Interventi della conferenza internazionale sui recenti studi sui
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Interventi della conferenza internazionale sui recenti studi sui
Cr St 32 (2011) 235-249 Interventi della conferenza internazionale sui recenti studi sui concili, Istanbul 1° ottobre 20101 Verso un Concilio di tutti gli ortodossi È con sincera gioia che abbiamo accettato l’invito a rivolgerci alla conferenza internazionale organizzata dalla cattedra Unesco sul pluralismo religioso e la pace, in quest’anno nel quale Istanbul celebra la sua prominenza come capitale culturale dell’Europa. Questo consesso sta esplorando le tendenze recenti degli studi sui concili delle Chiese, con particolare riguardo alle questioni che essi pongono alla teologia e alla storia ed è in questo contesto che abbiamo ascoltato la presentazione di quegli straordinari lavori che sono i Conciliorum 1 1_2011.indd 235 Quelli pubblicati in queste pagine sono alcuni degli interventi pronunciati alla Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili, svoltasi venerdì 1° ottobre presso l’Art Production Center di Istanbul, nel quadro delle manifestazioni che si sono celebrate nella metropoli sul Bosforo scelta come capitale europea della cultura per l’anno 2010. Nel corso della Conferenza sono stati presentati il terzo volume dei Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta (edito da Brepols Publishers) con le decisioni dei Concili ecumenici da Trento al Vaticano II (1545-1965) e il progetto di edizione digitale degli atti e delle decisioni di tutti i concili di tutte le Chiese. Ambedue i progetti editoriali sono promossi dalla Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna. Quello digitale, denominato “Mansi 3” (dal nome del vescovo lucchese Gian Domenico Mansi, che dal 1759 diede il via a Venezia alla sua “Amplissima collectio” degli atti di tutti i concili) prevede la creazione di una biblioteca on line con più di 600 volumi, in diverse lingue. Sono intervenuti alla Conferenza il professor Alberto Melloni (curatore dei progetti editoriali), il priore Enzo Bianchi, don Manlio Sodi, presidente della Pontificia Accademia Teologica, il professor İlber Ortayli, dell’Università Galatasaray di Istanbul. Ospite d’onore, il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I, che ha concluso la Conferenza internazionale con una lectio sull’importanza dei concili nella vita della Chiesa, elogiando gli «straordinari lavori» presentati durante il Convegno e soffermandosi sulla struttura conciliare e gerarchica della Chiesa ortodossa. 28-06-2011 12:12:21 236 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli oecumenicorum generaliumque decreta e il progetto di un Mansi 3 (nuova raccolta digitale di tutta la documentazione conciliare di tutte le Chiese di ogni tempo, ndr). Noi vi accogliamo in questa città magnifica che fa da ponte fra due millenni di civilizzazione cristiana e fra due continenti. In questa stupenda città la Chiesa di Costantinopoli fu fondata da Andrea, il primo chiamato degli apostoli, e qui il patriarcato ecumenico ha la sua storia ampia quanto i 17 secoli nei quali ha conservato in questa città il suo ufficio. Tutta intera questa regione trabocca di significato per la Chiesa cristiana: tutti i primi concili della Chiesa, che hanno provveduto di dottrina definitiva e formativa la fede cristiana, si sono tenuti non in Italia o in Grecia, ma qui, in Asia Minore. È qui che san Giovanni, apostolo dell’amore, scrisse il suo Vangelo ed è qui che san Paolo, l’apostolo delle genti, ha viaggiato per visitare le prime comunità apostoliche. La Chiesa ortodossa è senza dubbio caratterizzata dal suo senso profondo della continuità: non solo con quei tempi, ma anche con quei testi e insegnamenti della Chiesa apostolica. In particolare, in riferimento alla sua fede e alle sue pratiche e al portato di una tradizione vivente ininterrotta di vera fede vissuta nel servizio e nella vita, la Chiesa ortodossa aderisce alle decisioni dei primi sette concili ecumenici. In questa prospettiva, dunque, il progetto di una edizione critica dei grandi concili delle Chiese cristiane – sia nella pubblicazione sia nella forma di una collezione digitale che raccoglie tutti gli atti e tutti i documenti dei concili delle Chiese lungo i secoli, in tutte le lingue ed alfabeti – si colloca al centro della dottrina ortodossa ed al cuore della spiritualità ortodossa. Perciò lasciate che io delinei brevemente l’importanza di questo eccezionale evento culturale. Per la Chiesa ortodossa la conciliarità deriva dall’essenza stessa di Dio. La dottrina fondamentale della Santa Trinità – l’insegnamento su Dio come tre distinte persone, anziché come una divinità monolitica – sottostà a tutta la nostra teologia. La salvezza stessa è sempre intesa in termini di relazione fra persone: implica la personalità e coinvolge la comunione. L’intero concetto di Dio in relazione all’umanità e al mondo è una via di compagnia e di condivisione. La descrizione classica della natura conciliare di Dio si trova nel libro della Genesi, fonte rispettata da tutte le tre religioni monoteistiche: è la storia raccontata nel capitolo 18 sulla ospitalità di Abramo e di Sara che accolgono tre stranieri nel deserto di Palestina ed è 1_2011.indd 236 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 237 stata interpretata artisticamente nel capolavoro di Andrei Rublëv, la cui celebre icona svela le tre persone della Santa Trinità che siedono attorno al calice della comunione. È nell’insegnamento sulla Santa Trinità, e non da concezioni mondane del potere o dell’autorità, che si fonda l’intera struttura conciliare e gerarchica della Chiesa ortodossa. La Chiesa ortodossa non ha un’autorità centralizzata o una leadership centralizzata: essa invece esprime una costellazione di Chiese sorelle, eguali e indipendenti, fra le quali il patriarcato ecumenico si colloca storicamente e tradizionalmente al primo rango. In questo modo il patriarcato ecumenico è investito di un primato d’onore e di servizio entro la cristianità ortodossa sparsa nel mondo. La sua autorità non consiste nell’amministrazione, ma nel coordinamento. Ciò non è un segno di debolezza, ma precisamente di conciliarità. Dunque la Chiesa di Costantinopoli serve da primario punto focale di unità, favorendo il consenso fra le varie Chiese ortodosse. Perciò il lavoro sugli atti degli antichi concili è un contributo d’incalcolabile valore alla comprensione della mente della Chiesa antica. È nostra fervente preghiera e speranza che questa edizione prenda in considerazione la distinzione fra i diversi concili, alcuni dei quali si occupano di punti critici della dottrina teologica, altri sono intesi a risolvere questioni canoniche e altri ancora includono decisioni di carattere confessionale, amministrativo, liturgico e pastorale. Il patriarcato ecumenico assisterà volentieri questo proposito, fornendo il proprio bordone per la parte sui concili della Chiesa ortodossa specialmente del secondo millennio. Infine la nozione di conciliarità ha catturato l’interesse dell’intero mondo ortodosso in questi anni, specie dopo che i capi della Chiese ortodosse autocefale si sono riuniti a Istanbul nell’ottobre 2008 e hanno dichiarato il loro impegno nel processo di preparazione del Santo e Grande Concilio che – con la grazia di Dio – sarà celebrato con la partecipazione di tutte le Chiese sorelle ortodosse non appena saranno superate alcune difficoltà canoniche e si saranno approntate le procedure appropriate. Per questo la sinassi (assemblea liturgica di vescovi, ndr) del 2008 ha deciso di attivare l’accordo di consultazione interortodossa di 15 anni prima per il grande concilio, al fine di risolvere le questioni pendenti nella diaspora ortodossa. Così il patriarcato ecumenico, nel suo status e responsabilità di coordinatore della questioni panortodosse, ha già convocato e continuerà a convocare incontri panortodossi ai quali vengono invitate le Chiese autocefale. 1_2011.indd 237 28-06-2011 12:12:22 238 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli Amati partecipanti a questo incontro: dalle nostre brevi osservazioni sull’importanza dei concili dei primi secoli per l’insegnamento e la vita della Chiesa nei nostri giorni, voi comprenderete perché il lavoro inteso a studiare questi preziosi atti dei concili costituisca un servizio senza pari reso al mondo intero. È un lavoro per il quale tutti i cristiani ortodossi saranno per sempre grati e che in molti modi ha influito nell’ispirare il revival d’interesse ortodosso per gli sviluppi e le decisioni della Chiesa antica. È un lavoro che dà forma alla missione stessa e alla visione del futuro propria della Chiesa ortodossa. Perciò ci congratuliamo sinceramente con tutti coloro coinvolti in questo sacro progetto di preservare gli atti dei concili ecclesiastici per la posterità e di tutto cuore preghiamo che i frutti di questo sforzo siano sempre più accolti e apprezzati dai nostri contemporanei – siano essi religiosi o laici, studiosi impegnati o un pubblico più vasto. Per questo applaudiamo anche alla decisione di onorare questo progetto durante l’anno dei festeggiamenti culturali della città di Istanbul. Bartholomeos I Arcivescovo di Costantinopoli e Patriarca ecumenico La Chiesa è una comunione Nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei vescovi del 1985 si è detto che «l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio Vaticano II deve essere individuata nella ecclesiologia di comunione», e questa constatazione è ormai ampiamente condivisa nella Chiesa cattolica: possiamo dire che su di essa molti sono stati i contributi teologici, tra i quali paiono decisivi quelli di Jean Jérôme Hamer, di Jean-Marie Roger Tillard, di Ioannis Zizioulas, di Walter Kasper… Ma un’autentica teologia è capace di generare anche una spiritualità o, per meglio dire, un’autentica teologia è sempre spirituale, pneumatica, capace cioè di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano e della comunità. D’altronde, la parola koinonía nel Nuovo Testamento 1_2011.indd 238 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 239 indica innanzitutto la vita della Chiesa nata dalla discesa dello Spirito Santo, quella vita «epì tò autò» (At 2, 44), perseverante nella didaché apostolica, nella frazione del pane, nella preghiera. La parola koinonìa riassume le perseveranze essenziali alla Chiesa nascente e le conferisce un volto, sicché la Chiesa è epiphàneia della koinonìa trinitaria, una koinonìa partecipata nella dynamis dello Spirito Santo attraverso la comunione apostolica (cfr. 1Gv 1, 3.6), una koinonìa che è compimento della salvezza annunciata dal Vangelo. Quando noi cristiani diciamo comunione, designiamo in primo luogo il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio, ma diciamo anche – essendo noi syn-koinonòi, compartecipi (cfr. Fil 1, 7; Ap 1, 9) – che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonìa è dunque “essenza”, non “nota” della Chiesa. E se la vita del cristiano e della Chiesa è vita secondo lo Spirito Santo, cioè originata dallo Spirito, e vita in Cristo, allora la spiritualità non può che essere spiritualità di comunione. In altre parole: la vita del cristiano e della Chiesa deve essere plasmata dalla comunione, la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia, ma realtà costitutiva. La koinonìa è forma Ecclesiae! Certamente, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della Chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. Del resto, vediamo che essa risulta ferita, offesa, già nella Chiesa degli inizi, come ci testimonia il Nuovo Testamento (cfr. 1Gv 2, 18; 3Gv 9-10…); nondimeno, allora come adesso, nella Chiesa è custodita e perseguìta la volontà di Dio che incessantemente chiede la realizzazione della comunione vi sibile del corpo di Cristo, l’essere uno (en èinai) come il Padre e il Figlio sono uno (Gv 17, 11). Tuttavia c’è da chiedersi: i cristiani sono consapevoli di questa necessità radicale della comunione quale forma della loro vita e della vita ecclesiale? A questo riguardo, a me pare importante che nella Novo millennio ineunte papa Giovanni Paolo II sia riuscito non solo a indicare la forza della koinonìa, ma abbia chiesto una spiritualità della comunione, specificandola nelle sue manifestazioni e realizzazioni e riprendendo il lessico caro ai Padri medievali che parlavano della comunità cristiana come “casa di comunione”, capace perciò di essere “scuola di comunione” (Novo millennio ineunte 43). Sì, perché l’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in strumenti e strutture! Ma questo è possibile e autentico solo se si percorre un cammino 1_2011.indd 239 28-06-2011 12:12:22 240 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli spirituale, solo se si riesce a instaurare nel tessuto quotidiano delle Chiese una spiritualità di comunione. E nella sua lettera apostolica Giovanni Paolo II delinea questa spiritualità: essa è da contemplarsi innanzitutto nel mistero della Trinità di Dio che abita in noi e fa di noi cristiani la sua dimora. Si tratta perciò, dice Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere una capacità di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (come affermava Jean-Paul Sartre), ma è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza. No, non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può, simultaneamente, non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo. A queste indicazioni lasciateci dalla Novo millennio ineunte vorrei aggiungere alcune urgenze per una spiritualità della comunione che sia veramente ispirata dalla Ecclesiae primitivae forma. Innanzitutto, l’esigenza che la comunione sia plurale. Non si dimentichi mai che la pluralità, la diversità è attestata dagli e negli scritti fondatori della nostra fede. Dell’unico Signore Gesù Cristo – «lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8) – ci sono stati dati quattro Vangeli, cioè quattro annunci diversi, perché non la fissità di un libro, di uno scritto, bensì la dinamicità dello Spirito Santo è all’origine del cristianesimo. C’è fin dall’inizio pluralità di espressioni scritturistiche, di ecclesiologie, di concezioni cristologiche, di prassi liturgiche, di testimonianze e forme della missio, di accenti spirituali… Questa pluralità – che riflette la policromia, la multicolore sophìa di Dio (cfr. Ef 3, 10) e l’inesauribilità del mistero di Cristo accolto in culture diverse – è ricchezza di doni, ma è anche negazione di ogni fondamentalismo e di ogni integralismo cristiano. Sì, se si accoglie la diversità come un dono, e non la si ritiene un’anomalia, se la Chiesa “catholica” sa accogliere la particolarità delle Chiese locali, se sa essere grata delle ricchezze e dei tesori che le vengono apportati dalle varie culture e tradizioni, e riesce ad attuare lo scambio di tali ricchezze tra le Chiese particolari, allora essa diventa davvero la Chiesa in cui risplende «la multiforme sapienza di Dio» (Ef 3, 10), «la multiforme grazia di Dio» (1Pt 4, 10). 1_2011.indd 240 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 241 D’altronde, la teologia, la liturgia, la spiritualità, il diritto non possono essere elaborati e conosciuti soltanto a partire da un unico centro, ma dovrebbero essere laboratori in cui confluiscono i contributi di esperienza delle diverse Chiese locali: esperienze vissute, condivise e anche corrette nel dialogo e nel confronto tra le Chiese, animato dallo Spirito di comunione. Certo, qui si pone anche un problema non piccolo: c’è un limite alla diversità, che conosciamo come ricchezza ma a volte anche come possibile tentazione che conduce alla divisione, all’opposizione reciproca? Questione delicata – riconosce il metropolita Zizioulas – che concerne soprattutto la problematica ecumenica. E con sapienza egli dichiara che «la condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità». Questa del resto è l’applicazione ecclesiale della parenesi paolina sull’unità del corpo, sulla possibilità di scandalizzare un membro, sulla carità che deve sempre prevalere: il rapporto “uno-molti”, “unità-diversità” è sempre da viversi nell’obbedienza dell’unico corpo e della diversità dei doni dello Spirito Santo (non c’è vita “en Christò” senza la koinonìa dello Spirito Santo). Per usare il linguaggio di san Massimo il Confessore, la “differenza” (diaphorìa) è positiva, ma non deve mai diventare “divisione” (diàiresis). Certamente – va ribadito con forza – questa assunzione della diversità e dell’alterità non apre lo spazio al relativismo se si accetta che in ogni incontro e confronto regni, come terzo salvifico, Gesù Cristo, il Kyrios. È lui, il Kyrios, che fa stare insieme mentre distingue, che accomuna mentre personalizza, che tutti conduce verso il Regno veniente. E in questa spiritualità di comunione il riconoscimento del Kyrios ricorda e assicura che la diversità dei doni si compone anche nella preghiera: la preghiera gli uni per gli altri, la preghiera comune, vera epiclesi di un’unica eucaristia. È nella preghiera che noi portiamo tutto ciò che siamo e anche tutto ciò che ancora non siamo, ma che dobbiamo diventare secondo la volontà e la chiamata del Signore. La preghiera che dobbiamo fare con insistenza è che il Signore ci conceda di vivere questa comunione plurale, così che trovi autentica realizzazione la descrizione del corpo ecclesiale lasciataci da Anselmo di Havelberg (XII secolo) nei suoi Dialoghi: Unum corpus Ecclesiae, quod Spiritu Sancto vivificatur, regitur et gubernatur… unum corpus Ecclesiae uno Spiritu Sancto vivificari… semper unum una fide, sed multiformiter distinctum 1_2011.indd 241 28-06-2011 12:12:22 242 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli multiplici vivendi varietate (Dialoghi I, PL 188,1144). Il Signore Gesù, che prima di passare da questo mondo al Padre ha pregato per l’unità dei credenti in lui, ci conceda di essere realmente quest’unico corpo multiformiter distinctum, vivificato dall’unico Spirito Santo. Così, nella storia noi già parteciperemo al raduno escatologico dei figli di Dio dispersi, e seguendo Gesù Cristo vedremo cadere i muri divisori dell’inimicizia e saremo partecipi della sua pace (cfr. Ef 2, 14-18). Se siamo autentici discepoli di Gesù Cristo, tutto dobbiamo predisporre, sentire e operare in vista della comunione con lui che tutto vuole reintestare a sé, perché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor 15, 28). Sì, ogni spiritualità cristiana può solo e sempre essere una spiritualità di comunione: lotta spirituale contro Babele, epiclesi di rinnovata Pentecoste! Enzo Bianchi Priore della Comunità monastica di Bose La recherche en théologie liturgique. Études et publication des sources Pour qui s’occupe de recherches et d’études sur les mouvements de la vie religieuse, il est évident que la liturgie se trouve toujours au premier plan; alors que, pour les uns, elle est un objet de travail tranquille, pour les autres elle est source de vigoureuses polémiques. Il n’y a pas de doute que la liturgie est une des grandes forces appelées à collaborer à la construction du monde nouveau de l’esprit et de la foi. Aussi bien, ceux qui, de manière scientifique ou pratique, s’emploient à faire revivre la liturgie, collaborent – sans peut-être s’en apercevoir – à des finalités plus élevées. Si nous voulions formuler dans une synthèse les sources de la vie spirituelle et les lois fondamentales de l’être, nous ne saurions mieux faire que de les exprimer dans ces mots: fontes et ordo; les sources de la vie spirituelle et les normes fondamentales de l’être. La liturgie devrait être ces deux choses: la source et la norme de vie. Ce sont là les expressions par lesquelles, en 1926, Cuniberto Mohlberg introduisait son article dans la revue La Scuola Cattolica sous le titre: La liturgie envisagée comme une science (La liturgia conside- 1_2011.indd 242 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 243 rata come scienza 54 [1926] 401-421). Paroles chargées d’actualité, qui conservent aujourd’hui encore toute leur force de convinction en engageant la science liturgique et plus généralement la théologie à poursuivre leur effort sur le chemin de la recherche des sources. C’est la raison pour laquelle le Président de la Pontificia Academia Theologica a tenu à être présent aujourd’hui en cette heureuse circonstance où on préentes le projet Mansi 3: la digitalisation des documents de tous les Conciles du Ier et du IIe millénaire. Pourquoi une référence dans ce cas à la science liturgique? Les questions débattues dans les documents des synodes concernent, directement ou indirectement, le culte (lex orandi), mais toujours dans une relation dialectique avec le contenu de la foi (lex credendi) et avec la vie en Christ (lex vivendi). D’où le très grand intérêt du théologien appelé par vocation à approfondir la traditio Ecclesiae. La “vocation” du théologien. Parmi les diverses formes de ministères présents dans l’Église, celui du théologien n’est pas d’importance secondaire. À chaque période de son histoire, la communauté ecclésiale doit répondre au projet de Dieu, en dialogue constant avec son temps, avec les cultures, avec les grandes et les petites mutations spirituelles, et avec les exigences auxquelles l’Église elle-même doit faire face pour aller de l’avant et rester dans la vérité. Les moments de crise et de tension ne manquent pas, mais c’est précisément ici que la “vocation du théologien” se développe et se réalise pour «acquérir, en communion avec le Magistère, une intelligence toujours plus profonde de la Parole de Dieu contenue dans les Écritures inspirées et transmises par la Tradition vivante de l’Église». Telles sont les expressions que nous lisons au n. 6 de l’Instruction sur la vocation ecclésiale du théologien, publiée par la Congrégation pour la Doctrine de la Foi le 24 mai 1990. Parmi les nombreuses perspectives présentes dans ce document, après avoir rappelé que la vérité est un don de Dieu à son peuple (I), on y met dûment en évidence la “vocation” du théologien (II) en affirmant que «la théologie contribue à faire en sorte que la foi devienne communicable, et que l’intelligence de ceux qui ne connaissent pas encore le Christ puisse le chercher et le trouver» (n. 7). De là la nécessité que «le théologien soit attentif aux exigences épistémologiques de sa discipline, aux exigences de rigueur critique, et donc au contrôle rationnel de chaque étape de sa recherche» (n. 9). En restant dans la même ligne le document affirme encore: «Le théologien, qui ne doit jamais oublier qu’il est lui aussi membre du 1_2011.indd 243 28-06-2011 12:12:22 244 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli peuple de Dieu, doit se montrer respectueux à son égard et s’efforcer de lui dispenser un enseignement qui ne lèse en aucune façon la doctrine de la foi» (n. 11). À partir de ces affirmations et d’autres encore, le document s’arrête successivement sur le magistère des Pasteurs (III), sur le rapport entre magistère et théologie (IV), avant de conclure par l’invitation à persévérer «dans la doctrine de vérité et de liberté entendue depuis le commencement» au service de la Parole et du peuple de Dieu (n. 42). C’est sur cet horizon – avec les développements ultérieurs contenus notamment dans la Lettre encyclique Fides et ratio de Jean-Paul II (14 septembre 1998) – que se meut également le ministère du théologien, en ayant pour objectif d’élaborer et de développer une réflexion en dialogue avec le Magistère et à son service, à la lumière et à l’école de la Tradition des Églises, en vue du développement et de l’approfondissement de la foi du peuple de Dieu. La recherche en liturgie à partir des sources. Sur les secteurs, sur la méthode et sur les objectifs de la recherche dans le champ de la théologie liturgique sont apparus de nombreux travaux, surtout à la suite des requêtes du mouvement liturgique et cela jusqu’à nos jours. Mais n’oublions pas que la science liturgique a débuté dès le milieu du XVIIIe siècle sous l’impulsion du cardinal Prospero Lambertini, devenu par la suite le pape Benoît XIV. C’est dans ce contexte qu’il convient aussi de situer la contribution importante qu’a apportée la publication des sources antiques déjà au XVIIe siècle, grâce aux travaux des cardinaux Bona († 1674) et Tommasi († 1713), ainsi que des savants Mabillon († 1707), Lebrun († 1729), Martène († 1739), Muratori († 1750), Bianchini († 1764), et d’autres, avant d’arriver aux innombrables éditions apparues au cours du XXe siècle. La recherche centrée principalement sur les sources, et donc sur la connaissance de la traditio Ecclesiae codifiée et exprimée dans le langage de la théologie liturgique, permettra d’avoir à notre disposition un cadre toujours plus vaste et plus objectif, capable d’ouvrir de nouvelles pistes aux conséquences très variées. Si les événements et les mouvements de la pensée théologique typiques du XIXe siècle doivent beaucoup à ce retour aux sources, ils sont aussi le signe éloquent des développements naturels que l’étude de ces sources comportait. Ainsi l’on comprend mieux ce que la constitution Sacrosanctum Concilium a établi en matière d’enseignement de la liturgie, au n. 16. Outre qu’elle lui assigne sa place «parmi les disciplines princi- 1_2011.indd 244 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 245 pales» – une requête qui continue de faire problème pour beaucoup en raison de l’incommunicabilité des savoirs qui caractérise aussi la théologie –, le fait qu’elle prescrit d’enseigner la liturgie «sous les aspects théologique, historique, spirituel, pastoral et juridique» ouvre des perspectives dans le domaine de l’étude et de la recherche que d’autres disciplines n’ont pas, du moins de manière directe et explicite comme la liturgie. C’est dans cette optique que le théologien liturgiste salue lui aussi l’entreprise Mansi 3, en formulant le vœu qu’une plus profonde connaissance des sources synodales permette de mieux comprendre la Divine Liturgie, qui constitue la plus haute expression symbolique d’un itinéraire synodal dans le temps. L’exigence de fond est garantie par l’interaction essentielle entre lex credendi, lex orandi et lex vivendi: une réalité dans laquelle se meut toujours l’itinéraire synodal de toutes les Églises de tous les temps et de tous les lieux. Le secret d’une “méthode” qui mène à une vision de synthèse. Si les nombreuses études réalisées surtout après le Concile Œcuménique Vatican II dans le domaine de la théologie liturgique se réfèrent à la pensée élaborée au temps de nombreux Pères de l’Église, elles ont profité aussi de l’apport de l’expérience historique. À la suite du décret Optatam totius 16 on voit se dessiner une perspective de synthèse, non pas fermée sur elle-même, mais continuellement ouverte à la fois sur l’approfondissement des diverses disciplines qui interfèrent dans l’élaboration de la synthèse elle-même, et sur les réactions vitales qu’une telle problématique relance. La trilogie signalée plus haut réapparaît encore non pas comme un jeu de paroles, mais comme la définition d’une donnée de fait: ce que l’on célèbre (lex orandi) est la foi de l’Église (lex credendi) pour la vie des croyants en Christ (lex vivendi). La conséquence qui découle d’une telle vision est qu’il faut aborder la liturgie non pas tant comme un rite que comme une expérience théologique unique: une expérience qui renferme en elle-même une théorie et une praxis, partant toujours de la célébration. Dans la situation complexe où se débat aussi la science théologique, remettre le culte au centre c’est offrir la possibilité d’une synthèse intégrale dans laquelle lex credendi, lex orandi et lex vivendi retrouvent leur point de convergence le plus radical dans une expérience réelle, quoique in mysterio, de la Très Sainte Trinité. Quand Fides et ratio au n. 13 parle de l’intelligence du mystère de la part de la raison, aidée en cela par «les signes présents dans la 1_2011.indd 245 28-06-2011 12:12:22 246 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli Révélation», l’encyclique aboutit à une affirmation qui constitue le meilleur complément à tout ce que nous venons de dire: dans le travail d’approfondissement du mystère on est nécessairement renvoyé «à l’horizon sacramentel de la Révélation et en particulier, au signe eucharistique où l’unité inséparable entre la réalité et sa signification permet de saisir la profondeur du mystère». Presque au commencement de son Encyclique, après avoir évoqué les grandes interrogations que l’homme se pose, Jean-Paul II écrivait: L’église n’est pas étrangère à ce parcours de recherche, et elle ne peut l’être. Depuis que, dans le Mystère pascal, elle a reçu le don de la vérité ultime sur la vie de l’homme, elle est partie en pèlerinage sur les routes du monde pour annoncer que Jésus Christ est «le Chemin, la Vérité et la Vie » (Jn 14, 6). Parmi les divers services qu’elle doit offrir à l’humanité, il y en a un qui engage sa responsabilité d’une manière tout à fait particulière: c’est la diaconie de la vérité. D’une part, cette mission fait participer la communauté des croyants à l’effort commun que l’humanité accomplit pour atteindre la vérité et, d’autre part, elle l’oblige à prendre en charge l’annonce des certitudes acquises, tout en sachant que toute vérité atteinte n’est jamais qu’une étape vers la pleine vérité qui se manifestera dans la révélation ultime de Dieu (n. 2). C’est dans la ligne de cette “diaconie de la vérité” que le théologien travaille à partir d’une connaissance attentive des sources. Le devoir de «s’enquérir des différents aspects de la vérité» conduit au désir de «faire part de quelques réflexions sur la voie qui conduit à la vraie sagesse, afin que tous ceux qui ont au cœur l’amour de la sagesse puissent s’engager sur la bonne route qui permet de l’atteindre et trouver en elle la récompense de leur peine et la joie spirituelle» (n. 6). Tels sont les vœux et les souhaits de la Pontificia Academia Theologica, en cette période pendant laquelle l’Église de Rome se prépare à célébrer le 50e anniversaire du Concile Œcuménique Vatican II, qui fut, si l’on tient compte du nombre des évêques particpants, le plus grand des synodes de tous les temps. Manlio Sodi Presidente della Pontificia Accademia di Teologia 1_2011.indd 246 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 247 Intervento di İlber Ortayli1 Your All Holiness, Eminenza, dear colleagues, ladies and gentlemen, It is an honour for me to be invited by professor Melloni to give an introductory paper on the history of the councils. Certainly it is not my duty nor my profession to talk about the history of Christian councils which covers almost 1.700 years of Christianity beginning with the Ecumenical council convened by the Christian emperor Constantine in Nicaea in 325 and then later in the year 787 the Ecumenical council under roman emperors of Istanbul, Constantinople, which was the final point of formation of the doctrines of the Orthodox Church. This Church was inherited and adopted by the administration of the Turkish Ottoman Empire and was established on principles and legal juridical and administrative structures which continued until the period of Tanzimat. Only after the restrictions and events of the Convention of Paris, European powers urged the Ottoman Empire to reform, and the orthodox church had to change the structures. That is another paragraph. Certainly the situation of the minorities is another fact. ‘Minorities’ is a term, a word imposed to our political life only in twentieth century. In the Ottoman Empire it was called communitas, millet. ‘Millet’ is as you know is an Aramaic word ‘mille’, community which was adopted by Jews, and others like the Arabs of Islamic faith. In the Ottoman Empire we had of course communities as defined by the ecumenical councils in the history of Christianity. The first in Nicaea will not be mentioned here. The council of Ephesus 431, and shortly after Chalcedon (Kadköy) in 451 are two main points for Turkish history and especially for the administrative history of the Persian and Turkish empires. The Nestorians which had been excommunicated by this council had been welcomed by the Sassanid king of the Persian empire who gave them a place of exile in his empire. Nestorian Christianity also left monumenty and communities in the Ottoman Empire and in modern Turkey too. These are the Kurdish groups of Hakkari and Shah Zoor in the very eastern part of Turkey. Today they have disappeared due to migration to France and Sweden, but even during my youth one could easily meet them in the south eastern part of Turkey. Certainly Syriac Orthodoxy became a national religion and national faith of some Turkish groups before and after Islam. Some 1 1_2011.indd 247 Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento non rivista dall’autore. 28-06-2011 12:12:22 248 Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli Nestorian patriarchs were of Turkish origin in the very far eastern part of Turkey and China, in todays Xingjian province, Eastern Turkestan. In order to understand the pre-islamic and Islamic period of Turkish history one must study the Nestorian faith and Nestorian monasteries and council of Ephesus and this done now by very few and its history lies in darkness. Nestorians had been supported by Persian Sassanid empire against Byzantium just as the Turkish Empire in 16th and 17 centuries offered protection of protestant faiths and Protestantism against western Roman Catholicism. It is not an accident that such heritage is consciously inherited and adopted from the sources of medieval Persian Empire. The regulations on how to govern and how to cooperate with Christian communities is also Persian. It is a theoretical and practical heritage of this empire and late comers of Islamic states and the Turks. The last ecumenical council of 787 in Constantinople basically was a spiritual, theoretical and administrative discussion about iconoclasm. Certainly iconoclasm was the policy of the Roman church to adopt situation and to impose the rules of Christianity the tolerance and understanding towards newcomers the Arabs and Muslims. They had to show the basic principles and truths of Islam were also accepted by Christians, so there was no room for innovation. But then on the other had the formation of the Roman Orthodox church had been adopted by everyone. The Turkish Sultan, the founder of Top Kapi, in 1454 on Christmas pompously day accepted the patriarch Gennadios. It was the beginning that the principles of the basic structures of roman Orthodox church had been accepted and adopted by the Turkish empire till then, till the days of the convention of Paris, when others churches had to be accepted as equal partners of Christian faith in the empire. In those days the ecumenical patriarch in the empire was not primus inter pares but the first and he had the supreme power of representing all Christians in the empire. However though the monophysite Armenian Gregorian church and the Copts, the Syrians and also the Nestorians did not officially accept this primacy they tolerated it. The Syrian church from time to time was listed in the official protocol of the empire as a member of the anti-Chalcedonian churches. The patriarch was supreme representative and always belonged to Orthodox church. This was not only during the ceremonies in the Capital but also in the provinces. Wherever there was a representative cleric of the Orthodox church, he had the first place in the ceremonies. This had to be changed after the convention of Paris by the forces of the western empire. 1_2011.indd 248 28-06-2011 12:12:22 Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili 249 The last paragraph, the ottomans never had a theoretical occupation never had a theoretical dispute about Christian councils. There is only one. The famous Ottoman historian and theologian Ahmed Cevde Paşa gave some information in his monumental history, Cevdet Paşa Tarihi about the history of the Christian councils but not in detail. It was out of interest and properly it was due to his official position as he was minister of justice for Christian councils. But besides his intentions, the Ottomans never talk about theological matters but organise the communities after conquering each one according to the historical decisions and practice of Christian councils. They divided them according to Ephesus and Chalcedon into Chalcedonian and anti-Chalcedonian groups. For them there was no mention of some Armenian groups which accepted the supremacy of Orthodox church and they never mention dispute between these two churches Armenian Gregorian and Orthodox Church in Constantinople and Coptic church or Syriac one but the administrative party and the spiritual organisation had been well accepted. It is a fact that the church had to obey the rules the decisions of the Orthodox church of 787 before the pre Ottoman and seljukid times. The Roman epoch has been adopted and accepted by Sultan Mehmet Fatih. It is a fact. Within the Turkish Empire it is the ecumenical Orthodox Church. Anywhere you have the human being and anywhere you have a human body this is within the boundary of the Oikumene. The Orthodox Church is immanently in the Byzantine Orthodox church. They never called it Yunnan or Hellen or Greek Orthodox Church. The basic problem of today was not discussed in former times. It is a fact that 18th and 19th century Ottoman Empire was a place where all these communities which had emerged lived with their different concepts of Christianity. You cannot find anywhere else such a powerful society and that was the Ottoman Empire. Thank you Your Holiness. Thank you for being here. İlber Ortayli Director of Topkapı Palace Museum, Istanbul 1_2011.indd 249 28-06-2011 12:12:22 1_2011.indd 250 28-06-2011 12:12:22 Cr St 32 (2011) 251-355 Recensioni Maurice Casey, The Solution to the ‘Son of Man’ Problem, (Library of New Testament Studies 343), T&T Clark, London 2007, pp. xvi+359 J.A. Fitzmyer, The One Who Is to Come, Eerdmans, Grand Rapids, Michigan/Cambridge, UK 2007, pp. xvi+205 Together these two books shed much light on the origins of the Christological titles “Son of Man” and “Messiah”. Such titles were not invented by the Early Church. Rather, they are rooted in Jewish traditions recorded in the biblical texts and other religious writings from the Second Temple period. Each of the two books traces this development. Whereas the Son of Man, as shown in Casey’s book, derives from an early interpretation of the relatively late biblical text Dan 7:14, the Messiah nevertheless is a title whose origins go back to Israel’s Anointed One and which was originally used with reference to the first kings of Israel like Saul and David. Casey’s monograph examines how the ordinary Aramaic expression meaning “man”, i.e., br (’)nš(’), became the Christological title ho huios tou anthropou “Son of Man” in Early Christianity. The author begins in Ch. 1 (1-55) by tracing the interpretation of the expression ho huios tou anthropou from the Patristic period down to modern times. He shows that right from the beginning its understanding derives from the Greek version of Dan 7:13, which is also reflected in the New Testament texts, e.g. Mrk 13:26//Mat 26:64//Luk 21:2; Mrk 14:62//Mat 26:65, rather than from the Aramaic idiom meaning “man” used by Jesus of Nazareth. In the historical Jesus’ own usage, Casey claims, the expression does not originally have a messianic sense. But one may ask if the meaning “man” is common in Aramaic. To answer this question, Casey offers in Ch. 2 (56-81) a study of 53 Aramaic passages from different periods of the language down to the Early Rabbinic writings where the expression is attested. According to Casey, the meaning is invariably generic, i.e., “man”, regardless of its grammatical form as determinate, indeterminate, or absolute state. He also argues that the indication of determination is more relevant for identifying the reference of the expression in concrete 1_2011.indd 251 28-06-2011 12:12:22 252 Cr St 32 (2011) use rather than its sense. In Jewish Aramaic texts alone, that is the Aramaic closest to Jesus’ own, over 30 times the expression simply means “man” and is used in reference to the speaker, or a group of people including the speaker, or someone else as clear from the context. Ch. 3 (82-115) presents a study of Daniel 7, the Similitudes of Enoch, and 4 Ezra 13. The purpose of this chapter is to critically examine the 19th century scholarly construct Menschensohnbegriff which gives a messianic reading of Dan 7. In contrast to the underlying assumption of this position, Casey suggests that the Son of Man in Dan. 7:13-14 is a symbol for the Saints of the Most High, a description of people of Israel rather than a messianic figure. He proceeds to show that neither in the Similitudes of Enoch is the term employed with an allusion to a messianic title. Whenever it occurs, the term retains its general meaning “man” and refers to Enoch himself. Much in the same vein, the author speculates that in all probability the original Hebrew of 4 Ezra 13 does not include the expression “the son of man”, but simply “man” – as suggested by the Latin version homo. Hence Casey denies that the Son of Man is predominantly used in a messianic context in Second Temple Judaism. The New Testament writings therefore must have gone their own way. The rest of Casey’s monograph focuses on this problem. In Ch. 4 (116-143) the author pursues the issues further by offering an Aramaic reconstruction of six authentic sayings of the Son of Man (Mrk 2:27-28; 9:11-13; 10:45; 14:21; Mat 11:19//Luk 7:34; Mat 12:32//Lk. 12:10 + Mrk 3:28-28). The next five chapters (144-245) also present the author’s Aramaic reconstructions of other New Testament passages where the expression the Son of Man occurs: Ch. 5: Mrk 2:1-12 (the healing of the paralytic); Ch. 6: Mat 8:19-20//Luk 9.57-58 (jackals have holes, but…). Ch. 7: Luk 12:8-9//Mat 10:32-33 and Mrk 8:38 (the Son of Man in the heavenly court); Ch. 8: Luk 22:48 (betrayed by a kiss). In Ch. 9 (200-211) Casey goes on to examine the groups of sayings stemming from Jesus predicting his passion, death, and resurrection (Mrk 8:31; 9:31; 10:33-34) using the same expression. The reconstruction of the remaining Son of Man sayings in the synoptic Gospels (e.g., Mrk 13:26 and 14:62) are given in Ch. 10 (212-245) where the expression ho huios tou anthropou is presented by Mark and other synoptic Gospels as a title for Jesus, linking it to Dan 7:13. Ch. 11 (314-319) draws together the results obtained from the reconstructions given hitherto and shows the transition from the Aramaic idiom meaning “man” into Greek ho huios tou anthropou and its use in the sayings. Since the Aramaic idiom cannot be simply transposed into Greek, the translation adopts the singular Aramaic when it is used with reference to Jesus. When referring to someone else, anthropos is used. But if the original is in the plural, the rendering avoids pluralizing ho huios tou ... as hoi huoi tou… simply because the term has in the meantime become a Christological title for Jesus. In Ch. 12 (274-313) Casey looks at the use of the expression in the 13 Johannine sayings. None of these, he notes, is a genuine saying and thus none reproduces the original Aramaic idiom meaning “man” in general. He then suggests that the use of the expression as a Christological title in the Gospel of John derives from the Synoptics, esp. Matthew. Summarizing the main results achieved in the foregoing chapters, the author highlights, in the concluding chapter (314-320), how the sayings of the historical 1_2011.indd 252 28-06-2011 12:12:22 Recensioni 253 Jesus differ in perspective from their Christological and messianic interpretation arising in the earliest phase of Christianity as reflected in the Gospels. Granting that one generally agrees with Casey, one may still ask what could have facilitated such an ordinary Aramaic expression meaning “man” to lend itself to a messianic interpretation. Were the early followers of Jesus, including the Syriac Christianity, ignorant about the genuine Aramaic usage so close to their own idiom? There must have been something that leads to that interpretation. To explore this matter further one must look at the development of the idea of the Messiah in the Biblical writings and extrabiblical writings as well. For this purpose, Fitzmyer’s The One Who Is to Come provides a masterly guide. The title of the book echoes Sigmund Mowinckel’s 1951 classic Han som kommer, known in its English translation appearing in 1956 as He That Cometh. Fitzmyer, however, adopts a more historical perspective to explain how the notion of the Anointed One gradually developed into that of a promised royal Messiah of the final age. He also treats more textual data, especially from Qumran, which were not readily available to Mowinckel. What follows here is just a brief outline of the book, showing how the author organizes the wealth of textual data into a systematic order. After some brief remarks on the general sense of the term “Messiah” in Ch. 1 (1-7), Fitzmyer presents, in Ch. 2 (8-25), passages from the Old Testament where the Hebrew word for Messiah is used with reference to kings (an unnamed king of the Davidic dynasty, e.g. 1 Sam 2:10; Saul, e.g. 1 Sam 24:7; David, e.g. 2 Sam 19:22; Solomon, 2 Chr 6:42; Zedekiah, Lam 4:20, and even the Persian king Cyrus, Isa 45:1), priests (Lev 4:3,516; 6:15), then prophets/patriarchs (1 Chr 16:22; Ps 105:15). Ch. 3 (26-32) highlights other passages that do not mention the term Messiah but are often regarded as the background for it: Gen 3; 49; Num 24:17; Gen 9:25-27; 12:3; Exod 12:42 and Deut 18:15-18. The author observes that the textual evidence points to diverse forms of the promise made by God to bless Israel, but cannot be taken as containing messianic prophecies or expressing some messianic hope. Ch. 4 (33-55) focuses on a group of texts that intimately link the royal Messiah to the Davidic dynasty, many of which are listed by Mowinckel as “the authentic messianic prophecies”. Even though a good number of these texts offer a picture of “the ideal king” of the Davidic lineage, they do not fully represent the idea of “the Messiah” as the future, eschatological realization of the ideal of kingship. Ch. 5 (56-64) shows how some passages in the Book of Daniel reinterpret the postexilic expectation of a political Messiah in function of the Davidic dynasty in the context of the historical events during the Hasmonean crisis: the Vision of Judgment in Dan 7:9-14, the Prophecy of the Seventy Weeks or Years (9:24-27); and the Final Consummation (12:1-3). To complete the discussion of the Old Testament, in Ch. 6 (65-81) the author notes that, concerning the continuation of the Davidic dynasty, there is no significant development in the Septuagint that shows a different understanding of the Hebrew passages. Ch. 7 (82-133) is a lucid exposition of a large number of texts documenting the development of Jewish Messianism during the pre-Christian centuries. The author begins by discussing passages in the Similitudes of Enoch which make mention of 1_2011.indd 253 28-06-2011 12:12:22 254 Cr St 32 (2011) someone who is sent by God for the deliverance of His people at the time of judgment. The Messiah here clearly refers not to a corporate group but to an individual. This is also echoed in a number of Qumran texts concerning two Messiahs or one Messiah. Also considered are texts that do not explicitly use the term, but in one way or another are messianic in thought. In this connection Fitzmyer inserts a discussion of two recent important monographs, namely O. Wise, The First Messiah: Investigating the Savior before Jesus (1999) and I. Knohl, Messiah before Jesus (2000). The survey continues with other significant pre-Christian Jewish texts, such as the Sibylline Oracles, 4 Ezra, 2 Baruch, the Testament of the Twelve Patriarchs, and other writings that contain references, direct or indirect, to Messiah such as the Apocalypse of Abraham and Philo’s writings. Ch. 8 (134-145) is dedicated to the analysis of the use of the term for Messiah in the New Testament. Its occurrences in Misnah, Targums, and other Rabbinic writings are discussed in Ch. 9 (146-181). In the concluding chapter (182-183) Fitzmyer underlines the diversity of Messianism throughout its history. The Messiah can be kingly in character, at other times priestly. Again, other forms have also existed. Such a diversity was also known to the emerging Christian communities. It is in such circles that a new awareness arises. The Messiah is experienced by them as the one who has come and is identified with Jesus of Nazareth who, for that very reason, now bears the name Jesus Christ, i.e., Jesus the Messiah. The messianic hope also takes a spiritual turn, abandoning its political and economic thrust in the earlier Jewish Messianism. This development of the messianic hope as shown by Fitzmyer can help to answer a question that is somehow left open in Casey’s monograph, i.e., how at some point an underlying ordinary Aramaic expression idiom “man” used by Jesus of Nazareth acquired a typically messianic sense in its Greek form ho huios tou anthropou in Early Christianity. Agustinus Gianto Pontificio Istituto Biblico Martin Hengel, Anna M. Schwemer, Jesus und das Judentum, Tübingen, Mohr Siebeck 2007, pp. 749 Das vorliegende Buch stellt die Summe von Martin Hengels und Anna-Maria Schwemers langjähriger Arbeit über Jesus und seine jüdischen Herkunft dar. Es lässt sich dank seiner ausführlichen Register und der minutiösen Arbeit mit historischen Quellentexten gut als Handbuch zur Geschichte Jesu verwenden. 1_2011.indd 254 28-06-2011 12:12:22 Recensioni 255 Das Leben Jesu Die eigentliche Darstellung des Lebens Jesu beginnt erst auf Seite 271. Sie folgt im Wesentlichen den Synoptikern vor allem dem Markusevangelium, entsprechend der heutigen Auffassung, dem ältesten der Synoptiker. Die Beschreibung des Lebens Jesu setzt daher mit Johannes dem Täufer ein und konzentriert sich auf die gut eineinhalb Jahre seines öffentlichen Wirkens, wie sie bei Markus begegnen. Dem geht ein Abschnitt über die Herkunft Jesu vorweg (S. 273–296). Jesus wächst in Galiläa auf. Dort tritt er auch als erstes öffentlich auf. In unmittelbarer Nähe der Heimat Jesu liegt die einflussreiche hellenistische Neugründung Sephoris. Sie ist allerdings kein einziges Mal in den Evangelien erwähnt. Benannt werden Jesus und seine ersten Anhänger nach dem bis zu seinem Wirken unbedeutenden Heimatdorf Nazaret (S. 280). Aus den Namen der Eltern und Geschwister Jesu lässt sich schließen, dass er aus einer „relativ gesetzesstrengen, ‚nationaldenkenden’, wahrscheinlich von pharisäischem Geist beeinflussten Familie“ stammte (S. 285). Dass Jesus und seine Familie davidischer Herkunft waren, halten die Autoren für wahrscheinlich (vgl. S. 292). Den davidischen Stammbaum Jesu bei Lukas halten sie für älter als den, den Matthäus bereits als eine schriftgelehrte Darlegung der Herkunft Jesu aus der Schrift rekonstruiert. Von Beruf ist Jesus Bauhandwerker, was die Autoren als ein handwerkliches Factotum im damaligen Baugewerbe beschreiben. Der τέκτων ist kein angesehener Beruf. Ein griechischer Handwerkskollege Jesu wird von seinen Zeitgenossen etwa als „Holznagel“ verhöhnt (S. 294). Der Einstieg in das öffentliche Wirken Jesu bei Johannes dem Täufer legt sich für die Autoren auch insofern nahe, als die vom Täufer initiierte Bekehrungsbewegung auch bei Flavius Josephus dokumentiert ist. Josephus nennt den Täufer unabhängig von den Evangelien mit der gleichen auffälligen Bezeichnung ὁ βαπτιστής. Er kennt auch den Ort seiner Hinrichtung Machärus (S. 298f), den die Evangelien nicht erwähnen. Flavius Josephus wird von beiden Autoren oft als zuverlässige historische Quelle dieser Zeit herangezogen, gelegentlich – etwa im Fall der Herodias (S. 311) – sogar als zuverlässiger als die sporadischen Informationen der neutestamentlichen Quellen. Von ihm stammt die „einzige durchgehende historische Erzählung“ dieser Zeit (S. 39). Nach Hengel und Schwemer wurde Jesus bereits während seines irdischen Lebens von seinen Jüngern verehrt. Für die Jünger ist Jesus Lehrer und Herr. Zweimal wird Jesus in den Evangelien mit der hebräischen Intensivform „Rabbuni“ angesprochen (Mk 10,51; Joh 20,16). Johannes übersetzt es mit „Lehrer“. Rabbinische Gebetstexte sprechen allerdings Gott als ribbôn (rabbûn) an. Die Ehrenanrede Gottes mag auch die ursprüngliche Herkunft der Anrede Jesu sein (359f). In den Evangelien zeigt sich aber auch bereits der irdische „Anspruch“ Jesu, mit seinem Wirken die Herrschaft seines himmlischen Vaters in Israel heraufzuführen. Seinen Jüngern erzählt er von seiner Vision, in der er Satans Himmelssturz gesehen hat (Lk 10,17–20). Er weiß also, dass Satans Macht überwunden ist. Die Vollmacht, auf Schlangen und Skorpione zu treten, die er seinen Jüngern gibt, spielt auf Gen 3,15 an: Seine Jünger sind die Nachkommen Evas, die der Schlange das Haupt zertreten (Gen 3,15, vgl. S. 374). 1_2011.indd 255 28-06-2011 12:12:22 256 Cr St 32 (2011) Weitere Zeichen des „messianischen Anspruchs“, den Jesus schon Zeit seines Lebens erhebt, sind seine Einsetzung der Zwölf, der Einzug in Jerusalem, die Tempelreinigung und seine letzten Worte beim Abendmahl (Vgl. S. 554). Im „Jubelruf“ (Lk 10,21f; Mt 11,25-30) spricht Jesus von seiner göttlichen Sendung. Sein Lobpreis des Vaters lässt eine kunstvolle doppelte „Zwiebelstruktur“ erkennen (S. 392). Beide Autoren halten dazu fest: „Unseres Erachtens spricht nichts dagegen, diesen poetischen Preis der Zuwendung Gottes des Vaters zu den Unmündigen letztlich auf Jesus zurückzuführen.“ Nicht nur mit dem Abschnitt über die Herkunft Jesu auch bei der Auferstehung gehen die beiden Autoren über den Markusrahmen hinaus. Die einheitliche Überlieferung der Handschriften des Markusevangeliums endet in 16,8 mit der Flucht der erschrockenen Frauen vom leeren Grab. Die Erscheinung Jesu ist hier nur angekündigt aber noch nicht berichtet. Hengel und Schwemer halten aber mit 1 Kor 15 sowohl die Tradition vom leeren Grab als auch die Ersterscheinung vor Petrus für historisch wahrscheinlich (S. 646). Die unterschiedlichen Angaben der Evangelien über die Erscheinungen des Auferstandenen sprechen für sie nicht gegen deren historische Zuverlässigkeit. Die erste Erscheinung vor Petrus und darauf vor den Jüngern beruhe auf einer Tradition der galiläischen Gemeinden. Auch den Frauen ist der Auferstandene erschienen. Die Erscheinung am leeren Grab vor den Frauen sei in der Jerusalemer Gemeinde überliefert worden. Die vier Perioden des frühen Christentums Das vorliegende Buch ist als erster von vier Bänden einer Geschichte des Urchristentums geplant. Daher geht der Darstellung des Lebens Jesu auf den ersten 168 Seiten eine längere Einleitung voraus. Sie liefert die historischen Prämissen für das Gesamtwerk. Hier liegen aus theologie- und kirchengeschichtlicher Perspektive die eigentlich neuen Punkte der Darstellung der beiden Autoren. Martin Hengel hat seine Sicht des Neuen Testaments im Gespräch häufig als „neutestamentlichen Imperialismus“ bezeichnet. Die chronologische Grenze nach vorn hat er selbst bereits 1966 mit seiner Habilitationsschrift „Judentum und Hellenismus“ bis in die Zeit vor den Alexanderfeldzug gezogen. In den letzten Jahrzehnten hat er etwa mit seinen Beiträgen zur Johannesexegese die Grenzpfeiler seines Fachs bis weit in das zweite nachchristliche Jahrhundert hinein gesteckt. Dem entspricht die weit ausgreifende Periodisierung der vorliegenden Geschichte des Neuen Testaments bis etwa in das Jahr 200 (§ 1). Ihr folgt die Einteilung der Bände. Der erste Band behandelt das Leben Jesu bis zu seinem Tod. Darauf soll der zweite Band von der österlichen Urgemeinde bis zum Apostelkonzil handeln. Von dieser Zeit sprechen Hengel und Schwemer als „Urchristentum“ (S. 9). Mit dieser traditionellen Bezeichnung folgen sie Lukas, für den die Jerusalemer Gemeinde das Idealbild christlicher Gemeinde ist. Das lukanische Doppelwerk erhält daher für ihre Rekonstruktion der Geschichte des Christentums einen besonderen Wert (vgl. S. 230–233). In dieser ersten Zeit setzen die beiden Autoren die eigentliche Lehrentwicklung des frühen Christentums an (S. 9). Das Neue ihres Ansatzes liegt eigentlich darin, dass das Leben Jesu im ersten Band zu dieser ersten Zeit dazu zählt. Rudolf Bultmann hatte noch postuliert, dass Jesus selbst nicht Gegenstand einer Theologie des 1_2011.indd 256 28-06-2011 12:12:22 Recensioni 257 Neuen Testaments sein könne. Und selbst Klaus Berger hat in seiner „Theologiegeschichte des Urchristentums“ die Zeit Jesu noch weitgehend ausgeklammert und erst in seiner zweiten Auflage einige Elemente des Lebens Jesu ergänzt. Hengel und Schwemer sehen die Geschichte der frühen Kirche nicht im Bruch sondern in unbedingter Kontinuität zum Leben Jesu. Ohne die Voraussetzungen bei Jesus lässt sich nach ihnen die Entwicklung des frühen Christentums gar nicht verstehen. Den dritten Abschnitt frühchristlicher Geschichte bilden die 50 Jahre vom Apostelkonzil bis zum Anfang des zweiten Jahrhunderts (S. 12). In diesen Jahren erfolgt nach heutiger Datierung die Abfassung sämtlicher Schriften des Neuen Testaments. Der vierte Abschnitt umfasst die nachapostolische Geschichte der „frühesten Kirche“ (S. 19) im zweiten Jahrhundert. In dieser Zeit wird der Kanon des Neuen Testaments geprägt, und die christliche Lehre erfährt entscheidende Transformationsprozesse: die weitere Loslösung von seinem judenchristlichen Ursprungsmilieu und die Verkündigung der christlichen Botschaft im intellektuellen Milieu griechisch-römischer Stadtwelt einschließlich deren überzogener Merkmale in der Gnosis. Der letzte Band des geplanten Werkes soll daher von den apostolischen Vätern über die Apologeten bis zum Blick auf die drei Theologen Irenäus, Tertullian und Clemens Alexandrinus (S. 18) führen. Wieweit der nordafrikanische Rhetor Tertullian noch in diese frühchristliche Zeit hineingehört, lässt sich sicher diskutieren. Bei Clemens Alexandrinus erhält die christliche Lehre zum ersten Mal das Niveau akademischer Reflexion. Es leuchtet ein, dass eine akademische Darstellung des frühen Christentums hier auch einen Schlussstein sieht. Am ehesten legt sich als Ende der Frühgeschichte allerdings Irenäus von Lyon nahe. Wie Martin Hengel mehrfach gezeigt hat, legt der kleinasiatische Bischof in den Adversus Haereses eine erste gesamtbiblische Theologie der christlichen Lehre dar. Er kann daher zu Recht als Abschluss der Geschichte des frühen Christentums gelten. Die jüdischen Wurzeln des Christentums Grundlegender als die Periodisierung der christlichen Frühzeit ist aber für das geplante vierbändige Werk, wie die beiden Autoren das Verhältnis zwischen Judentum und frühem Christentum sehen. Nach Hengel / Schwemer nährt sich das Christentum nicht einfach aus jüdischen religiösen Traditionen. Es ist vielmehr „ganz“ aus dem Judentum hervorgegangen (S. 21). Nichts in der Entstehung des Christentums erklärt sich unabhängig von seinen jüdischen Wurzeln. Es lässt sich auch kein eindeutiges Datum für eine frühe Trennung zwischen Synagoge und Christentum festlegen, wo man früher etwa die Synode von Jamnia als solches annahm. Die Christen wurden nach der Herkunft Jesu innerjüdisch zunächst „Nazoräer“ genannt und gehörten weiter dem Judentum an. Der Grund für die Trennungsprozesse vom Judentum sind nicht griechische oder heidnische Überfremdungen des Christentums, sondern „urjüdische Glaubensinhalte“ (S. 29). Sie sind vor allem in der Christologie der „Nazoräer“ begründet. Im Unterschied zum übrigen Judentum verehrten sie Jesus von Nazaret als den Gesalbten Gottes, der bereits erschienen ist und nach dem es keinen weiteren mehr geben wird. Christus, der Gesalbte, ist schon sehr früh für sie zum festen Bestandteil des Namens Jesu geworden. Für die Sicht der beiden Autoren darf eine Darstellung des zeitgenössischen Judentums als Einleitung des Lebens Jesu und der folgenden drei Bände nicht fehlen. 1_2011.indd 257 28-06-2011 12:12:22 258 Cr St 32 (2011) Nach dem Vorwort geht sie vor allem auf Martin Hengels langjährige Schülerin und Mitarbeiterin Anna-Maria Schwemer zurück. Darin folgt sie den Werken des Flavius Josephus als wichtigster Quelle. Die nicht immer leicht nachvollziehbaren Informationen des jüdischen Historikers sind hier ausgezeichnet geordnet. Der klare chronologische Rahmen und die Anordnung (wechselnde Herrscher und Herrschaftsverhältnisse [S. 39–121] jüdische Religionsparteien, incl. samaritanisches Schisma [S. 122–168]) des Abschnitts lässt eine leichte Orientierung für den Leser zu. Er endet mit dem jüdischen Krieg. In seiner letzten Phase wird Jerusalem von einer Art „Revolutionsrat“ (S. 115) eingenommen. Allerdings zerstreiten sich die aufständigen jüdischen Gruppierungen untereinander. Johannes von Gischala unterstellt Jerusalem einer Schreckensherrschaft. Eleazar hingegen spaltet sich mit den „Zeloten“ von den Aufständischen ab. Die jüdische Bevölkerung wird in bis aufs Blut gehenden Streitigkeiten zerrieben. Gleichzeitig werden die Juden von der römischen Eroberungspolitik bedrängt. Unter Vespasian setzt sich die römische Herrschaftsmacht in diesem Machtgemenge durch. Titus nimmt Jerusalem ein. Als der Tempel durch ihn zerstört und seine Kultgegenstände in ihrer Machtlosigkeit im römischen Triumphzug der Welt preis geboten wurden, haben die Christen darin die Erfüllung der Weissagungen Jesu über den Tempel gesehen (vgl. S. 120). Mit der Erfüllung seiner Weissagung kann daher die Geschichte des Judentums, in das Jesus hineingeboren wurde, enden. Am Ende des vierten Bandes wird man sich einen entsprechenden Ausblick auf das weltweite Kommunikationsnetz christlicher Gemeinden wünschen. Es reicht in dieser Zeit bereits von den Grenzen Chinas bis in das westliche Spanien und vom südlichen Äthiopien bis in den Norden Germaniens. Diese weit ausgespannte vielfältige Kirche wird das Christentum bis zur Abspaltung der orientalischen Kirchen nach den ersten großen Konzilien prägen. Die vier Bände des Werkes versprechen, die Entwicklung des Christentums von der Verkündigung Jesu vor dem einfachen Volk in Galiläa bis zu dieser damals weltweiten Kirche verfolgen zu können. Würdigung Martin Hengel ist am 2. Juli 2009 in Tübingen heimgegangen. Es ist zu wünschen, dass die vierbändige Darstellung des frühen Christentums, zu der er in diesem Band mit Anna Maria Schwemer noch den Grundstein hat, vollendet wird. Er hat mehrfach sehr bescheiden von diesem Jesusbuch gesprochen. Es schien ihm, dass sein Buch dem behandelten Gegenstand nicht wirklich gerecht werde. Mit all seinen sicherlich festzuhaltenden Grenzen ist es ein außerordentlich glaubwürdiges Bekenntnis geworden. Gemeinsam mit Anna Maria Schwemer wollte er vom „wirklichen Jesus“ (S. 192) schreiben, das heißt von dem Mensch gewordenen Gottessohn, der als Erhöhter zur Rechten Gottes thront (ebd.). Der „wirkliche Jesus“ sprengt als Forschungsgegenstand die Grenzen historischer Wissenschaft. Es bleibt daher bei einer „Annäherung“ (S. 270), einer Annäherung, die Gott selbst für Martin Hengel nun ihrer Vollendung entgegen führt. Im Spätsommer 2008 hat Martin Hengel seine letzte größere Reise nach Rom geführt. Dort sollte er gemeinsam mit Peter Stuhlmacher vor dem Schülerkreis seines ehemaligen Tübinger Kollegen Joseph Ratzinger seine Ergebnisse zum historischen Jesus vorstellen. In dem Jesus-Buch geben Martin Hengel und Anna Maria Schwemer auch einen Überblick über die Geschichte der Erforschung des historischen Jesus. Sie geht von ihren deistisch aufgeklärten Anfängen bei Her- 1_2011.indd 258 28-06-2011 12:12:22 Recensioni 259 mann Samuel Reimarus und Lessing im 19. Jahrhundert bis in die Gegenwart (S. 171–192). Wie oft gelingt es den beiden auch darin, aus der fast uferlosen Jesusforschung wertvolle Perlen zu heben. Das Jesusbuch des Papstes kommt darin nicht vor. Ihr Überblick konzentriert sich auf exegetische Forschungs-Veröffentlichungen vornehmlich protestantischer Provenienz. Zu den Perlen dieses Überblicks gehören allerdings auch die Zeilen, die als Resumé fast an seinem Ende stehen. Sie sprechen von den Grenzen, auf die historische Wissenschaft bei Jesus stößt (S. 191): „Der Jesus der Geschichte, der Wissenschaft, ist lediglich ein Problem, ein Problem aber kann nicht Gegenstand des Glaubens, nicht Vorbild des Lebens sein.“ Diese Sätze klingen ganz ähnlich wie das Vorwort Papst Benedikts zu seinem Jesusbuch: Der historische Jesus als Forschungsgegenstand habe mehr und mehr die Konturen einer lebendigen Gestalt verloren. Freilich stammen die von Hengel und Schwemer zitierten Zeilen nicht von dem jetzigen Papst, sondern ausgerechnet von dem liberalen Jesusforscher David Friedrich Strauß. Die vorliegende „Annäherung“ eröffnet durchaus den Weg zu einem lebendigen Jesus. Lässt sich in den zitierten Sätzen von Strauß daher womöglich eine zaghafte Würdigung des Papstes erkennen, mit der einer der größten protestantischen Neutestamentler seiner Zustimmung zu dessen Jesusbuch einen bleibenden Ausdruck verleihen wollte? Ansgar Wucherpfennig SJ Sankt Georgen - Frankfurt am Main Maria Cristina Pennacchio, Propheta insaniens, L’esegesi patristica di Osea tra profezia e storia, (Studia Ephemeridis Augustinianum, 81), Institutum Patristicum Augustinianum, Roma 2002, pp. 326 Dans son monumental ouvrage, nourri d’une vaste bibliographie (p. 298-310), M. C. Pennacchio, étudie avec rigueur et érudition les commentaires suivis sur Osée, parvenus jusqu’à nous. Dans son introduction (p. 7-16), elle évoque minutieusement toutes les étapes du débat épistémologique qui a secoué les recherches éxégétiques depuis les années vingt: l’opposition plus ou moins affirmée par les chercheurs entre «les deux traditions exégétiques d’Antioche et d’Alexandrie» aux 4ème et 5ème siècles. Les commentaires sur les Petits Prophètes, en particulier sur Osée, offrent une bonne occasion d’approfondir la question puisqu’ils comptent des représentants des deux obédiances, issus tant du monde grec que du monde latin. M.C. Pennacchio justifie aussi son choix méthodologique: «Dans les analyses des commentaires, j’ai suivi, plutôt que l’ordre chronologique, le critère d’appartenance à diverses tradi- 1_2011.indd 259 28-06-2011 12:12:22 260 Cr St 32 (2011) tions exégétiques selon lequel j’ai étudié d’abord les auteurs antiochiens, Théodore et Théodoret, puis l’alexandrin Cyrille et enfin les auteurs latins, Jérôme et Julien d’Éclane» (p. 15). Avant de consacrer un chapitre à chacun de ces exégètes, M.C. Pennacchio s’attache, dans un premier chapitre (p. 17-75), à «l’interprétation d’Osée dans les 2ème et 3ème siècles». Elle aborde d’abord la «tradition asiatique», non limitée à un simple critère géographique (Justin, Irénée, Tertullien) puis la «tradition alexandrine» (Clément d’Alexandrie, Origène), et enfin, pour terminer, «Eusèbe de Césarée». Ce chapitre montre le cas échéant les points de rencontre (p. 46) mais surtout l’originalité des interprétations exégétiques d’Osée (p. 74-75). Le deuxième chapitre est consacré au «Commentaire sur Osée de Théodore de Mopsueste» (p. 77-94), rédigé vers 380-382, «premier commentaire complet, parvenu jusqu’à nous, et en langue originale, de la production sur les Petits Prophètes des 4ème et 5ème siècles». Après la «datation» sont étudiés «la valeur de l’histoire», fondamentale, excluant tout type d’interprétation christologique (p. 79), «la théologie de l’inspiration prophétique», «la technique exégétique», mettant en valeur «l’homogénéïté entre texte et explication» (p. 84), «les contenus de l’interprétation» («l’interprétation de la prophétie est toujours rigoureusement historique» – p. 91). Enfin les «conclusions» présentent une synthèse très fine de l’étude précise menée dans le chapitre: «la conclusion du commentaire (…) laisse entrevoir la possibilité de reconnaître une utilité morale au moins à la signification globale du texte» (p. 94). Le troisième chapitre s’attache «au Commentaire sur Osée de Théodoret de Cyr» (p. 95-131), rédigé entre 438 et 440, i. e. ultime explication continue du Prophète. Après une analyse du «prologue au commentaire: apologie et indications programatiques», M.C. Pennacchio étudie successivement «le Commentaire d’Osée: l’ὑπόθεσις», «la théorie de l’inspiration prophétique», «Σκοπός et ἀκολουθία», «l’emploi des citations scripturaires» («L’Écriture même s’illustre et s’explique ellemême», p. 109), «la pratique herméneutique» («paraphrase et notes de commentaire», «la critique du texte», «les excursus historiques», «les observations grammaticales», «les observations naturalistes», «les notations psychologiques», «les interprétations métaphoriques»), «les contenus de l’exégèse littérale» («les contenus de l’interprétation littérale concernent presque toujours des faits vétérotestamentaires», p. 121), «l’exégèse spirituelle» (Théodoret dépend dans les grandes lignes de Théodore). Pour «conclure», M.C. Pennacchio souligne l’indépendance de Théodoret vis-à-vis de Théodore; «Théodoret apparaît profondément enraciné dans le milieu antiochien, mais, par rapport à la rigidité de Théodore, il s’ouvre aux influences des autres traditions…» (p. 130). Le quatrième chapitre s’intéresse «au Commentaire sur Osée de Cyrille d’Alexandrie» (p. 134-162), écrit avant 428. Les «indications méthodologiques» révèlent d’emblée «la reconnaissance du double niveau de lecture de l’oracle prophétique» (p. 134). Puis, M.C. Pennacchio examine «le σκοπός» de la prophétie: c’est principalement «la conversion d’Israël puisque Dieu veut reconduire le peuple idolâtre à la vraie religion» (p. 138). L’étude porte ensuite sur «l’exégèse littérale: fonction et caractères» («la terminologie technique» et «les contenus»), «l’exégèse spirituelle» («la terminologie technique» et «les contenus»). A la fin du chapitre, les «conclu- 1_2011.indd 260 28-06-2011 12:12:22 Recensioni 261 sions» soulignent le caractère typiquement alexandrin de l’exégèse de Cyrille, mais surtout son originalité qui «se concrétise dans l’interprétation eschatologique dans laquelle est préfigurée la future conversion d’Israël» (p. 162). Le cinquième chapitre s’appesantit sur «Le Commentaire sur Osée de Jérôme» (p. 163-215), rédigé en 406. M.C. Pennacchio évoque «les sources du commentaire hiéronymien», en particulier Apollinaire de Laodicée et Origène, «les caractéristiques et le but du commentaire biblique selon Jérôme», «les trois sens de l’Écriture», «l’exégèse littérale: caractères et contenus» («l’Hebraica ueritas», «le rapport avec la traduction des LXX», «le recours aux Hexaples», «l’interprétation littérale», «les enseignements moraux», «la reconstitution historique: sources scripturaires et traditions hébraïques», «notes géographiques», «observations naturalistes», «remarques sur les usages des peuples»), «les contenus des interprétations historiques», «le vocabulaire exégétique littéral», «les termes techniques rhétoriques», «l’exégèse spiriturelle: caractères et contenus» («l’exégèse christologique», «la polémique antihérétique», «l’eschatologie», «l’interprétation moralo-psychologique», «l’exégèse étymologique», «l’exégèse arithmologique»), et «le vocabulaire exégétique spirituel». Concises, les «conclusions» de ce chapitre synthétisent au mieux toute la richesse et l’aspect novateur de l’explication hiéronymienne. Le sixième chapitre concerne «le Commentaire sur Osée de Julien d’Éclane» (p. 217-238), dont la datation n’est pas évidente (p. 217-220). Selon M.C. Pennacchio, «on doit pencher pour une datation haute, antérieure à la condamnation de 418, parce que le style du commentaire laisse transparaître un tempérament encore exubérant et vif… (p. 220).» Après cette mise au point nécessaire, M.C. Pennacchio s’arrête sur «le principe de la consequentia et l’excessus mentis», «l’interprétation littérale» («les figures rhétoriques», «l’usus scripturaire», «le style prophétique»), «les contenus de l’interprétation littérale» et «la theoria». Les «conclusions» mettent une fois encore en valeur les caractéristiques de l’exégèse de Julien: de l’avis de M.C. Pennacchio, «on ne peut, au moins pour le Commentaire sur Osée, assimiler complètement sa méthode herméneutique à celle de Théodore, surtout d’après la définition de la theoria qui traditionnellement a été trop souvent définie comme ‘le manifeste de l’école antiochienne’» (p. 238). Le dernier chapitre («Confrontations exégétiques», p. 239-279) rompt avec la grille de lecture analytique des précédents chapitres pour proposer une étude comparative de certains versets d’Osée (1, 2; 1, 11; 3, 2; 6, 1-2; 13, 14; 13, 15; 14, 4-9). Les «conclusions» générales de cet ouvrage (p. 281-296) montrent avec fermeté les difficultés mais surtout les acquis nuancés du travail de M.C. Pennacchio. Enfin, un «appendice: Julien et Jérôme: diverses orientations exégétiques dans la tradition latine» étudie l’influence de Jérôme sur Julien, mais aussi les divergences d’interprétation des deux exégètes. L’ouvrage de M.C. Pennacchio montre avec clarté, précision et subtilité, les filiations, les différences, les oppositions dans l’exégèse d’Osée depuis le commentaire d’Origène, source fondamentale, mais perdue pour nous, jusqu’à l’explication suivie de Théodoret de Cyr. Malgré la justification – tout-à-fait compréhensible et acceptable – que présente M.C. Pennacchio de son plan (p. 15), il aurait sans doute mieux 1_2011.indd 261 28-06-2011 12:12:22 262 Cr St 32 (2011) valu conserver une structure chronologique qui aurait donné une meilleure idée de l’histoire de l’exégèse d’Osée, en particulier dans les «confrontations exégétiques»... Aline Canellis Université de Lyon- UJM- Saint-Étienne Gabriele Boccaccini (ed.), Enoch and Qumran Origins. New Light on a Forgotten Connection, Eerdmans, Grand Rapids, MI-Cambridge 2005, pp. xviii-462. Per valutare gli apporti del quinto Enoch Seminar (Napoli, 14-18 giugno 2009), rimane necessario apprezzare il volume che, edito nel 2005, raccoglie gli atti del Convegno dedicato alle origini di Qumran in relazione alla letteratura enochica. Il piano di ricerca guidato da Gabriele Boccaccini, del dipartimento di Studi del Vicino Oriente antico dell’Università del Michigan, coinvolge dal 2000 specialisti di tutto il mondo (soprattutto europei, statunitensi, israeliani) dediti al giudaismo del Secondo Tempio e al cristianesimo delle origini. Nel primo convegno, tenutosi a Sesto Fiorentino nel 2001, si sono indagate le origini del giudaismo enochico, nel secondo, del 2003, a Venezia, si sono approfondite le questioni di cui si dirà più diffusamente, nel terzo e nel quarto, svoltisi a Camaldoli nel 2005 e 2007, concentrandosi rispettivamente sul Libro delle Parabole e sui Giubilei, si sono enucleati i rapporti con il Messia – Figlio dell’uomo e la Torah mosaica, mentre a Napoli l’attenzione è focalizzata su Enoc, Adamo e Melchisedek quali figure di mediatori, con speciale riferimento a 2 Enoc. Tra l’introduzione ai lavori a cura dell’editore (pp. 1-14) e le conclusioni affidate a James H. Charlesworth (pp. 436-454), le cinque parti di cui si compone il volume raccolgono cinquantaquattro contributi (proposti da quarantasette relatori) dedicati a cinque grandi temi: le visioni oniriche e Daniele (pp. 15-72), Enoc e Giubilei (pp. 73-182), l’Apocalisse delle settimane (pp. 183-246), l’ipotesi di Groningen rivisitata (pp. 247-326), l’ipotesi enochico-essenica rivisitata (pp. 327-435). Ogni parte del libro si chiude dando la voce a un responder: John J. Collins, James C. VanderKam, George W.E. Nickelsburg, Florentino García Martínez, Gabriele Boccaccini. In quanto segue ci si concentrerà sull’introduzione e sui dibattiti dedicati a Daniele, all’ipotesi di Groningen, all’ipotesi essena, richiamando infine le questioni maggiori emerse a proposito dei libri di Enoc nella misura in cui sono riprese nelle conclusioni. Con la riscoperta del libro etiopico di Enoc, dovuta allo scozzese James Bruce (1773), e la pubblicazione delle prime edizioni critiche con le relative versioni in 1_2011.indd 262 28-06-2011 12:12:22 Recensioni 263 lingua moderna a cura di Richard Laurence (1821), August Dillmann (1851-1853), Johannes Flemming (1902), gli studi del giudaismo del Secondo Tempio, e in modo particolare della letteratura apocalittica giudaica, ricevettero un nuovo, determinante impulso. 1 Enoc, tradizionalmente collocato fra gli Pseudoepigrapha dell’Antico Testamento e datato tra il 200 a.C. e il 100 d.C., attrasse poi nuova attenzione a seguito dei ritrovamenti del Mar Morto (1947), con la pubblicazione di alcuni suoi frammenti in aramaico identificati da Josef Milik (1976). James VanderKam cominciò quindi a esplorare la crescita delle tradizioni associate a Enoc, al di là del corpus omonimo (1984), mentre John Collins situò con maggior precisione 1 Enoc entro lo sviluppo dell’apocalittica del periodo del Secondo Tempio (1984, 1998). La lettura dei testi enochici ha così sollecitato la ricerca dei tratti distintivi dell’ideologia e della composizione sociologica del gruppo che in tali testi si esprime. Nell’ampio spettro degli scritti apparsi in merito, Boccaccini distingue due voci in particolare: quella di Paolo Sacchi (1990) e quella di George Nickelsburg (2000). Il primo, suo maestro, identifica l’essenza del movimento intellettuale in questione in una specifica concezione del male, per la quale esso costituisce una realtà autonoma che, essendosi prodotta prima dell’inizio della storia, precede e inficia la capacità umana di scegliere. Il secondo, nel suo grande commentario a 1 Enoc, descrive una forma di giudaismo in cui la Torah mosaica non vale ancora come norma universale, un sistema in cui una ribellione celeste primordiale ha inquinato la razza umana che ciononostante rimane responsabile delle proprie trasgressioni. L’esegeta americano coglie nello sviluppo della letteratura enochica, protrattosi per tre secoli, la presenza di una comunità di tradenti dai tratti caratteristici, un gruppo “escatologico” composto da eletti in attesa della consumazione della fine, illuminato dalla sapienza rivelata all’antico padre Enoc, animato da scribi, alcuni dei quali erano forse sacerdoti disaffezionati dall’establishment del tempio gerosolimitano. Nella sintesi di Boccaccini (pp. 6-7) il giudaismo enochico sarebbe quindi un movimento sacerdotale di dissenso, nonconformista, anti-sadocita, attivo in Israele dal IV sec. a.C., al cui centro non stanno né il tempio né la Torah, bensì il mito degli angeli decaduti (in una certa relazione con Genesi 6), responsabili della diffusione del male. Costoro valicano e sovvertono i confini del cielo e della terra stabiliti da Dio nella creazione e pertanto, in seguito a una battaglia angelica, sono imprigionati in attesa del grande giudizio. I giganti, generati dall’illegittima unione degli angeli con le figlie degli uomini, sono uccisi, mentre le loro anime possono invece continuare a percorrere e sovvertire la terra. Il male è con ciò limitato ma non è sradicato, finché Dio non creerà un mondo nuovo. La libertà umana, certo non cancellata ma comunque compressa da un agente diabolico, confida nel frattempo nella grazia divina, al di là della propria fedeltà all’alleanza dei padri. Tale forma di giudaismo avrebbe generato un ampio movimento di pensiero, di cui sono testimoni Giubilei, i Testamenti dei dodici patriarchi, la Vita di Adamo ed Eva, 2 Enoc, l’Apocalisse di Abramo, 4 Esdra, un movimento il cui influsso sul cristianesimo nascente è ampiamente documentato. Per ciò che riguarda Daniele, Collins (pp. 59-66) sottolinea il modo in cui la teologia deuteronomistica della preghiera del cap. 9 è deliberatamente “sovvertita” in senso apocalittico. Se in Daniele, come nei libri enochici, la teologia dell’alleanza non gioca alcun ruolo particolare, essa non è di per sé impermeabile alle tradi- 1_2011.indd 263 28-06-2011 12:12:22 264 Cr St 32 (2011) zioni apocalittiche, come si constata a Qumran nella Regola della Comunità e nei Giubilei. Quanto al ricorso all’ideologia regale, essa non implica interesse per la linea davidica. Nel libro di Daniele la salvezza si lega infatti piuttosto all’intervento di Michele, principe angelico, o comunque a un personaggio celeste, variamente designato. L’espressione “simile a figlio di uomo” non vale, in tale orizzonte, come titolo bensì come descrizione di una figura visionaria. Di natura angelica, tale figura potrebbe bene essere nominata “figlio di Dio”, ma ciò non avviene proprio per non rinfocolare attese davidiche e non creare associazioni con le pretese dei re ellenistici. Nei secoli seguenti la dicitura “figlio di Dio” sarà effettivamente impiegata come titolo messianico (come risulta sia in 4Q246 sia nei Vangeli) ma senza chiamare in causa la monarchia davidica. Anche nei libri enochici (ossia nei diversi libri presenti in 1 Enoc) si menziona un messia solo nelle parti più tardive (1 Enoc 48,10; 52,4, all’interno del Libro delle Parabole) e, quando ciò avviene, questi è comunque presentato come un essere celeste. Occorre attendere gli scritti di 4 Esdra (7,28-29; 13,32.37) e 2 Baruc (29,3; 30,1; 39,7; 40,1-2; 70,9; 72,2) per leggere di attese escatologiche che includono un ruolo per il re messianico, secondo una visione in qualche modo analoga a quella testimoniata in 4Q285 (= la Regola della Guerra), ove un salvatore terrestre affianca il suo analogo di provenienza celeste. Per ciò che attiene l’identificazione di gruppi apocalittici dietro alle opere di Daniele e di Enoc, Collins insiste sulla necessità di non attenersi a requisiti troppo rigidi di compatibilità e, per converso, di incompatibilità. Diversamente, è più utile immaginare un corpo di concezioni condivise accanto a opzioni peculiari, certo concordi nel rigettare l’autorità del re seleucide persecutore. A mo’ di esempio, Collins considera Daniele e l’Apocalisse degli Animali: entrambi gli scritti elaborano simboli, miti, tecniche visionarie connesse all’interpretazione mantica del Vicino Oriente, confidano in un corso preordinato della storia e, a fronte degli influssi di forze angeliche e demoniache sulle vicende umane, attendono l’intervento divino con il conseguente giudizio universale e la trasformazione degli eletti (in stelle o in tori bianchi), sebbene divergano sul ruolo (militare o di impegno religioso pacifico) che Israele deve svolgere in tali frangenti. L’ipotesi di Groningen, abbozzata nel 1988 da García Martínez e articolata assieme a Adam S. van der Woude nel 1990, è stata da molti considerata l’ipotesi più utile per spiegare le origini di Qumran. Essa individua le origini ideologiche del movimento essenico nella tradizione apocalittica palestinese prima dell’ellenizzazione della Palestina e della conseguente rivolta maccabaica, facendo derivare la comunità di Qumran da uno scisma interno al movimento esseno. Di tale ipotesi Mark A. Elliott (pp. 263-272) critica la lettura di 1QpHab 2,3-4 e 5,9-12, testi utilizzati come trampolino per supposizioni e conclusioni importanti. Da essi, secondo García Martínez, si può dedurre che le convinzioni e le finalità della comunità di Qumran fossero condivise da un gruppo più ampio di quello che rimase dopo che molti vennero meno agli impegni assunti e rigettassero il Maestro di giustizia a causa de “l’uomo menzognero”. Quest’ultimo, associato ai “traditori della nuova alleanza”, sarebbe identificato con un capo esseno in conflitto con il Maestro. Elliott, osservando che la maggior parte dei giudei avrebbe potuto esprimere perplessità nei confronti della “nuova alleanza” proposta dal Maestro, non trova improbabile che l’uomo delle menzogne fosse un sacerdote non esseno. Altri testi ritenuti polemici, analogamente, possono riferirsi a 1_2011.indd 264 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 265 qualunque capo ebreo estraneo alla comunità (4QMMT; 11QT; 1QpHab 10,9-13). Lo studioso considera poi CD 20,14-16, che menziona il Maestro della comunità e precisa che “la nuova alleanza” è l’alleanza stipulata “nella terra di Damasco”, abbandonata dagli “uomini di guerra” i quali si sono allontanati con “l’uomo delle menzogne” così da fare divampare l’ira divina “contro Israele”. Trovandovi un’allusione alle campagne maccabaiche e agli asmonei (“uomini di guerra”), Elliott suggerisce che l’alleanza sancita nella terra di Damasco non alluda al patto osservato a Qumran, bensì a un rinnovo dell’alleanza voluto dai Maccabei in terra di Siria (cf. 1Mac 2,49-70). Tale alleanza coinvolgerebbe gli asidei, “impegnati a difendere la legge” (2,42), e quanti hanno zelo per la legge e per l’alleanza (2,27). Coloro che avrebbero lasciato la nuova alleanza sarebbero pertanto un gruppo ben più ampio degli esseni. La “alleanza” sarebbe così un patto umano, inteso a rinnovare l’alleanza mosaica, sulla scorta delle iniziative di Giosia, Esdra e Neemia. L’uomo delle menzogne, dal canto suo, sarebbe un uomo di potere, verosimilmente un asmoneo (cf. CD 19,22-24; 20,22-24), il quale assunse il comando nonostante l’opposizione del Maestro di giustizia. Quanti lo seguirono preferirono di fatto alle intenzioni puramente religiose della “alleanza di Damasco” la prospettiva di un’espansione territoriale e tollerarono le ambizioni sacerdotali dei capi. I membri di Qumran non si sarebbero dunque scissi dagli esseni, provenendo piuttosto da un movimento ben più ampio, all’interno del quale potevano certo esserci elementi di spicco di fede essena. I rapporti tra Qumran e gli esseni sembrano d’altronde perdurare: il Maestro ricopre senz’altro un ruolo insolitamente cospicuo ma ciò non isolò la comunità da un più ampio movimento palestinese che continuerà ad alimentarla e a consentirne un insediamento protratto nel tempo. Il giudaista di Toronto, in una posizione tutt’altro che isolata, esprime quindi perplessità circa la possibilità di identificare un “giudaismo sadocita”, in qualche modo irreconciliabile con un “giudaismo enochico”. A suo avviso la letteratura enochica, così come altri scritti “apocalittici”, non rimanda a una scuola in netta contrapposizione con teologie imperniate sull’alleanza mosaica. Gli autori dei materiali enochici avrebbero piuttosto adattato idee mosaiche, e in specie deuteronomistiche, a una concezione sapienziale babilonese. Il norvegese Torleif Elgvin (pp. 273-279), rifacendosi alle datazioni della prima fase di insediamento di Khirbet Qumran elaborate nel 2000 da Jodi Magness, rivede l’identificazione della comunità-yachad. Ponendo infatti tra il 100 e il 50 a.C. (anziché attorno al 135 a.C.) la fondazione di Qumran, i testi del II sec. a.C. che riferiscono della costituzione di una comunità non alluderebbero a quanto rinvenuto a Qumran, trattando invece di un gruppo sorto tra il 175 e il 150 a.C. Yachad starebbe quindi a designare una realtà più ampia della comunità di Qumran, a cui quest’ultima sarebbe comunque collegata. L’ipotesi essena, così come è riproposta da Boccaccini (pp. 417-425), riconduce all’ambito esseno tanto gli “enochiani” quanto la comunità di Qumran. Condividendo la posizione di chi individua all’interno del giudaismo postesilico una tradizione intellettuale distinta da quella dei sacerdoti di Gerusalemme, essa trova nella speciale concezione enochica del male l’origine della predestinazione elaborata a Qumran. Se gli angeli sono infatti responsabili del male umano, è Dio, creatore degli angeli buoni e cattivi, a predeterminare il destino di ciascun individuo. Stando a Boccaccini, a seguito della rivolta maccabaica il movimento enochico sarebbe proliferato in differenti gruppi, tutti caratterizzati da particolari reinterpretazioni dell’origine 1_2011.indd 265 28-06-2011 12:12:23 266 Cr St 32 (2011) demoniaca del male. Sarebbe da riferire a questa fase la spaccatura intercorsa tra enochiani e Qumran, come sembrano provare i testi reperiti nella biblioteca del Mar Morto. Lì si custodiscono infatti tutti gli scritti enochici composti prima della nascita della comunità, a differenza di quelli sorti successivamente. Nella letteratura enochica più recente, come risulta ad esempio nel Libro delle Parabole, appaiono d’altronde affermazioni incompatibili con il predeterminismo di Qumran: vi si parla di un Figlio dell’uomo celeste e della liberazione dal male, secondo prospettive estranee a chi ritiene il mondo presente originato da una esplicita scelta di Dio. Dopo un iniziale imprinting enochico, la comunità di Qumran si sarebbe pertanto discostata dal gruppo enochico, pur rimanendo “essena”. Enochiani, esseni urbani, la comunità di Qumran, sebbene gruppi sociali distinti, continuerebbero a comporsi in un un’unica “traiettoria di pensiero” alla quale sarebbe da collegare anche il successivo movimento di Gesù di Nazaret. L’ipotesi, formulata con acume e duttilità, rimane aperta a osservazioni critiche, quali quelle avanzate da David W. Suter (pp. 329-335). Questi rileva come Boccaccini sottoponga testi giudaici del periodo persiano, ellenistico e romano a una lettura attenta a coglierne l’ideologia soggiacente e, in modo particolare, la teodicea. Lavorando su “catene di testi”, individua le radici del settarismo giudaico in una disputa che oppone i sadociti, che esprimono il sommo sacerdote e detengono il comando, a sacerdoti dissidenti fautori del cosiddetto giudaismo enochico, dal quale verrebbe l’essenismo quale è ritratto nelle fonti classiche. In questa ricostruzione, secondo lo studioso statunitense, rimane difficile rinvenire nella letteratura enochica i tratti dell’essenismo quale lo si conosce da Giuseppe Flavio e Filone. Certo si riconoscono elementi di continuità a proposito della critica alla purità del tempio e a specifiche pratiche matrimoniali ma in entrambe i casi le questioni sono trattate in prospettive sensibilmente diverse: altro è eccepire alla purità dei matrimoni dei sacerdoti, altro è mettere in discussione il sistema sacrificale in quanto tale, altro è contestare il peccato angelico che porta i Vigilanti a unirsi alla figlie degli uomini (1 Enoc 12–16) violando i confini tra cielo e terra, altro è denunciare la zenut di chi sposa una nipote o è bigamo (CD 4,20-21; 5,7-10), o di un sacerdote che sposa una donna di stirpe non sacerdotale (4QMMT B 75-82). L’apporto specifico dell’enochismo alle origini di Qumran consterebbe poi nella comprensione del male veicolata dal mito della caduta dei Vigilanti (1 Enoc 6–16; CD 2,16-18). Secondo Boccaccini i testi settari attesterebbero rispetto a 1 Enoc un’evoluzione di pensiero: il male, da aberrazione cosmica che si impone sull’umanità, diverrebbe segno della predestinazione del singolo uomo secondo il volere di Dio. Per Suter l’impiego del mito dei Vigilanti in 1QS 3,13-4,1 (con la dottrina dei due spiriti) è invece rivoluzionario, in difficile connessione con 1 Enoc e CD 2,14-3,12, ove il medesimo mito è sfruttato come tale, in tutto il suo valore eziologico e paradigmatico. Per Suter il giudaismo enochico deve piuttosto essere decifrato all’interno di uno yahwismo sincretista, con un culto non ancora ancorato all’assioma “Yhwh-solo”. Charlesworth, raccogliendo le conclusioni, delinea la comprensione del giudaismo precedente al 70 d.C. così come emerge dalle voci dei convegnisti. A proposito del periodo del Secondo Tempio non si può parlare di un “giudaismo comune”. Si deve invero riconoscere un’ampia varietà di pensiero e di prassi, pur senza poter immaginare molti giudaismi indipendenti tra loro o una situazione di “caos”. Fonti privilegiate per conoscere meglio la teologia e l’ideologia di questa epoca sono i libri 1_2011.indd 266 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 267 di Enoc, composti in Palestina, probabilmente in Galilea, vicino al monte Ermon. I più antichi rifletterebbero le lotte tra i diadochi, a seguito della morte di Alessandro Magno (323 a.C.), mentre gli ultimi proverrebbero dal tempo di Erode il Grande. Corpus di eccezionale significato per il cosiddetto calendario solare, il dualismo, la relazione tra il Messia e il figlio dell’uomo, le conoscenze astronomiche, le alte concezioni morali, le attese di beatitudine dopo la morte, 1 Enoc rimanda ad autori giudei versati non solo nelle Scritture di Israele ma anche nelle acquisizioni dei babilonesi, dei persiani, degli egiziani, dei greci. Ritenuti marginali sia dal cristianesimo sia dall’ebraismo, i libri di Enoc sono oggi essenziali per una concezione adeguata del giudaismo del Secondo Tempio e della prima età cristiana, tanto da suggerire una domanda: il pensiero di Gesù riflesso nei Vangeli rispecchia le comunità postpasquali o la teologia dell’antica Palestina prima della distruzione del Tempio? Marco Settembrini Docente di esegesi dell’Antico Testamento presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna Isabella Sandwell, Religious identity in late antiquity. Greeks, Jews and Christians in Antioch, Cambridge University Press, New York 2007, pp. 310 In Religious identity in late antiquity Isabella Sandwell affronta la questione dell’identità e dell’interazione religiosa ad Antiochia nel IV sec. d. C. L’approccio non è di tipo descrittivo: a differenza di altri studiosi, l’autrice non cerca di quantificare il livello di cristianizzazione della città, quanto piuttosto il modo in cui i cittadini antiocheni vivevano la propria religiosità. L’analisi delle opere di Giovanni Crisostomo e del pagano Libanio non solo permette di tracciare un quadro della situazione religiosa cittadina valorizzando due punti di vista differenti, ma anche di cogliere le forme di osmosi e mescolanza religiosa che anche altrove caratterizzarono la società di IV-V secolo. Il volume è suddiviso in cinque parti, ognuna delle quali comprende due capitoli. I primi due sono dichiaratamente introduttivi, tali cioè da circoscrivere l’indagine sia nel tempo (fine dei 4 primi decenni del V secolo: pp. 3-33), sia nello spazio di una città specifica, quale Antiochia, della quale vengono date notizie su templi, chiese, feste cristiane e pagane celebrate all’epoca, mentre le precisazioni metodologiche delineano le caratteristiche formali e contenutistiche degli scritti di Crisostomo e di Libanio che s’intende esaminare (pp. 34-59). 1_2011.indd 267 28-06-2011 12:12:23 268 Cr St 32 (2011) L’identità religiosa nei due autori è oggetto specifico della seconda parte. Il terzo capitolo (pp. 63-90) è dedicato a Crisostomo, in particolare al contenuto di quelle prediche (come i sermoni indirizzati ai Greci), da cui si possa comprendere cosa significasse per il presbitero antiocheno essere cristiano e quale funzione avessero in ciò il battesimo e l’eucarestia. Elementi distintivi risultano la fede in un unico Dio, nella morte e resurrezione di Cristo. Dal confronto tra il modo in cui il Crisostomo e Libanio parlano del proprio credo, è chiaro che il primo tende a presentare forme di identità religiosa esclusive e non permeabili – come l’essere cristiano, l’essere giudeo, l’essere elleno –, mentre Libanio apre ampi squarci sulle numerose forme di osmosi e mescolanza che dominavano la società: molti “ripensamenti” erano dovuti a convenienza e Libanio è apparentemente un’ottima fonte per capire quanto sulle scelte di fede potessero a volta influire le lusinghe politiche (pp. 91-119). La relazione tra identità religiosa e altre forme di identità sociale – come quella politica, civile, etnica e culturale – è oggetto delle riflessioni della terza parte del volume. Crisostomo (pp. 125-153) non chiede che i cristiani scelgano una politeia cristiana rispetto a quella imperiale romana; esige che quella cristiana rimpiazzi la romana, benché l’impero sia cristiano e ampio supporto sia offerto dalle leggi imperiali. Per il presbitero antiocheno, il cristianesimo doveva diventare l’unica identità (capace d’inglobare quella politica, civica, etnica) dei cristiani. Qualunque sfera non fosse assimilabile era da considerarsi demoniaca e, come tale da rigettare. Del tutto diverso il messaggio di Libanio: dal capitolo sesto (pp. 154-180), diviso in due sezioni, è evidente che per l’oratore la religione era un fatto privato, così da poter immaginare uno spazio neutrale ove le differenze religiose non fossero significanti, ora – in modo del tutto tradizionale – coincideva con la sfera civica. Per lo più, tuttavia, l’identità culturale ‘Greca’ o ‘Ellenica’ non è mai posta in termini religiosi ma piuttosto come un qualcosa che poteva essere condiviso da tutti, nonostante il proprio credo. La parte più interessante del volume è, comunque, quella in cui l’autrice cerca di capire quanto le opere esaminate di Crisostomo e di Libanio siano in grado di dare uno spaccato reale delle scelte compiute dai cittadini e della loro incidenza sulla vita degli individui. Il settimo capitolo (pp. 185-212), infatti, esamina la nozione di “comunità testuale” in Crisostomo, soffermandosi sui modi in cui egli cercò di fare del suo auditorio una comunità. Le sue prediche esortavano al dover essere, non rappresentano qualcosa di già realizzato e compiuto: non tutti coloro cui egli si rivolgeva erano infatti cristiani, non tutti erano fideles, cioè battezzati; trapela lo sforzo compiuto con l’attività pastorale, e tutti i rituali valorizzati all’uopo, quali la somministrazione del battesimo e dell’eucarestia, perché l’ideale comunità di Crisostomo da comunità testuale divenisse comunità reale. L’ottavo capitolo (pp. 213-239) è incentrato, invece, sullo studio del rapporto tra Libanio e l’imperatore Giuliano, considerato come il referente principale del cosiddetto ‘gruppo pagano’ ad Antiochia, gruppo la cui esistenza è molto discussa dagli studiosi. Alcuni passi delle orazioni ‘giulianee’ di Libanio hanno convinto gli studiosi del fatto che vi fosse tra i due una comunanza di credo religioso. L’attento riesame di tali orazioni da parte dell’autrice fa vedere invece come l’immagine di Libanio quale fedele supporter di Giuliano debba essere ridimensionata: lungi dal descrivere la realtà della situazione religiosa ad Antiochia, nei suoi scritti Libanio presenta di 1_2011.indd 268 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 269 se stesso un’immagine tale, che faccia dimenticare la sua capacità di ‘sopravvivere’ sotto imperatori di fede religiosa diversa, tacitando le accuse di opportunismo che gli venivano mosse dagli avversari. Nell’ultima sezione del capitolo sono invece presi in considerazione i tipi di relazione sociale che emergono nelle lettere di Libanio. Con lo strumento epistolare egli potè creare una forte rete sociale della quale era il centro. Nel considerare il ruolo della religione nella costruzione di tale ragnatela di legami, l’autrice non cerca di identificare chi dei suoi amici condividesse la sua stessa fede religiosa ma piuttosto di individuare i punti nei quali Libanio stesso usava la religione come motivo per collegarsi e relazionarsi con gli altri. Nella quinta e ultima parte si tirano le fila degli argomenti affrontati, al fine di accertare fino a che punto gli abitanti di Antiochia fossero disposti a seguire le esortazioni del Crisostomo in campo religioso. Una forte indicazione si ritiene sia data dalla presenza di pratiche religiose quali l’ascetismo e la preghiera da una parte, la divinazione e l’uso degli amuleti dall’altra (pp. 245-276), che risultano essere state abbastanza popolari presso gli antiocheni: per Crisostomo, esse rappresentavano il contrassegno della diversità religiosa; Libanio, invece, favoriva forme di credo religioso più private e personali, che mettevano il singolo a diretto contatto con il divino. In generale sembra che non solo Libanio, ma anche alcuni componenti del pubblico di Crisostomo, condividevano una certa avversione per la religiosità esibita, preferendo le pratiche religiose private. Pertanto mentre alcune persone erano contrassegnate dal ‘marchio’ cristiano per i propri comportamenti, altre invece avevano maggiore difficoltà a distinguersi per la loro fede. Anche quanti definivano se stessi come ‘cristiani’ non lo facevano nel modo preteso da Crisostomo, di un’identità religiosa costantemente visibile. La distinzione tra cristiani, greci e giudei era quindi molto meno marcata nella pratica di quanto non appaia nei testi e nelle preghiere. Il decimo e ultimo capitolo (pp. 277-281) riassume brevemente i dati raccolti e contiene le conclusioni formulate dall’autrice. Nonostante il forte contrasto tra gli approcci di Crisostomo e Libanio sulla costruzione dell’identità religiosa e sull’importanza dell’interazione religiosa, entrambe le opzioni erano valide per gli individui del IV secolo: il mondo non era diviso semplicisticamente tra pagani e Cristiani, né testi come quelli esaminati possono fornire dati esatti sulla cristianizzazione della società. La situazione era più variegata e complessa, rispetto alla forse ‘comoda’ ma non attendibile schematizzazione della situazione religiosa operata dagli studiosi. Il volume termina con una dettagliata bibliografia delle edizioni e delle traduzioni delle opere di Crisostomo e Libanio, delle edizioni e/o traduzioni delle fonti antiche menzionate, degli studi moderni e con un Index dei nomi. La lista delle abbreviazioni delle opere antiche, invece, si trova all’inizio del volume, appena dopo la prefazione dell’autrice. Silvia Margutti Dottoranda in Storia Romana all’Università degli studi di Perugia 1_2011.indd 269 28-06-2011 12:12:23 270 Cr St 32 (2011) Pamphilus von Caesarea, Apologia pro Origene – Apologie für Origenes, übersetzt und eingeleitet von G. Röwekamp (Fontes Cristiani, 80), Brepols, Turnhout 2005, pp. 484 Dopo la nuova edizione critica commentata dell’Apologia per Origene nella versione latina superstite, pubblicata nel 2002 per la collana delle Sources Chrétiennes (n. 464-465), Georg Röwekamp propone qui una nuova edizione della stessa opera, col testo a fronte stabilito da Réné Amacker, una traduzione tedesca e dei ricchissimi apparati. Il testo è naturalmente quello parziale tradotto da Rufino di Aquileia, essendo l’originale greco ormai perduto. Anche se non segnalati dal frontespizio, completano il volume la prefazione di Rufino alla propria traduzione dell’apologia ed il suo opuscoletto Sulla falsificazione dei libri di Origene, i cui testi sono pure ripresi dall’edizione critica curata da Amacker. Come l’edizione francese, anche la presente è provvista di diversi indici, di un’ampia bibliografia e di apparati critici, comprese delle eccellenti note a piè di pagina, fondamentali per una immediata comprensione del testo e delle numerose citazioni origeniane in esso contenute. Fin qui non c’è nulla di troppo diverso da quanto si può trovare nell’edizione critica francese, che resta comunque imprescindibile per l’apparato critico, qui totalmente soppresso, e per il secondo volume, contenente i diversi studi che accompagnano il testo. La presente edizione si caratterizza però per un’imponente introduzione originale, frutto di una dissertazione che Röwekamp ha difeso a Paderborn nel semestre invernale 2004/2005 e che copre le prime duecento pagine circa dell’opera. Il volume ha quindi tutte le carte in regola per attirare l’attenzione, ben al di là da quella che potrebbe essere una semplice edizione minore dell’Apologia per Origene destinata al pubblico germanofono. E questo a cominciare dall’attribuzione dell’apologia stessa, che Röwekamp ascrive, come si evince fin dalla prima occhiata al frontespizio, al solo Panfilo di Cesarea, senza il contributo del suo illustrissimo allievo, il vescovo Eusebio di Cesarea. La lettura dell’introduzione però disattende le aspettative di un approccio fondamentalmente nuovo al testo. In primo luogo, l’attribuzione al solo Panfilo è semplicemente dovuta al fatto che lo si considera l’unico estensore del primo tomo dell’apologia, in pratica quello qui tradotto da Rufino, rispetto ai sei tomi originari nei quali si componeva l’insieme dell’apologia. Si tratta di una posizione non troppo lontana da quanto sostenuto anche da Amacker e Junod, che già avevano segnalato che per l’impianto di questo primo tomo era difficile ipotizzare un intervento sostanziale da parte di Eusebio, anche perché secondo la testimonianza di Fozio, a Panfilo si dovevano i primi cinque tomi, mentre il sesto che chiudeva l’opera sarebbe stato attribuibile a Eusebio. Tali considerazioni non permettono però di escludere completamente un lavoro di collaborazione o di revisione da parte di Eusebio sull’insieme dell’opera, come si evince anche dal chiarissimo paragrafo che Röwekamp dedica alla formazione dell’apologia (pp. 51-58). Si tratta, insomma, di un’attribuzione puramente convenzionale, che non si fonda su alcun nuovo elemento rispetto all’analisi già a suo tempo compiuta da Amacker e Junod (mi riferisco in particolare alle pp. 41-74 del volume 465 delle Sources Chrétiennes), anche se, va ricordato, nemmeno l’attribuzione di Amacker e Junod può essere dimostrata senza ombre di dubbio. 1_2011.indd 270 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 271 Tutta la prima parte della lunga introduzione di Röwekamp propone, in effetti, poco più di una semplice sintesi dello status quaestionis, presentando il contesto di Alessandria e di Cesarea (pp. 11-22), la figura di Origene e la questione origenista (pp. 23-44), Panfilo di Cesarea e la questione della stesura dell’apologia per Origene (pp. 44-58), nonché, infine, il contesto della traduzione rufiniana (pp. 58-77). Si tratta di un impianto introduttivo che non si ritrova nell’edizione francese, che presentava il testo critico con una rapidissima introduzione, ed un secondo volume composto di una serie di studi molto approfonditi ed eruditi, che non prendono in conto diversi degli aspetti generali del contesto del libro. Tutta questa prima parte dell’introduzione affronta l’opera in maniera rapida ed efficace, in un insieme ben chiaro ed equilibrato e, pur senza aggiungere nulla di nuovo alla ricerca, propone al lettore diversi aspetti che l’edizione di Amacker e Junod ha tralasciato, a cominciare dal contesto alessandrino, per finire con la parte contenente l’analisi dettagliata del testo. Rispetto all’edizione delle Sources Chrétiennes, il volume di Röwekamp ha un’introduzione di molto più agevole comprensione, grazie in particolare all’analisi del testo, di un taglio insomma ben diverso da quella proposta da Amacker e Junod, che contiene principalmente un mero commentario filologico. La parte iniziale dell’introduzione di Röwekamp appare in conclusione sicuramente più omogenea e logica nella sua costituzione, ed è naturalmente pensata, molto più che la precedente, anche per un lettore che non sia perfettamente a suo agio con la materia trattata dal libro. La parte principale dell’introduzione di Röwekamp è però la sezione che segue, che occupa i due terzi dell’insieme, e contiene una presentazione/commento dell’insieme dei testi tradotti, della prefazione di Rufino al testo dell’apologia, e, infine, dell’appendice rufiniana a proposito della falsificazione delle opere origeniane (pp. 77-208). Un’ultima, breve sezione propone, a conclusione del lavoro, l’analisi delle principali pretese accuse addotte contro Origene da una lettera di Giustiniano e dai documenti conciliari del 553 che portarono alla definitiva condanna del teologo ed esegeta alessandrino (pp. 208-217). Il commento di Röwekamp presenta diversi aspetti originali in confronto all’apparato di note dell’edizione Amacker e Junod. In particolare, si interessa a diverse riprese dell’accusa di gnosticismo che graverebbe su Origene secondo i suoi detrattori, accuse che non vengono prese in conto da Panfilo e da Rufino stante ormai l’inattualità del fenomeno gnostico, almeno quello dell’ambiente origeniano (oltre all’insieme del commento, si veda in proposito la sintesi conclusiva alle p. 197-201). In conclusione, se gli studiosi di quest’opera potranno limitarsi a consultare le note di commento ai vari capitoli del testo, in quanto esse rappresentano il contributo originale che Röwekamp offre, il volume rappresenterà un validissimo strumento per affrontare l’Apologia per Origene da parte di chi, presumibilmente, sia di madrelingua tedesca. L’Apologia è di per sé un testo importantissimo, nel quale sono incastonati molti brani altrimenti sconosciuti di Origene, secondo la scelta fattane da Panfilo e dal suo discepolo Eusebio di Cesarea. Si ricorderà infatti che peculiarità di quest’opera è che essa si compone di una serie quasi ininterrotta di citazioni tratte dalle più disparate opere origeniane, con lo scopo di fornire un’apologia per il maestro alessandrino a torto accusato di propugnare diverse credenze eterodosse. Anche nella sua forma letteraria, si tratta quindi di un’opera unica, forse la prima composta in tal modo, e che vale certamente la pena di essere letta. Panfilo, 1_2011.indd 271 28-06-2011 12:12:23 272 Cr St 32 (2011) grande filologo devoto ad Origene, aveva infatti impostato la sua apologia come un florilegio delle parole stesse di Origene, quasi che fosse bastato “spiegare Origene con Origene” per azzerarne i sospetti di eterodossia. La storia continuò però per il suo corso, e quest’unica apologia per estratti non riuscì a cambiarla. Claudio Zamagni Università di Losanna Fabrizio Vecoli, Il sole e il fango. Puro e impuro tra i padri del deserto, (Centro alti studi in scienze religiose), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007, pp. xii-188 Nell’orizzonte dell’Egitto del IV secolo, un’età “spazzata da un’ondata di rinuncia” (così la definisce, con espressione suggestiva, M. Douglas in Questioni di gusto, Bologna 1999, p. 113), tra i seguaci di Cristo, alcuni uomini predicavano la vita eremitica, la cella solitaria, un’esistenza autosufficiente fatta di acqua di sorgente e radici, altri invece si univano in comunità cenobitiche rette da un capo carismatico: entrambe le soluzioni guardavano ad un più intenso vincolo con Dio da raggiungere per mezzo dell’ascesi. Con il presente volume, F. Vecoli intende rileggere il monachesimo egiziano antico sotto l’aspetto dei concetti, capitali a quanto pare in ogni cultura, di puro ed impuro, mirando in particolare a definire con più esattezza il rapporto di dipendenza reciproca tra la condizione di purità e la visio Dei e a porre la necessità di questo rapporto alla base di ogni relazione intrattenuta dall’asceta: verso sé stesso, verso gli altri monaci e verso il resto del mondo. Nel primo capitolo, premessa a tutta la ricerca, Vecoli ammette, sulla questione dell’impurità, l’esistenza di una “generale coesistenza di concezioni tra loro diverse all’interno del cristianesimo antico”. Sebbene infatti, secondo la vulgata generale, sarebbe stato il cristianesimo ad operare una sorta di spiritualizzazione/eticizzazione di un concetto d’impurità dai tratti decisamente più “materiali” quale era concepito dall’ebraismo - e come noi meglio lo abbiamo conosciuto attraverso studi fondamentali quali quelli di M. Douglas (primo fra tutti Purity and Danger, London 1966, ma anche Leviticus as Literature, Oxford 1999), di J. Neusner (The Idea of Purity in Ancient Judaism: the Haskell lectures, 1972-1973, Leiden 1973) o di J. Milgrom (“The dinamics of Purity in the Priestly System”, in Purity and Holiness: the Heritage of Leviticus, a cura di M.J.H.M. Poorthuis e J. Schwartz, Leiden 2000) per citare alcuni dei più noti – l’ambiguità di puro ed impuro rispetto a tali principi eticizzanti risale, a parere dell’autore, già al Nuovo Testamento (ambiguità forse dovuta all’influenza delle idee qumraniche sul cristianesimo primitivo). Una certa 1_2011.indd 272 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 273 indeterminatezza tra spiritualità e materialità, in riferimento ai problemi legati alla contaminazione, è quella che l’autore ci mostra agire nelle fonti monastiche del IV sec. Tale genere d’impurità, inoltre, non sembra mostrare, in questo contesto, alcun legame con la categoria del sacro, assimilabile piuttosto alla tipologia del puro: il pensiero va subito alla tradizione ebraica che, diversamente, concepisce una modalità di contaminazione, ed anche molto pericolosa, innescata proprio a partire dal sacro. Più simile a tale concezione, limitatamente a questo ambito, è quella che ci descrive Parker nel suo ormai classico saggio, Miasma, del 1983, secondo cui, invece, nel mondo greco puro e sacro sarebbero categorie assolutamente distinte. Quanto poi all’interpretazione che l’autore riserva a questo concetto, essa si fonda principalmente sull’idea di “mescolanza” sulla base delle teorie che M. Douglas esponeva all’epoca di Purezza e Pericolo (Purity and Danger, 1966). La paura della contaminazione deriverebbe, stando a ciò, da una reazione culturale nei confronti della violenza che un’anomalia può provocare all’interno dell’ordine simbolico vigente in una società strutturata: qualora, insomma, vengano mescolati elementi estranei in modo compromettente. I monaci egiziani avrebbero dunque concepito l’impurità come un veicolo di depotenziamento di un’identità culturale di matrice fondamentalmente religiosa, causato dall’introduzione di elementi a questa alieni. Il lessico di riferimento (greco e copto) per la terminologia dell’impurità non presenta particolari anomalie e corrisponde a quello tradizionale neotestamentario e protocristiano ma ulteriormente semplificato. Non è invece preso in considerazione il lessico ruotante intorno all’opposizione sacro/profano in base al principio per cui, nelle fonti considerate, se è vero che il puro è una qualità del sacro non è possibile dire il contrario (non tutto ciò che si dice sul sacro può riferirsi automaticamente al puro). Per quanto riguarda le fonti utilizzate in questo studio (per le quali manca un indice finale delle abbreviazioni, che sono invece indicate nella prima nota che le introduce), l’autore non solleva particolari problemi di paternità, di autenticità delle opere, sostenendo generalmente che, ai fini della ricerca, queste possono essere utilizzate come “testimonianze valide almeno su un piano socio-culturale”. Si tratta principalmente dei testi che ruotano intorno alla figura di Antonio (le Lettere – la cui autenticità è riconosciuta sulla base della proposta di S. Rubenson, Lund 1990 – la Vita di Atanasio e gli Apoftegmi dei Padri a lui dedicati, le ultime due in quanto testimonianze del pensiero dei loro rispettivi redattori), e di Pacomio (le Vite, le opere attribuite alle successive guide della comunità ed il corpus normativo pacomiano), delle opere dei primi anacoreti egiziani (l’opera di Ammonas, l’unica lettera di Macario Egizio, l’Epistula ad filios, ed il Trattato ascetico di Stefano di Tebe), di alcuni cosiddetti “diari di viaggio” (l’Historia monachorum in Aegypto per esempio), dell’Historia Lausiaca di Palladio di Elenopoli, degli Apophthegmata Patrum, di alcune fonti copte (i cui testi sono tratti dalle raccolte di E.A. Wallis Budge, Londra 1910-1915, e E. Amélineau, Paris 1895) ed infine delle tradizione risalente a Paolo di Tamma, Besa e Shenute (nelle edizioni rispettivamente di Orlandi, Roma 1984, Kuhn, Louvain 1956, e Emmel, Louvain 2004). Col secondo capitolo l’esame delle fonti è intrapreso a partire da un passo delle Lettere di Antonio in cui l’azione dei demoni sull’uomo si rivela, nell’ordine della fisicità, nella forma di tre moti (kìnesis) connotati negativamente (Ep. Ant. 1, 3). 1_2011.indd 273 28-06-2011 12:12:23 274 Cr St 32 (2011) L’associazione di male e movimento, che sembrerebbe ritrovarsi anche nei sistemi ermetico-gnostici, risale, secondo l’autore, ad una tradizione al contempo platonica e pitagorica: si tratterebbe di un male demoniaco, identificato con la molteplicità, la divisione e la dispersione e contrapposto all’unità interiore, al raccoglimento solitario, all’esichìa (quiete). Terzo di questi tre movimenti è quello che offre una spiegazione demonologica dell’impurità dovuta ad un contatto diretto con un’entità esterna e demonica. Il secondo moto fornisce una spiegazione per così dire “filosofica” dell’impurità, ed è quello in cui la contaminazione dipende dal sovvertimento delle funzioni naturali dell’uomo, sul piano del nutrimento e su quello della sessualità. Un rigoroso equilibrio è richiesto al monaco nel soddisfacimento dei bisogni fondamentali: non sono tanto i cibi ad essere impuri in sé, ciò che determina l’impurità è il “peso della carne” che può sopraffare, nel caso dell’ingordigia, il peso dell’anima. Così anche la sessualità che, pur nella vita coniugale, impedisce la “mancanza di distrazione” necessaria all’autentica preghiera. Le distrazioni connesse alla vita famigliare risulterebbero dunque negative perché portatrici di pensieri in grado di spezzare “l’omogeneità interna dell’asceta”. Infine, il primo moto è quello meccanico, “naturale”, precedente alla caduta perché insito nel corpo stesso dell’uomo. In questo caso la contaminazione è dovuta ad un difetto ontologico, l’impuro precede il puro nell’uomo ed il pessimismo di una concezione dualistica anima-corpo finisce per pervadere anche le altre interpretazioni. Muovendosi contemporaneamente su diversi piani, nel terzo capitolo Vecoli, raccoglie indizi atti a definire più precisamente la sfera di pertinenza dell’impuro, se costituisca cioè una categoria fisica o spirituale. Un primo esempio è tratto dalla grande fortuna che riscosse nell’esegesi monastica il passo paolino di I Cor. 9.27 in cui è scritto: “sottometto il mio corpo e lo riduco in schiavitù”. Questa ambizione di sorveglianza sui propri sensi, l’idea di una necessaria sottomissione del corpo all’anima, letteralmente di una sua riduzione in schiavitù non avrebbe solo uno scopo di controllo sulla carne in modo che non sia d’ostacolo all’anima, ma si fonderebbe su un’esigenza di purezza, presupposto indispensabile per le future battaglie spirituali. Secondo Vecoli, possono essere portati a testimonianza di tale priorità alcuni esempi in cui il monaco, durante il processo di purificazione dell’anima, necessita di concretizzare, oggettivare il pensiero impuro per poterlo quindi superare. Egli riferisce questo procedimento alla logica del “come se” che consentirebbe di rendere finalmente fisica, visiva, materiale anche la battaglia spirituale: la tentazione, attuata in maniera fittizia, verrebbe a svelare tutto il suo carattere effimero e spiacevole pur non rappresentando con ciò peccato, mentre tale esperienza, da mentale divenuta fisica, costituirebbe una sorta di memoria alternativa per l’asceta. Il compimento spirituale a cui l’uomo può aspirare in vita ha comunque un limite e Paolo di Tamma lo descrive sotto forma di un irraggiamento luminoso con cui lo Spirito Santo prende dimora nelle membra del monaco mentre nella sua anima sono messe in moto le 12 virtù (De Humilitate 9). In questa descrizione della santificazione Vecoli vede l’influenza di sistemi dottrinali non cristiani ma avvicinabili piuttosto alle tradizioni astrologiche dell’Oriente tardo antico, tradizioni dalle quali il monachesimo avrebbe ricavato l’idea di una costrizione al male o all’impu- 1_2011.indd 274 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 275 rità che potenze esterne, cosmiche, realizzano sull’uomo il quale vi si può sottrarre solamente attraverso lo sforzo ascetico e, naturalmente, la grazia divina. Perciò alla condizione di purità corrisponde anche una condizione di libertà, libertà che apre alla dimensione celeste. Alla conclusione di questo capitolo sulle strategie di purificazione l’autore riserva la spiegazione del titolo dell’opera: il sole e il fango. L’impurità che abita nell’uomo agendo come ostacolo alla sua ascesi opera in forma vischiosa, assorbente, intralciante “una sorta di melma che tende a ricoprire ogni cosa” (p. 76). Lo sforzo ascetico consiste nel lasciare decantare questo fango finché lo spirito, prosciugato e lindo, possa librarsi al cielo. Così opera l’immagine del fango presso gli autori dell’epoca. In questo sistema metaforico l’azione divina è interpretata dal sole che, incandescente e benevolo brucia il fango ma senza sporcarsene. Solo in questa maniera si risolverebbe l’incompatibilità tra l’impurità dell’uomo e la possibilità dell’azione divina su di lui: il creatore può operare sulla sua creatura anche se questa non è ancora perfetta, senza con ciò ridurre la propria perfezione macchiandosi del fango dell’impurità. Il conflitto tra la volontà e la grazia nel processo di purificazione è comunque un problema sentito. Vecoli lo rende evidente discutendo due temi in apparenza marginali: quello delle lacrime e quello delle polluzioni notturne. In entrambi i casi si tratta di fatti fisici ed insieme spirituali, di umori intimi ed incontrollabili. Il primo, simboleggiando una buona disposizione dell’anima, può rappresentare un momento intermedio dell’elevazione del monaco, un’arma contro i demoni, un solvente dell’impurità. Il secondo invece ha un valore uguale ed opposto, a metà strada tra la volontà del peccato e la manifestazione di un male che è intrinseco nel corpo, una potenza contraria alla grazia che controlla l’uomo al di là del suo libero arbitrio e alla quale esso può reagire solo spegnendone progressivamente la vitalità in una sorta di “morte sospesa” del corpo (p. 97). Con il IV capitolo Vecoli riporta i precedenti elementi d’analisi in un nuovo contesto, non più quello dei singoli asceti in cui ciascuno è responsabile per sé stesso, ma quello dell’ambiente cenobitico pacomiano: un grande monastero diretto da un superiore secondo una normativa diretta a fronteggiare tutte le difficoltà concrete legate alla convivenza. I conflitti, in particolare, ruotano intorno alla dissidenza interna, alla tentazione omosessuale e, ciò che la precettistisca pacomiana sembra temere di più, ai disordini generati da questioni sul cibo. Le forme, i tempi, i tabù della nutrizione, come ben sappiamo, hanno un’importanza decisiva per la formazione di un’identità religiosa. Nel percorso ascetico, che vorrebbe l’uomo assimilarsi alla creature celeste, mentre il sesso ed il sonno lungo il delicato confine tra ascesi e sopravvivenza, rappresentano, il primo, un ostacolo la cui rinuncia non mette a rischio la sopravvivenza del corpo, il secondo, un evento moralmente neutro, la fame è invece un impulso a cui non è possibile cedere passivamente poiché richiede uno sforzo attivo per essere sedata. Perciò bisogna affrontarla con pianificazione ed organizzazione. È comprensibile dunque che molta parte delle regole del monastero interessino proprio il controllo della sfera alimentare. È ben dimostrato, del resto, come, nell’ambito comunitario, siano l’obbedienza e la concordia del gruppo a garantire la purezza dei singoli membri. Il “nuovo soggetto della salvezza” non coincide infatti più con l’individuo ma con la confraternita guidata da un superiore. Come nel corpo dell’asceta ogni membro era oggetto di disciplina in modo che non 1_2011.indd 275 28-06-2011 12:12:23 276 Cr St 32 (2011) potesse fungere da conduttore per l’impurità, così nel cenobio è da un solo monaco che può partire la contaminazione del gruppo poiché è la comunità nel suo insieme che si salva o si perde. Vi è, secondo Vecoli, un’idea della purezza come “monotropia”, omogeneità, uniformità interna: del corpo in Antonio e della comunità in Pacomio. Il superiore del monastero regge la collettività come l’asceta il suo proprio corpo, a lui solo spetta il carisma, la vicinanza con il divino (e la purezza che ciò implica), la visione della “luce” mentre gli altri appartenenti al gruppo si salvano con il solo seguirlo. L’opera si conclude con una considerazione sul modo in cui la riflessione monastica ha pensato il rapporto con l’altro in una storia, quella dell’Egitto del IV e V secolo, che sembra spesso una vera e propria “cronaca di un conflitto”. Partendo dunque dalla constatazione dell’innegabile violenza di fondo che contrassegnava le relazioni esterne dei monaci, l’autore cerca di decifrare il tipo di ideologia che ne costituiva l’impulso iniziale attraverso il mezzo dell’analisi lessicale (in particolare è allótrios – altrui, o comunque straniero – il termine connotato in senso più negativo dal punto di vista della spiritualità). L’ “Altro” è soprattutto un diverso di natura divina, che riporta a questioni d’appartenenza religiosa applicabile innanzi tutto ai diavoli, colpevoli della prima disubbidienza a Dio, quindi all’impurità, risultato della contaminazione prodotta dall’introduzione di un elemento estraneo in un contesto altrimenti omogeneo, infine, nell’ambito del cenobio pacomiano, “altro” è ciò che spezza la sintonia della comunità, è la dissidenza interna. In pratica l’autore ritiene si possa definire con “altro”, nel monachesimo egiziano, tutto ciò che “spezza l’uniformità con Dio”, dalla funzione corporea incontrollata, al dissidente della comunità, dal laico fino all’eretico e al pagano. Già gli indisciplinati interni al monastero, come abbiamo visto, sono oggetto di isolamento o di espulsione dalla comunità perché capaci, con la loro “agitazione”, di contaminare, di influenzare il gruppo. I laici, a loro volta, sono percepiti come pericolosi soprattutto per la loro vita coniugale che li contamina, fatalmente, per il tramite della sessualità. L’eretico costituisce quindi una categoria dell’alterità particolarmente insidiosa perché spesso difficile da individuare e portatrice di una corruzione che agisce per mezzo della parola. Il pagano, infine, si oppone al monaco sul piano della religiosità: animato da un ispirazione demoniaca, la sua è un’alterità assoluta a Dio, un’alterità “extraumana” che mostra chiaro il volto del male e dell’impurità. Il nemico sociale viene così a coincidere con il nemico spirituale nei confronti del quale sono necessarie vere e proprie precauzioni igieniche. Ciascuna di tali categorie minaccia l’integrità del monaco sia nello spirito sia sul piano materiale del contagio fisico: la precauzione più efficiente rimane comunque il sottrarsi al contatto. Ciò che Vecoli in fin dei conti ci mostra è un’alterità che si misura in base alla distanza da Dio e che si innesta in una rete costruita sulle fondamenta dell’affiliazione religiosa. E siccome potenzialmente ogni uomo è passibile di evangelizzazione, il suo statuto non è incondizionato ma vincolato alla disponibilità di accettazione della Verità. Ciò che è in gioco, che si tratti dell’individuo nella sua corporeità o nello spirito, della comunità monastica o del mondo, è sempre l’affermazione dell’unica divinità sulle sue creature la cui umanità dipende insomma dall’apertura che queste dimostrano all’omologazione religiosa. Nella diversità non vi è alcuna dignità, essa è sempre fonte di impurità, e solo il santo occupa una posizione che gli permette un 1_2011.indd 276 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 277 contatto col mondo esente dal rischio di contaminazione poiché è ormai divenuto egli stesso un veicolo di trasmissione del sacro. Giulia Canedi Università degli Studi di Siena Byzantine Orthodoxies. Papers from the Thirty-sixth Spring Symposium of Byzantine Studies, University of Durham, 23-25 March 2002 (Society for the Promotion of Byzantine Studies. Publications 12), ed. by Andrew Louth and Augustine Casiday, Ashgate Variorum, Aldershot 2006, pp. xiv-236 Il titolo suona come un ossimoro. Del resto, non meno provocatorio era quello – Was Byzantium Orthodox? – del simposio di studi, tenuto tra il 23 e il 25 marzo del 2002 a Durham, i cui atti sono per l’appunto presentati da Byzantine Orthodoxies. Il volume in oggetto offre – oltre la breve Preface di A. Louth (pp. IX-X), la List of Abbreviations (p. XI, con spiacevoli errori: Acta Concilium [leggi Conciliorum] Oecumenicorum, Patrologia [leggi Patrologiae] cursus completus… series graeca nonché Patrologia [leggi Patrologiae] cursus completus… series latina) e la List of Illustrations (p. XIII) – sedici lavori. Le pp. 229-236 sono occupate da un indice di nomi e di cose. Il primo contributo, Introduction di A. Louth, pp. 1-11, pone le domande relative al tema e fornisce alcune coordinate di lettura per i successivi papers, ripartiti in tre sezioni. La prima, «Defining orthodoxy» (pp. 13-92), raccoglie cinque articoli, la seconda, «Orthodoxy in art and liturgy» (pp. 93-164), sei, e la terza, «Orthodoxy and the other» (pp. 165-214), gli ultimi tre. Fungono da Epilogue le note del compianto S. Averintsev, Some constant characteristics of Byzantine Orthodoxy, pp. 215-228, scomparso il 21 febbraio 2004, prima della pubblicazione del volume che a lui è stato dedicato. Apre la prima sezione uno scritto di J. B(ehr), The question of Nicene Orthodoxy, pp. 15-25. Intrecciando un fitto dialogo con le posizioni espresse recentemente da studiosi di area anglosassone, B. sottolinea soprattutto l’importanza dell’esegesi nel definire le posizioni dei non-Niceni e dei Niceni del IV secolo: «The non-Nicenes (…) insisted on an absolutely univocal exegesis, which applied all scriptural affirmations in a unitary fashion to one subject, who thus turns out to be a demigod, neither fully divine nor fully human (…). For the Nicenes, on the other hand, Scripture speaks throughout of Christ, but the Christ of the kerygma, the crucified and exalted Lord, and so speaks of him in a two-fold fashion, a partitive exegesis: some things are said of him as God and other things are said of him as man…» (p. 24). En passant: è ‘Jovian’ l’imperatore romano († 364) destinatario di uno scritto di Atanasio: il ‘Jovinian’ di B., p. 19, è un lapsus. C. M(acé), Gregory of 1_2011.indd 277 28-06-2011 12:12:23 278 Cr St 32 (2011) Nazianzus as the authoritative voice of Orthodoxy in the sixth century, pp. 27-34, nel richiamare un elemento caratteristico dell’Ortodossia – e non solo di essa –, il cosiddetto ‘appello ai Padri’, si sofferma su una figura importante e paradigmatica: Gregorio Nazianzeno. Passi del Teologo, messi in luce da M., furono utilizzati nel contesto della seconda crisi origenista: l’auctoritas del Padre era tale che lo si voleva sempre e comunque tirare dalla propria parte. Anche l’associarlo ad altri scrittori – ad esempio, Cirillo di Alessandria – va visto secondo una precisa ottica strumentale. Il contributo è improntato a criteri sanamente filologici (per incidens, M. rende Phot. bibl., cod. 234, 293a, V, p. 83, linn. 10-12 Henry, Ἀλλὰ πῶς τὸ τοῦ θεολόγου Γρηγορίου νοητέον καὶ ἄλλων πολλῶν; in modo impreciso: «But how can it be that Gregory the Theologian and many others had the same opinion?» [p. 33]; si traduca piuttosto: «Ma come si deve interpretare la posizione di Gregorio il Teologo e di molti altri?»). Non si può dire lo stesso del lavoro di D. Krausmüller, Theotokos-Diadochos, pp. 35-54, che, dedicando molte pagine a un passo di un testo agiografico, la Vita di Teodosio composta da Teodoro di Petra, e giocando su ciò che egli ritiene – ma non lo sono – parechesi, forza indebitamente il testo e giunge a conclusioni arbitrarie. Di ben altra rilevanza è P. K(arlin)-H(ayter), Methodios and his synod, pp. 55-74, che indaga su un momento cruciale nella storia di Bisanzio: la restaurazione dell’ortodossia iconodula dell’843, lo spessore politico-ecclesiastico che essa ebbe e il ruolo di alcuni protagonisti, in particolare di Metodio e di Teodora, vedova dell’imperatore Teofilo. Di quest’ultima, K.-H., in polemica con Afinogenov, sottolinea, rileggendo le fonti, l’iniziativa sovvertitrice dello status quo e il ruolo determinante nella scelta di Metodio come nuovo patriarca (si osservi che potrebbe esserci stato, tra i possibili candidati [cfr. p. 65], anche Michele Sincello: cfr. Vita Mich. Sync. 25, p. 102, linn. 14 ss. Cunningham). K.-H. riesamina infine le ragioni della forte opposizione studita a Metodio e i primi passi di quest’ultimo come patriarca. A Procoro Cidone († 1370 ca.), figura di spicco in una certa fase della crisi esicasta, rivolge l’attenzione N. R(ussell), Prochoros Cydones and the fourteenth-century understanding of Orthodoxy, pp. 75-91. Lo studioso ricostruisce puntualmente la fisionomia di questo studioso e polemista, conoscitore di prima mano della teologia latina, e il ruolo che, come avversario dei Palamiti, svolse fino al processo che subì nel 1368. In esso Procoro Cidone fu condannato e le sue dottrine – di cui R. rimarca alcuni squilibri sotto il versante cristologico – furono confutate in opere di Giovanni Cantacuzeno (dal 1347 al 1354 imperatore col nome di Giovanni VI) e di Teofane di Nicea. La seconda sezione è dedicata alla «Orthodoxy in art and liturgy». L. Brubaker, In the beginning was the Word: Art and orthodoxy at the Councils of Trullo (692) and Nicaea II (787), pp. 95-101, si occupa dei canoni 73, 82 e 100 del Quinisesto che hanno attinenza o riflessi sul tema dell’arte posta al servizio dell’ortodossia. L’articolo si conclude con riflessioni, fin troppo rapide, sul Niceno II. L. James, … and the Word was with God… What makes art Orthodox?, pp. 103-110, esamina un passo degli Acta del Niceno II (Mansi XIII, 252) – tratto dalla refutatio dell’horos del concilio iconoclasta di Hiereia (754) – e, sulla scia di R. Cormack, lo contestualizza nell’ambito della polemica, rileggendolo come semplice asserzione di uno stato di fatto, non come norma prescrittiva. Non mi sembra qui emergere con chiarezza che il brano in questione pone definitivamente l’artista sotto l’usbergo dell’auctori- 1_2011.indd 278 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 279 tas dei Padri, spesso richiamata in causa come fonte di legittimazione. R. Cormack, …and the Word was God: Art and Orthodoxy in late Byzantium, pp. 111-120, si sofferma sull’epoca della crisi esicasta, in cui, per ciò che riguarda il rapporto tra arte e Ortodossia, non ravvisa un particolare shift col passato. Mette pure sommariamente in luce gli scambi e le reciproche influenze tra Oriente ed Occidente che si ebbero con i concili di Lione, 1274, e soprattutto di Ferrara-Firenze, 1438-1439. D. K(otoula), The British Museum Triumph of Orthodoxy icon, pp. 121-128, discute di una nota icona del tardo XIV sec. – riprodotta nella sovracopertina del volume e a p. XIV –, delle figure di santi che vi compaiono e del ruolo che vi esercitano. K. sottolinea l’interesse che la teologia e la chiesa bizantina della seconda metà del XIV secolo nutrirono per i temi della crisi iconoclastica: è questo lo scenario entro cui si colloca l’‘icona del Trionfo dell’Ortodossia’. Per A. Lingas, Medieval Byzantine chant and the sound of Orthodoxy, pp. 131-150, le tradizioni musicali dell’Oriente bizantino e quelle dell’Occidente latino, fino al XV secolo, operavano ancora su basi comuni: è una tesi che va contro una communis opinio espressa da studiosi e cultori di musica dell’Ottocento e del Novecento e influenzata da ragioni ideologiche. Infine, l’Archimandrita Ephrem (Lash), Byzantine hymns of hate, pp. 151-164, passa in rassegna alcuni inni che presentano espressioni, più o meno elaborate, di odium theologicum. Una precisazione: a p. 159 nota 29, si parla di κέντων come una «otherwise unattested Greek word», in riferimento al vescovo monofisita Giacobbe soprannominato il «Baradeo», cioè «straccione». In realtà, c’è κεντών nel Lex. Suda κ 1337 (cfr. Lexikon zur Byzantinischen Gräzität, IV, p. 821 s.v. che traduce «zusammengeflicktes Gewand») e κέντρων è ben testimoniato (cfr. LSJ, p. 939 s.v. II «piece of patch-work, rag»). La terza e conclusiva sezione, «Orthodoxy and the other» presenta tre contributi, per più aspetti stimolanti. N. de Lange, Can we speak of Jewish Orthodoxy in Byzantium?, pp. 167-178, focalizzando l’attenzione soprattutto sui secoli dopo il Mille, esamina le complesse dinamiche intercorrenti tra le principali comunità giudaiche dell’Impero bizantino, i Karaiti e i Rabbaniti. Pur distinti e spesso in polemica, «…both agreed too on a range of fundamental beliefs, including a common doctrine of God, man and the world, and a shared view of the character and destiny of the Jewish people» (p. 175). L’analisi dello scambio epistolare tra Fozio (al tempo del suo secondo patriarcato) e il vescovo armeno Isaac Mŕut conduce I. Dorfmann-Lazarev, The Apostolic Foundation Stone: the conception of Orthodoxy in the controversy between Photius of Constantinople and Isaac Surnamed Mŕut, pp. 179-197, ad interessanti conclusioni: «…Photius maintains a diachronic, collective and spatial understanding of orthodoxy: it is entrusted to the patriarchs whose sees are spread throughout Christendom. These patriarchates perpetuate the orthodox faith across the generations, developing it by means of oecumenical councils. On the other hand, Isaac affirms the primordial importance of the roots of the Armenian church founded on the ‘Apostolic foundation stone’» (p. 193), radici che gli Armeni vedevano incarnate nella figura di S. Gregorio Illuminatore. T.M. Kolbaba, The Orthodoxy of the Latins in the twelfth century, pp. 199-214, sottolinea opportunamente che, spesso, la polemica antilatina aveva obiettivi tutti interni al mondo ortodosso e intendeva colpire personaggi individuati come «latinofili». A Bisanzio, almeno sino alla fine dell’XI secolo, nei confronti dei Latini prevalse una posizione 1_2011.indd 279 28-06-2011 12:12:23 280 Cr St 32 (2011) tutto sommato moderata, ispirata a criteri di oikonomìa. Le cose sarebbero mutate profondamente col secolo successivo, in connessione con i noti eventi politici e militari. Nell’Epilogue del volume S. A(verintsev), Some constant characteristics of Byzantine Orthodoxy, pp. 215-228, sottolinea come vi siano, da un lato, differenze sotto il profilo dottrinario, dall’altro divergenze che riguardano «the style of gestures, of behaviour, of sacred art, of the rhetoric of hymns and sermons»: ciò che si assomma nello «special taste, worked out by the centuries of the Orthodox cultural tradition» (p. 215). Di questo taste e di alcuni suoi elementi – ad esempio, l’icona, la poesia innografica – A. ci fornisce suggestivi paradigmi. Dell’Ortodossia, dunque, si possono avere tante e distinte declinazioni, tante «orthodoxies», diverse, sì, ma pur sempre unificate da un inconfondibile taste. Comprendiamo, a questo punto, che il titolo Byzantine Orthodoxies è molto meno intrigante di quanto prima facie appare e non fa che amplificare retoricamente la fin troppo accentuata varietas dei contenuti offerti dal volume. E se questo si era aperto con i pensosi interrogativi di A. Louth (p. 2), si chiude invero con una palpitante riaffermazione di valori ortodossi. Una nota finale – purtroppo dolente – riguarda l’imperfetta cura editoriale del volume. Alcuni contributi – in particolare quelli di Macé, Lingas, dell’Archimandrita Ephrem (Lash) – sono sfigurati da numerosi o numerosissimi errori nelle citazioni di testi greci. Non mancano errori banali come, ad esempio: p. 28 «Apophtegmata» (-phth-), p. 107 «acheiropoietai» (-toi), p. 108 nota 18 «De opificio homini» (-nis), p. 109 nota 21 «Antirrhetii» (-tici), p. 119 «Melissimos» due volte, ma «Melissenos» recte a p. 120, p. 123 «Theophanes Continuatis» (-tus), p. 126 «Porphypogenitus» (-phyro-), p. 186 «N. Garoïan», ma «N. Garsoïan» recte alla nota 39 della stessa pagina. Carmelo Crimi Università degli Studi di Catania Mistici bizantini, a cura di Antonio Rigo, prefazione di Enzo Bianchi, (I millenni), Einaudi, Torino 2009, pp. 803 In linea con altre imprese di segno analogo, come ad esempio la raccolta sui mistici italiani curati da Carlo Ossola, il millennio Einaudi dedicato ai mistici bizantini è un’opera unica a livello internazionale, in quanto affidata – di contro ad esempio alle sezioni sulla mistica bizantina nell’opera La mistica della Città Nuova, in cui l’impostazione è nella maggior parte dei casi esclusivamente teologica – a un grande 1_2011.indd 280 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 281 specialista del settore, uno storico e al contempo filologo, in Italia sicuramente il maggior conoscitore della tradizione monastica e mistica bizantina. L’opera, che si propone di superare il “canone” di riferimento per la letteratura spirituale bizantina, quello in qualche modo imposto da Nicodemo Haghiorita e da Macario di Corinto con la Filocalia, raccoglie personaggi e testi più o meno noti nel panorama della letteratura bizantina: Simeone il Nuovo Teologo (silloge di Inni e κεφάλαια), Niceta Stethatos (silloge di κεφάλαια), Giovanni l’eremita (Epistola a un igumeno), Basilio igumeno di Maleinos (Discorso sul regolamento ascetico), Elia Ekdikos (Antologia gnomica di filosofi zelanti), Pietro Damasceno (Sulle otto contemplazioni intellegibili), Canone catanittico della Scala (scil. di Giovanni Climaco), il Giardino simbolico, Teognosto (Capitoli), Narrazione sugli inni (scil. di Thekaras) di Teodulo monaco, Dionigi monaco (Cinquanta capitoli gnostici), Metodo psicofisico di attenzione e di preghiera, Niceforo l’eremita (Trattato colmo di utilità sulla custodia del cuore), Gregorio sinaita (κεφάλαια, Notizia esatta sulla hesychia e sulla preghiera, sui segni della grazia e dell’errore, sulle differenze di calore e di operazione e che senza una guida con facilità penetra l’errore), Teolopto di Filadelfia (Discorso che spiega l’attività nascosta in Cristo e che mostra in compendio il fine della professione monastica, Esposizione parziale come promemoria dei consigli dati alla venerabilissima principessa monaca Eulogia) Gregorio Palamas (κεφάλαια, Lettera alla monaca Xene), Abba Isaia (Libro dei consigli alla monaca Teodora Angelina), Nicola Cabasilas (La vita in Cristo), Callisto Angelicude (Sulla pratica esicastica), Callisto e Ignazio Xanthopouloi (Metodo e canone esatto). La maggior parte dei passi, anche in presenza di un’edizione critica, sono stati verificati dall’autore sui manoscritti, con acribia e cura filologiche notevoli: non possiamo non citare ad esempio la nuova proposta di datazione di Esichio di Batos, che tradizionalmente viene considerato un autore di VIII secolo e per il quale invece Rigo propone una datazione molto bassa, e cioè la fine del XII secolo, dal momento che i manoscritti che ne riportano l’opera sono appunto del XIII secolo ed è a partire da quell’epoca che comincia ad essere citato da altri autori. La prefazione di Enzo Bianchi, priore di Bose, anticipa l’idea sottesa a tutto il volume e che ritroviamo nell’Introduzione, e cioè che «l’unica mistica possibile all’interno del cristianesimo prende forma e si definisce in rapporto al μυστήριον neotestamentario e paolino, cioè il disegno salvifico di Dio rivelato e attuato nella persona di Gesù», nella sua vicenda di nascita, vita, morte sulla croce e risurrezione. In questo senso la mistica cristiana, e tanto più quella bizantina, «lungi dall’essere esperienza straordinaria eminentemente individuale, è nella sua essenza esperienza ecclesiale cui sono chiamati a partecipare tutti i battezzati». La mistica dunque non è vetta che solo pochi possono raggiungere. Pare di vedere qui spinto alle estreme conseguenze, pur se non citato, il magistero di Vladimir Lossky e della sua Théologie mystique de l’Église d’Orient (Aubier, Paris 1944; tr. it. Bologna, Dehoniane 1985): con il termine «teologia mistica» egli intendeva indicare «una spiritualità che è espressione di una posizione dottrinale». Secondo Lossky ogni teologia è mistica, poiché manifesta il mistero del divino, i dati della Rivelazione. La tradizione orientale non ha mai fatto, secondo lo studioso, netta distinzione tra mistica e teologia (e però mistici come il Nuovo Teologo criticano la teologia tradizionale): l’una è impossibile senza l’altra, e se l’esperienza mistica significa mettere personalmente 1_2011.indd 281 28-06-2011 12:12:23 282 Cr St 32 (2011) in valore il contenuto della fede comune, la teologia è l’espressione, per l’utile comune, di ciò che può essere “esperimentato” da ciascuno. La mistica è insomma la perfezione, il vertice di ogni teologia, è la teologia per eccellenza. La teologia cristiana è uno strumento, un insieme di conoscenze che devono servire a un fine che sorpassa ogni conoscenza: il fine ultimo è l’unione con Dio, la deificazione, la θέωσις dei Padri Greci. Per Lossky la teologia mistica non coincide con la mistica propriamente detta, cioè l’esperienza personale dei diversi maestri di vita spirituale. Siamo lontanissimi dunque dalla riflessione che fece, in anni immediatamente seguenti, il gesuita Michel de Certeau, secondo il quale a partire dal xvii secolo non si designa più come mistico il modo di una saggezza elevata al pieno riconoscimento del mistero già vissuto e annunciato da credenze comuni, ma una conoscenza sperimentale che si è lentamente staccata dalla teologia tradizionale o dalle istituzioni ecclesiali e che si caratterizza per la coscienza di una passività appagante in cui l’io si perde in Dio. In altri termini, secondo De Certeau, diventa mistico ciò che fuoriesce dalle vie normali o ordinarie, che appare simultaneamente nella forma di fatti straordinari e di una relazione con un Dio nascosto. Nell’ampia Introduzione (pp. xi-xcvi) Rigo afferma chiaramente che il volume è in realtà un’antologia di testi spirituali: testi devozionali, ascetici, di direzione spirituale, propriamente mistici, all’insegna dell’equazione spirituale=mistico. E tuttavia, siamo così sicuri che la letteratura spirituale sia mistica? La letteratura ascetica può essere considerata una letteratura mistica? Lo stesso Lossky è costretto ad ammettere che la mistica è la perfezione, il vertice della teologia, e che i discorsi ascetici non sono mistici. Lo studioso rinuncia a dare una definizione operativa di mistica e delinea un percorso storico che, giustamente, non può prescindere dalla mistica siro-orientale: Giovanni di Apamea, Isacco di Ninive, Filosseno di Mabbug, Giovanni di Dalyatha. Si parte da Giovanni Climaco, per procedere con la scuola sinaitica – anche se lo studioso rifiuta la distinzione di Hausherr nelle cinque scuole di spiritualità tra cui, appunto, quella sinaitica: al proposito cfr. il suo La spiritualità bizantina e le sue scuole nell’opera di Irénée Hausherr, in «Orientalia Christiana Periodica» 1 (2004), pp. 197-216 (Atti del simposio Irénée Hausherr et la spiritualité de l’Orient chrétien) –, arrivare alla tradizione studita e poi analizzare gli autori e i testi che costituiscono la sezione antologica, contestualizzandoli nel periodo di riferimento. Antonio Rigo, giustamente, contesta le dicotomie tradizionali come praxis e theoria, che però è dicotomia consolidata negli stessi testi che egli cita; certo la contemplazione è frutto delle pratiche ascetiche, ma la letteratura spirituale stessa ci informa che non per tutti l’ascesi conduce alla theoria. Frutto di questa impostazione è il giudizio dato alla figura che rappresenta uno dei vertici nell’esperienza mistica a Bisanzio, e cioè Simeone il Nuovo Teologo: pur riconoscendo in lui l’apice della mistica bizantina, Rigo lo considera come la figura meno rappresentativa, «un vero e proprio meteorite comparso nel cielo di Bisanzio». «La caratteristica principale e comune dell’intera tradizione spirituale bizantina è l’impersonalità, elemento tanto distintivo da causare, indirettamente, molti problemi agli studiosi moderni, non da ultimo quello della datazione di alcune opere prive di qualsiasi coordinata cronologica». Questo è vero, è ovvio, ma vale soprattutto per la letteratura spirituale e per quella più teorica. Rigo ben ha messo in evidenza le due attitudini contrastanti nel mistico: da un 1_2011.indd 282 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 283 lato è riconoscibile una sorta di pudore nel rivelare le esperienze più intime, che infatti egli le racconta in forma anonima o alla terza persona (ecco il canone dell’impersonalità), mentre in alcuni casi, come lo straordinario inno 15, questa reticenza si trasforma, secondo Rigo, in una specie di esibizionismo: e però proprio nell’Inno 15 l’esperienza mistica è da Simeone descritta in un modo così vivido che egli arriva ad affermare che tutti i suoi organi, compresi i genitali, diventeranno membra di Cristo. Secondo Simeone nella presa di coscienza di essere inabitati dallo Spirito, che si realizza nella visione, consiste il fine e la vocazione della fede cristiana: «senza l’esperienza la teologia è inutile, con l’esperienza diventa superflua», per citare de Halleaux. Io personalmente avrei anche antologizzato qualche passo tratto dalle Catechesi (ad esempio la sedici), ma capisco il tentativo di rendere conto della teoria e della prassi del discorso mistico, inserendo i κεφάλαια. Rigo cita una serie di autori diversissimi rispetto al Simeone degli Inni o delle Catechesi (gli scritti più autobiografici) ma più vicini al Simeone dei κεφάλαια e dei Trattati: in questa direzione vanno Elia Ekdikos, Nicone della Montagna Nera, lo stesso Niceta Stethatos, discepolo di Simeone e editore delle sue opere, laddove il filone ereticale rappresentato da Teodoro delle Blacherne e da Costantino Crisomallo è strettamente connesso al magistero delle Catechesi simeoniane. Il filone agiografico, poi, nella figura di Cirillo il Fileota, riprende in pieno la figura del mistico carismatico e delle sue visioni, cercando di mitigarne taluni eccessi. A Simeone il Nuovo Teologo è stato per lungo tempo attribuito un testo più tardo (anonimo e di metà del XIII secolo), la μέθοδος τῆς ἱερᾶς προσευχῆς καὶ προσοχῆς, che esalta il metodo psicofisico di orazione: esso presuppone la completa assenza di preoccupazioni, una coscienza pura, la libertà da ogni passione e una totale sottomissione al padre spirituale. Della tecnica fanno parte una posizione corporea, una disciplina respiratoria e la visualizzazione interiore, il tutto finalizzato alla contemplazione e alla visione divina: questa tecnica sarà poi alla base dell’esicasmo. Assai interessante e innovativa mi sembra la scelta di inserire una sezione dedicata a un personaggio affascinante e suggente, Thekaras, che ci ha lasciato diciotto Inni, l’ufficiatura ascetica e otto orazioni tratte dalla Scrittura e da Efrem il siro. Rigo ha scelto di antologizzare alcune operette complementari che nei manoscritti accompagnano i testi di Thekaras. Degna di nota è soprattutto la Narrazione sugli Inni del monaco Teodulo, dedicata all’itinerario spirituale di Thekaras, vissuto nella seconda metà del XIII secolo e di cui abbiamo pochissime informazioni. L’itinerario è delineato sicuramente in modo conforme ai racconti monastici, ma ricorda soprattutto i racconti che fa Simeone il Nuovo Teologo – che peraltro viene citato – delle proprie esperienze mistiche, anch’essi in prima persona, pur se con alcune differenze: ad esempio Thekaras parla di estasi, laddove noi sappiamo che per Simeone l’estasi è uno stato tipico degli inizi della vita spirituale, quando le forze dell’anima sono ancora vacillanti, ed è il risultato dell’incapacità dell’anima di sostenere la visione della luce divina senza esserne sconvolta: essa è dunque una fase preliminare a una condizione ulteriore, caratterizzata da uno stato di consapevolezza e di presenza costante della luce divina dell’interiorità. Tuttavia, la stretta connessione fra momento di preghiera e visione divina, la centralità dell’illuminazione come momento mistico sono analoghi. Ciò che c’è di nuovo è la consapevolezza che gli 1_2011.indd 283 28-06-2011 12:12:23 284 Cr St 32 (2011) Inni sono frutto di ispirazione divina e portatori della visione e, in quanto tali, entrano a far parte dell’ufficio del monaco: «La composizione è quindi nostra, meglio non è nostra ma della grazia di Dio, come è stato mostrato. Per questo mi sembra inopportuno porre nel titolo il mio nome, ma piuttosto attribuire gli inni a Colui che dona la grazia, alla causa di tutti i beni e al fondamento dei nostri pensieri. […] Ho composto sotto la guida della grazia e con molta fatica, lungo tempo». Colpisce, inoltre, l’insistenza sul μονολόγιστος al quale viene affidato il compito di distruggere i pensieri. Se l’Antologia gnomica di filosofi zelanti di Elia Ekdikos può ricordare a tratti un certo ordine di procedere tipico della Scala climachea (di cui cita molte γνῶμαι), Basilio di Maleinos riprende nelle prescrizioni del regime alimentare la misura del monachesimo di Gaza, e nemmeno un campione come Gregorio Sinaita, nei capitoli sulla preghiera, rifugge dal suggerire una misura nel mangiare, nel bere e nel regime sonno-veglia, legittimandoci a pensare che la pratica ascetica sia comunque fondamentale per il mistico. Si resta però perplessi nel vedere inserito nell’antologia il Canone catanittico della Scala, una raccolta di odi in cui ciascuna strofa è accompagnata da un’illustrazione, il tutto tratto dal quinto gradino della Scala di Climaco, dedicato alla penitenza. La recitazione di questo testo doveva essere effettuata sia durante le preghiere in comune, sia durante la preghiera e le meditazioni nella solitudine (anche nella Narrazione sugli Inni di Teodulo troviamo raccomandata la recitazione delle preghiere catanittiche), a dimostrazione della centralità della penitenza nell’itinerarium mentis ad Deum: ma si tratta di un testo mistico? O forse andava meglio esplicitato il nesso tra esso e le tecniche di visualizzazione legate alle immagini – splendide miniature nei manoscritti – cui il testo dà origine (tecniche sulle quali si è recentemente soffermato Gilbert Dagron (in Décrire et peindre. Essai sur le portrait iconique, Gallimard, Paris 2007). Vorrei ancora spendere qualche problema sul problema della mistica femminile: testi come le lettere di Teolepto di Filadelfia alla monaca, principessa nel mondo Irene Cumna-Eulogia, il Libro dei consigli di abba Isaia, la lettera di Palamas alla monaca Xene, non sono certo testi diretti a estatiche. L’opera di abba Isaia, poi, sembra piuttosto inserirsi in quella tradizione del consilium che in Occidente è stata ben indagata, gli altri sembrano testi rivolti a quelle che si vorrebbero, per usare un’espressione di Hatlie, Women of discipline. Resta indubbio il coraggio di Rigo nel cimentarsi in una consimile impresa, che resterà sicuramente un importante punto di riferimento per gli studi sulla mistica bizantina, anche se io avrei intitolato la raccolta Spirituali a Bisanzio, un titolo che, mi rendo conto, sarebbe meno appetibile, ma sicuramente più conforme ai contenuti del volume. Rosa Maria Parrinello Dottore di ricerca in Storia religiosa e in Istituzioni, società, religioni dal Tardo Antico alla fine del Medioevo 1_2011.indd 284 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 285 Marco Toti, Aspetti storico-religiosi del metodo di orazione esicasta, (Quaderni di SMSR dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, n. s.), vol. 4, Japadre Editore, L’Aquila-Roma 2006, pp. 158 Il libro che qui presentiamo costituisce il quarto volume della nuova serie della collana dei Quaderni di “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, a suo tempo diretti da Alberto Pincherle e da Angelo Brelich e oggi sotto la direzione di Emanuela Prinzivalli e di Sergio Zincone. Il testo di Marco Toti offre un’introduzione, con spunti riflessivi relativi a quella specifica tradizione cristiano-orientale che ha trovato nei trattati ascetici athoniti del XIII-XV secolo una sistematizzazione rilevante del simbolismo della tecnica psico-fisica di preghiera fondata sull’invocazione fervente e continua del nome di Gesù, chiamata anche preghiera del cuore. Il problema ascetico della tecnica corporale di preghiera esicasta – nel saggio di Marco Toti – è per altro sottoposto ad un’analisi comparativa di accostamento che alza lo sguardo sul Sufismo islamico, sul Tantra buddista, sullo Yoga classico, sugli esercizi spirituali di varia tradizione cristiana. Il volume di Toti enuclea i temi principali di una morfologia della pratica ascetica, di cui si rileva il carattere iniziatico, il senso combattente di una spiritualità del martirio, della contemplazione orientata ad un simbolismo del cuore e del “corpoTempio”, in una spiritualità della ripetizione dell’invocazione, della prassi respiratoria, della postura del corpo nel quadro di una fisiologia mistica dell’esicasmo. Il libro dal titolo Aspetti storico-religiosi del metodo di orazione esicasta offre un percorso di studio, con punte di riflessione tra le quali una, più di altre, ha stimolato la nostra attenzione. Nelle pagine conclusive del libro, l’autore osserva che la formula religiosa dell’invocazione del nome di Gesù (la pronuncia della preghiera di Gesù) costituisce un’ascesi che “rifiuta recisamente le evasioni spiritualistiche” (ivi, p. 127). Ci sembra che, in questo punto, il “misticismo” orientale – troppo spesso banalizzato – venga messo sotto la luce giusta. Si mette in evidenza una tradizione mistica che non comporta una perdita dell’uomo (come altro da Dio), ma esalta un’altra dimensione di Dio come un altro (come lui) che deifica l’asceta che se è come Dio, come Dio porta il marchio della sua incomprensibilità. La relazione personale con Dio indica la religiosità di questo dialogo santificato esso stesso, stringendo un nodo problematico, in cui è possibile intrecciare metodologie e prospettive di ricerca. La preghiera dell’asceta a immagine e somiglianza di quella di Gesù implica due soggetti riuniti nel nome della preghiera, che non fonda i due soggetti come già costituiti, ma che sprofonda nel senso stesso della preghiera. Quando si dice “la preghiera di Gesù”, si assume il punto di vista del soggetto (Gesù che prega) e allo stesso tempo si oggettiva il soggetto nella “preghiera di Gesù” (genitivo oggettivo). In questa oggettivazione, la preghiera rende “altro” Gesù, immaginandolo che immagina a sua volta qualcun altro che prega a sua immagine e somiglianza. L’equivocità del genitivo “la preghiera di Gesù” non privilegia il soggetto nella preghiera, ma implica – quanto meno nella logica del linguaggio – la precedenza della preghiera dell’altro (che prega come Gesù) su Gesù che immagina l’altro che prega come lui, dando l’immagine stessa di Gesù che prima ancora prega come un altro. È una pre- 1_2011.indd 285 28-06-2011 12:12:23 286 Cr St 32 (2011) ghiera che sprofonda in un senso inimmaginabile della soggettività e dell’oggettività della preghiera di Gesù e di un altro che prega così, che torna a pregarlo allo stesso modo in cui lui prega e così via (e “così sia”), in un reciproco rivolgersi la parola, in un rinvio infinito, in cui non c’è identificazione dell’uno nell’altro, ma dialogo. L’oggettivazione di “Gesù che prega” con la preghiera di Gesù esalta il dono di questa preghiera che tuttavia rimane di Gesù. Gesù toglie la parola (è lui che prega) e paradossalmente dà la parola (la preghiera come suo dono), mentre l’asceta è silente e lo invoca (ha voce, mentre gli viene tolta). Si dice la “preghiera di Gesù” o “del cuore” elaborando un simbolismo del movimento inspiratorio dell’asceta come atto del “ricevere” dell’asceta che rientra in se stesso e prega, secondo un tema di un ritorno in sé cristocentrico, in cui respirare significa pregare. Il respiro ritmato al battito cardiaco è una preghiera silente, in cui nel cuore è Gesù che prega in noi e noi preghiamo come lui, prevedendo una divinizzazione ascetica. Un altro che prega come lui e come lui diventa soggetto e preghiera, risolvendo l’autoreferenzialità della preghiera (Dio che prega Dio) nel senso equivoco del genitivo della preghiera di Gesù che sprofonda in un senso inimmaginabile nella preghiera, per cui non c’è preghiera senza Gesù che prega e non c’è preghiera di Gesù (genitivo oggettivo) senza immaginare prima ancora qualcun altro che “come lui” prega, in senso anteriore alla preghiera rivolta agli uomini che li rende come lui e che come lui diventano preghiera. In questa santa immaginazione l’asceta e Gesù si coappartengono nel senso equivoco del genitivo nella preghiera. Nella tradizione esicasta si crede in un asceta divinizzato non nel senso di un’identificazione con Dio, ma nella dimensione del rapporto “faccia a faccia”: “L’homme qui, dit Syméon, passe par cette expérience de lumière, de douceur et de larmes sait que “quelqu’un apparaît devant pour toi”. Alors un dialogue s’engage: “es-tu Dieu?” “Oui, je suis le Dieu devenu homme pour toi”. (riportato in Un moine de l’Église d’Orient, La prière de Jésus, 1947, ivi, p. 56). La preghiera di Gesù presuppone la precedenza dell’uomo che prega, di Dio divenuto uomo per pregare, così come gli uomini pregano, con una preghiera per l’uomo, in cui l’uomo merita una risposta e Gesù merita di pregare più che di essere pregato. La divinizzazione dell’asceta esicasta è un altro aspetto dell’essere divino, il quale forse si può intendere in modo analogo a ciò che Levinas chiamava l’autrement qu’être. Sulla scorta del lavoro di E. Montanari (La fatica del cuore. Saggio sull’ascesi esicasta, Milano 2003), il testo affronta in modo specifico la questione delle “tecniche di orazione esicasta” (respirazione, posture, “visualizzazione” di “centri“ di concentrazione somatopsichica, “discesa della mente nel cuore”, onfaloscopia, che accompagnano la “preghiera di Gesù”). Tale tema, il cui studio sistematico è stato inaugurato dal padre gesuita I. Hausherr (La méthode d’oraison hésychaste, OC 36, Roma 1927, 101-210) ricevette negli anni ’20-’30 un trattamento piuttosto severo da parte cattolica, trattamento che talora sfociava in autentiche “incomprensioni” (si pensi anche ad alcuni articoli di M. Jugie: ad es. Les origines de la méthode d’oraison hésychaste, in Échos d’Orient 30 [1931], 179-239). Successivamente, Hausherr “rettificò” il suo orientamento (cfr. ad es. Hésychasme et prière, OCP 176, Roma 1966), dando vita ad un pionieristico filone di studi di cui i suoi testi sono a tutt’oggi riferimenti imprescindibili. L’opera di Hausherr fu continuata da T. Špidlík (creato cardinale da Giovanni Paolo II), che ha tra l’altro sviluppato una comparazione “concordistica” tra il metodo 1_2011.indd 286 28-06-2011 12:12:23 Recensioni 287 esicasta e quello di Ignazio di Loyola. Tale esito – forse non del tutto condivisibile – si è unito a quello di una puntuale rivalutazione del significato simbolico delle tecniche esicaste. Al proposito, di interesse sicuro – meno sistematici di quelli di Špidlík, ma certamente altrettanto profondi – sono gli studi di O. Clément (tra gli altri L’œil de feu [1994], tr. it. Comunità di Bose 1997, con riferimenti anche all’”onfaloscopia”) e di K. Ware, metropolita di Diokleia (ad es. Praying with the Body: the Hesychast Method and Non-Christian Parallels, Sobornost [Incorporating Eastern Churches Review] 14/2 [1992]). In ultimo, non possono essere dimenticati gli studi di A. Rigo, di taglio storico-filologico, specificamente sulle tecniche di orazione (comparazione con lo yoga e con il sufismo; dell’A. vanno in specie ricordati Il monaco, la chiesa e la liturgia. I capitoli sulle gerarchie di Gregorio il Sinaita, Firenze 2005, e la recentissima curatela di Mistici bizantini, Torino 2008). Ad ogni modo, il Pontificio Istituto Orientale in Roma ha costituito il centro degli studi sulla spiritualità cristiano-orientale, seguito in questo dalla benemerita attività editoriale del monastero di Bose e di quello di Chevetogne in Belgio. A tal riguardo, è evidente che le “aperture” del Vaticano II hanno favorito, insieme al processo di “avvicinamento” di cattolicesimo ed ortodossia, anche la mutua comprensione delle rispettive “mistiche”. Il lavoro di Toti tenta di evitare programmaticamente i due eccessi della svalutazione della tecnica (tesi non del tutto scomparsa, anche in ambito ortodosso) e della riduzione dell’esicasmo a “tecnicismo yogico”. Nel primo caso, si andrebbe contro le stesse fonti, particolarmente abbondanti, esplicite ed autorevoli (tra XIII e XIV secolo, in contesto athonita: Niceforo, Xanthopoloui, Palamas, Gregorio Sinaita, Pseudo-Simeone); nel secondo – con tutti i rischi di banalizzare l’esicasmo come “yoga cristiano” – si rischierebbe di misconoscere il proprium dell’antropologia (e della teologia) cristiana. Un cenno interessante rinvenibile nel libro è quello – speriamo suscettibile di approfondimenti e precisazioni futuri – dell’applicazione della categoria maussiana di “tecniche del corpo” all’ambito ascetico cristiano-orientale. Seppure emersa nel contesto degli studi delle popolazioni di interesse etnologico, forse tale strumento può non essere qui fuori luogo, a motivo della funzione, del significato e dell’utilità che la dimensione della corporeità assume nell’esicasmo. Inoltre, il lavoro, oltre a puntualizzare i simbolismi centrali del cuore e del nome, attesta – con buoni argomenti, riteniamo – il carattere “guerriero” dell’ascesi esicasta (in contrasto con l’orientamento “quietistico” di tanta mistica occidentale e delle recenti “evasioni” occidentali di marca “spiritualistica”). Infine, nonostante la comparazione “morfologica” ad ampio raggio, sembrerebbe emergere dal testo la necessità di studiare l’esicasmo come fenomeno interno al Cristianesimo: ciò che, oltre ad interessare evidentemente l’ambito cristianistico, denota una certa originalità e non preclude il confronto con referenti di altro ambito religioso. Il libro di Marco Toti è completato da una prefazione di Enrico Montanari e da un’intervista condotta nel 2004 con l’Archimandrita Job Getcha, presso l’Institut de Théologie orthodoxe “Saint-Serge” di Parigi. Valerio Salvatore Severino Università degli Studi di Roma “La Sapienza” 1_2011.indd 287 28-06-2011 12:12:24 288 Cr St 32 (2011) Le parole della mistica. Problemi teorici e situazione storiografica per la composizione di un repertorio di testi, Atti dell’VIII seminario di storia e teologia della mistica della Fondazione Ezio Franceschini (Genova, 6 febbraio 2006), con una lista di autori e testi della mistica dell’Occidente tra XI e XVIII secolo, a cura di Francesco Vermigli, (Collana della Fondazione Ezio Franceschini «La mistica italiana tra Oriente e Occidente», 12; Serie del Consiglio Nazionale delle Ricerche «Sentimento religioso e identità italiana», 1), Sismel-Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, Firenze 2007, pp. VIII, 192 Dopo una serie di testi e discussioni su autori specifici, il dodicesimo volume della bella collana dedicata ai testi mistici cristiani si sofferma in modo opportuno sulle problematiche teoriche relative alla letteratura mistica (prima parte), offre quindi cinque sintetici quadri storiografici dei principali ordini religiosi tra XI e XVIII secolo (seconda parte) e presenta infine un elenco iniziale di autori e testi mistici dell’Occidente per lo stesso arco temporale (terza parte). Una premessa di Claudio Leonardi ricorda in apertura come lo studio dei testi mistici in un’ottica laica risulti significativo per l’individuazione dell’identità italiana; mentre il primo saggio di Gianni Baget Bozzo insiste sul carattere fortemente individuale dell’esperienza mistica e sul valore fondante di opere come la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, i Dialoghi di Gregorio Magno ed, ancor più, degli scritti dello Pseudo Dionigi Areopagita. Con il secondo saggio, di Giuseppe Cremascoli, al sostantivo mistica si aggiunge quello di letteratura: è un dato di fatto che, nonostante la sublimità e l’ineffabilità dell’esperienza mistica, chi l’ha vissuta desideri o sia comunque spinto a comunicarla ad altri. A questo proposito desidero ricordare un’immagine particolarmente significativa, presente nel De contemplatione del certosino Guigues du Pont, il quale, sulla scorta del sermone 41 di san Bernardo sul versetto del Cantico 1, 10 (Murenulas aureas faciemus tibi, vermiculatas argento), interpreta i gioielli donati alla sposa come le parole e le immagini che restano dopo la visione e che consentono di trasmetterla ad altri. Egli definisce quindi “stato murenulario” quello successivo all’estasi (cfr. C. Trottmann, Contemplation et vie contemplativeselon trois chartreux: Guigues II, Hugues de Balma et Guigues du Pont, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 87, 2003, pp. 641-661, alle pp. 674-677). È un modo suggestivo di intendere l’origine della letteratura mistica, che si concretizza in vari generi letterari (autobiografia, meditazione, epistolografia, dialogo, trattato, ecc.), ma presenta come tratto comune – secondo Cremascoli – l’irregolarità o scarsa attenzione per le norme dell’ars scribendi. Frequentemente si incontrano testi prolissi e ricchi di digressioni nei quali la metafora costituisce l’essenza del linguaggio. Tuttavia se, come ricorda lo stesso studioso, anche le sequenze e le preghiere fanno parte di questo tipo di letteratura, si pone il problema dell’esistenza di opere mistiche in versi, tanto è vero che nell’elenco conclusivo troviamo registrati Dante al n. 103 e Iacopone da Todi al n. 231. Si tratta certamente di casi particolari, nei quali la letteratura sembra prendere il sopravvento sulla mistica, ma è indubbia l’influenza che questi testi ebbero sugli scritti più propriamente mistici dei secoli successivi. Cremascoli cita come esemplari il lessico dell’amore, il ricorso ai superlativi, al paradosso e all’ossimoro da parte di mistiche quali Maria Maddalena de’ Pazzi e Camilla Battista da Varano: tutti elementi, mi permetto di aggiungere, già presenti in 1_2011.indd 288 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 289 autori di laudi quali Iacopone e il Bianco da Siena. Le opere delle mistiche potevano essere redatte nell’evento dell’estasi o a posteriori: in ogni caso il vero agente è Dio, come ci ricorda un noto saggio di Giovanni Pozzi (Patire e non potere nel discorso dei santi, in Id., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 391-435), il cui titolo sembra riecheggiare la frase che lo pseudo Dionigi Areopagita avrebbe detto su Ieroteo, il quale era «non solum discens, sed patiens divina» (cito secondo la ripresa fattane da Tommaso d’Aquino: Thomae Aquinatis In librum Beati Dionysii De divinis nominibus expositio, II, 4, n. 191, ed. C. Pera, Torino-Roma, Marietti, 1950, p. 59, e ricordata da Ysabel de Andia in Denys l’Aréopagite. Tradition et métamorphoses, Paris, Vrin, 2006 cap. 1, Pâtir les choses divines, pp. 17-35. All’origine di questa espressione – come ricorda opportunamente la studiosa – sta il concetto del μαθεĩν-παθεĩν, “imparare soffrendo”, già presente nella tragedia greca). Anche il saggio successivo è inteso a definire e delimitare l’oggetto dell’indagine: Peter Dinzelbacher tenta infatti di fornire “una definizione ristretta e maneggiabile della mistica e dei testi mistici”. Egli afferma innanzitutto di prendere in considerazione solo le fonti scritte di ambito cristiano del Medioevo centrale e tardo; si basa quindi sulla definizione che Gerson dà della mistica, ovvero cognitio Dei experimentalis, e distingue quattro tipi di unione mistica: la mistica nuziale, la mistica del dolore, la mistica di Gesù bambino e la mistica dell’essenza. Elementi caratteristici della letteratura mistica sono per lo studioso gli «Ego-Dokumente», intendendo con tale termine testi di carattere autobiografico. Per Dinzelbacher non pregiudica l’inclusione tra i testi mistici la non autenticità storica, mentre vanno escluse le opere profetico-visionarie. Esistono dunque tre categorie principali di testi: testi perfettamente mistici, ovvero che non parlano d’altro che di esperienze unitive (e qui viene fatto l’esempio di certe laudi iacoponiche); testi in massima parte mistici, nei quali sono accennati anche altri temi, e testi di natura diversa, ma contenenti passi mistici (e per questo tipo cita le Sette armi spirituali di Caterina Vigri). Con gli ultimi due saggi della prima parte si toccano problematiche specifiche: la teoria dei teologi medievali sul raptus il primo, e il confronto tra alchimia e mistica il secondo. Ad occuparsene sono due specialiste: Barbara Faes de Mottoni e Michela Pereira. Come si deduce dal titolo del primo intervento, Discussioni medievali sulla violenza del raptus: Alessandro di Hales, Rolando di Cremona, Tommaso d’Aquino, la studiosa interroga gli autori a lei cari per sapere quale parte abbia la violenza nel rapimento a Dio. Mentre infatti la visione intellettuale era intesa come una semplice preparazione, il raptus è per definizione un’astrazione violenta. Il francescano Alessandro di Hales ritiene che per un’anima in un corpo corruttibile sia sopra la sua natura vedere Dio direttamente. Di conseguenza vi è diversità tra la visione in via e quella in patria: solo nella prima vi è un elemento di violenza perché è elevata unicamente l’intelligenza. Per il domenicano Rolando di Cremona quello di Paolo non è un raptus ma un’elevazione. Tommaso d’Aquino, che ne tratta in particolare in due articoli della Summa theologiae (II-II, q. 175, art. 1 e 2), distingue due accezioni di violenza: ciò che è contrario al fine di un ente e ciò che diverge dal modo connaturale di conoscenza di un ente. Facendo dunque riferimento al modo in cui l’uomo conosce Dio, Tommaso distingue perciò il raptus dall’estasi: mentre quest’ultima è in relazione con la potenza appetitiva ed è soltanto un uscire dal proprio stato abituale, il raptus concerne la potenza conoscitiva ed 1_2011.indd 289 28-06-2011 12:12:24 290 Cr St 32 (2011) implica una certa violenza, un superamento del proprio assetto naturale. San Tommaso è dunque il primo a considerare l’estasi dionisiana come fenomeno distinto dal raptus. Nel saggio successivo, Michela Pereira ricorda preliminarmente come l’accostamento tra alchimia e mistica abbia origini rinascimentali e sia stato diffuso in Italia soprattutto da Elémire Zolla. Prende quindi in considerazione un testo di alchimia attribuito a Tommaso d’Aquino, ma composto tra XIV e XV secolo, l’Aurora Consurgens, nel quale l’alchimia, a somiglianza della teologia, è definita scientia Dei. Tale definizione si spiega col fatto che entrambe introducono ad un’altra scienza ignota, che nel caso dell’alchimia è la scienza capace di trasformare la realtà. Tale accostamento spiega inoltre la diffusione di metafore alchemiche nell’ambito della mistica, come quelle legate alla distillazione e ai suoi prodotti o all’idea del corpo sottile, veicolo materiale dell’anima. Ma il raffronto tra mistica e alchimia ha radici più profonde: entrambe implicano infatti un imprescindibile lavoro di trasformazione sul corpo; tuttavia, mentre la mistica opera una trasformazione all’interno del soggetto, l’alchimia la opera all’esterno, nel mondo naturale. La seconda parte del volume, con i quadri storiografici dedicati ai principali ordini religiosi, rappresenta un importante lavoro di sintesi, che permette di accostarsi al successivo elenco di autori mistici avendo presenti gli elementi caratterizzanti i diversi tipi di spiritualità. Francesco Vermigli tratta della storiografia sulla mistica cisterciense: cita i repertori specifici ai quali ci si può rivolgere per stendere un elenco di autori mistici cisterciensi e ricorda come nella prima fase dell’Ordine vi fosse un interesse principalmente monastico e disciplinare piuttosto che mistico. Si rivolge quindi a due testi fondamentali per la mistica nel monachesimo della riforma, ovvero La théologie mystique de saint Bernard di Etienne Gilson – uscita per la prima volta a Parigi nel 1934 – e L’amour de lettres et le désir de Dieu: initiation aux auteurs monastiques du Moyen Age di Jean Leclercq, pubblicato a Parigi nel 1957. Al primo si deve la definizione di “teologia mistica” e il riconoscimento della mistica dell’amore come caratteristica peculiare di Bernardo e di tutta la mistica cisterciense. Al secondo si deve un’altra nozione storiografica, in questo caso piuttosto discussa, quella di “teologia monastica”, contrapposta alla teologia scolastica e considerata ad essa superiore poiché si fonda su un’esperienza del divino. Tuttavia Leclercq non qualifica la teologia di cui si occupa e dunque non fornisce elementi caratterizzanti che possano essere assunti per definire la mistica cisterciense. Ad essa viene in generale riconosciuta una unicità che non viene poi giustificata mediante riferimenti al contesto ecclesiale: per Vermigli è essenziale l’irruzione dell’immagine sponsale derivata dal Cantico dei Cantici, poiché da Bernardo in poi l’oggetto della mistica può essere reso nei modi dell’amore umano. Mancano tuttavia contributi storiografici che chiariscano in modo univoco l’identità della mistica cisterciense e dunque stilare un elenco di autori mistici appartenenti a un Ordine strettamente ancorato all’antica tradizione benedettina e nuovo al tempo stesso è impresa non facile. Elisabetta Marchetti si occupa invece di un repertorio di testi mistici carmelitani: distingue le diverse tappe che hanno contraddistinto la storia dell’Ordine, dalla nascita in Terra santa nel XII secolo, al successivo passaggio in Europa sino al periodo teresiano, caratterizzato dalle due più notevoli figure dell’Ordine, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, entrambi vissuti nel Cinquecento. Almeno per la fase iniziale di stesura del repertorio la studiosa suggerisce di scegliere un segmento della storia dell’Ordine e un particolare ramo, che nel 1_2011.indd 290 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 291 suo caso è la Congregazione italiana. La mistica è una caratteristica essenziale della scuola carmelitana, per la quale la perfezione è rappresentata dalla consacrazione completa alla contemplazione. Numerosi sono gli strumenti esistenti utili per la stesura del repertorio, tuttavia sono ancora molti gli scritti inediti o poco noti. Subito dopo Elisa Chiti individua alcuni possibili percorsi all’interno della vasta produzione mistica francescana: oltre ai repertori e agli studi di carattere generale come quelli di Dinzelbacher e Zolla, vi sono per quest’Ordine i volumi dedicati ai Mistici francescani, pubblicati tra il 1995 e il 1999. La storia dell’Ordine è molto variegata e le diverse aree geografiche presentano caratteristiche specifiche: il problema è dunque, nella vastità di una tale produzione, saper distinguere i testi che possono essere definiti mistici e trovare dei caratteri ad essi comuni. Mediante un paio di esempi la studiosa mostra la difficoltà di scegliere questi autori mistici, a seconda che si parta da una definizione vasta oppure tecnica di mistica: a suo parere l’unico criterio sicuro rimane la conoscenza diretta dei testi. Il successivo intervento di Marta M. M. Romano sulla mistica domenicana rientra nel progetto di costituzione di un “Repertorio degli autori e dei testi della mistica europea con censimento dei manoscritti e delle stampe che trasmettono la letteratura estatica europea dei secoli XII-XVII in lingua latina e volgare” e a questa studiosa si deve tra l’altro il repertorio di manoscritti di Giovanni Dominici (Giovanni Dominici da Firenze. Catalogo delle opere e dei manoscritti, Firenze, Sismel, 2009). Il suo intervento tratta ancora più in dettaglio i problemi relativi alla composizione del repertorio ed è infatti concluso da un supplemento comprendente 45 autori mistici domenicani da aggiungere all’elenco finale. L’autrice offre una panoramica degli strumenti bibliografici a seconda delle diverse epoche storiche e individua quattro ambiti principali di studio: l’epoca di composizione dei testi, la relazione di appartenenza all’Ordine, la località e il genere o forma di scrittura. Il periodo maggiormente studiato e dal carattere più unitario è quello che va dal XIII al XV secolo. Alla base della spiritualità domenicana sta senz’altro la riflessione di Tommaso d’Aquino riassunta nel contemplata aliis tradere, ovvero su una predicazione basata sulla contemplazione personale. Anche lo studio è fondamentale per l’Ordine, tanto che Davy definisce la mistica domenicana come una mistica essenzialmente dottrinale. Tuttavia l’Ordine dei predicatori non è un’entità omogenea: molto netta è la distinzione tra la componente maschile e quella femminile, come pure tra i primi due e il terzo Ordine, quello della penitenza o dei terziari. Anche la differenziazione geografica è un criterio seguito negli strumenti bibliografici: per la mistica domenicana va collocata al primo posto la Germania, con autori quali Echkart e Susone, subito dopo segue l’Italia con la fortissima personalità di Caterina da Siena. L’ultimo ambito preso in considerazione dalla Romano e finora poco sfruttato è quello della distinzione per generi letterari: tale criterio le permette infatti di individuare nuovi autori e testi domenicani attribuibili alla mistica. I generi sono principalmente quattro: le opere teologiche, quelle spirituali, le esperienze mistiche ed il racconto di esperienza mistica. L’ultimo quadro storiografico proposto riguarda l’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino: Francesco Santi presenta subito qualche cenno su “una strana storia” – come egli stesso la definisce -, ovvero quella che vide la nascita dell’ultimo grande Ordine mendicante a seguito della crisi del monachesimo. La rottura della tradizione benedettina risultò evidente nel XIII secolo con il riemergere della cosiddetta regola di sant’Agostino, alla quale si richiamano sia i Canonici, che i Domenicani che, appunto, 1_2011.indd 291 28-06-2011 12:12:24 292 Cr St 32 (2011) gli Eremitani. Questi ultimi furono – secondo Santi – i maggiori costruttori del mito della vita monastica di Agostino: la duplice natura del loro Ordine, eremitico e mendicante al tempo stesso, crea una tensione che trova soluzione “solo nel segreto di un’interiorità complicata”. Essi studiano in particolare l’interiorità, i desideri spirituali e le tentazioni in un’epoca in cui il loro psicologismo conoscerà un certo successo. Lo studioso delinea quindi le tradizioni storiografiche dell’Ordine degli Eremitani e la loro posizione nel quadro generale della spiritualità del basso Medioevo. Ricorda la bibliografia relativa all’Ordine e sottolinea l’importanza dell’opera di Zumkeller – pubblicata a Würzburg nel 1966 –, un censimento dei manoscritti delle opere degli Agostiniani, che mostra quanto quest’Ordine sia ancora da studiare in modo approfondito. Fa in parte eccezione Simone Fidati da Cascia, al quale sono state recentemente dedicate due pubblicazioni uscite presso l’Institutum Historicum Augustinianum di Roma: l’edizione, ricordata anche da Santi, del De gestis Domini salvatoris curata da W. Eckermann in 7 volumi pubblicati tra il 1998 e il 2003 e gli Atti del Congresso Internazionale in occasione dell’VIII Centenario della nascita (1295-1347), svoltosi a Cascia (Perugia) tra il 27 e il 30 settembre 2006, Simone Fidati da Cascia OESA. Un agostiniano spirituale tra Medioevo e Umanesimo, («Studia Augustiniana Historica», 15), a cura di C. M. Oser-Grote e W. Eckermann, 2008). Il mezzo interdetto storico subito dall’Ordine, in parte dovuto alla presenza nelle sue fila di Martin Lutero, ha portato ad una generale marginalizzazione degli Agostiniani nei principali repertori anche per quanto riguarda la tradizione più propriamente mistica: Vandenbroucke nella sua storia della spiritualità medievale ricorda solo poche personalità, tra le quali Lorenzo Giustiniani, autore dell’Albero della vita, strettamente dipendente dal Benjamin di Riccardo di San Vittore. Questo accenno mostra come l’eredità vittorina sia stata accolta dalla spiritualità eremitana in generale: la si ritrova in Ermanno di Schildesche, che aveva ripreso la tradizione di Ugo di Folieto, e – posso aggiungere – in Girolamo da Siena, che nell’Adiutorio e nelle sue epistole si serve di diversi modelli vittorini già messi in rilievo da Pietro Brocardo, ma che ho avuto modo di approfondire in un colloquio svoltosi a Ginevra nel settembre del 2008, (vd. Le immagini mnemotecniche nelle lettere di direzione spirituale. Girolamo da Siena, in R. Wetzel. F. Flückiger (hrsg.), Die Predigt im Mittelalter zwischen Mündlichkeit, Bildlichkeit und Schriftlichkeit / La prédication au Moyen Age entre oralité, visulité et écriture, unter Mitarbeit von R. Schulz, Zürich, Chronos, 2010, pp. 197-222). Santi conclude il suo intervento indicando le ragioni specifiche dell’interesse per la teologia mistica dell’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino: se l’Ordine fu connotato fin dall’inizio da problemi di identità a causa del suo carattere composito e della mancanza di una chiara guida, si può tuttavia riconoscere nel discernimento delle ispirazioni presenti nel proprio animo il tema ad esso più congeniale. Allo stesso Santi si deve la premessa al repertorio, che include sia testi mistici che testi teologici relativi a temi mistici. Ciò che ci viene offerto non è un elenco completo degli autori mistici dell’Occidente, ma il risultato dello spoglio di alcune opere di riferimento, come il Dictionnaire de la mystique di Peter Dinzelbacher, l’antologia dei Mistici dell’Occidente di Elémire Zolla, quella curata da Claudio Leonardi e Giovanni Pozzi per il settore femminile ed il repertorio di visioni del medioevo latino ad opera di Henryk Fros. Per ogni voce si indica il nome dell’autore o il titolo delle opere anonime, la qualifica, le coordinate biografiche e l’Ordine di appartenenza dello scrittore, la lingua in cui 1_2011.indd 292 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 293 sono composte le opere, un sistema di voci incrociate per i casi in cui si tratti di opere mistiche di terzi ed infine le fonti. Segue l’elenco degli scrittori e dei testi mistici dell’Occidente (pp. 157-182) curato da Elisa Chiti, Marta M. M. Romano e Francesco Vermigli. Tra questi autori vi sono predicatori come Bernardino da Siena, Giordano da Pisa o Giacomo della Marca per i quali il discorso mistico è marginale, sebbene il loro influsso su autori mistici sia indubbio; più chiara è invece la presenza di Jacques de Vitry e di Serafino Razzi, dei quali si specifica che sono citati in quanto testimoni dell’esperienza mistica di Maria d’Oignie il primo e di Stefana Quinzani e Caterina da Racconigi il secondo. Questi esempi, come pure gli studi preliminari, mostrano le oggettive difficoltà, ma anche l’utilità, di un repertorio di questo tipo: si tratta certamente di un’impresa non facile e che solo un’équipe di studiosi come quelli che qui alternano le loro voci potrà portare a compimento. Il volume è chiuso dall’indice dei nomi di persona. Silvia Serventi Università di Bologna Barbara Faes de Mottoni, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, («Micrologus’ Library», 18), Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, pp. 181 Il volume raccoglie sei saggi – due dei quali inediti – dedicati al tema della contemplazione di Dio. L’autrice è un’esperta in materia, alla quale si deve il merito di aver portato all’attenzione degli studiosi italiani temi e autori più dibattuti in altri paesi: penso ad esempio agli studi che Ysabel de Andia ha condotto sull’unione mistica in Dionigi Areopagita e nei suoi imitatori (Denys l’Aréopagite. Tradition et métamorphoses, Paris, Vrin, 2006) o ai lavori di Christian Trottmann sulla visio beatifica e sulla contemplazione, soprattutto presso i Certosini (tra gli altri, Contemplation et vie contemplative selon trois chartreux: Guigues II, Hugues de Balma et Guigues du Pont, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 87, 2003, pp. 641-661). Gli autori ai quali dedica la propria attenzione sono tutti, eccetto Gregorio di Nissa, del XIII secolo, epoca nella quale avvenne la riscoperta della Theologia Mystica dello pseudo Dionigi. Partendo proprio dal commento a quest’opera realizzato da Alberto Magno nel 1250 a Colonia, nel primo capitolo Barbara Faes de Mottoni riflette su Mosè e Paolo, rispettivamente figura dell’uomo contemplativo e del rapito. La riflessione su questi due prototipi prende le mosse da sant’Agostino, il quale ritiene che la visione della schiena di Dio da parte di Mosè – descritta in Esodo 33 – significhi vedere solo l’umanità del Verbo. Ricordo che di quest’immagine si servirà una mistica del XV secolo quale la clarissa Camilla Battista da Varano, che nella sua Vita spirituale afferma di aver visto Dio solo di spalle (vd. Beata Camilla Battista da Varano, Le opere 1_2011.indd 293 28-06-2011 12:12:24 294 Cr St 32 (2011) spirituali, a cura di G. Boccanera, Jesi, Scuola Tipografica Francescana, 1958, p. 33). Dal canto suo, Alessandro di Hales distingue tre tipi di visione: il raptus, la contemplazione e la profezia, distinzione ripresa poi da Alberto Magno. Anche per lui Mosè è modello di contemplazione, tuttavia il raptus di san Paolo è ritenuto superiore poiché comporta un’astrazione totale dai sensi e una visione intellettuale: mentre il primo rappresenta la contemplazione in via, il secondo è un assaggio della contemplazione che si avrà stabilmente in patria. Analogamente san Bonaventura ritiene la visione di Mosè inferiore a quella di Paolo, tuttavia, a suo parere, essa rappresenta la forma più alta di conoscenza di Dio attingibile dall’uomo durante la sua esistenza. La visione che Mosè ebbe nelle tenebre non fu mediata da alcuna creatura: essa diviene pertanto il modello della docta ignorantia o del metodo negativo che permette di conoscere Dio privandolo di qualsiasi attributo. Se Alberto Magno e san Bonaventura – tutti e due favorevoli alla teoria della visione di origine dionisiana – sono concordi nel riconoscere in Mosè e Paolo i prototipi degli estatici e dei rapiti, per Tommaso d’Aquino i due tipi di conoscenza divina che ne derivano sono sullo stesso piano: entrambi infatti hanno visto Dio nella sua essenza. Su questa seconda linea dottrinale, di ascendenza agostiniana, si colloca anche Matteo d’Acquasparta, interessato, come l’Aquinate, alla legittimazione dei due Testamenti. Il secondo capitolo si sofferma sul dibattito circa la vita attiva e quella contemplativa in Guglielmo di Auxerre, autore della fortunata Summa aurea, e in Rolando di Cremona, particolarmente debitore nei confronti di quest’opera. Tuttavia, mentre il primo è un convinto assertore della superiorità della vita contemplativa, il secondo la ritiene collegata all’attuazione delle operazioni della vita attiva, prima fra tutte la predicazione. Il domenicano Rolando sviluppa in particolare il tema dell’utilità delle opere della vita attiva, contrapponendo la fertilità di Lia alla sterilità di Rachele. Il terzo capitolo ruota attorno al motivo del segreto, partendo dal famoso passo della seconda lettera ai Corinzi (12, 2-4) Et audivi arcana verba, quae non licet homini loqui, ed analizzandolo presso tre teologi dell’inizio del Duecento: Roberto Grossatesta e i due visti prima, Guglielmo d’Auxerre e Rolando di Cremona. Il motivo è in effetti strettamente collegato a quello della visione poiché riguarda ciò che di essa è possibile esprimere e riferire agli altri: non per nulla lo stesso Dante – mi permetto di ricordare – cita proprio questo passo paolino nell’Epistola a Cangrande, trattando dell’ineffabilità della propria esperienza paradisiaca. L’autrice si interroga dunque sull’interpretazione data dai tre autori medievali al rapimento di Paolo al terzo cielo: tutti partono dalla glossa del Lombardo all’epistola ai Corinzi, secondo il quale san Paolo conobbe l’essenza di Dio ma non poté esprimerla a causa dell’inadeguatezza del linguaggio umano. Per tutti e tre gli scrittori presi in esame l’audizione della quale parla il testo sacro è in realtà una visione intellettuale, ma vi è divergenza circa l’interpretazione della successiva proibizione (non licet). Guglielmo afferma un criterio di convenienza per cui non è bene per l’uomo conoscere questi arcani; per Rolando invece è consentito rivelare all’uomo tali segreti, ma vanno usati linguaggi adeguati e differenziati. Il quarto capitolo sviluppa la riflessione circa la presenza di piacere e dolore nella contemplazione: gli autori presi in considerazione sono in particolare i francescani Alessandro di Hales e Bonaventura e i domenicani Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Sottolineo che il tema è, ancora una volta, di grande interesse per gli studiosi della letteratura italiana dei primi secoli: basti pensare alla lauda di Iacopone Fugio la 1_2011.indd 294 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 295 croce che me divora, tutta giocata su due diversi modi di contemplare il crocifisso, uno doloroso e l’altro gioioso. Per Alberto Magno vi è un piacere temporaneo nella contemplazione, foriero di dolore quando questa viene meno; Tommaso distingue invece diversi gradi di piacere nella contemplazione, a seconda che essa si realizzi in via o in patria. Il piacere è descritto da san Bonaventura come una manuductio a Dio, un essere condotti a Dio attraverso le cose sensibili e grazie alla somiglianza che esse hanno con quelle invisibili. In questo processo è fondamentale l’azione dei sensi spirituali (su cui si veda F. M. Tedoldi, La dottrina dei cinque sensi spirituali in San Bonaventura, Roma, Antonianum, 1999) ed è centrale il modello del Verbo, per eccellenza simile a Dio. Barbara Faes conclude affermando che Bonaventura è tra gli autori medievali che hanno valutato la sensibilità in maniera più positiva. Il quinto capitolo prosegue su questa linea, essendo dedicato all’analisi di Eventi sonori ed esperienze mistiche in alcuni itinerari teologici tardo-antichi e medievali. Prima di tutto la studiosa esamina l’interpretazione del suono del corno, descritto nel quindicesimo capitolo dell’Esodo, come si legge nella Vita di Mosè di Gregorio di Nissa e nella Theologia Mystica dello Pseudo Dionigi; quindi prende in considerazione l’interpretazione che Roberto Grossatesta e Alberto Magno forniscono nei loro commenti all’opera dionisiana ed infine esamina due autrici di letteratura visionaria, Gertrude di Helfta e Margherita da Cortona. I primi danno dell’evento sonoro un’interpretazione simbolica non univoca, mentre per le seconde esso è centrale nella propria esperienza mistica, basata sulla partecipazione dell’apparato sensoriale. L’ultimo saggio riflette su alcuni Aspetti della dottrina della contemplazione in Ugo di Balma, «priore della certosa di Meyriat e autore di un trattato che inizia Viae Sion lugent, più noto come Theologia Mystica o De triplici via», opera a lungo pubblicata tra gli scritti di san Bonaventura. Molto importante per il certosino è Tommaso Gallo da Vercelli, al quale si deve la riscoperta, intorno al 1230, della Thelogia Mystica dello pseudo Dionigi. Secondo Ugo la cogitatio ha solo un valore propedeutico per giungere alla visione: essa è descritta come l’impalcatura di legno poi smontata dopo la costruzione del ponte. Ricordo che è la stessa immagine presente in Iacopone da Todi, nella lauda Fede, spen e caritate (vv. 273-280), immagine interpretata da Lina Bolzoni come il venir meno degli espedienti mnemotecnici una volta che si sia giunti alla contemplazione (L. Bolzoni, La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi, 2002, pp. 137-138 e Ead., Dante o della memoria appassionata, «Lettere italiane», LX, 2008, pp.169-193, a p. 192). Aggiungo inoltre che l’opera del certosino ebbe un’importanza fondamentale per il movimento dei Gesuati, sorto nel Trecento, come appare dal volgarizzamento fattone da Domenico da Monticchiello e dalla versificazione dovuta ad un altro noto gesuato, il Bianco da Siena, il quale riprende nella sua vasta produzione di laudi la corrispondenza fissata da Ugo tra le tre vie di ascesa a Dio e i tre ordini della gerarchia angelica superiore, Troni, Cherubini e Serafini. L’autrice afferma infine che «il modello conoscitivo-unitivo offerto da Dionigi […] per Ugo di Balma è superiore al modello contemplativo di Riccardo di San Vittore e a quello esemplarista di Agostino». Per descrivere il modo mistico di elevarsi a Dio, nella quaestio difficilis che chiude la sua opera, Ugo utilizza la similitudine della pietra che tende naturalmente verso il basso: ancora una volta l’opera del certosino – in generale poco nota agli italianisti - non può non ricordare il primo canto del Paradiso (vv. 136-138), benché Dante utilizzi l’esempio del ruscello: «Non dei più ammirar, se 1_2011.indd 295 28-06-2011 12:12:24 296 Cr St 32 (2011) bene stimo,/ lo tuo salir, se non come d’un rivo/ se d’alto monte scende giuso ad imo». Il volume è chiuso dall’elenco delle fonti utilizzate, dalla bibliografia e dagli indici dei nomi, dei passi biblici e dei manoscritti citati. Silvia Serventi Università di Bologna Offices, écrit et papauté, études réunies par Armand Jamme et Olivier Poncet, (Collection de l’École française de Rome, 386), École française de Rome, Rome 2007, pp. VIII-951 Nel corso del 2005 era già uscito il libro Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle). Charges, hommes, destins, Rome 2005 (Collection de l’École française de Rome, 334). Quel volume, di 1061 pagine, comprende 35 saggi degli studiosi che hanno partecipato alle tavole rotonde tenutesi a Roma nei giorni 5-6 marzo 2001 e 11-13 aprile 2002; per avere una prima informazione su di esso, si potrà leggere la recensione di M. Teresa Fattori, in Cristianesimo nella storia, 28 (2007), 2, pp. 473-477. A distanza di due anni, è apparso un secondo, cospicuo volume dal titolo molto simile: Offices, écrit et papauté XIIIe-XVIIe siècle. Si tratta della pubblicazione dei risultati di altre due fasi del medesimo progetto scientifico. Infatti in questo libro sono contenuti 28 saggi degli studiosi intervenuti alle tavole rotonde organizzate a Parigi il 25-26 settembre 2003 e ad Avignone il 21-23 ottobre 2004. Coordinatori del vasto quadro storico risultante dai due volumi sono Armand Jamme e Olivier Poncet. Il primo, docente all’Università di Avignone, è specialista delle ‘scritture del politico’ in ambito pontificio bassomedievale; il secondo, docente all’École des Chartes di Parigi, si occupa delle istituzioni pontificie e francesi in età moderna, con una speciale attenzione volta all’archivistica e, in particolare, alla storia degli archivi vaticani. Gli spazi di contiguità tra le due opere sono, ovviamente, molto numerosi, a partire dall’elenco dei partecipanti, poiché nove studiosi (Jamme, Poncet, Anheim, Brunelli, Gardi, Genequand, Jugie, Menniti Ippolito e Tabacchi) hanno pubblicato testi in entrambe le occasioni. Soprattutto, il nesso tra i due libri è rappresentato dall’oggetto, che, in estrema sintesi, mi sembra si posa considerare una analisi a molte mani della storia delle strutture dello Stato pontificio e della Curia romana, colta prevalentemente attraverso l’analisi dei soggetti umani che hanno ricoperto uffici e che hanno prodotto documentazione. Anche la corrispondenza dell’arco cronologico che si riscontra nei due volumi è un dato da sottolineare: il ponte tra 1_2011.indd 296 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 297 medioevo ed età moderna vi è proposto con efficacia e non può che convincere, poiché ci invita a riflettere sulla validità del concetto di Antico Regime e sull’esistenza di una riconoscibile continuità di fondo, nella progressiva ‘evoluzione’ delle entità amministrative e non solo di queste, tra il XIII e il XVII secolo. Per la stessa ragione, appare utile il connubio tra storici medievisti e modernisti, che spesso si pongono domande differenti e affrontano la documentazione in modo dissimile, mentre qui ci si trova di fronte a una omogeneità dovuta alla compattezza del tema analizzato. La differenza tra i due volumi, invece, si coglie già a partire dal titolo: nel secondo volume, infatti, la parola ‘ècrit’ si è insinuata tra ‘offices’ e ‘papauté’, rendendo in tal modo palese l’attenzione che si è voluta attribuire al tema della scrittura, da intendersi nel senso più ampio possibile: riferendosi prevalentemente alla documentazione di tipo amministrativo, ma non solo a quella. In realtà, non tanto di differenza si può parlare, quanto di una diversa calibratura del tema, già molto presente – e non poteva accadere diversamente – anche nel primo volume. Nel secondo volume il ‘documento’, con le sue caratteristiche di testimoniare, ma anche di filtrare e codificare conferendo forma all’oggetto, è protagonista quanto lo è il soggetto umano o l’istituzione in azione. Qui il ‘testo’ viene dunque a posizionarsi in primo piano, in forma esplicita, mentre nel primo volume esso era presente in secondo piano, come ovvio retroterra e premessa necessaria delle indagini storiche. Anche questa è una scelta metodologica da accogliere con favore, per il fatto che essa è in linea con una tendenza consapevole della storiografia contemporanea, che si interroga sul ‘punto di vista’, e che deve necessariamente porsi il problema di individuare le varie angolature prospettiche che scaturiscono dalle fonti. Questa storiografia si sviluppa anche come presentazione analitica delle testimonianze, una analisi che diviene parte integrante e imprescindibile del discorso storico generale. Insomma, non si può fare storiografia senza documenti, e questo è ovvio. Ma non si può neppure fare storiografia senza considerare l’esegesi del documento nonché dei suoi estensori e fruitori come parte di essa: e questo è meno ovvio. Una qualsiasi indagine storica deve considerare anche le modalità con le quali è stata prodotta, impiegata e conservata la documentazione che la informa. Anzi, si può forse arrivare a sostenere (in una sorta di curiosa e solo in apparenza paradossale commistione tra positivismo e decostruzionismo) che il confine tra la storia di una istituzione e la storia della sua documentazione (il testo), ovvero della sua rappresentazione mentale (che è ancora racchiusa nel testo), è decisamente tenue. Il discorso assume pregnanza ancora maggiore in questo caso specifico, trovandoci di fronte a un libro che tratta di una istituzione, quella pontificia, la quale ha espresso al massimo grado e in ogni direzione il suo essere espressione di una civiltà dello scritto, e che anzi nella parola scritta – verbum Domini, ma anche epistola, registro o atto amministrativo di qualsivoglia genere – ha sempre identificato e reso manifesto il proprio carattere fondamentale. Dunque non solo abbiamo a che fare con lo scritto perché esso è il nostro migliore canale di accesso ai tanti ‘passati’ che cerchiamo di analizzare, ma dobbiamo considerare lo scritto soprattutto in quanto esso è il principale luogo materiale e simbolico di espressione di quella medesima cultura che ci sforziamo di comprendere. Un libro di tale mole e di tale complessità è difficilmente riassumibile e valutabile in termini generali, poiché è evidente che la sua ricchezza permette un accesso 1_2011.indd 297 28-06-2011 12:12:24 298 Cr St 32 (2011) diversificato a seconda degli interessi di ciascun ricercatore che si trovi nella condizione di volerne fare uso. I suoi elementi di fondo, peraltro, sono ben compendiati nel saggio introduttivo (A. Jamme, Olivier Poncet: L’écriture, la mémoire et l’argent, pp. 1-13), al quale si potrà ricorrere per coglierne le motivazioni. Dicevamo che questo volume, dal titolo tripartito, analizza ‘uffici’ e ‘papato’ passando attraverso lo scritto. Nonostante questo impianto ben giustificato, esso non cade nell’erroneo cortocircuito interpretativo che parrebbe a prima vista esservi adombrato: quello di considerare lo scritto come l’unico elemento originante e determinante la vita degli ufficiali e l’evoluzione degli uffici curiali, come se tutto, alfa e omega, si esaurisse in esso. La tentazione di risolvere la storia degli ufficiali pontifici nella scrittura è, in questo senso, ovviamente forte – anche perché semplifica il problema – ma trova in diversi saggi contenuti nel libro (per esempio in quello di Erminia Irace sul rapporto tra periferia, Perugia, e centro, Roma), una opportuna correzione attraverso l’analisi delle molte altre forme di interazione – ancorché poco documentate – che vedono tra loro collegati uffici, ufficiali, istituzioni, potere centrale e pubblico: come i legami diretti e personali e il rapporto circolare tra oralità e scrittura, o come la forma mentis, cioè la cultura intesa in termini molto generali, di specifici gruppi e individui. Ne scaturisce un’analisi complessa nella quale il ruolo della scrittura è ovviamente quello di protagonista – poiché la scrittura istituisce, conserva e ordina – ma di un protagonista che non occupa da solo l’intero palcoscenico. Lo stesso ‘scritto’, termine volutamente generico, che racchiude un universo, non è mostrato tanto nella sua fisionomia statica e normativa, quanto nella sua capacità di relazionarsi, di interagire, di mutare, di differenziarsi a seconda dei soggetti di produzione e delle intenzioni che sottendono alla sua redazione: per esempio nei saggi di Barbara Bombi, che tratta del rapporto tra le scritture pubbliche e le registrazioni private di un procuratore del Trecento, oppure di Anna Esposito, che analizza attraverso gli atti notarili il tema delle compagnie di uffici, di solito indagato attraverso gli atti pubblici, come anche nei saggi che propongono confronti tra gli archivi di Bologna e di Avignone con quelli romani (Gardi, Rouchon e Thomas). Allo stesso modo, sono analizzate singole persone (o personalità), importanti sia per l’ufficio che hanno ricoperto o addirittura istituito, sia per il loro significativo apporto individuale: come i cardinali legati del XIV secolo (Jugie), il maresciallo della Sede apostolica (Jamme), gli ‘artisti’ testimoniati in curia nel Trecento (Anheim), gli archivisti secenteschi Michele Lonigo d’Este e Carlo Cartari (entrambi indagati in due articoli distinti da Orietta Filippini). Lo scritto, dunque, è un dato complesso e colto in movimento: così come lo è, in fin dei conti, l’intera storia del papato fra XIII e XVII che viene ricostruita nel volume, nelle due suddivisioni generali ma fortemente incrociate, che si costruiscono e strutturano, dello Stato pontificio e di quell’entità sovranazionale che è la Curia bassomedievale e moderna. La scrittura è l’elemento di fondo di tutto l’impianto, poiché l’amministrazione pontificia è latrice di una cultura di gestione e governo fondata essenzialmente su di essa. Questa affermazione, apparentemente banale, costituisce il tema nodale per comprendere il passaggio alla modernità di tutte le istituzioni e tra queste, al massimo grado, proprio dell’istituzione pontificia, che è senza dubbio la prima ad 1_2011.indd 298 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 299 avere avuto piena coscienza del valore dello scritto, e che dal XIV secolo in poi ha dato vita alla più complessa ‘macchina amministrativa’ della storia occidentale in età moderna, essa stessa modello di riferimento per altre istituzioni almeno parzialmente comparabili, come gli stati nazionali. Nel libro sono dunque descritte in forma esemplificativa alcune delle strutture lunghe o lente di evoluzione di quella comunità testuale, fatta di cultura contabile e di cultura politica, che è stata per secoli il personale dell’apparato amministrativo pontificio. Questo ha espresso un oceano di documentazione, tanto per quantità (che è esponenziale dal Duecento in avanti), quanto per continuità, quanto infine per varietà tipologica (soprattutto dal XV secolo in poi). L’elemento saliente, che rende la storia delle istituzioni pontificie parallela eppur diversa rispetto a quella degli stati regionali e nazionali di età moderna, non è tanto l’opposizione, spesso invocata, tra ‘spirituale’ e ‘temporale’: una coppia di opposti che ha la sua ragione di esistere e di venire impiegata, ma che a mio avviso non è applicabile quando si parli di amministrazione, persino quando ci riferiamo alla Penitenzieria, cioè al tribunale dei casi di coscienza, qui indagato da Kirsi Salonen. Il criterio di fondo sul quale si fonda la ‘competenza’ del pontefice e che rende unico il suo caso, va ritrovato al contrario nell’opposizione tra ciò che pertiene a un determinato territorio e ciò che invece attiene al papa per il suo attributo di iudex ordinarius omnium, investito della plenitudo potestatis: cioè della sua autorità universale. Questa dicotomia (che nel pensiero dei teorici del potere pontificio non è tale), si esprime da un lato nella organizzazione amministrativa dello Stato pontificio, ma dall’altro nel diritto/dovere di gestire tutto ciò che attiene il comportamento dei cristiani e nel diritto/dovere di governare tutto il clero, dalla scelta delle persone idonee, al loro controllo e difesa, fino all’amministrazione dell’economia che discende dalle istituzioni e dalle persone ecclesiastiche. Il principio della territorialità, elemento cardine sul quale si sono fondate le amministrazioni statuali, si coniuga, nel caso della Curia romana (e già dal XII secolo) con il principio della universalità del potere papale, della sua non-collocazione spaziale, cioè in definitiva della sua non-territorialità. Se da questo principio discendono il motto Ubi papa ibi Roma, la possibilità di disporre di ordini religiosi e di magistrature giudicanti che obbediscono al papa a prescindere dal luogo in cui si trovano ad agire; se questo stesso principio informatore e ordinatore ha permesso lo spostamento della sede romana ad Avignone per settanta anni, ebbene questo medesimo principio è anche quello che ha reso la Curia romana l’apparato amministrativo più complesso dell’età medievale e moderna, sia dal punto di vista della gestione, sia dal punto di vista della distribuzione e dell’origine sociale e territoriale dei suoi ufficiali. Se ci si pensa un poco, l’asserzione del principio di una difformità tra potere territoriale e potere universale o ecumenico è ciò che ha permesso, nel XIII secolo, la teorizzazione della teocrazia papale, ed è uno dei principali elementi che hanno scatenato la guerra politica tra papato e stati nazionali, nonché la stessa riforma protestante. Ed è anche un elemento politicamente molto rilevante nel panorama contemporaneo. Come entra la scrittura in questo discorso? La scrittura, con la sua caratteristica di essere contemporaneamente qui e altrove, di nascere in un preciso luogo fisico ma di avere anche la possibilità di raggiungere qualsiasi altro luogo, è – lo ripetiamo – l’elemento basilare dell’impianto. Gli ufficiali del papa, governatori di territori pon- 1_2011.indd 299 28-06-2011 12:12:24 300 Cr St 32 (2011) tifici, ma anche esecutori di una volontà sovrana proposta come universale e gestori di prebende conferibili dall’Islanda alla Spagna, sono stati gli agenti diretti. Agenti, in definitiva, proprio attraverso la scrittura, poiché la cultura dell’amministrazione scritta è stata per secoli il mezzo attraverso il quale «il papa è ovunque». Nel libro che commentiamo, la scrittura è colta sia nella sua dimensione di oggetto prodotto e fruito, sia nella sua dimensione di testimonianza ed essenza della vita delle amministrazioni e degli amministratori, sia, infine, nella sua dimensione della registrazione e conservazione, a cavaliere tra esigenza di trasmissione ordinata della documentazione, e volontà di esprimere e celebrare il potere attraverso la memoria. Questi tre momenti fondamentali dell’atto scrittorio si trovano a scandire le tre parti in cui il libro è stato suddiviso: Production et consommation de l’écrit; Économie des offices et administration des finances; Enregistrement et usage des archives. La divisione in tre parti, utile da un punto di vista speculativo, resta in verità almeno parzialmente teorica, poiché, anche se con diverso bilanciamento, ciascuno dei momenti che collegano gli ufficiali papali alla scrittura – produzione, gestione amministrativa e conservazione – si ritrovano presenti in molti dei saggi contenuti nel volume, a prescindere dalla specifica collocazione in una delle tre parti designate. Oltre a ciò, è ben presente – anche se meno delineato rispetto all’indagine ‘tecnica’ dei meccanismi amministrativi ed economici, la descrizione del ruolo che i curialisti attribuiscono alla scrittura per la sua valenza di capitale simbolico, politico, immateriale, e tuttavia a sua volta fondante quanto lo è il discorso più prettamente economicistico. La scrittura è posta al servizio dell’autorità, è necessaria al governo, tanto per la gestione corrente, quanto perché rappresenta il potere e ne costituisce la forma più alta di propaganda. La scrittura è, infatti, sempre una operazione idelogica, e l’organizzazione della memoria permette di esercitare l’autorità nei termini di continuità, durata e tradizione, venendo a costruire ciò che si può chiamare ‘memoria ufficiale’, con i suoi processi di produzione, conservazione e anche, naturalmente, distruzione. In questo senso, è ben noto il ruolo anticipatore e normativo esercitato dalla Chiesa romana, in realtà ben prima del XIII secolo, ma senza dubbio con gran forza a partire da allora. In questo senso, nel presente volume si possono leggere, tra gli altri, i saggi di Olivier Rouchon (Administration pontificale, finances citadines et luttes politiques; les tabelles d’Avignon au XVIIe siècle, pp. 601-639), e di Olivier Poncet (Les archives de la papauté […]: la genèse d’un instrument de pouvoir, pp. 737-762). Se il primo elemento sul quale si concentrano i saggi contenuti nel volume è la scrittura (come strumento di azione e di registrazione/memoria), il secondo elemento, altrettanto significativo e strettamente intrecciato con il precedente, è ovviamente il denaro, ovvero la gestione finanziaria degli uffici e il significato economico delle magistrature curiali. In questo senso, il saggio introduttivo è molto esplicito, quando per esempio leggiamo (pp. 5-6): «L’argent est un bon marqueur historique des offices, de leur nature et de leur définition». Si tratta non solo del denaro contante e della sua traduzione nelle differenti tipologie documentarie contabili, ma di tutto l’insieme delle ricadute economiche, ivi comprese le remunerazioni in natura e in beni di qualsiasi tipo, che conferiscono a loro volta, come già la scrittura, un carattere distintivo all’amministrazione pontificia. La Chiesa romana è stata l’istituzione attraverso la quale è passato il maggior flusso economico della 1_2011.indd 300 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 301 storia bassomedievale e, in parte, anche della storia moderna, coinvolgendo nella sua rete di scambi tutto il mondo cattolico. Si tratta di un argomento noto e studiato, sul quale è pressoché inutile insistere, se non per evidenziare l’interessante punto di vista che viene adottato in questo volume: quello cioè di considerare, più che l’amministrazione intesa come una gigantesca macchina anonima, il ruolo ricoperto dagli ufficiali pontifici, testimoni di una cultura della finanza e pragmaticamente interessati alla gestione economica di tutto ciò che ruota intorno a loro. L’ufficiale pontificio, sia nell’età bassomedievale in cui riceve il compenso dal destinatario della res oggetto di un qualsiasi negozio, sia nel corso dell’età moderna, durante la quale ottiene venalmente l’appalto del proprio ufficio, è molto più di un semplice funzionario statale come lo potremmo intendere oggi. E questo non solo perché il suo ambito di azione può travalicare i confini di un determinato territorio, come si è detto, ma ancora di più per il fatto che egli è direttamente interessato al movimento economico che provoca e sovrintende. Ne deriva una posizione di grande forza e di relazione diretta non solamente con il potere centrale, fonte della sua carica istituzionale, ma anche con i destinatari, cioè con tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, si trovano ad avere a che fare con lui, e con i quali egli può istituire un rapporto privilegiato. Questo sistema, che a prima vista saremmo propensi a datare al medioevo (quando per esempio il collettore camerale trattiene il proprio guadagno dalle decime che riscuote), è in realtà caratteristico anche dell’età moderna, fino al 1692, quando viene abolita la venalità degli uffici. E non possiamo non notare come, in qualche caso, esso perduri anche nella contemporaneità: come è il caso dei vigili urbani che percepiscono una percentuale dalle contravvenzioni che elevano. Scendendo nel particolare, può essere utile dare conto dei soggetti dei singoli saggi che compaiono nel volume. Nella prima parte (Production et consommation de l’écrit) troviamo una storia della produzione documentaria dei dominii di casa Savoia fra XIII e XV secolo (Castelnuovo) – che è l’unico saggio ‘extravagante’ del libro –, il funzionamento amministrativo delle province di Campagna e Marittima nel primo Trecento (Caciorgna); gli archivi dei cardinali legati (Jugie); la cultura contabile espressa dai banchieri e dagli ufficiali della Camera apostolica nel basso medioevo (Jamme); il rapporto tra Penitenziera apostolica e singole diocesi o province nel Quattrocento (Salonen); l’attività dei legati pontifici in Francia alla fine del Cinquecento (Tizon-Germe); le comunicazioni tra Perugia e Roma tra metà XVI e metà XVII secolo (Irace); la cultura politica che si evince dai carteggi dell’organizzazione militare pontificia tra la metà XVI secolo e il 1800 (Brunelli). Nella seconda parte (Économie des offices et administration des finances) troviamo soprattutto saggi su personaggi legati all’amministrazione pontificia: come ufficiali, mercatores e pubblico (cioè destinatari), colti nella rappresentazione di se stessi, delle loro funzioni e dei loro intrecciati rapporti. È, se vogliamo, la parte più vicina al primo volume. I saggi trattano dell’ufficio del maresciallo della Sede apostolica nel basso medioevo (Jamme); del rapporto tra ‘artisti’, integrati nella familia pontificia, e uffici di Curia nel XIV secolo (Anheim); della figura di Jean de Louvres, maître des oeuvres del papa alla metà del XIV secolo (Bernardi); della retribuzione degli ufficiali e familiari dei papi nel XIV secolo (Hayez) e alla fine del secolo (Genequand); della pratica delle compagnie d’uffici (cioè una forma di finaziamento del debito pubblico) a cavallo tra Quattro e Cinquecento attraverso gli 1_2011.indd 301 28-06-2011 12:12:24 302 Cr St 32 (2011) atti notarili (Esposito); degli appalti degli uffici presi dai mercanti-banchieri nella prima metà del Cinquecento (Guidi Bruscoli); della struttura e organizzazione della famiglia pontificia in età moderna (Menniti Ippolito); della legazione del cardinale Francesco Barberini in Francia (1625) come modello di studio del finanziamento di un’ambasceria (Pieyre); del rapporto dei detentori delle cariche con i loro uffici sotto il profilo economico nel Sei e Settecento, tra interesse pubblico e privato (Tabacchi); dei conflitti tra l’amministrazione pontificia e la città di Avignone in materia fiscale nel corso del XVII secolo (Rouchon). Infine la terza parte (Enregistrement et usage des archives) tratta delle modalità con cui veniva ordinata e conservata l’immensa produzione documentaria della Curia romana, strumento di governo e di potere. L’istituzione che ha maggiormente espresso la propria vocazione all’universalità, è quella che ha saputo meglio di tutte conservare le proprie carte, già da epoche remote. I saggi contenuti in questa ultima parte del volume indagano i responsabili delle opere e dei cantieri pontifici nella prima metà del Trecento (Theis); il rapporto tra registrazioni ufficiali e private attraverso un esempio particolare del XIV secolo (Bombi); i procuratori presenti in curia nel Trecento (Berthe); la vicenda di Michele Lonigo, collaboratore dell’Archivio Vaticano che nel 1617 finì incarcerato per sottrazione di documenti (Filippini); la genesi degli archivi pontifici tra la metà del XVI e il XVII secolo (Poncet); la biografia di Carlo Cartari, prefetto dell’archivio di Castel S. Angelo nel XVII secolo (Filippini); il caso dell’archivio della legazione di Bologna tra XIV e XVII secolo (Gardi) e dell’archivio di Avignone tra XVI e XVIII secolo (Rouchon e Thomas). Numerosi saggi contengono utili apparati: appendici documentarie con regesti e anche edizioni integrali di documenti, tabelle prosopografiche, ecc. Tra questi ricordiamo almeno, per la particolare ricchezza, le appendici “Trésoriers et camériers des papes et des recteurs affectés dans les provinces de Grégoire X à Grégoire XII (1272-1407), pp. 162-251; “Les maréchaux du pape et de la Curie romaine (1198-1447), pp. 364-392, entrambi di Jamme; l’edizione di cinque contratti per compagnie di uffici dal 1479 al 1521, di Esposito (pp. 507-515); un elenco degli “Operatori coinvolti nei principali appalti sotto il pontificato di Paolo III Farnese (1534-1549)”, di Guidi Bruscoli (pp. 535-543); l’edizione di cinque documenti relativi alla prima formazione dell’Archivio Vaticano dal 1593 al 1624, di Poncet (pp. 756-762); i “Centri amministrativi dello Stato pontificio per i quali è nota documentazione d’archivio relativa all’Antico Regime”, sforzo di sintesi di Gardi, pp. 829-837; lo “Inventaire des Archives du Palais Apostolique d’Avignon, dressé par ordre du vice-légat Alessandro Colonna”, redatto nel 1664, di Rouchon et Thomas (pp. 863-891). In definitiva, questa opera tratta del trinomio tra scrittura, finanza e memoria attraverso lo specchio della storia degli ufficiali e degli uffici pontifici. Un trinomio che, in realtà, si riduce a un binomio, poiché la memoria consiste sempre nella registrazione e nella conservazione: la memoria è dunque anch’essa un aspetto fondamentale dello ‘scritto’, senza il quale neppure la finanza potrebbe esistere. Il volume si fa apprezzare perché, pur essendo gigantesco (e oltretutto da impiegarsi insieme al precedente, uscito nel 2005), permette di essere compulsato con relativa facilità. Oltre a essere ovviamente provvisto del sommario, vi sono comprese, come è tradizione nei volumi miscellani dell’École française, tanto una raccolta di 1_2011.indd 302 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 303 abstracts quanto l’indice onomastico, che, come si sa, nei volumi collettanei è presente solo di rado. Gli apparati costituiscono oggi una parte dei libri da curare con molta attenzione, se si vuole che il mezzo cartaceo resti ancora efficace accanto alle risorse elettroniche. Ed è un piacere trovare apparati così ben disposti in un libro che parla proprio della carta scritta, della sua produzione, della sua conservazione e del suo ‘potere’. Tommaso di Carpegna Falconieri Università di Urbino Clero, economia e contabilità in Europa: tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di Roberto Di Pietra e Fiorenzo Landi, Carocci, Roma 2007, pp. 340 Frutto dell’attività del Centro di studi per la storia del clero e dei seminari di Siena (CESCLES), il vol. raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Siena tra il 14 e il 16 settembre 2006. Gli interventi sono divisi in due parti: nella prima sono raccolti sei saggi dedicati a singole istituzioni presenti in Toscana dal medioevo al XIX secolo, con l’intento di mostrare come esistano legami tra le forme di esercizio del governo e l’esercizio del potere determinato sulla base della definizione e del funzionamento del sistema di contabilità. Le istituzioni analizzate dal punto di vista della contabilità sono il seminario arcivescovile di Siena nel XVII secolo (R. Di Pietro e M. Magliacani); la cattedrale di Siena nel XIV secolo (E. Giovannoni, A. Riccaboni, A. Giorgi, S. Moscadelli); il monastero di Monte Oliveto Maggiore nel XIX secolo (F. Barbabé e P. Ruggiero); la cooperativa agricola bianca di Montepulciano dal 1937 (G. Grossi, P. Monfardini, P. Ruggiero). Sempre afferenti a questa sezione, due interventi analizzano rispettivamente due testi prodotti dalla cultura gesuitica, gli Esercizi spirituali di Ignazio e il Trattato del modo di tenere il libro doppio domestico di padre Lodovico Flori (P. Quattrone) e la regola di S. Benedetto come radice della cultura aziendale dell’Europa medievale (V. Cellini). La seconda parte del vol. raccoglie dieci interventi, più una prefazione di Fiorenzo Landi e un sintetico bilancio dell’attività del CESCLES di Maurizio Sangalli, di carattere più generale. Il primo saggio, sempre di Landi, affronta il tema della valutazione della consistenza economica della rete dei monasteri e conventi attraverso le inchieste e le registrazioni contabili che dal Cinquecento in poi furono compiute per gli stati che aderirono alla riforma protestante. Gaetano Greco torna sul tema a cui ha dedicato una monografia e numerosi studi della contabilità delle messe in 1_2011.indd 303 28-06-2011 12:12:24 304 Cr St 32 (2011) Italia a partire dal concilio di Trento (pp. 156-172): il numero crescente di messe che dovevano essere celebrate in suffragio di donatori o testatori delle istituzioni ecclesiastiche fu tenuto sotto controllo e razionalizzato grazie ad una contabilità analitica richiesta dal concilio di Trento al fine di rendere effettivo il soddisfacimento di tale obbligo per il quale il singolo prete riceveva una remunerazione e l’istituzione ecclesiastica beneficiaria un legato globale o una elemosina per le “messe manuali”. La mancata celebrazione delle messe era uno degli abusi che il concilio si prefisse di eliminare con dispositivi che furono applicati dalla congregazione del concilio nel corso del Seicento con una serie di correttivi che, in modo contraddittorio, ora affidarono ai vescovi e ai sinodi diocesani, ora ai superiori degli ordini religiosi o alle sole congregazioni romane la riduzione degli oneri di messe. L’aumento spasmodico delle messe da celebrare passò oltre le soglie del Settecento e lasciti testamentari furono, nel caso Toscano, dirottati per finanziare i soggetti ecclesiastici privilegiati dalle riforme dei sovrani illuminati, come seminari e uffici curati. Angelo Turchini si dedica ai registri di messe presenti negli archivi ecclesiastici la cui tenuta doveva essere verificata dai vescovi nel corso della visita pastorale come richiesto a più riprese dalla congregazione del concilio nel corso del XVII secolo. L’intervento di Giuseppe Poli sulla presenza economica della chiesa nell’Italia meridionale (pp. 185-225) si concentra sulla riduzione della durata dei contratti agrari e sull’inasprimento dei canoni fondiari indotto dal quadro politico-militare cinquecentesco oltre che dai prezzi crescenti delle derrate agricole che riflettono la congiuntura economica inflazionistica a queste latitudini. La bolla De censibus del 1569 di Pio V chiese agli enti ecclesiastici di abbandonare la conduzione diretta della terra a favore di un sistema di affittanze a breve scadenza e di un generale aumento dei canoni fondiari. A partire da questa data la locazione tese a diffondersi soprattutto in area meridionale per una durata triennale con un generale aumento dei canoni fondiari. Con dati e dimostrazioni alla mano, Poli mostra che sin dai primi secoli dell’età moderna la gestione della terra vincolata dalla manomorta ha dato dimostrazione di essere guidata dal rispetto dei tradizionali criteri di conduzione fondiaria e da collaudate tecniche agricole, le stesse che guidavano la possidenza di estrazione laica. La negatività esagerata delle valutazioni anticuriali concepite nell’ambito dei giusnaturalisti napoletani verteva sulla consistenza dei patrimoni ecclesiastici ed era legata ad un diffuso senso di inopportunità economica e al peso fiscale che i beni in mano agli ecclesiastici avevano sui ceti meno privilegiati, oltre che per lo stato napoletano. Combinando varie fonti, le inchieste innocenzianze sulla consistenza patrimoniale dei conventi degli ordini regolari, la Cassa sacra in Calabria istituita dopo il terremoto del 1783, gli incartamenti prodotti dalle soppressioni napoleoniche sui beni degli ordini religiosi nel Regno di Napoli, l’autore traccia un quadro dell’articolazione patrimoniale delle proprietà ecclesiastiche, mostrando per altro che le proprietà fondiarie non costituivano la totalità delle forme di investimento. Si tratta infatti di combinare i fondi con proventi da capitali liquidi legati all’acquisto di quote di debito pubblico, con interessi da beni mobiliari ovvero prestiti concessi ai privati mediante il sistema dei censi bollari. Dalla seconda metà del XVII secolo la crisi dei patrimoni ecclesiastici, sebbene meno estesi di quanto la propaganda anticuriale abbia fatto credere, portò alla progressiva riduzione dell’estensione dei beni donati, in cui ebbero un ruolo 1_2011.indd 304 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 305 notevole gli abati commendatari e l’istituto della commenda, e ai divieti di ulteriori acquisti di beni immobili. Giancarlo Rocca cataloga le differenti strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al concordato del 1929, dopo le soppressioni del 1866 e 1873, con il duplice intento di mostrare come gli istituti religiosi riuscirono a difendere i loro patrimoni e in qualche caso di accrescerlo aumentando così la presenza nella società italiana, e nel contempo contribuirono al benessere economico della società italiana. Il tentativo di giungere ad un bilancio storiografico caratterizza gli ultimi interventi. Bernard Bodinier affronta lo smantellamento del potere economico della chiesa di Francia a partire dalle confische dei beni ecclesiastici operati dalla rivoluzione francese in poi; Gemán Rueda Hernanz presenta le ricostruzioni dell’opera di smantellamento dei beni ecclesiastici in Spagna dal 1769 al 1964. Entrambi i bilanci tendono a ricostruire attraverso gli inventari e l’esito delle vendite la consistenza effettiva del patrimonio fondiario complessivo della chiesa che, in misura differente per ciascuno stato, risulta essere considerevole seppure decisamente inferiore a quanto attribuitole dalla polemica illuminista e anticlericale tra Sette e Ottocento: in Francia esso risulta un sedicesimo del territorio francese (contro la valutazione di un decimo fatta durante la rivoluzione dell’89) e in Spagna gli studi più recenti mostrano come la vendita dei patrimoni ecclesiastici non abbia modificato la struttura economica o l’evoluzione del settore agrario. Patrizio Foresta presenta alcune ipotesi di ricerca sulla storia della Compagnia di Gesù nel contesto dell’impero tedesco, offrendo alcuni spunti di riflessione sulla sua storia economica in particolare in rapporto al potere politico e alle istituzioni ecclesiastiche secolari nella seconda metà del Cinquecento. Un bilancio storiografico viene presentato da Marek Derwich sull’economica delle comunità religiose in Polonia e una rapida carrellata di Murat Çizakça sul rapporto tra Islam e protocapitalismo nel confronto con la cristianità chiude la seconda parte del volume. Complessivamente gli atti, formati da interventi disomogenei e da tagli differenti, mettono in evidenza la potenzialità di una ricerca sulle istituzioni religiose (diocesane, monastiche, conventuali, luoghi pii e congregazioni religiose regolari e di vita laicale consacrata, seminari, collegi e istituzioni educative) tra medioevo ed età contemporanea che tenga conto dello specifico approccio contabile, come linguaggio che mentre evidenzia una precisa cultura “aziendale” delle istituzioni religiose sancisce anche una modalità di esercizio del potere. Numerosi interventi tendono poi ad enunciare tesi più tratteggiate che dimostrate che contraddicono la lettura critica formulata contro la manomorta ecclesiastica per mettere in evidenza la razionalità della gestione economica e patrimoniale delle “aziende” connesse alle proprietà ecclesiastiche nella loro multiforme varietà. Viene quindi enunciata la tesi che la gestione dei patrimoni e delle proprietà della chiesa non abbia differito eccessivamente dalla gestione mercantile o borghese delle aziende agrarie e che i criteri guida impiegati nell’attività economica siano stati omogenei al contesto. Sono anche trovati prodromi ai testi economici nei testi basi dell’occidente cristiano anche se quest’ultimo punto mi pare il più discutibile in quanto sopravvaluta le considerazioni economiche presenti in alcuni testi fondanti del cristianesimo e della teologia cristiana: in quanto ideologia che inglobava tutto lo spazio umano, inclusa la gestione patrimoniale ed economica, ovviamente anche il lato economico della gestione era disciplinato secondo una ratio 1_2011.indd 305 28-06-2011 12:12:24 306 Cr St 32 (2011) anche se non esclusivamente tendente al profitto o al lucro bensì indirizzando anche i beni economici verso il primario fine “spirituale” delle istituzioni ecclesiastiche. Maria Teresa Fattori Fondazione per le scienze religiose - Bologna Luigi M. de Palma, Il Frate Cavaliere. Il tipo ideale del Giovannita fra medioevo ed età moderna, (Facoltà Teologica Pugliese, Studi e ricerche, 3) Ecumenica Editrice, Bari 2007, pp. 358 La storiografia sugli Ordini cavallereschi ha in questi ultimi anni registrato l’intervento di numerosi studiosi, come testimoniato dalla contemporanea pubblicazione della raccolta di studi Alle origini dell’Europa Mediterranea. L’Ordine dei Cavalieri giovanniti, a cura di A. Pellettieri, Firenze 2007. In questo filone di rinnovato interesse della presenza degli Ordini militari nella penisola italiana si inserisce la monografia in questione che intende approfondire un aspetto rimasto spesso in secondo piano, come lamentato dall’Autore, vale a dire quello della dimensione religiosa dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme «quasi si trattasse di una dimensione secondaria della sua natura e della sua identità» (p. 11). Occorre subito notare come, nonostante il titolo, il lavoro si concentra per la sua parte originale sull’epoca moderna, mentre gli sviluppi storici del periodo medievale sono soltanto delineati nell’introduzione (pp. 13-39) dove si rimanda ai principali lavori apparsi negli ultimi decenni, con particolare riferimento ai contributi di Jonathan Riley-Smith, Anthony Luttrell, Alain Demurger, Alain Beltjens, Kristian Toomaspoeg. Un interesse prevalentemente centrato nell’epoca della Riforma della Chiesa, come testimoniato dalla corposa appendice documentaria che correda il volume che raccoglie una serie di testi redatti tra i secoli XVI-XVIII che testimoniano le difficoltà dell’Ordine giovannita e le proposte di riforma avanzate in ambito ecclesiastico per sintonizzarlo con le istanze elaborate nel corso dei lavori del concilio tridentino. Nei primi due capitoli sono dunque ripercorse le vicende dell’Ordine e il suo spostamento da Rodi (abbandonata nel gennaio 1523) a Malta (concessa dall’imperatore Carlo V nella primavera del 1530) sotto la pressione dei Turchi. Allo spostamento fisico fa da pendant la ridefinizione dell’identità giovannita e i suoi rapporti con il mondo aristocratico europeo; come sottolineato dal de Palma «alla perdita progressiva della potenza strategica della cavalleria e all’affievolirsi del ruolo egemonico della nobiltà l’Ordine del Santo Sepolcro reagì con il recupero dell’antica endiadi nobile-cavaliere, elevata sul piano dell’idealità e del simbolismo, e quindi della fede» (p. 66). Il risultato fu il ritorno di interesse da parte della nobiltà euro- 1_2011.indd 306 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 307 pea per l’Ordine e l’incremento del reclutamento di frati come dimostrato dal fatto che, a inizio XVIII secolo, i Giovanniti avrebbero contato 560 commende sparse per tutta l’Europa con oltre duemila membri presenti tra i suoi ranghi (si vedano i dati forniti a p. 76). Nonostante l’ampiezza del reclutamento, restavano tuttavia da risolvere una serie di abusi e disordini segnalati da un memoriale redatto da tre confratelli – i priori della commenda pisana e capuana, più il balio di Santa Eufemia – che puntavano il dito contro la guida del Gran Maestro Fra’ Hugues de Loubens de Verdalle [il testo è riportato nell’appendice al volume, pp. 241-258, mentre il contromemoriale difensivo degli ambasciatori dell’Ordine segue alle pp. 259-295], che sebbene approdata a una sostanziale assoluzione da parte dei visitatori pontifici inviati da Clemente VIII per condurre le indagini del caso, segnalava – come rilevato acutamente dall’Autore – «il perdurare nell’Ospedale di due posizioni antitetiche in rapporto alla riforma “del capo e delle membra”, una favorevole al diretto protagonismo dei frati (…), l’altra più verticistica e fiduciosa nella continuità della direzione impressa sull’Ordine dai Gran Maestri» (p. 106). Il terzo capitolo si apre ricordando il dibattito legato all’istituzione del noviziato per l’Ordine giovannita. Il discorso dell’Autore si concentra sulla preziosa testimonianza dei Ricordi di Fra’ Sabba de Castiglione (1480-1554), entrato nell’Ordine in giovane età, la cui opera divenne nel tempo un vero e proprio «manuale propedeutico alla formazione del giovane aristocratico» (p. 144): essa consente di vedere sogni e disillusioni di un Giovannita che nel corso della sua vita aveva sperimentato prima la vita di corte, poi il ritiro nella commenda faentina ove avrebbe condotto una vita volutamente ritirata (maggiori dettagli alle pp. 128-129), testimone inequivocabile della consapevolezza del tramonto delle speranze di rinnovamento da lui nutrite riguardo la tuitio fidei operata dai suoi confratelli. Con il quarto capitolo la narrazione giunge al secolo XVII, con la testimonianza di Fra’ Fabrizio Cagliola cui si deve un’istruzione ai cappellani dell’Ordine terminata nel 1662, destinata a una circolazione ristretta (rimase sotto forma di manoscritto), che faceva propri stimoli e idee di direzione spirituale messi in circolazione all’epoca dall’Ordine gesuita (l’indice del manoscritto è riportato nell’appendice del volume, alle pp. 323-335). Il quinto e ultimo capitolo è invece dedicato all’analisi del culto dei santi venerati dall’Ordine giovannita in epoca moderna, un tema che si nutre chiaramente di stimoli e suggestioni indicati dalla storiografia più recente interessatasi a quest’ordine di problemi – un nome su tutti: André Vauchez –; tale pista interpretativa permette di rivelare le linee portanti della spiritualità della forma di vita giovannita che intendeva proporre «un modello etico-spirituale radicato nella vocazione laicale alla vita religiosa, il quale poteva essere facilmente adottato – almeno in teoria – dagli appartenenti all’aristocrazia» (p. 223), attento dunque agli aspetti militari come a quelli religiosi, in un connubio non sempre facilmente armonizzabile. Si trattava di una sintesi che, a ben vedere, innerva la plurisecolare storia degli Ordini cavalleresco-militari e si salda alla sintesi bernardina elaborata nel XII secolo, auctoritas fondante lo status di qualsiasi esperienza monastico-cavalleresca: non a caso nel Cinquecento il nobile bresciano Alessandro Luzzago rivolgendosi a un religioso inviato a Malta come direttore spirituale per i novizi dell’Ordine giovannita poneva al primo posto per costoro la meditazione delle lettere di San Bernardo ai Templari (l’Istruttione ad un religioso è edita nell’appendice alle pp. 320-322). 1_2011.indd 307 28-06-2011 12:12:24 308 Cr St 32 (2011) Resta un bilancio conclusivo cui l’Autore non si sottrae al termine di un percorso snodatosi attraverso una serie di testi poco frequentati dalla storiografia, redatti da esponenti vicini alle posizioni dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni: a suo giudizio, nonostante le difficoltà incontrate, «il modello riformato del Giovannita recuperava l’archetipo spirituale originario della sua vocazione religiosa, adattandolo alle attese della sua epoca» (p. 238), un bilancio che – ci sembra – tutto sommato troppo ottimistico se si tiene conto delle difficoltà progressivamente registrate con maggiore acutezza dai suoi esponenti più sensibili (la parabola esistenziale di Fra’ Sabba ne è fedele testimonianza) ma che rispecchia gli sforzi riformistici cui si dedicarono nei secoli dell’età moderna un cospicuo numero di intellettuali appartenenti all’Ordine giovannita, o comunque vicini alle sue posizioni, nel costante sforzo di essere «separati (…) dal mondo, e a un tempo (…) a pro del mondo» (p. 235; brano tratto da un’opera di Celestino Petracchi, un predicatore del XVIII secolo che ebbe occasione di visitare e predicare a Malta). Luigi Russo Università Europea di Roma Jean Gaudemet, Formation du droit canonique et gouvernement de l’Église de l’Antiquité à l’âge classique, recueil d’articles (Collections de l’Université Robert Schuman. Société, droit et religion en Europe), préface de Br. Basdevant-Gaudemet, Presses universitaires de Strasbourg, Strasbourg 2008, pp. 446 Ils ne sont pas très nombreux les historiens dont les travaux ont été rassemblés en autant de recueils d’articles que Jean Gaudemet (1908-2001): pas moins de quatorze chez six éditeurs différents (pp. 12-13). Le tout dernier en date, Formation du droit canonique et gouvernement de l’Église de l’Antiquité à l’âge classique, est un livre qui est destiné à rendre d’immenses services, non seulement à la communauté des historiens du droit canonique (selon le souhait émis dans la préface [p. 6]), mais aussi à tous ceux qui peuvent s’intéresser de près ou de loin à cette discipline, les historiens du christianisme comme les philologues. D’une part, l’ouvrage propose une sélection de vingt études fondamentales dans leur domaine, la plupart n'ayant pas été reprises ailleurs. D’autre part, il offre la toute première bibliographie «complète» de l’Auteur, qui constitue un élément incontournable de la publication. Cet inventaire est placé en tête du volume (pp. 11-38), après une préface de Brigitte Basdevant-Gaudemet – visiblement, la responsable du recueil – dans la- 1_2011.indd 308 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 309 quelle les choix éditoriaux sont expliqués (pp. 5-6), ainsi qu’une liste des articles qui sont reproduits (pp. 7-9). La bibliographie comporte trois parties: I: Ouvrages (pp. 11-12), c’est-à-dire les monographies, les ouvrages collectifs et les traductions de sources anciennes; II: Recueils d’articles (pp. 12-13) dont le contenu détaillé se trouve dans la section suivante; et III: Articles, y compris ceux dans les dictionnaires et les encyclopédies (pp. 13-38). Les deux premières sont agencées chronologiquement. La troisième est divisée en cinq sous-parties, certaines (A, B et C) comportant des divisions thématiques, à l’intérieur desquelles l’ordre chronologie prévaut également: A. Droit canonique et institutions de l’Église (pp. 13-27); B. Droits de l’Antiquité (pp. 28-35); C. Sociologie historique du droit (pp. 35-36); D. Articles d’histoire du droit (pp. 37-38; la majorité des travaux dans les autres catégories ne concernet-elle pas aussi l’histoire du droit ?); et E. Articles de méthodologie (p. 38). L’utilité de la bibliographie est indéniable. L’Auteur fut si prolifique, sur un si grand nombre de problèmes, qu’il était bien difficile d’avoir une vue d’ensemble de son travail avant la parution du présent recueil. Il sera dorénavant beaucoup plus aisé de savoir s’il a traité de tel ou tel sujet. En vérité, il y a bien peu à redire sur cette liste d’ouvrages. Sans que cela enlève quoi que ce soit à sa qualité, notons tout de même quelques irrégularités mineures dans la présentation, en donnant des exemples essentiellement tirés de la partie I: Ouvrages. Notamment, il n’est pas toujours fait état de la ville et/ou de la maison d’édition. Par exemple, il aurait été intéressant de préciser que la thèse de doctorat de l’Auteur a été publiée par Sirey l’année même de sa soutenance (p. 11: Étude sur le régime juridique de l’indivision en droit romain… 1934). Dans la plupart des cas où l’éditeur n’est pas mentionné, il semble y avoir confusion avec la collection, si bien que le numéro de volume de celle-ci n’est pas systématiquement donné (p. 12: Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle, Milan, [Giuffrè, coll.] IRMAE, [n. I, 3, b,] 1978, 166 pp.). Il aurait été également préférable d’identifier l’ensemble des livres épuisés et pas seulement quelques-uns (les seuls titres aujourd’hui disponibles parmi ceux classés avant 1985 sont, à la p. 11: Les institutions de l’Antiquité...1972...7e éd. 2002; et à la p. 12: Conciles gaulois du IVe siècle... 1977; Les élections dans l’Église latine des origines au XVIe siècle... 1979; et Le gouvernement de l’Église à l’époque classique, [IIe partie :] le gouvernement local... Tome VIII… 1979). Autrement, certains intitulés sont incomplets (p. 12: [Sociologie historique.] Les maîtres du pouvoir, Paris, Montchrestien, [coll. Domat droit public], 1994, 207 p.), alors que les collaborations et les participations à des ouvrages collectifs ne sont pas toutes bien présentées (p. 11: Les institutions ecclésiastiques en France du milieu du XIIe au début du XIVe siècle, dans Histoire des institutions françaises au Moyen Âge, [dir. F. Lot et R. Fawtier,] T. III, Les institutions ecclésiastiques, [en collaboration avec J.‑Fr. Lemarignier et G. Mollat,] Paris, [PUF,] 1962, p. 141-335; comme l’Auteur n’a pas dirigé l’ouvrage, cette référence n’aurait-elle pas dû être placée dans la section III.A.2 [p. 24-27], au même titre que sa contribution à l’Histoire du christianisme...2001 [cf. p. 27] ?). De plus, il y a quelques entorses à l’ordre chronologique (outre les quelques ouvrages qui n’ont pas été placés au bon endroit [cf. p. 25], certains sont classés en fonction de leur première édition [cf. p. 11] et d’autres suivant la plus récente [cf. p. 12]). 1_2011.indd 309 28-06-2011 12:12:24 310 Cr St 32 (2011) Il y a aussi quelques doublons. Entre autres, la liste des articles reproduits dans le présent volume peut se lire intégralement à deux reprises, à la différence près que l’une comporte des sous-titres supplémentaires, que l’autre donne également les pages dans le recueil et que les normes de présentation bibliographique ne sont pas identiques (p. 7-9 et 22-23 [où il y a une erreur dans le titre et la date du présent ouvrage]). Certaines publications sont, quant à elles, citées en deux endroits distincts de la bibliographie (notamment, p. 12 et 35: Legislazione imperiale e religione nel IV secolo, [en collaboration avec P. Siniscalco et G.L. Falchi, Rome, Istituto patristico «Augustianum», coll.] Sussidi patristici[, no]11, 2000, 183 pp. [ou p. 7-66 pour le seul chapitre intitulé La politique religieuse impériale au IVe siècle (envers les païens, les Juifs, les hérétiques, les donatistes)]; p. 15 et 24: Aspect de la primauté romaine du Ve au XVe siècle…1971; p. 18: tous les articles entre Le débat sur la confession dans la Distinction I du «De penitentia» (Décret de Gratien, C. 33, q. 3)…1985 et La coutume en droit canonique...1988, sont repris en p. 25 et 26; p. 21 et 25: [Notes d’histoire des collections canoniques II :] Adam Vetulani et le Décret de Gratien…1990; ainsi que p. 25 et 27: Influences romaines sur la codification latine…1994; en outre, n’aurait-il pas fallu indiquer le lien entre Une instance de liaison. Le conseiller pour les affaires religieuses auprès du ministre des Relations extérieures...1987…1998 [cf. p. 21] et Le conseiller pour les affaires religieuses auprès du ministre des Relations extérieures…1988 [cf. p. 25; dans Annua[r]io…] ?). Par ailleurs, il n’y a aucune liste des abréviations utilisées, ce qui peut causer quelques difficultés aux lecteurs qui ne sont pas familiers des collections et des périodiques dont le titre est abrégé, surtout lorsque ceux-ci s’adressent à un public bien précis (par exemple, cf. p. 8 et 22: MSHCB = Mémoires de la Société pour l’histoire du droit et des institutions des anciens pays bourguignons, comtois et romands [d’autant plus que l’intitulé du numéro 45 (1988) de cette revue n’a pas été recopié en entier: Études [d’histoire du droit médiéval] en souvenir de J[osette] Metman]; ainsi que p. 12: IRMAE = Ius Romanum Medii Aevii). Ajoutons encore qu’il aurait été intéressant d’inclure à la bibliographie une liste des plus importants comptes rendus de l’Auteur (au moins un se trouve dans les articles hors recueils [p. 24]: Du patrimoine de Saint-Pierre à l’État pontifical, d’après un ouvrage récent…1982). Les recensions critiques permettent parfois de mieux comprendre certaines prises de position, entre autres lorsque celles-ci ne font pas l’unanimité (par exemple, l’Auteur a été convaincu par les propositions de Wilhelm Maria Peitz en matière d’archives pontificales antiques – Les sources du droit de l’Église du IIe au VIIe siècle…1985 [cf. p. 12], p. 60, n. 6 –, un choix qui s’explique en partie par son appréciation de l’ouvrage posthume du jésuite dans la Revue d’histoire ecclésiastique, 57 [1962], p. 549-555). En ce qui concerne le recueil d’articles lui-même, il est divisé en deux grandes parties dont le titre respectif (Sources – Formation du droit [p. 39-232] et Gouvernement de l’Église [p. 233-442]) s’inspire de concepts si chers à l’Auteur que ceux-ci reviennent plus d’une fois en tête de ses ouvrages (non seulement dans l’intitulé du présent volume, mais aussi: La formation du droit séculier et du droit de l’Église aux IVe et Ve siècles...1re éd., 1957...2e éd., 1979; Le gouvernement de l’Église à l’époque classique...1979; Les sources du droit de l’Église en Occident du IIe au VIIe siècle...1985; Les sources du droit canonique, VIIIe-XXe siècle...1993; et, parmi les recueils d’articles, La formation du droit canonique médiéval...1980 [cf. p. 12]). 1_2011.indd 310 28-06-2011 12:12:24 Recensioni 311 La disposition des articles dans chacune de deux sections est plus ou moins chronologique, non pas en fonction de l’année de publication, mais suivant la période traitée. L’ensemble n’ayant pas été modifié – ce «qui n’aurait été que détérioration du travail accompli» selon la fille de l’Auteur (p. 6) –, il ne serait pas ici pertinent de porter un regard critique sur des études qui ont été maintes fois lues et relues, citées et utilisées, éprouvées et mises à l’épreuve. Il semble en effet préférable, pour ne pas dire plus utile, de décrire en quelques mots le contenu de chacun des articles de manière à aider le lecteur à s’y retrouver plus facilement plutôt que de tenter d’orienter sa propre lecture. La première partie comporte huit articles qui s’intéressent aux sources du droit canonique et/ou à son développement, sur une période allant du IIe siècle ap. J.C. jusqu’à la Révolution française. Les deux premiers articles ne concernent que l’Antiquité. 1. L’apport du droit romain à la patristique latine du IVe siècle (p. 41-54) a été composé suite à une intervention au congrès de la Commission international d’histoire ecclésiastique comparée qui s’est tenu à Varsovie en 1978 et dont les actes furent publiés en 1983 (Miscellanea historiae ecclesiasticae VI, I = Bibliothèque de la Revue d’histoire ecclésiastique, 67). L’étude résume en partie Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle (1978 [cf. p. 12]), en donnant quelques exemples, principalement tirés d’Ambroise de Milan et de l’Ambrosiaster (l’article fait donc suite à Droit séculier et droit de l’Église chez Ambroise...1976 [cf. p. 24]), de l’utilisation du vocabulaire juridique et de certains textes législatifs par les Pères du IVe siècle, des critiques qu’ils ont formulées à l’encontre du droit romain ainsi que de l’apport de celui-ci à la construction dogmatique et à la réglementation disciplinaire. 2. La place de la tradition dans les sources canoniques (IIe-Ve siècle) (p. 55-68) provient aussi d’un exposé donné dans le cadre d’un colloque, cette fois-ci réuni à Rome en 1989 et publié l’année suivante sous les auspices de l’Istituto patristico «Augustianum» (La tradizione: forme e modi = Studia ephemeridis «Augustinianum», 31). L’Auteur y évalue l’importance des notions de «coutume» et de «tradition» (il faut ainsi mettre ce travail en lien avec La coutume en droit canonique...1988[...1990] [cf. p. 18 et 25]) chez les chrétiens de l’Antiquité, depuis la Didachè/Doctrine des douze Apôtres jusqu’à Gélase Ier – malgré le titre, le Ve siècle n’est toutefois pas vraiment abordé –, à travers les textes canonicoliturgiques, patristiques et conciliaires. Les autres études de cette même partie sur les sources et la formation du droit canonique sont présentées par les éditeurs du recueil comme consacrées au Moyen Âge et à l’Ancien Régime (p. 7), cela même si certaines s’intéressent aussi à la période antique. C’est particulièrement le cas pour 3. La Bible dans les conciles (IVe-VIIe siècle) (p. 69-92), un article qui est tiré du deuxième tome de la collection «Bible de tous les temps» paru en 1985 (Le monde latin antique et la Bible) et qui propose une analyse à la fois quantitative et qualitative des citations bibliques dans les documents synodaux, surtout les canons, entre le début du IVe siècle et le concile de Tolède IV (633). En réalité, la matière du VIIe siècle est bien trop mince pour que l’on puisse en tirer des conclusions propres à cette époque (sur 39 conciles dans lesquels l’Auteur relève des références bibliques, seulement trois – ceux tenus à Auxerre [et non à Autun] en 561/605, à Séville [II] en 619 et à Tolède [IV] en 633 – appartiennent ou peuvent appartenir aux années 600 [cf. p. 90-92; N.B. À la p. 90, 1_2011.indd 311 28-06-2011 12:12:25 312 Cr St 32 (2011) il faut placer les Canones in causa Apiarii en 419, au lieu de 416]). 4. La Bible dans les collections canoniques (p. 93-137), provenant du quatrième tome de la même collection publié en 1984 (Le Moyen Âge et la Bible), est intimement liée à l’étude précédente (d’ailleurs, toutes deux ne sont pas sans rapport avec Sagesse biblique et droit canonique...1991...1992 [cf. p. 18]). Ici, l’enquête porte sur les corpus de règles canonico-liturgiques ainsi que sur les collections canoniques, depuis celles de Denys le Petit jusqu’à la Concordia discordantium canonum. Un tableau placé en fin d’article (p. 136-137) relève le nombre de références bibliques dans sept des compilations analysées: la Didachè, la Tradition apostolique, la Didascalie (ou Didascalia, plutôt que Didascalis), l’Hibernensis, les Faux capitulaires de (Pseudo-)Benoît le Lévite, les fausses décrétales de la Pseudo-Isidoriana et le Décret de Gratien. Si 5. Le droit romain dans la Collectio canonum du cardinal Deusdedit (p. 139150) et 6. L’héritage de Grégoire le Grand chez les canonistes médiévaux (p. 151-170) portent uniquement sur des collections canoniques médiévales, ces articles s’intéressent tout de même à la réception de sources anciennes par les compilateurs. Le premier, qui provient du numéro 45 (1988) des MSHDB (cf. supra) et qui a déjà fait l’objet d’une réimpression dans un recueil d’articles de 1994 (La doctrine canonique médiévale [cf. p. 18]), explique la présence de quelques extraits juridiques romains non canoniques dans la compilation du cardinal Deusdedit, tout en tentant d’identifier ses sources directes et indirectes (ce travail peut ainsi être lu parallèlement à d’autres qui concernent aussi la réception du droit romain dans les collections médiévales, notamment Das römische Recht in Gratians Dekret…1961 [cf. p. 14]). Quant à l’étude qui traite des fragments grégoriens dans les collections canoniques depuis l’Hibernensis jusqu’à la Concordia discordantium canonum – à laquelle est consacrée la moitié de l’article –, elle découle d’une communication donnée dans le cadre d’un colloque qui s’est tenu à Rome en 1990 sous le patronage de «l’Augustinianum» ainsi que de l’École française de Rome et dont les actes parurent un an plus tard (Gregorio Magno e il suo tempo, II = Studia ephemeridis «Augustinianum», 34). Il est à noter que cet article fut également repris dans le recueil susmentionné (cf. p. 19; N.B. D’autres travaux de l’Auteur ont pour objet les sources chrétiennes antiques des canonistes médiévaux, parmi lesquels L’apport de la patristique latine au Décret de Gratien en matière de mariage…1954 [cf. p. 20].). Les deux derniers articles de la première partie sont les seuls à se consacrer spécifiquement à l’évolution – à la formation – du droit canon et non pas à ses sources. Le monde ancien y tient une place plus marginale que dans les précédents. Tout au plus, quelques influences antiques y sont sporadiquement mentionnées (cf. par exemple p. 177-179), tandis que les époques gallo-romaine et mérovingienne sont très rapidement évoquées dans l’introduction du second des deux (p. 191-192). 7. L’élaboration du droit canonique en Occident du XIe au XVe siècle (p. 171-190), qui est paru en 1999 dans un volume en hommage à l’historien du droit Jean-François Poudret (À cheval entre histoire et droit = Bibliothèque historique vaudoise, 115), constitue, en quelque sorte, la synthèse d’une partie de Les sources du droit canonique, VIIIe-XXe siècle et d’Église et Cité (1993 et 1994 [cf. p. 12]; N.B. Ce travail n’est pas non plus sans rapport avec Regards sur l’histoire du droit canonique antérieur au Décret de Gratien…1985 [cf. p. 17].). Le texte est divisé suivant les siècles concernés, auxquels l’Auteur fait correspondre des périodes spécifiques à l’histoire du 1_2011.indd 312 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 313 droit canonique: nouveau départ au XIe siècle, renaissance au XIIe, âge d’or au XIIIe et crise aux XIVe et XVe (sans que cela ne soit vraiment en rapport avec cet article, il est intéressant de noter que les périodes traditionnellement appliquées à l’histoire du droit ecclésiastique durant l’Antiquité demandent toutes à être réévaluées, en particulier la fameuse «Renaissance gélasienne», qui trouve ses fondements dans l’hypothétique influence de Gélase Ier sur l’entreprise canonique de Denys le Petit, cela alors qu’aucune source n’abonde formellement en ce sens [cf. p. 281, n. 1]). 8. Le droit canonique en France des origines à 1789 (p. 191-232), qui s’inspire d’une intervention au colloque organisé en 1995 à l’occasion du centenaire de la Faculté de droit canonique de l’Institut catholique de Paris et dont les actes furent publiés au cours de l’année qui suivit (numéro 38 [1995/6] de L’année canonique), résume l’histoire du droit canonique en France jusqu’en 1789, principalement à partir de la Réforme grégorienne (la question des «origines» n’étant pas vraiment traitée, ce travail peut notamment être complété par les introductions des traductions de textes conciliaires antiques de l’Auteur publiés par l’Auteur [cf. p. 12] ainsi que par La législation des conciles gaulois du IVe siècle…1968 [cf. p. 24]). La seconde partie du présent recueil est composée de dix articles consacrés aux institutions et à l’organisation ecclésiastiques du IIe au XXe siècle, les époques modernes et contemporaines n’étant abordées que très rapidement dans la toute dernière contribution. Les quatre premiers concernent l’Antiquité et les autres s’intéressent au Moyen Âge selon la division créée par les éditeurs (p. 8). 9. Pontifex (p. 235-251), qui provient de mélanges publiés en 2003 en l’honneur du latiniste Carl Deroux (Hommages à Carl Deroux, IV = Latomus, 277) – il s’agit donc d’un travail posthume –, initie cette nouvelle série en expliquant, grâce aux sources antiques et médiévales, l’origine ainsi que la signification du titre de pontifex appliqué à l’évêque de Rome (* Voilà un petit texte qu’auraient dû consulter les deux réalisateurs d’une série télévisée sur l'histoire du christianisme antique, qui a été quelque peu controversée. Cf. J.-M. Salamito, Les chevaliers de l’Apocalypse. Réponse à MM. Prieur et Mordillat, Paris 2009, p. 45). Les travaux dix et onze portent sur la seule Antiquité. 10. Constitutions constantiniennes destinées à l’Afrique (p. 253-272) a été composé à l’occasion d’une table à ronde réunie à Paris en 1989 autour de l’œuvre de l’historien de Rome André Chastagnol et publiée en 1992 (Institutions, société et vie politique dans l’Empire romain au IVe siècle ap. J.-C. = Collection de l’École française de Rome, 159). L’Auteur y étudie les textes législatifs de Constantin Ier qui sont spécifiquement adressés à l’Afrique, son analyse se concentrant sur les destinataires ainsi que sur les thèmes abordés (la liste complète des constitutions est donnée à la p. 272). L’article se distingue des autres, car il n’a pas pour objet principal les affaires ecclésiastiques (sur ce point précis, il peut entre autres être complété par La législation religieuse de Constantin…1947 [cf. p. 16]). En ce qui concerne 11. Les regards du pouvoir sur l’épiscopat à l’époque théodosienne (p. 273-280), il est tiré d’une conférence donnée dans le cadre d’un colloque qui s’est tenu à Rome en 1996, encore une fois sous les auspices de «l’Augustinianum», et dont les actes parurent en 1997 (Vescovi e pastori in epoca teodosiana = Studia ephemeridis «Augustinianum», 58). Dans ce travail, l’Auteur réfléchit sur la douzaine de constitutions impériales de Théodose Ier dans lesquels il est question des évêques et/ou de la fonction épiscopale (il 1_2011.indd 313 28-06-2011 12:12:25 314 Cr St 32 (2011) peut notamment être lu en parallèle de certains chapitres de L’Église dans l’Empire romain (IVe-Ve siècle)…1958…2e éd., 1990 [cf. p. 11] et de Les relations entre le pouvoir politique et les communautés chrétiennes d’après le Code théodosien…1981 [cf. p. 16]). Chevauchant deux périodes, 12. Aux origines de la Libertas Ecclesiae dans la Rome symmaquienne (p. 281-292) provient d’un recueil en hommage au médiéviste Georges Duby datant de 1992 (Histoire et société, III). Il est consacré au problème de la sauvegarde de l’indépendance de l’Église face aux pouvoirs politiques durant le Schisme laurentien (498-507) ainsi qu’à la réception des sources symmaquiennes (du pape Symmaque et non du sénateur païen homonyme), y compris les apocryphes, dans les collections canoniques médiévales, comme arguments de défense du concept de Libertas Ecclesiae (* Parce que cette étude de Jean Gaudemet rend adéquatement compte de décisions du synode romain de 501 – et non de 502, comme l'a démontré Eckhard Wirbelauer – [cf. p. 283, n. 8 et p. 286-288], qui ont été involontairement mal présentées dans mon article sur les patrimoines ecclésiastiques romains [Les patrimoines de l’Église romaine jusqu’à la mort de Grégoire le Grand. Dépouillement et réflexions préliminaires à une étude sur le rôle temporel des évêques de Rome durant l’Antiquité la plus tardive, in Antiquité tardive, 14 (2006), p. 79-93], je me permets de corriger à la jonction des p. 84 et 85 de ce dernier: «[…] de rendre canonique une partie des mesures civiles qui avaient été autrefois dictées par le préfet du prétoire Basilius, cela après avoir pris soin de condamner l’intégralité de son ordonnance, entre autres pour nier aux laïcs tout pouvoir juridique sur l’évêque romain et sur son siège33. Faisant d’une pierre deux coups, la réitération de l’interdit d’aliénation proclamé par ce texte composé sous Odoacre, permettait également à […]». La n. 59 de la p. 88 du même travail pose aussi quelques problèmes sur lesquels il n’est pas pertinent de revenir ici. Disons seulement que Gian Domenico Mansi n’est pas l’auteur de l’editio princeps de la lettre de Vigile concernée.). Également consacré à la papauté, 13. La primauté pontificale dans les collections canoniques grégoriennes (p. 293-323) est paru en 1994 dans des mélanges en l’honneur l’historien de l’Église Luigi Prosdocimi (Cristianità ed Europa, I). Dans cet article, qui constitue plus un dépouillement préliminaire qu’une véritable étude sur la primauté de l’évêque de Rome à travers les compilations du XIe siècle – le sujet est vraiment trop ample pour tenir en si peu de pages –, l’Auteur établit la liste des collections et des textes nécessaires à un tel travail, tout en proposant les principales pistes de recherche ainsi que quelques conclusions partielles (d’autres études de l’Auteur portent sur la primauté romaine dans les collections canoniques, dont: Collections canoniques et primauté pontificale…1966 [cf. p. 15]; La primauté romaine vue par Yves de Chartres…1991; et La primauté pontificale dans le Décret de Gratien [cf. p. 19]). 14. Ubi papa, ibi Roma ? (p. 325-337), quant à lui, provient des actes d’un séminaire international organisé en 1985 par l’Università degli studi di Roma «La Sapienza» (Roma fuori di Roma: Istituzioni e immagini = Da Roma alla Terza Roma. Documenti e studi. Studi, 5). Ce travail s’interroge sur les différentes perceptions de l’errance des souverains pontifes, juste avant et pendant l’expérience avignonnaise, afin d’établir s’ils ont réussi, avec l’aide des canonistes et des théologiens «officiels» du moment, à imposer l’idée que «là où est le pape, là est Rome». D’un tout autre ordre, 15. Le droit au service de la pastorale (p. 339-349), 1_2011.indd 314 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 315 qui est d’abord paru dans un volume de 1994 en hommage au médiéviste Cinzio Violante (Società, istituzioni, spiritualità = Collectanea [Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo], 1), tente d’identifier la principale source d’inspiration civile du dix-septième canon de Chalcédoine, concernant les conditions du rattachement des églises rurales à une province épiscopale, avant de se concentrer sur sa réception jusqu’au Décret de Gratien. En ce sens, ce travail aurait pu parfaitement trouver sa place dans la première partie. Les quatre contributions suivantes traitent toutes de l’institution épiscopale médiévale à différents moments entre le XIe et le XIVe siècle, formant ainsi la partie la plus homogène du recueil. 16. À propos de l’épiscopat médiéval (XIIe-XIIIe siècles) (p. 351-367) est tiré du numéro 27 (1996) des Studia Gratiana qui rassemble des études en l’honneur du canoniste Rudolf Weigang. L’Auteur y dresse un tableau général de l’épiscopat à l’époque concernée – notons que le Xe et le XIe siècle sont plus d’une fois mentionnés –, par l’identification des conditions d’accès à la charge, du statut du détenteur de celle-ci ainsi que de ses fonctions et de ses obligations en matière juridique. 17. Recherches sur l’épiscopat médiéval en France (p. 369-384), qui parut en 1965 dans les actes du Congrès international de droit canonique médiéval rassemblé à Boston deux ans plus tôt (Proceeding of the Second International Congress of Medieval Canon Law = Monumenta juris canonici. Series C: Subsidia, 1), aborde, d’une part, les milieux d’extractions des évêques dans les principaux diocèses de France entre le XIIe et le XIVe siècle ainsi que, d’autre part, le lien de cause à effet avec les transferts de siège que l’on connaît pour cette période. 18. De l’élection à la nomination des évêques: changement de procédure et conséquences pastorales. L’exemple français (XIIIe-XIVe siècles) (p. 385-400) résulte d’une intervention à un symposium de la Pontificia Università Lateranense, qui s’est tenu en 1995 et dont les actes ont été publiés en 1996 (Il processo di designazione dei vescovi. Storia, legislazione, prassi = Utrumque jus, 27). L’article reprend la matière du précédent, en développant davantage les XIIIe et XIVe siècles et en mettant l’emphase sur les causes et les conséquences des modifications qui furent alors opérées dans le mode de désignation des évêques (beaucoup de publications de l’Auteur s’intéressent à cette question au Moyen Âge, dont: La participation de la communauté au choix de ses pasteurs dans l’Église latine. Esquisse historique…1974 [cf. p. 15]; L’élection épiscopale d’après les canonistes de la deuxième moitié du XIIe siècle…1974 [cf. p. 17]; et Les élections dans l’Église latine des origines au XVIe siècle…1979 [cf. p. 12]). 19. L’évêque dans la cité en France (XIe-XIVe siècle) (p. 401-420), qui provient lui aussi des Studia Gratiana, plus précisément du numéro 28 (1998) en hommage au canoniste Antonio García y García, propose une vue d’ensemble du statut des évêques français dans leur cité, des moyens financiers dont ils pouvaient disposer ainsi que des rôles social et politique qu’ils pouvaient jouer. Parce que 20. Aspect synodal de l’organisation du diocèse; esquisse historique (p. 421-442) est l’élément le plus difficilement trouvable en bibliothèque de tout le recueil, il en constitue la perle. Ce travail fut publié en 1989 dans un volume dactylographié qui rassemble des conférences données l’année précédente dans le cadre d’une session de droit canonique à l’Institut catholique de Paris (Le synode diocésain dans l’histoire et le code). Il rend compte de l’importance des synodes diocésains dans l’histoire des provinces épiscopales, autant à l’époque de leur 1_2011.indd 315 28-06-2011 12:12:25 316 Cr St 32 (2011) formation, que par la suite, pour le maintien de leur cohésion, soit depuis le IIe siècle jusqu’à aujourd’hui (ce travail n’est donc pas sans rapport avec la quinzième contribution; N.B. Une fois n’est pas coutume, mais il ne faut surtout pas suivre l’exemple de l’Auteur qui cite ici la lettre CXI de Léon le Grand à Marcien [et non pas à Maurice !] dans l’édition de la Collectio Pseudo-Isidoriana [d’où l’Ep. 35] par Jacques Merlin [cf. p. 421, n. 2], alors qu’il ne cherche pas à renvoyer à la recension pseudo-isidorienne du document.). Devant une telle somme de connaissances et d’érudition, on ne peut être qu’admiratif de l’œuvre laissée par l’Auteur. Il faut remercier grandement les éditeurs pour cet ouvrage beaucoup plus accessible à tout un chacun que certains de ses onéreux prédécesseurs. On aurait toutefois aimé que la pagination originelle ait été indiquée d’une quelconque manière. On se demande aussi pourquoi deux articles ont été ici reproduits alors qu’on les trouvait déjà dans des recueils précédents. Pourtant, la bibliographie parle d’elle-même: les études qui n’ont pas fait l’objet de reprises sont encore très nombreuses et elles ne sont pas toutes facilement accessibles (par exemple Zasada nierozerwalności małżeństwa od początków chrześcijaństwa do XII wieku…1978 [cf. p. 24; dans Prawo kanoniczne]). On ne peut ainsi qu’encourager les Presses universitaires de Strasbourg à réitérer l’expérience, y compris pour d’autres sommités qui ont enseigné ou qui enseignent dans la capitale alsacienne. Dominic Moreau Université Paris IV-Sorbonne Peter Rietbergen, Power and Religion in Baroque Rome. Barberini Cultural Policies, (Brill’s Studies in Intellectual Hiostory, vol. 135), Brill, LeidenBoston 2006, pp. XI-437 Non c’è dubbio che il pontificato e la Roma di Urbano VIII (1623-1644) siano stati al centro di recenti, fondamentali studi italiani e stranieri. La politica e la dichiarata neutralità del “padre comune” nella guerra dei Trent’anni, la cerimonialità e l’elaborazione nella corte di Roma di uno specifico linguaggio politico, l’ascesa della famiglia Barberini, i potenti e ramificati legami di patronage che permettevano l’affermazione di altre compagini familiari ad essa legate, la cultura e la scienza nella Roma della prima metà del Seicento, le nuove direttive urbaniane in materia di santità sono solo alcuni dei molteplici aspetti indagati recentemente che hanno permesso di approfondire e, in molti casi, di ridisegnare il panorama della Roma barocca. Anche in questo volume trovano ampio tematiche relative soprattutto alla 1_2011.indd 316 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 317 cultura elaborata nella Roma di Urbano VIII con il preciso intento di sostenere il potere personale del pontefice e della sua famiglia, ma anche di usare tali strumenti per affermare la potenza del Papato e della Chiesa cattolica nell’Europa e nel mondo. Cultura, dunque, inscindibilmente intrecciata alla religione e alla politica (ma poteva non esserlo nel Seicento?), veicolo privilegiato per arrivare al Cielo esaltando, in terra, a Roma e nel mondo cattolico, la potente supremazia del pontefice. Non sono temi nuovi: Gabriele Paleotti e Agostino Mascardi avevano ben teorizzato questa essenziale funzione dell’arte e della cultura, come ci ricorda l’Autore (pp. 16-17). Il volume si compone di una introduzione (pp. 1-18) e di un lungo prologo (pp. 19-60) in cui P. Rietbergen esamina il Diario di Roma scritto da Giacinto Gigli che, in qualità di amministratore civico, annota con finezza le manifestazioni pubbliche della potenza barberiniana che si esprimevano nelle solenni processioni, nelle feste offerte agli ospiti stranieri e alla città stessa non più partecipe, come nel passato, ma spettatrice dei fasti di una corte che diventa proprio per le sue cerimonie modello per tutta l’Europa “the first epitome of a European ‘theatre state’, of a court society that used all forms of culture, including, inevitably, the rules that governed individual behaviour, as instruments to establish and enhance power” (p. 378), come sottolinea di nuovo l’Autore a conclusione del libro. Il corpo del volume è costituito da otto capitoli, dedicati all’analisi di case-studies che, in vario modo, illustrano aspetti e protagonisti della cultura barberiniana. Un lungo epilogo (pp. 377-425), in cui si riprendono, talvolta con eccessiva insistenza, temi già trattati nelle pagine precedenti, e una breve conclusione (pp. 427-429) chiudono il libro. Alcuni capitoli ripropongono saggi pubblicati dall’Autore fra il 1984 ed il 1992, altri sono più recenti, tutti tenuti insieme dall’introduzione e dal lungo epilogo, quasi a giustificare l’assemblaggio di parti non sempre omogenee, sia dal punto di vista tematico, narrativo e stilistico. I temi, vari e, certo, di grande interesse, sono tutti affrontati nell’ottica che mira a cogliere il rapporto cultura-potere. Il primo capitolo è dedicato alla costruzione, voluta da Maffeo Barberini, della cappella di famiglia in Sant’Andrea della Valle, chiesa dei Teatini, situata sulla Via Papalis, lungo la quale si snodava la solenne processione del Possesso che conduceva il neoeletto pontefice dal Vaticano a S. Giovanni in Laterano. La costruzione, il progetto e la realizzazione iconografica sembra voler anticipare la gloria dell’elezione pontificia che verrà pochi anni dopo. L’Autore ripercorre anche le tappe dell’affermazione della famiglia Barberini che, antimedicea e impegnata nei traffici e nella mercatura, troverà, come altre compagini fiorentine, un percorso di affermazione definitiva a Roma e nella carriera ecclesiastica dei suoi esponenti. Maffeo-Urbano entra dunque in scena nel primo capitolo di questo libro e rimane il protagonista nei successivi, quando l’Autore esamina la sua produzione poetica (capitolo secondo), affiancato però, (capitolo 3) dalla figura del cardinal nepote Francesco Barberini ‘moderno’ cardinal-padrone, la cui influenza, limitata nel quadro politico europeo durante il pontificato urbaniano, ebbe invece uno straordinario rilievo sia nell’amministrazione dei domini temporali pontifici sia nel dirigere la politica culturale e artistica. Nei capitoli successivi l’attenzione si sposta infatti su alcuni personaggi che furono al centro del patronage barberiniano e dettero un’impronta decisiva ad alcune fondanti istituzioni: Lucas Holstenio e i suoi molteplici progetti, la sua corrispondenza con l’Europa delle lettere, la sua raccolta di manoscritti e, infi- 1_2011.indd 317 28-06-2011 12:12:25 318 Cr St 32 (2011) ne, il suo ruolo di bibliotecario della Vaticana nei pontificati successivi (capitolo 6); il libanese cristiano maronita Ibrahim-al-Hakilani (conosciuto poi in Europa come Abraham Ecchellense) anch’egli protetto dal cardinale Francesco e incaricato di restaurare, potenziare e diffondere la supremazia della chiesa di Roma nel Mediterraneo anche attraverso gli studi orientali, le raccolte di manoscritti arabi e siriaci conservati nella Biblioteca Vaticana. (capitolo 7). Alla funzione politica del linguaggio cerimoniale è dedicato il capitolo 4 che descrive accuratamente la visita a Roma del principe di Ecchenberg nel 1638 per ottenere il riconoscimento pontificio dell’avvenuta elezione di Ferdinando d’Asburgo a re dei Romani e i problemi suscitati dalla mancata solenne accoglienza da parte di Urbano VIII, problemi risolti successivamente con l’offerta di un sontuoso banchetto. Se il cibo, come ogni gesto, precedenza, abito e colore si caricano di un particolare significato nel linguaggio cerimoniale analizzato con precisione in queste pagine, non vengono qui sottolineate le motivazioni politiche della tiepida accoglienza del principe, in un tournant difficile della guerra dei Trent’anni che non sempre aveva visto concordi Urbano VIII e l’imperatore. Il capitolo 5 prende in esame le più profonde implicazioni sottese ad un tema iconografico: la rappresentazione della figura di Sant’Agostino con i sandali ai piedi o scalzo non si limita infatti ad una mera disputa iconografica ma riflette una conflittualità interna all’ordine nel corso del XVII secolo. La posizione di Urbano VIII è, in questo caso, incerta, il conflitto messo temporaneamente da parte e la risoluzione demandata ai suoi successori. Affari che coinvolgono la persona del papa, usi di magia, dispute sull’astrologia, oroscopi sono al centro del capitolo 8 che illustra sia la vicenda dell’abate di Santa Prassede Orazio Morandi, autore di un oroscopo che prevedeva la morte del papa, sia quella più intricata di Giacinto Centini che, servendosi di pratiche negromantiche, voleva procurare la morte di Urbano VIII, assicurato da alcuni suoi complici che sarebbe poi stato eletto papa suo zio, il cardinale Felice Centini. Finiti i protagonisti ovviamente davanti alla forca, le vicende scatenarono una reazione contro l’astrologia che, in parte riprendeva quanto già emanato da Sisto V con la bolla Coeli et terrae, ma si collocavano in un contesto culturale ben diverso. Inoltre, sottolinea Rietbergen, erano esponenti di antichi ordini religiosi, Agostiniani e Francescani, i protagonisti di questi casi di magia. Meno istruiti dei nuovi ordini, come Oratoriani e Gesuiti, “must have reacted by turning to such means of power as black magic through astrology and witchcraft in order to retain their position, their power” (p. 366). Le ricerche presentate in questo ricco volume mostrano la ricchezza delle fonti esaminate dall’Autore: i codici barberiniani e l’archivio Barberini della Biblioteca Apostolica Vaticana. Tuttavia non può che sorprendere la povertà, anzi l’assenza totale di riferimenti bibliografici a studi recenti sui temi trattati. Le opere citate in nota, poche, in verità, sono obsolete, spesso espressione di una storiografia che considerava l’età barocca come il periodo buio della storia italiana e ancor più della Roma ‘papalina’ (non papale, attenzione!). Se è certo utile per gli studiosi presentare una raccolta saggi pubblicati in passato, spesso in volumi o riviste poco accessibili, sarebbe stato certo più utile, in questo caso, corredare il libro di un aggiornamento bibliografico: non sarebbero mancati i titoli da inserire, italiani e stranieri. Spiacciono in questo volume i numerosi errori tipografici e le imprecisioni nelle citazioni di nomi di luoghi e personaggi. Inoltre, un libro che insiste soprattutto sul valore e il significato politico 1_2011.indd 318 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 319 e culturale del messaggio artistico e iconografico appare fortemente depauperato dalla assoluta assenza di immagini. Irene Fosi Università “G.d’Annunzio” Chieti-Pescara Gerardo del Pozo Abejón, La Iglesia y la libertad religiosa, Biblioteca de Autores Cristianos, Madrid 2007, pp. xxxii-270 Cuando Johan B. Metz dirigió en la universidad de Münster la tesis de Antonio Murcia Santos sobre Obreros y obispos en el franquismo (publicada por Ediciones HOAC, Madrid 1995), aunque conocía las repercusiones políticas que el Vaticano II entrañaba, quedó atónito al ver el estallido de violencia que provocó en el catolicismo español, y no ya entre clericales y anticlericales, sino particularmente en las relaciones entre la jerarquía eclesiástica y los movimientos obreros católicos. Probablemente no hubo ningún país donde el impacto político del Concilio fuera tan considerable: el Estado, durante y después de la guerra civil 1936-1939, había manipulado la religión, y ahora la religión se revolvía contra el Estado como un boomerang. No fue, pues, en España, la libertad religiosa una cuestión meramente académica o una discusión teológica bizantina. Poco después de concluido el Vaticano II, un párroco me pidió que explicara a sus feligreses el decreto sobre la libertad religiosa, porque algunos habían entendido que ahora ya no era obligatorio ir a misa. España vivía entonces lo que se ha llamado “nacionalcatolicismo”, con la práctica religiosa impuesta desde el Estado. Un conocido humorista explicó por aquel entonces lo que le había ocurrido en los años cuarenta, recién terminada la guerra civil. Era oficial de complemento, y en el cuartel donde prestaba servicio llegó un nuevo reemplazo y les tomaban a todos los datos personales: nombre, apellidos, nombre de los padres, lugar y fecha de nacimiento... y religión. Todos decían “católica”, y se inscribía: “C.A.R.”, abreviatura de “Católica, Apostólica y Romana”. Hasta que llegó uno que contestó: “Ninguna”. El escribiente le preguntó si era protestante, y al responderle negativamente le dijo que había que tener alguna religión. El joven reiteró que no tenía ninguna. “Pero aquí hay que poner algo”, insistió el escribiente. Entonces dijo: “Ponga: la actual”. Referí esta anécdota en una conferencia y en el coloquio uno de los asistentes dijo que a él le había ocurrido algo parecido. Era algo más tarde, poco después del Concilio, pero el sistema nacionalcatólico seguía aún oficialmente vigente en España. También él declaró que no tenía ninguna religión, pero el escribiente, para evitar problemas, le dijo: “Si te parece, pondremos “C.A.R.” (que era 1_2011.indd 319 28-06-2011 12:12:25 320 Cr St 32 (2011) lo que ponían a todos). El recluta preguntó: “Y esto, ¿qué significa?”. El escribiente contestó: “En tu caso, significará: “Carece de Actividades Religiosas”. Con estas anécdotas no quisiera trivializar el tema de la libertad religiosa, ni menoscabar la seriedad de la obra que presentamos, sino simplemente poner de relieve el arraigo del problema a nivel del pueblo de Dios. Este estudio, en efecto, es sumamente riguroso y bien documentado. Baste decir que, además de consultar la oceánica bibliografía sobre el tema, el autor ha analizado directa y exhaustivamente la fuente principal, que son las voluminosas Acta Synodalia del Vaticano II. En unas palabras de presentación, Mons. Gerhard L. Müller, obispo de Ratisbona, recuerda el famoso discurso de Benedicto XVI a la Curia romana el 22 de diciembre de 2005 sobre las dos interpretaciones que se han dado de los documentos conciliares: la hermenéutica de la discontinuidad y de la ruptura y la de la renovación en la continuidad, y afirma que el libro del profesor Gerardo del Pozo es un ejemplo de la hermenéutica de renovación aplicada a la declaración Dignitatis humanae (en adelante DH) y muestra que las novedades de DH no contradicen la Tradición, sino que son coherentes con ella (pp. XII-XV). La obra se estructura en cuatro capítulos. El primero expone la historia de DH, desde los planteamientos a partir de la Segunda Guerra Mundial, la etapa preparatoria y la complicada elaboración del documento en el debate conciliar hasta los problemas de la recepción de DH, con especial referencia a España (liquidación del “nacionalcatolicismo”), Francia (caso de monseñor Lefebvre) y Alemania (autonomía cultural y política de los laicos). Aquí el autor disiente tajantemente de la explicación de Silvia Scatena en su óptimo estudio La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa del Vaticano II (Il Mulino, Bologna, 2003) sobre la tensión entre la genuina intención del Concilio y su plasmación incompleta en DH: “S. Scatena acierta cuando sostiene que hay que interpretar la DH a la luz de la intención de Juan XXIII al convocar e inaugurar el Concilio y de la renovación teológica contenida en documentos como la LG, la DV y la GS, o que la DH coincide con todos estos documentos en avanzar hacia una concepción teológica de la verdad no prioritariamente dogmática. Yerra, en cambio, cuando tiene en cuenta sólo un polo del programa entero de Juan XXIII”, que había propuesto al Concilio “transmitir la doctrina [tradicional de la Iglesia] en su pureza e integridad, sin atenuaciones ni deformaciones”. Según Del Pozo, “la profesión de fe en la religión verdadera y la única Iglesia de Cristo que subsiste en la Iglesia católica y en la obligación de todo hombre de buscar la verdad religiosa y de seguir la verdad encontrada” es algo previo al derecho de todo hombre a la libertad religiosa: “Es la declaración de la libertad religiosa la que tiene que ser interpretada, enraizada e integrada en la profesión de fe, y no al revés” (pp. 66-70). El cap. II (que cronológicamente debería haber precedido al cap. I) presenta las condenas de la libertad religiosa por sucesivos Papas a partir de la Revolución francesa,. El título del capítulo, “Los papas condenan el sistema de libertad de conciencia y de cultos derivado de la Declaración Francesa de 1789” es elocuente. Presenta primeramente el contexto histórico e ideológico de la Declaración de los derechos del hombre y del ciudadano, con su triple raíz: el iusnaturalismo racionalista e ilustrado, la constitución norteamericana y la intolerancia religiosa del Contrato social de J. J. Rousseau. Sigue la condena por Pío VI (Quod aliquantum, 1791) de la libertad omnímoda en 1_2011.indd 320 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 321 materia religiosa. Viene después el Mirari vos de Gregorio XVI (1832) que reitera la condena de la libertad omnímoda de conciencia y de la separación de Iglesia y Estado. Finalmente Pío IX con la Quanta cura y el Syllabus (1864) reitera las condenas de sus predecesores y proclama la imposibilidad de reconciliar la Iglesia con la civilización moderna. Como un contrapeso al capítulo anterior, tan negativo, en el siguiente capítulo presenta la doctrina de los papas modernos, creadores de la doctrina social y política de la Iglesia: León XIII (la verdadera libertad de conciencia), Pío XI (libertad de la Iglesia ante el totalitarismo, o mejor los totalitarismos), Pío XII (que defenderá la “sana laicidad”) y Juan XXIII defendiendo los derechos del hombre en su trascendental Pacem in terris (1963). Finalmente, en el cap. IV, “La Iglesia declara en el Vaticano II el derecho universal a la libertad religiosa civil”, sintetiza la doctrina del Concilio, desde la intención pastoral que presidió la decisión de Juan XXIII hasta los esfuerzos equilibristas de Pablo VI para su conclusión y aplicación. Analiza detalladamente el alcance de la libertad religiosa declarada en DH. El punto de partida fue la aspiración de los hombres de nuestro tiempo a la libertad religiosa civil e insiste en que el Concilio sacó su formulación “escrutando la Tradición y doctrina de la Iglesia”, para lo que invoca la doctrina de DV 8 sobre la Tradición apostólica que crece en la Iglesia. Presta gran atención a la evolución de la doctrina tradicional sobre las relaciones de la Iglesia con los poderes públicos y, pensando en el caso de España, insiste en el pasaje de DH sobre la posibilidad de dar reconocimiento civil especial a una comunidad religiosa en circunstancias particulares. “El objetivo de este trabajo – así empieza el autor sus “Conclusiones”, p. 255 – era explicar las novedades del Vaticano II sobre la libertad religiosa y verificar su afirmación de que no están en contradicción con la Tradición de la Iglesia, desarrollan la doctrina de los últimos papas sobre los derechos inviolables del hombre y la organización jurídica de la sociedad, y mantienen íntegra la doctrina tradicional católica sobre el deber moral de los individuos y sociedades respecto a la religión verdadera y la única Iglesia de Cristo”. Si éste era el objetivo del autor, el del recensionista será comprobar si se ha logrado aquel objetivo. Las conclusiones finales constan de dos apartados, algo difíciles de conciliar. En el primero el autor expone las grandes e innegables novedades de la DH con respecto a la doctrina anterior de la Iglesia. En el segundo trata de demostrar que estas novedades son coherentes con el magisterio pontificio anterior. Si la argumentación de la primera es muy sólida, la segunda no es del todo convincente. Era una tarea muy difícil, o más bien imposible, defender la coherencia o continuidad de DH con el Syllabus. No les faltaba razón a los cardenales y otros Padres de la minoría conservadora cuando acosaban a Pablo VI con el argumento, al que él era muy sensible, de que si permitía que se aprobara DH iría contra el magisterio de sus predecesores. Para el cardenal Ruffini, en este debate se ventilaba la vera religio. Esgrimieron este argumento de un modo especialmente enérgico un grupo de obispos españoles, que no sólo pensaban en la integridad de la fe sino también en el mantenimiento del régimen político de su país. Un caso emblemático fue el del cardenal Arriba y Castro, arzobispo de Tarragona. Un sacerdote que residía en el Colegio Español pudo oír una curiosa conversación entre los cardenales Arriba Castro y Bueno Monreal. El primero se mostraba escandalizado porque le parecía que algunos jóvenes obispos españoles profesaban 1_2011.indd 321 28-06-2011 12:12:25 322 Cr St 32 (2011) opiniones progresistas. El cardenal de Sevilla Bueno Monreal, navarro, famoso por su sentido del humor, le respondió: “No exageremos, Eminencia. Estos obispos jóvenes que le preocupan, en el seminario eran muy estudiosos y sacaron las mejores notas, como usted y yo. Eran también muy piadosos, como usted y yo. Después obtuvieron sus doctorados en la universidad de Comillas o en la Gregoriana con summa cum laude, como usted y yo. La diferencia es que ellos han continuado estudiando, y en cambio nosotros, reconozcámoslo, no hemos abierto un libro desde que terminamos la carrera”. Al conocer el proyecto de DH, Arriba y Castro comentó que era absolutamente imposible que el Espíritu Santo, que inspira los concilios, permitiera que fuera aprobado, porque era manifiestamente contrario al Magisterio, pero cuando una votación de tanteo mostró que una gran mayoría de los padres conciliares lo aceptaban, quedó anonadado. En el autobús, de regreso al Colegio Español, dijo que si el Concilio lo aprobaba, él también lo aceptaría, “pero esto no quita que hoy es el día más triste de mi vida”, y aquel día se retiró sin comer. Lo que se le hundía no era sólo su teología, la de los manuales escolásticos que había estudiado y que tenía por verdad eterna, sino también su idea de España. Otro caso significativo fue el del vasco Antonio Pildain Zapiain, obispo de Canarias. No era franquista como Arriba y Castro, sino antifalangista, nacionalista moderado y, como la mayoría de sacerdotes vascos, muy abierto en cuestiones sociales pero tirando a integrista en los dogmas y tenazmente opuesto a la libertad religiosa. Cuando el ministro español de Asuntos Exteriores, Castiella, por presiones diplomáticas de Estados Unidos y Gran Bretaña, preparó una ley que concedía una mínima libertad de culto a los protestantes, ordenó que en su diócesis los fieles, al final del santo rosario, añadieran un padrenuestro “para que fracase el proyecto Castiella”. En el aula vaticano se hizo aplaudir al reclamar que se suprimieran las tarifas de los servicios ministeriales, que por ejemplo graduaban en los entierros el número de sacerdotes según el precio. Pero al debatirse la libertad religiosa clamó patéticamente: “Ruat cupula sancti Petri super nos, caiga la cúpula de san Pedro sobre nosotros antes que aprobemos este documento!”. Cuando se aprobó, la cúpula no cayó, pero otro obispo vasco, Cirarda, refiere que encontró a Pildain llorando desconsoladamente en la capilla del Colegio Español. El embajador español ante el Vaticano, que tenía confidentes entre los obispos de su país, aseguraba que, contra lo que se decía en algunos medios, no eran ellos los más opuestos a la libertad religiosa, sino los italianos; los españoles estaban divididos, como se manifestó en una tumultuosa reunión en el Colegio Español. Pero esta minoría española era muy tenaz. Ante lo ocurrido en la llamada “semana negra”, cuando al final de la tercera sesión la anunciada votación de DH fue a última hora aplazada hasta la cuarta, informaba el 25 de noviembre de 1964 al ministro de Asuntos Exteriores: “En cuanto a la posición de los [obispos] españoles, puedo asegurar a V.E. que sólo una minoría de ellos (poco más de veinte) se adhirieron a la manobra iniciada por algún representante de la Curia para aplazar la votación de la libertad religiosa”. En 1965, después de aquella votación indicativa sobre la libertad religiosa, pocos días antes de la aprobación definitiva de la declaración Dignitatis humanae, este grupito de obispos españoles dirigió un escrito extenso y apasionado a Pablo VI pidiéndole que interviniera con su autoridad suprema para impedir que se pusiera a votación aquel documento. Le decían que ellos, hasta el último momento y en contra de la opinión 1_2011.indd 322 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 323 dominante en el Concilio, se habían mantenido tenazmente fieles a la tesis católica tradicional porque era la que la Santa Sede siempre les había ordenado defender. Añadían que, en España, romper aquella línea doctrinal sería motivo de escándalo: “Si éste [el decreto DH] prospera en el sentido en que ha sido hasta ahora orientado [y no como una concesión por oportunidad política], al terminar las tareas conciliares los obispos españoles volveremos a nuestras sedes como desautorizados por el concilio y con la autoridad mermada ante los fieles [...]. Todo esto, Beatísimo Padre, nos duele y nos preocupa: lo decimos con sinceridad y sencillez. Pero no nos arrepentimos de haber seguido ese camino. Preferimos habernos equivocado siguiendo los senderos que nos señalaban los Papas que haber acertado por otros derroteros.” Pero no dejaban de formular una amenaza de tipo político, aludiendo a que ellos, los obispos, acatarían DH, pero los gobernantes españoles tal vez tendrían una reacción negativa: “No podemos asegurar, en cambio, con tanta firmeza que esa misma sea la reacción de todos los católicos españoles, sobre todo de algunos de los que han dedicado sus mejores esfuerzos a los asuntos públicos. Estarán más o menos acertados en sus posturas acerca de problemas siempre contingentes, pero es indudable que en momentos en que la profesión de la fe católica exigía heroísmos, no vacilaron en mantener una actitud de constante defensa de la Iglesia. Ellos saben perfectamente que la orientación del Estado en lo relacionado con las materias que ahora se discuten fue exigencia de la Santa Sede; saben también que la fidelidad a esas directrices ha costado a España incomprensiones y animosidades internacionales y daños perceptibles incluso de orden material. El habérsele negado muchas ayudas económicas exteriores, precisamente en el momento en que su economía quebrantada por la guerra las necesitaba con urgencia, tuvo ésta como una de sus causas más decisivas [...]. Mucho es de temer que si ven que se condena doctrinalmente por el concilio una actitud y una norma de conducta que les fue impuesta por la Iglesia, se produzcan hondos sentimientos de desconfianza y hasta acaso de resentimiento contra la Sede Apostólica, que no superarán fácilmente en algunos sectores”. Pablo VI no vetó el documento y fue promulgado, pero el mismo 8 de diciembre de 1965 en que se clausuró el Concilio, el episcopado español hizo pública una declaración colectiva en la que decían que aunque algunos de ellos querían que se mantuviera la doctrina tradicional, aceptaban todos el documento promulgado, pero añadían que España era un caso especial y no había que cambiar nada: “Por eso la libertad [religiosa] no se opone ni a la confesionalidad del Estado ni a la unidad religiosa de una nación”. William J. Callahan, en su excelente obra La Iglesia católica en España (1875-2002) (Crítica, Barcelona, 2002), concluye que “hasta 1969, los veteranos miembros de la jerarquía [española] intentaron responder a las exigencias del concilio Vaticano tratando de preservar, al mismo tiempo, todo aquello que pudieran salvar de la privilegiada relación que la Iglesia mantenía con el régimen”. Termina su obra con esta casi profecía: “En el futuro es posible que la Iglesia tenga que abandonar el viejo sueño de una España católica en favor de una estrategia más limitada destinada a fortalecer su influencia religiosa sobre aquellos grupos selectos de la población en los que sus esfuerzos evangelizadores tengan algunas probabilidades de éxito” (p. 500). Al lado de la cuestión doctrinal, de si DH rompía con el magisterio supuestamente irreformable, se debatía, en el aula conciliar y fuera de ella, una cuestión de 1_2011.indd 323 28-06-2011 12:12:25 324 Cr St 32 (2011) conveniencia pastoral. Mons. Geraldo de Proença Sigaud, arzobispo de Diamantina (Brasil), alma del ultraconservador Coetus Internationalis Patrum, se declaraba convencido de que en un régimen político de cristiandad, o sea con un estado confesional, a Dios le resulta mucho más fácil salvar las almas: in societate revolutionaria (así calificaba él a la democracia) Deus animas piscat hamo (de una en una); in societate christiana (estado confesional) piscat rete (masivamente). Con más elegancia, pero en el fondo con igual criterio, Jean Daniélou, en su libro L’oraison, problème politique (Paris 1965), polemizando con el P. Jossua, sostenía que los fuertes, como el P. Jossua, podrían mantenerse fieles incluso en un clima político adverso, pero a muchos pobres cristianos no les basta con tener libertad religiosa, sino que necesitan que el estado los sostenga apartándolos del mal camino y empujándoles en la buena dirección. Ya dijimos al principio, en elogio del presente libro, el minucioso estudio que el autor ha realizado sobre la fuente principal, que son las Actas oficiales del Concilio. Pero aquí, de modo muy especial al tratar de DH, es donde se aprecia la utilidad del método empleado en la Storia del Concilio Vaticano II dirigida por el prof. Giuseppe Alberigo (Peeters/il Mulino, 1995-2001), que completa la documentación oficial con las memorias, diarios y correspondencia de los padres conciliares, peritos y otras personas, con lo que se puede reconstruir no sólo la génesis de los documentos sino la historia del acontecimiento conciliar. Nuestro autor, que traza con gran detalle la historia y contenido de los documentos pontificios del siglo XIX, refiere la elaboración de DH muy sucintamente, con escasas referencias a lo que ocurrió al margen del aula. Consecuente con su intento de afirmar tanto la novedad como la continuidad de DH, el autor insiste repetidamente en que el Concilio no sacó la doctrina de la libertad religiosa de la Declaración de los derechos del hombre de la asamblea francesa de 1789 ni de la Declaración universal de las Naciones Unidas de 1948, sino de sus propias fuentes normativas: la Sagrada Escritura y la teología tradicional. Los ponentes del proyecto conciliar apelaban a esta doble fuente, por encima del magisterio pontificio decimonónico y de los rancios manuales de teología preconciliares, pero es evidente que sin el impacto de aquellas dos declaraciones, y de una convicción general en la misma línea que alcanzaba aun a los creyentes (piénsese especialmente en los obispos norteamericanos, que necesitaban demostrar a la opinión pública de su país que la Iglesia católica no se opone a la libertad religiosa que la constitución americana proclama tan firmemente) difícilmente se habría llegado a la declaración conciliar. Sería más exacto admitir sin ambages la ruptura, e incluso una doble ruptura: la doctrina preconciliar opuesta a la libertad religiosa entrañaba una ruptura con la Sagrada Escritura y con los Padres de la Iglesia y la mejor escolástica, y DH supuso una ruptura con el magisterio inmediatamente anterior. Hilari Raguer Universitat de Barcelona 1_2011.indd 324 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 325 El modernismo a la vuelta de un siglo, ed. Santiago Casas, EUNSA, Pamplona 2008, pp. 316 Sulla copertina del libro campeggia la vignetta pubblicata nel 1922 dal disegnatore evangelico americano Ernest James Pace, raffigurante “the descent of the modernists” sulla scalinata che dal cristianesimo porta all’ateismo, attraverso i gradini della non infallibilità biblica, dell’asserita dissomiglianza fra l’uomo e Dio, della negazione di miracoli, nascita virginale, divinità di Gesù, redenzione, resurrezione e dell’agnosticismo. Pubblicato per le edizioni dell’Università di Navarra, il volume raccoglie i frutti della già avviata (cfr. p. 9) attività del curatore, lo storico Santiago Casas e del filosofo Cesar Izquierdo, noto specialista a livello internazionale del pensiero blondeliano – entrambi in forza all’Università di Pamplona –, che al loro lavoro hanno associato altri due docenti della casa, lo storico Josep-Ignasi Sarayana e l’esegeta Juan Luis Caballero, mons. Emmanuel Cabello, alcuni noti cultori del modernismo – i francesi Montagnes e Bedouelle, l’italiano Marangon –, un patrologo di Bonn, Ernst Dassmann, raccogliendo infine un testo poco noto di Xavier Zubiri e quello di un discorso ufficiale del cardinal Joseph Ratzinger. Nonostante il carattere composito, i contributi forniti al volume dagli autori ispanici, impostati secondo un punto di vista assai omogeneo (con qualche significativo distinguo da segnalare per il testo di Cabello), conferiscono sostanziale organicità a un’opera che fra tutti gli ambiti in cui il modernismo religioso si manifestò trascura soltanto – senza però dimenticarlo – lo spazio socio-culturale anglo-sassone. Nel dare quindi conto delle specificità dei vari contributi raccolti, ritengo sia qui opportuno in primo luogo presentare e vagliare soprattutto le tesi contenute nei saggi degli autori ispanici, per provare a fare pure più in generale il punto su quella che, secondo gli storici, ha costituito la maggior crisi dottrinale del cattolicesimo contemporaneo, la crisi modernista. Nella presentazione (pp. 11-22) del volume (in cui sarebbe stato opportuno modulare e precisare le troppo generiche affermazioni relative all’accostamento fra americanismo e nascita del Partito Popolare italiano e alla negazione della divinità di Gesù ne L’Evangile et l’église di Loisy), il curatore espone alcuni presupposti interpretativi generali individuando correttamente il fondo della crisi culminata nella condanna del modernismo – enunciata dall’enciclica Pascendi (1907) – nel sommarsi dei problemi relativi alla questione biblica, alle simpatie diffuse in Europa per l’americanismo e alla polemica sulla nuova apologetica non razionalistica. La crisi modernista vi risulta quindi spiegata come l’effetto dell’inadeguatezza circostanziale dell’insegnamento dottrinale cumulativamente sviluppato dal Magistero sino all’inizio del XX secolo, a cui avrebbero progressivamente rimediato gli sviluppi successivi, a partire dalla Divino afflante (1943) e, in maniera sostanziale, il Vaticano II. In tal senso, la crisi modernista sarebbe risultata una salutare “crisi di crescita”, faticosamente superata, secondo una chiave di lettura della storia ecclesiastica – di recente autorevolmente formulata da Benedetto XVI –, che pur ammettendo sviluppi e mutamenti, privilegia un’ermeneutica della continuità. Appropriandosi poi delle distinzioni formulate da Cesar Izquierdo in uno dei suoi tre contributi al volume, Casas Rabasa presenta il modernismo come un movimento d’opinione internazionale, in cui diffusi atteggiamenti e sensibilità, spesso in contrasto con 1_2011.indd 325 28-06-2011 12:12:25 326 Cr St 32 (2011) l’autorità dottrinale del tempo, solo in pochi casi – come effettivamente avvenne – giunsero a consumare una reale crisi, finendo coll’essere bollati come eterodossi. Anticipando sull’analisi più precisa che svolgerò del contributo di Izquierdo menzionato, ritengo utile rilevare subito che, dunque, secondo la prospettiva predominante nel volume, una “crisi modernista” vera e propria si sarebbe dunque consumata solo in pochi singoli, sia pur rilevanti, casi (Loisy, Tyrrell, Buonaiuti, Murri, Houtin, Turmel, Maud Petre) e che l’azione repressiva di Pio X, se non fu sempre e comunque adeguatamente proporzionata e fedelmente esercitata dai sottoposti, in buona sostanza risultò non solo decisiva, ma salutare. Se ne dovrebbe allora ricavare che le eminenti espressioni della modernità (la filosofia di matrice kantiana, lo scientismo positivista e la critica storica), giustamente individuate da Izquierdo e Santiago Casas quali ispiratrici di fondo del modernismo religioso e confluenti nella rivendicazione della libertà della coscienza individuale rispetto all’autorità dottrinale, sarebbero ormai state sostanzialmente metabolizzate dall’insegnamento cattolico e dunque, ne deduciamo, esse potrebbero dar oggi ancora luogo solo, al massimo, a sporadici casi-sintomo di un’inguaribile tendenza – propria di qualche orgoglioso intellettuale – ad inalberare il primato della coscienza individuale nei confronti dell’insegnamento ufficiale. Va quindi subito precisato che appare inadeguata la riduzione del senso della “crisi modernista” a semplice crisi di alcune anime singolari, particolarmente refrattarie al compromesso con l’autorità depositaria dell’ortodossia cattolica, ricordando invece che con tale sintagma, più in generale – e secondo un uso più consueto –, va indicato l’effetto del perdurante scontro fra una mentalità cattolica modellata dal concilio Tridentino e dal Vaticano I e quella, forgiatasi in contemporanea, di cui le tre sopracitate espressioni culturali costituiscono alcune delle più significative tendenze, tuttora diffuse, ben al di là di ristrette cerchie intellettuali. Inoltre, com’è stato osservato (da Poulat e Guasco), ritengo che non sia neppure del tutto corretto trattare il modernismo alla stregua di un movimento, perchè, se si può parlare di una mentalità modernista in senso lato, individuando in ambito cattolico quelle posizioni di apertura nei confronti della modernità – che per ragioni socio-politiche in Italia e più limitatamente in Francia, tovarono una certa diffusione oltre una ristretta cerchia di universitari ed ecclesiastici cattolici –, sarebbe invece più giusto parlare di gruppi e circoli modernisti, più o meno radicali, che mantennero fra loro relazioni dirette e indirette (incontri, scambi di riviste) essenzialmente disorganiche e i cui rappresentanti più originali intessero spesso fra loro relazioni polemiche (pubbliche e private), oltre che di collaborazione. Appare quindi improprio – come invece fanno Casas e Izquierdo (seguendo García De Haro) – ricorrere al termine di “movimento” in assenza di organizzazione e di condivisione di finalità definite fra persone che pur subirono e insieme effettivamente modellarono una stessa temperie culturale. Concordo dunque piuttosto con chi ha considerato l’elaborazione del modello del “modernista” schizzato nella Pascendi come in buona sostanza astratto, calato dall’alto su una realtà polimorfa per poter stigmatizzare gli scarti dottrinali e disciplinari e giustificare il conseguente esercizio censorio dell’autorità dottrinale. Se poi, a tal proposito, il senso del pontificato piano, come giustamente sostenuto da Casas, non risulta effettivamente riducibile a quello della lotta antimodernista, questa fu però certamente – fin dal 1903 – una delle linee guida dell’azione pastorale di Pio X, che si compose 1_2011.indd 326 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 327 perfettamente col più esteso programma di riforma pontificio, teso a rilanciare il paradigma ecclesiale tridentino. L’ampio articolo di Izquierdo a cui ci siamo già riferiti, proposto come introduzione a tutto il volume (pp. 25-81), è relativo proprio alla discussione storiografica sul senso del “modernismo”, da lui definito “teologico” e che andrebbe invece piuttosto definito “religioso”, per evitare possibili anacronismi conferenti alla dimensione teologica (naturalmente ben presente e rilevante nella crisi modernista) un valore necessariamente fondativo e principale, che la “regina delle scienze” aveva ormai iniziato decisamente a perdere e per ricordare l’attenzione che prestarono ai dibattiti allora in corso fra cattolici anche alcune personalità di spicco delle altre confessioni cristiane. In questo articolo, davvero essenziale per comprendere i presupposti di fondo che ispirano il volume, vengono espressi in modo icastico alcuni concetti già richiamati, come ad esempio la riduzione della crisi modernista a crisi di fede di alcune anime (perché “las ideas en sí mismas no experimentan crisis; en cambio las personas sí” e “autores modernistas, estrictamente, son aquellos que enfrentados a la alternativa ‘autoridad-libertad’ optaron por ésta última”). Quanto alla distinzione fra un modernismo semplice attitudine e un modernismo in senso stretto, fondato sul principio del primato della coscienza di fronte all’autorità dottrinale – che in qualche modo richiama la distinzione (di Bedeschi) fra modernismo moderato e modernismo radicale (dove quest’ultimo metteva in discussione l’interpretazione ufficiale del dogma), o le distinzioni basate su criteri sociologici (di Poulat) fra semplici novatori e modernisti veri e propri –, va apprezzata l’acuta distinzione formulata, che giustamente induce a considerare il caso di Blondel come un perfetto esempio di modernismo solo in senso lato. Non si può invece seguire Izquierdo quando, pur riconoscendo il carattere polimorfo e disorganico del modernismo, in base alla sua definizione di “movimento” (carente per i motivi già spiegati), finisce col considerare il modernismo come identificabile nel ritratto propostone dalla Pascendi e rifiuta categoricamente l’idea che l’attitudine mentale di Pio X nei confronti dei modernisti abbia potuto essere quella di una fondamentale incomprensione. L’asserzione di tale incomprensione, non necessariamente incompatibile col tentativo di ricostruire il profilo intellettuale del Pontefice, va invece riaffermata nel senso che, appunto, papa Sarto espresse in modo esemplare una mentalità inconciliabile e destinata allo scontro con quella dei modernisti. E’ infatti erroneo seguire, come fa Izquierdo, il datato giudizio di Ferdinand Mourret, secondo cui inizialmente papa Sarto sarebbe stato restio a formulare condanne contro il modernismo, perché com’è noto, fin dall’elezione al soglio pontificio Pio X condivise l’avversione dei cardinali francesi contro Loisy e ciò determinò subito la messa all’Indice di cinque libri del prete francese e poi, attraverso varie vicende, l’estensione del decreto Lamentabili (1907) e infine, la scomunica dell’esegeta e storico cattolico (1908). D’altronde, non va per questo neppure ipostatizzata una mentalità antimodernista, perché è giusto riconoscere che il fronte degli antimodernisti fu altrettanto variegato di quello antagonista e certamente, come afferma Izquierdo (e con lui Casas), l’azione di Benigni non può essere considerata l’applicazione esemplare delle direttive piane. Tuttavia – malgrado la mancanza del compiuto riconoscimento canonico per il Sodalizio Piano, che il Benigni ottenne a fatica solo parzialmente e in via interlocutoria – il sostegno materiale, il ripetuto 1_2011.indd 327 28-06-2011 12:12:25 328 Cr St 32 (2011) incoraggiamento morale manifestato da Pio X nei confronti dell’esigua rete creata dal prelato perugino, al cui servizio però il Papa fece ricorso e il ruolo, invece, molto ridimensionato del gruppo integrista – infine dissolto – durante il ponificato di Giacomo Della Chiesa, risultano tutti dati storici con cui a nostro avviso Izquierdo – sia pure in buona compagnia – fa troppo sommariamente i conti. Tanto vale a precisare anche circa la questione dell’atteggiamento di Benedetto XV nei confronti del modernismo; pur essendo vero, come nota Izquierdo, che naturalmente non risultano dichiarate esplicite smentite del proprio predecessore nel discorso ufficiale di papa Della Chiesa. In proposito, poi, anche se sulla base di ricerche personali posso concordare ancora circa la sostanziale continuità dell’atteggiamento mantenuto da Pio X e Leone XIII nei confronti dei modernisti, ritengo comunque si debbano sottolineare la cautela e le garanzie con cui fu condotto il processo censorio delle opere di Loisy nel corso del pontificato di papa Pecci, quando pure, come attestano le ricerche di Turvasi sulla Commissione Biblica, il Papa si mostrò ben disposto nei confronti dei consultori chiamati a far parte dell’istituzione, inizialmente a maggioranza di tendenza progressita, poi sopraffatti dai rappresentanti della tendenza più conservatrice durante il pontificato di Sarto, in particolare dopo il 1905, quando il segretario David Fleming fu sostituito da Laurent Janssens. Per meglio comprendere il senso dell’analisi storico-teologica dei due maggiori documenti dottrinali prodotti dal magistero durante la crisi modernista sviluppata da Izquierdo nella seconda parte del suo contributo introduttivo, mi soffermerò prima sull’ultima parte di esso. Qui, dopo aver formulato condivisibilissimi giudizi circa l’ambiguità del concetto di “modernità” (ma non si capisce perché sarebbe meglio preferire a esso la nozione di “età moderna”), l’autore giustifica – sia pur limitatamente alle ragioni espresse dall’“attitudine modernista” (e dunque parzialmente) – le esigenze di rinnovamento formulate durante la crisi modernista. Izquierdo procede sulla base di una personale opzione teologica corroborata pure da una cauzione offerta dalla distinzione formulata da Giovanni XXIII (nel suo famoso discorso dell’11 ottobre 1962, in apertura del Vaticano II) tra la verità eterna e le sue riformulazioni storiche (ma va pure ricordato che in quello stesso discorso papa Roncalli, oltre a mettere in gauardia contro le deviazioni della modernità, ne indicò anche le legittime esigenze e le valide opportunità, invitando a superare le “insinuazioni di anime, che pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura, le quali nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina e vanno dicendo che la nostra età a confronto con quelle passate, è andata peggiorando”). Sintetizzando quindi la prospettiva teologica dell’autore, direi che in essa la rivelazione appare identificata con un nucleo di insegnamentiazioni attualizzato dall’autorità dottrinale vigente, in base a cui risulta possibile discernere, in generale, tra le varie credenze e – sulla scorta delle indicazioni offerte da Benedetto XVI nel suo discorso di auguri alla Curia del 22 dicembre 2005 – pure del diverso valore dei documenti dottrinali del passato. L’autorità dottrinale vigente costituisce così il garante ultimo di una verità vivente che, altrimenti, un kantismo radicale risolto in soggettivismo assoluto, un approccio scientifico assolutizzato in scientismo e uno storicismo che espunge qualsiasi riferimento al sovrannaturale dal proprio campo di ricerca ridurrebbero a ipostasi mitica desacralizzata. Il cattolicesimo finisce così non solo col mantenere un’incompatibilità con gli esiti radicali della 1_2011.indd 328 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 329 modernità, ma assicurando pure la trasmissione della propria origine sacrale, con il Vaticano II avrebbe mostrato la capacità di rispondere positivamente alle esigenze manifestate dalla modernità con esso compatibili, sacrificate invece dall’autorità ancora al tempo della crisi modernista. Non obietto circa l’incompatibilità fra il cattolicesimo e un soggettivismo di tipo sostanzialmente autistico, o quella che si potrebbe definire una romantica metafisica della scienza; ritengo però, che come nell’ambito delle scienze naturali il lavoro dello scienziato debba rimanere sgombro da ipotesi estranee al piano dei fenomeni, così anche il lavoro dello storico debba esercitarsi saldamente entro i limiti di un sano ateismo metodologico; fermorestando che poi, come uomini, lo scienziato e lo storico possano dar libero corso ai propri pregiudizi credenti, confessando la propria fede, la quale a sua volta – come ha ricordato Benedetto XVI nella scia del suo predecessore (proprio nel dicorso a cui Izquierdo fa riferimento) – è adesione a una verità “che non può essere imposta dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo” solo per convincimento, nella libertà della coscienza (e dunque dovrebbe piuttosto essere l’eteronomia – intesa nel senso così solo ipotetico di un’eteronomia assoluta – a dover risultare un’impossibilità). Non appare perciò neppure pienamente condivisibile la valutazione positiva della critica mossa da Blondel nei confronti dell’autonomia scientifica della storiografia sostenuta (certo non sempre con adeguata consapevolezza) da Loisy. Rimandando su questo punto all’analisi del secondo contributo di Izquierdo al volume, dove la questione viene trattata estesamente, anticipo solo che, a mio parere, non va confusa la storia del cristianesimo, condotta con criterio critico (nel rifiuto di un’apologetica preconcetta e di miracolismi sensazionalistici), con una legittima interpretazione credente del suo stesso oggetto di studio, che a mio avviso andrebbe piuttosto definita “teologia della storia” (che ogni cristiano elabora, più o meno consapevolmente, in rapporto alla Chiesa e al mondo suoi contemporanei). Passando quindi a vedere come, sulla base della propria opzione teologica, Izquierdo proceda alla presentazione-valutazione del decreto Lamentabili e dell’enciclica Pascendi, dopo aver rilevato che la storia della redazione dei documenti risulta correttamente esposta secondo i risultati degli studi critici finora pubblicati, va segnalato come si indichino tra gli effetti prodotti dai documenti piani, oltre quello fondamentale di aver bloccato il diffondersi del modernismo (“es innegable que el movimiento modernista se detuvo y que el problema doctrinal desapareció”), anche alcuni non meglio precisati “efectos colaterales” (p. 68), che credo debbano andar intesi facendo riferimento al sinistro eufemismo ricavato dal gergo bellico, di uso purtroppo tanto ambiguo quanto frequente. Quindi, secondo Izquierdo, i due documenti dottrinali piani, in linea con la tradizione, ne mantengono la vigenza (“el testimonio de fe que, de una forma u otra, contienen ambos documentos y la respuesta que da a las cuestiones doctrinales, contaban con toda la fuerza de la tradición y mantienen su vigencia”), benché in alcuni punti mostrino i limiti delle circostanze in cui furono prodotti (“al lado de esas doctrinas, hay otras que responden más a la contigencia del momento que a la misma fe”), fra cui vengono indicati il rifiuto della critica testuale, le prese di posizione in ambito sociale, il giudizio negativo sul laicato, la critica della nuova apologetica blondeliana. In generale, quindi, entrambi i documenti e, naturalmente, soprattutto l’enciclica, conservano la loro validità lì dove enunciano verità che ancora oggi vengono proposte come verità 1_2011.indd 329 28-06-2011 12:12:25 330 Cr St 32 (2011) di fede, ma pure nel caso del decreto, benché “no todas [sus proposiciones] se sitúan en el nivel fundamental de la verdad de fe” (p. 47), “no es difícil [...] distinguir a la luz de la enseñanza posterior del magisterio las proposiciones que implican elementos dogmáticos de las que contienen enseñanzas con meno autoridad” (p. 49). Insomma, nella prospettiva adottata da Izquierdo, i documenti dottrinali piani non sarebbero solo testimonianze del passato ecclesiale, da consegnare allo studio della storia della teologia, ma documenti che, emendati e corretti sulla base del più recente insegnamento del Magistero, potrebbero ancora legittimamente servire a decidere del carattere ortodosso o meno di un’opinione dottrinale (e dunque, se ne può dedurre, a giustificare ancora oggi – nello spirito antimodernista d’antan – eventuali accuse di “modernismo”). Più interlocutorio il giudizio del teologo spagnolo sul pesante apparato disciplinare che consacrava l’istituzionalizzazione del sospetto predisposto dall’enciclica. Ma a riprova della sostanziale bontà dei documenti dottrinali piani, Izquierdo annovera tra gli effetti derivati il ritorno alla fede di rilevanti personalità del mondo intellettuale francese. Se non si intende però considerare questo dato di fatto facendo semplicemente riferimento a categorie agiografico-miracolistiche, proprie più a una visione provvidenzialistica (e non per questo meno legittima) che scientifica della storia, il giudizio in questione andrebbe meglio articolato approfondendo una riflessione a partire dai numerosi studi esistenti sul ruolo e sulla crisi d’identità vissuta dagli intellettuali che, all’inizio del XX secolo, si confrontavano alla massificazione di una società in cui veniva messo in discussione il valore della cultura letteraria. Quanto alla proposta di Péguy quale esempio del successo dell’azione dottrinale piana, riteniamo che vada precisato come nonostante l’esplicita presa di distanze del grande irregolare francese rispetto al modernismo critico-storico, il suo pensiero non possa essere immediatamente iscritto al campo degli anti-moderni come Maritain e Psichari; ne fanno fede la fiducia di Péguy nella capacità di miglioramento dell’umanità, la sua difesa della filosofia cartesiana e bergsoniana contro il tomismo e l’accoglienza che alla sua opera letteraria fu presto data da Paul Archambault sulle colonne delle “Annales de philosophie chrétienne”, poco prima della loro soppressione seguita alla messa all’indice del 1913 e delle altre pesanti disposizioni censorie che colpirono il loro principale responsabile, l’oratoriano Laberthonnière. Relativamente al campo ecclesiastico, Izquierdo sostiene che più che rimproverare all’azione piana l’allontanamento di giovani forze intellettuali dai ranghi del clero, le andrebbe attribuito il merito di aver fatto chiarezza sui casi di alcune rilevanti personalità, irrecuperabili all’ortodossia. Ora, se l’allontanamento, con effetti personali talvolta anche drammatici, di tanti giovani seminaristi e professori di seminario sospetti di modernismo costituisce un oggetto di studio da approfondire sulla scia dei lavori di Guasco e di Vian, ritengo tuttavia che la riproposizione della tesi secondo cui Loisy avrebbe – non si sa per quale inconfessato interesse – nascosto sino alla scomunica una perdita della fede maturata già negli anni di studio in seminario, non possa reggere dopo le analisi approfondite da ormai di mezzo secolo da Poulat relative alla tormentata storia spirituale dell’esegeta modernista – critico e mistico –, sulla cui crisi del 1904, evocata da Izquierdo, influì certamente proprio la messa all’indice delle opere (1903) e la minaccia di scomunica in caso di non ritrattazione degli errori in esse individuati. Quanto all’Istituto Biblico, sorto nel 1909, ma 1_2011.indd 330 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 331 in qualche modo in progetto già alla fine del pontificato leonino, Rogert Aubert ha mostrato come esso non vada confuso con l’istituzione prevista dall’enciclica Pascendi per promuovere la scienza e la cultura, miseramente naufragata nel 1908 per l’impossibilità di conciliare l’intransigenza di Pio X e le tendenze dei cardinali preposti alla sua fondazione: Rampolla, Mercier e Maffi. È infine innegabile che, a fronte dei numerosi giornali e riviste soppressi per motivi dottrinali durante la crisi modernista (dato, questo, che pur andrebbe ricordato), si registrò anche la nascita di riviste, oggi ormai prestigiose, che con la loro moderazione riuscirono a creare nel cattolicesimo un’atmosfera meno tesa e ad aiutare un’evoluzione di mentalità. Proprio alle posizioni espresse in tali riviste definibili novatrici, ma non moderniste in senso proprio, si possono avvicinare, si è detto, quelle espresse sul piano filosofico da Maurice Blondel, al cui confronto con Loisy Izquierdo consacra lo studio (pp. 111-145) contenuto nella sezione del volume centrata intorno all’opera dell’esegeta modernista. Si tratta di un luogo ormai topico della storiografia, che recentemente François Laplanche e Rosanna Ciappa hanno provato a rivisitare mostrando le possibili ragioni di Loisy, a fronte di una vastissima produzione “pro-blondeliana”, che ha avuto in Italia il suo autorevole antesignano in Giovanni Gentile. Per presentare il progressivo orientamento di Blondel seguito alla lettura de L’Evangile et l’église, prima di trattare lo scambio epistolare diretto che il grande filosofo ebbe con Loisy, Izquierdo utilizza con chiarezza ed efficacia la ricca bibliografia relativa alle altre corrispondenze tenute da Blondel; solo lo studio dello scambio con Laberthonnière appare un po’ meno convincente perché, come si ricava pure dalle citazioni riportate, questi considerò l’accusa rivolta contro l’esegeta di aver negato la divinità del Cristo come essenzialmente basata su di un fraintendimento. Izquierdo ricorda così come Blondel molto presto fu insoddisfatto dell’assunto metodico adottato da Loisy e dei risvolti cristologici connessi. Certamente, se Loisy – pur non ignorandole – non fu adeguatamente consapevole delle componenti esistenziali (e dunque ideologiche) inevitabilmente connesse alla pratica storiografica ed esegetica (questo è certo il limite di ogni positivismo), neppure però ritengo debba considerarsi adeguata la proposta di Blondel di sopperire ai limiti che ne derivavano per la conoscenza storica attraverso il ricorso alla tradizione vivente. Infatti, se Blondel fu più di Loisy consapevole di tali limiti, intrinseci ad ogni operazione storiografica (data, tra l’altro, la conoscenza che il filosofo aveva della trattazione che del problema aveva già offerto Sécretan), Blondel ne dedusse, in ultima analisi, la necessità di sovradeterminare il ruolo della filosofia e della teologia rispetto alla storia, a scapito, ad esempio, del rispetto di un suo indispensabile presupposto metodologico che è il rifiuto degli anacronismi. Quella, infatti, che nella prospettiva di Blondel era la Storia reale – con una “s” maiuscola – è infatti finalmente solo l’oggetto di un sapere identificabile come teologia e filosofia della storia, che impone all’epistemologia della scienza storica l’assunzione della realtà del sovrannaturale quale presupposto, se non obbligatorio, almeno plausibile. La scienza storica, invece, cresciuta in Francia in un ambito istituzionale laico, per sua natura agnostica, è caratterizzata dall’adozione di un sano ateismo metodologico (questa tutta la verità, relativa, del positivismo). Con tale scienza, con il suo metodo e i suoi risultati, potrà poi venire a patti la coscienza del singolo storico che, come uomo, rielaborando personalmente i contenuti della tradizione ecclesiale, può, o 1_2011.indd 331 28-06-2011 12:12:25 332 Cr St 32 (2011) meno, riconoscersi come credente, senza comunque neppure poter mai ignorare, in tale processo di auto-riconoscimento, l’inevitabilità del vaglio dello sguardo d’altri, tanto più quando, come nel cattolicesimo, risulta legittimato il potere istituzionale di un altro a stabilire se il riconoscimento operato dalla coscienza del fedele sia adeguato o meno, che è poi proprio quello che accadde a Loisy, a Tyrrell, a Buonaiuti e ad altri modernisti. Il terzo contributo di Izquierdo al volume (pp. 285-297) è relativo al contesto ispanico al tempo della crisi modernista, in cui, come risulta dagli studi di Alfonso Botti, solo alcune personalità (invero, pure ecclesiastiche) furono sensibili ai problemi religiosi dibattuti in Europa, ma non si registrò una tendenza all’associazione in riviste e cenacoli e comunque, paradossalmente, la Pascendi suscitò una fiorente letteratura animodernista. In particolare, Izquierdo invita ad approfondire lo studio del ruolo giocato da alcuni intelletuali laici, protagonisti come Antonio Machado del modernismo letterario, nel dibattito religioso del tempo. Risulta così confermato che negli ambienti anticlericali ispanici, ispirati dal pensiero krauseano, si registrò attenzione e interesse per la produzione modernista francese e italiana. Il saggio di Emmanuel Cabello (pp. 245-260), anch’esso incluso nella sezione relativa ai risvolti letterari del modernismo religioso, presenta qualche sensibile originalità rispetto all’insieme degli altri contributi degli autori ispanici. Ne fa fede la lunga nota conclusiva al testo; in essa, indicando affinità fra i contenuti espressi dai documenti dottrinali antimodernisti di Pio X e la recente produzione teologica di Ratzinger, pur modulando il proprio giudizio con opportuna cautela a proposito della distinzione fra il nostro contesto storico e quello della crisi d’inizio Novecento (modulazione che andrebbe meglio esplicitata con qualche esemplificazione), Cabello sostiene chiaramente che tale crisi è ancora viva e aperta: “Durante los cien años que nos separan de la crisis modernista, ha corrido mucha agua bajo los puentes de la Iglesia, con los desarrollos filosóficos y teólogicos de la neoscolástica y de la nouvelle théologie, con el Concilio Vaticano II y la profunda crisis doctrinal posterior, y con el abundante magisterio pontificio de las últimas décadas. Sería, por tanto, exagerado juzgar que la situación teológica actual es idéntica a la de la crisis modernista. Sin embargo, no es preciso forzar los textos para afirmar que encontramos en los autorizados diagnósticos de J.Ratzinger-Benedicto XVI [...] los mismos dos puntos esenciales que la encíclica Pascendi señala para denunciar el modernismo [...]. Podemos decir, por tanto, que la teólogia católica aún no ha salido del impasse en el que fue introducida por la crisis modernista”. Pur ritenendo che con altrettanta cautela si dovrebbe meglio distinguere tra la teologia espressa nei documenti antimodernisti di Pio X e quella contenuta nella produzione ratzingeriana, come detto, ritengo che il giudizio di Cabello sull’attualità della crisi modernista non sia del tutto infondato. Oltre a questa sensibile originalità, nel contributo preso in esame va segnalato che pure a proposito di un altro problema sollevato nel volume, Cabello non risulta in completa sintonia con gli altri autori ispanici; pur non arrivando infatti a mettere in discussione l’ortodossia cattolica di Blondel, sempre in una nota (pp. 257-258), Cabello non esita però a giudicare come insufficiente l’apologetica fondata sul metodo d’immanenza. Secondo lui, infatti, essa andrebbe integrata alla tradizionale esposizione dei motivi di credibilità, a partire da una posizione che, probabilmente, Blondel stesso non avrebbe esitato a definire “estrin- 1_2011.indd 332 28-06-2011 12:12:25 Recensioni 333 secista”. Per il resto, nel suo saggio Cabello non fa che ritrovare nel romanzo Jean Barois (1913) del premio Nobel 1937 per la letteratura Roger Matin du Gard (allievo in gioventù di Marcel Hébert, un cui testo fu tenuto presente dal romanziere nella redazione dell’opera, la cui pubblicazione diede pure seguito a uno scambio di vedute con il vecchio maestro) gli stessi errori condannati dalla Pascendi e professati da Hébert e da Loisy; se però il confronto con quest’ultimo può essere convincente relativamente alla discussione della teoria dell’origine sentimentale della religione, non lo risulta relativamente a quella del rapporto fra la coscienza dello storico e quella del credente, a cui ho già accennato. Attenersi al metodo di ricerca storicocritico non significa infatti dover definitivamente confinare la professione di fede al privato, murandola nel foro interno, ma solo evitare inadeguate sovrapposizioni di piani, inopportune confusioni tra il registro del discorso della fede e quello del sapere. Uno degli elementi che permette di misurare la distanza del contesto attuale dalla pesante temperie che pesava sugli studi cattolici, soprattutto all’inizio, ma anche durante tutta la prima metà del XX secolo, può essere trovato nello studio di Juan Luis Caballero (pp. 167-182). Adottando una periodizzazione corrente per la storia dell’esegesi cattolica contemporanea, l’autore presenta i responsi della Pontificia Commissione Biblica soffermandosi in particolare sul suo primo periodo di attività, dal 1905 al 1939, quello che corrisponde appunto all’epoca della stretta guardia antimodernista, esercitata mediante la nutrita serie di decisioni maturate specialmente durante il pontificato di papa Sarto e interrotta solo con l’avvio del segretariato di J. M. Vosté, allievo di Lagrange, all’inizio del pontificato di Pio XII. Caballero introduce adeguatamente il suo studio richiamando e sintetizzando l’enciclica Providentissimus del 1893, mentre ritengo che avrebbe dovuto meglio sottolineare lo scarto – sopra già segnalato – all’inizio della storia dell’istituzione, fra l’avvio durante il pontificato leonino e sino alla fine del segretariato di Fleming (1905) e gli sviluppi successivi, appunto nel corso del pontificato piano. Facendo ancora riferimento a Joseph Ratzinger, Caballero ripropone la classica dottrina accreditata a partire dall’epoca del pontificato Pacelli, per cui – contro le indicazioni fornite sotto il pontificato di Pio X – le risposte della Commissione Biblica del periodo 1905-1939, costituendo in alcuni casi una vera e propria inflazione del Magistero, vanno piuttosto intese come indicazioni e giudizi la cui validità ha essenzialmente avuto un valore temporalmente circoscritto. Il testo dell’attuale Pontefice tradotto e proposto per esteso nel volume (pp. 183192) – quello a cui Caballero fa riferimento nel suo articolo – riproduce il discorso pronunciato nel 1993, in occasione del centenario dell’istituzione della Pontificia Commissione Biblica, dal suo Presidente, l’allora Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, cardinal Joseph Ratzinger. Evocando gli studi giovanili che lo portarono a imbattersi con testi e maestri tedeschi che avevano sofferto di una condanna pronunciata nel 1912 dalla Congregazione Concistoriale (saldamente in mano al cardinal De Lai, stretto collaboratore del conterraneo papa Sarto e acceso antimodernista), Ratzinger distinse appunto fra un primo lungo periodo in cui, con i responsi della Commissione Biblica, si produsse un’inflazione del Magistero, accompagnata dall’eccessiva restrizione dello spazio necessario alle ricerche degli esegeti (p. 189); anzi, egli ricordò come alcune decisioni della Commissione siano 1_2011.indd 333 28-06-2011 12:12:26 334 Cr St 32 (2011) state successivamente corrette (p. 191) e, in particolare, la fortuna riscossa anche fra i cattolici dalla teoria delle due fonti dei Sinottici (p. 184), bandita dalla Commissione proprio nel 1912. Pertanto, nella sua conclusione, l’allora Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede espresse riconoscenza per le aperture maturate in ambito esegetico col Concilio Vaticano II, quali frutto di lunghe faticose ricerche (p. 192). Naturalmente Ratzinger non rinunciò ad affermare la responsabiltà del Magistero rispetto alla libertà di ricerca, in ambito storico-esegetico e anche, più in generale, sul piano scientifico, rifiutando l’idea che nella Chiesa possano essere ammessi tutti gli insegnamenti, ma riconoscendo pure che anche rispetto alla fondamentale relazione tra fede e storia ci sarà sempre spazio per la discussione (pp. 190-191) e che se il realismo cristiano esige costitutivamente il riferimento ad alcuni dati dogmatici (nascita verginale, istituzione dell’Eucaristia, resurrezione) – perché, per la fede, un Dio che non può intervenire nella storia e mostrarsi in essa non è il Dio biblico –, comunque, molte questioni devono rimanere aperte nei loro particolari (p. 191). Facendo quindi riferimento a quella particolare riformulazione contemporanea della gnoseologia kantiana che è il principio di indeterminazione di Heisenberg, Ratzinger denunciò giustamente i limiti di un ingenuo storicismo positivistico (ibid.), stigmatizzandolo come gnosticismo (ibid.). Veicolo e insieme risultato di una plurimillenaria vicenda di fedi, per tale suo intrinseco carattere la Bibbia legittima così pienamente l’approccio interpretativo teologico, fermorestando il valore del contributo che a tale approccio viene fornito dallo studio storico-critico del libro dei libri e della storia di cui esso è, allo stesso tempo, vettore e prodotto. Nel saggio conclusivo, a firma di Josep-Ignasi Saranyana (pp. 301-312), viene ribadita in chiave essenzialmente ideologica, più che attraverso puntuali riscontri, la linea interpretativa del fenomeno modernista svolta nei contributi che conferiscono un tono omogeneo di fondo al volume. Infatti, anche secondo Saranyana, avendo il Vaticano I sostanzialmente lasciato indeterminato il senso del rapporto fra rivelazione, libri sacri e tradizione, precisato poi col Vaticano II (un concilio in cui, si afferma, i due pontefici patrocinanti seppero imprimere un rinnovamento della tradizione nel rispetto di una sostanziale continuità) e sopratutto con l’interpretazione decisiva offertane da Ratzinger (che ha individuato il senso della Parola con quello espresso in una lunga storia ancora aperta), la risposta precocemente avanzata dal modernismo (massivamente e dunque semplicisticamente identificato con la dottrina condannata dalla Pascendi) peccò per aver operato uno strappo nella tradizione, cercandone piuttosto la “rifondazione” che la “riforma”. Pio X avrebbe perciò avuto ragione a condannare una nuova “gnosi”, un pensiero fondamentalmente filosofico, inadeguato rispetto alla teologia successivamente maturata nel campo cattolico nel corso del Novecento. Ora, non dovendo qui valutare più in dettaglio il senso dell’operato dei pontefici che rispettivamente indissero e portarono a termine il Vaticano II e limitandomi su questo punto a indicare che i riscontri storici mi sembrano poter offrire appiglio alla tesi di Saranyana per quanto riguarda l’azione conciliare di Paolo VI, ma non per quella di Giovanni XXIII, ritengo di dover ribadire l’inadeguatezza di una sua scelta storiografica che intende assimilare l’ampio ventaglio di idee che ispirarono la temperie modernista – sfaccettata e persino contraddittoria al suo interno – con il modello di modernismo proposto dalla Pascendi (vera e propria eresia fantasma), strumento prescelto dal Papa e dai rappresentanti 1_2011.indd 334 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 335 dell’intransigenza curiale per poter agevolmente procedere a disciplinare scarti dottrinali (più o meno ortodossi alla luce dello sviluppo dell’autocomprensione ufficiale del cattolicesimo contemporaneo), anche con pesanti conseguenze di carattere personale per i chierici coinvolti nella repressione, il cui principale riferimento filosofico risulta oggi autorevolmente insegnato nelle università cattoliche di mezzo mondo; che la filosofia di Blondel non sia identificabile al sistema dell’immanenza condannato dall’enciclica del 1907 è un dato, infatti, che – faticosamente compreso dai cattolici nel corso del Novecento – oggi solo pochissimi ancora si ostinano a non voler riconoscere. Presupponendo l’identificazione del carattere distintivo del cattolicesimo con l’allineamento alle direttive dell’autorità gerarchica vigente, i contributi sin qui presi in esame appaiono sintomatici dell’attuale panorama culturale ecclesiale, tanto più che le tesi in essi espresse appaiono finanche moderate rispetto a quelle formulate dai curatori dell’ultima traduzione italiana dell’enciclica Pascendi (un vescovo e un docente di un’università statale italiana, dotati di autorevole ascolto fra le accademie pontificie romane); una riprova, a nostro parere, quest’ultima, dell’interesse che ancora possiede lo studio storico di un oggetto, se non più incandescente, certo ancor lungi dal fare l’unanimità, quale è la crisi modernista d’inizio Novecento. Soffermandomi infine sui contenuti espressi negli altri saggi contenuti nel volume, nella sezione relativa all’opera di Loisy, va in primo luogo segnalato lo studio di Guy Bedouelle (pp. 147-164) sugli interventi critici di alcuni ecclesiastici francofoni relativamente al dibattito cristologico sollevato dai lavori di Loisy, in un certo senso conclusosi nel 1907 con la condanna pronunciata dal decreto Lamentabili in (particolare in) sette proposizioni (dalla 27a alla 30a – e non dalla 22a, come invece si legge per una chiara svista tipografica – insieme alla 32a, la 34a e la 35a), di cui invero, non solo della 27a, ma anche della 29a – come indicò Loisy stesso nelle Simples refléxions del 1908 – è lecito dubitare la conformità al pensiero proprio dell’Esegeta, senza considerare poi che la 30a e la 32a risultano una riproposizione di testi di Loisy in forma esagerata. Bedouelle propone così una rilettura di alcuni intereventi di Lagrange OP, Batiffol, Pègues OP, Barenton Ofm cap., Monchamp, Fontaine SJ, de Grandmaison SJ e Prat SJ, sottolineando opportunamente le specificità di ognuno e, com’è noto, l’inasprimento dei toni soprattutto dopo la pubblicazione di Autour d’un petit livre (1903), quando già frequentemente e facilmente era stata pronunciata l’accusa di eresia, variamente specificata come “arianismo”, o “adozionismo” etc. Prendendo quindi spunto da un’esclamazione di Pierre Bouvier SJ – che non fu un semplice critico di Loisy nell’agone pubblico, ma che giocò pure un ruolo di un certo rilievo nel processo che condusse alla redazione del decreto Lamentabili –, Bedouelle legge in tale pubblicistica il “grito de dolor” (p. 163) di una fede ferita. Effettivamente, i testi e gli autori citati, pur assai diversi fra loro, sono espressioni di mentalità diffuse fra i cattolici del tempo, altrettanto e forse più di quella di chi si riconosceva nelle tesi e nei problemi sollevati dai modernisti, ma che soprattutto, appunto, trovarono maggiore e più fortunato ascolto presso coloro che a Roma riuscirono a imporre le tesi dell’ortodossia, come lo stesso Loisy dovette prendere infine atto. In particolare al rapporto fra Loisy e l’altro grande esegeta cattolico francese suo contemporaneo, Joseph-Marie Lagrange, è dedicato lo studio dell’indiscusso 1_2011.indd 335 28-06-2011 12:12:26 336 Cr St 32 (2011) specialista del grande biblista domenicano, Bernard Montagnes (pp. 193-213). Sospetto e ripetutamente denunciato a Roma per idee che mettevano in discussione risultati e metodi della tradizionale esegesi cattolica veterotestamentaria, ma a differenza di Loisy convinto assertore che il lavoro esegetico andasse svolto senza troppo ardite sollecitazioni dogmatiche, pur subendo la condanna di alcuni scritti, Lagrange non patì delle sanzioni amministrate a Loisy e sopportò con abnegazione i trattamenti riservatigli, tanto che, come ricorda Montagnes, la sua dolorosa vicenda è stata recentemente presentata da Giovanni Paolo II come un infortunio nella storia della Chiesa. In particolare Montagnes mostra come Lagrange sostenne con accortezza, ma anche con determinazione, i diritti del metodo storico-critico e insieme i sui limiti rispetto agli elementi propri del Mistero, contro teologi che come Billot – uno dei maggiori artefici della rovina di Loisy a Roma – si vantavano di lasciare i propri allievi all’oscuro della questione biblica e rifiutavano l’idea che si potessero individuare diversi generi letterari nei testi biblici al di fuori di quello “rivelato”, o come Thomas Pègues, la cui ostilità per la disponibilità di Lagrange e Batiffol a mettere in discussione la storicità di qualche racconto biblico (e quindi per questo considerati pericolosi apripista del più radicale Loisy) dipese pure dalle critiche ricevute per l’infelice difesa svolta sul piano storico-empirico delle fandonie di un impostore che nel 1896 aveva preteso di poter svelare l’identità di colei che la massoneria francese avrebbe adorato come figlia del diavolo. Il testo di Xavier Zubiri presentato nel volume (pp. 215-220) è il necrologio pubblicato per la prima volta su di una rivista francese che il filosofo spagnolo redasse nel 1938, proprio per la morte di Lagrange. Ricollegando la lezione del grande esegeta domenicano alla “tradizione viva” che sul finire del pontificato leonino intervenne a correggere i tradizionalismi del XIX secolo, espressioni piuttosto di un oblio dell’autentico passato cristiano, Zubiri apprezzò soprattutto la teoria dell’ispirazione biblica di Lagrange, intesa come mozione esercitata da Dio sulle facoltà dell’autore umano perché scrivesse secondo le intenzioni divine, opposta alla teoria di Franzelin, che aveva finito coll’assimilare ispirazione e rivelazione; per cui nella prospettiva di Lagrange risultava essenziale lo studio grammaticale e quello del genere letterario dei testi biblici, senza che allo stesso tempo finisse sacrificato il diritto a interpretare le Scritture rivendicato dalla tradizione ecclesiastica, dato che il Domenicano riconobbe la Bibbia come portato del milieu costituito proprio dalla Chiesa nel suo evolvere storico. Il primo contributo di Ernst Dassmann al volume (pp. 85-109) è relativo alla figura di von Harnack, fra i principali esponenti del protestantesimo liberale, i cui contributi hanno segnato in profondità gli studi storici e le cui tesi sull’evoluzione storica del cristianesimo costituirono un obiettivo polemico pure per il protestantesimo ortodosso, con cui Harnack dovette in qualche modo fare i conti anche in privato, affrontando gli amari rimproveri paterni. Mostrando le differenze fra quella monumentale opera del genio giovanile che fu la Dogmengeschichte e la notissima operetta sul Wesen des Christentums, in cui furono riportate alcune lezioni berlinesi dell’ormai affermato universitario e in cui i suoi presupposti teologici (anti-cattolici: ellenizzazione e istituzionalizzazione degeneranti) si manifestarono in maniera più scoperta, richiamando il giudizio già espresso in proposito da Troeltsch, Dassmann riconosce il valore della critiche che furono indirizzate da Loisy a partire dal punto 1_2011.indd 336 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 337 di vista cattolico. Dassmann mette però anche più in generale in guardia contro ogni tentativo esegetico che, sulle tracce di Lutero, si affanni alla ricerca di un “canone del canone”; ritengo che vada quindi detto che se, in effetti, il lavoro filologico comporta sempre una dimensione ipotetica che impone all’esegeta di restare aperto al confronto e alle critiche, sarebbe però ingenuo, da un lato, trascurare il carattere composito delle Scritture come dato problematico e, dall’altro, pretendere di studiare storicamente la figura di Gesù per produrne una biografia elaborata sulla sola base degli scritti neotestamentari presi in blocco; le testimonianze esterne a riguardo, come ricorda Dassmann, sono certamente esigue, ma ciò non toglie che una ricerca avvertita, come quella proposta da John Paul Meier, abbia prodotto risultati notevoli. Nel contributo (pp. 261-284) sul patrologo tedesco Joseph Wittig (1879-1949) – amato maestro di Hubert Jedin –, dopo aver svolto alcune intelligenti osservazioni sulla difficoltà a definire il modernismo dal punto di vista concettuale e spaziotemporale, utilizzando la recente ricca letteratura tedesca sulla crisi modernista (di cui ricordo qui solo i contibuti di Otto Weiss e di Claus Arnold), Dassmann ricostruisce la vicenda che vide Wittig impegnato a proporre i contenuti cristiani attraverso strumenti letterari già stigmatizzati in Germania come veicolo di errori modernisti. A partire dal 1922 alcuni testi di Wittig sui danni pastorali prodotti dalla teologia scolastica del peccato, la sua concezione della Chiesa – che dopo il Vaticano II correrebbero ormai liberi da sospetti d’eresia – produssero una serie di critiche e sanzioni culminate con la scomunica del 1926 (dopo che Wittig aveva rifiutato di ripresentare il giuramento antimodernista, a cui riteneva di esser rimasto fedele) che però, vent’anni dopo, fu ritirata senza che fosse stata fatta richiesta dall’interessato, il quale aveva intanto in privato continuato a considerarsi cattolico. Seguendo Ireneo di Lione, Dassmann ricava dalla vicenda indicazioni per concludere sul fatto che, per sua natura, il cristianesimo ha in generale (e, in particolare, dopo l’Illuminismo) condotto a frenare e a sanzionare le novità dottrinali escogitate da coloro che, pur animati da buone intenzioni, intesero fare i conti con le esigenze dei loro contemporanei, risultando pure talvolta, col senno di poi, strumento di fecondo sviluppo. Personalmente, dalla vicenda di Wittig mi limiterei a ricavare un’utile indicazione per sostenere un’ipotesi di cronologia della crisi modernista, la cui fase critica coincide col pontificato di Pio X e il cui termine a quo può essere individuato nel 1893 (Congresso delle religioni a Chicago, rimozione di Loisy dall’insegnamento di Sacre Scritture all’Institut Catholique de Paris, pubblicazione dell’enciclica Providentissimus e de L’Action di Blondel) e quello ad quem nella seconda guerra mondiale: da quando cioé la guardia antimodernista andò organizzando argomenti e pratiche repressive, sino al momento in cui venne finalmente fatto posto adeguato al metodo storico-critico e ad alcuni suoi risultati (soprattutto in ambito veterotestamentario) nell’ambito dell’esegesi cattolica, allorché il confronto con la filosofia contemporanea (non solo quella blondeliana) iniziò a produrre effetti rilevanti nella produzione teologica ecclesiale (con immancabili contraccolpi) e una parte rilevante dell’opinione colta anche cattolica assunse il personalismo – un pensiero sottratto ai controlli accademici – come riferimento nel confronto con l’esistenzialismo ateo ed il marxismo; quando, insomma, in un mutato contesto geo-politico, le grandi democrazie occidentali divennero interlocutrici privilegiate per la Chiesa, avviando 1_2011.indd 337 28-06-2011 12:12:26 338 Cr St 32 (2011) così un nuovo percorso, lungo e accidentato, in cui il Vaticano II avrebbe segnato un passaggio rilevante e che, per certi versi, risulta ancora aperto. Sull’opera che costituì il manifesto internazionale del modernismo, il romanzo Il Santo di Antonio Fogazzaro, tradotto con grande successo in numerose lingue del mondo, interviene il contributo di Paolo Marangon (pp. 223-243), autore di importanti studi su questo stesso soggetto. In questo articolo, riferendosi al materiale preparatorio dell’opera letteraria e alla corrispondenza privata di Fogazzaro, Marangon mostra efficacemente l’incompatibilità delle mentalità di due figli del cattolicesimo veneto: Fogazzaro, erede del liberalismo cattolico e del conciliatorismo e Giuseppe Sarto, venuto dalle fila del clero intransigente. Scritto a partire dal 1901, quando Fogazzaro era sotto l’influsso del pensiero di Laberthonnière, sviluppato nel corso di quattro anni, quando sempre attrevarso la mediazione di Semeria il romanziere italiano, senatore del Regno, fu portato ad apprezzare i lavori di Tyrrell, il romanzo fu progettualmente orientato a presentare lo scacco del programma di riforma religiosa incarnato dal protagonista, Benedetto, dal momento in cui Fogazzaro apprese dell’elezione al soglio pontificio del patriarca di Venezia. Fogazzaro fu infatti tra i pochi cattolici immediatamente delusi dalla scelta compiuta in conclave proprio per la conoscenza da lui direttamente già maturata della personalità di Pio X. Di tale sua opinione Fogazzaro fu poi ricambiato, dato che per esplicito intervento del Papa il romanzo finì all’Indice nel 1906, dopo che Padre Zocchi l’aveva pubblicamente denunciato su La Civiltà Cattolica e il censore incaricato del giudizio ufficiale, Laurent Janssens, vi aveva scorto “panteismo e teosofismo più o meno buddistici”. Il Pontefice – che aveva ripetutamente negato udienza a Fogazzaro –, nello spirito dell’infallibilismo intransigente ottocentesco individuante nel Papa il Cristo nella Chiesa e nonostante gli accorgimenti messi in atto dall’autore per evitare espliciti riferimenti personali, soprattutto non gradì la scena del colloquio di Benedetto col Papa, in cui vengono denunciati i quattro spiriti maligni allignati nella Chiesa. Utile contributo allo studio di Harnack, Blondel, Lagrange, Fogazzaro, Wittig, di alcuni sviluppi assunti dal dibattito biblico nel corso del Novecento, dell’antimodernismo e della temperie spirituale iberica all’inizio del XX secolo, il volume – fatte salve le riserve segnalate a correzione di una prospettiva talvolta viziata da inadeguate premure apologetiche – costituisce per il lettore ispanofono un interessante invito alla conoscenza di un rilevante fenomeno della storia del cattolicesimo contemporaneo e la prova evidente che, nonostante la distanza – non solo temporale – che ci separa dalla crisi modernista dell’inizio del XX secolo, i dibattiti allora sollevati dai modernisti risultano, per certi versi, ancora attuali. Giacomo Losito Dottore in Filosofia e Storia delle religioni 1_2011.indd 338 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 339 Federico M. Requena, Católicos, devociones y sociedad durante la Dictadura de Primo de Rivera y la Segunda República. La Obra del Amor Misericordioso en España (1922-1936), Biblioteca Nueva, Madrid 2008, pp. 359 Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il titolo, questo saggio di Federico M. Requena (storico legato agli ambienti dell’Opus Dei ed esperto nella religiosità spagnola) descrive l’introduzione e diffusione nella Spagna degli anni Venti e Trenta del Novecento della dottrina e della devozione dell’Opera dell’Amore Misericordioso, della visitandina francese Maria Teresa Desandais. Dopo aver trattato brevemente le origini dell’Opera dell’Amore Misericordioso nella prima parte del libro, nelle due parti successive l’autore si concentra infatti esclusivamente su quella pratica devozionale. Senza omettere il riferimento al retroterra religioso dell’epoca, caratterizato dalla consacrazione della Spagna al Sacro Cuore di Gesù (1919), Requena inizia la sua ricostruzione presentando la rete di persone che, entusiaste della dottrina di Teresa Desandais, costituirono il nucleo dei suoi propagandisti: il padre domenicano Juan González Arintero e un piccolo gruppo di donne, delle quali mette subito in luce la dedizione di Juana Lacasa. Si occupa quindi di ripercorrere le fasi più importanti del progetto di convertire l’Opera dell’Amore Misericordioso in un’organizzazione internazionale di diritto pubblico, riconosciuta come tale dalla Santa Sede. Circoscrivendo questo periodo tra la primavera del 1923 e l’inverno del 1924, l’autore sottolinea la cesura che, nel mancato raggiungimento di quell’obiettivo, giocò l’assunzione da parte del domenicano francese Reginald Duriaux della direzione dell’Opera di Desandais. Abbandonando conseguentemente l’idea di fare dell’Opera dell’Amore Misericordioso un’associazione o una congregazione con personalità propria (ma non quella di ottenere un riconoscimento pontificio), nei due anni successivi i suoi propagandisti si impegneranno a diffondere, attraverso una collezione di testi di Desandais intitolata Pour les amis du Cœur de Jesus, l’aspetto spirituale di quella devozione visitandina. È nella descrizione di questa fase dell’espansione spagnola dell’Opera dell’Amore Misericordioso, dove Requena accenna a due fattori che, meglio di altri, possono spiegare le ragioni di quella diffusione: da una parte, il contesto politico francese delle pratiche devozionali, in cui non era consigliato utilizzare il nome di Amore Misericordioso, e, dall’altra, quello spagnolo che, più “liberale” da questo punto di vista, favorì l’adattamento di quella dottrina alla religiosità propria della società spagnola. Come viene infatti spiegato, la seconda metà degli anni Venti rappresentò la fase crescente dell’espansione della devozione nei confronti dell’immagine dell’amore misericordioso di Cristo. Un’espansione che, oltre a coinvolgere vari ordini religiosi e parrochie della geografia spagnola e a introdurre la pratica dell’adorazione domestica, sarà accompagnata da una crescente attività editoriale, che non si arresterà nemmeno con la morte del padre Arintero e il cambio di direzione agli inizi del 1928. Un’espansione che, nonostante tutto, non sarà sufficiente a fondare la nuova richiesta di un riconoscimento pontificio e, consequentemente, la possibilità di una futura istituzionalizzazione dell’Opera dell’Amore Misericordioso. Un’espansione, finalmente, che toccherà il vertice nel biennio 1930-1931, quando la crisi della dittatura di Primo de Rivera e la proclamazione della Seconda Repubblica si ripercossero sulla percezione e sull’attività dell’Opera dell’Amore Misericordioso in Spagna. 1_2011.indd 339 28-06-2011 12:12:26 340 Cr St 32 (2011) Come mette in evidenza lo stesso Requena, nonostante le divergenze istituzionali sorte, tra il 1932 e il 1934, a causa del tentativo del convento domenicano di Salamanca di centralizzare la direzione l’Opera dell’Amore Misericordioso, e che daranno vita a una rivista propria e indipendente per la diffusione degli scritti di Maria Teresa Desandais, durante il primo lustro degli anni Trenta la devozione della visitandina francese conobbe un’amplia diffusione in tutta la geografia spagnola. Oltre a ragioni legate strettamente alla congiuntura politica derivata dalla proclamazione della Seconda Repubblica, un fattore determinante di questa fase di rapida espansione sarebbe stato l’appoggio diretto e quasi incondizionato che l’Opera trovò in monsignor Tedeschini, Nunzio Apostolico a Madrid, e in un numero sempre maggiore di vescovi. Nonostante l’autore sostenga che in questo momento cruciale della storia spagnola la devozione all’Amore Misericordioso di Gesù non venne fatto oggetto di strumentalizzazione politica, l’orientamento laicizzante dei governi socialisti avrebbe consigliato ai propagandisti di quella devozione di eliminare dalle immagini qualsiasi riferimento alla monarchia. La Guerra Civile, finalmente, segnò l’inizio di una parabola discendente nella diffusione della devozione all’immagine dell’Amore Misericordioso di Gesù fino a scomparire definitivamente agli inizi degli anni Quaranta. Senza ombra di dubbio, lo studio di Requena costituisce un importante contributo a una più profonda conoscenza della religiosità della società spagnola del XX secolo. In primo luogo perché con sufficiente dovizia di dettagli, l’autore riesce a ricostruire chiaramente l’evoluzione di quella devozione, a risolvere in modo soddisfacente i nodi legati ai vari tentativi di istituzionalizazzione di quella pratica, così come a definire con precisione i principiali protagonisti di questa microstoria. In secondo lugo, perché l’apparato bibliografico risulta abbastanza completo, anche se circoscritto a un determinato settore nella parte relativa al caso spagnolo. E in terzo luogo, per la varietà e ampiezza dell’apparato archivistico utilizzato da Requena. A questo proposito, riscuote un certo interesse la consultazione dell’Archivio della Nunziatura Apostolica di Madrid, dell’Archivio Segreto Vaticano, dell’Archivio Juan González Arintero del convento domenicano di San Esteban di Salamanca (che include un’estesa sezione dedicata all’Amore Misericordioso), dell’Archivio del Monastero della Visitazione di La Roche-sur-Yon, oltre alla lunga serie di articoli pubblicati dalla stessa María Teresa Desandais. Con tutto ciò, Católicos, devociones y sociedad durante la Dictadura de Primo de Rivera y la Segunda República non riese a rispondere a quesiti chiave quali, ad esempio, le ragioni per cui la dottrina e la devozione dell’Amore Misericordioso di Gesù non trovarono facile accoglienza in Francia; le ragioni per cui la Spagna degli anni Venti e Trenta si convertì nel nucleo propagatore di quella pratica; e, da ultimo, le ragioni per cui la Santa Sede non volle accordare un riconoscimento ufficiale alla stessa. Inserendo correttamente la devozione dell’Amore Misericordioso di Gesù nel filone del culto al Sacro Cuore (proprio della politica religiosa che la Chiesa adottò a cavallo tra Otto e Novecento, per ovviare i problemi che la presa di Roma da parte italiana e la tendenza laicista dello Stato liberale avevano creato all’identità cattolica del continente europeo), Requena non sembra dare l’adeguata importanza alle conseguenze che la crisi modernista, il nazionalismo della Prima guerra mon- 1_2011.indd 340 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 341 diale e il sorgere dello Stato totalitario produssero nell’evoluzione della presenza e azione della Chiesa nella società civile degli anni Venti e Trenta. Per quanto accenni agli ostacoli che la pratica devozionale dell’Amore Misericordioso incontrò nella Francia di quegli anni, l’autore non si addentra nelle ragioni di fondo di questo problema quali, molto probabilmente, il proposito vaticano di dissociare l’identità cattolica dei cittadini dall’identità nazionale dello Stato totalitario e, dando maggior rilevanza all’associazionismo cattolico, garantire così l’universalità della Chiesa e il carattere internazionale della Santa Sede. Non tenendo presente questa ipotesi, Requena sembra forzare tanto l’effettiva recezione della dottrina quanto l’effettiva diffusione del culto all’immagine dell’Amore Misericordioso di Gesù. Come lo stesso autore sostiene, “nel caso dell’Amore Misericordioso non era possibile parlare di culto pubblico in senso stretto, perché non ci fu mai un’approvazione gerarchica al riguardo” (p. 198). Il maggior grado di adesione episcopale alla devozione di ispirazione visitandina venne raggiunto infatti durante i governi socialisti della Seconda Repubblica, quando il culto all’Amore Misericordioso di Gesù (privato della simbologia regale affinché i cattolici non fossero accusati di sedizione dal governo repubblicano) risultò essere una delle poche vie cattoliche non di partito che la Chiesa considerò utile per far convergere una società civile, cattolica nella sua gran totalità, attorno alla difesa della libertas Ecclesiæ. Romina De Carli Universidad Complutense Peter Hünermann (Hrsg.), Daz Zweite Vatikanische Konzil und die Zeichen der Zeit heute, Herder, Freibug-Basel-Wien 2006, pp. 672 Se trata de un amplio volumen dirigido por P. Hünermann (Tübingen), junto con B.J. Hilberath (Tübingen) y L. Boeve (Leuven) de amplísima colaboración internacional con un título y enfoque dignos de mención, ya que quiere presentar el concilio Vaticano II relacionándolo con los signos de los tiempos. Se trata de una obra dedicada al cardenal K. Lehmann en su setenta aniversario. Se divide en tres partes: el primer capítulo se centra en el concepto de signos de los tiempos hoy; el segundo capítulo trata sobre el Vaticano II, su recepción y sus desafíos teológicos, y el tercer capítulo presenta las orientaciones que este concilio aporta teniendo presente los signos de los tiempos y todo el trabajo teológico que esto supone. Veamos sus diversas colaboraciones: La introducción, que precede todo el volumen, va a cargo del cardenal K. Lehmann, obispo de Mainz, titulada significativamente: “el Vaticano II: un indicador de camino”. Se trata de un estudio ejemplar por su articulación y contenido que partiendo del problema de la recepción y virtualidad del Vaticano II afronta la cue- 1_2011.indd 341 28-06-2011 12:12:26 342 Cr St 32 (2011) stión del análisis de los textos conciliares para situarse en una perspectiva de futuro en el marco de los signos de los tiempos con cinco lúcidas perspectivas: la pregunta por Dios; la transmisión de la fe en las nuevas generaciones; la complementariedad eclesial entre servicio y diálogo; la necesidad de la dimensión social y política de los cristianos, y, finalmente, la urgencia de una nueva iniciativa misionera. La primera parte del capítulo primero sobre los signos de los tiempos representa quizá el aporte más consistente teológicamente de todo este volumen, ya que en ella intervienen cuatro notables teólogos sobre este cuestión. Primero, P. Hünermann, que hace una lectura crítica actualizada de GS 4-10 donde compara el texto con la situación presente y como conclusión ofrece una dibujo de la teología “postmoderna” – aunque, partiendo sólo de bibliografía anglo-sajona! –, que la describe a partir de estas tres características: el análisis linguístico siguiendo a Wittgenstein y la filosofía reciente del lenguaje; las reflexiones sobre el ser y la cultura, sobre la Metafísica y la Ontoteología de Heidegger, Gadamer, Ricoeur, Adorno y Levinas; la crítica ‘deconstructiva’ de Lyotard y Derrida (p. 58 y n. 76). El segundo autor es el notable profesor italiano, G. Ruggieri, que presenta una amplia panorámica teológica de la comprensión de los signos de los tiempos en la que recoge sustancialmente un notabilísimo estudio suyo anterior (“La teologia dei ‘segni dei tempi’: acquisizioni e compiti”, en G. Canobbio (ed.), Teologia e storia: l’eredità del ‘900, Cinisiello Balsamo 2002, 33-86; sobre el estudio de José da Cruz Policarpo – que cita en p. 51, n. 57 –; cf. su nueva edición, Obras Escolhidas 1: O Evangelho e a História. Ler os Sinais dos Tempos, Lisboa 2003, 9-415, con un capítulo añadido por el mismo autor: “Trinta anos depois”, 417-434). La tercera intervención es del profesor en París, Ch. Theobald, que con su habitual agudeza presenta una teología de los signos de los tiempos en clave de modus procedendi teológico. Finalmente el relevante moralista, D. Mieth, ofrece una matizada reflexión sobre la dimensión ético-teológica de la categoría signos de los tiempos teniendo presente la globalización mundial. El segundo bloque del capítulo primero entra en la cuestión de los signos de los tiempos globales agrupados en cuatro que se presentan sucintamente: la cuestión de la mujer, por M. Eckholt; el Ecumenismo, por R. Frieling; la ecología, por M. Vogt y la religiosidad y las religiones por B. Nitsche. Sigue el tercer bloque sobre cada uno de los cinco continentes donde se encuentran estudios notables: de Latinoamérica se ofrece una elaborada panorámica del argentino C. Schickendantz (cf. su reciente, inspirado en K. Rahner: Cambio estructural de la Iglesia, Córdoba 2005); de Norteamérica el notable eclesiólogo de Québec, G. Routhier, ofrece una lúcida visión relativamente unitaria; de Asia, el teólogo de la India F.X. D’Sa, presenta con pasión el momento presente, aunque su preferencia por la “Ökosophie” de R. Panikkar quizá sea excesiva; de África, E. Uzukwu, subraya la búsqueda hacia un mundo mejor bajo la fuerza del Espíritu; finalmente, sobre Europa M. Kirschner (Tübingen), ofrece una panorámica desequilibrada, en la cual la perspectiva y la bibliografía francesa, italiana y española son prácticamente ausentes (sólo se citan: Melloni y Ruggieri!). El segundo capítulo abre con un bloque sobre las grandes Constituciones del Vaticano II. De la Sacrosanctum Concilium trata de forma muy superficial W. Haunerland (München), el cual incomprensiblemente ignora toda la importantísima bibliografía francesa, pero también italiana y española sobre liturgia (sólo en n. 7 se 1_2011.indd 342 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 343 cita P. Sorci!). Sobre la Lumen Gentium escribe el reconocido teólogo B.J. Hilberath (Tübingen) que centra su atención en la cuestión del ministerio eclesial, en el debate sobre la iglesia universal y las iglesias locales, y en la relación entre eclesiología y derecho canónico, mostrándose muy deudor tanto de las valoraciones de O.H. Pesch, Daz Zweite Vatikanische Konzil, Würzburg 2001, como del notable canonista E. Corecco. Sobre la Dei Verbum, J. Brosseder (Köln) presenta su comentario con una conclusión más bien crítica, y citando sólo bibliografía alemana siendo muy próximo a la orientación del citado O.H. Pesch. Inconprensiblemente se introduce aquí, ya que no es su lugar propio, una crónica ‘local’ más bien negativa de M. Lamberigts (Leuven) sobre la liturgia postconciliar en Holanda. Finalmente, se trata de la Gaudium et Spes unida a Apostolicam Actuositatem por parte del reconocido historiador de Bolonia, G. Turbanti (cf. su previo y notable, Un concilio per il mondo moderno. La GS, Bologna 2000). El tratamiento en común de ambos documentos puede sorprender, dado que la perspectiva de AA es muy diferenciada respecto GS, ya que en la primera hay restos de una visión clerical del laicado, no presentes en cambio en la segunda, y por esto no es de extrañar que sobre AA no se dé ninguna cita bibliográfica! El segundo bloque está centrado en la recepción del derecho canónico del Vaticano II con cuatro monografías: una reflexión teológica-canónica de M. Wijlens (Erfurt); una reflexión sobre servicios y ministerios de S. Demel (Regensburg); una monografía sobre el canonista E. Corecco por parte de A. Melloni (Reggio Emilia), y unos ‘desiderata’ teológicos para el derecho canónico de G. Bausenhart (Hildesheim). Sobresale particularmente el atento estudio sobre Corecco de Melloni (con un apéndice que incluye un interesante documento de Corecco sobre la reforma de la curia romana en 1985), así como las diversas iniciativas acerca de los obispos y de los laicos de Bausenhart. El tercer bloque se centra en el ecumenismo con cuatro monografías de primera magnitud por razón de sus autores: así, comenzando por el menos conocido, el obispo sueco, B. J. Johnson sobre el Consejo Ecuménico de las Iglesias; seguido por el ortodoxo G. Larentzakis, el evangélico A. Birmelé y un balance del 40 años de ecumenismo potsconciliar por el reconocido L. Vischer. El cuarto bloque y el más breve se centra en el diálogo con el mundo y las religiones, y en él se parte de los documentos del Vaticano II que lo propician: Gaudium et Spes, analizada por N. Mette (Dortmund) con una precisa nota sobre la teología pastoral; Dignitatis Humanae es comentada por el ya citado L. Vischer; Ad Gentes y Nostra Aetate sirven para que el reconicido teólogo norteamericano, R. Schreiter (Chicago), presente un breve y lúcido panorama. El quinto bloque del segundo capítulo se trata de la recepción y los ‘desiderata’ teológicos en los grandes ámbitos culturales del mundo, a partir de cinco contribuciones: el brasileño J.O. Beozzo (Sao Paolo), el canadiense, ya citado, G. Routhier (Québec), el indio P. Pulikan (Thrissur), el africano S. Bedjra (Abidjan) y el esloveno J. Juhant (Ljubljana), sobre los paises europeos ex-comunistas. En general son trabajos un tanto prolijos en su intento de resumir la situación, aunque sin duda relevantes por su información y, a veces, claridad especialmente en los dos primeros. El capítulo final quiere ser un balance articulado y es aquí donde aparecen sus dos grandes artífices. Así, abre el camino P. Hünermann con un programa teológico 1_2011.indd 343 28-06-2011 12:12:26 344 Cr St 32 (2011) para el tercer milenio y le sigue J. Hilbertath que lo quiere situar en el contexto de los signos de los tiempos. Hünermann parte de su concepción sobre los textos del Vaticano II propuesta ampliamente en su, “Der Text: Werden-Gestalt-Bedeutung. Eine hermeneutische Reflexion”, in HThK Vat. II, Bd 5, 5-102, comprensión sugerente pero seguramente insuficiente para configurar el valor magisterial del Vaticano II como ‘doctrina católica’ según lo expresó Pablo VI (cf. las observaciones en nuestra, Eclesiologia, Brescia 2008, 75-81). A partir de ahí, Hünermann se adentra ampliamente en la “pragmática linguística” para proponer su posición, así como un denso excursus sobre la fe y la estructura dialéctica del ser humano según Tomás de Aquino y E. Kant. No se puede negar el esfuerzo manifiesto por este notable teólogo para conseguir unas propuestas novedosas, las cuales, aún el contexto de lo signos de los tiempos vistos justamente como elementos esenciales de una teología histórica del tercer milenio, dejan un tanto insatisfecho por su formulación final muy correcta pero seguramente escasamente concreta y propositiva. Por su parte J. Hilberath se centra en los signos de los tiempos y presenta una clara y buena panorámica de los puntos difíciles de la no recepción intra-católica que a su parecer son: la renovación de la Liturgia; el movimiento bíblico y ecuménico; la eclesiología de la communio y la estructura de la communio. Como “agenda” y acentos a tener presente se subraya: el testimonio vivido; la profecía ‘extranjera’, (o heterotopia: la utopía surgida del ‘otro’) y el progreso común – ecuménico-cívicocultural – hacia un perfil propio, concluyendo con lucidez su interés específico: “que el lema ‘que todos sean uno’ se realize sin olvidar el objetivo final que es ‘para que el mundo crea’” (p. 609). En definitiva, se trata de una obra muy ambiciosa en su planteamiento y por esto estimable, especialmente en su planteamiento inicial sobre los “Signos de los tiempos”, aunque la rica y sugerente multiplicidad de colaboradores oscurecen sus conclusiones que aparecen un tanto autónomas respecto a las diversas voces implicadas. En este contexto sorprende que siendo una obra con ambición internacional su bibliografía sea tan concetrada en el mundo alemán, marginando o ignorando –cosa que sería peor! –, contribuciones francesas, italianas, y aún españolas (en este sentido el texto sobre Europa es significativo, así como la ausencia de comentarios relevantes a los documentos del Vaticano II!). Esperemos, con todo, que el notable esfuerzo realizado por los editores con los más de treinta colaboradores, así como por la prestigiosa editorial Herder, encuentren resonancia en el mundo teológico y pastoral para propiciar una profundización en la cuestión tan fascinante como delicada de los “Signos de los tiempos”. Salvador Pié-Ninot Facultat de Teologia de Catalunya (Barcelona) Pontificia Università Gregoriana (Roma). 1_2011.indd 344 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 345 Reforming the Church before Modernity. Patterns, Problems and Approaches, ed. by Christopher M. Bellitto and Louis I. Hamilton, Ashgate, London 2005, pp. 224 Reform ist ein schillerndes Wort, besonders im kirchlich-religiösen Bereich. Bedeutet es eine individuelle Reform des persönlichen Lebens? Versteht man darunter eine Verbesserung der kirchlichen Institutionen, der religiösen Praxis oder ist Reform eine Kombination von all dem? Und ist Reform eine Rekonstruktion der Vergangenheit, ein Zurückgehen ad pristina oder eine Neuausrichtung ad melioranda? Auf all diese Fragen geht Louis I. Hamilton in der Einführung zu dem Berichtsband ein. Dem Band liegen die Referate eines Kongresses zugrunde, der im August 2002 in New York stattfand. Der erste Teil ist überschrieben: Social Change and Religious Reform. Robert A. Markus sieht in seinem Beitrag Church Reform and Society in Late Antiquity drei gesellschaftliche Transformationen im christlichen Altertum gegeben: die Konstantinische Wende, die Christianisierung der germanischen Reiche und die Eroberungen des Islam. Die ursprünglich „verfolgte“ Kirche wurde nach Konstantin ein Teil der römischen Gesellschaft. Dabei verlor das christliche Leben bei den breiten Massen an rigoroser Ernsthaftigkeit. Reformen, die ein Augustinus oder Ambrosius ins Werk setzten, blieben auf ein Elitechristentum beschränkt. An der Schwelle zum Mittelalter wurde durch den Eintritt der Germanen das von der Romanitas geprägte Christentum nun von der fränkisch-germanischen Gesellschaft bestimmt. Der westlichen Kirche aber mangelte es an Selbstkritik. Sie verharrte in einem gewissen Triumphalismus. Der Verlust wesentlicher Gebiete an den Islam brachte einen weiteren Einschnitt und eine Verstärkung der Isolation. In seinem Beitrag Gaudium et Spes: Ecclesiastical Reformers at the Start of a “New Age” nimmt John Howe das 11. Jahrhundert in den Blick. Die gesellschaftliche und politische Situation hatte sich grundlegend geändert. Der Impuls einer Reform in dieser Zeit ging – so Howe – nicht so sehr, wie bisher vielfach angenommen, von der Gregorianischen Bewegung aus, sondern wurde getragen von charismatischen und prophetischen Gestalten monastischer oder klerikaler Prägung. Dabei wurde jedoch weniger das christliche Volk in seiner Gesamtheit erfasst. Der zweite Teil des Buches geht über zu einer Betrachtung Philosophischer Prägung: The Ideas of Reform and the Intellectuals. Wayne J. Hankey: Self and Cosmos in Becoming Deiform: Neoplatonic Paradigms for Reform by Selfknowledge from Augustine to Aquinas verfolgt die Tradition neuplatonischer individueller Reform (self-reform) von der Spätantike bis zum Mittelalter und betont, dass eine Gegenüberstellung – hier der platonische Augustinus – dort der aristotelische Thomas von Aquin nicht der Wirklichkeit entspreche. Beide, Augustinus und Thomas gehen von einer Hinwendung zum Subjekt als Grundlage der Selbsterkenntnis aus und benutzen diese Erkenntnis für den Aufstieg zum Göttlichen. Diese Art der Reform bedeutet keine Reform der Institutionen, sondern der eigenen Person. In ihrem Beitrag The Early Scholastics and the Reform of Doctrine and Practice untersucht Marcia L. Colish das Reformverständnis der frühen Scholastiker. Diese übten zum Teil Kritik an den früheren Theologen. Ihre Reform-Intention ist nicht 1_2011.indd 345 28-06-2011 12:12:26 346 Cr St 32 (2011) so sehr eine reforma ad pristina als vielmehr eine reforma ad melioranda. Ihre Prinzipien konnten sie jedoch auf den verschiedenen theologischen Feldern durchaus unterschiedlich anwenden. John O’Malley beginnt seine Untersuchung, die den Titel trägt Fides quaerens et non quaerens intellectum: Reform and the Intellectuals in the Early Modern Period mit dem Aufschwung der Kanonistik seit der Gregorianischen Bewegung des 11. Jahrhunderts. Das Kanonische Recht und zusammen mit ihm die Scholastik waren Themen, die sowohl Luther wie das Konzil von Trient beschäftigten. Luther lehnte sowohl die Kanonistik als auch die Scholastik ab. Für ihn galt die sola scriptura – allein die Heilige Schrift. Für das Konzil von Trient dagegen bildete das Kirchenrecht ein Mittel, um die Disziplin durchzusetzen, und die Scholastik gab die Grundlage für die Definition der Glaubenswahrheiten ab, um die Glaubenswahrheiten zu definieren. Erasmus von Rotterdam aber verfolgte einen dritten Weg. Er lehnte Konflikte ab und suchte Frieden und Concordia. Geformt durch die studia humanistica bedeutete für ihn Reform eine Erneuerung der inneren Frömmigkeit. So zeigt das 16. Jahrhundert drei Formen von Reform auf, denen auch unterschiedliche Konzeptionen von der Kirche entsprachen. Der dritte Teil ist betitelt Clerical Reform In das christliche Altertum führt der Beitrag von Rita Lizzi Testa Clerical Hierarchy and Imperial Legation in the Late Antiquity: The Reformed Reformers zurück. Nach der Konstantinischen Wende erhielten die Kleriker zahlreiche Privilegien. Ihre Tätigkeit war wichtig für das Wohlergehen des Staates. Besonders die Bischöfe wurden wesentliche Stützen der kaiserlichen Politik. Dabei bestand für den Kaiser die Schwierigkeit, mit den unterschiedlichen Glaubensrichtungen – Häresie und Orthodoxie – unter den Bischöfen zurecht zu kommen. Auch wurde es nicht mehr hingenommen, dass die Privilegien missbräuchlich ausgenutzt wurden. Den Klerikern kamen nun auch soziale Aufgaben zu: Opulentos enim saeculi subire necessitates oportet, pauperes ecclesiarum divitiis sustentari. Die caritative Tätigkeit der Kirche wurde zu einer Funktion der Öffentlichkeit. Zahlreiche Bischöfe wurden von den Reformen erfasst und wirkten ihrerseits als Reformer in der Kirche. So wurden Bischöfe, wie R. Lizzi Testa feststellt, reformed reformers. Die Untersuchung von Louis I. Hamilton ist betitelt To Consecrate the Church: Ecclesiastical Reform and the Dedication of Churches. Herausragende Reformer des 11. Und 12. Jahrhunderts waren die beiden Bischöfe Petrus Damiani und Bruno von Segni. In dieser Zeit ging es um die Emanzipation der Kirche von der staatlichen Gewalt und die Hervorkehrung der Stellung der Römischen Bischöfe, dazu allgemein um eine Reform des Klerus. In der Liturgie der Kirchweihe sahen die genannten Reformer ein Mittel, um die päpstliche Autorität sichtbar darzustellen. Giuseppe Alberigo analysiert in seinem Beitrag die bekannte Reform-Denkschrift von zwei Venezianern im beginnenden 16. Jahrhundert: The Reform of the Episcopate in the Libellus to Leo X by the Camaldolese Hermits Vincenzo Querini and Tommaso Giustiniani. Die weitgespannten Reformvorschläge der beiden Mönche umfassen Bereiche wie Auswahl, Eignung und Bildung der Bischöfe und ihre Verantwortung für die Zustände der Kirche, Lesung und Kenntnis der Heiligen Schrift anstelle einer einseitigen scholastischen Bildung der Kleriker, sowie als Heilmittel für die Schäden in der Kirche die Einberufung eines Allgemeinen Konzils. 1_2011.indd 346 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 347 Die Beiträge des 4. Teils sind zusammengefasst unter dem Titel The Processes of Reform. Eine besondere Frage ist: Wie werden die theoretischen Reformkonzepte in die Tat umgesetzt? Claire Sotinel fragt in ihrem Beitrag The Church in the Roman Empire: Changes without Reform and Reforms without Change: Was kann in der alten Kirche als Reform bezeichnet werden? Die Reformen können dabei ad pristina und ad melioranda ausgerichtet sein. C. Sotinel findet dabei Reformimpulse sowohl bei den Bischöfen als auch im System des Römischen Rechts. Zunehmend werden dabei die Reformaktivitäten der Kirche zentralisiert. Den Weg vom Charisma der ersten Gründer zur institutionellen Festlegung der monastischen Ideale bei den Zisterziensern untersucht Martha G. Newman in ihrem Beitrag Text and Authority in the Formation of the Cistercian Order. Reassessing the Early Cistercian Reform. Die ersten charismatischen Gründer-Persönlichkeiten waren inspiriert von der Heiligen Schrift, Gregors des Großen Moralia in Job, sowie Gregors Dialoge und Schrift-Homilien. Während bei den Benediktinern der charismatische Abt im Vordergrund stand, sind es bei den Zisterziensern die schriftlich fixierten Programm-Texte. Zu Auseinandersetzungen zwischen Frankreich und den Forderungen des Konzils von Trient um eine neue Form klösterlicher Wirksamkeit der Frauen kam es bei der Entstehung der Vinzentinerinnen. Susan E. Dinan stellt dieses Problem dar: Compliance and Defiance: The Daughters of Charity and the Council of Trent. Während das Trienter Konzil in Anlehnung an die monastischen Traditionen eine Klausurierung der Ordensfrauen verlangte, setzten Vinzenz von Paul und Louise de Marillac mit Hilfe des französischen Hofes und der Bischöfe gegen alle Widerstände eine neue Form religiösen Lebens für Frauen durch: den Dienst an den Kranken und Armen außerhalb der Klausur. Diese neue Form charitativer Tätigkeit von Frauen – nur einfache Gelübde, die jedes Jahr erneuert werden, Kleidung der Zeit, einfache Lebensweise – verbreitete sich von Frankreich aus auch auf andere europäische Länder. Die Beiträge des Bandes bieten ein buntes Spektrum. Sie zeigen eine Fülle dessen, was als Reform bezeichnet werden kann. Ein besonderes Problem bildet dabei die Frage: Ist Reform eine Rückkehr zu alten Gegebenheiten oder bedeutet sie eine Weiterentwicklung zu neuen Formen. Diese Frage kann nicht generell mit einem ja oder nein beantwortet werden. Sie ist in jedem einzelnen Fall differenziert zu beurteilen. Der Band versucht zwar, die Beiträge in vier Gruppen zusammenzufassen, aber es zeigt sich doch eine große Heterogenität der behandelten Themen. Man hat zuweilen den Eindruck des Zufalls. Insgesamt aber ist zu sagen, dass die Leser in zahlreiche Reformaktivitäten des Altertums und des Mittelalters bis zum Vorabend der Neuzeit in kompetenter Weise eingeführt werden. Klaus Ganzer München 1_2011.indd 347 28-06-2011 12:12:26 348 Cr St 32 (2011) Massimo Borghesi (a cura di), Caro collega ed amico, Lettere di Etienne Gilson ad Augusto Del Noce, Cantagalli, Siena 2008, pp. 167 Il faut se réjouir de la publication par Massimo Borghesi de la correspondance d’Étienne Gilson (1884-1978) avec Augusto Del Noce (1910-1989). Établir le texte d’une correspondance et l’équiper d’un appareil critique est un travail parfois ingrat, et souvent laborieux, mais le gain pour la science historique n’est pas vain: seul il donne de découvrir de l’intérieur la personnalité, les affinités profondes et les rouages de la pensée d’un auteur. Sur le plan bibliographique, cette correspondance vient combler un manque, même si maintes lettres de Gilson ont déjà été publiées par le passé. Georges Kalinowsky avait ouvert la voie en publiant des extraits de trois lettres d’Étienne Gilson en annexe de son ouvrage L’impossible métaphysique (Beauchesne, 1981). Le cardinal Henri de Lubac avait suivi le même chemin, avec plus d’ampleur, en publiant les lettres qu’il avait reçues de Gilson (Lettres de Monsieur Étienne Gilson au Père de Lubac et commentées par celui-ci, Cerf, 1986), même si l’on doit regretter que le P. de Lubac n’ait pas songé à publier ses propres lettres pourtant conservées dans les archives de Gilson à Toronto. Les grandes amitiés de Gilson avaient été mises en relief par la publication de trois séries de correspondance. L’année 1991 avait vu la précieuse publication de la correspondance entre Gilson et Maritain sous la direction de G. Prouvost (Vrin), complétée en 1998 par deux lettres de Gilson retrouvées dans les archives du Cercle d’Études Jacques et Raïssa Maritain (Cahiers Jacques Maritain, Kolbsheim, n. 37). La correspondance de Gilson avec son élève et ami Henri Gouhier a elle-même fait l’objet d’une publication dans la Revue thomiste de Toulouse («Lettres à Henri Gouhier choisies et présentées par Géry Prouvost », juillet 1994). Richard Fafara a récemment repris le dossier de cette correspondance dans The Malebranche Moment, Selections from the Letters of Etienne Gilson and Henri Gouhier (1929-1936) (Marquette University Press, 2007), en attendant une publication complète annoncée chez Vrin. La correspondance avec le P. MarieDominique Chenu a été publiée pour partie par Francesca Murphy dans la Revue thomiste (2005). Il existe encore, dispersés, d’autres fragments de la correspondance de Gilson: la lettre que lui écrit Paul VI en 1975 est connue; il y a aussi des lettres intéressantes avec le P. Michel Labourdette (Revue thomiste, 1994), avec Bruno Nardi (Florence, 1998), avec March Bloch, en annexe de la fameuse correspondance Marc Bloch – Lucien Febvre (vol. 2, Fayard, 2003). Les études gilsoniennes, appuyées par la réédition de ses ouvrages les plus classiques par la maison d’édition Vrin ces dernières années (ainsi Le Philosophe et la Théologie, 2006 et Les Métamorphoses de la Cité de Dieu, 2005), ne cessent de s’approfondir, même si – il faut bien le dire – l’éloignement des archives de Gilson au Nouveau Monde, sans empêcher le travail, le ralentit sans doute. Les métamorphoses de la culture catholique des années 1960 à aujourd’hui expliquent sans doute le renouveau des études gilsoniennes: l’œuvre d’Étienne Gilson, occultée un temps par les controverses liées à ses prises de position dans les affres de l’après-concile, et expédiée un temps au purgatoire des «conservateurs», est désormais en train d’être réexaminée et relue à nouveau frais. 1_2011.indd 348 28-06-2011 12:12:26 Recensioni 349 Il faut donc se réjouir de la publication de ces documents mis à jour et commentés par Massimo Borghesi, fin connaisseur de l’œuvre de Del Noce: les notes 27, 28, 38 de l’introduction signalent les travaux de M. Borghesi sur la figure de Del Noce. Ce dernier était lui-même un commentateur averti de l’œuvre gilsonienne; l’amitié des deux hommes naît sans doute de cette connivence: «En tous cas, j’ai peine à croire que personne trace jamais un portrait de mon évolution aussi ressemblant que vos deux étonnantes pages», lui écrit Gilson (p. 115). Le portrait, cité aux pages 24-25, que Del Noce donne du philosophe français, mériterait d’être retranscris dans toute son intégralité, Del Noce y peignant Gilson comme la meilleure introduction à saint Thomas: Gilson, souligne Del Noce, est l’un des très rares philosophes à être devenu thomiste non par sa formation dans un séminaire, non par conformisme ecclésial, non par réaction contre le monde moderne, mais par l’exercice de son libre choix et de son intelligence non contrainte. L’ouvrage a le mérite de publier treize lettres de Gilson, écrites entre 1964 et 1969, ainsi qu’une lettre d’A. Del Noce de 1965. La composition de l’ouvrage est assez originale: une longue introduction de cinquante pages, qui établit les convergences et divergences des deux auteurs avec rigueur, précède la traduction italienne des lettres – traduction annotée avec soin. Les lecteurs francophones apprécieront sans doute ensuite la transcription des lettres en français, et s’étonneront peut-être de leur reproduction en fac-similé, de sorte qu’in fine le texte des lettres est donné trois fois. La reproduction à l’identique des documents eût été sans doute rendue inutile si la transcription du français avait été plus exacte. En un sens, cela pourrait donner à penser – à tort – que le dossier manquait par lui-même d’épaisseur et de consistance. Les notes d’édition des pp. 55-57 détaillent avec longueur l’origine italienne des documents publiés, mais ne se préoccupent pas d’éventuelles sources canadiennes complémentaires: il eût été pertinent d’évoquer l’existence – ou non – des réponses de Del Noce au sein des archives d’Étienne Gilson à Saint Michael’s College, à Toronto. Devant la dissymétrie de la correspondance publiée, le lecteur en est réduit à une conjecture: il lui faut supposer que les archives de Gilson ne contiennent rien, mais on aurait aimé en être sûr; et d’autre part, cette absence de documents dans les archives de Gilson – si elle était avérée – serait à interpréter. Quoi qu’il en soit, c’est donc une correspondance à sens unique – comme celle de Gilson avec le P. de Lubac – que le lecteur découvre; et ce dernier reste parfois sur sa faim. Ces réserves de méthode émises, les lettres permettent de mieux comprendre quelques éléments de la biographie de Gilson, qui exerça une influence significative en France et en Amérique du Nord bien sûr – cela on le savait par la biographie du P. Shook (Toronto, 1984) – mais également en Italie. Augusto Del Noce, professeur à l’Université della Sapienza de Rome, sénateur démocrate-chrétien au mitan des années 1980, en est un exemple, lui qui appelle Gilson «Maître» (p. 65) et qui contribue à la diffusion des œuvres du philosophe français en Italie (p. 118, p. 130). C’est Del Noce notamment qui permet la traduction italienne des Tribulations de Sophie en 1967. A travers la correspondance échangée, on mesure aussi combien Gilson est littéralement fou de l’Italie, et de Venise notamment. Venise est une «passion» (p. 107): 1_2011.indd 349 28-06-2011 12:12:26