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OL3MEDIA - ANNO 6 Media Stardom Fama, successo e gossip tra passato e futuro a cura di Barbara Maio N° 13 - SETTEMBRE 2013 Media Stardom Fama, successo e gossip tra passato e futuro a cura di Barbara Maio © 2013 by Rigel Edizioni 00147 Roma, Via dei Lincei n.39 Web Site: http://apsrigel.blogspot.it ISBN 978-88-908180-2-8 © 2013 Rigel - Ol3Media Book Series ____________________________________________________ Ol3Media Book Series è una collana editoriale della rivista Ol3Media, e-journal gratuito e consultabile sul sito http://host.uniroma3.it/riviste/Ol3Media/ Contatti: [email protected] Il volume è pubblicato secondo la Creative Commons Public License Direttore Responsabile: Barbara Maio Redazione: Mauro Corsetti, Giada Da Ros, Corrado Peperoni, Paolo Russo Ogni immagine, video, logo, marchio registrato è del legittimo proprietario. L’utilizzo degli stessi in questa pubblicazione gratuita ha il solo scopo accademico e didattico. i O L 3 MEDIA 13 Media Stardom Indice Barbara Maio, Introduzione Caterina Rossi, Divismo 2.0 tra corpo di massa e corpo d’autore: Robert Pattinson in Twilight e Cosmopolis Clara Garavelli, A Shared Star Imagery: The Argentine Actor Ricardo Darín through Spanish Film Posters Patricia Boyd, “I Got This: How I Changed My Ways and Lost What Weighed Me Down”: Re-construction of Jennifer Hudson’s “Star” Identity in American Weight Loss Advertisements Michael Angelo Tata, Adventures in Meta-celebrity: Andy Warhol and the Fame of Fame Miriam Visalli, Marilyn contro Marilyn. Smash e la rilocazione del mito Alberto Beltrame, Una leggenda d'artista, un divismo autorialista. Il paradigma Rossellini nella critica francese degli anni Cinquanta Jeff Bush, The Face of Marylin Chiara Checcaglini, Created by. L’autore-star nella serialità televisiva contemporanea Barbara Maio, Sam Neill: un attore alla fine del mondo Libri Introduzione Marilyn Monroe con lo scrittore Arthur Miller, suo marito dal 1956 al 1961 Ragioniamo sulla celebrità di Barbara Maio Il corpo della star è storicamente il primo mezzo per attrarre l’attenzione di un potenziale pubblico. Che si tratti di un film, di uno spettacolo teatrale, una mostra di pittura o un programma televisivo, utilizzare un volto, un corpo come biglietto da visita è sempre la strategia giusta per ottenere attenzione. Nel cinema, e nelle arti visive in genere, questa pratica è estremizzata, si cerca di far crescere una star anche, se non soprattutto, al di fuori del prodotto che si vuole “vendere” per poter presentare al pubblico una figura al contempo reale e artificiale. Un attore che appare in contesti estranei al suo campo usuale attira attenzione, riscuote simpatia, veicola su di sé una attenzione che sarà poi spendibile nella promozione di un film o una serie tv. Così, se di un attore conosciamo la vita privata, le relazioni segrete, le sue frequentazioni ed abitudini più particolari, l’attenzione è garantita. Pensiamo a Marilyn Monroe, il cui mito venne costruito soprattutto all’esterno della sua carriera che, seppur breve, comprende diversi film famosi, ma la sua figura viene da sempre maggiormente associata ai suoi flirts, veri o presunti. Il maggiore profeta della fama a tutti i costi è stato senz’altro Andy Warhol, che ha costruito la sua immagine in maniera maniacale, profetizzando la possibilità di essere tutti famosi un giorno, ed esponendo lo stesso suo corpo Andy Warhol iii come opera d’arte, di valore anche solo per la sua presenza, a prescindere dall’azione stessa, come il semplice atto di mangiare un hamburger. Nel cinema, una testimonianza dell’importanza dell’immagine di un attore o una attrice emerge nei poster promozionali. Nella Manifesto di Casablanca da dove emergono con forza i volti dei due maggior parte dei casi protagonisti. sono i volti ad essere promossi, non è “un film che parla di” ma “un film con”. Nel cinema americano in tutte le epoche, il volto è protagonista: gli attori e le attrice sono protagonisti in tutti i sensi, campeggiano sui grandi manifesti nelle strade delle immense città statunitensi, rappresentano il film in eventi glamour, festival e cerimonie, divenendo pubblicità dalla grandissima risonanza nazionale e internazionale. Il volto di Elvis Presley campeggia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta su decine di manifesti che promuovevano non un film ma un modo di essere, un mondo in cui non è importante il cosa ma il chi. Questo film passano rapidamente, sono semplici messe in scena la servizio del Re, non hanno particolari ambizioni artistiche oltre all’esposizione della star. Era stato così anche anni prima, quando il cinema diventava rapidamente un mezzo per arrivare ovunque. Le star del passato e del iv muto, i personaggi che transitavano al cinema venendo dalla musica, dal teatro o dalle copertine delle riviste, raggiungevano livelli di popolarità e venivano venerati come dei o eroi. Le apparizioni pubbliche di Rodolfo Valentino scatenavano scene di isterismo e fanatismo ossessivi. La sua prematura scomparsa non fece che accrescere il mito legato alla sua bellezza che eclissò anche la sua bravura. Ma il fenomeno del divismo che tanto serviva ai produttori ad indirizzare il pubblico verso un determinato prodotto, non si ferma davanti alla macchina da presa o alla macchina fotografica: anche registi e produttori divengono icone della popolarità. Alfred Hitchcock diviene figura riconoscibile anche solo in sagoma, veicolando un idea di film con determinate caratteristiche giocando con la sua figura e con i suoi camei che tendono a coinvolgere il suo pubblico. Ancora oltre va Orson Welles che fa leva in maniera molto rilevante sulla sua immagine, sul suo volto. Interpretando i suoi film acquista una fama che non viene scalfita nemmeno dalle tante apparizioni in progetti di scarso livello ai quali partecipa solo per ottenere finanziamenti per i suoi lavori. In tempi più recenti, l’effetto star ha colpito soprattutto personaggi giovani che, per motivi economici, vengono spinti ad essere sempre presenti sulla scena pubblica e privata. La fama di Robert Pattinson è dovuta sicuramente al suo sguardo tormentato nella saga di Twilight ma, anche, per la sua lunga love story con la sua compagna di schermo, Kristen Stewart, relazione (strategicamente?) terminata con la conclusione della saga stessa. E non si tratta di un fenomeno limitato al cinema. Gli ultimi due anni hanno visto la scena della musica pop dominata dalla boy band degli One Direction, cinque ragazzi ventenni anglo-irlandesi che hanno rivitalizzato l’idea della boy band stessa così in voga negli anni Novanta. Con un pugno di canzoncine orecchiabili e una serie di facce angeliche, il v La boy band degli One Direction. gruppo ha raggiunto rapidamente ogni copertina e ogni schermo televisivo e cinematografico (grazie ad un film documentario che ne racconta l’ascesa), specialmente in Gran Bretagna. BIBLIOGRAFIA Kate Egan e Sarah Thomas (a cura di), Cult Film Stardom, Palgrave, New York, 2013 Marcia Landy, Stardom Italian Style, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis, 2008 Edgar Morin, Le Star, Feltrinelli, Milano, 1999 Francesco Pitassio, Attore/Divo, Il Castoro, Milano, 2003 Il mondo dei giovani è quello più facilmente raggiungibile nella civiltà dell’immagine e dei nuovi (ormai non più tanto) media. Tra Facebook, Twitter, Instagram, il volto della star è ovunque. In questo numero di Ol3Media si affronta il tema “Stardom” con una serie di case studies molto vari che dimostrano come l’argomento sia trasversale a tutti i paesi e alle forme di espressione. Resistono figure classiche come Marilyn Monroe e Andy Warhol ma si affronta anche il tema del registaautore-star con Rossellini o la nuova ondata di autori televisivi che assume sempre più importanza nella “vendita” di un prodotto. Si analizzano figure più “esotiche” come l’argentino Ricardo Darín e il neozelandese Sam Neill e punti di vista originali come quello della perdita di peso di Jennifer Hudson. E naturalmente non poteva mancare un contributo sullo stesso Robert Pattinson. Buona lettura! vi C ATERINA R OSSI Divismo 2.0 tra corpo di massa e corpo d’autore: Robert Pattinson in Twilight e Cosmopolis «A VEVA SEMPRE DESIDERATO DI DIVENTARE PULVISCOLO QUANTICO , TRASCENDERE LA MASSA CORPOREA , I TESSUTI MOLLI CHE RICOPRONO OSSA , MUSCOLI E GRASSO . L’ IDEA ERA DI VIVERE OLTRE I LIMITI PRESTABILITI , IN UN CHIP , SU DISCO , SOTTO FORMA DI DATI , IN UN VORTICE , IN UNO SPIN RADIANTE , UNA COSCIENZA SALVATA DAL VUOTO » D ON D E L ILLO - C OSMOPOLIS «Eroicizzate, divinizzate, le star sono più che oggetti d’ammirazione: sono soggetti di culto. Si crea attorno a loro un abbozzo di religione». Edgar Morin nello studio seminale sul divismo Le Star (1957) ha teorizzato una liturgia stellare, evidenziando gli aspetti cultuali che investono le entità prodotte dallo star system: i divi vengono considerati come semidei. La fusione tra personaggio e persona entro il sistema di produzione cinematografico hollywoodiano ha portato alla nascita di eroi cinematografici, figure mutuate dalla mitologia e attualizzate nel sistema industriale di Hollywood: «Gli eroi cinematografici, eroi dell’avventura, dell’azione, del successo, della tragedia, dell’amore […] sono, in un modo naturalmente attenuato, eroi nel senso divinizzante della mitologia. […] Quando si parla di mito di una star, si tratta prima di tutto del processo di divinizzazione che subisce l’attore cinematografico e che lo trasforma in un idolo delle folle» [1]. Lo star system, dopo il suo periodo di massimo splendore ed efficienza tra 1930 e 1960, ha attraversato profondi cambiamenti grazie ai nuovi modelli produttivi e divistici inaugurati dalla New Hollywood e alla rigenerazione avvenuta con la diffusione del modello del corporate blockbuster [2] e del cinema high concept [3], in cui il divo ha assunto il ruolo di potente strumento di commercializzazione del film, parte integrante del marketing mix [4]. Nel contesto contemporaneo gli attributi liturgici generati attorno alle star hanno creato nuove forme di culto. Gli spazi di costruzione e fruizione del divismo contemporaneo sembrano infatti estendersi ed allargarsi nello spazio potenzialmente infinito 7 dei nuovi mezzi di comunicazione: il web 2.0, con la sua dimensione partecipativa, è diventato lo strumento di nuovi campi di applicazione del fandom, il dominio dei fan, configurando innovative forme di adorazione ed adulazione. Con questi presupposti, si vogliono esplorare le dinamiche di edificazione della figura divistica di Robert Pattinson grazie alla saga di Twilight (2008-2012) e l’alterazione di questo processo avviato con l’interpretazione in Cosmopolis (2012) di David Cronenberg. Pattinson ha prestato il volto al vampiro seriale pop Edward Cullen e allo speculatore vampiresco Eric Packer, protagonista del romanzo di Don De Lillo (Cosmopolis, 2003): attraverso lo studio delle differenti performance si registra l’evoluzione/involuzione da corpo di massa - idolo delle folle e oggetto di venerazione adolescenziale - a corpo d’autore in interazione con l’estetica del film di Cronenberg . “Forever is only the beginning”: forme contemporanee di culto Trasportare sul grande schermo la saga per adolescenti Twilight della scrittrice Stephenie Meyer (2005-2008) ha significato innanzitutto replicare un fenomeno editoriale e commerciale di successo [5]. Dare un aspetto attraente ai protagonisti è stato quindi essenziale per alimentare l’affezione dei fan. Le trasposizioni cinematografiche si sono avviate nel 2008 con il primo film della serie, Twilight, diretto da Catherine Hardwicke. La saga racconta la storia d’amore tra la giovane e impacciata Bella Swan (interpretata nella versione cinematografica da Kristen Stewart) e Edward Cullen (Robert Pattinson), affascinante vampiro adolescente, diviso tra la propria condizione d’immortale e l’amore per l’umana Bella. La figura ancestrale del vampiro, nota in letteratura a partire da Dracula di Bram Stoker (1897), è stata rivisitata dal cinema in tempi e forme differenti. Senza la pretesa di essere esaustivi: da Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau (1922), passando per Nosferatu di Werner Herzog (1979), a Intervista col vampiro (Interview with the Vampire: The Vampire Chronicles, Neil Jordan, 1994), fino al più recente Lasciami entrare (Låt den rätte komma in, Tomas Alfredson, 2008). Creature sospese tra aspetto umano e indole rapace, i vampiri hanno nutrito pagine e immagini, trasformandosi da mostri spietati della letteratura gotica, in personaggi normalizzati e integrati nella società umana una volta approdati al cinema e nelle serie tv più recenti. 8 In Twilight Edward Cullen tenta, insieme ai membri della sua famiglia, di lottare contro la propria natura predatoria, nutrendosi di sangue animale e integrandosi, almeno apparentemente, nella piccola comunità di Forks, nello stato di Washington, dove è ambientato il racconto: «I vampiri di Twilight si discostano da quelli tradizionali per alcuni aspetti importanti. Loro non hanno paura dell’aglio e sono invulnerabili ai paletti nel cuore. Non dormono in bare, anzi non dormono affatto. La luce del giorno non è letale, piuttosto li fa risplendere. E, cosa più importante, non sono affatto mostruosi» [6]. Se la saga letteraria si rivolgeva a un pubblico di young adults, il risultato cinematografico non poteva che essere un modello di teen movie visivamente appetibile e facilmente riproducibile secondo le regole del franchise movie system. Il conflitto con i genitori durante l’adolescenza, la scuola e il senso di appartenenza a una comunità, il senso d’inadeguatezza, le prime esperienze amorose: il romanzo di formazione consolida nel corso degli episodi il proprio impianto moralistico, combinando elementi del fantasy, del melodramma e dell’action movie, mischiando generi amati dal target di riferimento e dirigendo l’attenzione verso orientamenti valoriali di stampo reazionario (con facili metafore sulla castità, sulla ricerca della normalità, sul sacrificio, sulla famiglia, etc…) [7]. Dopo il casting avvenuto per il primo film della serie, la coppia di protagonisti Bella Swan/Kristen Stewart e Edward Cullen/Robert Pattinson ha interpretato anche i successivi quattro episodi: New Moon (Chris Weitz, 2009), Eclipse (David Slade, 2010), Breaking Dawn: Part 1 e Breaking Dawn: Part 2 (Bill Condon, 2011 e 2012). Non ci si concentrerà sull’assottigliamento progressivo della qualità narrativa e cinematografica della saga, ma sulla figura interpretata dal giovane attore. Edward Cullen è il motore costante della narrazione; egli è l’oggetto del desiderio totalizzante della protagonista femminile. Robert Pattinson, londinese, classe 1986, all’epoca delle prime riprese ventiduenne, interpreta l’eterno diciassettenne Edward fino all’età (reale, dell’attore) di ventisei anni. Dopo il primo film della serie attorno a lui si è costruito un fandom che ha saputo e sa sfruttare a pieno le nuove forme di circolazione delle informazioni: il web 2.0 ha sostituito le pubblicazioni specializzate. La liturgia stellare descritta da Morin si è declinata in maniera contemporanea e tecnologica, estendendosi alla platea sterminata di internet. Non 9 più semplici riviste, fotografie, posta dei divi, club, pellegrinaggi, cerimonie, festival quali «istituzioni fondamentali del culto della star» [8]. Il fan club ai tempi del web permette un’interazione costante ed in tempo reale, potenziando la possibilità di partecipazione al culto e incrementando la condivisione (sharing) tra sostenitori (e detrattori) del divo [9]. La liturgia stellare teorizzata da Morin sfrutta tutti i vantaggi di quella che egli stesso ha definito la “coscienza planetaria di internet”: «La complessità di internet sta nel fatto che è un circuito che permette sempre retroattività e ricorsività» [10]. Chi sta davanti ad un computer si trova in una situazione ologrammatica, si trova ad essere «il tutto nella parte» [11]. Il web 2.0 incrementa la possibilità dei fan di Twilight di estendere il loro dominio sull’immagine del divo, consentendo la produzione e circolazione di comunità virtuali dove esperire nuove forme di appartenenza fondate sul valore segnico della celebrity. Non si tratta più della semplice fruizione passiva della starità di un divo, ma di una costruzione attivamente orientata da parte dei fruitori/utenti, che sviluppa, a sua volta, nuove narrazioni: la star 2.0 esiste e si evolve grazie a procedimenti virtualmente infiniti e inarrestabili. Anche se le forme di venerazione delle star si declinano ormai quotidianamente in maniera virtuale, la costruzione della stardom di Pattinson sembra essere stata edificata con strumenti cinematografici prevalentemente classici. L’attore offre il proprio volto agli attributi morali di Edward Cullen in maniera coerente, permettendo la (con)fusione tra persona e personaggio. L’interprete consegna al vampiro adolescente il proprio aspetto da bravo ragazzo: un viso lineare, le sopracciglia pronunciate, i capelli naturalmente spettinati [12], un fisico poco possente (rispetto, ad esempio, alla sua nemesi Jacob, il giovanissimo lupo mannaro recitato da Taylor Lautner). L’unica caratteristica fisica che connota la condizione di non-morto è il pallore, un incarnato reso emaciato ed evanescente dal make-up. Il viso e il corpo dell’attore, grazie alla mediazione del personaggio letterario (già idolatrato dagli young adults) è divenuto modello iconografico e archetipo di comportamento, eroe divinizzato e venerato attraverso pratiche cultuali basate sulla disseminazione di informazioni in rete. Le forme di culto sono alimentate da un meccanismo di presentazione del personaggio che valorizza l’entrata in scena come apparizione: Edward/Pattinson nei vari episodi interagisce sempre con i medesimi movimenti di macchina (anche se a dirigere i film sono registi differenti). La performance dell’attore seriale è incanalata in procedimenti di visualizzazione ricorrenti e 10 rigidi. I movimenti dell’interprete tendono ad essere castrati. Il progetto gestuale dell’oggetto del desiderio (destinato ad una platea di giovani donne) passa in secondo piano. Il ricorso al ralenti e l’insistenza nell’utilizzo del primo piano permettono alla teen-spettatrice di prendersi del tempo con l’immagine dell’attore. Il volto di Robert Pattinson è utilizzato al grado zero della propria espressività, incorniciato iconicamente per essere oggetto di ammirazione. in seguito concretizzato anche nella vita reale di Pattinson e Stewart («La star deve amare una star», direbbe Morin [13]): «L’amore allora smette di essere una questione di relazioni fisiche e pratiche e diventa un’esperienza metafisica» [14]. L’esperienza metafisica diviene territorio d’identificazione per i fan. La visualizzazione del rapporto amoroso nei film della saga, corrisponde alla restituzione insistita dei due protagonisti in primo piano, còlti nell’atto di baciarsi. La componente fantasy delle vicende rende letterale l’eroismo e dota Edward di super poteri (velocità, telepatia, forza straordinaria). La mostruosità del vampiro, un essere che per vivere deve uccidere, è accettabile grazie ai poteri straordinari utilizzati sempre a fin di bene. L’eroe (Edward) e l’eroina (Bella) incarnano il mito dell’amore affermandosi, usando ancora una definizione di Morin, come “puri eroi dell’adolescenza”, persone/personaggi oggetto di discussione all’interno di forum, social networks e siti web: Pattinson e Stewart sono giovani divi nei quali proprio i giovani adulti possono facilmente identificarsi. L’amore tra i personaggi si è Lo spazio della performance è ridotto all’estremo, in brevi azioni costruite per l’osservazione voyeuristica. La recitazione è subordinata alla massificazione del corpo del protagonista. Il volto ed il corpo di Pattinson sono monolitici, bloccati in pose da ammirare [15]. La sua immagine è già data, univoca, autoreferenziale. Un’espressione vale per tutte. Il suo viso è un’effigie statica facilmente trasportabile e riproducibile in rete ed è pronto a superare l’indagine lenticolare del macro e dello zoom dei fan alla ricerca del dettaglio inedito; le cellule si organizzano in pixel, unità essenziale dell’immagine della star 2.0. La serialità di Twilight azzera la performance e 11 moltiplica il fascino del divo, venerato con gli strumenti planetari del dominio dei fan. “I want a haircut”: riposizionamento del teen divo La prima battuta di Cosmopolis di David Cronenberg, «I want a haircut», può essere la metafora della trasformazione di Robert Pattinson in Eric Packer da corpo d’adorazione a corpo recitante nel cinema d’autore, da star della saga mainstream di Stephenie Meyer a personaggio inquieto della trasposizione cinematografica del romanzo di Don De Lillo. La scelta è ricaduta su Pattinson per una serie di motivazioni, riassunte così da Cronenberg: «Well. It begins in a very pragmatic way. You get a list of 10 people from various producers and agents, and you start with the basics. How old is this character, and how old is the actor? This character is young, his age is given as 28. So that’s where you start. Does he feel like the right guy? Eric talks about working out a lot and is very physical, so you’re not going to cast someone who’s overwheight. It’s simple stuff like that to begin with. And then you get the pragmatics: how big is your budget and what kind of star power do you need to get the movie financed?» [16]. Robert Pattinson al momento del casting sembrava essere l’attore più adatto: il suo star power è sicuramente stato fondamentale per il finanziamento del film. Il rischio del miscasting è stato scongiurato grazie alla fertile interazione tra progetto visuale del regista e intenzione performativa dell’attore, scelto per interpretare un ruolo distante da quello che lo ha trasformato in icona adolescenziale. Cronenberg ha eseguito un’operazione che si potrebbe definire di re-casting, mentre Pattinson, nella sfida proposta dal cinema dell’autore, si è concentrato sulle minime variazioni entro l’immobilità, riadattando stilemi recitativi, utilizzati e (logorati) nell’esperienza di Twilight. L’apocalisse esistenziale del giovane vampiro della finanza Eric Packer, raccontata dal libro di Don De Lillo, è trasposta quasi letteralmente, battuta per battuta, da David Cronenberg. Packer vuole attraversare New York per tagliarsi i capelli dall’altra parte della città; nel frattempo le sue guardie del corpo lo allertano su un’ipotetica minaccia d’attentato. Il giovane miliardario si sposta in limousine e durante il viaggio incontra una serie di collaboratori con cui discute delle sue preoccupazioni sull’andamento della borsa, fa sesso, si sottopone ad una visita medica, elabora un lutto, 12 disquisisce sulla propria condizione. Il lavoro del regista si concentra sulla creazione degli spazi abitati dal protagonista e sulla dilatazione del tempo: la linea spazio-temporale è alterata. Il tempo è improvvisamente assente, e, proprio come nel web, cessa di essere un riferimento attendibile. Pattinson/ Packer è inglobato dalla limousine, dove si tiene gran parte del film, così come è già accaduto, mutatis mutandis, in Crash (David Cronenberg, 1996); lì Vaughan auspicava la sintesi biomeccanica disumanizzante con le automobili, mentre qui sarà l’immagine diafana di Cullen ad umanizzarsi progressivamente nella corporeità (mortale) di Packer. Il ventre dell’automobile, cavità uterina ultratecnologica, ospita tutte le funzioni organiche del “feto” Pattinson/Packer. Il corpo è tutto nel cinema di Cronenberg: «Per me, all’inizio c’è il corpo. È ciò che siamo, ciò che abbiamo. Siamo tutti come degli attori che si agitano sulla scena della vita e la prima cosa che abbiamo sono i nostri corpi fisici, la nostra esistenza fisica. Nei miei film il corpo è sempre al centro. Gli giro attorno come fa un pianeta col sole. Non me ne allontano mai. E se ciò accade, più me ne allontano, meno mi sento sicuro di me. Come se diminuisse la gravità» [17]. Il corpo della star è allora ricontestualizzato nella sua natura umana/biologica facendosi centro gravitazionale della narrazione. Il divo adolescente oggetto di culto 2.0 è convertito in essere mortale, esistente anzitutto dal punto di vista organico. La fragile figura narrativa del vampiro adolescente - archetipo moralistico di perfezione - riconquista umanità grazie alla mutazione nel cinico miliardario Packer. Il divo sgretola la propria immagine precedente concedendosi integralmente alla performance. Il depotenziamento del fandom e della rete di aspettative che si originano nell’interpretazione di un personaggio seriale, hanno liberato l’attore da vincoli Lo sguardo inaccessibile del teen divo in Cosmopolis. espressivi: l’impassibilità contemplativa raggiunta in Twilight ora è contaminata da improvvisi richiami alla presenza fisica. La prima immagine di Cosmopolis colloca Pattinson/Packer sul fondo dell’inquadratura, davanti ad un palazzo, nel traffico di una New York asfittica, dove lo skyline è negato. Il campo si stringe e in piano americano Pattinson pronuncia la prima battuta del film mantenendo una postura rigida, le spalle dritte, le braccia lungo i fianchi, a preannunciare la posa vagamente regale che assumerà sul sedile della propria limousine bianca, utilizzato a mo’ di trono. La visione ravvicinata del viso dell’attore è ancora negata, com’è inaccessibile lo sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole 13 neri e che sarà rivelato solamente dopo 6 minuti: il divo allora sarà svelato in primo piano. Il volto porta con sé i residui mimici dell’impassibilità di Twilight e la recitazione dell’attore si muoverà continuamente sulle variazioni possibili entro l’immobilità scelta come strumento performativo. I micromovimenti espressivi sfidano l’estetica dell’immobilità contemplativa che aveva nutrito la celebrità del vampiro di Twilight. Da questo momento in poi Robert Pattinson sarà sempre in scena: «He’s literally in every scene in the movie, and that’s pretty unusual. I mean even in Tom Cruise movies, Tom is not in absolutely every scene of the movie but Rob is. So he has to have that. But at the same time, you want to forget the movies, you know? You want to forget his movies and my movies because we’re creating this completely new thing and you don’t know what audience you’re going to get. You can anticipate it, you can think about it, but really you don’t know. So ultimately when you’re making the movie you’re saying, “Okay, I’m here with these actors. They’re wonderful actors, I cast them because they’re terrific and they will bring great stuff to the script”, and then at that point you’re just making a movie and you’re not thinking about any other movie» [18]. Il personaggio richiede all’attore di essere costantemente davanti alla macchina da presa, di essere il personaggio universale del microcosmo narrativo allestito entro le immagini. Ogni battuta e ogni gesto degli altri attori dipendono, infatti, dalla presenza in campo di Pattinson/ Packer. L’interplay segue dunque uno schema di reazioneazione alle battute, ai gesti, ai movimenti del protagonista. In tal modo, anche la recitazione contribuisce alla sofisticazione della linea spazio-temporale, di concerto con la regia. L’immagine irreprensibile del ventottenne miliardario rampante subisce, con il procedere del film, alterazioni e modificazioni. La mutazione, tema cardinale del cinema di David Cronenberg, si fa sottile e si muove nella zona liminare costituita dalla fisicità del protagonista. All’interno del flusso temporale alterato della limousine il punto di riferimento è sempre la dimensione corporale: sudore, odore, asimmetria. Il corpo esemplare di Pattinson si concede alla debolezza umanissima di un essere che espleta le proprie funzioni fisiologiche nell’ecosistema della limousine (o poco lontano, in una tavola calda o 14 in una camera d’albergo). Così durante l’ispezione prostatica la voce si rompe, ma l’espressività statica dei tratti è mantenuta. Cronenberg riconfigura il corpo metafisico di Cullen in Twilight (già prodotto e riprodotto ad uso e consumo del web 2.0) nel corpo di Packer, ri-semiotizzato in essere dotato di una nuova esistenza organica e attorica. La riflessione sul corpo e sulle sue mutazioni, in questo caso, si confronta con un attore/persona sottoposto al pregresso processo divinizzante operato dall’esperienza ologrammatica dei fan del divo 2.0 nella saga di Twilight. L’unica parte mobile del volto è la bocca; anche quando pranza con la moglie (Sarah Gadon) nella tavola calda, Pattinson/Packer mastica con movimenti ampi, opacizzando l’eloquio e riconducendo la sequenza alle funzioni fisiche basilari (masticare, inghiottire). La moglie poco prima, durante l’incontro in biblioteca, aveva evocato ancora la dimensione corporale: «You smell of sex . […] I smell sex all over you». L’imperturbabilità facciale si sgretolerà solamente nella Cosmopolis. Il corpo scalfito di Robert Pattinson. sequenza finale. Packer ha lasciato anzitempo il barber shop ed ora presenta un taglio di capelli asimmetrico, che sbilancia la mimica mantenuta per tutto il film. Il miliardario si ritrova nell’appartamento dell’ex dipendente Benno Levin (Paul Giamatti) e intraprende un dialogo serrato, ultima dilatazione della temporalità in Cosmopolis, giocherellando con la pistola. L’uomo porta l’arma alla bocca, rendendo difficile la comprensione delle battute; osserva la mano sinistra e improvvisamente colpisce, con uno sparo preciso e rapido, il proprio arto. Il teen divo adesso è scalfito fisicamente. La stimmate autoinflitta genera una smorfia di dolore che causa la contrazione repentina del corpo. L’imperturbabilità espressiva mantenuta sino ad ora scompare, lasciando spazio allo sguardo finale, con il protagonista intento a scrutare nel vuoto del fuori campo. Dietro di lui, Levin è pronto a sparare. Lo sguardo vacuo dell’attore si apre sul dipinto di Mark Rothko che avvia i titoli di coda. Robert Pattinson nel cinema di Cronenberg lavora all’interno del range circoscritto che va dall’inespressività addomesticata per la venerazione utilizzata nella saga di Twilight, alla reazione epidermica minima, fatta di umori, di richiami alla fisiologia, ridefinendo e offuscando, con l’ausilio di una patina umanizzante, l’aura splendente del divo vampiro. In Cosmopolis l’icona adolescente è decontestualizzata e ricollocata entro un inedito universo in-espressivo/ performativo. Il corpo di massa del teen divo, diretto da Cronenberg, è ricomposto e mostrato in tutta la fragilità di una “nuova carne” divistica. 15 Note [1] Edgar Morin, Le stars (1957), tr. it. Le star, Olivares, Milano, 1995, p. 56. [2] Cfr. Geoff King, New Hollywood Cinema: an introduction (2002), tr. it. La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, Torino, 2004, pp. 61-105 e pp. 186-221. [3] «From the landscape of postwar American film, high concept films have developed as a potent commercial and aesthetic force in contemporary Hollywood. The most overt qualities of high concept – the style and look of the films – function with the marketing and merchandising opportunities structured into the projects. […] The high concept style, the integration with marketing, and the narrative which can support both of the preceding are the cornerstones of high concept filmaking». Justin Wyatt, High Concept. Movies and Marketing in Hollywood, University of Texas Press, Austin, 1994, p. 188. [4] Sull’evoluzione dei modelli di divismo cfr. Richard Dyer, Star (1979), tr. it. Star, Kaplan, Torino, 2003; Christine Gledhill (a cura di), Stardom. Industry of desire, Routledge, London, 1991; Cristina Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Marsilio, Venezia, 2007; Enzo Kermol, Mariselda Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo. La trasformazione dei modelli di divismo, Cleup, Padova, 1998; Paul McDonald, Star System. Hollywood and the production of popular identities, Wallflower, London, 2000; Francesco Pitassio, Attore/Divo, Il Castoro, Milano, 2003; Francesco Pitassio, “Natali di stelle. Di qualche questione genetica e divistica” in Divismo/Antidivismo, «Àgalma», n° 22, ottobre 2011. [5] Sulla trasposizione cinematografica di Twilight si veda Anna Sborgi, “Forme quotidiane dell’orrore: Twilight tra cinema e letteratura”, in Vampiri, «Ol3media», anno 3, n° 7, gennaio 2010, pp. 16-22. [6] Jennifer L. McMahon, “Il crepuscolo di un idolo: la nostra fatale attrazione per i vampiri” in Twilight and Philosophy. Vampires, Vegetarians, and the Pursuit of Immortality (2009), a cura di Rebecca Housel, J. Jeremy Wisnewski, tr. it. La filosofia di Twilight. I vampiri e la ricerca dell’immortalità, Fazi Editore, Roma, 2009, p. 209. Il volume è un istant book pubblicato immediatamente dopo l’uscita del primo film della serie. Nel libro si offrono retroscena e interpretazioni sulla saga letteraria. [7] La fede mormona di Stephenie Meyer ha probabilmente influito sulla costruzione degli orientamenti valoriali dei personaggi. A tal proposito si veda R. Housel, J. J. Wisnewski (a cura di), La filosofia di Twilight. I vampiri e la ricerca dell’immortalità, op. cit. [8] Edgar Morin, Le star, op. cit., p. 89. [9] Cfr. Paul McDonald, “Stars in the online universe: promotion, nudity reverence”, in Contemporary Hollywood Stardom, a cura di Thomas Austin e Martin Barker, Arnold, London, 2003, pp. 29-44. [10] Per una sintesi di questi concetti si consulti l’intervista a Edgar Morin. [11] Ivi. 16 [12] Sul sito Imdb.com l’attore viene riconosciuto per due tratti distintivi: «Messy hair, Thick eyebrows». [13] Edgar Morin, Le star, op. cit., p. 80. [14] Richard Dyer, Star, op. cit., p. 59. Richard Dyer commenta le osservazioni di Morin sul mito del divismo e l’amore. [15] Non esiste, tuttavia, una reale inversione delle traiettorie dello sguardo dei protagonisti. Il film non è costruito per appagare semplicemente le dinamiche dello sguardo femminile. Anche nei momenti di contemplazione il soggetto maschile rimane sempre (narrativamente) attivo. Di questi argomenti si è occupata Laura Mulvey in Visual pleasure and narrative cinema (1975), tr. it. Piacere visivo e cinema narrativo, «Nuova dwf» n° 8, luglio - settembre 1978. [16] Si consulti l’intervista a David Cronenberg a cura di Andrew O’Hehir, David Cronenberg: How I seduced Rob Pattinson. [17] David Cronenberg citato in Gianni Canova, David Cronenberg, Il Castoro, Milano, 2007, p. 6. [18] Si consulti l’intervista a David Cronenberg a cura di Rebecca Murray, Exclusive Interview with “Cosmopolis” Writer/Director David Cronenberg. 17 C LARA GARAVELLI The composition and strategic locations of these posters in mass media and public spaces have contributed to the promotion of specific actors within local cultural arenas as is the case for the Argentine actor Ricardo Darín in Spain [1]. Since the release of the film Nueve Reinas (Bielinsky 2000, shown in Spain in August 2001) and, shortly after, of El hijo de la novia (2001, by the Oscar-winning director Juan José Campanella), Darín has risen to stardom in Spanish film culture by virtue of, among other factors, the proliferation of his image in his films’ local advertising campaigns. A Shared Star Imagery: The Argentine Actor Ricardo Darín through Spanish Film Posters Accordingly, this article aims to analyse how the posters of Darín’s films exhibited in Spain have slowly shifted from images of landscapes with allegorical connotations of the plot of the film to close-ups of Darín’s face, and how this shift reflects his rising star status along the peninsula as well as his star imagery is shared between Spain and Argentina. F ROM THE EARLY DAYS OF CINEMATOGRAPHY TO THE PRESENT , STILL IMAGES USED IN VARIOUS ADVERTISING MEDIA HAVE BEEN AT THE CENTRE OF ITS STAR SYSTEM . A S IS WIDELY KNOWN TODAY , A HOST OF PICTURES ARE INVOLVED IN THE PRODUCTION , DISTRIBUTION AND EXHIBITION OF FILMS AND THESE CONTRIBUTE NOT ONLY TO A FILM ’ S COMMERCIAL SUCCESS , BUT ALSO TO THE CONSTRUCTION OF THE PERSONAS THAT STRENGTHEN THE FOUNDATIONS OF THE FILM INDUSTRY . A MONG THESE IMAGES , FILM POSTERS HAVE PLAYED A CRUCIAL ROLE AND HAVE BECOME CULT OBJECTS BY PRESERVING THE STARS ’ AURAS . 18 A star is born Ricardo Darín comes from a family of actors. Born in 1957 in Buenos Aires, he spent most of his childhood between theatre stages and television sets. As a child of the new media, his debut and ultimate fame as an interpreter in Argentina was mainly in television. He went from a children’s show called La pandilla del tranvía (broadcast on Channel 9 in 1968) to popular family programs and comedies. By the time he reached his 20s, he was a star, particularly due to his performances as a teenage soap opera heartthrob. His offscreen romance with the trendy top model and actress Susana Giménez, with whom he worked with in the film He nacido en la ribera (Catrani 1972) when he was only 11 years old, finally consolidated his star image. The tabloids’ growing attention and his constant media presence during the 1980s and 1990s reinforced the dialectic between his on-/off-screen presence [2], thus keeping his star status alive despite the changing socio-political circumstances and public interests [3]. In Spain, Darín’s star configuration followed a completely different path. Although he also developed his star image diachronically through the combination of cultural, historical, socio-economic and ideological factors, he started to gain recognition at his 40s, and his private life remained private [4]. According to the French scholar Edgar Morin, stars are those persons that “Leur vie privée est publique, leur vie publique est publicitarire, leur vie d’écran est surréelle, leur vie réelle est mythique” [Their private life is public, their public life is publicity, their screen life is surreal, and their real life is mythic] [5]. By keeping his personal life away from the Spanish media, Darín’s stardom construction in the old continent breaks with these directives. Consequently, the production of knowledge about Darín goes back to the origin of the star system, to what Richard deCordova called “the picture personality”, when the focus was only on the player’s professional existence rather than on his off-screen wanderings [6]. Hence, the building of Darín’s popularity relies mostly in his characters’ power to engage with the local audience’s desires and identifications. In order to achieve such a level of acceptance by the public, Darín has successfully appealed to a set of personality traits –e.g., theguy-next-door charismathat come across to the potential audience through publicity images that mainly feature his film roles and the imaginaries they represent. A ‘catchy face’ As mentioned, film posters are fundamental pieces in the film industry’s apparatus. Gregory Edwards, when reviewing the 19 history of the international film poster within the history of the moving image, stated that the ingenious publicity stunt promptly launched the star system. Posters began to feature stars’ faces with scenes from their films and their names were printed in type much larger than that used by the originally pre-eminent production companies [7]. With the post-war crisis among Hollywood’s studios and the geopolitical world changes, many national film posters’ designs moved away from star figures. Nowadays, there are different trend styles: many follow genre features, others try to impose new artistic creations, and some still pay special attention to market inclinations for the stars of the time. In Spain, the posters for the films starring Darín focused, in the first instance, on genre, but Nueve Reinas and El hijo de la novia, marked a turning point in Darín’s Spanish career and this change was reflected in the composition of the posters that promoted his films that came before and after these productions [8]. Although Darín has acted in 40 films up to date, only 21 were distributed on the peninsula. The first one was Perdido por perdido (Lechi 1993), which arrived on Spanish shores in 1994 thanks to the growing popular attention to Argentine films caused by the box-office success of Un lugar en el mundo (Aristarain 1992). The film posters used to promote this film in Argentina and Spain did not present major differences. They both used a frame taken from the film where two black figures stand anonymously on a bike at the end of a dark tunnel and cannot be identified. The emphasis was put on the plot, as indicated by the film’s summary above these figures. The only difference is that Ricardo Darín’s and Enrique Pinti’s names appear in big bold letters in the poster used for the Argentine campaign, whereas in the poster circulated in Spain, the director’s name is more prominent along with details like the distributor’s logo on the lower-right corner. These minor discrepancies indicate how Darín was already an established star in Argentina, while in Spain, to catch the attention of passers-by, the emphasis had to be on the director and the story, particularly considering the demand for new “authors” and narratives coming from the other side of the 20 Atlantic in the aftermath of Aristarain’s film. After Perdido came El faro del sur (Mignogna 1998). As in the previous case, the poster focused on the plot of the film by using another frame of a landscape in an allegorical way. In this instance, it portrays two girls running freely in an open space by a lighthouse. Considering that the Spanish actress Ingrid Rubio was getting quite a lot of press attention at the time as a new promising national actress, in order to make the most out of her emerging local star image, the poster’s composition included a translucent image of her face in a blue sky. Darín is only mentioned in small letters among other secondary cast members’ names underneath the much larger type for Rubio and Norma Aleandro. In August 2001, Nueve Reinas, the third film starring Darín that was shown in Spanish theatres, arrived with a different poster than the one used in Argentina. While Gaston Paul’s face was the focus of the Argentina’s version, with Darín placed behind him and showing only one side of his face, in a clear indication of their respective levels of popularity at the time of the film’s release, the Spanish poster still had a plot summary at the top and the frame portrayed both actors in a desperate escape, with Darín in the forefront. For the first time, Darín’s image was used, among other common features of previous posters, to attract viewers by enticing the audience to recall his previous performances. Between August 2001 and November 2002, Spanish theatres showed five films starring Darín. Two months after Nueve Reinas came La fuga (Mignogna 2001). Its poster tried, albeit unsuccessfully, to exploit the image of an old famous Argentine star (Miguel Ángel Solá), the director’s name (who also directed El faro del sur), and a small but suggestive plot summary. The film only attracted 12,000 spectators. Just a 21 month later, El hijo de la novia burst into the theatres and was shown for almost a year. Its poster featured Norma Aleandro, Héctor Alterio and Ricardo Darín, a trio of wellknown Argentine stars beloved by the Spanish audience, posing and smiling in a family portrait. This heart-warming story, aimed at a general audience, conquered Spain with more than 1.5 million spectators at a time of increasing Argentine migration due to the 2001 crisis. From then on, Darín was commonly featured in the posters of his films, and he was portrayed as an attractive star image that depicts the wonders of everyday life as seen through the blue eyes of a charismatic middle-aged man. This image was exemplified in his next two films released in this period, El mismo amor, la misma lluvia (Campanella 1999) [9] and Un tipo corriente (Milewicz 2001) [10]. For both films, Darín appears in the posters beside his female protagonists to emphasize his old personality traits as a ‘hunk’ in romantic comedies. To understand the level of public recognition Darín has reached in Spain and how this has translated in the promotional posters for his films, the most significant example occurring in the past year was the marketing campaign for the Spanish film Una pistola en cada mano (Marqués 2012). The posters in tube stations, at bus stops, and in the print media in general portrayed his face in the middle of a fragmented collage of pictures of all the cast members. His image was not only considerably larger than the rest, but was also placed at the strategic focal point. This poster composition was done in such a way that all passers-by would focus first on Darín’s face and then, if that caught his/her attention, on other famous Spanish actors of the time, including one of the most popular, Luis Tosar, who completes the advertising campaign and seals the attraction deal with potential spectators. Of the 21 films starring Darín shown in Spain, only six of them had box-office sales of less than 100,000 spectators [11]. Except for La señal (Darín, Hodara 2007), which had quite a few problems in its production and distribution stages – including the death of the director, Aristarain, in the middle of the shooting process -, the posters used in the marketing 22 campaigns of the other five films did not include Darín’s image. This suggests that Darín had become a brand, a star image powerful enough to attract a considerable audience no matter the genre or director. In line with Richard Dyer’s seminal work on stardom, star “image” in this context does not refer exclusively to a visual sign, “but rather a complex configuration of visual, verbal and aural signs” [12]. In other words, there has been an iconic use of Darín’s image in the posters of the films shown after El hijo de la novia, that has tried to capture the imaginaries and desires of the local population in the form of a middleaged, foreign man, who has a nice accent and pleasing looks and is exposed to the existential crises of everyday endeavours. differences in the designs of the posters used in each country, for example, in the latest production Tesis sobre un homicidio (Goldfrid 2013), in both countries there is an agreement that a close-up of Darín’s face guarantees a public influx at the box office. From Nueve Reinas and El hijo de la novia onward, Darín became an essential element of the composition of film posters instead of the general shots used in the first productions that prompted him to the ocean from Argentina to Spain. When analysing the importance of the film poster in Thus, Darín has become a “catchy face”, one of those “jack of all trades”, as demonstrated by the posters of the films created in the past 10 years in Spain and Argentina, such as the Argentine films Luna de Avellaneda (Campanella 2004), Un cuento chino (Borensztein 2011), and the Spanish El baile de la Victoria (Trueba 2009). Even though there might still be 23 the construction of the star system, the Spanish film scholar Rafael Tranche has suggested that current marketing campaigns have substituted the conventional advertising strategies, based on spreading images through different mediums, and that this marketing shift has killed the star system [13]. However, as it has been discussed throughout this article, in the case of the rising star status of Ricardo Darín in Spain, the old traditional film poster - older than moving image itself - has proven to still be of great importance in the construction of a star image and, ultimately, in the ongoing success of the film industry. As Spanish scholar Roberto Sánchez López pointed out when discussing the history of the film poster in Spain, “A pesar de las imágenes directas que la televisión introduce en los mismos domicilios, el cartel sigue siendo pieza clave para orientar a un public que se decide en el ultimo momento” [Despite the direct images that television introduces in the private realm of the house, the poster still is a key element to guide a public who make the final choice of what film to watch in the last minute] [14]. As it has also been shown, the growing level of acceptance of Darín in Spain and the parallelism with the revival of his popularity in Argentina - now transformed from a TV comedian into a movie star - demonstrates a shared star imagery between the two countries that has been translated in the common designs on both sides of the Atlantic of the film posters that promote his latest productions. How this shared star imagery responds to migratory flows, bilateral relations and/or transnational film industry connections is still to be properly analysed. Considering the tendency to focus on Darín’s face and name in recent film posters in both countries, it should be asked if this is only a tendency in Spain and Argentina or if this is part of a wider shared star imagery of a culture “in” Spanish. How films starring Darín have been received in different Latin American countries and how their film posters and advertising campaigns have fluctuated from one country to another should be properly studied in future works in order to fully understand the complexities of the shared star imagery and star configuration through film posters [15]. Notes [1] How film posters have contributed to consolidate a star system within the film industry have been analysed, among others, by Rafael Rodríguez Tranche, “El cartel de cine en el engranaje del Star System” in Archivos de la Filmoteca, nº 18, October 1994, pp. 135-143. [2] See on this dialectic: John Ellis, Visible Fictions: Cinema, Television, Video, Routledge, London, 1982. [3] During the 1960s and 1970s, Argentina went through a series of coup d’état and brief periods of democratic governments. The last military dictatorship ended in 1983, submerging the country in a long transitional process until today. [4] For further reference on how Darín’s star image was configured, please see my forthcoming article entitled “Conquering the Old Continent: Ricardo Darín’s Rise to 24 Stardom in Spanish Film Culture” in Rocha (ed.), Contemporary Argentine Cinema, Masculinity and Its Performance. The Ricardo Darín Reader, Cambria Press, London, in press. [5] Edgar Morin, Les Stars, Galilée, Paris, 1984, p. 14. [6] Richard deCordova, “The emergence of the star system in America”, in Christine Gledhill (ed.), Stardom. Industry of Desire, Routledge, London and New York, 2005, pp. 17-29. [7] Greg Edwards, The International Film Poster, Columbus books, Michigan, 1985, p. 60. [8] For an introduction to the history of the film poster in Spain please see: Roberto Sánchez López, El cartel de cine: Arte y publicidad, Prensas Universitarias de Zaragoza, Zaragoza, 1997 [9] The film arrived in Spanish theatres in July 2002 thanks to the enormous success of El hijo…It was in fact an older production directed by Campanella and released in Argentina in 1999. [10] The film was shown in Argentina in 2001 under the title Samy y yo, and it got to Spanish theatres in October 2002. [11] They included: Perdido por perdido, La fuga, El Aura, XXY, La señal, and En fuera de Juego. These figures are available at the Spanish Ministry of Culture and Education online catalogue of classified films. [12] Richard Dyer, Stars, New Edition, BFI and Palgrave Macmillan, London, 2011, p. 34. [13] Tranche, Ibidem, p. 143. [14] Sánchez López, Ibidem, p. 191. [15] I would like to thank Marina Díaz for pointing out this latest issue in the discussions we held about Darín over the past year. 25 PATRICIA BOYD “I Got This: How I Changed My Ways and Lost What Weighed Me Down”: Re-construction of Jennifer Hudson’s “Star” Identity in American Weight Loss Advertisements C ELEBRITY ENDORSEMENT IS A COMMONLY USED ADVERTISING PRACTICE IN THE U NITED S TATES , WITH ONE - IN - FOUR ADS USING A STAR TO PROMOTE THE PRODUCT . N OT SURPRISINGLY , WEIGHT LOSS ORGANIZATIONS COMMONLY USE STAR ENDORSEMENTS TO CREATE BRAND RECOGNITION , DRAW IN THE INTERESTS OF CONSUMERS AND LINK THE QUALITIES OF “ STAR ” TO “ INDIVIDUALS ” WEIGHT LOSS EFFORTS . An interesting trend in weight loss celebrity endorsement, however, is that while the star is at first widely known for the actions that created them as a star in the first place, their weight loss and their affiliation with the weight loss company become a significant part of their celebrity identity in ways that celebrity endorsers of other products do not experience. Kirstie Alley, Valerie Bertnelli, and Jennifer Hudson are key examples of this. In this article, I analyze how Jennifer Hudson’s endorsement of Weight Watchers has created a new star identity for her, one that is based in her weight loss struggles and successes. She is now known as much for her work with Weight Watchers and her weight loss efforts as she is for her singing and movie career. Numerous interviews with the likes of Oprah Winfrey, on AccessHollywood, and in Redbook magazine highlight how her identity is now also based in what she is doing with her body, not just what she is doing with her voice. Here, I draw on a modified version of Walter McCracken’s 3 state process for advertisement analysis to study how 26 Hudson’s “star” identity is impacted by her association with Weight Watchers. I argue that we need to add a fourth step to McCracken’s model - looking at how celebrity endorsement can not only change the consumers’ behaviors and sense of self but can actually change the celebrity’s public identity and persona. celebrity, then, serves as an “inspirational figure to the consumer” not only because the “celebrity has done what the consumer wants to do, but also because the celebrity actually supplies certain meanings to the consumer” - and McCracken argues that consumers are always looking to add new meanings to their lives. Review of Literature McCracken briefly touches on another possibility (although he does not refer to it as a 4th stage in the process of transfer) one in which the celebrity is changed through the process of endorsement: “an advertisement campaign can sometimes have the effect of a new dramatic role, bringing the celebrity into contact with symbolic materials that change the meanings contained in their persona”. Although he mentions this as a possibility, he quickly dismisses this part of the transfer process, writing “typically, however, the ad is not trying to transform the meanings of the celebrity. In most circumstances, it seeks only to transfer them”. When we study weight loss ads, however, we see that quite often the celebrity does, in fact, “come into contact with new symbolic meanings” that create new identity roles for them that become as important as - if not more important than - the roles they originally brought with them to the advertisement. Therefore, I argue that it is important to add a 4th stage to McCracken’s process, one which examines how the star identity is changed in the process of transfer and how weight loss and endorsements of programs like Weight Watchers can become career-defining. In the seminal article “Who Is the Celebrity Endorser: Cultural Foundations of the Endorsement Process,” McCracken analyzes how, in advertising, meaning transfers from a product to a consumer and what role celebrity endorsers play in that transfer. He argues that this transfer involves a 3-stage process. In Stage 1, celebrities bring with them the qualities they have built throughout their careers and attach them to the product: “the meaning that the celebrity endorsement gives to the product was generated in distant movie performances, political campaigns, or athletic achievements”. In Stage 2, these meanings are then transferred to the product and the consumer “‘sees’ the similarities between the celebrity and the product and is prepared to accept that the meanings in the celebrity (by dint of long and fond acquaintance) are in the product”. In Stage 3, consumers not only purchase the object, but they “claim the meanings [...] attached to the object”. When celebrities attach their qualities to the product, they are actually transferring a constructed self, public persona, and identity to the product. So, when consumers purchase the product and “claim the meaning,” they are adopting that identity as well. The 27 In this article, I address the following four questions, which are based on McCracken’s 3-Stage process along with my revision to his process - the Stage 4 which I show is necessary in order to fully understand the role celebrity identity plays in the media transfer process: 1. What meanings/star qualities does Jennifer Hudson bring to the Weight Watchers’ brand through the “self” created in advertisements and celebrity appearances? 2. How are these meanings transferred to the Weight Watcher’s product itself? 3. In what ways do consumers’ identify with and assume a version of the transferred identity and, 4. How is Hudson’s celebrity identity reconstructed as a result of her endorsement of Weight Watchers - i.e. how does the “self” created for the ads change her celebrity identity in general? My analysis of Weight Watchers’ ads - online, print, and television - along with her own writings about her weight loss illustrate that while celebrities create the self that is then attached to the product, the symbolic nature of the product gets attached to the celebrity’s own self as well. Overview of Jennifer Hudson’s Association with Weight Watchers In 2010, Jennifer Hudson became a spokesperson for Weight Watchers. Before and after photos of her demonstrate her 80 lb weight loss. On the Weight Watchers website, a story of her weight loss journey is featured through photos, videos, and snippets of her various public appearances, magazine interviews, and performances) on “Jennifer’s Timeline”. Fan-made youtube.com videos celebrate her before/after success as well, illustrating the positive impact she has had on others. In 2011, Weight Watchers opened a new weight loss center in Chicago, IL dedicated to her, celebrating the difference she has made in the organization. In addition to her commercials and appearances in Weight Watchers magazines, Hudson has also appeared in many interviews, both on television and in national magazines, discussing her role as a spokesperson for Weight Watchers, her own struggles with weight, and the impact her weight has had on her career. Further, in December 2012, she released her autobiography, I Got This: How I Changed My Ways and Lost What Weighed Me Down, which prominently features her work with Weight Watchers, including recipes in the back. Since 2010, Hudson has become the key spokesperson for Weight Watchers, with new advertising campaigns being released regularly, the latest one emphasizing how she is like 28 the average person. She has become the face of Weight Watchers. While she continues to pursue other aspects of her career, her role as spokesperson has become a prominent part of her public persona. Thus, understanding how she impacts and is impacted by Weight Watchers is a significant part of understanding her celebrity identity. 4-Stage Meaning Transfer #1: What meanings/star qualities does Jennifer Hudson bring to the Weight Watchers’ brand through the “self” created in advertisements and celebrity appearances? McCracken argues that the self constructed by celebrities “is almost always attractive and accomplished [...] a kind of exemplary, inspirational figure to the consumer”. This is not to say that the celebrity self needs to be perfect, but it does mean that the overlying narrative presented is that the celebrity has transformed imperfections into success. Hudson has created the right mix of imperfection and transformation in her public persona and brings this relatable balance to her endorsement of Weight Watchers. She freely discusses her “before” struggles with weight, but always does so in the context of a narrative of transformation. Hudson emphasizes that in addition to changing one’s body, Weight Watchers can transform one’s life - how a person sees herself, what she can achieve, what sense of power and control she has over herself and her life, and how much she can believe in herself. A particularly interesting Weight Watchers advertisement highlights the transformation of body and self that Hudson brings to the Weight Watchers brand. In the commercial, the Weight-Watchers-spokesperson-persona-Jennifer appears with the American-Idolpersona-Jennifer, singing “I believe in miracles . . .I believe in you and me.” Highlighted prominently in the background is the word “BELIEVE,” with “Because it works” and “Weight Watchers” underneath it. Believing in oneself, then, is crucial to the concept of transformation. The American-Idol-Jennifer is overweight while the WeightWatchers’-spokespersonJennifer is thin and transformed, showing that belief can lead to being transformed through Weight Watchers. It is particularly effective that the advertisement uses an image of Hudson from American Idol because she is known for transforming herself after she lost on American Idol in 2004 into a major recording and movie star, sticking with her career, despite the odds that had been placed against her. 29 This determination to succeed, despite challenges, is one of the character traits that she and others use to define and transform her personality, as shown in an interview on Dateline. In this ad (and in the interview), she does not hide her imperfections; she presents them in a way that shows how she has transformed them through believing in herself. As Spry writes, “credibility is considered the most important characteristic of a brand signal” because “the credibility of an endorser will subsequently transfer to the brand”. Since the Weight Watchers brand is about changing bodies and selves, if Hudson could not authentically bring that meaning to the brand, she would not have the credibility to advertise the product, and thus the meaning she brought to the product would not be effective. Because she has transformed herself in her career and in her body, she brings credible meaning to the Weight Watchers’ brand, becoming a highly effective spokesperson for transformation. #2 How are these meanings transferred to the Weight Watcher’s product itself? As Langmeyer argues, “endorsed products elicit associations that go beyond those directly contained in the stimuli per se they acquire conscious or unconscious associations that are linked to the endorser”. Transformation, which is a central part of the meaning that Hudson brings to the Weight Watchers brand, is an acquired association that is attached to Weight Watchers and appears as a key theme throughout the program material and advertising. In the “How It Works” section of the Weight Watchers’ website, the program is claimed to be transformative, a “Revolution in Weight Loss” that is “built for human nature.” It is transformative precisely because it relies on human nature - with all its imperfections to succeed. The website claims that the program does not require perfection in order to achieve success, just as Hudson did not need a perfect career or a perfect life to achieve success. On the “How It Works” page, one member states, “I love that Weight Watchers didn’t expect me to be perfect. And I still lost weight.” Imperfection, then, is 30 an important part of the transformative narrative that is transferred onto the Weight Watchers brand. #3 In what ways do consumers identify with and assume a version of the transferred identity? “The material world of consumer goods offers a vast inventory of possible selves and thinkable worlds. Consumers are constantly rummaging here” to quote McCracken. Consumers are attracted to the possible selves that the celebrities create and attach themselves to the meanings implied in those selves through purchasing the products endorsed by the celebrities. In Hudson’s case, her constructed persona as transformed self, as a successful imperfect self, is claimed by consumers through embracing the Weight Watchers plan. In this way, Hudson becomes a role model for Weight Watchers members who want to embody the characteristics and meanings associated with Hudson’s transformations. This assumption of the transferred identity is most clearly seen in the “Success Stories” found on the Weight Watchers’ website, magazines, and the pamphlets handed out in the meetings. The Success Stories provide examples of the ways in which Weight Watchers’ members have embodied the transferred identity of transformation. In her success story, for example, Ann states: “Weight Watchers is about more than losing body fat, it’s about gaining the desire to take better care of yourself - on an emotional as well as physical level.” In her story, Melissa claims: “The message that I hope anyone who reads this comes away with is that if I can do this so can you. No matter how much weight you have to lose you must simply begin. Take it one step at a time and never give up . . . Learn to love yourself for who you are today” Stories like these emphasize the way members take on the identity of the transformed self through working the program. Michaela’s story is unique because she actually got to meet Hudson, and Hudson made a direct link between herself and Michaela: “Meeting Jennifer Hudson @ the Celebrate Success photo shoot was so much fun. She’s just so sweet. I remember I walked up to her and she started playing with my hair and said, “You look just like me!” I couldn’t imagine Jennifer thinking I looked like her! I also got to interview her and hear how Weight Watchers changed her life. It was an amazing experience just being in her presence.” The similarities between Michaela and Hudson, though, go beyond their appearance. In her Success Story, Michaela explains that she, like Hudson, wanted to lose weight so she could be a role model. Michaela is a doctor, and throughout 31 her story, Michaela explains how she transformed herself so that she could be a role model to her patients. Michaela has assumed a version of the identity that Hudson has transferred onto the Weight Watchers’ product. While Michaela had an opportunity that most Weight Watchers members do not have, her story is still representative of the way that many members adopt the constructed identity offered by the celebrity and “claim the meaning” attached to the product. #4: How is Hudson’s celebrity identity reconstructed as a result of her endorsement of Weight Watchers—i.e. how does the “self” created for the ads change her celebrity identity in general? Weight loss has been a career-changing transformation for Hudson - an identity changing transformation. When Chicago Tribune reporter Mark Caro asked her, “Do you ever get concerned that people are going to associate you more with Weight Watchers than your music,” she responded, “As long as it’s positive, it does not matter to me. And as long as I know it’s real. When you hear my music and you feel the emotion, it’s real. When you see me in a film and you see a tear, it’s real. When you see me on these Weight Watchers commercials and these advertisements, it’s real”. Since becoming a Weight Watchers spokesperson, Hudson has fully embraced having her public celebrity identity associated with her weight loss. In the following video clip taken during the 50th Anniversary of Weight Watchers celebration at the center dedication for Jean Nidetch, the founder of Weight Watchers, she tells the interviewer on FoxNews that she is prouder of her weight loss than she is of her career success because through her weight loss, she has “saved people’s lives.” This theme of wanting to change lives is taken up in her new autobiography as well: “After becoming a mom, I am most proud of my newfound role as an ambassador of health. There have been such great rewards in seeing how the changes I’ve made in my life have empowered and inspired others to do the same. I know I touch people’s hearts when they see me in an emotionally charged role like Effie White or Winnie Mandela, but nothing had empowered me to help change people’s lives until I joined forces with Weight Watchers. I let the world in on my progress by allowing them to monitor my journey to health. I never dreamed that my actions would have such a powerful impact”. Being a role model is a crucial part of her identity, as she tells a HuffPost Celebrity interviewer. When he asked her “what’s the most unexpected way your life has changed since losing 80 lbs,” she responded, “Becoming a role model. When people say, ‘I want to get my J. Hud on’ or they want to go to the gym and I’m a role model for what they want to look like. It’s like, really? How did that happen, to go from not being that person to being that person?”. “That person” is one who is a role model to people, one who saves lives and empowers people to change their lives. While she is still known for her music and acting career, her public persona is now strongly associated with her body transformation and the meanings associated with it. Her role as Weight Watchers spokesperson and its impact of creating her as a role model/ambassador for health has, to a 32 degree, subsumed her acting and singing career. She has quite happily identified her role as ambassador of health as one of the most salient parts of her public persona, and, based on the questions posed to her in interviews, the public also identifies her with her weight loss. It is clear that Hudson has positively impacted Weight Watchers through the transfer of her transformation narrative, but is also clear that her association with Weight Watchers has changed her public persona as well. Conclusion References Lynn Langmeyer e Mary Walker, “A First Step to Identifying the Meaning in Celebrity Endorsers”, in Advances in Consumer Research, 18, 1991, pp.364-371. Grant McCracken, “Who Is the Celebrity Endorser? Cultural Foundation of the Endorsement Process”, in Journal of Consumer Research, 16:3, 1989, pp.310-321. Amanda Spry, Ravi Pappu e Bettina T.Cornwell, “Celebrity Endorsement, Brand Credibility, and Brand Equity”, in European Journal of Marketing, 45:6, 2001, pp.882-909. Using a revised version of McCracken’s 3-stage process of analyzing advertisements, we see that celebrity identity is changed as a result of endorsing weight loss products. Hudson’s career-defining weight loss evidences “a creative innovation in which personality elements are created or dramatically reconfigured” so that the celebrity becomes known as much for the product being advertised as the original star qualities brought to the product in the first place. Hudson’s innovative approach to her identity and her changing self construction (based on her participation in the program) illustrates an “experimentation in self-construction” (McCracken, 1989, p. 317) which is precisely the process that Weight Watchers proposes their customers go through - not just weight loss but identity reconfigurations that are at the heart of the new 360 degrees plan that Hudson is the spokesperson for. She shows that she has the power over her body and identity but so does Weight Watchers. 33 M ICHAEL ANGELO TATA Social Collage and the Living Canvas Adventures in Metacelebrity: Andy Warhol and the Fame of Fame S UPER - STAR S UNDAE : A DAZZLE OF S CHRAFFT ’ S CHOCOLATE ICE CREAM BATHED IN A SEA OF SPECTACULAR HOT FUDGE JOINS A SENSATIONAL SPLASH OF WHIPPED CREAM IN A TOUR DE FORCE PERFORMANCE REACHING DIZZYING HEIGHTS AND A SOCKO CHOCOLATE CREAM CANDY . OUR SUPER BOWL T HE VEHICLE FOR A SUPER - STAR IS (S CHRAFFT ’ S ADVERTISEMENT FROM 1968, Few stylewatchers or trend-spotters qualify as philosophical, even today, when fame runs rampant and Global Gob takes it as its prime object of delectation and speculation. Andy Warhol’s unremitting attention to the fluctuations of time do earn him the nomination, perhaps even accession to the category, particularly as regards Meta-celebrity, which I am here defining dually as the “Philosophy of Fame”, and which I have discussed earlier in the Australian e-journal M/C in an article I titled “Beyond the Stars”, along with Fame’s fame, the fact that fame itself has achieved a notoriety all its own, as more and more individuals, not all of them human, become famous for being famous and talent is measured in discrete Tweets and clicks: that is, countable blips that defer to the set of Natural Numbers in the ultimate assessment of popularity. Whether or not Warhol has anything productive to say, he does, strangely enough, qualify as an important thinker about fame, one who muses on nothingness and nonentity alongside celebrity and eponymity until the last second. In discussing the development of Warhol’s Philosophy in his Holy Terror, for example, Bob Colacello cannot deny the fact that Warhol’s publishers credit him with a philosophy irrespective of content or merit. The world wants Warhol to be a philosopher; indeed, it almost requires him to be one, regardless of his mind’s content: T IME C APSULE 7) [1]. 34 Then along came a literary agent named Mrs. Carlton Cole… Roz [Cole] told Andy that he should write his autobiography. He told her that I was writing his biography, referring to my Warhol films book, which Curtis Brown had sent to five or six publishing houses since Dutton dropped it, with no luck. Roz was very quick on her feet: “Well, why don’t you write your philosophy. I mean, if anyone has a philosophy, it’s got to be you.” Andy loved that idea - hadn’t he been telling me to put “lots of philosophy” into the Fantasy Diary? Of course, his idea of philosophy was going shopping for underwear, and musing on love and sex along the way - and why not? “Philosophy is anything, Bob. Just make it up” (Colacello, p. 184). Roz Cole, Arthur Danto, even myself: people need Warhol to be a philosopher. Philosophy personified, Warhol himself is almost a conceptual entity - an idea that has gone too far. Ideological, it exhibits what Arendt identifies in The Origins of Totalitarianism as a creepy consistency, ideology’s hallmark, watermark on the stationery is uses to write a love letter to itself. Willingly occupying the zero slot, Warhol represents the utter impossibility of nothingness in American culture, the fact that Americans simply do not allow it to exist, forever cramming it with positive content. Eloquently articulating his nothingness, Warhol solidifies into positive existence. In the popular imagination, he is the embodiment of philosophy - his art and personality depend upon it for their existence. Acting as support to his cultural endeavors, philosophy defines Warhol’s personhood, machinehood and glamorous nothingness, paving the way for Reality TV, Facebook Culture and a performer like Lady Gaga’s sustained embodiment of fame’s monstrosity, the very phenomena that currently re-articulate the “Fame of Fame” each day, along with its need to be documented, reflected upon and recirculated, as if it might disappear without our asssitance. Positing glamour as a breakdown in the fashion system, Warhol offers a worldview in which the faux pas, the leftover and the mismatched forge an aesthetics of desperation, revealing the anxious core of fame, en energy driving the glittering system ever forward in a kind of thinned out and pared down Enlightenment Thinking according to which literacy grows increasingly visual and, as Daniel J. Boorstin has duly noted in his work, fame loses its connection to arete. As philosopher of glamour and celebrity, Warhol is primarily interested in generating what I term various Social Collages, creations offering an exciting miscontextualization of human 35 contents that can only produce misinterpretation and babel. While for Marcel Proust such compositions fall under the category of the “social kaleidoscope” (when they are viewed in terms of space) or the “peepshow of the years” (when they are viewed in terms of time), for Andy Warhol the social text is read in terms of that important modern visual form, the collage [2]. The Warholian social collage involves the application of collage’s structural principles - for example, the juxtaposition of disparate and incommensurable elements, the brute removal of objects from their niches, the jamming of the collagespace with too much material, the use of irregular sutures and the effect of heteroglossia - to the social tableau [3]. Transferring the collage into the sphere of the interpersonal, Warhol replaces the torn images and scraps of a Ray Johnson or a Hannah Höch with the thrust-together bodies of human beings in the fabrication of the perfect happening, party or photo op. Warholian social collage is radically heterogenous, a sentiment he mouths in his and Pat Hackett’s posthumously published Andy Warhol’s Party Book with reference to that supreme social fetish, the party: “What’s the purpose of a party? In big cities like New York the party is essentially a mechanism for bringing people together who wouldn’t otherwise be together, such as a wrestler and a sculptor. In smaller communities like, say, an army base, the party is an opportunity for the same people who are always together to be together again, but under different circumstances” (p.8). Either “creating a new scene “or “raising the excitement level” of a habitual scene, the party as social collage involves either the interaction of unrelated presences, or the intensification of the ordinary through its rearticulation in an unfamiliar context. Requiring presence, the social collage forces different entities to communicate with one another, often with mixed results. Imbricated in an intense present, the social collage’s only requirement is full embodiment: Sex and parties are the two things that you still have to actually be there for - things that involve you and other people. For sex and parties, you still have to physically bring your lump of protoplasm and get it close to somebody else’s. To carry on friendships or to cash checks or buy clothes, you can just make a phone call or send a computer message. To give court testimony or look for a date or read your own will after you’re dead, you can send a videotape. To impregnate somebody and reproduce yourself, you can just send sperm. You don’t even have to be there to fight a war - you just send a bomb (pp.7-8). Though surviving and passing to posterity in the form of the snapshot or its verbal analogue, the celebrity report, Social Collage inhabits the momentary, which it fills to the breaking point. Capitalizing upon connotation as much 36 as denotation, the social collage lives via the resonance of reputations and the interplay of auras. As one caption in Andy Warhol’s Party Book reads: “Michael Douglas, Yoko Ono, ‘Jezebel,’ and Jann Wenner smoking” (p.60) [4]. Through social collage, somebodies (Michael Douglas, Yoko Ono) and nobodies (Jezebel, Jann Wenner) rub their coronal fringes against one another, producing a short-lived but powerful spark to be emitted. Contact excites. Whoever Jezebel and Jann Wenner are, they borrow surplus fame from Michael and Yoko, which bathes them in a moonlike, immortalizing glow, while Michael and Yoko, whose fame is already a fait accompli, acquire a certain edginess or street credibility from their connection to denizens of an Underground far beneath their feet. The Time Capsules also collect such nobodies: “letter, to AW, fr ‘a person named Maggie’ in Williamsburg, VA, posted June 9 1969, ‘I would very much like to be in one of your movies…I can’t sing or act, but I’m an expert at being me” (inventory, TC 7); “Andy: I want to be one of your crows, this is the last time I’ll tell you” (letter from Lance Russell, Santa Barbara, TC 17). Dreaming of being somebodies, characters like Maggie and Lance pressure Warhol, whose magic wand promises to turn them into cinematic baubles. Repositories of stars and wash-outs, the Time Capsules are Warhol’s greatest social collages. Their juxtapositions of objects and human artifacts create productive and radiant vortices - as when, for example, the Diaries assay the elements of one such box: “I opened up one of the boxes in the back that’s being moved and it had 16mm rolls of film and letters from Ray Johnson the artist and I think my bloodstained clothes from when I was shot” (Tuesday, May 22, 1984). Letters from an eminent collagiste enter into a new collage along with residues of violence and potential works of art. A party-in-a-box, the Time Capsules take up the logic of mixing and mingling: if people are things, then they, too, can be played with, rearranged, deposited. Using human nervous energy, the Social Collage, whether it occur in or out of the box, runs on insecurity and awkwardness; a glorified faux pas which has stopped being a joke and demands serious processing, the Social Collage is an energy-storing knot clotting social space with its refusal to dissipate [5]. POPism recalls one such beautiful mess, as Brigid Berlin creates a scene in the presence of music stars Bob Dylan and Brian Jones and a magically appearing Jane Holzer - all while Warhol focuses on unrelated issues: 37 The Duchess was frantic because nobody was paying attention to her, to whether she should lose a hundred pounds and put her hair in pigtails or just switch from Honey Amber to Tawny Peach Blush-on. She wasn’t impressed with Dylan or the Rolling Stones because she was over thirty and never listened to rock if she could help it. She glanced over toward tiny Dylan and even more tiny Brian [Jones] with his pale, pale skin and fluffy strawberry blond hair and said as loud as she could, “Those aren’t men, my dear. I like them tall and craggy and divine like Greg Peck”. Then the Duchess got up on a bicycle that someone had propped against a wall and started pedaling around the red couch just as Jane Holzer walked in. I was asking Brian about a certain beautiful but dizzy English actress we both knew (p.150). Successful gatherings depend upon a social gradient; its unevenness determines the flow of bodies and personalities. In Andy Warhol’s Party Book, Danceteria/Palladium/Tunnel “doorman/doyen/dilettante” Hauoi Montaug describes the importance of difference in generating party energy: “You don’t want a homogenous crowd inside a club, because people really do go to nightclubs to make fun of the person standing across the dance floor, so nobody’s really happy if everybody in the room looks the same as they do” (p.53). Managing the passage of torsos across a velvet membrane, the doorman catches Warhol’s eye. Whether he be a nobody, like Hauoi Montaug, or an ultra-body, like Studio 54’s Steve Rubell, the gatekeeper acts as a social frame, keeping desirable and undesirable elements from touching one another. Responsible for ensuring a thermogenic diversity, he performs the vital function of creating a manageable chaos (unlike, for example, the co-op doorman, whose task is to regulate a predetermined flow, or the department store doorman, whose responsibility is to please and ingratiate). As with Brigid’s manic bicycle ride through the Factory, social eclecticism guarantees success in the form of drama. Set against the background of rock-androll stars whiling away the day’s hours in the informality of a casual visit, Brigid’s outburst occurs in sync with Park Avenue socialite and debutante Jane Holzer’s serendipitous arrival [6]. Adding up to chaos, the social collage is the lived experience of radical heterogeneity as it fortuitously and unfortuitously transpires. Taking as its upper limit the Valerie Solanas scenario, social collage remains a Warholian technique; bordering death, it requires the cultivation of just enough volatility to pique interest without so much that police intervention or hospitalization is necessary. The Mistake’s Mystique Ultimately, the Social Collage is meant to be consumed - hence the presence of celebrated nightcrawler Dianne Brill in Andy Warhol’s Party 38 Book. Like Warhol’s other famous party monsters, such as Ondine, Edie Sedgwick, Brigid, Halston, Liza or Victor Hugo, Brill dedicates her life to frivolity, and consequently becomes a source of fascination for a man who has committed his time to refashioning partying into a philosophical object and project, something that requires Aesthetic Theory to explain it as much as it alters Aesthetics through the novel environments and ecosystems it creates in this Debordian world for which the situation is itself a work of art. For Brill, as for Warhol, parties are work; bringing home the bacon necessitates schmoozing, slumming and eventhopping, a lifestyle not far removed from Warhol’s. In Jean Stein’s Edie, Warhol describes Edie’s blueblood method of consuming human groups as they concatenate: She always wanted to leave. Even if a party was good, she wanted to leave. It’s the way they work now in St. Moritz; I mean, people who spend fortunes to have parties can’t wait until they’re over so they can go somewhere else.I don’t understand that. Can’t wait to go…and there’s no place to go. These people in big, expensive cars can’t wait to get to the next party…and there’s no next party. They just get up and leave. It’s really funny. But Edie was like that. She just couldn’t wait to get to the next place (p.200). Similarly, through Dianne’s words, an aesthetic of partying emerges, this time for an 80s audience steeped in placenames like Area, Palladium, Save the Robot, Tunnel or Limelight. In the rare event that readers of the future might not recognize her image without cues, Warhol and Hackett introduce Brill as follows: Dianne Brill is a fashion designer who makes nobodies feel like somebodies with the big hellos she gives to everybody. She was the first young girl in decades to really play up a big body with big curves and big cleavage. In mid-eighty-six, when the following conversation took place, she operated full tilt all night as the ultimate Party Girl and earned herself the title “Queen of the Night” (p.42) [7]. Professional partier, Brill is yet another wild child to flash across Warhol’s radar screen - one final Girl of the Year. Brill describes her favorite party, one thrown with a coffee theme in imitation of a “Coffee Achievers” TV commercial running in the late eighties: We did a beautiful décor with enormous coffee beans, and it was a total environment, things happening all the time talking on the phone drinking coffee, vignettes, push-up bras and stuff…We had the Shirelles come out and sing Happy 39 Birthday to me, and while we were eating, tons of acts came out, all girls dressed like me - clones - doing coffee poses (p. 43). Offering advice on how to hit all the major parties up while avoiding the “retardos,” her favorite word, Brill flits from one Social Collage to another, having mastered the art of timing (when to appear, when to vanish): It’s good to have integration, but you don’t want to have people who go, “Wow, is that your real hair? Are you from New York?” Retardos. If you suspect it’s going to be like that, go during the first half hour and then leave, because that’s when all the interesting people will be there, since they know what you know - that it’s not going to be a long-run fun party. They may even skip it altogether, and you may, too (p.43). A blonder, younger version of Andy, Brill enters Warhol’s aesthetic both as paragon of taste and total loser. The Diaries reports one sad incident in which Brill’s celebrity fails. Attempting to jump onstage during an early Madonna concert at the club Private Eyes, Brill finds her celebrity to have evaporated: And Dianne Brill tried to get on the platform and the guy just pushed her back and I said, “Don’t you know who that is? It’s Dianne Brill”, but he still wouldn’t let her up. And she was so conspicuous in her rubber outfit and Frederick’s of Hollywood stuff and everything, so she was really humiliated, and that’s the way things go you think you have so much pizzazz and then something like that happens in front of your friends (Wednesday, November 7, 1984). Stuffed into designer lingerie, her curvy body - “conspicuous” - receives the opposite of the royal treatment. Somebody collapses to nobody. Pop. Moments like Dianne Brill’s mortification in Clubland bring to the forefront the problem of the abject, a concern cropping up 40 almost ubiquitously throughout Warhol’s works and one that I have used integrally to construct my own theory of the E-ject, or Electronic Object, in my work with Joseph Tabbi and Dene Grigar et al. for Digital Arts and Culture 2009 at the University of California, Irvine. In her Powers of Horror: An Essay on Abjection, Julia Kristeva provides the abject with its most definitive formulation. For Kristeva, the abject is all that the subject must extrude from itself in order to remain a subject through the intense process of assujetissement. Dangerous, the abject places in peril those who embrace it - especially given that, culturally, human subjects are instructed on how to avoid it. Initially coming into existence as the tabooed bodily excretion - the paradigmatic example would be menstrual blood - the abject is all that flows away from the body, all that must be removed from interstitial space in order for health and hygiene to prevail. Hence Kristeva’s aphorism “To each ego its object, to each superego its abject” by which she indicates the social nature of abjection (it is imposed upon the psyche as a socially inherited, Lamarckian prohibition) (p.2). Ultimately, the abject as bodily extrojectum signifies death: No, as in true theater, without makeup or masks, refuse and corpses show me what I permanently thrust aside in order to live. These bodily fluids, this defilement, this shit are what life withstands, hardly and with difficulty, on the part of death. There, I am at the border of my condition as a living being. My body extricates itself, as being alive, from that border. Such wastes drop so that I might live, until, from loss to loss, nothing remains in me and my entire body falls beyond the limit cadere, cadaver (p.3). Though beginning its illustrious career as a revolting, rejected bodily flow, the abject comes also to demarcate classes of beings which one must deny in order to remain healthy, normal. Characterized as the “deject,” the human being who occupies the undesirable subject position - for example, the sexual, racial or socioeconomic untouchable - experiences spatial and existential disorientation: Instead of sounding himself as to his “being,” he does so concerning his place: “Where am I” instead of “Who am I?” For the space that engrosses the deject, the excluded, is never one, nor homogenous, nor totalizable, but essentially 41 divisible, foldable, and catastrophic. A deviser of territories, languages, works, the deject never stops demarcating his universe whose fluid confines - for they are constituted of a non-object, the abject - constantly question his solidity and impel him to start afresh. A tireless builder, the deject is in short a stray (p.8). Delinquent, he who embraces the abject, or to whom the abject is attributed, lives at the fringes of polite society. Identified with urine, fecal matter and menstrual flows, the deject is punished for his inclusion of materials or positions culturally deemed undesirable. As with Judith Butler’s discussion of “abject heterosexuality” in Bodies That Matter, disavowal of the abject becomes a precondition of organic health [8]. Spat out of society’s mouth, the deject finds himself irreversibly tainted by the abject, which guarantees his exclusion from the world, his being situated at its border along with the corpse and other reminders of death and mortality (all of which paradoxically support the very identities disavowed). Social effluvia forever lurk within Warhol’s human collages. Kristeva’s remarks with regard to Proust and his obsession with the abject ring true for Warhol as well: “Abjection, with Proust, is fashionable, if not social; it is the foul lining of society” (p.20). As in the example of Dianne Brill’s expulsion from Madonna’s charmed performance space, the rejected individual continues to generate the glamour of no glamour within Warhol’s many frames. Warhol’s work with the abject is twofold: (p.1) he notices and documents its appearances, and (p.2) recuperates it by integrating it into the fashion tableau. Identifying as abject himself, Warhol as outsider seeks out other weirdos, crackpots and pariahs, the majority of whom are established as chic and visually arresting. Putting the wrong person in the right place, Warhol destabilizes various orders through the forced intrusion of otherness - a difference which must be countenanced. Like the faux pas, the abjected body represents the very break in the machine’s functioning which guarantees further functioning (in Deleuze’s and Guattari’s language, it is not a break, but a “break-flow”). Rather than flow evenly and uniformly, glamour thrives on the eddy, the vortex, the overflow. Depending upon a counterosmotic gradient, chicness and celebrity throw caution to the wind where the regulation of membrane activity is concerned. A body like Brigid Berlin’s, though ridiculed by Warhol at times, cements a new species of fame - her bare-breasted presence in Steven Meisel’s quintessential Factory photograph both highlights her status as demi-mondaine while infusing the aboveground with the sensual excess of the subterranean. A perverse 42 Willendorf Venus, she wields her massiveness as an aesthetic weapon, thrusting her pendulous breasts in the face of modernism. Similarly, the presence of black model Donyale Luna in Warhol’s film Camp (1965) and of black intellectual Dorothy Dean in My Hustler (1965) represent a profound concatenation of lives and discourses. Like Brigid, they too scandalize and vorticize, forcing their irrepressible presences upon an audience unsure as to how they are to receive the imposition. The Social Collage depends upon such destabilization, deriving its energy from the disequilibrium of misplaced bodies through whom place itself is renegotiated, as space becomes differently, even differentially, bracketed. Appearing after a seemingly interminable series of performers, all of whom attempt to redefine camp sensibility (Baby Jane Holzer, Mario Montez, Jack Smith, Fou-Fou), Luna is Camp’s only Beauty. Dancing hedonistically in a fur coat, she connotes wealth, worldliness and fun, while also opening the film to the world of modeling - a space in many ways foreign to it. One discourse gives way to another - horizontality prevails. Running out during her performance, Camp crashes against its own limit conditions. It has no option but to end after Luna has answered its central question “What is Camp?” by remaining impervious to it. “Do you want me to go?” she almost whispers, inquiring as to whether or not it is her turn to partake of a game that matters little to her. “Put the music on”. Oblivious to the problem of camp, she does her own thing - an act the film cannot survive. It’s not even clear Susan Sontag makes it. Fashion designer Paco Rabanne confirms Luna’s dual status as glam and abject in his autobiography Journey. Having first used Luna in his 1964 “Robes Importables” (unwearable dresses) show at the George V Hôtel in Paris, Rabanne, like Warhol, understands the productive power of the othered body: One can imagine the shock of a public used to that kind of fashion event when confronted with warrior girls, covered in metal armour made of aluminum triangles linked with rings or rivets, moulded in sheets of sliced Rhodoid. It was a revolution in high fashion, all the more so because it was the first time that black models had been used, all dancing frenetically to the sound of Pierre Boulez’s “Le Marteau Sans Maître”. Chaos and confusion broke out, an incredible tumult reigned, some people got up, screaming, horrified at the sight of these amazons dressed in chain-mail, swinging their hips to “savage” music. Others manifested their approval in uproarious fashion under the perplexed eye of members of the Parisian bourgeoisie. The prank had worked (Journey, p. 87). 43 Articulated in the form of a joke, the abject represented by Luna stops being funny: she isn’t going anywhere, and in fact represents the future of American glamour both for the U.S. and its world market. While Paco Rabanne reports being spit upon for offering a Rhodoid-clad Luna as impossible model wearing an unwearable garment, Andy Warhol is able one year later to include her within Camp’s collage without much hubbub [9]. Allowing the film to run out during her apparition, he solidifies her importance to his enterprise. Ultimately, camp doesn’t matter, but glamour does especially in its black manifestation. In Dorothy Dean’s precarious case, her mysterious and miraculous intrusion in the final moments of My Hustler (1965) blows the film wide open. As My Hustler (1965) is about to end, Dorothy appears from an alternate order than the microcosm of the white Fire Island hustler. We have just been given perhaps cinema’s longest glimpse into what goes on in the secret world of the hustler’s transformation chamber. For a glorious sequence of golden minutes, we have watched Paul America and the Sugar Plum Fairy, competing tricks, perform a charmed ballet of circulating bodies, each carcass vying for space in front of the scene’s star presence, the mirror. And we have listened to Sugar Plum dispense hustling advice to the younger and less-experienced America, who has been instructed as to how he can get more bang from his buck, how he can save enough money to retire from the profession in style, maybe earning a car or two along the way. As a coda to the scene of male assembly, of how it is these vessels of a Y Chromosome that for Val Sonalas can only be a fractured X, prepare for public display, Geneviève Charbon, Rival #1 for Paul’s body, arrives, magically clutching a giant conch shell from which, perhaps, some soft marine body has escaped in its oceanic peregrinations. She has sensed Sugar Plum’s question for Paul, “What’s your game anyway?”, answering it by offering him escape from Fire Island, travel, displacement. Paul does not respond, his coiffure continuing uninterrupted. She has missed the mark. Next, Ed Hood, Rival #2, and Paul’s “john,” arrives, making a similar offer: travel, girls, boys, whatever Paul wants. Again, Paul, lost narcissistically in the smooth, dreamy surface of the mirror, is completely unresponsive. Rival #3, Sugar Plum, his body cached away in some mysterious alcove or spaciotemporal fold, exerts a fantastic and phantomlike presence, his ignored and, for Geneviève and Ed, invisible body existing merely as a reflection in a glass that quite clearly belongs to Mr. America: the “your” in “I’ll be your mirror” refers only to Paul. Sugar Plum’s time as star prostitute has elapsed. Enter Dorothy, compact and lip pencil in hand. “You are very pretty but you are not exactly literate. Sweetie, I will get you educated…I mean, why be tied down to these old faggots?” (as quoted in Hilton Als, p.80). End of film. Disappearance into shadows of the black body which has barely emerged from shadows before it must be reabsorbed, reclaimed, redispersed. Abject within the economy of white Fire Island hustlerhood, Dorothy Dean impinges upon Paul’s existence, stamping it with her vital otherness. Like Camp, My Hustler washes out after the abject makes its presence sublimely known. Comprehending 44 the abject’s power, Warhol, in keeping with Kristeva’s Proust, inverts society’s lining, exposing a glistening nacreous core and its alternate glamour in sync with his own fantastic outsiderliness. In the Glow of Andy Morningstar In the Diaries, Warhol reports an important early foreshadowing of future glamour. Reflecting once again upon the onomastic question, an issue explored by Warhol as well as members of his entourages (for example, the production of a Candy Darling from a James Slattery, of a Holly Woodlawn from a Harold Ajzenberg, or of an Ultra Violet from an Isabelle Dufresne), Warhol offers a glimpse into his earliest glamour imaginings: “No no, I don’t love my name so much. I always wanted to change it. When I was little I was going to take ‘Morningstar,’ Andy Morningstar. I thought it was so beautiful. And I came so close to actually using it for my career. This was before the book, Marjorie Morningstar. I just liked the name. It was my favorite” (Wednesday, October 3, 1984). Reflecting upon past experiences of dreamed celebrity, Warhol makes the present tense a recapitulation of elapsed glamour impulses while also setting it up as a factory for the production of future fame. In Warhol’s imagination, everybody is a drag queen, every name a pseudonym - the body and name “Andy Warhol” included. Warhol’s will-tofame catapults him into the limelight of art, fashion, music and cinema systems, places he travels on the low-friction horizontal plane of celebrity. Propagating laterally, even mycologically, fame sustains itself through a rhizomic infiltration of niches and ecosystems [10]. Warhol’s reflections upon himself are the type of contemplation which fashion his body and aura into objects of philosophical inquiry. In Philosophy, he ponders about what makes him salable: “Some company recently was interested in buying my ‘aura’. They didn’t want my product. They kept saying, ‘We want your aura’. I never figured out what they wanted” (p.77). Audiences which resist his fame - in particular, black people - cause him grief: “Andy noticed that blacks never came to his book signings, in any city, including New York. And on the single occasion when an ill-dressed youth said he couldn’t afford to buy a book, Andy bought one for him, and then listed it in his expenses as ‘Book for poor kid - $7.95’” (Colacello, pp.311-312). Bottling himself as star product - Coca-Cola, or even the fragrance he toyed with in the sixties, You’re In - Warhol distills his essence for mass distribution (as the Diaries indicate, to Paris, Milan, Kuwait, Monte Carlo, Iran) [11]. Reading Warhol’s words, we 45 encounter a meta-commentary on fame, that mystical entity which, along with money, drives Warhol ever forward into new terrain. Like money, fame is capital; it can be accrued, stored, hoarded, and can even generate interest (the celebrity model represents one such accumulation). Employing that philosophical bugbear, the self-report, bain of Ludwig Wittgenstein and Richard Rorty, Warhol commits his life to the speculation of what it means to transform oneself into a marketable commodity [12]. In this economy, fame fantasies are of major import, as in the “Economics” chapter of Philosophy, when Warhol muses: “I have a fantasy about Money: I’m walking down the street and I hear somebody say - in a whisper - ‘There goes the richest person in the world’” (p. 135). That bizarre species of fantasy which finds itself alienated via its full realization, Warhol’s life itself functions as a running commentary on celebrity. Famous for being famous, Warhol bumbles his way into the warm glow of the media machine; his gift to posterity is the fact of his fame, his physical displacement from a terrestrial nowhere to a celestial “up there.” In his How to Have a Life-Style, social philosopher Quentin Crisp makes the astute assertion that the essence of celebrity involves gross ontology, or the mere fact of being. Condensing all existence into style turns one into a celebrity essence something whose eminence depends upon its mode of being (just as, for Merleau-Ponty, the flesh modulates being as a style) [13]. For Crisp, “making it” involves convincing people to consume you purely on the basis of your existence - an irreducible totality. “Doing” loses ground - soiling, action serves the sole purpose of generating a reputation, after which point all that remains is sheer thereness: It is, of course, not merely enough to make sure that the foundations of your home life are solid. You must then decide what you are going to do in the outer world. Some of my readers may be so oldfashioned that they still have jobs. If this is so, they should make every effort not to take work which involves them only with things. These might be called the “making” professions; they should aim to find employment that brings them perpetually into contact with people. They will then be able, during every waking, working hour, to polish their techniques of selfpresentation. Work of this nature can be described as a “doing” profession - only one step away from the Profession of Being, to which all true stylists aspire (p.79). Autistic, making necessitates contact with only objects and materials - Crisp’s examples include the works of “Mr. Wilde” and “Miss Stein”. Intersubjective, doing forces human-human 46 world” (p.174). Consumed by style, the fame-conscious human being takes as his work the awesome project of occupying space and time and of projecting his essence to the world’s other inhabitants (Crisp refers to this act as the “projection of style”). Taking being as a profession, this creature no longer needs to make or do anything - at this glorious moment, work is the non-work of radiating. contact, allowing a personal aesthetic of maintenance and display to develop - golfers and actors take these jobs. Being occupies the apex of Crisp’s triangle, an activity available only to those rare individuals who have found a magical way to transcend all human activity and can fall back on their essence as a form of income (Crisp’s Manhattan celebrity toward the end of his life testifies to this fact) [14]. While fabricating and acting provide their subjects with chances to perfect themselves as “stylists,” it is only when one has left behind all human activity for the rarefied non-activity of existing that true celebrity and glamour emerge: “Style is a shield; style is a sword; style is a crown; and style is also an automatic invitation card to the party at the end of the Warhol, too, refines his performance into mere spaciotemporal positioning and projection (for Crisp, style is always a projectile or aerolith). Cramming his being into astral existence, Warhol takes as his ultimate work the production of himself. While so many of Warhol’s public appearances, modeling stints, music video cameos and TV advertisements present his essence or aura for consumption, his October 12, 1985 spot on The Love Boat makes the point most vividly, and constitutes the apex of my argument that through Andy, Meta-celebrity is born. Arranging for him to portray Andy qua Andy, Aaron Spelling’s writers generate a script which could easily have been taken from POPism. Warhol explains the story of his particular episode in the March 20, 1985 entry of his Diaries: “So then I was working on the Joan Collins portrait and on some other stuff, and then a big four-page telegram came from The Love Boat saying that they wanted to show all my art on The Love Boat, too. The story is that I go on The Love Boat and there’s a girl on the boat named Mary with her husband, and she used to be ‘Marina Del Rey’. And I just have a few lines, something like ‘Hello, Mary’. But one of the lines I have to say is something 47 like ‘Art is class commercialism,’ which I don’t want to say” (p. 633). Cast in the episode as Mary Hammond/Marina Del Rey, Happy Days’ Marion Ross toys with her status as maternal icon; finally a model citizen (she has married a political star portrayed by her Happy Days co-star Tom Bosley), she has no idea that being welcomed aboard the Pacific Princess will make inevitable a confrontation with a phantasmic past self which has refused metempsychotic dissipation [15]. Having starred naked in Underground 60s film The Green Giraffe, Mary Hammond suddenly finds her life imploding around her; returning to haunt her present, Marina Del Rey is a sixties spectre which has found itself hideously resuscitated. Playing himself, Warhol is flanked by a telltale entourage, this time starring Raymond St. Jacques as a genderbending escort and black queen: “PH came by about 2:00 and we went into the makeup room and she opened up her mouth and said, ‘So who’s playing your drag queen?’ and Raymond St. Jacques whirled around in his chair and gave her a withering look and said, ‘It’s not a drag queen.’ And there he was with lipstick on and everything, and in the original script it had called the role a drag queen” (Monday, April 1, 1985). Presenting Warhol as venue for sexual, gender, racial and artistic alterity, the writers of Episode 233 do what Love Boat writers do best: process Hollywood and New York for usable distillates. Cramer’s TV show Dynasty there. The Love Boat writers are working on my episode which is going to film on March thirtieth and I started to get scared. I don’t know if I can go through with it. The guy was really gay. And Joan Collins got done shooting and I said hi, and she said I still owed her a painting. She was great. And Ali McGraw waved. There were like 500 people there working. And it’s directed by Curtis Harrington who was an underground filmmaker in the sixties who did voodoo kind of stuff, and now he’s doing this” (Thursday, January 3, 1985). Making use of discarded artists from the sixties, The Love Boat not only recycles washed-up screen and film stars, but also finds a way to make Warhol’s Love Boat episode positions his painting in immediate proximity with the larger world of TV celebrities, all of whom finally share his environment: “We went over to a studio across from the Formosa Restaurant, they shoot Doug 48 art failures useful, much as the Brillo Box had done with James Harvey years earlier. In this economy of the televisual, Chris Harrington represents an art weirdo who has acceded to an alternate position of power from which he is able to assist Warhol at disseminating his image to more conservative markets. Situated next door to Joan Collins, Warhol enters into a new Social Collage in which his dual status as TV star and art star mingle with Joan Collins’ status as bitch-of-theminute (her role as Alexis Carrington knew no parallel in terms of her fashionability, vindictiveness and venom). Owing Joan an image of Joan, Warhol the portraitist crystallizes in the midst of Warhol the actor. Proof of Warhol’s celebrity comes in the form of his relationship with Joan, who not only has commissioned work of him, but also shoots her scenes in the vicinity of where he shoots his: their sites of production adjoin. In this milieu, even an actress like Dynasty’s Catherine Oxenberg, who plays Joan Collins’ daughter, Amanda Carrington, appears as one more hysterical actress in a stream of many: “And then we went over to the Dynasty soundstage and tried to see Catherine Oxenberg but she said she was in an accident and was crying and didn’t want to see us. I don’t know. I bet she just had a fight with her boyfriend” (Diaries, Friday, March 29, 1985). Knowing the dirt on an insider like Catherine Oxenberg marks Warhol as interior to a media machine he has been able to permeate successfully. In Andy Warhol’s Party Book, Warhol describes the parties to which his Love Boat gig facilitated entrée. Warhol places reports of his Love Boat fête in a chapter entitled “Out-ofTown Parties” (other species of parties include Club Parties, Paid Parties in Public Places, Celebrity Parties and the celebratory lump “Wedding(s), Funerals, Art Openings, Charities, Etc.”). Focused primarily on Los Angeles parties, Las Vegas parties and Baltimore parties, this chapter provides a geographically suited etiquette of partygoing and a record of Warhol’s whereabouts in his domestic celebrity wanderings. In his L.A. stint, two major parties occupy Warhol’s time and attention: Swifty and Mary Lazar’s Academy Awards party at Spago, and the Love Boat’s Thousandth Passenger party for Lana Turner (true to form, Warhol had missed out, only being the 999th). Finally Los Angeles has embraced Warhol; legitimized, his offness no longer presents aesthetic danger (by this point in time, even Cher has changed her mind about Warhol’s status, as testified to by her invitation of Keith Haring and Andy Warhol to a barbecue at her Malibu complex) [16]. Of these two events, the Love Boat party delights Warhol the most: The Love Boat party was everything I’d hoped it would be every star from Joan Collins to Fred Travalena, from Englebert Humperdinck to Joanne Worley. Roddy McDowall and Troy Donahue were at our table. Ginger Rogers and Mary Martin were across from us…It was all just great, a thrill a minute. Lots of favorites you worried might be dead by then, but there they were, still looking great (pp.108-109). Through the party’s guest list, previous Warhol paintings and movies come to life. His 1962 diptych Troy Donahue finds 49 itself suddenly transformed into the (ex)-hunk’s physical presence at Warhol’s table, while Lana Turner, whose life had been played with in the 1965 film More Milk Yvette, crystallizes as celebrity incarnate. Warhol misses her Love Boat eminence by only one mere digit - he is closer to her than ever, and yet still a loser. Functioning as a cultural mortuary, The Love Boat becomes a receptacle in which residues of celebrity are collected. In fact, the evening’s “shockaroo” comes when Aaron Spelling arranges for there to be a salute to expired passengers in the form of a clip sequence: It was like you were seeing the Curse of the Love Boat Richard Basehart, John Blondell, James Broderick, Judy Canova, Jan Clayton, Hans Conried, Bob Crane, Richard Deacon, Janet Gaynor, Will Geer, Arthur Godfrey, John Hackett, Patsy Kelly, Fernando Lamas, Peter Lawford, Ethel Merman, Slim Pickens, Walter Slezak - just on and on. It seemed like forever, although it probably wasn’t more than thirty - which isn’t too bad out of a thousand guest stars - but just seeing them all together, people you’d forgotten had died, even, had its impact. It got me wondering how much more time I had left (p.109). Disclosing itself as cemetery, The Love Boat collects Warhol as one more star essence in his penultimate year. Imagining himself a Spelling clip documenting his life as having grown physiologically obsolete, Warhol is correct to place himself at such a biophysical chasm. Despite the fact that the Academy Awards and Love Boat parties present Warhol with the opportunity to meet other eminent beings, he makes certain to include the spicy selfreports of “the kids” for extra flavor. One thing never changes in his aesthetic: it’s always about THE KIDS, as generations equally nourish and prey upon one another. A photograph caption reads “Andy with camera, Robert Guillaume, Alexis Smith, June Allyson, Loretta Swit, Ginger Rogers, Doug Cramer, Lana Turner, Aaron Spelling, Mary Martin, Michele Lee, Cloris Leachman, Tom Bosley, and Carol Channing,” testifying to Warhol’s inclusion in a social panorama which seems to embody Proust’s temporal peepshow in all its gerontophobic nausea (p.114). Still, what piques Warhol’s curiosity most in his L.A. travels is the presence of “Reed,” a Hollywood kid who Warhol meets not in Los Angeles, but in New York City: When you’re walking down streets like Sunset or Santa Monica Boulevards, there are lots of vending machines with different sex newspapers inside, and the papers always look like they’ve been sitting there forever, but you don’t personally know anyone who puts ads in them or even buys them. Well, one night I was sitting in a bar on Mulberry and Spring Streets in New York with screenwriter Peter Koper, his wife, Gina, and two artists, Nick Ghiz and Joe Lewis, a young kid from L.A. named Reed sat down and told us how he’d lost his virginity at a swingers-type orgy in the Hollywood Hills (p.116). 50 Like so many other of Warhol’s confidantes, Reed provides the eager voyeur with a horrible story of corporeal and psychological humiliation. As Marty, a disco fatality in a “Let’s Boogie” T-shirt, ushers Reed into what will become a chamber of abjection, Reed encounters aesthetic and sexual surprises: But here it was in front of me - and a heavy scene, too. The place was adorned in plastic palm trees and plastic fruits, and everybody was walking around in lingerie. Old, old women. I mean sixty years old, some of them (p.116). Impotent at the sight of aging flesh, Reed pulls himself together enough to achieve orgasm with another random guest Dana while Reed’s girlfriend Maria gets busy with Marty - all in the same bed, a sexual diptych, Couch turned into split-screen cinema. The sex soon passes from unsatisfactory to vile: I never felt a thing. It was a blur. I didn’t feel myself come or anything: I just knew it was finished. Then I rolled over and acted wiped out - although I had barely moved. Then Maria comes over to me, smiling, and spits Marty all over my face. I was repulsed beyond all imagination. I jumped up and ran across the house naked. I didn’t care anymore. Horrible. What a way to lose it, you know (p.119). Stealing the show, Reed produces the chapter’s center of gravity. Even in the heart of Hollywood glamour, the penumbra of the abject makes its presence known forcefully and without danger of being forgotten: shadows are just that powerful, as Warhol’s own physicality reminds us time and time again. Still, all things considered, nothing better represents Warhol’s success at atomizing his presence for the benefit of Meta-celebrity than his Love Boat appearance, an event with its own satellite parties and personalities. That Warhol is able to make it into the Love Boat archive proves that his project has achieved a more than satisfactory completion. TDK, Vidal Sassoon and Diet Coke television commercials testify to the visual appeal of Warhol’s grotesqueness, yet do not speak as vociferously about his status as pop-culture icon. Similarly, 51 incursions into the field of modeling comment upon Warhol’s relation to chicness, yet do not position him within the lowbrow grid of the everyday. What The Love Boat offers that other venues (for example, MTV) cannot is a certain schmaltz factor, a constitutive cheesiness and kitsch value. As trash repository, Aaron Spelling’s masterpiece recirculates and recycles has-beens to the effect that it becomes something of a glue factory for expiring thoroughbreds. Popular entertainment - I can remember my own Saturday nights being wrapped up in overnight visits to Aunt Angie’s and Uncle Winkie’s for viewings of The Love Boat and its temporal neighbor, Fantasy Island - The Love Boat is truly the worst of the worst, and gloriously so. Pleasurable yet Godawful, it is the perfect place for Warhol to land, and in many ways expire. Playing himself within the charmed and ever flattening rectangle of the boob tube, he becomes elevated to the dubious status of Aaron Spelling spectacle. His presence in the Cars’ Hello Again (1984) or Curiosity Killed the Cat’s Misfit (1986) videos still present him as framed by the higher discourse of a musical avant-garde. His public-access TV show Andy Warhol’s TV (1982) and his MTV project Andy Warhol’s Fifteen Minutes (1986) still place him on a cutting edge. The Love Boat does no such thing. Using his bizarreness as commodity, it makes Warhol into an entertaining joke for the Saturday-night viewing pleasure of the masses: what could comment more critically on the Fame of Fame than such a gig? Après-garde, Warhol condenses into finitude: The Love Boat guarantees that he, too, will die, but not Meta-celebrity, which begins with him and creates the future in its sparkling image. After Warhol, there will be social networking (MySpace and Facebook) and Reality TV, the two critical places where the impulse to make fame famous will flourish, creating star-philosophers of us all. With him, the idea that fame is something we might cherish in and of its philosophical value carries the Romantic fixation on fame epitomized by poet John Keats into a present obsessed with visibility and the telepoetic transmission of image, amplifying Romanticism at the same time that it lowers the stakes of its experiments with art and identity. It is as if the Italian transliteration of Warhol’s prediction “In the future everyone will be famous for fifteen minutes” has followed the Derridean program for the dangerous supplément and colonized the phrase’s meaning, rejoicing in its recoil: In fifteen minutes, everyone will be famous, as Warhol reports in POPism, amused at the ramifications of this mis-interpretation of his words among a foreign audience. The grand philosopher of the tychic finds his own skewed words telling: warping Husserelian Internal Time Consciousness, fame compresses space and time, refashioning the present into a Love Boat ride whose eternal recurrence makes existence a re-run before it has even had the chance to air. 52 Materials Consulted Books Hilton Als, The Women, Noonday Press, New York, 1996. Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism, Harcourt, San Diego, 1976. Judith Butler, Bodies That Matter: On the Discursive Limits of “Sex.”, Routledge, New York, 1993. Bob Colacello, Holy Terror: Andy Warhol Close Up, Cooper Square Press, New York, 1990. Quentin Crisp, How to Become a Virgin, Flamingo, London, 1996. Quentin Crisp, Resident Alien: The New York Diaries, Alyson Books, Los Angeles, 1996. Quentin Crisp, The Naked Civil Servant, Penguin Books, New York, 1997. Quentin Crisp, How to Have a Life-style, Alyson Books, Los Angeles, 1997. Michel de Certeau, Herterologies: Discourse on the Other, Trans. 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Scott Moncrieff and Terence Kilmartin, Vintage Books, New York, 1982. Paco Rabanne, Paco Rabanne, Musée de la Mode, Marseille, 1995. Paco Rabanne, Journey, Element Books, Rockport, 1997. Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature, Princeton University Press, Princeton, 1980. James St. James, Disco Bloodbath, Simon and Schuster, New York, 1999. Jean Stein, Edie: An American Biography, Dell, New York, 1982. Barbara Summers, Skin Deep: Inside the World of Black Fashion Models, Amistad Press, New York, 1998. Michael Angelo Tata, “Beyond the Stars: Warholian Metacelebrity”, in M/C Journal, November 2004, Volume 7, Issue 5. Michael Angelo Tata and Tabbi, Joseph, et al., “E-ject: On the Ephemeral Nature, Mechanisms, and Implications of Electronic Objects”, in Digital Arts and Culture, 2009. Andy Warhol, THE Philosophy of Andy Warhol (From A to B and Back Again), Harcourt Brace and Company, San Diego, 1975. Andy Warhol, a novel, Grove Press, New York, 1998. 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October 12, 1985. Saturday Night Live. October 3, 1981. “Misfit.” Curiosity Killed the Cat. 1986. Notes [1] Another sundae offered by Schrafft’s was the Underground Sundae. For this item, the restaurant tent card read: “Did you see the Andy Warhol Sundae on TV? Try the Original at Schrafft’s”. Other sundaes in the Warhol campaign included the Electronic Sundae and the Do-Your-Own-Thing Sundae. See also the article “Advertising: Schrafft’s Gets With It” (Time, October 25, 1968). Overall, the campaign involved both print and television; Time Capsule 7 contains a photograph of Warhol and a Schrafft’s adman posing with a sundae. Time Capsule 7 contains all abovementioned Warhol/Schrafft’s materials. [2] Proust’s social kaleidoscope represents principles of angular momentum and sedimentation: “It was true that the social kaleidoscope was in the act of turning and that the Dreyfus case was shortly to relegate the Jews to the lowest rung of the social ladder” (The Guermantes Way, Chapter 1, 194). His temporal socius follows an archaeological logic Emerging from seclusion, Time Regained’s narrator encounters a spasm of gerontophobia: “For all these reasons a party like this at which I found myself was something much more valuable than an image of the past: it offered me as it were all the successive images - which I had never seen which separated the past from the present, better still it showed me the relationship that existed between the present and the past; it was like an old-fashioned peepshow, but a peepshow of the years, the vision not of a moment but of a person situated in the distorting perspective of Time” (p.965). [3] Regarding heteroglossia, see Mikhail Bakhtin’s The Dialogic Imagination: Four Essays (University of Texas, Austin, 1982). My contention is that the skewed images of collage speak cacophonously, allowing the various discourses from which they have been extruded to concatenate. Rachel Blau Duplessis explores the heteroglossic potential of collage in her Drafts (Potes & Poets Press, Elmwood, CT, 1991): “These spaces of dispersion/ are marked with bourns/ which disappear amid the fields of scree/as stones./ So gifts are swallowed up by gifts./ Even erasure is erased./ In this, what residue remains?” (“Diasporas,” p.71). [4] Andy Warhol’s Party Book (Crown Publishers, Inc., New York, 1988) is the penultimate Warhol/Hackett venture. Composed of tape-recorded conversations with Warhol and eminent others—party diva Dianne Brill, performance artist Ann Magnuson, film-maker John Waters, and varied doormen, doll collectors and other assorted freaks, such as “Carol,” whose only claim to fame is that she is an alcoholic— Warhol and Hackett apply the tape-and-transcribe method to their final fetish, the party. 55 [5] For Warhol, the faux pas is an integral component to fashionability: “Oh, and I’m forgetting the most glamorous thing of my opening. Warren Beatty walked in with Diane Keaton and I made a faux pas by saying, ‘I just read that article about you in Playgirl,’ and they said ‘Oh my God!’ and ran out” (Saturday, November 21, 1981). Furthermore, in Andy Warhol’s Party Book, Warhol presents himself as a social nullity: “I don’t have those beautiful social graces so I’m not the greatest guest and I’m certainly not the greatest host, either, since I don’t know how to make people feel (a) comfortable or (b) uncomfortable in an exciting way” (p.11). Ungraceful, Warhol founds his theory of fashion upon social breakdown and dysfunction. [6] Like Edie Sedgwick and Brigid Berlin, Baby Jane Holzer is one of Warhol’s “duchesses.” She stars in some lesser-known films, like Soap Opera and Couch (both 1964). In 1964, Tom Wolfe pronounces her “Girl of the Year”. By the time the Diaries roll around, she no longer qualifies as a Beauty: “Then we left to walk over to Odeon for dinner and there was this ‘hooker’ on the street and it turned out to be Jane Holzer. She was so fat. I couldn’t believe it” (Saturday, September 20, 1986). [7] Brill’s status as reigning monarch of nighttime Manhattan receives confirmation by James St. James, who, in Disco Bloodbath, presents her godliness: “At the tippy-top of this system was the nightclub Area, the downtown society magazine Details, and the titular Queen of the Night, Dianne Brill. The goal, then, was to have your picture in Details, with Dianne, in the VIP room of Area. If that happened, well, God himself would drop out of the heavens and give you a drink ticket” (p.43). [8] Arguing for the incoherence of identity, Butler criticizes the gay rejection of heterosexuality. Like the straight abjecting of homosexuality, this treatment also runs the risk of forcing coherence upon identity in order to give it the semblance of stability: “For what cannot be avowed as a constitutive identification of any given subject-position runs the risk of becoming not only externalized in a degraded form, but repeatedly repudiated and subjected to a policy of disavowal. To a certain extent constitutive identifications are precisely those which are always disavowed, for, contrary to Hegel, the subject cannot reflect on the entire process of its formation” (“Phantasmic Identification”, Bodies That Matter, p.113). [9] “‘Here is the first Black model in Paris, Kellie’, he declared with complete authority. ‘There were Kellie and Donyale Luna, whom I presented to Salvador Dali, who shot her in his films. But Kellie is really the first Black mannequin, and it’s because of her that the American press spit in my face. Literally, splat. I was back in the dressing room. I watched that coming, the girls from American Vogue and Harper’s Bazaar. ‘Why did you do that?’ they said. ‘You have no right to do that, to take those kind of Girls. Fashion is for us. White people.’ They spit in my face, I had to wipe it off’” (p.56). Rabanne is quoted in Barbara Summers’ Skin Deep: Inside the World of Black Fashion Models (Amistad Press, New York, 1998). 56 [10] In A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia (University of Minnesota Press, Minneapolis, 1987), Deleuze and Guattari distinguish among three botanical-mycological models for artistic production: (1) the root, (2) the radicle, and (3) the rhizome. According to their definitions, the classical organic text is rootlike (a homuncular seed produces an adult plant), the chaotic modernist text is radicle-like (multiple secondary shoots are grafted onto a dead primary shoot, causing unity to become aborted) and the schizoid text is rhizome-like (spreading in all directions, it becomes a sort of literary weed, like kudzu). The chapter “Introduction: Rhizome” discusses these points in finer detail (pp.3-25). [11] Time Capsule 10 contains two 1967 letters to John D. Goodloe of the Coca-Cola company in Atlanta - in one he requests use of the Coca-Cola bottle for his fragrance, You’re In, while in the second he promises to discontinue his use of the bottle. Evidently, Warhol also requested use of the CocaCola bottle for a necktie, and was also refused (Tine Capsule 39 contains the letter of refusal, also dated 1967). [12] In Philosophy and the Mirror of Nature, Richard Rorty examines arguments for and against the philosophical value of the self-report and the “raw feel.” In the chapter “Persons Without Minds”, he couches his discussion in terms of mindbody duality (how information travels from one entity to the other, how we know that either exists, what it means to turn a sensation into a report, etc.) (pp.70-127). The incorrigibility of the raw feel - the indisputable sense that we have experienced something, whether it be hunger, pain, pleasure, distress or some other feeling - poses limitless problems for epistemology. That is, until one dispenses with the idea that the mind must mirror anything exterior to it. Wittgenstein also struggles with these issues in his work subsequent to his Tractatus. [13] “The flesh is not matter, is not mind, is not substance. To designate it, we should need only the term ‘element,’ in the sense that it was used to speak of water, air, earth, and fire, that is, in the sense of a general thing, midway between the spatio-temporal individual and the idea, a sort of incarnate principle that brings a style of being wherever there is a fragment of being” (p.139). See “The Intertwining - The Chiasm” in his The Visible and the Invisible (Northwestern University Press, Evanston, 1968, pp.130-162). [14] See Crisp’s Resident Alien: The New York Diaries (Alyson Books, Los Angeles, 1996) for the best description of Crisp’s New York City celebrity. Jonathan Nossiter’s 1990 film Resident Alien also provides visual proof of Crisp’s status an having acceded to the Profession of Being. An expatriated waif blowing in the wind, Crisp flits from one situation to another, making his essence amenable to the workings of Social Collage. [15] David LaChapelle’s photograph TV Moms (1995) testifies to Marion Ross’ status as eminent maternal presence. Posing with Florence Henderson, Shirley Jones, Esther Rolle, Barbara Billingsley, June Lockhart and Jane Wyatt, Ross confirms her madonna fame through LaChapelle’s lens. Using Love Boat’s Warhol episode to reconfigure her maternality, Ross makes Andy the occasion to play with her TV reputation of the sort confirmed by LaChapeelle. LaChapelle’s 57 photograph is reprinted in LaChapelleland (Simon & Schuster, New York, 1996, pp.34-35). [16] “…Keith Haring was talking about some art things with Cher, and she gave him two phone numbers and said for him to call her the next day. Keith and I were both staying at the same hotel; we were having lunch by the pool. Keith went away to call Cher and when he came back he said that a recording had come on and said, ‘We’re staying home this afternoon having a barbecue, and if you have this number it’s probably okay to just drop in’” (p.109). 58 MIRIAM VISALLI Marilyn contro Marilyn. Smash e la rilocazione del mito C’ È UNA M ARILYN IMMAGINE E UNA M ARILYN RACCONTO . D ALL ’ IMMAGINE DI T OM K ELLEY CHE SUSCITÒ UN CLAMORE PARI AL RAPPORTO K INSEY E DI CUI H UGH H EFNER ACQUISTÒ I DIRITTI PER IL PRIMO DEI SUOI FAMIGERATI PAGINONI CENTRALI , ALLE FOTOGRAFIE DI TRAGICA SOLITUDINE REALIZZATE DA A NDRE DE D IENES IN UN VICOLO BUIO DI B EVERLY H ILLS , UNA NOTTE DEL 1953 QUANDO M ARILYN INSONNE SI RIVOLSE AL FOTOGRAFO CON L ’ IDEA DI REALIZZARE UN SERVIZIO FOTOGRAFICO CHE AVREBBE VOLUTO INTITOLARE E VERYTHING ”. “T HE E ND O F Non esiste insomma recesso della sua vita che non sia documentato da uno scatto fotografico atto a restituire quel «corpo-spettacolo» [1] attivatore di un «puro sguardo» [2]. Eppure, ai tempi delle feste di Joe Schenck, Darryl Zanuck la riteneva poco fotogenica, un’attricetta agli esordi il cui aspetto di certo non avrebbe agevolato la carriera. Il corso degli eventi, decisamente, prese un’altra direzione. Nel 1953 la relazione annuale del Quigley Poll collocava Marilyn al primo posto della classifica degli attori che registravano i maggiori incassi commerciali. L’evento della consacrazione al Grauman's Chinese Theatre fu riportato dalla stampa nei minimi dettagli e con uno scalpore tale da “spodestare” il fidanzamento di John F. Kennedy che proprio in quello stesso anno sposò Jacqueline Bouvier. Ma questa è tutta un’altra storia. Nello stesso anno il reparto spedizioni della 20th Century Fox era letteralmente subissato dalla posta degli ammiratori di Marilyn che compariva, tra le altre, sulla copertina del magazine “Look“ il 17 novembre, in una delle sue pose che diverrà archetipica, palpebre socchiuse, labbra scarlatte. «Audrey Hepburn e Grace Kelly, signore del cinema» spiega il biografo Donald Spoto «ricevevano gli oscar, ma lei era costantemente acclamata da migliaia di fan 59 come nessun’altra» [3]. E lei, Marilyn, dichiarò che nessuno prima del grande successo, nemmeno sua madre Gladys, voleva vedere la piccola Norma Jeane: «sapevo di appartenere al pubblico» diceva, «al pubblico e al mondo, non perché avessi talento e nemmeno perché fossi bella, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro» [4]. Ed ecco insinuarsi la Marilyn racconto intorno alle immagini patinate e di voluttuosa celluloide: la «povera ragazzina povera» [5] riscattava l’umiliazione di un’infanzia saccheggiata dall’indigenza e finalmente cristallizzava la sua firma sull’Hollywood Boulevard proprio accanto ai grandi del cinema, vagheggiati ai tempi in cui conobbe il lato oscuro di Hollywood, delle anime perdute, malnutrite e inclini al suicidio. «La tribù di straccioni più carina che avesse invaso la città» [6] li definiva Marilyn nella sua autobiografia realizzata con Ben Hecht. My Story [7] prese vita nel 1954 in seguito a un progetto di Charles K. Feldman, l’agente di Marilyn, che suggerì la collaborazione tra la diva e la talentuosa penna di Hollywood in veste di ghost writer, ma che rimase inedito fino al 1974 in seguito ad alcune controversie tra Hecht e il suo agente letterario e forse a causa della scabrosità di alcune digressioni. Di là dai contrasti, anche lo statuto veridico del contenuto della biografia avrebbe generato alcuni dubbi: come ricorda anche Anthony Summers [8], Hecht riferì di avere la sensazione che Marilyn finì con l’inventare alcuni suoi ricordi. «Non credo che cerchi di ingannarmi» spiegava Hecht «ma piuttosto che si abbandoni alle fantasie», ed era quindi necessario tentare di interpretare quel «curioso linguaggio corporeo di Marilyn, per capire quando stava inoltrandosi in un racconto inventato e quando invece era sincera». Ed ecco le discrepanze, non già tra i ricordi forse immaginati, ma tangibili tra le immagini di quell’acclamato “corpo euforico” e il racconto di redenzione da un persecutorio «spettro della povertà», così come Marilyn stessa lo definiva. Una cogente definizione del caso Marilyn si deve a Richard Dyer, quando la descrive come una magica sintesi degli opposti. Una peculiare commistione di «desiderio e confusione» secondo Spoto, che emerge perfino nel suo debutto televisivo. Siamo ancora nel 1953, il 13 settembre, quando Marilyn fu invitata come ospite del Jack Benny Show. Qui Marilyn è il sogno di Jack Benny, ma non può restare tale a lungo poiché non può che scontornare l’incorporeità dell’onirico in ragione di quel fascino complesso, fragile ma sfacciato, consapevole della sua irruente, sfrontata carnalità. Verbosamente esposta, oggetto iconico di mostrazione e rielaborazione mediatica, l’immagine di Marilyn passa anche attraverso il piccolo schermo in termini di citazione ed 60 evocazione, dai numerosi biopic alla serialità episodica e contemporanea [9]. Prodotto da Steven Spielberg e trasmesso da NBC dal febbraio 2012, il musical drama Smash è tra le più recenti produzioni in termini di esposizione e narrazione del modello-Marilyn. La storia orizzontale della serie vede una compagnia di Broadway affaccendata nella realizzazione di un musical, Bombshell, basato sulla vita di Marilyn. Le vicissitudini produttive, casting e miscasting, interferenze e intrighi sentimentali costituiscono il corollario che ruota intorno alla messa in scena dello show nella prima stagione. Dopo l’acclamato out-of-town tour a Boston la compagnia prosegue freneticamente, tra avversità e scissioni, disfacimenti e riscritture, nella realizzazione di uno spettacolo che dovrà essere degno di Broadway e, perché no, aspirare agli agognati Tony Awards. Secondo Spielberg Smash avrebbe concesso ai suoi spettatori uno sguardo indiscreto oltre il sipario dell’esaltante mondo di Broadway, come dichiarato sull’Hollywood Reporter. La serie stimola le aspettative dei critici che, inizialmente, la ritengono “promettente”, visti gli ascolti del pilot più che soddisfacenti. L’attesa non conduce tuttavia ai risultati auspicati e, nonostante alcuni tentativi di “restauro” – tra cui la sostituzione dello showrunner Theresa Rebeck con Josh Safran, già produttore esecutivo di Gossip Girl – tra la prima e la seconda stagione, i dati dell’audience risultano sempre meno incoraggianti, così come le critiche meno entusiastiche. Il Los Angeles Times si esprimeva in termini di “trionfo” mentre in occasione del finale della seconda stagione, Charles Isherwood sul New York Times non tarda a definire Smash come “un musical vecchio stile privo di innovazioni”. Brian Lowry su Variety notifica infine il fallimento della serie. Di là dalle critiche attribuite all’universo Smash, ci occuperemo in questa sede del livello più “astratto” della struttura discorsiva, non solo della narrazione propria della serie, quanto della narrazione del modello-Marilyn, della persistenza del mito e la sua rilettura. Dalla costruzione dei personaggi, ai fasci di relazioni fino alla meta-narrazione del musical destinato a Broadway, molti elementi sembrano ispirarsi alla storia di Marilyn. Smash racconta di un universo popolato da produttori appassionati o senza scrupoli, artisti talentuosi o semplicemente scaltri e ambiziosi, attori dotati e attricette di provincia, registi eufemisticamente casanova e fidanzati refrattari allo show biz proprio come fu Joe Di Maggio. Seppure ricollocata a 61 Broadway, la serie sembra suggerire l’atmosfera della Hollywood “Celluloid Babylon” dello short musicale della MGM Star Night at the Cocoanut Grove, specialmente nella persuasiva descrizione “Shoddy and cheap and astonishingly splendid”, evocativa di una congenita contraddittorietà, e naturalmente del prezzo del successo. Nel pilot si aprono le audizioni per il ruolo di Marilyn. L’élite del cast tecnico scarta alcune esaminande e i loro goffi tentativi di clone a favore della sconosciuta Karen Cartwright (Katharine McPhee) che approda al cospetto della “giuria” in un outfit neutro, più shabby che chic, in completa antitesi all’immagine iconica di Marilyn. Neppure un boccolo. Le candidate che la precedono si esibiscono in performance canore di gattone licenziose. Ma non lei. Karen sceglie la ballata pop scritta da Linda Perry e l’attinenza tematica del brano “Beautiful” di cui adatta opportunamente il testo affinché risulti più affine alla storia – o una delle storie – di Marilyn che forse allude al complesso rapporto con la notorietà: “And suddenly/it's hard to breathe/Now and then/I get insecure/from all the fame/I'm so ashamed/You are beautiful/no matter what they say/Words won't bring you down”. La commissione dibatte sulla scelta tra Karen la cameriera e Ivy Lynn (Megan Hilty), la blonde bombshell che calca le scene di Broadway ormai da tempo, attrice navigata di sicura esperienza. La spunterà Ivy, dapprincipio, fino alla scelta vincolata della produzione che sembra dover imporre una star di Hollywood nel ruolo della protagonista. Ed ecco dunque entrare in scena la terza Marilyn, la platinata, spigolosa Rebecca Duvall (Uma Thurman) nell’episodio 1x11 "The Movie Star". La febbrile attesa non ripaga il cast, i produttori, le maestranze né il pubblico che accoglie l’opening con un fiacco applauso. Professionalmente inadeguata (e per via di un ricovero in seguito a un malore), Rebecca abbandonerà il progetto. Tra la prima e la seconda stagione il ruolo di Marilyn si alterna tra le due contendenti d’inizio serie, tra disastrose, “dopate” esibizioni, abbandoni e riconciliazioni tra i membri del cast e della produzione: Karen sarà Marilyn prima versione, acclamata a Boston, mentre l’interpretazione ugualmente celebrata di Ivy a Broadway nel secondo, zuccheroso season finale, porta in scena la variante definitiva di Bombshell. Insomma, Marilyn contro Marilyn. Contro Marilyn. Il compositore Tom Levitt (Christian Borle) e il regista Derek Wills (Jack Davenport), che abbandonerà Bombshell per dirigere uno spettacolo off-Broadway nella seconda stagione, competono in una guerra iconoclasta a colpi di lustrini, pasticche e tradimenti, nel tentativo di amalgamare ben tre 62 modelli che furono peculiari nell’ultima diva, Norma Jeane Mortenson aka Marilyn Monroe. L’idea che sembra permeare dal sottotesto di ciascun personaggio è in qualche modo ascrivibile all’universo Marilyn, se non direttamente, in una sorta di parafrasi tematica. Karen bussa timorosamente alle porte, non già di Broadway ma ancor prima della gavetta, inibita dal proscenio e dalla babilonia del suo backstage, priva di esperienza ma con una voce seducente unita a un candore ai limiti del verosimile che ammalia il regista womanizer Derek Wills, presto incline all’invocazione della Norma Jeane di cui Ivy sarebbe invece carente. Tuttavia Ivy è Marilyn, quel living embodiment [10] della seduttività che fece di Norma Jeane Marilyn Monroe. Una fisicità esuberante, talvolta sovradimensionata: il personaggio di Ivy “parla” il linguaggioMarilyn, rende una convergenza di significati modellizzanti. Specialmente se aggiungiamo al dominio del corporeo e del visibile lo sviluppo passionale del personaggio. Ed ecco allora insinuarsi nella trama alcune tematiche atte a riverberare la Marilyn racconto. Il rapporto irrisolto e problematico tra Ivy e sua madre, la magnificata star di Broadway Leigh Conroy, esplode come l’ennesima bomba nell’episodio 1x7 “The Workshop”, in cui Leigh assiste al laboratorio di Bombshell, cui segue un dialogo rivelatore: Ivy Don't even. You say something cruel every day, when you're not ignoring me. You're my mother, and you can't even say one kind word. And you know who else had a mother like that? Marilyn. Look how she turned out. Leigh She was a legend. Ivy She was an unhappy, drug-addicted disaster. Because her mother didn't love her. That's what Marilyn was. Similmente la Marilyn/Peggy Martin di Orchidea bionda (Phil Karlson, 1948) “viveva” nella finzione un travagliato rapporto con sua madre, viceversa a causa di una sollecitudine fin troppo ostinata, almeno secondo la giovane Peggy che la ammonisce circa il suo costante giudizio sulla scelta dei propri spasimanti, o le critiche distruttive nei confronti di chi neppure conosce. E si dice stanca di essere vincolata, in ogni sua azione, al consenso della propria madre, fino a 63 manifestare il dissenso: “I’m tired of being treated like a child”. In ambo i casi il lieto fine è alle porte: perfino l’irriducibile leading lady Leigh Conroy riconoscerà il talento di Ivy, fino a suggellare il ritrovato sentimento materno con l’interpretazione di Gladys Monroe nella rinnovata versione di Bombshell. “An unhappy, drug-addicted disaster”. È uno degli aspetti di Marilyn che Ivy “eseguirà” secondo copione, da un “innocuo” prednisone per la gola infiammata, fino a massicce dosi di sonnifero con cui tenterà il suicidio, evento cliffhanger del finale della prima stagione. La salverà la nuova prospettiva di carriera, come interprete del musical Les liaisons dangereuses, poi con la conferma del ruolo di Marilyn in Bombshell. I dubbi di Ivy allo specchio, complice l’incriminato flacone di pillole, ormai respinta dal regista, evocano le riflessioni di Marilyn dei tempi in cui frequentava Joe Schenck, quando la Fox revocò il suo contratto: «mi alzai dal letto e mi specchiai» dice, «non ero per niente attraente. Vidi una bionda rozza e volgare. Mi stavo guardando con gli occhi di Zanuck. E vidi quello che lui aveva visto: una ragazza il cui aspetto era un handicap troppo grande per una carriera nel cinema» [11]. Insostenibilmente integerrima, Karen è piuttosto la manifestazione dell’ingenua Norma Jeane, elemento di costante ritorno nella vita della star, evocata in Smash come completamento di Marilyn. Sarà infatti Karen, custode dell’innocenza poi inesorabilmente perduta e temporanea voce guida di Ivy, a eseguire il vibrato del controverso Happy Birthday con il necessario addensamento emotivo, mentre nell’episodio 1x14 "Previews" la produttrice Eileen Rand (Angelica Huston) suggerisce agli autori Julia Houston (Debra Messing) e Tom Levitt di inserire in Bombshell un incontro tra Marilyn e Norma Jeane, soluzione peraltro già proposta nel tv movie della HBO Norma Jeane and Marilyn (Tim Fywell, 1996), la cui tagline promozionale riportava in effetti: "Marilyn Monroe was our fantasy. Norma Jean was her reality". Insomma, come spettro di un’infanzia trafugata o voce inalterabile di una coscienza volubile, Norma Jeane sussiste e resiste nel modello che Smash traduce – o dovrebbe tradurre – attraverso i personaggi di Karen e Ivy. Se non altro come reificazione di due entità in costante confronto. Che il germe di Marilyn dimorasse in Norma Jeane sembrerebbe documentato nella biografia di Spoto, secondo cui, per quanto timida e solitaria, imbarazzata di dover indossare ogni giorno la stessa uniforme, perfino tendente all’isolamento, sbocciò in 64 fretta, e in fretta emerse dalla folla. Intorno ai quattordici anni, che vestisse una gonna aderente o suscitasse scalpore poiché indossava i pantaloni, nessuno l’avrebbe più apostrofata come “Norma Jeane the String Bean”. Compariva il famigerato corpo della whoo whoo girl che sembrava rivelarsi noncurante della sua giovane età, perché in fondo, spiega Spoto, era pur sempre un’adolescente, forse in cerca di un piccolo applauso, che sposò Jim Dougherty per non fare ritorno all’orfanotrofio. Prende forma, letteralmente, quel corpo che fu “ornamento” alle feste di Schenck, come testimoniato dalla stessa Marilyn e riportato in alcuni documenti di Milton Greene [12]. Fu poi impietoso Nunnally Johnson nel definirla come una delle «giovani mignotte avide» [13], riferendosi alla relazione di Marilyn con Schenck. Impietoso, ma non del tutto fallace. Di quell’emblematico complemento d’arredo noto come il divano del produttore, Marilyn, che mai lo nascose, fece un’ingente collezione. Alan Selwyn e il regista Derek Ford, «esperti di porcherie», raccontano di come Hollywood divenne, oltre che la fabbrica dei sogni, una dissoluta macelleria: «Il sofà era il mobile più importante nell'ufficio del produttore, era il despota inanimato che poteva decidere della carriera di un'attrice (…). La lunga storia di quel prezioso e lascivo arredo creatore di star e di migliaia di disperate, cominciò per il cinema con la sua nascita e si spense negli anni Sessanta quando finì lo star system hollywoodiano» (…). Ora «sono stati sgomberati e ceduti alle televisioni, dove il rito del pedaggio continua più stancamente, assediato dal più magico potere delle raccomandazioni anche politiche» [14]. Tutt’altro che trascurato in Smash, tale oggetto sopravvive non solo simbolicamente nel lascivo backstage, per cui Ivy paga volentieri il pedaggio del divano, che non scricchiola sotto il peso vigoroso del produttore, qui interpretato da Angelica Huston, ma del regista belloccio e borioso Derek Wills [15]. Sarà un rapporto incostante ma suggellato dal lieto fine, ciò che non ebbe Marilyn quando nel 1951 fu impegnata in un affaire con Elia Kazan, come riferito dal fotografo Sam Shaw, che dell’attrice ricordava, più che la arcinota insicurezza, un sorprendente, spontaneo senso dell’umorismo. Il riferimento diretto al sofà delle turpitudini come attivatore di carriere più o meno fulgide trova la sua collocazione anche nella messa in scena di Bombshell, nel brano “Let me be your Smash”, che vede Karen/ Norma Jeane e Ivy/Marilyn bramare il successo avviluppate a Mr. Zanuck sul morbido capitonné. A proposito di Eva contro Eva (Joseph L. Mankiewicz, 1950), prodotto proprio da Zanuck, George Sanders avrebbe ricordato la 65 sensazione che Marilyn era destinata a conoscere la notorietà in quanto, come Eva, benché umile e insicura, «aveva bisogno di essere una stella». Con la revisione del libretto di Bombshell nella seconda stagione, specialmente negli episodi 2x3 "The Dramaturg" e 2x4 “The Song”, il personaggio Marilyn viene riscritto rovesciando quel comune sentimento che aveva portato a fare della Monroe una vittima in balia dei potenti, a definire se stessa in base alle personalità ben più interessanti di lei con le quali si sarebbe intrattenuta. Ne emerge un aspetto, per così dire, predatorio, che si rivela dai contorni dell’oggetto carnale scivolato da un’alcova all’altra, e dall’involucro della dumb blonde si manifestano invece scaltrezza e ambizione. Aspetto che la sua insegnante di recitazione Natasha Lytess le attribuiva, forse con l’afflizione dell’amante respinta, quando ricorda: «Vorrei avere un decimo dell’astuzia di Marilyn. La verità è che la mia vita e miei sentimenti erano in gran parte nelle sue mani». Il rapporto con Johnny Hyde non si fondava su basi così dissimili, sempre secondo Lytess, con una Marilyn così desiderosa di successo da rendersi indispensabile ai suoi amanti, forse spinti a una tale dipendenza destinata a tramutarsi frustrazione, che la sola azione liberatoria doveva consistere nel distacco. E tale sarà la prospettiva privilegiata nella versione definitiva di Bombshell, in cui ogni scena finirà per essere narrata dal punto di vista di chi sopravvisse (o meno) a quella dipendenza: Di Maggio, Miller, Zanuck, JFK saranno i testimoni in scena di quel fascino complesso che di Marilyn, forse, li aveva intossicati. L’ultima delle tre Marilyn ingaggiate in Smash è la star di Hollywood Rebecca Duvall, che sembrerebbe evocare la Marilyn de Gli spostati (John Huston, 1961) e specialmente di Something’s got to give (George Cukor, 1962). Si tratta a ben guardare di un richiamo di limitata consistenza, che dell’ultima Marilyn rievoca gli incidenti produttivi dovuti, tra le altre vicissitudini, ai continui ritardi e in generale alla professionalità incerta della diva che resero gravoso il lavoro sul set del film destinato a rimanere incompleto. Film che sarà poi ripreso e interpretato da Doris Day in Move Over Darling (Michael Gordon, 1963), paradossalmente proprio da quel “corpo virtuoso” di un’America piccolo-borghese su cui il “corpo spettacolo” di Marilyn si era iconicamente imposto e abbattuto. Come una bomba inattesa. Un possibile tentativo di attualizzare il personaggio realizzato in Rebecca potrebbe sussistere nell’averla caratterizzata come 66 irriducibile salutista dei regimi alimentari, ostinatamente dipendente dai suoi beveroni macrobiotici, incapace di andare in scena senza averne ingurgitata la dose giornaliera. Potremmo ipotizzare che nel racconto di tale dipendenza neoarchetipale si rifletta lo spettro di una fragile volubilità interconnessa con la Marilyn racconto, oggetto prediletto e dibattuto in migliaia di pagine di letteratura dedicata, con particolare enfasi sugli abusi e le dipendenze della diva. Capitolo presente in Bombshell, naturalmente, con la messa in scena del brano “Let’s be bad” nell’episodio omonimo 1x5. Inviso al personaggio di Rebecca è invece il naturale senso di attrazione che Marilyn suscitava nello spettatore, immortalato sulla prima pagina di “Life” del 22 giugno 1962, che la ritrae a bordo piscina proprio sul set di Something’s got to give, evento che fece arretrare dalle copertine perfino Elizabeth Taylor durante la promozione del kolossal disastroso che fu Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz, 1963). In termini di evocazione e citazione talvolta didascalica del modello-Marilyn, Smash risulta dunque satura sia di immagini sia di racconto, attraverso indizi condensati e attualizzati. A partire dai ricordi confusi di Marilyn secondo Hecht nella citata autobiografia, tema ripreso nell’episodio 2x14 "The Phenomenon" in cui il giovane autore Kyle suggerisce opportune modifiche strutturali alla storia di Marilyn messa in scena in Bombshell, poiché talvolta possiamo concedere ai ricordi di essere perfettibili, ipotizzando che Marilyn stessa volesse in tale senso ripensare al suo passato. Il titolo dello show, Bombshell, sarebbe dunque una doppia allusione, all’esplosione di irruente carnalità del corpo di Marilyn cristallizzato in icona, ma anche alla bomba che implode: è il danneggiamento di cui ciascun personaggio della serie deve farsi carico, è l’implosione di Marilyn stessa che si infliggeva la condanna dell’autodistruzione, quando finì non tanto con l’identificarsi, bensì con il bisogno di rendersi riconoscibile con il personaggio che di lei Hollywood e il pubblico avevano creato. Già nel 1952, un articolo pubblicato su “Life” e intitolato “The Monroe Doctrine”, sollevava qualche dubbio: Because her movie role is always that of a dumb blonde, Hollywood generally supposes she is pretty dumb herself. This is a delusion. Marilyn is naive and guileless. But she is smart enough to have known how to make a success in the cutthroat world of glamour. She does it by being as wholly natural as the world will allow [16]. Tuttavia il mondo non le concesse molto, se non di edificare in se stessa un’industria fiorente di cui ben poco riuscì a beneficiare. La sua esibita vacuità l’aveva resa innocente, la seduttvità colpevole. L’intelligenza l’avrebbe resa pericolosa. A dieci anni di distanza, quando il fatto che leggesse Rilke o Whitman aveva già suscitato il doveroso sarcasmo, rilasciò la sua ultima intervista a Richard Meryman al quale annunciò una specifica richiesta: «End the interview with what I believe. I don't mind making jokes, but I don't want to look like one»[17]. L’ultima collisione, di Marilyn contro Marilyn. 67 Note [1] Richard Dyer, Star, (1979) it. Kaplan Edizioni, Torino, 2003, pp. 45-46. [2] Michael Conway, Mark Ricci, Enrico Magrelli, Marilyn Monroe, Gremese, Roma, 1981, p. 8. [3] Donald Spoto, Marilyn Monroe, (1993) it. Sperling&Kupfer, Milano, 1994, pp. 222, 223. [4] Marilyn Monroe, Ben Hecht, La mia storia, (1974) it. Donzelli, Roma, 2010. [5] Enrico Giacovelli, Tutto quello che avreste voluto sapere su... Marilyn Monroe, Lindau, Torino, 2000, p. 10. [6] Marilyn Monroe, Ben Hecht cit. p. 54. [7] Marilyn Monroe, My Story, Cooper Square Press, 1974. Il nome di Ben Hecht compare nella riedizione del 2000. [8] Anthony Summers, Marilyn Monroe. Le vite segrete di una diva, (1985) it. Bompiani, Milano, 1986, p. 19. [9] Tra i biopic: Blonde (2001), Norma Jeane and Marilyn (1996), Marilyn & Me (1991) This Year’s Blonde e Marilyn: The Untold Story (1981), più il filone Kennedy’s (Marilyn and Bobby, 1993); tra le serie: Dark Skies in “The Warren Omission” (1x13, 1997), Red Dwarf in “Better than Life” (2x2, 1988) e “Meltdown” (4x6, 1991), Quantum Leap in “Goodbye Norma Jean” (5x18, 1993), Mad Men in “Maidenform” (2x6, 2008), Gossip Girl in “G.G.” (5x13, 2012). [10] Si veda Richard Dyer, Heavenly Bodies, Film, Stars and Society, St. Martin's Press, New York, 1987, pp. 27-28 circa le osservazioni di Molly Haskell. [11] Marilyn Monroe, Ben Hecht cit. p. 88. [12] Donald Spoto, cit. p. 119. [13] «Eager young hustlers» in Carl Rollyson, Marilyn Monroe: a life of the actress, Umi Research Press, London, 1986, p. 33. [14] Natalia Aspesi, “A Hollywood la gloria comincia sul sofà”, recensione al libro Selwin Ford, Il sofà del produttore. Il rito del pedaggio sessuale nella storia di Hollywood, Mondadori, Milano, 1991, in La Repubblica, 21 luglio 1991. [15] Derek pagherà caro il prezzo della sua particolare attitudine. Nella seconda stagione dovrà cedere al ricatto di Daisy, ennesima attrice da lui sedotta, che otterrà così il ruolo della diva nel musical off-Broadway Hit List di cui Derek, naturalmente, è il regista. [16] Life 7 aprile 1952, p. 104. [17] La frase è riprodotta solo nella registrazione dell’intervista di Meryman, poi pubblicata in Life, 3 agosto 1962, pp. 31-38. 68 ALBERTO BELTRAME Una leggenda d'artista, un divismo autorialista. Il paradigma Rossellini nella critica francese degli anni Cinquanta Roberto Rossellini: nome imprescindibile per un'indagine sul regista cinematografico come star. In particolare la creazione, nel contesto della critica francese degli anni Cinquanta, di una vera e propria parabola autorialista nei suoi confronti. Non è un regista come gli altri, ma un divo a tutti gli effetti. Sia quando viene posto ad emblema del cinema moderno, sia quando è bersaglio delle critiche più accese. Sia in un contesto puramente estetico (il suo cinema) che in uno umano e sociale (la sua visione del mondo, la sua vita privata). Proprio nella B ISOGNA COMINCIARE AD ABBATTERE I MITI PERCHÉ SE NON SI COMINCIA A VEDERE QUEL CHE È UN MITO E QUELLO CHE NON LO È , NON AVREMO MAI IDEE ABBASTANZA CHIARE SU QUESTO ARGOMENTO . P RENDIAMO COME ESEMPIO IL MITO DEI DIVI . N ON HO NIENTE NÉ PRO NÉ CONTRO I DIVI MA È UN MITO REALE : SI CREANO DIVI E , POICHÉ BISOGNA CONTINUARE A SFRUTTARLI , SI È NELL ' IMPOSSIBILITÀ DI CREARNE DI NUOVI . NELL ' ASSURDO , NELLA FOLLIA COMPLETA . CARATTERISTICO ? C OSÌ SI CADE N ON È UN ESEMPIO (R OBERTO R OSSELLINI ) [1] frantumazione della linea che separa l’artista dall'uomo sociale, nasce la sua mitizzazione: non solo un regista, mai solo un personaggio pubblico. Rossellini vive di peculiarità che vanno ben oltre il suo cinema, s'impone come divo a tutto tondo: personaggio dal fascino innato, tra mondanità e scandali. Emblematico il matrimonio con la superstar hollywoodiana Ingrid Bergman e successivo divorzio, ben al di là della critica specializzata: materia per rotocalchi e riviste scandalistiche [2]. Scrive Dileep Padgaonkar: «Insieme alle 69 notizie sul lancio del satellite russo e alle celebrazioni per il quarantennale della Rivoluzione d'Ottobre, la separazione Bergman-Rossellini tenne banco sulle prime pagine dei giornali» [3]. Arrivando ad aneddotica che probabilmente ben pochi registi cinematografici dell’epoca potevano vantare: a Parigi, dove si era trasferito con la nuova compagna indiana Sonali, «erano così a corto di denaro che Rossellini cambiava ristorante ogni volta che raggiungeva il limite del credito ma, poiché era così spesso sui giornali, i proprietari dei locali accoglievano di buon grado una celebrità. Un ristorante di Rue Marbeuf aveva addirittura le “lasagne Rossellini” nel menu» [4]. All'alba dell’affermazione della modernità cinematografica, il divismo rosselliniano in un contesto critico non può che assumere, invece, un carattere di militanza estetico-politica. Nel caso dei Cahiers du cinéma in chiave di auto-legittimazione: fare del regista un artistacreatore infallibile, star della mise en scène, in prospettiva del celebre passaggio dietro la macchina da presa di alcuni critici della rivista («Voilà notre cinéma, à nous qui nous apprêtons à notre tour à faire des films. Vous l'ai-je dit, c'est pour bientôt peut-être» [5]). In Positif il rossellinismo è l’anti-modello utile per proporre un'alternativa, affermazione della propria distinzione (opposizione alla stessa pratica dei Cahiers). Per contrasto, si rende ancora più evidente la creazione del regista-autore Rossellini, punto d'incontro e scontro della critica francese degli anni Cinquanta (a differenza dell'Italia, dove l'“antirossellinismo” era la pratica critica più diffusa [6]). Consapevolezza d'artista-divo di cui l'eco sembra sentirsi anche nelle riviste più piccole e in quelle non specializzate. Si allargano i confini cinefili, oltre il cinema, oltre la critica stessa: «Rossellini – avant et plus qu'un artiste – est un personnage» [7]. Politique de l'auteur Rossellini: nel “mito” il fondamento di un divismo La storia dei jeunes turcs la conoscono tutti: un paio di giovani scatenati che vogliono imporre un nuovo modello di cinema per legittimare quello che, pochi anni dopo, sarà la loro pratica. Fin troppo si è parlato anche della politique des auteurs e della parossistica tendenza all'encomio incondizionato. Ma la questione è più complessa, perché più 70 complessi sembrano essere i meccanismi alla base della creazione dell’“autore”. Ovvero una spregiudicatezza autorialista porta con sé una (in)coscienza mitologica e una propensione al culto (non a caso i jeunes turcs erano tanto affascinanti dai divi americani e da quello che Hollywood rappresentava). Rossellini non solo diventa una delle chiavi di lettura predilette per quello che il cinema dovrebbe essere, ma gli viene riservato un amore senza limiti. Si crea un particolare rapporto nei confronti di questo regista, spesso interrogato sulla sua visione del mondo, sfociando (in)direttamente sulla vita fuori dai set e sul privato: creazione e affermazione del regista come genio, superiore alla media per intelligenza, simpatia e capacità. Rossellini eletto a “maestro” non solo di cinema ma anche di vita: il divismo si rende culto, diviene leggenda dell'artista. Un regista cinematografico che è «l'homme le plus intelligent que j'aie connu» [8] e che «il a été un oracle» [9]. sue opere era profondamente radicata già nell’antichità classica» [12]. La celebrazione dell’artista come personalità carismatica e di fascino non può che rispecchiarsi nella sua opera. Applicandolo al cinema, tutti i film di questo regista dovranno così rispecchiare la natura dello stesso. Rossellini è prima di ogni altra cosa un “grande artista” e la sua opera una diretta conseguenza. André Bazin scrive: «forse Rossellini è davvero più disegnatore che pittore, più narratore che romanziere, ma la gerarchia dei valori non sta nei “generi” sta negli artisti!» [13]. Anche il fondatore dei Cahiers, che di certo non aveva la radicalità autorialista dei giovani turchi, nel difendere il regista italiano pone la questione del “valore” di Rossellini come artista prima dei meccanismi interni alle sue opere. Una figura di prestigio quella del cineasta, caratterizzato da una peculiare indipendenza che lo rende più che ammirabile. Infatti, sempre secondo Bazin, ha saputo dare alla sua opera «una integrità di stile, una unità morale Ernst Kris e Otto Kunz nel loro piccolo manuale sulle biografie (e di conseguenza sugli aneddoti) d’artista, sottolineano come una retorica dei biografi consiste proprio nell'attribuire «risposta pronta e motto di spirito» che «rivelano un genio tutto speciale» [10]. E le due idee centrali intorno alle quali sembrano raggrupparsi i temi delle biografie sono «l’assimilazione del processo della creazione artistica ad analoghe esperienze di vita» e «l’indissolubile comunanza di destino tra l’artista e l’opera d'arte» [11]. Margot e Rudolf Wittkower ci dicono che questa è una costante: «l’idea dell'interdipendenza fra il carattere d’un uomo e quello delle 71 che sono molto rare nel cinema e che stimolano, ancor prima dell'ammirazione, la stima» [14]. Talmente grande sarà la stima nei confronti di Rossellini che gli allievi (critici) di Bazin diventeranno ben presto gli allievi (registici) privilegiati del cineasta italiano. Rossellini darà ai giovani critici dei Cahiers la definitiva energia per fare del cinema, non solo consigli utili ma anche quell'aiuto umano necessario per affrontare le sfide: «in questo egli spendeva tutto il suo fascino: era un parlatore brillante, ma anche un ascoltatore attento; da Maestro sapeva farsi amico, da padre spirituale fratello maggiore, da “madre, padre e balia” un compagno di strada generoso» [15]. Sarà in particolare con François Truffaut che instaurerà una vera amicizia e un rapporto quasi tra padre e figlio. Prima gli innumerevoli articoli elogiativi da parte del giovane critico, poi le continue visite al Raphael (l'hotel dove alloggiava il cineasta) fino alla richiesta d'aiuto per il progetto del film da girare in India: «incaricò Truffaut di procurargli tutta la letteratura sul tema che riusciva a trovare: quotidiani, riviste, libri, studi specialistici» [16]. Riferimento primario e compagno d'avventura, rappresentava l’emblema di quello che questi giovani critici ambivano a diventare. Ancora prima che da un punto di vista cinematografico, rappresentava per loro un modello di vita. Stregati dalla persona, non potevano che entusiasmarsi per la sua opera. Costruendo spesso paragoni, tanto spontanei quanto impegnativi, con i lavori di grandi pittori come Braque o Matisse [17]. Nel caso di India (1959), al quale ha collaborato anche un critico dei Cahiers du cinéma (Fereydoun Hoveyda), Godard arriverà a scrivere: «India prend le contre-pied de tout le cinéma habituel: l'image n'est que le complément de l'idée qui la provoque. India est un film d'une logique absolue, plus socratique que Socrate». In quanto «Rossellini part de la vérité. Là où les autres n’arriveront que dans vingt ans peut-être, lui en est déjà parti. India englobe le cinéma mondial, comme les théories de Riemann et Planck, la géométrie et la physique classique. India c’est la création du monde» [18]. Il regista italiano non è paragonabile a nessun altro cineasta: avanti almeno di vent’anni su chiunque e capace di riprodurre la “creazione del mondo”. Ed anche questa sembra essere una costante nel descrivere l’artista: «Pittori e scultori sono gli eredi degli eroi mitici. Esperti in molte arti, padroni di molti segreti della natura, questi eroi gareggiavano con gli dèi» [19]. Più che con un regista abbiamo a che fare con l'incarnazione di un eroe: nel mito troviamo il fondamento del fascino di Rossellini. 72 Dal momento che sono nato: (auto)celebrazione d’artista Scrive giustamente Andrea Martini: «Dal caloroso riconoscimento non nascono tuttavia per il regista stimoli suppletivi né arricchimenti; semmai, più tardi, un’apertura di credito per realizzare alcuni progetti» [20]. Ma non c’è solo l’aspetto creativo in senso stretto. Rossellini trova, in questi ragazzi che lo ammirano, una conferma a molte idee sul cinema e sulla vita. Trova conferme anche e soprattutto su se stesso: « “C’è da una parte Rossellini; dall’altra il cinema italiano”. Ecco cosa ha scritto un giorno un critico al mio riguardo, ed è terribilmente vero» [21]. Il culto rosselliniano, visto chi abbiamo di fronte, deve per forza di cose passare per le parole del diretto interessato. Due sembrano le direzioni discorsive attraverso le quali il regista giunge alla sua, consapevole o meno, auto-mitizzazione. Da un lato l'insistenza sul fraintendimento continuo, sia nel bene che nel male, che viene fatto della sua opera. Non riferendosi di certo ai critici dei Cahiers, Rossellini dichiara: «mi insultano da tutte le parti. Non è una posizione comoda, ma io le dico, con la stessa franchezza con cui lo penso: le lodi mi offendono e mi feriscono spesso più degli insulti, perché nella maggior parte dei casi si tratta di complimenti a rovescio» [22]. È lui il primo a rendersi conto di essere circondato da una serie di luoghi comuni: «Sono un uomo semplice e navigo in una marea di miti che mi costruiscono attorno senza la minima ragione» [23]. Ma la consapevolezza di tutto questo non sembra aver mai assopito un desiderio d’indipendenza d’artista, la voglia d’essere unico e di sapersi distinguere. Infatti, dall’altro lato, c’è in Rossellini la decisa convinzione che il cinema sia una “creazione solitaria”, dove il regista è colui che da solo esprime la sua arte. A una domanda di Mario Verdone sull’apporto dei collaboratori nel film, il cineasta ha risposto: «I collaboratori rappresentano il mezzo per raggiungere il fine. Il regista li ha a disposizione come una biblioteca. Spetta a lui comprendere ciò che serve e ciò che non serve. E anche questa scelta fa parte della sua espressione. Quando conosce alla 73 perfezione i suoi collaboratori, e sa che cosa si può ottenere da loro, è come se si esprimesse attraverso di essi» [24]. Sicuramente alcuni collaboratori possono aiutare più di altri ed alcuni sono essenziali per raggiungere lo scopo finale, ma l’“autore” è uno e uno solo. Su questo non ci sono dubbi da parte di Rossellini, è lui l’artista e il cinema è un’arte individuale: «Ho ben venticinque anni di esperienza in questo mestiere. Hanno sempre cercato di convincermi che il cinema è un'arte collettiva. Non sono mai riuscito a capire che cosa volesse dire. Quelli che me lo dicevano non lo sapevano neppure loro. Esiste un’industria, fatta da un mucchio di specialisti, e io non ho nulla in contrario. Ma forse c’è anche un angolino per gli artisti» [25]. Rossellini si considera vittima di un sistema che tende ad emarginarlo, dove nessuno capisce davvero quello che è il suo lavoro, la sua arte. La solitudine e la disperazione che da questo derivano, uniti al dover e voler essere creatore solitario ed indipendente, rientrano perfettamente nella descrizione che Margot e Rudolf Wittkower fanno dell’artista a partire da Le vite di Giorgio Vasari: la figura del predestinato, tra isolamento intellettuale e talento naturale [26]. Significative in questo senso le dichiarazioni del cineasta in un’intervista di Dacia Maraini [27]: «Non sono mai riuscito a fare fino in fondo quello che avrei voluto. Nel cinema la speculazione è sempre stata più forte del desiderio di sopravvivenza» e aggiunge: «I miei film una volta fatti, non posso rivederli, non mi interessano. […] Sì, sono sempre stato proiettato in avanti. Le cose nuove mi incuriosiscono. Il passato mi annoia». Roberto Rossellini non è solo un uomo di cinema, è l’incarnazione di un eroe mitico. Non è solo un personaggio carismatico e affascinante, ha tutte le carte in regola per essere un eletto. Nella stessa intervista di Dacia Maraini, alla domanda: «Quando ha cominciato ad avere i primi scontri con il mondo?» non può che rispondere, senza alcuna esitazione, in questo modo: «Dal momento che sono nato». Note [1] Roberto Rossellini in Adriano Aprà (a cura di), Roberto Rossellini. Il mio metodo. Scritti e interviste, Marsilio, Venezia, 1987, p. 208. [2] La bibliografia sugli “scandali” provocati prima dal matrimonio e poi dal divorzio con la Bergman è molto ampia. Negli ultimi anni si sono occupati della questione: Alberto Anile e Gabriella M.Giannice, La guerra dei vulcani, Le mani, Recco, 2010 e Marcello Sorgi, Le amanti del Vulcano, Rizzoli, Milano, 2010. Invece, nel contesto dell'avventura indiana di Rossellini che sancisce la fine del matrimonio con la star 74 hollywoodiana: Dileep Padgaonkar, Stregato dal suo fascino. Roberto Rossellini in India, Einaudi, Torino, 2011; ed. or. Under Her Spell, Penguin Viking, 2008. [3] Dileep Padgaonkar, op. cit., p. 184. [4] Ivi, p. 187. [5] Jacques Rivette, Lettre sur Rossellini, in Cahiers du cinéma, n. 46, aprile 1955, p. 24. [6] “Antirossellinismo” che spesso si esprime con l'indifferenza nei confronti del suo cinema, come spiegato nel dettaglio in Andrea Martini (a cura di), L’antirossellinismo, Kaplan, Torino, 2010. [7] Mario Verdone, Roberto Rossellini, Seghers, Paris, 1963, p. 10 [8] François Truffaut, Le plaisir des yeux, in Cahiers du cinéma, Paris, 1987, p. 102. [9] Claude Beylie, Le plaisir du film – ou d’une approche affective du cinéma comme système d’exploration filmique, Papiers, Paris, 1986, p. 29. [10] Ernst Kris, Otto Kurz, La leggenda dell’artista, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 97; ed. or. Die Legende vom Künstler: Ein historischer Versuch, Krystall Verlag, Wien, 1934. [11] Ivi, p. 111. [12] Rudolf e Margot Wittkower, Nati sotto Saturno. La figura dell’artista dall’Antichità alla Rivoluzione francese, Einaudi, Torino, 1968, p. 305; ed. or. Born Under Saturn, Weidenfeld and Nicolson, London, 1963. [13] André Bazin, Difesa di Rossellini, in Cinema Nuovo, n.65, 25 agosto 1955, p. 149. [14] Ibidem. [15] Maurizio Giammusso, Vita di Rossellini, Elleu multimedia, Roma, 2004, p. 226. [16] Dileep Padgaonkar, op. cit., p. 26. [17] Soprattutto l'associazione con Matisse è ricorrente. A partire da Bazin nella sua Difesa di Rossellini, fino alla celebre Lettre sur Rossellini di Rivette. Ma anche Claude Mauriac pone questo paragone in L’amour du cinéma, Michel, Paris, 1954. [18] Jean-Luc Godard, India, in Charles Bitsch, Jacques Doniol-Valcroze, Jean-Luc Godard, René Guyonnet, Louis Marcorelles et Georges Sadoul, Cannes 1959, in Cahiers du cinéma, n. 96, giugno 1959, p. 38. [19] Ernst Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi, Torino, 1988, p. 40; ed. or. Psychoanalytic Explorations in Art, International Universities Press, London, 1952. [20] Andrea Martini, Introduzione. Il cinema tra microscopio e telescopio, in Martini (a cura di), op. cit., p. 11. 75 [21] Roberto Rossellini, “Je ne suis pas le père du néoréalisme, je travaille dans une solitude morale absolue, je souffre d'être méprisé et insulté de tous côtés, je suis obligé de payer moi-même mes films”, in Arts, 16 giugno 1954, p. 3; traduzione italiana riportata in Adriano Aprà (a cura di), op. cit., p. 108. [22] Ivi, p. 109. [23] Ibidem. [24] Roberto Rossellini intervistato da Mario Verdone, “Colloquio sul neorealismo”, in Bianco e Nero, n. 2, febbraio 1952, p. 12. [25] Roberto Rossellini in André Bazin e Jacques Rivette (a cura di), “Comment sauver le cinéma”, in FranceObservateur, n. 413, 10 aprile 1958, pp. 13-14; traduzione italiana riportata in Adriano Aprà (a cura di), op. cit., pp. 152-153. [26] Rudolf e Margot Wittkower, op. cit. [27] Dacia Maraini, E tu chi eri? Interviste sull'infanzia, Bompiani, Milano, 1973, pp. 95-103. 76 J EFF BUSH The face of Marilyn M UCH RESEARCH ON STARDOM HAS EMPHASISED THE REPRESENTATIONAL IT . [1] AND THE COMMODIFIED [2] NATURE OF T HIS ESSAY ARGUES , HOWEVER , THAT IT IS LARGELY DEFINED BY THE UNIVERSAL PARTICULARITIES OF HUMAN FACES WHICH TRANSCEND , AS WELL AS REPRESENT , RECOGNISABLE AND COMMODIFIABLE HUMAN TYPES . I T SEES STARDOM AS THE MOMENT WHEN A PARTICULAR FACE BECOMES UNIVERSAL SIGNIFICATION . The twentieth century saw a shift in the representation of the human face as faces became signifiers. We see the culmination of this in the social media phenomenon that is Facebook which, on the one hand, holds out the false promise that every face can become the face of a “star” while, on the other hand, reduces the face to mere signifier. Marilyn Monroe’s face, as depicted in Andy Warhol’s famous portrait, can be seen to challenge anodyne, pseudo-consumerist Facebook faces and anticipate the aggressive counter-culture and phallic drag faces of the twenty-first century. However, this essay argues that her face is significant not because it signifies the phallus but because it presents a public face always on the verge of dissolution. Beneath the painted veil, we glimpse a delicate and wounded face that evokes the uncertain, tremulous and invidious face of the Muselman, as defined by Žižek in his critique of Levinas, which is a visage marked by a dehumanised and monstrous beyond. 77 Face as Signifier Although it is still a remarkable fact that everyone in the world has a different face, we live in an era when faces are becoming less differentiated. This is why Levinas’ thought is becoming even more prevalent. For him, the face is a universal particular and is the very foundation of human interconnectedness: ‘the first word of the face is … “thou shalt not kill”. It is an order … however, at the same time, the face of the Other is destitute. It is the poor for whom I can do all and to whom I owe all’ [3]. Levinas argues that we cannot objectify the face because there is mutual a priori responsibility underlying face-to-face interactions: ‘an infinite resistance to murder … firm and insurmountable, gleams in the face of the Other, the total nudity of his defenceless eyes, in the nudity of the absolute openness of the Transcendent’ [4]. As the face, for him, is immediately disclosive of humanity, he would have hated the era of Facebook which, even more than cinema before it, reduces the face to signifier. In the last century, we have seen the gradual objectification of the face: firstly, via twenty foot cinema screens, then televisions and media advertising. Now, in the era of Imax, Blu-ray and Facebook, which we access on high-definition tablets and smartphones, the face is objectified more than ever. There has been a perceptual shift in our view of the face in the last century whereby the perception of faces becomes governed by rules rather than ethics. Barthes hints at this shift in his essay “The Face of Garbo” where he cleverly notices that Greta Garbo’s face captures a moment in cinematic history: “cinema is about to draw an existential from an essential beauty” [5]. So, according to him, we move from an essentialist to an existentialist face: from Garbo’s face partially concealed by the cinematic mask of make-up and lighting that only serves to enhance her charisma to Audrey Hepburn whose cinematic face literally becomes a signifier with its lucid definition that diminishes charisma. In contrast to Garbo’s face, which is essential and has a transcendental appeal, Audrey Hepburn’s face is not only doeeyed and coquettish but is clearly defined, symmetrical, 78 knowing. Barthes does not mention it but it is significant that Hepburn’s face became prominent in an era of technological revolution in cinema that included the invention of widescreen, VistaVision, drive-ins and 3-D. The cinematic face in this era becomes no longer an ephemeral outline but foreshadows digitalisation. We are experiencing a similar perceptual shift in our digital age. High-definition and Blu-ray means that we can view the face of a star like never before. We can now see the freckles on Judy Garland’s nose, Ava Gardner’s lip gloss, Liza Minnelli’s false eyelashes and Elizabeth Taylor’s violet irises. The partial opacity of the face, which Levinas articulates, disappears in our democratised Facebook era where every Facebook page displays the face of a star and digital “faces” connect via networking rather than empathy. In an age when the face becomes a particularised universal, every face becomes a tool for consumerism. glimpsed through half-open, heavy-lidded eyes. A perfect, upturned nose is in symmetrical relation to an appropriately proportioned chin (both enhanced by plastic surgery – some have argued). It is the pursed lips, however, full, red and fleshy that relax easily into a wide, wraparound smile revealing gleaming, pearly white teeth that transfix the viewer. In her visage, there is none of Garbo’s mystique nor Audrey Hepburn’s proto-digital clarity. She has none of Garbo’s androgynous regality nor Hepburn’s boyish charm. Instead, she appears the phallus which, in Lacanian thought, is the unattainable object of desire that can be signified by any signifier, or body part, including the face. Lacan’s view that the Other is the phallus challenges the Levinasian idea that Marilyn as phallus The face of Marilyn Monroe anticipates but, also, challenges this new era of digitalised facialisation. Indeed, we view the female face differently after Marilyn who committed suicide in 1962. Her face was, of course, made even more iconic by Warhol’s painting where it becomes symptomatic of the modern obsession with celebrity and consumerism. Fifty years after her death, Marilyn’s image is still everywhere and provokes adoration and scorn in equal measures. She appears on screen like a grotesque Venus. Peroxide ringlets sweep back from a face that always appears as though it has engaged, or is about to engage, in a sex act. Crystal blue irises can be 79 the face of the Other is a call to empathy. According to him, we engage in a masquerade of being and having the phallus: ‘[sexual] relations revolve around a being and a having which, since they refer to a signifier, the phallus, have contradictory effects: they give the subject reality in this signifier, on the one hand, but render unreal the relations to be signified, on the other’ [6]. In his thought, men have the phallus and women are the phallus and sexual relationships are characterised by an asymmetrical, and sometimes sado-masochistic, game of being and having. It is Marilyn’s performance in Gentlemen Prefer Blondes (1953) that establishes her as a phallic archetype. One finds oneself blushing, even in a darkened cinema, at the appearance of her face during the “Diamonds are a Girl’s Best Friend” routine. The camera zooms in on a face that is perfect in its plasticity. Copious layers of make-up and lip gloss make it appear coated in jelly. Her half-closed eyes and full lips suggests she is in ecstasy and on the cusp of orgasm. It is interesting, however, that, although born and raised in L.A., her father (whom she never knew) was a Norwegian sailor and, in spite of the layers of make-up, one can still see the Scandinavian physiognomic heritage in Marilyn’s face. Furthermore, in the film, Marilyn’s quivering lips, her nervousness, her breathy, ethereal voice show how she cannot sustain being the phallus, she cannot sustain being a tableau. This is particularly apparent in the scene where she is surrounded by a bevy of male admirers on the ship to Paris. In it, Marilyn appears to be on the verge of losing control of the pace of her dialogue. Interestingly, one of Marilyn’s dancers George Chakiris (who later played Bernardo in West Side Story (1961) noticed a twitching nerve beneath the shoulder blade of Marilyn before the performance of the “Diamonds are a Girl’s Best Friend” routine. This gives us a greater insight into the artifice of the whole scene. It is a sign of the body’s resistance to signification which marks Marilyn’s performances and, indeed, the concept of the phallus. Marilyn’s face becomes the template for a cynical consumerism that is premised on the notion that “sex sells”. So, in our era, the most famous stars are those whose faces most approximate the phallus like Angelina Jolie or Cameron Diaz or Megan Fox. However, we also see the trace of Marilyn’s face in the faces of Debbie Harry, Madonna and Lady Gaga as well as in the faces of the “club kids” and the aggressive drag artists of the 80 late twentieth and early twenty first century such as Rupaul or Lady Bunny who all recognise the revolutionary potential of Marilyn’s face and celebrate her exaggeratedly sexual face in all of its perverted glory. This essay, however, will argue that the face of Marilyn is revolutionary in a way that is neither affirmation nor critique of the phallus. Beneath the phallus Perhaps because of the profound sexual potency of her face, Marilyn always wanted to disappear, she wanted to become a signifier like Hepburn perhaps. In the years following her death, feminists, such as Gloria Steinem, expressed guilt over how they had, during her relatively short life, dismissed Marilyn as merely a symptom of female objectification in an oppressively patriarchal society. In her private life, Marilyn was an intellectual – or at least aspired to be. She was, rather ironically, an avid reader of Freud and there are numerous photographs of her with her head buried in The Interpretation of Dreams. The film Insignificance (1985) depicts an alleged meeting with Einstein in a hotel room in the 1950’s. In it, Marilyn is portrayed as someone with an insatiable appetite for philosophical ideas. However, the film does not present any evidence of her understanding these ideas which may have been true. She tried to make artistic decisions in the latter part of her career. She made a film with Laurence Olivier. She enrolled in acting classes at Lee Strasberg’s “method” Acting Studio in New York. She tried to select her scripts on their literary merit. And, she married the great American playwright Arthur Miller. It was almost as if, half-way through her career, she saw who she was, or who she was represented as, and didn’t want to be it. There were also personal ghosts that haunted Norma Jean. Her mother worked in Hollywood in a lowly job helping to edit film reels and suffered severe mental health problems which Marilyn feared she too would develop. It was because of her face, and what it signified, that she often received unwanted, and sexualised, attention. The studios cynically promoted this appeal and it has to be said that Marilyn played along, for a while. Miller communicated an anecdote that speaks volumes about the pervasiveness of her overtly sexualised image in the mid-twentieth century. Hounded by photographers, Marilyn and Miller had sought 81 refuge in a bookshop. In one of the aisles, Miller glimpsed a man openly masturbating in front of the couple. One would think that Miller was the right person to save Marilyn from this brutal reification. Unfortunately, he treated her as another object – using her for literary inspiration and keeping a cruelly honest diary about her which she eventually read. The recent film My Week with Marilyn (2011) presents her in a similar way – magical but difficult. This seems a very male way of interpreting her – as product, object, as phallic face rather than ethical face. It is genuinely upsetting to see images of her, from the 1950’s, leaving psychiatric hospitals after breakdowns, or leaving hospitals after miscarriages and herded into corners, trying to hide her face from an explosion of photographers’ flashbulbs all desperate to get the picture which will show her face as phallus in all its nakedness. There was a significant shift in the representation of Marilyn from 1956 onwards. After some re-training at the Actor’s Studio and marrying Arthur Miller, Marilyn agreed to make Some Like It Hot (1959). Initially, she resented filming another comedy and agreed to do it mainly to help pay Arthur Miller’s legal fees which he had incrued in his battle against McCarthyism which had blighted, and sometimes ruined, the careers of many intellectuals and artists with left-wing sympathies in the 1950’s. This political and personal context gives Marilyn’s performance in the film an edge that is always implied in her other films but never directly expressed. In this film, we see the real face of Marilyn, of Norma Jean, come to the fore. Some Like It Hot is a film about the masquerade of male and female relationships. Two male musicians (Lemmon and Curtis), on the run from the mob after witnessing a murder in the Chicago 1929 St.Valentine’s day massacre, drag up as female musicians and are accepted in an all-female music troupe. On their way to Florida, they befriend a fellow musician, Sugar Cane played by Marilyn, who immediately wiggles her way into Curtis’ affections by dodging a sudden ejaculation of steam from a train in his line of vision. The film does appear, on the surface, a satire of the phallus. It is a cross-dressing masquerade in which men are shown to want to “be” the phallus rather than “having” it. The draggedup Lemmon and Curtis comically represent Marilyn in early pictures where she was ‘trimmer and slimmer’ [7]. What is most striking about the film, however, is Marilyn’s performance which falls apart in the film. Ironically, this becomes more apparent in the ultra-clarity of HD. She looks a mess – her hair is like straw, her lipstick is smudged, she is 82 overweight and her skin is deathly pale. She was, in fact, pregnant with Arthur Miller’s child during the making of this film and suffered a miscarriage during it. They also divorced after it. Nevertheless, the fact that Marilyn appears on screen as messy, clumsy and scruffy is riveting and deeply moving. She is always on the verge of dissolution in Some Like It Hot. Indeed, at some points, she can be seen to be visibly trembling and twitching. We could argue that, in this film, something asserts itself in Marilyn’s face and sheds itself of all that is plastic, artificial, phallic, product, false. Her face appears to undergo a metaphorical detoxification in the film and, as a result, the weight of being such a potent signifier causes the face of Marilyn to resemble Žižek’s view of the Muselman rather than Lacan’s concept of the phallus. Marilyn as Muselman “face” all its monstrosity: face is not a harmonious Whole of the dazzling epiphany of a ‘human face,’ face is something the glimpse of which we get when we stumble upon a grotesquely distorted face, a face in the grip of a disgusting tic or grimace, a face which, precisely, confronts us when the neighbor “loses his face”?’ [8]. For Žižek, the Muselman is irreducible and indicates a beyond which is not empathic. The face of the later Marilyn can be seen as the face of the Muselman not least because, in her films, she frequently lives an intense existence as an objectified neighbour. In The Seven Year Itch (1955), for example, Marilyn plays a nameless neighbour (referred to as “the girl” throughout the film) who is publisher Richard Sherman’s object of desire. The film implicitly suggests that there is a thin line between the neighbour as object of desire and the neighbour as object of anxiety and fear whom you may report to the police if you are in any way suspicious as Unlike the face of Garbo which, with its blurred gossamer lines, harks back to the essential faces of antiquity, or the face of Hepburn’s which anticipates the digitalised faces of the Facebook generation, the face of Marilyn – caught between supreme confidence and intense vulnerability – is a postholocaust face. It projects forward to Žižek’s critique of Levinas who, in his critique of the centrality of the face in Western thought, draws attention to the Muselman – the condemned prisoners in the concentration camps who lost their will to live because of the horrors of their existence: “what if it is precisely in the guise of the ‘faceless’ face of a Muselman that we encounter the Other’s call at its purest and most radical? . . . . What if . . . we restore to the Levinasian 83 happened in Nazi Germany. It is the combination of girl-nextdoor and sexbomb, intimacy and ex-timacy, that defines her films and her stardom. We see the symptoms of this on her body in her films in both the painted visage and the uncontrollable ticks that characterise her performances and give the audience a glimpse of the beyond, or the ‘night of the world’ as Hegel called it, that her mother knew all too well. Marilyn’s face exposes the totalitarianism of facial representation that began in the twentieth century. We see a woman engaging with representation and questioning this representation on screen before our very eyes. This is her appeal. There is a longing for another way in Marilyn’s face. And, there is a desperation that nothing can be done. Marilyn is the daughter of George Eliot’s Gwendolen Harleth – who desperately wants to be appreciated for her mind rather than her body. And, she is the sister of Tennessee Williams’ Blanche Dubois whose nervous ticks and fragility are no longer charming and indicate the (im)possibility of a connection between freedom and determinism. Today, we live in a world where faces are really signifiers. The internet is a facility to engage in digital masquerades where we hide behind signifiers. The social media phenomenon Facebook is symptomatic of this where users adopt online visages to promote their lifestyles. It is essentially a collection of digitized ‘faces’ in which users engage in idle chatter, competitive egoism and cyber bullying. The face of the Muselman reveals a lack of reciprocity between signifier and face which is forgotten in the era of Facebook but Marilyn’s janus-face looks forward to Facebook and backwards to the Muselman. There is something harrowing about her face and the way it is exposed on screen. In her later films, in particular, we see, in her face, the exhausted, undignified face of the Muselman – the face that knows where it is going, that has glimpsed a monstrous beyond. This beyond is glimpsed by each star when their time in the spotlight has passed; or when an indiscretion or crime is committed; or when a past event comes back to haunt them; or when the intense pressure of their visage as a universal particular becomes too great. This is the other face of stardom which Marilyn’s memorable face ultimately epitomises. Notes [1] Richard Dyer & Paul McDonald, Stars, BFI, London, 1998, p. 50. [2] Richard Maltby, Hollywood Cinema, Blackwell, Oxford, 2003, p.14. [3] Emmanuel Levinas, Ethics and Infinity: Conversations with Phillipe Nemo, Duquesne University Press, Duquesne, 1985, p.89. [4] Emmanuel Levinas, Totality and Infinity, Springer, New York, 1980, p.199. [5] Roland Barthes, “The Face of Garbo” in Mythologies, Fontana, London, 1993, p.57. [6] Jacques Lacan, Ecrits: The First Complete Edition in English (Trans.) Fink, B., Norton, London & New York, 2006, p.582. 84 [7] “Cinema, The New Pictures”, in Time Magazine, Monday Mar. 23 1959. [8] Slavoj Žižek, The Neighbor: Three Inquiries in Political Theology, Chicago University Press, Chicago, 2006, p.162. Bibliography Billy Wilder, The Seven Year Itch, Twentieth Century Fox, Los Angeles, 1955. Billy Wilder, Some Like It Hot, The Mirisch Company, New York City, 1959. Slavoj Žižek, The Neighbor: Three Inquiries in Political Theology, Chicago University Press, Chicago, 2006. Roland Barthes, “The Face of Garbo” in Mythologies, Fontana, London, 1993 Simon Curtis, My Week with Marilyn, New York City, The Weinstein Company, 2011. Richard Dyer & Paul McDonald, Stars, BFI, London, 1998. Sigmund Freud, On Metapsychology: The Theory of Psychoanalysis, Penguin, London, 1991. Howard Hawks, Gentlemen Prefer Blondes, Twentieth Century Fox, Los Angeles, 1953. Jacques Lacan, Ecrits: The First Complete Edition in English, (Trans.) B.Fink, Norton, London & New York, 2006. Emmanuel Levinas, Totality and Infinity, Springer, New York, 1980. Emmanuel Levinas, Ethics and Infinity: Conversations with Phillipe Nemo, Duquesne University Press, Duquesne, 1985. Richard Maltby, Hollywood Cinema, Blackwell, Oxford, 2003 Jerome Robbins & Robert Wise, West Side Story, The Mirisch Corporation, New York City, 1961. Nicolas Roeg, Insignificance, Palace Pictures, London, 1985. “Cinema: The New Pictures” in Time Magazine, Monday Mar. 23 1959. 85 CHIARA CHECCAGLINI «Created by». L’autore-star nella serialità televisiva contemporanea U NA DELLE CARATTERISTICHE PRINCIPALI DELLA SERIALITÀ TELEVISIVA È CHE PER QUANTO LE VARIABILI ARTISTICHE SIANO SIGNIFICATIVE , LA DIMENSIONE COMMERCIALE RIMANE IL Come è noto, nella storia del cinema e della critica cinematografica l’attribuzione specialmente europea di una “competenza espressiva e comunicativa” [1] al regista-metteur en scène ha portato alla diffusa corrispondenza tra nome e garanzia di qualità: il film d’autore si impossessa così di una veste intellettuale che lo separa nell’immaginario dai meccanismi di vendita di un prodotto per rivestirlo di valore puramente estetico. L’esistenza di una “volontà autoriale” [2] è presto messa in discussione, e la questione dell’intenzionalità ampiamente ridimensionata e problematizzata, mentre entra in campo il ruolo dello spettatore nella negoziazione dei significati. Sebbene la serie televisiva si configuri come produzione collettiva, il predominio della scrittura su altri aspetti della messinscena fa sì che colui che è considerato l’ideatore della serie si riappropri di una nuova versione del marchio autoriale: in certi casi si tratta di un’etichetta non veritiera, attribuita indipendentemente da quanti episodi vengono effettivamente scritti dal creatore; ma spesso si tratta di ideatori o showrunner che hanno effettivamente il controllo sull'intero processo di scrittura e dunque sul risultato finale, emanazione della propria idea. CRITERIO ULTIMO CHE STABILISCE IL DESTINO DELLE SINGOLE SERIE TV : LA PERFORMATIVITÀ IN TERMINI DI ASCOLTI , IL RATING , LA CORRISPONDENZA ALLE POLITICHE DELLE RETI E AL TARGET DI RIFERIMENTO NON SONO TRASCURABILI . I N QUESTO UNIVERSO DI SCOMMESSE COL SUCCESSO , IL CONCETTO DI AUTORIALITÀ È QUANTOMENO SCEVRO DI OGNI SACRALITÀ . Oltretutto le serie tv contemporanee fondano il proprio valore sulla costruzione di universi complessi, sia dal punto di vista intertestuale, mutuabili su diversi media e fruibili in molteplici modi, sia da quello narrativo/testuale: il pubblico degli ultimi due decenni di tv si è così potuto abituare alla fruizione di storie molteplici e personaggi controversi, 86 significati stratificati e intricate narrazioni orizzontali. Parallelamente, Internet ha esponenzialmente incrementato circolazione e visibilità di notizie, contenuti, personalità coinvolte: lo stardom hollywoodiano comprende ora sempre più star televisive, altrettanto celebri e fotografate, e anche gli ideatori hanno guadagnato attenzione mediatica, mentre gli appassionati di serie tv hanno molta più consapevolezza del processo creativo della serie. Tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le serie iniziano a cambiare i connotati della tv [3], a Steven Bochco, creatore di Hill Street Blues, viene riconosciuto il merito di innovazioni che saranno influentissime sulle serie a venire; subito dopo appare Twin Peaks, con l'ingombrante firma di David Lynch, che al cinema è già autore di culto riconosciuto. Innescando un corto circuito tra autorialità cinematografica e televisiva, sebbene sia un caso atipico, Twin Peaks è il primo caso di culto seriale legato a doppio filo alla firma dell'ideatore. Nonostante il nome di Lynch sia usato come selling point al momento del lancio della serie [4], l’andamento narrativo della serie subirà diverse modifiche rispetto al progetto originario, fino a uno snaturamento che Lynch stesso disconoscerà (esemplificazione del fatto che qualunque sia il nome dietro una serie, l’ultima parola spetta alla rete e agli ascolti) [5]. In Tv di culto, Massimo Scaglioni afferma che l’autore ha sempre avuto il ruolo di garante della qualità da quando esiste la cult-testualità televisiva [6]: riprendendo Matt Hills, Scaglioni stabilisce che l’autorialità è uno dei tre aspetti delle “somiglianze familiari” che caratterizzano il culto mediale. A differenza del cult cinematografico, il testo seriale di culto ha la possibilità di raggiungere contemporaneamente nicchie di pubblico generalista oltre che gli appassionati; l’autore è da un lato “una garanzia e un ancoraggio indispensabili” [7], dall'altro “la presenza extratestuale di un autore è in parte generata dagli stessi fan” [8]. Con la crescente fortuna delle serie tv e dell’“ideologia della qualità” l’autore riconoscibile è diventato quello in grado di scrivere grandi drammi, grandi storie, non necessariamente focalizzate su un genere particolare (il fantasy, il mistero, il poliziesco, la sci-fi) ma più in generale predisposte a scandagliare aspetti della vita tramite un punto di vista riconoscibile: sembra tornare in auge un’accezione dell'autore più élitaria, che contrappone originalità, esclusività, qualità alle caratteristiche di genere e al successo. Da un lato quindi dalla specificità seriale torna in primo piano un’individualità autoriale cui collegare la qualità del testo, prendendo le distanze da forme istituzionalizzate come il genere e il successo commerciale; dall’altro appunto non esiste serialità senza risposta del pubblico, che sia estesa e 87 inclusiva o che si manifesti in attaccamento di piccoli ma agguerriti manipoli di fan. Riassumendo, se è facile mutuare all’occorrenza dalla cinefilia il concetto di autore come definizione che racchiuda un insieme di fattori tematici ed estetici riconoscibili e ricorrenti, la serie tv resta il risultato di una produzione collettiva, all'interno della quale il ruolo del creator e quello dello showrunner variano la propria influenza di caso in caso. Mentre la serie tv si è assestata come prodotto di punta della programmazione televisiva nordamericana nonché dispositivo d'eccellenza nella narrazione per immagini, di pari passo al culto per le serie stesse è emerso quello per alcune personalità creatrici ad esse connesse. Come vedremo [9], alcuni nomi sono più ingombranti di altri, per motivi diversi: alcuni per l’oggettiva capacità di inventare storie di successo, altri per la loro prolificità, altri ancora per la riconoscibilità tematica, altri per il loro anticonformismo; alcuni dunque forti della straordinarietà degli ascolti, altri del riconoscimento critico, altri ancora di un fandom affezionatissimo. Aaron Sorkin, star da Oscar Aaron Sorkin è lo sceneggiatore in cui sono più rintracciabili caratteristiche autoriali riconscibili, motivi e temi che ricorrono in tutte le sue creazioni: nell’immaginario collettivo è spesso identificato con il drama di qualità tout court, perché le sue creazioni si basano quasi interamente sul dialogo e sui personaggi, e dunque sulla pura scrittura; sul piano visivo il “walk and talk”, il tipico parlare camminando dei personaggi sorkiniani, ha il proprio corrispettivo in tortuosi pianisequenza in interni, dal momento che le location delle serie di Sorkin sono composte quasi esclusivamente dai luoghi di lavoro dei propri protagonisti. Questi elementi ricorrenti hanno fatto sì che si possa parlare di uno stile Sorkin, che per gli estimatori è il massimo grado dell'espressività seriale televisiva, e per i detrattori un esercizio manierista di ricalco dei propri leitmotiv. Ma è Sorkin stesso ad essere altamente consapevole. È significativo ed ironico che la consacrazione cinematografica [10] si arrivata con lo script di The Social Network (2010) di David Fincher, dal momento che Sorkin è dichiaratamente restio alle nuove tecnologie e non manca di ribadirlo per bocca dei suoi personaggi nelle sue serie. Formatosi in teatro, Sorkin esordisce sul piccolo schermo con Sports Night (1998-2000), in cui sono già presenti gli elementi stilistici di cui sopra, l'interesse per i media, l’intreccio tra storie d’amore e di lavoro, la scelta quotidiana tra giusto e sbagliato, bene e male. Dopo la sua creazione più famosa, The West Wing, andato in onda per sette stagioni (1999-2006), ultrapremiata e amatissima, la prima serie incompresa: Studio 60 On the Sunset Strip (2006-2007), 88 backstage series su un programma comico, è cancellata dopo una stagione. Forse troppo settoriale per suscitare l'interesse del pubblico, a Studio 60 viene imputato anche di essere poco credibile nella rappresentazione di un programma comico di tale successo, dal momento che ciò che vediamo on screen, semplicemente, non fa ridere. The Newsroom (2012- ) rappresenta il ritorno di Sorkin dopo l’Oscar per The Social Network, e la prima partnership dello sceneggiatore con una rete cable, la HBO: oltre al cast (con Jeff Daniels protagonista assoluto, Emily Mortimer, Alison Pill, Jane Fonda tra i comprimari) e all'argomento (i retroscena di un programma di notizie in diretta) serpeggia l'attesa per vedere Sorkin all’opera con l'inedita libertà espressiva del via cavo. Ma l’accoglienza critica è freddissima: la serie è considerata troppo retorica, poco attuale nonostante le tematiche scottanti del presente siano il nucleo di molti episodi, viziata da un sessismo strisciante (i personaggi femminili di Sorkin sono sempre piuttosto deboli e incapaci, indipendentemente dal ruolo di responsabilità che ricoprono); si contesta la sensazione che si tratti di una serie “a tesi”, che non è interessata ad approfondire il mestiere del giornalismo quanto a sciorinare le opinioni (manichee, filoamericane, buoniste) di Sorkin sul mondo [11]. Gli elementi che compongono lo stile Sorkin sono talmente riconoscibili che la loro riproposizione semplicistica risulta inaccettabile, e The Newsroom diventa addirittura un caso di hate-watching. Difficile che questo possa intaccare la reputazione di Sorkin, tuttavia l'autore stesso deve aver accusato il colpo se è vero che nella seconda stagione il tono e la struttura degli episodi sono leggermente cambiati; per il momento i rating ne hanno giovato; e The Newsroom rimane uno dei casi più interessanti di monitoraggio dei rapporti tra il pubblico e una delle autorialità seriali maggiormante riconosciute. Matthew Weiner, pretese da star La proliferazione di serie e il crescente interesse per la produzione di testi seriali confezionati su standard altissimi che ha caratterizzato gli anni Duemila ha provocato un’accelerazione del manifestarsi di certi fenomeni, come l’improvvisa fama di un ideatore. Lo status di autore-star viene assunto così anche dopo una sola serie: è il caso di Vince Gilligan, la mente che ha prodotto Breaking Bad, e Matthew Weiner, inventore di Mad Men. Sebbene la meritata fama di Weiner sia interamente riconducibile a Mad Men, non bisogna dimentricare che a scoprirlo e ad avviarlo verso la carriera di sceneggiatore di serie tv fu David Chase, che lo reclutò tra gli autori de I Soprano proprio dopo aver letto lo 89 script del pilot di Mad Men nel lontano 2000. Dal canto suo Weiner impara da Chase il controllo su ogni dettaglio della propria creatura. Uno dei punti di forza di Mad Men è la precisione maniacale tanto nella ricostruzione storica, nella ragnatela di riferimenti culturali e popolari quanto nella scrittura dei personaggi, nel legare le storie personali alla Storia turbolenta dell'America degli anni Sessanta. Mad Men è culto perché si presta ad essere sezionata e assimilata come catalogo di ispirazioni, dalla moda, all’arte, alla cutura e all’arredamento, ma è difficile non attribuire parte del suo successo alla raffinatezza con cui è sceneggiata. L’idea di fondo mai tradita e la meticolosità sono gli aspetti che fanno sì che il nome di Weiner e quello di Mad Men siano inscindibili; come ha dichiarato in varie interviste, Weiner controlla personalmente l’intero processo di scrittura di ogni singolo episodio, arrivando, se necessario, a riscriverne interi stralci [12]. Si evince che per Weiner l’ultima parola sui contenuti di Mad Men è una priorità assoluta: il successo di critica e pubblico, la pioggia di premi sulla serie dall’esordio in avanti sono elementi che hanno permesso a Weiner di pretendere, oltre ad un potere decisionale pressoché illimitato, lo stipendio più alto mai percepito da un creatore di serie tv. Proprio il compenso di Weiner è al centro dei conflitti contrattuali emersi per due volte, nel 2009 e nel 2010, tra l'autore e i vertici produttivi di Mad Men, la Lionsgat e la AMC (qui una ricognizione della vicenda). A fronte dei 10 milioni a stagione accordati a Weiner, rete e casa di produzione vorrebbero un aumento della pubblicità durante la messa in onda, un ridimensionamento del cast e più product placement mirato (parte integrante della serie per quanto riguarda i marchi realmente esistenti tra i clienti delle agenzie pubblicitarie rappresentate). L'accordo viene raggiunto nel 2011, e oltre ad appianare le questioni economiche conferma soprattutto le ulteriori tre stagioni di Mad Men necessarie, nel progetto dell’autore, a portare a termine la serie. Oggi è da poco terminata la sesta, e gli sviluppi della carriera post-Mad Men di Weiner saranno certamente scandagliati dagli esperti del settore: comunque vadano le due rimanenti stagioni, l'autore si è guadagnato un posto nell'olimpo degli sceneggiatori televisivi più talentuosi e influenti. 90 Joss Whedon, “one of us” Joss Whedon rappresenta perfettamente l'idea di showrunner che conosce e rispetta il proprio pubblico,e soprattutto sa come creare un prodotto di culto perché ha dimestichezza con le pratiche del fandom, essendo a sua volta uno spettatore appassionato e fan. La serie che gli ha dato la fama è Buffy The Vampire Slayer; o meglio, è la costruzione di un mondo complesso come il Buffyverse che l’ha fatto diventare amato e riconoscibile: guadagnandosi la fiducia dei fan e l’interesse degli studiosi per la sua capacità di lavorare all'interno di stilemi e codici, ribaltandone sensi e significati, per l’ideazione di personaggi femminili forti e opposti agli stereotipi di genere. L’affetto incondizionato dei fan e il riconoscimento dello status di autore ha fatto sì che la serie abortita Firefly e il passo falso Dollhouse non abbiano impedito a Whedon di mantenere intatta la propria reputazione: da un lato all'interno della produzione mainstream, con il progetto The Avengers, sia cinematografico, con l’omonimo blockbuster, che seriale, con l’imminente Agents of S.H.I.E.L.D.; dall’altro attraverso creazioni più sperimentali, come Quella casa nel bosco, diretto assieme a Drew Goddard e Much Ado About Nothing, girato nella pausa tra le riprese e la post-produzione di The Avengers. Joss Whedon è il classico caso di un’inventiva e di un’irriverenza fuori dal comune, non tanto nella forma (non ha mai bisogno di scandalizzare o di puntare sul sensazionalismo per raccontare punti di vista inediti) quanto nei contenuti, difficilmente incasellabile e dunque destinata a scontrarsi a più riprese con i vertici produttivi. La Fox non comprende e dunque ostracizza i lavori di Whedon in due occasioni: recentemente con Dollhouse (2009-2010), ambizioso progetto semi sci-fi con protagonista Eliza Dushku, che differisce dal rassicurante procedurale che la Fox esige; ma soprattutto, con Firefly (2002-2003), sfortunata e amata serie che il canale manda in onda senza seguire l'ordine degli episodi prima di cancellarla dopo una stagione. Firefly ha beneficiato di un fandom attivo e sostanzioso, che Whedon ha reso felice riuscendo a dare una conclusione alla serie con il film Serenity (2005). Da questi eventi sfortunati la personalità pubblica di Whedon è sempre uscita rafforzata, anche per la sincerità con cui nelle interviste parla dei propri errori e delle difficoltà a mantenere intatta la propria idea, per la convinzione nei propri interessi, per il sincero affetto che dimostra verso i propri attori. Sempre diviso tra produzioni ad alta visibilità e progetti più di nicchia (Dr. Horrible Sing-Along Blog), il recente coinvolgimento con la 91 Marvel appare la consacrazione definitiva all'interno dell’universo geek più mainstream, e d’altro canto i fan sanno che il successo commerciale del connubio permetterà a Whedon di perseguire progetti più personali. J. J. Abrams, il brand Il nome di J.J. Abrams è principalmente associato al successo più rilevante e influente del nuovo corso della serialità televisiva, Lost (2006-2010): è interessante che di Lost Abrams abbia scritto solo il pilot e poco più, e che le redini dello show siano presto passate interamente ai co-creator Damon Lindelof e Carlton Cuse. Se Abrams sembra il meno profondamente coerente tra gli autori seriali, al tempo stesso è una delle personalità più versatili e degli showrunner più prolifici. Il nome di Abrams è in qualche modo riuscito a sganciarsi dall'effettivo materiale narrativo letteralmente ideato per diventare una sorta di brand capace di evocare immediatamente il dipanarsi di enigmi, colpi di scena, fenomeni misteriosi sospesi tra scienza e misticismo, personaggi che si inoltrano in selve di domande senza risposta. Il modello Lost stesso è stato creduto erroneamente replicabile, e il pacchetto mistero-cospirazione-(fanta)scienza ha portato all'apparizione di epigoni per lo più fallimentari (Flashforward, The Event tra gli altri). Come quando Tarantino era posto a nume tutelare delle pellicole più disparate, pur che comprendessero action postmoderno e violenza pop, durante e dopo la messa in onda di Lost il nome di J.J. Abrams ricorre come produttore in molti show e film: da Fringe (la serie in cui il contributo di Abrams è più ingente, dopo Felicity e Alias) a Person of Interest, da Revolution alle presto cancellate Alcatraz e Undercovers; e sulla scia dei mostri misteriosi e invisibili che infestavano l’isola di Lost, la frase di lancio del film horror Cloverfield (2008), prodotto da Abrams e diretto da Matt Reeves, è “Something has found us”; nel lancio della serie Alcatraz, di cui Abrams è esclusivamente produttore, si insiste sull’associazione tra il carcere-isola e l’altra Isola, complice anche la presenza di Jorge Garcìa/ Hurley. Tuttavia, se da un lato Abrams si dimostra consapevolmente in grado di gestire la vendibilità del suo nome, dall’altro deve fare i conti con un certo discredito dovuto al frequente insuccesso critico, prima che di pubblico, di molti dei suoi ultimi prodotti seriali. Abrams continua comunque a sfornare una serie dopo l'altra, e contemporaneamente si sposta con sempre più frequenzae dal piccolo al grande schermo: anche in questo settore coinvolge il suo nome in progetti di vario tipo tra cui molti franchise di successo: dopo Mission Impossible, Star Trek e ora, senza timore di inimicarsi entrambi i fandom più famosi della storia, Star Wars, di cui dirigerà l’Episodio VII, il primo capitolo dopo la criticatissima acquisizione Disney della Lucasfilm. La figura di Abrams appare antitetica a quella di Joss Whedon: se il creatore di Buffy è amato dal pubblico e osteggiato dalle reti, Abrams sembra una miniera economicamente inesauribile ma più controversa dal punto di vista della propria poetica; se Whedon è l'emblema dell’idea brillante e delle mille sfumature del compromesso, la 92 personalità di Abrams si inabissa nella miriade di progetti diversi per riemergere sporadicamente. Ed è paradossale che ultimamente la specificità dello showrunner seriale per eccellenza emerga più nei film da lui scritti e diretti (si veda Super8) che nelle serie. Conclusioni Se Twin Peaks rappresenta uno snodo fondamentale nel legame tra la creazione di un prodotto seriale e la riconoscibilità del suo autore, ci troviamo oggi, 13 anni dopo, ad assistere ad un altro momento diversamente tempestato di cambiamenti, che i più incauti definiscono rivoluzionari e i prudenti semplicemente il naturale evolversi delle cose. Netflix, piattaforma distributiva di dvd e streaming che negli ultimi anni ha visto aumentare esponenzialmente il proprio numero di abbonati e dunque i propri introiti, ha prodotto quest'anno la sua prima serie, contraddistinta da credits di altissimo livello e budget da capogiro: House of Cards, ideata da Beau Willimon a partire dall'omonima miniserie della BBC, prodotta da David Fincher e interpretata (e prodotta) da Kevin Spacey. Un regista di culto e un attore molto amato, affiancato da Robin Wright, per un prodotto ambiziosissimo,ad alto budget, costruito alla perfezione attorno al carismatico protagonista. Su Salon Andrew Leonard afferma, dati alla mano, che Netflix ha prodotto a tavolino una serie d’autore sulla base dei risultati di indagini tra gli abbonati e gli spettatori (che comprendono ad esempio l’analisi di quante volte e dove l'episodio viene messo in pausa). L’evoluzione della dittatura del rating è dunque lo studio capillare di ogni aspetto delle abitudini di consumo seriale? In uno scenario estremo, potrebbe cambiare anche la percezione del processo creativo alla base di una serie tv, e con essa la rilevanza effettiva dell’autore; al tempo stesso, se è vero che ci si baserebbe prevalentemente sulle preferenze degli spettatori, si potrebbe arrivare a chiedere il coinvolgimento di soli autori-star affermati. Note [1] Cfr. Guglielmo Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma, 2006, p. 23. [2] Ivi, p. 27. [3] Cfr. R.J. Thompson, Television's Second Golden Age. From Hill Street Blues to E.R., New York, Continuum, 1996. [4] Cfr. Matt Hills, Fan Cultures, Routledge, Oxon-New York, 2002, p. 133. [5] Sulle reti via cavo l'autore ha certamente più libertà: David Chase non avrebbe potuto rendere I Soprano lo straordinario affresco drammatico è su un canale generalista. [6] Cfr. Massimo Scaglioni, Tv di culto. La serialità televisiva americana e il suo fandom, Vita e Pensiero, Milano, 2006. [7] Ivi, p. 51. [8] Matt Hills riportato da Scaglioni, ivi, p. 52. [9] Questo scritto si propone di offrire degli spunti sul successo dell'autorialità seriale, ed è evidentemente tutt'altro che esaustivo. Molti autori importanti che sarebbero potuti rientrare nella nozione di autore-star sono stati lasciati da 93 parte (Alan Ball, Ryan Murphy, Shonda Rhimes, Tina Fey) sia per motivi di spazio, sia perché si è cercato di scegliere un ventaglio di personalità rappresentative del fenomeno ma diverse tra loro. [10] Sorkin è attivo anche al cinema, sue le sceneggiature di Codice d'onore, Il presidente – Una storia d'amore, La guerra di Charlie Wilson, L'arte di vincere. [11] Si vedano ad esempio Howard Kurtz, Aaron Sorkin’s Cable Crackup: Why His HBO Series Is a Snooze o Brice Ezell, Aaron Sorkin’s Millennial Problem in The Newsroom [12] Cfr. David Itzkoff, The Top Man at Mad Men Isn't Mad Anymore 94 B ARBARA M AIO Sam Neill: un attore alla fine del mondo V I SONO ATTORI NELLA STORIA DEL CINEMA , CHE SONO ENTRATI A FAR PARTE DELL ’ IMMAGINARIO COLLETTIVO , VERI E PROPRI MITI , FIGURE ICONICHE CHE HANNO SAPUTO INCARNARE PERSONAGGI CHE FANNO ORMAI PARTE DELLA NOSTRA VITA . A TTORI COME R OBERT D E N IRO , R OBERT R EDFORD , J ACK N ICHOLSON , H ARRISON F ORD O , PIÙ RECENTEMENTE , B RAD P ITT , G EORGE C LOONEY O L EONARDO D I C APRIO , SOLO PER NOMINARNE ALCUNI , SONO ORMAI VOLTI A NOI FAMILIARI , SPESSO LEGATI AD UNA CERTA TIPOLOGIA DI PERSONAGGI , BUONI O CATTIVI , EROI E ANTIEROI , PRINCIPI AZZURRI O SPIETATI KILLER . S ONO POCHI , PERÒ , GLI ATTORI CHE POSSONO ESSERE PRESI COME FIL ROUGE PER TENTARE UNA STORIA DEL CINEMA TRASVERSALE . Infatti, se gli attori prima citati hanno raggiunto un successo mondiale grazie, soprattutto, a film di produzione statunitense, Sam Neill ha espanso la sua carriera in cinematografie spesso lontane tra loro, divenendo nel corso di una ormai quarantennale carriera, un attore capace di rappresentare la cinematografia mondiale grazie a film Europei, Statunitensi e dell’area dell’Australasia, partecipando a blockbuster così come a piccoli film indipendenti e invisibili, incarnando la figura del santo e del demonio, dell’eroe romantico e del folle maniaco, mettendosi alla prova in tutti i generi, tra cinema e televisione, tra grandi successi e altrettanto grandi flop. Il tutto, mantenendo un basso profilo, così da non incorrere in tutti quei lati negativi dell’esposizione mediatica che spesso colpiscono le celebrities. S AM N EILL È UNO DI QUESTI . 95 L’inizio della carriera - Gli anni Settanta Nato nel 1947 in Irlanda del Nord, Sam Neill si trasferisce presto con la sua famiglia in Nuova Zelanda, Isola del Sud, terra di origine del padre, militare di professione che, dopo il ritiro dall’esercito, entra nel commercio degli alcolici gestendo una delle aziende più rigogliose della terra dalle lunghe nuvole bianche. Il giovane Sam, dopo la laurea in Letteratura, inizia la sua carriera nel mondo del cinema come regista per la Film Commission locale realizzando diversi documentari e esordendo come attore nel cortometraggio Ashes del 1975 e poi nello stesso anno nel lungometraggio Landfall che racconta la storia di due coppie che fuggono dalla città per organizzarsi in una sorta di comune in campagna ma, le ansie e le contraddizioni della civiltà non lasceranno loro scampo. Il film resta a margine della distribuzione neozelandese e viene visto dall’attore solo come un divertimento e non come il possibile inizio di una carriera. Infatti, Sam Neill dichiara più volte di vedersi in questa fase della sua vita solo come regista e non anche come attore. Ma la svolta avviene solo due anni dopo, nel 1977, una data importantissima per la cinematografia Neozelandese, per la realizzazione del film Sleeping Dogs di Roger Donaldson. Questo è, infatti, il primo film in tanti anni, esclusivamente di produzione Nazionale, anche se viene scelto un regista Australiano e l’attore più famoso è il leggendario attore Americano Warren Oates. Sam Neill viene scelto come protagonista di questa storia distopica che segue le avventure di un uomo coinvolto suo malgrado nella lotta tra guerriglieri e forze destrorse in una Nuova Nel distopico Sleeping Dogs del 1977 Zelanda ai limiti della guerra civile. Il film ottiene una grande attenzione anche al di là dei suoi meriti artistici proprio per la sua importanza culturale, economica e sociale. Proprio durante la promozione in Australia di questo film, a Sam Neill viene offerta la parte del protagonista nel film La mia brillante carriera del 1979, tratto dal libro di Miles Franklin sull’emancipazione di una giovane donna che sceglie di seguire i suoi sogni letterari invece di avere un ottimo matrimonio nell’Australia all’inizio del Ventesimo Secolo. Al fianco di una giovane esordiente Judy Davis, Neill ottiene un grande successo diretto da una donna, Gillian Armstrong, tratto caratteristico da sempre rivendicato dall’attore, cioè quello di trovarsi meglio a lavorare con molte donne, dietro e davanti alla macchina da presa. Il personaggio di Neill è quello del giovane e affascinante Harry, amante della protagonista e che viene lasciato alla fine del film. Un ruolo 96 romantico e originale che permette a Neill di mettersi in evidenza non solo per il suo bel volto che, comunque, presenta un fascino fuori dai canoni classici della bellezza maschile. La coppia Neill-Davis diviene in Australia, e poi nel resto del mondo, l’ideale romantico di un amore moderno, anche se il film non ha un lieto fine, ed è lontano dai canoni della commedia romantica hollywoodiana. In questa fase Sam Neill è identificato come una sorta di “principe azzurro”, bello, giovane, con un fascino già maturo e lineamenti particolari che propongono una bellezza originale, profondi occhi azzurri e una carriera tutta da costruire, rischiando quindi di rimanere intrappolato in ruoli altrettanto romantici. Ma le cose andarono - per sua fortuna - differentemente. Harry Becham in La mia brillante carriera L’affermazione - Gli anni Ottanta Questo successo convince Neill ad affrontare la carriera con convinzione ma, necessariamente, lo porta lontano dalla Nuova Zelanda dove veniva indicato specialmente adatto a ruoli da omosessuale, non molto frequenti nel suo paese. Si trasferisce in Australia, paese che gli offre un margine maggiore di visibilità ed opportunità. Dopo alcune partecipazioni a serie televisive, arriva una altra svolta: Clarissa Kaye, la moglie Australiana del famoso attore James Mason, lo nota nel film della Armstrong e lo fa conoscere al marito che lo invita a sue spese in Europa e lo suggerisce per il ruolo da protagonista nel terzo capitolo della saga horror The Omen. Abbandonando, quindi, il personaggio del bel pretendente, Neill è qui l’Anticristo in persona, affascinante sì, ma letale. Pur se questo film non è un capolavoro, il ruolo consente a Neill di affermarsi anche in Europa e di essere Nei panni dell’anticristo Damien Thorn in The Omen III 97 scelto come protagonista nel cult-horror Possession di Andrzej Zulawski e nel film Da un paese lontano, ovvero la storia del giovane futuro Papa Giovanni Paolo II. Nel primo film, accanto alla bellissima Isabelle Adjani, Neill si trova ad interpretare il ruolo del marito che pensa che la moglie lo stia tradendo ma, in realtà ha una relazione con un mostro partorito dalla sua stessa nevrosi. Un film oscuro, poco comprensibile, con scene memorabili. Il ruolo non è dei più facili e Neill deve spaziare in una vasta gamma espressiva, prevalentemente tendente al folle. In uno solo anno, il 1981, e con questi tre film, Neill si dimostra una attore versatile e pronto a qualsiasi ruolo. Dal 1982 al 1989 è protagonista di ben diciassette titoli. Tra questi è la spia Sidney Reilly nella serie britannica Reilly Ace of Spies, un grande successo per il quale l’attore ottiene diversi premi e menzioni. Il ruolo lo fa affermare soprattutto nel Regno Unito, dove la serie è un grandissimo successo, e Neill Capitan Starlight in Robbery under arms del 1985 propone ancora una volta un personaggio molto affascinante e suadente ma, al contempo, con moltissimi lati oscuri. Poi, ancora, lavora al fianco di Jodie Foster (Il sangue degli altri), Meryl Streep (Plenty e Un grido nella notte), Nicole Kidman (Ore 10: calma piatta), si cimenta con il western (Robbery Under Arms), il film storico (Ivanhoe al fianco del suo pigmalione James Mason), il thriller fanta-politico (Amerika). Ciò che emerge da questo decennio è l’estrema versatilità dei ruoli conquistati, non rimanendo intrappolato nello stereotipo romantico del bel tenebroso ma, anzi, andando spesso a interpretare personaggi controversi, di difficile catalogazione, lavorando molto sulla voce ed interpretando spesso personaggi Sovietici, dimostrando una notevole versatilità. 98 Il grande successo - Gli anni Novanta Il decennio successivo parte con i migliori auspici e Neill è scelto per affiancare Sean Connery nel blockbuster Caccia a Ottobre Rosso. Nello stesso anno è protagonista nella black comedy Death in Brunswick e poi, l’anno successivo, il 1991, è co-protagonista di Fino alla fine del mondo di Wim Wenders nel quale accompagna il film anche come voce narrante. La sua interpretazione del compagno della protagonista è, però, apprezzabile solo nella versione completa del film, dove il ruolo di Neill assume tutta una altra rilevanza in confronto alla versione tagliata che si è vista troppo spesso sugli schermi. In questa versione completa, il suo personaggio è il conduttore della storia, la voce narrante sempre presente che guida lo spettatore in questa vicenda sospesa tra la sci-fi e la poesia. Dopo aver ritrovato Judy Davis in One Against the Wind e aver lavorato con il grande John Carpenter in Avventure di un uomo invisibile, arriva il suo anno d’oro, il 1993. In questo anno escono ben cinque film che lo vedono protagonista: Affondate il Rainbow Warrior, tv movie sull’affondamento del veliero di Greenpeace, Sirene, film sulla controversa figura dell’artista Australiano Norman Lindsay, il bellissimo tv movie Foto di famiglia, nel quale al fianco di Anjelica Huston interpreta il padre di un bambino autistico, e poi The Piano di Jane Campion, vincitore di tre Oscar e della Palma d’Oro a Cannes (ritirata proprio dallo stesso Neill) e Jurassic Park di Steven Spielberg. Una cinquina notevole che mescola generi e forme diverse, portando Sam Neill alla notorietà mondiale grazie, soprattutto, ai dinosauri di Spielberg. Nel film della Campion, affronta nuovamente un ruolo complicato, con un uomo che - come dichiara la regista - non è il classico cattivo a tutto tondo. Neill deve interpretare il non In The Piano del 1993 99 facile ruolo di un uomo represso e insicuro in una società estremamente maschilista, deve affrontare la forza e la determinazione della moglie (Holly Hunter) che lo tradisce con il selvaggio Baines (Harvey Keitel). La sua recitazione qui è estremamente misurata e controllata fino alla sequenza più famosa del film, il taglio del dito della moglie, una scena che esplode con una violenza assurda e devastante. La scena - ha dichiarato Neill - è costata una fatica immensa alla coppia con la Hunter, piccola anche di costituzione rispetto a Neill stesso, che lascia impressionati per la sua forza, e che ha costretto i due attori ad arrivare stremati alla fine della scena. Il suo personaggio finirà folle e sconfitto, lasciando alla moglie la libertà di una nuova vita. In Jurassic Park il ruolo è più semplice anche se essere all’interno di un blockbuster simile non è mai cosa facile. Neill qui propone il personaggio dell’eroe per caso, lo studioso abituato a scavare fossili nel deserto che, suo malgrado, si trova faccia a faccia con veri dinosauri; un sogno e un incubo allo stesso tempo. La sua interpretazione è convincente poiché rifugge dall’eroe macho e maschilista per proporre una versione paterna - per la maggior parte del film è sullo schermo con i due bambini della storia - dell’uomo in lotta contro la natura. Gli anni Novanta sono solo agli inizi e chiunque avrebbe approfittato di questi successi per incanalarsi su un percorso fatto di facili successi. Eppure Neill, non amante della fama e dell’invasione della privacy che ne segue, effettua scelte molto poco mainstream, come la versione Australiana di Zio Vanya di Anton Čechov (Vita di campagna), ancora Carpenter ma questa volta da assoluto protagonista in uno dei film più suggestivi del maestro dell’horror (Il seme della follia), di nuovo in Australia e per la terza volta accanto a Judy Davis (Figli della rivoluzione), poi per la prima volta nello spazio (Punto di non ritorno), Mago Merlino nell’omonima serie di grande successo, per ben due volte partner di Kristin Scott Thomas (L’uomo che sussurrava ai cavalli e Amori e vendette) ma, a 100 dimostrazione del suo rapporto con la notorietà, quello che indica come punto massimo della sua carriera è l’aver doppiato un personaggio de I Simpsons. Nel film di Carpenter regge quasi solo sulle sue spalle la storia metariflessiva di un investigatore privato che deve scovare uno scrittore horror di successo sparito alla vigilia dell’uscita del suo nuovo libro. Inizia una discesa all’inferno dove la finzione del libro si mescola alla realtà, dove il protagonista, inizialmente scettico, dovrà ricredersi sull’esistenza di mostri e fantasmi che scaturiscono dalla nostra stessa mente. Anche in questo caso il suo personaggio finirà per giungere alla follia, un tratto che sta diventando caratteristico delle sue interpretazioni poiché anche in Punto di non ritorno il suo personaggio perderà presto la sanità mentale. Molto diversi, invece, i ruoli accanto alla Thomas, dove in entrambi i casi si presenta come amante romantico e gentile, così come sarà anche nel ruolo del dottor Askey in Vita di Campagna dove tenta di sedurre la bella Greta Scacchi. Originale il ruolo in Figli della Rivoluzione dove, ancora una volta al fianco di Judy Davis, viene raccontata la morte di Stalin da un punto di vista inusuale. Qui è una spia pronta a cambiare bandiera ad ogni svolta politica ma che vacilla nelle sue certezze quando il personaggio della Davis uccide per caso Stalin dopo aver fatto sesso con lui, finisce a letto anche con il personaggio di Neill e resta incinta, lasciando il dubbio su chi sia il vero padre del figlio. Il film è una divertente commedia e rientra nella categoria “film invisibili” che invece meriterebbero maggiore distribuzione. Questo decennio rappresenta l’apice della sua carriera, con l’anno 1993 difficilmente superabile e, in generale, una carriera fin qui sviluppata in maniera ineccepibile, mescolando qualità e quantità. Una carriera lunga e tranquilla - Gli anni Duemila Ormai Sam Neill è un nome affermato, conosciuto dal pubblico e amato dalla critica. Anche se in più occasioni l’attore ha dichiarato di non avere una strategia precisa nelle scelte professionali effettuate, il risultato è un volto che non rimane intrappolato in un personaggio o in una caratterizzazione ben definita. Nel nuovo decennio si segnala l’originale commedia Australiana The Dish, che narra lo sbarco sulla Luna da una prospettiva originale, un film divertente e malinconico dove Sam interpreta la parte di uno scienziato al comando di una grande parabola, l’unica in grado di trasmettere il segnale dello sbarco lunare. Nel 2001 riprende il personaggio di Alan Grant in Jurassic Park III ma, nello stesso anno, è anche in The Zookeeper, struggente racconto della nell’Europa dell’Est. Qui è un uomo solo e ferito che trova una nuova prospettiva di vita al fianco di una donna e di suo figlio in fuga dagli orrori della Guerra. Anche 101 qui la sua interpretazione è estremamente moderata e controllata, in linea con la costruzione del personaggio abituato alla solitudine e che, nel momento in cui decide di aprirsi alla speranza, va inevitabilmente incontro al dolore. Nel 2003 torna a lavorare in Nuova Zelanda con Perfect Stranger dove è nuovamente un folle seduttore che prima conquista una donna per poi segregarla in una casa su un’isola disabitata. Anche qui tra follia, seduzione e romanticismo, il suo personaggio non passa inosservato. L’anno successivo, torna anche alla regia con il film The Brush Off, nove anni dopo il documentario sul cinema della Nuova Zelanda Cinema of Unease. Nel 2004 è diretto ancora da una donna, Sally Potter, in Yes, mentre nel 2006 recita accanto a Susan Sarandon nel thriller Le verità negate. Nel 2007 è nella serie tv I Tudors dove nella prima stagione interpreta la controversa figura del Cardinale Thomas Wosley, e nel 2008 in Dean Spanley accanto alla leggenda Peter O’Toole che aveva già incrociato in diversi film senza averne condiviso alcuna scena. Questo bellissimo e quasi invisibile film, è una malinconica riflessione sulla vecchiaia, con Sam Neill nei panni di un uomo che ha ricordi di una vita precedente nella quale era un cane. Nel 2009 è un vampiro senza scrupoli in Daybreakers dove recita accanto al suo amico Willem Defoe. Vampiro spietato in The Daybreakers La migrazione verso il piccolo schermo - Gli anni contemporanei In questi ultimi anni, come molti suoi colleghi, Sam Neill si muove con più convinzione verso il piccolo schermo che ha ormai raggiunto livelli qualitativi elevati e offre opportunità spesso assenti nel cinema. A cavallo del decennio è tra i protagonisti della serie Crusoe della NBC, poi in Happy Town della ABC e in Alcatraz della Fox creata dal golden boy J.J.Abrams. Il cinema non è, ovviamente, abbandonato e lo vediamo ancora accanto a Defoe in The Hunter ambientato in 102 Gerard Depardieu. Il tutto in attesa di sapere chi farà parte del cast di Jurassic Park IV annunciato da Spielberg per il 2014. Analisi di una carriera Tasmania e nel successo commerciale La memoria del cuore. In questi ultimi mesi è co-protagonista di due miniserie nelle quali interpreta due poliziotti piuttosto lontani tra loro: la miniserie Neozelandese Harry e la britannica Peaky Blinders. In arrivo a breve il tv-movie Statunitense The Ordained della CBS e la serie Australiana Old School. Per il cinema sarà invece in Escape Plan accanto a Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, nel fantasy The Adventurer: The Curse of the Midas Box e in A long way down tratto dal romanzo di Nick Horby ed è di questi giorni la notizia che sarà João Havelange sul film sulla FIFA F2014 al fianco di Tim Roth e Questa lunga carrellata ricca di nomi e titoli mostra solo in parte la complessità di una carriera che si è mantenuta sempre ai limiti della celebrità, riuscendo a sfuggire alla parte più decadente dello showbusiness. Infatti, in tutti questi anni, Sam Neill pur non nascondendosi e senza tirarsi indietro in eventi pubblici e festival, non è mai stato oggetto di gossip di alcun tipo. Nella vita privata, dopo una relazione con la collega Neozelandese Lisa Harrow conosciuta sul set di The Omen III e dalla quale ha un figlio, si sposa nel 1989 con la make up artist Giapponese Noriko Watanabe, conosciuta sul set Ore 10: calma piatta e insieme hanno una figlia. Inoltre, la moglie ha già una altra figlia nata da una precedente 103 relazione. Questa famiglia allargata non viene mai tenuta nascosta ma nemmeno ostentata per puro spirito di esibizionismo. Il web è pieno di informazioni su Sam Neill e la sua vita anche perché l’attore è molto attivo su Twitter e ha un blog continuamente aggiornato e legato alla sua altra grande passione, il vino. Infatti, l’attore è il fondatore della Two Paddocks, azienda vinicola specializzata in Pinot Nero e situata nella zona dell’Otago in Nuova Zelanda, Isola del Sud. Attraverso il suo blog, i suoi tweets e i post su Facebook dalla pagina dell’azienda, i fans possono seguire la sua vita privata e pubblica, aggiornandosi su vita di set e cene con gli amici. Una scelta intelligente dell’uso dei social network, che consente all’attore di concedersi al pubblico ma, al contempo, di non essere esposto in maniera voyeristica nelle sue uscite pubbliche e private. Certo molto del merito è anche nella scelta di avere una vita “normale” che rifugge da feste all’ultima moda e frequentazioni ambigue per dedicarsi ad una ristretta cerchia di amici e parenti. Infatti, spesso le news che emergono trattano di cene con amici come Willem Dafoe, Hugo Weaving o Bryan Brown, colleghi di set e di vita. E comunque, questa esposizione controllata è fatta anche con una grande dose di ironia: basti vedere i divertentissimi Microdoodles presenti sul sito, dei mini film di pochi minuti in cui l’attore espone se stesso nel privato, nella sua vigna con il suo personale, per realizzare piccole storie tra il surreale e il comico, come il Doodle Natalizio #9 con il casting per interpretare un Presepe vivente. Tra questi brevi filmati e gli interventi nel blog - tutti scritti da Sam Neill in persona emerge un attore che non vuole prendersi troppo sul serio, che apprezza la sua vita professionale e personale, quella di un attore che è stato ad un passo dall’essere James Bond, e non ha mai rimpianto il fatto di non essere stato scelto per il ruolo. Sam Neill nel provino per il ruolo di James Bond. Curious Facts Il vero nome di Sam Neill è Nigel. L’attore ha cambiato il nome ai tempi della scuola in Nuova Zelanda poiché Nigel suonava troppo britannico. Anche se non è accreditato nelle filmografie più diffuse, Sam Neill appare brevemente nel film per la tv Neozelandese The city of No, nel 1971. Sam Neill ha una voce particolarmente riconoscibile e suadente. Spesso è stato impegnato in lavori di doppiaggio (Il regno di Ga’Hoole, Il budino magico). Il suo accento a tratti è 104 fortemente britannico eppure in più occasioni gli sono state assegnate parti di personaggi sovietici. Proprio Il budino magico, è tratto da un libro dell’artista Norman Lindsay che sarà impersonato da Neill nel film Sirene. Nel film Punto di non ritorno, ogni membro dell’equipaggio ha la bandiera della propria Nazione così come si immagina sia nel futuro. Sam Neill ha sulla sua divisa la bandiera degli Aborigeni Australiani. Il personaggio di Sidney Reilly, il protagonista della serie Reilly: Ace of Spies del quale Neill è protagonista, si dice abbia ispirato Ian Fleming nella creazione di James Bond, personaggio per il quale Sam Neill è stato preso in considerazione nel 1987 per The Living Daylight. La parte è poi andata a Timothy Dalton. Appassionato di arte e architettura, agli inizi della carriera Sam Neill ha diretto un documentario sull’architetto Neozelandese Ian Athfield. Altra passione è la musica e nel 1993 è la voce narrante del documentario Split Enz - Spellbound sul gruppo musicale Split Enz. Sam Neill è uno dei protagonisti del mockumentary di Peter Jackson Forgotten Silver sulla figura del mitico regista Neozelandese Colin McKenzie. Che non esiste. Sam Neill è narratore, regista e produttore del documentario sul cinema Neozelandese Cinema of Unease. Il film fa parte di una più vasta produzione della BFI relativa alle cinematografie internazionali. L’approccio di Neill è quello del viaggio personale sui luoghi della sua infanzia. Il suo documentario è stato quello che ha ottenuto maggiori consensi, è stato proiettato al Festival del Cinema di Cannes e nel 1996 ha visto il premio come miglior documentario ai Tv Awards. Suona l’ukulele. L’unica sua regia, a parte cortometraggi e documentari, è nel 2004 per il tv movie The BrushOff in cui dirige il suo amico David Wenham, con in quale ha lavorato in diverse occasioni. È soprannominato l’Harrison Ford del Pacifico. Anche se agli inizi della carriera era stato suggerito per ruoli principalmente di omosessuale, ha interpretato un personaggio gay solo in Victory e poi un bisessuale in Little Fish. 105 Possiede un locale a Sidney nella zona di Neutral Bay, The Local Bar. Vive a Queenstown, Nuova Zelanda, South Island. Risorse http://www.twopaddocks.com http://www.samneillonline.com http://wonderfulsamneill.freewebspace.com http://www.imdb.com/name/nm0000554/ http://www.nzonscreen.com/person/sam-neill http://aso.gov.au/people/Sam_Neill/ 106 L IBRI Cult Film Stardom. Offbeat Attractions and Processes of Cultification a cura di Kate Egan e Sarah Thomas Palgrave McMillan - London 2013 - Sito Ufficiale Il recente volume a cura di Kate Egan e Sarah Thomas rappresenta una ampia ricognizione sul tema della celebrità dal punto di vista dell’idea del cult. La serie di saggi copre argomenti apparentemente molto lontani tra loro che, però, sono accomunati con l’idea della celebrità e del suo utilizzo nella costruzione del cult. Il libro si apre con la connessione tra “cult” e “stardom” con due saggi di Matt Hills e Sarah Thomas. Si prosegue con il concetto di mainstream analizzando le figure di Bill Murray (saggio di Jim Whalley) e Chloë Sevigny (saggio di Jamie Sexton), due attori molto lontani tra loro per filmografia e approccio alla notorietà. La seconda parte si chiude con un saggio di Jason Scott che affronta il tema originale delle costars del franchise di Guerre Stellari. 107 Nella terza parte viene presa in considerazione la relazione tra stardom, registi e recitazione. Justin Smith affronta un mostro sacro come Vincent Price, Steve Rawle quella del regista, produttore e sceneggiatore Hal Hartley, Ernest Mathijs si confronta con una altra grande star come David Cronenberg mentre James Lyons analizza il tema della celebrità nell’ambito delle produzioni indipendenti. Nella quarta parte il tema è dedicato all’identità con analisi su Montgomery Clift (saggio di Karen McNally), Sylvia Kristel (analisi di Leila Wimmer), Ingrid Pitt (analisi di Kate Egan) e sulla star da Guinness Weng Weng (analisi di Iain Robert Smith). Il volume si chiude con due saggi scritti a quattro mani: Mark Jancovich e Shane Brown analizzano la celebrità di Boris Karloff e Bela Lugosi mentre Cynthia Baron e Mark Bernard chiudono con una accurata analisi della celebrità delle star femminile negli anni Sessanta. Insomma ci troviamo tra le mani un volume vario che spazia anche cronologicamente tra le star del cinema, mettendo l’accento sulla costruzione dell’idea del cult tra identità e identificazione. Contrapporre stardom e cult può anche apparire rischioso poiché spesso i due termini non vanno di pari passo, ma le scelte effettuate dalle curatrici del volume ci propongono una ampia scelta di esempi che ci portano dentro l’argomento in maniera accurata e originale. Stardom Italian Style. Screen Performance and Personality in Italian Cinema di Marcia Landy Indiana University Press Bloomington & Indianapolis 2008 - Sito Ufficiale Il volume di Marcia Landy, Professore di Inglese e Film Studies presso l’università di Pittsburgh, affronta il tema della celebrità nel cinema italiano. Già in apertura, l’autrice evidenzia uno dei problemi della cinematografia in Italia rispetto al tema della celebrità: la televisione. Il piccolo schermo ha, infatti, modificato il modo in cui la star viene percepita dal pubblico. Se nel cinema del passato l’idea della star e la sua percezione era più o meno simile in tutte le industrie occidentali, con il passare del tempo, e dopo il cinema degli anni Sessanta così ricco di volti e nomi (non a caso la cover è dedicata al volto di Monica Vitti in L’Avventura), in Italia si è andati sempre più decadendo a favore del cinema Hollywoodiano in una crisi ormai infinita. 108 Nel cinema contemporaneo, anche se non mancano esempi di star davanti e dietro la mdp, vedi il caso di Nanni Moretti o Roberto Benigni, pochi volti hanno un appeal internazionale e quasi nessuno è slegato dalla tv, intesa come produttore o come mezzo per mettersi in mostra ed ottenere pubblicità. Landy mette anche molto in risalto, nella seconda parte del libro, il caso “Berlusconi” e la sua influenza sul sistema mediatico italiano con tutti i problemi conseguenti. Il volume segue un andamento cronologico e affronta tutti i nomi di maggiore e minore rilievo nel cinema italiano. Essendo il volume del 2008 sarebbe interessante avere un aggiornamento a breve ma, comunque, le conclusioni della Landy sono tuttora valide. 109 Autori Barbara Maio è Dottore di Ricerca in Cinema e Televisione (Università Roma 3, 2006). Ha pubblicato ampiamente sul cinema di genere, le serie tv (specialmente statunitensi e britanniche), il design nel cinema, l’estetica dei nuovi media. Fondatore e caporedattore della rivista Ol3Media. La sua ultima pubblicazione è Cult Tv (Rigel Edizioni 2013) disponibile free-online qui. È curatrice del progetto Osservatorio Tv, il cui primo volume è disponibile free-online qui. Alberto Beltrame è un dottorando dell'Università degli Studi di Udine: Studi audiovisivi, cinema, musica e comunicazione. Presso la stessa Università (in partnership con l'Université Paris III), nel 2012 ha conseguito la laurea magistrale internazionale con una tesi dal titolo “Politique de l'auteur-peuple. Il cinema (popolare) italiano e la critica francese degli anni Cinquanta”. Redattore della rivista di studi accademici Cinergie. Il cinema e le altre arti, si occupa in particolare di critica cinematografica, teoria dell'autore e sociologia del cinema. Patricia Boyd is an Associate Professor of Rhetoric and Composition in the English Department at Arizona State University, Tempe, Arizona. Her research interests include feminism and writing, new media studies, and rhetorical studies. Some of her recent publications include articles such as “Talking Books, Talking Identity: Analysis of a Book Discussion Board at www.weightwatchers.com,” and “Pulling the Difference: Re-envisioning Journals’ Negotiations of New Media Scholarship.” Jeff Bush is a recent PhD graduate from the University of Liverpool where he was the John Lennon Memorial Scholar in 2007 and 2008. He has presented at conferences at the Universities of Liverpool, Odense and St. Andrews. His research interests are interdisciplinary and are specifically concerned with the areas where phenomenology, psychoanalysis and literature meet. He has further interests in film and queer theory and has recently published on the film Brokeback Mountain and E.M. Forster’s seminal novel Maurice. Chiara Checcaglini è dottoranda in Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo presso l’Università di Urbino, con un progetto sulla critica della serialità televisiva in Italia. Laureata in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna, è responsabile della sezione Serie Tv sui siti Cinema Errante e Mediacritica, sui quali scrive anche di cinema, fumetti e new media. Collabora inoltre con Serialmente, sito di articoli e recensioni di serie televisive. cx Clara Garavelli is a research scholar at Universidad Autónoma de Madrid (Spain), where she finished her PhD on Contemporary Argentine Experimental Video. She received her BA at Birkbeck College (London, UK) and her MPhil at the University of Cambridge (UK). Her research interests include Latin American cinema and video, the limits of the moving image and issues related to Visual Culture and Cultural Studies. Since 2007, she has been working as a lecturer, researcher and editorial board member of the Spanish Film Journal Secuencias. Revista de Historia del Cine (UAM-Maia Ediciones). Caterina Rossi nata a Brescia nel 1983, laureata in Scienze della Comunicazione e Giornalismo ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in storia e critica del cinema presso l’Università degli Studi di Verona, dove ora è cultore della materia. Nel 2011 ha pubblicato il volume monografico Nicole Kidman (editore L’Epos, Palermo). Attualmente è docente di storia del cinema presso la Libera Accademia di Belle Arti (LABA) di Brescia. Il suo ambito di ricerca riguarda lo studio dell’attore cinematografico e il rapporto tra cinema e arti visive. Michael Angelo Tata PhD, is the Executive Editor of the Sydney-based electronic journal of literature, art and new media nebu[lab] and a member of the editorial collectives of the journals Kritikos and rhizomes. His Andy Warhol: Sublime Superficiality arrived to critical acclaim from Intertheory Press in 2010. His lyric essays on poetics, psychoanalysis and philosophy appear most recently in the collections The Salt Companion to Charles Bernstein and Neurology and Modernity: A Cultural History of Nervous Systems, 1800-1950 as well as the British journal Parallax (Routledge). His poetry and graffiti are featured in the British journal Rattle and in the American journal Xanadu. He also writes reviews of contemporary Aesthetics titles for Temple University’s and Mount Holyoke College’s Journal of Aesthetics and Art Criticism. Miriam Visalli è Dottore di Ricerca in Discipline del Cinema (Università di Torino, 2006). Durante il post doc ha svolto attività didattica nell'ambito dei corsi di "Semiotica del Racconto Audiovisivo" e "Forme e Generi dello Spettacolo Radiotelevisivo". Svolge attualmente attività di ricerca nell'ambito degli studi culturali e visuali applicati al cinema e all'audiovisivo. Collabora alla didattica del corso di "Semiologia del Film" presso il corso di laurea magistrale in Cinema e Nuovi Media dell'Università di Torino. Recentemente ha scritto di police procedural, Once Upon a Time e Person of Interest. cxi