strumenti per l`archeologia preventiva: esperienze
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strumenti per l`archeologia preventiva: esperienze
STRUMENTI PER L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA: ESPERIENZE, NORMATIVE E TECNOLOGIE A cura di Andrea D’Andrea e Maria Pia Guermandi Franco Niccolucci Editor-in-Chief Andrea D’Andrea e Maria Pia Guermandi Editors Elizabeth Jerem Managing Editor Fruzsina Cseh Copy Editor Rita Kovács Typesetting and Layout András Kardos Cover Design Cover image: ???????????????? This work is subject to copyright. All rights reserved, whether the whole or part of the material is concerned, specifically those of translation, reprinting, re-use of illustrations, broadcasting, reproduction by photocopying machines or similar means, and storage in data banks. © EPOCH and individual authors ISBN 978-963-8046-96-3 Published by ARCHAEOLINGUA Printed in Hungary by Prime Rate Budapest 2008 INDICE ANDREA D’ANDREA – MARIA PIA GUERMANDI Prevenire... Per meglio combattere ......................................................................... 5 STEFANO DE CARO Archeologia preventiva, lo stato della materia ..................................................... 11 LUIGI MALNATI La verifica preventiva dell’interesse archeologico ............................................... 21 MARIA PIA GUERMANDI CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso ................... 33 REMO BITELLI Il sistema CART .................................................................................................... 43 SOFIA PESCARIN Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future ................... 59 CHIARA GUARNIERI Archeologia preventiva. Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale: il caso dell’Emilia Romagna .......................... 73 LUCIANA PRATI Forlì – Progetto tutela delle potenzialità archeologiche del territorio ................ 93 ANDREA D’ANDREA Gli Standard nell’archeologia preventiva ............................................................. 95 FRANCESCA ULISSE La tutela del ‘Bene Culturale’ in europa tra legislazioni e strumenti operativi .............................................................................................. 107 JEAN-PAUL DEMOULE – NATHAN SCHLANGER L’archeologie preventive en France: parcours et perspectives .......................... 121 PREVENIRE... PER MEGLIO COMBATTERE Andrea D’Andrea1 – Maria Pia Guermandi2 1 CISA – Università di Napoli L’Orientale [email protected] 2 ISTITUTO BENI CULTURALI Emilia-Romagna [email protected] L’idea di pubblicare questo volume è nata nel corso di un dibattito organizzato dalla rete di eccellenza Europea EPOCH nel Novembre del 2007 a Paestum su “Digital Libraries for the protection and valorisation of the territory: Preventive archaeology in the experience of EPOCH”. L’interesse mostrato verso i temi affrontati nell’incontro, ci ha spinto a trasformare la semplice pubblicazione degli interventi in un libro più ampio in grado di abbracciare, da differenti prospettive ed osservatori (giuridica, normativa, professionale, tecnologica, etc.), lo scenario attuale dell’archeologia preventiva in Italia. All’iniziale confronto tra l’esperienza francese dell’INRAP e il quadro normativo e professionale definito dall’adozione della L. 25 Giugno 2005, n.109 (Vedi Appendice 2), si è successivamente aggiunto un interesse mirato a definire l’evoluzione della disciplina in rapporto al mutato scenario giuridico e soprattutto in relazione alle opportunità offerte dalle nuove tecnologie informatiche, in particolare nel settore dei GIS. L’obiettivo del volume non vuole quindi limitarsi alla semplice registrazione dei cambiamenti introdotti dai mutamenti legislativi, ma si estende alla necessità di vedere quanto una riforma, rivolta soprattutto al campo degli appalti pubblici, possa aver accelerato una naturale trasformazione dei metodi, delle procedure e degli standard nell’archeologia del territorio e del paesaggio. Il titolo del libro insiste sul valore della conoscenza come strumento preventivo e si configura come l’evoluzione naturale di quell’originale “archeologia del rischio” che soltanto alcuni anni fa era considerato un punto di mediazione tra gli interessi scientifici dell’archeologia del territorio e quelli invece indirizzati allo sviluppo urbanistico. Anche se in senso fortemente ironico e provocatorio, il termine era stato prescelto alcuni anni fa come titolo di un importate convegno (“Rischio archeologico: se lo conosci lo eviti “, Atti del Convegno di “Studi su cartografia archeologica e tutela del territorio”, a cura di Maria Pia Guermandi, Ferrara 2001) che metteva per la prima volta al confronto le differenti esperienze italiane nel campo dell’archeologia del paesaggio e della tutela con le applicazioni di GIS, uno strumento informatico per la catastazione del dato a connotazione spaziale. Per lungo tempo, ed in modo consapevolmente equivoco, si è mantenuta una oscillazione semantica tra una archeologia del rischio ed una predittiva, una potenziale e quella di emergenza, una confusione che in realtà mascherava osservatori distinti e nettamente separati quando non conflittuali. Questa differenza terminologica celava l’esistenza di ambiti di intervento slegati, ognuno dei quali caratterizzato da una sua precisa, circoscritta e ben connotata area di azione. L’archeologia di emergenza identificava l’attività di controllo del territorio da parte delle Soprintendenza, mentre l’archeologia predittiva rimaneva, nella sfera dell’archeologia del paesaggio, come un’area di ricerca e di studio di tipo accademico ed universitario. Questo dualismo si manifestava in modo ancora più evidente sul piano delle 5 Andrea D’Andrea – Maria Pia Guermandi applicazioni informatiche; ad un numero scarso di GIS intra-site destinati al controllo a livello urbano corrispondeva, invece, un alto numero di soluzioni “predittive” di tipo territoriale (intra-site) finalizzate all’adozione di tradizionali tecniche di analisi spaziale (site-catchment, intervisibilità, analisi di percorsi, etc.) per la ricostruzione delle dinamiche del popolamento antico. Più confusione ha generato in ambito Italiano l’uso del termine “rischio archeologico”. Mentre per alcuni esso si riferiva a quell’opera di “aggressione” al territorio realizzata con la costruzione di infrastrutture civili e private, per altri proprio la presenza di resti archeologici piuttosto che rappresentare una risorsa era vista come un ostacolo (il rischio appunto) al naturale sviluppo dei territori ed alla loro modernizzazione. Il tema era stato già esaminato da A. Gottarelli nel 1997 (Sistemi informativi e reti geografiche in archeologia: GIS-Internet, Firenze, All’Insegna del Giglio) il quale, a proposito della diffusione dei GIS, sosteneva a ragione che il rischio è semmai per appaltatori e costruttori di opere pubbliche. Se il versante che si può riconoscere in questa presunta modernità vedeva l’archeologia come un rischio, l’assenza di strumenti adeguati di conoscenza del territorio – se si escludono le poche carte archeologiche realizzate – isolava in una sfera di emergenza qualsiasi intervento sul campo, in assenza di una reale programmazione delle iniziative ed una conoscenza preventiva delle aree in cui si doveva operare per tener dietro lo sviluppo dei servizi civili e pubblici. Il rapporto tra le esigenze di salvaguardia del patrimonio archeologico e quelle di pianificazione urbanistica e territoriale hanno portato oggi il tema della valutazione del rischio archeologico e della archeologia preventiva in primo piano. Attualmente le normative per la valutazione dell’impatto di opere infrastrutturali sui beni archeologici sono al centro di un dibattito – metodologico e operativo – che coinvolge differenti figure professionali quali geologi, architetti, ingegneri, avvocati oltre che archeologi. Chi si occupa di Beni Culturali ed in modo particolare di interventi di scavo sul campo, di progettazione e di edilizia deve necessariamente fare i conti con le mutate condizioni giuridiche e professionali dell’archeologia. Grazie anche alla nuova normativa della L. 109/2005 sembra più corretto adoperare il termine “carta del potenziale archeologico”, sebbene, in talune circostanze l’uso dell’espressione “rischio” sia più efficace. Ci riferiamo soprattutto al caso in cui per garantire l’integrità e la preservazione di un complesso archeologico sia necessario monitorare, anche con strumenti informatici, i pericoli causati ad esempio da fattori antropici (incendi, fenomeni sociali, inquinamento, etc.) e/o ambientali (dissesti idrogeologici, frane, smottamenti, etc). L’espressione “carta del potenziale archeologico” si riferisce a quelle soluzioni GIS (di cui CART è senza dubbio il sistema più ampiamente sperimentato) caratterizzate dal puntuale e dinamico posizionamento, sulla planimetria adoperata per la pianificazione, dei resti archeologici, noti da scavo o da fonti non distruttive (survey, foto-interpretazione, letterature grigia, telerilevamento, prospezioni, etc. ). Mappando tutte le evidenze è possibile comprendere appieno un territorio e la sua storia; in questo modo qualsiasi decisione urbanistica ed ambientale è adottata prendendo in considerazione la presenza di beni archeologici o la loro eventuale scoperta in occasioni di lavori pubblici o infrastrutture civili. I policy makers possono così agire in base ad un più razionale sviluppo del territorio ed una maggiore programmazione degli interventi che investono il paesaggio antico e moderno. 6 Prevenire... per meglio combattere In un futuro oramai prossimo la carta del potenziale archeologico diverrà un fondamentale strumento di pianificazione urbanistica che consentirà di conoscere la posizione, la profondità, la natura dei rinvenimenti archeologici e di evidenziare le aree di maggior rischio. In tale ottica i GIS assumeranno un ruolo sempre più centrale nei processi di indagine, sistemazione e organizzazione delle informazioni archeologiche a connotazione spaziale. Da qui deriva, però un problema la cui soluzione non può essere più a lungo rinviata. Onde evitare che ogni archeologo, Soprintendenza o Regione si doti della propria carta del potenziale archeologico che non dialoga con altri simili supporti informatici, è necessario che tutto il lavoro si svolga nel quadro di una standardizzazione delle metodologie e delle procedure adottate. Oltre a favorire l’integrazione delle risorse e quindi ad aumentare la conoscenza ed il controllo del territorio, un approccio “condiviso” potrà garantire la preservazione delle risorse nel medio e lungo periodo in rapporto alle continue evoluzioni dell’informatica e delle tecnologie. Con queste premesse EPOCH ha voluto raccogliere la lunga esperienza sul campo maturata durante l’implementazione e l’uso di CART per adoperarla in funzione di caso di studio e per evidenziare quelle pratiche che possono legittimamente porsi come guidelinees. Quando nell’evoluzione di EPOCH l’analisi nel campo degli standard ha cominciato ad investire anche i temi della georeferenziazione e i GIS, alcuni partner tra cui il PIN di Prato, l’IBC di Bologna e il CISA di Napoli, hanno pensato di utilizzare l’esperienza di CART come esempio di buona pratica. Ecco perché il convegno dedicato inizialmente all’uso delle biblioteche/archivi digitali per la tutela del patrimonio archeologico e le attività di EPOCH in questo settore, si è poi focalizzato sull’illustrazione del progetto CART elaborato alcuni anni fa dall’Istituto Beni Culturali e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna. * * * Nell’analisi della legislazione europea a cura di Francesca Ulisse, davvero innovativa perché condotta, una volta tanto, dalla parte dell’utente archeologo, attraverso il confronto fra i diversi strumenti giuridici in uso, ben si evidenziano lacune e distorsioni culturali che ancora caratterizzano le diverse concezioni di patrimonio culturale. Così nel caso italiano, al di là di un impianto normativo in sé indubbiamente avanzato ed aggiornato, si sottolinea una dannosa carenza di collegamento fra normative di ambito culturale e quelle, “tangenziali”, che interessano il governo del territorio e l’ambiente: tale separatezza costituisce spesso l’antefatto di contrapposizioni dannose fra i vari organi chiamati ad agire, a diverso titolo, sul territorio. In campo europeo l’autrice rileva poi la ormai consistente esperienza di taluni paesi nel settore della produzione di cartografia archeologica, Gran Bretagna e Olanda su tutti. Tale produzione è per di più connotata da una reale efficacia e funzionalità d’uso a livello di pianificazione territoriale, al contrario di quanto avviene spesso nei paesi area mediterranea, dove l’elaborazione cartografica ha finalità precipue di ricerca che mal si adattano ad altri ambiti non squisitamente accademici. Dall’ambito europeo a quello nazionale l’analisi giuridica è resa ancor più puntuale nel testo di Luigi Malnati, a commento della Legge 25 Giugno 2005, n. 109. L’intervento, ripreso da un articolo precedente, fotografa con precisione gli aspetti positivi e negativi di un dispositivo legislativo tuttora congelato, grazie ad una sentenza del Consiglio di Stato, 7 Andrea D’Andrea – Maria Pia Guermandi alla situazione delineata dall’autore nel 2005: primo passaggio, e in tal senso apprezzabile, di adeguamento normativo ad una realtà, quella dell’archeologia di scavo, profondamente mutata nella pratica e negli obiettivi rispetto alla codificazione legislativa che, anche nel pur recente Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004, non riesce ancora a fornire un quadro giuridico aggiornato in questo settore specifico. Tale carenza è sottolineata ulteriormente nell’ampia disamina di Chiara Guarnieri che, con ulteriore dettaglio, analizza la cornice legislativa in cui si attua l’archeologia preventiva a livello regionale. L’autrice amplia la trattazione dal piano giuridico a quello della prassi operativa che, in Emilia Romagna, è da sempre connotata da una diffusa sensibilità e propensione alla collaborazione istituzionale. Tale favorevole situazione di apertura e confronto fra Stato ed enti locali a vario livello (purtroppo non così generalizzata a livello nazionale) costituisce l’antefatto e il sottofondo imprescindibile a quelle elaborazioni che hanno condotto alla realizzazione di CART e quindi al tentativo di evolvere da un concetto di cartografia come semplice registrazione dell’esistente ad una cartografia che permetta indicazioni di tipo predittivo e che, anche per questo, possa costituire uno strumento efficace in sede di pianificazione urbanistica. Se attraverso l’analisi del contesto giuridico è possibile quindi individuare alcune precise linee di tendenza che identificano concezioni diverse del nostro patrimonio/bene culturale e anche della tutela, sul piano metodologico e professionale, l’analisi di Andrea D’Andrea evidenzia le numerose carenze che, soprattutto a confronto con altre realtà europee, Francia e Gran Bretagna in primis, caratterizzano la situazione italiana. Nell’analisi si evidenziano una serie di problemi strutturali, culturali ed in particolari formativi che continuano ad ostacolare in Italia la creazione di un corpo di professionisti dello scavo in grado di operare nelle situazioni più diverse imposte dalla variabilità della così detta archeologia d’emergenza e dotati di competenze per quanto riguarda i moderni – ma ormai ampiamente diffusi – strumenti di trattamento digitale delle informazioni (GIS e ricostruzioni virtuali sopra gli altri). Ma l’ampia diffusione di questi strumenti ha, però, coinciso con la generalizzata frammentazione, a livello non solo italiano ma internazionale, di sistemi, modelli di catalogazione, linguaggi descrittivi, fenomeno che ha reso necessaria l’adozione di standard condivisi in grado di garantire, assieme ad altri strumenti tecnologici e metodologici, l’interoperabilità di dati e archivi e quindi, in definitiva, una ben più ampia diffusione della conoscenza. Il sistema CART che si propone, infine, come esempio di sistema informativo territoriale archeologico mirato specificamente alla pianificazione territoriale è illustrato da Maria Pia Guermandi per quanto riguarda la genesi e gli obiettivi scientifico-istituzionali; la lunga esperienza di CART costituisce un caso abbastanza unico nel settore dei GIS e quindi un caso prezioso per studiarne l’evoluzione nel tempo, evoluzione non solo tecnologica, ma soprattutto metodologica e operativa e che è stato possibile analizzare e programmare grazie all’inserimento del progetto CART all’interno di EPOCH. Nel testo sono quindi evidenziati sia gli aspetti di criticità che hanno reso necessario, nel tempo, un adeguamento del sistema a più livelli, sia gli elementi di forza che ne hanno consentito lo sviluppo nel tempo: l’insieme di tali elementi viene quindi proposto all’attenzione e alla discussione di chi opera in questo ambito nella certezza, che l’esperienza di EPOCH ha contribuito a diffondere in maniera decisiva, che uno dei fattori prioritari di sostenibilità di progetti di questo tipo consista nella sua capacità di aprirsi alle esperienze consimili, mutuandone elementi di miglioramento. 8 Prevenire... per meglio combattere Illustrazione dettagliata di questo percorso di analisi del sistema CART compiuta grazie ad EPOCH, è descritta nel testo di Remo Bitelli che fornisce un quadro pressochè esaustivo degli aspetti scientifici ed operativi del sistema stesso ed evidenzia, con il ricorso alle elaborazioni cartografiche alcuni dei risultati ottenuti tramite il ricorso a strumenti di questo tipo. Per quanto riguarda infine il contesto tecnologico, nel testo di Sofia Pescarin esso è definito anche tramite il ricorso al confronto con esperienze e sistemi in uso in particolare in ambito inglese: tale confronto ha consentito di elaborare nuove ipotesi evolutive del sistema CART. Per quanto riguarda l’aspetto tecnologico, evidenziando l’esigenza di determinate caratteristiche funzionali verso l’acquisizione delle quali il sistema dovrà evolvere. Nell’insieme il volume si pone l’obiettivo di fornire un’analisi su più livelli di un settore della disciplina archeologica e della tutela del patrimonio in generale quanto mai sollecitato dalle esigenze sempre più incalzanti di trasformazione del territorio determinate in particolare dalla ripresa del fenomeno dell’urbanizzazione diffusa e dalle necessità connesse ai problemi di mobilità urbana e di infrastrutturazione del territorio. Le risposte fornite dagli operatori del settore culturale a queste domande hanno trovato espressione sia nell’evoluzione legislativa che in quella metodologica e tecnologica. Si tratta di risposte spesso molto difformi per modalità di approccio, livello di operatività, ampiezza di soluzioni e verifica d’uso. Gli interventi del volume, oltre a proporre confronti fra le varie esperienze europee evidenziano criticità e possibili evoluzioni, focalizzando l’attenzione su uno strumento specifico (CART) e su una soluzione istituzionale (INRAP) proposte, a diverso titolo, all’attenzione della comunità di EPOCH e di tutti gli operatori di ambito archeologico quali esempi di best practices. L’ampiezza delle suggestioni proposte e la complessità dei problemi delineati, senza avere la pretesa di fornire soluzioni definitive riteniamo che, nello spirito di EPOCH, contribuisca a sollecitare non solo la discussione, ma anche l’elaborazione di specifiche iniziative su un tema, quello dell’archeologia preventiva, cruciale nell’evoluzione del governo del territorio e nella concezione europea della tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, e sul rapporto che questa intrattiene con i territori contigui della tutela del patrimonio culturale, il governo del territorio e la politica culturale in senso ampio. 9 ARCHEOLOGIA PREVENTIVA, LO STATO DELLA MATERIA Stefano De Caro Direzione Generale per i Beni Archeologici del MiBAC 1. INTRODUZIONE Dopo aver goduto negli anni scorsi di un momento di intenso interesse sotto il profilo della discussione metodologica, in coincidenza con la fase di avvio e di più intensa attività esplorativa su alcuni grandi lavori pubblici (Alta Velocità, Metropolitane, US Navy Support Site di Gricignano di Aversa, etc.) e poi con l’introduzione nel nuovo Codice dei Beni Culturali (Decreto Legislativo n. 42 del 22 gennaio 2004) con l’articolo 28, comma 4, di una specifica norma che regolava la materia, il tema dell’archeologia preventiva sembra in questa fase messo per un attimo in ombra da altri argomenti, peraltro non meno rilevanti come quello delle restituzioni dei reperti scavati clandestinamente ed usciti illegalmente dal territorio nazionale. Facciamo un breve excursus storico: il tema dei rinvenimenti archeologici sulle grandi infrastrutture territoriali è sempre stato uno dei punti dolenti dell’archeologia italiana. La modernizzazione, anzi la creazione delle infrastrutture dell’Italia unita si realizzò con un altissimo costo in termini di patrimonio archeologico (e paesaggistico): anfiteatri divisi a metà, paesaggi costieri con tutte le infrastrutture antiche di ville, porti, etc. furono il prezzo che si pagò da parte di un’archeologia che non aveva ancora compiuto il passaggio dal monumento al territorio e da una politica forse inevitabilmente più attenta alle esigenze di creare uno stato moderno che di salvaguardare le antichità; anzi queste ed i suoi cultori furono, da una vivace parte dell’intellettualità, percepite come il nemico, oscurantista e ostacolo al progresso della civiltà delle macchine. Né riusciva ad essere efficace lo strumento che pure, fin dall’inizio della storia dell’amministrazione unitaria, era stato indicato come risolutore del conflitto: la carta archeologica. Nel periodo fascista la situazione, pur nel clima di esaltazione della romanità, non mutò sostanzialmente: anzi, la storia della via dei Fori Imperiali dimostra come le infrastrutture, e soprattutto quella funzionali all’immagine del regime, fossero sentite come un’esigenza superiore, da non subordinare alle esigenze archeologiche, pur se queste ricevevano proprio in questo momento la dignità di una legislazione, al 1089 del 1939, di grande efficacia. Contemporaneamente va segnalata la contemporanea nascita della legislazione sul paesaggio, pur se questo era concepito del tutto esteticamente, secondo le tendenze filosofiche del momento. Il dopoguerra, con le pressanti esigenze della ricostruzione, e la necessità di espandere il sistema infrastrutturale a sostegno del “miracolo economico”, rappresentò una nuova ondata di distruzioni del patrimonio archeologico: città antiche (ad esempio Cales in Campania), città medievali (ad esempio Aquino), ville romane, come quella di Murecine recentemente riesplorata presso Pompei, furono tranciate nella costruzione del tracciato autostradale RomaNapoli-Pompei. 11 Stefano De Caro 2. LA TUTELA, LE SUE STRUTTURE, I SUOI PROBLEMI Com’è noto, anche la recentissima revisione del Codice dei Beni Culturali (D.Lgs.vo 42/2004) non ha comportato consistenti cambiamenti rispetto all’impianto normativo della legge 1089/1939. Le più rilevanti modifiche di qualche anno fa, e che avevano sollevato maggiori preoccupazioni, relativamente alla neo-introdotta alienabilità del patrimonio pubblico, sono state progressivamente contemperate da un lato da miglioramenti della procedura di verifica e dall’altro da una accorta messa in atto della stessa rispetto alle presenze archeologiche da parte delle Soprintendenze, talché la paventata svendita di siti archeologici non ha avuto luogo. E’ stato viceversa opportuno l’aggiornamento delle sanzioni amministrative e delle pene per i reati di danneggiamento e distruzione. Oggi pertanto non si può dire indebolita la struttura legale della tutela. Maggiori innovazioni e complessità hanno prodotto sull’apparato della tutela i successivi provvedimenti regolamentari che hanno riorganizzato la struttura del Ministero, con la creazione delle Soprintendenze Regionali, diventate poi Direzioni regionali, le cui competenze sono state di recente rivisitate dall’ultimo provvedimento organizzativo (cfr. da ultimo il DPR 26 novembre 2007 n. 233, in G.U. n. 291, suppl. ord. n. 270, del 15 Dicembre 2007 recante il Regolamento di riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali, a norma dell’articolo 1, comma 404, della legge 27 dicembre 2006, n. 296). Il passaggio della competenza in materia di emanazione delle dichiarazioni di interesse ex art. 12 del D.Lgs.vo 42/2004 (vincoli) dalle Direzioni centrali a quelle regionali (salvo l’obbligo di queste strutture periferiche di riferire trimestralmente ai direttori generali centrali sull’andamento dell’attività di tutela svolta), se da un lato obbedisce al criterio di una maggiore vicinanza del centro responsabile al territorio (e verosimilmente presuppone una sua conoscenza più aggiornata) e a quello dell’integrazione con altre forme di tutela, dall’altro pone la necessità di un’uniformità sul territorio nazionale dei criteri di proposizione e formulazione (art. 12, comma 2, del D.Lgs.vo 42/2004) dei provvedimenti dichiarativi di tutela, diretta, e soprattutto, indiretta sui quali peraltro sono chiamate ad esprimersi apposite commissioni regionali. La vicinanza del decisore del vincolo al territorio lo rende tuttavia più esposto alle sollecitazioni dello stesso, alla sua visione dei problemi e impone al centro di verificare che il primato delle ragioni della tutela rispetto ad ogni altra considerazione anche legittima di sviluppo o economica, quale richiesto dall’articolo 9 della Costituzione, non ceda alle ragioni delle esigenze di sviluppo (economicamente inteso) del territorio. Questo dello sviluppo del territorio come frutto dell’equilibrio tra le (costituzionalmente prevalenti) ragioni della tutela dei beni culturali in esso presenti e legittime necessità di modificazione del territorio è in realtà forse il maggior problema culturale di un Paese come l’Italia, e l’onnipresenza degli aspetti archeologici in tutto il territorio italiano fa sì che fatalmente esso sia il problema di prima linea dell’archeologia. Faccio un solo esempio: gli scavi in anni recenti di alcuni siti in aree sepolte in vari momenti storici da eruzioni vulcaniche in Campania (ma lo stesso potrebbe valere per tutte le altre aree vulcaniche italiane per i siti coinvolti da alluvioni e simili fenomeni catastrofici del passato) dimostrano che in queste aree, per vastissime estensioni (tutta la provincia di Napoli, e metà di quella di Caserta e di Salerno) sono stati conservati in maniera pressoché integrale interi paesaggi fossili (centinaia di villaggi preistorici, le loro necropoli, i campi, le aree 12 Archeologia preventiva, lo stato della materia forestali comunque sfruttate); se consideriamo poi che per effetto della migliorata tecnica di scavo e di documentazione, dell’applicazione delle scienze naturali come la paleobotanica, il concetto di bene archeologico si è esteso a tematiche prima poco considerate, se ne deduce che in teoria è possibile tutelare con provvedimenti amministrativi tutte queste vastissime estensioni di suoli come riserve scientifiche di beni archeologici di grandissimo valore culturale (si vedano gli scavi del villaggio dell’età del Bronzo di Nola, di Poggiomarino, della stazione TAV di Afragola etc.). Pur essendo possibile, questo è tuttavia teorico, non solo per la incapacità tecnica dell’amministrazione di emanare i tantissimi provvedimenti legali necessari (ma oggi si potrebbe ovviare con un provvedimento di natura paesaggistica), ma per l’impossibilità “politica” che il Ministero avrebbe a sottomettere ad un regime fatalmente penalizzante sotto il profilo della trasformabilità uno dei territori più densamente abitati del Paese. In teoria si potrebbe immaginare di realizzare qui immensi parchi archeologici, (per grandi Pompei della preistoria di cui godere in futuro). Ma ovviamente questo è possibile solo in presenza di accordi sul modello di sviluppo del territorio, e dell’uso del suolo, di scala nazionale, ed in ogni caso di natura non solo archeologica. Resta in ogni caso aperto fin da ora alla discussione il tema della proposizione dei vincoli e della loro gestione. Lo spostamento delle competenze (ora senza possibilità di delega) della stazione appaltante dalle Soprintendenze ordinarie alla Direzione Regionale costituisce certamente un incentivo alla sempre maggiore specializzazione in senso tecnico-scientifico delle Soprintendenze territoriali; è essenziale tuttavia che soprattutto per far fronte agli interventi urgenti (ad esempio in presenza di scavi clandestini, o di lavori pubblici o privati potenzialmente distruttivi..) questo compito sia svolto con assoluta tempestività e senza rischi di attardamenti burocratici. E’ ben noto che le Soprintendenze attraversano oggi un momento particolarmente difficile per la grave carenza di personale tecnico-scientifico. Se alla carenza di dirigenti (gravissima per il periodo 2006–2007) si è ovviato, in emergenza, con incarichi ad interim ai pochi dirigenti in servizio, a docenti universitari e a dirigenti di altre Amministrazioni e si sta provvedendo con il concorso in via di svolgimento, non è purtroppo ancora previsto un analogo provvedimento per ovviare all’insufficienza numerica di archeologi, geometri, architetti rilevatori, restauratori, per non dire di specialisti come i medievisti, i numismatici, gli epigrafisti, gli antropologi, cartografi, informatici, etc. Queste difficoltà sono tanto più gravi in quanto le Soprintendenze devono fronteggiare un consumo di territorio sempre più intenso che, inevitabilmente, data la ricordata storia del territorio italiano, non può non coinvolgere in primo luogo l’archeologia. Il numero di procedimenti che i funzionari devono oggi seguire per ragioni di tutela è certamente molto cresciuto, mentre il numero degli stessi è costantemente diminuito. La qualità stessa delle strutture si è fatalmente appannata: i laboratori di restauro (ed il personale) sono invecchiati, la mancanza di aggiornamento professionale non è sempre colmabile con la buona volontà, gli archivi che conservano la memoria della tutela non sono informatizzati, le biblioteche di Soprintendenza, che erano soprattutto nelle sedi periferiche distanti dalle sedi universitarie (oggi queste sono aumentate, ma spesso non hanno biblioteche specializzate apprezzabili) il luogo in cui l’attività di tutela veniva trasformata in dati scientifici, sono invecchiate, non aggiornate, non informatizzate, non collegate in rete. Queste carenze di personale tecnico-scientifico e di strutture nelle Soprintendenze è particolarmente sensibile nei suoi effetti in relazione all’accresciuta quantità di lavori 13 Stefano De Caro pubblici, un campo evidentemente di grande importanza per la sua rilevanza economica che ha imposto all’attenzione del legislatore il tema dell’archeologia preventiva. Per lunghi decenni gli archeologi avevano chiesto di poter intervenire fin dalla fase di progettazione delle grandi opere infrastrutturali aventi un grande impatto sul territorio. Ancora fino agli anni della ricostruzione postbellica questo è stato tuttavia impossibile e non vi è regione italiana dove non si debbano lamentare dolorosi sventramenti di aree archeologiche attuati da autostrade, ferrovie ed altre opere pubbliche. Un timido segnale di maggior attenzione al problema emerse per la prima volta all’inizio degli anni ‘80, in due circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del 20 aprile 1982 e del 24 giugno 1982, che impartirono a tutte le Amministrazioni pubbliche la direttiva di sottoporre in via preliminare, già in fase di localizzazione, all’esame del Ministero dei BB.CC. tutti i progetti di opere pubbliche da realizzare in aree anche solo indirettamente vincolate. Questo primo atto politico, che tradusse in un documento giuridico la necessità, da tempo manifestata dalle Soprintendenze, di poter intervenire a tutela del patrimonio archeologico con strumenti più efficaci del vincolo puntuale, inadeguato di fronte a lavori di considerevole ampiezza, fu seguito da un intensificarsi dell’azione delle Soprintendenze in coincidenza con la realizzazione di nuove grandi infrastrutture (metanodotti, interporti, ferrovie metropolitane e ad alta velocità). La direttiva coglieva un punto fondamentale del problema, quello di verificare fin dalla decisione sul tracciato, la compatibilità delle opere pubbliche con le preesistenze archeologiche; era altresì il primo atto politico che traduceva in un documento giuridico la necessità, ormai da tempo manifestata dalle Soprintendenze, di poter intervenire a tutela del patrimonio archeologico con strumenti più adeguati del vincolo puntuale, rivelatosi inefficace di fronte a lavori di valenza territoriale. A testimonianza della sensibilità che le Soprintendenze avevano a quel tempo al problema, ricordiamo le discussioni che si ebbero nel Veneto ed in Emilia-Romagna sul sistema della centuriazione e dei canali del delta padano, investiti dalle opere di bonifica ed irregimentazione delle acque, ma anche le discussioni sugli impianti industriali di Megera Iblea. Questa nuova ondata di interventi è stata a lungo affrontata e risolta caso per caso dai Soprintendenti, armati solo della loro esperienza, di un coordinamento spontaneo, e con uno sguardo attento alle esperienze più strutturate che con un certo anticipo avevano fatto sul tema i colleghi francesi e inglesi. In particolare ebbero influenza sulla prassi adottata in Italia, anche per la concomitante attenzione suscitata dal dibattito sulle nuove tecniche di scavo stratigrafico e sull’archeologia urbana, le esperienze inglesi, che pur si svolgevano in un contesto organizzativo del tutto diverso. Qui, all’inizio degli anni ‘70, dopo la reazione dell’opinione pubblica alla pubblicazione del libro di Martin Biddle, The Future of London’s Past, che aveva denunciato la distruzione del sottosuolo archeologico londinese per effetto dei lavori edili che trasformavano il centro storico della città, fu creato il Department of Urban Archaeology (DUA), seguita negli anni ’80 dal Department of Greater London Archaeology (DGLA), strutture che si sono poi fuse nel 1991 nel Museum of London Archaeology Service (MoLAS), un Istituto pubblico operante in regime privatistico che costituisce oggi il maggior protagonista dell’archeologia urbana e preventiva inglese (insieme ad altre due società simili quali l’Oxford Archaeology e la Wessex Archaeology). Più vicina al modello pubblico italiano, ma dotata di caratteri del tutto peculiari è stata l’esperienza sviluppatasi in Francia; qui, fin dal 1973 la maggior parte degli scavi preventivi 14 Archeologia preventiva, lo stato della materia per i grandi lavori pubblici, come il Treno ad Alta Velocità (TGV), fu affidata ad una società appositamente costituita e distinta dagli ordinari organi di tutela, l’AFAN (Association pour les Fouilles Archéologiques Nationales ) – il termine stesso di «archeologia preventiva» si pone in quest’ambito (J. Lasfargues, 1979)– dalla quale nel 2001 è nato l’Institut National des Recherches Archéologiques Préventives (INRAP) (Vedi contributo di Demoule e Schlanger in questo volume), un istituto pubblico che esplora ogni anno circa il 20 % delle aree francesi «consumate» dai grandi lavori : 15 000 ettari nel 2005). Questi sviluppi nella prassi della tutela trovavano riscontro in documenti metodologici come la Carta ICOMOS (1990), che raccomandava che (…) “la legislazione deve richiedere una esplorazione archeologica ed una documentazione integrale nei casi in cui sia autorizzata la distruzione del patrimonio archeologico” (art.3) e più oltre, all’art.5, dichiarava che “la conoscenza archeologica è basata su un’investigazione scientifica che comprende un’intera serie di metodi da.. allo scavo integrale. Lo scavo deve essere condotto sui siti e sui monumenti minacciati dalle costruzioni (development) dal mutamento dell’uso del suolo, dal saccheggio o dall’erosione naturale”; o da convenzioni internazionali come quella del Consiglio d’Europa di La Valletta per la salvaguardia del patrimonio archeologico (16 maggio 1992) (che riconosceva che “il patrimonio archeologico europeo, testimone della storia antica, è gravemente minacciato dal moltiplicarsi dei grandi lavori i pianificazione del territorio…” e che “(…) se i relativi progetti devono essere attuati, allora deve essere previsto un tempo adeguato perché sia realizzato un appropriato studio scientifico del sito” (art. 5). A differenza dei modelli sopra ricordati, in Italia la straordinarietà dell’impegno dello scavo preventivo è stato affrontato dalle Soprintendenze delegando l’attività sul campo ad una molteplicità di soggetti privati, le «cooperative archeologiche», sorte spesso a ridosso delle Università, ma da esse del tutto indipendenti, alle quali è stato affidato dagli appaltatori dell’opera pubblica, su indicazione delle Soprintendenze, il lavoro di scavo e di documentazione. Sorte in gran numero e messe in concorrenza tra loro, queste «cooperative» non hanno tuttavia mai conseguito, salvo pochissimi casi, una dimensione veramente imprenditoriale (e in nessun caso paragonabile a quella dei modelli inglesi e francesi) ed anche per questo sono rimaste incapaci di sviluppare una struttura scientifica e professionale adeguata: se la loro attività ha permesso di ammortizzare negli anni il problema della disoccupazione intellettuale sviluppatasi nel settore a seguito della moltiplicazione degli insegnamenti universitari di archeologia, non ha permesso di affrontare in maniera organica le esigenze del settore che oggi si rivelano in tutta la loro complessità. Esigenze che sono state oggetto di dibattiti in incontri tecnici e convegni come “Archeologia. Rischio o valore aggiunto?” (a cura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma 17 ottobre 2001, Bollettino di Archeologia, 53–54, 2004), con i quali si sono in certo modo preparate le nuove disposizioni legislative che sono intervenute finalmente a sanare il vuoto legislativo determinatosi tra prassi e norma. Con l’art. 28, comma 4 del Codice si è così sancito che “in caso di realizzazione di lavori pubblici ricadenti in aree di interesse archeologico, anche quando per esse non siano intervenute la verifica di cui all’articolo 12, comma 2, o la dichiarazione di cui all’articolo 13, il soprintendente può richiedere l’esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree medesime a spese del committente.”. Questo comma è stato poi ulteriormente dettagliato nella legge n. 109 del 25.06.2005 che all’art. 2 ter ha disciplinato la verifica preventiva 15 Stefano De Caro dell’interesse archeologico. Essa ha stabilito che le opere “sottoposte all’applicazione delle disposizioni della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro sui LL.PP.) e del decreto attuativo 20 agosto 2002, n. 190 (attuativo della c.d. Legge Obiettivo), le stazioni appaltanti debbano trasmettere prima dell’approvazione al soprintendente territorialmente competente copia del progetto preliminare dell’intervento, insieme con le indagini archeologiche e geologiche preliminari, di cui all’art. 18, comma 1, lettera d) del regolamento di cui al DPR 21 dicembre 1999, n. 554, con particolare attenzione ai dati di archivio, ricognizioni sul terreno, alla lettura della geomorfologia del territorio, nonché alla fotointerpretazioni per le opere a rete”. La documentazione è raccolta, elaborata e valicata dai dipartimenti archeologici delle Università o da soggetti in possesso di laurea di specializzazione in archeologia o da dottorato di ricerche in archeologia. Segnaliamo qui alcuni aspetti di particolare criticità come l’istituzione presso il Ministero di un elenco degli istituti universitari e dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione, quasi un albo di categoria (in tal senso non sono mancate pressioni da parte delle associazioni degli archeologi): il previsto decreto del Ministro dei Beni Culturali, che era da emanarsi entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione, non è stato ancora emanato, per le difficoltà nell’individuare criteri per definire la adeguata qualificazione degli istituti universitari e dei soggetti (un parere negativo è stato espresso il 15/05/2006 dal Consiglio di Stato sul regolamento, predisposto dal Ministero dei Beni Culturali, relativo al funzionamento dell’elenco degli istituti e dei dipartimenti archeologici universitari). Così come neppure è stato emanato l’altro previsto decreto, emanando entro 180 giorni, del Ministro dei Beni Culturali di concerto con quello delle Infrastrutture per stabilire le linee guida alla procedura. Oppure, altro punto di interesse è l’esclusione dalla previsione della procedura contrattualizzata posta sotto la competenza del Direttore Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici, delle aree archeologiche, dei parchi archeologici (evidentemente quelli istituiti dalle Regioni) e le zone di interesse archeologico “ex Galasso” di cui all’art. 142, comma 1, lettera m), del Codice, punto questo ultimo che ha evidentemente una forte relazione con la discussa progettazione dei Piani paesaggistici1. In attesa che sia al più presto possibile provvedere a concludere questo iter organizzativo, che non impedisce tuttavia che le Soprintendenze applichino già, per quanto possibile, la nuova norma, integrandola, laddove non ancora attuabile, con le prassi precedenti, vale la pena di sottolinearne qui alcuni aspetti fondamentali che sarà opportuno affrontare al più presto. Anzitutto quello delle strutture della documentazione. La legge menziona infatti tra gli strumenti preliminari sui quali si fondano gli studi che accompagnano il progetto preliminare l’analisi dei “dati di archivio o bibliografici reperibili”. Chiunque abbia operato in una Soprintendenza sa che questo è da un lato un punto critico dello strumentario tradizionale della tutela (con le carte IGM o quelle dei Piani Regolatori dei Comuni che ogni Ispettore archeologo ha riempito dei puntini che localizzano i siti archeologici a lui noti, solo da poco trasformate in carte digitalizzate), dall’altro che è questo il settore sul quale maggiormente 1 Si veda il testo della Legge 25 giugno 2005, n. 109 ed alcuni commenti (A.M. Reggiani, I Berlingò) in Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Notiziario a cura dell’Ufficio Studi, XX, 77–79 (gennaiodicembre 2005), pp. 117–122. Vedi anche I. Berlingò, Archéologie et grands travaux en Italie, in J.-P. Demoule (ed.), L’archéologie préventive dans le monde, La Dècouverte ed., Paris 2007, pp. 206–214. 16 Archeologia preventiva, lo stato della materia si è, grazie allo sviluppo delle cartografie numeriche ormai di larga diffusione presso gli Enti locali, dei GIS, della tecnologia GPS, fatto un enorme progresso. Questo campo non è stato organicamente coordinato dal Ministero, sia pure con la lodevole eccezione dell’ICCD che ha fornito gli standard cartografici per la rappresentazione del patrimonio culturale, ma è stato libero campo di sperimentazione da parte di molte Soprintendenze e Direzioni regionali che, da sole, o in coordinamento con gli Enti Locali e con le Università o altri Istituti come il CNR, utilizzando occasioni finanziarie di vari progetti speciali, hanno raccolto, sia pure senza un modello unico, una quantità notevole di dati informativi. Questo patrimonio è venuto a sommarsi ad altre significative esperienze di carattere nazionale, come la Carta del Rischio, messa a punto dall’ICR, e forma oggi una base di dati che merita di essere utilizzato appieno, organizzandolo in un sistema coordinato, evitando tuttavia la tentazione di ricominciare daccapo per una nuova “carta nazionale”, ma indirizzando le risorse necessarie verso l’attività di messa a punto della rete (fortunatamente la tecnologia informatica rende infatti oggi possibile integrare banche dati cartografiche costruite con metodi diversi;) e verso il reperimento dei dati non ancora raccolti. Questa consapevolezza è venuta maturando anche nelle sedute della commissione mista di recente istituita, avente il fine di studiare le modalità di realizzazione del “Sistema informativo Archeologico delle città italiane e dei loro territori”. L’opportunità di costruire una struttura di rete con gli Enti Locali rileva anche dal punto di vista “politico”: non solo infatti il compito di costruire ed aggiornare la cartografia compete alle Regioni e presso molte di esse sono state maturate esperienze rilevanti anche nel campo della cartografia per i Beni Culturali, come in Toscana ed Emilia-Romagna, ma anche la normativa sui piani paesaggistici, individuando come via maestra quella della collaborazione interistituzionale, rende più che mai opportuno costruire in maniera condivisa lo strato archeologico delle carte del paesaggio (vedi al riguardo l’esperienza significativa compiutasi in Campania con il PON Sicurezza che ha esteso alla cartografia archeologica l’Accordo MIBAC-Regione per un sistema catalografico condiviso dei Beni Culturali). La costruzione di una carta archeologica non è peraltro una semplice operazione tecnica. Essa presuppone uno spoglio ed una catalogazione sistematica dei dati (spesso inediti) degli archivi correnti e di quelli storici delle Soprintendenze, nonché di quelli bibliografici, ed il loro controllo topografico sul terreno prima di inserire i dati (anche degli scavi con esito negativo) sulla cartografia. E questo è evidentemente un lavoro in cui la collaborazione con le Università è preziosa, per finalizzare a scopi anche di tutela la loro continua attività di ricerca e didattica, che ormai comprende sempre più spesso ricognizioni di superficie, “lettura geomorfologica del territorio”, foto interpretazione, quelle stesse metodologie cioè previste per la raccolta della documentazione preliminare posta a corredo dei progetti da valutare in termini di archeologia preventiva. L’esperienza di questi anni di archeologia sui grandi lavori ha dimostrato che si tratta di operazioni la cui scala travalichi di molto la normale attività archeologica sia delle Soprintendenze, sia delle Università. La quantità di materiali rinvenuti, la quantità di documentazione da raccogliere in tempi necessariamente brevi, richiedono attrezzature speciali, delle quali le Soprintendenze per lo più non dispongono. In particolare si rende necessario disporre di magazzini archeologici attrezzati come laboratori nei quali sia possibile non solo conservare, ma anche sottoporre ai trattamenti di lavaggio, registrazione, documentazione, e poi nel tempo restauro e studio, senza i quali la attività di divulgazione 17 Stefano De Caro e valorizzazione prevista (ma soprattutto quella di pubblicazione, senza la quale lo scavo sarebbe pura distruzione) non è immaginabile. I musei e i depositi archeologici attuali, ma anche gli staff di tecnici dei quali dispongono le Soprintendenze (e ancora meno le Università) non sono sufficienti a svolgere questi compiti; le opere pubbliche attualmente in corso hanno largamente esaurito le potenzialità disponibili e, trattandosi di strutture temporanee, si pone già ora il problema di trovare soluzioni definitive. C’è inoltre da tener conto del fatto che l’elaborazione dei dati archeologici ai fini della pubblicazione richiede un periodo di tempo che andrà fatalmente al di là della conclusione degli scavi e forse della stessa opera pubblica: bisognerà dunque che le linee guida da emanarsi dal Ministero per la stipula degli accordi tra Direttori regionali e soggetti realizzatori dell’opera prevedano soluzioni per queste necessità, non meno che per la già prevista divulgazione e valorizzazione. Ma soprattutto le linee guida dovranno elaborare (e ciò implica naturalmente un dibattito di vasta portata che va ben al di là delle competenze scientifiche e amministrative di chi scrive) un documento orientativo sui criteri di valutazione alla luce dei quali operare delicate scelte di tutela quali la rimozione, la dislocazione e il rimontaggio. Dibattiti quali quelli che si sono sviluppati sulla linea C della Metropolitana romana o sul parcheggio del Pincio dimostrano che vi è bisogno di chiarire le finalità della ricerca archeologica nell’attuale momento storico e come essa si inserisca, e con quali “regole dell’arte” nel più vasto ambito della tutela del paesaggio storico nel suo insieme. Dovranno essere regolamentati anche alcuni aspetti tecnici collegati alla prassi degli scavi, quali la demolizione o la dislocazione dei beni archeologici, oggi autorizzabile solo dal Direttore Generale (art. 21, commi 1a e 4 del Codice dei BB.CC.P.), fatti salvi i casi di urgenza in cui essa può essere disposta dal Soprintendente (DPR 233/2007, Regolamento di organizzazione del Ministero, art. 6, comma 2, lett. i). Usualmente tale autorizzazione non viene richiesta quando il direttore dello scavo ordina, pur con tutte le cautele del caso, la rimozione di un’unità stratigrafica, normalmente strati di terra e cocci, ma anche strutture per aree di piccola entità, (ma anche un pavimento di battuto, talvolta un muro tardo) per esplorare un’unità sottostante. Per evitare che questa normale metodologia archeologica possa essere interpretata come una rimozione illegale (che esporrebbe l’archeologo ai rigori dell’art. 733 del Codice penale), occorre disciplinare questa prassi con un atto di indirizzo, discusso e approvato con il competente Comitato di settore. 3. ARCHEOLOGIA SUBACQUEA Se nei decenni scorsi a suscitare attenzione sul tema dell’archeologia subacquea erano stati alcuni rinvenimenti occasionali (come i bronzi di Riace, o più di recente, il Satiro di Mazara), talché il legislatore opportunamente ha incluso nel Codice all’art. 94 una menzione della Convenzione Unesco del 2001 (Gli oggetti archeologici e storici rinvenuti nei fondali della zona di mare estesa dodici miglia marine a partire dal limite esterno del mare territoriale sono tutelati ai sensi delle “Regole relative agli interventi sul patrimonio culturale subacqueo” allegate alla Convenzione UNESCO sulla protezione del patrimonio culturale subacqueo, adottata a Parigi il 2 novembre 2001), è soprattutto il tema delle opere pubbliche a mare (si pensi ai porti commerciali o turistici, e a opere come il MOSE) a proporre l’urgenza di definire una strategia per questo settore della tutela del patrimonio archeologico. Si è 18 Archeologia preventiva, lo stato della materia così posta l’esigenza di una ricognizione di quanto è noto, con la costruzione di un sistema informativo cartografico dedicato, e ad essa si è risposto con il progetto ARCHEOMAR, che ha riguardato nella sua prima fase attuativa le regioni dell’Italia meridionale. In questo momento è in via di appalto il secondo stralcio del progetto per le regioni del centro. Resta il problema, acuitosi in questi anni recenti per la diminuzione delle risorse di personale, e delle capacità gestionali delle Soprintendenze, di mettere a punto per ogni regione (o gruppi di regioni) team di operatori archeologi subacquei addestrati per gli interventi di tutela e di ricerca. Un problema che sarebbe velleitario affrontare sulla base della sola disponibilità di forze del Ministero: occorre rinnovare gli accordi con le Capitanerie di Porto e gli altri soggetti pubblici aventi competenza sul mare e costituire delle strutture interistituzionali dedicate a questo tema. 19 LA VERIFICA PREVENTIVA DELL’INTERESSE ARCHEOLOGICO Luigi Malnati Soprintendenza Archeologica Emilia Romagna 1. PREMESSA L’ intervento che segue1 è stato scritto nel corso del 2005, a “tamburo battente”, come si suol dire, sull’effetto anche psicologico dell’entrata in vigore di una nuova normativa che si presentava come rivoluzionaria nel corpus davvero scarso della produzione legislativa in una materia, l’archeologia, in cui l’Italia vanterebbe, a parole, un primato mondiale. La volontà, al di là dei molti rilievi specifici, era costruttiva: si dava atto innanzi tutto dello sforzo con cui si era affrontata una materia del tutto nuova, non tanto nell’aspetto della programmazione degli interventi archeologici, quanto nel riconoscimento delle finalità stesse degli interventi previsti, estranei allo spirito degli articoli 88–93 del Codice dei Beni Culturali sulle ricerche archeologiche e collegati invece all’art.28, sui lavori pubblici. Nel dei due anni trascorsi non si è purtroppo proceduto ai necessari sviluppi che la L.109 del 2005 lasciava sperare. Essa è stata recepita integralmente nella nuova normativa sui Lavori Pubblici per i Beni Culturali agli artt.95 e 96 (d.l.163 del 2006), senza intervenire neppure su aspetti che si devono giudicare quanto meno ambigui, come la mancata precisazione al comma 4 dell’art.96 che la verifica preventiva dell’interesse dell’area sottoposta ad indagini stratigrafiche si considera “chiusa con esito negativo” solo dopo la conclusione dello scavo estensivo dell’emergenza archeologica a suo tempo rilevata. In generale tutta la parte esecutiva della procedura è stata ed è tuttora non regolamentata in attesa delle “linee guida” previste al comma 6 art.96, a cura del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, di concerto con il Ministero delle Infrastrutture. Nel frattempo un primo tentativo di definire i criteri per la compilazione dell’elenco dei soggetti abilitati a validare i progetti preliminari delle opere pubbliche per la parte archeologica, operato da una commissione mista formata da rappresentanti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e da una rappresentanza di professori universitari di discipline archeologiche non ha avuto successo. Tale commissione aveva definito le qualifiche necessarie ai Dipartimenti Universitari per essere inseriti in elenco (la presenza di un numero minimo di docenti in ruolo), mentre non era stata accolta una proposta avanzata dai Soprintendenti Archeologi per l’inserimento, a fianco di nominativi singoli di specializzati e dottorati in archeologia, anche di società e imprese strutturate. Questa proposta, di recente fatta propria dagli archeologi presenti in Consiglio Nazionale per i Beni Culturali, tendeva a sanare la disparità evidente tra gli Istituti universitari, per cui veniva correttamente chiesta una articolata organizzazione interna, e i soggetti singoli. Un corretto approccio metodologico alla progettazione preventiva in campo archeologico richiede infatti la presenza di professionalità differenziate. 1 Il contributo è apparso in AEDON, 3, 2005 (www.aedon.mulino.it/archivio/2005/3/malnati.htm). 21 Luigi Malnati La mancata realizzazione degli elenchi ufficiali ha costituito e costituisce un problema nell’applicazione della normativa, che tuttavia, per l’esperienza di chi scrive, è ormai considerata pienamente in vigore dalle pubbliche amministrazioni più consapevoli. Come è facile prevedere, la realizzazione di un elenco ufficiale dei soggetti abilitati avrebbe avuto del resto una portata anche molto superiore al campo di applicazione della legge sull’archeologia preventiva, vista l’assenza di un albo degli archeologi, e avrebbe costituito una legittimazione dei soggetti interessati anche per la fase esecutiva e non solo per le opere pubbliche. Resta così ancora molta strada da fare, sia per quanto riguarda la necessità di inserire la previsionalità in campo archeologico non solo nel settore dei lavori pubblici, ma anche per gli interventi nel sottosuolo di carattere privato, il che non può avvenire senza un coinvolgimento istituzionale degli enti territoriali, sia per quanto riguarda la regolamentazione dell’archeologia professionale ed il suo inserimento in logiche di mercato corrette e che salvaguardino la professionalità degli archeologi e la qualità scientifica degli scavi. 2. ARCHEOLOGIA PREVENTIVA: UNA PRASSI GIÀ AMPIAMENTE IN USO Il tema dell’archeologia preventiva non è certo una novità per una disciplina che, ormai da decenni, ha riservato ampio spazio a tale problematica, sul fronte teorico e metodologico come su quello più strettamente operativo. Da molto tempo infatti gli archeologi direttamente impegnati sul campo si sono posti il problema di conciliare le esigenze di tutela di un patrimonio – e quello italiano è come è noto tra i più rilevanti del mondo – con le esigenze operative delle attività che comportano lavori di scavo, da quelle edilizie a quelle estrattive fino alle grandi opere infrastrutturali. Le concrete esperienze cui fare riferimento si erano svolte soprattutto nei paesi dell’Europa centro-settentrionale, dove grandi lavori di archeologia preventiva erano stati rappresentati, nel secondo dopoguerra, dagli scavi collegati con la realizzazione di ampliamenti della metropolitana di Londra. Anche in Italia le prime sperimentazioni in tal senso avvengono con l’intervento di archeologi inglesi, prima a Pavia e poi negli scavi preventivi per la realizzazione del tribunale di Verona. Seguono, negli anni ottanta del novecento e a seguito del potenziamento degli organici delle soprintendenze ai Beni archeologici, attività di prevenzione più sistematiche in tutta Italia, con interventi sostenuti sia da committenti privati che pubblici. Grande banco di prova per la verifica ed il consolidamento di prassi operative già sperimentate su ambiti territoriali più limitati sono stati infine i lavori per la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, che hanno visto svolgersi numerosissime indagini preventive ed interventi di scavo sistematici ed estensivi dalla Lombardia fino alla Campania, interventi tuttora in corso in alcune aree, fra cui l’Emilia. E’ dunque ormai prassi corrente, da parte delle soprintendenze per i Beni archeologici, coordinare interventi di scavo finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche e private. Si può anzi dire che tali interventi, gestiti dalle soprintendenze indirettamente e sotto diverse forme ma con committenza esterna, rappresentano la stragrande maggioranza degli scavi archeologici condotti oggi in Italia. Tuttavia si tratta di scavi che, dopo il recupero scientifico di tutti i dati stratigrafici e strutturali, necessariamente o prevedono la rimozione dei contesti rinvenuti oppure richiedono, alla loro conclusione, modifiche progettuali anche rilevanti per consentire la conservazione 22 La verifica preventiva dell’interesse archeologico in loco totale o parziale dei resti rinvenuti. In alcuni casi, peraltro abbastanza rari, è stato necessario abbandonare del tutto la realizzazione prevista a causa del rinvenimento di beni archeologici strutturali di tale rilevanza da non consentire neppure operazioni di smontaggio scientifico e ricollocazione. La legge 25 giungo 2005, n. 109 si inserisce quindi opportunamente a colmare un vuoto normativo e, nel fornire una legittimazione ad interventi imposti in questi anni dalle stesse esigenze di tutela del patrimonio archeologico, contribuisce nel contempo a regolamentare una situazione di fatto e una prassi comportamentale abituale di tutte le soprintendenze archeologiche. 3. LA NORMATIVA PRECEDENTE: DALL’ASSENZA DI PREVISIONI ALL’APERTURA OPERATA DAL CODICE In effetti, fino alla promulgazione del Codice per i beni culturali e del paesaggio, con D.Lgs. vo 22 gennaio 2004, n. 42, le modalità previste dalla legge 1 giugno 1939, n. 1089 per lo svolgimento degli scavi archeologici si riducevano a due: gli scavi promossi direttamente dallo Stato tramite il ministero per i Beni e le Attività culturali (all’epoca ministero dell’Educazione) – cioè inseriti a bilancio nella programmazione ordinaria – e quelli affidati in concessione, per lo più ad istituti universitari o altri organismi scientifici. Il testo della 1089 (ripreso quasi integralmente dal Testo Unico dei beni culturali, adottato con D.Lgs.vo 29 ottobre 1999, n. 490, che ha confermato questa situazione con lievi modifiche) prevedeva in buona sostanza scavi archeologici aventi come unico fine la ricerca scientifica, cioè il recupero di informazioni storiche in senso ampio, e l’acquisizione di beni al patrimonio dello Stato. In questo senso anche i concessionari agivano in realtà come un braccio dell’amministrazione, alle cui disposizioni erano (e sono) sottoposti, e che poteva sostituirsi agli stessi in qualsiasi momento. Con l’art. 28, comma 4, del Codice, che introduce la possibilità per il soprintendente di disporre l’esecuzione di sondaggi archeologici a spese della committenza in caso di lavori pubblici, per la prima volta veniva in qualche modo rovesciata la prospettiva fino a quel momento seguita e ribadita nello stesso Codice agli artt. 88–89. Al contrario veniva sancita la possibilità, e – anzi – la necessità, di svolgere scavi a livello preventivo e quindi finalizzati a scopi assolutamente diversi, come la realizzazione di opere pubbliche, in una logica di tutela del patrimonio archeologico e in un’ottica di valutazione di interessi concorrenti e contemperati. 4. LE MODALITÀ OPERATIVE ATTUALMENTE IN USO La prassi attualmente in uso prevede che le soprintendenze per i Beni archeologici esaminino, per un parere preventivo, la grande maggioranza dei progetti realizzati dagli enti pubblici, progetti solo in rari casi corredati da una valutazione dell’impatto archeologico redatta anche sulla base di quanto previsto dalla legge 11 febbraio 1994, n. 109. Per quanto riguarda i lavori di scavo previsti da soggetti privati subentra spesso la mediazione delle amministrazioni comunali, che in molti casi (certamente in Emilia Romagna, ma, a quanto mi consta anche in Veneto, Lombardia, Lazio, Marche è in vigore una 23 Luigi Malnati prassi simile) hanno utilizzato i poteri autonomi loro conferiti in campo di programmazione urbanistica per disporre che gli interventi di scavo localizzati in aree di presunto interesse archeologico siano sottoposti a visto preventivo da parte della soprintendenza. In alcuni casi di collaborazione particolarmente favorevole (ad es. con il comune di Modena) sono state redatte carte di cd. “rischio archeologico” poi inserite in piano regolatore, e gli organi tecnici comunali (di solito i musei) svolgono attività istruttoria preventiva, i cui risultati vengono poi trasmessi alla soprintendenza per i Beni archeologici per il parere definitivo e le eventuali prescrizioni, secondo un procedimento che si avvicina molto a quanto oggi previsto con la legge in esame. Il decreto legge 26 aprile 2005, n. 63, come convertito dalla L. 109/2005 interviene per l’appunto in questa materia definendo e regolamentando non solo la fase meramente preliminare (art. 2-ter), ma fornendo anche linee d’indirizzo per la parte esecutiva (art. 2-quater). Credo sia opportuno commentare separatamente i due articoli. 5. LE NOVITÀ INTRODOTTE DALLA LEGGE. LA PROCEDURA PRELIMINARE L’articolo 2-ter (Verifica preventiva dell’interesse archeologico) al comma 1 fa esplicito riferimento alle opere sottoposte alla normativa della L. 109/1994 (cd. Merloni) e del D.Lgs. vo 20 agosto 2002, n. 190. Viene sancita la necessità di trasmettere alla soprintendenza territorialmente competente, prima della loro approvazione, copia dei progetti delle opere. A questi vanno allegati gli esiti delle indagini geologiche ed archeologiche previste all’art. 18 comma 1 lettera d) del regolamento adottato con decreto del Presidente della Repubblica 21 dicembre 1999, n. 554, fatta eccezione solo per le opere che non comportino nuove edificazioni o che non superino comunque in scavo le quote delle opere esistenti, per le quali non necessita tale documentazione. Sul piano archeologico si tratta di una fase del tutto preliminare, che prevede quattro diversi tipi di operazioni elencati nell’art. 2-ter, tutte non comportanti attività di scavo: 1) la raccolta dei dati di archivio e bibliografici, cioè delle conoscenze “storiche”, mediante una ricerca che in parte si svolge comunque all’interno delle soprintendenze, gli archivi delle quali conservano spesso informazioni e documentazione ancora inedite; 2) le ricognizioni di superficie sulle aree interessate dai lavori: si tratta del cosiddetto survey, che prevede la raccolta sistematica dei reperti portati alla luce stagionalmente nel corso delle arature o in sezioni esposte negli scassi del terreno naturali o artificiali (fossati, cave ecc...); 3) la “lettura geomorfologica del territorio”, vale a dire una valutazione interpretativa delle caratteristiche fisiche delle aree coinvolte in relazione alle loro potenzialità insediative nel corso di tutto il periodo antico; 4) la fotointerpretazione (prevista però esclusivamente per le opere “a rete”), cioè lo studio delle anomalie individuabili tramite la lettura delle fotografie aeree disponibili o realizzabili ad hoc. 24 La verifica preventiva dell’interesse archeologico I risultati di queste operazioni, i cui costi saranno coperti in base a quanto previsto dalla L. 109/1994, art. 16, comma 7, e dal D.P.R. 554/1999, art. 18, devono essere “raccolti, elaborati e validati” da esperti appartenenti a “dipartimenti archeologici delle università” ovvero da soggetti provvisti di laurea e specializzazione in archeologia o da dottorati in archeologia. Con il comma 2 viene istituito presso il ministero un elenco degli istituti universitari e dei soggetti in possesso della necessaria qualificazione (evidentemente abilitati a redigere e validare la documentazione delle indagini archeologiche di cui al comma 1). Entro 90 giorni dalla data di conversione in legge del decreto si dovrà provvedere a determinare i criteri per la tenuta dell’elenco “sentita una rappresentanza dei dipartimenti archeologici universitari”. A tal fine vengono anche previsti stanziamenti a bilancio. Il comma 3 chiarisce che il soprintendente, una volta individuato un rischio archeologico delle aree interessate dai lavori sulla base della documentazione trasmessa e “delle ulteriori informazioni disponibili”, può richiedere motivatamente la sottoposizione ad un’ulteriore fase di indagine descritta all’art. 2-quater. Ha novanta giorni per pronunciarsi in via definitiva, ma, entro dieci giorni dal ricevimento della documentazione, può richiedere integrazioni ed approfondimenti, sospendendo i termini (comma 4). Tale richiesta deve segnalare “con modalità analitiche” l’incompletezza della documentazione. Non è sufficiente quindi una richiesta generica di integrazione o approfondimento. Il comma 5 prevede la possibilità di ricorso amministrativo contro la richiesta del soprintendente di attivare le procedure previste dall’art. 2-quater, e ciò in base all’art. 16 del Codice dei beni culturali e del paesaggio. Il comma 6 considera l’eventualità, come vedremo a mio avviso piuttosto remota, che il soprintendente non richieda l’attivazione delle procedure dell’art. 2-quater, oppure che tali procedure diano esito negativo. In tali casi è comunque prevista la possibilità di richiedere l’esecuzione di sondaggi archeologici, ma solo a patto che vengano acquisite nuove informazioni o emergano resti archeologici. Contestualmente è però necessario avviare l’istruttoria relativa al procedimento di verifica o alla dichiarazione di interesse del bene culturale ex artt.12 e 13 del Codice, e darne relativa comunicazione. Restano escluse dalle procedure della legge in esame (comma 7) le aree e i parchi archeologici di cui all’art. 101 e le zone d’interesse archeologico ex art. 142 del Codice, per le quali vigono le disposizioni già contenute in quest’ultimo, nonché le opere i cui progetti preliminari siano già stati approvati al momento dell’entrata in vigore della legge (comma 8). L’art. 101 definisce genericamente le zone archeologiche, senza precisare se statali o no, ma probabilmente il legislatore sottintende la presenza in ogni caso di un vincolo e comunque di una situazione in cui fare ulteriori ricerche sia superfluo; il dettato del comma 7 è un po’ ambiguo e, in via ipotetica, qualcuno potrebbe pensare di essere esentato dalla comunicazione alla soprintendenza della progettazione riferita a queste aree. 5.1. La strumentazione proposta La documentazione raccolta secondo la procedura prevista al comma 1 non consente in realtà di pervenire in nessun caso ad una valutazione certa; per meglio dire, permette di ipotizzare la presenza indiziaria di resti archeologici genericamente riferibili a forme di insediamento, ma, anche laddove i dati siano carenti o del tutto assenti, non autorizza – se non molto raramente – ad escludere a priori un rischio di tipo archeologico. 25 Luigi Malnati Esaminiamo nel dettaglio le quattro operazioni previste. 1) La raccolta di dati bibliografici e d’archivio fornisce di norma informazioni relative a quanto già noto in passato; inoltre, fino ad un periodo molto recente si tratta per lo più di notizie generiche e poco affidabili, necessariamente da sottoporre al vaglio di approfondimenti diretti sul terreno. 2) Le ricerche di superficie costituiscono invece uno strumento di indagine archeologica preventiva affidabile, se condotte in modo sistematico e con metodologie corrette. Tuttavia non rappresentano uno strumento risolutivo, sia per la scarsa incidenza statistica delle possibilità di controllo rispetto alla globalità del territorio nazionale, sia per le incertezze interpretative insite nelle loro risultanze. Da un lato infatti, oltre alla limitazione imposta dalla necessità di procedere alle ricognizioni solo dopo le arature e quindi solo in alcuni momenti dell’anno, è da rilevare la sussistenza di aree – ad esempio quelle di montagna o quelle molto urbanizzate – non controllabili in quanto non soggette a coltivazione intensiva (e la percentuale dei terreni arati pare ammonti ogni anno a circa un terzo del territorio). D’altro canto, la mera identificazione di un sito archeologico tramite i reperti portati in luce dall’aratro, non garantisce circa la conservazione dell’intera stratigrafia, conservazione da verificare mediante sondaggi mirati: l’esperienza dimostra infatti che molti insediamenti considerati importanti in base alla quantità e alla densità dei reperti recuperati in superficie risultano poi, al momento dello scavo, quasi completamente cancellati dai precedenti lavori agricoli. 3) La lettura geomorfologica del terreno è soggetta a modelli interpretativi generali che possono dare solo indicazioni sui presumibili orientamenti degli assetti insediativi di un determinato territorio; in alcuni casi essa può però fornire alcune informazioni preziose per valutazioni in negativo. E’ il caso dello studio dei diversi percorsi fluviali, anche sepolti, e delle coperture alluvionali. 4) La fotointerpretazione aerea può certamente aiutare ad individuare l’estensione di macroevidenze archeologiche relativamente superficiali corrispondenti a strutture edilizie urbane di età romana e medioevale, insediamenti rurali estesi (ville romane), strutture in negativo (fossati di insediamenti pre-protostorici o medioevali); è invece molto meno efficace nel caso di insediamenti di minore rilevanza “monumentale”, caratterizzati da strutture più labili, oppure posti a profondità maggiore. 5.2. I soggetti La legge identifica poi i soggetti in grado di elaborare questa documentazione (da allegare ai progetti preliminari delle opere) nei Dipartimenti archeologici delle Università e nei laureati provvisti di specializzazione in archeologia o di dottorato in archeologia. Si tratta innanzitutto di categorie non chiaramente determinate. A parte infatti l’utilizzo di un termine piuttosto generico (“Dipartimenti archeologici”) per entità che possono assumere le più svariate denominazioni (Scienze dell’Antichità, Scienze storiche del mondo antico, Scienze della Terra, Storia dell’arte...), le restanti indicazioni sembrano essere ancora riferite al vecchio ordinamento universitario, dal momento che quello attuale prevede come è noto la 26 La verifica preventiva dell’interesse archeologico distinzione tra una laurea triennale e una successiva laurea specialistica biennale, mentre a quanto mi risulta, le vecchie Scuole di specializzazione sono ancora in via di ricostituzione. Anche per quanto riguarda i soggetti provvisti di “dottorato in archeologia”, sussiste qualche problema di identificazione, dal momento che le discipline archeologiche prevedono molte specializzazioni cui i dottorati stessi fanno riferimento: saranno dunque considerati qualificanti anche i titoli di dottore in topografia, etruscologia ed archeologia italica, preistoria ecc...? C’è infine da aggiungere che almeno una delle operazioni richieste, l’indagine geomorfologica, è tradizionalmente compito dei laureati in geologia, una figura professionale assolutamente non contemplata dalla legge. Sciogliere questi dubbi sarà probabilmente precisa incombenza di chi redigerà presso il ministero per i Beni e le Attività culturali l’elenco degli Istituti universitari e dei soggetti abilitati previsto al comma 2. Anche qui non mancano i problemi: gli Istituti universitari infatti non esistono pressoché più, sostituiti dai Dipartimenti: probabilmente si tratta di un refuso. Quanto agli stessi Dipartimenti archeologici, la cui rappresentanza dovrebbe essere sentita per determinare i criteri di tenuta degli elenchi stessi, c’è da chiedersi come questa sarà costituita e a che titolo: con un’elezione interna o tramite una scelta autonoma del ministero? E che effettivo ruolo poi ricoprirà, dal momento che per “sentita” sembrerebbe di dover intendere che il ministero redige autonomamente gli elenchi e poi li sottopone ad un parere non vincolante di tale “rappresentanza”? Altrettanto oscure appaiono infine le modalità di partecipazione per gli stessi fini di tutti quei non meglio determinati “soggetti interessati”. Un altro punto mi sembra importante: il comma uno indica, come soggetti qualificati “i dipartimenti..., ovvero i laureati” e dottorati. Credo che quell’ovvero, come spesso nel linguaggio giuridico, non equivalga ad “ossia”, bensì a “oppure” (è usato nello stesso senso nel comma 6, riga 2), tanto è vero che anche nel comma 2 si parla dell’elenco degli istituti... e dei soggetti in possesso di adeguata qualifica. Quindi negli elenchi saranno compresi gli istituti universitari in qualità di entità “istituzionale” dotata di proprio personale e di propri mezzi tecnici, più i soggetti singoli in possesso di qualifica. Ma come faranno i singoli ad entrare nell’elenco? Il comma sembra frutto di un compromesso e presenta incongruenze: una volta riconosciuti nei laureati in archeologia (s’intende in lettere con tesi in archeologia o i nuovi laureati “triennali” in archeologia?) i soggetti abilitati a redigere la documentazione, che bisogno c’è di ulteriori specificazioni? E’ evidente che i possessori di dottorato e gli specializzati sono in possesso di laurea ed è probabile che negli organici dei Dipartimenti di archeologia i laureati siano molti. Quanto al ruolo specifico delle soprintendenze, parrebbe che tutte le operazioni previste in questa fase non richiedano la partecipazione attiva degli uffici cui la documentazione progettuale dovrà essere inviata. Ma, nonostante questi ultimi non siano poi più menzionati, è da rilevare che almeno una delle attività previste per questa fase preliminare, quella delle indagini di superficie, esige un provvedimento di autorizzazione o concessione in base agli artt. 88 e ss. del Codice. Inoltre, come già detto, le ricerche storiche contemplano una indispensabile fase da svolgersi negli archivi delle soprintendenze, richiedendo dunque la peraltro dovuta collaborazione delle stesse. 27 Luigi Malnati 5.3. Una valutazione sul valore e sull’efficacia della procedura preliminare I tempi concessi al soprintendente per lo svolgimento della procedura sembrano congrui, tenuto conto della possibilità di sospendere i termini, e soprattutto del fatto che è molto improbabile che non venga richiesto il passaggio alla seconda fase (quella di cui all’art. 2-quater). Il motivo è assai semplice: come si è evidenziato, nessuna delle indagini previste è realmente risolutiva, e soprattutto consente di ritenere probante l’argumentum ex silentio. In sostanza, se le ricerche d’archivio, bibliografiche, di superficie e le tecniche di fotointerpretazione possono certamente individuare, con buoni margini di sicurezza, aree di interesse archeologico, non possono al contrario provare che le aree per cui mancano informazioni siano prive di resti archeologici. Dal punto di vista strettamente archeologico, la valutazione complessiva è che la procedura preliminare prevista dall’art. 2-ter risulti più adeguata per opere di grande impatto territoriale (sul modello, per intendersi, dei lavori per l’alta velocità ferroviaria – la cosiddetta Tav –, che infatti hanno seguito un percorso simile), piuttosto che per interventi di carattere urbano (parcheggi interrati, linee di metropolitana, ...), localizzati in contesti ambientali sfavorevoli alla maggior parte delle operazioni previste e infine incidenti su situazioni pluristratificate di ardua decifrazione senza dati di verifica diretta. In effetti, si nota la mancanza di almeno un’operazione che in questi casi risulta molto spesso dirimente. Si tratta dei carotaggi, previsti solo nella procedura di cui all’art. 2-quater, ma che invece, analizzati da un geoarcheologo (figura evidentemente sconosciuta a chi ha redatto la legge), già in questa fase possono restituire informazioni determinanti sulla potenza di stratigrafia antropica conservata. 6. LA PARTE ESECUTIVA DELLA PROCEDURA L’art. 2-quater (Procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico) al comma 1 precisa che questa procedura è subordinata all’”emersione di elementi archeologicamente significativi” nell’esito della parte precedente, e si svolge sotto la direzione della soprintendenza archeologica (si deve intendere evidentemente ai beni archeologici) territorialmente competente, con oneri a carico della stazione appaltante (comma 5). La procedura in questione si articola in due fasi: a) “integrativa della progettazione preliminare”, che prevede: carotaggi, prospezioni geofisiche e “geochimiche”, saggi archeologici a campione; b) “integrativa della progettazione definitiva e esecutiva”, con esecuzione di sondaggi e scavi in estensione. La conclusione delle fasi di indagine è sancita dalla redazione di una “relazione archeologica definitiva” (comma 2), il cui fine è quello di collocare l’area interessata dai lavori all’interno di una precisa gerarchia di definizioni conseguenti l’accertamento della sua rilevanza archeologica: 28 La verifica preventiva dell’interesse archeologico a) contesti “in cui lo scavo stratigrafico esaurisce direttamente l’esigenza di tutela”; b) contesti i cui resti “monumentali”, non particolarmente conservati, consentono “interventi di reinterro, smontaggio-rimontaggio e musealizzazione in altra sede rispetto a quella di rinvenimento”; c) complessi “di particolare rilevanza, estensione e valenza storico-archeologica” da sottoporre a tutela complessiva, ai sensi del Codice. Al comma 4 sono indicate le prescrizioni “conseguenti” l’attribuzione del livello di rilevanza, prescrizioni che si possono così riassumere: nel primo caso nulla osta alla realizzazione delle opere previste (“verifica... chiusa con esito negativo... e insussistenza dell’interesse archeologico”), nel secondo indicazioni relative ad ulteriori interventi da eseguire (“prescrizioni necessarie ad assicurare la conoscenza”) ed alle modalità di conservazione dei beni ritenuti “archeologicamente rilevanti”, nel terzo caso avvio del procedimento di “dichiarazione di cui agli articoli 12 e 13” del Codice a tutela dell’area e, evidentemente, modifica sostanziale del progetto o cancellazione dell’opera. Ulteriori specificazioni circa la procedura descritta sono demandate alla linee-guida che, entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, il ministro per i Beni culturali, di concerto con quello delle Infrastrutture, deve stabilire, al fine di “assicurare speditezza, efficienza ed efficacia” all’art. 2-quater (comma 6). Al comma 7 è prevista infine la possibilità per il direttore regionale, su proposta del soprintendente di settore, di stipulare un accordo con l’amministrazione appaltante, entro 30 giorni dalla richiesta di avviare la procedura prevista all’art. 2-quater (in base al comma 3 dell’art. 2-ter) per coordinare e snellire le procedure, nonché per concordare forme di divulgazione e valorizzazione dei risultati delle indagini archeologiche. 7. CONSIDERAZIONE CONCLUSIVE L’art. 2-quater è certamente molto meglio impostato e più efficace dell’articolo precedente, tanto è vero che la prima fase di indagini è considerata integrativa delle procedure preliminari previste all’art. 2-ter, che sono quindi da valutare come insufficienti. La prima palese distinzione tra le indagini preliminari da svolgere in base all’art. 2-ter e quelle previste all’art. 2-quater, fase a), è che le seconde, in quanto comportanti attività dirette sul terreno, necessitano della direzione degli organi periferici del ministero. E saranno proprio le soprintendenze, vista l’oggettiva debolezza delle potenzialità previsionali delle indagini correlate alla progettazione preliminare, a cautelarsi per evitare di incorrere nelle situazioni previste dal comma 6 dell’art. 2-ter, cioè l’emersione, in corso d’opera, di elementi archeologicamente rilevanti, con tutte le conseguenze negative del caso: fermi dei lavori, richiesta di saggi “preventivi” (ma perché si parla ancora di saggi preventivi se il comma 6 riguarda lavori già in corso?), dichiarazione di importante interesse, comportante modifiche rilevanti o annullamento di un’opera già iniziata. La richiesta di attivare la procedura di verifica ex art. 2-quater estesa a tutta la progettazione sarà dunque molto probabilmente la prassi costante adottata dai soprintendenti più avvertiti. 29 Luigi Malnati Se esaminiamo ora in dettaglio le operazioni caratterizzanti la fase a), quella integrativa alla progettazione preliminare (comma 1), dobbiamo apprezzarne la coerenza e la flessibilità in diversi contesti operativi. 1) I carotaggi sono, come si è detto, uno strumento essenziale per verificare la consistenza dei depositi archeologici, nonché per procedere ad una sommaria valutazione delle diverse fasi insediative; e ciò specialmente in area urbana, dove la stratificazione storica è particolarmente complessa e generalmente molto consistente. 2) Le prospezioni geofisiche sono invece utili in aree poco urbanizzate, e soprattutto quando, come può avvenire nel caso delle indagini propedeutiche la progettazione preliminare, si è giunti ad avere informazioni sulla natura dell’insediamento e sul tipo di strutture presenti. E’ infatti importante sottolineare che questa metodologia di indagine risulta proficua solo quando già si conosce la tipologia strutturale dei resti e la loro profondità approssimativa. L’esperienza dimostra inoltre che le prospezioni geofisiche (geolettriche e geomagnetiche) sono poco attendibili per insediamenti con caratteristiche strutturali legate all’impiego di materiali deperibili, come gli abitati pre-protostorici o altomedioevali, mentre forniscono ottimi risultati nella delimitazione e definizione di edifici dotati di vere e proprie strutture murarie, come ad esempio le ville di età romana. Confesso la mia ignoranza invece sulle previste “prospezioni geochimiche”. 3) I saggi archeologici sono certamente la tecnica di indagine preventiva che fornisce le informazioni più certe e meglio interpretabili. Se la dislocazione delle verifiche segue una precisa strategia, che tenga conto anche delle caratteristiche geomorfologiche del terreno ed eventualmente dei risultati dei carotaggi, delle ricerche di superficie e delle prospezioni geofisiche, tale intervento è la base per una progettazione definitiva attendibile. Si tratta evidentemente di contemperare le esigenze di tipo stratigrafico (per delimitare in senso verticale i depositi di carattere artificiale e antropico) con quelle di carattere topografico, al fine di circoscrivere arealmente il deposito archeologico e verificare caratteristiche e densità degli elementi strutturali su un’area che rappresenti una base statistica attendibile per la definizione dei caratteri dell’intero sito. In realtà la realizzazione di trincee potrebbe essere evitata nel caso in cui le indagini precedenti abbiano evidenziato che ci si trova in condizioni tali da prevedere una soluzione di tipo a), cioè uno scavo estensivo che consente, dopo la sua conclusione, l’esecuzione dell’opera. Per tali situazioni il comma 3 dell’art. 2-quater consente al responsabile del procedimento di attivare procedure semplificate di progettazione. A conclusione della valutazione, nel complesso positiva, delle indagini previste al comma 1 dell’art. 2-quater, non sarà in ogni caso inutile ripetere che gli scavi archeologici possono riservare sorprese e situazioni non del tutto prevedibili, ragione per la quale si rendono talvolta necessari, in corso d’opera, interventi precedentemente non contemplati. Nelle situazioni più incerte sarebbe dunque opportuno predisporre un costante controllo archeologico durante i lavori, secondo una prassi che già attualmente molte soprintendenze per i Beni archeologici mettono in atto per i lavori di carattere infrastrutturale di maggiore impatto. La fase b) menzionata al comma 1, legata alla progettazione esecutiva, sarà certamente oggetto di un maggior approfondimento nelle successive “linee guida” previste al comma 6, perché si tratta evidentemente di regolamentare scavi estensivi (difficile ci si possa limitare 30 La verifica preventiva dell’interesse archeologico ad ulteriori sondaggi, già previsti nella fase a), il cui scopo non è più solo quello di mettere in luce resti e complessi archeologici, ma anche – come previsto nel caso a) del successivo comma 2 – di esaurire l’intera stratificazione archeologica per liberare l’area al fine della realizzazione dell’opera pubblica prevista. Anche le valutazioni relative ai livelli di rilevanza del sito (comma 2) ed alle prescrizioni che ne conseguono (comma 4) andranno attentamente normate attraverso la proposizione di una casistica ampia ed articolata, al fine di evitare il più possibile, a livello di prassi operativa delle singole soprintendenze, comportamenti difformi e decisioni sperequate. E’ bene chiarire, anche se sembra implicito nel testo, che la prima soluzione, “liberatoria”, si verifica solo al termine della fase esecutiva: l’”insussistenza” del bene archeologico è dovuta al fatto che lo scavo completo e documentato dell’area ha esaurito il deposito archeologico originariamente conservato. Sembra utile chiarire che in questo caso non si tratta né di verifica chiusa con esito negativo né di insussistenza (i resti archeologici erano presenti e sono stati rimossi). Il fatto che lo scavo archeologico esaurisca le esigenze di tutela presuppone che la scelta della rimozione del contesto archeologico è stata già presa sulla base dell’esito dei sondaggi e degli scavi, sulla base della valutazione della natura del deposito archeologico. La seconda soluzione aprirà di fatto una fase “di contrattazione” su una serie di possibilità operative che solo le linee guida dovrebbero chiarire. La terza soluzione si spera possa emergere nei tempi più rapidi possibili per consentire varianti al progetto. Tali varianti sono già contemplate dal fatto che siamo sempre nel campo delle indagini preventive, i cui risultati faranno parte degli allegati al progetto definitivo/esecutivo. La “relazione archeologica definitiva, approvata dal soprintendente” costituisce in sostanza o un nulla-osta, o la richiesta di ulteriori indagini o la sanzione dell’impossibilità di realizzare l’opera. Sarebbe quindi molto più opportuno venisse spostata dopo la fase a), quando è già possibile valutare il livello di rilevanza dell’opera, e prima della fase esecutiva degli scavi archeologici. Tali scavi estensivi, di cui alla fase b), sia nel caso siano fatti per rimuovere che per portare alla luce i resti archeologici presuppongono già una decisione sul da farsi in merito alla rilevanza archeologica dell’area. Un altro problema ci si attende debba essere sciolto nelle linee-guida: chi materialmente redige la “relazione archeologica definitiva”? Si dice che il soprintendente la approva: si intende che a redigerla è chi svolge le indagini (peraltro dirette dalla stessa soprintendenza)? Bisogna ricordare che tale relazione contiene anche la qualificazione dei livelli di rilevanza da cui discendono le prescrizioni. Resta un altro punto: per chi non attiva la verifica preventiva non è previsto alcun tipo di sanzione; non è reato, né illecito amministrativo punibile in via pecuniaria, non implica improcedibilità né blocco dei fondi. Anche questa questione dovrà essere affrontata. In conclusione, si può dire, pur con tutte le cautele dovute, che la L. 109/2005 presenta aspetti positivi, soprattutto perché rappresenta un primo importante contributo in una materia in cui l’assenza di qualsiasi riferimento normativo rischiava di portare a situazioni difficilmente controllabili; resta moltissimo da fare in proposito, innanzi tutto per quanto riguarda i lavori di scavo condotti da soggetti privati, poi per individuare i soggetti che possono svolgere le indagini legate alla progettazione definitiva sotto la direzione delle soprintendenze (mentre, come abbiamo visto l’art. 2-ter si diffonde lungamente sui soggetti in grado di svolgere una progettazione di fatto molto preliminare). Ma il fatto che venga finalmente sancito che in 31 Luigi Malnati Italia, come nel resto d’Europa, gli scavi archeologici possano avvenire (come sempre più spesso è avvenuto negli ultimi anni) per scopi assai diversi dalla mera attività di ricerca è comunque un’acquisizione molto importante e da non sottovalutare. 32 CART TRA PASSATO E FUTURO: VITA PERICOLOSA DI UN SISTEMA COMPLESSO Maria Pia Guermandi Istituto Beni Culturali della Regione Emilia Romagna [email protected] 1. INTRODUZIONE Quando, circa un anno e mezzo fa, il sistema CART entrò a far parte a pieno titolo del mainstream di EPOCH, si contava di introdurre questo progetto fra gli esempi di buone pratiche che costituiscono uno degli obiettivi della nostra rete di eccellenza, arricchendo, in questo modo, l’area relativa ai sistemi informativi territoriali. CART fu quindi inserito all’interno del settore degli standards specificamente mirato ai sistemi GIS Come apparirà chiaro dagli interventi che si succederanno (cfr. Bitelli, Guarnieri, Prati), si trattava di un sistema già in uso da parecchi anni, chè tali possono essere considerati due lustri nel settore delle tecnologie informatiche e che da qualche tempo viveva una fase di ripensamento e sostanziale arresto determinato in particolare da un inaridimento delle fonti di finanziamento. A fronte di una difficoltà economica perdurante, effetto di una più generale contrazione delle risorse che il settore dei beni culturali e della cultura in generale sta vivendo nel nostro paese negli ultimi anni, si evidenziava al contrario, da parte delle pubbliche amministrazioni, un risveglio di attenzione nei confronti dei temi dell’archeologia preventiva che si sostanziava in richieste di accordi e convenzioni mirate, appunto, all’elaborazione di cartografia del rischio ai fini della redazione di strumenti di pianificazione urbanistica a livello provinciale, comunale o intercomunale1. Le risorse finanziarie di EPOCH ci hanno quindi consentito di riattivare il progetto e di continuare ad offrire un servizio alle amministrazioni locali del nostro territorio, ma soprattutto, per quel che ci riguarda più direttamente in questa sede, di ripensare in maniera critica all’evoluzione del sistema stesso, soprattutto alla luce della più ampia esperienza EPOCH. E non solo per quanto riguarda gli aspetti più strettamente scientifici o tecnologici, che pure, dopo alcuni anni, avvavno senz’altro necessità di un adeguamento complessivo. Nel sistema dei beni culturali, da sempre scarsamente abituato a pensare in termini di sostenibilità economico-finanziaria e nel quale, sicuramente per quanto riguarda l’Italia, le possibilità di finanziamento sono frequentemente casuali, non sistemiche, spesso destinate a improvvisi ridimensionamenti, anche drastici e quasi mai in grado di garantire quei processi di continuità che sono quasi sempre essenziali per verificare metodologie, produrre feedback significativi, insomma consolidare risultati. La nostra estraneità agli elementi finanziari di un progetto credo sia alla base di un fraintendimento profondo che ci porta a ritenere, 1 Parlo, nello specifico, del Comune e della Provincia di Bologna, enti coi quali è tuttora attiva una convenzione per la redazione del tematismo archeologico all'interno del PSC (Piano Strutturale Comunale) e del PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale) e l'associazione dei 10 comuni del Nuovo Circondario Imolese, oltre che di altri amministrazioni comunali soprattutto romagnole. 33 Maria Pia Guermandi tutto sommato casuali, anche questi frequentissimi e quasi inevitabili problemi di ordine economico o per lo meno legati alla complessiva penuria finanziaria in cui si muove il nostro mondo e in ogni caso del tutto scollegati dalla qualità ed efficacia del progetto in essere. Si tratta di una visione davvero arcaica del fare ricerca e pure ancora ampiamente diffusa nel tessuto delle nostre istituzioni. Così, se pure qualche area felice gode da questo punto di vista di situazioni privilegiate di sicurezza e continuità, l’ordinaria amministrazione è alla prese con una situazione di lenta asfissia che da anni sta minando il corretto funzionamento del sistema dellla tutela dei beni culturali nel suo complesso. E’ quindi con senso di autocritica che propongo questa riflessione, perchè come si è cercato di sottolineare nei diversi interventi del volume, il progetto CART che pur ha prodotto risultati positivi ha rischiato di arenarsi di fronte alla impossibilità di innescare un meccanismo virtuoso di aggiornamento e quindi in definitiva una chiara istituzionalizzazione del progetto stesso che ne garantisse la continuità e la stabilizzazione nel tempo. Si è trattato di uno snodo fin da subito percepito come problematico2, e che si ricollega in prima battuta alla complessità prima sottolineata del quadro generale del sistema beni culturali in Italia, ma anche di una lacuna politica e metodologica assieme che, puntualmente, è emersa. L’intervento di EPOCH, nel nostro caso, non ha prodotto solo una semplice ripresa del progetto, ma ne ha provocato un vero e proprio ripensamento in termini sia proceduralioperativi, che epistemologici in senso compiuto. Obiettivo di questo testo è innanzi tutto quello di inquadrare CART nella sua cornice storica e nei suoi aspetti istituzionali e metodologici per fornire, in tal modo, una chiave di lettura complessiva all’insieme degli interventi che nel volume si riferiscono direttamente a questo progetto3 e contemporaneamente per sottolinearne il carattere di “caso esemplare” sia per quanto riguarda l’ambito degli standard (di georeferenziazione, ma non solo) e quindi di EPOCH4 che per quanto concerne il dibattito attuale sull’archeologia preventiva in Italia5 e in Europa6. 2. L’INIZIO DELLA STORIA La Carta Archeologica del Rischio Territoriale (CART) è un GIS per l’elaborazione e la gestione di cartografia archeologica. Il progetto trova una data ufficiale di origine alla metà del 1995 grazie ad una convenzione firmata tra l’Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna e la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna7. Fu l’allora Soprintendente Pietro Giovanni Guzzo che, sull’esempio dell’esperienza del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena, sentì l’esigenza di estendere all’intera Regione una “politica del dialogo” con le amministrazione locali ed i privati; politica che 2 3 4 5 6 7 Cfr. Guermandi 2001 Cfr., oltre al presente, gli interventi di R. Bitelli, C. Guarnieri, S. Pescarin, L. Prati. Cfr. l’intervento di A. D'Andrea. Cfr. gli interventi di S. De Caro, C. Guarnieri, L. Malnati. Cfr. gli interventi di J.P. Demoule, N. Schlanger e F. Ulisse. L’Istituto è noto sia con l’acronimo IBACN sia come IBC; la Soprintendenza viene citata con la sigla SAER. 34 CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso prevedeva, tra l’altro, la stesura di una carta interattiva dove fosse segnalata la presenza di aree o zone, soggette al rischio di intercettazione di giacimenti archeologici8. Il progetto, caldamente sostenuto anche dal Soprintendente successivo – Mirella Marini Calvani –, nacque quindi con la volontà di rendere pubblico il “rischio archeologico” e con la speranza che chi dovesse operare sul territorio fosse, in un certo senso, consapevole delle complicazioni legate ad eventuali interventi nel sottosuolo. Sono noti i difficili rapporti, mal governati dalla legislazione vigente, tra gli enti che devono occuparsi della pianificazione degli interventi sul territorio. CART aveva l’intento di essere uno “strumento gestionale immediatamente spendibile a livello di pianificazione urbanistica”9, e rappresentava di fatto una prima importante apertura da parte dell’ente ministeriale verso le realtà amministrative periferiche al fine di instaurare proficui incontri di collaborazione reciproca. Fig. 1. I partners del progetto CART. Per quanto atteneva l’operatività del progetto, Soprintendenza e IBA hanno mantenuto un ruolo di direzione scientifica congiunto e, mentre alla SAER, secondo il ruolo istituzionale che le compete, spettò la direzione archeologica del lavoro, all’ente regionale venne demandata la messa a punto di un software che rispondesse a tali esigenze. Al programma si chiedeva sia la capacità di elaborare cartografia archeologica sia la gestione di una mole considerevole di dati di diversa natura come necessita a chi si occupa della ricostruzione del paesaggio antico. Non da ultimo, il programma doveva tenere in considerazione la possibilità di essere costantemente aggiornato e liberamente consultato dagli enti o utenti singoli accreditati. Dal 1995 ad oggi l’IBC si è vista impegnata a portare avanti il progetto con risorse in gran parte interne, anche se non sono mancati altri fondamentali apporti, quali i fondi del Progetto Finalizzato “Beni Culturali” del C.N.R. fino al 2000 e i finanziamenti della rete di eccellenza EPOCH, per quest’ultima fase di cui si rende conto attraverso questo volume. Il comitato scientifico responsabile della prima struttura del sistema (SAER-IBC) decise che l’enorme mole di dati di interesse archeologico, spesso di natura eterogenea, fosse 8 9 L’esperienza del Museo Civico modenese si è concretizzata nel Progetto Mutina. Per notizie ed informazioni inerenti alla Carta del Rischio di Modena si rimanda a CARDARELLI et al. 2000. ORTALLI 2000, p. 185. 35 Maria Pia Guermandi catalogata in schede organizzate secondo una struttura gerarchica che raggruppava, su diversi livelli, l’insieme, davvero considerevole delle informazioni di interesse (vedi Fig. 1 del contributo di BITELLI in questo stesso volume). Per quanto riguardava il concetto di “rischio archeologico”, fu però chiaro fin dall’inizio che esso non poteva basarsi unicamente sui dati archeologici rilevati e inseriti nella carta: è assolutamente fuorviante pensare che solo le zone dove sia attestata la presenza di un bene archeologico si presentino come aree a rischio. Per arrivare alla definizione, anche sommaria, dei livelli di rischio occorreva quindi introdurre altri elementi, quali la segnalazione dei “vuoti” archeologici e una dettagliata rilevazione di alcune categorie di dati specifiche, quali le quote, essenziali per attingere un livello di predittività del modello. 3. IERI: CART ALLA PROVA DEI FATTI E SUE EVOLUZIONI Il progetto partì con l’implementazione dei dati riguardanti il centro storico di Faenza. Fin dall’inizio, il sistema era stato pensato per un uso “collaborativo” e perché fosse fruibile da utenti sparsi sul territorio e con profili di accesso differenziati: ci si rese conto quindi, quasi subito, che l’unica modalità per raggiungere tali obiettivi poteva essere l’evoluzione del sistema attraverso Internet. Proprio per questo nel 1999 il programma venne trasformato e venne creata un’interfaccia di tipo universale in HTML trasformando le schede del database in pagine web, per permettere la consultazione delle stesse in rete. Il data base, che fu contemporaneamente dotato di una nuova interfaccia grafica, divenne così compilabile e consultabile tramite un collegamento autorizzato al server dell’IBC, dove fisicamente risiedeva e risiede tuttora. L’archivio rimase inalterato per quanto riguarda la struttura dei dati scientifici e continuò ad essere gestito tramite un software (Highway) appartenenete alla tipologia degli infromation retrieval systems, mentre la parte grafica venne sostituita utilizzando MapObjects, un software della famiglia ESRI. Già in questa fase di evoluzione del sistema ad ogni scheda venne attivata anche la funzionalità di associazione con un numero libero di immagini, utili per una migliore comprensione dell’evidenza archeologica nella sua fisicità. Con questa versione di CART fu terminata la stesura della carta del centro storico di Faenza (vedi Fig. 8 del contributo di GUARNIERI in questo stesso volume) e fu successivamente mappata l’area del Comune di Forlì (vedi Fig. 11 del contributo di GUARNIERI in questo stesso volume) e, a seguire, il territorio della provincia di Forlì-Cesena con particolare approfondimento delle zone di S. Giovanni in Compito e dell’alta valle del fiume Savio10. 10 Per quanto riguarda i dati archeologici, CART Faenza è stato seguito dalla Dott.ssa Chiara Guarnieri della SAER (si vedano GUARNIERI 1998, GUARNIERI 2000, GUARNIERI 2000a); CART Forlì-Cesena ha visto come direzione scientifica ancora la Dott.ssa Guarnieri in collaborazione con la direttrice del Museo Civico Archeologico “A. Santarelli” Dott.ssa Luciana Prati (si vedano PRATI 1998, PRATI 2000). 36 CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso A livello di discussione metodologica, inoltre, uno dei risultati più importanti di questa fase è sicuramente da identificare nella realizzazione del convegno Rischio Archeologico, se lo conosci lo eviti svoltosi a Ferrara nel 200011. Dedicata al tema del “rischio” archeologico, la manifestazione, oltre ad essere stata l’occasione per la presentazione del progetto CART, costituì, in un momento di particolare attenzione a questi problemi determinato dalle attività che in quel periodo interessavano sia l’ambito urbano (lavori per il Giubileo romano) che quello territoriale (lavori dell’Alta Velocità, ricerche petrolifere in Basilicata), un’occasione di intenso dibattito e di riflessione sui problemi della tutela del patrimonio archeologico e sui mezzi più efficaci per esercitarla. Ci si rese così conto, a livello nazionale e forse per la prima volta con tale articolazione, che l’archeologia preventiva era di fatto divenuta uno dei settori portanti di tutta l’attività archeologica da un lato e dell’insieme della tutela del nostro patrimonio dall’altro. Tra la fine del 2002 ed i primi mesi del 2003, l’IBC procedette infine alla realizzazione di una nuova versione del programma CART. Sia la parte grafica che quella alfanumerica furono oggetto di sostanziali evoluzioni che sia per quanto riguarda il software di georeferenziazione che l’interfaccia degli archivi, dotati di nuove funzionalità di ricerca e gestione dei dati. Tale evoluzione fu determinata dall’esigenza di aggiornarnamento rispetto agli standard allora correnti in campo informatico e agli sviluppi del medesimo: il precedente programma MapObjects si era difatti rivelato scarsamente utilizzato dalle amministrazioni locali, ormai allineate, a grande maggioranza, sul più noto ArcView, della medesima famiglia ESRI. Il salto qualitativo fu comunque notevole, soprattutto da un punto di vista grafico, in quanto sfruttando gli strumenti CAD di ArcView, si ottenne una maggiore precisione nella mappatura dei siti archeologici e fu introdotta la possibilità di sovrapporre carte storiche, planimetrie di scavo, carte archeologiche più recenti rendendo così immediata l’interpolazione di dati di diversa origine sul medesimo riferimento cartografico. Come è noto, poi, il programma ArcView consente di realizzare analisi o funzioni di tipo spaziale (geoprocessing), come la realizzazione di aree di rispetto (i buffers). Con quest’ultima versione di CART fu redatta la carta del rischio del comune di Bologna12 e, dal punto di vista scientifico, grazie ad una collaborazione con la Scuola di Specializzazione dell’Università di Padova, si aggiornarono alcuni dei dizionari utilizzati per il controllo lessicale in sede di immissione dei dati (Fig. 2). Complessivamente, le aree geografiche finora coinvolte nel progetto CART sono: il centro urbano di Modena, l’intero territorio della provincia modenese, il centro storico di Faenza, il centro urbano di Forlì, il territorio della provincia di Forlì-Cesena e l’area del comune di Bologna. In tutti questi territori la costruzione della Carta del Rischio è stata possibile grazie alla fattiva collaborazione degli enti locali (quali le amministrazioni comunali e provinciali) che hanno creduto in questo progetto e che, oltre ad impiegare proprie risorse finanziarie, hanno fornito la cartografia di base su cui è stata costruita la mappatura archeologica. 11 12 Per gli Atti del convegno si rimanda a GUERMANDI 2000. Il lavoro è attualmente seguito dalla Dott.ssa Caterina Cornelio Cassai della SAER subentrata quale funzionario di zona al Dott. Jacopo Ortalli. 37 Maria Pia Guermandi 4. OGGI E DOMANI La verifica attuata a partire dall’inserimento del progetto in EPOCH ha quindi consentito di ridefinire il sistema CART cercando di adeguarlo più efficacemente alle esigenze della pianificazione e demandando ad un momento successivo gli obiettivi più direttamente legati alla ricerca in senso stretto: ciò non significa un “allentamento” del livello di qualità dei dati, ma piuttosto una diversa e più ampia considerazione del problema della programmazione territoriale, all’interno della quale si è sempre visto il patrimonio culturale come un accessorio Fig. 2. CART – PSC Bologna. Qudro conoscitivo 2004. Zona 1 (in bianco); Zona 2 (in grigio); Zona 3 (contornata). 38 CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso spesso fastidioso anche perchè gestito da operatori e istituzioni caratterizzate da strumenti e modalità di interazione spesso non in grado di garantire tempi e modalità certe e dati aggiornati. A partire da queste considerazioni, è stata quindi elaborata una evoluzione di CART su più livelli: da un lato si è proceduto alla correzione di elementi, dati specifici, articolazioni della struttura scientifica sulla base dell’esperienza pregressa (v. relazione Bitelli), dall’altro è stata attuata una ricognizione per quanto riguarda l’evoluzione tecnologica ormai improcrastinabile (v. relazione Pescarin) e infine si è proceduto ad una ridefinizione delle procedure e delle metodologie applicative del sistema (v. relazioni Guarnieri e Prati). Oltre ad un risultato di miglioramento complessivo di CART che si sta perseguendo attualmente, l’obiettivo ancor più prezioso che ci pare di aver colto in questo passaggio realizzato con il contributo determinante di EPOCH è quello di aver allargato l’insieme dei “protagonisti” di questa evoluzione: così se al suo esordio il sistema era stato voluto e realizzato sostanzialmente soprattutto da due istituzioni (SAER e IBC) pur con l’apporto successivo ma indispensabile di altre istituzioni che via via si sono succedute, adesso questa fase di espansione su più livelli vede coinvolte, a diverso titolo, ma con ruolo decisivo anche altri attori, a partire dal Ministero dei Beni Culturali con la Direzione Generale dei Beni Archeologici e da alcuni enti locali come i Comuni di Forlì e Bologna. Motore non accessorio di questo allargamento è da vedersi indubbiamente nella recentissima revisione legislativa del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che, obbligando Stato e Regioni ad una copianificazione in sede di elaborazione dei nuovi piani paesistici, ha indubbiamente facilitato questo processo verso una più efficace e non formale collaborazione fra i vari livelli istituzionali. Ma indubbiamente, per quanto riguarda CART, l’esperienza passata è risultata davvero preziosa per evidenziare punti di fragilità e per migliorare elementi potenzialmente positivi. Per parte nostra di operatori dei beni culturali, tornando all’autocritica iniziale, abbiamo cercato di uscire dallo strabismo che ci porta a ritenere del tutto separati i problemi scientifici, da quelli di finanziamento e quindi a giudicare della fattibilità di un progetto prescindendo completamente dalla sua sostenibilità economica. Non si tratta in questo caso di suscitare i fantasmi dell’ormai abusata contrapposizione fra ricerca pura e ricerca finalizzata, ma di uscire dalla torre d’avorio, ormai un po’ decadente, di una progettualità a tratti sterile e accademica che non è in grado di misurarsi con le esigenze del presente, non solo e non sempre per assecondarle, ma anche, ove necessario, per contrastarle in maniera efficace e propositiva. In effetti, se crediamo che la tutela del nostro patrimonio culturale sia un valore in sé come stabilito dall’articolo 9 della nostra Costituzione, e se, d’altro canto, conveniamo sull’inadeguatezza degli attuali strumenti di difesa e salvaguardia del patrimonio, occorrerà ripensare ad elaborarne altri che, per essere realmente efficaci, dovranno essere dotati di reale operatività. Laddove sia sentita dall’insieme degli attori pubblici (ma anche, in certi casi, privati) la necessità di intraprendere una azione di tutela/valorizzazione del patrimonio e siano proposti strumenti adeguati, le risorse si riescono a reperire. Quando invece tale necessità sia propugnata solo da alcuni rappresentanti della comunità sociale e quindi non goda di un 39 Maria Pia Guermandi grado di condivisione ampio, qualsiasi azione di tutela/valorizzazione stenterà a decollare o a consolidarsi nel tempo13. Come è stato ribadito negli interventi qui raccolti dei più alti livelli del settore per quanto riguarda il MiBAC (v. De Caro e Malnati), l’archeologia sul campo, al presente, è di fatto in percentuale assolutamente prevalente, scavo non preordinato sulla base di specifiche esigenze scientifiche, ma necessitato dallo svolgimento di interventi di altro obiettivo sul territorio. Affinchè questa archeologia dell’emergenza si possa trasformare in archeologia preventiva e, a seguire, in tutela attiva e valorizzazione diffusa, c’è bisogno di strumenti elaborati e sostenuti da un insieme ampio di attori istituzionali sulla base di obbiettivi comuni e socialmente condivisi. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CARDARELLI et al. 2000 = A., M. CATTANI, D. LABATE, S. PELLEGRINI, Il Sistema Mutina: esperienze ed evoluzione, in GUERMANDI 2000, pp. 200–210. GUARNIERI 1998 = C. GUARNIERI, CART a Faenza, in GUERMANDI 1998, pp. 64–67. GUARNIERI 2000 = C. GUARNIERI (a cura di), Progettare il passato. Faenza tra pianificazione urbana e Carta Archeologica, Quaderni di Archeologia dell’Emilia Romagna, 3, Firenze. GUARNIERI 2000a = C. GUARNIERI, Pianificazione urbana e Carta Archeologica: il caso di Faenza, in GUERMANDI 2000, pp. 215–222. GUERMANDI 1997 = M. P. GUERMANDI, Tutela del patrimonio archeologico e diffusione delle informazioni: l’uso di GIS e Internet nelle attività dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna, in Sistemi informativi e reti geografiche in archeologia: GIS – Internet, VII Ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano, 11–17 dicembre 1995), a cura di A. GOTTARELLI, Quaderni del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Sezione Archeologica, Università di Siena n.42, Firenze, pp. 137–160. GUERMANDI 1998 = M. P. GUERMANDI (a cura di), CART. Carta Archeologica del Rischio Territoriale, inserto di “IBC. Informazione, Commenti, Inchieste sui Beni Culturali”, n.3, pp. 41–72. GUERMANDI 1998a = M. P. GUERMANDI, Dati, carte, sistemi. Il ruolo dell’informatica tra tutela e pianificazione, in GUERMANDI 1998, pp. 52–53. GUERMANDI 1999 = M. P. GUERMANDI, Tutela del patrimonio archeologico e GIS: l’elaborazione di una cartografia archeologica finalizzata ai problemi di pianificazione 13 Tale affermazione rischia di essere alquanto deterministica: purtroppo esistono esempi di progetti e pratiche virtuose anche dal punto di vista della sostenibilità economica che non si sono realizzati o che non hanno avuto continuità. 40 CART tra passato e futuro: vita pericolosa di un sistema complesso territoriale della Regione Emilia Romagna, in Carta Archeologica e Pianificazione Territoriale: un problema politico e metodologico, Roma marzo 1997, a cura di B. AMENDOLEA, Roma, Fratelli Palombi, pp. 142–145. GUERMANDI 1999a = M. P. GUERMANDI, Protection of the archaeological patrimony and GIS The elaboration of an archaeological cartografy aimed ti the problems of territorial planning in the Emilia Romagna Region, in New Techniques for Old Times. CAA ’98, Proceedings of the International Conference, Barcelona, 24–28 marzo 1998, a cura di BARCELÒ, I. BRIZ, A. VILA, BAR International Series 757, J.A., Oxford, pp. 359–363. GUERMANDI 2001 = M. P. GUERMANDI (a cura di), Rischio archeologico, se lo conosci lo eviti (Atti del convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara, 24–25 marzo 2000), Firenze. GUERMANDI 2000a = M. P. GUERMANDI, Il sistema CART: metodologia e tecnologia, in GUERMANDI 2000, pp. 189–194. GUERMANDI 2000b = M. P. GUERMANDI, Il progetto CART, in GUARNIERI 2000, pp. 49–52. GUERMANDI 2000c = M. P. GUERMANDI, GIS as a tool for archaelological heritage safeguard. CART system in Emilia Romagna Region, in Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin, Paris, 5–9 July 1999, 1, a cura di A GUARINO, Forlì, pp. 71–77. MARINI CALVANI 1998 = M. MARINI CALVANI, Insieme per l’archeologia preventiva, in GUERMANDI 1998, pp. 42–43. ORTALLI 1998 = J. ORTALLI, Dal rischio alla potenzialità. Lo stato della ricerca cartografica in Emilia-Romagna, in GUERMANDI 1998, pp. 54–56. ORTALLI 2000 = J. ORTALLI, Tutela archeologica e gestione territoriale: all’origine del sistema CART, in GUERMANDI 2000, pp. 185–188. PRATI 1998 = L. PRATI, Il progetto per Forlì, in GUERMANDI 1998, pp. 71–72. PRATI 2000 = L. PRATI, CART a Forlì: la Carta del potenziale archeologico del territorio forlivese, in GUERMANDI 2000, pp. 211–214. 41 IL SISTEMA CART Remo Bitelli Istituto Beni Culturali Emilia Romagna 1. INTRODUZIONE In questo intervento vengono sintetizzati i risultati del progetto CART Forlì portato avanti tra la fine del 2006 e il 2007 grazie a fondi EPOCH. La città è stata scelta come caso di studio per verificare lo svolgimento delle operazioni di tutela del patrimonio archeologico presso un ente locale della Regione Emilia-Romagna. Contemporaneamente si è resa necessaria una revisione di CART, in vita ormai da più di dieci anni, sia da un punto di vista dell’evoluzione tecnologica dei sistemi informatici sia per un adeguamento alle recenti normative in materia di tutela. Non in ultimo la sperimentazione del sistema per un arco di tempo piuttosto lungo ha evidenziato una serie di problematiche inerenti la fase di compilazione dell’archivio. La progettazione di CART prevede diverse fasi di lavoro: la raccolta del materiale utile alla ricostruzione del “paesaggio antico” nelle diverse epoche storiche, la sua schedatura, la sua interpretazione all’interno di un’ottica complessiva ed infine l’elaborazione di una mappa predittiva del “rischio archeologico”. Per concretizzare tali aspettative si utilizza un software adattato appositamente. Il programma che gestisce i dati, Highway, è un information retrieval system che consente la creazione di un numero considerevole di campi relazionabili tra loro rendendo possibile interrogazioni complesse indipendentemente dalla struttura dell’archivio.1 La banca dati è interfacciabile con qualsiasi programma GIS; attualmente lavora su ArcView della ESRI.2 Allo stesso tempo l’archivio utilizza una interfaccia di tipo universale in HTML che permettere la condivisione dei dati via web. Negli anni CART ha subito diverse evoluzioni, sia da un punto di vista tecnologico che per quanto riguarda l’idea della sua applicazione: il progetto è infatti ancora inquadrato nella sfera della sperimentazione e limitato nella sua reale utilizzazione. I maggiori ostacoli al suo utilizzo vanno sostanzialmente ricercati nella condivisione dei dati via web (vedi infra), operazione piuttosto problematica vista la complessità dell’archivio, e nella definizione del “rischio”, attività alquanto difficile ancora totalmente demandata agli archeologi senza quell’ausilio tecnologico che ci si proponeva inizialmente. 2.1 La struttura del database Le informazioni gestite da CART sono molteplici e si riferiscono a tutti i dati che possono essere utili alla ricostruzione del “paesaggio antico”. Le informazioni che vengono raccolte, quindi, sono di diversa natura: alle notizie di tipo strettamente archeologico (si pensi ai dati 1 2 Highway è un ambiente di sviluppo creato dalla ditta 3D Informatica di S.Lazzaro di Savena (BO) appositamente per applicazioni di archiviazione. Sulle finalità e sul sistema informatico del Progetto CART si veda da ultimo BITELLI – GUERMANDI 2004. 43 Remo Bitelli di scavo) vengono associate quelle di tipo geologico, quelle toponomastiche, i risultati degli studi sulla cartografia e quelli sulla foto-interpretazione. Per ogni tipologia di dati sono state create apposite schede in cui le informazioni vengono ordinate in campi. La banca dati di CART è di tipo gerarchico ed è organizzata su più livelli di definizione. Per la compilazione delle schede si deve fare riferimento ad appositi Dizionari di tipo aperto (con la possibilità per lo schedatore di aggiungere una voce) oppure di tipo chiuso. Naturalmente non tutti i campi sono a compilazione obbligatoria.3 Fig. 1. L’architettura dell’archivio CART. Nelle operazioni di schedatura, punto di partenza è la scheda di Attestazione dove vengono forniti i dati generali del rinvenimento o della segnalazione (quali l’indirizzo, l’anno della scoperta, l’autore). Nel caso si sia intervenuti più volte sullo stesso sito si procede con la compilazione di più schede di Attestazione, una per ogni campagna di scavo. La scheda di Attestazione viene intesa come “scheda madre” ed è correlata a diverse “schede figlie”: le schede di Presenza, di Elemento Paleoambientale, di Traccia e di Assenza. Con lo stesso principio alla scheda di Presenza è possibile associare altre “schede figlie” che meglio descrivono l’informazione. I dati archeologici sono raccolti nelle schede di Presenza. Poiché i dati sono schedati secondo una classificazione per Epoca, Classe e Tipo, ad una singola Attestazione possono corrispondere più Presenze (ad esempio una per l’Età Romana, una per quella del Ferro, una per il Medioevo) e, all’interno di queste epoche, si possono trovare ulteriori suddivisioni a seconda del contesto (abitativo, piuttosto che sepolcrale, produttivo, ecc.). A sua volta ogni Presenza può essere meglio descritta tramite le singole schede di Unità Stratigrafica che la compongono. Si è ritenuto opportuno raccogliere i dati inerenti i reperti archeologici grazie alla scheda ministeriale RA e alla scheda di Gestione Reperti dove è riportato il luogo di conservazione dei pezzi. 3 Si ricorda che la struttura della banca dati e la stesura dei Dizionari sono stati curati da Valentina Manzelli per l’IBC secondo le indicazioni fornite dal personale della Soprintendenza Archeologica. 44 Il sistema CART Grande importanza ai fini della tutela riveste la scheda di segnalazione di eventuali Vincoli “diretti” sul bene archeologico o “indiretti” sul territorio. CART permette di raccogliere anche le informazioni inerenti gli Elementi Paleoambientali quali paleosuoli, paleoalvei e depositi alluvionali. La scheda di Traccia consente invece di riportare le indicazioni desunte dall’analisi della cartografia, delle foto aeree, della toponomastica. In ultimo è la scheda di Assenza dove viene riportata l’accertata mancanza di giacimenti archeologici su una determinata area. La scheda riunisce tre differenti tipologie di “vuoto” archeologico: quella reale a seguito di una indagine con esito negativo, quella creatasi con l’asportazione dei beni archeologici dal sottosuolo ed infine quella “presunta” (vedi ultra). In CART è inoltre presente un archivio esterno che gestisce la Bibliografia di riferimento. A conclusione si colloca la scheda di Complesso, la quale raccoglie l’elaborazione delle informazioni e fornisce il modello predittivo del “rischio”. Essa riporta i dati connessi all’individuazione di contesti archeologici definiti in cui confluiscono sia dati certi (le Presenze) sia le supposizioni elaborate dagli archeologi. Sono ad esempio “complessi” la ricostruzione di un tracciato viario, di una villa o di una necropoli. Per la natura stessa della scheda è chiaro che il Complesso rappresenta l’elaborazione finale e viene solitamente compilata dopo l’immissione dei dati noti. A oggi CART copre la provincia di Modena, dove è gestito dal Museo archeologico locale, il comune di Faenza, il comune e la provincia di Forlì e il comune di Bologna.4 In quest’ultima area CART è stato lo strumento utilizzato dalla Soprintendenza per la definizione del Quadro conoscitivo del Piano Strutturale Comunale della città elaborato nel 20045. Dopo più di dieci anni di lavoro si sente l’esigenza di fare il punto sulle maggiori difficoltà riscontrate, nella convinzione che una valutazione critica sul lavoro compiuto sia necessaria per gli sviluppi futuri del progetto. 2.2 Problemi di compilazione CART prevede ben undici schede diverse con un numero elevato di campi, creati per acquisire quante più notizie possibili. Chi si occupa dell’immissione dei dati si trova a dovere compiere due passaggi: il primo consiste nella parcellizzazione dell’ informazione, il secondo nella sua “traduzione” secondo un linguaggio comune costituito da vocaboli prestabiliti. Questo passaggio pone lo schedatore davanti ad una scelta solo apparentemente facilitata; spesso si è costretti a prendere delle decisioni che “semplificano” l’informazione nel senso che ne limitano il significato o, altrettanto spesso, ne annullano l’“incertezza”. Dopo migliaia di schede compilate permane l’impressione che la trasposizione in vocaboli di un contesto archeologico (inteso come testimonianza di un aspetto della vita passata su cui sono intervenuti un numero imprecisato di fattori successivi) sia spesso in bilico tra una semplificazione che rischia di toglierne il senso ed una interpretazione che rischia di alterarne la natura. 4 5 Per l’attività del Museo Civico Archeologico Etnologico di Modena si vedano www.comune.modena. it/museoarcheologico/servizi/attivita.shtml, l’articolo CARDARELLI et alii 2000 e la bibliografia citata. Per CART Faenza si rimanda a GUARNIERI 1998, GUARNIERI 2000b. www.comune.bologna.it/psc/introduzione/5:828. 45 Remo Bitelli A seguito vengono illustrate nel dettaglio alcuni dei principali problemi riscontrati. Gli argomenti fonte di discussione sono riconducibili a tre ambiti diversi: quelli legati all’interpretazione archeologica del sito (e quindi riscontrabili nella compilazione delle schede di Presenza), quelli riferibili a problemi di localizzazione degli stessi sulla cartografia di riferimento (e quindi inerenti la georeferenziazione) e in ultimo quelli legati alla valutazione del “rischio” archeologico (sintetizzati nella scheda di Complesso). 2.2.1 La scheda di Presenza Come accennato, la scheda di Presenza è l’ambito in cui viene sviluppata la descrizione del bene archeologico secondo una classificazione per Epoca, Classe e Tipo. In riferimento all’Epoca è prevista la schedatura di qualsiasi manufatto rinvenuto durante un’indagine di tipo archeologico, anche di epoca recente. Per permettere che tutte le indicazioni riguardo l’età vengano registrate, è presente una serie di campi creata secondo il principio di “maggiore definizione”. Da una datazione di tipo generico (Epoca, es. Età Romana) si passa alle Specifiche (es. Fase imperiale) poi al Periodo (es. II d.C.) ed infine ad una coppia di campi dove è possibile esprimere un range cronologico preciso. La successione di più campi progressivamente specifici si è resa necessaria in quanto vengono schedati beni e siti cronologicamente molto lontani i cui limiti temporali sono ovviamente meglio definiti nelle epoche recenti. Contestualmente si è cercato di semplificare diciture e espressioni utilizzate dagli archeologici per permettere una più facile comprensione anche ai non specialisti. Si pensi a espressioni riferite a “culture” o tipologie di materiale sconosciute ai più. Non in ultimo l’espressione della datazione in anni e secoli costituisce un linguaggio comune necessario per poter procedere all’attuazione di ricerche trasversali alle varie Epoche e Specifiche. Tale schema di riferimento non risolve talune perplessità rilevate, riferite alla traduzione in “numeri” (anni e secoli) delle epoche preistoriche e alla definizione di un inizio e di una fine per periodi così lontani e dai contorni temporali sfumati. Inoltre, alcuni esperti non hanno avvallato gli archi temporali assegnati ai periodi storici mentre altri giustamente ricordano che spesso le culture si sovrappongono ed è quindi inesatto porle in maniera sequenziale. Un elemento a volte difficile da stabilire e non ancora univocamente chiarito è se la datazione va riferita alla sola fondazione della Presenza o al suo periodo di vita. In ultimo si segnala il problema delle datazioni desunte da vecchie pubblicazioni, prive di revisioni posteriori che forniscano allo schedatore di oggi maggiori specifiche. In questi casi si è spesso portati a dover decidere come considerare datazioni generiche espresse con termini come “preistorico” e “protostorico” che, alla luce dei nuovi studi, potrebbero essere inquadrate diversamente. Si riporta a seguito uno stralcio dello schema utilizzato in CART , per fornire un’idea di come si proceda durante la fase di compilazione della scheda di Presenza in riferimento alla datazione.6 Il bene archeologico descritto nella scheda di Presenza è ulteriormente soggetto ad una distinzione per Classe e Tipo. L’idea iniziale è stata quella di impostare la classificazione delle Classi in base al concetto di funzionalità e di proprietà del bene. Le voci presenti nel Dizionario di riferimento sono quindi: Abitato, Area/edificio pubblico, Edificio/infrastruttura 6 Lo schema è modellato sulla Regione Emilia Romagna in relazione alle aree già schedate in CART e viene costantemente aggiornato alla luce di eventuali riletture generali sull’argomento. 46 Il sistema CART privata, Area sepolcrale, Impianto produttivo, Infrastruttura pubblica, Luogo di culto e Altro. Si è riscontrato che questa suddivisione crea forti dubbi specialmente se si sta schedando una presenza pre-protostorica o una certa tipologia di manufatti che possono essere interpretati sia come parti di infrastrutture (pubbliche) che afferenti a strutture di tipo privato (si pensi ai sistemi di regimentazione delle acque per esempio). 7891011121314 CEP – Epoca Età del Bronzo Età del Bronzo Età del Bronzo Età del Bronzo Età del Bronzo Età del Ferro Fase etrusca Fase etrusca Fase etrusca Fase etrusca Fase celtica / umbra / ligure DTZG – Specifiche antico7 medio8 recente8 finale villanoviana10 orientalizzante11 Certosa12 DTZS – Periodo XXIIIaC – XaC XXIIIaC – XVIIIaC XVIIaC – XIVaC XIIIaC – XIIaC XIaC – XaC IXaC – IIIaC IXaC – IVaC IXaC – VIIIaC VIIIaC – ViaC VIaC – IVaC IVaC – IiaC DTZE – Da -2299 -2299 -1699 -1299 -1099 -899 -899 -899 -749 -524 -38813 DTZI – A -900 -1700 -1300 -1100 -900 -267 -375 -750 -525 -375 -19114 Esiste una ulteriore definizione della Classe in Tipo, intesa come una più accurata specificazione del principio di funzionalità. Ad esempio alla Classe Area sepolcrale corrispondono le voci del Tipo Necropoli, Gruppo di tombe, Tomba isolata, Fossa comune, Ustrino, Monumento funebre, Ossario, Iscrizione funeraria e Imprecisabile. In generale, le difficoltà di interpretazione sono le seguenti: la prima è legata all’impossibilità di riconoscere la natura del manufatto in quanto se ne è documentata una porzione limitata; la seconda è 7 Corrisponde alla Cultura di Polada. Corrisponde alla Cultura Terramaricola attestata in Emilia e alle Culture Centro-Italiche presenti in Romagna. La Cultura della Civiltà Appenninica attestata nel bolognese e in Romagna è invece datata al XIV sec. aC. 9 Corrisponde alla Cultura Terramaricola tipica dell’Emilia occidentale e alla Cultura Sub-Appenninica presente sull’intera penisola. 10 Comprende le fasi denominate Villanoviano I (900–800 aC) e Villanoviano II (800–750 aC) della I Età del Ferro. Per quanto riguarda le aree sepolcrali, per Bologna al Villanoviano I si riferiscono le necropoli di S. Vitale e Savena (849–800 aC); mentre rientrano nel Villanoviano II le tipologie tombali note col nome di Benacci I (799–750 aC). 11 Comprende le fasi denominate Villanoviano III (749–680 aC) e Villanoviano IV (679–525 aC) della I Età del Ferro. Per quanto riguarda le aree sepolcrali, per Bologna rientrano nel Villanoviano III le tipologie tombali note col nome di Benacci II e Benacci-Caprara (750–650 aC), mentre quelle note con il nome Arnoaldi I (650–550 aC) afferiscono al Villanoviano IV. 12 Coincide con la II Età del Ferro nella quale si distingue una facies culturale felsinea per l’Emilia ed una umbra per la Romagna. Per Bologna, le tipologie tombali portano il nome di Certosa e Arnoaldi II (550–350 aC). 13 Sacco di Roma. Si segnala che nel bolognese si attestano sepolture celtiche fin dalla seconda metà del VaC. 14 Vittoria di Roma sui Galli Boi. 8 47 Remo Bitelli determinata dalla difficoltà di standardizzare i beni secondo uno schema univoco. Un banale esempio è dato dalla tipologia Casa. Nel caso si stia schedando una qualsiasi parte di una struttura muraria facente parte di una abitazione privata (pavimenti, mura, fondazioni) si utilizza la voce Casa; diversamente accade quando si prendono in considerazioni particolari contesti come i cortili, i pozzi e le fognature, casi in cui gli schedatori preferiscono specificare il tipo di bene pur essendo parte della casa stessa. Occorre probabilmente ridefinire, ancor prima dei Dizionari di riferimento, la logica che deve sottendere questa importante operazione, se non addirittura decidere di evitare di addentrarsi in questa, oggettivamente, difficile classificazione. L’idea iniziale di frammentare le informazioni in più campi per permettere maggiori ricerche e interpolare più liberamente i dati comporta a volte la perdita della considerazione del quadro d’insieme, spesso complesso e difficilmente traducibile in tante schede correlate. Un campo molto importante per CART è quello che prende in considerazione lo Stato di conservazione delle Presenze. Questo parametro si riferisce alla conservazione del bene archeologico nel sottosuolo e quindi incide fortemente sulla valutazione del livello di “rischio” di una determinata area. Purtroppo nelle Relazioni di scavo o nelle pubblicazioni questo aspetto è spesso trascurato. Altro campo importante ma purtroppo quasi mai compilato è quello della Attendibilità. Per Attendibilità si intende la “prosecuzione” oltre i limiti di scavo della Presenza. È ovvio che tale valore è un indicatore fondamentale per la definizione delle aree di rischio e, come il precedente, resta spesso ignorato nelle fonti. Altro problema nasce dalla necessità di confrontare i dati raccolti anche da un punto di vista altimetrico al fine di ricostruire gli antichi piani d’uso. Per le Quote di rinvenimento di frequente ci si trova di fronte a indicazioni di tipo “relativo”, dal piano di campagna o di calpestio, e più raramente (e di recente) a quote espresse secondo un sistema “assoluto sul livello del mare”. Entrambe hanno una propria importanza, ma la disomogeneità dei dati non consente elaborazioni su larga scala. Contemporaneamente il passaggio da un sistema all’altro è spesso difficile e non privo di grosse approssimazioni In ultimo si segnala la difficoltà presente in relazione ai paleosuoli: da alcuni intesi come Presenze, mentre per altri sono Elementi paleoambientali. Al momento si è deciso di considerare Presenza il paleosuolo con tracce di frequentazione al suo interno e Elemento paleoambientale il suolo privo di tracce. Questa differenziazione frammenta però ulteriormente le informazioni inerenti gli antichi piani di vita e quindi, in previsione, di possibili elaborazioni dei dati occorre ricostruire una unità comune. 2.2.2 La georeferenziazione dei siti Nell’ottica di CART, che ha come fine la definizione del “potenziale archeologico” del territorio, la georeferenziazione di un sito comporta l’associazione di un “valore”, archeologico appunto, ad un terreno o ad una parcella catastale. L’operatore ha quindi la responsabilità di “segnare” il territorio, di ridisegnarlo agli occhi di quel “valore” che, alla luce di una possibile applicazione delle normative vigenti in materia, farà la differenza tra una proprietà ed un’altra. Poiché CART è un G.I.S., ai fini del progetto, è fondamentale cercare di ubicare nel luogo originale i dati schedati. Chiunque abbia lavorato alla costruzione di cartografie archeologiche è a conoscenza dell’impossibilità di applicare questo principio a tutti i dati noti. Per questo 48 Il sistema CART motivo le schede in CART si distinguono secondo tre categorie: quelle con un Grado di ubicabilità certo, quelle con un grado di ubicabilità incerto e quelle non ubicabili in quanto prive di indicazioni sul luogo della scoperta. Notizie in qualsiasi forma che descrivono, raccontano, di recuperi, scoperte, scavi sono indispensabili per la costruzione di una Carta Archeologica, ma spesso non danno indicazioni precise sul luogo di rinvenimento. Si parla di proprietà famigliari ormai inesistenti, di campi noti con toponimi difficilmente recuperabili o conosciuti solo a livello strettamente locale. Per questo motivo è stato riconosciuto in CART il Grado di ubicabilità incerto. Da un punto di vista grafico si è tentato di associare ai diversi Gradi le seguenti figure geometriche: quelle certe vengono rappresentate con i “poligoni”, quelle incerte con i “punti” mentre le non ubicabili non compaiono ovviamente sulla mappa. Le “linee” sono utilizzate solitamente per segnalare la ricostruzione di strade, ripartizioni centuriali, alvei o paleoalvei fluviali. Chi ha esperienza nel campo della georeferenziazione dei dati sa comunque come i limiti tra i tre livelli siano sfumati ed esista, anche in questo caso, un grado di discrezionalità dell’operatore nella loro attribuzione. È un problema generalizzato che copre sia la documentazione scarna di particolari sia quella troppo ricca. Si pensi alle relazioni di scavi pluristratificati dei nostri centri storici dove epoche, classi e tipi si sovrappongono secondo limiti segnati da figure geometriche complesse. Si è spesso costretti a disegnarle come figure più semplici e quindi “inesatte”, la cui area (nota e quindi ad ubicabilità certa) viene trasformata volutamente in un’altra la cui ubicabilità non è chiaro se si possa definire ancora tale. Ci si trova davanti a situazioni che vedono una esatta ubicazione del cantiere (e quindi della scheda di Attestazione) contro una approssimata segnalazione delle Presenze archeologiche. Una soluzione a questo problema potrebbe consistere nella possibilità di georeferenziare le mappe di scavo (possibilmente di “fase”) e mantenerle visibili a video. Ancora a proposito del grado di precisione nell’ubicazione delle schede di CART, si ricorda il problema della cartografia di base digitale, essa stessa spesso approssimativa. Per esempio nel caso di Bologna la sovrapposizione delle due cartografie raster utilizzate come “sfondo” Fig. 2. CART Bologna. Sovrapposizione del CTR al 5000 sul CTR al 25000. 49 Remo Bitelli (1:5000 per il centro; 1:25000 per il territorio) evidenzia una errore di posizionamento di circa 10 m. Questo comporta inevitabilmente un errore macroscopico ai nostri fini, tanto che nel centro storico, alcune Presenze si trovavano a seconda dello “sfondo” all’interno di abitazioni private o in mezzo alla strada. C’è da domandarsi, in un sistema simile, quali siano i limiti tra certo e incerto e che senso abbia la ricerca puntuale della collocazione geografica dei dati. 2.2.3 Il Complesso archeologico A oggi la compilazione della scheda di Complesso è demandata completamente all’elaborazione degli archeologi e non è supportata da sistemi di tipo informatico come previsto nelle aspettative iniziali. È al Complesso che viene associato il concetto di “rischio”: si estende cioè anche a zone non note per interventi diretti quel “valore” di potenziale archeologico cui si accennava, fatta eccezione per le eventuali zone di vuoto attestate al loro interno. Ma poiché la scheda di Complesso comporta la definizione di zone archeologicamente definite si può affermare che i casi di compilazione di queste schede sono rarissimi, se si escludono quelli dove l’indagine è risultata estensiva su tutta l’area (per esempio un intero villaggio o una intera necropoli). Tuttavia si tratta di casi in cui viene automaticamente a decadere il fattore rischio, in quanto inerenti per lo più a “vuoti” o a zone vincolate. Spesso, nonostante sia accertata l’esistenza di un Complesso risulta difficile individuarne i limiti. Si è ovviato al problema “raggruppando” i complessi per sovrapposizione e contiguità, allargandoli fino a comprendere interi centri storici e quartieri. Questo escamotage si sposa con la necessità di semplificare le aree di rischio per una più facile gestione della normativa nei confronti degli uffici tecnici comunali preposti. Altro problema riscontrato è dovuto alla complessità della ricostruzione del paesaggio antico per il periodo medievale. I dati in possesso della Soprintendenza archeologica sono spesso limitati se si considera la ricchezza di informazioni desumibili dalle opere ancora esistenti. Una Carta Archeologica su questo periodo storico risulta essere decisamente incompleta se limitata ai soli dati di scavo. Per contro lo studio complessivo dei monumenti relativi al medioevo è di per sé complesso e oneroso ed è per questo che il progetto CART riferito a questo periodo storico è in genere poco sviluppato, soprattutto per ciò che concerne la definizione di Complessi archeologici. 2.3 CART a Forlì Alla fine del 2006 si è potuto attivare un aggiornamento di CART grazie alla collaborazione con il progetto EPOCH nell’intento di verificare lo svolgimento delle operazioni di tutela del patrimonio archeologico all’interno delle attività di un Comune della Regione Emilia Romagna. Tra le aree già oggetto di precedenti lavori di schedatura è stata scelta, come caso di studio, la città di Forlì. In tale occasione ci si è prefissi di mettere a punto un metodo di lavoro che potesse ottimizzare i processi amministravi che sottendono la gestione e la tutela dei beni archeologici. Il lavoro quindi è stato svolto con un’ottica diversa rispetto a quella con cui era stato fatto fino ad allora. L’obiettivo era l’analisi della gestione dei dati all’interno della più vasta 50 Il sistema CART problematica legata alla normativa vigente in materia e alla sua attuazione. In quest’ottica non sono state volutamente compilate le schede di Complesso archeologico. 2.3.1 Forlì – Prima fase 1999–2005 La prima fase del progetto CART Forlì risale al 1999/2000 quando sono state inserite le schede desunte da un precedente studio sul territorio forlivese.15 Questo nucleo, incentrato su materiale e testimonianze di epoca romana, è stato integrato da una ricerca compiuta sui siti pre/protostorici e medioevali del Comune.16 Infine altri dati, allora di recente acquisizione, sono stati presentati direttamente dai tecnici di scavo archeologico che avevano operato sui cantieri.17 Solo questi ultimi hanno presentato i dati compilando la scheda CART18 Nel 2001 il progetto è stato ampliato all’intero territorio della Provincia di Forlì-Cesena. Anche in quel caso si è utilizzata una schedatura già esistente messa a punto per la medesima Provincia su un tipo di scheda non allineata a quella CART19 Contestualmente si è potuto meglio indagare parte del territorio; nello specifico l’area della vallata del fiume Savio con particolare attenzione al centro di Sarsina e la zona di Forlimpopoli e S. Giovanni in Compito.20 In quella occasione si è proceduto con una schedatura ex-novo, basata su dati di tipo primario (bibliografia e documenti d’archivio) e si è potuto verificare come i dati raccolti nelle precedenti schedature fossero parziali rispetto alla ricchezza di informazioni che CART riesce a gestire. Il progetto su Forlì si è poi interrotto sia da un punto vista di implementazione dati che di aggiornamento.21 Un ulteriore passo avanti è stato compiuto solo alla fine del 2005 grazie all’inserimento di nuovi dati di scavo e, cosa importante, alla cessione del database al personale del Comune di Forlì. L’archivio, secondo le richieste pervenute, è stato salvato e ceduto nella versione per ArcView.22 15 Luciana Prati, Forum Livi. Urbanistica in Età Romana, Tesi di Perfezionamento, Università degli Studi di Bologna, A.A. 1990/1991. 16 L’indagine sui siti pre/protostorici è stato curato da Aldo Antoniazzi mentre i siti medievali sono stati schedati da Gianluca Brusi. 17 I dati sono stati forniti dai tecnici di scavo archeologico delle ditte La Fenice. Archeologia e restauro Srl e Tecne Srl. 18 La direzione scientifica del progetto è tenuta, fin dalle prime fasi, da Maria Pia Guarmandi per l’IBC e Chiara Guarnieri per la Soprintendenza archeologica mentre i fondi utilizzati furono stanziati dalla Regione Emilia Romagna e dal Comune di Forlì che ha altresì fornito la cartografia digitale di base georeferenziata nel sistema Gauss-Boaga. L’inserimento dei dati fu svolto dallo scrivente in occasione dello stage del corso “Gestione e Comunicazione dei Beni Culturali. Metodologie di conservazione, gestione e valorizzazione del patrimonio archeologico. Analisi, rilevamento e restituzione del territorio: progettazione di GIS funzionali al rilevamento, catalogazione e comunicazione dei dati pertinenti ai beni culturali e ambientali”; Cortona Svilippo, Cortona (Arezzo). 19 Si trattava di un lavoro firmato da Laura Pini, archeologa di formazione e collaboratrice della Soprintendenza archeologica bolognese. 20 L’area del Savio venne curata dallo scrivente, mentre la zona di Forlimpopoli e S. Giovanni in Compito da Laura Pini. Anche in quella occasione furono utilizzati fondi regionali. 21 Su CART Forlì si vedano PRATI 1998 e PRATI 2000. 22 Il lavoro è stato curato da Claudia Lotti in occasione dello stage del “Master universitario in sistemi informativi geografici per l’ambiente ed il territorio”; Università di Milano, Facoltà di agraria, Istituto di ingegneria agraria. 51 Remo Bitelli 2.3.2 Forlì – Seconda fase 2006/2007 Come si diceva, il progetto su Forlì ha ripreso vita nel 2006. La prima fase del lavoro ha richiesto un’accurata revisione delle schede già immesse mediante il confronto con gli archivi della Soprintendenza archeologica e con la bibliografia esistente; contestualmente sono stati raccolti i nuovi dati desunti dagli scavi recenti. Come ordine di grandezza il lavoro ha permesso la raccolta di circa 780 pratiche, di cui solo 600 circa schedate in CART , contro le 230 già inserite fino al 2005.23 La raccolta dei dati si è concentrata su tre archivi: l’archivio centrale della Soprintendenza archeologica con sede a Bologna; l’archivio dell’ispettore archeologo di zona con sede a Ferrara ed infine l’archivio del Servizio Pinacoteca e Musei del Comune di Forlì. Per meglio capire il motivo per cui le pratiche di interesse archeologico sono presenti in tre differenti sedi è necessario ricordare brevemente come viene attualmente gestita la tutela del patrimonio storico-archeologico a Forlì. Il Comune di Forlì, dal 2000, è dotato di un Piano Regolatore Generale (attualmente ci si riferisce alla variante del 200224) che prevede all’interno del Titolo IV – Tutele e compatibilità per la difesa e valorizzazione dell’ambiente la voce Tutela delle potenzialità archeologiche del territorio [Art.162]. Fermo restando la normativa vigente in materia, l’art.162 del PRG di Forlì prevede “…livelli differenziati di tutela.” Questo aspetto ricade in due diversi ambiti: quello del “Centro storico” e quello del “Territorio comunale”. In entrambi i casi si fa riferimento a tre zone rispondenti a diverse metodologie di intervento sottoposte al parere della Soprintendenza. Tali modalità di intervento sono essenzialmente di tre tipi: “scavo archeologico preventivo”, “controllo in corso d’opera” e “nulla osta a procedere”. La Soprintendenza in accordo col Comune ha fatto precedere all’anno di attuazione del PRG (2000) un periodo di prova e sperimentazione del sistema di circa tre anni, per cui i primi atti amministrativi di nostro interesse risalgono al 1997. Fino al 2004 l’iter burocratico delle pratiche per le concessioni edilizie prevedeva la presentazione dei progetti relativi all’Ufficio di Piano del Comune il quale invitava l’utente a presentare copia del progetto anche all’ispettore archeologo di zona della Soprintendenza in attesa delle direttive in merito alla tutela.25 Dal 2004 la valutazione dei progetti, secondo un accordo stipulato tra Soprintendenza e Comune, viene fatta dal personale del Servizio Pinacoteca e Musei del Comune di Forlì sotto la responsabilità del dirigente del servizio.26 Un discorso a parte meritano i lavori con forti impatti ambientali il cui iter prevede la possibilità di istituire una “conferenza di servizi” che riunisce tutti gli uffici di competenza attorno al medesimo tavolo. La raccolta dei dati è risultata complessa in quanto la medesima pratica si trova presente nelle diverse sedi solo per la parte di competenza. Inoltre la tempistica piuttosto lunga che spesso caratterizza la realizzazione dei lavori edili, ha creato difficoltà nel riconoscimento degli interventi nel corso degli anni. È allo studio la possibilità di snellire il procedimento 23 Si intendono le schede di Attestazione a cui, come spiegato nel testo, si legano un numero imprecisato di schede “figlie”. 24 www.comune.forli.fo.it/upload/forli/regolamenti/NormeTecnicheDiAttuazione_agosto2007_ 163_212.pdf 25 Chiara Guarnieri con sede a Ferrara. 26 Luciana Prati. 52 Il sistema CART amministrativo favorendo una migliore comunicazione e condivisione dei dati tra l’ufficio comunale e l’ente ministeriale. 2.4 Alcune analisi statistiche Al termine della raccolta delle informazioni negli archivi e dopo avere confrontato le pratiche rinvenute, i documenti schedati riconducibili all’operato della Soprintendenza dal 1997 a oggi, sono sostanzialmente di tre tipi: – la Relazione di scavo; – le richieste di intervento archeologico di cui manca un riscontro della avvenuta attuazione;27 – i “nulla osta a procedere”. Tranne il primo caso le altre due tipologie di dati sono estranee a CART Per quanto riguarda le richieste di intervento non attuate si è deciso di non farle rientrare all’interno del progetto in quanto costituiscono a tutti gli effetti una incognita. Questo è il motivo per cui della 780 pratiche raccolte solo 600 sono state schedate. I “nulla osta a procedere”, invece, sono stati inseriti nel progetto come “Assenze” di tipo “presunto” in quanto, pur ignorando il risultato dell’intervento costituiscono di fatto dei vuoti archeologici. La totalità dei dati sono stati comunque raccolti in un database in Excel per permettere alcune indagini di tipo statistico che evidenziassero i risultati del lavoro svolto dalla Soprintendenza e dal Comune dall’entrata in vigore del PSC. Per la natura stessa dei dati, la lettura di queste prime semplici elaborazioni va intesa come un “indicatore di massima” utile alla ricostruzione di un andamento generale.28 Fig. 3. Rapporto quantitativo tra la documentazione e il periodo di rinvenimento (dal 1900 al 2007). 27 Su questo punto si rimanda a quanto esposto in riferimento all’analisi del grafico figura 5 (vedi infra). 28 Colgo l’occasione per ringraziare Lara Castaldelli per la sentita collaborazione ed i preziosi suggerimenti forniti in merito alle indagini statistiche presenti in questo lavoro. 53 Remo Bitelli La prima analisi (Fig. 3) rappresenta il rapporto tra il numero e gli anni delle pratiche in relazione anche alla documentazione archeologica nota per la città di Forlì.29 Si vede con evidenza come dal 2000, anno dell’attuazione del PRG, il numero di documenti inerenti la ricerca archeologica sia salito enormemente. Per il periodo precedente si segnalano alcuni “picchi” in corrispondenza degli anni in cui il Comune è intervenuto per la manutenzione dei sottoservizi del centro storico (1929, 1995, 1998) come nel periodo in cui è stato realizzato il tratto comunale del Canale Emiliano Romagnolo (intorno al 1988). Altre concentrazioni di scavi archeologici sono per lo più casuali o dovute alla bibliografia di riferimento. In alcuni casi, infatti, in assenza di una precisa data di scavo, si è preferito datare la scoperta secondo l’anno di pubblicazione della stessa. Fig. 4. Rapporto quantitativo tra le DIA e le richieste di intervento archeologico. Restringendo l’indagine agli ultimi dieci anni (Fig. 4), ovvero dalla fase precedente al PRG a oggi (agosto 2007), interessante è notare il rapporto quantitativo tra la totalità dei progetti edili presentati al Comune di Forlì e le richieste di intervento. Si vede abbastanza chiaramente come fino al 2004, ovvero fino a quando la gestione delle pratiche era tenuta direttamente dalla Soprintendenza, i “nulla osta” siano stati in numero maggiore rispetto alla fase successiva. Questa constatazione merita una breve spiegazione: la maggior parte dei progetti presentati dal 2000 a oggi riguardano aree a basso potenziale archeologico e, mentre la Soprintendenza ha proceduto con lo svincolo dei lavori, il Comune ha richiesto per maggior cautela “controlli in corso d’opera”. Tali controlli, come si vedrà in seguito, hanno dato esito negativo rimarcando la scarsa potenzialità delle aree in oggetto. Un’ultima analisi (Fig. 5) prende in considerazione solamente le pratiche in cui viene richiesto il controllo archeologico. Ci si trova di fronte sostanzialmente a tre casi: 29 Nel caso le pratiche coprano più anni si è deciso di considerare la data di attuazione dello scavo e, nel caso l’intervento non risulti effettuato, quella di inizio. 54 Il sistema CART – attuazione dell’indagine archeologica ed esito positivo dello scavo. L’esito positivo è da intendersi relativo alla scoperta di un qualsiasi traccia di frequentazione, anche di piccola entità; – attuazione dell’indagine archeologica ed esito negativo dello scavo. Come detto, l’esito negativo è determinato dalla presenza di sole tracce paleoambientali;30 – mancanza di attuazione dell’indagine archeologica. Questo aspetto viene constatato dalla mancata prosecuzione della pratica. Fig. 5. Rapporto quantitativo tra le richieste di intervento archeologico e il loro esito. Come già evidenziato sopra, guardando il grafico, si nota come dal 2004, a fronte di un maggior numero di interventi richiesti, crescono quelli con esito negativo. Pare interessante invece constatare l’aumento della mancata attuazione delle indagini richieste. Le motivazioni, ad una prima analisi, possono essere sostanzialmente due. Probabilmente la causa principale è dovuta alla lunghezza temporale della cosiddetta DIA (denuncia di inizio di attività) che autorizza il richiedente ad eseguire il lavoro entro tre anni. Questo aspetto determina, a volte, la difficoltà a seguire e riconoscere la pratica stessa che, a causa dell’iter amministrativo, finisce per passare attraverso diversi uffici. Un altro motivo potrebbe essere legato alla rinuncia alla attuazione del progetto, rinuncia che comunque non viene comunicata agli uffici competenti. Al momento non è possibile stabilire in che percentuale le due casistiche si pongano tra loro. 3 CONSIDERAZIONI FINALI. In conclusione, facendo un breve bilancio, si può affermare che nei suoi primi dieci anni di vita il progetto CART ha sicuramente svolto un’importante funzione di gestione e analisi dell’informazione archeologica e, per quanto limitato nel suo utilizzo operativo, ha costituito 30 Sono stati considerati negativi anche quegli scavi che hanno restituito solo tracce di interventi edilizi recenti. 55 Remo Bitelli un modello verso cui altri progetti analoghi si sono ispirati. Ideato nei primi anni Novanta secondo i criteri più all’avanguardia in materia di GIS, è logico che necessiterebbe oggi di alcuni adeguamenti secondo più evolute modalità d’approccio in materia. È assai probabile che già con la creazione di un “comitato” misto (tecnico-scientifico), capace di indirizzare i lavori, si potrebbe agevolare il superamento delle difficoltà qui evidenziate. Spesso ci si è domandati se la ricchezza dei dati registrati in CART fosse davvero utile o se una semplificazione delle schede sia, oggettivamente, meno dispendiosa da un lato e maggiormente produttiva dall’altro. Si è chiaramente delineata la necessità di separare due livelli nella gestione/fruizione dei dati: uno riservato agli esperti del settore (gli archeologi), l’altro per gli uffici tecnici comunali e per il pubblico. Da un punto di vista tecnico si propende quindi per una condivisione online della totalità dei dati solo al personale accreditato alla compilazione delle schede, alla correzione dei dati e alla interpretazione dei siti. Per quanto le schede siano state pensate e strutturate in maniera semplice si è infatti constatato come la lettura dei singoli dati spesso tradisce la complessità della ricostruzione del “paesaggio antico” e il rischio che vengano male interpretati è tale che la loro divulgazione potrebbe avere risultati negativi. Inoltre c’è il pericolo che la comunicazione di tutti i dati, compresi la loro ubicazione, possa favorire il fenomeno degli scavi abusivi, purtroppo ancora presente. Dal punto di vista dell’implementazione dei dati si ritiene opportuno, una volta posto a regime il sistema, affidare la fase di aggiornamento direttamente agli archeologi che lavorano sul territorio, i quali hanno la possibilità di sintetizzare l’esito delle ricerche e, soprattutto, di fornire il posizionamento certo dei cantieri. Una proposta concreta sarebbe quella di inserire all’interno dell’iter amministrativo delle pratiche una versione semplificata della scheda CART , da consegnare compilata dagli operatori sul campo a fine lavori. Questo comporterebbe il costante aggiornamento dei dati con una spesa minima e in tempo reale. Nel caso specifico di Forlì, ma si tratta di un aspetto comune a più realtà territoriali, sarebbe auspicabile rivedere e monitorare l’attuazione delle richieste di intervento archeologico. L’analisi compiuta sulla città evidenzia l’elevato numero di richieste di indagine che non vengono espletate (Fig. 5). Una soluzione, in parte già in atto al Servizio Pinacoteca e Musei, è da vedersi nella creazione di un database dove vengano riportate le date di inizio e di fine delle concessioni edilizie. Allo scadere della pratica, o meglio a intervalli temporali prestabiliti, deve prevedersi una verifica puntuale dello svolgimento degli interventi. Allo stesso tempo i dati su Forlì confermano l’esito più che positivo dello svolgimento della tutela archeologica, che per stessa ammissione del Servizio Pinacoteca e Musei, vede ormai fattivamente coinvolta una cospicua parte della cittadinanza locale. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BITELLI – GUERMANDI 2004 = R. Bitelli, M.P. Guermandi, Cartografia archeologica e pianificazione territoriale. Il Progetto CART , in M. Buora, S. Santoro (a cura di), Progetto Durrës. Atti del Secondo e del Terzo Incontro Scientifico, Antichità Altoadriatiche, LVIII, Trieste, Editreg srl, 2004, pp.145–159 56 Il sistema CART CARDARELLI et al. 2000 = A. Cardarelli, D. Labate, S. Pellegrini, Il Sistema Mutina: esperienze ed evoluzione, in GUERMANDI 2000a, pp. 200–210. GUARNIERI 1998 = C. Guarnieri, CART a Faenza, in GUERMANDI 1998a, pp. 64–67. GUARNIERI 2000b = C. Guarnieri, Pianificazione urbana e Carta Archeologica: il caso di Faenza, in GUERMANDI 2000a, pp. 215–222. GUARNIERI 2000a = C. Guarnieri (a cura di), Progettare il passato. Faenza tra pianificazione urbana e Carta Archeologica, Quaderni di Archeologia dell’Emilia Romagna, 3, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2000. GUERMANDI 1997 = M.P. Guermandi, Tutela del patrimonio archeologico e diffusione delle informazioni: l’uso di GIS e Internet nelle attività dell’Istituto per i Beni Culturali della Regione Emilia Romagna, in A. Gottarelli (a cura di), Sistemi informativi e reti geografiche in archeologia: GIS – Internet, VII Ciclo di lezioni sulla ricerca applicata in archeologia (Certosa di Pontignano, 11–17 dicembre 1995), Quaderni del Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti, Sezione Archeologica, Università di Siena, 42, Firenze, pp. 137–160. All’Insegna del Giglio. GUERMANDI 1998a = M.P. Guermandi (a cura di), CART. Carta Archeologica del Rischio Territoriale, inserto di “IBC. Informazione, Commenti, Inchieste sui Beni Culturali”, 3, pp. 41–72. GUERMANDI 1998b = M.P. Guermandi , Dati, carte, sistemi. Il ruolo dell’informatica tra tutela e pianificazione, in GUERMANDI 1998a, pp. 52–53 GUERMANDI 1999a = M.P. Guermandi, Tutela del patrimonio archeologico e GIS: l’elaborazione di una cartografia archeologica finalizzata ai problemi di pianificazione territoriale della Regione Emilia Romagna, in B. 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Guermandi, Il sistema CART : metodologia e tecnologia, in GUERMANDI 2000a, pp. 189–194. GUERMANDI 2000c = M.P. Guermandi, Il progetto CART , in GUARNIERI 2000a, pp. 49–52. GUERMANDI 2000d = M.P. Guermandi, GIS as a tool for archaelological heritage safeguard. CART system in Emilia Romagna Region, in A. Guarino (a cura di), Science and Technology for the Safeguard of Cultural Heritage in the Mediterranean Basin, Paris, 5–9 July 1999, 1, Forlì, Elsevier, pp. 71–77. ORTALLI 2000 = J. Ortalli, Tutela archeologica e gestione territoriale: all’origine del sistema CART , in GUERMANDI 2000a, pp. 185–194. PRATI 1998 = L. Prati, Il progetto per Forlì, in GUERMANDI 1998a, pp. 71–72. PRATI 2000 = L. Prati, CART a Forlì: la Carta del potenziale archeologico del territorio forlivese, in GUERMANDI 2000a, pp. 211–214. 58 ARCHEOLOGIA PREVENTIVA: ESPERIENZE A CONFRONTO E PROSPETTIVE FUTURE Sofia Pescarin CNR ITABC – Roma 1. INTRODUZIONE A partire dal 1999 il sistema CART è entrato nell’uso quotidiano, prima nel comune di Modena e poi in quello di Bologna, Faenza e Forlì. A distanza di quasi dieci anni, tempo lunghissimo dal punto di vista informatico, possiamo oggi osservare come le scelte operate furono, una volta tanto, piuttosto lungimiranti. La tecnologia invecchia in fretta e se non si pianifica, fin dalle fasi iniziali di un progetto, in modo che venga tenuto in considerazione il naturale evolversi di formati e macchine, ogni sforzo messo nella programmazione del software, nell’elaborazione delle procedure anche burocratiche, nella preparazione e archiviazione dei dati e, non da ultimo, nell’accantonamento di risorse finanziarie, risulta assolutamente inutile. Molti progetti iniziati negli anni ‘90 hanno subito questa sorte, rimanendo cattedrali nel deserto senza più continuità, manutenzione, talvolta fino alla loro completa dimenticanza. CART venne costruito tenendo presente alcuni elementi fondamentali, che si sono rivelati nel corso degli anni piuttosto vincenti. La sua progettazione si fondava su scelte lungimiranti dal punto di vista tecnico: l’utilizzo della rete, innanzitutto, come strumento principale di comunicazione e scambio di dati; di formati aperti di scambio; di standard aperti basati su XML e di un browser Internet come interfaccia tra banche dati, amministratori e utenti (Fig. 1). Nonostante CART non sia stato utilizzato al massimodelle sue potenzialità, ha svolto e continua a svolgere correttamente i compiti per i quali era stato progettato ed implementato. 2. IL FUNZIONAMENTO DI CART Il sistema CART è composto da due parti principali: un database e un GIS. Il database si occupa di raccogliere tutte le informazioni testuali, oltre che immagini raster (foto, piante, ecc.). Il GIS gestisce tutti i dati georeferenziati, sia vettoriali che raster. GIS e DB sono tra loro collegati sulla base della georeferenziazione e degli ID delle schede. Il sistema è costituito da una parte SERVER e da una CLIENT. E’ stato progettato in modo da prevedere tre tipi di accessi: Consultazione, Editing e Data Entry, Amministrazione. Il GIS si basa attualmente su software ESRI ArcGis (versione 8), mentre il GEOdatabase costruito nel 2000, su applicazione proprietaria Highways, si basa su standard aperti basati su XML-HTML1. Il database gerarchico si occupa della conservazione dei dati con interesse archeologico, la cui ricchezza viene mantenuta grazie alla strutturazione delle informazioni raggruppate per “livelli” di definizione. Un collegamento dinamico bi-direzionale tra il GIS e il DB consente di decidere la modalità di inserimento di nuovi dati. L’operatore, che ha i 1 Il software è stato realizzato da 3D Informatica di Bologna. 59 Sofia Pescarin permessi di editing, può ad esempio inserire un nuovo layer grafico vettoriale, disegnandolo direttamente nel GIS, e poi aggiungere tutte le informazioni necessarie nella maschera del database, che viene automaticamente creata per ogni nuovo oggetto grafico. Tutti i dati vengono archiviati sotto forma di testo e sequenze di punti vettoriali con coordinate x,y,z (punti, linee e poligoni). Tutte le informazioni sono esportabili in un unico file aperto (*.txt) tabulato. Fig. 1. La struttura di CART. La modalità di realizzazione di CART fa sì che l’infrastruttura informatica possa essere flessibilmente adattata anche ad interfacciarsi con strumenti di nuova generazione, di tipo webGIS o con altri strumenti di tipo Open Source (MapServer, GRASS ecc.), integrando nuove e più avanzate funzionalità, che risultano al momento carenti nel sistema. Per arrivare a proporre un nuovo modello di sviluppo, utilizzo e gestione di CART, che possa superare le problematiche emerse in questi anni2 (Tab. 1) ed essere preso come esempio in altri casi, risulta piuttosto utile proseguire in due direzioni parallele: confrontando alcuni esempi significativi all’estero e analizzando i più recenti sviluppi nel campo del webGIS e 3d webGIS. Alcune delle Problematiche individuate Rischio-Conservazione Accessibilità dati d'origine Difficile Leggibilità dei dati Discretizzazione dei dati Divulgazione Rigidità degli strumenti informatici Inesistenza della scheda a livello nazionale Rapporti inter-istituzionali complessi tra uffici urbanistica, comuni, regioni, soprintendenze, università, ditte private Integrazione con archeologia medioevale o moderna complessa Ritardi nell'archiviazione dei dati Mancanza coordinamento 2 cfr. BITELLI in questo volume 60 Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future 3. GLI STRUMENTI PER LA GESTIONE TERRITORIALE: ALCUNI SPUNTI DALL’ESTERO Per quanto riguarda l’utilizzo di strumenti di gestione integrata dei dati archeologici all’estero, l’indagine, ancora in corso di perfezionamento, è stata effettuata prendendo in considerazione principalmente i seguenti parametri di riferimento: – – – – Utilizzo avanzato della rete in maniera de-localizzata; Utilizzo avanzato di strumenti di archiviazione delle informazioni archeologiche; Livello di interazione; Livello di coinvolgimento di diverse figure (pubbliche amministrazioni, professionisti, privati cittadini, ecc.). In questa sede verranno esaminati i dati relativi all’ambito anglosassone che costituisce una delle migliori esemplificazioni di gestione informatizzata del territorio. Nel Regno Unito esiste una regolamentazione generale introdotta nel 1990 dal governo. Si tratta del PPG-16 (Planning Policy Guide) che si occupa di regolamentare le politiche governative nazionali sui resti archeologici nel territorio, ovvero su come debbano essere conservati e acquisiti sia in contesto urbano che extra-urbano. Coinvolge sia le istituzioni pubbliche che si occupano di archeologia e di amministrazione del territorio, nonché i privati che intendono effettuare degli interventi. La normativa da’ inoltre indicazioni sul trattamento dei resti archeologici e sulle scoperte archeologiche attraverso sistemi di pianificazione e controllo dello sviluppo territoriale, compreso il peso da assegnare alle scoperte durante le fasi di decisione e pianificazione. Vengono infine indicate procedure nel caso in cui resti archeologici siano riportati alla luce durante lavori di realizzazione di opere pubbliche o private. Il governo inglese ha pubblicato un volume, il “Planning Policy Guidance 16: Archaeology and planning”, acquistabile o consultabile on line3, ed ha inaugurato un vero e proprio sito, il Planning Portal4 che da’ indicazioni sia ai privati che alle istituzioni pubbliche locali su normative, regolamenti in ambito di pianificazione e urbanistica. Il portale è un vero e proprio strumento di orientamento, sia per i privati che per le istituzioni, e ha lo scopo di fornire informazioni sulle procedure per la pianificazione, i permessi necessari, le indicazioni su quale ufficio di pianificazione e urbanistica contattare localmente (Local Planning Authority), compresi quali siano i piani di sviluppo territoriale e relativo sito web. E’ possibile iniziare la procedura direttamente on-line, richiedendo un permesso. I professionisti possono inoltre inviare tramite Internet le proprie “planning permission”, oltre a poter leggere regolamenti e leggi aggiornate. Gli enti pubblici locali accedono al portale, come strumento di supporto alle proprie attività di “e-planning” e di informazione aggiornata su leggi e regolamenti del Ministero (Fig. 2). E’ indispensabile comunque, per quanti vogliano intraprendere interventi sul territorio (“developers”), effettuare ricerche sul potenziale archeologico nella zona. Ciò può essere 3 4 www.communities.gov.uk/index.asp?id=1144057 Si vedano i siti: The Planning Portal (UK government's online planning and building regulations resource): http://www.planningportal.gov.uk 61 Sofia Pescarin fatto contattando il “County Archaeological Office” o effettuando delle ricerche nel “Site and Monument Record” per quanto riguarda i resti archeologici noti o potenziali. Fig. 2. La pagina iniziale del Planning Portal. Il “Sites and Monuments Record” (SMRs) è uno dei più grandi archivi di informazioni archeologiche. Contiene più di 600.000 siti e monumenti schedati e viene mantenuto dalle “contee”, che in genere impiegano personale archeologo all’interno dei propri uffici urbanistici. Recentemente in Inghilterra si è inaugurato un nuovo progetto: l’Oasis Project. Si tratta di un archivio nazionale archeologico a cui ciascuna contea deve fare riferimento e deve contribuire ad alimentare5. E’ costituito dall’aggregazione di una serie di strumenti come: l’ADS (Archaeology Data Service)6, il National Monuments Record dell’English Heritage, ecc. L’accesso è possibile a livelli diversi. Esiste un accesso pubblico e un accesso istituzionale. Le istituzioni e gli addetti del settore vi accedono immettendo una propria user e password e possono consultare l’archivio o inserire nuovi dati relativi a prospezioni, indagini o scavi archeologici sul territorio (Fig. 3). La parte accessibile al pubblico è invece molto limitata, senza un vero e proprio webGIS, ma è comunque significativa, dal momento che si appoggia su ADS ArchSearch che fornisce una localizzazione dei siti con alcune generiche informazioni. Il principale obiettivo è quello di fornire un indice on-line a tutta quella massa di letteratura “grigia” che viene normalmente prodotta dagli operatori del settore durante scavi, indagini e sopralluoghi. Attraverso un apposita maschera, gli archeologi possono inserire informazioni che poi vengono validate dal NMR (National Monument Record) e infine passate all’ADS perché vengano inserite nel catalogo on line ArchSearch7. Il sistema di 5 6 7 /ads.ahds.ac.uk/project/oasis L'Archaeology Data Service (ADS) è un'istituzione che si occupa di conservare dati digitali e di promuovere e disseminare un'ampia tipologia di dati archeologici, supportando anche ricerca e insegnamento. Promuove e da' indicazioni sulle “buone pratiche” nell'utilizzo del digitale in archeologia e offre supporto tecnico-scientifico al mondo della ricerca. ads.ahds.ac.uk/catalogue/ 62 Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future ricerca consente agli utenti di cercare informazioni su un particolare sito o tipo di monumento e di accedere direttamente a report e archivi. I report che vengono prodotti vengono anche messi a disposizione attraverso l’ADS che consente ricerche avanzate in numerosi campi8. E’ l’English Heritage che si occupa del progetto e della gestione del data entry ([email protected]) mentre la parte tecnica viene gestita direttamente dal team di ADS. Fig. 3. Scheda dell’Oasis. L’accesso alla sezione pubblica consente di visionare online documentazione prodotta dalle operazioni archeologiche a larga scala e di visualizzarne i risultati attraverso un sistema di ricerca, noto appunto come ArchSearch, con il quale è possibile ottenere informazioni più aggiornate su un determinato sito, tipo di monumento, ecc. con mappe e relativi link. ADS ArchSearch fornisce una localizzazione precisa dei siti, grazie all’inserimento all’interno delle proprie pagine di una mappa tratta direttamente da GoogleMaps con sovrapposto il punto che si riferisce al sito che si sta consultando (Fig. 4, n.2). Fig. 4. Il sito dell’ArchSearch. 8 ads.ahds.ac.uk/catalogue/library/greylit/ 63 Sofia Pescarin Il sistema di ricerca consente agli utenti di cercare informazioni su un particolare sito o tipo di monumento e di accedere direttamente a report e archivi. I report che vengono prodotti vengono anche messi a disposizione direttamente attraverso l’ ADS9 che consente ricerche avanzate in numerosi campi. Sono possibili diversi tipi di ricerche: ricerche di base attraverso parole chiave o nome di un progetto, ricerche attraverso la mappa, attraverso il tipo di risorsa o la ricerca avanzata che consente di inserire più di un parametro. E’ l’English Heritage che si occupa del progetto e della gestione del data entry mentre la parte tecnica viene gestita direttamente dal team di ADS. La ricerca generica ad esempio consente di effettuare un’interrogazione sulla base di: parola chiave, titolo di progetto, Chi, Cosa, Dove, Codice Postale, ID del sistema ADS. Il risultato della ricerca restituisce una serie di risultati che possono essere ulteriormente interrogati (Fig. 5). Fig. 5. Elenco di risultati dell’ArchSearch. I campi visualizzabili per l’accesso pubblico sono: descrizione, localizzazione, tipologia del soggetto e periodo, data del progetto, tipo di intervento, responsabile del lavoro, Localizzazione dei materiali prodotti (foto, pubblicazione), Localizzazione dell’archivio dei reperti, Contenuto dell’archivio, Bibliografia, Responsabile della tutela del bene, Nome della risorsa, ID della risorsa, Tipo, data di acquisizione (Tab. 2). E’ possibile anche accedere ad archivi collegati contenenti: mappe storiche10; mappe stradali; foto aeree11. E’ presente anche un collegamento al progetto PastScape12. 9 ads.ahds.ac.uk/catalogue/library/greylit/ old-maps.co.uk 11 www.multimap.com 12 pastscape.english-heritage.org.uk 10 64 Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future Description: Location: Subject type and period: Project dates: Intervention type: Responsible for Work: Paper/microfilm archive: location: Artefact archive: location Archive contents: Bibliographic references. Record maintainer: Resource Name Depositor's Id No. Type Accessioned Cirencester Museum finds/archive accession No: 1980/71 ROMAN FORUM; CIRENCESTER; COTSWOLD; GLOUCESTERSHIRE; England Grid ref. OSGB - SP 02 01 Grid ref. LL - 001 58 W 51 42 N TOWN, Roman – FORUM, Roman 1963 Excavation Cirencester Excavation Committee Corinium Museum Cirencester Corinium Museum Cirencester NOTEBOOK – EXCAVATION, RESEARCH, GENERAL NOTES, PHOTOGRAPH – NEGATIVE, PHOTOGRAPH – PRINT, PLAN – EXCAVATION The Antiquaries journal : journal of the Society of Antiquaries of London 44/1964/9–14 English Heritage, National Monuments Record English Heritage NMR Excavation Index for England 633480 Collection 10 Feb. 2001 Tab. 2. Esempio di scheda accessibile dal pubblico nel sito ADS. Come lavorano gli archeologi sul campo? Un esempio proviene dalle attività di una piccola società privata londinese che che si occupa di scavi archeologici per conto di privati e amministrazioni pubbliche, oltre ad essere impegnata da anni nel progetto “Fasti on line”13. Dall’intervista fatta sono emersi quelli che sono i meccanismi di lavoro in un paese certo diverso dall’Italia, sotto diversi aspetti, ma che comunque presenta un ottimo livello di organizzazione e gestione dei dati. Il lavoro sullo scavo viene effettuato acquisendo sempre e in tempo reale anche i dati digitalmente. Tali dati vengono georeferenziati e “caricati” in cantiere all’interno di un webGIS, nel quale sono anche impostati i collegamenti con un database. Tale webGIS viene messo a disposizione anche dei clienti (privati e pubblici che siano), i quali attraverso un accesso riservato con user e password possono osservare lo stato di avanzamento dei lavori, accedere a eventuali informazioni di riferimento, preparare materiali grafici per successive elaborazioni (carte, presentazioni ecc.). Il sistema webGIS messo a punto, Merlin, si basa su un software Open Source, MapServer, che è stato personalizzato per rispondere alle esigenze specifiche (Fig. 6, sx). Anche il progetto “Fasti On Line” è basato sullo stesso strumento aperto, MapServer (Fig. 6, dx). Si tratta di un progetto nato dai Fasti Archaeologici, editi tra il 1946 e il 1987, dall’Associazione Internazionale di Archeologia Classica (AIAC) e ora, grazie al supporto 13 www.fastionline.org/ 65 Sofia Pescarin del Packard Humanities Institute (PHI), disponibili in una versione on line, nella forma del database GIS, che offre informazioni in dettaglio sugli scavi in Italia, Albania, Bulgaria, Macedonia, Malta, Marocco, Romania e Serbia. Fig. 6. A sx iIl web-GIS Merlin; a dx l’Home Page di Fasti on-line. 4. POSSIBILI SVILUPPI DEL MODELLO CART Riprendendo il secondo punto dell’indagine, a proposito dei recenti sviluppi nel campo del webGIS e del VR webGIS, emergono alcuni esempi interessanti per un possibile confronto e sviluppo futuro di CART. Sono stati qui presi in considerazione esclusivamente strumenti aperti, per venire incontro alle ultime indicazioni ministeriali in relazione appunto all’utilizzo di software Open Source nella Pubblica Amministrazione. Tra gli Application Server Open Source, uno dei più interessanti progetti è certamente Ka-Map14. Si tratta di uno strumento il cui scopo è quello di fornire un ambiente javascript per lo sviluppo di applicazioni di interfacce interattive per il web-mapping. Tra le principali caratteristiche troviamo la possibilità di eseguire “panning” continuo ed interattivo della pagina (senza richiederne il reloading), una serie di opzioni di navigazione da tastiera e da mouse (zooming, panning), zoom a scale predefinite, pieno supporto per scale, legende, mappe di riferimento. Un progetto basato su Ka-Map, Embrio, offre alcuni buoni spunti di riflessione su quello che potrebbero essere gli sviluppi futuri dei portali geografici. Embrio è un’interfaccia web che consente non solo di visualizzare mappe interattivamente, come la maggior parte dei webGIS, ma offre la possibilità di collegare MapServer con strumenti GIS desktop potenti come GRASS e Qgis, tramite PyWPS, sfruttandone pienamente le potenzialità di analisi spaziale da effettuare in tempo reale. L’esempio disponibile on line dimostra come a partire da una base dati geografica pubblicata lato server, un utente può eseguire, analisi di tipo Viewshed, Slope, Cost Distance, ecc. (Fig. 7). 14 ka-map.maptools.org/ 66 Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future Fig. 7. Analisi di visibility. A partire da ciò, è agevole pensare alle moltissime possibilità di sfruttamento di tali funzioni per chi si occupa di pianificazione territoriale, gestione delle emergenze archeologiche, ecc. Soprintendenze e Uffici urbanistici potrebbero infatti, attraverso un accesso protetto, sfruttare le potenzialità del GIS senza preoccuparsi nè del software installato sulla propria macchina (basta infatti un browser web) e tanto meno del luogo dove fisicamente si trovano. Un altro esempio interessante è il progetto OpenLayers15. Si tratta di uno strumento JavaScript completamente gratuito, a codice aperto, rilasciato con licenza BSD, che consente di collocare mappe dinamiche all’interno di ogni tipo di pagina web in maniera semplice. Offre la possibilità di caricare anche mappe raster piuttosto grandi, grazie alle funzionalità di “tiling” (anche GoogleMap sfrutta tale funzione per consentire un accesso rapido alle informazioni geospaziali), ma soprattutto consente di costruire un sito web a “strati”, visualizzando mappe e dataset geografici provenienti anche da altri provider, senza dover installare o possedere la cartografia sulle proprie macchine server o client (Fig. 8). Anche in questo caso le possibilità di applicazione nel caso concreto dell’archeologia preventiva sono molte. Sarebbe ad esempio possibile, evitando di duplicare risorse economiche e di personale, utilizzare gli uffici cartografici del comune o della regione come provider per la cartografia di base. Le soprintendenze disporrebbero così della cartografia sempre aggiornata “al di sotto” dei propri dati. Anche nel campo del 3D, sempre orientato alla visualizzazione dei dati geografici, da qualche anno si registrano dei progetti che potrebbero essere facilmente integrati all’interno dell’infrastruttura CART. La libreria OpenSceneGraph ne è un esempio, insieme al lavoro di sviluppo di un applicativo per il web, OSG4WEB, realizzato da CNR ITABC e CINECA16. 15 16 www.openlayers.org/ www.openscenegraph.org, http://www.vhlab.itabc.cnr.it/openheritage 67 Sofia Pescarin Fig. 8. Il sito Open-Layers. Fig. 9. Il sito di Flaminia Project. 68 Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future 5. VERSO UN NUOVO MODELLO GENERALE DI CART Sebbene CART sia già potenzialmente costruito per essere accessibile via Internet da diversi utenti, vi è oggi la necessità di ampliare e diversificare il tipo e le modalità di interazione e di aggiornare la propria struttura a livello informatico, in modo da rispondere alle nuove esigenze e alle indicazioni ministeriali. Di seguito si propone un modello generale verso cui è possibile orientarsi, definito “openCART”, per indicare chiaramente come l’infrastruttura proposta conservi quasi interamente le caratteristiche di CART, ampliandole anche attraverso la migrazione verso strumenti completamente aperti. La catalogazione dei dati noti in materia archeologica all’interno di un sistema informatizzato riunisce in se diversi aspetti: la ricerca, il riordino, la standardizzazione delle informazioni a interesse archeologico, l’indicazione della loro reperibilità, la revisione delle stesse informazioni alla luce di analisi spaziali, la loro correzione, ecc. Il fine di CART è stato ed è tuttora, oltre alla divulgazione dello stato delle ricerche (Carta Archeologica) la stesura di “modelli predittivi” (Carta del Rischio) nei quali la ricostruzione dell’antico tessuto territoriale diviene uno strumento di confronto tra le nuove attività (edili ed urbanistiche) e il valore di “tutela” intrinseco alle antiche testimonianze conservatesi nel sottosuolo. Per tale motivo è indispensabile, nella prospettiva della creazione ed utilizzo di uno strumento davvero operativo, il coinvolgimento di quelli che sono gli attori del processo di acquisizione, elaborazione e gestione del dato archeologico. Potenzialmente il sistema CART è infatti progettato per essere aggiornato da diverse istituzioni, diverse figure professionali e diversi temi (beni culturali e territoriali). CART ha come scopo, come si è detto, quello di essere strumento utile di lavoro, e questo principalmente in due ambiti: quello che si occupa dello studio, tutela e valorizzazione delle risorse culturali-archeologiche del territorio e quello che si occupa della pianificazione e gestione dello stesso. Per tale ragione la collaborazione e l’integrazione del lavoro tra “archeologi” e “urbanisti” risulta fondamentale nella costruzione e nell’avvio iniziale di uno strumento comune. Da una prima analisi degli utenti di riferimento, sono emerse diverse categorie che, con finalità e funzioni diverse, possono aver accesso a openCART. Innanzitutto i gestori e utilizzatori istituzionali, ovvero: – Regione: Soprintendenza ai Beni Archeologici. – Regione: IBC. Enti pubblici regionali preposti alla programmazione regionale in materia di Beni Culturali e consulenza degli enti locali nel settore dei beni culturali. – Comune: Uffici urbanistica e pianificazione territoriale. In ambito urbanistico-territoriale i settori di riferimento sono quelli che fanno capo al assessorato all’Urbanistica e Pianificazione territoriale attraverso gli Uffici Tecnici, in Emilia Romagna denominati Sportelli Unici per l’Edilizia, e se esistenti agli uffici cartografici Altri utilizzatori (alcuni con funzioni di editing, altri di gestione, altri solo di consultazione) sono: – Comune: Musei. Enti pubblici locali, ad esempio i Musei, che si occupano di Beni Culturali – Soprintendenza ai Beni Architettonici 69 Sofia Pescarin – Uffici cartografici sia regionali che comunali – Università e altri enti di ricerca che studiano e analizzano il territorio sia dal punto di vista archeologico che geologico e ambientale – Operatori del settore: archeologi – Operatori del settore: geologi – Strutture e società private che si occupano di edilizia – Enti pubblici e privati che si occupano di informatica (uffici cartografici, ecc) Per venire incontro alle diverse esigenze e tipi di attività all’interno di openCART, si prevedono quattro tipi di accesso al sistema: 1 Accesso Pubblico: consultazione parziale. Il sistema è pubblicamente accessibile via Internet in consultazione, per quanto riguarda la visualizzazione GIS e l’interrogazione di alcune informazioni di base. Attraverso una URL generica si può accedere alla sola sezione di visualizzazione delle informazioni archeologiche, sotto forma ad esempio di semplici punti georeferenziati, sovrapposti ad una cartografia a grande scala e collegati a poche e sintetiche informazioni tratte dall’archivio principale di CART17. Per ogni elemento possono apparire solo una selezione di tutti i campi del database (come ad esempio: Descrizione; Localizzazione; Mappa on-off; Tipologia; Periodo; Referente istituzionale; Id CART, Id deposito (archivio sopr.); Tipo (es. collezione ...); Data Acquisizione (informatizzazione), ecc.). Qui l’utente generico può effettuare ricerche sui campi disponibili ed ottenere un elenco di risultati (punti georeferenziati) la cui localizzazione potrà essere visibile. 2 Accesso Pubblico Avanzato: consultazione completa. In questo caso per accedervi (sempre solo in consultazione) è indispensabile inserire una user e una password per consultare l’intero archivio a disposizione, effettuando ricerche avanzate, per affinamento successivo e visualizzarne il risultato sulla cartografia di base. Questo tipo di accesso può essere utilizzato da parte dei funzionari pubblici dei Comuni anche per accedere alle elaborazioni cartografiche, come ad esempio mappe del rischio, ecc. 3 Accesso Avanzato: inserimento dati, modifica dati, validazione dati. Il sistema è modificabile (aggiornamento nuovi dati, modifica dati già inseriti, completamento dati già inseriti) da parte di un numero ristretto di collaboratori tramite user e password. L’operatore abilitato accede alla sezione completa di openCART dalla quale potrà effettuare ricerche, modificare i dati esistenti, dare inizio ad una nuova sessione aggiungendo una nuova scheda ecc. 4 Amministrazione. l’intero sistema openCART (composto da webGIS, DB, Interfaccia web, interfaccia VR webGIS) viene modificato e manutenuto dagli amministratori di sistema. L’amministratore di sistema può modificare interfaccia, maschere di inserimento e visualizzazione oltre a fare manutenzione ecc. Oltre ad integrare completamente la struttura dell’archivio CART (DB) e le funzioni di collegamento con i layer GIS, tra le nuove funzionalità del sistema si possono prevedere (Fig. 10) (Tab. 3): 17 Come nel caso inglese ADS-ArchSearch 70 Archeologia preventiva: esperienze a confronto e prospettive future Fig. 10. Schema di funzionamento del nuovo CART. Punti di Forza dell'infrastruttura openCART: Inserimento e possibilità di ricerca delle Informazioni archivistiche e bibliografiche (con 4 tipi di informazione in base al rapporto ubicabilità/profondità) Informatizzazione degli Scavi e delle ricerche sul terreno Georeferenziazione di tutti i dati a cui si accede Inserimento anche di prove geotecniche (carotaggi, prove penetrometriche) Informatizzazione possibile anche di Tracce (cartografia, foto aeree, elaborazioni storicoarcheologiche) Utilizzo e sviluppo delle funzioni GIS: valutazione quantitativa e “pesata” delle informazioni Utilizzo e sviluppo delle funzioni GIS: possibilità di ricostruzione del paesaggio antico con simulazione delle strutture e forme del popolamento (Tessuto urbanistico, Piani di campagna e superfici urbane distinti cronologicamente, Centuriazione ricostruita in base alle persistenze riconosciute) Potenziale utilizzo dei dati testuali e GIS per simulazioni, scenari 3d e applicazioni di realtà virtuale. Prevenzione e simulazione delle potenzialità del fattore archeologico ai fini della programmazione urbanistica (Simulazione delle profondità e degli spessori delle stratigrafie archeologiche, Ipotesi interpretativa della consistenza delle strutture ancora presenti nel sottosuolo, Calcolo dei preventivi di scavo archeologico, Simulazione di valorizzazione dei resti archeologici). Potenziale utilizzo di strumenti Open Source Potenziale utilizzo di CART per la tutela del territorio, la valorizzazione dei beni culturali, la comunicazione e divulgazione, la ricerca, la costruzione di strumenti per la didattica, ecc. Accessibilità del sistema attraverso Internet, evitando problemi di licenze, di installazione di software specifici o di diversità di accesso. Tab. 3. Punti di forza del nuovo CART 71 Sofia Pescarin – migrazione su webGIS open basato su tecnologia MapServer – migrazione su DB on line open e collegamento dinamico tra layer GIS e informazioni archiviate nel database – funzioni di editing avanzato, attivabili a distanza (anche eventualmente da archeologi o funzionari sul campo) – interfacciamento con la cartografia tecnica (CTR regionali, collegamento con SIT, ecc.) – interfacciamento con provider di immagini geo-spaziali (googlemaps, ecc.) – integrazione di funzionalità di analisi spaziale GIS – utilizzo di interfacce grafiche differenti a seconda del tipo di utenza – attivazione di un modulo 3d aggiornabile anche da remoto RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI C. GUARNIERI, Pianificazione urbana e carta archeologica: il caso di Faenza, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 215–222. M.P. GUERMANDI, Il sistema CART: metodologia e tecnologia, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 189–194. J. ORTALLI, Tutela archeologica e gestione territoriale all’origine del sistema CART, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp.185–188. S. PANELLA, ICCD e cartografia archeologica, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 195–199. S. PANELLA, Beni Archeologici e territorio, in M.P. Guermandi (a cura di), Rischio archeologico se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 2000, IBC/Documenti 31, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 228–229. S. PESCARIN, Open Source in archeologia. Nuove prospettive per la ricerca, “Archeologia e Calcolatori”, 17, 2006, pp. 137–155. S. PESCARIN, L. Calori, Verso il VR-WebGIS. Il caso del Distretto Culturale della Valle dell’Esaro: un sistema open-source per le risorse culturali, turistiche e ambientali, “MondoGIS”, 51, pp. 54–60. 72 ARCHEOLOGIA PREVENTIVA. LE CARTE DEL POTENZIALE ARCHEOLOGICO NEL QUADRO LEGISLATIVO NAZIONALE E REGIONALE: IL CASO DELL’EMILIA ROMAGNA Chiara Guarnieri Soprintendenza Archeologica Emilia Romagna 1. ARCHEOLOGIA PREVENTIVA: IL QUADRO LEGISLATIVO NAZIONALE E REGIONALE 1.1 Il quadro legislativo nazionale Il concetto di archeologia preventiva1 viene contemplato nella legislazione italiana solamente nel 2004, anno di approvazione del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio2. In precedenza le Soprintendenze avevano come unica forma di intervento riconosciuta dalla legge il vincolo dell’area archeologica3, un atto quindi che veniva posto in essere solo a posteriori, dopo la scoperta accertata del bene; tale forma di intervento risultava pertanto inadatta a qualsiasi azione di carattere cautelativo/preventivo. Spesso il rinvenimento, in genere verificatorsi fortuitamente a seguito di interventi edilizi od agricoli, comportava la perdita di molti dati archeologici, soprattutto relativi ai periodi di frequentazione più recenti, ed implicava il fermo dei lavori per le necessarie procedure dello scavo archeologico, con oneri elevati da parte dei proprietari. Questa procedura d’intervento, in assenza di atteggiamenti diversi nei confronti della tutela, ha creato una mentalità ancora presente in alcune zone, soprattutto agricole, che privilegia l’occultamento del bene archeologico per paura che le “Belle Arti” (il retaggio del passato!) blocchino i lavori a tempo indeterminato. Proprio per evitare la perdita dei beni – ed in assenza di una legislazione che contemplasse qualsiasi forma di intervento preventivo – molte Soprintendenze hanno attuato forme di accordi che sono andate a supplire questa grave lacuna legislativa (si veda ultra par. 1.3). E’ solo nel 2004, con l’approvazione del Codice, che per la prima volta nella legislazione italiana è menzionato il concetto di misura preventiva; il riferimento esplicito è all’art 28, comma 44 che prevede che in caso di “realizzazione di lavori pubblici ricadenti in aree di 1 2 3 4 Non è questa la sede per tracciare la storia della nascita dell’archeologia preventiva: corre l’obbligo comunque di ricordare che questa sensibilità nasce in ambito anglosassone agli inizi degli anni’70 dello scorso secolo, e trova una sua concretizzazione nell’opera di Biddle e Hudson dedicata a Londra (BIDDLE, HUDSON 1973). L’approdo in Italia dell’archeologia preventiva si data al 1981, anno della pubblicazione del volume su Pavia, a cura dello studioso inglese Peter Hudson (HUDSON 1981). Purtroppo l’esperienza rimarrà isolata per molto tempo ancora. Decreto legislativo 22 gennaio 2004 n.42 Codice dei beni culturali e del paesaggio Il vincolo archeologico previsto corrisponde all’attuale dichiarazione dell’interesse culturale (Decreto legislativo 42/2004, art. 13). Capo III. Protezione e conservazione. Sezione I. Misure di protezione. Art. 28 Misure cautelari e preventive 73 Chiara Guarnieri interesse archeologico, anche quando per esse non siano ancora intervenute la verifica di cui all’art. 125, comma 2 o la dichiarazione di cui all’articolo 136, il soprintendente può chiedere l’esecuzione di saggi archeologici preventivi sulle aree medesime a spese dei committenti”. E’ di un certo interesse, nell’ottica dello svolgimento dell’argomento, evidenziare che: a) l’intervento è possibile nel caso di lavori pubblici b) le aree devono comunque avere un interesse archeologico, seppure non esplicitamente formalizzato. In applicazione dell’art. 28, comma 4 del Codice dei Beni Culturali, all’interno del Decreto legislativo 163/2006, conosciuto anche come Codice degli Appalti7, si trova esplicitato all’ art. 958 il concetto di verifica preventiva dell’interesse archeologico, mentre al successivo art. 96 vengono descritte le fasi attraverso cui si concretizza la verifica stessa9. In questa sede non ci si soffermerà sull’analisi di questi due articoli, per cui si rimanda all’intervento di Luigi Malnati in questo stesso volume; si vuole però sottolineare come queste norme – in quanto applicazione del citato art. 28 – siano riferibili unicamente agli appalti relativi a lavori pubblici. Per terminare il breve quadro della legislazione nazionale nel campo delle tutela preventiva, si vuole menzionare un’ importante novità – che vedremo collegarsi strettamente alla pianificazione territoriale di cui si parlerà in seguito (cfr. par.1.2)- che si è venuta a concretizzare con l’integrazione al Codice effettuata nel 2006 dal decreto legislativo 15710. Tra i beni paesaggistici di notevole interesse pubblico, grazie a questo decreto sono ora contemplate anche le zone di interesse archeologico (cfr. art. 13611) che vengono quindi ricomprese a pieno titolo nell’elaborazione del piano paesaggistico regionale. Oltre a ciò l’art. 14512 prevede espressamente che i Piani Paesaggistici prevedano“misure di coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con i piani, programmi e progetti nazionali e regionali di sviluppo economico”. 5 Art. 12 Verifica dell’interesse culturale.Comma 2 I competenti organi del Ministero, d’ufficio o su richiesta formulata dai soggetti cui le cose appartengono e corredata dai relativi dati conoscitivi,verificano la sussistenza dell’interesse artistico, storico,archeologico o etnoantropologico nelle cose di cui al comma 1, sulla base di indirizzi di carattere generale stabiliti dal Ministero medesimo al fine di assicurare uniformità di valutazione. 6 Art. 13 Dichiarazione di interesse culturale. 7 La denominazione corretta è: Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE 8 Art. 95 Verifica preventiva dell’interesse archeologico in sede di progetto preliminare. 9 Art. 96 Procedura di verifica preventiva dell’interesse archeologico. 10 Decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n.42, in relazione al paesaggio. 11 Art. 136 Immobili ed aree di notevole interesse pubblico.Comma c) i complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, ivi comprese le zone di interesse archeologico. 12 Art. 145 Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione. 74 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale 1.2 La pianificazione territoriale: il quadro legislativo regionale e provinciale La legge n. 20 del 24 marzo 200013 della Regione Emilia Romagna ha comportato – anche alla luce modifica del Titolo V della Costituzione, ed in particolare dell’art. 11714 – una profonda innovazione nella disciplina di pianificazione, non solo tramite la realizzazione di un nuovo strumento legislativo in campo urbanistico ma anche attraverso un rinnovato sistema di concertazione15 che vede coinvolti tutti gli Enti che operano sul territorio, in nome del concetto di sviluppo sostenibile. La Regione quindi, in base al disposto della legge 20, attraverso il Piano Territoriale Regionale (PTR)16, delinea le strategie generali di sviluppo del territorio in coerenza con le direttive nazionali ed europee; la Regione ha a sua volta trasferito le deleghe in materia urbanistica alla Provincia17 che, tramite i Piani Territoriali di Coordinamento Provinciale (PTCP), traccia le linee di sviluppo dei singoli territori provinciali, esprimendosi sulla conformità dei Piani degli Enti Locali agli strumenti sovraordinati. E’ al singolo Comune che spettano le funzioni di governo del territorio; compete quindi a quest’ ultimo approfondire, specificare ed attuare i contenuti degli strumenti di pianificazione sovraordinati. L’iter di elaborazione di un Piano Strutturale Comunale (PSC), che può essere realizzato anche in forma consociata in base agli Accordi Territoriali, è piuttosto complesso ed è distinto in varie fasi che coincidono con la creazione di una serie di documenti che consentiranno di attuare in seguito gli specifici strumenti di pianificazione territoriale (Fig. 1); in quest’ottica il primo passo è la realizzazione del Quadro Conoscitivo, seguito dal Documento Preliminare e dalla Valutazione di Sostenibilità Ambientale e Territoriale preliminare (VALSAT). Fig. 1. Il Percorso del Piano Strutturale Comunale. 13 Legge regionale 20 /2000 Disciplina generale sulla tutela e l’uso del territorio. Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.3 Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione. 15 Peraltro chiaramente espresso nel disposto dell’art. 15 legge 241/1990. 16 Per un approfondimento si rimanda a www.regione.emilia-romagna.it/wcm/ERMES/ Canali/ territorio/Piano 17 Già attuata con la legge regionale 6/1995. 14 75 Chiara Guarnieri Il Quadro Conoscitivo18 è uno strumento estremamente importante poiché ha il compito di descrivere organicamente il territorio interessato, valutandone lo stato e i processi evolutivi che lo caratterizzano, costituendo il riferimento necessario per la definizione di obiettivi e strategie di sviluppo; il Documento Preliminare fornisce indicazioni riguardo agli obiettivi che si vogliono raggiungere con il PSC e le scelte strategiche che si intendono percorrere, fornendo inoltre i limiti e le condizioni per lo sviluppo sostenibile del territorio; infine la VALSAT ha il compito di valutare l’impatto sul territorio delle proposte politiche, programmatorie e pianificatorie, con la realizzazione di scenari e la definizione di possibili mitigazioni degli effetti negativi dovuti all’attuazione del Piano Strutturale. Solo dopo la realizzazione di questi strumenti – che consentono quindi una lettura globale ed esaustiva del territorio e un piano previsionale per il suo sviluppo futuro – inizia il processo di verifica e di discussione che si attua attraverso lo strumento della conferenza di pianificazione in cui gli Enti invitati, che hanno incidenza a vario titolo sul territorio, si confrontano e discutono gli obiettivi e le scelte proposte. Si tratta di uno strumento innovativo nella costruzione del PSC poiché è in questa sede che avviene l’integrazione delle diverse competenze, la condivisione delle conoscenze, delle scelte e la ricerca di un accordo sugli obiettivi comuni. A seguito della conferenza, anche in base ad eventuali accordi con la Provincia, vengono definiti i tre strumenti in cui si articola il sistema di pianificazione comunale19; il primo è il Piano Strutturale Comunale (PSC), che costituisce appunto la componente strutturale relativa alle scelte strategiche di assetto, sviluppo e tutela20; per questo motivo le scelte espresse sono dotate di stabilità temporale ed hanno validità indefinite. Le indicazioni del PSC diventano attuabili attraverso i successivi piani operativi come il Regolamento Urbanistico Edilizio (RUE)21 e il Piano Operativo Comunale (POC)22; Il RUE è uno strumento normativo che regola le trasformazioni soggette ad un intervento edilizio diretto in ambiti consolidati e nel territorio rurale ed ha validità a tempo indeterminato, mentre il POC disciplina le trasformazioni del territorio, definisce l’attuazione delle nuove aree di urbanizzazione e delle aree sottoposte a riqualificazione urbana ed ha validità 5 anni23. 18 L’art. 4 legge regionale 20/2000 ne descrive le tematiche essenziali, tra cui sono espressamente elencati i valori paesaggistici, culturali e naturalistici. 19 Tali strumenti erano in precedenza incorporati nei Piani Regolatori Generali (PRG) disciplinati dalla precedente legge regionale 47/78. 20 Il PSC definisce degli Ambiti territoriali caratterizzati da differenti politiche e disciplinati da intervento diretto (art. 28 legge regionale 20/2000); pertanto è dotato di tavole e norme proprie. Il Piano deve essere pubblicato per 60 giorni, tempo entro cui tutti possono fare osservazioni (cfr. art. 32 legge regionale 20/2000) 21 Art. 29 legge regionale 20/2000. 22 Art. 30 legge regionale 20/2000. 23 Anche nei casi del RUE e del POC vi sono 60 giorni di tempo dalla loro pubblicazioni per formulare osservazioni in merito (cfr. artt. 33– 34 legge regionale20/2000). 76 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale 1.3 La prassi operativa Come si è visto, al momento non esiste ancora in Italia una legge che prenda in esame in modo globale tutti gli aspetti dell’archeologia preventiva, a differenza di quanto accade ad esempio in Francia24 ed in altri paesi europei25. Per questo motivo, e ancora prima dell’emanazione del Codice nel 2004, la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna aveva individuato nella legislazione nazionale vigente vari strumenti che le consentivano un monitoraggio costante del territorio già in fase di elaborazione dei progetti26. La norma relativa ai parcheggi pertinenziali (legge 122/1989) ad esempio ha permesso negli anni passati di esercitare forme di controllo nei diversi centri storici della regione; anche la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A)27 – che impone l’indizione di una Conferenza dei Servizi28, istituto che consente a tutti gli Enti invitati di esprimere pareri sulle singole opere in progetto – si è rivelata una sede utile per richiedere, proprio in via cautelativa, l’esecuzione di sondaggi archeologici preliminari a spese dell’Ente interessato all’esecuzione dell’opera, anche qualora i lavori non interessassero direttamente beni culturali, così com’è invece attualmente previsto dall’art. 25 del decreto legislativo 42/2004. In particolare questo articolo prevede appunto che, qualora si ricorra alla conferenza dei servizi, per opere incidenti sui beni culturali l’autorizzazione necessaria debba essere rilasciata dal competente organo del Ministero con dichiarazione motivata; in questo caso è sottinteso che l’autorizzazione potrebbe essere rilasciata (o meno) – motivandone le ragioni – anche a seguito di controlli archeologici preventivi. Risulta evidente alla luce di quanto espresso – ricordiamo che l’art.28 del decreto legislativo 42/2004 è applicabile solo ai lavori pubblici – che sfuggono alla tutela preventiva le trasformazioni territoriali effettuate da singoli o da gruppi privati ma che costituiscono invece la maggior parte degli interventi di scavo attualmente realizzati dalla Soprintendenza; quest’ultima ha quindi, come unico 24 La legge francese (n.707 del 1 agosto 2003) modifica, senza peraltro cambiare sostanzialmente il concetto di archeologia preventiva, la precedente legge n.44 del 2001. Per una breve analisi del testo francese, nella versione del 2001 si rimanda a GRASS 1998 e DEMOULE, SCHLANGER in questo volume. 25 Per quanto riguarda il panorama europeo, di un certo interesse è la lettura del volume Report 1999 che illustra la situazione dell’archeologia preventiva europea con particolare riguardo all’archeologia urbana: il panorama che si ricava dalla lettura di questo volume è estremamente variegato; si segnala inoltre il convegno Cesena 2001 che porta alcuni esempi di tutela preventiva urbana in Europa. 26 Si veda a questo proposito il Convegno realizzato a Roma nel 2001: Archeologia 2004. 27 Legge regionale 9/1999 integrata con la legge regionale 35/2000, art. 1, comma 2: La valutazione di impatto ambientale ha lo scopo di proteggere e migliorare la salute e la qualità della vita, mantenere la varietà delle specie, conservare la capacità di riproduzione degli ecosistemi e garantire l’uso plurimo delle risorse e lo sviluppo sostenibile. A tal fine …. sono valutati gli effetti diretti ed indiretti ……sul patrimonio culturale ed ambientale e sull’interazione tra detti fattori. La procedura riguarda grandi opere pubbliche e private. 28 Legge 241/1990, art. 14, comma 3: la conferenza dei servizi può essere convocata anche per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime attività o risultati. 77 Chiara Guarnieri strumento per estendere il controllo anche a questi interventi, la legislazione territoriale degli Enti locali29. Dal punto di vista normativo30 la Soprintendenza, in quanto Amministrazione competente per il rilascio di pareri, viene invitata alla Conferenza di Pianificazione per l’esame congiunto del Quadro Conoscitivo e del Documento Preliminare, quindi in un momento in cui sono già stati realizzati tutti gli studi conoscitivi e gettate le basi per la futura gestione del territorio; in questa fase la Soprintendenza può chiedere che il Quadro Conoscitivo sia munito di uno studio archeologico del territorio e di uno strumento di valutazione di potenziale archeologico. Questa procedura va però incontro ad alcune difficoltà: qualora la Soprintendenza non avesse mai affrontato in precedenza l’argomento della tutela preventiva con l’Amministrazione proponente, risulterebbe infatti di una certa difficoltà condividere in quella sede gli obiettivi della tutela, e con essi la necessità di adottare tale strumento nella programmazione territoriale; a questo si aggiunge il breve lasso di tempo che intercorre tra la presentazione del Quadro Conoscitivo e l’approvazione del PSC – troppo ridotto per la creazione di uno studio approfondito sul potenziale archeologico – e la mancanza di finanziamenti, in quella fase già per la maggior parte impegnati, tutti elementi che sarebbero da ostacolo per la concretizzazione di questo nuovo strumento di tutela. Accade quindi con sempre maggiore frequenza che le Amministrazioni interessate, anche grazie all’opera di sensibilizzazione portata avanti dal singolo Funzionario di zona, presentino il Quadro Conoscitivo già dotato sia dello studio archeologico vero e proprio e talvolta anche della carta delle Potenzialità Archeologiche31. E’ comunque necessario che tutti questi strumenti siano compiuti entri i termini dell’approvazione del Piano: è solo in questo modo che la Carta delle Potenzialità diventerà un elemento costitutivo del PSC, e con esso le norme che lo regolano32. 2. CARTA ARCHEOLOGICA, CARTA DEL POTENZIALE ARCHEOLOGICO: DIFFERENZE, CRITERI DI REALIZZAZIONE ED ALCUNE ESEMPLIFICAZIONE IN EMILIA ROMAGNA 2.1. Dalla Carta Archeologica alla Carta del Potenziale Archeologico In questa sede si vuole brevemente accennare quali siano in passaggi necessari per giungere alla realizzazione di una carta delle Potenzialità, rimandando alla bibliografia edita l’analisi 29 E’ per questo motivo che si è ritenuto utile richiamare l’iter e gli strumenti della pianificazione in modo tale da rendere più chiara in che forma ed in quale fase possa inserirsi l’intervento dell’organo statale. 30 Cfr. art. 32 legge regionale 20/2000. 31 La Carta delle Potenzialità può essere già presente nel Quadro conoscitivo, come ad esempio nel caso di Ferrara: http://www.comune.fe.it/prg/preliminare/quadro oppure può essere realizzata in itinere nel periodo che trascorre tra la discussione del Piano e la sua approvazione; a questo proposito si rimanda al sito del comune di Faenza, capofila di un gruppo di comuni della valle del Senio e del Lamone: htpp://www.comune.faenza.ra.it/psc2007. 32 Le norme applicative peraltro possono essere contenute anche all’interno del RUE e del POC. 78 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale approfondita della metodologia alla base dell’acquisizione e della formalizzazione dei dati33. La cartografia di tipo archeologico che accompagna il Quadro Conoscitivo di un PSC consiste in una Carta generale nella quale sono ubicati34, in modo indifferenziato, tutte le evidenze archeologiche rinvenute e posizionabili con certezza; questa costituisce un vero e proprio “catasto” dei dati archeologici conosciuti, reperiti attraverso la bibliografia, la consultazione di archivi, le ricognizioni di superficie e tutte le altre fonti disponibili. Alla carta Archeologica si aggiungono una serie di Carte di Periodo35 che analizzano i siti archeologici secondo una sequenza diacronica, evidenziando specifici tematismi (Figg. 2–4). L’insieme di queste carte risulta essere il primo strumento di elaborazione dei dati che permette di delineare un quadro completo di quanto conosciuto in un’area urbana o in un territorio ed utilizzabile in seguito per la definizione delle potenzialità36. Fig. 2. Riolo. Borgo Rivola. Carta del popolamento protostorico. 33 Sull’argomento si rimanda a Archeologia 2004, Carta Archeologica e pianificazione territoriale 1999, Archeologia senza scavo 1999, GELICHI 1999, GUARNIERI 2000, Cesena 2001, Rischio Archeologico 2001, Carta Archeologica 2001, Archeologia e urbanistica 2002. Per la metodologia utilizzata si rimanda nello specifico a GUARNIERI 2000. 34 Tutti i siti sono georeferenziati; pertanto non sono stati cartografati i dati privi di provenienze certe, ma considerati nella più globale valutazione archeologica. Questa è una delle sostanziali differenze con una carta archeologica di tipo tradizionale. 35 In genere sono realizzate secondo una scansione temporale che va dall’età Pre-protostorica a quella Moderna, ma risultano comunque modellati sul territorio a cui si riferiscono; si veda ad esempio la partizione cronologica utilizzata per Ferrara, che vede la scansione temporale basata sugli episodi che hanno contraddistinto le fasi dell’espansione urbana (cfr. http://www.comune.fe.it/prg/preliminare/ quadro). 36 In realtà questo tipo di carte disegna i vuoti archeologici, se si pensa che la maggior parte delle informazioni sono state desunte da scavi che hanno rimosso le strutture archeologiche. 79 Chiara Guarnieri Fig. 3. Faenza, carta dei siti di età romana. Fig. 4. Riolo. Territorio comunale. Carta dei siti di età romana (II a.C – II d.C.). Per giungere però alla realizzazione di una Carta delle Potenzialità37 e quindi allo strumento che permette la valutazione dei depositi archeologici potenzialmente ancora 37 Il termine Potenzialità è a mio avviso da preferire poiché racchiude in sé una propositività ed una visione ottimistica della presenza archeologica, rispetto a al termine Rischio, che invece possiede un connotato negativo, quasi vedesse la presenza dell’elemento archeologico come una cosa da evitare o meglio ancora “da bonificare”. 80 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale esistenti, occorre attivare anche altri tipi di analisi; sulla base della cartografia di Periodo possono ad esempio essere realizzate carte che individuino macroaree a funzioni omogenea, la cui lettura diacronica consente di fornire una prima valutazione dello spessore (in termini di sovrapposizione di frequentazione e quindi di pluristratificazione) (Fig. 5). La realizzazione di carotaggi mirati nelle aree di maggiore interesse archeologico, associati ai dati provenienti dagli scavi archeologici permette ad esempio di tracciare delle sezioni urbane che individuino i piani di calpestio antichi, consentendo di desumere lo spessore del deposito archeologico, dallo strato sterile al piano stradale attuale (Fig. 6). Questi dati, a loro volta incrociati con altri elementi utili per una maggiore conoscenza del territorio analizzato38, producono una cartografia complessa che restituisce, nel caso ad esempio di una città, la sua sostanza pluristratificata sia in senso verticale (quindi di diacronia e spessore dei livelli conservati) che orizzontale (l’estensione presunta delle aree) in una combinazione e confronto tra valori quantitativi e qualitativi (Fig. 7). Si tratta di un processo estremamente complesso, alla cui elaborazioni concorrono non solamente dati oggettivi ma deduttivi, cosa che rende al momento impossibile la realizzazione di una cartografia di questo tipo solo attraverso gli strumenti informatici. Fig. 5. Faenza. Carta dei siti di età romana. 38 Come ad esempio i vuoti archeologici che costituiscono aree in cui è possibile d’edificazione o le zone di verde che, soprattutto se storicizzate, al contrario spesso si rivelano serbatoi archeologici ben conservati; a Ferrara ad esempio si è interpolato il dato archeologico con la profondità della falda freatica, in modo tale da riuscire ad individuare i depositi archeologici più problematici dal punto di vista dello scavo, ma maggiormente ricchi di dati paleobotanici e di strutture lignee. Sul territorio sono inoltre fondamentali le ricognizioni di superficie, come è stato effettuato nel caso di Solarolo. 81 Chiara Guarnieri Fig. 6. Faenza. Sezione Urbana Fig. 7. Faenza. Carta delle aree a pontezianel archeologico differenziato 82 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale 2.2. Dalla carta del Potenziale Archeologico alla zonizzazione di Piano La carta di Potenzialità che sarà adottata all’interno del PSC dovrà essere, proprio perché strumento di tutela, necessariamente più semplificata rispetto a quella prodotta per lo studio. In ambito urbano i confini possono essere “tagliati” artificialmente sulle vie o entro i limiti catastali, come nel caso di Faenza (Fig. 8), oppure suggeriti dallo stesso sviluppo urbano come a Ferrara (Fig. 9). In scala territoriale risulta talvolta molto più difficoltoso fornire dei confini precisi, seppure artificiali; d’altra parte il livello di indicazioni fornito dai soli rinvenimenti puntiformi è poco indicativo dell’effettiva frequentazione del territorio. Nel caso di Riolo (Fig. 10) si è quindi preferito fornire anche indicazioni generiche di macroaree, come ad esempio i terrazzi fluviali – ricchi di testimonianze archeologiche- mentre nel caso di Forlì la suddivisione degli areali di potenziale si è basata sulla presenza delle intense frequentazioni di età preistorica nella fascia sud-ovest del territorio e sulle diverse fasi di centuriazione nelle rimanenti altre aree. Per rendere immediatamente comprensibile a tutti il valore del potenziale archeologico sepolto si è cercato di ridurre il variegato panorama della stratificazione archeologica a tre livelli di potenziale: basso, medio ed alto. La finalità è infatti di avere una cartografia semplificata, gestibile anche dagli Uffici tecnici comunali e comprensibile dall’utenza. Fig. 8. Faenza. Carta delle potenzialità archeologiche legata al PSC. Le norme che regolano gli interventi edilizi nelle zone così variamente individuate saranno poi specificate all’interno del PSC o nel RUE e nel POC, trattandosi di una scelta di gestione e programmazione territoriale che spetta all’Ente locale; ogni comune quindi deciderà, in 83 Chiara Guarnieri Fig. 9. Ferrara – Carta delle potenzialità archeologiche. Studio Preliminare. Fig. 10. Riolo. Territorio Comunale. Carte dei vincoli e delle potenzialità archeologiche. Studio preliminare. accordo con la Soprintendenza, quali strategie adottare per la tutela preventiva dei beni archeologici sepolti: si può andare da un generico obbligo di avvertire la Soprintendenza 84 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale in caso di lavori che riguardano gli interrrati – come nel caso faentino – ad un intervento di scavo obbligatorio, come nel caso di Forlì39 (Fig. 11). Fig. 11. Forlì. Carta delle potenzialità archeologiche legata al PSC. 2.3. La situazione regionale La Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna ha attivato dal 1995 un accordo con la Regione Emilia –Romagna/Istituto per i Beni Culturali e Naturali relativo alla realizzazione di uno strumento per la tutela archeologica preventiva, denominato CART40, applicato finora al territorio di Modena, alla città di Faenza, al territorio e al centro urbano di Forlì e Bologna, oltre che alla provincia di Forlì-Cesena. Il suo carattere di sperimentazione ne ha in parte delimitato la sfera di applicazione, legata invece ai tempi della politica della gestione territoriale; per questo motivo, sulla spinta delle esigenze legate alle scadenze dei vari PTCP e PSC, nel corso degli anni al novero delle carte menzionate se ne sono aggiunte altre che per la maggior parte hanno utilizzato, elaborandolo e semplificandolo, l’ossatura di 39 In questo caso l’area urbana è stata suddivisa in tre zone a differente potenziale: Potenziale A= Obbligo di sondaggio archeologico e parere della Soprintendenza, B= segnalazione ed eventuale sondaggio preliminare C= eventuale controllo in corso d’opera. 40 Carta Archeologica del Rischio Territoriale. Per l’illustrazione del progetto si rimanda a M.G.Guermandi in questo stesso volume. 85 Chiara Guarnieri CART41. Al momento attuale in regione alcune aree risultano coperte da carte del Potenziale legate ai PSC, già realizzate o in fase di adozione (in grigio scuro sulla cartina) oppure in fase di studio (in grigio charo) (Fig. 12). Fig. 12. La situazione delle carte del Potenziale in Emilia Romagna: in giallo sono indicate le zone in cui la carta è in fase di studio, in verde quelle in fase di recepimento/applicazione. 3. CART E FORLÌ: UNA SPERIMENTAZIONE IN CORSO Forlì ha attivato già dal 1997 una Carta delle Potenzialità inserita nel PSC, realizzata all’interno del progetto CART; questa elemento, unito alla stretta collaborazione esistente tra Soprintendenza ed Istituzioni locali nella gestione della tutela preventiva, ha suggerito di scegliere questa città – all’interno del più ampio progetto EPOCH – come esempio campione attraverso cui studiare con maggiore puntualità le problematiche applicative delle procedure di tutela preventiva, attuata attraverso lo strumento delle Carte del Potenziale archeologico. Non ci si sofferma in questa sede né sugli aspetti operativi, per cui si rimanda all’intervento di Remo Bitelli, né sulla storia e sull’evoluzione dei rapporti istituzionali, trattati in questa seda da Luciana Prati. Preme invece sottolineare come una parte del lavoro fin qui svolto sia consistita nell’analisi dei dati finora raccolti, con l’intento di rendere evidenti i“nodi” problematici della gestione42 attualmente divisa per la parte comunale tra Ufficio Urbanistica/Museo 41 Purtroppo la percentuale di quelle pubblicate è molto bassa: vere e proprie carte archeologiche legate ai PSC sono quelle relative a Cesena (Cesena: la memoria del passato 1999), Faenza (Progettare il passato 2000), Riolo Terme (Archeologia nell’Appennino Romagnolo 2007), Cotignola (GUARNIERI 2006) rientrerà nel PSC associato della Bassa Romagna attualmente in fase di elaborazione; a queste si aggiungano a diversi articoli su Forlì (PRATI 2001) e Forlimpopoli (NEGRELLI 2004). Modena – per cui si rimanda da ultimo CARDARELLI, CATTANI et al. 2001 con bibliografia precedente – già dal 1989 aveva inserito alcune norme a tutela del bene archeologico nel PRG . 42 Si vedano i grafici BITELLI in questo stesso volume. 86 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale Civico – che curano la fase istruttoria- e la Soprintendenza cui spetta la fase operativa vera e propria, dai rapporti con la direzione lavori, alla conduzione della pratica amministrativa e dello scavo. Questa prassi procedurale, scaturita da una gestione che vede separate le singole competenze in una formula sinergica, ha consentito di sperimentare una gestione condivisa della pratica “archeologia preventiva”, al momento sotto esame e perfettibile di miglioramenti. L’istituzione di uno Sportello Unico per l’edilizia, previsto nella normativa comunale, speriamo possa consentire nel prossimo futuro un’ulteriore semplificazione nello svolgimento della pratica da parte dell’utente. Un altro elemento che si vorrebbe sperimentare a Forlì è la realizzazione di un programma open source in modo tale che sia l’utente stesso a verificare on line la situazione dell’area in cui intende realizzare una nuova costruzione, in modo tale da essere informato dei limiti imposti e delle condizioni richieste, per poi produrre un’unica domanda allo Sportello Unico. Il monitoraggio dei risultati degli interventi svolti su di un arco temporale di dieci anni dall’ attivazione della Carta delle Potenzialità è di un certo interesse perché permette di verificare alcune situazioni al fine di migliorarle; ad esempio i risultati che si ottengono dagli scavi realizzati in aree a basso potenziale43 , anche quelli ad esito negativo, (cfr. Fig. 5 del contributo di BITELLI in questo volume) hanno come scopo una “modellazione” più raffinata del perimetro di questo areale44. Un altro problema è legato all’aggiornamento dei dati; fino a questo momento è stato possibile grazie i vari finanziamenti per implementare CART. Poiché a breve la ricerca si concentrerà su altre tematiche e non sull’inserimento dei dati, occorrerà pensare un modo semplice per recuperarli; a tale proposito è allo studio una scheda semplificata in Access da consegnare agli archeologi in modo tale che possano registrare già a fine scavo i dati salienti perché siano inseriti nell’elenco dei siti45; occorre comunque prevedere un aggiornamento annuale o biennale per l’implementazione nella cartografia digitalizzata. 4. ASPETTI E PROBLEMI DELLA PRASSI OPERATIVA Il quadro che emerge dalla lettura di quanto esposto evidenzia come la situazione dell’Emilia Romagna, per una serie di fortunate coincidenze e per una maggiore sensibilità verso la tutela del territorio da parte degli Enti locali, rappresenti una delle possibili esemplificazioni di come si possa affrontare, con gli strumenti normativi attualmente a disposizione, il problema della tutela preventiva46. L’esperienza applicativa di queste regole condivise, lunga più di 43 Ad esempio la zona più esterna dell’area urbana forlivese in cui l’intervento è a discrezione della Soprintendenza si è dimostrata negli anni in effetti quella più avara di resti; pertanto gli interventi in questa zona – che sono stati chiesti “a tappeto” nei primi anni della gestione comunale, potranno essere maggiormente dosati in futuro. 44 I risultati confermano comunque che la perimetrazione di tale area era sostanzialmente corretta. 45 E’ chiaro che questa scheda dovrà eventualmente essere rivista alla luce dello studio dello scavo. Nel caso esistano musei locali, come a Forlì, la scheda oltre che alla Soprintendenza, dovrà essere spedita anche ai Musei Civici in modo tale che la pratica, anche dal punto di vista burocratico, sia chiusa. 46 Una breve panoramica della situazione in altre regioni dell’Italia settentrionale è in MALNATI 2001. 87 Chiara Guarnieri un decennio47, ha insegnato che gli operatori del settore edilizio accettano in genere di buon grado l’esistenza di norme, meglio se già codificate, anche se comportano un aggravio della spesa globale per l’edificazione; questo accade forse perché – almeno in Emilia Romagna – la Soprintendenza ha cercato di mediare tra le esigenze della tutela e della trasformazione territoriale, non impedendola, ma guidandola. E’ inutile però nascondere che in questo panorama dai connotati sostanzialmente positivi, paradossalmente si evidenzino con maggiore forza i piccoli e grandi nodi ancora da risolvere: questi possono essere sostanzialmente riassunti in due ordini di problemi, il primo – di tipo maggiormente applicativo ed operativo – legato alla realizzazione e alla gestione delle Carte di Potenziale, il secondo strettamente connesso ad aspetti normativi e procedurali generali e alla fattispecie stessa del concetto di tutela preventiva. Per quanto riguarda il primo punto – relativo alla realizzazione e alla gestione delle Carte di Potenziale – si ritiene di fondamentale importanza l’adozione di modelli il più possibilmente omogenei, cosa che potrebbe trovare attuazione attraverso una convenzione tra Soprintendenza e Province per l’adozione di strumenti comuni48. Un altro problema è dato dall’incremento esponenziale degli scavi generato dall’aumento dell’attenzione sul territorio, che comporta come conseguenza un corrispondente aumento delle pratiche amministrative; se nei comuni dotati di strutture ad hoc avviene una spartizione – almeno iniziale – del carico di lavoro, il problema rimane insoluto a livello dei piccoli comuni, che forse potrebbero prendere in considerazione l’ipotesi di condurre in modo associato, così come avviene per la realizzazione dei PSC, anche la gestione delle pratiche che comportano la tutela archeologica, per la parte che a loro pertiene. Appare evidente comunque che tutto questo lavoro, se da un lato porta un notevole miglioramento della qualità della tutela dall’altro, dall’altro comunque grava sul singolo funzionario statale, già oberato da incombenze burocratiche ed amministrative ed in una struttura da anni in cronica carenza di personale. Il secondo problema – o meglio la congerie di problemi che si sovrappongono influenzandosi l’uno con l’altro- è invece legato ad aspetti normativi e procedurali generali e al concetto stesso di tutela preventiva. La normativa statale esistente, come abbiamo visto, non consente di applicare la tutela preventiva alle opere di interesse privato, che invece costituiscono la maggior parte degli interventi di scavo realizzati dalla Soprintendenza; si verifica quindi il paradosso che la tutela delle aree a potenziale archeologico in cui è previsto un intervento a carattere pubblico è un compito demandato allo Stato, mentre la medesima cosa non è contemplata qualora si tratti di un intervento a carattere privato: lo Stato quindi, se vuole estendere la politica di prevenzione a tutte le opere che comportino scavi e sbancamenti, è costretto a servirsi di strumenti legislativi propri dell’Ente locale. Questo modus operandi nasconde in sé numerose debolezze procedurali, in parte già sottolineate in un intervento a 47 La carta delle Potenzialità Archeologiche a Faenza è stata adottata all’interno del PSC nel 1995 e a Forlì nel 1997. Modena ha introdotto la carta archeologica urbana e del territorio all’interno del PSC nel 1996, da poco riesaminato; si veda http://comune.modena.it/PRG-piano regolatore. 48 Il tentativo sarebbe di dare omogeneità alle diverse sperimentazioni realizzate in Regione, senza peraltro togliere la libertà scientifica di approccio a questa tematica; anche la realizzazione degli studi preliminari, come attualmente avviene, potrà essere affidata direttamente alla Soprintendenza o ad altre istituzioni, come l’Università. L’importante sarebbe che il dato finale, e cioè lo strumento della Carta di Potenziale all’interno del PSC, abbia caratteristiche cartografiche e normative simili per tutte le Province. 88 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale firma dei Soprintendenti dell’Emilia Romagna e delle Marche nel Convegno tenutosi a Roma nel 200149. Ci limiteremo in questa sede ad evidenziare i problemi più manifesti. Per prima cosa le norme che disciplinano le procedure d’intervento sulle stratificazioni sepolte non sono univoche; ad un alto potenziale può corrispondere solamente il vincolo di avvisare la Soprintendenza – lasciando quindi tutto il problema di “convincere” gli interessati della necessità di sondaggi archeologici all’Ente statale – oppure l’imposizione di procedere con saggi esplorativi prima dell’accantieramento o ancora il divieto di realizzare escavazioni in alcune aree. Tutti questi disparati atteggiamenti non corrispondono unicamente alla valutazione della qualità della stratificazione archeologica ma anche (e soprattutto) a quanto l’Ente locale vuole “esporsi” sul fronte della tutela. Questo accade appunto perché la potestà legislativa sulle trasformazioni del territorio, anche in aree a potenziale archeologico, è dell’Ente locale con cui la Soprintendenza di volta in volta “negozia” le norme di tutela, che conseguentemente non sono mai univoche. Inoltre, in caso di norme “deboli”, che non definiscano con chiarezza gli obblighi dell’utenza, talvolta può accadere che l’interesse della tutela a quello dell’edificazione possano confliggere, con situazioni intricate anche dal punto di vista giuridico. La questione esposta, come in una sequenza di scatole cinesi, ne apre un’altra, legata alla caratteristica stessa del bene archeologico sepolto e cioè l’impossibilità di dare la certezza50, se non per approssimazione51, che i lavori in progetto siano portati a termine nella loro integrità. Nei casi più felici i saggi di scavo vengono realizzati ancora prima della redazione del progetto preliminare, che quindi viene condizionato dall’esito dei sondaggi stessi; ciononostante, anche nel caso in cui si ritenga possibile la realizzazione dell’opera, può accadere comunque che si scoprano strutture meritevoli di conservazione in situ. In questo caso quindi la proprietà si trova a non potere più disporre liberamente dell’area o più spesso è costretta a realizzare varianti di progetto onerose, tutto questo a fronte della totale mancanza di sgravi fiscali relativi a spese realizzate per scavi archeologici52; l’unico mezzo che – in occasione di rinvenimenti particolarmente importanti – consente attualmente alla Soprintendenza di indennizzare la proprietà, anche se solo parzialmente, è l’istituto del premio di rinvenimento53, che trova però in questa applicazione uno snaturamento del suo disposto; il contenuto dell’articolo prevede infatti che sia corrisposto un premio allo scopritore fortuito, non a chi ha realizzato uno scavo – oltretutto in aree in cui è accertata o presunta l’ esistenza di strutture archeologiche – nel proprio interesse personale. Può inoltre accadere che le stratificazioni che si stanno portando in luce siano meritevoli di approfondimenti scientifici ma che si trovino ad una quota inferiore a quella utile al progetto; in questo caso l’intervento dovrebbe essere proseguito in amministrazione diretta dalla Soprintendenza che però da alcuni anni non ha più nei propri bilanci voci relative a scavi non 49 DE MARINIS, MALNATI 1998 Anche la carta delle Potenzialità più raffinata non potrà mai fornire la certezza della qualità della conservazione del bene sepolto. 51 Lo scavo estensivo vero e proprio è in genere preceduto da sondaggi e talvolta da indagini non invasive, che aiutano a valutare con maggiore precisione la fattibilità dell’opera. 52 Contemplando almeno lo sgravio per gli scavi che hanno condotto ad un parziale cambio del progetto ed una forma risarcitoria qualora sia prevalente l’interesse pubblico e l’opera non possa essere realizzata. 53 Decreto legislativo 42/2004, art. 92. 50 89 Chiara Guarnieri programmati, elemento che permetteva di fare fronte a situazioni di questo tipo54; sarebbe auspicabile che il Ministero prendesse atto della situazione con la creazione di capitoli di spesa ad hoc per queste evenienze, separati dalla programmazione ordinaria, e destinati ad interventi di scavo, conservazione e pubblicazioni dei complessi rinvenuti. Molti altri sarebbero i problemi da evidenziare, troppi per lo spazio concessomi; dovendo concludere occorre accennare ad un argomento molto importante, sul quale si è aperto da alcuni anni un dibattito55: qual è il criterio con cui si scava o meglio che cosa e come si sceglie (?) di scavare. Se si vuole ragionare in un’ottica a più ampio respiro, che coinvolga quindi anche gli aspetti della ricerca e della metodologia di approccio allo scavo, si crede infatti che gli interventi andrebbero attentamente valutati non solo seguendo” a traino” l’espansione o la trasformazione edilizia, ma anche in un modo propositivo. In questa corsa, che talvolta assume aspetti frenetici, non resta il tempo né da parte degli operatori – che passano da uno scavo all’altro – né da parte dei funzionari di elaborare quanto si viene a scoprire56; senza contare che il più delle volte la seconda parte del processo di scavo – non meno importante – costituita dallo studio dei materiali (con tutto quanto questa operazione comporta), dalle analisi e dalla pubblicazione, ha difficoltà a trovare chi la voglia finanziare, se non (talvolta) in un ottica di futura valorizzazione. Occorrerebbe anche definire i parametri minimi generali d’intervento, interrogarsi su che cosa veramente si vuole preservare, avere chiari gli obiettivi, non solo di tutela ma anche di ricerca, in modo tale da contemperare la conservazione del bene sia in una visione generale, omogenea per tutti, ma anche tenendo in debito conto le peculiarità dei singoli territori; queste decisioni sono al momento lasciate alle Soprintendenze se non ai soli funzionari, soggette quindi a troppe variabili. Si sente necessaria una pausa di riflessione che spezzi questa corsa crescente all’“erosione della storia” condotta in modo sempre più spregiudicato57, nell’ottica di salvare almeno una parte del territorio sepolto (e non solo58) come serbatoio di memoria per le generazioni future59. 54 Sebbene rimanesse scoperto il problema dell’indennizzo dei tempi utilizzati per l’esecuzione degli scavi. 55 Sull’argomento si vedano i vari interventi contenuti in Cesena 2001 e Archeologia e urbanistica 2002 con bibliografia relativa. 56 In un mondo ideale si potrebbe pensare alla possibilità per i funzionari dello Stato di avere ciclicamente un anno sabbatico durante il quale elaborare e pubblicare quanto portato in luce, come un vero e proprio compito istituzionale e non come accade ora, a discapito delle proprie ore di riposo e sonno e nella totale indifferenza del Ministero sulla qualità e quantità della loro produzione scientifica. 57 Complice il fatto che i Comuni traggono la maggior parte del loro sostentamento economico dagli oneri di urbanizzazione e dall’ICI. 58 Al momento della stesura di questa nota (dicembre 2007) è in discussione la proposta della modifica di alcuni articoli del Codice riguardanti la tutela del paesaggio, per giungere ad una maggiore chiarezza sulla divisione dei poteri tra Stato ed Enti locali. 59 Raccomandazione peraltro espressa nell’art. 2 della Convenzione di Malta del 1992 relativa alla Protezione del Patrimonio Archeologico. 90 Le carte del potenziale archeologico nel quadro legislativo nazionale e regionale RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Archeologia 2004 = Archeologia. Rischio o valore aggiunto? Atti della giornata di studio, Roma 17 ottobre 2001, “Bollettino di Archeologia”, 53–54, 2004. Archeologia nell’Appennino Romagnolo 2007 = C. Guarnieri (a cura di), Archeologia nell’Appennino Romagnolo: il territorio di Riolo Terme, Imola, Bacchilega, 2007. Archeologia e urbanistica 2002 = A. Ricci (a cura di), Archeologia e urbanistica, XII Ciclo di lezioni sulle ricerca applicata in archeologia, Pontignano 2001, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2002. Archeologia senza scavo 1999 = Archeologia senza scavo. Nuovi metodi di indagine per la conoscenza del territorio antico,“Antichità Altoadriatiche”, XLV, 1999. BIDDLE, HUDSON 1973 = M. Biddle, D.Hudson, The Future of London Past: a survey of the archaeological implications of planning and development in the nation’s capital, Worcester, Rescue, 1973. DE MARINIS, MALNATI 1998= G. De Marinis, L. Malnati, Interventi archeologici a carico di terzi: un problema da affrontare, in Archeologia 1998, pp. 93– 94. 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Nel 1998 il Comune di Forlì ha sottoscritto con l’Istituto Beni Culturali e Naturali della Regione Emilia Romagna e la Soprintendenza Archeologica dell’Emilia Romagna una convenzione per la redazione di una Carta informatizzata del Rischio Archeologico della città e del territorio, secondo il sistema CART; il coordinamento del gruppo di lavoro (A. Antoniazzi, G. Brusi ed operatori della soc. La Fenice Archeologia e Restauro) era affidato a M. P. Guermandi per l’Istituto Beni Culturali, C. Guarnieri per la Soprintendenza, L. Prati per il Comune di Forlì. Nel marzo 1999, la Soprintendenza Archeologica, in base agli esiti della ricerca, individuava gli ambiti territoriali da sottoporre a livelli differenziati di tutela, ambiti poi riportati nelle tavole TA/P della Variante Generale al PRG di Forlì. Come specificato dall’art. 162 (Tutela della viabilità storica – Tutela delle potenzialità archeologiche del territorio), commi 3 e 4 delle Norme Tecniche della Variante Generale del PRG1 per il Centro Storico sono state definite tre zone a decrescente potenzialità archeologica: – A, di occupazione senza soluzione di continuità dall’epoca romana; – B, suburbium di Forum Livi e area di espansione medievale; – C, di occupazione medievale e postmedievale. Anche per il territorio comunale le zone individuate sono tre: – A e B, in cui sono conservate tracce delle varie centuriazioni che si sono sovrapposte (centuriazione Ronco/Idice; centuriazione Foropopiliense; centuriazione basata sul Dismano; centuriazione Savio/Santerno); – C, che delimita gli areali interessati ad affioramenti relativi a frequentazioni e/o strutture insediative di età preistorica. In accordo con la Soprintendenza, dal settembre 2004 la richiesta di nulla osta ai lavori, in adempimento alle norme dettate dall’art. 162 sopra citato, viene inoltrata al Servizio Pinacoteca e Musei del Comune di Forlì, il cui Dirigente indica, entro 60 giorni dalla richiesta, quali procedure seguire. In caso di scavo preventivo o in corso d’opera affidato a 1 www.comune.forli.fo.it/servizi/menu/dinamica.aspx?idArea=37130&idCat=36871&ID=20989. 93 Luciana Prati ditte specializzate accreditate presso la Soprintendenza, la Direzione Lavori viene assunta dalla Soprintendenza stessa. Da tale data il Servizio ha esaminato circa 400 pratiche. I risultati di questo work in progress, condotto con un significativo rapporto di collaborazione con la Soprintendenza, sono di particolare rilevanza, in termini di conoscenza, tutela e valorizzazione. Se i pavimenti di una domus o le tracce della Via Aemilia o un sepolcreto sono più spettacolari, non meno importanti sono ad esempio gli elementi che permettono di capire come fosse modellato il territorio nei periodi più antichi o dove gli apporti alluvionali siano stati più imponenti. In qualche caso le strutture sono state asportate e conservate ai fini di una futura musealizzazione a scopo didattico nel complesso museale del San Domenico, destinato ad ospitare il museo archeologico forlivese. Le modalità di tutela non hanno generato nei cittadini atteggiamenti negativi, ma una maggiore consapevolezza della propria identità e della propria storia. Infine, altrettanto significativo il rapporto con l’Istituto, nelle varie fasi dell’implementazione dei dati, che hanno portato a verifiche ed approfondimenti e permesso anche l’effettuazione di stage nell’ambito di percorsi formativi diversi (corsi di laurea, master). BIBLIOGRAFIA L. Prati, CART a Forlì: la Carta del potenziale archeologico del territorio forlivese, in Rischio archeologico:se lo conosci lo eviti. Atti del Convegno di studi su cartografia archeologica e tutela del territorio, Ferrara 24–25 marzo 2000, a cura di M. P. Guermandi, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2001, pp. 211–214 M.Marini Calvani, Una CART a Forlì, in “Polis. Idee e cultura nelle città”, VII, 21, 2001., pp. 83–84 Il sottosuolo dei centri storici: quale futuro?, Giornata di studio, Forlì 22 giugno 2000, a cura di M. Marini Calvani, in “Restauro”, 163, 2003, passim M. Foschi, L. Prati, Urbanistica e prevenzione per i siti archeologici dell’Emilia Romagna. L’esempio di Forlì, in Archeologia, città, paesaggio, Atti del convegno, Napoli-Paestum 16–17 dicembre 2005, a cura di R. A. Genovese, Napoli, Arte Tipografica Editrice, 2007, pp. 347–348 94 GLI STANDARD NELL’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA Andrea D’Andrea Centro Interdipartimentale di Servizi di Archeologia – Università degli Studi di Napoli L’Orientale [email protected] 1. INTRODUZIONE In ambito archeologico, come in altri domini scientifici, si riteneva fino a pochi anni fa che la semplice diffusione di Internet avrebbe apportato un consistente miglioramento alle forme di collaborazione scientifica a distanza, semplicemente consentendo lo scambio di ogni tipo di risorsa (report, tabelle, schede, disegni, foto, mappe, etc). Nonostante le premesse la diffusione di WebGIS, database on-line e portali tematici, non sembra aver modificato profondamente la qualità e la quantitaà della cooperazione poiché la situazione attuale è per lo più contraddistinta da una serie – anche eccessiva e caotica – di risorse digitali disponibili in forma di sintesi, mentre i dati grezzi sono ancora diffusi attraverso i canali della tradizionale e convenzionale pubblicazione cartacea. L’attività di networking, cioè di lavoro cooperativo in Rete, non ha quindi portato i vantaggi sperati. Si è infatti oramai compreso che la distribuzione on-line delle informazioni non implica automaticamente la comprensione delle fonti digitali; non è sufficiente pubblicare in Rete un database usando un linguaggio proprietario di tipo commerciale (ACCESS, File Maker, Oracle, etc.) per garantire il riuso e l’accessibilità dei dati. L’assenza di indicazioni sulle forme di codifica adoperate per normalizzare e strutturare la conoscenza, può determinare confusioni (linguistiche, terminlogiche, semantiche) che rendono inutilizzabili i dati. Se la pubblicazione degli archivi in Rete contribuisce – in teoria – a promuovere nuove forme di partecipazione scientifica, un tale approccio non risulta sempre vantaggioso se l’utente non dispone degli strumenti concettuali per comprendere la struttura formale – di frequente implicita – adoperata per codificare i dati. Per superare differenze di formato e di struttura che rendono particolarmente complesso e spesso impossibile il riuso delle fonti e delle risorse disponibili on-line, è necessario un alto livello di standardizzazione dei dati. Questo sembra essere l’obiettivo del web di terza generazione la cui filosofia risponde prioritariamente a due criteri di base: – il decentramento delle risorse, che enfatizza un approccio distributivo orientato alla valorizzazione e alla specializzazione delle fonti locali a svantaggio degli accessi centralizzati e basati sui portali tematici; – l’interoperabilità tecnologica e semantica tra i contenuti culturali digitali. In un contesto sempre più caratterizzato dall’integrazione e convergenza tra dati archeologici, comunità scientifica e valorizzazione/fruizione dei beni culturali, si inserisce il presente contributo finalizzato all’analisi delle possibili connessioni tra le pratiche archeologiche previste in particolare dalla L. 109/2005, meglio conosciuta come la legge sull 95 Andrea D’Andrea Verifica Preventiva dell’Impatto Archeologico, e lo scenario della fruizione semantica dei contenuti digitali atteso dagli sviluppi futuri della Rete. 2. STANDARD PER LA DOCUMENTAZIONE ARCHEOLOGICA Come è stato in precedenza segnalato per promuovere nuove forme di collaborazione e cooperazione è necessario avviare una forte standardizzazione dei dati e degli oggetti culturali digitali. Ma come si realizza questo processo? Cosa sono in realtà gli standard? Riprendendo una definizione nata in ambito industriale, gli standard si definiscono come mutui accordi che aiutano a controllare la coerenza di un’azione, di un processo lavorativo e/o organizzativo all’interno di una comunità professionale su scala nazionale, internazionale o globale. Gli standard possono essere: de facto, perché sono seguiti per convenienza; o de jure, cioè adoperati in virtù della capacità contrattuale di assicurare un qualche vantaggio sul piano lavorativo o del processo industriale; conformarsi ad uno standard costituisce, in un numerose circostanze lavorative, un prerequisito per poter accedere ad una attività professionale o ad un mercato. L’impiego degli standard comporta alcuni evidenti vantaggi: – migliora la qualità e coerenza dell’informazione anche a livello locale; – migliora la compatibilità delle strutture informative. Attraverso una struttura standard di dati e vocabolari è possibile assicurare che le informazioni siano compatibili con altri sistemi o classificazioni. Il risultato di questa standardizzazione è chiamato interoperabilità; essa enfatizza l’accesso e la pratica, preservando un punto di vista unico espresso con differenti standard; – assicura una conservazione a lungo termine dei dati. Gli standard per la documentazione hanno una origine precedente all’avvento dei computer e del web. Il fatto che si usino standard di formato o descrizione per l’archiviazione di record garantisce che i dati, che rappresentano una importante proprietà intellettuale, siano in futuro preservati per nuove applicazioni. – facilita lo scambio di informazioni. In campo archeologico attualmente il concetto di standard abbraccia un ampio spettro di significati: si va dalle good practices, che caratterizzano i processi adottati abitualmente secondo una prassi teorico-pratica consolidata, agli standard tecnologici, condizionati dalle scelte di mercato e dalle aziende produttrici, per giungere infine alle più semplici guidelines che regolano le normali attività di scavo e documentazione delle indagini sul terreno2. Il tentativo di normalizzare la documentazione ha determinato la creazione di numerosi standard tra loro spesso alternativi sia a livello di modelli di formalizzazione delle informazioni che di modalità di conservazione dei dati. Questa ampia produzione di standard è stata causata dalla diversa localizzazione geografica degli interventi, che ha vincolato il processo 2 A. D’ANDREA, ‘Documentazione Archeologica, Standard e Trattamento Informatico’, Budapest, 2006. 96 Gli Standard nell’archeologia preventiva di descrizione delle attività sul terreno alle direttive imposte dalle autorità locali, ma anche per la profonda sensibilità ed esperienza degli archeologi che hanno modellato il sistema di raccolta ed acquisizione delle informazioni ai propri obiettivi ed alla metodologia adottata. La documentazione archeologica in sé stessa si configura come un processo di standardizzazione che registra gli obiettivi e i contenuti della ricerca fino a comprendere la metodologia di scavo e le regole utilizzate per la formalizzazione dei dati. Essa abbraccia una serie di azioni (materiali ed immateriali) riferite ad attività tra loro differenti come la pianificazione degli interventi, la loro valutazione fino al trattamento finale dell’informazione archeologica e alla sua comunicazione. La natura ed il livello di documentazione sono quindi influenzati da esigenze specifiche e circoscritte piuttosto che accordarsi a criteri unici universalmente riconosciuti e condivisi. Per contenere la naturale tendenza degli archeologi a “personalizzare” la documentazione, sono stati rilasciati a livello nazionale numerosi standard descrittivi e tecnologici la cui funzione è quella di costituire un riferimento anche per quei soggetti che finanziano i progetti e i programmi di ricerca. Per l’Italia questa attività di coordinamento è stata svolta dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD)3 del MiBAC. 3. IL RUOLO DELL’ICCD NELLA DEFINIZIONE DEGLI STANDARD CATALOGRAFICI L’art. 13 del D.P.R. 3 dicembre 1975 definisce la competenza dell’ICCD nella raccolta, elaborazione, conservazione e consultazione di tutte le informazioni relative ai beni culturali. Come evidenziato nel sito WEB dell’ICCD4 “Gli standard catalografici sono costituiti dalle normative, da specifici strumenti di supporto e di controllo (vocabolari, liste di valori) e da un insieme di regole e di indirizzi di metodo da seguire per l’acquisizione delle conoscenze sui beni e per la produzione della documentazione che li riguarda, al fine di registrare i dati secondo criteri omogenei e condivisi a livello nazionale”. La funzione dell’ICCD nel campo della documentazione si è realizzata tramite la progettazione e implementazione di apposite schede, la cui ampia tipologia è disponibile on-line sul sito WEB dell’Istituto. Il modello di riferimento per lo scavo è stato pubblicato nel 19845 (PARISE BADONI, RUGGERI GIOVE 1984); esso si riferisce ad un numero limitato di schede: Saggio Stratigrafico (SAS), Unità Stratigrafica (US), Ritrovamento Archeologico (RA), Unità Stratigrafica di Rivestimento (USR), Resti PaleoAntropologici e Monumenti Archeologici (MA). Nel corso della sua attività l’ICCD ha realizzato alcuni software per la catalogazione del patrimonio archeologico (SAXA e DESC). Tuttavia, considerato che alcune Soprintendenze hanno adottato programmi differenti da quelli ufficiali, l’ICCD ha in seguito implementato i software MERCURIO e APOLLO con l’obiettivo di verificare la compatibilità degli archivi con la struttura dello standard ICCD (dimensione, obbligatorietà dei campi, sequenza dei codici, etc.). Inoltre, per garantire l’omogeneità dei dati e la correttezza del processo stesso di 3 4 5 www.iccd.beniculturali.it. www.iccd.beniculturali.it/Catalogazione/standard-catalografici. F. PARISE BADONI F., M. RUGGERI GIOVE M. (Eds.) Norme per la redazione della scheda del saggio stratigrafico, Roma, 1984. 97 Andrea D’Andrea catalogazione è stato messo a punto dall’ICCD il SIGEC (Sistema Informativo Generale del Catalogo)6, il cui popolamento è stato di recente avviato nel quadro del programma ARTPAST7 (Applicazione informatica in Rete per la Tutela e la valorizzazione del Patrimonio culturale nelle aree Sottoutilizzate). Allo scopo di estendere e rendere più flessibili le operazioni di ricerca sui dati, l’ICCD, ha realizzato nel 2007, in collaborazione con la Scuola Normale di Pisa, il mapping dei metadati tra le schede ICCD e PICO Application Profile8 che costituisce un particolare adattamento dello standard DublinCore9. Per un utente con medie capacità informatiche può risultare vantaggioso disporre di un unico accesso integrato che unifichi le risorse distribuite; attraverso il protocollo OAI-PMH (Open Archive Initiative – Protocol for Metadata harvesting)10 l’archivio ICCD conforme allo standard Dublin Core potrà essere interrogato sfruttando una semplice interfaccia. Il nuovo spazio europeo della ricerca sta favorendo l’adozione di scelte innovative, come quelle del PICO, che possano assicurare l’integrazione e l’interoperabilità delle risorse. A livello più generale il MIBAC partecipa da alcuni anni a due significativi programmi comunitari che hanno l’obiettivo di armonizzare le procedure italiane con quelle comunitarie nel settore della creazione di linee guida per le biblioteche digitali e nell’ambito dello scambio automatico di oggetti culturali digitali disponibili in sistemi eterogenei. Entrambi i progetti (Michael11 e Minerva12) hanno l’intento di sperimentare forme di interoperabilità tra gli archivi partendo dalla definizione di standard comuni e soprattutto best practices per la digitalizzazione delle risorse finalizzate all’accessibilità e al riuso delle fonti in Rete relative al patrimonio culturale europeo. 4. GLI STANDARD E LA DOCUMENTAZIONE NEL PANORAMA LEGISLATIVO ITALIANO Mentre si osserva una tendenza diretta alla creazione di ambiti di accesso integrato per superare la sfere delle singole competenze specialistiche (archivistiche, museali, archeologiche, etc.), la nostra recente legislazione sui beni culturali ed archeologici sembra restare indifferente a questi processi di integrazione almeno per quanto riguarda la rappresentazione digitale degli oggetti di rilevanza archeologica. Questo sembra infatti il quadro che emerge – da una lettura veloce e in parte provocatoria – del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo 22 Gennaio 2004, n. 42) e della Legge sulla Verifica Preventiva sull’Interesse Archeologico (L. 22 Giugno 2005, n. 109 – Art. 2/ter e segg. ricompresa agli artt. 95 e 96 nel D.Lgs.vo 163/2006); entrambe 6 Nell’Agosto del 2007 è stata aggiudicata la gara per la realizzazione del “SIGEC Web – reingegnerizzazione del Sistema Informativo GEnerale del Catalogo” e pertanto, entro breve tempo, i dati dell’ICCD saranno disponibili su piattaforma web-based. 7 www.artpast.org. Il progetto è stato varato nel 2005 dalla Direzione Generale per l’Innovazione Tecnologica e la Promozione del MiBAC. 8 80.205.162.235/Catalogazione/standard-catalografici/metadati/metadati. 9 dublincore.org. 10 www.openarchives.org/OAI/openarchivesprotocol.html. 11 www.michael-culture.org/it/home. 12 www.minervaeurope.org. 98 Gli Standard nell’archeologia preventiva le normative non prescrivono nulla in termini di accessibilità delle risorse rinviando, evidentemente, ad altri strumenti questo tipo di attività. Nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio il solo riferimento alla documentazione è contenuto all’art. 18 (“Promozione di Attività di Studio e Ricerca”) che prevede, al comma 2, la possibilità di “stipulare accordi per istituire, a livello regionale o interregionale, centri permanenti di studio e documentazione del patrimonio culturale, prevedendo il concorso delle università e di altri soggetti pubblici e privati”. Il richiamo alla partecipazione delle Università o di altri soggetti pubblici (CNR?) e privati (aziende?) per la costituzione di centri comuni per lo studio e la documentazione rappresenta tuttavia un ulteriore elemento di frammentazione della conoscenza, piuttosto che di normalizzazione, poiché ogni Università o Istituto CNR ha prodotto in questi ultimi anni un suo proprio sistema di registrazione e descrizione dei dati archeologici spesso in alternativa a quello proposto dal MiBAC. Un riferimento ad una forma di concertazione settoriale tra le parti si ritrova anche nella Legge 109/2005 che prevede, tra l’altro, una collaborazione tra Direzione Regionale e Stazione Appaltante per la definizione della documentazione da acquisire anche “mediante la informatizzazione dei dati raccolti”; l’intesa può comprendere anche la produzione di “ricostruzioni virtuali volte alla comprensione funzionale dei complessi antichi”. Per la prima volta, in una normativa che ha l’obiettivo di regolamentare gli interventi in materia di appalti pubblici, si introduce una disciplina “concertata” sulle forme della documentazione da raccogliere nel corso delle indagini sul campo. Il Consiglio di Stato, con il parere 1038/2006 del 13 marzo 2006, ha bloccato l’attuazione della normativa evidenziando le difficoltà nella individuazione dei soggetti autorizzati alla sua applicazione (comma 2 dell’art. 2 ter). Secondo Palazzo Spada gli archeologi idonei ad eseguire il controllo dell’interesse preventivo devono appartenere ad un “ordine professionale di fatto“, che non può essere disciplinato da un semplice regolamento del MiBAC, essendo soltanto il Ministero di Giustizia competente in materia di professioni e albi. Con lo stop imposto dal Consiglio di Stato, l’archeologia preventiva resta in una certa misura inattuata ad eccezione di quelle parti dove il procedimento è già operativo tramite richieste di scavi e studi prima della progettazione preliminare (vedi contributi di S. De Caro, L. Malnati e C. Guarnieri in questo stesso volume). Forse il rallentamento, determinato dal parere negativo formulato dai Giudici, potrà favorire l’avvio di una nuova e più approfondita discussione su quella parte della norma che conferisce ai Direttori Regionali una esplicita competenza sulle forme di documentazione da adottare nelle indagini preventive. Sarebbe, infatti, illogico nonché inefficace che, mentre il MiBAC è impegnato – ad esempio nei progetti già menzionati Minerva e Michal – nella promozione di linee guida per la creazione di contenuti culturali digitali nel quadro di un allargamento europeo della ricerca13, le strutture periferiche siano invece mosse da interessi particolari e parziali imposti dalle indagini sul terreno e non siano in grado definire direttive e raccomandazione utili per una informatizzazione e successiva integrazione degli archivi. Inoltre, se la conferenza di servizi potrà disciplinare forme di documentazione anche diverse da quelle standard, non 13 Si veda ad esempio: G. De Francesco (a cura di), “Linee Guida Tecniche per i programmi di creazione di contenuti culturali digitali”, Edizione Italiana 2.0, 2006 www.minervaeurope.org/ publications/ Linee_%20guida_%20tecniche.pdf 99 Andrea D’Andrea appare chiaro il ruolo che l’ICCD continuerà ad avere nel coordinare la catalogazione e l’inventariazione del patrimonio archeologico. La mancanza di qualsiasi riferimento alla congruità della documentazione agli standard ministeriali di tipo descrittivo rende la norma sulla Verifica Preventiva sull’Interesse Archeologico incompleta, lasciando all’esperienza degli attori coinvolti e dei responsabili periferici del Ministero l’adozione di linee guida e raccomandazione per la futura accessibilità e integrazione delle risorse anche mediante canali digitali. Si potrebbe obiettare che la standardizzazione delle risorse archeologiche digitali, non debba necessariamente rientrare in un disposto normativo finalizzato alla gestione degli appalti publici. Eppure proprio il richiamo alla informatizzazione, nonché alla creazione di ricostruzioni virtuali, rende particolarmente stringente l’opportunità di definire e individuare un corretto approccio metodologico destinato alla “standardizzazione” dei dati acquisiti. Non sembra che tale vuoto possa essere colmato dalle linee-guida procedurali previste al comma 6 dell’art. 96 del D.Lgs.vo 163/2006, a cura del MiBAC di concerto con il Ministero delle Infrastrutture. L’intensa e continua attività di analisi, progettazione e gestione delle risorse archeologiche digitali realizzata dall’ICCD e dal MiBAC rende, quindi, di difficile attuazione la Legge sull’Indagine Preventiva dell’Interesse Archeologico in quella parte in cui assegna la responsabilità della documentazione/raccolta dei dati ad una conferenza di servizi tra Direzione Regionale e Amministrazione Appaltante senza fornire alcun esplicito riferimento alla relazione/integrazione con i programmi e gli standard di documentazione esistenti. Ma allora in che direzione può muovere la concertazione definita dalla L. 109/2005 e lo stesso regolamento previsto dal comma 6 dell’art.96 del D.Lgs.vo 163/2006? In questa sede non è possibile esaminare tutte le conseguenze derivanti dall’applicazione della norma, ma non si può non cogliere immediatamente come gli accordi previsti dal comma 7 dell’art. 2-quater possano anche produrre soluzioni che non rispettino criteri minimi di uniformità, omogeneità e standardizzazione dei dati, compromettendo in tal modo il futuro accesso ai dati. L’assenza di riferimenti ad un quadro condiviso di regole e procedure rende, senza dubbio, l’adozione della norma un processo pericoloso poiché la sua applicazione verrebbe lasciata alla sola sensibilità degli archeologi coinvolti. Paradosssalmente un’indagine realizzata in un’area di confine, amministrativamente governata da Enti Regionali diversi e quindi sottoposta alla competenza di numerosi Direttori Regionali e Soprintendenti Territoriali, potrebbe produrre documentazioni distinte per ciascuna regione con evidenti ripercussioni sulle forme di indagine e raccolta dati, nonché sulla conservazione e tenuta degli archivi digitali. 5. STANDARD PROFESSIONALI PER L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA Nella norma sull’Interesse Archeologico, come nel Codice sui Beni Culturali, nessun accenno è fatto a quegli standard professionali che gli archeologi dovrebbero possedere per realizzare gli interventi sul terreno. Sebbene l’introduzione della figura dell’archeologo, come soggetto singolo o ricompreso in un dipartimento universitario, costituisca una novità rispetto alla precedente L. 109/94 ed al successivo D.lgs.vo 190/2002, l’accreditamento professionale 100 Gli Standard nell’archeologia preventiva è limitato al semplice requisito del “diploma di laurea e specializzazione in archeologia o di dottorato di ricerca in archeologia”. Storici dell’arte, antiquari o archeologi sarebbero tutti ugualmente qualificati a validare i progetti preliminari. Nessuna particolare formazione viene richiesta, né si prevede il possesso di requisiti speciali per l’esecuzione di indagini sul terreno, e per la raccolta della documentazione. Considerando i percorsi didattici previsti dai recenti ordinamenti (D.M. 509/99 e successive modifiche) l’archeologia, soprattutto nella sua componente di archeografia, rappresenta una disciplina che, ad eccezione di poche realtà, risulta poco approfondita sul piano metodologico a vantaggio invece di robusti insegnamenti di storia e storia dell’arte (greca, romana, classica, etc.). L’assenza di un quadro formativo di tipo specialistico (universitario e post-universitario) che separi nettamente gli archeologi dagli storici dell’arte, costituisce un reale ostacolo alla diffusione di una precisa qualificazione professionale. La figura dell’archeologo come contractor professionista stenta a decollare nel nostro paese e ci si augura che, da questo punto di vista, la legge sulla Verifica Preventiva dell’Interesse Archeologico possa favorire la costruzione di un albo professionale nazionale degli archeologi. Purtroppo in Italia, a differenza di quanto accaduto in altri paesi europei, non si è ancora realizzato quel passaggio da una archeologia accademica di sapore romantico (stretta tra Università e Soprintendenza) ad una archeologia professionale ad alto contenuto specialistico che, a sua volta, potrebbe favorire l’introduzione di importanti novità nel sistema formativo nazionale. In Francia proprio sotto la spinta della Archeologia Preventiva è stato creato nel 2002 l’Inrap (Institut National de Recherches Archéologiques Préventives). Come si può leggere sulla mission presentata sul loro sito WEB14 “L’institut assure la détection et l’étude du patrimoine archéologique touché par les travaux d’aménagement du territoire. Il exploite et diffuse l’information auprès de la communauté scientifique et concourt à l’enseignement, la diffusion culturelle et la valorisation de l’archéologie auprès du public. Sa création traduit l’importance prise, depuis les années 1970, par la recherche archéologique en France et témoigne de la volonté de l’État de soutenir l’exercice de cette mission de service public d’intérêt général”. Finanziato dalle amministrazioni pubbliche o private appaltanti e posto sotto la tutela del Ministero della Cultura e della Comunicazione e della Ricerca Francese, l’INRAP raccoglie circa il 50% degli archeologi professionali operanti sul campo. Le sue funzioni sul territorio si realizzano in forma di attribuzione di incarichi relativi alla diagnostica preventiva o allo scavo archeologico e si concludono con un parere sottoposto all’autorità regionale. Sebbene non via siano suggerimenti o prescrizioni in termini di adozione di procedure standard per la documentazione delle emergenze archeologiche, la competenza dell’INRAP su tutte le opere di progettazione preliminare e scavo assicura una uniformità di sistemi e metodi di esplorazione, descrizione e classificazione delle evidenze antiche. Inoltre, l’appartenza all’istituto conferisce agli archeologi sul campo una qualificazione professionale che nel caso della L.109/2005 non viene riconosciuta, limitando quest’ultima alla conferenza dei servizi la scelta delle procedure per le indagini sul terreno e le forme della descrizione e documentazione anche in termini di modelli ricostruttivi e tridimensionali. Differente è la situazione nel Regno Unito dove l’introduzione di una normativa sull’Interesse Archeologico Preventivo ha prodotto un significativo incremento dei dati 14 www.inrap.fr 101 Andrea D’Andrea archeologici; l’aumento della documentazione raccolta nel corso delle esplorazioni è stata accompagnata dallo sviluppo di misure per la standardizzazione delle informazioni e la loro accessibilità. Spectrum15 e MIDAS16 forniscono ad esempio linee guida procedurali e descrittive che assicurano l’integrazione delle risorse digitali. La consultazione on-line degli archivi è garantita da semplici infrastrutture concettuali e fisiche, come i portali tematici Heirnet (Historic Environment Information Resources Network)17 e Heirportal (Historic Environment Information Resources Portal)18, che consentono un accesso integrato alle informazioni catalogate. L’introduzione degli standard nelle procedure di descrizione e inventariazione del patrimonio archeologico è stata influenzata nel Regno Unito dal rapido sviluppo di una archeologia sul campo di tipo professionale. Alcune organizzazioni di categoria forniscono ai propri associati un codice di condotta per la raccolta e standardizzazione della documentazione acquisita nel corso delle esplorazioni sul terreno. L’IFA (Institut of Field Archaeologists) oltre a dare consulenza per la legislazione sulla materia, è impegnato a definire standard professionali per la realizzazione delle attività sul campo e a promuovere lo sviluppo di linee guida a quanti operano sul terreno. Un codice di condotta deontologico per gli archeologi impegnati in lavori archeologici a contratto contraddistingue anche gli associati dell’organizzazione EAA (European Association of Archeologists); si tratta di un elenco di principi di carattere generale tra i quali spicca all’art.7 l’adesione agli standard professionali riconosciuti per il lavoro archeologico. La posizione dell’archeologo da campo è, nel nostro paese, ancora quella del “tecnico” alle dipendenze dell’Università (nel migliore dei casi) o della Soprintendenza senza una reale autonomia professionale; la condizione lavorativa si aggrava se si pensa che la pubblicazione dei dati o la diffusione dei risultati resta di competenza esclusiva del responsabile scientifico dello scavo. La nostra legislazione sembra in definitiva restringere tutti i poteri agli organi periferici del Ministero, alla competenza delle Amministrazioni Appaltanti e alla disponibilità di adeguate risorse economiche e finanziarie riservate spesso per sostenere soltanto alcune scoperte archeologiche sensazionali a svantaggio di una cura sistematica nella raccolta di tutte le fonti archeologiche. Gli stessi standard, rilasciati in questi anni dall’ICCD, si riferiscono esclusivamente alla catalogazione dei beni e nulla definiscono in termini di standard di procedure e/o professionali. 6. RICOSTRUZIONI VIRTUALI E COMUNICAZIONE PER L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA Un’altra novità introdotta dalla normativa sull’Interesse Archeologico riguarda la possibilità di integrare la documentazione archeologica con la creazione di ricostruzioni virtuali per favorire la conoscenza, nonché la fruizione dei contesti esplorati; si tratta senza dubbio di un aspetto innovativo derivato dai principi generali del Codice sui Beni Culturali sulla valorizzazione e fruizione dei beni culturali ed archeologici di proprietà pubblica e/o privata. 15 www.mda.org.uk/spectrum.htm www.english-heritage.org.uk/midas 17 www.britarch.ac.uk/HEIRNET/index.html. 18 ads.ahds.ac.uk/cfm/heirport2/. 16 102 Gli Standard nell’archeologia preventiva La facoltà di completare la documentazione archeologica con modelli tridimensionali, pone due immediati interrogativi: il primo è relativo al contenuto della riproduzione digitale; il secondo concerne, invece, quale sia la competenza migliore per realizzare questa attività. Nel primo caso, l’interrogativo riguarda soprattutto l’analisi e la valutazione delle ricostruzioni virtuali, un tema su cui si è sviluppato di recente un ampio didattito che ha portato alla redazione di alcune linee guida, come quelle ad esempio contenute nella LondonCharter19; al fine di sottolineare come qualsiasi ricostruzione abbia un contenuto soggettivo nella interpretazione dei resti archeologici e soprattutto un approccio arbitrario nella scelta del software, degli algoritmi, nonché nella modalità di ricostruzione dei modelli (texture, luci, ambiente, dinamismo, staticità, etc.), il documento stabilisce al punto 5 che “The process and outcomes of 3d visualisation creation should be sufficiently documented to enable the creation of accurate transparency records, potential reuse of the research conducted and its outcomes in new contexts, enhanced resource discovery and access, and to promote understanding beyond the original subject community”. Non è quindi necessario scegliere tra un modello sfavillante e forse più comprensibile, o tra una ricostruzione filologicamente corretta, magari con molti dubbi; l’importante è garantire la trasparenza delle procedure selezionate con il risultato di consentire una analisi reale del modello e delle sue finalità. Nella LondonCharter il ricorso agli standard si configura come un richiamo metodologico finalizzato ad evidenziare il procedimento metodologico e tecnico seguito piuttosto che la sola rappresentazione/descrizione accurata dell’oggetto tridimensionale. Sull’argomento esiste una ricchissima bibliografia, anche recente, sia di tipo tecnico che procedurale che analizza le forme e i contenuti degli ambienti di archeologia virtuale. Occorre lasciare traccia di ciò che è stato realizzato, in termini di acquisizione e modellazione, al fine di consentire quella “riproducibilità” dell’esperimento che invece penalizza tutti gli altri ambiti di ricerca archeologica, primo tra tutti lo scavo. Per quanto riguarda, invece, l’interrogativo su quale sia la competenza migliore, la discussione non può che tornare al quesito della professionalità degli archeologi, la loro formazione e l’adeguamento delle strutture universitarie italiane all’evoluzione della disciplina. Per alcuni ricercatori un modello virtuale può essere realizzato soltanto da specialisti ingegneri, architetti, informatici, la cui preparazione professionale apporta evidentemente vantaggi alla sola costruzione dell’aspetto tecnico/estetico della riproduzione tridimensionale a svantaggio del contenuto scientifico e del rigore filologico; considerato che ogni processo di informatizzazione richiede una scelta tra possibili soluzioni alternative, solo un archeologo con particolari esperienze è in grado di coordinare il lavoro degli specialisti. D’altra parte qualsiasi processo ricostruttivo ha origine dai dati (digitali e non) che l’archeologo stesso ha acquisito sul campo con metodologie ed obiettivi differenti. Allora, poiché qualsiasi attività non è neutrale, dalla scelta del modello dati, agli standard, dal software alle variabili da evidenziare, occorre sempre definire con esattezza quale percorso metologico e di implementazione sia stato seguito, evidenziando limiti e potenzialità; in tal modo l’archeologo non organizza il lavoro degli altri, ma è egli stesso responsabile e protagonista del modello che ricostruisce: dalla selezione iniziale delle tecnologie adoperate per l’acquisizione dei dati digitali (stazione 19 /www.londoncharter.org. 103 Andrea D’Andrea laser, GPS, Laser Scanner, Luce Strutturata, etc.) alla scelta dei formati aperti (X3D) o chiusi (COLLADA), al software proprietario o open-source fino alla ricostruzione completa. La figura dell’archeologo computazionale potrà dunque assumere un ruolo maggiore nell’ambito della gestione e fruizione del patrimonio archeologico. Ma la normativa sull’impatto – quando applicata – spingerà verso la valorizzazione di questo particolare profilo professionale o, ancora una volta, l’informatizzazione sarà un terreno per un nuovo colonialismo tecnologico da parte degli ingegneri, degli informatici e degli architetti come già accaduto nel passato? Un segnale, che sembra andare in una direzione che valorizza l’apporto di archeologi, restauratori, etc., è dato dalla recente istituzione da parte del MiBAC di un working group sulle problematiche degli standard nel 3D nell’ambito del progetto MinervaEC WP4 “European Cultural Content Interoperability Framework”. Ci si augura che i risultati possano fornire importanti indicazioni e best-pratices allo sviluppo di un settore che negli ultimi anni ha conosciuto una rapida e spesso incontrollata esplosione20. 7. CONCLUSIONI Qualche anno fa R. Francovich21 (1999) aveva segnalato come l’adeguamento del nostro sistema alle esperienze europee potesse essere realizzato soltanto rimuovendo quell’atteggiamento comportamentale di conservatorismo culturale che nel nostro paese rifiuta la tecnologia. Oggi possiamo dire, a quasi un decennio di distanza, che quell’atteggiamento comportamentale” di negazione del ruolo dell’informatica in archeologia si mantiene inalterato e, anzi, si proietta sul piano più generale sulla formazione prima e sulla normativa poi. In Italia manca sia una esperienza pubblica come l’INRAP, sia una tradizione di archeologia professionale sul campo come nel Regno Unito. L’assenza di standard professionali, tecnici e descrittivi anima in sintesi il quadro di riferimento della L.109/2005 che affida tutto il processo decisionale ai soli Direttori Regionali in collaborazione con i Soprintendenti Territoriali e le Amministrazioni Appaltanti. Un numero elevato e praticamente fuori controllo di modelli di documentazione (regionali, locali) renderebbe costosto – e in alcuni casi inaffidabile – qualsiasi forma di interoperabilità tra gli archivi. Al contrario, l’uso di standard potrebbe a garantire una più ampia accessibilità e riuso di fonti digitali contribuendo in modo significativo anche alla promozione di servizi nazionali e europei basati sulle reti di telecomunicazione. Lo stesso processo di sviluppo degli standard offrirebbe una base metodologica per la definizione di best practices. L’adozione di standard riconosciuti (nazionali, internazionali) si pone, dunque, come l’unica traiettoria e soluzione possibile per evitare confusioni professionali e terminologiche. Eppure il termine standard intimidisce ancora oggi gli archeologi che vedono in esso una sorta di rigidità che limita la capacità descrittiva dei ricercatori, i quali avrebbero invece 20 21 www.minervaeurope.org/structure/wg/eccif.htm FRANCOVICH R. 1999, ‘Archeologia medievale ed informatica: dieci anni dopo’, in Archeologia e Calcolatori, 10, pp. 45–61. 104 Gli Standard nell’archeologia preventiva bisogno di un vocabolario, una terminologia ed un lessico molto flessibili e permeabili ai differenti contesti da esaminare. Standard ed accessibilità degli archivi sono dunque le parole chiave su cui dovrà confrontarsi il futuro dell’archeologia: allargamento della comunità scientifica e superamento delle barriere locali e regionali saranno due indispensabili requisiti per una dimensione veramente internazionale della ricerca. La collaborazione istituzionale tra gli enti proposti alla salvaguardia e tutela del patrimonio archeologico, nella definizione e sviluppo di comuni standard e linee-guida, assumerà in questo processo un ruolo strategico; soltanto attraverso il contributo di enti sopranazionali le agenzie locali saranno in grado di incoraggiare i ricercatori verso l’uso di standard e “certificare” la qualità degli archivi digitali conformi alle normative. Il WEB di terza generazione darà un impulso all’integrazione delle risorse e dei dati consentendo ai content provider di lasciare immutate le loro risorse digitali grazie al mapping su metadati standard o su modelli formali di conoscenza (le ontologie). La disponibilità pressocchè illimitata di oggetti culturali digitali avrà l’effetto di incrementare la ricerca producendo, nel contempo, una ristrutturazione e riorganizzazione delle istituzioni che dovranno promuovere servizi sempre più automatizzati. Oltre al semplice accesso alle collezioni digitali di musei, biblioteche ed archivi, la standardizzazione potrà favorire l’armonizzazione delle conoscenze e l’interoperabilità semantica. Già oggi esistono importanti strumenti concettuali messi a punto per il settore dei beni archeologici, in particolare lo standard ISO 21127:2006 CIDOC-CRM22 che in futuro rappresenterà una sorta di comune denominatore, una lingua franca adatta a soddisfare requisiti avanzati anche nel campo della ricerca archeologica. La legge 109/2005 sembra, in conclusione, ignorare del tutto le tematiche dell’integrazione limitandosi a prospettare soluzioni parziali (regionali o locali) alla problematiche della gestione di dati eterogenei; si potrebbe obiettare che la norma, contenuta all’interno di disposizioni di carattere generale, non può disciplinare, in forma analitica e dettagliata, le tipologie di documentazione da produrre nel corso di esplorazioni o progettazioni di tipo preliminare, ma non vorremmo che questo aspetto procedurale di grande interesse fosse lasciato alla sola valutazione dei tecnici (informatici, ingegneri, architetti) lasciando agli archeologi il ruolo di semplici esecutori. Resta il fatto, però, che l’assenza di un quadro professionale con standard riconosciuti, il conservatorismo di un modello formativo ancora scarsamente attento alla qualificazione professionale ed, infine, la presenza di standard che attengono esclusivamente alla descrizione e classificazione degli oggetti piuttosto che alla definizione delle procedure di integrazione e interoperabilità semantica, rappresenta senza dubbio il maggiore ostacolo allo sviluppo di una dimensione veramente europea ed integrata della attività di documentazione archeologica nel nostro paese. 22 cidoc.ics.forth.gr. 105 LA TUTELA DEL ‘BENE CULTURALE’ IN EUROPA TRA LEGISLAZIONI E STRUMENTI OPERATIVI1 Francesca Ulisse 1. INTRODUZIONE Il variegato mondo europeo, sempre più arricchito dal continuo ingresso di nuovi paesi membri, costituiti spesso da paesi davvero nuovi perché di recente istituzione2, presenta diversificate forme di approccio e modalità di gestione della tutela dei Beni Culturali, inevitabilmente legate alla storia politica e culturale di ogni singolo paese, pur tuttavia senza nascondere segni di uniformità. L’esame delle legislazioni prodotte in materia, ad esempio, evidenzia delle forti somiglianze di natura culturale nell’impostazione data all’argomento dai paesi di area mediterranea in contrapposizione a quanto invece maturato tra i paesi del Nord del continente: in apparente pari misura sembra quindi che i paesi dell’Est, i più giovani membri della Comunità, s’inseriscano indistintamente tra i raggruppamenti di entrambe le aree geografiche del continente. A tali grandi ‘famiglie’ culturali si associa di conseguenza anche una corrispondente linea produttiva in termini di strumenti operativi (cartografie, GIS, catalogazioni etc., sistemi di archivio integrato, repertori, etc.): più spesso concreti, lineari e già in uso in ambito pianificatorio anche a livello nazionale nei paesi nord-europei, dai risultati più frammentari, diversificati e molto spesso nemmeno operativi nei paesi mediterranei; frequentemente assenti o raramente piuttosto sviluppati nei nuovi paesi membri dell’est europeo (come ad esempio in Slovenia). Tra le motivazioni alla base di queste diversità appare persistere l’impronta dell’impostazione culturale e la conseguente modalità di sviluppo delle forme per la tutela dei Beni Culturali: emerge con forza, ad esempio, che i paesi del Nord-Europa (e con essi molti paesi dell’Est) non potevano non tenere presente il patrimonio culturale nella pianificazione delle loro città e territori avendo da sempre considerato e sentito l’articolato ambiente naturale in profondo connubio con la presenza culturale (come Germania, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Danimarca, Svezia e Finlandia ma anche Austria; si unisca a questi l’esperienza maturata nel settore dalla Slovenia, e la Gran Bretagna, da sempre fortemente impegnata nella ‘sistematizzazione’ delle conoscenze, in particolare a base territoriale, spesso affiancata dalla Francia3). Anche in merito all’archeologia preventiva, ancora sulla scia di quanto finora ravvisato è possibile riconoscere nel complesso una più spiccata sensibilità tra i paesi del nord e dell’est Europa: quand’anche infatti non abbiano prodotto uno specifico riferimento legislativo (come 1 2 3 In bibliografia si riporta una lista ragionata e partanto non esaustiva dei riferimenti legislativi e dei commenti normativi adoperati nella stesura del presente articolo, rimandando per ulteriori approfondimenti alla monografia “F. Ulisse, Tutela della Cultura e Cultura della Tutela. Cartografia archeologica operativa e legislazione sui Beni Culturali in Italia e nella Comunità Europea: esperienze a confronto, Bologna 2008 (in corso di stampa)”. Il riferimento è rivolto in particolare ad alcuni paesi dell’Est. Paese che per il presente tema è stato ritenuto quasi al confine tra Nord e Sud del continente. 107 Francesca Ulisse invece Francia, Italia e Romania) è proprio nell’ambito della sofisticata progettazione della pianificazione che si evidenziano attenzioni sull’argomento (vedi ad esempio la pratica della ‘valutazione’ e ‘selezione’ olandese e dei pur recenti approcci della Polonia alla programmazione di scavi nell’ambito di progettazione di infrastrutture). 2. IL CONCETTO GIURIDICO DI BENE CULTURALE E PATRIMONIO CULTURALE Somiglianze e differenze riscontrate nelle legislazioni, sono connesse principalmente alla diversa accezione dell’oggetto della tutela e con esso del concetto di bene culturale, di cui è ormai da più di vent’anni permeata la nostra legislazione. Siffatta, o analoga, locuzione è presente prevalentemente nei testi legislativi dei paesi d’area mediterranea, ossia ovunque il patrimonio culturale sia sentito suddiviso e frammentato, presentandosi in parallelo con il bene ambientale4. Si tratta di partizioni che ne hanno prodotto per tradizione trattamenti legislativi separati, ma soprattutto una più forte oggettualità, che nel tempo ha senz’altro contribuito, in particolare per i Beni Culturali, allo sconfinamento nello sfrenato collezionismo quando non addirittura nell’idolatria. Tale fenomeno, sviluppatosi fortemente nella mentalità collettiva, è probabilmente un portato della notevole quantità e qualità di manufatti e prodotti di cultura materiale presenti e continuamente rinvenuti nei paesi di area mediterranea (come forse anche di quel ‘fascino del tesoro’ che si è andato formando, e che in parte ancora persiste, intorno ad essi) ma che di fatto li ha allontanati da un comune senso di tutela e proprietà collettiva culturale fomentando l’alimentazione di commerci spesso non più di tipo antiquario ma clandestino. Il concetto di patrimonio culturale protetto che, almeno in termini legislativi, è fortemente assimilato con l’ambiente naturale e quindi con il territorio è proprio in prevalenza delle nazioni Nord-Europee5, ossia di tutte quelle nazioni in cui la concezione dell’ambiente come un unico grande contenitore di natura e cultura, di flora, fauna e storia sembra essere estremamente presente nella percezione globalizzante del paesaggio6. Si aggiunga inoltre l’importante e quasi costante presenza nelle legislazioni nordiche e di molti paesi dell’Est europeo, del fattore interesse pubblico, generale o nazionale 4 5 6 Locuzione che in Italia nasce nel 1966 nell’ambito dei lavori della “Commissione Franceschini” sebbene se ne fosse parlato già nelle convenzioni internazionali (vedi: L’Aja Maggio 1954 per la loro protezione in caso di conflitto armato); ma è in quest’occasione che venne introdotta nel linguaggio politico e giuridico italiano (anche se non ancora in norme) e soprattutto con la specifica definizione di “testimonianza avente valore di civiltà”; solo nel 1985, dopo lunga gestazione, è stato introdotto in un testo normativo superando definitivamente l’ormai desueta espressione ‘cose d’interesse storicoartistico’: analoga evoluzione hanno avuto le primordiali ‘bellezze naturali’ divenute in seguito ‘beni ambientali’. E pressoché ovunque e fin dalle prime leggi emanate, tanto da permettere il diffusissimo utilizzo del termine paesaggio culturale. Per cui a buon diritto appare inserito in un testo legislativo un assunto di ‘responsabilità civile’ come: ‘la responsabilità per l’ambiente culturale è condivisa tra tutti i cittadini in Svezia. Le autorità, così come i singoli, devono mostrare considerazione e rispetto verso l’ambiente culturale’. Svezia: legge n. 950 del 1988 sulla conservazione del patrimonio (cap. 1, sez. 1). 108 La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi presente fra le motivazioni poste alla base della conservazione e tutela dei beni7, a differenza dell’impostazione legislativa dei paesi d’area mediterranea dove l’interesse del bene è ravvisato esclusivamente nella sua natura8 concependo un qualcosa di astratto, quasi dogmatico, al di sopra del vivere quotidiano ed inevitabilmente distaccato dalle esigenze della vita collettiva e dalle trasformazioni del comune territorio. Forse non a caso sembra possibile riconoscere proprio nei paesi mediterranei e nel loro sistema a volte esageratamente ‘difensivo’ e ‘protettivo’, destinato ad una ‘conservazione’ spesso troppo fine a se stessa, una maggior dispersione della presenza in ambito pianificatorio di concrete modalità di tutela dei beni storico-archeologici, e quindi di elaborazione di specifici prodotti cartografici, oppure semplicemente, quand’anche esistenti, di una loro improduttiva stasi tra le mura di circoscritti contesti amministrativi e di ricerca. Nei paesi dell’Est europeo, fatta salva la specificità adoperata da ogni paese nella scelta terminologica per trattare i beni facenti parte del proprio patrimonio culturale, è possibile trovare diversi elementi di vicinanza con le culture mediterranee, ma soprattutto con la Francia, come ad esempio nell’articolata produzione legislativa Rumena9. Si considerino inoltre: la legge quadro sulla protezione del patrimonio culturale Sloveno10, la generica legge sulla cultura Ungherese11, o la legislazione della Repubblica Ceca che nella sua principale legge sull’interesse statale per i monumenti definisce il suo oggetto della tutela come: ‘tutti gli oggetti mobili e immobili o gruppi di essi che manifestano l’abilità creativa dell’uomo, documentano lo sviluppo storico…’12. Non mancano però interessanti esempi di forte assonanza con le culture nord-europee, come di nuovo l’esperienza Rumena che, oltre ad aver maturato una specifica legislazione sulla ricerca archeologica preventiva13, nella legge n. 422 del 2001 inserisce tra i ‘monumenti storici’ le: “creazioni naturali umane…”; o ancora la legge quadro Slovena dove si specifica che la protezione del patrimonio culturale sia ‘nell’interesse pubblico per il suo valore storico, 7 Cfr. i primi articoli dei testi legislativi in particolare di Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Germania e Svezia. Nella ricca legislazione Italiana il concetto non solo compare per la prima volta solo nel ‘Testo Unico delle disposizioni legislative sui beni culturali e ambientali’ ma soprattutto riferito solo ai Beni Paesaggistici e Ambientali e con anteposto l’aggettivo qualificativo ‘notevole’. 8 A partire dalle definizioni artistica, storica, archeologica etc., o quand’anche espresso in maniera più significativa in qualità di ‘testimonianza materiale avente valore di civiltà’ (vedi nota 3) oppure ‘per la permanenza e l’identità della cultura…attraverso il tempo’ (legge sul patrimonio culturale nazionale portoghese, 6 Giugno 1985, n. 13), o ancora come la neonata definizione ‘testimonianza dell’attività individuale e collettiva dell’uomo’ presente nella nuova legge quadro greca, n. 3028 del 2002. 9 In cui così come nel paese d’oltralpe due distinte leggi si occupano rispettivamente di beni archeologici mobili (Legge n. 182 del 2000) e protezione dei monumenti storici (Legge n. 422 del 18 Luglio 2001). 10 Dove le produzioni materiali sono definite ‘frutto dell’umana creatività’ (Legge 20 Gennaio 1999, art. 2). 11 Dove i Beni Culturali sono definiti: ‘oggetti tipici ed eccezionali…prove dell’origine e lo sviluppo di umanità….della nazione ungherese’ (Legge sul patrimonio culturale archeologico costruito e mobile (1997), art. 1). 12 Legge n. 20 del 30 Marzo 1987, sezione 2 (2) 13 Ordinanza n. 43 del 2000, art. 2 comma 2. 109 Francesca Ulisse culturale e civile’14. Particolarmente affini alle culture nordiche appaiono invece i sistemi di gestione unitaria del patrimonio culturale ravvisabili nei paesi dell’ex Unione Sovietica come l’Estonia, con la Legge sulla Conservazione del Patrimonio15, la Lettonia e la Lituania che mostrano dalle produzioni legislative una interesse fortemente unitario e complessivo nei confronti di cultura e natura quali elementi inscindibili della storia e l’identità del paese ed infine di nuovo la legislazione della Repubblica Ceca che prevede che lo Stato protegga i monumenti culturali come parte integrante del patrimonio culturale del suo popolo, come l’evidenza della sua storia….importante fattore dell’ambiente umano ed un insostituibile tesoro dello Stato’16. 3. L’ARCHEOLOGIA PREVENTIVA IN EUROPA Probabilmente proprio nell’impostazione legislativa e negli strumenti operativi realizzati ad hoc, in molti paesi del nord Europa è possibile scorgere qualche stimolante suggerimento per quanto auspicato e desiderato in Italia, oggi per altro riportato in auge dalla Convenzione Europea del Paesaggio. Se tali confronti non permettono di trovare soluzioni, aiutano forse a stimolare la ricerca di nuovi spunti di riflessione e, nel migliore dei casi, a focalizzare limiti e motivazioni posti alla base di ancestrali difficoltà nella formazione di strumenti per la tutela integrata del comune patrimonio storico-archeologico-artistico, riconoscibili nel nostro come in molti altri paesi d’area mediterranea. Di sicuro interesse nello specifico panorama dell’archeologia preventiva in Europa sono i timidi approcci di un paio di paesi dell’Est, come la Romania che al comma 2 dell’art. 2 dell’ordinanza n. 43 del 2000 stabilisce infatti che ‘la ricerca archeologica preventiva è parte delle strategie di sviluppo territoriale, di pianificazione, turistiche, socio-economiche locali e nazionali a lungo termine’ o la Polonia che prevedendo rischi durante la costruzione di sopraelevate ha incaricato il Ministero della Cultura di creare il Centro di Ricerca per il Recupero Archeologico (ex Centro di Protezione del Patrimonio Archeologico – ORBA – ed oggi Centro Nazionale per la Ricerca e la Documentazione dei Monumenti – KOBIDZ) con obiettivi di organizzazione e coordinamento di scavi nei siti archeologici lungo gli itinerari programmati per sopraelevate e tubature del gas. L’evoluzione legislativa italiana per quanto innovata nei nuovi articoli di legge specifici sull’archeologia preventiva17 tradisce tuttavia una costante intenzione parcellizzante dei beni (paesaggistici da un lato e culturali dall’altro), per altro sempre più incrementata nelle revisioni come nel DL 157 del 24 Marzo 2006. A solo titolo d’esempio si riporta l’incipit 14 Legge 20 Gennaio 1999, art. 2. In cui oltre al comune monito verso la conservazione e preservazione di beni di tutti, troviamo la definizione delle aree di conservazione di patrimonio identificate con: ‘complessi storici o parti di essi e siti di valore culturale che si sono sviluppati sotto l’influenza del collegamento di fenomeni naturali e attività umane….monumenti immobili e altre cose che insieme con il sito, le caratteristiche naturali i collegamenti stradali blocchi di case e sistemazioni rurali costituiscono un intero culturalmente valutabile’ (Legge 1 Aprile 2002, art. 4). 16 Legge n. 20 del 30 Marzo 1987, sezione 1 (1). 17 Art. 28, comma 4 del DL 16 Gennaio 2004, n. 42 e art. 2 –ter del DL 26 Aprile 2005, n. 63 (rispettive successive modifiche e integrazioni) 15 110 La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi dell’art. 131 del DL 16 Gennaio 2004, n. 42 (e successive modifiche e integrazioni: d’ora in poi denominato “Codice”) come rivisto a seguito del DL 157 ove dalla definizione di paesaggio come ‘parte omogenea di territorio…’ si è passati a ‘parti di territorio..’ o dell’art. 134 in particolare al comma c, dove si definiscono beni paesaggistici ‘gli immobili e le aree tipizzati, individuati e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici…’. Si tratta, apparentemente, di un dubbio atteggiamento inquadrabile forse come d’inversione di tendenza18 rispetto alla direzione intrapresa dall’Europa all’indomani dell’emanazione della Convenzione Europea del Paesaggio e condivisa da gran parte dei paesi europei. Se alla base delle nuove norme Italiane è davvero l’intenzione di evolvere come già in Francia con la legge 27 Settembre 1941, tra ‘scavi’ e ‘scoperte fortuite’, e quindi con la legge 1° Agosto 2003, n. 707 da ‘scavi programmati’ a ‘scavi preventivi’, di ben altra utilità risulterebbe il supporto di una visione d’insieme del territorio, e con esso del paesaggio (con tutte le sue specifiche accezioni), affinché vi si possano sviluppare sistemi di monitoraggio sempre più aggiornati e validi per la ricerca e la tutela. A questo proposito sembra possibile scorgere stimoli davvero interessanti nel processo di valutazione e la selezione del fenomeno archeologico condotto in Olanda. Si tratta di un sistema di riferimento in corso di sperimentazione che riguarda sia l’oggetto della tutela (il monumento) sia il sistema della sua gestione da condursi in maniera integrata con lo sviluppo del territorio: sono dunque assolutamente legati entrambe tanto alla protezione quanto alla ricerca. Nello specifico, in termini di ‘archeologia preventiva’, tale sistema obbliga le entità pubbliche e private che operano sul territorio a valutare l’impatto dei loro piani sul patrimonio e a provvedere alle indagini necessarie, quando in base ai suddetti criteri se ne individua la necessità. Il sistema determina indicazioni relative al grado di densità – accertata o supposta – di presenze archeologiche, ma soprattutto il livello della loro protezione e conservazione. Prossime all’inserimento in una revisione legislativa queste indicazioni comporteranno l’obbligo di osservanza da parte dei costruttori nel calibrare l’impatto dei loro piani e a finanziare le eventuali indagini necessarie (nelle aree valutate e selezionate a priori). Dopo aver suddiviso l’intero paese in aree definite archeo-regioni sulla base di caratteristiche genetiche, morfologiche e paesaggistiche e di occupazione storica, senza entrare nello specifico di distinzioni di tipo di deposito archeologico, periodo o stato di conservazione, si avvia una serie di osservazioni da cui deriva la ripetuta osservazione dello stesso oggetto: più osservazioni con le stesse coordinate sono combinate in ‘siti’, a loro volta inseriti nella banca dati al termine delle selezioni. La conseguente selezione delle osservazioni archeologiche del territorio olandese produce da un lato il numero di siti ‘attesi’, e dall’altro quelli realmente individuati: il rapporto di proporzione che emerge tra i due dati è il valore archeologico indicativo. Questi valori sono quindi riportati in carta mediante colorazioni a copertura ‘areale’ indicanti il grado (basso, medio e alto), stabilito sulla base dell’incremento tra i suddetti valori e l’entità della superficie differendo, ovviamente, per archeo-regioni. Contestualmente in Olanda si è avviata la realizzazione di un registro nazionale di tutti i ritrovamenti, gli insediamenti ed i monumenti sottoposti a protezione. Questi dati sono registrati in forma digitale e a livello nazionale nel database centrale ARCHIS, un sistema in grado di produrre 18 Rispetto ad esempio all’innovazione che all’epoca portò la Legge Galasso (legge 8 Agosto 1985, n. 431) con la definizione di ‘zone d’interesse archeologico’. 111 Francesca Ulisse una duplice tipologia di cartografia archeologica ritenuta fondamentale strumento di pianificazione: la Archaeologiche Monumenten Kaart (AMK), vale a dire la carta dei siti e monumenti archeologici già valutati e selezionati, e la Indicatieve Kaart van Archaeologische Waarden (IKAW), cioè la vera e propria cartografia di ‘rischio archeologico’ indicante i ‘valori archeologici attesi’, sia a terra che in mare. A causa della variabilità della condizione dei suoli e della ricerca (visibilità, intensità degli studi, copertura del territorio etc.), tale cartografia piuttosto che ‘predittiva’ è detta ‘indicativa’: produce, in sostanza, i cosiddetti valori archeologici indicativi. 4. LA CARTOGRAFIA PER LA TUTELA ARCHEOLOGICA IN ITALIA E IN EUROPA Il confronto dell’articolatissimo cammino italiano con quello delle altre nazioni appare per altro consentire l’individuazione di altre e nuove chiavi di lettura, anche ‘trasversali’ rispetto ai raggruppamenti di tipo geografico dei paesi finora tenuti presenti. Ad esempio in merito ai momenti e ai tempi di emanazione delle legislazioni rispetto a quelli di catalogazione, censimento e registrazione di beni sul territorio: ancor prima della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, Grecia, Gran Bretagna e Germania, hanno avviato contestualmente all’emanazione della legislazione le prime attività di catalogazione e mappatura dei siti e monumenti archeologici, quasi a ‘seguire un programma’, sebbene con motivazioni ed obiettivi alquanto differenti; diversamente Italia, il Belgio e la Francia hanno avviato ricognizioni ad hoc prima di emanare specifiche leggi di salvaguardia. Tutti gli altri paesi collocano le loro produzioni in un periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, e, fatta eccezione per alcuni paesi che hanno manifestato tardi attenzioni specifiche sia in un campo che nell’altro (vedi Irlanda, Finlandia e Portogallo e gran parte dei paesi dell’Est19), hanno anteposto, e spesso anche di molto, all’emanazione di specifiche leggi di tutela, la ricognizione del territorio con relativa impostazione di registri e cataloghi di siti e monumenti (vedi Svezia, Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Austria e Spagna20). Nel complesso, se l’esperienza dei paesi mediterranei, data soprattutto dalla loro ricchezza di dati storico-artistico-archeologici, ha consentito la formazione e la definizione di conoscenze e di metodiche conoscitive di notevole spessore ed ampio respiro nell’ambito dello studio e della catalogazione dei Beni Culturali sul territorio, la pratica Nord-Europea risulta eccezionale nelle forme di sistematizzazione delle informazioni come anche nella focalizzazione della necessità di chiarezza espositiva delle mappe a qualsiasi uso prodotte (come ad esempio il sistema in corso di sperimentazione in Olanda). Si ritiene infatti che nella redazione di cartografia destinata alla tutela, la ‘chiarezza’ espositiva del prodotto finale sia condizione essenziale e requisito proprio della sua natura ed impostazione; le produzioni nord-europee, e con esse il GIS di nuova generazione improntato in Slovenia, apportano alle produzioni cartografiche archeologiche delle caratteristiche funzionali ed operative apparentemente proprie ad altri settori del sapere, che vedono nel momento progettuale il fulcro dell’attività. Le elaborazioni di questi paesi prevedono una 19 Fatto salvo il comportamento di Cipro per ovvi motivi molto simile a quello protezionisitico della Grecia. 20 Dove per lo più si tratta di testi finalizzati al controllo della ‘circolazione’ dei beni mobili. 112 La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi progettazione che si realizza per gradi distinguendo per livelli redazionali, e quindi espositivi, utili ad evitare affollamenti e la conseguente inutilità di un’unica mappa onnicomprensiva. Se la ricerca sul campo, sia essa scavo o ricognizione, produrrà cartografia archeologica questa sarà da intendersi come una sistematica raccolta d’informazioni o, più esattamente come un catasto delle informazioni note o presunte; vale a dire quella fornitura di base di dati conosciuti utile alla redazione di qualsiasi altro tipo specifico di cartografia (indicativa, predittiva, di ricostruzione, o pianificazione). Dal dettaglio grafico delle prime alla sintesi di queste ultime, si ritiene possibile mantenere un’accettabile visibilità, comprensione ed utilizzazione dell’informazione se in particolare quest’ultima assumerà delle forme grafiche sempre più prossime alle ‘aree’ piuttosto che ai ‘punti’: per l’impossibilità ovvia di dettagliare l’ignoto, per la frequente esigenza di visualizzare un tipo di informazioni costituite da fattori variabili (valutazioni, uso dei suoli, impatto ambientale ed umano, etc.), ovvero per la necessità comune a tutte le nazioni di deviare eventuali operazioni clandestine. Ed è proprio nella gestione di questi tre fattori che in particolare s’inseriscono le metodologie sempre nuove o in corso di sperimentazione, spesso coadiuvate dall’uso della matematica, e per lo più finalizzate a quantificare la diversità di livelli di rischio in una data distribuzione di siti archeologici. Oramai di uso ampiamente diffuso, il GIS, per il gran numero di dati e di livelli di visualizzazione che consente, rappresenta lo strumento che maggiormente coniuga i differenti usi della cartografia: da quella destinata alla ricerca pura, a quella realizzata a scopo di prevenzione e tutela21. E’ doveroso infine sottolineare come le principali forme di concreto dialogo e trasmissione delle informazioni tra ricerca e operatività, si sono rilevati in particolare nei paesi dalla più forte e consolidata tradizione sull’uso dei sistemi informativi e della ricerca territoriale, come la Gran Bretagna ma anche l’Olanda, dove i progetti di ricerca servono tanto alla tutela del paesaggio nelle fasi principali della sua trasformazione quanto alla fornitura di dati di base per altre ricerche od approfondimenti specifici o alla fruizione. 4. CONCLUSIONI Da quanto emerso si possono delineare alcune sintetiche considerazioni22. In primo luogo si ritiene che un importante valore aggiunto, fornito dai paesi del Nord Europa ai lavori in corso in ambito mediterraneo potrebbe consistere nella forte interdisciplinarietà sottesa ai loro progetti, in misura pari almeno alla profonda e concreta apertura di orizzonti concepita dagli stessi nell’affrontare questo tipo di tematiche. Probabilmente troppo concentrati nella redazione di carte utili alla ricerca, gli archeologi mediterranei dimenticano di avere fra gli ipotetici utenti e collaboratori, in particolare nella pianificazione, altre professionalità 21 22 Sui GIS nell’archeologia preventiva si veda il contributo di S. Pescarin in questo stesso volume. Per un approfondimento si veda: F. Ulisse, Tutela della Cultura e Cultura della Tutela. Cartografia archeologica operativa e legislazione sui Beni Culturali in Italia e nella Comunità Europea: esperienze a confronto, Bologna 2008 (in corso di stampa). 113 Francesca Ulisse e formazioni con parametri di lettura diversi23, dando luogo molto spesso a dei prodotti cartografici complessi, scarsamente comunicativi e, di conseguenza, poco funzionali24. In conclusione sembra possibile sostenere che se le comuni origini europee sono probabilmente alla base di quel complessivo interesse, manifestato in qualsivoglia maniera nei confronti della tutela di ogni specifica cultura e dei suoi segni tangibili e intangibili, mobili e immobili che ancora persistono, ritenendoli valore e orgoglio di ogni particolare civiltà, le profonde differenze che caratterizzano le varie culture, e che hanno prodotto anche quella dicotomia spesso evidenziata tra nord e sud del continente, hanno dato luogo a risultati di grande originalità, utili senz’altro a fornire contributi nella ricerca di soluzioni a specifiche difficoltà. BIBLIOGRAFIA Raccolte legislative e commentari: Internazionali: CARTEI 2007: G. F. CARTEI (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna 2007. AÑÓN FELIÚ 2003: C. AÑÓN FELIÚ (ED.), Culture and Nature. 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Ulisse, Considerazioni sulla reale “usabilità” di mappe, GIS e cartografia a contenuto archeologico su web, in Archeologia e Calcolatori 15, 2004, pp. 521–529. 114 La tutela del ‘Bene Culturale’ in Europa tra legislazioni e strumenti operativi Altri paesi del Mediterraneo: (Grecia): CAMPOBASSO 2001: L. CAMPOBASSO: La tutela dei beni culturali in Grecia: problemi applicativi e prospettive di riforma, “Aedon. Rivista di arti e diritto on-line”, III, 2001. Paesi dell’Est: PETKOVA 2004: S. PETKOVA, Comparative legal analysis of the Legislation in the Area of Cultural Heritage in Southeast Europe, Center for Policy Studies, International Policy Fellowship Program 2004, Open Society Institute (Bulgaria): BULGARIA 2007: Council of Europe/ERICarts, “Compendium of Cultural Policies and Trends in Europe, 8° edition”, 2007 (pp. BG-1 – BG-55) ALKAN ET AL. 2005: S. ALKAN, L. M. ANDREAS, S. REIMANN, Cultural Heritage in Bulgaria, 2005. 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(Cipro): JANSEN 2005: JANSEN M., War and Cultural Heritage: Cyprus after the 1974 Turkish Invasion, Minnesota Mediterranean and Eastern European Monographs XIV, University of Minnesota 2005. 115 Francesca Ulisse Paesi del nord-Europa: DUELUND 2003: P. DUELUND, The Nordic Cultural Model. Copenhagen, Nordic Cultural Institute, 2003. (Austria): AUSTRIA 2007: Council of Europe/ERICarts, “Compendium of Cultural Policies and Trends in Europe, 8° edition”, 2007 (pp. A-1 – A-46). (Finlandia): FINLAND 2007 : Council of Europe/ERICarts, “Compendium of Cultural Policies and Trends in Europe, 8° edition”, 2007 (pp. FI-1 – FI-76) (Malta): MALTA 2007: Council of Europe/ERICarts, “Compendium of Cultural Policies and Trends in Europe, 8° edition”, 2007 (pp. MT-1 – MT-44). Convegni e articoli italiani ed internazionali su tematiche inerenti la cartografia e la pianificazione territoriale: AZZENA 2004: G. AZZENA, Tancas serradas a muros. 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INTRODUCTION L’archéologie préventive, tout comme plus généralement l’archéologie du territoire métropolitain, a commencé en France bien plus tard que dans beaucoup d’autres pays européens. En effet l’archéologie métropolitaine, en tant qu’elle procède de la formation de l’identité nationale, ne jouait pas ce rôle en France. C’est l’archéologie de la Grèce, de Rome ou de l’Orient qui était chargé de retrouver et d’exalter les racines matérielles, réelles ou mythiques, de la culture des élites françaises, et c’est pourquoi le musée du Louvre ne contient pratiquement aucun objet trouvé dans le sol français. Longtemps, l’archéologie nationale n’a donc été le fait que de notables bénévoles, souvent dépourvus de soutiens. En revanche les moyens de l’État étaient mis dès le XIXe siècle au service de l’archéologie française dans les pays méditerranéens, avec la participation de la France à la fondation de l’Istituto di Corrispondenza Archeologica en 1829, puis la création de l’École française d’Athènes en 1846, puis celle de l’École de Rome en 1875 – après l’éclatement de l’Istituto consécutif à la guerre franco-allemande de 1870–1871 –, suivie de celle de l’Institut français d’archéologie orientale du Caire en 1880 et enfin de la Casa de Velasquez à Madrid en 1916. Si l’on crée en 1905 une chaire d’Antiquités nationales au Collège de France, qui sera confiée à Camille Jullian, il n’y aura pendant longtemps pratiquement pas de chaires universitaires d’archéologie métropolitaine. Du moins celle-ci est-elle enseignée de manière accessoire au sein de chaires consacrées à l’histoire et à l’archéologie de la Grèce et de Rome. Parmi les chaires de préhistoire, celle de François Bordes à Bordeaux résultera du «détournement» d’une chaire de géologie à partir de 1956, et celle de André Leroi-Gourhan du «détournement», la même année, d’une chaire d’ethnologie à Paris. La protohistoire n’est guère enseignée avant la fin des années 1960 au plus tôt, et longtemps marginalement. Au milieu des années 1970 encore, plus des deux tiers des archéologues professionnels en France travaillent hors de France. Mais c’est au cours de ces mêmes années 1970, à la suite d’un intérêt croissant du public pour l’archéologie, que celle-ci s’est peu à peu professionnalisée (on est passé en trente ans de 600 à 3500 archéologues professionnels) et que l’archéologie préventive s’est enfin développée. Après de nombreuse crises, ce processus de développement a été finalement stabilisé à partir de l’année 2000. 2. L’ORGANISATION GÉNÉRALE DE L’ARCHÉOLOGIE EN FRANCE L’archéologie préventive en France est organisée par la loi du 17 janvier 2001, modifiée ensuite en 2003 et 2004, et qui constitue l’application dans la législation française de la 121 Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger Convention de Malte de 1992, ratifiée par la France en 1994. Cette loi est fondée sur deux principes: c’est l’aménageur qui finance l’archéologie préventive (sur le principe du «pollueur payeur») et l’essentiel de cette activité est confié à un institut de recherche public, l’Institut national de recherches archéologiques préventives (INRAP), placé sous la double tutelle du ministre de la Culture et du ministre de la Recherche. Le budget de l’INRAP est d’environ 130 millions d’euros, soit 0,1 % du budget total de la construction et des travaux publics en France ou encore deux euros par an et par Français. Du point de vue de l’organisation générale, la France compte environ 3500 archéologues, qui se répartissent entre: L’Institut National de Recherches Archéologiques Préventives (INRAP), responsable de la plupart des fouilles archéologiques préventives. Il compte environ 1800 archéologues permanents et environ 200 archéologues sur contrat à durée déterminée. La Sous-Direction de l’archéologie, de l’ethnologie, de l’inventaire et des systèmes d’information du ministère de la Culture compte environ 250 archéologues, répartis entre son service central et ses services régionaux de l’archéologie, eux-mêmes placés sous l’autorité du préfet de région. Environ 50 archéologues travaillent dans les musées, nationaux ou locaux. Environ 250 archéologues sont enseignants chercheurs dans les Universités. Environ 300 archéologues sont chercheurs Centre National de la Recherche Scientifique (CNRS), sans compter les personnels techniques. Environ 300 archéologues travaillent dans les collectivités territoriales, villes, départements ou communautés de communes. Outre les activités de terrain, ils jouent un rôle décisif dans la médiation culturelle et scientifique. Environ 50 archéologues travaillent de manière permanente dans des structures privées, parfois de statut associatif, ainsi que plusieurs dizaines d’archéologues employés sur des contrats à durée déterminée. La France comptant 63 millions d’habitants, il y a donc environ un archéologue pour 20.000 habitants, ce qui situe la France dans la moyenne basse européenne, certains pays comme la Grèce, la Suisse ou le Royaume Uni ayant une plus forte concentration. C’est le ministère de la culture, par le biais de ses services archéologiques régionaux (SRA) qui donne l’autorisation de faire des fouilles et, dans le cas de l’archéologie préventive, qui prescrit des sondages (ou diagnostics) puis éventuellement des fouilles. Le ministère de la Culture est conseillé par un conseil scientifique, le Conseil national de la recherche archéologique (CNRA), que préside le ministre. Au niveau régional, des conseils d’experts, les Commissions Interrégionales de la Recherche Archéologique (CIRA) conseillent les services régionaux de l’archéologie. L’Inrap, en tant qu’institut de recherche dépendant à la fois du ministère de la Culture et du Ministère de la recherche, comporte également un Conseil scientifique, composé pour deux tiers d’experts élus par les archéologues des différentes institutions. Ses membres sont majoritairement des archéologues extérieurs à l’INRAP. L’INRAP possède, outre des directions administratives, une direction scientifique qui définit la politique scientifique de l’établissement. Au niveau régional, l’INRAP comprend un certain nombre de directions interrégionales, dont le directeur est assisté par des assistants scientifiques, chargés d’organiser à un niveau local la qualité scientifique des travaux de terrain, ainsi que l’étude 122 L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives et la publication, mais aussi la collaboration avec d’autres institutions scientifiques. Plus généralement, l’INRAP a passé un certain nombre de conventions de coopération avec le CNRS, les Universités, les services archéologiques de villes ou de départements, et même certaines institutions étrangères pour la coopération internationale. Du point de vue du nombre de sites archéologiques, la «Carte Archéologique» du ministère de la Culture compte environ 400.000 sites. Mais des projections à partir des zones les mieux connues permettent d’estimer les sites potentiels à plusieurs millions (sans doute entre 5 et 10 millions). Sur les grands tracés autoroutiers ou ferroviaires où sont pratiqués des diagnostics systématiques (trial trenching), on découvre de fait environ un site important tous les kilomètres. Chaque année environ 70.000 hectares (700 km2) font l’objet d’aménagements (constructions, autoroutes, TGV, carrières, zones industrielles, parkings souterrains, etc), sans tenir compte des destructions, «invisibles» mais très préoccupantes, dues aux travaux agricoles ou forestiers. Sur ces 70.000 m2, environ 15% font l’objet de diagnostics prescrits par les services régionaux du ministère de la Culture, ce qui représente environ 2000 opérations par an, ou encore 90.000 journées de travail. 3. LES DIAGNOSTICS D’ARCHÉOLOGIE PRÉVENTIVE Aux termes de la loi, les diagnostics sont un monopole public, partagé entre l’INRAP (pour environ 95%) et les services archéologiques de villes ou de départements qui le souhaiteraient. Ce monopole public est destiné, selon les mots du ministre de la Culture, à garantir l’objectivité des diagnostics – en d’autres termes à éviter que des entreprises privées se spécialisent, sous la pression des aménageurs, dans le fait de ne rien trouver! Les diagnostics sont financés par une taxe payée par l’ensemble des aménageurs, qu’il y ait ou non un site archéologique sur leur terrain. Cette taxe doit en principe rapporter entre 60 et 80 millions d’euros, mais elle n’est pas encore, à ce jour, complètement stabilisée dans sa mise en place. Un tiers de cette taxe est destiné à alimenter un fond pour aider les petits aménageurs à payer le coût des fouilles proprement dites. En France, les diagnostics sont réalisés dans leur grande majorité sous la forme de tranchées à la pelle mécanique, représentant entre 5% et 10% de la surface totale, ce qui représente un seuil statistique minimal. Si les photographies aériennes ou les diverses autres techniques « non-intrusives » peuvent être utilisées, ce n’est que dans des cas très spécifiques. Pour les sites préhistoriques en particulier, seuls des tranchées systématiques sont susceptibles de les découvrir. Il est frappant en effet que depuis plusieurs années un certain nombre de sites du paléolithique inférieur et moyen aient été découverts dans le nord-ouest de la France par cette technique, alors qu’ils restent inconnus dans le sud-est de l’Angleterre, parfaitement comparable d’un point de vue géologique et archéologique mais où cette technique n’est pas utilisée. Selon l’organisation décrite plus haut, les diagnostics font l’objet d’un double contrôle de qualité scientifique. Le contrôle interne est fait par l’assistant scientifique régional de l’INRAP, en liaison avec la direction scientifique nationale et le conseil scientifique national. Le contrôle externe est fait par le service archéologique régional du ministère de la Culture, assisté par la Commission Interrégionale de la recherche Archéologique (CIRA) et, si besoin 123 Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger est dans le cas de sites importants ou de problèmes graves, par le Conseil National de la Recherche Archéologique (CNRA). C’est au vu des résultats des diagnostics, que les services du ministère de la Culture vont décider s’il doit y avoir des fouilles proprement dites. Entre 15% et 20% des diagnostics sont suivis de fouilles, ce qui fait que les fouilles ne concernent en fin de compte qu’environ 3 à 5% des travaux d’aménagement. Fig. 1. Photographie aérienne du site de Cesson “plaine du moulin à vent”, sur le plateau de Sénart (sud de la Seine-et-Marne). Ce diagnostic a été réalisé sur une surface de 135 ha, de septembre à décembre 2004, sous la direction de Jacques Legriel. (Photo: Philippe Granchon/INRAP).. 4. LES FOUILLES ARCHÉOLOGIQUES PRÉVENTIVES ET LEUR CONTRÔLE Selon les termes de la loi initiale de 2001, les fouilles étaient également un monopole public et elles étaient confiées à l’INRAP, avec l’obligation pour celui-ci de coopérer avec les autres institutions scientifiques qui le souhaiteraient. Ce dispositif avait été attaqué auprès de la Commission Européenne à Bruxelles par quelques archéologues privés et par certains aménageurs. En rejetant cette plainte (cf. plus bas) la Commission à confirmé que chaque pays de l’Union Européenne peut s’il le souhaite organiser son archéologie préventive sous la forme d’un monopole public et que, dans ce domaine au moins, la « free market economy » n’est ni une nécessité, ni une fatalité. Néanmoins la nouvelle majorité parlementaire a modifié en 2003 la loi initiale de 2001 en introduisant la possibilité de la mise en concurrence commerciale par l’aménageur lui-même pour les fouilles proprement dites. Cette modification reflétait la sensibilité de la nouvelle majorité et manifestait le souhait de faire baisser les coûts des fouilles en introduisant la concurrence commerciale – ce qui ne s’est d’ailleurs pas produit. Cette introduction de la concurrence commerciale a été accompagnée de plusieurs précautions. Les entreprises privées doivent recevoir un agrément scientifique, renouvelable tous les cinq ans, après examen de leur dossier par le Conseil National de la Recherche 124 L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives Archéologique. Elles ne peuvent pas être dépendantes économiquement de l’aménageur. Le projet de fouille rédigé par l’intervenant choisi par l’aménageur doit être soumis à l’approbation du service régional de l’archéologie, qui peut également effectuer des contrôles tout au long de la fouille afin d’en vérifier la qualité et l’adéquation au cahier des charges. C’est au vu de ce projet que ce service donne ou non l’autorisation de fouille. Enfin l’agrément peut être retiré à tout moment en cas de faute grave – ce qui est arrivé récemment pour un entreprise privée qui venait d’être agréée. Fig. 2. Archéologie préventive à Amiens, 2008 (Photo: Pierre de Portzamparc/INRAP). Malgré ces précautions, une grande partie de la communauté archéologique française a marqué son hostilité en 2003, par des pétitions, des manifestations et même des grèves, contre cette nouvelle disposition25. Le Conseil National de la Recherche Archéologique lui- 25 Ces huit mois de crise ont fait l’objet d’un dossier spécial de la revue Nouvelles de l’archéologie, 2004, n. 95. (Maison des Sciences de l’Homme, Paris). Deux sites Internet y ont été également consacrés : www.archeo.levillage.org et www.canalarcheo.org ainsi qu’un dossier important sur le site internet de la chaîne de télévision France 2. 125 Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger même a manifesté ses réserves26. Il ne s’agissait pas seulement de préjugés idéologiques. Les adversaires de la concurrence faisaient remarquer qu’aux Etats-Unis d’Amérique – voire en Italie même – la concurrence commerciale avait amené une séparation très forte entre l’archéologie dite académique et les archéologues des entreprises privés, qui publiaient fort peu et qui n’étaient presque plus présents dans les congrès scientifiques. Et même en GrandeBretagne, où conformément à la «common law» il n’y a pas véritablement de législation sur l’archéologie préventive mais une simple circulaire («guidance»), le rapport parlementaire coordonné par Colin Renfrew exprimait un certain nombre de réserves, sur l’organisation, le financement et les résultats scientifiques et patrimoniaux de la «contract archaeology»27. Fig. 3. Pratiques mortuaires inhabituelles au site d’Evreux (Photo: Hervé Paitier/INRAP). A l’heure qu’il est, toutefois, peu d’entreprises privées se sont créées en France depuis 2003 et les seules présentes sur le marché, de petite taille, existaient auparavant et collaboraient déjà avec l’INRAP. Leur prix ne se sont d’ailleurs pas révélés plus bas que ceux de l’INRAP. 26 Avis n. 22 du Conseil National de la Recherche Archéologique, «De la concurrence en archéologie», 14 avril 2003; in: Les Nouvelles de l’Archéologie, n. 93, p. xx. 27 Voir The Current State of Archaeology in the United Kingdom, First Report of the All-Party Parliamentary Archaeology Group, The Caxton & Holmesdale Press Ltd, January 2003; également consultable sur le site de English Heritage et de l’Institute of Field Archaeology. 126 L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives Lorsqu’aucun concurrent ne se présente, c’est l’INRAP qui est chargé légalement de faire la fouille. Et c’est également lui qui, dans tous les cas, doit assurer la publication scientifique de la fouille, après la remise du rapport de fouille. Quant au contrôle scientifique, le dispositif est comparable à celui des diagnostics. Concernant l’INRAP, le contrôle interne est mené par les assistants scientifiques et le Conseil scientifique. Concernant toutes les structures, le contrôle externe est mené par les services archéologiques régionaux du ministère de la Culture, d’abord par l’approbation, ou non, du projet de fouille, puis durant les fouilles, et enfin par l’approbation, ou non, du rapport de fouille final. L’avis de la CIRA peut être également demandé à tout moment et des visites de certains chantiers par des membres de la CIRA sont régulièrement organisées. 5. LES PERSPECTIVES GÉNÉRALES ET LA QUESTION DU SERVICE PUBLIC Sous cette forme, le système français, qui n’est sans doute pas définitivement stabilisé, notamment du point de vue de son financement, exprime bien la volonté d’un fort contrôle de l’État, en tant qu’émanation de la communauté des citoyens. Il exprime aussi que l’aménageur n’est pas un «client» mais qu’il paye, en tant que «pollueur», dans la mesure où il a porté atteinte au patrimoine national et qu’il doit réparer ce dommage. Il considère également que la notion de «code d’éthique», très populaire dans la tradition de l’économie libérale anglosaxonne, n’a aucun sens dans les pays de culture latine, où seul est vraiment valable ce qui est écrit dans la loi. Ces différents points montrent qu’il existe en Europe des divergences marquées et connues entre les différentes traditions culturelles quant au rôle de l’État, et notamment dans la conception du service public et de la responsabilité individuelle. Mais le système français reflète aussi la conviction que la conduite scientifique d’une fouille n’est pas assimilable à la construction d’un pont, qui répond pour sa part à des standards prédéfinis et dont la qualité peut être contrôlée a posteriori. La fouille, comme tout étudiant l’apprend, est d’abord un acte de destruction: une fois terminée, elle ne peut plus être directement contrôlée. Par ailleurs les objectifs scientifiques de toute intervention archéologique sont à chaque fois déterminés en fonction de questions locales et spécifiques, contrairement au cas d’un pont. Dans certains circonstances et en fonction de l’état des connaissances, si le site en question appartient à une période archéologique déjà très connue, on pourra préconiser une fouille rapide – dans d’autres cas la fouille beaucoup plus longue et minutieuse, et donc couteuse. Il n’y a donc pas de «standards» préétablis dont il suffirait, comme pour un pont, de contrôler ensuite le respect a posteriori. Comme nous l’avons indiqués plus haut, ce serait à cet égard une vision caricaturale, mais parfois attestée, de considérer que la législation française, en instituant un monopole légal de l’Inrap pour les diagnostics et les fouilles archéologiques (loi de 2001 originelle), ou au moins un monopole pour les diagnostics, partagé avec les services de collectivités territoriales (loi de 2001 modifiée 2003), aurait perpétré une violation flagrante des règles 127 Jean-Paul Demoule – Nathan Schlanger communautaires et serait même à contre-courant du mouvement général de l’histoire. En réalité, cinq points doivent être rappelés28: 1) En date du 2 avril 2003, la Commission européenne a rejeté les plaintes, instruites par la Direction générale de la concurrence, portées contre la loi du 17 janvier 2001 (originelle). Son analyse rejoint celle du Conseil constitutionnel (décision du 16 janvier 2001) mais aussi du Conseil d’État français (décision du 30 avril 2003) et même du Conseil national de la concurrence français (décision du 13 mars 2002). L’État est effectivement fondé, s’il le souhaite, à instaurer un monopole public de l’archéologie préventive. De ce point de vue, les autres pays européens qui ont déjà un tel monopole sont fondés à le conserver. 2) Plus généralement, après avoir été à l’initiative de la privatisation des services publics de réseau (télécommunication, énergie, transport), la Commission européenne reconnaît dans un récent Livre vert sur les services d’intérêt général29. que la question des services d’intérêt général reste largement à traiter au sein de l’Union européenne et qu’il revient au pouvoir politique de garantir l’intérêt général “lorsque le marché n’y parvient pas”. 3) L’archéologie préventive relève-t-elle donc du marché? Ou, autrement dit, l’aménageur est-il un “client” de l’archéologie? S’il est bien certain que l’aménageur est contraint pas la puissance publique, selon le principe “casseur = payeur” (“polluter pays” en anglais ou “Verursacherprinzip” en allemand) à payer des fouilles archéologiques préventives avant tout aménagement, est-il directement intéressé à la qualité scientifique des fouilles et à leur résultat ? Ou bien ne fait-il que payer une forme d’impôt, à charge pour l’État de contrôler directement (en exécutant lui-même les fouilles) ou indirectement (par un établissement public ou tout autre organisme agréé) la qualité scientifique de ces fouilles et leur bonne exploitation et restitution? 4) Quelle est la réalité économique d’un tel marché de l’archéologie préventive? 5) En définitive, comme l’affirme la Commission de Bruxelles, c’est bien de l’intérêt général qu’il s’agit. Celui-ci commande que le patrimoine archéologique, conformément à la Convention de Malte, soit préservé. S’il ne peut l’être intégralement (conservation du site sur place), il doit l’être au moyen d’une fouille préventive de qualité. En maintenant le monopole public sur les diagnostics, le gouvernement français a clairement signifié qu’il voulait garantir leur «objectivité». En soumettant l’ouverture éventuelle des fouilles préventives à des entreprises privées, l’État s’est néanmoins doté de plusieurs garde-fous. Et c’est donc bien, quel que soit le système adopté, la qualité des résultats scientifiques qui sera juge de la qualité du système. Ainsi, tant au niveau français qu’européen, l’application du droit, au moins dans le domaine de l’archéologie préventive, paraît clairement subordonnée à des choix politiques et culturels, sinon de société. Pour des spécialistes de l’histoire des sociétés humaines, ce constat est finalement rassurant. 28 Pour une analyse juridique plus complète en français, cfr.: J-P. Demoule, Archéologie préventive, recherche scientifique et concurrence commerciale, in: P-L. Frier (ed.), Le nouveau droit de l’archéologie préventive, L’Harmattan, Paris, 2004, p. 199–242. 29 Livre vert sur les services d’intérêt général (présenté par la commission), COM(2003) 270 final, Bruxelles, 21.5.2003, 68 p. [version anglaise: xxxx]. 128 L’archeologie preventive en france: Parcours et perspectives 6. EN CONCLUSION On le voit, l’archéologie préventive a suivi des voies différentes en Italie et en France. La faible signification de l’archéologie métropolitaine pour l’identité nationale française explique, à la différence de l’Italie, que pendant des décennies les sites archéologiques y aient été détruits dans l’indifférence générale. Seuls les archéologues bénévoles, notables locaux s’intéressant à l’histoire de leur terroir, ont permis de sauver, sans grands moyens, quelques vestiges très fragmentaires. La situation ne s’est transformée que dans les années 1970, avec l’arrivée dans la vie professionnelle d’une nouvelle génération d’archéologues, qui s’était donnée comme mission essentielle la construction d’une archéologie préventive digne de ce nom. Ce programme a coïncidé dans le même temps avec une transformation de l’opinion publique et de sa demande culturelle. Indifférente aux destructions du patrimoine archéologique dans les années de la Reconstruction économique de l’après-guerre, l’opinion publique a commencé à s’interroger sur son destin et donc son passé à partir des années 1970 et de la montée de la crise économique et de ce qui l’accompagnait. Il n’était plus possible de détruire impunément et de telles destructions devenaient des scandales. Cette rencontre entre le militantisme d’une génération et la demande culturelle d’une société a permis, dans la tradition centralisatrice française, de construire progressivement un outil de recherche national et unique pour l’archéologie préventive. Tout n’est cependant pas gagné définitivement. La résistance qui persiste est rarement le fait des aménageurs: ceux-ci incluent maintenant le budget des fouilles dans leur budget total, et le répercutent sur leurs prix de vente, tandis que l’archéologie leur permet de donner d’eux-mêmes une image «éthique» soucieuse de l’environnement et du «développement durable». Cette résistance est plutôt idéologique. Dans un contexte de réduction du rôle et des moyens de l’État, certains, politiciens ou technocrates, souhaiteraient s’inspirer des modèles anglo-saxons, pourtant dévastateurs sur le plan scientifique, pour imposer un modèle commercial privé à la recherche archéologique. La France n’est évidemment pas la seule dans son cas. Sur l’ensemble de l’Europe, la Convention de Malte du Conseil de L’Europe (La Valette,1992) a instauré les principes de base de la protection du patrimoine archéologie dont les vestiges sont de plus en plus menacés par les travaux d’aménagement et d’infrastructure. Dans une partie de l’Europe, le modèle ultra-libéral s’est provisoirement imposé pour mettre ces principes en œuvre, entraînant de fait le démantèlement et la privatisation de nombreux services publics sans que le bénéfice en soit évident, au point, on l’a vu plus haut, de poser de sérieuses interrogations à la Commission de Bruxelles elle-même. C’est pourquoi, au sein des associations archéologiques à l’échelle du continent telles que l’Association of European Archaeologists (EAA) et le Europae Archaeologiae Consilium (EAC), une réflexion est engagée depuis plusieurs années sur ce sujet. Dans cette perspective, l’Inrap pilote actuellement un réseau d’institutions archéologiques européennes dans le cadre du programme Culture de la Commission Européenne, «Archaeology in Contemporary Europe» (ACE) et dont la Direzione Generale per i Beni Archeologici du ministère italien de la culture est partenaire officiel. Grace à de tels échanges entre professionnels, grâce à des comparaisons mieux informées entre pratiques et législations, ce sont les archéologues eux-mêmes, dans chaque pays et au niveau de l’Union européenne, qui seront capable d’élaborer les meilleures moyens de protéger et de valoriser le patrimoine archéologique pour les générations à venir. 129