leggi in pdf - Cultura Commestibile

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Q
28
uesta settimana
il menù è
DA NON SALTARE
Come si dice
macho in arabo?
“
Come ex-immigrato
da 40 anni orgogliosamente
italiano denuncio la nomina
di Cécile Kyenge a ministro
della Cooperazione
internazionale
e l’Integrazione come un atto
di razzismo nei confronti
degli italiani.
Lei personalmente non
c’entra nulla: il fatto che sia
di origine congolese, che
abbia o meno la doppia
cittadinanza e, per cortesia,
lasciamo stare il discorso
sul colore della pelle che
è indegno di una nazione
civile
Magdi Cristiano Allam
29 aprile 2013
Lerner e Haddad a pagina 2
IL DIBATTITO SÌ
Maggio,
che fare?
Aglietti a pagina 7
OCCHIO X OCCHIO
Fotografi
a occhio nudo
Cecchi a pagina 9
ICON
Non c’è nessuna
scusa
RIUNIONE
DI FAMIGLIA
a pagina 4
Ben venga
il Maggio
Il governo
di Benigno
Letta
Siliani a pagina 15
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DA NON SALTARE
o
Intervista di Gad Lerner
a Joumana Haddad
Testo raccolto da Simone Siliani
J
oumana Haddad è nata a Beirut nel
1970. E’ donna di straordinaria bellezza e acume. Autrice di molti libri
sulla condizione femminile nel
mondo arabo, ne ha scritto di recente
uno sulla condizione maschile: “Superman è arabo. Su Dio, il matrimonio, il
machismo e altre invenzioni disastrose”
(Mondadori, 2013). Ne ha parlato insieme a Gad Lerner lo scorso 8 aprile in
occasione della proiezione del documentario “Jasad & The Queen of Contradictions” al Film Middle East Now al
cinema Odeon di Firenze.
G.Lerner Mi sento un po’ di troppo: mi
sembra sia già stato detto tutto. Ho provato una nostalgia struggente guardando
nel documentario quella Beirut; la luce
soprattutto. Ma anche riconoscendo la
parzialità della Beirut che viene raccontata: abbiamo visto i tabelloni pubblicitari della biancheria intima, ma
sappiamo che vi sono interi quartieri
nella vasta periferia sud-occidentale di
Beirut dove gli unici manifesti affissi
sono quelli dei cd. martiri. Anche se poi,
Joumana, il pettegolezzo corre veloce in
Libano e persino il capo assoluto degli
Hezbollah, Nasrallah, è stato indicato
come protagonista di un flirt con una
procace cantante con una capigliatura
disinvolta. La contraddizione passa
anche fra i quartieri della città. Dunque,
una battaglia aperta, in cui c’è un protagonismo, il corpo delle donne, che è cruciale. A partire dal Libano, ma non più
soltanto il Libano. Mi sento di troppo
anche perché chiamare un maschio
ebreo a commentare un pamphlet aspro
e severo contro il maschio arabo è
quanto meno poco sportivo.
J.Haddad Contro il macho arabo, non
contro il maschio.
G.Lerner Devo dire che anche la cinematografia israeliana di recente ha indagato con Amos Gitai e non solo, la regina
delle contraddizioni, la dimensione
uomo-donna. E’ quindi una dimensione
mediorientale. Voglio entrare nel merito
di alcune tesi di questo libro. Che è
molto ambizioso, nella sua forma talvolta ironica, poetica, che molto spesso
sceglie la chiave dell’invettiva. Spara non
alto, ma altissimo, perché va a ricercare
il nucleo di questa regina delle contraddizioni nella matrice religiosa. Ma prima
vorrei che tu estendessi le tue considerazioni da quella città - che è un mosaico
per sua natura, un crogiolo di contraddizioni esplosive che non esplode perché è già esploso perché tutti i
protagonisti di quelle esplosive contraddizioni hanno memoria di 15 anni di
bagno di sangue (1975-1990) ed è difficile prescindere dallo sterminio che è
stata la guerra civile libanese. Ricordo
quando sei venuta da me in televisione
nei primi mesi del 2011 quando guardavamo con entusiasmo alla cd. Primavera
araba e tu mi raccomandavi prudenza.
Adesso è facile con il senno di poi dire
che la direzione non è ancora determinata perché le situazioni sono apertissime, con battaglie ancora in corso, dalla
Tunisia all’Egitto, per non parlare del
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n 28 PAG.
sabato 4 maggio 2013
Joumana Haddad (Foto di Mahmoud Forrouhi)
Come
si dice
macho
in arabo
cuore della contraddizione che è la Siria.
Ma ti chiedo: la liberazione sessuale,
l’ansia di libertà femminile si è espressa
in questo moto che ormai con alti e bassi
prosegue da due anni, oppure ne è rimasta ai margini?
J.Haddad Direi che è ovvio che non si è
espressa. Questa cosidetta Primavera non
è stata una primavera sessuale e, almeno
per me, non è stata affatto una primavera.
Ho detto sin dall’inizio che è un altro inverno e, spero, un ultimo inverno. E’ normale che dopo tutti questi anni di dittatura
in cui l’estremismo religioso ha potuto sfruttare la frustrazione della gente, la corruzione del governo, la povertà; sfruttare tutti
questi elementi negativi per diventare una
consolazione per tanti – è normale, dicevo,
che la rivoluzione dovesse portare al governo questo estremismo. Ma anche se appaio pessimista, non lo sono poi
effettivamente. Era una fase necessaria, ed
è per questo che dico che è un ultimo inverno. Non si può fare un passaggio repentino da una dittatura ad una democrazia ,
senza passare per un elemento primordiale
di quelle società, cioè la religione. Quindi
anche se è una battaglia aperta, ormai ci
sono una opposizione e un governo – che
sono i Fratelli Musulmani, i Salafisti - e
tocca a questa opposizione civile e laica organizzarsi e forse fra 10 anni avremo finalmente questa attesa primavera.
G.Lerner In questa opposizione laica
che ormai esiste, la presenza femminile
quanto conta?
J.Haddad E’ molto importante. Ma devo
dire che anche la presenza femminile nei
quartieri controllati dai Fratelli Musulmani è importante: molte donne in burqa
sono scese in piazza con loro per protestare
contro Mubarack e che hanno lavorato per
le elezioni. Quando parlo di liberazione sessuale, essa non è l’unica prova del cambiamento positivo della democrazia. Questo
sarebbe banale. Ma quando parlo di liberazione sessuale parlo innanzi tutto dei diritti della donna: quando si parla di
sessualità frustrata è soprattutto la donna
a soffrirne perché le donne non dispongono
del loro corpo; questo è solo un dono a disposizione degli uomini. E parlo anche di
religione, cioè dell’importanza di andare
oltre questa disastrosa commistione fra religione e sessualità e arrivare ad una società
civile e laica dove ci sia separazione tra religione e Stato. Anche in Libano, che è un
paese dove c’è un margine più ampio di libertà, siamo tutti fino ad ora considerati
membri di comunità religiose. Ad esempio,
io sono atea, ma sarò sempre classificata
fino al giorno della mia morte come cattolica: questa appartenenza ci definisce; io
esisto in quanto cattolica. C’è stata una
forte battaglia in Libano per il matrimonio
civile, ma non è stata vittoriosa, perché i leader religiosi hanno il monopolio della vita
dei cittadini.
G.Lerner Questa è una cosa che il Libano ha in comune con Israele dove non
esiste il matrimonio civile ma solo
quello religioso. La lettura di Superman
è arabo mi ha colpito per lo sforzo provocatorio e quasi blasfemo con il quale
affronti la questione religiosa, proclami
il tuo ateismo e la nocività delle religioni
monoteiste nella conformazione della fisionomia del maggio arabo tanto da ap-
?
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parire un libro quasi “religioso”. Perché
tu affronti un nucleo, la Genesi, la creazione in particolare, che è il tuo nucleo
poetico (chi ha seguito i tuoi lavori sa
che tutto parte dalla figura di Lilith). Voglio chiederti se il tema non sia quello
che aveva molto serenamente ma coraggiosamente posto Papa Luciani che
aveva detto che Dio è donna, o anche
donna; mentre il presupposto della creazione dal quale sembrano discendere
tutti gli stereotipi culturali, sta proprio
nel fatto di dare scontato che Dio è maschio e ha generato innanzi tutto Adamo
un maschio di cui la donna era un’appendice. Mi sembra che tu contesti una
versione del monoteismo e in questo
senso che tu sia abbastanza religiosa.
J.Haddad Prima di arrivare alla base
della mia critica al monoteismo, per cui l’affermazione che Dio sia anche donna mi potrebbe anche placare, sta il fatto che io sono
prima di tutto atea. Per cui questo Dio per
me non esiste e quindi non sono in una situazione di blasfemia. Essa infatti presuppone una certa fede.
G.Lerner Però nel tuo libro inserisci
anche una Preghiera: “Grazie Dio per lo
tsunami in Indonesia/ per l’uragano Katrina / e per il terremoto in Giappone.
/ Grazie per la Prima guerra mondiale,
/ per la Seconda guerra mondiale, / e
per qualsiasi seguito ci manderai / il
prossimo Natale. / Grazie Dio per i
bambini che muoiono di fame in Africa
/ per i bambini che muoiono per l’odio
in Palestina / Grazie per George
W.Bush; Mahmoud Ahmadinejad / e
per quel tesoruccio di Adolf Hitler...”
J.Haddad Sì, perché come ha detto una
volta Nietzsche se tutto quel che avviene in
questo mondo avviene per la volontà di
Dio, io non vorrei un Dio simile. Comunque, parliamo di queste tre religioni monoteiste. L’inizio della mia ribellione contro
la religione inizia proprio così: tanto nel
Vecchio Testamento, quanto nel Nuovo e
nel Corano la donna è solo un accessorio.
Se guardiamo la Genesi in cui si parla della
creazione dell’uomo ed Eva è stata estratta
da lui: questo spiega molto del modo di
guardare il mondo. Il sistema patriarcale
non è stato inventato dalle religioni monoteiste. Esisteva fin da prima, grazie al potere fisico dell’uomo che lo ha reso
cacciatore mentre la donna accudiva alle
faccende domestiche. Quindi la forza fisica
del maschio ha già posto la donna in una
posizione meno forte. Però le religioni monoteiste, invece di basarsi su una visione più
giusta ed equa, come dichiarano, esse
hanno invece promosso la violenza. Tante
guerre sono state fatte in nome delle religioni. Quindi io vede che nel mondo attuale c’è troppa esistenza sugli effetti
negativi dell’Islam. Invece dobbiamo avere
il coraggio di criticare anche il Cristianesimo, di farsi delle domande. Non sto parlando tanto di chi non ha la fede, bensì di
chi ce l’ha;; soprattutto delle donne che
hanno la fede. Perché le donne devono imparare in silenzio e sottomettersi all’uomo.
E’ vero che succede sempre di meno, ma in
modo superficiale. A livello delle leggi esiste
una forte discriminazione nei confronti
delle donne: esse non possono trasmettere
la nazionalità, non possono iniziare una
causa di divorzio, rischia di perdere i suoi
DA NON SALTARE
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n 28 PAG.
sabato 4 maggio 2013
Dialogo tra Gad Lerner
e Joumana Haddad
su Islam, sesso e genere
figli se lo fa. Non c’è una legge che difende
la donna dallo stupro coniugale. E c’è una
legge che dice che se una donna viene violentata e lo stupratore la sposa, egli non è
penalmente perseguibile. Ci sono delle
leggi che proteggono le donne qui in Occidente, ma non da noi.
G.Lerner Hai ragione. Anzi leggiamo
con preoccupazione dei passi indietro
che il nuovo Codice della Famiglia rischia di far fare in Tunisia. Questo è il
cuore della contraddizione che tu stessa
evidenzi. Questo però non toglie da
parte mia la fiducia nel fatto che le religioni non restano uguali nei secoli. Purtroppo anche in senso regressivo, come
avvenuto nell’Islam.
J.Haddad Sì, è vero, però siamo nel 2013,
nel XXI secolo e c’è ancora un Papa che mi
dice se posso o meno prendere la pillola; se
mio marito può usare o meno il preservativo; un uomo musulmano può avere quattro spose. Io non credo che le religioni
cambiano moltissimo, oppure cambiano
troppo lentamente.
G.Lerner Oppure cambiano in peggio:
quando diventano più fragili, quando la
gente ci crede di meno, la reazione è che
si irrigidiscono: diventano più settarie e
aggressive e sviluppano fenomeni di
fondamentalismo. Più piccole sono e
più aggressive diventano. E la spiritualità, il rapporto con il trascendente,
vanno fuori da queste armature. Proprio
per questo io immagino che dalla loro
fragilità possono darsi delle grandi rotture. Sarebbe stato impensabile, anche
nella civilissima Firenze, porre i temi del
rapporto uomo-donna nella Chiesa cattolica nei modi in cui l’hai posti tu; e
non escludo che ci sia presto un Papa
che alzi le mani e faccia progredire il discorso. Ma il problema è quale nesso
vedi tu fra questa dimensione degli archetipi fondamentali e la quotidianità
del nostro nostro rapporto con loro.
J.Haddad Infatti, dopo “Ho ucciso Sha-
harazad” dove ho parlato della donna nel
mondo arabo, ho voluto anche trattare
temi legati alla mascolinità. Ci sono tanti
Superman ovunque: sono uomini che pretendono di salvare il mondo che credono di
di sapere e di capire molto meglio di noi, di
essere più intelligenti e più forti di noi; che
ci trattano con condiscendenza e vogliono
salvarci. Possono essere padri, mariti, fratelli; un politico (ne avete tanti di Superman in politica!). Non solo arabi, ma
anche francesi, italiani. Questa malattia –
il machismo – ha bisogno di una rivoluzione, una reinvenzione del significato di
essere uomo, che ormai è legato a troppi valori negativi (l’oppressione, la violenza,
ecc.). Accanto alla donna che ha bisogno di
credere in se stessa, c’è anche bisogno di un
uomo che abbia coscienza del fatto che il
machismo come vissuto da tanti uomini è
un disastro.
G.Lerner Ecco raccontiamo questo disastro. Questi maschi che circolano per
le strade di Beirut, che vedono questi appariscenti cartelloni pubblicitari di lingerie intima e che allo stesso tempo
devono pensare di volere una moglie
che arrivi vergine al matrimonio (e sono
uomini giovani), vivono una schizofrenia. Possono soddisfare gli occhi anche
attraverso internet, ma devono vivere
una frustrazione. E’ una situazione che
mi appare provvisoria. In passato c’era
una repressione sessuale che però era totalizzante. Abbiamo una potente sessualità virtuale, impotente e frustrante. Per
cui quanto tempo può durare questo Superman arabo?
J.Haddad Eh sì, costa essere donna nel
mondo arabo, ma costa anche essere uomo.
Tante frustrazioni; una divisione fra sé e sé,
questa incapacità di essere all’altezza della
sua verità, che gli fa dire una cosa e desiderarne un’altra. Quando hanno trovato film
porno nel nascondiglio di Osama Bin
Laden, è un esempio caricaturale di questa
scissione.
Il suo ultimo libro, Joumana Haddad lo dedica ai
due figli, maschi, Mounir e Ounsi, ai quali ha
scritto una lettera a conclusione . Eccone un estratto
“Amori miei,
ci sono un sacco di cose che strada facendo non vi
ho detto. Cose che credevo aveste saputo per istinto.
Cose che pensavo, crescendo, prima o poi, avreste
scoperto da soli, Che supponevo di potervi risparmiare. (...) Comunque, ho finito per cambiare idea.
Sono arrivata a pensare che alcune cose vanno
espresse in modo chiaro e diretto (...)Perciò eccole
qui.
Noi (donne, la maggior parte di noi) siamo stanche che voi (uomini, la maggior parte di voi) ci vediate solo come le vostre madri, le vostre figlie, le
vostre sorelle, le vostre amanti, le vostre mogli, le vostre proprietà, i vostri accessori, le vostre serve, i vostri giocattolini (...)
Siamo stanche di non credere più in noi stesse. Stanche che voi non crediate in noi. Stanche di non essere
considerate come abbastanza per voi, o considerate
troppo per voi (...) Stanche di sentirci in colpa perché andiamo al lavoro invece di stare a casa a preparare biscotti. (...) Siamo stanche di scegliere
uomini vuoti invece cge decenti, rudi invece che gentili, ricchi e potenti invece che ambiziosi e gran lavoratori. Stanche che voi scegliate donne stronze
invece che oneste, rifatte invece che naturali, giovani
e belle invece che fedeli e amorevoli. (...) Stanche di
dover scegliere fra manipolarvi e rassegnarci a voi.
Stanche che non vi permettiate di lasciarvi andare
con noi. (...) Stanche che voi riteniate che avere bisogno di noi sia un segno di debolezza (...) Stanche
che voi decidiate cosa è ‘adatto a una signora’ e cosa
non lo è. Stanche di preoccuparci della nostra ciccia
sulla pancia, della profondità dell’incavo dei nostri
seni e del trucco che abbiamo in viso. Stanche che
voi vi concentriate sulla nostra ciccia sulla pancia,
sulla profondità dell’incavo dei nostri seni e sul
trucco che abbiamo in viso. (...) Stanche che voi evitiate le conversazioni vere, fatte con il cuore in mano.
(...) Stanche di confondere la vostra cavalleria con
la mancanza di carattere. (...) Siamo stanche di
fingere l’orgasmo per rassicurarvi, di tenere un basso
profilo per confortarvi e di raccontarvi bugie per
rallegrarvi. Stanche che voi vi sentite intimiditi dalla
nostra forza, minacciati dai nostri successi, terrorizzati dalla nostra intelligenza, irritati dalla nostra
libertà, sfidati dalla nostra indipendenza (...)
Siamo stanche di dovervi dimostrare che siamo
forti. Stanche che voi dobbiate dimostrarci di essere
più forti. (...) Stanche che crediate che qualsiasi cosa,
persino la fame nel mondo, si possa risolvere con
una pastiglia di Viagra. Siamo stanche di essere
prigioniere di un femminismo alienante. Stanche
che voi siate prigionieri di un machismo alienante.
Sì, siamo indiscutibilmente, infinitamente stanche.
Siate sinceri: non lo siete anche voi?”
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RIUNIONE DI FAMIGLIA
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LO ZIO DI TROTSKY
Un po’
di brutto
per tutti
Registrazione del Tribunale di Firenze
n. 5894 del 2/10/2012
direttore
simone siliani
redazione
sara chiarello
aldo frangioni
rosaclelia ganzerli
michele morrocchi
progetto grafico
emiliano bacci
editore
Nem Nuovi Eventi Musicali
Viale dei Mille 131, 50131 Firenze
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“
Con la cultura
non si mangia
Giulio Tremonti
S'inaugura il Maggio Musicale, 76° edizione, come al solito sull'orlo del baratro.
Anche il 2012 si è chiuso con 3 milioni di
euro di deficit. Eppure la mirabolante Soprintendente Colombo ebbe a dire nel luglio
2010 che per arrivare al pareggio di bilancio, “ci sarà da fare qualche sacrificio”. Ma
c'era grande fiducia; si viaggiava col vento in
poppa. Il sindaco nonché presidente del
CdA ci disse che “il 2011 sarà l'anno della
verità”. Eh, già, la colpa era di quelli che
c'erano prima. Infatti nel 2007 il deficit fu di
1,8 milioni, nel 2008 di 2,5 e nel 2009 si arrivò a 4,5 . Ma l'anno della verità dette il
suo responso: 8,3 milioni di deficit! Comunque, allora la coppia Colombo-Renzi aveva
la soluzione in tasca: la Tata. Cioè il miliardario Ratan Tata e tutto il gotha del mondo
economico indiano: trasferta lampo a
Mumbay, semina ampia e un’aspettativa di
3-5 milioni di euro... che poi effettivamente
ci sono stati, sebbene nella forma del grande
matrimonio indiano di qualche settimana
fa, ma al Maggio neanche una rupia. Replica la Colombo: “bisogna ragionare con
mentalità nuova, coinvolgendo le aziende in
progetti specifici di loro interesse” e così ti assume la Pettinari, già marketing account del
Festival dei Due Mondi di Spoleto per far
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I CUGINI ENGELS
Ben venga Maggio
Del Professor Givone, che dichiara orribile Piazza della Repubblica con i
suoi “dehors”, invidiamo lo slancio
utopico di volerla rifare dopo che da
pochi mesi è stata “a nuova vita restituita” dal già vice-sindaco Nardella.
Ci permettiamo di suggerirgli di lasciar fare. Come si può pensare che i
bar che si affacciano su una delle più
brutte piazze del mondo (il parere è
nostro e del nostro zio, naturalmente)
possano rimetter mano ai capannoni
stile Osmannoro prospicienti le loro
botteghe? Quella sfilzata di cassettoni, che solo architetti della DDR
potevano pensare più tronfi e pesanti,
devono essere costati un occhio della
testa. Professore lei vuol chiamare
“progettisti che hanno dimostrato di
avere Firenze nel cuore” a ridisegnare
tutto. Uomini così si possono solo
“evocare” con un tavolino a tre gambe
più che con inviti mirati. Ma poi se lo
immagina la fiera delle fantasie che
verrebbe fuori. Qualcuno, magari,
proporrà anche ricostruire il vecchio
Ghetto, rigorosamente tutto di cristallo, che forse non dispiacerebbe al
già giovane sindaco. E' una battaglia
persa, lasci perdere, col tempo accetteremo anche il brutto in Centro Storico. In fin dei conti è anche un
motivo di giustizia sociale che il
brutto non sia solo riservato alle periferia della città.
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LE SORELLE MARX
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n 28 PAG.
sabato 4 maggio 2013
confluire fiumi di soldi verso
il Maggio. I fiumi, tuttavia, rimasero secchi.
Poi fu la volta della imprescindibile delibera
salva-Maggio del luglio 2012 che se non si
votava si chiudeva. E la delibera passò, qualche esubero ne pagò le spese ... ma il Maggio
non si è salvato, evidentemente. E così, siamo
arrivati al commissariamento. Tutto si risolve! Il neoministro Bray, presente alla
Prima del Maggio (e già questa è una novità!), con un sol tweet sbroglia la matassa:
“Salviamo il Maggio Musicale Fiorentino!”.
Inveterato vizio italico questo: chi ha responsabilità, invece di dire “Ecco, io farò questo e
quest'altro per risolvere questo problema perché ne sono responsabile”, la butta sul solidarismo. “All together! Avanti! Facciamo!
Forza! Tutti uniti!”. Come? “Vedremo”. Intanto, come nel più classico dei Giri dell'Oca,
giunti a questa casella si torna al via e il sempreverde Nastasi (già Commissario) se ne
viene fuori con una idea originalissima: una
legge speciale per il Maggio (e, già che ci
siamo, anche per l'Arena di Verona). Peccato
che già ne ebbero a discutere in un incontro a
porte chiuse il 6 ottobre 2010 fra – udite,
udite – Renzi, Bondi (ricordate? Fu Ministro
della Repubblica) e Bonaiuti: risultato, zero!
Ben venga Maggio!
Finzionario
di Paolo della Bella e Aldo Frangioni
Lorenzo Forte è stato il primo critico a voler dissacrare le celebrate archistar che hanno
globalizzato l'architettura: occorre dargliene atto. Decine di architetti hanno imitato gli
stilisti e, sia che costruiscano nel Dubai, a Hong Kong o a Londra fanno tutti gli stessi
“soprammobili da città” perché, come per la moda, ciò che conta è la griffe. Ricordiamo
il via vai di progettisti che sono passati da Firenze nel periodo dei progetti Fiat e Fondiaria.
A parte qualche solitaria eccezione i risultati sono stati disastrosi: andatevi a vedere la
costruzione Assiro-Babilonese della Scuola dei Marescialli dei Carabinieri nella Piana).
Il nuovo libro di Forte che in questi giorni esce per i tipi della Arc & Star editori raggiunge
una radicalità estremista da risultare spaventoso. Infatti, per scongiurare l'ego narcisistico
sconfinato degli architetti, egli propone l'abbattimento di numerosi edifici costruiti nelle
città del mondo negli ultimi 40 anni per essere sostituiti da “progetti laici”realizzati nell'anonimato e privi di ogni segno di riconoscimento. Siamo inorriditi al pensiero che l'esempio supremo da lui portato è l'edilizia della periferie dei Paesi dell'ex- socialismo realizzato:
più che un trattato sull'architettura da dissacrare ci sembra un banale romanzo dell'horror.
Il primo
governo
di Benigno Letta
Nell’ozio di uno dei primi pomeriggi di sole di questo
umido 2013 ci siamo
messi a seguire sul nostro tablet il discorso con il quale Enrico Letta ha chiesto
alla Camera la fiducia per il proprio governo.
Dobbiamo ammettere che sin da subito più che i
contenuti (non certo banali) ci ha
rapito l’eloquio. Il tono calmo,
rassicurante, le pause giuste, termini colti ma non aulici, citazioni
alte e popolari. Parola dopo parola, frase dopo frase, non ci
siamo più chiesti quale potesse essere la copertura finanziaria e
quella politica di quanto ci veniva
detto; ci siamo scordati del tradimento di Prodi, dell’impallinatura di Marini, di Berlusconi
rinato, di Rodotà assurto a novello Che Guevara. Tutto passato, dimenticato. Solo Letta e i
suoi colleghi, quasi una foto di
gruppo dell’ultimo congresso
della giovanile DC. Persino noi ci
siamo crogiolati nel rassicurante
tepore demoscristiano e siamo
andati subito a scaricare un app
per vedere lo streaming in bianco
e nero, monocolore più adatto a
quanto avveniva davanti ai nostri
occhi. Peccato solo, ci siamo detti,
che Letta si chiamo Enrico e non
Benigno o Mariano.
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IL DIBATTITO SÌ
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di Paolo Aglietti
[email protected]
Con questo articolo di Paolo Aglietti, Coordinatore Toscano SLC CGIL (Sindacato Lavoratori della Comunicazione) e
dipendente del Maggio Musicale Fiorentino, avviamo un ciclo di interventi sulle
sorti della nostra Fondazione Lirico-sinfonica, mentre si apre il Festival con il “Don
Carlo” di Verdi in versione sinfonica, diretto da Zubin Metha.
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n 28 PAG.
sabato 4 maggio 2013
Maggio
L
a situazione odierna, in sintesi, è
del giorno prima della tragedia: la
Fondazione è stata Commissariata
dal MIBAC il 31 gennaio scorso
per “gravi irregolarità amministrative”;
il Commissario, dott. Francesco Bianchi, dopo una prima ricognizione ha descritto un quadro desolante: un debito
consolidato di poco superiore a 35 milioni di euro (poco meno del 50 % con
il sistema bancario, oltre 9 milioni con
istituti previdenziali, assistenziali e fisco,
circa 6 per il Tfr dei dipendenti ed il rimanente con fornitori ed artisti). Il bilancio 2012, che avrebbe dovuto
determinare un piccolo attivo si chiude
con 3 milioni di euro di deficit (pur essendo in linea con le previsioni il capitolo di spesa per il personale, il più
importante, con uno scostamento di
circa 200mila euro) ed il preventivo
2013 indica una perdita di circa 6 milioni di euro.
Senza interventi emergenziali, la situazione preclude alla liquidazione coatta
amministrativa.
Il Commissario, quindi, ha deciso tagli
e assestamenti sulla stagione 2013 che
produrranno 2,1 milioni di euro di risparmi ed ha chiesto alle organizzazioni
sindacali di raggiungere un accordo finalizzato alla riduzione delle spese del
personale per ulteriori 4,5 milioni di
euro. A tale riguardo preme precisare
che tra il 2011 ed il 2012 il costo del personale è già sceso di 3 milioni di euro al
netto del conferimento del Tfr per circa
2,2 milioni di euro.
Un ulteriore intervento di tali dimensioni è già stato valutato insostenibile
dalle organizzazioni sindacali pena la
modifica strutturale di teatro di produzione del Maggio, restando indispensabile la necessità di salvarlo, in quanto è
una delle poche finestre biunivocamente aperta sul mondo del nostro territorio, per il volano economico diretto
ed indiretto che rappresenta (studi europei dimostrano che queste strutture
hanno effetto sul Pil territoriale di oltre
1,5 punti), per il bacino occupazionale
di circa 400 lavoratori diretti (340 tempi
indeterminati) più indotto...
La situazione in cui versano tutte le
Fondazioni Lirico–sinfoniche è la risultante di diversi pregiudizi ideologici dei
governi che si sono succeduti e delle opportunità concesse alle burocrazie ministeriali.
Il minoritarismo politico / culturale antropologico della sinistra folgorata sulla
via di New York ha ritenuto che un intervento legislativo di ingegneria societaria/giuridica pensato per il Teatro alla
Scala (trasformazione da enti pubblici
a fondazioni) rappresentasse la soluzione di un problema strutturale, determinando contraddizioni in termini di
governance, di rapporti tra Stato ed enti
decentrati, di deresponsabilizzazione di
un quadro dirigenziale autoprodotto ed
autogenerato in stretta simbiosi con i riferimenti politici.
Il pauperismo culturale ideologico della
destra (con la cultura non si mangia) ed
i tagli lineari hanno prodotto il dimezzamento del Fus e l’asfissia economica
e finanziaria di tutto il mondo della produzione culturale. Chi vuole avere significative presenze su queste frontiere, se
le paghi, in una specie di federalismo rovesciato. Quante realtà importanti sono
già scomparse nel silenzio assordante
della disattenzione.
Le burocrazie ministeriali, nella loro
che
fare
Il punto di vista del Sindacato
?
usuale lungimiranza, hanno fatto approvare provvedimenti urgenti, già in diverse occasioni sottoposti a pareri
negativi dell’autorità giudiziario, asfittici, inconcludenti e senza prospettive.
Basta pensare all’ultimo Regolamento
sulle Fondazioni che il Governo ha imposto venisse affrontato dalla Conferenza Unificata.
Anche i rappresentanti sindacali territoriali hanno vissuto dentro questo brodo
culturale: hanno scaricato sulle organizzazioni sindacali nazionali e sul contratto nazionale non rinnovato da quasi
8 anni il problema dei costi; non hanno
potuto, voluto o saputo imporre per
tempo soluzioni organizzative in tema
di flessibilità ed organizzazione del lavoro ed attenzione ai costi. Chi è entrato in difficoltà prima ed ha fatto
interventi, pur stando oggi, male, sopravvive meglio degli altri che hanno
come orizzonte possibile la chiusura.
Il legislatore degli anni ‘60, tanto vituperato, invece, era in possesso di una
lungimiranza e di un’attenzione sconosciuta e lontana dall’attuale classe dirigente. Osservando e studiando la realtà
aveva disegnato un quadro di opportunità che aveva come orizzonte lo sviluppo ed il supporto alla libertà della
produzione artistica, non sull’intero sistema, ma sicuramente per il settore
musicale; la degenerazione della politica e la crisi della finanza pubblica degli
inizi degli anni ‘90 del secolo scorso
hanno messo in crisi quel sistema; oggi
rischiamo di tirare la catenella del cesso
senza sapere neppure che cosa c’è dentro.
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REBUS
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di Laura Monaldi
[email protected]
L
a potenzialità della sintassi verbo
visiva applicata a slogan pubblicitari è solo una piccola parte della
vasta produzione artistica di Eugenio Miccini. L’accostamento e la sovrapposizione di parole e immagine
non si esaurisce nella ricerca dei codici
della società di massa, passando oltre
e superando i limiti dei codici della
quotidianità.
La serie dei “Rebus” - iniziata nel 1964
con la collaborazione di altri pittori
come Barni, Ruffi, Lastraioli e Coppini – è prova di un’audace esaltazione
di iterazioni e possibilità operative che
s’incontrano, valorizzando l’aspetto
verbo-visivo del collage e degli interventi poetico-visuali. Con i “Rebus”
Eugenio Miccini attua un recupero del
messaggio in nome dell’immagine, attraverso una narrazione labirintica e
concettuale, al fine di una lettura simbolica della realtà, colma di aporie da
svelare e contraddizioni da demistificare.
Si tratta di un divertissement poetico,
di un gioco linguistico di grande attualità, in cui la visualità diviene la nuova
dimensione della parola: una metafora
puramente illustrativa del reale, che si
esplica in un’unione discontinua e po-
Eugenio Miccini - Adversis rebus, 1972 Lettera metallica su tela emulsionata cm 114,5x145,5 - Courtesy Collezione Carlo Palli
I divertissement poetici
e i rebus di Miccini
livalente di parole e immagini. In tali
opere la parola aliena l’immagine, che
a sua volta è alienata dalla parola, in un
silenzio enigmatico e quasi sarcastico,
dal quale scaturisce una poeticità inedita.
Con i “Rebus” e – in seguito – gli “Anagrammi”, l’intento dell’artista non è
quello di mettere in luce le infinite relazioni che possono intercorrere fra
parola e immagine nella società di
massa e dei consumi, si tratta di mettere in gioco tali possibilità, al fine di
vedere la poesia oltre la linearità del discorso poetico e l’immediatezza visiva
del supporto pittorico.
Segno e significante divengono i validi
strumenti della nuova retorica contemporanea, in cui i ruoli e le funzioni
della letteratura e dell’arte vengono ribaltati in nome dell’estetizzazione del
quotidiano e dei vari processi operanti
nei termini sociali e artistici, che tendono a corrodere gli spazi di autonomia e di identificazione con la realtà.
La metafora e la retorica iconica della
poesia visiva post-ermetica di Eugenio
Miccini è un rimando al punto d’origine del linguaggio, ossia al momento
della coincidenza perfetta fra nome e
cosa, in contrasto con la sordità e la cecità del mondo e dell’uomo contemporaneo.
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U.S.A. Rebus gestis, 1972 Lettere metalliche su tela emulsionata cm 114,5x150,5 - Courtesy Collezione Carlo Palli
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di Angela Rosi
[email protected]
L
a mostra Museo di storia innaturale di Andrea Marini alla Galleria Die Mauer di Prato è
equilibrio, un'armonia tra aria e
terra, equilibrio tra le superfici, tra i
vuoti e i pieni, tra il movimento e la
staticità. Al centro della galleria appesi al soffitto con sottili fili e sospesi
nel vuoto Erranti, 2013 sette opere
leggere, fatte di respiro e fragilità, dischi molati in alluminio, ferro e plexiglas di varie dimensioni che creano
forme simili a bruchi, soffioni, nuvole
e, che, con un lieve tintinnio, si muovono cambiando colore secondo la
La storia innaturale
Andrea Marini
alla Galleria
Die Mauer
di Prato
luce. Il plexiglas diventa traslucido
come alabastro o madreperla, il ferro
è di un grigio scuro e l’allumino sembra argento vivo. Il materiale dialoga
con lo spazio e comunica tutta la
complessità dell'arte di Marini. Il suo
percorso artistico è mimesi della natura ma poi ci narra ben altro, le
forme create sono autonome e ci permettono di liberare l’immaginazione.
Marini sperimenta la materia e la
forma mantenendo la classicità, nei
suoi lavori c'è il gioco ma anche qualcosa di più oscuro che si accresce rivelando l’innaturale della natura
stessa. Marini porta la natura verso
qualcosa di anomalo, la sua complessa semplicità può spingersi fino
al “mostruoso” che si può moltiplicare diventando invadente e non più
solo giocosità. Le sue opere si espandono e s’impongono nello spazio
creando un possibile pericolo, facendoci scorgere la possibilità di follia e
anomalia nella natura e nell’uomo.
L'equilibrio che sentiamo in galleria
è dato dalle sculture Vibratili, 2013 ed
Erranti, 2013 perché le une danno la
terra e le altre l'aria cioè il soffio di
vita, Erranti sono semi portati dal
vento per fecondare la terra. Erranti
donano il respiro ai Vibratili radicati
nella terra, essi sono aghi di pino in-
gigantiti, strusciano, come la processionaria, ma poi si contorcono, lentamente si alzano, si animano e si
muovono, ricordando i dinosauri.
Tra queste due istallazioni c'è un continuo dialogo come se le une non
possono esistere senza le altre. A suggello, in parete, Scotchage 2013 tre
quadri in plexiglas nero, l’uovo “dipinto” si fa ellisse e poi ellisse allungata cioè potenziale bozzolo per una
farfalla. Marini ha usato piccoli pezzi
di scotch in alluminio, sembrano piccole pennellate argentee, un mosaico.
Nelle sue opere c’è un continuo mutamento, non c’è staticità, ogni lavoro
è in continua evoluzione come Informi composti di protuberanze, assembramenti di cellule che si
sviluppano all'infinito fino al movimento. Ancora Ibridoteche, 2009
teche in vetro, piccole serre dove si
conservano surreali piante grasse
composte di materiali metallici e sintetici e lo Pseudo ritratto, un vuoto
con grandi occhi, naso e bocca. L'arte
di Andrea Marini fa appello alla fantasia e all'emozione, le sue opere ci
portano in con-fusione con l'effetto
di velare la distinzione tra il vero e
falso incarnata nella nebulosità resa
dai fili di Erranti che, liberi, scendono
verso terra.
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di Laura Monaldi
[email protected]
È
in chiusura alla Galleria Civica
d’Arte Contemporanea MuVi di
Viadana, la mostra, in omaggio
al Gruppo 70, a cura di Claudio
Cerritelli e Melania Gazzotti.
Il percorso museale offre una panoramica sulle opere e l’attività del gruppo
fiorentino fondato da Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, in occasione del convegno “Arte e
comunicazione” svoltosi nel maggiogiugno 1963 al Forte Belvedere di Firenze. Un omaggio alla Poesia
Tecnologica e ai collages poetico-visuali degli artisti e intellettuali che
aderirono al gruppo, come Luciano
Ori, Ketty La Rocca e Lucia Marcucci. Una focalizzazione interna al
movimento internazionale della Poesia Visiva, che vuole essere – a cinquant’anni dalla nascita – una presa
di posizione su una
delle più significative
avanguardie italiane del
secondo Novecento.
Le
problematiche
aperte sulle relazioni fra
“arte e comunicazione”
e fra “arte e tecnologia”,
proprie della prassi artistica del Gruppo 70,
rivivono in questa mostra come sintesi di una visione militante e impegnata a livello sociale della letteratura
e dei problemi della responsabilità
dello scrittore dell’epoca, che deve
operare il riscatto estetico dei simboli
della civiltà contemporanea, attraverso un linguaggio poetico-artistico
inedito.
Grazie alla mimesis linguistica e all’ironia verso tutte le forme di comunicazione mass-mediatica si esplica
una nuova retorica dell’arte contemporanea: calco, trascrizione, contaminazione, paradosso, ripetizione e
concentrazione divengono i cardini
della sperimentazione linguistica, in
cui si realizza il fenomeno verbo-visuale in virtù dei gerghi del tecnicismo operante – secondo i vari
contesti e funzioni dell’attualità – e i
nessi fra parola e immagine. I manifesti, le riviste d’artista, i documenti e le
fotografie in mostra mettono in luce
la volontà dei fondatori del gruppo di
proporre una linea comunicativa capace di compiere il rinnovamento sociale e culturale, in nome di una
critica impegnata alla modernità degli
anni Sessanta.
La mostra, oltre a offrire uno sguardo
generale sull’interazione fra parola e
immagine del Gruppo 70, mette in rilievo l’importanza di Mantova nella
storia della Poesia Visiva, rievocando
l’evento museale del 1998 al Palazzo
della Ragione, dal titolo “Poesia Totale, 1987-1997: dal colpo di dadi alla
Poesia Visuale” e la donazione di Eugenio Miccini alla Biblioteca Comunale, destinata a diventare un primo
nucleo del Centro Internazionale di
Documentazione della Poesia Contemporanea.
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50
anni
di
Gruppo
70
SPIRITI DI MATERIA
La festa del giaggiolo
e lo scudetto del 1969
di Franco Manescalchi
[email protected]
I fiorentini chiamano giglio il giaggiolo: una varietà dell’iris da cui deriva il simbolo della loro città, detta
anche “città del Giglio”.
Questo fiore era così diffuso nella
campagna fiorentina che a San Polo
in Chianti ai primi di maggio si effettua ancora la Festa del Giaggiolo.
Pure i calciatori della Fiorentina, che
portano il simbolo sul petto, si chiamano “i gigliati” o, per il colore della
maglia, “i viola”.
Anche altrove le società di calcio assumono il simbolo della loro città,
così è il Toro a Torino o la Lupa a
Roma. Ma per nessuna squadra il
simbolo rimanda alla natura e a una
Festa, come dire la festa del Toro o
della Lupa.
E questa nostra omonimia dette
luogo a una doppia Festa, quando
nel 1969 la Fiorentina vinse il suo secondo scudetto.
Doppia Festa a cui pure io partecipai,
dalle gradinate della Maratona, a seguire le gesta di Amarildo, Merlo, De
Sisti e degli altri giovani talenti, e
nelle escursioni in campagna, dove a
volte si aprivano stupefacenti vallate
di giaggioli.
Proprio in quell’anno Piero Bargellini era andato a San Polo a presenziare alla Festa, che si tenne nel
giorno in cui la Fiorentina sigillò il suo
secondo scudetto e gli accadde così di
mettere insieme in tempo reale le due
Feste in una cronaca scritta in punta di
penna, apparsa su La Nazione il 12
maggio del 1969.
“Guardavo sulle tavole sparecchiate la
guarnizione dei giaggioli e andavo
sempre pensando: “Come andrà la
partita?”
Non mi ero mai reso conto di come la
Fiorentina avesse scelto per colore
simbolico il viola, e ora mi accorgevo
come il fiore più tipicamente fiorentino, il giaggiolo, non incrociato, non
ibridato, ma genuino, fosse proprio di
quel colore.
Andavo, per questo, pensando dentro
di me : “Vincerà il giaggiolo ?” Se
avessi espresso il mio pensiero ad alta
voce, gli stranieri che erano con me
non avrebbero capito.
Non c’erano apparecchi radio in quelle
verdi vallate, e non si udivano che versi
d’uccelli su quei campi viola di giaggioli.
Quando siamo risaliti sulle automobili, l’ora era già passata, ma, transitando dai caseggiati, non ho voluto
raccogliere notizie. Avevo furia di
giungere a Firenze e, lasciandomi dietro le distese viola di giaggioli, pensavo
ad altrettante bandiere viola sulla città.
Giunti a Ponte Ema abbiamo trovato
un ingorgo.
Si udivano grida e un gruppo di giovani, a un bivio, agitavano bandiere
viola.
“Contestatori ?”, mi han chiesto gli
stranieri che erano con me. Ho sorriso.
Avevo già capito che il giaggiolo aveva
vinto. Gli stranieri mi guardavano, interdetti e anche un po’ intimoriti. Li
ho rassicurati. “Questa è soltanto letizia!” (…) .
“Grande e bel popolo il vostro”, ha
commentato un danese. “Si merita
questa gioia, come la vostra terra si
merita i fiori che oggi abbiamo ammirato”.”
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OCCHIO X OCCHIO
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sabato 4 maggio 2013
di Danilo Cecchi
[email protected]
“V
edo gli occhi che hanno
visto
l’Imperatore”
scrive Roland Barthes
all’inizio del suo “La camera chiara”, alludendo ad un ritratto fotografico del 1852 di Jérome Bonaparte,
ultimo dei fratelli di Napoleone. L’occhio
fotografato è sempre un poco inquietante, specialmente quando guarda nella
fotocamera, direttamente verso il fotografo, e di conseguenza verso l’osservatore delle immagini. Sostenere lo
sguardo non è sempre facile, ed i fotografi ne sono sempre stati coscienti, tuttavia l’occhio rimane uno dei loro temi
preferiti. L’occhio, al singolare, ancora
più degli occhi, perché la visione fotografica è rigidamente monoculare, ad eccezione della stereoscopia, considerata
da quasi tutti poco più di un gioco.
Le immagini fotografiche nascono, quasi
sempre, da uno sguardo, ed è difficile,
anche se non impossibile, fotografare
senza vedere. Fotografare significa avere
un incontro visivo con la realtà, instaurare un rapporto tra il mondo esterno ed
il nostro mondo interno attraverso l’atto
del vedere. Le immagini fotografiche intenzionali sono (o dovrebbero essere)
un prodotto dello sguardo, di uno
sguardo educato, che permette il riconoscimento, nel flusso della realtà percepita, di determinate forme, figure,
situazioni e momenti “significanti”. Per
questi motivi l’occhio, inteso come organo e come strumento di lavoro, nella
sua singolarità e nelle sue diverse manifestazioni, è stato e rimane al centro
dell’attenzione dei fotografi.
A partire dall’occhio della Contessa di
Castiglione, isolato dalla cornice nell’immagine scattata nel 1863 da Pierre Louis
Pierson (1822-1913), all’occhio di Picasso, nella ben nota immagine di Irving
Penn (1917-2009) del 1957, fino all’occhio di Brassai immortalato nel 1981 da
André VIllers (1930). Talvolta la mano
nasconde il volto lasciando vedere solo
l’occhio, oppure copre un occhio mostrando solo l’altro. Altre volte è il gesto
della mano che sottolinea l’occhio incorniciandolo, come nella celebre foto scattata da Charlotte March (1929) a
Donyale Luna nel 1966 e nella foto scattata da John Leongard (1934) nel 1981
ancora a Brassai, mentre Elliott Erwitt
(1928) sostituisce l’occhio di Ernst
Haas, inquadrato dal gesto quasi identico della mano, con un mirino multifocale.
La casistica, in mancanza di una catalogazione precisa, ed anche giudicando ad
occhio, sembrerebbe vasta e praticamente inesauribile. Con l’impiego dei
programmi di elaborazione digitale delle
immagini, gli occhi fotografati vengono
inseriti dappertutto, sulla nuca, sulle
mani o sulla schiena delle persone, sulle
pareti o sui soffitti degli edifici, dilatando
ancora le possibilità espressive ed allungando un elenco che nessuno ha mai
compilato, perché chiunque lo facesse rischierebbe comunque di presentare un
lavoro incompleto. Ma in fotografia, si sa,
bisogna imparare a chiudere un occhio.
Fotografi
a occhio nudo
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LUCE CATTURATA
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Notturni urbani
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Firenze 2004-2013
Il brivido lungo e misterioso
della notte in città
di Sandro Bini
www.deaphoto.it
Sandro Bini - Notturni Urbani - Firenze 2004
otturni Urbani” è un Progetto
Fotografico in progress che
mira ad una analisi territoriale
complessiva, su zone differenziate, dell'Area Metropolitana Fiorentina, con locations che sono di volta in
N
volta individuate, in base a criteri poetico-topografici: una geografia urbana
che privilegia, con la visione notturna,
le architetture di luce e le gerarchie sociali degli spazi: dai transiti dei nodi
nevralgici agli aspetti più malinconici
L’APPUNTAMENTO
BIZZARRIA DEGLI OGGETTI
Artlands
Dalla Collezione
di Rossano
Le
accensioni
aeree
a cura di Cristina Pucci
Escursione lungo il Parco Fluviale
di Lastra a Signa, alla scoperta di antichi paesaggi degradati tornati a vivere: Artlands, il programma di
incontri e sopralluoghi verso nuove
forme di costruzione del territorio,
invita a un tour con descrizione itinerante del paesaggio e delle possibilità
di valorizzazione del territorio agreste
nelle aree vicine alla città. Appuntamento al Bar del Parco Fluviale, sabato 4 maggio 2013, ore 10,30.
[email protected]
Accendino da tavolo a forma di
aereo, in metallo cromato, anni ‘60,
funziona a benzina. Made in England, marcato “Dunhill”. Per fare
fuoco si preme sulla fusoliera dell’aereo per alzare il cupolino sopra
il posto di comando è così che si innesca la scintilla per l’accensione.
Rossano “per questo oggetto ricevo
molte proposte di acquisto, a volte
anche molto interessanti, ma resisto! non lo vendooooo!!!!”
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e desolanti della città diffusa. Il lavoro,
nato da un naturale sviluppo del mio
studio e del mio progetto fotografico
sulla città, trovava illustri modelli nella
storia della fotografia (da Stieglitz a
Brassai) e nella più recente scuola ita-
liana di Paesaggio degli anni 80-90
(Luigi Ghirri, Olivo Barbieri ecc). Un
passaggio quindi dall’analisi architettonica e sociale delle configurazioni
urbane, riprese in piena luce naturale,
alle evocative gerarchie luminose della
fotografia notturna, che trasfigurano il
tempo e lo spazio nella dimensione
poetica ed onirica di una visione incantata. L’esperienza della notte in
città ha regalato quindi stimoli diversi
ed emozioni inaspettate. La lenta e rituale messa a punto della macchina fotografica sul cavalletto, i lunghissimi
tempi di esposizione, lo studio delle
fonti di luce artificiale, gli spazi bui e
luminosi, deserti e silenziosi della
notte urbana, mi hanno avvicinato ad
una esperienza di contemplazione
straniata e straniante, in una dimensione spazio-temporale e luminosa diversa e privilegiata, vicina a quella del
sogno o della fiaba, in cui gli stessi scenari del quotidiano mutano di senso
per aprirsi al “mistero abitato” della
notte e a rimandi culturali sia visivi che
letterari. I “Notturni urbani” sono
dunque il frutto di questa esperienzavissuta di contemplazione e transito,
di visione e lettura, ma anche il nome
che vorrei affettuosamente dare tutti
coloro che, fotografi o meno, non
hanno saputo, non sanno o non sapranno resistere al richiamo notturno,
al brivido lungo e misterioso della
notte in città.
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VUOTI&PIENI
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di Clementina Ricci
[email protected]
“L
eonardo Ricci” è il titolo
dell’ultimo volume a lui
dedicato edito da Palombi.
La storia di questo testo è
densa di amore, di emozioni e di passioni, difficoltà, incertezze e talvolta di
infelicità. Proprio come lui; esistenzialista, come lo definisce Corinna Vasic
nel suo omonimo libro.
Antonella Greco scopre lo spazio del
testo con un’introduzione d’ispirazione
epistemologica assolutamente indispensabile per ricollocare il soggetto all’interno del suo mondo, che all’epoca
studiava come liberare le banche da ogni
protezione e sfondare i muri del carcere di
Sollicciano. Un perfetto esercizio filosofico con effettive implicazioni architettoniche.
Poi il momento delle grandi archistar,
ma adesso, come dice l’autrice Maria
Clara Ghia, qualcosa è cambiato e non
possiamo più fare finta di niente. La prima
volta che ho preso in mano e ho letto il
testo del giovane architetto con un dottorato in filosofia, ho capito che, oltre a
dirlo, lei lo aveva anche fatto. In primis
con il linguaggio: il testo si apre con una
citazione di Ernst Bloch, una strofa di
Thom Yorke e un brano tratto da “Lo
Zen e l’Arte della Manutenzione della
Motocicletta”. Stiamo sempre parlando
di architettura e di filosofia, ma il lucchetto della serratura si apre con una
chiave meno tecnica e più umanistica.
La generazione definita “perduta” dalla
recente classe politica italiana in una
rara sorta di ammissione del proprio fallimento cerca di trovarsi uno spazio per
parlare agli architetti e non, soprattutto
ai coetanei, che si suppone traggano
qualcosa dalla lettura e la rielaborino
con riflessioni sottoforma di oggetti.
Perché anche di oggetti si parla in architettura e Leonardo rifletteva sulla nostra
relazione con essi, carica di emotività,
di commozione e di vita, come raccontano le interviste con Paolo Riani, Vittorio Giorgini, Elena Poccetto Ricci e
alla sottoscritta al termine del testo.
La grande frustrazione denunciata dagli
architetti contemporanei è quella dell’incatenamento alla normativa e all’anonimato, tuttavia questo testo
suggerisce una via di fuga, soprattutto a
chi Leonardo Ricci non lo conosce. Egli
annuncia spazi possibili, l’importanza
del campo del sacro e l’ispirazione dall’infelicità ed affronta l’architettura in
termini di comunicazione; un linguaggio che crei un nuovo rapporto con gli
oggetti vivi. Umberto Eco ne “La struttura assente” definisce l’architetto come
l’unica e forse ultima figura di umanista
della società contemporanea, ma la domanda che ci poniamo allora è: come
mai non ne abbiamo più visti all’orizzonte? Che sia colpa delle archistar? E
perché le materie umanistiche e filosofiche non sono più insegnate agli architetti come sarebbe necessario?
Leonardo fu un grande insegnante, lo ricordano tutti coloro che hanno assistito
alle sue lezioni, ma forse nessuno è riuscito a cogliere il nocciolo della que-
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stione, ovvero ripulire il pensiero e gettare lo scarto, poiché in fondo si traccia
un solco nella terra: si prendono dei sassi.
Si murano i sassi con la malta: Il muro sale
e divide lo spazio creando un nuovo spazio
che prima non c’era. Di qua tira generalmente il vento: Qui c’è il sole del sud. Di
qua di vede il mare. E i muri dividono
spazi sempre più vivi. Alcune parti nell’ombra. Altre nella luce. Qui alto. Qui basso.
Qui è bello riposare. Qui dormire. Qui lavorare. E’ nata una casa (L. Ricci, “Anonimo del XX secolo”, Il Saggiatore,
Milano 1965).
Antonella Greco e Maria Clara Ghia intraprendono una strada nobile, poco segnata, quella che riconduce l’architetto
alla sua perduta anima: l’architetto come
in una storia d’amore, è coinvolto in un
processo creativo di cui non conosce gli esiti
[…]. L’architetto si colloca in una zona
grigia fra geometria e fenomenologia, fra
razionalità e irrazionale, fra intelletto ed
emozione, fra ésprit de géométrie ed ésprit
de finesse.
Allo stesso modo Sartre
prende in mano un ciottolo e
la mano comincia a provare
un senso di nausea.
ltre
le archistar
PUÒ ACCADERE
Sipari calati
di Susanna Stigler
[email protected]
Firenze, Aprile 2013
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di Sara Chiarello
[email protected]
A
Firenze viviamo insieme a
15mila peruviani, e sono oltre
150mila solo in Toscana. Ma
ne sappiamo poco. Anche per
colmare le lacune sulle queste culture,
rimosse e discriminate per secoli, che
sono state riaccreditate solo negli ultimi decenni nell’arte e nella letteratura, si inaugura lunedì 6 maggio fino
al 2 giugno a Palazzo Medici Riccardi
la mostra in prima nazionale organizzata dal Centro Studi Eielson, sotto la
direzione di Martha Canfield, in collaborazione con la Provincia di Firenze e l’Università degli studi di
Firenze. Dedicata a Jorge Eielson, artista e collezionista peruviano scomparso nel 2006, espone per la prima
volta oltre 30 opere di arte precolombiana, tra tessuti e vestiti rari, alcuni
di oltre 1000 anni fa, di civiltà preincaiche quali Chancay, Paracas,
Chimù, provenienti dalla collezione
privata d’arte precolombiana di Eielson. In parallelo, saranno in mostra le
opere di Eielson, che proprio da queste culture ha preso ispirazione per la
sua ricerca poetica, quali la Suite Paracas, tela che rappresenta figure
umane stilizzate, Unku, abito cerimoniale di ispirazione peruviana, o i
Quipu, celebre serie di opere di Eielson ispirate all’antico sistema di comunicazione basato sui nodi. Sono la
traccia degli antichi ‘quipus amerindi’
(i nodi della cultura inca) e sintesi del
legame tra le sue origini latinoamericane e l’esperienza europea. In essi
convergono la pittura, l’arte plastica,
la poesia, la narrativa e il teatro di
Eielson. Oltre ai reperti della collezione privata di Eielson, verrà esposto
un quipu originale, prestato per l’occasione dal Museo di Storia naturale
di Firenze, sezione di Antropologia
ed Etnologia. Le opere preincaiche
giustapposte a quelle dell’artista creeranno un ideale ponte estetico concettuale tra passato e presente.
Ad aprire l’iniziativa lunedì, l’incontro, alle ore 16 a Palazzo Medici Riccardi, con il saluto del Console
peruviano Manuel Veramendi i Serra;
a seguire gli interventi del professor
Antonio Aimi dell’Università di Milano, tra i maggiori esperti di culture
precolombiane, che recentemente ha
preso parte alla progettazione del
museo del Complesso Archeologico
di Huaca Rajada a Sipán (Perù), e di
Martha Canfield. Il programma si
completa della giornata di studi, martedì 7 maggio nell’Aula Magna del
Rettorato dell’Università di Firenze
(piazza San Marco n.4), dal titolo
L’America precolombiana nella cultura contemporanea. La prima sessione della giornata (orario 10-13)
sarà presieduta dalla professoressa
Silvia Lafuente, mentre la seconda
sessione (15-18) da Martha Canfield.
La mostra è visitabile tutti i giorni
(escluso il mercoledì) in orario 9-18.
Ingresso da via Cavour 3.
La visita alla mostra è inclusa nel bi-
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Sulle tracce di
Eielson
glietto di ingresso al percorso Museale di Palazzo Medici Riccardi (biglietto intero 7 euro, ridotto 4 euro).
Per informazioni www.centroeielson.com.
LETTERE&LETTERATI
di Leandro Piantini
[email protected]
Non si finirebbe mai di parlare di
Dino Campana, di aggiungere notizie
e svelare segreti intorno ad uno scrittore così irregolare e affascinante, che
sembra fatto apposta per indurre gli
studiosi a sempre nuove indagini.
Ora si è scoperto che nel 1911 Campana partecipò a Firenze a due concorsi pubblici, che peraltro furono
due insuccessi. Con il primo tentò di
entrare in polizia, come “alunno delegato di Pubblica Sicurezza”. Il secondo
concorso riguardava invece l’insegnamento delle lingue straniere nel ginnasio.
Può sembrare paradossale che un
uomo rinchiuso più volte in carcere e
in manicomio volesse diventare poliziotto. Certo cercava soprattutto un
posto di lavoro ma forse era attirato
anche dalla possibilità di entrare nel
mondo del potere, di quella forza
pubblica da cui aveva subito numerosi
arresti e umiliazioni.
Di quel che aveva fatto nel 1911 Campana- nato nel 1985- finora non si sapeva nulla. Una scoperta casuale ha
permesso allo studioso e poeta Paolo
Maccari di entrare in possesso di
nuovi documenti custoditi negli archivi dell’università di Firenze. Ne è
nato un libro edito da Passigli nel
2012 (Paolo Maccari, Il poeta sotto
esame), nel quale tra le tante cose possiamo leggere un tema scritto dal
poeta di Marradi che ha per titolo “A
zonzo per Firenze”, che contiene brani
di grande bellezza degni del futuro autore dei Canti Orfici. Certo il titolo era
Non si finirebbe
mai di parlare
di Campana
quanto mai campaniano se si pensa
che Dino, fino all’internamento nel
manicomio di Castelpulci, aveva sempre viaggiato molto, e spesso a piedi,
magari da Marradi a Firenze o a Faenza. Aveva condotto una vita di vagabondo, spinto dal suo dàimon
irrequieto, da un bisogno spasmodico
di inseguire qualcosa che forse nemmeno lui sapeva cosa fosse. Campana
viaggiò in Francia, in Svizzera, in Germania, si spinse fino nell’America del
sud- anche se non manca chi mette in
dubbio, privi come siamo di documenti, che alcuni di quei viaggi siano
realmente avvenuti.
Si legge nel tema:”Firenze si delinea
nettamente tra i miei ricordi…il suo
cielo profondo, spirituale, lontano
dalla terra come in nessun altro paese,
risvegliò in me una nostalgia acuta
verso le sorgenti più alte e più pure
della vita; e mi parvero un paradiso i
suoi colli…C’è una porta magnifica a
S. Frediano, altissima, con battenti immensi e ferrati aperti sull’infinito del
cielo. Nelle sere calde e fantastiche ,
una folla disparata passa ininterrottamente, con un rumore confuso di
grida, di risa, di canti…”.
Il tema scritto in francese dimostra
che Campana non conosceva bene la
lingua e che la bocciatura fu dunque
meritata. Ma resta il rimpianto che
non abbia superato l’esame. Un posto
di lavoro sicuro gli avrebbe fatto abbandonare la sua vita errabonda e
forse lo avrebbe salvato dalla follia.
Non dimentichiamo che la sorte gli fu
spesso nemica. Basta pensare allo
smarrimento del manoscritto dei
Canti Orfici ad opera di Ardengo Soffici, che costrinse Campana a riscrivere a memoria quelle poesie che
–pubblicate dal Ravagli a Marradi nel
1914- segnano forse l’inizio della
grande poesia moderna in Italia.
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Le storie di Pam
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NUVOLETTE
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VUOTI&PIENI
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di Elisa Fiorini
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nima è acronimo di uno
spazio dinamico in cui convivono attività culturali eterogenee, il nuovo polo
culturale di Grottammare, commissionato a Bernard Tschumi dal
Comune omonimo e dalla Cassa
di Risparmio di Ascoli Piceno. I
7.000 mq verranno realizzati in un
lotto posto appena fuori dal centro
storico, in una posizione di margine tra due poli paesaggistici,
l’Appennino umbro-marchigiano
da un lato, e la fascia costiera adriatica dall’altra. Così come la Chiesa
dell’autostrada di Michelucci e la
non ancora realizzata Città dello
sport di Calatrava, l’edificio si pone
nel paesaggio antropizzato come
una emergenza architettonica in
posizione nodale: un attrattore facilmente identificabile dalla dorsale autostradale adriatica pensato
per il rilancio urbano e per lo svolgimento di attività di promozione
del territorio attraverso la cultura.
L’attenzione alle opere e alla poetica di artisti come Burri, Rotella,
Manzoni e Fontana sono un riferimento per l’approccio alla prima
opera in territorio italiano di
Tschumi. Il polo, che si prevede
sarà ultimato nel 2016, rappresenta un’esperienza progettuale
lontana dalle quelle precedenti e
da quelle mediorientali: les folies
parigine e la progettazione per
frammenti tipici del senso decostruttivista sono concetti che si
perdono in Anima, nel volume intatto Deriddiano, eterogeneo
come pluri-funzioni, contenitore
come spazio flessibile nell’organizzazione e fluido nella percorrenza.
La flessibilità funzionale è ottenuta con la variabilità dell’interpiano, i cui sbalzi, notevoli ma
dinamici, si raccordano nella continuità della rampa; memorie delle
carceri piranesiane, le passerelle
aeree panoramiche consentono
l’interazione con il paesaggio e
mettono in comunicazione lo spazio principale con il blocco servizi
a est (uffici, ristorante e laboratori). Lo spazio, gioco di geometrie e di layer, è costruito su un
modello di corte lontano dall’archetipo dell’impluvium romano, il
cui centro non è lo spazio vuoto
ma il costruito: un volume rettangolare ruotato, con una capacità di
1.500 posti, che incide sul terreno
una traccia che occupa lo spazio
centrale della corte e che segmenta
lo spazio in triangoli che assumono talvolta la veste d’ingresso,
talaltra di spazio verde e espositivo. Continuità (nei materiali),
flessibilità (funzionale) e dinamismo (nelle geometrie) sono caratteri che costruiscono il progetto e
permangono nel trattamento dell’involucro traforato. La ricerca
formale e dei materiali in facciata
Un’Anima
per
Grottammare
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precedenti è ribaltata: una pelle
esterna, introversa ma attrattiva, illusionistica ma funzionale, attuale
ma omogenea sui fronti e in copertura: compromesso tra globalizzazione e individualismo, citazione
del mondo prerinascimentale, ribadisce scelte che vanno oltre tendenze estetizzanti e avverse al
consumismo, nessuna geometria
formale dedotta da complessi volumi
curvi, come afferma Tschumi, ma
attenzione al contenuto e al budget
dell’opera in tempi di crisi.
STRANIERI INFATUATI
Casa Guidi
un sogno
di libertà
e poesia
di Francesco Calanca
[email protected]
Casa Guidi è la dimora storica dei
poeti Robert e Elizabeth Barrett
Browning che soggiornarono in Firenze dal 1847 al 1861, anno in cui
la poetessa morì, esattamente due
mesi dopo la proclamazione del
Regno d’Italia. Risorgimentale convinta, Elizabeth dedicò alla causa
italiana un suo celebre componimento, Casa Guidi Windows, ma per
lei l’Italia fu sempre un sogno di libertà (dalla londinese Wilson Street
era fuggita per amore insieme a Robert, la governante Wilson e l’amato
cagnolino, Flush), un incontro romantico fra natura e cultura. Firenze, in particolare, rappresenta per
lei la coesione dei cuori che battono
per patriottici ideali, i grandi artisti
“whose strong hearts beat through
stone” raccolgono gli spiriti dei cittadini, fieri, che hanno osato sfidare
il cielo con le loro opere (il campanile è una “Unperplexed question to
Heaven”). Le pietre della città costituiscono le basi per la liberazione
dall’invasore austriaco: “O freedom!
O my Florence!”, scriveva Elizabeth.
All’arrivo a Firenze, i Browning affittarono uno degli appartamenti del
piano nobile del palazzo dei Guidi,
già proprietà di un principe russo,
ma trovandolo “beyond our means”,
Elizabeth decise di ribattezzarlo
“Casa” Guidi, in ottemperanza alle
loro simpatie repubblicane. L’arredamento esistente è stato scelto sulla
base di un disegno che George Mignaty nel 1861 fece della stanza preferita di Elizabeth, la drawing room,
dove ella scriveva e riceveva gli
anglo-fiorentini (“impecunious English people” giunti in Firenze perché esclusi “from polite society in
England”, scriveva aspramente Robert). Mentre Elizabeth componeva,
Robert collezionava arte e, oltre a un
Ghirlandaio e un Pollaiolo, scovati al
mercato di San Lorenzo, egli acquistò diversi oggetti contribuendo al
recupero tipicamente anglosassone
del passato pre-rinascimentale, visto
come emblema di libertà e senso civico.
Oggi, come purtroppo in passato,
Casa Guidi non è molto frequentata
da italiani e nell’aria sembrano ancora risuonare le parole di Elizabeth
che lamentava l’assenza della società
fiorentina fra i suoi ospiti (“it seems
quite inaccessible”, scriveva). Tuttavia, se ci si siede nel salotto, in silenzio, si possono udire le voci della
trafficata via Mazzetta sottostante e
si può capire come la chiassosa Firenze, ai tempi di Elizabeth e Robert, abbia ispirato la loro poesia, in
voci, forme e immagini, forse, ancora tutte da scoprire.
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di Simone Siliani
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n’opera monumentale, quella che
Maurizio Nannucci ha realizzato
alla Stazione Leopolda per la XX
edizione di Fabbrica Europa. Lui,
in verità, la definisce “antimonumentale”:
si spegne con un ‘click’, è leggera come la
luce di cui è fatta, un miraggio dice perché
in fondo sarà visibile complessivamente
una ventina di ore. Eppure, il monumento
è lì: definisce lo spazio sconfinato della navata centrale dell’ex Stazione Leopolda, imprime con i 277 punti luce blu installati sul
tetto l’imperativo categorico universale No
more excuses, ti avvolge con il campionamento e la sovrapposizione della frase letta
da 8 voci con accenti diversi di varie parti
del mondo in una moltiplicazione seriale
di combinazioni quasi infinite (il lavoro
sorprendete di Simone Conforti). La Leopolda non è mai stata così funzionale: è tornata ad essere luogo di partenze ed arrivi,
senza sosta, luogo di passaggio fra dimensioni diverse dell’essere. La monumentalità
dell’opera/stazione, possente per come la
percepisce il visitatore che prolunga il suo
sguardo fra le colonne di luce per i 100
Niente
scuse
metri di lunghezza della navata, è scalfita
solo dalle persone/viaggiatori che con la
loro presenza interrompono le colonne di
luce. Anch’essa metafora della funzione originaria della Leopolda: nel flusso incessante e immateriale di arrivi e partenze, solo
le immanenti persone smarrite nel buio
delle oro esistenze si materializzano, sovrapponendosi e mescolando destini e
identità, come fanno qui le voci campionate da Simone Conforti. “Non ci sono
scuse” per la nostra indifferenza verso gli
altri, il destino rovinoso del pianeta, se non
forse questa condizione stessa di ombre
immanenti che solo una colonna blu di
luce talvolta interrompe ma proprio per
questo consente una qualche breve esistenza. La luce, nell’opera di Nannucci, è
fenomenologica, non metafisica, spiega il
curatore Sergio Risaliti. L’arte di Nannucci
è monumentale senz’altro e ci dice qualcosa di nuovo su come interpretare lo spazio pubblico, troppo spesso occupato dal
ruolo totalizzante del potere. Ma è al tempo
stesso un’architettura interiore, che dalla
consapevolezza del nostro vagare, soli, nel
buio di un eterno viaggiare senza predeterminati punti d’arrivo, può rompere le rigide
rappresentazioni del potere e smascherarlo,
gridandogli: “No more excuses”. Non perdete l’occasione di fare esperienza di questo
miraggio di uno dei più importanti artisti
contemporanei, fiorentino, sempre in viaggio fra la sua “Base” (il centro d’arte di
S.Niccolò, da 15 anni, miracolo vitale in
una città dove il contemporaneo è difficile
ma presente) e ogni angolo del mondo.
Alla Stazione Leopolda fino a sabato 11
maggio: no excuses, se la mancate.
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PARIGI VAL BENE UNA FOTO
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di Danilo Cecchi
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onjour, posso dare un’occhiata
a questi libri? Un amico mi ha
parlato di questo negozio e mi
ha messo addosso una certa
curiosità. Mi ha detto che avete anche
dei libri usati, interessanti e quasi introvabili. Manuali dei primi del Novecento, atlanti geografici di prima della
guerra, un trattato di chimica fotografica di fine Ottocento, molti libri degli
anni Cinquanta. Veramente interessante. Anche la sezione letteraria è
ben fornita, i Miserabili nella edizione
Testard del 1890, I Fiori del Male in
un’edizione del 1925. Credo che
anche questo Rimbaud provenga da
questo negozio. Vedete, c’è un timbro
sull’ultima pagina. Mettete sempre il
timbro del negozio sui libri che sono
in vendita? Quasi sempre. Non ricordate per caso se questo libretto è stato
acquistato di recente? No, non potete
ricordarlo. Non ricordate neppure chi
lo ha acquistato, naturalmente. Immagino che la vostra clientela sia molto
ampia e varia. Avete per caso dei libri
sull’inferno? L’inferno di Dante…
Naturalmente, l’inferno di Dante, di
quale altro inferno possiamo parlare?
Ne avevate uno molto bello, un’edizione illustrata con delle grandi tavole, delle pregevoli incisioni di
Gustave Doré. Un libro grande, rilegato con cura, un’edizione dell’inizio
del secolo, forse precedente la prima
guerra mondiale. Non avete più questo libro? Peccato, mi sarebbe interessato veramente. Ricordate chi lo ha
acquistato? No, è impossibile ricordare un cliente fra tanti, mi rendo
conto. Però qualcosa vi ricordate.
Non ricordate la persona, né il nome
né la faccia, ma c’è un particolare che
vi ha colpito. Il libro è stato comprato
insieme ad altri due, quasi delle stesse
dimensioni. Un album di incisioni di
Aubrey Beardsley degli anni Venti ed
un libro moderno con le poesie di
François Villon illustrate da Moebius.
I tre libri sono stati pagati regolarmente, ma il vostro cliente non li ha
ritirati personalmente. Il compratore
ha pagato qualcosa in più perché i tre
libri fossero spediti per corriere internazionale, ma solamente dopo qualche giorno dall’acquisto. Ricordate
dove li avete spediti? Avete gli indirizzi? Non erano tre indirizzi diversi,
era un unico indirizzo, una libreria antiquaria di Firenze, una libreria del
centro. Se conosco Firenze? Sì, un
poco, e credo di avere capito dove può
essere. Vi ringrazio, farò delle ricerche. Quei libri mi interessano in
modo particolare, cercherò di ritrovarli. Chi ha acquistato i tre libri può
essere la stessa persona che ha acquistato Rimbaud? Molto improbabile.
Ah, c’è un’ultima cosa, molto importante. Ci sono delle altre persone che
cercano quei tre libri. Se qualcuno dovesse venire a chiedere queste stesse
notizie, vi prego di non dire assolutamente niente di quello che sapete, e
soprattutto non dite che qualcuno è
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Litterature
Litterature
già stato qui a fare le stesse domande.
Si tratta di una questione molto delicata, e parlare troppo potrebbe essere
pericoloso anche per voi. No, non vi
sto minacciando, tutt’altro. Non è
certo di me che dovete avere paura, il
pericolo viene da un’altra parte.
Tratto liberamente
dal romanzo “Jed, Ced, Zed”
PASTICCIOTERAPIA
PsicoBudino al cioccolato
di Andrea Caneschi
[email protected]
Ieri sera cena con gli amici.
Menù spettacolare, di grande successo:
lasagne ai carciofi, delicatissime e apprezzatissime; agnello in crosta, tenero,
saporito e meno pungente, con il suo
particolare gusto forte diluito dalla crosta con buccia di limone aglio e prezzemolo: pregevole. Infine, ultimo ma non
ultimo, budino al cioccolato con
panna.
Preparazione del budino al cioccolato:
prima di tutto psicologica (cosa succede del cuore morbido del budino se
la cottura non sarà perfetta?), poi l’organizzazione: servono almeno quattro
ore - a me, naturalmente - per completare l’opera, partendo dalla infornata
del Pan di Spagna, che sarà poi sbriciolato nell’impasto di cioccolato e per
amalgamare latte, cioccolato, zucchero,
uova, eccetera.
Intanto la mattina era passata alla ricerca della materia prima e degli utensili necessari, secondo la logica che
pezzo per pezzo si tira su una pasticceria intera.
Risultato ineccepibile, con qualche
ansia e un’ora e mezzo di cottura a bagnomaria in forno: sembra facile il bagnomaria - pare da Miriam, sorella di
Mosè, mitica alchimista -, ma non riesco mai a far tornare i miei tempi con
quelli degli esperti, miei consulenti.
Alla fine, ottima cottura, perfetto distacco dalla forma, momento massimo
di angoscia per il futuro del budino.
A tavola, quando lo presento, qualcuno
è incredulo, l’hai fatto tu? Non ci
credo... Poi si convince e attacca a dire
che sì lui lo ha fatto tanto volte e così e
cosà, come sono bravo io - lui! - e poi
comunque chi non sa cucinare fa dolci.
Fanculo, detto con la mia nota educazione e rispetto. Insomma, grande successo. Mi chiedo come farò a
migliorare se viaggio a questi livelli già
adesso.
Budino al cioccolato alla maniera di Ada
(liberamente tratto da Ada Boni, Il talismano della felicità, Carlo Colombo Editore in Roma, 1952)
Per otto persone:
Latte, l. 1 – Cioccolato fondente, g. 100 –
Zucchero, g. 100 – Pan di Spagna, g. 100
– Uova intere, 4
Si fa sciogliere il cioccolato, ridotto in piccoli pezzi, nel latte caldo. Si aggiunge lo
zucchero e il Pan di Spagna (chi non volesse cimentarsi nella fondamentale esperienza della preparazione del Pan di
Spagna, può ricorrere a savoiardi commerciali). Si mescola il tutto e lo si lascia
sobbollire per una decina di minuti, continuando a mescolare perché non si attacchi. Si sbattono bene le uova con una
frusta e si versano nel composto del latte,
che avremo provveduto a filtrare con un
colino e lasciato raffreddare. Si mescola
per amalgamare il tutto e si versa in una
forma da budino unta di burro e velata di
zucchero, se ci piace arricchire. Si cuoce a
bagnomaria, in forno caldo a 180° in un
recipiente che accolga lo stampo, con l’acqua calda che arriva ai due terzi della
forma. Attenzione a non far bollire l’acqua del bagno, che rassoderebbe il budino
e lo riempirebbe di bolle d’aria (qualche
cubetto di ghiaccio a portata di mano, da
versare nel bagno, consente un sicuro controllo). Un’ora e più di cottura, finché il
budino non sarà ben rappreso. Togliere
dal forno, lasciar raffreddare e conservare
in frigo. Sformare al momento di servire,
pregando che l’opera tenga e non si afflosci miseramente sul piatto di portata.
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A fianco Fuori dal giro, Tecnica mista su
tela cm 30x30 - Anno 2012 Collezione
privata, sotto mater Olio, acrilico su
tela, Cm 100x120 - Anno 2002 Collezione privata. In basso a sinistra acqua
piovana, Olio, acrilico su tela Cm
150x150 - Anno 2007 Collezione privata e a destra l’erba del vicino, Acrilico
su 49 tele Cm 90x90 - Anno 1996 Collezione privata
di Cinzia Assante
[email protected]
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ipercorrere il lavoro finora
fatto da Lorenzo Lazzeri è
stato per me un viaggio affascinante e coinvolgente.
Come quando al cinema da spettatori
guardiamo un film e rubiamo un po’
dell’anima del regista, allo stesso
modo è stato come frugare nella sua
anima.
Ho conosciuto Lorenzo nel suo studio, una ex-fattoria immersa nelle colline appena fuori Firenze. Ho sempre
immaginato un artista come una persona con un Ego smisurato mentre lui,
artista vero, era gentile, mite, genuino,
semplice e, mentre ci mostrava i suoi
lavori, sembrava quasi scusarsi del
tempo che ci stava facendo perdere.
Lo avevo appena conosciuto e mi
sembrava di conoscerlo da sempre.
Mi chiesi il perché della scelta di isolarsi in quel paradiso appartato ma,
non ci misi molto a capire che da quel
contesto nasceva l’energia creativa che
lui traduce in arte.
Lorenzo Lazzeri elabora le immagini
di questo micro-cosmo con la geniale
lente della fantasia restituendoci l'interpretazione di ciò che solo lui vede.
I suoi lavori sorprendono per semplicità ed essenzialità. È la sua personale
capacità di vedere il mondo di tutti i
giorni, ripreso con immediatezza primitiva e fanciullesca. Lorenzo Lazzeri
coglie particolari, li elabora e li trasferisce in una realtà parallela dove l’idea
diventa oggetto e l’oggetto acquista
nuova vitalità, si veste di un’anima, ingenua e incantata, come la poesia che
l’artista ancora coglie nella natura intorno a noi. Come ha detto la giornalista Annamaria Salviati: “in fondo la
natura è semplice per chi la sa ascoltare e purtroppo stiamo vivendo in un
mondo di sordi”.
Il palcoscenico, cui l’artista dà vita, è
quella natura nella quale ha scelto di
con-fondersi.
Una natura, a tratti rumorosa, divertente e divertita, a tratti dispettosa,
dove i soggetti (pecore, pesci, uccelli)
ci scorrono davanti come in un carosello diretto da un regista impertinente.
Una natura, a tratti silenziosa, intima,
triste come un passato felice che non
ritorna più. Gli oggetti evocati, richiamati, cercati e messi a fuoco nella memoria della sua infanzia, trasferiti sulle
tele e nelle sculture, hanno la leggerezza e l’evanescenza di un ricordo, ma
allo stesso tempo l’immagine è così
potente da emozionare profondamente. I catini sotto la pioggia o l’ombra di una sedia che viene fuori dalla
tela, o una porta, sono visioni emerse
dal subconscio dell'artista e restituite
con pudore alla tela.
L’essere umano è stato ed è centrale
nella serie di tele “biancosolo”. Qui il
colore è negato e l’artista in un gioco
di chiaro-scuri si cimenta nella produzione di tele che assomigliano a grandi
ritagli di giornale. Grandi foto di
gruppo: donne con il burka, musul-
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La natura
divertente
e divertita
di
Lorenzo
Lazzeri
mani in preghiera, bambine e soldati
cinesi che silenziosamente marciano
allineati in una parata, vivaci spettatori
a una partita di calcio a cui è stato
tolto l’audio. I soggetti, ossessiva-
mente ripetuti, affollano le tele in religioso silenzio. Non appartengano
più a questo mondo assordante, ma a
un mondo ovattato, impresso con pazienza e bravura.
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L’ULTIMA IMMAGINE
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Back Yard sale, San Jose 1972
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Dall’archivio di Maurizio Berlincioni
Questo era un luogo
dove amavo fermarmi
tutte le volte che passavo da quelle parti.
C’era sempre un po’ di
tutto nel back yard di
questa specie di rigattiere occasionale e ovviamente, per uno
arrivato fresco fresco
dall’Italia come me,
anche le cose più banali
avevano sempre quel
tocco di esotico che suscitava curiosità e fascinazione. Si sono
abituati presto alle mie
incursioni ed è scattata
una complicità interessata che mi ha portato
in pochi mesi a riempire il garage dei miei
suoceri con ogni tipo di
inutili cianfrusaglie.
Quando ho capito che
non potevo andare
avanti così ho chiesto
aiuto ad alcuni amici
traslocando presso di
loro i miei nuovi tesori.
La cosa è durata poco
più di due mesi e
quando anche loro
hanno dato i primi
segni di insofferenza ho
deciso di interrompere
definitivamente questa
mia “non brillante” carriera di collezionista facendo anch’io la prima
ed ultima back yard sale
della mia vita!