ben! oh come canta!
Che bel metal di voce! ho gran prurito
Di confessarmi a quell'anima santa.
Nè sarai di negarmelo sì ingiusto,
Anzi parmi dovresti averci gusto.
Va pur, Ferondo allor le prese a dire,
Va, farai ben, l'abate è un uom sì saggio,
Che ti può nel decalogo istruire
Più che altro abate, e ne trarrai vantaggio.
Cenaron poscia e andarono a dormire.
E apparso appena il mattutino raggio,
Ferondo andò in badia, prima che uscisse
L'abate di sua camera, e gli disse:
Si vuol mia moglie confessar da voi.
Ella (il merito suo non se le toglie)
È buona in tutti gli andamenti suoi,
Ma troppo inver, troppo esigente moglie;
Ragion per cui v'è sempre a dir fra noi.
Per carità sue smoderate voglie
Calmate, o padre, o esse altrimente io risico
Di presto divenir per lo men tisico.
Stuzzicando mi sta tutta la notte,
E in maniera che a dirlo io mi vergogno.
Non è a dir quanto brontoli e borbotte
Su questo punto, o veglio o dormo o sogno.
Nulla con lei si fa, se... deh con dotte
Parole fate non più del bisogno
Esiga: contentar mai non la posso,
Il diavol, padre mio, par ch'abbia addosso.
105
La mano a tal discorso il padre abate
Strinse a Ferondo, e dissegli, coteste
Son cose estremamente dilicate.
Ci vuol particolar grazia celeste.
E soggiungea con aria d'umiltate,
E con melliflue espression modeste
Son troppo peccator, Ferondo mio,
Ma pur farò per te quel che poss'io.
All'importante autentica notizia,
Che acquistò da Ferondo, ei non è d'uopo
Di dir qual ci provasse in cor letizia,
Di colei la calda indole al suo scopo
Vedendo a maraviglia esser propizia.
Licenziò Ferondo, e poco dopo
Di lui la moglie alla badia sen venne;
E al padre abate tal discorso tenne.
Più che per confessarmi io vi prevengo,
O padre abate molto reverendo,
Che un buon consiglio a chiedervi quì vengo.
Nou saprei dirvi, quanti guai soffrendo,
La vita stentatissima ch'io tengo;
Solo da voi qualche sollievo attendo.
E quei: figlia dì pur, i pensier tuoi
Sicura in me depositar tu puoi.
Ed ella allor: Ferondo, mio marito,
Sapete ch'egli è assai religioso,
Sapete ch'è gaglioffo e scimunito,
Ma non sapete quanto egli è geloso.
Mi tien come prigion, muovere un dito
O fare un passo senza lui non oso.
Vi giuro, padre mio, che quel babbione
Di trattarmi così non ha ragione.
E vi dirò di più; ma ciò non v'esca
(Lo dico al confessor) di bocca mai.
Voi vedete, ch'io son giovine e fresca,
E alfin di carne anch'io; ma non cercai
Galante intrigo in vita mia nè tresca,
Come altre fan; perciò mi maritai
Per dar casto e legittimo alimento
Al naturale mio temperamento.
Ma di divozion tanti e sì scempi
Riguardi ha in capo ognor quell'animale,
Che se gli dico: il tuo dovere adempi;
Guardi il ciel, mi risponde, oggi è natale;
Un altro giorno, è pasqua o i quattro tempi,
Un altro, la tal santa, il santo tale:
106
E se talor il matrimonio ha loco,
Quel ch'ei fa, padre mio, vale assai poco.
Quanto era meglio di restar fanciulla,
Che unirmi ad uomo sì geloso e inetto,
Che a nulla è buono, o padre, affatto a nulla.
E paternostri a spippolare in letto,
L'essenzial scordando, ei si trastulla.
Datemi per pietà, don Benedetto,
Qualche consiglio voi savio e a proposito;
Altrimenti farò qualche sproposito.
Il padre abate a quella diceria
Stato essendo attentissimo: capisco,
Tutto tutto capisco, o figlia mia,
Disse, e di vero cor ti compatisco.
Ma se toglier gli vuoi la gelosia,
Con poco, credi a me, te lo guarisco.
Ma pur? diss'ella: ed ei: per perentorio
Rimedio dee mandarsi in purgatorio.
Ed ella: ohimè! dunqu'ei dovria morirei?
E quei: sì, se di vita io non lo privo,
Ei non potrà di gelosia guarire;
Ma ognor che vuoi, te lo ritorno vivo.
Ed ella: come? ed ei: non ti stupire,
Cotal rimedio è inver superlativo;
Ma ho certe secretissime preghiere,
Che non san tutti, e non le den sapere.
Ma vo' che sappi tu, perchè sei tu,
Che vi son potentissime parole,
Che hanno una certa incognita virtù
Da muover monti ed arrestare il sole,
Ravvivar morti e volger fiumi in su,
E miracoli oprar quanti si vuole;
Che pose Dio potenza ignota in verbis,
Assai più che in lapidibus et herbis.
La donna, che con molta indifferenza
Le ragion precedenti aveva intese,
All'arcana virtù, all'evidenza
Del latino sermon che non comprese,
Delle parole di sua reverenza
Restò persuasissima e s'arrese;
E sommessa rispose al padre abate,
S'è così, fate voi quel che stimate.
E quei: tutto va ben; ma in questo mondo
De' avere ogni servizio il contraccambio.
Da gelosia guarisco il tuo Ferondo,
107
Tu dei d'un altro mal guarirmi in cambio.
Io t'amo, gioja mia, non tel nascondo,
Servizio teco con servizio cambio.
Ciascun di noi qualcosa dia del suo,
Un miracol io do, tu l'amor tuo.
Fattasi in volto di pudor vermiglia,
Gesù! che ascolto mai! madonna Rosa
Turbata tutta a quel parlar ripiglia
Un sant'uom come voi chieder tal cosa!
E il padre abate allor: tu parli, o figlia,
Come chi ragionar non sa o non osa.
Ma dì, qualunque santità più pura
Puot'ella contrastar colla natura?
Divinità per ispirare amore
I raggi suoi sopra il tuo volto schizza,
E quest'amor il desiderio in core
Di posseder l'amata cosa attizza;
E tua beltà mirando, al Creatore
L'alma, il core, il pensier, tutto si drizza.
Ed anche qui testi latini aggiunge
E passi di scritture, e poi soggiunge:
Di certe assurde opinioni d'oggi
Poco o nulla per me son persuaso.
Credi tu, che al di fuor santità sfoggi,
O ch'ella nelle man, ne' piè, nel naso,
Nel ventre o nello stomaco s'alloggi?
Santità sta nell'alma, ed in tal caso
Se in certi atti co' sensi non si mischia,
La santità di perdere non rischia.
Vedete, Donne mie, come colui
La sacra teologica dottrina
Diffigurava co' garbugli sui
Per sedurre un'ignara contadina!
E che altro dir che riportarsi a lui?
O che altro far potea la poverina?
Ma l'abate oltre a quel ragionamento
Si valse d'un terribile argomento.
Tirò da un scatolino un bel giojello,
La man le prese e in dito a lei lo mise.
Poi disse: ebben, cor mio, farai tu quello
Che ti chies'io? Nulla colei promise
Con aperto parlar; ma pria l'anello,
L'abate poi dolce guatò e sorrise.
Or certamente ad una tal proposta
Quel suo silenzio era una gran risposta.
108
Pertanto assai propensa e persuasa
Monna Rosa lasciò don Benedetto.
L'anel nascose, e ritornata a casa
Di quanto il confessor aveale detto
Disse che appien contenta era rimasa,
E grandi elogi fe' d'uom sì perfetto;
Ed allo scempio credulo Ferondo
Le più belle contò cose del mondo.
E per tre notti il natural suo foco
Calmò, perchè sapea, che ben supplito
Il molto reverendo avria fra poco
Alla scioperataggin del marito.
Ma ciò fu dallo stolido bizzoco
Dell'abate ai consigli attribuito;
Punto non dubitò, ch'ei non ne fosse
L'autore, e il terzo giorno a lui recosse.
Grazie, vivo per voi, con faccia lieta
Gli disse, grazie, o molto reverendo,
Che Rosa pria sì fervida e indiscreta
Riducesti a ragion, grazie vi rendo.
Cui quel sant'uom: deh figliuol mio, t'acqueta,
Arrogarmene il merto io non pretendo.
Dal ciel tal grazia riconoscer dei,
Che sì gran peccator, com'io, non sei.
Poi fra di se dicea: mo te lo spiccio.
E gli diede a mangiar del salsicciotto
E un certo di sermon freddo pasticcio;
Poichè sapea Ferondo esserne ghiotto.
E intanto di vin rosso torbidiccio,
Di cui piena ha una fiasca, empiendo un gotto,
Di soppiatto vi mesce e vi dissolve
Una sua tal maravigliosa polve.
Tolta tal polve per lungo le torbe
Acque cimmerie ovver di Lete al margo.
Tal narcotico ha in se, che chi ne sorbe
Cade in un profondissimo letargo,
Che moto e polso arresta e i sensi assorbe
Da istupidir non che addormir un Argo;
E per magica forza effetto doppio
Produce e triplo e quadruplo dell'oppio.
Cagiona una maggiore o minor dose
Sonno lungo più o men, di morte immago.
Di nappel, di mandragora compose
Quella polve al Giappon celebre mago;
Del gufo il sangue e del vampir vi pose,
Del ghiro, della nottola e del drago.
109
Il padre abate l'ebbe da un mercante
Venuto dalle parti di levante.
Poichè tanta a Ferondo a bever dienne
Quanta a farlo dormir tre dì bastasse;
Tosto con esso lui nel chiostro venne,
E ivi finchè la polvere operasse
Co' suoi monaci ecco s'intrattenne
A udir quante scempiaggini sparasse.
Ed ecco i sensi altissimo gl'invade
Sonno improvviso, e a terra immobil cade.
Tutti i monaci songli a un tratto sopra,
E d'acqua fresca spruzzangli la faccia,
E a prestargli soccorso ognun s'adopra.
Chi al cor la man gli pone e chi lo slaccia,
E chi gli tasta il polso onde ne scopra
Il mal; ma il polso è senza moto, e traccia
Di vita in lui non resta, ed ha le membra
Torpide, intirizzite, e morto sembra.
Poichè tutto tentano e i mezzi umani
Tutti impiegar per richiamarlo a vita,
E tutti furo infruttuosi e vani;
L'anima omai credendone partita,
Sovra una bara il poser colle mani
Sul petto, e dalli monaci assistita
Sua reverenza celebrò l'esequie,
E al defunto pregar l'eterna requie.
Terminata la solita preghiera,
Su quella bara lo lasciaro esposto
Per riguardo del mondo insino a sera
Con due moccoli accesi; e fu il supposto
Cadavere, vestito allor com'era,
Privatamente in un avel riposto.
Ne alcun vi fu, che il povero Ferondo
Non credesse esser già nell'altro mondo.
Dai birri per scampar torzon si fece
Fra Bernardin ch'era in badia vinajo,
Di Bologna natio; nera ha qual pece.
L'alma, d'iniquità grand'operajo,
Di quei che società rigetta e rece
Dell'infamie più ree nel letamajo.
Fattolo il padre abate a se venire,
In tuono grave incominciogli a dire.
Tutte le cose, figliuol mio, son state
Con provvido e mirabile artifizio
Dal gran Fattor disposte ed ordinate
110
Per lo comun reciproco servizio
Quindi è, che or il novizio dell'abate,
Or l'abate ha bisogno del novizio.
Perciò di me bisogno hai tu sovente,
E io bisogno ho di te presentemente.
Padre, rispose allor fra Bernardino,
Quanto ti debbo io so; comanda pure.
Tu mi facesti custode del vino
Senza punto badare alle misure,
Tu mi dispensi ognor da mattutino
E da vesperi e d'altre seccature;
Non badi se di chiostro esco soletto,
E chiudi gli occhi a qualche mio difetto.
Di quanto per te feci, figliuol mio,
L'abate ripigliò, non farne conto;
In avvenir vedrai quanto sempr'io
A tuo favor sarò disposto e pronto,
Se vorrai far ciò che da te desio,
Poichè sopra di te confido e conto;
Ma sendo cosa dilicata e critica,
Di secreto fa d'uopo e di politica.
Sai ch'ogni uom benchè giusto ha in questo mondo
Le debolezze e i difettuzzi suoi;
Un arcano perciò non ti nascondo.
Qual passion immaginar non puoi
Per la moglie prov'io di quel Ferondo,
Che ognun crede oggi morto esser fra noi.
E qui narrogli tutto quell'affare,
E l'instruì di quel che aveasi a fare.
Oh gloria e onor di tutti i padri abati!
Sclama il torzon, non per restarsi oscuri
Sì sublimi talenti il ciel ti ha dati
D'una sola badia fra quattro muri;
Ma per sovraneggiar su tutti i frati
E presenti e preteriti e futuri.
A tai lodi l'abate non arrestasi,
Opra, gli dice, e non andare in estasi.
Poi seco in chiesa il mena, e nell'avello
Ov'è Ferondo in quel letargo assorto,
Pria toltone il petron, discender fello,
E trarne quell'immagine di morto.
Ponlo ei stesso sugli omeri di quello,
Che le parti facea di beccamorto;
Come se fosse un carico di strame,
O un sacco di carbone o di letame.
111
E acciò colui l'ignota via non falle,
S'avvia, tenendo in mano un lumicino,
Per disastroso angusto e bujo calle,
E dietro a lui seguia fra Bernardino
Con quel masso di carne in sulle spalle
E sceser, giunti appiè di quel cammino,
In cupa tomba, ove si chiudon quei
Che son di leso monachismo rei.
Destinato a Ferondo è quel soggiorno.
Lugubre è il loco e orribilmente oscuro,
Che chiuso è ogni passaggio ai rai del giorno.
Scabro e nero è il volton, il suolo e il muro,
Nè vedi che funesti oggetti attorno.
Le vestimenta sue tolte gli furo,
E copertol di sudicia gramaglia,
Steso il lasciar sovra un saccon di paglia.
Dal reverendo abate il bolognese
Torzone ben diretto ed instruito
Del dormiente la consegna prese,
E che scosso si fosse e risentito
Andando spesso e ritornando attese.
Lasciando fare che farà pulito.
Parte l'abate, e di Ferondo i panni
Sen porta per compir gli orditi inganni.
E con altro compagno, che la cosa
Come ita fosse non è punto istrutto,
Recossi a visitar madonna Rosa,
E la trovò con un bambin, sol frutto
Del matrimonio suo, tutta dogliosa,
E sì essa che il bambin vestita a lutto;
E confortolla con pietà e con zelo
A conformarsi alli voler del cielo.
Tu sai, le disse poi piano e in disparte,
Tu sai, che sacrosanta è ogni promessa,
Feci la mia, tu far dei la tua parte.
E per la notte prossima con essa
L'affare di compir conclude e parte,
Ed a lei ritornò la notte istessa.
Gli abiti di Ferondo in dosso avea,
E Ferondo stessissimo parea.
Qui certamente inutil cosa è a dire
Quale e quanto fra lor preser diletto.
Bella er'ella e gentil, fatta a gioire,
Vigoroso e bell'uom don Benedetto,
Ambo accesi di fervido desire,
E nudi entrambo e a lor tutt'agio in letto.
112
Or dopo tutto ciò d'uopo è ch'io mostri,
Che non stettersi a dir dei paternostri?
In oltre cose son che ogni momento
Sotto la penna tornano a chi scrive.
Ne vo' dica talun di mal talento,
Che siamo io dissoluto e voi lascive,
Siccome avvien, se con raffinamento
Tai cose a giovin donne alcun descrive.
E poi digià sappiam senz'altro dire
Come tai cose vadano a finire.
Cosa vuol dire, o caro padre abate,
Ella chiedea, cosa vuol dir, che mai
Questi quattr'anni in tutte le nottate,
Che unita er'a Ferondo, io non provai
Piacer simile a quel che voi mi date?
Se diletto maggior ti procurai,
Doni essi son, ripiglia il frate scaltro,
Che ripartisce il ciel più ad un che a un altro.
Ma reciproca è in noi la voluttà,
Che i sensi miei, l'anima mia s'imbeve
Di non gustata pria soavità
Su queste belle tue carni di neve.
Qualunque sia piacer che altrui si dà,
De' conguagliarsi a quel che sen riceve.
Ma già l'astro di Venere apparia,
Ond'ei si veste e torna alla badia.
Or poichè dell'abate a notte oscura
Spesso traghetto tal fu ripetuto,
Se talor da qualcun per avventura
Fu di Ferondo in abito veduto,
Sapendosene il corpo in sepoltura,
L'anima di Ferondo ei fu creduto,
Ch'errando per quei colli e per quei prati
In penitenza gia de' suoi peccati.
Cotali dicerie, cotai timori,
Si sparser d'ogn'intorno in mille guise,
E dei divoti furbi ed impostori
L'astuta razza in credito li mise.
Ma udendo quei ridicoli timori,
Madonna Rosa entro il suo cor ne rise,
Sapendo ciò che spettro altri asseriva
Esser soda materia e carne viva.
Intanto infatigabile esercizio
Facea fra Bernardin per ben compire
Di cantinajo e carcerier l'offizio.
113
Or in cantina or in prigion debb'ire
Per veder, se in Ferondo un qualche indizio
Di racquistato moto ei può scoprire.
E quando di quel suo risvegliamento
Avvicinarsi alfin vide il momento,
Ponsi avanti alla faccia una visiera,
Ch'ei stesso impiastricciata avea di rosso.
Folta barba ha sul mento ispida e nera,
Nero e rosso il sajon che porta indosso,
E sugli omeri sparsa irta criniera.
Quando Ferondo udì che il sonno ha scosso,
Mugghiando ed ululando entra, e la tomba
D'un rumor cupo a quell'urlar rimbomba.
Funerea in una man fiaccola scuote,
Dall'altra uno staffil di cuojo impugna,
Con cui Ferondo scotola e percuote,
E calci ad or ad or gli avventa e pugna.
Piang'ei, prega, si duol quanto mai puote,
Nè di quel crudo la fierezza espugna;
Onde con voce lamentevol mesta
Grida, dove son io? cosa è mai questa?
Tu sei, l'altro risponde, in purgatorio.
Come!... morto son io!... Sì, tu moristi,
E il caso è a tutti colassù notorio;
E ad espiar la gelosia venisti
In questo crogìuol depuratorio,
La gelosia per cui giorni sì tristi
Tu facesti soffrir senza motivo
Alla mogliera tua, quand'eri vivo.
E tu, che con que' fieri modi tui
Mi flagelli così, chi diavol sei?
Se tu geloso, io ruffiano fui,
Il torzon gli risponde, e tu esser dei
Da me punito per voler di lui
Che premia i giusti e che punisce i rei.
Tu odiasti i ruffiani, io de' gelosi
Le mogli in braccio ai loro amanti posi.
Cui 'l gonzo: e dunque sei morto anche tu?
Sì, pur troppo, fratel, son morto anch'io.
E siccome, quand'era colassù
Fui de' gelosi lo flagel più rio;
Perciò te flagellar degg'io quaggiù
Per tuo supplicio a un tempo stesso e mio.
E Ferondo: che il ciel ti dia suffragio,
Caro ruffiano mio, battimi adagio.
114
Quei poi lo lascia in quella tomba cieca,
Ed ei sen va di qualche cibo in busca.
E di prugne e di nespole gli reca
Picciola porzion con pan di crusca,
Con un fiascaccio pien di cerboneca,
O vin di raverusti e di lambrusca.
A cui Ferondo: hai tu costì del vitto?
E quegli: è il pranzo tuo; mangia e sta zitto.
E allor Ferondo: e mangia dunque un morto?
Sibben, mangia egli e bee, quando i parenti
In suo suffragio e per lo suo conforto
Portano pie limosine ai conventi.
E se or da bere e da mangiar ti porto,
Questo il ritratto egli è di lire venti
Dalla tua moglie alla badia rimesse,
Acciò in suffragio tuo si dican messe.
E bada di non esser sì cattivo
Colla tua moglie, se ritorni al mondo.
E può tornarvi chi di vita è privo?
Sì, chi Dio vuol, s'ei sia purgato e mondo.
Oh come, oh come ben, s'io torno vivo,
Esclama allor lo stolido Ferondo,
Io tratterotti, o moglie mia fedele,
Più dolce dello zucchero e del mele!
Ma omai nel voto stomaco risente
Stimol di fame e l'eccita e lo pugno,
Rode il pan duro ed affatica il dente,
E trangugia le nespole e le prugne.
E il vin che ingozza acerbo e dispiacente
Maggior disgusto al cibo ingrato aggiugne;
Ma benchè il pasto suo sia tristo e brutto,
Per la gran fame sel divora tutto.
Poi chiede: abitan altri in questo loco?
Varie le pene son, varie le sedi;
Altri abitan nel gelo, altri nel foco;
Nè quei più vedon te, che quei tu vedi.
E mangian tutti qui sì mal, sì poco,
Come me fai mangiar? Perchè ciò chiedi?
Certo lassù della badia fra i padri,
O in purgatorio qui vi son dei ladri.
Mi porti un desinar sì magro e scarso,
Caro ruffiano mio, per venti lire,
ch'esservi qualche trufferia m'è parso;
Ma da chi venga poi non tel so dire.
Ringrazia il ciel, che non sei ghiaccio od arso,
Quei gli risponde, e lo tornò a punire
115
Collo staffil; lo che due volte al giorno
Ripete, o parta o faccia a lui ritorno.
E per più mesi il misero Ferondo
In quel rimase purgativo stato,
Espiando così nell'altro mondo
Di gelosia l'orribile reato;
Mentre il più dilettevole e giocondo
Tempo davansi insiem Rosa e il prelato.
E ambo insiem con reciproco piacere
A lor agio giacean le notti intere.
E spesso in qualche lor pausa intermedia
(Che ogni lavor sue pause aver pur dee)
Fra se della ridicola commedia
Ride l'abate e di sue strane idee.
E a lei dicea: pene il tuo sposo e inedia
Non soffre in purgatorio, e mangia e bee;
E se brami di nuovo essergli unita,
Io, quando vuoi, te lo ritorno in vita.
Questa non è l'intenzione mia,
Posso ancor grazie a Dio restarne senza,
E s'ei sta bene ov'è, lasciam vi stia.
Così dicea, perchè la differenza,
Ch'è fra il marito e il vice ella sentia.
Troppo è superior sua reverenza
Nel merto e nel vigor lussurioso
Al melenso e pinzochero suo sposo.
Ma in questo mondo le disavventure
Son pronte sempre e non previste mai.
Dopo il diletto le ingravidature
Vengono, e allor cominciano li guai.
Lo stesso avvenne a monna Rosa pure.
N'ebbe indizio però per tempo assai;
Ma se semenza in fertil suol si butta,
Non v'è a stupir, se il suol germina e frutta.
Onde disse all'abate il giorno appresso:
Le cose alfin come ir dovean son ite.
Nell'utero un puttin m'avete messo,
Io ne sento le parti intumidite.
Tastate qui, tastate pur voi stesso.
Più giù, più qua... costì... non lo sentite?
Certo, a quel che sentir si può al di fuore,
Qui, l'abate dicea, v'è del tumore.
Rimedio estremo a estremo mal vi vuole.
Prender fa d'uopo un qualche gran partito.
Miracoli esser denno e non parole,
116
E un miracolo mio pronto e spedito
Solo potrà legittimar la prole.
Per richiamare a vita il tuo marito
Certo priego io farò: Domeneddio
Non temer che non faccia a modo mio.
L'altra notte poi fe' dal gabbamondo
Bolognese torzon per cerbottana
Entro l'oscuro carcere a Ferondo
Parlar con voce contraffatta e strana.
Dio vuol, gridò, che tu ritorni al mondo.
Ricovrata che avrai la vita umana,
Concepirà tua moglie un figlioletto,
A cui nome darai di Benedetto.
Poichè i pianti e le istanze replicate
Di tua mogliera e i caldi prieghi sui,
E di san Benedetto e dell'abate,
Che gran santo è ancor egli al par di lui,
Del purgatorio t'han l'ore accorciate.
San Benedetto, allor sclamò colui,
E l'abate e Dio padre onnipotente,
E mia moglie son pur la buona gente.
E per compir gl'incominciati inganni
La bevanda sonnifera compose;
E fa che tosto il bacchetton tracanni
La polvere nel vin, ma in minor dose.
E rivestito de' primieri panni,
Ed assonnato in quell'avel lo pose,
Ove fu posto dopo il suo mortorio
Poco pria di passar nel purgatorio.
Il susseguente dì di gran mattino
Si desta, e voci ascolta e s'assicura
Esser frati che cantan mattutino.
Alza la testa e nella commessura
Del marmoreo coperchio un bucolino
Vede, che d'alto nella sepoltura
Angusto picciolissimo passaggio
Dava di dubbia luce a un debil raggio.
Ch'egli era omai del purgatorio fuore
La luce, il canto, il loco assai gli attesta.
Grida, ma niun risponde al suo clamore.
Levasi, va tentoni e non s'arresta,
Finchè non giunga sotto a quel chiarore;
E urtando e in su spingendo or colla testa,
Or colle man con quanta forza aveva,
Il marmo sepolcral smuove e solleva.
117
Talun, cui parve sotterranee scosse
Aver udite e voce cupa e tetra,
E non sapea qual la ragion ne fosse,
Udendo dell'avel scuoter la pietra,
Dubbioso a quella volta allor si mosse;
Ma poi vacilla e per timor s'arretra.
Ed ecco un morto uscir del monumento;
Onde tutti fuggir per lo spavento.
Questo racconto, o Donne, alla memoria
Dee richiamarvi del risuscitato
Quatriduano Lazzaro l'istoria;
Ma qual divario! quegli erasi stato
Tre dì senz'altra pena espiatoria
Placidamente morto e sotterrato;
E dieci mesi a nespole pasciuto
Ferondo fu due volte al dì battuto.
Andar l'abate ad avvertir, che finse
A tal rapporto insolita sorpresa;
Estatico uno sguardo al cielo spinse,
Poi co' monaci suoi disceso in chiesa
Andò incontro a Ferondo, e al sen lo strinse;
E disse: lode e gloria a Dio sia resa.
E al portentoso tenero spettacolo
Tutti gridar: miracolo, miracolo.
L'abate, a parte allor preso Ferondo,
Molti, disse, dell'avola o dell'avolo,
E di ciò che si fa nell'altro mondo
Ti chiederan; ma non ti tenti il diavolo
Di dir ciò che ne sai, ed in profondo
Silenzio cela il ver; perchè san Pavolo,
Che anch'ei fu all'altro mondo mentre visse,
Mai ciò che vide ed ascoltò non disse.
Anzi scritto lasciò, che uditi e visti
Avea lassù misteri e cose arcane,
Come forse tu ancor vedesti e udisti,
Che non si deon ridir da lingue umane.
Che se ciò che godesti o che soffristi
A mortali svelar genti mondane
Osassi, per decreto perentorio
Torneresti issofatto in purgatorio.
Però dì pur ciò che ti viene in bocca,
E non abbi timor d'esser smentito;
Poichè la turba sfaccendata e sciocca,
E de' viventi un numero infinito
Di chimerici conti si balocca.
E Ferondo risposegli: ho capito.
118
Dirò gran cose, o caro padre abate,
Ma il ver nol dirò mai, non dubitate.
L'abate poi col conjuge risorto
Recossi a consolar madonna Rosa
Ma i villan camminar vedendo un morto,
Tutti fuggian, come da orribil cosa.
La moglie ancor s'impaurì, conforto
Ei però diede all'atterrita sposa,
E per grazia a Ferondo quella sera
Permise di giacer colla mogliera.
Gli soggiunse però: benchè non dei
Più aver carnal desio, lascive voglie,
Pur redivivo ancor marito sei.
E chi è moglie una volta è sempre moglie;
Onde de jure di giacer con lei,
Purchè spesso non sia, non ti si toglie;
Ma non t'è già permesso abuso farne,
E attaccar non ti dei troppo alla carne.
E in fatti più che mai rimpinconito,
Più che mai bacchetton pallido e smunto,
Da percosse fiaccato ed avvilito,
Scarno, spossato e dai digiun consunto,
Se pria poco valea come marito,
Risuscitato poi non valea punto.
Onde a lei, poichè fatto il saggio n'ebbe
Della resurrezion quasi rincrebbe.
Che appartato egli avrebbe il dormitorio
L'abate allor con esso lui convenne;
Che far credendo un atto meritorio,
Dal coujugal concubito s'astenne;
E in capo avendo sempre il purgatorio,
Dall'esser più geloso si contenne;
Onde non fur le visite interrotte,
Che a sua moglie il sant'uom facea la notte.
Più assicurati poi spesso a Ferondo
I contadin balocchi e curiosi
Le novità chiedean dell'altro mondo
Strane cose d'udir sempre vogliosi.
E a un gruppo intorno a lui serrato in tondo
Talor conti ei facea maravigliosi;
E nuove fresche fresche alli presenti
Dava talor dei morti lor parenti.
Oh se vedessi, indi a talun dicea,
La nonna tua come s'è fatta bella!
E a chi saluti del fratel facea,
119
A chi del padre, a chi della sorella,
Morti tutti, e di cui non si sapea
Da qualche mezzo secolo novella.
E tutto egli asseria per cosa certa,
E quei stavansi a udir a bocca aperta.
Tai cose fra i villan fean gran romore;
Ma ciò, di cui ciascun più assai stupia,
Era d'udirlo spesso e con fervore
Contro i mariti rei di gelosia
L'entusiasta far declamatore,
Ei che stat'era sì geloso pria.
Ma il feto intanto al termin suo condotto,
Madonna Rosa partorì un bel putto.
Or come il dì, che il putto nacque, appunto
Del beato Cornelio era la festa,
A quel di Benedetto il nome aggiunto
Fu di Cornelio; che l'usanza è questa.
Ferondo a un stato di ricchezza giunto
Avea di nobiltà già i fumi in testa;
Onde il figlio con termini rotondi
Fu detto don Cornelio dei Ferondi.
A frate Bernardin riconoscente
Sempre poi si mostrò sua reverenza,
Rammentandosi ognor quanto utilmente
In questa importantissima occorrenza
Spiegata avesse abilità eminente;
Onde il torzon di lui per l'influenza
E pel proprio monastico talento
Prior fu eletto in non so qual convento.
Pertanto, o Donne, la novella mia
Può provarvi, oltre quel che anche altri han detto,
Che il purgatorio ognor fu della pia
Religiosa industria utile oggetto.
Se a Ferondo per tor la gelosia
Se ne seppe valer don Benedetto,
D'ogni culto gli agenti a torto o a dritto
Dal purgatorio ognor trasser profitto.
120
NOVELLA IX
LO SPIRITO
Spesso esaltar lo spirito si suole
Del tal signore o della tal signora;
Ma che intender per spirito si vuole,
Non lo compresi, o Donne mie, finora.
E malgrado le frasi e le parole
Cosa non par ben definita ancora;
Anzi sembra un vocabolo posticcio,
Che applica ciascheduno a suo capriccio.
Non conosco neppur chi ben distingua
In che mai questo spirito consista,
Com'egli nasca in noi, come s'estingua,
Come perder si può, come s'acquista;
Se alloggia nelle mani o nella lingua,
Ne' piedi, nelle orecchia o nella vista;
Nei lombi qualche fisico lo pose,
Ed altri in altre parti infin l'ascose.
Havvi taluna, a cui fin dalla culla
Le femminili inezie empir la testa,
Nè avendo giusta istruzion di nulla
Il mondo inter col cicalio molesta?
Senza metodo alcun, come le frulla,
Tutto confonde oguor, tutto dissesta,
E l'altrui merto fissa e l'altrui fama?
Oh che donna di spirito! s'esclama.
Havvi (ed havvene assai) chi l'insolente
Motteggio lancia contro il giusto e il saggio,
E col gergo di moda e tuon saccente
Ridicol si formò futil linguaggio,
E al buon senso nemico assai sovente
Alla ragione e alla virtù fa oltraggio?
Da quel fatuo brillar sedotti i stolti
Gran spirito! esclamar spesso tu ascolti.
Ma se alcun nè di frivoli piaceri
Nè delle altrui futilità seguace,
Pieno di filosofici pensieri,
Le umane passion compiange e tace;
Uom di costumi tai rigidi e seri
121
Alle brillanti società non piace.
Il bel mondo a colui, che non si piega
Alle maniere sue, spirito nega.
E quindi avviene, o Donne mie, che a torto
Spesso talun sciocco si crede e tondo,
Che più degli altri esperto è forse e accorto,
E molto più conoscitor del mondo.
Se ciò, si chiede, s'abbia ancor rapporto
Alle d'amor galanterie; rispondo,
Che è così, certo, e che così pur sia
Lo proverà questa novella mia.
Pur sebben ciò che a dirvi io m'apparecchio
Suol nel mondo accader comunemente,
A prestarmi vi prego attento orecchio.
Giovine donna, che recentemente
Era rimasa vedova d'un vecchio,
Siccome è naturale e avvien sovente,
Non saprei dirvi in qual città d'Italia
Non è guari vivea, nomata Amalia.
Nobiltà, leggiadria nel portamento,
Eleganza negli abiti e lindura,
Molta pel canto abilità e talento,
Instruzion di spirito e coltura,
E sensibile avea temperamento,
E inclinato al piacer di sua natura,
Sguardo languido e dolce occhio ceruleo,
Che nei cor fea sentir d'amor l'aculeo.
Onde lo spirto avendo e il corpo adorno
Di tante e di sì belle qualità,
Avea non pochi adoratori attorno.
Anzi creduta fu la società,
Che in casa aveva in certe ore del giorno,
Una delle miglior della città.
Ma quei che li più assidui eran fra loro
Fur due, cioè Timante e Artemidoro
Fra le brigate Artemidor passava
Per un dei più bei spiriti alla moda.
Termini tali e un tal frasario usava,
Che non aveva inver capo nè coda,
E alle brillanti frivolezze dava
Il tuon della ragion matura e soda.
Ponea in deriso i rispettabil nomi,
E di fine ironia condia gli encomi.
Diversi a vero dire a mente appresi
Titoli d'opre avea, nomi d'autori,
122
Moderni tutti e per lo più francesi,
Che lesse ne' tasselli esteriori;
E da taluno avendoli già intesi
Citar talvolta, uscia sovente fuori
Con passi di Volterre o di Russò,
Senza curar s'erano al caso o no.
Da molte freddurine e minutaglie,
Dicea, gli antichi non potersi assolvere,
Che i loro assurdi amor, le lor battaglie
A legger non si seppe mai risolvere.
Dante, Petrarca e simili anticaglie
Dover lasciarsi ai topi e nella polvere,
E ad ogni età lasciar li suoi doversi
Di scrivere e pensar modi diversi.
Trascorso a salti avea pertanto e letto
Le commedie del Gozzi e del Goldoni,
Marini, Metastasio, e Ricciardetto,
Tasso, Ariosto e altri e cattivi e buoni.
E or madrigal facendo ed or sonetto
Per qualche bella o in altre occasioni,
Prendea tuon di poeta, e sugli altrui
Con enfasi esaltava i versi sui.
Per altro in ogni suo componimento
Spirito si scorgea non naturale,
Ma tratto a forza e qualche volta a stento
Per farvi ognor brillar l'acume e il sale;
Poichè di mostrar spirito e talento
Era la passion sua principale.
E a vero dir non n'era privo affatto,
Ma mancavagli gusto e un certo tatto.
E siccome talento abil profondo,
E occhio tutti non han penetrativo
Da scandagliar gli altrui talenti a fondo;
Colui per noia di spirito col vivo
Caratter suo passò presso il bel mondo.
Del resto dir non si potea cattivo.
E quella di brillar vana leggiera
Sua smania il sol difetto suo fors'era.
Di quel suo vivo e petulante umore
La bella Amalia assai si compiacea;
Nè la speranza di più gran favore
Al glorioso amante suo togliea
Ma i sperati ottener premi d'amore
Col merto suo, non coll'ardir volea
Artemidor però con lei riserva
E delicati ognor riguardi osserva.
123
E fra di se dicea: non ottenere
La vittoria vogl'io sopra costei
Degli amanti volgar colle maniere,
Come forse ottener facil potrei.
Bramo più lusinghier nobil piacere,
E poter dir; mercè i talenti miei
Già vacillar e ceder già la veggio
Sì bel trionfo al merto mio lo deggio.
Colà, sofferto amante e non distinto
Spesso era ancor Timante inerte e muto,
Di liscio letterario neppur tinto,
Rival non colto e non perciò temuto.
Artemidor de' merti suoi convinto
D'avvilirsi a temerlo avvia creduto;
Nè adatte espressioni avea Timante,
Nè tuon gentil per dichiararsi amante.
Ancor egli per altro, a dirla giusta,
Le magnifiche avea qualità sue;
Bruno color, complession robusta,
Collottola da frate o sia da bue,
Nero e riccio il capel, la fronte angusta;
E mangiava e bevea più che per due.
Coricatosi poscia a ventre pieno
Dormia profondamente ott'ore almeno.
Non dovea di tal corpo entro le vene
Di stimolanti umori esser penuria;
Ma di quei succhi esser dovean ripiene
Che dan pascolo e impulso alla lussuria,
Che per abuso amor chiamata viene
Per non fare alle caste orecchie ingiuria.
E in fatti nella sua fisonomia
Impressa la libidine apparia.
Mentre un giorno ad Amalia Artemidoro
Alcuni bei passaggi recitava
D'un certo suo poetico lavoro;
Son degni i versi vostri, ella esclamava,
Artemidoro mio, del secol d'oro.
E tutti ei stesso a leggerli il pregava;
Perocchè in bocca di lettor sì egregio,
Se far si possa, acquisteran più pregio.
Con sì tenero tuon tai detti espresse
Che omai parea col guiderdon del senso
Rimunerar lo spirito volesse.
Provonne Artemidor giubilo immenso,
E scorgervi gli parve le promesse,
124
Che otterrebber suoi carmi ampio compenso.
Vo, disse, o bell'Amalia, e a voi davanti
Co' miei versi sarò fra pochi istanti.
Partissi allor lo spiritoso amante;
Ma benchè in breve di tornar prometta,
Alquanto essendo di colà distante
L'alloggio suo, tornar non può sì in fretta.
Col rozzo intanto e tacito Timante
La bella Amalia si restò soletta;
Ond'egli per riguardo e per creanza
Un pocolin più presso a lei s'avanza.
Nel caldo estivo la vezzosa Amalia
Mollemente er'assisa in pian terreno
Sovra sofà, come è lo stil d'Italia,
E ove il chiaror del dì non entra appieno,
Qual forse attese Adon la diva Idalia.
Discoperto a metà palpita il seno,
E negligentemente il braccio posa
Nudo sovra origlier color di rosa.
Ed in quel lusinghier molle abbandono
Un placido prendea dolce riposo;
Le socchiuse pupille ingombre sono
D'un soave languor voluttuoso,
Che ispira ardir, e dell'ardir perdono
Promette: a lei s'appressa il desioso
Timante, ed il guancial sotto la testa,
Che sdrucciolando giù scorrea, le assesta.
Non può allor più frenarsi, al viso bello
Diè un bacio e un altro al sen: d'ira s'accese
Amalia, e, olà, perduto hai tu il cervello?
Grida: ai sdegnosi gridi ei non attese.
E sollevando il candido guarnello,
E vinte le ripulse e le difese,
Arditamente il giovine gagliardo
Pianta sulla trincera lo stendardo.
Audace! ella dicea, che impertinenza?
Ma la voce le manca a poco a poco,
E vie più indebolia la resistenza.
Tutto s'estinse alfin dell'ira il foco,
E coll'assalitor più connivenza
Mostrando, prese parte anch'ella al gioco;
Onde Timante allor, preso più ardire,
Provò ch'egli sapea più far che dire.
Di tali rocche espugnator valente,
Come prove ne diè molte e diverse,
125
Ed armi avendo e metodo eccellente,
Qual dee da' prodi combattenti averse,
Il primo di colei cruccio impotente
Tosto in trasporto di piacer converse;
E trovò di Timante il brusco amore
La scorciatoja che conduce al core.
Poichè i fervidi moti alfin compressi,
Stanchi giunser dell'opra al compimento,
Ambo restar fra i dilettosi amplessi,
Come assorti in un dolce sopimento,
Ed obbliar tutto ed obbliar se stessi;
Quando ecco che col suo componimento
A un tratto Artemidor d'Amalia in stanza
Entra, e li trova in quella circostanza.
Timante senza alcun preliminare
Sul canapè la bella avendo stesa,
Cominciato ex abrupto avea l'affare;
Precauzion perciò non avean presa,
E Artemidoro entrò senza picchiare.
Che disse Amalia in atto tal sorpresa?
Si confuse? si scosse? si sdegnò
Coll'indiscreto Artemidoro? oibò.
Senza punto scompor fisonomia
Placidamente disse a lui: d'amarmi
Spesso in prosa dicesti e in poesia;
Ma scusate di grazia, i vostri carmi
Amate più che la persona mia.
Che abbiate il campo abbandonato parmi
Senza contrasto allor; qual maraviglia
Se del campo il rival possesso piglia?
Ridicolo è il pensiero e stravagante,
Che amor di metafisico alimento
Pascer si possa a lungo andar, Timante,
Che aver non sembra al par di voi talento,
Più deciso mostrossi esperto amante,
E ad acquistarsi amor colse il momento
Non mica con idee intellettuali,
Ma con fisici mezzi e naturali.
Come rimansi il misero villano,
Che di feconda pianta alla coltura
Vede aver sparsi i suoi sudori invano,
E quando ricompensa alfìn matura
Lieto goder sperò, rapace mano
I desiati frutti a un tratto fura,
E a lui di sue fatiche il premio toglie,
Nè altro gli resta che odorar le foglie:
126
Così rimane Artemidor confuso,
Vedendo che improvviso altri gli ha tolto
D'amore il premio, ed ei ne resta escluso;
Onde se malaccorto appella e stolto,
Che dell'offerta occasion far uso
Opportuno non seppe; e tristo in volto
E taciturno e pien d'onta e di scorno
Di là partissi, e non fe' più ritorno.
Tutto ciò, Donne mie, prova in effetti,
Come dirvi in principio ebbi l'onore,
Che quei che sciocchi credonsi ed inetti,
San spesso a riuscir la via migliore
Prender, più che gli altissimi intelletti,
Massimamente negli affar d'amore;
Perciò alla loro esperienza unire
Sappiano a tempo un pochettin d'ardire.
127
NOVELLA X
L'ABITO NON FA IL MONACO
Giacche' qui pronte ad ascoltar mi state,
Per compiacervi emmi in pensier venuto
D'esporvi un fatto, o Donne mie garbate,
Non è gran tempo in Napoli accaduto,
Che fa onore immortale a un certo frate
Di spirito sveltissimo ed astuto.
Nè v'è alcuno o del volgo o fra i signori,
Che in Napoli tal fatto o neghi o ignori.
E sempre più visibile e evidente
Apparirà da questo mio racconto,
Che i frati alfin, sì sciocca inutil gente,
Non son da farsen poi sì poco conto,
Come in oggi si vuol comunemente;
Che anzi han talenti rari, ingegno pronto,
E in certi casi poi sono tant'abili,
Che quasi posson dirsi inimitabili.
Poco pria che re Carlo di Borbone
Da Napoli passasse al trono ispano,
Era colà un certo don Simone,
Che fu guardia real di quel sovrano.
Costui aver bramando occupazione
Per la bisogna sua pronta e alla mano,
Manteneva una bella giovinotta
Atta a tal uopo, e nome avea Carlotta.
D'un ricco terrazzano er'ella figlia,
Che sedotta da un giovin cavaliere
Era fuggita dalla sua famiglia,
E d'uno in altro poi venne in potere.
Vezzosa era e leggiadra a maraviglia;
Candide carni avea, pupille nere,
E il rilevato sen, la bella bocca
Parean dir, bacia bacia, tocca tocca.
Don Simone la vide, e assai gli piacque,
E a farle qualche visita si rese.
Comprò il piacer sovente, e seco giacque,
128
E passion per lei bel bello prese;
Dal che mutuo fra lor contratto nacque,
Ch'egli le assegnerebbe un tanto al mese,
Ma che solo per lui fosse Carlotta,
Cosa per altro un po' difficilotta.
Qualche oretta passar seco la sera
Ei solea per tenersi in esercizio;
Spesso vi rimanea la notte intera
Per pascolar più lautamente il vizio;
Ma se di star la notte astretto egli era
Sempre a palazzo in attual servizio,
Avea Carlotta i suoi straordinari,
Come tutte aver soglion le sue pari.
Poichè l'alloggio suo molti contiene
Quartieri e locatari a' suoi comandi,
Regnicoli e stranieri, e come avviene
In vasti alberghi e in casamenti grandi,
Promiscuamente ognor chi va chi viene.
Lo che diè facil campo ai contrabbandi;
Onde se di Carlotta in stanza a un tratto
Talun s'insinua, il contrabbando è fatto.
Tutto ciò don Simon non può ignorare,
Nè sol rancor, ma gelosia ne prova,
Che se un paga e altri gode, è un brutto affare.
Pregare è vano, e minacciar non giova.
Distaccarsen non può: dunque che fare?
Pensa e ripensa, altro da far non trova,
Che un altro alloggio prenderle a pigione,
Ove ella sola e solo ei sia padrone.
Affittò dunque un bell'appartamento
Fuori del centro, e con i suoi contanti
Lo fornì di bei mobili. Un convento
In faccia avea di padri mendicanti,
Di qual specie non ben me lo rammento;
Ma o fosser cappuccini o zoccolanti,
Fosser quei del cavicchio o riformati,
A noi basta saper, ch'essi eran frati.
Nella chiesa, che stava a dirimpetto
Un'immagine assai miracolosa
V'era di sant'Antonio benedetto
Già divenuta in Napoli famosa.
I frati la trovaron sotto il tetto
Di polvere coperta e mezzo rosa;
E fin d'allor per così dir parea
Di miracoli aver la diarrea;
129
Che miracoli molti e forse troppi
A quella santa effigie erano ascritti.
V'eran molti che pria fur gobbi e zoppi,
E camminavan poi tesi e diritti;
V'erano intieri e parlator che stroppi
Fur sempre in vita lor o sempre zitti;
E infin di quei che a vita eran risorti
Dopo esser stati qualche giorno morti.
Onde accorreavi il popolo divoto,
Come è il popolo ognor napoletano;
E in sculto argento v'appendean per voto
O piede o gamba o coscia o braccio o mano,
O ritratto di chi da morbo ignoto
Oppresso un tempo era tornato sano.
E di prodigi tai certi e sicuri
Eran coperti e tappezzati i muri.
Carlotta alla finestra sulla strada
Stavasi per vedere i giovinotti,
Che avanti e indietro van per la contrada,
Colà dal caso o da un perchè condotti;
Molti de' quai (benchè sovente accada
Sempre scandal però) vinti e sedotti
Dalle istigazioni del demonio
Preferian la Carlotta a sant'Antonio.
E di lassù colei ghigni ed inchini
Facea sovente a ciaschedun che passa,
Così adescando i giovani zerbini,
Come civetta or s'alza ed or s'abbassa
Per far cader nel vischio gli uccellini.
Quel che però più la diverte e spassa
È la fisonomia di fra Gennaro,
Ch'era del monastero il portinaro.
Allegro e arguto era il buffon del chiostro;
Crespa la fronte, il capo grosso e tondo,
Ampie le spalle, e il naso fatto a rostro,
Brunazzo il volto alquanto e rubicondo,
Folto e nero il capel più dell'inchiostro,
Nè frate vi fu mai più frate al mondo;
Guardo libero, ardito, e par che scocchi
Scintille di libidine dagli occhi.
In oltre fra Gennar di quando in quando
Cantar solea napoletanamente,
E colla coppa in mano improvvisando
Facea morir di ridere la gente;
Onde giovani e femmine in passando
Seco ciaramellar godean sovente.
130
Con tutti er'ei lo stesso, e d'ogni spezie
Pronte risposte avea, frizzi e facezie.
Di fra Gennaro le buffonerie,
E la divozion per sant'Antonio,
E di Carlotta le galanterie
Fornirono alli frati ed al demonio
Un miscuglio di cose oscene e pie,
Di cui traffico fero e mercimonio
E famosa i devoti, i furbi, i scapoli
Reser quella contrada in tutto Napoli.
Quando adocchia Carlotta alla finestra
Fra Gennar furbamente, e di soppiatto
Talor guardar fingendo a manca o a destra,
Alza ver colassù lo sguardo a un tratto;
Come in cucina al chiodo o alla canestra
Sbircia la carne appesa ingordo gatto.
Carlotta che lo guarda se ne avvide,
E di quei lazzi si compiace e ride.
D'in sulla soglia della porteria
Poichè ver lei scagliò lascive occhiate
Fra Gennaro talvolta in poesia
Ah perchè, perchè mai, stelle spietate,
(Ei canticchiava, e la Carlotta odia)
Perchè io non son guardia real, ma frate!
Di risa ella fe' allor scoppio sì strano,
Che se ne udì lo scroscio da lontano.
Bacio talor sulle aggruppate dita
Sonoro appicca, e contro lei lo lancia.
Carlotta a quella espressione ardita
A risponder non esita o bilancia;
Quasi dal bacio stata sia colpita
Atto fe' di raschiarsel dalla guancia,
Le strette dita in sullo stesso metro
Ver lui scagliando, gliel rimanda indietro.
Vedendo fra Gennar, che la Carlotta
Si diverte a sì fatti atteggiamenti,
Prende coraggio e più massicce adotta
Speranze e imprese assai più concludenti.
Fra Gennar, fra Gennar, fra se borbotta,
Questo è proprio un boccon per li tuoi denti
Se tu una volta fra le man m'incappi,
Giuro a santo Gennar che non mi scappi.
Varie erbe avendo un giorno in abbondanza
Raccolte nel monastico giardino,
Per insalata fenne mescolanza;
131
E ripostele poi nel panerino,
Va da Carlotta ch'era sola in stanza,
E alla fratesca fattole un inchino,
Qual lumaca tirò fuor del cappuccio
La nuda zucca, e le offre il regaluccio.
Lo ringrazia Carlotta e il dono accetta;
E il torzon le dicea, che sempre fisa
Avea quella figura benedetta
In mezzo del cucuzzolo; e in tal guisa
Or con una or con altra barzelletta
Facea Carlotta sbilicar di risa.
Se la donna fai ridere, e la sua
Vanità sai lisciar, la donna è tua.
Baciozzo il frate in sulla man le scocca
Rid'ella; ed egli: e se ti bacio in faccia?
Ebben, tu bacia: e se ti bacio in bocca?
Se baci in bocca! e che vuoi tu ch'io faccia?
Se tocco... Tocca, fra Gennaro, tocca.
La chiappa allor, la brancica e l'abbraccia,
La succhia il fratacchion, nè più si modera,
La tonic'alza, e i suoi gran merti sfodera.
Pronto ivi è il letto, e ripiegato il sacco
Ha il frate, ed ella è già supina e stesa.
E il torzon più d'un gatto e d'un macacco
Lussurioso, ella di foja accesa.
Che manca omai per cominciar l'attacco?
Ella intrepida attende, ei l'arma tesa
Spinge... non più. Santa onestà dal cielo
Scendi e getta su tai scandali un velo.
Ma voi, se tutto andar sì di galoppo
Vedendo, o Donne, vi scandalizzate,
Che la decenza non opponga intoppo,
Pria che si venga al grande affar; pensate
Chi sian gli attor per poter dire: è troppo.
Donna ella è di mestiero, ed egli è un frate.
Baci, tasti, palpeggi... e che stupire,
Se ciò seguisse che dovea seguire?
Una zitella per idea bizzarra
A un salterio talun la paragona,
Che ha molti accordi, e se uno è falso o sgarra,
Sonar non puoi, perchè il salterio stuona.
La maritata è come una chitarra,
Che facile s'accorda e facil suona;
Le poche corde armonizzar sol basta
E sempre suona ben, se ben si tasta.
132
La donna di mestier, la cortigiana,
Che d'impudica Venere alla scuola
Lascivia apprese, e ogni decenza umana
Alla lussuria e all'avarizia immola,
Rassomigliar si puote a una campana,
Che al manico o al batocchio appesa e sola
Ha corda maneggevol penzoloni,
Tira la corda, e quando vuoi la suoni.
Di buona fede e senza farvi rosse
Anche voi, Donne mie, m'accorderete,
Che campana colei sonabil fosse;
E parimente convenir dovrete,
Che il frate a campanar rassomigliosse.
Da questi dati poi ne dedurrete,
Che dove son Carlotte e fra Gennari,
Esser vi deon campane e campanari.
In quel conflitto passeggier spiegaro
Tanta il frate non men che la Carlotta
Bravura, e tanto si mostrar del paro
Ei dotto e bravo ed ella brava e dotta,
Che d'accordo ambedue si disfidaro
A più compiuta e decisiva lotta.
E in spiumacciato campo di battaglia
Sperimentar chi di lor due più vaglia.
Qual dì di guardia don Simon saria
Carlotta calcolò per star sicura;
Allora il frate dalla porteria
Inosservatamente a notte oscura
A casa sua venirsene potria
Senza alcun rischio e senza aver paura
Che importuna sorpresa a un tratto accada,
Sol traversar dovendosi la strada.
Fissato in guisa tal l'appuntamento,
Parola d'osservarlo ambo si danno,
Quantunque uopo non sia di giuramento,
Che certo, Donne mie, non mancheranno.
Lieto frate Gennar tornò al convento,
E ogni minuto gli sembrava un anno,
Che tardasse a venir quella felice
Notte di gran diletto apportatrice.
Ma per priego o desir non cangia mai,
E ognor d'un passo istesso il tempo trotta.
Sorge il bramato dì, trascorre, i rai
Già il sol tuffa nel mar, già imbruna e annotta.
La strada fra Gennar traversa omai,
E alla casa sen va della Carlotta.
133
Apre la porta ed entra e poi richiude,
E di lei nella camera s'intrude.
Spogliata tutta e corica trovolla,
Che già attendea l'incappucciato drudo.
La tonica e la ruvida cocolla
Quei depon presso al letto, e atleta nudo
Sovra di lei lanciossi ed abbracciolla
Con fratesca libidine; e concludo,
Che attaccar la battaglia e feron cose
Oltre ogni immaginar maravigliose.
Il nume fier che fe' Vulcan cornuto
Figuratevi in braccio a Vener bella,
E l'infernal affumicato Pluto
Che ghermisce la sicula donzella;
Figuratevi l'asin nerboruto
Che insidia la castissima pulzella;
Dico, che in paragon di fra Gennaro
Non val nulla Pluton, Marte e il Somaro.
Ma oh quanto in questo ingannator mondaccio
Fallaci son le contentezze e incerte!
Quando sicuro alla fortuna in braccio
Le delizie goder ch'ella t'ha offerte
Ti credi, nasce un improvviso impaccio
Che il godimento in dispiacer converte,
Se senno non ripara e ingegno pronto,
Come udirete in questo mio racconto.
Di fra Gennar coll'agguerrita putta
La battaglia fervea, che per pudore,
O Donne mie, non v'ho descritta tutta;
E mostravano entrambi egual valore,
Allorchè venne una sorpresa brutta
Ad ammorzar quel dilettoso ardore.
È il preveder difficil molto, e quasi
Impossibil si rende in certi casi.
Re Carlo grandemente amò la caccia,
Poichè dicea, che un infinito bene
All'anima ed al corpo ella procaccia;
Il corpo sano e vegeto mantiene,
E ogni vizio dall'anima discaccia,
E gran vantaggio dal cacciar s'ottiene;
Onde a caccia il mattin iva ogni giorno,
E la sera in città facea ritorno.
Or quella notte istessa ei per istrana
Fantasia volle rendersi a Caserta,
Per poi trovarsi a non so qual lontana
134
Straordinaria caccia a un'ora certa.
Tosto eseguir la volontà sovrana
All'istante si dee ch'ella è profferta.
Poche guardie colà seco ei menò,
E don Simone in libertà restò.
Partito delle guardie omai lo stuolo,
Da cui sua maestà fu accompagnata,
Rimase don Simon libero e solo.
Che far? la notte è già molto avanzata;
Con Carlotta di cui pagato è il nolo
Meglio è il resto passar della nottata.
E la chiave di casa avendo presa,
Va per farle piacevole sorpresa.
Carlotta quando udì la porta aprire,
Ch'era il guardia comprese, e il frate affretta
A celarsi sollecito e a fuggire.
Nudo il torzon dal letto allor si getta,
Nè i panni tor, nè si potè vestire.
Tanta fu la paura maladetta,
Tanto lo smarrimento e tanta ambascia,
Che sottana e mantello ov'eran lascia;
E fuggì nella camera vicina,
Ov'era ognor piccola lampa accesa,
E ove Carlotta dietro a una cortina
Tutta tenea la guardaroba appesa.
Fra quei panni si cela, e aguzza e affina
L'astuto ingegno, e tien l'orecchia tesa,
Spiando se con qualche furberia
Può trarsi d'imbarazzo e fuggir via.
Ma qual prender partito il pover frate
Potea senza mantel, senza sottana?
Pensar di riaver le abbandonate
Lane è vano pensier, lusinga vana.
E buon per lui, ch'è la stagion d'estate;
Che se aria cruda o fredda tramontana
Fosse improvvisamente sopraggiunta,
Di guadagnar rischiava un mal di punta.
Nello stesso stanzin vien don Simone;
Cappa e stivai si toglie, indi si spoglia,
E l'uniforme sopra un seggiolone
Della stanza di letto appo la soglia,
E parrucca, cappel, braghe depone
Per soddisfar con comodo sua voglia.
Cheto in camera entrò, si ficca in letto,
Ed incomincia il solito spassetto.
135
Pensier sublime a un tratto venne in quelle
Critiche circostanze a fra Gennaro,
Per cui diè prove indubitate e belle
Di gran sagacità, d'ingegno raro.
Voi, che udir le piacevoli novelle,
E gli arguti compensi avete a caro,
Udite, e vi farò per maraviglia
Stringer le labbia ed inarcar le ciglia.
Tosto che fra Gennar dal nascondiglio
Il russo udì di don Simon che dorme,
Sbuca di là senza curar periglio;
Calze, braghe, stivali ed uniforme
Ponsi, nè in quella fretta e in quel scompiglio
Bada, se al dosso suo tutto è conforme.
La gorgiera s'adatta, e di parrucca
Con coda penzolon copre la zucca.
Cinge il budriere colla spada allato,
Abbottonasi, copresi, si tappa,
E in capo assetta il gran cappel bordato.
Tutto poi si ravvolge entro la cappa,
E tacito e guardingo e intabarrato
Scende le scale, apre la porta e scappa.
Era di gran mattino, e appena allora
Incominciava a biancheggiar l'aurora.
Come salvo si vide in sulla strada,
E in istato di far ciò che a lui pare
Senza timor ch'altro malor gli accada,
Da frate trasformato in militare
In stivali, uniforme e cappa e spada,
Vassene, e dove? dove ei risolse andare
Dirò; ma per non dir le cose in aria
Qualche previa notizia è necessaria.
Nei non infetti ancor da diabolica
Filosofia tempi felici, egregi,
Ch'era un po' più la religion cattolica
Rispettata dai popoli e dai regi,
Eravi in ogni stato un'apostolica
Nunziatura con dritti e privilegi,
Che avea sul clero regolar non meno
Che sovra il secolar un poter pieno.
Onde se quegli che portavan chierica
Commettean colpa atroce, enorme fallo
Del mondo in sulla superficie sferica
Francia, Spagna, Germania e Portogallo,
E fin in Asia, in Africa, in America,
Senza permission, senza intervallo,
136
La nunziatura negli stati altrui
Punia, come un sovran nei stati sui.
V'eran giudici dunque e tribunali
Dal natural sovrano indipendenti,
Che non sol degli affar spirituali
Decidean, come ad essi appartenenti,
Ma spessissimo ancor dei temporali.
E se i re s'ingeriano o i loro agenti
Con chierche, collarin, cappucci e tuniche,
Issofatto incorrean nelle scomuniche.
Or più le nunziature esempligrazia
Certo lustro non han che le distingua.
Al simbol della fe per gran disgrazia
Non si crede oggidì che colla lingua,
E se gli crede sol per fargli grazia.
L'ortodosso fervor par che si estingua.
Nelle moderne corti, io non so come,
Resta di nunziatura appena il nome.
Come in tutti i cattolici domini,
Era in Napoli allor la nunziatura.
Nunzio era monsignor Pallavicini,
Onor della romana prelatura;
Ed avea seco l'uditor Rufini,
Forte in scienze ed in letteratura.
Vi cito i nomi, acciò non s'abbia a dire,
Che mi diverto a fingere e a mentire.
Ciò posto (poichè por le cose in chiaro
Amo, e dei fatti mai l'ordin non turbo)
Vi dico, Donne mie, che fra Gennaro
Da fratacchion vendicativo e furbo
A don Simon volea far costar caro
Quel che colui gli diè grave disturbo;
In nunziatura ed alla guardia andò
Dei scoppettelli, e lor così parlò.
Ma qui farvi ancor deggio altri commenti,
Che di quel tribunal birri e bargelli,
Che altrove si dirian guardie o sergenti,
Nome in Napoli avean di scoppettelli.
Eran certi birbon sporchi e pezzenti,
Che si fean lunghi boccoli ai capelli,
Scuro e nericcio l'abito, e persino
Avean, come gli abati, il collarino.
Fra Gennar con un tuon di gravitate
Disse: signori miei, mi conoscete?
No? Via dunque a conoscermi imparate.
137
Io son guardia real, come vedete;
E vengo qui per denunziarvi un frate,
Che mentre in ozio voi vi rimanete,
In braccio d'una pubblica bagascia
Giacer con sommo scandalo si lascia.
Oh corrotti costumi! oh iniqui tempi!
Se di dissolutezza esempi danno
Quei che dar di virtù dovriano esempi,
Cosa mai fare i secolar dovranno?
Tosto in trionfo ancor da cotest'empi
L'oscenità più ree si porteranno.
Che se impuniti fian scandali tali,
Che giovan scoppettelli e tribunali?
Cui risposer color: di ciò che dite,
Signor guardia real, non sappiam nulla.
Come saper, se un fra', come asserite,
Con qualche sgualdrinella si trastulla?
Eseguiamo, se diconci, eseguite;
Nè opriam secondo che il cervel ci frulla,
Indicateci voi dal canto vostro
il luogo, e noi farem l'officio nostro.
Fra Gennar di Carlotta allora insegna
L'alloggio all'apostolica sbirraglia,
E sì precisamente il contrassegna,
Che ben isciocca ella sarà se sbaglia.
Furberia, soggiungea, non v'è più indegna,
Di cui gente cotal non si prevaglia.
Un gran birbon quegli esser dee, badate,
Capace è anche di dir, ch'ei non è frate.
Ma la sottana, i zoccoli e il mantello,
Che certo presso al letto in qualche lato
Troverete ammassati in un fastello,
Saranno un documento indubitato
Per giudicar se frate o no sia quello,
Che colla putta stassene corcato.
E quei: sia quanto vuol furbo colui,
Noi grazie al ciel più furbi siam di lui.
In questo dir ver l'indicato loco
Di scoppettelli un stuol s'avvia, provvisto
D'arme, come è lor stil, bianca e da foco.
Fra Gennar che a suo grado ir tutto ha visto,
Appresso a lor venia distante un poco,
Qual Pier che i sgherri che legaron Cristo
Seguia da lungi; e come quei far drento
Di Carlotta all'alloggio, entrò in convento.
138
Volendosi omai torre il precario
Abito militar, va in stanza, e quivi
Si spoglia, e il tutto serra in un armario;
E in fretta il più che può pria ch'altri arrivi
Ricopertosi allor d'altro vestiario,
Che riserbar solea pe' dì festivi,
Ponsi alla porta di veder bramoso
L'esito d'un affar sì curioso.
Fecero i scoppettelli irruzione
Là dove con Carlotta il guardia è corco,
Alto gridando, olà! frate birbone;
E in quel mentre un fratesco abito sporco
Ritrovar presso al letto in un cantone.
Olà levati su, frataccio porco.
E tutti e quattro a un tratto gli son sopra,
Acciò che con quell'abito si copra.
Chi per li piè lo tira e al suol lo stende,
Chi le braccia gli tiene e lo rabbuffa.
Don Simon si dibatte e si difende;
Dà un pugno a questi, e quei pel crine acciuffa,
A chi dà un morso, e chi pel collo prende;
E attaccan strana ed accanita zuffa;
Ma che può fare un uom contro uno stuolo
Di quattro uomini armati inerme e solo?
Alla brusca sorpresa repentina
Grida Carlotta alzò da spiritata;
Poichè quella credea truppa assassina.
Balza nuda dal letto, e spaventata
A nascondersi va sino in cantina.
Pur sulle chiappe qualche sculacciata
Sghignando dielle colla dura mano
In trapassar lo scoppettel villano.
Anzi nudrito all'aria dei bordelli
Un di quei sgherri, in rimirar le bianche
Poppe e le nude chiappe e i fianchi belli,
Addosso le volea porre le branche;
Ma in ajuto il chiamar i confratelli,
Che contro don Simon le forze han stanche;
Poich'ei si difendea, come ad un tratto
Assalito dai can feroce gatto.
Ma d'uopo è pur ch'alfin ceda alla forza.
Che a nulla giova resistenza o cruccio.
L'inesorabil birro a por lo forza
Mantello in dosso e tonica e cappuccio.
Di frate don Simon sotto la scorza
Trattan, come i villan trattano il ciuccio.
139
Nè altro risponder san, che dargli anunzio
Ch'ordinava così monsignor nunzio.
E a spinte e ad urti lo fan scender giuso
Con aspri motti e con maniera dura,
E pe' bracci il traean per esser chiuso
Nelle carceri della nunziatura.
E intanto dal claustrale uscio socchiuso
Guatava fra Gennar per la fessura;
E godea nel vederla riuscita
Della vendetta sua sì bene ordita.
Alto già splende il sol, già chiaro è il giorno,
E di gente già son piene le strade.
Gridar: tratto dai birri è un frate, e attorno
S'affollan per veder, siccome accade.
L'onta sua figuratevi e lo scorno
In vedersi menar per la cittade
In mezzo ai birri colle man legate,
E di guardia real converso in frate.
E inutil è, che d'esser frate ei neghi,
Inutile è il gridar: son don Simone;
E in testimon chiamar guardie e colleghi
Della sua ripetuta asserzione.
Le proteste non vagliono ed i prieghi.
Colto un frate infragranti ir dee prigione.
Contro lui testimonio è troppo grosso
Quel che ha vestiario arcifratesco in dosso.
Che don Simon non divenisse pazzo,
Per me di non comprenderlo confesso.
Fra lo strepito dunque e lo schiamazzo
Della folla che a lui veniva appresso
Fu tratto all'apostolico palazzo,
E consegnato al carceriero, e messo
Fu nelle ecclesiastiche prigioni
Fra gli altri ecclesiastici birboni.
Qualch'ora dopo, avanti ad un notajo
A farsen cominciossi il costituto.
Quei gli fe' di quesiti un centinajo,
E scrivea le risposte un sostituto.
Quantunque, ei rispondea, frate vi pajo,
Per tutta la città son conosciuto;
Nè ignota è la persona e il nome mio,
Son don Simon, guardia real son io.
Vedendo alfin color, ch'ei persistea
Costantemente a sostener lo stesso;
Per provar s'era ver ciò ch'ei dicea,
140
Al palazzo real spediro un messo,
Che a rendersi colà pregar dovea
Un par di quelle guardie a fin espresso
Di riconoscer se, come asseria,
Guardia un certo prigione o frate sia.
Andiam pure, risposero, e cortesi
Le due guardie reali a quell'invito
Del nunzio al tribunal sendosi resi,
Ov'era don Simon costituito,
Stentaro a riconoscerlo; e sorpresi
Di vederlo colà così vestito,
Don Simone, esclamar, come con quei
Panni da frate, come mai qui sei?
Fatti avendogli poi quesiti vari,
Questo che sembra a voi frate impudico,
Dissero agli scrivani ed ai notari,
Pudico non direm, ma è nostro amico,
Guardia real, collega e nostro pari;
E vi sovvenga del proverbio antico,
Il qual c'insegna, che non già la tonaca
È quella che fa il monaco o la monaca.
Verificata la persona, il fatto
Dovendosi un po' meglio al chiaro porre,
Tosto un offizial partir fu fatto
Alla Carlotta impunità a proporre
Colla condizion, che in modo esatto
Debba tale qual è la cosa esporre.
Fu contenta colei d'ire impunita,
E a quei narrò, come la cosa er'ita.
Altro uniforme allor fatto venire,
Don Simon si partì libero e assolto.
Quanto pocanzi era seguito, a dire
Vennero al re; che volontieri ascolto
Davasi a cose tal da quel buon sire.
Gran risa in corte se ne fero, e molto
Si divertì dell'avventura strana
La famiglia real napolispana.
Instrutto il re, che un fra' quell'avventura
Manipolò, volle veder l'autore.
Videlo, e presso della nunziatura
Di fra Gennar s'interessò a favore,
Onde non se gli fe' la processura;
Ma i frati più nol voller per timore,
Che non seguisse ancor qualch'altra buglia,
E il confinaro in un convento in Puglia.
141
IL RUSIGNUOLO.
NOVELLA XI.
Quando voi, Donne mie, siete presenti,
Io narro volontier le novellette;
Poichè voi siete facili e correnti,
E vi si posson dir libere e schiette
Senza pesar le virgole e gli accenti.
Che siate cento volte benedette !
Questi li modi son che usar si denno,
Questo s'intende aver prudenza e senno.
Nè siete come certe smorfiose
Che a tutti gli atti, a tutte le parole,
Le bocche pari, fan le schizzinose;
Nè seco si può dir quel che si vuole,
E convien prima scrutinar le cose.
In compagnia non vengano e stien sole
Se in lieta società non trovan pascolo,
Brutte sguajate, che le pappi il diascolo.
Or che voi dunque ascoltar mi state,
Meco me ne congratulo e consolo,
E storielle quante ne bramate
Dirovvi, perchè in mente honne uno stuolo.
E questa volta, o Donne mie garbate,
Quella vi vo' contar del rusignuolo,
Che se attente vorrete udirla tutta,
Io vo' sperar che non parravvi brutta.
Se il canto ognor del rusignuol si vanta,
Di cui la dolce melodia risuona,
Quando di fronde la stagion s'ammanta;
Questa novella mia sarà almen buona
A mostrar che, oltre al rusignuol che canta.
Havvi pur anche il rusignuol che suona.
I detti miei non censurate ancora,
Udite pria, deciderete allora.
A tempo che Isabella e Ferdinando
Reggevan l'Aragona e la Castiglia,
Un certo cavalier detto Ildebrando
Assai ricco e potente era in Siviglia,
Gli ultimi anni di vita ivi passando
Lieto con una vaga unica figlia,
Ch'ebbe da donna Brigida, sua moglie,
142
Bella un dì, ma l'età bellezza toglie.
La giovinetta si chiamava Irene,
Ed era bella come un angioletto,
Due tette avea così ben fatte e piene,
L'occhio sì nero, il piè sì ritondetto,
E camminava e discorrea sì bene,
Che il vederla e ascoltarla era un diletto.
E v'era voce che di lei più bella
Non fosse in tutta Spagna altra donzella.
Molti ne fur gli amanti, e da parecchi
In sposa al genitor fu dimandata;
Ma a tal proposta egli chiudea gli orecchi,
E ogn'istanza da lui fu rigettata;
O che l'amasse, e al solito de' vecchi
Star volesse con lei non maritata,
Ovver che d'allocarla egli aspettasse
Con qualche grande della prima classe.
Garzon, che nome don Sempronio avea,
Cui sulle fresche e colorite gote
Florida e bella gioventù ridea,
Era di donna Brigida nipote,
E come tal ir sempre a lei solea;
E perchè dell'amor stimolo e cote
Spesso divien l'occasion frequente,
S'innamoraron vicendevolmente.
E per sì fatta guisa a poco a poco
Nella coppia gentil s'accese e crebbe
Un amoroso inestinguibil foco,
Che uno dall'altra mai non si sarebbe
Staccato in verun tempo e in verun loco.
Eppur sospetto il genitor non n'ebbe.
Tanto è ver, che col vel di parentela
Spesso amorosa passion si cela.
Due giovinetti desiosi amanti,
Che ben sovente insiem soletti stanno,
Degli opportuni e fortunati istanti
Alfin o presto o tardi usar sapranno.
E voi sapete, o Donne mie galanti,
Come in punto d'amor le cose vanno;
Che così farsi infin d'allor soleva,
Che fecero all'amore Adamo ed Eva.
E in fatti poichè un giorno avidamente
Stettersi a riguardar l'un l'altro in viso,
E lor su i labbri apparve finalmente
Un lascivetto tremolo sorriso;
143
L'innamorato giovinetto ardente
In sulla rosea bocca all'improvviso
Appiccò un bacio a Irene sua bellissima
Con una grazia particolarissima.
Ben s'avvide il garzon che non dispiacque
Alla fanciulla la sorpresa ardita,
Poichè soltanto arrossì in volto e tacque;
Onde al fisciù le approssimò le dita,
Ma per un non so qual frastuon che nacque
Restò l'incominciata opra impedita;
Sicchè egli si ristette, e per quel dì
La lor faccenda terminò così.
Ma un altro giorno poi che Irene bella
in camera soletta egli rinvenne
In farsettino e candida gonnella,
Su i timidi riguardi non si tenne.
Al collo si lanciò della donzella,
E all'amoroso assalto avido venne;
Nel bianco seno l'una man le immerse,
L'altra di sotto al guarnellin si sperse.
Che Irene intatta fosse infin allora
Potrei giurarlo in buona coscienza.
Ed ei, che solo avea scorso talora
Qualche giostra in amor con foco e ardenza,
Non era nel mestier pratico ancora;
Onde parte per poca esperienza,
E parte per l'ostacol verginale
La cosa riuscì più tosto male.
Ma quest'operar sempre alla sfuggita,
E non gustar giammai piacere intero
Talmente in essi stimola ed incita
L'avido impaziente desidero
Di render pur alfin l'opra compita,
Che unitamente a meditar si diero,
Come tutta una notte insiem giacersi,
Ed un dell'altro ad agio lor godersi.
D'Ildebrando alla camera vicino
Anticamente fatto alla moresca
Era un comodo e vago terrazzino,
Ove godeasi aura soave e fresca
Sopra delizioso ampio giardino.
Qui, se felice il suo pensier riesca,
Trovarsi con Irene insiem prefisse
Sempronio, e alquanto vi pensò, poi disse:
Se talvolta di notte, Irene mia,
144
Potessi tu sul terrazzin venire,
Io, sebben alto e malagevol sia,
Pur colassù mi proverei salire;
Poichè questa mi par l'unica via
D'appagare il comun nostro desire.
Vedrai, lo spero e me lo dice il core,
Propizi ci saran Fortuna e Amore.
Se a cotanto t'impegni, ella rispose,
E riuscir confidi in cotal opra,
Io penso in guisa accomodar le cose,
Che fatto mi verrà dormir là sopra;
Purchè l'occulta trama e le amorose
Corrispondenze nostre alcun non scopra.
E poi si diero un bacio in fretta in fretta,
Ed ei partissi, ella restò soletta.
Era già presso al terminar del maggio,
E ridea la stagion di fiori adorna,
Allorchè il sol nell'annual viaggio
Verso l'estivo tropico ritorna,
E riscaldate coll'estivo raggio
Già del celeste Tauro le corna,
Incominciata avea la pura luce
A diffonder su Castore e Polluce.
In presenza alla madre si dolea
Irene un giorno, che sofferto assai
Noja e calor la scorsa notte avea.
Figlia, quella rispose, e di qual mai
Calor ti lagni ? Immaginaria idea
È questa inver; nè caldo ancor provai,
Nè alcun di caldo si lagnò finora,
E tu sai ben che non è state ancora.
Per me, riprese Irene, io non so nulla
Se altri abbian caldo, e ancor non sia la state;
Ma dovresti pensar che una fanciulla,
Cui ferve il sangue e della prima etate
Entro le vene il brulichio le frulla
Più calda è delle femmine attempate;
Nè recar vi dovria gran maraviglia
Se della madre ha più calor la figlia.
Tal sia: ma che perciò far io potrei ?
Il tempo qual egli è, soffrir conviene,
Nè accomodarlo io posso ai voler miei,
Brigida disse; e le rispose Irene:
Sul terrazzino un letticel farei,
Quando a mio padre e a voi paresse bene,
Ove spirando l'aer fresco, intanto
145
Dormir potrei del rusignuolo al canto.
Brigida allor parlonne ad Ildebrando,
Che bisbetico essendo e impaziente:
E vorrai tu, rispose brontolando,
Dunque ai capricci di colei por mente ?
Cos'è quest'usignuol che va cercando ?
Ov'è questo calor ch'ella risente ?
Ben la farò, se il bell'umor m'assale,
Dormire al canto ancor delle cicale.
Le risposte spiacevoli del padre
Rabbia e dispetto alla fanciulla fero.
In certe camerette assai leggiadre
Lungi dal vecchio genitor severo
Ella dormir solea presso alla madre,
Che assidua avea di lei cura e pensiero;
Sebben per conservar vergine e casta
Una fanciulla assai vi vuol, nè basta.
La susseguente notte a coricarse
Andonne Irene, e coricata appena
Sì fattamente incominciò a lagnarse,
E tanto si dibatte e si dimena,
Che non lascia la madre addormentarse.
E fingendo soffrir gran noja e pena,
Ohimè ! dicea, che gli occhi miei non ponno
Per l'affanno e il calor prender mai sonno.
Udendo tali smanie donna Brigida,
Nè in se stessa provando egual calore,
Si persuase esser di lei più frigida;
E perciò buona e tenera di core
E del duro marito era men rigida,
Del dolor della figlia ebbe dolore.
E la fanciulla querula e inquieta,
Come può meglio, consola e raccheta.
Poscia ita ad Ildebrando la mattina,
Io non so, disse, perchè a voi dispiaccia
Che, a Irene in sulla loggia qui vicina
Acconciamente un letticciuol si faccia,
Acciò che si ricrei la poverina,
E a suo piacer la notte ivi si giaccia,
Spirando l'aer fresco, e in quella forma
Al canto poi del rusignuol si dorma.
Per me, rispose il ruvido spagnuolo,
Non vo' con voi più perdere il cervello,
Se lo faccia cotesto letticciuolo
Ov'ella brama, e giorno e notte in quello
146
Dorma, e se non le basta il rusignuolo,
Cantar oda anche il gufo e il pipistrello.
E se, come esser dee, malor vi piglia,
Colpa n'avrà la madre e non la figlia.
Se lieta a tal novella Irene fosse
Pensar lo lascio a voi, Donne amorose.
Ivi ben tosto un letticel costrusse,
E cortinaggio e sopracciel vi pose;
E poichè la gran'opra a fin condusse,
Adattò in guisa ed ordinò le cose,
Che pria ch'ella dormissevi, di tutto
Fu pienamente don Sempronio istrutto.
Poichè la notte desiata tanto,
Degli amanti al piacer scorta e foriera,
Stese sovra la terra il fosco ammanto,
Ella a giacersi andò sulla ringhiera.
E il padre dalla cameretta accanto
Tosto che udì che coricata ell'era,
Pian pian del terrazzin che non si svegli
Socchiuse l'uscio, ed entrò in letto anch'egli.
Come Sempronio altro non vide e intese
Che ombra e silenzio d'ogn'intorno, e scorse
L'opra opportuna all'amorose imprese,
Nel giardin si calò: quindi alle morse
D'alto muro appiccossi e su v'ascese,
E con stento e fatica, e con esporse
A gran periglio se caduto fosse,
Fin sopra al terrazzino arrampicosse.
Non con tanto piacer del mare infido
Trascorso il flutto periglioso e fiero
L'innamorato notator d'Abido
Fu accolto in braccio dall'amabil Ero,
Che l'attendea in sull'opposto lido
Segnando colla lampada il sentiero;
Come da Irene accolto fu Sempronio,
Che su i muri salia come un demonio.
Erano amanti, eran sul fior degli anni,
Eran dal vivo desiderio accesi
Di ristorare gli amorosi affanni
Con quel piacer, che dolci ognor, ma presi
Con libertà, con agio e senza panni,
Più dolci son, per quanto dire intesi;
E per cagion del padre infino allora
Potuto non avean gustarli ancora.
E or che il possono alfin si scinge e slaccia,
147
E ciò d'attorno il giovine si toglie
Che il libero contatto o vieta o impaccia;
E come fatto avrian marito e moglie,
La bella Irene ei sottopone e abbraccia,
E il primo verginal fiore ne coglie
Con quel piacer che all'uom gustar non lice
Che in giovinezza e nell'amor felice.
Che vale senza amor la giovinezza ?
Che vale senza giovinezza amore ?
Gioventù con amor gioja e dolcezza,
Spirto, vigor, diletto, infonde in core;
Ma se insipida langue e amor non prezza,
Fatuo foco divien che passa e muore.
E se amor non si accende in giovin petto,
È sol di scherno e di dispregio oggetto.
Non mai facil cotanto arida stoppia
presso al foco avvampò, come la nostra
Avventurosa innamorata coppia
Ferve, e sei volte la venerea giostra
Corre, e sei volte opra e piacer raddoppia.
Fidi servi d'amor, con pace vostra,
Se già scorreste la più verde etate,
L'esempio invidiabil venerate.
Ma dopo i molti baci e i dolci amplessi
Negli amanti il fervor pur si rallenta.
Già da soave languidezza oppressi
Chiudono i lumi, e l'aura lieve e lenta
Scotendo l'aure placide sovr'essi,
Piacevolmente i sonni lor fomenta.
Così dopo le dolci lor fatiche
Talor s'addormentaro Amore e Psiche.
Dormiano ancor, quando spuntò l'aurora
In oriente candida e vermiglia
Dormiano ancor, quando del Gange fuora
Sorse, e col raggio mattutin le ciglia
Il sol percosse al genitor, che allora
Di letto alzossi e rammentò la figlia;
E per veder s'ella tuttor dormia,
L'uscio del terrazzin pian piano apria.
E vide, oh strana vista ! il giovinetto
Abbracciato giacer colla figliuola,
Che terrea l'usignuolo in pugno stretto
Uscito poco fa della gabbiuola.
Vide scomposto ed agitato il letto,
Rimosse pel calor coltre e lenzuola;
Ed osservando le sembianze note,
148
Conobbe che colui era il nipote.
Donne, pensate voi di qual talento
Allor divenne il genitor severo.
Se pronte l'armi aveva, in sul momento
Spettacolo seguia tragico e fiero,
E avria nel sangue lor l'obbrobrio spento,
Del leso onor vendicator austero.
Umanità il ritenne, e il primo foco
Alla ragione e alla pietà diè loco.
Ed alla donna sua così com'era
In pianelle, mutande e coticugno,
Sen corre, e disse a lei: sappi, mogliera,
Che Irene nostra al cominciar di giugno
Questa notte colà sulla ringhiera
Ha preso il rusignuolo, e stretto in pugno
Sel tiene ancor, che non le scappi via,
Deh vienilo a veder, mogliera mia.
Cui Brigida rispose: oh la gran rabbia
Colei con sua sciocchezza or mi farebbe !
Se preso l'ha, perchè nol pone in gabbia
Ella che pria tanto desio pur n'ebbe ?
Ed ei: non temer già che non ve l'abbia
Posto più che da te non si vorrebbe.
E intanto giunti presso al terrazzino
S'affacciar cheti cheti all'usciolino.
Qual se la chioccia a visitar che cova
La massaja sollecita e ansiosa
Ita di buon mattin nel nido trova
Presso a quella la biscia insidiosa,
Che uccisi ha li pulcini e infrante l'uova,
E su gli sparsi gusci si riposa
Tal Brigida rimase in veder nudo
Giacersi in braccio della figlia il drudo.
Or rimira colà, sdegnosamente
Disse il marito a lei, la conseguenza,
Che derivar dovea pur finalmente
Dalla tua troppo facile indulgenza.
Or tacciami di ruvido e inclemente,
E sprezza la mia cauta esperienza.
Ben io dovrei con memorando esempio
Uccider quella perfida e quell'empio.
Pian pian, marito mio, con quest'uccidere,
Brigida replicò; prima conviene
Esaminar le cose e poi decidere.
In questo forse non ha colpa Irene,
149
O forse ancor fatto l'avran per ridere,
E poscia voi saper dovreste bene,
Ch'egli è ancor innocente, ella è fanciulla;
Scommetterei che non han fatto nulla.
Taci, scempia che sei, sbuffando allora
Ildebrando esclamò, e ancor ti studi
Te a un tempo e me ingannar ? taci in malora.
Insiem li vedi ed accoppiati e nudi,
E vuoi del fatto dubitare ancora ?
O me, che orecchio ti prestai, deludi ?
Volea più dir, ma udì che si destavano
I sonnacchiosi amanti e insiem parlavano.
Ohimè ! dicea Sempronio, il sol già splende:
Noi pagherem del sonno incauto il fio,
Se alcun, come tem'io, qui ci sorprende.
Che farem noi, o qual potrem, cor mio,
Trovar compenso ? Alzate allor le tende,
Disse Ildebrando: il troverò ben io.
A tal voce gli amanti, a tale aspetto,
Sentironsi strappar il cor dal petto.
E a un tratto l'una e l'altro inginocchiosse
In atto supplichevole e tremando.
Così laggiù nelle tartaree fosse
L'anime nude e de' lor corpi in bando
Avanti a Radamante ed a Minosse
La sentenza fatal stansi aspettando,
Che la lor sorte ed il destro risolva,
E le condanni eternamente o assolva.
Irato il cavalier: ben cieco io fui,
Disse al garzon, quando di te formai
Idea diversa assai de' fatti tui;
Ma forse il rusignuol creduto avrai
Così ripor dentro la gabbia altrui,
E nella gabbia tua riposto l'hai.
Dunque eleggi: o colei prendi in consorte,
O attendi pur dalle mie man la morte.
Non tenne ei già la scelta sua sospesa,
Ed ambo lieti fur che a sì buon patto
Dell'onor riparar ponno all'offesa.
E acciò sia tutto legalmente fatto,
E giusta il rito della santa chiesa,
Nè manchi chi ne stipuli il contratto,
Il notajo Salgrado fu chiamato,
E il reverendo don Andrea curato.
Venner tosto amendue: ma don Andrea,
150
Ch'è dubbio s'era più divoto o bue,
Disse, che fra li sposi intercedea
Secondo tutte le notizie sue
Vincol d'affinità, nè si potea
De canonico jure infra lor due
Matrimonio contrar, per quel ch'ei crede
Senza dispensa della santa sede.
Ma chiaramente dimostrò Salgrado
Ch'era miglior teologo e legale,
Ch'essi erano parenti in quinto grado,
Ne perciò vi volea dispensa tale.
E poi soggiunse in grave tuon: malgrado
L'affinità, se copula carnale
Anticipata fra li sposi accada,
Poco alle altre minuzie allor si bada.
Oh signor sì, la copula v'è stata,
Allor rispose a bassa voce Irene.
Taci, le disse il genitor, sfacciata.
V'è stata ella pur troppo, il sappiam bene;
Ma certe cose a femmina ben nata
Se farle, il dirle poi non si conviene.
Quand'io le faccia in avvenir, diss'ella,
Più non dirolle: ed ei: brava, monella.
E poscia carta, penna e calamajo,
Fe' preparare, e con più liete ciglia,
Fate la scritta omai, disse al notajo,
Ch'io per la dignità della famiglia
In effettivo e contante danajo
Prometto e assegno in dote alla mia figlia
Sei milioni di maravidissi,
E lo confermo e quel che dissi dissi,
E lo strumento ei ne rogò, qualmente
D'ora in poi donna Irene e don Sempronio
Desideran d'unirsi carnalmente
Con legittimo e santo matrimonio,
E il genitor stipulante e presente
In tanti pezzi duri di buon conio
A titolo di dote assegna a lei
Maravidissi milioni sei.
A don Sempronio allor Brigida dette
Il primo anel che vennele alla mano.
Tosto egli in dito alla sua sposa il mette,
E tutte poi del ritual romano
Le sacre cerimonie e fatte e lette,
Sposolli nelle forme il parrocchiano,
E apostolicamente e in stil patetico
151
fece loro un discorso parenetico.
E disse: figli miei, Dio vi congiunga
In concordia et modestia et castitate,
E ciò che Dio congiunse uom non disgiunga,
E possedete il vaso in sanctitate,
Nè adulterino stimolo vi punga,
Fili, ergo crescite et multiplicate.
E la sua santa grazia il ciel vi dia;
E risposero tutti: così sia.
Si riposero allor gli sposi in letto
Per provar se in virtù del sacramento,
Come forse credeano in effetto,
S'aggiunga al conjugal congiungimento
Qualche dose di gusto e di diletto,
E ne fecer due volte esperimento;
Ma quel che parve lor nol disser mica,
Ond'egli è ben che neppur io lo dica.
Or voi che udito il mio racconto avete,
Se il ciel vi diè discernimento e senno,
Le novellette mie scherzose e liete
Vorrei che udiste come udir si denno,
E qualche utilità sempre trarrete
Da quelle cose che ridendo accenno;
Nè lo dico con aria cattedratica,
Ma quel che dico lo vedrete in pratica.
Donne, se avete o avrete mai figliuole,
Quand'esse giunte sieno a quella etate,
In cui natura certi sfoghi vuole,
Io vi consiglio che le maritiate.
Che se a dispetto delle mie parole
Nel contrario parer voi v'ostinate;
Allor, come d’Irene avete udito,
Esse da se si troveran marito.
152
LA CONVERSIONE.
NOVELLA XII.
Che un ripiego talor pronto e alla mano,
O Donne mie, salvi l'onor, la vita,
Vo' provar coll'esempio d'un romano
Religioso, il qual pria gesuita
Stat'era e poi si fe' domenicano,
La cui sagacità spesso si cita
Dai nostri novellier qual rara cosa;
E il padre si chiamò Fontanarosa.
Si distins'ei fra gli orator più bravi,
E d'eloquenza naturale i fiumi
Gli uscian di bocca più che mel soavi.
Tutti a udirlo correan; ma i suoi costumi
Eran corrotti estremamente e pravi:
Dei vizi involto ognor fra i sudiciumi,
Crapula, gioco, donne e lupanari,
Fur gli esercizi e i suoi piacer più cari.
Spesso passar dal pulpito al bordello
E dal bordello al pulpito solea,
Ed in questo mestier al par che in quello
Abilità straordinaria avea.
E per lo suo particolar cervello
I più distinti pulpiti ottenea,
E i più lucrosi; e sempre il suo onorario
Delle bagasce diventa salario.
I reverendi padri gesuiti,
Che il riguardar qual disertore loro,
Di lui nemici fur fieri, accaniti;
(Perigliosi nemici eran coloro)
Stavansi preparati ed avvertiti
A ordirgli qualche lor brutto lavoro;
E per fargliene accusa, erano attenti
Ad esplorarne l'opre e gli andamenti.
Ma con prontezza e collo scaltro ingegno
Sempre al periglio ei si sottrasse, e spesso
Le occulte insidie eluder seppe a segno,
Che se infragranti in qualche grave eccesso
Di coglierlo talun prendea l'impegno,
Nei lacci tesi altrui cadeva ei stesso;
153
Come agile levrier, che incauto è corso
Sulla volpe per morderla e n'è morso.
Con femmina da Napoli venuta
Pratica il reverendo avea contratta,
Venal donna, a dir vero, e prostituta,
Bella però, d'umor bizzarro e matta,
Carnacciuta, popputa e naticuta,
Che pel Fontanarosa parea fatta.
D'indole strana era sì l'un che l'altra,
Scaltro egli e allegro, ed ella allegra e scaltra.
Bianche le carni e nero ha il crine e l'occhio,
Nudo il ritondo braccio e l'ampio petto;
Sei dita le scendea sotto al ginocchio
Con orlo rosso il bianco guarnelletto.
Piena di frizzi e di facezie in crocchio,
Voluttuosa e assai lasciva in letto;
Svelta di vita e grande di persona,
Grassotta alquanto, e si nomò Simona.
Quando dich'io, ch'ella non era schiva
A fare altrui di se per prezzo copia,
Ciò non vuol dir che di tutt'agio priva
Nel bisogno vivesse e nell'inopia.
Una fantesca avea che la serviva,
Comodo alloggio e suppellettil propria,
Nè por si dee fra quelle landre abbiette
Che stan sull'uscio assise alle vaschette.
Quantunque il nostro buon religioso
In general tutte le donne amasse,
E non facesse mai lo schizzinoso
S'eran piccole o grandi o magre o grasse;
Costei fissonne il vago e capriccioso
Gusto, nè v'era dì, ch'ei non v'andasse
Sull'imbrunir, solo, fuggiasco e chiotto,
Con cappel largo e involto in un cappotto.
E benchè lo stravizzo e l'interesse,
Come le donne fan di quella spezie,
Sol cercass'ella, onde tutt'altro avesse
Per mere frivolezze e per inezie;
Pur ambo il chiasso amando e le facezie,
E i bagordi e le crapule sfrenate,
Decisa avea propension pel frate.
Quando insieme eran poi, scene buffone
Seguian fra lor da farvi i palchi attorno.
Un prelatin per far distrazione
Dai studi ecclesiastici del giorno,
154
Non per dare al monastico bertone,
Od alla bagasciotta alcun distorno,
E per isbordellare anch'egli un poco
Fu presente una volta a quel lor gioco.
Non dirò quanto ei rise alla stranezza
Degli atti visti e dei motteggi uditi;
Dirò sol che il mattin con secretezza
A taluno da lui fur riferiti;
Sicchè fra pochi dì n'ebber contezza
I reverendi padri gesuiti
A tutto attenti; onde su ciò fra loro
Tenner secretamene concistoro.
Deciso fu, Fontanarosa in quello
Coglier d'impudicizia atto nefario;
E appostate le spie, quando in bordello
Videro entrar furtivo il missionario,
Prontamente ne andarono il bargello
Ad avvertir del cardinal vicario.
Con tre birri il bargello andò in persona,
E alla porta picchiò della Simona.
La fante che si stava in guardia e all'erta,
Acciò di qualche subita sorpresa
Fontanarosa e la padrona avverta,
Tosto che all'uscio la sbirraglia ha intesa
Instanza far che sia la porta aperta,
A render corre la padrona intesa;
Le donne il frate a non temer conforta,
E alla fante: va, disse, apri la porta.
Ricomposto alla meglio il letto, un cristo
Trae di sotto alla tonica, di cui
Solea per casi tali andar provvisto,
Come se col fervor de' detti sui
Di quell'anima far volesse acquisto.
Ah ! Simona, inginocchiati, e de' tui
Falli, le disse, mostrati pentita
Dal mio sermon convinta e convertita.
Ben della furba intenzion s'accorse
Del frate, ella di lui non furba meno.
Nè tardò punto inginocchioni a porse
Piangendo e percotendo il bianco seno,
E detesta i mal spesi anni che scorse
Nel lezzo immersa del mestiere osceno;
Mentr'ei col cristo in man s'infamma e infuria
Contro le porcherie della lussuria.
Pensa, Simona, alto sclamava il frate,
155
Pensa, femmina rea, quante innocenti
Anime fur per colpa tua dannate
Al foco eterno e allo stridor dei denti.
Le maledizion, le disperate
Bestemmie atroci e gli urli lor non senti
Che gridan contro te ? che più s'aspetta ?
Vendetta, o ciel, se giusto sei, vendetta !
E tu del vizio imputridita e marcia
Entro il contagio sordido fetente
T'impantani ognor più ? nè il cor ti squarcia
Del rimorso l'interno acuto dente ?
E per la via per cui dritto si marcia
Del pianto eterno alla città dolente,
Cieca corri a gran passi e sotto i piedi
Aperto il precipizio ancor non vedi ?
Già il giusto ti dannò decreto orrendo;
Veggio il flagel che sul tuo capo pende,
Veggio il vendicator fulmin tremendo,
Che dell'irato Nume in man s'accende.
Ne veggio il lampo ed il fragor ne intendo;
E già sovra di te fischiando scende.
Io dell'onnipotente ira di Dio,
Trema, o Simona, annunziator son io.
Pentiti dunque, pentiti Simona,
Che tempo è ancor, ma se più tardi, è vano.
Dio chi confida in lui non abbandona.
Guai se più indugi ancor. Ve' che Satano
Già ti s'appressa, e sulla tua persona
Se a porre ci giunge l'uncinata mano,
Co' grandi unghion ti strazia, e pei capelli
Ti trae laggiù fra i spiriti rubelli.
Grida colei com'una disperata,
Misericordia, e picchia il nudo petto
Misericordia delle mie peccata.
Padre Fontanarosa benedetto,
Se voi non m'ajutate, io son dannata.
A questo mestieraccio maladetto;
Ci rinunzio, e proposito qui faccio
Che nol farò mai più quel peccataccio.
Già l'uscio aperto avea la fante, e suso
La sbirresca montò brusca pattuglia
Armata di pistola e d'archibuso.
Ed udendo uno strepito, una muglia,
E di pianti e di grida un suon confusa,
Credette esser colà qualche gran buglia;
Onde entra, e con stupor straordinario
156
Vide la penitente e il missionario.
Vide il predicator domenicano,
Che declama col suo stil veemente,
Tutto fervor col crocifisso in mano;
E in ginocchio a suoi piè la penitente
Darsi colpi che s'odon da lontano,
Co' capelli in disordine e piangente;
Che più gridar dei birri alla comparsa
Per maggiormente accreditar la farsa.
Quei che colla bagascia in tresca oscena
Per sorprendere il frate eran venuti,
A quella nuova inaspettata scena
Attoniti restar conquisi e muti.
Veggono ... e agli occhi lor credono appena.
Calunnie giudican gli avvisi avuti,
E da quell'apostolico fervore
Si sentiron compunti e tocchi il core.
Di lor commozion s'avvide, e a quei,
Se qui veniste, disse il furbo frate,
Ad udir più d'appresso i sermon miei,
Prostratevi, fratelli, e il ciel pregate;
Anzi insieme preghiamlo, acciò a costei
Un qualche briciolin di sua bontate
Accordi onde tenor di vita cangi,
Pria che il diavol l'abbranchi e se la mangi.
Il priego vostro fervoroso e pio
Più facilmente ritener lo sdegno
Del ciel forse potrà, che il priego mio.
Io, cari miei, son di pregarlo indegno,
Troppo, lo so, gran peccator son io.
Un puro cor, sol di clemenza è degno.
Pregatel, che fra suoi cari bestiami
Questa sbandata pecora richiami.
Prostrassi in questo dir quel venerando,
E seco si prostrò tutta la schiera.
Ed egli allora il cristo alto elevando,
Incominciò sì fervida preghiera,
Che pianser fin quei birri, e memorando
Nè pria veduto mai spettacol era
Vedere un frate bordelliero frangere
Quei cor duri, e forzar i birri a piangere.
Tempo era omai che il declamar finisse,
E finisser la farsa e i lazzi suoi.
Levossi dunque, a lor si volse e disse;
Suora, fratelli miei, Dio sia con voi,
157
E prima la Simona benedisse,
E la sbirraglia benedisse poi,
Che con divozion tenera e calda
Gli baciò della tonica la falda.
Indi tutta compunta e intenerita
Di là partì per non dar lor più ambascia;
E chiedendo perdon di quell'ardita
Mossa, la putta in pace e il frate lascia.
Della sua furberia ben riuscita
Gran risa ei fece allor colla bagascia;
Indi le oscene lor tresche interrotte
Continuar sino a innoltrata notte.
Udisti quel sant'uom che belle cose
Disse ? i birri fra lor chiedean per via.
E Chiacchierin, un di quei tre rispose:
E birro e bordellier chi vuol lo sia.
Mi rimprovera troppe obbrobriose
Iniquità la coscienza mia.
E tosto andrò la penitenza a farne:
Rinunzio al mondo, al diavolo, alla carne.
Ed il bargel dal cardinal vicario
Recatosi il mattin, fedel rapporto
Di quel caso gli fe' straordinario;
E assicurò che calunniato a torto
Avean quel buono e santo missionario.
E il cardinal: già m'er'io spesso accorto
Che oggi a questi compagni di Gesù,
Dicea fra se, non si può creder più.
Anzi cosa che passa ogni credenza
Dirò, il bargel seguia, che Chiacchierino,
Uno dei birri di vostra eminenza
Forse il più dissoluto e libertino,
Tocco di quel sant'uom dall'eloquenza
Poc'anzi è andato a farsi cappuccino.
Questo, eminenza, è un fatto, e convertire
Un birro come quello è molto dire.
E la conversion miracolosa
Di birro osceno e scellerato tanto,
E di bagascia cognita e famosa
Per tutta la città sparsasi intanto,
Per santo fe' passar Fontanarosa.
E ciò prova, che spesso e buono e santo
E’ nell'opinione universale
Non chi è tal, ma chi sa comparir tale.
158
L'AURORA.
NOVELLA XIII.
Giacchè secondo io veggio, o Donne belle,
Voi ve ne state con tanto diletto
Ad ascoltare i conti e le novelle,
E qui vi siete unite a tal effetto,
Vo' stasera narrarvi una di quelle
Che come parmi altrove avervi detto,
Scritte a sorte trovai nel testo antico
Dal nostro incomparabile Gianfico.
Forse avverrà che, udendo certe cose
Che sono alquanto inusitate e rare,
Le vi parranno false e favolose,
E direte fra voi: ciò non può stare.
Ma non per questo, o Donne mie vezzose,
La verità de' fatti io vo' alterare,
Che Gianfico è un autor che non diria
Per millanta gigliati una bugia.
E poi s'io vi narrassi esempligrazia
Qualche tristo usuale avvenimento,
Voi cui potreste dir con buona grazia,
Questa è cosa che accade ogni momento;
Lo che per me sarebbe una disgrazia,
Se mi togliesse il vostro gradimento.
Lasciate dunque fare a me, ch'io v'amo,
E fuor che il piacer vostro altro non bramo.
Egli è vero però che ov'ei descrive
Certe cosette, che sembrar potranno
Libere alquanto e un pocolin lascive,
Io ve le vo' narrar com'esse stanno;
Perchè so che non siete tanto schive,
E sapete le cose come vanno;
Nè avete certi pregiudizi in capo
Datemi dunque udienza, e son da capo.
La bella dea cui l'oriente adora,
Che fuga l'ombre ed al mattin presiede,
La dea che d'aurea luce il ciel colora,
E di zeffiri cinta il sol precede,
La foriera del dì candida Aurora,
Che il don di eterna gioventù possiede,
159
Ai piaceri d'amor, chi 'l crederebbe ?
Sensibil per gran tempo il cor non ebbe.
Vergin credeasi infino allor la diva,
Quando sorgendo un dì dall'orizzonte
Vide Titone al Simoente in riva,
Figlio del re trojan Laomedonte,
Che le paterne gregge custodiva
Che alla falda pascean del vicin monte;
Titon di cui non ebber mai più bello
Le frigie donne, o più gentil donzello.
Con tal grazia i neri occhi e le rotonde
Braccia movea, ch'era mirabil cosa;
Due labbra tumidette e rubiconde,
Due guance aveva del color di rosa,
E gli facea le lunghe chiome bionde
Su gli omeri ondeggiar l'aura scherzosa,
Ed apparia degli anni in sul bel fiore
Tutto ripien di giovanil vigore.
Era nella stagion che il sol cocente,
Spande dal Sirio Can gli estivi ardori,
E un venticel movea dall'oriente
Allo spuntar de' mattutini albori,
Grato ristor recando, e lievemente
Cadean sull'erbe i rugiadosi umori,
E il bel garzon nudo la fronte e il petto
Stavasi allo spirar del zeffiretto.
Fuor dell'indico mar sull'emisfero
Incominciava a comparir la dea,
E pel celeste lucido sentiero
Nembi di rose a piene man spargea,
Allor che vide il giovinetto altero,
Che del mattin le fresche aure accogliea,
E nel vederlo sente in petto un dolce
Moto che il cor le intenerisce e molce.
Contemplando l'amabile sembiante,
Talmente per piacer se stessa obblia,
Che fu per arrestar in quell'istante
L'aurato cocchio in sull'eterea via,
Se scossa nol l'avesse il fiammeggiante
Carro solar che dietro a lei venia,
Sgombrando dal sentier se ostacol v'era
In rattener la rapida carriera.
Poichè del sol l'irresistibil urto
La bella diva all'estasi ritolse,
Per far del giovin l'amoroso furto
160
In improvviso turbine l'avvolse
Intorno a lui per divin'opra insurto,
E al lato suo sull'aureo cocchio il tolse,
Ove più da vicin tutt'agio ell'ebbe
Di vagheggiarlo, e più l'amor le crebbe.
Quando improvvisamente alto levarse
Vide Titon senza saper da cui,
Di gelido pallor le gote sparse;
Ma poscia rinfrancando i timor sui
Presso la bella dea si accese ed arse
Egli non men di lei, ch'ella di lui;
E in mirar la sua bella rapitrice
D'esserne preda s'estimò felice.
Della Luna e del Sol costei fu figlia,
E in ciel passava per beltà famosa
Fra la stessa celeste alta famiglia;
Ma di donne in confronto ell'era cosa
Da fare istupidir per maraviglia.
Nè alcuna sia fra voi di ciò sdegnosa;
Poichè belle voi siete, ma nessuna
È poi figlia del Sole e della Luna.
Non bella al par di lei creduto avreste
Nè Palla nè Giunon nè Citerea;
Le inanellate trecce e l'aurea veste
Fragranza odorosissima spandea,
E un non so che di maestà celeste
In tutta la persona risplendea,
E dalle soavissime pupille
Di viva luce uscian raggi e faville.
Poste in giusta distanza e rilevate
Sul bianco petto eran le tette belle,
Che parean fresche e tenere giuncate
Allora tratte fuor delle fiscelle;
E le altre membra intatte e dilicate,
Quali nè Zeusi mai pinse nè Apelle,
Vagheggiar si potean distintamente
Sotto il lucido manto trasparente.
Fra loro incominciar dunque a vicenda
Sospiri e sguardi e tenere parole;
Poichè amor che in ben nate alme s'accenda
Da gentilezza incominciar si vuole;
Ma poichè forza è pur che tutte intenda
Le cure al carro suo spinto dal sole,
Fama è ch'ella il menasse in Etiopia,
Di se, dell'amor suo per fargli copia.
161
In Etiopia v'è piccola valle
Attorno cinta di folti arboscelli,
Che lascian sull'ingresso angusto calle,
Sicuro asilo a' peregrini augelli
Di penne rosse, bianche, azzurre e gialle,
Che svolazzando van fra i ramoscelli,
E colle strane voci lor di varia
Piacevol melodia riempion l'aria.
Per mezzo all'amenissima valletta
Vago ruscel di limpid'acqua e pura
Scorre tra i fiori e sulla molle erbetta,
Che in sul meriggio e nell'estiva arsura
Sotto fresche ombre a ristorarsi alletta
Fra perenne odorifera verzura;
La tremol'aura e il mormorio dell'onda
Par che nel cor sensi d'amore infonda.
Qui col rapito amante ella calosse,
Ove l'impaziente amor da lei
L'incomodo contegno a un tratto scosse,
Se incomodo contegno è fra gli dei,
E al collo del bel giovine lanciosse;
Baciollo in bocca cinque volte e sei,
E con sì ardite e subite sorprese
D'amoroso desir vie più l'accese.
E con man dilettosa dolcemente
Il tumidetto seno a lei compresse,
E mille e mille baci avidamente
Sulle rosate labbra anch'ei le impresse,
E il luminoso manto impaziente
Sviluppolle d'intorno e quel gli cesse,
E scoperti ad un tratto al guardo espose
Del corpo i gigli e le vermiglie rose.
Qual di ricco avaron prodigo erede
Si riman fra il contento e lo stupore,
Allor che apre lo scrigno ov'esser crede
Il tesor del defunto genitore,
E ivi riposto argento in copia vede,
Ed oro e gemme di sommo valore;
Tal Titon per piacer stupido sembra
Al discoprir di quelle belle membra.
Folle chi in cielo, in terra e in mar sol mira
Le bellezze di senso e vita prive.
Solo per me quella beltà s'ammira,
In cui spirto immortale alberga e vive,
E dell'aura divina un raggio spira,
Che amor risente, e a' moti suoi proclive
162
Il proprio e l'altrui ben ricerca e brama,
E amando può felicitar chi l'ama.
Ma già sull'erbe molli infra le braccia
Titon la dea tutta si serra e chiude;
Nè mai cotanto edera cinge e allaccia
L'acquoso pioppo in riva alla palude,
Come tenacemente ei stringe e abbraccia
Della vezzosa dea le membra nude,
E assorto già nell'amoroso gioco
Nei tremoli occhi gli scintilla il foco.
Vibra la molle lingua, e or sulla bocca,
Or sul candido petto i baci ardenti
Avidissimamente imprime e scocca;
E sì grande è il piacer che i sentimenti
Inebriando ingombra e fuor trabocca
In gemiti, in sospiri, in tronchi accenti;
Par che entrambi nell'ossa abbiano il zolfo,
Entrambi nuotan de' piacer nel golfo.
Or tu felicità compiute e vere
Godi pur, fortunato giovinetto,
Per quante vie nell'alma entra il piacere,
Godi pur con pienissimo diletto
Di celeste beltà, quanto godere
Riamato amante può d'amato oggetto.
Godi pur tu di un bene, o bell'Aurora,
Che, benchè dea, mai non provasti ancora.
Ite, o ricchi, o potenti, itene, o regi,
Che cercando il piacer lungi ne andate;
Non han liquor squisiti o cibi egregi,
Non superbi palagi o vesti aurate,
Non gemme ed or di quel piacere i pregi,
Che nel gioir d'amabile beltate
Gli animi e i sensi assorbe, e chi 'l risente
Par che di esser mortal più non rammente.
Ma mentre io vi descrivo in questi carmi
La bella diva in braccio al giovinetto,
M'avveggio, o Donne mie, che in ascoltarmi
Certo tremolo moto lascivetto
Dentro gli occhi vi brilla, e veder parmi
Un secreto desir nascervi in petto.
Ma voi tacete ed arrossite in faccia,
Quasi l'accorger mio v'incresca e spiaccia.
Perchè, o Donne, arrossir degl'innocenti
Instinti di natura, che in giocondo
Vincol di società stringon le genti,
163
E che son di piacer seme fecondo ?
Senza cui rozzo, informe e di viventi
Voto sarebbe e forse estinto il mondo ?
Per cui qualunque alma selvaggia e grezza
Docil costume apprende e gentilezza ?
Arrossisca chiunque iniqua, impura,
Del sesso i doni in uso reo converte,
E d'amor l'alme leggi e di natura
I diritti inviolabili perverte,
Che umanità non sente e se non cura,
E frodi ordisce di pietà coperte;
Non voi, che animi avete umani e buoni,
Sensibili alle dolci impressioni.
Felice coppia, intanto or io, se alcuna
Parte ne' tempi avran le mie parole,
Questi carmi offro a voi, se ria fortuna
Il contento del cor mai non v'invole.
Voi vide a scura notte insiem la Luna,
Insiem voi vide a chiaro giorno il Sole,
E testimoni fur dei vostri amori
Il bosco, il rivo, e l'aura, e l'erbe e i fiori.
Oh come le trascorse ore perdute
Di sterili ozi riparar voleansi !
Con qual spiacer le non ancor compiute,
Amorose battaglie interrompeansi,
Quando nelle importune ore dovute
Al corso mattutin staccar doveansi !
Con quanto ardor dopo quei brevi istanti
Tornavansi agli amplessi i fidi amanti !
Se sì dolce è il piacer, deh perchè ancora
Poter non ha che la fugace e frale
Gioventù serbi, e in noi lo stesso ognora
Vigor mantenga ! Era Titon mortale,
E fra le braccia della bella Aurora
Vecchiezza il colse a ogni amator fatale,
E spenta in lui la genital virtù,
Dirsi a ragion potea: Titon già fu.
Pallide si vedeano e macilente
Le guance un tempo colorite e belle,
Nè altro apparia nel corpo egro e languente,
Che l'ossa scarne e la rugosa pelle.
Oh quante volte disiosamente
Il già estinto calor nel corpo imbelle
Co' dolci vezzi e coll'industre mano
Tentò destar la bella dea, ma in vano !
164
Così nell'impotente eunuco molle
O georgiana talor schiava o circassa
Ne' serragli del Perso e del Mogolle
S'agita, s'arrabatta e si tartassa,
E la lussuria che dentro le bolle
Se non sfogar, debil far tenta e lassa;
Ma la carnal libidinosa stizza
Calmar volendo, più l'irrita e attizza.
Ah ! non mai, Donne mie, così maligni
Vi sian gl'influssi della sorte infausta,
Che in tormento il piacer per voi traligni;
Ma alli vostri desir propizia e fausta
Vener vi miri con occhi benigni,
Nè mai per voi sia di contenti esausta.
E lo dico con animo sincero;
Che il ciel lo sa, se vi vo' ben davvero.
La villanella che abbia in sul mattino
Per apparir più bella al suo pastore
Scelto prima fra mille in un giardino,
E poi di sua man colto il più bel fiore,
Se poscia arso dal sol languido e chino
E privo il mira di bellezza e odore,
In acqua il pone, acciò vigor riprenda,
E adorno il sen di nuovo ancor sen renda.
Ma la vezzosa dea che incanutito
Vede Titone e per vecchiezza esangue,
Modo e virtù non ha che lo smarrito
Spirto gli possa richiamar nel sangue;
E a' primi anni del già caro marito
Ripensando, pel duol si strugge e langue,
E con meste amarissime querele
Si va lagnando del destin crudele.
Ma alfin, poichè nel duro caso opporre
Efficace riparo a lei si niega,
A piè del sommo Giove itasi a porre:
Supremo nume (così parla e priega)
Che a tuo piacer tutto puoi dare e torre,
L'aspro destino a mio favor tu piega,
S'è ver che con potenza alta, infinita,
Sei signor della morte e della vita.
O d'uomini e di dei padre e monarca,
Sia fatto il tuo volere in terra e in cielo,
Deh ! fa che mai l'inesorabil Parca
Contro Titon non vibri il mortal telo;
Ma viva in gioventù d'affanni scarca,
Nè mai risenta di vecchiezza il gelo.
165
Potè Medea ringiovinir Esone,
Non potrà Giove immortalar Titone ?
Se sai qual forza amore e qual potere
Abbia su' petti nostri, e so che il sai,
Forse vane non sian le mie preghiere,
Forse pietà del mio dolore avrai.
Titon fra le altre amabili maniere,
Fu il più bello e fedel che fosse mai.
Cosa è più degna d'immortalità,
Che bellezza congiunta a fedeltà ?
Giove sorrise, e con parlare umano
Tergi, le disse, bella Aurora, il pianto,
Sparse non sien le tue preghiere in vano.
Titon sarà immortale, e torni intanto
Giovin, come fu allor che sul trojano
Fiume il vedesti e t'invaghì cotanto;
La dea, che al mondo i giorni lieti mena,
Provar non dee per se cordoglio e pena.
Così l'eterno invariabil fato
Ha fisso in tuo favor; ma odi a qual patto:
Ogni qualvolta, o dea, lo sposo amato
Teco s'unisca in dilettevol atto,
E il piacer colga a ogni amato, sì grato,
D'un lustro invecchierà tutto ad un tratto.
Il destin con sì strana e dura legge
L'inusitato don tempra e corregge.
Poichè del fato ella il decreto intese,
In trasporto di giubilo proruppe,
E l'ultime parole appena attese
Che terminasse Giove, e l'interruppe
E grazie innumerabili gli rese.
Impaziente poi gl'indugi ruppe,
E sovra l'aureo suo carro s'assetta,
E per gli eterei spazi il corso affretta.
Ma pensando al destin: dunque giammai
Da me, caro Titon, dicea per via,
Quel soave e fedel più non avrai
Pegno d'amor che amando si desia;
Ma se gioventù nuova io t'impetrai,
Io saprò conservar l'opera mia,
Saprò esserti crudele mio malgrado,
E tu, ben mio, men dei saper più grado.
Così propone, e forse ancor credea
Facilmente eseguir ciò che propose;
Poichè quanto è diverso non sapea
166
L'immaginar dall'eseguir le cose.
Ma dell'amante a fronte o donna o dea
Mal contien le libidini amorose.
Donne gentili che provaste amore,
Non è così ? che ve ne dice il core ?
Ella frattanto stimolata e punta
Dal fervido desir rapidamente
Innanzi al vecchiarello era omai giunta,
Che all'apparir di lei immantinente
Empier le fibre, i nervi, e la già smunta
Carne di succo giovanil si sente,
E riparati di vecchiezza i danni,
Tornò a un tratto all'età di quindici anni.
Qual se presso ad estinguersi languiva
Face omai palpitante e moribonda,
Quando opportun della premuta oliva
Il pingue umor d'intorno a lei s'infonda,
Tosto vigor riprende e si ravviva,
E di luce empie l'aer che la circonda;
Ripiglia intanto al rallumar di quella
Il notturno lavor la vecchiarella:
O qual per finto incanto in sulle scene
Trasformarsi talor vecchio si vede,
Che a un tratto snello e giovine diviene,
E ratto muove in agil danza il piede
Tale al vecchio Titon dentro alle vene
Vigor novello e nuovo spirto riede,
E bello e forte e giovine si mostra,
E già disposto all'amorosa giostra.
Di fervido desir tutto s'accende,
Esclamando, miracolo, miracolo !
Rapidamente a lei le braccia stende;
T'arresta, ella dicea: Giove ... l'oracolo ...
Il destin ... ma ei non ode e non intende,
E ritrovando in lei debole ostacolo,
Co' baci le trattien la voce in bocca,
E intanto pon lo strale in sulla cocca.
Allor cedè la dea, nè lungamente
Sull'inutil contrasto ella si tenne,
E da lei 'l caro assalitore ardente
Il libero passaggio alfine ottenne,
Cosicchè l'una e l'altro unitamente
Al dilettoso termine pervenne.
Un lustro in sull'istante a lui s'accrebbe,
E, compiuto il lavor, vent'anni egli ebbe.
167
Finalmente or, diss'ella, io spererei
Che m'udissi una volta: e allor del fato
L'alto voler manifestogli. Oh dei !
Sclamò Titone, e dunque invan sì amato
Dalla maggior bellezza io mi vedrei,
Che le grazie ed amore abbian formato ?
O dura legge del destino avaro
Perchè il piacer farmi costar sì caro ?
Ah no ... più tosto l'orrida vecchiezza ...
Ohimè, anima mia, che dici mai !
Riprese Aurora in tuon di tenerezza;
Ah ! che in udirti sol tremar mi fai;
No, che per mia cagion la giovinezza
Che il ciel ti ridonò non perderai.
Amor ci serba anche un piacer più fino,
Che torci non potrà fiero destino.
Ricolmi il cor di placida quiete
Nel reciproco amore e nel contento
L'ore trarremo avventurose e liete,
Nè ad arrecarci in sen smania e tormento
Le pungenti verran voglie inquiete,
Nè degli anni il vigor sarà mai spento.
Così dal corpo i spiriti divisi
S'aman colà nei fortunati Elisi.
Volere amar da spirti ella è follia,
Qualora un corpo abbiam materiale;
Poichè prestabilita è un'armonia
Che spirto senza corpo oprar non vale,
E trasgredir della filosofia
Vorresti dunque un dogma principale ?
Ragionava Titone; e quest'è indizio
Che egli era del parer di Leibnizio.
Questi argomenti addusse e altri parecchi
Ma ella ciò non ostante in suo pensiero
Già fisso avea di non prestar gli orecchi
Dell'amante all'incauto desidero.
Non fia, dicea, che tu di nuovo invecchi
Per piacer momentaneo e passeggiero;
Più stabil ben si cerchi, e seria seria
Moralizzando gia su tal materia.
Mentre in sì grave tuon la dea favella,
Amor sempre maligno e periglioso
La facea comparir più vaga e bella
Agli occhi dell'amante desioso,
Che per piegarla ai suoi voler novella
Ragion ritrova a' danni suoi ingegnoso:
168
Tu temi in me l'oltraggio sol degli ami,
Ed io temo, dicea, più gravi danni.
Che se la gioventù più verde e fresca
È di talento instabile e volante,
Il mio core a ogni foco arder qual esca
Potrebbe e farsi d'altro oggetto amante;
Ma un lustro sol che all'età mia s'accresca,
Può farmi nel tuo amor fermo e costante:
Vuoi la mia fedeltà porre a periglio
Per difetto di provvido consiglio ?
Ragion, che dell'eterno alto volere
Primogenita sei, quanto possente
È la tua voce ! Al tuo divin potere
Cede la diva e al consiglier prudente,
E da lei corre il genial piacere
Anche una volta all'amator consente;
Ed ei sì bravamente il corsier punse,
Che due lustri di seguito s'aggiunse.
Prudentissima coppia, eccoti omai
Dall'incostanza assicurata ancora.
Lieta goder tranquillità potrai,
E celibi serbar gli affetti ognuna.
Ah ! che si può star senza un ben che mai
Gustato s'abbia, e il cui valor s'ignora;
Ma d'astenersen, poi mal si presume
Contro lungo uso e natural costume.
Talor del caro amante ai prieghi, ai pianti,
Dopo lieve repulsa ella si arrese;
Talor sott'ombre fresche e verdeggianti,
Inosservatamente ei la sorprese.
A poco a poco Amor delli due amanti
Un lusinghiero vel sugli occhi stese,
Che il destin lor nasconde, e par che faccia
Dimenticarne la fatal minaccia.
Ma ogni qualunque volta in dolce amplesso
Gli amorosi seguian congiungimenti
Dei non ancor mai sazi amanti, in esso
Seguivan tosto i quinquennali aumenti
Ei nondimen gli atti iterò sì spesso,
Che d'una in altra età passò a momenti;
Basta dir, senza farne altro sommario,
Che divenne in un giorno ottogenario.
Allor sì che dolente il crin si straccia,
E di pianto la dea versa due fiumi,
Ma Titon la conforta e, il duol discaccia,
169
Disse, che invan piangendo ti consumi.
Lieto la gioventù fra le tue braccia
Già due volte perdei: pietosi numi,
Rendetemi di nuovo i miei bei giorni,
Acciò in tal guisa a perderli ritorni.
Così invecchiò Titone, o Donne mie.
Oh dura legge dell'ingiusto fato !
Per sì soavi e dilettose vie
Perchè condurne a un termine sì ingrato ?
Come frenar le dolci simpatie,
E come a fronte dell'oggetto amato
Instinto soffocar sì naturale ?
E gioventù senza piacer che vale ?
Trascorsi nel piacer tutti gl'istanti,
Titon vecchio e impotente non potea
Soddisfare a quei stimoli pressanti,
Nè esiger fedeltà da giovin dea.
Ed ella intanto di rapir gli amanti
Al bel mestier preso gran gusto avea,
E trovandola assai comoda cosa,
Altro amante a rapir non fu ritrosa.
Qualunque il Furto sia che si commette
Di roba, di danar, di creatura,
Son tutti i furti, o Donne mie dilette,
Circa della medesima natura.
In chi una volta a rubacchiar si dette
Sempre poscia del furto il gusto dura,
E chiunque o da senno o per ischerzo
Fa il primo furto, fa il secondo e il terzo.
Quindi Aurora, poichè d'Eolo figlio
Cefalo vide, a cui la fresca rosa
Sulla guancia fioria mista col giglio,
Rapillo a Procri, sua diletta sposa.
Tante lagrime allor versò dal ciglio
Per la perdita sua Procri amorosa,
Che a lei lo rese Aurora impietosita,
Lo che donna rival mai non imita.
Aurora poscia in Orion s'avvenne
Di Nettun figlio e per beltà famoso,
Piacquele anch'esso, e sel rapì e sel tenne;
E sovente cangiando amante e sposo
Corsala di bei giovani divenne.
Altri ratti ella fe' ch'espor non oso;
Che di tai cose esempi addur parecchi
Potrebbe spaventar mariti vecchi.
170
Voi letti certamente avrete o uditi
Ratti che fer gli amanti e i fornicari
Ai padri, che compagne ed ai mariti,
Comuni avvenimenti ed ordinari;
Ma di molti bei giovani rapiti
Gli esempi, o Donne, ai nostri dì son rari.
Qualcun voll'io narrarvene; ma dee
Il mestiero lasciarsene alle dee.
Come le ninfe fer col giovin bello
Ila, figlio del re Tiodamante,
Ch'Ercole accompagnò dell'aureo vello
Alla conquista in Colco, e non distante
Dal Xanto a prender acqua ito al ruscello
Lo adocchiaron le ninfe, e per amante
Sel disputar, tutte il volean; ma alcune
Lo rapir per goderselo in comune.
E non è, Donne mie, forse un piacere
Lascive ninfe il solo immaginarse
Fra loro abbarruffandosi vedere
Strapparsel l'una all'altra, e arrabattarse
Le prime a voler esserne a godere ?
Tremende grida intanto Ercole sparse,
Ila attorno chiamando, Ila, e di meste
Voci fe' risonar valli e foreste.
Di violenze oggi noi siam nemici,
E perciò, Donne mie, per vostro onore
Vi consiglio a non far le rapitrici.
Il consenso reciproco è migliore.
Nè s'ottengono, o care ascoltatrici,
Le avventure piacevoli d'amore
Con maniere rapaci e violente,
Ma vengon da per lor naturalmente.
171
I CALZONI RICAMATI
NOVELLA XIV.
Gl'inglesi han, Donne mie, molto del buono,
Poich'essi per lo più son denarosi,
E ciò è un merito grande; e in oltre sono
Liberali sovente e generosi.
E quei che tai non son, sen danno il tuono.
E per questa ragion negli amorosi
Incontri piacer sogliono al bel sesso;
E se non sempre, almen riescon spesso.
Eravi poco fa su questo gusto
(Lord Boxton ei nomossi) un certo Inglese
Ricco, giovin signor, grande, robusto.
Il genitor dell'indico paese
Molt'anni (io non so dirne il numer giusto)
Al governo stat'era; e gli avea rese
Due cento mila almen lire sterline
Il sol commercio delle mussoline.
Lasciò dunque un grand'asse; e dichiaronne
Per testamento il figlio suo padrone.
Questi cominciò tosto in mense, in donne,
In feste e in lusso a far profusione
D'ammassato danar, di cui trovonne
Pieno in gran quantità più d'un cassone.
Ma passion sua prediletta fu
Di sfoggiare in begli abiti e in bijou.
Stufo di Londra, un dì vennegli in mente
l'idea di far due anni o tre d'assenza;
Onde fisicamente e moralmente
Matura e ripetuta esperienza
Sulle femmine far del continente,
E con precision la differenza
Saper che passa fra le donne inglesi
E le donne degli esteri paesi.
A dir ver, Donne mie, questo milordo
Chiama altra idea nella memoria mia;
E d'un certo signore io mi ricordo,
Che per una sua strana fantasia
Era di fichi estremamente ingordo;
Onde in autunno per l'Italia gia
Qua e là di fichi quantità mangiando;
Fichi con fichi ognor paragonando.
172
Ordinò in pochissime parole
Al camerier che tutto in ordin ponga,
Che fra un pajo di giorni ei partir vuole,
Che assesti in due bauli e ben disponga
I frac, la biancheria, le camiciuole,
E gli abiti più ricchi, e che riponga
Nel piccolo forzier tutti i giojelli,
E gli astucci e le scatole e gli anelli.
E a Greenwich noleggiato un bastimento,
E l'equipaggio pria colà premesso,
Ed un suo servidor fido ed attento,
Col camerier portovvisi egli stesso;
Ivi imbarcossi e con un fresco vento
Fe' vela per l'Olanda, e il giorno appresso
Dietro il Texel lasciandosi e Sardham,
Entrò felicemente in Amsterdam.
Alloggiossi in un'ottima locanda
Di tutti quanti i comodi fornita,
E che credeasi la miglior d'Olanda.
Si vestì, s'adornò, brillan le dita
Di rare gemme, un oriuol per banda,
Gallon, ricami, biancheria squisita,
Trine di punto inglese, astucci d'oro,
Scatole di finissimo lavoro.
Poi fatto a se venir l'albergatore,
Disse: di questa mia magnificenza
Che ti par ? credi ch'io farommi onore ?
E quei: che dice mai vostr'eccellenza ?
Si sa ben che voi siete un gran signore;
Ma senza ciò sì splendida apparenza
Sola muover potria tutto il paese
Per venirvi a far corte; e il lord riprese:
Per veder belle donne io mi son mosso.
havven molte in città ? Non dubitate,
Rispose quei; con tanti brilli addosso,
Onde da capo a piè voi luccicate,
Ne troverete, assicurarvel posso,
Ne troverete più che non sperate.
Se le ricchezze in pregio son fra voi,
Una specie di culto hanno fra noi.
Ai primi magistrati e alle primarie
Famiglie lord fu presentato appena,
Incominciar le visite ordinarie;
Biglietti, inviti a desinare, a cena,
A feste, a balli, ad adunanze varie,
A veder varar navi o dar carena,
173
Al punch, al déjeuné, al thé, al gouté,
E a prender cioccolatte e a ber caffè.
Ma in mezzo a questa occupazion perenne
Non si scordò del principal motivo,
Per cui dall'Anglia nell'Olanda venne,
Cioè l'esame far comparativo
Fra donne e donne, ed a capir pervenne
Che colle donne del suo suol nativo
Non sostenean le Batave il paraggio,
Non che avesser su quelle alcun vantaggio.
E proseguendo la medesma inchiesta,
Per la provincia iva gli esami stessi
Facendo ognor, nè assai però s'arresta,
Che in Amsterdam di nuovo ei render dessi,
Siccome fé, che qualche affar gli resta
A sbrigar e a compor certi interessi,
Che avea colla ragion Isac e Abram,
Ricchi ebrei negozianti in Amsterdam.
Ritornato colà, donna assai bella
Vide al balcon rimpetto alla locanda.
E altra donna simil non si rappella
Nè aver vista ivi pria nè per l'Olanda.
Stassi fiso a guardarla, e chi foss'ella
Ansiosamente al locandier domanda;
E dalla sua risposta alfin raccoglie,
D'un mercante di birra ella esser moglie.
Venne colei, mentre eravate assente,
Seguia l'ostiero, ad abitar colà,
E che una sento dir generalmente
Delle più belle sia della città.
So che ha nome Giuditta; un buon vivente
Suo marito esser dee; di birra ei fa
Gran commercio, e lo chiamano Pieraccio,
Rozzo, gran bevitor, ma poi bonaccio
Lord allor, che amicarsela procura,
Spesso saluti e ghigni a lei facea;
Ed ella con gentil disinvoltura
A tai galanterie corrispondea;
Che di quel lord la giovanil figura
Certamente spiacer non le dovea,
Ed i brillanti e l'or ch'aveva addosso
Creder glielo faceano un pezzo grosso.
Ond'ei coll'insistenza e col danaro
Di favellarle alfin trovò maniera,
E un intrigo fra loro incominciaro,
174
Ed accordi reciprochi, com'era
Natural cosa, e insiem si ritrovano
Alla sfuggita il gran mattin, la sera,
Finchè l'occasione offrisse amore
Di stare insiem con libertà maggiore.
Lo che non tardò molto ad accadere,
Che Amor non vuol che un lord di lui si lagni.
Pertanto a mastro Pier venne in pensiere
In Frisia andar con altri suoi compagni
Per affari spettanti al lor mestiere.
Fatta avean coll'idea di gran guadagni
Di birra costruir nella vicina
Vestfrisia una magnifica officina.
Come Giuditta ebbe contezza vera
Che mastro Pier per qualche dì partiva,
Scrisse a milord, che fin'allor stat'era
In un'impaziente aspettativa,
Che francamente quell'istessa sera
A lei potea venir, quando imbruniva;
Poichè il marito suo non vi sarebbe,
E assente ancor per qualche dì starebbe.
Se ciò piacere a un amator non dia,
Considerar lo lascio ai dilettanti;
Poichè quantunque un cavalier non sia,
Nè gioie, come quegli, abbia e contanti,
Può taluno ottener ciò che desia,
E ritrovarsi in casi somiglianti;
Onde alla bella sua portossi lieto
Magnifico quel lord al consueto.
Quantunque mastro Piero in altre spese
Che in quelle del buon vin non isfoggiasse,
E assai semplicemente e all'olandese
Vivesse, e gli stessi abiti portasse
Che a tutti eran comuni in quel paese;
Ricco era per un uom della sua classe,
Nè lasciava mancar modi alla moglie
Da poter soddisfar discrete voglie.
Onde Giuditta far volendo onore
All'incoronazion di suo marito,
Fe' trovar pronta all'incoronatore
Una cenetta di gusto squisito,
Acciò i piacer di Bacco e quei d'Amore
A lord procuri il grazioso invito;
E attendendolo sta da capo a piè
Ben messa in un gentil disabigliè.
175
Sotto ampia veste un candido guarnello
Stretto di sopra al rilevato fianco
Libero lascia il piè leggiadro e snello;
Fuor del corsetto il seno nudo e bianco
Sporge, e le cinge il crin vago bindello,
Cui fitta è spica d'oro al lato manco;
E in abito leggier così si mostra
Pronta ad entrar coll'amatore in giostra.
Avvolto in una cappa alla spagnuola
Ecco appare il fastoso avventuriero
Quando fu avanti a lei, si sferrajuola,
E alla moglie scoprì di mastro Piero
Ricco abito e superba camiciuola,
E bei calzoni di velluto nero
Con bottoniera ricamata d'oro,
Tutto pien di magnifico decoro.
Depon la cappa e con vivace ardore
Sovra la donna avidamente corre
I primi ad isfogar lanci d'amore.
E senza vani prologhi frapporre
Acceso di desir l'anglo amatore
L'abbraccia e stringe, indi s'affretta a corre
Sulle labbra e sul sen piacer forieri
Di più alte imprese e di maggior piaceri.
Posersi a mensa poi lord e la bella,
E per dar buon principio allo stravizio
Baci ai cibi mischiar; ma più bevv'ella,
Poichè il marito bevitor quel vizio
Alquanto avea comunicato a quella;
Dal che lord Boxton trasse ottimo indizio,
Che Bacco suol nell'amoroso gioco
Aggiungere alle femmine più foco.
Breve fu il pasto, che di belle e drudi
Quello il grande non è nè il primo oggetto;
Ella perciò tolse la mensa, e nudi
Andaro entrambi a coricarsi in letto.
Né i bei momenti perdono in preludi,
Ma vengon tosto al principal diletto.
Pugnano prima, e si riposan poi
Sul campo di battaglia i prodi eroi.
Facendo fin allor fra donne e donne
Fisica sperienza e paragone,
Niuna in Olanda il nostro lord trovonne,
Che di se desse qualche opinione.
Scandagliata costei, prova tironne,
Che ogni regola ha qualche eccezione.
176
Potea Giuditta ovunque in sulla terra
Brillar non che in Olanda e in Inghilterra.
Mentre ancor nel piacer han l'alma assorta,
Dura li scuote e dispiacevol cosa,
Poichè improvviso udir picchio alla porta,
E poscia, apri, gridar voce sdegnosa,
Aprimi, giuro al ciel, sei sorda o morta ?
Trema Giuditta, nè risponder osa.
Era il marito: non partì voi dite ?
Signori no: che avvenne dunque ? udite.
Piero e i compagni suoi pensier non saggio
Creduto avean non sol, ma periglioso
A stomaco digiun porsi in viaggio;
E in un albergo andar ch'era famoso
Per l'eccellente ed ottimo formaggio
E pel vin di Bordò delizioso.
Posersi a desco, e domandaro all'oste
Vin, formaggio, salame e caldarroste.
Cotest'oste detto era Tarabozzo,
Faceto, anzi buffon di sua natura,
Storto di piè, grosso di testa, e tozzo;
Insomma assai ridicola figura.
Sopra una nave in qualità di mozzo
Stat'era, e con un po' di mercatura,
che in Batavia già fe', trovò la via
Di far qualche danaro, e aprì osteria.
All'ordin di color tosto l'ostiero
Portò un par di bottiglie e tre gran gotti,
Oh questo poi, dicendo, è Bordò vero;
Avantier me ne vennero due botti. Bravissimo - e il formaggio ? - Eccolo; spero
Vi piacerà – Superbo ! e i salcicciotti ? Son qua - D'Italia ? - Oibò, non se lo sogna !
Italia averne tai, son di Bologna.
Orsù, tocchiam, tocca, compar si tocca Gran Bordò ! - Tarabozzo, e le castagne ? Eccole - Buone affè, squagliansi in bocca Son tutte schiette, e non vi son magagne Bevi, compar, lesto, il bicchier trabocca Son castagne del vin buone compagne Altra bottiglia - io questo vino ingozzo
A onor ... a onor ... di chi ? - di Tarabozzo.
Evviva Tarabozzo - una bottiglia
Cos'è, compar, per chi sì ben tracanna ? Dici ben, che ne venga altra pariglia 177
Eccole - a te, compar; bevi - è una manna.
Salute a Checca - olà il bicchier ripiglia Alla Francesca - a Ghita - alla Giovanna Si riscaldan i ferri, e in una volta
Parlano tutti, e più nessuno ascolta.
E con quel gavazzar, con quel bruire
Bel bel senza avvedersene fer sera;
E allor convenner, che voler partire
In quell'istesso giorno è una chimera.
E la partenza omai di differire
Al dì seguente indispensabil era.
Restando dunque là tranquillamente,
Rimiser la partenza al dì seguente.
E proseguiro a bere alla salute
Delle comari e dei lor grossi amori.
Per le dispute poi sopravvenute
Fra l'oste Tarabozzo e i bevitori
Sulle bottiglie ch'eransi bevute
Cominciaro a far strepito e romori;
Che quei votando e riempiendo il gotto
Ventisette dicean, l'oste ventotto.
Ma la faccenda fu raccomodata
Con altre due bottiglie, e disser trenta.
La notte intanto è omai molto avanzata,
E ciascuno in parlar balbetta e stenta;
Onde partissi tutta la brigata,
Che barcolla, sonnecchia e s'addormenta.
Fu allor che mastro Piero un pochin grillo
Fe' alla porta quel picchio e quello strillo.
La spaventata povera Giuditta
Pressa Boxton sollecito a levarsi
Per quel frastuono estremamente afflitta.
Quei com'ella indicogli andò a celarsi
Al buio e nudo sopra una soffitta,
Lasciando qua e là gli abiti sparsi;
Che in vano in quella subita sorpresa
Mente tranquilla si saria pretesa.
In camicia com'era ed in pianelle
Giuditta allor l'uscio ad aprir discese;
Apre, e a quei domandò per quai novelle
Ragion sì tosto egli in città si rese.
Tace e risposta mastro Pier non dielle.
Montò, spogliassi, e in letto si distese
Mutolo, e s'addormenta appena corco,
E russa e par con riverenza un porco.
178
Di Giuditta frattanto il cor molesta
Inquietudine punge ed affannoso
Timor, solo in pensar che nudo resta
Lord colassù nella soffitta ascoso,
E che potria, se mastro Pier si desta,
Qualche caso seguir ben doloroso.
Se stessa e Boxton vede in gran periglio,
Se non prende opportun pronto consiglio.
Ma chi non sa quanto il cervel di donne
Sia di ripieghi in casi tal fecondo ?
Chi mille e mille esempi addur non puonne,
Se un po' d'esperienza abbia del mondo ?
Siate tranquilli, io sicurtà faronne,
E sul periglio lor non mi confondo;
Che con qualcun de' strattagemmi sui
D'impaccio ella trarrà se stessa e lui.
E in fatti incominciò del petto fuori
A gettar grida e lamentevol voci;
Come se da nefritici dolori
Punta ella fosse e da tormenti atroci.
Mastro Pier che destossi a quei clamori
Fra il sonno e il vin stupido ancor, precoci
Doglie, dicea, di parto avresti mai ?
Sei tu impazzata o cosa diavol hai ?
Mi muoro, allor grid'ella, ohimè ! mi muoro;
Una terribil colica m'ammazza,
Se pronto al mio dolor non ho ristoro;
E se non muojo, ne divento pazza.
Intenerissi il mansueto toro,
E disse a lei: cara la mia ragazza,
Via, pazienza un po': che poss'io farti ?
Calmati, passerà non disperarti.
Ed ella: sai che all'improvviso e a sbalzi
Mi prendono dolor di questa sorta.
Or mentre gridi e il picchio ognor più incalzi,
Appena ch'eri tu mi sono accorta,
Io, com'era in camicia e a piedi scalzi
In fretta giù scesi ad aprir la porta;
E da quel punto o Piero da quel punto
Questo acuto dolor m'è sopraggiunto.
E quei volendo a lei dar qualche aita:
L'acqua ov'è che ti diè lo speziale,
E che t'ha spesso dal dolor guarita ?
Ed ella: ah ! sì; guarir da questo male
Quella solo mi può; ma l'ho finita.
Per me di quel liquor so quanto vale
179
La maravigliosissima virtù,
Ma l'ho finita, Piero, io non ne ho più.
Ah caro Piero mio, sii benedetto,
Se tu non vuoi ch'io di dolor mi muora,
Va dallo spezial, corri, un vasetto
Fattene dar, un sol vasetto ancora.
E quei: che dici mai ? son tutti in letto;
È tardi, tutti dormono a quest'ora;
E il nostro spezial della città
Sai pur che abita all'altra estremità.
Ed ella: abbi di me compassione.
Piero a sì vive istanze alfin cedette.
Si leva, e cerca gli abiti tentone
Brancolando le scarpe e le calzette
E la giubba ritrova e se la pone,
Trova un paio di brache e se le mette.
Scende al bujo le scale, apre la porta,
E in fretta dallo spezial si porta.
Tosto, che Pier partito fu, Giuditta
Contenta appien che riuscita vana
Non sia l'astuzia sua, d'inferma e afflitta
Allegra a un tempo è divenuta e sana;
Corre Boxton a trar dalla soffitta
Che compimento all'avventura strana
Con nuovi amplessi diè; poi panni e cappa
Riprende a tasto, e vi s'involge e scappa.
Intanto mastro Pier per la cittade
Pien d'ansietà con frettoloso passo
E piazze e ponti attraversava e strade.
Giunto colà tutto anelante e lasso
Picchia sì, che direste, or l'uscio cade.
Grida lo spezial: cos'è sto chiasso ?
E mastro Pier: son io, compare, e il prega
D'aprir la porta e scendere in bottega.
S'alza lo spezial, vien sul terrazzo,
E dice a lui: tu che compar mi nomini,
E che qui vieni a far tanto schiamazzo,
A quest'ora destando i galantuomini,
Al diavol va, ch'esser non dei che un pazzo,
Ma Piero lo scongiura in nomen Domini.
Ah ! discendi, compar, per carità,
Che di parlarti ho gran necessità.
Quei si ritira nella stanza e prende
E sulla pietra batte l'acciarino,
Che pronto tiene appresso al letto, e accende
180
Per via del zolfanello il lumicino:
E sonnacchioso e borbottando scende,
E della chiave viene al bucolino.
Chi sei, di nuovo chiede, e Piero allora,
Son mastro Pier, non mi conosci ancora ?
Apre alfin l'uscio, il guarda fiso, e poi
Dicea lo spezial: dunque sei tu !
Cosa girando vai, che diavol vuoi ?
E quei: mia moglie non può regger più
Al gran dolor, salvarla sol tu puoi
Colla rara mirabile virtù
Di quel liquor che chiami acqua cattolica,
Maravigliosa per guarir la colica.
Allor lo spezial, perchè tua moglie,
Gli risponde con fredda indifferenza,
Perchè dunque una femmina ha le doglie
Vieni a destarmi ? ... oh vè che conseguenza ?
Un bel vantaggio inver se ne raccoglie
Da così buoni affar: ma, pazienza.
Ecco d'acqua cattolica un vasetto,
Vattene pur con Dio, ch'io torno a letto.
Vo' pria pagarti almen, Piero riprese,
E in tasca in questo dir la man ponea,
Ove sempre monete del paese
Pei giornalier bisogni aver solea.
E tranne ... qual danar ? ... Nota è un'inglese
Moneta d'or che chiamasi ghinea.
Di tasca mastro Pier ... voi stupirete,
Piena trasse la man di tai monete.
Ma se stupite voi, chi dir potria
Qual fosse lo stupor di mastro Piero ?
Non sa s'ella è una celia o una magia,
Nè potendone intendere il mistero,
Dicea, questa moneta non è mia;
In tasca io non ve l'ho messa davvero.
Dunque chi mai, chi diavol aver dee
locate in tasca mia queste ghinee ?
Comprendo io ben che qualche ladroncello
Di tasca altrui, se può, tolga il danaro;
Ma di moneta empir l'altrui borsello
Che talun si diverta, il caso è raro.
E per quanto lambicchisi il cervello,
Come stia quell'affar non vede chiaro.
Certo, dicea, non crederò che nasca
Qual fungo in putre suol danaro in tasca.
181
Lo spezial, che lui pensoso e muto
Starsen vede, non vuol dargli distorno;
Pur dice alfin: compar, che t'è avvenuto ?
Da Londra forse tu da qualche giorno
Qualche grosso sussidio hai ricevuto ?
E mastro Piero, ho ricevuto un corno.
Ma non ben calcolò le corna sue,
Che un corno sol non ricevè, ma due.
Pone allor l'altra man nel borsellino,
E fuor tira un superbo astuccio d'oro
Con entro le cesoie e il temperino,
Tutto di squisitissimo lavoro.
Lo speziale abbassa il lumicino
La sorgente a scoprir di quel tesoro,
E poichè ben ben tutto osservat'ebbe,
Più la sorpresa e lo stupor gli crebbe.
Che appressato il lumino avendo appena,
Vide superbamente ricamati
Un pajo di calzoni e una catena,
Che giù pendea da ciaschedun de' lati
Di brillanti e rubin coperta e piena.
A spettacolo tale, e ove hai trovati
Sì splendidi calzon ? stupido grida,
Tu sei tutto or, sei divenuto Mida ?
Bassa gli occhi ai calzon Piero in udire
In tal guisa esclamar lo speziale.
Attonito rimase, ebbe a impazzire,
E fiso in osservar portento tale
Divenuto parea, starei per dire,
Come madama Loth, statua di sale.
Per la confusion, per la vergogna
È fuor di se, nè sa se veglia o sogna.
Ma dirovvi ciò che pria non v'ho detto.
Milord nello spogliarsi avendo posti
Al bujo i panni suoi sopra un banchetto,
Dal letto alquanto rimanean discosti.
Solo i calzon si tolse entrando in letto,
E ivi gli avea senza badar deposti;
Onde, siccome avviene in tali casi,
Separati dal resto eran rimasi.
Poi venne Piero, e dei vapor del vino
Ingombro avendo il capo, in dispogliarsi
Al violato talamo vicino,
I panni suoi gittò sbandati e sparsi;
Ed egli al posto dell'adulterino
Accubito ancor caldo andò a colcarsi;
182
Onde di lui fra gli abiti all'oscuro
Dell'Inglese i calzon confusi furo.
Di Giuditta poichè gli urli e gli urtoni
Il credulo destaro irco olandese;
Quei sorse, e por volendosi i calzoni,
Mezzo ubbriaco e sonnacchioso prese
Alla cieca aggirandosi branconi
In iscambio de' suoi quei dell'Inglese.
E bujo essendo in casa e bujo in strada,
Quel che ha in dosso non vede e non vi bada.
Ed or che del compar la strana ascolta
Sclamazion ed il motteggio amaro,
Lo sguardo su i calzon la prima volta
Porta, e a quel lumicin visibil chiaro
Osserva lo spettacolo, e con molta
Sorpresa e delle gioje e del danaro
La ragion vede e monta in tanta furia,
Che correr volle a vendicar l'ingiuria.
Poichè maturamente entrambi pria
Qualche riflessione avendo fatto,
Compreser che non era una magia,
E indovinar la verità del fatto;
Ciò ferì tanto a Pier la fantasia
Che ne divenne furibondo a un tratto,
E giura, che la perfida Giuditta
Farà cadere ai piedi suoi trafitta.
Come mai tanta in te perfidia io scerno ?
Dicea fremendo: io t'ho sì ben trattata,
E tu al delitto aggiungi ancor lo scherno !
Ma di mia man morrai, femmina ingrata,
E anche il tuo nome abborrirò in eterno.
Fe' allor lo spezial questa parlata:
Calma alquanto compar, gli sdegni tuoi,
Tranquillo odimi pria, risolvi poi.
Tu di donna infedel vuoi dunque il fallo
Punir col ferro, e lavar vuoi l'onore
Nel sangue della moglie ? ebben tu fallo;
Ma il delitto, lo scorno, il disonore,
Così pubblico rendi e or nessun sallo.
Fai d'un male ideal real malore.
Pace e gioja del core avrai sbandita,
Perdi onor, beni e forse ancor la vita.
Se della cosa poi rumor non fai
E occulta resterà, la stessa stima
E d'uom d'onor nel pubblico godrai
183
L'opinion, come godesti prima.
E in verità, com'è possibil mai
Che disonor ciò che s'ignora imprima ?
Quanti vi son uomin d'onor, cui fanno
Le mogli infedeltà che non si sanno !
Fa dunque a modo mio; tienti i calzoni,
D'astucci e d'oriuol liberamente
E a tuo piacer delle ghinee disponi.
Poi l'util tuo spregiudicatamente
Con quel di tua moglier si paragoni,
Chi sta meglio di voi ? Il continente
Tu ti godrai per sempre, e il contenuto
Qualche momento ella avrà sol goduto.
Questi lo spezial consigli dava,
E Pier stavasi attento ad ascoltarli,
Poscia di nuovo i bei calzon guardava,
E ribrezzo minor sente in guardarli,
E la faccia bel bel rasserenava.
L'acqua e i consigli suoi volle pagarli
Liberamente con moneta inglese,
Poi congedossi e a casa sua si rese.
E col vasetto dell'acqua cattolica,
E lume acceso poi venne alla moglie,
Che inferma ancor mostrossi e melancolica.
Prendi, Giuditta, le dicea le doglie
Quest'acqua calmerà della tua colica
Io guadagnato ho queste ricche spoglie;
Non parliamo del come: e dall'armario
In grazia tua trarrolle ogni ottavario.
Vedend'ella i calzon che conoscea,
Conobbe ben ch'eran la cosa identica,
Onde confusa e timida tacea.
Gli occhi non osan alzar, che non dimentica
D'esser ver lui di grave colpa rea.
Cronaca d'Amsterdam riporta il vero,
Più infedeltà non fece a mastro Piero.
Boxton le brache tolte per errore
Gettò sdegnoso, perchè ignobil cosa
Eran per sì magnifico signore;
Ma non però le sue ripeter osa;
Bensì vorria la pratica d'amore
Reintegrar colla leggiadra sposa,
Se anche per far che mastro Pier si plache
Debba lasciarvi un altro par di brache.
E con offerte il sontuoso amante,
184
E colla lusinghevole maniera
Di ritrovare il fortunato istante
Per rinnovar quall'avventura spera
Ma rigettò colei ferma e costante
L'insidiose offerte e la preghiera;
E pel contegno e il dolce tuon che tenne
Il marito con lei savia divenne.
E questo, o Donne, a voi dee far vedere,
A voi che siete tenere di core,
Che le buone talor dolci maniere
Ottengon più che il burbero rigore
E le punizion le più severe.
E so ben che non sol siete in amore,
Ma in ogni qualunque altra occasione
Rigide no, ma mansuete e buone.
185
L'ANTICRISTO.
NOVELLA XV.
Le femmine in Germania, o Donne care,
Non son come fra noi maliziose,
Non san tante arti e tant'intrighi usare,
E sono anzi un tantino schizzinose;
Ma vivono alla buona e lascian fare,
Nè stanno a fondo a scrutinar le cose;
E se il parroco dice una bugia,
Credon che il contraddirgli è un'eresia.
Io non parlo di dame e cittadine,
E di quelle che vivono alla moda,
Che queste sono assai scaltrite e fine,
E sanno dove il diavol tien la coda;
Parlo di terrazzane e contadine,
La cui semplicità s'ammira e loda.
Di che per tanto alcun'idea può darvi
La storiella che or io vo' narrarvi.
Era in Germania un giovin cavaliere
Che per fare un pochin di movimento
Le italiche città venne a vedere;
E perchè si facea buon trattamento,
E perchè egli era ricco e forestiere,
Passò per uom di spirito e talento;
Pure a dir vero e senza ch'io l'aduli,
Viaggiato non avea come i bauli.
Ogni insigne pittura aveva vista,
Le antichitadi e le magnificenze;
Di zolfi e gessi avea fatta conquista,
Ed aumentate le sue conoscenze.
Delle donne galanti avea la lista
Di Napoli, di Roma e di Firenze,
Di Milan, di Venezia e di Torino,
Ed avea d'ogni bella il ritrattino.
Ed essendo in Livorno, avea comprato
Per cento piastre un bel Moro africano,
Che su quel littoral dal mar gittato
Fu preso e fatto schiavo e poi cristiano,
Ed in quel di Francesco avea cangiato
L'antico nome suo di Solimano;
E in veste mora e col monile al collo
In Alemagna il cavalier menollo.
186
Tal qual era descrivere vel posso.
Di membra assai traverso, alto, robusto,
Capel riccio, occhio fiero e labbro grosso.
Se di donna vedea qualche bel fusto,
Il diavolo parea gli entrasse addosso,
E la man le cacciava entro del busto
A prima vista: in questo punto solo
Insolente, e nel resto buon figliuolo.
Ma le femmine appena lo vedeano,
Fuggian da lui perchè ne avean timore,
Che per lo più mal sofferir poteano
Quella figura sua, quel suo colore.
Queste ed altre ragion sì l'affliggeano,
Ch'ei stava sempre pien di mal umore;
E fra se stesso in linguaggio moresco
Dicea sovente: oh sì per Dio sto fresco !
M'hanno voluto far cristiano, e m'hanno
Conferito il battesimo e la cresima;
Creder cose stranissime mi fanno,
Digiuno le vigilie e la quaresima,
Odo prediche e messe tutto l'anno,
Che dicon sempre la cosa medesima;
E spesso a un prete o a un frate io son astretto
Di dir ciò che ho pensato e fatto e detto.
Fin del pensier la libertà mi toglie
Legge, per cui neppure un desidero
Di donna lice aver, se non è moglie;
E fin quelle ch'esercitan mestiero
Di soddisfar del pubblico le voglie,
Tutte rigettan me, poichè son nero.
Tal si lagnava il povero Francesco,
E spesso ripetea: per Dio sto fresco.
Coll'uso intanto e coll'udir frequente
Il tedesco linguaggio avea per via
Appreso a cinguettar passabilmente;
Al che non giunse mai la scienza mia;
Che costor per le lingue hanno sovente
Facilità straordinaria, o sia
Che di poch'altre idee la mente han pregna,
O che necessità gran cose insegna.
Era da molti dì trascorso maggio,
E volgea la stagion verso il solstizio,
Quando dell'alta Stiria in un villaggio
Una sera fermaronsi ad ospizio,
Che assai restava del diurno raggio,
187
E il Moro, del padron per lo servizio
Sbrigata ogni faccenda necessaria,
Andò fuor del villaggio a prender aria.
Nè guari essendo ancora ito lontano,
Soletta vide giovin contadina,
Che sul campo scegliea l'erbe dal grano,
E Catel si chiamava o Caterina;
Lieta cantava ad alta voce, e il piano
Eccheggiava d'intorno e la collina;
Ed era una belloccia forosetta,
Se non che un pochettin salvatichetta.
Figliuola la credean molti del loco
D'un padre abate di sua madre amico,
Il qual finì con impregnarla il gioco;
Ma questo era un discorso incerto antico.
Comunque sia però che importa poco,
Il mio racconto proseguendo io dico,
Che il Moro per vederla meglio in viso
Sopra le venne cheto ed improvviso.
Ella che timid'era per natura,
Nè mai veduto aveva un uomo nero,
L'insolita in mirar strana figura
Credette ch'egli fosse il diavol vero;
Onde tutta tremante di paura
Per li campi fuggì fuor di sentiero,
E co' capelli sparsi e sbigottita
Gridando gia: misericordia, aita.
Egli s'arresta e la rimira, e alfine
Risolse d'inseguir la fuggitiva,
E dove del boschetto era il confine,
Per lo spavento ansante e semiviva
Ei la raggiunse e l'acciuffò pel crine.
Allora sì, ch'ella esclamando giva:
L'anima, diavol mio, lasciami stare,
E fa del corpo poi quel che ti pare.
Colui la stringe avidamente e abbraccia,
Di feroce libidine anelando
Ella in vedersi allor fra le sue braccia,
L'anima, ripetea, ti raccomando.
Mentre ei le man sotto il guarnel le caccia,
L'anima, rispondea, non ti domando;
Indi la bacia e l'accarezza e l'anima,
Dicendo, il corpo io cerco sol, non l'anima.
E s'ingegna calmar con tal protesta
Il terror della semplice Tedesca;
188
Indi trattala dentro alla foresta,
Supina la corcò sull'erba fresca,
E su in fretta tiratale la vesta,
Le fe' quella tal opra alla moresca.
Torser le ninfe i sguardi casti e schivi,
E sghignarono i satiri lascivi.
Se affamato leon smarrita agnella
Fuor di mandra trovò, l'assale e sbrana,
E poscia che n'ha piene le budella,
Lecca il muso sanguigno e si rintana:
Cosi colui, che colla villanella
Sfogò la voglia della carne umana,
Torna al villaggio, e dopo un tal lavoro
Le storie più non parlano del Moro.
Ma la contadinella in quell'affare
A poco a poco erasi omai col Nero
Resa più mansueta e familiare,
E avea deposto il suo timor primiero,
E solamente in quella singolare
Avventura tenea fisso il pensiero,
E ritornando a casa, per la via
Così in se stessa ragionando gia:
Questo diavolo alfin qual si dipinge
Non è sì brutto e spaventevol mostro,
Assai peggior di quel ch'egli è lo finge
L'altrui capriccio e lo spavento nostro;
La maggior sua bruttezza si restringe
Unicamente a quel color d'inchiostro,
E benchè sì malefico lo fanno,
Pur se si lascia far, non fa gran danno.
Giunta ove lei la vecchia madre attende
Sull'usciolin della natia capanna,
Nè dell'indugio la ragion comprende,
E d'ogni incerto mal teme e s'affanna;
Non le narrò le vere sue vicende,
Ma con finta ragion l'accheta e inganna;
Che di narrar la cosa schiettamente,
La vergogna e il pudor non le consente.
Fratelli non avea nè avea sorelle,
E il genitor le tolse acerba morte,
Che un campo, un orticello, e poche agnelle
Lasciato avea alla figlia e alla consorte;
E liete e contentissime fra quelle
Campagne esse vivean della lor sorte,
E provvedean con latte, erbe e fromento,
Al necessario lor sostentamento.
189
Intanto assai visibile e sicura
Nella figlia apparia la gravidanza;
E benchè di celarla essa procura,
Pur la madre del vero ebbe dottanza,
E attonita di simile avventura,
E minacciosa a lei faceva istanza
Per saper chi stat'era quel bel fusto,
Che d'impregnarla s'era preso gusto.
Di color si cangia ella e si confonde,
Sospira e piange e favellar non osa.
La madre insiste e vuol saper; laonde
La figlia a voce bassa e vergognosa
Essere stato il diavolo risponde.
Il diavol, figlia ! e come mai tal cosa ?
Disse la madre tutta stupefatta,
Il diavolo ! eh va via, che tu sei matta.
Il diavol, disse allor la sempliciona,
Il diavol, mamma mia, pur troppo è stato
Che me l'ha fatta, il diavolo in persona,
Ed egli stesso non me l'ha negato.
E posso dir che l'ho passata buona;
Poichè del corpo sol s'è contentato,
Che, se gliene prendeva fantasia,
L'anima e il corpo si portava via.
Oh com'egli era nero ! oh come brutto !
La madre che stuprata esser la figlia
Del diavol ode, e che ne ha in corpo il frutto,
E smania e si dispera e si scapiglia,
Che facil era troppo a creder tutto,
Non sa che farsi, e alfin pur si consiglia
Gir con essa al curato per intendere
Che far si deggia e qual partito prendere.
Comunemente il parroco del loco
Per beffa era chiamato fra Cucuzza,
Solenne ubbriacone ed uom da poco,
Che dopo qualche lieve faccenduzza,
O beveva o pipava accanto al foco,
E in guisa tal coll'alito la puzza
Mandava fuor dell'indigesto vino,
Che non se gli potea star da vicino.
Lo ritrovar che del buon vin di Buda
A spessi tratti iva votando un vaso,
E sonnacchioso e pipa e beve e suda.
Come bene instruito e persuaso
Del fatto fu da lor: corpo di Giuda !
190
Esclamò, figlia mia, questo è un gran caso,
Questo è un gran caso, e in questo dire un gotto
Empiè di vino e l'asciugò di botto.
Si volle poi meglio accertar del fatto,
E perchè dubbio alcun restar non possa,
Osservò il ventre e venir volle al tatto.
La giovin bassò gli occhi e si fe' rossa;
Ma quei di maraviglia sopraffatto
Tasteggiando la pancia piena e grossa,
Con voce grave e colla faccia seria
Dicea: non v'è che dir, quì v'è materia.
Oh quante, Cristo mio, n'ho da vedere !
D'impregnarmi finor le parrocchiane
Era stato degli uomini il mestiere,
Ed eran cose lievi e cose umane;
Or se il diavolo anch'esso è puttaniere,
A che servon le gonne e le sottane ?
Oh mondo iniquo ! oh secolo corrotto !
E in questo dir tracanna un altro gotto.
Questo, disse alla mamma, è un grande imbroglio,
Frattanto itene a casa, io da costei
Doman verrò; che esorcizzar la voglio,
Ed in virtù degli scongiuri miei
Il concetto diabolico germoglio
Svanirà tosto e partirà da lei.
Se ne andaron le donne, e il giorno appresso
Alla lor casa andò il curato anch'esso.
Con stola ed aspersorio e sacri arredi
S'accosta a Caterina fra Cucuzza;
Esci, gridando, esci; e da capo a piedi
Con acqua santa in questo dir la spruzza
Esci, demon, da questo corpo, e riedi
Nel foco eterno e nell'eterna puzza:
E gli esorcismi suoi mastica e ciancia,
E le batte la stola sulla pancia;
E fa segni di croce, e in questo mentre
Reliquie addosso ed agnusdei le attacca;
Ed ordina al demon che parta ed entre
In corpo d'una troja o d'una vacca.
Ma non per questo già dal di lei ventre
Il feto diabolico si stacca;
Che scongiuro non v'è potente a segno
Di votare alle donne il ventre pregno.
E benchè col breviario e col vangelo
E con altri suoi sacri scartafacci
191
L'alta interponga autorità del cielo,
Pur possibil non è ch'indi lo scacci;
Onde infiammato alfin di santo zelo
Proruppe: ebben se ci vuoi star tu stacci,
E giacchè non vuoi darmi attenzione,
T'abbandono alla tua dannazione.
Così dal vano esorcizzar desiste
E alla vecchia dicea: troppo ostinato
Questo diavol mi par; poichè resiste
Persino all'ordin dell'esorcistato.
Or, vecchia mia, tutto l'affar consiste
In saper cosa il cielo ha destinato;
Onde aspettiam che la faccenda vada
Per l'ordinaria e natural sua strada.
Cui la vecchia rispose: oh naso in tasca !
Il compenso è assai facile e sicuro;
Ma questo egli è un saltar di palo in frasca.
Se si debbe aspettar che sia maturo
Il conceputo feto e il putto nasca,
Potessi fare a men dello scongiuro;
Ma giacchè il fatto non si può disfare,
Si cerchi in parte almen rimediare.
Se di far tale affronto alla mia figlia
La strana fantasia venne al demonio,
E con tal atto nella mia famiglia
Scolpì del disonor l'infame conio,
Perchè costui da voi non si consiglia,
Che con un susseguente matrimonio
Ripari il fallo, e, come far si suole,
In tal guisa legittimi la prole ?
Rise il parroco a tai ragionamenti
E disse: vecchia mia, ciò non cammina:
Pel diavol non son fatti i sacramenti,
Ch'egli è incapace di grazia divina;
E questi son di grazia ampie sorgenti,
Come insegna il Diana e il Bonaccina;
Ma lasciate che il caso io cerchi e trovi
In alcun de' casisti antichi o nuovi.
Poichè sebben la gravidanza è istorica,
Pur esser vi potria del problematico;
Perciò studiar conviene, e la teorica
Convien poscia adattare al caso pratico;
Nè si può dar risposta categorica,
Se non è il fatto categorematico.
E questo ammette senso o parabolico
O mistico o anagogico o simbolico.
192
Questa colui parlò lingua bisbetica,
Perchè applicossi ne' licei monastici
Alla filosofia peripatetica,
E ad altri poi passò studi fantastici
Della teologia mistica e ascetica;
Ond'era avvezzo a quei gerghi scolastici,
Che oscuri e ignoti son comunemente
A chi li proferisce e a chi li sente.
Ed essendo d'ingegno grossolano,
Sì fatti studi aveangli messo in testa
Di chimere un miscuglio informe e strano,
E confusa d'idee massa indigesta;
Pur tuttavia con quel linguaggio arcano
Al volgo ignaro imposturar non resta,
Ma per costume sul parlar solea
Senza punto saper ciò che dicea.
Ma siccome la cieca opinione
Tuttor venera ciò che non intende,
Perciò la vecchia a quelle parolone
Ignote, impercettibili e stupende,
Gran scienza nel parroco suppone,
Nè cerca più, nè più saper pretende.
Dell'uova e del formaggio gli diè poi,
Ed egli se n'andò pe' fatti suoi.
Vari libri egli avea confusi e misti
Fra la polvere dentro uno scaffale,
Espositori, interpreti, casisti,
Ristretti di canonica e morale,
E scotisti e tomisti e molinisti,
E guide per la via spirituale,
Pillole per purgar da ogni delitto,
E andare in paradiso ritto ritto.
La vita dell'arcangiol Gabriello,
L'elogio del saur craut in tedesco,
Ricerche sul linguaggio dell'uccello,
Vari riflessi sopra il chifel fresco,
Dialoghi fra Enoch e Farinello,
Paralello fra Enea e san Francesco,
Gli usi e i costumi de' Preadamiti,
Struttura del budel de' parasiti:
Ragionamenti sull'uovo pasquale,
Metodo d'accordare le chitarre,
Le dispute fra il fiasco e l'orinale,
I pensieri al'Ausburst e di Gasparre,
Gli amori di fra Carlo speziale,
193
La fanciulla viennese in Temisvarre,
E simili libercoli parecchi,
E una raccolta di lunari vecchi.
E famosa in que' luoghi e rinomata
Era la libreria di fra Cucuzza,
Ond'ei credito avea fra la brigata
Che le cose non ben pesa e sminuzza.
Or mentre, ai libri suoi dando un'occhiata,
Su i titoli al di fuori il guardo aguzza,
In quella biblioteca insulsa e macra
Trovò una vecchia e rosa Biblia sacra.
La prese e spolverolla il buon curato,
L'aprì, poi la posò sul tavolino,
Ed ei sopra una seggiola sdrajato
In casacca e pianelle e berrettino,
Con pipa in bocca e la bottiglia allato
Ogni giorno leggevane un tantino,
Per veder se per sorte in qualche passo
Si parli d'un figliuol di Satanasso.
Trascorre alla sfuggita e a tratti a tratti
Di Salomone i libri e di Mosè;
Diè un'occhiata in passando ai detti, ai fatti
De' profeti, de' giudici e de' re;
Lesse l'epistole, i vangeli e gli atti,
E ciò che in ambo i testamenti v'è:
S'arresta alfin sull'opre dell'enfatico
Apostolo Giovan detto l'estatico.
Quanto del diavol e Anticristo ei scrisse
Nell'epistola prima al capo quarto,
Quanto nella divina Apocalisse
Su ciò qua e là trova indicato e sparto,
Tutto pareva a lui che convenisse
Di Caterina all'imminente parto;
E da' profeti già fosse previsto,
Che del diavol figliuol sarà Anticristo.
Pensa, riflette, medita e combina,
Esamina, confronta, e pipa e beve,
Quindi conclude alfin che Caterina
Questo Anticristo omai partorir deve,
Per cui del mondo la final rovina,
E del genere uman accada in breve,
E già facendo gia nel suo cervello
Fra il vero e il falso Cristo il paralello.
Il vero Cristo fra disagi nacque,
D'agi Anticristo n'avrà pochi o nulla;
194
Concetto esser di vergine all'un piacque,
L'altro concetto è ancor d'una fanciulla;
Quegli bambino in un presepio giacque,
L'altro in una capanna avrà la culla;
E finalmente fece il paragone
Di fra Cucuzza e il vecchio Simeone.
E persuaso di tal suo pensiero
Chiude e ripone la sacra Scrittura,
Credendo d'aver colto il punto vero;
Poscia vanne alla vecchia e l'assicura,
Ch'egli omai discoperto ha il gran mistero,
Che si celava in quella impregnatura
Indi tutto per ordine spiegolle
Con gravità ridicolosa e folle,
Come le sacre pagine han predetto,
Che un dì il diavolo avrebbe il sen fecondo
Reso d'una fanciulla, onde concetto
Saria chi poi pervertirebbe il mondo,
E che costui sarà Anticristo detto,
Ch'ei vide dopo un meditar profondo,
Ch'esser dovrà per volontà divina
Anticristo figliuol di Caterina.
Anticristo figliuol di mia figliuola !
La vecchia esclama, e piange e si scarmiglia,
E parimenti a Caterina cola
Di lagrime una pioggia dalle ciglia.
Fra Cucuzza entra in mezzo e le consola;
Taci, madre, dicendo, e taci, figlia.
Turbarsi non convien se il mondo casca;
E soggiungea la vecchia: oh naso in tasca !
Voi, fra Cucuzza mio, troppo indolente
Siete, se deggio dir la verità;
Ma pur prendere un qualche espediente
Circa a questo Anticristo converrà.
È ben che si procuri unitamente,
Ch'egli non giunga alla matura età;
Acciò che non perisca l'uman genere,
Nè l'universo sia ridotto in cenere.
Per prevenir l'universal disgrazia
Coll'ombellico sciolto io lascerollo,
O tal altro farogli esempligrazia,
Siccome appunto si vuol fare a un pollo.
Destramente si può di buona grazia
Dargli occorrendo anche una stretta al collo;
Me ne saprebbe mal, ve lo confesso,
Ma per lo ben comun tutto è permesso.
195
Non è buona moral, nè si contiene,
Magistralmente il parroco rispose,
Di fare un mal per procurare un bene.
In questo mondo, vecchia mia, le cose
Convien lasciarle correr male o bene,
Siccome il sommo Facitor dispose.
Se Anticristo dee nascere, che nasca
E soggiungea la vecchia: oh naso in tasca !
Dopo discorso tal lasciolle il frate,
Tornando alla parrocchia, e vergognosa
Come fan le fanciulle ingravidate
La Caterina si terrea nascosa;
Poichè fra le persone accostumate
Con quella pancia grossa e scandalosa
Farsi veder così pubblicamente
Non saria stata in ver cosa decente.
La vecchia madre che con lei soggiorna,
E vede che del ventre ognor la cute
Se le tende vie più, spesso la torna
A interrogar sulle cose accadute,
Se avea la coda il diavolo e le corna.
Le corna, mamma mia, non le ho vedute,
La figlia rispondea, ma per la coda
Vi posso dir che l'ha massiccia e soda.
Cos'ei ti disse e come l'hai capito ?
Seguia tuttor la madre a interrogarla,
Qual linguaggio ei parlava ? Oh che quesito !
Senza dubbio il tedesco il diavol parla,
Ma non lo stirian pretto e pulito,
Quantunque egli opra più di quel che ciarla;
Rispondeva la figlia, ed osservai
Ch'ei fe' poche parole e fatti assai.
Così la vecchia s'intrattien sovente
Colla gravida figlia a chiacchierare,
E del diavol si lagna amaramente,
Perchè seco si volle imparentare
In maniera illegittima e insolente.
Chi l'avrebbe potuto indovinare,
Quindi esclamava in tuon dolente e tristo,
Ch'io dovessi esser nonna d'Anticristo ?
Per quei villaggi intanto in ogni intorno
Una varia confusa diceria
Erasi sparsa, che fra qualche giorno
L'Anticristo fra lor nato saria;
E in breve si vedrebbe far ritorno
196
Per predicargli contro Enoch e Elia;
Onde n'avvien, che ognun tema e trasecoli
Si vicina veder la fin de' secoli.
La fama allor su le veloci penne
Mille menzogne attorno divulgò;
Esser nato Anticristo altri sostenne,
D'averlo ancor veduto altri affermò
Chi le intraprese fabbriche trattenne,
Chi dagli studi e dai lavor cessò,
Chi preci e penitenze a far si mise,
Chi temè, chi stupì, chi se la rise.
Qualcun d'aver m'ha detto in Stiria visto
Libriccin sul color di cui la cute
Tinta, giusta i profeti, avrà Anticristo.
Se bianco egli sarà vi si discute,
Di color terreo, giallo, o nero o misto,
E dispute contien, che sostenute
Furo allor su tal punto in qualche scuola
Di Stiria, di Carintia e Carniola.
In oltre fra le opinion vulgate
Sull'origine sua o vere o false,
Ma che anche a tempi nostri accreditate
Fra i teologi son, quella prevalse,
Ch'ei debba d'una monaca e d'un frate
Nascer; pur le ragion di cui si valse
Frate Cucuzza, e ch'io già v'accennai,
In Stiria allor parvero forti assai.
Era di già compito il nono mese,
Quando sul far del giorno una mattina
A Caterina un doloretto prese,
Che del parto annunciò l'ora vicina
Corse la madre che lagnar l'intese
Ponza, dicendo, ponza, Caterina.
Ed ella ponza e mugola e si duole,
Ohi ! ohi ! gridando, e venne fuor la prole.
La diligente assidua genitrice,
Che accostumata era per uso antico
L'ufficio a praticar di levatrice,
Raccolse il parto e gli legò il bellico.
Parea che avesse all'esito felice
Concorso la natura e il cielo antico;
Quando a un tratto la vecchia osservò cosa
Oltre ogni creder suo maravigliosa.
Osservò la neonata creatura
Partecipar dell'uno e l'altro sesso;
197
Stupisce, nè ancor ben se n'assicura.
Ponsi gli occhiali e guarda più d'appresso,
E sopra la femminea fessura
Scorge il viril brandelloncino annesso;
E tasta e torna a ritastar col dito
In somma egli era un vero ermafrodito,
Forse così l'incredulo Tommaso,
Allorchè vide il Salvator risorto,
Non ne rimase appieno persuaso;
E a vero direi non avea gran torto,
Posciachè egli è straordinario il caso
Che dopo il terzo dì risorga un morto;
E toccar vuole e ritoccar con mano
Pria di creder miracolo sì strano.
La figlia che lei vede attenta stare,
Costì, le domandò, che fate voi ?
Stommene, rispond'ella, a meditare
La storia singolar de' fatti tuoi,
Che pria ti fai dal diavolo impregnare,
E l'Anticristo partorisci poi,
Ma un Anticristo di natura gemina,
Voglio dir mezzo maschio e mezzo femina.
Voi, la figlia dicea, con perdon vostro
Avete di pensar nuova maniera.
Far possiam forse i figli a modo nostro,
Come si fanno li bambin di cera ?
Siasi femmina o maschio o siasi un mostro,
Lo partorii qual nel mio ventre egli era;
E poi come sian fatti gli Anticristi,
Io, mamma mia, nol so, che non gli ho visti.
Peraltro in lui la traccia assai distinta
Dalla paterna origine appariva,
Naso schiacciato e fronte bassa, e tinta
Avea la pelle di color di oliva.
La vecchia intanto con gonna succinta
Lo lavava ben bene, e lo puliva,
E poscia in fretta andossene al curato
Col grande annunzio che Anticristo è nato.
Quand'ella sopraggiunse, ei desinava
Con un certo chirurgo Cornembach,
Amico suo, che di colà passava
Per indi poi portarsi a Laubach,
Ove a curare una signora andava,
Moglie di quel Landsangmann Scrotembach;
Bravo era e fatte avea cure immortali,
Massime in certo genere di mali.
198
Frate Cucuzza un desinar gli dette,
E invitovvi fra Bista cappuccino,
Grande amator di nuove e di gazzette,
Ed un romito ch'era là vicino,
Uomo pieno di celie e barzellette,
onde detto venia fra Burattino,
E ser Febronio medico locale,
Uom grave che parlava poco e male.
Erano già sul fin del desinare,
E il caso singolar di Caterina
Dava loro materia al ragionare,
Allorchè l'anelante contadina
Venne il seguito parto ad annunziare,
Ch'era mezzo bambin, mezzo bambina.
Fra Cucuzza levossi a un tratto in piè,
E andiam, disse, a veder che diavol è.
Tutti sen van dietro alla vecchia, ed ella
Alla natia capanna li conduce;
Frate Cucuzza allor così favella
Quasi inspirato da superna luce
I Magi un tempo fa guidò la stella,
A noi, fratelli, or questa vecchia è duce.
Fra Burattin stupido esclama: oh bello
Fra una stella e una vecchia il paralello !
Tosto che fur nella capanna entrati,
Prese il bambin la vecchia e fessi avanti,
E in alto sostenendol d'ambo i lati,
Portollo in giro a tutti i circostanti,
Come sogliono fare i preti e i frati
Che le reliquie mostrano de' santi,
E guatategli, disse, fra le cosce;
D'ambo i sessi il segnal vi si conosce.
Tutti posersi in gruppo attentamente
Ad osservar con molta bramosia,
E chi con l'occhialin, chi con la lente,
Di quelle parti fa la notomia.
Fra Cucuzza diceva: è convincente
Che l'Anticristo ermafrodito sia;
Che in ambo i sessi un che sia maschio e femina
Con più facilità l'error dissemina.
In verità per me, disse il romito,
Ella sarebbe pur la bella cosa,
Se divenir potessi ermafrodito,
Che or potrei far da sposo ed or da sposa,
E a un tempo stesso aver moglie e marito.
199
Questa è una novità maravigliosa,
Questa è una novità, disse fra Bista,
Da fare onore ad ogni novellista.
Grandi sventure in avvenir vedrete,
Disse Febronio medico locale,
Gli ermafroditi son come comete
Che sempre presagiscono del male.
Per carità, fratelli miei, tacete,
Il chirurgo, che in testa avea del sale,
Tacete, disse, che se aprite bocca,
Non dite cosa se non stramba e sciocca.
Quel che dal volgo ermafrodito è detto,
E credesi talun strano portento,
Egli è una vera femmina in effetto,
E ciò che sembra a voi viril strumento
Di tutti i notomisti a comun detto
E per l'universal esperimento
Dell'accademie più famose e floride
Ei non è che il medesimo clitoride.
E quantunque v'appar prepuzio e glande,
E da erettori muscoli elevato
Veggasi divenir più teso e grande;
Pure uretra non ha, nè perforato
Per entro egli è, nè umor trasmette e spande,
Nè a quelli stessi offici è destinato,
Nè formollo natura all'uso istesso
Che l'arnese viril nel nostro sesso.
Sorridea ser Febronio, e di cotesta
Anotomia d'intendersi fe' vista,
Approvando coll'occhio e colla testa;
Ma fra Cucuzza e il cappuccio fra Bista,
Più ancor fra Burattin sorpreso resta.
Di beon, di buffon, di novellista
Mestier facean soltanto, e un anatomico
Discorso lor parea bislacco e comico.
Ma o fosse, come alcun crede e assicura,
Che la materna fantasia turbata
Da immagini d'orrore e di paura
Agisse sulla prole ancor non nata;
O fosse che più tosto la natura
L'avesse mal costrutta e organizzata,
Infin dal nascer suo ben si vedea
Che viver lungamente non potea.
Laonde in mezzo a quei ragionamenti
In quella si osservar sì forti e tali
200
Convulsioni e tai scontorcimenti,
Che Cornembach, il qual vedea de' mali
Le interne qualità dalle apparenti,
Giudicolle per sintomi mortali,
E protestò ch'era il miglior partito
Di tosto battezzar l'ermafrodito.
Io battezzare, il parroco rispose,
Qu figlio del demonio, un Anticristo !
Ah non sia ver che mai sì fatte cose
Faccia un par mio, buon partigian di Cristo.
Il cerusico allor non si scompose;
Ma disse: asino tal non l'ho mai visto;
Battezzatelo pur, che fra poch'ore
Vi posso dir che l'Anticristo muore.
Questo tuono autorevole l'indusse
A uniformarsi e a non far più parola;
Onde l'affare tutto si ridusse
A ritrovar un nome, un'idea sola,
Che analogo alla donna e all'uomo fusse.
Chi Maria vuol nomarlo e chi Nicola,
Chi Anna, perchè al dir di san Matteo
Vi fu un Anna, pontefice giudeo.
Stabilito così, fu battezzato
L'ermafrodito e lo chiamaron Anna,
Ed ei da nuovi tremiti agitato
Fra mortali agonie smania e s'affanna.
D'acqua santa aspergevalo il curato,
E di san Nicolao gli diè la manna;
Ma quei gli ultimi diè tratti di vita,
E tutta la faccenda fu finita.
Or questo mal, che sol de' nervi è vizio
E rachitide è detto e infantigliuole,
Quello egli è che di streghe un malefizio
Credesi dalle nostre donnicciuole;
Ma effetto fu, del parroco a giudizio,
Delle sacre esorcistiche parole.
Comunque sia, la creatura uccise
E la calma negli animi rimise.
Or se provaste in cor pena o sconforto
Che del mondo la fin fosse imminente,
Voi lo provaste, o care Donne, a torto.
Durerà ancora il mondo, e lietamente
Statene pur, che l'Anticristo è morto,
Nè un altro nascerà sì facilmente
A disturbar con panici timori
Le contentezze vostre e i vostri amori.
201
IL CAVALIER SERVENTE.
NOVELLA XVI.
Il Cavalier servente egli è un mestiere,
Che il suo bene e il suo male in se contiene.
Se per elezion, se, per piacere,
Servir si può donna che s'ama, è un bene.
È un mal, se per riguardo o per dovere
Servir donna spiacevole conviene.
Voi sol riguarda il primo caso, o Donne;
Del secondo in quest'oggi io parleronne.
Fu certo Ilbrando in una gran città
Pria finanzier, poi nobil divenuto,
Perchè un diploma avea di nobiltà
Per danari dal principe ottenuto;
Che come per danar talun si fa
Abito di vigogna o di velluto,
Onde osservabil ai baggei si rende,
Così oggi nobiltà si compra e vende:
Non così onor, virtù, talento e senno,
E altri pregi dell'alma illustri e chiari,
Che al retto oprare o all'indole si denno,
E al merto personal, non ai danari
Che mai virtude al possessor non dienno.
Se ciò non fosse, i ricchi e i millenari
L'onor potendo e le virtù comprare,
Virtuosi sarian; lo che non pare.
Ma non usciamo fuor del seminato,
Nè andiam del nostro tema oltre i confini.
Parliam del finanzier nobilitato
Per lo diploma a forza di quattrini.
Un figlio avea costui buono e sensato
Che vita non facea co' damerini,
Quantunque atto da un tempo al matrimonio,
E lo chiamavan il contino Antonio.
Mosso da vanità che lo consiglia
Al contino ei volea dare in consorte
Damigella di nobile famiglia;
Nè cal, se dote alcuna ella non porte.
Perciò adocchiò d'un gentiluom la figlia,
Cui scarsi doni avea fatti la sorte;
Ma d'alta stirpe che perdea l'origine
D'antichità per entro la caligine.
202
Possedendo egli un ricco patrimonio,
Non si curava il finanzier di dote,
E accoppiar brama al suo contino Antonio
Colei che fu d'un marescial nipote
Perocchè per sì fatto matrimonio
Colle famiglie più distinte e note
Accomunando il sangue suo, potrallo
Col sangue mescolar del maresciallo.
Per isposa al contin richiesta fenne,
Ma passar gliela fe' per la trafila,
E solo a certi patti alfin l'ottenne;
Ch'ei debba assicurar trecentomila
Lire per sopraddote si convenne;
E in oltre, come ognor più o men si stila,
Assegnarle ogni mese lire mille
Per appannaggio che diciam le spille.
Ildegonda chiamata era la sposa,
Giovin, ma non amabile nè bella,
Superba, incontentabil, dispettosa,
Nel cor l'astio avea sempre e la rovella;
Onde a dir vero era difficil cosa
Propension d'amore aver per ella;
Ma il docile contin, che non amolla,
Per compiacere al genitor sposolla.
Come la sposa in casa entrò d'Ilbrando,
Il disordine entrovvi e lo scompiglio,
E l'ordine e la pace andonne in bando.
Non udia mai ragion, priego o consiglio,
E brusco esercitava altier comando,
E spesso rinfacciava al padre e al figlio
L'onor che fece a finanzier volgari,
In casa loro entrando una sua pari.
Onde parea non già moglie indulgente,
Ma venuto fra lor fosse il demonio:
Pur send'ei ben complesso, assai sovente
L'altiera moglie il mansueto Antonio
Di mala grazia imperiosamente
Obbligava ai dover del matrimonio,
E il contin suo malgrado in casi tali
i doveri adempia sacramentali.
Tutto questo però non vuol dir mica,
Ch'ella nel resto e savia fosse e casta,
E di fe conjugal rigid'amica;
Benchè sformata dal vajuol rimasta
Facil le fosse rimaner pudica.
203
Era femmina ricca, e tanto basta
Poichè alle ricche femmine galanti,
Sian brutte pur, non mancati mai gli amanti.
Favellar di coloro avrei ribrezzo,
Vili operai sordidamente avari,
Che di drudo al mestier mettono un prezzo,
E l'adulterio vendon per danari,
Dannate alme all'obbrobrio ed al disprezzo:
Parlo di quegli in società non rari,
Che pongono in profitto e cena e crocchio,
Partite di piacer, teatro e cocchio.
Com'è moda oggidì, varie di queste
Figure appo Ildegonda eran sovente.
Un però di costor, chiamato Alceste,
Stavasi assiduo ognor non che frequente,
E ai pubblici spettacoli e alle feste
Seco sul piè di cavalier servente
Mostravasi, e al passeggio e all'adunanza
Seco spess'era e alla toletta e in stanza.
Rozzotto alquanto, a dirla fra di noi,
Ma di complession ben fatto e forte
Fu Alceste, e nel vigor degli anni suoi.
E come dunque un nom di questa sorte,
Probabilmente mi direte voi,
Come mai potè indursi a far la corte
A sì spiacevol donna, aspra, iraconda,
E sì poco gentìl, come Ildegonda ?
Certamente il quesito, o Donne, è giusto.
Questo è ascoltar e dimandar con frutto,
E questo, o Donne, è aver criterio e gusto;
Ond'è dover, ch'io vi contenti in tutto.
Come starsen potea d'uomo un tal fusto
Presso ad oggetto sì spiacente e brutto,
Una ragion debbe anche a parer mio
Esservi, e la ragion ve la dich'io.
Fin da' primi anni Alceste avea contratto
Stretta amicizia col contino Antonio.
Quando il notajo pubblico il contratto
Fra i sposi stipulò di matrimonio,
Alceste fu presente, ed a quell'atto
Egli intervenne come testimonio,
E testimonio fu del sì fatale,
Quando si strinse il vincol coniugale.
Poi nelle feste della sposalizia
Non per galanteria, ma sol per brama
204
Di mostrar pel contin grata amicizia
Servì per tutto e accompagnò la dama;
E così a quel mestier bel bel s'inizia,
Che di servente cavalier si chiama.
E un galantuom, se in certi impegni entrò,
A grado suo disciorsene non può.
Si comincia talor per complimento,
Per gentilezza o per convenienza,
E si continua poi per sentimento
D'amicizia, e talor per compiacenza;
E di natura alfine un andamento
Divien d'un atto stesso la frequenza,
Passa in necessità la consuetudine,
E sempre in noi gran forza ha l'abitudine.
Da se stesso per lei rientra in gabbia
L'augello, e il can ritorna alla catena;
Per lei tigre e lion l'ira e la rabbia
Solo alla voce del custode affrena;
Alla soma per lei par che non abbia
L'asin ribrezzo a sottopor la schiena;
Per lei lo schiavo che ognor soffre e stenta
Par che bastone e schiavitù non senta.
Così per abitudine al servizio
Torna Alceste le ferie e i dì di feste
Di cavalier servente al tristo offizio
E la notte il contino e il giorno Alceste
A vicenda di quello sposalizio
Le ingrate sostenean noje moleste
Per amicizia l'un, non per piacere,
Per necessità l'altro e per dovere.
Dunque Alceste trovandosi per uso
All'opera, alle visite, alla messa
Con Ildegonda, e qualche volta chiuso
In camerin colla persona istessa
Senz'alcun testimonio e muso a muso,
Dimesticossi in guisa tal con essa,
Che in tuon familiar talor le braccia
Le palpeggiava e le blandia la faccia.
La noja che sull'anima gli pesa
Un dì per sollevar, di lei sul seno
La man fe' sdrucciolar, e con sorpresa
Durotto alquanto ritrovollo e pieno.
Di ciò Ildegonda non mostrossi offesa;
Ond'egli un certo stimoletto osceno
Sentendo, oltre volea spinger la cosa,
Pur dell'amico rispettò la sposa.
205
Ma troppo ripetute e troppo spesse
Ritornavan sì fatte occasioni;
Lo che parea, che a lei non dispiacesse,
E fors'ella ne avea le sue ragioni;
Onde anche un dì, che le licenze istesse
Ei ripetea, con più vigor gli sproni
Provando dello stimol fornicario
Riversolla sul letto e alzò il sipario.
Alceste ! ... oitù ... e l'amico ! ... e la Megera ! ...
Tutto è van; foja ardente obblia tai cose.
E mi sovvien d'un tal che a scura sera
Le voglie a soddisfar lussuriose
L'amica ito a trovar, che allor non v'era,
L'indugio non soffrì: ciò che dispose
Far colla bella, della bella in vece
Che orror ! con vecchia e brutta fante il fece.
Oibò: Ildegonda borbogliava, oibò.
Cosa questo vuol dir ? ... lasciate stare ...
Via finitela ... Alceste ..., oh questo no.
Ma l'intraprenditor senza badare
A smorfie, a fiotti tai, continuò,
Finchè compì l'incominciato affare.
Levossi allor, dell'opra sua gl'increbbe;
Di se maravigliossi ed onta n'ebbe.
Fiso ella il guarda, e senza far parola
Confuso Alceste e vergognoso e senza
Neppur mirarla in volto a lei s'invola,
E del fatto aver parve erubescenza
Ma trovandosi poi solo con sola
Di nuovo colla solita frequenza,
Noja, facilità, comodo ed ozio
Talor ripeter fegli un tal negozio.
Di ciò si valse poi per intermedio,
Non già da replicar sera e mattina;
Ma perchè gli parea che contro il tedio
Gli dovesse servir di medicina,
Come suol della febbre esser rimedio
Beveron d'erba amara ovver di china;
E per isbadataggine non prese
Cura contro le subite sorprese.
Ben raro egli era, che il contino Antonio
Si portasse al quartier della sua spoglie;
Ma in quel frangente critico il demonio
Non so perchè glien fe' venir le voglie;
Entra, e l'insulto fatto al matrimonio
206
Vide, il piè posto appena in sulle soglie,
E a spettacolo tal restò stupito,
Come in tai casi ognor resta un marito.
La crucciata Ildegonda immantinente,
Della comparsa avvistasi di lui,
Schizzò di sotto al cavalier servente;
E nulla si può far, co' bruschi sui
Modi in partir dicea sdegnosamente,
Che testimone non ne sia costui.
Le creanze io gl'insegno e sempre invano,
Villano nacque e vuol morir villano.
In Alceste il contin tenendo affisse
Le pupille patetiche e pietose,
Con quella brutta diavola, gli disse,
Voi senz'obbligo far sì fatte cose !
E sacramento alcun non vel prescrisse !
Alceste immobil stette e non rispose
Dell'amico al flemmatico discorso,
Tutto pien di vergogna e di rimorso.
Mutolo poscia colle ciglia basse
Partì confuso e colla faccia grama,
E per quanto il contin lo scongiurasse
Di ritornare a corteggiar la dama,
Possibil mai non fu ch'ei vi tornasse.
Ecco il divario, o Donne mie: chi v'ama,
Chi una volta con voi passò bei giorni
Possibile non è che non vi torni.
207
L'ORIGINE DI ROMA
NOVELLA XVII.
PARTE PRIMA.
Benchè, o scherzevol Musa, io ti proponga
Di cantar dell'origine di Roma,
Non sgomentarti e non temer che imponga
Sovra gli omeri tuoi più grave soma,
O che l'eroica tromba in man ti ponga
Per vederti d'allor cinta la chioma.
Conserva, o Musa, pure i consueti
Sali, gli arguti motti e i carmi lieti.
Non io m'adatto le ardite ali al tergo
Per sciorre il vol soll'eliconia cima,
Nè dell'onda castalia i labbri aspergo
Gli eroi per porre e le lor geste in rima.
Marte, non quel che armato d'asta e usbergo
Trofei porta sul dosso o spoglia opima,
Ma canto quel ch'una vestal fe' madre,
E di Remo e di Romolo fu padre.
Apollo, o tu, che un dì carmi dettasti
Sonori e grandi al latin vate e al greco,
Se ancor a me i polmon talor gonfiasti,
Aver non vo' per or nulla a far teco.
T'appellerò, s'è d'uopo, e ciò ti basti.
Oggi un nume minor dee starsi meco;
Rimanti pur colla tua cetra al collo
Fra le vergini Muse, o casto Apollo.
Te, amabil derisor, te, Momo,
Che all'impostura e alla menzogna infesto
Mesci col pianto il riso e il duol col gioco,
E al vizio sei più che ragion funesto.
Tu puoi spesso temprar dell'ira il foco,
E in pigre alme il valor spesso hai tu desto.
Il ridicol che spargi in ogni eccesso
Dilettevol fu sempre ed util spesso.
Ogni città famosa esalta e vanta
Alti principii e fondator possenti,
Ed ai creduli popoli decanta
Di sua divina origine i portenti.
Quei mentre dolce suona e dolce canta,
Pietre appresso si trae; del drago i denti
Semina questi, e dalle pregne glebe
208
Nascono armati i cittadin di Tebe.
D'eccelsi propugnacoli e di mura
La mal protetta Troja Ercole cinse;
Creò l'olivo e ne arricchì natura
Minerva, e con Nettun la lite vinse;
Diè allor nome ad Atene, allor la cura
Ne prese e la protesse e la distinse.
E lo stesso più o men destin d'Atene
Ebbe Sparta, Corinto, Argo e Micene.
O Roma, il di cui nome augusto e tondo
Di famose memorie empie la mente;
Roma, altiera capital del mondo,
Sovra ogni altra città chiara e possente,
Dal cupo dell'età bujo profondo
Or vo' trarre alla luce e far presente
L'origin tua, che in favolose guise
Soffio di dubbia fama a noi trasmise.
D'Antenore e d'Enea la taccia antica
Ch'entrambi fosser traditor di Troja
Nè rinnovar nè esaminar vo' mica,
Perocchè temerei di darvi noja.
Lasciam che ciò ch'ei vuol ciaschedun dica.
Tempo divoratore il tutto ingoja.
Dei vati allor la fantasia bizzarra
I fatti finge e a grado suo li narra.
Seguiti dalle barbare masnade
Duci, Argonauti, Eroi profughi erranti,
Abbandonando le natie contrade,
Invadean gli altrui stati, e gli abitanti
Scacciandone, fondar regno e cittade,
Di vagabondi asilo e di briganti
Come nei tempi poi più a noi vicini
Unni, Tartari, Turchi e Saracini.
E in quelle d'ignoranza e di barbarie
Oscure età le nazioni incolte,
A cui le sussistenze necessarie
Dal potente vicin spesso eran tolte,
Incursioni repentine e varie
Faceano e ruberie frequenti e molte,
E a vicenda soffrir la stessa sorte,
Ch'esse sofferto avean, fero al men forte.
Borghi o terren che angusto giro serra
Le conquiste parean d'un Alessandro
E così dopo la famosa guerra
Venendo il pio Trojan dallo Scamandro,
209
Padron di pochi jugeri di terra
Il picciol re trovò povero Evandro.
E più o men tali fur quei che da Giulio
In Long'Alba regnar sino ad Amulio.
Da Ascanio in poi molti fur d'Alba i re,
Cioè Silvio, Silvio Enea, Silvio Latino,
Indi Alba, ed Ati e Capi, a cui si de'
Poscia aggiunger Capeto e Tiberino,
Che in Albula annegandosi le diè
Suo nome, e Agrippa, e Romolo, e Aventino
Dalla cui tomba nome il colle prese
D'Aventino, indi Proca al trono ascese2.
Il figlio Numitor succede a Proca;
Mal'empio Amulio suo minor germano
Dal regno avito il caccia, e se colloca
Contro ogni dritto sovra il soglio albano;
E quasi tanta iniquità sia poca
Al dir di Tito Livio padovano
Fe' a morte por, come tiranno suole,
Di Numitor la mascolina prole.
E fra se meditando si consiglia
Che di prole futura anche interdetta
La speme sia: di Numitor la figlia
Perciò a farsi vestal da lui fu astretta,
Che Ilia o Rea si nomò, ma di famiglia
Serbando il nome ancor Silvia fu detta;
Che d'Alba ai re Silvii nomarsi piacque
Da Silvio Ascanio, che fra selve nacque.
Quando malgrado suo fu Silvia Rea
Sforzata fra vestali a far passaggio,
Compito il terzo lustro appena avea,
E di beltà quasi divina un raggio
Nella persona e in volto a lei splendea,
Armonioso e lusinghier linguaggio,
Vigor d'alma e di membra; e a chi la mira
Maraviglia, rispetto e amore inspira.
Ma non per starsi chiusa in monistero,
Nè per virginità Silvia era fatta,
E avea per un bel giovine guerriero
Fra i molti amanti passion contratta;
Ma poichè educazione i suoi le diero
Qual dee donzella aver di regia schiatta,
Piamente cred'io, che fosse allora
Che divenne vestal vergine ancora.
2
Si siegue la cronologia di Tito Livio, Lib. I. Dec. I.
210
Silvia all'aspetto di sua dura sorte
Non femminile ed impotente sdegno,
Ma un'anima mostrò costante e forte,
E dell'iniquo usurpatore indegno
A costo del periglio e della morte
A render s'impegnò vano il disegno.
E quando assumon donne impegni tai,
Se assomigliano a Rea, non mancan mai.
Mentre al tempio vestal di sopra a un ponte
La figlia conducean di Numitore,
Da un lato trapassar vid'ella Oronte,
(Oronte è quei che Silvia ha fisso in core)
S'inteser fra di lor l'anime pronte,
Parlar cogli occhi, e si giuraro amore
Gli occhi del cor le passion talora
Esprimer san più che la lingua ancora.
Per non lasciarvi nulla incerto e oscuro
Dirovvi, che ingegnosi e intelligenti
Gli Etruschi, o Donne, in ogni tempo furo;
Come le lor memorie e i monumenti
Prova ne sono e testimon sicuro.
Tra lor non so per quali avvenimenti
A fissarsi Timon di Grecia venne,
Donna etrusca sposò, padre divenne.
Fu Oronte il figlio suo, che mille e mille
Pregi fean dell'amor di Silvia degno;
Qual dal tubo metallico faville
Escon d'igneo vapor carico e pregno,
A un tocco, a un cenno uscian da lui scintille
Di talento, di spirito, d'ingegno.
Timon suo padre avealo istrutto in chimica,
In ottica, in meccanica, in alchimica.
Tai cose allor poco in Italia note
In Egitto Timone apprese avea
Da un filosofo a un tempo e sacerdote,
Che per imposturar sen prevalea;
Costui nomato fu Barzanabote,
Cui Memfi e Tebe omaggi e onor rendea.
Colà Timon dal padre suo Bacullo
Fu mandato a istruirsi ancor fanciullo.
Questi lumi e queste utili dottrine
In quei tempi antichissimi sì rare,
Che magiche arti e facoltà divine
Si credean dal giudicio popolare,
Il proposto a ottener bramato fine
211
Ad Oronte potran molto giovare,
Sendo tra Silvia e lui tacita intesa
Per darsi mano all'amorosa impresa.
Sacro era a Vesta e venerato il loco,
Ove d'intatte vergini la cura
Nutria l'eterno inestinguibil foco,
Che prosperità pubblica o sciagura
Annunzia allor che molto brilla o poco.
E se vergine chiusa in quelle mura
In sacrilego incesto avvien sia colta,
O sen sospetta sol, viva è sepolta.
Con grand'onore era nel tempio accolto
Il sacerdote sol, che pien di zelo
Il core no, ma ben la lingua e il volto,
Le venerate volontà del cielo,
E il destin de' mortali ascoso e involto
Entro un arcano imperscrutabil velo
Grave ai popoli annunzia e manifesta,
E il tremendo rattien cruccio di Vesta.
E siccome custode a un tempo egli era
E inesorabil giudice e censore
Di quella verginal sacrata schiera,
Venia punita con crudel rigore3
Qualunque infrazion supposta o vera,
Se pur ei stato non ne fosse autore;
E dal complice giudice la rea
Innocente era detta e s'assolvea4.
Così ampio campo a esercitar vendette
A coloro fornia quel santo luogo,
E a dare alle colpevoli e interdette
Prave lor passion libero sfogo
Semplici alme così tenean soggette
Di superstizione al duro giogo
I flamini e gli aruspici, che noti
Più ancor col nome fur di sacerdoti.
Oronte, dacchè Silvia a far soggiorno
Fu astretta fra vestali verginelle,
Gia ronzando e spiando e notte e giorno
Ove il quartier di lei fosse tra quelle,
3
Fuor del delitto di sacrilego stupro che solevasi punire pubblicamente e solennemente con seppellire viva la delinquente, le
altre colpe nel monistero commesse erano in privato severamente punite dall'istesso pontefice che nude nella sacristia o altro
luogo recondito le batteva collo staffile, tirata una cortina sulla porta, acciò nessun occhio profano e lascivo potesse
osservare.
Plutar. In Numa Pompil.
4
Rari sono gli esempi nella storia romana di flamini e di pontefici che abusarono del loro credito, seducendo e corrompendo
le vestali che erano sotto la loro custodia e tutela; onde talvolta Roma colmò d'elogi e d'onori il tribuno che accusò il
venerato sacrilego stupratore.
212
Qual lupo che all'ovil s'aggira attorno
Là dove udì belar chiuse le agnelle;
Ma desio di vendetta a Silvia in petto
Mise ingegno e ansietà pari al dispetto.
Le oscure visitò basse officine,
E gl'ignoti reconditi recessi
Per veder se nel tempio atti al suo fine
Obbliati passaggi, occulti ingressi,
O sotterranei fosservi o cantine
Corrispondenti agli edifici annessi.
Cercando alfin cosa trovò che giova
Per lo bisogno suo: chi cerca trova.
Resti d'un antichissimo acquidotto
Trovò che in altra età dal vicin monte
Conducea trapassando al tempio sotto
L'acqua di là non lungi ad una fonte,
Ma da gran tempo abbandonato e rotto.
Questo per fare a se venire Oronte
Opportuno passaggio a Silvia parve,
Potendo un uom ch'usi destrezza entrarve.
Scrisse ad Oronte allor, che si conduca
Presso il colle, che osservi, e troverebbe
Vecchio e rotto canal, vi s'introduca,
Carpone innanzi poi spinger si debbe,
Che sotto al tempio l'acquidotto sbuca,
Ch'ella nel sotterraneo attenderebbe,
E che la felicissima scoperta
Facil rendea la riuscita e certa.
Poscia un involto fa di quello scritto,
E ponsi al finestrin, donde soletto
Spesso ronzar vedea l'amante afflitto:
Come lo vide, gli gittò il viglietto,
Ov'era ciò ch'ei far dovea prescritto.
Anelante a raccorlo il giovinetto
Lanciassi allor, come si lancia ratto
Sovra il boccon che se gli getta il gatto.
Oronte il vigliettin tolse, e lo lesse
Con palpiti di core e con eccesso
Di giubilo; e benchè vi si dicesse,
Ch'ella atteso l'avvia la notte appresso;
D'impazienza ai stimoli non resse,
E scorrer prontamente il giorno stesso
E tutto esaminare il corto volle
Tratto che s'interpon tra il tempio e il colle.
Quando un mucchio di sassi e di rottami
213
Vide elevarsi sopra alla pianura
Ricoperto di bronchi e di sterpami,
S'appressa e vede diroccate mura.
Ne sgombra i sassi e ne divelle i rami,
E nel muro scoprì tenue fessura
Tosto con mani lo spiraglio angusto
Apre e dilata il giovine robusto.
Oronte all'apertura allor s'affaccia,
E osserva colà dentro aprirsi un voto.
È d'antico condotto occulta traccia
Diruto, abbandonato, affatto ignoto.
È inutil, ch'altre omai ricerche ei faccia;
Solitario opportun loco rimoto
È quello: parte dunque immantinente
Per ritornar la sera susseguente.
All'imbrunir della seguente sera,
Preso un piccon per meglio aprire il muro,
Cinge usbergo di cuojo, elmo e panciera;
Che così dalle offese esser sicuro
E garantirsi da punture spera
Nel trascinarsi pel cammino oscuro,
E da insetti difendersi e dai sterpi,
Ovver dai morsi delle ascose serpi.
Qual guastator ad atterrar muraglia
Marcia al condotto, e il foro col piccone
Slarga, e colla coltella i rami taglia
Che ingombrano l'ingresso, indi si pone
Guanti che seco avea di ferrea maglia
Per non sgraffiarse in brancolar carpone;
Di duro cordovan copre i ginocchi
E pon visiera per difender gli occhi.
E dentro l'apertura allor si ficca
E si trascina in giù per lo condotto
La via per scandagliar spinge la picca,
E se serpi si sente attorno o sotto
Le schiaccia, o lor dal collo il capo spicca,
Onde allo schiacciator dieron di botto
Libero passo vipere e lucerte,
E quelle cavità lasciar deserte.
Cigno e bue per amor Giove si feo,
Opre fe' per amor famose e conte
Il forte Alcide, e colla lira Orfeo
Placò il Cerbero, e scese ad Acheronte
Per tirarne Euridice, e nol poteo.
E a rettile simil l'albano Oronte
Per sotterranea impraticabil via
214
La sua vestale a ritrovar sen gia.
Gran danno, che all'età di cui si tratta
Già Cadmo fosse in angue trasformato;
Che se la cosa era per anche intatta,
A Oronte un tanto onor saria toccato;
Ma già la metamorfosi era fatta,
E già Cadmo era in rettile cangiato,
E più per qualsivoglia altro vivente
Non v'era loco a divenir serpente.
Dopo lungo strisciar, di quel passaggio
Alla bocca apparir vide da lunge
Un tenue lumicin, che più coraggio
E più vigor per proseguir gli aggiunge,
E per lo sdrucciolevole viaggio
Ove Silvia attendea pure alfin giunge;
Come a nuoto giungea l'amante fido
Al lampioncin ch'Ero accendea sul lido.
Poichè cessò la prima lor sorpresa
D'ambo trovarsi in quei recessi bui,
Di vivo amor la bella coppia accesa
Affrettossi a dar sfogo ai desir sui;
E avidamente dier mano all'impresa
Famosa, memorabile, per cui
La gran potenza sua Roma dee tutta
Alla vestal verginità distrutta.
Per opre, per idee, per sentimento
Silvia e Oronte due furo anime grandi;
E gli atti di quel lor congiungimento
Fur tutti portentosi e memorandi,
Il principio, il progresso, il compimento.
Ciò basti, nè di più mi si dimandi.
Degnamente narrarli alcun non speri,
E cheti veneriam gli alti misteri.
E la gesta immortal che Silvia Rea
Fe' col giovine alban forse allor parse
Sacrilega opra al primo aspetto e rea;
Ma dee la ferma e stabile nomarse
Pietra fondamental, su cui dovea
La romana grandezza alto elevarse.
In oltre e con ragion io Silvia stimo
Delle monache nostre il ceppo primo5.
Quello che Silvia e il giovine guerriero
5
Chi desiderasse di pienamente conoscere l'analogia che passa fra gli antichi tempii di Vesta e i nostri monisteri di religiose,
fra le costumanze, le cerimonie, le preghiere, gli abiti, la tonditura e la maniera di vestire e di vivere delle vestali e quella
delle monache moderne, veda Du-Boulay, Trésor des Antiquités Romaines, Chap. XV e in altri.
215
Copulativo ebber fra lor negozio
Formò l'original germe primiero,
Che nell'alvo di lei non stette in ozio;
Fu l'embrion di che il romano impero
Ebbe di grande, e il sommo sacerdozio
Come piccola ghianda in se comprende
Quercia che immensi poscia i rami stende.
Poichè Oronte con Silvia il grand'affare,
Affar di tanta mole ebbe compiuto,
Ai lari suoi dovette ritornare
Per lo cammino donde era venuto;
Cammin che reso poi familiare
Più e più volte da lui fu ripetuto,
Finchè in Silvia si scorse a più d'un segno
Di romana grandezza il ventre pregno.
Nè si trattava men che dentro un cieco
Tumulo angusto esser sepolta viva;
Che inesorabilmente il duro e bieco
Sacerdote tai scandali puniva.
E in guisa tal pria ch'esistesser, seco
Roma, il Foro e il Tarpeo si seppelliva,
E dell'impero e della chiesa i capi,
E non maturi imperadori e papi.
Dovea pertanto per ogni riguardo
Pronto trovarsi qualche espediente,
E trovarsi dovea senza ritardo;
Poichè di Silvia il ventre ognor crescente
Nè di rigido flamine allo sguardo
Sfuggir potea, nè della presidente;
Flamine e presidente allor la stessa
Cosa era, che oggi vescovo e badessa.
Onde ambo senza porsi in iscompiglio,
Ma con riflessione assidua ed avida
Di prender savio ed opportun consiglio,
Cosa idear che la vestale gravida
Esente renderà d'ogni periglio,
E l'adottar con alma ferma e impavida;
Che a tortura qualor l'ingegno pose,
Sempre necessità oprò gran cose.
A Silvia disse Oronte un dì: tu sai
Che chi callidità religiosa
Seppe impiegar, per quanto strana mai,
Delle umane a suo grado ognor dispose
Deboli teste. Ove trovar potrai
Chi più 'l sappia di me ? Silvia rispose;
Di verità sì strana e sì funesta
216
Vittime son le vergini di Vesta.
E sai pur anche, Oronte allor seguia,
(E il dei saper, perchè tuttora avviene)
Che qualunque opra più malvagia e ria
Santa tosto e giustissima diviene,
Qualor creduto un nume autor ne sia.
Veri esser tai preamboli conviene,
Ma pur, chiedea di Numitor la figlia,
A quale oggetto ? E Oronte allor ripiglia:
Alla custode e al flamine tu dei
Espor che il dio, cui le guerriere squadre
Offrono le nemiche armi e i trofei,
Cinto dal suo splendor ti rese madre,
E prole a concepir eletta sei
Che la potenza eguaglierà del padre;
E quando all'auge sia di gloria giunto
Sarà in cielo fra i numi anch'egli assunto.
Sorpresa a tal proposta e stupefatta,
Esser di Marte gravida o di Giove
Facile è a dir, ma di provar si tratta,
Allor Silvia rispose, e con qual prove
Sostener puossi asserzion sì fatta,
Onde appo lor credenza e se ritrove ?
Ed ei: sì, sposo tuo crederan Marte,
Se a far ciò ch'io dirò vorrai prestarte.
Prove ti fornirò di tal natura
Che alcun non oserà mai dubitarne,
E mirabil farò veder figura
Che lor sembrerà Marte in ossa e in carne.
Anzi i flamini stessi all'impostura
Peso daranno, onde profitto trarne.
Ciò che in opra da lei debb'esser posto
Allor spiegò, come vedrem ben tosto.
Restati ambo d'accordo e di concerto,
Partissi Oronte, e nella notte appresso
Del buon esito omai sicuro e certo
Vanne al condotto, e non del cuojo istesso
Di cui già si servia, ma ricoperto
Di fine acciar, guardingo entrò nel fesso,
Cinto da capo a piè di piastra e maglia,
Qual guerriero che vada alla battaglia.
Viene al solito ingresso, e per le interne
Vie sdrucciolando va dell'acquidutto.
Poi per le spaziose ampie caverne
Che al vasto tempio spandonsi di sotto,
217
E ove vestigio uman l'occhio non scerne,
Tacito fu dalla vestal condotto,
Come già la fatidica Cumea
Ai regni acherontei condusse Enea.
Da masso immenso in parte opaca oscura
Staccasi e si prolunga ordin profondo
D'arcate di mirabile struttura,
E che le prime età vider del mondo;
Non sai s'opra ell'è d'arte o di natura,
Piè non osa innoltrarsi insino al fondo.
Poichè tutto osservando a poco a poco
Prese Oronte la pratica del loco,
Diè vari cartoccin di greca pece
Ben triturata alla vestal diletta
Per farne uso, che in fatti ella ne fece
Poi dielle in una bella scatoletta
Cannellini di vetro incirca diece,
Che rotti o stropicciati una fiammetta
Rendon, per cui la polve avvien che avvampi,
E gettar sembra allor lucidi lampi.
E tosto che di Silvia alla presenza
Fatta e più volte ripetuta egli ebbe
Per istruzion di lei l'esperienza,
La prevenne di ciò ch'egli farebbe,
E le indicò ciò che d'intelligenza
Fare nel tempo istesso ella e dir debbe;
E poscia che di tutto appien l'instrusse,
Ella in camera sua si ricondusse.
Tosto color che il monaster vestale
Entro degli inaccessi aditi serra,
E attorno al sacro stan foco immortale,
Cupo rimbombo d'armi udir sotterra,
Come di spade urti e percosse, e quale
S'ode in zuffa di truppe armate in guerra.
Ed era Oronte, che col ferro nudo
L'usbergo percotea, l'elmo e lo scudo.
Atterrite tremar le verginelle
A quella scossa orribil repentina:
Altre si rannicchiar nelle lor celle,
Altre prostrarsi a terra e a fronte china
Pregar la dea, che alle sue fide ancelle
Del ciel gli alti misteri e la divina
Sua volontà manifestar si degni,
E plachi i formidabili suoi sdegni.
Intanto (e maggiormente alto stupore
218
L'insolito portento in lor produce)
Di Rea nel domicilio interiore
Vidersi fiammeggiar lampi di luce
Pel finestrin che dà nel corridore;
La presidente allor là si conduce,
E a lei fa con premura ed ansia grande
Su fenomeno tal varie dimande.
Il volto e la persona allor compose
Silvia e, l'arcana volontà del cielo,
O venerabil vergine, rispose,
Qual mi si fe' palese io ti rivelo.
Nuove udirai straordinarie cose.
La luce che vedesti, io non tel celo,
E di qua si diffuse, e qui s'accese.
Poscia in tuono profetico riprese:
È alcun tempo, che Marte in carne e in osse,
Mentre orando stav'io, mi venne innanzi;
Qualche dubbio ebbi allor che Marte ei fosse,
E che fra noi mortali un nume stanzi,
Ond'egli pure alfin determinosse
I miei dubbi a calmar, perciò pocanzi
Cinto della sua gloria emmi apparito,
E d'immortal divinità vestito.
Cose ei mi disse portentose e grandi,
Quai per altro svelar non m'è permesso,
E inutil è che tu me le dimandi,
Che al gran flamine e a te diralle ei stesso;
Poichè in conformità de' suoi comandi
Gli alti oracoli a udirne io e tu con esso
Domani insieme andrem tosto che annotta
Di Vesta nella sotterranea grotta.
Colpì quel fermo tuon misterioso
La presidente, onde da lei di tutto
Quel fenomeno strano e portentoso
Il dì appresso il gran flamine fu instrutto,
Che il grande arcano d'avverar bramoso
Fu a Rea la notte da colei condotto;
E Rea menò la presidente e il prete
Di Marte a udir le volontà secrete.
La notte innanzi dopo il primo saggio
Partissi Oronte da quegli antri bui,
E prese più fiducia e più coraggio
Gli arditi a proseguir disegni sui;
E la superstizione a suo vantaggio
Pensò di trarre e l'ignoranza altrui.
Provvisto d'ogni necessario arnese
219
La notte appresso all'andito si rese.
Pirofori ha con se, che a tempo accesi
A un tratto spanderan per la caverna
Lampi, come testè conto ven resi,
E un corno in oltre e un'ottica lanterna;
E assai pria che color vi fosser scesi,
Pel solito condotto entra e s'interna
Nel cupo sotterraneo, e ascoso stassi
Fra gli archi immensi e i dirupati massi.
Scesi appena color dal monistero,
Ecco uno spettro da lontan rosseggia,
Picciolo in prima, e aspetto ha di guerriero
Che appressando ingrandisce e giganteggia,
E getta dallo scudo e dal cimiero
Lampi di tempo in tempo e sfolgoreggia.
La fulminea vibrò spada a due lamine,
Ed atterrì la presidente e il flamine.
Gli vedi scintillar negli occhi il foco,
Crolla la testa e fa tremar le piume,
E tutto empie di se quel cupo loco.
Color prostrarsi a terra avanti al nume;
Quei s'arretra, si scosta, e a poco a poco
Vie minor ne divien sempre il volume,
E or si perde fra gli archi or riappare,
Più ognor s'impiccolisce e alfin dispare.
Ad ambo i presidenti alto terrore
Occupa i sensi, e va per l'ossa, e inonda
Intimamente il palpitante core,
E scuotersi non san dalla profonda
Sensazion del primo lor stupore;
Mentre Silvia, che andar tutto a seconda
De' suoi desir, de' suoi disegni vide,
Gode e del vano altrui terror si ride.
Come color nel cavernon di Vesta,
La fantasmagoria vidi in Parigi,
Ove in virtù delle tre lire a testa
Vidi le ombre apparir dai regni stigi.
L'ignaro spettator stupido resta,
E le crede arti magiche e prestigi,
Mentre opra son del figurin che dietro
Rifrange i rai per l'interposto vetro.
Scossisi alfin coloro: della guerra
Gran dio, diceano, o tu, la cui feroce
Collera teme il mar, teme la terra,
Svelaci il tuo voler, e ognun veloce
220
Correrà ad eseguirlo; e di sotterra
Parve allor tetra uscir terribil voce,
Che tutta rimbombar fe' la spelonca,
Qual di chi stride entro marina conca.
Oronte er'ei, che colla bocca al corno,
Che aveva a effetto tal portato seco,
Fea cupamente rimbombar d'intorno
In cotal guisa il cavernoso speco;
Come con urlo spaventoso un giorno
Nel laberinto inestricabil cieco
Mugghiò da Teseo avvinto il Minotauro,
O da Alcide trafitto urlò il Centauro.
Tai poscia udiro articolati accenti:
L'alta mia volontà non vi nascondo,
Silvia in isposa elessi, e di potenti
Eroi germe uscirà del sen fecondo,
Che daran leggi alle remote genti,
E all'armi lor soggetteranno il mondo.
Di Marte si rispetti in lei la sposa;
E guai per chi di più ricercar osa.
Talun di profetar non si prefisse,
E caso il porta a profetar talora
Senza saperlo Oronte il ver predisse.
Avvicinassi alla badessa allora
Ed all'orecchio il flamine le disse
Che antifona ei c'intuona, udisti, o suora ?
D'uno sverginamento or qui si tratta;
Forse a quest'ora la frittata è fatta.
E quantunque per quel che ha visto e udito
Per lo terror gli agghiacci il sangue un gelo,
(Ch'il crederia !) di replicar fu ardito,
Perchè ministro si credea del cielo;
Ed a quel dio, che si dicea marito
D'una vergin vestal, pieno di zelo
Disse, che al matrimonio impediente
V'era ostacol non sol, ma dirimente.
O formidabil più del terremoto,
E della peste assai maggior, dicea,
Potentissimo Marte, esserti noto
Debbe che Silvia ha fatto alla gran dea
Di sua verginità solenne voto.
Sacri tai voti son, poi soggiungea;
Venero i tuoi voler divini, augusti,
Ma questa, Marte mio, come l'aggiusti ?
E voce uscì della profonda cava
221
O umanità prosontuosa e stolta,
Tu di voti e di giuri esser dei schiava,
Divinità da voti e giuri è sciolta.
Un ranno ella è che d'ogni colpa lava,
Pregio non tolse mai, ne diè talvolta.
Giove la testa sua vergin conserva,
Bench'ella partorito abbia Minerva.
Il flamine, che attento ognor si stette,
Tai garbugli in udir stupido resta.
Per le strampalerie da Marte dette,
Di Giove similissimi alla testa,
Non men che la badessa, allor credette
Gli uteri delle vergini di Vesta,
E che s'incubo nume opera in elle,
Dopo più parti ancor restan zitelle.
E rammentaron che Giunone ancora
Di far lo stesso ebbe il potere e l'arte,
Allorchè consigliatasi con Flora
Su certo fior s'assise, e per qual parte
Germe l'entrò fecondator s'ignora;
Ma senza opra viril concepì Marte,
Che dei numi al voler natura istessa
Perde tutto il poter, s'annulla e cessa.
Se terror vano o strana idea perviene
A invadere e a ingombrar le umane menti
D'abituati pregiudizi piene,
Mistero in tutto veggono e portenti.
Più il governo ragion non ne ritiene
E le abbandona ai lor vaneggiamenti:
Le assurdità più mostruose allora
Fansi oggetti di culto, e l'uom le adora.
Quindi la fantasia pieni e il pensiero
Dell'apparizion maravigliosa
Ambo i presidi su nel monistero
Di Marte ricondussero la sposa;
E appartato assegnandole il quartiero,
La riguardaron come sacra cosa,
Nè s'ingeriron più ne' fatti suoi,
Perchè Marte non vuol ch'altri l'annoi.
E si risovvenian del caso antico
Quand'ei fu da Vulcan con Vener bella
Sorpresa in atto poco inver pudico
Entro la rete insidiosa e fella:
E perchè Elettrion di Marte amico,
Che attento dovea starsi in sentinella,
Addormentossi, in punizion del fallo
222
Elettrion fu trasformato in gallo.
Come fra incerte idee folle delira
Deluso uman pensier ! Ciò che qual rea
D'enorme colpa espor de' numi all'ira
E a supplizio crudel Silvia dovea,
Sovra di lei rispetto e omaggi attira,
E la fa riguardar quasi qual dea;
Ond'ella più potè che per l'innante
Del suo goder deificato amante.
La preside solea maravigliarse
Col flamine, che lei lasciata viva
Marte avesse in quel suo manifestarse,
Mentre di Giove la gloria adustiva
Col suo splendor Semele uccise ed arse.
E tu ancor, soggiungea ... Ma l'instruiva
Il flamin da teologo suo pari,
E ai di lei rispondea quesiti vari.
Se apprender vuoi mirabil cose e nuove,
Medita, disse, degl'iddii la storia.
Di lor divinità le stesse prove,
O curiosità fosse o vanagloria,
Chiesero a Marte Rea, Semele a Giove;
Ma quantunque ambedue nella lor gloria
Sian comparsi quei numi alle lor belle,
Diverso effetto n'è seguito in quelle.
La gloria e lo splendor di Giove è un foco
Che sostenersi da un mortal non può,
Quel di Marte in confronto è nulla o poco;
E perciò Semele arse, e Silvia no,
Noi neppur, grazie al ciel. D'utero in loco
Giove tonante allor si collocò
Quell'immaturo feto entro una coscia,
E Bacco già maturo uscinne poscia.
Esistenza han gli dei straordinaria,
Nè son della monotona natura
Come siam noi, soggetti all'ordinaria
Costante universal legislatura.
Stansene al freddo, al caldo, all'acqua, all'aria,
Nè mai prendon cimurro o infreddatura.
Non tutti vanno per l'istessa strada,
Nasce ed opra ciascun come gli aggrada.
Della spuma del mar la dea d'amore,
Minerva della testa esce di Giove,
Della coscia di lui Bacco vien fuore,
Oro ingravidator su Danae piove;
223
Giunon madre è di Marte e padre un fiore,
V'entra egli e n'esce e noi si sa di dove.
Tal colui sciorinò teologia,
E la preside estatica l'udia.
Qui parmi udir qualcun che mi dimande
Come aver mai si possa idee sì matte.
Ma di prevenzion la forza è grande,
E a color che le bevvero col latte
Sublimi, portentose, ed ammirande,
Allor parean strampalerie sì fatte.
E benchè niun le avesse mai vedute,
Quasi generalmente eran credute.
Voi però, Donne mie, che la lanterna
Della ragione sempre in mano avete,
Voi non sedotte da apparenza esterna
Il falso per lo ver mai non prendete,
E da favola antica e da moderna
Trarre util solo e sol piacer sapete,
E chiudono per voi favole tali
Istruzioni e verità morali.
Favola o tu, che sovra il ver distendi
Il trasparente vel di tua vernice,
Tu bella la menzogna e amabil rendi;
Tu infin, del sacro culto usurpatrice,
Della divinità l'aspetto prendi;
E avanti a te sedotta o seduttrice
Cieca credulità prostrar si suole,
E le tue finzioni venera e cole.
O figlia di fantastica vertigine,
Del portentoso o lusinghiera amica,
Tu adorni e abbelli ogni più oscura origine
Che fra gli esami suoi censura implica;
Tu spargi alcun baglior sulla fuligine
Che incrosta dell'obblio la tomba antica.
Quei ch'esser sanno i detti tuoi mendaci
T'amano anch'essi, e ognor tu inganni e piaci.
Per altro, Donne Mie, chiedo perdono,
E non intendo far mala creanza;
Ma sì indiscreto, grazie al ciel, non sono
Di tenervi, finchè la gravidanza
Di Silvia non sia giunta al mese nono.
Lasciamla in libertà nella sua stanza,
E interrompiam per alcun poco intanto
Il bel racconto, e facciam pausa alquanto.
224
L'ORIGINE DI ROMA.
PARTE SECONDA.
Buona novella, o Donne, allegramente,
Annunziar vi vo' buona novella.
Silvia Rea partorì felicemente.
Gloria ad Oronte e alla vestal donzella,
Poichè dal canto suo concordemente
Le facoltà generative sue,
Che han fatto ? un figlio ? oibò, ne han fatti due.
Se chiede alcun quai gli assistenti furo,
Soddisfar non saprei le sue dimande.
Presente io non vi fui, ma son sicuro
Che un non so che di nobile e di grande,
Per cui traspare il lor destin futuro,
Sovra la lor fisonomia si spande.
Che se saper i numi lor si brama,
L'un Remo e l'altro Romolo si chiama.
Tali nomi in udir gli eroi romani
Non vi sembra veder dopo lo spoglio
De' regni oltremarini e oltremontani ?
E ascender trionfanti in Campidoglio
I Scipioni, i Cesari, i Trajani ?
E montar poi sul pontificio soglio,
Distrutto il culto delli falsi iddii,
I Gregori, i Clementi, i Sisti, i Pii ?
E gli auguri e gli aruspici ed i flamini,
Acciò delle vestali verginelle
Il credito e l'onor non si contamini,
Non permisero al volgo e al sesso imbelle,
Che quell'affar miracoloso esamini.
Delle vittime poi nelle budelle,
Nel vol d'augei, nell'abbajar de' cani,
Leggeano e discoprian del ciel gli arcani.
E il gran flamine allor l'urlo profetico
Udito avendo del notturno allocco,
Proferì vaticinio in stil bisbetico,
Come i preti di Belo e di Molocco;
E invaso, entusiastico, frenetico,
Al popol persuase e al volgo sciocco,
Che fra di lor si propagò la razza
Del dio che per mestier distrugge e ammazza.
E d'ogni intorno promulgate ad arte
225
Fur visioni e consultati oracoli;
Nè dentro al tempio sol, ma in ogni parte
Della città si divulgar miracoli;
E si credè che gravida di Marte
Vergin vestale il suo candor non macoli;
Onde per quel maraviglioso parto
Ovunque un timor santo erasi sparto.
Ma chi de' sanguinari usurpatori
La crudel non conosce alma orgogliosa !
Pien di sospetti Amulio e di timori
Del pseudo-Marte imprigionar la sposa
Fe' in forte torre, ed in quei cupi orrori
Del pubblico la tenne ai sguardi ascosa
Col pretesto plausibile apparente
Di custodirla più gelosamente.
E del popol temendo, ed inquieto
Pe' romor vari e pe' rimorsi interni
Non osa proferir mortal decreto,
Nè il suo furor sfogar con atti esterni;
Ma, come allor credettesi, in secreto
Sullo stil de' tirannici governi
O viva seppellir o strozzar fella,
Poichè non se ne seppe più novella.
E nell'empio suo cor flamini e nume
E profezie sprezzando e vaticini,
Che fossero ordinò gettati in fiume
Occultamente i teneri bambini.
Ma folle è quei che oltrepassar presume
Gli eterni dal destin fissi confini !
L'ordin fu dai satelliti eseguito,
Ma il desir del tiranno andò fallito:
Che tessuta di vimini la cuna
Galleggiando del fiume andò a seconda;
Poi de' bambini senza offesa alcuna
Venne a posar soll'inondata sponda,
Ove fra i sterpi specie di laguna
Fermata avea l'alluvion dell'onda.
Colà dal bosco e dalla tana cupa
Al vagito infantil venne una lupa.
Da ocular testimoni allor si disse,
Che, porte lor le tumide mammelle,
Col proprio latte ella i bambin nutrisse;
E colla lingua sua le tenerelle
Membra di quei due bamboli lambisse:
Ove un pastor, de' regi armenti e delle
Regie foreste guardian, trovolli,
226
Ed alla moglie ad allattar portolli.
Di quel pastor poc'anzi alla consorte
Dopo due dì di vita un pargoletto
Stat'era tolto da improvvisa morte;
Onde colmo di latte avendo il petto,
I due bambin che offrille amica sorte
Accolse con premura e con affetto;
Ed allattolli e cura n'ebbe, e poi
Li tenne e gli educò quai figli suoi.
Faustolo il guardian, Larezia avea
Nome la moglie sua, che osceno e lercio
(Così fu detto) esercitar solea
Di prostituzion carnal commercio,
Famosa in quel mestiere onde facea
Di tal mercatanzia un grande smercio;
Ragion per cui di lupa il nome ottenne,
E poi da lupa lupanar divenne.
Per torsi dal periglio e dall'ambascia
Silvia il berton converse in nume e sposa
Si fe' di Marte; ed ora una bagascia
Una lupa divien miracolosa.
Trae nell'inganno e nell'inganno lascia
Impostura così religiosa;
E a sostener qualunque opra più fella
L'autorità del ciel sovente appella.
Dunque per quel che dagli autor si dice
D'inclinazioni in questo caso un po'
Si somigliar mammana e genitrice.
Quale di due più grandi eroi far può
Il latte che si bee da meretrice,
O da vorace lupa, io dir nol so.
Per giudicarne analisi più esatte
Converria far dell'uno e l'altro latte.
Fama antica è però che dai vicini
Popoli eretto fosse un bel tempietto
Sovra lo speco, dove i contadini
La spaventata lupa al loro aspetto,
Lasciando in sul padule i due bambini,
Videro entrar, come da lor fu detto.
E in memoria una lupa ivi fu fatta
In bronzo por che i due bambini allatta.
Della famosa lupa io parlar voglio
Dal popolo roman sì riverita,
E che, quando occupò di Roma il soglio
Augusto, fu dal fulmine colpita,
227
E che vedesi ancor sul Campidoglio;
E a dispetto del Goto e dello Scita
Rimanvi ancora intatta, e all'età nostra
Al forestier dal ciceron si mostra6.
Entrambi intanto i pargoletti altieri
Crescean d'età, di forza e di valore;
E ripieni di spiriti guerrieri
Di fere e di ladron furo il terrore.
E con altri pastor robusti e fieri
Riposero sul soglio Numitore;
Del castello real forzar le porte,
E Amulio usurpator misero a morte.
Poichè dier lampi d'indole reale
Co' fatti egregi e colle eccelse doti,
Faustolo l'alta origine e il natale
E i portentosi casi lor fe' noti
Al popol con applauso universale.
Per successori allora e per nipoti
Di Numitor riconosciuti sono;
Perciò eredi legittimi del trono.
E tanti in breve ebber seguaci, e quella
Moltitudin cotanto augumentosse,
Che pensaro a innalzar città novella,
Che di Lavinio e d'Alba Longa fosse
Più vasta, più magnifica, più bella.
Romolo allor sul Palatin portosse,
Remo sull'Aventino alla ventura
Per scerre il loco alla città futura.
Conscecrata dei tempi alla memoria
Da ogni storico greco ovver latino
Fu delli sei grandi avoltoi la storia,
Che a Remo comparir sull'Aventino;
Ond'ei tosto credè, che a lui la gloria
Serbasse il favorevole destino
Di scerre a suo piacere il dove e il come
Piantar l'alta cittade e darle il nome.
Ma apparso poi di quei rapaci uccelli
Sul Palatino colle un doppio stuolo,
6
Tactus est ille etiam qui hanc urbem condidit, Romulus, quem inauratum in Capitolo parvum atque lactantem uberibus
lupinis inhiantem fusse meministis.
Cicerone in Cat. III 8.
Hic silvestris erat Romani nominis altrix
Martia quæ parvos Mavortis semine natos
Uberibus gravidis vitali rore rigabat,
Quæ tum cum pueris flammato fulminis ictu
Concidit, atque avulsa pedum vestigia liquit.
De divinat. I. 12.
228
Destinato fu Romolo da quelli
Di Roma fondator col canto e il volo;
Onde risse e rancor fra i due fratelli.
Romolo, che regnar libero e solo
Volle, lo schernitor fratello uccise,
E la gran lite a suo favor decise.
Del supremo poter l'esteriori
Insegne assunse, e dodici famigli
Lo precedean che si nomar littori:
Tutti eran servi e si chiamavan figli.
Corpo creò di cento senatori,
Che dovesse eseguir non dar consigli.
Per sicurezza sua furo anche elette
Trecento guardie e celeri fur dette.
Tacerò dell'eroe l'opre famose,
L'asilo aperto ai ladri ed ai banditi,
Di cui 'l nuovo suo popolo compose;
La fe pubblica e gli ospiti traditi,
Delle donzelle il ratto e delle spose7,
E la zuffa coi padri e cui mariti;
Le violenze e le arbitrarie guerre
E dei vicin le depredate terre.
Qualor nuova nel ciel si manifesta
Cometa cinta di sanguigna luce,
Disastri innumerabili e funesta
Serie di guai sovra la terra adduce
Nè sterminio minor, se non l'arresta
Fren di ragion, famoso eroe produce.
La fatal gloria sua stragi e torrenti
Costa di sangue ai miseri viventi.
Era dei fati scritto nei volumi
Ch'eroe di qualità tante e sì rare,
E di sì santi e nobili costumi,
Dalli flamini e dalla popolare
Sacra religion porsi fra i numi
Dovesse, e divenir la tutelare
Divinità di Roma, e tal divenne;
E noto è assai come tal fatto avvenne.
Un dì dal Palatin disceso al piano
Romolo dell'armata a far rivista,
Levatosi improvviso un uragano
7
Quantunque Livio Lib. I. Cap. 13. e Dionisio d'Alicarnasso Lib. II. Cap. XXX. Parlino solo del ratto delle vergini Sabine;
qui il Poeta segue l'opinion comune che rapite fossero donne di qualunque stato. E in vero sembra difficile che in quel
tumulto e in quella confusione potessero distinguersi e scegliersi 683 vergini, come asserisce Dionisio, da quelle che vergini
non erano. Ma forse l'immaginazione degli antichi autori piena della grandezza di Roma in favor di essa portossi facilmente
al maraviglioso.
229
Gli oggetti più vicin tolse alla vista;
E a scroscio d'acqua impetuoso e strano
Romorosa cadea grandine mista.
E le folgori e i lampi e il tuono e il vento
Sparso avea d'ogni intorno alto spavento.
Poichè cominciò alquanto a dileguarse
L'orror dell'uragan terribil, nero,
Di Roma il fondator più non comparse,
E di cercarlo invan pena si diero.
Romor sordo e confuso allor si sparse,
Che i senator, che il militare impero
Mal soffriano e i duri ordini e i disprezzi,
Durante l'uragan miserlo in pezzi.
Gran lezion politica pei regi
Spesso alcuni sovr'altri un re sublima,
E li colma d'onori e privilegi.
Se pentito avvien poi, che li deprima
E degli onor li spogli e li dispregi,
Quei, sdegnando al livel porsi di prima,
Se vendicarsi e se imitar potranno
I senator di Romolo, il faranno.
Ma il gran flamine, a cui traspare in volto
Il foco entusiastico e lo zelo,
Annunziò, che d'atra nube involto
Dentro d'un denso impenetrabil velo,
Fra la folgore e il tuon dal suolo tolto
Il divo eroe fu trasportato in cielo.
Romolo fu, poi disse, or egli, o Roma,
È un de' numi del ciel, Quirin si noma.
Di popoli sarai regina e madre,
Credi all'annunzio mio che mai non erra.
Hai due gran protettori il figlio e il padre,
Marte e Quirin, numi possenti in guerra,
Che le tue guideran vittrici squadre
Fin all'ultime mete della terra.
S'eterne un nume sol le glorie tue
Render potria, che non farai con due ?
E strano inver che dal primier momento
Che la nascente Roma ebbe esistenza
Si sparse un general presentimento
Della futura sua vasta potenza.
Ma d'un povero abate io mi rammento
Che dicea spesso; io diverrò eminenza;
E sempre ripetea presagio tale.
Ebben, finì coll'esser cardinale.
230
Or quella memorabile avventura,
ditemi in grazia, non vi sembra un poco
A quella somigliar che la Scrittura
Narra d'Elia, che su carro di foco
Del mondo la catastrofe futura
Fu tratto ad aspettar non so in qual loco ?
Ma via, non confondiam colle profane
Le sante cose e santamente arcane.
Ed ognun sa, se sol di fede ha un pelo,
Che il primo fatto è ver, falso il secondo,
E ch'Elia vive, e che verrà il vangelo
A predicar pria della fin del mondo:
Ma che Romolo fosse assunto in cielo
Non l'ha detto che qualche gabbamondo,
E non libri canonici e profeti,
E al più quattro birbon dei loro preti.
Facil credette il popolo romano,
A creder le più astruse ognor propenso
Religiose assurdità d'arcano
Mister ripiene e prive di buon senso;
E pel gran vaticinio altero e vano
E pel promesso a lui dominio immenso
Al fondator della città latina,
Siccome a nume tutelar, s'inchina.
Così del sacro flamine alla voce,
E agli annunzi fatidici di lui,
Quell'ignorante popolo feroce
Culto e divino onor rese a colui,
Che fu l'autor del fratricidio atroce
E il rapitore delle donne altrui.
E d'eroi poco men sì virtuosi
Quante mai non si fero apoteosi ?
Allor la somma potestà del regno
Dei senator si trasferì al concilio,
Ciò che fu dai scrittor detto interregno.
Poi dal piccolo Curi oltre l'Esquilio,
Uom per gran fama venerabil degno,
Il sabino appellar Numa Pompilio,
Il giusto e il saggio, e che modello fu
Di probità ben rara e di virtù.
Fra quei popoli rozzi ed agguerriti
Dei numi il regolar culto introdusse
E le pie cerimonie e i sacri riti.
Raddolcinne i costumi, e li condusse
A cure più pacifiche e più miti
Ma pur nelle dottrine in cui gl'instrusse
231
L'impostura quel re per far fortuna
Necessaria credè non che opportuna.
E persuaso quella esser materia
D'alta importanza, quel buon re vantosse
Colloqui aver con una certa Egeria,
Che si credeva ch'una ninfa fosse.
In ogni occasion giocosa o seria
Credito sempre l'impostor riscosse.
Chi più seppe ingannar più riuscì,
Così andò sempre e sempre andrà così.
Misteriosamente a notte bruna
Numa d'andar soletto avea costume,
O al debil raggio dell'incerta luna,
A visitar quel femminino nume
Senza lanterna e senza guardia alcuna
In cupa selva ch'era lungo il fiume,
Ove limpido uscia da opaco e fosco
Antro un ruscel che traversava il bosco.
Fama oscura antichissima rammenta,
Che in quell'antro fatidica abitasse
Ninfa che quei pastor disser Carmenta,
E che ivi non so come ingravidasse,
Lo che per altro a creder non si stenta,
E della ninfa Egeria si sgravasse,
Che rinnovar gli avvenimenti stessi
Volea con Numa in quei notturni amplessi.
Onde sacro ad Egeria era lo speco,
E sacro era quel bosco alle Camene,
Ch'ivi in lode d'Egeria in tosco e in greco
Inni fean risonare e cantilene.
Nei congressi che Numa ivi ebbe seco,
Di dottrina liturgica ripiene
Cose arcane apprendea, non già fandonie
Quel gran legislator di cerimonie.
Roma, che già nato da Marte e in cielo
Esser Romolo asceso avea creduto,
Fe non potea negar di Numa al zelo,
Ch'era credibil più, perchè più astuto.
E quant'egli dicea come un vangelo
Da lei venerato era e ricevuto,
Ed universalmente uomini e donne
Lo riguardar come il romano Aronne.
Ma voi, Donne, direte a parer mio
Che queste tutte son trappolerie
Il volgo per sedur credulo e pio.
232
Voi v'avete ragione, o Donne mie,
Ragione avete e ne convengo anch'io;
Ma senza tutte queste ipocrisie
E senza la condotta ch'egli tenne
Forse ottenuto avria ciò ch'egli ottenne ?
Sopra tutto a Quirin fur tempii eretti,
E instituiti a lui giuochi e spettacoli.
Flamini furo al di lui culto addetti,
Che ascoltarsi dovean come gli oracoli.
Numa in oltre gli scudi, Ancili detti,
Fe' dal cielo cader, finse miracoli,
E fu l'institutor della romana
Disciplina ecclesiastica pagana.
Specie di ritual perciò compose,
In cui le finzion sacerdotali,
E preci e liturgie misteriose,
Le sacre bende e gli abiti augurali,
E le pratiche pie religiose,
E formole prescrisse e cose tali.
E volendo un autor farne l'encomio,
Comparollo all'ebreo Deuteronomio.
Se forse troppo io v'arrestai, perdono
Vi chiedo, e qui tronchiam la narratoria;
Che prender, Donne mie, non voglio il tuono
Di collettor della romana istoria;
E cose in oltre conosciute sono,
E ciascuna di voi halle a memoria.
Poche riflession facciam più tosto
Sopra quanto da noi fin qui fu esposto.
Di Roma in quell'età le tracce espresse
Di tutto ciò visibilmente io trovo,
Che nei seguenti secoli successe,
Talchè il pulcin parmi veder nell'uovo;
E col solo accennar le cose istesse
Io chiarissimamente ve lo provo.
La romana potenza oppressa giacque,
E potestà spiritual ne nacque.
Se Romolo dominio in Roma ottenne,
Solo alla forza e all'armi sol lo debbe;
Solo ancor colla forza ei si sostenne,
Per l'armi sol l'impero suo s'accrebbe.
Numa diverso assai metodo tenne;
Della religion cura sol ebbe.
Spirto in Roma guerrier trasfuse quei,
Questi religion trasfuse in lei.
233
Se Romolo fondò città e dominio
Di rapaci avoltoi sotto gli auspici,
L'aquile, il vol stendendo e il latrocinio,
Degli avoltoi continuar gli offici;
E Roma, o forza usando o patrocinio,
Spogliò amici egualmente ed inimici,
Finchè ai caduti imperador romani
Successero i pontefici cristiani.
Che se il destin l'armi terrene a questi,
Nè la potenza diè che diede a quelli,
Hanno spirituali armi celesti,
Che alla sede papal contro i ribelli
Producon più tremendi e più funesti
Effetti, e più terribili flagelli,
Qualor del Vatican scaglian dal culmine
Dell'anatema il formidabil fulmine.
Se di rapacità per l'esercizio
Roma i mezzi or non ha ch'ebbe l'antica,
Per imitarne il glorioso vizio
Coraggio ella però non perdè mica;
E di Numa supplir coll'artifizio,
E inerme e senza militar fatica
Seppe per farsi i popoli soggetti
Soggettar coscienze ed intelletti.
Maschio influsso di Romolo e del padre,
Cioè di quei che padre si credea,
Poscia passò sulle romane squadre;
E il pudore vestal di Silvia Rea
Che di Romolo fu la vera madre,
Ed il commercio dell'ignota dea
Che di Numa ad onor fama decanta,
Lo spirito formar di Roma santa.
Quanto piacer provato avrà Quirino
Bruto in veder che con vigor romano
A Tarquinio l'altier tolse il domino,
E governo fondò repubblicano;
E Muzio che pel re fere il vicino,
Onde in pena pel fallo arde la mano8,
E Clelia a nuoto e Coclite sul ponte
Che pugna solo e ha tutta Etruria a fronte !
E Cincinnato che alla dittatura
8
Anche qui il Poeta s'attiene alla comune opinione che Muzio ardesse la mano in pena dello sbaglio preso, uccidendo il
secretario invece del re Porsena; ma Livio Lib. II. Cap. 12. asserisce che Muzio ciò fece per dare al re una fortezza romana.
Veramente, secondo Dionisio d'Alicarnasso, quello che fu da Scevola ucciso in iscambio di Porsena, e che da altri autori
nomasi scriba Regis, non era un secretario, ma un commissario ordinatore: milites recenses, et pecuniam quamipse pro
stipendio numerabat, in tabula referens. Lib. V. Cap. 28.
234
Passa e al trionfo dall'arar le zolle
E Furio dalla gran capellatura
Che le mal tolte prede a Brenno tolte;
Fabrizio che di Pirro i don non cura
E vincitor torna alle sue cipolle;
E quei che sprezza l'africana rabbia
Regolo e vanne ei stesso a porsi in gabbia !
Più ancor stato sarà contento e pago
Lo spirto altier del fondator di Roma,
Quando lei vide alla rival Cartago
Por la man vincitrice entro le chioma,
E, oltrepassato il Tigri e l'Istro e il Tago,
Leggi alla terra dar sommessa e doma,
E in forma o di repubblica o d'impero,
Signoreggiar sull'universo intero.
Figurandomi io vo che in qualche giorno
Di vittoria, conquista o avvenimento,
Per cui sonar s'udia per ogni intorno
Di Roma il nome infin sul firmamento,
A Romolo affollassersi d'intorno
I numi tutti a farglien complimento;
E a lui dicesser quei colleghi suoi:
Caro Quirin, ci rallegriam con voi.
Ma con più gran ragion per altro parmi
Che avrà dovuto Numa insuperbire,
Su basi ferme più che bronzi e marmi
Roma in veder scuola di culto aprire;
E pria servir religione alle armi,
Poscia a religion l'armi servire,
Pontefici de' Cesari sul soglio
Sedersi, e zoccolanti in Campidoglio;
E dibafi e suffiboli9 alle tonache,
Ai pastoral dar luogo i litui10 i bacoli,
Gli auguri a' frati e le vestali a monache;
E in paragon dei sibillini oracoli
Famosi già nelle pagane cronache
E per rivelazioni e per miracoli
Più ancor fra noi famose essersi rese
E Caterine e Brigide e Terese.
Oh se al tergo avess'io l'ali e la piuma,
E oh fossi un Gabriel del paradiso !
Vorrei pel ciuffo l'anima di Numa
Chiappare, e meco trar del vero Eliso
9
Dibafo, Dibaphus era un manto di porpora due volte tinta, usato da' pontefici, auguri, ed aruspici. Suffibolo era anche un
abito sacerdotale in forma di manto con borchia al petto, usato anche dalle vestali.
10
Lituo era un bastone ricurvo che serviva ai pontefici massimi, a cui successe il pastorale.
235
Nella più eccelsa parte ove s'alluma
L'eterno immenso Sole in tre diviso.
Mostrargli ivi vorrei cinti di gloria
Papi di cui famosa è la memoria.
Alza, direi, lassù l'occhio e il pensiero
A quei che in sede luminosa e bella
Sovra tutti primeggia: è quegli Piero.
Inchinati al gran nome, e ti rappella
Che fu già pescator, ma poi primiero
Della chiesa guidò la navicella.
Sì, navicella er'essa allor, l'accordo,
Ma or è nave di linea e d'alto bordo.
Ve' Zaccaria che dà Francia a Pipino,
Vedi Leon11 che dà l'impero a Carlo12
Vedilo in mezzo al popolo latino,
E riceverlo in Roma e incoronarlo;
Onde dell'Esarcato ottien domino,
Nè puote il greco imperador vietarlo.
Ve 'Gregorio13, che a scendere dal trono
Forza Luigi14 e a domandar perdono.
Mira ... ah no, non mirar, se dell'atroce
Spettacol sostener non puoi l'aspetto.
Quegli è Giovan duodecimo: il feroce
Marito empio pugnal gl'immerse in petto
Sulla sposa infedel; tanto gli cuoce
L'onta crudel del violato letto !
Ve' Marozie e Teodore, oh vitupero !
Le sante maneggiar chiavi di Piero.
Eccoti ... a tanto orror gli occhi deh ! chiudi,
Nè rimirar le femmine impudiche
Al triregno innalzar bastardi e drudi,
Ed in braccio giacer, non che di amiche,
Delle proprie lor figlie i papi nudi.
Ma rose e pruni ognor, zizzania e spiche
Son miste, e in faccia a bella donna i nei
Vie più rilevan la beltà di lei.
Benchè, comento, glossa ed appendice
Facendo alla divina Apocalisse,
V'abbia più d'un interprete che dice,
Che quand'ella con enfasi descrisse
L'allegorica sua gran meretrice,
Roma sotto quei simboli coprisse;
11
Leone III.
Carlo Magno.
13
Gregorio VII.
14
Ludovico Pio.
12
236
Donna real di qualità mirante
Per frivolezze tai forse è men grande ?
Dannar non puossi un sommo sacerdote,
Un vicario di Dio; son sacrosanti.
Queste in teologia son cose note.
Perciò di vita negli estremi istanti,
E sian malvagi pur, chi tutto puote
Li tuffa entro sua grazia, e muojon santi.
E perciò quei che tu dannati eredi,
Benchè fosser malvagi, or qui li vedi.
Or mira il formidabile Gregorio15
Colla Matilde sua chiuso in Canossa,
Cui mercè della chiesa il territorio
Amplia e dilata, e il suo potere ingrossa;
Onde abbatte con fulmin perentorio
D'Arrigo imperador l'armi e la possa;
E di Soria già pensa a far l'acquisto,
E il gran sepolcro a liberar di Cristo.
Mira Alessandro16 poi fra' regi insorta
La gran lite compor, l'ire frenarne;
Ed il globo tagliar per farla corta
In due gran fette ed una a ciascun darne;
Come fra i figli il genitor la torta
Partisce o tocco d'arrostita carne.
Mira dal Vatican sull'anglo Arrigo
Paolo scagliar spiritual gastigo.
Ve' il decimo Leon sgombrar le cieche
Tenebre d'ignoranza, e arti e dottrine
A un suo cenno risorgere e le greche
Lettere e le toscane e le latine,
Ed erigere templi e biblioteche.
Mira i palagi delle papaline
Famiglie e carchi i splendidi nipoti
Delle spoglie dei popoli divoti.
Ve' laggiù Pio17 che osò brandir la lancia
Mal consigliato ognor, peggio assistito,
Contro i possenti eserciti di Francia;
E or dal pontifical soglio bandito
Batter si dee del folle ardir la guancia;
Ma non ti conturbar: ristabilito
Sarà il soglio papal da Bonaparte,
Che sogli e scettri a grado suo comparte.
15
Gregorio VII.
Alessandro VI.
17
Pio VI.
16
237
Mira or color che rosse han le berrette,
Rosso il cappello e lo zucchetto rosso,
Rossa la toga e rosse le calzette,
E rosso tutto quello che hanno indosso.
Son cardinali, e son le basi elette
A regger della chiesa il gran colosso.
Di senno e di sapienza han pieni i capi,
Perciò dal ceto lor traggonsi i papi.
Or mira quei che vanno a gruppi, a branchi,
O assisi in scranne insiem stansi adunati,
Che con cuoja e cordon stringonsi i fianchi,
Moltitudin di santi e di beati,
Altri bigi, altri negri ed altri bianchi;
Sai tu chi son color ? son tutti frati,
Instrutti di Domenico alla scuola,
D'Agostin, di Francesco e di Lojola.
Costoro sulla superficie sferica
Sparsi del globo imposero il rispetto
Per lo cappuccio e per la sacra chierica.
Con zelo intollerante in fatto e in detto
Instruir l'Asia e governar l'America,
E tutto il mondo resersi soggetto;
E avanti a lor prostraronsi sommessi
I popoli non sol, ma i regi istessi.
O Numa, o tu, che re fosti e pontefice,
Tauro immolasti o agnel per la pagana
Religion di cui tu fosti artefice;
Ma della fe cattolica romana
L'apostolo papal, santo carnefice,
Quanta parte immolò di specie umana !
Col cristo in man, col sanguinario zelo,
Quanti malgrado lor mandonne in cielo !
Credo che allora inarcheria le ciglia
Numa nel contemplare oggetti tali,
E stupido diria per maraviglia:
In confronto di papi e cardinali
E dell'ampia monastica famiglia
Che mai sono i miei flamini e i diali ?
Ma in pensar ch'ei ne diè l'idea primiero;
Forse maggior si crederia di Piero.
E benchè quei che l'idea prima accozza
Più ingegno abbia talor che chi l'imita;
Pur si dee lode a quei che informe e rozza
Opra pulisce e rendela compita;
Come se alcun qualche pittura abbozza,
E da altro esperto artefice è finita.
238
Ciò che in arti e scienze avvien tuttora,
Nelle religioni avviene ancora.
Se negli antichi istorici leggeste
Ciò che poc'anzi, o Donne mie, narrai,
In un aspetto le cose vedeste
Da quel che v'espos'io diverso assai;
Voi visto avete in abito di feste
Ciò che in vesta di camera mostrai.
Resta a veder se han più del naturale
O le vesti da camera o le gale.
Ma per bene osservare un qualche oggetto
Come statua di Venere o d'Apollo,
Osservarlo conviene in vario aspetto.
E chiunque da un sol punto osservollo
Non può il bello conoscerne o il difetto,
Forse ben posto in vista io non avrollo;
Me ne rapporto e voi, voi vi farete
Quelle riflession che crederete.
239
L'ORSO NELL'ORATORIO.
NOVELLA XVIII.
Forse al titol di questa novelletta
Taluno in tuon maligno e derisorio
Fra se dirà: che stravaganza inetta !
L'orso cos'ha da far coll'oratorio ?
Pure a decider non abbiate fretta,
Donne mie, che narrarvi il ver mi glorio,
E dir dovrete, se mi date ascolto,
L'orso nell'oratorio ha da far molto.
San persino color che credon poco
Agli atti degli apostoli e al vangelo,
E che di tutto ciò si prendon gioco
Che di religion ricopre il velo,
Sanno che Roma è stata sempre il loco
Da cui gli arcani suoi rivela il cielo,
E ove il sacro deposito risiede
Del vero culto e della santa fede.
Sebben sempre così la cosa fu,
(E provarsi coi canoni potrebbe)
Pur sempre chiara e incontrastabil più
Si fe' d'allora in poi che nacque e crebbe
La compagnia famosa di Gesù;
Quella non già che in culla o in croce egli ebbe
Ma quella che del fervido Lojola
Per l'orbe inter gli procurò la scuola.
Chi può ridir, chi numerar le tante
Che fer quegl'instancabili individui
Religiose instituzioni sante,
Feste, procession, novene e tridui ?
Con puro zelo presso al mercatante
E al possessor di fral ricchezza assidui,
De' beni eterni eran fra noi mortali
I cambisti, gli agenti ed i sensali.
Qual maligno astro mai, qual sorte avversa
Per l'ampia superficie della terra
Quella genia benefica ha dispersa,
E alla lor pingue eredità fe' guerra ?
Ma d'Europa la faccia è omai diversa;
E in lor vegg' io, se il guardo mio non erra,
(Grazie ai pentiti despoti devoti)
Di resurrezione i primi voti.
240
Pria che la società fosse soppressa,
Fra i soci eraven un d'esemplar vita;
Gran concorso era sempre alla sua messa,
E si chiamava il padre Caravita;
Che con sollecitudine indefessa
Render volendo ogni anima pentita
E la carnal concupiscenza doma,
Instituì un oratorio in Roma.
Nè vasto il vaso erane inver nè adorno,
Ma d'una regolar proporzione.
D'alto la luce ricevea del giorno
Per ispirar maggior divozione;
Varie nicchie disposte eran d'intorno
Per la sacramental confessione,
L'altar maggiore in mezzo, e due leggiadri
Laterali altarin co' loro quadri.
A manca si vedea bella fantesca,
Il sen scoperta e con gonna succinta;
È la Samaritana, e d'acqua fresca
Un orcio empia che avea dal pozzo attinta.
Contrita piange, e ogni lasciva tresca
Detesta ormai dal Salvator convinta;
E a tal segno la grazia il cor le tocca,
Che si lascia cader di man la brocca.
Con scarno teschio in man dall'altro canto
La Maddalena addolorata stassi;
Presso è la disciplina, e vedi il pianto
Dai begli occhi cader compunti e bassi;
Nuda le braccia e il petto e bella tanto
Da far venir fin la lussuria ai sassi.
Il libertin la guata, e fra se dice
Gran danno che non sia più peccatrice !
Vedi sul grand'altare effigiata
Della donna e dell'uom l'origin strana.
Attortigliato all'arbore vietata
Mirasi l'angue colla faccia umana,
Orientale idea cristianizzata.
Fuor del giardin gli scaccia e gli allontana
L'angiol con una spada lunga lunga,
Che fere e taglia ovunque tocchi o punga.
Colla vergogna in volto e l'ansia in core
Nudi abbandonar la beata soglia,
Poichè gli avea l'iniquo tentatore
Indotti a soddisfar la prava voglia,
Cagion d'eterno pianto e di dolore.
241
E benchè lor ricopra un'ampia foglia
Tutta l'inforcatura delle cosce,
Pure il sesso in ciascun si riconosce.
Scopron l'uom l'andamento ardito e franco,
E le proporzion robuste e belle;
Scopron la donna il rilevato fianco,
E la soave morbidetta pelle,
Il molle corpo delicato e bianco,
Le resistenti giovani mammelle,
Le ben tornite reni e il deretano,
Come il formò del Creator la mano.
Stuol di devoti in aria penitente
Venian colà, quando imbrunia la sera,
Venir quasi parean fuggiascamente
Col cappello sugli occhi e in cappa nera
Per non farsi conoscer dalla gente.
Il cortigiano e l'abatino v'era,
V'era il furbo, il fanatico, il fallito,
E chi da ipocrisia vuol trar partito.
Porta sotto talun la disciplina
O di nodetti armata o d'uncinelli,
Ma chi abborre di far carnificina
Di strisce la formò di fine pelli,
O di crine di coda cavallina;
Ma tessuta di serici bindelli
Talor la ricevea dalla sua dama
Il donnajuol che farsi mal non ama.
Pria che si fosser tutti insiem ridotti,
Qualche novizio ovver qualche terziario
A ogni altare accendea due candelotti
Che ognor teneansi pronti in un armario.
E i padri ognor più venerandi e dotti
Si rinchiudevan nel confessionario;
Che ammesso a quelle cerimonie arcane
Non è chi pute di sordizie umane.
Che il sesso femminil non fosse ammesso
La cosa per se stessa assai lo dice,
Che mesculare l'uno all'altro sesso
In certe specie d'assemblee non lice.
E nel terrestre paradiso stesso,
Ove l'uomo vivea lieto e felice,
Vi comparve la donna e guastò tutto
Per via di quel suo maladetto frutto.
Tutta adunata alfin la comitiva,
Prendeasi loco e si chiudean le porte;
242
E un padre allor in pulpito saliva
In sacra Bibbia assai perito e forte,
E o contro un capital vizio inveiva,
O sul final giudizio o sulla morte
Parlava, o sull'inferno all'uditorio,
Sul paradiso ovver sul purgatorio.
Ma sopra tutto entrava spesso in furia,
E si accendea di fervoroso zelo
Contro le porcherie della lussuria;
E colli passi tratti dal vangelo
Provava ch'ella è la più grand'ingiuria
Che far dal peccator si possa al cielo,
E che li professor di tai peccati
Irremissibilmente eran dannati.
E fia ver, soggiungea, che Roma santa,
Del vicario di Dio la residenza,
Centro di nostra fe, lussuria tanta
Fomentar possa e tanta incontinenza,
Che l'abatino e il prelatin sen vanta,
Quasi abbian persa fin l'erubescenza ?
La santa Roma, capital del mondo,
Fogna sarà di questo vizio immondo ?
Or a qual pro lordar più per costoro
La lingua omai ? Ma o tu, che dal niente
Trar sapesti del mondo il bel lavoro
A un cenno di tua voce onnipotente,
La tua mirabil sapienza adoro;
Ma come mai potè caderti in mente,
Che dovesser le umane creature
Procrearsi con simili sozzure ?
Poi volgendosi a quei che vita oscena
Con scandalo de' buoni avean menata,
Gli esortava a imitar la Maddalena,
Che penitenza fe' di sue peccata,
Se incorrer non volean l'eterna pena,
Che ai lascivi dal ciel fu destinata.
Indi, fatto un inchino all'assemblea,
Gravemente dal pulpito scendea.
Allor dai lati uscir vedi in farsetto
Due come più li vuoi soci o fratelli.
Portano un largo collaron sul petto,
E tondi parrucchini e ampi mantelli,
In man di terso acciaio hanno un cerchietto,
Ove infilzati sono i pii flagelli,
Che ad uno ad un distribuendo vanno
Ai contriti devoti che non l'hanno.
243
S'intonavano allor certe preghiere,
Ed erano in quel mentre i lumi spenti,
Acciocchè non potessersi vedere
Le parti deretane ai penitenti.
Al canto poi d'un rauco Miserere,,
Sciolte le brache e tolti i vestimenti,
S'odia di discipline un tippe tappe
Risonar sulle schiene e sulle chiappe.
Fin qui come ir dovea la cosa gia.
Ciaschedun, terminata la faccenda,
Tornava all'abitudine di pria:
E nulla trovo in ciò che mi sorprenda,
Che divota non v'è scimmiotteria,
Che alcun converta o che miglior lo renda.
E dell'affar facea tutto il divario
Qualche colpo più o men sul tafanario.
Anzi secondo che si trova scritto
In autor che per altro io non ho letti,
Ma il sanno quei che n'usan con profitto
Lascivi vecchi e in primo grado adetti
Nei mister di Volupia e di Cotitto,
La flagellazion fa osceni effetti.
E all'avara e torpida natura
Supplisce ... cosa mai ? la frustatura.
Che se quel santo stil religioso
Cangiar non fe' a nessun tenor di vita,
Pur s'era in Roma e fuor reso famoso
L'oratorio del padre Caravita;
Ma siccome ai profan teneasi ascoso
L'oggetto ver dal cauto gesuita,
Parlossen molto, e in scherzo ovver sul sodo
Sovra ciascun vi ragionò, a suo modo.
Di piazza Sciarra a caso in vicinanza
Si solean varie femmine adunare
Presso cognita donna, e avean l'usanza
Di star la sera in crocchio a cicalare.
Componean la pettegola adunanza
La vicina, l'amica e la comare,
E si sapean, si ripetean colà
Tutte le dicerie della città.
Vedendo la combriccola ciarliera
Figure incamuffate in cotal guisa
Furtivamente attorno andar la sera,
Ebber da prima a smascellar di risa.
Vedendo poi che un qualche oggetto v'era
244
Costante e fisso, esservi allor s'avvisa
Cosa che altrui nasconder si volea,
E ciò la lor curiosità pungea.
A chiudersi, dicean, sempre in un loco
Certo senza un perchè non van costoro,
Sicuramente, e lo saprem fra poco,
Han per le mani un qualche gran lavoro.
E chi a forza di chimica e di foco
Credevali occupati a far dell'oro,
Chi la pietra a compor filosofale,
E chi la medicina universale.
V'è chi dicea: color sono Ugonotti.
Ugonotti ! cioè ? chiedea taluna.
E quella: ne' gabbani e ne' cappotti
Van gli Ugonotti avvolti a notte bruna.
Nome han da un tale Ugon che per più notti,
Quando nel ciel non risplendea la luna,
Imbacuccato e con aspetto tetro
Apparia sulla guglia di san Pietro.
V'era chi sostenea, che instituire
Volean coloro una novella setta.
Chi li credea qualche congiura ordire;
E una di lor, ch'era una gran civetta,
Soggiunse: io lo so ben, ma nol vo' dire,
Se il secreto osservar non si prometta.
Tutte a una voce allor: dì pur, che farlo
Sicura puoi, dì pur, dì pur, non parlo.
E colei: son color tanti stregoni,
Cercan di generar maniere nuove.
In udir ciò tutte esclamar: bricconi !
Anzi, colei seguia, vi son gran prove,
Ch'abbian formati già certi embrioni,
E che già un qualche pezzettin si muove.
E un'altra: oh in quanto a questo io me la rido,
Un'unghia far senza di noi gli sfido.
Altre con plausibili ragioni
Fean di quell'union severa critica;
La credon società di Frammassoni,
Setta di antichità quasi adamitica;
E che si tratta in quelle sessioni
D'un non so che, che chiamano politica;
Ma udito il nome sol ne avean sovente,
E della cosa non sapean niente.
Che ognor le fazioni ed i partiti
Specie arcane idear di malfattori,
245
Di mali innumerabili infiniti
E della peste e del tremoto autori,
Eretici, templari, gesuiti
Illuminati e franchi-muratori
E giacobini e allievi di Cagliostro.
Su di che ... ma torniamo al caso nostro.
Non potendo le donne indizio trarre
Da soddisfar la curiosa voglia,
Nè trovando verun che loro narre
Quello che siegue entro la chiusa soglia,
Due fra di lor più ardite e più bizzarre
Determinar sotto mentita spoglia
D'andare ad osservar da per se stesse
Cosa diavol là dentro si facesse.
Da un abate prestar suo damerino
Si fe' ciascuna un abito d'abate,
Veste, brache, mantello e collarino,
Poichè in quella esemplar santa cittate
Ogni donna aver debbe il suo abatino
Di qualunque ella sia grado ed etate;
Nè in ciò v'è mal, poichè la moda è questa
Comune, antica, e in conseguenza onesta.
L'abito stava loro a maraviglia;
Parevan due abatini in carne e in pelle,
Tanto ciascuna a un abatin somiglia,
Se togli il deretano e le mammelle;
Ma dalla gesuitica famiglia
Non si badava a queste bagattelle,
E se onesto garzon d'una fanciulla
Ha petto e deretan, non guasta nulla.
Tacquero all'altre il lor disegno, e in questo
E grandi furo e superaro il sesso,
E facile trovar scusa e pretesto
Per non andare al solito congresso.
E intabarrate andando e in volto mesto,
Facil nell'oratorio ebber l'ingresso.
E col cappel calato e all'aere oscuro
Riconosciute nel passar non furo.
Gli strani oggetti di quel loco santo,
L'oscurità, il silenzio e la tristezza
Al primo entrar turbò le donne alquanto,
Che a cose tai niuna di loro è avvezza.
V'è il falso zel di santità col manto,
Che sembrando spirar pace e dolcezza,
Coll'opra il foco attizza e colla voce,
Intollerante, sanguinario, atroce.
246
V'è ipocrisia che tien lo sguardo a terra
Tinta di schifo livido pallore;
Tutta modesta in volto appar, ma serra
L'ambizione e la superbia in core.
La frode v'è, che tende insidie, ed erra
Col furtivo occhio intorno indagatore;
Onde poter per arte o per delitto
Trar dall'altrui credulità profitto.
Giunser le donne in quell'oscuro e muto
Loco, che a predicare ai congregati
Non era il gesuita ancor venuto;
Ma i penitenti stavansi affollati
Là intorno ov'era il confessor seduto
Il racconto per far dei lor peccati;
E il tutto attentamente e a parte a parte
Per osservar si posero in disparte.
Convien sapere che fra quelle due
Eraven una nominata Ghita,
Che franca più dell'altra e ardita fue,
Cui non spiaceva un giovin gesuita,
E che ponea fra le avventure sue
Di far furtivamente e alla sfuggita
Con lui qualche amorosa paroletta,
E darsi ancor qualche baciucchio in fretta.
Dove e quando, a dir vero, e in qual maniera
Seguir tai contrabbandi io dir non posso;
Che fra quei padri io so che solit'era
D'aver ciascun sempre un compagno addosso:
Sol posso dirvi che la cosa è vera,
Ma non la so che in genere e all'ingrosso;
E da ciò si conferma e si conclude
Ch'ogni difficoltà amor elude.
Ghita, come il facesse a bella posta,
In faccia a quel confessionario stesso
Ov'era il padricello erasi posta.
Videlo, e ad avverar se in fatti è desso
Bel bello a quel confessional s'accosta.
L'osserva, lo scrutina e il fisa spesso.
Lei guarda anch'egli, e le sembianze care
Vedea di Ghita e gli parea sognare.
Non sa s'egli è delirio o s'egli è un fatto
D'essere in tribunal par non rammente,
Tanto rimar estatico ed astratto.
Sol fissi ha gli occhi in Ghita, e il penitente
Ha bel dir: padre, ho detto, padre, ho fatto;
247
Ch'egli a nulla più bada e nulla sente.
Ed ella, che assai ben di ciò s'avvide,
Del suo imbarazzo si compiace e ride.
Sott'occhio alfin gli fece un tal ghignetto,
Ch'ei ne fu certo e più non stette in forse.
E com'ella gli stava a dirimpetto,
Destramente le fe' cenno di porse
Al suo confessiotal, e a quel segnetto
Ella di lui l'intenzioni scorse,
E andò a ficcarsi entro la sacra nicchia,
E a quei palpita il core e in sen gli picchia.
E per sbrigarsi tosto da colui
Che stassi a confessar dall'altro canto,
Di quei peccati assolvelo, di cui
Udito ei non avea tanto nè quanto.
Così il perdono ottien de' falli sui,
E il paradiso acquista e divien santo
Chi per distrazion talvolta è assolto.
Ma intanto a Ghita il confessor rivolto,
Ghita mia, le dicea, Ghita sei tu ? Son io, sibben, non mi riconoscete ? Ma qual mai metamorfosi ? che fu ? Vera cristiana io son, come sapete,
Ed amo li compagni di Gesù.
Che le lor sante pratiche secrete
Mi si tengan, soffrirlo io non potei,
E le volli veder cogli occhi miei.
Ed ei: comunque sia, fortuna e amore
Certo inspirato t'hanno il bel pensiero;
Perocchè qui potrem senza timore
Trar partito dall'ombre e dal mistero,
Giacchè gli ordin del mio superiore
A me la facoltà finor non diero
Di confessar le donne, e qui confesso,
Ove a donna venir non è permesso.
Pure assai meglio ancor noi potrem fare,
Se tu, Ghita, verrai domani sera;
Porti potrai presso all'opposto altare,
Che di colà, finita la preghiera
E tolti i lumi, ti potrò menare
In un stanzino dietro alla ringhiera;
E ivi liberamente ambo a godere
Staremo sino al fin del Miserere.
Ma denno omai troncar questo spassetto,
Che la confessione è già un po lunga,
248
E inchina il bacchetton sempre al sospetto,
Sebben la cosa a discoprir non giunga.
Ed in oltre quel lor dialoghetto
Par che al desire inutil sprone aggiunga;
Che pel bucato gratellin le sole
Passan nude intangibili parole.
Poichè si concertar per la bisogna,
Ghita uscì della nicchia, e la compagna
A raggiungere andò che ha nome Togna.
Costei con essa brontola e si lagna
Ch'ivi lasciata l'abbia, e la rampogna;
Ma Ghita ognor battendo la campagna,
Tace, giacchè colei non l'ha veduta,
Col confessor la conferenza avuta.
Ecco che un padre il peccator spaventa
Con suo sermon; poscia le sferze in giro
Il fratel nero a chi ne vuol presenta,
Onde anche Ghita e Togna sen forniro;
E con lugubre priego a luce spenta
Cento flagelli scoppiettar s'udiro.
A battibuglio tal le donne intanto
Timide e incerte tengonsi da canto.
Dopo la funzion miste alla folla
Anch'esse usciro e ritornaro a casa.
Di spettacoli tai Togna è satolla,
Ne voglia di tornarvi è in lei rimasa.
Ghita nel suo proposito lasciolla,
Che dal padre a tornar fu persuasa,
E a lei tace il pensier che ha fisso in mente
D'andarvi ancor la sera susseguente.
D'abate dunque al solito vestita,
Appena è il sol nell'ocean disceso,
Soletta all'oratorio andossen Ghita.
Eravi solo un lampioncino acceso
Che il primo ingresso all'oratorio addita,
E un altro avanti al grand'altar sospeso;
Onde passando per colà sul tardi
Schivò dei soci osservator gli sguardi.
Il padre a cui pruriginosa voglia
Ferve nelle midolle e nelle vene,
Temendo alcun pensier non la distoglia,
Come in volubil donna ognor avviene,
Stassene in un canton presso alla soglia
Per veder se colei viene o non viene.
E l'abatino in cui Ghita s'occulta
Vedendo entrar, tutto di gioja esulta.
249
Attentamente sieguela coll'occhio.
S'incammin'ella all'accennato altare,
E presso al predellin ponsi in ginocchio,
Ed ansioso il padre all'orme care
Dietro sen va, che all'amoroso crocchio
Seco la vuol nello stanzin menare;
Che anticipare i fortunati istanti
Procuran sempre i desiasi amanti.
Infin allor pensato avea d'attendere,
Che l'ombra amica i flagellanti asconda;
Ma perchè il bel momento allor non prendere
Di quella oscurità che lo seconda,
E la fruizion più lunga rendere
E più comoda a un tempo e più gioconda ?
Quando opportuna occasion se gli offre,
Molesti indugi un amator non soffre.
Presso le passa il padre, e di seguire
Con un suo cenno in trapassar la invita;
Ed ella fu prontissima a obbedire.
Non fu la cosa allor forse avvertita.
Ma che lo fosse ancor, di che stupire
In veder l'abatin col gesuita ?
Gesuiti non son preti nè frati:
Dunque che diavol son, se non abati ?
Entrambi entrar nello stanzino oscuro.
Angusto e basso e mal guarnito è il loco,
Un desco in mezzo, e due o tre scanni al muro.
Lasciamli pur nell'amoroso gioco,
Che dell'angustia (io ne son ben sicuro)
Non s'imbarazzeran molto nè poco,
Che qui parlar d'un certo affar degg'io
Ch'è il grande oggetto del racconto mio.
Fra i diversi avventori e dilettanti
Che gian dell'oratorio ai vespertini
Divoti riti e agli esercizi santi,
Non zerbinotti solo ed abatini,
Ma v'erano cocchieri e cavalcanti;
Ed uno addetto al cardinal Corsini
Assai cognito in Roma era fra quei,
Bravissimo a guidar la muta a sei.
Costui presso alla stalla un giovin orso
Con sì gran cura avea dimesticato,
Che vestitol da donna, avealo al corso
Talvolta il carneval seco menato;
E allor d'immenso popolo un concorso
250
Correa per veder l'orso immascherato.
Grati son gli orsi a chi ha di lor custodia;
Fai beneficii all'uomo e l'uomo t'odia.
Nacque egli in Rieti e si chiamò Liborio,
Uom stravagante e d'un umor bizzarro.
Costui pensò una sera all'oratorio
Seco l'orso portar sotto il tabarro.
Fatto conosciutissimo e notorio
E non mica una favola vi narro,
E per quanto rischiosa a un tempo e folle
Fosse l'idea, pur eseguir la volle.
E per più giorni accostumatol pria
A star sotto il mantel tranquillo e chiotto,
La sera stessa all'adunanza pia
Furtivo se n'entrò coll'orsacchiotto.
E quando i lumi poi fur tolti via,
Lasciò andar l'animal che tenea sotto.
Quei pria rimase un pocolin confuso,
E or qua or là fiutando gia col muso.
Ma incominciossi tosto a intimorire
Al primo schioppettio delle percosse;
Scappar volea, e non sapea dov'ire.
Pur fra quel bujo per fuggir si mosse,
E in molti urtò, che non potean capire
Che mai quegli urti e l'urtator che fosse.
Molti avendo sul pel poste le mane,
Via lo cacciaro e lo credetter cane.
Talun moto in sentir, qual far si suole
Se altrui vuolsi parlar, volgesi e intende
Sol mugolar, non proferir parole;
E ver quel mugolio la man distende,
E cerca e tasta e assicurar sen vuole,
E un freddo orecchio tasteggiando prende;
Tremante a se la man ritira a un tratto,
Poichè è una bestia, e la conosce al tatto.
Altri, mentre con man lieve e flemmatica
Qualche colpetto ad or ad or si dava,
Applicar si sentì sopra una natica
Un non so che che vi lasciò la bava.
E comprender non può per qual simpatica
Affezion, forse indecente e prava,
Una qualunque sia sudicia bocca
Il casto deretan gli bacia e tocca.
Ma mentre urla scorrendo e s'avvicina
L'orso ora a questo ed ora a quel fratello,
251
Ricevea spesso qualche sferzatina.
S'inquietò pria, poi s'infierì bel bello,
Ch'ei là non venne a far la disciplina;
Onde or sgraffiava questo, or mordea quello.
Ah ! L'uno duolsi, un sgraffio: ahi ! l'altro, un morso;
Quei grida, è un porco, e questi grida, è un orso.
A lor grand'agio in amoroso spasso
Stati eran fin allor nello stanzino
Il padre e Ghita, quando alto fracasso
Nell'oratorio udir ch'era vicino,
Ond'escon fuor con frettoloso passo;
Che con un benchè apocrifo abatino
Sorpreso insieme chiuso il confessore
Scandal saria del vero mal maggiore.
Ficcossi appena Ghita entro la folla,
Che l'orso tratto dall'odor donnesco
Lascia ogni altro, e ghermendola afferrolla
Per quel suo tale instinto animalesco,
Che in lui più s'irritò, perchè trovolla
Di venereo vapor sparsa di fresco.
Dice la storia natural, che il fiuto
Dell'orso per tai cose è molto acuto.
Figuratevi qui le tenerine
Membra dell'amorosa umana Ghita
In un istante fra le branche orsine
Dalle braccia passar del gesuita,
Come d'in sulle rose in sulle spine.
Più che si scuote e più che implora aita,
Pìù quei la stringe colla forte zampa,
E tutto di brutal lussuria avvampa.
Divota non fu Ghita a vero dire;
Pure abbrancar sentendosi dall'orso,
Pensò che il ciel volesse in lei punire
L'atto nello stanzin poc'anzi occorso;
Onde allor cominciando a risentire
Del fallo impuro insolito rimorso,
Tanto se le scaldò la fantasia,
Che crede che quell'orso il diavol sia.
Natura interno lume a ognun che nasce,
E ragionante facoltà concesse;
Ma se nel pensator ch'è fra l'ambasce
Spesso veggiam ripullular le stesse
Timide idee, che in lui fin dalle fasce
Imperiosa educazione impresse;
Quanto accader ciò dee più facilmente
A quel cui ragionar noja è sovente ?
252
Presa Ghisa perciò dallo spavento,
E della smania nell'eccesso assorta,
Misericordia ! ripetea, mi pento,
Misericordia ! il diavolo mi porta.
Eccolo qui, eccolo qui, lo sento.
Vengono i lumi allor, chi un cristo porta,
Chi l'immagin d'un santo o d'una santa,
Chi gli esorcismi ha in man, chi l'acqua santa.
L'un versa di quell'acqua benedetta
Sopra il supposto diavolo una secchia,
Come sovra un incendio acqua si getta;
E chi leggendo in pergamena vecchia,
L'infernal bestia a scongiurar s'affretta;
Ma non dà quegli scongiuri orecchia
Scrolla la testa e batte la ganascia
Sbuffa e la presa sua non però lascia.
Er'altro cavalcante a quegli arcani
Riti presente e agli esercizi bui,
Addetto al principin Giustiniani,
Nemico di Liborio e al par di lui
Ammazzasette e menator di mani.
Fra il tumulto e lo strepito costui
Si spinse avanti in mezzo all'oratorio,
E disse: questo è l'orso di Liborio.
In questo dir Bernardo un coltellaccio
(Bernardo ei si chiamò) tirò di tasca,
Di cui provvisto è in Roma ogni bravaccio;
Fere l'orso alla gola, e quello casca,
E Ghita liberò da brutto impaccio.
Poi disse: s'egli è il diavolo, rinasca;
E se Liborio ha nulla a dir, son pronto,
Si faccia avanti, e pagherogli il conto.
Liborio, o dei padron per lo riguardo,
O temendo del pubblico lo sdegno,
O non volendo col rival Bernardo
In quel momento aver briga nè impegno,
Temerario sapendolo e gagliardo,
O qualunque altro fosse il suo disegno,
Disposto a far baruffa allor non parve,
E inosservato di colà disparve.
Ghita pel suono della voce acuta,
Che fe' chiaro sentire in quel clamore,
Un castratin fu in general creduta,
Ed inquieto il padre confessore
Ch'ella non fosse alfin riconosciuta,
253
Si studiò d'accreditar l'errore;
Che in Roma di color ve n'eran molti
Generalmente accarezzati e accolti.
Alla malconcia Ghita ogni soccorso,
Che anch'egli Ghita un musico credette,
Diè qual potè l'ammazzator dell'orso,
A casa accompagnolla, ov'ella stette
Egra e giacente, ed ebbe al ciel ricorso,
E per tre giorni alla pietà si dette.
Fu santa per tre dì, poi s'annojò,
E a far la vita solita tornò.
Intanto di città ne' crocchi vari
Incominciò la cosa a propalarsi,
E quantunque co' lor modi ordinari
I padri non cessar di protestarsi
Di sì inette imposture affatto ignari
E che con tai discorsi ad arte sparsi
Voleasi por la società in discredito;
Pur l'oratorio ognor perdea di credito.
Dicon che i cavalcanti aspro duello
Incontratisi un dì fer fra lor due;
E battutisi a colpi di coltello,
Del rival vincitor Bernardo fue,
E che grata allor Ghita inverso quello
Fu liberal delle bellezze sue.
Che se peccando gratitudin s'usa,
Anche alcun peccatuzzo allor si scusa.
Ma ciò che più appartiene al caso mio
È di mostrar che quanto io v'ho narrato
Conforme esattamente è a quello ch'io
V'avea da bel principio annunziato;
Perchè quanto prometto io non l'obblio,
E credo omai col fatto aver provato,
Che ancor nell'oratorio, o Donne care,
Talvolta l'orso ha qualche cosa a fare.
254
LA CONFESSIONE PUBBLICA.
NOVELLA XIX.
Poichè, o Donne, dell'orso di Liborio
Voi m'ascoltaste poco fa parlare,
Il qual nel gesuitico oratorio
Fe' molto ei stesso, e altrui diè molto a fare;
Oggi per supplemento ed accessorio
Vi voglio un altro aneddoto narrare
Per non tornar di nuovo un tempo appresso
A por le mani nel soggetto stesso.
Giunse in quel tempo in Roma un calabrese
Cognito avventurier nato in Mileto,
Che per delitti celebre si rese,
E per caratter torbido inquieto;
Onde sfrattar dovè dal suo paese
Per solenne giuridico decreto;
Di là partendo, in Puglia ed in Abruzzo
Portò di sue scelleratezze il puzzo.
Fu sgherro insigne e d'omicidi reo,
Qua e là vagando e mal oprando visse.
E benchè lo chiamasser Scannadeo,
Peppo fu il nome suo; di zuffe e risse
Pasceasi, e ovunque ognor tante ne feo,
Ch'ogni governo lo scacciò e proscrisse;
Onde fuggiasco in Roma alfin sen venne,
Ove di sgherro il credito mantenne.
Poichè dovunque gia, tardava poco
A mostrarsi qual fu lo stesso sempre;
Che mai non vidi per cangiar di loco
Chi l'indole natia corregga e tempre;
Nè morbo o avversità, nè acqua, nè fuoco
A natura può dar novelle tempre;
Onde, come avea fatto altrove ognora,
Si fe' nemici molti in Roma ancora.
Pur delle donne il drudo egli divenne,
Che tai campioni piacciono al bel sesso.
Perciò il bravazzo e il libertino venne
Ognor di belle all'amicizia ammesso,
E sovra ogni altro i lor favori ottenne.
Robusto in oltre egli era e ben complesso
Da riuscire a ogni operosa prova,
Cosa che tanto in tali casi giova.
255
Il vigoroso aspetto e l'aria fiera
Perciò lo distinguean fra i dilettanti,
E una sua tal particolar maniera
Usando colle femmine galanti,
Lo sfacciato berton divenut'era
Il flagel dei mariti e degli amanti;
E per gli aspri suoi modi e pel suo bieco
Sguardo nessun volea dispute seco.
Era in quel tempo in Roma un tal Matteo,
Che avea moglie assai bella, e sommamente
Geloso era di lei; ma Scannadeo
Sul furor dei mariti indifferente
Si pose a far con essa il cicisbeo,
E in casa della bella era frequente;
Nè al geloso marito alcun riguardo
Usava, e appena gli volgea lo sguardo.
Come talor dal cacciator ferito
Gira sbuffando i torbi sguardi il verro,
Mirava il gelosissimo marito
Per casa andar lo scellerato sgherro;
Ma d'aprir bocca ei non avrebbe ardito,
Che per nulla colui pon mano al ferro;
E Matteo timid'era, e qual coniglio
Tremante a ogni lieve ombra di periglio.
Ed ella che d'attorno una gran schiera
Avea sempre d'amanti insidiosi,
Per vendicarsi della vita austera
Ch'ei menar le faceva, agli amorosi
Inviti compiacente e facil era,
Come soglion le mogli de' gelosi;
Sicchè nè d'esser a Matteo fedele
Mai si piccò, ne a Scannadeo crudele.
Or della gelosia or del timore
Fra le continue angustie e l'imbarazzo
Così rodeasi e arroventiasi in core,
Che parea presso a divenirne pazzo;
E dimostrar l'interno suo rancore
Non osando col burbero bravazzo,
Pensò sfogar le smaniose doglie
A solo a solo coll'infida moglie.
E presa un giorno a parte la mogliera,
Brusco le disse e minaccioso: orsù,
Io per casa costui non vo' vedere,
Bada ben ch'io non abbia a dirtel più.
O caccial tosto, o te n'avrai a dolere.
256
Ed ella: e che poss'io ? scaccialo tu.
A scacciarlo, ed uom sei, tu non sei buono,
E vuoi che lo scacc'io che donna sono ?
Quantunque Scannadeo non desse retta
A molesta impotente gelosia;
Pur, acciocchè quand'ella era soletta
Matteo non tormentasse la Lucia,
(Che la moglie di lui Lucia fu detta)
Un giorno che Matteo, come avvenia,
Era colà, facendo il disinvolto,
Quasi a caso il discorso a lui rivolto,
Scannadeo gli dicea: sentimi, amico,
Sai ch'io son galantuomo e son sincero,
E se mai nol sapessi, or io tel dico,
E quello che dich'io, tiello per vero;
Perocchè io soglio per costume antico
Cogli amici parlar senza mistero;
Onde credo far ben, s'io ti prevengo
Del perchè in casa tua sovente io vengo.
Vi vengo, ed a tua gloria il deggio dire,
Vengo, perchè non sei come quei sciocchi
Che tormentan le mogli, ed impedire
Vorrian che niun le guardi e niun le tocchi;
Costor non gli ho potuto mai soffrire,
E dirotti, or che siam soli e a quattr'occhi,
Che dei mariti che volean con me
Fare i gelosi ne ho ammazzati tre.
Ed ecco la ragion, per cui sovente
Vedi che in casa tua venire io soglio.
Vengo, perchè sei di tal vizio esente;
Che se tal tu non fossi, io ch'ho l'orgoglio
Di non farmi seccar da simil gente,
Forse non vi verrei, perchè non voglio,
Giacchè mai dal mio stil non mi diparto,
Mettermi in caso d'ammazzare il quarto.
Lucia, che a tempo forse il drudo istruito
Già del discorso avea che a lei fu fatto
Dal marito ed intesa era di tutto,
Ridea furtivamente e di soppiatto,
Vedendo che con viso arcigno e brutto,
Qual stassi avanti a grosso cane il gatto,
Mutolo ad ascoltar stassi, e le chiappe
Per lo timor gli facean lappe lappe.
Peppo in ver soli due non tre mariti
Sommariamente con veleno avea
257
Per reità di gelosia puniti;
Ma di sue geste il numero accrescea,
E di sua nobil alma i requisiti;
Perchè il rozzo Matteo render volea
Docil, gentil; e per un fin sì retto
L'esagerazion non è un difetto.
Che o fosse vanità, fosse impudenza,
Delle sue scelleraggini sovente
Peppo il racconto fea con compiacenza;
Che sopra altrui parer grande, eminente
Ama spesso talun; siasi eminenza
Di vizio o di virtù, è indifferente.
Se le virtù non può, sol basta a lui
Se giunge a sorpassar i vizi altrui.
Nella turba di quei che con Lucia
Occulti intrighi avuti avean d'amore,
Eraven un chiamato Zaccaria,
Giovin vivace e di bizzarro umore.
Malgrado di Matteo la gelosia,
Qualche furtivo passeggier favore
Dalla moglie carpito aver anch'ei
Dicean gli spiator de' cicisbei.
Or costui furioso era all'eccesso
Peppo a veder presso alla bella intruso,
E tranquillo godersene il possesso,
Ed esser egli bruscamente escluso
Più dal berton che dal marito stesso;
E benchè non osasse a muso a muso
Con quell'ammazzator porsi in cimento,
Di vendetta attendea sempre il momento.
Anzi Matteo, che fissi in mente ha ognora
L'iniquo drudo e l'infedel mogliera,
L'astio per isfogar che lo divora
A Zaccaria ravvicinato s'era,
E di Peppo parlavagli talora,
Lo che facea con altri pur; che spera
Di sue malvagità renderli istrutti,
E contro lui l'odio eccitar di tutti.
L'opre di quell'avventurier da forca
Zaccaria con piacer raccoglie e ascolta;
E acciò a suo scorno un dì le volga e torca
Collezion ne gia facendo, e molta
Massa egli avea di mercanzia sì sporca
Del capo suo nel magazzin raccolta;
Poichè per eseguir molto gli giova
Un tal progetto suo che in mente cova.
258
E inchiesta tal gran pena a lui non dette;
Poichè l'istoria dell'infame vita
D'iniquità non scritte mai nè dette
Al collettor vastissima, infinita,
Serie forniva; e quando alfin credette
D'avere ampia materia insieme unita,
Per ottenere il desiato intento
S'accinse tosto a dargli il compimento.
Del Caravita la santa adunanza,
Di cui parlai poc'anzi, era in quel tempo
Famosa divenuta ed all'usanza;
Ond'anche Zaccaria di tempo in tempo,
Se qualche oretta da impiegar gli avanza
Recarvisi solea per passatempo;
Che, far credendo un atto meritorio,
Dal bagordo passava all'oratorio.
E anche a Scannadeo, che udia sì spesso
In confusa parlar varia maniera
Di quel pio gesuitico consesso,
Venne la fantasia d'irvi una sera
Per osservar co' suoi propri occhi ei stesso
Quella santa combriccola cos'era,
E del primo annottar sull'ore ombrose
Sconosciuto introdurvisi propose.
Alla Lucia comunica il pensiero,
E un dì che ghiribizzo gliene chiappa,
Ponsi spaso cappello, e con un nero
Ampio mantel da capo e piè s'accappa;
E avvoltolo alle spalle, il venturiero
Tutta dagli occhi in giù la faccia tappa;
E vanne all'oratorio, e giunge appunto
Che Zaccaria poc'anzi eravi giunto.
Entra ed osserva quel devoto crocchio,
Che nell'oscurità misteriosa
Chi si confessa e chi prega in ginocchio,
Chi getta un gran sospir, chi non nascosa
Malizia l'altro ad or ad or sott'occhio
Guarda, poi sghigna, e a Scannadeo la cosa
Parea buffona assai; ma pur si pose
Tacito osservatore e in un cantone.
Ma già in pulpito è il padre, e scaraventa
Un fervido sermon che Peppo annoja.
Ride talor, talor, non che si penta,
Manda oratorio ed oratore al boja.
Indi un fratel le sferze a quei presenta
259
Che della carne aman domar la foja,
E Peppo con ironico sogghigno
Prese anche il suo flagellatore ordigno.
Spenti i lumi, una voce udì gridare:
Per mia confusion d'ogni mio eccesso
Pubblica io vo' confession qui fare,
Ma non spero perdon. Dio l'ha promesso,
Un padre rispondea, nè può mancare,
Pentiti, figlio mio, d'ogni commesso
Tuo fallo, e sia pur egli enorme e brutto,
Pentiti, figlio, Iddio perdona tutto.
Di mia vita, seguia, farovvi il quadro,
E vedrete quant'io son scellerato.
Sono un briccon, sono un sicario, un ladro,
Fanciulle e spose a furia ho violato,
Ogni luogo ove fui misi a soqquadro
Amici ed innocenti ho assassinato.
Troppo gran peccator, fratelli, io sono;
No, non spero e non merito perdono.
Figlio, non disperar, Dio s'è fatt'uomo
Per salvar tutti, il padre ripetea.
E Scannadeo, cotesto galantuomo
Mi rassomiglia un po', fra se dicea.
E il penitente: io far potrei un gran tomo,
Se della vita mia malvagia e rea
Numerare i delitti ad uno ad uno
Volessi, pure io ne dirò qualcuno.
In una gran città di questo mondo
Dal convento una monaca ho rapita,
E alcun tempo facendo il vagabondo
Andai con essa da lacchè vestita
Finchè, in un di campagna albergo immondo
Lasciatala mezz'ebbra ed addormita
Dell'oste in letto in vece dell'ostessa,
Con lei d'accordo men fuggii con essa.
Quest' avventura par proprio la mia:
Poffareddio ! Peppo dicea fra' denti;
Costui vorrei saper chi diavol sia.
Come s'incontran spesso i bei talenti !
Tre mariti vi fur, colui seguia,
Che volendosi opporre agl'indecenti
Modi ch'io tenni colle lor consorti,
Un dopo l'altro tutti e tre gli ho morti.
Giuro al ciel, dicea Peppo, ho gran sospetto
Che confessando i suoi voglia costui
260
I mie fatti accusar; poichè in effetto,
Quantunque uccisi non abbia io che dui
Mariti, averne uccisi tre l'ho detto,
E or dic'ei ciò che udì; ma guai a lui
Se lo scopro per finto confitente;
Peppo non si dileggia impunemente.
E il padre proseguia: fa penitenza,
Sì, falla, figlio, e poi confida in Dio.
Maggior d'ogni delitto è sua clemenza.
E quei, per mia vergogna il nome mio
Vo' palesar di tutti alla presenza.
Sì, chi son io sappia ciascun; quell'io
Di tante iniquità carico e zeppo
Detto son Scannadeo, ma ho nome Peppo.
Or, Donne mie, costui che in tal maniera
I non suoi falli pubblicando gia,
E la sua nascondea persona, vera,
Io so che voi capite ben chi sia;
Perocchè Scannadeo certo non era.
E chi è dunqu'egli ? Brave ... è Zaccaria,
Cui venne in testa sì bizzarra idea,
Perchè infamarlo in pubblico volea.
Vedendo il vero Peppo ivi presente
Che farsi creder Peppo altri procura,
Di subit'ira s'infiammò talmente
Che, brancolando per la stanza oscura,
Ver colui che il suo nome usurpa e mente
S'indirizza, e fra se bestemmia e giura
Che, se lo giunga ad acciuffar pel collo,
Torcer gliel vuol, come s'ei fosse un pollo.
E intanto donde il suon delle parole
Venia, sen va tastoni, e al fin l'afferra,
Come afferrar colombo aquila suole,
E impetuosamente il caccia a terra;
E perchè tosto disbrigarsen vuole,
Sì strettamente il gorgozzul gli serra,
Che omai il soffoga, e invan colui si scuote,
Favellar tenta e favellar non puote.
Ma Peppo grida: Ah ! mentitor birbante,
Tu dunque usurpar osi il nome mio ?
Quel Peppo io son, che tu d'esser ti vante,
Sì, ribaldo impostor, Peppo son io,
A cui tu apponi scelleraggin tante,
Ma ben io ten farò pagare il fio.
Qui vo' strozzarti, o anima di cane,
E qui morir dovrai per le mie mane.
261
E frattanto il meschin dell'arrabbiato
Sgherro brutal gemea sotto la branca
Cupo a stento tramanda urlo affannato,
Che già la forza ed il respir gli manca.
All'improvviso strepito impensato
Altri fugge da dritta, altri da manca,
E un nel fuggir urta nell'altro e casca,
E v'è a temer, che più gran mal non nasca.
Portansi avanti i lumi, e ad alta voce
I custodi si chiamano e i serventi,
E sen vide uno stuol venir veloce
Al tumulto, alle grida ed ai lamenti.
Chi un candelier, chi un manico di croce,
Chi forca ha in man, chi palo, e a forza e a stenti
Il misero di sotto a quel cattivo
Trassero alfin più morto assai che vivo.
E Peppo, tosto che s'aprir le porte,
Si sottrasse al periglio ed al tumulto,
Che niun far fronte, benchè ardito e forte,
Può di gran folla all'ira ed all'insulto.
Bestemmiando giurò vendetta e morte:
No, non andrà cotanto affronto inulto,
Dicea, se a quel birbon io non inzeppo
Un pugnale nel cor, non son più Peppo.
La notte i padri tenner concistoro
Per far che resti la baruffa ascosa
Della lor società per lo decoro;
Pur traspirò nel pubblico la cosa,
E ne parlaron tutti a modo loro,
E facendo vi gian comento e chiosa;
Ma i padri si portar con tal prudenza,
Che l'affare non ebbe conseguenza.
Pure a quel che poc'anzi erasi corso
Nell'oratorio non leggier pericolo,
Come dicemmo, per cagion dell'orso
Sendosi aggiunto questo nuovo articolo,
Divenne in Roma il principal discorso,
Che l'oratorio assai pose in ridicolo.
Prendi qualunque oggetto augusto, egregio,
Ridicolo divien ? perde ogni pregio.
Da molti ho inteso dir che Scannadeo
Desse poscia la morte a Zaccaria,
E del governo, che inseguir lo feci,
Le ricerche a schivar fuggì in Turchia,
E dalle angustie liberò Matteo
262
Della paura e della gelosia,
E che colà al supplizio orribil tetro
Dannato fu d'avere un palo dietro.
263
IL CAPPUCCINO.
NOVELLA XX.
Tu che la social compage rompi,
Orgoglio, idropisia dei capi umani,
La natural semplicità interrompi
E a veri pregi preferisci i vani;
E tu, interesse vil, che i cor corrompi
E i più sacri dover calchi e profani;
Voi mostruosi vincoli stringete,
E quei che amor formati avea sciogliete.
In conferma di ciò vo' questa sera,
Cortesi Donne mie, di Ghita e Nino
L'esatta raccontarvi istoria vera,
A cui se titol posi, Il Cappuccino,
Vedrete ben, ch'una ragione v'era,
Ch'io sempre dietro alla ragion cammino.
Ghita e Nino ambi nacquero in Anagni
D'età, di patria e d'indole compagni.
Sopra alpestre eminenza Anagni sorge
Fra insalubri vapori; e le appennine
Balze, donde ver Borea il fianco porge,
Le fan da lunge orizzontal confine;
E dalla parte austral domina e scorge
La fertile pianura e le colline.
Esalan da quegli umidi cacumi
Di nobiltà fuliginosa i fumi.
Ambo vicina avendo la dimora,
Conoscersi, vedersi, insiem trovarsi,
Ghita e Nino dovettero talora
Fin dalla prima infanzia, e trastullarsi
Fra puerili giochi; e fin d'allora
S'amavan forse e non sapean d'amarsi;
Sol parean indicibile piacere
Nel lor frequente conversar godere.
Ghita, in età crescendo, ognor fu vista
Vinta da noja starsene in assenza
Del suo bel Nino taciturna e trista,
Ed ei senz'essa pien d'impazienza,
Tosto ch'è seco, il gajo umor racquista.
Or quella insuperabile tendenza
Ch'uno per l'altro risentia nel core,
Che altro era, Donne mie, se non amore ?
264
Ambo giunti ai tre lustri e in età pari
Cominciaro a parlar di matrimonio;
Ma furon loro i genitor contrari,
Poich'erede è di ricco patrimonio
Nino, e non Ghita; ma più illustri e chiari
Avi ella vanta e di più antico conio,
E la famiglia sua brilla fra quelle,
Onde Anagni è si altier, dodici stelle.
Acciò non siate, o Donne mie, ridutte
A scombujar voi stesse archivi e codici,
Ei sarà ben che da me siate istrutte,
Che in Anagni vi son famiglie dodici,
Che rigido scrutin subiron tutte
Dei genealogisti i più metodici,
E ch'esistean pria ch'esistesse Roma,
E d'Anagni il blason stelle le noma.
Dunque per tali ostacoli e per quella
Disparità di rango e di fortuna
Nino ad unirsi alla sua Ghita bella
Più non avendo omai speranza alcuna,
E non potendo vivere senz'ella
Con cui vissuto avea fin dalla cuna,
Cruccioso contro il fiero suo destino
Risolse d'ire a farsi cappuccino.
Altri, poichè ha le sue idee ciascuno,
La fe di Nino ammiri e la costanza;
In quanto a me parmi veder taluno
Cui se vietata vien qualche pietanza,
Vuol d'ogni cibo rimaner digiuno,
E se non può per medica ordinanza
Mangiare o del prosciutto o del salame,
Per dispetto egli vuol morir di fame.
Or invece di dar savio consiglio,
Richiestone da Nino il genitore
Tosto all'istanza acconsentì del figlio,
Ed approvò l'inopportun fervore.
Così egli che pria fe' tanto bisbiglio
Contro i nodi legittimi d'amore,
Per interesse in voce e in scritto approva
Ciò che natura e la ragion riprova.
Nino poi si portò dal parrocchiano
E di quel suo proposito instruillo;
Quegli il giovin lodò che dal profano
Mondo a tempo s'invola, e benedillo,
E sopra il capo posegli la mano;
265
Munita poi del parrocchial sigillo
E del santo battesimo gli diede
E dello stato libero la fede.
Io ti compiango, o povero Ninuccio !
L'amor ti destinava e la natura
Deliziosi giorni, e tu per cruccio
Il capo sottoponi alla tonsura,
E t'imbacucchi in ruvido cappuccio.
Stringerai grossa fune alla cintura,
Le rozze vestirai sudice lane
E stentata farai vita da cane.
La risoluzion precipitosa,
Onde Nino a vestir già s'apparecchia
L'abito monacal, dell'amorosa
Ghita già pervenuta era all'orecchia,
Che pria che compimento abbia la cosa
Per mezzo d'una pia divota vecchia
Ottenne di parlar per qualche istante
Nascostamente al disperato amante.
Che non disse la tenera fanciulla
Per distor Nino dal crudel pensiero ?
Ma i prieghi e le ragion non valser nulla,
Che Nino rispondea: nulla più spero.
Fin la lusinga omai distrugge e annulla
Quel ch'han sopra di noi rigido impero
I nostri genitor: se mia non sei,
Ah come, come mai viver potrei !
E soggiungea; celarti ancor non voglio
Che inoltrato è l'affar più che non credi.
E qui tirò di tasca il portafoglio,
E seguia: del battesimo qui vedi,
(E or un mostrava ed or un altro foglio)
E dello stato libero le fedi,
Ed è il consenso in questa carta espresso
Scritto di pugno di mio padre istesso.
Ma Ghita l'opportun momento coglie,
Mentre Nino raccontale i suoi guai,
E le carte in un attimo gli toglie.
Ghita, Nino gridava, oh Dio ! che fai ?
Rendimi i fogli miei; che strane voglie !
No, Ghita rispondea, no, non gli avrai.
Ma tempo è di staccarsi, ond'ella parte,
Dagli un baciucchio, e porta via le carte.
Sebben de' fogli suoi Ghita lo priva,
Nino restò fisso in voler partire,
266
Ed agli amici suoi disse, ch'ei giva
Di san Francesco l'abito a vestire.
Parte e niun seppe s'ei morì, s'ei viva.
Così, forse volendo intenerire
il duro genitor, sperava un giorno
Più indulgente trovarlo al suo ritorno.
Poichè di Nino suo la fuga apprese
La desolata inconsolabil Ghita,
L'entusiasmo dell'amor la rese
Oltre ogni creder coraggiosa e ardita,
E Nino di seguir partito prese.
A scura notte da garzon vestita
Aprì di casa una secreta porta,
Ed esce e vanne ove il destin la porta.
Per boschi e valli solitarie un pajo
Di giorni errò dal suo destin condotta,
E se incontrò bifolco o pecorajo,
Comprossi un po' di cacio o una pagnotta.
Sdrajasi il terzo dì sotto un pagliajo
A un padule vicin quando s'annotta,
Ulular gufi e gracidar ranocchi
Udendo, finchè chiuse al sonno gli occhi.
Non si destò, finchè sul far del giorno
Mugghiar gli armenti ed abbajare i cani
E voci e moto udì per ogni intorno
E con istrida altissime i villani
Fare ai lavori soliti ritorno,
E spaccar tronchi, e con robuste mani
I tagliator di legna in sulle dure
Querce sonori dar colpi di scure.
Più Ghita in sulla paglia allor non resta,
Ma d'un picciol sentier siegue il cammino,
Quando avente sugli omeri una cesta
Alla sua volta vide un contadino
A traverso venir per la foresta,
Cui disse: amico, in grazia hai visto Nino
Per sorte errando andar per questo bosco ?
E quei: cotesto Nino io nol conosco.
Ed ella: è Nino un giovine d'Anagni
Di cui più bello non si può vedere.
Ha in grazia e cortesia pochi compagni
E nelle soavissime maniere.
Ampia ha la fronte ed i capei castagni,
Candidi i denti e le pupille nere.
Poc'anzi, oh Dio ! meco era, e l'ho perduto.
E quei: no, figlio mio, non l'ho veduto.
267
Qualche lacrima allor dal ciglio molle
Giù per le belle guance giovanili
Caddele, e invano ella celar lo volle.
Fissò le luci al suol, poi con gentili
Modi al villan chiedea; sovra quel colle
Io veggio case, torri e campanili.
Dimmi, havvi colassù città o castello ?
Figlio, il villan rispose, Alatri è quello.
Siegue allor Ghita tra l'ombrose piante,
Qual altra Erminia in traccia di Tancredi,
A ricercar del fuggitivo amante;
Ma Erminia era a cavallo, e Ghita a piedi,
A gran rischio che lei qualche birbante
Venga a frugar sotto i virili arredi.
Di fame e di languor vacilla e casca,
E quel ch'è peggio, non ha un soldo in tasca.
Il pericol per lei troppo è imminente,
E la cosa è ridotta ad evidenza;
Che se non pensa seriosamente
Qualche modo a trovar di sussistenza,
Andrà a perire inevitabilmente.
Tai disagi soffrir, tant'astinenza
Non può fanciulla non abituata
E di complession sì dilicata.
In circostanze tai si risovvenne
Che seco avea le carte e gli attestati,
Che a Nino tolse e presso a se ritenne,
E avea gelosamente conservati;
E di trarne partito idea le venne,
Tal partito però da disperati.
E fra riflessi sì funesti ed atri
Lentamente la via prese di Alatri.
Ove ti trasse amor, povera Ghita !
Si avanza a quella volta passo passo
Digiuna, afflitta, stanca e rifinita.
E or presso a un rio s'asside, or sopra un sasso
Per prender lena, e appiè della salita
Posò su praticello il fianco lasso,
Quando in un carrettin contadinotta
Vide appressar da un asinel condotta.
Era una fresca giovine ortolana
Che amava molto i giovinetti belli;
Ha di falsi coralli una collana,
Bruno il color, nerissimi i capelli,
Bianco il grembiule e rossa la sottana,
268
E il busto pien di fiocchi e di bindelli,
E ampio don la natura aveale fatto
Di ciò che può allettar la vista e il tatto.
Portava rape, cavoli e cipolle,
In Alatri per venderle al mercato,
Quando Ghita mirò di sudor molle
Stanca giacersi sull'erboso prato.
Seco sul carrettin prender la volle,
Poichè la crede un giovin dilicato;
Onde le disse: o giovin passeggero,
Ite in Alatri ? Ed ella: io n'ho il pensiero,
Ebben, dicea colei, vi vado anch'io:
La via comincia qui ripida ed erta,
Salir potreste sul carretto mio.
Sì bel ragazzo, come voi, non merta
Di scalmanarsi a piè su pel pendio.
E poichè lei vide accettar l'offerta,
Venite, ripigliò, qui ci si cape,
Ponetevi a seder su queste rape.
Sul rozzo ella montò picciolo cocchio,
E l'ortolana da un canestro tira
Del pane, del salame e del finocchio,
E le stringe le man, fiso la mira,
E par la voglia divorar coll'occhio,
La tocca, l'accarezza e poi sospira.
Punto ella a ciò non bada, e quel salame
Quasi tutto mangiò per la gran fame.
Intanto un grande scampanio s'intese
E incudi e colpi di martel vicini;
All'ortolana allor Ghisa richiese:
In Alatri vi sono i cappuccini ?
Ve' dimanda ! pur troppo, ella riprese,
Ve ne son di cotesti babbuini.
Ma perchè mai dimande far sì pazze ?
Chiedete se vi son belle ragazze.
Costui, dicea fra se, per quello ch'odo,
Esser dovrebbe un colombin novizio.
Oh questa veramente me la godo !
Che sì che gli darò dell'esercizio
E saprò scozzonarmelo a mio modo.
Oh come il menerò ! ma con giudizio
Convien condur la cosa; e seguia poscia
Tenendole la man sopra la coscia:
Giacchè questa materia abbian promossa,
Ditemi, avete mai fatto all'amore ?
269
Pur troppo, rispos'ella, e si fe' rossa.
A quel tronco parlar, a quel rossore,
L'ortolana dicea come commossa
Certo qualcosa avete voi nel core,
Qualche donna in città vi diè de' guai.
Le contadine son migliori assai.
Ghita, sebben modesta e contegnosa,
Tai discorsi in udir fra se sorride,
E senz'esser di più maliziosa
Da sì fatti preludi ella s'avvide
Ove colei menar volea la cosa;
E quando presso alla città si vide,
Di smontar chiede, invan colei pretende
Di ritenerla; ella dà un salto e scende.
Grida allor l'ortolana iratamente
Eccolo là, mi pianta come un cavolo
Quel ragazzaccio ingrato, impertinente,
E il tolsi meco e così ben trattavolo !
Ora va, fa del bene a simil gente.
Rompiti il collo pur, vattene al diavolo.
Ghita alle villanie dell'ortolana
Non bada, non le cura e s'allontana.
De' cappuccini poscia ita al convento,
Presentatisi al padre guardiano,
Manifestogli il suo proponimento
D'entrare in quel sant'ordin francescano,
E del padre col pien consentimento,
E colle fedi autentiche alla mano
E del libero stato e del battesimo
Si disse Nino o Bernardin medesimo
Il padre guardian, da entusiastico
Zelo animato e da fervor fratesco
D'aggiungere un proselito al monastico
Ordine del serafico Francesco,
Il pensiero approvò strano e fantastico
Di giovinetto sì inesperto e fresco.
Fattale sul cocuzzolo la chierca,
La veste cappuccin, nè più ricerca.
Potentissimo amor per quai prodigi
Arditi i vili, ed umili gli altieri,
Forti gl'imbelli, e mansueti e ligi
I più indocili rendi animi fieri !
Tu Ghita trasformata in fra Luigi
Assoggettasti agli esercizi austeri.
Degl'infortuni suoi te Nino incolpa,
E se frate or non è, non è tua colpa.
270
Or non direste, o Donne mie galanti,
Ritornati i bei tempi romanzieri
Delle Angeliche e delle Bradamanti,
D'Astolfi, dei Rinaldi e dei Ruggieri,
E d'altre donne e cavalieri erranti ?
Col divario che gian quei venturieri
Gloria cercando, i nostri innamorati
Van per disperazione a farsi frati.
Ghita, poichè le dilicate membra
Delle sacre coprì ruvide lane,
Nè donna più, ma un fraticello sembra;
Le venerande barbe veterane
Il santo chiostro intorno a lei rassembra,
E ne tien lungi l'anime mondane;
Ma in una lor procession solenne
Noto in città fra Luigin divenne.
Procedeva a occhi bassi e a capo chino
Scalza, rasa la testa e un cristo in petto,
E i sguardi tutto il popolo alatrino
Tenea rivolti al bel cappuccinetto;
E le donne dicean: quanto è carino
Quel fraticello ! è proprio un angioletto
Mirate ! è giovin, giovin senza pelo:
Beato lui ! s'è assicurato il cielo.
Oh ! se la facoltà di confessare,
Dicea taluma, gli daranno i sui
Superiori, e lo dovrebber fare,
A confessarmi non andrò d'altrui,
Poichè inspirazion particolare
Sento d'andarmi a confessar da lui;
E certo esser dovrebbe un gusto pazzo
Di confessarsi da un sì bel ragazzo.
E al convento ogni dì turba indiscreta,
La cui curiosità non è mai sazia,
E che gli offici lor turba e inquieta,
A veder com'ei fa tutto con grazia
E a mattutino, a vespro ed a compieta
Ad udirlo cantar, esempligrazia,
Il Veni, il Miserere e il Gloria Patri,
D'ogni intorno venian, non che d'Alatri.
Onde credette il padre guardiano
Di tenerlo più stretto esser prudenza,
E al curioso pubblico profano
Farlo veder con molto men frequenza;
Ma il sindaco ch'era anche capitano,
271
E de' padri godea la confidenza,
Franco andar per le camere potea,
E trattare e parlar con chi volea.
Benchè il sindaco fosse un galantuomo,
Le donne amò forse di là un pochetto.
Le donne amar difetto io non lo nomo,
Poichè natura ognor prona al perfetto
D'amar le donne diè l'istinto all'uomo,
E ciò che è istinto esser non può difetto.
Non volere amar voi, Donne amorose,
È non volere amar le amabil cose.
Fissi ha però quella natura istessa
Certi confin che oltrepassar non debbe
Chi sentimento di ragion professa.
Tanti riguardi il sindaco non ebbe.
Che in lui mai da ragion non fu compressa
Tal passion, lungo a narrar sarebbe;
Per altro egli a nessun non fe' mai sgarbo,
Bel giovin, buon amico, ed uom di garbo.
Quand'ei, come solea, co' cappuccini
Per suo diporto iva a giocare a bocce,
Fra i più giovin spartia dei biscottini
Di cui sempre avea piene le saccocce;
Ond'essi a lui correan come pulcini
Che s'affollano intorno alle lor chiocce.
Ma tra lor fra Luigi è il fraticello
Più giovine, più timido e più bello.
Mentre per fargli parzial carezza
Molce il morbido mento al bel novizio,
Su tali oggetti ognor la mano avvezza
Avendo egli del tatto all'esercizio,
Trovar gli parve in quella morbidezza
Di sesso femminile un qualche indizio;
E poichè meglio esaminato l'ebbe,
In lui il sospetto confermossi e crebbe.
Troppi dati, ei dicea, di donna assembra,
Quel piè gentil, quel molleggiar di fianchi,
Quel muover d'occhi, quelle molli membra,
Quello sporger di sen, quei denti bianchi ! ...
Affè ch'è donna, ed impossibil sembra
Che d'un Carrozzi erri il giudizio e manchi,
(Poichè Carrozzi il sindaco s'appella)
E prenda per ragazzo una donzella.
E volendo appurar quel dubbio strano,
In cella sua, che aveane il poter pieno,
272
Ito come per caso, a lei pian piano
Il molle fianco e il turgidetto seno
Coll'esperta scorrea giudice mano
Da buon perito a scandagliar terreno;
Ghita il respinge invan, che quei l'abbraccia,
Ed ella di rossor tinge la faccia.
Deh non temer, fidati a me, de' tuoi
Casi qualunque è la cagion, svelarla
A me con tutta libertà tu puoi.
Il sindaco così per confortarla
A Ghita offria l'opra e i servizi suoi,
E in tuon dulce e amorevole le parla.
Le gote a Ghita inonda un largo pianto,
Ed ei qualche bacin davale intanto.
L'imbarazzo, il timor, l'erubescenza,
E l'onta a segno tal Ghita sorprese,
Che alcun moto non fe' di resistenza,
Onde a tentare ulteriori imprese
L'involontaria sua condiscendenza
Il caldo insidiator più ardito rese;
E il jus di tai profitti attribuiva
Forse alla sindacal prerogativa.
Pur d'oltre spinger l'opera in quel giorno
l'intraprendente sindaco s'astenne;
Ma l'altro dì non tarda a far ritorno,
Nè su i preludi allor punto si tenne.
Gettandole le braccia al collo intorno,
A se la stringe ed all'assalto venne;
Sovra il pudico letticciuol sdrajolla,
E le alzò la monastica cocolla.
L'ombre dei cappuccin che, il carneo buccio
Deposto, errando gian por lo convento,
A spettacolo tal per lo corruccio
Le barbe si strapparono dal mento,
Nascosero le facce entro il cappuccio,
E s'udiro ulular per lo spavento.
Non può il Carrozzi al fremito badare
Dell'ombre, e siegue a far quel che vuol fare.
Come Ghisa potea della fojosa
Lussuria di colui schivar l'artiglio !
In van pregava con voce affannosa,
In vano il pianto le cadea dal ciglio.
Parea di Collatin la casta sposa
Dell'altiero Tarquinio in braccio al figlio;
Anz'io Ghita a Lucrezia anteporrò,
Poichè quella s'uccise, e questa no.
273
Grido non osa alzar per lo timore
Che in convento lo scandalo non svegli;
Nino ! oh Nino ! ripete in tuon d'amore.
Ed ei: cotesto Nino e chi è dunqu'egli ?
Caldo sospir dal fondo allor del core
Traendo, rispos'ella: è Nino quegli
Che aver di grado e per amor dovrebbe
Ciò che tu a forza or togli, ed ei non ebbe.
Senza dall'opra sua punto distrarse
Il sindaco riprese: ah figlia mia,
Credi che molto meglio è d'occuparse
Di ciò ch'è, che di ciò ch'esser dovria.
Ma Ghita, poichè prieghi e pianto sparse,
Cadde come in un stato d'apatia,
E allor con lamentevol mugolio
Dielle verginità l'ultimo addio.
E di Francesco nel partir si lagna,
Che asilo le prestò sì mal sicuro.
Verginità, finor di lei compagna,
Il candor le serbò limpido e puro,
Nè fra i boschi e alla libera campagna
Mai temè di lussuria il graffio impuro;
Ma fra monaci appena ella si rese,
Verginità da lei congedo prese.
D'allora in poi del bel novizio in stanza
Il sindaco venia con più frequenza,
E dopo la primiera repugnanza
In lei trovò ogni dì più compiacenza;
Poi cominciò ella stessa a fargli istanza,
E alfin più non potea restarne senza,
Perchè di lui s'innamorò bel bello,
Che, come dissi, amabil era e bello.
E Nino ! ... E Nino era da lei distante.
E Nino ... Che volete ch'io vi dica !
La speme omai di ricovrar l'amante
Sorte le tolse ai loro amor nemica,
E il sindaco è presente ed operante.
Ghita giustificar io non vo' mica;
Ma dobbiam convenir, che li presenti
Gran vantaggi hanno ognor sopra gli assenti.
Quel giocolin senza badare ai santi
E ai crocifissi appesi a capo al letto
Continuaron gl'indivoti amanti,
Finchè seguinne il natural effetto
Che il gran guajo esser suol dei dilettanti.
274
Costoro, avendo in man sempre il soffietto,
Vorrebber nel pallone soffiare assai,
E che il pallone non si gonfiasse mai.
Or pensate color con quanto affanno
Vider di gravidanza i primi segni.
Chi sa quanti spropositi diranno,
Il Carrozzi dicea, chi sa gl'indegni
Sospetti che i maledici faranno,
Se sapran che i novizi ancor son pregni !
E saria veramente un caso brutto
Veder da un cappuccin nascere un putto.
E proseguia: con qualsivoglia donna
Oggimai non v'è proprio a far più nulla.
Pronto han tutte il puttin sotto la gonna,
Sia maritata, vedova o fanciulla.
E già fra se divisa e non assonna:
Qui ci vorrà mammana e fasce e culla.
Poi dice: eh ! sono impacci buoni e belli,
La più corta è mandarlo ai bastardelli.
Ma se la gravidanza di colei
Fu pel Carrozzi un tristo avvenimento,
Un colpo fu di fulmine per lei;
Per lei solo il pensar è un gran tormento,
Che i suoi traviamenti impuri e rei
Tosto noti saran per lo convento,
E Alatri e tutto Anagni lo saprà,
E se più mondo v'è d'Anagni in là.
Così color s'affannano, e in quel mentre
A Ghita ogni dì più si gonfia e cresce
Palpabilmente e a vista d'occhio il ventre,
E il lor disturbo e l'imbarazzo accresce;
Ed ei, se fe' che in corpo il feto l'entre,
Vuole assisterla ancora allor che n'esce,
E per cristiana carità fu presa
L'assistenza dal sindaco a lei resa.
E poichè in lui confida e s'assicura
Tutto il convento, nell'infermeria
Fe' trasportarla, e quella gonfiatura
Principio esser dicea d'idropisia,
E per sparmiar le spese della cura
Ei stesso a far da medico si offria,
In quel mestier fingendosi perito,
Lo che fu a puro zelo attribuito.
Così lei da sospetti e da importune
Ricerche esente e men visibil rese;
275
Ma per malor (lo che per altro alcune
Volte suole avvenir) da lor si prese
Di gravidanza in calcolar le lune
Abbaglio grave, e s'ingannar d'un mese;
Onde il mese da lor creduto il sesto
Il settimo era, e un grand'error fu questo.
Che mentre le misure egli prendea
Per tirar Ghita del convento fuori,
E che in luogo opportun por la volea
Per prevenir lo scandalo e i romori,
Appunto quando men se l'attendea,
Del parto a Ghita presero i dolori.
Or senza ch'io le augustie sue v'esponga,
Ciascun nel piè del sindaco si ponga.
Presto acqua fresca, asciugatoi, la ruta,
Coraggio, via, non t'avvilir, le dice;
T'appoggia a me, tien quest'ampolla e fiuta,
E se le pone a far la levatrice,
Ritira il fiato a te, spremiti, sputa,
Ponza ora, eccolo vien; e con felice
Parto fuori un puttin vien poco dopo,
Vispo, come vien fuor del buco un topo.
Disse il Carrozzi a Ghita allor: la cosa
È andata ben più ch'io sperava: omai
Rimanti qui tranquilla e ti riposa,
Che certo averne dei bisogno assai.
Or è la cura mia più premurosa
Di far ciò di cui paga esser dovrai.
Il putto intanto in convenevol loco
Vado a deporre, e tornerò fra poco.
Il putto in questo dir per farla corta
Sotto il mantel ponendosi, partia.
Va dritto all'ospedal, picchia alla porta;
Sulla soglia il bambin pianta, e va via.
E da monsignor vescovo si porta,
E fattosi da lui prometter pria
Secreto, impunità, riparo pronto,
Di tutto quell'affar gli fa il racconto.
Quegli il caso in udir straordinario
Sclama: oh perversità dei tempi nostri !
Oggi l'oscenità nel santuario
S'alloggia dunque ? o profanati chiostri,
Che foste già di santità il sacrario,
Lussuria oggi ammorbò gli asili vostri !
E anatemi lanciò contro un tal vizio,
E passi di Scrittura a precipizio.
276
E in latino sfogatosi e in volgare
Con quell'entusiastico monologo,
Il padre guardian fe' a se chiamare,
E, fatto prima un eloquente prologo,
Svelogli il fatto, e su quel brutto affare
Da vescovo parlogli e da teologo.
O padre guardian, con grave ciglio,
Di voi, gli disse alfin, mi maraviglio !
E che dir di pastor tanto balocchi,
Che neppur fosser a distinguer buoni,
Quantunque gli abbian sempre sotto gli occhi,
Dalle agnelle le pecore e i montoni ?
Eppur si trovan guardian più sciocchi.
Poi diegli le opportune istruzioni,
E congedollo, e quei partissi, essendo
Pria convenuti de modo tenendo.
Aver, dicea per via, sotto le mani
Donna impiegata in tutti i nostri offizi,
Ed io grand'animal fra i guardiani
Non averne giammai menomi indizi !
E che alla barba poi dei francescani
I secolar ci gonfino i novizi,
E pria di noi per quel che son gli annasino ! ...
Ha ragion monsignore: io sono un asino.
Finchè in infermeria rimase Ghita,
Fu da un medico allor chiamato a posta
Secreto e prudentissimo assistita,
Dai frati e più dal sindaco discosta;
Poi di nuovo da femmina vestita
In un chiostro di monache fu posta.
E allor monsignor vescovo una bella
Lettera scrisse al genitor di quella:
Che ritrovata essendosi sua figlia,
Da lui fu tosto chiusa in monastero
Per conservar l'onor della famiglia
E il vergineo suo fiore, illeso e intero:
E che perciò l'invita e lo consiglia
Di venirsela a prendere, ed austero
Con lei di non mostrarsi ed iracondo
Per evitar le dicerie del mondo.
La perduta sua figlia il genitore
Fu di recuperar lieto e contento.
Venne in Alatri, e insiem con monsignore
Portossi a levar Ghita dal convento,
E con bontà l'accolse e con amore,
277
E sovra ogni passato avvenimento
Il perdono accordandole e l'obblio,
La ricondusse seco al suol natio.
Ghita lasciam, ch'ogni dì più racquista
De' suoi l'amore, e ritorniamo a Nino,
Che da un tempo perduto abbiam di vista,
Finor facendo anch'egli il pellegrino,
Vita menata avea penosa e trista;
Quando in un borgo appiè dell'Appennino
D'aloggio a caso e di mensa compagni
Ebbe due gentiluomini d'Anagni.
Tornavan da Loreto ov'eran iti
La Madonna a pregar, che, come è noto,
Miracoli facea grandi, infiniti,
A chi doni le offria con cor devoto
Non so se stati fossero esauditi,
Digià per altro appeso avean l'Ex voto
Anticipatamente, e soddisfatto
Almen per parte loro al pio contratto.
Nino allor riconobbero coloro,
E ambedue lo pressar di più non ire
Per lo suo proprio ben, pel suo decoro,
Nel mondo errando, e sepper sì ben dire,
Ch'egli s'arrese alle ragioni loro
D'ir vagando omai stanco e di soffrire;
Ed in viaggio unitosi con quegli
Si ricondusse ai patri lari anch'egli.
Dal padre Nino ancor fu ben accolto,
Che anche un avaro è padre, e raro assai
Marchio che in noi natura imprime è tolto.
Io questa istoria in raccontar pensai
Sovente al figliuol prodigo, che molto
Ambo i fatti consimili trovai.
Di quello al narrator sia lode e gloria,
Ma parabola è quella, e questa è istoria.
Quand'un dell'altro poi seppe il ritorno,
Risvegliatisi in lor gli antichi amori,
Dimagrian di languor di giorno in giorno;
Finchè commosso alfin ai genitori
Vecchio amico comun postosi intorno,
Tenerezza destò nei loro cori,
E tai ragion, tanti argomenti addusse,
Che a dar l'assenso all'imeneo gl'indusse.
Al lieto annunzio del bramato assenso
Di quanto vivo giubilo esultasse
278
L'amante coppia, o Donne mie, non penso
Che alcun spiegar potria, se non provasse
D'amore a quello egual tenero senso.
Ghita però, per quanto Nino amasse,
Volle pria di contrarre il matrimonio
Sola parlargli e senza testimonio.
E il fatto, al dir di molti, e il come e il quando
Svelogli allor di tutto quell'affare;
Altri dicon di no; io qui lasciando,
Come in lor stesse son, le cose stare,
La grave question pianto, e domando:
Svelar debbe lo sposo o non svelare,
Donne, il suo fallo ? e al vostro io me ne appello
Critico filosofico cervello.
So che da molti il confessar l'errore
Per grand'atto ed eroico si prese
D'alma di virtù piena e di vigore,
Che magnanimo al ver tributo rese;
E ad Eloisa sua ne fece onore
Il forte ingegno dell'autor francese,
Sebben per cotal cosa inverso lui
Parca è censura de' suffragi sui.
Ciò, dissi, io so: so d'altra parte ancora,
Che savia legge ciaschedun dispensa
Di svelar tutto ciò che disonora,
Giacchè il suppor la realtà compensa.
Che se ogni sposa ciò che il mondo ignora,
Nol sospetta nessun, nessun vi pensa,
Svelar dovesse, oh quante sposalizio
Troncherian gli amator delle primizie !
Dirà talun, che opra è di mala fede
Il dar l'usata mercanzia per nuova;
Colpa sua, se talun non se ne avvede.
Ma qualor ingannato egli si trova,
Dritto ha ben ... più però ch'altri non crede
N'è ognor dubbia e difficile la prova;
Ma non entriam di grazia in tai materie,
Poichè son troppo dilicate e serie.
Quali ebber dunque sì gelosi affari
Gli sposi in quel colloquio, onde sen vieti
La conoscenza infine ai lor più cari ?
Che ho a saper io ? so che n'usciron lieti.
Dei gran trattati nei preliminari
V'han sempre dei capitoli secreti;
Ed ancor Nino e Ghita ebber d'ascose
Forse a trattar preliminari cose.
279
Le nozze con gran pompa e con splendore
Fra Nino e Ghita allor fur celebrate,
Che colla gioja e col piacer nel core
Provar, che due bell'alme innamorate
Con nodi soavissimi d'autore
Unite insiem nella più fresca etate
Son felici e contente in questo mondo
Più assai che il cappuccino e il vagabondo.
280
NOVELLA XXI
MONSIGNOR FABRIZIO
Come attestan gl'istorici e i poeti
Che della Chiesa compilar gli annali,
Fu già permesso il matrimonio ai preti
Colle sue funzioni coniugali;
Poichè i concili, i canoni, i decreti
Non estirpano i moti naturali;
Onde sappiam, che moglie ebbe san Pietro,
E altri papi, che poi gli venner dietro.
E quantunque san Pavolo abbia detto,
Che dello stato di verginità
Lo stato conjugal sia men perfetto;
Pur lascia a ciaschedun la libertà,
E un consiglio dà sol, non un precetto;
Che se volesse star l'umanità
Letteralmente al detto di san Pavolo,
In breve tempo il mondo andrebbe al diavolo.
Perciò in tutte le chiese riformate,
Come la calvinista e luterana,
E l'altre che si sono separate
Dalla nostra cattolica romana,
I preti son persone conjugate,
Nè si credono far cosa profana;
E perciò il gran riformator la tonaca
Lasciò di frate e poi sposò una monaca.
Ma Roma santa ai nostri sacerdoti
Di prender moglie non ha già permesso;
E quindi avvien che, non ostante i voti,
Non posson osservar ciò ch'han promesso,
E per questa cagion seguono i noti
Disordini; ed i vescovi ben spesso
Altre volte con scandalo patente
Concubine tenean pubblicamente.
Non fu di questi monsignor Fabrizio,
Di cui la storia raccontar vi voglio,
Ch'essendo assai portato a questo vizio,
Del senso non potea domar l'orgoglio;
Ma pur prudenza adoperò e giudizio,
281
Finchè non sopravvenne un cert'imbroglio,
Che la cosa scoprì, com'udirete,
Se il mio racconto, o Donne, udir vorrete.
Vivea sul fin del secolo passato
L'abate don Fabrizio calabrese,
Che a un vescovado fu preconizzato
De' migliori del calabro paese
Per opera d'un certo porporato
Che sempre a suo favore impegno prese,
Ed ebbe per lui gran parzialità;
Ma perchè poi l'avesse, Dio lo sa!
Era robusto e giovine, e compiute
D'anni ancor non avea quattro diecine;
Fronte ampia, occhi di bue, membra polpute,
Rubiconda la faccia e crespo il crine,
Naso aquilino e un'aria di salute,
Che del giusto passava oltre il confine;
Tesi li nervi e turgide le vene,
E di sovrabbondante umor ripiene.
Il lusso non amò punto nè poco,
Non spendeva in cavalli nè in cocchiere,
Nè l'esigea la qualità del loco.
Compone la sua corte un cameriere,
Un secretario, un par di servi e un cuoco,
E soleva per tre mangiare e bere;
Onde anche a sentimento del dottore
Bisognava uno sfogo a monsignore.
Ma monsignor prese i suoi passi avante,
E in casa si teneva una fantesca
Con titol di massaja o governante,
Ch'era un tocco di ciccia bella e fresca,
Risoluta di modi e di sembiante,
Grande, ben fatta e si chiamò Francesca,
E chi vide la fede del battesimo
Disse, che non compia l'an ventottesimo.
L'entrate della mensa episcopale
Le maneggiava Titta di Masaccio,
Giovine abile, attento e puntuale,
Di allegro umore, infin buon figliolaccio.
Laonde a monsignor in guisa tale
Non rimaneva affatto alcun impaccio;
E basta a lui, se a soddisfar riesca
Ai dover vescovili e alla Francesca.
Senza scandalo alcun tranquillamente
Così di monsignore andar le cose,
282
Finchè sopravvenendo un accidente
Tutto mise in disordine e scompose:
Titta sposato avea recentemente
Petronilla, beltà delle famose,
Figura sì finita e dilicata
Da innamorare un'anima gelata.
La beltà di costei per ben descrivere
Ben altro che la mia facondia vuolci:
Carni sì bianche da potervi scrivere,
Occhi celesti avea languidi e dolci,
Bocchin che i morti avria fatto rivivere,
E un ritratto parea di Carlin Dolci.
Tali fisonomie spirano amore,
E infondono lo zucchero nel core.
Costor fatto all'amor gran tempo avieno,
Ed ella ancor lui pazzamente amava;
E se per lui, come accadea, nel seno
Sospetto alcun di gelosia le entrava,
La sua dolcezza divenia veleno,
Ed in rabbiosa frenesia montava;
E a dirla fra di noi candidamente
Ei le ne dava occasion frequente.
Poichè per quanto buon fosse nel resto,
Che a ragion riputato esser potea
Per un fattor bastantemente onesto,
Come poc'anzi, o Donne, io vi diceo;
Fu nondimen sì donnajuol, che in questo
Ogni famoso libertin vincea.
Purchè fossero donne, o belle o brutte,
Era tutt'un per lui, tirava a tutte.
E perch'ei fu bel giovinetto in vista,
E perchè lo credean danari avere,
Spesso spesso facea qualche conquista,
Ed ogni dì si compiacea vedere
Delle avventure sue crescer la lista;
Onde litigi e risse giornaliere
Erano ognor fra Titta e Petronilla,
E s'alterca e si disputa e si strilla.
E se talun lo correggea, dicendo
Ch'avendo ei moglie sì vezzosa e bella,
Non si capia, com'ir potea correndo
Dietro a questa ed a quella sgualdrinella,
E ch'era uno sproposito stupendo
Scambiar lo storion per la sardella;
In sua difesa avea mille sofismi
E motti e barzellette e sillogismi.
283
E usciva fuor co' fatti di Scrittura:
Che quantunque alla gente israelita
Piovesse, ognor dal ciel la manna pura,
Di saper gustosissimo condita;
Pur sempre quella stessa nutritura
Le divenne spiacevole e scipita
Tanto, che dar la preferenza volle
Alle rape d'Egitto e alle cipolle.
E vi solea li passi accomodare
Di Giobbe, di David, di Salomone,
E sapea tanto e così ben parlare,
Che talvolta pareva aver ragione,
E alla moglie dicea: viscere care,
Una volta finiam la quistione,
Noi sempre ci amerem; lasciami in pace,
E fa dal canto tuo quel che ti piace.
Pur troppo v'è più d'un di questa fatta,
Che possedendo vaga e amabil moglie,
Sovente pel cattivo il buon baratta
Per soddisfar l'insaziabil voglie.
Titta almen non molesta e non maltratta
La moglie sua, nè libertà le toglie,
Come talun che a donne altrui va a caccia,
Nè vuole che la sua miri altri in faccia.
Nondimen la gelosa Petronilla
Su questo punto sempre avea che dire;
Talvolta con carezze raddolcilla,
Anzi le disse un dì, che in avvenire
Se ne stesse più placida e tranquilla,
Che avrebbe ogni altra donna lasciat'ire.
Sulle promesse tue non m'assicuro,
Se nol giuri, diss'ella; ed ei: lo giuro.
Ma poichè dalli padri gesuiti
Studiato avea teologia morale,
Che permette, acciò l'obbligo s'eviti,
Giurando far restrizion mentale,
E allor per giuramenti trasgrediti
La sinderesi è salva, e non v'è male;
Perciò giurò di non toccar più donna,
E aggiunse mentalmente; s'ella è nonna.
Pur benchè non si creda in coscienza
Tenuto a ciò che vocalmente ei giura,
Nondimen fin d'allor dell'apparenza
i riguardi osservò con maggior cura,
E giusta l'apostolica sentenza
284
Se non casto, almen cauto esser procura;
Sperando senza disgustar la moglie,
Continuare a soddisfar sue voglie.
Or del vescovo in casa con frequenza
Andando egli, adocchiovvi la Francesca,
E gli parve un boccon di resistenza,
E tosto seco intavolò la tresca;
E contratta con lei più confidenza,
Accortamente la corteggia e adesca,
Facendole talor dei regalucci,
O smanigli o ventagli o nastri o astucci.
E tanto più l'intrigo a lui piacea,
Che di vederla e d'ire a lei sovente
Giustissimo e opportun pretesto avea;
Nè la moglie motivo concludente
Di prenderne sospetto aver potea,
Ond'ei vi s'applicò seriosamente,
E più non volle con preludi vani
La cosa differir d'oggi in domani.
E appostatala un dì, le prese a dire:
E dunque vorrai tu, Checca crudele,
Mai sempre a questo mo' farmi morire?
Ed ella: perchè meco tai querele?
Io per me non comprendo il tuo desire.
Ah non mi dir così, bocchin di mele,
Tu mi comprendi ben, diss'egli allora,
Ma per farmi penar t'infingi ancora.
Or ecco, sorridendo rispos'ella,
Furbacci, or ecco come siete voi,
Conosco ben la solita favella,
Che amate per trastullo usar con noi;
E poscia tu, che moglie hai così bella,
Come altra donna desiar tu puoi?
Va, va, che non m'intrappoli con queste
Usuali d'amor vane proteste.
Ti giuro, Checca, ripigliò il fattore,
Ti giuro, dolce Checca mia, che mai
Veruna donna non mi fe' nel core
La forte impression che tu mi fai
E chiedi pur da me prove d'amore,
Che prove incontrastabili n'avrai;
E in questo dire abbracciala, e le accocca
Un solenne baciozzo in sulla bocca.
E più oltre ancor spinto l'assalto avrebbe,
Che solito non era a perder tempo;
285
Ma Checca lo rattenne, e timor n'ebbe
Ch'altri non sorvenisse a contrattempo,
E gli disse, che meglio si potrebbe
Trattar di quell'affare in altro tempo.
Ah no, Checca, più tosto che trattare,
Riprese quei, concludiam l'affare.
E la prega a fissar il quando e il dove
Con ragion sode ed argomenti teneri,
E da lei ogni scrupolo rimove,
Che aver potesse in tutti quanti i generi.
Ebben, se il vuoi, diss'ella, alle ore nove
Vieni doman ch'è il giorno delle ceneri,
E monsignor e quei di casa in duomo
Interverranno tutti al moment'homo.
Io non starovvi a dir, Donne dilette,
Che Titta non perdè l'occasione,
E che dopo un pochin di smorfiette
Si venne alla final conclusione,
E che la bella coppia insiem si stette,
Finche in duomo durò la funzione,
Non vel dirò, che avete spirto e senno
Di prevedere e capir tutto a un cenno.
E ogni qualunque volta in cattedrale
Ne' susseguenti dì della quaresima
Monsignore tenea pontificale,
O conferiva gli ordini e la cresima
Secondo l'incumbenza episcopale,
Continuar la pratica medesima,
Senza che alcun disturbo od imbarazzo
A interromper venisse il lor sollazzo.
Ma poscia o sia che di celar la cosa,
Come dovuto avrian, non ebber cura,
O che opra alcuna lungamente ascosa
Restar non può, siccome la Scrittura
Lo dice ancor, benchè lo dica in prosa,
Monsignor conoscenza ebbe sicura
Degli amorosi intrighi e della tresca
Che passava fra Titta e la Francesca.
Qual pover contadin, che attentamente
Nutre in chiuso recinto unica e sola
Vaccarella da cui tira sovente
Latte per sostentar la famigliuola,
Se il rapace vicin furtivamente
A lui mugne la vacca e il latte invola,
Tosto ch'ei se n'avvede, incollerito
Giura vendetta, e se la lega al dito.
286
Fate conto che Titta il ladro sia,
E che la Checca sia la vaccarella;
Assomigliarsi monsignor potria
Al contadin ch'era padron di quella:
Quindi facendo qualche analogia
Tra il mugner vacca e negoziare ancella,
Vedrete, a esaminar come conviene,
Che tutto insieme il paragon va bene.
Poichè pertanto monsignor Fabrizio
Per imprudenza lor, come succede,
Ebbe di quell'affar costante indizio,
Chiamò a se il secretario, e ordin gli diede
Che cassi tosto Titta dal servizio,
E che in casa mai più non ponga il piede;
Conclude alfin: fategli i conti voi,
E se ne vada a fare i fatti suoi.
Laonde l'altro dì, che all'ordinario
Del vescovo al palazzo si portò,
Quando Titta intonar dal secretario
L'inaspettata antifona ascoltò,
Rimase, qual rimase Belisario
Quando Giustinian lo congedò;
La ragion dimandò di quel divieto
Ma quei strinse le spalle e stette cheto.
Titta, a cui monsignore un buon profitto
Toglie con tal congedo, andò a trovarlo
Per saper qual mai fosse il suo delitto,
E chiedergli perdono ed acchetarlo;
Ma monsignor non consolò l'afflitto
Se il feci, disse, ebbi ragion di farlo;
E aggiunse poi con voce irata e rauca
Fate l'esame: intelligenti pauca.
E senza più parlar dal suo cospetto
Con un'occhiata torbida lo scaccia;
Ritirandosi poi nel gabinetto,
L'uscio gli chiude bruscamente in faccia.
Titta, il modo vedendosi interdetto
Che util molto e securo a lui procaccia,
A casa ritornò mesto e pensoso,
E sopra ciò che far dovea dubbioso.
La moglie, che il vedea fuori dell'uso
Col ciglio torbo e colla faccia mesta,
Qual uom che grave affanno in cor tien chiuso,
L'interrogò: che novità è mai questa
Che te ne stai sì tacito e confuso?
287
E qual grillo ti passa per la testa?
Certo qualcosa hai tu che mi nascondi:
Forse di me diffidi? Ebben rispondi.
Sappi, risponde, Petronilla mia,
Sappi che monsignor, non ti so dire
Per qual strana improvvisa fantasia,
Non vuole più da me farsi servire,
E di sua casa m'ha cacciato via
Senza ragion, senza volermi udire,
E con ciò tu ben vedi, o cara moglie,
Che buono assegnamento a noi si toglie.
Spero però che se ir da lui vorrai,
Con dolci modi e con istanza umile
Dal proposito suo lo svolgerai,
Che raro alma ben nata a femminile
Priego grazia ricusa, e tu ben sai
Ch'ei si picca con donne esser gentile;
E certamente in simil circostanza
Non veggo fuor di questa altra speranza.
Ella pertanto o compiacer volesse
Al marito che a ciò la stimolava,
O perchè del comun loro interesse
In quella congiuntura si trattava,
O che effettivamente alfin credesse
Che quella via solo a tentar restava;
Di buon mattino a monsignor portosse
Pria che con altri a conferenza fosse.
E in fatti al giunger suo nel gabinetto
Solo e in veste di camera trovollo,
Essendo uscito allor allor di letto.
Così ben gli parlò, tanto pregollo,
Che ottenne il suo desio tutto l'effetto,
E il rese pìù trattabile e placollo;
Poichè rara beltà, che piange e prega,
Ogni ostinato cor mitiga e piega.
Tanto più monsignor, che per natura
Era di buona pasta e di cor molle,
Al pregar di sì amabil creatura
S'intenerì, calmossi e dichiarolle
Strano parergli ch'ella tal premura
Abbia per uom sì libertin, sì folle.
Che avendo moglie sì vezzosa e bella,
Vada dando di becco a questa e a quella.
È ben ver ch'altre volte egli pel sesso
Avea nell'ossa radicato il vizio,
288
Ella rispose, or non è più lo stesso,
E s'è cangiato che pare un novizio,
Come per giuramento ei m'ha promesso.
E voi, riprese monsignor Fabrizio,
E voi, figliuola mia, sì buona siete
Che a' giuramenti di colui credete?
A sì fatto parlar di monsignore
S'impallidì la Petronilla in volto;
La gelosia se le destò nel core,
Qual foco sotto ceneri sepolto,
Che a un lieve moto riprende vigore,
E prega monsignor e il pressa molto
A dirle qual di ciò riprova avea,
E se di certa scienza lo sapea.
Nelle spalle stringendosi, ripiglia
Benignamente monsignor Fabrizio
In verità vi compatisco, o figlia,
Ma il lupo suol mutar pelo e non vizio.
Vostro marito sempre a sè somiglia,
Si può dir senza fargli pregiudizio,
Ch'è un vero libertin di professione;
E Petronilla soggiungea: briccone!
Di più dirovvi, monsignor seguia,
Ch'anche in mia propria casa egli m'offese,
E l'ho per tal cagion cacciato via;
Poichè tentò per dirvela in francese,
Di debosciar la governante mia.
Ancor la governante? ella riprese.
Ed ei: Madonna sì, la governante.
E Petronilla soggiungea: birbante!
Del buon momento monsignor profitta,
Per man la prende, gliela stringe e dice:
Se donna tal qualunque altr'uom che Titta
Potesse aver, si crederia felice!
Ma colei più non ode, e stassi zitta
Assorta in quel pensier che le interdice
Di far attenzione alle parole
Di lui che trarre a suoi desii la vuole.
Non perd'egli sì bella occasione,
E l'accarezza e unisce gota a gota,
Senza però che dall'astrazione
Un cotal atto la risvegli o scuota;
Onde la man sul bianco sen le pone,
E vedendola ancor tacita, immota,
Prende coraggio, e l'abbracciando stretta,
Le diè tre o quattro baci in fretta in fretta.
289
Ella alfin risentendosi a tal atto,
Dalla profonda astrazion si desta,
E da lui tenta svilupparsi a un tratto;
Ma quei l'assalto incalza e non s'arresta,
Perocchè, quando il primo passo è fatto,
Facil s'apre la strada a ciò che resta,
E il fomite carnal presso in ardenza
Già vinta avea l'episcopal decenza.
Ciò che seguisse poi fra lui e lei,
Uopo non è ch'a dirlo io m'apparecchia,
Conciossiacosachè non vi direi
Se non cose comuni e cose vecchie;
E inoltre non vogl'io co' detti miei
Scandalizzar le vostre caste orecchie,
Vorrei più tosto divenire eunuco,
Che dell'orecchie profanarvi il buco.
Convien però che al ver renda giustizia,
Che Petronilla infino allor stat'era
Gran dilettante della pudicizia,
Paga di sè, di sua bellezza altera,
Nè mai pria con altr'uom ebbe amicizia,
E questa fu l'infedeltà primiera,
Che quella casta moglie a Titta fe',
Cosa che ha fatto caso ancora a me.
Forse fu l'imbarazzo e la sorpresa,
Forse il timor, forse il capriccio, ovvero
Desio di vendicarsi dell'offesa
Forse così cedendo ebbe pensiero
Che la carica fosse a Titta resa,
E d'acquistar su monsignor l'impero,
E alla fin fin vi son certi momenti,
Che la femmina è tua, se tu la tenti.
Nè però, Donne mie, l'abbiate a male,
Che talor dassi anche in un uom perfetto
Un moto involontario e naturale,
E allora l'azion che n'è l'effetto
Dal fisico provien, non dal morale;
Nè ciò riguarda voi, s'egli è un difetto,
Perchè voi, si può dir senz'alcun risico,
Nel moral siete ottime e nel fisico.
Onde qualunque la ragion si fosse,
Per cui colei pria contegnosa e casta
A compiacer sua signoria s'indusse,
(Che ciò la storia mia punto non guasta)
La sostanza del fatto si ridusse
290
A quanto già v'ho detto, e ciò mi basta;
Che tenuto è un fedel storico esatto
Il fatto a espor, non la ragion del fatto.
Grato alla donna monsignor si mostra,
E dice: cara Petronilla mia,
Per l'amor che vi porto e in grazia vostra
Rendo a Titta la carica di pria,
Acciò in tal guisa l'amicizia nostra
In avvenir continuata sia;
Imperocchè di tempo in tempo, io spero,
Mi verrete a trovar; non è egli vero?
All'invito gentil di monsignore
Sent'ella in nuove e lusinghiere guise
Da vanità solleticarsi il core,
E sen compiacque internamente e rise;
Gli fece un bell'inchino, e del favore
Grazie, gli rese, e ritornar promise
Così ella, che fu pria schiva e sprezzante,
Divenne a un tratto facile e galante.
Tornata a casa poi disse al marito
Sappi che in grazia mia sei nuovamente
Nella carica tua ristabilito;
Non è però che tu meritamente
Stato non sii da monsignor punito,
Perocchè lo sfacciato e l'insolente
Osasti far nella sua casa stessa,
Scordando i giuramenti e la promessa;
Ma bada ben, se in avvenir ne ascolto
Un'altra, giuro al ciel, porco, asinaccio,
Non te n'andrai sì facilmente assolto;
Non son quella ch'io son, se non ti caccio
Colle mie proprie man gli occhi dal volto,
E non ti rompo quel brutto mostaccio,
Che ogni dì, ogni dì, pezzo di bue,
Convienmi udir qualcuna delle tue.
Ei racchetarla più che può procura,
E con docili modi e affettuosi
Falle mille carezze, e l'assicura
Che male lingue fur d'invidiosi
Che inventar contro lui tale impostura,
E co' rapporti lor calunniosi
Volean metterlo mal con monsignore,
E della moglie sua torgli l'amore.
O fosse o no da lei la scusa ammessa,
Non insiste ella più, più non ne parla;
291
Consapevol che omai può anch'egli in essa
Trovar ragion di che rimproverarla.
Volle Titta di poi la sera stessa
Gir da sua signoria per ringraziarla;
Umanamente monsignor l'accolse,
E gl'inculcando il suo dover, l'assolse.
Così ritornò Titta come pria
Della carica sua all'esercizio,
E Petronilla a visitar sen gia
Di tempo in tempo monsignor Fabrizio,
E mai della ragion per cui venia
Non ebbesi da alcun sospetto o indizio;
Titta gli affar di casa avendo in mano,
S'ella talor vi gia, non parea strano.
Ma pure a monsignor fu di mestiere,
Poichè altrimenti far non si potea,
Prevalersi talor del cameriere
Che, quando abate ei fu, portò livrea,
E in cui solea molta fiducia avere;
Vafrin fu detto, e a tempo far sapea
Lo sbalordito, il sordo, il cieco, il muto,
Uom secreto e fedel, non men che astuto.
Era un dì Titta alla campagna andato
Dodici miglia di colà lontana
Le terre a visitar del vescovato,
E ivi l'acqua arginar d'una fiumana,
Che un vasto campo avea mezz'allagato,
E tutta ivi restar la settimana
Affin di assistere al lavor dovea;
E ciò la moglie e monsignor sapea.
Monsignor, poichè Titta fu partito,
A Petronilla il cameriere invia
Per proporle a sua parte, e farle invito
Di stare insiem la sera in compagnia,
E pregarla in assenza del marito
Seco a cenar, se ciò piacer le fia;
L'invito ella accettò di monsignore,
E promise ir da lui circa alle ott'ore.
Allora monsignor pose ogni cura,
Che di ciò la Francesca non s'avveggia;
Disse aver cose di somma premura,
E ordin diè che niun sturbar lo deggia,
E il camerier ben istruir procura,
Che destramente ad uopo tal proveggia,
E all'oscuro e pian pian cheta e soletta
Introduca colei per la scaletta.
292
Poich'ella giunse all'ora stabilita,
E fece a monsignor cortesi inchini,
Fu da Vafrin la tavola servita,
Pasticcetti, granelli e piccioncini,
E un ragù da leccarsene le dita,
Squisitissime frutta, ottimi vini,
Che Titta aveva a monsignor provvisti,
Moscado, malvagia, lacrima cristi.
Allora monsignor, se il permettete,
Le disse, pria che a casa io vi rimandi,
Giacchè tanto gentil meco voi siete,
Una grazia convien ch'io vi dimandi,
Nè credo che negarmela vorrete.
Vossignoria illustrissima comandi,
Rispos'ella, che sono a far prontissima
Quanto vorrà vossignoria illustrissima.
Vedete, ripres'ei, che tarda è l'ora,
Meglio è che omai passiate qui la notte;
Varie ragioni e varie scuse allora
Fur sopra ciò da Petronilla addotte,
Ma don Fabrizio così ben perora,
E fa riflession sì savie e dotte,
Ch'ella alfin più difficoltà non ebbe,
E disse a monsignor, che resterebbe.
E Vafrino inviò per avvisare
Britta la fante sua, che non si prenda
Pensier, ch'ella dormia dalla comare,
Ma vada a coricarsi e non l'attenda.
Andò Vafrino, e ritornò per fare
Qualunque a far restasse altra faccenda;
Ma monsignor fe' cenno al servo scaltro
Dicendo: andate pur, non occorr'altro.
E chiusisi di dentro, la dispose
Con sue lusinghe a coricarsi in letto,
Che far con tutto il comodo le cose
Di monsignore era il più gran diletto,
Ed in letto giacer con le amorose
Ebbe la passion da giovinetto.
Se avesse o no ragion, nol so; del resto
Ciascun ha li suoi gusti, egli ebbe questo.
Or mentr'ei del fattor colla mogliera
Passava con piacer la nottolata,
Colà nella campagna, ove Titt'era,
Accadde una baruffa inaspettata.
Dopo il lavor diurno in sulla sera
293
Degli operai la rustica brigata
In un ampio stanzon del casolare
Solea adunarsi ed ivi insiem cenare.
Pria tumulti e clamor, poi calde e pazze
Risse Bacco eccitò fra quei villani,
E si lanciaron vasi e piatti e tazze
Sul capo e in faccia, e si dier colpi strani;
Poi dier di piglio a zappe, a vanghe, a mazze,
Ad armi, e a ciò che lor venne alle mani;
Nè pria cessar le sanguinose liti,
Che restasser due morti e tre feriti.
Titta credè la cosa assai importante
Per ire ad informarne monsignore;
E benchè notte fosse, in sull'istante
Partissi, e fu in città, ch'anche un par d'ore
Era dal balzo oriental distante
Il pianeta del giorno apportatore:
Stima esser meglio a casa sua di scendere,
E ivi il primo chiaror dell'alba attendere.
Il caso fu che quando avvis'ebbe
Britta, che omai la Petronilla a casa
Quella notte a dormir non tornerebbe,
Indubitatamente persuasa
Che neppur Titta sorvenir potrebbe,
La stanza essendo libera rimasa,
Per riposar più comoda e tranquilla
Al posto si corcò di Petronilla.
Titta entrò in casa, avendo ognor costume
Una chiave maestra in tasca avere;
Poscia in camera venne, e senza lume
Tacitamente posesi a giacere
Accanto a Britta in sulle stesse piume,
Credendosi di fare alla mogliere
Improvvisa e piacevole sorpresa,
Tanto più grata quanto meno attesa.
La fante al primo entrar conobbe Titta,
E tosto dell'equivoco s'avvide,
Ma non ardì scoprirsi, e stette zitta.
Ei comincia a toccarla e tronfia e ride,
Moto non fa la timorosa Britta,
Ve', dic'ei, come il sonno la conquide,
E bench'ella sia nuda ed ei vestito,
Spiegar volle caratter di marito.
E toltele di sopra le lenzuola,
L'opra incomincia; opporsi a lui non osa,
294
E il lascia far la povera figliuola,
E sol con voce tronca e sonnacchiosa
Bofonchiava talor qualche parola.
Titta poichè compiuta ebbe la cosa,
Sentendo ch'ella tuttavia non parla,
Levossi, e più non volle importunarla.
Britta una trista avea fisonomia,
Denti neri, occhi loschi e cute oscura,
Che Petronilla ognor per gelosia
Fanti tenea d'ignobile figura;
Del corpo nondimen la simmetria,
E le proporzioni e la statura,
E certe parti ancor della persona
Simili a quelle avea della padrona.
Ond'io non trovo poi gran meraviglia,
S'egli, che non potea mai sospettarne,
Scambiar non crede, e per sua donna piglia
Altra donna che senza esame farne
Nelle dimensioni a lei somiglia,
E alfin lo sbaglio fu di carne a carne;
E alla mutola e nella oscurità
Un qui pro quo può darsi, e un quæ pro qua.
Or qui vorrei, che far mi si accordasse
Un'osservazione assai plausibile.
Britta, benchè per vergine passasse,
Che lo fosse però non è credibile;
Poichè su punto tal che s'ingannasse
Sì fattamente Titta, egli è impossibile,
Che di tai cose s'intendea sì bene
Quanto tutti i filosofi d'Atene.
Già nel pollajo i vigilanti galli
Cantar s'udiano ed annunziare il giorno;
E già facean color vermigli e gialli
Alle cime de' monti aureo contorno;
Ed imbrigliati i fervidi cavalli,
Febo s'apparecchiava a far ritorno;
Ed i frati cantavan mattutino,
Allorchè Titta andò a trovar Vafrino.
Lo destò, lo pregò, che prontamente
Per dare avviso a monsignor si porti,
Esser egli venuto espressamente
Per fargli importantissimi rapporti,
E narrò della sera antecedente
La zuffa in cui restar feriti e morti;
E che perciò chiedea pronta udienza,
Essendo affar di somma conseguenza.
295
Vafrino estremamente imbarazzato
Per esser monsignor con Petronilla
Gli domandò, se a casa er'ei smontato;
E quei rispose, che in tornar di villa
Per visitar sua moglie eravi stato,
Ma la trovò, che non potea pupilla
Aprir, dormendo ancor com'una talpa,
Nè sente, se talun la scuote o palpa.
Ch'ei non avea del ver la giusta idea
Vafrin s'avvide, e fattolo aspettare,
Della camera all'uscio ove giacea
Monsignor con madonna andò a picchiare;
Ma monsignor, che per l'appunto avea
Con essa in quel momento un serio affare
Or chi è là, giuro al ciel, dalla sua nicchia
Bruscamente gridò, chi è là che picchia?
Son io, venga un po' qua, Vafrin rispose,
Che le debbo parlar d'un non so che.
L'ovatta e le pantufole ei si pose,
Ed aprì l'uscio per saper cos'è.
Colui Titta esser giunto allor gli espose,
E la ragion per cui parlar gli dè;
Ma soggiunse: ei non sa ch'abbia l'onore
Sua moglie di giacer con monsignore.
Monsignor pria temè per Petronilla,
Poi pensò, disse alfin: fatel venire.
Indi tornò alla donna, ed istruilla
Di quanto non avea potuto udire,
E l'esortò a restarsene tranquilla,
Che Titta non potrà nulla scoprire,
Ch'ei lo farà con qualche buon pretesto
Alla campagna ritornar ben presto.
Indi tirato il cortinaggio attorno,
E chiuso il letto ben per ogni banda,
Entra in camera il nostro capricorno,
Racconta il fatto, e gli ordini dimanda.
Monsignor tutto approva, e che ritorno
Ei colà faccia tosto gli comanda,
E con notaio pubblico si associ
Per far legale esame in faciem loci.
Ma siccome ei sapea Titta aver detto
Alla consorte sua, ch'ei mai non ebbe
Nè intrigo colla Checca nè amoretto,
D'esser tenuto mentitor gl'increbbe,
E a colei sostener volle il suo detto,
296
Credendo in oltre che l'impegnerebbe
Più a suo favor, se Titta lo confessa,
Udendo lei colla sua bocca istessa.
Onde gli disse: Io son di voi contento,
Voi il sarete di me, ma non v'incresca,
Ch'io vi faccia un paterno ammonimento,
Ed è, che in casa mia io non vo' tresca,
E che cessiate da questo momento
Di fare il libertin colla Francesca;
Il tutto io so, nè puommi esser negato;
Del resto poi quello ch'è stato è stato.
D'esser sincero Titta si piccò
Son dilettante, disse, lo confesso,
Quel diavol della Checca mi tentò.
La moglie, udendo confessar lui stesso
L'infedeltà che prima a lei negò,
Invasa fu da un repentino accesso
Di sdegno, di furor, di frenesia,
E onor, decenza, anzi se stessa obblia.
Senno e ragion perdè in un punto, ed arse
Di gelosia, di rabbia e di dispetto,
E colle chiome rabbuffate e sparse
Nuda le braccia e il sen fuori del letto
Fin sotto l'ombellico a un tratto apparse,
E fremendo gridò: sii maledetto,
E anche in presenza mia vantar ti vuoi
Dei scandalosi portamenti tuoi?
A tal atto, a tal voce immobil resta,
E quasi folle per stupor divenne
Titta, e fede a se stesso appena presta.
Così forse, qualor colla bipenne
Volle abbatter la tessala foresta,
Lo stupido pastor la man rattenne,
Se improvvisa mirò dea boschereccia
Nuda uscir della tumida corteccia.
Meglio, per Dio! faresti a starti zitta;
Ma pur non fosti tu quella con cui
Giacqui poc'anzi? alfin proruppe Titta.
indegno, io teco? ella rispose a lui.
Ed ei: se tu non fosti, ergo fu Britta.
Allor spinse all'eccesso i furor sui
La donna, ed obbliando ogni vergogna,
Grida: ancor con quell'orrida carogna?
Dal letto in questo dir balza, e s'avventa
A un tratto sull'attonito marito;
297
Monsignor trattenerla indarno tenta,
Quantunque anch'egli mezzo sbalordito.
La Checca spaventata e sonnolenta
Di sua stanza al di sopra avendo udito
Confusamente un tafferuglio, un chiasso,
Si pose in guarnelletto e scese abbasso;
Ed entra là dove il frastuono ascolta,
E una femmina nuda in strana zuffa
Mirando, la credette ossessa o stolta;
Le corre addosso e per lo crin l'acciuffa.
Colei lascia il marito e si rivolta,
Con pugni e graffi seco lei s'azzuffa;
Ma Titta e monsignor, che omai la cosa
Vedean farsi più grave e seriosa,
Quei Petronilla, e questi Checca abbraccia,
L'un tira questa, e l'altro tira quella,
Monsignor nel tirar distacca e straccia
La camicia alla Checca e la gonnella.
Ella scarica un calcio e volta faccia,
E attacca seco lui pugna novella,
E con parole ingiuriose e ignobili
L'aggraffa a un tratto per le parti nobili.
Frem'egli, e pel dolor si torce e piega,
E fa cert'occhi di gatta arrabbiata;
Pizzicotti le dà, minaccia e prega
Deh! lasciami, pettegola sfacciata,
Lasciami, ripetea, lasciami, strega,
Che or ora tu farai una frittata.
Ma per quanto egli adopri ingegno ed arte,
Ritrar non può la prigioniera parte.
E buon per lui, che appunto allor tornò
Vafrino, e vide quell'atto bisbetico;
Si gettò sulla Checca e l'adunghiò
in certo loco ove patìa il solletico,
Onde fe' un grido, e monsignor lasciò,
Che quasi divenuto era frenetico,
E sen corse a tuffar nell'acqua fresca
Le parti che compresse la Francesca.
Petronilla, poichè vide alle prese
Checca con monsignor, di nuovo acchiappa
Titta, e in mezzo al calor delle contese
De' calzoni la cintola gli strappa;
Il buon uom fin allor sulle difese
Stat'era, ma la flemma omai gli scappa,
E sulle chiappe carnacciute e nude
Sculacciate le dà sonore e crude.
298
Vafrin, poichè spartì l'altro duello,
Venne lo stesso a far con questi due,
Ma in questo non riuscì, siccome in quello,
E invan tutte impiegò le forze sue;
Onde corse a pigliar d'acqua un mastello,
E la gettò sul viso a tutti e due,
Che, lor negli occhi e sopra il naso entrando,
Gli fe' la pugna abbandonar sbuffando.
Così coloro il camerier divide,
E rallentò di quelle risse il foco;
Allor ciascun di sua follia s'avvide,
E il primo sdegno alla ragion diè loco.
Ad uno ad un Vafrin li guarda e ride,
E del ribrezzo lor si prende gioco,
Che pien d'onta ciascun con tristo muso
Stavasi in un canton cheto e confuso.
Vafrino alfine aprì la bocca e disse
Bravi campioni e valorose donne,
Omai si ponga termine alle risse,
Voi le brache allacciate, e voi le gonne,
Ciascun su l'altrui fronte il marchio affisse,
Ciascun la pena del taglion pagonne.
Con capre i becchi, e colle vacche i buoi
Han pace: dunque pace sia tra voi.
Allora i forti eroi, le donne belle
Ricomposer le facce sfigurate,
E si allacciar le brache e le gonnelle.
Vafrino intanto ad essi il cioccolate
Recò co' biscottini e le ciambelle
Per rimetter le forze dissipate;
E tutti quanti posersi a sedere
Agiatamente il cioccolate a bere.
Qui cominciar sott'occhio a riguardarsi,
Stimol di riso gli stuzzica e scuote,
Sogghignan di soppiatto, e per celarsi
Mordon le labbra e gonfiano le gote,
E fingon di tossire e di spurgarsi;
Ma di più contenersi alfin non puote,
E scoppiò tutta quanta la brigata
In una solennissima risata.
E rammentando li vari accidenti
Della strana ridicola battaglia,
Riser, che lor potean contarsi i denti.
Qualche truppa così di ragazzaglia
Vidi rissa attaccar non altrimenti,
299
E se alcun li divide e li sbaraglia,
Deposte l'ire, con motteggi e riso
L'un mostra all'altro i lividi sul viso.
E affinchè più per l'avvenir non sia
Memoria alcuna del seguito eccesso,
Convennero fra lor d'un'amnistia
Per ciaschedun dell'uno e l'altro sesso;
E come ancor fu convenuto pria
Ne' trattati vestfalici, in possesso
Ciascun rimase degli acquisti sui
Fatti o usurpati sulli dritti altrui.
E acciò l'accordo stabile riesca,
E in maniera pacifica e tranquilla
Si possa poi continuar la tresca,
Chiuse gli occhi il fattor per Petronilla,
Li chiuse monsignor per la Francesca.
E siccome lo strepito e le strilla
Udite avea talun del vicinato,
E chiedea: cos'è stato? cos'è stato?
Perciò per la città sparse Vafrino,
Che monsignor Fabrizio esorcizzate
Privatamente avea di gran mattino
Un par di vergognose spiritate
Che, ogni qualvolta udivano il latino,
Mettevan certe grida indiavolate;
E che alfin de' lor corpi Satanasso,
Uscendo fuori, avea fatto quel chiasso.
Monsignor di Vafrin lodò il pensiero,
Che seppe con bugia giudiziosa
Lo scandol prevenir d'un fatto vero;
E questa ell'è una prova luminosa,
Che opportuna bugia, se con critero
S'impiega, può esser buona a qualche cosa,
E senza esaminar ciò che c'è detto
Può talvolta produrre un buono effetto.
300
NOVELLA XXII
IL DIAVOLO PUNITO
Le rivoluzion dei grandi stati
Simili a quelle son della natura.
Sciolti allor sono i vincoli o spezzati
Che pria ne componean la tessitura;
E nella gran convulsion cangiati
Gli oggetti e la lor forma e la figura,
L'ordir primier più non riman lo stesso,
Ben raro in meglio cangia, in peggio spesso.
Di natura l'occulta intima forza
Gradatamente le cagion conduce,
E giusta le sue leggi a oprar le forza,
E necessari effetti ognor produce.
Quelle si celan sotto esterna scorza,
Questi scoppiar con strepito alla luce.
Nè l'azion delle lor molle ignote
Uom scorge, nè arrestarne il corso ei puote.
Ma degli stati i gran rovesciamenti,
Che veggiam per abuso di potere
D'oppressor, di tiranni, o d'insolenti
Ministri, o per invasion straniere,
Per languor, per secreti istigamenti,
O per furia di popolo accadere,
Disordine e anarchia soglion produrre,
Se non li può senno e ragion condurre.
Ma se esperto nocchier cauto e prudente,
Cui cieca ambizion non bolle in testa,
Che abbia virtute in cor e lumi in mente,
Guida il naviglio in mezzo alla tempesta,
Veglia al timon; tutte le cure ha intente
Scogli e secche a evitar, nè l'opra arresta;
Finchè sul lido, trattol dal periglio,
Carena e assetta il lacero naviglio.
Ed allor savia ed opportuna legge
Le viziose costumanze prime,
Gli antichi abusi il me' che può corregge,
I nascenti disordini comprime,
Ed il tranquillo cittadin protegge,
301
E il vacillante allor governo imprime
Ne' suoi regolamenti ed ordinanze
Spesso il caratter delle circostanze.
La negletta finanza, il fatuo orgoglio,
Il dispendio di corte e altre ragioni,
Ch'entrare a esaminar io qui non voglio,
Le politiche alfin convulsioni
Causaro ai nostri dì, che altare e soglio,
Quai navi in mozzo alle tempeste, ai tuoni,
Rovesciarono in Francia; onde ogn'interno
Vincol fu sciolto e ogni rapporto esterno.
L'unione di quei che allor compose
Il supremo poter qualunque classe
Nemica del novello ordin di cose
Espulse, e i beni ne vendè o distrasse,
E del ritratto a grado suo dispose,
E quel partito che potè ne trasse;
Onde fu allor soppresso o espulso il clero,
Lo cui zel si temette o falso o vero.
Ma un vortice d'eventi e di vicende,
Che una appo l'altra sopraggiunser poi,
Inattese, incredibili, stupende,
Che anch'esse esaminar non spetta a noi,
Rimena il clero, e il culto suo gli rende,
Le funzioni e gli esercizi suoi;
Ma dei distratti beni i compratori
Legittimi dichiara possessori.
Non lungi da Obusson, in un villaggio
Che giace nella fertile campagna,
Che dell'industre agricola a vantaggio
Il fiume Crosa traversando bagna,
Economo vivea non men che saggio
Borghese poco fa, cui la compagna
Che a lui scelta od amor diè per consorte
Tolse improvvisa ed immatura morte.
Prole da lei non ebbe ei già, nipote
Per altro avea che molto era a lui caro.
Gli trovò moglie ed assegnò la dote.
Perchè regolat'era, alquanto avaro
Lo dicean; ma tai son le tacce note,
Che dansi a chi non getta il suo danaro.
Marcantonio colui del qual vi parlo
Chiamossi, così almeno udii chiamarlo.
Il parroco che pria la cura resse
Era un entusiastico, un fanatico,
302
Che odiava a morte tutto ciò che avesse
Qualche lieve sentor di democratico.
E ne avea ben ragion; che suo interesse
Fu di mostrarsi un acre aristocratico,
Perchè ciò più profitto ognor gli diè,
E spiegherovvi il come ed il perchè.
Nessun dirammi che gli aristocrati,
Facendosi opportuna eccezione,
Non abbian più quattrini e più peccati,
Che quei d'inferior condizione
Più ritrarne però ponno i curati,
Quando indulgenti son con tai persone.
Colle peccata di povera gente
V'è pel prete a lucrar poco o niente.
Cangiar le cose in Francia, e don Crispino,
Che così si chiamò sua reverenza,
Di cose in quel rovescio repentino
Temè la democratica influenza;
Onde emigrando andò sotto il domino
Di non so dir qual estera potenza.
Vendute allor per sostener le guerre
Fur dei preti e dei nobili le terre;
E degli acquisti fatti a tempo e a loco
Si garantì il possesso ai compratori.
Marcantonio comprò magion che poco
Indi era lungi dei villaggio fuori,
Che all'emigrato parroco del loco
Appartenea ne' tempi anteriori.
E nelle forme solite il contratto
Per lo notajo pubblico fu fatto.
Nuovo sistema e i consolar decreti,
E combinazion di circostanze
Ai primi offici rimenaro i preti.
Tornò anche don Crispino, e rimostranze
Con insistenti modi ed inquieti
fe' a Marcantonio e triplicate istanze,
Acciò la casa renda, e lo assicura
Che de jure divin spetta alla cura.
Non cede Marcantonio, anzi sostiene
Che legittimamente ei la comprò,
Che legittimamente ei la ritiene,
Che il parroco ha bel dir, ma che a suo pro
La legge parla chiaro e parla bene.
Don Crispin certi canoni citò.
E quegli: riterrolla, io vi rispondo,
Malgrado tutti i canoni del mondo.
303
Frattanto Marcanton cadde ammalato
Per grave mal; lo che saputo avendo,
Tosto corse ad assisterlo il curato.
Gravemente intimogli il reverendo,
O che la casa renda o che è dannato.
E quei: non rendo, padre mio, non rendo,
Con voce rispondea languida e fioca.
E don Crispin vie più di zel s'infoca.
Nè vi spaventa, ei disse, il brutto e tristo
Aspetto della morte e dell'inferno,
Se non rendete la sua casa a Cristo?
Nè vi rosica il cor rimorso interno
Di ritenere un sì malvagio acquisto?
Sull'orlo vi vegg'io del foco eterno,
La voce odo del giudice tremendo.
E quei: non rendo, padre mio, non rendo.
Don Crispin pur insiste: il corpo vostro
Fra poco si dovrà ridurre in polvere,
Se non sel porta via l'infernal mostro;
E voi non vi volete ancor risolvere
Il fondo a render che de jure è nostro?
Io non vi posso e non vi deggio assolvere,
E dovrete morendo impenitente
Andar dannato irremissibilmente.
Marcantonio con fievoli parole,
Parlate piano, al fervoroso prete
Dicea, che il capo, padre mio, mi duole.
E don Crispin: lieve doler temete,
Nè l'inferno temer da voi si vuole?
E quei: non rendo, padre mio, ripete.
Ma un legato alla cura almen ne fate.
E quei: per carità non mi seccate.
Spedirongli il vicario e il sagrestano
Colla minaccia di condanna eterna,
Per cui s'assegna al possessor profano
Di magion sacra la magione inferna.
Che non fe' don Crispin? ma tutto in vano;
Non cangia Marcanton, nè si costerna.
Allora don Crispino arma fatale
Trasse dal magazzin presbiterale.
Persuase alle donne e al popol basso
Che in breve Marcanton in carne e in ossa
Saria portato via da Satanasso,
Prima che sia riposto entro la fossa.
E fra quei borghigian fe' tanto chiasso
304
Pastocchia sì spregevole e sì grossa,
Che già all'inferno veggono il demonio
L'anima e il corpo trar di Marcantonio.
Intanto a Marcantonio il mal talmente
S'aggravò, che a morir non tardò molto.
Don Crispin protestò pubblicamente
Che in loco sacro non l'avrìa sepolto,
Sendo ei morto in peccato e impenitente
Nella incapacità d'essere assolto
Che già il diavol gettata avea nel foco
L'anima, e il corpo vi trarria fra poco.
Steso tutto quel dì sul proprio letto,
Alle zanzare ed alle mosche esposto
Restò il corpo dannato e maladetto,
E per timor nessun gli stette accosto,
Poi di notte in un vecchio cataletto
Con due stanghe il cadavere fu posto,
E del villaggio fuor nudo e scoperto
Portato, e ivi lasciato a cielo aperto.
E tanto fu l'orror fra quei villani
Sparso attorno da quel buon sacerdote,
Che il cadaver di lupi esca e di cani
Rimase ivi saria, se il suo nipote,
Sapendo che temer tratti inumani
Da una certa genia ciaschedun puote
E le più nere furfantaggin grosse,
Messo in qualche sospetto ei non si fosse.
Guardia era nazional del suo villaggio,
E sapea ben, se gli venia la muffa,
Farsi valer, nè sofferiva oltraggio.
Già sostenuto avea più d'una zuffa,
E pieno di vigore e di coraggio
Pronto era sempre ad attaccar baruffa;
Sicchè, bravo essend'ei non men che accorto,
Gir volle ei stesso a far la guardia al morto.
Onde preso con se lo sciabolone,
Di cui spesso assai ben saputo avea
Far uso all'opportuna occasione,
Vanne dove il cadavere giacea.
Poco lungi dal feretro si pone
Sotto un gran pin che nera ombra spandea.
Chiotto al tronco s'appoggia, e all'aer bruno
Stassi a veder se al morto appressa alcuno.
Nei terrazzan di tutto quel contorno
Triste idee la paura avea prodotte,
305
E di notturni augei s'udian d'intorno
Soltanto ad or ad or strida interrotte.
Ivi fatte un par d'ore avea soggiorno
Il guardia, ed era già la mezza notte,
Quand'ecco che gli sembra udir da lunge
Un leggier calpestio d'alcun che giunge.
Tre figure d'aspetto orribil, tetro,
Vide poi fra le dubbie ombre apparire,
Cauto celasi il guardia al tronco dietro,
Attento ad osservar ciò che vuol dire;
E con gran corna allor verso il feretro
Vede tre neri diavoli venire,
E gl'infernali soliti e comuni
Attrezzi han nelle man catene e funi.
Il guardia ben sapea che appunto allora
Che della luce sono spenti i rai,
E che l'errante fantasia lavora,
E che l'occhio travede o poco o assai,
I diavoli escon dell'inferno fuora,
E a chiaro giorno non appajon mai
E in vedergli appressare in quell'arnese
L'intenzion diabolica comprese.
Imperterrito allor la sciabla afferra,
La mena in cerchio, e il braccio a un diavol fende,
Che primo giunge, e cader fagli a terra
La man, mentre al cadavere la tende:
E poscia il colpo replica e l'atterra
Con gran fendente, e morto al suol lo stende.
Gli altri due nel veder la gran moina
Che fea la formidabile squarcina,
Presi fur da spavento, e per lo campo
Dalla terribil sciabla e dal periglio
Con pronta fuga ricercar lo scampo;
E in mezzo alla paura e allo scompiglio
Abbandonar della battaglia il campo.
Si scossero allo strepito, al bisbiglio,
Ed ai confusi gridi repentini
I terrazzar ch'erano i più vicini.
Poichè tenean per fermo e indubitato
Che venuto colà fosse il demonio,
Giusta l'annunzio fatto dal curato,
Il corpo a portar via di Marcantonio,
Che uno stabile s'era appropriato
Spettante della chiesa al patrimonio;
E che sua preda forse era rimasto
Il guardia ancor, se volle far contrasto:
306
Chi un cristo, chi un lampion, chi la piletta
Dell'acqua santa ha in man coll'aspersorio,
Chi l'olivo o la palma benedetta,
Chi invoca san Pasqual, chi san Gregorio,
Chi un salmo, chi un'antifona balbetta,
E chi del miserere il responsorio,
Chi si pon l'abitin della Madonna
Che per ricordo gli lasciò la nonna.
Accorse quello stuolo insieme unito
Con fiaccoloni per veder se piue
Il morto è sulla bara, o se rapito
Dal diavol fosse; ma da qual non fue
Alto stupor ciascun di lor colpito,
Allor che invece d'un trovonne due?
Catene e un corno infin fu rinvenuto,
Che a un diavol nella fuga era caduto.
Il guardia allor narrò, che all'improvviso
Tre diavoli appressarsi avea veduti
Che, avendo il morto di rapir deciso,
Ad assalir la bara eran venuti;
E rimasto era nella zuffa ucciso
Il capo di quei spiriti cornuti;
Ch'egli a colpi di sciabola atterrollo,
E gli altri due fuggire a rompicollo.
Attonito rimase e stupefatto
A tal racconto ogni fedel cristiano.
Può il diavolo morir?... ma contro il fatto
Nulla evvi a dir: veder, toccar con mano
Può ciascun; ma del diavolo il contatto
Ognon temeva e si tenea lontano;
Che colla sua terribile figura,
Benchè morto, colui facea paura.
Ma un più ardito fra loro, alfin da lunge
Da se il timor avendo alquanto scosso,
Con una lunga pertica lo punge;
Nè sendosi a quel tocco il diavol mosso,
Coraggio il tentativo agli altri aggiunge.
Gli corron sopra, e chi gli sputa addosso,
Chi gran calci gli dà, chi lo calpesta,
Chi dagli una mazzata in sulla testa.
Così l'asino un giorno al dir d'Esopo
Di lione una pelle in sul groppone
Si mise, non saprei con quale scopo
I villani credendolo Lione,
Spaventati qua e là fuggian, ma dopo
307
Vedendo essere un asino buffone
Ch'erasi le altrui spoglie appropriate,
Lo caricar ben ben di bastonate.
I terrazzani dieron lode e onore
Al guardia, che avea il diavolo ammazzato.
Ma sorpresa colpigli assai maggiore,
Che la fisonomia del lor curato
Nel diavolo osservar: d'un genitore
Ambo esser figli avria talun pensato,
E fattisi bel bel più a lui vicino
Dicean: non v'è che dir, par don Crispino.
Esaminando poi trovar la chierca;
E ciò in sospetto posegli anche più.
Feron perciò del parroco ricerca
In chiesa, in casa sua, di su, di giù,
Chiama di qua, di là, dimanda, cerca,
Nè di trovarlo mai possibil fu.
Toltagli alfin la tinta nera e rossa.
Trovar ch'era il curato in carne e in ossa.
Alla Police allor fatto il rapporto,
Se ne formò processo, e risultonne
Non esser che il curato il diavol morto;
E gli altri due che, come udiste, o Donne,
Camparon dallo sciabolon ritorto,
Un era un pretazzuol baciamadonne
Molto devoto dell'uovo pasquale,
E l'altro il sagrestan parrocchiale.
L'avvenimento strano e memorando
Empì di giusta indignazione i cori;
E naturali induzion tirando,
Ben conobbero allor, che gl'impostori
Che, dell'altrui credulità abusando
Spargon vani chimerici terrori,
Avidi, furbi, finti e menzogneri,
I perigliosi son diavoli veri.
Il fatto è noto in tutto quel paese,
Ed i giornali riferito l'hanno,
E quello detto il cittadin francese,
Ed altri per autentico lo danno,
Colla data: Parigi, il dì del mese
Messidor diciannove il decim'anno,
Che risponde appuntin nè men nè piue
Agli otto Luglio anno ottocento due.(18)
(18)
Il fatto esposto dall'autore è esattamente conforme alla relazione fattane dai giornali citati nella penultima ottava, e da
altre lettere particolari, eccetto alcune variazioni per comodo della poesia, ma che non alterano il fondo della cosa.
308
Donne, crediate pur che ognor l'istesse
Fur tutte le diaboliche comparse.
Se, come il guardia fe', ciascuno avesse
Saputo ognor del diavolo disfarse,
E non lasciar ch'egli bel bel potesse
Della volgar credenza impossessarse.
Estinto da gran tempo egli sarebbe,
Nè più cotanto il mondo inquieterebbe.
309
NOVELLA XXIII
DIANA ED ENDIMIONE
Non v'è sì duro e sì ritroso core,
E voi il sapete, o valorose Donne,
Nè sì ostinato nemico d'amore
Che asserir possa: esente ognor saronne.
Che se di vostra attenzion l'onore
Oggi m'accorderete, a voi faronne
Un esempio veder nella più schiva,
Nella più casta incensurabil diva.
Al tempo che alla moda erano i numi,
Come raccontan le memorie achee,
E abitavan le piante, i fonti e i fiumi
Amadriadi e najadi e napee,
Spesso senza etichette e senza fumi
Co' mortali all'amor facean le dee;
Ed erano le femmine onorate
D'esser talor da qualche nume amate.
Or non è più così, Donne amorose,
Non v'è più da sperar venture tali.
Di faccia omai cangiarono le cose,
E farcela dobbiam fra noi mortali;
Pur le storie che sembran favolose
Contengon spesso utilità morali;
E in oltre fan piacere a chi le ascolta,
Ond'una vo' contarven questa volta.
Gli autori che narraro a tempo antico
Gli amor d'Endimione e di Diana
Che pria tant'ebbe il cor casto e pudico,
Narrarono la cosa per la piana;
Ma poi l'accuratissimo Gianfico,
Che è uno scrittor di critica più sana,
Ricerca o esame alcun non ha negletto
Per riportare il fatto puro e netto.
Ond'io che ne posseggo il manoscritto,
Che non baratterei per un Omero,
Il ratto conterò, com'ei l'ha scritto,
Senza levarvi od aggiuntarvi un zero;
Poichè mi crederei di far delitto,
310
Se il falso vi volessi dar per vero.
Alquanto scrupoloso in ciò son'io,
O Donne, compatite il debol mio.
Endimione, o care Donne amabili,
Era un garzon, della beltà di cui
Dicon cose che pajono improbabili
I poeti che parlano di lui,
Quantunque, sian sicuri e indubitabili.
Un de' più favoriti piacer sui
Era d'andar continuamente a caccia
Sul monte Latmo a daini e a cervi in traccia.
Diana ancor, posciachè dato avea
Nel celeste sentier loco al fratello,
Per quei colli cacciando andar solea.
Delle snelle amadriadi il drappello
Che avea costume accompagnar la dea
Errar vide pel bosco il giovin bello,
E di vederlo e rincontrarlo spesso
Prese diletto e amoreggiò con esso.
Ciascuna pone ogni suo studio ed arte
Per comparir leggiadra al giovinetto;
Chi in ordinate trecce il crin comparte
Allo specchio d'un chiaro ruscelletto,
Chi le libere chiome all'aura sparte
Lascia ondeggiar, nuda le braccia e il petto,
E in qualunque suo moto, o parla o rida,
Più che nell'arte, in sua beltà si fida.
Chi gli getta de' fiori e poi s'asconde
Ma da lui brama esser veduta pria
Chi molli erbette ed odorose fronde
Sparse ov'ei spesso a riposar venia;
E chi l'arco gl'invola e gliel nasconde
Fra verdi cespi, mentr'egli dormia
Ovver furtiva e tacita gli allaccia
Con catene di rose e mani e braccia.
Di ciò s'avvide alfin Diana, a cui
Rigida castità muniva il cuore
E in tutte l'opre, in tutti i pensier sui
Fu nemica implacabile d'amore;
E in se non sol, ma non soffria in altrui
D'impurità sospetto, ombra o sentore,
O da se stessa se ne avvide, o istrutta
Ne fu da qualche ninfa invida e brutta.
Comunque sia, poichè l'austera diva
Il civettar delle sue ninfe apprese,
311
Vergognossi d'aver tal comitiva.
E riputò che tutte eransi rese
Per l'indecente libertà lasciva
Sfacciatamente ree di crimen lese;
E fu bandito con un ordin di Diana
Che s'adunasser tutte a una fontana.
Ed ella in mezzo a lor la lancia scuote
La riguarda con faccia minacciosa,
Sbuffa di sdegno e il suol col piè percuote.
Bassa gli occhi ogni ninfa, e vergognosa
Di timido rossor tinge le gote
E a lei lo sguardo sollevar non osa.
Il torbido silenzio ella alfin ruppe,
E in acerbi rimproveru proruppe.
Sfacciatelle pettegole, dicea,
No, che non meritate esser l'amiche
E le compagne d'una casta dea;
Più tosto esser dovreste le impudiche
Ministre di Volupia e Citerea.
Veggo che getto invan cure e fatiche;
Chi per natura e chi per volontà,
Non siete fatte per la castità.
Non ha in voi fatta alcuna impressione,
E già dimenticaste, a quel che osservo,
L'esempio di Callisto e d'Atteone,
Quella cangiata in orsa, e questi in cervo;
Eppur l'un non portò punizione
Che d'uno sguardo libero e protervo,
E l'altra alfin parea di scusa degna,
Se il mio gran genitor la rese pregna.
Ma con un pastorel, con un bardassa,
Mantener tresche ed amoroso intrigo,
Quest'è un ardir che i limiti oltrepassa,
E assai più degno d'esemplar gastigo;
Ma se la mia clemenza alfin si lassa,
Giuro per l'onda stigia, io me ne sbrigo.
Non mi costa che quattro parolette
Per farvi tutte diventar civette.
Mentr'ella così parla, un'improvvisa
Voce ascoltò dietro un vicin virgulto,
E un scornacchiare, uno scoppiar di risa.
Colà si volge, e Amor di quell'insulto
Il temerario autor esser ravvisa,
Che ivi il tutto a osservar stavasi occulto.
La bil le monta al naso, e per la rabbia
Amaro fiel le viene in sulle labbia.
312
E con tronche ordinò brusche parole,
Che a ogni costo s'arresti, e che si chiappi
Di Citerea l'adulterina prole,
E si leghi ad un tronco, acciò non scappi,
Che di sua mano spennacchiarlo, e vuole
Di dosso arco e faretra se gli strappi.
Tutto il drappello allor per la boscaglia
Per acchiapparlo incontro a Amor si scaglia.
Ma siccome talor se un cardellino
Uscì fuor della gabbia ov'era chiuso,
Qua e là dietro gli corre il bambolino
Per timor ch'ei non fugga ansio e confuso,
E quando è per raggiungerlo vicino,
Quei spicca un volo e lascialo deluso;
Così, qua e là scorrendo, Amor schernisce
Delle ninfe lo stuol che l'inseguisce.
Pur talvolta ad alcuna alfin riesce
Di raggiungerlo e già lo tiene e abbraccia,
Ma Amore si divincola qual pesce;
E le sdrucciola e sguizza dalle braccia,
O a bella posta infra di lor si mesce,
E improvviso or sul petto or sulla faccia
Le bacia, le solletica, le punge,
E fugge e torna, ed or è presso, or lunge.
Le incita ei stesso e le motteggia e ride
Del loro sforzo e collera impotente,
Ed a Diana, mentre insiste e stride,
Acciò sia preso, sì rapidamente
S'appressa che la dea non se ne avvide;
E vedete se Amore è un insolente!
La man le mise al guarnelletto sotto,
E le diè non so dove un pizzicotto.
Diana, come da pugnal percossa,
Un acuto gettò strido solenne;
Per la vergogna si fe' rossa rossa
E quasi pazza per furor divenne.
La lancia che avea in mano a tutta possa
Strinse e vibrò; ma il colpo Amor prevenne,
Fa uno scanso di vita e il capo abbassa,
Gli striscia il crin l'inutil colpo e passa.
Poscia placidamente il guardo fisse
Alla crucciosa diva il dio d'amore,
E sorridendo: osserva or tu, le disse,
Quanto io di te sia feritor migliore.
E in questo dir un dardo le confisse
313
Con colpo irreparabile nel core.
Poi levandosi a vol di là fuggì,
Si mischiò fra le nuvole e sparì.
In quel punto alla dea (mirabil cosa!)
Un non so che parve nel cor sentire
D'insolito e soave, e dilettosa
Sensazion le ammorza i sdegni e l'ire,
Nè più in volto appar fiera e corrucciosa,
Ond'ella stessa ebbe di se a stupire;
Ma già la notte al carro suo l'appella,
Sicchè alle ninfe sue così favella:
Nella profonda oscurità notturna
Mai più non osi alcuna ir vagabonda;
Ma negli algosi fiumi o in taciturna
Spelonca o ne' natii fondi s'asconda,
Finchè dall'oriente la diurna
Luce per l'ampio ciel non si diffonda;
O che io... ma vo' sperar che d'ora in poi
Non dovrò usar severità con voi.
Le ninfe più confuse che corrette
Van, della diva acciò il voler s'appaghi,
A ritirarsi tacite e solette
In antri, in piante, in fiumi, in fonti, in laghi.
Ella frattanto in ordine si mette,
Lega al carro d'argento i neri draghi,
Le briglie di velluto in mano prende,
E d'un salto leggier sovra v'ascende.
Si dilegua la luce, e fra le crebre
Ombre notturne omai riman sepolta;
Morfeo l'onda letea sulle palpebre
Spruzza ai stanchi mortali, e sol talvolta
Del feral gufo l'ulular funebre,
O stridere la nottola s'ascolta.
Tacciono i venti, e luminose e belle
Nel tranquillo silenzio ardon le stelle,
Satiri e fauni sol stan vigilanti,
E al moto d'una frasca o d'una paglia
Si rizzano su i piè caprigni, e innanti
Stendon l'orecchio fuor della boscaglia
Per udir se là volge i passi erranti
Ninfa che a bella posta il cammin sbaglia,
Nè vedendone alcuna, a capo chino
Ritornano a votar gli otri di vino.
E già il cocchio di Cintia il tenebroso
Aere fluidissimo fendea,
314
E là era sopra ove su strato erboso
Le luci al sonno Endimion chiudea,
Nè mai più bello Adon dolce riposo
Prese giacendo in grembo a Citerea
Che in riguardarlo ebra d'amor sospira,
E a novelli piacer avida aspira.
Cintia d'alto mirò la favorita
Piaggia di Caria, e s'erri in bosco o in prato
Contro il divieto alcuna ninfa ardita,
E vide il bel garzone addormentato.
Se con immedicabile ferita
Pria non le avesse Amore il sen piagato,
Sdegnosa e altera di guardarlo invece
Oltre trascorso avria, ma or non lo fece.
Gode in mirarlo e i draghi suoi rattiene,
In aere sospeso ondeggia il cocchio;
Poi scende lieve lieve, e a posar viene
Presso al garzon; il gomito al ginocchio
Punta ella, e il mento colla man sostiene,
Gli fissa in volto avidamente l'occhio
Fuori del carro a mezza la persona,
Ed al libero sguardo s'abbandona.
Un palpito affannoso il cor le scuote,
Fra la tema e il piacer s'ange e vacilla,
Rosseggian come brace ambe le gote,
E nell'umida tremola pupilla
Con vibrazioni a lei per anche ignote
Desir voluttuoso arde e sfavilla.
Or dove, o Cintia, or dove andò l'austero
Contegno tuo? dove l'orgoglio altero?
Una smania l'assale, un' inquietudine,
Lascia il carro, s'avanza e poi s'arresta;
Ponsi alfin di baciarlo in attitudine,
Intorno guarda pria per la foresta.
Da per tutto è silenzio e solitudine.
S'accosta e al furto ardito omai s'appresta,
Sulle purpuree labbra alfin bel bello
Imprime un leggier bacio al giovin bello.
Non così forse colle placid'onde
Sul molle prato i limpidi ruscelli
Lievi lambendo van l'erbose sponde;
Non così lievi i zeffiretti snelli
Nel verde april fra l'odorose fronde
Scherzando vanno e fra li fior novelli;
E non lievi così sulle colline
Cadono le rugiade mattutine.
315
Un bacio sol, un leggier bacio e tolto
Così di furto e con cautele tante
Su i labri d'un garzon nel sonno involto
Per qualunque altra o donna o diva amante
Poco saria, ma per Diana è molto.
Volea di là partirsi in sull'istante
Per non provar tentazion novella,
Che sconvenga a una dea e dea zitella.
Sul carro suo per rimontar sen va;
Ma la sorprende insolito tremore,
E di muovere il piè forza non ha.
Ribaciarlo vorria con più fervore;
Ma il caratter s'oppon, la dignità,
E un resto ancor di verginal pudore,
Sicchè l'è forza in circostanze tali
D'adoprar mezzi soprannaturali,
A un tratto intorno a lui si forma ed erge
Magica nube che di gravi e densi
Vapori soporiferi l'asperge.
Profonda inerzia gl'incatena i sensi
E in un sonno letargico l'immerge.
Su i riguardi la dea più allor non tiensi,
Ponsegli allato, ed or in lui voraci
Gli sguardi fisa, ed or sol sugge a baci.
L'esterna impression in lui che dorme
Per via di nervi al cerebro perviene,
L'idea produce analoga e conforme
Alla sensazion da cui proviene,
Incitative e lusinghiere forme,
Ed ogni bacio della dea diviene
Lubrico a lui voluttuoso sogno,
E di quei che a parlarne io mi vergogno.
Eran di quei che nelle notti estive
Del gran Francesco ai serafini grassi
Offrono spettri e immagini lascive,
Allor che russano affannosi e lassi,
E senza rispettar le distintive
Barbe de' venerabili patrassi
Di sensuali stimoli protervi
Sovrabbondantemente empiono i nervi.
Eran di quei che in solitaria cella
In tempo del digiun quaresimale
Sogliono alla divota monachella
Solleticare il fomite carnale;
D'esser rapita in estasi cred'ella
316
Semplice, e al direttor spirituale
Lo narra, che al toccar di certe corde
Viengli l'acqua alla bocca e i labri morde.
Cintia fe' quel che fe' Penia con Poro,
Come fu scritto dal divin Platone.
E aggiunge ancor che dal commercio loro
Nacque Amor, non da quel d'altre persone,
E narra quest'affar con tal decoro,
Che leggerlo potrian putte e matrone;
In toscana favella io non lo reco,
Che a dirlo ben non si può dir che in greco.
La musa mia che tutta è per la fisica,
E che s'occupa sol della materia,
Ama il real, nè favellar si risica
Di cosa astratta o sia scherzosa o seria;
E quella appunto è tutta metafisica,
Onde a parlarne solo è una miseria:
Sicchè io dirò ch'ebber piacer conforme
Cintia ch'è desta, e Endimion che dorme.
Forse sepolto un fatto tal saria
E nel silenzio e nell'obblio profondo,
Forse la dea continuato avria
Nella comune opinion del mondo
A passar per zitella come pria,
Nè saria il primo esempio, nè il secondo;
Ma Biribollo, satiro indiscreto,
Venne, vide e scoprì tutto il secreto.
Non mai satiro in boschi o in piaggia alpestre
Di più libidinosa frenesia,
Nè mai più petulante altra terrestre
Semidivinità, nè mai più ria
Errò fra tutta quanta la silvestre
Capribarbiconipede genia.
Costui per cercar ninfe all'aer fosco
Tutta la notte errando gia pel bosco.
Or fra le piante udendo Biribollo
Un anelito ansante, un mugolio,
Punta l'orecchio, e slunga innanzi il collo,
Poi disse: ah! ah! comprendo; ma per Dio
Che mi si faccia in barba io non l'ingollo,
Se non ci metto la mia zampa anch'io;
Nè si dirà ch'abbia un par mio passata
Andando a zonzo invan la nottolata.
Indi girando attentamente l'occhio,
Vide un chiaror fra l'ombre e dimenarsi
317
I draghi impazienti, e voto il cocchio,
E soggiunse fra se: potria mai darsi
Che fosse qui con qualche drudo a crocchio
La rigida Diana a trastullarsi?
E in questo dir facendo un passo avanti,
Diana e Endimion coglie in fragranti.
Chi del viver del mondo ha un po' d'usanza
Di non aver a ciò dato avvertenza
Di buona grazia avria fatto sembianza;
Ma il satiro che mai convenienza
Non ebbe, nè civil buona creanza,
Con affatto salvatica indecenza
Diè uno scroscio di risa sgangherate,
E l'eco ripeteva le risate.
Qual mai savia crudel sventura e strana
Per una grave e nobile matrona
Sorpresa in qualche debolezza umana
Da indiscreta e maledica persona!
Figuratevi poscia una Diana,
La castissima figlia di Latona,
La sorella austerissima d'Apollo
Colta su quell'affar da Biribollo.
All'improvviso strepito si scuote,
E il testimon vedendo e il derisore,
Stupida resta e con pupille immote;
Soffogato il respir per lo terrore
Dal teso enfiato sen sortir non puote,
Scorrer si sente un gelido tremore
Per le languide membra, e cade intanto
Pallida, esangue, a Endimione accanto.
Qua e là rivolge i torbidi occhi e privi
Di vigor, poi li chiude, e d'ogni oggetto
E della luce par l'incontro schivi;
Orror le fa ciò che le fe' diletto.
Già per le gote le lacrime a rivi
Scendono ad inondarle il bianco petto,
E vorrebbe morendo uscir di guai,
E si duol che le dee non muojon mai.
Il vederla sì afflitta e addolorata
Potuto avria mansuefar le fiere,
E non che una gentile alma ben nata,
Ma intenerire il cor d'un doganiere;
Ma il satiro, ridendo all'impazzata,
Del dolore di lei prendea piacere;
E in mirar lo scoperto e bianco seno
S'infiamma tutto di desire osceno.
318
Scintillan gli occhi come lampe accesi,
Se gli enfiano le vene, il sangue bolle,
Vibransi i nervi irrigiditi e tesi,
S'arroventiscon l'ossa e le midolle.
Raccapricciasi allor la dea dei mesi;
Ma invaso da brutal lussuria e folle
Quello sgherro di Venere e di Bacco,
Avventandosi a lei, viene all'attacco.
Ella il respinge, e seco lui contrasta
E con debole man la man gagliarda
Distaccar vuol, ma sforzo alcun non basta.
Con spavento ed orror la dea lo guarda,
E lo strano destin che le sovrasta
Se non distoglie, il più che può ritarda;
Sgraffiollo, ingiuriollo, supplicollo,
Ma nulla v'è da far con Biribollo.
Or di tacer promette, or la minaccia,
E in ogni modo la vuol pur conquidere.
Troppo importa alla dea che colui taccia,
Che in faccia al mondo la potria deridere,
Che in sol pensarvi inorridisce e agghiaccia;
Ma colui insiste, e a lei convien decidere;
Onde, secondo insegna la morale,
Di due mali ella scelse il minor male.
Qual egro il disgustoso beveraggio
Schifa, e con nausea lo rigetta e indugia,
Per desio di salute alfin coraggio
Fassi e l'amaro calice trangugia;
Tal pressata la dea da quel selvaggio
Trovandosi fra il cardo e la grattugia,
Per salvar la sua fama in faccia al mondo
Si diede in braccio a quel bestione immondo.
Ecco, vezzose ninfe amorosette,
Che per libertà lievi e passeggere
Foste sovente a sofferir costrette
Gli acerbi insulti e le minacce austere;
Ecco le memorabili vendette,
Onde punisce Amor le belle altere;
Eccovi vendicati, uomini e dei,
Dello sprezzante orgoglio di costei.
Ora qui, o Donne care, in verità
Voi mi potreste far l'obbiezione
Per impugnare l'autenticità
Di tutta questa mia narrazione;
Cioè che molti han scritto ed ognun sa
319
Gli amori di Diana e Endimione;
Ma il fatto di Diana e Biribollo
Nessun lo seppe mai, nessun narrollo.
Potrei risponder corto e sbrigativo,
Che un argomento dal silenzio preso,
Essendo un argomento negativo,
Argomento non è di molto peso;
Ma pur, poichè di ciò che dico e scrivo
Amo ch'esatto conto a ognun sia reso,
Perciò con prove ed esattezza istorica
Risposta vi darò più categorica.
Lungo tempo la pratica amorosa
Cintia col vago Endimion mantenne.
E quantunque tenesserla nascosa,
D'alcune ninfe alla notizia venne
Queste disserlo ad altre, onde la cosa
A poco a poco pubblica divenne,
E lo seppero gli uomini e gli dei,
E quindi scritta fu dai vati achei.
Col satiro però non è tutt'uno,
Poichè l'affar fra lui e lei successe
Una sol volta, e non li vide alcuno,
Fors'ei nol disse, ed ancorchè il dicesse,
Ch'egli era un fanfaron sapendo ognuno,
Trovato non avria chi gli credesse;
Poichè a un bugiardo tutto dì si vede
Che, anche dicendo il ver, non se gli crede.
Ma bisogna saper che Biribollo
Di sue oscene avventure avea costume
Una specie formar di protocollo,
Cosa indecente a un uom, pensate a un nume.
E tanto a poco a poco aumentollo,
Che in oggi si potria farne un volume
In gran quarto, per darvene un'immagine,
Di circa settecento ottanta pagine.
Ivi distintamente e per colonne
Scritti li nomi avea quel satiraccio
Di quante dee, di quante ninfe e donne,
Aveva avuto impuramente in braccio,
E il come e il quando e il dove ancor notonne:
Or fra quei nello stesso scartafaccio
Con caratter majuscolo e staccato
Il nome di Diana avea notato.
Poichè Ercole l'incomoda famiglia
De' satiri scacciò dal regno Cario,
320
Perchè del re Saronide alla figlia
Avean fatto un insulto fornicario;
Nella confusion, nel parapiglia,
Biribollo perdette il suo diario,
E questo poi da un viaggiator di Patmo
Fu ritrovato a piè del monte Latmo.
Costui che non leggea versi nè prose
Non comprese il tenor di quelle note;
Credendole perciò misteriose,
Portolle del dio Pane a un sacerdote,
Che in un silvestre tempio le ripose
Ove rimaser lungamente ignote,
Finchè l'Asia minor sotto il re Serse
Tutta inondaron le falangi perse.
Allora un persian detto Pilastro,
Satrapa molle e capitan dappoco,
Ma insigne settator di Zoroastro,
Guebro famoso e adorator del foco
E di magia gran professore e mastro,
Le ritirò da quel sacrato loco,
Perchè intendea bastantemente il greco;
E a Persepoli poi portolle seco.
E quando alfin quella città l'invitto
Macedone espugnò, Cantaspe mago
Ch'ereditato avea quel manoscritto
Donollo a Tolomeo nomato Lago,
Che divenuto poi re dell'Egitto
D'averlo in quella libreria fu vago
Ch'ei fondò per le cure e col consiglio
Di Falereo, poi terminolla il figlio.
Fur questi i tempi in cui fiorì Gianfico,
E scorse ogni provincia, ogni paese,
Come faceano i savi a tempo antico
Per acquistar dottrina a proprie spese,
Grecia, Fenicia ed altre ch'io non dico;
E alla città famosa alfin si rese,
Che già Alessandro edificò sul Nilo,
De' filosofi achei refugio e asilo.
E qui dal Filadelfo Tolomeo
Trattato a corte fu splendidamente,
E spesso seco desinar lo feo,
E divenne sì amico e confidente
Del suddetto Demetrio Falereo
Che in cappotto uniforme insiem sovente
La notte per le strade e per le piazze
Ivan correndo dietro alle ragazze.
321
E diè l'idea del Faro e la misura
Per suo consiglio il re chiese al gran prete
I settanta che in greco la Scrittura
Tradusser dall'ebreo, come sapete.
Ed ei di presentar si diè la cura
Eratostene al giovine Evergete
Che poi lo dichiarò bibliotecario
E filologo-critico-antiquario.
Or tal nom fu pei codici sì matto,
Che un vedendone (e gloria al ver si dia)
Accortissima mente e di soppiatto
Sel mettea in tasca, e sel portava via,
E così ben, che non parea suo fatto.
E perciò, andando spesso in libreria
L'autografo in veder di Biribollo,
(Alma grande, perdonami) rubollo.
Eccovi dunque per quai casi strani
Egli acquistò con furberia felice
I commentari biribolliani,
Com'egli stesso chiaramente il dice
Nel testo original che ho fra le mani,
Testo raro assai più della fenice.
E acciò da voi non credasi ch'io burli,
Quei commentari io penso di tradurli.
Nè credo che d'udir sarete schive
Le avventure d'un satiro famoso,
Alle di cui seduzion lascive
E allo sfacciato ardir lussurioso
Veder donne cader, e ninfe e dive
Amanti del decor più contegnoso,
Indifferente esser non dee per quelle
Che non miran le cose in pelle in pelle.
Che le fragilità, di cui sovente
Rigida donna o celebre uom s'accusa
Che son gli altrui modelli, e dalla gente
Credersi suol ch'abbian nell'alma infusa
La virtù più perfetta e più eminente,
Par che dei nostri error faccian la scusa.
V'è forse alcun che cogli esempi altrui
Scusar non ami li difetti sui?
Chi dunque dal piacer non fia sedotto
D'avere il taccuin di Biribollo
In linguaggio toscan da me tradotto?
Però tempo vi vuol, perch'ei formollo
In istil sì bislacco e poliglotto,
322
Che oggi il diavolo appena intender puollo;
Ma Gianfico poichè citato abbiamo,
Quattro parole ancor farvene bramo.
Janus Ficus talor egli s'appella,
Or Joannes a Ficu, or Jamficacio,
Jamfìcos e Joannes Joannella,
Schietto e fedel senza mai dir mendacio
Or in prosa or in versi egli favella
Con grazia tal che gli dareste un bacio,
Lo stile suo è singolare ed unico
Un misto di latin, di greco e punico.
Perciò talora per cariaginese,
Talor si crederia greco o latino;
Sicchè faccio pensier sia d'un paese
Al Lazio, Grecia ed Africa vicino;
Anzi scommetterci ch'ei fu maltese;
Ma non convengo già con Zanfurlino,
Che fuori di ragion Gianfico esalta
Con dir ch'ei fosse cavalier di Malta.
323
NOVELLA XXIV
IL MIRACOLO
Era in una città d'Andalusia
Un giovine di liberi costumi,
Nobile e bello, detto don Garzia.
Alla licenza e dell'orgoglio ai fumi
Di pietà mal'intesa un fondo unia;
Nè savia istruzioni criterio e lumi,
Nè di distinguer gli forniva il dono
Il ver dal falso e dal cattivo il buono.
Varie oneste zitelle avea sedotte
Colla lusinga d'uno sposalizio,
E alle sue voglie avendole ridotte,
Le abbandonava dopo lo stravizio.
Vagando gia per la città la notte,
E con quei che compagni avea nel vizio
Fea, come si suol dir, d'ogni erba fascio.
Il resto a voi considerar lo lascio.
Ma poichè tutti i scellerati sono
Nell'erronea lor folle opinione,
Che a ciaschedun per esser giusto e buono
Necessarie non sian l'opere buone;
Ma basti sol per meritar perdono
Qualche esterna usual divozione,
E poi continuar con impunita
Iniquità nella malvagia vita;
Chiese perciò quei frequentava, e spesse
Volte baciava a qualche frate il manto.
Sovente udia prediche, vespri e messe,
Le sacre pompe amava e il sacro canto,
Né caso vi fu mai ch'egli omettesse
D'intervenir di qualche santa o santo
A udire il panegirico e l'elogio
Da scolare o da monaco barbogio.
Stupia su tutto, udendo i lor portenti
Quel far da un masso scaturire i fonti,
Quel comandare alle procelle, ai venti,
Quel varcar fiumi senza barche o ponti,
Quel trarre i morti fuor de' monumenti,
324
Seccar paludi e stagni, e muover monti,
Stupendi eran per lui grandi spettacoli,
Nè stima i santi che non fan miracoli.
Sovente udito avea che sant'Antonio
Fa tredici miracoli ogni dì;
Parlar sovente ancor con gran preconio
Del patriarca san Francesco udì,
Che trasse dalle branche del demonio
Tant'anime, e di quei che instituì
La santa inquisizion che brucia vivi
Maghi, eretici ed uomini cattivi.
Ma con più gran piacer leggea la vita
Del miracolosissimo Ferrerio,
Che in ogni giorno all'ora stabilita
Sulla natura esercitando iinperio,
Serie oprò di miracoli infinita;
Lo che viè più l'ardente desiderio
Gli destò d'imitar quei taumaturghi,
Dei medici flagello e dei chirurghi.
La campanella di Vincenzo udire
Pareagli, al suon di cui solea gran truppa
A dimandar miracoli venire;
Parevagli allo stuol che allor s'aggruppa
Lui portenti veder distribuire,
Come ai messori il caporal la zuppa;
Pareagli, tolto alla materia il peso,
Veder in aria il murator sospeso.
Un braccio, un piede, un occhio avria pagato
Per fare anch'egli un sol miracoletto.
Come creduto si saria beato
Se un ne facesse, un sol; ma gli fu detto
Che miracoli oprar non è mai dato,
Se non ad uom di santità perfetto.
Quei che tal conseguita ancor non hanno
Perfezion miracoli non fanno.
Quei che ciò gli diceva era fra Blaso
Dei padri cappuccini il cercatore,
E di cui don Garzia facea gran caso.
Per me, seguia colui, son peccatore,
E credo che ne siate persuaso;
Pur sett'anni omai son che ho il grand'onore
D'attorno andar colla bisaccia addosso,
E un miracolo ancor oprar non posso.
E don Garzia: per giungere a tal grado
E quali i mezzi son che mi proponi
325
E quei: bere acqua ognor, mangiar di rado,
Schivar le perigliose occasioni,
Le donne abbandonar, le carte, il dado;
Penitenze, digiuni, orazioni
Sono i gradin per cui montar dovete,
Se d'esser santo risoluto siete.
Don Garzia dopo questa conferenza:
Per tal via non si può gir di galoppo,
Dicea fra se, far prieghi e penitenza
Questo alfin non saria un grand'intoppo;
Vino e giuoco obbliar,... via, pazienza;
Ma donne anche lasciar... quest'è un po' troppo.
Pur d'operar miracoli il molesta
Smania cotal, che nulla omai l'arresta.
E ragionava in suo pensier frattanto
Ho deciso, un miracolo vo' farlo.
Difficoltà vi son, ma poi non tanto,
Che assai maggior non sia il piacer d'oprarlo.
Se anche crepar dovessi, esser vo' santo,
Quando dico una cosa, invan non parlo;
E un gentiluom spagnuol quando s'impegna
Ostacolo non v'è che lo ritegna.
Tenne in fatti parola, ed indi a poco
Rinunziando alla magione avita,
Femmine abbandonò, crapule e giuoco,
Le vane pompe e gli agi della vita.
Partì, improvviso, e in solitario loco
D'una campagna inospita e romita
Fe' di frasche, di salici e di canna
Angusta costruir rozza capanna.
Rupe sorge da un lato arida, alpestre,
Piccola, a piè di cui pianura v'era
Sparsa qua e là di varia erba silvestre;
Dall'altro la profonda ampia riviera
Cui verde siepe fan giunchi e ginestre.
Qui penitenza a far assidua, austera,
Vien don Garzia tutto a soffrir disposto,
Che santo divenir vuole a ogni costo.
Fra quelle solitudini s'alloggia,
E nell'angusto capannel procura
Difendersi da grandine e da pioggia,
Ovver del sol dalla cocente arsura.
Con corda il manto ruvido alla foggia
D'anacoreta serra alla cintura.
Va con lo scalzo piè sulla sterpaglia,
E il capo copre con cappel di paglia.
326
Cangiate le abitudini e il costume,
E del viver cangiato è l'esercizio.
Giaceasi pria su dilicate piume,
E nutrian laute mense il lusso e il vizio;
D'erbe or si pasce, e l'acqua bee del fiume
Giace sul duro suol, cinge il cilicio.
Pria di che soddisfarsi ebbe in gran copia,
Ed or fra i stenti ei vive e nell'inopia.
Dalla natia sua rocca un sasso grosso
Smuove e stacca talor, nè lo sconforta
La pesantezza, e se lo pon sul dosso,
E un miglio forse o due lungo il trasporta
Di là dal colle, ovver di là dal fosso,
E onde svelto l'avea poscia il riporta;
E di sudor grondante e a gran fatica
Lo ricolloca sulla base antica.
Ritto talor sovr'erta rupe e teso
Col guardo al ciel rivolto si piantava,
Alto un piè leva, e in aria il tien sospeso,
E sopra l'altro piè posa ed aggrava
Del corpo inter per un par d'ore il peso;
O immobil fisso tutto un dì restava;
Or traesi dietro un grave tronco e corre,
E lungo tratto in guisa tal trascorre.
Talor nuvol di mosche o di tafani
Brulicar vede e in mezzo a lor si caccia;
Quei gettansegli addosso, e sulle mani
Se gli posan, sul collo e sulla faccia.
Il punzecchiar di quegli e i morsi strani
Soffr'ei, non si difende e non gli scaccia.
Degli aghi intanto le punture acute
Gli forano e gli straziano la cute.
Pon talor nelle orecchia ispide spiche,
Ovver d'armati fior gambi o bottoni,
Pruni talor e pungitopi e ortiche
Fra le cosce si ficca entro i calzoni,
O gruppo di fameliche formiche
Per soffrirne gli aculei e i pungiglioni;
Ed altre tutte inver straordinarie
Stupende penitenze e molte e varie.
Tai rigidezze avvalorò e munille
Con assidue potenti batterie
Di paternostri in ciascun giorno mille,
E d'altre dieci mila avemmarie;
Onde ampiamente per città e per ville
327
La fama di cotante opere pie
E d'una tal conversion si sparse,
E incominciò di santità a parlarse.
Tranquilla alla campagna in quei soggiorni
Vedovella vivea vaga, avvenente,
Che avea d'ogni virtù costumi adorni,
Nata di ricca no, ma onesta gente.
Giro in città solendo in certi giorni,
Veduto don Garzia v'avea sovente.
Il bell'aspetto e alcuni pregi sui
Piacquerle molto, e s'invaghì di lui,
Ma del costume suo la mala fama
Seco d'aver rapporto alcun ritenne
La contegnosa riservata dama;
Ma poichè anacoreta egli divenne,
La fantasia ciò più ferille, e brama
Di vederlo e parlargli alfin le venne.
La strana novità di tai vicende
La sua curiosità scusabil rende.
Pertanto un bel mattin la vedovella
Con un suo contadin colà portosse.
Quiteria (che così colei s'appella)
Alla rozza capanna avvicinosse.
Tosto che don Garzia s'accorse d'ella,
Incontro tal per ischivar si mosse.
Modestamente ella il richiama, e quei
S'arresta, e cosa vuol domanda a lei.
Gentilmente Quiteria allor riprese
La fama della vostra santitate
Sparsa ampiamente per tutto il paese
Qua mi trasse a implorar che il ciel preghiate
Che a me una grazia... E quegli allor richiese
Madonna, se miracoli bramate,
A farveli per ora io non m'impegno,
Che non so se di fargli ancor son degno.
Soavemente sospirando affisse
In lui le luci languide e pietose
Quiteria, e a voi non chied'io già, gli disse,
Che sconvolgiate alle create cose
L'ordin che la natura e il ciel prescrisse.
Ed ei: che dunque? Amor, colei rispose,
Tiemmi malgrado mio fra lacci suoi.
Per chi? chies'egli. Ed ella allor: per voi.
Non rapida così la capriuola,
Che lo scocco sentì della balestra,
Fugge, come in udir quella parola
328
Rapido don Garzia per la silvestra
Piaggia sen fugge e da colei s'invola.
Vassi a celar dietro la rupe alpestra,
E ivi per iscacciar l'idee impudiche
Si ravvolse fra i spini e fra le ortiche.
Da alcun ch'ell'ama esser sfuggita o espulsa
Sempre ed ovunque a bella donna increbbe.
Onde Quiteria di leggiera e insulsa
Accusa se, che mai dovuto avrebbe
D'uomo sì strano esporsi a una repulsa,
E confusa restonne ed onta n'ebbe.
E al suo campestre solito soggiorno
Crucciosa fe' col villanel ritorno.
Quanto vi dissi di donna Quiteria,
O Donne mie, che avete ingegno acuto
Deh! in grazia non vi paja una miseria,
Di cui far io di meno avrei potuto;
Che certo parrà cosa anche a voi seria,
Sapendo quai sequele ha poscia avuto.
Se da me qualche aneddoto s'espone,
Credete pur che ne ho la mia ragione.
Ma don Garzia per via d'ortiche e pruni
Dalle tentazion se illeso tenne;
E con verghe battendosi e con funi,
Il fomite represse anzi prevenne.
Ed a forza di stenti e di digiuni
Estenuato e pallido divenne;
E d'opre tai nell'esercizio austero
Già scorso avea presso che un lustro intero.
Pei confessor, per gli orator del tempio
Era omai don Garzia tema felice.
Frequentemente al libertino, all'empio,
E all'impudica donna peccatrice
Citavan don Garzia per grand'esempio
Della grazia di Dio trionfatrice.
Così chiam'ei, dicean, gli eletti sui.
E tutti ripetean: beato lui!
Standosi intanto un dì pensoso e gramo,
Posta alquanto da parte la modestia,
Disse: ebben, don Garzia, cosa facciamo?
Disperata io fo qui vita da bestia,
Rinunzio a tutto ciò che piace ed amo,
Soffro ogni più spietata aspra molestia,
Caldo, freddo, digiun; scorre il quint'anno,
E miracoli ancor non se ne fanno.
329
Ma benchè fame io soffra e sete e sonno,
Capisco che pretendere non posso
Cose oprar che i gran santi oprar sol ponno,
Per esempio dividere il mar rosso,
Fermare il sol, risuscitar mio nonno,
O altro miracol badiale e grosso;
Ma un qualche dozzinal miracoletto
Di farlo in dritto credomi un pochetto.
E forse intimamente ho in me di già,
Benchè io nol sappia ancor, nè me ne accorga,
Miracoli di far la facoltà;
E finchè occasion non mi si porga
D'esternarla, oziosa in me si sta.
Acciò il talento di talun si scorga,
Porlo conviene in faccia al mondo in opra,
Nè il mondo il può ammirar, se non lo scopra.
Ma scopriragli i soprannaturali
Miracolosi miei straordinari
Doni, e otterran gli applausi universali.
De' miracoli miei ne' breviari
Parlerassi e ne' pubblici giornali
Di quei d'Antonio e di Vincenzo al pari.
Ed alla prima occasion ch'ei trova
Ha deciso di farne omai la prova.
Mentre così nell'intimo pensiero
Cova di far miracoli il desire;
Leggermente montato in sul destriero
Uscir del bosco e incontro a se venire
Vede improvviso e solo un passeggiero,
Che come fu vicin: vi prego a dire,
Chiedea, dov'è il passaggio, e ove han costume
Di traversare i viandanti il fiume?
Col dito teso verso la riviera
Don Garzia: colà, disse, ed abbi fede.
Il passeggier guarda d'attorno e spera
Scorgere il varco, ma nè ponte vede,
Nè alla riva ponton, nè barca v'era.
Onde di nuovo a don Garzia richiede
Dimmi, ti prego ancor, dove si varca,
Che finor non vegg'io ponte nè barca?
Il dito don Garzia di nuovo eleva,
Il fiume accenna, ed a guadar l'astringe,
Con che dal cor dubbi e timor gli leva.
Quegli il docil destrier nell'acqua spinge,
(Sì grande in don Garzia fiducia aveva)
E la riviera a traversar s'accinge;
330
E in se dicea con viva fe, con zelo
Se don Garzia lo vuol, lo ispira il cielo.
E nell'entusiastico pensiero
L'onnipotenza della fe rammenta,
E Cristo che salvò Simone e Piero,
E gli accusò di fe languida e lenta;
Onde il periglio affronta il passeggiero
Pieno di tali idee, nè si sgomenta.
Entra intanto il destrier nel guado ignoto,
Pria pon sul suolo il piè, va poscia a nuoto.
Ma l'acqua cresce, ed il torrente ingrossa.
Dalla bocca il destrier l'onda e la bava
Getta, fuman le nari e usa ogni possa,
M'affogo, aita, il passeggier gridava,
Fede, abbi te nell'anima e nell'ossa;
M'affogo, e don Garzia, fe, replicava.
Ma dentro l'acque impetuose e torbe
Rapido gorgo uomo e cavallo assorbe.
Come vide sparir uomo e cavallo
Don Garzia, sbigottito e stupefatto
Sendo restato alcun breve intervallo
Come! dicea fra se, dopo aver fatto
Scempiataggini tai che, s'io non fallo,
Altri per farle non vi vuol che un matto,
Solo a Domeneddio ho alfin richiesto
Un miracolettaccio come questo,
E per troppa gran fede in grazia mia
Or quel povero diavolo s'affoga!
Più santo esser non vo'; chi vuol lo sia.
E v'è poi chi miracoli s'arroga?
Così di cruccio pieno don Garzia
Contro la sua credulità si sfoga.
Nè più schernita vittima esser vuole
Di vana idea d'immaginate fole.
E a mezza notte tacito e soletto
Tornò nascostamente ai lari sui;
Nè mostrossi però, ch'esser l'oggetto
Teme dei spregi e dei sarcasmi altrui.
I ragazzi in veder sì scarno aspetto
Ridendo correriano appresso a lui;
Poichè non avea fatto altro guadagno
Che dimagrirsi, onde pareva un ragno.
Sicchè si chiuse in casa, e ben pasciuto
Di vivande ivi fu squisite e fine,
Finchè l'aspetto ed il vigor perduto
331
Ricovrò, come i porci e le galline
Che in chiuso loco il contadino astuto
Pasce e ingrassa con semola e saggine,
Pria che li porti a vendere ai mercati,
E sian dal cuoco o macellar comprati.
E per accostumarle al suo ritorno,
E toglier la sinistra opinione,
Una ad una ammettea ciaschedun giorno
Diverse discretissime persone
Amiche, e che non vadano d'attorno
A por la cosa in celia ed in canzone.
E tornato d'umor gajo e giocondo,
Di nuovo, come pria, mostrossi al mondo.
Di lui nulladimen la santità,
E le aspre penitenze e il cangiamento,
La stravaganza e l'instabilità
Per alcun tempo dierono argumento
Ai discorsi di tutta la città;
Su tutto il famosissimo portento
Di, quei che pien di fe nel fiume entrò,
E per la troppa fede s'annegò.
Stanchi lo stesso ognor di dir, d'intendere,
Cessaron di parlar di quest'articolo.
Dell'antica condotta il fil riprendere
Don Garzia pur volea; ma sì ridicolo
Di rendersi, e il suo onor cotanto offendere
Si ritenne; e oltre a ciò v'era pericolo,
Se come pria vita a menar ritorna,
Che il governo nol prenda in sulle corna.
Onde risoluzion costante e seria
Fe' di tor moglie savia e non pettegola;
Ma sa ben che la donna è una materia
Che guai al semplice uom che vi s'impegola,
Sa per altro che tal non è Quiteria,
E ciò in caso gli può servir di regola;
Perocchè o moglie o vedova o fanciulla
Su di lei non vi fu mai da dir nulla.
E quella sua dichiarazion d'amore
Da lei fu fatta in circostanze tali,
Che far le dee biasmo non già, ma onore;
Che in stato non er'ei nè sensuali
Stimoli d'inspirar, nè impuro ardore;
Ma franche effusioni e naturali
D'onesto cor, ch'ha sentimento ed ama;
Onde sposar si vuol con quella dama.
332
E fatta la proposta e la risposta,
Si maritaron di comune accordo.
E d'esser santo la follia deposta,
E de' miracoli il desir balordo,
L'azienda domestica disposta,
Bello divenne e grasso come un tordo.
E in guisa tal, mercè quel maritaggio,
Tenne un tenor di vita onesto e saggio.
333
NOVELLA XXV
LA COMUNANZA
Io so che v'è qualche persona stitica
Che, avendo il capo pien d'idee bisbetiche,
Assai sovente mi censura e critica,
Che io scriva queste frascherie poetiche;
Nè bada ch'io non son uom di politica,
Nè fatto per trattar materie ascetiche;
Nè vo' il credito mio mettere a risico
Per comparire un bravo metafisico.
Non tutti van per la medesma strada;
Nè la cosa medesma a tutti piace
Questi cinge la toga e quei la spada,
L'uno guerra desia, l'altro la pace.
A chi lo mare, a chi la terra aggrada,
E chi è di Bacco e chi d'Amor seguace,
E chi di tristo e chi d'umor giocondo,
E solo è bello, perchè varia, il mondo.
Io fintantochè avrò Pallade amica,
La bella e dilettevel poesia
Seguir vo' sempre, e chi vuol dir che dica,
Se udir non vuolmi, orecchio a me non dia.
Fama, ricchezze, onor, non cerco mica,
Nè vola fino al ciel la musa mia,
Nè s'impaccia coi regi e cogli eroi;
Le basta, o Donne, di piacere a voi.
Altri canti i guerrier prodi in battaglia,
E il furibondo Achille e il pio Trojano;
Altri il sangue civil sparso in Farsaglia,
Altri l'ire fraterne e l'odio insano;
Altri lo stocco e il batticul di maglia,
Altri l'armi pietose e il capitano,
Altri li cavalier, le donne belle,
Ed io canto piacevoli novelle.
E da voi n'avrò forse e lode e stima;
Ed una assai leggiadra e graziosa
334
Or ve ne vo' narrar, che scrisse prima
Il piovan di Certaldo in gentil prosa,
E rozzamente io narrerovvi in rima,
Acciò affatto non sia la stessa cosa;
E poi se in poesia son uso a dire,
O bene o mal vo' gli usi miei seguire.
Fur già in Siena due giovani che stretto
Infin dagli anni della puerizia
Avean fra loro un vincolo perfetto
Di mutua indissolubile amicizia,
L'un Zeppa e l'altro Spinelloccio detto,
Di sostanze provvisti ambo a dovizia,
Ed ambo al tempo stesso due donzelle
Tolsero in moglie assai vezzose e belle.
Per la grazia, pel brio, pel colorito,
Per due neri occhi era colei del Zeppa
Un bocconcin da mettere appetito.
Costei Lisa chiamossi, e l'altra Geppa,
Quella che Spinelloccio ebbe in marito,
Bella essa ancor, ma più grassoccia e zeppa,
E due poppotte le sporgean dal busto
Bianche così, ch'era a vederle un gusto.
Or come l'un dall'altro andar sovente
E notte e giorno a voglia sua potea,
E l'un dell'altro, o fosse o no presente,
Colla mogliera conversar solea;
Spinelloccio, che assai frequentemente
Starsen con Lisa gran piacer prendea,
Di lei, siccome avviene, a poco a poco
S'accese tutto d'amoroso foco.
E non potendol più dissimulare,
Un dì che sola ritrovolla in guisa
Che le potea con libertà parlare,
Incominciò: egli è gran tempo, o Lisa,
Che alcuna cosa io ti volea svelare
Che dentro al cor profondamente ho fisa
Gran forza per tacerla io mi son fatto,
Ma or vo' parlar, che se non parlo, io schiatto.
Poi la man fortemente a lei stringendo
Io t'amo, disse, e omai celarlo è vano,
E del mio amor da te mercede attendo,
Se come hai bello il volto, hai il core umano:
Lisa arrossì, tali parole udendo,
E disdegnosa ritirò la mano,
E disse a lui: se' tu impazzato o sogni,
Che propor cose tai non ti vergogni?
335
Io certamente non credea che mai
Pensier sì reo nutrir dovessi in core,
E dell'amico tuo, siccome fai,
Nella sua donna insidiar l'onore.
Ah! tu, quegli riprese, ah! tu non sai
Che di riguardi è intollerante amore.
Quanto al tuo sposo, a ragionar da senno,
Non so quai danni a lui venir ne denno.
Se lui far lieto a un tempo e me tu puoi,
A me donando e non togliendo a luì,
Non so qual biasmo indi provenga a noi,
Quando restin tai cose ignote altrui.
E i desir miei se son conformi ai suoi,
Amico in ciò gli son più che non fui.
Prova è di simpatia, s'un cerca e brama
Ciò che dall'altro ancor s'apprezza ed ama.
Che se di ciò che ben s'appella e male
Libero a dirti il mio pensier mi tenti,
Io nulla ti dirò della morale
Che spesso a voglia lor cangian le genti;
Ti dirò sol che il dritto naturale
Ha più antichi e più sodi fondamenti
E se colpa è seguire i moti suoi,
Colpa è sol di natura e non di noi.
Ed ella: io non ho già tanta dottrina;
Ma so ben che la mamma e la nutrice
Mi dicevan, quand'era ancor bambina,
Che a donna onesta unirsi ad uom non lice,
Se pur non gli sia moglie o concubina.
Ed egli: in verità ciascun lo dice,
Ma in pratica eseguir poi non lo vedo,
E all'opre più che alle parole io credo.
Tali ragion da Spinelloccio addotte
Parvero a Lisa convincenti e chiare;
Ma pur, quantunque in se le approvi e adotte,
Facil così non si volea mostrare;
Ma le dispute fur da lui interrotte,
Perchè venir volea dal dire al fare,
Se non che intanto il Zeppa sopravvenne,
Ond'ei cangiò discorso e si contenne.
Indi a poco partissi, e far che vana
Non sia l'impresa sua fra se disegna:
Sa che donna, benchè sembri inumana,
Che altri per lei sospiri ancor non sdegna;
E che non è dal rendersi lontana,
336
Se coll'amante a quistionar s'impegna
Quindi conclude, che fra un giorno o due
Forse paghe saran le voglie sue.
Tutta la notte in tal pensier si fisa,
E possibil non è che sonno prenda
Essere in braccio a lei digià s'avvisa
A segno che la conjugal faccenda
Fece con Geppa e dedicolla a Lisa,
E mentre la real mancanza emenda
Col supplemento della fantasia,
Detto a un tratto gli venne: Lisa mia,
Or che dì tu? disse la Geppa allora.
Ed ei: non istupir, fu un lapsus linguae;
Se il piacer troppo i spiriti incalora,
In noi la vera conoscenza estingue,
La fantasia vaneggia ebra talora,
Nè le parole, nè le idee distingue;
Ond'uso a conversar con Lisa e Zeppa
A caso nominai Lisa per Geppa.
La semplice a tai ciance ogni sospetto
Interamente discacciò dal core.
Egli indi a poco si levò di letto,
Ch'era già il sol dell'orizzonte fuore,
Ed abitando Lisa a dirimpetto,
Di dietro a un fenestrin stette più ore
Attento ad osservar, e quando scorse
Che il Zeppa uscia di casa, a lei sen corse.
Sorrise ella in vederlo, e con ciò diegli
Maggior coraggio: io rido, poi riprese,
Perchè di tue follie l'idea mi svegli.
Tosto ei senz'altro dir venne alle prese.
Che fai tu, Spinelloccio? e ti par egli?
Lisa dicea; ma non facea difese;
Ond'ei del letto allor sulla vicina
Sponda la spinse e rovesciò supina
Indi togliendo ogn'importuno impaccio,
Alza la tenda e dà principio all'opera.
Non far, dic'ella; ed egli: oibò non faccio;
E prosiegue il lavor, sta cheto ed opera.
Ma poichè addentro ben fitto è il chiavaccio,
Agita i lombi, ed essa ancor coopera;
Del nettar suo gli asperse alfin del gioco
Vener benigna, e illanguidì quel foco.
Più non parlaro allor, nè più si mossero
Assorti nel piacer che ambi provarono;
337
E come in dolce sonno immersi fossero,
Alquanto in quella inazion restarono.
Dal soave languor poi si riscossero,
L'un l'altro sorridendo si guardarono,
E stabiliron, quando lor riesca,
Continuar l'incominciata tresca.
Ma siccome le pratiche amorose
Quando son troppo facili e frequenti,
Più non si bada per tenerle ascose
D'usare i necessari avvedimenti,
E si propalan le secrete cose
Con impensati e subiti accidenti;
Perciò un dì Spinelloccio a Lisa andò,
E incontro ella gli corse e l'abbracciò.
Poichè credean di casa il Zeppa uscito,
E s'ei vi fosse ancor non preser cura.
V'era egli, e avendo alcun susurro udito,
Si pose ad osservar da una fessura,
E vide la sua moglie il buon marito
Coll'amico in lasciva positura
Baciucchiarsi a vicenda e brancicarsi,
E poscia andare in camera e serrarsi.
Pensate voi con qual sbalordimento
Cogli occhi propri un tal lavor vedesse.
Stette per forzar l'uscio in sul momento,
E ambo scannar colle sue mani stesse;
Ma poi disse fra se: qual giovamento?
E dello sdegno l'impeto represse,
E più maturamente alfin riflette
A far più belle e placide vendette.
Così la disperata contadina
Il crin si straccia e mordesi le labbia,
Se vede che la volpe o la faina
Entrata sia nel suo pollaio, ed abbia
Scippata la pollastra o la gallina;
E in quel punto sfogar vorria la rabbia,
Ma pure si raccheta e si consola,
Sperando di chiapparla alla tagliuola.
E finchè Spinelloccio si partisse,
Stette cautamente ivi nascosto;
Poi dalla moglie andò, pria che finisse
Di racconciarsi i veli e il crin scomposto.
Che fai tu, Lisa? in brusco tuon le disse.
Nol vedi tu, rispose ella ben tosto,
La sparsa chioma rassettando gia,
Che si mal m'assettò la donna mia.
338
Ed ei: di mia credulità ti fidi
Di chi ti scarmigliò tu menti il nome.
Io testimon fui del mio scorno, e vidi
Altro più ancor che scompigliar di chiome;
E de' tuoi portamenti indegni, infidi,
Dovrei punirti, ed io saprei ben come;
Ma bada a me: tal fallo io ti perdono,
Se eseguirai quanto per dirti io sono.
Ella a tai detti timida e confusa
Conti e fole in discolpa ordir volea
Ma, veggendo innegabile l'accusa,
A mezza voce confessossi rea,
E non facendo più replica o scusa,
Pronta promise far quant'ei chiedea;
Ond'egli senza farle altro rimproccio
Disse: io vo' che tu dichi a Spinelloccio
Che se teco a bell'agio ei si vuol stare,
Doman mattina a ritrovarti vegna,
Conciossiachè fuor di cittade andare
Per dimestici affari a me convegna.
Com'ei saravvi, io fingerò tornare,
Di che smarrirti il più che puoi t'ingegna,
E fa ch'egli entri in questa cassa, e presto
Serravel dentro: io poi dirotti il resto.
E di tutto eseguir ciò che ti dico
Sospetto non aver nè ritrosia,
Mal non farogli e il tratterò d'amico,
Nè seco intendo usar soverchieria,
Ella che pur volea trarsi d'intrico
Non dimostrossi in obbedir restia,
E fu contenta che del suo misfatto
Potè pagar l'emenda a sì buon patto.
Con Spinelloccio essendo il dì seguente,
Dissegli il Zeppa che, dovendo egl'ire
Per sua bisogna in villa immantinente,
Seco, volendo anch'ei, poteasi unire:
Ei ringraziollo assai cortesemente,
E di gir seco si scusò con dire
Che, andar da un certo amico avea promesso
Per desinar e favellar con esso.
E al sommo lieto d'essersi in tal guisa
Da sì importun ostacolo disciolto
Diede una volta e in casa entrò di Lisa,
E raccontolle come avessi tolto
D'attorno il Zeppa, e ne fe' motti e risa.
339
Soggiunse poi ch'omai potean con molto
Lor agio insiem giacersi, e alfin conclude
Che brameria goderla a carni nude.
Ed ella, acciò vie più sicuro il renda,
Disse, che volontier fatto l'avrebbe;
Che intanto ei prima si spogli ed attenda,
Ch'ella lo stesso ancor tosto farebbe,
Sbrigata ch'abbia una sua tal faccenda.
Pensate, o Donne, il gran piacer ch'ei n'ebbe.
Tosto spogliossi, e mentre in letto entrava,
Il Zeppa all'uscio udì che ritornava.
Ohimè! Lisa esclamò, quivi fa d'uopo
Celarti, e nella cassa a entrar pressollo;
E come nella trappola fu il topo,
Per meglio assicurarlo entro serrollo.
Il Zeppa comparì non guari dopo,
Ella in uscir di camera iucontrollo,
Dicendo: Zeppa mia, dimmi, s'è lecito,
Perchè tornasti tu così sollecito?
Rispose il Zeppa: ogni affar mio spedito
Ho col castaldo che incontrai per via;
Ma siccome il cammin mi diè appetito,
Anticiparsi il desinar potria;
E poichè Spinelloccio altrove è ito
A desinar con altra compagnia,
Corre testè mi disse, invitar puoi
Geppa questa mattina a star con noi.
Lisa non ben sicura ancor di se
Dalla finestra la Geppa invitò,
Ed ella, udendo che quel dì non de'
Seco il marito desinar, v'andò.
Zeppa la moglie allor ritirar fe',
E Geppa sommamente accarezzò,
E ben forte tenendola pel braccio,
Serrò dentro la stanza a catenaccio.
Geppa, vedendo ciò, disse: che mai
Ora vuol dir questo serrar la porta?
Forse far violenza a me vorrai
Che disonore a Spinelloccio apporta?
Ma quei con garbi e con proteste assai
A non lagnarsi e a non temer l'esorta;
E alla cassa l'accosta ove chius'era
Spinelloccio, indi parla in tal maniera:
Or ascoltami, Geppa, io quel che lece,
O non lece ben so: ho amato ed amo
340
E amerò sempre Spinelloccio e in vece
Di fargli oltraggio essergli amico io bramo;
Ma un cotal gioco che con Lisa ei fece
Vo' in contraccambio ch'anche noi facciamo.
S'ei pria lo stocco le cacciò nel fodero,
Se non fo che lo stesso, assai mi modero.
Che se far resistenza a me pretendi,
Io ben saprollo cogliere in fragranti,
E scherzo gli farò cui non ti attendi,
Onde farmi le fusa ei non si vanti;
Ma se a buon grado al mio voler t'arrendi,
Amici ambo sarem siccome innanti;
E inoltre io donerotti un tal giojello
Di cui altro non hai più caro e bello.
Stupì Geppa e dubbiosa alquanto stette;
Ma perchè il Zeppa esser non suol mendace,
Di Spinelloccio con ragion temette.
Risponde alfin: poichè così ti piace
Ed io contenta son, purchè promette
Che meco resti la tua donna in pace,
Come seco restar protesto anch'io,
Benchè prima usurpato abbia il jus mio.
Tutto egli approva e tutto far promise,
indi l'abbraccia, e le bianche e grassotte
Cosce discopre, e sotto se la mise
Stesa sovra la cassa, e in due o tre botte
Entro il fusto viril spinse e intromise.
Fiotta ella e si contorce e sbuffa e inghiotte,
Dicendo, Zeppa rnio, l'è pur majuscolo;
Appo il tuo quel di Spinelloccio è un bruscolo.
E mentre una dimena e l'altro inzeppa,
Spinelloccio ode tutto entro la cassa;
E per scorno maggior ode che il Zeppa
Ha il vantaggio dell'arma, e più oltre passa,
Per attual confession di Geppa.
Si rode per dispetto e si tartassa,
E quella danza nel sentir sul capo
Bestemmia contro Venere e Priapo.
E rinchiuso com'era avria voluto
Dire alla moglie infamia e villania;
Ma temette del Zeppa, uom risoluto,
Che farvelo pentir forse potria;
Ed in oltre pensò che provenuto
È il mal da se che incominciollo pria;
Onde il Zeppa fra se scusa ed assolve,
E di restargli amico alfin risolve.
341
Il Zeppa intanto a suo piacer con essa
Poichè appieno sfogate ebbe sue voglie,
Disse: egli è tempo omai che la promessa
Del giojel ti mantenga, e indi si toglie,
E pago e vendicato si confessa:
Poscia apre l'uscio, e fa venir la moglie,
Ch'entrando disse lor: buon pro vi faccia;
Donna, tu reso m'hai pan per focaccia.
Geppa a quel motteggiar nulla risponde;
Ma bofonchiando voci mozze e incerte,
Ricompone il fisciù e in fretta asconde
Le poppe brancicate e ancor scoperte;
E mentre, vergognosa si confonde,
Sorride il Zeppa e la sua donna avverte
Di non far la saccente e la sibilla;
Poi dice: apri la cassa; ed essa aprilla.
E apparì Spinelloccio, che cert'occhi
Rivolgea stranamente spaurati
Colle braccia sul petto e co' ginocchi
In ridicolo scorcio rannicchiati,
Siccome fanno i rospi e li ranocchi,
Se colla pancia in su stan rivoltati.
E il Zeppa disse allor: costui ravvisi?
Questo, Geppa, è il giojel che ti promisi.
Io non saprei ridir chi più di loro
Confuso rimanesse e sbalordito,
Se Geppa che s'accorge un tal lavoro
Aver fatto sul capo del marito,
O Spinelloccio ch'ivi da coloro
Attorniato trovasi e schernito;
E a ciascun rimirar poteasi in viso
Dipinta o l'ira o la vergogna o il riso.
Così, poichè per gelosia Vulcano
Con fino ingegno e con mirabil arte
La rete fabbricò di propria mano
In cui nudi incappò Venere e Marte,
Allo spettacol curioso e strano
Accorsero li numi da ogni parte;
Chi ride e applaude e chi motteggia e ghigna
Nella rete in mirar Marte e Ciprigna.
Fattosi Spinelloccio alfin coraggio,
Uscì fuor della cassa ove restato
Era per testimone e per ostaggio,
E disse al Zeppa: or tu ben ricattato
Sopra di me ti sei: del mutuo oltraggio
342
Più non si parli e quel ch'è stato è stato.
Ed in riprova poi d'amor verace
S'abbracciar, si baciaro e feron pace.
E lietamente, essendo ancor digiuni,
Colle lor donne insiem mangiaro e bebbero,
E a tavola convennero amenduni
Che come dalla prima età sempr'ebbero
Tutte le cose infra di lor comuni,
Comuni poscia anche le donne avrebbero,
E coll'accomunar mogli e mariti
Tolser di mezzo inimicizie e liti.
E per più comodo un cavalcavia
(Poichè si frapponea poca distanza)
Fecer che l'una casa all'altra unia,
E lungamente in quella comunanza
Visser contenti e senza gelosia,
E per punto primier dell'alleanza
S'obbligarono tutti sub sigillo
A non palesar mai questo gingillo.
E questo a vero dir fu chiara prova
Che l'altrui donna piacque a tutti e due;
E in verità la cosa non è nuova,
Che nella donna altrui notato fue
Che un certo saporetto ci si trova
Che non si trova nelle donne sue;
E una pietanza, benchè sia gustosa,
A lungo andar diventa poi nojosa.
Ma non per questo, o Donne mie garbate,
Sostengo che color facesser bene;
Che cose son dalle leggi vietate,
E farle ed approvarle non conviene;
E d'altra parte io so come pensate,
E che siete onestissime e dabbene,
E ciò che per ischerzo e in confidenza
Diciam fra noi, non tira a conseguenza.
Che se si voglia ragionar sul serio,
Anch'io so quel ch'è stato scritto e detto;
E sull'articol poi dell'adulterio
Io sono anzi un zinzin scrupolosetto;
Ma so che rigorismo e magisterio
Ostentar fuor di tempo egli è un difetto:
Sicchè senza cercar il meno e il più
Discorriamola sol dal tetto in giù.
Voi sapete pur ben quanti stermini,
O Donne mie, la gelosia produsse,
343
E spesso interi regni e ampi domini,
Non che famiglie, a infausto fin ridusse;
Ma senza esempi antichi e peregrini
A tempi miei, quand'altro ancor non fusse,
Quant'odii, quante morti e quanto strepito
Ho udito e visto, eppur non son decrepito.
Or meglio non saria, giusta il buon senso,
Di prevenire in qualche circostanza
Un scandalo infinito, un male immenso,
O con una prudente tolleranza,
O con altro lodevole compenso?
Ma troppo radicata è omai l'usanza
Di sostenere il jus del mio e del tuo,
Perciò ciascun l'intenda a modo suo.
E benchè qualche autor di prima sfera
(Io poi non so se dica bene o male)
Sostenga inver che nell'età primiera,
Quanto a ciò che diciam vita animale,
Il jus di proprietà ancor non v'era;
Pur, come per sistema universale
V'è in tutto il suo rovescio e il suo diritto,
Stommi a quel che le leggi hanno prescritto;
344
NOVELLA XXVI
IL LOTTO
Se l'antico splendor perduto ha Roma,
S'ivi più alcun de' suoi gran condottieri,
Pretor, consol, censor, più non si noma;
Conserva ella molti utili mestieri,
Come quel di nudrir e ornar la chioma,
Per cui superbi vanno i parrucchieri,
Che han finissimo ingegno e acume pronto,
Siccome appar da questo mio racconto.
Bello e svelto garzon di quella razza
Fu poc'anzi colà, detto Morgante,
Ch'era d'una bellissima ragazza
Perdutamente divenuto amante;
E passion ne concepì sì pazza
Che più quel non parea che già fu innante;
Bravo pria nel mestier, or strette o corte
Fea le parrucche e qualche volta storte.
Per un'abilità, che pellegrina
Colà fra lor non è, l'arie che odia
Talora in Aliberti o in Argentina,
Di netto ognor se le portava via,
E sotto alla finestra di Momina
A cantarle di poi la notte gia,
Come in teatro il musico cantolle,
Nè diesis fallavane o bemolle.
Figlia di parrucchier, Momina detta,
Fu la sua fiamma, e benchè assai leggiadre
Sembianze avesse, pur la poveretta,
Morto senza un quattrin sendo suo padre,
Er'ella il vitto a guadagnar costretta
Co' suoi lavor dalla rigida madre,
Che conservarne intatto vuol l'onore
Per maritarla a un nobile, a un signore.
Costei, che monna Dorotea s'appella,
Femmina fu povera e vana, ed era
345
Tutto il suo capital la figlia bella.
Come le mamme fan della sua sfera,
La loda sempre e sempre ne favella.
Sopra di lei fa gran disegni, e spera,
Siccome cose son comuni e note,
Che le deggia beltà servir di dote.
Perciò lasciava o abate o prelatino
Venir furtivo a ritrovar Momina;
Ma stavasi ella assisa ognor vicino
A impedir qualche ardita toccatina;
E veder se a un di lor del collarino
Nojato e della corte papalina
Un giorno o l'altro fantasia non piglia
Di fare un clandestin colla sua figlia.
Morgante avea libero accesso in casa,
Che del padre garzon fu di bottega,
E or che la madre vedova è rimasa,
Di dargli Moma in sposa ognor la prega.
Ma già da vanità la madre invasa
Di dare a un parrucchier la figlia nega,
E di sposarla a un prelatin s'incapa,
A un ricco abate o a un camerier del papa.
L'amorosa Momina a dir il vero
In fondo del suo cor Morgante amava,
E di manifestargli il suo pensiero
Per timor della madre non osava.
Ma non avea danari il parrucchiero,
Danar l'abate e il prelatin non dava;
Onde un giorno che il povero Morgante
Coglier potè di libertà un istante,
Così a Moma parlò: Momina mia,
Codesti prelatin prosontuosi
Di sguajataggin pieni e d'albagia
Il vero ostacol son ch'io non ti sposi.
Che la versiera se li porti via;
Eppur la mamma tua par che non osi
Di disgustar costor; con quell'altiera
Razza che ci guadagna o che mai spera?
E quel ch'è peggio ancor, poffareddio!
Non si può neppur dirti una parola.
E Moma rispondea: che far poss'io?
Le parti di zitella e di figliuola
Bisogna farle pur, Morgante mio.
Mamma un momento non mi lascia sola,
Dorme ella meco e meco veglia ognora;
Che vuoi ch'io faccia! ti ripeto ancora.
346
Ebben, riprese allor Morgante, io spero,
Se mi seconderai, che un giorno amore
Mi fornirà qualche opportun pensiero.
Ed ella; pria che mamma venga fuore,
Sbrighiamci: e dei baciucchi allor si diero,
Guardandosi d'intorno per timore;
Ed in maniera disinvolta e scaltra
Chi da una parte andonne e chi dall'altra.
Non potendo Morgante ottener Moma
Con richieste legittime e per prieghi,
Si risovvenne alfin dell'assioma,
Ove virtù non val, l'arte s'impieghi.
La superstizion comune in Roma
Spera che a suo favor la madre pieghi,
Sapendo esser colà le donnicciuole
Piene di venerate assurde fole.
E in fatti, oltre il pensier ch'ha della figlia,
Non minor passion pel lotto avea.
Con cabale e con sogni si consiglia,
E in gergo di magia latina o ebrea
scongiura, anime invoca, auguri piglia,
E al lotto per giocar tetto vendea.
O lotto o figlia, o figlia o lotto, e mai
D'altro nè poco s'occupò nè assai.
Morgante dunque un titol meritorio
Credè che appo lei gli avria prodotto,
Se servirsi saprà dell'illusorio
Prestigio fra le femmine introdotto
L'anime d'invocar del purgatorio,
Perchè dian loro i numeri del lotto,
L'anima molto più d'un appiccato
Sepolto in san Giovanni decollato.
È superstizione o inganno o errore
Che di divozion prende l'aspetto,
È una grand'arma in man dell'impostore,
È un germe rio dell'ignorante in petto.
Superstizion l'umanità dal core
Sbandisce e la ragion dall'intelletto;
Gl'influssi suoi sparsi ampiamente sono,
Ma in Roma a lei s'innalza altare e trono.
Dannato fu alle forche un delinquente
Per preticidio, detto Camardella.
Un santo fratacchion ch'era assistente
Dichiarollo per anima rubella,
Perchè egli morir volle impenitente.
347
Invano a pentimento ei lo rappella,
Vendetta grida il reo, nè altrui dà retta;
Penzolon cade e grida ancor vendetta.
Rivolto il frate al popolo adunato
Per l'anima di questo peccatore,
Vano, disse, è il pregar, egli è dannato.
Gesù gridando, e pieni allor d'orrore
Tutti lungi fuggir dall'impiccato,
E si sparser qua e là per lo terrore.
Ma l'annunzio del padre Leonardo
Molti asserian ch'esser potria bugiardo.
Tutti allora i teologi e casisti
E preti e frati dieronsi gran moto,
Giansenisti non men che molinisti,
E altri di cui l'entusiasmo è noto.
Ne parlar gli oratori e i catechisti,
Chi Tommaso d'Aquin citò, chi Scoto,
E i famosi trattati esempligrazia
Chi de libero arbitrio e chi de gratia.
Mentre di Camardella il destin vero
Per stabilir si disputava in Roma,
Al nostro parrucchier venne in pensiero
Alla madre propor, ch'ella con Moma
Deggia a innoltrata notte e all'aer nero,
Ambo coperte d'ampio vel la chioma,
Al tempio andar del santo decollato,
E l'anima invocar dell'impiccato.
Se l'anima, le disse, è in purgatorio,
In biancha veste e in calzoncini bianchi
Da quel beato loco espiatorio
Vien fuori, e tre vi dà numeri franchi
O da se stessa o per qualche accessorio,
E non v'è mai pericolo che manchi
Ma se fosse, Dio guardi, ita all'inferno,
L'anima non vien fuori e non dà il terno.
L'anima per lo più parlar non suole;
Ma con segni qualor di dar le piaccia
Alcun comando, senza far parole
Ciecamente obbediscasi e si taccia.
Tutto dessi approvar, e ciò che vuole
A grado suo convien lasciar che faccia.
Nulla altramente è ogni preghiera, e tutto
Perdesi allor di tante pene il frutto.
Colei che crede ogni stranezza ed ogni
Assurdità che l'impostura inventi,
348
E le furbe menzogne e i vani sogni
Prende per infallibili portenti,
Piena ognor di speranze e di bisogni
Facil si presta a quei suggerimenti;
Anzi di guadagnar l'avida voglia
Par che il buon senso e la ragion le toglia.
Madre e figlia un vecchio abito di lutto
Ciascuna conservava entro un armario
Dalle tignuole omai quasi distrutto,
Che dei morti solean nell'ottavario
Porselo in dosso o in qualche caso brutto
Notato in certi dì del calendario,
Come, il venerdì santo o per esequie
Cantandosi a talun l'eterna requie.
Placida e cheta era la notte e il cielo
Puro e seren senza chiaror di luna.
Cingon la nera gonna e il nero velo
Stendon sul capo, ed a cercar fortuna
Con femminil e speranzoso zelo
Si pongono in cammino all'aria bruna,
E con corona in man vanno per via
Paternostri storpiando e avemmaria.
Lasciano a destra le petrose cave,
Ove gemean, come entro ampio baratro,
Rei dannati ai lavor con turbe schiave(19);
Trapassan di Marcello indi il teatro(20),
Che Augusto edificò, l'acerbo e grave
Dolor d'Ottavia a consolar cui l'atro
Immaturo destin nel fior più bello
Degli anni tolse il figlio suo Marcello;
E il tempio orbicolar in cui di Vesta(21)
Roma antica implorava il patrocinio.
(19)
S. NICOLA in carcere, ove il Baronio ed altri scrittori di antichità cristiane pretendono fossero le antiche Latomie. Non è
da confondersi questo antico carcere con quello di san Pietro, detto carcere Mamertino ed anche Tulliano.
(20)
Augusto fece fabbricare un portico ed un teatro magnifico. Dedicò il portico ad Ottavia sua sorella, ed il teatro a
Marcello figlio d'Ottavia, erede presuntivo dell'impero, e del quale cantò l'immatura morte Virgilio
"Heu miserande puer ! si qua fata aspera rumpas,
Tu Marcellus eris".
Onde si denominò teatro Marcello, sopra di cui, come sopra solido fondamento, è oggi fabbricato il palazzo Savelli Orsini.
I dilettanti d'antichità romane perdoneranno all'autore, se ha posposto la veduta del teatro Marcello al carcere di san Nicola.
Egli è difetto della sua lunga assenza da Roma in paesi esteri, ed in Parigi ove ha scritta la novella.
(21)
Il tempio di Vesta è nella forma descritta da Ovidio, rotondo come la terra. Molte medaglie mostrano essere esso
all'intorno stato cinto di colonne. Questo tempio è presso alla cloaca massima, alla scuola greca ed al Velabro, ove Vesta
ebbe ancor atrio e bosco. Orazio lo pone in quell'istesso sito, vicino al Tevere.
"Vidimus flavum Tiberim, retortis
Littore Etrusco violenter undis,
Ire dejectum monumenta regis,
Templaque Vestae".
Od. II. lib. I.
349
Ed ecco che già lor indietro resta
La massima cloaca o sterquilinio,
In cui di Roma la sozzura infesta
E le torbe acque incanalò Tarquinio(22).
E l'arco di Severo,(23) e le rovine
Del quadrifronte Giano ivi vicine(24).
Lasciano a manca il dirupato masso,
Da cui solean precipitarsi i rei,(25)
Dal difeso Tarpeo gittato al basso
Qui Manlio fu pei suoi disegni rei;
E le Gemonie,(26) ove Sejan trapasso
Fe' d'alta gloria a fier supplizio anch'ei.
Questi alla schiava ambizion superba
Dei tiranni il favor premi riserba.
Così per l'ombre placide e notturne
Sen gian fra il Campidoglio e l'Aventino
Or con voce sommessa or taciturne
Momina e Dorotea per lo cammino
Che al tempio dee di san Giovan condurne.
Ed eccolo apparir, eccol vicino;
Già pronta è Dorotea con Moma bella
(22)
Tarquinio Superbo fabbricò o ingrandì questa cloaca non solo per incanalar le acque dal Foro al Tevere, ma per
incanalarvi eziandio quelle de' monti Viminale, Esquilino, e parte del Quirinale accresciuti alla città. Fu fabbrica di tal
magnificenza, che meritò il nome di massima: "Foros in circo faciendos, cloacamque maximam, receptaculum omnium
purgamentorum Urbis, sub terram agendam, quibus operibus vix nova haec magnificentia quidquam adæquare potuit".
Livius, lib. I. 56.
(23)
Arco marmoreo, piccolo, ma di forma elegante. Esso fu nel foro boario dai negozianti innalzato in onore di Settimio
Severo, di Caracalla suo figlio, e di Giulia Pia sua moglie, come lo dimostra l'iscrizione ivi collocata.
IMP. CAES. L. SEPTIMIO. SEVERO. PIO. PERTINACI. AVG.
ARABIC. ADIABENIC.
PAETH. MAX. FORTISSIMO. FELICISSIMO.
PONT. M. TRIB. POTEST. XII. IMP. XL. COS. III. PATRI. PATRIAE. ET
IMP. CAES. M. AVRELIO. ANTONINO. PIO. FELICI. AVG.
TRIB. POTEST. VII.
COS. III. P. P. PROCOS. FORTISSIMO. FELICISSIMOQVE. PRINC. ET
IVLIAE. AVG. MATRI. AVG. N. ET. CASTRORVM. ET. SENATVS. ET
PATRIAE. ET.
IMP. CAES. M. AVRELII. ANTONINI. PII. FELICIS. AVG.
PARTHICI. MAXIMI. BRITANNICI. MAXIMI.
ARGENTARII. ET. NEGOTIANTES. BOARJ. HVIVS.
DEVOTI. NUMINI. EORVM.
(24)
Arco di Giano Quadrifronte, di un Giano di quelli che Vittore dice essere stati per ogni regione, i quali, siccome anche i
bifronti, ne' luoghi de' traffici servivano di comodità ai negozianti.
Nardini Roma antica.
(25)
F. Orsini sostiene, che la rocca, sasso Tarpejo, o rupe Tarpeja fosse ove è oggi monte Caprino in faccia al teatro
Marcello. Questa rupe appiombata fino al piano della porta Carmentale, era di 100 gradini alta, e destava orrore ai
riguardanti. Da questa rupe soleansi precipitare i condannati a pena capitale: Unde capitis damnatos precipitari solitos
constat. Pitisco voce Rupes.
(26)
Le scale Gemonio erano a piede del Campidoglio vicino al carcere Tulliano. Dione parlando di Sejano dice: Cumque in
Capitolio sacrificasset, ac deinde in Forum descenderet, servi ejus stipatores, cum propter turbam eum sequi non possent,
in viam, quae ad Carcerem ducit, diverterunt, ac per Scalas Gemonias, in quas dannati projiciebantur, descendentes
prolapsi sunt et ceciderunt. Da queste scale il carnefice precipitava i rei di pena capitale, e indi estraeva i loro cadaveri con
un uncino per strascinarli sino al Tevere.
350
L'oracolo a implorar di Camardella.
Quel memorabil dì che alla richiesta
D'infame putta ebro di vin, d'amore,
L'empio tetrarca galileo la testa
Fece spiccar dal busto al precursore,
La chiesa il dichiarò giorno di festa,
E Giovan di color fe' protettore
Che o capestro o mannaja o schioppo o mazza
Per pena inflitta ai lor delitti ammazza.
Poi Roma santa alla memoria eresse
Del decollato eroe sacro edilizio;
E volle sepoltura ivi si desse
Ai rei dannati all'ultimo supplizio,
E in lor suffragio si dicesser messe,
E dei morti cantassesi l'offizio;
Ed esterni ivi son ferrei cancelli,
Che di color rispondono agli avelli.
Vietossi un tempo in Roma ad un reo morto
Impenitente d'esser seppellito
In sacro loco, acciò verun rapporto
L'impenitente avesse col contrito;
Onde venia condotto a Muro Torto,
E là sepolto a landre oscene unito
Che, pertinaci nel mestiere impuro
Morte, si seppellian presso a quel muro.
Ma un papa de' più savi e più sensati,
Pien di filosofia per raro esempio
Ebbe pietà de' poveri impiccati;
E decretò che di Giovanni al tempio
Gl'impenitenti fosser trasportati,
Che in quel punto può Dio far grazia all'empio;
Sepolto ivi perciò fu parimente
Camardella, quantunque impenitente.
Colà per far le pie preghiere e i voti
Nelle calamitose circostanze
Vi van solinghi i creduli devoti;
E benchè sieno ognor le lor speranze
E i desideri lor d'effetto voti,
A farvi strane fervorose istanze
Vi van più spesso ancor di notte e sole
I numeri a implorar le donnicciuole.
Momina e Dorotea stanche e anelanti
Giunte a quel solitario opaco loco
Inginocchioni alle ferrate avanti
Posersi; e Dorotea: deh per un poco
351
Se sei, disse, fra le anime purganti,
Esci del santo benedetto foco,
Di Camardella o spirito beato,
Se oggi in grazia di Dio fosti impiccato.
Anima o tu, se in purgatorio sei,
Le nostre circostanze esserti note
Denno e i bisogni di Momina e i miei.
Nubile è la mia Moma e non ha dote,
Anima benedetta, e saper dei
Che far senza danar nulla si puote.
Dacci tre per pietà numeri buoni,
Che il preticidio tuo Dio ti perdoni.
Convien saper che il parrucchier Morgante,
Dopo che a Dorotea consiglio diede
D'andare a consultar l'anime sante
Del santo purgatorio e ad aver fede,
Era colà arrivato alquanto avante,
E udendole venir, tacito il piede
Ritrasse, e dietro ad uno sporto ombroso
Del tempio ad ascoltar si stette ascoso.
Un bianco accappatojo indosso avea,
E impiastrato di biacca il collo e il viso,
E non sì tosto udì che Dorotea
All'anime che per lo paradiso
Son destinate i numeri chiedea,.
Alle due donne comparì improvviso.
Chiappa la figlia, e fra le folte ed adre
Ombre la trasse, e lasciò star la madre.
Così gatto talor avido, ingordo,
Che suol la ronda far per la cucina,
S'altri nol vede, o quaglia aggraffa o tordo,
E lascia star la carne di vaccina:
Piomba nibbio così con volo sordo
Sulla pollastra e non sulla gallina
Così pecora vecchia intatta lassa
Il lupo e azzanna l'agnelletta grassa.
Un fantasma in veder che Moma abbranca.
Presa fu Dorotea d'alto terrore;
Pur fa coraggio, e il più che può rinfranca
Lo spaventato palpitante core,
Riflettendo esser quella anima bianca;
E sa che marche purità e candore
D'anime buone son, d'angioli veri,
E che han le corna i diavoli e son neri.
E dell'avvertimento salutare
352
Si risovvien che il parrucchiere dielle
Di non temer di nulla e lasciar fare,
Poichè l'anime bianche e le zitelle
Posson senza periglio insieme stare;
E si consola, ed in virtù di quelle
Istruzion discaccia i timor vani,
Perchè sa che sua figlia è in buone mani.
E fea fra se riflessíon parecchie:
Forse fia che quell'anima si pregi
Di dire a Moma i numeri alle orecchie;
Non perchè me ricusi o mi dispregi,
Ma sol perchè le vedove e le vecchie
Non han delle zitelle i privilegi.
Basta, la cosa ha cominciato bene,
Che meglio finirà sperar conviene.
Ma Moma che apparir quella figura
Vide improvvisa, e che al primiero aspetto
Chiappar sentissi e trar per l'ombra oscura
Senza saper o dove o a quale oggetto,
Raccapricciossi, e il cor per la paura,
Qual lieve foglia, le tremava in petto;
Nè muover passo può, nè far parola
La spaventata povera figliuola.
Come fu alquanto di colà distante,
Sicchè la madre non potesse udire,
Più a lei si strinse il trasformato amante,
E con sommessa voce imprese a dire
E ancor non riconosci il tuo Morgante?
Sì, Moma mia, son io, non ti smarrire.
Di non star mai con te perdei la flemma,
E ho ritrovato questo strattagemma.
Oli Dio! sei tu? avresti almen potuto,
Allor diss'ella, prevenirmen pria,
Che non avrei tanta paura avuto.
Ah! no, rispose quei, Momina mia,
Il secreto rischiar non ho voluto;
Che forse traspirar potuto avria;
E s'egli traspirava o poco o molto,
D'esser teco il piacer m'avrebbe tolto.
A cui Momina: e dove or tu mi meni? Maggior ombra è in quell'angolo; là sotto
Stare insieme potrem, non temer, vieni. Perchè? - Chiedine a Amor - Ah galeotto!
Ma della mamma mia non ti sovvieni,
Che sta implorando i numeri del lotto? Anche a ciò penserem: non mi confondo,
353
Che sempre di ripieghi è Amor fecondo.
Così dicendo, van dove ampia pietra
Presta loro il sedil sotto alla torre.
Qui da lei facil indulgenza impetra
Morgante, e i frutti ne incomincia a corre.
Cara l'ombra divien che pria fu tetra;
Silenzio e solitudine concorre
Soavemente alla Momina in core
Teneri ad inspirar sensi d'amore.
Le difficoltà vinto, e i vari e molti
Ostacoli che avean furor compresso
L'ardente lor desio rimossi e tolti,
La stravaganza del ripiego stesso,
Che da soggezion esenti e sciolti
Di libertà un momento ha lor concesso,
Lor più caro il piacer rende e condito
Di sapor più piccante e più compito.
Mentre gli amanti in quel buio rimoto
Nel furtivo piacer stannosi assorti,
La madre attenta a ogni alito, a ogni moto,
Stassene ad osservar, se di quei morti
Qualche anima a esaudir venga il suo voto,
E i desiati numeri le apporti,
O per emblemi e per esterni segni
A indovinarli e a sceglierli le insegni.
Da quei pensier la scuote un barbagianni,
Che udì gettar grida funebri e strane
In cima al campanil di san Giovanni;
E in certe mandre poi di là lontane,
Come per confermarla in quegl'inganni,
Cupamente latrar intese un cane;
E quindi dopo piccolo intervallo
Il notturno ascoltò canto del gallo.
Latra il can!... stride il gufo!... il gallo canta!
Fra se stessa colei pensando gia.
E in quelle voci pon fiducia tanta,
Che disse: è fatta omai la sorte mia.
Certo per segni tai l'anima santa
Di Camardella i numeri m'invia;
Nè senza un fin sol di star zitto stufo
Latra il can, canta il gallo, e stride il gufo.
Tosto a casa tornar vorria con Moma
Per consultare il libriccin diletto.
È da saper che in tutta Italia e in Roma
V'è un certo cabalistico libretto
354
(Libro delle arti il libriccin si noma)
Che a ogni animato o inaminato oggetto
Senza addurne ragion vi marca sotto
Un de' novanta numeri del lotto.
Questo è quel libriccin che a tempo nostro
Tanti titoli prese e forme tante,
Siccome quel che vanta autor Cagliostro,
E l'editor l'intitolò Quadrante,
Cagliostro di dottrine arcane un mostro
Da altri chiamato già, da altri un birbante.
Ma in oggi, Donne mie, si sa, si vede
Che più che al savio all'impostor si crede.
Il gufo, il gallo, il can, gli amanti intanto
Udiro, e gli amorosi abbracciamenti
Allor Morgante interrompendo alquanto:
Non senti Moma, le dicea, non senti
Il latrato del can, del gallo il canto,
E del gufo i monotoni lamenti?
Dì a Dorotea, che interpreti quei stridi,
E nelle anime bianche poi confidi.
E dopo che di tutto ciò la istrusse
Che debbe dir circa alle voci intese,
Sino al voltar dell'angol la condusse,
Ove Moma da lui congedo prese,
Ed alla mamma sua si ricondusse,
Che come lei sua figlia esser comprese,
Tosto incontro le andò con ansia grande,
E una sull'altra le facea dimande.
A cui Moma rispose: è necessario
Che bene interpretar ciò si procuri
Che udito abbiamo in questo circondario,
Che annunzi son di numeri sicuri.
Nel nostro troverem vocabolario
La spiegazion di quegli emblemi oscuri
Sì, tosto il cane, il gallo e il barbagianni,
Sì, mamma mia, ci leveran d'affanni.
E fatto al dimandar qualche intervallo,
La madre soggiungea: quanto ho patito
In vederti rapir, il cielo sallo.
Oramai, grazie al ciel, tutto è finito.
Quel caro can però, quel caro gallo,
Quel caro barbagianni anch'io l'ho udito;
Che quelle bestie sian pur benedette!
Son delle anime sante le trombette.
Ma le chiacchiere lor furo interrotte
355
Dall'oriuol che del Tarpeo sul poggio
Batte le due dopo la mezza notte.
La figlia allor dando alla madre appoggio
La via per cui s'eran colà condotte
Ripresero, tornando al loro alloggio;
E nel cammin facean lunghi discorsi
Su quanto udiro e sovra i casi occorsi.
L'anima che comparve ad esse avante,
Alla figlia la madre dimandò,
S'era cosa palpabile e palpante.
E Moma rispondea: credo di no.
Ma un certo impulso dolce e insinuante
Ver lei naturalmente mi tirò;
E d'attorno quell'anima spandea
Certo calduccio suo che non spiacea. E come ti parlava e che ti disse? Udii certo vocin sottil sottile,
E all'orecchio parea che mi venisse
Fiato leggier, qual venticel d'aprile,
Che dirvi ciò che ho detto a me prescrisse.
E dialogizzando in questo stile
Giunte a casa, la madre il libro prende
Che dà i numeri franchi a chi l'intende.
E acciò non sian le sue speranze vane.
Dorotea, fatte pria certe sue preci,
I fogli scartabella, e cane, cane
Borbotta, cane, cane... eccolo... dieci.
Gufo, gufo, gu... quattro... Stamane
A un altro gufo attenzion pur feci.
Il gallo è fra le pagine propinque.
Gallo, gallo, gal... quarantacinque.
Orsù dunque da capo, e andiam bel bello.
Il quattro esser dovrebbe il primo estratto
Poi, dieci: (che bel numero ch'è quello!)
Col suo quarantacinque il terno è fatto.
Quattro, dieci, quarantacinque... oh bello!
È chiaro e natural: ci ho un gusto matto.
Ma il terno per giocar, dicea la figlia,
Del danaro vi vuol; e ove si piglia? Il danar ci sarà, sta zitta tu,
Il braccialetto venderem d'argento,
Che regalato l'altro dì ti fu
Da quel monsignorin di Benevento. Il braccialetto! ed io non l'avrò più? Zitta, dico, per un tu n'avrai cento.
E vendè per due scudi il braccialetto
356
Quel giorno stesso ad un ebreo del ghetto.
E a Moma disse: ho le mie gran ragioni
Tutti questi danar per non giocare
Quelli che resteran saranno buoni
Per invitar Morgante e la comare
Un bel piatto a mangiar di maccheroni.
Gli amici non convien dimenticare
Nel gran favor della fortuna; or ecco
Come faremo: terno mille secco.
Della tanto bramata estrazione
Giunto il termin finale e perentorio,
In sulla piazza e avanti al gran balcone
Dell'ampia curia di Monte Citorio
S'adunano le credule persone,
Cui di speme a un baglior del purgatorio
L'anime a consultar cabala o sogno
Inganno indusse, avidità o bisogno.
Il mattin piena il cor di certitudine
Colà si rese Dorotea con Moma.
Già sul balcon, com'è consuetudine,
È monsignore tesorier di Roma,
V'è il prelato di sua Beatitudine;
E lo Stentore già gli estratti noma
Numeri che innocente orfano a caso
Trasse dall'agitato argenteo vaso.
Già dell'impaziente giocatore
Un tremito ansioso il petto scuote;
Ed ecco ottanta annunzia il banditore.
E Moma a Dorotea: speranze vote.
Ed ella: anche han quattro altri a venir fuore.
Ma miglior suon l'orecchia lor percuote.
Quarantacinque il banditor proclama
E Dorotea: ecco li nostri, esclama.
Il numer terzo poi fu il sessantotto
Che raffreddò le donne alquanto e afflisse,
Poi gridar odon, dieci: un pizzicotto
Sul fianco a Moma allor la mamma affisse,
Convulsion di gioja: e il terno al lotto
Certa omai son ch'è guadagnato, disse.
Promette intanto con voce sommessa
Di Camardella all'anima una messa.
Il numero ad estrarsi ultimo resta:
Ed ecco quattro annunziar si sente.
Per giubilo colei perde la testa,
Grido gettò, che parve ebra e demente,
357
E per aria volar fece la cresta.
La compatisco; il cor d'una indigente
Che scudi guadagnò mille e ottocento
Eccessivo inondar debbe contento.
Or ragionate poi sovra l'enorme
Iniqua lesion, che furbo e avaro
ingegno sotto seducenti forme
Inventò per carpir l'altrui danaro!
Veglia interesse ognor, giustizia dorme.
E un qualche caso estremamente raro
Della comun credula massa a danno
Nutre la speme e accredita l'inganno.
Pubblica autorità sovra la terra
Ai ladronecci ed alle stragi invita,
E sostien lotto a comun danno e guerra;
L'uno toglie il danar, l'altra la vita.
Dal ver travia mal calcolando ed erra
Da cupidigia umanità tradita.
Ma parliam pur di Dorotea, che a casa
Tornò da frenesia di gioja invasa.
I maccheroni fe' con prelibato
Parmigiano, e invitovvi la comare,
Qualche altra amica e il parrucchier che dato
Avea consiglio tanto salutare
L'anima d'invocar dell'impiccato
Che il terno secco a lei fe' guadagnare.
E a rendere il convito ancor più lieto,
Comprò due fiaschi del buon vin d'Orvieto.
Delle strane parlar cose accadute
Degl'impiccati intorno al dormitorio;
E bevver tutti insieme alla salute
Dell'anime del santo purgatorio.
Le istanze del garzon fur ripetute
Per ottener di Moma il possessorio
In quella occasion straordinaria;
Ma Dorotea trovò più ancor contraria.
Superfluo è dir se la ripulsa spiacque;
Ma dopo qualche tempo a più d'un segno
Dorotea che tuttor con Mona giacque
Cominciò a sospettar, che il ventre pregno
Non avess'ella; ne stupì, ma tacque.
Pria di sfogar contro di lei lo sdegno
Vuol la cosa appurar; ma nel mestiero
Esperta tosto s'accertò del vero.
Fra di se disse allor: saria possibile,
358
Ch'avesse carnalmente oprato in ella
In guisa sì palpabile e ostensibile
L'anima che apparì di Camardella?
O che qualcun altro incubo invisibile
Le abbia voluto far tal marachella?
Poichè tai cose, come detto m'hanno,
Anche i diavoli e gli angioli le fanno.
Ma di tutto saper bramosa ed avida,
Presala un giorno in appartato loco,
A Moma dimandò: dì, sei tu gravida?
Fattasi in volto del color del foco
La figlia rispondea confusa e pavida
Credo d'essere in ver gravida un poco.
Ed ella: un poco! e chi è l'autor? Morgante,
Moma rispose; e Dorotea: birbante!
La cosa or dunque dì, com'è avvenuta:
E Moma, la paura alquanto scossa,
Riprese allor: l'anima bianca e muta,
Che anima uscita fuori della fossa
Di Camardella avete voi creduta,
Sbagliaste, era Morgante in carne e in ossa.
Fra l'ombre mi menò, diemmi una spinta
Sovra una pietra, ed or mi trovo incinta.
Ah ah!... spinta.. ed incinta? ah monellaccia!
Sclamò la mamma: un tal furor m'assale,
Che ora quì ti vorrei sfregiar la faccia.
Io tal pensier mi dava e pena tale,
Di qualche prelatino andando in traccia,
E forse anche di qualche cardinale;
Che ti desse di sposa un dì l'anello;
E tu ti fai impregnar da un birboncello!
Da un birboncel che ardisce in bianca veste
Le anime contraffar del purgatorio
Per ingannar le giovinette oneste!
Sorvenne ai sdegni suoi per accessorio
Morgante, e rinnovò prieghi e richieste,
E del consiglio il titol meritorio
Addusse per indur la disdegnosa
Madre a dargli oramai Monna in isposa.
Che havvi altro a far? Prelati e cardinali
Non isposan le gravide donzelle;
Onde con Moma su riflessi tali
Calmossi, e più rimproveri non felle.
L'assenso diè per li di lei sponsali,
E i danari del lotto in dote dielle;
E cento scudi sol fur ritenuti
359
Da Dorotea pei suoi piacer minuti.
Moma in sposa così Morgante ottenne,
E comunanza colla madre fero;
Pres'ei la dote, ed ottim'uso fenne;
Poichè bottega aprì di parrucchiero,
Che una delle più celebri divenne.
E perchè ei sapea bene il suo mestiero;
E sovente in bottega er'anche Moma,
Vi correan tutti gli abatin di Roma.
Io non approvo, o Donne mie, l'inganno
Che al parrucchier dettò ingegnoso amore;
Ma se gl'inganni che talor si fanno
Da superstizion sanano il core,
Da superstizion che spesso a danno
Del saggio impiega il furbo e l'impostore,
Se inganni tai dannosi altrui non sono,
Mertan lode talor, non che perdono.
360
NOVELLA XXVII
GELTRUDE ED ISABELLA
Poichè la neve copre il monte e il piano,
E il verno spira orror per ogni loco,
E poichè lo scirocco e il tramontano
Tienci in casa racchiusi intorno al foco;
O Donne mie, non ci attristiamo in vano,
Ma assisi in cerchio cicaliamo un poco;
Ed io vi narrerò la storiella
Di madonna Geltrude e d'Isabella.
Era Geltrude d'una giusta età,
Cioè di sette lustri o poco più,
E conservava ancor la sua beltà
Come nella più fresca gioventù;
Ma passava per donna d'onestà
E di una irreprensibile virtù.
E giovinetta ancora era rimasa
Vedova ed al governo della casa.
Basse a terra tenea le luci belle,
Quando d'altri osservata iva per via,
Due ricolme bianchissime mammelle
Modestamente con un vel copria,
Che un pocolin diviso in mezzo a quelle
Agli sguardi lascivi il passo apria,
Ed il bello accrescea della natura
Una semplice e schietta acconciatura.
Su la toletta aperta avanti a se,
Tenea la bibbia colla versione,
E la storia del padre Berrujé,
Ed altri libri di devozione
Quando la donna le facea il toppè,
Le prediche leggea del Massiglione,
E ciò che in altri mai sperar non lice,
Era divota e non mormoratrice.
Isabella sua figlia era egualmente
Bella e gentile, e sedici anni avea.
L'austera madre questo fior nascente
Alla comune infezion togliea;
Che il conversar cogli uomini frequente,
E la danza, per quanto ella dicea,
361
E i passeggi e i spettacoli e le feste
Dell'innocenza son la vera peste.
Ogni sera solea dire il rosario
Di tutta la famiglia alla presenza;
Frequentava ogni triduo, ogni ottavario,
Ogni perdon prendeva, ogni indulgenza.
Se confessor non era o missionario,
O qualche direttor di coscienza,
A nessun uomo affatto era permesso
Alla bella Geltrude aver l'accesso.
In oltre in un'agiata cameretta
Accomodato aveva un altarino,
Ove si ritirava ella soletta
A far l'orazion sera e mattino;
Donde per un'incognita scaletta
Si scendeva nel prossimo giardino,
E dal giardino uscivasi in rimota
Strada non frequentata e quasi ignota.
Vari comodi avea in quel picciol sito
Ella stessa in bell'ordine assestati.
Di morbidissimi origlier guernito
Eravi un canapè dall'un de' lati;
Dall'altro un vago armadiol fornito
Di confetture e di liquor più grati.
Sola la chiave della stanziuola
Tenea Geltrude, e non vi gia che sola.
Era nella stagion che le giornate
Sotto l'intollerabile importuna
Sferza del sol corron più lente e ingrate,
E quando parte il giorno e l'aere imbruna,
Godesi respirar le fresche e grate
Aure notturne al raggio della luna;
Più ferve allor di gioventude il foco,
E dormon le fanciulle o nulla o poco.
Quindi Isabella smaniosa, inquieta,
Perocchè il sangue le agita e le accende
La stagion calda e di dormir le vieta,
Non cura il letto, e nel giardin discende
La notte placidissima e quieta
Delizioso il passeggiar le rende,
E preso l'opportun grato ristoro,
Alfin si assise a piè di un verde alloro.
La luna in ciel chiarissima apparia,
Splendean le stelle, e un lieve zeffiretto
Soavemente susurrar si udia.
362
Della natura in contemplar l'aspetto
Rapita la fanciulla il cor sentia
Empirsi d'un insolito diletto;
E un moto tal non mai provato ancora
Prova in se stessa, e la cagion ne ignora.
Alfin dalla dolc'estasi distolta
Indi si leva, e volge il passo altrove,
Quando confuso ed indistinto ascolta
Di voci un suon, che sembra uscir di dove
Orar suole sua madre, e a quella volta
Il piè dubbioso vacillando muove;
Nè cosa alcuna in se sospetta o finge,
Ma natural curiosità la spinge.
S'accosta all'uscio, e socchiuso lo trova,
Sicchè pian pian lo spinge, e quel le cede,
Indi su per la scala a salir prova;
Ma poscia indietro timorosa riede;
Pur di nuovo s'innoltra, e par che l'uova,
Non già il terren, abbia a calcar col piede,
E brancolando colle mani avante
Sta con l'orecchie tese e il cor tremante.
Di languidi sospiri e di parole
Ascolta un interrotto mormorio.
Ohimè! mia madre, ella esclamò, si duole;
Partecipar del suo dolor vogl'io.
Pian pian s'avanza, e assicurar sen vuole,
E lei pur ode che dicea: Ben mio!
Andrea mio dolce, oh che piacer mi dai!
Tu sol felice, o caro Andrea, mi fai.
Isabella, ciò udendo, si rincora
Dicendo: mamma mia certo è contenta;
Ma s'ella gode, io goder deggio ancora.
Onde va a letto, ma non s'addormenta;
Si rivolge e sospira e smania, e ognora
Quanto poc'anzi udito avea rammenta.
Chi è quest'Andrea, tacitamente dice,
Che dà tanto piacere e fa felice?
Tutta la notte in tai pensier trascorse,
E quando alfin dal lucido oriente
Apparve il primo albor, di letto sorse
Taciturna, agitata, impaziente.
L'inquietudine sua Geltrude scorse,
E la ragion le chiese, obbediente
Con semplici parole ella rispose,
E quanto in core avea non le nascose,
363
E disse: mamma mia chi è quell'Andrea
Che colla sua mirabile virtude
D'almo piacer colma le donne e bea?
A tal parlar si sconcertò Geltrude,
Vedendo che Isabella omai sapea
Gl'intrighi suoi; pur finge e in petto chiude
Il turbamento, e: sappi, dice, o figlia,
Che un santo è necessario a ogni famiglia.
Perciò da un tempo in qua determinai
Di prender sant'Andrea per protettore,
Perchè egli è un santo glorioso assai,
E della gerarchia superiore.
Qualor ne' miei bisogni io l'invocai,
Egli m'accordò sempre il suo favore;
E quando sto di notte orando sola,
Spesse volte m'appare e mi consola.
Un tal Dionigi qualche giorno appresso,
Ch'era un giovine assai bello e galante,
D'amabili maniere e ben complesso,
Vide Isabella, e ne divenne amante.
Amor lo favorì, fu amato anch'esso,
E piacque alla fanciulla il suo sembiante,
Ma a' loro amori un grande ostacol era
La vigilanza della madre austera.
Sicchè raro gli amanti e da lontano
Vedeansi solo, e si pascean di sguardi,
Sperando sempre e desiando in vano.
Ma amore, che soffrir lunghi ritardi
Giammai non seppe, e tutto vince, e vano
Ogni ostacolo rende o presto o tardi,
Pur finalmente ad essi aprì la via
D'eluder la materna gelosia.
In una casa di Geltrude allato
Abitava una vecchia sua comare
Stimata molto in tutto il vicinato
Che per consigli a lei soleva andare;
Ed Isabella o panni pel bucato
Spesso le dava, o lino per filare.
Or di trar da costei pensò Dionigi
Importanti d'amor grati servigi.
Onde venne a trovar la vecchiarella
Di buon mattino, e il suo desio le espose,
E di soccorso la pregò; ma quella:
Uh figlio mio, che dici mai? rispose,
Dio guardi! io pervertire una zitella!
Non sai che vieta il ciel sì fatte cose?
364
Per me, rispose quei, non ne so niente,
Sol questo so ch'io l'amo ardentemente,
E ne morrò, se non mi date aita;
E intanto in man le pose venti lire.
La vecchia a un tratto allor impietosita
Se così è, replicò, non so che dire,
Tenuto è ognuno a conservar la vita,
Nè il prossimo si dee lasciar perire;
Ed io conosco ben dal tuo discorso,
Che opra è di carità darti soccorso.
Dunque stasera a me ritornerai,
Tacito e inosservato all'aer bruno,
Ciò che ottener dall'opra mia potrai
Dirotti allor; ma cauto vien, che ognuno
Degli altrui fatti è curioso assai.
Però la notte il vel stende opportuno
Sulle dolci d'amor opre leggiadre,
E del buon esito il secreto è padre.
Non sì tosto egli fu da lei partito,
Che la vecchia alla giovine sen venne,
E le narrò per ordine il seguito,
E non molto su i prologhi la tenne;
E perchè anch'ella aveva il cor ferito,
Fra lor del come e quando si convenne.
La giovin ben disposta e persuasa,
Contenta ritornò la vecchia a casa.
Poichè il sol si cercò nell'oceano,
Sollecito Dionigi e puntuale
Rivenne a lei che, presolo per mano,
Seco il condusse per anguste scale
Nel più alto di casa ultimo piano.
Quivi prese respiro, e poscia: oh quale
Sorte, gli disse, amor ti serba! oh quanto
Mi devi, o figlio! Or tu mi ascolta intanto.
Comodamente uscir sul vicin tetto
Quindi puossi, e gli accenna un sportellino,
Esci, e vedrai nel muro a dirimpetto
Circa sei braccia in alto il finestrino
Della stanza ove dorme il caro oggetto.
Tu pian piano colà fatti vicino;
Che ivi il tuo ben t'attende, ivi tu puoi
Spiegarle a tuo piacer gli affetti tuoi.
Che avrai desio d'arrampicar lassù
Io lo preveggo ben, ma in quanto a me
Difficil parmi, nondimen fa tu;
365
Cosa ad amor difficile non v'è.
Ma bada ben, che tu non caschi giù,
Badaci figlio, se no, guai a te.
Or vanne, e senno adopra, io qui mi sto,
E qui finchè ritorni attenderò.
Sul tetto esce il garzar per lo sportello,
E della luna al tremolo chiarore
Al finestrin vedendo il viso bello
Dell'idol suo, ardir gli aggiunge amore;
Franco là corre, e risoluto e snello
I sassi che sporgean del muro in fuore
Colla manca or grappando or colla destra,
Nella camera entrò per la finestra.
Non così leggermente ingorda gatta,
Se scorge in parte inaccessibil, alta,
Sorcio che viene al buco e poi s'appiatta,
Per poterlo aggrappar si spicca e salta;
Nè passa agil così steccato o fratta
L'astuta volpe e le galline assalta
Come lesto s'innarpica e sicuro
L'innamorato giovine sul muro.
Molto in su i complimenti ei non istette,
Posciachè solo a sol con lei trovosse;
Ma ardito venne subito alle strette,
E al collo della giovine avventosse;
Baciolla in bocca, e le toccò le tette.
A tal atto ella fe' le guance rosse
Per verecondia, e colla man tremante
Da se respinse il desioso amante.
E tutta sconturbata e vergognosa:
Oh me infelice, disse, oh me meschina!
Se mamma mia sapesse questa cosa,
Oh che guajo sarebbe, oh che ruina!
Ella ch'è si modesta e scrupolosa,
Che neppur tocca roba mascolina,
E alfin parla co' santi, e quand'è sola,
Sant'Andrea le apparisce e la consola.
A sì strano parlar della donzella
Attonito ei rimase, e la cagione
Non comprendea di tai parole, ond'ella
Tutta l'istoria fedelmente espone.
Ciò udendo, per le risa ei si smascella,
Sìcchè ella gliene chiese la ragione.
Oh come, ei disse allor, come Geltrude
La facil tua credulità delude!
366
Non già dal ciel discese Andrea beato
A consolar la bella genitrice;
Ma in sen di qualche Andrea, suo amante amato,
Quel soave piacer che anche a noi lice
Gustar, ove tu vogli, avrà gustato.
E tanto catechizza e tanto dice,
Che l'invoglia a provar se sì giocondo
Piacer può dare un uom di questo mondo:
Supina allor sul letto ei la distende,
E toltile gl'incomodi ripari,
Il nudo seno a vagheggiare attende
Con vezzi e baci affettuosi e cari,
E i soavi diletti avido prende
Al massimo piacer preliminari,
Quando da un moto non avanti inteso
Si sentì la fanciulla il sangue acceso.
E a un tratto il caro amante al seno stringe
Tutt'amor, tutta forza e tutta foco,
E ardentemente anch'ei l'abbraccia e cinge,
E viensi al buono, e si riscalda il gioco.
Pur egli destramente avanza e spinge
Il gustoso lavoro a poco a poco;
Perch'ella al cominciar dell'atto grande
Sospira, e qualche lacrimetta spande.
Ma poichè finalmente il giovinetto
Al colmo del piacer s'aprì la via,
E un intenso ineffabile diletto
Lor di piacere i sensi e l'alma empia,
Ella esce quasi fuor dell'intelletto,
S'agita, smania e ogni contegno oblia,
E dice: ohimè! che cosa è questa! oh Dio!
Caro Dionigi, oh che piacer! cor mio.
Geltrude intanto, che in quel punto avea
Nel divoto stanzin già terminata
Le dolce conferenza con Andrea,
Della figlia alla camera un'occhiata
Venne a dar; che ogni sera ella volea
Veder se la sua porta è ben serrata,
E accostandosi al buco della chiave,
Ode un susurro querulo e soave.
Trasecolossi, e in tacita favella
Gnaffe! disse, mia figlia non è sola:
Al certo s'è trovato un santo anch'ella,
Che come a me le appare e la consola!
Oh vane cure mie! Fatto ha Isabella
Solleciti progressi in altra scuola.
367
Indi temendo pur di fare sbaglio,
Di nuovo pon l'orecchio allo spiraglio.
E inni e antifone udì ch'ella intonava
Coll'introibo, eleisonne e gloria,
Mentre il tenero amante accarezzava,
E immersa nel piacere andava in gloria.
E perchè è nel mestier pratica e brava,
Tosto s'immaginò tutta l'istoria,
E sapea ben, che non si può tal tuono
Prender, se insiem non l'accompagna il suono.
E come cagna invidiosa e ghiotta,
Benchè satolla e piena fino al gozzo,
Se vede un altro can che roda e inghiotta
O carne od osso ovver di pane un tozzo,
Digrigna i denti e brontola e borbotta,
E trar di gola gli vorrebbe il ghiozzo
Così Geltrude, poichè pieno ha l'epe,
Vuol che di fame altri si muoja e crepe.
E avanti all'uscio mordesi le labbia,
Se stessa chiama sciocca e mal accorta,
E non sa che partito a prender s'abbia.
Vinta alfin dal furor che la trasporta,
Più non potendo contener la rabbia,
Urta e sforza con impeto la porta,
Ed improvvisamente la sorprende,
E tutta contro lei d'ira s'accende.
Isabella così colta sull'atto,
Ciascun sel pensi se restò confusa;
Ma pur negare non potendo il fatto,
Disse: signora mia, perdono e scusa
Merto, se quel che anche voi fate ho fatto;
Che in ciò seguii, qual sempre a far son usa,
I vostri rispettabili vestigi,
Voi sant'Andrea sceglieste, io san Dionigi.
Geltrude a questo dir nel vivo tocca
Di foco che ella fu si fe' di gelo,
Nè ardì, non che sclamare, aprir più bocca;
Perchè alla finta sua modestia il velo
Vede ch'è tolto, e che non è sì sciocca
La figlia sua, per creder che dal cielo
Lascino i santi ancor le segge vote
Per consolar le femmine divote.
E ben conobbe allor che in vano il fondo
Del core umano asconde ipocrisia.
E preso un tuon più libero e giocondo,
368
Ambo il ritiro abbandonar di pria,
Nè più sdegnar la società del mondo;
E conobber che raro in compagnia
Il mal s'alligna, e biasimevol cosa
Esporsi ai sguardi pubblici non osa.
369
NOVELLA XXVIII
LA VERNICE
La Vernice! follie! brontolar sento
Da qualche impaziente ascoltatrice.
Qual ci propon costui strano argomento,
Che sen vien fuori colla sua vernice?
Ma pazienza in grazia anche un momento;
Che tutto dire a un tratto sol non lice.
Chi sa che sotto la vernice poi
Cosa non sia che non dispiaccia a voi?
Era in Venezia un celebre pittore
D'un merto singolar nel suo mestiere,
Che Liberi ebbe nome, e per onore
Titolo ottenne poi di cavaliere;
Che non sempre il talento è un disonore,
Nè dee sempre l'ignavia ossequi avere,
Ond'egli e dopo morte e mentre visse
Sempre il cavalier Liberi si disse.
Avea magistralmente effigiati
E san Franceschi e sante Caterine,
E martiri arrostiti e scorticati,
E altri eroi della chiesa ed eroine
Per conventi di monache e di frati,
E a chiesta delle madri cappuccine
Pinse in un quadro assai stimato e bello
La Vergine e l'arcangiol Gabriello.
Quando portò alle monache lo schizzo,
Fu trovato mirabile, eccellente;
Ma in eseguir gli venne il ghiribizzo,
Che uno spirto sì puro ed eminente
Nulla aver debbe di meschin, di vizzo,
Da dar idea di debole e impotente;
Tutto esser dee magnifico e perfetto,
Più ancor s'ei venga a certi uffici eletto.
E in se dicea: qualor la patavina
Dotta università vuole un scolare
In legge addottorare o in medicina,
Non isceglie ignorante uomo volgare,
Ma vi deputa alcun che la dottrina
Possegga, in cui debbe altri addottorare;
370
E mai d'addottorar non fu permesso
A chiunque non sia dottore ei stesso.
Poichè, sebben quell'angelo beato
Non dovesse in quel caso esser ei padre,
Pur essendo egli eletto ed inviato
Una vergine a far divenir madre,
Supporlo inerte, debole e spossato
Non pare, a dire il ver, cosa che quadre.
Sempre proporzionare il savio suole
I mezzi al fine che ottener si vuole.
Protesto, Donne mie, ch'io non pretendo
Raziocinio approvar sì stravagante;
Di dialettica alquanto io me n'intendo.
Che niun debba in affar così importante
Da folle argomentar, ben lo comprendo;
Ma non vo' fare il critico e il pedante;
E per quanto ingannato egli si sia,
Che ci ho a far io? forse la colpa è mia?
Pins'ei vergin vestita di turchino
Stellato drappo, in volto a cui lucea
Noti so che di celeste e di divino;
Colle pupille basse in man tenea
Tutt'umile e modesta un libriccino
In cui divote orazion leggea;
E cinto di splendor, senza alcun velo,
L'alato Gabriel scendea dal cielo.
Del ciel la corte ha pubbliche e secrete
Cariche e i suoi magnati e i ranghi suoi,
E gli arcangeli son, come sapete,
Di quella corte i più distinti eroi,
Come appunto arcivescovo, arciprete,
Arciduca, arcifanfano fra noi.
Medico è Raffael, Michel guerriero,
E Gabriello è nunzio e messaggero.
A Maria quell'arcangiol benedetto
Solenne ambasciador straordinario
Dalla beata Triade fu eletto,
Come monarca invia signor primario
Per condur principessa al regio letto
In qualità di plenipotenziario;
E guarnillo il pittor co' color sui
Di maschie qualità degne di lui.
Nè mai di lampsacena asta fornito
Entrò così per abbracciar la sposa
Nel letto nuzial novel marito,
371
Nè con arma più ferma e vigorosa
Corre alla bella in sen l'amante ardito
L'ardente ad isfogar fiamma amorosa,
Come pien di feconda vigoria
L'angiolo a oprare il gran mister venia.
Ave Maria le disse, e non altr'ave
Fe' di vergine in cor più forti brecce;
Ond'ella con voce umile e soave
Distinto assai pronunziò il grand'Ecce,
Che salvò l'alme del peccato schiave;
E a un tratto allor le circondò le trecce
Lucido cerchio, e in quel consentimento
Diessi all'alto mistero il compimento.
Benchè quell'azion tempo esigesse,
Pur sembrava che tutto il cavaliere
In un solo contesto espresso avesse,
Tanto seppe alle forme e alle maniere
Inspirar sentimento ed interesse:
Onde con gioja ed intimo piacere
Riguardò l'opra sua, e sen compiacque;
Non ostante, uno scrupolo gli nacque.
Pensò che nello stato naturale,
In cui (Dio gli abbia in gloria) Adamo ed Eva
Visser pria del peccato originale,
Nudo sì l'un che l'altro andar soleva;
Che il selvaggio talor, che ogni animale,
Senza che offesa alcuna indi riceva
Il buon costume e la decenza nostra,
Nudo mostrossi e nudo ancor si mostra.
Ma la maniera di pensar stravolta
Fu dall'istante che la specie umana
S'è nello stato social raccolta;
Gli uomini allor per abitudin strana
Semplicità dai lor costumi han tolta;
Nudità reputarono profana,
E a' naturali oggetti in conseguenza
Unirono l'idea dell'indecenza.
Onde il cavalier Liberi comprese,
Che sebben forma umana un angiol prenda,
Convenia ricoprirgli un certo arnese,
Acciò la pudicizia ei non offenda;
E tanto più se per conventi o chiese
Qualche pubblico quadro a far s'imprenda,
Più ancor dovransi aver tali riguardi
S'espor si dee di monache agli sguardi.
372
Voluto ei non avrebbe il pregio torre
All'arte di natura imitatrice,
Nè discoperte alcune parti esporre
A vergini pupille; e alfin felice
Idea venitegli a un tratto di comporre
E impiegar a tal uopo una vernice,
Che quelle nudità ricopra e fasci,
E quanto è sotto intatto e intiero lasci.
E a quest'effetto artistamente sopra
Di quel preteso scandalo ponea
Inverniciato velo, onde ricopra
Quell'oggetto che i semplici offendea;
Ed onestando in guisa tal quell'opra,
Il pittor cavalier fra se ridea,
Certo che sotto tinte ei seppellia
Arnese che risorto un dì savia.
E sapea ben che la vernice allora
Dalla pittura si savia divisa,
E di nuovo alla luce apparso fora
Ciò che occultato s'era in simil guisa,
Quantunque al giusto l'epoca ne ignora;
Onde a ragion non contenea le risa,
Pensando che stupite a un tal spettacolo
Lo crederan le monache un miracolo.
Nè ciò, dicea, forse avverrà; che alfine
Monache e frati e monasteri e chiostri,
Badie, trappe, certose e cappuccine,
E mille assurdità de' tempi nostri
Debbono o presto o tardi aver un fine;
E se dipinto un corpo uman si mostri
E nudo e nel suo stato naturale,
Credo che allor non vi sarà gran male.
Ma per sventura il cavalier pittore
Ne' raziocini suoi restò deluso;
Poichè se di ragion qualche bagliore
Fra noi talvolta appar tenue e confuso,
L'ambizion, l'ipocrisia, l'errore,
E l'interesse e del poter l'abuso
Fanno e faranno in queste età infelici
Più i monaci durar che le vernici.
La pittoresca libertà corretta,
E il quadro alfin ridotto a compimento,
Le cappuccine d'una cappelletta
Ne fero il più bel pregio ed ornamento,
E la delizia fu di quell'eletta
Schiera rinchiusa in verginal convento,
373
E v'era tutto il dì gente affollata
Del Liberi a veder la Nunziata.
Maria giusta le donne era un perfetto
Di pudicizia e di beltà modello,
Ma dava lor più sensual diletto
La figura dell'angiol Gabriello.
Dicean ch'era un celeste giovinetto
Di cui non avean visto altro più bello;
Anzi fuvvi taluna a cui non piacque
Il sovrapposto vel, ma finse e tacque.
Bello il quadro così, come vel mostro,
Ai dilettanti ed agli artisti apparse,
E sull'altar di quel vergineo chiostro
Continuò gran tempo a venerarse,
Infinchè la vernice a tempo nostro
Cominciò dalla tela a distaccarse
Circa ottant'anni poi (salvo ogni errore)
Dacchè ella uscì di mano dell'autore.
La priora di quelle reverende
Un dì vedendo screpolar d'un canto
L'azzurro vel che cuopre le pudende,
Riguardando restò pensosa alquanto
Sull'ignota ragion che non comprende,
Ed alla sagrestana ordina intanto
Di stropicciare colla man bel bello
Fra le cosce dell'angiol Gabriello.
Parte colei comincia a stropicciarne,
Ma grida tosto: oh Dio! cosa mai n'esce!
Madre priora, un brandellin di carne!
Oibò, ripiglia la priora, è un pesce,
È un cefalotto, altro, io non so pensarne.
E quella: è carne; e oh come ingrossa e cresce!
E con eretto vigoroso capo
Ecco apparir l'angelico priapo.
La man ritira a se la sagrestana
Colpita da stupor, da maraviglia,
Nè tanto nell'arcadica fontana
Forse stupì di Licaon la figlia,
Allorchè trasformatosi in Diana,
Al celato stallon tolta la briglia,
Tutte fra le sue braccia il sommo Giove
Spiegò di sue virilità le prove.
Attonite pertanto e vergognose,
Gesù! la sagrestana e la priora
Esclamarono allor, Gesù che cose!
374
L'una dicea: questa è un' insidia, o suora,
Per sedur di Gesù le caste spose:
In mille modi il diavolo lavora.
A cui la sagrestana: e chi pensato
Avrebbe un Gabriel così sfacciato?
No, la priora allor, oh no, sicuro;
Io lo conosco l'angiol Gabriello,
Non si prende uno spirito sì puro
Tai libertà dell'angiolo rubello
Certo questa è fattura, e t'assicuro,
Che a Gabriello uscito è quel brandello
Senza consenso suo sì grosso e lungo,
Come dal suolo esce improvviso un fungo.
Monachina novizia ivi presente,
Che pria fu campagnuola, or giardiniera,
E della sagrestana era servente,
Ad ambedue chiedendo gia cos'era;
Ma di là la cacciaron prestamente,
Ond'ella ad altre il disse, di maniera
Che d'una in altra per tutto il convento
La nuova se ne sparse in un momento.
Al racconto di lei confuso e strano
Sceser tutte a veder quello spettacolo;
Chi un serpente il dicea, chi un tulipano,
Chi opra del demonio e chi un miracolo.
Molte far che il volean toccar con mano,
Se la priora non faceavi ostacolo,
Dicendo che la prova del contatto
La madre sagrestana avea già fatto.
Più d'una ancor scrupolosetta e schiva
Con croce si segnò la fronte e il petto,
E chi la faccia con la man copriva
Per non veder lo scandaloso oggetto;
Ma delle dita gl'intervalli apriva
Allo sguardo talor maliziosetto.
Nè la faccia si copre in altra guisa
La vergognosa in campo santo a Pisa.
Ma la priora per troncar di quelle
Fanciullaggini lor l'inconseguenza
Ordina all'inquiete monachelle
In virtù della santa obbedienza
D'andarsene a pregar nelle lor celle,
Ch'ella senza di lor, coll'assistenza
Che alle priore accorda il ciel, se occorre,
Allo scandol saprà riparo opporre.
375
Partian color, poichè partir bisogna,
E il piè movean di malavoglia e lente,
Ma la priora le restie rampogna,
Ond'esse nel partir sbadatamente
Fra la curiosità e la vergogna
Volgeansi a quel fenomeno indecente,
Come in fuggir dallo spettacol tetro
Volgea di Lot la moglie il guardo indietro.
La priora che gli anni esente han resa
(Credeasi almen) da debolezza umana,
E dagl'insulti della carne illesa,
Tosto allor alla madre sagrestana
Ordinò di staccare e tor di chiesa
Quella apparizion tanto profana;
Che nei semplici cor tai prospettive
Soglion produr sensazion lascive.
Del suo quartier nella seconda stanza
Fe' locar la pittura invereconda.
Nella prima ricorso ode e lagnanza
Od altro tal di cui cotanto abbonda
Ogni claustral monastica adunanza;
E ha il casto letticciuol nella seconda,
E qui il quadro, onde altrui lo scandol torre,
Con quel membruto arcangiolo fe' porre.
Quest'opra al certo soprannaturale,
Fra se dicea, non che straordinaria
Certo, com'io credea, non è infernale;
Che alla divina dignità contraria
Cosa sarebbe e contro ogni morale
Permettere azion sì temeraria
Avanti a qualsivoglia onesta donna,
Figuratevi avanti alla Madonna.
Del ciel la volontà misteriosa,
Di cui son sempre ignoti i fini veri,
Potria forse qui sotto esservi ascosa.
Folle! degl'ineffabili misteri
Nella profondità chi spinger osa
I fallaci arditissimi pensieri!
Ma pur colui che domina sull'etere,
Chi sa, non voglia il gran mister ripetere?
E se fosse così, non v'è ragione
Per creder che qualch'altra monachetta
Si debba meco porre al paragone,
Nè dican ch'io non son più giovinetta,
Che nulla val sì fatta obbiezione
Ricordiamci di santa Elisabetta
376
Madre del precursor; quando lo fe'
Era forse più giovine di me?
Pettegolette un po' per dire il vero
Quasi tutte esse son queste mie suore;
Se a qualcuna però del monastero
Questo segnalatissimo favore
Il ciel destina, io mi lusingo e spero,
Che dia di preferenza a me l'onore.
E si tasta, e le par che già in quel mentre
Se le incominci ad ingrossare il ventre.
Ma il fatto e tutte quelle circostanze
Al confessor non si dovean celare;
Onde, fattol venir nelle sue stanze,
L'escrescenza mirabile osservare
Gli fece, e gli svelò le sue speranze.
Padre, poi gli dicea, che ve ne pare?
Parmi nell'alvo mio di già sentire
Qualche novella íncarnazion seguire.
Il confessore anch'ei da maraviglia
Fu preso al caso sorprendente e strano;
Non però per miracolo lo piglia,
Ma per un qualche strattagemma umano.
Tranquilla la priora a star consiglia,
E benchè fosse frate e francescano,
Poco badò se v'era inganno o insidia;
Ma lo guardò con una santa invidia.
Poscia la fronte increspa, il ciglio inarca,
E disse alfin che quella turpitudine,
Se vuolsi aver la coscienza scarca
D'ogni scrupolo e d'ogni inquietuúine,
Si dee tosto far nota al patriarca;
Ch'egli con pastoral sollecitudine
E co' lumi dell'alto suo intelletto
Vedrà la cosa nel suo vero aspetto.
Se giusta il debol sentimento mio
Dovessi non ostante io giudicarne,
Direi che, il dì di pasqua avendov'io
Sulla resurrezione della carne
Fatto il sermone, or vuol Domeneddio
Alle incredule un simbolo mostrarne.
Ma stolto è chi nel suo saper si fida,
Onde lasciam che monsignor decida.
Il patriarca di Venezia allora
Era uno di quei vescovi di cui
Sol la memoria il vescovado onora.
377
L'opre e l'esempio de' costumi sui
È nei memori cor presente ancora,
E la bontade e la virtù di lui
Con venerazion tuttor rammenta
La laguna adriatica e la Brenta.
Pertanto non mancò sua reverenza
Il confessor di monache di fare
A sua reverendissima eccellenza
Il rapporto di tutto quell'affare;
E per averne giusta conoscenza
Volle in persona il patriarca andare
Ma d'anni carco egli era e quasi cieco;
Onde il vicario suo condusse seco.
Il caso a esaminar straordinario
Al monaster con piccolo corteggio
Portossi monsignor col suo vicario.
Madre, allor disse alla priora, io deggio
Saper se in ciò che udii qualche divario
Havvi dal ver; ma come io mal vi veggio,
Darò al vicario mio commissione
Di farmene fedel descrizione.
Quei per meglio osservar quella pittura
Montato essendo sopra uno sgabello,
Squadrò l'immagin della Vergin pura,
E in questa parte il quadro è buono e bello,
A monsignor dicea; poi la figura
Osservando dell'angiol Gabriello,
Disse: eccellenza mia reverendissima,
Protuberanza è qui notabilissima.
E il patriarca ancor chiedea: ma pure
Onde il vicario allor: sua signoria
Che mi porga la mano, e le misure
Dietro la guida della mano mia
Ella stessa potrà prender sicure.
E il patriarca: ebben, rispose, sia.
La man prende il vicario, e con leggiadro
Garbo appressolla leggermente al quadro.
Indi di quella turgida escrescenza
Dall'una all'altra estremità le dita
Di sua reverendissima eccellenza,
E dell'oscura massa insieme unita
Attorno a tutta la circonferenza,
Come il disegnator fa con matita,
Guidò, poi disse: è lungo un palmo intero.
E quei: per santo Todaro ch'è vero.
378
Ma la priora, che non più sentiva
Parlar d'incarnazione e di miracolo,
Temè che alla sua santa aspettativa
Da monsignor non si mettesse ostacolo
Poichè la visione intuitiva
Del generante angelico spettacolo
Sperato avea che oprasse alcun prestigio
Per rinnovare in lei l'alto prodigio.
Ed altronde pel quadro avendo presa
Intima affezion particolare,
E già l'idea di monsignor compresa
Di farnelo di camera levare,
Dicca: cred'io, poichè non è più in chiesa,
Ch'essendo or qui, vi si potria lasciare;
E giuro per la mia verginità,
Che in tal caso nessun più lo vedrà.
Sorridendo il vicario: intendo, il fine
È santo, o madre, disse a lei rivolto;
Pur tanto capital per cappuccine,
Che nulla debbon possedere, è molto.
Ma monsignor troncò i discorsi alfine,
Dicendo: sia di qui lo scandol tolto,
L'autor non cerco che si è ciò permesso,
Ma il quadro resti d'ora in poi soppresso.
E quella oscenità torre e coprire
Ei fe' con indelebili colori,
E alle monache poi restituire
Come in oggi sta esposta ai spettatori.
Ma intanto, Donne mie, vi vo' avvertire
Di non fidarvi a quel che appar di fuori;
Che sotto la vernice io spesso veggio
Oscena cosa e qualche volta peggio.
379
NOVELLA XXIX
LA BOLLA D'ALESSANDRO VI
Non vorrei ch'anche in voi fosse l'erronico
Pregiudizio di certi miscredenti,
che tutto sia composto il jus canonico
Di frivolezze e di vaneggiamenti
Di qualche umor divoto e malinconico;
Che anzi eccelse contien cose eccellenti,
E di teologia e d'ogni scienza
Par che racchiuda in se la quintessenza.
Nè vi crediate già ch'io qui l'orecchio
Ad istancarvi, o Donne mie, m'induca
Con porvi avanti il testamento vecchio,
O che gli atti apostolici produca;
E non mica ad esporvi io m'apparecchio
Ciò che scrisse Matteo, Giovanni e Luca;
Non aspettate pur ch'io nulla dica
Dei santi padri della chiesa antica.
Non citerovvi per lo ben de' popoli
I concili adunati in Calcedonia,
In Antiochia ed in Constantinopoli,
Nella Bitinia e nella Paflagonia,
In Tarso, in Cesarea, in Filippopoli;
Dirovvi sol senz'altra cirimonia
Leggete un po' le pontificie bolle,
Vedrete quanta roba entro vi bolle.
Con savie ed opportune istruzioni
Sempre sulla moral spargon gran lume;
Con paterni consigli utili e buoni
Correggono e diriggono il costume.
Ma che soavità d'espressioni!
Che untuoso mellifluo dolciume!
Eppur studio cotal pochi lo fanno,
Certe bolle perciò pochi le sanno.
Ond'io per quanto abbia di voi concetto,
Che averne al sommo grado io vi protesto,
Pur se si vuol scommettere, scommetto
Che d'istorie e d'annali in verun testo
Voi non avrete mai visto nè letto
L'insigne bolla d'Alessandro sesto,
380
Che per le donne d'Alemagna ei fe'
L'an mille quattrocen novanta tre.
Sappiate dunque, che già fu in Breslavia
Un gentilumn freddo, melenso e lento,
Che una consorte aveva onesta e savia,
Ma all'incirca d'ugual temperamento.
Erano entrambi d'una estrema ignavia,
Ambi di poco spirito e talento,
E grassi e grossi e goffi, come buoi,
Li fe' natura e gli accoppiò di poi.
Ella avea nome Arnolfa, ei Gottifredo,
Dediti entrambi alla divozione,
Masticavan fra' denti ognora il credo,
Od altra favorita orazione;
Avevan di reliquie un gran corredo,
Madonnine, agnusdei, cristi e corone,
E un pilon d'acqua santa a capo al letto,
E l'orinal era anche benedetto.
Da capo a piedi s'aspergevan pria
Di consumare il santo matrimonio,
Credendosi di fare opera pia;
E dicean per tener lungi il demonio
Il Pater noster o l'Ave Maria,
Pregando san Giuseppe e sant'Antonio;
E nell'atto talor d'altro parlavano,
E pria di terminar s'addormentavano.
Dunque empiendo costor divotamente
Una notte al dover matrimoniale,
O fosse un apopletico accidente,
Fosse mancanza di calor vitale,
O rottura di vasi internamente,
O ristagno di sangue od altro male,
Madonna Arnolfa restò morta a un tratto.
Dio ce ne scampi e massime in quell'atto!
Ma quantunque di vita affatto priva,
Quantunque e moto e senso è in lei cessato,
Pure il marito a ciò non avvertiva,
Poich'era in ogni tempo accostumato
Di trovarla insensibile anche viva;
Onde seguì l'affare incominciato;
Che morta o viva fosse la mogliera,
Gran differenza in quell'affar non v'era.
Ma poichè per costante esperienza
Vide che morta affatto è la consorte,
Ebbe rimorso tal di coscienza,
381
Ebbe dolore così intenso e forte
D'aver dispersa l'umana semenza
In vaso incompetente, in cicce morte,
Che non sì tosto il chiaro giorno apparse,
Che andò dal suo curato a confessarse.
Era costui un fratacchion balordo,
Chiamato il reverendo fra Beltrame.
Di lui non v'era mangiator più ingordo,
Mangiava sempre e sempre avea più fame,
E nelle tasche ognor sudicio e lordo
O prosciutto tenea, cacio o salame;
Veniva poi per qualità seconda
Un'ignoranza la più crassa e tonda.
Non era nè moral nè canonista,
E conseguentemente del peccato
Non sapea la natura in che consista;
Onde a racconto tale imbarazzato
Non poco si rimase a prima vista;
Pur lo credette caso riservato,
E disse a Gottifredo: in verità
D'assolvervi non ho la facoltà.
Ei converrà, figliuolo mio, pertanto
Che con umile supplica esponiate
Il fatto schiettamente al padre santo,
E l'assoluzion gli domandiate.
Colui credendo ciecamente a quanto
Detto gli avea il buaccion del frate,
Di là partissi e, come quei gl'impose,
Un bel memorial tosto compose.
La supplica diceva: "Santo Padre,
Mentre la moglie mia, buona memoria,
Ch'era una donna delle più leggiadre,
Meco facea quella cotale istoria
Per cui la donna impregna e divien madre,
La poveretta (il ciel se l'abbia in gloria)
Non saprei come in mezzo del concubito
Senza dar segno alcun morì di subito.
Io che di ciò non m'era punto accorto
Fra me dicea ridendo: Arnolfa dorme;
Ma alfin con mia sorpresa e gran sconforto
Conobbi e piansi il mio delitto enorme
D'aver usato con un corpo morto;
E d'esserne assoluto nelle forme
Instantissimamente imploro e chiedo.
Umilissimo servo Gottifredo."
382
Empieva allora la sede apostolica
Borgia col nome d'Alessandro sesto,
Di cui scrissero ognor roba diabolica
I maledici autor sotto pretesto
Che a pregiudizio della fe cattolica
Stupro, adulterio, sacrilegio, incesto,
Assassini, rapine ed ingiustizie,
Fosser le cure sue, le sue delizie.
Io non vo' farne apologia, nè dico
Ch'ei fosse un esemplar del sacerdozio:
Fu delle donne e dei piaceri amico,
E con la bella moglie di Vannozio
Ebbe commercio non troppo pudico;
Ma lo faceva sol per fuggir l'ozio;
E questo altro non prova alla fin poi,
Se non ch'ei fu di ciccia come noi.
Su l'articolo poi della Lucrezia,
Di cui fan gli scrittor tanto fracasso,
Credo che per ischerzo e per facezia
Seco talor facesse un po' di chiasso,
E color che dan peso ad ogni inezia
Lo divulgaron poi fra il popol basso:
Ma alfin con tutto questo cicalio
Nessun potè mai dir: gli ho vedut'io.
Lo scrupolo sprezzò che de' piccini
Animi è figlio e l'importun riguardo;
Invase ed occupò stati e domini
Per formarne corona al gran bastardo;
Ma pur se, de' lontani e de' vicini
Tempi all'istorie rivolgendo il guardo,
Veggiam di cose tai più d'un esempio;
Perchè chiamar lui solo ingiusto ed empio?
Vero è però che niuno a lui contrasta
Vigor di genio, attività sagace,
Alti pensier, mente elevata e vasta,
Costanza in ardue imprese, e perspicace
Ingegno, e ciò che un'alma a formar basta
D'acquistar regni e di regnar capace,
Su tutto sopraffina arte politica
Sprezzatrice di biasimo e di critica.
La supplica del vedovo barone
Alessandro trovò tra i gran pensieri
Della famosa sua marcazione,
Che sovra i nuovi sconosciuti imperi
Distribuendo gia scettri e corone,
E fissando il confin degli emisferi,
383
Con assoluta potestà chimerica
Disponeva dell'Asia e dell'America.
Quand'ei l'affar di Gottifredo intese,
Non lo credette mica bagattella;
Ma per cosa sì grave egli lo prese,
Che del meridian la parallella
A suo riguardo per allor sospese;
Non perchè tal di fatto in se foss'ella,
Ma perchè con sagace avvedimento
Vi scorse un mal di vie maggior momento.
Pensò che dal Fattore onnipotente
Per sollievo dell'uom la donna è fatta,
E che donna insensibile e indolente
Nè al dover suo nè all'uopo altrui s'adatta,
Dal che ne nasce conseguentemente
Ch'ella si rende al generar poco atta:
In oltre per natura egli odiò sempre
Le donne fredde e d'insensibil tempre.
E fe' pel cardinal penitenziere
Al barone spedir l'assolutoria
Con imporgli di cinque Miserere
Salutar penitenza e meritoria;
Poi di fare una legge ebbe in pensiero,
Che restasse de' tempi alla memoria,
Per distor, rimediare e prevenire
Inconveniente tal per l'avvenire.
Sapea che per le donne portoghesi,
Come per le spagnuole e italiane,
E se si vuole ancor per le francesi,
E molto più per le siciliane,
E per altre di calidi paesi,
Sì fatte leggi son superflue e vane;
Poichè nelle lor vene il sangue bolle,
E si ridon dei brevi e delle bolle.
Quelle per altro che natura pone
Ove il sol spande i rai più obliqui e mesti,
E presso il glacial settentrione
Vivono sotto climi aspri e molesti,
Han bisogno di stimoli e di sprone
Che gli spirti sopiti agiti e desti;
Che spesso avvien trovar sotto un bel muso
Torpidetta la fibra e il senso ottuso.
E acciò che fosse noto e manifesto
Alle Tedesche di senso restio,
Quel che a lui parve espediente onesto,
384
Una solenne bolla concepio
Di tal tenor: "Noi Alessandro sesto
Minimo servo de' servi di Dio,
Per la divina grazia ottimo massimo
Papa senza che noi lo meritassimo.
Alle dilette figlie di Breslavia,
A quelle di Vestfalia e di Sassonia,
E d'Austria e di Boemia e di Moravia
Di Baviera, di Svevia e di Franconia,
E a quelle in oltre della Scandinavia,
E d'una buona parte di Polonia,
Ed a chi le presenti leggerà,
Pace, benedizione e sanità.
Essendoci talor giunto all'orecchie
Per sicuri e veridici canali,
Che tra di voi si trovano parecchie
Che nelle funzioni conjugali
Stansene ferme come micce vecchie,
Lo che spesso è cagion di molti mali;
Noi bramando ovviare a un tal disordine,
Ci siamo risoluti di porvi ordine.
E benchè i molti affar non ci dian feria,
Nè ci lascino l'animo quieto,
Pur vedendo esser cosa grave e seria,
L'abbiam proposta in concistor secreto;
E consultato sopra tal materia
De' cardinali il venerabil ceto,
E dopo maturissimo riflesso
Determinato abbiam come in appresso.
Nel santo conjugal congiungimento
In avvenir star non dovrete estatiche,
Ma come danno savio insegnamento
Persone nel mestiero esperte e pratiche,
Dovrete fare un qualche movimento,
Scuotere i lombi e dimenar le natiche,
Od altro tal che dia di vita segno,
E che siete di ciccia e non di legno:
Sì perchè agisce la donna e coopera
Con più efficacia e più sollecitudine
Della generazione alla grand'opera,
Se prende in dimenarsi l'abitudine
Sì perchè frase tal la bibbia adopera:
Accinxit lumbos suos in fortitudine;
E parlando a persone conjugate:
Alter alterius onera portate.
385
E acciò sia questa nostra volontà
Nota omnibus et singulis appieno,
D'apostolica e piena podestà
Vogliam che le presenti affisse sieno
Per la Germania in tutte le città,
Che sono fra la Vistola ed il Reno,
E andando in là dalle montagne alpine
In fin del nord all'ultimo confine.
E così noi vogliamo ed ordiniamo,
Queiscumque non obstantibus et cætera,
E contro i trasgressor ci riserbiamo
Pene e censure a nostro arbitrio et cætera.
Perciò segnate le presenti abbiamo
L'an mille quattrocen novanta et cætera
Dalla natività del Redentore.
Datum sotto l'anel del pescatore."
Fu poi spedita ai patriarchi, ai nunzi,
Aì vescovi, arcivescovi e legati,
Commissari, apostolici internunzi,
Acciò della Germania in tutti i stati
Sì secolar che laici s'annunzi,
Con ordine alli parrochi e ai curati,
Che debban promulgarla dagli altari,
E dai pulpiti e dai confessionari.
Fe' tal bolla più strepito in Germania,
Che la bolla Unigenitus in Francia.
Di leggerla ogni donna ebbe la smania,
Ciascuna le ragion pesa e bilancia
con un ardor di fanatismo e insania;
E chi contra e chi pro disputa e ciancia,
E ciascun, come avviene in tali cose,
Facea riflession, commenti e chiose.
Un saputel qui mise il becco in molle
Con una insipidissima proposta,
E dar aria di critico si volle,
Dicendo che tal bolla è fatta apposta
Per mettere in ridicolo le bolle;
Ch'ella è fittizia, apocrifa e supposta,
Perchè nel gran bollario non si trova
E in niun'altra raccolta antica o nuova.
Or io, sebben non mi dovria confondere
Per una lieve obbiezion scolastica,
Pur son sta volta in grado di rispondere
Che questa è bolla vera e non fantastica;
Perciò non deggio un curioso ascondere
Aneddoto d'istoria ecclesiastica,
386
Agli storici noto, agli annalisti,
Ed a' bibliotecari e agli archivisti.
Era in quel tempo appunto assai potente
Donna in Germania di lussuria tale,
Che appresso a lei potrebbe facilmente
Messalina parere una Vestale.
La famiglia ch'è grande anche al presente
D'esser nomata avrialo forse a male;
Ond'è ragion di cortesia ch'io taccia
Che cosa dir non vo' che altrui dispiaccia.
Tre anni con signor d'alto lignaggio
in matrimonio pria visse congiunta,
E vedova restò di gran retaggio
Padrona, ai quattro lustri appena giunta;
Alle seconde nozze far passaggio
Potea, se tal desio l'avesse punta;
Ma senza impegno volle e a suo piacere
La vedovil sua libertà godere.
Ella che in membra giovanili e fresche
Vigorose sentia le passioni,
E dava con secreti intrighi e tresche
Facile sfogo alle sue propensioni,
Ebbe onta che alle femmine tedesche
Per più vive eccitar le sensazioni
Dovessersi impiegar bolle papali,
E non semplici mezzi e naturali.
E col danaro e coll'autorità
Fe' ricercare e comperar tai bolle
Della Germania in tutte le città,
E quante averne ella potè, bruciolle;
E quindi a ritrovar sua santità
Ella in persona a Roma andar sen volle
Per più efficacemente e da se stessa
Far sì che bolla tal fosse soppressa.
Ogni mezzo tentò, tentò ogni via,
Non risparmiò parole nè regali,
Sapendo ben che allor la simonia
Era la passion de' cardinali
Nè perciò nel suo intento riuscia,
Che sul punto di bolle e decretali
Per rivocarle sua beatitudine
Era duro talor più d'un'incudine.
Con Cesar Borgia alfin strinse amicizia,
Figliuolo natural del santo padre,
Che dalla dignità cardinalizia
387
Per comandar le pontificie squadre
Passò non molto dopo alla milizia;
E fra le sue più belle opre leggiadre
Fece una notte uccidere il fratello,
Mentre soletto usciva del bordello.
Questi è colui che poi fu nominato
Comunemente il duca Valentino,
Poich'egli ottenne allor di quello stato
Dal re Luigi titolo e domino;
Giovin fiero, arditissimo e sfrenato,
Del dritto uman sprezzante e del divino;
Talchè Alessandro sesto a dirla schietta
N'aveva una paura maladetta.
Or l'eminenza sua, mentre il galante
Facea coll'avvenevole Alemanna,
A poco a poco ne divenne amante.
E perchè ella non era una Susanna
Da vedersi languire un uomo avante,
Col novello amator non fu tiranna,
E di sensazion prova sì bella
Diegli talor, che lo balzò dì sella.
E questo è molto dire a dire il vero.
Stupì l'eminentissimo bertone,
Perchè sapea da esperto cavaliero
Tenersi bravamente in sull'arcione;
Onde fe' gran concetto in suo pensiero
E della donna e della nazione;
Poichè più d'una giostra avendo ei corsa,
Tal avventura mai non gli era occorsa.
Convintasi pertanto sua eminenza
Esser costei sensibile a tal segno,
Credette esser tenuto in coscienza
Contro la bolla di prender l'impegno,
E andato dal pontefice a udienza,
Talento non mancandogli nè ingegno,
Fece una bella e forte orazione
Degna di Marco Tullio Cicerone.
O santo padre, incominciò, che padre
Doppiamente da me chiamar ti dei;
Perchè degnasti ingravidar mia madre,
E perchè papa, comun padre sei;
Deh se ti scampi il ciel d'avverse ed adre
Sventure a peste, a fame, ab ira Dei,
Ascolta il mio discorso, e in ascoltarlo
Pensa che sol per la tua gloria io parlo.
388
O gran prence, che il suon de' fatti tui
Distendi oltre l'erculee colonne,
O sommo sacerdote, in faccia a cui
Fur chiericuzzi Samuele e Aronne,
Perchè vuoi che il tuo onor s'offuschi e abbui,
Facendo torto alle tedesche donne?
Torto che le avvilisce e disonora,
Stante la bolla: Essendoci talora.
Tu sai che poco fa dall'Alemagna
Donna qua venne di razza patrizia,
Che di tal bolla con ragion si lagna,
E s'offre di provar ch'è surrettizia
Ancor non ho trovata la compagna;
Se tutte son com'ella, è una delizia.
Ha una fucina sotto l'ombilico,
E quando lo dico io, so quel che dico.
Sua santità, ch'era anche uom del mestiere,
E di femmine tai gran dilettante
Che fan prodigi colle lor maniere,
Anche quando in età si va più avante,
Meglio avverar la cosa ebbe in pensiere,
Ma non ne fe' col cardinal sembiante.
Ci penserem, gli disse; intanto voi
Dite a colei che venga pur da noi.
Preso congedo allor l'eminentissimo,
Di là portossi tosto alla sua dama
Per annunziarle l'ordine santissimo.
Ella, che da gran tempo ambisce e brama
Simile incontro, ne gode assaissimo,
Ed in ajuto l'arti sue richiama,
Che vuol tentar, sebben sessagenario,
D'innamorar di Cristo il gran vicario.
E per torre ogni indugio ella propose
D'andare ali' udienza il dì seguente.
Tessuto a fiori d'or drappo si pose
Di sommo pregio e d'opera eccellente,
E carica di gemme luminose
Portossi al vatican pomposamente;
Viene introdotta, e mentre il passo move
Par l'altera Giunon che vada a Giove.
Alta statura avea, biondi capelli,
E portamento altero e signorile,
Carnagion bianca ed occhi grandi e belli,
Ed un soave favellar gentile,
Rotonde braccia e piè leggiadri e snelli,
E freschezza di membra giovanile,
389
Sorrisi e sguardi e grazie e vezzi ed altre
Lusinghe in oltre insidiose e scaltre.
Papa Alessandro in lei fissando il ciglio,
Gnaffe, esclamò, che bel tocco di carne!
Ha ragion quel bastardo dì mio figlio,
Che non si sazia mai di favellarne;
Gli piace il buon, non me ne meraviglio;
E i riferiti pregi in rammentarne
Tanto se gli scaldò la fantasia,
Che in faccia la lussuria gli apparia.
Cenno le fe' d'avvicinarsi, ed essa
Tre volte si prostrò per l'etichetta,
Che chi al pontifical soglio s'appressa,
Convien tre volte pria si genufletta;
E mentre si chinò pur genuflessa
Per baciar la pianella benedetta,
Alle poppe di lei cupido il guardo
Fisso ei tenea, come la gatta al lardo.
Quindi con gentilezza e con clemenza
Stese la man di sollevarla in alto,
E quasi per isbaglio e inavvertenza
Le mammelle palpar gli venne fatto.
Ella in un'aria allor di compiacenza
Con un respir vie più le sporse al tatto,
E intendendosi in tacita favella
Si guardaro amendue; ris'ei: ris'ella.
Un camerier ch'ivi era e vide intanto
La cosa incominciar su questo metro,
Conoscendo l'umor del padre santo,
Prudentemente ritirossi indietro;
E solo a sol, socchiuso l'uscio alquanto,
Lasciò la donna e il successor di Pietro.
Quello che poscia infra di lor seguisse
Non è ben noto, e niun di lor lo disse.
Questo so ben che dopo un tal congresso,
Sebben solennemente e per iscritto
Di rivocar la bolla ordine espresso
Non pubblicasse o somigliante editto,
Per altri mezzi conseguì lo stesso;
Perchè oprasse così non trovo scritto,
Nè a me di esaminarlo si conviene;
Ciò che fanno i sovran, lo fanno bene.
Sopprimer forse non volea la savia
Legge per cui fu dalle donne espulso
Quel torpore di senso e quella ignavia
390
Che l'atto conjugal rendeva insulso,
Acciò non torni il caso di Breslavia,
Caso che diede a cotal legge impulso;
Ma solamente in grazia della dama
Che bolla tal più non appaja ei brama.
Ai vescovi un'enciclica egli scrisse,
Che ritirasser tutti gli esemplari,
Ed ai compilatori indi prescrisse
Ed agli stampatori ed ai librari,
Che tal bolla mai più non s'inserisse
Nel canonico jure e ne' bollari,
E in breve non trovossene più alcuna
Anche a pagarle cento doppie l'una.
Per la Germania intanto a cotal segno
Erane l'osservanza omai introdotta,
Ch'essenziale nel venereo regno
Rinnovazion di gusto avea prodotta,
E quelle ancor ch'avean più tardo ingegno
Strenue si fer nell'amorosa lotta,
Nè alcun vi fu sì baccellon, sì rapa,
Che non dicesse: benedetto il papa!
Ma posciachè per l'alemanno impero
Ampiamente si sparse l'eresia
Di Calvin, di Zuinglio e di Lutero
Di Melantone e simile genia,
Che alla suprema cattedra di Piero
Sdegnarono accordar la primazia;
Gran parte di Germania più non volle
Assoggettarsi al papa e alle sue bolle.
Quindi è che anche oggidì sì poco attive
Donne trovansi là, fredde e patetiche,
Che nelle funzion generative
Sembrano far meditazioni ascetiche,
E non si sa se sieno morte o vive;
Ma queste, Donne mie, son tutte eretiche;
Che si fan gloria le buone cattoliche
Le sante d'osservar bolle apostoliche.
Or questa dunque è la ragion per cui
Niun archivista e niun bibliotecario
Non vide mai tal bolla; ma colui
Che fu compilator del gran bollario,
Copia antica n'avea che fra li sui
Manoscritti trovossi entro un armario,
E nell'archivio di Monte Cassino
Si conserva legata in marrocchino.
391
Là tiensi fra le cose più pregiate
Monumento sì raro e singolare,
Ed a persone sol qualificate
Con somma gelosia si suol mostrare
Per grazia special del padre abate.
Questa cosa l'ho udita raccontare
Da un certo amico mio che l'ha saputa
Da un altro amico suo che l'ha veduta.
Or dunque è cosa chiara e manifesta
Che la bolla è reale e genuina,
E chiara è la ragion, perchè non resta
Altra copia tedesca ovver latina;
E però, Donne mie, non è cotesta
Che puerile obbiezion meschina;
E apprendete da ciò che, quand'io parlo,
Ho fondamento ed ho ragion di farlo.
Per altro non vorrei che si credesse,
Che obliquamente voi, Donne garbate,
Il mio racconto riguardar volesse,
Ne' cui muscoli e fibre dilicate
La sensibilità natura impresse,
E di vivaci tempre ha voi formate;
Ma che Arnolfe non siete, assai lo mostra
Il vostro brio, la gentilezza vostra.
392
NOVELLA XXX
L'OSSESSA
Ciascun fin dall'età che mette denti
E ha delle cose idea leggiera e vaga,
Sa per quai modi e vie convenienti
Si conserva ogni specie e si propaga,
E sa come ogni razza di viventi
Della natura l'esigenze appaga;
Ma di tai facoltà l'impiego stesso
Vizio divien, se abuso havvi ed eccesso.
Ma l'astratto lasciam tuon metafisico,
Poichè non è di nostra competenza;
E d'altra parte non vo' correr risico
Di stancar la gentil vostra indulgenza.
Un fatto narrerò reale e fisico
Che metterà le cose in evidenza,
E chiaro mostrerà fin dove mena
Mal nata passion, se non si frena.
Del Patrimonio in non so qual città
Giovin sposa d'un ricco condottiero,
Detta Rosa, vivea trent'anni fa.
Allor che dico Patrimonio, io spero
Che ognun comprenda, ch'io non parlo già
Del patrimonio mio, ma di san Piero
Poichè san Pier, quantunque pescatore,
Ha un patrimonio più che un gran signore.
Cotesta Rosa inver giovine e bella
Era, ma d'un umor strano e bislacco,
E di capricci piena, e immersa er'ella
Nei stravizzi di Venere e di Bacco.
Parea che addosso avesse la rovella,
E in lussuria vincea micco e macacco,
Gran bevitrice, e fuor di tai vizietti
Non si potea tacciar d'altri difetti.
Gli affar del matrimonio con incuria
Trattava al suo mestier lo sposo intento,
Nè della calda moglie alla lussuria
Fornir potea bastevole alimento;
Onde alla sua libidinosa furia
393
Cercav'ella qualche altro supplemento,
Nè ingravidar giammai potuto avea,
E ad ogni costo ingravidar volea.
Giovane in città noto e benestante,
Detto Alessio, per tempo adocchiò Rosa,
E sendo ei nel mestier gran dilettante,
Si crede che colei pria d'esser sposa
Gli desse ascolto e l'accettasse amante,
E maritata poi la stessa cosa
Seco facesse, per esperimento
Di concepir cangiando di strumento.
Il condottier chiamato Raffaello
Ebbe una suora detta Anastasia,
Che avea poc'anzi un giovane assai bello
Sposato che nomavasi Mattia.
E con questa spessissimo e con quello
Rosa perciò trovossi in compagnia;
Sicchè col bel garzon non tardò mica,
Come creder potete, a farsi amica.
Farsi amica voi già ben comprendete,
Se di Rosa parliam, cosa s'intenda,
Perchè accortezza e perspicacia avete,
Nè d'uopo è che instruite io ve ne renda;
Ebbe pertanto pratiche secrete
Con Mattia, con Alessio, ed a vicenda
Or questo or quel, sendo il marito assente,
Ricevea Rosa separatamente.
Voi, Donne mie, sapete ben che amore
È un dolce e dilicato sentimento
D'alma ben nata e di sensibil core,
E in voi sol quest'amor trova alimento;
Ma in Rosa non er'ei che foja e ardore
Di troppo sensual temperamento,
E senza freno e da ragion non vinto
Brutal trasporto e di natura istinto.
Eransi un giorno in crocchio insieme unite
Giovani spose e nubili ragazze,
Ma già esperte in amor, libere e ardite.
A bere incominciaro e a far le pazze,
Mangiando le castagne abbrustolite;
Rosa si riscaldò, votò più tazze,
E tuttor tracannando ebra divenne,
Parlò, sparlò, nè più limiti tenne.
Giovine e fresca sì, ma non vistosa
Trovavasi fra loro Anastasia,
394
Che molto del marito era gelosa.
Sulla figura e sulla gelosia
Motteggiandola allor, le disse Rosa
Ch'ella sovente si godea Mattia,
Perchè era più di lei bella e ben fatta,
E a far piacere a un bel garzon più adatta,
Da cotanta impudenza al sommo offesa
Su i due più delicati punti suoi,
Se di gelosa rabbia a un tratto accesa
Non arse Anastasia, pensatel voi.
Pria di parole vennero a contesa,
Per li capelli s'acciuffaron poi
Come talor per disputarsi un osso
Cagna s'avventa a un'altra cagna addosso.
Ciascuna alla rival ceffate e pugna
Sul volto affibbia, e gonna e veli straccia.
S'agitan, s'arrabattono, e coll'ugna
Si sgraffiano e si sfregiano la faccia.
Accorron l'altre ad ispartir la pugna;
Chi questa a forza trae, chi quella abbraccia,
Sicchè partono alfin con atti fieri,
Alte ingiurie scagliandosi e improperi.
Da suo marito Anastasia portosse,
Contro se gli lanciò come una furia
Colle pupille più che brace rosse,
E lo strapazza e lo maltratta e ingiuria.
Il povero Mattia, che mai ciò fosse
Non comprendea, vede la moglie in furia,
E la ragion non ne indovina, e a tanta
Frenesia come stupido s'incanta.
Ma senti, ella dicea, se dare ascolto
Osi a colei, se mai con lei ti veggio,
Giuro al ciel, disleal, gli occhi dal volto
Trarti vogl'io, se non ti fo di peggio.
Dirlo pubblicamente! oh! questo è molto;
Vantarsene con me!... Già lo preveggio,
Se tosto mio fratel non ci rimedia,
Seguir vedrassi qualche gran tragedia.
Dai rimbrotti di lei a poco a poco
Di che parlar volea Mattia comprese,
E donde provenia cotanto foco.
Ed acciò che il calor delle contese
Non lo impegnasser alla fin del gioco
In qualche brutto affar, partito prese
Di tacer, di partir e usar prudenza,
Per non perdere alfin la pazienza.
395
Non pertanto Mattia trovò maniera
(Che in ciò non mancan mai mezzi e mezzani)
Di veder Rosa quell'istessa sera,
E dimandolle quai discorsi strani
Fatti avea con sua moglie, e che stat'era.
Ma dimmi, soggiungea, forse alle mani
Fra voi venute siete, o qual le hai fatta
Ingiuria, ch'ebra oggi m'è parsa e matta?
Ogni fumosità del vino affatto
Da Rosa ancor non era evaporata,
Onde rispose: e che so io? l'esatto
Di ciò che dico e fo nella giornata
Conto non tengo mai; ma la sguajata
Di tua moglie esser debbe un capo matto.
Cosa sognando va quella civetta?
Stupisco come tu puoi darle retta.
Allor Mattia, ben conoscendo Rosa,
Immaginossi che sbadatamente
Detto ella in alcun crocchio avesse cosa,
Interpretata poi sinistramente
Da sua moglie d'ogni ombra ognor gelosa;
Onde più tosto amò da buon vivente
Continuar con lei le usate tresche,
Che impacciarsi di bubbole donnesche.
In città tornò intanto Raffaello
Stato assente più dì frumento e biade
Per trasportar da un maremman castello
Ne' pubblici granai della cittade.
Portossi Anastasia tosto il fratello
Ad informar di tutto ciò che accade,
Punta da gelosia che in cor di femina
Di rancori e vendette i germi semina.
E con aspre e crucciose espressioni
Di sua moglie i bagordi e l'impudenza
Narrogli e le jattanze e le azioni
Contro il pudor, contr'ogni erubescenza,
Citando uomini e donne in testimoni
Della scandalosissima licenza;
Onde a cagion delle indulgenze sue
Nome egli avea di volontario bue.
E sopra di colei gli obbrobri e le onte
Accumulando, a lui fe' la puntura
Viva sentir delle ramose impronte,
Che gli adulteri della moglie impura
Gli avean moltiplicate e affisse in fronte;
396
Ed attizzar contro di lei procura
Per render l'odio suo pago e compito
Gli sdegni del cornigero marito.
Nè già impiegò gl'instigamenti in vano;
Nè in serraglio giammai colpevol schiava
Trattò sì duramente il musulmano,
Com'ei di sua moglier la vita prava
Punia collo staffile e colla mano:
Onde pel gran rigor che seco usava
Un qualche scampo a ricercar la indusse
Per sottrarsi ai strapazzi ed alle busse.
Qui finirla convien, dicea fra se,
Con mio marito... e come?... Avvelenarlo...
Sibben, avveleniamolo... e con che?
L'arte io non ho d'avvelenar. Strozzarlo...
Strozzar?... sì ... ma... bel bel... s'ei strozza me?
Tutto ciò a dirlo è facil più che a farlo.
Oibò... io non son buona ammazzatrice,
E ammazzare il suo prossimo non lice.
Dunque che far?... fuggir... pensiamci un po'...
Riflettiamoci pria... sola?... o con chi?
Sola!... una giovin sola!... e dove andrò?...
Pel mondo a pitoccar? schiatto in tre dì.
Con qualchedun? qualcun trovar si può,
Ma dopo quell'affar mi pianta lì.
Ed io fra boschi e in mezzo a una campagna...
Orso e lupo esce fuor, paff e mi magna.
Ma zitto... un bel pensiero in fantasia
Viemmi... così non fuggo e non ammazzo.
Pazza mi fingerò. Comunque sia,
Si scusa un savio no, si scusa un pazzo.
Crederà Raffael che per pazzia
Oprai, parlai, nè mi farà strapazzo.
L'idea le piacque e fra di se ne rise,
E di fingersi pazza alfin decise.
A proposito più non rispondea,
Stavasi astratta sempre, e alle proposte
O mutola restavasi o rendea
Strampalate ridicole risposte.
Talor stralunatissimi torcea
Gli occhi rapidamente in parti opposte;
O immobil tiene la pupilla e fitta
A un coppo, a un travicello, alla soffitta.
In pubblico talor veder si fece
Con gran ciglioni e con palpebre nere,
397
O in volto di carbon tinta o di pece,
O con basette come un granatiere.
All'orecchie talor di borchie in vece
Con nastri rossi sospendea due pere,
O con coccole il crin s'acconcia, e assesta
Prugne e carciofoletti in sulla testa.
Estasi nella notte e visioni
Sovente avea che raccontava il giorno.
Cristoforo talor senza calzoni
Veduto avea venire a farle scorno.
Erale apparsa in altre occasioni
Sant'Orsola arrabbiata, e a lei d'intorno
A faccia bassa vergognose e pavide
Vergini undici mila tutte gravide.
Talor seco fa rissa o strido innalza
Come punta da colpo di stiletto.
A un tratto poi scroscia in gran risa o sbalza
Con impeto talor fuori di letto,
Ed in camicia e rabbuffata e scalza
Va con un cristo a predicar sul tetto.
La fante appresso correle: una tegola
Stacca ella e grida: scostati, pettegola.
Nei primi dì stette il marito in forse
Se ver ciò fosse o finto, ed abbastanza
A quel suo pazzeggiar fede non porse;
Ma ognor la stessa in vaneggiar costanza
Quando poi vide, e ogni dì più la scorse
Passar di stravaganza in stravaganza,
Sorpreso e sbigottito in pria rimase,
E della cosa appien si persuase.
Allor compassion per lei gli prese,
E ben voluto avria porgerle aita.
La nuova intanto per tutto il paese
Si sparse che la Rosa er'impazzita.
Ciascun sul caso a ragionare imprese,
E concludea la gente impietosita,
Ch'ella ridotta a così mal partito
Era per colpa del brutal marito.
Dicea che a tempo e loco in opra messi
I dolci modi ognor sono i migliori;
Poichè tuttor si biasiman gli eccessi,
E il vizio mai non trova approvatori;
Cangiando poi tenor, se quegli istessi
Che il vizio pria seguir soffron malori,
Se nell'angustia son, s'obblian sovente
I vizi, e allor compassion si sente.
398
Di Rosa la pazzia molto facea
In tutta la città chiasso e romore.
Ciascun di lei parlava e compiangea
Giovin sì allegra e di sì buon umore,
Che non altro alla fin difetto avea
Che forse un pochettin troppo buon core,
Ed al piacer propenso e sensuale
Stimolo, se si vuol, ma non venale;
E che una colpa tal, seppur è colpa,
Non è di volontà, ma di natura
Che compatir bisogna; e lei discolpa
Che non era cattiva creatura,
Ed il marito amaramente incolpa
Che ha cagionato a lei cotal sventura
Che in fondo le sensibili persone
Naturalmente per lo più son buone.
Era curato della lor parrocchia
Prete che si chiamò don Gabriello.
Di Rosa amica era la sua sirocchia,
E grand'amico er' ei di Raffaello.
Sempre, se gia da lor, qualche pastocchia
Avea per divertir e questa e quello,
Essendo d'un umor buffone assai,
Sempre inimico capital de' guai.
Un terribile avea vocion da toro;
E trovandosi in qualche desinare
Canto intonava, e i commensali in coro
Ripetendo in cadenza insiem cantare
Doveano il ritornel; ma niun di loro
Nè canzon comprendea nè intercalare;
Perchè in francese ei di cantar credea,
E di francese non ve n'era idea.
E perchè spesso a far delle bevute
Con Rosa e seco a desinar restava,
Gotti votando alla di lei salute,
E qualche volta ancor la confessava,
Ei conoscevala ictus et in cute.
E Raffael, pria che impazzasse, amava
Veder la penitente al confessore
La palma contrastar di bevitore.
Dunque al parroco a cui, come ho già detto,
Il caratter di Rosa assai noto era
Per diverse ragion venne il sospetto
Che la pazzia di lei non fosse vera,
Ma ripiego da cui un buon effetto
399
Per calmar del marito il cruccio spera.
E fattavi più seria attenzione
Più confermossi in tal persuasione.
Pertanto un giorno trattala in disparte
Sentimi, le dicea, parlami chiaro,
Le finzion però lasciam da parte;
Finger di più potria costarti caro.
Tu non sei pazza, no; ma il fingi ad arte.
Tenne ella fermo, e dopo un riso amaro
Di nuovo nelle sue pazzie proruppe;
Ma qui per man la prese e l'interruppe.
Sostener folle impegno or non conviene,
Placidamente soggiungea, tu sai
Che un galantuomo io sono; e ti vo' bene.
Dal far così la pazza come fai
Non sol vantaggio alcun non te ne viene,
Ma venirtene può del male assai;
Poichè alla fin ti chiuderan tra i pazzi,
Ove tu soffrirai più assai strapazzi.
Rosa a quei detti immobil resta e tace;
Poscia bel bel si rasserena, e i suoi
Modi usati riprende e la verace
Fisonomia di volto, e disse poi
Disponete di me come vi piace;
Tutto farò quel che volete voi.
E ben mostrar quanto ciò il cor le tocchi
Le lacrime che apparverle sugli occhi.
Ripiglia allor don Gabriel: la matta,
Come hai fatto finor, non dei far più;
L'ossessa dei tu far. Come si tratta
So ben con Asmodeo, con Belzebù.
Qualunque cosa avrai tu detta o fatta,
Fatta e detta il demon l'avrà, non tu.
Tu non sai su tai punti, figlia mia,
Quanto credulo e sciocco il mondo sia.
Io pria t'instruirò delle parole
Con cui risponder devi agli scongiuri.
Quelle ripeter sempre, quelle sole
Uopo è che in capo rumini e maturi,
Ed effetti, il vedrai, come si vuole,
Seguiran costantissimi e sicuri,
E in pochi giorni il diavolo andrà via,
E tu ritornerai, come eri pria.
Rosa a cotai suggestion s'arrese,
Ed il curato, dopo un tal proemio
400
La man forte stringendole, riprese
Sai che dovuto a ogni fatica è un premio,
Ma non sai quanto ardor per te m'accese,
Nè son di Vener nè di Bacco astemio,
Ed in confessional qualor tu vieni,
D'elaterio mi sento i vasi pieni.
La compiacenza e il rider che fec'ella
La ratifica fu del concordato.
Tu ridi, quei dicea, ridi, monella,
Che non sai quanto un povero curato
Le viscere si rode e s'arrovella,
Allorchè muso a muso e fiato a fiato
Bella ragazza nel confessionario
Gli racconta qualche atto fornicario.
Padre... ho fatto... Dì pur - con giovinetto?
Padre sì - Al bujo? - Padre sì - In piè? Padre sì - E nuda? - Padre sì - E in letto?Padre sì - Quell'affar spesso si fe'? Padre sì - Ci provasti oguor diletto? Padre sì - E sempre, padre sì. Fra me
Dico allor, e digiun deggio star lì
A sentir quell'eterno padre sì!
Rosa ch'era d'umor bizzarra e amena
Ai discorsi ridea del parrocchiano,
E la diverte quel cangiar di scena;
Che la diverte tutto ciò che è strano.
E di pazza il mestier dimesso appena,
A quel di demoniaca diè mano,
E in premio il confessor che la dirige
Il guiderdon voluttuoso esige.
Cotal condizion dunque premessa,
E ottenutone dalla penitente
Il consenso e l'implicita promessa,
A sparger cominciò pubblicamente,
Che Rosa pazza non è già, ma ossessa,
Ch'ei più d'una ne avea prova evidente,
E che in gener d'ossessi e indemoniati
Egli era il patriarca de' curati.
Colui per meglio incominciar l'affare
In piedi in piedi del venereo gioco
Volle il saggio gustar preliminare,
E con tali intermezzi a poco a poco
Delle risposte la instruì che dare
Debb'ella agli scongiuri a tempo e loco,
E così cominciare in faccia al mondo
Della commedia sua l'atto secondo.
401
Le penitenti in quella vista pone
Il confessar sovente, e non in vano,
Propria a ottenere il fin ch'ei si propone,
Come fa co' fantocci il cerretano.
Perciò di dir, d'oprar la lezione
Dava a Rosa ogni giorno il parrocchiano,
Ed ella divenia sempre più brava,
E di se stessa il precettor pagava.
Nè sol le demoniache e le ossesse
Diriger suol del confessor la cura,
Ma moderne sibille e profetesse
Formar sovente ed inspirar procura,
E alle monache nostre e alle badesse
Portenti attribuisce, e l'impostura
Trionfa ovunque e ognor, nè gli Spagnuoli
Barrienti nè le d'Agreda son soli.(27)
Nei servigi di Venere e di Bacco
Sempre alle prese colla penitente,
Nè bevitor, nè operator mai fiacco,
Ed esorcista e direttor valente
Don Gabriel pigro non fu nè stracco
A far di lei proselita eccellente,
Che delle lezion che ricevea
Uso opportuno in pubblico facea.
Atto o scorcio talor straordinario
Facea, talor citava ad alta voce
Passo della Scrittura o del breviario.
Se vedea far il segno della croce,
Se udia dire il santissimo rosario,
Spaventata di là foggia veloce;
Talchè se pazza pria l'avean creduta,
Per ossessa or da tutti era tenuta.
Un giorno dopo pranzo a Raffaello
Per l'ossessa sua moglie afflitto e gramo,
Gran tempo egli è, dicea don Gabriello,
Che buoni amici e confidenti siamo,
E io sempre ti trattai come fratello;
E di più il patrocinio e il nome abbiamo
Dal nascer nostro dei due primi arcangioli,
In paragon di cui che vaglion gli angioli?
Necessario è fra noi che per tua moglie
Dello scongiuro il grand'affar s'intavoli,
Che ogni poter sui corpi al diavol toglie.
(27)
Si allude all'opera di teologia mistica e ascetica attribuita per molto tempo a suor Maria d'Agreda, e che costa ora essere
del suo confessore padre Barriento.
402
Conosco, amico, io ben conosco i diavoli;
Fin d'allor che fanciullo in sulle soglie
Del santuario il piè posi, affrontavoli;
Nè dopo Cristo e l'acqua santa v'è
Chi temuto da lor sia più di me.
Tu sai che un tempo fa Rosa non ebbe
Di me suggezion, sai ben che insieme
Sovente qualche bicchierin si bebbe;
E or quando vede me, fugge e mi teme.
Al demon del sacro unto il fiuto increbbe,
Qualor la man sacerdotal lo preme;
Rosa però, se man pongo sovr'ella,
Mansueta divien come un'agnella.
Dunque doman che è giorno di domenica,
Quando il tocco udirai della gran messa,
In compagnia della mia suora Menica
Tu stesso in duomo menerai l'ossessa;
E se avvien che prorompa in qualche oscenica
Stravaganza il demon che alloggia in essa,
Esco fuori, le faccio un sillogismo,
E le scarico addosso un esorcismo.
Allor maravigliose ascolterai
Tua moglie in lingue ignote e pellegrine
Cose sparar che non udisti mai,
E maravigliosissime dottrine
Tirerà fuor, che tu ne stupirai;
Nè tali nozion son femminine,
Nè da ciò che dirà dei giudicarla,
Per la sua bocca il diavol è che parla.
Ma non ti conturbar, che da costei
Sarà ben tosto il diavolo bandito,
E nel possesso corporal di lei
Tra pochi dì sarà ristabilito
Per la virtù degli esorcismi miei
Il natural legittimo marito.
Quei, gettandogli allor le braccia al collo,
Quasi per gratitudin soffocollo.
Approvata così da quel buon uomo
Del parrocchian la carità pelosa.
Il dì seguente alle undici ore in duomo
Menica e Raffael menar la Rosa,
Allor che demoniaco sintomo
Manifestossi nell'ossessa sposa,
Poichè andava colà di mala voglia,
Nè entrar volea nella sacrata soglia.
403
A forza Raffael dentro tirolla,
Ond'ella ad innalzar grida e clamori
Allor si mise, e intorno a lei la folla
S'adunò de' divoti osservatori.
Di sacristia far strepito ascoltolla,
Conforme al concertato, ed uscì fuori
Con cotta e stola indosso il parrocchiano
E il ritual degli esorcismi in mano.
Chierico appresso a lui per accessorio
Colla piletta vien dell'acqua santa,
Ed entrovi la palma e l'aspersorio.
Grave precede il parrocchiano e canta
Del davidico salmo il responsorio
Che il diavolo dai corpi evoca e schianta,
Canta: asperges me, Domine, et mundabor,
E il chierico risponde: et dealbabor.
Come curato e chierico venire
Con tutti gli esorcistici strumenti
L'energumena vide, uno squittire,
Un urlo tronco, uno stridor di denti,
Un lamentevol fremito fe' udire,
Qual chi acuto dolor soffre o tormenti,
O come schiavo suol che l'aguzzino
Vede col knout in pugno a se vicino.
Allor incominciò don Gabriello
O chiunque tu sei spirito immondo,
Dalla parte di Dio a te favello.
Tu ch'entro i corpi umani il vagabondo
Vai facendo, o infernal spirto rubello,
Di tue scelleratezze empiendo il mondo,
Dalla parte di Dio dimmi il tuo nome,
Perchè costì tu entrasti e quando, e come?
Eh che asin di curato! e ciò tu chiedi
Sbeffando l'energumena risponde,
E ognor non m'hai tu visto, e or non mi vedi?
Io le tue ben conosco opere immonde...
Taci, ripiglia quei, taci; tu credi
D'eluder con bugiarde, invereconde
Accuse i sacri ordini miei così?
E rispondea l'indemoniata: oui.
E il prete: parlò gallico, intendeste?
In italo rispondi alla dimanda,
Te lo comanda quei che le tempeste
Eccita in aria e in mar, quei che a noi manda
Il terremoto e il fulmine, la peste,
Fame, febbri, dolor, quei tel comanda
404
Che disse fiat lux et fatta est lux.
E la pseudenergumena: nix nux.
Udiste, figli miei? parla tedesco.
Perchè a dritto così frulli e a riverso?
Vuol colui che tu parli in romanesco,
Che te nel cupo baratro ha sommerso,
Che aspide e basilisco al gigantesco
Piè sottopose, quei che l'universo
Giudicherà per ignem et per aquam,
Intendi? e l'energumena: nequaquam.
E il prete a Raffael che a lui vicino
Sta dialogo ad udir sì strano e sconcio
Senti, senti, dicea, parla latino,
Ma non ti dubitar, che or te l'acconcio.
E l'aspersorio inzuppa entro il bacino
E lei ne asperge che facendo il broncio
Vuoi, disse, saper dunque il nome mio?
Non tormentarmi, Belfegor son io.
Ah ah! sei quel birbon di Belfegorre,
Riprese il prete, ah! Belfegor tu sei
Che aitò Nembrotto a edificar la torre,
Agli Assiri già noto ed ai Caldei,
Per lo cui culto il deretano esporre
Solea, come al più infame degli dei,
E far (se il ver narrò l'Israelita)
Le fede oblazioni il Moabita.(28)
Ma dì, prosiegue il parroco, sei solo,
O altri costì compagni hai tu con te?
E quegli: io capo son, meco ho uno stuolo
D'altri centrenta mila ottanta tre Partes adversæ exite - Exire nolo In nome di colui ch'è quel ch'egli è
Tu con qualunque altro infernal fantasma
Esci, empio Belfegor, da quel suo plasma.(29)
E poi con Raffael così s'espresse
Quest'affar uopo è alfin che si conchiuda
Conforme all'evangeliche promesse.
Vinse il leon della tribù dì Giuda,
Ed esultò la radica di Gesse.
E in questo dir sopra la carne nuda
Del sen scoperto tutta la piletta
Rovesciolle dell'acqua benedetta.
(28)
E qui si allude a ciò che rapportano i rabini riguardo all'osceno culto, che i Moabiti rendevano all'idolo Belfegor.
Termine usato dal rituale romano, che può consultarsi per vedervi la rassomiglianza che l'esorcismo ecclesiastico ha col
presente.
(29)
405
In terra allor died'ella un stramazzone,
Come colpita sia da mal caduco,
E terribil facea contorsione
Ebben, sciama, a partir alfin m'induco;
Ma di tre dì chied'io dilazione,
Poi da questo carnal carcere sbuco,
Tre dì ti chiedo in grazia della Rosa,
Tre dì, faccia di can, non son gran cosa.
Voltosi a Raffael: che te ne pare?
Disse il prete: tre dì... tu che ne credi?
Tre dì più o men non guastano l'affare,
Rispose quegli, ebben glie li concedi,
Pover diavolo anch'ei... Lasciamlo stare.
Ed il parroco allor: quel che tu chiedi,
A Belfegor dicea, ti si promette,
Ma la condizion ti ci si mette
Che tu con tutti i soci tuoi non dei
Vagare a tuo talento e spaziarti
Per tutto quanto il corpo di costei,
E non tutte le esterne e interne parti,
Vasi e seni occupar, ma in un di quei
Stringerti col tuo seguito e accorciarti.
E il diavol con rincrescimento immenso.
Alla condizion prestò il consenso.
E come in anatomici apparecchi,
In rivista passar del corpo umano
E forami e veicoli parecchi,
Unghie e dita del piede e della mano,
E la punta del naso e degli orecchi,
E il ventricolo e il dutto falloppiano;.
Nè convenir potean dove si deggia
Raggruppar tutta quella infernal greggia.
Fra lor quel capo diavolo e il curato
Riuscirono alfin d'accomodarsi,
E fu deciso con formal trattato,
Che i demoni per tutto il corpo sparsi,
Il restante del plasma abbandonato,
Nel bellico dovran tutti annicchiarsi,
E che, se ciò nell'attimo non siegua,
Esser s'intenda allor rotta la tregua.
Il prete della croce allor col manico
Tastando punzecchiò tutte le membra
Esternamente di quel plasma organico
Per scoprir scandagliando ove s'assembra
Quella ciurma infernal, nè ver nè panico
Risentimento alcun scorger gli sembra;
406
Ma quando sopra l'ombellico tocca,
Urla, e bave all'ossessa escon di bocca.
Disse al marito poi: ciò è fatto. Hoc posito,
Ficcati in mente ben quel che ti dico:
Prendi la moglie tua, tienla in deposito,
Ma bada per pietà, badaci, amico,
Bada ben di non fare il gran sproposito
Di stuzzicarla mai sull'ombellico;
Saria tutto perduto. E quel balocco
Non temer, rispondea, non glie lo tocco.
E soggiungea, che per bisogno urgente
Di là non lungi ei fatto avrebbe attorno
Breve giretto, e che sarebbe assente
Solo due dì, volendo il terzo giorno
Al secondo scongiuro esser presente.
Con Rosa alla magion poi fe' ritorno,
Seco non giacque, ed il mattino poi
Di là partì per gl'interessi suoi.
Con Rosa allor le due seguenti notti
Fe' le veci di conjuge il curato.
E furo i lor piacer spesso interrotti
Dai discorsi sul lor bell'operato.
istruzioni ei dielle onde prodotti
Effetti fian per l'esito bramato;
Sicchè delusi con felice inganno
Ed il marito e il pubblico saranno.
In mezzo al motteggiare, al sollazzarsi,
La finta ossessa e il parroco impudico
Riser molto sul fatto e sul da farsi,
E su quel demoniaco ombellico,
E su i stranieri motti a tempo sparsi
Fra le risposte e sull'inganno antico.
Tornò il marito il terzo dì, e il buon uomo
La moglie sua menò di nuovo in duomo.
Esce il parroco allor di sacristia
Circondato dal popolo balordo
Coll'acqua santa e colla liturgia,
E a Belfegor rammenta il fatto accordo
Ch'ei debba il terzo giorno andarsen via;
Ma Belfegor incocciasi e fa il sordo;
Onde il curato che perdè la flemma
Mise in opra un terribil strattagemma.
Che chiappin lei due chiericotti incarica,
E che un braccio ciascun le tenga stretto,
Ed ei nella piletta immerge e carica
407
Ed empie d'acqua santa uno schizzetto,
E contro all'ombellico a lei lo scarica;
Sicchè pronto ne ottien compiuto effetto,
E l'umor che la gonna trapassò
Gli ombellicani demoni inondò.
L'ossessa, come da petardo infranta,
Cade e cadendo urlo dal sen sospinse;
Nè spinta da sifon con forza tanta
Mai d'acqua esplosion le fiamme estinse,
Come quello schizzar dell'acqua santa
I demoni fugò, disperse e vinse.
Quasi allor scossa d'alto sonno in piè
Colei levossi e domandò, cos'è?
Corsero tutti ad abbracciar la Rosa,
Poi si congratular con Raffaello,
Che alfin ricuperata avea la sposa;
Ma più assai festeggiar don Gabriello
Ch'esorcistica usò maravigliosa
Virtù contro lo spirito rubello,
E fu pregato dal marito stesso
Di volere a sua moglie assister spesso.
E il pubblico, che ognor sì leggermente
Le idee che occasion offregli adotta,
Parve esser più con lei poscia indulgente,
Nè austero esaminò la sua condotta;
Poichè, se circostanza che recente
Nelli giudizi suoi siasi introdotta
Le ricevute opinion distorna,
Facilmente alle prime idee non torna.
Onde con più cautela e con avere
Qualche riguardo che non ebbe pria,
Continuar col parroco a giacere
Potè, quando il marito andava via,
E riprender le pratiche primiere
Con Alessio a vicenda e con Mattia;
E Raffael, se altri a eccitar nol vada,
Più all'interesse che alla moglie bada.
Or perchè niun di quei che con lei tratta
Dell'altro gelosia risente in core?
Perchè passion per lei nessun contratta
Ebbe altra mai che di lascivo ardore:
E Rosa a vero dir parea più fatta
Concupiscenza ad eccitar che amore;
Onde sfogo cercò ciascun di quei,
Non dilicato sentimento in lei.
408
Morto il marito, ebbi sicuro indizio
Da talun che la vide otto anni fa,
Ch'ella a fare il medesimo esercizio
Seguia, quantunque in avanzata età;
Che si cangia talor pelle e non vizio,
E chi dai primi istanti oppor non sa
Argine al vizio ed a' progressi suoi
Tenterà invan di sradicarli poi.
409
NOVELLA XXXI
DON DIEGO
Quantunque, Donne mie, qualche sofista
Dica, facendo alla virtù gli encomi,
Che in essa sol la nobiltà consista
Senz'altre cartapecore e diplomi;
Pur, se fosse ciò ver, dall'aurea lista
Oh di quanti dovrian cassarsi i nomi,
Che ingombran ampiamente e morti e vivi
I venerati polverosi archivi!
La virtù vera agli astri e al sol somiglia,
Che della luce sua s'adorna e splende,
Nè dell'altrui capriccio o merto è figlia.
E se del ver la giusta idea si prende,
D'animo è nobiltà, non di famiglia,
E sol chi lei possiede illustre rende,
E più degna è di stima e di rispetto,
Che gran cordoni al collo e croci in petto.
Ma siccome composta è di più classi
Dell'ordin social la gerarchia,
In quella guisa che tuoni alti e bassi
Formano musical grata armonia;
Perciò chi sovra altrui per grado stassi
Rendersen degno per virtù dovria,
Nè insuperbir, come facea don Diego,
Di cui la storia d'ascoltar vi prego.
Don Diego Alvagno Idarte y Malaguria,
Marchese della Muela y del Molino,
Era figliuol d'un gentiluom d'Asturia,
Che perdè i genitori ancor bambino;
Onde educato fu con molta incuria
Da un ignorante prete biscaino,
Antico cappellan di dogna Ciana,
Sua vecchia zia, femmina sciocca e vana.
E già adulto non altro appreso avea
Che la giostra del toro ed il fandango;
Leggere appena e scrivere sapea,
Come disconvenevole al suo rango,
E disprezzava ogni anima plebea,
410
Quanto sprezzar si può la feccia e il fango,
E sdegnava di star con uomo a fronte,
Se non era un marchese, un duca, un conte.
Oltre i tempi più oscuri e più remoti
L'origin sua traea quasi ab eterno;
Ma per contar gli avi più illustri e noti
Ei fissava lo stipite paterno
In Alarico re de' Visigoti,
E deduceva l'albero materno
Fin per cinquanta due generazioni
Da Gondebaldo re de' Borgognoni.
Dicea qualunque esser famiglia nuova
Senza una millenaria antichità,
O se non faccia indubitabil prova
D'ottanta quarti almen di nobiltà;
E che nobiltà vera non si trova,
Seppur seco non abbia affinità;
Che nelle vene sue senza magagna
Scorrea il sangue più limpido di Spagna.
Giunto poscia all'età che l'uom s'ammoglia,
Per propagar la chiara sua famiglia
Di maritarsi vennegli la voglia.
Dogna Catalinita unica figlia
Di don Pedro, signor della Sevoglia,
Discendente da' regi di Castiglia,
La prima fu ch'ebbe la bella sorte
D'essergli destinata per consorte.
Ma matrimonio tal non ebbe effetto,
Ch'esaminando l'arbor genealogico
Trovossi un avo d'eresia sospetto,
Come autore di scisma teologico,
Per aver dato d'un salmo a un versetto
Il senso letteral, non tropologico;
Laonde de mandato Inquisitionis
Fu bruciato per modum provisionis.
Poi dogna Marichita Patarata
Dei conti di Pachigno y Mentirola
Fu pur anche proposta e rigettata,
Perchè la sua bisnonna era figliuola
D'un pronipote del re di Granata,
Dovendo una gentil donna spagnuola
Aver fin nella punta dell'orecchia
Il puro sangue di cristiana vecchia.
Perciò don Diego col destin si lagna,
Che tal di nobiltà sia la penuria,
411
Che di conjugal talamo compagna
Degna di lui non la produca Asturia;
Onde cercar risolve in tutta Spagna
Donna che al sangue suo non faccia ingiuria,
E trasmetta per mille e mille lustri
Alla posterità rampolli illustri.
E vestito all'antico uso spagnuolo
Con pennacchio al cappello e abito nero,
Con lunga spada e corto ferrajuolo,
Don Chisciotte novel, con un staffiero
S'accinse al gran viaggio, e preso solo
Per sua divisa avea: mulierem quaero.
E montando una mula catalana,
Scorse ogni regno, ogni provincia ispana.
Nè mai potè trovar donna a suo grado
L'una non era in nobiltà sua pari,
L' altra avea qualche ebreo nel parentado;
Chi li tratti del volto avea volgari,
Non di persona di distinto grado;
Chi le maniere avea familiari,
Nè sostenea la gravità e il sussiego
Degno d'una consorte di don Diego.
Proseguendo pertanto il suo viaggio,
Scartabellar con ogni cura fe'
In qualunque città, terra o villaggio,
Fogli e memorie per saper se v'è
Famiglia di sì antico alto lignaggio
Che rimonti alli tempi di Noè.
Col microscopio poi dell'occhio critico
Di ciascuna facea studio analitico.
E v'era omai pericolo imminente
Che il più bel fior de' cavalier spagnuoli
Peregrinato avesse inutilmente
Per trovar moglie e per aver figliuoli,
E che dovesse un giorno sterilmente
Finir, come le zucche e i citriuoli,
Se non avesse il ciel fatta la grazia
Di sottrarre la Spagna a tal disgrazia.
Era un dì sulla via d'Estremadura
Al passaggio d'un ponte mezzo rotto,
Quando un uomo d'altissima statura
Quasi dal sole abbrostolito e cotto,
Guercio, deforme e magro a dismisura,
Sbucò d'un miserabile casotto,
Lacero tutto e con berretta nera
Che gli Spagnuoli chiamano montera.
412
Portava lunga e rugginosa picca,
Ed era l'esattor della gabella.
Si spaventa la mula, allor la picca
Don Diego al fianco collo spron, ma quella
Sbuffa, scuote la briglia e un salto spicca,
Per cui rovescia il marchesin di sella,
Che nel cader con dolorosa angoscia
Si ruppe il capo e si ammaccò una coscia.
Accorre lo staffier per ajutarlo,
E di soccorso prega in cortesia
Il gabellier che ricusò di farlo,
Se la gabella non pagava pria.
Pagar dunque convenne e contentarlo;
Poi don Diego levar di sulla via,
Che non sostiensi e gran dolor risente,
E si duole e bestemmia nobilmente.
Allor lo sollevarono di peso,
E sopra quella mula malandrina
Che il suo docil costume avea ripreso,
Come suol farsi a un sacco di farina,
A traverso lo posero disteso,
E lo portano a un'osteria vicina,
Ch'era nella campagna in sul passaggio
Non distante da un piccolo villaggio.
Il diligente accorto albergatore,
Che sapea molto bene il suo mestiero,
Fin in strada calò per far onore
E dar più pronto ajuto al forestiero.
Assegnogli la camera migliore
E accanto uno stanzin per lo staffiero;
Poi lo spogliaro, e tosto che fu in letto,
La figlia dell'ostier portò il brodetto.
Il nome di costei era Isabella,
Ma tutti la dicean Descaradiglia,
Scaltra, ardita, brunetta un po', ma bella,
Capei morati avea, morate ciglia,
Breve e rotondo il piè, la gamba snella,
Svelta e fatta di vita a maraviglia,
Occhi neri, vivaci e rilucenti,
Parean cinabro i labbri, avorio i denti.
Era in purpurea rezza il crin ristretto,
Fiocco argenteo sugli omeri scendea,
Candido il casacchino e il guarnelletto,
E granati alle braccia e al collo avea.
Parte il busto gentil scopria del petto,
413
Grembiul di nero taffettà cingea,
E la scarpetta di color celeste
La falda accompagnava della veste.
Sul chitarrin con molta leggiadria
Seghediglie cantava all'uso ibero,
E sonava il cavaglio e la follia,
E con quel suo far gajo e lusinghiero
A se facea profitto e all'osteria,
Trattenendo e allettando il forestiero;
E quando vi trovava il suo interesse,
Non si sa ch'ella mai scrupoli avesse.
Perciò dal padre (e ne avea ben ragione)
L'anima del negozio era creduta,
Quantunque spesso per di lei cagione
Disputa col curato avesse avuta,
Ch'era un settuagenario bacchettone;
Ma Isabella protetta e sostenuta
Era dal giovin podestà del loco,
E il saperne il motivo importa poco.
Il chirurgo, fratel del podestà,
Udendo il caso, corse all'osteria.
Costui dopo esser stato in Alcalà
Dieci anni a studiar teologia
Credette aver assai d'abilità
Per fare il professor di chirurgia.
Quattro frasi anatomiche imparò,
E in due mesi chirurgo diventò.
Quand'ei del marchesin seppe il disastro,
Si presentò, com'io diceva, ad esso;
Alla ferita gli applicò un impiastro
D'erbe che a caso ritrovò là presso,
E il capo gli fasciò con un bel nastro;
Poi gli ordinò di far bagnuoli spesso
In sulla coscia, ov'è più gonfia e duole,
E siegua poi quel che seguir ne vuole.
E benchè al visitar della frattura
Il primo dì la dichiarò mortale
Per farsi poscia onor di quella cura,
Per buona sorte ella non era tale;
E quell'impiastro messo alla ventura
Se non gli fece ben, non gli fe' male;
E ognora il male divenia minore
Senza merito alcun del professore.
Descaradiglia, finchè in letto stette
Il cavaliere addolorato ed egro,
414
Spesso lo divertia con barzellette,
E procurava di tenerlo allegro
E talor con lusinghe e smorfiette
Fiso il guardava con quell'occhio negro;
E vedendol nel mondo ancor novizio,
Per adescarlo usava ogni artifizio.
Sulla sponda talor siede del letto
Liberamente e seco scherza e ciancia;
Gentilmente talor col fazzoletto
Rasciugando gli va l'umida guancia;
Talor gli tasta il polso e fa un ghignetto
Dicendo: preparatemi la mancia,
Che in pochi giorni tornerete sano,
E la furbetta gli stringea la mano.
Egli a sì franche e libere maniere
Pria gravità e contegno oppor volea;
Ma a poco a poco presevi piacere,
E molto senza lei star non potea;
E per poterla spesso rivedere
Trovar pronto pretesto ognor sapea;
E in pochi giorni il povero merlotto
Di lei divenne innamorato cotto.
Ella ben se ne avvide, e tosto il rese
Mansueto ed uman come un agnello,
Ed un tuon sopra lui d'impero prese;
Ond'ei che fu sì altier non parea quello.
E per farvi la cosa più palese,
Su di ciò vo' narrarvi un tratto bello.
Sonami, un dì le disse il marchesino,
Sonami un po', ragazza, il chitarrino.
Ora cosa vuol dire, signor mio,
Questo sonami un po'? disse Isabella.
Qual jus avete su di me? Son io
Forse a' vostri piacer pagata ancella?
Io non son men di voi, valgami Dio,
E se nobil voi siete, io sono bella.
La nobiltade è un titolo ideale,
E la beltà è visibile e reale.
Vorreste a bella e amabile fanciulla
Opporre i vostri rancidi antenati,
Che non esiston più, nè importa nulla
Se al mondo un tempo sien stati o non stati?
In somma io suono sol, quando mi frulla,
E per soggetti men di voi sguajati,
E sol pregata io suono. E allor don Diego,
Sì, soggiungeva, anima mia, ti prego.
415
Or per umiliar tanta insolenza,
Ella riprese in autorevol tuono,
Baciate questa man per penitenza,
E poscia accorderovvi il canto e il suono.
Baciandol'ei la man con riverenza,
Chiese alla puttanella umil perdono.
E l'oste che vedea da un bucolino,
Esclamò: è pur minchione il marchesino!
Allor colei partissi, e fe' ritorno
Lieve toccando i vari tuon per via
Del chitarrin d'eburnei fregi adorno.
Poi con rapida man scorrendo gia
Le corde, onde il vibrato aere intorno
Spandea piacevolissima armonia,
E il suon con arte accompagnando al canto,
Sciolse la lingua in questa guisa intanto.
Sulla terra, nel ciel, nel mar profondo,
Degno è il nume d'amor de' primi onori.
Se per antichità, nacque col mondo;
Se per domino, egli è il padron de' cori,
Se pel piacere, il viver fa giocondo;
Se per valor, doma leoni e tori:
De' superbi confonde Amor l'orgoglio,
Amor agguaglia le capanne al soglio.
Mentre così cantava, al cavaliero
Una soavità scendea nel core,
Che ammollia quel superbo animo altero
Co' dolci incanti d'armonia e d'amore.
Alfin con un sorriso lusinghiero
Colei la man gli strinse, e un nuovo ardore,
Da lui partendo, gli lasciò nel petto
Che misto è di tormento e di diletto.
Il caro oggetto amor gli rimbellisce,
E in guisa tal la fantasia gli scalda,
Che ogni suo pregio esalta ed ingrandisce.
Intanto si rammargina e si salda
La piaga, ed il dolor diminuisce,
E la coscia divien più ferma e salda;
Ma la piaga incurabile del core
Di giorno in giorno divenia maggiore.
In questo mentre il podestà, che giva
A far notturne visite a Isabella,
Ebbe indizio o sia prova negativa
Ch'ella cessava omai d'esser zitella,
Io voglio dir zitella putativa;
416
E di fecondità conobbe in ella
Non equivoci segni; e in casi tai
D'interesse e d'onor rischiava assai.
E per uscir d'impaccio un bel ripiego,
Che poscia riuscigli a maraviglia,
Immaginò per impegnar don Diego
Quanto prima a sposar Descaradiglia;
Nè fu d'uopo impiegar industria o priego
Per trarre al suo pensier l'oste e la figlia,
E tutti e tre operaron di concerto
Per trappolare il giovine inesperto.
Per vanità di divenir marchesa
Ella co' scaltri allettamenti sui
Lusingava don Diego, ed avea resa
Più forte ognor la passion di lui
Che la natural forza avea ripresa,
Ed amor solo è la cagion per cui
Più a lungo indugia omai nell'osteria,
E ogni altra cura, ogni altro impegno obblia.
Pelaes era seco assiduamente
(Che questo il nome fu battesimale
Dello staffiero) e il conversar frequente
Reso un dell'altro avea fratel carnale;
E siccome fra lor facean sovente
Qualche discorso confidenziale,
Con Pelaes don Diego in tal maniera
Sopra di ciò moralizzò una sera.
Vedi per quali insoliti accidenti
Strane cose il destin talor combina,
Che persone fra lor sì differenti
Per nascita e per grado ravvicina.
Io che sono il più nobil de' viventi
Or teco, umano insetto e uom di dozzina,
Familiarmente parlo, e conversiamo,
Come fossimo al secolo di Adamo.
Allor Pelaes con faccia turbata
La mano al fianco in gravità si pose
Nella parte più viva e dilicata
Voi mi pungeste, o cavalier, rispose.
A qualunque alma nobilmente nata
Don Pelaes non cede, e se le cose
Saper poteste, come in fatti sono,
Sicuro son che cangereste tuono.
Quantunque, signor mio, voi mi vediate
Mal in arnese e in qualità di servo
417
E ricoperto di livrea, sappiate
Che dentro le mie vene il fior conservo
Della più generosa nobiltate;
E sebben su di ciò silenzio osservo,
Pure in riguardo di vossignoria
Paleserò l'illustre origin mia.
Per linea retta discender mi glorio
Da Pelagio de' Mori il vincitore;
Perciò il bisnonno mio, com'è notorio,
Di chiamarsi Pelosio ebbe l'onore.
Mio nonno poscia si chiamò Pelorio,
Pelagatos chiamassi il genitore,
Io Pelaes m'appello, e se avrò un figlio,
Voto fo a Cristo, il chiamerò Peliglio.
E se ricchezze a me non ha fornito
Pari alla nobiltà sorte nemica,
Che don Pelaes mai siasi avvilito
In volgari mestier non vo' si dica;
Perciò sempre da me fu preferito
Il nobil ozio alla plebea fatica;
Che dee più tosto un gentiluom mio pare
Nobilmente servir che lavorare.
Giacchè del fato l'ingiustizia enorme
Al bisogno comun soggetta il nobile,
Sol per necessità quest'uniforme
Vesto, non per bassezza o genio ignobile:
Però mia nobiltà per ora dorme;
Ma se avverrà che l'incostante e mobile
fortuna un dì ringalluzzir mi lassi,
La nobilezza mia risveglierassi.
Al nome de' magnifici ascendenti
Di Pelaes stupì, poi presentogli
Con dignità la destra, e in tali accenti
Amicamente il cavalier parlogli:
Riconosconsi a questi sentimenti
D'illustre pianta i nobili germogli.
Se di Pelagio ancor non rispettai
Il sangue in te, scusa ti chiedo omai.
Or poichè lo splendor della tua razza
Degno ti fa dell'amicizia mia,
Vo' svelarti un affar che m'imbarazza,
Che svelar non vorrei a chicchessia.
Vedi tu quest'amabile ragazza
Che fa sì ben gli onor dell'osteria?
Mi s'è per guisa tal fitta nel cranio,
Che a lei sol penso e per lei peno e smanio.
418
E se non fosse che fra me e lei
Infinito intervallo si frappone,
Forse... ma cibo io sia de' scarabei,
E m'arrostisca vivo il solleone,
Pria che faccia un tal torto agli avi miei,
Immemore di mia condizione,
E del mio sangue la sostanza pura
Si mischi mai con femminetta oscura.
O Alarico, re de' Visigoti,
O Gondebaldo, re de' Borgognoni,
Se il guardo ai vostri nobili nipoti
Volgete dai celesti alti balconi,
Scusate questi involontari moti
Cui son soggetti anche i più gran campioni,
E a ricercar delle osterie gli annali
Pieni si troverian di casi tali.
E acciò la scusa mia vi sembri buona,
Gettate un'occhiatina ad Isabella,
E osservatene tutta la persona.
Che grembiul! che scarpetta! che gonnella!
Oh come balla! oh come canta e suona!
Come cammina, oh Dio! come favella!
Eppur ancor la mia virtù contrasta:
Io so ch'io son don Diego e tanto basta.
No, Pelaes riprese, in questo poi
Cotanto scrupoloso io non sarei:
Su punto tal non accordiam fra noi.
Se il sangue vostro si trasmette in lei,
Il sangue suo non si trasmette in voi;
Onde secondo li principi miei
Vedete che, qualora il caso esista,
Voi nulla vi perdete, ella vi acquista.
E che diranno i posteri? seguia
Il marchesino a ragionar. Ma l'oste,
Le cose avendo accortamente pria
Egli e la figlia ad uopo tal disposte,
Allor la cena ad apportar venia,
E troncò le lor repliche e risposte,
Cui domandò don Diego: ov'è Isabella
Oggi perchè veniste voi, non ella?
Con voi che siete il fior de' cavalieri,
Con voi, rispose l'oste, io le accordai
Libertà di trattar ben volentieri,
Perchè da voi non ci verranno guai;
Ma in oggi essendovi altri forestieri,
419
Della camera sua non esce mai.
Se il perchè ne sapeste, mio padrone,
Mi direste: per Dio, tu t'hai ragione.
Il marchesin che s'interessa a ciò
Che puote risguardar Descaradiglia
Di svelargli il mister l'oste pregò,
E a ritirarsi lo staffier consiglia;
E poichè lo staffier si ritirò;
Un arcano oggi voi, l'oste ripiglia,
Unicamente voi da me saprete,
E perchè? perchè voi siete chi siete.
Vedete, signor mio, questa zitella
Chi sia voi non sapete: ebben stupite.
Ella non è, come credete, ancella,
(Ma per amor del ciel non lo ridite)
Ella figlia non m'è, non m'è sorella;
Ella (per carità non mi tradite)
Ella (ma spero non direte nulla)
Ella è una nobilissima fanciulla.
Del marescial Narsete ella è un rampollo,
Che distrusse in Italia il regno goto.
Il greco imperator disgraziollo
Per brighe femminil, siccome è noto.
Poichè dall'auge suo diede il tracollo,
Povero visse, vagabondo, ignoto;
Onde per poter vivere e mangiare
A cantare si mise ed a sonare.
E perchè in tal mestier riuscì assai bene,
Da lui ne fu la sua progenie istrutta
Che si sparse pel mondo e che sostiene
La gloria di Narsete; poichè tutta
La eunuca genia da lui proviene
E benchè opinion siasi introdutta,
Che gli eunuchi non possano aver prole,
Calunnia è sol di chi avvilir li vuole.
Dicon che vive ancor, se non fo sbagli,
Del gran Narsete un qualche discendente
Dentro gl'impenetrabili serragli
Dei gelosi tiranni d'oriente,
Che credono a cagion di certi tagli
Che affatto questa sia razza impotente,
E li pongono in guardia alle sultane
E alle belle Circasse e Giorgiane.
Or per questa ragion Descaradiglia
(E la ragione è convincente e buona)
420
Esercita il mestier della famiglia
E, come voi sapete, e canta e suona.
Dunque farvi non dee gran maraviglia,
S'ella studia celar la sua persona;
E voi stesso saputo ora nè poi
Mai l'avreste, se voi non foste voi.
Poichè, siccome il chiaro sangue in essa
Scorre del greco distruttor dei Goti
Che ha la sua stirpe insino a noi trasmessa,
Se li natali suoi fosser qui noti
Dove gli abitator son del l'istessa
Gotica nazione i pronipoti,
Come nemica la riguarderebbero,
E chi sa, padron mio, che le farebbero.
Ed oh una volta il ciel propizio a noi
Faccia che qualche luminar di Spagna,
Come sareste esempligrazia voi,
L'eccelsa intraprendendo opera magna,
Agli avi di costei concili i suoi,
Prendendo lei per conjugal compagna!
E che s'uniscan ogni dì fo preci
I posteri de' Goti a quei de' Greci.
Faran dieci anni il giorno di natale
Che il di lei padre, ch'era un Antigoto,
Questa figlia e sua erede universale
Lasciommi; perchè, essendo un uom divoto,
Fe' voto di morir all'ospedale,
E morì all'ospedale e sciolse il voto;
E nel partir raccomandommi assai
Che la sua origin non scoprissi mai.
E autentici e legali documenti
In presenza mi diè de' testimoni;
Poichè ne' casi e ne' bisogni urgenti
E nelle più importanti occasioni
Di tutto ciò potessi ai discredenti
Indubitate addur piove e ragioni,
E in forma tal giustificar la razza
Di questa nobilissima ragazza.
Prima però di confidarsi meco
A lui chiaro provar fu necessario,
Che ancor io discendea dal sangue greco,
Cioè dal cucinier di Belisario;
Che, ridotto il padron mendico e cieco,
Ei venne in Spagna a far il missionario.
Qui già vecchio ammogliossi e, come dico,
Egli è della mia schiatta il ceppo antico.
421
E acciò dubbio non sia che in tutto o in parte
Io v'esageri ciò che avete udito,
In questo punto a prender vo' le carte,
E me ne torno a voi lesto e spedito.
E in questo dir gli fa mi inchino e parte,
E lasciò il cavaliere isbalordito,
La nobil stirpe udendo e la famiglia
Della diletta sua Descaradiglia,
L'oste di nuovo intanto a lui si rese
In mezzo a due garzon dell'osteria
Che in man teneano due lucerne accese;
Con due gran cartapecore ei venia
Che avanti a se tenea spiegate e stese,
L'una era l'arbor di genealogia,
E l'altra consisteva in attestati
Di dodici notai matricolati.
Si pose in atto serio, e gravemente
La genealogia da lui fu letta,
E il nome in proferir d'ogni ascendente
Tutti e tre si cavavan la berretta,
E un inchino facean profondamente;
E con quella medesima etichetta
Lesse quei che poc'anzi vi accennai
Attestati di dodici notai.
E i garzon che facean da testimoni
In rito mozzarabico giurarono:
Postisi a testa nuda in ginocchioni
Le sacre cartapecore toccarono;
Tre dita intinser poi ne' lucernoni,
E verso la soffitta indi le alzarono;
E segnandosi al fin la fronte e il petto
Giuro e approvo, dicean, ciò che s'è detto.
Don Diego che tenea gli orecchi tesi
E gli occhi fissi a quella liturgia
Inclito albergator, tutto compresi,
Lasciami or, disse, colla pace mia.
E l'oste allor co' lucernoni accesi
In mezzo ai due garzon se ne andò via;
E, lui partito, l'ignorante e sciocco
Marchesino restò come un allocco.
E fattosi venir poi lo staffiere,
Dissegli: un grande arcano aprirti io voglio;
Isabella non è figlia d'ostiere,
Del marescial Narsete ella è un germoglio,
E ben quelle sue libere maniere
422
Mostravamo e quel suo nobile orgoglio.
S'ella nobil non fosse, io non avrei
Provato mai propension per lei.
Or odi il gran pensier che volgo in mente;
Vo' che l'alta alleanza invan tentata
Da tanti eroi famosi anticamente
Su salda base sia da me fondata.
Io son de' regi goti il discendente,
Ella dal greco eccelso sangue è nata
Or s'io m'unisco in matrimonio seco,
Unirò il sangue goto al sangue greco.
Ed oh! quanta nel ciel sarà letizia
Fra i campion greci ed i campioni goti,
Quando avran la faustissima notizia
Che fra i lor rispettabili nipoti
Si sia stretta insolubile amicizia;
E i pubblici adempiendo ardenti voti,
Deposte alfin l'inimicizie antiche,
L'emule nazion si fero amiche.
Pelaes colle ciglia stupefatte
Poffareddio! sclamò, che vaste idee!
Col sangue avito e col materno latte
La nobiltà di tai pensier si bee.
Per l'alma mia, no, che d'idee sì fatte
Non son capaci l'anime plebee.
Viva voi, viva Spagna, e viva Asturia,
E viva la famiglia Malaguria.
La gloria vostra è sopra un piè sì saldo,
Che i tempi mai non la potranno abbattere.
Su, don Diego, riprese, ora ch'è caldo,
Fa d'uopo a tutta forza il chiodo battere.
Vo' che tu sii di questa pace araldo;
Del titol ti rivesto e del carattere
E di ministro plenipotenziario
E d'inviato mio straordinario.
Or vanne, e come tal questa donzella
Chiedi in sposa in mio nome all'oste, e poi
Portati alla gentil sposa novella,
E colla dignità maggior che puoi
Arringala così: degna Isabella,
Un cavalier, germe de' goti eroi,
Brama d'unirsi in matrimonio teco,
Eccelso germe del gran duce greco.
Ed esponile poi le dignità,
Titoli, feudi, onor, nome e casata.
423
Il così instrutto ambasciador sen va,
Ed espone la gemina ambasciata,
E senza rincontrar difficoltà
Fu la dimanda sua tosto accordata;
E il matrimonio poi fu stipulato,
Presente l'oste, il podestà e il curato.
E di ciò tutti e tre contenti furo
L'oste, perchè da lei ebbe promessa
Che, arrivata che fosse al regno asturo,
Sovente gli faria qualche rimessa;
Il parroco, perchè era allor sicuro
Di tor di là lo scandalo con essa;
E il podestà, perchè colla ragazza
Facea una spesa esorbitante e pazza.
Quando le nozze poi si celebrarono,
Nell'osteria si diede un gran festino,
Ove molte ragazze si trovarono
E giovinotti del castel vicino.
Gli sposi un bel fandango insiem ballarono,
Poi si posero a cena, e il marchesino
Colla sposa ito in letto all'ore dieci
La pace sigillò fra i Goti e i Greci.
E qui vi aggiungerò per codicillo,
Che siccome don Diego a cotal foglio
Non avea finallor posto sigillo
Non mica per virtù, ma per orgoglio,
Imbarazzossi alquanto; ma istruillo
L'esperta sposa, e lo tirò d'imbroglio;
Onde la pace tanto desiata
Fu sigillata e poi risigillata.
E in memoria dell'epoca novella
Due ova e un coltellin nell'intervallo
Aggiunse all'arme sue, perchè Isabella
L'ereditò dal greco maresciallo,
E una sbarra a traverso, e sopra quella
Un allocco spelato in campo giallo,
Che porta sulla cresta un diadema,
Di sua nobil famiglia antico emblema.
E partì nella stessa settimana
Colla sposa e, condottala in Asturia,
Riconoscer la fe' per marchesana;
Ma la sua sfacciataggine e lussuria
Tosto l'inimicò con dogna Ciana.
E benchè entrata in casa Malaguria,
Noti ostante ritenne, come pria,
I costumi ed il tuon dell'osteria.
424
Sicchè per tor le dispute e le risse,
E render la consorte più tranquilla,
E torre ogni pericol che abortisse,
Il cauto sposo la condusse in villa,
Ove, attendendo ch'ella partorisse,
La tenne in gran riguardo e custodilla,
E fe', come suol far l'augel che l'uova
Non sue talor per sue fomenta e cova.
Ancor non eran scorsi i mesi sette
Dal dì che li sponsali fatti furo,
Ch'ella del vicin parto a un tratto dette
Evidente prognostico e sicuro;
Onde a ragion di lei ciascun temette,
Il tempo non essendo anche maturo,
E perciò fatti fur pubblici voti
Per la succession dei Greco-goti.
Di matrimonio dopo un sol semestre
Ella diede alla luce un bel ragazzo.
Don Diego del danar fra la silvestre
Plebaglia sparse e illuminò il palazzo;
E quei villani sotto alle finestre
Fecer tutta la notte un gran schiamazzo;
Ed in segno di gioja furon fatti
Girelle, castagnuole e razzi matti.
E fra la turba credula ignorante
Fu unanime parere universale
Che il cielo di più indugio intollerante,
Anticipar volendo il dì natale
Del sospirato greco - goto infante,
Fe' che contro la legge naturale
Nell'utero materno stesse il feto
Circa tre mesi men del consueto.
425
NOVELLA XXXII
ANNOTAZIONI DELL'AUTORE
I. CRONACHE E MANOSCRITTI, CHE ASSERISCONO L'ESISTENZA
DELLA PAPESSA GIOVANNA
1. Antica cronaca manoscritta esistente nella biblioteca di san Paolo di Lipsia, scritta prima di Martino
il Polacco, e finisce all'anno 1261: catal. pag. 314 num. 47.
2. Cronaca d’Angelusio pubblicata da Leibnizio, Scriptores Brunswicenses. Tom. I. p. 1065
edizione d'Helmstat 1671 in-4°.
3. Cronaca manoscritta di Siffrido, sacerdote di Misnia, dal principio del mondo sino all'anno 1306,
nella biblioteca di Lipsia catal. pag. 156, 314.
4. Cronaca attribuita a Martino Francescano manoscritta Flores temporum anno 1292, esistente nella
biblioteca del senato di Lipsia.
5. Cronaca manoscritta nella biblioteca reale di Berlino, la quale arriva sino all'anno 1313, G. IX. num.
II.
6. Cronaca intitolata Pomarium di Gerv. Pucobaldo di Ferrara, canonico della chiesa di Ravenna, e
cardinale, manoscritta nella biblioteca di Wolffenbuttel. Ella finisce all'anno 1297.
7. Cronaca di Sozomeno, sacerdote di Pistoja, citato da Tolomeo di Lucca. Ella finisce all'anno 1292,
fu veduta da Mabillone in Italia in due grossi volumi Itin. Ital. pag. 173. Ella fa menzione della Papessa
all'anno 853.
8. Cronaca di Tolomeo di Lucca domenicano e confessore di papa Giovanni XXII, indi vescovo di
Torzella circa l'anno 1320. Egli riferisce di aver letto la storia della Papessa in Martino Polacco.
9. Cronaca de' Papi scritta da Amalarico d'Auger, priore dell'ordine di s. Agostino, e dedicata a Urbano
V, anno 1362. Pietro Scrivario ne aveva un esemplare, da cui Vossio ha estratte molte linee; ma
Leibnizio ci ha particolarmente conservato ciò che riguarda la Papessa, e la sua gravidanza.
10. Due esemplari della Cronaca di Colonia, così detta perchè colà impressa in vecchia lingua tedesca
l'anno 1499 fol. 119.
11. Cronaca detta di Norimberga, perchè ivi ancora stampata l'anno 1493, e composta da Hertman
Schedel, dottor di Padova. In ambedue queste cronache v'è la figura della Papessa col figlio fra le
braccia.
12. Cronaca d'Alsazia e di Strasburgo, citata da Wolfio, e da Zwingero, e stampata a Strasburgo 1696
da Schiltero.
13. Cronaca di Costanza in vecchio linguaggio svizzero, anno 1400, citata da Wolfio e da Flaccio. Ella
dice che la Papessa fu incinta da un cardinale.
14. Manoscritto di Bernardo Guy vescovo di Tuy, l'anno 1322, e poi di Lodeve, dichiarato da Giovanni
XXII inquisitore contro gli Albigesi, esistente nella biblioteca di Leida, d'Avignone, e di Colbert Flores
Chronicorum.
15. Fra le lettere dell'Università d'Oxfort, di Parigi e di Praga, evvene una del 1380 ad Urbano VI, in
cui si parla distintamente d'una Giovanna succeduta a Leon IV, ed ingravidata nel tempo del suo
pontificato Edit.1520 ab Heldr. Hutteno.
II. SCRITTORI ANTICHI DI STORIA ECCLESIASTICA
426
1. Martin Polacco, penitenziere de' pontefici Giovanni XXI, e Nicolò III, ed indi arcivescovo di Gnesna
in Polonia, riferisce che Giovanni Inglese, cioè la Papessa Giovanna, tenne il pontificato due anni,
cinque mesi, e quattro giorni. Egli parla della sua gravidanza, del suo parto, della morte e della
sepoltura, e pone Giovanna dopo Leone IV. Edit. Basil. 1559 Typ. L. Opporini, curante Heroldo.
2. Mariano Scoto avvedutissimo ed antichissimo scrittore, monaco di Fulda, difese Gregorio VII contro
Enrico IV, e perciò impegnato a sostenere l'onor della sede di Roma; Cronaca lib. III, all'anno 854, ove
asserisce, che Giovanna successe a Leon IV, e tenne il pontificato due anni, cinque mesi e quattro
giorni, come lo asserisce il suddetto Martin Polacco.
3. Rodolfo, monaco di san Germer, circa l'anno 900, cioè 50 anni dopo la papessa, citato da Tritemio de
Script. Eccles. pag. 259.
4. Ottone, vescovo di Frisinga, fratello uterino dell'imperador Carlo III, che ha portato la sua cronaca
sino all'anno 1146, Goffredo di Viterbo, che morì verso l'anno 1191, nel suo Pantheon, ed altri parlano
della Papessa. .
5. Sigiberto, monaco di Gembloux, scrittore accreditatissimo, che fu circa all'anno 1100. Nella sua
cronaca all'anno 854 dice, che vi fu una Papessa Giovanna, la quale diventò gravida, e partorì, essendo
papa.
6. Giovanni di Parigi, dottore in teologia, Siffrido, sacerdote di Misnia, Landolfo de Columna, canonico
di Chartres, Giovanni Vitodurano, minorita, Barlaamo, monaco calabrese, Guglielmo Occam,
francescano inglese, e tanti altri autori del 1300, parlano tutti della Papessa.
III. AUTORI MODERNI
1. Torrecremata, cardinale zelante, e inquisitor furioso, e Soto, domenicano deputato al concilio di
Trento, e confessor di Carlo V, ambo Spagnuoli parlano della Papessa come di cosa nota.
2. Petrarca Vite degl'Imperadori, e dei Papi, Edizione fiorentina 1468, e di Genova 1625.
3. Giovanni Boccaccio de Claris Mulieribus.
4. Coccio Sabellico veneziano nelle Enneadi edizione 1504 Venezia.
5. Nauclero proposto di Tubinga in un gran volume di cronache parla diffusamente della Papessa, vol.
II. Gen. 29. Coloniæ 1579 pag. 713.
6. Celio Rodigino nelle lezioni sopra le antichità lib. VIII. cap. I.
7. Platina Vite de' Papi dedicate a Sisto IV, Badio d'Ascensio fiammingo, Stella nelle Vite de' Pontefici
al patriarca di Venezia, e s. Antonino arcivescovo di Firenze Hist. Tom. II. cap I, Federico di Niem,
secretario di più papi, Martino Franco, secretario di Felice V, Gerson, cancelliere dell'università di
Parigi, e uno dei padri del concilio di Costanza, Calcocondila, Pannonio vescovo di Cinquechiese in
Ungheria, il cardinal Giacobazio, Contarini Vago Giardino, e mille altri accreditati autori, tutti parlano
dell'esistenza della Papessa.
8. Il celebre Spanheim, primo professore dell'università di Leida, con moltissima erudizione e dottrina
tratta sopra tutti di proposito questo soggetto in un'ampia e compiutissima dissertazione latina de Papa
femina inter Leonem IV, et Benedictum III, contra Onuphrium, Allatium, Labbeum, Blondellum,
Launojum, et Mabillonem, e dedicata al famoso pensionario Heinsio, gran protettore de' letterati, e gran
letterato egli stesso, e versatissimo nella storia ecclesiastica.
In questa dissertazione ha egli esaurito quanto può dirsi in questa materia, e da questa dissertazione ha
poi Lenfant ricavata la sua accurata Storia della Papessa Giovanna, stampata à la Haye 1736, Tomi
due, ch'egli dedicò al fratello del sopra lodato Spanheim, allora ministro di stato dell'elettor di
Brandeburgo.
9. Un'altra storia sulla Papessa fu pure pubblicata in fiammingo da Egbert Grim professore a Wesel, il
quale cita 135 autori, la maggior parte de' quali sono incogniti all'apologista Blondello.
Alessandro Cooke fece un dialogo sulla Papessa Giovanna, pieno d'erudizione e di critica, London
1625.
427
10. Un grande argomento dell'esistenza di detta Papessa si può eziandio dedurre dal silenzio del
concilio di Costanza, il quale fra i delitti ch'esso oppose a Giovanni Hus, e che nomina e confuta nel
condannarlo al fuoco, non fa menzione alcuna d'aver egli sostenuta la esistenza della Papessa, come
aveva pubblicamente e costantemente fatto in molte sue opere e nelle sue risposte, Opera Joh. Hus de
ecclesia cap. VIII e XIII Tom. I. Onde è prova chiarissima che i dotti padri di quella venerabile
assemblea non credettero condannabile tale opinione; poiché, se tale essi l'avessero creduta, essi, che
erano sì mal prevenuti ed inaspriti contro di lui, non avrebbero certamente omesso di citarla come un
orrore, e di riporla fra gli altri titoli esposti nella sua condanna.
LA PAPESSA - PARTE PRIMA
Se spesso vi parlar le mie novelle
D'argute celie e di furtivi amori,
Or eleviamci alquanto, o Donne belle,
E mostriamo ai maledici censori
Che ognor non ci occupiam di bagattelle,
Ma toccar sappiam tasti ancor maggiori.
Ascoltatemi dunque, e di materia
Vi parlerò molto importante e seria.
Un punto egli è di storia ecclesiastica
Su cui sempre gran dispute si fero;
Chi lo credette invenzion fantastica,
E chi lo diè per fatto certo e vero.
Lungi da passione entusiastica,
Libero a ognun lasciando il suo pensiero,
Prove a luce trarrò dentro le folte
Tenebre cronologiche sepolte.30
Parlerò della celebre eroina
Che ai rigidi esercizi, ai studi gravi,
Per tempo assoggettò la femminina
30
Sono circa mille anni, che si è sempre disputato sull'esistenza d'una papessa Giovanna, che si suppone esser succeduta a
Leon IV, nel secolo IX dell'era cristiana. Ciascheduno ha conforme alla sua persuasione o prevenzione procurato di
sostenere la sua opinione con argomenti storici e cronologici, e coll'autorità di scrittori più rispettabili, e di autentiche
cronache, e autografi gelosamente conservati in celebri archivi e biblioteche. La singolarità dell'avvenimento, che ha tutta
l'apparenza d'immaginario e d'assurdo, e la grande moltitudine di scrittori che hanno avuto interesse di screditarlo, parendo
loro che facesse troppo torto alla sede apostolica, e la preponderanza finalmente, che nel mondo cristiano ha ottenuta la
religione cattolica romana, ha fatto dimenticare questo punto di storia ecclesiastica, e lo ha fatto riguardare come una
calunnia introdotta dai novatori per avvilir la dignità del soglio pontificio.
Io non pretendo di risolvere questa questione, e lascio a ciascheduno la libertà di creder ciò che stima più conforme alla
ragione e alla sana critica; ma siccome ho impreso a porre in poesia questo soggetto, che mi sembrò esserne suscettibile;
acciò non si creda ch'egli sia del tutto privo di appoggi e di autorità dei più rispettabili scrittori ecclesiastici, oltre alle note
indicate nel corpo della poesia, ove mi parve che cadessero opportune, e che qui sotto si troveranno esposte, ho creduto di
dover ad esse premettere:
Primo, alcune delle antiche cronache, e autentici manoscritti che fanno chiara menzione della Papessa;
Secondo, alcuni antichi scrittori di storia ecclesiastica assai conosciuti per la loro dottrina in simili materie, e il loro zelo per
la cattolica religione;
Terzo, gli scrittori più moderni sì, ma non meno cospicui e rispettabili degli antichi, e che ne hanno senza passione o
prevenzione parlato sino ai giorni nostri.
Mi lusingo che i discreti lettori mi avranno gentilmente perdonato gli ornamenti poetici, di cui ho di tratto in tratto rivestita
la narrazione, ove io gli ho creduti convenevoli al soggetto.
428
Natura, e tanto si mostrò fra i savi
Piena di filosofica dottrina,
Che giunse ad afferrar del ciel le chiavi;
Parlerò infin della viril Giovanna
Che s'assise di Pier sovra la scranna.
Cronache e antichi autori, altri assai noto
Dicono il fatto, altri lo dan per certo,
Martin polacco e Mariano Scoto,
Rodolfo, Otton, Goffredo e Sigeberto,
L'inquisitor Torrecremata e Soto,
E Petrarca e Boccaccio, autor di merto,
Sabellico, Nauclero e Rodigino,
Platina, Badio, Stella ed Antonino.
Ciò dico, Donne mie, perchè veggiate
Che i racconti ch'espongo ai miei lettori
Non son cose a capriccio immaginate,
Ma d'antichi ed autentici scrittori
Sull'inconcussa autorità fondate:
Ma so che a legger i citati autori,
Ed altri molti ancor ch'io non vi nomo,
Non è mica obbligato un galantuomo.
Poichè l'armi pietose il Magno Carlo
Ed i pietosi eserciti condusse
Contro il Sassone fiero, e per domarlo
Famiglie innumerabili distrusse;
Vinto ed inerme alfin fe' trucidarlo,
Acciocchè in avvenir più docil fosse,
Specie di punizion che in chi governa
Detta è talor correzion paterna.
E unendo al felicissimo dominio
I resti di quei popoli pagani
Scampati dal piissimo esterminio,
Con sciabla alzata a divenir cristiani
Forzolli, e ad abjurar Tuitone e Arminio
Ed Irmensul e i culti lor profani,
E ciò che pria capito avean disdire
Per creder ciò che non potean capire.
Carlo in materie simili era basso,
Ma pingui avea monaci attorno, e in corte
L'intolleranza lor facea gran chiasso,
E segnar gli facean leggi assai corte:
Pena di morte in certi dì far grasso,
Digiun non osservar pena di morte,
E col flagello di feroce zelo
429
I popoli mandar voleansi in cielo.31
Il Franco in convertir quel popolazzo
Espeditivo metodo tenea,
E senza far di prediche schiamazzo
Burbero al vinto il vincitor dicea
Missionario e guerrier: credi, o t'ammazzo.
E il persuaso Sassone credea:
Così nè in convertir trovava ostacoli,
E di conversion facea miracoli.
Ma per quanto supplir possa la fede,
Siccome ogni uom ch'abbia un battesmo addosso
Saper debbe a un dipresso a cosa crede,
Si suol d'incomprensibile e di grosso
Qualche cosa produr, nè si richiede
Di ridurre a evidenza il paradosso;
Ma quei Franchi per por tai cose in pratica
Non eran, come or son, forti in dogmatica.
Ciò re Carlo sapea, che a vero dire
Poco ancor ei gli alti misteri appresi
Avea di nostra fe, sicchè venire
Fe' da tutti i cattolici paesi
I convertiti popoli a istruire
I missionari, e sopra tutto Inglesi
Che si credean teologi i più esimi,
Ed Alcuin che in corte era de' primi.
Onde in folla apparir predicatori
Fin da lontane region fur visti,
E truppe di teologi e dottori,
E religiosi, e santi catechisti.
Le capanne dei poveri pastori
Di madonne guernirono e di cristi,
E venner preti e monaci britanni
A instruire i proseliti alemanni:32
Poichè in quei tempi in cui pubblici e noti
I disordini osceni e i sregolati
Costumi e i vizi fur dei sacerdoti,
Di vescovi, di monaci e d'abati
Che scandalizzan oggi i men divoti
Fur tutti intolleranti ed arrabbiati
Propagatori della fe cristiana
Cattolica apostolica romana.
Ed allor fu che venne in Alemagna
Un certo prete inglese molto dotto,
31
32
Eginardo vita di Carlo Magno.
Giacomo Curio, detto Hofemio medico d'un cardinale di Magonza sul principio della sua cronaca.
430
E che seco colà dalla Bretagna
Per gli offici di moglie avea condotto
Una leggiadra giovine compagna,
Ed avendo con lei spesso interrotto
Le noie del viaggio, il reverendo
Impregnata l'avea, cammin facendo.33
Se chi fosser costor mi si domanda,
Io non potrei descriverne la vita;
So che la donna si chiamò Ildegranda,
Ed in oltre so ancor che un cenobita
A suoi parenti la rapì in Irlanda,
E che fu poscia al rapitor rapita
Dal prete inglese, che da tal procedere
Che anch'egli fosse monaco è da credere.
Mentre costui per la Germania ronza
Colla sua donna, o amica fosse o moglie,
Appena giunti furono a Magonza,
Del parto preser a colei le doglie,
Ond'ella mugolando e spreme e ponza,
E dà una bimba a luce; allor ricoglie
Il parto il prete stesso, e fu quel parto,
Che un successor diè poscia a Leon quarto.34
Giovanna nacque l'ottocento tredici,
E poco dopo in avanzata età
Carlo morì contro il parer de' medici.
La reale e imperial sua maestà
Morì, che che ne dicano i maledici,
In un perfetto odor di santità,
E per suoi merti sì diversi e tanti
Fu posto nel catalogo de' santi.
Giovanna non tardò grazie e beltate
E talenti a spiegar sublimi e rari:
Il genitor fin dalla prima etate
Perciò alle arti applicolla e a' studi vari
Delle scienze astruse ed elevate,
In cui progressi fe' straordinari;35
Onde a fronte di lei, benchè fanciulla,
Di Sorbona un dottor non saria nulla.
33
Claudio Fauchet presidente, les Antiquités Gauloises et Françoises, livre IX , an 854.
Quantunque Giovanna si dica nativa di Magonza, ella nacque nella piccola città d'Ingelheim poco di là distante, e nel
Palatinato ove nacque Carlo Magno.
Taluno l'ha chiamata Gilberta, Annali d'Augusta; altri Agnese, e altri Jutta, come in una cronaca tedesca stampata in
Colonia l'anno 1499.
35
Elle avait l'esprit fort aigre, et elle avait la grace de bien et promptement parler disputes et lecons publiques, et plusieurs
s'émerveillèrent grandement de son savoir, un chacun fut tant affectionné envers elle, et gagna si bien les coeurs de tous
qu'après la mort de Léon elle fut élue pape. Du Haillan, Histoire de France. Paris, 1576, pag. 279. Nicolle Gille,
Chroniques et Annales de France an 852.
34
431
Dispute su gravissimi argomenti
Appena giunta al tredicesim'anno
Pubblicamente tenne in differenti
Linguaggi, anglo, latino ed alemanno.
E seppe allor ciò che i più gran talenti
In una età molto maggior non sanno
Dogmatica, canonica, scolastica,
Profana storia e storia ecclesiastica.
Troppo ella era però natural cosa,
Che con tai merti (e meno eran bastanti)
Giovine sì leggiadra e spiritosa
Avesse moltitudine d'amanti.
Molti in fatti ella n'ebbe, e non ritrosa
Fu mai con chi languivale davanti,
Nè sì austeri, inumani sentimenti
Ereditati avea da' suoi parenti.
Fu per altro fra tutti il prediletto
Amante suo più caro e favorito
Di Fulda un monacel di vago aspetto,
E anch'ei di vasta instruzion fornito.
Si vider, si parlar, e d'ambo il petto
Di reciproco amor restò colpito.
Giovani belli, instrutti, angli ambedue,
Ch'ambo s'amasser da stupir non fue.36
E formata nel fervido pensiero
La magnanima idea non men che ardita,
Abbandona i parenti, ed il sentiero
Prende fuggiasca e da garzon vestita
Che conduce di Fulda al monastero37
Per ivi starsen coll'amante unita:
Non più si fe' nomar Giovanna, e prese
Il viril nome di Giovan l'inglese.38
Ma o fosse che il veder due garzoncelli
inseparabilmente e notte e giorno
Starsen desse sospetto ai confratelli,
Fosse che in quel monastico soggiorno
Non piacesse alli nostri monacelli
D'aver sempre occhi addosso e gente attorno;
Appena in monaster due mesi fu,
La bella coppia non si vide più.
36
Quum adolescens admodum ex Anglia Athenas cum quodam doctissimo amasio suo profecta: Filippo da Bergamo,
Supplem. Chron. lib. XI an. 858.
Hic femina fuit, et in puellari ætate ab amatore virili habitu Athenas ducta, sic in diversis scientiis profecit, ut nullus sibi par
inveniretur. Gio. Nauclero, Chronica, mendis sublatis, excusa Coloniae 1579. Gen. 19. pag. 713.
Siquidem mulier, virilem mentita sexum, virum quemdam impense doctum, cui consuetudine tenebatur, Athenas sequuta
est. Coc. Sabellico, Enneade IX lib. I. Aed. Ascent. 1517, fol. 207.
37
Manoscritto vossiano
38
Du Haillan.
432
Forse ancor si sdegnar, perchè l'abate
Di Fulda allor, Rabano, in uno scritto
Contro un tal Gotescalco anch'egli frate
Volle provar, che imprescrittibil dritto
Su i giovinetti oblati in prima etate
Acquista il monaster, sicchè convitto
Più non possan cangiar nè domicilio,
Siccome appar da un maguntin concilio.39
Poichè i giovani amanti in notte oscura
In abito leggier e da viaggio
Abbandonar della badia le mura,
Ripieni di magnanimo coraggio
Si posero in cammino alla ventura
Filosofico a far pellegrinaggio;
Che senza far un poco il vagabondo
Non s'acquista la pratica del mondo.
Degl'istorici par che nella penna
Del gentil monachetto il nome vero
Rimaso sia, poichè nessun l'accenna
Della critica in mano il candelliero
Qui spento sembra, e al bujo ella tentenna.
Dal titolo perciò del monastero
Talun Fulda nomollo, ed ecco come
Dirollo anch'io, poichè alfin vuolci un nome.
Senza premeditato alcun disegno
Scorser provincie ognor diverse e nuove,
Savia condotta ed esemplar contegno
(Ch'il crederia?) tenendo, e in ogni dove
D'alto sapere e di sublime ingegno
Grandi lasciar meravigliose prove;
Onde, quando passavan, per vederli
Correvan tutti alle finestre e ai merli.
E quei nell'ozio mai, mai fra i solazzi
Si mostrar pe' teatri e pe' ridotti,
Onde per loro entusiasti e pazzi
Fur tutti, e i dì vedendoli e le notti
Fra gli studi passar: che bei ragazzi!
Sclamavan spesso, che ragazzi dotti!
Nè Castore e Polluce infra gli Achivi
Tanto ammirati fur, quand'eran vivi,
Poichè scorser l'Italia e la Germania,
I governi, le leggi ed i costumi
Esaminando, e di saper la smania
39
Concilio secondo Maguntino an 829.
433
O fra i dotti pascendo o su i volumi,
Tratti da fantasia fervida e strania
D' acquistar sempre più novelli lumi
E più alta filosofica dottrina
Per la Grecia imbarcaronsi a Messina.40
Grecia, benchè caduta fosse allora
Dall'alta gloria sua cui già pervenne,
Sulle altre nazion gran tempo ancora
Per arti e per scienze il vanto ottenne,
Finchè nel sommo avvilimento ov'ora
Giace miseramente a cader venne,
E ove trasserla i barbari invasori,
Ed i tiranni suoi di lor peggiori.
Sbarca colà la giovin coppia, e vede
I monumenti che della primiera
Greca grandezza al passeggier fan fede;
L'empia Tebe colà, qua Sparta austera,
Qua la città che su i due mari siede,
Là d'atleti e d'eroi s'unia la schiera,
Qua le torri sorgean d'Argo e Micene;
Poscia alle mura s'appressò d'Atene.
Nella via che in città va dal Pireo
I prodigi dell'arte ammira e osserva,
E il tempio sacro al fondator Teseo,
E l'altro a Giove Olimpio, altro a Minerva
Sull'Acropoli eretto, e ad Eretteo.
Libera fosti, Atene, ed or sei serva,
Grand'eri allor, possente e gloriosa,
Sol per le tue ruine or sei famosa.
Se più colà non ritrovar coloro
Nè la celebre Stoa nè il Peripato,
Non accademia, areopago e foro,
Né in cattedra Aristotele nè Plato,
Ed altri ed altri che co' nomi loro
Al patrio suol cotanta gloria han dato,
Non ignobili scuole e dotti studi
Vi trovar non di pregio affatto nudi.
Or qui la studiosa amante coppia
Con ancor più instancabile fervore
Le sue fatiche e i sforzi suoi raddoppia,
E i piaceri di Venere e d'Amore
Cogli esercizi di Minerva accoppia;
Questi pascean la mente, e quelli il core.
In gravi cure il dì fermi e indefessi,
40
Annali d'Augusta, Giambattista Ignazio veneziano nel suo libro Degli Esempi.
434
E le notti traean fra dolci amplessi.
Color piena goder felicità
Poteansi dir, ma in conjugale stato
Viver così di propria autorità
Senza farne partecipe il curato,
La cosa è un po' arbitraria in verità,
E al parer del Decalogo è peccato.
Nel restante a parlar dal tetto in giù
Cosa color potean bramar di più?
E or savii consultando, or dalle cieche
Ignote antichità, per anni dodici
Archivi trascorrendo e biblioteche,
Alla luce traean volumi e codici,
E della greca lingua e delle greche
Lettere assidui fer studi metodici,
E dieron nuovo lustro e forme nuove
Alla filosofia negletta altrove.
Ciò avvenne, mentre il greco impero resse
Teofilo e Michel detto il Briaco,
Cui Basilio il Macedone successe.
Fama è che di regnar roso dal baco
L'ubriaco fratello egli uccidesse.
Ignoranza e barbarie un velo opaco
Stendendo, del saper ogni barlume
Avean spento, e sbandito ogni costume.
Tutto ciò tanto più celebre rese
Per la dottrina lor, per la virtù,
Di Fulda il nome e di Giovan l'inglese,
Che la parte miglior di gioventù
Consumaron nell'attico paese;
Nè disparere alcun fra lor mai fu;
E sempre apparve in ambedue lo stesso
Desir, gusto, voler, indole e sesso.
Scorsi tre lustri omai da che formosse
Nodo d'amor che unilli in compagnia,
Fosse tepor sopravvenuto o fosse
Di novità desire o gelosia,
O qualunque altra lor ragion li mosse,
Ragion che agli scrittor nota non sia,
Alla coppia finor stata indivisa
Di dividersi idea venne improvvisa.
Comunque sia però d'amore il foco
Non già lo stesso ognor grado sostiene
Di calor, ma si tempra a poco a poco;
Meno indocile allora amor diviene,
435
E d'oggetti cangiar s'ama e di loco:
Ambo perciò si slontanar d'Atene,
E separandosi amichevolmente,
L'uno a levante andò, l'altro a ponente.
Giovanna qui lasciam per un momento,
E Fulda seguitiam che dal Pireo
Allo spirar di favorevol vento
Sciolse sovra un naviglio raguseo,
E con metodo e molto intendimento
L'isole visitò del mar Egeo.
Portossi indi a Bizanzio, e poi tragitto
Da Creta e Rodi e Cipri ei fe' in Egitto.
La città d'Alessandro, e i sette rami
Vide del Nilo e le feconde glebe,
E incontrò coccodrilli e ippopotami,
E truppe della ladra araba plebe;
E i sparsi per l'Egitto ampi rottami,
E le rovine di Memfi e di Tebe,
E le moli osservò maravigliose
Dell'eccelse piramidi famose.
L'istmo che oppon fra il mar vermiglio e il siro
Indistruttibil sbarra ai naviganti
Traversò poscia, indi Sidone e Tiro
Donde già di Fenicia i mercadanti
Le ricche merci al mondo inter forniro;
Poi passò a visitar i luoghi santi,
Ove il Verbo divin di nostra fede
Al gran mistero il compimento diede.
Non anche in Asia gli europei squadroni
Correano al suon della guerriera tromba,
Nè di Cristo per arco i pii Buglioni
Eransi mossi a liberar la tomba,
E i Rinaldi e i Tancredi e altri campioni
Di cui fra noi la fama alto rimbomba,
Nè al mondo er'anche apparso il fier Circasso,
Clorinda, Erminia e gli altri eroi del Tasso.
Nè in somma avea la Palestina invasa
La pietà dei crociferi aggressori,
Nè a Loreto anche avean la santa casa
Trasportata i celesti volatori;
Ma immobil era infin allor rimsa
Ove l'avean piantata i muratori;
Quel prodigio perciò creder fa d'uopo
Che avvenne, sì, dubbio non v'è, ma dopo,
Bagnossi Fulda del Giordan nell'acque
436
Del battesmo di Cristo alla memoria,
E visitò la stalla ov'egli nacque,
E dove i Serafin cantaro il gloria,
E il monte, ove soffrir morte a lui piacque
Dell'umano delitto espiatoria.
Entrò nel tempio ove con cor divoto
Adorò la gran tomba e sciolse il voto.
Poichè il debito culto ei rese al nume,
Varca l'Eufrate e il Tigri, e a Bagdad corre
Che sul gusto dell'arabo costume
Un secol prima edificò Almanzorre
In sulla sponda oriental del fiume,
E ivi sua residenza ei venne a porre,
Lo che anche a far continuaron poi
Gli altri califfi successori suoi.
Fresca era e viva la memoria ancora
D'Aaron Rascild, che per le memorande
Eccelse geste e alte virtù sonora
Nelle più tarde età sua fama spande;
E non men di Mamon Bagdad s'onora
Di Rascild figlio e non di lui men grande
Sultan, Califfi, imperadori e regi,
Asia non ebbe mai prenci più egregi.
Filosofi, poeti ed oratori,
Dal greco fer nell'arabo tradurre
E d'oriente i più famosi autori,
Onde a coltura i musulman ridurre
E fra i rozzi guerrieri e fra i pastori
Le scienze e le lettere introdurre,
Onde, come in città colte si suole,
In Bagdad accademie eranvi e scuole.41
Motassem al fratel Mamon successe,
Ma non del padre e del fratel sostenne
L'alt'onor: dopo lui l'impero resse
Vatek suo figlio, ma non molto il tenne;
Gola e lussuria in verde età l'oppresse
Circa al tempo che Fulda a Bagdad venne.
Regnò poi di Vatek fratel minore
Mottavakel, assai di lui peggiore.
Costui per man d'un assassin cadeo;
Calif ei fu nè giusto inver nè buono;
Suo figlio Montassar scannar lo feo
Per occupar col parricidio il trono,
D'iniquo genitor figlio più reo.
41
Storia de' Califfi di Babilonia. Vedi la Storia universale, o l'Art de vérifier les dates.
437
Queste per altro atrocità non sono
Del tempo che parliamo, e accadder poi,
Esse perciò non interessan noi.
Co' savi di Bagdad Fulda propose
Far conoscenze e conversar, perchè ama
Di Zoroastro le dottrine ascose
E i dogmi arcani apprendere di Brama,
E le cifre caldee misteriose;
Dei popoli istruirsi in oltre ei brama
Negli usi, ne' costumi e nel diverso
Oriental linguaggio, arabo e perso.
Sotto Mottavakel il suo soggiorno
Dunque in Bagdad fissò, dov'ei di nuove
Dottrine rese ancor lo spirto adorno,
E diè d'alto intelletto insigni prove.
Ma è tempo che a Giovanna omai ritorno
Facciam che intanto segnalassi altrove.
Noi lasciata l'abbiam, se ven sovviene,
In sul procinto di partir d'Atene.
Di stabilirsi in Roma ebbe il pensiero,
Poichè anche, dopo che balzata venne
Dal luminoso suo stato primiero,
Nome nel mondo e dignità ritenne,
Dacchè vi fu la cattedra di Piero,
E sede dei pontefici divenne;
Onde mostrarsi in quel teatro elesse
Ove i talenti suoi spiegar potesse.42
V'er'anche altra ragion che la movea
In Italia a fissar omai sua stanza,
Cioè perchè continuar volea
A comparir nella viril sembianza,
E in Italia ciò far facil potea,
Che di rader la barba avean l'usanza,
Ma decoro in levante ed ornamento
Era una folta barba aver sul mento.43
Imbarcossi a Corinto, e per quei mari
Di bassi fondi e d'isolette pieni
Spingon curvi su i remi i marinari
La barca in mezzo a quegli obbliqui seni,
Ed alla destra man le Curzolari,
Ed alla manca i monti cefaleni
E Itaca lascia l'agile naviglio,
Ov'ebbe regno di Laerte il figlio.
42
Amalarico d'Auger, Chassaneo, Textor, Du Haillan.
Calcocondila Storia de' Turchi lib. VI. Quod mares cum per Italiam, tum regiones pene omnes occidentis, barbas
raderent. Valeriano autore del secolo XVI. Pro sacerdotum barbis ad Card. Mediceum. Fol. 21 anno 1553.
43
438
Poi, costeggian Leucate e le fatali
Balze vedean da cui gli amanti fero
Per disperato amor salti mortali,
E alquanto ancor seguendo il lor sentiero,
Azzio scoprian, dove li due rivali
Del mondo un dì si disputar l'impero,
Sacrificando vittime infinite
Alla decision della gran lite.
Sulla terra e sul mar sparsi ampiamente
I monumenti son dei fatti atroci,
Di cui la folle umanità sovente
Per soddisfar le passion feroci
Del forte ambizioso e del potente
Si rende rea, nè di ragion le voci
Udir le lascia autorità tiranna,
E qual delitto la ragion condanna.
Varcate l'acque a cui si tolse Antonio
Per seguir lei che fugge e seco il tira,
Al grato soffio di leggier favonio
Che favorevol da levante spira
Drizzan la prora per lo mare ionio,
Lasciando alquanto ad aquilon Corcira.
Già la calabra piaggia il legno afferra,
E già pone Giovanna il piede a terra.
Alla città di Taranto e Crotone
Diresse osservatrice il suo viaggio,
L'una Archita vantò, l'altra Milone;
Croton famosa ove di Samo il saggio
Scuola aprì di sublime instruzione;
E in più corpi dell'anime il passaggio,
E degli astri e de' numeri insegnava
L'alta scienza, e proibia la fava.
O madre un dì d'ogni più raro ingegno,
Agli Uomini e agli dei terra gradita,
Fu iniquo fato o fu del ciel lo sdegno
Che l'antica da te gloria ha bandita,
E sul collo ti calca il giogo indegno
Onde sorger non possi a nuova vita?
Lacera, desolata, abbietta, oppressa,
O Italia, in te non trovo io più te stessa.
Già dai fieri satelliti di Marte
Scesi da Borea a Italia ognor molesto
Abbattute giacean l'opre dell'arte
Maravigliose (ahi sovvenir funesto!)
Che Grecia e Roma avean pel mondo sparte;
439
Già zel feroce avea distrutto il resto,
E già dei templi e degli anfiteatri
Le ruine talor fendean gli aratri.
Ma se Giovanna sol resti e frammenti
Colà trovò delle memorie antiche,
Pastori vide e agricoltor contenti,
E su pei colli e per campagne apriche
Pascolar vide i numerosi armenti,
Crescer l'oliva e biondeggiar le spiche,
E a piene mani in quelle regioni
Profonder Bacco e Cerere i lor doni.
Fertilissime terre un dì felici,
Qual così vi cangiò destin tiranno,
Quali sventure mai sterminatrici?
Fu il Saracin? fu il Greco? o fu il Normanno?
Fu invasion di barbari nemici
La funesta cagion di sì gran danno?
Chi il favor di natura ha in voi distrutto?
Chi su di voi sparse miseria e lutto?
Quei perda il ciel per cui dottrina e lumi
E l'industria de' popoli vien spenta,
E ignoranza nell'alma, e nei costumi
L'ignavia ed il torpor nutre e fomenta.
A lui fra quei che nelli suoi volumi
Con alto spregio e con orror rammenta
Luogo d'obbrobrio assegnerà la storia,
E il mondo esecreranne la memoria.
Qual inerzia fatal?... ma voi ridete;
Sì, folle io fui, perdon, Donne mie care.
Ridete, sì, che ben ragion ne avete,
Ridete pur del vano mio sciamare,
E torniamo a parlar di cose liete,
Ritorniamo a Giovanna, e lasciam stare
Ciò che sentir non può che con dolore
Chi ha in petto un'alma e un briciolin di core.
Se più a lungo io credessi necessario
Le circostanze espor tutte a minuto
Del suo dotto e instruttivo itinerario,
Per nojoso a ragion sarei tenuto.
Dirò adunque che, avendo il molto e il vario
Che nel cammin v'era a veder veduto,
A Roma giunse alfin contenta e lieta,
Che quella del viaggio era la meta.
Ma si dirà: per gir così vagando
Donde diavol color traean danari?
440
E donde li traean, io vi domando,
Tanti erranti guerrier straordinari,
Ercole, Ulisse, Rodomonte, Orlando,
E Rinaldo e Tancredi ed altri pari?
E vi risponderò, come risposto
V'avrebbe Omero e il Tasso e l'Ariosto.
Ma giacché al termin de' viaggi suoi
Giovanna pervenuta è finalmente,
E si riposan ambo i nostri eroi,
Benché in levante l'un, l'altro in ponente;
Di grazia riposiamoci anche noi,
Poiché nel mio racconto susseguente
Fatti vi narrerò maravigliosi,
Che un preambolo è sol quant'io v'esposi.
441
LA PAPESSA
NOVELLA XXXII
PARTE SECONDA
Sovra il soglio papal Sergio secondo
Sedea, quando Giovanna a Roma venne.
Roma che già fu capital del mondo,
Poichè dominio in lei la chierca ottenne,
Della tiara ai brigator fecondo
Seminario di cabale divenne,
E or lunge che l'onor di capo goda,
A poco a poco par divenga coda.
Ma conservava ancor splendidi pregi,
E per mano dei papi a incoronarse
Veniano a Roma imperadori e regi,
Da cui spesso ai Pontefici accordarse
Solean stati, tributi e privilegi,
Ed a vicenda e in contraccambio sparse
Indulgenze su quelli eran da questi,
Ed ampia copia di tesor celesti.
Era Giovanna allor su i lustri sei
D'una florida età nella pienezza,
E benchè giovin, s'ammirava in lei
Alto saper, talenti e saviezza,
E nei classici e scelti autori achei
Le grazie della lingua e la purezza
Appresa avea egregiamente bene
Nel lungo soggiornar che fe' in Atene.
Al perspicace sorprendente ingegno,
Alle dottrine, agli acquistati lumi,
Aggiungea grave esterior contegno
E la soavità de' suoi costumi,
E portamento di rispetto degno,
Quale forse attribuì Grecia ai suoi numi;
Tratto gentil, voce sonora e dolce
Che gl'intelletti appaga e i cori molce.44
44
Malleolo, Siffrido, Compilazion Cronologica, Fulgoso, Curio.
Legendo autem et disputando docte et acute tantum benevolentiæ et auctoritatis sibi comparavit, ut, mortuo Leone, in ejus
locum (ut Martinus ait) omnium consensu Pontifex crearetur.
442
Ma forse in breve si sarian perdute,
O sarian forse nell'obblio rimase,
Se brillar non si fossero vedute
Tai qualità su rilevata base;
Siccome son su i candellier tenute
Faci che denno illuminar le case.
Ella perciò comprese ben che tosto
Dovea locarsi in osservabil posto.
Io non so, Donne mie, se fosse effetto
Di locali abitudini o del clima,
So che Giovanna un certo prudoretto
Che sordamente il cor le scalpe e lima
Cominciò allora a risentire in petto,
Che giammai non avea provato prima.
E appena in Roma fu (mirabil cosa!)
Da una inquieta ambizion fu rosa.
Eravi allor fuor delle mura urbane
Monaster dedicato a san Martino,
Ove le sacre lettere e le umane
Insegnavansi in greco ed in latino;
E si sa dalle cronache romane
Che insegnato v'avea sant'Agostino.
Fu quella scuola la primaria in Roma,
Scuola dei Greci dagli autor si noma.
Giovanna dunque l'abito monastico
Prese di san Martin nel monastero,
Ove abbracciò lo stato ecclesiastico;
Prete ordinossi, ed un trattato intero
Scrisse contro il partito iconoclastico.
Michel detto il Briaco al greco impero
Assunto discacciò quella canaglia
Cara all'altro Michel detto il Tartaglia.45
Nè per lo culto delle sacre immagini
In quei tempi fervean le teologiche
Dispute sol, ma con più astruse indagini,
Platina nella vita di Giovanni VIII pont. 106.
Haec in puellari ætate constituta, artibus liberalibus excellenter imbuta, gerens se pro clerico, et quum esset in urbe magnæ
opinionis, in papam eligitur. Chron. Epp. Verdentium scriptor.
Brunsw. Tom. II. pag. 212.
Bonarum artium preceptores Athenis audiendo tantum profecit, ut Romam veniens paucos admodum etiam in sacris litteris
haberet pares; ea quippe legendo, disputando, et docendo orandoque tantam benevolentiam et gratias sibi comparavit, ut,
mortuo Leone, in ejusdem locum, ut multi affirmant, omnium consensu pontifex crearetur. Stella, sacerdote veneto, Vitae
230 Pont. Rom. papa 108, anno 852.
Deinde Romam veniens trivium legit, magnos viros discipulos et auditores habuit. Tantum vero benevolentiae et auctoritatis
sibi comparavit, ut, mortuo Leone, in ejus locum omnium consensu crearetur. Gio. Nauclero, Chron. Coloniae 1579 Gen. 19
pag 713.
45
Soprannomi dati a quei greci imperadori.
443
D'ambo le parti con assurde logiche,
Di polemici scritti ampie farragini
Su controversie astratte e tropologiche
Autori a branchi non cessar di stendere,
Che neppur essi poi potean comprendere.
Smania di caldo entusiasmo oh quanti
Apre al delirio uman strani sentieri!
Teologiche buglie, e luoghi santi
Invasi da crociferi guerrieri,
Scoperte d'oltre mar, filosofanti
Sette, eresie e frati e monasteri,
Gelosia e inquietudin di governi,
E politico scisma ai dì moderni.
Giovanna, o vogliam dir Giovanni inglese,
Che il femminin fa omai cacofonia,
Sovra la magistral cattedra ascese,
E la sacra a insegnar teologia,
E le lettere greche a un tempo imprese,
E Roma e Italia del suo nome empia,
E i monaci, ignorando ella esser donna,
Della fe la dicean salda colonna.
Sergio intanto di vita al termin giunto,
Maneggiator delle celesti chiavi
Sostituir dovendosi al defunto,
Fra i candidati vari un de' più savi
Alla sedia papal fu in fretta assunto;
Perocchè allor calamitosi e gravi
Sovrastavan perigli, e i Saracini
Alle mura di Roma eran vicini.
Dell'alto minister degno soggetto
Dal monaster di san Martin fu tratto,
E il papa fu, che Leon quarto è detto,
Che alle urgenze d'allor parve più adatto.
Nel soggiornar sotto lo stesso tetto
Per Giovanni l'inglese avea contratto
Stima e amor che costante ognor mantenne
Anche dopo che a tanta altezza venne.
E se in qualche gelosa occasione
Che accortezza esigesse o intelligenza
Importante le diè commissione,
Ella ognor l'eseguì per eccellenza,
E vie più confermò l'opinione
Che già il pubblico avea di sua prudenza.
Se senza merto ancor la stima giova,
Che fia se al merto unita ella si trova?
444
Dei borghi intanto i Saracin le chiese
Predando, miser Roma in iscompiglio;
Papa Leone di Giovan l'inglese
Molto si valse nel fatal periglio,
Che al papa ed alla chiesa util si rese
Coll'opera, col senno e col consiglio
E marciò ardita e colla spada in mano,
Alla testa del popolo romano.46
Ma furon tosto i Saracin distrutti,
Perchè papa Leon scomunicolli.
Scampo cercar su i perigliosi flutti
Quegli empi bestemmiando e d'ira folli;
Gonfio di cruccio il mar gli accolse e tutti
Nell'ampie sue voragini ingojolli.
E tal sia pur di chi a spogliar s'incapi
I sacri tempi ed a cozzar co’ papi.
Papa Leon della città latina
Intento allor a riparare i danni
Che la crudel barbarie e la rapina
Dei Saracin le fero, in un par d'anni
La parte poi chiamata Leonina
Edificò coll'opra di Giovanni
Che assai ben s'intendea d'architettura,
Di fossa circondandola e di mura.
Sua santità per così belle e chiare
Geste nome si fe' grande, immortale,
E dal popol cristian particolare
Amor riscosse e applauso universale.
D'anni, di merti e di virtù preclare
Pieno, giusta la frase monacale,
Cosa fe'? nel Signore s'addormì,47
Che volgarmente si diria, morì.
Lo chiamar santo: allor di santo il nome
Fu annesso di persona e di mestiere,
Non di costume e di virtù, siccome
Poscia a talun il don diessi e il messere.
Per esser santo uopo era sol le chiome
Cinte di mitra o di tiara avere;
Onde vescovi, papi e simiglianti,
O volessero o no, tutti eran santi.
Poichè in quei tempi in cui superstizione
Le tenebre spargea dell'ignoranza,
Quanto eravi maggior corruzione,
Di santi tanto più v'era abbondanza.
46
47
Anastasio nella vita di Leone IV papa, Annali di san Bertin di Fulda e di Metz, Sigonio de Regno Italiæ lib. V.
Sanctissimus Leo papa IV obdormivit in Domino. (Anast.)
445
Tal per altro non fu papa Leone,
E non dee dirsi santo per usanza,
Ma se di santo gli accordar gli onori,
Se gli acquistò co' propri suoi sudori.
Ma di quanto può dirsi in suo favore
Addur non si potria prova più bella,
E che a papa Leon faccia più onore,
Quanto il dir che l'autor della Pulzella
(Chi non conosce sì famoso autore?)
Con lode ne' suoi scritti ne favella;
E quando un tanto autor un papa loda
Di merto, a che cercar prova più soda?
Dopo la morte di Leone quarto
Si tenne un de' più torbidi conclavi,
Ed oro e sangue da color fu sparto
Che di Pier disputavansi le chiavi;
Che sempre intrigo e cabala fu parto
D'inquieti cervelli e di cor pravi,
Ch'alle lor mire ambiziose, altiere,
Soggettan ogni dritto, ogni dovere.
Ma poiché sotto le apparenze pie
Più forte ambizion spande il contagio
sovra le clericali gerarchie,
perciò un certo tal prete Anastagio,
Carpito avendo per obblique vie
Di più vescovi e diaconi il suffragio,
Assunto contro le forme usuali
Titolo e insegne avea pontificali.48
Dei canoni però con tanto abuso
Sostener non potendosi nel posto
Ove per artifici erasi intruso,
Dal più forte partito ei fu deposto;
Ma da potersi ad Anastagio escluso
sostituir non si trovò sì tosto
Degno soggetto; onde di Roma il clero
All'inglese Giovan volse il pensiero.
Per conseguir quell'alta dignitate
Molto i suoi merti inver potean valere;
Che Giovanna però femmina e frate
Gl'intrighi non usasse e le maniere
Che furon sempre in casi tali usate
Io non ostinerommi a sostenere.
Femminil arte unita alla fratesca
Com'è possibil mai che non riesca?
48
Sigonio. De regno ital. lib. V.
446
Civette e gufi stridere sul tetto
Per più notti s'udir nel Vaticano.
E allor fu che Giovan l'inglese eletto
Fu supremo pontefice romano,
Ed è quei che Giovanni ottavo è detto.
E per sì assurdo avvenimento strano,
Che a raccontarlo sembra una pastocchia
Cadde il papato allor nella conocchia.49
So ben che nome d'uomo e abito prese
L'incestuosa vedova di Nino,
E sul trono montò babilonese.
Ma cos'è temporal terren domino
Che dentro certi limiti s'estese
Coll'apice papal che ha jus divino
Sull'esterno dell'uomo e sull'interno,
Sul cielo, sulla terra e sull'inferno?
O ardita o inimitabil venturiera!
La vita irregolar voluttuosa
Ch'ella menò nell'età sua primiera,
E la pratica sua peccaminosa
Ch'ebbe col caro monacel, non era
Lodevol certamente esemplar cosa,
Ed un model di castità non fu
La condotta che tenne in gioventù.
Da persone però poco divote
Scusata esser potria se non permessa;
Ma il carattere ancor di sacerdote
Farsi imprimer! - farsi ugnere!... dir messa!...
Poffareddio come scusar si puote?
Ch'una sgualdrina poi farsi papessa
Ardisca, e che non trovi alcun intoppo
A porre il cul sul trono!...oh! questo è troppo.50
Havvi perciò tradizion che il santo
Colombo, allor dal vaticano colle
L'idea scorgendo scandalosa tanto
Dei preti pronti per inezia folle
Donna a vestir del pontificio manto,
Mischiarsi in quella elezion non volle;
E spingendo dal gozzo acuto strido,
Con ratto vol tornò al celeste nido.
49
Femina, Petre, tua quondam ausa sedere cathedra,
Orbi terrarum jura verenda dedit.
Joh. Pannonius Ep. Quinqueccles.
50
Elle conféra les saints ordres, fit pretres et diacres, ordonna évêques et abbés, chanta messes, consacra temples et autels,
administra sacremens, présenta ses pieds pour etre baisés, et fit toutes les autres choses que les papes de Rome sout
accoutumés de faire et fut au siége par l'espace de deux ans: Du Haillan, Histoire de France, edit. Paris 1576, pag. 279.
447
Ma dal popol, che un'alta opinione
Avea di Gian l'inglese e stima molta,
Generalmente quella elezione
Fu con gran gioja e con applausi accolta.
Il popol certamente avea ragione,
Ma il popol crede tutto cio che ascolta.
Qualunque assurdità, purchè sia nuova,
Al popol piace, il popolo l'approva.
Se per valor, se per saper finora
Potè, o Donne, vantar il vostro sesso
Eroine famose, onde s'onora
Il mondo intero e perchè a voi permesso
Non fia poi di vantar papesse ancora?
Ma non vi dico di tentar lo stesso,
La prova è divenuta un po' dubbiosa,
Ma ciò che fu non è impossibil cosa.
L'anno dell'età sua quarantadue
Nell'ottocenquaranta cinque tratta
Dal monaster Giovanna eletta fue
Papa giusta la critica più esatta.
Ella giustificar coll'opre sue
Volle la scelta che di lei fu fatta,
Come ognun a gran carica elevato,
E i principi illustrar del suo papato.
Onde le prime sue cure rivolse
Le scomposte a ordinar pubbliche cose.
D'amministrazion gli abusi tolse,
E nell'economia sistema pose;
Che il saracin furor tutto sconvolse,
E in circostanze sì calamitose
E nel disordin generale e vario
Rimasto affatto voto era l'erario.
La papal podestà, qualor fu d'uopo,
Impiegar seppe e non istette in ozio.
Scomunicò Anastagio, il di cui scopo
Fu d'arrogarsi il sommo sacerdozio.
Scomunicò gl'iconoclasti, e dopo
Scomunicò l'eresiarca Fozio,
Che ammetter non voleva il filioque,
E il procedente spirito ab utroque.
Minutamente io qui narrar non voglio
La condotta savissima che tenne
Con zelo misto di quel santo orgoglio
Che fermo ogni pontefice mantenne;
La dignità del pontificio soglio
448
E i dritti ecclesiastici sostenne;
E da lungi venir vide i monarchi
A prostrarsi a' suoi piè di doni carchi.
Tiensi per fatto indebitato e certo,
Che venuto quell'anno in Roma fosse
Etelulfo, figliuol di quell'Egberto,
Che in Inghilterra l'eptarchia distrusse,
E Alfredo, figlio suo, che nome e merto
Di re grande ebbe poi, seco condusse;
Che allor venian le potestà cattoliche
Le sante a visitar soglie apostoliche.51
Etelulfo era un docile credente,
Buono, caritatevole e divoto,
E perciò di portarsi umilemente
Ad limina apostolica fe' voto.
E a Roma andò, credendo fermamente
Tornar di merti pien, di colpe voto;
E in oltre affezion pel papa prese
Per la ragion ch'egli diceasi inglese.
Buono era il figlio ancor, ma sempre accanto
Stavasi a qualche femminil gonnella.
E quando andò a prostrarsi al padre santo,
Ad osservar la sottil gamba e snella
Quel prence donnajuol fermossi alquanto;
Baciando poscia la papal pianella,
Siccome del mestier par vi sentisse
Il fiuto femminil, ma non lo disse.
Fece Etelulf ciò ch'oggi i re non fanno,
Cosa fe' da cristian, papista vero,
Obbligò ciascun suddito britanno
Di qualunque foss'ei classe o mestiero
A pagar una tassa al papa ogni anno,
Che fu poi detta il soldo di san Piero,
E tributaria della santa chiesa
L'anglica monarchia da lui fu resa.52
O volubilità dei capi umani!
Pria dominio acquistavano, e tributo
Riscotean i pontefici romani,
E a poco a poco poi tutto han perduto,
Tutto si toglie lor; ma dei sovrani
So ben che le azioni ad un minuto
Esame assoggettar non si conviene;
Che tolgano, che dian, fan sempre bene.
51
Sabellico, la cronaca di Sassonia, Bochio all'anno 855, card. Baronio all'anno 855 num. 28.
Matteo di Westminster, Rodolfo di Diceto, Brompton, e Asserio, autor della vita d'Alfredo, figlio d'Ételulfo, rapportano il
viaggio, e il tributo da questo re fatto a s. Pietro all'anno 854.
52
449
Alle parrocchie e chiese principali
Ed ai ministri e presidenti loro
Fatti Etelulf magnifici regali,
Lasciò in partir trecento marche d'oro
Da spartirsi fra il papa e i cardinali;
Somma che per quei tempi era un tesoro.
Per voi, papi, Etelulfo un gran re fu,
Ma d'Etelulfi non ne vengon più.53
La santa fe già vigorosa e viva
Par che infermiccia ognor divenga ed etica;
Anglia, in cui già religion fioriva,
Oh lacrimevol sorte! è in oggi eretica,
E verso il papa di rispetto priva
D'odio divenne a segno tal frenetica,
Che lo trattò, com’ei fosse un bamboccio,
Per ischerno bruciandone il fantoccio.
Lo stess'anno Lotario imperadore
Si fe' frate di Prom nella badia;
E Luigi, suo figlio e successore,
Egli che re d'Italia er'anche pria
E che di Roma si dicea signore,
La sede imperial fissò in Pavia,
E a lui colà mandava e alle sue squadre
La benedizione il santo padre.54
Ma guari non andò che con solenne
Corteggio dal pontefice Giovanni
Scettro e corona a Roma a prender venne;55
Nè sol per se, ma ancor per gli alemanni
Imperadori il privilegio ottenne
Della prescrizion delli cento anni,
Ch'inserì Grazian con più simili
Tra i decreti dei papi e dei concili.56
Io so ben che un gran numer d'eruditi
Sul punto di Giovanna è miscredente,
E i fatti alla papessa attribuiti
Sogliono attribuir comunemente,
E sopra tutti i padri gesuiti,
Al precedente papa o al susseguente,
E appartener in conseguenza han detto
53
Parla di questa liberalità la cronaca di Norimberga, e s. Antonino. Gli atti di questa liberalità sono stati inseriti nella
collezione de' concili stati conservati da Ingulfo, e da Guglielmo di Malmesbury, e da Matteo di Westminster, autori inglesi.
54
Du Haillan, Baleo, i Centuriatori di Magdeburgo, Grim, ed altri.
55
Ludovicus II Lotharii filius, imperator in imperio parenti succedit, a pontifice opt. maximo Joanne unctus: hoc anno
Joannes pontifex in via publica, inque processione solemni ad Lateranensem basilicam instituta partus doloribus oppressa,
infantem sub dio parit: post partum mox extinguitur, unde feminam fuisse, virique sexum mentitam constitit. Georg.
Fabricii Chemnicensis, Rerum Memor. an 856.
56
Parte II , causa XVI , q. III cap. Nemo.
450
A Leon papa, o a papa Benedetto.
Con chi Giovanna crede una chimera
Io qui non vo' star mica a far contrasti.
Vegga se falsa sia la storia o vera
Chi per le mani ha della chiesa i fasti.
Citai nella più autentica maniera
Autori e fatti, e ciò mi par che basti;
Ma ciò che non è articolo di fede
Ciascuno a suo piacer crede e non crede.57
Fin qui con simular scaltro e profondo
Giovanna la papal sua pantomima
Sostenne a maraviglia in faccia al mondo,
In che l'unica fu non che la prima.
Nè del suo cor penetrò mai nel fondo
Occhio mortal, e lode ottenne e stima;
Nè ipocrisia di verità col manto
L'inganno ricoprir seppe mai tanto.
Ma natura, che a forza si comprime,
O presto o tardi si rileva, e spiega
Con più vigor le qualità sue prime:
Così talor a terra curva e piega
Giardinier di qualch'arbore le cime,
E a tronco inferior le attacca e lega;
Ma i lacci poi rompendo ed i legami,
L'arbor di nuovo al ciel drizza i suoi rami.
Sbalzata dalla sorte a quella altezza
Cui spinger non osò la speme ardita,
Al lusso e al fasto della sua grandezza
Abbandonassi ed alla molle vita,
Cui facilmente femmina s'avvezza;
Languor l'invade che al piacer l'invita,
E che risveglia in lei le lusinghiere
Idee delle abitudini primiere.58
Divenner gli agi a lei familiari,
E in breve tempo, il suo fervor deposto,
De' gravi s'annojò pubblici affari;
Che carica sublime, eccelso posto,
E oggetti tai sì desiati e cari
Ottenuti che sian, annojan tosto.
Solo da lungi illusion ci fanno,
Figlio d'esperienza è il disinganno.
Da lunge ambizion gli oggetti indora,
57
L'histoire de la papesse Jeanne, on l'a tenue 500 ans durant pour une verité constante: Mezerai Abrégé chronologique pag.
216. Ed. Par.
58
Amalarico, Boccaccio, Filippo da Bergamo, Teodorico di Niem, De privilegiis et juribus imperii.
451
E in seducente aspetto e lusinghiero
Li mostra, e il mal ne asconde o lo minora
Agli sguardi del caldo desidero.
Se poi gli ottieni, il vel si squarcia allora,
E schietto appare e nel suo nudo il vero;
Felicità ch'ivi brillar vi parve
Tosto svanì qual ombra vana e sparve.
Dei giorni spesi già fra i savi e dotti,
Fra le belle arti e fra le muse amene,
E degli studi mai non interrotti
Da molesto pensier si risovviene,
E delle dolci dilettose notti
Che col suo monacel passò in Atene,
E il confronto tuttor facendo gia
Fra lo stato d'allora e quel di pria.
E alla memoria sua mentre appresenta
I bei momenti dell'età felice,
Esser le par di libera e contenta
Or divenuta schiava ed infelice.
Talor par che sacrilega si senta
Del trono e del triregno usurpatrice,
E prova invece dell'antica gioja
Inquietudin, timor, rimorso e noja.
E dell'animo suo nella tempesta
Che val, dicea, la pompa esteriore
E la genia de' cortigian molesta,
Se la tranquillità tolgon del core?
E il natio di bel nuovo in lei si desta
Che ambizion sopì ticchio d'amore,
E in se risente il fomite del senso
Rigogliosetto ed al piacer propenso.
Se mira intanto assediata e cinta
Da grave stuol, sulla di cui figura
Falsa pietà, virtù mentita e finta,
E il ridicol sussiego e l'impostura
Chiaramente apparia scolpita e pinta;
Onde avvien che la giovin prelatura
Che viene a farle omaggio e la corteggia
Con compiacenza e con piacer sol veggia.
Fra quella turba di leggiadro aspetto
Discerse un prelatin la cui sembianza
Parvele aver col monacel diletto
Un certo non so che di somiglianza;
E ciò più viva risvegliolle in petto
Degli antichi amor suoi la rimembranza.
Ma il prelatin su lei preval, che assente
452
Er'allor Fulda e il prelatin presente.
Poche notizie abbiam del prelatino,
E si sa sol che si chiamò Baldello.
Altri voglion ch'ei fosse Perugino,
Ed altri originario del Mugello;
Ma di Perugia fosse o Fiorentino,
Sua santità di Fulda al monacello
Destinò il prelatin per successore,
Ma in petto lo serbò, cioè nel core.
Per altro incominciò da quell'istante
Del sovrano favore a dargli indizio,
E il più proficuo e il più significante
Fu il conferirgli un pingue benefizio,
E per averlo ancor più spesso avante
Al suo lo volle personal servizio,
E com'è in cose tai stil consueto,
Lo dichiarò suo camerier secreto.
I memoriali ch'ei le presentava
Inver non ivan mai d'effetto voti;
Ma ciò motivo a mormorar non dava,
Poco tai fatti al pubblico eran noti,
Ed egli del favor non abusava,
Come poi fero i cardinal nepoti;
Che palagi, staffier, porpora e cocchi,
Oggetti son che saltan troppo agli occhi.
E per alloggio camere assegnogli
Contigue ai pontifici appartamenti,
Acciò ivi custodir scritture e fogli,
Ed encicliche ei debba e documenti
E bolle e brevi, e acciò la vesta e spogli
Delli pontificali paramenti;
Che ai cortigian così di toglier parle
Occasion di far sospetti e ciarle.
O fosse caso o fatto fosse ad arte,
Sendo una sera il prelatin con ella,
Nel torle il pastoral vide una parte
Fuori schizzar d'una papal mammella.
Sorpreso ei resta e stupido, e in disparte
Trarsi volea: sua santità il rappella
E ridendo dicea: perchè non resti?
Sì schifo è adunque ciò che tu vedesti?
Queste ed altre scherzevoli parole
Fatte al bel prelatin, con un sorriso
Lo congedò, perchè ricever vuole
L'ambasciador del principe Adelgiso,
453
Che il gran cirimonier, come si suole,
Allor venne per dar al papa avviso
Che l'udienza il messaggier chiedea,
E che già in anticamera attendea.
Adelgiso, signor di Benevento,
Stat'era allor dai Saracin battuto
Presso Bari in un fier combattimento,
E mandava a implorar dal papa ajuto.
Il messo giunse appunto in quel momento
Ch'ella col prelatin, che avea veduto
In lei femmineo sen, prendeasi gioco,
E contrattempo tal seccolla lui poco.
Cosa fra il papa allor fosse concluso
E quell'ambasciador beneventano,
Poichè si ritrovare a muso a muso,
O Donne mie, mel chiedereste invano.
Ma credo nulla; almeno questo è l'uso
E il metodo in politica il più sano.
Comunque sia però, cotesto punto
Non ha nulla da far col nostro assunto.
Chiuso intanto Baldel nella sua stanza,
Assorto in quel pensier, di capo torse
Non potè mai di ciò la rimembranza
Che co' propri occhi suoi poc’anzi scorse.
Cotanta glie ne par la stravaganza,
Che stette fin del ver talvolta in forse.
Fosse mai donna? in se dicendo gia;
Eh! che pensarlo solo è una follia.
Forse femminil sesso è necessario
Per aver colmo e rilevato il seno.
Uomini ancor (benchè straordinario
Il fenomeno e rari i casi sieno)
Uomin di donna al par (lieve è il divario)
Talor popputi son, gli eunuchi almeno.
Bisogna aver proprio un cervel di rapa
Per creder ch'una femmina sia Papa.
Ma se ragioni tai, tai prove adduco
Perch'ei donna non sia, portato sono
A sospettar ch'egli esser possa eunuco;
L'imberbe mento e della voce il suono,
Perchè a crederlo tal facil m'induco,
Le congetture e le ragioni sono.
Se mancan certi requisiti, intesi
Che basti sol d'avergli al collo appesi.
Ma non però calmar l'alto stupore
454
Potea Baldel su ciò che avea veduto;
Nè la sorpresa esser dovea minore
In veder un pontefice popputo
D'allor quando il real barbitonsore
Vide asinescamente un re orecchiuto.
Se veglia, sempre in quel pensier intoppa,
Se s'addormenta poi, sogna la poppa.
Al suono d'un argenteo campanello
Sua santità la susseguente sera
Fe' a se venir monsignorin Baldello,
Poichè solea chiamarlo in tal maniera.
Tosto ei corse colà, che il giovin bello
Sempre agli ordin santissimi pront'era;
Ed appena che videlo apparire,
Così gli prese il santo padre a dire.
Vedrem se le pupille sì ritrose,
Come jersera avesti, anche oggi avrai.
Preso maggior coraggio, allor rispose
Il favorito prelatin: tu sai,
Signor, che al mondo vi son certe cose
Che a prima vista fan sorpresa assai;
Facil però cessa il primier ribrezzo,
Allor che l'occhio è a riguardarle avvezzo.
Bravo, ella disse allor; così dee farse.
Ciò dunque che altrui celo, a te dischiudo.
E gl'impacci d'attorno a dislacciarse
S'affretta, e l'ampio sen scoperto e nudo
Offerse a' di lui sguardi, e donna apparse
In faccia al nuovo destinato drudo,
Che stupito ed attonito a tal atto
Restò, ma più non dubitò del fatto.
Poi disse: or me, come mi fe' natura,
Vedi e più l'apparenza or non t'inganna.
Forza mi tien sotto viril figura,
Ma Giovanni non sono, io son Giovanna,
E sen dubiti ancor, te ne assicura,
E da te stesso omai ti disinganna.
La man gli prende in questo dir, l'appressa
Al nudo sen, su ve l'arresta e pressa.
Benché otto lustri e mezzo avesse allora,
Fresche le carni e consistenti e bianche
Conservav'ella e bella forma ancora,
Vezzi e maniere disinvolte e franche;
Bella in somma apparia, come tuttora
A quella età noi ne vediam puranche,
E fine al tatto e morbida la cute,
455
Nè le native grazie avea perdute.
Onde la dolce al prelatin non spiacque
Violenza che fassi alla sua mano,
Sovra ve la lasciò, sorrise e tacque.
E da quell'atto lubrico e profano
Tacita intesa intra di lor ne nacque;
Ma non potean ivi far punto, e invano,
Poste le cose essendo in su quel metro,
Voluto si saria tornar indietro.
Senza fren di pudor l'esposto petto
Allo sguardo lascivo, al tatto ardito,
L'incitamento al sensual diletto
Ed il licenzioso aperto invito
Talmente incalorir nel giovinetto
Di natura gli stimoli e il prurito,
Che, vinte ormai le renitenze prime,
Sul nudo sen fervidi baci imprime.
Più allor sua santità non si balocca
In frivoli preludi ed in parole;
Ma s'inchina, l'abbraccia, il bacia in bocca,
E spinger l'opra al compimento vuole.
Le arcane parti intanto ei cerca e tocca
Colla libera man, come far suole
Chi giunger vuol per tai preliminari
Alla conclusion dei grandi affari.
Nelle lor vene di lussuria il foco
Ferve, e gl'indugi sdegna, e bolle e abbonda.
Propizio è il tempo ed opportuno il loco,
E i lor desir facilita e seconda,
E già gl'invita all'amoroso gioco
Del talamo papal l'aurata sponda.
Ciascun quel che dovette allor seguire
Sel pensi, per rispetto io nol vo' dire.
L'angelo tutelar che non avvisto
Erasi ancor che donna il papa fosse,
Non così tosto l'atto osceno ha visto
Che fugge; e allor la camera si scosse.
Cadde dall'alto e si fe' in pezzi un cristo,
Vergine pinta fe' le guance rosse,
L'immagin di san Pier diventò nera;
Ma quei continuar la lor carriera.
Di Pier le chiavi intanto un amorino
Cheto involò con furberie leggiadre,
E ne cinse le reni al prelatino,
E Venere d'amor la bella madre
456
Che presente pur era al giocolino
Il camauro si pon del santo padre,
E scherzando un con l'altro in cotal guisa,
Accennavano i drudi, e fean le risa.
Se stato fosse il dì limpido e chiaro,
Sariasi il sol celato per l'orrore,
Come il giorno che a lui si scoloraro
I rai per la pietà del suo Fattore:
Ma parlando di scandalo sì raro,
D'ecclisse non parlar sarebbe errore;
Onde, seguito essendo a notte bruna,
Del sole invece si ecclissò la luna.
457
LA PAPESSA
NOVELLA XXXII
PARTE TERZA
Ben avvisto io mi son, Donne amorose,
Che a certe infamità non mica avvezzo
L'orecchio vostro l'opre scandalose
Di Giovanna in udir provò ribrezzo.
Una papessa far sì fatte cose?
Ma ciò che dir si vuol mai dirsi a mezzo
Non dee, per quanto ei sia straordinario;
Tal qual è raccontarlo è necessario.
Cose vi son che saria meglio assai
Per non dar mal esempio al buon costume,
Meglio saria non accadesser mai;
Ma se accadono poi, nel loro lume,
Acciò sian norma altrui, por le dovrai,
Poichè invan di celarle si presume.
Che papesse vi fur, cose ben degne
Son da sapersi, e più papesse pregne.
Quella la prima volta esser cred'io
Che fosse un papa in casi tai passivo.
L'antico ella sentì pruder natio;
E di giacer col drudo un assai vivo
In lei destossi sensual desio,
E il disse al prelatin che non fu schivo
Ad accettar, che quando vuol, ben sa
Con agio assaporar la voluttà.
La notte appresso in fatti, allor che cheto
E altamente tranquillo era il palagio,
Il favorito camerier secreto
Dell'amata papessa adagio adagio
In stanza entrò per l'usciolin di dreto.
Seco in letto corcossi, e a lor grand'agio
Tutta la notte dieronsi a godere
Ripetuto reciproco piacere.
E nello stato puro e naturale
Uniti strettamente in dolce amplesso,
458
L’un dell'altro prendea diletto tale,
Che mancò poco che sull'atto stesso
Ella non lo creasse cardinale.
D'allora in poi volle giacer con esso
(Nè se ne avvide mai persona umana)
Cinque o sei volte almen la settimana.
E intanto tutti abbandonò gli affari
E dello stato e della santa chiesa
in balia de' ministri e de' vicari,
Di cui la cura unicamente intesa
Tutt'era sempre ad ammassar danari,
Mentr'ella in letto o sul sofà distesa
Nella mollezza e nella vita oscena
La notte in braccio al drudo e i giorni mena.
Ma il volgo allor, che ciò non sa nè vede,
Sempre ne' suoi giudizi inetto e tondo
Vasti disegni meditar la crede
Fra cure immersa ed in pensier profondo
Per l'onor della chiesa e della fede,
E per l'universal bene del mondo.
Così allor gian le cose, e quel ch'è peggio,
Così oggi e così sempre andar le veggio.
Giovanna poi col prelatin le stesse
Abitudini avendo ognor tenuto,
Un bruttissimo caso a lei successe,
Che prima mai non erale accaduto;
Ma essendo natural che le accadesse,
Esser potea da lei ben preveduto.
Pertanto, o Donne, indovinate un po'
Cosa fu che le accadde? ingravidò.59
Funne Baldello al sommo afflitto e pavido,
Ed era in una Grande inquietudine
Che scoperto non fosse il papa gravido.
Ma imperturbabil sua beatitudine
L'animo conservò tranquillo e impavido,
Nè se ne prese mai sollecitudine;
Perchè i peripli ed i disastri umani
Per lo più non son tai per li sovrani.
59
Fama est, hunc Johannem feminam fuisse, et uni soli familiari tantum cognitam, qui eam amplexus est, et gravida facta
peperit, papa existens: Sigibert, Chronicon ad an. 854.
Verum postea a servo compressa, cum aliquandiu occulte ventrem tulisset, tandem, dum ad Lateranensem ecclesiam
proficisceretur, inter theatrum (quod Coloseum vocant a Neronis colosso), et sanctum Clementem doloribus circumventa,
peperit. Platina nella vita di Giovanni VIII pont. 106.
Verum postea a familiari compressa gravidatur, et papa existens peperit. Stella, sacerdos ven. Vitæ Pont. Rom. papa 108 an
852, e Fil. da Bergamo, Supplem. Chr. lib. IX anno 858.
Sed in papatu, per familiarem suum impœgnatur, et quum de s. Petro in Lateranum tenderet, inter ecclesiam s. Clementis et
Coliseum peperit in via publica. Gio. Nauclero, Chronica, Coloniæ 1579 Gen. 19 pag. 713.
459
E tutti i mezzi in suo potere avendo,
Di celarsi credevasi sicuro:
Ma il ventre il prelatin, seco giacendo,
Spesso le tasta e ognor più gonfio e duro
Trovandol, dice: in celia io non la prendo,
Io, cara santità, penso al futuro.
Ed ella che sì timido il vedea
Di quella sua timidità ridea.
Perché così, dicea, con timor vano
Amareggiar il tuo piacere e il mio?
D'esser che gioveria papa e sovrano,
Se tutto ciò che di sinistro e rio
Suole al basso accader volgo cristiano
Distorre e prevenir non potess'io
Con quei che dammi onnipossenti modi
L'auge papal? non temer dunque e godi.
Or una notte il prelatin seco ebbe
Questo discorso inver straordinario.
Dimmi, santità mia, non si potrebbe
Dichiarar il papato ereditario?
Perchè allor la tua prole regnerebbe.
Ed ella: ben pensarvi è necessario;
La cosa assai difficile la vedo,
Ma non mica impossibile la credo.
E per provarti che non è fandonia,
Come a talun parrebbe una idea tale,
Ti dirò che i calif di Babilonia
Anch'essi han potestà pontificale;
Pur il figlio senz'altra cerimonia
Succede al genitor, nè v'è alcun male;
Ma ciò a un calif permette il lor profeta,
E ad un papa cristian Cristo lo vieta.
Tai confronti però, tai raziocini
E qualunque ragion fosse anche addotta
Risguarderebbe i papi masculini,
Per cui fu sol tal dignità introdotta;
Ma risguardo alli papi femminini
Saria cosa un po più difficilotta,
Che della chiesa i venerati capi
Non papesse suppongonsi, ma papi.
Per non incontrar dunque alcun ostacolo
Nell'introdur sì fatta innovazione
Dovriasi immaginar qualche miracolo
O soprannatural rivelazione,
Mischiarvi in somma cielo, tabernacolo,
Divina volontà, religione;
460
Che, tai mezzi impiegando, ognor possiamo
Da' popoli ottener quel che vogliamo.
E a te comunicar voglio una mia
Riflession che meditar tu puoi.
Vergin che partorisce o papa sia
Dee portento egualmente esser per noi:
L'un fra i bramini in oriente pria
Fu venerato, e in occidente poi;
E venerarsi non potria nel mondo
Come il primo portento anche il secondo?
Lasciamo star che, come sai, si gemina
Anche in talun naturalmente il sesso;
Grecia cangiato un dì Tiresia in femina
Credette: or se fra il popolo sommesso
L'autorità sacerdotal dissemina
Esser in me seguito anche lo stesso,
Di che stupir? credetterlo i pagani,
Tanto più il crederebbero i cristiani.
Il matrimonio poi, che pur si suole
Suppor come contratto e sacramento,
Acciocchè sia legittima la prole,
Ecclesiastico egli è ritrovamento,
Che può un papa cangiar, quand'egli vuole
Giusta le circostanze e a suo talento.
Ma tai pensier lasciam per ora, e omai
Ago quod agis, non pensare a guai.
Baldello che gran logico non era
Al di lei detto si rassegna e cede,
Mente ispirata, alta dottrina e vera,
E spirito profetico le crede,
Nè dubita possa ella in sua maniera
Manipolar gli articoli di fede;
Onde ad altro non pensa il giovinetto,
Che a porre in opra quel latin precetto.
Che sì fatti discorsi ed altri tali
Eran come episodi ed intervalli
Frapposti negli affari essenziali;
Perocchè, Donne mie, dalli e ridalli,
Alfin fiaccansi i mezzi istrumentali,
Se anche fossero solidi metalli,
E spesso, o Donne, il noto avete inteso
Detto proverbial dell'arco teso.
Or a Fulda torniam, che finallora
In Bagdad ed in Bassora si tenne
Per più di dodici anni, e alfin dimora
461
Di cangiar si risolse e a Roma venne,
Ove sperò trovar Giovanna ancora;
Ma dell'arrivo suo non la prevenne,
Nè avendole di se mai dato avviso,
Inaspettato giunse ed improvviso.
In una cognitissima locanda
Presso un ostier comasco alloggio prese,
Gran novellista, e tutte da ogni banda
Solea raccor le vesce del paese.
Fulda a costui se conoscea domanda
Un certo tal, detto Giovan l'inglese.
E quei: signor, ei par che sta mattina
Giunto siate dall'Indie o dalla China.
Sì veramente, amico, in quest'istante,
Fulda rispose, io posi in Roma il piede.
Sono straniero vengo da levante;
Onde di tutto ciò che qui succede,
O caro locandier, sono ignorante.
Oh sì, ripiglia il locandier, si vede.
Per altro meglio non potreste altrove
Rivolgervi che a me per aver nuove.
Pur domando perdon chiunque siate,
Io la sorpresa mia non vi nascondo,
Come possibil fia che non sappiate
Ciò che universalmente è noto al mondo?
Ma giacchè, padron mio, mel domandate,
Questo Giovanni inglese, io vi rispondo,
E un uom straordinario, un uom di cui,
Quanto v'è a dir, si può dir sol di lui.
Questo Giovanni inglese io mi rammento
Che dodici anni sono a Roma giunto
Entrò di san Martino nel convento,
E fu caro al pontefice defunto.
E perchè di virtù raro portento
Lo credean, lo fer papa, e al trono assunto
Regna or col nome di Giovanni ottavo,
E credean d'aver fatto un papa bravo.
L'aurora inver del suo pontificato
Fu (non v'è da dir no) splendida e bella,
Ed era e meritava esser lodato;
Ma durò poco: or non tien più cappella,
Più non esce, e talmente ei s'è ecclissato,
Che omai nessun ne può saper novella.
Ei giusta i cortigian sempre è in lavoro,
Ma chi diavol può credere a costoro?
462
Tutti intanto gli affar vanno in malora,
Tutte le casse pubbliche son vote,
Ciascun ministro sol per se lavora,
Nè tai cose al pontefice son note;
Che se li Saracin tornasser ora,
Soldi no, che trovar non se ne puote,
Ma potrian portar via statue e colonne,
Ed insaracinar le nostre donne.
Corre da un tempo in qua sordo bisbiglio
Esservi un prelatin che non si sa
Se nipote gli sia, se gli sia figlio,
Ma molto se ne mormora in città.
Tutte coll'opra sua, col suo consiglio
Fassi, nè accorda mai sua santità
Grazie e favor che per lo suo canale.
In somma, padron mio, stiam molto male.
Quel che però con questo papa avviene
Cogli altri ancor più o men sempre è avvenuto.
Quando talun pontefice diviene
Un gran portento di virtù è creduto;
Poscia il credito in breve a perder viene,
Nè val più nulla, quando è conosciuto.
E per conforto dicon che del pari
Le cose van ne' stati secolari.
L'origine, la patria, il genitore,
Nel papa ciascun cerca e ciascun erra;
Chi sostien ch'egli sia fratel minore
D'Etelulf che fu qui, re d'Inghilterra;
Altri un cugin del greco imperadore
Che si crede annegato o morto in guerra.
Fanne ciascuno la genealogia,
Ma in fatti nessun sa chi diavol sia.
D'altri Giovanni inglesi io non potrei
Dirvi nulla, nè udii parlarne mai;
E se qui ve ne fosser lo saprei,
Perchè per dirla io la so lunga assai;
Ma non dico a nessuno i fatti miei;
E così francamente io vi parlai,
Perchè voi mi parete un galantuomo.
E qui fiato prendea l'ostier di Como.
A quella chiacchierata dell'ostiero
Fulda stupito resta, e benchè veggia
Che molt'hanno i suoi detti aria di vero,
Stassi incerto e non sa che creder deggia
Di tutto ciò che dice quel ciarliero,
E in suo pensier fra mille dubbi ondeggia:
463
Pur lumi ancor trar da colui procura
Del papa sull'età, sulla figura.
Onde l'ostier seguia: papa Giovanni
Bell'uomo è inver, pensate in gioventù
S'ei bel non era; e può esser ch'io m'inganni
Ma a creder mio egli non ha che al più
Oltre i quaranta forse tre o quattr'anni.
Fulda poichè del tutto istrutto fu,
Prese congedo dal loquace ostiere,
Poscia si ritirò nel suo quartiere.
E ciò che intese dall'ostier loquace
Colle date e con quel ch'ei sa confronta,
E l'ardir conoscendo e il perspicace
Spirto di lei: quanto costui lui conta
Fosse mai ver? fra se dicea... capace
Di tutto ella è, tutti i perigli affronta...
Sibben... ma poi... per Dio! divenir papa...
E che non può, se donna tal s'incapa?
Per ischiarir se falso fosse o vero
Quanto detto gli avea l'ostier di Como,
Di presentarsi caddegli in pensiero
Il mattin susseguente al maggiordomo.
Itovi, espose a quei ch'ei forestiero,
Inglese e un pochettin pur gentiluomo,
Chiedea per un affar di conseguenza
Privatamente al papa un'udienza.
Tal cosa ad ottener difficil era;
Ma come inglese e gentiluom l'ottenne,
E da sua santità la stessa sera
Senz'alcuna etichetta ammesso venne.
Giovanna allor di Fulda alla primiera
Apparizion di lui si risovvenne,
E lei, malgrado il pontificio manto,
Fulda ancor ravvisò, ma dopo alquanto.
E attonito a tal vista: oh ciel che veggio!
Sei tu, diceva, o non sei tu Giovanna?
È questa illusion? sogno? vaneggio?
Certo sei tu, nè l'occhio mio s'inganna;
Ma come mai sul pontificio seggio,
Come di Pier tu assisa in sulla scranna?
Come poffareddio tu le celesti
Chiavi, tu donna ad usurpar giungesti?
La sorpresa di quella stravaganza
Calmata alquanto, in lui dell'abitudine
Ch'ebber fra lor destò la rimembranza,
464
E postosi d'amante in attitudine
Con trasporto le braccia e con baldanza
Gettò al collo di sua beatitudine,
E se altri il piè le bacia, egli le scocca
Un indivoto bacio in sulla bocca.
L'improvvisa comparsa e non attesa
Se Giovanna non pose in brutto intrico,
Donne, pensatel voi; d'esser sorpresa
In braccio altrui dal prelatino amico
Temè, ma non osò dì far contesa
Al trasporto primier dei drudo antico.
Narrò poi per quai mezzi ed in qual guisa
Sul pontificio soglio erasi assisa.
Di Cristo esercitar sul gran vicario
Nè rispettoso assalitor nè casto
Di possesso volea l'atto primario;
Ma Giovanna v'oppose un tal contrasto
Che a Fulda parve assai straordinario.
La man portando allor del ventre al tasto
Vi ritrovò durezza ed enfiamento;
Turbossi, e disse a lei: ch'è ciò che sento?
Ella arrossì e rispose: è un'ordinaria
Entratura che m'è sopravvenuta
A cagion della vita sedentaria.
Ed ei: posizion forse hai tenuta
Da quella che tu dici alquanto varia,
Supina stata sei più che seduta.
E il sì l'un sostenendo e l'altra il no,
La disputa a scaldarsi incominciò.
Non vuol Fulda soffrir ch'ella l'inganni,
E cruccioso risolse usar del dritto
Che con possession di quindici anni
Credeasi aver sopra colei prescritto;
E a forza a lei slacciati i sacri panni,
Sentì nel ventre il corpo del delitto.
Ella il respinge e il dente adopra e l'ugna,
Ed egli insiste, e vi fur graffi e pugna.
Ma Fulda assicuratosi del vero,
Malgrado di colei la resistenza,
Fosse zel per la cattedra di Piero,
O indignazion per tanta incontinenza,
O per affronto all'amor suo primiero,
Invaso da improvvisa escandescenza
Contro lei che parlar più non ardiva
Violenta scagliò fiera invettiva.
465
Dunque, femmina rea, l'impudicizia,
Dunque l'iniquità, dunque l'enorme
Lussuria tua che tutto infetta e vizia,
Sotto sì sacre e venerate forme
Celar sapesti, e sulla tua nequizia
L'ira del ciel stassi oziosa e dorme?
Certo di te parlò l'Apocalisse,
Quando la grande adultera descrisse.
Vaso di contumelie in man sostieni
Che, qual di fogna fetida emissario,
Spande attorno corrotti aliti osceni.
Tu il tempio profanasti e il santuario
E l'adorazion del mondo ottieni;
Tu di Cristo osi dirti ancor vicario,
Tu della santa fede il vituperio,
E tu l'obbrobrio sei del presbiterio.60
Anzi sei tu la bestia informe e grossa
Su cui sedea la gran fornicatrice,
E che la pelle avea lucida e rossa,
Come Giovanni saviamente dice;
E come quella i sette capi addossa,
Di sette vizi sei la peccatrice;
La fronte, come a quella, a te contorna
L'infame serto delle dieci corna.61
Te metteran rabbiosamente in brani,
E come fer dell'empia Gezabelle,
Le carni tue divoreranno i cani,
E te dei spirti rei lo stuol rubelle
Afferrerà colle uncinate mani,
Ed in sull'ossa tue svelta la pelle,
Te getterà, come a colei già fece,
Entro un caldajo di bollente pece.62
Mentre contro Giovanna in tuono enfatico
Fulda inveia con quel fervor profetico
Che già di Patmo invaso avea l'estatico,
E che alquanto parer potria bisbetico
A quei che in sacra Bibbia è poco pratico;
Il volto a lei coprì pallor cachetico,
Mutola, fredda, immobile divenne,
Stralunò gli occhi, abbassò il capo e svenne.
60
Et mulier erat circumdata purpura, et coccino, et inaurata auro, et lapide pretioso, et margaritis, habens poculum in manu
sua plenum abominatione, et immunditia fornicationis ejus. Apoc. cap. XVI v. 4.
61
Et vidi mulierem sedentem super bestiam coccineam, plenam nominibus blasphemiæ, habentem capita septem, et cornua
decem. Apoc. cap. XVII v. 3.
62
Hi odient fornicariam, et desolatam facient illam, et nudam, et carnes ejus manducabunt, et ipsam igni concremabunt.
Apoc. cap. XVIII v. 16.
Fornicatoribus, et veneficis, et idolatris, et omnibus mendacibus pars illorum erit in stagno ardenti igne et sulphure. Apoc.
cap. XXI v. 8.
466
Ecco cosa vuol dir la coscienza,
Coscienza di donna è una gran cosa.
Giovanna in ogni critica occorrenza
Ferma mostrata s'era e coraggiosa,
Ed eccoti che in quella contingenza
Perde coraggio ed alitar non osa.
Un tremito la prende, uno spavento...
E tutto a un tratto... paff... un svenimento.
Lasciolla Fulda allor, che ben vedea
Che tosto divulgatasi in palazzo
La pontificia sincope dovea
Fra i cortigian far strepito e schiamazzo:
E uscendo in anticamera dicea,
Che lieve nello stomaco imbarazzo
Era a sua santità sopravvenuto,
Che andasser prontamente a darle ajuto.
Poi sollecitamente alla locanda
Rendesi, e fa l'ostiero a se venire,
E di portargli il conto gli comanda,
Che sull'istante istesso ei vuol partire.
Tanta fretta a qual fin, colui dimanda,
E qual ragione n'abbia, e ove vuol ire,
E nuove gli vuol dar per città sparte;
Ma Fulda tace, e paga il conto e parte.
Di là partì, ma si trattenne in Roma
In un della città luogo rimoto.
Finta in capo adattò posticcia chioma,
Abito cangia, e là rimansi ignoto,
E non più Fulda, ma Carlin si noma,
Per veder, quando il fatto alfin sia noto,
L'effetto che farà la stravaganza
Di quella pontificia gravidanza.
Camerieri all'avviso accorsi intanto
Alla santità sua fero assistenza;
Corse Baldello, e se le assise accanto,
Finch'ella ricovrò la conoscenza.
Guardando attorno, allor disse che alquanto
Ivi volea starsen tranquilla e senza
Altra assistenza, indi l'accorso stuolo
congeda e con Baldel rimansi a solo.
Ma Baldel che conforto ognor le porse
In lei più non trovò quella di pria,
E ogni dì più tetri pensier le scorse
E profonda covar malinconia.
Stavasi mesta e mutola, e già scorse
467
Eran più settimane, e chicchessia
E i cardinali e i camerieri istessi
Nella camera sua non fur più ammessi.
La pancia omai gonfia dal feto e grossa
Avend'ella, fama è che le apparisse
Un angiol minaccioso in carne e in ossa,
E d'una mano un calice le offrisse,
E dall'altra infernal fiaccola rossa,
E a lei, come a David l'angiolo disse
Scegli, dicesse, pe' delitti tuoi
Qual delle due punizion tu vuoi.
La fiaccola t'annunzia il foco eterno,
E il calice l'obbrobrio in sulla terra.
Giovanna allor per evitar l'inferno
Scelse, e nella sua scelta ella non erra,
In faccia al mondo scelse obbrobrio e scherno63
Siccome non la fame e non la guerra,
Ma peste, acciò l'irato Dio si calmi,
Scelse il real compositor de' salmi.
La cosa non è a tutti manifesta,
Ed aria aver potria di favoletta.
Io non la garantisco, ma l'attesta
Più d'un classico autor su cui l'ho letta,
Che certo non cavossela di testa;
E in oltre, Donne mie, diciamla schietta,
Sempre più facilmente a un papa o a un re
Gli angioli appariran che a voi o a me.64
Grandi calamità furo in quei tempi
Gonfiossi il Tebro e soverchiò le sponde,
Gli argini ruppe e abbattè case e tempi,
E colle impetuose e torbide onde
Cagionò guasti d'ogni intorno e scempi;
Dalle immobili sue basi profonde
Crollò la terra ed aumentò il terrore,
E gli elementi eran di mal umore.65
Nuvoli in oltre ed ampiamente estensi
Di cavallette fetide e maligne,
Ed altri insetti tai serrati e densi
I campi devastavano e le vigne,
E facean danni alla campagna immensi;
Con sei ali e sei piè ce li dipigne
Fama non menzognera, e provveduti
63
Prout elegerat in remissionem peccatorum suorum, et mortua fuit ibidem sepulta. Malleolo volgarmente detto
Hemmerlein, de nobilit. et rusticitate. Dialog. cap. XXXVII, fol. 99.
64
Blanc, e Liber Indulgentiarum Rom. num. 44, 80, 81, impresso in Roma nel 1515.
65
Sigiberto, Schedel, Annales Fuldenses.
468
Di denti duri estremamente acuti.66
Il popol tutto ad un flagel sì strano,
Che pestilenza e carestia predice,
Cruccioso contro il santo suo sovrano
Cosa fa il papa? l'uno all'altro dice.
Perchè egli che il poter del cielo ha in mano
Sì funesti animai non maledice?
Perché a un comando suo non restan tutti
Quegli animai sterminator distrutti?
Cred'egli che del ciel l'ira si plache
Col tener forse scioperatamente
Le santissime mani entro le brache?
E intorno al Vatican plebe insolente,
Uomini e donne di furor briache,
Digià s'unian tumultuosamente,
Quando a sua santità si presentò
Baldello spaventato e a lei parlò:
Ohimè! santità mia, noi siam perduti:
S'attruppa il popol rivoltoso e pazzo;
Migliaja di birbon son qua venuti,
E tutto attorno assediano il palazzo.
Fin di qua non ne ascolti i ripetuti
Clamor sediziosi e lo schiamazzo?
E ch'agitati da furore insano
Minaccian metter foco al vaticano?
Ed ella: ebben, che vuol che cotant'osa,
E ribellanti moti si permette
Colesta turba vil tumultuosa?
Ed egli: a maledir le cavallette
Vuol che tu stessa vada. Allor pensosa
Per alcun poco e tacita si stette,
E far parea riflession profonde,
Poi risoluta e in fermo tuon risponde:
Quelle che noi diciam Rogazioni
Tosto cominceran pubbliche preci.
Soglionsi in quelle pie processioni
I grani benedir, le fave e i ceci.
Un giorno sulla mula a cavalcioni
Io stessa andrò, ciò che finor non feci.67
66
Petrarca.
Unde quum quodam die de Rogationibus cum clero romano, sicut tunc moris erat, in solemni processione incederet,
papalibus ornata divitiis et ornamentis, edidit filium suum primogenitum, ex quodam suo cubiculario conceptum.
Theodoric. de Niem, lib. de privilegiis et juribus imperii.
Le Rogazioni poi corrispondono ai sacrifici dai Romani detti Ambarvalia, che i sacerdoti fratelli Arvali facevano a Cerere e
a Bacco per implorare una stagione ubertosa, una fertile raccolta, una messe abbondante: pro frugibus rei divinae causa
hostiam circum arva ducebant. Pitisco, Lexic. ant. rom. voce Fratres, et Ambarvale.
Terque novas circum felix eat hostia fruges,
67
469
Ed ei: nè il ventre ai sguardi espor ti cale?
Ed ella: il coprirò col piviale.
E poichè tai comparse erano rade,
Fu fatto a suon di trombe e di campane
Pubblicar per le piazze e per le strade
Che alle Rogazion di poi domane
Ita sarebbe a benedir le biade
Sua santità in persona, e alle cristiane
Sue greggi fea saper che maledette
Sariano allor da lei le cavallette.
Giunto il giorno fatal, l'ansia amorosa
Celar non puote il povero Baldello;
Ma Giovanna il conforta, e coraggiosa,
(Oh di papal fermezza esempio bello!)
Come lascia il guerrier l'amata sposa,
Con un amplesso tenero da quello
Per iscender nel tempio e cantar messa
Si separa la gravida papessa.68
Sendosi intanto omai tutti adunati
Del clero i primi capi in Vaticano,
Monaci, preti, vescovi e prelati,
S'avviarono verso il Laterano
Processionalmente impivialati,
E fra il clamor del popolo romano
Sotto un grand'ombrellon veniva dietro
Su ricca mula il successor di Pietro.
Confuso siegue il popolazzo poi:
Intuona allor le litanie de' santi
Il maggior clero, e i subalterni suoi,
E il volgo e le pettegole e i birbanti
Stuonando repetean l'ora per noi;
Ma la procession gli alterni canti
Tronca e del Lateran sulla gran piazza
S'arresta alfin, che il gran calor l'ammazza.
Se giri il guardo attorno, indi ampiamente
D'alto discopri in vasto circuito
Le suburbane vigne e le semente.
Qui stanco il santo padre e rifinito
Omnis quam chorus, et socii comitentur ovantes,
Et Cererem clamore vocent in tecta; neque anta
Falcem maturis quisquam supponat aristis
Quam Cereri, torta redimitus tempora quercu,
Det motus incompositos, et carmina dicat.
Virgil. Georg I. v. 345.
68
Femina Joannes triplici præcincta corona,
Pro missa celebrat papa puerperium.
Moltero, Rom. Pont. vitæ et mores disticis descripti.
470
Smonta d'insù la mula e agiatamente
Sovra un bel faldistorio ivi ammannito
Posa alquanto, e con quei che stargli attorno
Parla dell'afa e del calor del giorno.
Il medico, che ognor stavagli accanto
Per tutto ciò che occor potesse: io lodo,
Gravemente diceva al padre santo,
Che la santità vostra in qualche modo
Procuri almen di ristorarsi alquanto.
Onde una bella ciotola di brodo
Che a tempo presentolle un cameriere
Sua santità non isdegnò di bere.
E levatasi poi dal faldistorio
Ai quattro venti al canto d'inni e salmi
Acqua lustral spruzzò coll'aspersorio;
E, con un cristo, acciò che il ciel si calmi,
Le locuste a scacciar dal territorio
Trincia quattro crocion larghi otto palmi;
E sulla mula poi ch'era lì pronta
Per ritornar al Vatican rimonta.
In clima adusto al declinar di maggio
In sul fitto meriggio inferocia
Del sole ardente l'infocato raggio;
Onde se nell'andar sofferse pria,
Molto più nel retrogrado viaggio
La sua pregnante santità soffria.
Languor l'abbatte, ed ancorchè nol dica,
Più non regge al disagio e alla fatica.
La gravidanza sua, la coscienza,
Le brutte cose ch'eranle accadute,
Il rimprover di Fulda e la sentenza
Dell'angioll brusco, avean la sua salute
Ogni dì píù già posta in decadenza;
Onde spasimi atroci e doglie acute
Le preser presso al Coliseo di Roma
Che dal colosso di Neron si noma.
Sovra la mula omai più non si tiene,
Vacilla, trema e di cader minaccia.
Dalla mula la scende e la sostiene
Stuol di prelati accorso, e la dislaccia.
Perd'ella il lume, impallidisce e sviene
Dei smarriti assistenti intra le braccia,
E immaturo papuzzolo in quel mentre,
Le sdrucciolò dal rilassato ventre.69
69
Papa pater patrum peperit papissa papellum.
Scriptor. Brunsw. Tom. III pag. 265.
471
Ciascun là corre e più che può s'appressa
Il confuso in udir primier bisbiglio,
L'un l'altro spinge e incalza ed urta e pressa,
Ed il tumulto accresce e lo scompiglio.
Chi veder la sacrilega papessa,
Chi veder vuol l'incestuoso figlio,
E il popol di furor insano ed ebro
Lei viva ancor gettar volea nel Tebro.
Dal feroce disegno alfine a stento
Color distolse il venerabil clero;
Ma dell'alma agitata il turbamento,
Il non curato parto, il vitupero,
Degli spirti il mortal abbattimento,
A lei troncar con spasmo intenso e fiero
Fra gli urli della plebe inferocita
Il debil fil dell'angosciosa vita.70
Dal claustro impuro l'alma di colei
Appena uscita fu, farne lor pasto
Gl'infernali volean spiriti rei;
Ma vi si opposer gli angioli, e contrasto
Spaventevol seguì fra questi e quei.
Dei spazi aerei per lo campo vasto
Il fragor rimbornbonne, e violento
Levossi intanto impetuoso vento.
Fervea tra i spirti la crudel baruffa,
Allorchè l'angiol che a Giovanna apparve
D'improvviso ghermendola l'acciuffa,
com'ei facesse non saprei spiegarve,
E dentro folta nuvola si tuffa,
E colla combattuta anima sparve.
Suoi delitti a purgar portolla altrove,
Questo si sa, ma non si sa poi dove.
Joannes Anglicus papa fuit femina, et peperit inter Coloseum, et s. Clementem. Compilatio chron. Scriptor .Brunsw. Tom II
pag. 63.
Sed procedente tempore per quemdam sibi familiarem imprægnatur, et certuni tempus partus ignorans, quum de sancto
Petro in Lateranum tenderet, angustiora inter Coloseum et ecclesiam s. Clementis peperit, et postea mortua ibidem, ut
dicitur, et sepulta. Chronicon Episcopum Verdentium Scriptor. Brunswicentium Tom. II pag. 212.
Nam ex Vaticano ad Lateranensem basilicam aliquando ad litanias profecta inter Coliseum, et Sanctum Clementem præter
spem doloribus circumventa sino obstetrice aliqua publice peperit; et eo loci ab omnibus mortua, ibidem sine ullo honore
cum fetu misera sepulta est. Stella, sacerdote Veneto, Vitæ Pont. Rom. papa 108 an. 852.
Cette femme devint enceinte du fait d'un sien chapelain cardinal, qui en abusait depuis fort longtemps, et comme elle allait
en quelque procession solennelle à l'église de Latran, elle accoucha de cet enfant ainsi concu en paillardise, entre le
Colossée et le temple de saint Clément, et mourut en la méme place, en rendant son enfant l'an de N. S. 857. Du Haillan,
Histoire de France. Edit. Paris 1575 pag. 279.
Mais comme Dieu n'endure pas toujours les abuseurs et méchants longuement régner sans leur arracher le masque du
visage, il advint qu'étant grosse du fait de son valet de chambre, allant en procession, elle accoucha en pleine rue pres le
Colisée de Rome, et mourut sur le lieu deux ans un mois et quatre jours après son élection. Claude Fauchet, Antiquités
Gauloises liv. IX, an. 854.
70
Lenfant, Histoire de la papesse Jeanne fidèlement tirée de la dissertation latine de M. de Spanheim. Tom. I, chap. I.
472
Che l'angiol la portasse in purgatorio
Natural sembra, e ch'ivi sia tenuta
In salutar supplizio espiatorio;
Ma in purgatorio io non l'ho mai creduta,
E faccio un argomento perentorio
Dante v' è stato, e non ve l'ha veduta;
Se la vedea fra la purgante schiera,
Detto l'avria: nol disse; ergo non v'era.71
Giovanna allor al suo papetto unita
Per ordine special del concistoro
Nel luogo ove spirò fu seppellita,
Ma senza pompa di papal decoro.
Una cappella poi fu costruita
Con mausoleo di grossolan lavoro
Rappresentante l'esecrabil caso
Ivi ancor per più secoli rimaso.72
Sulla tomba di lei diavoli nudi
Con diavolesse oscene (almen credenza
Se n'ebbe allor) più notti empi tripudi
E danze ed atti far d'incontinenza
Veduti fur; ma di Giovanna i drudi
Fulda e Baldel per far la penitenza,
E i rimorsi calmar aspri, inquieti,
Andaron ambi a farsi anacoreti.
E feron molto ben, che queste sono
Cose che non convien prendere a scherno
Se non ottiene il peccator perdono,
Se ne va per lo men giù nell'inferno.
Spero però, perchè il Signore è buono,
Che Fulda avrà schivato il foco eterno;
Ma di Baldel lo stesso dir non posso,
Perchè il peccato suo fu troppo grosso.
71
Un poeta della patria di Virgilio e general de' Carmelitani rappresenta Giovanna impiccata col suo amante all'ingresso
dell'inferno, onde la mirassero gl'infelici che vi entravano.
Hic pendebat adhuc sexum mentita virilem
Femina, cui triplici phrygiam diademate mitram
Suspendebat apex, et pontificalis adulter.
S. B. Mantuano, Alphonsus Tom.III, lib. III, fol. 44. Edit. Franc. 1573.
72
Filippo da Bergamo de claris mulieribus, Blanc, De Niem, s. Antonino, Nauclero, Messie istoriografo di Carlo V.
Eoque loci mortua, pontificatus sui anno secundo, diebus quatuor sine ullo honore sepellitur. Platina, nella vita di Giovanni
VIII pont. 106.
A cause d'un tel forfait, et qu'elle avoit ainsi enfanté en public, elle fut privée de tout l'honneur qu'on avoit accoutumé de
faire aus papes, et enterrée sans ancune pompe papale, et n'est point mise au catalogue des papes. Du Haillan, Histoire de
France Edit. Paris 1576 p. 279.
Dipoi fatta gravida da uno familiar suo, ed andando da santo Pietro a santo Giovanni Laterano fu sorpresa da le doglie, non
essendo giunto anchora il tempo del parturire, partorì in presenza del popolo tra il Culiseo e san Clemente, e partorendo
morì, e fu senza honore alcuno sepolta.
Cronica di Marco Guazzo. Venetia 1553, pag. 176.
473
Quanto poi alla povera papessa,
A dirla come penso, io spero bene.
Che salva ella saria parola espressa
Dall'angiol ebbe, e alfin alfin conviene
Degli angioli contar sulla promessa;
E poi se alcun posto fra i papi ottiene,
Chi sa, riguardo a qualche sua mal opra,
Se anche di là non ci si passi sopra?
Questo è quanto ragion di dir permetta
Di Giovanna, di Fulda e di Baldello.
Circa poscia alla povera animetta
Del picciol pontificio bastardello,
Non trovo alcuno autor che in dubbio metta,
Che un dei lackè dell'angiol Gabriello
Non la prendesse, e come ogni altro bimbo
Non la portasse a dirittura al limbo.
Acciò per altro in avvenir lo stesso
Non seguisse, fu allor l'uso introdotto
Del seggiolon che avea forame o fesso,
Per cui con man tastando per di sotto
Verificar solean del papa il sesso,
Uso per anni assai non interrotto;
Ma il sospetto che d'essi allor vi fu
Su i papi d'oggidì non cade più.73
73
Fu in quei tempi sì grande l'orrore e lo scandalo, che una papessa si fosse intrusa nella cattedra di san Pietro, ed avesse
amministrato i sacramenti e celebrato pontificali, che Benedetto III, suo immediato successore stabilì l'uso e la cerimonia
d'una sedia forata di marmo bianco sotto il portico della basilica di s. Giovanni Laterano, ove il papa eletto prendeva
possesso a sedere, e nell'atto che riceveva il pastorale e le chiavi, l'ultimo cardinal diacono gli tastava sotto agli abiti
pontificali le parti genitali per assicurarsi della di lui virilità, e per cautelarsi contro la sorpresa d'un'altra papessa: Et
ejusdem vitandi erroris causa, duro primo in sede Petri collocatur ad eam rem perforata, genitalia ab ultimo diacono
attrectantur. Platina, nella vita di Giovanni VIII pont. 106.
Et ad evitandos similes errores statutum fuit, ne quis de cœtero in beati Petri collocaretur sede, priusquam per perforatam
sedem futuri pontificis genitalia ab ultimo diacono cardinale attrectarentur. Stella, sacerdote Veneto, Vita Pont. Rom, papa
108, an. 852, e Filippo da Bergam, Supplem. Chron. lib. IX, an. 858.
Le cardinal diacre lui tàte les parties honteuses pour être assuré du sexe. Claude Fauchet, Antiquités Gauloises liv. IX, an.
854.
Post hæc Roma diu simili sibi cavit ab astu,
Pontificum arcanos quærere sueta sinus.
Non poterat quisquam reserantes æthera claves
Non exploratis sumere testiculis.
Cur igitur nostro mos hic nunc tempore cessat ?
Ante probat quod se quilibet esse marem.
Joa. Pannonius Episc. Quinqueuel.
Du Plessis, Hist. de la papauté p. 164
Pontificem pronuntiatum insidere jubent sedili foramen habenti, ut testes ex eo pendentes aliquis, cui hoc muneris
injunctum est, tangat, qui appareat pontificem virum esse ... Quapropter ne decipiantur iterum, sed rem cognoscant, necque
ambigant, pontificis creati virilia tangunt, et is qui tangit acclamat: MAS NOBIS DOMINUS EST. Chalcocondila, de rebus
Turc. lib. IV Paris. Typ. Reg. pag. 160.
Questa cerimonia di esplorare le parti virili all'eletto papa e di divulgare ad alta voce ABBIAMO UN PAPA MASCHIO
s'usava anche nel secolo XIV. Urbano VI fu istallato colle medesime formalità secondo il rito della chiesa di Roma. Luc.
d'Acheri, spicil. Tom. IV, Miscell. Ep. pag. 306.
Alessandro VI Borgia, benchè avesse figli, ed una figlia chiamata Lucrezia, celebre per essergli al tempo stesso sposa e
nuora, Lucretia nomine, sed re Thais, Alexandri filia, sponsa, nurus, fu pure, come altri pontefici, soggettato alla medesima
474
Ma volendo i pontefici seguenti
Di tal fatto abolir fin la memoria,
Ne soppressero tutti i documenti,
Credendo egli esser cosa infamatoria.
Quindi tutti i scrittor loro aderenti
Dubbia e oscura per renderne la storia
Tacquerla, o non ne fer racconto esatto,
Ed alteraro ovver negaro il fatto.
Io poi, se Roma a screditar s'affanna
Chi ardisce sol della ragion far uso,
E ogni scritto, ogni autor, biasma e condanna
Che a suo modo non parli, io non l'accuso;
Anzi s'ella non sol la mia Giovanna
Ma il più palpabil ver vieta, la scuso.
Saviamente il fe' sempre e, s'io non fallo,
Pur saviamente in avvenir farallo.
Non perchè già le cose scritte o dette
Non siano ovver non possano esser vere;
Ma dai preti esser debbono interdette
Come non favorevoli al mestiere,
Per l'istinto che all'uom natura dette
Se in credito, se può, di mantenere;
Onde il ver celar tenta il prete accorto,
S'ei crede possa il vero a lui far torto.
Ma non può mica simile avventura
La santa profanar sede apostolica,
O torto far all'illibata e pura
Religion ed alla fe cattolica;
Da qualunque più sordida sozzura,
Da qualunque empietà più diabolica,
Nè maculata esser può mai, nè lesa
L'illibatezza della santa chiesa.74
formalità e cerimonia della ricognizione della virilità: “Finalmente essendo fornite le solite solemnitate in Sancta
Sanctorum, e dimesticamente toccatoli li testicoli, e data la benedictione, ritornò al palacio, e entrò al pontificato
Alessandro Sesto, mansueto come bove; l'ha amministrato come Leo”. Bernardino Corio, Hist. Mediol. fol. R. IV, e seq. ove
elegantemente descrive il di lui solenne possesso preso 26 Agosto 1492 dal Vaticano a s. Giovanni in Laterano.
L'istessa allusione fu pure dal vescovo Pannonio fatta a Paolo II di vita molle e formoso, eletto l'anno 1464.
Pontificis Pauli testes ne Roma requiras.
Il poeta Marullo in un epigramma satirico contro Innocenzo VIII della famiglia Cibo, pontefice portato ai piaceri, e carico di
figli spuri e bastardi cui donò ricchezze e titoli, disse che questo pontefice non avea di bisogno d'esser esposto a dare altre
marche di sua virilità:
Quid quæris testes, sit mas an femina, Cibo ?
Respice natorum, pignora certa, gregem.
Vedi e consulta eziandio: Relazione del maestro di cerimonie di Leone X, Paris Cassio sulla consacrazione di detto papa,
Sabellico Enneadi; Tarcagnota Storia del mondo, Martino Franco secretario di papa Felice V, Cerimoniale romano edizione
di Colonia 1557 fatta per ordine di Gregorio X, cardinal Giacobazio nella vita di Celestino V, e il cardinal Pandolfo il quale
ne fa menzione nella consacrazione d'Onorio II e di Pasquale II.
74
Je trouve que de la manière que cette histoire est rapportée, elle fait plus d'honneur au siége romain qu'il n'en mérite. On
dit que cette papesse avait bien étudié, qu'elle était savante, habile, éloquente; que ses beaux dons la firent admirer à Rome
475
Se ciò non fosse, uopo saria gli errori
Immaginar di gravide papesse?
Non forse ad ogni passo anche maggiori
Scandali rincontrò chiunque lesse
Tanti e poi tanti imparziali autori
Che il ver non immolaro all'interesse?
Che dian, che diano pur gli entusiastici
Un colpo d'occhio ai fasti ecclesiastici.
E vedran fra i pontefici romani
Un Onorio, un Giovanni75 ed un Liberio
Atei, Monoteliti ed Ariani,
E Teodore e Marozie, oh vituperio!
I lor drudi crear papi e sovrani,
E i frutti di sacrilego adulterio,
Quei colto colla figlia in atto osceno,76
Questi trafitto all'altrui moglie in seno.77
Vedran la chiesa in mostro orrido e informe
Cangiarsi quando a due, quando a tre capi,
E sovvertito l'ordine e le forme
Dagli scismi dei torbidi antipapi,
L'orgoglio, il lusso e la lussuria enorme
Di forse ancor più scellerati papi;
E oltre a tanti vi do per testimonio
L'autorità del cardinal Baronio.
Ma che perciò? Forse men santa e grande
È la chiesa, e la fe men pura e intatta,
Come raggio del sol chiaro si spande
Su pantani e cloache, e non s'imbratta?
Ma non qui di risposte e di dimande
Contrasto eterno di piantar si tratta;
E tutto questo affar stringo e racchiudo
In brevissimo epilogo e concludo.
Giovanna detta allor Giovan l'inglese
D'anni quarantadue papa divenne,
E di Giovanni Ottavo il nome prese.
Più d'anni due tal dignità ritenne,
E morì del terz'anno al quinto mese.78
... Je dis que c'est faire beaucoup d'honneur au siege de Rome. Dans le siècle où l’on pose cette papesse, la qualité de
bardache, ou celle d'amant de quelque dame romaine étoit le seul mérite qui conduisoit au pontificat. Jurieu, Hist. du
Papisme part. III, chap. 2.
75
Giovanni XXIII.
76
Alessandro VI.
77
Giovanni XII.
78
Leo Papa IV obiit Kal Aug. Huic successit Joanna mulier annis duobus, mensibus quinque, diebus quatuor. Mariano
Scoto, lib. III. Aetat. IV. ad an. 854.
Post hunc Leonem Joannes Anglicus, natione Maguntinus, sedit annos duos, menses quinque, dies quatuor. Martin Polacco,
in chron. ad annum 855.
476
Regnò un anno con lode, ed allor tenne
Savia condotta e un viver casto e sobrio,
Poi cangiò metro e si coprì d'obbrobrio.
Ciò venne, alla metà del secol nono
Fra il quinto e il settimo an dopo il cinquanta;
Fu nel cinquanta cinque assunto al trono,
E tre anni morì pria del sessanta.
Ma perchè so che molti autor vi sono,
Che per non denigrar la chiesa santa
Negan tutto; alle lor ragion far argine
Credetti, gli autor miei citando in margine.79
79
S'intende delle note qui sopra riferite.
477
NOVELLA XXXIII
IL RITORNO INASPETTATO
Della placida Loira ubertosa
Vivea Lindor presso le rive amene
Con una bella giovinetta sposa
Onesta e savia, e nome avea Climene.
S'amavan sì, ch'era mirabil cosa,
Amor da prima unilli e poscia Imene:
E inver natura al volto, ai modi, agli atti,
L'un per l'altro parea gli avesse fatti.
Semplice sì, ma comoda casetta
Tranquillo dava lor campestre alloggio;
Davanti ha il fiume e più oltre una valletta,
E di vigneti sparso ha dietro un poggio.
La bella coppia ivi vivea soletta
Senza superfluità di folle sfoggio;
Un orto attorno la magion circonda,
E un picciol rio lo bagna e lo feconda.
Eran per anche a quel casino annesse
Circa quattro bifolche di terreno,
E un par di buoi e due o tre buesse;
Onde all'uopo avean latte e biade e fieno;
Pomi terrestri ed opportuna messe.
Dell'agreste lavor la cura avieno
Due contadin ch'eran natii del loco,
E che contenti ambo vivean di poco.
L'un era il padre, e Bernardon s'appella;
Che a sperienze unia senno e consiglio;
L'altro ha nome Rosmin, giovin di bella
Fisonomia, di Bernardone figlio.
Moglie di quei, madre di questi è Gella;
E senza mostrar mai broncio o cipiglio
I vari offici e il giornalier lavoro
Concordemente ripartia fra loro.
Attenta ad ordinar Climene prese
La domestica interna economia,
E tenne esatto conto delle spese
Per la cucina e per la biancheria;
E l'orto a coltivar Lindoro attese,
Ed all'utile unì la simmetria,
478
Seminò erbaggi, e pergole e spalliere
Guarnì d'uva, di persiche e di pere.
La casa per tener pulita e netta,
E pe' servigi lor, contadinella
Vivace e allegra avean, figlia diletta
Di Bernardone e di Rosmin sorella,
Di lui quattr'anni almen più giovinetta;
Con Climene era ognor, Silvia s'appella,
E a lei serve di fante e di compagna,
Se soletta sen va per la campagna.
Della bella Climene e di Lindoro
Le paterne ricchezze eran sol queste;
Nè trista ambizion ne' petti loro,
Nè interesse ispirò cure moleste.
Godean di contentezza il bel tesoro
Nelle lor facoltà parche e modeste
Più che i ricchi e i potenti in mezzo agli agi
Ne' marmorei magnifici palagi.
Quando lieta ridea la primavera,
O nel calor della stagione estiva,
La bella amante coppia in sulla sera
La fresc'auretta a respirar sen giva
Agiatamente lungo la riviera,
O si sedea sovra l'erbosa riva,
Mirando tremolar nell'onda bruna
Il sol cadente o la nascente luna.
Mira, dicea Lindor, che già nell'onde
Il sol si tuffa, e già la notte oscura
Sopra gli oggetti l'ombre sue diffonde
Così se assenza (ognor penosa e dura
Quantunque breve) il viso tuo m'asconde,
Par ch'estinta per me sia la natura.
Ovunque il guardo, ovunque il passo io movo,
Altro piacer, altra beltà non trovo.
Poscia la faccia verso il ciel volgea,
Accennando con man: vedi le stelle
Come scintillan colassù, dicea;
Ma tu, Climene mia, non vedi quelle,
Quelle ch'io veggio, onde il mio cor si bea,
Di gran lunga più fulgide e più belle;
Io parlo delle tue luci amorose,
Ove tanta il Fattor anima pose.
Climene allor: ch'è ciò che in me prov'io?
Questo silenzio universal, quest'ombra,
E dell'aura e dell'onda il mormorio
479
D'una soavità m'asperge e ingombra,
E tal diletto infonde in petto mio,
Che ogni altra sensazion lunge ne sgombra:
Questa dolcezza che mi scende al core,
Dimmi, caro Lindoro, è forse amore?
Sì, egli è amor, Lindor risponde; ai spessi
Palpiti del mio cor ben io lo sento,
Della stessa cagion gli effetti stessi,
O mia cara Climene, anch'io risento.
E testimon dei loro mutui amplessi
Sopra il candido suo cocchio d'argento
Dal ciel fu Cintia, e degli atti amorosi
Di Climene e Lindoro, amanti e sposi.
O campestri delizie, e dall'inganno
E da corrotta società lontane!
Molti odo che di voi gli elogi fanno,
Ma oh quante poche son le teste umane
Che conoscerne il pregio e usarne sanno!
L'uomo, amator delle apparenze vane,
Alla tranquillità le romorose
Turbolente città sempre antepose.
Non già Lindoro colla sua compagna
Di tale seduzion vittime furo,
Finchè visser tranquilli alla campagna;
Ma chi speme fondar può sul futuro?
Non di sorte il capriccio alcun sparagna;
Anzi appunto, allorchè talun sicuro
Della sorte si crede o del destino,
Ha qualche gran disastro ognor vicino.
Intanto fra la Francia e l'Inghilterra
Gelosie si svegliano e diffidenze,
Fonti perenni di perenne guerra,
D'ostili invasion, di violenze;
E volendo sul mare e sulla terra
Le terrestri e marittime potenze
Sostener la marittima bilancia,
Chi s'unì all'Inghilterra e chi alla Francia.
Fuggì la pace, ed arse il mondo tutto
Di marzial combustion funesta.
Va l'Anglo e il Franco sull'ondoso flutto
A sfidare il nemico e la tempesta
Per esser distruttore ovver distrutto.
Sta mal chi muore e non sta ben chi resta,
Tutto si strugge e ciò che vuol ne nasca,
E chi ha virtù, che se la ficchi in tasca.
480
Era Lindor fin da' primi anni ascritto
Al servigio real della marina;
Onde gli fu di rendersi prescritto
Sulla flotta di Brest che si destina
A far nei mar d'America tragitto;
E Climene dovea la poverina
Senza Lindoro suo restar soletta,
Ed ei lasciar la sposa sua diletta.
Il ciel lo sa, dicea Lindor, s'io t'amo,
E forse meglio ancor, cara Climene,
Tu il sai, s'altro che te sospiro e bramo;
Ma mancare al dover mai non conviene,
Tutto all'onor sacrificar dobbiamo.
Ah! no, ella rispondea, se mi vuoi bene.
Rinunzia, o caro mio Lindor, più tosto
Che lasciarmi così, rinunzia al posto.
Rimanti, non partir; se poche lire,
Lasciando tu il servigio, avrem di meno,
Noi coll'economia potrem supplire;
Abbiam polli, orti, buoi, vacche e terreno,
Che il necessario ci potran fornire.
Rimanti, sì: vivrò tranquilla almeno,
E ad ogni istante non dovrò tremare,
Che t'avvengan disastri in terra o in mare.
Cui Lindoro: ah che dici! anima mia,
Delirante a tal segno amor ti rende?
Il servizio lasciar onta saria,
Allorchè nazional guerra s'accende,
E tacciato sarei di codardia.
Non così da un par mio l'onor s'offende.
E Climene frenetica d'amore
Sia maledetto, ripetea, l'onore.
Sdegnosa invan contro l'onor borbotta,
Che alla necessità ceder convenne.
Colla necessità stolto è chi lotta.
Ed a Lindor frattanto altr'ordin venne
Di raggiunger sollecito la flotta;
Che i segni di partenza in sulle antenne
Sventolar digià miransi; e il momento
S'attende sol di favorevot vento.
Più che il loro distacco era imminente,
Più proteste di fe, d'eterno affetto,
Ella rinnova, e finch'ei fosse assente,
Promette e giura che non altro oggetto,
Non altro mai pensiero avrebbe in mente,
Che quello sol del suo Lindor diletto;
481
E che in oltre in città mai non andrebbe
E soletta in campagna ognor sarebbe.
Non passaron però gli afflitti amanti
La notte precedente alla partenza
In inutil sospiri, in vani pianti;
Ma in dolci amplessi e in amorosa ardenza
Tutti impiegar quei preziosi istanti.
Lindoro alfin di corre ebbe avvertenza
Il momento che stanca ella dormia,
E cheto cheto levasi e va via.
E Climene in lasciar non mica feo,
Siccome fe' con Arianna in Nasso
Più gran birbon che grand'eroe Teseo,
Che il core avea più duro assai d'un sasso;
Che se non era il giovine Lieo,
Colei gettata si saria da un masso;
Ma per non isvegliarla adagio adagio
Pria di partir le diè piangendo un bagio.
Poi su pronto destrier portossi a Brest.
La flotta dopo pochi dì fe' vela,
Soffiando un fresco vento di nord-est.
Già il lido s'allontana e già si cela;
Corre più settimane al sud-ouest,
La truppa omai di prender terra anela;
E a piene vele la francese flotta
Ver l'isole d'America fe' rotta.
Felicemente alfin giunto all'Antille,
Colonie, piantagion, città, paesi,
Devastaro e mandarono in faville.
E battendosi in mar contro gl'Inglesi
Mille restar d'ambe le parti e mille,
Altri morti, altri naufraghi e altri presi;
E dieron di valor prove immortali,
Gli uomini distruggendo e gli animali.
Lindor si fe' fra i Galli onore assai,
Ed ammazzò colle sue proprie mani
In vari incontri, ch'io non vi narrai,
Un inglese ed un par d'Americani.
Sciabla, schioppo, cannon nol colse mai,
E conservò le membra e gli ossi sani;
Onde il bel privilegio ebbe Lindoro
D'avere al casco un pezzettin d'alloro.
Intanto che facea la sconsolata
Climene, che soletta era rimasa
Sulle vedove piume addormentata
482
Nella tranquilla sua campestre casa?
Apre alfin le pupille, e abbandonata
Si vide; da crudel dolore invasa
Proruppe in pianti e si strappò le chiome,
E invocò mille volte il caro nome.
Più di tre giorni inconsolabil stette
Senza veder, senz'ascoltar persona,
E Silvia la sua fante appena ammette,
Che a consolar venia la sua padrona;
E talor di prosciutto un par di fette
A lei recava, o un po' di zuppa buona
Per darle forza e sostenerla in vita,
Dal pianto e dall'inedia illanguidita.
Allor che fu di tal partenza istrutta,
Di quegli agricoltor ch'eran lì accanto
Accorse tosto la famiglia tutta
Padrona mia, non v'affliggete tanto,
Gella dicea, che vi farete brutta.
E Bernardon: deh! rasciugate il pianto,
Lindor tornerà presto e salvo e sano,
E chi sa che non torni capitano.
Di questa buona affettuosa gente
Alle semplici e rozze espressioni,
Climene, ognor gentil naturalmente
Quando se le offerian le occasioni,
Anche allor si mostrò riconoscente,
E ne lodò le buone intenzioni.
Rosmino intanto, qual fanciullo in scuola,
Stavasi indietro e non facea parola.
Inver sempre Rosmin provato area
Gran piacere a veder Climene bella;
E ogni qualvolta il tristarel potea
Col pretesto d'andar dalla sorella,
Climene per veder colà correa.
Che stupir? giovin egli e giovin ella,
Accadde ad essi ciò che accade in noi,
O giovinetti, io me ne appello a voi.
E or sì mesta in vederla ei prova in petto
Commozion ed inquietudin tale,
Più che compassion, più che rispetto.
Qualche timido sguardo trasversale
Dalle, furtivamente il giovinetto;
Poi bassa gli occhi, e un palpito l'assale
Di pena e di piacer; ma che amor sia
Neppur di sospettarlo ardito avria.
483
Di baciarle la man partendo ottenne
Da Climene la rustica famiglia.
La man Rosmin baciandole, a lei venne
Alcuna lacrimetta in sulle ciglia;
Poichè allor di Lindor si risovvenne,
Che d'anni e di statura gli somiglia.
S'intenerì Rosmin, e poche stille
Di pianto anch'ei versò dalle pupille.
Qual, Donne mie, maliziosetto io scorgo
Sorriso in voi, mentre Rosmin s'attrista?
Ah! furbette, furbette, io ben m'accorgo
Che qualcuna di voi digià s'è avvista
Che Rosmin (e ragion fors'io ven porgo)
Del racconto divien protagonista.
Ben v'apponete, sì, Donne amorose;
Udite dunque come andar le cose.
In fatti da quel dì, poichè gli armenti
Nella stalla Rosmin chiudea la sera,
Colse di gir colà tutti i momenti,
E come io dissi già, Silvia sol'era
Pretesto delle visite frequenti,
Climene la cagion motrice e vera.
Ed ella piena ognor di gentilezza
Volentier sempre il vede e l'accarezza.
E prendendo a star seco ognor novello
Piacer, spesso a venir l'incoraggia,
E quanto più negli occhi a lui bel bello
Una nascente passion scopria,
Tanto di giorno in giorno il garzoncello
Indifferente men le divenia.
Nulla di nuovo è in ciò; luce fa luce,
Foco fa foco, e amore amor produce.
E giusta l'abitudine per cui
Baciar partendo a lei la man solea,
Una sera su quella i labbri sui
Con dilettosa espression premea.
Con sentimento egual Climene a lui
La man, dolce guatandolo, stringea;
Smarrissi a cotal atto, e in lui brillò
Gioja in volto improvvisa, arse, gelò.
Del turbamento di Rosmin Climene
Chiaramente s'avvide e sen compiacque,
E disse a lui: Rosmin, mi vuoi tu bene?
Ed ei guardolla e si fe' rosso e tacque.
Eloquente il silenzio ancor diviene,
E quel tacer, quell'arrossir non spiacque
484
A lei, che in quel silenzio, in quel rossore,
Segni scorgea di mal celato amore.
Poichè donna non v'è, per quanto sia
Onesta, austera e, anche se vuoi, ingrata
Che malgrado l'esterna ritrosia
Non risenta il piacer d'essere amata.
Così almen sempre ho udito in vita mia;
Ma in materia potrei sì dilicata
Io non donna fallar: voi donne siete,
Saperne il ver meglio di me potete.
In amorevol guisa allor parlogli
Ah povero Rosmin! tu m'ami, il vedo;
E al mento in questo dir la man passogli.
Perchè arrossir d'amarmi? io tel concedo,
E il volto al volto intanto ella appressogli.
Rosmin, dando al ribrezzo allor congedo,
Da forza spinto infin allor ignota
Fuggitivo appiccò bacio alla gota.
Climene parve scuotersi a tal atto,
O per decenza abitual lo finse;
Onde gli disse: ah bricconcel ch'hai fatto!
E ritrosa con man lieve il respinse.
Temette egli commesso aver misfatto,
E tremò tutto e di pallor si tinse.
Seco ella a rimaner più non rischiossi
Addio, disse, Rosmino, e ritirossi.
Parte Rosmin confuso, e più non osa
A lei tornar che crede offesa omai.
Ella intanto dicea sola e pensosa:
Bada, Climene, bada ben che fai;
Se un poco più lasci innoltrar la cosa.
Vorrai forse arrestarla, e non potrai;
Bada che il villanel già prende ardire,
E un dì chi sa come potrai finire.
Ma possibil non è, Lindoro mio,
Possibil, finché avrò quest'alma in petto,
Non fia mai che tal torto a te facc'io,
E che Climene tua l'antico affetto
E le promesse sue ponga in obblio.
Tu sempre del mio amor l'unico oggetto
Fosti, o Lindor, e lo sarai pur sempre:
No, questo cor non cangerà mai tempre.
Passar più giorni, e più Rosmin non vede,
E internamente ne sentia cordoglio.
Vo' frenarlo, dicea, qualora eccede,
485
Ma tanto poi mortificar nol voglio.
Alfin che fece? un bacio sol mi diede;
Più nol farà, s'occasion glien toglio.
E vorria torsi il villanel di testa,
E sempre fisso il villanel vi resta.
E a Silvia disse un dì: cosa mai frulla
Pel capo al tuo german, che più nol vidi?
Inver, colei rispose, io non so nulla;
Ma tornerà, ch'ei v'ama, io me ne avvidi,
Sorridendo soggiunse la fanciulla.
E Climene: sciocchina, or di che ridi?
Per me non so chi di venir lo tenga;
È un pazzarel, ma digli pur che venga.
Silvia in fatti a Rosmin parlonne, ed ei
La sera dopo a Climene portosse.
Creduto, ella gli disse, io non avrei,
Che la presenza mia sì schifa fosse,
Che tanti dì curato non ti sei
Di venirmi a veder. Allor gettasse
Rosmin a piedi suoi, d'un improvviso
Vivo eccesso d'amor acceso in viso.
E le cosce baciandole e i ginocchi
(Che però dal guarnel coperti sono)
Le lacrime cadevangli dagli occhi,
E del suo fallo le chiedea perdono.
A cui Climene: che spaventi sciocchi!
Teco irata non fui, nè irata sono.
E intanto amor dopo più dì d'assenza
Tutti i spiriti lor pose in fervenza.
E sollevandol soggiungea: tu credi
Forse gli accenti miei fini o mendaci?
Prove ancor ten darò, se prove chiedi,
E diegli in questo dir due o tre baci.
Prese coraggio allor già sorto in piedi,
Quattro o cinque glien diè caldi e salaci;
Perocchè amor è un chiappolino ardito,
Che la man prende, se gli porgi il dito.
Allor Climene quasi da un obblio
Di se stessa rinvenne, e si ristette
Da quel non decoroso baciucchio,
E disse a lui: prove sicure e schiette
Che crucciata non son dar ti voll'io;
Ma in avvenir mai più cose interdette
Non si permetta mai nè io nè tu;
Mai più, Rosmin, sovvientene, mai più.
486
Mai più!... mai più è facil cosa a dire;
Ma quando a sormontar taluno è giunto
Certi fissi confin, come impedire
Ch'oltre non passi, e debba ivi far punto?
Che vo' inferir da ciò? voglio inferire,
E di provarvi sol l'impegno ho assunto,
Che d'inesperienza egli è un errore
Voler prefigger limiti all'amore.
Ed in prova di questo io vi dirò,
Che anche ad onta di quei proponimenti
Quel loro baciucchiar continuò;
Poi vennero bel bello ai toccamenti,
Ed avanzando ciascun giorno un po',
Pur quasi presso a divenir parenti;
Ma sempre con decisa volontà
Di non andare un briciolin più in là.
E trapassato forse avendo un mese,
Baciandosi e toccandosi in disagio,
A Climene Rosmin primier richiese
Di poter stare insieme a miglior agio;
E poichè molti e molti giorni attese
Che Climene accordasse il suo suffragio,
Gli disse di venir la notte appresso;
Ma che nulla di più gli sia permesso.
E allora consegnogli la chiavetta
Dell'usciolin che rispondea sul fiume,
Dicendo, che in un'ora un po' tardetta
Cauto venisse e cheto e senza lume;
Ch'ella frattanto in camera soletta
L'attenderia giaciuta in sulle piume;
Ma che s'ei della connivenza abusa,
Badi, per lui non vi sarà più scusa.
Poi, mio Lindor, fra se dicea, perdono,
Ma tanto a te questo Rosmin rassembra,
Che se amo veder lui, scusabil sono,
Che, lui vedendo, veder te mi sembra.
Certe fisonomie talor vi sono,
Alla vista di cui talun rimembra
Quelle che fisse ha in cor care sembianze;
Gran forza han su di noi le somiglianze!
La notte e il dì seguente non potea
Per la gioja Rosmin capire in se.
E quel giorno (per darvene un'idea
Semplice e natural secondo me)
Quel giorno assai più lungo a lui parea
Di quel famoso dì che Giosuè
487
Per terminar di Gabaon l'assalto
Ai cavalli del Sol fece far alto.
Di ben lavarsi con acqua di rose
Da capo a piè sull'imbrunir non manca,
E con menta e con altre erbe odorose
Stropiccia il ventre, i piè, le cosce e l'anca;
La treccia fe', si pettinò, si pose
Le brache nuove e la camicia bianca,
E benchè notte fosse e notte buja,
La casacca si pon dell'alleluja.
Quando più attorno moto alcun non sente,
Di Climene all'albergo s'incammina;
E con tremanti passi impaziente
Vi giunge e apre bel bel la porticina.
I passaggi sapea perfettamente;
Onde monta le scale, entra in cucina;
E di là nella camera si rende,
Ove Climene corica l'attende.
La viva gioja e le accoglienze liete,
Lo statti... il dammi... il prendi... il m'ami... il t'amo,
E altre tai cose note e consuete
Fin dai tempi antichissimi d'Adamo
Non starovvi a narrar, che le sapete;
Onde più tosto a raccontar passiamo,
Come istanze di qua, di là repulse,
L'un volle in letto entrar, l'altra l'espulse.
Vinto alfine l'ostacolo e il riguardo,
Spogliossi e coricossi il giovinetto;
E allor s'accinse fervido e gagliardo
A corre il soavissimo diletto,
E piantò nella rocca lo stendardo.
Se da' giovini amanti e nudi in letto
Pretendesse talun che non si macoli
La castità, pretenderia miracoli.
Cento ottanta e più dì dopo aver spesi
In passar d'una in altra confidenza
Difficili i passaggi avendo resi,
Ella cesse alla dolce violenza.
Parliamo or qui di buona fe: sei mesi!
Sei mesi, Donne mie, di resistenza,
Giovin... liberi... amanti ed egli ed ella...
Dica chi vuol, la resistenza è bella.
Allor seguiro i teneri sospiri,
E i trasporti ed i queruli lamenti,
E gli affannosi palpiti e i deliri,
488
Quando l'alme fra stretti abbracciamenti
S'esalano in dolcissimi respiri,
E languon di piacere; e in quei momenti
Stata saria pretension chimerica,
Che si pensi a qualcun che sta in America.
Nè sperienza di mestier, nè quelle
Finezze avea Rosmin ch'avea Lindoro;
E sol qualche avventura e scappatella
Dopo l'ore del rustico lavoro
Potea contar con schiva villanella
Alla sfuggita e alla maniera loro
O nella grotta o sul pagliajo o dreto
Al macchion, dentro il fosso o nel canneto.
Ma Rosmino in compenso, a parlar giusto,
È di Lindor più giovinetto un poco,
Perciò alquanto più ardito e più robusto
E alquanto ha più d'attività, di foco,
Cose che sempre a femmina dan gusto.
Nel gran bollor dell'amoroso gioco
Nuovo attor egli è in oltre e nuovo oggetto,
E novità fa sempre un qualche effetto.
Quando i galli cantar pria del mattino,
Due volte ripetuto avean l'affare;
Climene allor scosse e avvisò Rosmino,
Che insieme omai più non potean restare.
Le chiavi gli lasciò dell'usciolino,
E lo avvertì ch'ogni tre dì tornare
Dovea soltanto, acciò che la frequenza
Del fatto altrui non desse conoscenza.
Che partisse Rosmin Climene volle,
Quando non anche il mattutino lume
Incominciava a biancheggiar sul colle.
Dall'usciolino ei scese in riva al fiume,
Il prato traversò di brina molle,
E al patrio casolar giunge, e il costume
Tenne di fare in ciascun terzo giorno
Al dilettoso officio ognor ritorno.
Erano intanto undici mesi interi
Ch'era la flotta all'isole passata,
E mandarsi in Europa i prigionieri
Che fatti avea sulla nemica armata
Voller per sicurezza; e volentieri
Imbarcossi Lindor sulla fregata,
Che a Brest, a Nante o in qualunque altro porto
Della Francia dovea farne il trasporto.
489
Allo spirar d'un favorevol vento
In poco più di trenta dì pervenne
Alla rada di Brest il bastimento.
Pochissimo Lindor vi si trattenne;
E alla campagna sua lieto e contento
Vanne, e la sposa sua non ne prevenne,
Volendo alla consorte in cotal guisa
Grata sorpresa far, quanto improvvisa.
Climene di fregata e di marito
Avuta non ne avea notizia alcuna;
Anzi la stessa notte il favorito
Rosmin ito era seco, e per fortuna
Pochi momenti prima era partito.
Talor tai circostanze il caso aduna,
Da cui cose risultano sovente
Che spesso sembran fole a chi le sente.
Tolta Lindor partendo avea la chiave,
Non so se a caso o per presago ingegno,
E sempre o sovra terra ei fosse o in nave,
Come del suo ritorno auspicio e pegno,
Guardolla, ed or ch'appo di se pur l'have,
Gli serve a maraviglia al suo disegno;
Giunge, apre, in camera entra, e non s'avvide
Colei di nulla, ed ei ne gode e ride.
Quando giunse Lindor, dubbia apparia
Della nascente aurora ancor la luce,
Profondamente Climene dormia,
Che stanchezza e languor sonno produce.
Liev'ei la tocca, ed ella non sentia;
Onde pian pian nel letto s'introduce;
L'abbraccia, e all'atto conjugal s'accinge,
E nel solco ancor molle il vomer spinge.
Ella dolce languente e sonnacchiosa
Caro... dìcea, tornasti?... e qual ti mosse?...
Amor quegli interruppe, o cara sposa,
Amor m'ha ricondotto, e tu... Si scosse
Ella a tal voce, e stette ancor dubbiosa,
Se Lindoro o Rosmin l'incubo fosse;
Ma del vero accorgendosi ancor più:
Come sei tu! sclamò, Lindor, sei tu!
E chi vuoi tu ch'io sia, se non son io?
Lindor smarrito alquanto allor riprese.
Mezzo assorto nel sonno il van desio,
Climene per Rosmin Lindoro prese.
Ma dell'error s'avvide, e disse: o mio
Caro Lindor, e quale a me ti rese
490
Destin felice, e in quel momento appunto
Che in sogno mi parea che tu eri giunto?
Mentre l'illusion d'un lusinghiero
Sogno l'immagin tua mi fa presente,
mi riconduce il ciel Lindoro vero:
Che v'è dunque di strano e sorprendente,
Se dal piacevol sogno il mio pensiero
Non iscosso per anche interamente,
Te ritrovando fra gli amplessi miei,
Non so se sogno, o il ver Lindor tu sei?
Benchè Lindor restasse un po' sorpreso
Del primo di Climene incauto detto,
Il ripiego da lei d'un tratto preso
A quel discorso diè di ver l'aspetto,
Ed all'animo suo in pria sospeso
I dubbi per allor tolse e il sospetto;
E senza inquietudine a godere
Continuò del conjugal piacere.
Svelto han le donne inver, vivace e pronto
In certe occasion spirto e talento
Da comporre a lor modo alcun racconto,
E estemporanei fatti in sul momento.
Quel di Climene per felice io conto;
Eppur Lindor studio, artificio e stento,
Trovar credette in quei racconti suoi,
Quando riflession vi fece poi.
Tanto più che Rosmino ardente e vivo
Giovine, in simular non anche esperto,
Di Climene a vedersi a un tratto privo
Il doler non sapea tener coperto;
E sorprender fra lor sguardo furtivo
Talor parve a Lindor, ma funne incerto:
Pur per torsi dal cor, sì acuta spina
Rosmin fece arrolar nella marina.
Sposi ed amanti che gelosi siete
E delle mogli e delle vostre belle,
E impegno di sorprenderle prendete,
Vi consiglio a desistere, o da quelle
Sorpresi voi medesimi sarete;
O se infedeli e al vostro amor rubelle
Giungerete a scoprirle un qualche giorno,
Non ne trarrete che spiacere e scorno.
491
NOVELLA XXXIV
L'ARCIVESCOVO DI PRAGA
Già dissi, o Donne, che nei conti miei
Poichè vi favellai di frati astuti,
Di monsignor per anche io parlerei,
Se a lor tai casi fossero accaduti
Di cui il racconto farvene potrei.
Vo' che oggi sian gl'impegni miei compiuti;
Anzi con più solennità per farlo
D'un primario arcivescovo vi parlo.
Se del mio novellar dunque s'appaga
La vostra cortesia, narrarvi io medito
Una storiella curiosa e vaga
Che ho ritrovata in un libretto inedito,
Toccante un arcivescovo di Praga,
Che a tempo suo fama acquistossi e credito
D'uomo dabbene, ed ebbe sol la taccia
D'amar troppo la musica e la caccia.
Com'era scritto in certi suoi giornali,
Ucciso avea con le sue proprie mani
Un numero infinito d'animali,
Cinquemila cenquindici fagiani,
Seimila lepri, ottantatrè cinghiali,
E per disgrazia ancor dodici cani,
E cervi e capre e daini, e non poche
E pernici e beccacce, anitre ed oche.
Sonava il corno e il violin per anche,
Ma se veniva alla smanicatura,
Le dita non avea spedite e franche,
E facea sempre qualche stonatura;
In oltre nel toccar le note bianche
Non osservava troppo la misura;
Ma se sapea qualche sonata a mente,
Ei l'eseguiva assai passabilmente.
Tai cure l'occuparo in guisa tale
Che ad altre mai non gli lasciaron loco;
Onde contro lo stile universale
S'astenne dalle femmine e dal gioco,
Lo che alla cattedra archiepiscopale
492
Per innalzarlo conferì non poco;
Che quei vecchi canonici divoti
Unanimi gli diedero i lor voti.
E posciachè arcivescovo divenne,
Lo stesso proseguì tenor di vita,
Ch'anzi di soddisfar più mezzi ottenne
Qualunque passion sua favorita;
In oltre ognor costantemente ei tenne
Un'abbondante tavola squisita,
E un cuoco avea venuto da Parigi
Che nel mestiero suo facea prodigi.
Per pasqua e per natal le consuete
Solennità facea con pompa ognora;
In sacri arredi, in camici e in pianete,
Calici e mitre amava il lusso ancora;
I mattutini, i vespri e le compiete
Intonava con voce alta e sonora;
E nessun dopo papa Bonifazio
Seppe cantar meglio di lui il prefazio.
Del resto non facea nè mal nè bene,
Ed era a vero dir un buon vivente;
Se andavan mal, non si prendea gran pene
Acciò le cose andassero altramente;
E col suo spesso dar di pranzi e cene
Erasi fatto amar generalmente.
E in verità quel dar ben da mangiare
È la sicura via da farsi amare.
Quanto agli affari poi del vescovato
Gli abbandonava tutti al suo vicario,
Uom così avaro, che per un ducato
Avria fatto il carnefice e il falsario,
E occorrendo anche Cristo rinnegato;
Avea una faccia proprio da sicario,
Zoppo era e guercio, e avea un sfregio in faccia:
Pensate, Donne mie, che figuraccia!
Ma ciò che importa a me? che importa a voi?
Lasciamolo pur far, nè vi sia greve
Che scortichi il vicario i preti suoi.
Un che scortichi gli altri esser vi deve,
Uso ch'è stato prima e sarà poi.
Solamente dirò per farla breve,
Che all'opera e al teatro solit'era
L'arcivescovo andar quasi ogni sera;
Che i vescovi anche più morigerati,
Giusta l'universal stile alemanno,
493
Senza esser men dal popolo stimati
D'ire al teatro scrupolo non hanno;
Ed è una smorfia de' nostri prelati,
Se al teatro ed all'opera non vanno,
Smorfia che fondamento alcun non ha,
Nè di religion solidità.
A vantaggiosi patti e buona paga
Una celebre giovin cantatrice
Era da molti dì venuta in Praga,
Che pregio aveva d'eccellente attrice,
E graziosa al maggior segno e vaga.
Beatrice avea nome, e tutti Cice
La chiamaron per vezzo; indi fu detta
Comunemente la Rusignoletta.
La semplice facea, la modestina,
Come a fare costor son consuete;
E contratta ella avea fin da bambina
Grandissima passion per le monete.
Possedea l'arte più scaltrita e fina
Di tirare i merlotti alla sua rete,
E a fronte potea star di qualunque altra
Femmina teatral più ardita e scaltra.
Fin da' prim'anni instrutta appien l'avea
Con precetti ed esempi in tai maniere
La brava mamma sua Pantasilea,
Che un capo d'opra era nel suo mestiere.
Franca e senza ritegni oprar solea,
Solea parlar senza riguardi avere,
E conservava ancor molti bei resti,
Bench'avesse otto lustri e cinque sesti.
Come dalla mia cronaca ricavo,
Davasi allora un'opera novella,
Ch'avea per titolo Il Giovanni ottavo,
Che papessa Giovanna ancor s'appella.
La musica composta era da un bravo
Rinomato maestro di cappella,
Che con gran contrappunto e gran lavoro
Posta in musica avea la bolla d'oro.
Lo spettacol riusciva a maraviglia,
Nè in Praga erasi data opera eguale.
Ma di Pantasilea la bella figlia
Che faceva la parte principale
Attirava di tutti a se le ciglia,
Ed incontrò l'applauso universale;
Ma ciò che maggior credito acquistolle
Fu un'arietta a sordini e in un bemolle.
494
Il tempo di quell'aria era un andante,
Colli flautini a solo e le viole
Che alternavan con la parte cantante,
Espressione dando alle parole
Che dicean: Son papessa e sono amante.
Poi quest'aria medesima si vuole
Che un celebre poeta abbia imitata
Nel dramma La Didone abbandonata.
Quell'aria replicar tutte le sere
Le facean con gran strepito e schiamazzo;
Ciascun, fosse uom del volgo o cavaliere,
Fanatico per lei pareva e pazzo;
E monsignor, che c'ebbe un gran piacere,
Pensò farla cantar nel suo palazzo,
E al cembalo ascoltarla, e da vicino
Un po' meglio osservar quel suo musino.
E a quest'effetto il dì di sant'Eufemia,
Giorno natal della signora zia,
Diede una solennissima accademia,
Ed invitovvi molti giorni pria
Tutta la nobiltà della Boemia.
Del teatro chiamò la compagnia,
E sopra tutti la sua nuova fiamma,
Cice gentil colla famosa mamma.
E non è mica già che fiamma nuova
Di monsignor senza ragion l'appello;
Poiché per lei continuamente ei prova
Un'inquietezza ed un calor novello
Che dal cor non può trarsi, e non gli giova
Tutt'i mezzi tentar. Così bel bello
Si gia formando l'amorosa piaga
Nel cor dell'arcivescovo di Praga.
Vennero molti cavalieri e molte
Dame vestite in sontuosa gala
Con gioie e trine e con le code sciolte,
E s'empiron le camere e la sala,
E rinfreschi girarono più volte,
E si mangia e si chiacchiera e si sciala;
Qua e là ventagli sventolar tu vedi,
E smorfie e inchini e un gran strisciar di piedi.
Comincia intanto a risonar l'orchestra,
Violini, oboè, corni e trombette,
Del cembalo disposti a manca e a destra;
Poi duetti si cantano ed ariette,
E ciascun fa spiccar l'arte maestra;
495
Ma il primo vanto a Cice ciascun dette,
Che parea in mezzo a quel musico stuolo
Come fra gli altri uccelli il rusignuolo.
Or poichè di Germania il titolario
A sentir praticar non siete avvezze,
Ch'io vi prevenga, o Donne, è necessario,
Che i vescovi colà son tutti altezze;
Nè però ciò produce un gran divario,
Che anch'essi hanno le loro debolezze;
Ed eletti che son dal lor capitolo,
Di principi d'impero han grado e titolo.
Per chiarezza maggior, Donne mie care,
D'un'altra cosa in oltre v'avvertisco,
(Questa seconda nota ancor di fare
Permettetemi in grazia, e poi finisco)
Che per abituale intercalare
Dir spesso monsignor solea: capisco.
Gl'intercalari suoi gli han quasi tutti,
E se ne senton dei più osceni e brutti.
Or mentre Cice un'aria sua cantava,
La grazia e il vezzo accompagnando al canto,
Tutti a gara gridavan: brava, brava.
Lieta s'applaudia la mamma intanto,
Che seduta in un angolo si stava,
Quando a lei monsignor s'assise accanto;
La salutò cortesemente, e poi
Le disse: mi congratulo con voi,
Che di sì bella e virtuosa figlia
Il cielo volle rendervi felice.
Lo so ancor io, Pantasilea ripiglia,
Nè vostra altezza è il primo che lo dice;
Ma questo è un nulla ancor; la maraviglìa
È di vederla nuda la mia Cice,
E ogni parte del corpo anche osservarne;
Oh che fattezze! monsignor, che carne!
In somma ella a sua madre non fa scorno,
Ch'io son stata bellissima, e uno sciame
D'amanti m'è ronzato sempre intorno;
E adesso ancor, se si vuol far l'esame,
Si può veder che in mio confronto un corno
Non val qualunque sia di queste dame;
E scoprendosi il sen, disse: vedeste
Due poppe più magnifiche di queste?
Monsignor che non era assuefatto
A sentirsi parlar in stil sì osceno,
496
Nè a veder s'aspettava un simil atto,
Ben vi potete immaginare appieno,
Se confuso rimase e stupefatto.
Per carità, deh! ricoprite il seno,
Disse a colei, che se taluno il vede,
Chi sa, madonna mia, che diavol crede.
Che importa a me? lo vedan pur costoro,
Che vorran dir? Pantasilea rispose.
Han tanto da badare ai fatti loro,
Che se non taccion queste smorfiose,
Io scoprirò di molte corna d'oro.
Son buona buona, ma se in certe cose
Mi stuzzican, divento un basilisco.
E monsignore soggiungea: capisco.
L'arietta sua già terminata avea
Cice frattanto, ed era alla cadenza;
Ond'ei dover lasciar Pantasilea
Credè per suo decoro e per prudenza,
Temendo con ragion che l'assemblea
Ai lor discorsi avria fatto avvertenza,
Quando mancasse lor l'occasione
Altrove d'impiegar l'attenzione.
Ma pur siccome quel bizzarro umore,
E quel franco parlar lo divertia,
Vedend'oltre di ciò che anche in altre ore
Col mezzo della mamma egli potria
Spesso Cice veder, per cui nel core
Un insolito ardor crescer sentia;
Per istar seco più liberamente,
Invitarla pensò pel dì seguente.
Onde a Pantasilea si volge e dice
Per or con voi, cara la mia mammina,
Più a lungo intrattenermi non mi lice;
Se bere il cioccolatte dimattina
Meco voleste colla vostra Cice,
Venir potrete per la porticina
Dalla parte di dietro del palazzo,
Acciò non abbia a farsene schiamazzo.
Oh bravo monsignore! rispos'ella,
Noi pure l'intendiamo come voi;
Se di dietro non ha la porticella,
Qualsivoglia quartier non fa per noi.
Diman verrò colla mia Cice bella,
Vo' che siam buoni amici d'ora in poi.
E gli strinse la man, poscia ei lasciolla,
E cogli altri mischiossi entro alla folla.
497
Tutti intorno gli vanno e ciascun falli
E mille elogi e mille complimenti;
Chi le livree gli loda e chi i cavalli,
E chi i ricchi equipaggi e i finimenti;
Altri le porcellane, altri i cristalli,
Altri i tappeti ammira e i paramenti;
Altri il buon gusto esalta e i pensier nobili
Nella scelta e nell'ordine dei mobili.
Ciò udendo, monsignor gode, e la pelle
Per compiacenza se gli gia gonfiando,
E a talun rispondea: son bagattelle;
Ad altri poi diceva: al suo comando.
Talor la storia degli arazzi e delle
Stoffe narrava il prezzo e il come e il quando,
E lungamente in ciarle e in cerimonie
Stansi occupati e in simili fandonie.
Partono alfin le dame e i cavalieri,
Ch'era la notte omai molto avanzata
Giù per le scale e torce e candellieri
Accompagnan la nobile brigata.
Di lacchè, di carrozze e di staffieri
Stassi alla porta la turba affollata,
E tutti se n'andaro alle lor case,
E solo l'arcivescovo rimase.
Vassene poscia a ritrovar le piume,
Nè chiude gli occhi già, nè s'addormenta,
Cosa insolita affatto al suo costume;
Ma Cice ha sempre in testa, e ne rammenta
Le vezzose maniere, e invan presume
Scacciar questo pensier che lo tormenta,
E l'ore pigre disioso affretta
Per riveder la sua rusignoletta.
Come vide il chiaror del dì nascente
Delle finestre pei spiragli entrare,
Di letto egli levossi impaziente,
E il secretario suo si fe' chiamare;
Intimo favorito e confidente,
Ogni pensiero a lui solea svelare,
Ogni disegno unicamente a lui,
E regolarsi co' consigli sui.
Si chiamav'egli l'abate Martino,
Uom portato all'intrigo e all'artifizio;
Er'a tempo or divoto or libertino,
Alla virtù indifferente e al vizio;
Sapea il francese, l'italo, il latino,
498
E facile ne avea frano esercizio;
Pieghevoli costumi, amor vivace,
Scaltro parlar che insiem lusinga e piace.
L'arcivescovo allor disse all'abate,
Come quella mattina a lui verrebbero
Cice e la madre a bere il cioccolate,
E che secondo l'ordine che n'ebbero,
Siccome per non essere, osservate,
Dalla parte di dietro esse entrerebbero;
Pregavalo d'attenderle alla porta,
E al gabinetto suo far loro scorta.
E gli soggiunse: caro secretario,
Bisogna dire che questa ragazza
Ha qualche cosa di straordinario,
Poichè tra lei e l'altre di tal razza
In quanto a me ci trovo un gran divario.
La mamma poi l'è pur la cara pazza,
Ride, scherza, motteggia, e parla in guisa
Che in verità fa sbellicar di risa.
Vedendo don Martin che Beatrice
Del tutto a monsignor non dispiacea,
Ogni bene possibil glie ne dice,
E lo conferma e alletta in quell'idea;
E aggiunse che alla gente osservatrice
Di torre ogni motivo ei ben facea;
Ch'ei prenderia sopra di se l'impegno
Di fare andar sempre le cose a segno.
Poichè s'appressò l'ora concertata,
Alla secreta porticella ei scende
Per aspettar la coppia convitata:
Ed ecco un fiacre che colà si rende
A vetri chiusi e tendina calata,
E smontan esse, ed ei per man le prende,
E per via d'un angusto corridore
Le introduce al quartier di monsignore.
Eccovi, gli diceca nel presentarle,
Eccovi qui la madre e la figliuola.
Eccomi, ripetea la mamma, e farle
Veder ch'io sono donna di parola.
E qui comincia a far racconti e ciarle,
Come Cice avea preso il mal di gola,
Perché fe' sforzi la sera preterita
Per fare a monsignor l'onor che merita.
Ma che il fe' volentier perchè l'amava;
Ed avea sempre il di lui nome in bocca.
499
Allora monsignor la ringraziava,
Poi l'accarezza e le gote le tocca,
Ed ella tutta timida si stava.
La mamma intanto le dicea: via, sciocca,
Dà un bacio a monsignor, daglielo bene,
Ch'è un signor generoso e ti vuol bene.
Tutti i riguardi ed i ritegni sui
Scuotere allora e vincersi ei procura,
E un bacio diede a Cice e un Cice a lui
Vergognosetta e piena di paura,
E si fecero rossi tutti e dui,
L'una per arte e l'altro per natura,
Ch'ei non avea tai baci infin allora
Né dati mai, nè ricevuti ancora.
Allor Pantasilea così favella:
Monsignor mio, deh! non vi dia molestia
Il contegno di questa smorfiosella
Con quella sua ridicola modestia;
Che una giovin di spirito, com'ella,
Io non comprendo come sia sì bestia.
Vi giuro, monsignor, sull'onor mio,
Ch'a tempo suo tutt'altra cosa er'io.
Di me da tutti ancora si ragiona
In qualunque città ov'io son stata,
E si ricordan della mia persona
Come di cosa rara e prelibata;
Correanmi dietro e mi facean corona,
E beato chi aver potea un'occhiata;
E i poeti più celebri in mia loda
Facean fino i sonetti colla coda.
E volta proseguir, ma in quel momento
Col cioccolatte il camerier comparve
Servito in porcellana e in fine argento.
Prudente cosa a monsignor non parve
Che colui stesse a' lor discorsi attento,
Di partir gli fe' cenno, ed ei disparve;
E don Martin, che sempre a bella posta
Stato era alla finestra, allor s'accosta.
E venner tutti un presso l'altro a porsi,
Poichè l'altezza sua così comanda,
E mescendo piacevoli discorsi,
L'americana gustosa bevanda
Sorbiscon lentamente a sorsi a sorsi.
Ad essi poscia monsignor domanda
Se buono è il cioccolatte; e la loquace
Mamma rispose: inver non mi dispiace.
500
Ma io n'ho dell'eccellente di Milano,
Presso cui qualunque altro non val nulla.
Cice, quando ha lo stomaco un po' strano,
Lo prende, e da se stessa se lo frulla,
Perchè ci ha gusto, e con quel coso in mano
La povera ragazza si trastulla.
Su di che domandando monsignore
Se Cice aveva mai fatto all'amore:
Benchè, rispose, della figlia mia
Principi, duchi, ed eccellenze e altezze,
Sien stati innamorati alla follia,
E le abbian fatte ognor mille carezze;
Su quell'affar che sa vossignoria
Per timor di guastarsi le bellezze
Modo stato non v'è che la sguajata
N'abbia voluto mai saper sonata.
Non è però che fin dall'età prima
Non conosca ella ben con qual strumento
Nelle donne il carattere s'imprima;
Perchè alfin la ragazza ha del talento,
Lo conosce ella ben, ma non lo stima;
Né posso io, giusta il nuovo testamento,
Come madre forzar una figliuola;
Basta dir madre, ella è una gran parola.
Ma siccome ella in fondo ha il core buono,
Nè ha mai voluto disgustar chi spende,
Perciò se alcun vuol farle un qualche dono,
Ella non l'ha per mal, nè se ne offende;
Ed io ci passo sopra e le perdono,
S'ella ciò che se le offre accetta e prende;
Perchè così per grazia del Signore
Facciam quattrini e conserviam l'onore.
E su di ciò racconterovvi un fatto:
Un tal milord Cocwel ch'era in Fiorenza
Di lei divenne innamorato matto,
Ed ella gli facea buona accoglienza,
Compiacendolo ancor riguardo al tatto;
Che secondo la sana esperienza
Per un'onesta giovine prudente
Un milord non è cosa indifferente.
Non ho mai visto egual figura; or ecco
Il ritratto fedel di quest'eretico
Un toso lungo lungo, secco secco,
Lusco d'un occhio e di color cachetico,
La testa calva e il naso fatto a becco,
501
Pochissime parole, uom bisbetico;
E nondimen, quando la borsa apriva;
Vi giuro, monsignor, che divertiva.
Gli venne in testa un dì l'idea bizzarra
Di passar seco lei la nottolata.
Ella non sonerà questa chitarra,
Gli disse Cice allor tutt'arrabbiata.
Dugento doppie ei l'offre, e per caparra
Le ne diede una quota anticipata.
Dugento doppie poi nessun le sprezza,
Dugento doppie! che ne dice, altezza?
Sicchè vedendol tanto incaparbito,
Bisognò contentarlo e accomodarsi;
Ma un patto fra di lor fu stabilito
Di giacere ambo insiem senza toccarsi
E in verità senza toccarsi un dito
Stettero in letto un l'altro a riguardarsi,
Cosa che a dire il ver io ne stupisco;
E monsignore rispondea: capisco.
Or non ostante, questo milordaccio
Vi prese gusto e replicar pensava;
Ma Cice allor per torsi alfin d'impaccio
La fe' corta e risposegli da brava.
E inver secondo il calcolo ch'io faccio,
Se quell'istoria un poco più durava,
La sua verginità correva risco.
E monsignore rispondea: capisco.
Finito il cioccolatte alfin di bere,
Dopo aver fatte chiacchiere abbastanza,
Don Martin ebbe il provvido pensiere
Di condurre la mamma in altra stanza,
Perocchè monsignor potrebbe avere
Con Cice qualche affare d'importanza;
E perciò convenia senza sturbarli
A solo a solo in libertà lasciarli.
Prese colei per braccio, e le propose
D'andar seco a veder la galleria.
Sì, volentier, Pantasilea rispose,
E deve anche saper vossignoria
Ch'io me ne intendo un po' di queste cose;
Perocchè in Lucca ch'è la patria mia
Ebbi un fratel, che poi morì di colica,
Eccellente pittore di majolica.
Quindi alla figlia e a monsignor rivolta,
Disse lor: siate buoni in nostra assenza.
502
Benchè nè gusto monsignor, nè molta
In pitture egli avesse intelligenza,
Pur senza scelta e a caso avea raccolta
Solo per lusso e per magnificenza
Gran quantità di quadri a spese propie,
Buoni e cattivi, originali e copie.
Ma il numero maggior rappresentava
Della Scrittura i fatti principali,
Che maggiormente convenir sembrava
Al carattere suo che fosser tali;
E monsignore in tutto si piccava
Mostrare i suoi talenti episcopali.
Giunta colà la mamma osserva e chiede
Schiarimento a Martin di ciò che vede.
Chi è, dimanda, e a un quadro gli occhi pose,
Quel vecchion cieco e con le spalle gobbe,
Che abbraccia un giovin che ha le man pelose?
Il vecchio è Isacco, e il giovine è Giacobbe
Che si finge Esaù, Martin rispose:
Isac lo fece erede e nol conobbe.
Bell'Esaù, diss'ella, giuro al cielo
Non mi dispiaccion gli uomini col pelo.
E chì è colei che fra quei due sbordella
Nuda così, ed un sol non le ne basta?
Susanna, rispond'ei, la casta è quella
Che alla lussuria dei vecchion contrasta.
Voi mi fate pur ridere, diss'ella,
Ve' gran prova! co' vecchi anch'io son casta;
Vorrei vedere un po' se fosse stata
Con un bel giovinotto sì sguajata.
E quei che circondato da sgualdrine,
Col regal manto e l'incensiere in mano,
E sembra un gallo in mezzo alle galline?
Risponde: è Salomon; nume profano
Gli fanno idolatrar le concubine.
Ed ella: io lo credetti il gran sultano;
L'appagò tutte? Corpo di Medusa,
Salomone altro avea che scienza infusa!
E quella dama che il mantello toglie
A un giovine, e par seco aver contrasto?
Ella è di Putifar la bella moglie,
Martin risponde, egli è Giuseppe il casto,
Che alle di lei s'oppon lascive voglie
E fugge. Ed ella: voi toccate un tasto
che ad accordarvi mica io non m'induco;
Scommetto che Giuseppe egli era eunuco.
503
Così Pantasilea col secretario
Propon dubbi e quesiti, ed egli a lei
L'interpetre faceva e l'antiquario,
Come le statue, i quadri ed i cammei,
Ed i busti di Silla e Scipio e Mario
Per l'ampie gallerie, per li musei,
Al curioso forestiero in Roma
Spiega colui che ciceron si noma.
Essendo intanto monsignor con Cice
In camera restati a testa a testa,
Mille tenere cose egli le dice,
E il solo affetto per lei le manifesta.
Ella con arte scaltra e allettatrice
E con vergognosetta aria modesta
In lui le luci languide, amorose,
Fissò, la man gli strinse e non rispose.
Il novizio inesperto monsignore,
Che questi in lei sinceri e verecondi
Segni credea di verginal pudore:
Mi vuoi tu ben? le soggiungea, rispondi,
Cara la mia ragazza; ogni timore
Discaccia; perchè temi e ti confondi?
E coraggio le fa quant'egli puote,
Nobilmente baciandole le gote.
Qual sonator di musico strumento
Ricerca e tocca i vari accordi pria,
Di tuono in tuon scorrendo or presto or lento,
E gli animi prepara all'armonia;
Così pria di formare alcun accento
La scaltra Cice disponendo gia
Con sospir, con sorrisi e occhiate tenere,
Quel mitrato proselito di Venere.
Poi disse: io veggio ben che vostr'altezza
Vuol passar meco il tempo e si trastulla,
Ch'ella è un signore di tanta grandezza,
Ed io sono una povera fanciulla
Priva affatto di grazia e di bellezza,
E tal sorte non merito per nulla;
Che se credessi ciò ch'ella m'ha detto,
Forse... e qui l'interruppe un sospiretto.
E dubitar tu vuoi, Cice mia bella,
Ch'io ti voglia ingannar? rispose a un tratto.
E mentre monsignor così favella,
L'abbraccia, e a lei pose la man con atto
Involontario sopra una mammella;
504
E piacevol trovandone il contatto,
Ve la lasciò immobilmente stare,
Qual nuovo Muzio Scevola all'altare.
Cice ripiglia allor: fra tutti quei
Che mi parlar d'amore, e sono assai,
Alcun non guadagnò gli affetti miei,
L'indifferenza mia non vinse mai;
Per lei sol, monsignor, solo per lei
Un insolito moto in cor provai.
Ed egli a tal parlar risente in petto
Di vanità e d'amor doppio diletto.
Ma Cice, posciachè bastantemente
Lo credette e lo vide incalorito,
Per lasciargli la voglia ancor più ardente
E vie più stuzzicargli l'appetito,
Disse che moto e calpestio di gente
Pareale aver presso alla porta udito,
E timor di sorpresa ad arte finge,
E da lui si distacca e lo respinge.
L'arcivescovo allor, pria che altri appaja,
Un oriuolo d'or da un scrigno prese;
E accettate, dicea, questa civaja;
E di sua propria mano glie l'appese
Alla cintola sopra l'anguinaja.
Ella grazie umilissime gli rese
Dopo aver fatti i complimenti suoi:
Non si privi... non faccia... oh questo poi...
Colà intanto tornando erasi mossa
Con don Martin la mamma, e nel venire
E parla e sputa e finge aver la tossa
Per farsi meglio da color sentire,
Onde improvvisa comparir non possa,
E alla porta picchiò pria d'apparire;
Poscia entra, e a primo tratto il guardo fisse
All'oriuolo di Cice, e così disse:
Oh! oh! che è ciò che di costì ti pende?
Ed ella: monsignor mai non si sazia
Di sua bontà colmarmi. Oh! si comprende,
Appese il voto ove impetrò la grazia,
Sorridendo la mamma allor riprende,
E in motti e in baje al solito si spazia.
Disse alfin ch'era tardi, e che quel lurco
Dal fiacre bestemmiava come un turco.
Oltre di che più non potea restare,
Perocchè, avendo licenziato il cuoco,
505
Si facea da se stessa il desinare,
E la pentola avea lasciata al fuoco.
Pregolla un altro giorno a ritornare
Monsignor cui piaciuto era tal gioco;
Preser poscia congedo, e dall'abate
Fino alla porta furo accompagnate.
E giunte a casa più congressi tennero
Per consultar su ciò che dovea farsi.
In quanto a monsignor ambo convennero
Esser egli un pollastro da pelarsi,
E alla final conclusion poi vennero,
Ch'ella era occasion da non lasciarsi,
E che doveasi allora in ogni modo,
Essendo caldo ancor, battere il chiodo.
E in fatti un altro dì la bella Cice
Andossene soletta in portantina
A monsignore, e giunta a lui, gli dice
Che venuta colà quella mattina
Era ella sola e senza genitrice,
Perchè sofferto avea la poverina
La notte scorsa gran dolore e smania
Per una sua fierissima emicrania.
In corta veste e in guarnelletto ell'era
Di sottil taffettà color di rosa,
Cui mussolina candida e leggiera
Posta al di sopra avea mano ingegnosa
E smaniglie, monil, scarpetta nera,
Un'aria le accrescean voluttuosa;
Parte del sen le copre un velo, e parte
Nudo agli avidi sguardi offresi ad arte.
Diceva mattutin col secretario
Monsignor, quando Cice presentosse;
Egli mostrò un piacer straordinario
Che soletta colà venuta fosse;
Onde da banda pose il breviario,
E frettoloso incontro a lei si mosse;
Mille feste le fe', per man la prese,
E di caldo desir tutto s'accese.
Don Martin, che sapea quanto importuno
Un terzo fosse in quella circostanza,
E quanto duro sia restar digiuno,
Ov'altri mangia squisita pietanza,
Uscì di là, disse per far che alcuno
Non sopraggiunga all'improvviso in stanza;
E ad essi in guisa tal quell'uom di vaglia
Lasciò libero il campo di battaglia.
506
Poichè Cice con lui rimase sola,
Monsignore, che rapidi progressi
Già fatti avea nella venerea scuola,
L'abbraccia e bacia, e a' baci ed agli amplessi
Mescendo qualche tenera parola,
S'accinge dopo vari attacchi e spessi
Lo rocca nelle forme ad assalire;
Oh immortal gesta! oh memorando ardire!
Così del marinar comincia il figlio
Prima a nuotar presso la riva, e tenta
L'onda più bassa e teme del periglio;
Ma seco è il genitor che lo sostenta,
E colla man l'aiuta e col consiglio,
E in breve franco nuotator diventa,
E si getta nel mar dall'alta sponda,
E va per scherzo a contrastar coll'onda.
Fate adagin, Cice dicea, quand'ella
Sentì il nemico alla porta del ventre,
Adagin, monsignor, che son zitella.
E la comica vergine in quel mentre
L'assalitor seconda, acciocchè nella
Rocca più facil s'introduca ed entre;
E destramente quanto può coopera
Per concorrere al merito dell'opera.
A voi, dicea, monsignor mio carissimo,
A voi consacro il verginal mio fiore,
Che tenni fino ad or riguardatissimo.
Capisco, rispondeva monsignore.
Via, Cice riprendea, così, bravissimo;
Stringetemi, baciatemi di core,
Altezza cara, io per piacer basisco.
Ed ei: capisco, ripetea, capisco.
Intanto don Martin tacito, immoto,
Stavasi all'usciolin del gabinetto,
E un gergo tronco a lui per altro noto
Là dentro ascolta e un tentennio di letto,
E conoscendo le leggi del moto,
La causa indovinò di quell'effetto,
E n'ebbe in cor una secreta rabbia,
E d'invidia e desir morse le labbia.
Ma poichè forz'è pur che si determini
A darsen pace, o ch'egli voglia o no;
Finchè il congresso di color si termini
Nella camera sua si ritirò,
Che lo rodean della lussuria i vermini,
507
E quel ch'ivi facesse io non lo so.
Cice alfin, l'ora essendo tarda omai,
Partì da monsignor contenta assai.
Fingendo nulla aver udito e visto,
Allora a monsignor tornò Martino,
E lo trovò tutto dolente e tristo
Col gomito appoggiato al tavolino,
Siccome Pier dopo negato Cristo,
Pianger dirottamente a capo chino;
E credendol rimorso e pentimento
Gli fece quesio bel ragionamento.
Via, monsignor, le lagrime tergete,
Che un uom per quanto sia giusto e perfetto,
Cade, siccome in Salomon leggete,
Sette volte ogni dì; ed io scommetto,
Che sette volte caduto non siete,
Poichè voi, sia col debito rispetto,
Benchè siate arcivescovo degnissimo,
Giurerei che non siete perfettissimo.
Lasciate pure ai garruli scolastici
Il rigorismo di dottrine strane.
Chi può resistere agl'impulsi elastici?
Chi affatto è senza debolezze umane?
Scorrete tutti i fasti ecclesiastici,
Vedrete eroi di qualità sovrane
Che parean di virtù salde colonne
Cader quai pere cotte per le donne.
Peccarono i Daviddi, i Salomoni,
Di saviezza e gran saper dotati;
Sol che si mostrin lor l'occasioni,
Per esperienza il so, peccan gli abati;
Peccano i più severi bacchettoni,
Gli eremiti, le monache ed i frati,
E per fin della chiesa i primi capi,
Peccano i cardinal, peccano i papi.
Ma che parl'io di questo mondo basso?
In cielo stesso i spiriti immortali,
Che seguaci si fer di Satanasso,
Cose fatte non han più criminali?
E voi, che uom siete ben pasciuto e grasso
E ripieno di stimoli carnali,
Di fragil senso e di natura labile,
Pretendereste d'essere impeccabile?
Monsignor, che in cervel ben altre cose
Avea di cui Martin sembrava ignaro,
508
Sollevò le pupille lacrimose,
E riguardandol con sorriso amaro,
Crollò la testa e in guisa tal rispose:
Di grazia non seccarmi, fratel caro,
Non seccarmi di più colla tua predica,
Che innasprisce la piaga e non la medica.
Tu la vera cagion dei miei rimorsi,
A quel che veggo, non giungi a comprendere;
Piango, pcrchè di ciò tardi m'accorsi
A cui dovea più di buon'ora attendere;
Piango i miei giovanili anni trascorsi,
Che molto meglio avrei potuto spendere;
E piango infin la balordaggin mia
Di non avere incominciato pria.
Martin rimase stupido in udire
Addur da monsignor motivi tai
Che lo facevan piangere e pentire,
E trovandoli giusti e forti assai,
Mutò registro e il consolò con dire
Meglio è una volta incominciar che mai;
E soggiunse, che avrebbe ancor potuto
Il tempo riparar che avea perduto.
Or qui lo scritto mio prosiegue e dice,
Che monsignor trovò il consiglio sano,
E diede un grosso assegnamento a Cice
Dieci volte maggior che al cappellano;
Che Martin si pigliò la genitrice
Per non restarsi colle mani in mano;
E che dai contrattanti furon fatti
Della quadruplice alleanza i patti;
Che in vigore il trattato si mantenne
Per alcun tempo, infin che a monsignore
Un certo incomoduccio sopravvenne
Per cui con Cice entrò di mal umore,
Onde il trattato a sciogliere si venne;
Che tal dell'umane opere è il tenore,
E siccome il Petrarca l'assicura,
Cosa bella e mortal passa e non dura.
Donne, che avete spirito e talento,
È un esempio utilissimo per voi
Del mio prelato il tardo pentimento.
Ciascuna nel bel fior degli anni suoi
Pasca il cor di piacere e di contento,
Acciò non abbia da pentirsen poi;
Che assai felice si può dir colui
Che a ben vivere apprende a spese altrui.
509
NOVELLA XXXV
LA PISTOLA
Della brutta avarizia, o Donne care,
Sempre nemico fui, non perchè io molto
Abbia su che poterla esercitare,
Che anzi cosa convengo esser da stolto
Voler senza ragione il suo gettare;
Ma gli avari detesto; e quando ascolto
Che qualche scherzo singolar vien fatto
A qualcun di costor, ci ho un gusto matto.
In proposito tal emmi venuto
Pensier di raccontarvi un fatterello
San già molt'anni in Genova accaduto,
Che da un amico mio, che avea cervello,
Villeggiando in Poncevera ho saputo,
Il qual per spasso in uno scartabello
Aneddotucci curiosi e molti
In Genova seguiti avea raccolti.
È Genova città ch'è stata ognora
Di cittadini splendidi provvista;
Di vastissimo traffico s'onora,
Che ricchezza col traffico s'acquista.
Evvi per altro qualche avaro ancora,
(Che col frumento la zizzania è mista)
Perciò, se il nome in mente io ben ritengo,
Vi fu ricco usurier, detto Barlengo.
Era il mestiere suo prestar danari
A giovinastri, a giocatori, a matti,
A figli di famiglia e altri lor pari
Colle condizion, vantaggi e patti,
Che acconciamente appor san gli usurari
Nei loro discretissimi contratti,
E coll'assicurato emolumento
Del venticinque e spesso trenta al cento.
Nè v'è di che stupir, che a' nostri tempi
E in qualche colto europeo paese
Di prestato danaro abbiamo esempi
Al quattro, al cinque d'interesse al mese;
Che al paragon sarian discreti e scempi
I prestiti del nostro Genovese;
510
Che in questo mondo ognor le circostanze
Soglion cangiar e regolar le usanze.
Barlengo con sì avara anima in seno
Non biasmo mai disonorante o sfregio
Curò, purchè il forziere avesse pieno;
Onde a ragion con onta e con dispregio
Riguardato era da color che avieno
Di vero onor i sentimenti in pregio:
Ma i più bassi pensier, le più vili opre,
Presso l'alme volgar ricchezza copre.
Correan sei mesi che Barlengo s'era
Unito a bella e giovinetta sposa;
Che Genova di belle è la miniera,
Nè colà bella donna è rara cosa.
D'indole dolce e di gentil maniera
Era ella in oltre, e si chiamava Rosa,
Ed onestade a tanti pregi unì;
Circostanza un po' rara ai nostri dì.
Per altro tutto ciò l'avaro sposo
Poco o nulla curava a parlar schietto;
Di ricca dote sol fu premuroso:
Ma benchè non potesse alcun sospetto
Su lei cader, era un tantin geloso,
Non essendo gentil nè giovinetto,
E vedendo ronzar e notte e giorno
Folla d'amanti alla sua sposa attorno.
Poichè l'usato stil degli zerbini
Sì della nostra età che delle antiche
È di far colle belle i damerini,
E procurare ognor farsele amiche
E come sopra i dolci e i zuccherini
Soglion correr le mosche e le formiche;
Così attorno alle belle ognor per corre
I piaceri d'amor gioventù corre.
Avvezzo Amor non sol le altiere belle
Ma gli stessi a domar numi immortali,
Cruccioso allor che femminetta imbelle
La forza osi schernir delli suoi strali,
Scaglionne uno a colei, che oltre alla pelle
L'intimo andò a cercar dei penetrali;
Ma virtù che si stava in guardia al core
Scemò la forza a quello stral d'Amore.
Ciò che dich'io meglio a spiegarvi or vengo
Come ed in quale occasione avvenne.
Dell'assedio a parlar non m'intrattengo
511
Ch'ella dai giovin liguri sostenne;
Solo dirò che lettere a Barlengo
Recò un inglese che in Italia venne
Per vederne i palagi e le colonne,
Le statue, i quadri, e molto più le donne.
Era egli un ricco giovine e ben fatto,
Che amava grandemente il gioco e il vino,
E per le belle femmine era matto;
Bizzarro, impaziente, libertino
Parco in parole e generoso in fatto.
Barlengo diegli un bel desinarino
Per rivalersi poi di spese tali
Sulla provvision delle cambiali.
E se del nome suo ben mi ricordo,
Ei sir Giorgio Mansfilzborich nomosse;
Ma perchè ricco, lo dicean milordo,
Quantunque in verità milord non fosse;
Che appo il volgo fra noi sì d'alto bordo
Un capitan, che chi minute o grosse
Merci barulla o altro mestier professa,
Ricco inglese e milord è cosa stessa.
In qualità di forestier l'Inglese,
Seduto essendo a mensa presso d'ella,
Sovente sotto voce a dir le prese
Madama Rosa, voi molto esser bella.
Grazie del complimento ella gli rese,
Che tali elogi complimento appella.
Ma donna a udir di sua beltà la lode,
Quantunque onesta, internamente gode.
Finito il desinar, nella vicina
Stanza a bere il caffè passaron poi.
A sir Giorgio il caffè porse Rosina.
Ed egli a lei co' laconismi suoi
Duro duro dicea: voi, madamina,
Voi molto bella, ed io molto amar voi.
Troppa bontà, con tuon ritroso incerto
Ella rispose, io tanto onor non merto.
La faccenda così passò quel giorno
In cerimonie e superficialmente.
Ma sir Giorgio Mansfilzborich ritorno
A lei d'allora in poi fece sovente,
E più familiar di giorno in giorno
Seco divenne, e allor apertamente
Con concise d'amor chiare richieste
Di Rosa bersagliò le orecchie oneste.
512
Ma bench'ella un'interna compiacenza
Provasse a tai dichiarazion d'amore,
Gelosissima ognor dell'apparenza
Mantenne un tal contegno esteriore,
Che sir Giorgio vie più pose in ardenza;
Sicchè sperando raddolcir quel core,
Sovente le inviò dei regalucci
Di ben forbito acciar, cesoje e astucci.
Di sì poco valor piccoli oggetti
Rosa accettar difficoltà non ebbe;
Perchè d'inglesi artefici perfetti
Mostran quanto l'industria e il gusto crebbe.
Perciò credette che, qualor gli accetti,
Far torto a sua virtù ciò non potrebbe.
Invenzion di moda e opre di gusto
Che amiate, o Donne, e le accettiate è giusto.
Una superba catenella d'oro
Sir Giorgio a Rosa un dì mandò, che un vezzo
Formava di finissimo lavoro.
Rosa doni accettar d'un certo prezzo
Cosa esser non credea di suo decoro;
E perciò d'accettarla avea ribrezzo.
Ma Barlengo dicea: prendila, Rosa;
Il prender sempre fu lodevol cosa.
Quando malgrado quella sua costanza
Sir Giorgio lei vide accettar regali,
Prese coraggio e concepì speranza
Di pervenire alfin con mezzi tali
Di Rosa ad espugnar la repugnanza
Onde fe', come fanno i generali
Che apron la breccia pria col cannon grosso,
Poi dan l'assalto ed entrano nel fosso.
Era nella stagion che più non vibra
L'acceso raggio, e par che meno scotti,
E da Vergine il sol trapassa in Libra,
E nel suo corso alle più fresche notti
I dì men caldi agguaglia ed equilibra;
E del suolo il cultor grato i prodotti
Offre a Bacco, a Pomona ed a Vertunno;
Stagion che in prosa si direbbe Autunno.
Ogni sabbato sera ire in Besagno
Solea Barlengo a un certo suo casino.
Solo passava ivi la notte, e un bagno
Il dì appresso prendea di gran mattino
In un salmastro gorgo o picciol stagno,
A cui lieve ondeggiando il mar vicino
513
L'umor forniva; e ciò, poichè il sapea,
A sir Giorgio fe' nascere un'idea.
Poco esperto scrittor a Rosa scrisse
In ridicol garbuglio italo-inglese
Un bizzarro viglietto in cui le disse,
Avere udito dir per lo paese
Che solea sir Barlengo in certe fisse
Notti dormir tre o quattro volte al mese
Non con madama; onde vacante allora
Il toro rimaner della signora.
Che perciò Giorgio ardentemente brama
Di supplire una notte al matrimonio
Con mistriss Rosa, perch'ei molto l'ama;
E ghinee cinquecento di buon conio
Pagherebbe l'incomodo a madama
Per gratitudin, non per mercimonio;
Sperando, s'egli ottien tanto favore,
Di sostituto sostener l'onore.
A madama sir Giorgio quel viglietto
Allor mandò per servitor di piazza.
Oh ve' insolenza! appena ebbelo letto,
Rosa sclamò, ve' che proposta pazza!
E con aspre parole e con dispetto
Daglielo indietro e il servitor strapazza;
Che non sapendo ben di che si tratti,
Restò stupito e li pigliò per matti.
Poi sdegnosa a Barlengo ella si rende
Ed ecco qua, gli dice, ecco che avviene,
Quando da questi forestier si prende
Dono, che prender mai non si conviene.
Io pur vel dissi. Ed ei, che non comprende
Di che la moglie a querelarsi viene,
Attonito rispose: or che ti frulla
Su per la testa? io non comprendo nulla.
Tutto ella raccontogli allor l'affare.
E tu, poichè l'affare udito egli ebbe,
Che hai tu fatto, dicea, che pensi fare?
Ed ella: ciò che donna onesta debbe,
Scacciato ho il messo, e so che più tornare
Con tai commission non oserebbe.
Ed ei: facesti inver gran scioccheria;
Convien che tosto riparata sia.
Doveva io dunque, ella riprese allora,
L'insultante accettar villana offerta?
Ed ei: sì, lo dovevi e il debbi ancora;
514
Leggier rifiuto un dono tal non merta.
Ed io m'avvedo ben che tu finora
Del mondo negli affar sei poco esperta.
Cinquecento ghinee chi con dispregio
Rifiutar può, non ne conosce il pregio.
Sorpresa che i riguardi in tanto obblio
L'avaro sposo e ogni dover ponesse,
Rosa proruppe: ah non dirassi ch'io
Abbia così per sordido interesse
Il vostro onor prostituito e il mio,
E tali turpitudini commesse!
E che la moglie vostra, oh vituperio,
Spinta abbiate voi stesso all'adulterio!
Bel bello, moglie mia, non riscaldarti,
Barlengo replicò, non tanta furia,
Intendiamoci ben: nè consigliarti
Intendo che all'onor tu faccia ingiuria,
Nè mio pensier fu mai d'abbandonarti
Per prezzo d'un straniero alla lussuria.
D'accettar consigliai, perchè con scaltro
Modo si può far l'un senza far l'altro.
Ed ella: se' impazzato? e chi concessa
T'ha facoltà d'unir sì opposte cose?
Or non istarmi a far la dottoressa;
Da te apprender non deggio, egli rispose.
Farsi schiavo d'equivoca promessa
In certe circostanze un po' gelose
Non sempre è necessario, signorina;
Colla destrezza tutto si combina.
Che porti le ghinee scrivigli tosto;
Dì ch'ei giacerà teco e io non saprollo.
Sotto il letto io starommi intanto ascosto
Immobil, chiotto; e quando poi vedrollo
In procinto di ponersi al mio posto,
Uscirò a un tratto fuori e scaccerollo.
Ed ecco come puossi, anzi si dee,
Conservare l'onore e le ghinee,
Che se oserà parlar con brusco muso,
E se meco vorrà fare il bravazzo,
Come di far costor talvolta han l'uso,
Io sbrigarmi saprò di questo pazzo.
Vedi là nel canton quell'archibuso?
Senza fare altre chiacchiere l'ammazzo.
Ma quantunque Barlengo in quello stile
Allor parlasse, era egli in fatti un vile.
515
Dunque volete voi ch'io m'avvilisca,
Riprese Rosa, ad accettar danaro,
E la viltade alla perfidia unisca?
Orsù, interruppe quel marito avaro,
Orsù, questo garrir fra noi finisca.
Così vo': non son io tanto somaro,
Che per ribrezzo intempestivo e vano
Cinquecento ghinee m'escan di mano.
Piangendo allor Rosa sclamò: gran Dio...
Ed ei: non entran qui nè Dio nè santi.
Se non t'affretti a far quel che dich'io,
Amici non sarem d'ora in avanti,
E giuro al ciel, dovrai pagarne il fio.
Più dei scrupoli vagliono i contanti,
E se non m'usi i debiti riguardi,
Del folle ardir ti pentirai, ma tardi.
Il tuon ch'ei prese irato e minaccioso
In proferir quest'ultime parole
Il barbaro, brutal, ruvido sposo,
Tuon che sì di leggieri usar non suole,
Produsse in quel cor debole, affannoso,
Tema, cagion che di colà s'invole.
Parte e soletta in camera si chiude,
E fin le donne di servizio esclude.
Qui con serio pensier ponsi a riflettere
Qual debba in caso tal partito prendere.
Inviti far, doni accettar per lettere,
Sa ben che troppo è la modestia offendere,
Ma il marito capace è di commettere
Ogni atto vil, nè vuol ragione intendere.
Dunque che far? per lo quieto vivere
Uopo sarà di rassegnarsi e scrivere.
Finchè potei, diceva, ho resistito;
Ma se d'autorità prendesi il tuono,
Una moglie che può? s'avrò fallito,
D'una colpa non mia spero perdono.
Pur temo un qualche mal: s'un m'è marito,
E l'altro è un po' durotto, è ver, ma è buono.
Poverino! scusarlo alfin conviene,
Non d'altro è reo che di volermi bene.
Dunque a tirarne giusta conseguenza
Giorgio non era indifferente a Rosa;
Ma, come io vi dicea, dell'apparenza
D'osservare i riguardi era gelosa.
La falsità, l'inganno e l'indecenza,
Abborriva però più che la cosa.
516
Si scusa qualche debolezza umana;
Venalità cosa è troppo villana.
A Giorgio allor la giovine mogliera
Scrisse che del rigor che usato avea,
Fatta riflession, pentita ell'era;
Nè più ingrata esser vuol, ond'ei potea
Nel seguente venir sabato sera;
E perchè conservare alcun volea
Pegno d'amore che per essa egli ebbe,
Le ghinee cinquecento accetterebbe.
A sir Giorgio un gran giubilo apportò
Quell'inaspettatissimo viglietto.
Lesselo, poi baciollo, e sel recò
Due volte e tre teneramente al petto,
E qual pegno sicuro il riguardò
Di prossimo dolcissimo diletto.
Ma poichè del desir l'ardente foco,
Alla riflession diè alquanto loco,
Era ben natural ch'ei si stupisse
Che donna poco fa sì ritenuta
In tutto ciò che fece e in ciò che disse
Fosse a un tratto sì facil divenuta,
Che per prezzo ella stessa altrui s'offrisse.
Non sì repente d'indole si muta.
E prese a sospettar che il cangiamento
Inganno non coprisse e tradimento.
E intanto presentoglisi al pensiero
Il vile sposo e l'avido ed avaro
Carattere di ligure usuriero,
Pronto a ogni iniquità per lo danaro,
Che d'un sordido lucro il vitupero
Pon della stima e dell'onore al paro.
Ma pure alfin ch'esser potrà?... si vada:
Un Inglese ai pericoli non bada.
E un viaggiator par suo, che per lo mondo
Vada facendo di professione
Cavallerescamente il vagabondo,
E belle in conquistar sua gloria pone,
Come dell'Ariosto il bel Giocondo,
Non si lascia scappar l'occasione;
Così per una simile avventura
Vita, non che danar, non si trascura.
Ed avendo una lettera concetta
Colle solite anglo-itale parole,
Giorgio rispose ch'ei l'invito accetta;
517
Poi carica due piccole pistole
Ch'ei possedea di tempera perfetta,
E che in tai casi ognor seco aver suole:
Le ghinee prende, e le pistole in tasca
Pensi, poi vanno, e quel che vuol ne nasca.
Barlengo intanto in brache ed in gilè
Pronto a celarsi ognor convien che attenda
Di Rosa nella camera, finchè
Di donne il comprator colà si renda,
Che de' pagar ed eseguir non de'
La pagata illegittima faccenda;
E quand'ode qualcun ch'all'uscio picchia,
Si ficca sotto al letto e si rannicchia.
S'era già Rosa coricata in letto,
Quand'ecco ch'entra il venturier britanno.
Tosto delle ghinee posa il sacchetto
Che all'usurier tanto appetito fanno;
S'accosta a lei che con turbato aspetto
Per repugnanza dell'ordito inganno
L'accoglie, e sembra che timor la punga,
E inquietudin che alcun non sopraggiunga.
Quel turbamento in lui sospetto accrebbe;
Quando udì moto sotto al letto, allora
D'insidia occulta certo indizio egli ebbe.
Le pistole che trae di tasca fuora
Pon sotto l'origlier. Che far si debbe
Con quest'armi? chied'ella. Ed ei: signora,
Non temer voi, rispose, accostumato
Io d'andar sempre in tali casi armato.
Saper che vostra signoria non vuole
Ingannar Giorgio; buona voi non dubito:
Sol per prudenza son pronte pistole.
Ma se alcun a turbar nostro concubito
Entra, godem! io non fatte parole,
Ma suo cervello saltar fuora subito.
Che risponder può Rosa a tal minaccia?
Che far? forza è che si rassegni e taccia.
Barlengo, che pria fea l'umor bislacco,
Incominciò a tremar come una foglia.
Più non pensò d'opporsi al proprio smacco,
E di mostrarsi gli passò la voglia;
Sì grande era il timor di quel vigliacco.
Ma Giorgio intanto ad agio suo si spoglia.
Si corca; e testimonio auricolare
Il marito è presente al grande affare.
518
Bada, Musa, non far la scandalosa,
Temi il cipiglio di matrone austere,
Che non forzate già, come fu Rosa,
Ma di buon grado e per lo lor piacere
Col più cauto mister fan quella cosa,
Frini in privato e in pubblico severe;
E con riguardi e provvidi consigli
Agli assenti mariti accrescon figli.
Rosa, poichè di Giorgio in braccio fu,
D'opporsi alla libidine anglicana
Vide che tempo omai non era più.
Resasi allor la resistenza vana,
Della necessità ne fe' virtù;
Che ogni maestro di morale umana
Dice che ciò che far si dee conviene
Non già farsi alla diavola, ma bene.
Onde appena ebbe fatto il parallello
Fra il bell'Inglese giovine e robusto,
E il marito nè giovine nè bello,
Da donna di talento e di buon gusto
Dando il suffragio a quel monton novello,
Perdona a quei che con comando ingiusto
Lei per avidità, per interesse,
Al piacevol delitto astretta avesse.
Col moto il dolce lavorio seconda,
E vieta i sfoghi liberi alla voce;
Poichè ben sa qual sotto lei s'asconda
Ascoltator per codardia feroce,
Mutolo testimon, cui l'iraconda
Gelosa smania il cor roventa e cuoce
Il lascivo in udir caldo gazzurro,
Lo scuotimento e il querulo susurro.
Qui doppio quadro offresi a voi, l'un sotto
Al letto invaso e l'invasor di sopra.
Stassene quegli rannicchiato e chiotto,
Che alito o moto alcun non lo discopra;
E questi da timor non interrotto
Intento è unicamente a compier l'opra.
Nè mai pittor immaginò nei vasti
Spazi di fantasia più bei contrasti.
Barlengo a un tratto sente un grosso fiato
Da un sospir languidissimo seguito.
Per disgusto sospira; io ne son stato
Il primo autor, dicea fra se il marito;
La cara sposa mia non ha peccato.
Ghinee! ghinee! m'avete voi tradito.
519
Rosa per voi di dispiacer, di noja,
Sospira e langue in mani di quel boja.
Di sopra allor seguì breve riposo;
Ma tosto il tuon rincominciò di pria,
E il fiato e il sospir languido affannoso.
Qui di sintomi v'è monotonia,
Allor riprese il pecoron suo sposo,
Certo tutto dolor non par che sia.
Ah ghinee! qual degg'io crudel martire,
Maladette ghinee! per voi soffrire!
Così colui nell'onta e nel deliro
Passò tutta la notte e nella rabbia,
Or l'anelito udendo or il sospiro,
E bestemmiava e si mordea le labbia;
Non però che osi mandar fuor respiro,
Fisso sempre in un sito, onde avvien ch'abbia
L'ossa e le coste indolenzite e rotte.
O Donne, figuratevi che notte!
Già l'ombre dispariano e già la bianca
Aurora comparia sull'orizzonte,
Quando la coppia affaticata e stanca
Cessò dall'opra e s'asciugò la fronte.
Levossi Giorgio, e i pantalon sull'anca
Allaccia, e le sue vesti ivi ognor pronte
Riponsi, e sotto alla notturna cappa
Le pistole nasconde, e il volto tappa.
Così sfogato il suo desir, l'Inglese
Parte pria che più chiaro il dì riluca.
Ma temendo il vigliacco Genovese
Che il diavolo colà nol riconduca,
Fisso ivi ancor per qualche tempo attese.
Carpone alfin di sotto al letto sbuca;
Pinta in volto gli appar la rabbia e l'ira,
E attorno gli occhi spaventati gira.
E come il sorcio fa che per la stanza
Vede ronzar l'insidiosa gatta,
Temendo di colei la vicinanza
Nel solito pertugio entra e s'appiatta
E se all'ingresso ad or ad or s'avanza,
Fa capolin, poi balza indietro e scatta;
Nè vien fuor, se sicuro ei non è pria
Che la nemica sua colà non sia:
Barlengo esce così da sotto al letto,
Ch'è rattrappito e quasi rotte ha l'osse;
Guarda d'intorno come per sospetto
520
Che l'Inglese partito ancor non fosse.
Quando delle ghinee vede il sacchetto,
E' parve allor rinvigorir, si scosse
E con avidità senz'altro dire
Corre, l'afferra e già volea partire.
Credendo Rosa che colui pentito
Render voglia il sacchetto e le monete
Bravo, veggio ben io, disse al marito,
Che redimer l'onor così volete,
Rendendo il prezzo infame, onde avvilito
A così bassa indegnità vi siete,
Siccome Giuda, al dir di san Matteo,
Rese del tradimento il prezzo reo.
Rosa in tal guisa vaneggiando gia,
E Barlengo a un parlar per lui sì strano
Rispose con sardonica ironia,
Stretto il saccuccio ognor tenendo in mano
Dunque mi credi tu, mogliera mia,
Sì babbaccion, sì poco buon cristiano,
Che gl'interessi miei, ch'io me deluda
Per imitar quel traditor di Giuda?
Di dar, riprese poi, retta alle tue
Sciocche suggestioni avrei gran torto;
Il mio pensier sensato e giusto fue,
Padrona mia, non che, utile ed accorto.
Non vo' invece d'un mal soffrirne due;
Danar non renderò vivo nè morto.
Il mio corruccio e la mia rabbia immensa
Questo sacchetto, sol questo compensa.
Poscia per non parer d'acconsentire,
Alla sponda accostandosi del letto:
Odi, brusco le disse, e non mentire,
Pettegoluzza mia, parlami schietto,
Di Giorgio acconsentisti al reo desire?
Confessalo, perchè io ne ho gran sospetto.
Rosa, udendol parlare in cotal guisa,
Potè a gran pena contener le risa.
Ma pur volendo secondar la scena,
Seria rispose a lui: mi maraviglio!
A far non m'indurrei cosa sì oscena,
Por dovessi la vita anche in periglio.
Ma in avvenir di darvi sì gran pena,
E farmi torto tal non vi consiglio;
Se a me così da voi l'onor si toglie,
Giuro che non sarò più vostra moglie.
521
E quei creder fingendo a tai parole:
Di ciò, disse, ben io son persuaso;
Altrimenti neppur mille pistole
Non mi tenean di far ciò che in tal caso
Un uom d'onor, come son io, far suole,
Quando le mosche tor vuolsi dal naso.
E rimprocciandol Rosa tuttavia,
Barlengo le ghinee si porta via.
Qual assurdo offre in se strano contrasto
Di mentita virtù, d'obbrobrio vero,
Chi da sozza avarizia infetto e guasto,
E insensibile all'onta e al vitupero,
E di nequizia e di menzogna impasto,
Rivolge al lucro vil l'opre e il pensiero,
E tenta con ignobile artifizio
coprir le turpitudini del vizio!
Non è possibil che sì fatta istoria
O presto o tardi poi non si scoprisse;
E forse per ispasso o vanagloria
Lo stesso sir Mansfilzborich la disse;
Poichè, siccome è cosa omai notoria
A chi conversò molto e molto visse,
Sì fatti venturier sono gli scogli
U' vanno a naufragar donzelle e mogli.
La cosa dunque per città si sparse,
E Barlengo l'oggetto allor divenne
Di scherzi e di motteggi; onde di farse
Omai veder in società s'astenne,
E per onta in campagna andò a celarse,
Ove a tutti invisibile si tenne.
E quella da interesse alma avvilita
Fu dal disprezzo pubblico punita.
Alla città però di Rosa increbbe,
Che buona era, e con sposo onesto e saggio
Saggia ed onesta ancor stata sarebbe.
Ma con uom che ogn'illecito vantaggio
Cercava, nella colpa altrui part'ebbe
Forzata a esercitar libertinaggio.
Dal marito usurier divisa poi
Trar potè saviamente i giorni suoi.
Che colle mie moralità vi secchi,
O Donne, permettetemi talora,
Che questo è il debol de' poeti vecchi;
E qui v'osserverò che, se tuttora
Fa gelosia gran quantità di becchi,
Avarizia ne fa più molti ancora.
522
Dan gran facilità gelosi e avari:
Che i dilettanti se li tengan cari.
523
NOVELLA XXXVI
L'ARCANGELO GABRIELLO
È solito costume, degli amanti
Di lodar sempre ed adular le belle.
Chi dice lor mille cose galanti,
Chi al sole le somiglia e chi alle stelle,
E chi sparge per lor sospiri e pianti,
E chi giura che pena e muor per quelle
E con sì fatte iperboli e sì strane
Vie più le rendono orgogliose e vane.
Che se tutte per altro, o Donne mie,
Fosser savie così, come voi siete,
In mezzo a tai svenevoli follie
Sarebber più prudenti e più discrete,
E saprebbero il ver dalle bugie
Distinguer, come voi lo distinguete
Nè al suon di lusinghevoli parole
Si aggirerebber come banderuole.
Di tal fatta una donna era in Venezia
Che di beltà credevasi un modello,
E si chiamava madonna Lucrezia,
Nèvisto erasi ancor viso più bello;
Ma or con una or con un'altra inezia
Gli adulator le avean guasto il cervello;
E come che non sian gli esempi rari,
In lei beltà e sciocchezza ivan del pari.
Contro il Turco il marito a segnalarsi
Era ito sopra una squadra navale,
Quando ella per mangiar, come suol farsi,
Poscia in grazia d'Iddio l'uovo pasquale,
Andò un sabato santo a confessarsi
Da un tal padre, Pasqual conventuale,
Che avea nella città credito e loda,
Ed era allora il confessor di moda.
Questo fior di virtù nacque in Urbino,
E dall'età più giovine era stato
Famoso incorreggibil libertino,
Sentina d'ogni vizio e scapestrato,
Seguace delle femmine e del vino;
E al fin fu dalla patria esiliato,
524
Perchè il loco mettea tutto a soqquadro,
E fama avea di spia, falsario e ladro.
Onde volendo con pietà mentita
Continuar le sfrenatezze usate,
Ricovrossi in Venezia e cangiar vita
Astutamente finse e si fe' frate,
E all'esterno mostrando alma contrita,
Devozion spirava e santitate.
Solea scacciar da' corpi ossessi il diavolo,
E accendersi di zel come un san Pavolo.
Detto l'avresti alla faccia dimessa
Di san Francesco il più perfetto figlio.
Quando in pubblico orava o dicea messa,
Gli cadevan le lacrime dal ciglio.
Monachella non v'era, nè badessa,
Che da lui non bramasse aver consiglio;
Ogni opra sua creduta era un miracolo,
Ogni detto stimato era un oracolo.
Oh madre d'ogni vizio, oh maladetta,
Oh iniqua e scellerata ipocrisia!
Per te ogni opra più santa e più perfetta,
Per te solo divien malvagia e ria.
Tu l'anima di mille colpe infetta
Sotto apparenza ascondi umile e pia,
Tu la pura virtù guasti e deturpi,
Nè il nome sol, ma il premio anche n'usurpi.
Ma finchè vi sarà santità vera,
Santità vi sarà falsa e apparente;
E con questa tuttor l'iniquo spera
La divota ingannar credula gente.
Colla buona moneta in tal maniera
La non buona veggiam correr sovente;
E finchè al mondo vi saran danari,
Vi saran sempre falsi monetari.
Ma riprendendo il fil, sua reverenza
Le colpe udendo di Lucrezia bella,
Prese cotal diletto e compiacenza
D'intrattenersi a favellar con ella,
Che per seco contrar più confidenza
Le domandò se vedova o zitella
O maritata fosse; e alla fin poi
Le disse: un cicisbeo l'avete voi?
Lucrezia bruscamente a tal richiesta
Rispose: eh! messer frate, in fede mia
Voi non avete, tanti peli in testa
525
Quanti amatori avrei, se bramosia
Me ne prendesse pur: ma vi par questa
Beltà che un uom mortal degno ne sia?
Veramente potria questo mio viso
Aggiungere ornamento al paradiso.
Il furbo ipocriton conventuale
Con man si copre il viso e tronfia e sghigna,
Udendo quella zucca senza sale,
Che bella si credea più di Ciprigna;
E in se conclude e non conclude male,
Esser quello terren da piantar vigna;
Ma vuol per questa volta apparir santo,
E finge zelo e l'avvertisce intanto
Che Dio non vuol superbia e vanagloria,
Ma l'umiltà comanda e la modestia.
Ella s'empie ognor più di folle boria,
E sostien tuttavia ch'egli è una bestia;
Ond'ei che vuol continuar l'istoria
In miglior tempo e non le dar molestia,
Non se le oppon, curva le spalle e tace,
Indi l'assolve e la rimanda in pace.
E con scuse e pretesti impaziente
Dall'altre donne poi si disimpegna.
Medita il giorno e la notte seguente
Come far opra illustre e di se degna;
Alfin nobil pensier gli cade in mente,
Ed eseguirlo l'altro dì disegna.
E giunta l'ora ch'egli attende e brama,
Dette principio all'ideata trama.
E tolto seco un fraticel, che a parte
Era de' suoi pensier, andò a madonna,
E finse arcani e, trattala in disparte,
A lei prostrassi e le baciò la gonna;
E lacrime e sospir spargendo ad arte
Perdon, le disse, o incomparabil donna,
Perdon vi chiedo, o stella mattutina,
Perdon, bellezza angelica e divina.
Ella a sì strana inaspettata scena
Che mai ciò fosse interrogava il frate.
Ed egli: Ave, Lucretia, gratia plena,
Se voi il mio fallo non mi perdonate,
Io troppo, ohimè! ne pagherò la pena;
Ma perchè meglio la cosa intendiate,
Tutta per mio rossor, per vostra gloria,
Vi narrerò la dolorosa istoria.
526
La scorsa notte, come è mio costume,
Standomi in cella orando inginocchione,
Balenar vidi un improvviso lume.
Mi volgo e appo mi veggo un bel garzone;
Le lucid'ali e le dorate piume
Avea sul dorso e in mano avea un bastone.
Minaccioso mi guarda, e per la cappa
Con isdegno e con impeto mi chiappa.
Indi a' suoi piè mi trasse, e con quel legno
Conciommi sì, che n'ebbi gli ossi pesti.
Perchè, gli domand'io, cotanto sdegno?
Perchè, rispose quei, tu presumesti
Riprender di Lucrezia, o frate indegno,
Le bellezze serafiche e celesti,
Quai sopra ogni altra cosa amar sogl'io,
Eccetto sol messer Domineddio?
Ma voi chi siete? io gli soggiungo. Io sono,
Colui riprese, io son l'agnol Gabriello.
Colla faccia per terra allor: perdono,
Perdon vi chiedo, esclamo, agnolo bello.
Vanne, ei mi disse in autorevol tuono,
Vanne a Lucrezia, unico mezzo è quello
Onde calmar tu possa i sdegni miei,
Che pria cerchi ottener perdon da lei.
Ma se da lei perdon non otterrai,
Qui a ritrovarti tornerò ogni notte,
Nè di punirti resterò giammai,
Se l'ossa non t'avrò fiaccate e rotte.
Queste mi disse ed altre cose assai,
E altre ragion da lui mi furo addotte,
Che per altro da me voi non saprete,
Se pria del fallo mio non mi assolvete.
Madonna zucca vota un gran diletto
Provava entro se stessa a un parlar tale,
E disse: inver mi spiace, poveretto!
D'esser stata cagion del vostro male;
Ma Dio v'ajuti, io ve l'avea pur detto,
Ch'era la beltà mia celestiale:
Orsù, via, vi perdono, purchè voi
Mi diciate ciò ch'ei vi disse poi.
Un grande arcano, ei disse allor, figliuola,
A svelarvi m'accingo, or che son certo
Che mi assolvete, e d'una cosa sola
Per lo ben vostro vi prevengo e avverto,
Che, se di ciò farete altrui parola,
Tutto dell'opra perderete il merto;
527
Che non lice ai mortali ed ai profani
Entrare a parte de' celesti arcani.
Sappiate che quest'agnolo beato,
Benchè a cose divine avvezzo sia,
È di voi per tal guisa innamorato,
Che non altro che voi cerca e desia,
E da gran tempo ha di passar bramato
Alcuna notte in vostra compagnia;
Ma per non vi recar tema o sorpresa
Per mezzo mio far ve ne volle intesa.
E poichè per cagion di metafisica
Un angiol non si vede e non si tocca,
Pensa a voi presentarsi in forma fisica,
E farsi un uom con piè, mani, occhi e bocca;
Ma di farlo per altro ei non si risica
Senza il consenso vostro; onde a voi tocca
Dir quando ei venir deggia e in qual figura,
E a un vostro cenno ei cangerà natura.
Ed ella: un amator sdegno fra gli uomini,
Ma un Gabriel se l'amor suo mi svela,
L'accetto amante; ei sul mio cor predomini.
Qualor pinto il vid'io su muro o tela,
Sempre gli recitai l'Angelus Domini,
O gli accesi davanti una candela;
Perchè a dirla con lui ci ho simpatia,
E mi piace la sua fisonomia.
Or voi pertanto gli potrete dire
Che complimenti meco egli non faccia,
Che può liberamente a me venire.
Ogni qualvolta di venir gli piaccia,
Mi troverà soletta; e allor gioire
Potrà dell'amor suo fra le mie braccia;
E venga pure in qualsisia figura,
Ma badi di non mettermi paura.
Per mia cagion per altro io non vorrei
Che lasciasse la vergine Maria,
Perchè sempre lo vedo avanti a lei,
E credo innamorato egli ne sia.
Altrui toglier non bramo i cicisbei,
Nè mi piace a verun dar gelosia,
Nè vo' che ella perciò meco si sdegni;
In somma, parlo chiaro, io non vo' impegni.
Questo è parlar con senno, esclamò il frate
Questo si chiama aver timor d'Iddio;
Ma fidatevi a me, non dubitate,
528
Che seco il tutto aggiusterò ben io.
Una grazia però vo' mi facciate,
Ed è, ch'ei venga a voi col corpo mio,
Cosa che a voi non reca pregiudizio,
E a me rende un grandissimo servizio.
Poichè per far che nel mio corpo egli entre
Con unione ipostatica m'avviso
Che pria dovrà l'anima trarne, e mentre
Il corpo mio sarà da lei diviso,
In fin ch'ella di nuovo ci rientre,
L'angiolo metteralla in paradiso,
Ove potrà di quel felice stato
Godere intanto un saggio anticipato.
E ben merita un qualche guiderdone
Il fare ad un arcangelo il mezzano,
Mentre veggonsi ognor tante persone,
Sensali vili di commercio umano,
Di ricchezze ottener profusione;
Ed io, che già nol fo per uom profano,
Ma per un angiol del supremo stuolo,
Dell'anima il vantaggio io cerco solo.
Or via, tali ragion m'avete addotte,
Ella rispose, che la grazia avrete,
E così intendo compensar le botte
Che a mio riguardo ricevuto avete.
Or ben, il frate replicò, sta notte
L'uscio di vostra casa non chiudete;
Perchè un angiol fatt'uom (son cose note)
Altronde che per l'uscio entrar non puote.
E ciò detto, da lei congedo prese,
E tornossene ratto al monastero,
Ove con droghe a ristorar s'attese
Per riuscir valente cavaliero,
E procurò di star bene in arnese;
Che a gran cammin spronar vuole il corsiero,
E mostrar che, se un uom nell'opre sue
Fa per un uom, un angiol fa per due.
Tutto il dì attende, e non sì tosto annotta
Che se ne andò da monna Cornificia
Sua confidente, assai perita e dotta
In facoltà lenonia e meretricia.
Qui candida si pon lucida cotta
In vece di mutande e di camicia,
Ai piè s'adatta i sandali, e posticci
Ponsi i biondi capelli e fassi i ricci.
529
Si sbraccia infino ai gomiti e si fascia
Con trasparente velo alla cintura,
Si liscia, si profuma, e la bagascia
Consapevol digià dell'avventura
Si sbellica di risa e si sganascia,
Rimirando com'ei si trasfigura,
E in un tabarro all'uso di Venezia
Alfin s'involse e valsene a Lucrezia.
E l'uscio mezzo aperto e mezzo chiuso
Trova, guarda d'intorno, e incontinente
Entra, appiatta il tabarro e sale suso,
Ed improvviso fassi a lei presente
Che di tema un piacer misto e confuso
All'apparir dell'angiolo risente,
E inginocchiossi, ed ei la benedisse,
La man le porse, sollevolla e disse:
Sorgete, e a coricarvi ite, madonna,
Cerimonie tra noi non debbon farsi.
Ella ben tosto si levò la gonna
E andò obbediente a coricarsi.
Poichè nuda restò la bella donna,
Al frate il cintolino ebbe a strapparsi,
Cominciato ex abrupto avria il lavoro,
Ma il ritenne l'angelico decoro.
Onde frenò i lascivi desideri,
E sorridendo: figlia mia, le dice,
A che pro tanti lumi e candellieri?
Nella notturna oscurità felice
Del nostro amor si ascondano i misteri
Che alla luce profana espor non lice.
E i lumi smorza, indi si spoglia, e anch'ei
Tosto in letto si corica con lei.
Era padre Pasqual un cotal fusto
Di corpo e di persona assai ben fatto,
Ben complesso di membra, agil, robusto,
E in lussuria vinceva il micco e il gatto,
E niun dare alle femmine più gusto
Sapea con libertin lascivo tatto;
In somma a tutta prova era un campione
Per scuotere alle donne il pelliccione.
Ed a Lucrezia lo provò in effetto,
Che tutta notte non istette in ozio
E più e più volte replicò il diletto;
Onde conobbe quanto buon negozio
Stato fosse per lei di avere in letto
Un angiolo carnal per drudo e sozio,
530
E assaporato l'angelico arnese,
Maggior disgusto per gli uomini prese.
In quei momenti in cui si riposava
Per riprender più lena e vigoria,
Fra Pasquale i misteri a lei svelava
Della celestial teologia.
Veramente gran danno, ella esclamava,
Gran danno veramente che non sia
Quel soave diletto in ciel permesso
Che nasce solo dal diverso sesso.
Ecco il giudizio uman come spess'erra!
Esclamò il frate con enfasi di zelo,
Quando l'uom ragionar presume in terra
De' misteri ineffabili del cielo
Che l'eterno voler involge e serra
Dentro un oscuro impenetrabil velo.
Ma tu ascoltami, donna, e udirai cose
A noi sol note e a voi mortali ascose.
A suo piacer, e quand'ei vuol, di sesso
Cangia uno spirto e fassi maschio o femina,
Oppur femmina e maschio a un tempo stesso
In se due qualità raddoppia e gemina,
Nè per quanto ne sia continuo e spesso
L'uso, non mai l'illanguidisce o effemina;
Che anzi quella piacevole abitudine
Forma parte di lor beatitudine:
Che non commistion materiale,
Nè si usano sensibili maniere,
Ma un atto puro ed intellettuale
E conforme reciproco volere.
Atto cotal a generar non vale,
Ma dato è sol per procurar piacere;
Che nè nasce uno spirito, nè muore,
Nè esser può generato o genitore:
Poiché fatti non siam d'ossi e di ciccia,
Nè sangue o vene abbiam, nè fibre e nervi,
Nè altra materia c'inviluppa e impiccia
Che avvinti suol ne' lacci suoi tenervi.
Ma voi che avete l'anima posticcia
Siete del corpo ognor sudditi e servi;
Noi sesso alcun non lega, e io sono un angiolo
Che amo uno e l'altro sesso, e spesso cangiolo.
Tempo verrà, come fu a voi predetto,
Che i corpi a nuova vita sorgeranno,
E di felicità stato perfetto
531
Anch'essi allora avran che ora non hanno,
Gli animi avran spiritual diletto,
E diletto corporeo i corpi avranno,
E sarà pienamente soddisfatto
Gusto, vista, odorato, udito e tatto.
E ben color che usque ab Ecclesiæ initio
Il regno predicar dei millenari
Par che avesser di ciò sentore e indizio;
Ma non piacque a Giovanni e a' suoi scolari,
Che gente si credean di più giudizio;
Onde Cerinto colli suoi settari
Dal ceto de' fedeli ebber l'esilio,
E fur dannati in non so qual concilio.
Così più volte ripigliò a vicenda
Or qualche suo teologale assunto,
Ed or la dilettevole faccenda,
E alfin cessò dall'opera e fe' punto;
Poichè è pur d'uopo che congedo prenda,
Essendo della notte il termin giunto,
E sorgean dell'aurora i primi rai
Gli orli a indorar dell'orizzonte omai.
E a ripigliar sen va tonaca e manto
Da Cornificia, e frettolosamente
Fece ritorno al monastero santo
Pria che più rischiarasse il dì nascente.
La donna in letto ancor rimase alquanto,
Poichè di riposar bisogno sente;
Dopo un placido sonno alfin si leva,
Che il diurno pianeta alto luceva.
E al buon frate in zendal sola e in pianelle
Andò a narrar come stat'era in letto
Tutta la notte in braccio a Gabrielle,
E siccome quell'angiol benedetto
In confidenza mille cose belle
Della gloria del cielo aveale detto;
E di più aggiunge immaginaria e sciocca
Di fandonie una lunga filastrocca.
Di voi non so, padre Pasqual rispose,
Di me so bene che del corpo fuore
L'angiol mi trasse l'anima, e la pose
In mezzo d'un chiarissimo splendore,
Ov'eran tanti gigli e tante rose
Che diffondean maraviglioso odore,
E suoni in oltre e canti udii sì belli,
Come vi fosser mille Farinelli.
532
Quel che allor divenisse il corpo mio
In verità non vel saprei ridire.
Ed ella: oh che baggeo! non vel dich'io?
Nel corpo vostro l'angiolo a gioire
Meco si stette per grazia di Dio,
Finchè cominciò l'alba a comparire,
E per torvi ogni dubbio un segno espresso
Voi ne portate ancor sopra voi stesso.
Perocchè, mentre io me n'andava in brodo
Pel piacer cui simil non ebbi mai,
Cotal baciozzo e sì solenne e sodo
Sotto la manca poppa v'appiccai,
Che viva vi restò l'impronta in modo
Che restar vi dovrà dei giorni assai,
E se meglio chiarirvene volete,
Guardate ove v'ho detto, e lo vedrete.
Ed ei: quantunque io mai non ebbi usanza
Di nuda rimirar la carne umana,
Pur questa sera spoglierommi in stanza
Per osservar la stimmata sì strana.
Intanto alla monastica pietanza
I frati chiama il suon della campana;
Onde sortendo fuor del parlatorio
L'una andò a casa e l'altro al refettorio.
E vedendo sì ben la vaga idea
Riuscire della sua metempsicosi,
Padre Pasqual già stabilito avea
Principii proseguir sì avventurosi.
Sia benedetto pur, fra se dicea,
Quando a tal strattagemma il pensier posi,
E benedetta cento volte sia
La balordaggin della donna mia.
Ed alla sua mezzana e confidente
Del giorno all'imbrunir sen correa subito,
E trasformato in Gabriel sovente
Iva a monna Lucrezia, ed io non dubito
Ch'ella seguito avria tranquillamente
A goder tal angelico concubito,
Se non avesse per poco giudizio
Di quell'affar dato ella stessa indizio.
Dopo aver colle amiche un dì ciarlato
Di trine e nastri e d'abiti e di mode,
E della sua toletta e del bucato,
E di creste con code e senza code,
E de' fatti di tutto il vicinato,
Come far dalle femmine ognor s'ode,
533
D'un in altro discorso andando avanti,
Vennero a ragionar de' loro amanti.
Chi disse averne due, chi tre, chi più,
E su gli altri ciascuna i suoi lodò.
Lucrezia allor tocca da orgoglio fu,
E disse: un sol che val per mille io n'ho.
Tutte a dir l'incitaro; ed ella: orsù,
Se tacer promettete, io vel dirò:
Sappiate che l'arcangel Gabriello
Arde per me d'amore il poverello.
Credean le donne in pria ch'ella scherzasse,
Ma poichè vider che dicea da senno,
Ebber forte timor che vaneggiasse;
E l'una all'altra coll'occhio fe' cenno
Sogghignando fra i labbri e a voci basse.
Disser fra lor: costei perduto ha il senno.
Se n'avvid'ella, ed onta il cor le punse,
E con riso sardonico soggiunse:
Oh! se una volta sol gustar poteste
Con un angiolo in carne, in ossa e in pelle,
Le dolcezze del coito celeste,
Son certa, le mie care semplicelle,
Che tutt'altro piacer lo credereste
Insipido trastullo e bagattelle;
Ben io lo so che tanto all'angiol piacqui,
E seco tante notti in letto giacqui.
La cosa immaginar più o men com'era
Le donne allor, che conoscean la sciocca;
Sicchè disserlo ad altre, e in tal maniera
Quella storia passò di bocca in bocca,
Che arcano in cor di femmina ciarliera
Non resta, e fuor per la lingua trabocca,
E in breve se n'empì tutta Venezia,
E l'intese il cognato di Lucrezia.
Ei la custodia avea dell'arsenale,
Uom pronto e scaltro, e si nomò Tommaso,
Faceto sì, ma in zucca avea del sale,
E le mosche sapea torsi dal naso.
Costui, narrar sentendo istoria tale,
Non mostrò darle fede o farne caso,
Perchè volea, send'egli un buon umore,
Coll'inganno punir l'ingannatore.
Più d'un disegno fe', ma sempre in forse
Stette se proprio ed eseguibil era;
Quando dell'arsenal le chiavi scorse
534
Che a lui portar solevansi ogni sera,
Ciò pensier nuovo e nuova idea gli porse,
E già divisa i mezzi e la maniera,
Che con quelle mandar vuole ad effetto
Un suo capricciosissimo progetto.
Di santo Pietro la figura prende,
Come l'immagin sua vediam dipinta;
Il giudaico manto a' piè gli scende,
In mano ha due gran chiavi, e dalla cinta
Al manco lato la coltella pende,
Tosi ha i capelli e la barbetta finta;
E a ben guardarlo dinanzi e di dietro
Detto avresti: per Dio! questi è san Pietro.
E poscia a casa andò della cognata
intabarrato in così strano arnese,
E trovando che aperta era l'entrata,
Guardò d'intorno, e poscia su v'ascese,
nascostosi in parte inosservata
L'apparizion di Gabriello attese,
Qual fra boscaglie collo schioppo carco
Attende il cacciator la lepre al varco.
Gran calpestio su per le scale sente,
E vede Gabriel che se ne viene,
Che spinto da carnal stimolo ardente
Negli occhi impresse avea le voglie oscene.
Se gli fa avanti ed improvvisamente
Per un braccio l'afferra e forte il tiene,
E con sdegno scotendolo gli affisse
In volto il guardo minaccioso, e disse:
Tu qui? Tu ancor senza il permesso mio
Ardisti uscir delle celesti porte?
Guardam'in volto ben, Pietro son io,
Il portinajo dell'eterea corte;
Ma se non fo' che tu ne paghi il fio,
Disonor dell'angelica coorte,
Vo' questa volta che mi mangi l'orco,
Angiolo puttaniero, angiolo porco.
Le chiavi in questo dir gli diè sul muso
Con forza tal che l'ebbe a sbalordire;
Indi replica il colpo, e quei confuso
Scappar voleva, e non sapea dov'ire,
Che ogni passaggio da colui gli è chiuso;
Or qua s'aggira or là, nè può fuggire
Dal tempestar delle sonore e gravi
Percosse ree delle terribil chiavi.
535
Quale in agosto alla campagna aprica
L'industrioso e provvido villano
Lieto il frutto in veder di sua fatica
Di doppio legno arma la dura mano,
E dà frequenti colpi in sulla spica,
Acciò la paglia separi dal grano;
Tal con fiere percosse replicate
Messer Tommaso percoteva il frate.
Pel naso e per la bocca il sangue spande,
L'ossa e la carne in ogni parte ha pesta,
Ed inutil è ch'ei si raccomande;
Che colui non l'ascolta e non s'arresta.
D'un veron che sporgea sul Canal grande
Alfin s'avvede, e poichè omai non resta
Altro scampo, altra via, là corre in fretta
E disperatamente giù si getta.
Allor andò l'apostol benedetto
Là dove udendo il suon delle percosse
Stava Lucrezia rannicchiata in letto,
Nè potendo capir che mai ciò fosse,
Timido il cor le palpitava in petto.
Ver lei con faccia burbera si mosse
Dicendo: e tu non te n'andrai impunita
D'aver gli angioli indotti a mala vita.
E nuda la discopre, indi la chiappa,
La rivolge sul letto in giù boccone.
Trem'ella e si contorce e si rattrappa,
Ma colui senza usar compassione
Mena le chiavi, e or l'una or l'altra chiappa,
Or le reni le scuote, or il groppone.
Misericordia! con amaro pianto
Misericordia! ella gridava intanto.
E poscia ch'egli l'ebbe concia a segno
Che mezza morta è per dolor rimasa;
Avendo a fin condotto il suo disegno,
Se ne tornò tranquillamente a casa,
Lieto d'avere con astuto ingegno
Convinta la cognata e persuasa
Di san Pietro per sempre a ricordarsi,
Nè più a voler con angioli impacciarsi.
Or quivi, o Conte generoso e degno,
Cui venerar io mi compiaccio e vanto,
So ben che a voi non piace e avete a sdegno
Un tratto di rigore aspro cotanto,
Che giustamente lo credete indegno
D'alma ben nata e molto più di un santo;
536
Che fare offesa a torto al gentil sesso
Dalla terra e dal ciel non è permesso.
E ben conviene a voi simil pensiero,
Che siete di bontà, di cortesia,
E di ogni gentilezza esempio vero,
Nè vi fa d'uopo della lode mia,
E odiar solete ogn'incivil, severo,
Atto di crudeltà, di villania;
Onde a riguardo vostro ad ogni patto
Meglio mi volli assicurar del fatto.
E vidi i manoscritti tutti quanti,
Consultai le persone illuminate
Nelle materie lubriche e galanti,
E sulle nozion da me acquistate
Tutte collazionai le varianti.
Chi dice che colui, sparito il frate,
Data a Lucrezia una tremenda occhiata,
Partì, e lasciolla tutta spaventata.
Chi dice che in scoprir le belle e bianche
Membra di lei che piange e si desola,
L'ira ammorzò, s'intenerì peranche
Della beltà che a riguardar consola.
Le nude cosce, il corpo, il petto e l'anche
Sbirciò lascivo e glie ne venne gola,
Ma si vinse e partì, nè la toccò;
Chi dice ch'altre chiavi adoperò.
Di queste lezion ch'io ritrovai,
Qual vi aggrada, signor, sceglier potrete,
Che al vostro gusto son conformi assai,
Perchè più moderate e più discrete.
E se il fatto altramente io raccontai,
Spero che voi scusar me ne vorrete,
Che in materia cotanto dilicata
Credei meglio tenermi alla volgata.
Ma ritorniamo al nostro fra Pasquale
Che nel canal caduto era dall'alto,
E per fuggir più periglioso male
Erasi posto al disperato salto.
Cadde giù a piombo, e benchè avesse l'ale,
Non si potette equilibrar in alto,
Poichè per sollevar umana ciccia
O poco o nulla giova ala posticcia.
Non altrimenti che Icaro nel mare
Al certo il frate nel canal periva,
Ma buon per lui che sapea ben nuotare;
537
Onde il coraggio quanto può ravviva,
Che a maggior uopo non gli può giovare;
E tanto fe' che alfin si trasse a riva,
E con lena affannata ed a gran stento
Bel bel si ricondusse indi al convento.
A riprender le vesti e la sottana
Da monna Cornificia ei sarebb'ito,
Ma la sua casa troppo era lontana,
Ed egli è sì mal concio e rifinito,
Che miracol sarà se ne risana;
Onde credette l'unico partito
Drittamente al convento andar ben tosto,
Che non era di là molto discosto.
Lasciato ha strani segni, ovunque ha colto
La grandine de' colpi a cui soggiacque;
Livido, pesto e sfigurato ha il volto.
L'alta caduta e il contrastar coll'acque
Le vesti e ciò che in dosso avea gli ha tolto,
Onde rimasto è nudo, come nacque;
E del convento la chiave ha perduta
Che aveva seco infin allor tenuta.
Onde sonò la campanella, e a un tratto
Venne ad aprirgli il portinar fra Elia
Che a prima vista lo credette un matto:
L'osserva poi, nè sa capir chi sia,
Perch'egli è sì mal concio e scontraffatto,
Che par non abbia d'uom fisonomia;
Ond'ei che toglier di stupor lo vuole
Gli favella con fievoli parole:
Non mi conosci? Fra Pasqual son io,
Sì, quel pur troppo son, fratello in Cristo,
Io quel servo indegnissimo di Dio.
Il diavolo per far di me l'acquisto,
Come vedi, ha ridotto il corpo mio
In questo stato doloroso e tristo;
E perchè sii di ciò più persuaso,
Narrar ti voglio il deplorabil caso.
Mentre, guari non è, come ogni sera
Far soglio, di cristian gli obblighi adempio,
E fisso son nella mental preghiera,
Il nemico comun perverso ed empio
Me nudo e non so dirti in qual maniera
Portò sopra il pinnacolo del tempio,
Come allo stesso Salvator già feo,
Secondo scrisser già Marco e Matteo.
538
E di lassù tutte al mio guardo espose
Le venete ricchezze insiem ridutte,
In oltre le più belle e più vezzose
Vedove donne e maritate e putte;
E disse: vedi tutte queste cose?
Se tu m'adori, te le vo' dar tutte.
Io con disprezzo e collera lo guardo,
Poi gli dico: eh! va via che sei bugiardo.
Ma quei non fece a me come a Gesù,
Nè volle come a lui riguardi usarmi.
Così, riprese, mi rispondi tu?
E gran pugno avventommi, indi col darmi
Un calcio in cul precipitommi giù.
Un angiol, cred'io, venne a sollevarmi,
Poichè, a terra cadendo dal pinnacolo,
Io viver non potea senza un miracolo.
Nondimen la caduta e le percosse
Mi han ridotto così, caro fratello.
Frate Elia che a pietà di lui si mosse
Lo ricoprì col proprio suo mantello,
Poi nella cella sua seco portosse
E sopra il letto l'adagiò bel bello.
Sparsasi pel convento la novella,
Tutti a vederlo corsero alla cella.
Facevangli corona i frati attorno
Un frate gli dicea: beato te
Che ti protegge il ciel! Beato, un corno!
Tacitamente ei rispondea fra se.
L'altro: vedrem te su gli altari un giorno,
La palma del martirio ti si de'.
Ma se tu, disse alcun, martire invitto,
Battevi la collottola, eri fritto.
E in guisa tal il giusto premio ottenne
L'ipocrisia del frate e l'impostura,
E poscia infin che visse ei si sovvenne
Di quella memorabile avventura,
E non mai più la fantasia gli venne
Di usurparsi l'angelica figura;
E le sue falsità fattesi note,
Più non potè ingannar l'alme divote;
Che il fatto, come avvien, si divulgò
In pochi giorni per tutta Venezia,
E per gran pezzo ciaschedun parlò
Dell'angiol, di san Pietro e di Lucrezia.
E altamente da tutti si lodò
Di Tommaso la provvida facezia,
539
Con che dell'un l'inganno a un tempo volle,
E dell'altra punir l'orgoglio folle.
Benedette pur voi, che m'ascoltate,
Il di cui cor quanto superbia abomini
Io sollo, e quanta, o Donne mie garbate,
Modestia e saviezza in voi predomini;
Nè per amanti gli angioli cercate,
Ma siete paghe dell'amor degli uomini.
Sì, Donne care, stiam quaggiù fra noi,
Gli angeli li godremo in cielo poi.
540
NOVELLA XXXVII
LA SPOSA CUCITA
Di tutto ciò che avvien nel mondo e delle
Umane passion d'esporvi il quadro
È mio pensier con queste mie novelle.
E con certo racconto assai leggiadro
Oggi io vo' dimostrarvi, o Donne belle,
Che spesso occasion fa l'uomo ladro.
Se avanti se gli pon di pesce un piatto,
Non è a stupir se se lo pappa il gatto.
Se un, per esempio, accenditor di lumi
A uno stoppino accosta il lumicino
Senza voler che lo stoppin s'allumi,
Lo stoppin gli dirà: io son stoppino;
Se non vuoi ch'io m'accenda e mi consumi,
Perchè pormi una fiaccola vicino?
Ma senza tanti intempestivi esordi
Veniamo al fatto pria ch'io me ne scordi.
Donna, ch'empite di letizia i cori
Co' dolci modi vostri, or permettete
Che quanto fra discreti ascoltatori
Sì gentilmente un dì narrato avete,
Io pinga con più liberi colori,
E ch'io ravvivi con immagin liete
Cose, che voi con reticenze oneste
Nella giovial narrazion taceste.
In Corsica è città che detta è Corte,
Ov'era non ha guari una famiglia
Onesta sì, ma di fortune corte.
V'era la madre vedova e una figlia
Bella e gentil; ma a' nostri dì consorte
Non si presenta, se danar non piglia,
Della fanciulla il nome era Agatina;
Sedici anni non ha, ma s'avvicina,
Avea per altro un vecchio zio curato
D'una pieve che nomasi Rostino,
Di fertil territorio e popolato,
A Corte miglia quindici vicino.
Solev'ei del danar che avea ammassato
Per li bisogni suoi spender pochino;
541
Per altro insieme avea messo un valsente
Che a vero dir non era indifferente.
Promesso avea perciò di dar per dote,
Allorchè il matrimonio avrebbe loco,
Quattrocento zecchini alla nipote,
Lo che per gente tal non era poco;
Purchè di qualità buone e già note
Fosse, e non giovin discolo e dappoco
Lo sposo, e sopra tutto buon cristiano
Dal gioco e dalle femmine lontano.
Una tal prospettiva al vero dire
Util esser poteva ed eccellente
Per chi pensasse solo all'avvenire;
Ma la madre pensava anche al presente.
Di che viver le manca, e per supplire
Debituzzi contrar dovea sovente,
E avendo ognor qualche bisogno pronto,
Bramava aver qualche cosetta a conto.
Ma in ciò il curato inesorabil era,
Né a fargli tirar fuor della scarsella
Un soldo mai ragion valse o preghiera.
Un marito, dicea, trovi pur ella;
Se lo trova il mattin, pago la sera.
Ma di questo la madre e la donzella
Profittar non potendone un quattrino,
Risolser di portarsi ambo a Rostino.
Preser pertanto in due un somarello
Per su montarvi vicendevolmente,
E ver Rostin s'incamminar bel bello.
Ma siccome era estate e il sol cocente,
A metà del cammin presso a un ruscello
S'assiser sotto un pioppo agiatamente,
E tirar fuor la lor provvisione,
Che seco avean per far colazione.
Trasser fuor del salame ed un fiaschetto
Di vin che avean dalla comare avuto.
Ed ecco che un garzon di bello aspetto
Giunge a cavallo e che lor fa un saluto.
La madre disse allor; bel giovinetto,
Buon dì, che siate pure il ben venuto.
Smontate, e qui sedetevi, se a voi
Non spiace far colazion con noi.
Le donne a prima vista eransi accorte
Che conoscenza loro il giovin era,
E di famiglia cognita di Corte;
542
E perciò gli parlaro in tal maniera,
E francamente vennero alle corte.
Battista, e non saprei la ragion vera;
Il famoso il dicean comunemente,
Perchè assai forse ardito e intraprendente,
Venia da Corte, e in non so qual paese
Allor sen gia da un certo prete a scuola.
Grazie alla madre dell'invito rese,
E diede un occhiatina alla figliuola.
Smontò, legò il cavallo a un tronco, e prese
Le sue bisacce in dosso, ed in parola
Vi prendo, disse; orsù, che in comunanza
Metta ciascun di noi la sua pietanza.
Apre un involto allor che gli avean posto
I suoi parenti dentro una bisaccia,
E mortadella e un bel cappone arrosto
Tira fuor, poi di vino una borraccia,
E pan prende, e si pon sull'erba accosto
Alla giovin che par non gli dispiaccia;
Ed a mangiar con tanto gusto e a bere
Comincian, che a vederli era un piacere.
Ma il giovin sbircia spesso la ragazza,
E le usa ogni riguardo e attenzione;
E or a bere le porge in una tazza
D'argento ch'avea seco, or del cappone,
La serve, la diverte e la sollazza,
E a cattivarne il cor gran cura pone:
Nè par ch'ella men s'occupi di lui.
Che stupirne! eran giovini ambedui.
La madre che vedea con compiacenza
Che Battistin la figlia sua servisse,
E la loro reciproca tendenza,
Di lui valersi pe' suoi fin prefisse,
E presa l'opportuna contingenza,
Rivolta a lui: se siete voi, gli disse,
Tanto gentil quanto cen date indizio,
Render a noi potreste un gran servizio.
A cui con gentilezza e cortesia
Il viandante giovine rispose
Benchè io, donne, a giovarvi abil non sia,
Tutto per voi farò, se vi son cose
in cui possa valer l'opera mia.
Tutto il fatto la madre allor gli espose,
E la promessa del curato avaro,
E la necessità che han di danaro.
543
E soggiungea: se voi vi compiaceste
Sino a Rostino di venir con noi,
Dire al curato, mio fratel, potreste
Che sposo di mia figlia siete voi,
Che per le savie sue maniere oneste
Voi la sposaste da due giorni in poi.
E che dirà mio padre, egli ripiglia,
S'ode dir che sposato ho vostra figlia?
Qui non si tratta già che la sposiate;
Non è per la mia figlia un tanto onore,
D'esser lo sposo suo basta diciate.
Quattrocento zecchin metterà fuore;
Se dalli a voi, voi poscia a me li date,
Questo non è che affar d'un pajo d'ore.
Ciò a me sol preme e a questa mia fanciulla,
E tutto il resto non importa nulla.
Forse (egli è natural) se ci acconsente
Il vostro genitor dimanderà;
E voi potreste dir che veramente
V'ebbe in prima un pochin difficoltà,
Ma intromessasi poi la buona gente,
Di sposarla vi diè la facoltà.
L'essenziale è che il danar ci dia;
Ciò che hassi a dir concerterem per via.
Ed ei: quando saprassi il fatto vero,
Vostro fratel dirà ch'è un tradimento.
Ed ella: tutto ciò non guasta un zero
Voi dir potrete che non più contento
Il vostro genitor, starsi al primiero
Patto non volle e addusse impedimento.
Ora a trarne il danar pensar fa d'uopo
A tutto il resto penserassi dopo.
E il cattivel, cui del bizzarro umore
L'estro a discorsi tai già in capo frulla,
Ed io, dicea, che il principale attore
Son della farsa, e far della fanciulla
Deggio da sposo, resterò di fuore,
E tutto voi l'utile avrete, io nulla?
Nè del pasticcio ch'avrò fatto io stesso
Gustar un briciolin mi fia permesso?
E madre e figlia il frizzo ben comprese,
Nè questa o quella in collera si mise,
Ch'eran superiori a tali offese,
E quella sghignazzò, questa sorrise.
Via, non parliam di tai follie, riprese
La madre; e quegli: anzi di ciò precise
544
Condizion dobbiam fissar fra noi,
Ciò preme a me quanto il danaro a voi.
Ebben ne parlerem, colei ripiglia:
E dato sesto alle bagaglie intanto.
In sulla sella Battistin la figlia
Pone a cavallo, e per istarle accanto
In groppa monta e prende in man la briglia.
Sull'asinel monta la madre, e quanto
Restò rammassa, e tutti e tre in cammino
Si posero bel bel verso Rostino.
La madre ciò che dovran dire e fare
In concertar per via pose ogni cura.
Altro Battista e non men grave affare
Trarre intanto a buon termine procura;
E ad Agatina per poter parlare
Grand'agio avendo in quella positura,
Parolette all'orecchio il giovinetto
Le zufolò che feron grande effetto.
Il caval più dell'asino cammina
La briglia ei tien per farlo andar più piano,
Avanzando le braccia, onde avvicina
Sovente al sen la ripiegata mano,
E i turgidetti pomi ad Agatina
Gia tasteggiando, come l'ortolano,
Qualor se son maturi ei vuol sapere.
Tasta i fichi, le persiche e le pere.
In guisa tal per via più facilmente
Potè dar consistenza ai suoi disegni
Con Agatina il giovinetto ardente,
Poichè per preparar galanti impegni
Il viaggio occasion porge eccellente,
O perchè di riguardi e di ritegni
È il viaggiator più libero e più voto,
O forse perchè allor già il sangue è in moto.
E così proseguendo il lor cammino
Ciascuno intento al proprio affar, pian piano
Verso la sera giunsero a Rostino,
E avanti alla magion del parrocchiano
Agatina, la madre e Battistino,
S'arrestaro, e fra lor dandosi mano,
Dalle cavalcature dismontaro,
Quei dal cavallo e questa dal somaro.
Il parrocchian ch'alla sua porta avante
Delle vetture il calpestio sentiva:
Cos'è questo romor? disse alla fante,
545
Va, corri là, va un po' a veder chi arriva.
Colei va alla finestra, ed esultante:
Venite, disse, oh bella comitiva! Chi son? - Vostra sorella e un giovinotto
Con Agatina - E dove son? - Qui sotto.
Il curato don Giacomo giù scese,
Nè dell'arrivo lor parve sdegnoso,
Gentilmente gli accolse, e poi richiese,
Perchè là fosse Battistin famoso,
Che il conoscea. La madre allor riprese:
Gran sorte, fratel mio; Battista è sposo
Oramai, grazie al ciel, della mia figlia.
Sposo! Come? don Giacomo ripiglia.
Dunque n'è stato il genitor contento?
Ed ella: in pria fe' qualche smorfia, e or poi
Che c'è di mezzo il santo sacramento,
E può essere in riguardo ancor di voi,
Tutto s'aggiusterà coll'intervento
Di alcuni buon cristiani amici suoi.
Non è ver, Battistin, non è così?
E pronto Battistin: signora sì.
Pertanto se dir deggio il parer mio.
Ella riprese, in libertà conviene
Quei santi lasciar far servi di Dio;
E v'assicuro che faranno bene.
Facciam dunque, facciam come dich'io;
Per or non ne parliam nè in mal nè in bene.
Non è ver, Battistin, non è così?
E quegli rispondea: signora sì.
Matrimonio sì strano e inaspettato
Non poca meraviglia a vero dire
In sulle prime avea fatto al curato;
Ma udendo poi da tutti e tre asserire
Ch'egli era già contratto e consumato,
Come in mente poteagli mai venire
Dubbio che lo volessero ingannare?
E fra se: qui, dicea, non v'è altro a fare.
Montaron sopra, e la roba rimasa
Sul bricco e sul caval la fante prese,
Ma qualcun che del parroco alla casa
Dinanzi allor passò, la cosa intese;
Onde di bocca in bocca erasi spasa
Digià la nuova per tutto il paese,
E accorsero in pochissimi momenti
Gli amici, gli scrocconi ed i parenti.
546
Benchè non ami far profusione,
Don Giacomo in veder la casa piena,
Come suol farsi in tale occasione,
Fe' portar vino ed ordinò la cena
Almeno almen per dodici persone.
La fante fe' venir la Maddalena,
Che in tutto il luogo non avea compagne
Per fare li tortelli e le lasagne.
Venne mastro Simone calzolajo,
Che s'intendea di scarpe e di cucina,
Sbracciato e con grembiul scese in pollajo,
E tirò il collo a più d'una gallina.
Poi mandò là vicin dal macellajo
A prender un bel tocco di vaccina,
Che avea veduto il giorno andando a spasso,
E i quarti dietro d'un capretto grasso.
Venne peranche un certo chiericotto,
Cui per celia dicean don Bestemmino,
Ma che sapea sì ben far lo stracotto,
Che altro a lui pari non avea Rostino;
E finchè tutto pronto fosse e cotto,
Su due piedi montarono un festino.
Fer venir due chitarre e un colascione,
E ballar la furlana ed il trescone.
Don Giacomo i danzanti alfin consiglia
Di riposarsi e andare a empir l'addome,
Onde a mensa ciascun posto allor piglia.
Ma don Giacomo pria, chiamati a nome
Battistin colla madre e colla figlia,
Tirolli a parte e disse lor; so come
Sì fatte cose van; tutto disposi,
È là pronta la camera pe' sposi.
A tai detti al garzon gioja improvvisa
Ch'ei non dissimulò negli occhi apparve.
Verecondia da quella età indivisa
Schizzò sul volto ad Agatina e sparve.
Ma lasciar gir le cose in cotal guisa
Troppo grande alla madre obbrobrio parve;
E impedir vuol che insiem non stieno in letto,
E che scandalo tal non abbia effetto.
Pongonsi intanto a saccheggiare i piatti,
E a gara a Battistino e ad Agatina
Di belli figliuolin sani e ben fatti
Augurar per lo meno una dozzina.
Per la bisogna, disse un di quei matti,
Battista uopo non ha di medicina.
547
Se no, senza che ajuto ei ci dimandi,
Sa ben che noi siam tutti a' suoi comandi.
Lasciato ogni riguardo allor da canto,
Caldi dal zurlo e dai vapor del vino,
Menan gran chiasso, e fan sporchetti alquanto
Brindisi ad Agatina e a Battistino.
E don Giacomo stesso, alzato il canto,
Fe' un improvviso brindisi latino
Con belle frasi dal breviario prese,
E tutti l'applaudir, niun lo comprese.
Mastro Simon col berrettino in testa
In mezzo al chiericotto e a Maddalena,
Qual prete alla gran messa il dì di festa
Per riscuoter gli elogi della cena
Venne de' commensali alla richiesta.
Viva mastro Simone, a voce piena
Concordemente allor la comitiva
Tutta gridò, mastro Simone viva.
D'ogni piatto che a tavola fu posto
Mastro Simone dimandò alla sposa
Qual fosse a lei piaciuto più: l'arrosto.
Diss'ella senza far la smorfiosa.
Bravo, mastro Simon ripiglia tosto,
Pascol per lei più favorito è cosa
Natural ch'egli sia carne infilzata.
E scrosciar tutti in una gran risata.
Quello d'equivocar libero gioco,
E il doppio senso di motteggi tali
Al pudor d'Agatina a poco a poco
Iva sostituendo i sensuali
Stimoli di lascivo occulto foco,
Ch'erano in Battistin più badiali.
Ma se davan quei scherzi altrui sollazzo;
Ponean la madre in critico imbarazzo.
Onde a lambicco avea posto il cervello,
Durante il tempo della cena tutta.
Finita ch'ella fu, disse al fratello
La gioventù convien sia bene istrutta;
Intrattenete voi questo puttello,
Ch'io prima in stanza andrò colla mia putta;
Che se non s'istruiscono a proposito,
Son capaci di far qualche sproposito.
In camera colei colla figliuola
Ritiratasi allor: questa materia,
Cominciò a dir, quando con lei fu sola,
548
A poco a poco omai diventa seria.
Di gioventù contar sulla parola
Su certi punti so ch'è una miseria;
E questo affar che cominciò per celia,
Non vo' ch'abbia a finir con contumelia.
Verrà fra poco il bricconcel, mi pare
Veder che addosso già ti si strofina.
E oh! gli bastasse sol di strofinare...
Ah tu ridi, monella?... Ed Agatina
No, mamma mia, non lascerollo fare.
A' tuoi no non mi fido, signorina,
La madre soggiungea; che troppo io so
Come vanno a finir questi gran no.
Ma un felice pensier tutta ha rimosso
L'inquietezza e il timor dal petto mio;
Felice sì, che assicurare io posso
Che ispirato me l'ha Domeneddio.
Via su, li panni togliti di dosso,
E appuntino fa quel che ti dich'io.
Sicchè ella dispogliossi e in letto giacque
Nuda, siccome fu quand'ella nacque.
La madre allor in un lenzuol l'involge,
E come allor nato puttin la fascia;
Ed intorno il lenzuol sì ben le avvolge,
Che sol la testa e i piè scoperti lascia.
Nè a' detti alcuna attenzion rivolge
Di lei che si querela e si trambascia;
E tira dal taschin del lato manco
Un gomitolo fuor di filo bianco.
Qual sacco che di mummia inaridita
L'ossa contien, da capo a piè la cuce;
E poichè tutta l'ha sì ben cucita
Che più carne di sotto non traluce,
Col dito preme, e dice: in tal ferita
Tasta omai Battistin non introduce.
E bada, io me n'intendo, giuro al cielo
Guai, se torto o ammaccato io trovo un pelo.
Ed Agatina: e come far poss'io,
Se almea le man non mi lasciate fuora?
La madre allor: le man! l'oggetto mio
Questo non è, che delle mani ancora
Abusa chi non ha timor di Dio.
Star privo d'uso delle man qualche ora
Mai così gran privazion non fu;
I bambini ci stan, ci puoi star tu.
549
A cui la figlia: e converrà ch'io stia
Dunque tutta la notte in tal supplizio?
Merita ben, la madre allor seguia,
La pudicizia un qualche sacrifizio.
Verginità è un tesor, ragazza mia,
E quello che la macula è un gran vizio.
La figlia allor fra se buttando va
Sia maledetta la verginità!
Il prete a Battistin fe' intanto l'ajo,
Ed i doveri conjugal gli espose,
E gli dicea: quanto si può lo staio
Colmar bisogna e contentar le spose,
Che non vadan cercando altro operajo.
S'ella non manca al suo dover, rispose
Il finto sposo sfacciatello e franco,
Reverendo don Giacomo, io non manco.
E allor la madre uscendo della stanza,
Battista abborda e parlagli e conclude
Ch'entrar puote; e il garzon pien di baldanza
Entra, e col nottolin di dentro chiude;
E corre a lei con ardita speranza
Di vederne e goder le membra nude;
E involta la trovò qual starna o quaglia,
Che il cacciator per conservarla impaglia.
Bell'Agatina mia, ch'è ciò ch'io vedo,
Disse, e chi questa fe' strana faccenda?
Mia madre, ella rispose, in tal corredo
M'ha posta, acciò con voi io non mi prenda
Non so quai libertà, almen lo credo.
E quei: pan per focaccia altrui si renda;
Tosto, se vuoi, sarà il lenzuol sdrucito,
Giusto è che sia lo schernitor schernito.
In questo dir della donzella abbraccia
Lascivamente Battistin famoso
Il torso senza piedi e senza braccia,
E con caldo desir voluttuoso
Accosta petto a petto e faccia a faccia,
Real posseditore e finto sposo;
E a suo piacer tre o quattro baci in bocca,
Ch'ella impedir non può, nè vuol, le scocca.
E per le pressioni esteriori
Delle rotondità sporgenti e dure
In se risente insoliti calori
E sensuali stimoli e punture;
Di tasca il temperin tirato fuori,
A sdrucir cominciò le cuciture.
550
Ed Agatina: ah! caro Battistino,
Per pietà rimettete il temperino.
E Battistino: eh, via, non far la pazza,
Perchè tanto timor? Di voglia io brucio
Di vederti qual sei, cara ragazza.
Ed ella: ah no! poichè, se un solo sdrucio
Mamma mia trova nel lenzuol, m'ammazza.
E quei: non paventar, ch'io li ricucio.
Sì disse Battistin, perché vedea
Che la madre ago e fil lasciato avea.
In fatti nel partir colei lasciò
Per troppa fretta e per dimenticanza
Il gomitol coll'ago in sul burò.
Agatina però men ripugnanza
A farsi sviluppare allor mostrò;
Onde continuò con sicuranza
Battista e senza rincontrar più ostacoli
Francamente a scoprire i tabernacoli.
Ed ogni parte che sdrucendo scopra,
Come possesso a prenderne la tasta,
E la man ponvi avidamente sopra.
Caro Battista, ella dicea, via basta.
Ed ei tuttor continuando l'opra
Scuce e sviluppa, ed ella non contrasta,
Finchè, tolto il lenzuol che la rinchiude,
Vede le membra sue libere e nude.
Qual nelle pompejane o tiburtine
Scavazioni o nelle terme antiche
Trova fra le magnifiche ruine
Un Apollo, una Venere, una Psiche,
L'antiquario instancabile che il fine
Così giunge a veder di sue fatiche;
Or testa or fianco scopre or seno or cosce,
Ed insigne scalpel vi riconosce.
Ma sculto marmo ella non era mica,
E Battistin non era un antiquario
Nè in contemplarla come statua antica
Trarne ei volea piacere immaginario.
Cerca premio real di sua fatica;
Vista e tatto è accessorio e secondario;
Ma non però trascura i necessari
Al compiuto piacer preliminari.
E nell'impaziente giovinetto
Tanto s'acceser le salaci voglie,
Che pieno a coglier sensual diletto
551
Di dosso in fretta gli abiti si toglie;
E con nuda si giacque nudo in letto,
Come marito suol giacer con moglie;
Pos'ella allor le ritrosie da banda
Che l'etichetta verginal comanda.
Non a minuto io vo' qui riferire
Di coloro il contrasto ardente e vivo,
E il languor dolce e il fervido gioire
E riferir nol vo', perchè motivo
Non vo' dare agli ipocriti di dire,
Ch'io prendo stil di narrator lascivo:
Dirò sol ch'io non so se fu la sera
Vergin, so che il mattin vergin non era.
Ditemi in grazia or voi se tali cose
Si potrebbero espor con più modestia.
Scusate in cortesia, Donne amorose,
Se quest'apologia vi dà molestia.
Che certe bocche pari e schizzinose
Non mi facciano dunque andare in bestia;
So che parlar si può di checchessia
Senza prender lo stil di scuderia.
Pe' fessi in stanza entrar già si vedea
Il primo albor di mattutina luce.
Ella a sorger lo pressa, ed ei sorgea;
E sebben di mal grado ei vi s'induce,
Di nuovo nel lenzuol la ravvolgea,
E pur di nuovo dentro ve la cuce;
Ma cucitor mal pratico mostrossi,
E facea punti troppo larghi e grossi.
Onde Agatina a lui dicea, scusate,
Caro Battista, avete mal cucito,
Poichè fessura tal qui ci lasciate,
Che facilmente vi si ficca il dito.
Mettetevel, provateci, tastate,
Ficcatelo pur dentro allo sdrucito,
Sì... costì... costì presso all'ombellico;
È carne, non è ver?... Se ve lo dico.
La madre intanto in altra stanziuola
Giaciutasi si stava in grande impaccio.
Or con colui, dicea, mia figlia è sola;
Chi sa, cosa le fa quel ragazzaccio?
Basta per conservar la mia figliuola
Io tutto quel che posso far lo faccio,
Come madre dee far colla sua prole
Del resto poi sarà quel che Dio vuole.
552
Pertanto si levò di gran mattino
L'esito per saper di quell'affare,
Prima che gli abitanti di Rostino
Colà venuti fossero per fare
Ad Agatina a un tempo e a Battistino
L'usata cerimonia di portare
Ai sposi, pria che levansi di letto,
Un pajo d'uova fresche ed un brodetto.
E sollecita corse e premurosa,
E picchiò della camera alla porta,
Mentre Battista entro al lenzuol la sposa
Ricucia, che però, sendosi accorta
La madre esser colà tutt'affannosa,
L'opera ad affrettar Battista esorta.
Coll'ago allor quei punteggiando innaspa,
Qual pollo che col piè razzola e raspa.
Poscia si veste e va l'uscio ad aprire.
Entra la madre e nell'entrar sorride,
La figlia ancor vedendo intorpidire
Entro al lenzuol; ma tosto poi s'avvide
D'esser delusa; ma che far? che dire?
Esperta nel mestier ella ben vide
Che ciò che finzion esser dovea
il jus di realtà carpito avea.
E perchè pratica era in tai faccende,
E sa che il fatto non si può disfare,
Di dissimulazione il tuono prende;
E franca disse a Battistin che andare
Potea dove don Giacomo l'attende,
Ch'ella verria dopo un suo lieve affare;
Per la colazion tutto esser pronto,
Perchè ella tosto di partir fa conto.
Poich'ei partissi, ella la man premendo
Sopra la cucitura arramacciata,
Finse sorpresa e disse: io non comprendo
Com'opra abbia fatt'io sì acciabattata,
Che quasi si diria fatta dormendo.
Così dicea la madre, acciò informata
Fosse la figlia, ch'ella erasi avvista
Di tutto il lavorio fra lei e Battista.
Ben conoscea per altro esser demenza
Pretender che inviluppo o fasciatura
Possa di gioventù l'effervescenza
E i moti ritener della natura;
E che freddo ritegno e continenza
Debba impor d'un lenzuol la cucitura
553
Tutta quanta una notte a un giovinetto
Chiuso con giovin donna, e soli e in letto.
Onde più su di ciò non s'intrattiene,
Nè importanza gli diè più lungamente;
Perocchè del danar sol si sovviene,
Solo ha il danar nel core e nella mente.
E sapea ben che, quando il fin s'ottiene,
Scelta e impiego di mezzi è indifferente;
Onde scuce la figlia e rivestilla,
E portossi al fratel lieta e tranquilla.
Colà con Battistino era il curato,
E con don Bestemmin mastro Simone,
E qualche altro scroccon del vicinato.
Fer tutti in piedi in piè colazione,
Con liberi scherzetti, al consumato
Matrimonio facendo allusione.
Tace Agatina, ma in suo cor commossa
Guata il garzon sott'occhio e si fa rossa.
La madre allor disse al fratel: compita
È la condizion che avete esatta;
Giusto è, fratello mio, che anche adempita
Sia la promessa ancor che avete fatta.
Hai ragion, rispos'ei, sarai servita.
Vado, capisco ben di che si tratta.
E parte, indi tornando in man portò
Quattro cartocci, e in guisa tal parlò:
Con sudori, in venti anni insieme ho messi
Questi zecchini quattrocento, e in dote
Pronto essendo lo sposo io gli ho promessi
Fin da gran tempo a questa mia nipote.
Pongansi a frutto, e godan gl'interessi
Gli sposi omai più che ritrar sen puote.
Intatti a tal effetto io li riservo
Son galantuomo e la promessa osservo.
Nelle tue mani, o suora, io li consegno
In presenza di questi testimoni,
Acciocchè tu adempisca il mio disegno.
Li guadagnai per via di matrimoni,
D'elemosine fatte al santo legno,
Di battesimi e di benedizioni,
Di prediche, di messe e catechismi,
Funerali, oli santi ed esorcismi.
Danar che vanta origini sì sante
Non debbe in profani usi andar disperso,
Ma dello stato conjugal le tante
554
Cure esser debbe a sostener converso.
E la madre nel prendere il contante:
Uso, dicea, non sen farà diverso.
E tutta allor la compagnia giù scende,
Che l'asino, il cavallo all'uscio attende.
Le donne e Battistin lieti e festosi
In cammino col solito equipaggio
Posersi, e gli altri accompagnar gli sposi
Fino fuor della porta del villaggio.
Là gridar con applausi clamorosi
Salute, figli maschi e buon viaggio.
Slontanatisi poi, madre e figliuola
A Corte ritornar, Battista a scuola.
Fremè d'ira e di rabbia il parrocchiano,
Tosto che seppe che per vie sì torte
Color gli avean tratto il danar di mano
Ma la sua suora appena giunta a Corte
Cercò per Agatina e non invano,
Pronta avendo la dote, altro consorte.
E madre e figlia fur contente e liete,
E il finto sposo e il ver, fuori che il prete.
Ma dovette calmar l'alma sdegnosa
A soffrir ciò che non vorrebbe astretta;
E lo sposo novel della sua sposa
Appien contento fu, che della stretta
Verginità non s'intendea gran cosa;
Ed Agatina, poichè vera e schietta
Sposa divenne, fu tutta la vita,
Quando in letto giacea, nuda e scucita.
555
NOVELLA XXXVIII
LE BRACHE DI SAN GRIFFONE
Io, Donne care, ho tale antipatia
Se ve lo deggio dir come l'intendo,
Contro la maladetta gelosia,
Che l'odio e aborro come mostro orrendo;
E se odo che una beffa stata sia
Fatta a un geloso, gran piacer ne prendo;
Onde a contarven una or m'apparecchio
Che fece un frate ad un geloso vecchio.
E sempre frati! frati! ha la fratina
Progenie in certi casi un grand'acume,
O sia che l'abitudine l'inclina
Naturalmente al lubrico costume,
O che nell'ozio ognor vie più raffina
L'ingegno un frate allor che impegni assume;
Che far di meglio in camera soletto
può, che idear un qualche bel colpetto?
In oltre non è ver che sol di frati
Vi parli ognor, ch'io gli odii e che di brutti
Vizi io goda in mostrarli ognor macchiati.
Imparzial rendo giustizia a tutti,
Anche preti, anche vescovi e prelati.
D'un'avventura assai fratesca instrutti
Vo' render questa volta i miei lettori,
Un'altra parlerò dei monsignori.
Era non è gran tempo in Benevento
Un celebre dottor di medicina,
Il qual di prender moglie ebbe ardimento,
Benchè avesse di lustri una dozzina.
La donna di bellezza era un portento,
E si chiamava madonna Almerina,
Nè in tutti quei contorni infin allora
Beltà simile erasi vista ancora.
Il viso di costei era di quelli
Che a un tempo inspiran maraviglia e amore:
Soavemente uscia dagli occhi belli
Una dolcezza che toccava il core;
Nere pupille avea, neri capelli,
Il resto delle membra era candore
556
Nè esser potean più belle e più ben fatte
Le poppe bianche più che neve e latte.
Ma unito a giovin bella un vecchio sposo,
Come per molta esperienza io vidi,
Diviene in breve alla follia geloso,
O sia che di se stesso egli diffidi,
O che di sua natura è sospettoso;
E sul timor che non sian casti e fidi
I coniugali affetti della sposa,
Non le lascia goder pace nè posa.
E perciò messer Meo (che così detto
Era il nostro dottor beneventano)
Alla diletta moglie avea interdetto
Interamente ogni consorzio umano;
E benchè fosse fin da giovinetto
Procurator dell'ordin francescano,
Tutti di casa aveva esiliati
Non meno secolar che preti e frati.
Ma perchè io son della chiarezza amico,
Che mi dichiari non è mica male,
Che quando Meo procuratore io dico,
Non voglio dir procurator legale,
Perchè, come già dissi e or lo ridico,
Egli medico fu, non curiale,
Ma del convento procurò gli affari,
E la cassa teneva dei danari.
Or, come piacque al ciel, frattanto avvenne,
Che un tal fra Niccolò da Frosinone
In quei paesi a predicar pervenne,
Del qual s'avea sì buona opinione,
Che per santo dal popolo si tenne.
Certe reliquie avea di san Griffone,
Con cui spessi miracoli operava,
E malattie incurabili sanava.
Ma benchè lo scaltrito zoccolante,
Umile e pien d'ipocrisia fratesca,
Col collo torto e colle nude piante
Dei semplici devoti iva alla pesca;
Pure nella persona e nel sembiante
Gli trasparia l'età vegeta e fresca,
E un tal vigor di gioventù robusto,
Che alle femmine dà cotanto gusto.
Potea chiamarsi un uomo universale.
Sapea la legge e la teologia
Scolastico-dogmatico-morale,
557
E la Scrittura e la filosofia,
E avea composto nn bel quaresimale
In sul gusto francese; onde venia
La gente a gara di tutto il paese
A udirlo predicare alla francese.
Or mentre ei predicava una mattina,
La predica sedendo ad ascoltare
Discerse la gentil, vaga Almerina;
Nè fra gli astri del ciel sì bella appare
Di Venere la stella mattutina,
Allor che rugiadosa esce del mare
Il vicin giorno ad annunziar, com'ella
Fra le altre donne apparia vaga e bella,
Onde il buon fraticel ratto e furtivo
Talor lo sguardo sopra lei volgea,
E colla coda dell'occhio lascivo
Percotendola spesso in se accendea
Della carnal concupiscenza il vivo
Stimolante solletico, e dicea
Oh mille volte fortunato quei
Che il ciel prescelse a posseder colei!
E intanto, come delle donne è stile,
Anch'essa il bel predicator mirando
E il ben complesso corpo giovanile,
Mettea qualche sospir di quando in quando,
E che il marito fosse a lui simile
Tacitamente giva desiando,
E in se stessa dicea spesse fiate:
Oh che bel frate! oh Dio! oh che bel frate!
E fissa ognor nel fraticel, per cui
Tacito amor già le serpea per l'osse,
Pensò d'andarsi a confessar da lui,
Tosto che terminato il sermon fosse;
Nè mica a confessare i falli sui
Devoto impulso o pia ragion la mosse,
Ma sol desio con tal pretesto intanto
Di chiacchierar col fraticello alquanto.
Onde appena ei dal pulpito discese,
Presentossegli avanti e salutollo,
E poscia il suo desir gli fe' palese.
S'ei ne fu lieto, ognun capir ben puollo,
E se balzar nel petto il cor s'intese;
Pur celando il piacer, le spalle al collo
Strinse, e disse: madonna, or io non posso,
Ho qualche affare, ho del sudore addosso.
558
E fe', come suol far l'astuto gatto
Che siede a mensa del padrone allato,
E quando un buon boccon vede sul piatto,
Poichè d'altri si accorge esser mirato
E il colpo suo non gli verrebbe fatto,
Fa in vista il non curante e lo svogliato,
Ed or socchiude gli occhi, or lecca i baffi,
E intanto pensa al modo onde l'aggraffi.
Se nol volete far per amor mio,
Allor diss'ella, e si fe' rossa in faccia,
Per messer Meo di cui sposa son io
Vi prego, o padre, almen farlo vi piaccia,
Che merito n'avrete presso Dio.
Oh! per messer, diss'ei, tutto si faccia.
Ed in confessionario a un batter d'occhio
L'un si pose a seder, l'altra in ginocchio.
E mentre ch'egli, aperto lo sportello,
Avidissimamente contemplava
Per mezzo ai bucolin quel viso bello,
Ella intanto alla lunga gli narrava
I peccatuzzi suoi così bel bello;
Del vecchio sposo indi a contar passava
Siccome pien di gelosia infinita
Le faceva menar la trista vita.
E lo pregò ch'ogni suo mezzo usasse
Onde tal frenesia trargli di testa,
Come se fosse un mal che si curasse
Con siroppi o con sughi d'erba pesta.
Non è da dubitar se giubilasse
Il frate a tal parlar; poiché con questa
Occasion fatto il sentier vedea
Per eseguir la conceputa idea.
La confortò, poi disse: figlia mia,
Di ciò tu non ti dei maravigliare;
Perocchè parmi che assai giusto sia,
Che chi possiede cose esimie e rare,
Le guardi ognor con molta gelosia,
E se le tenga custodite e care;
Onde ser Meo scus'io, se un tal gioiello
Tiensi sì caro, e ha gelosia di quello.
La donna volentier sue lodi ascolta,
Perciò Almerina sen compiacque e rise;
Poscia il frate pregò d'essere assolta
Di quanto in detti, opre e pensier, commise.
Esalando ei la fiamma in petto accolta,
Dal profondo del cor un sospir mise,
559
E disse: come vuoi che solva te,
Se tu, figliuola mia, legato hai me?
La donna allor comprese ben tai frasi,
Nè avendo mai trattati i claustrali,
Nè mai trovata essendosi in tai casi,
Che attendessero i frati a cose tali
Sorpresa fu, come se mozzi e rasi
Fosser lor gli strumenti essenziali;
Ma assai godè ch'ella lui amando, anch'ei
Serbasse in cor simile amor per lei.
E conoscendol gallo e non cappone,
Tutto donargli l'amor suo prefisse.
E i lamenti e i dolor con più ragione
A me lasciate, sospirando disse,
Che libera qua venni, or son prigione,
(E un dolce sguardo in questo dir gli affisse)
Prigion di voi, fra li cui lacci Amore
Mi ha in breve tempo imprigionato il core.
Perchè, riprese il frate ebbro di gioja,
Perchè, se i nostri son voti conformi,
Meco non prendi tu, cara mia gioja,
Provvedimento e accordo tal non formi,
Onde me trar di pene e te di noja,
E con mutuo piacer nel seno accormi?
Al che quella rispose che il faria,
Se per farlo vedesse alcuna via.
Pur, soggiunse, un pensier m'inspira Amore
Che può condurci al desiato intento;
Poichè una fiera passion di core
Mi trae sovente fuor di sentimento,
E che dalla matrice un tal dolore
Venga d'antiche donne è intendimento,
Che, giovin atta a concepir send'io,
Atto all'uopo non è lo sposo mio.
Or quando dunque egli n'andrà in contado
In pratica di sua professione,
(Siccome avvenir suole e non di rado)
La solita soffrir convulsione
Fingendo e smaniando a ogni mio grado,
L'ajuto invocherò di san Griffone,
E manderò per voi, che le sacrate
Reliquie portentose a me rechiate.
E se voi ne verrete in sull'istante,
Potremo insiem del nostro amor godere
Coll'opra di una mia fidata fante,
560
Né del mio sposo alcun sospetto avere.
La futura dolcezza il zoccolante
Prevenendo col fervido pensiere,
Or sbirciando il bel viso or le mammelle,
Pel piacer non capia dentro la pelle.
Poi disse: oh come bene hai tu pensato!
Che il ciel ti benedica e san Francesco.
Così farassi, e meco anch'io fidato
Avrò compagno che ozioso al desco
Non istarà con la tua fante, e grato
Lavor faralle e scoteralle il pesco.
E con sospiri e dolci paroline
Le conferenze lor sciolsero alfine.
Ma dello scatolone ove sedea
Uscendo il frate, e per tenere occulto
A chi osservarlo nel passar potea
Il disordin dell'animo e il tumulto,
Poichè ne' tremoli occhi il foco avea,
E l'estro di lussuria in faccia sculto,
Calò il cappuccio insino quasi al mento,
E tutto imbacuccato andò al convento.
Ed ella intanto alla sua fante espose
L'accordo fatto col fratin diletto,
E tutto il concertato ordin di cose
A pro d'entrambe e pel comun diletto.
Rise la fante e: venghin pur, rispose,
Noi lor trarrem la borra dal farsetto;
E soggiunse che pronta ognor sarebbe
A quanto quella comandato avrebbe.
Or come la lor sorte e il ciel permise,
Ser Meo andò in contado il dì seguente.
Tosto ella smaniando in strane guise,
Come nel vero mal facea sovente,
Santo Griffone ad invocar si mise.
La fante allora: io stessa immantinente,
Quando a voi piaccia, disse, andrò del santo
Per le reliquie celebrate tanto.
Va, sì, va pur, disse la finta isterica,
Mostrando stento in proferir parola.
La fante, che sarebbe ita in America
Per uopo tal, non corre no, ma vola,
E allo scorzone dalla larga chierica
Fe' sua commission. Vengo, figliuola,
Ratto vengo, ei rispose; e venne ratto
Col suo compagno ad uopo tal ben atto.
561
Era costui un celebre torzone
Con collottola larga al par d'un bue,
Ed eran nel mestiero di stallone
Degne di storia le prodezze sue.
Prima che avesse tal vocazione
Fe' il vetturin tre anni e l'oste due,
Gran seguace di Venere e di Bacco,
Poi si fe' frate e si chiamò fra Tacco.
Giunto alla stanza della donna il frate
S'accosta al letto e dice: Ave Maria,
E le soggiunge poi: convien che abbiate
Viva fe, puro cor, figliuola mia,
Acciò per le reliquie che ho recate
Salute il cielo e san Griffon vi dia.
E a confessarsi pria l'esorta e l'anima,
Ed a guarirsi incominciar dall'anima.
Contenta ella mostrossi, onde le scuse
Fattesi ai circostanti ivi adunati,
Tutti la fante fuor di stanza escluse,
E dentro si rimasero serrati
Soli liberamente a porte chiuse
La serva, la padrona e li due frati;
Ed a gloria ed onor di messer Meo
S'incominciò il quadruplice torneo.
Siccome a due mastin stretti in catena
Se due vacche il beccajo addita e mostra,
Che mugghiano e col piè spargon l'arena
Poste per caccia entro serrata chiostra,
Stansi ringhiando impazienti, e appena
Si senton sciolti, entrano arditi in giostra,
E ad una vacca ognun di lor s'avventa,
E un questa, un quella per gli orecchi addenta:
I due frati così, che già in ardenza
In vista delle donne eransi messi,
Se, trovandosi pria d'altri in presenza,
Umili a forza stavansi e dimessi,
Or poi che alfin liberi sono e senza
Alcun timor, come due cani, anch'essi
S'avventarono entrambi in un istante
Alla padrona l'un, l'altro alla fante.
Ma pria coltre e lenzuola il reverendo
Tolte, la donna sua nuda scoperse,
E i famelici sguardi iva pascendo
In quelle membra dilicate e terse;
Ed il soave almo piacer suggendo
Nelle labbra e nel sen le labbra immerse,
562
E perfin co' lascivi occhi cervieri
Veder volle il boschetto de' piaceri.
Fra Niccolò in preludi allor non molto
Svagossi, e venne all'atto principale;
Già per esser più libero e più sciolto,
E diletto gustar più sensuale
Di dosso le mutande aveasi tolto,
E gettatele dietro al capezzale,
Poi sul letto lanciandosi d'un salto,
S'inchina e adatta all'amoroso assalto.
E a lei, che con amore e avidità
Dolcemente l'accolse e l'abbracciò,
Nel giardinetto della voluttà
Di Priapo il vessillo inalberò.
Or mentre in letto a sollazzar si sta
Con Almerina sua fra Niccolò,
Colla fante il torzon sul canapè
Men vigoroso lavorio non fe'.
Tolla (così chiamossi la fantesca)
Era d'allegro umor, scaltra tozzotta,
D'occhi brillanti e carne soda e fresca,
Gagliarda, ben complessa e un po' brunotta
Da fiaccar la libidine fratesca:
Il buon torzon nel cominciar la lotta
Cala le brache ed il cordon si snoda,
E disprigiona la superba coda.
E l'asta oltre spingendo a un tratto e in piede
Il campion zoccolante il segno colse;
Ma in quelle parti ove il piacer risiede
Poichè tutto lo spirto si raccolse,
E indebolito il piè vacilla e cede,
Caddero entrambi e il canapè gli accolse;
Ma il frate nel lottar perito e dotto
Fe' sì, ch'ei restò sopra ed ella sotto.
Bello era allor veder la danza doppia
D'entrambi i frati e delle Monne entrambe;
Bello il vedere l'una e l'altra coppia
Scuotere i lombi e dimenar le gambe:
E mentre i colpi or questo or quel raddoppia
Con moti sconci e positure strambe,
Uno sbuffare, un mugolar si sente,
E un affannoso respirar frequente.
Come mossi talor da lunga fame
Escon del bosco fuor due lupi ingordi;
Poichè trovato han cibo ove si sfame
563
La fiera lor voracità, concordi
Immergono nel sangue e nel carname
Gli avidi denti e i musi immondi e lordi;
Nè indi si tolgon mai, finchè lor paja
Poterne anche ingozzar nella ventraja:
Dopo lungo digiun di carne umana
Non altrimenti del convento uscita
La famelica coppia francescana,
Poichè lauta trovò mensa imbandita,
Che ognor vie più dell'ingordigia insana
Gli stimoli pungenti aguzza e irrita,
Divora il pasto e gran bocconi ingolla,
Talchè lassa ne vien, ma non satolla.
Seguite pur le giostre incominciate,
O valorosi atleti di Priapo.
A scozzonar la fante spesse fiate
Torna, bravo stallon, torna da capo.
E tu corone, o reverendo frate,
Del geloso marito intreccia al capo,
E lena tal Venere e Amor ti dia
Da punir l'indiscreta gelosia.
A lor grand'agio giusta il lor desiro
Intanto con diletto e avidità
Ambo due volte il bel lavor compiro,
E il terzo incominciato avean digià;
Quando all'uscio il caval giugnere udiro
Di ser Meo che tornato era in città
Tutti ad un tratto si levaro in piè,
Ed Almerina sola in letto stiè.
Onde dovendo non satolli appieno
Interrompere il pasto saporito,
Bestemmiarono Ippocrate e Galeno
Ed il troppo sollecito marito;
Ed il povero frate, in un baleno
Balzando in piè, confuso e sbigottito
Per la sorpresa e per la fretta grande
Scordossi a capo al letto le mutande.
Sul meglio ella in veder rotto il lavoro
Quasi davvero di rancor s'ammala;
Tolla intanto la porta apre, e coloro
Richiama in stanza che attendeano in sala.
Tosto il marito comparì fra loro,
Che in fretta e a salti fatta avea la scala,
E in veder tanta gente ivi concorsa
Stava per domandar cos'era occorsa;
564
Ma poi vedendo in camera due frati
Presso alla moglie e lei distesa in letto,
Guardandoli con occhi stralunati,
Per gelosia, per rabbia, per dispetto,
Si scontorceva come i spiritati,
E sentendosi il cor stringere in petto,
In viso or si fe' pallido ed or rosso,
E fu per porre lor le mani addosso.
Qual se gatto domestico rimira
Due can stranieri in casa, e soffia e sbuffa,
E dagli occhi la rabbia e il foco spira,
E coda e groppa inarca e il pelo arruffa,
E in un di gelosia fremendo e d'ira,
E denti e graffi tien pronti alla zuffa;
Or tale appunto messer Meo parea,
Che apparsi i frati in casa sua vedea,
Ma scorgendolo tanto ingelosito,
Almerina parlogli in tal tenore
Deh! ringraziamo il ciel, caro marito,
Che liberommi da crudel malore,
Poiché il mio caso affatto era spedito,
Se questo nostro buon predicatore,
Per cui mandai sollecita la fante,
Non mi recava le reliquie sante.
Le reliquie per cui a cento a cento
Suol miracoli oprar santo Griffone,
Che applicate al mio corpo in un momento
Estinsero la fiera passione,
Qual per molt'acqua un picciol foco è spento,
Ch'è stato proprio un gran miracolone.
Miracolo, messer, esclamò Tolla,
Miracolo, esclamar poi tutti in folla.
Ser Meo, ciò udendo, in calma si rimise,
E poi cogli altri unitamente anch'esso
Del gran portento a ringraziar si mise
Pria san Griffone e poscia il frate istesso.
Ed egli un grave e pio sermon premise,
E al fine di partir chiesto permesso,
Si partì con fra Tacco, e puntuale
Ser Meo gli accompagnò giù per le scale.
Ma guari non andò, che in camminando
Fra Niccolò s'avvide che il suo bracco,
Liberamente or qua or là vagando,
Iva col capo ciondolone e stracco,
E la buaggin stia rammemorando,
Rattristatosi assai, disse a fra Tacco
565
Che avrebbe volontier dato anche un sandalo,
Acciò non ne seguisse onta nè scandalo.
Fra Tacco confortollo a non temere,
Poichè prima d'ogni altro esser dovrebbe
La fante, a creder suo, quelle a vedere,
E, vedendole, tolte indi le avrebbe.
E poi lo motteggiò, che per godere
Sensazion più dilettosa egli ebbe
Troppo desio di star senza disagio,
Qual chi sta con sua moglie a suo grand'agio.
In quanto a me, soggiunse, allo strapazzo
Più avvezzo sono e vivo da soldato.
Dandosi poi su i casi lor sollazzo,
Il padre confessor disse, che dato
Gli avea la penitente un gusto pazzo,
E protestossi ancor, che mai gustato
Simil pietanza non avea in sua vita
Cotanto dilicata e saporita.
Per me, il torzon riprese, io della mia
Contento son, non ch'io pretenda mica
Ch'altri non l'abbia mai gustata pria;
Ma pur la verità convien la dica,
Resiste al dente al par di chicchessia,
Nè senza una tal qual dolce fatica
Io l'ho consunta. E in tal ragionamento
Motteggiandosi giunsero al convento.
Partiti i frati, della donna al letto
Accostossi ser Meo, e domandava.
A lei con tenerezza e con affetto,
Se noja alcuna il male ancor le dava;
Ed or la faccia ed or la gola e il petto
Con molta passione le toccava;
E stalle attorno e servitù le presta,
E acconciale il guancial sotto la testa.
Ma, movendo la mano, un nastro prese
Delle mutande di sua reverenza,
E tiratele fuor, tosto comprese
Mutande esser di frati, e conoscenza
Aveane ben; onde gelar s'intese
Il sangue nelle vene, e restò senza
Moto e color nel volto, e la parola
Racchiusa gli restò dentro la gola.
Qual se, scherzando un fanciullin sul prato,
La man caccia entro un cespo verde e folto,
E un non so che di molle e delicato
566
Sentendo, il tragge fuor, vede che tolto
Ha in man schifoso rospo, onde insensato
Riman per tema e impallidisce in volto;
Ser Meo tal era con le brache in mano
Del reverendo padre francescano.
Ma alfin parlando in tuon d'ira e timore,
Disse; madonna, e ciò che diavol mai
Vuol dir che di qui sotto ho tratto fuore?
Oh! quali brache oggi veder mi fai?
La donna ch'era saggia, ed or l'amore
Vie più l'ingegno le raffina assai,
Pronta rispose: or che ti salta in capo?
Io già tel dissi, e or tel dirò da capo:
Queste le brache son sì celebrate
Fra le reliquie di santo Griffone,
Che dal buon padre al mio capo applicate,
Mi campar da crudel vessazione,
E fino a vespro a' prieghi miei lasciate
Fur qui da lui per mia divoziore,
E a ripigliar poi tal tesoro ei stesso
Verrà in persona o manderà per esso.
Ma benchè franca ella tai conti ordisse,
Pure il marito si rimase in forse,
E al discorso di lei non contraddisse,
Nè affatto intiera e piena fe gli porse,
E di crederlo finse e altro non disse.
La scaltra donna ben di ciò s'accorse,
Che tacito il vedea mesto e dubbioso
Ravvolger gran pensier nel cor geloso;
Ed ondeggiar fra le incertezze sue,
Qual nave in mare o banderuola in torre,
Che combattuta e mossa vien da due
Venti contrari; onde pensò di porre
In opra ogni arte e nel lasciar fra due,
E dal suo capo ogni sospetto torre;
E, lui presente, a se fe' venir Tolla,
E a richiamar fra Niccolò mandolla.
E vanne, disse, e dì al predicatore,
Che venga a ripigliar le brache sante,
Che d'uopo più non fan, grazie al Signore.
Tosto comprese il suo pensier la fante,
Che conoscea della padrona il core;
E di casa partitasi all'instante,
Andò al convento, e il portinar pregò,
Che le andasse a chiamar fra Niccolò.
567
Ei fu chiamato e in porteria discese,
E ch'ella seco, vista la persona,
Porti le brache sue speranza prese,
E disse a lei: che nuova abbiam? Non buona
Per la buaggin vostra, ella rispose;
Che se non era della mia padrona
La prudenza, lo spirito, il giudizio,
La cosa andava affatto in precipizio.
Narrogli il tutto, e a riportarle via
Convien, soggiunse, che tosto venghiate.
Verrò, diss'egli. Ed ella: a parte mia
Caramente fra Tacco salutate,
Ed ei: saluterollo, figlia mia.
Ma per amor del ciel non vi scordate
L'ambasciata a lui far, replicò Tolla.
Ed ei: m'hai rotto il chitarrin, farolla.
E, lei partita, incominciò a pensare
Che, se privatamente ei vi foss'ito,
Ogni sospetto non potea levare
Di testa al gelosissimo marito;
E sol potea la cosa accreditare,
Se fosse là tutto il convento unito
Andato con solenni cerimonie,
Non egli sol con chiacchiere e fandonie.
Ma per altro ciò far non si potea
Con la sua propria autorità privata,
Ma farsi noto al superior dovea,
Come tutta la cosa era passata,
Acciò in conformità di tale idea
Da lui procession fosse intimata;
E poiché più partiti in se ravvolse,
Questo eseguir come miglior risolse.
Onde ito a porsi a piè del guardiano
Gli espose il fatto, e il suo pensier gli disse,
E per l'amor dell'ordin francescano
Pregollo che tal scandalo impedisse.
Il padre superior del caso strano
Rammaricossi molto e se n'afflisse,
E guardollo con torbido cipiglio;
Onde proruppe alfin: mi meraviglio!
Ecco, scapati giovinastri, avvezzi
A operar da balordi, ecco che avviene;
Fate nascer ognor dei scandalezzi,
E poi dal padre superior si viene,
Che le vostre asinaggini rappezzi.
E ogni giorno sentir degg'io tai scene?
568
Vorrei più tosto esser guardian di buoi
Che starmi sempre ad impazzar con voi.
Ma giacché siete tanto ragazzoni,
Che non sapete fare i vostri affari
Senza trarvi le brache ed i calzoni,
A che servon le tasche e i scapolari,
Se non servono in queste occasioni?
O per dirvela in termini più chiari,
Giacché sbracare ancor vi ci volete,
Perchè su voi le brache non ponete?
E voi, che fate il dotto e l'uom di senno,
E poi date in sì gran castronerie,
Ecco le cose che imparar si denno,
E non tante dottrine e teorie
Non so chi mi rattenga che da senno
Non vi faccia pagar tali pazzie
Col baston, colla carcere, col nerbo;
Ma, se or nol faccio, ad altra volta il serbo.
Per or più tosto che a punir, si pensi
Simil sconcerto a riparar, e a titolo
Di carità, come a un guardian conviensi.
Correttolo da padre ed ammonitolo,
Con esso lui più a lungo non trattiensi,
Ma parte, e ragunar fatto il capitolo,
Ei pria nel mezzo all'assemblea monastica
Priego preliminar borbotta e mastica.
Indi narrò quanto poc'anzi occorso
Era in casa del lor procuratore,
La di cui donna inferma ebbe ricorso
Al beato Griffon, suo protettore,
E visibil da lui pronto soccorso
Aveane ricevuto al rio malore,
Merce le portentose ed ammirande
Del glorioso eroe sante mutande.
Fra Niccolò, che tai reliquie onora,
Egli soggiunse, e sempre le maneggia,
Colà lasciolle, ove restando ancora
Io son d'avviso che per noi si deggia
Andarle a ripigliar senza dimora
Pubblicamente e che ciascun le veggia,
Acciò la lor virtù non si nasconda,
Ma se ne accresca il culto e si diffonda.
E sulla fe delle parole sue
Tutta acchetossi l'assemblea adunata,
E per universal consenso fue
569
Piena procession tosto ordinata.
Tutti li frati in fila a due per due
Dietro un torzon che avea la croce alzata
Taciti s'avviaro e a fronte china
Alla casa di Meo e d'Almerina.
E in ultimo il guardian con piviale
Dell'altare portava il tabernacolo;
E di Meo giunti a casa in ordin tale,
E trovatala aperta e senza ostacolo,
Cheti cheti montar su per le scale,
E a lui feron di se strano spettacolo,
Che in veder tanti frati in casa a un tratto
Attonito rimase e stupefatto.
Poscia il guardian pregò che gli spiegasse
La cagione di questa novità;
Ed egli ad alta voce, onde ascoltasse
Anche Almerina ed in conformità
Del proposto suo fin cooperasse,
Rispose a lui: con tal solennità,
Carissimo fratel, noi siam venuti
I nostri ad eseguir santi instituti.
Che ogni reliquia ognor da noi si deve
Per le case portar nascostamente,
E se grazia talun non ne riceve,
Andarla a ripigliar tacitamente,
Acciò che il volgo indotto e di fe lieve
Non diventi indivoto e miscredente,
Perchè se ognor miracolo non siegua,
Divozion languisce e si dilegua.
Ma se il richiesto poi favor si ottiene
Con opportun visibile portento,
Allora in forma pubblica si viene
A prenderla e portarsela al convento;
Che ciò più vivo e fervido mantiene
Di fede e di pietade il sentimento,
E con nostro profitto i pii devoti
Portano offerte al santo e appendon voti.
Or poichè da penosa malattia
Per la reliquia di santo Griffone
Guarì la donna di vossignoria,
Con solenne e formal processione
Siamo venuti a riportarla via.
Ser Meo, che non credea tante persone
Per fargli inganno e frode ivi concorse,
Credette loro e più non stette in forse.
570
E in stanza della donna il buon marito
Cortesemente accompagnar li volle.
Ella, che avea tutto il discorso udito,
Tosto prese le brache ed involtolle
In un panno finissimo e pulito,
Ed al padre guardiano presentolle;
E mentre, dato il segno, a cori pieni
Tutti intonar solennemente il Veni;
Ei con rispetto e riverenza grande
Prese in mano umilmente e discoperse
Le maravigliosissime mutande,
E ad ambo i sposi indi a baciarle offerse.
E acciò che a lui ciascun si raccomande
Di nuovo ad esaltar poi si converse
L'insigne operator del gran miracolo,
E alfin le chiuse dentro al tabernacolo.
E la procession tornò poi fuore,
E in casa sol restò Almerina e Tolla,
E lo stesso messer procuratore
Cogli altri circostanti accompagnolla,
E dietro ad essi sempre più maggiore
Del popolo seguace era la folla,
E procedendo i frati a paro a paro,
Devote preci a san Griffon cantaro.
O sante brache, incominciò il guardiano,
E seguivano poscia i frati suoi,
O sante brache, che copriste l'ano
Di quell'eroe che poi lasciovvi a noi
A pro comune e beneficio umano,
Acciò vi veneriamo, e acciò per voi
La minacciosa ira del ciel si plache;
E rispondevan tutti: o sante brache!
O sante brache, (seguitava il padre,
E le coppie dei frati stavan chete)
O sante brache, che d'opre leggiadre
Miracolose operatrici siete,
Voi guarite alle donne il mal di madre
Con quel cotal rimedio che tenete,
Togliendo lor le noje tetre e opache;
E replicavan tutti: o sante brache!
Ma voi che tanto pie siete e dabbene,
So che direte, o Donne mie vezzose,
Che fu mal fatto, e che non si conviene
Mescer le sacre e le profane cose;
E anch'io lo dico che non feron bene
Persone come lor religiose:
571
Ma per dirla fra noi spregiudicati,
Che ci fareste, o Donne mie? Son frati.
Or dunque per seguir, giunti al convento
Lasciar le brache esposte insino a sera,
Perchè, omai divulgatosi il portento,
Il popol vi concorse a far preghiera.
Chiuse le porte poi, tutto contento
Fra Niccolò, quando nessun più v'era,
Fuori del tabernacolo le trasse
E di nuovo coprì le parti basse.
.
E dentro e fuor della città ser Meo
La grazia ricevuta e le preclare
Virtù di san Griffon pubbliche feo
E la divozion per confermare
Tolla e Almerina fe' quanto poteo;
E questa col rimedio salutare
Che le applicava il reverendo padre
procurò di guarir dal mal di madre.
E come moglie di dottor si prova
Spesso alla parte approssimar non sana
Lo strumento antisterico, e per prova
Conobbe alfin che, alla salute umana,
Se alcun rimedio approssimato giova,
Anche lo stesso replicato sana,
Siccome è noto e chiaramente accenna
Il celebre aforismo d'Avicenna.
572
NOVELLA XXXIX
I MISTERI
Leggiadre donne e giovinetti amanti,
Voi che l'ecclesiastica e profana
Storia saper bramate e le galanti
Avventure d'ogni epoca lontana,
Trasportarvi ogg'io vo' ne' più brillanti
Tempi della repubblica romana,
E narrar cosa, che gran chiasso feo
Quando vivevan Cesare e Pompeo.
Eravi in Roma allor giovin che antico
Nome illustre vantava e splendor d'avi,
Ma propenso alla cabala, all'intrico,
Bello d'aspetto e di costumi pravi,
D'ogni bell'opra e di virtù nemico,
E reo di colpe le più infami e gravi,
Impetuoso nell'amor, nell'odio,
E questi era il famoso Pubblio Clodio.80
Sempre all'onore altrui facendo ingiuria,
Non v'era donna o di fortuna bassa
(Di cui dovunque non fu mai penuria)
O di patricia e senatoria classe,
Che alla voracità di sua lussuria
Per pascolo in suo cor non destinasse;
Ma fu di sue libidinose voglie
Scopo primier di Cesare la moglie.
Io parlo di Pompea, figlia di Quinto,
Suora del gran Pompeo, cui l'Asia doma,
Cui Mitridate debellato e vinto,
Di trionfali allori ornar la chioma,
E allor godea d'immortal gloria cinto
L'onor di primo cittadin di Roma,
E colle insigni geste e memorande
Fama e nome acquistato avea di grande.81
Roma in Cesare già riconoscea
80
Essendo P. Clodio stato la prima cagione delle disavventure del primo padre della patria, nessuno può meglio di lui farne
il ritratto morale e politico: Exorta est illa Reip, særis religionibus, auctoritati vestræ, judiciis publicis, funesta quæstura, in
qua iste Deos, hominesque, pudorem, pudicitiam, senatus auctoritatem, jus, fas, leges, judicia violavit. Orat. de Harusp.
responsis 20.
81
La fama e la celebrità di Pompeo il Grande mi ha dato occasione a dir che Pompea moglie di Cesare fosse di lui sorella.
Essa era sorella di Q. Pompeo Rufo, e Pompeo era figlio di Q. Pompeo Strabone; ond'era di diverso cognome, ma
dell'istessa famiglia. Una sorella di Pompeo il Grande fu maritata a Memmio. Glandorpio, Onomast. Hist. Rom.
573
La vasta mente e il braccio invitto in guerra.
Di lui l'ambizion gettate avea
Digià profonde radiche sotterra,
E quale immensa pianta un dì dovea
Ingombrar l'aria e ricoprir la terra,
E forse già premea del core in fondo
L'idea di divenir padron del mondo.
Di militar tribuno e di questore,
Indi d'edil la carica sostenne
Con pompa tal che il militar favore
E colle sue munificenze ottenne;
E per universal vto all'onore
Di pontefice massimo pervenne,
Dignità sacra ch'ei ritenne in vita,
E ognor fu poscia al poter sommo unita.
Di cui l'eccelso principal offizio
Ai riti sacri fu la presidenza,
E a quei ch'erane assunto all'esercizio
Ampio assegnato fu per residenza
Nella via sacra pubblico edifizio
Di splendida regal magnificenza,
Ove dovean spedirsi i molti e vari
Della religion solenni affari.82
Colà Cesar locossi e sua famiglia,
Abbandonando la magion privata.
Cornelia, moglie sua, di Cinna figlia,
Che da lui fu con tal costanza amata,
Che oggetto fu a talun di maraviglia,
Morte tolta gli avea; sicchè sposata
Avea digià quella cotal Pompea,
Di cui poc' anzi, o Donne, io vi dicea.
Bella, gentil, leggiadra, era Pompea
Ed ornata d'amabili maniere;
Come le belle anche oggi fan, godea
Amoreggiar e molti amanti avere.
Quello che tuttor fassi, allor si fea;
82
Plutarco sostiene costantemente che le cerimonie alla Dea Bona si facessero in casa del console o del pretore; e che perciò
fossero in quell'anno celebrate in casa di Giulio Cesare come in casa del pretore; ma Cicerone, autor contemporaneo, e
testimone e interessato in questa singolare avventura, asserisce che furono esse celebrate in casa di Cesare, come in casa
pubblica e del pontefice massimo. Plutarco visse sotto Adriano, e non conosceva a fondo gli usi latini. Egli non conobbe o
non fece uso delle lettere di Cicerone ad Attico, le quali possono chiamarsi memorie de' suoi tempi, tanto più che dal suo
consolato sino all'ultimo suo fine, esse componevano sedici volumi. Convien dunque attenersi agli scritti di Cicerone, che
non solo era il testimone, ma l'attor principale che parlava: In Clodium vero non est hodie meum majus odium, quam illo fuit
die, cum illum ambustum religiosissimis ignibus cognovi muliebri ornatu ex incesto stupro, atque ex domo pontificis maximi
emissum; tum, inquam, tum vidi, ac multo ante prospexi quanta tempestas excitaretur, quanta impenderet procella Reip.
Cicerone de Harusp. responsis. 3.
P. Clodium, Appii filium, credo te audisse cum veste muliebri deprehensum domi C. Cæsaris, cum pro populo fieret,
cumque per manus servulæ servatum, rem esse insigni infamia. Cicero ad Atticum lib I. Epist. XII.
574
Gli spettacoli, il lusso ed il piacere,
Le romane matrone amaro allora,
Come in oggi le nostre amanlo ancora.
Non era Clodio a vero dir sì inetto
Pietanza da schifar sì ghiotta e buona,
Ei che riguardo non avea o rispetto
Di vergin per l'onore o di matrona,
Ma giovin era di leggiadro aspetto,
Ben fatto e vigoroso di persona;
Onde, essendo Pompea gran dilettante,
Iva altiera d'avere un tale amante.83
Ma di Cesar la madre austera, Aurelia,
Conoscendo l'amor della sua nuora,
Nè volendo in tai punti ammetter celia,
Teneale il vigil occhio addosso ognora,
Infamia riputando e contumelia
Ciò che appanna l'onore e lo scolora;
Onde vincer dovean gli amanti estreme
Difficoltà per ritrovarsi insieme.84
Di maggio ricorrean l'annue calende,
Giorni solenni e memorandi in cui
Arcano culto a ignota dea si rende.
Lungi, o profani; misteriosi e bui
I riti son; suo vel sopra vi stende
Religion: ne' santuari sui
La vergin pura, la matrona casta,
E la sacra vestal penetri, e basta.
Del pontefice allor la residenza
Si convertia della dea Bona in tempio;
E necessaria era di lui l'assenza,
Nè di maschio animal eravi esempio
Che avuta avesse mai l'impertinenza
Di porvi il piede irriverente ed empio;
Ed ogni traccia di sembianza maschia
O copresi o slontanasi o si raschia:85
Che varia ognor di nazion diverse
83
P. Clodius fuit nobili genere ortus, divitiis et facundia præcellens, sed insolentia et audacia nulli improbissimo secundus.
His uxorem Cæsaris Pompejam amabat neque INVITAM. Plutarco, in Cesare.
84
Aurelia, discendente dai Cotta Aselii, detti poscia Aurelii, riteneva ancora la severità e la disciplina degli antichi costumi;
onde vigilava in maniera e faceva sì che la casa pubblica e luminosa di Cesare, suo figlio, fosse esente dagl'intrighi galanti,
e si rendesse degna del pontefice massimo: Verum mulierem Cæsar acri sepserat custodia, ejusque mater Aurelia, femina
honesta, perpetuo lateri adhærens Pompejæ, arduum et periculosum eis congressum efficiebat. Plutarco, in Cesare.
85
Era sì grande lo scrupolo e la cautela che si conservava in questi misteri rispettabili, che non solo ne uscivano di casa gli
uomini, ma se ne coprivano eziandio le figure e le immagini.
... Ubi velari pictura jubetur
Quæcumque alterius sexus imitata figuram est.
Giovenale, Satira VI v.339.
575
Fu la religion, vario il costume.
Eleusi e Menfi, Atene e Roma offerse
Ignoto culto ad ineffabil nume;
Nè mai lingua i mister ne discoperse,
Scoprirli invan l'indagator presume,
Li censura il profan, ma ciò che ignora
Credulo e riverente il volgo adora.
D'amati fregi e di mosaici adorno
L'interior pontifical palazzo
Con mille faci illuminato a giorno
Traluceva da lungi; e il popolazzo
Stavasi in folla all'edifizio attorno,
E del portico esterno in sullo spazzo,
E sovra quelle cerimonie arcane
Facea discorsi e congetture strane.
Dunque ne' penetrali interiori
S'unì la venerabile assemblea
Nell'aula pontificia ove gli onori
Della magion esercitò Pompea,
Che, esclusine assistenti e spettatori,
Le vergini ai mister della gran dea
E le matrone e le vestali ammette
Al minister de' sacri offici elette.
I venerati riti e i sacrifici,
Intercessor di prosperosi eventi,
Ed i fausti presagi e i lieti auspici
Accompagnavan colli lor concenti
Pubbliche citariste e cantatrici
Al suon di vari armonici strumenti,
E concertatamente inni canori
Gian ripetendo ed alternando i cori.86
Fin dall'età più oscure e più remote
Religioso culto alla gran dea
Con cerimonie a qualunqu'uomo ignote
E li divini onor Roma rendea,
E sovra quei mister l'eterne, immote,
Della grandezza sua basi ponea.
Nume ignorato adora e rispettosa
Il nome suo pronunziar non osa.87
86
Uxor sola domum parat, peragiturque fere nocte per lusum perviglio commixtum inter magnum concentum. Plutarco, in
Cesare.
87
Etenim quod sacrificium tam vetustum quam hoc, quod a regibus æquale huic urbi accepimus? Quod autem tam occultum
quam id quod non solum curiosos oculos excludit, sed etiam errantes? Quod quidem sacrificium nemo ante P. Clodium in
omni memoria violavit, nemo unquam adiit, nemo neglexit, nemo vir adspicere non horruit. Quod fit per virgines vestales,
fit pro populo romano, fit in ea domo, quæ est in imperio, fit incredibili cærimonia, fit ei Deæ, cujus ne nomen quidem viros
scire fas est. De Haruspicum responsis 17.
576
Ma poichè gli empi incensi ed i profumi
Offrì ai Claudi, ai Caligoli, ai Neroni,
E lor templi innalzò come a' suoi numi,
A grado e sul model de' suoi padroni
Si corrupper l'idee, gli usi, i costumi;
Ed i riti che pria fur santi e buoni,
Ed i sacri a quel nume augusti lari
Si cangiaro in bagordi e in lupanari.
E questo è ciò che con isdegno attesta
Il satirico vate atrabilario
Nella piena di fiel satira sesta,
In cui l'abominevole e nefario
Di quei misteri abuso ei manifesta
Che di Bona si fea nel santuario;
Ma non di corruttela a sì alto punto
Di Clodio ai tempi il vizio er'anche giunto.88
La sua per riveder cara Pompea
Di quell'occasion Clodio far uso
Volle; e ad effetto por l'ardita idea
D'insinuarsi in quell'adito chiuso,
Ove la femminil sacra assemblea
Uniasi e n'era il viril sesso escluso,
La sua figura gl'inspirò il felice
Pensier di trasformarsi in danzatrice.89
A uso sacro e profan di danzatrici
Moltitudine grande allor fu in Roma.
Simili a citariste e a cantatrici
Agli ornamenti, all'abito, alla chioma,
Figlie di senatori e di patrici
Persino infra di lor la storia noma;
Voluttuosi i loro abbigliamenti
Furono e a quel mestier convenienti.90
88
Nota Bonæ, secreta Deæ, cum tibia lumbos
Incitat, et cornu pariter vinoque feruntur
Attonitæ, crinemque rotant, ululantque Priapi
Mænades. O quantus tunc illis mentibus ardor
Concubitus! quæ vox saltante libidine! quantus
Ille meri veteris per crura madentia torrens!
Lenonum ancillas posita Saufeja corona
Provocat, et tollit pendentis præmia coxæ. Etc.
Giovenale, Satira VI v. 314 e seg.
89
Clodio si travestì da sonatrice di lire: vestitu et cultu sumpto psaltriæ, accessit eo juvenculam facie referens, Plutarco in
Cesare; ma a quei tempi le sonatrici ancor ballavano, e movevano, sonando la lira, il corpo in mille modi e atteggiamenti
diversi: Quia sub illorum supercilio non defuit qui psaltriam intromitti peteret, ut puella ex industria sopra naturam mollior
canora dulcedine, et saltationis lubricæ, exerceret illecebris philosophantes. Macrobio, Saturnal. lib. III.
90
Macrobio ebbe a scandalizzarsi del numero grande de' giovani ingenui e delle ingenue donzelle che frequentavano le
scuole de' ballerini unitamente alle citariste ed agli istrioni: Eunt, inquam, in ludum saltatorium inter cinædos virgines
puerique ingenui. Hæc quum mihi quisquam narrabat, non poteram animum inducere, ea liberos suos nobiles homines
docere; sed quum ductus sum in ludum saltatorium, plus medius fidius in eo ludo vidi pueris virginibusque quingentis. In his
577
Candida toga intesta d'oro e pinta,
Che della gamba alla metà discende,
Ai fianchi si stringea con ampia cinta
Da cui pompa di fiocchi attorno pende.
La clamide purpurea in Tiro tinta
Sovra il petto e sugli omeri si stende.
Sulla toga talar, detta anche palla,
La clamide s'affibbia in sulla spalla.91
Lor verdeggia sul crin serto d'alloro,
E anche talor di gemme e di giojelli
Pregiata rilucea corona d'oro.
In anella raggruppatisi i capelli,
E aggiungean leggiadria, beltà e decoro.
Sandali rossi ai piedi svelti e snelli
Avean, come han le nostre anch'oggi giorno,
E nastri avvolti all'agil gamba intorno.
Le danze in fatti in sommo pregio aversi
Fin dai tempi più oscuri e favolosi,
E usi far si solea molti e diversi.
Le usar ne' riti lor religiosi
Greci, Egizi, Latini ed Indi e Persi
In esequie, conjugii e apoteosi;
E danzar pur vedemmo in quest'età
Intorno all'arbor della libertà.
Chi può ridir quanto quel moto armonico
Forme e moti adottò? guerrier, patetico,
Pantomimico, italico, laconico,
Gimnopedico, bacchico, curetico,
Sabazio, mantineo, pirrico, jonico,
Frigio, arcadico, lidio, enoplio, eretico,
E altri che il nome dal caratter presero,
O varie nazion noti ci resero.92
Clodio trattò le danzatrici e amolle
Fin dall'infanzia, e il suono, il canto, il ballo,
unum (quo me Reip. maxime misertum) puerum bullatum, petitoris filium, non minorem annis duodecim cum crotalis
saltare; quam saltationem impudicus servulus honeste saltare non posset. Saturnal. III. 14.
91
Ut citharœdus quum prodierit optime vestitus, palla inaurata indutus cum chlamyde purpurea coloribus variis intexta, cum
corona aurea citharam tenens auro et ebore distinctam... Eique prorsus citharœdicus status, Deam conspiciens canenti
similis, tunicam picturis variegatam deorsus ad pedes dejectus ipsos, græanico cingulo, chlamyde velat utrumque brachium.
Bulengero, de Theatro. Lib. II. cap. XI.
... Capit ille coronam,
Quæ possit crines, Phæbe, decere tuos.
Induerat tyrio bis tinctam murice pallam,
Reddidit icta suos pollice chorda sonos.
Ovidio, Fast. lib. II. v. 106.
92
Chiunque amasse instruirsi delle diverse qualità delle danze degli antichi, può consultare Gio. Cesare Bulengero de
Theatro lib. I, e Gio. Cesare Scaligero de Comædia et Tragædia, cap.XIV.
578
Apprese, e di coloro imitar volle,
Siccome Cicerone osservar fallo,93
L'abbigliamento effemminato e molle,
Purpurei stivaletti, abito giallo;
Onde modi, andamento e vesti prese
Di danzatrice ed a Pompea si rese.
Sull'imbrunir del dì furtivo e chiotto
Fu con riguardo grande e con cautela
Nella prima anticamera introdotto
Da una schiava di lei, chiamata Eumela,
E che il disegno e il fin sapea che sotto
L'insidiosa maschera si cela:
Che assai scaltra mezzana er'ella, e buona
Gl'intrighi a secondar della padrona.
Ivi soletto lo lasciò la schiava
Ascoso dietro a una cortina antica,
E partissi, dicendo ch'ella andava
Ad avvertirne la diletta amica;
Ma poichè di color non si fidava,
Ad avvertir Pompea non andò mica,
Anzi fece a colei la brutta celia
D'andare in vece ad avvertirne Aurelia.
Forse Eumela temè non quella farsa
In tragedia per lei si risolvesse;
Forse peranche ricompensa scarsa
E non corrispondente alle promesse
Quella che Clodio diè saralle parsa.
E che non puote avidità e interesse
In tutte le venali anime ignave?
Figuratevi poi sopra le schiave!
Eumelia Aurelia non trovò sì tosto,
Che alcune allor facea sue funzioni;
Trovolla alfin, e da lei fulle esposto
Qualmente qualchedun cheto e tentoni
Erasi in anticamera nascosto,
E Dio sa poi con quali intenzioni.
Non nomò Clodio per non esser presa
Per complice e del fatto anch'essa intesa.
L'aspettar per gli amanti è cosa dura;
Onde in punta di piè del nascondiglio
Cheto uscì Clodio, e per la stanza oscura
Con ardito ed improvvido consiglio
Pian pian colà portossi alla ventura
Ove di varie voci udì un bisbiglio,
93
Clodius a crocota, a mitra, a muliebribus soleis, purpureisque fasciolis, a strophio, a flagitio, a stupro est factus repente
popularis. Cicerone, de Harusp. responsis 21.
579
E ove di schiave in mezzo ad una schiera
Si ritrovò ch'ivi adunata s'era.
Invan l'incauto Clodio allor procura
Ritrarre il piede e indietro far ritorno;
Che l'improvvisa insolita figura,
Le rare gemme e il ricco abito adorno,
E il bell'aspetto e la viril statura,
Trasse tutte le schiave a lui d'intorno;
E gli fer, come eran fra loro avvezze,
Familiari e libere carezze.
Chi con isfrontatezza e con audacia
(Poichè qual mai contegno aver può serva,
Plebeja donna in Siria nata o in Tracia?)
Deposto ogni riguardo, ogni riserva,
Al sen sel stringe fra le braccia e il bacia;
Chi ancor più petulante e più proterva
Seco imprese a far lazzi e atteggiamenti
Un pocolino anzi che no indecenti.
E con licenziosa ardita mano
Solleticandol giva, o il fianco o il seno
Palpeggiandogli o il ventre o il deretano;
Onde da certi più, da certi meno,
Che fan diverso il sesso in corpo umano,
Ebbe argomento convincente e pieno,
Che quei, benchè colla femminea gonna
Sesso mentir volesse, er'uom, non donna.
E Clodio, che un Senocrate non era,
E sì incitato da color si trova,
Di sua virilità robusta e vera
Palpabil diede e assai visibil prova.
Stupì la schiava, ed additò alla schiera
Delle compagne la scoperta nuova.
A vista del viril strano sintomo
Tutte a gara gridar: un uomo, un uomo!
Lo scompiglio, il disordine, il tumulto
Pervenuto al quartier delle matrone
Sparse confusamente essersi occulto
Introdotto un empio uom nella magione;
Che andar non debba l'attentato inulto,
Ma farsene esemplar punizione.
E acciò l'arcano a occhio profan si celi,
I mister sacri ricoprir co' veli.94
E la madre di Cesare, poichè ebbe
94
Obstupefactis mulieribus, sacra Deæ Aurelia inhibet et obvelat. Plutarco, in Cesare.
580
Le cose, come stan, da Eumela intese,
L'indignazion delle matrone accrebbe;
Disse che l'empio che il gran nume offese
Unitamente ricercar si debbe.
S'uniro in fatti, e colle faci accese
Della vasta magion ricerche esatte
Per ogni angol recondito fur fatte.95
Ma Clodio per incognita scaletta,
Mercè altra schiava a cui promesse magne
Fatte avea, già salvato erasi in fretta.
Così Cerer per valli e per montagne
La rapita cercò figlia diletta,
E scorse alfin le sicule campagne,
Chiedendo sempre e ricercando in vano,
Sen ritornò col tizzo spento in mano.
E vergini e matrone, a cui si toglie
I sacri riti omai di proseguire,
Abbandonar le profanate soglie
E padri e sposi andaro ad avvertire.96
Costernata di Cesare la moglie
S'infinse anch'essa, e procurò smentire
I sospetti che già s'avean di lei,
Ch'ella e Clodio ambo sian complici e rei.97
Giulia però, di Cesare la suora,
E la madre di lei rigida Aurelia
Che di Pompea gl'intrighi non ignora,
Ella che stimò tanto e amò Cornelia,
La precedente sua defunta nuora,
Cesare ne istruir, tal contumelia
Nella famiglia di soffrir sdegnose;
Ciò che in grave pensier Cesare pose.
Per tutta Roma il fatto il susseguente
Mattin si sparse, e sen fe' gran bisbiglio.
Gran disastro credevasi imminente,
E tutta la repubblica in periglio;
Nè sapean qual dovesse espediente
Prendersi, qual riparo, qual consiglio,
I grandi per distor temuti mali,
E calmar della dea l'ire fatali.
95
Mox jusso observari fores, ad faces domum lustrat, Clodium quærens. Plutarco, in Cesare.
Cognitus a mulieribus exigitur foras. Hoc factum mulieres confestim de nocte domum digressæ viris suis nuntiaverunt, ac
rumor civitatem pervasit, rem a Clodio tentatam nefariam, pœnasque non læsorum tantum, verum Reip. etiam et Deorum
nomine exigendas. Plutarco, in Cesare.
97
Livio però riferisce che seguisse realmente adulterio nella casa del pontefice e in quella festa istessa: Publ. Clodius
accusatus, quod in habitu mulieris in sacrarium, quod virum intrare nefas est, intrasset; quumque uxorem maximi pontificis
stupravisset, absolutus est. Tit. Livio, Epit. 103.
96
581
Le tresche della moglie a lui ben note
Eran da un tempo, e di tutt'era inteso;
Ma i gran riguardi che Pompeo riscuote
Tenean l'animo suo dubbio e sospeso;
Ma non dissimular di Clodio or puote
Il reo maneggio ond'è il suo onor sì offeso;
E fatto su di ciò serio riflesso,
Ripudiò Pompea quel giorno istesso.
Tanta indignazion l'empio attentato
Eccitò, che affar pubblico divenne,
Affar religioso, affar di stato;
Onde in formalità grande e solenne
Dal tribuno del popolo al senato
Denunziato il gran delitto venne,
Delitto che la pubblica vendetta
Sulla testa del reo chiama ed affretta.
Cesare interrogar ch'ei ne sapesse
Nulla diss'ei. Ragion gli chieser poi
Perchè Pompea ripudiata avesse.
Grandi elogi gli autor lasciaro a noi
Del tuon con cui Cesare allor s'espresse.
Pannume, ei disse, onor non soffre, e i suoi
Non solo dalla colpa immuni ognora
Esser dovean, ma dal sospetto ancora.98
Cesar, quantunque a vero dir di tutto
Il maneggio di Clodio e di Pompea
Già staso fosse pienamente istrutto,
Con Clodio inimicar non si volea,
E quell'intrigo scandaloso e brutto
Finse ignorar; poichè fissato avea
Per li disegni suoi grandi e diversi
Che già covava in cor di lui valersi.99
I senator non voller dar sentenza
Della gran dea sovra sì gran dilegio,
Nè credetter di loro competenza
Di giudicar sì grave sacrilegio,
E un affar di cotanta conseguenza
Rimiser dei pontefici al collegio
Che un sacro tribunal fu tra i pagani,
98
Negavit se quidquam comperisse, quamvis et mater Aurelia et soror Julia apud eosdem judices ex fide retulissent:
interrogatusque cur igitur repudiasset uxorem? Quoniam, inquit, meos tam suspicione, quam crimine judico carere oportere.
Suetonio, in Jul. Cæs.
Quod quum videretur mirum, quæsivit accusator, quam ob rem ergo uxori nuntium remisisset, respondit: domum meam
volo et suspicione carere. Plutarco, in Cesare.
99
Giulio Cesare, il quale pareva dovesse essere il più interessato in un affare accaduto in sua casa, e che faceva tanto rumore
per tutta la città, ed oscurava l'onestà di sua moglie, rispose con troppa freddezza e indifferenza di non esserne inteso. Forse,
dice Middleton nella vita di Cicerone lib. IV, egli prevedeva l'esito del giudizio futuro, e nelle mire che aveva per l'avvenire
egli voleva accattivarsi l'animo d'un uomo ardimentoso e violento.
582
Qual l'inquisizion fra noi cristiani.
Tribunal l'uno e l'altro ecclesiastico
Con giudici dispotici esclusivi,
Che han sull'opinion dritto fantastico,
Di cui gli esecutor di pietà privi
Supposti rei con zelo entusiastico
Seppelliscon sovente e brucian vivi;
Ma pien poter su i sentimenti interni
Gli antichi non avean come i moderni.
S'aprì per altro in quel sacro consesso
La forza irresistibile dell'oro,
E il possente favor, facile accesso.
Quindi venalità infra coloro
Apertamente s'introdusse, e spesso
Comprò e corruppe li suffragi loro.100
Ma dir che oggi fra noi lo stesso sia
Sarebbe ella bestemmia ed eresia.
Clodio pertanto nobile, eloquente,
Di bell'aspetto e amabili maniere,
Intrigante in città, scaltro e potente,
La popolare avvezzo aura a godere,
Gran modi ebbe, onde, quei trar facilmente
Giudici venerandi al suo volere.
S'intepidì, si spense a poco a poco,
Del general risentimento il foco.
Anzi lo stesso Ciceron che pria
In quell'affar mostrò tanto fervore
Che il tribuno egli stesso accaloria,
Il tribuno di Clodio accusatore,
Indolente ogni dì più divenia.101
Ma per sparger su ciò lume maggiore
Qualche cosetta ancor convien ch'io dica
Sulla galanteria di Roma antica.
Giusta tutte le storiche notizie,
Le romane matrone ebbero anch'esse,
O plebee ch'elle fossero o patrizie,
Gli stessi amor, le passioni istesse,
Le gelosie, gl'intrighi e le malizie,
Che porsi in opra anche oggidì ben spesse
100
Cicerone racconta che di 56 giudici 25 furono forti e onorati, e che 31 furono più trasportati e mossi dalla fame, che dalla
fama. Q. Lutazio Catulo, uomo gravissimo e consolare, disse ad uno di quei giudici corrotti i quali domandarono una scorta
di soldati: avete forse a noi domandato che vi mandassimo le guardie, perchè temevate non vi portassero via il danaro che
avete ricevuto da Clodio? Viginti quinque judices ita fortes tamen fuerunt, ut, summo proposito periculo, vel perire
maluerint, quam perdere omnia. Triginta unus fuerunt quos fames magis, quam fama commoverit. Quorum Catulus quum
vidisset quemdam: quid vos, inquit, præsidium a nobis postulabatis? an ne nummi vobis eriperentur timebatis? Ad Atticum
lib. I. Epist. XVI.
101
Nosmetipsi, qui Lycurgei a principio fuissemus, quotidie dimitigamur: instat et urget Cato. Ad Atticum lib. I. Ep. XII.
583
Volte veggiam, com'io feci e faronne
Veder gli esempi nelle antiche donne.
Di quanti autori insigni alla memoria
De' tempi tramandarono, e di tutto
Ciò che ha rapporto alla romana istoria,
Debbe il colto lettor esser istrutto,
Nè ciò sol che auge a Roma accrebbe e gloria,
E cose memorabili ha produtto,
Ma gli aneddoti ancor particolari,
E le lor circostanze è ben che impari.
Sol della gloria e della patria amico,
Di violenze ognor fu Cicerone
E di malvagi cittadin nemico;
E di Clodio inveì per tal ragione
Contro lo scandaloso atto impudico
Ma oltre di ciò privata altra cagione
Io vi dirò del vicendevol odio,
Che ognor passò fra Cicerone e Clodio.
Dal viaggio che in Grecia ei fece appena
Tornato, Ciceron sposò Terenzia,
Donna di gran famiglia, altiera e piena
D'imperiosità, di veemenzia;
Talchè ei sebben l'amasse, ebbe gran pena
A non perder con lei la pazienzia;
Finchè possibil fugli, ei sopportolla,
Quando più non potè, ripudiolla.102
Eravi allor di Clodio una sorella
Assai nota in città, giovin, gentile,
Lasciva e sensual non men che bella,
E non che del piacer, del lucro vile
Avida ognor; Clodia ebbe nome anch'ella,
D'indole e di costumi a lui simile,
E lei credean che con incesto ardore
Clodio stuprata avesse e altre due suore.103
Poscia o vanità fosse o stravagante
Capriccio femminile, o sentimento,
D'uomini illustri dimostrossi amante
Per ingegno famosi e per talento;
102
Ritornato Cicerone dall'esilio trovò i suoi affari domestici disordinati, quanto quelli della Repubblica. Trovò che
Terenzia sua moglie e la moglie di Quinto suo fratello aveangli cagionato degli intrighi; onde si risolvette a cercarsi una
nuova parentela che lo difendesse contro i tradimenti passati: Primum uxorem repudiavit Terentiam, quod neglectus in bello
fuisset ab ea, ut dimitteretur sine necessario viatico, et quum recepisset se in Italiam, parum benevola usus... Imo vero
domum Ciceroni desolatam et plane inanem reddidit, multoque oppressam et gravi ære alieno. Plutarco in Cicerone.
103
Fama divulgata erat cum duabus sororibus aliis eum consuevisse, quarum Martius Rex Terentiam, Clodiam duxerat
uxorem Metellus Celer, quam Quadrantulam appellabant, quod quidam amatorum ejus pro argenteis minuta æra in loculos
ejus immisisset. Minutissimum æreum nummum quadrantem vocabant. Plutarco in Cicerone.
Quis unquam nepos tam libere est cum scortis, quam hic cum sororibus volutatus? Cicer. de Haruspicum responsis 27.
584
E questa passion, che dominante
Essere in lei parea, da quel momento
L'indusse a ricercar, né importa come,
Quei che in quel tempo in Roma avean gran nome.
Onde non v'era alcun fra i più eminenti
Guerrieri, insigni vati ed oratori,
Che in quella gran città fur sì frequenti,
Che aspirar non potesse ai suoi favori;
Ma fra tutti color che per talenti,
Per merti rari, per distinti onori,
E per dottrina, allor fioriano in Roma,
Su tutti Ciceron la fama noma.
Benchè giovin non più, benchè egli avesse
Il nono lustro di sua età compito,
Benchè omai consolar, benchè vivesse
In matrimonio con Terenzia unito,
Clodia sperò che Ciceron potesse
Divenirle un dì o l'altro alfin marito,
Impiegando ogni cura, ogni suo studio,
A indurlo di sua moglie a far ripudio.
E in opra pose i più efficaci modi
Per cattivar di Ciceron gli affetti,
Vezzi, lusinghe, compiacenze, lodi,
E teneri dolcissimi viglietti,
Acciò ei rompesse i conjugali nodi,
E così il suo desir porre in effetti;
Ed era il conduttor di quell'intrico
Tullo, di Ciceron l'intimo amico.104
Con pretesti plausibili, apparenti,
A Terenzia però spesso o alla figlia
Solea Clodia far visite frequenti,
Poichè dell'una e dell'altra famiglia
Le magioni eran prossime e attenenti;
onde recar non dee gran maraviglia,
Se il nostro consolar grave oratore
Di lei non isdegnò l'offerto amore.
Nè gran tempo tal pratica potea
Alla sagacità dell'orgogliosa
Moglie sfuggir, che del domin che avea
Sul cor di Ciceron fu ognor gelosa;
Perciò in qualunque occasion solea
Irritarlo con anima sdegnosa
104
Quod licet verum foret, testimonium dixisse tamen visus est Cicero non veritatis causa, sed uxori ut satisfaceret
Terentiæ. Simultas huic cum Clodio erat causa sororis Clodiæ quam ambire Ciceronis nuptias suspicabatur, ut eam ad rem
interprete uti Tullo quodam, cui familiaritas cum Cicerone et consuetudo intercedebat arctissima, qui, quod ad Clodiam
frequens ventitaret et coleret vicinam, in suspicionem venit Terentiæ. Plutarco in Cicerone.
585
Contro ciascun della famiglia Clodia,
Che apertamente ella detesta ed odia.
Se giunge a dominar sovra di noi
Imperiosa donna, e che non puote?
Terenzia, a Ciceron spirando i suoi
Sdegni, prima cagion fu delle note
Grandi sventure che gli avvenner poi;
Ma scarso er'egli di fortune e in dote
Ampi beni portati avea Terenzia,
Onde soffrir dovea con pazienzia.
E quando Clodio le notturne feste
Profanò della dea nella maniera
Che poc'anzi da me, Donne, intendeste,
Con insistenza pertinace e fiera
Alle testimonianze, alle proteste,
Il marito spingea la moglie altiera;
Ond'egli alfin da lei mosso e instigato
Contro Clodio depose in pien senato.105
Ma facilmente di rattepidire
Il primo ardor trovò ben Clodio il modo,
Come co' suoi motteggi il fe' capire
Lo stesso Ciceron, nel che nol lodo.106
Ciò sol per porre in chiaro i fatti a dire
Impresi, e dell'affar per sciorre il nodo,
E della gran corruzion gli esempi
Addur volli che in Roma era in quei tempi.
Le prostituzion, le gozzoviglie,
Di cui per tempo dar solean preludi
Nobili giovinette e madri e figlie
Senza fren di pudore in braccio ai drudi,
Disonor non spargean nelle famiglie;
Quindi le mogli allor dopo i repudi
Per la lor sfrenataggine seguiti
Sempre illustri trovaro altri mariti.
E le suore di Clodio e di Pompeo
Ad onta della lor vita impudica
105
Acerba autem mulier et viri potens stimolavit Ciceronem ad conspirandum contra Clodium, et ad eum testimonio suo
premendum. Plutarco in Cicerone.
106
Clodia, dama ricca di spirito e d'intrigo, fu di molto giovamento al fratello Clodio, perché lo patrocinò presso i senatori
colle sue buone grazie e co' suoi allettamenti. Costei ambì eziandio le nozze di Cicerone; e ciò lo sappiamo, perché questi lo
rinfacciò a Clodio, che osò censurarlo di galantenia in un pungente dialogo che con lui ebbe in pieno senato. A che
rimproveri tu, gli rispose Cicerone, i bagni di Baja all'uomo d'Arpino? Racconta, ti dico, cotesto affare a tua sorella, a colei
che ti difende co' suoi lenocini e colle sue grazie, e che ricercò le nozze dell'uomo d'Arpino: Quid, inquit, homini Arpinati
cum aquis calidis? Narra, inquam, patrono tuo, qui Arpinates aquas concupivit. Grevio, Giunio, e Malespina comentarono
questo passo così: patrono tuo, idest Clodiæ sorori tuæ quæ te, ut patronus, sua gratia defendit... Clodiæ quæ Ciceronis
nuptias appetivit... me, licet virum Arpinatem, concupivit. Ad Atticum lib. I. Epist. XVI, ex recent. Grævii, Amstelædami
Blavior. 1785.
586
Passaron d'imeneo in imeneo;
Ma negli autor che restanci, non mica
Di questa fe', come di quella feo,
Aperta menzion la storia antica
Pur dalle circostanze e dagli indizi,
E dalla lor conformità di vizi,
Deduciam che Pompea da quel momento
Ch'ella d'esser cessò di Cesar moglie,
Nè sotto l'occhio fu vigile, attento,
D'Aurelia, e pose il piede in altre soglie,
Seguì senza riguardi e a suo talento
Con Clodio a soddisfar le impure voglie;
Nè gl'illustri parenti e le attinenze
Poser mai freno a tante incontinenze.
Ma voi, che d'osservar prendete a cuore
Il corso delle passioni umane,
Saper dovete che, finchè in vigore
Costumi e leggi fur repubblicane,
Alla virtù non vidersi e al pudore
Rinunziar le femmine romane,
Nè distrutta modestia e saviezza
Fu dall'universal dissolutezza.
Ma poichè brama d'ammassar tesori,
Lusso e mania di dominar più doma
Non fu da sante austere leggi, e i cori
Tiranneggiò dei cittadin di Roma,
E dier luogo a malvagi imperadori,
Dei vizi oppressa allor sotto la soma
Repubblica agonie sofferse estreme,
Virtude e libertà periro insieme.
Così finchè del Po le tumide onde
Scorron sul letto lor placidamente
Fra gli argini ristrette e fra le sponde,
Del suol vedi i prodotti e le semente
Prosperar; ma s'ei rompe e si diffonde
Pe' campi attorno in rapido torrente,
Del misero cultor l'onde nemiche
Distruggon le speranze e le fatiche.
E quando il frutto si credea raccorre,
Co' piè nel fango in mezzo alle inondate
Messi afflitto sel vede a un tratto torre;
E sovra le campagne devastate
Lungi o deserta mira eccelsa torre
O di sparse qua e là querce isolate:
Le alte inutili cime idea sol danno
Del bene antico e del presente danno.
587
NOVELLA XL
IL DIAVOLO NELL'INFERNO
Non sol nelle cittadi e nei palagi
Regna amor, nè di splendide vivande
Solo si nutre e di mollezze e d'agi;
Ma si pasce talor d'erbe e di ghiande,
E su poveri tetti e fra i disagi
Della rustica vita il poter spande;
Nè sdegna le capanne e le silvestri
Inospiti campagne e i monti alpestri.
E non è mica ver che l'astinenza
E il viver solitario e penitente
Spenga la natural concupiscenza,
Come pur crede la divota gente;
Che anzi dimostrar puossi ad evidenza,
Che il fomite carnal più si risente
Nella stanchezza e dopo la fatica:
E il mulo, o Donne, e l'asino vel dica.
E di tal verità ben mi lusingo
Che persuase molto più sarete,
Quando la storia che a narrar m'accingo
Benignamente al solito udirete;
Storia fedel ch'io non invento o fingo,
Da cui, se nol sapete, imparerete
Sull'orme di Alibec e di Giampavolo
Come si cacci nell'inferno il diavolo.
Nè me taluno ad accusar s'affanni,
Che in tai spurcide bubbole m'impaccio;
Nè incolpi me, se da messer Giovanni
Più noto a noi col none di Boccaccio,
Che fu son quasi omai cinquecent'anni,
Trassi il racconto ch'or io qui vi faccio,
E riservato, quanto più potei,
(Guardate mo!) l'original rendei.
Tanti lo stesso in prosa e in verso han detto,
Su tutti il purgatissimo Fontene
Che passa per autor puro e perfetto;
E io che l'idee un pocolino oscene
Per ischivar quanto poss'io vi metto,
588
No, signor, io lo male e gli altri bene.
Che dunque far per contentar costoro?
Far ciò che deesi e lasciar dire a loro.
Capsa, quantunque nell'età presente
Deserta spiaggia e borgo ignobil sia,
Era però famosa anticamente
E celebre città di Barbaria;
V'era esteso commercio e v'era gente
D'ogni religion, d'ogni genia,
E libero adorava il popol misto,
Chi Maometto, chi Mosè, chi Cristo.
Fra questi un galantuom chiamato Osbecche
Ch'era un ricco e potente musulmano,
Uom per altro da bene e senza pecche
Al paragon di qualsisia cristiano,
Una figliuola avea detta Alibecche,
Che un angiolo pareva in volto umano,
E bocca ed occhi e gote e vita e tette
Erano tutte in lei cose perfette.
Or come dalla gente battezzata
Per la miglior di qualunque altra udii
La lor religion spesso esaltata,
Siccome necessaria unica via
Per conseguir l'eternità beata;
Un dì qualche persona dotta e pia
Ella pregò che le volesse dire
Come meglio poteasi a Dio servire.
E quegli le rispose, che coloro
Solo servian perfettamente a Dio,
Che, sprezzando le pompe e gli agi e l'oro
Ed i vani piacer del mondo rio,
Alli parenti ed agli amici loro
Davan per sempre un risoluto addio,
Come quei santi monaci facevano,
Che là nella Tebaide vivevano.
La fanciulletta in cor ripone e venera
Quanto detto le vien da quei santoni,
Che semplice era e in quell'età più tenera
In cui giusta i consigli o mali o buoni
Buono o mal l'appetito in cor si genera;
Avida in se le proprie impressioni
La riscaldata fantasia riceve,
E di fervide immagini s'imbeve.
Onde le nacque il folle desidero
D'andar nella Tebaide, e parola
589
Altrui non fe' di cotal suo pensiero;
Ma in succinto farsetto a' suoi s'invola,
Mal pratica dei luoghi e del sentiero,
All'aer fosco inosservata e sola,
E risoluta e con viril coraggio
Si pose al disastroso arduo viaggio.
Più volte in ciel vide apparir la luna,
Più volte il sol, quando del mare uscia,
E sempre a chiaro giorno e a notte bruna
Il suo cammino intrepida seguia;
E se pastor, se pastorella alcuna
Vide talora o rincontrò per via,
Sull'indirizzo lor i passi incerti
Condusse di Tebaide ai deserti.
Dall'alto Nilo alle famose sponde
Dell'Eritreo cupa arenosa valle
Tra monti inaccessibili s'asconde,
Che sparse han sull'aduste e nude spalle
Rupi, massi e spelonche erme e profonde
Là non si va che per scosceso calle,
E ovunque l'occhio stupido s'aggira,
Tristezza, orror, silenzio, attorno spira.
Questi son di Tebaide i secreti
Recessi, ove traean vita monastica
Anticamente i santi anacoreti,
Come narra la storia ecclesiastica,
Che non eran però frati nè preti.
Zelo di fantasia entusiastica
Fra noi poscia introdusse e frati e monache
E i cappucci ed i zoccoli e le tonache.
Alfin giunta colà la fanciulletta
Di sudor molle affaticata e stanca,
Rimirando da lungi una casetta,
L'illanguidita vena allor rinfranca,
E a quella volta il debil passo affretta,
E sull'uscio trovò con barba bianca,
Con raso crine e un crocifisso al petto
Uom grave e venerabile d'aspetto;
Che di quivi vederla assai stupio,
E dimandolle a che colà venisse.
Io qua ne venni per servire a Dio
Così da lui spirata, ella gli disse,
E per trovar precettor savio e pio
Che nella santa legge m'istruisse,
E far per sempre in guisa tal divorzio
Dal mondo iniquo e dal profan consorzio.
590
Ma quei, che la vedea giovine e bella,
Temè che l'ingannasse Belzebù,
S'ei rimanesse a solo a sol con ella,
Nè si volle fidar di sua virtù;
Poichè gran settator della gonnella
E libertin famoso al mondo fu,
E stanco di menar vita sì laida
Alfin si ritirò nella Tebaida.
Onde le disse che colà vicino
Un santissimo monaco vivea
Che ammaestrarla nel culto divino
Co' precetti e coll'opre assai potea.
Prima però di metterla in cammino,
Vedendo che bisogno ella ne avea,
Diè a bere ed a mangiare ad Alibecche
Acqua, radici d'erbe e frutte secche.
Ella di là partitasi trovò
Un canuto vecchion chiamato Mario,
E a ritenerla seco lo pregò.
Per capriccio ei far volle il solitario,
E per impegno poi colà restò
Tanto che vi divenne ottogenario,
E or mezzo rimbambito e sordo e cieco
Che aveva a far di quella giovin seco?
Non lungi riscontrossi in un romito
Che fu dal genitor colà menato,
Non avendo due lustri ancor compito;
Morto il padre, rimase in quello stato.
Costui rozzo, ignorante e scimunito,
La giovin rigettò, benchè pregato;
Del che un critico autore il dubbio fe'
Utrum is fuerit impotens nec ne?
Poscia, seguendo il suo cammin, pervenne
A un uom famoso per l'austera vita,
E lo stesso con lui discorso tenne.
Era costui un giovin eremita,
Che disperato in quegli eremi venne,
Poichè una giovin nata in Tolomita
Ch'egli amò assai morì di emorragia,
E si fe' santo per ipocondria.
E omai nella più stabil continenza
Ben si credea rassicurato e fermo,
Onde, volendo farne esperienza,
Non fe' difesa al gran periglio o schermo,
E tennela a far seco penitenza
591
In quel deserto solitario ed ermo,
E di palme e di sargia e altre tai cose
Un lettuccio in sua cella a lei compose,
Con ella solo al ciel porgea preghiera,
Per quelle piagge gia solo con ella;
Nel mattin chiaro e nella bruna sera
In lei sempre scopria beltà novella;
E alfine ad onta della vita austera
Ei s'accese d'amor per la donzella.
Tanto è vero che ciccia appresso a ciccia
È come al foco avvicinar la miccia.
E il senso allor con tali assalti e tanti
In cor gli suscitò guerre intestine,
Che, non essendo a contrastar bastanti
Le forze sue, si diè per vinto alfine;
E lasciati da banda i pensier santi,
Digiuni, orazioni e discipline,
Non altro in cor, non altro aveva in mente,
Che la giovane bella penitente.
E quantunque ben tosto avria voluto
Prender di lei il sensual diletto,
Non però di lascivo e dissoluto
Aver volea presso di lei concetto,
E vedendo che, come avea creduto,
Semplice la fanciulla era in effetto,
Pensò ridurla a' suoi voler con velo
Di divin culto, di pietà, di zelo.
Disse che, dopo il gran contrasto antico
Per cui dal ciel cacciato fu Lucifero,
Ei di Domineddio fu ognor nemico
Il più pernicioso, il più pestifero;
Che chi brama di Dio essere amico
E servigio a lui far grato e fruttifero,
Dee rimettere il diavol nell'inferno,
Ov'ei fu condannato in sempiterno.
Ed ella domandogli, come mai.
Il diavol nell'inferno si mettesse.
Figlia, rispose quei, ben tu il saprai
Se esattamente quelle cose stesse,
Quali io tosto farò, tu ancor farai.
Quindi spogliassi e, come orar volesse,
Inginocchiossi, e dirimpetto a se
La vergin nuda inginocchiar poi fe'.
E in cotal atto assai divoto e serio
Mirando il corpo sì ben fatto e bello,
592
S'accese di sì vivo desiderio,
Che s'empì l'eremitico baccello
Di vigoroso e fervido claterio.
Non sapea la virtù di quel randello,
Nè distinguea la semplice Alibec
Che differenza sia fra l'hic e l'hæc.
Onde con maraviglia e con stupore
La tension mirando e il tentennio
Dell'ordigno viril generatore,
Disse: deh! padre, nel nome d'Iddio
Dimmi cos'è mai ciò che tanto in fuore
Dal tuo corpo si spigne, e non l'ho io?
questo, figlia, rispose allor Giampavolo,
È quel di cui parlammo, è questi il diavolo.
Or vedi come invipera e s'imbestia,
E divien duro e rigido come osso,
E tanta inquietudine e molestia
Dammi, che appena sofferir lo posso?
Sia ringraziato il ciel che cotal bestia,
Ella rispose, io non mi trovo addosso.
Tu di' ben, disse quei, ma in luogo suo
Ben altra cosa hai tu nel corpo tuo.
Che dunque è ciò che me tu dici avere?
Disse Alibec. L'inferno hai tu, diss'ei;
E credo ben che per divin volere
Pervenuta in quest'eremo tu sei,
Che a Dio far puoi servizio, e insiem piacere
E dar sollievo a' patimenti miei,
Se nell'inferno tuo vorrai permettere
Ch'io questo diavol mio possa rimettere.
Se opra questa è sì santa, ella riprese,
Ove a voi piaccia, io volentier farolla.
L'eremita per mano allor la prese
E ad un de' lor lettucci avvicinolla,
E su quello supina la distese,
E come far dovesse ammaestrolla;
E tanto dimenossi e tanto spinse,
Che il diavol nell'inferno a entrar costrinse.
Ella che nel suo inferno non avea
Dato a diavolo alcun giammai ricetto,
Nel difficile entrar che ei vi facea
Risentì qualche noja e doloretto.
Oh pur la mala bestia, ella dicea,
Esser dee questo diavol maladetto!
Non pure altrui, duole all'inferno stesso,
Com'io sento or che dentro ei v'è rimesso.
593
Non sempre andrà così, figliuola mia,
Confortandola il monaco soggiunse;
E per provar ch'ei non dicea bugia
Ben cinque volte ancor l'atto consunse;
Onde al suo diavol trasse l'albagia,
Lo mansuefece, l'umiliò, lo munse;
Sicchè non ebbe per allor più lena
D'alzar la testa ed indurir la schiena.
Ma poi tornando al solito ardimento,
Quel valente scozzon sì bene e spesso
Adoperò il prolifico strumento
Con introdurlo nel femmineo sesso
E trarnel fuore e ricacciarvel drento,
Che si fece più comodo l'ingresso;
Talchè la semplicetta a poco a poco
Indicibil piacer prese a quel gioco.
Così la prima volta un fanciullino
Teme, se a lui d'intorno e latra e salta
Scherzoso e festeggiante cagnolino
Venuto da Bologna ovver da Malta;
Poi s'assicura e gli va più vicino,
E alfin ei stesso il provoca e l'assalta,
L'abbraccia, l'accarezza, e notte e giorno
Sempre vorrebbe il cagnolino intorno.
Comprendo, ella dicea, comprendo or io
Ciò che da gente santa e virtuosa
Udito ho in Capsa, che il servire a Dio
Era sì dolce e sì piacevol cosa
E se schietto dir deggio il parer mio,
Altra non ne provai più dilettosa.
L'unico ben che v'è nel mondo è questo,
Sol vanità, stoltezza solo è il resto.
Onde chi a Dio non presta un tal servizio,
E nell'inferno non rimette il diavolo,
Lo stimo un animal senza giudizio,
Lo stimo men d'un vil torso di cavolo.
Perciò sì salutevole esercizio
Non tralasciam giammai, caro Giampavolo;
E impaziente di riposo e d'ozio
Lo stimolava a far cotal negozio.
E facendol diceva: a quel ch'io scerno,
Ov'entra il diavol poco si trattiene,
Che s'ei sì volentier stesse in inferno,
Come l'inferno lo riceve e tiene,
Credo che rimarrebbevi in eterno.
594
E così confortando a far del bene,
Avea ridotto il povero romito
Smunto, giallo, snervato e rifinito.
Nè tuttavia potendo liberarsi
Dalla rabbia di lei che sì l'infesta,
Disse che dovea 'l diavol castigarsi,
Solo quando orgogliosa alza la testa,
Ma che in pace doveva allor lasciarsi
Che umiliato e placido si resta;
Ed or (ei soggiungea) tu puoi vedere,
Che il diavol grazie a Dio stassi a dovere.
E in guisa tal dell'avida donzella
Per alcun poco mitigò il furore;
Nondimen tuttavia risentend'ella
Gli stimoli del senso e il pizzicore,
E vedendo che più non la rappella
Al solito esercizio il direttore,
Lussuriosa e intollerante un dì
Andò al romito e gli parlò così:
Padre, se il diavol tuo te lascia stare
In pace, me l'inferno mio non lascia;
Ben sconoscente il diavol tuo mi pare,
S'ora il mio inferno d'atturar tralascia;
Se questo non lasciò di castigare
Il diavol tuo, quando ti dava ambascia,
Vuole pur la fraterna carità
Che altrui si faccia quel che a noi si fa.
Ma colui che in quegli eremi vivea
Sol di radici, d'erbe e d'acqua pura,
Poco alle brame soddisfar potea
Di quella insaziabil creatura.
Non così facilmente, le dicea,
D'inferno la voragine si tura,
Nè forse a ben turarla basteria
Di diavoli un'intera gerarchia.
Disse però che qual potea le avrebbe
Dato sollievo, e ad or ad or gliel dava;
Ma ciò non era più che non sarebbe
In bocca d'un leon porre una fava;
Ond'ella che non può, come vorrebbe,
Servizio a Dio prestar, ne mormorava,
E a scrupolo mettea di coscienza
Il non poter sfogar l'incontinenza.
Mentre in quel santo e solitario loco
Erano fra quei due tali contese,
595
Ch'ella troppo esigeva, ei dava poco;
In Capsa, e il come io non saprei, s'apprese
Un improvviso spaventevol foco
Che quasi incenerì mezzo paese,
Ed incendiò la casa d'Alibec
co' fratelli, sorelle e il padre Usbec.
Arsa la casa e tutta la famiglia,
Restò erede e padrona universale
Delle paterne facoltà la figlia.
Un de' primari allor, detto Nerbale,
Giovin bello e leggiadro a meraviglia,
Che, dissipati frutti e capitale
In conviti, tornei, cavalli e cocchi,
Di debiti era pieno infin agli occhi,
Sperando che Alibec tuttor vivesse,
Pensò cercarla, e fece al fisco istanza,
Pria che d'Usbec l'eredità prendesse
D'altri eredi legittimi in mancanza,
Che ogni atto possessorio sospendesse;
Lo che se gli accordò, poichè in sostanza,
Siccome ho letto in un antico tomo,
V'era in Capsa un fiscale galantuomo.
E tanto dimandò, tanto cercolla
Per città, per contrade e per castella,
Che in quella solitudine trovolla,
Che quei romiti gl'insegnar la cella.
E tanto fe' che in Capsa rimenolla,
Di che godè Giampavolo e non ella;
Poichè credea che lungi da Giampavolo
Non si saria per lei trovato un diavolo.
Gli amici di Nerbale ed i parenti
Vennero incontro alla novella sposa,
E per più dì vi fur divertimenti
Per tutta la città lieta e festosa,
E in lode degli sposi i bei talenti
Fecero epitalami in versi e in prosa;
E congiuntisi poscia in matrimonio
Godero insiem del ricco patrimonio.
Pria però, Donne mie, che tra lor due
L'atto matrimonial si consumasse,
Fra le amiche di lei taluna fue
Che interrogolla in ch'ella mai passasse
Fra quei deserti le giornate sue,
E qual gener di vita ivi menasse.
Sospirò Alibecche a tal quesito,
E rammentossi il diavol del romito.
596
Poi disse: un eremita santo e pio,
Per acquistare la beatitudine
E insiem prestar grato servigio a Dio,
Rimettea spesso in quella solitudine
Il diavol suo dentro l'inferno mio.
Or a Dio più non servo, e inquietudine
E rimorso nel cor quindi ne provo.
E qui si tacque e sospirò di nuovo.
Non compresero allor le donne a un tratto
Che strano favellar quello si fosse,
Onde con gesti e con parole il fatto,
Come meglio potè, da lei spiegosse;
E soggiunse che reo di tal misfatto
Era Nerbal che di colà la mosse.
Compreso tutto nella vera guisa,
Ebber le donne a smascellar di risa.
E le dissero poi: deh! non ti porre
Di tristo umor per tal ragion, che al certo
Questo Nerbal che devi in sposo torre
In cotali servigi è molto esperto,
E sa in inferno il diavolo riporre
Quanto quel tuo sant'uom là nel deserto,
Nè mai, finchè nel mondo uomin saranno,
I diavoli all'inferno mancheranno.
Tai cose poi dall'una all'altra dette
Origin diero a quel motto volgare,
Che fra l'opre più sante e più perfette
Opra più grata a Dio nessun può fare
Di chi in inferno il diavolo rimette.
Lo che passato poi di qua dal mare
Fra noi proverbio universal divenne,
E fino a' nostri giorni si mantenne.
Quest'istoria fin qui messer Boccaccio,
Valente prosator scrisse in toscano.
Io per altro ho veduto un scartafaccio
Tradotto dal linguaggio egiziano,
Di cui l'original, se error non faccio,
Esiste tuttavia nel Vaticano;
Quest'è un'antica cronaca d'Egitto,
Ove ancor d'Alibec il caso è scritto.
La prima volta che con lei Nerbale
Giacque (e ciò da quel codice ricavolo)
Cominciò appena l'atto coniugale,
Che ella lieta esclamò: questo tuo diavolo,
Caro marito, ei par fratel carnale
597
Di quel che nel deserto il buon Giampavolo
Dentro l'inferno mio rimettea spesso,
Or lode al cielo anche tu fai lo stesso.
Tal cosa inaspettata egli in udire,
Che a prova conoscea pur troppo vera,
Turbossi in prima, e volea fare e dire;
Ma pensò che, qualor della mogliera
Colla dote talun cerca arricchire,
Nel qual medesmo caso appunto egli era,
Se poi l'ottien, sul resto aver non dee
Sì dilicate e scrupolose idee.
E che riguardo alla verginità
Ella è al piacer un ostacol di più;
Onde calmossi, e di necessità
Da savio e prudente uom ne fe' virtù.
E scusando la sua semplicità,
Le disse: in avvenir vorrei che tu,
Quando ti vien di diavoli desio,
Ti contentassi almen del diavol mio.
NOVELLA XLI
IL CASO DI COSCIENZA
Siam giusti, Donne mie, siam tolleranti,
Nè stiamo a condannar le costumanze
De' Turchi, degli Ebrei, de' Protestanti
Ma le sacerdotali intolleranze
Lasciate a parte, rimaniam costanti
Nelle nostre ecclesiastiche osservanze,
Noi che siam grazie al ciel buoni cristiani
Cattolici apostolici romani.
Nei sacerdoti la verginità,
L'estinzion delle carnali voglie,
Son tutte buone cose in verità
Dagli altri culti poi se non si toglie
D'ammogliarsi a color la facoltà,
Che si godano pur la loro moglie.
Temete voi che quella tal faccenda
I sacramenti ancor carnali renda?
Non ho in capo però l'idea fantastica,
Nè son io tanto indocile e arrogante,
Che osi di disciplina ecclesiastica
Le savie censurar pratiche sante.
Nella sacerdotal, nella monastica
598
Classe la castità pura e costante
Col sentimento più sincero e tenero
Approvo, ammiro, amo, rispetto e venero.
Ma ragionar volendo in giù dai coppi,
Per giovin prete, in cui lo stimol ferve
Del senso, obblighi tai sono un po' troppi;
Onde se tiensi governante o serva
Per iscansar gli scandalosi intoppi,
S'ei la decenza esterior conserva
E la sua dignità sacerdotale,
Non vi trovo poi poi cotanto male.
Ciò con fatto che dicesi accaduto
In Spagna io proverò; ma già prevedo
Che da taluni non sarà creduto,
Anzi dirò che neppur io lo credo;
Ma narrerollo, perchè l'ho saputo
Da persona che io stimo e talor vedo.
Tacerne il nome io vo' per or, ma poi
Io vel dirò, quando sarem fra noi.
Qualche storico o critico sofistico
Forse vi troverà difetto logico,
Vorrà forse cercarvi un senso mistico,
Allegorico forse o tropologico;
Ma il mio racconto è assai caratteristico,
E del tutto d'un gener teologico:
E in oltre supponendovi miracolo,
Qualunque obbiezion non forma ostacolo.
In un picciol castel d'Estremadura
Un parroco vivea con una fante
Ch'era una bella e buona creatura,
E l'officio facea di governante,
Avendo della casa attenta cura;
Ella chiamossi donna Violante,
Ed egli si chiamò don Raimondo,
Ed era in vero il più buon uom del mondo.
Co' loro modi affabili ed umani
Procurando di renderli contenti,
Si facean ben voler dai terrazzani;
E perchè copiosi emolumenti
Il parroco traea dai parrocchiani
Che mezzi gli fornian sufficienti,
Egli ed ella potean con mezzi tali
Benefici mostrarsi e liberali.
Io non dirovvi già che insiem giacere
Talvolta non amassero e che inetti
599
Allor l'un l'altro stessersi a vedere;
Ma fur su punto tal sì circonspetti,
Soleano ognor tante cautele avere
Per slontanar lo scandalo e i sospetti,
Che, se passeggier dubbio a talun venne,
O non badovvi o conto alcun non fenne.
Poichè dicevan: queste due persone
Si danno ognor per noi cotante pene,
Son sì caritatevoli e sì buone,
Ci amano tanto e ci fan tanto bene,
E noi dovremmo andar senza ragione
Immaginando ciò che non conviene?
Solenne ingratitudin manifesta
E gran malignità sarebbe questa.
Ma come in questo mondo chi gioire
Credo a lungo d'un ben non l'indovina,
E disgrazia vediam spesso avvenire
Che lontana crediamo ed è vicina;
Perciò (il come e il perchè non vi so dire)
Il parroco e la fante una mattina
Che il giorno avanti erano sani e forti
L'un presso l'altro si trovaron morti.
E far sembrò con essi lor la morte,
Come in agosto il siculo villano
Far suol talor che due gran bisce ha scorte;
Arma di mazza la robusta mano,
E dove quelle arroncigliate e attorte
Sul cespo insiem raggruppansi, pian piano
S'appressa, ed improvviso alza la mazza
E ambe le bisce ad un sol colpo ammazza.
Non tanto si dispera e si desola
Nelle lacrime immersa e nel dolore
L'orfana sbigottita famigliuola
Ch'estinti trova e madre e genitore;
Come per tutta quella terricciuola
Si levar grida e querulo clamore,
Quando estinti trovar in un istante
Don Raimondo e donna Violante.
Chi di streghe la disse una malia,
Chi carbon, verderame o morbo estraneo,
Morso di serpe velenosa e ria,
O malefici funghi o subitaneo
Colpo d'attaccaticcia apoplessia,
Chi qualche grande sforzo simultaneo
Che rottura causò d'interni vasi,
Come talora avviene in certi casi.
600
Chi disse, ragionando all'impazzata,
Che inghiottito venefico animale
O bruco o ragno avean nell'insalata;
Chi porzion d'arsenico nel sale
Credette ch'essi avessero ingojata,
Ovver di solimano od altro tale;
Ma il parer più comun fra gl'infiniti
Fu che fosser dal fulmine colpiti.
Imperocchè la precedente notte
Stat'era un temporal sì violento,
Ed uno scroscio tal d'acque dirotte,
Che a forza avea di grandine e di vento
Tetti e finestre fracassate e rotte,
E sparso pel castello alto spavento,
E colpito cadendo aveano i fulmini
Torri, cammini, campanili e culmini.
Ma interno fu, se mal non l'indovino,
Non fulmine caduto di lassù.
Corpo di donna a corpo d'uom vicino
L'un può montarsi in meno e l'altro in più,
Come provan le tavole d'Epino
E del magico quadro la virtù.
Il fluido attraversa il conduttore,
Il sangue s'evapora e allor si muore.
Comunque fosse, quelle buone genti
Stavansi afflitte, nè di pianger sazie,
Che più non hanno omai chi le sostenti;
E come in tutte fean le lor disgrazie,
Con caldi voti e flebili lamenti
Pregavan la Madonna delle grazie,
Ch'era di quel castel la protettrice
E di quei terrazzan benefattrice.
Pregavano con anima contrita
La miracolosissima Madonna,
Onde a pietà si muova e torni in vita
Il loro buon curato e la sua donna
E acciò sia la preghiera esaudita
Niun di lor dal pregar si stanca e assonna,
Anzi s'immaginar quei barlandrocchi
Le Vergine veder storcere gli occhi.
Di sensibilità sì chiaro segno
Di celeste favor prese per prova,
E avanti quell'immagine di legno
Fervide istanze il popolo rinnova
Con maggior zelo e con più vivo impegno.
601
Che giova, o Vergin, ripetea, che giova
Che Vergin delle grazie vi chiamiate,
Se sì piccola grazia non ci fate?
Avemmarie fur dette senza fine,
E acciocchè un circum circa io ve ne mostri,
Furon dodici mila e più dozzine,
Che forse stancherian gli orecchi vostri,
E quattro mila almen salve regine
Senza contare i credi e i paternostri,
E cencinquanta volte a dir pochino
Le litanie cantar, tutto in latino.
Gran che! se prieghi udir d'uomini e donne
S'annojan prenci che figura fanno
Di sostegni del mondo e di colonne,
Voltano il tergo e più retta non danno:
Ma li poveri santi e le madonne
Immobilmente ad ascoltar si stanno
Coll'orecchio in udir mai sazio o stracco,
Finchè color non han votato il sacco.
Colla solita sua bontà e clemenza
La Madonna santissima ad udire
Gli stette, e in pria fe' lor buon'accoglienza,
Le stesse cose poi dire e ridire
Sentendosi, perdè la pazienza,
E disse: quest'affar convien finire,
Se no, costor non la finiscon più.
E andò in persona a ritrovar Gesù.
Lo ritrovò colle altre due persone
Che fan tutte e tre insieme un ente solo;
L'eterno venerabile vecchione
Dio padre ha fra le gambe il suo figliuolo,
E sul petto il divin santo piccione,
E d'angioli d'attorno immenso stuolo,
Come la Trinità d'angioli cinta
Da' classici pittor veggiam dipinta.
Quei dell'alto mister simboli chiari
Espose al culto pubblico, e li fe'
La chiesa collocar sovra gli altari,
E se lo fece, ella sa ben perchè.
Oggi san tutti, e chi nol sa l'impari,
Che tre non fan che un sol, che un sol fa tre:
Ma chiaro colassù ciò si comprende
Che incomprensibil fra di noi si rende.
Come apparir la vide il divin Verbo,
Segno le fe' di farsi a lui più presso.
602
Madre mia, poi le disse, io per voi serbo
La tenerezza mia, l'amore istesso
Ch'ebbi, essendo mortal, e mi riserbo
A darven prove ognor quando e sì spesso
Che a voi piaccia. Ella fece un bell'inchino,
E poi parlò in dialetto palestino.
Caro Domineddio, l'esservi madre
Che appo voi sia non picciol pregio io penso;
E al corifeo delle celesti squadre
L'aver io dato libero consenso
Di concepir senza opera di padre,
E il portarvi nel sen con rischio immenso
Che la filosofal posterità
Dubiti della mia verginità.
In prologhi con voi non mi diffondo
Gl'incoli d'un castel d'Estremadura
Mi pregan colaggiù nel basso mondo
Di voler contro l'uso e la natura
Risuscitar Violante e don Raimondo.
Deh! levatemi voi la seccatura
Risuscitar due morti è cosa seria,
Ma per voi, figlio mio, l'è una miseria.
La vedova di Naim so ben che invano
Pel morto figlio non pregovvi, mentre
Laggiù passeggiavate in corpo umano
Di cui fornivvi il verginal mio ventre.
Risuscitaste il già quattriduano
Lazzaro, e a far che un'anima rientre
Nel morto corpo vi costò sì poco,
Che per voi non parea fosse che un gioco.
Che a una vedova, ad una Maddalena
Facciansi e non a me le grazie istesse,
A me che detta son di grazia piena,
Se anche quell'infallibile il dicesse
Che in terra fa le veci vostre, appena
Credente troveria che lo credesse.
Consolate quei poveri Spagnuoli
Che son buoni cristian, buoni figliuoli.
Sibben, ma prima, il figlio Dio rispose,
Sappiate, madre mia, che la natura,
Che alla del mondo economia si pose
Dal voler nostro, e a cui si diè la cura
Di conservare e propagar le cose
Sempre in numero, pondere e mensura,
Rimostranze ci fe' contro i miracoli,
Che al suo libero oprar son tanti ostacoli.
603
Che i miracoli in oltre, ella ci disse,
Inerte la rendeano e paralitica,
E distruggean le leggi a lei prefisse.
De' miracoli poi con giusta critica
Le conseguenze pessime descrisse,
E aggiunse ch'eran contro la politica;
Poichè impostura che ragion deturpa
Di miracol sovente il nome usurpa.
Se me, soggiunse, conservar volete,
Abolirsi i miracoli dovranno;
Se i miracoli poi conserverete,
Miracoli e natura insiem non stanno.
Nel mondo oltre di ciò perpetuerete
Degl'impostor la furberia, l'inganno.
Io benchè sia la stessa sapienza,
Che dir non ebbi contro l'evidenza.
Postici a tai ragion dunque a riflettere
Ottime le trovammo e convincenti,
E promettemmo di non più permettere
Che si faccian miracoli e portenti,
Ne altrui di farli facoltà commettere;
E per crollar perfin dai fondamenti
Ogn'impostura e opporci ai suoi progressi,
C'impegnammo a neppur farli noi stessi.
Ma voi, Vergine santa e immacolata,
Madre del Verbo e di Dio padre figlia;
Sposa del santo Spirto, e imparentata
Con tutta la divina alta famiglia,
Dalla regola siete eccettuata;
E a natura non dee far maraviglia,
Che donna Violante e don Raimondo
Vivi e sani per voi tornino al mondo.
Con atto maestevole e benigno
L'eterno Padre allor la testa mosse,
E fece un dolce approvator sogghigno;
Battè tre volte il becco e l'ali scosse
Il colombo divin: Satan maligno
Con pugna il ceffo per dolor percosse,
Ed ai dannati diè maggior molestie,
E tremar del zodiaco le bestie.
Nel tempo stesso angelica armonia
D'ogni intorno s'udì di suoni e canti
Che lieti ripetean: viva Maria.
E il divin figlio allor: fatevi avanti,
Teneramente disse, o madre mia.
604
La man le strinse ch'era senza guanti;
Soggiunse poi: quando di voi si tratta,
Tutto tutto si fa: la grazia è fatta.
Ciò detto, a se venir fe' il messaggiero
Angiol Michele e: vanne e in sull'istante
Busca, trova, dicea con volto austero,
L'anima di Raimondo e di Violante;
E dì lor che nel fodero primiero
Rientrin tosto. Il messaggier volante
Ratto parte, e in partir fe' penzolone
Strascicandol suonar lo sciabolone.
E mentre insiem quell'anime sen vanno
Nude e incerte pel vasto aer vagando,
Poichè assegnata stanza ancor non hanno,
Si presenta Michel col nudo brando,
Come quando dal ciel scacciò Satanno
Al Creator rubello, o come quando
D'Eden la prima donna ed il prim'uomo
Scacciò a cagion del maladetto pomo.
E non men che in quei casi memorandi,
Brusco sempre un ministro eseguir suole
Negli affar tanto piccioli che grandi
Di principe che repliche non vuole
I dispotici burberi comandi;
Perciò con minaccevoli parole
Così Michel con sciabola alla mano
A quell'alme intimò l'ordin sovrano:
Anime vagabonde e scioperate
Che ite a zonzo per queste aeree chiostre,
Di qua partite tosto e ritornate
Le fredde ad animar vagine vostre;
O che vi ci rimando a piattonate,
Se attendete il rigor dell'ire nostre.
Qual non fu di Michele al brusco umore
Di quelle pover'anime il terrore?
Prese fur da sì gran sbigottimento
Che restaron stordite e stupefatte;
Perdetter conoscenza e sentimento,
Ed un pajo parean d'anime matte:
Fuggirono più rapide del vento
Onde sottrarsi alle minacce fatte;
Ed all'abitual geografia
Dovetter sol, se non smarrir la via.
Dall'aerea region sino al castello
Scorso l'immensurabile intervallo,
605
Del curato pervennero all'ostello
In men di tempo che il pensier non fallo.
Esposti i corpi erano ancor; ma il bello
Del caso è che commisero il gran fallo
Che l'anima dell'un con poco scaltro
Avvedimento in corpo entrò dell'altro.
Così se il cacciator in giugno o in luglio
Di passere lascive un folto groppo
Posato rimirò sopra un cespuglio,
Quando nè poco esser vicin nè troppo
Si crede al pispigliar, al tafferuglio,
Spara contro di lor colpo di schioppo,
Levansi, e nel terror, nello sbaraglio,
Nel nido altrui talune entran per sbaglio.
L'anima di Violante entrò in Raimondo,
E quella di Raimondo in Violante.
Talenti e qualità di Raimondo
Vizi e virtù passaro in Violante,
E quei di Violante in Raimondo,
E si mischiar Raimondo e Violante.
Di questo in quella allor, di quella in questo
Strano si fe' maraviglioso innesto.
Dal grosso sbaglio fatto da coloro
Talun forse vorrà trarre argomento
Contro l'inezia e storditaggin loro.
Ma la confusione e lo spavento...
I corpi un presso l'altro in quel mortoro....
La fretta grande e lo sbalordimento...
Eh!... se in tal caso io mi trovassi o voi,
Chi sa se non sbagliassimo anche noi?
Si furo appena i circostanti accorti,
Gli uomin, le donne, i vecchi ed i ragazzi,
Che a muover incominciavansi i due morti,
Fecero grandi strepiti e schiamazzi;
Accertatisi poi ch'eran risorti,
Parean per gioja divenuti pazzi,
In collo se li posero, e bel bello
Portarli in procession per lo castello.
Calmato alquanto il giubilo, ambedue
A convivere insiem, come pria fero,
Ricominciar: ma ciaschedun de' due
Non le solite idee, non il pensiero,
E non le stesse avea tendenze sue.
Fean gli organi corporei il lor mestiero,
Ma più non eran dagl'istessi affetti,
Nè dalla stessa volontà diretti.
606
Agl'impulsi d'un'anima straniera,
Che un non suo corpo informa e lo governa,
La materia a obbedir facil non era.
Della mental percezione interna
Tolto l'accordo e l'armonia primiera
Parve coll'azion dei sensi esterna.
L'anima e il corpo di diverse tempre
In contraddizion quasi eran sempre.
Se talor per esempio ei dicea messa,
Ostia, calice offria, messal leggea,
Ma non già colla intelligenza istessa;
Tutto per abitudine facea
Negli organi corporei innanti impressa;
E quanto prima ei letto o udito avea
Di Gesù, di Mosè, de' Maccabei
La Violante lo sapea, non ei.
E d'altra parte qualor gia la mensa
Violante in cucina a preparare,
Se filava o cucia, sempre propensa
Sentivasi a dir messa e a confessare
Opra altramente ed altramente pensa
Ciascun d'essi, e per più particolare
Fenomeno ella d'uomo avea le voglie,
E di donna Raimondo o sia di moglie.
S'avvide tosto allor tutto il castello
Color non esser più quei ch'eran pria.
Si credette intaccato il lor cervello
Da qualche resto della malattia;
Anzi sostenne un certo saputello
Che ambedue lor la vergine Maria
Dal brutto mal da cui furon colpiti
Risuscitati avea, ma non guariti.
Ma l'arcangiol Michel che presso presso
Dietro le spaventate anime er'ito,
Finchè di nuovo fer nei corpi ingresso,
Vide lo scambio e ne restò stupito,
E capì che ridicolo complesso
Di strani effetti ne saria seguito;
E a lor vicino, di veder voglioso
Ciò che poi ne avverria, si tenne ascoso.
Il contrasto osservò, le inconseguenze
Che apparian sempre più ciaschedun giorno
Nelle loro azioni ed incumbenze;
Onde, fatto colà breve soggiorno,
A prevenir peggiori conseguenze
607
Fece alla santa Triade ritorno
Per farle fedelissimo rapporto
Di tutto ciò di che s'era egli accorto.
Tenne la santa Triade un secreto
Consiglio, a cui fu la Madonna ammessa,
E sul seguito sbaglio in sul tappeto
La gran discussione allor fu messa.
Caso di coscienza inconsueto
Era il risolver, chi de' due dir messa;
Se la donna coll'anima pretesca
Debba, ovver l'uom con anima donnesca.
Per la moral discussion sublime
Primo de' punti fu fondamentali,
Il caratter nell'anima s'imprime;
Secondo, a funzion sacerdotali
La donna ognor esercitar s'esime;
Terzo, delle virili e naturali
Parti esser dee, che nominar non posso,
Fornito il prete o almen portarle addosso.
Di tai principi applicazion facendo,
Violante aveva l'anima di prete,
Ma non di prete il corpo, e non avendo
Quai debbe un prete aver parti complete,
Riguardar non si può qual reverendo
D'ostie consacrator per le secrete
Parole, che han possanza operatrice
D'alto mister che a donna oprar non lice.
Don Raimondo al contrario è ben provvisto
Di quell'essenziale ed integrante
Che aver dee l'uom maneggiator di Cristo;
Ma l'anima egli avea della sua fante,
Ed era anch'ei d'uomo e di donna un misto
Non men di quel che fosse Violante;
Marchio sacerdotal nell'alma impresso
Ei non avea, solo avea d'uomo il sesso.
D'anima eterogenea e pellegrina
Che in un corpo stranier si fosse intrusa
Parve alla santa Triade divina
Discussion difficil tanto e astrusa,
Che dell'alta famiglia unica e trina
La seconda persona, avendo scusa
Chiesta a Maria di quanto dir volea,
Parlò nella natia sua lingua ebrea,
E disse: caso tal di coscienza
È strano sì che imbarazzar potria
608
Fin del verbo divin la sapienza;
Nè ipostasi simil dopo la mia
Si vide mai di tanta conseguenza.
Credo però, che indispensabil sia,
Nè ripiego miglior io ci ritrovo
Se non che farli ambo morir di nuovo.
Madre, soggiunse poi, voi ci chiedeste
Che fossero Violante e Raimondo
Per noi risuscitati, e voi vedeste
Risorger ambo e tornar vivi al mondo:
Se il miracol fallò, voi l'intendeste,
Nostra colpa non è. Fece un profondo
Inchino, e coll'innata umiltà sua
Il fiat pronunziò voluntas tua.
Allor si venne subito alle corte,
Ed al solito arcangiolo Michele
Commission sen diè. Fuor delle porte
Del ciel volando il messaggier fedele
Fra questa bassa region la morte
Trovò, l'ordine dielle, e la crudele,
Che ha mille d'ammazzare e mille guise,
Ambo di nuovo in un sol tratto uccise.
Di Tomisti teologi e Scotisti
Le dotte sottigliezze ammiro e lodo
Casi in risolver non più intesi o visti;
Ma le difficoltà di sciorre il modo
Ch'ebbe Michel non ebbero i casisti;
Nè fu del gran Macedone che il nodo
Tagliò di Gordio, come si racconta,
Sì efficace la sciabola e sì pronta.
I villan del castello e dei contorni
Ricominciar con ave e paternostri
La Madonna a pregar che in vita torni
Quei già due volte morti: i favor vostri
Duran dunque, dicean, sì pochi giorni?
Movetevi di grazia ai prieghi nostri.
Se dovean per sì poco esser risorti,
Non era ci meglio di lasciarli morti?
Ma inutil furo le preghiere e vane,
E l'effetto al desir non corrispose.
Così fur sempre le preghiere umane,
Se chieser strampalate assurde cose.
D'un folle priego alle dimande strane
L'inflessibil natura e il ciel s'oppose;
Onde donna Violante e don Raimondo
Morir per non mai più tornare al mondo.
609
Qui, Donne mie, storcer vi veggo il muso:
Ciò per altro che io dissi or vi ripeto;
Far della vostra compiacenza abuso
Io non pretendo mica e son discreto.
Creder da voi si vuol? non vel ricuso,
Non lo volete credere? nol vieto.
Io favello a chi crede e a chi non crede,
E non prescrivo articoli di fede.
610
NOVELLA XLII
LA FATA URGELLA
Ora che il sol s'è coricato in mare
E sorgon l'ombre taciturne, oscure,
Per lungi discacciar, Donne mie care,
I pensier gravi e le nojose cure
Vi voglio brevemente raccontare
La bella storia e le strane avventure
D'un gentil cavalier, detto Roberto,
Che ne' tempi vivea di Dagoberto.
Appena la lanugine nascente
Gli cominciava a ricoprir la guancia,
Che punto da desio di gloria ardente
S'armò da capo a piedi, e uscì di Francia,
E in mille incontri valorosamente
Si battè colla spada e colla lancia;
Nè avendo ancor compiti i lustri quattro,
Distese il nome suo da Tile a Battro.
Il generoso errante cavaliero
Viaggiava come i paladin suoi pari,
Non aveva che un can, l'armi e il destriero,
E soleva portar pochi danari.
Era per altro un giovinetto altero
Di pregi veramente singolari,
E somigliava il nobile garzone
Marte alla forza e alla bellezza Adone.
Mentre lungo la Senna un dì sen gia,
Vide Martuccia a Charenton vicino,
A cui le bionde trecce in gruppo unia
Bizzarramente un nastro porporino,
E la snella gambetta si scopria
Sotto il candido e corto guarnellino.
Se le accosta Roberto, e vede un viso
Che d'un angiol parea del paradiso.
Un un lieve moto palpitar facea
I rotondetti pomi alabastrini,
E in mezzo a quelli accomodato avea
Un mazzetto di rose e gelsomini;
Nè sì bella giammai ninfa nè dea,
611
Nè si pingon sì belli i serafini.
Portando in braccio una cestella nuova,
Iva al mercato a vender burro ed uova.
Il buon Roberto non istette saldo
A così seduttrice prospettiva,
E il sangue si sentì divenir caldo
Da passione violenta e viva.
Dal destrier smonta, e coraggioso e baldo
Corre incontro al piacer che amor gli offriva:
Avidamente la fanciulla abbraccia,
E la bacia nel petto e nella faccia.
Indi le dice: anima mia, perdona
A un trasporto invincibile d'amore
Che a chiederli mercè m'instiga e sprona.
Ah! se in te bello e se gentile è il core,
Come gentile e bella è la persona,
Dolce mia vita, ah! non usar rigore.
Ho venti scudi là nel mio bagaglio
E qualche soldo più, se non isbaglio.
So che tal dono al tuo gran merto è poco,
Ma t'offro questi ancor, se tu gli accetti.
Si fe' Martuccia del color di foco
E abbassò gli occhi a terra a questi detti;
Poi sollevolli, e sorridendo un poco:
Se tu d'amarmi e di tacer prometti,
Accetto, disse, quanto offerto m'hai,
E del tuo amor grato compenso avrai.
Sì fatto ed accettato il dolce invito,
Cercando un campo all'amorosa guerra,
Entrano insiem nel vicin bosco, e ardito
Il cavalier la giovinetta afferra,
E dove folta è l'ombra e il suol fiorito,
La prende in braccio e la distende a terra,
E mille baci fervidi le scocca
Sulle nude mammelle e nella bocca.
Indi alzandole il bianco guarnelletto,
Il tempierel di Venere scoperse,
E la fanciulla per provar diletto
Il molle ingresso languidetta aperse,
E sovra essa l'ardente giovinetto
Tutto si stese e nel piacer s'immerse.
Romponsi l'uova, e nel calor dell'opra
Si spande il burro e va il panier sossopra.
Al cominciar della strana battaglia,
Come ne' fieri avvien veri litigi,
612
Spaurato il destrier per la boscaglia
Sen fugge col bagaglio e le valigi,
Nè incontro v'è che trattener lo vaglia;
Ma un certo fraticel di san Dionigi,
Che a caso sopraggiunse a quel momento,
Vi salta sopra e trotta al suo convento.
Ma tutto intento all'amoroso gioco
Forte stringea la villanella al seno
Roberto, e a ciò non bada assai nè poco,
Nel colmo del piacere assorto appieno;
E poscia che l'ardor, la forza e il foco,
Fur vinti dal diletto e venner meno,
Preser lassi amendue sul suolo erboso
Dopo il dolce lavor breve riposo.
Levasi alfin Martuccia e il crin rassetta,
E fa di nuovo il cappio al nastro rosso;
Poscia dice a Roberto: or via t'affretta,
Che più lungo indugiar teco non posso,
Dammi il danar che di ragion mi spetta.
Il cavalier, che non ha borsa in dosso,
Guarda, cerca il destrier, gira e non trova,
Chiama, fischia, bestemmia e nulla giova.
Sicchè torna a Martuccia e fa sua scusa,
Ma udir scuse e ragioni ella non vuole,
E gli dice ch'è un furbo e l'ha delusa
Con false e lusinghevoli parole;
E avanti al re vuol ire a espor l'accusa,
Sì vivamente l'ingiuria le duole;
Ed è soverchio ch'ei la prieghi o siegua,
Che alfin da lui si stacca e si dilegua.
E corre a darne parte a Dagoberto
Avanti a cui la sua querela espone,
Qualmente un certo giovinastro, esperto
Seduttor delle semplici persone,
Il di cui nome sente esser Roberto,
Le ha fatta una cotal sporca azione,
Lei forzando onestissima fanciulla,
Le ha rotte l'uova e non le ha dato nulla.
Il saggio prence a Martuccia rispose
Qui si tratta di stupro a quel che io sento;
Ite a Berta mia moglie; ella in tai cose
Ha molta esperienza e scernimento.
Berta ha maniere affabili, amorose,
E faravvi cortese accoglimento.
Poi disse ai suoi baron: non è così?
E tutti replicar: maestà sì.
613
Marta con bella grazia al re s'inchina,
Poichè di grazie non avea penuria;
Poi vanne drittamente alla regina,
E le racconta la sofferta ingiuria.
Berta era umana inver, ma da piccina
Nemica sempre fu della lussuria,
E facea severissima giustizia
Sopra il gran punto della pudicizia.
E le divote sue fe' pel mattino
A consiglio intimar, che puntuali
Venner col mantiglione e lo scuffino,
Ponendosi a seder pro tribunali.
Fu citato anche il reo, che a capo chino
Comparve senza spron, senza stivali,
Standosi in piedi in abito di duolo,
Senza cappello e senza ferrajuolo.
Come cane talor che ingordo e ghiotto
La pentola con avida zampata
Per qualche avanzo di minestra ha rotto,
Se il padron mira con la verga alzata,
Stassene a coda bassa, umile e chiotto,
E s'aspetta una buona bastonata;
Così Roberto pensieroso e cheto
Stava attendendo il femminil decreto.
Poichè l'accusa avanti a lui fu letta,
Confessò chiaramente il suo peccato,
E disse, che in veder la forosetta
Il diavolo l'avea forte tentato,
E la ragion fessi all'amor soggetta;
Che volentieri inver gratificato
Dei venti scudi la fanciulla avria,
Se non era il caval che fuggì via.
Poi volto a Berta disse: o degna moglie
Del magno successor di Clodoveo,
Chi può sottrarsi all'amorose voglie?
Se delitto è l'amor, chi non è reo?
Ben io ne provo e pentimento e doglie,
Ma il fatto mai disfar non si poteo.
Dopo discolpa tal, della gran corte
Le donne austere lo dannaro a morte.
Roberto era sì bianco e sì vermiglio,
Di maniere sì dolci e sì ben fatto,
Che pianse la regina e il suo consiglio,
Allor che fu di sentenziar sull'atto;
E a lui Martuccia stessa umido il ciglio
614
Volgea furtivamente e di soppiatto;
In somma in tutti i cor destò pietà
La grazia di Roberto e la beltà.
Ma Berta che del sangue era nemica
Di salvarlo evvi, disse, anche una strada,
Perchè una legge abbiam solenne antica,
Che vuol che un reo da morte assolto vada
Ogni qual volta schiettamente dica
Ciò che alla donna in ogni tempo aggrada;
Ma lo dica per altro in guisa tale
Che nessuna di noi se l'abbia a male.
A Roberto la cosa fu proposta,
Nè molto a lungo in chiacchiere si mise,
E Berta che era in suo favor disposta
A pensarvi otto giorni gli permise.
Ei mille grazie resele in risposta,
E fra otto giorni comparir promise.
Preso congedo poi dall'assemblea,
Partì tutto pensoso, e in se dicea:
Io lo so ben ciò che la donna vuole,
E lo dico, se alcun lo vuole intendere,
Che parmi cosa chiara al par del sole;
Ma come diavol mai si può pretendere,
Che abbia a dirsi in schiettissime parole,
E nessuna di lor se n'abbia a offendere?
Perchè, se fisso è ch'io debba morire,
La morte esacerbar con differire?
Ad ogni donna che incontra per via,
O maritata o vedova o zitella,
Domanda che gli dica in cortesia
Che cosa sopra tutto amerebb'ella?
E conforme pel capo le venia
Chi questa cosa rispondea, chi quella.
Mentivan tutte e non veniano al punto,
E il termine prescritto era omai giunto.
Già sette volte il portator del giorno
Avea scorsa la lucida carriera,
Quando in un praticel di piante adorno
Vide di vaghe giovani una schiera
Danzare in cerchio e volteggiare attorno,
Cui le trecce movea l'aura leggera,
E sotto i panni lievi ed ondeggianti
Fattezze si vedean che erano incanti.
Attonito fermossi il paladino
A mirar tal spettacolo in distanza;
615
Fattosi poscia un poco più vicino,
Ebbe qualche pensier d'entrare in danza;
Ma tornandogli in mente il suo destino,
Di trarne lume concepì speranza,
Consultandole sopra il noto affare,
Quando tutto in un attimo dispare.
E si vide apparir vecchia canuta
Che il mento avea schiacciato e il naso aguzzo,
L'occhio sanguigno e la palpebra irsuta,
E lungo e secco il collo al par d'un struzzo,
Grinzosa in faccia e nelle spalle ossuta,
Zoppa, curva, sdentata, e lungi il puzzo
Dalle schifose sue carni esalava,
E dalla bocca uscia sordida bava.
Dal petto si vedean nudo e scabbioso
Due zinnacce cader rugose e flosce,
E un giubboncello sudicio e cencioso
A metà le copria le nere cosce,
E appoggiando a un bastone il piè dubbioso
Moveva il passo con affanni e angosce.
In veder la bruttissima figura
Roberto ebbe a morir della paura.
Ella si accosta, e con tremola voce
Gli dice: figlio, in viso io ben ti veggio
Che grave affanno ti tormenta e cuoce;
Ma parla, che tacer nel male è il peggio.
Tutti soffriamo, ognuno ha la sua croce;
Io molto vissi e il senno agli anni deggio.
Agli infelici ch'ebbervi ricorso
Spesso i consigli miei dieron soccorso.
O vecchierella mia, per me vicina
È già l'ora fatal, tutto turbato
Rispose il cavalier; se domattina
Non saprò dir nel femminil senato
Chiarissimo e lampante alla regina
Ciò che alla donna in ogni tempo è grato,
E non lo dica senza darle noja,
Impiccato sarò per man del boja.
Son sette dì che invan cerco consiglio,
Vedi or tu s'è ragion che afflitto io stia?
La vecchia allor: deh! non temere, o figlio,
Disse, che certo il cielo a te m'invia,
Non temer, dico, e rasserena il ciglio.
Andianne a corte insieme, e per la via
Da me tutto per ordine saprai
Il gran secreto che cercando vai.
616
Ma tu, poscia che vita e onor ti rendo,
Giurar d'essermi grato ancor mi dei.
L'ingratitudin, figlio, è un mostro orrendo
Dagli uomin detestato e dagli dei.
Di compiacermi ognor che giuri intendo,
E che lo giuri pe' begli occhi miei.
Giurò Roberto e rise; ed essa allora:
Non rider, disse, non è tempo ancora.
Verso Parigi poi s'incamrninaro,
E parlando ella, e attento egli l'orecchia
Porgendo, nel real palazzo entraro
Il giovin bello colla brutta vecchia.
Tosto le donne a corte s'adunaro,
E tutto pel consiglio s'apparecchia,
E poichè in trono si fu Berta assisa,
Entra Roberto, e parla in simil guisa:
Madame, io torno qui per farvi istrutte
Sulla proposta nota questione.
Schietto dirovvi ciò che piace a tutte
Di qualunque esse sian condizione:
Donne giovani e vecchie, o belle o brutte,
Vogliono in casa ognor far da padrone;
Vuol comandar la donna e non dipendere;
E se non dico il ver, fatemi impendere.
Mentr'egli così parla, ognuna è certa
Ch'ei da saggio ragiona e coglie il segno,
Ond'egli assolto umilemente a Berta
Bacia la destra, e di partir fa segno;
Ma la cenciosa vecchia a bocca aperta
Grida: giustizia! e senza alcun ritegno
Urta la folla e traballando corre,
E in mezzo all'assemblea così discorre:
Odi, o regina, onor del nostro sesso,
E voi che proteggete il giusto e il vero:
Per me fu solo al paladin permesso
Di spiegare il proposto arduo mistero;
E per li miei begli occhi egli ha promesso
Far tutto ciò che da lui bramo e spero;
O per se a compiacermi egli s'accinga,
O la fede a serbar per voi s'astringa.
Roberto schiettamente confessò
Che la cosa pur troppo era così;
Ma poichè armi e caval, bagaglio e ciò
Che in sua ragion gli apparteneva un dì
Il tonsurato ladro gli involò,
617
Quando Martuccia bella egli assalì,
Con tutta la sua buona volontà
Il beneficio onde pagar non ha.
Del frataccio l'indegna opra impunita
Non andrà, disse la regina, e resa
Fia ben tosto ogni cosa e tripartita;
E la giustizia e l'equitade attesa,
Avrà dei venti scudi la partita
Martuccia, che nell'uova o in altro è lesa,
Avrà la buona vecchia la montura,
E resti per Roberto l'armatura.
La vecchia allor riprese: o generosa,
Io non voglio il caval, voglio il suo core,
Sol di questo tesor vivo gelosa;
Amo il suo bel sembiante, amo il valore,
Vo' questa notte stessa esser sua sposa
E da lui corre ogni piacer d'amore.
A un parlar così strano e inaspettato
Il povero garzon restò gelato.
Indi alla brutta vecchia il guardo fisse,
E in contemplar la sconcia creatura,
Inorridì, segnossi in fronte e disse
Meritato ho dunque io sì ria sventura?
O tal pena a' miei falli il ciel prescrisse
Ch'io dovessi sposar simil figura?
E la versiera e il diavolo vorrei
Sposar più tosto che sposar costei.
Ma la vecchia in un tuon di tenerezza
Udite, disse, con qual tirannia
L'ingratissimo giovine mi sprezza,
E i benefici e le promesse obblia;
Ma vincer con amore e con dolcezza
Procurerò sì ingiusta antipatia.
Io l'amo troppo per poter soffrire
Che non m'ami il crudel senza morire.
È ver ch'io non son più giovine e bella,
Poichè cogli anni la beltà minora;
Ma sarò qual mi vuole o sposa o ancella
Sempre più fida e più amorosa ognora.
Lo spirto coll'età s'orna e s'abbella,
E la ragion s'assoda e s'avvalora,
E il senno vien col tempo, e Salomone
La saviezza alla beltà prepone.
Vivo sotto un umil povero tetto,
Ma più felice che in real palagio;
618
Non molli piume già, ma strame il letto
E paglia m'offre in cui le membra adagio,
E nel mio stato altrui vile e negletto
Tranquillitade trovo e non disagio.
Tal Bauci e Filemon per lustri venti
Nelle campagne lor visser contenti.
Dei boschi abitator voti sinceri
A lui porgiam che d'ogni bene è padre;
Non ci opprimono il cor tristi pensieri,
E alle campagne ed alle regie squadre
Formiam gli agricoltori ed i guerrieri;
E almen, se il caro titolo di madre
Il ciel mi niega, infin ai giorni estremi
Raccoglierò d'amore i dolci semi.
L'assemblea femminil così sensata
Aringa approva, e il cavalier condanna
Che a sposar suo mal grado la sdentata
Per giuramento è astretto e per condanna,
Ella sopra un cavallo esser menata
Volle fra le sue braccia alla capanna
Per compir quella sera l'imeneo;
E quanto ella bramò, tanto si feo.
La vecchia orror spirante e sudiciume
Per via sì stretta al giovine si tenne
Ch'ei scordò quasi il suo docil costume,
E più e più volte in fantasia gli venne
O di strozzarla o di annegarla in fiume:
Ma poi non ne fece altro e si ritenne,
Perchè il dover della cavalleria
Vieta d'offender donna, e sia chi sia.
Mentre così n'andavano i due sposi,
Ella sovente a lui si rivoltava,
E le nobili geste e i gloriosi
Fasti del franco impero gli narrava,
Come il gran Clodoveo con generosi
Atti e amici e parenti assassinava,
E coll'astuzie e colla forza estese
La formidabil monarchia francese.
E meritossi la grazia divina,
Con che vinse ogni guerra, ogni litigio;
E aggiunse ch'ella, essendo ancor bambina,
Si ritrovò presente al gran prodigio,
Quando il santo colombo l'ampollina
Col balsamo del ciel portò a Remigio;
Onde s'unse il gran prence, e tutti poi
Unger doveansi i successori suoi.
619
La vecchia in varie guise orna e condisce
I graziosi suoi ragionamenti,
E bei tratti di spirito vi unisce,
Riflession, consigli e sentimenti,
Onde alletta chi ascolta e l'istruisce.
Roberto che tenea gli orecchi attenti
Iva tutto in piacer, quando l'udia;
Quando poi la guardava, inorridia.
Giunta la strana coppia alla capanna,
La gonna ella ripiega, e colle sozze
Mani la cena a preparar s'affanna,
E dispon tutto a preparar le nozze.
Quindi sopra inegual tarlata scranna
Che reggean tre asticciuole informi e mozze,
L'affaccendata ed anelante vecchia
Il rustico e frugal cibo apparecchia.
Su logre antiche panche i sposi appena
Posersi a mensa l'un dell'altro a fronte,
Ei bassò gli occhi, e dell'interna pena
Scolpite in faccia avea le triste impronte;
Ella all'incontro rallegrò la cena
Con motti e con facezie argute e pronte;
Talchè rise Roberto, e in quel momento
Parve del suo destin meno scontento.
Poichè la parca mensa ebber finita,
Che di vivande fu semplici e scarse,
La vecchia il giovin sogghignando invita
Nel letto nuziale a coricarse,
E gentilmente di sua man l'aita
Con bei giocosi scherzi a dispogliarse;
Ma quando al fine gli slacciò le brache,
Egli accorciossi come le lumache.
Stese sopra d'un ruvido pagliaccio
Eran due sporche e vecchie lenzuolette,
E sopra esse una coltre, anzi uno straccio.
Fra quelle rannicchiandosi si mette
Il giovin muto e freddo come un ghiaccio,
Col capo rabbuffato e cosce strette,
Immoto, ad occhi chiusi, e in quella forma
Il misero non dorme e par che dorma.
A lui sotto un aspetto il più terribile
Il marital sacro dover s'offria,
E dicea: bello è il cor, ma tanto orribile
È la figura della donna mia,
Che il peso conjugal fammi insoffribile,
620
Se il ciel sua forte grazia non m'invia,
E malgrado le forze oppresse e macere
Non dammi a un tempo istesso il velle et facere,
D'un lumicin, che accanto al letto ardea,
Allo splendor lugubre e moribondo
Che al tugurio un orror nuovo accrescea,
La vecchia intanto il giubboncello immondo
Di dosso e la camicia si togliea,
E restò nuda, come venne al mondo,
Con che del giovinetto al guardo espose
Tutte le parti oscene e vergognose.
E l'ossa e i nervi miransi e le scaglie
Sparse sopra la grinza arida cute,
Ed in mezzo dell'ispide boscaglie,
Che da più lustri omai rese canute
Coprono il pettignone e l'anguinaglie,
S'apre il grotton che sempre stilla e pute.
A vista di sì orribile spettacolo
Se non morì Roberto, fu un miracolo.
Qual incanto fanciul ch'entra e s'interna
In catacomba sotterranea, oscura,
Se al tremolar di funebre lucerna
D'improvviso qualch'orrida figura
O scheletro fra l'ombre avvien discerna,
Impallidisce e trema di paura;
Tal Roberto in veder la vecchia nuda
Di pena e di spavento agghiaccia e suda.
La decrepita allor lasciva sposa
Si caccia in letto e ficca il capo sotto,
Facendo la modesta e vergognosa,
E stassi un poco ferma e non fa motto;
Poi se gli accosta, e con man timorosa
Lo tocca lieve lieve, e quei sta chiotto;
Di nuovo ella lo punge e lo tormenta,
E quei pur dormir finge e par non senta.
Con un sommesso e tremolo vocino
Ella in tai detti alfin la lingua scioglie
Dormi? Dunque ah! tu dormi, o mio sposino,
Nè curi della tua tenera moglie
Che sospira e languisce a te vicino,
E si disface in amorose voglie?
Ma se tu regni sul mio cor, tu dei
Sul mio corpo regnar, su i sensi miei.
Una tal fiamma entro il mio cor s'accende
Che mi consuma e mi conduce a morte,
621
E contro il senso invan ragion contende,
Che inferma è la ragione, il senso è forte.
E or che il destin sì presso a te mi rende,
Più misera e infelice è la mia sorte;
Qual chi si trova a un ampio fonte appresso,
Nè bagnar l'arse labbra è a lui permesso.
Non trovo pace, ohimè! non trovo loco,
E il sangue entro le vene s'accalora.
Quai stimoli! quai smanie! oh Dio qual foco
Mi rode internamente e mi divora!
E tu del mio penar ti prendi gioco,
Ed a pietade non ti muovi ancora?
E ancora ai preghi miei fai resistenza?
Va, che lo metto sulla tua coscienza.
Di coscienza e di religione
Roberto era un pochetto delicato;
Onde sentì di lei compassione,
E sul timore di non far peccato
Disse: signora mia, l'intenzione
Io ben l'avrei, ma m'è il poter negato.
Tu potrai tutto, ella rispose a tempo,
Con gli ajuti dell'arte e un po' di tempo.
Deh! pensa quanto onor raccoglierai
D'aver tentato l'amorosa lutta.
Io veggio ben che per me amor non hai,
Perché ti sembro alquanto vecchia e brutta,
E irresoluto e timido ti stai,
Forse per l'odor mio che ti ributta;
Ma non debbon gli eroi di ciò far caso,
Via dunque, chiudi gli occhi e tura il naso.
Il cavalier che amante era di gloria
A tal discorso si piccò d'onore,
E un'impresa a compir degna d'istoria
Risvegliò tutto il suo natio valore.
A tentar così nobile vittoria
Il ciel l'ajuta e il giovanil vigore.
Ella si assesta, e quei le monta sopra,
E chiude gli occhi ed incomincia l'opra.
Con ogni sforzo e bocca e naso e gote
Svia dall'incontro della brutta faccia,
E tiensi sopra lei per quanto puote
Su i polsi sollevato e sulle braccia;
Ma ella lo stringe e l'agita e lo scuote,
E vuol che al suo dover ei soddisfaccia.
Il giovine vorria ben soddisfarla,
Ma lo vorrebbe far senza toccarla.
622
Par che sotto gli crocchi un sacco d'ossa
Ogni qual volta egli la preme e tocca,
E inutilmente il misero si spossa,
Che quel pigro troncon mai non imbrocca;
Gli vien meno lo spirito e la possa,
E amarissimo fiel si sente in bocca,
E dal volto un sudor freddo gli cade
Per la pena che il cor gli opprime e invade.
Basta così, disse la vecchia allora,
Vidi qual tengo sul tuo core impero,
Altro da te non desiai finora.
Or vedi, o figlio, s'io diceva il vero
Che in propria casa esser padrona ognora
Vuole la donna: or tu di te il pensiero
A me ne lascia e a maggior bene aspira,
E di ciò in prova apri le luci e mira.
Mira Roberto, e incontro a se supina
Allo splendor di cento faci e cento
In gran palagio e sotto aurea cortina
Su ricco letto di massiccio argento
Vide giacere una beltà divina,
Cui non si vide mai simil portento,
Nè Fidia sculto mai, nè pinto Apollo
Fattezze avea sì dilicate e belle.
Da meraviglia e da stupor conquiso,
E in estasi rapito il paladino,
Mira il celeste incomparabil viso,
Mira le membra d'alabastro fino,
E aprirsi in un dolcissimo sorriso
La graziosa bocca di rubino,
Mira sparse le grazie a mille a mille
Nell'amorose tremole pupille.
Così forse d'amor la bella diva
Colle trecce in disordine e disperse
Soavemente languida e lasciva
E nuda in braccio al dio guerrier s'offerse;
Tal vinta dal piacer che il cor l'empiva,
Colle pupille di dolcezza asperse
La bella donna un molle sguardo fisso
Teneramente al suo Roberto e disse:
A te, cor mio, questo palagio e questi
Rari, superbi, preziosi arredi
Vagamente di perle e d'or contesti,
A te serbai ciò che d'intorno vedi;
E se deforme a sdegno non m'avesti,
623
Bella, qualunque io sono or mi possiedi.
Vieni al mio seno, e dopo i giorni amari
Gusta i frutti d'amor più dolci e cari.
Siccome reo che col capestro al collo
Salì al supplizio in compagnia del boja,
Se, mentre sta attendendo il fatal crollo,
Il sovran prence ode gridar, non muoja,
L'accetto amico e gran signore io follo,
Resta insensato per l'immensa gioja,
E alfin deposta la tristezza antica,
Gode dei doni della sorte amica;
Così Roberto che la vecchia impura
Avea sotto poc'anzi, or che si vede
Possessor di sì bella creatura,
Istupidisce e agli occhi suoi non crede
Ma poichè è certo della sua ventura,
Nel sangue il caldo ed il vigor gli riede,
Ed obbliando ogni malor di pria,
S'abbandona al piacer che amor gli offria.
Or chi potria ridir le veementi
Compressioni e i fervidi desiri,
E i queruli susurri e i tronchi accenti,
E gli affannosi palpiti e i sospiri?
E chi le languidezze e i sfinimenti,
E l'estasi e le smanie ed i deliri,
E chi il sommo soavissimo diletto
Che a due felici sposi inonda il petto?
Giovani amanti e donne innamorate
Che siete dolci e tenere di core,
Se dopo l'ore travagliose e ingrate
Di lunghissima pena e di dolore
Giungeste a respirar aure più grate
In braccio del piacer che dona amore,
Pensatel voi, che non vogl'io i profani
Labbri ingolfar negli amorosi arcani.
Or io nel raccontar questa novella
Vidi che spesso, o Donne mie, vi venne
Fantasia di saper chi fosse quella
I cui favori il buon Roberto ottenne.
Or sappiate che fu la Fata Urgella,
Che in tutta Francia a tempo suo si tenne
Per la beltà famosa e per gl'incanti,
E fe' del bene ai cavalieri erranti.
Avventurosi tempi eran pur quelli
Ne' quali succedean sì belle cose
624
Per opra degli spirti e farfarelli!
Allor nelle stagion fredde e piovose
Narrava per le ville e pe' castelli
Il parrocchiano alle novelle spose
Intorno al focolar strette e aggruppate
I conti delle streghe e delle fate.
Ma gli austeri filosofi recenti
La fate hanno bandito e gli stregoni,
E per spacciarsi dotti e sapienti
Non credono agli spiriti e ai demoni,
Ed i nojosi lor ragionamenti
Riempiono d'insipide ragioni.
Gran pregi ha il vero, anch'io lo so, ma spesso
Un grato error ha li suoi pregi anch'esso.
625
NOVELLA XLIII
LA PACE DI PASQUALE
Di pace ragionar generalmente,
Elogi tuttodì far della pace,
Pace ciascun desiderar si sente;
Pur sappiam che non tutti il ben verace,
Non il pubblico ben, ma in lei sovente
Ricercan sol ciò che lor giova e piace;
E questa verità, Donne mie care,
Con una novelletta io vo' provare.
Le politiche idee del secol nostro
Non però censurar voi m'udirete.
Sarò, qual sempre in fatti io vel dimostro,
Placido narrator di cose liete;
Nè la gajezza mia nè il piacer vostro
Ne' miei carmi obbliar mai mi vedrete:
Importuno non esservi e molesto
Bastami sol, mi rido poi del resto.
Un tempo fu che monsignor Clemente
Di Latesa alla chiesa presedea.
Pigro era oltre ogni credere e indolente;
Insino quasi a mezzo dì giacea
In sulle piume scioperatamente;
Un par d'orette a mensa poi sedea,
E il restante del dì senz'altro fare
Steso sopra un sofà soleasi stare.
In Bitonto canonico stat'era,
Benchè a lui quel mestier poco piacesse;
Che quell'in coro andar mattino e sera
Mattutini a cantar, vesperi e messe,
Annojato l'avea per tal maniera,
Che temè di dover, se a lungo avesse
Continuato in esercizio tale,
Crepar cantando come le cicale.
E delle noje alfin canonicali
Propostosi d'uscir, l'idea gli venne
Di procurarsi gli agi episcopali;
E tante a cotal fin pratiche tenne
A forza d'insistenza e di regali,
626
Che di Latesa il vescovado ottenne.
Latesa è cittaducola d'Abruzzo,
Che ha cattedral con un vescovaduzzo.
Recandosi a Latesa, un tal don Mario
Seco condusse da Bitonto, a cui
Titolo inver diè sol di secretario,
Ma tutti ei maneggiò gli affari sui.
Fe' da mastro di casa e da vicario,
Onde solean ricorrer tutti a lui,
Come foss'ei sua signoria medesima,
Fuorchè per gli ordin sacri e per la cresima.
Era don Mario un prete molto astuto,
E sommamente esperto in azienda;
Di monsignor fu sempre amico, e ajuto
Prestogli sempre in ogni sua faccenda;
Ned altri avria meglio di lui potuto
Amministrar la vescovil prebenda:
Onde per monsignor che amava l'ozio
Don Mario seco aver fu un bel negozio.
Don Mario fe' per suo divertimento
A se un frate venir domenicano,
Per le buffonerie raro talento,
E si chiamava il padre Gaetano,
Enormemente grasso e corpulento
E ghiotto quanto un gatto soriano;
Ma la maggior qualità sua fu quella
Di fare a maraviglia il pulcinella.
Il pulcinella a far dalla natura
Parea formato fosse espressamente,
Che oltre l'enorme sua corporatura
Alcun bitorzo avea molto apparente
Sparso sulla ridicola figura;
E avea nel naso adunco e prominente,
Nel parlar rauco e nelle schiene arcate
Un non so che fra il gallinaccio e il frate.
E don Mario che amò quello spassetto
Spesso l'introducea da monsignore,
Quand'ei stavasi ancor sdrajato in letto,
Per metterlo un pochin di buon umore.
E a quel nobil mestier d'essere eletto
Il frate si recava a grande onore,
E allora in quelle sue pulcinellate
Scoppiava monsignore in gran risate.
Era il padre Gaetano un capo ameno,
Ma non però molto erudito e dotto;
627
Poco avea studiato e letto meno,
Fuorchè Bertoldo ed il piovano Arlotto,
Qualche lunario o libriccino osceno;
Ed essend'egli estremamente ghiotto,
Qualch'erudizion per la cucina
Apprese, e qui finia la sua dottrina.
Pur come, in un casson rimuginando
D'un frate che morì nel suo paese,
Trovò un quaresimal; di quando in quando
A mente qualche predica ne apprese,
Di guadagnar in modo tal sperando
Per li bisogni suoi qualche tornese;
Che han tutti i lor bisogni o poco o assai,
Ma ad un frate ghiotton non mancan mai.
Parlarne con don Mario si prefisse,
E della sua apostolica istruillo
Santa vocazion; e quei gli disse
Che se ne stesse pur quieto e tranquillo,
Che, come occasion se ne offerisse,
L'avria servito, e in verità servillo.
E a predicar mandollo a Tornariccio,
Pulpito da non dargli un grande impiccio.
Fra i borghi di Latesa non lontani
V'è il picciol Tornariccio; havvi un curato
Con otto o nove cento parrocchiani.
V'è pel predicator fondo assegnato
Di ducati vent'un napoletani.
Vero è però ch'egli non è obbligato
Di far per quella gente popolana
Che due prediche al più la settimana.
Un certo ricco mastr'Andrea beccajo
Era del luogo il primo personaggio;
E il vescovo alloggiar dal macellajo
Solea nelle sue visite nel maggio.
Tutto brillante allor, tutto era gajo,
Tutto in festa e in baldoria iva il villaggio;
E mastr'Andrea non risparmiava spese,
E dava a bere a tutti del paese.
Facea regali in oltre ad una tale
Epoca a monsignore e al secretario,
Verbi grazia capretti il carnevale,
Per pasqua co' granelli all'ordinario
Grasso e tutto dorato agnel pasquale;
E fra l'anno talor straordinario
Regaluccio, un bel coscio di vitello,
O prosciutto o salcicce o mortadello.
628
Quindi con mastr'Andrea per aver preso
Sì savie ed opportune provvidenze
Riguardo delle carni al prezzo e al peso
S'usavan tutte quante le indulgenze.
Così arbitro del tutto erasi reso,
Nè permettea che in pubbliche incumbenze
S'ingerisse alcun mai punto nè poco,
E assoluto parea padron del loco.
Tutti gli appalti pubblici eran sui,
E il venditor del sale, e il pizzicagnolo,
E il pescivendol dipendea da lui.
Io non mica dirò ch'ei fosse un agnolo,
Nè intaccasse talvolta il dritto altrui;
Dalla taccia comun non isparagnolo,
Ma con chi il suo danar sa porre in opra
Su tai minuzie ci si passa sopra.
Or don Mario per far quanto potea
Per l'apostolo suo domenicano
Scrisse di proprio pugno a mastr'Andrea;
Raccomandando il padre Gaetano,
pomposissimi elogi ne facea,
Numerando i suoi merti a mano a mano,
E non dimenticò la sua più bella
Abilità di fare il pulcinella.
Lieto col letterin commendatizio
Il padre Gaetan venne al castello;
Giuntovi smonta in piazza, e dell'ospizio
Volendo ricercar, vede il macello.
Felice incontro! Egli è sicuro indizio
Che alloggia mastr'Andrea vicino a quello;
E per lui quel macello ha più attrattive,
Che le prediche sue persuasive.
Colà s'appressa, e mastr'Andrea non vede:
Era in bottega sol lo scortichino,
E nuove a lui di mastr'Andrea richiede,
Perchè dee consegnargli un letterino.
L'avviso quei tosto al padron ne diede
Poscia ritorna, e in un bel salottino
Menò il predicator per un ingresso
Fuor del macel, ma che al macel è annesso.
Mastr'Andrea gravemente era seduto
Su seggiolon coperto di corame
Con frange di vecchissimo velluto,
E bullette in bell'ordine di rame,
Che d'alcun magistrato in pregio avuto
629
La memoria fra lor par che richiame,
E che di merto dia la stessa dosa
A chi sopra le natiche vi posa.
Avea la pipa in bocca, e in testa un bianco
Berretto con suo fiocco e contornato
Di nastro verde, un gran coltello al fianco,
Nudo il nervoso braccio e scamiciato,
Ed un bel fior sopra l'orecchio manco,
Le brache di color rosso incarnato;
Le scarpe allaccian due grandi e malfatti
Fibbion d'argento che parean due piatti.
Fe' il padre a mastr'Andrea la riverenza;
Poi diegli il foglio che don Mario scrisse.
Apr'egli e legge, e il guardo con clemenza
Nel padre ad or ad or leggendo fisse;
Poscia alzò il capo, e in tuon di compiacenza
Guardollo in faccia sorridendo e disse:
Per fare il pulcinella, a quel ch'io sento,
Padre predicator, siete un portento.
E il padre: oh circa a questo, padron mio,
Senza intaccar la debita modestia,
E dirlo e insuperbirmene poss'io.
Come predicator, sarò una bestia;
Ma come pulcinella, giuraddio!
Nessuno m'ha finor dato molestia:
Da me brighelli ed arlecchini e cola
Per farsi onor hanno a venire a scuola.
Il macellajo a così bell'orgoglio
Strinse le labbra ed inarcò le ciglia.
Si pose in tasca di don Mario il foglio;
Bravo, poi disse pien di maraviglia,
Bravo, poffareddio! così vi voglio.
In questo mondo, padre, indi ripiglia,
Gli uomini come voi, la brava gente,
Fan sempre il lor dovere allegramente.
Allegri dunque, padre mio, coraggio,
Noi ci divertiremo alcune sere
Con queste ragazzette del villaggio,
Sono un po' rozze, è ver, ma non altiere.
Vi sarà del prosciutto e del formaggio,
Nè mancherà quanto si vuol da bere,
E so che voi le spasserete in guisa,
Che le farete scompisciar di risa.
Ma prima di pensare a tai materie
Bisogna che alle prediche pensiate,
630
Che cose sono più importanti e serie.
Qui (convien, padre mio, che lo sappiate)
Qui son tutti nemici, e per miserie,
Per un nulla si dan le coltellate;
Ed ammazzar (a tanto va l'eccesso)
Un uomo o un pollo è per costor lo stesso.
Or dunque, padre mio, è necessario
La pace predicar nel caso nostro,
E far qualcosa di straordinario
Da gran predicator, da pari vostro.
Come con mastr'Andrea e con don Mario
Possiate farvi un grande onor vi mostro,
Poscia, or che viene il tempo degli agnelli,
Io vi farò mangiar buoni granelli.
Fra il padre Gaetano e il macellajo
Così passò la prima conferenza,
E allora l'evangelico operajo
Cominciò l'apostolica incombenza.
E il sarto, il falegname, il calzolajo,
Il fabbro e il contadin per deferenza
A mastr'Andrea lodar concordemente
Predicator sì bravo ed eccellente.
Poichè convien saper che mastr'Andrea
A tutti i terrazzani il tuono dava.
Piantarsi avanti al pulpito solea,
Quando il predicator su vi montava,
E da' suoi moti il pubblico pendea;
E se approvava o se disapprovava,
E se atto o cenno ei fa che mostri tedio,
Più pel predicator non v'è rimedio.
Ma se il sacro orator qualche passaggio
In latino sermon spara talvolta,
Affatto incomprensibile linguaggio
A chi lo proferisce e a chi l'ascolta,
Mastr'Andrea l'occhio ai primi del villaggio
E il ghigno approvator d'intorno volta;
Né dubbio v'è che lingua ei non conosca
Greca ed ebrea non che latina e tosca.
Onde quantunque al primo farsi avanti
La voce chioccia ed il buffone aspetto
Alle risa eccitasse i circostanti,
Pur l'esser ei da mastr'Andrea protetto
Di grand'uom presso tutti gli ascoltanti
Gli procurava credito e concetto;
E dalli terrazzani principali
E stimat'era e ricevea regali.
631
Mastr'Andrea fece intanto un bel convito,
Ove chiamò diverse giovinotte,
Cui fu da bere e da mangiar fornito,
E chiasso fer sino a innoltrata notte;
E il padre ch'era d'ottimo appetito
Le sue rare spiegò qualità ghiotte;
E come in tante occasion, fu in quella,
Piucchè predicator, gran pulcinella.
Follia non nuoce nell'obblio rimasa,
Dicea nel congedarsi, o se pretesa
Debolezza fra noi talor travasa,
Purchè pubblica poi non siasi resa.
Perchè io che sono un pulcinella in casa,
Io stesso son predicator in chiesa;
Puossi indulgente in casa esser pe' sensi,
Tosto che in chiesa all'anima si pensi.
Ma il grande oggetto onde la mente ha pregna
È far predica tal sopra la pace,
Che cosa sia sublime e di se degna.
Per far veder di che non è capace
Il padre Gaetan, quando s'impegna,
Idea vecchia e comune a lui non piace;
Un colpo di teatro, un tratto scenico,
Vi vuol per un figliuol di san Domenico.
Alfin credette aver trovato un giorno
Modo di porre a effetto un pensier tale;
Poichè al villaggio passeggiando intorno
Gli venne avanti un certo don Pasquale,
Che non lungi di là facea soggiorno.
Era costui un grosso e madornale
Badalon, imbecille e scimunito,
Notissimo e da ognun segnato a dito.
Fiso lo guarda, e pe' disegni sui
Lo credette opportuno, e si propose
A tempo di valersi di colui.
S'appressa e seco a favellar si pose.
Nè sendo altri colà fuorch'essi dui,
Se il conoscea, gli chiese, e quei rispose
Io sì; vi conosch'io, voi siete un frate,
V'ho visto in chiesa, quando predicate.
Dunque in chiesa vi vai, soggiunse il padre.
E quegli: io sì, vi vo, quando c'è Tella.
Credendo il frate Tella esser sua madre,
Seco sopra di ciò più non favella.
Ma con dolci parole e con leggiadre
632
Maniere più che più se gli affratella,
E poichè men salvatico lo rese
Senti, Pasqual, sentimi ben, riprese.
Domenica alla predica v'andrai?
E a lui Pasqual: oh! signor sì, v'andrò,
Tella le feste non vi manca mai.
E il padre allor: quando io ti chiamerò,
Alle domande mie risponderai
E quei: risponder! bella! e che dirò?
Io ti domanderò cosa ti piace,
Prosiegue il padre, e tu dirai: la pace.
E quei: la pace! sì, sempre l'ho amata.
Sì, sì, la pace! ah! ah! la pace, intendo.
La risposta così l'hai preparata,
Non l'obbliar, ripiglia il reverendo.
Ben disposta in tal guisa e concertata
La cosa con Pasqual, parte e partendo
La pace ancor ripete a quel balordo.
E quei: la pace, sì, non me la scordo.
Qui forse, Donne mie, potrei sembrarvi
Peccar d'inesattezza e d'imperizia,
Se tosto della predica parlarvi,
E su la pace e su l'inimicizia
Voless'io senza prima alcuna darvi
Preliminar istorica notizia
Affatto necessaria a ben capire
Ciò che si è detto e ciò che si dee dire.
Contadinotta in quei contorni v'era
Belloccia sì, ma non gentil tenuta;
Avea nero capel, pupilla nera,
E volontà decisa e risoluta,
Ardito il portamento e la maniera,
Vigorosa, tarchiata e naticuta,
E le sporgean dal sen duri, ampi e tondi
Due globi che parean due mappamondi.
Nel dialetto suo fu detta Tella:
Tella dicon colà ciò che si suole
Agata dir nella comun favella.
In caldo clima e sotto ardente sole
Nelle vene cred'io foco avess'ella;
E in tal caso si vuol quel che si vuole.
Costei vide Pasqual che, benchè matto,
Era un forte garzon, grande e ben fatto.
E in rimirar quel fantoccion robusto
Che fermo di persona e ben complesso
633
Di se assai promettea, piacquele il fusto;
Onde sel pose ad osservar più spesso,
E più guardandol, più prendeavi gusto;
Se gli appressò per civettar con esso,
E si propon trarne partito, e agogna
Di scozzonarlo per la sua bisogna.
E diceva fra se: di cotal rocchio
Di carne io potrò far quel che mi frulla;
Che certamente non darà nell'occhio,
Se qualcheduno seco si trastulla;
Ed egli è un certo stolido marmocchio
Che capace non è di ridir nulla.
Seco intanto prendea dimestichezza,
E a fargli incominciò qualche carezza.
In tai casi lo stoico e l'ascetico,
Non che fresco garzon di primo pelo,
Risentir non dovrà carnal solletico?
Che ove non sia chi nelle vene gelo
Abbia, non sangue, egli è pensier bisbetico
Pretender che talun per fatuo zelo,
O per isciocca bacchettoneria,
Abbia uman senso ed insensibil sia.
Tolla in Pasqual quei primi eccitamenti
Espertamente accalorò co' rari
Suoi lussuriossimi talenti.
Fer saggi e tentativi, e dopo vari
Fisici non compiuti esperimenti
Fecero ciò che in circostanze pari,
Se impotente non è, nè babilano,
Si suole far da ogni fedel cristiano.
Così per alcun tempo avidamente
L'un dell'altro da pria diletto prese;
Ma il giocolin piacque a Pasqual talmente,
E di desir sì fervido s'accese,
Che per l'insana sua foja sovente
Molesto a Tella ed importun si rese.
Tella allor corrucciavasi, ed a lui
Bruscamente negava i favor sui.
Pasquale allor resta ingrugnato e muto,
E timido divien, quanto fu audace.
Piagne, poi prega, ed il favor perduto
S'affanna a ricovrar; ma pertinace
Persiste ella nel cruccio e nel rifiuto.
Vinta dai prieghi alfin cede e fa pace,
E il pacificatore atto seguia
Che rendeva a Pasqual l'umor di pria.
634
Pur tuttavia con modi inetti e sconci
Disgustar Tella ed istizzir solea;
Onde seguian gli sgarbi usati e i bronci,
Che ognun sua dose di rozzezza avea.
Ma tosto quei torna alle istanze, e ponci
Un tal calor, che pace pur si fea.
E allor sempre i più teneri discorsi
Condia Pasqual con sgraffi e pugni e morsi.
Giacean talor l'uno dell'altro in braccio
O dietro folta siepe o dentro un fosso,
Quando getta alto grido, e dal covaccio
Balza ella a un tratto fuori, e dir non posso
Che diavol mai le fea quel gaglioffaccio.
Così cagna veggiam scuoter di dosso
Il can, cui par sue compiacenze accorde,
E il perché non sappiam, e ringhia e morde.
Ma troppo fra di loro eran frequenti
Le paci vicendevoli e le risse;
Perché il bifolco che pascea gli armenti
La cosa da lontan non iscoprisse,
E a modo suo facendovi comenti,
A qualche altro pastor poi la ridisse;
Ma quei fatti accaduti in ermi lochi
Non eran noti a vero dir che a pochi.
Il padre Gaetano ebbe gran cura
Il pubblico frattanto a prevenire
La domenica prossima futura
Alla predica sua d'intervenire,
Ch'è cosa di grandissima premura;
Onde il popol la predica ad udire
E di dentro e di fuori del paese
In chiesa la domenica si rese.
La domenica in albis era quella,
(In albis giustamente il rituale
Dai candidi neofiti l'appella)
Ed i predicatori in giorno tale
Sogliono far la predica più bella;
Cioè l'ultima del lor quaresimale.
Della pace la predica a quel dì
Per far colpo maggior si differì.
Monta in pulpito il padre, ed alla folla
Che colà venuta era ascoltatrice
Girò l'occhio d'intorno, e salutolla.
Tacito prega, e poi la benedice,
Toltasi pria di dosso la cocolla,
635
E raschia e sputa e apre la bocca e dice
Pax vobis. Mastr'Andrea ch'eragli avanti
Fe' allor segno d'applauso ai circostanti.
Corrisposto gli fu dall'uditorio,
E il padre Gaetan di caldo zelo
S'accese tutto e d'impeto oratorio,
E provò colla Bibbia e col Vangelo,
E con sant'Agostino e san Gregorio,
Esser la pace il più bel don del cielo;
E contro chi fomenta e chi cagiona
Inimico rancor fulmina e tuona.
Le cavalle; dicea, le vacche, i buoi,
Asini, porci, pecore ed agnelli,
Ciascun sta in pace co' compagni suoi.
Stansi in pace fra lor pesci ed uccelli,
E soli insieme non potrete voi
Starvi, senza che l'un l'altro sbudelli?
Cerca pace ciascun, ciascun l'approva,
Sol nella pace il vero ben si trova.
E qui forse potrei, qualor volessi,
Come il mio san Vincenzo e sant'Antonio,
Far parlare i bambocci e i bruti stessi;
Anch'io potrei costringere il demonio
Che per via d'energumeni e d'ossessi
Serva alla verità di testimonio;
Ma vo' che il ver si manifesti e brilli
Sulla bocca perfin degl'imbecilli.
Pasqual conosce ognun, non altro in lui
Parla, se non natura e verità.
Pubblicamente interrogar costui
Vo' sulla pace, e udrem cosa dirà,
E vo' ci rapportiamo ai detti sui.
Pasqual, ove sei tu? Quegli: son qua.
Ed il predicator: cosa ti piace?
Cosa brami, Pasqual? Ed ei: la pace.
Appunto da tre giorni, e non mai tanto
Erasi Tella con Pasqual stizzita;
Perchè la morse non so dove, intanto
La gonna nel fervor le avea sdrucita;
E per quanto avess'ei pregato e pianto,
La pace non peranche era seguita:
Onde creder vo' ben ch'ei non mentisse,
Quando tanto bramar la pace ei disse.
Tella che colle sue compagne in chiesa
Venuta era la predica ad udire,
636
La chiesta avendo e la risposta intesa,
Stupida resta, e non potea capire
Qual mai sotto vi sia trappola tesa.
E vuol veder ove la va a finire,
E teme ben che fatto avria colui
Qualche grosso sproposito de' sui.
Tutti sorpresi fur da maraviglia,
Tutti applaudiro e mastr'Andrea primiero.
Eccovi, il padre Gaetan ripiglia,
Incontestabil testimon del vero.
Pasqual da passion non si consiglia,
Non ha egli oggetto ai detti suoi straniero,
Spontaneo il ver di bocca sua vien fuore,
Come spunta dal suol spontaneo fiore.
La pace il mondo allegra e la natura,
E consolar l'umanità sol può;
La pace ai stati che fatal sventura
O crudel guerra afflisse e desolò,
La pace sol felicità procura.
Ma in piè Pasqual si leva, e dice, oibò,
La pace che bram'io non è già quella;
Di far la pace io bramo sol con Tella.
Tella, che nominar pubblicamente
Per la scimunitaggine d'un matto
E svergognar in guisa tal si sente,
Dalla scranna levandosi di scatto,
Gli corre addosso impetuosamente
Di sdegno insana e d'onta piena, e a un tratto
Gli affibbia un gran ceffon, pel collo il chiappa,
Pugna in faccia gli mena e il crin gli strappa.
Pietà, grida Pasqual, m'ammazza, ajuto.
Son qua, giacché col nome mio mi chiami,
Tella dicea, son qua, matto cornuto;
Ora la pace io ti vo' dar che brami.
Ma il concorso a quei strepiti venuto
Sclama: alto là, profanatori infami;
In chiesa siamo; e da Pasqual distacca
Lei, che con pugna il muso omai gli ammacca.
La moltitudin degli ascoltatori,
Che per anche non sa di che si tratta,
Nè sa che Tella i suoi stizzosi amori
Fa con Pasqual, come col can la gatta,
Alla strana baruffa, a quei clamori,
Attonita rimansi e stupefatta.
Ciascun dimanda ed il silenzio rompe,
E un gran chiasso la predica interrompe.
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Ma il padre Gaetan più s'arrovella,
Che la predica sua a un tratto vide
Predica divenir da pulcinella.
Ma della scena si diverte e ride
Chi sa gli amori di Pasquale e Tella,
Ed il buffon predicator deride;
Che col predicator mettere a paro
Il bravo pulcinella è un dono raro.
In iscompiglio il popolo si pone;
Onde il padre Gaetan discender giù
Dovette, e buon per lui che quel sermone
Del suo quaresimal l'ultimo fu;
Che forse colla sua protezione
Mastr'Andrea non gli avria giovato più.
Ma frattanto la pace di Pasquale
Un motto diventò proverbiale.
E se della salvatica sua diva
Il rozzo cicisbeo lo sdegno incorre,
Onde de' suoi favor colei lo priva,
Tutto a un tratto gli ostacoli per torre
Alla ritrosa villanella schiva
La pace di Pasqual ei suol proporre;
E di proposta tal l'ignota forza
Li riunisce e ogni rancor ne ammorza.
Mi si permetta qui che pochi accenti
In politica aggiunga, e poi mi zitto.
S'odon pace bramar spesso i potenti,
Ma pel comodo lor, per lor profitto,
Senza di che del tutto indifferenti
Che il mondo sia da crudel guerra afflitto.
Desio di pace allor finger si suole,
Ma sol la pace di Pasqual si vuole.
Qual reo trattasi il debole, se brama
Pace talor non vantaggiosa al forte
Talor, pace segnando, occulta trama
Ordisce perchè sian le paci corte,
Il mestier che politica si chiama,
Acciò ogni pace un qualche lucro apporte;
Nè cal, se son pe' popoli funeste,
Ma tutte paci di Pasqual son queste.
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NOVELLA XLIV
L'INCANTESIMO
O Donne mie, passò quel tempo in cui
Si credea che in virtù d'incantamenti
Venissero i demon dai regni bui
Sopra la terra ad operar portenti,
E cangiasser talor gli ordini sui
E la stessa natura e gli elementi,
E facesser le magiche parole
Scurar la luna e impallidire il sole.
Or voi sapete ben che errori e inganni
Fur del credulo e cieco gentilesimo,
Che seguitaron poi molti e molt'anni
Fin quasi a' nostri dì nel cristianesimo;
Ond'io vi narrerò come don Gianni,
Fingendo di voler per incantesimo
In cavalla cangiar di compar Checco
La bella moglie, lui converse in becco.
Un parroco in Barletta, a cui la cura
Più non rendea di trenta giuli al mese,
Una cavalla sua dava a vettura
Per così guadagnar qualche tornese,
Oppur facendo un po' di mercatura
Con quella ei stesso in questo e in quel paese
A vender giva e a comperar legumi,
Fichi secchi, cipolle, agli e salumi.
Secondo il jus canonico dispone,
Io so che i preti a mercantar mal fanno;
Ma se talor sì povere persone
I preti son che da mangiar non hanno,
Necessità non ha legge e ragione,
E da mangiare i canoni non danno;
Onde industria non è di biasmo degna,
Se alcun la vita a sostentar s'ingegna.
Che se i preti non debbon far negozio,
Abbian di che campar dai loro offizi.
Disonor fan più tosto al sacerdozio
Color che ricchi son di benefizi,
E l'opulenza a impoltronir nell'ozio
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Gli avvezza solo e a fomentare i vizi.
No, che non è disparità sì enorme
Alla giustizia e all'equità conforme.
Ma sel veggia chi dee, che non voglio
Di satirico fiel tinger le labbia;
Nè, perchè non va il mondo a modo mio,
Vo' che mi punga il cor collera e rabbia.
Stiamcene lieti e lasciam fare a Dio;
Chi ha il ben sel goda e chi ha il malan se l'abbia
E vada il mondo pur come vuol ire,
E del nostro piovan torniamo a dire.
Andando ei dunque, come io vi dicea,
Pe' mercati di Puglia e per le fiere,
Frequentemente riscontrar solea
Un terrazzan che lo stesso mestiere
Con un suo somarel spesso facea
Per guadagnar le spese giornaliere,
Ed era un cotal uom mal fatto e secco,
E tutti lo chiamavan compar Checco.
In un castel, che Tresanti s'appella,
Abitava costui colla sua sposa
Ch'era una giovin ben tarchiata e bella,
E bianca e rossa come mela rosa,
Chiamata monna Zita Caramella;
Ma a creder tosto ogni incredibil cosa
Ambi facili troppo, e in ambedue
A vero dir v'era un tantin del bue.
Don Gianni, che così il piovan chiamossi,
Collo spesso vedersi e rincontrarsi
Talmente con costui dimesticossi,
Che spesso ad agio lor senza invitarsi
L'uno in casa dell'altro ritrovossi,
Siccome suol tra buoni amici farsi,
Ed un all'altro si rendean servizio,
E davansi fra lor libero ospizio.
Non avea Checco che una cameretta
D'attrezzi piena, e un letto ov'ei dormia
Colla sua bella moglie, e una stalletta
Che ad allogarvi il somarel servia.
Or quivi il buon curato di Barletta,
Quando in Tresanti a pernottar venia,
Presso alla sua cavalla un letticello
Facea di paglia, e si giacea su quello.
Egli è vero però che monna Zita,
Al piovan cortesia volendo usare,
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Dicea sovente a lui che sarebbe ita
Ella a dormir con una sua comare
Chiamata Pepparella Bellavita,
Perchè in letto giacesse egli e il compare;
Ma per quanto ella ognor l'importunasse,
Possibil mai non fu ch'ei l'accettasse.
E in celia un dì le disse: in questa stalla
Deh! lasciami, ti priego, o Zita bella,
Che incantesimo io fo che mai non falla,
Per cui in leggiadrissima donzella
Trasformo a mio piacer questa cavalla,
E tutta notte giacciomi con ella,
E quando vedo avvicinarsi il giorno,
Nella natural forma io la ritorno.
Zita di ciò maravigliossi alquanto,
Ma lo credette e disselo al marito
E aggiunse: s'egli è ver che amici tanto
Siete, come da te più volte ho udito,
Che non ti fai insegnar cotale incanto,
Da cui trarremo un ottimo partito?
Poichè guadagnerai doppio danaro
Con me fatta cavalla e col somaro.
E a casa ritornata poi la sera,
Me potrai rifar femmina qu