Interventi della conferenza internazionale sui recenti studi sui

Transcription

Interventi della conferenza internazionale sui recenti studi sui
Cr St 32 (2011)
235-249
Interventi della conferenza
internazionale sui recenti studi
sui concili, Istanbul 1° ottobre 20101
Verso un Concilio di tutti gli ortodossi
È con sincera gioia che abbiamo accettato l’invito a rivolgerci alla
conferenza internazionale organizzata dalla cattedra Unesco sul pluralismo religioso e la pace, in quest’anno nel quale Istanbul celebra
la sua prominenza come capitale culturale dell’Europa. Questo consesso sta esplorando le tendenze recenti degli studi sui concili delle
Chiese, con particolare riguardo alle questioni che essi pongono alla
teologia e alla storia ed è in questo contesto che abbiamo ascoltato
la presentazione di quegli straordinari lavori che sono i Conciliorum
1
1_2011.indd 235
Quelli pubblicati in queste pagine sono alcuni degli interventi pronunciati alla Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili, svoltasi venerdì 1° ottobre presso
l’Art Production Center di Istanbul, nel quadro delle manifestazioni che si sono celebrate nella metropoli sul Bosforo scelta come capitale europea della cultura per
l’anno 2010. Nel corso della Conferenza sono stati presentati il terzo volume dei
Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta (edito da Brepols Publishers) con
le decisioni dei Concili ecumenici da Trento al Vaticano II (1545-1965) e il progetto
di edizione digitale degli atti e delle decisioni di tutti i concili di tutte le Chiese.
Ambedue i progetti editoriali sono promossi dalla Fondazione per le scienze religiose
Giovanni XXIII di Bologna. Quello digitale, denominato “Mansi 3” (dal nome del
vescovo lucchese Gian Domenico Mansi, che dal 1759 diede il via a Venezia alla sua
“Amplissima collectio” degli atti di tutti i concili) prevede la creazione di una biblioteca on line con più di 600 volumi, in diverse lingue. Sono intervenuti alla Conferenza
il professor Alberto Melloni (curatore dei progetti editoriali), il priore Enzo Bianchi,
don Manlio Sodi, presidente della Pontificia Accademia Teologica, il professor İlber
Ortayli, dell’Università Galatasaray di Istanbul. Ospite d’onore, il patriarca ecumenico
di Costantinopoli Bartolomeo I, che ha concluso la Conferenza internazionale con
una lectio sull’importanza dei concili nella vita della Chiesa, elogiando gli «straordinari lavori» presentati durante il Convegno e soffermandosi sulla struttura conciliare
e gerarchica della Chiesa ortodossa.
28-06-2011 12:12:21
236
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
oecumenicorum generaliumque decreta e il progetto di un Mansi 3
(nuova raccolta digitale di tutta la documentazione conciliare di tutte
le Chiese di ogni tempo, ndr).
Noi vi accogliamo in questa città magnifica che fa da ponte fra
due millenni di civilizzazione cristiana e fra due continenti. In questa
stupenda città la Chiesa di Costantinopoli fu fondata da Andrea, il
primo chiamato degli apostoli, e qui il patriarcato ecumenico ha la
sua storia ampia quanto i 17 secoli nei quali ha conservato in questa
città il suo ufficio.
Tutta intera questa regione trabocca di significato per la Chiesa
cristiana: tutti i primi concili della Chiesa, che hanno provveduto di
dottrina definitiva e formativa la fede cristiana, si sono tenuti non in
Italia o in Grecia, ma qui, in Asia Minore. È qui che san Giovanni,
apostolo dell’amore, scrisse il suo Vangelo ed è qui che san Paolo,
l’apostolo delle genti, ha viaggiato per visitare le prime comunità apostoliche.
La Chiesa ortodossa è senza dubbio caratterizzata dal suo senso
profondo della continuità: non solo con quei tempi, ma anche con
quei testi e insegnamenti della Chiesa apostolica. In particolare, in
riferimento alla sua fede e alle sue pratiche e al portato di una tradizione vivente ininterrotta di vera fede vissuta nel servizio e nella
vita, la Chiesa ortodossa aderisce alle decisioni dei primi sette concili
ecumenici.
In questa prospettiva, dunque, il progetto di una edizione critica
dei grandi concili delle Chiese cristiane – sia nella pubblicazione sia
nella forma di una collezione digitale che raccoglie tutti gli atti e tutti
i documenti dei concili delle Chiese lungo i secoli, in tutte le lingue
ed alfabeti – si colloca al centro della dottrina ortodossa ed al cuore
della spiritualità ortodossa. Perciò lasciate che io delinei brevemente
l’importanza di questo eccezionale evento culturale.
Per la Chiesa ortodossa la conciliarità deriva dall’essenza stessa di
Dio. La dottrina fondamentale della Santa Trinità – l’insegnamento su
Dio come tre distinte persone, anziché come una divinità monolitica
– sottostà a tutta la nostra teologia. La salvezza stessa è sempre intesa
in termini di relazione fra persone: implica la personalità e coinvolge
la comunione. L’intero concetto di Dio in relazione all’umanità e al
mondo è una via di compagnia e di condivisione.
La descrizione classica della natura conciliare di Dio si trova nel
libro della Genesi, fonte rispettata da tutte le tre religioni monoteistiche: è la storia raccontata nel capitolo 18 sulla ospitalità di Abramo
e di Sara che accolgono tre stranieri nel deserto di Palestina ed è
1_2011.indd 236
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
237
stata interpretata artisticamente nel capolavoro di Andrei Rublëv, la
cui celebre icona svela le tre persone della Santa Trinità che siedono
attorno al calice della comunione.
È nell’insegnamento sulla Santa Trinità, e non da concezioni mondane del potere o dell’autorità, che si fonda l’intera struttura conciliare e gerarchica della Chiesa ortodossa. La Chiesa ortodossa non ha
un’autorità centralizzata o una leadership centralizzata: essa invece
esprime una costellazione di Chiese sorelle, eguali e indipendenti, fra
le quali il patriarcato ecumenico si colloca storicamente e tradizionalmente al primo rango.
In questo modo il patriarcato ecumenico è investito di un primato
d’onore e di servizio entro la cristianità ortodossa sparsa nel mondo.
La sua autorità non consiste nell’amministrazione, ma nel coordinamento. Ciò non è un segno di debolezza, ma precisamente di conciliarità. Dunque la Chiesa di Costantinopoli serve da primario punto
focale di unità, favorendo il consenso fra le varie Chiese ortodosse.
Perciò il lavoro sugli atti degli antichi concili è un contributo d’incalcolabile valore alla comprensione della mente della Chiesa antica.
È nostra fervente preghiera e speranza che questa edizione prenda
in considerazione la distinzione fra i diversi concili, alcuni dei quali
si occupano di punti critici della dottrina teologica, altri sono intesi
a risolvere questioni canoniche e altri ancora includono decisioni di
carattere confessionale, amministrativo, liturgico e pastorale. Il patriarcato ecumenico assisterà volentieri questo proposito, fornendo il
proprio bordone per la parte sui concili della Chiesa ortodossa specialmente del secondo millennio.
Infine la nozione di conciliarità ha catturato l’interesse dell’intero
mondo ortodosso in questi anni, specie dopo che i capi della Chiese ortodosse autocefale si sono riuniti a Istanbul nell’ottobre 2008 e
hanno dichiarato il loro impegno nel processo di preparazione del
Santo e Grande Concilio che – con la grazia di Dio – sarà celebrato
con la partecipazione di tutte le Chiese sorelle ortodosse non appena
saranno superate alcune difficoltà canoniche e si saranno approntate
le procedure appropriate.
Per questo la sinassi (assemblea liturgica di vescovi, ndr) del 2008
ha deciso di attivare l’accordo di consultazione interortodossa di 15
anni prima per il grande concilio, al fine di risolvere le questioni pendenti nella diaspora ortodossa. Così il patriarcato ecumenico, nel suo
status e responsabilità di coordinatore della questioni panortodosse,
ha già convocato e continuerà a convocare incontri panortodossi ai
quali vengono invitate le Chiese autocefale.
1_2011.indd 237
28-06-2011 12:12:22
238
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
Amati partecipanti a questo incontro: dalle nostre brevi osservazioni sull’importanza dei concili dei primi secoli per l’insegnamento
e la vita della Chiesa nei nostri giorni, voi comprenderete perché il
lavoro inteso a studiare questi preziosi atti dei concili costituisca un
servizio senza pari reso al mondo intero. È un lavoro per il quale tutti
i cristiani ortodossi saranno per sempre grati e che in molti modi ha
influito nell’ispirare il revival d’interesse ortodosso per gli sviluppi e
le decisioni della Chiesa antica. È un lavoro che dà forma alla missione stessa e alla visione del futuro propria della Chiesa ortodossa.
Perciò ci congratuliamo sinceramente con tutti coloro coinvolti in
questo sacro progetto di preservare gli atti dei concili ecclesiastici per
la posterità e di tutto cuore preghiamo che i frutti di questo sforzo siano sempre più accolti e apprezzati dai nostri contemporanei – siano
essi religiosi o laici, studiosi impegnati o un pubblico più vasto. Per
questo applaudiamo anche alla decisione di onorare questo progetto
durante l’anno dei festeggiamenti culturali della città di Istanbul.
Bartholomeos I
Arcivescovo di Costantinopoli e Patriarca ecumenico
La Chiesa è una comunione
Nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei vescovi del
1985 si è detto che «l’idea centrale e fondamentale nei documenti del
Concilio Vaticano II deve essere individuata nella ecclesiologia di comunione», e questa constatazione è ormai ampiamente condivisa nella
Chiesa cattolica: possiamo dire che su di essa molti sono stati i contributi teologici, tra i quali paiono decisivi quelli di Jean Jérôme Hamer,
di Jean-Marie Roger Tillard, di Ioannis Zizioulas, di Walter Kasper…
Ma un’autentica teologia è capace di generare anche una spiritualità o,
per meglio dire, un’autentica teologia è sempre spirituale, pneumatica,
capace cioè di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano
e della comunità. D’altronde, la parola koinonía nel Nuovo Testamento
1_2011.indd 238
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
239
indica innanzitutto la vita della Chiesa nata dalla discesa dello Spirito
Santo, quella vita «epì tò autò» (At 2, 44), perseverante nella didaché
apostolica, nella frazione del pane, nella preghiera. La parola koinonìa
riassume le perseveranze essenziali alla Chiesa nascente e le conferisce
un volto, sicché la Chiesa è epiphàneia della koinonìa trinitaria, una
koinonìa partecipata nella dynamis dello Spirito Santo attraverso la
comunione apostolica (cfr. 1Gv 1, 3.6), una koinonìa che è compimento
della salvezza annunciata dal Vangelo.
Quando noi cristiani diciamo comunione, designiamo in primo
luogo il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio,
ma diciamo anche – essendo noi syn-koinonòi, compartecipi (cfr. Fil
1, 7; Ap 1, 9) – che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo
di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonìa è dunque “essenza”, non
“nota” della Chiesa.
E se la vita del cristiano e della Chiesa è vita secondo lo Spirito
Santo, cioè originata dallo Spirito, e vita in Cristo, allora la spiritualità
non può che essere spiritualità di comunione. In altre parole: la vita
del cristiano e della Chiesa deve essere plasmata dalla comunione,
la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia,
ma realtà costitutiva. La koinonìa è forma Ecclesiae! Certamente, la
comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della
Chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla
prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende
a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno.
Del resto, vediamo che essa risulta ferita, offesa, già nella Chiesa degli
inizi, come ci testimonia il Nuovo Testamento (cfr. 1Gv 2, 18; 3Gv
9-10…); nondimeno, allora come adesso, nella Chiesa è custodita e
perseguìta la volontà di Dio che incessantemente chiede la realizzazione della comunione vi sibile del corpo di Cristo, l’essere uno (en
èinai) come il Padre e il Figlio sono uno (Gv 17, 11).
Tuttavia c’è da chiedersi: i cristiani sono consapevoli di questa
necessità radicale della comunione quale forma della loro vita e della
vita ecclesiale? A questo riguardo, a me pare importante che nella
Novo millennio ineunte papa Giovanni Paolo II sia riuscito non solo
a indicare la forza della koinonìa, ma abbia chiesto una spiritualità
della comunione, specificandola nelle sue manifestazioni e realizzazioni e riprendendo il lessico caro ai Padri medievali che parlavano
della comunità cristiana come “casa di comunione”, capace perciò di
essere “scuola di comunione” (Novo millennio ineunte 43). Sì, perché
l’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in strumenti e strutture!
Ma questo è possibile e autentico solo se si percorre un cammino
1_2011.indd 239
28-06-2011 12:12:22
240
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
spirituale, solo se si riesce a instaurare nel tessuto quotidiano delle
Chiese una spiritualità di comunione.
E nella sua lettera apostolica Giovanni Paolo II delinea questa
spiritualità: essa è da contemplarsi innanzitutto nel mistero della Trinità di Dio che abita in noi e fa di noi cristiani la sua dimora. Si tratta
perciò, dice Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere una capacità
di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio
fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione.
Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (come affermava Jean-Paul Sartre), ma è “dono di Dio”, “dono per me”; è ciò che
mi manca e che mi rivela la mia insufficienza.
No, non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità,
ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce
e vive per la comunione con Cristo non può, simultaneamente, non
agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi
fratelli, membra del suo stesso corpo.
A queste indicazioni lasciateci dalla Novo millennio ineunte vorrei
aggiungere alcune urgenze per una spiritualità della comunione che
sia veramente ispirata dalla Ecclesiae primitivae forma.
Innanzitutto, l’esigenza che la comunione sia plurale. Non si dimentichi mai che la pluralità, la diversità è attestata dagli e negli
scritti fondatori della nostra fede. Dell’unico Signore Gesù Cristo –
«lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13, 8) – ci sono stati dati quattro
Vangeli, cioè quattro annunci diversi, perché non la fissità di un libro,
di uno scritto, bensì la dinamicità dello Spirito Santo è all’origine del
cristianesimo.
C’è fin dall’inizio pluralità di espressioni scritturistiche, di ecclesiologie, di concezioni cristologiche, di prassi liturgiche, di testimonianze e
forme della missio, di accenti spirituali… Questa pluralità – che riflette
la policromia, la multicolore sophìa di Dio (cfr. Ef 3, 10) e l’inesauribilità del mistero di Cristo accolto in culture diverse – è ricchezza di doni,
ma è anche negazione di ogni fondamentalismo e di ogni integralismo
cristiano.
Sì, se si accoglie la diversità come un dono, e non la si ritiene
un’anomalia, se la Chiesa “catholica” sa accogliere la particolarità
delle Chiese locali, se sa essere grata delle ricchezze e dei tesori che
le vengono apportati dalle varie culture e tradizioni, e riesce ad attuare lo scambio di tali ricchezze tra le Chiese particolari, allora essa
diventa davvero la Chiesa in cui risplende «la multiforme sapienza di
Dio» (Ef 3, 10), «la multiforme grazia di Dio» (1Pt 4, 10).
1_2011.indd 240
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
241
D’altronde, la teologia, la liturgia, la spiritualità, il diritto non possono essere elaborati e conosciuti soltanto a partire da un unico centro, ma dovrebbero essere laboratori in cui confluiscono i contributi
di esperienza delle diverse Chiese locali: esperienze vissute, condivise
e anche corrette nel dialogo e nel confronto tra le Chiese, animato
dallo Spirito di comunione. Certo, qui si pone anche un problema
non piccolo: c’è un limite alla diversità, che conosciamo come ricchezza ma a volte anche come possibile tentazione che conduce alla
divisione, all’opposizione reciproca? Questione delicata – riconosce
il metropolita Zizioulas – che concerne soprattutto la problematica
ecumenica. E con sapienza egli dichiara che «la condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità». Questa del
resto è l’applicazione ecclesiale della parenesi paolina sull’unità del
corpo, sulla possibilità di scandalizzare un membro, sulla carità che
deve sempre prevalere: il rapporto “uno-molti”, “unità-diversità” è
sempre da viversi nell’obbedienza dell’unico corpo e della diversità
dei doni dello Spirito Santo (non c’è vita “en Christò” senza la koinonìa dello Spirito Santo). Per usare il linguaggio di san Massimo il
Confessore, la “differenza” (diaphorìa) è positiva, ma non deve mai
diventare “divisione” (diàiresis).
Certamente – va ribadito con forza – questa assunzione della diversità e dell’alterità non apre lo spazio al relativismo se si accetta
che in ogni incontro e confronto regni, come terzo salvifico, Gesù
Cristo, il Kyrios. È lui, il Kyrios, che fa stare insieme mentre distingue,
che accomuna mentre personalizza, che tutti conduce verso il Regno
veniente.
E in questa spiritualità di comunione il riconoscimento del Kyrios
ricorda e assicura che la diversità dei doni si compone anche nella
preghiera: la preghiera gli uni per gli altri, la preghiera comune, vera
epiclesi di un’unica eucaristia. È nella preghiera che noi portiamo
tutto ciò che siamo e anche tutto ciò che ancora non siamo, ma che
dobbiamo diventare secondo la volontà e la chiamata del Signore.
La preghiera che dobbiamo fare con insistenza è che il Signore ci
conceda di vivere questa comunione plurale, così che trovi autentica
realizzazione la descrizione del corpo ecclesiale lasciataci da Anselmo
di Havelberg (XII secolo) nei suoi Dialoghi:
Unum corpus Ecclesiae,
quod Spiritu Sancto vivificatur,
regitur et gubernatur…
unum corpus Ecclesiae uno Spiritu Sancto vivificari…
semper unum una fide, sed multiformiter distinctum
1_2011.indd 241
28-06-2011 12:12:22
242
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
multiplici vivendi varietate
(Dialoghi I, PL 188,1144).
Il Signore Gesù, che prima di passare da questo mondo al Padre
ha pregato per l’unità dei credenti in lui, ci conceda di essere realmente quest’unico corpo multiformiter distinctum, vivificato dall’unico Spirito Santo. Così, nella storia noi già parteciperemo al raduno
escatologico dei figli di Dio dispersi, e seguendo Gesù Cristo vedremo cadere i muri divisori dell’inimicizia e saremo partecipi della sua
pace (cfr. Ef 2, 14-18). Se siamo autentici discepoli di Gesù Cristo,
tutto dobbiamo predisporre, sentire e operare in vista della comunione con lui che tutto vuole reintestare a sé, perché Dio sia tutto in tutti
(cfr. 1Cor 15, 28).
Sì, ogni spiritualità cristiana può solo e sempre essere una spiritualità di comunione: lotta spirituale contro Babele, epiclesi di rinnovata Pentecoste!
Enzo Bianchi
Priore della Comunità monastica di Bose
La recherche en théologie liturgique. Études et publication des sources
Pour qui s’occupe de recherches et d’études sur les mouvements de
la vie religieuse, il est évident que la liturgie se trouve toujours au premier plan; alors que, pour les uns, elle est un objet de travail tranquille,
pour les autres elle est source de vigoureuses polémiques. Il n’y a pas de
doute que la liturgie est une des grandes forces appelées à collaborer à la
construction du monde nouveau de l’esprit et de la foi. Aussi bien, ceux
qui, de manière scientifique ou pratique, s’emploient à faire revivre la
liturgie, collaborent – sans peut-être s’en apercevoir – à des finalités plus
élevées. Si nous voulions formuler dans une synthèse les sources de la
vie spirituelle et les lois fondamentales de l’être, nous ne saurions mieux
faire que de les exprimer dans ces mots: fontes et ordo; les sources de la
vie spirituelle et les normes fondamentales de l’être. La liturgie devrait
être ces deux choses: la source et la norme de vie.
Ce sont là les expressions par lesquelles, en 1926, Cuniberto Mohlberg introduisait son article dans la revue La Scuola Cattolica sous
le titre: La liturgie envisagée comme une science (La liturgia conside-
1_2011.indd 242
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
243
rata come scienza 54 [1926] 401-421). Paroles chargées d’actualité,
qui conservent aujourd’hui encore toute leur force de convinction en
engageant la science liturgique et plus généralement la théologie à
poursuivre leur effort sur le chemin de la recherche des sources. C’est
la raison pour laquelle le Président de la Pontificia Academia Theologica a tenu à être présent aujourd’hui en cette heureuse circonstance
où on préentes le projet Mansi 3: la digitalisation des documents de
tous les Conciles du Ier et du IIe millénaire.
Pourquoi une référence dans ce cas à la science liturgique? Les
questions débattues dans les documents des synodes concernent, directement ou indirectement, le culte (lex orandi), mais toujours dans
une relation dialectique avec le contenu de la foi (lex credendi) et
avec la vie en Christ (lex vivendi). D’où le très grand intérêt du théologien appelé par vocation à approfondir la traditio Ecclesiae.
La “vocation” du théologien. Parmi les diverses formes de ministères présents dans l’Église, celui du théologien n’est pas d’importance secondaire. À chaque période de son histoire, la communauté
ecclésiale doit répondre au projet de Dieu, en dialogue constant avec
son temps, avec les cultures, avec les grandes et les petites mutations
spirituelles, et avec les exigences auxquelles l’Église elle-même doit
faire face pour aller de l’avant et rester dans la vérité. Les moments
de crise et de tension ne manquent pas, mais c’est précisément ici que
la “vocation du théologien” se développe et se réalise pour «acquérir,
en communion avec le Magistère, une intelligence toujours plus profonde de la Parole de Dieu contenue dans les Écritures inspirées et
transmises par la Tradition vivante de l’Église».
Telles sont les expressions que nous lisons au n. 6 de l’Instruction
sur la vocation ecclésiale du théologien, publiée par la Congrégation
pour la Doctrine de la Foi le 24 mai 1990. Parmi les nombreuses
perspectives présentes dans ce document, après avoir rappelé que la
vérité est un don de Dieu à son peuple (I), on y met dûment en évidence la “vocation” du théologien (II) en affirmant que «la théologie
contribue à faire en sorte que la foi devienne communicable, et que
l’intelligence de ceux qui ne connaissent pas encore le Christ puisse
le chercher et le trouver» (n. 7). De là la nécessité que «le théologien
soit attentif aux exigences épistémologiques de sa discipline, aux exigences de rigueur critique, et donc au contrôle rationnel de chaque
étape de sa recherche» (n. 9).
En restant dans la même ligne le document affirme encore: «Le
théologien, qui ne doit jamais oublier qu’il est lui aussi membre du
1_2011.indd 243
28-06-2011 12:12:22
244
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
peuple de Dieu, doit se montrer respectueux à son égard et s’efforcer de lui dispenser un enseignement qui ne lèse en aucune façon
la doctrine de la foi» (n. 11). À partir de ces affirmations et d’autres
encore, le document s’arrête successivement sur le magistère des Pasteurs (III), sur le rapport entre magistère et théologie (IV), avant de
conclure par l’invitation à persévérer «dans la doctrine de vérité et de
liberté entendue depuis le commencement» au service de la Parole et
du peuple de Dieu (n. 42).
C’est sur cet horizon – avec les développements ultérieurs contenus notamment dans la Lettre encyclique Fides et ratio de Jean-Paul
II (14 septembre 1998) – que se meut également le ministère du
théologien, en ayant pour objectif d’élaborer et de développer une
réflexion en dialogue avec le Magistère et à son service, à la lumière
et à l’école de la Tradition des Églises, en vue du développement et
de l’approfondissement de la foi du peuple de Dieu.
La recherche en liturgie à partir des sources. Sur les secteurs, sur
la méthode et sur les objectifs de la recherche dans le champ de la
théologie liturgique sont apparus de nombreux travaux, surtout à la
suite des requêtes du mouvement liturgique et cela jusqu’à nos jours.
Mais n’oublions pas que la science liturgique a débuté dès le milieu
du XVIIIe siècle sous l’impulsion du cardinal Prospero Lambertini,
devenu par la suite le pape Benoît XIV.
C’est dans ce contexte qu’il convient aussi de situer la contribution importante qu’a apportée la publication des sources antiques
déjà au XVIIe siècle, grâce aux travaux des cardinaux Bona († 1674)
et Tommasi († 1713), ainsi que des savants Mabillon († 1707), Lebrun
(† 1729), Martène († 1739), Muratori († 1750), Bianchini († 1764),
et d’autres, avant d’arriver aux innombrables éditions apparues au
cours du XXe siècle.
La recherche centrée principalement sur les sources, et donc sur
la connaissance de la traditio Ecclesiae codifiée et exprimée dans le
langage de la théologie liturgique, permettra d’avoir à notre disposition un cadre toujours plus vaste et plus objectif, capable d’ouvrir de
nouvelles pistes aux conséquences très variées. Si les événements et
les mouvements de la pensée théologique typiques du XIXe siècle doivent beaucoup à ce retour aux sources, ils sont aussi le signe éloquent
des développements naturels que l’étude de ces sources comportait.
Ainsi l’on comprend mieux ce que la constitution Sacrosanctum
Concilium a établi en matière d’enseignement de la liturgie, au n.
16. Outre qu’elle lui assigne sa place «parmi les disciplines princi-
1_2011.indd 244
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
245
pales» – une requête qui continue de faire problème pour beaucoup
en raison de l’incommunicabilité des savoirs qui caractérise aussi la
théologie –, le fait qu’elle prescrit d’enseigner la liturgie «sous les
aspects théologique, historique, spirituel, pastoral et juridique» ouvre
des perspectives dans le domaine de l’étude et de la recherche que
d’autres disciplines n’ont pas, du moins de manière directe et explicite comme la liturgie.
C’est dans cette optique que le théologien liturgiste salue lui aussi l’entreprise Mansi 3, en formulant le vœu qu’une plus profonde
connaissance des sources synodales permette de mieux comprendre
la Divine Liturgie, qui constitue la plus haute expression symbolique
d’un itinéraire synodal dans le temps. L’exigence de fond est garantie
par l’interaction essentielle entre lex credendi, lex orandi et lex vivendi: une réalité dans laquelle se meut toujours l’itinéraire synodal
de toutes les Églises de tous les temps et de tous les lieux.
Le secret d’une “méthode” qui mène à une vision de synthèse. Si
les nombreuses études réalisées surtout après le Concile Œcuménique Vatican II dans le domaine de la théologie liturgique se réfèrent
à la pensée élaborée au temps de nombreux Pères de l’Église, elles
ont profité aussi de l’apport de l’expérience historique. À la suite du
décret Optatam totius 16 on voit se dessiner une perspective de synthèse, non pas fermée sur elle-même, mais continuellement ouverte à
la fois sur l’approfondissement des diverses disciplines qui interfèrent
dans l’élaboration de la synthèse elle-même, et sur les réactions vitales qu’une telle problématique relance. La trilogie signalée plus haut
réapparaît encore non pas comme un jeu de paroles, mais comme la
définition d’une donnée de fait: ce que l’on célèbre (lex orandi) est
la foi de l’Église (lex credendi) pour la vie des croyants en Christ (lex
vivendi).
La conséquence qui découle d’une telle vision est qu’il faut aborder la liturgie non pas tant comme un rite que comme une expérience
théologique unique: une expérience qui renferme en elle-même une
théorie et une praxis, partant toujours de la célébration. Dans la situation complexe où se débat aussi la science théologique, remettre le
culte au centre c’est offrir la possibilité d’une synthèse intégrale dans
laquelle lex credendi, lex orandi et lex vivendi retrouvent leur point
de convergence le plus radical dans une expérience réelle, quoique
in mysterio, de la Très Sainte Trinité.
Quand Fides et ratio au n. 13 parle de l’intelligence du mystère
de la part de la raison, aidée en cela par «les signes présents dans la
1_2011.indd 245
28-06-2011 12:12:22
246
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
Révélation», l’encyclique aboutit à une affirmation qui constitue le
meilleur complément à tout ce que nous venons de dire: dans le travail d’approfondissement du mystère on est nécessairement renvoyé
«à l’horizon sacramentel de la Révélation et en particulier, au signe
eucharistique où l’unité inséparable entre la réalité et sa signification
permet de saisir la profondeur du mystère». Presque au commencement de son Encyclique, après avoir évoqué les grandes interrogations que l’homme se pose, Jean-Paul II écrivait:
L’église n’est pas étrangère à ce parcours de recherche, et elle ne peut
l’être. Depuis que, dans le Mystère pascal, elle a reçu le don de la vérité
ultime sur la vie de l’homme, elle est partie en pèlerinage sur les routes
du monde pour annoncer que Jésus Christ est «le Chemin, la Vérité et
la Vie » (Jn 14, 6). Parmi les divers services qu’elle doit offrir à l’humanité, il y en a un qui engage sa responsabilité d’une manière tout à fait
particulière: c’est la diaconie de la vérité. D’une part, cette mission fait
participer la communauté des croyants à l’effort commun que l’humanité
accomplit pour atteindre la vérité et, d’autre part, elle l’oblige à prendre
en charge l’annonce des certitudes acquises, tout en sachant que toute
vérité atteinte n’est jamais qu’une étape vers la pleine vérité qui se manifestera dans la révélation ultime de Dieu (n. 2).
C’est dans la ligne de cette “diaconie de la vérité” que le théologien travaille à partir d’une connaissance attentive des sources. Le
devoir de «s’enquérir des différents aspects de la vérité» conduit au
désir de «faire part de quelques réflexions sur la voie qui conduit à
la vraie sagesse, afin que tous ceux qui ont au cœur l’amour de la sagesse puissent s’engager sur la bonne route qui permet de l’atteindre
et trouver en elle la récompense de leur peine et la joie spirituelle»
(n. 6).
Tels sont les vœux et les souhaits de la Pontificia Academia Theologica, en cette période pendant laquelle l’Église de Rome se prépare
à célébrer le 50e anniversaire du Concile Œcuménique Vatican II, qui
fut, si l’on tient compte du nombre des évêques particpants, le plus
grand des synodes de tous les temps.
Manlio Sodi
Presidente della Pontificia Accademia di Teologia
1_2011.indd 246
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
247
Intervento di İlber Ortayli1
Your All Holiness, Eminenza, dear colleagues, ladies and gentlemen, It is an honour for me to be invited by professor Melloni to give
an introductory paper on the history of the councils. Certainly it is
not my duty nor my profession to talk about the history of Christian
councils which covers almost 1.700 years of Christianity beginning
with the Ecumenical council convened by the Christian emperor Constantine in Nicaea in 325 and then later in the year 787 the Ecumenical council under roman emperors of Istanbul, Constantinople,
which was the final point of formation of the doctrines of the Orthodox Church. This Church was inherited and adopted by the administration of the Turkish Ottoman Empire and was established on
principles and legal juridical and administrative structures which
continued until the period of Tanzimat. Only after the restrictions
and events of the Convention of Paris, European powers urged the
Ottoman Empire to reform, and the orthodox church had to change
the structures. That is another paragraph.
Certainly the situation of the minorities is another fact. ‘Minorities’ is a term, a word imposed to our political life only in twentieth
century. In the Ottoman Empire it was called communitas, millet.
‘Millet’ is as you know is an Aramaic word ‘mille’, community which
was adopted by Jews, and others like the Arabs of Islamic faith. In
the Ottoman Empire we had of course communities as defined by the
ecumenical councils in the history of Christianity. The first in Nicaea
will not be mentioned here. The council of Ephesus 431, and shortly
after Chalcedon (Kadköy) in 451 are two main points for Turkish history and especially for the administrative history of the Persian and
Turkish empires. The Nestorians which had been excommunicated
by this council had been welcomed by the Sassanid king of the Persian empire who gave them a place of exile in his empire. Nestorian
Christianity also left monumenty and communities in the Ottoman
Empire and in modern Turkey too. These are the Kurdish groups of
Hakkari and Shah Zoor in the very eastern part of Turkey. Today they
have disappeared due to migration to France and Sweden, but even
during my youth one could easily meet them in the south eastern part
of Turkey. Certainly Syriac Orthodoxy became a national religion and
national faith of some Turkish groups before and after Islam. Some
1
1_2011.indd 247
Pubblichiamo la trascrizione dell’intervento non rivista dall’autore.
28-06-2011 12:12:22
248
Bartholomeos I, E. Bianchi, M. Sodi, İ. Ortayli
Nestorian patriarchs were of Turkish origin in the very far eastern part
of Turkey and China, in todays Xingjian province, Eastern Turkestan.
In order to understand the pre-islamic and Islamic period of Turkish
history one must study the Nestorian faith and Nestorian monasteries
and council of Ephesus and this done now by very few and its history
lies in darkness. Nestorians had been supported by Persian Sassanid
empire against Byzantium just as the Turkish Empire in 16th and
17 centuries offered protection of protestant faiths and Protestantism against western Roman Catholicism. It is not an accident that
such heritage is consciously inherited and adopted from the sources
of medieval Persian Empire. The regulations on how to govern and
how to cooperate with Christian communities is also Persian. It is a
theoretical and practical heritage of this empire and late comers of
Islamic states and the Turks.
The last ecumenical council of 787 in Constantinople basically
was a spiritual, theoretical and administrative discussion about iconoclasm. Certainly iconoclasm was the policy of the Roman church to
adopt situation and to impose the rules of Christianity the tolerance
and understanding towards newcomers the Arabs and Muslims. They
had to show the basic principles and truths of Islam were also accepted by Christians, so there was no room for innovation. But then
on the other had the formation of the Roman Orthodox church had
been adopted by everyone. The Turkish Sultan, the founder of Top
Kapi, in 1454 on Christmas pompously day accepted the patriarch
Gennadios. It was the beginning that the principles of the basic structures of roman Orthodox church had been accepted and adopted by
the Turkish empire till then, till the days of the convention of Paris,
when others churches had to be accepted as equal partners of Christian faith in the empire. In those days the ecumenical patriarch in
the empire was not primus inter pares but the first and he had the
supreme power of representing all Christians in the empire. However
though the monophysite Armenian Gregorian church and the Copts,
the Syrians and also the Nestorians did not officially accept this primacy they tolerated it. The Syrian church from time to time was listed
in the official protocol of the empire as a member of the anti-Chalcedonian churches. The patriarch was supreme representative and
always belonged to Orthodox church. This was not only during the
ceremonies in the Capital but also in the provinces. Wherever there
was a representative cleric of the Orthodox church, he had the first
place in the ceremonies. This had to be changed after the convention
of Paris by the forces of the western empire.
1_2011.indd 248
28-06-2011 12:12:22
Interventi della Conferenza internazionale sui recenti studi sui concili
249
The last paragraph, the ottomans never had a theoretical occupation never had a theoretical dispute about Christian councils. There
is only one. The famous Ottoman historian and theologian Ahmed
Cevde Paşa gave some information in his monumental history, Cevdet
Paşa Tarihi about the history of the Christian councils but not in detail. It was out of interest and properly it was due to his official position as he was minister of justice for Christian councils. But besides
his intentions, the Ottomans never talk about theological matters but
organise the communities after conquering each one according to the
historical decisions and practice of Christian councils. They divided
them according to Ephesus and Chalcedon into Chalcedonian and
anti-Chalcedonian groups. For them there was no mention of some
Armenian groups which accepted the supremacy of Orthodox church
and they never mention dispute between these two churches Armenian Gregorian and Orthodox Church in Constantinople and Coptic
church or Syriac one but the administrative party and the spiritual
organisation had been well accepted. It is a fact that the church had
to obey the rules the decisions of the Orthodox church of 787 before the pre Ottoman and seljukid times. The Roman epoch has been
adopted and accepted by Sultan Mehmet Fatih. It is a fact. Within
the Turkish Empire it is the ecumenical Orthodox Church. Anywhere
you have the human being and anywhere you have a human body
this is within the boundary of the Oikumene. The Orthodox Church
is immanently in the Byzantine Orthodox church. They never called
it Yunnan or Hellen or Greek Orthodox Church. The basic problem
of today was not discussed in former times. It is a fact that 18th and
19th century Ottoman Empire was a place where all these communities which had emerged lived with their different concepts of Christianity. You cannot find anywhere else such a powerful society and
that was the Ottoman Empire. Thank you Your Holiness. Thank you
for being here.
İlber Ortayli
Director of Topkapı Palace Museum, Istanbul
1_2011.indd 249
28-06-2011 12:12:22
1_2011.indd 250
28-06-2011 12:12:22
Cr St 32 (2011)
251-355
Recensioni
Maurice Casey, The Solution to the ‘Son of Man’ Problem, (Library of New
Testament Studies 343), T&T Clark, London 2007, pp. xvi+359
J.A. Fitzmyer, The One Who Is to Come, Eerdmans, Grand Rapids, Michigan/Cambridge, UK 2007, pp. xvi+205
Together these two books shed much light on the origins of the Christological titles “Son of Man” and “Messiah”. Such titles were not invented by the Early
Church. Rather, they are rooted in Jewish traditions recorded in the biblical texts
and other religious writings from the Second Temple period. Each of the two books
traces this development. Whereas the Son of Man, as shown in Casey’s book, derives
from an early interpretation of the relatively late biblical text Dan 7:14, the Messiah
nevertheless is a title whose origins go back to Israel’s Anointed One and which was
originally used with reference to the first kings of Israel like Saul and David.
Casey’s monograph examines how the ordinary Aramaic expression meaning
“man”, i.e., br (’)nš(’), became the Christological title ho huios tou anthropou “Son
of Man” in Early Christianity. The author begins in Ch. 1 (1-55) by tracing the
interpretation of the expression ho huios tou anthropou from the Patristic period
down to modern times. He shows that right from the beginning its understanding
derives from the Greek version of Dan 7:13, which is also reflected in the New
Testament texts, e.g. Mrk 13:26//Mat 26:64//Luk 21:2; Mrk 14:62//Mat 26:65,
rather than from the Aramaic idiom meaning “man” used by Jesus of Nazareth.
In the historical Jesus’ own usage, Casey claims, the expression does not originally have a messianic sense. But one may ask if the meaning “man” is common
in Aramaic. To answer this question, Casey offers in Ch. 2 (56-81) a study of 53
Aramaic passages from different periods of the language down to the Early Rabbinic writings where the expression is attested. According to Casey, the meaning is
invariably generic, i.e., “man”, regardless of its grammatical form as determinate,
indeterminate, or absolute state. He also argues that the indication of determination is more relevant for identifying the reference of the expression in concrete
1_2011.indd 251
28-06-2011 12:12:22
252
Cr St 32 (2011)
use rather than its sense. In Jewish Aramaic texts alone, that is the Aramaic closest
to Jesus’ own, over 30 times the expression simply means “man” and is used in
reference to the speaker, or a group of people including the speaker, or someone
else as clear from the context.
Ch. 3 (82-115) presents a study of Daniel 7, the Similitudes of Enoch, and 4
Ezra 13. The purpose of this chapter is to critically examine the 19th century scholarly construct Menschensohnbegriff which gives a messianic reading of Dan 7. In
contrast to the underlying assumption of this position, Casey suggests that the Son
of Man in Dan. 7:13-14 is a symbol for the Saints of the Most High, a description
of people of Israel rather than a messianic figure. He proceeds to show that neither
in the Similitudes of Enoch is the term employed with an allusion to a messianic
title. Whenever it occurs, the term retains its general meaning “man” and refers to
Enoch himself. Much in the same vein, the author speculates that in all probability
the original Hebrew of 4 Ezra 13 does not include the expression “the son of man”,
but simply “man” – as suggested by the Latin version homo. Hence Casey denies
that the Son of Man is predominantly used in a messianic context in Second Temple
Judaism. The New Testament writings therefore must have gone their own way. The
rest of Casey’s monograph focuses on this problem.
In Ch. 4 (116-143) the author pursues the issues further by offering an Aramaic
reconstruction of six authentic sayings of the Son of Man (Mrk 2:27-28; 9:11-13;
10:45; 14:21; Mat 11:19//Luk 7:34; Mat 12:32//Lk. 12:10 + Mrk 3:28-28). The next
five chapters (144-245) also present the author’s Aramaic reconstructions of other
New Testament passages where the expression the Son of Man occurs: Ch. 5: Mrk
2:1-12 (the healing of the paralytic); Ch. 6: Mat 8:19-20//Luk 9.57-58 (jackals have
holes, but…). Ch. 7: Luk 12:8-9//Mat 10:32-33 and Mrk 8:38 (the Son of Man in
the heavenly court); Ch. 8: Luk 22:48 (betrayed by a kiss). In Ch. 9 (200-211) Casey
goes on to examine the groups of sayings stemming from Jesus predicting his passion,
death, and resurrection (Mrk 8:31; 9:31; 10:33-34) using the same expression. The
reconstruction of the remaining Son of Man sayings in the synoptic Gospels (e.g., Mrk
13:26 and 14:62) are given in Ch. 10 (212-245) where the expression ho huios tou
anthropou is presented by Mark and other synoptic Gospels as a title for Jesus, linking
it to Dan 7:13.
Ch. 11 (314-319) draws together the results obtained from the reconstructions
given hitherto and shows the transition from the Aramaic idiom meaning “man”
into Greek ho huios tou anthropou and its use in the sayings. Since the Aramaic
idiom cannot be simply transposed into Greek, the translation adopts the singular
Aramaic when it is used with reference to Jesus. When referring to someone else,
anthropos is used. But if the original is in the plural, the rendering avoids pluralizing ho huios tou ... as hoi huoi tou… simply because the term has in the meantime
become a Christological title for Jesus. In Ch. 12 (274-313) Casey looks at the use
of the expression in the 13 Johannine sayings. None of these, he notes, is a genuine
saying and thus none reproduces the original Aramaic idiom meaning “man” in
general. He then suggests that the use of the expression as a Christological title in
the Gospel of John derives from the Synoptics, esp. Matthew.
Summarizing the main results achieved in the foregoing chapters, the author
highlights, in the concluding chapter (314-320), how the sayings of the historical
1_2011.indd 252
28-06-2011 12:12:22
Recensioni
253
Jesus differ in perspective from their Christological and messianic interpretation
arising in the earliest phase of Christianity as reflected in the Gospels.
Granting that one generally agrees with Casey, one may still ask what could
have facilitated such an ordinary Aramaic expression meaning “man” to lend itself
to a messianic interpretation. Were the early followers of Jesus, including the Syriac
Christianity, ignorant about the genuine Aramaic usage so close to their own idiom?
There must have been something that leads to that interpretation. To explore this
matter further one must look at the development of the idea of the Messiah in the
Biblical writings and extrabiblical writings as well. For this purpose, Fitzmyer’s The
One Who Is to Come provides a masterly guide.
The title of the book echoes Sigmund Mowinckel’s 1951 classic Han som kommer, known in its English translation appearing in 1956 as He That Cometh. Fitzmyer, however, adopts a more historical perspective to explain how the notion of
the Anointed One gradually developed into that of a promised royal Messiah of the
final age. He also treats more textual data, especially from Qumran, which were
not readily available to Mowinckel. What follows here is just a brief outline of the
book, showing how the author organizes the wealth of textual data into a systematic
order.
After some brief remarks on the general sense of the term “Messiah” in Ch. 1
(1-7), Fitzmyer presents, in Ch. 2 (8-25), passages from the Old Testament where
the Hebrew word for Messiah is used with reference to kings (an unnamed king
of the Davidic dynasty, e.g. 1 Sam 2:10; Saul, e.g. 1 Sam 24:7; David, e.g. 2 Sam
19:22; Solomon, 2 Chr 6:42; Zedekiah, Lam 4:20, and even the Persian king Cyrus,
Isa 45:1), priests (Lev 4:3,516; 6:15), then prophets/patriarchs (1 Chr 16:22; Ps
105:15). Ch. 3 (26-32) highlights other passages that do not mention the term Messiah but are often regarded as the background for it: Gen 3; 49; Num 24:17; Gen
9:25-27; 12:3; Exod 12:42 and Deut 18:15-18. The author observes that the textual
evidence points to diverse forms of the promise made by God to bless Israel, but
cannot be taken as containing messianic prophecies or expressing some messianic
hope.
Ch. 4 (33-55) focuses on a group of texts that intimately link the royal Messiah
to the Davidic dynasty, many of which are listed by Mowinckel as “the authentic
messianic prophecies”. Even though a good number of these texts offer a picture
of “the ideal king” of the Davidic lineage, they do not fully represent the idea of
“the Messiah” as the future, eschatological realization of the ideal of kingship. Ch.
5 (56-64) shows how some passages in the Book of Daniel reinterpret the postexilic
expectation of a political Messiah in function of the Davidic dynasty in the context
of the historical events during the Hasmonean crisis: the Vision of Judgment in
Dan 7:9-14, the Prophecy of the Seventy Weeks or Years (9:24-27); and the Final
Consummation (12:1-3). To complete the discussion of the Old Testament, in Ch. 6
(65-81) the author notes that, concerning the continuation of the Davidic dynasty,
there is no significant development in the Septuagint that shows a different understanding of the Hebrew passages.
Ch. 7 (82-133) is a lucid exposition of a large number of texts documenting the
development of Jewish Messianism during the pre-Christian centuries. The author
begins by discussing passages in the Similitudes of Enoch which make mention of
1_2011.indd 253
28-06-2011 12:12:22
254
Cr St 32 (2011)
someone who is sent by God for the deliverance of His people at the time of judgment. The Messiah here clearly refers not to a corporate group but to an individual.
This is also echoed in a number of Qumran texts concerning two Messiahs or one
Messiah. Also considered are texts that do not explicitly use the term, but in one
way or another are messianic in thought. In this connection Fitzmyer inserts a
discussion of two recent important monographs, namely O. Wise, The First Messiah: Investigating the Savior before Jesus (1999) and I. Knohl, Messiah before Jesus
(2000). The survey continues with other significant pre-Christian Jewish texts, such
as the Sibylline Oracles, 4 Ezra, 2 Baruch, the Testament of the Twelve Patriarchs,
and other writings that contain references, direct or indirect, to Messiah such as the
Apocalypse of Abraham and Philo’s writings.
Ch. 8 (134-145) is dedicated to the analysis of the use of the term for Messiah
in the New Testament. Its occurrences in Misnah, Targums, and other Rabbinic
writings are discussed in Ch. 9 (146-181). In the concluding chapter (182-183) Fitzmyer underlines the diversity of Messianism throughout its history. The Messiah can
be kingly in character, at other times priestly. Again, other forms have also existed.
Such a diversity was also known to the emerging Christian communities. It is in such
circles that a new awareness arises. The Messiah is experienced by them as the one
who has come and is identified with Jesus of Nazareth who, for that very reason,
now bears the name Jesus Christ, i.e., Jesus the Messiah. The messianic hope also
takes a spiritual turn, abandoning its political and economic thrust in the earlier
Jewish Messianism. This development of the messianic hope as shown by Fitzmyer
can help to answer a question that is somehow left open in Casey’s monograph, i.e.,
how at some point an underlying ordinary Aramaic expression idiom “man” used
by Jesus of Nazareth acquired a typically messianic sense in its Greek form ho huios
tou anthropou in Early Christianity.
Agustinus Gianto
Pontificio Istituto Biblico
Martin Hengel, Anna M. Schwemer, Jesus und das Judentum, Tübingen,
Mohr Siebeck 2007, pp. 749
Das vorliegende Buch stellt die Summe von Martin Hengels und Anna-Maria
Schwemers langjähriger Arbeit über Jesus und seine jüdischen Herkunft dar. Es
lässt sich dank seiner ausführlichen Register und der minutiösen Arbeit mit historischen Quellentexten gut als Handbuch zur Geschichte Jesu verwenden.
1_2011.indd 254
28-06-2011 12:12:22
Recensioni
255
Das Leben Jesu
Die eigentliche Darstellung des Lebens Jesu beginnt erst auf Seite 271. Sie folgt
im Wesentlichen den Synoptikern vor allem dem Markusevangelium, entsprechend
der heutigen Auffassung, dem ältesten der Synoptiker. Die Beschreibung des Lebens Jesu setzt daher mit Johannes dem Täufer ein und konzentriert sich auf die gut
eineinhalb Jahre seines öffentlichen Wirkens, wie sie bei Markus begegnen.
Dem geht ein Abschnitt über die Herkunft Jesu vorweg (S. 273–296). Jesus
wächst in Galiläa auf. Dort tritt er auch als erstes öffentlich auf. In unmittelbarer
Nähe der Heimat Jesu liegt die einflussreiche hellenistische Neugründung Sephoris.
Sie ist allerdings kein einziges Mal in den Evangelien erwähnt. Benannt werden
Jesus und seine ersten Anhänger nach dem bis zu seinem Wirken unbedeutenden
Heimatdorf Nazaret (S. 280).
Aus den Namen der Eltern und Geschwister Jesu lässt sich schließen, dass er aus
einer „relativ gesetzesstrengen, ‚nationaldenkenden’, wahrscheinlich von pharisäischem Geist beeinflussten Familie“ stammte (S. 285). Dass Jesus und seine Familie
davidischer Herkunft waren, halten die Autoren für wahrscheinlich (vgl. S. 292).
Den davidischen Stammbaum Jesu bei Lukas halten sie für älter als den, den Matthäus bereits als eine schriftgelehrte Darlegung der Herkunft Jesu aus der Schrift
rekonstruiert.
Von Beruf ist Jesus Bauhandwerker, was die Autoren als ein handwerkliches
Factotum im damaligen Baugewerbe beschreiben. Der τέκτων ist kein angesehener
Beruf. Ein griechischer Handwerkskollege Jesu wird von seinen Zeitgenossen etwa
als „Holznagel“ verhöhnt (S. 294).
Der Einstieg in das öffentliche Wirken Jesu bei Johannes dem Täufer legt sich
für die Autoren auch insofern nahe, als die vom Täufer initiierte Bekehrungsbewegung auch bei Flavius Josephus dokumentiert ist. Josephus nennt den Täufer unabhängig von den Evangelien mit der gleichen auffälligen Bezeichnung ὁ βαπτιστής.
Er kennt auch den Ort seiner Hinrichtung Machärus (S. 298f), den die Evangelien
nicht erwähnen. Flavius Josephus wird von beiden Autoren oft als zuverlässige historische Quelle dieser Zeit herangezogen, gelegentlich – etwa im Fall der Herodias
(S. 311) – sogar als zuverlässiger als die sporadischen Informationen der neutestamentlichen Quellen. Von ihm stammt die „einzige durchgehende historische Erzählung“ dieser Zeit (S. 39).
Nach Hengel und Schwemer wurde Jesus bereits während seines irdischen Lebens von seinen Jüngern verehrt. Für die Jünger ist Jesus Lehrer und Herr. Zweimal wird Jesus in den Evangelien mit der hebräischen Intensivform „Rabbuni“
angesprochen (Mk 10,51; Joh 20,16). Johannes übersetzt es mit „Lehrer“. Rabbinische Gebetstexte sprechen allerdings Gott als ribbôn (rabbûn) an. Die Ehrenanrede
Gottes mag auch die ursprüngliche Herkunft der Anrede Jesu sein (359f).
In den Evangelien zeigt sich aber auch bereits der irdische „Anspruch“ Jesu, mit
seinem Wirken die Herrschaft seines himmlischen Vaters in Israel heraufzuführen.
Seinen Jüngern erzählt er von seiner Vision, in der er Satans Himmelssturz gesehen
hat (Lk 10,17–20). Er weiß also, dass Satans Macht überwunden ist. Die Vollmacht,
auf Schlangen und Skorpione zu treten, die er seinen Jüngern gibt, spielt auf Gen
3,15 an: Seine Jünger sind die Nachkommen Evas, die der Schlange das Haupt
zertreten (Gen 3,15, vgl. S. 374).
1_2011.indd 255
28-06-2011 12:12:22
256
Cr St 32 (2011)
Weitere Zeichen des „messianischen Anspruchs“, den Jesus schon Zeit seines
Lebens erhebt, sind seine Einsetzung der Zwölf, der Einzug in Jerusalem, die Tempelreinigung und seine letzten Worte beim Abendmahl (Vgl. S. 554). Im „Jubelruf“
(Lk 10,21f; Mt 11,25-30) spricht Jesus von seiner göttlichen Sendung. Sein Lobpreis des Vaters lässt eine kunstvolle doppelte „Zwiebelstruktur“ erkennen (S. 392).
Beide Autoren halten dazu fest: „Unseres Erachtens spricht nichts dagegen, diesen
poetischen Preis der Zuwendung Gottes des Vaters zu den Unmündigen letztlich auf
Jesus zurückzuführen.“
Nicht nur mit dem Abschnitt über die Herkunft Jesu auch bei der Auferstehung
gehen die beiden Autoren über den Markusrahmen hinaus. Die einheitliche Überlieferung der Handschriften des Markusevangeliums endet in 16,8 mit der Flucht
der erschrockenen Frauen vom leeren Grab. Die Erscheinung Jesu ist hier nur angekündigt aber noch nicht berichtet. Hengel und Schwemer halten aber mit 1 Kor
15 sowohl die Tradition vom leeren Grab als auch die Ersterscheinung vor Petrus
für historisch wahrscheinlich (S. 646). Die unterschiedlichen Angaben der Evangelien über die Erscheinungen des Auferstandenen sprechen für sie nicht gegen deren
historische Zuverlässigkeit. Die erste Erscheinung vor Petrus und darauf vor den
Jüngern beruhe auf einer Tradition der galiläischen Gemeinden. Auch den Frauen
ist der Auferstandene erschienen. Die Erscheinung am leeren Grab vor den Frauen
sei in der Jerusalemer Gemeinde überliefert worden.
Die vier Perioden des frühen Christentums
Das vorliegende Buch ist als erster von vier Bänden einer Geschichte des Urchristentums geplant. Daher geht der Darstellung des Lebens Jesu auf den ersten
168 Seiten eine längere Einleitung voraus. Sie liefert die historischen Prämissen für
das Gesamtwerk. Hier liegen aus theologie- und kirchengeschichtlicher Perspektive
die eigentlich neuen Punkte der Darstellung der beiden Autoren.
Martin Hengel hat seine Sicht des Neuen Testaments im Gespräch häufig als
„neutestamentlichen Imperialismus“ bezeichnet. Die chronologische Grenze nach
vorn hat er selbst bereits 1966 mit seiner Habilitationsschrift „Judentum und Hellenismus“ bis in die Zeit vor den Alexanderfeldzug gezogen. In den letzten Jahrzehnten hat er etwa mit seinen Beiträgen zur Johannesexegese die Grenzpfeiler
seines Fachs bis weit in das zweite nachchristliche Jahrhundert hinein gesteckt.
Dem entspricht die weit ausgreifende Periodisierung der vorliegenden Geschichte
des Neuen Testaments bis etwa in das Jahr 200 (§ 1). Ihr folgt die Einteilung der
Bände.
Der erste Band behandelt das Leben Jesu bis zu seinem Tod. Darauf soll der
zweite Band von der österlichen Urgemeinde bis zum Apostelkonzil handeln. Von
dieser Zeit sprechen Hengel und Schwemer als „Urchristentum“ (S. 9). Mit dieser
traditionellen Bezeichnung folgen sie Lukas, für den die Jerusalemer Gemeinde
das Idealbild christlicher Gemeinde ist. Das lukanische Doppelwerk erhält daher
für ihre Rekonstruktion der Geschichte des Christentums einen besonderen Wert
(vgl. S. 230–233).
In dieser ersten Zeit setzen die beiden Autoren die eigentliche Lehrentwicklung
des frühen Christentums an (S. 9). Das Neue ihres Ansatzes liegt eigentlich darin,
dass das Leben Jesu im ersten Band zu dieser ersten Zeit dazu zählt. Rudolf Bultmann hatte noch postuliert, dass Jesus selbst nicht Gegenstand einer Theologie des
1_2011.indd 256
28-06-2011 12:12:22
Recensioni
257
Neuen Testaments sein könne. Und selbst Klaus Berger hat in seiner „Theologiegeschichte des Urchristentums“ die Zeit Jesu noch weitgehend ausgeklammert und
erst in seiner zweiten Auflage einige Elemente des Lebens Jesu ergänzt. Hengel
und Schwemer sehen die Geschichte der frühen Kirche nicht im Bruch sondern in
unbedingter Kontinuität zum Leben Jesu. Ohne die Voraussetzungen bei Jesus lässt
sich nach ihnen die Entwicklung des frühen Christentums gar nicht verstehen.
Den dritten Abschnitt frühchristlicher Geschichte bilden die 50 Jahre vom Apostelkonzil bis zum Anfang des zweiten Jahrhunderts (S. 12). In diesen Jahren erfolgt
nach heutiger Datierung die Abfassung sämtlicher Schriften des Neuen Testaments.
Der vierte Abschnitt umfasst die nachapostolische Geschichte der „frühesten
Kirche“ (S. 19) im zweiten Jahrhundert. In dieser Zeit wird der Kanon des Neuen
Testaments geprägt, und die christliche Lehre erfährt entscheidende Transformationsprozesse: die weitere Loslösung von seinem judenchristlichen Ursprungsmilieu und die Verkündigung der christlichen Botschaft im intellektuellen Milieu
griechisch-römischer Stadtwelt einschließlich deren überzogener Merkmale in der
Gnosis.
Der letzte Band des geplanten Werkes soll daher von den apostolischen Vätern
über die Apologeten bis zum Blick auf die drei Theologen Irenäus, Tertullian und
Clemens Alexandrinus (S. 18) führen. Wieweit der nordafrikanische Rhetor Tertullian noch in diese frühchristliche Zeit hineingehört, lässt sich sicher diskutieren.
Bei Clemens Alexandrinus erhält die christliche Lehre zum ersten Mal das Niveau
akademischer Reflexion. Es leuchtet ein, dass eine akademische Darstellung des
frühen Christentums hier auch einen Schlussstein sieht. Am ehesten legt sich als
Ende der Frühgeschichte allerdings Irenäus von Lyon nahe. Wie Martin Hengel
mehrfach gezeigt hat, legt der kleinasiatische Bischof in den Adversus Haereses eine
erste gesamtbiblische Theologie der christlichen Lehre dar. Er kann daher zu Recht
als Abschluss der Geschichte des frühen Christentums gelten.
Die jüdischen Wurzeln des Christentums
Grundlegender als die Periodisierung der christlichen Frühzeit ist aber für das
geplante vierbändige Werk, wie die beiden Autoren das Verhältnis zwischen Judentum und frühem Christentum sehen. Nach Hengel / Schwemer nährt sich das Christentum nicht einfach aus jüdischen religiösen Traditionen. Es ist vielmehr „ganz“
aus dem Judentum hervorgegangen (S. 21). Nichts in der Entstehung des Christentums erklärt sich unabhängig von seinen jüdischen Wurzeln. Es lässt sich auch
kein eindeutiges Datum für eine frühe Trennung zwischen Synagoge und Christentum festlegen, wo man früher etwa die Synode von Jamnia als solches annahm.
Die Christen wurden nach der Herkunft Jesu innerjüdisch zunächst „Nazoräer“
genannt und gehörten weiter dem Judentum an. Der Grund für die Trennungsprozesse vom Judentum sind nicht griechische oder heidnische Überfremdungen des
Christentums, sondern „urjüdische Glaubensinhalte“ (S. 29). Sie sind vor allem in
der Christologie der „Nazoräer“ begründet. Im Unterschied zum übrigen Judentum
verehrten sie Jesus von Nazaret als den Gesalbten Gottes, der bereits erschienen
ist und nach dem es keinen weiteren mehr geben wird. Christus, der Gesalbte, ist
schon sehr früh für sie zum festen Bestandteil des Namens Jesu geworden.
Für die Sicht der beiden Autoren darf eine Darstellung des zeitgenössischen Judentums als Einleitung des Lebens Jesu und der folgenden drei Bände nicht fehlen.
1_2011.indd 257
28-06-2011 12:12:22
258
Cr St 32 (2011)
Nach dem Vorwort geht sie vor allem auf Martin Hengels langjährige Schülerin und
Mitarbeiterin Anna-Maria Schwemer zurück. Darin folgt sie den Werken des Flavius
Josephus als wichtigster Quelle. Die nicht immer leicht nachvollziehbaren Informationen des jüdischen Historikers sind hier ausgezeichnet geordnet. Der klare chronologische Rahmen und die Anordnung (wechselnde Herrscher und Herrschaftsverhältnisse [S. 39–121] jüdische Religionsparteien, incl. samaritanisches Schisma
[S. 122–168]) des Abschnitts lässt eine leichte Orientierung für den Leser zu.
Er endet mit dem jüdischen Krieg. In seiner letzten Phase wird Jerusalem von
einer Art „Revolutionsrat“ (S. 115) eingenommen. Allerdings zerstreiten sich die
aufständigen jüdischen Gruppierungen untereinander. Johannes von Gischala unterstellt Jerusalem einer Schreckensherrschaft. Eleazar hingegen spaltet sich mit
den „Zeloten“ von den Aufständischen ab. Die jüdische Bevölkerung wird in bis
aufs Blut gehenden Streitigkeiten zerrieben. Gleichzeitig werden die Juden von
der römischen Eroberungspolitik bedrängt. Unter Vespasian setzt sich die römische
Herrschaftsmacht in diesem Machtgemenge durch. Titus nimmt Jerusalem ein. Als
der Tempel durch ihn zerstört und seine Kultgegenstände in ihrer Machtlosigkeit
im römischen Triumphzug der Welt preis geboten wurden, haben die Christen darin
die Erfüllung der Weissagungen Jesu über den Tempel gesehen (vgl. S. 120). Mit der
Erfüllung seiner Weissagung kann daher die Geschichte des Judentums, in das Jesus
hineingeboren wurde, enden.
Am Ende des vierten Bandes wird man sich einen entsprechenden Ausblick auf
das weltweite Kommunikationsnetz christlicher Gemeinden wünschen. Es reicht in
dieser Zeit bereits von den Grenzen Chinas bis in das westliche Spanien und vom
südlichen Äthiopien bis in den Norden Germaniens. Diese weit ausgespannte vielfältige Kirche wird das Christentum bis zur Abspaltung der orientalischen Kirchen
nach den ersten großen Konzilien prägen. Die vier Bände des Werkes versprechen,
die Entwicklung des Christentums von der Verkündigung Jesu vor dem einfachen
Volk in Galiläa bis zu dieser damals weltweiten Kirche verfolgen zu können.
Würdigung
Martin Hengel ist am 2. Juli 2009 in Tübingen heimgegangen. Es ist zu wünschen, dass die vierbändige Darstellung des frühen Christentums, zu der er in diesem Band mit Anna Maria Schwemer noch den Grundstein hat, vollendet wird.
Er hat mehrfach sehr bescheiden von diesem Jesusbuch gesprochen. Es schien
ihm, dass sein Buch dem behandelten Gegenstand nicht wirklich gerecht werde.
Mit all seinen sicherlich festzuhaltenden Grenzen ist es ein außerordentlich glaubwürdiges Bekenntnis geworden. Gemeinsam mit Anna Maria Schwemer wollte er
vom „wirklichen Jesus“ (S. 192) schreiben, das heißt von dem Mensch gewordenen
Gottessohn, der als Erhöhter zur Rechten Gottes thront (ebd.). Der „wirkliche Jesus“ sprengt als Forschungsgegenstand die Grenzen historischer Wissenschaft. Es
bleibt daher bei einer „Annäherung“ (S. 270), einer Annäherung, die Gott selbst für
Martin Hengel nun ihrer Vollendung entgegen führt.
Im Spätsommer 2008 hat Martin Hengel seine letzte größere Reise nach Rom
geführt. Dort sollte er gemeinsam mit Peter Stuhlmacher vor dem Schülerkreis
seines ehemaligen Tübinger Kollegen Joseph Ratzinger seine Ergebnisse zum
historischen Jesus vorstellen. In dem Jesus-Buch geben Martin Hengel und Anna
Maria Schwemer auch einen Überblick über die Geschichte der Erforschung des
historischen Jesus. Sie geht von ihren deistisch aufgeklärten Anfängen bei Her-
1_2011.indd 258
28-06-2011 12:12:22
Recensioni
259
mann Samuel Reimarus und Lessing im 19. Jahrhundert bis in die Gegenwart (S.
171–192). Wie oft gelingt es den beiden auch darin, aus der fast uferlosen Jesusforschung wertvolle Perlen zu heben. Das Jesusbuch des Papstes kommt darin nicht
vor. Ihr Überblick konzentriert sich auf exegetische Forschungs-Veröffentlichungen
vornehmlich protestantischer Provenienz.
Zu den Perlen dieses Überblicks gehören allerdings auch die Zeilen, die als
Resumé fast an seinem Ende stehen. Sie sprechen von den Grenzen, auf die historische Wissenschaft bei Jesus stößt (S. 191): „Der Jesus der Geschichte, der Wissenschaft, ist lediglich ein Problem, ein Problem aber kann nicht Gegenstand des
Glaubens, nicht Vorbild des Lebens sein.“ Diese Sätze klingen ganz ähnlich wie
das Vorwort Papst Benedikts zu seinem Jesusbuch: Der historische Jesus als Forschungsgegenstand habe mehr und mehr die Konturen einer lebendigen Gestalt
verloren. Freilich stammen die von Hengel und Schwemer zitierten Zeilen nicht
von dem jetzigen Papst, sondern ausgerechnet von dem liberalen Jesusforscher David Friedrich Strauß. Die vorliegende „Annäherung“ eröffnet durchaus den Weg zu
einem lebendigen Jesus. Lässt sich in den zitierten Sätzen von Strauß daher womöglich eine zaghafte Würdigung des Papstes erkennen, mit der einer der größten
protestantischen Neutestamentler seiner Zustimmung zu dessen Jesusbuch einen
bleibenden Ausdruck verleihen wollte?
Ansgar Wucherpfennig SJ
Sankt Georgen - Frankfurt am Main
Maria Cristina Pennacchio, Propheta insaniens, L’esegesi patristica di Osea
tra profezia e storia, (Studia Ephemeridis Augustinianum, 81), Institutum
Patristicum Augustinianum, Roma 2002, pp. 326
Dans son monumental ouvrage, nourri d’une vaste bibliographie (p. 298-310),
M. C. Pennacchio, étudie avec rigueur et érudition les commentaires suivis sur Osée,
parvenus jusqu’à nous. Dans son introduction (p. 7-16), elle évoque minutieusement
toutes les étapes du débat épistémologique qui a secoué les recherches éxégétiques
depuis les années vingt: l’opposition plus ou moins affirmée par les chercheurs entre
«les deux traditions exégétiques d’Antioche et d’Alexandrie» aux 4ème et 5ème siècles. Les commentaires sur les Petits Prophètes, en particulier sur Osée, offrent une
bonne occasion d’approfondir la question puisqu’ils comptent des représentants des
deux obédiances, issus tant du monde grec que du monde latin. M.C. Pennacchio
justifie aussi son choix méthodologique: «Dans les analyses des commentaires, j’ai
suivi, plutôt que l’ordre chronologique, le critère d’appartenance à diverses tradi-
1_2011.indd 259
28-06-2011 12:12:22
260
Cr St 32 (2011)
tions exégétiques selon lequel j’ai étudié d’abord les auteurs antiochiens, Théodore
et Théodoret, puis l’alexandrin Cyrille et enfin les auteurs latins, Jérôme et Julien
d’Éclane» (p. 15).
Avant de consacrer un chapitre à chacun de ces exégètes, M.C. Pennacchio s’attache, dans un premier chapitre (p. 17-75), à «l’interprétation d’Osée dans les 2ème
et 3ème siècles». Elle aborde d’abord la «tradition asiatique», non limitée à un simple critère géographique (Justin, Irénée, Tertullien) puis la «tradition alexandrine»
(Clément d’Alexandrie, Origène), et enfin, pour terminer, «Eusèbe de Césarée». Ce
chapitre montre le cas échéant les points de rencontre (p. 46) mais surtout l’originalité des interprétations exégétiques d’Osée (p. 74-75).
Le deuxième chapitre est consacré au «Commentaire sur Osée de Théodore de
Mopsueste» (p. 77-94), rédigé vers 380-382, «premier commentaire complet, parvenu jusqu’à nous, et en langue originale, de la production sur les Petits Prophètes
des 4ème et 5ème siècles». Après la «datation» sont étudiés «la valeur de l’histoire»,
fondamentale, excluant tout type d’interprétation christologique (p. 79), «la théologie de l’inspiration prophétique», «la technique exégétique», mettant en valeur
«l’homogénéïté entre texte et explication» (p. 84), «les contenus de l’interprétation»
(«l’interprétation de la prophétie est toujours rigoureusement historique» – p. 91).
Enfin les «conclusions» présentent une synthèse très fine de l’étude précise menée
dans le chapitre: «la conclusion du commentaire (…) laisse entrevoir la possibilité
de reconnaître une utilité morale au moins à la signification globale du texte»
(p. 94).
Le troisième chapitre s’attache «au Commentaire sur Osée de Théodoret de
Cyr» (p. 95-131), rédigé entre 438 et 440, i. e. ultime explication continue du Prophète. Après une analyse du «prologue au commentaire: apologie et indications
programatiques», M.C. Pennacchio étudie successivement «le Commentaire d’Osée:
l’ὑπόθεσις», «la théorie de l’inspiration prophétique», «Σκοπός et ἀκολουθία»,
«l’emploi des citations scripturaires» («L’Écriture même s’illustre et s’explique ellemême», p. 109), «la pratique herméneutique» («paraphrase et notes de commentaire»,
«la critique du texte», «les excursus historiques», «les observations grammaticales»,
«les observations naturalistes», «les notations psychologiques», «les interprétations
métaphoriques»), «les contenus de l’exégèse littérale» («les contenus de l’interprétation littérale concernent presque toujours des faits vétérotestamentaires», p. 121),
«l’exégèse spirituelle» (Théodoret dépend dans les grandes lignes de Théodore).
Pour «conclure», M.C. Pennacchio souligne l’indépendance de Théodoret vis-à-vis
de Théodore; «Théodoret apparaît profondément enraciné dans le milieu antiochien, mais, par rapport à la rigidité de Théodore, il s’ouvre aux influences des
autres traditions…» (p. 130).
Le quatrième chapitre s’intéresse «au Commentaire sur Osée de Cyrille d’Alexandrie» (p. 134-162), écrit avant 428. Les «indications méthodologiques» révèlent
d’emblée «la reconnaissance du double niveau de lecture de l’oracle prophétique»
(p. 134). Puis, M.C. Pennacchio examine «le σκοπός» de la prophétie: c’est principalement «la conversion d’Israël puisque Dieu veut reconduire le peuple idolâtre
à la vraie religion» (p. 138). L’étude porte ensuite sur «l’exégèse littérale: fonction
et caractères» («la terminologie technique» et «les contenus»), «l’exégèse spirituelle»
(«la terminologie technique» et «les contenus»). A la fin du chapitre, les «conclu-
1_2011.indd 260
28-06-2011 12:12:22
Recensioni
261
sions» soulignent le caractère typiquement alexandrin de l’exégèse de Cyrille, mais
surtout son originalité qui «se concrétise dans l’interprétation eschatologique dans
laquelle est préfigurée la future conversion d’Israël» (p. 162).
Le cinquième chapitre s’appesantit sur «Le Commentaire sur Osée de Jérôme»
(p. 163-215), rédigé en 406. M.C. Pennacchio évoque «les sources du commentaire
hiéronymien», en particulier Apollinaire de Laodicée et Origène, «les caractéristiques et le but du commentaire biblique selon Jérôme», «les trois sens de l’Écriture», «l’exégèse littérale: caractères et contenus» («l’Hebraica ueritas», «le rapport
avec la traduction des LXX», «le recours aux Hexaples», «l’interprétation littérale»,
«les enseignements moraux», «la reconstitution historique: sources scripturaires et
traditions hébraïques», «notes géographiques», «observations naturalistes», «remarques sur les usages des peuples»), «les contenus des interprétations historiques»,
«le vocabulaire exégétique littéral», «les termes techniques rhétoriques», «l’exégèse
spiriturelle: caractères et contenus» («l’exégèse christologique», «la polémique antihérétique», «l’eschatologie», «l’interprétation moralo-psychologique», «l’exégèse
étymologique», «l’exégèse arithmologique»), et «le vocabulaire exégétique spirituel».
Concises, les «conclusions» de ce chapitre synthétisent au mieux toute la richesse et
l’aspect novateur de l’explication hiéronymienne.
Le sixième chapitre concerne «le Commentaire sur Osée de Julien d’Éclane»
(p. 217-238), dont la datation n’est pas évidente (p. 217-220). Selon M.C. Pennacchio, «on doit pencher pour une datation haute, antérieure à la condamnation de
418, parce que le style du commentaire laisse transparaître un tempérament encore
exubérant et vif… (p. 220).» Après cette mise au point nécessaire, M.C. Pennacchio
s’arrête sur «le principe de la consequentia et l’excessus mentis», «l’interprétation
littérale» («les figures rhétoriques», «l’usus scripturaire», «le style prophétique»),
«les contenus de l’interprétation littérale» et «la theoria». Les «conclusions» mettent
une fois encore en valeur les caractéristiques de l’exégèse de Julien: de l’avis de
M.C. Pennacchio, «on ne peut, au moins pour le Commentaire sur Osée, assimiler
complètement sa méthode herméneutique à celle de Théodore, surtout d’après la
définition de la theoria qui traditionnellement a été trop souvent définie comme ‘le
manifeste de l’école antiochienne’» (p. 238).
Le dernier chapitre («Confrontations exégétiques», p. 239-279) rompt avec la
grille de lecture analytique des précédents chapitres pour proposer une étude comparative de certains versets d’Osée (1, 2; 1, 11; 3, 2; 6, 1-2; 13, 14; 13, 15; 14,
4-9).
Les «conclusions» générales de cet ouvrage (p. 281-296) montrent avec fermeté
les difficultés mais surtout les acquis nuancés du travail de M.C. Pennacchio. Enfin,
un «appendice: Julien et Jérôme: diverses orientations exégétiques dans la tradition
latine» étudie l’influence de Jérôme sur Julien, mais aussi les divergences d’interprétation des deux exégètes.
L’ouvrage de M.C. Pennacchio montre avec clarté, précision et subtilité, les filiations, les différences, les oppositions dans l’exégèse d’Osée depuis le commentaire
d’Origène, source fondamentale, mais perdue pour nous, jusqu’à l’explication suivie
de Théodoret de Cyr. Malgré la justification – tout-à-fait compréhensible et acceptable – que présente M.C. Pennacchio de son plan (p. 15), il aurait sans doute mieux
1_2011.indd 261
28-06-2011 12:12:22
262
Cr St 32 (2011)
valu conserver une structure chronologique qui aurait donné une meilleure idée de
l’histoire de l’exégèse d’Osée, en particulier dans les «confrontations exégétiques»...
Aline Canellis
Université de Lyon- UJM- Saint-Étienne
Gabriele Boccaccini (ed.), Enoch and Qumran Origins. New Light on a
Forgotten Connection, Eerdmans, Grand Rapids, MI-Cambridge 2005, pp.
xviii-462.
Per valutare gli apporti del quinto Enoch Seminar (Napoli, 14-18 giugno 2009),
rimane necessario apprezzare il volume che, edito nel 2005, raccoglie gli atti del
Convegno dedicato alle origini di Qumran in relazione alla letteratura enochica.
Il piano di ricerca guidato da Gabriele Boccaccini, del dipartimento di Studi del Vicino Oriente antico dell’Università del Michigan, coinvolge dal 2000 specialisti di tutto
il mondo (soprattutto europei, statunitensi, israeliani) dediti al giudaismo del Secondo
Tempio e al cristianesimo delle origini. Nel primo convegno, tenutosi a Sesto Fiorentino
nel 2001, si sono indagate le origini del giudaismo enochico, nel secondo, del 2003, a
Venezia, si sono approfondite le questioni di cui si dirà più diffusamente, nel terzo e nel
quarto, svoltisi a Camaldoli nel 2005 e 2007, concentrandosi rispettivamente sul Libro
delle Parabole e sui Giubilei, si sono enucleati i rapporti con il Messia – Figlio dell’uomo
e la Torah mosaica, mentre a Napoli l’attenzione è focalizzata su Enoc, Adamo e Melchisedek quali figure di mediatori, con speciale riferimento a 2 Enoc.
Tra l’introduzione ai lavori a cura dell’editore (pp. 1-14) e le conclusioni affidate
a James H. Charlesworth (pp. 436-454), le cinque parti di cui si compone il volume
raccolgono cinquantaquattro contributi (proposti da quarantasette relatori) dedicati
a cinque grandi temi: le visioni oniriche e Daniele (pp. 15-72), Enoc e Giubilei (pp.
73-182), l’Apocalisse delle settimane (pp. 183-246), l’ipotesi di Groningen rivisitata
(pp. 247-326), l’ipotesi enochico-essenica rivisitata (pp. 327-435). Ogni parte del libro si chiude dando la voce a un responder: John J. Collins, James C. VanderKam,
George W.E. Nickelsburg, Florentino García Martínez, Gabriele Boccaccini. In quanto
segue ci si concentrerà sull’introduzione e sui dibattiti dedicati a Daniele, all’ipotesi
di Groningen, all’ipotesi essena, richiamando infine le questioni maggiori emerse a
proposito dei libri di Enoc nella misura in cui sono riprese nelle conclusioni.
Con la riscoperta del libro etiopico di Enoc, dovuta allo scozzese James Bruce
(1773), e la pubblicazione delle prime edizioni critiche con le relative versioni in
1_2011.indd 262
28-06-2011 12:12:22
Recensioni
263
lingua moderna a cura di Richard Laurence (1821), August Dillmann (1851-1853),
Johannes Flemming (1902), gli studi del giudaismo del Secondo Tempio, e in modo
particolare della letteratura apocalittica giudaica, ricevettero un nuovo, determinante impulso. 1 Enoc, tradizionalmente collocato fra gli Pseudoepigrapha dell’Antico Testamento e datato tra il 200 a.C. e il 100 d.C., attrasse poi nuova attenzione a
seguito dei ritrovamenti del Mar Morto (1947), con la pubblicazione di alcuni suoi
frammenti in aramaico identificati da Josef Milik (1976). James VanderKam cominciò quindi a esplorare la crescita delle tradizioni associate a Enoc, al di là del corpus
omonimo (1984), mentre John Collins situò con maggior precisione 1 Enoc entro lo
sviluppo dell’apocalittica del periodo del Secondo Tempio (1984, 1998). La lettura
dei testi enochici ha così sollecitato la ricerca dei tratti distintivi dell’ideologia e
della composizione sociologica del gruppo che in tali testi si esprime. Nell’ampio
spettro degli scritti apparsi in merito, Boccaccini distingue due voci in particolare:
quella di Paolo Sacchi (1990) e quella di George Nickelsburg (2000). Il primo,
suo maestro, identifica l’essenza del movimento intellettuale in questione in una
specifica concezione del male, per la quale esso costituisce una realtà autonoma
che, essendosi prodotta prima dell’inizio della storia, precede e inficia la capacità
umana di scegliere. Il secondo, nel suo grande commentario a 1 Enoc, descrive
una forma di giudaismo in cui la Torah mosaica non vale ancora come norma universale, un sistema in cui una ribellione celeste primordiale ha inquinato la razza
umana che ciononostante rimane responsabile delle proprie trasgressioni. L’esegeta
americano coglie nello sviluppo della letteratura enochica, protrattosi per tre secoli,
la presenza di una comunità di tradenti dai tratti caratteristici, un gruppo “escatologico” composto da eletti in attesa della consumazione della fine, illuminato dalla
sapienza rivelata all’antico padre Enoc, animato da scribi, alcuni dei quali erano
forse sacerdoti disaffezionati dall’establishment del tempio gerosolimitano. Nella
sintesi di Boccaccini (pp. 6-7) il giudaismo enochico sarebbe quindi un movimento
sacerdotale di dissenso, nonconformista, anti-sadocita, attivo in Israele dal IV sec.
a.C., al cui centro non stanno né il tempio né la Torah, bensì il mito degli angeli
decaduti (in una certa relazione con Genesi 6), responsabili della diffusione del
male. Costoro valicano e sovvertono i confini del cielo e della terra stabiliti da Dio
nella creazione e pertanto, in seguito a una battaglia angelica, sono imprigionati in
attesa del grande giudizio. I giganti, generati dall’illegittima unione degli angeli con
le figlie degli uomini, sono uccisi, mentre le loro anime possono invece continuare
a percorrere e sovvertire la terra. Il male è con ciò limitato ma non è sradicato,
finché Dio non creerà un mondo nuovo. La libertà umana, certo non cancellata ma
comunque compressa da un agente diabolico, confida nel frattempo nella grazia
divina, al di là della propria fedeltà all’alleanza dei padri. Tale forma di giudaismo
avrebbe generato un ampio movimento di pensiero, di cui sono testimoni Giubilei,
i Testamenti dei dodici patriarchi, la Vita di Adamo ed Eva, 2 Enoc, l’Apocalisse di
Abramo, 4 Esdra, un movimento il cui influsso sul cristianesimo nascente è ampiamente documentato.
Per ciò che riguarda Daniele, Collins (pp. 59-66) sottolinea il modo in cui la
teologia deuteronomistica della preghiera del cap. 9 è deliberatamente “sovvertita”
in senso apocalittico. Se in Daniele, come nei libri enochici, la teologia dell’alleanza
non gioca alcun ruolo particolare, essa non è di per sé impermeabile alle tradi-
1_2011.indd 263
28-06-2011 12:12:22
264
Cr St 32 (2011)
zioni apocalittiche, come si constata a Qumran nella Regola della Comunità e nei
Giubilei. Quanto al ricorso all’ideologia regale, essa non implica interesse per la
linea davidica. Nel libro di Daniele la salvezza si lega infatti piuttosto all’intervento
di Michele, principe angelico, o comunque a un personaggio celeste, variamente designato. L’espressione “simile a figlio di uomo” non vale, in tale orizzonte,
come titolo bensì come descrizione di una figura visionaria. Di natura angelica,
tale figura potrebbe bene essere nominata “figlio di Dio”, ma ciò non avviene proprio per non rinfocolare attese davidiche e non creare associazioni con le pretese
dei re ellenistici. Nei secoli seguenti la dicitura “figlio di Dio” sarà effettivamente
impiegata come titolo messianico (come risulta sia in 4Q246 sia nei Vangeli) ma
senza chiamare in causa la monarchia davidica. Anche nei libri enochici (ossia nei
diversi libri presenti in 1 Enoc) si menziona un messia solo nelle parti più tardive
(1 Enoc 48,10; 52,4, all’interno del Libro delle Parabole) e, quando ciò avviene,
questi è comunque presentato come un essere celeste. Occorre attendere gli scritti
di 4 Esdra (7,28-29; 13,32.37) e 2 Baruc (29,3; 30,1; 39,7; 40,1-2; 70,9; 72,2) per
leggere di attese escatologiche che includono un ruolo per il re messianico, secondo
una visione in qualche modo analoga a quella testimoniata in 4Q285 (= la Regola
della Guerra), ove un salvatore terrestre affianca il suo analogo di provenienza celeste. Per ciò che attiene l’identificazione di gruppi apocalittici dietro alle opere di
Daniele e di Enoc, Collins insiste sulla necessità di non attenersi a requisiti troppo
rigidi di compatibilità e, per converso, di incompatibilità. Diversamente, è più utile
immaginare un corpo di concezioni condivise accanto a opzioni peculiari, certo
concordi nel rigettare l’autorità del re seleucide persecutore. A mo’ di esempio,
Collins considera Daniele e l’Apocalisse degli Animali: entrambi gli scritti elaborano
simboli, miti, tecniche visionarie connesse all’interpretazione mantica del Vicino
Oriente, confidano in un corso preordinato della storia e, a fronte degli influssi di
forze angeliche e demoniache sulle vicende umane, attendono l’intervento divino
con il conseguente giudizio universale e la trasformazione degli eletti (in stelle o in
tori bianchi), sebbene divergano sul ruolo (militare o di impegno religioso pacifico)
che Israele deve svolgere in tali frangenti.
L’ipotesi di Groningen, abbozzata nel 1988 da García Martínez e articolata assieme a Adam S. van der Woude nel 1990, è stata da molti considerata l’ipotesi più
utile per spiegare le origini di Qumran. Essa individua le origini ideologiche del movimento essenico nella tradizione apocalittica palestinese prima dell’ellenizzazione
della Palestina e della conseguente rivolta maccabaica, facendo derivare la comunità
di Qumran da uno scisma interno al movimento esseno. Di tale ipotesi Mark A. Elliott
(pp. 263-272) critica la lettura di 1QpHab 2,3-4 e 5,9-12, testi utilizzati come trampolino per supposizioni e conclusioni importanti. Da essi, secondo García Martínez, si
può dedurre che le convinzioni e le finalità della comunità di Qumran fossero condivise da un gruppo più ampio di quello che rimase dopo che molti vennero meno agli
impegni assunti e rigettassero il Maestro di giustizia a causa de “l’uomo menzognero”.
Quest’ultimo, associato ai “traditori della nuova alleanza”, sarebbe identificato con
un capo esseno in conflitto con il Maestro. Elliott, osservando che la maggior parte
dei giudei avrebbe potuto esprimere perplessità nei confronti della “nuova alleanza”
proposta dal Maestro, non trova improbabile che l’uomo delle menzogne fosse un
sacerdote non esseno. Altri testi ritenuti polemici, analogamente, possono riferirsi a
1_2011.indd 264
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
265
qualunque capo ebreo estraneo alla comunità (4QMMT; 11QT; 1QpHab 10,9-13). Lo
studioso considera poi CD 20,14-16, che menziona il Maestro della comunità e precisa
che “la nuova alleanza” è l’alleanza stipulata “nella terra di Damasco”, abbandonata
dagli “uomini di guerra” i quali si sono allontanati con “l’uomo delle menzogne” così
da fare divampare l’ira divina “contro Israele”. Trovandovi un’allusione alle campagne maccabaiche e agli asmonei (“uomini di guerra”), Elliott suggerisce che l’alleanza
sancita nella terra di Damasco non alluda al patto osservato a Qumran, bensì a un
rinnovo dell’alleanza voluto dai Maccabei in terra di Siria (cf. 1Mac 2,49-70). Tale
alleanza coinvolgerebbe gli asidei, “impegnati a difendere la legge” (2,42), e quanti
hanno zelo per la legge e per l’alleanza (2,27). Coloro che avrebbero lasciato la nuova
alleanza sarebbero pertanto un gruppo ben più ampio degli esseni. La “alleanza”
sarebbe così un patto umano, inteso a rinnovare l’alleanza mosaica, sulla scorta delle
iniziative di Giosia, Esdra e Neemia. L’uomo delle menzogne, dal canto suo, sarebbe
un uomo di potere, verosimilmente un asmoneo (cf. CD 19,22-24; 20,22-24), il quale
assunse il comando nonostante l’opposizione del Maestro di giustizia. Quanti lo seguirono preferirono di fatto alle intenzioni puramente religiose della “alleanza di Damasco” la prospettiva di un’espansione territoriale e tollerarono le ambizioni sacerdotali
dei capi. I membri di Qumran non si sarebbero dunque scissi dagli esseni, provenendo
piuttosto da un movimento ben più ampio, all’interno del quale potevano certo esserci elementi di spicco di fede essena. I rapporti tra Qumran e gli esseni sembrano
d’altronde perdurare: il Maestro ricopre senz’altro un ruolo insolitamente cospicuo
ma ciò non isolò la comunità da un più ampio movimento palestinese che continuerà
ad alimentarla e a consentirne un insediamento protratto nel tempo. Il giudaista di
Toronto, in una posizione tutt’altro che isolata, esprime quindi perplessità circa la
possibilità di identificare un “giudaismo sadocita”, in qualche modo irreconciliabile
con un “giudaismo enochico”. A suo avviso la letteratura enochica, così come altri
scritti “apocalittici”, non rimanda a una scuola in netta contrapposizione con teologie
imperniate sull’alleanza mosaica. Gli autori dei materiali enochici avrebbero piuttosto
adattato idee mosaiche, e in specie deuteronomistiche, a una concezione sapienziale
babilonese. Il norvegese Torleif Elgvin (pp. 273-279), rifacendosi alle datazioni della
prima fase di insediamento di Khirbet Qumran elaborate nel 2000 da Jodi Magness,
rivede l’identificazione della comunità-yachad. Ponendo infatti tra il 100 e il 50 a.C.
(anziché attorno al 135 a.C.) la fondazione di Qumran, i testi del II sec. a.C. che riferiscono della costituzione di una comunità non alluderebbero a quanto rinvenuto a
Qumran, trattando invece di un gruppo sorto tra il 175 e il 150 a.C. Yachad starebbe
quindi a designare una realtà più ampia della comunità di Qumran, a cui quest’ultima
sarebbe comunque collegata.
L’ipotesi essena, così come è riproposta da Boccaccini (pp. 417-425), riconduce
all’ambito esseno tanto gli “enochiani” quanto la comunità di Qumran. Condividendo la posizione di chi individua all’interno del giudaismo postesilico una tradizione
intellettuale distinta da quella dei sacerdoti di Gerusalemme, essa trova nella speciale
concezione enochica del male l’origine della predestinazione elaborata a Qumran.
Se gli angeli sono infatti responsabili del male umano, è Dio, creatore degli angeli
buoni e cattivi, a predeterminare il destino di ciascun individuo. Stando a Boccaccini, a seguito della rivolta maccabaica il movimento enochico sarebbe proliferato
in differenti gruppi, tutti caratterizzati da particolari reinterpretazioni dell’origine
1_2011.indd 265
28-06-2011 12:12:23
266
Cr St 32 (2011)
demoniaca del male. Sarebbe da riferire a questa fase la spaccatura intercorsa tra
enochiani e Qumran, come sembrano provare i testi reperiti nella biblioteca del Mar
Morto. Lì si custodiscono infatti tutti gli scritti enochici composti prima della nascita
della comunità, a differenza di quelli sorti successivamente. Nella letteratura enochica
più recente, come risulta ad esempio nel Libro delle Parabole, appaiono d’altronde
affermazioni incompatibili con il predeterminismo di Qumran: vi si parla di un Figlio
dell’uomo celeste e della liberazione dal male, secondo prospettive estranee a chi
ritiene il mondo presente originato da una esplicita scelta di Dio. Dopo un iniziale
imprinting enochico, la comunità di Qumran si sarebbe pertanto discostata dal gruppo
enochico, pur rimanendo “essena”. Enochiani, esseni urbani, la comunità di Qumran,
sebbene gruppi sociali distinti, continuerebbero a comporsi in un un’unica “traiettoria di pensiero” alla quale sarebbe da collegare anche il successivo movimento di
Gesù di Nazaret. L’ipotesi, formulata con acume e duttilità, rimane aperta a osservazioni critiche, quali quelle avanzate da David W. Suter (pp. 329-335). Questi rileva
come Boccaccini sottoponga testi giudaici del periodo persiano, ellenistico e romano
a una lettura attenta a coglierne l’ideologia soggiacente e, in modo particolare, la
teodicea. Lavorando su “catene di testi”, individua le radici del settarismo giudaico in
una disputa che oppone i sadociti, che esprimono il sommo sacerdote e detengono il
comando, a sacerdoti dissidenti fautori del cosiddetto giudaismo enochico, dal quale
verrebbe l’essenismo quale è ritratto nelle fonti classiche. In questa ricostruzione,
secondo lo studioso statunitense, rimane difficile rinvenire nella letteratura enochica i tratti dell’essenismo quale lo si conosce da Giuseppe Flavio e Filone. Certo si
riconoscono elementi di continuità a proposito della critica alla purità del tempio e
a specifiche pratiche matrimoniali ma in entrambe i casi le questioni sono trattate
in prospettive sensibilmente diverse: altro è eccepire alla purità dei matrimoni dei
sacerdoti, altro è mettere in discussione il sistema sacrificale in quanto tale, altro è
contestare il peccato angelico che porta i Vigilanti a unirsi alla figlie degli uomini (1
Enoc 12–16) violando i confini tra cielo e terra, altro è denunciare la zenut di chi
sposa una nipote o è bigamo (CD 4,20-21; 5,7-10), o di un sacerdote che sposa una
donna di stirpe non sacerdotale (4QMMT B 75-82). L’apporto specifico dell’enochismo alle origini di Qumran consterebbe poi nella comprensione del male veicolata dal
mito della caduta dei Vigilanti (1 Enoc 6–16; CD 2,16-18). Secondo Boccaccini i testi
settari attesterebbero rispetto a 1 Enoc un’evoluzione di pensiero: il male, da aberrazione cosmica che si impone sull’umanità, diverrebbe segno della predestinazione
del singolo uomo secondo il volere di Dio. Per Suter l’impiego del mito dei Vigilanti
in 1QS 3,13-4,1 (con la dottrina dei due spiriti) è invece rivoluzionario, in difficile
connessione con 1 Enoc e CD 2,14-3,12, ove il medesimo mito è sfruttato come tale,
in tutto il suo valore eziologico e paradigmatico. Per Suter il giudaismo enochico deve
piuttosto essere decifrato all’interno di uno yahwismo sincretista, con un culto non
ancora ancorato all’assioma “Yhwh-solo”.
Charlesworth, raccogliendo le conclusioni, delinea la comprensione del giudaismo precedente al 70 d.C. così come emerge dalle voci dei convegnisti. A proposito
del periodo del Secondo Tempio non si può parlare di un “giudaismo comune”. Si
deve invero riconoscere un’ampia varietà di pensiero e di prassi, pur senza poter
immaginare molti giudaismi indipendenti tra loro o una situazione di “caos”. Fonti
privilegiate per conoscere meglio la teologia e l’ideologia di questa epoca sono i libri
1_2011.indd 266
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
267
di Enoc, composti in Palestina, probabilmente in Galilea, vicino al monte Ermon. I
più antichi rifletterebbero le lotte tra i diadochi, a seguito della morte di Alessandro
Magno (323 a.C.), mentre gli ultimi proverrebbero dal tempo di Erode il Grande.
Corpus di eccezionale significato per il cosiddetto calendario solare, il dualismo, la
relazione tra il Messia e il figlio dell’uomo, le conoscenze astronomiche, le alte concezioni morali, le attese di beatitudine dopo la morte, 1 Enoc rimanda ad autori giudei versati non solo nelle Scritture di Israele ma anche nelle acquisizioni dei babilonesi, dei persiani, degli egiziani, dei greci. Ritenuti marginali sia dal cristianesimo
sia dall’ebraismo, i libri di Enoc sono oggi essenziali per una concezione adeguata
del giudaismo del Secondo Tempio e della prima età cristiana, tanto da suggerire
una domanda: il pensiero di Gesù riflesso nei Vangeli rispecchia le comunità postpasquali o la teologia dell’antica Palestina prima della distruzione del Tempio?
Marco Settembrini
Docente di esegesi dell’Antico Testamento
presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna
Isabella Sandwell, Religious identity in late antiquity. Greeks, Jews and Christians in Antioch, Cambridge University Press, New York 2007, pp. 310
In Religious identity in late antiquity Isabella Sandwell affronta la questione
dell’identità e dell’interazione religiosa ad Antiochia nel IV sec. d. C. L’approccio
non è di tipo descrittivo: a differenza di altri studiosi, l’autrice non cerca di quantificare il livello di cristianizzazione della città, quanto piuttosto il modo in cui i
cittadini antiocheni vivevano la propria religiosità. L’analisi delle opere di Giovanni
Crisostomo e del pagano Libanio non solo permette di tracciare un quadro della
situazione religiosa cittadina valorizzando due punti di vista differenti, ma anche di
cogliere le forme di osmosi e mescolanza religiosa che anche altrove caratterizzarono la società di IV-V secolo.
Il volume è suddiviso in cinque parti, ognuna delle quali comprende due capitoli. I primi due sono dichiaratamente introduttivi, tali cioè da circoscrivere l’indagine sia nel tempo (fine dei 4 primi decenni del V secolo: pp. 3-33), sia nello
spazio di una città specifica, quale Antiochia, della quale vengono date notizie su
templi, chiese, feste cristiane e pagane celebrate all’epoca, mentre le precisazioni
metodologiche delineano le caratteristiche formali e contenutistiche degli scritti di
Crisostomo e di Libanio che s’intende esaminare (pp. 34-59).
1_2011.indd 267
28-06-2011 12:12:23
268
Cr St 32 (2011)
L’identità religiosa nei due autori è oggetto specifico della seconda parte. Il terzo
capitolo (pp. 63-90) è dedicato a Crisostomo, in particolare al contenuto di quelle
prediche (come i sermoni indirizzati ai Greci), da cui si possa comprendere cosa significasse per il presbitero antiocheno essere cristiano e quale funzione avessero in
ciò il battesimo e l’eucarestia. Elementi distintivi risultano la fede in un unico Dio,
nella morte e resurrezione di Cristo. Dal confronto tra il modo in cui il Crisostomo
e Libanio parlano del proprio credo, è chiaro che il primo tende a presentare forme
di identità religiosa esclusive e non permeabili – come l’essere cristiano, l’essere
giudeo, l’essere elleno –, mentre Libanio apre ampi squarci sulle numerose forme di
osmosi e mescolanza che dominavano la società: molti “ripensamenti” erano dovuti
a convenienza e Libanio è apparentemente un’ottima fonte per capire quanto sulle
scelte di fede potessero a volta influire le lusinghe politiche (pp. 91-119).
La relazione tra identità religiosa e altre forme di identità sociale – come quella
politica, civile, etnica e culturale – è oggetto delle riflessioni della terza parte del
volume. Crisostomo (pp. 125-153) non chiede che i cristiani scelgano una politeia
cristiana rispetto a quella imperiale romana; esige che quella cristiana rimpiazzi la
romana, benché l’impero sia cristiano e ampio supporto sia offerto dalle leggi imperiali. Per il presbitero antiocheno, il cristianesimo doveva diventare l’unica identità
(capace d’inglobare quella politica, civica, etnica) dei cristiani. Qualunque sfera
non fosse assimilabile era da considerarsi demoniaca e, come tale da rigettare. Del
tutto diverso il messaggio di Libanio: dal capitolo sesto (pp. 154-180), diviso in due
sezioni, è evidente che per l’oratore la religione era un fatto privato, così da poter
immaginare uno spazio neutrale ove le differenze religiose non fossero significanti,
ora – in modo del tutto tradizionale – coincideva con la sfera civica. Per lo più,
tuttavia, l’identità culturale ‘Greca’ o ‘Ellenica’ non è mai posta in termini religiosi
ma piuttosto come un qualcosa che poteva essere condiviso da tutti, nonostante il
proprio credo.
La parte più interessante del volume è, comunque, quella in cui l’autrice cerca
di capire quanto le opere esaminate di Crisostomo e di Libanio siano in grado di
dare uno spaccato reale delle scelte compiute dai cittadini e della loro incidenza
sulla vita degli individui. Il settimo capitolo (pp. 185-212), infatti, esamina la nozione di “comunità testuale” in Crisostomo, soffermandosi sui modi in cui egli cercò
di fare del suo auditorio una comunità. Le sue prediche esortavano al dover essere,
non rappresentano qualcosa di già realizzato e compiuto: non tutti coloro cui egli
si rivolgeva erano infatti cristiani, non tutti erano fideles, cioè battezzati; trapela lo
sforzo compiuto con l’attività pastorale, e tutti i rituali valorizzati all’uopo, quali la
somministrazione del battesimo e dell’eucarestia, perché l’ideale comunità di Crisostomo da comunità testuale divenisse comunità reale.
L’ottavo capitolo (pp. 213-239) è incentrato, invece, sullo studio del rapporto
tra Libanio e l’imperatore Giuliano, considerato come il referente principale del cosiddetto ‘gruppo pagano’ ad Antiochia, gruppo la cui esistenza è molto discussa dagli
studiosi. Alcuni passi delle orazioni ‘giulianee’ di Libanio hanno convinto gli studiosi del fatto che vi fosse tra i due una comunanza di credo religioso. L’attento riesame
di tali orazioni da parte dell’autrice fa vedere invece come l’immagine di Libanio
quale fedele supporter di Giuliano debba essere ridimensionata: lungi dal descrivere
la realtà della situazione religiosa ad Antiochia, nei suoi scritti Libanio presenta di
1_2011.indd 268
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
269
se stesso un’immagine tale, che faccia dimenticare la sua capacità di ‘sopravvivere’
sotto imperatori di fede religiosa diversa, tacitando le accuse di opportunismo che
gli venivano mosse dagli avversari. Nell’ultima sezione del capitolo sono invece presi in considerazione i tipi di relazione sociale che emergono nelle lettere di Libanio.
Con lo strumento epistolare egli potè creare una forte rete sociale della quale era il
centro. Nel considerare il ruolo della religione nella costruzione di tale ragnatela di
legami, l’autrice non cerca di identificare chi dei suoi amici condividesse la sua stessa fede religiosa ma piuttosto di individuare i punti nei quali Libanio stesso usava la
religione come motivo per collegarsi e relazionarsi con gli altri.
Nella quinta e ultima parte si tirano le fila degli argomenti affrontati, al fine di
accertare fino a che punto gli abitanti di Antiochia fossero disposti a seguire le esortazioni del Crisostomo in campo religioso. Una forte indicazione si ritiene sia data
dalla presenza di pratiche religiose quali l’ascetismo e la preghiera da una parte, la
divinazione e l’uso degli amuleti dall’altra (pp. 245-276), che risultano essere state
abbastanza popolari presso gli antiocheni: per Crisostomo, esse rappresentavano
il contrassegno della diversità religiosa; Libanio, invece, favoriva forme di credo
religioso più private e personali, che mettevano il singolo a diretto contatto con il
divino. In generale sembra che non solo Libanio, ma anche alcuni componenti del
pubblico di Crisostomo, condividevano una certa avversione per la religiosità esibita, preferendo le pratiche religiose private. Pertanto mentre alcune persone erano
contrassegnate dal ‘marchio’ cristiano per i propri comportamenti, altre invece avevano maggiore difficoltà a distinguersi per la loro fede. Anche quanti definivano se
stessi come ‘cristiani’ non lo facevano nel modo preteso da Crisostomo, di un’identità religiosa costantemente visibile.
La distinzione tra cristiani, greci e giudei era quindi molto meno marcata nella
pratica di quanto non appaia nei testi e nelle preghiere. Il decimo e ultimo capitolo
(pp. 277-281) riassume brevemente i dati raccolti e contiene le conclusioni formulate dall’autrice. Nonostante il forte contrasto tra gli approcci di Crisostomo e Libanio
sulla costruzione dell’identità religiosa e sull’importanza dell’interazione religiosa,
entrambe le opzioni erano valide per gli individui del IV secolo: il mondo non
era diviso semplicisticamente tra pagani e Cristiani, né testi come quelli esaminati
possono fornire dati esatti sulla cristianizzazione della società. La situazione era più
variegata e complessa, rispetto alla forse ‘comoda’ ma non attendibile schematizzazione della situazione religiosa operata dagli studiosi.
Il volume termina con una dettagliata bibliografia delle edizioni e delle traduzioni delle opere di Crisostomo e Libanio, delle edizioni e/o traduzioni delle fonti
antiche menzionate, degli studi moderni e con un Index dei nomi. La lista delle
abbreviazioni delle opere antiche, invece, si trova all’inizio del volume, appena
dopo la prefazione dell’autrice.
Silvia Margutti
Dottoranda in Storia Romana all’Università degli studi di Perugia
1_2011.indd 269
28-06-2011 12:12:23
270
Cr St 32 (2011)
Pamphilus von Caesarea, Apologia pro Origene – Apologie für Origenes,
übersetzt und eingeleitet von G. Röwekamp (Fontes Cristiani, 80), Brepols,
Turnhout 2005, pp. 484
Dopo la nuova edizione critica commentata dell’Apologia per Origene nella versione latina superstite, pubblicata nel 2002 per la collana delle Sources Chrétiennes
(n. 464-465), Georg Röwekamp propone qui una nuova edizione della stessa opera,
col testo a fronte stabilito da Réné Amacker, una traduzione tedesca e dei ricchissimi apparati. Il testo è naturalmente quello parziale tradotto da Rufino di Aquileia,
essendo l’originale greco ormai perduto. Anche se non segnalati dal frontespizio,
completano il volume la prefazione di Rufino alla propria traduzione dell’apologia
ed il suo opuscoletto Sulla falsificazione dei libri di Origene, i cui testi sono pure
ripresi dall’edizione critica curata da Amacker. Come l’edizione francese, anche la
presente è provvista di diversi indici, di un’ampia bibliografia e di apparati critici,
comprese delle eccellenti note a piè di pagina, fondamentali per una immediata
comprensione del testo e delle numerose citazioni origeniane in esso contenute. Fin
qui non c’è nulla di troppo diverso da quanto si può trovare nell’edizione critica
francese, che resta comunque imprescindibile per l’apparato critico, qui totalmente
soppresso, e per il secondo volume, contenente i diversi studi che accompagnano
il testo. La presente edizione si caratterizza però per un’imponente introduzione
originale, frutto di una dissertazione che Röwekamp ha difeso a Paderborn nel
semestre invernale 2004/2005 e che copre le prime duecento pagine circa dell’opera. Il volume ha quindi tutte le carte in regola per attirare l’attenzione, ben al di
là da quella che potrebbe essere una semplice edizione minore dell’Apologia per
Origene destinata al pubblico germanofono. E questo a cominciare dall’attribuzione
dell’apologia stessa, che Röwekamp ascrive, come si evince fin dalla prima occhiata
al frontespizio, al solo Panfilo di Cesarea, senza il contributo del suo illustrissimo
allievo, il vescovo Eusebio di Cesarea.
La lettura dell’introduzione però disattende le aspettative di un approccio fondamentalmente nuovo al testo. In primo luogo, l’attribuzione al solo Panfilo è semplicemente dovuta al fatto che lo si considera l’unico estensore del primo tomo
dell’apologia, in pratica quello qui tradotto da Rufino, rispetto ai sei tomi originari
nei quali si componeva l’insieme dell’apologia. Si tratta di una posizione non troppo
lontana da quanto sostenuto anche da Amacker e Junod, che già avevano segnalato che per l’impianto di questo primo tomo era difficile ipotizzare un intervento
sostanziale da parte di Eusebio, anche perché secondo la testimonianza di Fozio,
a Panfilo si dovevano i primi cinque tomi, mentre il sesto che chiudeva l’opera
sarebbe stato attribuibile a Eusebio. Tali considerazioni non permettono però di
escludere completamente un lavoro di collaborazione o di revisione da parte di
Eusebio sull’insieme dell’opera, come si evince anche dal chiarissimo paragrafo che
Röwekamp dedica alla formazione dell’apologia (pp. 51-58). Si tratta, insomma, di
un’attribuzione puramente convenzionale, che non si fonda su alcun nuovo elemento rispetto all’analisi già a suo tempo compiuta da Amacker e Junod (mi riferisco in
particolare alle pp. 41-74 del volume 465 delle Sources Chrétiennes), anche se, va
ricordato, nemmeno l’attribuzione di Amacker e Junod può essere dimostrata senza
ombre di dubbio.
1_2011.indd 270
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
271
Tutta la prima parte della lunga introduzione di Röwekamp propone, in effetti,
poco più di una semplice sintesi dello status quaestionis, presentando il contesto di
Alessandria e di Cesarea (pp. 11-22), la figura di Origene e la questione origenista
(pp. 23-44), Panfilo di Cesarea e la questione della stesura dell’apologia per Origene (pp. 44-58), nonché, infine, il contesto della traduzione rufiniana (pp. 58-77).
Si tratta di un impianto introduttivo che non si ritrova nell’edizione francese, che
presentava il testo critico con una rapidissima introduzione, ed un secondo volume
composto di una serie di studi molto approfonditi ed eruditi, che non prendono in
conto diversi degli aspetti generali del contesto del libro. Tutta questa prima parte
dell’introduzione affronta l’opera in maniera rapida ed efficace, in un insieme ben
chiaro ed equilibrato e, pur senza aggiungere nulla di nuovo alla ricerca, propone al
lettore diversi aspetti che l’edizione di Amacker e Junod ha tralasciato, a cominciare
dal contesto alessandrino, per finire con la parte contenente l’analisi dettagliata del
testo. Rispetto all’edizione delle Sources Chrétiennes, il volume di Röwekamp ha
un’introduzione di molto più agevole comprensione, grazie in particolare all’analisi
del testo, di un taglio insomma ben diverso da quella proposta da Amacker e Junod, che contiene principalmente un mero commentario filologico. La parte iniziale
dell’introduzione di Röwekamp appare in conclusione sicuramente più omogenea e
logica nella sua costituzione, ed è naturalmente pensata, molto più che la precedente, anche per un lettore che non sia perfettamente a suo agio con la materia trattata
dal libro. La parte principale dell’introduzione di Röwekamp è però la sezione che
segue, che occupa i due terzi dell’insieme, e contiene una presentazione/commento
dell’insieme dei testi tradotti, della prefazione di Rufino al testo dell’apologia, e, infine, dell’appendice rufiniana a proposito della falsificazione delle opere origeniane
(pp. 77-208). Un’ultima, breve sezione propone, a conclusione del lavoro, l’analisi
delle principali pretese accuse addotte contro Origene da una lettera di Giustiniano e dai documenti conciliari del 553 che portarono alla definitiva condanna del
teologo ed esegeta alessandrino (pp. 208-217). Il commento di Röwekamp presenta
diversi aspetti originali in confronto all’apparato di note dell’edizione Amacker e
Junod. In particolare, si interessa a diverse riprese dell’accusa di gnosticismo che
graverebbe su Origene secondo i suoi detrattori, accuse che non vengono prese
in conto da Panfilo e da Rufino stante ormai l’inattualità del fenomeno gnostico,
almeno quello dell’ambiente origeniano (oltre all’insieme del commento, si veda in
proposito la sintesi conclusiva alle p. 197-201).
In conclusione, se gli studiosi di quest’opera potranno limitarsi a consultare le
note di commento ai vari capitoli del testo, in quanto esse rappresentano il contributo originale che Röwekamp offre, il volume rappresenterà un validissimo strumento per affrontare l’Apologia per Origene da parte di chi, presumibilmente, sia
di madrelingua tedesca. L’Apologia è di per sé un testo importantissimo, nel quale
sono incastonati molti brani altrimenti sconosciuti di Origene, secondo la scelta
fattane da Panfilo e dal suo discepolo Eusebio di Cesarea. Si ricorderà infatti che
peculiarità di quest’opera è che essa si compone di una serie quasi ininterrotta di
citazioni tratte dalle più disparate opere origeniane, con lo scopo di fornire un’apologia per il maestro alessandrino a torto accusato di propugnare diverse credenze
eterodosse. Anche nella sua forma letteraria, si tratta quindi di un’opera unica, forse
la prima composta in tal modo, e che vale certamente la pena di essere letta. Panfilo,
1_2011.indd 271
28-06-2011 12:12:23
272
Cr St 32 (2011)
grande filologo devoto ad Origene, aveva infatti impostato la sua apologia come un
florilegio delle parole stesse di Origene, quasi che fosse bastato “spiegare Origene
con Origene” per azzerarne i sospetti di eterodossia. La storia continuò però per il
suo corso, e quest’unica apologia per estratti non riuscì a cambiarla.
Claudio Zamagni
Università di Losanna
Fabrizio Vecoli, Il sole e il fango. Puro e impuro tra i padri del deserto,
(Centro alti studi in scienze religiose), Edizioni di Storia e Letteratura,
Roma 2007, pp. xii-188
Nell’orizzonte dell’Egitto del IV secolo, un’età “spazzata da un’ondata di rinuncia” (così la definisce, con espressione suggestiva, M. Douglas in Questioni di gusto,
Bologna 1999, p. 113), tra i seguaci di Cristo, alcuni uomini predicavano la vita
eremitica, la cella solitaria, un’esistenza autosufficiente fatta di acqua di sorgente e
radici, altri invece si univano in comunità cenobitiche rette da un capo carismatico:
entrambe le soluzioni guardavano ad un più intenso vincolo con Dio da raggiungere
per mezzo dell’ascesi. Con il presente volume, F. Vecoli intende rileggere il monachesimo egiziano antico sotto l’aspetto dei concetti, capitali a quanto pare in ogni
cultura, di puro ed impuro, mirando in particolare a definire con più esattezza il
rapporto di dipendenza reciproca tra la condizione di purità e la visio Dei e a porre
la necessità di questo rapporto alla base di ogni relazione intrattenuta dall’asceta:
verso sé stesso, verso gli altri monaci e verso il resto del mondo.
Nel primo capitolo, premessa a tutta la ricerca, Vecoli ammette, sulla questione
dell’impurità, l’esistenza di una “generale coesistenza di concezioni tra loro diverse
all’interno del cristianesimo antico”. Sebbene infatti, secondo la vulgata generale,
sarebbe stato il cristianesimo ad operare una sorta di spiritualizzazione/eticizzazione di un concetto d’impurità dai tratti decisamente più “materiali” quale era
concepito dall’ebraismo - e come noi meglio lo abbiamo conosciuto attraverso studi
fondamentali quali quelli di M. Douglas (primo fra tutti Purity and Danger, London
1966, ma anche Leviticus as Literature, Oxford 1999), di J. Neusner (The Idea of
Purity in Ancient Judaism: the Haskell lectures, 1972-1973, Leiden 1973) o di J.
Milgrom (“The dinamics of Purity in the Priestly System”, in Purity and Holiness:
the Heritage of Leviticus, a cura di M.J.H.M. Poorthuis e J. Schwartz, Leiden 2000)
per citare alcuni dei più noti – l’ambiguità di puro ed impuro rispetto a tali principi
eticizzanti risale, a parere dell’autore, già al Nuovo Testamento (ambiguità forse
dovuta all’influenza delle idee qumraniche sul cristianesimo primitivo). Una certa
1_2011.indd 272
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
273
indeterminatezza tra spiritualità e materialità, in riferimento ai problemi legati alla
contaminazione, è quella che l’autore ci mostra agire nelle fonti monastiche del IV
sec. Tale genere d’impurità, inoltre, non sembra mostrare, in questo contesto, alcun
legame con la categoria del sacro, assimilabile piuttosto alla tipologia del puro: il
pensiero va subito alla tradizione ebraica che, diversamente, concepisce una modalità di contaminazione, ed anche molto pericolosa, innescata proprio a partire
dal sacro. Più simile a tale concezione, limitatamente a questo ambito, è quella che
ci descrive Parker nel suo ormai classico saggio, Miasma, del 1983, secondo cui,
invece, nel mondo greco puro e sacro sarebbero categorie assolutamente distinte.
Quanto poi all’interpretazione che l’autore riserva a questo concetto, essa si fonda
principalmente sull’idea di “mescolanza” sulla base delle teorie che M. Douglas
esponeva all’epoca di Purezza e Pericolo (Purity and Danger, 1966). La paura della
contaminazione deriverebbe, stando a ciò, da una reazione culturale nei confronti della violenza che un’anomalia può provocare all’interno dell’ordine simbolico
vigente in una società strutturata: qualora, insomma, vengano mescolati elementi
estranei in modo compromettente. I monaci egiziani avrebbero dunque concepito
l’impurità come un veicolo di depotenziamento di un’identità culturale di matrice
fondamentalmente religiosa, causato dall’introduzione di elementi a questa alieni.
Il lessico di riferimento (greco e copto) per la terminologia dell’impurità non
presenta particolari anomalie e corrisponde a quello tradizionale neotestamentario
e protocristiano ma ulteriormente semplificato. Non è invece preso in considerazione il lessico ruotante intorno all’opposizione sacro/profano in base al principio
per cui, nelle fonti considerate, se è vero che il puro è una qualità del sacro non è
possibile dire il contrario (non tutto ciò che si dice sul sacro può riferirsi automaticamente al puro).
Per quanto riguarda le fonti utilizzate in questo studio (per le quali manca un
indice finale delle abbreviazioni, che sono invece indicate nella prima nota che le
introduce), l’autore non solleva particolari problemi di paternità, di autenticità delle opere, sostenendo generalmente che, ai fini della ricerca, queste possono essere
utilizzate come “testimonianze valide almeno su un piano socio-culturale”. Si tratta
principalmente dei testi che ruotano intorno alla figura di Antonio (le Lettere – la
cui autenticità è riconosciuta sulla base della proposta di S. Rubenson, Lund 1990
– la Vita di Atanasio e gli Apoftegmi dei Padri a lui dedicati, le ultime due in quanto
testimonianze del pensiero dei loro rispettivi redattori), e di Pacomio (le Vite, le
opere attribuite alle successive guide della comunità ed il corpus normativo pacomiano), delle opere dei primi anacoreti egiziani (l’opera di Ammonas, l’unica lettera
di Macario Egizio, l’Epistula ad filios, ed il Trattato ascetico di Stefano di Tebe), di
alcuni cosiddetti “diari di viaggio” (l’Historia monachorum in Aegypto per esempio),
dell’Historia Lausiaca di Palladio di Elenopoli, degli Apophthegmata Patrum, di
alcune fonti copte (i cui testi sono tratti dalle raccolte di E.A. Wallis Budge, Londra
1910-1915, e E. Amélineau, Paris 1895) ed infine delle tradizione risalente a Paolo
di Tamma, Besa e Shenute (nelle edizioni rispettivamente di Orlandi, Roma 1984,
Kuhn, Louvain 1956, e Emmel, Louvain 2004).
Col secondo capitolo l’esame delle fonti è intrapreso a partire da un passo delle
Lettere di Antonio in cui l’azione dei demoni sull’uomo si rivela, nell’ordine della
fisicità, nella forma di tre moti (kìnesis) connotati negativamente (Ep. Ant. 1, 3).
1_2011.indd 273
28-06-2011 12:12:23
274
Cr St 32 (2011)
L’associazione di male e movimento, che sembrerebbe ritrovarsi anche nei sistemi
ermetico-gnostici, risale, secondo l’autore, ad una tradizione al contempo platonica
e pitagorica: si tratterebbe di un male demoniaco, identificato con la molteplicità,
la divisione e la dispersione e contrapposto all’unità interiore, al raccoglimento
solitario, all’esichìa (quiete).
Terzo di questi tre movimenti è quello che offre una spiegazione demonologica
dell’impurità dovuta ad un contatto diretto con un’entità esterna e demonica. Il
secondo moto fornisce una spiegazione per così dire “filosofica” dell’impurità, ed
è quello in cui la contaminazione dipende dal sovvertimento delle funzioni naturali dell’uomo, sul piano del nutrimento e su quello della sessualità. Un rigoroso
equilibrio è richiesto al monaco nel soddisfacimento dei bisogni fondamentali: non
sono tanto i cibi ad essere impuri in sé, ciò che determina l’impurità è il “peso della
carne” che può sopraffare, nel caso dell’ingordigia, il peso dell’anima. Così anche
la sessualità che, pur nella vita coniugale, impedisce la “mancanza di distrazione”
necessaria all’autentica preghiera. Le distrazioni connesse alla vita famigliare risulterebbero dunque negative perché portatrici di pensieri in grado di spezzare
“l’omogeneità interna dell’asceta”. Infine, il primo moto è quello meccanico, “naturale”, precedente alla caduta perché insito nel corpo stesso dell’uomo. In questo
caso la contaminazione è dovuta ad un difetto ontologico, l’impuro precede il puro
nell’uomo ed il pessimismo di una concezione dualistica anima-corpo finisce per
pervadere anche le altre interpretazioni.
Muovendosi contemporaneamente su diversi piani, nel terzo capitolo Vecoli,
raccoglie indizi atti a definire più precisamente la sfera di pertinenza dell’impuro,
se costituisca cioè una categoria fisica o spirituale.
Un primo esempio è tratto dalla grande fortuna che riscosse nell’esegesi monastica il passo paolino di I Cor. 9.27 in cui è scritto: “sottometto il mio corpo e lo
riduco in schiavitù”. Questa ambizione di sorveglianza sui propri sensi, l’idea di una
necessaria sottomissione del corpo all’anima, letteralmente di una sua riduzione
in schiavitù non avrebbe solo uno scopo di controllo sulla carne in modo che non
sia d’ostacolo all’anima, ma si fonderebbe su un’esigenza di purezza, presupposto
indispensabile per le future battaglie spirituali.
Secondo Vecoli, possono essere portati a testimonianza di tale priorità alcuni
esempi in cui il monaco, durante il processo di purificazione dell’anima, necessita
di concretizzare, oggettivare il pensiero impuro per poterlo quindi superare. Egli
riferisce questo procedimento alla logica del “come se” che consentirebbe di rendere finalmente fisica, visiva, materiale anche la battaglia spirituale: la tentazione,
attuata in maniera fittizia, verrebbe a svelare tutto il suo carattere effimero e spiacevole pur non rappresentando con ciò peccato, mentre tale esperienza, da mentale
divenuta fisica, costituirebbe una sorta di memoria alternativa per l’asceta.
Il compimento spirituale a cui l’uomo può aspirare in vita ha comunque un
limite e Paolo di Tamma lo descrive sotto forma di un irraggiamento luminoso con
cui lo Spirito Santo prende dimora nelle membra del monaco mentre nella sua
anima sono messe in moto le 12 virtù (De Humilitate 9). In questa descrizione della
santificazione Vecoli vede l’influenza di sistemi dottrinali non cristiani ma avvicinabili piuttosto alle tradizioni astrologiche dell’Oriente tardo antico, tradizioni dalle
quali il monachesimo avrebbe ricavato l’idea di una costrizione al male o all’impu-
1_2011.indd 274
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
275
rità che potenze esterne, cosmiche, realizzano sull’uomo il quale vi si può sottrarre
solamente attraverso lo sforzo ascetico e, naturalmente, la grazia divina. Perciò alla
condizione di purità corrisponde anche una condizione di libertà, libertà che apre
alla dimensione celeste.
Alla conclusione di questo capitolo sulle strategie di purificazione l’autore riserva la spiegazione del titolo dell’opera: il sole e il fango. L’impurità che abita
nell’uomo agendo come ostacolo alla sua ascesi opera in forma vischiosa, assorbente, intralciante “una sorta di melma che tende a ricoprire ogni cosa” (p. 76).
Lo sforzo ascetico consiste nel lasciare decantare questo fango finché lo spirito,
prosciugato e lindo, possa librarsi al cielo. Così opera l’immagine del fango presso
gli autori dell’epoca. In questo sistema metaforico l’azione divina è interpretata
dal sole che, incandescente e benevolo brucia il fango ma senza sporcarsene. Solo
in questa maniera si risolverebbe l’incompatibilità tra l’impurità dell’uomo e la
possibilità dell’azione divina su di lui: il creatore può operare sulla sua creatura
anche se questa non è ancora perfetta, senza con ciò ridurre la propria perfezione
macchiandosi del fango dell’impurità.
Il conflitto tra la volontà e la grazia nel processo di purificazione è comunque
un problema sentito. Vecoli lo rende evidente discutendo due temi in apparenza
marginali: quello delle lacrime e quello delle polluzioni notturne. In entrambi i
casi si tratta di fatti fisici ed insieme spirituali, di umori intimi ed incontrollabili.
Il primo, simboleggiando una buona disposizione dell’anima, può rappresentare
un momento intermedio dell’elevazione del monaco, un’arma contro i demoni, un
solvente dell’impurità. Il secondo invece ha un valore uguale ed opposto, a metà
strada tra la volontà del peccato e la manifestazione di un male che è intrinseco nel
corpo, una potenza contraria alla grazia che controlla l’uomo al di là del suo libero
arbitrio e alla quale esso può reagire solo spegnendone progressivamente la vitalità
in una sorta di “morte sospesa” del corpo (p. 97).
Con il IV capitolo Vecoli riporta i precedenti elementi d’analisi in un nuovo
contesto, non più quello dei singoli asceti in cui ciascuno è responsabile per sé stesso, ma quello dell’ambiente cenobitico pacomiano: un grande monastero diretto da
un superiore secondo una normativa diretta a fronteggiare tutte le difficoltà concrete legate alla convivenza. I conflitti, in particolare, ruotano intorno alla dissidenza
interna, alla tentazione omosessuale e, ciò che la precettistisca pacomiana sembra
temere di più, ai disordini generati da questioni sul cibo. Le forme, i tempi, i tabù
della nutrizione, come ben sappiamo, hanno un’importanza decisiva per la formazione di un’identità religiosa. Nel percorso ascetico, che vorrebbe l’uomo assimilarsi
alla creature celeste, mentre il sesso ed il sonno lungo il delicato confine tra ascesi
e sopravvivenza, rappresentano, il primo, un ostacolo la cui rinuncia non mette a
rischio la sopravvivenza del corpo, il secondo, un evento moralmente neutro, la
fame è invece un impulso a cui non è possibile cedere passivamente poiché richiede
uno sforzo attivo per essere sedata. Perciò bisogna affrontarla con pianificazione ed
organizzazione. È comprensibile dunque che molta parte delle regole del monastero interessino proprio il controllo della sfera alimentare. È ben dimostrato, del
resto, come, nell’ambito comunitario, siano l’obbedienza e la concordia del gruppo
a garantire la purezza dei singoli membri. Il “nuovo soggetto della salvezza” non
coincide infatti più con l’individuo ma con la confraternita guidata da un superiore.
Come nel corpo dell’asceta ogni membro era oggetto di disciplina in modo che non
1_2011.indd 275
28-06-2011 12:12:23
276
Cr St 32 (2011)
potesse fungere da conduttore per l’impurità, così nel cenobio è da un solo monaco
che può partire la contaminazione del gruppo poiché è la comunità nel suo insieme
che si salva o si perde. Vi è, secondo Vecoli, un’idea della purezza come “monotropia”, omogeneità, uniformità interna: del corpo in Antonio e della comunità in
Pacomio. Il superiore del monastero regge la collettività come l’asceta il suo proprio
corpo, a lui solo spetta il carisma, la vicinanza con il divino (e la purezza che ciò
implica), la visione della “luce” mentre gli altri appartenenti al gruppo si salvano
con il solo seguirlo.
L’opera si conclude con una considerazione sul modo in cui la riflessione monastica ha pensato il rapporto con l’altro in una storia, quella dell’Egitto del IV e
V secolo, che sembra spesso una vera e propria “cronaca di un conflitto”. Partendo
dunque dalla constatazione dell’innegabile violenza di fondo che contrassegnava
le relazioni esterne dei monaci, l’autore cerca di decifrare il tipo di ideologia che
ne costituiva l’impulso iniziale attraverso il mezzo dell’analisi lessicale (in particolare è allótrios – altrui, o comunque straniero – il termine connotato in senso più
negativo dal punto di vista della spiritualità). L’ “Altro” è soprattutto un diverso di
natura divina, che riporta a questioni d’appartenenza religiosa applicabile innanzi
tutto ai diavoli, colpevoli della prima disubbidienza a Dio, quindi all’impurità, risultato della contaminazione prodotta dall’introduzione di un elemento estraneo
in un contesto altrimenti omogeneo, infine, nell’ambito del cenobio pacomiano,
“altro” è ciò che spezza la sintonia della comunità, è la dissidenza interna. In pratica
l’autore ritiene si possa definire con “altro”, nel monachesimo egiziano, tutto ciò che
“spezza l’uniformità con Dio”, dalla funzione corporea incontrollata, al dissidente
della comunità, dal laico fino all’eretico e al pagano. Già gli indisciplinati interni
al monastero, come abbiamo visto, sono oggetto di isolamento o di espulsione dalla
comunità perché capaci, con la loro “agitazione”, di contaminare, di influenzare il
gruppo. I laici, a loro volta, sono percepiti come pericolosi soprattutto per la loro
vita coniugale che li contamina, fatalmente, per il tramite della sessualità. L’eretico
costituisce quindi una categoria dell’alterità particolarmente insidiosa perché spesso difficile da individuare e portatrice di una corruzione che agisce per mezzo della
parola. Il pagano, infine, si oppone al monaco sul piano della religiosità: animato
da un ispirazione demoniaca, la sua è un’alterità assoluta a Dio, un’alterità “extraumana” che mostra chiaro il volto del male e dell’impurità. Il nemico sociale viene
così a coincidere con il nemico spirituale nei confronti del quale sono necessarie
vere e proprie precauzioni igieniche. Ciascuna di tali categorie minaccia l’integrità
del monaco sia nello spirito sia sul piano materiale del contagio fisico: la precauzione più efficiente rimane comunque il sottrarsi al contatto.
Ciò che Vecoli in fin dei conti ci mostra è un’alterità che si misura in base alla
distanza da Dio e che si innesta in una rete costruita sulle fondamenta dell’affiliazione religiosa. E siccome potenzialmente ogni uomo è passibile di evangelizzazione, il
suo statuto non è incondizionato ma vincolato alla disponibilità di accettazione della Verità. Ciò che è in gioco, che si tratti dell’individuo nella sua corporeità o nello
spirito, della comunità monastica o del mondo, è sempre l’affermazione dell’unica
divinità sulle sue creature la cui umanità dipende insomma dall’apertura che queste
dimostrano all’omologazione religiosa. Nella diversità non vi è alcuna dignità, essa
è sempre fonte di impurità, e solo il santo occupa una posizione che gli permette un
1_2011.indd 276
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
277
contatto col mondo esente dal rischio di contaminazione poiché è ormai divenuto
egli stesso un veicolo di trasmissione del sacro.
Giulia Canedi
Università degli Studi di Siena
Byzantine Orthodoxies. Papers from the Thirty-sixth Spring Symposium of
Byzantine Studies, University of Durham, 23-25 March 2002 (Society for
the Promotion of Byzantine Studies. Publications 12), ed. by Andrew Louth
and Augustine Casiday, Ashgate Variorum, Aldershot 2006, pp. xiv-236
Il titolo suona come un ossimoro. Del resto, non meno provocatorio era quello –
Was Byzantium Orthodox? – del simposio di studi, tenuto tra il 23 e il 25 marzo del
2002 a Durham, i cui atti sono per l’appunto presentati da Byzantine Orthodoxies.
Il volume in oggetto offre – oltre la breve Preface di A. Louth (pp. IX-X), la List
of Abbreviations (p. XI, con spiacevoli errori: Acta Concilium [leggi Conciliorum]
Oecumenicorum, Patrologia [leggi Patrologiae] cursus completus… series graeca
nonché Patrologia [leggi Patrologiae] cursus completus… series latina) e la List of
Illustrations (p. XIII) – sedici lavori. Le pp. 229-236 sono occupate da un indice di
nomi e di cose.
Il primo contributo, Introduction di A. Louth, pp. 1-11, pone le domande relative al tema e fornisce alcune coordinate di lettura per i successivi papers, ripartiti in
tre sezioni. La prima, «Defining orthodoxy» (pp. 13-92), raccoglie cinque articoli, la
seconda, «Orthodoxy in art and liturgy» (pp. 93-164), sei, e la terza, «Orthodoxy and
the other» (pp. 165-214), gli ultimi tre. Fungono da Epilogue le note del compianto
S. Averintsev, Some constant characteristics of Byzantine Orthodoxy, pp. 215-228,
scomparso il 21 febbraio 2004, prima della pubblicazione del volume che a lui è
stato dedicato.
Apre la prima sezione uno scritto di J. B(ehr), The question of Nicene Orthodoxy, pp. 15-25. Intrecciando un fitto dialogo con le posizioni espresse recentemente
da studiosi di area anglosassone, B. sottolinea soprattutto l’importanza dell’esegesi
nel definire le posizioni dei non-Niceni e dei Niceni del IV secolo: «The non-Nicenes (…) insisted on an absolutely univocal exegesis, which applied all scriptural
affirmations in a unitary fashion to one subject, who thus turns out to be a demigod, neither fully divine nor fully human (…). For the Nicenes, on the other hand,
Scripture speaks throughout of Christ, but the Christ of the kerygma, the crucified
and exalted Lord, and so speaks of him in a two-fold fashion, a partitive exegesis:
some things are said of him as God and other things are said of him as man…»
(p. 24). En passant: è ‘Jovian’ l’imperatore romano († 364) destinatario di uno
scritto di Atanasio: il ‘Jovinian’ di B., p. 19, è un lapsus. C. M(acé), Gregory of
1_2011.indd 277
28-06-2011 12:12:23
278
Cr St 32 (2011)
Nazianzus as the authoritative voice of Orthodoxy in the sixth century, pp. 27-34,
nel richiamare un elemento caratteristico dell’Ortodossia – e non solo di essa –, il
cosiddetto ‘appello ai Padri’, si sofferma su una figura importante e paradigmatica: Gregorio Nazianzeno. Passi del Teologo, messi in luce da M., furono utilizzati
nel contesto della seconda crisi origenista: l’auctoritas del Padre era tale che lo si
voleva sempre e comunque tirare dalla propria parte. Anche l’associarlo ad altri
scrittori – ad esempio, Cirillo di Alessandria – va visto secondo una precisa ottica
strumentale. Il contributo è improntato a criteri sanamente filologici (per incidens,
M. rende Phot. bibl., cod. 234, 293a, V, p. 83, linn. 10-12 Henry, Ἀλλὰ πῶς τὸ τοῦ
θεολόγου Γρηγορίου νοητέον καὶ ἄλλων πολλῶν; in modo impreciso: «But how
can it be that Gregory the Theologian and many others had the same opinion?» [p.
33]; si traduca piuttosto: «Ma come si deve interpretare la posizione di Gregorio il
Teologo e di molti altri?»). Non si può dire lo stesso del lavoro di D. Krausmüller,
Theotokos-Diadochos, pp. 35-54, che, dedicando molte pagine a un passo di un testo
agiografico, la Vita di Teodosio composta da Teodoro di Petra, e giocando su ciò che
egli ritiene – ma non lo sono – parechesi, forza indebitamente il testo e giunge a
conclusioni arbitrarie. Di ben altra rilevanza è P. K(arlin)-H(ayter), Methodios and
his synod, pp. 55-74, che indaga su un momento cruciale nella storia di Bisanzio: la
restaurazione dell’ortodossia iconodula dell’843, lo spessore politico-ecclesiastico
che essa ebbe e il ruolo di alcuni protagonisti, in particolare di Metodio e di Teodora, vedova dell’imperatore Teofilo. Di quest’ultima, K.-H., in polemica con Afinogenov, sottolinea, rileggendo le fonti, l’iniziativa sovvertitrice dello status quo e
il ruolo determinante nella scelta di Metodio come nuovo patriarca (si osservi che
potrebbe esserci stato, tra i possibili candidati [cfr. p. 65], anche Michele Sincello:
cfr. Vita Mich. Sync. 25, p. 102, linn. 14 ss. Cunningham). K.-H. riesamina infine
le ragioni della forte opposizione studita a Metodio e i primi passi di quest’ultimo come patriarca. A Procoro Cidone († 1370 ca.), figura di spicco in una certa
fase della crisi esicasta, rivolge l’attenzione N. R(ussell), Prochoros Cydones and the
fourteenth-century understanding of Orthodoxy, pp. 75-91. Lo studioso ricostruisce
puntualmente la fisionomia di questo studioso e polemista, conoscitore di prima
mano della teologia latina, e il ruolo che, come avversario dei Palamiti, svolse fino
al processo che subì nel 1368. In esso Procoro Cidone fu condannato e le sue
dottrine – di cui R. rimarca alcuni squilibri sotto il versante cristologico – furono
confutate in opere di Giovanni Cantacuzeno (dal 1347 al 1354 imperatore col nome
di Giovanni VI) e di Teofane di Nicea.
La seconda sezione è dedicata alla «Orthodoxy in art and liturgy». L. Brubaker,
In the beginning was the Word: Art and orthodoxy at the Councils of Trullo (692)
and Nicaea II (787), pp. 95-101, si occupa dei canoni 73, 82 e 100 del Quinisesto
che hanno attinenza o riflessi sul tema dell’arte posta al servizio dell’ortodossia.
L’articolo si conclude con riflessioni, fin troppo rapide, sul Niceno II. L. James, …
and the Word was with God… What makes art Orthodox?, pp. 103-110, esamina un
passo degli Acta del Niceno II (Mansi XIII, 252) – tratto dalla refutatio dell’horos
del concilio iconoclasta di Hiereia (754) – e, sulla scia di R. Cormack, lo contestualizza nell’ambito della polemica, rileggendolo come semplice asserzione di uno stato
di fatto, non come norma prescrittiva. Non mi sembra qui emergere con chiarezza
che il brano in questione pone definitivamente l’artista sotto l’usbergo dell’auctori-
1_2011.indd 278
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
279
tas dei Padri, spesso richiamata in causa come fonte di legittimazione. R. Cormack,
…and the Word was God: Art and Orthodoxy in late Byzantium, pp. 111-120, si
sofferma sull’epoca della crisi esicasta, in cui, per ciò che riguarda il rapporto tra
arte e Ortodossia, non ravvisa un particolare shift col passato. Mette pure sommariamente in luce gli scambi e le reciproche influenze tra Oriente ed Occidente che
si ebbero con i concili di Lione, 1274, e soprattutto di Ferrara-Firenze, 1438-1439.
D. K(otoula), The British Museum Triumph of Orthodoxy icon, pp. 121-128, discute
di una nota icona del tardo XIV sec. – riprodotta nella sovracopertina del volume
e a p. XIV –, delle figure di santi che vi compaiono e del ruolo che vi esercitano.
K. sottolinea l’interesse che la teologia e la chiesa bizantina della seconda metà del
XIV secolo nutrirono per i temi della crisi iconoclastica: è questo lo scenario entro
cui si colloca l’‘icona del Trionfo dell’Ortodossia’. Per A. Lingas, Medieval Byzantine
chant and the sound of Orthodoxy, pp. 131-150, le tradizioni musicali dell’Oriente
bizantino e quelle dell’Occidente latino, fino al XV secolo, operavano ancora su basi
comuni: è una tesi che va contro una communis opinio espressa da studiosi e cultori
di musica dell’Ottocento e del Novecento e influenzata da ragioni ideologiche. Infine, l’Archimandrita Ephrem (Lash), Byzantine hymns of hate, pp. 151-164, passa
in rassegna alcuni inni che presentano espressioni, più o meno elaborate, di odium
theologicum. Una precisazione: a p. 159 nota 29, si parla di κέντων come una
«otherwise unattested Greek word», in riferimento al vescovo monofisita Giacobbe
soprannominato il «Baradeo», cioè «straccione». In realtà, c’è κεντών nel Lex. Suda
κ 1337 (cfr. Lexikon zur Byzantinischen Gräzität, IV, p. 821 s.v. che traduce «zusammengeflicktes Gewand») e κέντρων è ben testimoniato (cfr. LSJ, p. 939 s.v. II
«piece of patch-work, rag»).
La terza e conclusiva sezione, «Orthodoxy and the other» presenta tre contributi, per più aspetti stimolanti. N. de Lange, Can we speak of Jewish Orthodoxy
in Byzantium?, pp. 167-178, focalizzando l’attenzione soprattutto sui secoli dopo
il Mille, esamina le complesse dinamiche intercorrenti tra le principali comunità
giudaiche dell’Impero bizantino, i Karaiti e i Rabbaniti. Pur distinti e spesso in
polemica, «…both agreed too on a range of fundamental beliefs, including a common doctrine of God, man and the world, and a shared view of the character and
destiny of the Jewish people» (p. 175). L’analisi dello scambio epistolare tra Fozio
(al tempo del suo secondo patriarcato) e il vescovo armeno Isaac Mŕut conduce I.
Dorfmann-Lazarev, The Apostolic Foundation Stone: the conception of Orthodoxy
in the controversy between Photius of Constantinople and Isaac Surnamed Mŕut, pp.
179-197, ad interessanti conclusioni: «…Photius maintains a diachronic, collective
and spatial understanding of orthodoxy: it is entrusted to the patriarchs whose sees
are spread throughout Christendom. These patriarchates perpetuate the orthodox
faith across the generations, developing it by means of oecumenical councils. On
the other hand, Isaac affirms the primordial importance of the roots of the Armenian church founded on the ‘Apostolic foundation stone’» (p. 193), radici che gli
Armeni vedevano incarnate nella figura di S. Gregorio Illuminatore. T.M. Kolbaba,
The Orthodoxy of the Latins in the twelfth century, pp. 199-214, sottolinea opportunamente che, spesso, la polemica antilatina aveva obiettivi tutti interni al mondo
ortodosso e intendeva colpire personaggi individuati come «latinofili». A Bisanzio,
almeno sino alla fine dell’XI secolo, nei confronti dei Latini prevalse una posizione
1_2011.indd 279
28-06-2011 12:12:23
280
Cr St 32 (2011)
tutto sommato moderata, ispirata a criteri di oikonomìa. Le cose sarebbero mutate
profondamente col secolo successivo, in connessione con i noti eventi politici e
militari.
Nell’Epilogue del volume S. A(verintsev), Some constant characteristics of Byzantine Orthodoxy, pp. 215-228, sottolinea come vi siano, da un lato, differenze
sotto il profilo dottrinario, dall’altro divergenze che riguardano «the style of gestures, of behaviour, of sacred art, of the rhetoric of hymns and sermons»: ciò che si
assomma nello «special taste, worked out by the centuries of the Orthodox cultural
tradition» (p. 215). Di questo taste e di alcuni suoi elementi – ad esempio, l’icona,
la poesia innografica – A. ci fornisce suggestivi paradigmi. Dell’Ortodossia, dunque,
si possono avere tante e distinte declinazioni, tante «orthodoxies», diverse, sì, ma
pur sempre unificate da un inconfondibile taste. Comprendiamo, a questo punto,
che il titolo Byzantine Orthodoxies è molto meno intrigante di quanto prima facie
appare e non fa che amplificare retoricamente la fin troppo accentuata varietas dei
contenuti offerti dal volume. E se questo si era aperto con i pensosi interrogativi
di A. Louth (p. 2), si chiude invero con una palpitante riaffermazione di valori
ortodossi.
Una nota finale – purtroppo dolente – riguarda l’imperfetta cura editoriale del
volume. Alcuni contributi – in particolare quelli di Macé, Lingas, dell’Archimandrita
Ephrem (Lash) – sono sfigurati da numerosi o numerosissimi errori nelle citazioni
di testi greci. Non mancano errori banali come, ad esempio: p. 28 «Apophtegmata»
(-phth-), p. 107 «acheiropoietai» (-toi), p. 108 nota 18 «De opificio homini» (-nis),
p. 109 nota 21 «Antirrhetii» (-tici), p. 119 «Melissimos» due volte, ma «Melissenos»
recte a p. 120, p. 123 «Theophanes Continuatis» (-tus), p. 126 «Porphypogenitus»
(-phyro-), p. 186 «N. Garoïan», ma «N. Garsoïan» recte alla nota 39 della stessa
pagina.
Carmelo Crimi
Università degli Studi di Catania
Mistici bizantini, a cura di Antonio Rigo, prefazione di Enzo Bianchi, (I
millenni), Einaudi, Torino 2009, pp. 803
In linea con altre imprese di segno analogo, come ad esempio la raccolta sui mistici italiani curati da Carlo Ossola, il millennio Einaudi dedicato ai mistici bizantini
è un’opera unica a livello internazionale, in quanto affidata – di contro ad esempio
alle sezioni sulla mistica bizantina nell’opera La mistica della Città Nuova, in cui
l’impostazione è nella maggior parte dei casi esclusivamente teologica – a un grande
1_2011.indd 280
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
281
specialista del settore, uno storico e al contempo filologo, in Italia sicuramente il
maggior conoscitore della tradizione monastica e mistica bizantina. L’opera, che
si propone di superare il “canone” di riferimento per la letteratura spirituale bizantina, quello in qualche modo imposto da Nicodemo Haghiorita e da Macario di
Corinto con la Filocalia, raccoglie personaggi e testi più o meno noti nel panorama
della letteratura bizantina: Simeone il Nuovo Teologo (silloge di Inni e κεφάλαια),
Niceta Stethatos (silloge di κεφάλαια), Giovanni l’eremita (Epistola a un igumeno), Basilio igumeno di Maleinos (Discorso sul regolamento ascetico), Elia Ekdikos
(Antologia gnomica di filosofi zelanti), Pietro Damasceno (Sulle otto contemplazioni
intellegibili), Canone catanittico della Scala (scil. di Giovanni Climaco), il Giardino
simbolico, Teognosto (Capitoli), Narrazione sugli inni (scil. di Thekaras) di Teodulo
monaco, Dionigi monaco (Cinquanta capitoli gnostici), Metodo psicofisico di attenzione e di preghiera, Niceforo l’eremita (Trattato colmo di utilità sulla custodia del
cuore), Gregorio sinaita (κεφάλαια, Notizia esatta sulla hesychia e sulla preghiera,
sui segni della grazia e dell’errore, sulle differenze di calore e di operazione e che
senza una guida con facilità penetra l’errore), Teolopto di Filadelfia (Discorso che
spiega l’attività nascosta in Cristo e che mostra in compendio il fine della professione
monastica, Esposizione parziale come promemoria dei consigli dati alla venerabilissima principessa monaca Eulogia) Gregorio Palamas (κεφάλαια, Lettera alla monaca Xene), Abba Isaia (Libro dei consigli alla monaca Teodora Angelina), Nicola
Cabasilas (La vita in Cristo), Callisto Angelicude (Sulla pratica esicastica), Callisto e
Ignazio Xanthopouloi (Metodo e canone esatto). La maggior parte dei passi, anche
in presenza di un’edizione critica, sono stati verificati dall’autore sui manoscritti,
con acribia e cura filologiche notevoli: non possiamo non citare ad esempio la nuova proposta di datazione di Esichio di Batos, che tradizionalmente viene considerato
un autore di VIII secolo e per il quale invece Rigo propone una datazione molto
bassa, e cioè la fine del XII secolo, dal momento che i manoscritti che ne riportano
l’opera sono appunto del XIII secolo ed è a partire da quell’epoca che comincia ad
essere citato da altri autori.
La prefazione di Enzo Bianchi, priore di Bose, anticipa l’idea sottesa a tutto
il volume e che ritroviamo nell’Introduzione, e cioè che «l’unica mistica possibile
all’interno del cristianesimo prende forma e si definisce in rapporto al μυστήριον
neotestamentario e paolino, cioè il disegno salvifico di Dio rivelato e attuato nella
persona di Gesù», nella sua vicenda di nascita, vita, morte sulla croce e risurrezione.
In questo senso la mistica cristiana, e tanto più quella bizantina, «lungi dall’essere
esperienza straordinaria eminentemente individuale, è nella sua essenza esperienza
ecclesiale cui sono chiamati a partecipare tutti i battezzati». La mistica dunque non
è vetta che solo pochi possono raggiungere. Pare di vedere qui spinto alle estreme
conseguenze, pur se non citato, il magistero di Vladimir Lossky e della sua Théologie mystique de l’Église d’Orient (Aubier, Paris 1944; tr. it. Bologna, Dehoniane
1985): con il termine «teologia mistica» egli intendeva indicare «una spiritualità che
è espressione di una posizione dottrinale». Secondo Lossky ogni teologia è mistica,
poiché manifesta il mistero del divino, i dati della Rivelazione. La tradizione orientale non ha mai fatto, secondo lo studioso, netta distinzione tra mistica e teologia
(e però mistici come il Nuovo Teologo criticano la teologia tradizionale): l’una è
impossibile senza l’altra, e se l’esperienza mistica significa mettere personalmente
1_2011.indd 281
28-06-2011 12:12:23
282
Cr St 32 (2011)
in valore il contenuto della fede comune, la teologia è l’espressione, per l’utile
comune, di ciò che può essere “esperimentato” da ciascuno. La mistica è insomma
la perfezione, il vertice di ogni teologia, è la teologia per eccellenza. La teologia
cristiana è uno strumento, un insieme di conoscenze che devono servire a un fine
che sorpassa ogni conoscenza: il fine ultimo è l’unione con Dio, la deificazione, la
θέωσις dei Padri Greci. Per Lossky la teologia mistica non coincide con la mistica
propriamente detta, cioè l’esperienza personale dei diversi maestri di vita spirituale.
Siamo lontanissimi dunque dalla riflessione che fece, in anni immediatamente seguenti, il gesuita Michel de Certeau, secondo il quale a partire dal xvii secolo non
si designa più come mistico il modo di una saggezza elevata al pieno riconoscimento
del mistero già vissuto e annunciato da credenze comuni, ma una conoscenza sperimentale che si è lentamente staccata dalla teologia tradizionale o dalle istituzioni
ecclesiali e che si caratterizza per la coscienza di una passività appagante in cui l’io
si perde in Dio. In altri termini, secondo De Certeau, diventa mistico ciò che fuoriesce dalle vie normali o ordinarie, che appare simultaneamente nella forma di fatti
straordinari e di una relazione con un Dio nascosto.
Nell’ampia Introduzione (pp. xi-xcvi) Rigo afferma chiaramente che il volume
è in realtà un’antologia di testi spirituali: testi devozionali, ascetici, di direzione
spirituale, propriamente mistici, all’insegna dell’equazione spirituale=mistico. E
tuttavia, siamo così sicuri che la letteratura spirituale sia mistica? La letteratura
ascetica può essere considerata una letteratura mistica? Lo stesso Lossky è costretto
ad ammettere che la mistica è la perfezione, il vertice della teologia, e che i discorsi
ascetici non sono mistici. Lo studioso rinuncia a dare una definizione operativa di
mistica e delinea un percorso storico che, giustamente, non può prescindere dalla
mistica siro-orientale: Giovanni di Apamea, Isacco di Ninive, Filosseno di Mabbug,
Giovanni di Dalyatha. Si parte da Giovanni Climaco, per procedere con la scuola
sinaitica – anche se lo studioso rifiuta la distinzione di Hausherr nelle cinque scuole
di spiritualità tra cui, appunto, quella sinaitica: al proposito cfr. il suo La spiritualità
bizantina e le sue scuole nell’opera di Irénée Hausherr, in «Orientalia Christiana
Periodica» 1 (2004), pp. 197-216 (Atti del simposio Irénée Hausherr et la spiritualité
de l’Orient chrétien) –, arrivare alla tradizione studita e poi analizzare gli autori e i
testi che costituiscono la sezione antologica, contestualizzandoli nel periodo di riferimento. Antonio Rigo, giustamente, contesta le dicotomie tradizionali come praxis
e theoria, che però è dicotomia consolidata negli stessi testi che egli cita; certo la
contemplazione è frutto delle pratiche ascetiche, ma la letteratura spirituale stessa
ci informa che non per tutti l’ascesi conduce alla theoria.
Frutto di questa impostazione è il giudizio dato alla figura che rappresenta uno
dei vertici nell’esperienza mistica a Bisanzio, e cioè Simeone il Nuovo Teologo: pur
riconoscendo in lui l’apice della mistica bizantina, Rigo lo considera come la figura
meno rappresentativa, «un vero e proprio meteorite comparso nel cielo di Bisanzio».
«La caratteristica principale e comune dell’intera tradizione spirituale bizantina è
l’impersonalità, elemento tanto distintivo da causare, indirettamente, molti problemi agli studiosi moderni, non da ultimo quello della datazione di alcune opere prive
di qualsiasi coordinata cronologica». Questo è vero, è ovvio, ma vale soprattutto per
la letteratura spirituale e per quella più teorica.
Rigo ben ha messo in evidenza le due attitudini contrastanti nel mistico: da un
1_2011.indd 282
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
283
lato è riconoscibile una sorta di pudore nel rivelare le esperienze più intime, che infatti egli le racconta in forma anonima o alla terza persona (ecco il canone dell’impersonalità), mentre in alcuni casi, come lo straordinario inno 15, questa reticenza
si trasforma, secondo Rigo, in una specie di esibizionismo: e però proprio nell’Inno
15 l’esperienza mistica è da Simeone descritta in un modo così vivido che egli arriva
ad affermare che tutti i suoi organi, compresi i genitali, diventeranno membra di
Cristo. Secondo Simeone nella presa di coscienza di essere inabitati dallo Spirito,
che si realizza nella visione, consiste il fine e la vocazione della fede cristiana: «senza l’esperienza la teologia è inutile, con l’esperienza diventa superflua», per citare
de Halleaux. Io personalmente avrei anche antologizzato qualche passo tratto dalle
Catechesi (ad esempio la sedici), ma capisco il tentativo di rendere conto della teoria
e della prassi del discorso mistico, inserendo i κεφάλαια.
Rigo cita una serie di autori diversissimi rispetto al Simeone degli Inni o delle
Catechesi (gli scritti più autobiografici) ma più vicini al Simeone dei κεφάλαια e
dei Trattati: in questa direzione vanno Elia Ekdikos, Nicone della Montagna Nera,
lo stesso Niceta Stethatos, discepolo di Simeone e editore delle sue opere, laddove il
filone ereticale rappresentato da Teodoro delle Blacherne e da Costantino Crisomallo è strettamente connesso al magistero delle Catechesi simeoniane. Il filone agiografico, poi, nella figura di Cirillo il Fileota, riprende in pieno la figura del mistico
carismatico e delle sue visioni, cercando di mitigarne taluni eccessi.
A Simeone il Nuovo Teologo è stato per lungo tempo attribuito un testo più
tardo (anonimo e di metà del XIII secolo), la μέθοδος τῆς ἱερᾶς προσευχῆς καὶ
προσοχῆς, che esalta il metodo psicofisico di orazione: esso presuppone la completa assenza di preoccupazioni, una coscienza pura, la libertà da ogni passione e
una totale sottomissione al padre spirituale. Della tecnica fanno parte una posizione
corporea, una disciplina respiratoria e la visualizzazione interiore, il tutto finalizzato alla contemplazione e alla visione divina: questa tecnica sarà poi alla base
dell’esicasmo.
Assai interessante e innovativa mi sembra la scelta di inserire una sezione dedicata a un personaggio affascinante e suggente, Thekaras, che ci ha lasciato diciotto
Inni, l’ufficiatura ascetica e otto orazioni tratte dalla Scrittura e da Efrem il siro.
Rigo ha scelto di antologizzare alcune operette complementari che nei manoscritti
accompagnano i testi di Thekaras. Degna di nota è soprattutto la Narrazione sugli
Inni del monaco Teodulo, dedicata all’itinerario spirituale di Thekaras, vissuto nella
seconda metà del XIII secolo e di cui abbiamo pochissime informazioni. L’itinerario
è delineato sicuramente in modo conforme ai racconti monastici, ma ricorda soprattutto i racconti che fa Simeone il Nuovo Teologo – che peraltro viene citato – delle
proprie esperienze mistiche, anch’essi in prima persona, pur se con alcune differenze: ad esempio Thekaras parla di estasi, laddove noi sappiamo che per Simeone
l’estasi è uno stato tipico degli inizi della vita spirituale, quando le forze dell’anima
sono ancora vacillanti, ed è il risultato dell’incapacità dell’anima di sostenere la
visione della luce divina senza esserne sconvolta: essa è dunque una fase preliminare a una condizione ulteriore, caratterizzata da uno stato di consapevolezza e di
presenza costante della luce divina dell’interiorità. Tuttavia, la stretta connessione
fra momento di preghiera e visione divina, la centralità dell’illuminazione come
momento mistico sono analoghi. Ciò che c’è di nuovo è la consapevolezza che gli
1_2011.indd 283
28-06-2011 12:12:23
284
Cr St 32 (2011)
Inni sono frutto di ispirazione divina e portatori della visione e, in quanto tali, entrano a far parte dell’ufficio del monaco: «La composizione è quindi nostra, meglio
non è nostra ma della grazia di Dio, come è stato mostrato. Per questo mi sembra
inopportuno porre nel titolo il mio nome, ma piuttosto attribuire gli inni a Colui
che dona la grazia, alla causa di tutti i beni e al fondamento dei nostri pensieri. […]
Ho composto sotto la guida della grazia e con molta fatica, lungo tempo». Colpisce,
inoltre, l’insistenza sul μονολόγιστος al quale viene affidato il compito di distruggere i pensieri.
Se l’Antologia gnomica di filosofi zelanti di Elia Ekdikos può ricordare a tratti
un certo ordine di procedere tipico della Scala climachea (di cui cita molte γνῶμαι),
Basilio di Maleinos riprende nelle prescrizioni del regime alimentare la misura del
monachesimo di Gaza, e nemmeno un campione come Gregorio Sinaita, nei capitoli sulla preghiera, rifugge dal suggerire una misura nel mangiare, nel bere e nel
regime sonno-veglia, legittimandoci a pensare che la pratica ascetica sia comunque
fondamentale per il mistico. Si resta però perplessi nel vedere inserito nell’antologia
il Canone catanittico della Scala, una raccolta di odi in cui ciascuna strofa è accompagnata da un’illustrazione, il tutto tratto dal quinto gradino della Scala di Climaco,
dedicato alla penitenza. La recitazione di questo testo doveva essere effettuata sia
durante le preghiere in comune, sia durante la preghiera e le meditazioni nella
solitudine (anche nella Narrazione sugli Inni di Teodulo troviamo raccomandata
la recitazione delle preghiere catanittiche), a dimostrazione della centralità della
penitenza nell’itinerarium mentis ad Deum: ma si tratta di un testo mistico? O forse
andava meglio esplicitato il nesso tra esso e le tecniche di visualizzazione legate alle
immagini – splendide miniature nei manoscritti – cui il testo dà origine (tecniche
sulle quali si è recentemente soffermato Gilbert Dagron (in Décrire et peindre. Essai
sur le portrait iconique, Gallimard, Paris 2007).
Vorrei ancora spendere qualche problema sul problema della mistica femminile: testi come le lettere di Teolepto di Filadelfia alla monaca, principessa nel mondo
Irene Cumna-Eulogia, il Libro dei consigli di abba Isaia, la lettera di Palamas alla
monaca Xene, non sono certo testi diretti a estatiche. L’opera di abba Isaia, poi,
sembra piuttosto inserirsi in quella tradizione del consilium che in Occidente è stata
ben indagata, gli altri sembrano testi rivolti a quelle che si vorrebbero, per usare
un’espressione di Hatlie, Women of discipline.
Resta indubbio il coraggio di Rigo nel cimentarsi in una consimile impresa, che
resterà sicuramente un importante punto di riferimento per gli studi sulla mistica
bizantina, anche se io avrei intitolato la raccolta Spirituali a Bisanzio, un titolo
che, mi rendo conto, sarebbe meno appetibile, ma sicuramente più conforme ai
contenuti del volume.
Rosa Maria Parrinello
Dottore di ricerca in Storia religiosa e in Istituzioni, società, religioni
dal Tardo Antico alla fine del Medioevo
1_2011.indd 284
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
285
Marco Toti, Aspetti storico-religiosi del metodo di orazione esicasta, (Quaderni di SMSR dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, n. s.),
vol. 4, Japadre Editore, L’Aquila-Roma 2006, pp. 158
Il libro che qui presentiamo costituisce il quarto volume della nuova serie della
collana dei Quaderni di “Studi e Materiali di Storia delle Religioni”, a suo tempo diretti da Alberto Pincherle e da Angelo Brelich e oggi sotto la direzione di Emanuela
Prinzivalli e di Sergio Zincone.
Il testo di Marco Toti offre un’introduzione, con spunti riflessivi relativi a quella
specifica tradizione cristiano-orientale che ha trovato nei trattati ascetici athoniti
del XIII-XV secolo una sistematizzazione rilevante del simbolismo della tecnica
psico-fisica di preghiera fondata sull’invocazione fervente e continua del nome di
Gesù, chiamata anche preghiera del cuore. Il problema ascetico della tecnica corporale di preghiera esicasta – nel saggio di Marco Toti – è per altro sottoposto ad
un’analisi comparativa di accostamento che alza lo sguardo sul Sufismo islamico,
sul Tantra buddista, sullo Yoga classico, sugli esercizi spirituali di varia tradizione
cristiana.
Il volume di Toti enuclea i temi principali di una morfologia della pratica ascetica, di cui si rileva il carattere iniziatico, il senso combattente di una spiritualità del
martirio, della contemplazione orientata ad un simbolismo del cuore e del “corpoTempio”, in una spiritualità della ripetizione dell’invocazione, della prassi respiratoria, della postura del corpo nel quadro di una fisiologia mistica dell’esicasmo.
Il libro dal titolo Aspetti storico-religiosi del metodo di orazione esicasta offre un
percorso di studio, con punte di riflessione tra le quali una, più di altre, ha stimolato
la nostra attenzione.
Nelle pagine conclusive del libro, l’autore osserva che la formula religiosa
dell’invocazione del nome di Gesù (la pronuncia della preghiera di Gesù) costituisce un’ascesi che “rifiuta recisamente le evasioni spiritualistiche” (ivi, p. 127). Ci
sembra che, in questo punto, il “misticismo” orientale – troppo spesso banalizzato –
venga messo sotto la luce giusta. Si mette in evidenza una tradizione mistica che non
comporta una perdita dell’uomo (come altro da Dio), ma esalta un’altra dimensione
di Dio come un altro (come lui) che deifica l’asceta che se è come Dio, come Dio
porta il marchio della sua incomprensibilità. La relazione personale con Dio indica
la religiosità di questo dialogo santificato esso stesso, stringendo un nodo problematico, in cui è possibile intrecciare metodologie e prospettive di ricerca.
La preghiera dell’asceta a immagine e somiglianza di quella di Gesù implica
due soggetti riuniti nel nome della preghiera, che non fonda i due soggetti come già
costituiti, ma che sprofonda nel senso stesso della preghiera. Quando si dice “la preghiera di Gesù”, si assume il punto di vista del soggetto (Gesù che prega) e allo stesso
tempo si oggettiva il soggetto nella “preghiera di Gesù” (genitivo oggettivo). In
questa oggettivazione, la preghiera rende “altro” Gesù, immaginandolo che immagina a sua volta qualcun altro che prega a sua immagine e somiglianza. L’equivocità
del genitivo “la preghiera di Gesù” non privilegia il soggetto nella preghiera, ma
implica – quanto meno nella logica del linguaggio – la precedenza della preghiera
dell’altro (che prega come Gesù) su Gesù che immagina l’altro che prega come lui,
dando l’immagine stessa di Gesù che prima ancora prega come un altro. È una pre-
1_2011.indd 285
28-06-2011 12:12:23
286
Cr St 32 (2011)
ghiera che sprofonda in un senso inimmaginabile della soggettività e dell’oggettività
della preghiera di Gesù e di un altro che prega così, che torna a pregarlo allo stesso
modo in cui lui prega e così via (e “così sia”), in un reciproco rivolgersi la parola, in
un rinvio infinito, in cui non c’è identificazione dell’uno nell’altro, ma dialogo.
L’oggettivazione di “Gesù che prega” con la preghiera di Gesù esalta il dono di
questa preghiera che tuttavia rimane di Gesù. Gesù toglie la parola (è lui che prega)
e paradossalmente dà la parola (la preghiera come suo dono), mentre l’asceta è
silente e lo invoca (ha voce, mentre gli viene tolta). Si dice la “preghiera di Gesù” o
“del cuore” elaborando un simbolismo del movimento inspiratorio dell’asceta come
atto del “ricevere” dell’asceta che rientra in se stesso e prega, secondo un tema di
un ritorno in sé cristocentrico, in cui respirare significa pregare. Il respiro ritmato
al battito cardiaco è una preghiera silente, in cui nel cuore è Gesù che prega in noi
e noi preghiamo come lui, prevedendo una divinizzazione ascetica. Un altro che
prega come lui e come lui diventa soggetto e preghiera, risolvendo l’autoreferenzialità della preghiera (Dio che prega Dio) nel senso equivoco del genitivo della
preghiera di Gesù che sprofonda in un senso inimmaginabile nella preghiera, per
cui non c’è preghiera senza Gesù che prega e non c’è preghiera di Gesù (genitivo
oggettivo) senza immaginare prima ancora qualcun altro che “come lui” prega, in
senso anteriore alla preghiera rivolta agli uomini che li rende come lui e che come
lui diventano preghiera. In questa santa immaginazione l’asceta e Gesù si coappartengono nel senso equivoco del genitivo nella preghiera.
Nella tradizione esicasta si crede in un asceta divinizzato non nel senso di
un’identificazione con Dio, ma nella dimensione del rapporto “faccia a faccia”:
“L’homme qui, dit Syméon, passe par cette expérience de lumière, de douceur et
de larmes sait que “quelqu’un apparaît devant pour toi”. Alors un dialogue s’engage: “es-tu Dieu?” “Oui, je suis le Dieu devenu homme pour toi”. (riportato in Un
moine de l’Église d’Orient, La prière de Jésus, 1947, ivi, p. 56). La preghiera di Gesù
presuppone la precedenza dell’uomo che prega, di Dio divenuto uomo per pregare,
così come gli uomini pregano, con una preghiera per l’uomo, in cui l’uomo merita
una risposta e Gesù merita di pregare più che di essere pregato. La divinizzazione
dell’asceta esicasta è un altro aspetto dell’essere divino, il quale forse si può intendere in modo analogo a ciò che Levinas chiamava l’autrement qu’être.
Sulla scorta del lavoro di E. Montanari (La fatica del cuore. Saggio sull’ascesi
esicasta, Milano 2003), il testo affronta in modo specifico la questione delle “tecniche
di orazione esicasta” (respirazione, posture, “visualizzazione” di “centri“ di concentrazione somatopsichica, “discesa della mente nel cuore”, onfaloscopia, che accompagnano la “preghiera di Gesù”). Tale tema, il cui studio sistematico è stato inaugurato
dal padre gesuita I. Hausherr (La méthode d’oraison hésychaste, OC 36, Roma 1927,
101-210) ricevette negli anni ’20-’30 un trattamento piuttosto severo da parte cattolica, trattamento che talora sfociava in autentiche “incomprensioni” (si pensi anche
ad alcuni articoli di M. Jugie: ad es. Les origines de la méthode d’oraison hésychaste,
in Échos d’Orient 30 [1931], 179-239). Successivamente, Hausherr “rettificò” il suo
orientamento (cfr. ad es. Hésychasme et prière, OCP 176, Roma 1966), dando vita ad
un pionieristico filone di studi di cui i suoi testi sono a tutt’oggi riferimenti imprescindibili. L’opera di Hausherr fu continuata da T. Špidlík (creato cardinale da Giovanni
Paolo II), che ha tra l’altro sviluppato una comparazione “concordistica” tra il metodo
1_2011.indd 286
28-06-2011 12:12:23
Recensioni
287
esicasta e quello di Ignazio di Loyola. Tale esito – forse non del tutto condivisibile – si
è unito a quello di una puntuale rivalutazione del significato simbolico delle tecniche
esicaste. Al proposito, di interesse sicuro – meno sistematici di quelli di Špidlík, ma
certamente altrettanto profondi – sono gli studi di O. Clément (tra gli altri L’œil de
feu [1994], tr. it. Comunità di Bose 1997, con riferimenti anche all’”onfaloscopia”)
e di K. Ware, metropolita di Diokleia (ad es. Praying with the Body: the Hesychast
Method and Non-Christian Parallels, Sobornost [Incorporating Eastern Churches Review] 14/2 [1992]). In ultimo, non possono essere dimenticati gli studi di A. Rigo,
di taglio storico-filologico, specificamente sulle tecniche di orazione (comparazione
con lo yoga e con il sufismo; dell’A. vanno in specie ricordati Il monaco, la chiesa e la
liturgia. I capitoli sulle gerarchie di Gregorio il Sinaita, Firenze 2005, e la recentissima
curatela di Mistici bizantini, Torino 2008).
Ad ogni modo, il Pontificio Istituto Orientale in Roma ha costituito il centro
degli studi sulla spiritualità cristiano-orientale, seguito in questo dalla benemerita
attività editoriale del monastero di Bose e di quello di Chevetogne in Belgio. A tal
riguardo, è evidente che le “aperture” del Vaticano II hanno favorito, insieme al
processo di “avvicinamento” di cattolicesimo ed ortodossia, anche la mutua comprensione delle rispettive “mistiche”.
Il lavoro di Toti tenta di evitare programmaticamente i due eccessi della svalutazione della tecnica (tesi non del tutto scomparsa, anche in ambito ortodosso) e della
riduzione dell’esicasmo a “tecnicismo yogico”. Nel primo caso, si andrebbe contro
le stesse fonti, particolarmente abbondanti, esplicite ed autorevoli (tra XIII e XIV
secolo, in contesto athonita: Niceforo, Xanthopoloui, Palamas, Gregorio Sinaita,
Pseudo-Simeone); nel secondo – con tutti i rischi di banalizzare l’esicasmo come
“yoga cristiano” – si rischierebbe di misconoscere il proprium dell’antropologia (e
della teologia) cristiana.
Un cenno interessante rinvenibile nel libro è quello – speriamo suscettibile di
approfondimenti e precisazioni futuri – dell’applicazione della categoria maussiana
di “tecniche del corpo” all’ambito ascetico cristiano-orientale. Seppure emersa nel
contesto degli studi delle popolazioni di interesse etnologico, forse tale strumento
può non essere qui fuori luogo, a motivo della funzione, del significato e dell’utilità
che la dimensione della corporeità assume nell’esicasmo. Inoltre, il lavoro, oltre a
puntualizzare i simbolismi centrali del cuore e del nome, attesta – con buoni argomenti, riteniamo – il carattere “guerriero” dell’ascesi esicasta (in contrasto con
l’orientamento “quietistico” di tanta mistica occidentale e delle recenti “evasioni”
occidentali di marca “spiritualistica”). Infine, nonostante la comparazione “morfologica” ad ampio raggio, sembrerebbe emergere dal testo la necessità di studiare
l’esicasmo come fenomeno interno al Cristianesimo: ciò che, oltre ad interessare
evidentemente l’ambito cristianistico, denota una certa originalità e non preclude il
confronto con referenti di altro ambito religioso.
Il libro di Marco Toti è completato da una prefazione di Enrico Montanari e da
un’intervista condotta nel 2004 con l’Archimandrita Job Getcha, presso l’Institut de
Théologie orthodoxe “Saint-Serge” di Parigi.
Valerio Salvatore Severino
Università degli Studi di Roma “La Sapienza”
1_2011.indd 287
28-06-2011 12:12:24
288
Cr St 32 (2011)
Le parole della mistica. Problemi teorici e situazione storiografica per la
composizione di un repertorio di testi, Atti dell’VIII seminario di storia e teologia della mistica della Fondazione Ezio Franceschini (Genova, 6 febbraio 2006), con una lista di autori e testi della mistica dell’Occidente tra XI e
XVIII secolo, a cura di Francesco Vermigli, (Collana della Fondazione Ezio
Franceschini «La mistica italiana tra Oriente e Occidente», 12; Serie del
Consiglio Nazionale delle Ricerche «Sentimento religioso e identità italiana», 1), Sismel-Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini,
Firenze 2007, pp. VIII, 192
Dopo una serie di testi e discussioni su autori specifici, il dodicesimo volume della
bella collana dedicata ai testi mistici cristiani si sofferma in modo opportuno sulle
problematiche teoriche relative alla letteratura mistica (prima parte), offre quindi
cinque sintetici quadri storiografici dei principali ordini religiosi tra XI e XVIII secolo
(seconda parte) e presenta infine un elenco iniziale di autori e testi mistici dell’Occidente per lo stesso arco temporale (terza parte). Una premessa di Claudio Leonardi
ricorda in apertura come lo studio dei testi mistici in un’ottica laica risulti significativo per l’individuazione dell’identità italiana; mentre il primo saggio di Gianni Baget
Bozzo insiste sul carattere fortemente individuale dell’esperienza mistica e sul valore
fondante di opere come la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, i Dialoghi di Gregorio
Magno ed, ancor più, degli scritti dello Pseudo Dionigi Areopagita. Con il secondo
saggio, di Giuseppe Cremascoli, al sostantivo mistica si aggiunge quello di letteratura:
è un dato di fatto che, nonostante la sublimità e l’ineffabilità dell’esperienza mistica,
chi l’ha vissuta desideri o sia comunque spinto a comunicarla ad altri. A questo proposito desidero ricordare un’immagine particolarmente significativa, presente nel De
contemplatione del certosino Guigues du Pont, il quale, sulla scorta del sermone 41 di
san Bernardo sul versetto del Cantico 1, 10 (Murenulas aureas faciemus tibi, vermiculatas argento), interpreta i gioielli donati alla sposa come le parole e le immagini che
restano dopo la visione e che consentono di trasmetterla ad altri. Egli definisce quindi
“stato murenulario” quello successivo all’estasi (cfr. C. Trottmann, Contemplation et
vie contemplativeselon trois chartreux: Guigues II, Hugues de Balma et Guigues du
Pont, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 87, 2003, pp. 641-661,
alle pp. 674-677). È un modo suggestivo di intendere l’origine della letteratura mistica,
che si concretizza in vari generi letterari (autobiografia, meditazione, epistolografia,
dialogo, trattato, ecc.), ma presenta come tratto comune – secondo Cremascoli – l’irregolarità o scarsa attenzione per le norme dell’ars scribendi. Frequentemente si incontrano testi prolissi e ricchi di digressioni nei quali la metafora costituisce l’essenza
del linguaggio. Tuttavia se, come ricorda lo stesso studioso, anche le sequenze e le
preghiere fanno parte di questo tipo di letteratura, si pone il problema dell’esistenza
di opere mistiche in versi, tanto è vero che nell’elenco conclusivo troviamo registrati
Dante al n. 103 e Iacopone da Todi al n. 231. Si tratta certamente di casi particolari,
nei quali la letteratura sembra prendere il sopravvento sulla mistica, ma è indubbia
l’influenza che questi testi ebbero sugli scritti più propriamente mistici dei secoli successivi. Cremascoli cita come esemplari il lessico dell’amore, il ricorso ai superlativi,
al paradosso e all’ossimoro da parte di mistiche quali Maria Maddalena de’ Pazzi e
Camilla Battista da Varano: tutti elementi, mi permetto di aggiungere, già presenti in
1_2011.indd 288
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
289
autori di laudi quali Iacopone e il Bianco da Siena. Le opere delle mistiche potevano
essere redatte nell’evento dell’estasi o a posteriori: in ogni caso il vero agente è Dio,
come ci ricorda un noto saggio di Giovanni Pozzi (Patire e non potere nel discorso
dei santi, in Id., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 391-435), il cui titolo sembra
riecheggiare la frase che lo pseudo Dionigi Areopagita avrebbe detto su Ieroteo, il
quale era «non solum discens, sed patiens divina» (cito secondo la ripresa fattane da
Tommaso d’Aquino: Thomae Aquinatis In librum Beati Dionysii De divinis nominibus
expositio, II, 4, n. 191, ed. C. Pera, Torino-Roma, Marietti, 1950, p. 59, e ricordata da
Ysabel de Andia in Denys l’Aréopagite. Tradition et métamorphoses, Paris, Vrin, 2006
cap. 1, Pâtir les choses divines, pp. 17-35. All’origine di questa espressione – come
ricorda opportunamente la studiosa – sta il concetto del μαθεĩν-παθεĩν, “imparare
soffrendo”, già presente nella tragedia greca). Anche il saggio successivo è inteso a
definire e delimitare l’oggetto dell’indagine: Peter Dinzelbacher tenta infatti di fornire
“una definizione ristretta e maneggiabile della mistica e dei testi mistici”. Egli afferma
innanzitutto di prendere in considerazione solo le fonti scritte di ambito cristiano
del Medioevo centrale e tardo; si basa quindi sulla definizione che Gerson dà della
mistica, ovvero cognitio Dei experimentalis, e distingue quattro tipi di unione mistica: la mistica nuziale, la mistica del dolore, la mistica di Gesù bambino e la mistica
dell’essenza. Elementi caratteristici della letteratura mistica sono per lo studioso gli
«Ego-Dokumente», intendendo con tale termine testi di carattere autobiografico. Per
Dinzelbacher non pregiudica l’inclusione tra i testi mistici la non autenticità storica,
mentre vanno escluse le opere profetico-visionarie. Esistono dunque tre categorie
principali di testi: testi perfettamente mistici, ovvero che non parlano d’altro che di
esperienze unitive (e qui viene fatto l’esempio di certe laudi iacoponiche); testi in
massima parte mistici, nei quali sono accennati anche altri temi, e testi di natura
diversa, ma contenenti passi mistici (e per questo tipo cita le Sette armi spirituali di
Caterina Vigri).
Con gli ultimi due saggi della prima parte si toccano problematiche specifiche:
la teoria dei teologi medievali sul raptus il primo, e il confronto tra alchimia e
mistica il secondo. Ad occuparsene sono due specialiste: Barbara Faes de Mottoni e Michela Pereira. Come si deduce dal titolo del primo intervento, Discussioni medievali sulla violenza del raptus: Alessandro di Hales, Rolando di Cremona,
Tommaso d’Aquino, la studiosa interroga gli autori a lei cari per sapere quale parte
abbia la violenza nel rapimento a Dio. Mentre infatti la visione intellettuale era
intesa come una semplice preparazione, il raptus è per definizione un’astrazione
violenta. Il francescano Alessandro di Hales ritiene che per un’anima in un corpo
corruttibile sia sopra la sua natura vedere Dio direttamente. Di conseguenza vi è
diversità tra la visione in via e quella in patria: solo nella prima vi è un elemento
di violenza perché è elevata unicamente l’intelligenza. Per il domenicano Rolando
di Cremona quello di Paolo non è un raptus ma un’elevazione. Tommaso d’Aquino,
che ne tratta in particolare in due articoli della Summa theologiae (II-II, q. 175, art.
1 e 2), distingue due accezioni di violenza: ciò che è contrario al fine di un ente e
ciò che diverge dal modo connaturale di conoscenza di un ente. Facendo dunque
riferimento al modo in cui l’uomo conosce Dio, Tommaso distingue perciò il raptus
dall’estasi: mentre quest’ultima è in relazione con la potenza appetitiva ed è soltanto
un uscire dal proprio stato abituale, il raptus concerne la potenza conoscitiva ed
1_2011.indd 289
28-06-2011 12:12:24
290
Cr St 32 (2011)
implica una certa violenza, un superamento del proprio assetto naturale. San Tommaso è dunque il primo a considerare l’estasi dionisiana come fenomeno distinto
dal raptus. Nel saggio successivo, Michela Pereira ricorda preliminarmente come
l’accostamento tra alchimia e mistica abbia origini rinascimentali e sia stato diffuso
in Italia soprattutto da Elémire Zolla. Prende quindi in considerazione un testo di
alchimia attribuito a Tommaso d’Aquino, ma composto tra XIV e XV secolo, l’Aurora
Consurgens, nel quale l’alchimia, a somiglianza della teologia, è definita scientia
Dei. Tale definizione si spiega col fatto che entrambe introducono ad un’altra scienza ignota, che nel caso dell’alchimia è la scienza capace di trasformare la realtà. Tale
accostamento spiega inoltre la diffusione di metafore alchemiche nell’ambito della
mistica, come quelle legate alla distillazione e ai suoi prodotti o all’idea del corpo
sottile, veicolo materiale dell’anima. Ma il raffronto tra mistica e alchimia ha radici
più profonde: entrambe implicano infatti un imprescindibile lavoro di trasformazione sul corpo; tuttavia, mentre la mistica opera una trasformazione all’interno del
soggetto, l’alchimia la opera all’esterno, nel mondo naturale.
La seconda parte del volume, con i quadri storiografici dedicati ai principali ordini religiosi, rappresenta un importante lavoro di sintesi, che permette di accostarsi al
successivo elenco di autori mistici avendo presenti gli elementi caratterizzanti i diversi tipi di spiritualità. Francesco Vermigli tratta della storiografia sulla mistica cisterciense: cita i repertori specifici ai quali ci si può rivolgere per stendere un elenco di
autori mistici cisterciensi e ricorda come nella prima fase dell’Ordine vi fosse un interesse principalmente monastico e disciplinare piuttosto che mistico. Si rivolge quindi
a due testi fondamentali per la mistica nel monachesimo della riforma, ovvero La
théologie mystique de saint Bernard di Etienne Gilson – uscita per la prima volta a
Parigi nel 1934 – e L’amour de lettres et le désir de Dieu: initiation aux auteurs monastiques du Moyen Age di Jean Leclercq, pubblicato a Parigi nel 1957. Al primo si deve
la definizione di “teologia mistica” e il riconoscimento della mistica dell’amore come
caratteristica peculiare di Bernardo e di tutta la mistica cisterciense. Al secondo si
deve un’altra nozione storiografica, in questo caso piuttosto discussa, quella di “teologia monastica”, contrapposta alla teologia scolastica e considerata ad essa superiore
poiché si fonda su un’esperienza del divino. Tuttavia Leclercq non qualifica la teologia di cui si occupa e dunque non fornisce elementi caratterizzanti che possano essere
assunti per definire la mistica cisterciense. Ad essa viene in generale riconosciuta una
unicità che non viene poi giustificata mediante riferimenti al contesto ecclesiale: per
Vermigli è essenziale l’irruzione dell’immagine sponsale derivata dal Cantico dei Cantici, poiché da Bernardo in poi l’oggetto della mistica può essere reso nei modi
dell’amore umano. Mancano tuttavia contributi storiografici che chiariscano in modo
univoco l’identità della mistica cisterciense e dunque stilare un elenco di autori mistici appartenenti a un Ordine strettamente ancorato all’antica tradizione benedettina e
nuovo al tempo stesso è impresa non facile. Elisabetta Marchetti si occupa invece di
un repertorio di testi mistici carmelitani: distingue le diverse tappe che hanno contraddistinto la storia dell’Ordine, dalla nascita in Terra santa nel XII secolo, al successivo passaggio in Europa sino al periodo teresiano, caratterizzato dalle due più notevoli figure dell’Ordine, Teresa d’Avila e Giovanni della Croce, entrambi vissuti nel
Cinquecento. Almeno per la fase iniziale di stesura del repertorio la studiosa suggerisce di scegliere un segmento della storia dell’Ordine e un particolare ramo, che nel
1_2011.indd 290
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
291
suo caso è la Congregazione italiana. La mistica è una caratteristica essenziale della
scuola carmelitana, per la quale la perfezione è rappresentata dalla consacrazione
completa alla contemplazione. Numerosi sono gli strumenti esistenti utili per la stesura del repertorio, tuttavia sono ancora molti gli scritti inediti o poco noti. Subito dopo
Elisa Chiti individua alcuni possibili percorsi all’interno della vasta produzione mistica francescana: oltre ai repertori e agli studi di carattere generale come quelli di
Dinzelbacher e Zolla, vi sono per quest’Ordine i volumi dedicati ai Mistici francescani,
pubblicati tra il 1995 e il 1999. La storia dell’Ordine è molto variegata e le diverse
aree geografiche presentano caratteristiche specifiche: il problema è dunque, nella
vastità di una tale produzione, saper distinguere i testi che possono essere definiti
mistici e trovare dei caratteri ad essi comuni. Mediante un paio di esempi la studiosa
mostra la difficoltà di scegliere questi autori mistici, a seconda che si parta da una
definizione vasta oppure tecnica di mistica: a suo parere l’unico criterio sicuro rimane
la conoscenza diretta dei testi. Il successivo intervento di Marta M. M. Romano sulla
mistica domenicana rientra nel progetto di costituzione di un “Repertorio degli autori e dei testi della mistica europea con censimento dei manoscritti e delle stampe che
trasmettono la letteratura estatica europea dei secoli XII-XVII in lingua latina e volgare” e a questa studiosa si deve tra l’altro il repertorio di manoscritti di Giovanni
Dominici (Giovanni Dominici da Firenze. Catalogo delle opere e dei manoscritti, Firenze, Sismel, 2009). Il suo intervento tratta ancora più in dettaglio i problemi relativi alla composizione del repertorio ed è infatti concluso da un supplemento comprendente 45 autori mistici domenicani da aggiungere all’elenco finale. L’autrice offre una
panoramica degli strumenti bibliografici a seconda delle diverse epoche storiche e
individua quattro ambiti principali di studio: l’epoca di composizione dei testi, la relazione di appartenenza all’Ordine, la località e il genere o forma di scrittura. Il periodo maggiormente studiato e dal carattere più unitario è quello che va dal XIII al XV
secolo. Alla base della spiritualità domenicana sta senz’altro la riflessione di Tommaso
d’Aquino riassunta nel contemplata aliis tradere, ovvero su una predicazione basata
sulla contemplazione personale. Anche lo studio è fondamentale per l’Ordine, tanto
che Davy definisce la mistica domenicana come una mistica essenzialmente dottrinale. Tuttavia l’Ordine dei predicatori non è un’entità omogenea: molto netta è la distinzione tra la componente maschile e quella femminile, come pure tra i primi due e il
terzo Ordine, quello della penitenza o dei terziari. Anche la differenziazione geografica è un criterio seguito negli strumenti bibliografici: per la mistica domenicana va
collocata al primo posto la Germania, con autori quali Echkart e Susone, subito dopo
segue l’Italia con la fortissima personalità di Caterina da Siena. L’ultimo ambito preso
in considerazione dalla Romano e finora poco sfruttato è quello della distinzione per
generi letterari: tale criterio le permette infatti di individuare nuovi autori e testi domenicani attribuibili alla mistica. I generi sono principalmente quattro: le opere teologiche, quelle spirituali, le esperienze mistiche ed il racconto di esperienza mistica.
L’ultimo quadro storiografico proposto riguarda l’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino: Francesco Santi presenta subito qualche cenno su “una strana storia” – come
egli stesso la definisce -, ovvero quella che vide la nascita dell’ultimo grande Ordine
mendicante a seguito della crisi del monachesimo. La rottura della tradizione benedettina risultò evidente nel XIII secolo con il riemergere della cosiddetta regola di
sant’Agostino, alla quale si richiamano sia i Canonici, che i Domenicani che, appunto,
1_2011.indd 291
28-06-2011 12:12:24
292
Cr St 32 (2011)
gli Eremitani. Questi ultimi furono – secondo Santi – i maggiori costruttori del mito
della vita monastica di Agostino: la duplice natura del loro Ordine, eremitico e mendicante al tempo stesso, crea una tensione che trova soluzione “solo nel segreto di
un’interiorità complicata”. Essi studiano in particolare l’interiorità, i desideri spirituali e le tentazioni in un’epoca in cui il loro psicologismo conoscerà un certo successo.
Lo studioso delinea quindi le tradizioni storiografiche dell’Ordine degli Eremitani e la
loro posizione nel quadro generale della spiritualità del basso Medioevo. Ricorda la
bibliografia relativa all’Ordine e sottolinea l’importanza dell’opera di Zumkeller –
pubblicata a Würzburg nel 1966 –, un censimento dei manoscritti delle opere degli
Agostiniani, che mostra quanto quest’Ordine sia ancora da studiare in modo approfondito. Fa in parte eccezione Simone Fidati da Cascia, al quale sono state recentemente dedicate due pubblicazioni uscite presso l’Institutum Historicum Augustinianum di Roma: l’edizione, ricordata anche da Santi, del De gestis Domini salvatoris
curata da W. Eckermann in 7 volumi pubblicati tra il 1998 e il 2003 e gli Atti del
Congresso Internazionale in occasione dell’VIII Centenario della nascita (1295-1347),
svoltosi a Cascia (Perugia) tra il 27 e il 30 settembre 2006, Simone Fidati da Cascia
OESA. Un agostiniano spirituale tra Medioevo e Umanesimo, («Studia Augustiniana
Historica», 15), a cura di C. M. Oser-Grote e W. Eckermann, 2008). Il mezzo interdetto storico subito dall’Ordine, in parte dovuto alla presenza nelle sue fila di Martin
Lutero, ha portato ad una generale marginalizzazione degli Agostiniani nei principali
repertori anche per quanto riguarda la tradizione più propriamente mistica: Vandenbroucke nella sua storia della spiritualità medievale ricorda solo poche personalità, tra
le quali Lorenzo Giustiniani, autore dell’Albero della vita, strettamente dipendente
dal Benjamin di Riccardo di San Vittore. Questo accenno mostra come l’eredità vittorina sia stata accolta dalla spiritualità eremitana in generale: la si ritrova in Ermanno
di Schildesche, che aveva ripreso la tradizione di Ugo di Folieto, e – posso aggiungere
– in Girolamo da Siena, che nell’Adiutorio e nelle sue epistole si serve di diversi modelli vittorini già messi in rilievo da Pietro Brocardo, ma che ho avuto modo di approfondire in un colloquio svoltosi a Ginevra nel settembre del 2008, (vd. Le immagini
mnemotecniche nelle lettere di direzione spirituale. Girolamo da Siena, in R. Wetzel. F.
Flückiger (hrsg.), Die Predigt im Mittelalter zwischen Mündlichkeit, Bildlichkeit und
Schriftlichkeit / La prédication au Moyen Age entre oralité, visulité et écriture, unter
Mitarbeit von R. Schulz, Zürich, Chronos, 2010, pp. 197-222). Santi conclude il suo
intervento indicando le ragioni specifiche dell’interesse per la teologia mistica dell’Ordine degli Eremitani di sant’Agostino: se l’Ordine fu connotato fin dall’inizio da problemi di identità a causa del suo carattere composito e della mancanza di una chiara
guida, si può tuttavia riconoscere nel discernimento delle ispirazioni presenti nel proprio animo il tema ad esso più congeniale.
Allo stesso Santi si deve la premessa al repertorio, che include sia testi mistici che
testi teologici relativi a temi mistici. Ciò che ci viene offerto non è un elenco completo
degli autori mistici dell’Occidente, ma il risultato dello spoglio di alcune opere di riferimento, come il Dictionnaire de la mystique di Peter Dinzelbacher, l’antologia dei Mistici
dell’Occidente di Elémire Zolla, quella curata da Claudio Leonardi e Giovanni Pozzi per
il settore femminile ed il repertorio di visioni del medioevo latino ad opera di Henryk
Fros. Per ogni voce si indica il nome dell’autore o il titolo delle opere anonime, la qualifica, le coordinate biografiche e l’Ordine di appartenenza dello scrittore, la lingua in cui
1_2011.indd 292
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
293
sono composte le opere, un sistema di voci incrociate per i casi in cui si tratti di opere
mistiche di terzi ed infine le fonti. Segue l’elenco degli scrittori e dei testi mistici dell’Occidente (pp. 157-182) curato da Elisa Chiti, Marta M. M. Romano e Francesco Vermigli.
Tra questi autori vi sono predicatori come Bernardino da Siena, Giordano da Pisa o
Giacomo della Marca per i quali il discorso mistico è marginale, sebbene il loro influsso
su autori mistici sia indubbio; più chiara è invece la presenza di Jacques de Vitry e di
Serafino Razzi, dei quali si specifica che sono citati in quanto testimoni dell’esperienza
mistica di Maria d’Oignie il primo e di Stefana Quinzani e Caterina da Racconigi il secondo. Questi esempi, come pure gli studi preliminari, mostrano le oggettive difficoltà,
ma anche l’utilità, di un repertorio di questo tipo: si tratta certamente di un’impresa non
facile e che solo un’équipe di studiosi come quelli che qui alternano le loro voci potrà
portare a compimento. Il volume è chiuso dall’indice dei nomi di persona.
Silvia Serventi
Università di Bologna
Barbara Faes de Mottoni, Figure e motivi della contemplazione nelle teologie medievali, («Micrologus’ Library», 18), Sismel-Edizioni del Galluzzo,
Firenze 2007, pp. 181
Il volume raccoglie sei saggi – due dei quali inediti – dedicati al tema della contemplazione di Dio. L’autrice è un’esperta in materia, alla quale si deve il merito di
aver portato all’attenzione degli studiosi italiani temi e autori più dibattuti in altri
paesi: penso ad esempio agli studi che Ysabel de Andia ha condotto sull’unione mistica in Dionigi Areopagita e nei suoi imitatori (Denys l’Aréopagite. Tradition et métamorphoses, Paris, Vrin, 2006) o ai lavori di Christian Trottmann sulla visio beatifica
e sulla contemplazione, soprattutto presso i Certosini (tra gli altri, Contemplation et
vie contemplative selon trois chartreux: Guigues II, Hugues de Balma et Guigues du
Pont, «Revue des sciences philosophiques et théologiques», 87, 2003, pp. 641-661).
Gli autori ai quali dedica la propria attenzione sono tutti, eccetto Gregorio di Nissa,
del XIII secolo, epoca nella quale avvenne la riscoperta della Theologia Mystica dello
pseudo Dionigi. Partendo proprio dal commento a quest’opera realizzato da Alberto
Magno nel 1250 a Colonia, nel primo capitolo Barbara Faes de Mottoni riflette su
Mosè e Paolo, rispettivamente figura dell’uomo contemplativo e del rapito. La riflessione su questi due prototipi prende le mosse da sant’Agostino, il quale ritiene che
la visione della schiena di Dio da parte di Mosè – descritta in Esodo 33 – significhi
vedere solo l’umanità del Verbo. Ricordo che di quest’immagine si servirà una mistica
del XV secolo quale la clarissa Camilla Battista da Varano, che nella sua Vita spirituale
afferma di aver visto Dio solo di spalle (vd. Beata Camilla Battista da Varano, Le opere
1_2011.indd 293
28-06-2011 12:12:24
294
Cr St 32 (2011)
spirituali, a cura di G. Boccanera, Jesi, Scuola Tipografica Francescana, 1958, p. 33).
Dal canto suo, Alessandro di Hales distingue tre tipi di visione: il raptus, la contemplazione e la profezia, distinzione ripresa poi da Alberto Magno. Anche per lui Mosè è
modello di contemplazione, tuttavia il raptus di san Paolo è ritenuto superiore poiché
comporta un’astrazione totale dai sensi e una visione intellettuale: mentre il primo
rappresenta la contemplazione in via, il secondo è un assaggio della contemplazione
che si avrà stabilmente in patria. Analogamente san Bonaventura ritiene la visione di
Mosè inferiore a quella di Paolo, tuttavia, a suo parere, essa rappresenta la forma più
alta di conoscenza di Dio attingibile dall’uomo durante la sua esistenza. La visione che
Mosè ebbe nelle tenebre non fu mediata da alcuna creatura: essa diviene pertanto il
modello della docta ignorantia o del metodo negativo che permette di conoscere Dio
privandolo di qualsiasi attributo. Se Alberto Magno e san Bonaventura – tutti e due
favorevoli alla teoria della visione di origine dionisiana – sono concordi nel riconoscere in Mosè e Paolo i prototipi degli estatici e dei rapiti, per Tommaso d’Aquino i
due tipi di conoscenza divina che ne derivano sono sullo stesso piano: entrambi infatti
hanno visto Dio nella sua essenza. Su questa seconda linea dottrinale, di ascendenza
agostiniana, si colloca anche Matteo d’Acquasparta, interessato, come l’Aquinate, alla
legittimazione dei due Testamenti.
Il secondo capitolo si sofferma sul dibattito circa la vita attiva e quella contemplativa in Guglielmo di Auxerre, autore della fortunata Summa aurea, e in Rolando
di Cremona, particolarmente debitore nei confronti di quest’opera. Tuttavia, mentre
il primo è un convinto assertore della superiorità della vita contemplativa, il secondo
la ritiene collegata all’attuazione delle operazioni della vita attiva, prima fra tutte la
predicazione. Il domenicano Rolando sviluppa in particolare il tema dell’utilità delle
opere della vita attiva, contrapponendo la fertilità di Lia alla sterilità di Rachele. Il
terzo capitolo ruota attorno al motivo del segreto, partendo dal famoso passo della
seconda lettera ai Corinzi (12, 2-4) Et audivi arcana verba, quae non licet homini loqui, ed analizzandolo presso tre teologi dell’inizio del Duecento: Roberto Grossatesta
e i due visti prima, Guglielmo d’Auxerre e Rolando di Cremona. Il motivo è in effetti
strettamente collegato a quello della visione poiché riguarda ciò che di essa è possibile
esprimere e riferire agli altri: non per nulla lo stesso Dante – mi permetto di ricordare
– cita proprio questo passo paolino nell’Epistola a Cangrande, trattando dell’ineffabilità della propria esperienza paradisiaca. L’autrice si interroga dunque sull’interpretazione data dai tre autori medievali al rapimento di Paolo al terzo cielo: tutti partono
dalla glossa del Lombardo all’epistola ai Corinzi, secondo il quale san Paolo conobbe
l’essenza di Dio ma non poté esprimerla a causa dell’inadeguatezza del linguaggio
umano. Per tutti e tre gli scrittori presi in esame l’audizione della quale parla il testo
sacro è in realtà una visione intellettuale, ma vi è divergenza circa l’interpretazione
della successiva proibizione (non licet). Guglielmo afferma un criterio di convenienza
per cui non è bene per l’uomo conoscere questi arcani; per Rolando invece è consentito rivelare all’uomo tali segreti, ma vanno usati linguaggi adeguati e differenziati.
Il quarto capitolo sviluppa la riflessione circa la presenza di piacere e dolore nella
contemplazione: gli autori presi in considerazione sono in particolare i francescani
Alessandro di Hales e Bonaventura e i domenicani Alberto Magno e Tommaso d’Aquino. Sottolineo che il tema è, ancora una volta, di grande interesse per gli studiosi della
letteratura italiana dei primi secoli: basti pensare alla lauda di Iacopone Fugio la
1_2011.indd 294
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
295
croce che me divora, tutta giocata su due diversi modi di contemplare il crocifisso, uno
doloroso e l’altro gioioso. Per Alberto Magno vi è un piacere temporaneo nella contemplazione, foriero di dolore quando questa viene meno; Tommaso distingue invece
diversi gradi di piacere nella contemplazione, a seconda che essa si realizzi in via o in
patria. Il piacere è descritto da san Bonaventura come una manuductio a Dio, un essere condotti a Dio attraverso le cose sensibili e grazie alla somiglianza che esse hanno
con quelle invisibili. In questo processo è fondamentale l’azione dei sensi spirituali (su
cui si veda F. M. Tedoldi, La dottrina dei cinque sensi spirituali in San Bonaventura,
Roma, Antonianum, 1999) ed è centrale il modello del Verbo, per eccellenza simile
a Dio. Barbara Faes conclude affermando che Bonaventura è tra gli autori medievali
che hanno valutato la sensibilità in maniera più positiva. Il quinto capitolo prosegue
su questa linea, essendo dedicato all’analisi di Eventi sonori ed esperienze mistiche in
alcuni itinerari teologici tardo-antichi e medievali. Prima di tutto la studiosa esamina
l’interpretazione del suono del corno, descritto nel quindicesimo capitolo dell’Esodo, come si legge nella Vita di Mosè di Gregorio di Nissa e nella Theologia Mystica
dello Pseudo Dionigi; quindi prende in considerazione l’interpretazione che Roberto
Grossatesta e Alberto Magno forniscono nei loro commenti all’opera dionisiana ed
infine esamina due autrici di letteratura visionaria, Gertrude di Helfta e Margherita
da Cortona. I primi danno dell’evento sonoro un’interpretazione simbolica non univoca, mentre per le seconde esso è centrale nella propria esperienza mistica, basata
sulla partecipazione dell’apparato sensoriale. L’ultimo saggio riflette su alcuni Aspetti
della dottrina della contemplazione in Ugo di Balma, «priore della certosa di Meyriat
e autore di un trattato che inizia Viae Sion lugent, più noto come Theologia Mystica
o De triplici via», opera a lungo pubblicata tra gli scritti di san Bonaventura. Molto
importante per il certosino è Tommaso Gallo da Vercelli, al quale si deve la riscoperta,
intorno al 1230, della Thelogia Mystica dello pseudo Dionigi. Secondo Ugo la cogitatio ha solo un valore propedeutico per giungere alla visione: essa è descritta come
l’impalcatura di legno poi smontata dopo la costruzione del ponte. Ricordo che è la
stessa immagine presente in Iacopone da Todi, nella lauda Fede, spen e caritate (vv.
273-280), immagine interpretata da Lina Bolzoni come il venir meno degli espedienti
mnemotecnici una volta che si sia giunti alla contemplazione (L. Bolzoni, La rete
delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino,
Einaudi, 2002, pp. 137-138 e Ead., Dante o della memoria appassionata, «Lettere
italiane», LX, 2008, pp.169-193, a p. 192). Aggiungo inoltre che l’opera del certosino
ebbe un’importanza fondamentale per il movimento dei Gesuati, sorto nel Trecento,
come appare dal volgarizzamento fattone da Domenico da Monticchiello e dalla versificazione dovuta ad un altro noto gesuato, il Bianco da Siena, il quale riprende nella
sua vasta produzione di laudi la corrispondenza fissata da Ugo tra le tre vie di ascesa
a Dio e i tre ordini della gerarchia angelica superiore, Troni, Cherubini e Serafini.
L’autrice afferma infine che «il modello conoscitivo-unitivo offerto da Dionigi […]
per Ugo di Balma è superiore al modello contemplativo di Riccardo di San Vittore e
a quello esemplarista di Agostino». Per descrivere il modo mistico di elevarsi a Dio,
nella quaestio difficilis che chiude la sua opera, Ugo utilizza la similitudine della pietra che tende naturalmente verso il basso: ancora una volta l’opera del certosino – in
generale poco nota agli italianisti - non può non ricordare il primo canto del Paradiso
(vv. 136-138), benché Dante utilizzi l’esempio del ruscello: «Non dei più ammirar, se
1_2011.indd 295
28-06-2011 12:12:24
296
Cr St 32 (2011)
bene stimo,/ lo tuo salir, se non come d’un rivo/ se d’alto monte scende giuso ad imo».
Il volume è chiuso dall’elenco delle fonti utilizzate, dalla bibliografia e dagli indici dei
nomi, dei passi biblici e dei manoscritti citati.
Silvia Serventi
Università di Bologna
Offices, écrit et papauté, études réunies par Armand Jamme et Olivier
Poncet, (Collection de l’École française de Rome, 386), École française de
Rome, Rome 2007, pp. VIII-951
Nel corso del 2005 era già uscito il libro Offices et papauté (XIVe-XVIIe siècle).
Charges, hommes, destins, Rome 2005 (Collection de l’École française de Rome,
334). Quel volume, di 1061 pagine, comprende 35 saggi degli studiosi che hanno
partecipato alle tavole rotonde tenutesi a Roma nei giorni 5-6 marzo 2001 e 11-13
aprile 2002; per avere una prima informazione su di esso, si potrà leggere la recensione di M. Teresa Fattori, in Cristianesimo nella storia, 28 (2007), 2, pp. 473-477.
A distanza di due anni, è apparso un secondo, cospicuo volume dal titolo molto
simile: Offices, écrit et papauté XIIIe-XVIIe siècle. Si tratta della pubblicazione dei
risultati di altre due fasi del medesimo progetto scientifico. Infatti in questo libro
sono contenuti 28 saggi degli studiosi intervenuti alle tavole rotonde organizzate a
Parigi il 25-26 settembre 2003 e ad Avignone il 21-23 ottobre 2004. Coordinatori
del vasto quadro storico risultante dai due volumi sono Armand Jamme e Olivier
Poncet. Il primo, docente all’Università di Avignone, è specialista delle ‘scritture
del politico’ in ambito pontificio bassomedievale; il secondo, docente all’École des
Chartes di Parigi, si occupa delle istituzioni pontificie e francesi in età moderna,
con una speciale attenzione volta all’archivistica e, in particolare, alla storia degli
archivi vaticani.
Gli spazi di contiguità tra le due opere sono, ovviamente, molto numerosi, a
partire dall’elenco dei partecipanti, poiché nove studiosi (Jamme, Poncet, Anheim,
Brunelli, Gardi, Genequand, Jugie, Menniti Ippolito e Tabacchi) hanno pubblicato
testi in entrambe le occasioni. Soprattutto, il nesso tra i due libri è rappresentato
dall’oggetto, che, in estrema sintesi, mi sembra si posa considerare una analisi a
molte mani della storia delle strutture dello Stato pontificio e della Curia romana,
colta prevalentemente attraverso l’analisi dei soggetti umani che hanno ricoperto
uffici e che hanno prodotto documentazione. Anche la corrispondenza dell’arco
cronologico che si riscontra nei due volumi è un dato da sottolineare: il ponte tra
1_2011.indd 296
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
297
medioevo ed età moderna vi è proposto con efficacia e non può che convincere, poiché ci invita a riflettere sulla validità del concetto di Antico Regime e sull’esistenza
di una riconoscibile continuità di fondo, nella progressiva ‘evoluzione’ delle entità
amministrative e non solo di queste, tra il XIII e il XVII secolo. Per la stessa ragione,
appare utile il connubio tra storici medievisti e modernisti, che spesso si pongono
domande differenti e affrontano la documentazione in modo dissimile, mentre qui
ci si trova di fronte a una omogeneità dovuta alla compattezza del tema analizzato.
La differenza tra i due volumi, invece, si coglie già a partire dal titolo: nel
secondo volume, infatti, la parola ‘ècrit’ si è insinuata tra ‘offices’ e ‘papauté’, rendendo in tal modo palese l’attenzione che si è voluta attribuire al tema della scrittura, da intendersi nel senso più ampio possibile: riferendosi prevalentemente alla
documentazione di tipo amministrativo, ma non solo a quella. In realtà, non tanto
di differenza si può parlare, quanto di una diversa calibratura del tema, già molto
presente – e non poteva accadere diversamente – anche nel primo volume. Nel
secondo volume il ‘documento’, con le sue caratteristiche di testimoniare, ma anche
di filtrare e codificare conferendo forma all’oggetto, è protagonista quanto lo è il
soggetto umano o l’istituzione in azione. Qui il ‘testo’ viene dunque a posizionarsi
in primo piano, in forma esplicita, mentre nel primo volume esso era presente in
secondo piano, come ovvio retroterra e premessa necessaria delle indagini storiche.
Anche questa è una scelta metodologica da accogliere con favore, per il fatto che
essa è in linea con una tendenza consapevole della storiografia contemporanea,
che si interroga sul ‘punto di vista’, e che deve necessariamente porsi il problema
di individuare le varie angolature prospettiche che scaturiscono dalle fonti. Questa
storiografia si sviluppa anche come presentazione analitica delle testimonianze, una
analisi che diviene parte integrante e imprescindibile del discorso storico generale.
Insomma, non si può fare storiografia senza documenti, e questo è ovvio. Ma non
si può neppure fare storiografia senza considerare l’esegesi del documento nonché
dei suoi estensori e fruitori come parte di essa: e questo è meno ovvio. Una qualsiasi
indagine storica deve considerare anche le modalità con le quali è stata prodotta,
impiegata e conservata la documentazione che la informa. Anzi, si può forse arrivare a sostenere (in una sorta di curiosa e solo in apparenza paradossale commistione
tra positivismo e decostruzionismo) che il confine tra la storia di una istituzione
e la storia della sua documentazione (il testo), ovvero della sua rappresentazione
mentale (che è ancora racchiusa nel testo), è decisamente tenue. Il discorso assume
pregnanza ancora maggiore in questo caso specifico, trovandoci di fronte a un libro che tratta di una istituzione, quella pontificia, la quale ha espresso al massimo
grado e in ogni direzione il suo essere espressione di una civiltà dello scritto, e
che anzi nella parola scritta – verbum Domini, ma anche epistola, registro o atto
amministrativo di qualsivoglia genere – ha sempre identificato e reso manifesto il
proprio carattere fondamentale. Dunque non solo abbiamo a che fare con lo scritto
perché esso è il nostro migliore canale di accesso ai tanti ‘passati’ che cerchiamo di
analizzare, ma dobbiamo considerare lo scritto soprattutto in quanto esso è il principale luogo materiale e simbolico di espressione di quella medesima cultura che ci
sforziamo di comprendere.
Un libro di tale mole e di tale complessità è difficilmente riassumibile e valutabile in termini generali, poiché è evidente che la sua ricchezza permette un accesso
1_2011.indd 297
28-06-2011 12:12:24
298
Cr St 32 (2011)
diversificato a seconda degli interessi di ciascun ricercatore che si trovi nella condizione di volerne fare uso. I suoi elementi di fondo, peraltro, sono ben compendiati
nel saggio introduttivo (A. Jamme, Olivier Poncet: L’écriture, la mémoire et l’argent,
pp. 1-13), al quale si potrà ricorrere per coglierne le motivazioni.
Dicevamo che questo volume, dal titolo tripartito, analizza ‘uffici’ e ‘papato’
passando attraverso lo scritto. Nonostante questo impianto ben giustificato, esso non
cade nell’erroneo cortocircuito interpretativo che parrebbe a prima vista esservi
adombrato: quello di considerare lo scritto come l’unico elemento originante e determinante la vita degli ufficiali e l’evoluzione degli uffici curiali, come se tutto, alfa
e omega, si esaurisse in esso. La tentazione di risolvere la storia degli ufficiali pontifici nella scrittura è, in questo senso, ovviamente forte – anche perché semplifica
il problema – ma trova in diversi saggi contenuti nel libro (per esempio in quello di
Erminia Irace sul rapporto tra periferia, Perugia, e centro, Roma), una opportuna
correzione attraverso l’analisi delle molte altre forme di interazione – ancorché
poco documentate – che vedono tra loro collegati uffici, ufficiali, istituzioni, potere
centrale e pubblico: come i legami diretti e personali e il rapporto circolare tra
oralità e scrittura, o come la forma mentis, cioè la cultura intesa in termini molto
generali, di specifici gruppi e individui. Ne scaturisce un’analisi complessa nella
quale il ruolo della scrittura è ovviamente quello di protagonista – poiché la scrittura istituisce, conserva e ordina – ma di un protagonista che non occupa da solo
l’intero palcoscenico.
Lo stesso ‘scritto’, termine volutamente generico, che racchiude un universo,
non è mostrato tanto nella sua fisionomia statica e normativa, quanto nella sua capacità di relazionarsi, di interagire, di mutare, di differenziarsi a seconda dei soggetti di produzione e delle intenzioni che sottendono alla sua redazione: per esempio
nei saggi di Barbara Bombi, che tratta del rapporto tra le scritture pubbliche e le
registrazioni private di un procuratore del Trecento, oppure di Anna Esposito, che
analizza attraverso gli atti notarili il tema delle compagnie di uffici, di solito indagato attraverso gli atti pubblici, come anche nei saggi che propongono confronti tra
gli archivi di Bologna e di Avignone con quelli romani (Gardi, Rouchon e Thomas).
Allo stesso modo, sono analizzate singole persone (o personalità), importanti sia per
l’ufficio che hanno ricoperto o addirittura istituito, sia per il loro significativo apporto individuale: come i cardinali legati del XIV secolo (Jugie), il maresciallo della
Sede apostolica (Jamme), gli ‘artisti’ testimoniati in curia nel Trecento (Anheim), gli
archivisti secenteschi Michele Lonigo d’Este e Carlo Cartari (entrambi indagati in
due articoli distinti da Orietta Filippini).
Lo scritto, dunque, è un dato complesso e colto in movimento: così come lo è, in
fin dei conti, l’intera storia del papato fra XIII e XVII che viene ricostruita nel volume, nelle due suddivisioni generali ma fortemente incrociate, che si costruiscono
e strutturano, dello Stato pontificio e di quell’entità sovranazionale che è la Curia
bassomedievale e moderna.
La scrittura è l’elemento di fondo di tutto l’impianto, poiché l’amministrazione
pontificia è latrice di una cultura di gestione e governo fondata essenzialmente su
di essa. Questa affermazione, apparentemente banale, costituisce il tema nodale
per comprendere il passaggio alla modernità di tutte le istituzioni e tra queste, al
massimo grado, proprio dell’istituzione pontificia, che è senza dubbio la prima ad
1_2011.indd 298
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
299
avere avuto piena coscienza del valore dello scritto, e che dal XIV secolo in poi ha
dato vita alla più complessa ‘macchina amministrativa’ della storia occidentale in
età moderna, essa stessa modello di riferimento per altre istituzioni almeno parzialmente comparabili, come gli stati nazionali. Nel libro sono dunque descritte in
forma esemplificativa alcune delle strutture lunghe o lente di evoluzione di quella
comunità testuale, fatta di cultura contabile e di cultura politica, che è stata per
secoli il personale dell’apparato amministrativo pontificio. Questo ha espresso un
oceano di documentazione, tanto per quantità (che è esponenziale dal Duecento in
avanti), quanto per continuità, quanto infine per varietà tipologica (soprattutto dal
XV secolo in poi).
L’elemento saliente, che rende la storia delle istituzioni pontificie parallela eppur diversa rispetto a quella degli stati regionali e nazionali di età moderna, non
è tanto l’opposizione, spesso invocata, tra ‘spirituale’ e ‘temporale’: una coppia di
opposti che ha la sua ragione di esistere e di venire impiegata, ma che a mio avviso
non è applicabile quando si parli di amministrazione, persino quando ci riferiamo
alla Penitenzieria, cioè al tribunale dei casi di coscienza, qui indagato da Kirsi Salonen. Il criterio di fondo sul quale si fonda la ‘competenza’ del pontefice e che rende
unico il suo caso, va ritrovato al contrario nell’opposizione tra ciò che pertiene a
un determinato territorio e ciò che invece attiene al papa per il suo attributo di
iudex ordinarius omnium, investito della plenitudo potestatis: cioè della sua autorità
universale. Questa dicotomia (che nel pensiero dei teorici del potere pontificio non
è tale), si esprime da un lato nella organizzazione amministrativa dello Stato pontificio, ma dall’altro nel diritto/dovere di gestire tutto ciò che attiene il comportamento dei cristiani e nel diritto/dovere di governare tutto il clero, dalla scelta delle
persone idonee, al loro controllo e difesa, fino all’amministrazione dell’economia
che discende dalle istituzioni e dalle persone ecclesiastiche. Il principio della territorialità, elemento cardine sul quale si sono fondate le amministrazioni statuali,
si coniuga, nel caso della Curia romana (e già dal XII secolo) con il principio della
universalità del potere papale, della sua non-collocazione spaziale, cioè in definitiva
della sua non-territorialità. Se da questo principio discendono il motto Ubi papa ibi
Roma, la possibilità di disporre di ordini religiosi e di magistrature giudicanti che
obbediscono al papa a prescindere dal luogo in cui si trovano ad agire; se questo
stesso principio informatore e ordinatore ha permesso lo spostamento della sede
romana ad Avignone per settanta anni, ebbene questo medesimo principio è anche
quello che ha reso la Curia romana l’apparato amministrativo più complesso dell’età
medievale e moderna, sia dal punto di vista della gestione, sia dal punto di vista
della distribuzione e dell’origine sociale e territoriale dei suoi ufficiali. Se ci si pensa
un poco, l’asserzione del principio di una difformità tra potere territoriale e potere
universale o ecumenico è ciò che ha permesso, nel XIII secolo, la teorizzazione
della teocrazia papale, ed è uno dei principali elementi che hanno scatenato la
guerra politica tra papato e stati nazionali, nonché la stessa riforma protestante. Ed
è anche un elemento politicamente molto rilevante nel panorama contemporaneo.
Come entra la scrittura in questo discorso? La scrittura, con la sua caratteristica di
essere contemporaneamente qui e altrove, di nascere in un preciso luogo fisico ma
di avere anche la possibilità di raggiungere qualsiasi altro luogo, è – lo ripetiamo –
l’elemento basilare dell’impianto. Gli ufficiali del papa, governatori di territori pon-
1_2011.indd 299
28-06-2011 12:12:24
300
Cr St 32 (2011)
tifici, ma anche esecutori di una volontà sovrana proposta come universale e gestori
di prebende conferibili dall’Islanda alla Spagna, sono stati gli agenti diretti. Agenti,
in definitiva, proprio attraverso la scrittura, poiché la cultura dell’amministrazione
scritta è stata per secoli il mezzo attraverso il quale «il papa è ovunque».
Nel libro che commentiamo, la scrittura è colta sia nella sua dimensione di
oggetto prodotto e fruito, sia nella sua dimensione di testimonianza ed essenza della
vita delle amministrazioni e degli amministratori, sia, infine, nella sua dimensione
della registrazione e conservazione, a cavaliere tra esigenza di trasmissione ordinata
della documentazione, e volontà di esprimere e celebrare il potere attraverso la
memoria. Questi tre momenti fondamentali dell’atto scrittorio si trovano a scandire
le tre parti in cui il libro è stato suddiviso: Production et consommation de l’écrit;
Économie des offices et administration des finances; Enregistrement et usage des
archives. La divisione in tre parti, utile da un punto di vista speculativo, resta in
verità almeno parzialmente teorica, poiché, anche se con diverso bilanciamento,
ciascuno dei momenti che collegano gli ufficiali papali alla scrittura – produzione,
gestione amministrativa e conservazione – si ritrovano presenti in molti dei saggi
contenuti nel volume, a prescindere dalla specifica collocazione in una delle tre
parti designate. Oltre a ciò, è ben presente – anche se meno delineato rispetto
all’indagine ‘tecnica’ dei meccanismi amministrativi ed economici, la descrizione
del ruolo che i curialisti attribuiscono alla scrittura per la sua valenza di capitale
simbolico, politico, immateriale, e tuttavia a sua volta fondante quanto lo è il discorso più prettamente economicistico. La scrittura è posta al servizio dell’autorità,
è necessaria al governo, tanto per la gestione corrente, quanto perché rappresenta
il potere e ne costituisce la forma più alta di propaganda. La scrittura è, infatti,
sempre una operazione idelogica, e l’organizzazione della memoria permette di
esercitare l’autorità nei termini di continuità, durata e tradizione, venendo a costruire ciò che si può chiamare ‘memoria ufficiale’, con i suoi processi di produzione,
conservazione e anche, naturalmente, distruzione. In questo senso, è ben noto il
ruolo anticipatore e normativo esercitato dalla Chiesa romana, in realtà ben prima
del XIII secolo, ma senza dubbio con gran forza a partire da allora. In questo senso,
nel presente volume si possono leggere, tra gli altri, i saggi di Olivier Rouchon (Administration pontificale, finances citadines et luttes politiques; les tabelles d’Avignon
au XVIIe siècle, pp. 601-639), e di Olivier Poncet (Les archives de la papauté […]:
la genèse d’un instrument de pouvoir, pp. 737-762).
Se il primo elemento sul quale si concentrano i saggi contenuti nel volume
è la scrittura (come strumento di azione e di registrazione/memoria), il secondo
elemento, altrettanto significativo e strettamente intrecciato con il precedente, è
ovviamente il denaro, ovvero la gestione finanziaria degli uffici e il significato economico delle magistrature curiali. In questo senso, il saggio introduttivo è molto
esplicito, quando per esempio leggiamo (pp. 5-6): «L’argent est un bon marqueur
historique des offices, de leur nature et de leur définition». Si tratta non solo del
denaro contante e della sua traduzione nelle differenti tipologie documentarie contabili, ma di tutto l’insieme delle ricadute economiche, ivi comprese le remunerazioni in natura e in beni di qualsiasi tipo, che conferiscono a loro volta, come già la
scrittura, un carattere distintivo all’amministrazione pontificia. La Chiesa romana
è stata l’istituzione attraverso la quale è passato il maggior flusso economico della
1_2011.indd 300
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
301
storia bassomedievale e, in parte, anche della storia moderna, coinvolgendo nella
sua rete di scambi tutto il mondo cattolico. Si tratta di un argomento noto e studiato,
sul quale è pressoché inutile insistere, se non per evidenziare l’interessante punto
di vista che viene adottato in questo volume: quello cioè di considerare, più che
l’amministrazione intesa come una gigantesca macchina anonima, il ruolo ricoperto
dagli ufficiali pontifici, testimoni di una cultura della finanza e pragmaticamente
interessati alla gestione economica di tutto ciò che ruota intorno a loro. L’ufficiale
pontificio, sia nell’età bassomedievale in cui riceve il compenso dal destinatario
della res oggetto di un qualsiasi negozio, sia nel corso dell’età moderna, durante la
quale ottiene venalmente l’appalto del proprio ufficio, è molto più di un semplice
funzionario statale come lo potremmo intendere oggi. E questo non solo perché il
suo ambito di azione può travalicare i confini di un determinato territorio, come si è
detto, ma ancora di più per il fatto che egli è direttamente interessato al movimento
economico che provoca e sovrintende. Ne deriva una posizione di grande forza e di
relazione diretta non solamente con il potere centrale, fonte della sua carica istituzionale, ma anche con i destinatari, cioè con tutti coloro che, per una ragione o per
l’altra, si trovano ad avere a che fare con lui, e con i quali egli può istituire un rapporto privilegiato. Questo sistema, che a prima vista saremmo propensi a datare al
medioevo (quando per esempio il collettore camerale trattiene il proprio guadagno
dalle decime che riscuote), è in realtà caratteristico anche dell’età moderna, fino
al 1692, quando viene abolita la venalità degli uffici. E non possiamo non notare
come, in qualche caso, esso perduri anche nella contemporaneità: come è il caso dei
vigili urbani che percepiscono una percentuale dalle contravvenzioni che elevano.
Scendendo nel particolare, può essere utile dare conto dei soggetti dei singoli
saggi che compaiono nel volume. Nella prima parte (Production et consommation
de l’écrit) troviamo una storia della produzione documentaria dei dominii di casa
Savoia fra XIII e XV secolo (Castelnuovo) – che è l’unico saggio ‘extravagante’ del
libro –, il funzionamento amministrativo delle province di Campagna e Marittima
nel primo Trecento (Caciorgna); gli archivi dei cardinali legati (Jugie); la cultura
contabile espressa dai banchieri e dagli ufficiali della Camera apostolica nel basso
medioevo (Jamme); il rapporto tra Penitenziera apostolica e singole diocesi o province nel Quattrocento (Salonen); l’attività dei legati pontifici in Francia alla fine
del Cinquecento (Tizon-Germe); le comunicazioni tra Perugia e Roma tra metà XVI
e metà XVII secolo (Irace); la cultura politica che si evince dai carteggi dell’organizzazione militare pontificia tra la metà XVI secolo e il 1800 (Brunelli).
Nella seconda parte (Économie des offices et administration des finances) troviamo soprattutto saggi su personaggi legati all’amministrazione pontificia: come
ufficiali, mercatores e pubblico (cioè destinatari), colti nella rappresentazione di
se stessi, delle loro funzioni e dei loro intrecciati rapporti. È, se vogliamo, la parte
più vicina al primo volume. I saggi trattano dell’ufficio del maresciallo della Sede
apostolica nel basso medioevo (Jamme); del rapporto tra ‘artisti’, integrati nella
familia pontificia, e uffici di Curia nel XIV secolo (Anheim); della figura di Jean
de Louvres, maître des oeuvres del papa alla metà del XIV secolo (Bernardi); della
retribuzione degli ufficiali e familiari dei papi nel XIV secolo (Hayez) e alla fine
del secolo (Genequand); della pratica delle compagnie d’uffici (cioè una forma di
finaziamento del debito pubblico) a cavallo tra Quattro e Cinquecento attraverso gli
1_2011.indd 301
28-06-2011 12:12:24
302
Cr St 32 (2011)
atti notarili (Esposito); degli appalti degli uffici presi dai mercanti-banchieri nella
prima metà del Cinquecento (Guidi Bruscoli); della struttura e organizzazione della
famiglia pontificia in età moderna (Menniti Ippolito); della legazione del cardinale
Francesco Barberini in Francia (1625) come modello di studio del finanziamento
di un’ambasceria (Pieyre); del rapporto dei detentori delle cariche con i loro uffici
sotto il profilo economico nel Sei e Settecento, tra interesse pubblico e privato
(Tabacchi); dei conflitti tra l’amministrazione pontificia e la città di Avignone in
materia fiscale nel corso del XVII secolo (Rouchon).
Infine la terza parte (Enregistrement et usage des archives) tratta delle modalità
con cui veniva ordinata e conservata l’immensa produzione documentaria della
Curia romana, strumento di governo e di potere. L’istituzione che ha maggiormente espresso la propria vocazione all’universalità, è quella che ha saputo meglio di
tutte conservare le proprie carte, già da epoche remote. I saggi contenuti in questa
ultima parte del volume indagano i responsabili delle opere e dei cantieri pontifici
nella prima metà del Trecento (Theis); il rapporto tra registrazioni ufficiali e private
attraverso un esempio particolare del XIV secolo (Bombi); i procuratori presenti in
curia nel Trecento (Berthe); la vicenda di Michele Lonigo, collaboratore dell’Archivio Vaticano che nel 1617 finì incarcerato per sottrazione di documenti (Filippini);
la genesi degli archivi pontifici tra la metà del XVI e il XVII secolo (Poncet); la
biografia di Carlo Cartari, prefetto dell’archivio di Castel S. Angelo nel XVII secolo
(Filippini); il caso dell’archivio della legazione di Bologna tra XIV e XVII secolo
(Gardi) e dell’archivio di Avignone tra XVI e XVIII secolo (Rouchon e Thomas).
Numerosi saggi contengono utili apparati: appendici documentarie con regesti
e anche edizioni integrali di documenti, tabelle prosopografiche, ecc. Tra questi
ricordiamo almeno, per la particolare ricchezza, le appendici “Trésoriers et camériers des papes et des recteurs affectés dans les provinces de Grégoire X à Grégoire XII (1272-1407), pp. 162-251; “Les maréchaux du pape et de la Curie romaine
(1198-1447), pp. 364-392, entrambi di Jamme; l’edizione di cinque contratti per
compagnie di uffici dal 1479 al 1521, di Esposito (pp. 507-515); un elenco degli
“Operatori coinvolti nei principali appalti sotto il pontificato di Paolo III Farnese (1534-1549)”, di Guidi Bruscoli (pp. 535-543); l’edizione di cinque documenti
relativi alla prima formazione dell’Archivio Vaticano dal 1593 al 1624, di Poncet
(pp. 756-762); i “Centri amministrativi dello Stato pontificio per i quali è nota documentazione d’archivio relativa all’Antico Regime”, sforzo di sintesi di Gardi, pp.
829-837; lo “Inventaire des Archives du Palais Apostolique d’Avignon, dressé par
ordre du vice-légat Alessandro Colonna”, redatto nel 1664, di Rouchon et Thomas
(pp. 863-891).
In definitiva, questa opera tratta del trinomio tra scrittura, finanza e memoria
attraverso lo specchio della storia degli ufficiali e degli uffici pontifici. Un trinomio
che, in realtà, si riduce a un binomio, poiché la memoria consiste sempre nella registrazione e nella conservazione: la memoria è dunque anch’essa un aspetto
fondamentale dello ‘scritto’, senza il quale neppure la finanza potrebbe esistere. Il
volume si fa apprezzare perché, pur essendo gigantesco (e oltretutto da impiegarsi
insieme al precedente, uscito nel 2005), permette di essere compulsato con relativa facilità. Oltre a essere ovviamente provvisto del sommario, vi sono comprese,
come è tradizione nei volumi miscellani dell’École française, tanto una raccolta di
1_2011.indd 302
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
303
abstracts quanto l’indice onomastico, che, come si sa, nei volumi collettanei è presente solo di rado. Gli apparati costituiscono oggi una parte dei libri da curare con
molta attenzione, se si vuole che il mezzo cartaceo resti ancora efficace accanto alle
risorse elettroniche. Ed è un piacere trovare apparati così ben disposti in un libro
che parla proprio della carta scritta, della sua produzione, della sua conservazione
e del suo ‘potere’.
Tommaso di Carpegna Falconieri
Università di Urbino
Clero, economia e contabilità in Europa: tra Medioevo ed età contemporanea, a cura di Roberto Di Pietra e Fiorenzo Landi, Carocci, Roma 2007,
pp. 340
Frutto dell’attività del Centro di studi per la storia del clero e dei seminari di
Siena (CESCLES), il vol. raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Siena tra il
14 e il 16 settembre 2006. Gli interventi sono divisi in due parti: nella prima sono
raccolti sei saggi dedicati a singole istituzioni presenti in Toscana dal medioevo al
XIX secolo, con l’intento di mostrare come esistano legami tra le forme di esercizio
del governo e l’esercizio del potere determinato sulla base della definizione e del
funzionamento del sistema di contabilità. Le istituzioni analizzate dal punto di vista
della contabilità sono il seminario arcivescovile di Siena nel XVII secolo (R. Di Pietro e M. Magliacani); la cattedrale di Siena nel XIV secolo (E. Giovannoni, A. Riccaboni, A. Giorgi, S. Moscadelli); il monastero di Monte Oliveto Maggiore nel XIX
secolo (F. Barbabé e P. Ruggiero); la cooperativa agricola bianca di Montepulciano
dal 1937 (G. Grossi, P. Monfardini, P. Ruggiero). Sempre afferenti a questa sezione,
due interventi analizzano rispettivamente due testi prodotti dalla cultura gesuitica,
gli Esercizi spirituali di Ignazio e il Trattato del modo di tenere il libro doppio domestico di padre Lodovico Flori (P. Quattrone) e la regola di S. Benedetto come radice
della cultura aziendale dell’Europa medievale (V. Cellini).
La seconda parte del vol. raccoglie dieci interventi, più una prefazione di Fiorenzo Landi e un sintetico bilancio dell’attività del CESCLES di Maurizio Sangalli,
di carattere più generale. Il primo saggio, sempre di Landi, affronta il tema della valutazione della consistenza economica della rete dei monasteri e conventi attraverso
le inchieste e le registrazioni contabili che dal Cinquecento in poi furono compiute
per gli stati che aderirono alla riforma protestante. Gaetano Greco torna sul tema
a cui ha dedicato una monografia e numerosi studi della contabilità delle messe in
1_2011.indd 303
28-06-2011 12:12:24
304
Cr St 32 (2011)
Italia a partire dal concilio di Trento (pp. 156-172): il numero crescente di messe
che dovevano essere celebrate in suffragio di donatori o testatori delle istituzioni ecclesiastiche fu tenuto sotto controllo e razionalizzato grazie ad una contabilità analitica richiesta dal concilio di Trento al fine di rendere effettivo il soddisfacimento di
tale obbligo per il quale il singolo prete riceveva una remunerazione e l’istituzione
ecclesiastica beneficiaria un legato globale o una elemosina per le “messe manuali”.
La mancata celebrazione delle messe era uno degli abusi che il concilio si prefisse di
eliminare con dispositivi che furono applicati dalla congregazione del concilio nel
corso del Seicento con una serie di correttivi che, in modo contraddittorio, ora affidarono ai vescovi e ai sinodi diocesani, ora ai superiori degli ordini religiosi o alle
sole congregazioni romane la riduzione degli oneri di messe. L’aumento spasmodico
delle messe da celebrare passò oltre le soglie del Settecento e lasciti testamentari
furono, nel caso Toscano, dirottati per finanziare i soggetti ecclesiastici privilegiati
dalle riforme dei sovrani illuminati, come seminari e uffici curati. Angelo Turchini
si dedica ai registri di messe presenti negli archivi ecclesiastici la cui tenuta doveva
essere verificata dai vescovi nel corso della visita pastorale come richiesto a più
riprese dalla congregazione del concilio nel corso del XVII secolo.
L’intervento di Giuseppe Poli sulla presenza economica della chiesa nell’Italia
meridionale (pp. 185-225) si concentra sulla riduzione della durata dei contratti
agrari e sull’inasprimento dei canoni fondiari indotto dal quadro politico-militare
cinquecentesco oltre che dai prezzi crescenti delle derrate agricole che riflettono la
congiuntura economica inflazionistica a queste latitudini. La bolla De censibus del
1569 di Pio V chiese agli enti ecclesiastici di abbandonare la conduzione diretta della
terra a favore di un sistema di affittanze a breve scadenza e di un generale aumento
dei canoni fondiari. A partire da questa data la locazione tese a diffondersi soprattutto
in area meridionale per una durata triennale con un generale aumento dei canoni
fondiari. Con dati e dimostrazioni alla mano, Poli mostra che sin dai primi secoli
dell’età moderna la gestione della terra vincolata dalla manomorta ha dato dimostrazione di essere guidata dal rispetto dei tradizionali criteri di conduzione fondiaria e da
collaudate tecniche agricole, le stesse che guidavano la possidenza di estrazione laica.
La negatività esagerata delle valutazioni anticuriali concepite nell’ambito dei giusnaturalisti napoletani verteva sulla consistenza dei patrimoni ecclesiastici ed era legata
ad un diffuso senso di inopportunità economica e al peso fiscale che i beni in mano
agli ecclesiastici avevano sui ceti meno privilegiati, oltre che per lo stato napoletano.
Combinando varie fonti, le inchieste innocenzianze sulla consistenza patrimoniale dei
conventi degli ordini regolari, la Cassa sacra in Calabria istituita dopo il terremoto del
1783, gli incartamenti prodotti dalle soppressioni napoleoniche sui beni degli ordini
religiosi nel Regno di Napoli, l’autore traccia un quadro dell’articolazione patrimoniale delle proprietà ecclesiastiche, mostrando per altro che le proprietà fondiarie
non costituivano la totalità delle forme di investimento. Si tratta infatti di combinare
i fondi con proventi da capitali liquidi legati all’acquisto di quote di debito pubblico,
con interessi da beni mobiliari ovvero prestiti concessi ai privati mediante il sistema
dei censi bollari. Dalla seconda metà del XVII secolo la crisi dei patrimoni ecclesiastici, sebbene meno estesi di quanto la propaganda anticuriale abbia fatto credere, portò
alla progressiva riduzione dell’estensione dei beni donati, in cui ebbero un ruolo
1_2011.indd 304
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
305
notevole gli abati commendatari e l’istituto della commenda, e ai divieti di ulteriori
acquisti di beni immobili.
Giancarlo Rocca cataloga le differenti strategie anticonfisca degli istituti religiosi in Italia dall’Unità al concordato del 1929, dopo le soppressioni del 1866 e 1873,
con il duplice intento di mostrare come gli istituti religiosi riuscirono a difendere i
loro patrimoni e in qualche caso di accrescerlo aumentando così la presenza nella
società italiana, e nel contempo contribuirono al benessere economico della società
italiana. Il tentativo di giungere ad un bilancio storiografico caratterizza gli ultimi
interventi. Bernard Bodinier affronta lo smantellamento del potere economico della
chiesa di Francia a partire dalle confische dei beni ecclesiastici operati dalla rivoluzione francese in poi; Gemán Rueda Hernanz presenta le ricostruzioni dell’opera di
smantellamento dei beni ecclesiastici in Spagna dal 1769 al 1964. Entrambi i bilanci
tendono a ricostruire attraverso gli inventari e l’esito delle vendite la consistenza
effettiva del patrimonio fondiario complessivo della chiesa che, in misura differente per ciascuno stato, risulta essere considerevole seppure decisamente inferiore a
quanto attribuitole dalla polemica illuminista e anticlericale tra Sette e Ottocento:
in Francia esso risulta un sedicesimo del territorio francese (contro la valutazione
di un decimo fatta durante la rivoluzione dell’89) e in Spagna gli studi più recenti
mostrano come la vendita dei patrimoni ecclesiastici non abbia modificato la struttura economica o l’evoluzione del settore agrario. Patrizio Foresta presenta alcune
ipotesi di ricerca sulla storia della Compagnia di Gesù nel contesto dell’impero tedesco, offrendo alcuni spunti di riflessione sulla sua storia economica in particolare
in rapporto al potere politico e alle istituzioni ecclesiastiche secolari nella seconda
metà del Cinquecento. Un bilancio storiografico viene presentato da Marek Derwich
sull’economica delle comunità religiose in Polonia e una rapida carrellata di Murat
Çizakça sul rapporto tra Islam e protocapitalismo nel confronto con la cristianità
chiude la seconda parte del volume.
Complessivamente gli atti, formati da interventi disomogenei e da tagli differenti,
mettono in evidenza la potenzialità di una ricerca sulle istituzioni religiose (diocesane,
monastiche, conventuali, luoghi pii e congregazioni religiose regolari e di vita laicale
consacrata, seminari, collegi e istituzioni educative) tra medioevo ed età contemporanea che tenga conto dello specifico approccio contabile, come linguaggio che mentre
evidenzia una precisa cultura “aziendale” delle istituzioni religiose sancisce anche
una modalità di esercizio del potere. Numerosi interventi tendono poi ad enunciare
tesi più tratteggiate che dimostrate che contraddicono la lettura critica formulata contro la manomorta ecclesiastica per mettere in evidenza la razionalità della gestione
economica e patrimoniale delle “aziende” connesse alle proprietà ecclesiastiche nella
loro multiforme varietà. Viene quindi enunciata la tesi che la gestione dei patrimoni e delle proprietà della chiesa non abbia differito eccessivamente dalla gestione
mercantile o borghese delle aziende agrarie e che i criteri guida impiegati nell’attività economica siano stati omogenei al contesto. Sono anche trovati prodromi ai testi
economici nei testi basi dell’occidente cristiano anche se quest’ultimo punto mi pare
il più discutibile in quanto sopravvaluta le considerazioni economiche presenti in
alcuni testi fondanti del cristianesimo e della teologia cristiana: in quanto ideologia
che inglobava tutto lo spazio umano, inclusa la gestione patrimoniale ed economica,
ovviamente anche il lato economico della gestione era disciplinato secondo una ratio
1_2011.indd 305
28-06-2011 12:12:24
306
Cr St 32 (2011)
anche se non esclusivamente tendente al profitto o al lucro bensì indirizzando anche i
beni economici verso il primario fine “spirituale” delle istituzioni ecclesiastiche.
Maria Teresa Fattori
Fondazione per le scienze religiose - Bologna
Luigi M. de Palma, Il Frate Cavaliere. Il tipo ideale del Giovannita fra
medioevo ed età moderna, (Facoltà Teologica Pugliese, Studi e ricerche, 3)
Ecumenica Editrice, Bari 2007, pp. 358
La storiografia sugli Ordini cavallereschi ha in questi ultimi anni registrato l’intervento di numerosi studiosi, come testimoniato dalla contemporanea pubblicazione
della raccolta di studi Alle origini dell’Europa Mediterranea. L’Ordine dei Cavalieri
giovanniti, a cura di A. Pellettieri, Firenze 2007. In questo filone di rinnovato interesse
della presenza degli Ordini militari nella penisola italiana si inserisce la monografia
in questione che intende approfondire un aspetto rimasto spesso in secondo piano,
come lamentato dall’Autore, vale a dire quello della dimensione religiosa dell’Ordine
dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme «quasi si trattasse di una dimensione
secondaria della sua natura e della sua identità» (p. 11). Occorre subito notare come,
nonostante il titolo, il lavoro si concentra per la sua parte originale sull’epoca moderna, mentre gli sviluppi storici del periodo medievale sono soltanto delineati nell’introduzione (pp. 13-39) dove si rimanda ai principali lavori apparsi negli ultimi decenni,
con particolare riferimento ai contributi di Jonathan Riley-Smith, Anthony Luttrell,
Alain Demurger, Alain Beltjens, Kristian Toomaspoeg. Un interesse prevalentemente
centrato nell’epoca della Riforma della Chiesa, come testimoniato dalla corposa appendice documentaria che correda il volume che raccoglie una serie di testi redatti tra
i secoli XVI-XVIII che testimoniano le difficoltà dell’Ordine giovannita e le proposte
di riforma avanzate in ambito ecclesiastico per sintonizzarlo con le istanze elaborate
nel corso dei lavori del concilio tridentino.
Nei primi due capitoli sono dunque ripercorse le vicende dell’Ordine e il suo
spostamento da Rodi (abbandonata nel gennaio 1523) a Malta (concessa dall’imperatore Carlo V nella primavera del 1530) sotto la pressione dei Turchi. Allo spostamento fisico fa da pendant la ridefinizione dell’identità giovannita e i suoi rapporti
con il mondo aristocratico europeo; come sottolineato dal de Palma «alla perdita
progressiva della potenza strategica della cavalleria e all’affievolirsi del ruolo egemonico della nobiltà l’Ordine del Santo Sepolcro reagì con il recupero dell’antica
endiadi nobile-cavaliere, elevata sul piano dell’idealità e del simbolismo, e quindi
della fede» (p. 66). Il risultato fu il ritorno di interesse da parte della nobiltà euro-
1_2011.indd 306
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
307
pea per l’Ordine e l’incremento del reclutamento di frati come dimostrato dal fatto
che, a inizio XVIII secolo, i Giovanniti avrebbero contato 560 commende sparse
per tutta l’Europa con oltre duemila membri presenti tra i suoi ranghi (si vedano
i dati forniti a p. 76). Nonostante l’ampiezza del reclutamento, restavano tuttavia
da risolvere una serie di abusi e disordini segnalati da un memoriale redatto da tre
confratelli – i priori della commenda pisana e capuana, più il balio di Santa Eufemia
– che puntavano il dito contro la guida del Gran Maestro Fra’ Hugues de Loubens
de Verdalle [il testo è riportato nell’appendice al volume, pp. 241-258, mentre il
contromemoriale difensivo degli ambasciatori dell’Ordine segue alle pp. 259-295],
che sebbene approdata a una sostanziale assoluzione da parte dei visitatori pontifici
inviati da Clemente VIII per condurre le indagini del caso, segnalava – come rilevato acutamente dall’Autore – «il perdurare nell’Ospedale di due posizioni antitetiche in rapporto alla riforma “del capo e delle membra”, una favorevole al diretto
protagonismo dei frati (…), l’altra più verticistica e fiduciosa nella continuità della
direzione impressa sull’Ordine dai Gran Maestri» (p. 106).
Il terzo capitolo si apre ricordando il dibattito legato all’istituzione del noviziato
per l’Ordine giovannita. Il discorso dell’Autore si concentra sulla preziosa testimonianza dei Ricordi di Fra’ Sabba de Castiglione (1480-1554), entrato nell’Ordine
in giovane età, la cui opera divenne nel tempo un vero e proprio «manuale propedeutico alla formazione del giovane aristocratico» (p. 144): essa consente di vedere
sogni e disillusioni di un Giovannita che nel corso della sua vita aveva sperimentato
prima la vita di corte, poi il ritiro nella commenda faentina ove avrebbe condotto
una vita volutamente ritirata (maggiori dettagli alle pp. 128-129), testimone inequivocabile della consapevolezza del tramonto delle speranze di rinnovamento da lui
nutrite riguardo la tuitio fidei operata dai suoi confratelli. Con il quarto capitolo la
narrazione giunge al secolo XVII, con la testimonianza di Fra’ Fabrizio Cagliola cui
si deve un’istruzione ai cappellani dell’Ordine terminata nel 1662, destinata a una
circolazione ristretta (rimase sotto forma di manoscritto), che faceva propri stimoli
e idee di direzione spirituale messi in circolazione all’epoca dall’Ordine gesuita
(l’indice del manoscritto è riportato nell’appendice del volume, alle pp. 323-335).
Il quinto e ultimo capitolo è invece dedicato all’analisi del culto dei santi venerati dall’Ordine giovannita in epoca moderna, un tema che si nutre chiaramente di
stimoli e suggestioni indicati dalla storiografia più recente interessatasi a quest’ordine di problemi – un nome su tutti: André Vauchez –; tale pista interpretativa
permette di rivelare le linee portanti della spiritualità della forma di vita giovannita
che intendeva proporre «un modello etico-spirituale radicato nella vocazione laicale alla vita religiosa, il quale poteva essere facilmente adottato – almeno in teoria
– dagli appartenenti all’aristocrazia» (p. 223), attento dunque agli aspetti militari
come a quelli religiosi, in un connubio non sempre facilmente armonizzabile. Si
trattava di una sintesi che, a ben vedere, innerva la plurisecolare storia degli Ordini
cavalleresco-militari e si salda alla sintesi bernardina elaborata nel XII secolo, auctoritas fondante lo status di qualsiasi esperienza monastico-cavalleresca: non a caso
nel Cinquecento il nobile bresciano Alessandro Luzzago rivolgendosi a un religioso
inviato a Malta come direttore spirituale per i novizi dell’Ordine giovannita poneva
al primo posto per costoro la meditazione delle lettere di San Bernardo ai Templari
(l’Istruttione ad un religioso è edita nell’appendice alle pp. 320-322).
1_2011.indd 307
28-06-2011 12:12:24
308
Cr St 32 (2011)
Resta un bilancio conclusivo cui l’Autore non si sottrae al termine di un percorso snodatosi attraverso una serie di testi poco frequentati dalla storiografia, redatti
da esponenti vicini alle posizioni dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni: a suo
giudizio, nonostante le difficoltà incontrate, «il modello riformato del Giovannita recuperava l’archetipo spirituale originario della sua vocazione religiosa, adattandolo
alle attese della sua epoca» (p. 238), un bilancio che – ci sembra – tutto sommato
troppo ottimistico se si tiene conto delle difficoltà progressivamente registrate con
maggiore acutezza dai suoi esponenti più sensibili (la parabola esistenziale di Fra’
Sabba ne è fedele testimonianza) ma che rispecchia gli sforzi riformistici cui si dedicarono nei secoli dell’età moderna un cospicuo numero di intellettuali appartenenti
all’Ordine giovannita, o comunque vicini alle sue posizioni, nel costante sforzo di
essere «separati (…) dal mondo, e a un tempo (…) a pro del mondo» (p. 235; brano
tratto da un’opera di Celestino Petracchi, un predicatore del XVIII secolo che ebbe
occasione di visitare e predicare a Malta).
Luigi Russo
Università Europea di Roma
Jean Gaudemet, Formation du droit canonique et gouvernement de l’Église de l’Antiquité à l’âge classique, recueil d’articles (Collections de l’Université Robert Schuman. Société, droit et religion en Europe), préface de
Br. Basdevant-Gaudemet, Presses universitaires de Strasbourg, Strasbourg
2008, pp. 446
Ils ne sont pas très nombreux les historiens dont les travaux ont été rassemblés en autant de recueils d’articles que Jean Gaudemet (1908-2001): pas moins
de quatorze chez six éditeurs différents (pp. 12-13). Le tout dernier en date,
Formation du droit canonique et gouvernement de l’Église de l’Antiquité à l’âge
classique, est un livre qui est destiné à rendre d’immenses services, non seulement à la communauté des historiens du droit canonique (selon le souhait émis
dans la préface [p. 6]), mais aussi à tous ceux qui peuvent s’intéresser de près ou
de loin à cette discipline, les historiens du christianisme comme les philologues.
D’une part, l’ouvrage propose une sélection de vingt études fondamentales dans
leur domaine, la plupart n'ayant pas été reprises ailleurs. D’autre part, il offre la
toute première bibliographie «complète» de l’Auteur, qui constitue un élément
incontournable de la publication.
Cet inventaire est placé en tête du volume (pp. 11-38), après une préface de
Brigitte Basdevant-Gaudemet – visiblement, la responsable du recueil – dans la-
1_2011.indd 308
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
309
quelle les choix éditoriaux sont expliqués (pp. 5-6), ainsi qu’une liste des articles
qui sont reproduits (pp. 7-9). La bibliographie comporte trois parties: I: Ouvrages
(pp. 11-12), c’est-à-dire les monographies, les ouvrages collectifs et les traductions
de sources anciennes; II: Recueils d’articles (pp. 12-13) dont le contenu détaillé se
trouve dans la section suivante; et III: Articles, y compris ceux dans les dictionnaires
et les encyclopédies (pp. 13-38). Les deux premières sont agencées chronologiquement. La troisième est divisée en cinq sous-parties, certaines (A, B et C) comportant
des divisions thématiques, à l’intérieur desquelles l’ordre chronologie prévaut également: A. Droit canonique et institutions de l’Église (pp. 13-27); B. Droits de l’Antiquité (pp. 28-35); C. Sociologie historique du droit (pp. 35-36); D. Articles d’histoire
du droit (pp. 37-38; la majorité des travaux dans les autres catégories ne concernet-elle pas aussi l’histoire du droit ?); et E. Articles de méthodologie (p. 38).
L’utilité de la bibliographie est indéniable. L’Auteur fut si prolifique, sur un si
grand nombre de problèmes, qu’il était bien difficile d’avoir une vue d’ensemble
de son travail avant la parution du présent recueil. Il sera dorénavant beaucoup
plus aisé de savoir s’il a traité de tel ou tel sujet. En vérité, il y a bien peu à redire
sur cette liste d’ouvrages. Sans que cela enlève quoi que ce soit à sa qualité, notons
tout de même quelques irrégularités mineures dans la présentation, en donnant des
exemples essentiellement tirés de la partie I: Ouvrages.
Notamment, il n’est pas toujours fait état de la ville et/ou de la maison d’édition. Par exemple, il aurait été intéressant de préciser que la thèse de doctorat de
l’Auteur a été publiée par Sirey l’année même de sa soutenance (p. 11: Étude sur
le régime juridique de l’indivision en droit romain… 1934). Dans la plupart des cas
où l’éditeur n’est pas mentionné, il semble y avoir confusion avec la collection, si
bien que le numéro de volume de celle-ci n’est pas systématiquement donné (p.
12: Le droit romain dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle,
Milan, [Giuffrè, coll.] IRMAE, [n. I, 3, b,] 1978, 166 pp.). Il aurait été également
préférable d’identifier l’ensemble des livres épuisés et pas seulement quelques-uns
(les seuls titres aujourd’hui disponibles parmi ceux classés avant 1985 sont, à la p.
11: Les institutions de l’Antiquité...1972...7e éd. 2002; et à la p. 12: Conciles gaulois
du IVe siècle... 1977; Les élections dans l’Église latine des origines au XVIe siècle...
1979; et Le gouvernement de l’Église à l’époque classique, [IIe partie :] le gouvernement local... Tome VIII… 1979). Autrement, certains intitulés sont incomplets
(p. 12: [Sociologie historique.] Les maîtres du pouvoir, Paris, Montchrestien, [coll.
Domat droit public], 1994, 207 p.), alors que les collaborations et les participations
à des ouvrages collectifs ne sont pas toutes bien présentées (p. 11: Les institutions
ecclésiastiques en France du milieu du XIIe au début du XIVe siècle, dans Histoire des
institutions françaises au Moyen Âge, [dir. F. Lot et R. Fawtier,] T. III, Les institutions ecclésiastiques, [en collaboration avec J.‑Fr. Lemarignier et G. Mollat,] Paris,
[PUF,] 1962, p. 141-335; comme l’Auteur n’a pas dirigé l’ouvrage, cette référence
n’aurait-elle pas dû être placée dans la section III.A.2 [p. 24-27], au même titre que
sa contribution à l’Histoire du christianisme...2001 [cf. p. 27] ?). De plus, il y a quelques entorses à l’ordre chronologique (outre les quelques ouvrages qui n’ont pas été
placés au bon endroit [cf. p. 25], certains sont classés en fonction de leur première
édition [cf. p. 11] et d’autres suivant la plus récente [cf. p. 12]).
1_2011.indd 309
28-06-2011 12:12:24
310
Cr St 32 (2011)
Il y a aussi quelques doublons. Entre autres, la liste des articles reproduits dans
le présent volume peut se lire intégralement à deux reprises, à la différence près
que l’une comporte des sous-titres supplémentaires, que l’autre donne également les
pages dans le recueil et que les normes de présentation bibliographique ne sont pas
identiques (p. 7-9 et 22-23 [où il y a une erreur dans le titre et la date du présent
ouvrage]). Certaines publications sont, quant à elles, citées en deux endroits distincts
de la bibliographie (notamment, p. 12 et 35: Legislazione imperiale e religione nel IV
secolo, [en collaboration avec P. Siniscalco et G.L. Falchi, Rome, Istituto patristico
«Augustianum», coll.] Sussidi patristici[, no]11, 2000, 183 pp. [ou p. 7-66 pour le seul
chapitre intitulé La politique religieuse impériale au IVe siècle (envers les païens, les
Juifs, les hérétiques, les donatistes)]; p. 15 et 24: Aspect de la primauté romaine du Ve
au XVe siècle…1971; p. 18: tous les articles entre Le débat sur la confession dans la
Distinction I du «De penitentia» (Décret de Gratien, C. 33, q. 3)…1985 et La coutume
en droit canonique...1988, sont repris en p. 25 et 26; p. 21 et 25: [Notes d’histoire des
collections canoniques II :] Adam Vetulani et le Décret de Gratien…1990; ainsi que
p. 25 et 27: Influences romaines sur la codification latine…1994; en outre, n’aurait-il
pas fallu indiquer le lien entre Une instance de liaison. Le conseiller pour les affaires
religieuses auprès du ministre des Relations extérieures...1987…1998 [cf. p. 21] et
Le conseiller pour les affaires religieuses auprès du ministre des Relations extérieures…1988 [cf. p. 25; dans Annua[r]io…] ?). Par ailleurs, il n’y a aucune liste des
abréviations utilisées, ce qui peut causer quelques difficultés aux lecteurs qui ne sont
pas familiers des collections et des périodiques dont le titre est abrégé, surtout lorsque
ceux-ci s’adressent à un public bien précis (par exemple, cf. p. 8 et 22: MSHCB = Mémoires de la Société pour l’histoire du droit et des institutions des anciens pays bourguignons, comtois et romands [d’autant plus que l’intitulé du numéro 45 (1988) de cette
revue n’a pas été recopié en entier: Études [d’histoire du droit médiéval] en souvenir
de J[osette] Metman]; ainsi que p. 12: IRMAE = Ius Romanum Medii Aevii).
Ajoutons encore qu’il aurait été intéressant d’inclure à la bibliographie une
liste des plus importants comptes rendus de l’Auteur (au moins un se trouve dans
les articles hors recueils [p. 24]: Du patrimoine de Saint-Pierre à l’État pontifical,
d’après un ouvrage récent…1982). Les recensions critiques permettent parfois de
mieux comprendre certaines prises de position, entre autres lorsque celles-ci ne
font pas l’unanimité (par exemple, l’Auteur a été convaincu par les propositions de
Wilhelm Maria Peitz en matière d’archives pontificales antiques – Les sources du
droit de l’Église du IIe au VIIe siècle…1985 [cf. p. 12], p. 60, n. 6 –, un choix qui
s’explique en partie par son appréciation de l’ouvrage posthume du jésuite dans la
Revue d’histoire ecclésiastique, 57 [1962], p. 549-555).
En ce qui concerne le recueil d’articles lui-même, il est divisé en deux grandes
parties dont le titre respectif (Sources – Formation du droit [p. 39-232] et Gouvernement de l’Église [p. 233-442]) s’inspire de concepts si chers à l’Auteur que
ceux-ci reviennent plus d’une fois en tête de ses ouvrages (non seulement dans
l’intitulé du présent volume, mais aussi: La formation du droit séculier et du droit de
l’Église aux IVe et Ve siècles...1re éd., 1957...2e éd., 1979; Le gouvernement de l’Église
à l’époque classique...1979; Les sources du droit de l’Église en Occident du IIe au
VIIe siècle...1985; Les sources du droit canonique, VIIIe-XXe siècle...1993; et, parmi
les recueils d’articles, La formation du droit canonique médiéval...1980 [cf. p. 12]).
1_2011.indd 310
28-06-2011 12:12:24
Recensioni
311
La disposition des articles dans chacune de deux sections est plus ou moins chronologique, non pas en fonction de l’année de publication, mais suivant la période
traitée. L’ensemble n’ayant pas été modifié – ce «qui n’aurait été que détérioration
du travail accompli» selon la fille de l’Auteur (p. 6) –, il ne serait pas ici pertinent
de porter un regard critique sur des études qui ont été maintes fois lues et relues,
citées et utilisées, éprouvées et mises à l’épreuve. Il semble en effet préférable, pour
ne pas dire plus utile, de décrire en quelques mots le contenu de chacun des articles
de manière à aider le lecteur à s’y retrouver plus facilement plutôt que de tenter
d’orienter sa propre lecture.
La première partie comporte huit articles qui s’intéressent aux sources du droit
canonique et/ou à son développement, sur une période allant du IIe siècle ap. J.C. jusqu’à la Révolution française. Les deux premiers articles ne concernent que
l’Antiquité. 1. L’apport du droit romain à la patristique latine du IVe siècle (p. 41-54)
a été composé suite à une intervention au congrès de la Commission international
d’histoire ecclésiastique comparée qui s’est tenu à Varsovie en 1978 et dont les actes
furent publiés en 1983 (Miscellanea historiae ecclesiasticae VI, I = Bibliothèque
de la Revue d’histoire ecclésiastique, 67). L’étude résume en partie Le droit romain
dans la littérature chrétienne occidentale du IIIe au Ve siècle (1978 [cf. p. 12]), en
donnant quelques exemples, principalement tirés d’Ambroise de Milan et de l’Ambrosiaster (l’article fait donc suite à Droit séculier et droit de l’Église chez Ambroise...1976 [cf. p. 24]), de l’utilisation du vocabulaire juridique et de certains textes
législatifs par les Pères du IVe siècle, des critiques qu’ils ont formulées à l’encontre
du droit romain ainsi que de l’apport de celui-ci à la construction dogmatique et à
la réglementation disciplinaire. 2. La place de la tradition dans les sources canoniques (IIe-Ve siècle) (p. 55-68) provient aussi d’un exposé donné dans le cadre d’un
colloque, cette fois-ci réuni à Rome en 1989 et publié l’année suivante sous les
auspices de l’Istituto patristico «Augustianum» (La tradizione: forme e modi = Studia
ephemeridis «Augustinianum», 31). L’Auteur y évalue l’importance des notions de
«coutume» et de «tradition» (il faut ainsi mettre ce travail en lien avec La coutume
en droit canonique...1988[...1990] [cf. p. 18 et 25]) chez les chrétiens de l’Antiquité,
depuis la Didachè/Doctrine des douze Apôtres jusqu’à Gélase Ier – malgré le titre,
le Ve siècle n’est toutefois pas vraiment abordé –, à travers les textes canonicoliturgiques, patristiques et conciliaires.
Les autres études de cette même partie sur les sources et la formation du droit
canonique sont présentées par les éditeurs du recueil comme consacrées au Moyen
Âge et à l’Ancien Régime (p. 7), cela même si certaines s’intéressent aussi à la période antique. C’est particulièrement le cas pour 3. La Bible dans les conciles (IVe-VIIe
siècle) (p. 69-92), un article qui est tiré du deuxième tome de la collection «Bible
de tous les temps» paru en 1985 (Le monde latin antique et la Bible) et qui propose
une analyse à la fois quantitative et qualitative des citations bibliques dans les documents synodaux, surtout les canons, entre le début du IVe siècle et le concile de
Tolède IV (633). En réalité, la matière du VIIe siècle est bien trop mince pour que
l’on puisse en tirer des conclusions propres à cette époque (sur 39 conciles dans
lesquels l’Auteur relève des références bibliques, seulement trois – ceux tenus à
Auxerre [et non à Autun] en 561/605, à Séville [II] en 619 et à Tolède [IV] en 633 –
appartiennent ou peuvent appartenir aux années 600 [cf. p. 90-92; N.B. À la p. 90,
1_2011.indd 311
28-06-2011 12:12:25
312
Cr St 32 (2011)
il faut placer les Canones in causa Apiarii en 419, au lieu de 416]). 4. La Bible dans
les collections canoniques (p. 93-137), provenant du quatrième tome de la même
collection publié en 1984 (Le Moyen Âge et la Bible), est intimement liée à l’étude
précédente (d’ailleurs, toutes deux ne sont pas sans rapport avec Sagesse biblique
et droit canonique...1991...1992 [cf. p. 18]). Ici, l’enquête porte sur les corpus de
règles canonico-liturgiques ainsi que sur les collections canoniques, depuis celles de
Denys le Petit jusqu’à la Concordia discordantium canonum. Un tableau placé en fin
d’article (p. 136-137) relève le nombre de références bibliques dans sept des compilations analysées: la Didachè, la Tradition apostolique, la Didascalie (ou Didascalia,
plutôt que Didascalis), l’Hibernensis, les Faux capitulaires de (Pseudo-)Benoît le
Lévite, les fausses décrétales de la Pseudo-Isidoriana et le Décret de Gratien.
Si 5. Le droit romain dans la Collectio canonum du cardinal Deusdedit (p. 139150) et 6. L’héritage de Grégoire le Grand chez les canonistes médiévaux (p. 151-170)
portent uniquement sur des collections canoniques médiévales, ces articles s’intéressent tout de même à la réception de sources anciennes par les compilateurs. Le
premier, qui provient du numéro 45 (1988) des MSHDB (cf. supra) et qui a déjà fait
l’objet d’une réimpression dans un recueil d’articles de 1994 (La doctrine canonique
médiévale [cf. p. 18]), explique la présence de quelques extraits juridiques romains
non canoniques dans la compilation du cardinal Deusdedit, tout en tentant d’identifier ses sources directes et indirectes (ce travail peut ainsi être lu parallèlement
à d’autres qui concernent aussi la réception du droit romain dans les collections
médiévales, notamment Das römische Recht in Gratians Dekret…1961 [cf. p. 14]).
Quant à l’étude qui traite des fragments grégoriens dans les collections canoniques
depuis l’Hibernensis jusqu’à la Concordia discordantium canonum – à laquelle est
consacrée la moitié de l’article –, elle découle d’une communication donnée dans
le cadre d’un colloque qui s’est tenu à Rome en 1990 sous le patronage de «l’Augustinianum» ainsi que de l’École française de Rome et dont les actes parurent un an
plus tard (Gregorio Magno e il suo tempo, II = Studia ephemeridis «Augustinianum»,
34). Il est à noter que cet article fut également repris dans le recueil susmentionné
(cf. p. 19; N.B. D’autres travaux de l’Auteur ont pour objet les sources chrétiennes
antiques des canonistes médiévaux, parmi lesquels L’apport de la patristique latine
au Décret de Gratien en matière de mariage…1954 [cf. p. 20].).
Les deux derniers articles de la première partie sont les seuls à se consacrer spécifiquement à l’évolution – à la formation – du droit canon et non pas à ses sources.
Le monde ancien y tient une place plus marginale que dans les précédents. Tout
au plus, quelques influences antiques y sont sporadiquement mentionnées (cf. par
exemple p. 177-179), tandis que les époques gallo-romaine et mérovingienne sont
très rapidement évoquées dans l’introduction du second des deux (p. 191-192). 7.
L’élaboration du droit canonique en Occident du XIe au XVe siècle (p. 171-190), qui
est paru en 1999 dans un volume en hommage à l’historien du droit Jean-François
Poudret (À cheval entre histoire et droit = Bibliothèque historique vaudoise, 115),
constitue, en quelque sorte, la synthèse d’une partie de Les sources du droit canonique, VIIIe-XXe siècle et d’Église et Cité (1993 et 1994 [cf. p. 12]; N.B. Ce travail n’est
pas non plus sans rapport avec Regards sur l’histoire du droit canonique antérieur
au Décret de Gratien…1985 [cf. p. 17].). Le texte est divisé suivant les siècles concernés, auxquels l’Auteur fait correspondre des périodes spécifiques à l’histoire du
1_2011.indd 312
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
313
droit canonique: nouveau départ au XIe siècle, renaissance au XIIe, âge d’or au XIIIe
et crise aux XIVe et XVe (sans que cela ne soit vraiment en rapport avec cet article,
il est intéressant de noter que les périodes traditionnellement appliquées à l’histoire
du droit ecclésiastique durant l’Antiquité demandent toutes à être réévaluées, en
particulier la fameuse «Renaissance gélasienne», qui trouve ses fondements dans
l’hypothétique influence de Gélase Ier sur l’entreprise canonique de Denys le Petit,
cela alors qu’aucune source n’abonde formellement en ce sens [cf. p. 281, n. 1]). 8.
Le droit canonique en France des origines à 1789 (p. 191-232), qui s’inspire d’une
intervention au colloque organisé en 1995 à l’occasion du centenaire de la Faculté
de droit canonique de l’Institut catholique de Paris et dont les actes furent publiés
au cours de l’année qui suivit (numéro 38 [1995/6] de L’année canonique), résume
l’histoire du droit canonique en France jusqu’en 1789, principalement à partir de
la Réforme grégorienne (la question des «origines» n’étant pas vraiment traitée, ce
travail peut notamment être complété par les introductions des traductions de textes
conciliaires antiques de l’Auteur publiés par l’Auteur [cf. p. 12] ainsi que par La
législation des conciles gaulois du IVe siècle…1968 [cf. p. 24]).
La seconde partie du présent recueil est composée de dix articles consacrés
aux institutions et à l’organisation ecclésiastiques du IIe au XXe siècle, les époques
modernes et contemporaines n’étant abordées que très rapidement dans la toute
dernière contribution. Les quatre premiers concernent l’Antiquité et les autres s’intéressent au Moyen Âge selon la division créée par les éditeurs (p. 8). 9. Pontifex (p.
235-251), qui provient de mélanges publiés en 2003 en l’honneur du latiniste Carl
Deroux (Hommages à Carl Deroux, IV = Latomus, 277) – il s’agit donc d’un travail
posthume –, initie cette nouvelle série en expliquant, grâce aux sources antiques
et médiévales, l’origine ainsi que la signification du titre de pontifex appliqué à
l’évêque de Rome (* Voilà un petit texte qu’auraient dû consulter les deux réalisateurs d’une série télévisée sur l'histoire du christianisme antique, qui a été quelque
peu controversée. Cf. J.-M. Salamito, Les chevaliers de l’Apocalypse. Réponse à MM.
Prieur et Mordillat, Paris 2009, p. 45).
Les travaux dix et onze portent sur la seule Antiquité. 10. Constitutions constantiniennes destinées à l’Afrique (p. 253-272) a été composé à l’occasion d’une table
à ronde réunie à Paris en 1989 autour de l’œuvre de l’historien de Rome André
Chastagnol et publiée en 1992 (Institutions, société et vie politique dans l’Empire
romain au IVe siècle ap. J.-C. = Collection de l’École française de Rome, 159).
L’Auteur y étudie les textes législatifs de Constantin Ier qui sont spécifiquement
adressés à l’Afrique, son analyse se concentrant sur les destinataires ainsi que sur les
thèmes abordés (la liste complète des constitutions est donnée à la p. 272). L’article
se distingue des autres, car il n’a pas pour objet principal les affaires ecclésiastiques
(sur ce point précis, il peut entre autres être complété par La législation religieuse
de Constantin…1947 [cf. p. 16]). En ce qui concerne 11. Les regards du pouvoir
sur l’épiscopat à l’époque théodosienne (p. 273-280), il est tiré d’une conférence
donnée dans le cadre d’un colloque qui s’est tenu à Rome en 1996, encore une fois
sous les auspices de «l’Augustinianum», et dont les actes parurent en 1997 (Vescovi
e pastori in epoca teodosiana = Studia ephemeridis «Augustinianum», 58). Dans ce
travail, l’Auteur réfléchit sur la douzaine de constitutions impériales de Théodose Ier dans lesquels il est question des évêques et/ou de la fonction épiscopale (il
1_2011.indd 313
28-06-2011 12:12:25
314
Cr St 32 (2011)
peut notamment être lu en parallèle de certains chapitres de L’Église dans l’Empire
romain (IVe-Ve siècle)…1958…2e éd., 1990 [cf. p. 11] et de Les relations entre le
pouvoir politique et les communautés chrétiennes d’après le Code théodosien…1981
[cf. p. 16]).
Chevauchant deux périodes, 12. Aux origines de la Libertas Ecclesiae dans la
Rome symmaquienne (p. 281-292) provient d’un recueil en hommage au médiéviste
Georges Duby datant de 1992 (Histoire et société, III). Il est consacré au problème
de la sauvegarde de l’indépendance de l’Église face aux pouvoirs politiques durant
le Schisme laurentien (498-507) ainsi qu’à la réception des sources symmaquiennes
(du pape Symmaque et non du sénateur païen homonyme), y compris les apocryphes,
dans les collections canoniques médiévales, comme arguments de défense du concept
de Libertas Ecclesiae (* Parce que cette étude de Jean Gaudemet rend adéquatement
compte de décisions du synode romain de 501 – et non de 502, comme l'a démontré
Eckhard Wirbelauer – [cf. p. 283, n. 8 et p. 286-288], qui ont été involontairement
mal présentées dans mon article sur les patrimoines ecclésiastiques romains [Les patrimoines de l’Église romaine jusqu’à la mort de Grégoire le Grand. Dépouillement et
réflexions préliminaires à une étude sur le rôle temporel des évêques de Rome durant
l’Antiquité la plus tardive, in Antiquité tardive, 14 (2006), p. 79-93], je me permets de
corriger à la jonction des p. 84 et 85 de ce dernier: «[…] de rendre canonique une
partie des mesures civiles qui avaient été autrefois dictées par le préfet du prétoire Basilius, cela après avoir pris soin de condamner l’intégralité de son ordonnance, entre
autres pour nier aux laïcs tout pouvoir juridique sur l’évêque romain et sur son siège33. Faisant d’une pierre deux coups, la réitération de l’interdit d’aliénation proclamé
par ce texte composé sous Odoacre, permettait également à […]». La n. 59 de la p. 88
du même travail pose aussi quelques problèmes sur lesquels il n’est pas pertinent de
revenir ici. Disons seulement que Gian Domenico Mansi n’est pas l’auteur de l’editio
princeps de la lettre de Vigile concernée.).
Également consacré à la papauté, 13. La primauté pontificale dans les collections canoniques grégoriennes (p. 293-323) est paru en 1994 dans des mélanges en
l’honneur l’historien de l’Église Luigi Prosdocimi (Cristianità ed Europa, I). Dans
cet article, qui constitue plus un dépouillement préliminaire qu’une véritable étude
sur la primauté de l’évêque de Rome à travers les compilations du XIe siècle – le
sujet est vraiment trop ample pour tenir en si peu de pages –, l’Auteur établit la
liste des collections et des textes nécessaires à un tel travail, tout en proposant les
principales pistes de recherche ainsi que quelques conclusions partielles (d’autres
études de l’Auteur portent sur la primauté romaine dans les collections canoniques,
dont: Collections canoniques et primauté pontificale…1966 [cf. p. 15]; La primauté
romaine vue par Yves de Chartres…1991; et La primauté pontificale dans le Décret
de Gratien [cf. p. 19]). 14. Ubi papa, ibi Roma ? (p. 325-337), quant à lui, provient
des actes d’un séminaire international organisé en 1985 par l’Università degli studi
di Roma «La Sapienza» (Roma fuori di Roma: Istituzioni e immagini = Da Roma alla
Terza Roma. Documenti e studi. Studi, 5). Ce travail s’interroge sur les différentes
perceptions de l’errance des souverains pontifes, juste avant et pendant l’expérience
avignonnaise, afin d’établir s’ils ont réussi, avec l’aide des canonistes et des théologiens «officiels» du moment, à imposer l’idée que «là où est le pape, là est Rome».
D’un tout autre ordre, 15. Le droit au service de la pastorale (p. 339-349),
1_2011.indd 314
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
315
qui est d’abord paru dans un volume de 1994 en hommage au médiéviste Cinzio Violante (Società, istituzioni, spiritualità = Collectanea [Centro italiano di studi
sull’Alto Medioevo], 1), tente d’identifier la principale source d’inspiration civile du
dix-septième canon de Chalcédoine, concernant les conditions du rattachement des
églises rurales à une province épiscopale, avant de se concentrer sur sa réception
jusqu’au Décret de Gratien. En ce sens, ce travail aurait pu parfaitement trouver sa
place dans la première partie.
Les quatre contributions suivantes traitent toutes de l’institution épiscopale
médiévale à différents moments entre le XIe et le XIVe siècle, formant ainsi la partie la plus homogène du recueil. 16. À propos de l’épiscopat médiéval (XIIe-XIIIe
siècles) (p. 351-367) est tiré du numéro 27 (1996) des Studia Gratiana qui rassemble des études en l’honneur du canoniste Rudolf Weigang. L’Auteur y dresse
un tableau général de l’épiscopat à l’époque concernée – notons que le Xe et le XIe
siècle sont plus d’une fois mentionnés –, par l’identification des conditions d’accès
à la charge, du statut du détenteur de celle-ci ainsi que de ses fonctions et de ses
obligations en matière juridique. 17. Recherches sur l’épiscopat médiéval en France
(p. 369-384), qui parut en 1965 dans les actes du Congrès international de droit
canonique médiéval rassemblé à Boston deux ans plus tôt (Proceeding of the Second
International Congress of Medieval Canon Law = Monumenta juris canonici. Series C: Subsidia, 1), aborde, d’une part, les milieux d’extractions des évêques dans
les principaux diocèses de France entre le XIIe et le XIVe siècle ainsi que, d’autre
part, le lien de cause à effet avec les transferts de siège que l’on connaît pour cette
période. 18. De l’élection à la nomination des évêques: changement de procédure et
conséquences pastorales. L’exemple français (XIIIe-XIVe siècles) (p. 385-400) résulte
d’une intervention à un symposium de la Pontificia Università Lateranense, qui
s’est tenu en 1995 et dont les actes ont été publiés en 1996 (Il processo di designazione dei vescovi. Storia, legislazione, prassi = Utrumque jus, 27). L’article reprend
la matière du précédent, en développant davantage les XIIIe et XIVe siècles et en
mettant l’emphase sur les causes et les conséquences des modifications qui furent
alors opérées dans le mode de désignation des évêques (beaucoup de publications
de l’Auteur s’intéressent à cette question au Moyen Âge, dont: La participation de la
communauté au choix de ses pasteurs dans l’Église latine. Esquisse historique…1974
[cf. p. 15]; L’élection épiscopale d’après les canonistes de la deuxième moitié du XIIe
siècle…1974 [cf. p. 17]; et Les élections dans l’Église latine des origines au XVIe
siècle…1979 [cf. p. 12]). 19. L’évêque dans la cité en France (XIe-XIVe siècle) (p.
401-420), qui provient lui aussi des Studia Gratiana, plus précisément du numéro
28 (1998) en hommage au canoniste Antonio García y García, propose une vue
d’ensemble du statut des évêques français dans leur cité, des moyens financiers dont
ils pouvaient disposer ainsi que des rôles social et politique qu’ils pouvaient jouer.
Parce que 20. Aspect synodal de l’organisation du diocèse; esquisse historique
(p. 421-442) est l’élément le plus difficilement trouvable en bibliothèque de tout
le recueil, il en constitue la perle. Ce travail fut publié en 1989 dans un volume
dactylographié qui rassemble des conférences données l’année précédente dans le
cadre d’une session de droit canonique à l’Institut catholique de Paris (Le synode diocésain dans l’histoire et le code). Il rend compte de l’importance des synodes diocésains dans l’histoire des provinces épiscopales, autant à l’époque de leur
1_2011.indd 315
28-06-2011 12:12:25
316
Cr St 32 (2011)
formation, que par la suite, pour le maintien de leur cohésion, soit depuis le IIe
siècle jusqu’à aujourd’hui (ce travail n’est donc pas sans rapport avec la quinzième
contribution; N.B. Une fois n’est pas coutume, mais il ne faut surtout pas suivre
l’exemple de l’Auteur qui cite ici la lettre CXI de Léon le Grand à Marcien [et non
pas à Maurice !] dans l’édition de la Collectio Pseudo-Isidoriana [d’où l’Ep. 35] par
Jacques Merlin [cf. p. 421, n. 2], alors qu’il ne cherche pas à renvoyer à la recension
pseudo-isidorienne du document.).
Devant une telle somme de connaissances et d’érudition, on ne peut être
qu’admiratif de l’œuvre laissée par l’Auteur. Il faut remercier grandement les éditeurs pour cet ouvrage beaucoup plus accessible à tout un chacun que certains de
ses onéreux prédécesseurs. On aurait toutefois aimé que la pagination originelle
ait été indiquée d’une quelconque manière. On se demande aussi pourquoi deux
articles ont été ici reproduits alors qu’on les trouvait déjà dans des recueils précédents. Pourtant, la bibliographie parle d’elle-même: les études qui n’ont pas fait
l’objet de reprises sont encore très nombreuses et elles ne sont pas toutes facilement accessibles (par exemple Zasada nierozerwalności małżeństwa od początków
chrześcijaństwa do XII wieku…1978 [cf. p. 24; dans Prawo kanoniczne]). On ne
peut ainsi qu’encourager les Presses universitaires de Strasbourg à réitérer l’expérience, y compris pour d’autres sommités qui ont enseigné ou qui enseignent
dans la capitale alsacienne.
Dominic Moreau
Université Paris IV-Sorbonne
Peter Rietbergen, Power and Religion in Baroque Rome. Barberini Cultural
Policies, (Brill’s Studies in Intellectual Hiostory, vol. 135), Brill, LeidenBoston 2006, pp. XI-437
Non c’è dubbio che il pontificato e la Roma di Urbano VIII (1623-1644) siano
stati al centro di recenti, fondamentali studi italiani e stranieri. La politica e la dichiarata neutralità del “padre comune” nella guerra dei Trent’anni, la cerimonialità
e l’elaborazione nella corte di Roma di uno specifico linguaggio politico, l’ascesa
della famiglia Barberini, i potenti e ramificati legami di patronage che permettevano l’affermazione di altre compagini familiari ad essa legate, la cultura e la scienza
nella Roma della prima metà del Seicento, le nuove direttive urbaniane in materia
di santità sono solo alcuni dei molteplici aspetti indagati recentemente che hanno
permesso di approfondire e, in molti casi, di ridisegnare il panorama della Roma
barocca. Anche in questo volume trovano ampio tematiche relative soprattutto alla
1_2011.indd 316
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
317
cultura elaborata nella Roma di Urbano VIII con il preciso intento di sostenere il
potere personale del pontefice e della sua famiglia, ma anche di usare tali strumenti per affermare la potenza del Papato e della Chiesa cattolica nell’Europa e nel
mondo. Cultura, dunque, inscindibilmente intrecciata alla religione e alla politica
(ma poteva non esserlo nel Seicento?), veicolo privilegiato per arrivare al Cielo
esaltando, in terra, a Roma e nel mondo cattolico, la potente supremazia del pontefice. Non sono temi nuovi: Gabriele Paleotti e Agostino Mascardi avevano ben teorizzato questa essenziale funzione dell’arte e della cultura, come ci ricorda l’Autore
(pp. 16-17). Il volume si compone di una introduzione (pp. 1-18) e di un lungo
prologo (pp. 19-60) in cui P. Rietbergen esamina il Diario di Roma scritto da Giacinto Gigli che, in qualità di amministratore civico, annota con finezza le manifestazioni pubbliche della potenza barberiniana che si esprimevano nelle solenni processioni, nelle feste offerte agli ospiti stranieri e alla città stessa non più partecipe,
come nel passato, ma spettatrice dei fasti di una corte che diventa proprio per le sue
cerimonie modello per tutta l’Europa “the first epitome of a European ‘theatre
state’, of a court society that used all forms of culture, including, inevitably, the rules
that governed individual behaviour, as instruments to establish and enhance power” (p. 378), come sottolinea di nuovo l’Autore a conclusione del libro. Il corpo del
volume è costituito da otto capitoli, dedicati all’analisi di case-studies che, in vario
modo, illustrano aspetti e protagonisti della cultura barberiniana. Un lungo epilogo
(pp. 377-425), in cui si riprendono, talvolta con eccessiva insistenza, temi già trattati nelle pagine precedenti, e una breve conclusione (pp. 427-429) chiudono il libro.
Alcuni capitoli ripropongono saggi pubblicati dall’Autore fra il 1984 ed il 1992,
altri sono più recenti, tutti tenuti insieme dall’introduzione e dal lungo epilogo,
quasi a giustificare l’assemblaggio di parti non sempre omogenee, sia dal punto di
vista tematico, narrativo e stilistico. I temi, vari e, certo, di grande interesse, sono
tutti affrontati nell’ottica che mira a cogliere il rapporto cultura-potere. Il primo
capitolo è dedicato alla costruzione, voluta da Maffeo Barberini, della cappella di
famiglia in Sant’Andrea della Valle, chiesa dei Teatini, situata sulla Via Papalis,
lungo la quale si snodava la solenne processione del Possesso che conduceva il neoeletto pontefice dal Vaticano a S. Giovanni in Laterano. La costruzione, il progetto
e la realizzazione iconografica sembra voler anticipare la gloria dell’elezione pontificia che verrà pochi anni dopo. L’Autore ripercorre anche le tappe dell’affermazione della famiglia Barberini che, antimedicea e impegnata nei traffici e nella mercatura, troverà, come altre compagini fiorentine, un percorso di affermazione
definitiva a Roma e nella carriera ecclesiastica dei suoi esponenti. Maffeo-Urbano
entra dunque in scena nel primo capitolo di questo libro e rimane il protagonista
nei successivi, quando l’Autore esamina la sua produzione poetica (capitolo secondo), affiancato però, (capitolo 3) dalla figura del cardinal nepote Francesco Barberini ‘moderno’ cardinal-padrone, la cui influenza, limitata nel quadro politico europeo durante il pontificato urbaniano, ebbe invece uno straordinario rilievo sia
nell’amministrazione dei domini temporali pontifici sia nel dirigere la politica culturale e artistica. Nei capitoli successivi l’attenzione si sposta infatti su alcuni personaggi che furono al centro del patronage barberiniano e dettero un’impronta decisiva ad alcune fondanti istituzioni: Lucas Holstenio e i suoi molteplici progetti, la
sua corrispondenza con l’Europa delle lettere, la sua raccolta di manoscritti e, infi-
1_2011.indd 317
28-06-2011 12:12:25
318
Cr St 32 (2011)
ne, il suo ruolo di bibliotecario della Vaticana nei pontificati successivi (capitolo 6);
il libanese cristiano maronita Ibrahim-al-Hakilani (conosciuto poi in Europa come
Abraham Ecchellense) anch’egli protetto dal cardinale Francesco e incaricato di
restaurare, potenziare e diffondere la supremazia della chiesa di Roma nel Mediterraneo anche attraverso gli studi orientali, le raccolte di manoscritti arabi e siriaci
conservati nella Biblioteca Vaticana. (capitolo 7). Alla funzione politica del linguaggio cerimoniale è dedicato il capitolo 4 che descrive accuratamente la visita a Roma
del principe di Ecchenberg nel 1638 per ottenere il riconoscimento pontificio
dell’avvenuta elezione di Ferdinando d’Asburgo a re dei Romani e i problemi suscitati dalla mancata solenne accoglienza da parte di Urbano VIII, problemi risolti
successivamente con l’offerta di un sontuoso banchetto. Se il cibo, come ogni gesto,
precedenza, abito e colore si caricano di un particolare significato nel linguaggio
cerimoniale analizzato con precisione in queste pagine, non vengono qui sottolineate le motivazioni politiche della tiepida accoglienza del principe, in un tournant
difficile della guerra dei Trent’anni che non sempre aveva visto concordi Urbano
VIII e l’imperatore. Il capitolo 5 prende in esame le più profonde implicazioni sottese ad un tema iconografico: la rappresentazione della figura di Sant’Agostino con
i sandali ai piedi o scalzo non si limita infatti ad una mera disputa iconografica ma
riflette una conflittualità interna all’ordine nel corso del XVII secolo. La posizione
di Urbano VIII è, in questo caso, incerta, il conflitto messo temporaneamente da
parte e la risoluzione demandata ai suoi successori. Affari che coinvolgono la persona del papa, usi di magia, dispute sull’astrologia, oroscopi sono al centro del capitolo 8 che illustra sia la vicenda dell’abate di Santa Prassede Orazio Morandi, autore
di un oroscopo che prevedeva la morte del papa, sia quella più intricata di Giacinto
Centini che, servendosi di pratiche negromantiche, voleva procurare la morte di
Urbano VIII, assicurato da alcuni suoi complici che sarebbe poi stato eletto papa
suo zio, il cardinale Felice Centini. Finiti i protagonisti ovviamente davanti alla
forca, le vicende scatenarono una reazione contro l’astrologia che, in parte riprendeva quanto già emanato da Sisto V con la bolla Coeli et terrae, ma si collocavano
in un contesto culturale ben diverso. Inoltre, sottolinea Rietbergen, erano esponenti di antichi ordini religiosi, Agostiniani e Francescani, i protagonisti di questi casi
di magia. Meno istruiti dei nuovi ordini, come Oratoriani e Gesuiti, “must have reacted by turning to such means of power as black magic through astrology and
witchcraft in order to retain their position, their power” (p. 366). Le ricerche presentate in questo ricco volume mostrano la ricchezza delle fonti esaminate dall’Autore: i codici barberiniani e l’archivio Barberini della Biblioteca Apostolica Vaticana. Tuttavia non può che sorprendere la povertà, anzi l’assenza totale di riferimenti
bibliografici a studi recenti sui temi trattati. Le opere citate in nota, poche, in verità,
sono obsolete, spesso espressione di una storiografia che considerava l’età barocca
come il periodo buio della storia italiana e ancor più della Roma ‘papalina’ (non
papale, attenzione!). Se è certo utile per gli studiosi presentare una raccolta saggi
pubblicati in passato, spesso in volumi o riviste poco accessibili, sarebbe stato certo
più utile, in questo caso, corredare il libro di un aggiornamento bibliografico: non
sarebbero mancati i titoli da inserire, italiani e stranieri. Spiacciono in questo volume i numerosi errori tipografici e le imprecisioni nelle citazioni di nomi di luoghi e
personaggi. Inoltre, un libro che insiste soprattutto sul valore e il significato politico
1_2011.indd 318
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
319
e culturale del messaggio artistico e iconografico appare fortemente depauperato
dalla assoluta assenza di immagini.
Irene Fosi
Università “G.d’Annunzio” Chieti-Pescara
Gerardo del Pozo Abejón, La Iglesia y la libertad religiosa, Biblioteca de
Autores Cristianos, Madrid 2007, pp. xxxii-270
Cuando Johan B. Metz dirigió en la universidad de Münster la tesis de Antonio
Murcia Santos sobre Obreros y obispos en el franquismo (publicada por Ediciones
HOAC, Madrid 1995), aunque conocía las repercusiones políticas que el Vaticano
II entrañaba, quedó atónito al ver el estallido de violencia que provocó en el catolicismo español, y no ya entre clericales y anticlericales, sino particularmente en las
relaciones entre la jerarquía eclesiástica y los movimientos obreros católicos. Probablemente no hubo ningún país donde el impacto político del Concilio fuera tan considerable: el Estado, durante y después de la guerra civil 1936-1939, había manipulado la religión, y ahora la religión se revolvía contra el Estado como un boomerang.
No fue, pues, en España, la libertad religiosa una cuestión meramente académica
o una discusión teológica bizantina. Poco después de concluido el Vaticano II, un
párroco me pidió que explicara a sus feligreses el decreto sobre la libertad religiosa,
porque algunos habían entendido que ahora ya no era obligatorio ir a misa. España
vivía entonces lo que se ha llamado “nacionalcatolicismo”, con la práctica religiosa
impuesta desde el Estado. Un conocido humorista explicó por aquel entonces lo que
le había ocurrido en los años cuarenta, recién terminada la guerra civil. Era oficial
de complemento, y en el cuartel donde prestaba servicio llegó un nuevo reemplazo
y les tomaban a todos los datos personales: nombre, apellidos, nombre de los padres,
lugar y fecha de nacimiento... y religión. Todos decían “católica”, y se inscribía:
“C.A.R.”, abreviatura de “Católica, Apostólica y Romana”. Hasta que llegó uno que
contestó: “Ninguna”. El escribiente le preguntó si era protestante, y al responderle
negativamente le dijo que había que tener alguna religión. El joven reiteró que no
tenía ninguna. “Pero aquí hay que poner algo”, insistió el escribiente. Entonces dijo:
“Ponga: la actual”. Referí esta anécdota en una conferencia y en el coloquio uno
de los asistentes dijo que a él le había ocurrido algo parecido. Era algo más tarde,
poco después del Concilio, pero el sistema nacionalcatólico seguía aún oficialmente
vigente en España. También él declaró que no tenía ninguna religión, pero el escribiente, para evitar problemas, le dijo: “Si te parece, pondremos “C.A.R.” (que era
1_2011.indd 319
28-06-2011 12:12:25
320
Cr St 32 (2011)
lo que ponían a todos). El recluta preguntó: “Y esto, ¿qué significa?”. El escribiente
contestó: “En tu caso, significará: “Carece de Actividades Religiosas”. Con estas anécdotas no quisiera trivializar el tema de la libertad religiosa, ni menoscabar la seriedad de la obra que presentamos, sino simplemente poner de relieve el arraigo del
problema a nivel del pueblo de Dios. Este estudio, en efecto, es sumamente riguroso
y bien documentado. Baste decir que, además de consultar la oceánica bibliografía
sobre el tema, el autor ha analizado directa y exhaustivamente la fuente principal,
que son las voluminosas Acta Synodalia del Vaticano II.
En unas palabras de presentación, Mons. Gerhard L. Müller, obispo de Ratisbona, recuerda el famoso discurso de Benedicto XVI a la Curia romana el 22 de
diciembre de 2005 sobre las dos interpretaciones que se han dado de los documentos conciliares: la hermenéutica de la discontinuidad y de la ruptura y la de la
renovación en la continuidad, y afirma que el libro del profesor Gerardo del Pozo
es un ejemplo de la hermenéutica de renovación aplicada a la declaración Dignitatis
humanae (en adelante DH) y muestra que las novedades de DH no contradicen la
Tradición, sino que son coherentes con ella (pp. XII-XV).
La obra se estructura en cuatro capítulos. El primero expone la historia de DH,
desde los planteamientos a partir de la Segunda Guerra Mundial, la etapa preparatoria y la complicada elaboración del documento en el debate conciliar hasta los
problemas de la recepción de DH, con especial referencia a España (liquidación
del “nacionalcatolicismo”), Francia (caso de monseñor Lefebvre) y Alemania (autonomía cultural y política de los laicos). Aquí el autor disiente tajantemente de la
explicación de Silvia Scatena en su óptimo estudio La fatica della libertà. L’elaborazione della dichiarazione “Dignitatis Humanae” sulla libertà religiosa del Vaticano
II (Il Mulino, Bologna, 2003) sobre la tensión entre la genuina intención del Concilio y su plasmación incompleta en DH: “S. Scatena acierta cuando sostiene que hay
que interpretar la DH a la luz de la intención de Juan XXIII al convocar e inaugurar
el Concilio y de la renovación teológica contenida en documentos como la LG, la
DV y la GS, o que la DH coincide con todos estos documentos en avanzar hacia una
concepción teológica de la verdad no prioritariamente dogmática. Yerra, en cambio,
cuando tiene en cuenta sólo un polo del programa entero de Juan XXIII”, que había
propuesto al Concilio “transmitir la doctrina [tradicional de la Iglesia] en su pureza
e integridad, sin atenuaciones ni deformaciones”. Según Del Pozo, “la profesión
de fe en la religión verdadera y la única Iglesia de Cristo que subsiste en la Iglesia
católica y en la obligación de todo hombre de buscar la verdad religiosa y de seguir
la verdad encontrada” es algo previo al derecho de todo hombre a la libertad religiosa: “Es la declaración de la libertad religiosa la que tiene que ser interpretada,
enraizada e integrada en la profesión de fe, y no al revés” (pp. 66-70). El cap. II
(que cronológicamente debería haber precedido al cap. I) presenta las condenas de
la libertad religiosa por sucesivos Papas a partir de la Revolución francesa,. El título
del capítulo, “Los papas condenan el sistema de libertad de conciencia y de cultos
derivado de la Declaración Francesa de 1789” es elocuente. Presenta primeramente
el contexto histórico e ideológico de la Declaración de los derechos del hombre y del
ciudadano, con su triple raíz: el iusnaturalismo racionalista e ilustrado, la constitución norteamericana y la intolerancia religiosa del Contrato social de J. J. Rousseau.
Sigue la condena por Pío VI (Quod aliquantum, 1791) de la libertad omnímoda en
1_2011.indd 320
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
321
materia religiosa. Viene después el Mirari vos de Gregorio XVI (1832) que reitera
la condena de la libertad omnímoda de conciencia y de la separación de Iglesia
y Estado. Finalmente Pío IX con la Quanta cura y el Syllabus (1864) reitera las
condenas de sus predecesores y proclama la imposibilidad de reconciliar la Iglesia
con la civilización moderna. Como un contrapeso al capítulo anterior, tan negativo,
en el siguiente capítulo presenta la doctrina de los papas modernos, creadores de la
doctrina social y política de la Iglesia: León XIII (la verdadera libertad de conciencia), Pío XI (libertad de la Iglesia ante el totalitarismo, o mejor los totalitarismos),
Pío XII (que defenderá la “sana laicidad”) y Juan XXIII defendiendo los derechos
del hombre en su trascendental Pacem in terris (1963). Finalmente, en el cap. IV,
“La Iglesia declara en el Vaticano II el derecho universal a la libertad religiosa
civil”, sintetiza la doctrina del Concilio, desde la intención pastoral que presidió
la decisión de Juan XXIII hasta los esfuerzos equilibristas de Pablo VI para su
conclusión y aplicación. Analiza detalladamente el alcance de la libertad religiosa
declarada en DH. El punto de partida fue la aspiración de los hombres de nuestro
tiempo a la libertad religiosa civil e insiste en que el Concilio sacó su formulación
“escrutando la Tradición y doctrina de la Iglesia”, para lo que invoca la doctrina
de DV 8 sobre la Tradición apostólica que crece en la Iglesia. Presta gran atención
a la evolución de la doctrina tradicional sobre las relaciones de la Iglesia con los
poderes públicos y, pensando en el caso de España, insiste en el pasaje de DH sobre
la posibilidad de dar reconocimiento civil especial a una comunidad religiosa en
circunstancias particulares.
“El objetivo de este trabajo – así empieza el autor sus “Conclusiones”, p. 255 –
era explicar las novedades del Vaticano II sobre la libertad religiosa y verificar su
afirmación de que no están en contradicción con la Tradición de la Iglesia, desarrollan la doctrina de los últimos papas sobre los derechos inviolables del hombre y
la organización jurídica de la sociedad, y mantienen íntegra la doctrina tradicional
católica sobre el deber moral de los individuos y sociedades respecto a la religión
verdadera y la única Iglesia de Cristo”. Si éste era el objetivo del autor, el del recensionista será comprobar si se ha logrado aquel objetivo. Las conclusiones finales
constan de dos apartados, algo difíciles de conciliar. En el primero el autor expone
las grandes e innegables novedades de la DH con respecto a la doctrina anterior de
la Iglesia. En el segundo trata de demostrar que estas novedades son coherentes con
el magisterio pontificio anterior. Si la argumentación de la primera es muy sólida,
la segunda no es del todo convincente. Era una tarea muy difícil, o más bien imposible, defender la coherencia o continuidad de DH con el Syllabus. No les faltaba
razón a los cardenales y otros Padres de la minoría conservadora cuando acosaban
a Pablo VI con el argumento, al que él era muy sensible, de que si permitía que se
aprobara DH iría contra el magisterio de sus predecesores. Para el cardenal Ruffini,
en este debate se ventilaba la vera religio. Esgrimieron este argumento de un modo
especialmente enérgico un grupo de obispos españoles, que no sólo pensaban en la
integridad de la fe sino también en el mantenimiento del régimen político de su
país. Un caso emblemático fue el del cardenal Arriba y Castro, arzobispo de Tarragona. Un sacerdote que residía en el Colegio Español pudo oír una curiosa conversación entre los cardenales Arriba Castro y Bueno Monreal. El primero se mostraba
escandalizado porque le parecía que algunos jóvenes obispos españoles profesaban
1_2011.indd 321
28-06-2011 12:12:25
322
Cr St 32 (2011)
opiniones progresistas. El cardenal de Sevilla Bueno Monreal, navarro, famoso por
su sentido del humor, le respondió: “No exageremos, Eminencia. Estos obispos
jóvenes que le preocupan, en el seminario eran muy estudiosos y sacaron las mejores notas, como usted y yo. Eran también muy piadosos, como usted y yo. Después
obtuvieron sus doctorados en la universidad de Comillas o en la Gregoriana con
summa cum laude, como usted y yo. La diferencia es que ellos han continuado
estudiando, y en cambio nosotros, reconozcámoslo, no hemos abierto un libro desde
que terminamos la carrera”. Al conocer el proyecto de DH, Arriba y Castro comentó que era absolutamente imposible que el Espíritu Santo, que inspira los concilios,
permitiera que fuera aprobado, porque era manifiestamente contrario al Magisterio,
pero cuando una votación de tanteo mostró que una gran mayoría de los padres
conciliares lo aceptaban, quedó anonadado. En el autobús, de regreso al Colegio
Español, dijo que si el Concilio lo aprobaba, él también lo aceptaría, “pero esto no
quita que hoy es el día más triste de mi vida”, y aquel día se retiró sin comer. Lo que
se le hundía no era sólo su teología, la de los manuales escolásticos que había estudiado y que tenía por verdad eterna, sino también su idea de España. Otro caso significativo fue el del vasco Antonio Pildain Zapiain, obispo de Canarias. No era
franquista como Arriba y Castro, sino antifalangista, nacionalista moderado y, como
la mayoría de sacerdotes vascos, muy abierto en cuestiones sociales pero tirando a
integrista en los dogmas y tenazmente opuesto a la libertad religiosa. Cuando el
ministro español de Asuntos Exteriores, Castiella, por presiones diplomáticas de
Estados Unidos y Gran Bretaña, preparó una ley que concedía una mínima libertad
de culto a los protestantes, ordenó que en su diócesis los fieles, al final del santo
rosario, añadieran un padrenuestro “para que fracase el proyecto Castiella”. En el
aula vaticano se hizo aplaudir al reclamar que se suprimieran las tarifas de los servicios ministeriales, que por ejemplo graduaban en los entierros el número de sacerdotes según el precio. Pero al debatirse la libertad religiosa clamó patéticamente:
“Ruat cupula sancti Petri super nos, caiga la cúpula de san Pedro sobre nosotros
antes que aprobemos este documento!”. Cuando se aprobó, la cúpula no cayó, pero
otro obispo vasco, Cirarda, refiere que encontró a Pildain llorando desconsoladamente en la capilla del Colegio Español. El embajador español ante el Vaticano, que
tenía confidentes entre los obispos de su país, aseguraba que, contra lo que se decía
en algunos medios, no eran ellos los más opuestos a la libertad religiosa, sino los
italianos; los españoles estaban divididos, como se manifestó en una tumultuosa
reunión en el Colegio Español. Pero esta minoría española era muy tenaz. Ante lo
ocurrido en la llamada “semana negra”, cuando al final de la tercera sesión la anunciada votación de DH fue a última hora aplazada hasta la cuarta, informaba el 25
de noviembre de 1964 al ministro de Asuntos Exteriores: “En cuanto a la posición
de los [obispos] españoles, puedo asegurar a V.E. que sólo una minoría de ellos
(poco más de veinte) se adhirieron a la manobra iniciada por algún representante
de la Curia para aplazar la votación de la libertad religiosa”. En 1965, después de
aquella votación indicativa sobre la libertad religiosa, pocos días antes de la aprobación definitiva de la declaración Dignitatis humanae, este grupito de obispos
españoles dirigió un escrito extenso y apasionado a Pablo VI pidiéndole que interviniera con su autoridad suprema para impedir que se pusiera a votación aquel
documento. Le decían que ellos, hasta el último momento y en contra de la opinión
1_2011.indd 322
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
323
dominante en el Concilio, se habían mantenido tenazmente fieles a la tesis católica
tradicional porque era la que la Santa Sede siempre les había ordenado defender.
Añadían que, en España, romper aquella línea doctrinal sería motivo de escándalo:
“Si éste [el decreto DH] prospera en el sentido en que ha sido hasta ahora orientado [y no como una concesión por oportunidad política], al terminar las tareas conciliares los obispos españoles volveremos a nuestras sedes como desautorizados por
el concilio y con la autoridad mermada ante los fieles [...]. Todo esto, Beatísimo
Padre, nos duele y nos preocupa: lo decimos con sinceridad y sencillez. Pero no nos
arrepentimos de haber seguido ese camino. Preferimos habernos equivocado siguiendo los senderos que nos señalaban los Papas que haber acertado por otros
derroteros.” Pero no dejaban de formular una amenaza de tipo político, aludiendo a
que ellos, los obispos, acatarían DH, pero los gobernantes españoles tal vez tendrían
una reacción negativa: “No podemos asegurar, en cambio, con tanta firmeza que esa
misma sea la reacción de todos los católicos españoles, sobre todo de algunos de los
que han dedicado sus mejores esfuerzos a los asuntos públicos. Estarán más o menos acertados en sus posturas acerca de problemas siempre contingentes, pero es
indudable que en momentos en que la profesión de la fe católica exigía heroísmos,
no vacilaron en mantener una actitud de constante defensa de la Iglesia. Ellos saben
perfectamente que la orientación del Estado en lo relacionado con las materias que
ahora se discuten fue exigencia de la Santa Sede; saben también que la fidelidad a
esas directrices ha costado a España incomprensiones y animosidades internacionales y daños perceptibles incluso de orden material. El habérsele negado muchas
ayudas económicas exteriores, precisamente en el momento en que su economía
quebrantada por la guerra las necesitaba con urgencia, tuvo ésta como una de sus
causas más decisivas [...]. Mucho es de temer que si ven que se condena doctrinalmente por el concilio una actitud y una norma de conducta que les fue impuesta por
la Iglesia, se produzcan hondos sentimientos de desconfianza y hasta acaso de resentimiento contra la Sede Apostólica, que no superarán fácilmente en algunos sectores”. Pablo VI no vetó el documento y fue promulgado, pero el mismo 8 de diciembre de 1965 en que se clausuró el Concilio, el episcopado español hizo pública
una declaración colectiva en la que decían que aunque algunos de ellos querían que
se mantuviera la doctrina tradicional, aceptaban todos el documento promulgado,
pero añadían que España era un caso especial y no había que cambiar nada: “Por
eso la libertad [religiosa] no se opone ni a la confesionalidad del Estado ni a la
unidad religiosa de una nación”. William J. Callahan, en su excelente obra La Iglesia católica en España (1875-2002) (Crítica, Barcelona, 2002), concluye que “hasta
1969, los veteranos miembros de la jerarquía [española] intentaron responder a las
exigencias del concilio Vaticano tratando de preservar, al mismo tiempo, todo
aquello que pudieran salvar de la privilegiada relación que la Iglesia mantenía con
el régimen”. Termina su obra con esta casi profecía: “En el futuro es posible que la
Iglesia tenga que abandonar el viejo sueño de una España católica en favor de una
estrategia más limitada destinada a fortalecer su influencia religiosa sobre aquellos
grupos selectos de la población en los que sus esfuerzos evangelizadores tengan algunas probabilidades de éxito” (p. 500).
Al lado de la cuestión doctrinal, de si DH rompía con el magisterio supuestamente irreformable, se debatía, en el aula conciliar y fuera de ella, una cuestión de
1_2011.indd 323
28-06-2011 12:12:25
324
Cr St 32 (2011)
conveniencia pastoral. Mons. Geraldo de Proença Sigaud, arzobispo de Diamantina (Brasil), alma del ultraconservador Coetus Internationalis Patrum, se declaraba
convencido de que en un régimen político de cristiandad, o sea con un estado
confesional, a Dios le resulta mucho más fácil salvar las almas: in societate revolutionaria (así calificaba él a la democracia) Deus animas piscat hamo (de una en
una); in societate christiana (estado confesional) piscat rete (masivamente). Con más
elegancia, pero en el fondo con igual criterio, Jean Daniélou, en su libro L’oraison,
problème politique (Paris 1965), polemizando con el P. Jossua, sostenía que los
fuertes, como el P. Jossua, podrían mantenerse fieles incluso en un clima político
adverso, pero a muchos pobres cristianos no les basta con tener libertad religiosa,
sino que necesitan que el estado los sostenga apartándolos del mal camino y empujándoles en la buena dirección.
Ya dijimos al principio, en elogio del presente libro, el minucioso estudio que el
autor ha realizado sobre la fuente principal, que son las Actas oficiales del Concilio.
Pero aquí, de modo muy especial al tratar de DH, es donde se aprecia la utilidad del
método empleado en la Storia del Concilio Vaticano II dirigida por el prof. Giuseppe
Alberigo (Peeters/il Mulino, 1995-2001), que completa la documentación oficial con
las memorias, diarios y correspondencia de los padres conciliares, peritos y otras personas, con lo que se puede reconstruir no sólo la génesis de los documentos sino la
historia del acontecimiento conciliar. Nuestro autor, que traza con gran detalle la historia y contenido de los documentos pontificios del siglo XIX, refiere la elaboración
de DH muy sucintamente, con escasas referencias a lo que ocurrió al margen del aula.
Consecuente con su intento de afirmar tanto la novedad como la continuidad de DH,
el autor insiste repetidamente en que el Concilio no sacó la doctrina de la libertad religiosa de la Declaración de los derechos del hombre de la asamblea francesa de 1789
ni de la Declaración universal de las Naciones Unidas de 1948, sino de sus propias
fuentes normativas: la Sagrada Escritura y la teología tradicional. Los ponentes del
proyecto conciliar apelaban a esta doble fuente, por encima del magisterio pontificio
decimonónico y de los rancios manuales de teología preconciliares, pero es evidente
que sin el impacto de aquellas dos declaraciones, y de una convicción general en la
misma línea que alcanzaba aun a los creyentes (piénsese especialmente en los obispos
norteamericanos, que necesitaban demostrar a la opinión pública de su país que la
Iglesia católica no se opone a la libertad religiosa que la constitución americana proclama tan firmemente) difícilmente se habría llegado a la declaración conciliar. Sería
más exacto admitir sin ambages la ruptura, e incluso una doble ruptura: la doctrina
preconciliar opuesta a la libertad religiosa entrañaba una ruptura con la Sagrada Escritura y con los Padres de la Iglesia y la mejor escolástica, y DH supuso una ruptura
con el magisterio inmediatamente anterior.
Hilari Raguer
Universitat de Barcelona
1_2011.indd 324
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
325
El modernismo a la vuelta de un siglo, ed. Santiago Casas, EUNSA, Pamplona 2008, pp. 316
Sulla copertina del libro campeggia la vignetta pubblicata nel 1922 dal disegnatore evangelico americano Ernest James Pace, raffigurante “the descent of the
modernists” sulla scalinata che dal cristianesimo porta all’ateismo, attraverso i gradini della non infallibilità biblica, dell’asserita dissomiglianza fra l’uomo e Dio, della
negazione di miracoli, nascita virginale, divinità di Gesù, redenzione, resurrezione
e dell’agnosticismo.
Pubblicato per le edizioni dell’Università di Navarra, il volume raccoglie i frutti
della già avviata (cfr. p. 9) attività del curatore, lo storico Santiago Casas e del filosofo Cesar Izquierdo, noto specialista a livello internazionale del pensiero blondeliano
– entrambi in forza all’Università di Pamplona –, che al loro lavoro hanno associato
altri due docenti della casa, lo storico Josep-Ignasi Sarayana e l’esegeta Juan Luis
Caballero, mons. Emmanuel Cabello, alcuni noti cultori del modernismo – i francesi Montagnes e Bedouelle, l’italiano Marangon –, un patrologo di Bonn, Ernst
Dassmann, raccogliendo infine un testo poco noto di Xavier Zubiri e quello di un
discorso ufficiale del cardinal Joseph Ratzinger. Nonostante il carattere composito,
i contributi forniti al volume dagli autori ispanici, impostati secondo un punto di
vista assai omogeneo (con qualche significativo distinguo da segnalare per il testo
di Cabello), conferiscono sostanziale organicità a un’opera che fra tutti gli ambiti in
cui il modernismo religioso si manifestò trascura soltanto – senza però dimenticarlo – lo spazio socio-culturale anglo-sassone. Nel dare quindi conto delle specificità
dei vari contributi raccolti, ritengo sia qui opportuno in primo luogo presentare e
vagliare soprattutto le tesi contenute nei saggi degli autori ispanici, per provare a
fare pure più in generale il punto su quella che, secondo gli storici, ha costituito la
maggior crisi dottrinale del cattolicesimo contemporaneo, la crisi modernista.
Nella presentazione (pp. 11-22) del volume (in cui sarebbe stato opportuno
modulare e precisare le troppo generiche affermazioni relative all’accostamento fra
americanismo e nascita del Partito Popolare italiano e alla negazione della divinità
di Gesù ne L’Evangile et l’église di Loisy), il curatore espone alcuni presupposti interpretativi generali individuando correttamente il fondo della crisi culminata nella
condanna del modernismo – enunciata dall’enciclica Pascendi (1907) – nel sommarsi dei problemi relativi alla questione biblica, alle simpatie diffuse in Europa per
l’americanismo e alla polemica sulla nuova apologetica non razionalistica. La crisi
modernista vi risulta quindi spiegata come l’effetto dell’inadeguatezza circostanziale dell’insegnamento dottrinale cumulativamente sviluppato dal Magistero sino
all’inizio del XX secolo, a cui avrebbero progressivamente rimediato gli sviluppi
successivi, a partire dalla Divino afflante (1943) e, in maniera sostanziale, il Vaticano II. In tal senso, la crisi modernista sarebbe risultata una salutare “crisi di crescita”, faticosamente superata, secondo una chiave di lettura della storia ecclesiastica
– di recente autorevolmente formulata da Benedetto XVI –, che pur ammettendo
sviluppi e mutamenti, privilegia un’ermeneutica della continuità. Appropriandosi
poi delle distinzioni formulate da Cesar Izquierdo in uno dei suoi tre contributi
al volume, Casas Rabasa presenta il modernismo come un movimento d’opinione
internazionale, in cui diffusi atteggiamenti e sensibilità, spesso in contrasto con
1_2011.indd 325
28-06-2011 12:12:25
326
Cr St 32 (2011)
l’autorità dottrinale del tempo, solo in pochi casi – come effettivamente avvenne –
giunsero a consumare una reale crisi, finendo coll’essere bollati come eterodossi.
Anticipando sull’analisi più precisa che svolgerò del contributo di Izquierdo
menzionato, ritengo utile rilevare subito che, dunque, secondo la prospettiva predominante nel volume, una “crisi modernista” vera e propria si sarebbe dunque
consumata solo in pochi singoli, sia pur rilevanti, casi (Loisy, Tyrrell, Buonaiuti,
Murri, Houtin, Turmel, Maud Petre) e che l’azione repressiva di Pio X, se non
fu sempre e comunque adeguatamente proporzionata e fedelmente esercitata dai
sottoposti, in buona sostanza risultò non solo decisiva, ma salutare. Se ne dovrebbe
allora ricavare che le eminenti espressioni della modernità (la filosofia di matrice kantiana, lo scientismo positivista e la critica storica), giustamente individuate
da Izquierdo e Santiago Casas quali ispiratrici di fondo del modernismo religioso
e confluenti nella rivendicazione della libertà della coscienza individuale rispetto
all’autorità dottrinale, sarebbero ormai state sostanzialmente metabolizzate dall’insegnamento cattolico e dunque, ne deduciamo, esse potrebbero dar oggi ancora
luogo solo, al massimo, a sporadici casi-sintomo di un’inguaribile tendenza – propria di qualche orgoglioso intellettuale – ad inalberare il primato della coscienza
individuale nei confronti dell’insegnamento ufficiale. Va quindi subito precisato che
appare inadeguata la riduzione del senso della “crisi modernista” a semplice crisi di
alcune anime singolari, particolarmente refrattarie al compromesso con l’autorità
depositaria dell’ortodossia cattolica, ricordando invece che con tale sintagma, più
in generale – e secondo un uso più consueto –, va indicato l’effetto del perdurante
scontro fra una mentalità cattolica modellata dal concilio Tridentino e dal Vaticano
I e quella, forgiatasi in contemporanea, di cui le tre sopracitate espressioni culturali
costituiscono alcune delle più significative tendenze, tuttora diffuse, ben al di là di
ristrette cerchie intellettuali. Inoltre, com’è stato osservato (da Poulat e Guasco),
ritengo che non sia neppure del tutto corretto trattare il modernismo alla stregua di
un movimento, perchè, se si può parlare di una mentalità modernista in senso lato,
individuando in ambito cattolico quelle posizioni di apertura nei confronti della
modernità – che per ragioni socio-politiche in Italia e più limitatamente in Francia,
tovarono una certa diffusione oltre una ristretta cerchia di universitari ed ecclesiastici cattolici –, sarebbe invece più giusto parlare di gruppi e circoli modernisti,
più o meno radicali, che mantennero fra loro relazioni dirette e indirette (incontri,
scambi di riviste) essenzialmente disorganiche e i cui rappresentanti più originali intessero spesso fra loro relazioni polemiche (pubbliche e private), oltre che di
collaborazione. Appare quindi improprio – come invece fanno Casas e Izquierdo
(seguendo García De Haro) – ricorrere al termine di “movimento” in assenza di
organizzazione e di condivisione di finalità definite fra persone che pur subirono e
insieme effettivamente modellarono una stessa temperie culturale. Concordo dunque piuttosto con chi ha considerato l’elaborazione del modello del “modernista”
schizzato nella Pascendi come in buona sostanza astratto, calato dall’alto su una realtà polimorfa per poter stigmatizzare gli scarti dottrinali e disciplinari e giustificare
il conseguente esercizio censorio dell’autorità dottrinale. Se poi, a tal proposito, il
senso del pontificato piano, come giustamente sostenuto da Casas, non risulta effettivamente riducibile a quello della lotta antimodernista, questa fu però certamente
– fin dal 1903 – una delle linee guida dell’azione pastorale di Pio X, che si compose
1_2011.indd 326
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
327
perfettamente col più esteso programma di riforma pontificio, teso a rilanciare il
paradigma ecclesiale tridentino.
L’ampio articolo di Izquierdo a cui ci siamo già riferiti, proposto come introduzione a tutto il volume (pp. 25-81), è relativo proprio alla discussione storiografica
sul senso del “modernismo”, da lui definito “teologico” e che andrebbe invece piuttosto definito “religioso”, per evitare possibili anacronismi conferenti alla dimensione teologica (naturalmente ben presente e rilevante nella crisi modernista) un
valore necessariamente fondativo e principale, che la “regina delle scienze” aveva
ormai iniziato decisamente a perdere e per ricordare l’attenzione che prestarono ai
dibattiti allora in corso fra cattolici anche alcune personalità di spicco delle altre
confessioni cristiane. In questo articolo, davvero essenziale per comprendere i presupposti di fondo che ispirano il volume, vengono espressi in modo icastico alcuni
concetti già richiamati, come ad esempio la riduzione della crisi modernista a crisi
di fede di alcune anime (perché “las ideas en sí mismas no experimentan crisis; en
cambio las personas sí” e “autores modernistas, estrictamente, son aquellos que
enfrentados a la alternativa ‘autoridad-libertad’ optaron por ésta última”). Quanto
alla distinzione fra un modernismo semplice attitudine e un modernismo in senso stretto, fondato sul principio del primato della coscienza di fronte all’autorità
dottrinale – che in qualche modo richiama la distinzione (di Bedeschi) fra modernismo moderato e modernismo radicale (dove quest’ultimo metteva in discussione
l’interpretazione ufficiale del dogma), o le distinzioni basate su criteri sociologici
(di Poulat) fra semplici novatori e modernisti veri e propri –, va apprezzata l’acuta distinzione formulata, che giustamente induce a considerare il caso di Blondel
come un perfetto esempio di modernismo solo in senso lato. Non si può invece
seguire Izquierdo quando, pur riconoscendo il carattere polimorfo e disorganico
del modernismo, in base alla sua definizione di “movimento” (carente per i motivi
già spiegati), finisce col considerare il modernismo come identificabile nel ritratto
propostone dalla Pascendi e rifiuta categoricamente l’idea che l’attitudine mentale
di Pio X nei confronti dei modernisti abbia potuto essere quella di una fondamentale incomprensione. L’asserzione di tale incomprensione, non necessariamente
incompatibile col tentativo di ricostruire il profilo intellettuale del Pontefice, va
invece riaffermata nel senso che, appunto, papa Sarto espresse in modo esemplare
una mentalità inconciliabile e destinata allo scontro con quella dei modernisti. E’
infatti erroneo seguire, come fa Izquierdo, il datato giudizio di Ferdinand Mourret,
secondo cui inizialmente papa Sarto sarebbe stato restio a formulare condanne contro il modernismo, perché com’è noto, fin dall’elezione al soglio pontificio Pio X
condivise l’avversione dei cardinali francesi contro Loisy e ciò determinò subito la
messa all’Indice di cinque libri del prete francese e poi, attraverso varie vicende,
l’estensione del decreto Lamentabili (1907) e infine, la scomunica dell’esegeta e
storico cattolico (1908). D’altronde, non va per questo neppure ipostatizzata una
mentalità antimodernista, perché è giusto riconoscere che il fronte degli antimodernisti fu altrettanto variegato di quello antagonista e certamente, come afferma
Izquierdo (e con lui Casas), l’azione di Benigni non può essere considerata l’applicazione esemplare delle direttive piane. Tuttavia – malgrado la mancanza del
compiuto riconoscimento canonico per il Sodalizio Piano, che il Benigni ottenne
a fatica solo parzialmente e in via interlocutoria – il sostegno materiale, il ripetuto
1_2011.indd 327
28-06-2011 12:12:25
328
Cr St 32 (2011)
incoraggiamento morale manifestato da Pio X nei confronti dell’esigua rete creata
dal prelato perugino, al cui servizio però il Papa fece ricorso e il ruolo, invece, molto ridimensionato del gruppo integrista – infine dissolto – durante il ponificato di
Giacomo Della Chiesa, risultano tutti dati storici con cui a nostro avviso Izquierdo
– sia pure in buona compagnia – fa troppo sommariamente i conti. Tanto vale a precisare anche circa la questione dell’atteggiamento di Benedetto XV nei confronti del
modernismo; pur essendo vero, come nota Izquierdo, che naturalmente non risultano dichiarate esplicite smentite del proprio predecessore nel discorso ufficiale di
papa Della Chiesa. In proposito, poi, anche se sulla base di ricerche personali posso
concordare ancora circa la sostanziale continuità dell’atteggiamento mantenuto da
Pio X e Leone XIII nei confronti dei modernisti, ritengo comunque si debbano
sottolineare la cautela e le garanzie con cui fu condotto il processo censorio delle
opere di Loisy nel corso del pontificato di papa Pecci, quando pure, come attestano
le ricerche di Turvasi sulla Commissione Biblica, il Papa si mostrò ben disposto nei
confronti dei consultori chiamati a far parte dell’istituzione, inizialmente a maggioranza di tendenza progressita, poi sopraffatti dai rappresentanti della tendenza più
conservatrice durante il pontificato di Sarto, in particolare dopo il 1905, quando il
segretario David Fleming fu sostituito da Laurent Janssens.
Per meglio comprendere il senso dell’analisi storico-teologica dei due maggiori
documenti dottrinali prodotti dal magistero durante la crisi modernista sviluppata
da Izquierdo nella seconda parte del suo contributo introduttivo, mi soffermerò
prima sull’ultima parte di esso. Qui, dopo aver formulato condivisibilissimi giudizi
circa l’ambiguità del concetto di “modernità” (ma non si capisce perché sarebbe
meglio preferire a esso la nozione di “età moderna”), l’autore giustifica – sia pur
limitatamente alle ragioni espresse dall’“attitudine modernista” (e dunque parzialmente) – le esigenze di rinnovamento formulate durante la crisi modernista.
Izquierdo procede sulla base di una personale opzione teologica corroborata pure
da una cauzione offerta dalla distinzione formulata da Giovanni XXIII (nel suo famoso discorso dell’11 ottobre 1962, in apertura del Vaticano II) tra la verità eterna
e le sue riformulazioni storiche (ma va pure ricordato che in quello stesso discorso
papa Roncalli, oltre a mettere in gauardia contro le deviazioni della modernità, ne
indicò anche le legittime esigenze e le valide opportunità, invitando a superare le
“insinuazioni di anime, che pur ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura, le quali nei tempi moderni non vedono che prevaricazione e rovina e vanno dicendo che la nostra età a confronto con quelle passate,
è andata peggiorando”). Sintetizzando quindi la prospettiva teologica dell’autore,
direi che in essa la rivelazione appare identificata con un nucleo di insegnamentiazioni attualizzato dall’autorità dottrinale vigente, in base a cui risulta possibile
discernere, in generale, tra le varie credenze e – sulla scorta delle indicazioni offerte
da Benedetto XVI nel suo discorso di auguri alla Curia del 22 dicembre 2005 – pure
del diverso valore dei documenti dottrinali del passato. L’autorità dottrinale vigente
costituisce così il garante ultimo di una verità vivente che, altrimenti, un kantismo
radicale risolto in soggettivismo assoluto, un approccio scientifico assolutizzato in
scientismo e uno storicismo che espunge qualsiasi riferimento al sovrannaturale dal
proprio campo di ricerca ridurrebbero a ipostasi mitica desacralizzata. Il cattolicesimo finisce così non solo col mantenere un’incompatibilità con gli esiti radicali della
1_2011.indd 328
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
329
modernità, ma assicurando pure la trasmissione della propria origine sacrale, con il
Vaticano II avrebbe mostrato la capacità di rispondere positivamente alle esigenze
manifestate dalla modernità con esso compatibili, sacrificate invece dall’autorità
ancora al tempo della crisi modernista. Non obietto circa l’incompatibilità fra il
cattolicesimo e un soggettivismo di tipo sostanzialmente autistico, o quella che si
potrebbe definire una romantica metafisica della scienza; ritengo però, che come
nell’ambito delle scienze naturali il lavoro dello scienziato debba rimanere sgombro
da ipotesi estranee al piano dei fenomeni, così anche il lavoro dello storico debba
esercitarsi saldamente entro i limiti di un sano ateismo metodologico; fermorestando che poi, come uomini, lo scienziato e lo storico possano dar libero corso ai
propri pregiudizi credenti, confessando la propria fede, la quale a sua volta – come
ha ricordato Benedetto XVI nella scia del suo predecessore (proprio nel dicorso a
cui Izquierdo fa riferimento) – è adesione a una verità “che non può essere imposta
dall’esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo” solo per convincimento, nella
libertà della coscienza (e dunque dovrebbe piuttosto essere l’eteronomia – intesa
nel senso così solo ipotetico di un’eteronomia assoluta – a dover risultare un’impossibilità). Non appare perciò neppure pienamente condivisibile la valutazione
positiva della critica mossa da Blondel nei confronti dell’autonomia scientifica della
storiografia sostenuta (certo non sempre con adeguata consapevolezza) da Loisy.
Rimandando su questo punto all’analisi del secondo contributo di Izquierdo al volume, dove la questione viene trattata estesamente, anticipo solo che, a mio parere,
non va confusa la storia del cristianesimo, condotta con criterio critico (nel rifiuto
di un’apologetica preconcetta e di miracolismi sensazionalistici), con una legittima
interpretazione credente del suo stesso oggetto di studio, che a mio avviso andrebbe
piuttosto definita “teologia della storia” (che ogni cristiano elabora, più o meno
consapevolmente, in rapporto alla Chiesa e al mondo suoi contemporanei).
Passando quindi a vedere come, sulla base della propria opzione teologica,
Izquierdo proceda alla presentazione-valutazione del decreto Lamentabili e dell’enciclica Pascendi, dopo aver rilevato che la storia della redazione dei documenti
risulta correttamente esposta secondo i risultati degli studi critici finora pubblicati,
va segnalato come si indichino tra gli effetti prodotti dai documenti piani, oltre
quello fondamentale di aver bloccato il diffondersi del modernismo (“es innegable
que el movimiento modernista se detuvo y que el problema doctrinal desapareció”),
anche alcuni non meglio precisati “efectos colaterales” (p. 68), che credo debbano
andar intesi facendo riferimento al sinistro eufemismo ricavato dal gergo bellico, di
uso purtroppo tanto ambiguo quanto frequente. Quindi, secondo Izquierdo, i due
documenti dottrinali piani, in linea con la tradizione, ne mantengono la vigenza
(“el testimonio de fe que, de una forma u otra, contienen ambos documentos y la
respuesta que da a las cuestiones doctrinales, contaban con toda la fuerza de la
tradición y mantienen su vigencia”), benché in alcuni punti mostrino i limiti delle
circostanze in cui furono prodotti (“al lado de esas doctrinas, hay otras que responden más a la contigencia del momento que a la misma fe”), fra cui vengono indicati
il rifiuto della critica testuale, le prese di posizione in ambito sociale, il giudizio
negativo sul laicato, la critica della nuova apologetica blondeliana. In generale,
quindi, entrambi i documenti e, naturalmente, soprattutto l’enciclica, conservano la
loro validità lì dove enunciano verità che ancora oggi vengono proposte come verità
1_2011.indd 329
28-06-2011 12:12:25
330
Cr St 32 (2011)
di fede, ma pure nel caso del decreto, benché “no todas [sus proposiciones] se sitúan en el nivel fundamental de la verdad de fe” (p. 47), “no es difícil [...] distinguir
a la luz de la enseñanza posterior del magisterio las proposiciones que implican
elementos dogmáticos de las que contienen enseñanzas con meno autoridad” (p.
49). Insomma, nella prospettiva adottata da Izquierdo, i documenti dottrinali piani
non sarebbero solo testimonianze del passato ecclesiale, da consegnare allo studio
della storia della teologia, ma documenti che, emendati e corretti sulla base del più
recente insegnamento del Magistero, potrebbero ancora legittimamente servire a
decidere del carattere ortodosso o meno di un’opinione dottrinale (e dunque, se
ne può dedurre, a giustificare ancora oggi – nello spirito antimodernista d’antan –
eventuali accuse di “modernismo”).
Più interlocutorio il giudizio del teologo spagnolo sul pesante apparato disciplinare che consacrava l’istituzionalizzazione del sospetto predisposto dall’enciclica.
Ma a riprova della sostanziale bontà dei documenti dottrinali piani, Izquierdo annovera tra gli effetti derivati il ritorno alla fede di rilevanti personalità del mondo intellettuale francese. Se non si intende però considerare questo dato di fatto facendo
semplicemente riferimento a categorie agiografico-miracolistiche, proprie più a una
visione provvidenzialistica (e non per questo meno legittima) che scientifica della
storia, il giudizio in questione andrebbe meglio articolato approfondendo una riflessione a partire dai numerosi studi esistenti sul ruolo e sulla crisi d’identità vissuta
dagli intellettuali che, all’inizio del XX secolo, si confrontavano alla massificazione
di una società in cui veniva messo in discussione il valore della cultura letteraria.
Quanto alla proposta di Péguy quale esempio del successo dell’azione dottrinale
piana, riteniamo che vada precisato come nonostante l’esplicita presa di distanze
del grande irregolare francese rispetto al modernismo critico-storico, il suo pensiero
non possa essere immediatamente iscritto al campo degli anti-moderni come Maritain e Psichari; ne fanno fede la fiducia di Péguy nella capacità di miglioramento
dell’umanità, la sua difesa della filosofia cartesiana e bergsoniana contro il tomismo
e l’accoglienza che alla sua opera letteraria fu presto data da Paul Archambault
sulle colonne delle “Annales de philosophie chrétienne”, poco prima della loro soppressione seguita alla messa all’indice del 1913 e delle altre pesanti disposizioni
censorie che colpirono il loro principale responsabile, l’oratoriano Laberthonnière.
Relativamente al campo ecclesiastico, Izquierdo sostiene che più che rimproverare
all’azione piana l’allontanamento di giovani forze intellettuali dai ranghi del clero,
le andrebbe attribuito il merito di aver fatto chiarezza sui casi di alcune rilevanti
personalità, irrecuperabili all’ortodossia. Ora, se l’allontanamento, con effetti personali talvolta anche drammatici, di tanti giovani seminaristi e professori di seminario
sospetti di modernismo costituisce un oggetto di studio da approfondire sulla scia
dei lavori di Guasco e di Vian, ritengo tuttavia che la riproposizione della tesi secondo cui Loisy avrebbe – non si sa per quale inconfessato interesse – nascosto sino
alla scomunica una perdita della fede maturata già negli anni di studio in seminario,
non possa reggere dopo le analisi approfondite da ormai di mezzo secolo da Poulat
relative alla tormentata storia spirituale dell’esegeta modernista – critico e mistico
–, sulla cui crisi del 1904, evocata da Izquierdo, influì certamente proprio la messa
all’indice delle opere (1903) e la minaccia di scomunica in caso di non ritrattazione degli errori in esse individuati. Quanto all’Istituto Biblico, sorto nel 1909, ma
1_2011.indd 330
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
331
in qualche modo in progetto già alla fine del pontificato leonino, Rogert Aubert
ha mostrato come esso non vada confuso con l’istituzione prevista dall’enciclica
Pascendi per promuovere la scienza e la cultura, miseramente naufragata nel 1908
per l’impossibilità di conciliare l’intransigenza di Pio X e le tendenze dei cardinali
preposti alla sua fondazione: Rampolla, Mercier e Maffi. È infine innegabile che, a
fronte dei numerosi giornali e riviste soppressi per motivi dottrinali durante la crisi
modernista (dato, questo, che pur andrebbe ricordato), si registrò anche la nascita di
riviste, oggi ormai prestigiose, che con la loro moderazione riuscirono a creare nel
cattolicesimo un’atmosfera meno tesa e ad aiutare un’evoluzione di mentalità.
Proprio alle posizioni espresse in tali riviste definibili novatrici, ma non moderniste in senso proprio, si possono avvicinare, si è detto, quelle espresse sul piano
filosofico da Maurice Blondel, al cui confronto con Loisy Izquierdo consacra lo
studio (pp. 111-145) contenuto nella sezione del volume centrata intorno all’opera dell’esegeta modernista. Si tratta di un luogo ormai topico della storiografia,
che recentemente François Laplanche e Rosanna Ciappa hanno provato a rivisitare mostrando le possibili ragioni di Loisy, a fronte di una vastissima produzione
“pro-blondeliana”, che ha avuto in Italia il suo autorevole antesignano in Giovanni Gentile. Per presentare il progressivo orientamento di Blondel seguito alla lettura de L’Evangile et l’église, prima di trattare lo scambio epistolare diretto che
il grande filosofo ebbe con Loisy, Izquierdo utilizza con chiarezza ed efficacia la
ricca bibliografia relativa alle altre corrispondenze tenute da Blondel; solo lo studio dello scambio con Laberthonnière appare un po’ meno convincente perché,
come si ricava pure dalle citazioni riportate, questi considerò l’accusa rivolta contro
l’esegeta di aver negato la divinità del Cristo come essenzialmente basata su di un
fraintendimento. Izquierdo ricorda così come Blondel molto presto fu insoddisfatto
dell’assunto metodico adottato da Loisy e dei risvolti cristologici connessi. Certamente, se Loisy – pur non ignorandole – non fu adeguatamente consapevole delle
componenti esistenziali (e dunque ideologiche) inevitabilmente connesse alla pratica storiografica ed esegetica (questo è certo il limite di ogni positivismo), neppure
però ritengo debba considerarsi adeguata la proposta di Blondel di sopperire ai
limiti che ne derivavano per la conoscenza storica attraverso il ricorso alla tradizione vivente. Infatti, se Blondel fu più di Loisy consapevole di tali limiti, intrinseci ad
ogni operazione storiografica (data, tra l’altro, la conoscenza che il filosofo aveva
della trattazione che del problema aveva già offerto Sécretan), Blondel ne dedusse,
in ultima analisi, la necessità di sovradeterminare il ruolo della filosofia e della teologia rispetto alla storia, a scapito, ad esempio, del rispetto di un suo indispensabile
presupposto metodologico che è il rifiuto degli anacronismi. Quella, infatti, che
nella prospettiva di Blondel era la Storia reale – con una “s” maiuscola – è infatti
finalmente solo l’oggetto di un sapere identificabile come teologia e filosofia della
storia, che impone all’epistemologia della scienza storica l’assunzione della realtà
del sovrannaturale quale presupposto, se non obbligatorio, almeno plausibile. La
scienza storica, invece, cresciuta in Francia in un ambito istituzionale laico, per sua
natura agnostica, è caratterizzata dall’adozione di un sano ateismo metodologico
(questa tutta la verità, relativa, del positivismo). Con tale scienza, con il suo metodo
e i suoi risultati, potrà poi venire a patti la coscienza del singolo storico che, come
uomo, rielaborando personalmente i contenuti della tradizione ecclesiale, può, o
1_2011.indd 331
28-06-2011 12:12:25
332
Cr St 32 (2011)
meno, riconoscersi come credente, senza comunque neppure poter mai ignorare, in
tale processo di auto-riconoscimento, l’inevitabilità del vaglio dello sguardo d’altri,
tanto più quando, come nel cattolicesimo, risulta legittimato il potere istituzionale
di un altro a stabilire se il riconoscimento operato dalla coscienza del fedele sia adeguato o meno, che è poi proprio quello che accadde a Loisy, a Tyrrell, a Buonaiuti
e ad altri modernisti.
Il terzo contributo di Izquierdo al volume (pp. 285-297) è relativo al contesto
ispanico al tempo della crisi modernista, in cui, come risulta dagli studi di Alfonso
Botti, solo alcune personalità (invero, pure ecclesiastiche) furono sensibili ai problemi religiosi dibattuti in Europa, ma non si registrò una tendenza all’associazione
in riviste e cenacoli e comunque, paradossalmente, la Pascendi suscitò una fiorente
letteratura animodernista. In particolare, Izquierdo invita ad approfondire lo studio
del ruolo giocato da alcuni intelletuali laici, protagonisti come Antonio Machado
del modernismo letterario, nel dibattito religioso del tempo. Risulta così confermato
che negli ambienti anticlericali ispanici, ispirati dal pensiero krauseano, si registrò
attenzione e interesse per la produzione modernista francese e italiana.
Il saggio di Emmanuel Cabello (pp. 245-260), anch’esso incluso nella sezione
relativa ai risvolti letterari del modernismo religioso, presenta qualche sensibile
originalità rispetto all’insieme degli altri contributi degli autori ispanici. Ne fa fede
la lunga nota conclusiva al testo; in essa, indicando affinità fra i contenuti espressi
dai documenti dottrinali antimodernisti di Pio X e la recente produzione teologica
di Ratzinger, pur modulando il proprio giudizio con opportuna cautela a proposito
della distinzione fra il nostro contesto storico e quello della crisi d’inizio Novecento (modulazione che andrebbe meglio esplicitata con qualche esemplificazione),
Cabello sostiene chiaramente che tale crisi è ancora viva e aperta: “Durante los
cien años que nos separan de la crisis modernista, ha corrido mucha agua bajo los
puentes de la Iglesia, con los desarrollos filosóficos y teólogicos de la neoscolástica
y de la nouvelle théologie, con el Concilio Vaticano II y la profunda crisis doctrinal
posterior, y con el abundante magisterio pontificio de las últimas décadas. Sería,
por tanto, exagerado juzgar que la situación teológica actual es idéntica a la de
la crisis modernista. Sin embargo, no es preciso forzar los textos para afirmar que
encontramos en los autorizados diagnósticos de J.Ratzinger-Benedicto XVI [...] los
mismos dos puntos esenciales que la encíclica Pascendi señala para denunciar el
modernismo [...]. Podemos decir, por tanto, que la teólogia católica aún no ha salido
del impasse en el que fue introducida por la crisis modernista”. Pur ritenendo che
con altrettanta cautela si dovrebbe meglio distinguere tra la teologia espressa nei
documenti antimodernisti di Pio X e quella contenuta nella produzione ratzingeriana, come detto, ritengo che il giudizio di Cabello sull’attualità della crisi modernista
non sia del tutto infondato. Oltre a questa sensibile originalità, nel contributo preso
in esame va segnalato che pure a proposito di un altro problema sollevato nel volume, Cabello non risulta in completa sintonia con gli altri autori ispanici; pur non
arrivando infatti a mettere in discussione l’ortodossia cattolica di Blondel, sempre
in una nota (pp. 257-258), Cabello non esita però a giudicare come insufficiente
l’apologetica fondata sul metodo d’immanenza. Secondo lui, infatti, essa andrebbe
integrata alla tradizionale esposizione dei motivi di credibilità, a partire da una
posizione che, probabilmente, Blondel stesso non avrebbe esitato a definire “estrin-
1_2011.indd 332
28-06-2011 12:12:25
Recensioni
333
secista”. Per il resto, nel suo saggio Cabello non fa che ritrovare nel romanzo Jean
Barois (1913) del premio Nobel 1937 per la letteratura Roger Matin du Gard (allievo in gioventù di Marcel Hébert, un cui testo fu tenuto presente dal romanziere
nella redazione dell’opera, la cui pubblicazione diede pure seguito a uno scambio di
vedute con il vecchio maestro) gli stessi errori condannati dalla Pascendi e professati
da Hébert e da Loisy; se però il confronto con quest’ultimo può essere convincente
relativamente alla discussione della teoria dell’origine sentimentale della religione,
non lo risulta relativamente a quella del rapporto fra la coscienza dello storico e
quella del credente, a cui ho già accennato. Attenersi al metodo di ricerca storicocritico non significa infatti dover definitivamente confinare la professione di fede
al privato, murandola nel foro interno, ma solo evitare inadeguate sovrapposizioni
di piani, inopportune confusioni tra il registro del discorso della fede e quello del
sapere.
Uno degli elementi che permette di misurare la distanza del contesto attuale
dalla pesante temperie che pesava sugli studi cattolici, soprattutto all’inizio, ma
anche durante tutta la prima metà del XX secolo, può essere trovato nello studio di
Juan Luis Caballero (pp. 167-182). Adottando una periodizzazione corrente per la
storia dell’esegesi cattolica contemporanea, l’autore presenta i responsi della Pontificia Commissione Biblica soffermandosi in particolare sul suo primo periodo di
attività, dal 1905 al 1939, quello che corrisponde appunto all’epoca della stretta
guardia antimodernista, esercitata mediante la nutrita serie di decisioni maturate specialmente durante il pontificato di papa Sarto e interrotta solo con l’avvio
del segretariato di J. M. Vosté, allievo di Lagrange, all’inizio del pontificato di Pio
XII. Caballero introduce adeguatamente il suo studio richiamando e sintetizzando
l’enciclica Providentissimus del 1893, mentre ritengo che avrebbe dovuto meglio
sottolineare lo scarto – sopra già segnalato – all’inizio della storia dell’istituzione,
fra l’avvio durante il pontificato leonino e sino alla fine del segretariato di Fleming
(1905) e gli sviluppi successivi, appunto nel corso del pontificato piano. Facendo
ancora riferimento a Joseph Ratzinger, Caballero ripropone la classica dottrina accreditata a partire dall’epoca del pontificato Pacelli, per cui – contro le indicazioni
fornite sotto il pontificato di Pio X – le risposte della Commissione Biblica del
periodo 1905-1939, costituendo in alcuni casi una vera e propria inflazione del
Magistero, vanno piuttosto intese come indicazioni e giudizi la cui validità ha essenzialmente avuto un valore temporalmente circoscritto.
Il testo dell’attuale Pontefice tradotto e proposto per esteso nel volume (pp. 183192) – quello a cui Caballero fa riferimento nel suo articolo – riproduce il discorso
pronunciato nel 1993, in occasione del centenario dell’istituzione della Pontificia
Commissione Biblica, dal suo Presidente, l’allora Prefetto della Congregazione della
Dottrina della Fede, cardinal Joseph Ratzinger. Evocando gli studi giovanili che
lo portarono a imbattersi con testi e maestri tedeschi che avevano sofferto di una
condanna pronunciata nel 1912 dalla Congregazione Concistoriale (saldamente in
mano al cardinal De Lai, stretto collaboratore del conterraneo papa Sarto e acceso antimodernista), Ratzinger distinse appunto fra un primo lungo periodo in cui,
con i responsi della Commissione Biblica, si produsse un’inflazione del Magistero,
accompagnata dall’eccessiva restrizione dello spazio necessario alle ricerche degli
esegeti (p. 189); anzi, egli ricordò come alcune decisioni della Commissione siano
1_2011.indd 333
28-06-2011 12:12:26
334
Cr St 32 (2011)
state successivamente corrette (p. 191) e, in particolare, la fortuna riscossa anche fra
i cattolici dalla teoria delle due fonti dei Sinottici (p. 184), bandita dalla Commissione proprio nel 1912. Pertanto, nella sua conclusione, l’allora Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede espresse riconoscenza per le aperture maturate in
ambito esegetico col Concilio Vaticano II, quali frutto di lunghe faticose ricerche (p.
192). Naturalmente Ratzinger non rinunciò ad affermare la responsabiltà del Magistero rispetto alla libertà di ricerca, in ambito storico-esegetico e anche, più in generale, sul piano scientifico, rifiutando l’idea che nella Chiesa possano essere ammessi
tutti gli insegnamenti, ma riconoscendo pure che anche rispetto alla fondamentale
relazione tra fede e storia ci sarà sempre spazio per la discussione (pp. 190-191)
e che se il realismo cristiano esige costitutivamente il riferimento ad alcuni dati
dogmatici (nascita verginale, istituzione dell’Eucaristia, resurrezione) – perché, per
la fede, un Dio che non può intervenire nella storia e mostrarsi in essa non è il Dio
biblico –, comunque, molte questioni devono rimanere aperte nei loro particolari
(p. 191). Facendo quindi riferimento a quella particolare riformulazione contemporanea della gnoseologia kantiana che è il principio di indeterminazione di Heisenberg, Ratzinger denunciò giustamente i limiti di un ingenuo storicismo positivistico
(ibid.), stigmatizzandolo come gnosticismo (ibid.). Veicolo e insieme risultato di una
plurimillenaria vicenda di fedi, per tale suo intrinseco carattere la Bibbia legittima
così pienamente l’approccio interpretativo teologico, fermorestando il valore del
contributo che a tale approccio viene fornito dallo studio storico-critico del libro dei
libri e della storia di cui esso è, allo stesso tempo, vettore e prodotto.
Nel saggio conclusivo, a firma di Josep-Ignasi Saranyana (pp. 301-312), viene
ribadita in chiave essenzialmente ideologica, più che attraverso puntuali riscontri, la
linea interpretativa del fenomeno modernista svolta nei contributi che conferiscono
un tono omogeneo di fondo al volume. Infatti, anche secondo Saranyana, avendo
il Vaticano I sostanzialmente lasciato indeterminato il senso del rapporto fra rivelazione, libri sacri e tradizione, precisato poi col Vaticano II (un concilio in cui, si
afferma, i due pontefici patrocinanti seppero imprimere un rinnovamento della tradizione nel rispetto di una sostanziale continuità) e sopratutto con l’interpretazione
decisiva offertane da Ratzinger (che ha individuato il senso della Parola con quello
espresso in una lunga storia ancora aperta), la risposta precocemente avanzata dal
modernismo (massivamente e dunque semplicisticamente identificato con la dottrina condannata dalla Pascendi) peccò per aver operato uno strappo nella tradizione, cercandone piuttosto la “rifondazione” che la “riforma”. Pio X avrebbe perciò
avuto ragione a condannare una nuova “gnosi”, un pensiero fondamentalmente
filosofico, inadeguato rispetto alla teologia successivamente maturata nel campo
cattolico nel corso del Novecento. Ora, non dovendo qui valutare più in dettaglio il
senso dell’operato dei pontefici che rispettivamente indissero e portarono a termine
il Vaticano II e limitandomi su questo punto a indicare che i riscontri storici mi
sembrano poter offrire appiglio alla tesi di Saranyana per quanto riguarda l’azione
conciliare di Paolo VI, ma non per quella di Giovanni XXIII, ritengo di dover ribadire l’inadeguatezza di una sua scelta storiografica che intende assimilare l’ampio
ventaglio di idee che ispirarono la temperie modernista – sfaccettata e persino contraddittoria al suo interno – con il modello di modernismo proposto dalla Pascendi
(vera e propria eresia fantasma), strumento prescelto dal Papa e dai rappresentanti
1_2011.indd 334
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
335
dell’intransigenza curiale per poter agevolmente procedere a disciplinare scarti dottrinali (più o meno ortodossi alla luce dello sviluppo dell’autocomprensione ufficiale del cattolicesimo contemporaneo), anche con pesanti conseguenze di carattere
personale per i chierici coinvolti nella repressione, il cui principale riferimento
filosofico risulta oggi autorevolmente insegnato nelle università cattoliche di mezzo
mondo; che la filosofia di Blondel non sia identificabile al sistema dell’immanenza
condannato dall’enciclica del 1907 è un dato, infatti, che – faticosamente compreso
dai cattolici nel corso del Novecento – oggi solo pochissimi ancora si ostinano a non
voler riconoscere.
Presupponendo l’identificazione del carattere distintivo del cattolicesimo con
l’allineamento alle direttive dell’autorità gerarchica vigente, i contributi sin qui presi in esame appaiono sintomatici dell’attuale panorama culturale ecclesiale, tanto
più che le tesi in essi espresse appaiono finanche moderate rispetto a quelle formulate dai curatori dell’ultima traduzione italiana dell’enciclica Pascendi (un vescovo e
un docente di un’università statale italiana, dotati di autorevole ascolto fra le accademie pontificie romane); una riprova, a nostro parere, quest’ultima, dell’interesse
che ancora possiede lo studio storico di un oggetto, se non più incandescente, certo
ancor lungi dal fare l’unanimità, quale è la crisi modernista d’inizio Novecento.
Soffermandomi infine sui contenuti espressi negli altri saggi contenuti nel volume, nella sezione relativa all’opera di Loisy, va in primo luogo segnalato lo studio
di Guy Bedouelle (pp. 147-164) sugli interventi critici di alcuni ecclesiastici francofoni relativamente al dibattito cristologico sollevato dai lavori di Loisy, in un certo
senso conclusosi nel 1907 con la condanna pronunciata dal decreto Lamentabili in
(particolare in) sette proposizioni (dalla 27a alla 30a – e non dalla 22a, come invece
si legge per una chiara svista tipografica – insieme alla 32a, la 34a e la 35a), di cui
invero, non solo della 27a, ma anche della 29a – come indicò Loisy stesso nelle
Simples refléxions del 1908 – è lecito dubitare la conformità al pensiero proprio
dell’Esegeta, senza considerare poi che la 30a e la 32a risultano una riproposizione
di testi di Loisy in forma esagerata. Bedouelle propone così una rilettura di alcuni
intereventi di Lagrange OP, Batiffol, Pègues OP, Barenton Ofm cap., Monchamp,
Fontaine SJ, de Grandmaison SJ e Prat SJ, sottolineando opportunamente le specificità di ognuno e, com’è noto, l’inasprimento dei toni soprattutto dopo la pubblicazione di Autour d’un petit livre (1903), quando già frequentemente e facilmente
era stata pronunciata l’accusa di eresia, variamente specificata come “arianismo”, o
“adozionismo” etc. Prendendo quindi spunto da un’esclamazione di Pierre Bouvier
SJ – che non fu un semplice critico di Loisy nell’agone pubblico, ma che giocò pure
un ruolo di un certo rilievo nel processo che condusse alla redazione del decreto
Lamentabili –, Bedouelle legge in tale pubblicistica il “grito de dolor” (p. 163) di
una fede ferita. Effettivamente, i testi e gli autori citati, pur assai diversi fra loro,
sono espressioni di mentalità diffuse fra i cattolici del tempo, altrettanto e forse più
di quella di chi si riconosceva nelle tesi e nei problemi sollevati dai modernisti, ma
che soprattutto, appunto, trovarono maggiore e più fortunato ascolto presso coloro
che a Roma riuscirono a imporre le tesi dell’ortodossia, come lo stesso Loisy dovette
prendere infine atto.
In particolare al rapporto fra Loisy e l’altro grande esegeta cattolico francese
suo contemporaneo, Joseph-Marie Lagrange, è dedicato lo studio dell’indiscusso
1_2011.indd 335
28-06-2011 12:12:26
336
Cr St 32 (2011)
specialista del grande biblista domenicano, Bernard Montagnes (pp. 193-213). Sospetto e ripetutamente denunciato a Roma per idee che mettevano in discussione risultati e metodi della tradizionale esegesi cattolica veterotestamentaria, ma a
differenza di Loisy convinto assertore che il lavoro esegetico andasse svolto senza
troppo ardite sollecitazioni dogmatiche, pur subendo la condanna di alcuni scritti,
Lagrange non patì delle sanzioni amministrate a Loisy e sopportò con abnegazione i trattamenti riservatigli, tanto che, come ricorda Montagnes, la sua dolorosa
vicenda è stata recentemente presentata da Giovanni Paolo II come un infortunio
nella storia della Chiesa. In particolare Montagnes mostra come Lagrange sostenne
con accortezza, ma anche con determinazione, i diritti del metodo storico-critico
e insieme i sui limiti rispetto agli elementi propri del Mistero, contro teologi che
come Billot – uno dei maggiori artefici della rovina di Loisy a Roma – si vantavano
di lasciare i propri allievi all’oscuro della questione biblica e rifiutavano l’idea che
si potessero individuare diversi generi letterari nei testi biblici al di fuori di quello
“rivelato”, o come Thomas Pègues, la cui ostilità per la disponibilità di Lagrange e
Batiffol a mettere in discussione la storicità di qualche racconto biblico (e quindi
per questo considerati pericolosi apripista del più radicale Loisy) dipese pure dalle
critiche ricevute per l’infelice difesa svolta sul piano storico-empirico delle fandonie
di un impostore che nel 1896 aveva preteso di poter svelare l’identità di colei che la
massoneria francese avrebbe adorato come figlia del diavolo.
Il testo di Xavier Zubiri presentato nel volume (pp. 215-220) è il necrologio
pubblicato per la prima volta su di una rivista francese che il filosofo spagnolo
redasse nel 1938, proprio per la morte di Lagrange. Ricollegando la lezione del
grande esegeta domenicano alla “tradizione viva” che sul finire del pontificato leonino intervenne a correggere i tradizionalismi del XIX secolo, espressioni piuttosto
di un oblio dell’autentico passato cristiano, Zubiri apprezzò soprattutto la teoria
dell’ispirazione biblica di Lagrange, intesa come mozione esercitata da Dio sulle facoltà dell’autore umano perché scrivesse secondo le intenzioni divine, opposta alla
teoria di Franzelin, che aveva finito coll’assimilare ispirazione e rivelazione; per cui
nella prospettiva di Lagrange risultava essenziale lo studio grammaticale e quello
del genere letterario dei testi biblici, senza che allo stesso tempo finisse sacrificato il
diritto a interpretare le Scritture rivendicato dalla tradizione ecclesiastica, dato che
il Domenicano riconobbe la Bibbia come portato del milieu costituito proprio dalla
Chiesa nel suo evolvere storico.
Il primo contributo di Ernst Dassmann al volume (pp. 85-109) è relativo alla
figura di von Harnack, fra i principali esponenti del protestantesimo liberale, i cui
contributi hanno segnato in profondità gli studi storici e le cui tesi sull’evoluzione
storica del cristianesimo costituirono un obiettivo polemico pure per il protestantesimo ortodosso, con cui Harnack dovette in qualche modo fare i conti anche in
privato, affrontando gli amari rimproveri paterni. Mostrando le differenze fra quella
monumentale opera del genio giovanile che fu la Dogmengeschichte e la notissima
operetta sul Wesen des Christentums, in cui furono riportate alcune lezioni berlinesi
dell’ormai affermato universitario e in cui i suoi presupposti teologici (anti-cattolici:
ellenizzazione e istituzionalizzazione degeneranti) si manifestarono in maniera più
scoperta, richiamando il giudizio già espresso in proposito da Troeltsch, Dassmann
riconosce il valore della critiche che furono indirizzate da Loisy a partire dal punto
1_2011.indd 336
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
337
di vista cattolico. Dassmann mette però anche più in generale in guardia contro ogni
tentativo esegetico che, sulle tracce di Lutero, si affanni alla ricerca di un “canone
del canone”; ritengo che vada quindi detto che se, in effetti, il lavoro filologico
comporta sempre una dimensione ipotetica che impone all’esegeta di restare aperto
al confronto e alle critiche, sarebbe però ingenuo, da un lato, trascurare il carattere composito delle Scritture come dato problematico e, dall’altro, pretendere di
studiare storicamente la figura di Gesù per produrne una biografia elaborata sulla
sola base degli scritti neotestamentari presi in blocco; le testimonianze esterne a
riguardo, come ricorda Dassmann, sono certamente esigue, ma ciò non toglie che
una ricerca avvertita, come quella proposta da John Paul Meier, abbia prodotto
risultati notevoli.
Nel contributo (pp. 261-284) sul patrologo tedesco Joseph Wittig (1879-1949) –
amato maestro di Hubert Jedin –, dopo aver svolto alcune intelligenti osservazioni
sulla difficoltà a definire il modernismo dal punto di vista concettuale e spaziotemporale, utilizzando la recente ricca letteratura tedesca sulla crisi modernista
(di cui ricordo qui solo i contibuti di Otto Weiss e di Claus Arnold), Dassmann
ricostruisce la vicenda che vide Wittig impegnato a proporre i contenuti cristiani
attraverso strumenti letterari già stigmatizzati in Germania come veicolo di errori
modernisti. A partire dal 1922 alcuni testi di Wittig sui danni pastorali prodotti dalla
teologia scolastica del peccato, la sua concezione della Chiesa – che dopo il Vaticano
II correrebbero ormai liberi da sospetti d’eresia – produssero una serie di critiche
e sanzioni culminate con la scomunica del 1926 (dopo che Wittig aveva rifiutato
di ripresentare il giuramento antimodernista, a cui riteneva di esser rimasto fedele)
che però, vent’anni dopo, fu ritirata senza che fosse stata fatta richiesta dall’interessato, il quale aveva intanto in privato continuato a considerarsi cattolico. Seguendo
Ireneo di Lione, Dassmann ricava dalla vicenda indicazioni per concludere sul fatto
che, per sua natura, il cristianesimo ha in generale (e, in particolare, dopo l’Illuminismo) condotto a frenare e a sanzionare le novità dottrinali escogitate da coloro
che, pur animati da buone intenzioni, intesero fare i conti con le esigenze dei loro
contemporanei, risultando pure talvolta, col senno di poi, strumento di fecondo
sviluppo. Personalmente, dalla vicenda di Wittig mi limiterei a ricavare un’utile
indicazione per sostenere un’ipotesi di cronologia della crisi modernista, la cui fase
critica coincide col pontificato di Pio X e il cui termine a quo può essere individuato
nel 1893 (Congresso delle religioni a Chicago, rimozione di Loisy dall’insegnamento di Sacre Scritture all’Institut Catholique de Paris, pubblicazione dell’enciclica
Providentissimus e de L’Action di Blondel) e quello ad quem nella seconda guerra
mondiale: da quando cioé la guardia antimodernista andò organizzando argomenti
e pratiche repressive, sino al momento in cui venne finalmente fatto posto adeguato
al metodo storico-critico e ad alcuni suoi risultati (soprattutto in ambito veterotestamentario) nell’ambito dell’esegesi cattolica, allorché il confronto con la filosofia
contemporanea (non solo quella blondeliana) iniziò a produrre effetti rilevanti nella
produzione teologica ecclesiale (con immancabili contraccolpi) e una parte rilevante dell’opinione colta anche cattolica assunse il personalismo – un pensiero sottratto
ai controlli accademici – come riferimento nel confronto con l’esistenzialismo ateo
ed il marxismo; quando, insomma, in un mutato contesto geo-politico, le grandi
democrazie occidentali divennero interlocutrici privilegiate per la Chiesa, avviando
1_2011.indd 337
28-06-2011 12:12:26
338
Cr St 32 (2011)
così un nuovo percorso, lungo e accidentato, in cui il Vaticano II avrebbe segnato
un passaggio rilevante e che, per certi versi, risulta ancora aperto.
Sull’opera che costituì il manifesto internazionale del modernismo, il romanzo
Il Santo di Antonio Fogazzaro, tradotto con grande successo in numerose lingue del
mondo, interviene il contributo di Paolo Marangon (pp. 223-243), autore di importanti studi su questo stesso soggetto. In questo articolo, riferendosi al materiale preparatorio dell’opera letteraria e alla corrispondenza privata di Fogazzaro, Marangon
mostra efficacemente l’incompatibilità delle mentalità di due figli del cattolicesimo
veneto: Fogazzaro, erede del liberalismo cattolico e del conciliatorismo e Giuseppe
Sarto, venuto dalle fila del clero intransigente. Scritto a partire dal 1901, quando
Fogazzaro era sotto l’influsso del pensiero di Laberthonnière, sviluppato nel corso
di quattro anni, quando sempre attrevarso la mediazione di Semeria il romanziere
italiano, senatore del Regno, fu portato ad apprezzare i lavori di Tyrrell, il romanzo
fu progettualmente orientato a presentare lo scacco del programma di riforma religiosa incarnato dal protagonista, Benedetto, dal momento in cui Fogazzaro apprese
dell’elezione al soglio pontificio del patriarca di Venezia. Fogazzaro fu infatti tra i
pochi cattolici immediatamente delusi dalla scelta compiuta in conclave proprio per
la conoscenza da lui direttamente già maturata della personalità di Pio X. Di tale
sua opinione Fogazzaro fu poi ricambiato, dato che per esplicito intervento del Papa
il romanzo finì all’Indice nel 1906, dopo che Padre Zocchi l’aveva pubblicamente
denunciato su La Civiltà Cattolica e il censore incaricato del giudizio ufficiale,
Laurent Janssens, vi aveva scorto “panteismo e teosofismo più o meno buddistici”.
Il Pontefice – che aveva ripetutamente negato udienza a Fogazzaro –, nello spirito
dell’infallibilismo intransigente ottocentesco individuante nel Papa il Cristo nella
Chiesa e nonostante gli accorgimenti messi in atto dall’autore per evitare espliciti
riferimenti personali, soprattutto non gradì la scena del colloquio di Benedetto col
Papa, in cui vengono denunciati i quattro spiriti maligni allignati nella Chiesa.
Utile contributo allo studio di Harnack, Blondel, Lagrange, Fogazzaro, Wittig,
di alcuni sviluppi assunti dal dibattito biblico nel corso del Novecento, dell’antimodernismo e della temperie spirituale iberica all’inizio del XX secolo, il volume
– fatte salve le riserve segnalate a correzione di una prospettiva talvolta viziata da
inadeguate premure apologetiche – costituisce per il lettore ispanofono un interessante invito alla conoscenza di un rilevante fenomeno della storia del cattolicesimo
contemporaneo e la prova evidente che, nonostante la distanza – non solo temporale – che ci separa dalla crisi modernista dell’inizio del XX secolo, i dibattiti allora
sollevati dai modernisti risultano, per certi versi, ancora attuali.
Giacomo Losito
Dottore in Filosofia e Storia delle religioni
1_2011.indd 338
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
339
Federico M. Requena, Católicos, devociones y sociedad durante la Dictadura de Primo de Rivera y la Segunda República. La Obra del Amor Misericordioso en España (1922-1936), Biblioteca Nueva, Madrid 2008, pp. 359
Contrariamente a quanto potrebbe suggerire il titolo, questo saggio di Federico
M. Requena (storico legato agli ambienti dell’Opus Dei ed esperto nella religiosità
spagnola) descrive l’introduzione e diffusione nella Spagna degli anni Venti e Trenta
del Novecento della dottrina e della devozione dell’Opera dell’Amore Misericordioso, della visitandina francese Maria Teresa Desandais.
Dopo aver trattato brevemente le origini dell’Opera dell’Amore Misericordioso
nella prima parte del libro, nelle due parti successive l’autore si concentra infatti
esclusivamente su quella pratica devozionale. Senza omettere il riferimento al retroterra religioso dell’epoca, caratterizato dalla consacrazione della Spagna al Sacro
Cuore di Gesù (1919), Requena inizia la sua ricostruzione presentando la rete di persone che, entusiaste della dottrina di Teresa Desandais, costituirono il nucleo dei suoi
propagandisti: il padre domenicano Juan González Arintero e un piccolo gruppo di
donne, delle quali mette subito in luce la dedizione di Juana Lacasa. Si occupa quindi
di ripercorrere le fasi più importanti del progetto di convertire l’Opera dell’Amore
Misericordioso in un’organizzazione internazionale di diritto pubblico, riconosciuta
come tale dalla Santa Sede. Circoscrivendo questo periodo tra la primavera del 1923
e l’inverno del 1924, l’autore sottolinea la cesura che, nel mancato raggiungimento di quell’obiettivo, giocò l’assunzione da parte del domenicano francese Reginald
Duriaux della direzione dell’Opera di Desandais. Abbandonando conseguentemente
l’idea di fare dell’Opera dell’Amore Misericordioso un’associazione o una congregazione con personalità propria (ma non quella di ottenere un riconoscimento pontificio), nei due anni successivi i suoi propagandisti si impegneranno a diffondere, attraverso una collezione di testi di Desandais intitolata Pour les amis du Cœur de Jesus,
l’aspetto spirituale di quella devozione visitandina. È nella descrizione di questa fase
dell’espansione spagnola dell’Opera dell’Amore Misericordioso, dove Requena accenna a due fattori che, meglio di altri, possono spiegare le ragioni di quella diffusione:
da una parte, il contesto politico francese delle pratiche devozionali, in cui non era
consigliato utilizzare il nome di Amore Misericordioso, e, dall’altra, quello spagnolo
che, più “liberale” da questo punto di vista, favorì l’adattamento di quella dottrina alla
religiosità propria della società spagnola. Come viene infatti spiegato, la seconda metà
degli anni Venti rappresentò la fase crescente dell’espansione della devozione nei
confronti dell’immagine dell’amore misericordioso di Cristo. Un’espansione che, oltre
a coinvolgere vari ordini religiosi e parrochie della geografia spagnola e a introdurre
la pratica dell’adorazione domestica, sarà accompagnata da una crescente attività editoriale, che non si arresterà nemmeno con la morte del padre Arintero e il cambio di
direzione agli inizi del 1928. Un’espansione che, nonostante tutto, non sarà sufficiente
a fondare la nuova richiesta di un riconoscimento pontificio e, consequentemente, la
possibilità di una futura istituzionalizzazione dell’Opera dell’Amore Misericordioso.
Un’espansione, finalmente, che toccherà il vertice nel biennio 1930-1931, quando la
crisi della dittatura di Primo de Rivera e la proclamazione della Seconda Repubblica
si ripercossero sulla percezione e sull’attività dell’Opera dell’Amore Misericordioso
in Spagna.
1_2011.indd 339
28-06-2011 12:12:26
340
Cr St 32 (2011)
Come mette in evidenza lo stesso Requena, nonostante le divergenze istituzionali sorte, tra il 1932 e il 1934, a causa del tentativo del convento domenicano di
Salamanca di centralizzare la direzione l’Opera dell’Amore Misericordioso, e che
daranno vita a una rivista propria e indipendente per la diffusione degli scritti di
Maria Teresa Desandais, durante il primo lustro degli anni Trenta la devozione della
visitandina francese conobbe un’amplia diffusione in tutta la geografia spagnola.
Oltre a ragioni legate strettamente alla congiuntura politica derivata dalla proclamazione della Seconda Repubblica, un fattore determinante di questa fase di rapida
espansione sarebbe stato l’appoggio diretto e quasi incondizionato che l’Opera trovò in monsignor Tedeschini, Nunzio Apostolico a Madrid, e in un numero sempre
maggiore di vescovi. Nonostante l’autore sostenga che in questo momento cruciale
della storia spagnola la devozione all’Amore Misericordioso di Gesù non venne fatto
oggetto di strumentalizzazione politica, l’orientamento laicizzante dei governi socialisti avrebbe consigliato ai propagandisti di quella devozione di eliminare dalle
immagini qualsiasi riferimento alla monarchia. La Guerra Civile, finalmente, segnò
l’inizio di una parabola discendente nella diffusione della devozione all’immagine
dell’Amore Misericordioso di Gesù fino a scomparire definitivamente agli inizi degli
anni Quaranta.
Senza ombra di dubbio, lo studio di Requena costituisce un importante contributo a una più profonda conoscenza della religiosità della società spagnola del XX
secolo. In primo luogo perché con sufficiente dovizia di dettagli, l’autore riesce a
ricostruire chiaramente l’evoluzione di quella devozione, a risolvere in modo soddisfacente i nodi legati ai vari tentativi di istituzionalizazzione di quella pratica, così
come a definire con precisione i principiali protagonisti di questa microstoria. In
secondo lugo, perché l’apparato bibliografico risulta abbastanza completo, anche
se circoscritto a un determinato settore nella parte relativa al caso spagnolo. E in
terzo luogo, per la varietà e ampiezza dell’apparato archivistico utilizzato da Requena. A questo proposito, riscuote un certo interesse la consultazione dell’Archivio
della Nunziatura Apostolica di Madrid, dell’Archivio Segreto Vaticano, dell’Archivio
Juan González Arintero del convento domenicano di San Esteban di Salamanca
(che include un’estesa sezione dedicata all’Amore Misericordioso), dell’Archivio del
Monastero della Visitazione di La Roche-sur-Yon, oltre alla lunga serie di articoli
pubblicati dalla stessa María Teresa Desandais.
Con tutto ciò, Católicos, devociones y sociedad durante la Dictadura de Primo
de Rivera y la Segunda República non riese a rispondere a quesiti chiave quali, ad
esempio, le ragioni per cui la dottrina e la devozione dell’Amore Misericordioso
di Gesù non trovarono facile accoglienza in Francia; le ragioni per cui la Spagna
degli anni Venti e Trenta si convertì nel nucleo propagatore di quella pratica; e,
da ultimo, le ragioni per cui la Santa Sede non volle accordare un riconoscimento
ufficiale alla stessa.
Inserendo correttamente la devozione dell’Amore Misericordioso di Gesù nel
filone del culto al Sacro Cuore (proprio della politica religiosa che la Chiesa adottò
a cavallo tra Otto e Novecento, per ovviare i problemi che la presa di Roma da
parte italiana e la tendenza laicista dello Stato liberale avevano creato all’identità
cattolica del continente europeo), Requena non sembra dare l’adeguata importanza
alle conseguenze che la crisi modernista, il nazionalismo della Prima guerra mon-
1_2011.indd 340
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
341
diale e il sorgere dello Stato totalitario produssero nell’evoluzione della presenza e
azione della Chiesa nella società civile degli anni Venti e Trenta. Per quanto accenni
agli ostacoli che la pratica devozionale dell’Amore Misericordioso incontrò nella
Francia di quegli anni, l’autore non si addentra nelle ragioni di fondo di questo
problema quali, molto probabilmente, il proposito vaticano di dissociare l’identità
cattolica dei cittadini dall’identità nazionale dello Stato totalitario e, dando maggior
rilevanza all’associazionismo cattolico, garantire così l’universalità della Chiesa e
il carattere internazionale della Santa Sede. Non tenendo presente questa ipotesi,
Requena sembra forzare tanto l’effettiva recezione della dottrina quanto l’effettiva
diffusione del culto all’immagine dell’Amore Misericordioso di Gesù. Come lo stesso
autore sostiene, “nel caso dell’Amore Misericordioso non era possibile parlare di
culto pubblico in senso stretto, perché non ci fu mai un’approvazione gerarchica
al riguardo” (p. 198). Il maggior grado di adesione episcopale alla devozione di
ispirazione visitandina venne raggiunto infatti durante i governi socialisti della Seconda Repubblica, quando il culto all’Amore Misericordioso di Gesù (privato della
simbologia regale affinché i cattolici non fossero accusati di sedizione dal governo
repubblicano) risultò essere una delle poche vie cattoliche non di partito che la
Chiesa considerò utile per far convergere una società civile, cattolica nella sua gran
totalità, attorno alla difesa della libertas Ecclesiæ.
Romina De Carli
Universidad Complutense
Peter Hünermann (Hrsg.), Daz Zweite Vatikanische Konzil und die Zeichen
der Zeit heute, Herder, Freibug-Basel-Wien 2006, pp. 672
Se trata de un amplio volumen dirigido por P. Hünermann (Tübingen), junto
con B.J. Hilberath (Tübingen) y L. Boeve (Leuven) de amplísima colaboración internacional con un título y enfoque dignos de mención, ya que quiere presentar el
concilio Vaticano II relacionándolo con los signos de los tiempos. Se trata de una
obra dedicada al cardenal K. Lehmann en su setenta aniversario. Se divide en tres
partes: el primer capítulo se centra en el concepto de signos de los tiempos hoy; el
segundo capítulo trata sobre el Vaticano II, su recepción y sus desafíos teológicos, y
el tercer capítulo presenta las orientaciones que este concilio aporta teniendo presente los signos de los tiempos y todo el trabajo teológico que esto supone. Veamos
sus diversas colaboraciones:
La introducción, que precede todo el volumen, va a cargo del cardenal K. Lehmann, obispo de Mainz, titulada significativamente: “el Vaticano II: un indicador
de camino”. Se trata de un estudio ejemplar por su articulación y contenido que
partiendo del problema de la recepción y virtualidad del Vaticano II afronta la cue-
1_2011.indd 341
28-06-2011 12:12:26
342
Cr St 32 (2011)
stión del análisis de los textos conciliares para situarse en una perspectiva de futuro
en el marco de los signos de los tiempos con cinco lúcidas perspectivas: la pregunta
por Dios; la transmisión de la fe en las nuevas generaciones; la complementariedad
eclesial entre servicio y diálogo; la necesidad de la dimensión social y política de los
cristianos, y, finalmente, la urgencia de una nueva iniciativa misionera.
La primera parte del capítulo primero sobre los signos de los tiempos representa
quizá el aporte más consistente teológicamente de todo este volumen, ya que en ella
intervienen cuatro notables teólogos sobre este cuestión. Primero, P. Hünermann,
que hace una lectura crítica actualizada de GS 4-10 donde compara el texto con
la situación presente y como conclusión ofrece una dibujo de la teología “postmoderna” – aunque, partiendo sólo de bibliografía anglo-sajona! –, que la describe a
partir de estas tres características: el análisis linguístico siguiendo a Wittgenstein y
la filosofía reciente del lenguaje; las reflexiones sobre el ser y la cultura, sobre la
Metafísica y la Ontoteología de Heidegger, Gadamer, Ricoeur, Adorno y Levinas; la
crítica ‘deconstructiva’ de Lyotard y Derrida (p. 58 y n. 76). El segundo autor es el
notable profesor italiano, G. Ruggieri, que presenta una amplia panorámica teológica de la comprensión de los signos de los tiempos en la que recoge sustancialmente
un notabilísimo estudio suyo anterior (“La teologia dei ‘segni dei tempi’: acquisizioni e compiti”, en G. Canobbio (ed.), Teologia e storia: l’eredità del ‘900, Cinisiello
Balsamo 2002, 33-86; sobre el estudio de José da Cruz Policarpo – que cita en p. 51,
n. 57 –; cf. su nueva edición, Obras Escolhidas 1: O Evangelho e a História. Ler os
Sinais dos Tempos, Lisboa 2003, 9-415, con un capítulo añadido por el mismo autor: “Trinta anos depois”, 417-434). La tercera intervención es del profesor en París,
Ch. Theobald, que con su habitual agudeza presenta una teología de los signos de
los tiempos en clave de modus procedendi teológico. Finalmente el relevante moralista, D. Mieth, ofrece una matizada reflexión sobre la dimensión ético-teológica de
la categoría signos de los tiempos teniendo presente la globalización mundial.
El segundo bloque del capítulo primero entra en la cuestión de los signos de los
tiempos globales agrupados en cuatro que se presentan sucintamente: la cuestión de
la mujer, por M. Eckholt; el Ecumenismo, por R. Frieling; la ecología, por M. Vogt
y la religiosidad y las religiones por B. Nitsche. Sigue el tercer bloque sobre cada
uno de los cinco continentes donde se encuentran estudios notables: de Latinoamérica se ofrece una elaborada panorámica del argentino C. Schickendantz (cf. su
reciente, inspirado en K. Rahner: Cambio estructural de la Iglesia, Córdoba 2005);
de Norteamérica el notable eclesiólogo de Québec, G. Routhier, ofrece una lúcida
visión relativamente unitaria; de Asia, el teólogo de la India F.X. D’Sa, presenta
con pasión el momento presente, aunque su preferencia por la “Ökosophie” de R.
Panikkar quizá sea excesiva; de África, E. Uzukwu, subraya la búsqueda hacia un
mundo mejor bajo la fuerza del Espíritu; finalmente, sobre Europa M. Kirschner
(Tübingen), ofrece una panorámica desequilibrada, en la cual la perspectiva y la
bibliografía francesa, italiana y española son prácticamente ausentes (sólo se citan:
Melloni y Ruggieri!).
El segundo capítulo abre con un bloque sobre las grandes Constituciones del
Vaticano II. De la Sacrosanctum Concilium trata de forma muy superficial W. Haunerland (München), el cual incomprensiblemente ignora toda la importantísima
bibliografía francesa, pero también italiana y española sobre liturgia (sólo en n. 7 se
1_2011.indd 342
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
343
cita P. Sorci!). Sobre la Lumen Gentium escribe el reconocido teólogo B.J. Hilberath
(Tübingen) que centra su atención en la cuestión del ministerio eclesial, en el debate sobre la iglesia universal y las iglesias locales, y en la relación entre eclesiología
y derecho canónico, mostrándose muy deudor tanto de las valoraciones de O.H.
Pesch, Daz Zweite Vatikanische Konzil, Würzburg 2001, como del notable canonista
E. Corecco. Sobre la Dei Verbum, J. Brosseder (Köln) presenta su comentario con
una conclusión más bien crítica, y citando sólo bibliografía alemana siendo muy
próximo a la orientación del citado O.H. Pesch. Inconprensiblemente se introduce
aquí, ya que no es su lugar propio, una crónica ‘local’ más bien negativa de M.
Lamberigts (Leuven) sobre la liturgia postconciliar en Holanda. Finalmente, se trata
de la Gaudium et Spes unida a Apostolicam Actuositatem por parte del reconocido
historiador de Bolonia, G. Turbanti (cf. su previo y notable, Un concilio per il mondo
moderno. La GS, Bologna 2000). El tratamiento en común de ambos documentos
puede sorprender, dado que la perspectiva de AA es muy diferenciada respecto GS,
ya que en la primera hay restos de una visión clerical del laicado, no presentes en
cambio en la segunda, y por esto no es de extrañar que sobre AA no se dé ninguna
cita bibliográfica!
El segundo bloque está centrado en la recepción del derecho canónico del Vaticano II con cuatro monografías: una reflexión teológica-canónica de M. Wijlens
(Erfurt); una reflexión sobre servicios y ministerios de S. Demel (Regensburg); una
monografía sobre el canonista E. Corecco por parte de A. Melloni (Reggio Emilia),
y unos ‘desiderata’ teológicos para el derecho canónico de G. Bausenhart (Hildesheim). Sobresale particularmente el atento estudio sobre Corecco de Melloni (con
un apéndice que incluye un interesante documento de Corecco sobre la reforma de
la curia romana en 1985), así como las diversas iniciativas acerca de los obispos y
de los laicos de Bausenhart.
El tercer bloque se centra en el ecumenismo con cuatro monografías de primera magnitud por razón de sus autores: así, comenzando por el menos conocido, el
obispo sueco, B. J. Johnson sobre el Consejo Ecuménico de las Iglesias; seguido por
el ortodoxo G. Larentzakis, el evangélico A. Birmelé y un balance del 40 años de
ecumenismo potsconciliar por el reconocido L. Vischer. El cuarto bloque y el más
breve se centra en el diálogo con el mundo y las religiones, y en él se parte de los
documentos del Vaticano II que lo propician: Gaudium et Spes, analizada por N.
Mette (Dortmund) con una precisa nota sobre la teología pastoral; Dignitatis Humanae es comentada por el ya citado L. Vischer; Ad Gentes y Nostra Aetate sirven
para que el reconicido teólogo norteamericano, R. Schreiter (Chicago), presente un
breve y lúcido panorama.
El quinto bloque del segundo capítulo se trata de la recepción y los ‘desiderata’
teológicos en los grandes ámbitos culturales del mundo, a partir de cinco contribuciones: el brasileño J.O. Beozzo (Sao Paolo), el canadiense, ya citado, G. Routhier
(Québec), el indio P. Pulikan (Thrissur), el africano S. Bedjra (Abidjan) y el esloveno J. Juhant (Ljubljana), sobre los paises europeos ex-comunistas. En general son
trabajos un tanto prolijos en su intento de resumir la situación, aunque sin duda relevantes por su información y, a veces, claridad especialmente en los dos primeros.
El capítulo final quiere ser un balance articulado y es aquí donde aparecen sus
dos grandes artífices. Así, abre el camino P. Hünermann con un programa teológico
1_2011.indd 343
28-06-2011 12:12:26
344
Cr St 32 (2011)
para el tercer milenio y le sigue J. Hilbertath que lo quiere situar en el contexto de
los signos de los tiempos. Hünermann parte de su concepción sobre los textos del
Vaticano II propuesta ampliamente en su, “Der Text: Werden-Gestalt-Bedeutung.
Eine hermeneutische Reflexion”, in HThK Vat. II, Bd 5, 5-102, comprensión sugerente pero seguramente insuficiente para configurar el valor magisterial del Vaticano II como ‘doctrina católica’ según lo expresó Pablo VI (cf. las observaciones en
nuestra, Eclesiologia, Brescia 2008, 75-81). A partir de ahí, Hünermann se adentra
ampliamente en la “pragmática linguística” para proponer su posición, así como un
denso excursus sobre la fe y la estructura dialéctica del ser humano según Tomás
de Aquino y E. Kant. No se puede negar el esfuerzo manifiesto por este notable
teólogo para conseguir unas propuestas novedosas, las cuales, aún el contexto de lo
signos de los tiempos vistos justamente como elementos esenciales de una teología
histórica del tercer milenio, dejan un tanto insatisfecho por su formulación final
muy correcta pero seguramente escasamente concreta y propositiva.
Por su parte J. Hilberath se centra en los signos de los tiempos y presenta una
clara y buena panorámica de los puntos difíciles de la no recepción intra-católica
que a su parecer son: la renovación de la Liturgia; el movimiento bíblico y ecuménico; la eclesiología de la communio y la estructura de la communio. Como “agenda”
y acentos a tener presente se subraya: el testimonio vivido; la profecía ‘extranjera’,
(o heterotopia: la utopía surgida del ‘otro’) y el progreso común – ecuménico-cívicocultural – hacia un perfil propio, concluyendo con lucidez su interés específico:
“que el lema ‘que todos sean uno’ se realize sin olvidar el objetivo final que es ‘para
que el mundo crea’” (p. 609).
En definitiva, se trata de una obra muy ambiciosa en su planteamiento y por
esto estimable, especialmente en su planteamiento inicial sobre los “Signos de los
tiempos”, aunque la rica y sugerente multiplicidad de colaboradores oscurecen sus
conclusiones que aparecen un tanto autónomas respecto a las diversas voces implicadas. En este contexto sorprende que siendo una obra con ambición internacional
su bibliografía sea tan concetrada en el mundo alemán, marginando o ignorando
–cosa que sería peor! –, contribuciones francesas, italianas, y aún españolas (en este
sentido el texto sobre Europa es significativo, así como la ausencia de comentarios
relevantes a los documentos del Vaticano II!). Esperemos, con todo, que el notable
esfuerzo realizado por los editores con los más de treinta colaboradores, así como
por la prestigiosa editorial Herder, encuentren resonancia en el mundo teológico
y pastoral para propiciar una profundización en la cuestión tan fascinante como
delicada de los “Signos de los tiempos”.
Salvador Pié-Ninot
Facultat de Teologia de Catalunya (Barcelona)
Pontificia Università Gregoriana (Roma).
1_2011.indd 344
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
345
Reforming the Church before Modernity. Patterns, Problems and Approaches, ed. by Christopher M. Bellitto and Louis I. Hamilton, Ashgate, London 2005, pp. 224
Reform ist ein schillerndes Wort, besonders im kirchlich-religiösen Bereich. Bedeutet es eine individuelle Reform des persönlichen Lebens? Versteht man darunter
eine Verbesserung der kirchlichen Institutionen, der religiösen Praxis oder ist Reform eine Kombination von all dem? Und ist Reform eine Rekonstruktion der Vergangenheit, ein Zurückgehen ad pristina oder eine Neuausrichtung ad melioranda?
Auf all diese Fragen geht Louis I. Hamilton in der Einführung zu dem Berichtsband
ein. Dem Band liegen die Referate eines Kongresses zugrunde, der im August 2002
in New York stattfand.
Der erste Teil ist überschrieben: Social Change and Religious Reform. Robert
A. Markus sieht in seinem Beitrag Church Reform and Society in Late Antiquity
drei gesellschaftliche Transformationen im christlichen Altertum gegeben: die Konstantinische Wende, die Christianisierung der germanischen Reiche und die Eroberungen des Islam. Die ursprünglich „verfolgte“ Kirche wurde nach Konstantin ein
Teil der römischen Gesellschaft. Dabei verlor das christliche Leben bei den breiten
Massen an rigoroser Ernsthaftigkeit. Reformen, die ein Augustinus oder Ambrosius
ins Werk setzten, blieben auf ein Elitechristentum beschränkt. An der Schwelle zum
Mittelalter wurde durch den Eintritt der Germanen das von der Romanitas geprägte
Christentum nun von der fränkisch-germanischen Gesellschaft bestimmt. Der westlichen Kirche aber mangelte es an Selbstkritik. Sie verharrte in einem gewissen
Triumphalismus. Der Verlust wesentlicher Gebiete an den Islam brachte einen weiteren Einschnitt und eine Verstärkung der Isolation.
In seinem Beitrag Gaudium et Spes: Ecclesiastical Reformers at the Start of a
“New Age” nimmt John Howe das 11. Jahrhundert in den Blick. Die gesellschaftliche und politische Situation hatte sich grundlegend geändert. Der Impuls einer Reform in dieser Zeit ging – so Howe – nicht so sehr, wie bisher vielfach angenommen,
von der Gregorianischen Bewegung aus, sondern wurde getragen von charismatischen und prophetischen Gestalten monastischer oder klerikaler Prägung. Dabei
wurde jedoch weniger das christliche Volk in seiner Gesamtheit erfasst.
Der zweite Teil des Buches geht über zu einer Betrachtung Philosophischer
Prägung: The Ideas of Reform and the Intellectuals.
Wayne J. Hankey: Self and Cosmos in Becoming Deiform: Neoplatonic Paradigms for Reform by Selfknowledge from Augustine to Aquinas verfolgt die Tradition
neuplatonischer individueller Reform (self-reform) von der Spätantike bis zum Mittelalter und betont, dass eine Gegenüberstellung – hier der platonische Augustinus
– dort der aristotelische Thomas von Aquin nicht der Wirklichkeit entspreche. Beide, Augustinus und Thomas gehen von einer Hinwendung zum Subjekt als Grundlage der Selbsterkenntnis aus und benutzen diese Erkenntnis für den Aufstieg zum
Göttlichen. Diese Art der Reform bedeutet keine Reform der Institutionen, sondern
der eigenen Person.
In ihrem Beitrag The Early Scholastics and the Reform of Doctrine and Practice
untersucht Marcia L. Colish das Reformverständnis der frühen Scholastiker. Diese
übten zum Teil Kritik an den früheren Theologen. Ihre Reform-Intention ist nicht
1_2011.indd 345
28-06-2011 12:12:26
346
Cr St 32 (2011)
so sehr eine reforma ad pristina als vielmehr eine reforma ad melioranda. Ihre Prinzipien konnten sie jedoch auf den verschiedenen theologischen Feldern durchaus
unterschiedlich anwenden.
John O’Malley beginnt seine Untersuchung, die den Titel trägt Fides quaerens et
non quaerens intellectum: Reform and the Intellectuals in the Early Modern Period
mit dem Aufschwung der Kanonistik seit der Gregorianischen Bewegung des 11.
Jahrhunderts. Das Kanonische Recht und zusammen mit ihm die Scholastik waren
Themen, die sowohl Luther wie das Konzil von Trient beschäftigten. Luther lehnte
sowohl die Kanonistik als auch die Scholastik ab. Für ihn galt die sola scriptura – allein die Heilige Schrift. Für das Konzil von Trient dagegen bildete das Kirchenrecht
ein Mittel, um die Disziplin durchzusetzen, und die Scholastik gab die Grundlage
für die Definition der Glaubenswahrheiten ab, um die Glaubenswahrheiten zu definieren. Erasmus von Rotterdam aber verfolgte einen dritten Weg. Er lehnte Konflikte ab und suchte Frieden und Concordia. Geformt durch die studia humanistica
bedeutete für ihn Reform eine Erneuerung der inneren Frömmigkeit. So zeigt das
16. Jahrhundert drei Formen von Reform auf, denen auch unterschiedliche Konzeptionen von der Kirche entsprachen.
Der dritte Teil ist betitelt Clerical Reform
In das christliche Altertum führt der Beitrag von Rita Lizzi Testa Clerical
Hierarchy and Imperial Legation in the Late Antiquity: The Reformed Reformers
zurück. Nach der Konstantinischen Wende erhielten die Kleriker zahlreiche Privilegien. Ihre Tätigkeit war wichtig für das Wohlergehen des Staates. Besonders
die Bischöfe wurden wesentliche Stützen der kaiserlichen Politik. Dabei bestand
für den Kaiser die Schwierigkeit, mit den unterschiedlichen Glaubensrichtungen –
Häresie und Orthodoxie – unter den Bischöfen zurecht zu kommen. Auch wurde es
nicht mehr hingenommen, dass die Privilegien missbräuchlich ausgenutzt wurden.
Den Klerikern kamen nun auch soziale Aufgaben zu: Opulentos enim saeculi subire
necessitates oportet, pauperes ecclesiarum divitiis sustentari. Die caritative Tätigkeit
der Kirche wurde zu einer Funktion der Öffentlichkeit. Zahlreiche Bischöfe wurden
von den Reformen erfasst und wirkten ihrerseits als Reformer in der Kirche. So
wurden Bischöfe, wie R. Lizzi Testa feststellt, reformed reformers.
Die Untersuchung von Louis I. Hamilton ist betitelt To Consecrate the Church:
Ecclesiastical Reform and the Dedication of Churches. Herausragende Reformer des
11. Und 12. Jahrhunderts waren die beiden Bischöfe Petrus Damiani und Bruno
von Segni. In dieser Zeit ging es um die Emanzipation der Kirche von der staatlichen Gewalt und die Hervorkehrung der Stellung der Römischen Bischöfe, dazu
allgemein um eine Reform des Klerus. In der Liturgie der Kirchweihe sahen die
genannten Reformer ein Mittel, um die päpstliche Autorität sichtbar darzustellen.
Giuseppe Alberigo analysiert in seinem Beitrag die bekannte Reform-Denkschrift von zwei Venezianern im beginnenden 16. Jahrhundert: The Reform of the
Episcopate in the Libellus to Leo X by the Camaldolese Hermits Vincenzo Querini and
Tommaso Giustiniani. Die weitgespannten Reformvorschläge der beiden Mönche
umfassen Bereiche wie Auswahl, Eignung und Bildung der Bischöfe und ihre Verantwortung für die Zustände der Kirche, Lesung und Kenntnis der Heiligen Schrift
anstelle einer einseitigen scholastischen Bildung der Kleriker, sowie als Heilmittel
für die Schäden in der Kirche die Einberufung eines Allgemeinen Konzils.
1_2011.indd 346
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
347
Die Beiträge des 4. Teils sind zusammengefasst unter dem Titel The Processes
of Reform.
Eine besondere Frage ist: Wie werden die theoretischen Reformkonzepte in die
Tat umgesetzt? Claire Sotinel fragt in ihrem Beitrag The Church in the Roman Empire: Changes without Reform and Reforms without Change: Was kann in der alten
Kirche als Reform bezeichnet werden? Die Reformen können dabei ad pristina und
ad melioranda ausgerichtet sein. C. Sotinel findet dabei Reformimpulse sowohl bei
den Bischöfen als auch im System des Römischen Rechts. Zunehmend werden dabei
die Reformaktivitäten der Kirche zentralisiert.
Den Weg vom Charisma der ersten Gründer zur institutionellen Festlegung der
monastischen Ideale bei den Zisterziensern untersucht Martha G. Newman in ihrem
Beitrag Text and Authority in the Formation of the Cistercian Order. Reassessing
the Early Cistercian Reform. Die ersten charismatischen Gründer-Persönlichkeiten
waren inspiriert von der Heiligen Schrift, Gregors des Großen Moralia in Job, sowie
Gregors Dialoge und Schrift-Homilien. Während bei den Benediktinern der charismatische Abt im Vordergrund stand, sind es bei den Zisterziensern die schriftlich
fixierten Programm-Texte.
Zu Auseinandersetzungen zwischen Frankreich und den Forderungen des Konzils von Trient um eine neue Form klösterlicher Wirksamkeit der Frauen kam es
bei der Entstehung der Vinzentinerinnen. Susan E. Dinan stellt dieses Problem
dar: Compliance and Defiance: The Daughters of Charity and the Council of Trent.
Während das Trienter Konzil in Anlehnung an die monastischen Traditionen eine
Klausurierung der Ordensfrauen verlangte, setzten Vinzenz von Paul und Louise
de Marillac mit Hilfe des französischen Hofes und der Bischöfe gegen alle Widerstände eine neue Form religiösen Lebens für Frauen durch: den Dienst an den
Kranken und Armen außerhalb der Klausur. Diese neue Form charitativer Tätigkeit
von Frauen – nur einfache Gelübde, die jedes Jahr erneuert werden, Kleidung der
Zeit, einfache Lebensweise – verbreitete sich von Frankreich aus auch auf andere
europäische Länder.
Die Beiträge des Bandes bieten ein buntes Spektrum. Sie zeigen eine Fülle
dessen, was als Reform bezeichnet werden kann. Ein besonderes Problem bildet
dabei die Frage: Ist Reform eine Rückkehr zu alten Gegebenheiten oder bedeutet
sie eine Weiterentwicklung zu neuen Formen. Diese Frage kann nicht generell mit
einem ja oder nein beantwortet werden. Sie ist in jedem einzelnen Fall differenziert
zu beurteilen.
Der Band versucht zwar, die Beiträge in vier Gruppen zusammenzufassen, aber
es zeigt sich doch eine große Heterogenität der behandelten Themen. Man hat zuweilen den Eindruck des Zufalls.
Insgesamt aber ist zu sagen, dass die Leser in zahlreiche Reformaktivitäten des
Altertums und des Mittelalters bis zum Vorabend der Neuzeit in kompetenter Weise
eingeführt werden.
Klaus Ganzer
München
1_2011.indd 347
28-06-2011 12:12:26
348
Cr St 32 (2011)
Massimo Borghesi (a cura di), Caro collega ed amico, Lettere di Etienne
Gilson ad Augusto Del Noce, Cantagalli, Siena 2008, pp. 167
Il faut se réjouir de la publication par Massimo Borghesi de la correspondance
d’Étienne Gilson (1884-1978) avec Augusto Del Noce (1910-1989). Établir le texte
d’une correspondance et l’équiper d’un appareil critique est un travail parfois ingrat, et souvent laborieux, mais le gain pour la science historique n’est pas vain:
seul il donne de découvrir de l’intérieur la personnalité, les affinités profondes et
les rouages de la pensée d’un auteur.
Sur le plan bibliographique, cette correspondance vient combler un manque,
même si maintes lettres de Gilson ont déjà été publiées par le passé. Georges Kalinowsky avait ouvert la voie en publiant des extraits de trois lettres d’Étienne Gilson
en annexe de son ouvrage L’impossible métaphysique (Beauchesne, 1981). Le cardinal Henri de Lubac avait suivi le même chemin, avec plus d’ampleur, en publiant
les lettres qu’il avait reçues de Gilson (Lettres de Monsieur Étienne Gilson au Père
de Lubac et commentées par celui-ci, Cerf, 1986), même si l’on doit regretter que le
P. de Lubac n’ait pas songé à publier ses propres lettres pourtant conservées dans
les archives de Gilson à Toronto. Les grandes amitiés de Gilson avaient été mises en
relief par la publication de trois séries de correspondance. L’année 1991 avait vu la
précieuse publication de la correspondance entre Gilson et Maritain sous la direction de G. Prouvost (Vrin), complétée en 1998 par deux lettres de Gilson retrouvées
dans les archives du Cercle d’Études Jacques et Raïssa Maritain (Cahiers Jacques
Maritain, Kolbsheim, n. 37). La correspondance de Gilson avec son élève et ami
Henri Gouhier a elle-même fait l’objet d’une publication dans la Revue thomiste
de Toulouse («Lettres à Henri Gouhier choisies et présentées par Géry Prouvost »,
juillet 1994). Richard Fafara a récemment repris le dossier de cette correspondance
dans The Malebranche Moment, Selections from the Letters of Etienne Gilson and
Henri Gouhier (1929-1936) (Marquette University Press, 2007), en attendant une
publication complète annoncée chez Vrin. La correspondance avec le P. MarieDominique Chenu a été publiée pour partie par Francesca Murphy dans la Revue
thomiste (2005). Il existe encore, dispersés, d’autres fragments de la correspondance
de Gilson: la lettre que lui écrit Paul VI en 1975 est connue; il y a aussi des lettres
intéressantes avec le P. Michel Labourdette (Revue thomiste, 1994), avec Bruno
Nardi (Florence, 1998), avec March Bloch, en annexe de la fameuse correspondance Marc Bloch – Lucien Febvre (vol. 2, Fayard, 2003). Les études gilsoniennes,
appuyées par la réédition de ses ouvrages les plus classiques par la maison d’édition Vrin ces dernières années (ainsi Le Philosophe et la Théologie, 2006 et Les
Métamorphoses de la Cité de Dieu, 2005), ne cessent de s’approfondir, même si – il
faut bien le dire – l’éloignement des archives de Gilson au Nouveau Monde, sans
empêcher le travail, le ralentit sans doute. Les métamorphoses de la culture catholique des années 1960 à aujourd’hui expliquent sans doute le renouveau des études
gilsoniennes: l’œuvre d’Étienne Gilson, occultée un temps par les controverses liées
à ses prises de position dans les affres de l’après-concile, et expédiée un temps au
purgatoire des «conservateurs», est désormais en train d’être réexaminée et relue à
nouveau frais.
1_2011.indd 348
28-06-2011 12:12:26
Recensioni
349
Il faut donc se réjouir de la publication de ces documents mis à jour et commentés par Massimo Borghesi, fin connaisseur de l’œuvre de Del Noce: les notes
27, 28, 38 de l’introduction signalent les travaux de M. Borghesi sur la figure de
Del Noce. Ce dernier était lui-même un commentateur averti de l’œuvre gilsonienne; l’amitié des deux hommes naît sans doute de cette connivence: «En tous cas,
j’ai peine à croire que personne trace jamais un portrait de mon évolution aussi
ressemblant que vos deux étonnantes pages», lui écrit Gilson (p. 115). Le portrait,
cité aux pages 24-25, que Del Noce donne du philosophe français, mériterait d’être
retranscris dans toute son intégralité, Del Noce y peignant Gilson comme la meilleure introduction à saint Thomas: Gilson, souligne Del Noce, est l’un des très rares
philosophes à être devenu thomiste non par sa formation dans un séminaire, non
par conformisme ecclésial, non par réaction contre le monde moderne, mais par
l’exercice de son libre choix et de son intelligence non contrainte.
L’ouvrage a le mérite de publier treize lettres de Gilson, écrites entre 1964 et
1969, ainsi qu’une lettre d’A. Del Noce de 1965. La composition de l’ouvrage est
assez originale: une longue introduction de cinquante pages, qui établit les convergences et divergences des deux auteurs avec rigueur, précède la traduction italienne
des lettres – traduction annotée avec soin. Les lecteurs francophones apprécieront
sans doute ensuite la transcription des lettres en français, et s’étonneront peut-être
de leur reproduction en fac-similé, de sorte qu’in fine le texte des lettres est donné
trois fois. La reproduction à l’identique des documents eût été sans doute rendue
inutile si la transcription du français avait été plus exacte. En un sens, cela pourrait
donner à penser – à tort – que le dossier manquait par lui-même d’épaisseur et de
consistance. Les notes d’édition des pp. 55-57 détaillent avec longueur l’origine
italienne des documents publiés, mais ne se préoccupent pas d’éventuelles sources
canadiennes complémentaires: il eût été pertinent d’évoquer l’existence – ou non
– des réponses de Del Noce au sein des archives d’Étienne Gilson à Saint Michael’s
College, à Toronto. Devant la dissymétrie de la correspondance publiée, le lecteur
en est réduit à une conjecture: il lui faut supposer que les archives de Gilson ne
contiennent rien, mais on aurait aimé en être sûr; et d’autre part, cette absence de
documents dans les archives de Gilson – si elle était avérée – serait à interpréter.
Quoi qu’il en soit, c’est donc une correspondance à sens unique – comme celle de
Gilson avec le P. de Lubac – que le lecteur découvre; et ce dernier reste parfois sur
sa faim.
Ces réserves de méthode émises, les lettres permettent de mieux comprendre
quelques éléments de la biographie de Gilson, qui exerça une influence significative
en France et en Amérique du Nord bien sûr – cela on le savait par la biographie du
P. Shook (Toronto, 1984) – mais également en Italie. Augusto Del Noce, professeur
à l’Université della Sapienza de Rome, sénateur démocrate-chrétien au mitan des
années 1980, en est un exemple, lui qui appelle Gilson «Maître» (p. 65) et qui contribue à la diffusion des œuvres du philosophe français en Italie (p. 118, p. 130).
C’est Del Noce notamment qui permet la traduction italienne des Tribulations de
Sophie en 1967.
A travers la correspondance échangée, on mesure aussi combien Gilson est littéralement fou de l’Italie, et de Venise notamment. Venise est une «passion» (p. 107):
1_2011.indd 349
28-06-2011 12:12:26