strumenti per l`archeologia preventiva: esperienze

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strumenti per l`archeologia preventiva: esperienze
STRUMENTI PER L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA:
ESPERIENZE, NORMATIVE E TECNOLOGIE
A cura di
Andrea D’Andrea e Maria Pia Guermandi
Franco Niccolucci
Editor-in-Chief
Andrea D’Andrea e Maria Pia Guermandi
Editors
Elizabeth Jerem
Managing Editor
Fruzsina Cseh
Copy Editor
Rita Kovács
Typesetting and Layout
András Kardos
Cover Design
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This work is subject to copyright.
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© EPOCH and individual authors
ISBN 978-963-8046-96-3
Published by ARCHAEOLINGUA
Printed in Hungary by Prime Rate
Budapest 2008
INDICE
ANDREA D’ANDREA – MARIA PIA GUERMANDI
Prevenire... Per meglio combattere ......................................................................... 5
STEFANO DE CARO
Archeologia preventiva, lo stato della materia ..................................................... 11
LUIGI MALNATI
La verifica preventiva dell’interesse archeologico ............................................... 21
MARIA PIA GUERMANDI
CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso ................... 33
REMO BITELLI
Il sistema CART .................................................................................................... 43
SOFIA PESCARIN
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future ................... 59
CHIARA GUARNIERI
Archeologia preventiva. Le carte del potenziale archeologico nel quadro
legislativo nazionale e regionale: il caso dell’Emilia Romagna .......................... 73
LUCIANA PRATI
Forlì – Progetto tutela delle potenzialità archeologiche del territorio ................ 93
ANDREA D’ANDREA
Gli Standard nell’archeologia preventiva ............................................................. 95
FRANCESCA ULISSE
La tutela del ‘Bene Culturale’ in europa tra legislazioni e
strumenti operativi .............................................................................................. 107
JEAN-PAUL DEMOULE – NATHAN SCHLANGER
L’archeologie preventive en France: parcours et perspectives .......................... 121
PREVENIRE... PER MEGLIO COMBATTERE
Andrea D’Andrea1 – Maria Pia Guermandi2
1
CISA – Università di Napoli L’Orientale
[email protected]
2
ISTITUTO BENI CULTURALI Emilia-Romagna
[email protected]
L’idea di pubblicare questo volume è nata nel corso di un dibattito organizzato dalla rete di
eccellenza Europea EPOCH nel Novembre del 2007 a Paestum su “Digital Libraries for
the protection and valorisation of the territory: Preventive archaeology in the experience of
EPOCH”. L’interesse mostrato verso i temi affrontati nell’incontro, ci ha spinto a trasformare
la semplice pubblicazione degli interventi in un libro più ampio in grado di abbracciare, da
differenti prospettive ed osservatori (giuridica, normativa, professionale, tecnologica, etc.),
lo scenario attuale dell’archeologia preventiva in Italia.
All’iniziale confronto tra l’esperienza francese dell’INRAP e il quadro normativo e
professionale definito dall’adozione della L. 25 Giugno 2005, n.109 (Vedi Appendice 2),
si è successivamente aggiunto un interesse mirato a definire l’evoluzione della disciplina in
rapporto al mutato scenario giuridico e soprattutto in relazione alle opportunità offerte dalle
nuove tecnologie informatiche, in particolare nel settore dei GIS.
L’obiettivo del volume non vuole quindi limitarsi alla semplice registrazione dei
cambiamenti introdotti dai mutamenti legislativi, ma si estende alla necessità di vedere
quanto una riforma, rivolta soprattutto al campo degli appalti pubblici, possa aver accelerato
una naturale trasformazione dei metodi, delle procedure e degli standard nell’archeologia del
territorio e del paesaggio.
Il titolo del libro insiste sul valore della conoscenza come strumento preventivo e si
configura come l’evoluzione naturale di quell’originale “archeologia del rischio” che
soltanto alcuni anni fa era considerato un punto di mediazione tra gli interessi scientifici
dell’archeologia del territorio e quelli invece indirizzati allo sviluppo urbanistico. Anche se
in senso fortemente ironico e provocatorio, il termine era stato prescelto alcuni anni fa come
titolo di un importate convegno (“Rischio archeologico: se lo conosci lo eviti “, Atti del
Convegno di “Studi su cartografia archeologica e tutela del territorio”, a cura di Maria Pia
Guermandi, Ferrara 2001) che metteva per la prima volta al confronto le differenti esperienze
italiane nel campo dell’archeologia del paesaggio e della tutela con le applicazioni di GIS,
uno strumento informatico per la catastazione del dato a connotazione spaziale.
Per lungo tempo, ed in modo consapevolmente equivoco, si è mantenuta una oscillazione
semantica tra una archeologia del rischio ed una predittiva, una potenziale e quella di
emergenza, una confusione che in realtà mascherava osservatori distinti e nettamente
separati quando non conflittuali. Questa differenza terminologica celava l’esistenza di ambiti
di intervento slegati, ognuno dei quali caratterizzato da una sua precisa, circoscritta e ben
connotata area di azione. L’archeologia di emergenza identificava l’attività di controllo del
territorio da parte delle Soprintendenza, mentre l’archeologia predittiva rimaneva, nella sfera
dell’archeologia del paesaggio, come un’area di ricerca e di studio di tipo accademico ed
universitario. Questo dualismo si manifestava in modo ancora più evidente sul piano delle
5
Andrea D’Andrea – Maria Pia Guermandi
applicazioni informatiche; ad un numero scarso di GIS intra-site destinati al controllo a livello
urbano corrispondeva, invece, un alto numero di soluzioni “predittive” di tipo territoriale
(intra-site) finalizzate all’adozione di tradizionali tecniche di analisi spaziale (site-catchment,
intervisibilità, analisi di percorsi, etc.) per la ricostruzione delle dinamiche del popolamento
antico.
Più confusione ha generato in ambito Italiano l’uso del termine “rischio archeologico”.
Mentre per alcuni esso si riferiva a quell’opera di “aggressione” al territorio realizzata con la
costruzione di infrastrutture civili e private, per altri proprio la presenza di resti archeologici
piuttosto che rappresentare una risorsa era vista come un ostacolo (il rischio appunto) al
naturale sviluppo dei territori ed alla loro modernizzazione.
Il tema era stato già esaminato da A. Gottarelli nel 1997 (Sistemi informativi e reti
geografiche in archeologia: GIS-Internet, Firenze, All’Insegna del Giglio) il quale, a
proposito della diffusione dei GIS, sosteneva a ragione che il rischio è semmai per appaltatori
e costruttori di opere pubbliche.
Se il versante che si può riconoscere in questa presunta modernità vedeva l’archeologia
come un rischio, l’assenza di strumenti adeguati di conoscenza del territorio – se si escludono
le poche carte archeologiche realizzate – isolava in una sfera di emergenza qualsiasi intervento
sul campo, in assenza di una reale programmazione delle iniziative ed una conoscenza
preventiva delle aree in cui si doveva operare per tener dietro lo sviluppo dei servizi civili e
pubblici.
Il rapporto tra le esigenze di salvaguardia del patrimonio archeologico e quelle di
pianificazione urbanistica e territoriale hanno portato oggi il tema della valutazione del
rischio archeologico e della archeologia preventiva in primo piano. Attualmente le normative
per la valutazione dell’impatto di opere infrastrutturali sui beni archeologici sono al centro
di un dibattito – metodologico e operativo – che coinvolge differenti figure professionali
quali geologi, architetti, ingegneri, avvocati oltre che archeologi. Chi si occupa di Beni
Culturali ed in modo particolare di interventi di scavo sul campo, di progettazione e di
edilizia deve necessariamente fare i conti con le mutate condizioni giuridiche e professionali
dell’archeologia.
Grazie anche alla nuova normativa della L. 109/2005 sembra più corretto adoperare
il termine “carta del potenziale archeologico”, sebbene, in talune circostanze l’uso
dell’espressione “rischio” sia più efficace. Ci riferiamo soprattutto al caso in cui per garantire
l’integrità e la preservazione di un complesso archeologico sia necessario monitorare, anche
con strumenti informatici, i pericoli causati ad esempio da fattori antropici (incendi, fenomeni
sociali, inquinamento, etc.) e/o ambientali (dissesti idrogeologici, frane, smottamenti, etc).
L’espressione “carta del potenziale archeologico” si riferisce a quelle soluzioni GIS
(di cui CART è senza dubbio il sistema più ampiamente sperimentato) caratterizzate dal
puntuale e dinamico posizionamento, sulla planimetria adoperata per la pianificazione, dei
resti archeologici, noti da scavo o da fonti non distruttive (survey, foto-interpretazione,
letterature grigia, telerilevamento, prospezioni, etc. ). Mappando tutte le evidenze è possibile
comprendere appieno un territorio e la sua storia; in questo modo qualsiasi decisione
urbanistica ed ambientale è adottata prendendo in considerazione la presenza di beni
archeologici o la loro eventuale scoperta in occasioni di lavori pubblici o infrastrutture civili.
I policy makers possono così agire in base ad un più razionale sviluppo del territorio ed una
maggiore programmazione degli interventi che investono il paesaggio antico e moderno.
6
Prevenire... per meglio combattere
In un futuro oramai prossimo la carta del potenziale archeologico diverrà un fondamentale
strumento di pianificazione urbanistica che consentirà di conoscere la posizione, la profondità,
la natura dei rinvenimenti archeologici e di evidenziare le aree di maggior rischio. In tale
ottica i GIS assumeranno un ruolo sempre più centrale nei processi di indagine, sistemazione
e organizzazione delle informazioni archeologiche a connotazione spaziale.
Da qui deriva, però un problema la cui soluzione non può essere più a lungo rinviata.
Onde evitare che ogni archeologo, Soprintendenza o Regione si doti della propria carta del
potenziale archeologico che non dialoga con altri simili supporti informatici, è necessario
che tutto il lavoro si svolga nel quadro di una standardizzazione delle metodologie e delle
procedure adottate. Oltre a favorire l’integrazione delle risorse e quindi ad aumentare la
conoscenza ed il controllo del territorio, un approccio “condiviso” potrà garantire la
preservazione delle risorse nel medio e lungo periodo in rapporto alle continue evoluzioni
dell’informatica e delle tecnologie.
Con queste premesse EPOCH ha voluto raccogliere la lunga esperienza sul campo
maturata durante l’implementazione e l’uso di CART per adoperarla in funzione di caso di
studio e per evidenziare quelle pratiche che possono legittimamente porsi come guidelinees.
Quando nell’evoluzione di EPOCH l’analisi nel campo degli standard ha cominciato ad
investire anche i temi della georeferenziazione e i GIS, alcuni partner tra cui il PIN di Prato,
l’IBC di Bologna e il CISA di Napoli, hanno pensato di utilizzare l’esperienza di CART
come esempio di buona pratica. Ecco perché il convegno dedicato inizialmente all’uso delle
biblioteche/archivi digitali per la tutela del patrimonio archeologico e le attività di EPOCH
in questo settore, si è poi focalizzato sull’illustrazione del progetto CART elaborato alcuni
anni fa dall’Istituto Beni Culturali e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia
Romagna.
* * *
Nell’analisi della legislazione europea a cura di Francesca Ulisse, davvero innovativa perché
condotta, una volta tanto, dalla parte dell’utente archeologo, attraverso il confronto fra i
diversi strumenti giuridici in uso, ben si evidenziano lacune e distorsioni culturali che ancora
caratterizzano le diverse concezioni di patrimonio culturale. Così nel caso italiano, al di là
di un impianto normativo in sé indubbiamente avanzato ed aggiornato, si sottolinea una
dannosa carenza di collegamento fra normative di ambito culturale e quelle, “tangenziali”,
che interessano il governo del territorio e l’ambiente: tale separatezza costituisce spesso
l’antefatto di contrapposizioni dannose fra i vari organi chiamati ad agire, a diverso titolo, sul
territorio. In campo europeo l’autrice rileva poi la ormai consistente esperienza di taluni paesi
nel settore della produzione di cartografia archeologica, Gran Bretagna e Olanda su tutti.
Tale produzione è per di più connotata da una reale efficacia e funzionalità d’uso a livello di
pianificazione territoriale, al contrario di quanto avviene spesso nei paesi area mediterranea,
dove l’elaborazione cartografica ha finalità precipue di ricerca che mal si adattano ad altri
ambiti non squisitamente accademici.
Dall’ambito europeo a quello nazionale l’analisi giuridica è resa ancor più puntuale
nel testo di Luigi Malnati, a commento della Legge 25 Giugno 2005, n. 109. L’intervento,
ripreso da un articolo precedente, fotografa con precisione gli aspetti positivi e negativi di
un dispositivo legislativo tuttora congelato, grazie ad una sentenza del Consiglio di Stato,
7
Andrea D’Andrea – Maria Pia Guermandi
alla situazione delineata dall’autore nel 2005: primo passaggio, e in tal senso apprezzabile,
di adeguamento normativo ad una realtà, quella dell’archeologia di scavo, profondamente
mutata nella pratica e negli obiettivi rispetto alla codificazione legislativa che, anche nel pur
recente Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004, non riesce ancora a fornire un
quadro giuridico aggiornato in questo settore specifico.
Tale carenza è sottolineata ulteriormente nell’ampia disamina di Chiara Guarnieri che,
con ulteriore dettaglio, analizza la cornice legislativa in cui si attua l’archeologia preventiva
a livello regionale. L’autrice amplia la trattazione dal piano giuridico a quello della prassi
operativa che, in Emilia Romagna, è da sempre connotata da una diffusa sensibilità e
propensione alla collaborazione istituzionale. Tale favorevole situazione di apertura e
confronto fra Stato ed enti locali a vario livello (purtroppo non così generalizzata a livello
nazionale) costituisce l’antefatto e il sottofondo imprescindibile a quelle elaborazioni che
hanno condotto alla realizzazione di CART e quindi al tentativo di evolvere da un concetto
di cartografia come semplice registrazione dell’esistente ad una cartografia che permetta
indicazioni di tipo predittivo e che, anche per questo, possa costituire uno strumento efficace
in sede di pianificazione urbanistica.
Se attraverso l’analisi del contesto giuridico è possibile quindi individuare alcune precise
linee di tendenza che identificano concezioni diverse del nostro patrimonio/bene culturale
e anche della tutela, sul piano metodologico e professionale, l’analisi di Andrea D’Andrea
evidenzia le numerose carenze che, soprattutto a confronto con altre realtà europee, Francia e
Gran Bretagna in primis, caratterizzano la situazione italiana. Nell’analisi si evidenziano una
serie di problemi strutturali, culturali ed in particolari formativi che continuano ad ostacolare
in Italia la creazione di un corpo di professionisti dello scavo in grado di operare nelle
situazioni più diverse imposte dalla variabilità della così detta archeologia d’emergenza e
dotati di competenze per quanto riguarda i moderni – ma ormai ampiamente diffusi – strumenti
di trattamento digitale delle informazioni (GIS e ricostruzioni virtuali sopra gli altri). Ma
l’ampia diffusione di questi strumenti ha, però, coinciso con la generalizzata frammentazione,
a livello non solo italiano ma internazionale, di sistemi, modelli di catalogazione, linguaggi
descrittivi, fenomeno che ha reso necessaria l’adozione di standard condivisi in grado di
garantire, assieme ad altri strumenti tecnologici e metodologici, l’interoperabilità di dati e
archivi e quindi, in definitiva, una ben più ampia diffusione della conoscenza.
Il sistema CART che si propone, infine, come esempio di sistema informativo territoriale
archeologico mirato specificamente alla pianificazione territoriale è illustrato da Maria Pia
Guermandi per quanto riguarda la genesi e gli obiettivi scientifico-istituzionali; la lunga
esperienza di CART costituisce un caso abbastanza unico nel settore dei GIS e quindi un
caso prezioso per studiarne l’evoluzione nel tempo, evoluzione non solo tecnologica, ma
soprattutto metodologica e operativa e che è stato possibile analizzare e programmare grazie
all’inserimento del progetto CART all’interno di EPOCH. Nel testo sono quindi evidenziati
sia gli aspetti di criticità che hanno reso necessario, nel tempo, un adeguamento del sistema a
più livelli, sia gli elementi di forza che ne hanno consentito lo sviluppo nel tempo: l’insieme
di tali elementi viene quindi proposto all’attenzione e alla discussione di chi opera in questo
ambito nella certezza, che l’esperienza di EPOCH ha contribuito a diffondere in maniera
decisiva, che uno dei fattori prioritari di sostenibilità di progetti di questo tipo consista nella
sua capacità di aprirsi alle esperienze consimili, mutuandone elementi di miglioramento.
8
Prevenire... per meglio combattere
Illustrazione dettagliata di questo percorso di analisi del sistema CART compiuta grazie ad
EPOCH, è descritta nel testo di Remo Bitelli che fornisce un quadro pressochè esaustivo degli
aspetti scientifici ed operativi del sistema stesso ed evidenzia, con il ricorso alle elaborazioni
cartografiche alcuni dei risultati ottenuti tramite il ricorso a strumenti di questo tipo.
Per quanto riguarda infine il contesto tecnologico, nel testo di Sofia Pescarin esso è
definito anche tramite il ricorso al confronto con esperienze e sistemi in uso in particolare in
ambito inglese: tale confronto ha consentito di elaborare nuove ipotesi evolutive del sistema
CART. Per quanto riguarda l’aspetto tecnologico, evidenziando l’esigenza di determinate
caratteristiche funzionali verso l’acquisizione delle quali il sistema dovrà evolvere.
Nell’insieme il volume si pone l’obiettivo di fornire un’analisi su più livelli di un settore
della disciplina archeologica e della tutela del patrimonio in generale quanto mai sollecitato
dalle esigenze sempre più incalzanti di trasformazione del territorio determinate in particolare
dalla ripresa del fenomeno dell’urbanizzazione diffusa e dalle necessità connesse ai problemi
di mobilità urbana e di infrastrutturazione del territorio. Le risposte fornite dagli operatori del
settore culturale a queste domande hanno trovato espressione sia nell’evoluzione legislativa
che in quella metodologica e tecnologica. Si tratta di risposte spesso molto difformi per
modalità di approccio, livello di operatività, ampiezza di soluzioni e verifica d’uso.
Gli interventi del volume, oltre a proporre confronti fra le varie esperienze europee
evidenziano criticità e possibili evoluzioni, focalizzando l’attenzione su uno strumento
specifico (CART) e su una soluzione istituzionale (INRAP) proposte, a diverso titolo,
all’attenzione della comunità di EPOCH e di tutti gli operatori di ambito archeologico quali
esempi di best practices.
L’ampiezza delle suggestioni proposte e la complessità dei problemi delineati, senza avere
la pretesa di fornire soluzioni definitive riteniamo che, nello spirito di EPOCH, contribuisca
a sollecitare non solo la discussione, ma anche l’elaborazione di specifiche iniziative su un
tema, quello dell’archeologia preventiva, cruciale nell’evoluzione del governo del territorio e
nella concezione europea della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, e sul rapporto
che questa intrattiene con i territori contigui della tutela del patrimonio culturale, il governo
del territorio e la politica culturale in senso ampio.
9
ARCHEOLOGIA PREVENTIVA, LO STATO DELLA MATERIA
Stefano De Caro
Direzione Generale per i Beni Archeologici del MiBAC
1. INTRODUZIONE
Dopo aver goduto negli anni scorsi di un momento di intenso interesse sotto il profilo
della discussione metodologica, in coincidenza con la fase di avvio e di più intensa attività
esplorativa su alcuni grandi lavori pubblici (Alta Velocità, Metropolitane, US Navy Support
Site di Gricignano di Aversa, etc.) e poi con l’introduzione nel nuovo Codice dei Beni
Culturali (Decreto Legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004) con l’articolo 28, comma 4, di
una specifica norma che regolava la materia, il tema dell’archeologia preventiva sembra in
questa fase messo per un attimo in ombra da altri argomenti, peraltro non meno rilevanti
come quello delle restituzioni dei reperti scavati clandestinamente ed usciti illegalmente dal
territorio nazionale.
Facciamo un breve excursus storico: il tema dei rinvenimenti archeologici sulle grandi
infrastrutture territoriali è sempre stato uno dei punti dolenti dell’archeologia italiana. La
modernizzazione, anzi la creazione delle infrastrutture dell’Italia unita si realizzò con un
altissimo costo in termini di patrimonio archeologico (e paesaggistico): anfiteatri divisi a metà,
paesaggi costieri con tutte le infrastrutture antiche di ville, porti, etc. furono il prezzo che si
pagò da parte di un’archeologia che non aveva ancora compiuto il passaggio dal monumento
al territorio e da una politica forse inevitabilmente più attenta alle esigenze di creare uno stato
moderno che di salvaguardare le antichità; anzi queste ed i suoi cultori furono, da una vivace
parte dell’intellettualità, percepite come il nemico, oscurantista e ostacolo al progresso della
civiltà delle macchine. Né riusciva ad essere efficace lo strumento che pure, fin dall’inizio
della storia dell’amministrazione unitaria, era stato indicato come risolutore del conflitto: la
carta archeologica.
Nel periodo fascista la situazione, pur nel clima di esaltazione della romanità, non mutò
sostanzialmente: anzi, la storia della via dei Fori Imperiali dimostra come le infrastrutture,
e soprattutto quella funzionali all’immagine del regime, fossero sentite come un’esigenza
superiore, da non subordinare alle esigenze archeologiche, pur se queste ricevevano proprio
in questo momento la dignità di una legislazione, al 1089 del 1939, di grande efficacia.
Contemporaneamente va segnalata la contemporanea nascita della legislazione sul paesaggio,
pur se questo era concepito del tutto esteticamente, secondo le tendenze filosofiche del
momento.
Il dopoguerra, con le pressanti esigenze della ricostruzione, e la necessità di espandere il
sistema infrastrutturale a sostegno del “miracolo economico”, rappresentò una nuova ondata
di distruzioni del patrimonio archeologico: città antiche (ad esempio Cales in Campania),
città medievali (ad esempio Aquino), ville romane, come quella di Murecine recentemente
riesplorata presso Pompei, furono tranciate nella costruzione del tracciato autostradale RomaNapoli-Pompei.
11
Stefano De Caro
2. LA TUTELA, LE SUE STRUTTURE, I SUOI PROBLEMI
Com’è noto, anche la recentissima revisione del Codice dei Beni Culturali (D.Lgs.vo 42/2004)
non ha comportato consistenti cambiamenti rispetto all’impianto normativo della legge
1089/1939. Le più rilevanti modifiche di qualche anno fa, e che avevano sollevato maggiori
preoccupazioni, relativamente alla neo-introdotta alienabilità del patrimonio pubblico, sono
state progressivamente contemperate da un lato da miglioramenti della procedura di verifica
e dall’altro da una accorta messa in atto della stessa rispetto alle presenze archeologiche da
parte delle Soprintendenze, talché la paventata svendita di siti archeologici non ha avuto
luogo.
E’ stato viceversa opportuno l’aggiornamento delle sanzioni amministrative e delle pene
per i reati di danneggiamento e distruzione.
Oggi pertanto non si può dire indebolita la struttura legale della tutela.
Maggiori innovazioni e complessità hanno prodotto sull’apparato della tutela i successivi
provvedimenti regolamentari che hanno riorganizzato la struttura del Ministero, con la
creazione delle Soprintendenze Regionali, diventate poi Direzioni regionali, le cui
competenze sono state di recente rivisitate dall’ultimo provvedimento organizzativo (cfr. da
ultimo il DPR 26 novembre 2007 n. 233, in G.U. n. 291, suppl. ord. n. 270, del 15 Dicembre
2007 recante il Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali,
a norma dell’articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296).
Il passaggio della competenza in materia di emanazione delle dichiarazioni di
interesse ex art. 12 del D.Lgs.vo 42/2004 (vincoli) dalle Direzioni centrali a quelle regionali
(salvo l’obbligo di queste strutture periferiche di riferire trimestralmente ai direttori generali
centrali sull’andamento dell’attività di tutela svolta), se da un lato obbedisce al criterio di
una maggiore vicinanza del centro responsabile al territorio (e verosimilmente presuppone
una sua conoscenza più aggiornata) e a quello dell’integrazione con altre forme di tutela,
dall’altro pone la necessità di un’uniformità sul territorio nazionale dei criteri di proposizione
e formulazione (art. 12, comma 2, del D.Lgs.vo 42/2004) dei provvedimenti dichiarativi di
tutela, diretta, e soprattutto, indiretta sui quali peraltro sono chiamate ad esprimersi apposite
commissioni regionali. La vicinanza del decisore del vincolo al territorio lo rende tuttavia più
esposto alle sollecitazioni dello stesso, alla sua visione dei problemi e impone al centro di
verificare che il primato delle ragioni della tutela rispetto ad ogni altra considerazione anche
legittima di sviluppo o economica, quale richiesto dall’articolo 9 della Costituzione, non
ceda alle ragioni delle esigenze di sviluppo (economicamente inteso) del territorio. Questo
dello sviluppo del territorio come frutto dell’equilibrio tra le (costituzionalmente prevalenti)
ragioni della tutela dei beni culturali in esso presenti e legittime necessità di modificazione
del territorio è in realtà forse il maggior problema culturale di un Paese come l’Italia, e
l’onnipresenza degli aspetti archeologici in tutto il territorio italiano fa sì che fatalmente esso
sia il problema di prima linea dell’archeologia.
Faccio un solo esempio: gli scavi in anni recenti di alcuni siti in aree sepolte in vari
momenti storici da eruzioni vulcaniche in Campania (ma lo stesso potrebbe valere per tutte le
altre aree vulcaniche italiane per i siti coinvolti da alluvioni e simili fenomeni catastrofici del
passato) dimostrano che in queste aree, per vastissime estensioni (tutta la provincia di Napoli,
e metà di quella di Caserta e di Salerno) sono stati conservati in maniera pressoché integrale
interi paesaggi fossili (centinaia di villaggi preistorici, le loro necropoli, i campi, le aree
12
Archeologia preventiva, lo stato della materia
forestali comunque sfruttate); se consideriamo poi che per effetto della migliorata tecnica di
scavo e di documentazione, dell’applicazione delle scienze naturali come la paleobotanica,
il concetto di bene archeologico si è esteso a tematiche prima poco considerate, se ne deduce
che in teoria è possibile tutelare con provvedimenti amministrativi tutte queste vastissime
estensioni di suoli come riserve scientifiche di beni archeologici di grandissimo valore
culturale (si vedano gli scavi del villaggio dell’età del Bronzo di Nola, di Poggiomarino,
della stazione TAV di Afragola etc.). Pur essendo possibile, questo è tuttavia teorico, non solo
per la incapacità tecnica dell’amministrazione di emanare i tantissimi provvedimenti legali
necessari (ma oggi si potrebbe ovviare con un provvedimento di natura paesaggistica), ma
per l’impossibilità “politica” che il Ministero avrebbe a sottomettere ad un regime fatalmente
penalizzante sotto il profilo della trasformabilità uno dei territori più densamente abitati del
Paese. In teoria si potrebbe immaginare di realizzare qui immensi parchi archeologici, (per
grandi Pompei della preistoria di cui godere in futuro). Ma ovviamente questo è possibile
solo in presenza di accordi sul modello di sviluppo del territorio, e dell’uso del suolo, di scala
nazionale, ed in ogni caso di natura non solo archeologica. Resta in ogni caso aperto fin da
ora alla discussione il tema della proposizione dei vincoli e della loro gestione.
Lo spostamento delle competenze (ora senza possibilità di delega) della stazione
appaltante dalle Soprintendenze ordinarie alla Direzione Regionale costituisce certamente
un incentivo alla sempre maggiore specializzazione in senso tecnico-scientifico delle
Soprintendenze territoriali; è essenziale tuttavia che soprattutto per far fronte agli interventi
urgenti (ad esempio in presenza di scavi clandestini, o di lavori pubblici o privati potenzialmente
distruttivi..) questo compito sia svolto con assoluta tempestività e senza rischi di attardamenti
burocratici.
E’ ben noto che le Soprintendenze attraversano oggi un momento particolarmente
difficile per la grave carenza di personale tecnico-scientifico. Se alla carenza di dirigenti
(gravissima per il periodo 2006–2007) si è ovviato, in emergenza, con incarichi ad interim ai
pochi dirigenti in servizio, a docenti universitari e a dirigenti di altre Amministrazioni e si sta
provvedendo con il concorso in via di svolgimento, non è purtroppo ancora previsto un analogo
provvedimento per ovviare all’insufficienza numerica di archeologi, geometri, architetti
rilevatori, restauratori, per non dire di specialisti come i medievisti, i numismatici, gli
epigrafisti, gli antropologi, cartografi, informatici, etc.
Queste difficoltà sono tanto più gravi in quanto le Soprintendenze devono fronteggiare
un consumo di territorio sempre più intenso che, inevitabilmente, data la ricordata storia
del territorio italiano, non può non coinvolgere in primo luogo l’archeologia. Il numero di
procedimenti che i funzionari devono oggi seguire per ragioni di tutela è certamente molto
cresciuto, mentre il numero degli stessi è costantemente diminuito.
La qualità stessa delle strutture si è fatalmente appannata: i laboratori di restauro (ed
il personale) sono invecchiati, la mancanza di aggiornamento professionale non è sempre
colmabile con la buona volontà, gli archivi che conservano la memoria della tutela non sono
informatizzati, le biblioteche di Soprintendenza, che erano soprattutto nelle sedi periferiche
distanti dalle sedi universitarie (oggi queste sono aumentate, ma spesso non hanno biblioteche
specializzate apprezzabili) il luogo in cui l’attività di tutela veniva trasformata in dati
scientifici, sono invecchiate, non aggiornate, non informatizzate, non collegate in rete.
Queste carenze di personale tecnico-scientifico e di strutture nelle Soprintendenze
è particolarmente sensibile nei suoi effetti in relazione all’accresciuta quantità di lavori
13
Stefano De Caro
pubblici, un campo evidentemente di grande importanza per la sua rilevanza economica che
ha imposto all’attenzione del legislatore il tema dell’archeologia preventiva.
Per lunghi decenni gli archeologi avevano chiesto di poter intervenire fin dalla fase di
progettazione delle grandi opere infrastrutturali aventi un grande impatto sul territorio. Ancora
fino agli anni della ricostruzione postbellica questo è stato tuttavia impossibile e non vi è
regione italiana dove non si debbano lamentare dolorosi sventramenti di aree archeologiche
attuati da autostrade, ferrovie ed altre opere pubbliche.
Un timido segnale di maggior attenzione al problema emerse per la prima volta all’inizio
degli anni ‘80, in due circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del 20 aprile 1982
e del 24 giugno 1982, che impartirono a tutte le Amministrazioni pubbliche la direttiva di
sottoporre in via preliminare, già in fase di localizzazione, all’esame del Ministero dei BB.CC.
tutti i progetti di opere pubbliche da realizzare in aree anche solo indirettamente vincolate.
Questo primo atto politico, che tradusse in un documento giuridico la necessità, da tempo
manifestata dalle Soprintendenze, di poter intervenire a tutela del patrimonio archeologico
con strumenti più efficaci del vincolo puntuale, inadeguato di fronte a lavori di considerevole
ampiezza, fu seguito da un intensificarsi dell’azione delle Soprintendenze in coincidenza con
la realizzazione di nuove grandi infrastrutture (metanodotti, interporti, ferrovie metropolitane
e ad alta velocità).
La direttiva coglieva un punto fondamentale del problema, quello di verificare fin
dalla decisione sul tracciato, la compatibilità delle opere pubbliche con le preesistenze
archeologiche; era altresì il primo atto politico che traduceva in un documento giuridico la
necessità, ormai da tempo manifestata dalle Soprintendenze, di poter intervenire a tutela del
patrimonio archeologico con strumenti più adeguati del vincolo puntuale, rivelatosi inefficace
di fronte a lavori di valenza territoriale. A testimonianza della sensibilità che le Soprintendenze
avevano a quel tempo al problema, ricordiamo le discussioni che si ebbero nel Veneto ed in
Emilia-Romagna sul sistema della centuriazione e dei canali del delta padano, investiti dalle
opere di bonifica ed irregimentazione delle acque, ma anche le discussioni sugli impianti
industriali di Megera Iblea.
Questa nuova ondata di interventi è stata a lungo affrontata e risolta caso per caso dai
Soprintendenti, armati solo della loro esperienza, di un coordinamento spontaneo, e con
uno sguardo attento alle esperienze più strutturate che con un certo anticipo avevano fatto
sul tema i colleghi francesi e inglesi. In particolare ebbero influenza sulla prassi adottata in
Italia, anche per la concomitante attenzione suscitata dal dibattito sulle nuove tecniche di
scavo stratigrafico e sull’archeologia urbana, le esperienze inglesi, che pur si svolgevano in
un contesto organizzativo del tutto diverso. Qui, all’inizio degli anni ‘70, dopo la reazione
dell’opinione pubblica alla pubblicazione del libro di Martin Biddle, The Future of London’s
Past, che aveva denunciato la distruzione del sottosuolo archeologico londinese per effetto
dei lavori edili che trasformavano il centro storico della città, fu creato il Department of Urban
Archaeology (DUA), seguita negli anni ’80 dal Department of Greater London Archaeology
(DGLA), strutture che si sono poi fuse nel 1991 nel Museum of London Archaeology Service
(MoLAS), un Istituto pubblico operante in regime privatistico che costituisce oggi il maggior
protagonista dell’archeologia urbana e preventiva inglese (insieme ad altre due società simili
quali l’Oxford Archaeology e la Wessex Archaeology).
Più vicina al modello pubblico italiano, ma dotata di caratteri del tutto peculiari è stata
l’esperienza sviluppatasi in Francia; qui, fin dal 1973 la maggior parte degli scavi preventivi
14
Archeologia preventiva, lo stato della materia
per i grandi lavori pubblici, come il Treno ad Alta Velocità (TGV), fu affidata ad una società
appositamente costituita e distinta dagli ordinari organi di tutela, l’AFAN (Association pour
les Fouilles Archéologiques Nationales ) – il termine stesso di «archeologia preventiva» si
pone in quest’ambito (J. Lasfargues, 1979)– dalla quale nel 2001 è nato l’Institut National des
Recherches Archéologiques Préventives (INRAP) (Vedi contributo di Demoule e Schlanger
in questo volume), un istituto pubblico che esplora ogni anno circa il 20 % delle aree francesi
«consumate» dai grandi lavori : 15 000 ettari nel 2005).
Questi sviluppi nella prassi della tutela trovavano riscontro in documenti metodologici
come la Carta ICOMOS (1990), che raccomandava che (…) “la legislazione deve
richiedere una esplorazione archeologica ed una documentazione integrale nei casi in cui sia
autorizzata la distruzione del patrimonio archeologico” (art.3) e più oltre, all’art.5, dichiarava
che “la conoscenza archeologica è basata su un’investigazione scientifica che comprende
un’intera serie di metodi da.. allo scavo integrale. Lo scavo deve essere condotto sui siti e
sui monumenti minacciati dalle costruzioni (development) dal mutamento dell’uso del suolo,
dal saccheggio o dall’erosione naturale”; o da convenzioni internazionali come quella del
Consiglio d’Europa di La Valletta per la salvaguardia del patrimonio archeologico (16
maggio 1992) (che riconosceva che “il patrimonio archeologico europeo, testimone della
storia antica, è gravemente minacciato dal moltiplicarsi dei grandi lavori i pianificazione
del territorio…” e che “(…) se i relativi progetti devono essere attuati, allora deve essere
previsto un tempo adeguato perché sia realizzato un appropriato studio scientifico del sito”
(art. 5).
A differenza dei modelli sopra ricordati, in Italia la straordinarietà dell’impegno dello
scavo preventivo è stato affrontato dalle Soprintendenze delegando l’attività sul campo
ad una molteplicità di soggetti privati, le «cooperative archeologiche», sorte spesso a
ridosso delle Università, ma da esse del tutto indipendenti, alle quali è stato affidato dagli
appaltatori dell’opera pubblica, su indicazione delle Soprintendenze, il lavoro di scavo e di
documentazione. Sorte in gran numero e messe in concorrenza tra loro, queste «cooperative»
non hanno tuttavia mai conseguito, salvo pochissimi casi, una dimensione veramente
imprenditoriale (e in nessun caso paragonabile a quella dei modelli inglesi e francesi) ed
anche per questo sono rimaste incapaci di sviluppare una struttura scientifica e professionale
adeguata: se la loro attività ha permesso di ammortizzare negli anni il problema della
disoccupazione intellettuale sviluppatasi nel settore a seguito della moltiplicazione degli
insegnamenti universitari di archeologia, non ha permesso di affrontare in maniera organica
le esigenze del settore che oggi si rivelano in tutta la loro complessità. Esigenze che sono
state oggetto di dibattiti in incontri tecnici e convegni come “Archeologia. Rischio o valore
aggiunto?” (a cura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma 17 ottobre 2001,
Bollettino di Archeologia, 53–54, 2004), con i quali si sono in certo modo preparate le
nuove disposizioni legislative che sono intervenute finalmente a sanare il vuoto legislativo
determinatosi tra prassi e norma.
Con l’art. 28, comma 4 del Codice si è così sancito che “in caso di realizzazione di
lavori pubblici ricadenti in aree di interesse archeologico, anche quando per esse non siano
intervenute la verifica di cui all’articolo 12, comma 2, o la dichiarazione di cui all’articolo
13, il soprintendente può richiedere l’esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree
medesime a spese del committente.”. Questo comma è stato poi ulteriormente dettagliato
nella legge n. 109 del 25.06.2005 che all’art. 2 ter ha disciplinato la verifica preventiva
15
Stefano De Caro
dell’interesse archeologico. Essa ha stabilito che le opere “sottoposte all’applicazione delle
disposizioni della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro sui LL.PP.) e del decreto
attuativo 20 agosto 2002, n. 190 (attuativo della c.d. Legge Obiettivo), le stazioni appaltanti
debbano trasmettere prima dell’approvazione al soprintendente territorialmente competente
copia del progetto preliminare dell’intervento, insieme con le indagini archeologiche e
geologiche preliminari, di cui all’art. 18, comma 1, lettera d) del regolamento di cui al DPR
21 dicembre 1999, n. 554, con particolare attenzione ai dati di archivio, ricognizioni sul
terreno, alla lettura della geomorfologia del territorio, nonché alla fotointerpretazioni per le
opere a rete”. La documentazione è raccolta, elaborata e valicata dai dipartimenti archeologici
delle Università o da soggetti in possesso di laurea di specializzazione in archeologia o da
dottorato di ricerche in archeologia.
Segnaliamo qui alcuni aspetti di particolare criticità come l’istituzione presso il Ministero
di un elenco degli istituti universitari e dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione,
quasi un albo di categoria (in tal senso non sono mancate pressioni da parte delle associazioni
degli archeologi): il previsto decreto del Ministro dei Beni Culturali, che era da emanarsi
entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, non è stato ancora
emanato, per le difficoltà nell’individuare criteri per definire la adeguata qualificazione
degli istituti universitari e dei soggetti (un parere negativo è stato espresso il 15/05/2006 dal
Consiglio di Stato sul regolamento, predisposto dal Ministero dei Beni Culturali, relativo
al funzionamento dell’elenco degli istituti e dei dipartimenti archeologici universitari).
Così come neppure è stato emanato l’altro previsto decreto, emanando entro 180 giorni, del
Ministro dei Beni Culturali di concerto con quello delle Infrastrutture per stabilire le linee
guida alla procedura. Oppure, altro punto di interesse è l’esclusione dalla previsione della
procedura contrattualizzata posta sotto la competenza del Direttore Regionale per i Beni
Culturali e Paesaggistici, delle aree archeologiche, dei parchi archeologici (evidentemente
quelli istituiti dalle Regioni) e le zone di interesse archeologico “ex Galasso” di cui all’art.
142, comma 1, lettera m), del Codice, punto questo ultimo che ha evidentemente una forte
relazione con la discussa progettazione dei Piani paesaggistici1.
In attesa che sia al più presto possibile provvedere a concludere questo iter organizzativo,
che non impedisce tuttavia che le Soprintendenze applichino già, per quanto possibile, la
nuova norma, integrandola, laddove non ancora attuabile, con le prassi precedenti, vale la
pena di sottolinearne qui alcuni aspetti fondamentali che sarà opportuno affrontare al più
presto.
Anzitutto quello delle strutture della documentazione. La legge menziona infatti tra gli
strumenti preliminari sui quali si fondano gli studi che accompagnano il progetto preliminare
l’analisi dei “dati di archivio o bibliografici reperibili”. Chiunque abbia operato in una
Soprintendenza sa che questo è da un lato un punto critico dello strumentario tradizionale
della tutela (con le carte IGM o quelle dei Piani Regolatori dei Comuni che ogni Ispettore
archeologo ha riempito dei puntini che localizzano i siti archeologici a lui noti, solo da poco
trasformate in carte digitalizzate), dall’altro che è questo il settore sul quale maggiormente
1
Si veda il testo della Legge 25 giugno 2005, n. 109 ed alcuni commenti (A.M. Reggiani, I Berlingò) in
Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Notiziario a cura dell’Ufficio Studi, XX, 77–79 (gennaiodicembre 2005), pp. 117–122. Vedi anche I. Berlingò, Archéologie et grands travaux en Italie, in
J.-P. Demoule (ed.), L’archéologie préventive dans le monde, La Dècouverte ed., Paris 2007, pp.
206–214.
16
Archeologia preventiva, lo stato della materia
si è, grazie allo sviluppo delle cartografie numeriche ormai di larga diffusione presso gli Enti
locali, dei GIS, della tecnologia GPS, fatto un enorme progresso. Questo campo non è stato
organicamente coordinato dal Ministero, sia pure con la lodevole eccezione dell’ICCD che
ha fornito gli standard cartografici per la rappresentazione del patrimonio culturale, ma è
stato libero campo di sperimentazione da parte di molte Soprintendenze e Direzioni regionali
che, da sole, o in coordinamento con gli Enti Locali e con le Università o altri Istituti come
il CNR, utilizzando occasioni finanziarie di vari progetti speciali, hanno raccolto, sia pure
senza un modello unico, una quantità notevole di dati informativi. Questo patrimonio è
venuto a sommarsi ad altre significative esperienze di carattere nazionale, come la Carta
del Rischio, messa a punto dall’ICR, e forma oggi una base di dati che merita di essere
utilizzato appieno, organizzandolo in un sistema coordinato, evitando tuttavia la tentazione di
ricominciare daccapo per una nuova “carta nazionale”, ma indirizzando le risorse necessarie
verso l’attività di messa a punto della rete (fortunatamente la tecnologia informatica rende
infatti oggi possibile integrare banche dati cartografiche costruite con metodi diversi;) e
verso il reperimento dei dati non ancora raccolti. Questa consapevolezza è venuta maturando
anche nelle sedute della commissione mista di recente istituita, avente il fine di studiare le
modalità di realizzazione del “Sistema informativo Archeologico delle città italiane e dei
loro territori”.
L’opportunità di costruire una struttura di rete con gli Enti Locali rileva anche dal punto di
vista “politico”: non solo infatti il compito di costruire ed aggiornare la cartografia compete
alle Regioni e presso molte di esse sono state maturate esperienze rilevanti anche nel campo
della cartografia per i Beni Culturali, come in Toscana ed Emilia-Romagna, ma anche la
normativa sui piani paesaggistici, individuando come via maestra quella della collaborazione
interistituzionale, rende più che mai opportuno costruire in maniera condivisa lo strato
archeologico delle carte del paesaggio (vedi al riguardo l’esperienza significativa compiutasi
in Campania con il PON Sicurezza che ha esteso alla cartografia archeologica l’Accordo
MIBAC-Regione per un sistema catalografico condiviso dei Beni Culturali).
La costruzione di una carta archeologica non è peraltro una semplice operazione tecnica.
Essa presuppone uno spoglio ed una catalogazione sistematica dei dati (spesso inediti) degli
archivi correnti e di quelli storici delle Soprintendenze, nonché di quelli bibliografici, ed
il loro controllo topografico sul terreno prima di inserire i dati (anche degli scavi con esito
negativo) sulla cartografia. E questo è evidentemente un lavoro in cui la collaborazione con
le Università è preziosa, per finalizzare a scopi anche di tutela la loro continua attività di
ricerca e didattica, che ormai comprende sempre più spesso ricognizioni di superficie, “lettura
geomorfologica del territorio”, foto interpretazione, quelle stesse metodologie cioè previste
per la raccolta della documentazione preliminare posta a corredo dei progetti da valutare in
termini di archeologia preventiva.
L’esperienza di questi anni di archeologia sui grandi lavori ha dimostrato che si tratta
di operazioni la cui scala travalichi di molto la normale attività archeologica sia delle
Soprintendenze, sia delle Università. La quantità di materiali rinvenuti, la quantità di
documentazione da raccogliere in tempi necessariamente brevi, richiedono attrezzature
speciali, delle quali le Soprintendenze per lo più non dispongono. In particolare si rende
necessario disporre di magazzini archeologici attrezzati come laboratori nei quali sia
possibile non solo conservare, ma anche sottoporre ai trattamenti di lavaggio, registrazione,
documentazione, e poi nel tempo restauro e studio, senza i quali la attività di divulgazione
17
Stefano De Caro
e valorizzazione prevista (ma soprattutto quella di pubblicazione, senza la quale lo scavo
sarebbe pura distruzione) non è immaginabile. I musei e i depositi archeologici attuali, ma
anche gli staff di tecnici dei quali dispongono le Soprintendenze (e ancora meno le Università)
non sono sufficienti a svolgere questi compiti; le opere pubbliche attualmente in corso hanno
largamente esaurito le potenzialità disponibili e, trattandosi di strutture temporanee, si pone
già ora il problema di trovare soluzioni definitive. C’è inoltre da tener conto del fatto che
l’elaborazione dei dati archeologici ai fini della pubblicazione richiede un periodo di tempo
che andrà fatalmente al di là della conclusione degli scavi e forse della stessa opera pubblica:
bisognerà dunque che le linee guida da emanarsi dal Ministero per la stipula degli accordi tra
Direttori regionali e soggetti realizzatori dell’opera prevedano soluzioni per queste necessità,
non meno che per la già prevista divulgazione e valorizzazione.
Ma soprattutto le linee guida dovranno elaborare (e ciò implica naturalmente un dibattito
di vasta portata che va ben al di là delle competenze scientifiche e amministrative di chi scrive)
un documento orientativo sui criteri di valutazione alla luce dei quali operare delicate scelte
di tutela quali la rimozione, la dislocazione e il rimontaggio. Dibattiti quali quelli che si sono
sviluppati sulla linea C della Metropolitana romana o sul parcheggio del Pincio dimostrano
che vi è bisogno di chiarire le finalità della ricerca archeologica nell’attuale momento storico
e come essa si inserisca, e con quali “regole dell’arte” nel più vasto ambito della tutela del
paesaggio storico nel suo insieme.
Dovranno essere regolamentati anche alcuni aspetti tecnici collegati alla prassi degli
scavi, quali la demolizione o la dislocazione dei beni archeologici, oggi autorizzabile solo
dal Direttore Generale (art. 21, commi 1a e 4 del Codice dei BB.CC.P.), fatti salvi i casi di
urgenza in cui essa può essere disposta dal Soprintendente (DPR 233/2007, Regolamento di
organizzazione del Ministero, art. 6, comma 2, lett. i). Usualmente tale autorizzazione non
viene richiesta quando il direttore dello scavo ordina, pur con tutte le cautele del caso, la
rimozione di un’unità stratigrafica, normalmente strati di terra e cocci, ma anche strutture
per aree di piccola entità, (ma anche un pavimento di battuto, talvolta un muro tardo) per
esplorare un’unità sottostante. Per evitare che questa normale metodologia archeologica
possa essere interpretata come una rimozione illegale (che esporrebbe l’archeologo ai rigori
dell’art. 733 del Codice penale), occorre disciplinare questa prassi con un atto di indirizzo,
discusso e approvato con il competente Comitato di settore.
3. ARCHEOLOGIA SUBACQUEA
Se nei decenni scorsi a suscitare attenzione sul tema dell’archeologia subacquea erano stati
alcuni rinvenimenti occasionali (come i bronzi di Riace, o più di recente, il Satiro di Mazara),
talché il legislatore opportunamente ha incluso nel Codice all’art. 94 una menzione della
Convenzione Unesco del 2001 (Gli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della
zona di mare estesa dodici miglia marine a partire dal limite esterno del mare territoriale sono
tutelati ai sensi delle “Regole relative agli interventi sul patrimonio culturale subacqueo”
allegate alla Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo,
adottata a Parigi il 2 novembre 2001), è soprattutto il tema delle opere pubbliche a mare
(si pensi ai porti commerciali o turistici, e a opere come il MOSE) a proporre l’urgenza
di definire una strategia per questo settore della tutela del patrimonio archeologico. Si è
18
Archeologia preventiva, lo stato della materia
così posta l’esigenza di una ricognizione di quanto è noto, con la costruzione di un sistema
informativo cartografico dedicato, e ad essa si è risposto con il progetto ARCHEOMAR,
che ha riguardato nella sua prima fase attuativa le regioni dell’Italia meridionale. In questo
momento è in via di appalto il secondo stralcio del progetto per le regioni del centro.
Resta il problema, acuitosi in questi anni recenti per la diminuzione delle risorse di
personale, e delle capacità gestionali delle Soprintendenze, di mettere a punto per ogni
regione (o gruppi di regioni) team di operatori archeologi subacquei addestrati per gli
interventi di tutela e di ricerca. Un problema che sarebbe velleitario affrontare sulla base della
sola disponibilità di forze del Ministero: occorre rinnovare gli accordi con le Capitanerie
di Porto e gli altri soggetti pubblici aventi competenza sul mare e costituire delle strutture
interistituzionali dedicate a questo tema.
19
LA VERIFICA PREVENTIVA DELL’INTERESSE ARCHEOLOGICO
Luigi Malnati
Soprintendenza Archeologica Emilia Romagna
1. PREMESSA
L’ intervento che segue1 è stato scritto nel corso del 2005, a “tamburo battente”, come si
suol dire, sull’effetto anche psicologico dell’entrata in vigore di una nuova normativa che si
presentava come rivoluzionaria nel corpus davvero scarso della produzione legislativa in una
materia, l’archeologia, in cui l’Italia vanterebbe, a parole, un primato mondiale. La volontà,
al di là dei molti rilievi specifici, era costruttiva: si dava atto innanzi tutto dello sforzo con
cui si era affrontata una materia del tutto nuova, non tanto nell’aspetto della programmazione
degli interventi archeologici, quanto nel riconoscimento delle finalità stesse degli interventi
previsti, estranei allo spirito degli articoli 88–93 del Codice dei Beni Culturali sulle ricerche
archeologiche e collegati invece all’art.28, sui lavori pubblici.
Nel dei due anni trascorsi non si è purtroppo proceduto ai necessari sviluppi che la L.109
del 2005 lasciava sperare. Essa è stata recepita integralmente nella nuova normativa sui Lavori
Pubblici per i Beni Culturali agli artt.95 e 96 (d.l.163 del 2006), senza intervenire neppure
su aspetti che si devono giudicare quanto meno ambigui, come la mancata precisazione al
comma 4 dell’art.96 che la verifica preventiva dell’interesse dell’area sottoposta ad indagini
stratigrafiche si considera “chiusa con esito negativo” solo dopo la conclusione dello scavo
estensivo dell’emergenza archeologica a suo tempo rilevata.
In generale tutta la parte esecutiva della procedura è stata ed è tuttora non regolamentata
in attesa delle “linee guida” previste al comma 6 art.96, a cura del Ministero per i Beni e le
Attività Culturali, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture.
Nel frattempo un primo tentativo di definire i criteri per la compilazione dell’elenco
dei soggetti abilitati a validare i progetti preliminari delle opere pubbliche per la parte
archeologica, operato da una commissione mista formata da rappresentanti del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali e da una rappresentanza di professori universitari di discipline
archeologiche non ha avuto successo. Tale commissione aveva definito le qualifiche necessarie
ai Dipartimenti Universitari per essere inseriti in elenco (la presenza di un numero minimo
di docenti in ruolo), mentre non era stata accolta una proposta avanzata dai Soprintendenti
Archeologi per l’inserimento, a fianco di nominativi singoli di specializzati e dottorati in
archeologia, anche di società e imprese strutturate. Questa proposta, di recente fatta propria
dagli archeologi presenti in Consiglio Nazionale per i Beni Culturali, tendeva a sanare la
disparità evidente tra gli Istituti universitari, per cui veniva correttamente chiesta una
articolata organizzazione interna, e i soggetti singoli. Un corretto approccio metodologico alla
progettazione preventiva in campo archeologico richiede infatti la presenza di professionalità
differenziate.
1
Il contributo è apparso in AEDON, 3, 2005 (www.aedon.mulino.it/archivio/2005/3/malnati.htm).
21
Luigi Malnati
La mancata realizzazione degli elenchi ufficiali ha costituito e costituisce un problema
nell’applicazione della normativa, che tuttavia, per l’esperienza di chi scrive, è ormai
considerata pienamente in vigore dalle pubbliche amministrazioni più consapevoli. Come è
facile prevedere, la realizzazione di un elenco ufficiale dei soggetti abilitati avrebbe avuto del
resto una portata anche molto superiore al campo di applicazione della legge sull’archeologia
preventiva, vista l’assenza di un albo degli archeologi, e avrebbe costituito una legittimazione
dei soggetti interessati anche per la fase esecutiva e non solo per le opere pubbliche.
Resta così ancora molta strada da fare, sia per quanto riguarda la necessità di inserire la
previsionalità in campo archeologico non solo nel settore dei lavori pubblici, ma anche per gli
interventi nel sottosuolo di carattere privato, il che non può avvenire senza un coinvolgimento
istituzionale degli enti territoriali, sia per quanto riguarda la regolamentazione dell’archeologia
professionale ed il suo inserimento in logiche di mercato corrette e che salvaguardino la
professionalità degli archeologi e la qualità scientifica degli scavi.
2. ARCHEOLOGIA PREVENTIVA: UNA PRASSI GIÀ AMPIAMENTE IN USO
Il tema dell’archeologia preventiva non è certo una novità per una disciplina che, ormai da
decenni, ha riservato ampio spazio a tale problematica, sul fronte teorico e metodologico
come su quello più strettamente operativo. Da molto tempo infatti gli archeologi direttamente
impegnati sul campo si sono posti il problema di conciliare le esigenze di tutela di un
patrimonio – e quello italiano è come è noto tra i più rilevanti del mondo – con le esigenze
operative delle attività che comportano lavori di scavo, da quelle edilizie a quelle estrattive
fino alle grandi opere infrastrutturali.
Le concrete esperienze cui fare riferimento si erano svolte soprattutto nei paesi dell’Europa
centro-settentrionale, dove grandi lavori di archeologia preventiva erano stati rappresentati,
nel secondo dopoguerra, dagli scavi collegati con la realizzazione di ampliamenti della
metropolitana di Londra. Anche in Italia le prime sperimentazioni in tal senso avvengono
con l’intervento di archeologi inglesi, prima a Pavia e poi negli scavi preventivi per la
realizzazione del tribunale di Verona. Seguono, negli anni ottanta del novecento e a seguito
del potenziamento degli organici delle soprintendenze ai Beni archeologici, attività di
prevenzione più sistematiche in tutta Italia, con interventi sostenuti sia da committenti privati
che pubblici. Grande banco di prova per la verifica ed il consolidamento di prassi operative
già sperimentate su ambiti territoriali più limitati sono stati infine i lavori per la realizzazione
della linea ferroviaria ad alta velocità, che hanno visto svolgersi numerosissime indagini
preventive ed interventi di scavo sistematici ed estensivi dalla Lombardia fino alla Campania,
interventi tuttora in corso in alcune aree, fra cui l’Emilia.
E’ dunque ormai prassi corrente, da parte delle soprintendenze per i Beni archeologici,
coordinare interventi di scavo finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche e private. Si
può anzi dire che tali interventi, gestiti dalle soprintendenze indirettamente e sotto diverse
forme ma con committenza esterna, rappresentano la stragrande maggioranza degli scavi
archeologici condotti oggi in Italia.
Tuttavia si tratta di scavi che, dopo il recupero scientifico di tutti i dati stratigrafici e
strutturali, necessariamente o prevedono la rimozione dei contesti rinvenuti oppure richiedono,
alla loro conclusione, modifiche progettuali anche rilevanti per consentire la conservazione
22
La verifica preventiva dell’interesse archeologico
in loco totale o parziale dei resti rinvenuti. In alcuni casi, peraltro abbastanza rari, è stato
necessario abbandonare del tutto la realizzazione prevista a causa del rinvenimento di beni
archeologici strutturali di tale rilevanza da non consentire neppure operazioni di smontaggio
scientifico e ricollocazione.
La legge 25 giungo 2005, n. 109 si inserisce quindi opportunamente a colmare un vuoto
normativo e, nel fornire una legittimazione ad interventi imposti in questi anni dalle stesse
esigenze di tutela del patrimonio archeologico, contribuisce nel contempo a regolamentare
una situazione di fatto e una prassi comportamentale abituale di tutte le soprintendenze
archeologiche.
3. LA NORMATIVA PRECEDENTE: DALL’ASSENZA DI PREVISIONI ALL’APERTURA
OPERATA DAL CODICE
In effetti, fino alla promulgazione del Codice per i beni culturali e del paesaggio, con D.Lgs.
vo 22 gennaio 2004, n. 42, le modalità previste dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089 per lo
svolgimento degli scavi archeologici si riducevano a due: gli scavi promossi direttamente dallo
Stato tramite il ministero per i Beni e le Attività culturali (all’epoca ministero dell’Educazione)
– cioè inseriti a bilancio nella programmazione ordinaria – e quelli affidati in concessione,
per lo più ad istituti universitari o altri organismi scientifici. Il testo della 1089 (ripreso
quasi integralmente dal Testo Unico dei beni culturali, adottato con D.Lgs.vo 29 ottobre
1999, n. 490, che ha confermato questa situazione con lievi modifiche) prevedeva in buona
sostanza scavi archeologici aventi come unico fine la ricerca scientifica, cioè il recupero di
informazioni storiche in senso ampio, e l’acquisizione di beni al patrimonio dello Stato. In
questo senso anche i concessionari agivano in realtà come un braccio dell’amministrazione,
alle cui disposizioni erano (e sono) sottoposti, e che poteva sostituirsi agli stessi in qualsiasi
momento.
Con l’art. 28, comma 4, del Codice, che introduce la possibilità per il soprintendente di
disporre l’esecuzione di sondaggi archeologici a spese della committenza in caso di lavori
pubblici, per la prima volta veniva in qualche modo rovesciata la prospettiva fino a quel
momento seguita e ribadita nello stesso Codice agli artt. 88–89. Al contrario veniva sancita
la possibilità, e – anzi – la necessità, di svolgere scavi a livello preventivo e quindi finalizzati
a scopi assolutamente diversi, come la realizzazione di opere pubbliche, in una logica di
tutela del patrimonio archeologico e in un’ottica di valutazione di interessi concorrenti e
contemperati.
4. LE MODALITÀ OPERATIVE ATTUALMENTE IN USO
La prassi attualmente in uso prevede che le soprintendenze per i Beni archeologici esaminino,
per un parere preventivo, la grande maggioranza dei progetti realizzati dagli enti pubblici,
progetti solo in rari casi corredati da una valutazione dell’impatto archeologico redatta anche
sulla base di quanto previsto dalla legge 11 febbraio 1994, n. 109.
Per quanto riguarda i lavori di scavo previsti da soggetti privati subentra spesso la
mediazione delle amministrazioni comunali, che in molti casi (certamente in Emilia
Romagna, ma, a quanto mi consta anche in Veneto, Lombardia, Lazio, Marche è in vigore una
23
Luigi Malnati
prassi simile) hanno utilizzato i poteri autonomi loro conferiti in campo di programmazione
urbanistica per disporre che gli interventi di scavo localizzati in aree di presunto interesse
archeologico siano sottoposti a visto preventivo da parte della soprintendenza. In alcuni casi
di collaborazione particolarmente favorevole (ad es. con il comune di Modena) sono state
redatte carte di cd. “rischio archeologico” poi inserite in piano regolatore, e gli organi tecnici
comunali (di solito i musei) svolgono attività istruttoria preventiva, i cui risultati vengono poi
trasmessi alla soprintendenza per i Beni archeologici per il parere definitivo e le eventuali
prescrizioni, secondo un procedimento che si avvicina molto a quanto oggi previsto con la
legge in esame.
Il decreto legge 26 aprile 2005, n. 63, come convertito dalla L. 109/2005 interviene
per l’appunto in questa materia definendo e regolamentando non solo la fase meramente
preliminare (art. 2-ter), ma fornendo anche linee d’indirizzo per la parte esecutiva (art.
2-quater). Credo sia opportuno commentare separatamente i due articoli.
5. LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE. LA PROCEDURA PRELIMINARE
L’articolo 2-ter (Verifica preventiva dell’interesse archeologico) al comma 1 fa esplicito
riferimento alle opere sottoposte alla normativa della L. 109/1994 (cd. Merloni) e del D.Lgs.
vo 20 agosto 2002, n. 190.
Viene sancita la necessità di trasmettere alla soprintendenza territorialmente competente,
prima della loro approvazione, copia dei progetti delle opere. A questi vanno allegati gli
esiti delle indagini geologiche ed archeologiche previste all’art. 18 comma 1 lettera d) del
regolamento adottato con decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n.
554, fatta eccezione solo per le opere che non comportino nuove edificazioni o che non
superino comunque in scavo le quote delle opere esistenti, per le quali non necessita tale
documentazione.
Sul piano archeologico si tratta di una fase del tutto preliminare, che prevede quattro
diversi tipi di operazioni elencati nell’art. 2-ter, tutte non comportanti attività di scavo:
1) la raccolta dei dati di archivio e bibliografici, cioè delle conoscenze “storiche”, mediante
una ricerca che in parte si svolge comunque all’interno delle soprintendenze, gli archivi
delle quali conservano spesso informazioni e documentazione ancora inedite;
2) le ricognizioni di superficie sulle aree interessate dai lavori: si tratta del cosiddetto survey,
che prevede la raccolta sistematica dei reperti portati alla luce stagionalmente nel corso
delle arature o in sezioni esposte negli scassi del terreno naturali o artificiali (fossati, cave
ecc...);
3) la “lettura geomorfologica del territorio”, vale a dire una valutazione interpretativa delle
caratteristiche fisiche delle aree coinvolte in relazione alle loro potenzialità insediative
nel corso di tutto il periodo antico;
4) la fotointerpretazione (prevista però esclusivamente per le opere “a rete”), cioè lo
studio delle anomalie individuabili tramite la lettura delle fotografie aeree disponibili o
realizzabili ad hoc.
24
La verifica preventiva dell’interesse archeologico
I risultati di queste operazioni, i cui costi saranno coperti in base a quanto previsto dalla L.
109/1994, art. 16, comma 7, e dal D.P.R. 554/1999, art. 18, devono essere “raccolti, elaborati
e validati” da esperti appartenenti a “dipartimenti archeologici delle università” ovvero da
soggetti provvisti di laurea e specializzazione in archeologia o da dottorati in archeologia.
Con il comma 2 viene istituito presso il ministero un elenco degli istituti universitari e
dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione (evidentemente abilitati a redigere e
validare la documentazione delle indagini archeologiche di cui al comma 1). Entro 90 giorni
dalla data di conversione in legge del decreto si dovrà provvedere a determinare i criteri per
la tenuta dell’elenco “sentita una rappresentanza dei dipartimenti archeologici universitari”.
A tal fine vengono anche previsti stanziamenti a bilancio.
Il comma 3 chiarisce che il soprintendente, una volta individuato un rischio archeologico
delle aree interessate dai lavori sulla base della documentazione trasmessa e “delle ulteriori
informazioni disponibili”, può richiedere motivatamente la sottoposizione ad un’ulteriore
fase di indagine descritta all’art. 2-quater. Ha novanta giorni per pronunciarsi in via definitiva,
ma, entro dieci giorni dal ricevimento della documentazione, può richiedere integrazioni
ed approfondimenti, sospendendo i termini (comma 4). Tale richiesta deve segnalare “con
modalità analitiche” l’incompletezza della documentazione. Non è sufficiente quindi una
richiesta generica di integrazione o approfondimento.
Il comma 5 prevede la possibilità di ricorso amministrativo contro la richiesta del
soprintendente di attivare le procedure previste dall’art. 2-quater, e ciò in base all’art. 16 del
Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Il comma 6 considera l’eventualità, come vedremo a mio avviso piuttosto remota, che il
soprintendente non richieda l’attivazione delle procedure dell’art. 2-quater, oppure che tali
procedure diano esito negativo. In tali casi è comunque prevista la possibilità di richiedere
l’esecuzione di sondaggi archeologici, ma solo a patto che vengano acquisite nuove
informazioni o emergano resti archeologici. Contestualmente è però necessario avviare
l’istruttoria relativa al procedimento di verifica o alla dichiarazione di interesse del bene
culturale ex artt.12 e 13 del Codice, e darne relativa comunicazione.
Restano escluse dalle procedure della legge in esame (comma 7) le aree e i parchi
archeologici di cui all’art. 101 e le zone d’interesse archeologico ex art. 142 del Codice, per
le quali vigono le disposizioni già contenute in quest’ultimo, nonché le opere i cui progetti
preliminari siano già stati approvati al momento dell’entrata in vigore della legge (comma 8).
L’art. 101 definisce genericamente le zone archeologiche, senza precisare se statali o no, ma
probabilmente il legislatore sottintende la presenza in ogni caso di un vincolo e comunque
di una situazione in cui fare ulteriori ricerche sia superfluo; il dettato del comma 7 è un po’
ambiguo e, in via ipotetica, qualcuno potrebbe pensare di essere esentato dalla comunicazione
alla soprintendenza della progettazione riferita a queste aree.
5.1. La strumentazione proposta
La documentazione raccolta secondo la procedura prevista al comma 1 non consente in realtà
di pervenire in nessun caso ad una valutazione certa; per meglio dire, permette di ipotizzare la
presenza indiziaria di resti archeologici genericamente riferibili a forme di insediamento, ma,
anche laddove i dati siano carenti o del tutto assenti, non autorizza – se non molto raramente
– ad escludere a priori un rischio di tipo archeologico.
25
Luigi Malnati
Esaminiamo nel dettaglio le quattro operazioni previste.
1) La raccolta di dati bibliografici e d’archivio fornisce di norma informazioni relative
a quanto già noto in passato; inoltre, fino ad un periodo molto recente si tratta per lo
più di notizie generiche e poco affidabili, necessariamente da sottoporre al vaglio di
approfondimenti diretti sul terreno.
2) Le ricerche di superficie costituiscono invece uno strumento di indagine archeologica
preventiva affidabile, se condotte in modo sistematico e con metodologie corrette. Tuttavia
non rappresentano uno strumento risolutivo, sia per la scarsa incidenza statistica delle
possibilità di controllo rispetto alla globalità del territorio nazionale, sia per le incertezze
interpretative insite nelle loro risultanze. Da un lato infatti, oltre alla limitazione imposta
dalla necessità di procedere alle ricognizioni solo dopo le arature e quindi solo in alcuni
momenti dell’anno, è da rilevare la sussistenza di aree – ad esempio quelle di montagna
o quelle molto urbanizzate – non controllabili in quanto non soggette a coltivazione
intensiva (e la percentuale dei terreni arati pare ammonti ogni anno a circa un terzo del
territorio). D’altro canto, la mera identificazione di un sito archeologico tramite i reperti
portati in luce dall’aratro, non garantisce circa la conservazione dell’intera stratigrafia,
conservazione da verificare mediante sondaggi mirati: l’esperienza dimostra infatti che
molti insediamenti considerati importanti in base alla quantità e alla densità dei reperti
recuperati in superficie risultano poi, al momento dello scavo, quasi completamente
cancellati dai precedenti lavori agricoli.
3) La lettura geomorfologica del terreno è soggetta a modelli interpretativi generali che
possono dare solo indicazioni sui presumibili orientamenti degli assetti insediativi di un
determinato territorio; in alcuni casi essa può però fornire alcune informazioni preziose
per valutazioni in negativo. E’ il caso dello studio dei diversi percorsi fluviali, anche
sepolti, e delle coperture alluvionali.
4) La fotointerpretazione aerea può certamente aiutare ad individuare l’estensione di
macroevidenze archeologiche relativamente superficiali corrispondenti a strutture edilizie
urbane di età romana e medioevale, insediamenti rurali estesi (ville romane), strutture in
negativo (fossati di insediamenti pre-protostorici o medioevali); è invece molto meno
efficace nel caso di insediamenti di minore rilevanza “monumentale”, caratterizzati da
strutture più labili, oppure posti a profondità maggiore.
5.2. I soggetti
La legge identifica poi i soggetti in grado di elaborare questa documentazione (da allegare
ai progetti preliminari delle opere) nei Dipartimenti archeologici delle Università e nei
laureati provvisti di specializzazione in archeologia o di dottorato in archeologia. Si tratta
innanzitutto di categorie non chiaramente determinate. A parte infatti l’utilizzo di un termine
piuttosto generico (“Dipartimenti archeologici”) per entità che possono assumere le più
svariate denominazioni (Scienze dell’Antichità, Scienze storiche del mondo antico, Scienze
della Terra, Storia dell’arte...), le restanti indicazioni sembrano essere ancora riferite al
vecchio ordinamento universitario, dal momento che quello attuale prevede come è noto la
26
La verifica preventiva dell’interesse archeologico
distinzione tra una laurea triennale e una successiva laurea specialistica biennale, mentre a
quanto mi risulta, le vecchie Scuole di specializzazione sono ancora in via di ricostituzione.
Anche per quanto riguarda i soggetti provvisti di “dottorato in archeologia”, sussiste
qualche problema di identificazione, dal momento che le discipline archeologiche prevedono
molte specializzazioni cui i dottorati stessi fanno riferimento: saranno dunque considerati
qualificanti anche i titoli di dottore in topografia, etruscologia ed archeologia italica, preistoria
ecc...?
C’è infine da aggiungere che almeno una delle operazioni richieste, l’indagine
geomorfologica, è tradizionalmente compito dei laureati in geologia, una figura professionale
assolutamente non contemplata dalla legge.
Sciogliere questi dubbi sarà probabilmente precisa incombenza di chi redigerà presso
il ministero per i Beni e le Attività culturali l’elenco degli Istituti universitari e dei soggetti
abilitati previsto al comma 2. Anche qui non mancano i problemi: gli Istituti universitari
infatti non esistono pressoché più, sostituiti dai Dipartimenti: probabilmente si tratta di un
refuso. Quanto agli stessi Dipartimenti archeologici, la cui rappresentanza dovrebbe essere
sentita per determinare i criteri di tenuta degli elenchi stessi, c’è da chiedersi come questa sarà
costituita e a che titolo: con un’elezione interna o tramite una scelta autonoma del ministero?
E che effettivo ruolo poi ricoprirà, dal momento che per “sentita” sembrerebbe di dover
intendere che il ministero redige autonomamente gli elenchi e poi li sottopone ad un parere
non vincolante di tale “rappresentanza”? Altrettanto oscure appaiono infine le modalità di
partecipazione per gli stessi fini di tutti quei non meglio determinati “soggetti interessati”.
Un altro punto mi sembra importante: il comma uno indica, come soggetti qualificati
“i dipartimenti..., ovvero i laureati” e dottorati. Credo che quell’ovvero, come spesso nel
linguaggio giuridico, non equivalga ad “ossia”, bensì a “oppure” (è usato nello stesso senso
nel comma 6, riga 2), tanto è vero che anche nel comma 2 si parla dell’elenco degli istituti...
e dei soggetti in possesso di adeguata qualifica.
Quindi negli elenchi saranno compresi gli istituti universitari in qualità di entità
“istituzionale” dotata di proprio personale e di propri mezzi tecnici, più i soggetti singoli in
possesso di qualifica. Ma come faranno i singoli ad entrare nell’elenco?
Il comma sembra frutto di un compromesso e presenta incongruenze: una volta riconosciuti
nei laureati in archeologia (s’intende in lettere con tesi in archeologia o i nuovi laureati
“triennali” in archeologia?) i soggetti abilitati a redigere la documentazione, che bisogno c’è
di ulteriori specificazioni? E’ evidente che i possessori di dottorato e gli specializzati sono in
possesso di laurea ed è probabile che negli organici dei Dipartimenti di archeologia i laureati
siano molti.
Quanto al ruolo specifico delle soprintendenze, parrebbe che tutte le operazioni previste
in questa fase non richiedano la partecipazione attiva degli uffici cui la documentazione
progettuale dovrà essere inviata. Ma, nonostante questi ultimi non siano poi più menzionati,
è da rilevare che almeno una delle attività previste per questa fase preliminare, quella delle
indagini di superficie, esige un provvedimento di autorizzazione o concessione in base
agli artt. 88 e ss. del Codice. Inoltre, come già detto, le ricerche storiche contemplano una
indispensabile fase da svolgersi negli archivi delle soprintendenze, richiedendo dunque la
peraltro dovuta collaborazione delle stesse.
27
Luigi Malnati
5.3. Una valutazione sul valore e sull’efficacia della procedura preliminare
I tempi concessi al soprintendente per lo svolgimento della procedura sembrano congrui,
tenuto conto della possibilità di sospendere i termini, e soprattutto del fatto che è molto
improbabile che non venga richiesto il passaggio alla seconda fase (quella di cui all’art.
2-quater). Il motivo è assai semplice: come si è evidenziato, nessuna delle indagini
previste è realmente risolutiva, e soprattutto consente di ritenere probante l’argumentum ex
silentio. In sostanza, se le ricerche d’archivio, bibliografiche, di superficie e le tecniche di
fotointerpretazione possono certamente individuare, con buoni margini di sicurezza, aree
di interesse archeologico, non possono al contrario provare che le aree per cui mancano
informazioni siano prive di resti archeologici.
Dal punto di vista strettamente archeologico, la valutazione complessiva è che la procedura
preliminare prevista dall’art. 2-ter risulti più adeguata per opere di grande impatto territoriale
(sul modello, per intendersi, dei lavori per l’alta velocità ferroviaria – la cosiddetta Tav –,
che infatti hanno seguito un percorso simile), piuttosto che per interventi di carattere urbano
(parcheggi interrati, linee di metropolitana, ...), localizzati in contesti ambientali sfavorevoli
alla maggior parte delle operazioni previste e infine incidenti su situazioni pluristratificate di
ardua decifrazione senza dati di verifica diretta.
In effetti, si nota la mancanza di almeno un’operazione che in questi casi risulta molto
spesso dirimente. Si tratta dei carotaggi, previsti solo nella procedura di cui all’art. 2-quater,
ma che invece, analizzati da un geoarcheologo (figura evidentemente sconosciuta a chi ha
redatto la legge), già in questa fase possono restituire informazioni determinanti sulla potenza
di stratigrafia antropica conservata.
6. LA PARTE ESECUTIVA DELLA PROCEDURA
L’art. 2-quater (Procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico) al comma 1
precisa che questa procedura è subordinata all’”emersione di elementi archeologicamente
significativi” nell’esito della parte precedente, e si svolge sotto la direzione della soprintendenza
archeologica (si deve intendere evidentemente ai beni archeologici) territorialmente
competente, con oneri a carico della stazione appaltante (comma 5).
La procedura in questione si articola in due fasi:
a) “integrativa della progettazione preliminare”, che prevede: carotaggi, prospezioni
geofisiche e “geochimiche”, saggi archeologici a campione;
b) “integrativa della progettazione definitiva e esecutiva”, con esecuzione di sondaggi e
scavi in estensione.
La conclusione delle fasi di indagine è sancita dalla redazione di una “relazione
archeologica definitiva” (comma 2), il cui fine è quello di collocare l’area interessata dai
lavori all’interno di una precisa gerarchia di definizioni conseguenti l’accertamento della sua
rilevanza archeologica:
28
La verifica preventiva dell’interesse archeologico
a) contesti “in cui lo scavo stratigrafico esaurisce direttamente l’esigenza di tutela”;
b) contesti i cui resti “monumentali”, non particolarmente conservati, consentono “interventi
di reinterro, smontaggio-rimontaggio e musealizzazione in altra sede rispetto a quella di
rinvenimento”;
c) complessi “di particolare rilevanza, estensione e valenza storico-archeologica” da
sottoporre a tutela complessiva, ai sensi del Codice.
Al comma 4 sono indicate le prescrizioni “conseguenti” l’attribuzione del livello
di rilevanza, prescrizioni che si possono così riassumere: nel primo caso nulla osta alla
realizzazione delle opere previste (“verifica... chiusa con esito negativo... e insussistenza
dell’interesse archeologico”), nel secondo indicazioni relative ad ulteriori interventi da eseguire
(“prescrizioni necessarie ad assicurare la conoscenza”) ed alle modalità di conservazione
dei beni ritenuti “archeologicamente rilevanti”, nel terzo caso avvio del procedimento di
“dichiarazione di cui agli articoli 12 e 13” del Codice a tutela dell’area e, evidentemente,
modifica sostanziale del progetto o cancellazione dell’opera.
Ulteriori specificazioni circa la procedura descritta sono demandate alla linee-guida che,
entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, il
ministro per i Beni culturali, di concerto con quello delle Infrastrutture, deve stabilire, al fine
di “assicurare speditezza, efficienza ed efficacia” all’art. 2-quater (comma 6).
Al comma 7 è prevista infine la possibilità per il direttore regionale, su proposta del
soprintendente di settore, di stipulare un accordo con l’amministrazione appaltante, entro
30 giorni dalla richiesta di avviare la procedura prevista all’art. 2-quater (in base al comma
3 dell’art. 2-ter) per coordinare e snellire le procedure, nonché per concordare forme di
divulgazione e valorizzazione dei risultati delle indagini archeologiche.
7. CONSIDERAZIONE CONCLUSIVE
L’art. 2-quater è certamente molto meglio impostato e più efficace dell’articolo precedente,
tanto è vero che la prima fase di indagini è considerata integrativa delle procedure preliminari
previste all’art. 2-ter, che sono quindi da valutare come insufficienti.
La prima palese distinzione tra le indagini preliminari da svolgere in base all’art. 2-ter
e quelle previste all’art. 2-quater, fase a), è che le seconde, in quanto comportanti attività
dirette sul terreno, necessitano della direzione degli organi periferici del ministero.
E saranno proprio le soprintendenze, vista l’oggettiva debolezza delle potenzialità
previsionali delle indagini correlate alla progettazione preliminare, a cautelarsi per evitare
di incorrere nelle situazioni previste dal comma 6 dell’art. 2-ter, cioè l’emersione, in corso
d’opera, di elementi archeologicamente rilevanti, con tutte le conseguenze negative del
caso: fermi dei lavori, richiesta di saggi “preventivi” (ma perché si parla ancora di saggi
preventivi se il comma 6 riguarda lavori già in corso?), dichiarazione di importante interesse,
comportante modifiche rilevanti o annullamento di un’opera già iniziata. La richiesta di
attivare la procedura di verifica ex art. 2-quater estesa a tutta la progettazione sarà dunque
molto probabilmente la prassi costante adottata dai soprintendenti più avvertiti.
29
Luigi Malnati
Se esaminiamo ora in dettaglio le operazioni caratterizzanti la fase a), quella integrativa
alla progettazione preliminare (comma 1), dobbiamo apprezzarne la coerenza e la flessibilità
in diversi contesti operativi.
1) I carotaggi sono, come si è detto, uno strumento essenziale per verificare la consistenza
dei depositi archeologici, nonché per procedere ad una sommaria valutazione delle
diverse fasi insediative; e ciò specialmente in area urbana, dove la stratificazione storica
è particolarmente complessa e generalmente molto consistente.
2) Le prospezioni geofisiche sono invece utili in aree poco urbanizzate, e soprattutto quando,
come può avvenire nel caso delle indagini propedeutiche la progettazione preliminare, si è
giunti ad avere informazioni sulla natura dell’insediamento e sul tipo di strutture presenti.
E’ infatti importante sottolineare che questa metodologia di indagine risulta proficua solo
quando già si conosce la tipologia strutturale dei resti e la loro profondità approssimativa.
L’esperienza dimostra inoltre che le prospezioni geofisiche (geolettriche e geomagnetiche)
sono poco attendibili per insediamenti con caratteristiche strutturali legate all’impiego di
materiali deperibili, come gli abitati pre-protostorici o altomedioevali, mentre forniscono
ottimi risultati nella delimitazione e definizione di edifici dotati di vere e proprie strutture
murarie, come ad esempio le ville di età romana. Confesso la mia ignoranza invece sulle
previste “prospezioni geochimiche”.
3) I saggi archeologici sono certamente la tecnica di indagine preventiva che fornisce le
informazioni più certe e meglio interpretabili. Se la dislocazione delle verifiche segue una
precisa strategia, che tenga conto anche delle caratteristiche geomorfologiche del terreno
ed eventualmente dei risultati dei carotaggi, delle ricerche di superficie e delle prospezioni
geofisiche, tale intervento è la base per una progettazione definitiva attendibile. Si tratta
evidentemente di contemperare le esigenze di tipo stratigrafico (per delimitare in senso
verticale i depositi di carattere artificiale e antropico) con quelle di carattere topografico,
al fine di circoscrivere arealmente il deposito archeologico e verificare caratteristiche e
densità degli elementi strutturali su un’area che rappresenti una base statistica attendibile
per la definizione dei caratteri dell’intero sito. In realtà la realizzazione di trincee potrebbe
essere evitata nel caso in cui le indagini precedenti abbiano evidenziato che ci si trova
in condizioni tali da prevedere una soluzione di tipo a), cioè uno scavo estensivo che
consente, dopo la sua conclusione, l’esecuzione dell’opera.
Per tali situazioni il comma 3 dell’art. 2-quater consente al responsabile del procedimento
di attivare procedure semplificate di progettazione.
A conclusione della valutazione, nel complesso positiva, delle indagini previste al comma
1 dell’art. 2-quater, non sarà in ogni caso inutile ripetere che gli scavi archeologici possono
riservare sorprese e situazioni non del tutto prevedibili, ragione per la quale si rendono talvolta
necessari, in corso d’opera, interventi precedentemente non contemplati. Nelle situazioni più
incerte sarebbe dunque opportuno predisporre un costante controllo archeologico durante i
lavori, secondo una prassi che già attualmente molte soprintendenze per i Beni archeologici
mettono in atto per i lavori di carattere infrastrutturale di maggiore impatto.
La fase b) menzionata al comma 1, legata alla progettazione esecutiva, sarà certamente
oggetto di un maggior approfondimento nelle successive “linee guida” previste al comma 6,
perché si tratta evidentemente di regolamentare scavi estensivi (difficile ci si possa limitare
30
La verifica preventiva dell’interesse archeologico
ad ulteriori sondaggi, già previsti nella fase a), il cui scopo non è più solo quello di mettere
in luce resti e complessi archeologici, ma anche – come previsto nel caso a) del successivo
comma 2 – di esaurire l’intera stratificazione archeologica per liberare l’area al fine della
realizzazione dell’opera pubblica prevista.
Anche le valutazioni relative ai livelli di rilevanza del sito (comma 2) ed alle prescrizioni
che ne conseguono (comma 4) andranno attentamente normate attraverso la proposizione di
una casistica ampia ed articolata, al fine di evitare il più possibile, a livello di prassi operativa
delle singole soprintendenze, comportamenti difformi e decisioni sperequate.
E’ bene chiarire, anche se sembra implicito nel testo, che la prima soluzione, “liberatoria”,
si verifica solo al termine della fase esecutiva: l’”insussistenza” del bene archeologico è
dovuta al fatto che lo scavo completo e documentato dell’area ha esaurito il deposito
archeologico originariamente conservato. Sembra utile chiarire che in questo caso non si
tratta né di verifica chiusa con esito negativo né di insussistenza (i resti archeologici erano
presenti e sono stati rimossi). Il fatto che lo scavo archeologico esaurisca le esigenze di tutela
presuppone che la scelta della rimozione del contesto archeologico è stata già presa sulla base
dell’esito dei sondaggi e degli scavi, sulla base della valutazione della natura del deposito
archeologico.
La seconda soluzione aprirà di fatto una fase “di contrattazione” su una serie di possibilità
operative che solo le linee guida dovrebbero chiarire. La terza soluzione si spera possa
emergere nei tempi più rapidi possibili per consentire varianti al progetto. Tali varianti sono
già contemplate dal fatto che siamo sempre nel campo delle indagini preventive, i cui risultati
faranno parte degli allegati al progetto definitivo/esecutivo.
La “relazione archeologica definitiva, approvata dal soprintendente” costituisce in
sostanza o un nulla-osta, o la richiesta di ulteriori indagini o la sanzione dell’impossibilità
di realizzare l’opera. Sarebbe quindi molto più opportuno venisse spostata dopo la fase a),
quando è già possibile valutare il livello di rilevanza dell’opera, e prima della fase esecutiva
degli scavi archeologici. Tali scavi estensivi, di cui alla fase b), sia nel caso siano fatti per
rimuovere che per portare alla luce i resti archeologici presuppongono già una decisione sul
da farsi in merito alla rilevanza archeologica dell’area.
Un altro problema ci si attende debba essere sciolto nelle linee-guida: chi materialmente
redige la “relazione archeologica definitiva”? Si dice che il soprintendente la approva: si
intende che a redigerla è chi svolge le indagini (peraltro dirette dalla stessa soprintendenza)?
Bisogna ricordare che tale relazione contiene anche la qualificazione dei livelli di rilevanza
da cui discendono le prescrizioni.
Resta un altro punto: per chi non attiva la verifica preventiva non è previsto alcun tipo
di sanzione; non è reato, né illecito amministrativo punibile in via pecuniaria, non implica
improcedibilità né blocco dei fondi. Anche questa questione dovrà essere affrontata.
In conclusione, si può dire, pur con tutte le cautele dovute, che la L. 109/2005 presenta
aspetti positivi, soprattutto perché rappresenta un primo importante contributo in una materia
in cui l’assenza di qualsiasi riferimento normativo rischiava di portare a situazioni difficilmente
controllabili; resta moltissimo da fare in proposito, innanzi tutto per quanto riguarda i lavori
di scavo condotti da soggetti privati, poi per individuare i soggetti che possono svolgere le
indagini legate alla progettazione definitiva sotto la direzione delle soprintendenze (mentre,
come abbiamo visto l’art. 2-ter si diffonde lungamente sui soggetti in grado di svolgere una
progettazione di fatto molto preliminare). Ma il fatto che venga finalmente sancito che in
31
Luigi Malnati
Italia, come nel resto d’Europa, gli scavi archeologici possano avvenire (come sempre più
spesso è avvenuto negli ultimi anni) per scopi assai diversi dalla mera attività di ricerca è
comunque un’acquisizione molto importante e da non sottovalutare.
32
CART TRA PASSATO E FUTURO:
VITA PERICOLOSA DI UN SISTEMA COMPLESSO
Maria Pia Guermandi
Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna
[email protected]
1. INTRODUZIONE
Quando, circa un anno e mezzo fa, il sistema CART entrò a far parte a pieno titolo del
mainstream di EPOCH, si contava di introdurre questo progetto fra gli esempi di buone pratiche
che costituiscono uno degli obiettivi della nostra rete di eccellenza, arricchendo, in questo
modo, l’area relativa ai sistemi informativi territoriali. CART fu quindi inserito all’interno
del settore degli standards specificamente mirato ai sistemi GIS Come apparirà chiaro dagli
interventi che si succederanno (cfr. Bitelli, Guarnieri, Prati), si trattava di un sistema già in
uso da parecchi anni, chè tali possono essere considerati due lustri nel settore delle tecnologie
informatiche e che da qualche tempo viveva una fase di ripensamento e sostanziale arresto
determinato in particolare da un inaridimento delle fonti di finanziamento.
A fronte di una difficoltà economica perdurante, effetto di una più generale contrazione
delle risorse che il settore dei beni culturali e della cultura in generale sta vivendo nel nostro
paese negli ultimi anni, si evidenziava al contrario, da parte delle pubbliche amministrazioni,
un risveglio di attenzione nei confronti dei temi dell’archeologia preventiva che si sostanziava
in richieste di accordi e convenzioni mirate, appunto, all’elaborazione di cartografia del
rischio ai fini della redazione di strumenti di pianificazione urbanistica a livello provinciale,
comunale o intercomunale1. Le risorse finanziarie di EPOCH ci hanno quindi consentito di
riattivare il progetto e di continuare ad offrire un servizio alle amministrazioni locali del
nostro territorio, ma soprattutto, per quel che ci riguarda più direttamente in questa sede, di
ripensare in maniera critica all’evoluzione del sistema stesso, soprattutto alla luce della più
ampia esperienza EPOCH.
E non solo per quanto riguarda gli aspetti più strettamente scientifici o tecnologici, che
pure, dopo alcuni anni, avvavno senz’altro necessità di un adeguamento complessivo.
Nel sistema dei beni culturali, da sempre scarsamente abituato a pensare in termini di
sostenibilità economico-finanziaria e nel quale, sicuramente per quanto riguarda l’Italia, le
possibilità di finanziamento sono frequentemente casuali, non sistemiche, spesso destinate a
improvvisi ridimensionamenti, anche drastici e quasi mai in grado di garantire quei processi
di continuità che sono quasi sempre essenziali per verificare metodologie, produrre feedback significativi, insomma consolidare risultati. La nostra estraneità agli elementi finanziari
di un progetto credo sia alla base di un fraintendimento profondo che ci porta a ritenere,
1
Parlo, nello specifico, del Comune e della Provincia di Bologna, enti coi quali è tuttora attiva una
convenzione per la redazione del tematismo archeologico all'interno del PSC (Piano Strutturale
Comunale) e del PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale) e l'associazione dei 10
comuni del Nuovo Circondario Imolese, oltre che di altri amministrazioni comunali soprattutto
romagnole.
33
Maria Pia Guermandi
tutto sommato casuali, anche questi frequentissimi e quasi inevitabili problemi di ordine
economico o per lo meno legati alla complessiva penuria finanziaria in cui si muove il nostro
mondo e in ogni caso del tutto scollegati dalla qualità ed efficacia del progetto in essere.
Si tratta di una visione davvero arcaica del fare ricerca e pure ancora ampiamente diffusa
nel tessuto delle nostre istituzioni. Così, se pure qualche area felice gode da questo punto di
vista di situazioni privilegiate di sicurezza e continuità, l’ordinaria amministrazione è alla
prese con una situazione di lenta asfissia che da anni sta minando il corretto funzionamento
del sistema dellla tutela dei beni culturali nel suo complesso.
E’ quindi con senso di autocritica che propongo questa riflessione, perchè come si
è cercato di sottolineare nei diversi interventi del volume, il progetto CART che pur ha
prodotto risultati positivi ha rischiato di arenarsi di fronte alla impossibilità di innescare un
meccanismo virtuoso di aggiornamento e quindi in definitiva una chiara istituzionalizzazione
del progetto stesso che ne garantisse la continuità e la stabilizzazione nel tempo. Si è trattato
di uno snodo fin da subito percepito come problematico2, e che si ricollega in prima battuta
alla complessità prima sottolineata del quadro generale del sistema beni culturali in Italia, ma
anche di una lacuna politica e metodologica assieme che, puntualmente, è emersa.
L’intervento di EPOCH, nel nostro caso, non ha prodotto solo una semplice ripresa del
progetto, ma ne ha provocato un vero e proprio ripensamento in termini sia proceduralioperativi, che epistemologici in senso compiuto.
Obiettivo di questo testo è innanzi tutto quello di inquadrare CART nella sua cornice
storica e nei suoi aspetti istituzionali e metodologici per fornire, in tal modo, una chiave di
lettura complessiva all’insieme degli interventi che nel volume si riferiscono direttamente a
questo progetto3 e contemporaneamente per sottolinearne il carattere di “caso esemplare” sia
per quanto riguarda l’ambito degli standard (di georeferenziazione, ma non solo) e quindi di
EPOCH4 che per quanto concerne il dibattito attuale sull’archeologia preventiva in Italia5 e
in Europa6.
2. L’INIZIO DELLA STORIA
La Carta Archeologica del Rischio Territoriale (CART) è un GIS per l’elaborazione e la
gestione di cartografia archeologica.
Il progetto trova una data ufficiale di origine alla metà del 1995 grazie ad una convenzione
firmata tra l’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna e
la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna7.
Fu l’allora Soprintendente Pietro Giovanni Guzzo che, sull’esempio dell’esperienza del
Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena, sentì l’esigenza di estendere all’intera
Regione una “politica del dialogo” con le amministrazione locali ed i privati; politica che
2
3
4
5
6
7
Cfr. Guermandi 2001
Cfr., oltre al presente, gli interventi di R. Bitelli, C. Guarnieri, S. Pescarin, L. Prati.
Cfr. l’intervento di A. D'Andrea.
Cfr. gli interventi di S. De Caro, C. Guarnieri, L. Malnati.
Cfr. gli interventi di J.P. Demoule, N. Schlanger e F. Ulisse.
L’Istituto è noto sia con l’acronimo IBACN sia come IBC; la Soprintendenza viene citata con la sigla
SAER.
34
CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso
prevedeva, tra l’altro, la stesura di una carta interattiva dove fosse segnalata la presenza di
aree o zone, soggette al rischio di intercettazione di giacimenti archeologici8.
Il progetto, caldamente sostenuto anche dal Soprintendente successivo – Mirella Marini
Calvani –, nacque quindi con la volontà di rendere pubblico il “rischio archeologico” e con
la speranza che chi dovesse operare sul territorio fosse, in un certo senso, consapevole delle
complicazioni legate ad eventuali interventi nel sottosuolo.
Sono noti i difficili rapporti, mal governati dalla legislazione vigente, tra gli enti che
devono occuparsi della pianificazione degli interventi sul territorio.
CART aveva l’intento di essere uno “strumento gestionale immediatamente spendibile a
livello di pianificazione urbanistica”9, e rappresentava di fatto una prima importante apertura
da parte dell’ente ministeriale verso le realtà amministrative periferiche al fine di instaurare
proficui incontri di collaborazione reciproca.
Fig. 1. I partners del progetto CART.
Per quanto atteneva l’operatività del progetto, Soprintendenza e IBA hanno mantenuto un
ruolo di direzione scientifica congiunto e, mentre alla SAER, secondo il ruolo istituzionale che
le compete, spettò la direzione archeologica del lavoro, all’ente regionale venne demandata
la messa a punto di un software che rispondesse a tali esigenze. Al programma si chiedeva
sia la capacità di elaborare cartografia archeologica sia la gestione di una mole considerevole
di dati di diversa natura come necessita a chi si occupa della ricostruzione del paesaggio
antico. Non da ultimo, il programma doveva tenere in considerazione la possibilità di essere
costantemente aggiornato e liberamente consultato dagli enti o utenti singoli accreditati.
Dal 1995 ad oggi l’IBC si è vista impegnata a portare avanti il progetto con risorse in gran
parte interne, anche se non sono mancati altri fondamentali apporti, quali i fondi del Progetto
Finalizzato “Beni Culturali” del C.N.R. fino al 2000 e i finanziamenti della rete di eccellenza
EPOCH, per quest’ultima fase di cui si rende conto attraverso questo volume.
Il comitato scientifico responsabile della prima struttura del sistema (SAER-IBC) decise
che l’enorme mole di dati di interesse archeologico, spesso di natura eterogenea, fosse
8
9
L’esperienza del Museo Civico modenese si è concretizzata nel Progetto Mutina. Per notizie ed
informazioni inerenti alla Carta del Rischio di Modena si rimanda a CARDARELLI et al. 2000.
ORTALLI 2000, p. 185.
35
Maria Pia Guermandi
catalogata in schede organizzate secondo una struttura gerarchica che raggruppava, su
diversi livelli, l’insieme, davvero considerevole delle informazioni di interesse (vedi Fig. 1
del contributo di BITELLI in questo stesso volume).
Per quanto riguardava il concetto di “rischio archeologico”, fu però chiaro fin dall’inizio
che esso non poteva basarsi unicamente sui dati archeologici rilevati e inseriti nella carta: è
assolutamente fuorviante pensare che solo le zone dove sia attestata la presenza di un bene
archeologico si presentino come aree a rischio. Per arrivare alla definizione, anche sommaria,
dei livelli di rischio occorreva quindi introdurre altri elementi, quali la segnalazione dei
“vuoti” archeologici e una dettagliata rilevazione di alcune categorie di dati specifiche, quali
le quote, essenziali per attingere un livello di predittività del modello.
3. IERI: CART ALLA PROVA DEI FATTI E SUE EVOLUZIONI
Il progetto partì con l’implementazione dei dati riguardanti il centro storico di Faenza. Fin
dall’inizio, il sistema era stato pensato per un uso “collaborativo” e perché fosse fruibile
da utenti sparsi sul territorio e con profili di accesso differenziati: ci si rese conto quindi,
quasi subito, che l’unica modalità per raggiungere tali obiettivi poteva essere l’evoluzione
del sistema attraverso Internet.
Proprio per questo nel 1999 il programma venne trasformato e venne creata un’interfaccia
di tipo universale in HTML trasformando le schede del database in pagine web, per permettere
la consultazione delle stesse in rete.
Il data base, che fu contemporaneamente dotato di una nuova interfaccia grafica, divenne
così compilabile e consultabile tramite un collegamento autorizzato al server dell’IBC, dove
fisicamente risiedeva e risiede tuttora.
L’archivio rimase inalterato per quanto riguarda la struttura dei dati scientifici e continuò
ad essere gestito tramite un software (Highway) appartenenete alla tipologia degli infromation
retrieval systems, mentre la parte grafica venne sostituita utilizzando MapObjects, un software
della famiglia ESRI.
Già in questa fase di evoluzione del sistema ad ogni scheda venne attivata anche
la funzionalità di associazione con un numero libero di immagini, utili per una migliore
comprensione dell’evidenza archeologica nella sua fisicità.
Con questa versione di CART fu terminata la stesura della carta del centro storico di Faenza
(vedi Fig. 8 del contributo di GUARNIERI in questo stesso volume) e fu successivamente
mappata l’area del Comune di Forlì (vedi Fig. 11 del contributo di GUARNIERI in questo
stesso volume) e, a seguire, il territorio della provincia di Forlì-Cesena con particolare
approfondimento delle zone di S. Giovanni in Compito e dell’alta valle del fiume Savio10.
10
Per quanto riguarda i dati archeologici, CART Faenza è stato seguito dalla Dott.ssa Chiara Guarnieri
della SAER (si vedano GUARNIERI 1998, GUARNIERI 2000, GUARNIERI 2000a); CART Forlì-Cesena
ha visto come direzione scientifica ancora la Dott.ssa Guarnieri in collaborazione con la direttrice
del Museo Civico Archeologico “A. Santarelli” Dott.ssa Luciana Prati (si vedano PRATI 1998, PRATI
2000).
36
CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso
A livello di discussione metodologica, inoltre, uno dei risultati più importanti di questa
fase è sicuramente da identificare nella realizzazione del convegno Rischio Archeologico, se
lo conosci lo eviti svoltosi a Ferrara nel 200011.
Dedicata al tema del “rischio” archeologico, la manifestazione, oltre ad essere stata
l’occasione per la presentazione del progetto CART, costituì, in un momento di particolare
attenzione a questi problemi determinato dalle attività che in quel periodo interessavano
sia l’ambito urbano (lavori per il Giubileo romano) che quello territoriale (lavori dell’Alta
Velocità, ricerche petrolifere in Basilicata), un’occasione di intenso dibattito e di riflessione
sui problemi della tutela del patrimonio archeologico e sui mezzi più efficaci per esercitarla.
Ci si rese così conto, a livello nazionale e forse per la prima volta con tale articolazione,
che l’archeologia preventiva era di fatto divenuta uno dei settori portanti di tutta l’attività
archeologica da un lato e dell’insieme della tutela del nostro patrimonio dall’altro.
Tra la fine del 2002 ed i primi mesi del 2003, l’IBC procedette infine alla realizzazione di
una nuova versione del programma CART.
Sia la parte grafica che quella alfanumerica furono oggetto di sostanziali evoluzioni che
sia per quanto riguarda il software di georeferenziazione che l’interfaccia degli archivi, dotati
di nuove funzionalità di ricerca e gestione dei dati.
Tale evoluzione fu determinata dall’esigenza di aggiornarnamento rispetto agli standard
allora correnti in campo informatico e agli sviluppi del medesimo: il precedente programma
MapObjects si era difatti rivelato scarsamente utilizzato dalle amministrazioni locali, ormai
allineate, a grande maggioranza, sul più noto ArcView, della medesima famiglia ESRI. Il
salto qualitativo fu comunque notevole, soprattutto da un punto di vista grafico, in quanto
sfruttando gli strumenti CAD di ArcView, si ottenne una maggiore precisione nella mappatura
dei siti archeologici e fu introdotta la possibilità di sovrapporre carte storiche, planimetrie di
scavo, carte archeologiche più recenti rendendo così immediata l’interpolazione di dati di
diversa origine sul medesimo riferimento cartografico.
Come è noto, poi, il programma ArcView consente di realizzare analisi o funzioni di tipo
spaziale (geoprocessing), come la realizzazione di aree di rispetto (i buffers).
Con quest’ultima versione di CART fu redatta la carta del rischio del comune di
Bologna12 e, dal punto di vista scientifico, grazie ad una collaborazione con la Scuola di
Specializzazione dell’Università di Padova, si aggiornarono alcuni dei dizionari utilizzati per
il controllo lessicale in sede di immissione dei dati (Fig. 2).
Complessivamente, le aree geografiche finora coinvolte nel progetto CART sono: il centro
urbano di Modena, l’intero territorio della provincia modenese, il centro storico di Faenza,
il centro urbano di Forlì, il territorio della provincia di Forlì-Cesena e l’area del comune di
Bologna.
In tutti questi territori la costruzione della Carta del Rischio è stata possibile grazie alla
fattiva collaborazione degli enti locali (quali le amministrazioni comunali e provinciali) che
hanno creduto in questo progetto e che, oltre ad impiegare proprie risorse finanziarie, hanno
fornito la cartografia di base su cui è stata costruita la mappatura archeologica.
11
12
Per gli Atti del convegno si rimanda a GUERMANDI 2000.
Il lavoro è attualmente seguito dalla Dott.ssa Caterina Cornelio Cassai della SAER subentrata quale
funzionario di zona al Dott. Jacopo Ortalli.
37
Maria Pia Guermandi
4. OGGI E DOMANI
La verifica attuata a partire dall’inserimento del progetto in EPOCH ha quindi consentito
di ridefinire il sistema CART cercando di adeguarlo più efficacemente alle esigenze della
pianificazione e demandando ad un momento successivo gli obiettivi più direttamente legati
alla ricerca in senso stretto: ciò non significa un “allentamento” del livello di qualità dei dati,
ma piuttosto una diversa e più ampia considerazione del problema della programmazione
territoriale, all’interno della quale si è sempre visto il patrimonio culturale come un accessorio
Fig. 2. CART – PSC Bologna. Qudro conoscitivo 2004.
Zona 1 (in bianco); Zona 2 (in grigio); Zona 3 (contornata).
38
CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso
spesso fastidioso anche perchè gestito da operatori e istituzioni caratterizzate da strumenti
e modalità di interazione spesso non in grado di garantire tempi e modalità certe e dati
aggiornati.
A partire da queste considerazioni, è stata quindi elaborata una evoluzione di CART su più
livelli: da un lato si è proceduto alla correzione di elementi, dati specifici, articolazioni della
struttura scientifica sulla base dell’esperienza pregressa (v. relazione Bitelli), dall’altro è stata
attuata una ricognizione per quanto riguarda l’evoluzione tecnologica ormai improcrastinabile
(v. relazione Pescarin) e infine si è proceduto ad una ridefinizione delle procedure e delle
metodologie applicative del sistema (v. relazioni Guarnieri e Prati). Oltre ad un risultato
di miglioramento complessivo di CART che si sta perseguendo attualmente, l’obiettivo
ancor più prezioso che ci pare di aver colto in questo passaggio realizzato con il contributo
determinante di EPOCH è quello di aver allargato l’insieme dei “protagonisti” di questa
evoluzione: così se al suo esordio il sistema era stato voluto e realizzato sostanzialmente
soprattutto da due istituzioni (SAER e IBC) pur con l’apporto successivo ma indispensabile
di altre istituzioni che via via si sono succedute, adesso questa fase di espansione su più
livelli vede coinvolte, a diverso titolo, ma con ruolo decisivo anche altri attori, a partire dal
Ministero dei Beni Culturali con la Direzione Generale dei Beni Archeologici e da alcuni enti
locali come i Comuni di Forlì e Bologna.
Motore non accessorio di questo allargamento è da vedersi indubbiamente nella
recentissima revisione legislativa del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che,
obbligando Stato e Regioni ad una copianificazione in sede di elaborazione dei nuovi piani
paesistici, ha indubbiamente facilitato questo processo verso una più efficace e non formale
collaborazione fra i vari livelli istituzionali. Ma indubbiamente, per quanto riguarda CART,
l’esperienza passata è risultata davvero preziosa per evidenziare punti di fragilità e per
migliorare elementi potenzialmente positivi.
Per parte nostra di operatori dei beni culturali, tornando all’autocritica iniziale, abbiamo
cercato di uscire dallo strabismo che ci porta a ritenere del tutto separati i problemi scientifici,
da quelli di finanziamento e quindi a giudicare della fattibilità di un progetto prescindendo
completamente dalla sua sostenibilità economica.
Non si tratta in questo caso di suscitare i fantasmi dell’ormai abusata contrapposizione fra
ricerca pura e ricerca finalizzata, ma di uscire dalla torre d’avorio, ormai un po’ decadente,
di una progettualità a tratti sterile e accademica che non è in grado di misurarsi con le
esigenze del presente, non solo e non sempre per assecondarle, ma anche, ove necessario,
per contrastarle in maniera efficace e propositiva. In effetti, se crediamo che la tutela del
nostro patrimonio culturale sia un valore in sé come stabilito dall’articolo 9 della nostra
Costituzione, e se, d’altro canto, conveniamo sull’inadeguatezza degli attuali strumenti di
difesa e salvaguardia del patrimonio, occorrerà ripensare ad elaborarne altri che, per essere
realmente efficaci, dovranno essere dotati di reale operatività.
Laddove sia sentita dall’insieme degli attori pubblici (ma anche, in certi casi, privati)
la necessità di intraprendere una azione di tutela/valorizzazione del patrimonio e siano
proposti strumenti adeguati, le risorse si riescono a reperire. Quando invece tale necessità
sia propugnata solo da alcuni rappresentanti della comunità sociale e quindi non goda di un
39
Maria Pia Guermandi
grado di condivisione ampio, qualsiasi azione di tutela/valorizzazione stenterà a decollare o
a consolidarsi nel tempo13.
Come è stato ribadito negli interventi qui raccolti dei più alti livelli del settore per quanto
riguarda il MiBAC (v. De Caro e Malnati), l’archeologia sul campo, al presente, è di fatto in
percentuale assolutamente prevalente, scavo non preordinato sulla base di specifiche esigenze
scientifiche, ma necessitato dallo svolgimento di interventi di altro obiettivo sul territorio.
Affinchè questa archeologia dell’emergenza si possa trasformare in archeologia
preventiva e, a seguire, in tutela attiva e valorizzazione diffusa, c’è bisogno di strumenti
elaborati e sostenuti da un insieme ampio di attori istituzionali sulla base di obbiettivi comuni
e socialmente condivisi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
CARDARELLI et al. 2000 = A., M. CATTANI, D. LABATE, S. PELLEGRINI, Il Sistema Mutina:
esperienze ed evoluzione, in GUERMANDI 2000, pp. 200–210.
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GUARNIERI 2000 = C. GUARNIERI (a cura di), Progettare il passato. Faenza tra pianificazione
urbana e Carta Archeologica, Quaderni di Archeologia dell’Emilia Romagna, 3, Firenze.
GUARNIERI 2000a = C. GUARNIERI, Pianificazione urbana e Carta Archeologica: il caso di
Faenza, in GUERMANDI 2000, pp. 215–222.
GUERMANDI 1997 = M. P. GUERMANDI, Tutela del patrimonio archeologico e diffusione
delle informazioni: l’uso di GIS e Internet nelle attività dell’Istituto per i Beni Culturali della
Regione Emilia Romagna, in Sistemi informativi e reti geografiche in archeologia: GIS –
Internet, VII Ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano,
11–17 dicembre 1995), a cura di A. GOTTARELLI, Quaderni del Dipartimento di Archeologia
e Storia delle Arti, Sezione Archeologica, Università di Siena n.42, Firenze, pp. 137–160.
GUERMANDI 1998 = M. P. GUERMANDI (a cura di), CART. Carta Archeologica del Rischio
Territoriale, inserto di “IBC. Informazione, Commenti, Inchieste sui Beni Culturali”, n.3,
pp. 41–72.
GUERMANDI 1998a = M. P. GUERMANDI, Dati, carte, sistemi. Il ruolo dell’informatica tra
tutela e pianificazione, in GUERMANDI 1998, pp. 52–53.
GUERMANDI 1999 = M. P. GUERMANDI, Tutela del patrimonio archeologico e GIS:
l’elaborazione di una cartografia archeologica finalizzata ai problemi di pianificazione
13
Tale affermazione rischia di essere alquanto deterministica: purtroppo esistono esempi di progetti e
pratiche virtuose anche dal punto di vista della sostenibilità economica che non si sono realizzati o
che non hanno avuto continuità.
40
CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso
territoriale della Regione Emilia Romagna, in Carta Archeologica e Pianificazione
Territoriale: un problema politico e metodologico, Roma marzo 1997, a cura di B.
AMENDOLEA, Roma, Fratelli Palombi, pp. 142–145.
GUERMANDI 1999a = M. P. GUERMANDI, Protection of the archaeological patrimony and GIS
The elaboration of an archaeological cartografy aimed ti the problems of territorial planning
in the Emilia Romagna Region, in New Techniques for Old Times. CAA ’98, Proceedings of
the International Conference, Barcelona, 24–28 marzo 1998, a cura di BARCELÒ, I. BRIZ, A.
VILA, BAR International Series 757, J.A., Oxford, pp. 359–363.
GUERMANDI 2001 = M. P. GUERMANDI (a cura di), Rischio archeologico, se lo conosci lo
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24–25 marzo 2000), Firenze.
GUERMANDI 2000a = M. P. GUERMANDI, Il sistema CART: metodologia e tecnologia, in
GUERMANDI 2000, pp. 189–194.
GUERMANDI 2000b = M. P. GUERMANDI, Il progetto CART, in GUARNIERI 2000, pp. 49–52.
GUERMANDI 2000c = M. P. GUERMANDI, GIS as a tool for archaelological heritage safeguard.
CART system in Emilia Romagna Region, in Science and Technology for the Safeguard of
Cultural Heritage in the Mediterranean Basin, Paris, 5–9 July 1999, 1, a cura di A GUARINO,
Forlì, pp. 71–77.
MARINI CALVANI 1998 = M. MARINI CALVANI, Insieme per l’archeologia preventiva, in
GUERMANDI 1998, pp. 42–43.
ORTALLI 1998 = J. ORTALLI, Dal rischio alla potenzialità. Lo stato della ricerca cartografica
in Emilia-Romagna, in GUERMANDI 1998, pp. 54–56.
ORTALLI 2000 = J. ORTALLI, Tutela archeologica e gestione territoriale: all’origine del
sistema CART, in GUERMANDI 2000, pp. 185–188.
PRATI 1998 = L. PRATI, Il progetto per Forlì, in GUERMANDI 1998, pp. 71–72.
PRATI 2000 = L. PRATI, CART a Forlì: la Carta del potenziale archeologico del territorio
forlivese, in GUERMANDI 2000, pp. 211–214.
41
IL SISTEMA CART
Remo Bitelli
Istituto Beni Culturali Emilia Romagna
1. INTRODUZIONE
In questo intervento vengono sintetizzati i risultati del progetto CART Forlì portato avanti tra
la fine del 2006 e il 2007 grazie a fondi EPOCH. La città è stata scelta come caso di studio
per verificare lo svolgimento delle operazioni di tutela del patrimonio archeologico presso
un ente locale della Regione Emilia-Romagna. Contemporaneamente si è resa necessaria una
revisione di CART, in vita ormai da più di dieci anni, sia da un punto di vista dell’evoluzione
tecnologica dei sistemi informatici sia per un adeguamento alle recenti normative in materia
di tutela. Non in ultimo la sperimentazione del sistema per un arco di tempo piuttosto lungo
ha evidenziato una serie di problematiche inerenti la fase di compilazione dell’archivio.
La progettazione di CART prevede diverse fasi di lavoro: la raccolta del materiale utile
alla ricostruzione del “paesaggio antico” nelle diverse epoche storiche, la sua schedatura, la
sua interpretazione all’interno di un’ottica complessiva ed infine l’elaborazione di una mappa
predittiva del “rischio archeologico”.
Per concretizzare tali aspettative si utilizza un software adattato appositamente. Il
programma che gestisce i dati, Highway, è un information retrieval system che consente
la creazione di un numero considerevole di campi relazionabili tra loro rendendo possibile
interrogazioni complesse indipendentemente dalla struttura dell’archivio.1 La banca dati è
interfacciabile con qualsiasi programma GIS; attualmente lavora su ArcView della ESRI.2
Allo stesso tempo l’archivio utilizza una interfaccia di tipo universale in HTML che permettere
la condivisione dei dati via web.
Negli anni CART ha subito diverse evoluzioni, sia da un punto di vista tecnologico che
per quanto riguarda l’idea della sua applicazione: il progetto è infatti ancora inquadrato nella
sfera della sperimentazione e limitato nella sua reale utilizzazione.
I maggiori ostacoli al suo utilizzo vanno sostanzialmente ricercati nella condivisione dei
dati via web (vedi infra), operazione piuttosto problematica vista la complessità dell’archivio,
e nella definizione del “rischio”, attività alquanto difficile ancora totalmente demandata agli
archeologi senza quell’ausilio tecnologico che ci si proponeva inizialmente.
2.1 La struttura del database
Le informazioni gestite da CART sono molteplici e si riferiscono a tutti i dati che possono
essere utili alla ricostruzione del “paesaggio antico”. Le informazioni che vengono raccolte,
quindi, sono di diversa natura: alle notizie di tipo strettamente archeologico (si pensi ai dati
1
2
Highway è un ambiente di sviluppo creato dalla ditta 3D Informatica di S.Lazzaro di Savena (BO)
appositamente per applicazioni di archiviazione.
Sulle finalità e sul sistema informatico del Progetto CART si veda da ultimo BITELLI – GUERMANDI
2004.
43
Remo Bitelli
di scavo) vengono associate quelle di tipo geologico, quelle toponomastiche, i risultati degli
studi sulla cartografia e quelli sulla foto-interpretazione. Per ogni tipologia di dati sono state
create apposite schede in cui le informazioni vengono ordinate in campi. La banca dati di
CART è di tipo gerarchico ed è organizzata su più livelli di definizione. Per la compilazione
delle schede si deve fare riferimento ad appositi Dizionari di tipo aperto (con la possibilità
per lo schedatore di aggiungere una voce) oppure di tipo chiuso. Naturalmente non tutti i
campi sono a compilazione obbligatoria.3
Fig. 1. L’architettura dell’archivio CART.
Nelle operazioni di schedatura, punto di partenza è la scheda di Attestazione dove
vengono forniti i dati generali del rinvenimento o della segnalazione (quali l’indirizzo, l’anno
della scoperta, l’autore). Nel caso si sia intervenuti più volte sullo stesso sito si procede
con la compilazione di più schede di Attestazione, una per ogni campagna di scavo. La
scheda di Attestazione viene intesa come “scheda madre” ed è correlata a diverse “schede
figlie”: le schede di Presenza, di Elemento Paleoambientale, di Traccia e di Assenza. Con lo
stesso principio alla scheda di Presenza è possibile associare altre “schede figlie” che meglio
descrivono l’informazione.
I dati archeologici sono raccolti nelle schede di Presenza. Poiché i dati sono schedati
secondo una classificazione per Epoca, Classe e Tipo, ad una singola Attestazione possono
corrispondere più Presenze (ad esempio una per l’Età Romana, una per quella del Ferro, una
per il Medioevo) e, all’interno di queste epoche, si possono trovare ulteriori suddivisioni a
seconda del contesto (abitativo, piuttosto che sepolcrale, produttivo, ecc.).
A sua volta ogni Presenza può essere meglio descritta tramite le singole schede di Unità
Stratigrafica che la compongono. Si è ritenuto opportuno raccogliere i dati inerenti i reperti
archeologici grazie alla scheda ministeriale RA e alla scheda di Gestione Reperti dove è
riportato il luogo di conservazione dei pezzi.
3
Si ricorda che la struttura della banca dati e la stesura dei Dizionari sono stati curati da Valentina
Manzelli per l’IBC secondo le indicazioni fornite dal personale della Soprintendenza Archeologica.
44
Il sistema CART
Grande importanza ai fini della tutela riveste la scheda di segnalazione di eventuali
Vincoli “diretti” sul bene archeologico o “indiretti” sul territorio.
CART permette di raccogliere anche le informazioni inerenti gli Elementi Paleoambientali
quali paleosuoli, paleoalvei e depositi alluvionali. La scheda di Traccia consente invece
di riportare le indicazioni desunte dall’analisi della cartografia, delle foto aeree, della
toponomastica.
In ultimo è la scheda di Assenza dove viene riportata l’accertata mancanza di giacimenti
archeologici su una determinata area. La scheda riunisce tre differenti tipologie di “vuoto”
archeologico: quella reale a seguito di una indagine con esito negativo, quella creatasi con
l’asportazione dei beni archeologici dal sottosuolo ed infine quella “presunta” (vedi ultra).
In CART è inoltre presente un archivio esterno che gestisce la Bibliografia di
riferimento.
A conclusione si colloca la scheda di Complesso, la quale raccoglie l’elaborazione
delle informazioni e fornisce il modello predittivo del “rischio”. Essa riporta i dati connessi
all’individuazione di contesti archeologici definiti in cui confluiscono sia dati certi (le
Presenze) sia le supposizioni elaborate dagli archeologi. Sono ad esempio “complessi”
la ricostruzione di un tracciato viario, di una villa o di una necropoli. Per la natura stessa
della scheda è chiaro che il Complesso rappresenta l’elaborazione finale e viene solitamente
compilata dopo l’immissione dei dati noti.
A oggi CART copre la provincia di Modena, dove è gestito dal Museo archeologico locale,
il comune di Faenza, il comune e la provincia di Forlì e il comune di Bologna.4 In quest’ultima
area CART è stato lo strumento utilizzato dalla Soprintendenza per la definizione del Quadro
conoscitivo del Piano Strutturale Comunale della città elaborato nel 20045.
Dopo più di dieci anni di lavoro si sente l’esigenza di fare il punto sulle maggiori difficoltà
riscontrate, nella convinzione che una valutazione critica sul lavoro compiuto sia necessaria
per gli sviluppi futuri del progetto.
2.2 Problemi di compilazione
CART prevede ben undici schede diverse con un numero elevato di campi, creati per acquisire
quante più notizie possibili. Chi si occupa dell’immissione dei dati si trova a dovere compiere
due passaggi: il primo consiste nella parcellizzazione dell’ informazione, il secondo nella
sua “traduzione” secondo un linguaggio comune costituito da vocaboli prestabiliti. Questo
passaggio pone lo schedatore davanti ad una scelta solo apparentemente facilitata; spesso
si è costretti a prendere delle decisioni che “semplificano” l’informazione nel senso che ne
limitano il significato o, altrettanto spesso, ne annullano l’“incertezza”. Dopo migliaia di
schede compilate permane l’impressione che la trasposizione in vocaboli di un contesto
archeologico (inteso come testimonianza di un aspetto della vita passata su cui sono intervenuti
un numero imprecisato di fattori successivi) sia spesso in bilico tra una semplificazione che
rischia di toglierne il senso ed una interpretazione che rischia di alterarne la natura.
4
5
Per l’attività del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena si vedano www.comune.modena.
it/museoarcheologico/servizi/attivita.shtml, l’articolo CARDARELLI et alii 2000 e la bibliografia
citata. Per CART Faenza si rimanda a GUARNIERI 1998, GUARNIERI 2000b.
www.comune.bologna.it/psc/introduzione/5:828.
45
Remo Bitelli
A seguito vengono illustrate nel dettaglio alcuni dei principali problemi riscontrati.
Gli argomenti fonte di discussione sono riconducibili a tre ambiti diversi: quelli legati
all’interpretazione archeologica del sito (e quindi riscontrabili nella compilazione delle schede
di Presenza), quelli riferibili a problemi di localizzazione degli stessi sulla cartografia di
riferimento (e quindi inerenti la georeferenziazione) e in ultimo quelli legati alla valutazione
del “rischio” archeologico (sintetizzati nella scheda di Complesso).
2.2.1 La scheda di Presenza
Come accennato, la scheda di Presenza è l’ambito in cui viene sviluppata la descrizione del
bene archeologico secondo una classificazione per Epoca, Classe e Tipo.
In riferimento all’Epoca è prevista la schedatura di qualsiasi manufatto rinvenuto
durante un’indagine di tipo archeologico, anche di epoca recente. Per permettere che
tutte le indicazioni riguardo l’età vengano registrate, è presente una serie di campi creata
secondo il principio di “maggiore definizione”. Da una datazione di tipo generico (Epoca,
es. Età Romana) si passa alle Specifiche (es. Fase imperiale) poi al Periodo (es. II d.C.) ed
infine ad una coppia di campi dove è possibile esprimere un range cronologico preciso. La
successione di più campi progressivamente specifici si è resa necessaria in quanto vengono
schedati beni e siti cronologicamente molto lontani i cui limiti temporali sono ovviamente
meglio definiti nelle epoche recenti. Contestualmente si è cercato di semplificare diciture e
espressioni utilizzate dagli archeologici per permettere una più facile comprensione anche ai
non specialisti. Si pensi a espressioni riferite a “culture” o tipologie di materiale sconosciute
ai più. Non in ultimo l’espressione della datazione in anni e secoli costituisce un linguaggio
comune necessario per poter procedere all’attuazione di ricerche trasversali alle varie Epoche
e Specifiche.
Tale schema di riferimento non risolve talune perplessità rilevate, riferite alla traduzione
in “numeri” (anni e secoli) delle epoche preistoriche e alla definizione di un inizio e di una
fine per periodi così lontani e dai contorni temporali sfumati. Inoltre, alcuni esperti non hanno
avvallato gli archi temporali assegnati ai periodi storici mentre altri giustamente ricordano
che spesso le culture si sovrappongono ed è quindi inesatto porle in maniera sequenziale. Un
elemento a volte difficile da stabilire e non ancora univocamente chiarito è se la datazione
va riferita alla sola fondazione della Presenza o al suo periodo di vita. In ultimo si segnala il
problema delle datazioni desunte da vecchie pubblicazioni, prive di revisioni posteriori che
forniscano allo schedatore di oggi maggiori specifiche. In questi casi si è spesso portati a
dover decidere come considerare datazioni generiche espresse con termini come “preistorico”
e “protostorico” che, alla luce dei nuovi studi, potrebbero essere inquadrate diversamente.
Si riporta a seguito uno stralcio dello schema utilizzato in CART , per fornire un’idea di
come si proceda durante la fase di compilazione della scheda di Presenza in riferimento alla
datazione.6
Il bene archeologico descritto nella scheda di Presenza è ulteriormente soggetto ad una
distinzione per Classe e Tipo. L’idea iniziale è stata quella di impostare la classificazione
delle Classi in base al concetto di funzionalità e di proprietà del bene. Le voci presenti nel
Dizionario di riferimento sono quindi: Abitato, Area/edificio pubblico, Edificio/infrastruttura
6
Lo schema è modellato sulla Regione Emilia Romagna in relazione alle aree già schedate in CART e
viene costantemente aggiornato alla luce di eventuali riletture generali sull’argomento.
46
Il sistema CART
privata, Area sepolcrale, Impianto produttivo, Infrastruttura pubblica, Luogo di culto e Altro.
Si è riscontrato che questa suddivisione crea forti dubbi specialmente se si sta schedando una
presenza pre-protostorica o una certa tipologia di manufatti che possono essere interpretati
sia come parti di infrastrutture (pubbliche) che afferenti a strutture di tipo privato (si pensi ai
sistemi di regimentazione delle acque per esempio). 7891011121314
CEP – Epoca
Età del Bronzo
Età del Bronzo
Età del Bronzo
Età del Bronzo
Età del Bronzo
Età del Ferro
Fase etrusca
Fase etrusca
Fase etrusca
Fase etrusca
Fase celtica /
umbra / ligure
DTZG – Specifiche
antico7
medio8
recente8
finale
villanoviana10
orientalizzante11
Certosa12
DTZS – Periodo
XXIIIaC – XaC
XXIIIaC – XVIIIaC
XVIIaC – XIVaC
XIIIaC – XIIaC
XIaC – XaC
IXaC – IIIaC
IXaC – IVaC
IXaC – VIIIaC
VIIIaC – ViaC
VIaC – IVaC
IVaC – IiaC
DTZE – Da
-2299
-2299
-1699
-1299
-1099
-899
-899
-899
-749
-524
-38813
DTZI – A
-900
-1700
-1300
-1100
-900
-267
-375
-750
-525
-375
-19114
Esiste una ulteriore definizione della Classe in Tipo, intesa come una più accurata
specificazione del principio di funzionalità. Ad esempio alla Classe Area sepolcrale
corrispondono le voci del Tipo Necropoli, Gruppo di tombe, Tomba isolata, Fossa comune,
Ustrino, Monumento funebre, Ossario, Iscrizione funeraria e Imprecisabile. In generale, le
difficoltà di interpretazione sono le seguenti: la prima è legata all’impossibilità di riconoscere
la natura del manufatto in quanto se ne è documentata una porzione limitata; la seconda è
7
Corrisponde alla Cultura di Polada.
Corrisponde alla Cultura Terramaricola attestata in Emilia e alle Culture Centro-Italiche presenti in
Romagna. La Cultura della Civiltà Appenninica attestata nel bolognese e in Romagna è invece datata
al XIV sec. aC.
9
Corrisponde alla Cultura Terramaricola tipica dell’Emilia occidentale e alla Cultura Sub-Appenninica
presente sull’intera penisola.
10
Comprende le fasi denominate Villanoviano I (900–800 aC) e Villanoviano II (800–750 aC) della
I Età del Ferro. Per quanto riguarda le aree sepolcrali, per Bologna al Villanoviano I si riferiscono
le necropoli di S. Vitale e Savena (849–800 aC); mentre rientrano nel Villanoviano II le tipologie
tombali note col nome di Benacci I (799–750 aC).
11
Comprende le fasi denominate Villanoviano III (749–680 aC) e Villanoviano IV (679–525 aC) della
I Età del Ferro. Per quanto riguarda le aree sepolcrali, per Bologna rientrano nel Villanoviano III le
tipologie tombali note col nome di Benacci II e Benacci-Caprara (750–650 aC), mentre quelle note
con il nome Arnoaldi I (650–550 aC) afferiscono al Villanoviano IV.
12
Coincide con la II Età del Ferro nella quale si distingue una facies culturale felsinea per l’Emilia ed
una umbra per la Romagna. Per Bologna, le tipologie tombali portano il nome di Certosa e Arnoaldi
II (550–350 aC).
13
Sacco di Roma. Si segnala che nel bolognese si attestano sepolture celtiche fin dalla seconda metà del
VaC.
14
Vittoria di Roma sui Galli Boi.
8
47
Remo Bitelli
determinata dalla difficoltà di standardizzare i beni secondo uno schema univoco. Un banale
esempio è dato dalla tipologia Casa. Nel caso si stia schedando una qualsiasi parte di una
struttura muraria facente parte di una abitazione privata (pavimenti, mura, fondazioni) si
utilizza la voce Casa; diversamente accade quando si prendono in considerazioni particolari
contesti come i cortili, i pozzi e le fognature, casi in cui gli schedatori preferiscono specificare
il tipo di bene pur essendo parte della casa stessa.
Occorre probabilmente ridefinire, ancor prima dei Dizionari di riferimento, la logica
che deve sottendere questa importante operazione, se non addirittura decidere di evitare di
addentrarsi in questa, oggettivamente, difficile classificazione.
L’idea iniziale di frammentare le informazioni in più campi per permettere maggiori
ricerche e interpolare più liberamente i dati comporta a volte la perdita della considerazione
del quadro d’insieme, spesso complesso e difficilmente traducibile in tante schede correlate.
Un campo molto importante per CART è quello che prende in considerazione lo Stato
di conservazione delle Presenze. Questo parametro si riferisce alla conservazione del
bene archeologico nel sottosuolo e quindi incide fortemente sulla valutazione del livello di
“rischio” di una determinata area. Purtroppo nelle Relazioni di scavo o nelle pubblicazioni
questo aspetto è spesso trascurato.
Altro campo importante ma purtroppo quasi mai compilato è quello della Attendibilità.
Per Attendibilità si intende la “prosecuzione” oltre i limiti di scavo della Presenza. È ovvio
che tale valore è un indicatore fondamentale per la definizione delle aree di rischio e, come il
precedente, resta spesso ignorato nelle fonti.
Altro problema nasce dalla necessità di confrontare i dati raccolti anche da un punto di
vista altimetrico al fine di ricostruire gli antichi piani d’uso. Per le Quote di rinvenimento
di frequente ci si trova di fronte a indicazioni di tipo “relativo”, dal piano di campagna o di
calpestio, e più raramente (e di recente) a quote espresse secondo un sistema “assoluto sul
livello del mare”. Entrambe hanno una propria importanza, ma la disomogeneità dei dati
non consente elaborazioni su larga scala. Contemporaneamente il passaggio da un sistema
all’altro è spesso difficile e non privo di grosse approssimazioni
In ultimo si segnala la difficoltà presente in relazione ai paleosuoli: da alcuni intesi
come Presenze, mentre per altri sono Elementi paleoambientali. Al momento si è deciso
di considerare Presenza il paleosuolo con tracce di frequentazione al suo interno e
Elemento paleoambientale il suolo privo di tracce. Questa differenziazione frammenta però
ulteriormente le informazioni inerenti gli antichi piani di vita e quindi, in previsione, di
possibili elaborazioni dei dati occorre ricostruire una unità comune.
2.2.2 La georeferenziazione dei siti
Nell’ottica di CART, che ha come fine la definizione del “potenziale archeologico”
del territorio, la georeferenziazione di un sito comporta l’associazione di un “valore”,
archeologico appunto, ad un terreno o ad una parcella catastale. L’operatore ha quindi la
responsabilità di “segnare” il territorio, di ridisegnarlo agli occhi di quel “valore” che, alla
luce di una possibile applicazione delle normative vigenti in materia, farà la differenza tra
una proprietà ed un’altra.
Poiché CART è un G.I.S., ai fini del progetto, è fondamentale cercare di ubicare nel luogo
originale i dati schedati. Chiunque abbia lavorato alla costruzione di cartografie archeologiche
è a conoscenza dell’impossibilità di applicare questo principio a tutti i dati noti. Per questo
48
Il sistema CART
motivo le schede in CART si distinguono secondo tre categorie: quelle con un Grado di
ubicabilità certo, quelle con un grado di ubicabilità incerto e quelle non ubicabili in quanto
prive di indicazioni sul luogo della scoperta.
Notizie in qualsiasi forma che descrivono, raccontano, di recuperi, scoperte, scavi sono
indispensabili per la costruzione di una Carta Archeologica, ma spesso non danno indicazioni
precise sul luogo di rinvenimento. Si parla di proprietà famigliari ormai inesistenti, di campi
noti con toponimi difficilmente recuperabili o conosciuti solo a livello strettamente locale.
Per questo motivo è stato riconosciuto in CART il Grado di ubicabilità incerto.
Da un punto di vista grafico si è tentato di associare ai diversi Gradi le seguenti figure
geometriche: quelle certe vengono rappresentate con i “poligoni”, quelle incerte con i “punti”
mentre le non ubicabili non compaiono ovviamente sulla mappa. Le “linee” sono utilizzate
solitamente per segnalare la ricostruzione di strade, ripartizioni centuriali, alvei o paleoalvei
fluviali.
Chi ha esperienza nel campo della georeferenziazione dei dati sa comunque come i limiti
tra i tre livelli siano sfumati ed esista, anche in questo caso, un grado di discrezionalità
dell’operatore nella loro attribuzione.
È un problema generalizzato che copre sia la documentazione scarna di particolari sia
quella troppo ricca. Si pensi alle relazioni di scavi pluristratificati dei nostri centri storici
dove epoche, classi e tipi si sovrappongono secondo limiti segnati da figure geometriche
complesse. Si è spesso costretti a disegnarle come figure più semplici e quindi “inesatte”, la
cui area (nota e quindi ad ubicabilità certa) viene trasformata volutamente in un’altra la cui
ubicabilità non è chiaro se si possa definire ancora tale. Ci si trova davanti a situazioni che
vedono una esatta ubicazione del cantiere (e quindi della scheda di Attestazione) contro una
approssimata segnalazione delle Presenze archeologiche. Una soluzione a questo problema
potrebbe consistere nella possibilità di georeferenziare le mappe di scavo (possibilmente di
“fase”) e mantenerle visibili a video.
Ancora a proposito del grado di precisione nell’ubicazione delle schede di CART, si ricorda
il problema della cartografia di base digitale, essa stessa spesso approssimativa. Per esempio
nel caso di Bologna la sovrapposizione delle due cartografie raster utilizzate come “sfondo”
Fig. 2. CART Bologna. Sovrapposizione del CTR al 5000 sul CTR al 25000.
49
Remo Bitelli
(1:5000 per il centro; 1:25000 per il territorio) evidenzia una errore di posizionamento di
circa 10 m. Questo comporta inevitabilmente un errore macroscopico ai nostri fini, tanto
che nel centro storico, alcune Presenze si trovavano a seconda dello “sfondo” all’interno di
abitazioni private o in mezzo alla strada. C’è da domandarsi, in un sistema simile, quali siano
i limiti tra certo e incerto e che senso abbia la ricerca puntuale della collocazione geografica
dei dati.
2.2.3 Il Complesso archeologico
A oggi la compilazione della scheda di Complesso è demandata completamente
all’elaborazione degli archeologi e non è supportata da sistemi di tipo informatico come
previsto nelle aspettative iniziali.
È al Complesso che viene associato il concetto di “rischio”: si estende cioè anche a zone
non note per interventi diretti quel “valore” di potenziale archeologico cui si accennava, fatta
eccezione per le eventuali zone di vuoto attestate al loro interno.
Ma poiché la scheda di Complesso comporta la definizione di zone archeologicamente
definite si può affermare che i casi di compilazione di queste schede sono rarissimi, se si
escludono quelli dove l’indagine è risultata estensiva su tutta l’area (per esempio un intero
villaggio o una intera necropoli). Tuttavia si tratta di casi in cui viene automaticamente a
decadere il fattore rischio, in quanto inerenti per lo più a “vuoti” o a zone vincolate.
Spesso, nonostante sia accertata l’esistenza di un Complesso risulta difficile individuarne i
limiti. Si è ovviato al problema “raggruppando” i complessi per sovrapposizione e contiguità,
allargandoli fino a comprendere interi centri storici e quartieri. Questo escamotage si sposa
con la necessità di semplificare le aree di rischio per una più facile gestione della normativa
nei confronti degli uffici tecnici comunali preposti.
Altro problema riscontrato è dovuto alla complessità della ricostruzione del paesaggio
antico per il periodo medievale. I dati in possesso della Soprintendenza archeologica sono
spesso limitati se si considera la ricchezza di informazioni desumibili dalle opere ancora
esistenti. Una Carta Archeologica su questo periodo storico risulta essere decisamente
incompleta se limitata ai soli dati di scavo. Per contro lo studio complessivo dei monumenti
relativi al medioevo è di per sé complesso e oneroso ed è per questo che il progetto CART
riferito a questo periodo storico è in genere poco sviluppato, soprattutto per ciò che concerne
la definizione di Complessi archeologici.
2.3 CART a Forlì
Alla fine del 2006 si è potuto attivare un aggiornamento di CART grazie alla collaborazione
con il progetto EPOCH nell’intento di verificare lo svolgimento delle operazioni di tutela
del patrimonio archeologico all’interno delle attività di un Comune della Regione Emilia
Romagna. Tra le aree già oggetto di precedenti lavori di schedatura è stata scelta, come caso
di studio, la città di Forlì.
In tale occasione ci si è prefissi di mettere a punto un metodo di lavoro che potesse
ottimizzare i processi amministravi che sottendono la gestione e la tutela dei beni archeologici.
Il lavoro quindi è stato svolto con un’ottica diversa rispetto a quella con cui era stato fatto
fino ad allora. L’obiettivo era l’analisi della gestione dei dati all’interno della più vasta
50
Il sistema CART
problematica legata alla normativa vigente in materia e alla sua attuazione. In quest’ottica
non sono state volutamente compilate le schede di Complesso archeologico.
2.3.1 Forlì – Prima fase 1999–2005
La prima fase del progetto CART Forlì risale al 1999/2000 quando sono state inserite le
schede desunte da un precedente studio sul territorio forlivese.15 Questo nucleo, incentrato su
materiale e testimonianze di epoca romana, è stato integrato da una ricerca compiuta sui siti
pre/protostorici e medioevali del Comune.16 Infine altri dati, allora di recente acquisizione,
sono stati presentati direttamente dai tecnici di scavo archeologico che avevano operato sui
cantieri.17 Solo questi ultimi hanno presentato i dati compilando la scheda CART18
Nel 2001 il progetto è stato ampliato all’intero territorio della Provincia di Forlì-Cesena.
Anche in quel caso si è utilizzata una schedatura già esistente messa a punto per la medesima
Provincia su un tipo di scheda non allineata a quella CART19 Contestualmente si è potuto
meglio indagare parte del territorio; nello specifico l’area della vallata del fiume Savio con
particolare attenzione al centro di Sarsina e la zona di Forlimpopoli e S. Giovanni in Compito.20 In quella occasione si è proceduto con una schedatura ex-novo, basata su dati di tipo
primario (bibliografia e documenti d’archivio) e si è potuto verificare come i dati raccolti
nelle precedenti schedature fossero parziali rispetto alla ricchezza di informazioni che CART
riesce a gestire. Il progetto su Forlì si è poi interrotto sia da un punto vista di implementazione dati che di aggiornamento.21
Un ulteriore passo avanti è stato compiuto solo alla fine del 2005 grazie all’inserimento
di nuovi dati di scavo e, cosa importante, alla cessione del database al personale del Comune
di Forlì. L’archivio, secondo le richieste pervenute, è stato salvato e ceduto nella versione
per ArcView.22
15
Luciana Prati, Forum Livi. Urbanistica in Età Romana, Tesi di Perfezionamento, Università degli
Studi di Bologna, A.A. 1990/1991.
16
L’indagine sui siti pre/protostorici è stato curato da Aldo Antoniazzi mentre i siti medievali sono stati
schedati da Gianluca Brusi.
17
I dati sono stati forniti dai tecnici di scavo archeologico delle ditte La Fenice. Archeologia e restauro
Srl e Tecne Srl.
18
La direzione scientifica del progetto è tenuta, fin dalle prime fasi, da Maria Pia Guarmandi per l’IBC
e Chiara Guarnieri per la Soprintendenza archeologica mentre i fondi utilizzati furono stanziati dalla
Regione Emilia Romagna e dal Comune di Forlì che ha altresì fornito la cartografia digitale di base
georeferenziata nel sistema Gauss-Boaga. L’inserimento dei dati fu svolto dallo scrivente in occasione
dello stage del corso “Gestione e Comunicazione dei Beni Culturali. Metodologie di conservazione,
gestione e valorizzazione del patrimonio archeologico. Analisi, rilevamento e restituzione del
territorio: progettazione di GIS funzionali al rilevamento, catalogazione e comunicazione dei dati
pertinenti ai beni culturali e ambientali”; Cortona Svilippo, Cortona (Arezzo).
19
Si trattava di un lavoro firmato da Laura Pini, archeologa di formazione e collaboratrice della
Soprintendenza archeologica bolognese.
20
L’area del Savio venne curata dallo scrivente, mentre la zona di Forlimpopoli e S. Giovanni in
Compito da Laura Pini. Anche in quella occasione furono utilizzati fondi regionali.
21
Su CART Forlì si vedano PRATI 1998 e PRATI 2000.
22
Il lavoro è stato curato da Claudia Lotti in occasione dello stage del “Master universitario in sistemi
informativi geografici per l’ambiente ed il territorio”; Università di Milano, Facoltà di agraria, Istituto
di ingegneria agraria.
51
Remo Bitelli
2.3.2 Forlì – Seconda fase 2006/2007
Come si diceva, il progetto su Forlì ha ripreso vita nel 2006. La prima fase del lavoro ha
richiesto un’accurata revisione delle schede già immesse mediante il confronto con gli
archivi della Soprintendenza archeologica e con la bibliografia esistente; contestualmente
sono stati raccolti i nuovi dati desunti dagli scavi recenti. Come ordine di grandezza il lavoro
ha permesso la raccolta di circa 780 pratiche, di cui solo 600 circa schedate in CART , contro
le 230 già inserite fino al 2005.23
La raccolta dei dati si è concentrata su tre archivi: l’archivio centrale della Soprintendenza
archeologica con sede a Bologna; l’archivio dell’ispettore archeologo di zona con sede a
Ferrara ed infine l’archivio del Servizio Pinacoteca e Musei del Comune di Forlì.
Per meglio capire il motivo per cui le pratiche di interesse archeologico sono presenti in
tre differenti sedi è necessario ricordare brevemente come viene attualmente gestita la tutela
del patrimonio storico-archeologico a Forlì.
Il Comune di Forlì, dal 2000, è dotato di un Piano Regolatore Generale (attualmente ci si
riferisce alla variante del 200224) che prevede all’interno del Titolo IV – Tutele e compatibilità
per la difesa e valorizzazione dell’ambiente la voce Tutela delle potenzialità archeologiche
del territorio [Art.162]. Fermo restando la normativa vigente in materia, l’art.162 del PRG
di Forlì prevede “…livelli differenziati di tutela.” Questo aspetto ricade in due diversi ambiti:
quello del “Centro storico” e quello del “Territorio comunale”. In entrambi i casi si fa
riferimento a tre zone rispondenti a diverse metodologie di intervento sottoposte al parere
della Soprintendenza. Tali modalità di intervento sono essenzialmente di tre tipi: “scavo
archeologico preventivo”, “controllo in corso d’opera” e “nulla osta a procedere”.
La Soprintendenza in accordo col Comune ha fatto precedere all’anno di attuazione del
PRG (2000) un periodo di prova e sperimentazione del sistema di circa tre anni, per cui i
primi atti amministrativi di nostro interesse risalgono al 1997.
Fino al 2004 l’iter burocratico delle pratiche per le concessioni edilizie prevedeva la
presentazione dei progetti relativi all’Ufficio di Piano del Comune il quale invitava l’utente
a presentare copia del progetto anche all’ispettore archeologo di zona della Soprintendenza
in attesa delle direttive in merito alla tutela.25 Dal 2004 la valutazione dei progetti, secondo
un accordo stipulato tra Soprintendenza e Comune, viene fatta dal personale del Servizio
Pinacoteca e Musei del Comune di Forlì sotto la responsabilità del dirigente del servizio.26
Un discorso a parte meritano i lavori con forti impatti ambientali il cui iter prevede la
possibilità di istituire una “conferenza di servizi” che riunisce tutti gli uffici di competenza
attorno al medesimo tavolo.
La raccolta dei dati è risultata complessa in quanto la medesima pratica si trova presente
nelle diverse sedi solo per la parte di competenza. Inoltre la tempistica piuttosto lunga che
spesso caratterizza la realizzazione dei lavori edili, ha creato difficoltà nel riconoscimento
degli interventi nel corso degli anni. È allo studio la possibilità di snellire il procedimento
23
Si intendono le schede di Attestazione a cui, come spiegato nel testo, si legano un numero imprecisato
di schede “figlie”.
24
www.comune.forli.fo.it/upload/forli/regolamenti/NormeTecnicheDiAttuazione_agosto2007_
163_212.pdf
25
Chiara Guarnieri con sede a Ferrara.
26
Luciana Prati.
52
Il sistema CART
amministrativo favorendo una migliore comunicazione e condivisione dei dati tra l’ufficio
comunale e l’ente ministeriale.
2.4 Alcune analisi statistiche
Al termine della raccolta delle informazioni negli archivi e dopo avere confrontato le pratiche
rinvenute, i documenti schedati riconducibili all’operato della Soprintendenza dal 1997 a
oggi, sono sostanzialmente di tre tipi:
– la Relazione di scavo;
– le richieste di intervento archeologico di cui manca un riscontro della avvenuta
attuazione;27
– i “nulla osta a procedere”.
Tranne il primo caso le altre due tipologie di dati sono estranee a CART Per quanto riguarda
le richieste di intervento non attuate si è deciso di non farle rientrare all’interno del progetto
in quanto costituiscono a tutti gli effetti una incognita. Questo è il motivo per cui della 780
pratiche raccolte solo 600 sono state schedate. I “nulla osta a procedere”, invece, sono stati
inseriti nel progetto come “Assenze” di tipo “presunto” in quanto, pur ignorando il risultato
dell’intervento costituiscono di fatto dei vuoti archeologici.
La totalità dei dati sono stati comunque raccolti in un database in Excel per permettere
alcune indagini di tipo statistico che evidenziassero i risultati del lavoro svolto dalla
Soprintendenza e dal Comune dall’entrata in vigore del PSC. Per la natura stessa dei dati, la
lettura di queste prime semplici elaborazioni va intesa come un “indicatore di massima” utile
alla ricostruzione di un andamento generale.28
Fig. 3. Rapporto quantitativo tra la documentazione e il periodo di rinvenimento
(dal 1900 al 2007).
27
Su questo punto si rimanda a quanto esposto in riferimento all’analisi del grafico figura 5 (vedi
infra).
28
Colgo l’occasione per ringraziare Lara Castaldelli per la sentita collaborazione ed i preziosi
suggerimenti forniti in merito alle indagini statistiche presenti in questo lavoro.
53
Remo Bitelli
La prima analisi (Fig. 3) rappresenta il rapporto tra il numero e gli anni delle pratiche in
relazione anche alla documentazione archeologica nota per la città di Forlì.29 Si vede con
evidenza come dal 2000, anno dell’attuazione del PRG, il numero di documenti inerenti la
ricerca archeologica sia salito enormemente. Per il periodo precedente si segnalano alcuni
“picchi” in corrispondenza degli anni in cui il Comune è intervenuto per la manutenzione dei
sottoservizi del centro storico (1929, 1995, 1998) come nel periodo in cui è stato realizzato
il tratto comunale del Canale Emiliano Romagnolo (intorno al 1988). Altre concentrazioni di
scavi archeologici sono per lo più casuali o dovute alla bibliografia di riferimento. In alcuni
casi, infatti, in assenza di una precisa data di scavo, si è preferito datare la scoperta secondo
l’anno di pubblicazione della stessa.
Fig. 4. Rapporto quantitativo tra le DIA e le richieste di intervento archeologico.
Restringendo l’indagine agli ultimi dieci anni (Fig. 4), ovvero dalla fase precedente al
PRG a oggi (agosto 2007), interessante è notare il rapporto quantitativo tra la totalità dei
progetti edili presentati al Comune di Forlì e le richieste di intervento. Si vede abbastanza
chiaramente come fino al 2004, ovvero fino a quando la gestione delle pratiche era tenuta
direttamente dalla Soprintendenza, i “nulla osta” siano stati in numero maggiore rispetto
alla fase successiva. Questa constatazione merita una breve spiegazione: la maggior parte
dei progetti presentati dal 2000 a oggi riguardano aree a basso potenziale archeologico e,
mentre la Soprintendenza ha proceduto con lo svincolo dei lavori, il Comune ha richiesto per
maggior cautela “controlli in corso d’opera”.
Tali controlli, come si vedrà in seguito, hanno dato esito negativo rimarcando la scarsa
potenzialità delle aree in oggetto.
Un’ultima analisi (Fig. 5) prende in considerazione solamente le pratiche in cui viene
richiesto il controllo archeologico. Ci si trova di fronte sostanzialmente a tre casi:
29
Nel caso le pratiche coprano più anni si è deciso di considerare la data di attuazione dello scavo e, nel
caso l’intervento non risulti effettuato, quella di inizio.
54
Il sistema CART
– attuazione dell’indagine archeologica ed esito positivo dello scavo. L’esito positivo è
da intendersi relativo alla scoperta di un qualsiasi traccia di frequentazione, anche di
piccola entità;
– attuazione dell’indagine archeologica ed esito negativo dello scavo. Come detto,
l’esito negativo è determinato dalla presenza di sole tracce paleoambientali;30
– mancanza di attuazione dell’indagine archeologica. Questo aspetto viene constatato
dalla mancata prosecuzione della pratica.
Fig. 5. Rapporto quantitativo tra le richieste di intervento archeologico e il loro esito.
Come già evidenziato sopra, guardando il grafico, si nota come dal 2004, a fronte di un
maggior numero di interventi richiesti, crescono quelli con esito negativo.
Pare interessante invece constatare l’aumento della mancata attuazione delle indagini
richieste. Le motivazioni, ad una prima analisi, possono essere sostanzialmente due.
Probabilmente la causa principale è dovuta alla lunghezza temporale della cosiddetta DIA
(denuncia di inizio di attività) che autorizza il richiedente ad eseguire il lavoro entro tre anni.
Questo aspetto determina, a volte, la difficoltà a seguire e riconoscere la pratica stessa che, a
causa dell’iter amministrativo, finisce per passare attraverso diversi uffici.
Un altro motivo potrebbe essere legato alla rinuncia alla attuazione del progetto, rinuncia
che comunque non viene comunicata agli uffici competenti.
Al momento non è possibile stabilire in che percentuale le due casistiche si pongano tra
loro.
3 CONSIDERAZIONI FINALI.
In conclusione, facendo un breve bilancio, si può affermare che nei suoi primi dieci anni
di vita il progetto CART ha sicuramente svolto un’importante funzione di gestione e analisi
dell’informazione archeologica e, per quanto limitato nel suo utilizzo operativo, ha costituito
30
Sono stati considerati negativi anche quegli scavi che hanno restituito solo tracce di interventi edilizi
recenti.
55
Remo Bitelli
un modello verso cui altri progetti analoghi si sono ispirati. Ideato nei primi anni Novanta
secondo i criteri più all’avanguardia in materia di GIS, è logico che necessiterebbe oggi di
alcuni adeguamenti secondo più evolute modalità d’approccio in materia. È assai probabile
che già con la creazione di un “comitato” misto (tecnico-scientifico), capace di indirizzare i
lavori, si potrebbe agevolare il superamento delle difficoltà qui evidenziate.
Spesso ci si è domandati se la ricchezza dei dati registrati in CART fosse davvero utile
o se una semplificazione delle schede sia, oggettivamente, meno dispendiosa da un lato e
maggiormente produttiva dall’altro.
Si è chiaramente delineata la necessità di separare due livelli nella gestione/fruizione dei
dati: uno riservato agli esperti del settore (gli archeologi), l’altro per gli uffici tecnici comunali
e per il pubblico. Da un punto di vista tecnico si propende quindi per una condivisione online della totalità dei dati solo al personale accreditato alla compilazione delle schede, alla
correzione dei dati e alla interpretazione dei siti. Per quanto le schede siano state pensate e
strutturate in maniera semplice si è infatti constatato come la lettura dei singoli dati spesso
tradisce la complessità della ricostruzione del “paesaggio antico” e il rischio che vengano
male interpretati è tale che la loro divulgazione potrebbe avere risultati negativi. Inoltre c’è
il pericolo che la comunicazione di tutti i dati, compresi la loro ubicazione, possa favorire il
fenomeno degli scavi abusivi, purtroppo ancora presente.
Dal punto di vista dell’implementazione dei dati si ritiene opportuno, una volta posto a
regime il sistema, affidare la fase di aggiornamento direttamente agli archeologi che lavorano
sul territorio, i quali hanno la possibilità di sintetizzare l’esito delle ricerche e, soprattutto, di
fornire il posizionamento certo dei cantieri.
Una proposta concreta sarebbe quella di inserire all’interno dell’iter amministrativo
delle pratiche una versione semplificata della scheda CART , da consegnare compilata dagli
operatori sul campo a fine lavori. Questo comporterebbe il costante aggiornamento dei dati
con una spesa minima e in tempo reale.
Nel caso specifico di Forlì, ma si tratta di un aspetto comune a più realtà territoriali, sarebbe
auspicabile rivedere e monitorare l’attuazione delle richieste di intervento archeologico.
L’analisi compiuta sulla città evidenzia l’elevato numero di richieste di indagine che non
vengono espletate (Fig. 5). Una soluzione, in parte già in atto al Servizio Pinacoteca e Musei,
è da vedersi nella creazione di un database dove vengano riportate le date di inizio e di
fine delle concessioni edilizie. Allo scadere della pratica, o meglio a intervalli temporali
prestabiliti, deve prevedersi una verifica puntuale dello svolgimento degli interventi.
Allo stesso tempo i dati su Forlì confermano l’esito più che positivo dello svolgimento
della tutela archeologica, che per stessa ammissione del Servizio Pinacoteca e Musei, vede
ormai fattivamente coinvolta una cospicua parte della cittadinanza locale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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(Certosa di Pontignano, 11–17 dicembre 1995), Quaderni del Dipartimento di Archeologia
e Storia delle Arti, Sezione Archeologica, Università di Siena, 42, Firenze, pp. 137–160.
All’Insegna del Giglio.
GUERMANDI 1998a = M.P. Guermandi (a cura di), CART. Carta Archeologica del Rischio
Territoriale, inserto di “IBC. Informazione, Commenti, Inchieste sui Beni Culturali”, 3, pp.
41–72.
GUERMANDI 1998b = M.P. Guermandi , Dati, carte, sistemi. Il ruolo dell’informatica tra
tutela e pianificazione, in GUERMANDI 1998a, pp. 52–53
GUERMANDI 1999a = M.P. Guermandi, Tutela del patrimonio archeologico e GIS:
l’elaborazione di una cartografia archeologica finalizzata ai problemi di pianificazione
territoriale della Regione Emilia Romagna, in B. Amendolea (a cura di), Carta Archeologica
e Pianificazione Territoriale: un problema politico e metodologico, Primo incontro di studi.
Roma marzo 1997, Roma, Fratelli Palombi Editori, pp. 142–145.
GUERMANDI 1999b = M.P. Guermandi, Protection of the Archaeological Patrimony
and G.I.S. The Elaboration of an Archaeological Cartography Aimed at the Problems of
Territorial Planning in the Emilia Romagna Region, in J.A Barceló, I. Briz, A. Vila (eds.),
New Techniques for Old Times. CAA 98, Computer Applications and Quantitative Methods in
Archaeology. Proceedings of the 26th Conference, Barcelona, March 1998, BAR International
Series 757, Oxford, Hadrian Books Ltd, pp. 359–363.
GUERMANDI 2000a = M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico, se lo conosci lo
eviti. Atti del convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara,
24–25 marzo 2000), Firenze, All’Insegna del Giglio, Firenze, 2000.
57
Remo Bitelli
GUERMANDI 2000b = M.P. Guermandi, Il sistema CART : metodologia e tecnologia, in
GUERMANDI 2000a, pp. 189–194.
GUERMANDI 2000c = M.P. Guermandi, Il progetto CART , in GUARNIERI 2000a, pp. 49–52.
GUERMANDI 2000d = M.P. Guermandi, GIS as a tool for archaelological heritage safeguard.
CART system in Emilia Romagna Region, in A. Guarino (a cura di), Science and Technology
for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin, Paris, 5–9 July 1999, 1,
Forlì, Elsevier, pp. 71–77.
ORTALLI 2000 = J. Ortalli, Tutela archeologica e gestione territoriale: all’origine del sistema
CART , in GUERMANDI 2000a, pp. 185–194.
PRATI 1998 = L. Prati, Il progetto per Forlì, in GUERMANDI 1998a, pp. 71–72.
PRATI 2000 = L. Prati, CART a Forlì: la Carta del potenziale archeologico del territorio
forlivese, in GUERMANDI 2000a, pp. 211–214.
58
ARCHEOLOGIA PREVENTIVA:
ESPERIENZE A CONFRONTO E PROSPETTIVE FUTURE
Sofia Pescarin
CNR ITABC – Roma
1. INTRODUZIONE
A partire dal 1999 il sistema CART è entrato nell’uso quotidiano, prima nel comune di Modena
e poi in quello di Bologna, Faenza e Forlì. A distanza di quasi dieci anni, tempo lunghissimo
dal punto di vista informatico, possiamo oggi osservare come le scelte operate furono, una
volta tanto, piuttosto lungimiranti. La tecnologia invecchia in fretta e se non si pianifica,
fin dalle fasi iniziali di un progetto, in modo che venga tenuto in considerazione il naturale
evolversi di formati e macchine, ogni sforzo messo nella programmazione del software,
nell’elaborazione delle procedure anche burocratiche, nella preparazione e archiviazione dei
dati e, non da ultimo, nell’accantonamento di risorse finanziarie, risulta assolutamente inutile.
Molti progetti iniziati negli anni ‘90 hanno subito questa sorte, rimanendo cattedrali nel
deserto senza più continuità, manutenzione, talvolta fino alla loro completa dimenticanza.
CART venne costruito tenendo presente alcuni elementi fondamentali, che si sono rivelati
nel corso degli anni piuttosto vincenti. La sua progettazione si fondava su scelte lungimiranti
dal punto di vista tecnico: l’utilizzo della rete, innanzitutto, come strumento principale di
comunicazione e scambio di dati; di formati aperti di scambio; di standard aperti basati su XML
e di un browser Internet come interfaccia tra banche dati, amministratori e utenti (Fig. 1).
Nonostante CART non sia stato utilizzato al massimodelle sue potenzialità, ha svolto e
continua a svolgere correttamente i compiti per i quali era stato progettato ed implementato.
2. IL FUNZIONAMENTO DI CART
Il sistema CART è composto da due parti principali: un database e un GIS. Il database si
occupa di raccogliere tutte le informazioni testuali, oltre che immagini raster (foto, piante,
ecc.). Il GIS gestisce tutti i dati georeferenziati, sia vettoriali che raster. GIS e DB sono
tra loro collegati sulla base della georeferenziazione e degli ID delle schede. Il sistema è
costituito da una parte SERVER e da una CLIENT. E’ stato progettato in modo da prevedere
tre tipi di accessi: Consultazione, Editing e Data Entry, Amministrazione.
Il GIS si basa attualmente su software ESRI ArcGis (versione 8), mentre il GEOdatabase
costruito nel 2000, su applicazione proprietaria Highways, si basa su standard aperti basati
su XML-HTML1. Il database gerarchico si occupa della conservazione dei dati con interesse
archeologico, la cui ricchezza viene mantenuta grazie alla strutturazione delle informazioni
raggruppate per “livelli” di definizione. Un collegamento dinamico bi-direzionale tra il GIS
e il DB consente di decidere la modalità di inserimento di nuovi dati. L’operatore, che ha i
1
Il software è stato realizzato da 3D Informatica di Bologna.
59
Sofia Pescarin
permessi di editing, può ad esempio inserire un nuovo layer grafico vettoriale, disegnandolo
direttamente nel GIS, e poi aggiungere tutte le informazioni necessarie nella maschera del
database, che viene automaticamente creata per ogni nuovo oggetto grafico. Tutti i dati vengono
archiviati sotto forma di testo e sequenze di punti vettoriali con coordinate x,y,z (punti, linee e
poligoni)‫‏‬. Tutte le informazioni sono esportabili in un unico file aperto (*.txt) tabulato.
Fig. 1. La struttura di CART.
La modalità di realizzazione di CART fa sì che l’infrastruttura informatica possa essere
flessibilmente adattata anche ad interfacciarsi con strumenti di nuova generazione, di tipo
webGIS o con altri strumenti di tipo Open Source (MapServer, GRASS ecc.), integrando
nuove e più avanzate funzionalità, che risultano al momento carenti nel sistema.
Per arrivare a proporre un nuovo modello di sviluppo, utilizzo e gestione di CART, che
possa superare le problematiche emerse in questi anni2 (Tab. 1) ed essere preso come esempio
in altri casi, risulta piuttosto utile proseguire in due direzioni parallele: confrontando alcuni
esempi significativi all’estero e analizzando i più recenti sviluppi nel campo del webGIS e
3d webGIS.
Alcune delle Problematiche individuate
Rischio-Conservazione
Accessibilità dati d'origine
Difficile Leggibilità dei dati
Discretizzazione dei dati
Divulgazione
Rigidità degli strumenti informatici
Inesistenza della scheda a livello nazionale
Rapporti inter-istituzionali complessi tra uffici urbanistica, comuni, regioni,
soprintendenze, università, ditte private
Integrazione con archeologia medioevale o moderna complessa
Ritardi nell'archiviazione dei dati
Mancanza coordinamento
2
cfr. BITELLI in questo volume
60
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future
3. GLI STRUMENTI PER LA GESTIONE TERRITORIALE:
ALCUNI SPUNTI DALL’ESTERO
Per quanto riguarda l’utilizzo di strumenti di gestione integrata dei dati archeologici all’estero,
l’indagine, ancora in corso di perfezionamento, è stata effettuata prendendo in considerazione
principalmente i seguenti parametri di riferimento:
–
–
–
–
Utilizzo avanzato della rete in maniera de-localizzata;
Utilizzo avanzato di strumenti di archiviazione delle informazioni archeologiche;
Livello di interazione;
Livello di coinvolgimento di diverse figure (pubbliche amministrazioni, professionisti,
privati cittadini, ecc.).
In questa sede verranno esaminati i dati relativi all’ambito anglosassone che costituisce
una delle migliori esemplificazioni di gestione informatizzata del territorio.
Nel Regno Unito esiste una regolamentazione generale introdotta nel 1990 dal governo.
Si tratta del PPG-16 (Planning Policy Guide) che si occupa di regolamentare le politiche
governative nazionali sui resti archeologici nel territorio, ovvero su come debbano essere
conservati e acquisiti sia in contesto urbano che extra-urbano. Coinvolge sia le istituzioni
pubbliche che si occupano di archeologia e di amministrazione del territorio, nonché i privati
che intendono effettuare degli interventi. La normativa da’ inoltre indicazioni sul trattamento
dei resti archeologici e sulle scoperte archeologiche attraverso sistemi di pianificazione e
controllo dello sviluppo territoriale, compreso il peso da assegnare alle scoperte durante le
fasi di decisione e pianificazione. Vengono infine indicate procedure nel caso in cui resti
archeologici siano riportati alla luce durante lavori di realizzazione di opere pubbliche o
private.
Il governo inglese ha pubblicato un volume, il “Planning Policy Guidance 16: Archaeology
and planning”, acquistabile o consultabile on line3, ed ha inaugurato un vero e proprio sito,
il Planning Portal4 che da’ indicazioni sia ai privati che alle istituzioni pubbliche locali su
normative, regolamenti in ambito di pianificazione e urbanistica. Il portale è un vero e proprio
strumento di orientamento, sia per i privati che per le istituzioni, e ha lo scopo di fornire
informazioni sulle procedure per la pianificazione, i permessi necessari, le indicazioni su
quale ufficio di pianificazione e urbanistica contattare localmente (Local Planning Authority),
compresi quali siano i piani di sviluppo territoriale e relativo sito web. E’ possibile iniziare
la procedura direttamente on-line, richiedendo un permesso. I professionisti possono inoltre
inviare tramite Internet le proprie “planning permission”, oltre a poter leggere regolamenti
e leggi aggiornate. Gli enti pubblici locali accedono al portale, come strumento di supporto
alle proprie attività di “e-planning” e di informazione aggiornata su leggi e regolamenti del
Ministero (Fig. 2).
E’ indispensabile comunque, per quanti vogliano intraprendere interventi sul territorio
(“developers”), effettuare ricerche sul potenziale archeologico nella zona. Ciò può essere
3
4
www.communities.gov.uk/index.asp?id=1144057
Si vedano i siti: The Planning Portal (UK government's online planning and building regulations
resource): http://www.planningportal.gov.uk
61
Sofia Pescarin
fatto contattando il “County Archaeological Office” o effettuando delle ricerche nel “Site and
Monument Record” per quanto riguarda i resti archeologici noti o potenziali.
Fig. 2. La pagina iniziale del Planning Portal.
Il “Sites and Monuments Record” (SMRs) è uno dei più grandi archivi di informazioni
archeologiche. Contiene più di 600.000 siti e monumenti schedati e viene mantenuto
dalle “contee”, che in genere impiegano personale archeologo all’interno dei propri uffici
urbanistici.
Recentemente in Inghilterra si è inaugurato un nuovo progetto: l’Oasis Project. Si
tratta di un archivio nazionale archeologico a cui ciascuna contea deve fare riferimento e
deve contribuire ad alimentare5. E’ costituito dall’aggregazione di una serie di strumenti
come: l’ADS (Archaeology Data Service)6, il National Monuments Record dell’English
Heritage, ecc. L’accesso è possibile a livelli diversi. Esiste un accesso pubblico e un accesso
istituzionale.
Le istituzioni e gli addetti del settore vi accedono immettendo una propria user e
password e possono consultare l’archivio o inserire nuovi dati relativi a prospezioni, indagini
o scavi archeologici sul territorio (Fig. 3). La parte accessibile al pubblico è invece molto
limitata, senza un vero e proprio webGIS, ma è comunque significativa, dal momento che si
appoggia su ADS ArchSearch che fornisce una localizzazione dei siti con alcune generiche
informazioni.
Il principale obiettivo è quello di fornire un indice on-line a tutta quella massa di
letteratura “grigia” che viene normalmente prodotta dagli operatori del settore durante scavi,
indagini e sopralluoghi. Attraverso un apposita maschera, gli archeologi possono inserire
informazioni che poi vengono validate dal NMR (National Monument Record) e infine
passate all’ADS perché vengano inserite nel catalogo on line ArchSearch7. Il sistema di
5
6
7
/ads.ahds.ac.uk/project/oasis
L'Archaeology Data Service (ADS) è un'istituzione che si occupa di conservare dati digitali e di
promuovere e disseminare un'ampia tipologia di dati archeologici, supportando anche ricerca
e insegnamento. Promuove e da' indicazioni sulle “buone pratiche” nell'utilizzo del digitale in
archeologia e offre supporto tecnico-scientifico al mondo della ricerca.
ads.ahds.ac.uk/catalogue/
62
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future
ricerca consente agli utenti di cercare informazioni su un particolare sito o tipo di monumento
e di accedere direttamente a report e archivi. I report che vengono prodotti vengono anche
messi a disposizione attraverso l’ADS che consente ricerche avanzate in numerosi campi8. E’
l’English Heritage che si occupa del progetto e della gestione del data entry ([email protected]) mentre la parte tecnica viene gestita direttamente dal team di ADS.
Fig. 3. Scheda dell’Oasis.
L’accesso alla sezione pubblica consente di visionare online documentazione prodotta
dalle operazioni archeologiche a larga scala e di visualizzarne i risultati attraverso un sistema
di ricerca, noto appunto come ArchSearch, con il quale è possibile ottenere informazioni più
aggiornate su un determinato sito, tipo di monumento, ecc. con mappe e relativi link.
ADS ArchSearch fornisce una localizzazione precisa dei siti, grazie all’inserimento
all’interno delle proprie pagine di una mappa tratta direttamente da GoogleMaps con
sovrapposto il punto che si riferisce al sito che si sta consultando (Fig. 4, n.2).
Fig. 4. Il sito dell’ArchSearch.
8
ads.ahds.ac.uk/catalogue/library/greylit/
63
Sofia Pescarin
Il sistema di ricerca consente agli utenti di cercare informazioni su un particolare sito o
tipo di monumento e di accedere direttamente a report e archivi. I report che vengono prodotti
vengono anche messi a disposizione direttamente attraverso l’ ADS9 che consente ricerche
avanzate in numerosi campi. Sono possibili diversi tipi di ricerche: ricerche di base attraverso
parole chiave o nome di un progetto, ricerche attraverso la mappa, attraverso il tipo di risorsa
o la ricerca avanzata che consente di inserire più di un parametro. E’ l’English Heritage che
si occupa del progetto e della gestione del data entry mentre la parte tecnica viene gestita
direttamente dal team di ADS.
La ricerca generica ad esempio consente di effettuare un’interrogazione sulla base di:
parola chiave, titolo di progetto, Chi, Cosa, Dove, Codice Postale, ID del sistema ADS.
Il risultato della ricerca restituisce una serie di risultati che possono essere ulteriormente
interrogati (Fig. 5).
Fig. 5. Elenco di risultati dell’ArchSearch.
I campi visualizzabili per l’accesso pubblico sono: descrizione, localizzazione, tipologia
del soggetto e periodo, data del progetto, tipo di intervento, responsabile del lavoro,
Localizzazione dei materiali prodotti (foto, pubblicazione), Localizzazione dell’archivio dei
reperti, Contenuto dell’archivio, Bibliografia, Responsabile della tutela del bene, Nome della
risorsa, ID della risorsa, Tipo, data di acquisizione (Tab. 2). E’ possibile anche accedere ad
archivi collegati contenenti: mappe storiche10; mappe stradali; foto aeree11. E’ presente anche
un collegamento al progetto PastScape12.
9
ads.ahds.ac.uk/catalogue/library/greylit/
old-maps.co.uk
11
www.multimap.com
12
pastscape.english-heritage.org.uk
10
64
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future
Description:
Location:
Subject type and
period:
Project dates:
Intervention type:
Responsible for
Work:
Paper/microfilm
archive: location:
Artefact archive:
location
Archive contents:
Bibliographic
references.
Record maintainer:
Resource Name
Depositor's Id No.
Type
Accessioned
Cirencester Museum finds/archive accession No: 1980/71
ROMAN FORUM; CIRENCESTER; COTSWOLD;
GLOUCESTERSHIRE; England
Grid ref. OSGB - SP 02 01 Grid ref. LL - 001 58 W 51 42 N
TOWN, Roman – FORUM, Roman
1963
Excavation
Cirencester Excavation Committee
Corinium Museum Cirencester
Corinium Museum Cirencester
NOTEBOOK – EXCAVATION, RESEARCH, GENERAL
NOTES, PHOTOGRAPH – NEGATIVE, PHOTOGRAPH –
PRINT, PLAN – EXCAVATION
The Antiquaries journal : journal of the Society of Antiquaries of
London 44/1964/9–14
English Heritage, National Monuments Record
English Heritage NMR Excavation Index for England
633480
Collection
10 Feb. 2001
Tab. 2. Esempio di scheda accessibile dal pubblico nel sito ADS.
Come lavorano gli archeologi sul campo? Un esempio proviene dalle attività di una
piccola società privata londinese che che si occupa di scavi archeologici per conto di privati
e amministrazioni pubbliche, oltre ad essere impegnata da anni nel progetto “Fasti on line”13.
Dall’intervista fatta sono emersi quelli che sono i meccanismi di lavoro in un paese certo
diverso dall’Italia, sotto diversi aspetti, ma che comunque presenta un ottimo livello di
organizzazione e gestione dei dati. Il lavoro sullo scavo viene effettuato acquisendo sempre
e in tempo reale anche i dati digitalmente. Tali dati vengono georeferenziati e “caricati” in
cantiere all’interno di un webGIS, nel quale sono anche impostati i collegamenti con un
database. Tale webGIS viene messo a disposizione anche dei clienti (privati e pubblici che
siano), i quali attraverso un accesso riservato con user e password possono osservare lo stato di
avanzamento dei lavori, accedere a eventuali informazioni di riferimento, preparare materiali
grafici per successive elaborazioni (carte, presentazioni ecc.). Il sistema webGIS messo a
punto, Merlin, si basa su un software Open Source, MapServer, che è stato personalizzato per
rispondere alle esigenze specifiche (Fig. 6, sx).
Anche il progetto “Fasti On Line” è basato sullo stesso strumento aperto, MapServer
(Fig. 6, dx). Si tratta di un progetto nato dai Fasti Archaeologici, editi tra il 1946 e il 1987,
dall’Associazione Internazionale di Archeologia Classica (AIAC) e ora, grazie al supporto
13
www.fastionline.org/
65
Sofia Pescarin
del Packard Humanities Institute (PHI), disponibili in una versione on line, nella forma del
database GIS, che offre informazioni in dettaglio sugli scavi in Italia, Albania, Bulgaria,
Macedonia, Malta, Marocco, Romania e Serbia.
Fig. 6. A sx iIl web-GIS Merlin; a dx l’Home Page di Fasti on-line.
4. POSSIBILI SVILUPPI DEL MODELLO CART
Riprendendo il secondo punto dell’indagine, a proposito dei recenti sviluppi nel campo del
webGIS e del VR webGIS, emergono alcuni esempi interessanti per un possibile confronto
e sviluppo futuro di CART. Sono stati qui presi in considerazione esclusivamente strumenti
aperti, per venire incontro alle ultime indicazioni ministeriali in relazione appunto all’utilizzo
di software Open Source nella Pubblica Amministrazione.
Tra gli Application Server Open Source, uno dei più interessanti progetti è certamente
Ka-Map14. Si tratta di uno strumento il cui scopo è quello di fornire un ambiente javascript
per lo sviluppo di applicazioni di interfacce interattive per il web-mapping. Tra le principali
caratteristiche troviamo la possibilità di eseguire “panning” continuo ed interattivo della
pagina (senza richiederne il reloading)‫‏‬, una serie di opzioni di navigazione da tastiera e da
mouse (zooming, panning)‫‏‬, zoom a scale predefinite, pieno supporto per scale, legende,
mappe di riferimento. Un progetto basato su Ka-Map, Embrio, offre alcuni buoni spunti di
riflessione su quello che potrebbero essere gli sviluppi futuri dei portali geografici. Embrio
è un’interfaccia web che consente non solo di visualizzare mappe interattivamente, come
la maggior parte dei webGIS, ma offre la possibilità di collegare MapServer con strumenti
GIS desktop potenti come GRASS e Qgis, tramite PyWPS, sfruttandone pienamente le
potenzialità di analisi spaziale da effettuare in tempo reale. L’esempio disponibile on line
dimostra come a partire da una base dati geografica pubblicata lato server, un utente può
eseguire, analisi di tipo Viewshed, Slope, Cost Distance, ecc. (Fig. 7).
14
ka-map.maptools.org/
66
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future
Fig. 7. Analisi di visibility.
A partire da ciò, è agevole pensare alle moltissime possibilità di sfruttamento di tali funzioni
per chi si occupa di pianificazione territoriale, gestione delle emergenze archeologiche, ecc.
Soprintendenze e Uffici urbanistici potrebbero infatti, attraverso un accesso protetto, sfruttare
le potenzialità del GIS senza preoccuparsi nè del software installato sulla propria macchina
(basta infatti un browser web) e tanto meno del luogo dove fisicamente si trovano.
Un altro esempio interessante è il progetto OpenLayers15. Si tratta di uno strumento
JavaScript completamente gratuito, a codice aperto, rilasciato con licenza BSD, che consente
di collocare mappe dinamiche all’interno di ogni tipo di pagina web in maniera semplice.
Offre la possibilità di caricare anche mappe raster piuttosto grandi, grazie alle funzionalità
di “tiling” (anche GoogleMap sfrutta tale funzione per consentire un accesso rapido alle
informazioni geospaziali), ma soprattutto consente di costruire un sito web a “strati”,
visualizzando mappe e dataset geografici provenienti anche da altri provider, senza dover
installare o possedere la cartografia sulle proprie macchine server o client (Fig. 8).
Anche in questo caso le possibilità di applicazione nel caso concreto dell’archeologia
preventiva sono molte. Sarebbe ad esempio possibile, evitando di duplicare risorse
economiche e di personale, utilizzare gli uffici cartografici del comune o della regione come
provider per la cartografia di base. Le soprintendenze disporrebbero così della cartografia
sempre aggiornata “al di sotto” dei propri dati.
Anche nel campo del 3D, sempre orientato alla visualizzazione dei dati geografici, da
qualche anno si registrano dei progetti che potrebbero essere facilmente integrati all’interno
dell’infrastruttura CART. La libreria OpenSceneGraph ne è un esempio, insieme al lavoro di
sviluppo di un applicativo per il web, OSG4WEB, realizzato da CNR ITABC e CINECA16.
15
16
www.openlayers.org/
www.openscenegraph.org, http://www.vhlab.itabc.cnr.it/openheritage
67
Sofia Pescarin
Fig. 8. Il sito Open-Layers.
Fig. 9. Il sito di Flaminia Project.
68
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future
5. VERSO UN NUOVO MODELLO GENERALE DI CART
Sebbene CART sia già potenzialmente costruito per essere accessibile via Internet da diversi
utenti, vi è oggi la necessità di ampliare e diversificare il tipo e le modalità di interazione
e di aggiornare la propria struttura a livello informatico, in modo da rispondere alle nuove
esigenze e alle indicazioni ministeriali. Di seguito si propone un modello generale verso cui
è possibile orientarsi, definito “openCART”, per indicare chiaramente come l’infrastruttura
proposta conservi quasi interamente le caratteristiche di CART, ampliandole anche attraverso
la migrazione verso strumenti completamente aperti.
La catalogazione dei dati noti in materia archeologica all’interno di un sistema
informatizzato riunisce in se diversi aspetti: la ricerca, il riordino, la standardizzazione delle
informazioni a interesse archeologico, l’indicazione della loro reperibilità, la revisione delle
stesse informazioni alla luce di analisi spaziali, la loro correzione, ecc. Il fine di CART è
stato ed è tuttora, oltre alla divulgazione dello stato delle ricerche (Carta Archeologica) la
stesura di “modelli predittivi” (Carta del Rischio) nei quali la ricostruzione dell’antico tessuto
territoriale diviene uno strumento di confronto tra le nuove attività (edili ed urbanistiche) e
il valore di “tutela” intrinseco alle antiche testimonianze conservatesi nel sottosuolo. Per
tale motivo è indispensabile, nella prospettiva della creazione ed utilizzo di uno strumento
davvero operativo, il coinvolgimento di quelli che sono gli attori del processo di acquisizione,
elaborazione e gestione del dato archeologico. Potenzialmente il sistema CART è infatti
progettato per essere aggiornato da diverse istituzioni, diverse figure professionali e diversi
temi (beni culturali e territoriali).
CART ha come scopo, come si è detto, quello di essere strumento utile di lavoro, e questo
principalmente in due ambiti: quello che si occupa dello studio, tutela e valorizzazione delle
risorse culturali-archeologiche del territorio e quello che si occupa della pianificazione e
gestione dello stesso. Per tale ragione la collaborazione e l’integrazione del lavoro tra
“archeologi” e “urbanisti” risulta fondamentale nella costruzione e nell’avvio iniziale di uno
strumento comune.
Da una prima analisi degli utenti di riferimento, sono emerse diverse categorie che,
con finalità e funzioni diverse, possono aver accesso a openCART. Innanzitutto i gestori e
utilizzatori istituzionali, ovvero:
– Regione: Soprintendenza ai Beni Archeologici.
– Regione: IBC. Enti pubblici regionali preposti alla programmazione regionale in
materia di Beni Culturali e consulenza degli enti locali nel settore dei beni culturali.
– Comune: Uffici urbanistica e pianificazione territoriale. In ambito urbanistico-territoriale
i settori di riferimento sono quelli che fanno capo al assessorato all’Urbanistica e
Pianificazione territoriale attraverso gli Uffici Tecnici, in Emilia Romagna denominati
Sportelli Unici per l’Edilizia, e se esistenti agli uffici cartografici
Altri utilizzatori (alcuni con funzioni di editing, altri di gestione, altri solo di consultazione)
sono:
– Comune: Musei. Enti pubblici locali, ad esempio i Musei, che si occupano di Beni
Culturali
– Soprintendenza ai Beni Architettonici
69
Sofia Pescarin
– Uffici cartografici sia regionali che comunali
– Università e altri enti di ricerca che studiano e analizzano il territorio sia dal punto di
vista archeologico che geologico e ambientale
– Operatori del settore: archeologi
– Operatori del settore: geologi
– Strutture e società private che si occupano di edilizia
– Enti pubblici e privati che si occupano di informatica (uffici cartografici, ecc)
Per venire incontro alle diverse esigenze e tipi di attività all’interno di openCART, si
prevedono quattro tipi di accesso al sistema:
1 Accesso Pubblico: consultazione parziale. Il sistema è pubblicamente accessibile via
Internet in consultazione, per quanto riguarda la visualizzazione GIS e l’interrogazione
di alcune informazioni di base. Attraverso una URL generica si può accedere alla sola
sezione di visualizzazione delle informazioni archeologiche, sotto forma ad esempio di
semplici punti georeferenziati, sovrapposti ad una cartografia a grande scala e collegati
a poche e sintetiche informazioni tratte dall’archivio principale di CART17. Per ogni
elemento possono apparire solo una selezione di tutti i campi del database (come ad
esempio: Descrizione; Localizzazione; Mappa on-off; Tipologia; Periodo; Referente
istituzionale; Id CART, Id deposito (archivio sopr.); Tipo (es. collezione ...); Data
Acquisizione (informatizzazione), ecc.). Qui l’utente generico può effettuare ricerche
sui campi disponibili ed ottenere un elenco di risultati (punti georeferenziati) la cui
localizzazione potrà essere visibile.
2 Accesso Pubblico Avanzato: consultazione completa. In questo caso per accedervi
(sempre solo in consultazione) è indispensabile inserire una user e una password per
consultare l’intero archivio a disposizione, effettuando ricerche avanzate, per affinamento
successivo e visualizzarne il risultato sulla cartografia di base. Questo tipo di accesso
può essere utilizzato da parte dei funzionari pubblici dei Comuni anche per accedere alle
elaborazioni cartografiche, come ad esempio mappe del rischio, ecc.
3 Accesso Avanzato: inserimento dati, modifica dati, validazione dati. Il sistema è
modificabile (aggiornamento nuovi dati, modifica dati già inseriti, completamento dati già
inseriti) da parte di un numero ristretto di collaboratori tramite user e password. L’operatore
abilitato accede alla sezione completa di openCART dalla quale potrà effettuare ricerche,
modificare i dati esistenti, dare inizio ad una nuova sessione aggiungendo una nuova
scheda ecc.
4 Amministrazione. l’intero sistema openCART (composto da webGIS, DB, Interfaccia
web, interfaccia VR webGIS) viene modificato e manutenuto dagli amministratori di
sistema. L’amministratore di sistema può modificare interfaccia, maschere di inserimento
e visualizzazione oltre a fare manutenzione ecc.
Oltre ad integrare completamente la struttura dell’archivio CART (DB) e le funzioni di
collegamento con i layer GIS, tra le nuove funzionalità del sistema si possono prevedere
(Fig. 10) (Tab. 3):
17
Come nel caso inglese ADS-ArchSearch
70
Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future
Fig. 10. Schema di funzionamento del nuovo CART.
Punti di Forza dell'infrastruttura openCART:
Inserimento e possibilità di ricerca delle Informazioni archivistiche e bibliografiche (con 4
tipi di informazione in base al rapporto ubicabilità/profondità)
Informatizzazione degli Scavi e delle ricerche sul terreno
Georeferenziazione di tutti i dati a cui si accede
Inserimento anche di prove geotecniche (carotaggi, prove penetrometriche)
Informatizzazione possibile anche di Tracce (cartografia, foto aeree, elaborazioni storicoarcheologiche)
Utilizzo e sviluppo delle funzioni GIS: valutazione quantitativa e “pesata” delle
informazioni
Utilizzo e sviluppo delle funzioni GIS: possibilità di ricostruzione del paesaggio antico
con simulazione delle strutture e forme del popolamento (Tessuto urbanistico, Piani di
campagna e superfici urbane distinti cronologicamente, Centuriazione ricostruita in base
alle persistenze riconosciute)
Potenziale utilizzo dei dati testuali e GIS per simulazioni, scenari 3d e applicazioni di
realtà virtuale.
Prevenzione e simulazione delle potenzialità del fattore archeologico ai fini della
programmazione urbanistica (Simulazione delle profondità e degli spessori delle
stratigrafie archeologiche, Ipotesi interpretativa della consistenza delle strutture ancora
presenti nel sottosuolo, Calcolo dei preventivi di scavo archeologico, Simulazione di
valorizzazione dei resti archeologici).
Potenziale utilizzo di strumenti Open Source
Potenziale utilizzo di CART per la tutela del territorio, la valorizzazione dei beni culturali, la
comunicazione e divulgazione, la ricerca, la costruzione di strumenti per la didattica, ecc.
Accessibilità del sistema attraverso Internet, evitando problemi di licenze, di installazione
di software specifici o di diversità di accesso.
Tab. 3. Punti di forza del nuovo CART
71
Sofia Pescarin
– migrazione su webGIS open basato su tecnologia MapServer
– migrazione su DB on line open e collegamento dinamico tra layer GIS e informazioni
archiviate nel database
– funzioni di editing avanzato, attivabili a distanza (anche eventualmente da archeologi
o funzionari sul campo)
– interfacciamento con la cartografia tecnica (CTR regionali, collegamento con SIT,
ecc.)
– interfacciamento con provider di immagini geo-spaziali (googlemaps, ecc.)
– integrazione di funzionalità di analisi spaziale GIS
– utilizzo di interfacce grafiche differenti a seconda del tipo di utenza
– attivazione di un modulo 3d aggiornabile anche da remoto
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
C. GUARNIERI, Pianificazione urbana e carta archeologica: il caso di Faenza, in M.P.
Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di
studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31,
Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 215–222.
M.P. GUERMANDI, Il sistema CART: metodologia e tecnologia, in M.P. Guermandi (a cura
di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia
archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna
del Giglio, 2001, pp. 189–194.
J. ORTALLI, Tutela archeologica e gestione territoriale all’origine del sistema CART, in M.P.
Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di
studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31,
Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp.185–188.
S. PANELLA, ICCD e cartografia archeologica, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio
archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica
e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna del Giglio,
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S. PANELLA, Beni Archeologici e territorio, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico
se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio,
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S. PESCARIN, Open Source in archeologia. Nuove prospettive per la ricerca, “Archeologia e
Calcolatori”, 17, 2006, pp. 137–155.
S. PESCARIN, L. Calori, Verso il VR-WebGIS. Il caso del Distretto Culturale della Valle
dell’Esaro: un sistema open-source per le risorse culturali, turistiche e ambientali,
“MondoGIS”, 51, pp. 54–60.
72
ARCHEOLOGIA PREVENTIVA. LE CARTE DEL POTENZIALE
ARCHEOLOGICO NEL QUADRO LEGISLATIVO NAZIONALE E
REGIONALE: IL CASO DELL’EMILIA ROMAGNA
Chiara Guarnieri
Soprintendenza Archeologica Emilia Romagna
1. ARCHEOLOGIA PREVENTIVA:
IL QUADRO LEGISLATIVO NAZIONALE E REGIONALE
1.1 Il quadro legislativo nazionale
Il concetto di archeologia preventiva1 viene contemplato nella legislazione italiana solamente
nel 2004, anno di approvazione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio2. In precedenza
le Soprintendenze avevano come unica forma di intervento riconosciuta dalla legge il vincolo
dell’area archeologica3, un atto quindi che veniva posto in essere solo a posteriori, dopo la
scoperta accertata del bene; tale forma di intervento risultava pertanto inadatta a qualsiasi azione di carattere cautelativo/preventivo. Spesso il rinvenimento, in genere verificatorsi
fortuitamente a seguito di interventi edilizi od agricoli, comportava la perdita di molti dati
archeologici, soprattutto relativi ai periodi di frequentazione più recenti, ed implicava il
fermo dei lavori per le necessarie procedure dello scavo archeologico, con oneri elevati da
parte dei proprietari. Questa procedura d’intervento, in assenza di atteggiamenti diversi nei
confronti della tutela, ha creato una mentalità ancora presente in alcune zone, soprattutto
agricole, che privilegia l’occultamento del bene archeologico per paura che le “Belle Arti” (il
retaggio del passato!) blocchino i lavori a tempo indeterminato. Proprio per evitare la perdita
dei beni – ed in assenza di una legislazione che contemplasse qualsiasi forma di intervento
preventivo – molte Soprintendenze hanno attuato forme di accordi che sono andate a supplire
questa grave lacuna legislativa (si veda ultra par. 1.3).
E’ solo nel 2004, con l’approvazione del Codice, che per la prima volta nella legislazione
italiana è menzionato il concetto di misura preventiva; il riferimento esplicito è all’art 28,
comma 44 che prevede che in caso di “realizzazione di lavori pubblici ricadenti in aree di
1
2
3
4
Non è questa la sede per tracciare la storia della nascita dell’archeologia preventiva: corre l’obbligo
comunque di ricordare che questa sensibilità nasce in ambito anglosassone agli inizi degli anni’70
dello scorso secolo, e trova una sua concretizzazione nell’opera di Biddle e Hudson dedicata a
Londra (BIDDLE, HUDSON 1973). L’approdo in Italia dell’archeologia preventiva si data al 1981,
anno della pubblicazione del volume su Pavia, a cura dello studioso inglese Peter Hudson (HUDSON
1981). Purtroppo l’esperienza rimarrà isolata per molto tempo ancora.
Decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42 Codice dei beni culturali e del paesaggio
Il vincolo archeologico previsto corrisponde all’attuale dichiarazione dell’interesse culturale (Decreto
legislativo 42/2004, art. 13).
Capo III. Protezione e conservazione. Sezione I. Misure di protezione. Art. 28 Misure cautelari e
preventive
73
Chiara Guarnieri
interesse archeologico, anche quando per esse non siano ancora intervenute la verifica di cui
all’art. 125, comma 2 o la dichiarazione di cui all’articolo 136, il soprintendente può chiedere
l’esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree medesime a spese dei committenti”.
E’ di un certo interesse, nell’ottica dello svolgimento dell’argomento, evidenziare che: a)
l’intervento è possibile nel caso di lavori pubblici b) le aree devono comunque avere un
interesse archeologico, seppure non esplicitamente formalizzato.
In applicazione dell’art. 28, comma 4 del Codice dei Beni Culturali, all’interno del Decreto
legislativo 163/2006, conosciuto anche come Codice degli Appalti7, si trova esplicitato all’
art. 958 il concetto di verifica preventiva dell’interesse archeologico, mentre al successivo
art. 96 vengono descritte le fasi attraverso cui si concretizza la verifica stessa9. In questa
sede non ci si soffermerà sull’analisi di questi due articoli, per cui si rimanda all’intervento
di Luigi Malnati in questo stesso volume; si vuole però sottolineare come queste norme – in
quanto applicazione del citato art. 28 – siano riferibili unicamente agli appalti relativi a lavori
pubblici.
Per terminare il breve quadro della legislazione nazionale nel campo delle tutela
preventiva, si vuole menzionare un’ importante novità – che vedremo collegarsi strettamente
alla pianificazione territoriale di cui si parlerà in seguito (cfr. par.1.2)- che si è venuta a
concretizzare con l’integrazione al Codice effettuata nel 2006 dal decreto legislativo 15710.
Tra i beni paesaggistici di notevole interesse pubblico, grazie a questo decreto sono ora
contemplate anche le zone di interesse archeologico (cfr. art. 13611) che vengono quindi
ricomprese a pieno titolo nell’elaborazione del piano paesaggistico regionale. Oltre a ciò l’art.
14512 prevede espressamente che i Piani Paesaggistici prevedano“misure di coordinamento
con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con i piani, programmi e
progetti nazionali e regionali di sviluppo economico”.
5 Art. 12 Verifica dell’interesse culturale.Comma 2 I competenti organi del Ministero, d’ufficio
o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati
conoscitivi,verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico,archeologico o etnoantropologico
nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero
medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione.
6 Art. 13 Dichiarazione di interesse culturale.
7 La denominazione corretta è: Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in
attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE
8 Art. 95 Verifica preventiva dell’interesse archeologico in sede di progetto preliminare.
9 Art. 96 Procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico.
10
Decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo
22 gennaio 2004, n.42, in relazione al paesaggio.
11
Art. 136 Immobili ed aree di notevole interesse pubblico.Comma c) i complessi di cose immobili che
compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, ivi comprese le zone di
interesse archeologico.
12
Art. 145 Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione.
74
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
1.2 La pianificazione territoriale: il quadro legislativo regionale e provinciale
La legge n. 20 del 24 marzo 200013 della Regione Emilia Romagna ha comportato – anche
alla luce modifica del Titolo V della Costituzione, ed in particolare dell’art. 11714 – una
profonda innovazione nella disciplina di pianificazione, non solo tramite la realizzazione
di un nuovo strumento legislativo in campo urbanistico ma anche attraverso un rinnovato
sistema di concertazione15 che vede coinvolti tutti gli Enti che operano sul territorio, in nome
del concetto di sviluppo sostenibile. La Regione quindi, in base al disposto della legge 20,
attraverso il Piano Territoriale Regionale (PTR)16, delinea le strategie generali di sviluppo
del territorio in coerenza con le direttive nazionali ed europee; la Regione ha a sua volta
trasferito le deleghe in materia urbanistica alla Provincia17 che, tramite i Piani Territoriali di
Coordinamento Provinciale (PTCP), traccia le linee di sviluppo dei singoli territori provinciali,
esprimendosi sulla conformità dei Piani degli Enti Locali agli strumenti sovraordinati.
E’ al singolo Comune che spettano le funzioni di governo del territorio; compete quindi a
quest’ ultimo approfondire, specificare ed attuare i contenuti degli strumenti di pianificazione
sovraordinati. L’iter di elaborazione di un Piano Strutturale Comunale (PSC), che può essere
realizzato anche in forma consociata in base agli Accordi Territoriali, è piuttosto complesso
ed è distinto in varie fasi che coincidono con la creazione di una serie di documenti che
consentiranno di attuare in seguito gli specifici strumenti di pianificazione territoriale
(Fig. 1); in quest’ottica il primo passo è la realizzazione del Quadro Conoscitivo, seguito
dal Documento Preliminare e dalla Valutazione di Sostenibilità Ambientale e Territoriale
preliminare (VALSAT).
Fig. 1. Il Percorso del Piano Strutturale Comunale.
13
Legge regionale 20 /2000 Disciplina generale sulla tutela e l’uso del territorio.
Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 Modifiche al titolo V della parte seconda della
Costituzione.
15
Peraltro chiaramente espresso nel disposto dell’art. 15 legge 241/1990.
16
Per un approfondimento si rimanda a www.regione.emilia-romagna.it/wcm/ERMES/ Canali/
territorio/Piano
17
Già attuata con la legge regionale 6/1995.
14
75
Chiara Guarnieri
Il Quadro Conoscitivo18 è uno strumento estremamente importante poiché ha il compito
di descrivere organicamente il territorio interessato, valutandone lo stato e i processi
evolutivi che lo caratterizzano, costituendo il riferimento necessario per la definizione di
obiettivi e strategie di sviluppo; il Documento Preliminare fornisce indicazioni riguardo agli
obiettivi che si vogliono raggiungere con il PSC e le scelte strategiche che si intendono
percorrere, fornendo inoltre i limiti e le condizioni per lo sviluppo sostenibile del territorio;
infine la VALSAT ha il compito di valutare l’impatto sul territorio delle proposte politiche,
programmatorie e pianificatorie, con la realizzazione di scenari e la definizione di possibili
mitigazioni degli effetti negativi dovuti all’attuazione del Piano Strutturale. Solo dopo la
realizzazione di questi strumenti – che consentono quindi una lettura globale ed esaustiva del
territorio e un piano previsionale per il suo sviluppo futuro – inizia il processo di verifica e di
discussione che si attua attraverso lo strumento della conferenza di pianificazione in cui gli
Enti invitati, che hanno incidenza a vario titolo sul territorio, si confrontano e discutono gli
obiettivi e le scelte proposte. Si tratta di uno strumento innovativo nella costruzione del PSC
poiché è in questa sede che avviene l’integrazione delle diverse competenze, la condivisione
delle conoscenze, delle scelte e la ricerca di un accordo sugli obiettivi comuni.
A seguito della conferenza, anche in base ad eventuali accordi con la Provincia, vengono
definiti i tre strumenti in cui si articola il sistema di pianificazione comunale19; il primo è il
Piano Strutturale Comunale (PSC), che costituisce appunto la componente strutturale relativa
alle scelte strategiche di assetto, sviluppo e tutela20; per questo motivo le scelte espresse sono
dotate di stabilità temporale ed hanno validità indefinite. Le indicazioni del PSC diventano
attuabili attraverso i successivi piani operativi come il Regolamento Urbanistico Edilizio
(RUE)21 e il Piano Operativo Comunale (POC)22; Il RUE è uno strumento normativo che
regola le trasformazioni soggette ad un intervento edilizio diretto in ambiti consolidati e
nel territorio rurale ed ha validità a tempo indeterminato, mentre il POC disciplina le
trasformazioni del territorio, definisce l’attuazione delle nuove aree di urbanizzazione e delle
aree sottoposte a riqualificazione urbana ed ha validità 5 anni23.
18
L’art. 4 legge regionale 20/2000 ne descrive le tematiche essenziali, tra cui sono espressamente
elencati i valori paesaggistici, culturali e naturalistici.
19
Tali strumenti erano in precedenza incorporati nei Piani Regolatori Generali (PRG) disciplinati dalla
precedente legge regionale 47/78.
20
Il PSC definisce degli Ambiti territoriali caratterizzati da differenti politiche e disciplinati da
intervento diretto (art. 28 legge regionale 20/2000); pertanto è dotato di tavole e norme proprie. Il
Piano deve essere pubblicato per 60 giorni, tempo entro cui tutti possono fare osservazioni (cfr. art.
32 legge regionale 20/2000)
21
Art. 29 legge regionale 20/2000.
22
Art. 30 legge regionale 20/2000.
23
Anche nei casi del RUE e del POC vi sono 60 giorni di tempo dalla loro pubblicazioni per formulare
osservazioni in merito (cfr. artt. 33– 34 legge regionale20/2000).
76
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
1.3 La prassi operativa
Come si è visto, al momento non esiste ancora in Italia una legge che prenda in esame in
modo globale tutti gli aspetti dell’archeologia preventiva, a differenza di quanto accade ad
esempio in Francia24 ed in altri paesi europei25.
Per questo motivo, e ancora prima dell’emanazione del Codice nel 2004, la Soprintendenza
per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna aveva individuato nella legislazione nazionale
vigente vari strumenti che le consentivano un monitoraggio costante del territorio già in fase
di elaborazione dei progetti26. La norma relativa ai parcheggi pertinenziali (legge 122/1989)
ad esempio ha permesso negli anni passati di esercitare forme di controllo nei diversi centri
storici della regione; anche la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A)27 –
che impone l’indizione di una Conferenza dei Servizi28, istituto che consente a tutti gli Enti
invitati di esprimere pareri sulle singole opere in progetto – si è rivelata una sede utile per
richiedere, proprio in via cautelativa, l’esecuzione di sondaggi archeologici preliminari a
spese dell’Ente interessato all’esecuzione dell’opera, anche qualora i lavori non interessassero
direttamente beni culturali, così com’è invece attualmente previsto dall’art. 25 del decreto
legislativo 42/2004. In particolare questo articolo prevede appunto che, qualora si ricorra alla
conferenza dei servizi, per opere incidenti sui beni culturali l’autorizzazione necessaria debba
essere rilasciata dal competente organo del Ministero con dichiarazione motivata; in questo
caso è sottinteso che l’autorizzazione potrebbe essere rilasciata (o meno) – motivandone le
ragioni – anche a seguito di controlli archeologici preventivi. Risulta evidente alla luce di
quanto espresso – ricordiamo che l’art.28 del decreto legislativo 42/2004 è applicabile solo
ai lavori pubblici – che sfuggono alla tutela preventiva le trasformazioni territoriali effettuate
da singoli o da gruppi privati ma che costituiscono invece la maggior parte degli interventi
di scavo attualmente realizzati dalla Soprintendenza; quest’ultima ha quindi, come unico
24
La legge francese (n.707 del 1 agosto 2003) modifica, senza peraltro cambiare sostanzialmente il
concetto di archeologia preventiva, la precedente legge n.44 del 2001. Per una breve analisi del testo
francese, nella versione del 2001 si rimanda a GRASS 1998 e DEMOULE, SCHLANGER in questo
volume.
25
Per quanto riguarda il panorama europeo, di un certo interesse è la lettura del volume Report 1999
che illustra la situazione dell’archeologia preventiva europea con particolare riguardo all’archeologia
urbana: il panorama che si ricava dalla lettura di questo volume è estremamente variegato; si segnala
inoltre il convegno Cesena 2001 che porta alcuni esempi di tutela preventiva urbana in Europa.
26
Si veda a questo proposito il Convegno realizzato a Roma nel 2001: Archeologia 2004.
27
Legge regionale 9/1999 integrata con la legge regionale 35/2000, art. 1, comma 2: La valutazione di
impatto ambientale ha lo scopo di proteggere e migliorare la salute e la qualità della vita, mantenere
la varietà delle specie, conservare la capacità di riproduzione degli ecosistemi e garantire l’uso
plurimo delle risorse e lo sviluppo sostenibile. A tal fine …. sono valutati gli effetti diretti ed indiretti
……sul patrimonio culturale ed ambientale e sull’interazione tra detti fattori. La procedura riguarda
grandi opere pubbliche e private.
28
Legge 241/1990, art. 14, comma 3: la conferenza dei servizi può essere convocata anche per l’esame
contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime
attività o risultati.
77
Chiara Guarnieri
strumento per estendere il controllo anche a questi interventi, la legislazione territoriale degli
Enti locali29.
Dal punto di vista normativo30 la Soprintendenza, in quanto Amministrazione competente
per il rilascio di pareri, viene invitata alla Conferenza di Pianificazione per l’esame congiunto
del Quadro Conoscitivo e del Documento Preliminare, quindi in un momento in cui sono già
stati realizzati tutti gli studi conoscitivi e gettate le basi per la futura gestione del territorio;
in questa fase la Soprintendenza può chiedere che il Quadro Conoscitivo sia munito di uno
studio archeologico del territorio e di uno strumento di valutazione di potenziale archeologico.
Questa procedura va però incontro ad alcune difficoltà: qualora la Soprintendenza non avesse
mai affrontato in precedenza l’argomento della tutela preventiva con l’Amministrazione
proponente, risulterebbe infatti di una certa difficoltà condividere in quella sede gli obiettivi
della tutela, e con essi la necessità di adottare tale strumento nella programmazione
territoriale; a questo si aggiunge il breve lasso di tempo che intercorre tra la presentazione
del Quadro Conoscitivo e l’approvazione del PSC – troppo ridotto per la creazione di uno
studio approfondito sul potenziale archeologico – e la mancanza di finanziamenti, in quella
fase già per la maggior parte impegnati, tutti elementi che sarebbero da ostacolo per la
concretizzazione di questo nuovo strumento di tutela.
Accade quindi con sempre maggiore frequenza che le Amministrazioni interessate,
anche grazie all’opera di sensibilizzazione portata avanti dal singolo Funzionario di zona,
presentino il Quadro Conoscitivo già dotato sia dello studio archeologico vero e proprio e
talvolta anche della carta delle Potenzialità Archeologiche31. E’ comunque necessario che
tutti questi strumenti siano compiuti entri i termini dell’approvazione del Piano: è solo in
questo modo che la Carta delle Potenzialità diventerà un elemento costitutivo del PSC, e con
esso le norme che lo regolano32.
2. CARTA ARCHEOLOGICA, CARTA DEL POTENZIALE ARCHEOLOGICO:
DIFFERENZE, CRITERI DI REALIZZAZIONE ED ALCUNE ESEMPLIFICAZIONE IN
EMILIA ROMAGNA
2.1. Dalla Carta Archeologica alla Carta del Potenziale Archeologico
In questa sede si vuole brevemente accennare quali siano in passaggi necessari per giungere
alla realizzazione di una carta delle Potenzialità, rimandando alla bibliografia edita l’analisi
29
E’ per questo motivo che si è ritenuto utile richiamare l’iter e gli strumenti della pianificazione in
modo tale da rendere più chiara in che forma ed in quale fase possa inserirsi l’intervento dell’organo
statale.
30
Cfr. art. 32 legge regionale 20/2000.
31
La Carta delle Potenzialità può essere già presente nel Quadro conoscitivo, come ad esempio nel caso
di Ferrara: http://www.comune.fe.it/prg/preliminare/quadro oppure può essere realizzata in itinere
nel periodo che trascorre tra la discussione del Piano e la sua approvazione; a questo proposito si
rimanda al sito del comune di Faenza, capofila di un gruppo di comuni della valle del Senio e del
Lamone: htpp://www.comune.faenza.ra.it/psc2007.
32
Le norme applicative peraltro possono essere contenute anche all’interno del RUE e del POC.
78
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
approfondita della metodologia alla base dell’acquisizione e della formalizzazione dei dati33.
La cartografia di tipo archeologico che accompagna il Quadro Conoscitivo di un PSC consiste
in una Carta generale nella quale sono ubicati34, in modo indifferenziato, tutte le evidenze
archeologiche rinvenute e posizionabili con certezza; questa costituisce un vero e proprio
“catasto” dei dati archeologici conosciuti, reperiti attraverso la bibliografia, la consultazione
di archivi, le ricognizioni di superficie e tutte le altre fonti disponibili. Alla carta Archeologica si aggiungono una serie di Carte di Periodo35 che analizzano i siti archeologici secondo
una sequenza diacronica, evidenziando specifici tematismi (Figg. 2–4). L’insieme di queste
carte risulta essere il primo strumento di elaborazione dei dati che permette di delineare un
quadro completo di quanto conosciuto in un’area urbana o in un territorio ed utilizzabile in
seguito per la definizione delle potenzialità36.
Fig. 2. Riolo. Borgo Rivola. Carta del popolamento protostorico.
33
Sull’argomento si rimanda a Archeologia 2004, Carta Archeologica e pianificazione territoriale
1999, Archeologia senza scavo 1999, GELICHI 1999, GUARNIERI 2000, Cesena 2001, Rischio
Archeologico 2001, Carta Archeologica 2001, Archeologia e urbanistica 2002. Per la metodologia
utilizzata si rimanda nello specifico a GUARNIERI 2000.
34
Tutti i siti sono georeferenziati; pertanto non sono stati cartografati i dati privi di provenienze certe,
ma considerati nella più globale valutazione archeologica. Questa è una delle sostanziali differenze
con una carta archeologica di tipo tradizionale.
35
In genere sono realizzate secondo una scansione temporale che va dall’età Pre-protostorica a quella
Moderna, ma risultano comunque modellati sul territorio a cui si riferiscono; si veda ad esempio la
partizione cronologica utilizzata per Ferrara, che vede la scansione temporale basata sugli episodi che
hanno contraddistinto le fasi dell’espansione urbana (cfr. http://www.comune.fe.it/prg/preliminare/
quadro).
36
In realtà questo tipo di carte disegna i vuoti archeologici, se si pensa che la maggior parte delle
informazioni sono state desunte da scavi che hanno rimosso le strutture archeologiche.
79
Chiara Guarnieri
Fig. 3. Faenza, carta dei siti di età romana.
Fig. 4. Riolo. Territorio comunale. Carta dei siti di età romana (II a.C – II d.C.).
Per giungere però alla realizzazione di una Carta delle Potenzialità37 e quindi allo
strumento che permette la valutazione dei depositi archeologici potenzialmente ancora
37
Il termine Potenzialità è a mio avviso da preferire poiché racchiude in sé una propositività ed una
visione ottimistica della presenza archeologica, rispetto a al termine Rischio, che invece possiede un
connotato negativo, quasi vedesse la presenza dell’elemento archeologico come una cosa da evitare
o meglio ancora “da bonificare”.
80
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
esistenti, occorre attivare anche altri tipi di analisi; sulla base della cartografia di Periodo
possono ad esempio essere realizzate carte che individuino macroaree a funzioni omogenea,
la cui lettura diacronica consente di fornire una prima valutazione dello spessore (in
termini di sovrapposizione di frequentazione e quindi di pluristratificazione) (Fig. 5). La
realizzazione di carotaggi mirati nelle aree di maggiore interesse archeologico, associati
ai dati provenienti dagli scavi archeologici permette ad esempio di tracciare delle sezioni
urbane che individuino i piani di calpestio antichi, consentendo di desumere lo spessore
del deposito archeologico, dallo strato sterile al piano stradale attuale (Fig. 6). Questi dati,
a loro volta incrociati con altri elementi utili per una maggiore conoscenza del territorio
analizzato38, producono una cartografia complessa che restituisce, nel caso ad esempio di
una città, la sua sostanza pluristratificata sia in senso verticale (quindi di diacronia e spessore
dei livelli conservati) che orizzontale (l’estensione presunta delle aree) in una combinazione
e confronto tra valori quantitativi e qualitativi (Fig. 7). Si tratta di un processo estremamente
complesso, alla cui elaborazioni concorrono non solamente dati oggettivi ma deduttivi, cosa
che rende al momento impossibile la realizzazione di una cartografia di questo tipo solo
attraverso gli strumenti informatici.
Fig. 5. Faenza. Carta dei siti di età romana.
38
Come ad esempio i vuoti archeologici che costituiscono aree in cui è possibile d’edificazione o le
zone di verde che, soprattutto se storicizzate, al contrario spesso si rivelano serbatoi archeologici ben
conservati; a Ferrara ad esempio si è interpolato il dato archeologico con la profondità della falda
freatica, in modo tale da riuscire ad individuare i depositi archeologici più problematici dal punto di
vista dello scavo, ma maggiormente ricchi di dati paleobotanici e di strutture lignee. Sul territorio
sono inoltre fondamentali le ricognizioni di superficie, come è stato effettuato nel caso di Solarolo.
81
Chiara Guarnieri
Fig. 6. Faenza. Sezione Urbana
Fig. 7. Faenza. Carta delle aree a pontezianel archeologico differenziato
82
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
2.2. Dalla carta del Potenziale Archeologico alla zonizzazione di Piano
La carta di Potenzialità che sarà adottata all’interno del PSC dovrà essere, proprio perché
strumento di tutela, necessariamente più semplificata rispetto a quella prodotta per lo studio.
In ambito urbano i confini possono essere “tagliati” artificialmente sulle vie o entro i limiti
catastali, come nel caso di Faenza (Fig. 8), oppure suggeriti dallo stesso sviluppo urbano
come a Ferrara (Fig. 9). In scala territoriale risulta talvolta molto più difficoltoso fornire
dei confini precisi, seppure artificiali; d’altra parte il livello di indicazioni fornito dai soli
rinvenimenti puntiformi è poco indicativo dell’effettiva frequentazione del territorio. Nel
caso di Riolo (Fig. 10) si è quindi preferito fornire anche indicazioni generiche di macroaree,
come ad esempio i terrazzi fluviali – ricchi di testimonianze archeologiche- mentre nel caso
di Forlì la suddivisione degli areali di potenziale si è basata sulla presenza delle intense
frequentazioni di età preistorica nella fascia sud-ovest del territorio e sulle diverse fasi di
centuriazione nelle rimanenti altre aree. Per rendere immediatamente comprensibile a tutti
il valore del potenziale archeologico sepolto si è cercato di ridurre il variegato panorama
della stratificazione archeologica a tre livelli di potenziale: basso, medio ed alto. La finalità
è infatti di avere una cartografia semplificata, gestibile anche dagli Uffici tecnici comunali e
comprensibile dall’utenza.
Fig. 8. Faenza. Carta delle potenzialità archeologiche legata al PSC.
Le norme che regolano gli interventi edilizi nelle zone così variamente individuate saranno
poi specificate all’interno del PSC o nel RUE e nel POC, trattandosi di una scelta di gestione
e programmazione territoriale che spetta all’Ente locale; ogni comune quindi deciderà, in
83
Chiara Guarnieri
Fig. 9. Ferrara – Carta delle potenzialità archeologiche. Studio Preliminare.
Fig. 10. Riolo. Territorio Comunale. Carte dei vincoli e delle potenzialità archeologiche.
Studio preliminare.
accordo con la Soprintendenza, quali strategie adottare per la tutela preventiva dei beni
archeologici sepolti: si può andare da un generico obbligo di avvertire la Soprintendenza
84
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
in caso di lavori che riguardano gli interrrati – come nel caso faentino – ad un intervento di
scavo obbligatorio, come nel caso di Forlì39 (Fig. 11).
Fig. 11. Forlì. Carta delle potenzialità archeologiche legata al PSC.
2.3. La situazione regionale
La Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna ha attivato dal 1995 un
accordo con la Regione Emilia –Romagna/Istituto per i Beni Culturali e Naturali relativo alla
realizzazione di uno strumento per la tutela archeologica preventiva, denominato CART40,
applicato finora al territorio di Modena, alla città di Faenza, al territorio e al centro urbano di
Forlì e Bologna, oltre che alla provincia di Forlì-Cesena. Il suo carattere di sperimentazione
ne ha in parte delimitato la sfera di applicazione, legata invece ai tempi della politica della
gestione territoriale; per questo motivo, sulla spinta delle esigenze legate alle scadenze dei
vari PTCP e PSC, nel corso degli anni al novero delle carte menzionate se ne sono aggiunte
altre che per la maggior parte hanno utilizzato, elaborandolo e semplificandolo, l’ossatura di
39
In questo caso l’area urbana è stata suddivisa in tre zone a differente potenziale: Potenziale A=
Obbligo di sondaggio archeologico e parere della Soprintendenza, B= segnalazione ed eventuale
sondaggio preliminare C= eventuale controllo in corso d’opera.
40
Carta Archeologica del Rischio Territoriale. Per l’illustrazione del progetto si rimanda a
M.G.Guermandi in questo stesso volume.
85
Chiara Guarnieri
CART41. Al momento attuale in regione alcune aree risultano coperte da carte del Potenziale
legate ai PSC, già realizzate o in fase di adozione (in grigio scuro sulla cartina) oppure in fase
di studio (in grigio charo) (Fig. 12).
Fig. 12. La situazione delle carte del Potenziale in Emilia Romagna: in giallo sono indicate le zone in
cui la carta è in fase di studio, in verde quelle in fase di recepimento/applicazione.
3. CART E FORLÌ: UNA SPERIMENTAZIONE IN CORSO
Forlì ha attivato già dal 1997 una Carta delle Potenzialità inserita nel PSC, realizzata all’interno del progetto CART; questa elemento, unito alla stretta collaborazione esistente tra Soprintendenza ed Istituzioni locali nella gestione della tutela preventiva, ha suggerito di scegliere
questa città – all’interno del più ampio progetto EPOCH – come esempio campione attraverso cui studiare con maggiore puntualità le problematiche applicative delle procedure di tutela
preventiva, attuata attraverso lo strumento delle Carte del Potenziale archeologico. Non ci si
sofferma in questa sede né sugli aspetti operativi, per cui si rimanda all’intervento di Remo
Bitelli, né sulla storia e sull’evoluzione dei rapporti istituzionali, trattati in questa seda da
Luciana Prati. Preme invece sottolineare come una parte del lavoro fin qui svolto sia consistita
nell’analisi dei dati finora raccolti, con l’intento di rendere evidenti i“nodi” problematici
della gestione42 attualmente divisa per la parte comunale tra Ufficio Urbanistica/Museo
41
Purtroppo la percentuale di quelle pubblicate è molto bassa: vere e proprie carte archeologiche legate
ai PSC sono quelle relative a Cesena (Cesena: la memoria del passato 1999), Faenza (Progettare il
passato 2000), Riolo Terme (Archeologia nell’Appennino Romagnolo 2007), Cotignola (GUARNIERI
2006) rientrerà nel PSC associato della Bassa Romagna attualmente in fase di elaborazione; a queste
si aggiungano a diversi articoli su Forlì (PRATI 2001) e Forlimpopoli (NEGRELLI 2004). Modena –
per cui si rimanda da ultimo CARDARELLI, CATTANI et al. 2001 con bibliografia precedente – già
dal 1989 aveva inserito alcune norme a tutela del bene archeologico nel PRG .
42
Si vedano i grafici BITELLI in questo stesso volume.
86
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
Civico – che curano la fase istruttoria- e la Soprintendenza cui spetta la fase operativa vera
e propria, dai rapporti con la direzione lavori, alla conduzione della pratica amministrativa
e dello scavo.
Questa prassi procedurale, scaturita da una gestione che vede separate le singole
competenze in una formula sinergica, ha consentito di sperimentare una gestione condivisa
della pratica “archeologia preventiva”, al momento sotto esame e perfettibile di miglioramenti.
L’istituzione di uno Sportello Unico per l’edilizia, previsto nella normativa comunale,
speriamo possa consentire nel prossimo futuro un’ulteriore semplificazione nello svolgimento
della pratica da parte dell’utente. Un altro elemento che si vorrebbe sperimentare a Forlì è la
realizzazione di un programma open source in modo tale che sia l’utente stesso a verificare
on line la situazione dell’area in cui intende realizzare una nuova costruzione, in modo tale
da essere informato dei limiti imposti e delle condizioni richieste, per poi produrre un’unica
domanda allo Sportello Unico.
Il monitoraggio dei risultati degli interventi svolti su di un arco temporale di dieci anni
dall’ attivazione della Carta delle Potenzialità è di un certo interesse perché permette di
verificare alcune situazioni al fine di migliorarle; ad esempio i risultati che si ottengono dagli
scavi realizzati in aree a basso potenziale43 , anche quelli ad esito negativo, (cfr. Fig. 5 del
contributo di BITELLI in questo volume) hanno come scopo una “modellazione” più raffinata
del perimetro di questo areale44.
Un altro problema è legato all’aggiornamento dei dati; fino a questo momento è stato
possibile grazie i vari finanziamenti per implementare CART. Poiché a breve la ricerca si
concentrerà su altre tematiche e non sull’inserimento dei dati, occorrerà pensare un modo
semplice per recuperarli; a tale proposito è allo studio una scheda semplificata in Access da
consegnare agli archeologi in modo tale che possano registrare già a fine scavo i dati salienti
perché siano inseriti nell’elenco dei siti45; occorre comunque prevedere un aggiornamento
annuale o biennale per l’implementazione nella cartografia digitalizzata.
4. ASPETTI E PROBLEMI DELLA PRASSI OPERATIVA
Il quadro che emerge dalla lettura di quanto esposto evidenzia come la situazione dell’Emilia
Romagna, per una serie di fortunate coincidenze e per una maggiore sensibilità verso la tutela
del territorio da parte degli Enti locali, rappresenti una delle possibili esemplificazioni di
come si possa affrontare, con gli strumenti normativi attualmente a disposizione, il problema
della tutela preventiva46. L’esperienza applicativa di queste regole condivise, lunga più di
43
Ad esempio la zona più esterna dell’area urbana forlivese in cui l’intervento è a discrezione della
Soprintendenza si è dimostrata negli anni in effetti quella più avara di resti; pertanto gli interventi
in questa zona – che sono stati chiesti “a tappeto” nei primi anni della gestione comunale, potranno
essere maggiormente dosati in futuro.
44
I risultati confermano comunque che la perimetrazione di tale area era sostanzialmente corretta.
45
E’ chiaro che questa scheda dovrà eventualmente essere rivista alla luce dello studio dello scavo. Nel
caso esistano musei locali, come a Forlì, la scheda oltre che alla Soprintendenza, dovrà essere spedita
anche ai Musei Civici in modo tale che la pratica, anche dal punto di vista burocratico, sia chiusa.
46
Una breve panoramica della situazione in altre regioni dell’Italia settentrionale è in MALNATI
2001.
87
Chiara Guarnieri
un decennio47, ha insegnato che gli operatori del settore edilizio accettano in genere di buon
grado l’esistenza di norme, meglio se già codificate, anche se comportano un aggravio della
spesa globale per l’edificazione; questo accade forse perché – almeno in Emilia Romagna –
la Soprintendenza ha cercato di mediare tra le esigenze della tutela e della trasformazione
territoriale, non impedendola, ma guidandola.
E’ inutile però nascondere che in questo panorama dai connotati sostanzialmente positivi,
paradossalmente si evidenzino con maggiore forza i piccoli e grandi nodi ancora da risolvere:
questi possono essere sostanzialmente riassunti in due ordini di problemi, il primo – di tipo
maggiormente applicativo ed operativo – legato alla realizzazione e alla gestione delle Carte
di Potenziale, il secondo strettamente connesso ad aspetti normativi e procedurali generali e
alla fattispecie stessa del concetto di tutela preventiva.
Per quanto riguarda il primo punto – relativo alla realizzazione e alla gestione delle
Carte di Potenziale – si ritiene di fondamentale importanza l’adozione di modelli il più
possibilmente omogenei, cosa che potrebbe trovare attuazione attraverso una convenzione
tra Soprintendenza e Province per l’adozione di strumenti comuni48. Un altro problema è dato
dall’incremento esponenziale degli scavi generato dall’aumento dell’attenzione sul territorio,
che comporta come conseguenza un corrispondente aumento delle pratiche amministrative;
se nei comuni dotati di strutture ad hoc avviene una spartizione – almeno iniziale – del carico
di lavoro, il problema rimane insoluto a livello dei piccoli comuni, che forse potrebbero
prendere in considerazione l’ipotesi di condurre in modo associato, così come avviene per la
realizzazione dei PSC, anche la gestione delle pratiche che comportano la tutela archeologica,
per la parte che a loro pertiene. Appare evidente comunque che tutto questo lavoro, se
da un lato porta un notevole miglioramento della qualità della tutela dall’altro, dall’altro
comunque grava sul singolo funzionario statale, già oberato da incombenze burocratiche ed
amministrative ed in una struttura da anni in cronica carenza di personale.
Il secondo problema – o meglio la congerie di problemi che si sovrappongono influenzandosi
l’uno con l’altro- è invece legato ad aspetti normativi e procedurali generali e al concetto
stesso di tutela preventiva. La normativa statale esistente, come abbiamo visto, non consente
di applicare la tutela preventiva alle opere di interesse privato, che invece costituiscono la
maggior parte degli interventi di scavo realizzati dalla Soprintendenza; si verifica quindi il
paradosso che la tutela delle aree a potenziale archeologico in cui è previsto un intervento
a carattere pubblico è un compito demandato allo Stato, mentre la medesima cosa non è
contemplata qualora si tratti di un intervento a carattere privato: lo Stato quindi, se vuole
estendere la politica di prevenzione a tutte le opere che comportino scavi e sbancamenti, è
costretto a servirsi di strumenti legislativi propri dell’Ente locale. Questo modus operandi
nasconde in sé numerose debolezze procedurali, in parte già sottolineate in un intervento a
47
La carta delle Potenzialità Archeologiche a Faenza è stata adottata all’interno del PSC nel 1995 e a
Forlì nel 1997. Modena ha introdotto la carta archeologica urbana e del territorio all’interno del PSC
nel 1996, da poco riesaminato; si veda http://comune.modena.it/PRG-piano regolatore.
48
Il tentativo sarebbe di dare omogeneità alle diverse sperimentazioni realizzate in Regione, senza
peraltro togliere la libertà scientifica di approccio a questa tematica; anche la realizzazione degli studi
preliminari, come attualmente avviene, potrà essere affidata direttamente alla Soprintendenza o ad
altre istituzioni, come l’Università. L’importante sarebbe che il dato finale, e cioè lo strumento della
Carta di Potenziale all’interno del PSC, abbia caratteristiche cartografiche e normative simili per tutte
le Province.
88
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
firma dei Soprintendenti dell’Emilia Romagna e delle Marche nel Convegno tenutosi a Roma
nel 200149. Ci limiteremo in questa sede ad evidenziare i problemi più manifesti.
Per prima cosa le norme che disciplinano le procedure d’intervento sulle stratificazioni
sepolte non sono univoche; ad un alto potenziale può corrispondere solamente il vincolo di
avvisare la Soprintendenza – lasciando quindi tutto il problema di “convincere” gli interessati
della necessità di sondaggi archeologici all’Ente statale – oppure l’imposizione di procedere
con saggi esplorativi prima dell’accantieramento o ancora il divieto di realizzare escavazioni
in alcune aree. Tutti questi disparati atteggiamenti non corrispondono unicamente alla
valutazione della qualità della stratificazione archeologica ma anche (e soprattutto) a quanto
l’Ente locale vuole “esporsi” sul fronte della tutela. Questo accade appunto perché la potestà
legislativa sulle trasformazioni del territorio, anche in aree a potenziale archeologico, è
dell’Ente locale con cui la Soprintendenza di volta in volta “negozia” le norme di tutela,
che conseguentemente non sono mai univoche. Inoltre, in caso di norme “deboli”, che non
definiscano con chiarezza gli obblighi dell’utenza, talvolta può accadere che l’interesse della
tutela a quello dell’edificazione possano confliggere, con situazioni intricate anche dal punto
di vista giuridico.
La questione esposta, come in una sequenza di scatole cinesi, ne apre un’altra, legata
alla caratteristica stessa del bene archeologico sepolto e cioè l’impossibilità di dare la
certezza50, se non per approssimazione51, che i lavori in progetto siano portati a termine
nella loro integrità. Nei casi più felici i saggi di scavo vengono realizzati ancora prima della
redazione del progetto preliminare, che quindi viene condizionato dall’esito dei sondaggi
stessi; ciononostante, anche nel caso in cui si ritenga possibile la realizzazione dell’opera,
può accadere comunque che si scoprano strutture meritevoli di conservazione in situ. In
questo caso quindi la proprietà si trova a non potere più disporre liberamente dell’area o
più spesso è costretta a realizzare varianti di progetto onerose, tutto questo a fronte della
totale mancanza di sgravi fiscali relativi a spese realizzate per scavi archeologici52; l’unico
mezzo che – in occasione di rinvenimenti particolarmente importanti – consente attualmente
alla Soprintendenza di indennizzare la proprietà, anche se solo parzialmente, è l’istituto
del premio di rinvenimento53, che trova però in questa applicazione uno snaturamento del
suo disposto; il contenuto dell’articolo prevede infatti che sia corrisposto un premio allo
scopritore fortuito, non a chi ha realizzato uno scavo – oltretutto in aree in cui è accertata o
presunta l’ esistenza di strutture archeologiche – nel proprio interesse personale.
Può inoltre accadere che le stratificazioni che si stanno portando in luce siano meritevoli di
approfondimenti scientifici ma che si trovino ad una quota inferiore a quella utile al progetto;
in questo caso l’intervento dovrebbe essere proseguito in amministrazione diretta dalla
Soprintendenza che però da alcuni anni non ha più nei propri bilanci voci relative a scavi non
49
DE MARINIS, MALNATI 1998
Anche la carta delle Potenzialità più raffinata non potrà mai fornire la certezza della qualità della
conservazione del bene sepolto.
51
Lo scavo estensivo vero e proprio è in genere preceduto da sondaggi e talvolta da indagini non
invasive, che aiutano a valutare con maggiore precisione la fattibilità dell’opera.
52
Contemplando almeno lo sgravio per gli scavi che hanno condotto ad un parziale cambio del progetto
ed una forma risarcitoria qualora sia prevalente l’interesse pubblico e l’opera non possa essere
realizzata.
53
Decreto legislativo 42/2004, art. 92.
50
89
Chiara Guarnieri
programmati, elemento che permetteva di fare fronte a situazioni di questo tipo54; sarebbe
auspicabile che il Ministero prendesse atto della situazione con la creazione di capitoli di
spesa ad hoc per queste evenienze, separati dalla programmazione ordinaria, e destinati ad
interventi di scavo, conservazione e pubblicazioni dei complessi rinvenuti.
Molti altri sarebbero i problemi da evidenziare, troppi per lo spazio concessomi; dovendo
concludere occorre accennare ad un argomento molto importante, sul quale si è aperto da
alcuni anni un dibattito55: qual è il criterio con cui si scava o meglio che cosa e come si sceglie
(?) di scavare. Se si vuole ragionare in un’ottica a più ampio respiro, che coinvolga quindi
anche gli aspetti della ricerca e della metodologia di approccio allo scavo, si crede infatti che
gli interventi andrebbero attentamente valutati non solo seguendo” a traino” l’espansione o
la trasformazione edilizia, ma anche in un modo propositivo. In questa corsa, che talvolta
assume aspetti frenetici, non resta il tempo né da parte degli operatori – che passano da uno
scavo all’altro – né da parte dei funzionari di elaborare quanto si viene a scoprire56; senza
contare che il più delle volte la seconda parte del processo di scavo – non meno importante
– costituita dallo studio dei materiali (con tutto quanto questa operazione comporta), dalle
analisi e dalla pubblicazione, ha difficoltà a trovare chi la voglia finanziare, se non (talvolta)
in un ottica di futura valorizzazione.
Occorrerebbe anche definire i parametri minimi generali d’intervento, interrogarsi su che
cosa veramente si vuole preservare, avere chiari gli obiettivi, non solo di tutela ma anche di
ricerca, in modo tale da contemperare la conservazione del bene sia in una visione generale,
omogenea per tutti, ma anche tenendo in debito conto le peculiarità dei singoli territori; queste
decisioni sono al momento lasciate alle Soprintendenze se non ai soli funzionari, soggette
quindi a troppe variabili. Si sente necessaria una pausa di riflessione che spezzi questa corsa
crescente all’“erosione della storia” condotta in modo sempre più spregiudicato57, nell’ottica
di salvare almeno una parte del territorio sepolto (e non solo58) come serbatoio di memoria
per le generazioni future59.
54
Sebbene rimanesse scoperto il problema dell’indennizzo dei tempi utilizzati per l’esecuzione degli
scavi.
55
Sull’argomento si vedano i vari interventi contenuti in Cesena 2001 e Archeologia e urbanistica
2002 con bibliografia relativa.
56
In un mondo ideale si potrebbe pensare alla possibilità per i funzionari dello Stato di avere ciclicamente
un anno sabbatico durante il quale elaborare e pubblicare quanto portato in luce, come un vero e
proprio compito istituzionale e non come accade ora, a discapito delle proprie ore di riposo e sonno
e nella totale indifferenza del Ministero sulla qualità e quantità della loro produzione scientifica.
57
Complice il fatto che i Comuni traggono la maggior parte del loro sostentamento economico dagli
oneri di urbanizzazione e dall’ICI.
58
Al momento della stesura di questa nota (dicembre 2007) è in discussione la proposta della modifica di
alcuni articoli del Codice riguardanti la tutela del paesaggio, per giungere ad una maggiore chiarezza
sulla divisione dei poteri tra Stato ed Enti locali.
59
Raccomandazione peraltro espressa nell’art. 2 della Convenzione di Malta del 1992 relativa alla
Protezione del Patrimonio Archeologico.
90
Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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91
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92
FORLÌ – PROGETTO TUTELA DELLE POTENZIALITÀ
ARCHEOLOGICHE DEL TERRITORIO
Luciana Prati
Isituti Culturali del Comune di Forlì
Fin dal 1997, nell’ambito dell’attività tecnico progettuale relativa alla stesura del Master
Plan, per la redazione del nuovo Piano Regolatore Generale, affidato alla Società OIKOS
Ricerche sotto la direzione di Roberto Farina ed il cui iter approvativo, iniziato nel luglio
2000, si è concluso agli inizi del 2003, si è dato l’avvio alla elaborazione di una Carta del
potenziale archeologico del territorio forlivese, da recepire come strumento normativo.
Nel 1998 il Comune di Forlì ha sottoscritto con l’Istituto Beni Culturali e Naturali della
Regione Emilia Romagna e la Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna una
convenzione per la redazione di una Carta informatizzata del Rischio Archeologico della
città e del territorio, secondo il sistema CART; il coordinamento del gruppo di lavoro (A.
Antoniazzi, G. Brusi ed operatori della soc. La Fenice Archeologia e Restauro) era affidato
a M. P. Guermandi per l’Istituto Beni Culturali, C. Guarnieri per la Soprintendenza, L. Prati
per il Comune di Forlì.
Nel marzo 1999, la Soprintendenza Archeologica, in base agli esiti della ricerca,
individuava gli ambiti territoriali da sottoporre a livelli differenziati di tutela, ambiti poi
riportati nelle tavole TA/P della Variante Generale al PRG di Forlì.
Come specificato dall’art. 162 (Tutela della viabilità storica – Tutela delle potenzialità
archeologiche del territorio), commi 3 e 4 delle Norme Tecniche della Variante Generale
del PRG1 per il Centro Storico sono state definite tre zone a decrescente potenzialità
archeologica:
– A, di occupazione senza soluzione di continuità dall’epoca romana;
– B, suburbium di Forum Livi e area di espansione medievale;
– C, di occupazione medievale e postmedievale.
Anche per il territorio comunale le zone individuate sono tre:
– A e B, in cui sono conservate tracce delle varie centuriazioni che si sono sovrapposte
(centuriazione Ronco/Idice; centuriazione Foropopiliense; centuriazione basata sul
Dismano; centuriazione Savio/Santerno);
– C, che delimita gli areali interessati ad affioramenti relativi a frequentazioni e/o
strutture insediative di età preistorica.
In accordo con la Soprintendenza, dal settembre 2004 la richiesta di nulla osta ai lavori,
in adempimento alle norme dettate dall’art. 162 sopra citato, viene inoltrata al Servizio
Pinacoteca e Musei del Comune di Forlì, il cui Dirigente indica, entro 60 giorni dalla
richiesta, quali procedure seguire. In caso di scavo preventivo o in corso d’opera affidato a
1
www.comune.forli.fo.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=37130&idCat=36871&ID=20989.
93
Luciana Prati
ditte specializzate accreditate presso la Soprintendenza, la Direzione Lavori viene assunta
dalla Soprintendenza stessa.
Da tale data il Servizio ha esaminato circa 400 pratiche.
I risultati di questo work in progress, condotto con un significativo rapporto di
collaborazione con la Soprintendenza, sono di particolare rilevanza, in termini di conoscenza,
tutela e valorizzazione. Se i pavimenti di una domus o le tracce della Via Aemilia o un
sepolcreto sono più spettacolari, non meno importanti sono ad esempio gli elementi che
permettono di capire come fosse modellato il territorio nei periodi più antichi o dove gli
apporti alluvionali siano stati più imponenti. In qualche caso le strutture sono state asportate
e conservate ai fini di una futura musealizzazione a scopo didattico nel complesso museale
del San Domenico, destinato ad ospitare il museo archeologico forlivese.
Le modalità di tutela non hanno generato nei cittadini atteggiamenti negativi, ma una
maggiore consapevolezza della propria identità e della propria storia.
Infine, altrettanto significativo il rapporto con l’Istituto, nelle varie fasi dell’implementazione
dei dati, che hanno portato a verifiche ed approfondimenti e permesso anche l’effettuazione
di stage nell’ambito di percorsi formativi diversi (corsi di laurea, master).
BIBLIOGRAFIA
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archeologico:se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica
e tutela del territorio, Ferrara 24–25 marzo 2000, a cura di M. P. Guermandi, Firenze,
All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 211–214
M.Marini Calvani, Una CART a Forlì, in “Polis. Idee e cultura nelle città”, VII, 21, 2001.,
pp. 83–84
Il sottosuolo dei centri storici: quale futuro?, Giornata di studio, Forlì 22 giugno 2000, a cura
di M. Marini Calvani, in “Restauro”, 163, 2003, passim
M. Foschi, L. Prati, Urbanistica e prevenzione per i siti archeologici dell’Emilia Romagna.
L’esempio di Forlì, in Archeologia, città, paesaggio, Atti del convegno, Napoli-Paestum
16–17 dicembre 2005, a cura di R. A. Genovese, Napoli, Arte Tipografica Editrice, 2007,
pp. 347–348
94
GLI STANDARD NELL’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA
Andrea D’Andrea
Centro Interdipartimentale di Servizi di Archeologia –
Università degli Studi di Napoli L’Orientale
[email protected]
1. INTRODUZIONE
In ambito archeologico, come in altri domini scientifici, si riteneva fino a pochi anni fa che la
semplice diffusione di Internet avrebbe apportato un consistente miglioramento alle forme di
collaborazione scientifica a distanza, semplicemente consentendo lo scambio di ogni tipo di
risorsa (report, tabelle, schede, disegni, foto, mappe, etc).
Nonostante le premesse la diffusione di WebGIS, database on-line e portali tematici, non
sembra aver modificato profondamente la qualità e la quantitaà della cooperazione poiché
la situazione attuale è per lo più contraddistinta da una serie – anche eccessiva e caotica
– di risorse digitali disponibili in forma di sintesi, mentre i dati grezzi sono ancora diffusi
attraverso i canali della tradizionale e convenzionale pubblicazione cartacea.
L’attività di networking, cioè di lavoro cooperativo in Rete, non ha quindi portato i
vantaggi sperati. Si è infatti oramai compreso che la distribuzione on-line delle informazioni
non implica automaticamente la comprensione delle fonti digitali; non è sufficiente pubblicare
in Rete un database usando un linguaggio proprietario di tipo commerciale (ACCESS, File
Maker, Oracle, etc.) per garantire il riuso e l’accessibilità dei dati. L’assenza di indicazioni
sulle forme di codifica adoperate per normalizzare e strutturare la conoscenza, può determinare
confusioni (linguistiche, terminlogiche, semantiche) che rendono inutilizzabili i dati. Se la
pubblicazione degli archivi in Rete contribuisce – in teoria – a promuovere nuove forme
di partecipazione scientifica, un tale approccio non risulta sempre vantaggioso se l’utente
non dispone degli strumenti concettuali per comprendere la struttura formale – di frequente
implicita – adoperata per codificare i dati.
Per superare differenze di formato e di struttura che rendono particolarmente complesso
e spesso impossibile il riuso delle fonti e delle risorse disponibili on-line, è necessario un
alto livello di standardizzazione dei dati. Questo sembra essere l’obiettivo del web di terza
generazione la cui filosofia risponde prioritariamente a due criteri di base:
– il decentramento delle risorse, che enfatizza un approccio distributivo orientato alla
valorizzazione e alla specializzazione delle fonti locali a svantaggio degli accessi
centralizzati e basati sui portali tematici;
– l’interoperabilità tecnologica e semantica tra i contenuti culturali digitali.
In un contesto sempre più caratterizzato dall’integrazione e convergenza tra dati
archeologici, comunità scientifica e valorizzazione/fruizione dei beni culturali, si inserisce
il presente contributo finalizzato all’analisi delle possibili connessioni tra le pratiche
archeologiche previste in particolare dalla L. 109/2005, meglio conosciuta come la legge sull
95
Andrea D’Andrea
Verifica Preventiva dell’Impatto Archeologico, e lo scenario della fruizione semantica dei
contenuti digitali atteso dagli sviluppi futuri della Rete.
2. STANDARD PER LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA
Come è stato in precedenza segnalato per promuovere nuove forme di collaborazione e
cooperazione è necessario avviare una forte standardizzazione dei dati e degli oggetti culturali
digitali. Ma come si realizza questo processo? Cosa sono in realtà gli standard?
Riprendendo una definizione nata in ambito industriale, gli standard si definiscono come
mutui accordi che aiutano a controllare la coerenza di un’azione, di un processo lavorativo
e/o organizzativo all’interno di una comunità professionale su scala nazionale, internazionale
o globale.
Gli standard possono essere: de facto, perché sono seguiti per convenienza; o de jure,
cioè adoperati in virtù della capacità contrattuale di assicurare un qualche vantaggio sul piano
lavorativo o del processo industriale; conformarsi ad uno standard costituisce, in un numerose
circostanze lavorative, un prerequisito per poter accedere ad una attività professionale o ad
un mercato.
L’impiego degli standard comporta alcuni evidenti vantaggi:
– migliora la qualità e coerenza dell’informazione anche a livello locale;
– migliora la compatibilità delle strutture informative. Attraverso una struttura standard
di dati e vocabolari è possibile assicurare che le informazioni siano compatibili con
altri sistemi o classificazioni. Il risultato di questa standardizzazione è chiamato
interoperabilità; essa enfatizza l’accesso e la pratica, preservando un punto di vista
unico espresso con differenti standard;
– assicura una conservazione a lungo termine dei dati. Gli standard per la documentazione
hanno una origine precedente all’avvento dei computer e del web. Il fatto che si usino
standard di formato o descrizione per l’archiviazione di record garantisce che i dati,
che rappresentano una importante proprietà intellettuale, siano in futuro preservati per
nuove applicazioni.
– facilita lo scambio di informazioni.
In campo archeologico attualmente il concetto di standard abbraccia un ampio spettro
di significati: si va dalle good practices, che caratterizzano i processi adottati abitualmente
secondo una prassi teorico-pratica consolidata, agli standard tecnologici, condizionati dalle
scelte di mercato e dalle aziende produttrici, per giungere infine alle più semplici guidelines
che regolano le normali attività di scavo e documentazione delle indagini sul terreno2.
Il tentativo di normalizzare la documentazione ha determinato la creazione di numerosi
standard tra loro spesso alternativi sia a livello di modelli di formalizzazione delle informazioni
che di modalità di conservazione dei dati. Questa ampia produzione di standard è stata
causata dalla diversa localizzazione geografica degli interventi, che ha vincolato il processo
2
A. D’ANDREA, ‘Documentazione Archeologica, Standard e Trattamento Informatico’, Budapest,
2006.
96
Gli Standard nell’archeologia preventiva
di descrizione delle attività sul terreno alle direttive imposte dalle autorità locali, ma anche
per la profonda sensibilità ed esperienza degli archeologi che hanno modellato il sistema di
raccolta ed acquisizione delle informazioni ai propri obiettivi ed alla metodologia adottata.
La documentazione archeologica in sé stessa si configura come un processo di
standardizzazione che registra gli obiettivi e i contenuti della ricerca fino a comprendere la
metodologia di scavo e le regole utilizzate per la formalizzazione dei dati. Essa abbraccia
una serie di azioni (materiali ed immateriali) riferite ad attività tra loro differenti come la
pianificazione degli interventi, la loro valutazione fino al trattamento finale dell’informazione
archeologica e alla sua comunicazione. La natura ed il livello di documentazione sono
quindi influenzati da esigenze specifiche e circoscritte piuttosto che accordarsi a criteri unici
universalmente riconosciuti e condivisi.
Per contenere la naturale tendenza degli archeologi a “personalizzare” la documentazione,
sono stati rilasciati a livello nazionale numerosi standard descrittivi e tecnologici la cui
funzione è quella di costituire un riferimento anche per quei soggetti che finanziano i progetti
e i programmi di ricerca. Per l’Italia questa attività di coordinamento è stata svolta dall’Istituto
Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD)3 del MiBAC.
3. IL RUOLO DELL’ICCD NELLA DEFINIZIONE DEGLI STANDARD
CATALOGRAFICI
L’art. 13 del D.P.R. 3 dicembre 1975 definisce la competenza dell’ICCD nella raccolta,
elaborazione, conservazione e consultazione di tutte le informazioni relative ai beni
culturali.
Come evidenziato nel sito WEB dell’ICCD4 “Gli standard catalografici sono costituiti
dalle normative, da specifici strumenti di supporto e di controllo (vocabolari, liste di valori) e
da un insieme di regole e di indirizzi di metodo da seguire per l’acquisizione delle conoscenze
sui beni e per la produzione della documentazione che li riguarda, al fine di registrare i dati
secondo criteri omogenei e condivisi a livello nazionale”.
La funzione dell’ICCD nel campo della documentazione si è realizzata tramite la
progettazione e implementazione di apposite schede, la cui ampia tipologia è disponibile
on-line sul sito WEB dell’Istituto. Il modello di riferimento per lo scavo è stato pubblicato
nel 19845 (PARISE BADONI, RUGGERI GIOVE 1984); esso si riferisce ad un numero limitato
di schede: Saggio Stratigrafico (SAS), Unità Stratigrafica (US), Ritrovamento Archeologico
(RA), Unità Stratigrafica di Rivestimento (USR), Resti PaleoAntropologici e Monumenti
Archeologici (MA).
Nel corso della sua attività l’ICCD ha realizzato alcuni software per la catalogazione del
patrimonio archeologico (SAXA e DESC). Tuttavia, considerato che alcune Soprintendenze
hanno adottato programmi differenti da quelli ufficiali, l’ICCD ha in seguito implementato i
software MERCURIO e APOLLO con l’obiettivo di verificare la compatibilità degli archivi
con la struttura dello standard ICCD (dimensione, obbligatorietà dei campi, sequenza dei
codici, etc.). Inoltre, per garantire l’omogeneità dei dati e la correttezza del processo stesso di
3
4
5
www.iccd.beniculturali.it.
www.iccd.beniculturali.it/Catalogazione/standard-catalografici.
F. PARISE BADONI F., M. RUGGERI GIOVE M. (Eds.) Norme per la redazione della scheda del saggio
stratigrafico, Roma, 1984.
97
Andrea D’Andrea
catalogazione è stato messo a punto dall’ICCD il SIGEC (Sistema Informativo Generale del
Catalogo)6, il cui popolamento è stato di recente avviato nel quadro del programma ARTPAST7
(Applicazione informatica in Rete per la Tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale
nelle aree Sottoutilizzate).
Allo scopo di estendere e rendere più flessibili le operazioni di ricerca sui dati, l’ICCD, ha
realizzato nel 2007, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il mapping dei metadati
tra le schede ICCD e PICO Application Profile8 che costituisce un particolare adattamento
dello standard DublinCore9. Per un utente con medie capacità informatiche può risultare
vantaggioso disporre di un unico accesso integrato che unifichi le risorse distribuite; attraverso
il protocollo OAI-PMH (Open Archive Initiative – Protocol for Metadata harvesting)10
l’archivio ICCD conforme allo standard Dublin Core potrà essere interrogato sfruttando una
semplice interfaccia.
Il nuovo spazio europeo della ricerca sta favorendo l’adozione di scelte innovative, come
quelle del PICO, che possano assicurare l’integrazione e l’interoperabilità delle risorse.
A livello più generale il MIBAC partecipa da alcuni anni a due significativi programmi
comunitari che hanno l’obiettivo di armonizzare le procedure italiane con quelle comunitarie
nel settore della creazione di linee guida per le biblioteche digitali e nell’ambito dello
scambio automatico di oggetti culturali digitali disponibili in sistemi eterogenei. Entrambi i
progetti (Michael11 e Minerva12) hanno l’intento di sperimentare forme di interoperabilità tra
gli archivi partendo dalla definizione di standard comuni e soprattutto best practices per la
digitalizzazione delle risorse finalizzate all’accessibilità e al riuso delle fonti in Rete relative
al patrimonio culturale europeo.
4. GLI STANDARD E LA DOCUMENTAZIONE NEL PANORAMA LEGISLATIVO
ITALIANO
Mentre si osserva una tendenza diretta alla creazione di ambiti di accesso integrato per superare
la sfere delle singole competenze specialistiche (archivistiche, museali, archeologiche, etc.),
la nostra recente legislazione sui beni culturali ed archeologici sembra restare indifferente a
questi processi di integrazione almeno per quanto riguarda la rappresentazione digitale degli
oggetti di rilevanza archeologica.
Questo sembra infatti il quadro che emerge – da una lettura veloce e in parte provocatoria
– del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22 Gennaio 2004, n.
42) e della Legge sulla Verifica Preventiva sull’Interesse Archeologico (L. 22 Giugno 2005,
n. 109 – Art. 2/ter e segg. ricompresa agli artt. 95 e 96 nel D.Lgs.vo 163/2006); entrambe
6
Nell’Agosto del 2007 è stata aggiudicata la gara per la realizzazione del “SIGEC Web –
reingegnerizzazione del Sistema Informativo GEnerale del Catalogo” e pertanto, entro breve tempo,
i dati dell’ICCD saranno disponibili su piattaforma web-based.
7
www.artpast.org. Il progetto è stato varato nel 2005 dalla Direzione Generale per l’Innovazione
Tecnologica e la Promozione del MiBAC.
8
80.205.162.235/Catalogazione/standard-catalografici/metadati/metadati.
9
dublincore.org.
10
www.openarchives.org/OAI/openarchivesprotocol.html.
11
www.michael-culture.org/it/home.
12
www.minervaeurope.org.
98
Gli Standard nell’archeologia preventiva
le normative non prescrivono nulla in termini di accessibilità delle risorse rinviando,
evidentemente, ad altri strumenti questo tipo di attività.
Nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio il solo riferimento alla documentazione è
contenuto all’art. 18 (“Promozione di Attività di Studio e Ricerca”) che prevede, al comma
2, la possibilità di “stipulare accordi per istituire, a livello regionale o interregionale, centri
permanenti di studio e documentazione del patrimonio culturale, prevedendo il concorso
delle università e di altri soggetti pubblici e privati”. Il richiamo alla partecipazione delle
Università o di altri soggetti pubblici (CNR?) e privati (aziende?) per la costituzione di
centri comuni per lo studio e la documentazione rappresenta tuttavia un ulteriore elemento di
frammentazione della conoscenza, piuttosto che di normalizzazione, poiché ogni Università
o Istituto CNR ha prodotto in questi ultimi anni un suo proprio sistema di registrazione e
descrizione dei dati archeologici spesso in alternativa a quello proposto dal MiBAC.
Un riferimento ad una forma di concertazione settoriale tra le parti si ritrova anche
nella Legge 109/2005 che prevede, tra l’altro, una collaborazione tra Direzione Regionale e
Stazione Appaltante per la definizione della documentazione da acquisire anche “mediante
la informatizzazione dei dati raccolti”; l’intesa può comprendere anche la produzione di
“ricostruzioni virtuali volte alla comprensione funzionale dei complessi antichi”. Per la
prima volta, in una normativa che ha l’obiettivo di regolamentare gli interventi in materia di
appalti pubblici, si introduce una disciplina “concertata” sulle forme della documentazione
da raccogliere nel corso delle indagini sul campo.
Il Consiglio di Stato, con il parere 1038/2006 del 13 marzo 2006, ha bloccato l’attuazione
della normativa evidenziando le difficoltà nella individuazione dei soggetti autorizzati alla
sua applicazione (comma 2 dell’art. 2 ter). Secondo Palazzo Spada gli archeologi idonei ad
eseguire il controllo dell’interesse preventivo devono appartenere ad un “ordine professionale
di fatto“, che non può essere disciplinato da un semplice regolamento del MiBAC, essendo
soltanto il Ministero di Giustizia competente in materia di professioni e albi.
Con lo stop imposto dal Consiglio di Stato, l’archeologia preventiva resta in una certa
misura inattuata ad eccezione di quelle parti dove il procedimento è già operativo tramite
richieste di scavi e studi prima della progettazione preliminare (vedi contributi di S. De Caro,
L. Malnati e C. Guarnieri in questo stesso volume).
Forse il rallentamento, determinato dal parere negativo formulato dai Giudici, potrà
favorire l’avvio di una nuova e più approfondita discussione su quella parte della norma che
conferisce ai Direttori Regionali una esplicita competenza sulle forme di documentazione da
adottare nelle indagini preventive.
Sarebbe, infatti, illogico nonché inefficace che, mentre il MiBAC è impegnato – ad
esempio nei progetti già menzionati Minerva e Michal – nella promozione di linee guida
per la creazione di contenuti culturali digitali nel quadro di un allargamento europeo della
ricerca13, le strutture periferiche siano invece mosse da interessi particolari e parziali imposti
dalle indagini sul terreno e non siano in grado definire direttive e raccomandazione utili per
una informatizzazione e successiva integrazione degli archivi. Inoltre, se la conferenza di
servizi potrà disciplinare forme di documentazione anche diverse da quelle standard, non
13
Si veda ad esempio: G. De Francesco (a cura di), “Linee Guida Tecniche per i programmi di creazione
di contenuti culturali digitali”, Edizione Italiana 2.0, 2006 www.minervaeurope.org/ publications/
Linee_%20guida_%20tecniche.pdf
99
Andrea D’Andrea
appare chiaro il ruolo che l’ICCD continuerà ad avere nel coordinare la catalogazione e
l’inventariazione del patrimonio archeologico.
La mancanza di qualsiasi riferimento alla congruità della documentazione agli standard
ministeriali di tipo descrittivo rende la norma sulla Verifica Preventiva sull’Interesse
Archeologico incompleta, lasciando all’esperienza degli attori coinvolti e dei responsabili
periferici del Ministero l’adozione di linee guida e raccomandazione per la futura accessibilità
e integrazione delle risorse anche mediante canali digitali.
Si potrebbe obiettare che la standardizzazione delle risorse archeologiche digitali, non
debba necessariamente rientrare in un disposto normativo finalizzato alla gestione degli
appalti publici. Eppure proprio il richiamo alla informatizzazione, nonché alla creazione di
ricostruzioni virtuali, rende particolarmente stringente l’opportunità di definire e individuare
un corretto approccio metodologico destinato alla “standardizzazione” dei dati acquisiti. Non
sembra che tale vuoto possa essere colmato dalle linee-guida procedurali previste al comma
6 dell’art. 96 del D.Lgs.vo 163/2006, a cura del MiBAC di concerto con il Ministero delle
Infrastrutture.
L’intensa e continua attività di analisi, progettazione e gestione delle risorse archeologiche
digitali realizzata dall’ICCD e dal MiBAC rende, quindi, di difficile attuazione la Legge
sull’Indagine Preventiva dell’Interesse Archeologico in quella parte in cui assegna la
responsabilità della documentazione/raccolta dei dati ad una conferenza di servizi tra
Direzione Regionale e Amministrazione Appaltante senza fornire alcun esplicito riferimento
alla relazione/integrazione con i programmi e gli standard di documentazione esistenti.
Ma allora in che direzione può muovere la concertazione definita dalla L. 109/2005 e lo
stesso regolamento previsto dal comma 6 dell’art.96 del D.Lgs.vo 163/2006?
In questa sede non è possibile esaminare tutte le conseguenze derivanti dall’applicazione
della norma, ma non si può non cogliere immediatamente come gli accordi previsti dal comma
7 dell’art. 2-quater possano anche produrre soluzioni che non rispettino criteri minimi di
uniformità, omogeneità e standardizzazione dei dati, compromettendo in tal modo il futuro
accesso ai dati.
L’assenza di riferimenti ad un quadro condiviso di regole e procedure rende, senza dubbio,
l’adozione della norma un processo pericoloso poiché la sua applicazione verrebbe lasciata
alla sola sensibilità degli archeologi coinvolti. Paradosssalmente un’indagine realizzata
in un’area di confine, amministrativamente governata da Enti Regionali diversi e quindi
sottoposta alla competenza di numerosi Direttori Regionali e Soprintendenti Territoriali,
potrebbe produrre documentazioni distinte per ciascuna regione con evidenti ripercussioni
sulle forme di indagine e raccolta dati, nonché sulla conservazione e tenuta degli archivi
digitali.
5. STANDARD PROFESSIONALI PER L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA
Nella norma sull’Interesse Archeologico, come nel Codice sui Beni Culturali, nessun accenno
è fatto a quegli standard professionali che gli archeologi dovrebbero possedere per realizzare
gli interventi sul terreno. Sebbene l’introduzione della figura dell’archeologo, come soggetto
singolo o ricompreso in un dipartimento universitario, costituisca una novità rispetto alla
precedente L. 109/94 ed al successivo D.lgs.vo 190/2002, l’accreditamento professionale
100
Gli Standard nell’archeologia preventiva
è limitato al semplice requisito del “diploma di laurea e specializzazione in archeologia o
di dottorato di ricerca in archeologia”. Storici dell’arte, antiquari o archeologi sarebbero
tutti ugualmente qualificati a validare i progetti preliminari. Nessuna particolare formazione
viene richiesta, né si prevede il possesso di requisiti speciali per l’esecuzione di indagini sul
terreno, e per la raccolta della documentazione. Considerando i percorsi didattici previsti dai
recenti ordinamenti (D.M. 509/99 e successive modifiche) l’archeologia, soprattutto nella
sua componente di archeografia, rappresenta una disciplina che, ad eccezione di poche realtà,
risulta poco approfondita sul piano metodologico a vantaggio invece di robusti insegnamenti
di storia e storia dell’arte (greca, romana, classica, etc.).
L’assenza di un quadro formativo di tipo specialistico (universitario e post-universitario)
che separi nettamente gli archeologi dagli storici dell’arte, costituisce un reale ostacolo
alla diffusione di una precisa qualificazione professionale. La figura dell’archeologo come
contractor professionista stenta a decollare nel nostro paese e ci si augura che, da questo
punto di vista, la legge sulla Verifica Preventiva dell’Interesse Archeologico possa favorire la
costruzione di un albo professionale nazionale degli archeologi.
Purtroppo in Italia, a differenza di quanto accaduto in altri paesi europei, non si è ancora
realizzato quel passaggio da una archeologia accademica di sapore romantico (stretta tra
Università e Soprintendenza) ad una archeologia professionale ad alto contenuto specialistico
che, a sua volta, potrebbe favorire l’introduzione di importanti novità nel sistema formativo
nazionale.
In Francia proprio sotto la spinta della Archeologia Preventiva è stato creato nel 2002
l’Inrap (Institut National de Recherches Archéologiques Préventives). Come si può leggere
sulla mission presentata sul loro sito WEB14 “L’institut assure la détection et l’étude du
patrimoine archéologique touché par les travaux d’aménagement du territoire. Il exploite et
diffuse l’information auprès de la communauté scientifique et concourt à l’enseignement, la
diffusion culturelle et la valorisation de l’archéologie auprès du public. Sa création traduit
l’importance prise, depuis les années 1970, par la recherche archéologique en France et
témoigne de la volonté de l’État de soutenir l’exercice de cette mission de service public
d’intérêt général”. Finanziato dalle amministrazioni pubbliche o private appaltanti e posto
sotto la tutela del Ministero della Cultura e della Comunicazione e della Ricerca Francese,
l’INRAP raccoglie circa il 50% degli archeologi professionali operanti sul campo. Le sue
funzioni sul territorio si realizzano in forma di attribuzione di incarichi relativi alla diagnostica
preventiva o allo scavo archeologico e si concludono con un parere sottoposto all’autorità
regionale. Sebbene non via siano suggerimenti o prescrizioni in termini di adozione di
procedure standard per la documentazione delle emergenze archeologiche, la competenza
dell’INRAP su tutte le opere di progettazione preliminare e scavo assicura una uniformità di
sistemi e metodi di esplorazione, descrizione e classificazione delle evidenze antiche. Inoltre,
l’appartenza all’istituto conferisce agli archeologi sul campo una qualificazione professionale
che nel caso della L.109/2005 non viene riconosciuta, limitando quest’ultima alla conferenza
dei servizi la scelta delle procedure per le indagini sul terreno e le forme della descrizione e
documentazione anche in termini di modelli ricostruttivi e tridimensionali.
Differente è la situazione nel Regno Unito dove l’introduzione di una normativa
sull’Interesse Archeologico Preventivo ha prodotto un significativo incremento dei dati
14
www.inrap.fr
101
Andrea D’Andrea
archeologici; l’aumento della documentazione raccolta nel corso delle esplorazioni è stata
accompagnata dallo sviluppo di misure per la standardizzazione delle informazioni e la
loro accessibilità. Spectrum15 e MIDAS16 forniscono ad esempio linee guida procedurali e
descrittive che assicurano l’integrazione delle risorse digitali. La consultazione on-line degli
archivi è garantita da semplici infrastrutture concettuali e fisiche, come i portali tematici
Heirnet (Historic Environment Information Resources Network)17 e Heirportal (Historic
Environment Information Resources Portal)18, che consentono un accesso integrato alle
informazioni catalogate.
L’introduzione degli standard nelle procedure di descrizione e inventariazione del
patrimonio archeologico è stata influenzata nel Regno Unito dal rapido sviluppo di una
archeologia sul campo di tipo professionale. Alcune organizzazioni di categoria forniscono ai
propri associati un codice di condotta per la raccolta e standardizzazione della documentazione
acquisita nel corso delle esplorazioni sul terreno. L’IFA (Institut of Field Archaeologists)
oltre a dare consulenza per la legislazione sulla materia, è impegnato a definire standard
professionali per la realizzazione delle attività sul campo e a promuovere lo sviluppo di
linee guida a quanti operano sul terreno. Un codice di condotta deontologico per gli
archeologi impegnati in lavori archeologici a contratto contraddistingue anche gli associati
dell’organizzazione EAA (European Association of Archeologists); si tratta di un elenco di
principi di carattere generale tra i quali spicca all’art.7 l’adesione agli standard professionali
riconosciuti per il lavoro archeologico.
La posizione dell’archeologo da campo è, nel nostro paese, ancora quella del “tecnico”
alle dipendenze dell’Università (nel migliore dei casi) o della Soprintendenza senza una reale
autonomia professionale; la condizione lavorativa si aggrava se si pensa che la pubblicazione
dei dati o la diffusione dei risultati resta di competenza esclusiva del responsabile scientifico
dello scavo. La nostra legislazione sembra in definitiva restringere tutti i poteri agli organi
periferici del Ministero, alla competenza delle Amministrazioni Appaltanti e alla disponibilità
di adeguate risorse economiche e finanziarie riservate spesso per sostenere soltanto alcune
scoperte archeologiche sensazionali a svantaggio di una cura sistematica nella raccolta di tutte
le fonti archeologiche. Gli stessi standard, rilasciati in questi anni dall’ICCD, si riferiscono
esclusivamente alla catalogazione dei beni e nulla definiscono in termini di standard di
procedure e/o professionali.
6. RICOSTRUZIONI VIRTUALI E COMUNICAZIONE PER L’ARCHEOLOGIA
PREVENTIVA
Un’altra novità introdotta dalla normativa sull’Interesse Archeologico riguarda la possibilità
di integrare la documentazione archeologica con la creazione di ricostruzioni virtuali per
favorire la conoscenza, nonché la fruizione dei contesti esplorati; si tratta senza dubbio
di un aspetto innovativo derivato dai principi generali del Codice sui Beni Culturali sulla
valorizzazione e fruizione dei beni culturali ed archeologici di proprietà pubblica e/o
privata.
15
www.mda.org.uk/spectrum.htm
www.english-heritage.org.uk/midas
17
www.britarch.ac.uk/HEIRNET/index.html.
18
ads.ahds.ac.uk/cfm/heirport2/.
16
102
Gli Standard nell’archeologia preventiva
La facoltà di completare la documentazione archeologica con modelli tridimensionali,
pone due immediati interrogativi: il primo è relativo al contenuto della riproduzione digitale;
il secondo concerne, invece, quale sia la competenza migliore per realizzare questa attività.
Nel primo caso, l’interrogativo riguarda soprattutto l’analisi e la valutazione delle
ricostruzioni virtuali, un tema su cui si è sviluppato di recente un ampio didattito che ha
portato alla redazione di alcune linee guida, come quelle ad esempio contenute nella
LondonCharter19; al fine di sottolineare come qualsiasi ricostruzione abbia un contenuto
soggettivo nella interpretazione dei resti archeologici e soprattutto un approccio arbitrario
nella scelta del software, degli algoritmi, nonché nella modalità di ricostruzione dei modelli
(texture, luci, ambiente, dinamismo, staticità, etc.), il documento stabilisce al punto 5 che
“The process and outcomes of 3d visualisation creation should be sufficiently documented to
enable the creation of accurate transparency records, potential reuse of the research conducted
and its outcomes in new contexts, enhanced resource discovery and access, and to promote
understanding beyond the original subject community”. Non è quindi necessario scegliere
tra un modello sfavillante e forse più comprensibile, o tra una ricostruzione filologicamente
corretta, magari con molti dubbi; l’importante è garantire la trasparenza delle procedure
selezionate con il risultato di consentire una analisi reale del modello e delle sue finalità.
Nella LondonCharter il ricorso agli standard si configura come un richiamo metodologico
finalizzato ad evidenziare il procedimento metodologico e tecnico seguito piuttosto che la
sola rappresentazione/descrizione accurata dell’oggetto tridimensionale. Sull’argomento
esiste una ricchissima bibliografia, anche recente, sia di tipo tecnico che procedurale che
analizza le forme e i contenuti degli ambienti di archeologia virtuale. Occorre lasciare traccia
di ciò che è stato realizzato, in termini di acquisizione e modellazione, al fine di consentire
quella “riproducibilità” dell’esperimento che invece penalizza tutti gli altri ambiti di ricerca
archeologica, primo tra tutti lo scavo.
Per quanto riguarda, invece, l’interrogativo su quale sia la competenza migliore, la
discussione non può che tornare al quesito della professionalità degli archeologi, la loro
formazione e l’adeguamento delle strutture universitarie italiane all’evoluzione della
disciplina.
Per alcuni ricercatori un modello virtuale può essere realizzato soltanto da specialisti
ingegneri, architetti, informatici, la cui preparazione professionale apporta evidentemente
vantaggi alla sola costruzione dell’aspetto tecnico/estetico della riproduzione tridimensionale
a svantaggio del contenuto scientifico e del rigore filologico; considerato che ogni processo di
informatizzazione richiede una scelta tra possibili soluzioni alternative, solo un archeologo con
particolari esperienze è in grado di coordinare il lavoro degli specialisti. D’altra parte qualsiasi
processo ricostruttivo ha origine dai dati (digitali e non) che l’archeologo stesso ha acquisito
sul campo con metodologie ed obiettivi differenti. Allora, poiché qualsiasi attività non è
neutrale, dalla scelta del modello dati, agli standard, dal software alle variabili da evidenziare,
occorre sempre definire con esattezza quale percorso metologico e di implementazione sia
stato seguito, evidenziando limiti e potenzialità; in tal modo l’archeologo non organizza il
lavoro degli altri, ma è egli stesso responsabile e protagonista del modello che ricostruisce:
dalla selezione iniziale delle tecnologie adoperate per l’acquisizione dei dati digitali (stazione
19
/www.londoncharter.org.
103
Andrea D’Andrea
laser, GPS, Laser Scanner, Luce Strutturata, etc.) alla scelta dei formati aperti (X3D) o chiusi
(COLLADA), al software proprietario o open-source fino alla ricostruzione completa.
La figura dell’archeologo computazionale potrà dunque assumere un ruolo maggiore
nell’ambito della gestione e fruizione del patrimonio archeologico. Ma la normativa
sull’impatto – quando applicata – spingerà verso la valorizzazione di questo particolare
profilo professionale o, ancora una volta, l’informatizzazione sarà un terreno per un nuovo
colonialismo tecnologico da parte degli ingegneri, degli informatici e degli architetti come
già accaduto nel passato?
Un segnale, che sembra andare in una direzione che valorizza l’apporto di archeologi,
restauratori, etc., è dato dalla recente istituzione da parte del MiBAC di un working group sulle
problematiche degli standard nel 3D nell’ambito del progetto MinervaEC WP4 “European
Cultural Content Interoperability Framework”. Ci si augura che i risultati possano fornire
importanti indicazioni e best-pratices allo sviluppo di un settore che negli ultimi anni ha
conosciuto una rapida e spesso incontrollata esplosione20.
7. CONCLUSIONI
Qualche anno fa R. Francovich21 (1999) aveva segnalato come l’adeguamento del
nostro sistema alle esperienze europee potesse essere realizzato soltanto rimuovendo
quell’atteggiamento comportamentale di conservatorismo culturale che nel nostro paese
rifiuta la tecnologia.
Oggi possiamo dire, a quasi un decennio di distanza, che quell’atteggiamento
comportamentale” di negazione del ruolo dell’informatica in archeologia si mantiene inalterato
e, anzi, si proietta sul piano più generale sulla formazione prima e sulla normativa poi. In
Italia manca sia una esperienza pubblica come l’INRAP, sia una tradizione di archeologia
professionale sul campo come nel Regno Unito.
L’assenza di standard professionali, tecnici e descrittivi anima in sintesi il quadro di
riferimento della L.109/2005 che affida tutto il processo decisionale ai soli Direttori Regionali
in collaborazione con i Soprintendenti Territoriali e le Amministrazioni Appaltanti.
Un numero elevato e praticamente fuori controllo di modelli di documentazione (regionali,
locali) renderebbe costosto – e in alcuni casi inaffidabile – qualsiasi forma di interoperabilità
tra gli archivi.
Al contrario, l’uso di standard potrebbe a garantire una più ampia accessibilità e riuso di
fonti digitali contribuendo in modo significativo anche alla promozione di servizi nazionali e
europei basati sulle reti di telecomunicazione. Lo stesso processo di sviluppo degli standard
offrirebbe una base metodologica per la definizione di best practices.
L’adozione di standard riconosciuti (nazionali, internazionali) si pone, dunque, come l’unica
traiettoria e soluzione possibile per evitare confusioni professionali e terminologiche.
Eppure il termine standard intimidisce ancora oggi gli archeologi che vedono in esso
una sorta di rigidità che limita la capacità descrittiva dei ricercatori, i quali avrebbero invece
20
21
www.minervaeurope.org/structure/wg/eccif.htm
FRANCOVICH R. 1999, ‘Archeologia medievale ed informatica: dieci anni dopo’, in Archeologia e
Calcolatori, 10, pp. 45–61.
104
Gli Standard nell’archeologia preventiva
bisogno di un vocabolario, una terminologia ed un lessico molto flessibili e permeabili ai
differenti contesti da esaminare.
Standard ed accessibilità degli archivi sono dunque le parole chiave su cui dovrà
confrontarsi il futuro dell’archeologia: allargamento della comunità scientifica e superamento
delle barriere locali e regionali saranno due indispensabili requisiti per una dimensione
veramente internazionale della ricerca.
La collaborazione istituzionale tra gli enti proposti alla salvaguardia e tutela del patrimonio
archeologico, nella definizione e sviluppo di comuni standard e linee-guida, assumerà in
questo processo un ruolo strategico; soltanto attraverso il contributo di enti sopranazionali
le agenzie locali saranno in grado di incoraggiare i ricercatori verso l’uso di standard e
“certificare” la qualità degli archivi digitali conformi alle normative.
Il WEB di terza generazione darà un impulso all’integrazione delle risorse e dei dati
consentendo ai content provider di lasciare immutate le loro risorse digitali grazie al mapping
su metadati standard o su modelli formali di conoscenza (le ontologie).
La disponibilità pressocchè illimitata di oggetti culturali digitali avrà l’effetto di
incrementare la ricerca producendo, nel contempo, una ristrutturazione e riorganizzazione
delle istituzioni che dovranno promuovere servizi sempre più automatizzati.
Oltre al semplice accesso alle collezioni digitali di musei, biblioteche ed archivi, la
standardizzazione potrà favorire l’armonizzazione delle conoscenze e l’interoperabilità
semantica. Già oggi esistono importanti strumenti concettuali messi a punto per il settore
dei beni archeologici, in particolare lo standard ISO 21127:2006 CIDOC-CRM22 che in
futuro rappresenterà una sorta di comune denominatore, una lingua franca adatta a soddisfare
requisiti avanzati anche nel campo della ricerca archeologica.
La legge 109/2005 sembra, in conclusione, ignorare del tutto le tematiche dell’integrazione
limitandosi a prospettare soluzioni parziali (regionali o locali) alla problematiche della gestione
di dati eterogenei; si potrebbe obiettare che la norma, contenuta all’interno di disposizioni
di carattere generale, non può disciplinare, in forma analitica e dettagliata, le tipologie di
documentazione da produrre nel corso di esplorazioni o progettazioni di tipo preliminare,
ma non vorremmo che questo aspetto procedurale di grande interesse fosse lasciato alla sola
valutazione dei tecnici (informatici, ingegneri, architetti) lasciando agli archeologi il ruolo
di semplici esecutori.
Resta il fatto, però, che l’assenza di un quadro professionale con standard riconosciuti,
il conservatorismo di un modello formativo ancora scarsamente attento alla qualificazione
professionale ed, infine, la presenza di standard che attengono esclusivamente alla descrizione
e classificazione degli oggetti piuttosto che alla definizione delle procedure di integrazione
e interoperabilità semantica, rappresenta senza dubbio il maggiore ostacolo allo sviluppo di
una dimensione veramente europea ed integrata della attività di documentazione archeologica
nel nostro paese.
22
cidoc.ics.forth.gr.
105
LA TUTELA DEL ‘BENE CULTURALE’ IN EUROPA TRA
LEGISLAZIONI E STRUMENTI OPERATIVI1
Francesca Ulisse
1. INTRODUZIONE
Il variegato mondo europeo, sempre più arricchito dal continuo ingresso di nuovi paesi
membri, costituiti spesso da paesi davvero nuovi perché di recente istituzione2, presenta
diversificate forme di approccio e modalità di gestione della tutela dei Beni Culturali,
inevitabilmente legate alla storia politica e culturale di ogni singolo paese, pur tuttavia senza
nascondere segni di uniformità.
L’esame delle legislazioni prodotte in materia, ad esempio, evidenzia delle forti somiglianze
di natura culturale nell’impostazione data all’argomento dai paesi di area mediterranea in
contrapposizione a quanto invece maturato tra i paesi del Nord del continente: in apparente pari
misura sembra quindi che i paesi dell’Est, i più giovani membri della Comunità, s’inseriscano
indistintamente tra i raggruppamenti di entrambe le aree geografiche del continente.
A tali grandi ‘famiglie’ culturali si associa di conseguenza anche una corrispondente
linea produttiva in termini di strumenti operativi (cartografie, GIS, catalogazioni etc., sistemi
di archivio integrato, repertori, etc.): più spesso concreti, lineari e già in uso in ambito
pianificatorio anche a livello nazionale nei paesi nord-europei, dai risultati più frammentari,
diversificati e molto spesso nemmeno operativi nei paesi mediterranei; frequentemente assenti
o raramente piuttosto sviluppati nei nuovi paesi membri dell’est europeo (come ad esempio
in Slovenia). Tra le motivazioni alla base di queste diversità appare persistere l’impronta
dell’impostazione culturale e la conseguente modalità di sviluppo delle forme per la tutela dei
Beni Culturali: emerge con forza, ad esempio, che i paesi del Nord-Europa (e con essi molti
paesi dell’Est) non potevano non tenere presente il patrimonio culturale nella pianificazione
delle loro città e territori avendo da sempre considerato e sentito l’articolato ambiente naturale
in profondo connubio con la presenza culturale (come Germania, Belgio, Lussemburgo,
Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia ma anche Austria; si unisca a questi l’esperienza
maturata nel settore dalla Slovenia, e la Gran Bretagna, da sempre fortemente impegnata
nella ‘sistematizzazione’ delle conoscenze, in particolare a base territoriale, spesso affiancata
dalla Francia3).
Anche in merito all’archeologia preventiva, ancora sulla scia di quanto finora ravvisato è
possibile riconoscere nel complesso una più spiccata sensibilità tra i paesi del nord e dell’est
Europa: quand’anche infatti non abbiano prodotto uno specifico riferimento legislativo (come
1
2
3
In bibliografia si riporta una lista ragionata e partanto non esaustiva dei riferimenti legislativi e
dei commenti normativi adoperati nella stesura del presente articolo, rimandando per ulteriori
approfondimenti alla monografia “F. Ulisse, Tutela della Cultura e Cultura della Tutela. Cartografia
archeologica operativa e legislazione sui Beni Culturali in Italia e nella Comunità Europea:
esperienze a confronto, Bologna 2008 (in corso di stampa)”.
Il riferimento è rivolto in particolare ad alcuni paesi dell’Est.
Paese che per il presente tema è stato ritenuto quasi al confine tra Nord e Sud del continente.
107
Francesca Ulisse
invece Francia, Italia e Romania) è proprio nell’ambito della sofisticata progettazione
della pianificazione che si evidenziano attenzioni sull’argomento (vedi ad esempio la pratica
della ‘valutazione’ e ‘selezione’ olandese e dei pur recenti approcci della Polonia alla
programmazione di scavi nell’ambito di progettazione di infrastrutture).
2. IL CONCETTO GIURIDICO DI BENE CULTURALE E PATRIMONIO CULTURALE
Somiglianze e differenze riscontrate nelle legislazioni, sono connesse principalmente alla
diversa accezione dell’oggetto della tutela e con esso del concetto di bene culturale, di cui
è ormai da più di vent’anni permeata la nostra legislazione. Siffatta, o analoga, locuzione è
presente prevalentemente nei testi legislativi dei paesi d’area mediterranea, ossia ovunque
il patrimonio culturale sia sentito suddiviso e frammentato, presentandosi in parallelo con
il bene ambientale4. Si tratta di partizioni che ne hanno prodotto per tradizione trattamenti
legislativi separati, ma soprattutto una più forte oggettualità, che nel tempo ha senz’altro
contribuito, in particolare per i Beni Culturali, allo sconfinamento nello sfrenato collezionismo
quando non addirittura nell’idolatria. Tale fenomeno, sviluppatosi fortemente nella mentalità
collettiva, è probabilmente un portato della notevole quantità e qualità di manufatti e prodotti
di cultura materiale presenti e continuamente rinvenuti nei paesi di area mediterranea (come
forse anche di quel ‘fascino del tesoro’ che si è andato formando, e che in parte ancora
persiste, intorno ad essi) ma che di fatto li ha allontanati da un comune senso di tutela e
proprietà collettiva culturale fomentando l’alimentazione di commerci spesso non più di tipo
antiquario ma clandestino.
Il concetto di patrimonio culturale protetto che, almeno in termini legislativi, è fortemente
assimilato con l’ambiente naturale e quindi con il territorio è proprio in prevalenza delle
nazioni Nord-Europee5, ossia di tutte quelle nazioni in cui la concezione dell’ambiente
come un unico grande contenitore di natura e cultura, di flora, fauna e storia sembra essere
estremamente presente nella percezione globalizzante del paesaggio6.
Si aggiunga inoltre l’importante e quasi costante presenza nelle legislazioni nordiche
e di molti paesi dell’Est europeo, del fattore interesse pubblico, generale o nazionale
4
5
6
Locuzione che in Italia nasce nel 1966 nell’ambito dei lavori della “Commissione Franceschini”
sebbene se ne fosse parlato già nelle convenzioni internazionali (vedi: L’Aja Maggio 1954 per la loro
protezione in caso di conflitto armato); ma è in quest’occasione che venne introdotta nel linguaggio
politico e giuridico italiano (anche se non ancora in norme) e soprattutto con la specifica definizione
di “testimonianza avente valore di civiltà”; solo nel 1985, dopo lunga gestazione, è stato introdotto in
un testo normativo superando definitivamente l’ormai desueta espressione ‘cose d’interesse storicoartistico’: analoga evoluzione hanno avuto le primordiali ‘bellezze naturali’ divenute in seguito ‘beni
ambientali’.
E pressoché ovunque e fin dalle prime leggi emanate, tanto da permettere il diffusissimo utilizzo del
termine paesaggio culturale.
Per cui a buon diritto appare inserito in un testo legislativo un assunto di ‘responsabilità civile’ come:
‘la responsabilità per l’ambiente culturale è condivisa tra tutti i cittadini in Svezia. Le autorità,
così come i singoli, devono mostrare considerazione e rispetto verso l’ambiente culturale’. Svezia:
legge n. 950 del 1988 sulla conservazione del patrimonio (cap. 1, sez. 1).
108
La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi
presente fra le motivazioni poste alla base della conservazione e tutela dei beni7, a differenza
dell’impostazione legislativa dei paesi d’area mediterranea dove l’interesse del bene è
ravvisato esclusivamente nella sua natura8 concependo un qualcosa di astratto, quasi
dogmatico, al di sopra del vivere quotidiano ed inevitabilmente distaccato dalle esigenze
della vita collettiva e dalle trasformazioni del comune territorio.
Forse non a caso sembra possibile riconoscere proprio nei paesi mediterranei e nel loro
sistema a volte esageratamente ‘difensivo’ e ‘protettivo’, destinato ad una ‘conservazione’
spesso troppo fine a se stessa, una maggior dispersione della presenza in ambito pianificatorio
di concrete modalità di tutela dei beni storico-archeologici, e quindi di elaborazione di specifici
prodotti cartografici, oppure semplicemente, quand’anche esistenti, di una loro improduttiva
stasi tra le mura di circoscritti contesti amministrativi e di ricerca.
Nei paesi dell’Est europeo, fatta salva la specificità adoperata da ogni paese nella scelta
terminologica per trattare i beni facenti parte del proprio patrimonio culturale, è possibile
trovare diversi elementi di vicinanza con le culture mediterranee, ma soprattutto con la
Francia, come ad esempio nell’articolata produzione legislativa Rumena9. Si considerino
inoltre: la legge quadro sulla protezione del patrimonio culturale Sloveno10, la generica legge
sulla cultura Ungherese11, o la legislazione della Repubblica Ceca che nella sua principale
legge sull’interesse statale per i monumenti definisce il suo oggetto della tutela come: ‘tutti
gli oggetti mobili e immobili o gruppi di essi che manifestano l’abilità creativa dell’uomo,
documentano lo sviluppo storico…’12.
Non mancano però interessanti esempi di forte assonanza con le culture nord-europee,
come di nuovo l’esperienza Rumena che, oltre ad aver maturato una specifica legislazione
sulla ricerca archeologica preventiva13, nella legge n. 422 del 2001 inserisce tra i ‘monumenti
storici’ le: “creazioni naturali umane…”; o ancora la legge quadro Slovena dove si specifica
che la protezione del patrimonio culturale sia ‘nell’interesse pubblico per il suo valore storico,
7
Cfr. i primi articoli dei testi legislativi in particolare di Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda,
Germania e Svezia. Nella ricca legislazione Italiana il concetto non solo compare per la prima volta
solo nel ‘Testo Unico delle disposizioni legislative sui beni culturali e ambientali’ ma soprattutto
riferito solo ai Beni Paesaggistici e Ambientali e con anteposto l’aggettivo qualificativo ‘notevole’.
8
A partire dalle definizioni artistica, storica, archeologica etc., o quand’anche espresso in
maniera più significativa in qualità di ‘testimonianza materiale avente valore di civiltà’
(vedi nota 3) oppure ‘per la permanenza e l’identità della cultura…attraverso il tempo’
(legge sul patrimonio culturale nazionale portoghese, 6 Giugno 1985, n. 13), o ancora
come la neonata definizione ‘testimonianza dell’attività individuale e collettiva dell’uomo’
presente nella nuova legge quadro greca, n. 3028 del 2002.
9
In cui così come nel paese d’oltralpe due distinte leggi si occupano rispettivamente di beni archeologici
mobili (Legge n. 182 del 2000) e protezione dei monumenti storici (Legge n. 422 del 18 Luglio
2001).
10
Dove le produzioni materiali sono definite ‘frutto dell’umana creatività’ (Legge 20 Gennaio 1999,
art. 2).
11
Dove i Beni Culturali sono definiti: ‘oggetti tipici ed eccezionali…prove dell’origine e lo sviluppo di
umanità….della nazione ungherese’ (Legge sul patrimonio culturale archeologico costruito e mobile
(1997), art. 1).
12
Legge n. 20 del 30 Marzo 1987, sezione 2 (2)
13
Ordinanza n. 43 del 2000, art. 2 comma 2.
109
Francesca Ulisse
culturale e civile’14. Particolarmente affini alle culture nordiche appaiono invece i sistemi di
gestione unitaria del patrimonio culturale ravvisabili nei paesi dell’ex Unione Sovietica come
l’Estonia, con la Legge sulla Conservazione del Patrimonio15, la Lettonia e la Lituania
che mostrano dalle produzioni legislative una interesse fortemente unitario e complessivo
nei confronti di cultura e natura quali elementi inscindibili della storia e l’identità del paese
ed infine di nuovo la legislazione della Repubblica Ceca che prevede che lo Stato protegga
i monumenti culturali come parte integrante del patrimonio culturale del suo popolo, come
l’evidenza della sua storia….importante fattore dell’ambiente umano ed un insostituibile
tesoro dello Stato’16.
3. L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA IN EUROPA
Probabilmente proprio nell’impostazione legislativa e negli strumenti operativi realizzati ad
hoc, in molti paesi del nord Europa è possibile scorgere qualche stimolante suggerimento
per quanto auspicato e desiderato in Italia, oggi per altro riportato in auge dalla Convenzione
Europea del Paesaggio. Se tali confronti non permettono di trovare soluzioni, aiutano forse a
stimolare la ricerca di nuovi spunti di riflessione e, nel migliore dei casi, a focalizzare limiti e
motivazioni posti alla base di ancestrali difficoltà nella formazione di strumenti per la tutela
integrata del comune patrimonio storico-archeologico-artistico, riconoscibili nel nostro come
in molti altri paesi d’area mediterranea.
Di sicuro interesse nello specifico panorama dell’archeologia preventiva in Europa sono
i timidi approcci di un paio di paesi dell’Est, come la Romania che al comma 2 dell’art.
2 dell’ordinanza n. 43 del 2000 stabilisce infatti che ‘la ricerca archeologica preventiva è
parte delle strategie di sviluppo territoriale, di pianificazione, turistiche, socio-economiche
locali e nazionali a lungo termine’ o la Polonia che prevedendo rischi durante la costruzione
di sopraelevate ha incaricato il Ministero della Cultura di creare il Centro di Ricerca per il
Recupero Archeologico (ex Centro di Protezione del Patrimonio Archeologico – ORBA – ed
oggi Centro Nazionale per la Ricerca e la Documentazione dei Monumenti – KOBIDZ) con
obiettivi di organizzazione e coordinamento di scavi nei siti archeologici lungo gli itinerari
programmati per sopraelevate e tubature del gas.
L’evoluzione legislativa italiana per quanto innovata nei nuovi articoli di legge specifici
sull’archeologia preventiva17 tradisce tuttavia una costante intenzione parcellizzante dei
beni (paesaggistici da un lato e culturali dall’altro), per altro sempre più incrementata nelle
revisioni come nel DL 157 del 24 Marzo 2006. A solo titolo d’esempio si riporta l’incipit
14
Legge 20 Gennaio 1999, art. 2.
In cui oltre al comune monito verso la conservazione e preservazione di beni di tutti, troviamo la
definizione delle aree di conservazione di patrimonio identificate con: ‘complessi storici o parti di essi
e siti di valore culturale che si sono sviluppati sotto l’influenza del collegamento di fenomeni naturali
e attività umane….monumenti immobili e altre cose che insieme con il sito, le caratteristiche naturali
i collegamenti stradali blocchi di case e sistemazioni rurali costituiscono un intero culturalmente
valutabile’ (Legge 1 Aprile 2002, art. 4).
16
Legge n. 20 del 30 Marzo 1987, sezione 1 (1).
17
Art. 28, comma 4 del DL 16 Gennaio 2004, n. 42 e art. 2 –ter del DL 26 Aprile 2005, n. 63 (rispettive
successive modifiche e integrazioni)
15
110
La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi
dell’art. 131 del DL 16 Gennaio 2004, n. 42 (e successive modifiche e integrazioni: d’ora
in poi denominato “Codice”) come rivisto a seguito del DL 157 ove dalla definizione di
paesaggio come ‘parte omogenea di territorio…’ si è passati a ‘parti di territorio..’ o dell’art.
134 in particolare al comma c, dove si definiscono beni paesaggistici ‘gli immobili e le aree
tipizzati, individuati e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici…’.
Si tratta, apparentemente, di un dubbio atteggiamento inquadrabile forse come d’inversione
di tendenza18 rispetto alla direzione intrapresa dall’Europa all’indomani dell’emanazione
della Convenzione Europea del Paesaggio e condivisa da gran parte dei paesi europei. Se alla
base delle nuove norme Italiane è davvero l’intenzione di evolvere come già in Francia con
la legge 27 Settembre 1941, tra ‘scavi’ e ‘scoperte fortuite’, e quindi con la legge 1° Agosto
2003, n. 707 da ‘scavi programmati’ a ‘scavi preventivi’, di ben altra utilità risulterebbe il
supporto di una visione d’insieme del territorio, e con esso del paesaggio (con tutte le sue
specifiche accezioni), affinché vi si possano sviluppare sistemi di monitoraggio sempre più
aggiornati e validi per la ricerca e la tutela.
A questo proposito sembra possibile scorgere stimoli davvero interessanti nel processo
di valutazione e la selezione del fenomeno archeologico condotto in Olanda. Si tratta di un
sistema di riferimento in corso di sperimentazione che riguarda sia l’oggetto della tutela (il
monumento) sia il sistema della sua gestione da condursi in maniera integrata con lo sviluppo
del territorio: sono dunque assolutamente legati entrambe tanto alla protezione quanto alla
ricerca. Nello specifico, in termini di ‘archeologia preventiva’, tale sistema obbliga le entità
pubbliche e private che operano sul territorio a valutare l’impatto dei loro piani sul patrimonio
e a provvedere alle indagini necessarie, quando in base ai suddetti criteri se ne individua la
necessità. Il sistema determina indicazioni relative al grado di densità – accertata o supposta
– di presenze archeologiche, ma soprattutto il livello della loro protezione e conservazione.
Prossime all’inserimento in una revisione legislativa queste indicazioni comporteranno
l’obbligo di osservanza da parte dei costruttori nel calibrare l’impatto dei loro piani e a
finanziare le eventuali indagini necessarie (nelle aree valutate e selezionate a priori).
Dopo aver suddiviso l’intero paese in aree definite archeo-regioni sulla base di
caratteristiche genetiche, morfologiche e paesaggistiche e di occupazione storica, senza
entrare nello specifico di distinzioni di tipo di deposito archeologico, periodo o stato di
conservazione, si avvia una serie di osservazioni da cui deriva la ripetuta osservazione dello
stesso oggetto: più osservazioni con le stesse coordinate sono combinate in ‘siti’, a loro volta
inseriti nella banca dati al termine delle selezioni. La conseguente selezione delle osservazioni
archeologiche del territorio olandese produce da un lato il numero di siti ‘attesi’, e dall’altro
quelli realmente individuati: il rapporto di proporzione che emerge tra i due dati è il valore
archeologico indicativo.
Questi valori sono quindi riportati in carta mediante colorazioni a copertura ‘areale’
indicanti il grado (basso, medio e alto), stabilito sulla base dell’incremento tra i suddetti
valori e l’entità della superficie differendo, ovviamente, per archeo-regioni. Contestualmente
in Olanda si è avviata la realizzazione di un registro nazionale di tutti i ritrovamenti, gli
insediamenti ed i monumenti sottoposti a protezione. Questi dati sono registrati in forma
digitale e a livello nazionale nel database centrale ARCHIS, un sistema in grado di produrre
18
Rispetto ad esempio all’innovazione che all’epoca portò la Legge Galasso (legge 8 Agosto 1985, n.
431) con la definizione di ‘zone d’interesse archeologico’.
111
Francesca Ulisse
una duplice tipologia di cartografia archeologica ritenuta fondamentale strumento di
pianificazione: la Archaeologiche Monumenten Kaart (AMK), vale a dire la carta dei siti e
monumenti archeologici già valutati e selezionati, e la Indicatieve Kaart van Archaeologische
Waarden (IKAW), cioè la vera e propria cartografia di ‘rischio archeologico’ indicante i
‘valori archeologici attesi’, sia a terra che in mare. A causa della variabilità della condizione
dei suoli e della ricerca (visibilità, intensità degli studi, copertura del territorio etc.), tale
cartografia piuttosto che ‘predittiva’ è detta ‘indicativa’: produce, in sostanza, i cosiddetti
valori archeologici indicativi.
4. LA CARTOGRAFIA PER LA TUTELA ARCHEOLOGICA IN ITALIA E IN EUROPA
Il confronto dell’articolatissimo cammino italiano con quello delle altre nazioni appare per
altro consentire l’individuazione di altre e nuove chiavi di lettura, anche ‘trasversali’ rispetto
ai raggruppamenti di tipo geografico dei paesi finora tenuti presenti. Ad esempio in merito
ai momenti e ai tempi di emanazione delle legislazioni rispetto a quelli di catalogazione,
censimento e registrazione di beni sul territorio: ancor prima della Seconda Guerra
Mondiale, ad esempio, Grecia, Gran Bretagna e Germania, hanno avviato contestualmente
all’emanazione della legislazione le prime attività di catalogazione e mappatura dei siti e
monumenti archeologici, quasi a ‘seguire un programma’, sebbene con motivazioni ed obiettivi
alquanto differenti; diversamente Italia, il Belgio e la Francia hanno avviato ricognizioni ad
hoc prima di emanare specifiche leggi di salvaguardia. Tutti gli altri paesi collocano le loro
produzioni in un periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, e, fatta eccezione per
alcuni paesi che hanno manifestato tardi attenzioni specifiche sia in un campo che nell’altro
(vedi Irlanda, Finlandia e Portogallo e gran parte dei paesi dell’Est19), hanno anteposto,
e spesso anche di molto, all’emanazione di specifiche leggi di tutela, la ricognizione del
territorio con relativa impostazione di registri e cataloghi di siti e monumenti (vedi Svezia,
Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Austria e Spagna20).
Nel complesso, se l’esperienza dei paesi mediterranei, data soprattutto dalla loro
ricchezza di dati storico-artistico-archeologici, ha consentito la formazione e la definizione
di conoscenze e di metodiche conoscitive di notevole spessore ed ampio respiro nell’ambito
dello studio e della catalogazione dei Beni Culturali sul territorio, la pratica Nord-Europea
risulta eccezionale nelle forme di sistematizzazione delle informazioni come anche nella
focalizzazione della necessità di chiarezza espositiva delle mappe a qualsiasi uso prodotte
(come ad esempio il sistema in corso di sperimentazione in Olanda).
Si ritiene infatti che nella redazione di cartografia destinata alla tutela, la ‘chiarezza’
espositiva del prodotto finale sia condizione essenziale e requisito proprio della sua natura ed
impostazione; le produzioni nord-europee, e con esse il GIS di nuova generazione improntato
in Slovenia, apportano alle produzioni cartografiche archeologiche delle caratteristiche
funzionali ed operative apparentemente proprie ad altri settori del sapere, che vedono nel
momento progettuale il fulcro dell’attività. Le elaborazioni di questi paesi prevedono una
19
Fatto salvo il comportamento di Cipro per ovvi motivi molto simile a quello protezionisitico della
Grecia.
20
Dove per lo più si tratta di testi finalizzati al controllo della ‘circolazione’ dei beni mobili.
112
La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi
progettazione che si realizza per gradi distinguendo per livelli redazionali, e quindi espositivi,
utili ad evitare affollamenti e la conseguente inutilità di un’unica mappa onnicomprensiva.
Se la ricerca sul campo, sia essa scavo o ricognizione, produrrà cartografia archeologica
questa sarà da intendersi come una sistematica raccolta d’informazioni o, più esattamente
come un catasto delle informazioni note o presunte; vale a dire quella fornitura di base di
dati conosciuti utile alla redazione di qualsiasi altro tipo specifico di cartografia (indicativa,
predittiva, di ricostruzione, o pianificazione).
Dal dettaglio grafico delle prime alla sintesi di queste ultime, si ritiene possibile mantenere
un’accettabile visibilità, comprensione ed utilizzazione dell’informazione se in particolare
quest’ultima assumerà delle forme grafiche sempre più prossime alle ‘aree’ piuttosto che
ai ‘punti’: per l’impossibilità ovvia di dettagliare l’ignoto, per la frequente esigenza di
visualizzare un tipo di informazioni costituite da fattori variabili (valutazioni, uso dei suoli,
impatto ambientale ed umano, etc.), ovvero per la necessità comune a tutte le nazioni di
deviare eventuali operazioni clandestine. Ed è proprio nella gestione di questi tre fattori che
in particolare s’inseriscono le metodologie sempre nuove o in corso di sperimentazione,
spesso coadiuvate dall’uso della matematica, e per lo più finalizzate a quantificare la diversità
di livelli di rischio in una data distribuzione di siti archeologici.
Oramai di uso ampiamente diffuso, il GIS, per il gran numero di dati e di livelli di
visualizzazione che consente, rappresenta lo strumento che maggiormente coniuga i differenti
usi della cartografia: da quella destinata alla ricerca pura, a quella realizzata a scopo di
prevenzione e tutela21.
E’ doveroso infine sottolineare come le principali forme di concreto dialogo e trasmissione
delle informazioni tra ricerca e operatività, si sono rilevati in particolare nei paesi dalla più
forte e consolidata tradizione sull’uso dei sistemi informativi e della ricerca territoriale, come
la Gran Bretagna ma anche l’Olanda, dove i progetti di ricerca servono tanto alla tutela del
paesaggio nelle fasi principali della sua trasformazione quanto alla fornitura di dati di base
per altre ricerche od approfondimenti specifici o alla fruizione.
4. CONCLUSIONI
Da quanto emerso si possono delineare alcune sintetiche considerazioni22. In primo luogo
si ritiene che un importante valore aggiunto, fornito dai paesi del Nord Europa ai lavori in
corso in ambito mediterraneo potrebbe consistere nella forte interdisciplinarietà sottesa ai
loro progetti, in misura pari almeno alla profonda e concreta apertura di orizzonti concepita
dagli stessi nell’affrontare questo tipo di tematiche. Probabilmente troppo concentrati nella
redazione di carte utili alla ricerca, gli archeologi mediterranei dimenticano di avere fra
gli ipotetici utenti e collaboratori, in particolare nella pianificazione, altre professionalità
21
22
Sui GIS nell’archeologia preventiva si veda il contributo di S. Pescarin in questo stesso volume.
Per un approfondimento si veda: F. Ulisse, Tutela della Cultura e Cultura della Tutela. Cartografia
archeologica operativa e legislazione sui Beni Culturali in Italia e nella Comunità Europea:
esperienze a confronto, Bologna 2008 (in corso di stampa).
113
Francesca Ulisse
e formazioni con parametri di lettura diversi23, dando luogo molto spesso a dei prodotti
cartografici complessi, scarsamente comunicativi e, di conseguenza, poco funzionali24. In
conclusione sembra possibile sostenere che se le comuni origini europee sono probabilmente
alla base di quel complessivo interesse, manifestato in qualsivoglia maniera nei confronti
della tutela di ogni specifica cultura e dei suoi segni tangibili e intangibili, mobili e
immobili che ancora persistono, ritenendoli valore e orgoglio di ogni particolare civiltà, le
profonde differenze che caratterizzano le varie culture, e che hanno prodotto anche quella
dicotomia spesso evidenziata tra nord e sud del continente, hanno dato luogo a risultati di
grande originalità, utili senz’altro a fornire contributi nella ricerca di soluzioni a specifiche
difficoltà.
BIBLIOGRAFIA
Raccolte legislative e commentari:
Internazionali:
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territorio, Bologna 2007.
AÑÓN FELIÚ 2003: C. AÑÓN FELIÚ (ED.), Culture and Nature. International legislative texts
referring to the safeguard of natural and cultural heritage, Firenze, Olschki, 2003.
COFRANCESCO 1999: G. COFRANCESCO (a cura di), I Beni Culturali. Profili di diritto
comparato ed internazionale, Roma1999.
Italia:
IRTI 2006: N. IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Roma-Bari 2006.
CICALA-GUERMANDI 2005: M.P. GUERMANDI et al. (a cura di), Regioni e Ragioni nel nuovo
codice dei beni culturali e del paesaggio, Atti del Convegno, Bologna, 28 Maggio 2004,
Bologna 2005.
CAMMELLI 2004: M. CAMMELLI (ED.), Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Bologna
2004.
TAMIOZZO 2000: R. TAMIOZZO, La Legislazione dei Beni Culturali e Ambientali, Milano
2000.
23
Si rimanda, come specifico approfondimento sul tema, a: G. Azzena, Tancas serradas a muros.
Tracce di incomunicabilità nel “linguaggio” dell’archeologia, tra tutela, archeologia del paesaggio,
e pianificazione territoriale, in Archeologia e Calcolatori 14, 2004, pp. 185–197.
24
Cfr. a proposito di F. Ulisse, Considerazioni sulla reale “usabilità” di mappe, GIS e cartografia a
contenuto archeologico su web, in Archeologia e Calcolatori 15, 2004, pp. 521–529.
114
La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi
Altri paesi del Mediterraneo:
(Grecia):
CAMPOBASSO 2001: L. CAMPOBASSO: La tutela dei beni culturali in Grecia: problemi
applicativi e prospettive di riforma, “Aedon. Rivista di arti e diritto on-line”, III, 2001.
Paesi dell’Est:
PETKOVA 2004: S. PETKOVA, Comparative legal analysis of the Legislation in the Area
of Cultural Heritage in Southeast Europe, Center for Policy Studies, International Policy
Fellowship Program 2004, Open Society Institute
(Bulgaria):
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Monografie di commento a carattere generale sulla tutela dei Beni Culturali:
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119
L’ARCHEOLOGIE PREVENTIVE EN FRANCE:
PARCOURS ET PERSPECTIVES
Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger
INRAP
1. INTRODUCTION
L’archéologie préventive, tout comme plus généralement l’archéologie du territoire
métropolitain, a commencé en France bien plus tard que dans beaucoup d’autres pays
européens. En effet l’archéologie métropolitaine, en tant qu’elle procède de la formation de
l’identité nationale, ne jouait pas ce rôle en France. C’est l’archéologie de la Grèce, de Rome
ou de l’Orient qui était chargé de retrouver et d’exalter les racines matérielles, réelles ou
mythiques, de la culture des élites françaises, et c’est pourquoi le musée du Louvre ne contient
pratiquement aucun objet trouvé dans le sol français. Longtemps, l’archéologie nationale n’a
donc été le fait que de notables bénévoles, souvent dépourvus de soutiens. En revanche les
moyens de l’État étaient mis dès le XIXe siècle au service de l’archéologie française dans
les pays méditerranéens, avec la participation de la France à la fondation de l’Istituto di
Corrispondenza Archeologica en 1829, puis la création de l’École française d’Athènes en
1846, puis celle de l’École de Rome en 1875 – après l’éclatement de l’Istituto consécutif à la
guerre franco-allemande de 1870–1871 –, suivie de celle de l’Institut français d’archéologie
orientale du Caire en 1880 et enfin de la Casa de Velasquez à Madrid en 1916.
Si l’on crée en 1905 une chaire d’Antiquités nationales au Collège de France, qui
sera confiée à Camille Jullian, il n’y aura pendant longtemps pratiquement pas de chaires
universitaires d’archéologie métropolitaine. Du moins celle-ci est-elle enseignée de manière
accessoire au sein de chaires consacrées à l’histoire et à l’archéologie de la Grèce et de
Rome. Parmi les chaires de préhistoire, celle de François Bordes à Bordeaux résultera du
«détournement» d’une chaire de géologie à partir de 1956, et celle de André Leroi-Gourhan
du «détournement», la même année, d’une chaire d’ethnologie à Paris. La protohistoire n’est
guère enseignée avant la fin des années 1960 au plus tôt, et longtemps marginalement. Au
milieu des années 1970 encore, plus des deux tiers des archéologues professionnels en France
travaillent hors de France.
Mais c’est au cours de ces mêmes années 1970, à la suite d’un intérêt croissant du public
pour l’archéologie, que celle-ci s’est peu à peu professionnalisée (on est passé en trente
ans de 600 à 3500 archéologues professionnels) et que l’archéologie préventive s’est enfin
développée. Après de nombreuse crises, ce processus de développement a été finalement
stabilisé à partir de l’année 2000.
2. L’ORGANISATION GÉNÉRALE DE L’ARCHÉOLOGIE EN FRANCE
L’archéologie préventive en France est organisée par la loi du 17 janvier 2001, modifiée
ensuite en 2003 et 2004, et qui constitue l’application dans la législation française de la
121
Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger
Convention de Malte de 1992, ratifiée par la France en 1994. Cette loi est fondée sur deux
principes: c’est l’aménageur qui finance l’archéologie préventive (sur le principe du «pollueur payeur») et l’essentiel de cette activité est confié à un institut de recherche public,
l’Institut national de recherches archéologiques préventives (INRAP), placé sous la double
tutelle du ministre de la Culture et du ministre de la Recherche. Le budget de l’INRAP est
d’environ 130 millions d’euros, soit 0,1 % du budget total de la construction et des travaux
publics en France ou encore deux euros par an et par Français.
Du point de vue de l’organisation générale, la France compte environ 3500 archéologues, qui
se répartissent entre:
L’Institut National de Recherches Archéologiques Préventives (INRAP), responsable
de la plupart des fouilles archéologiques préventives. Il compte environ 1800 archéologues
permanents et environ 200 archéologues sur contrat à durée déterminée.
La Sous-Direction de l’archéologie, de l’ethnologie, de l’inventaire et des systèmes
d’information du ministère de la Culture compte environ 250 archéologues, répartis entre son
service central et ses services régionaux de l’archéologie, eux-mêmes placés sous l’autorité
du préfet de région.
Environ 50 archéologues travaillent dans les musées, nationaux ou locaux.
Environ 250 archéologues sont enseignants chercheurs dans les Universités.
Environ 300 archéologues sont chercheurs Centre National de la Recherche Scientifique
(CNRS), sans compter les personnels techniques.
Environ 300 archéologues travaillent dans les collectivités territoriales, villes,
départements ou communautés de communes. Outre les activités de terrain, ils jouent un rôle
décisif dans la médiation culturelle et scientifique.
Environ 50 archéologues travaillent de manière permanente dans des structures privées,
parfois de statut associatif, ainsi que plusieurs dizaines d’archéologues employés sur des
contrats à durée déterminée.
La France comptant 63 millions d’habitants, il y a donc environ un archéologue pour
20.000 habitants, ce qui situe la France dans la moyenne basse européenne, certains pays
comme la Grèce, la Suisse ou le Royaume Uni ayant une plus forte concentration.
C’est le ministère de la culture, par le biais de ses services archéologiques régionaux
(SRA) qui donne l’autorisation de faire des fouilles et, dans le cas de l’archéologie préventive,
qui prescrit des sondages (ou diagnostics) puis éventuellement des fouilles. Le ministère
de la Culture est conseillé par un conseil scientifique, le Conseil national de la recherche
archéologique (CNRA), que préside le ministre. Au niveau régional, des conseils d’experts,
les Commissions Interrégionales de la Recherche Archéologique (CIRA) conseillent les
services régionaux de l’archéologie.
L’Inrap, en tant qu’institut de recherche dépendant à la fois du ministère de la Culture
et du Ministère de la recherche, comporte également un Conseil scientifique, composé pour
deux tiers d’experts élus par les archéologues des différentes institutions. Ses membres
sont majoritairement des archéologues extérieurs à l’INRAP. L’INRAP possède, outre des
directions administratives, une direction scientifique qui définit la politique scientifique de
l’établissement. Au niveau régional, l’INRAP comprend un certain nombre de directions
interrégionales, dont le directeur est assisté par des assistants scientifiques, chargés
d’organiser à un niveau local la qualité scientifique des travaux de terrain, ainsi que l’étude
122
L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives
et la publication, mais aussi la collaboration avec d’autres institutions scientifiques. Plus
généralement, l’INRAP a passé un certain nombre de conventions de coopération avec le
CNRS, les Universités, les services archéologiques de villes ou de départements, et même
certaines institutions étrangères pour la coopération internationale.
Du point de vue du nombre de sites archéologiques, la «Carte Archéologique» du
ministère de la Culture compte environ 400.000 sites. Mais des projections à partir des
zones les mieux connues permettent d’estimer les sites potentiels à plusieurs millions (sans
doute entre 5 et 10 millions). Sur les grands tracés autoroutiers ou ferroviaires où sont
pratiqués des diagnostics systématiques (trial trenching), on découvre de fait environ un site
important tous les kilomètres. Chaque année environ 70.000 hectares (700 km2) font l’objet
d’aménagements (constructions, autoroutes, TGV, carrières, zones industrielles, parkings
souterrains, etc), sans tenir compte des destructions, «invisibles» mais très préoccupantes,
dues aux travaux agricoles ou forestiers. Sur ces 70.000 m2, environ 15% font l’objet de
diagnostics prescrits par les services régionaux du ministère de la Culture, ce qui représente
environ 2000 opérations par an, ou encore 90.000 journées de travail.
3. LES DIAGNOSTICS D’ARCHÉOLOGIE PRÉVENTIVE
Aux termes de la loi, les diagnostics sont un monopole public, partagé entre l’INRAP (pour
environ 95%) et les services archéologiques de villes ou de départements qui le souhaiteraient.
Ce monopole public est destiné, selon les mots du ministre de la Culture, à garantir l’objectivité
des diagnostics – en d’autres termes à éviter que des entreprises privées se spécialisent, sous
la pression des aménageurs, dans le fait de ne rien trouver! Les diagnostics sont financés par
une taxe payée par l’ensemble des aménageurs, qu’il y ait ou non un site archéologique sur
leur terrain. Cette taxe doit en principe rapporter entre 60 et 80 millions d’euros, mais elle
n’est pas encore, à ce jour, complètement stabilisée dans sa mise en place. Un tiers de cette
taxe est destiné à alimenter un fond pour aider les petits aménageurs à payer le coût des
fouilles proprement dites.
En France, les diagnostics sont réalisés dans leur grande majorité sous la forme de tranchées
à la pelle mécanique, représentant entre 5% et 10% de la surface totale, ce qui représente un
seuil statistique minimal. Si les photographies aériennes ou les diverses autres techniques
« non-intrusives » peuvent être utilisées, ce n’est que dans des cas très spécifiques. Pour les
sites préhistoriques en particulier, seuls des tranchées systématiques sont susceptibles de les
découvrir.
Il est frappant en effet que depuis plusieurs années un certain nombre de sites du
paléolithique inférieur et moyen aient été découverts dans le nord-ouest de la France par
cette technique, alors qu’ils restent inconnus dans le sud-est de l’Angleterre, parfaitement
comparable d’un point de vue géologique et archéologique mais où cette technique n’est pas
utilisée.
Selon l’organisation décrite plus haut, les diagnostics font l’objet d’un double contrôle
de qualité scientifique. Le contrôle interne est fait par l’assistant scientifique régional de
l’INRAP, en liaison avec la direction scientifique nationale et le conseil scientifique national.
Le contrôle externe est fait par le service archéologique régional du ministère de la Culture,
assisté par la Commission Interrégionale de la recherche Archéologique (CIRA) et, si besoin
123
Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger
est dans le cas de sites importants ou de problèmes graves, par le Conseil National de la
Recherche Archéologique (CNRA). C’est au vu des résultats des diagnostics, que les services
du ministère de la Culture vont décider s’il doit y avoir des fouilles proprement dites. Entre
15% et 20% des diagnostics sont suivis de fouilles, ce qui fait que les fouilles ne concernent
en fin de compte qu’environ 3 à 5% des travaux d’aménagement.
Fig. 1. Photographie aérienne du site de Cesson “plaine du moulin à vent”, sur le plateau de Sénart
(sud de la Seine-et-Marne). Ce diagnostic a été réalisé sur une surface de 135 ha, de septembre à
décembre 2004, sous la direction de Jacques Legriel. (Photo: Philippe Granchon/INRAP)..
4. LES FOUILLES ARCHÉOLOGIQUES PRÉVENTIVES ET LEUR CONTRÔLE
Selon les termes de la loi initiale de 2001, les fouilles étaient également un monopole public
et elles étaient confiées à l’INRAP, avec l’obligation pour celui-ci de coopérer avec les
autres institutions scientifiques qui le souhaiteraient. Ce dispositif avait été attaqué auprès
de la Commission Européenne à Bruxelles par quelques archéologues privés et par certains
aménageurs. En rejetant cette plainte (cf. plus bas) la Commission à confirmé que chaque
pays de l’Union Européenne peut s’il le souhaite organiser son archéologie préventive sous
la forme d’un monopole public et que, dans ce domaine au moins, la « free market economy »
n’est ni une nécessité, ni une fatalité.
Néanmoins la nouvelle majorité parlementaire a modifié en 2003 la loi initiale de 2001 en
introduisant la possibilité de la mise en concurrence commerciale par l’aménageur lui-même
pour les fouilles proprement dites. Cette modification reflétait la sensibilité de la nouvelle
majorité et manifestait le souhait de faire baisser les coûts des fouilles en introduisant la
concurrence commerciale – ce qui ne s’est d’ailleurs pas produit.
Cette introduction de la concurrence commerciale a été accompagnée de plusieurs
précautions. Les entreprises privées doivent recevoir un agrément scientifique, renouvelable
tous les cinq ans, après examen de leur dossier par le Conseil National de la Recherche
124
L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives
Archéologique. Elles ne peuvent pas être dépendantes économiquement de l’aménageur. Le
projet de fouille rédigé par l’intervenant choisi par l’aménageur doit être soumis à l’approbation
du service régional de l’archéologie, qui peut également effectuer des contrôles tout au long
de la fouille afin d’en vérifier la qualité et l’adéquation au cahier des charges. C’est au vu
de ce projet que ce service donne ou non l’autorisation de fouille. Enfin l’agrément peut être
retiré à tout moment en cas de faute grave – ce qui est arrivé récemment pour un entreprise
privée qui venait d’être agréée.
Fig. 2. Archéologie préventive à Amiens, 2008 (Photo: Pierre de Portzamparc/INRAP).
Malgré ces précautions, une grande partie de la communauté archéologique française
a marqué son hostilité en 2003, par des pétitions, des manifestations et même des grèves,
contre cette nouvelle disposition25. Le Conseil National de la Recherche Archéologique lui-
25
Ces huit mois de crise ont fait l’objet d’un dossier spécial de la revue Nouvelles de l’archéologie,
2004, n. 95. (Maison des Sciences de l’Homme, Paris). Deux sites Internet y ont été également
consacrés : www.archeo.levillage.org et www.canalarcheo.org ainsi qu’un dossier important sur le
site internet de la chaîne de télévision France 2.
125
Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger
même a manifesté ses réserves26. Il ne s’agissait pas seulement de préjugés idéologiques.
Les adversaires de la concurrence faisaient remarquer qu’aux Etats-Unis d’Amérique – voire
en Italie même – la concurrence commerciale avait amené une séparation très forte entre
l’archéologie dite académique et les archéologues des entreprises privés, qui publiaient fort
peu et qui n’étaient presque plus présents dans les congrès scientifiques. Et même en GrandeBretagne, où conformément à la «common law» il n’y a pas véritablement de législation sur
l’archéologie préventive mais une simple circulaire («guidance»), le rapport parlementaire
coordonné par Colin Renfrew exprimait un certain nombre de réserves, sur l’organisation, le
financement et les résultats scientifiques et patrimoniaux de la «contract archaeology»27.
Fig. 3. Pratiques mortuaires inhabituelles au site d’Evreux (Photo: Hervé Paitier/INRAP).
A l’heure qu’il est, toutefois, peu d’entreprises privées se sont créées en France depuis 2003
et les seules présentes sur le marché, de petite taille, existaient auparavant et collaboraient
déjà avec l’INRAP. Leur prix ne se sont d’ailleurs pas révélés plus bas que ceux de l’INRAP.
26
Avis n. 22 du Conseil National de la Recherche Archéologique, «De la concurrence en
archéologie», 14 avril 2003; in: Les Nouvelles de l’Archéologie, n. 93, p. xx.
27
Voir The Current State of Archaeology in the United Kingdom, First Report of the All-Party
Parliamentary Archaeology Group, The Caxton & Holmesdale Press Ltd, January 2003; également
consultable sur le site de English Heritage et de l’Institute of Field Archaeology.
126
L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives
Lorsqu’aucun concurrent ne se présente, c’est l’INRAP qui est chargé légalement de faire la
fouille. Et c’est également lui qui, dans tous les cas, doit assurer la publication scientifique de
la fouille, après la remise du rapport de fouille.
Quant au contrôle scientifique, le dispositif est comparable à celui des diagnostics.
Concernant l’INRAP, le contrôle interne est mené par les assistants scientifiques et le Conseil
scientifique. Concernant toutes les structures, le contrôle externe est mené par les services
archéologiques régionaux du ministère de la Culture, d’abord par l’approbation, ou non, du
projet de fouille, puis durant les fouilles, et enfin par l’approbation, ou non, du rapport de
fouille final. L’avis de la CIRA peut être également demandé à tout moment et des visites de
certains chantiers par des membres de la CIRA sont régulièrement organisées.
5. LES PERSPECTIVES GÉNÉRALES ET LA QUESTION DU SERVICE PUBLIC
Sous cette forme, le système français, qui n’est sans doute pas définitivement stabilisé,
notamment du point de vue de son financement, exprime bien la volonté d’un fort contrôle de
l’État, en tant qu’émanation de la communauté des citoyens. Il exprime aussi que l’aménageur
n’est pas un «client» mais qu’il paye, en tant que «pollueur», dans la mesure où il a porté
atteinte au patrimoine national et qu’il doit réparer ce dommage. Il considère également que
la notion de «code d’éthique», très populaire dans la tradition de l’économie libérale anglosaxonne, n’a aucun sens dans les pays de culture latine, où seul est vraiment valable ce qui
est écrit dans la loi. Ces différents points montrent qu’il existe en Europe des divergences
marquées et connues entre les différentes traditions culturelles quant au rôle de l’État, et
notamment dans la conception du service public et de la responsabilité individuelle.
Mais le système français reflète aussi la conviction que la conduite scientifique d’une
fouille n’est pas assimilable à la construction d’un pont, qui répond pour sa part à des
standards prédéfinis et dont la qualité peut être contrôlée a posteriori. La fouille, comme
tout étudiant l’apprend, est d’abord un acte de destruction: une fois terminée, elle ne peut
plus être directement contrôlée. Par ailleurs les objectifs scientifiques de toute intervention
archéologique sont à chaque fois déterminés en fonction de questions locales et spécifiques,
contrairement au cas d’un pont. Dans certains circonstances et en fonction de l’état des
connaissances, si le site en question appartient à une période archéologique déjà très connue,
on pourra préconiser une fouille rapide – dans d’autres cas la fouille beaucoup plus longue
et minutieuse, et donc couteuse. Il n’y a donc pas de «standards» préétablis dont il suffirait,
comme pour un pont, de contrôler ensuite le respect a posteriori.
Comme nous l’avons indiqués plus haut, ce serait à cet égard une vision caricaturale,
mais parfois attestée, de considérer que la législation française, en instituant un monopole
légal de l’Inrap pour les diagnostics et les fouilles archéologiques (loi de 2001 originelle),
ou au moins un monopole pour les diagnostics, partagé avec les services de collectivités
territoriales (loi de 2001 modifiée 2003), aurait perpétré une violation flagrante des règles
127
Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger
communautaires et serait même à contre-courant du mouvement général de l’histoire. En
réalité, cinq points doivent être rappelés28:
1) En date du 2 avril 2003, la Commission européenne a rejeté les plaintes, instruites par la
Direction générale de la concurrence, portées contre la loi du 17 janvier 2001 (originelle).
Son analyse rejoint celle du Conseil constitutionnel (décision du 16 janvier 2001) mais
aussi du Conseil d’État français (décision du 30 avril 2003) et même du Conseil national
de la concurrence français (décision du 13 mars 2002). L’État est effectivement fondé, s’il
le souhaite, à instaurer un monopole public de l’archéologie préventive. De ce point de
vue, les autres pays européens qui ont déjà un tel monopole sont fondés à le conserver.
2) Plus généralement, après avoir été à l’initiative de la privatisation des services publics
de réseau (télécommunication, énergie, transport), la Commission européenne reconnaît
dans un récent Livre vert sur les services d’intérêt général29. que la question des services
d’intérêt général reste largement à traiter au sein de l’Union européenne et qu’il revient
au pouvoir politique de garantir l’intérêt général “lorsque le marché n’y parvient pas”.
3) L’archéologie préventive relève-t-elle donc du marché? Ou, autrement dit, l’aménageur
est-il un “client” de l’archéologie? S’il est bien certain que l’aménageur est contraint pas
la puissance publique, selon le principe “casseur = payeur” (“polluter pays” en anglais
ou “Verursacherprinzip” en allemand) à payer des fouilles archéologiques préventives
avant tout aménagement, est-il directement intéressé à la qualité scientifique des fouilles
et à leur résultat ? Ou bien ne fait-il que payer une forme d’impôt, à charge pour l’État
de contrôler directement (en exécutant lui-même les fouilles) ou indirectement (par un
établissement public ou tout autre organisme agréé) la qualité scientifique de ces fouilles
et leur bonne exploitation et restitution?
4) Quelle est la réalité économique d’un tel marché de l’archéologie préventive?
5) En définitive, comme l’affirme la Commission de Bruxelles, c’est bien de l’intérêt général
qu’il s’agit. Celui-ci commande que le patrimoine archéologique, conformément à la
Convention de Malte, soit préservé. S’il ne peut l’être intégralement (conservation du
site sur place), il doit l’être au moyen d’une fouille préventive de qualité. En maintenant
le monopole public sur les diagnostics, le gouvernement français a clairement signifié
qu’il voulait garantir leur «objectivité». En soumettant l’ouverture éventuelle des fouilles
préventives à des entreprises privées, l’État s’est néanmoins doté de plusieurs garde-fous.
Et c’est donc bien, quel que soit le système adopté, la qualité des résultats scientifiques
qui sera juge de la qualité du système.
Ainsi, tant au niveau français qu’européen, l’application du droit, au moins dans le
domaine de l’archéologie préventive, paraît clairement subordonnée à des choix politiques
et culturels, sinon de société. Pour des spécialistes de l’histoire des sociétés humaines, ce
constat est finalement rassurant.
28
Pour une analyse juridique plus complète en français, cfr.: J-P. Demoule, Archéologie préventive,
recherche scientifique et concurrence commerciale, in: P-L. Frier (ed.), Le nouveau droit de
l’archéologie préventive, L’Harmattan, Paris, 2004, p. 199–242.
29
Livre vert sur les services d’intérêt général (présenté par la commission), COM(2003) 270 final,
Bruxelles, 21.5.2003, 68 p. [version anglaise: xxxx].
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L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives
6. EN CONCLUSION
On le voit, l’archéologie préventive a suivi des voies différentes en Italie et en France. La faible signification de l’archéologie métropolitaine pour l’identité nationale française explique, à
la différence de l’Italie, que pendant des décennies les sites archéologiques y aient été détruits
dans l’indifférence générale. Seuls les archéologues bénévoles, notables locaux s’intéressant
à l’histoire de leur terroir, ont permis de sauver, sans grands moyens, quelques vestiges très
fragmentaires. La situation ne s’est transformée que dans les années 1970, avec l’arrivée
dans la vie professionnelle d’une nouvelle génération d’archéologues, qui s’était donnée
comme mission essentielle la construction d’une archéologie préventive digne de ce nom. Ce
programme a coïncidé dans le même temps avec une transformation de l’opinion publique et
de sa demande culturelle. Indifférente aux destructions du patrimoine archéologique dans les
années de la Reconstruction économique de l’après-guerre, l’opinion publique a commencé
à s’interroger sur son destin et donc son passé à partir des années 1970 et de la montée de la
crise économique et de ce qui l’accompagnait. Il n’était plus possible de détruire impunément
et de telles destructions devenaient des scandales.
Cette rencontre entre le militantisme d’une génération et la demande culturelle d’une
société a permis, dans la tradition centralisatrice française, de construire progressivement
un outil de recherche national et unique pour l’archéologie préventive. Tout n’est cependant
pas gagné définitivement. La résistance qui persiste est rarement le fait des aménageurs:
ceux-ci incluent maintenant le budget des fouilles dans leur budget total, et le répercutent sur
leurs prix de vente, tandis que l’archéologie leur permet de donner d’eux-mêmes une image
«éthique» soucieuse de l’environnement et du «développement durable». Cette résistance est
plutôt idéologique. Dans un contexte de réduction du rôle et des moyens de l’État, certains,
politiciens ou technocrates, souhaiteraient s’inspirer des modèles anglo-saxons, pourtant
dévastateurs sur le plan scientifique, pour imposer un modèle commercial privé à la recherche
archéologique.
La France n’est évidemment pas la seule dans son cas. Sur l’ensemble de l’Europe, la
Convention de Malte du Conseil de L’Europe (La Valette,1992) a instauré les principes de
base de la protection du patrimoine archéologie dont les vestiges sont de plus en plus menacés
par les travaux d’aménagement et d’infrastructure. Dans une partie de l’Europe, le modèle
ultra-libéral s’est provisoirement imposé pour mettre ces principes en œuvre, entraînant de
fait le démantèlement et la privatisation de nombreux services publics sans que le bénéfice
en soit évident, au point, on l’a vu plus haut, de poser de sérieuses interrogations à la
Commission de Bruxelles elle-même. C’est pourquoi, au sein des associations archéologiques
à l’échelle du continent telles que l’Association of European Archaeologists (EAA) et le
Europae Archaeologiae Consilium (EAC), une réflexion est engagée depuis plusieurs années
sur ce sujet. Dans cette perspective, l’Inrap pilote actuellement un réseau d’institutions
archéologiques européennes dans le cadre du programme Culture de la Commission
Européenne, «Archaeology in Contemporary Europe» (ACE) et dont la Direzione Generale
per i Beni Archeologici du ministère italien de la culture est partenaire officiel. Grace à de tels
échanges entre professionnels, grâce à des comparaisons mieux informées entre pratiques et
législations, ce sont les archéologues eux-mêmes, dans chaque pays et au niveau de l’Union
européenne, qui seront capable d’élaborer les meilleures moyens de protéger et de valoriser
le patrimoine archéologique pour les générations à venir.
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