Stardom_files/Ol3Media 13 Stardom

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Stardom_files/Ol3Media 13 Stardom
OL3MEDIA - ANNO 6
Media Stardom
Fama, successo e gossip
tra passato e futuro
a cura di Barbara Maio
N° 13 - SETTEMBRE 2013
Media Stardom
Fama, successo e gossip tra passato e futuro
a cura di Barbara Maio
© 2013 by Rigel Edizioni
00147 Roma, Via dei Lincei n.39
Web Site: http://apsrigel.blogspot.it
ISBN 978-88-908180-2-8
© 2013 Rigel - Ol3Media Book Series
____________________________________________________
Ol3Media Book Series è una collana editoriale della rivista Ol3Media,
e-journal gratuito e consultabile sul sito http://host.uniroma3.it/riviste/Ol3Media/
Contatti: [email protected]
Il volume è pubblicato secondo la
Creative Commons Public License
Direttore Responsabile: Barbara Maio
Redazione: Mauro Corsetti, Giada Da Ros, Corrado Peperoni, Paolo Russo
Ogni immagine, video, logo, marchio registrato è del legittimo proprietario.
L’utilizzo degli stessi in questa pubblicazione gratuita ha il solo scopo accademico e didattico.
i
O L 3 MEDIA 13
Media Stardom
Indice
Barbara Maio, Introduzione
Caterina Rossi, Divismo 2.0 tra corpo di massa e corpo d’autore:
Robert Pattinson in Twilight e Cosmopolis
Clara Garavelli, A Shared Star Imagery: The Argentine Actor
Ricardo Darín through Spanish Film Posters
Patricia Boyd, “I Got This: How I Changed My Ways and Lost
What Weighed Me Down”: Re-construction of Jennifer Hudson’s
“Star” Identity in American Weight Loss Advertisements
Michael Angelo Tata, Adventures in Meta-celebrity:
Andy Warhol and the Fame of Fame
Miriam Visalli, Marilyn contro Marilyn.
Smash e la rilocazione del mito
Alberto Beltrame, Una leggenda d'artista, un divismo
autorialista. Il paradigma Rossellini nella critica francese
degli anni Cinquanta
Jeff Bush, The Face of Marylin
Chiara Checcaglini, Created by. L’autore-star nella serialità
televisiva contemporanea
Barbara Maio, Sam Neill: un attore alla fine del mondo
Libri
Introduzione
Marilyn Monroe con lo scrittore Arthur
Miller, suo marito dal 1956 al 1961
Ragioniamo sulla celebrità
di Barbara Maio
Il corpo della star è storicamente il primo mezzo per attrarre
l’attenzione di un potenziale pubblico. Che si tratti di un film,
di uno spettacolo teatrale, una mostra di pittura o un
programma televisivo, utilizzare un volto, un corpo come
biglietto da visita è sempre la strategia giusta per ottenere
attenzione. Nel cinema, e nelle arti visive in genere, questa
pratica è estremizzata, si cerca di far crescere una star anche,
se non soprattutto, al di fuori del prodotto che si vuole
“vendere” per poter presentare al pubblico una figura al
contempo reale e artificiale. Un attore che appare in contesti
estranei al suo campo usuale attira attenzione, riscuote
simpatia, veicola su di
sé una attenzione che
sarà poi spendibile
nella promozione di un
film o una serie tv.
Così, se di un attore
conosciamo la vita
privata, le relazioni
segrete, le sue
frequentazioni ed
abitudini più
particolari, l’attenzione
è garantita.
Pensiamo a Marilyn
Monroe, il cui mito venne costruito soprattutto all’esterno
della sua carriera che, seppur breve, comprende diversi film
famosi, ma la sua figura viene
da sempre maggiormente
associata ai suoi flirts, veri o
presunti.
Il maggiore profeta della fama
a tutti i costi è stato senz’altro
Andy Warhol, che ha costruito
la sua immagine in maniera
maniacale, profetizzando la
possibilità di essere tutti
famosi un giorno, ed
esponendo lo stesso suo corpo
Andy Warhol
iii
come opera d’arte, di
valore anche solo per
la sua presenza, a
prescindere
dall’azione stessa,
come il semplice atto
di mangiare un
hamburger.
Nel cinema, una
testimonianza
dell’importanza
dell’immagine di un
attore o una attrice
emerge nei poster
promozionali. Nella
Manifesto di Casablanca da dove
emergono con forza i volti dei due
maggior parte dei casi
protagonisti.
sono i volti ad essere
promossi, non è “un
film che parla di” ma “un film con”. Nel cinema americano in
tutte le epoche, il volto è protagonista: gli attori e le attrice
sono protagonisti in tutti i sensi, campeggiano sui grandi
manifesti nelle strade delle immense città statunitensi,
rappresentano il film in eventi glamour, festival e cerimonie,
divenendo pubblicità dalla grandissima risonanza nazionale e
internazionale.
Il volto di Elvis Presley campeggia tra la fine degli anni
Cinquanta e l’inizio dei Sessanta su decine di manifesti che
promuovevano non un film ma un modo di essere, un mondo
in cui non è importante il cosa ma il chi. Questo film passano
rapidamente, sono semplici messe in scena la servizio del Re,
non hanno particolari ambizioni artistiche oltre
all’esposizione della star.
Era stato così
anche anni
prima, quando il
cinema diventava
rapidamente un
mezzo per
arrivare
ovunque. Le star
del passato e del
iv
muto, i personaggi che transitavano al cinema venendo dalla
musica, dal teatro o dalle copertine delle riviste,
raggiungevano livelli di popolarità e venivano venerati come
dei o eroi. Le apparizioni pubbliche di Rodolfo Valentino
scatenavano scene di isterismo e fanatismo ossessivi. La sua
prematura scomparsa non fece che accrescere il mito legato
alla sua bellezza che eclissò anche la sua bravura.
Ma il fenomeno del divismo che tanto serviva ai produttori ad
indirizzare il
pubblico verso un
determinato
prodotto, non si
ferma davanti alla
macchina da presa o
alla macchina
fotografica: anche
registi e produttori
divengono icone
della popolarità.
Alfred Hitchcock
diviene figura riconoscibile anche solo in sagoma, veicolando
un idea di film con determinate caratteristiche giocando con
la sua figura e con i suoi camei che tendono a coinvolgere il
suo pubblico.
Ancora oltre va Orson Welles che fa leva in maniera molto
rilevante sulla sua immagine, sul suo volto. Interpretando i
suoi film acquista una fama che non viene scalfita nemmeno
dalle tante apparizioni in progetti di scarso livello ai quali
partecipa solo per ottenere finanziamenti per i suoi lavori.
In tempi più recenti, l’effetto star ha colpito soprattutto
personaggi giovani che, per motivi economici, vengono spinti
ad essere sempre presenti sulla scena pubblica e privata. La
fama di Robert Pattinson è dovuta sicuramente al suo sguardo
tormentato nella saga di Twilight ma, anche, per la sua lunga
love story con la sua compagna di schermo, Kristen Stewart,
relazione (strategicamente?) terminata con la conclusione
della saga stessa.
E non si tratta di un fenomeno limitato al cinema. Gli ultimi
due anni hanno visto la scena della musica pop dominata
dalla boy band degli One Direction, cinque ragazzi ventenni
anglo-irlandesi che hanno rivitalizzato l’idea della boy band
stessa così in voga negli anni Novanta. Con un pugno di
canzoncine orecchiabili e una serie di facce angeliche, il
v
La boy band degli One Direction.
gruppo ha raggiunto
rapidamente ogni
copertina e ogni
schermo televisivo e
cinematografico
(grazie ad un film
documentario che ne
racconta l’ascesa),
specialmente in Gran
Bretagna.
BIBLIOGRAFIA
Kate Egan e Sarah Thomas (a cura di), Cult Film Stardom, Palgrave, New
York, 2013
Marcia Landy, Stardom Italian Style, Indiana University Press,
Bloomington & Indianapolis, 2008
Edgar Morin, Le Star, Feltrinelli, Milano, 1999
Francesco Pitassio, Attore/Divo, Il Castoro, Milano, 2003
Il mondo dei giovani è quello più facilmente raggiungibile
nella civiltà dell’immagine e dei nuovi (ormai non più tanto)
media. Tra Facebook, Twitter, Instagram, il volto della star è
ovunque.
In questo numero di Ol3Media si affronta il tema “Stardom”
con una serie di case studies molto vari che dimostrano come
l’argomento sia trasversale a tutti i paesi e alle forme di
espressione. Resistono figure classiche come Marilyn Monroe
e Andy Warhol ma si affronta anche il tema del registaautore-star con Rossellini o la nuova ondata di autori
televisivi che assume sempre più importanza nella “vendita”
di un prodotto. Si analizzano figure più “esotiche” come
l’argentino Ricardo Darín e il neozelandese Sam Neill e punti
di vista originali come quello della perdita di peso di Jennifer
Hudson. E naturalmente non poteva mancare un contributo
sullo stesso Robert Pattinson.
Buona lettura!
vi
C ATERINA R OSSI
Divismo 2.0 tra corpo di
massa e corpo d’autore:
Robert Pattinson in
Twilight e Cosmopolis
«A VEVA SEMPRE DESIDERATO DI DIVENTARE PULVISCOLO
QUANTICO , TRASCENDERE LA MASSA CORPOREA , I TESSUTI MOLLI
CHE RICOPRONO OSSA , MUSCOLI E GRASSO .
L’ IDEA ERA DI VIVERE
OLTRE I LIMITI PRESTABILITI , IN UN CHIP , SU DISCO , SOTTO
FORMA DI DATI , IN UN VORTICE , IN UNO SPIN RADIANTE , UNA
COSCIENZA SALVATA DAL VUOTO »
D ON D E L ILLO - C OSMOPOLIS
«Eroicizzate, divinizzate, le star sono più che oggetti
d’ammirazione: sono soggetti di culto. Si crea attorno a loro
un abbozzo di religione». Edgar Morin nello studio seminale
sul divismo Le Star (1957) ha teorizzato una liturgia stellare,
evidenziando gli aspetti cultuali che investono le entità
prodotte dallo star system: i divi vengono considerati come
semidei. La fusione tra personaggio e persona entro il sistema
di produzione cinematografico hollywoodiano ha portato alla
nascita di eroi cinematografici, figure mutuate dalla mitologia
e attualizzate nel sistema industriale di Hollywood: «Gli eroi
cinematografici, eroi dell’avventura, dell’azione, del successo,
della tragedia, dell’amore […] sono, in un modo naturalmente
attenuato, eroi nel senso divinizzante della mitologia. […]
Quando si parla di mito di una star, si tratta prima di tutto del
processo di divinizzazione che subisce l’attore cinematografico
e che lo trasforma in un idolo delle folle» [1].
Lo star system, dopo il suo periodo di massimo splendore ed
efficienza tra 1930 e 1960, ha attraversato profondi
cambiamenti grazie ai nuovi modelli produttivi e divistici
inaugurati dalla New Hollywood e alla rigenerazione avvenuta
con la diffusione del modello del corporate blockbuster [2] e
del cinema high concept [3], in cui il divo ha assunto il ruolo
di potente strumento di commercializzazione del film, parte
integrante del marketing mix [4]. Nel contesto
contemporaneo gli attributi liturgici generati attorno alle star
hanno creato nuove forme di culto. Gli spazi di costruzione e
fruizione del divismo contemporaneo sembrano infatti
estendersi ed allargarsi nello spazio potenzialmente infinito
7
dei nuovi mezzi di comunicazione: il web 2.0, con la sua
dimensione partecipativa, è diventato lo strumento di nuovi
campi di applicazione del fandom, il dominio dei fan,
configurando innovative forme di adorazione ed adulazione.
Con questi presupposti, si vogliono esplorare le dinamiche di
edificazione della figura divistica di Robert Pattinson grazie
alla saga di Twilight (2008-2012) e l’alterazione di questo
processo avviato con l’interpretazione in Cosmopolis (2012) di
David Cronenberg. Pattinson ha prestato il volto al vampiro
seriale pop Edward Cullen e allo speculatore vampiresco Eric
Packer, protagonista del romanzo di Don De Lillo
(Cosmopolis, 2003): attraverso lo studio delle differenti
performance si registra l’evoluzione/involuzione da corpo di
massa - idolo delle folle e oggetto di venerazione
adolescenziale - a corpo d’autore in interazione con l’estetica
del film di Cronenberg .
“Forever is only the beginning”: forme
contemporanee di culto
Trasportare sul grande schermo la saga per adolescenti
Twilight della scrittrice Stephenie Meyer (2005-2008) ha
significato innanzitutto replicare un fenomeno editoriale e
commerciale di successo [5]. Dare un aspetto attraente ai
protagonisti è stato quindi essenziale per alimentare
l’affezione dei fan. Le trasposizioni cinematografiche si sono
avviate nel 2008 con il primo film della serie, Twilight, diretto
da Catherine Hardwicke. La saga racconta la storia d’amore
tra la giovane e impacciata Bella Swan (interpretata nella
versione cinematografica da Kristen Stewart) e Edward Cullen
(Robert Pattinson), affascinante vampiro adolescente, diviso
tra la propria condizione d’immortale e l’amore per l’umana
Bella.
La figura ancestrale del vampiro, nota in letteratura a partire
da Dracula di Bram Stoker (1897), è stata rivisitata dal
cinema in tempi e forme differenti. Senza la pretesa di essere
esaustivi: da Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau (1922),
passando per Nosferatu di Werner Herzog (1979), a Intervista
col vampiro (Interview with the Vampire: The Vampire
Chronicles, Neil Jordan, 1994), fino al più recente Lasciami
entrare (Låt den rätte komma in, Tomas Alfredson, 2008).
Creature sospese tra aspetto umano e indole rapace, i vampiri
hanno nutrito pagine e immagini, trasformandosi da mostri
spietati della letteratura gotica, in personaggi normalizzati e
integrati nella società umana una volta approdati al cinema e
nelle serie tv più recenti.
8
In Twilight Edward Cullen tenta, insieme ai membri della sua
famiglia, di lottare contro la propria natura predatoria,
nutrendosi di sangue animale e integrandosi, almeno
apparentemente, nella piccola comunità di Forks, nello stato
di Washington, dove è ambientato il racconto: «I vampiri di
Twilight si discostano da quelli tradizionali per alcuni aspetti
importanti. Loro non hanno paura dell’aglio e sono
invulnerabili ai paletti nel cuore. Non dormono in bare, anzi
non dormono affatto. La luce del giorno non è letale, piuttosto
li fa risplendere. E, cosa più importante, non sono affatto
mostruosi» [6].
Se la saga letteraria si rivolgeva a un pubblico di young
adults, il risultato cinematografico non poteva che essere un
modello di teen movie visivamente appetibile e facilmente
riproducibile secondo le regole del franchise movie system. Il
conflitto con i genitori durante l’adolescenza, la scuola e il
senso di appartenenza a una
comunità, il senso d’inadeguatezza,
le prime esperienze amorose: il
romanzo di formazione consolida
nel corso degli episodi il proprio
impianto moralistico, combinando
elementi del fantasy, del
melodramma e dell’action movie,
mischiando generi amati dal target
di riferimento e dirigendo
l’attenzione verso orientamenti
valoriali di stampo reazionario (con
facili metafore sulla castità, sulla ricerca della normalità, sul
sacrificio, sulla famiglia, etc…) [7].
Dopo il casting avvenuto per il primo film della serie, la
coppia di protagonisti Bella Swan/Kristen Stewart e Edward
Cullen/Robert Pattinson ha interpretato anche i successivi
quattro episodi: New Moon (Chris Weitz, 2009), Eclipse
(David Slade, 2010), Breaking Dawn: Part 1 e Breaking
Dawn: Part 2 (Bill Condon, 2011 e 2012). Non ci si
concentrerà sull’assottigliamento progressivo della qualità
narrativa e cinematografica della saga, ma sulla figura
interpretata dal giovane attore. Edward Cullen è il motore
costante della narrazione; egli è l’oggetto del desiderio
totalizzante della protagonista femminile.
Robert Pattinson, londinese, classe 1986, all’epoca delle prime
riprese ventiduenne, interpreta l’eterno diciassettenne
Edward fino all’età (reale,
dell’attore) di ventisei anni. Dopo il
primo film della serie attorno a lui
si è costruito un fandom che ha
saputo e sa sfruttare a pieno le
nuove forme di circolazione delle
informazioni: il web 2.0 ha
sostituito le pubblicazioni
specializzate. La liturgia stellare
descritta da Morin si è declinata in
maniera contemporanea e
tecnologica, estendendosi alla
platea sterminata di internet. Non
9
più semplici riviste, fotografie, posta dei divi, club,
pellegrinaggi, cerimonie, festival quali «istituzioni
fondamentali del culto della star» [8]. Il fan club ai tempi del
web permette un’interazione costante ed in tempo reale,
potenziando la possibilità di partecipazione al culto e
incrementando la condivisione (sharing) tra sostenitori (e
detrattori) del divo [9]. La liturgia stellare teorizzata da Morin
sfrutta tutti i vantaggi di quella che egli stesso ha definito la
“coscienza planetaria di internet”: «La complessità di internet
sta nel fatto che è un circuito che permette sempre
retroattività e ricorsività» [10]. Chi sta davanti ad un
computer si trova in una situazione ologrammatica, si trova
ad essere «il tutto nella parte» [11]. Il web 2.0 incrementa la
possibilità dei fan di Twilight di estendere il loro dominio
sull’immagine del divo, consentendo la produzione e
circolazione di comunità virtuali dove esperire nuove forme di
appartenenza fondate sul valore segnico della celebrity. Non si
tratta più della semplice fruizione passiva della starità di un
divo, ma di una costruzione attivamente orientata da parte dei
fruitori/utenti, che sviluppa, a sua volta, nuove narrazioni: la
star 2.0 esiste e si evolve grazie a procedimenti virtualmente
infiniti e inarrestabili.
Anche se le forme di venerazione delle star si declinano ormai
quotidianamente in maniera virtuale, la costruzione della
stardom di Pattinson sembra essere stata edificata con
strumenti cinematografici prevalentemente classici. L’attore
offre il proprio volto agli attributi morali di Edward Cullen in
maniera coerente, permettendo la (con)fusione tra persona e
personaggio.
L’interprete consegna al
vampiro adolescente il
proprio aspetto da bravo
ragazzo: un viso lineare,
le sopracciglia
pronunciate, i capelli
naturalmente spettinati
[12], un fisico poco
possente (rispetto, ad
esempio, alla sua nemesi
Jacob, il giovanissimo
lupo mannaro recitato
da Taylor Lautner).
L’unica caratteristica
fisica che connota la
condizione di non-morto
è il pallore, un incarnato reso emaciato ed evanescente dal
make-up. Il viso e il corpo dell’attore, grazie alla mediazione
del personaggio letterario (già idolatrato dagli young adults) è
divenuto modello iconografico e archetipo di comportamento,
eroe divinizzato e venerato attraverso pratiche cultuali basate
sulla disseminazione di informazioni in rete. Le forme di culto
sono alimentate da un meccanismo di presentazione del
personaggio che valorizza l’entrata in scena come apparizione:
Edward/Pattinson nei vari episodi interagisce sempre con i
medesimi movimenti di macchina (anche se a dirigere i film
sono registi differenti). La performance dell’attore seriale è
incanalata in procedimenti di visualizzazione ricorrenti e
10
rigidi. I movimenti dell’interprete tendono ad essere castrati.
Il progetto gestuale dell’oggetto del desiderio (destinato ad
una platea di giovani donne) passa in secondo piano. Il ricorso
al ralenti e l’insistenza nell’utilizzo del primo piano
permettono alla teen-spettatrice di prendersi del tempo con
l’immagine dell’attore. Il volto di Robert Pattinson è utilizzato
al grado zero della propria espressività, incorniciato
iconicamente per essere oggetto di ammirazione.
in seguito concretizzato anche nella vita reale di Pattinson e
Stewart («La star deve amare una star», direbbe Morin [13]):
«L’amore allora smette di essere una questione di relazioni
fisiche e pratiche e diventa un’esperienza metafisica» [14].
L’esperienza metafisica diviene territorio d’identificazione per
i fan. La visualizzazione del rapporto amoroso nei film della
saga, corrisponde alla restituzione insistita dei due
protagonisti in primo piano, còlti nell’atto di baciarsi.
La componente fantasy delle vicende rende letterale l’eroismo
e dota Edward di super poteri (velocità, telepatia, forza
straordinaria). La mostruosità del vampiro, un essere che per
vivere deve uccidere, è accettabile grazie ai poteri straordinari
utilizzati sempre a fin di bene. L’eroe (Edward) e l’eroina
(Bella) incarnano il mito dell’amore affermandosi, usando
ancora una definizione di Morin, come “puri eroi
dell’adolescenza”, persone/personaggi oggetto di discussione
all’interno di forum, social networks e siti web: Pattinson e
Stewart sono giovani divi nei quali proprio i giovani adulti
possono facilmente identificarsi. L’amore tra i personaggi si è
Lo spazio della performance è ridotto all’estremo, in brevi
azioni costruite per l’osservazione voyeuristica. La recitazione
è subordinata alla massificazione del corpo del protagonista.
Il volto ed il corpo di Pattinson sono monolitici, bloccati in
pose da ammirare [15]. La sua immagine è già data, univoca,
autoreferenziale. Un’espressione vale per tutte. Il suo viso è
un’effigie statica facilmente trasportabile e riproducibile in
rete ed è pronto a superare l’indagine lenticolare del macro e
dello zoom dei fan alla ricerca del dettaglio inedito; le cellule
si organizzano in pixel, unità essenziale dell’immagine della
star 2.0. La serialità di Twilight azzera la performance e
11
moltiplica il fascino del divo, venerato con gli strumenti
planetari del dominio dei fan.
“I want a haircut”: riposizionamento del teen divo
La prima battuta di Cosmopolis di David Cronenberg, «I want
a haircut», può essere la metafora della trasformazione di
Robert Pattinson in Eric Packer da corpo d’adorazione a corpo
recitante nel cinema d’autore, da star della saga mainstream
di Stephenie Meyer a personaggio inquieto della trasposizione
cinematografica del
romanzo di Don De
Lillo. La scelta è
ricaduta su
Pattinson per una
serie di motivazioni,
riassunte così da
Cronenberg: «Well.
It begins in a very
pragmatic way. You
get a list of 10
people from various producers and agents, and you start with
the basics. How old is this character, and how old is the actor?
This character is young, his age is given as 28. So that’s where
you start. Does he feel like the right guy? Eric talks about
working out a lot and is very physical, so you’re not going to
cast someone who’s overwheight. It’s simple stuff like that to
begin with. And then you get the pragmatics: how big is your
budget and what kind of star power do you need to get the
movie financed?» [16]. Robert Pattinson al momento del
casting sembrava essere l’attore più adatto: il suo star power è
sicuramente stato fondamentale per il finanziamento del film.
Il rischio del miscasting è stato scongiurato grazie alla fertile
interazione tra progetto visuale del regista e intenzione
performativa dell’attore, scelto per interpretare un ruolo
distante da quello che lo ha trasformato in icona
adolescenziale. Cronenberg ha eseguito un’operazione che si
potrebbe definire di re-casting, mentre Pattinson, nella sfida
proposta dal cinema dell’autore, si è concentrato sulle minime
variazioni entro
l’immobilità,
riadattando stilemi
recitativi, utilizzati
e (logorati)
nell’esperienza di
Twilight.
L’apocalisse
esistenziale del
giovane vampiro
della finanza Eric Packer, raccontata dal libro di Don De Lillo,
è trasposta quasi letteralmente, battuta per battuta, da David
Cronenberg. Packer vuole attraversare New York per tagliarsi
i capelli dall’altra parte della città; nel frattempo le sue
guardie del corpo lo allertano su un’ipotetica minaccia
d’attentato. Il giovane miliardario si sposta in limousine e
durante il viaggio incontra una serie di collaboratori con cui
discute delle sue preoccupazioni sull’andamento della borsa,
fa sesso, si sottopone ad una visita medica, elabora un lutto,
12
disquisisce sulla propria condizione. Il lavoro del regista si
concentra sulla creazione degli spazi abitati dal protagonista e
sulla dilatazione del tempo: la linea spazio-temporale è
alterata. Il tempo è improvvisamente assente, e, proprio come
nel web, cessa di essere un riferimento attendibile. Pattinson/
Packer è inglobato dalla limousine, dove si tiene gran parte
del film, così come è già accaduto, mutatis mutandis, in Crash
(David Cronenberg, 1996); lì Vaughan auspicava la sintesi
biomeccanica disumanizzante con le automobili, mentre qui
sarà l’immagine diafana di Cullen ad umanizzarsi
progressivamente nella corporeità (mortale) di Packer. Il
ventre dell’automobile, cavità uterina ultratecnologica, ospita
tutte le funzioni organiche del “feto” Pattinson/Packer. Il
corpo è tutto nel cinema di Cronenberg: «Per me, all’inizio c’è
il corpo. È ciò che siamo, ciò che abbiamo. Siamo tutti come
degli attori che si agitano sulla scena della vita e la prima cosa
che abbiamo sono i nostri corpi fisici, la nostra esistenza
fisica. Nei miei film il corpo è sempre al centro. Gli giro
attorno come fa un pianeta col sole. Non me ne allontano mai.
E se ciò accade, più me ne allontano, meno mi sento sicuro di
me. Come se diminuisse la gravità» [17]. Il corpo della star è
allora ricontestualizzato nella sua natura umana/biologica
facendosi centro gravitazionale della narrazione. Il divo
adolescente oggetto di culto 2.0 è convertito in essere mortale,
esistente anzitutto dal punto di vista organico. La fragile
figura narrativa del vampiro adolescente - archetipo
moralistico di perfezione - riconquista umanità grazie alla
mutazione nel cinico miliardario Packer. Il divo sgretola la
propria immagine precedente concedendosi integralmente
alla performance. Il depotenziamento del fandom e della rete
di aspettative che si originano nell’interpretazione di un
personaggio seriale, hanno liberato l’attore da vincoli
Lo sguardo inaccessibile del teen divo in Cosmopolis.
espressivi: l’impassibilità contemplativa raggiunta in Twilight
ora è contaminata da improvvisi richiami alla presenza fisica.
La prima immagine di Cosmopolis colloca Pattinson/Packer
sul fondo dell’inquadratura, davanti ad un palazzo, nel traffico
di una New York asfittica, dove lo skyline è negato. Il campo si
stringe e in piano americano Pattinson pronuncia la prima
battuta del film mantenendo una postura rigida, le spalle
dritte, le braccia lungo i fianchi, a preannunciare la posa
vagamente regale che assumerà sul sedile della propria
limousine bianca, utilizzato a mo’ di trono. La visione
ravvicinata del viso dell’attore è ancora negata, com’è
inaccessibile lo sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole
13
neri e che sarà
rivelato
solamente dopo 6
minuti: il divo
allora sarà
svelato in primo
piano. Il volto
porta con sé i
residui mimici
dell’impassibilità di Twilight e la recitazione dell’attore si
muoverà continuamente sulle variazioni possibili entro
l’immobilità scelta come strumento performativo. I
micromovimenti espressivi sfidano l’estetica dell’immobilità
contemplativa che aveva nutrito la celebrità del vampiro di
Twilight. Da questo momento in poi Robert Pattinson sarà
sempre in scena: «He’s literally in every scene in the movie,
and that’s pretty unusual. I mean even in Tom Cruise movies,
Tom is not in absolutely every scene of the movie but Rob is.
So he has to have that. But at the same time, you want to
forget the movies, you know? You want to forget his movies
and my movies because we’re creating this completely new
thing and you don’t know what audience you’re going to get.
You can anticipate it, you can think about it, but really you
don’t know. So ultimately when you’re making the movie
you’re saying, “Okay, I’m here with these actors. They’re
wonderful actors, I cast them because they’re terrific and they
will bring great stuff to the script”, and then at that point
you’re just making a movie and you’re not thinking about any
other movie» [18]. Il personaggio richiede all’attore di essere
costantemente davanti alla macchina da presa, di essere il
personaggio universale del microcosmo narrativo allestito
entro le immagini. Ogni battuta e ogni gesto degli altri attori
dipendono, infatti, dalla presenza in campo di Pattinson/
Packer. L’interplay segue dunque uno schema di reazioneazione alle battute, ai gesti, ai movimenti del protagonista. In
tal modo, anche la recitazione contribuisce alla sofisticazione
della linea spazio-temporale, di concerto con la regia.
L’immagine irreprensibile del ventottenne miliardario
rampante subisce, con il procedere del film, alterazioni e
modificazioni. La mutazione, tema cardinale del cinema di
David Cronenberg, si fa
sottile e si muove nella zona
liminare costituita dalla
fisicità del protagonista.
All’interno del flusso
temporale alterato della
limousine il punto di
riferimento è sempre la
dimensione corporale:
sudore, odore, asimmetria. Il
corpo esemplare di Pattinson
si concede alla debolezza
umanissima di un essere che
espleta le proprie funzioni
fisiologiche nell’ecosistema
della limousine (o poco
lontano, in una tavola calda o
14
in una camera d’albergo). Così durante l’ispezione prostatica
la voce si rompe, ma l’espressività statica dei tratti è
mantenuta. Cronenberg riconfigura il corpo metafisico di
Cullen in Twilight (già prodotto e riprodotto ad uso e
consumo del web 2.0) nel corpo di Packer, ri-semiotizzato in
essere dotato di una nuova esistenza organica e attorica. La
riflessione sul corpo e sulle sue mutazioni, in questo caso, si
confronta con un attore/persona sottoposto al pregresso
processo divinizzante operato dall’esperienza ologrammatica
dei fan del divo 2.0 nella saga di Twilight. L’unica parte
mobile del volto è la bocca; anche quando pranza con la
moglie (Sarah Gadon) nella tavola calda, Pattinson/Packer
mastica con movimenti ampi, opacizzando l’eloquio e
riconducendo la sequenza alle funzioni fisiche basilari
(masticare, inghiottire). La moglie poco prima, durante
l’incontro in biblioteca, aveva evocato ancora la dimensione
corporale: «You smell of sex . […] I smell sex all over you».
L’imperturbabilità facciale si sgretolerà solamente nella
Cosmopolis. Il corpo scalfito di Robert Pattinson.
sequenza finale. Packer ha lasciato anzitempo il barber shop
ed ora presenta un taglio di capelli asimmetrico, che sbilancia
la mimica mantenuta per tutto il film. Il miliardario si ritrova
nell’appartamento dell’ex dipendente Benno Levin (Paul
Giamatti) e intraprende un dialogo serrato, ultima dilatazione
della temporalità in Cosmopolis, giocherellando con la pistola.
L’uomo porta l’arma alla bocca, rendendo difficile la
comprensione delle battute; osserva la mano sinistra e
improvvisamente colpisce, con uno sparo preciso e rapido, il
proprio arto. Il teen divo adesso è scalfito fisicamente. La
stimmate autoinflitta genera una smorfia di dolore che causa
la contrazione repentina del corpo. L’imperturbabilità
espressiva mantenuta sino ad ora scompare, lasciando spazio
allo sguardo finale, con il protagonista intento a scrutare nel
vuoto del fuori campo. Dietro di lui, Levin è pronto a sparare.
Lo sguardo vacuo dell’attore si apre sul dipinto di Mark
Rothko che avvia i titoli di coda.
Robert Pattinson nel cinema di Cronenberg lavora all’interno
del range circoscritto che va dall’inespressività addomesticata
per la venerazione utilizzata nella saga di Twilight, alla
reazione epidermica minima, fatta di umori, di richiami alla
fisiologia, ridefinendo e offuscando, con l’ausilio di una patina
umanizzante, l’aura splendente del divo vampiro. In
Cosmopolis l’icona adolescente è decontestualizzata e
ricollocata entro un inedito universo in-espressivo/
performativo. Il corpo di massa del teen divo, diretto da
Cronenberg, è ricomposto e mostrato in tutta la fragilità di
una “nuova carne” divistica.
15
Note
[1] Edgar Morin, Le stars (1957), tr. it. Le star, Olivares,
Milano, 1995, p. 56.
[2] Cfr. Geoff King, New Hollywood Cinema: an introduction
(2002), tr. it. La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli
anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, Torino, 2004,
pp. 61-105 e pp. 186-221.
[3] «From the landscape of postwar American film, high
concept films have developed as a potent commercial and
aesthetic force in contemporary Hollywood. The most overt
qualities of high concept – the style and look of the films –
function with the marketing and merchandising opportunities
structured into the projects. […] The high concept style, the
integration with marketing, and the narrative which can
support both of the preceding are the cornerstones of high
concept filmaking». Justin Wyatt, High Concept. Movies and
Marketing in Hollywood, University of Texas Press, Austin,
1994, p. 188.
[4] Sull’evoluzione dei modelli di divismo cfr. Richard Dyer,
Star (1979), tr. it. Star, Kaplan, Torino, 2003; Christine
Gledhill (a cura di), Stardom. Industry of desire, Routledge,
London, 1991; Cristina Jandelli, Breve storia del divismo
cinematografico, Marsilio, Venezia, 2007; Enzo Kermol,
Mariselda Tessarolo, Divismo vecchio e nuovo. La
trasformazione dei modelli di divismo, Cleup, Padova, 1998;
Paul McDonald, Star System. Hollywood and the production
of popular identities, Wallflower, London, 2000; Francesco
Pitassio, Attore/Divo, Il Castoro, Milano, 2003; Francesco
Pitassio, “Natali di stelle. Di qualche questione genetica e
divistica” in Divismo/Antidivismo, «Àgalma», n° 22, ottobre
2011.
[5] Sulla trasposizione cinematografica di Twilight si veda
Anna Sborgi, “Forme quotidiane dell’orrore: Twilight tra
cinema e letteratura”, in Vampiri, «Ol3media», anno 3, n° 7,
gennaio 2010, pp. 16-22.
[6] Jennifer L. McMahon, “Il crepuscolo di un idolo: la nostra
fatale attrazione per i vampiri” in Twilight and Philosophy.
Vampires, Vegetarians, and the Pursuit of Immortality
(2009), a cura di Rebecca Housel, J. Jeremy Wisnewski, tr. it.
La filosofia di Twilight. I vampiri e la ricerca
dell’immortalità, Fazi Editore, Roma, 2009, p. 209. Il volume
è un istant book pubblicato immediatamente dopo l’uscita del
primo film della serie. Nel libro si offrono retroscena e
interpretazioni sulla saga letteraria.
[7] La fede mormona di Stephenie Meyer ha probabilmente
influito sulla costruzione degli orientamenti valoriali dei
personaggi. A tal proposito si veda R. Housel, J. J. Wisnewski
(a cura di), La filosofia di Twilight. I vampiri e la ricerca
dell’immortalità, op. cit.
[8] Edgar Morin, Le star, op. cit., p. 89.
[9] Cfr. Paul McDonald, “Stars in the online universe:
promotion, nudity reverence”, in Contemporary Hollywood
Stardom, a cura di Thomas Austin e Martin Barker, Arnold,
London, 2003, pp. 29-44.
[10] Per una sintesi di questi concetti si consulti l’intervista a
Edgar Morin.
[11] Ivi.
16
[12] Sul sito Imdb.com l’attore viene riconosciuto per due
tratti distintivi: «Messy hair, Thick eyebrows».
[13] Edgar Morin, Le star, op. cit., p. 80.
[14] Richard Dyer, Star, op. cit., p. 59. Richard Dyer
commenta le osservazioni di Morin sul mito del divismo e
l’amore.
[15] Non esiste, tuttavia, una reale inversione delle traiettorie
dello sguardo dei protagonisti. Il film non è costruito per
appagare semplicemente le dinamiche dello sguardo
femminile. Anche nei momenti di contemplazione il soggetto
maschile rimane sempre (narrativamente) attivo. Di questi
argomenti si è occupata Laura Mulvey in Visual pleasure and
narrative cinema (1975), tr. it. Piacere visivo e cinema
narrativo, «Nuova dwf» n° 8, luglio - settembre 1978.
[16] Si consulti l’intervista a David Cronenberg a cura di
Andrew O’Hehir, David Cronenberg: How I seduced Rob
Pattinson.
[17] David Cronenberg citato in Gianni Canova, David
Cronenberg, Il Castoro, Milano, 2007, p. 6.
[18] Si consulti l’intervista a David Cronenberg a cura di
Rebecca Murray, Exclusive Interview with “Cosmopolis”
Writer/Director David Cronenberg.
17
C LARA GARAVELLI
The composition and strategic locations of these posters in
mass media and public spaces have contributed to the
promotion of specific actors within local cultural arenas as is
the case for the Argentine actor Ricardo Darín in Spain [1].
Since the release of the film Nueve Reinas (Bielinsky 2000,
shown in Spain in August 2001) and, shortly after, of El hijo
de la novia (2001, by the Oscar-winning director Juan José
Campanella), Darín has risen to stardom in Spanish film
culture by virtue of, among other factors, the proliferation of
his image in his films’ local advertising campaigns.
A Shared Star Imagery:
The Argentine Actor
Ricardo Darín through
Spanish Film Posters
Accordingly, this article aims to analyse how the posters of
Darín’s films exhibited in Spain have slowly shifted from
images of landscapes with allegorical connotations of the plot
of the film to close-ups of Darín’s face, and how this shift
reflects his rising star status along the peninsula as well as his
star imagery is shared between Spain and Argentina.
F ROM THE EARLY DAYS OF CINEMATOGRAPHY TO THE PRESENT ,
STILL IMAGES USED IN VARIOUS ADVERTISING MEDIA HAVE BEEN
AT THE CENTRE OF ITS STAR SYSTEM .
A S IS WIDELY KNOWN
TODAY , A HOST OF PICTURES ARE INVOLVED IN THE PRODUCTION ,
DISTRIBUTION AND EXHIBITION OF FILMS AND THESE
CONTRIBUTE NOT ONLY TO A FILM ’ S COMMERCIAL SUCCESS , BUT
ALSO TO THE CONSTRUCTION OF THE PERSONAS THAT
STRENGTHEN THE FOUNDATIONS OF THE FILM INDUSTRY .
A MONG
THESE IMAGES , FILM POSTERS HAVE PLAYED A CRUCIAL ROLE
AND HAVE BECOME CULT OBJECTS BY PRESERVING THE STARS ’
AURAS .
18
A star is born
Ricardo Darín comes from a family of actors. Born in 1957 in
Buenos Aires, he spent most of his childhood between theatre
stages and television sets. As a child of the new media, his
debut and ultimate fame as an interpreter in Argentina was
mainly in television. He went from a children’s show called La
pandilla del tranvía (broadcast on Channel 9 in 1968) to
popular family programs and comedies. By the time he
reached his 20s, he was a star, particularly due to his
performances as a teenage soap opera heartthrob. His offscreen romance with the trendy top model and actress Susana
Giménez, with whom he worked with in the film He nacido en
la ribera (Catrani 1972) when he was only 11 years old, finally
consolidated his star image. The tabloids’ growing attention
and his constant media presence during the 1980s and 1990s
reinforced the dialectic between his on-/off-screen presence
[2], thus keeping his star status alive despite the changing
socio-political circumstances and public interests [3].
In Spain, Darín’s star configuration followed a completely
different path. Although he also developed his star image
diachronically through the combination of cultural, historical,
socio-economic and ideological factors, he started to gain
recognition at his 40s, and his private life remained private
[4]. According to the French scholar Edgar Morin, stars are
those persons that “Leur vie privée est publique, leur vie
publique est publicitarire, leur vie d’écran est surréelle, leur
vie réelle est mythique” [Their private life is public, their
public life is publicity, their screen life is surreal, and their
real life is mythic] [5]. By keeping his personal life away from
the Spanish media, Darín’s stardom construction in the old
continent breaks with these directives. Consequently, the
production of knowledge about Darín goes back to the origin
of the star system, to what Richard deCordova called “the
picture personality”, when the focus was only on the player’s
professional existence rather than on his off-screen
wanderings [6]. Hence, the
building of Darín’s
popularity relies mostly in
his characters’ power to
engage with the local
audience’s desires and
identifications. In order to
achieve such a level of
acceptance by the public,
Darín has successfully
appealed to a set of
personality traits –e.g., theguy-next-door charismathat come across to the
potential audience through
publicity images that mainly
feature his film roles and the
imaginaries they represent.
A ‘catchy face’
As mentioned, film posters are fundamental pieces in the film
industry’s apparatus. Gregory Edwards, when reviewing the
19
history of the international film poster within the history of
the moving image, stated that
the ingenious publicity stunt promptly launched the star
system. Posters began to feature stars’ faces with scenes
from their films and their names were printed in type much
larger than that used by the originally pre-eminent
production companies [7].
With the post-war crisis among Hollywood’s studios and the
geopolitical world changes, many national film posters’
designs moved away from star figures. Nowadays, there are
different trend styles: many follow genre features, others try
to impose new artistic creations, and some still pay special
attention to market inclinations for the stars of the time. In
Spain, the posters for the films starring Darín focused, in the
first instance, on genre, but Nueve Reinas and El hijo de la
novia, marked a turning point in Darín’s Spanish career and
this change was reflected in the composition of the posters
that promoted his films that came before and after these
productions [8].
Although Darín has acted in 40 films up to date, only 21 were
distributed on the peninsula. The first one was Perdido por
perdido (Lechi 1993), which arrived on Spanish shores in
1994 thanks to the growing popular attention to Argentine
films caused by the box-office success of Un lugar en el
mundo (Aristarain 1992). The film posters used to promote
this film in Argentina and Spain did not present major
differences. They both used a frame taken from the film where
two black figures stand anonymously on a bike at the end of a
dark tunnel and cannot be identified. The emphasis was put
on the plot, as indicated by the film’s summary above these
figures. The only difference is that Ricardo Darín’s and
Enrique Pinti’s names appear in big bold letters in the poster
used for the Argentine campaign, whereas in the poster
circulated in Spain, the director’s name is more prominent
along with details like the distributor’s logo on the lower-right
corner.
These minor discrepancies indicate how Darín was already an
established star in Argentina, while in Spain, to catch the
attention of passers-by, the emphasis had to be on the director
and the story, particularly considering the demand for new
“authors” and narratives coming from the other side of the
20
Atlantic in the aftermath
of Aristarain’s film.
After Perdido came El
faro del sur (Mignogna
1998). As in the previous
case, the poster focused on
the plot of the film by
using another frame of a
landscape in an allegorical
way. In this instance, it
portrays two girls running
freely in an open space by
a lighthouse. Considering
that the Spanish actress
Ingrid Rubio was getting
quite a lot of press attention at the time as a new promising
national actress, in order to make the most out of her
emerging local star image, the poster’s composition included a
translucent image of her face in a blue sky. Darín is only
mentioned in small letters among other secondary cast
members’ names underneath the much larger type for Rubio
and Norma Aleandro.
In August 2001, Nueve Reinas, the third film starring Darín
that was shown in Spanish theatres, arrived with a different
poster than the one used in Argentina. While Gaston Paul’s
face was the focus of the Argentina’s version, with Darín
placed behind him and showing only one side of his face, in a
clear indication of their respective levels of popularity at the
time of the film’s release, the Spanish poster still had a plot
summary at the top and the frame portrayed both actors in a
desperate escape, with Darín in the forefront. For the first
time, Darín’s image was used, among other common features
of previous posters, to attract viewers by enticing the audience
to recall his previous performances.
Between August 2001 and November 2002, Spanish theatres
showed five films starring Darín. Two months after Nueve
Reinas came La fuga (Mignogna 2001). Its poster tried, albeit
unsuccessfully, to exploit the image of an old famous
Argentine star (Miguel Ángel Solá), the director’s name (who
also directed El faro del sur), and a small but suggestive plot
summary. The film only attracted 12,000 spectators. Just a
21
month later, El hijo de la novia burst into the theatres and
was shown for almost a year. Its poster featured Norma
Aleandro, Héctor Alterio and Ricardo Darín, a trio of wellknown Argentine stars beloved by the Spanish audience,
posing and smiling in a family portrait. This heart-warming
story, aimed at a general
audience, conquered Spain
with more than 1.5 million
spectators at a time of
increasing Argentine
migration due to the 2001
crisis.
From then on, Darín was
commonly featured in the
posters of his films, and he
was portrayed as an
attractive star image that
depicts the wonders of
everyday life as seen
through the blue eyes of a
charismatic middle-aged
man. This image was exemplified in his next two films
released in this period, El mismo amor, la misma lluvia
(Campanella 1999) [9] and Un tipo corriente (Milewicz 2001)
[10]. For both films, Darín appears in the posters beside his
female protagonists to emphasize his old personality traits as
a ‘hunk’ in romantic comedies.
To understand the level of public
recognition Darín has reached in
Spain and how this has
translated in the promotional
posters for his films, the most
significant example occurring in
the past year was the marketing
campaign for the Spanish film
Una pistola en cada mano
(Marqués 2012). The posters in
tube stations, at bus stops, and in
the print media in general
portrayed his face in the middle
of a fragmented collage of pictures of all the cast members.
His image was not only considerably larger than the rest, but
was also placed at the strategic focal point. This poster
composition was done in such a way that all passers-by would
focus first on Darín’s face and then, if that caught his/her
attention, on other famous Spanish actors of the time,
including one of the most popular, Luis Tosar, who completes
the advertising campaign and seals the attraction deal with
potential spectators.
Of the 21 films starring Darín shown in Spain, only six of them
had box-office sales of less than 100,000 spectators [11].
Except for La señal (Darín, Hodara 2007), which had quite a
few problems in its production and distribution stages –
including the death of the director, Aristarain, in the middle
of the shooting process -, the posters used in the marketing
22
campaigns of the other five films did not include Darín’s
image. This suggests that Darín had become a brand, a star
image powerful enough to attract a considerable audience no
matter the genre or director.
In line with Richard Dyer’s seminal work on stardom, star
“image” in this context does not refer exclusively to a visual
sign, “but rather a complex configuration of visual, verbal and
aural signs” [12]. In other words, there has been an iconic use
of Darín’s image in the posters of the
films shown after El hijo de la novia,
that has tried to capture the
imaginaries and desires of the local
population in the form of a middleaged, foreign man, who has a nice
accent and pleasing looks and is
exposed to the existential crises of
everyday endeavours.
differences in the designs of the
posters used in each country, for
example, in the latest production
Tesis sobre un homicidio (Goldfrid
2013), in both countries there is an
agreement that a close-up of Darín’s
face guarantees a public influx at the
box office.
From Nueve Reinas and El hijo de
la novia onward, Darín became an
essential element of the composition
of film posters instead of the general shots used in the first
productions that prompted him to the ocean from Argentina
to Spain. When analysing the importance of the film poster in
Thus, Darín has become a “catchy
face”, one of
those “jack of all trades”, as
demonstrated by the posters of the
films created in the past 10 years in
Spain and Argentina, such as the
Argentine films Luna de Avellaneda
(Campanella 2004), Un cuento chino
(Borensztein 2011), and the Spanish
El baile de la Victoria (Trueba 2009).
Even though there might still be
23
the construction of the star system, the Spanish film scholar
Rafael Tranche has suggested that current marketing
campaigns have substituted the conventional advertising
strategies, based on spreading images through different
mediums, and that this marketing shift has killed the star
system [13]. However, as it has been discussed throughout
this article, in the case of the rising star status of Ricardo
Darín in Spain, the old traditional film poster - older than
moving image itself - has proven to still be of great
importance in the construction of a star image and,
ultimately, in the ongoing success of the film industry. As
Spanish scholar Roberto Sánchez López pointed out when
discussing the history of the film poster in Spain, “A pesar de
las imágenes directas que la televisión introduce en los
mismos domicilios, el cartel sigue siendo pieza clave para
orientar a un public que se decide en el ultimo
momento” [Despite the direct images that television
introduces in the private realm of the house, the poster still is
a key element to guide a public who make the final choice of
what film to watch in the last minute] [14].
As it has also been shown, the growing level of acceptance of
Darín in Spain and the parallelism with the revival of his
popularity in Argentina - now transformed from a TV
comedian into a movie star - demonstrates a shared star
imagery between the two countries that has been translated in
the common designs on both sides of the Atlantic of the film
posters that promote his latest productions. How this shared
star imagery responds to migratory flows, bilateral relations
and/or transnational film industry connections is still to be
properly analysed. Considering the tendency to focus on
Darín’s face and name in recent film posters in both countries,
it should be asked if this is only a tendency in Spain and
Argentina or if this is part of a wider shared star imagery of a
culture “in” Spanish. How films starring Darín have been
received in different Latin American countries and how their
film posters and advertising campaigns have fluctuated from
one country to another should be properly studied in future
works in order to fully understand the complexities of the
shared star imagery and star configuration through film
posters [15].
Notes
[1] How film posters have contributed to consolidate a star
system within the film industry have been analysed, among
others, by Rafael Rodríguez Tranche, “El cartel de cine en el
engranaje del Star System” in Archivos de la Filmoteca, nº 18,
October 1994, pp. 135-143.
[2] See on this dialectic: John Ellis, Visible Fictions: Cinema,
Television, Video, Routledge, London, 1982.
[3] During the 1960s and 1970s, Argentina went through a
series of coup d’état and brief periods of democratic
governments. The last military dictatorship ended in 1983,
submerging the country in a long transitional process until
today.
[4] For further reference on how Darín’s star image was
configured, please see my forthcoming article entitled
“Conquering the Old Continent: Ricardo Darín’s Rise to
24
Stardom in Spanish Film Culture” in Rocha (ed.),
Contemporary Argentine Cinema, Masculinity and Its
Performance. The Ricardo Darín Reader, Cambria Press,
London, in press.
[5] Edgar Morin, Les Stars, Galilée, Paris, 1984, p. 14.
[6] Richard deCordova, “The emergence of the star system in
America”, in Christine Gledhill (ed.), Stardom. Industry of
Desire, Routledge, London and New York, 2005, pp. 17-29.
[7] Greg Edwards, The International Film Poster, Columbus
books, Michigan, 1985, p. 60.
[8] For an introduction to the history of the film poster in
Spain please see: Roberto Sánchez López, El cartel de cine:
Arte y publicidad, Prensas Universitarias de Zaragoza,
Zaragoza, 1997
[9] The film arrived in Spanish theatres in July 2002 thanks
to the enormous success of El hijo…It was in fact an older
production directed by Campanella and released in Argentina
in 1999.
[10] The film was shown in Argentina in 2001 under the title
Samy y yo, and it got to Spanish theatres in October 2002.
[11] They included: Perdido por perdido, La fuga, El Aura,
XXY, La señal, and En fuera de Juego. These figures are
available at the Spanish Ministry of Culture and Education
online catalogue of classified films.
[12] Richard Dyer, Stars, New Edition, BFI and Palgrave
Macmillan, London, 2011, p. 34.
[13] Tranche, Ibidem, p. 143.
[14] Sánchez López, Ibidem, p. 191.
[15] I would like to thank Marina Díaz for pointing out this
latest issue in the discussions we held about Darín over the
past year.
25
PATRICIA BOYD
“I Got This: How I
Changed My Ways and
Lost What Weighed Me
Down”: Re-construction of
Jennifer Hudson’s “Star”
Identity in American
Weight Loss
Advertisements
C ELEBRITY ENDORSEMENT IS A COMMONLY USED ADVERTISING
PRACTICE IN THE
U NITED S TATES , WITH ONE - IN - FOUR ADS
USING A STAR TO PROMOTE THE PRODUCT . N OT SURPRISINGLY ,
WEIGHT LOSS ORGANIZATIONS COMMONLY USE STAR
ENDORSEMENTS TO CREATE BRAND RECOGNITION , DRAW IN THE
INTERESTS OF CONSUMERS AND LINK THE QUALITIES OF “ STAR ”
TO “ INDIVIDUALS ” WEIGHT LOSS EFFORTS . An interesting trend in weight loss celebrity endorsement,
however, is that while the star is at first widely known for the
actions that created them as a star in the first place, their
weight loss and their affiliation with the weight loss company
become a significant part of their celebrity identity in ways
that celebrity endorsers of other products do not experience.
Kirstie Alley, Valerie
Bertnelli, and
Jennifer Hudson are
key examples of this.
In this article, I
analyze how Jennifer
Hudson’s
endorsement of
Weight Watchers
has created a new
star identity for her,
one that is based in
her weight loss
struggles and successes. She is now known as much for her
work with Weight Watchers and her weight loss efforts as she
is for her singing and movie career. Numerous interviews with
the likes of Oprah Winfrey, on AccessHollywood, and in
Redbook magazine highlight how her identity is now also
based in what she is doing with her body, not just what she is
doing with her voice.
Here, I draw on a modified version of Walter McCracken’s 3 state process for advertisement analysis to study how
26
Hudson’s “star” identity is impacted by her association with
Weight Watchers. I argue that we need to add a fourth step to
McCracken’s model - looking at how celebrity endorsement
can not only change the consumers’ behaviors and sense of
self but can actually change the celebrity’s public identity and
persona.
celebrity, then, serves as an “inspirational figure to the
consumer” not only because the “celebrity has done what the
consumer wants to do, but also because the celebrity actually
supplies certain meanings to the consumer” - and McCracken
argues that consumers are always looking to add new
meanings to their lives.
Review of Literature
McCracken briefly touches on another possibility (although he
does not refer to it as a 4th stage in the process of transfer) one in which the celebrity is changed through the process of
endorsement: “an advertisement campaign can sometimes
have the effect of a new dramatic role, bringing the celebrity
into contact with symbolic materials that change the
meanings contained in their persona”. Although he mentions
this as a possibility, he quickly dismisses this part of the
transfer process, writing “typically, however, the ad is not
trying to transform the meanings of the celebrity. In most
circumstances, it seeks only to transfer them”. When we
study weight loss ads, however, we see that quite often the
celebrity does, in fact, “come into contact with new symbolic
meanings” that create new identity roles for them that become
as important as - if not more important than - the roles they
originally brought with them to the advertisement. Therefore,
I argue that it is important to add a 4th stage to McCracken’s
process, one which examines how the star identity is changed
in the process of transfer and how weight loss and
endorsements of programs like Weight Watchers can become
career-defining.
In the seminal article “Who Is the Celebrity Endorser:
Cultural Foundations of the Endorsement Process,”
McCracken analyzes how, in advertising, meaning transfers
from a product to a consumer and what role celebrity
endorsers play in that transfer. He argues that this transfer
involves a 3-stage process. In Stage 1, celebrities bring with
them the qualities they have built throughout their careers
and attach them to the product: “the meaning that the
celebrity endorsement gives to the product was generated in
distant movie performances, political campaigns, or athletic
achievements”. In Stage 2, these meanings are then
transferred to the product and the consumer “‘sees’ the
similarities between the celebrity and the product and is
prepared to accept that the meanings in the celebrity (by dint
of long and fond acquaintance) are in the product”. In Stage 3,
consumers not only purchase the object, but they “claim the
meanings [...] attached to the object”. When celebrities attach
their qualities to the product, they are actually transferring a
constructed self, public persona, and identity to the product.
So, when consumers purchase the product and “claim the
meaning,” they are adopting that identity as well. The
27
In this article, I address the following four questions, which
are based on McCracken’s 3-Stage process along with my
revision to his process - the Stage 4 which I show is necessary
in order to fully understand the role celebrity identity plays in
the media transfer process:
1.
What meanings/star qualities does Jennifer Hudson
bring to the Weight Watchers’ brand through the “self”
created in advertisements and celebrity appearances?
2. How are these meanings transferred to the Weight
Watcher’s product itself?
3. In what ways do consumers’ identify with and assume a
version of the transferred identity and,
4. How is Hudson’s celebrity identity reconstructed as a
result of her endorsement of Weight Watchers - i.e. how does
the “self” created for the ads change her celebrity identity in
general?
My analysis of Weight Watchers’ ads - online, print, and
television - along with her own writings about her weight loss
illustrate that while celebrities create the self that is then
attached to the product, the symbolic nature of the product
gets attached to the celebrity’s own self as well.
Overview of Jennifer Hudson’s Association with
Weight Watchers
In 2010, Jennifer Hudson became a spokesperson for Weight
Watchers. Before and after photos of her demonstrate her 80
lb weight loss. On the Weight Watchers website, a story of her
weight loss journey is
featured through
photos, videos, and
snippets of her
various public
appearances,
magazine interviews,
and performances) on
“Jennifer’s Timeline”.
Fan-made
youtube.com videos
celebrate her before/after success as well, illustrating the
positive impact she has had on others. In 2011, Weight
Watchers opened a new weight loss center in Chicago, IL
dedicated to her, celebrating the difference she has made in
the organization.
In addition to her commercials and appearances in Weight
Watchers magazines, Hudson has also appeared in many
interviews, both on television and in national magazines,
discussing her role as a spokesperson for Weight Watchers,
her own struggles with weight, and the impact her weight has
had on her career. Further, in December 2012, she released
her autobiography, I Got This: How I Changed My Ways and
Lost What Weighed Me Down, which prominently features
her work with Weight Watchers, including recipes in the back.
Since 2010, Hudson has become the key spokesperson for
Weight Watchers, with new advertising campaigns being
released regularly, the latest one emphasizing how she is like
28
the average person. She has become the face of Weight
Watchers. While she continues to pursue other aspects of her
career, her role as spokesperson has become a prominent part
of her public persona. Thus, understanding how she impacts
and is impacted by Weight Watchers is a significant part of
understanding her celebrity identity.
4-Stage Meaning Transfer
#1: What meanings/star qualities
does Jennifer Hudson bring to the
Weight Watchers’ brand through
the “self” created in advertisements
and celebrity appearances?
McCracken argues that the self
constructed by celebrities “is almost
always attractive and accomplished
[...] a kind of exemplary,
inspirational figure to the
consumer”. This is not to say that
the celebrity self needs to be perfect,
but it does mean that the overlying
narrative presented is that the
celebrity has transformed imperfections into success. Hudson
has created the right mix of imperfection and transformation
in her public persona and brings this relatable balance to her
endorsement of Weight Watchers. She freely discusses her
“before” struggles with weight, but always does so in the
context of a narrative of transformation. Hudson emphasizes
that in addition to changing one’s body, Weight Watchers can
transform one’s life - how a person sees herself, what she can
achieve, what sense of power and control she has over herself
and her life, and how much she can believe in herself.
A particularly interesting Weight Watchers advertisement
highlights the transformation of body and self that Hudson
brings to the Weight Watchers brand. In the commercial, the
Weight-Watchers-spokesperson-persona-Jennifer appears
with the American-Idolpersona-Jennifer, singing “I
believe in miracles . . .I believe
in you and me.” Highlighted
prominently in the
background is the word
“BELIEVE,” with “Because it
works” and “Weight
Watchers” underneath it.
Believing in oneself, then, is
crucial to the concept of
transformation. The
American-Idol-Jennifer is
overweight while the WeightWatchers’-spokespersonJennifer is thin and transformed, showing that belief can lead
to being transformed through Weight Watchers. It is
particularly effective that the advertisement uses an image of
Hudson from American Idol because she is known for
transforming herself after she lost on American Idol in 2004
into a major recording and movie star, sticking with her
career, despite the odds that had been placed against her.
29
This determination to succeed, despite challenges, is one of
the character traits that she and others use to define and
transform her personality, as shown in an interview on
Dateline.
In this ad (and in the interview), she does not hide her
imperfections; she presents them in a way that shows how she
has transformed them through
believing in herself. As Spry writes,
“credibility is considered the most
important characteristic of a brand
signal” because “the credibility of an
endorser will subsequently transfer
to the brand”. Since the Weight
Watchers brand is about changing
bodies and selves, if Hudson could
not authentically bring that meaning
to the brand, she would not have the
credibility to advertise the product,
and thus the meaning she brought to
the product would not be effective.
Because she has transformed herself
in her career and in her body, she
brings credible meaning to the
Weight Watchers’ brand, becoming a
highly effective spokesperson for
transformation.
#2 How are these meanings
transferred to the Weight Watcher’s
product itself?
As Langmeyer argues, “endorsed products elicit associations
that go beyond those directly contained in the stimuli per se they acquire conscious or unconscious associations that are
linked to the endorser”. Transformation, which is a central
part of the meaning that Hudson brings to the Weight
Watchers brand, is an acquired
association that is attached to
Weight Watchers and appears as a
key theme throughout the program
material and advertising. In the
“How It Works” section of the
Weight Watchers’ website, the
program is claimed to be
transformative, a “Revolution in
Weight Loss” that is “built for
human nature.” It is transformative
precisely because it relies on human
nature - with all its imperfections to succeed. The website claims that
the program does not require
perfection in order to achieve
success, just as Hudson did not need
a perfect career or a perfect life to
achieve success. On the “How It
Works” page, one member states, “I
love that Weight Watchers didn’t
expect me to be perfect. And I still
lost weight.” Imperfection, then, is
30
an important part of the transformative narrative that is
transferred onto the Weight Watchers brand.
#3 In what ways do consumers identify with and assume a
version of the transferred identity?
“The material world of consumer goods offers a vast inventory
of possible selves and thinkable worlds. Consumers are
constantly rummaging here” to quote McCracken.
Consumers are attracted to the possible selves that the
celebrities create and attach themselves to the meanings
implied in those selves through purchasing the products
endorsed by the celebrities. In Hudson’s case, her
constructed persona
as transformed self, as
a successful imperfect
self, is claimed by
consumers through
embracing the Weight
Watchers plan. In
this way, Hudson
becomes a role model
for Weight Watchers
members who want to
embody the
characteristics and
meanings associated
with Hudson’s
transformations. This
assumption of the
transferred identity is most clearly seen in the “Success
Stories” found on the Weight Watchers’ website, magazines,
and the pamphlets handed out in the meetings. The Success
Stories provide examples of the ways in which Weight
Watchers’ members have embodied the transferred identity of
transformation. In her success story, for example, Ann states:
“Weight Watchers is about more than losing body fat, it’s
about gaining the desire to take better care of yourself - on an
emotional as well as physical level.” In her story, Melissa
claims: “The message that I hope anyone who reads this
comes away with is that if I can do this so can you. No matter
how much weight you have to lose you must simply begin.
Take it one step at a time and never give up . . . Learn to love
yourself for who you are today” Stories like these emphasize
the way members take on the identity of the transformed self
through working the program.
Michaela’s story is unique because she actually got to meet
Hudson, and Hudson made a direct link between herself and
Michaela: “Meeting Jennifer Hudson @ the Celebrate Success
photo shoot was so much fun. She’s just so sweet. I
remember I walked up to her and she started playing with my
hair and said, “You look just like me!” I couldn’t imagine
Jennifer thinking I looked like her! I also got to interview her
and hear how Weight Watchers changed her life. It was an
amazing experience just being in her presence.” The
similarities between Michaela and Hudson, though, go
beyond their appearance. In her Success Story, Michaela
explains that she, like Hudson, wanted to lose weight so she
could be a role model. Michaela is a doctor, and throughout
31
her story, Michaela explains how she transformed herself so
that she could be a role model to her patients. Michaela has
assumed a version of the identity that Hudson has transferred
onto the Weight Watchers’ product. While Michaela had an
opportunity that most Weight Watchers members do not
have, her story is still representative of the way that many
members adopt the constructed identity offered by the
celebrity and “claim the meaning” attached to the product.
#4: How is Hudson’s celebrity identity reconstructed as a
result of her endorsement of Weight Watchers—i.e. how does
the “self” created for the ads change her celebrity identity in
general?
Weight loss has been a career-changing transformation for
Hudson - an identity changing transformation. When
Chicago Tribune reporter Mark Caro asked her, “Do you ever
get concerned that people are going to associate you more
with Weight Watchers than your music,” she responded, “As
long as it’s positive, it does not matter to me. And as long as I
know it’s real. When you hear my music and you feel the
emotion, it’s real. When you see me in a film and you see a
tear, it’s real. When you see me on these Weight Watchers
commercials and these advertisements, it’s real”. Since
becoming a Weight Watchers spokesperson, Hudson has fully
embraced having her public celebrity identity associated with
her weight loss. In the following video clip taken during the
50th Anniversary of Weight Watchers celebration at the
center dedication for Jean Nidetch, the founder of Weight
Watchers, she tells the interviewer on FoxNews that she is
prouder of her weight loss than she is of her career success
because through her weight loss, she has “saved people’s
lives.”
This theme of wanting to change lives is taken up in her new
autobiography as well: “After becoming a mom, I am most
proud of my newfound role as an ambassador of health.
There have been such great rewards in seeing how the
changes I’ve made in my life have empowered and inspired
others to do the same. I know I touch people’s hearts when
they see me in an emotionally charged role like Effie White or
Winnie Mandela, but nothing had empowered me to help
change people’s lives until I joined forces with Weight
Watchers. I let the world in on my progress by allowing them
to monitor my journey to health. I never dreamed that my
actions would have such a powerful impact”. Being a role
model is a crucial part of her identity, as she tells a HuffPost
Celebrity interviewer. When he asked her “what’s the most
unexpected way your life has changed since losing 80 lbs,” she
responded, “Becoming a role model. When people say, ‘I want
to get my J. Hud on’ or they want to go to the gym and I’m a
role model for what they want to look like. It’s like, really?
How did that happen, to go from not being that person to
being that person?”. “That person” is one who is a role model
to people, one who saves lives and empowers people to change
their lives. While she is still known for her music and acting
career, her public persona is now strongly associated with her
body transformation and the meanings associated with it.
Her role as Weight Watchers spokesperson and its impact of
creating her as a role model/ambassador for health has, to a
32
degree, subsumed her acting and singing career. She has
quite happily identified her role as ambassador of health as
one of the most salient parts of her public persona, and, based
on the questions posed to her in interviews, the public also
identifies her with her weight loss. It is clear that Hudson has
positively impacted Weight Watchers through the transfer of
her transformation narrative, but is also clear that her
association with Weight Watchers has changed her public
persona as well.
Conclusion
References
Lynn Langmeyer e Mary Walker, “A First Step to Identifying
the Meaning in Celebrity Endorsers”, in Advances in
Consumer Research, 18, 1991, pp.364-371.
Grant McCracken, “Who Is the Celebrity Endorser? Cultural
Foundation of the Endorsement Process”, in Journal of
Consumer Research, 16:3, 1989, pp.310-321.
Amanda Spry, Ravi Pappu e Bettina T.Cornwell, “Celebrity
Endorsement, Brand Credibility, and Brand Equity”, in
European Journal of Marketing, 45:6, 2001, pp.882-909.
Using a revised version of McCracken’s 3-stage process of
analyzing advertisements, we see that celebrity identity is
changed as a result of endorsing weight loss products.
Hudson’s career-defining weight loss evidences “a creative
innovation in which personality elements are created or
dramatically reconfigured” so that the celebrity becomes
known as much for the product being advertised as the
original star qualities brought to the product in the first place.
Hudson’s innovative approach to her identity and her
changing self construction (based on her participation in the
program) illustrates an “experimentation in self-construction”
(McCracken, 1989, p. 317) which is precisely the process that
Weight Watchers proposes their customers go through - not
just weight loss but identity reconfigurations that are at the
heart of the new 360 degrees plan that Hudson is the
spokesperson for. She shows that she has the power over her
body and identity but so does Weight Watchers.
33
M ICHAEL ANGELO TATA
Social Collage and the Living Canvas
Adventures in Metacelebrity: Andy Warhol and
the Fame of Fame
S UPER - STAR S UNDAE : A DAZZLE OF S CHRAFFT ’ S CHOCOLATE ICE
CREAM BATHED IN A SEA OF SPECTACULAR HOT FUDGE JOINS A
SENSATIONAL SPLASH OF WHIPPED CREAM IN A TOUR DE FORCE
PERFORMANCE REACHING DIZZYING HEIGHTS AND A SOCKO
CHOCOLATE CREAM CANDY .
OUR SUPER BOWL
T HE VEHICLE FOR A SUPER - STAR IS
(S CHRAFFT ’ S ADVERTISEMENT FROM 1968,
Few stylewatchers or trend-spotters qualify as philosophical,
even today, when fame runs rampant and Global Gob takes it
as its prime object of delectation and speculation. Andy
Warhol’s unremitting attention to the fluctuations of time do
earn him the nomination, perhaps even accession to the
category, particularly as regards Meta-celebrity, which I am
here defining dually as the “Philosophy of Fame”, and which I
have discussed earlier in the Australian e-journal M/C in an
article I titled “Beyond the Stars”, along with Fame’s fame, the
fact that fame itself has achieved a notoriety all its own, as
more and more individuals, not all of them human, become
famous for being famous and talent is measured in discrete
Tweets and clicks: that is, countable blips that defer to the set
of Natural Numbers in the ultimate assessment of popularity.
Whether or not Warhol has anything productive to say, he
does, strangely enough, qualify as an important thinker about
fame, one who muses on nothingness and nonentity alongside
celebrity and eponymity until the last second. In discussing
the development of Warhol’s Philosophy in his Holy Terror,
for example, Bob Colacello cannot deny the fact that Warhol’s
publishers credit him with a philosophy irrespective of
content or merit. The world wants Warhol to be a
philosopher; indeed, it almost requires him to be one,
regardless of his mind’s content:
T IME C APSULE 7) [1].
34
Then along came a literary agent named Mrs. Carlton Cole…
Roz [Cole] told Andy that he should write his autobiography.
He told her that I was writing his biography, referring to my
Warhol films book, which Curtis Brown had sent to five or
six publishing houses since Dutton dropped it, with no luck.
Roz was very quick on her feet: “Well, why don’t you write
your philosophy. I mean, if anyone has a philosophy, it’s got
to be you.” Andy loved that idea - hadn’t he been telling me
to put “lots of philosophy” into the Fantasy Diary? Of course,
his idea of philosophy was going shopping for underwear,
and musing on love and sex along the way - and why not?
“Philosophy is anything, Bob. Just make it up” (Colacello, p.
184).
Roz Cole, Arthur Danto, even myself: people need Warhol to
be a philosopher. Philosophy personified, Warhol himself is
almost a conceptual entity - an idea that has gone too far.
Ideological, it exhibits what Arendt identifies in The Origins
of Totalitarianism as a creepy consistency, ideology’s
hallmark, watermark on the stationery is uses to write a love
letter to itself. Willingly occupying the zero slot, Warhol
represents the utter impossibility of nothingness in American
culture, the fact that Americans simply do not allow it to exist,
forever cramming it with positive content. Eloquently
articulating his nothingness, Warhol solidifies into positive
existence. In the popular imagination, he is the embodiment
of philosophy - his art and personality depend upon it for
their existence. Acting as support to his cultural endeavors,
philosophy defines Warhol’s personhood, machinehood and
glamorous nothingness, paving the way for Reality TV,
Facebook Culture and a performer like Lady Gaga’s sustained
embodiment of fame’s monstrosity, the very phenomena that
currently re-articulate the “Fame of Fame” each day, along
with its need to be documented, reflected upon and recirculated, as if it might disappear without our asssitance.
Positing glamour as a breakdown in the fashion system,
Warhol offers a worldview in which the faux pas, the leftover
and the mismatched forge an aesthetics of desperation,
revealing the anxious core of fame, en energy driving the
glittering system ever forward in a kind of thinned out and
pared down Enlightenment Thinking according to which
literacy grows increasingly visual and, as Daniel J. Boorstin
has duly noted in his work, fame loses its connection to arete.
As philosopher of glamour and celebrity, Warhol is primarily
interested in generating what I term various Social Collages,
creations offering an exciting miscontextualization of human
35
contents that can only produce misinterpretation and babel.
While for Marcel Proust such compositions fall under the
category of the “social kaleidoscope” (when they are viewed in
terms of space) or the “peepshow of the years” (when they are
viewed in terms of time), for Andy Warhol the social text is
read in terms of that important modern visual form, the
collage [2]. The Warholian social collage involves the
application of collage’s structural principles - for example, the
juxtaposition of disparate and incommensurable elements,
the brute removal of objects from their niches, the jamming of
the collagespace with too much material, the use of irregular
sutures and the effect of heteroglossia - to the social tableau
[3]. Transferring the collage into the sphere of the
interpersonal, Warhol replaces the torn images and scraps of
a Ray Johnson or a Hannah Höch with the thrust-together
bodies of human beings in the fabrication of the perfect
happening, party or photo op. Warholian social collage is
radically heterogenous, a sentiment he mouths in his and Pat
Hackett’s posthumously published Andy
Warhol’s Party Book with reference to
that supreme social fetish, the party:
“What’s the purpose of a party? In big
cities like New York the party is
essentially a mechanism for bringing
people together who wouldn’t otherwise
be together, such as a wrestler and a
sculptor. In smaller communities like,
say, an army base, the party is an
opportunity for the same people who are
always together to be together again, but under different
circumstances” (p.8). Either “creating a new scene “or “raising
the excitement level” of a habitual scene, the party as social
collage involves either the interaction of unrelated presences,
or the intensification of the ordinary through its rearticulation
in an unfamiliar context. Requiring presence, the social
collage forces different entities to communicate with one
another, often with mixed results. Imbricated in an intense
present, the social collage’s only requirement is full
embodiment:
Sex and parties are the two things that you still have to
actually be there for - things that involve you and other
people. For sex and parties, you still have to physically bring
your lump of protoplasm and get it close to somebody else’s.
To carry on friendships or to cash checks or buy clothes, you
can just make a phone call or send a computer message. To
give court testimony or look for a date or read your own will
after you’re dead, you can send a videotape. To impregnate
somebody and reproduce yourself, you
can just send sperm. You don’t even have
to be there to fight a war - you just send
a bomb (pp.7-8).
Though surviving and passing to
posterity in the form of the snapshot or
its verbal analogue, the celebrity report,
Social Collage inhabits the momentary,
which it fills to the breaking point.
Capitalizing upon connotation as much
36
as denotation, the social collage lives via
the resonance of reputations and the
interplay of auras. As one caption in Andy
Warhol’s Party Book reads: “Michael
Douglas, Yoko Ono, ‘Jezebel,’ and Jann
Wenner smoking” (p.60) [4]. Through
social collage, somebodies (Michael
Douglas, Yoko Ono) and nobodies
(Jezebel, Jann Wenner) rub their coronal
fringes against one another, producing a
short-lived but powerful spark to be
emitted. Contact excites. Whoever Jezebel
and Jann Wenner are, they borrow
surplus fame from Michael and Yoko,
which bathes them in a moonlike,
immortalizing glow, while Michael and
Yoko, whose fame is already a fait
accompli, acquire a certain edginess or street credibility from
their connection to denizens of an Underground far beneath
their feet. The Time Capsules also collect such nobodies:
“letter, to AW, fr ‘a person named Maggie’ in Williamsburg,
VA, posted June 9 1969, ‘I would very much like to be in one
of your movies…I can’t sing or act, but I’m an expert at being
me” (inventory, TC 7); “Andy: I want to be one of your crows,
this is the last time I’ll tell you” (letter from Lance Russell,
Santa Barbara, TC 17). Dreaming of being somebodies,
characters like Maggie and Lance pressure Warhol, whose
magic wand promises to turn them into cinematic baubles.
Repositories of stars and wash-outs, the Time Capsules are
Warhol’s greatest social collages. Their
juxtapositions of objects and human
artifacts create productive and radiant
vortices - as when, for example, the
Diaries assay the elements of one such
box: “I opened up one of the boxes in the
back that’s being moved and it had 16mm
rolls of film and letters from Ray Johnson
the artist and I think my bloodstained
clothes from when I was shot” (Tuesday,
May 22, 1984). Letters from an eminent
collagiste enter into a new collage along
with residues of violence and potential
works of art. A party-in-a-box, the Time
Capsules take up the logic of mixing and
mingling: if people are things, then they,
too, can be played with, rearranged,
deposited.
Using human nervous energy, the Social Collage, whether it
occur in or out of the box, runs on insecurity and
awkwardness; a glorified faux pas which has stopped being a
joke and demands serious processing, the Social Collage is an
energy-storing knot clotting social space with its refusal to
dissipate [5]. POPism recalls one such beautiful mess, as
Brigid Berlin creates a scene in the presence of music stars
Bob Dylan and Brian Jones and a magically appearing Jane
Holzer - all while Warhol focuses on unrelated issues:
37
The Duchess was frantic because nobody was paying
attention to her, to whether she should lose a hundred
pounds and put her hair in pigtails or just switch from
Honey Amber to Tawny Peach Blush-on. She wasn’t
impressed with Dylan or the Rolling Stones because she was
over thirty and never listened to rock if she could help it. She
glanced over toward tiny Dylan and even more tiny Brian
[Jones] with his pale, pale skin and fluffy strawberry blond
hair and said as loud as she could, “Those aren’t men, my
dear. I like them tall and craggy and divine like Greg Peck”.
Then the Duchess got up on a bicycle that someone had
propped against a wall and started pedaling around the red
couch just as Jane Holzer walked in. I was asking Brian
about a certain beautiful but dizzy English actress we both
knew (p.150).
Successful gatherings depend upon a social gradient; its
unevenness determines the flow of bodies and personalities.
In Andy Warhol’s Party Book, Danceteria/Palladium/Tunnel
“doorman/doyen/dilettante” Hauoi Montaug describes the
importance of difference in generating party energy: “You
don’t want a homogenous crowd inside a club, because people
really do go to nightclubs to make fun of the person standing
across the dance floor, so nobody’s really happy if everybody
in the room looks the same as they do” (p.53). Managing the
passage of torsos across a velvet membrane, the doorman
catches Warhol’s eye. Whether he be a nobody, like Hauoi
Montaug, or an ultra-body, like Studio 54’s Steve Rubell, the
gatekeeper acts as a social frame, keeping desirable and
undesirable elements from touching one another. Responsible
for ensuring a thermogenic diversity, he performs the vital
function of creating a manageable chaos (unlike, for example,
the co-op doorman, whose task is to regulate a predetermined
flow, or the department store doorman, whose responsibility
is to please and ingratiate). As with Brigid’s manic bicycle ride
through the Factory, social eclecticism guarantees success in
the form of drama. Set against the background of rock-androll stars whiling away the day’s hours in the informality of a
casual visit, Brigid’s outburst occurs in sync with Park Avenue
socialite and debutante Jane Holzer’s serendipitous arrival
[6]. Adding up to chaos, the social collage is the lived
experience of radical heterogeneity as it fortuitously and
unfortuitously transpires. Taking as its upper limit the Valerie
Solanas scenario, social collage remains a Warholian
technique; bordering death, it requires the cultivation of just
enough volatility to pique interest without so much that police
intervention or hospitalization is necessary.
The Mistake’s Mystique
Ultimately, the
Social Collage is
meant to be
consumed - hence
the presence of
celebrated
nightcrawler Dianne
Brill in Andy
Warhol’s Party
38
Book. Like Warhol’s other famous party monsters, such as
Ondine, Edie Sedgwick, Brigid, Halston, Liza or Victor Hugo,
Brill dedicates her life to frivolity, and consequently becomes
a source of fascination for a man who has committed his time
to refashioning partying into a philosophical object and
project, something that requires Aesthetic Theory to explain it
as much as it alters Aesthetics through the novel
environments and
ecosystems it creates in this
Debordian world for which
the situation is itself a work
of art. For Brill, as for
Warhol, parties are work;
bringing home the bacon
necessitates schmoozing,
slumming and eventhopping, a lifestyle not far
removed from Warhol’s. In
Jean Stein’s Edie, Warhol
describes Edie’s blueblood
method of consuming
human groups as they
concatenate:
She always wanted to leave. Even if a party was good, she
wanted to leave. It’s the way they work now in St. Moritz; I
mean, people who spend fortunes to have parties can’t wait
until they’re over so they can go somewhere else.I don’t
understand that. Can’t wait to go…and there’s no place to go.
These people in big, expensive cars can’t wait to get to the
next party…and there’s no next party. They just get up and
leave. It’s really funny. But Edie was like that. She just
couldn’t wait to get to the next place (p.200).
Similarly, through Dianne’s words, an aesthetic of partying
emerges, this time for an 80s audience steeped in placenames like Area, Palladium, Save the Robot, Tunnel or
Limelight. In the rare event that readers of the future might
not recognize her image without cues, Warhol and Hackett
introduce Brill as follows:
Dianne Brill is a fashion designer who makes nobodies feel
like somebodies with the big hellos she gives to everybody.
She was the first young girl in decades to really play up a big
body with big curves and big cleavage. In mid-eighty-six,
when the following conversation took place, she operated full
tilt all night as the ultimate Party Girl and earned herself the
title “Queen of the Night” (p.42) [7].
Professional partier, Brill is yet another wild child to flash
across Warhol’s radar screen - one final Girl of the Year.
Brill describes her favorite party, one thrown with a coffee
theme in imitation of a “Coffee Achievers” TV commercial
running in the late eighties:
We did a beautiful décor with enormous coffee beans, and it
was a total environment, things happening all the time talking on the phone drinking coffee, vignettes, push-up bras
and stuff…We had the Shirelles come out and sing Happy
39
Birthday to me, and while we were eating, tons of acts came
out, all girls dressed like me - clones - doing coffee poses (p.
43).
Offering advice on how to hit all the major parties up while
avoiding the “retardos,” her favorite word, Brill flits from one
Social Collage to
another, having
mastered the art of
timing (when to
appear, when to
vanish):
It’s good to have
integration, but you
don’t want to have
people who go,
“Wow, is that your
real hair? Are you
from New York?”
Retardos. If you
suspect it’s going to
be like that, go during
the first half hour and
then leave, because that’s when all the interesting people will
be there, since they know what you know - that it’s not going
to be a long-run fun party. They may even skip it altogether,
and you may, too (p.43).
A blonder, younger version of Andy, Brill enters Warhol’s
aesthetic both as paragon of taste and total loser. The Diaries
reports one sad incident in which Brill’s celebrity fails.
Attempting to jump onstage during an early Madonna concert
at the club Private Eyes, Brill finds her celebrity to have
evaporated: And Dianne Brill tried to get on the platform and
the guy just pushed her
back and I said, “Don’t you
know who that is? It’s
Dianne Brill”, but he still
wouldn’t let her up. And she
was so conspicuous in her
rubber outfit and
Frederick’s of Hollywood
stuff and everything, so she
was really humiliated, and
that’s the way things go you think you have so much
pizzazz and then something
like that happens in front of
your friends (Wednesday,
November 7, 1984).
Stuffed into designer
lingerie, her curvy body - “conspicuous” - receives the
opposite of the royal treatment. Somebody collapses to
nobody. Pop.
Moments like Dianne Brill’s mortification in Clubland bring to
the forefront the problem of the abject, a concern cropping up
40
almost ubiquitously throughout
Warhol’s works and one that I have
used integrally to construct my
own theory of the E-ject, or
Electronic Object, in my work with
Joseph Tabbi and Dene Grigar et
al. for Digital Arts and Culture
2009 at the University of
California, Irvine. In her Powers of
Horror: An Essay on Abjection,
Julia Kristeva provides the abject
with its most definitive
formulation. For Kristeva, the
abject is all that the subject must
extrude from itself in order to remain a subject through the
intense process of assujetissement. Dangerous, the abject
places in peril those who embrace it - especially given that,
culturally, human subjects are instructed on how to avoid it.
Initially coming into existence as the tabooed bodily excretion
- the paradigmatic example would be menstrual blood - the
abject is all that flows away from the body, all that must be
removed from interstitial space in order for health and
hygiene to prevail. Hence Kristeva’s aphorism “To each ego its
object, to each superego its abject” by which she indicates the
social nature of abjection (it is imposed upon the psyche as a
socially inherited, Lamarckian prohibition) (p.2). Ultimately,
the abject as bodily extrojectum signifies death:
No, as in true theater, without
makeup or masks, refuse and
corpses show me what I
permanently thrust aside in order
to live. These bodily fluids, this
defilement, this shit are what life
withstands, hardly and with
difficulty, on the part of death.
There, I am at the border of my
condition as a living being. My
body extricates itself, as being
alive, from that border. Such
wastes drop so that I might live,
until, from loss to loss, nothing
remains in me and my entire body falls beyond the limit cadere, cadaver (p.3).
Though beginning its illustrious career as a revolting, rejected
bodily flow, the abject comes also to demarcate classes of
beings which one must deny in order to remain healthy,
normal. Characterized as the “deject,” the human being who
occupies the undesirable subject position - for example, the
sexual, racial or socioeconomic untouchable - experiences
spatial and existential disorientation:
Instead of sounding himself as to his “being,” he does so
concerning his place: “Where am I” instead of “Who am I?”
For the space that engrosses the deject, the excluded, is never
one, nor homogenous, nor totalizable, but essentially
41
divisible, foldable, and catastrophic. A deviser of territories,
languages, works, the deject never stops demarcating his
universe whose fluid confines - for they are constituted of a
non-object, the abject - constantly question his solidity and
impel him to start afresh. A tireless builder, the deject is in
short a stray (p.8).
Delinquent, he who embraces the abject, or to whom the
abject is attributed, lives at the fringes of polite society.
Identified with urine, fecal matter and menstrual flows, the
deject is punished for his inclusion of materials or positions
culturally deemed undesirable. As with Judith Butler’s
discussion of “abject heterosexuality” in Bodies That Matter,
disavowal of the abject becomes a precondition of organic
health [8]. Spat out of society’s mouth, the deject finds
himself irreversibly tainted by the abject, which guarantees
his exclusion from the world, his being situated at its border
along with the corpse and other reminders of death and
mortality (all of which paradoxically support the very
identities disavowed).
Social effluvia forever lurk within Warhol’s human collages.
Kristeva’s remarks with regard to Proust and his obsession
with the abject ring true for Warhol as well: “Abjection, with
Proust, is fashionable, if not social; it is the foul lining of
society” (p.20). As in the example of Dianne Brill’s expulsion
from Madonna’s charmed performance space, the rejected
individual continues to generate the glamour of no glamour
within Warhol’s many frames. Warhol’s work with the abject
is twofold: (p.1) he notices and documents its appearances,
and (p.2) recuperates it by integrating it into the fashion
tableau. Identifying as abject himself, Warhol as outsider
seeks out other weirdos, crackpots and pariahs, the majority
of whom are established as chic and visually arresting. Putting
the wrong person in the right place, Warhol destabilizes
various orders through the forced intrusion of otherness - a
difference which must be countenanced. Like the faux pas,
the abjected body represents the very break in the machine’s
functioning which
guarantees further
functioning (in
Deleuze’s and
Guattari’s language,
it is not a break, but a
“break-flow”). Rather
than flow evenly and
uniformly, glamour
thrives on the eddy,
the vortex, the
overflow. Depending
upon a counterosmotic gradient,
chicness and celebrity throw caution to the wind where the
regulation of membrane activity is concerned. A body like
Brigid Berlin’s, though ridiculed by Warhol at times, cements
a new species of fame - her bare-breasted presence in Steven
Meisel’s quintessential Factory photograph both highlights
her status as demi-mondaine while infusing the aboveground
with the sensual excess of the subterranean. A perverse
42
Willendorf Venus, she wields her massiveness as an aesthetic
weapon, thrusting her pendulous breasts in the face of
modernism. Similarly, the presence of black model Donyale
Luna in Warhol’s film Camp (1965) and of black intellectual
Dorothy Dean in My Hustler (1965) represent a profound
concatenation of lives and discourses. Like Brigid, they too
scandalize and vorticize, forcing their irrepressible presences
upon an audience unsure as to how they are to receive the
imposition. The Social Collage depends upon such
destabilization, deriving its
energy from the
disequilibrium of misplaced
bodies through whom place
itself is renegotiated, as
space becomes differently,
even differentially,
bracketed.
Appearing after a seemingly
interminable series of
performers, all of whom
attempt to redefine camp
sensibility (Baby Jane
Holzer, Mario Montez, Jack
Smith, Fou-Fou), Luna is
Camp’s only Beauty. Dancing hedonistically in a fur coat, she
connotes wealth, worldliness and fun, while also opening the
film to the world of modeling - a space in many ways foreign
to it. One discourse gives way to another - horizontality
prevails. Running out during her performance, Camp crashes
against its own limit conditions. It has no option but to end
after Luna has answered its central question “What is Camp?”
by remaining impervious to it. “Do you want me to go?” she
almost whispers, inquiring as to whether or not it is her turn
to partake of a game that matters little to her. “Put the music
on”. Oblivious to the problem of camp, she does her own thing
- an act the film cannot survive. It’s not even clear Susan
Sontag makes it. Fashion designer Paco Rabanne confirms
Luna’s dual status as glam and abject in his autobiography
Journey. Having first used Luna in his 1964 “Robes
Importables” (unwearable dresses) show at the George V
Hôtel in Paris, Rabanne, like Warhol, understands the
productive power of the othered body:
One can imagine the shock of a public used to that kind of
fashion event when confronted with warrior girls, covered in
metal armour made of aluminum triangles linked with rings
or rivets, moulded in sheets of sliced Rhodoid. It was a
revolution in high fashion, all the more so because it was the
first time that black models had been used, all dancing
frenetically to the sound of Pierre Boulez’s “Le Marteau Sans
Maître”. Chaos and confusion broke out, an incredible tumult
reigned, some people got up, screaming, horrified at the
sight of these amazons dressed in chain-mail, swinging their
hips to “savage” music. Others manifested their approval in
uproarious fashion under the perplexed eye of members of
the Parisian bourgeoisie. The prank had worked (Journey, p.
87).
43
Articulated in the form of a joke, the abject represented by
Luna stops being funny: she isn’t going anywhere, and in fact
represents the future of American glamour both for the U.S.
and its world market. While Paco Rabanne reports being spit
upon for offering a Rhodoid-clad Luna as impossible model
wearing an unwearable garment, Andy Warhol is able one
year later to include her within Camp’s collage without much
hubbub [9]. Allowing the film to run out during her
apparition, he solidifies her importance to his enterprise.
Ultimately, camp doesn’t matter, but glamour does especially in its black manifestation.
In Dorothy Dean’s precarious case, her mysterious and
miraculous intrusion in the final moments of My Hustler
(1965) blows the film wide open. As My Hustler (1965) is
about to end, Dorothy appears from an alternate order than
the microcosm of the white Fire Island hustler. We have just
been given perhaps cinema’s longest glimpse into what goes
on in the secret world of the hustler’s transformation
chamber. For a glorious sequence of golden minutes, we have
watched Paul America and the Sugar Plum Fairy, competing
tricks, perform a charmed ballet of circulating bodies, each
carcass vying for space in front of the scene’s star presence,
the mirror. And we have listened to Sugar Plum dispense
hustling advice to the younger and less-experienced America,
who has been instructed as to how he can get more bang from
his buck, how he can save enough money to retire from the
profession in style, maybe earning a car or two along the way.
As a coda to the scene of male assembly, of how it is these
vessels of a Y Chromosome that for Val Sonalas can only be a
fractured X, prepare for public display, Geneviève Charbon,
Rival #1 for Paul’s body, arrives, magically clutching a giant
conch shell from which, perhaps, some soft marine body has
escaped in its oceanic peregrinations. She has sensed Sugar
Plum’s question for Paul, “What’s your game anyway?”,
answering it by offering him escape from Fire Island, travel,
displacement. Paul does not respond, his coiffure continuing
uninterrupted. She has missed the mark. Next, Ed Hood,
Rival #2, and Paul’s “john,” arrives, making a similar offer:
travel, girls, boys, whatever Paul wants. Again, Paul, lost
narcissistically in the smooth, dreamy surface of the mirror, is
completely unresponsive. Rival #3, Sugar Plum, his body
cached away in some mysterious alcove or spaciotemporal
fold, exerts a fantastic and phantomlike presence, his ignored
and, for Geneviève and Ed, invisible body existing merely as a
reflection in a glass that quite clearly belongs to Mr. America:
the “your” in “I’ll be your mirror” refers only to Paul. Sugar
Plum’s time as star prostitute has elapsed. Enter Dorothy,
compact and lip pencil in hand. “You are very pretty but you
are not exactly literate. Sweetie, I will get you educated…I
mean, why be tied down to these old faggots?” (as quoted in
Hilton Als, p.80). End of film. Disappearance into shadows of
the black body which has barely emerged from shadows
before it must be reabsorbed, reclaimed, redispersed. Abject
within the economy of white Fire Island hustlerhood, Dorothy
Dean impinges upon Paul’s existence, stamping it with her
vital otherness. Like Camp, My Hustler washes out after the
abject makes its presence sublimely known. Comprehending
44
the abject’s power, Warhol, in keeping with Kristeva’s Proust,
inverts society’s lining, exposing a glistening nacreous core
and its alternate glamour in sync with his own fantastic
outsiderliness.
In the Glow of Andy Morningstar
In the Diaries, Warhol reports an
important early foreshadowing of future
glamour. Reflecting once again upon the
onomastic question, an issue explored by
Warhol as well as members of his
entourages (for example, the production of
a Candy Darling from a James Slattery, of
a Holly Woodlawn from a Harold
Ajzenberg, or of an Ultra Violet from an
Isabelle Dufresne), Warhol offers a
glimpse into his earliest glamour
imaginings: “No no, I don’t love my name
so much. I always wanted to change it.
When I was little I was going to take
‘Morningstar,’ Andy Morningstar. I
thought it was so beautiful. And I came so
close to actually using it for my career. This
was before the book, Marjorie Morningstar. I just liked the
name. It was my favorite” (Wednesday, October 3, 1984).
Reflecting upon past experiences of dreamed celebrity,
Warhol makes the present tense a recapitulation of elapsed
glamour impulses while also setting it up as a factory for the
production of future fame. In Warhol’s imagination,
everybody is a drag queen, every name a pseudonym - the
body and name “Andy Warhol” included. Warhol’s will-tofame catapults him into the limelight of art, fashion, music
and cinema systems, places he travels on the low-friction
horizontal plane of celebrity. Propagating laterally, even
mycologically, fame sustains itself through a rhizomic
infiltration of niches and ecosystems [10].
Warhol’s reflections upon himself are the
type of contemplation which fashion his
body and aura into objects of
philosophical inquiry. In Philosophy, he
ponders about what makes him salable:
“Some company recently was interested in
buying my ‘aura’. They didn’t want my
product. They kept saying, ‘We want your
aura’. I never figured out what they
wanted” (p.77). Audiences which resist his
fame - in particular, black people - cause
him grief: “Andy noticed that blacks never
came to his book signings, in any city,
including New York. And on the single
occasion when an ill-dressed youth said he
couldn’t afford to buy a book, Andy bought
one for him, and then listed it in his expenses as ‘Book for
poor kid - $7.95’” (Colacello, pp.311-312). Bottling himself as
star product - Coca-Cola, or even the fragrance he toyed with
in the sixties, You’re In - Warhol distills his essence for mass
distribution (as the Diaries indicate, to Paris, Milan, Kuwait,
Monte Carlo, Iran) [11]. Reading Warhol’s words, we
45
encounter a meta-commentary on fame, that mystical entity
which, along with money, drives Warhol ever forward into
new terrain. Like money, fame is capital; it can be accrued,
stored, hoarded, and can even generate interest (the celebrity
model represents one such accumulation). Employing that
philosophical bugbear, the self-report, bain of Ludwig
Wittgenstein and Richard Rorty, Warhol commits his life to
the speculation of what it means to
transform oneself into a marketable
commodity [12]. In this economy, fame
fantasies are of major import, as in the
“Economics” chapter of Philosophy, when
Warhol muses: “I have a fantasy about
Money: I’m walking down the street and I
hear somebody say - in a whisper - ‘There
goes the richest person in the world’” (p.
135). That bizarre species of fantasy which
finds itself alienated via its full realization,
Warhol’s life itself functions as a running
commentary on celebrity. Famous for
being famous, Warhol bumbles his way
into the warm glow of the media machine;
his gift to posterity is the fact of his fame, his physical
displacement from a terrestrial nowhere to a celestial “up
there.”
In his How to Have a Life-Style, social philosopher Quentin
Crisp makes the astute assertion that the essence of celebrity
involves gross ontology, or the mere fact of being. Condensing
all existence into style turns one into a celebrity essence something whose eminence depends upon its mode of being
(just as, for Merleau-Ponty, the flesh modulates being as a
style) [13]. For Crisp, “making it” involves convincing people
to consume you purely on the basis of your existence - an
irreducible totality. “Doing” loses ground - soiling, action
serves the sole purpose of generating a reputation, after which
point all that remains is sheer thereness:
It is, of course, not merely enough to make
sure that the foundations of your home
life are solid. You must then decide what
you are going to do in the outer world.
Some of my readers may be so oldfashioned that they still have jobs. If this is
so, they should make every effort not to
take work which involves them only with
things. These might be called the “making”
professions; they should aim to find
employment that brings them perpetually
into contact with people. They will then
be able, during every waking, working
hour, to polish their techniques of selfpresentation. Work of this nature can be described as a
“doing” profession - only one step away from the Profession
of Being, to which all true stylists aspire (p.79).
Autistic, making necessitates contact with only objects and
materials - Crisp’s examples include the works of “Mr. Wilde”
and “Miss Stein”. Intersubjective, doing forces human-human
46
world” (p.174). Consumed by style, the fame-conscious
human being takes as his work the awesome project of
occupying space and time and of projecting his essence to the
world’s other inhabitants (Crisp refers to this act as the
“projection of style”). Taking being as a profession, this
creature no longer needs to make or do anything - at this
glorious moment, work is the non-work of radiating.
contact, allowing a personal aesthetic of maintenance and
display to develop - golfers and actors take these jobs. Being
occupies the apex of Crisp’s triangle, an activity available only
to those rare individuals who have found a magical way to
transcend all human activity and can fall back on their
essence as a form of income (Crisp’s Manhattan celebrity
toward the end of his life testifies to this fact) [14]. While
fabricating and acting provide their subjects with chances to
perfect themselves as “stylists,” it is only when one has left
behind all human activity for the rarefied non-activity of
existing that true celebrity and glamour emerge: “Style is a
shield; style is a sword; style is a crown; and style is also an
automatic invitation card to the party at the end of the
Warhol, too, refines his performance into mere
spaciotemporal positioning and projection (for Crisp, style is
always a projectile or aerolith). Cramming his being into
astral existence, Warhol takes as his ultimate work the
production of himself. While so many of Warhol’s public
appearances, modeling stints, music video cameos and TV
advertisements present his essence or aura for consumption,
his October 12, 1985 spot on The Love Boat makes the point
most vividly, and constitutes the apex of my argument that
through Andy, Meta-celebrity is born. Arranging for him to
portray Andy qua Andy, Aaron Spelling’s writers generate a
script which could easily have been taken from POPism.
Warhol explains the story of his particular episode in the
March 20, 1985 entry of his Diaries: “So then I was working
on the Joan Collins portrait and on some other stuff, and then
a big four-page telegram came from The Love Boat saying that
they wanted to show all my art on The Love Boat, too. The
story is that I go on The Love Boat and there’s a girl on the
boat named Mary with her husband, and she used to be
‘Marina Del Rey’. And I just have a few lines, something like
‘Hello, Mary’. But one of the lines I have to say is something
47
like ‘Art is class commercialism,’ which I don’t want to say” (p.
633). Cast in the episode as Mary Hammond/Marina Del Rey,
Happy Days’ Marion Ross toys with her status as maternal
icon; finally a model citizen (she has married a political star
portrayed by her Happy Days co-star Tom Bosley), she has no
idea that being welcomed aboard the Pacific Princess will
make inevitable a confrontation with a phantasmic past self
which has refused metempsychotic dissipation [15]. Having
starred naked in Underground 60s film The Green Giraffe,
Mary Hammond suddenly finds her life imploding around
her; returning to haunt her present, Marina Del Rey is a
sixties spectre which has found itself hideously resuscitated.
Playing himself, Warhol is flanked by a telltale entourage, this
time starring Raymond St. Jacques as a genderbending escort
and black queen: “PH came by about 2:00 and we went into
the makeup room and she opened up her mouth and said, ‘So
who’s playing your drag queen?’ and Raymond St. Jacques
whirled around in his chair and gave her a withering look and
said, ‘It’s not a drag queen.’ And there he was with lipstick on
and everything, and in the original script it had called the role
a drag queen” (Monday, April 1, 1985). Presenting Warhol as
venue for sexual, gender, racial and artistic alterity, the
writers of Episode 233 do what Love Boat writers do best:
process Hollywood and New York for usable distillates.
Cramer’s TV show Dynasty there. The Love Boat writers are
working on my episode which is going to film on March
thirtieth and I started to get scared. I don’t know if I can go
through with it. The guy was really gay. And Joan Collins got
done shooting and I said hi, and she said I still owed her a
painting. She was great. And Ali McGraw waved. There were
like 500 people there working. And it’s directed by Curtis
Harrington who was an underground filmmaker in the sixties
who did voodoo kind of stuff, and now he’s doing
this” (Thursday, January 3, 1985). Making use of discarded
artists from the sixties, The Love Boat not only recycles
washed-up screen and film stars, but also finds a way to make
Warhol’s Love Boat episode positions his painting in
immediate proximity with the larger world of TV celebrities,
all of whom finally share his environment: “We went over to a
studio across from the Formosa Restaurant, they shoot Doug
48
art failures useful, much as the Brillo Box had done with
James Harvey years earlier. In this economy of the televisual,
Chris Harrington represents an art weirdo who has acceded to
an alternate position of power from which he is able to assist
Warhol at disseminating his image to more conservative
markets. Situated next door to Joan Collins, Warhol enters
into a new Social Collage in which his dual status as TV star
and art star mingle with Joan Collins’ status as bitch-of-theminute (her role as Alexis Carrington knew no parallel in
terms of her fashionability, vindictiveness and venom). Owing
Joan an image of Joan, Warhol the portraitist crystallizes in
the midst of Warhol the actor. Proof of Warhol’s celebrity
comes in the form of his relationship with Joan, who not only
has commissioned work of him, but also shoots her scenes in
the vicinity of where he shoots his: their sites of production
adjoin. In this milieu, even an actress like Dynasty’s
Catherine Oxenberg, who plays Joan Collins’ daughter,
Amanda Carrington, appears as one more hysterical actress in
a stream of many: “And then we went over to the Dynasty
soundstage and tried to see Catherine Oxenberg but she said
she was in an accident and was crying and didn’t want to see
us. I don’t know. I bet she just had a fight with her
boyfriend” (Diaries, Friday, March 29, 1985). Knowing the
dirt on an insider like Catherine Oxenberg marks Warhol as
interior to a media machine he has been able to permeate
successfully.
In Andy Warhol’s Party Book, Warhol describes the parties to
which his Love Boat gig facilitated entrée. Warhol places
reports of his Love Boat fête in a chapter entitled “Out-ofTown Parties” (other species of parties include Club Parties,
Paid Parties in Public Places, Celebrity Parties and the
celebratory lump “Wedding(s), Funerals, Art Openings,
Charities, Etc.”). Focused primarily on Los Angeles parties,
Las Vegas parties and Baltimore parties, this chapter provides
a geographically suited etiquette of partygoing and a record of
Warhol’s whereabouts in his domestic celebrity wanderings.
In his L.A. stint, two major parties occupy Warhol’s time and
attention: Swifty and Mary Lazar’s Academy Awards party at
Spago, and the Love Boat’s Thousandth Passenger party for
Lana Turner (true to form, Warhol had missed out, only being
the 999th). Finally Los Angeles has embraced Warhol;
legitimized, his offness no longer presents aesthetic danger
(by this point in time, even Cher has changed her mind about
Warhol’s status, as testified to by her invitation of Keith
Haring and Andy Warhol to a barbecue at her Malibu
complex) [16]. Of these two events, the Love Boat party
delights Warhol the most:
The Love Boat party was everything I’d hoped it would be every star from Joan Collins to Fred Travalena, from
Englebert Humperdinck to Joanne Worley. Roddy McDowall
and Troy Donahue were at our table. Ginger Rogers and
Mary Martin were across from us…It was all just great, a
thrill a minute. Lots of favorites you worried might be dead
by then, but there they were, still looking great (pp.108-109).
Through the party’s guest list, previous Warhol paintings and
movies come to life. His 1962 diptych Troy Donahue finds
49
itself suddenly transformed into the (ex)-hunk’s physical
presence at Warhol’s table, while Lana Turner, whose life had
been played with in the 1965 film More Milk Yvette,
crystallizes as celebrity incarnate. Warhol misses her Love
Boat eminence by only one mere digit - he is closer to her
than ever, and yet still a loser. Functioning as a cultural
mortuary, The Love Boat becomes a receptacle in which
residues of celebrity are collected. In fact, the evening’s
“shockaroo” comes when Aaron Spelling arranges for there to
be a salute to expired passengers in the form of a clip
sequence:
It was like you were seeing the Curse of the Love Boat Richard Basehart, John Blondell, James Broderick, Judy
Canova, Jan Clayton, Hans Conried, Bob Crane, Richard
Deacon, Janet Gaynor, Will Geer, Arthur Godfrey, John
Hackett, Patsy Kelly, Fernando Lamas, Peter Lawford, Ethel
Merman, Slim Pickens, Walter Slezak - just on and on. It
seemed like forever, although it probably wasn’t more than
thirty - which isn’t too bad out of a thousand guest stars - but
just seeing them all together, people you’d forgotten had
died, even, had its impact. It got me wondering how much
more time I had left (p.109).
Disclosing itself as cemetery, The Love Boat collects Warhol
as one more star essence in his penultimate year. Imagining
himself a Spelling clip documenting his life as having grown
physiologically obsolete, Warhol is correct to place himself at
such a biophysical chasm.
Despite the fact that the Academy Awards and Love Boat
parties present Warhol with the opportunity to meet other
eminent beings, he makes certain to include the spicy selfreports of “the kids” for extra flavor. One thing never changes
in his aesthetic: it’s always about THE KIDS, as generations
equally nourish and prey upon one another. A photograph
caption reads “Andy with camera, Robert Guillaume, Alexis
Smith, June Allyson, Loretta Swit, Ginger Rogers, Doug
Cramer, Lana Turner, Aaron Spelling, Mary Martin, Michele
Lee, Cloris Leachman, Tom Bosley, and Carol Channing,”
testifying to Warhol’s inclusion in a social panorama which
seems to embody Proust’s temporal peepshow in all its
gerontophobic nausea (p.114). Still, what piques Warhol’s
curiosity most in his L.A. travels is the presence of “Reed,” a
Hollywood kid who Warhol meets not in Los Angeles, but in
New York City:
When you’re walking down streets like Sunset or Santa
Monica Boulevards, there are lots of vending machines with
different sex newspapers inside, and the papers always look
like they’ve been sitting there forever, but you don’t
personally know anyone who puts ads in them or even buys
them. Well, one night I was sitting in a bar on Mulberry and
Spring Streets in New York with screenwriter Peter Koper,
his wife, Gina, and two artists, Nick Ghiz and Joe Lewis, a
young kid from L.A. named Reed sat down and told us how
he’d lost his virginity at a swingers-type orgy in the
Hollywood Hills (p.116).
50
Like so many other of Warhol’s confidantes, Reed provides
the eager voyeur with a horrible story of corporeal and
psychological humiliation. As Marty, a disco fatality in a “Let’s
Boogie” T-shirt, ushers Reed into what will become a chamber
of abjection, Reed encounters aesthetic and sexual surprises:
But here it was in front of me
- and a heavy scene, too.
The place was adorned in
plastic palm trees and
plastic fruits, and everybody
was walking around in
lingerie. Old, old women. I
mean sixty years old, some
of them (p.116).
Impotent at the sight of
aging flesh, Reed pulls
himself together enough to
achieve orgasm with another
random guest Dana while
Reed’s girlfriend Maria gets
busy with Marty - all in the
same bed, a sexual diptych,
Couch turned into split-screen cinema. The sex soon passes
from unsatisfactory to vile:
I never felt a thing. It was a blur. I didn’t feel myself come or
anything: I just knew it was finished. Then I rolled over and
acted wiped out - although I had barely moved. Then Maria
comes over to me, smiling, and spits Marty all over my face.
I was repulsed beyond all imagination. I jumped up and ran
across the house naked. I didn’t care anymore. Horrible.
What a way to lose it, you know (p.119).
Stealing the show, Reed produces the chapter’s center of
gravity. Even in the heart of
Hollywood glamour, the
penumbra of the abject
makes its presence known
forcefully and without
danger of being forgotten:
shadows are just that
powerful, as Warhol’s own
physicality reminds us time
and time again.
Still, all things considered,
nothing better represents
Warhol’s success at
atomizing his presence for
the benefit of Meta-celebrity
than his Love Boat
appearance, an event with its
own satellite parties and personalities. That Warhol is able to
make it into the Love Boat archive proves that his project has
achieved a more than satisfactory completion. TDK, Vidal
Sassoon and Diet Coke television commercials testify to the
visual appeal of Warhol’s grotesqueness, yet do not speak as
vociferously about his status as pop-culture icon. Similarly,
51
incursions into the field of modeling comment upon Warhol’s
relation to chicness, yet do not position him within the lowbrow grid of the everyday. What The Love Boat offers that
other venues (for example, MTV) cannot is a certain schmaltz
factor, a constitutive cheesiness and kitsch value. As trash
repository, Aaron Spelling’s masterpiece recirculates and
recycles has-beens to the effect that it becomes something of a
glue factory for expiring thoroughbreds. Popular
entertainment - I can remember my own Saturday nights
being wrapped up in overnight visits to Aunt Angie’s and
Uncle Winkie’s for viewings of The Love Boat and its temporal
neighbor, Fantasy Island - The Love Boat is truly the worst of
the worst, and gloriously so. Pleasurable yet Godawful, it is
the perfect place for Warhol to land, and in many ways expire.
Playing himself within the charmed and ever flattening
rectangle of the boob tube, he becomes elevated to the
dubious status of Aaron Spelling spectacle. His presence in
the Cars’ Hello Again (1984) or Curiosity Killed the Cat’s
Misfit (1986) videos still present him as framed by the higher
discourse of a musical avant-garde. His public-access TV show
Andy Warhol’s TV (1982) and his MTV project Andy Warhol’s
Fifteen Minutes (1986) still place him on a cutting edge. The
Love Boat does no such thing. Using his bizarreness as
commodity, it makes Warhol into an entertaining joke for the
Saturday-night viewing pleasure of the masses: what could
comment more critically on the Fame of Fame than such a
gig? Après-garde, Warhol condenses into finitude: The Love
Boat guarantees that he, too, will die, but not Meta-celebrity,
which begins with him and creates the future in its sparkling
image. After Warhol, there will be social networking
(MySpace and Facebook) and Reality TV, the two critical
places where the impulse to make fame famous will flourish,
creating star-philosophers of us all. With him, the idea that
fame is something we might cherish in and of its philosophical
value carries the Romantic fixation on fame epitomized by
poet John Keats into a present obsessed with visibility and the
telepoetic transmission of image, amplifying Romanticism at
the same time that it lowers the stakes of its experiments with
art and identity. It is as if the Italian transliteration of
Warhol’s prediction “In the future everyone will be famous for
fifteen minutes” has followed the Derridean program for the
dangerous supplément and colonized the phrase’s meaning,
rejoicing in its recoil: In fifteen minutes, everyone will be
famous, as Warhol reports in POPism, amused at the
ramifications of this mis-interpretation of his words among a
foreign audience. The grand philosopher of the tychic finds
his own skewed words telling: warping Husserelian Internal
Time Consciousness, fame compresses space and time,
refashioning the present into a Love Boat ride whose eternal
recurrence makes existence a re-run before it has even had
the chance to air.
52
Materials Consulted
Books
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Articles
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Time Capsule 7.
Letters
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Time Capsule 39.
Letter from The Coca-Cola Company to Andy Warhol, June
17, 1967. Time Capsule 10.
Letter from “Lance” to Andy Warhol. Time Capsule 17.
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Capsule 10.
Silver Screen
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Andy Warhol, My Hustler, 1965.
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54
Small Screen
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“Hello Again.” The Cars. 1986.
The Love Boat. October 12, 1985.
Saturday Night Live. October 3, 1981.
“Misfit.” Curiosity Killed the Cat. 1986.
Notes
[1] Another sundae offered by Schrafft’s was the Underground
Sundae. For this item, the restaurant tent card read: “Did you
see the Andy Warhol Sundae on TV? Try the Original at
Schrafft’s”. Other sundaes in the Warhol campaign included
the Electronic Sundae and the Do-Your-Own-Thing Sundae.
See also the article “Advertising: Schrafft’s Gets With
It” (Time, October 25, 1968). Overall, the campaign involved
both print and television; Time Capsule 7 contains a
photograph of Warhol and a Schrafft’s adman posing with a
sundae. Time Capsule 7 contains all abovementioned
Warhol/Schrafft’s materials.
[2] Proust’s social kaleidoscope represents principles of
angular momentum and sedimentation: “It was true that the
social kaleidoscope was in the act of turning and that the
Dreyfus case was shortly to relegate the Jews to the lowest
rung of the social ladder” (The Guermantes Way, Chapter 1,
194). His temporal socius follows an archaeological logic
Emerging from seclusion, Time Regained’s narrator
encounters a spasm of gerontophobia: “For all these reasons a
party like this at which I found myself was something much
more valuable than an image of the past: it offered me as it
were all the successive images - which I had never seen which separated the past from the present, better still it
showed me the relationship that existed between the present
and the past; it was like an old-fashioned peepshow, but a
peepshow of the years, the vision not of a moment but of a
person situated in the distorting perspective of Time” (p.965).
[3] Regarding heteroglossia, see Mikhail Bakhtin’s The
Dialogic Imagination: Four Essays (University of Texas,
Austin, 1982). My contention is that the skewed images of
collage speak cacophonously, allowing the various discourses
from which they have been extruded to concatenate. Rachel
Blau Duplessis explores the heteroglossic potential of collage
in her Drafts (Potes & Poets Press, Elmwood, CT, 1991):
“These spaces of dispersion/ are marked with bourns/ which
disappear amid the fields of scree/as stones./ So gifts are
swallowed up by gifts./ Even erasure is erased./ In this, what
residue remains?” (“Diasporas,” p.71).
[4] Andy Warhol’s Party Book (Crown Publishers, Inc., New
York, 1988) is the penultimate Warhol/Hackett venture.
Composed of tape-recorded conversations with Warhol and
eminent others—party diva Dianne Brill, performance artist
Ann Magnuson, film-maker John Waters, and varied
doormen, doll collectors and other assorted freaks, such as
“Carol,” whose only claim to fame is that she is an alcoholic—
Warhol and Hackett apply the tape-and-transcribe method to
their final fetish, the party.
55
[5] For Warhol, the faux pas is an integral component to
fashionability: “Oh, and I’m forgetting the most glamorous
thing of my opening. Warren Beatty walked in with Diane
Keaton and I made a faux pas by saying, ‘I just read that
article about you in Playgirl,’ and they said ‘Oh my God!’ and
ran out” (Saturday, November 21, 1981). Furthermore, in
Andy Warhol’s Party Book, Warhol presents himself as a
social nullity: “I don’t have those beautiful social graces so I’m
not the greatest guest and I’m certainly not the greatest host,
either, since I don’t know how to make people feel (a)
comfortable or (b) uncomfortable in an exciting way” (p.11).
Ungraceful, Warhol founds his theory of fashion upon social
breakdown and dysfunction.
[6] Like Edie Sedgwick and Brigid Berlin, Baby Jane Holzer is
one of Warhol’s “duchesses.” She stars in some lesser-known
films, like Soap Opera and Couch (both 1964). In 1964, Tom
Wolfe pronounces her “Girl of the Year”. By the time the
Diaries roll around, she no longer qualifies as a Beauty: “Then
we left to walk over to Odeon for dinner and there was this
‘hooker’ on the street and it turned out to be Jane Holzer. She
was so fat. I couldn’t believe it” (Saturday, September 20,
1986).
[7] Brill’s status as reigning monarch of nighttime Manhattan
receives confirmation by James St. James, who, in Disco
Bloodbath, presents her godliness: “At the tippy-top of this
system was the nightclub Area, the downtown society
magazine Details, and the titular Queen of the Night, Dianne
Brill. The goal, then, was to have your picture in Details, with
Dianne, in the VIP room of Area. If that happened, well, God
himself would drop out of the heavens and give you a drink
ticket” (p.43).
[8] Arguing for the incoherence of identity, Butler criticizes
the gay rejection of heterosexuality. Like the straight abjecting
of homosexuality, this treatment also runs the risk of forcing
coherence upon identity in order to give it the semblance of
stability: “For what cannot be avowed as a constitutive
identification of any given subject-position runs the risk of
becoming not only externalized in a degraded form, but
repeatedly repudiated and subjected to a policy of disavowal.
To a certain extent constitutive identifications are precisely
those which are always disavowed, for, contrary to Hegel, the
subject cannot reflect on the entire process of its
formation” (“Phantasmic Identification”, Bodies That Matter,
p.113).
[9] “‘Here is the first Black model in Paris, Kellie’, he declared
with complete authority. ‘There were Kellie and Donyale
Luna, whom I presented to Salvador Dali, who shot her in his
films. But Kellie is really the first Black mannequin, and it’s
because of her that the American press spit in my face.
Literally, splat. I was back in the dressing room. I watched
that coming, the girls from American Vogue and Harper’s
Bazaar. ‘Why did you do that?’ they said. ‘You have no right
to do that, to take those kind of Girls. Fashion is for us. White
people.’ They spit in my face, I had to wipe it off’” (p.56).
Rabanne is quoted in Barbara Summers’ Skin Deep: Inside
the World of Black Fashion Models (Amistad Press, New
York, 1998).
56
[10] In A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia
(University of Minnesota Press, Minneapolis, 1987), Deleuze
and Guattari distinguish among three botanical-mycological
models for artistic production: (1) the root, (2) the radicle,
and (3) the rhizome. According to their definitions, the
classical organic text is rootlike (a homuncular seed produces
an adult plant), the chaotic modernist text is radicle-like
(multiple secondary shoots are grafted onto a dead primary
shoot, causing unity to become aborted) and the schizoid text
is rhizome-like (spreading in all directions, it becomes a sort
of literary weed, like kudzu). The chapter “Introduction:
Rhizome” discusses these points in finer detail (pp.3-25).
[11] Time Capsule 10 contains two 1967 letters to John D.
Goodloe of the Coca-Cola company in Atlanta - in one he
requests use of the Coca-Cola bottle for his fragrance, You’re
In, while in the second he promises to discontinue his use of
the bottle. Evidently, Warhol also requested use of the CocaCola bottle for a necktie, and was also refused (Tine Capsule
39 contains the letter of refusal, also dated 1967).
[12] In Philosophy and the Mirror of Nature, Richard Rorty
examines arguments for and against the philosophical value
of the self-report and the “raw feel.” In the chapter “Persons
Without Minds”, he couches his discussion in terms of mindbody duality (how information travels from one entity to the
other, how we know that either exists, what it means to turn a
sensation into a report, etc.) (pp.70-127). The incorrigibility of
the raw feel - the indisputable sense that we have experienced
something, whether it be hunger, pain, pleasure, distress or
some other feeling - poses limitless problems for
epistemology. That is, until one dispenses with the idea that
the mind must mirror anything exterior to it. Wittgenstein
also struggles with these issues in his work subsequent to his
Tractatus.
[13] “The flesh is not matter, is not mind, is not substance. To
designate it, we should need only the term ‘element,’ in the
sense that it was used to speak of water, air, earth, and fire,
that is, in the sense of a general thing, midway between the
spatio-temporal individual and the idea, a sort of incarnate
principle that brings a style of being wherever there is a
fragment of being” (p.139). See “The Intertwining - The
Chiasm” in his The Visible and the Invisible (Northwestern
University Press, Evanston, 1968, pp.130-162).
[14] See Crisp’s Resident Alien: The New York Diaries
(Alyson Books, Los Angeles, 1996) for the best description of
Crisp’s New York City celebrity. Jonathan Nossiter’s 1990 film
Resident Alien also provides visual proof of Crisp’s status an
having acceded to the Profession of Being. An expatriated waif
blowing in the wind, Crisp flits from one situation to another,
making his essence amenable to the workings of Social
Collage.
[15] David LaChapelle’s photograph TV Moms (1995) testifies
to Marion Ross’ status as eminent maternal presence. Posing
with Florence Henderson, Shirley Jones, Esther Rolle,
Barbara Billingsley, June Lockhart and Jane Wyatt, Ross
confirms her madonna fame through LaChapelle’s lens. Using
Love Boat’s Warhol episode to reconfigure her maternality,
Ross makes Andy the occasion to play with her TV reputation
of the sort confirmed by LaChapeelle. LaChapelle’s
57
photograph is reprinted in LaChapelleland (Simon &
Schuster, New York, 1996, pp.34-35).
[16] “…Keith Haring was talking about some art things with
Cher, and she gave him two phone numbers and said for him
to call her the next day. Keith and I were both staying at the
same hotel; we were having lunch by the pool. Keith went
away to call Cher and when he came back he said that a
recording had come on and said, ‘We’re staying home this
afternoon having a barbecue, and if you have this number it’s
probably okay to just drop in’” (p.109).
58
MIRIAM VISALLI
Marilyn contro Marilyn.
Smash e la rilocazione del
mito
C’ È UNA M ARILYN IMMAGINE E UNA M ARILYN RACCONTO .
D ALL ’ IMMAGINE DI T OM K ELLEY CHE SUSCITÒ UN CLAMORE PARI
AL RAPPORTO
K INSEY E DI CUI H UGH H EFNER ACQUISTÒ I
DIRITTI PER IL PRIMO DEI SUOI FAMIGERATI PAGINONI CENTRALI ,
ALLE FOTOGRAFIE DI TRAGICA SOLITUDINE REALIZZATE DA
A NDRE DE D IENES IN UN VICOLO BUIO DI B EVERLY H ILLS , UNA
NOTTE DEL
1953 QUANDO M ARILYN INSONNE SI RIVOLSE AL
FOTOGRAFO CON L ’ IDEA DI REALIZZARE UN SERVIZIO
FOTOGRAFICO CHE AVREBBE VOLUTO INTITOLARE
E VERYTHING ”.
“T HE E ND O F
Non esiste insomma recesso della sua vita che non sia
documentato da uno scatto fotografico atto a restituire quel
«corpo-spettacolo» [1] attivatore di un «puro sguardo» [2].
Eppure, ai tempi delle feste di Joe Schenck, Darryl Zanuck la
riteneva poco fotogenica, un’attricetta agli esordi il cui aspetto
di certo non avrebbe agevolato la carriera. Il corso degli
eventi, decisamente, prese un’altra direzione. Nel 1953 la
relazione annuale del Quigley Poll collocava Marilyn al primo
posto della classifica degli attori
che registravano i maggiori
incassi commerciali. L’evento
della consacrazione al
Grauman's Chinese Theatre fu
riportato dalla stampa nei
minimi dettagli e con uno
scalpore tale da “spodestare” il
fidanzamento di John F.
Kennedy che proprio in quello
stesso anno sposò Jacqueline
Bouvier. Ma questa è tutta
un’altra storia. Nello stesso
anno il reparto spedizioni della
20th Century Fox era letteralmente subissato dalla posta degli
ammiratori di Marilyn che compariva, tra le altre, sulla
copertina del magazine “Look“ il 17 novembre, in una delle
sue pose che diverrà archetipica, palpebre socchiuse, labbra
scarlatte. «Audrey Hepburn e Grace Kelly, signore del
cinema» spiega il biografo Donald Spoto «ricevevano gli
oscar, ma lei era costantemente acclamata da migliaia di fan
59
come nessun’altra» [3]. E lei, Marilyn, dichiarò che nessuno
prima del grande successo, nemmeno sua madre Gladys,
voleva vedere la piccola Norma Jeane: «sapevo di appartenere
al pubblico» diceva, «al pubblico e al mondo, non perché
avessi talento e nemmeno perché fossi bella, ma perché non
ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro» [4]. Ed
ecco insinuarsi la Marilyn racconto intorno alle immagini
patinate e di voluttuosa celluloide: la «povera ragazzina
povera» [5] riscattava l’umiliazione di un’infanzia
saccheggiata dall’indigenza e finalmente cristallizzava la sua
firma sull’Hollywood Boulevard proprio accanto ai grandi del
cinema, vagheggiati ai tempi in cui conobbe il lato oscuro di
Hollywood, delle anime perdute, malnutrite e inclini al
suicidio. «La tribù di straccioni più carina che avesse invaso la
città» [6] li definiva
Marilyn nella sua
autobiografia realizzata
con Ben Hecht. My
Story [7] prese vita nel
1954 in seguito a un
progetto di Charles K.
Feldman, l’agente di
Marilyn, che suggerì la
collaborazione tra la diva
e la talentuosa penna di
Hollywood in veste di
ghost writer, ma che
rimase inedito fino al
1974 in seguito ad alcune
controversie tra Hecht e il suo agente letterario e forse a causa
della scabrosità di alcune digressioni. Di là dai contrasti,
anche lo statuto veridico del contenuto della biografia avrebbe
generato alcuni dubbi: come ricorda anche Anthony Summers
[8], Hecht riferì di avere la sensazione che Marilyn finì con
l’inventare alcuni suoi ricordi. «Non credo che cerchi di
ingannarmi» spiegava Hecht «ma piuttosto che si abbandoni
alle fantasie», ed era quindi necessario tentare di interpretare
quel «curioso linguaggio corporeo di Marilyn, per capire
quando stava inoltrandosi in un racconto inventato e quando
invece era sincera». Ed ecco le discrepanze, non già tra i
ricordi forse immaginati, ma tangibili tra le immagini di
quell’acclamato “corpo euforico” e il racconto di redenzione
da un persecutorio «spettro della povertà», così come Marilyn
stessa lo definiva.
Una cogente definizione del caso Marilyn si deve a Richard
Dyer, quando la descrive come una magica sintesi degli
opposti. Una peculiare commistione di «desiderio e
confusione» secondo Spoto, che emerge perfino nel suo
debutto televisivo. Siamo ancora nel 1953, il 13 settembre,
quando Marilyn fu invitata come ospite del Jack Benny Show.
Qui Marilyn è il sogno di Jack Benny, ma non può restare tale
a lungo poiché non può che scontornare l’incorporeità
dell’onirico in ragione di quel fascino complesso, fragile ma
sfacciato, consapevole della sua irruente, sfrontata carnalità.
Verbosamente esposta, oggetto iconico di mostrazione e
rielaborazione mediatica, l’immagine di Marilyn passa anche
attraverso il piccolo schermo in termini di citazione ed
60
evocazione, dai numerosi biopic alla serialità episodica e
contemporanea [9].
Prodotto da Steven Spielberg e trasmesso da NBC dal febbraio
2012, il musical drama Smash è tra le più recenti produzioni
in termini di esposizione e narrazione del modello-Marilyn.
La storia orizzontale della serie vede una compagnia di
Broadway affaccendata nella realizzazione di un musical,
Bombshell, basato sulla vita di Marilyn. Le vicissitudini
produttive, casting e miscasting, interferenze e intrighi
sentimentali costituiscono il corollario che ruota intorno alla
messa in scena dello show nella prima stagione. Dopo
l’acclamato out-of-town tour a Boston la compagnia prosegue
freneticamente, tra avversità e scissioni, disfacimenti e
riscritture, nella realizzazione di uno spettacolo che dovrà
essere degno di Broadway e, perché no, aspirare agli agognati
Tony Awards. Secondo Spielberg Smash avrebbe concesso ai
suoi spettatori uno sguardo indiscreto oltre il sipario
dell’esaltante mondo di Broadway, come dichiarato
sull’Hollywood Reporter. La serie stimola le aspettative dei
critici che, inizialmente, la ritengono “promettente”, visti gli
ascolti del pilot più che soddisfacenti. L’attesa non conduce
tuttavia ai risultati auspicati e, nonostante alcuni tentativi di
“restauro” – tra cui la sostituzione dello showrunner Theresa
Rebeck con Josh Safran, già produttore esecutivo di Gossip
Girl – tra la prima e la seconda stagione, i dati dell’audience
risultano sempre meno incoraggianti, così come le critiche
meno entusiastiche. Il Los Angeles Times si esprimeva in
termini di “trionfo” mentre in occasione del finale della
seconda stagione, Charles Isherwood sul New York Times non
tarda a definire Smash come “un musical vecchio stile privo di
innovazioni”. Brian Lowry su Variety notifica infine il
fallimento della serie.
Di là dalle critiche attribuite all’universo Smash, ci
occuperemo in questa sede del livello più “astratto” della
struttura discorsiva, non solo della narrazione propria della
serie, quanto della narrazione del modello-Marilyn, della
persistenza del mito e la sua rilettura.
Dalla costruzione dei personaggi, ai fasci di relazioni fino alla
meta-narrazione del musical destinato a Broadway, molti
elementi sembrano ispirarsi alla storia di Marilyn. Smash
racconta di un universo popolato da produttori appassionati o
senza scrupoli, artisti talentuosi o semplicemente scaltri e
ambiziosi, attori dotati e attricette di provincia, registi
eufemisticamente casanova e fidanzati refrattari allo show biz
proprio come fu Joe Di Maggio. Seppure ricollocata a
61
Broadway, la serie sembra
suggerire l’atmosfera della
Hollywood “Celluloid Babylon”
dello short musicale della MGM
Star Night at the Cocoanut Grove,
specialmente nella persuasiva
descrizione “Shoddy and cheap
and astonishingly splendid”,
evocativa di una congenita
contraddittorietà, e naturalmente
del prezzo del successo.
Nel pilot si aprono le audizioni per il ruolo di Marilyn. L’élite
del cast tecnico scarta alcune esaminande e i loro goffi
tentativi di clone a favore della sconosciuta Karen Cartwright
(Katharine McPhee) che approda al cospetto della “giuria” in
un outfit neutro, più shabby che chic, in completa antitesi
all’immagine iconica di Marilyn. Neppure un boccolo. Le
candidate che la precedono si esibiscono in performance
canore di gattone licenziose. Ma non lei. Karen sceglie la
ballata pop scritta da Linda Perry e l’attinenza tematica del
brano “Beautiful” di cui adatta opportunamente il testo
affinché risulti più affine alla storia – o una delle storie – di
Marilyn che forse allude al complesso rapporto con la
notorietà: “And suddenly/it's hard to breathe/Now and then/I
get insecure/from all the fame/I'm so ashamed/You are
beautiful/no matter what they say/Words won't bring you
down”. La commissione dibatte sulla scelta tra Karen la
cameriera e Ivy Lynn (Megan Hilty), la blonde bombshell che
calca le scene di Broadway ormai da tempo, attrice navigata di
sicura esperienza. La spunterà Ivy,
dapprincipio, fino alla scelta
vincolata della produzione che
sembra dover imporre una star di
Hollywood nel ruolo della
protagonista. Ed ecco dunque
entrare in scena la terza Marilyn, la
platinata, spigolosa Rebecca Duvall
(Uma Thurman) nell’episodio 1x11
"The Movie Star". La febbrile
attesa non ripaga il cast, i
produttori, le maestranze né il pubblico che accoglie l’opening
con un fiacco applauso. Professionalmente inadeguata (e per
via di un ricovero in seguito a un malore), Rebecca
abbandonerà il progetto. Tra la prima e la seconda stagione il
ruolo di Marilyn si alterna tra le due contendenti d’inizio
serie, tra disastrose, “dopate” esibizioni, abbandoni e
riconciliazioni tra i membri del cast e della produzione: Karen
sarà Marilyn prima versione, acclamata a Boston, mentre
l’interpretazione ugualmente celebrata di Ivy a Broadway nel
secondo, zuccheroso season finale, porta in scena la variante
definitiva di Bombshell.
Insomma, Marilyn contro Marilyn. Contro Marilyn. Il
compositore Tom Levitt (Christian Borle) e il regista Derek
Wills (Jack Davenport), che abbandonerà Bombshell per
dirigere uno spettacolo off-Broadway nella seconda stagione,
competono in una guerra iconoclasta a colpi di lustrini,
pasticche e tradimenti, nel tentativo di amalgamare ben tre
62
modelli che furono peculiari nell’ultima diva, Norma Jeane
Mortenson aka Marilyn Monroe. L’idea che sembra permeare
dal sottotesto di ciascun personaggio è in qualche modo
ascrivibile all’universo Marilyn, se non direttamente, in una
sorta di parafrasi tematica. Karen bussa timorosamente alle
porte, non già di Broadway ma ancor prima della gavetta,
inibita dal proscenio e dalla babilonia del suo backstage, priva
di esperienza ma con una voce seducente unita a un candore
ai limiti del verosimile che ammalia il regista womanizer
Derek Wills, presto incline all’invocazione della Norma Jeane
di cui Ivy sarebbe invece carente. Tuttavia Ivy è Marilyn, quel
living embodiment [10] della seduttività che fece di Norma
Jeane Marilyn Monroe. Una fisicità esuberante, talvolta
sovradimensionata: il personaggio di Ivy “parla” il linguaggioMarilyn, rende una convergenza di significati modellizzanti.
Specialmente se aggiungiamo al dominio del corporeo e del
visibile lo sviluppo passionale del personaggio. Ed ecco allora
insinuarsi nella trama alcune tematiche atte a riverberare la
Marilyn racconto. Il rapporto irrisolto e problematico tra Ivy
e sua madre, la magnificata star di Broadway Leigh Conroy,
esplode come l’ennesima bomba nell’episodio 1x7 “The
Workshop”, in cui Leigh assiste al laboratorio di Bombshell,
cui segue un dialogo rivelatore:
Ivy
Don't even. You say something cruel every day, when you're
not ignoring me. You're my mother, and you can't even say
one kind word. And you know who else had a mother like
that? Marilyn. Look how she turned out.
Leigh
She was a legend.
Ivy
She was an unhappy, drug-addicted disaster. Because her
mother didn't love her. That's what Marilyn was.
Similmente la Marilyn/Peggy Martin di Orchidea bionda (Phil
Karlson, 1948) “viveva” nella finzione un travagliato rapporto
con sua madre, viceversa a causa di una sollecitudine fin
troppo ostinata, almeno secondo la giovane Peggy che la
ammonisce circa il suo costante giudizio sulla scelta dei propri
spasimanti, o le critiche distruttive nei confronti di chi
neppure conosce. E si dice stanca di essere vincolata, in ogni
sua azione, al consenso della propria madre, fino a
63
manifestare il dissenso: “I’m tired of being treated like a
child”. In ambo i casi il lieto fine è alle porte: perfino
l’irriducibile leading lady Leigh Conroy riconoscerà il talento
di Ivy, fino a suggellare il ritrovato sentimento materno con
l’interpretazione di Gladys Monroe nella rinnovata versione di
Bombshell.
“An unhappy, drug-addicted disaster”. È uno degli aspetti di
Marilyn che Ivy “eseguirà” secondo copione, da un “innocuo”
prednisone per la gola infiammata,
fino a massicce dosi di sonnifero con
cui tenterà il suicidio, evento
cliffhanger del finale della prima
stagione. La salverà la nuova
prospettiva di carriera, come
interprete del musical Les liaisons
dangereuses, poi con la conferma del
ruolo di Marilyn in Bombshell. I
dubbi di Ivy allo specchio, complice
l’incriminato flacone di pillole, ormai
respinta dal regista, evocano le
riflessioni di Marilyn dei tempi in cui
frequentava Joe Schenck, quando la Fox revocò il suo
contratto: «mi alzai dal letto e mi specchiai» dice, «non ero
per niente attraente. Vidi una bionda rozza e volgare. Mi stavo
guardando con gli occhi di Zanuck. E vidi quello che lui aveva
visto: una ragazza il cui aspetto era un handicap troppo
grande per una carriera nel cinema» [11].
Insostenibilmente integerrima, Karen è piuttosto la
manifestazione dell’ingenua Norma Jeane, elemento di
costante ritorno nella vita della star, evocata in Smash come
completamento di Marilyn. Sarà infatti Karen, custode
dell’innocenza poi inesorabilmente perduta e temporanea
voce guida di Ivy, a eseguire il vibrato del controverso Happy
Birthday con il necessario addensamento emotivo, mentre
nell’episodio 1x14 "Previews" la produttrice Eileen Rand
(Angelica Huston) suggerisce agli
autori Julia Houston (Debra
Messing) e Tom Levitt di inserire in
Bombshell un incontro tra Marilyn e
Norma Jeane, soluzione peraltro già
proposta nel tv movie della HBO
Norma Jeane and Marilyn (Tim
Fywell, 1996), la cui tagline
promozionale riportava in effetti:
"Marilyn Monroe was our fantasy.
Norma Jean was her reality".
Insomma, come spettro di
un’infanzia trafugata o voce
inalterabile di una coscienza volubile, Norma Jeane sussiste e
resiste nel modello che Smash traduce – o dovrebbe tradurre
– attraverso i personaggi di Karen e Ivy. Se non altro come
reificazione di due entità in costante confronto. Che il germe
di Marilyn dimorasse in Norma Jeane sembrerebbe
documentato nella biografia di Spoto, secondo cui, per quanto
timida e solitaria, imbarazzata di dover indossare ogni giorno
la stessa uniforme, perfino tendente all’isolamento, sbocciò in
64
fretta, e in fretta emerse dalla folla. Intorno ai quattordici
anni, che vestisse una gonna aderente o suscitasse scalpore
poiché indossava i pantaloni, nessuno l’avrebbe più
apostrofata come “Norma Jeane the String Bean”. Compariva
il famigerato corpo della whoo whoo girl che sembrava
rivelarsi noncurante della sua giovane età, perché in fondo,
spiega Spoto, era pur sempre un’adolescente, forse in cerca di
un piccolo applauso, che sposò Jim Dougherty per non fare
ritorno all’orfanotrofio. Prende forma, letteralmente, quel
corpo che fu “ornamento” alle feste di Schenck, come
testimoniato dalla stessa Marilyn e riportato in alcuni
documenti di Milton Greene [12]. Fu poi impietoso Nunnally
Johnson nel definirla come una delle «giovani mignotte
avide» [13], riferendosi alla relazione di Marilyn con Schenck.
Impietoso, ma non del tutto fallace. Di quell’emblematico
complemento d’arredo noto come il divano del produttore,
Marilyn, che mai lo nascose, fece un’ingente collezione. Alan
Selwyn e il regista Derek Ford, «esperti di porcherie»,
raccontano di come Hollywood
divenne, oltre che la fabbrica dei
sogni, una dissoluta macelleria:
«Il sofà era il mobile più
importante nell'ufficio del
produttore, era il despota
inanimato che poteva decidere
della carriera di un'attrice (…).
La lunga storia di quel prezioso
e lascivo arredo creatore di star
e di migliaia di disperate,
cominciò per il cinema con la sua nascita e si spense negli
anni Sessanta quando finì lo star system hollywoodiano» (…).
Ora «sono stati sgomberati e ceduti alle televisioni, dove il rito
del pedaggio continua più stancamente, assediato dal più
magico potere delle raccomandazioni anche politiche» [14].
Tutt’altro che trascurato in Smash, tale oggetto sopravvive
non solo simbolicamente nel lascivo backstage, per cui Ivy
paga volentieri il pedaggio del divano, che non scricchiola
sotto il peso vigoroso del produttore, qui interpretato da
Angelica Huston, ma del regista belloccio e borioso Derek
Wills [15]. Sarà un rapporto incostante ma suggellato dal lieto
fine, ciò che non ebbe Marilyn quando nel 1951 fu impegnata
in un affaire con Elia Kazan, come riferito dal fotografo Sam
Shaw, che dell’attrice ricordava, più che la arcinota
insicurezza, un sorprendente, spontaneo senso dell’umorismo.
Il riferimento diretto al sofà delle turpitudini come attivatore
di carriere più o meno fulgide trova la sua collocazione anche
nella messa in scena di
Bombshell, nel brano “Let me be
your Smash”, che vede Karen/
Norma Jeane e Ivy/Marilyn
bramare il successo avviluppate
a Mr. Zanuck sul morbido
capitonné. A proposito di Eva
contro Eva (Joseph L.
Mankiewicz, 1950), prodotto
proprio da Zanuck, George
Sanders avrebbe ricordato la
65
sensazione che Marilyn era destinata a conoscere la notorietà
in quanto, come Eva, benché umile e insicura, «aveva bisogno
di essere una stella».
Con la revisione del libretto di Bombshell nella seconda
stagione, specialmente negli episodi 2x3 "The Dramaturg" e
2x4 “The Song”, il personaggio Marilyn viene riscritto
rovesciando quel comune sentimento che aveva portato a fare
della Monroe una vittima in balia dei potenti, a definire se
stessa in base alle personalità ben più interessanti di lei con le
quali si sarebbe intrattenuta. Ne emerge un aspetto, per così
dire, predatorio, che si rivela dai contorni dell’oggetto carnale
scivolato da un’alcova all’altra, e dall’involucro della dumb
blonde si manifestano invece scaltrezza e ambizione. Aspetto
che la sua insegnante di recitazione Natasha Lytess le
attribuiva, forse con l’afflizione dell’amante respinta, quando
ricorda: «Vorrei avere un decimo dell’astuzia di Marilyn. La
verità è che la mia vita e miei sentimenti erano in gran parte
nelle sue mani». Il rapporto con Johnny Hyde non si fondava
su basi così dissimili, sempre secondo Lytess, con una Marilyn
così desiderosa di successo da rendersi indispensabile ai suoi
amanti, forse spinti a una tale dipendenza destinata a
tramutarsi frustrazione, che la sola azione liberatoria doveva
consistere nel distacco. E tale sarà la prospettiva privilegiata
nella versione definitiva di Bombshell, in cui ogni scena finirà
per essere narrata dal punto di vista di chi sopravvisse (o
meno) a quella dipendenza: Di Maggio, Miller, Zanuck, JFK
saranno i testimoni in scena di quel fascino complesso che di
Marilyn, forse, li aveva intossicati.
L’ultima delle tre Marilyn ingaggiate in Smash è la star di
Hollywood Rebecca Duvall, che sembrerebbe evocare la
Marilyn de Gli spostati (John Huston, 1961) e specialmente di
Something’s got to give (George Cukor, 1962). Si tratta a ben
guardare di un richiamo di limitata consistenza, che
dell’ultima Marilyn rievoca gli incidenti produttivi dovuti, tra
le altre vicissitudini, ai continui ritardi e in generale alla
professionalità incerta della diva che resero gravoso il lavoro
sul set del film destinato a rimanere incompleto. Film che sarà
poi ripreso e interpretato da Doris Day in Move Over Darling
(Michael Gordon, 1963), paradossalmente proprio da quel
“corpo virtuoso” di un’America piccolo-borghese su cui il
“corpo spettacolo” di Marilyn si era iconicamente imposto e
abbattuto. Come una bomba inattesa.
Un possibile tentativo di attualizzare il personaggio realizzato
in Rebecca potrebbe sussistere nell’averla caratterizzata come
66
irriducibile salutista dei regimi alimentari, ostinatamente
dipendente dai suoi beveroni macrobiotici, incapace di andare
in scena senza averne ingurgitata la dose giornaliera.
Potremmo ipotizzare che nel racconto di tale dipendenza
neoarchetipale si rifletta lo spettro di una fragile volubilità
interconnessa con la Marilyn racconto, oggetto prediletto e
dibattuto in migliaia di pagine di letteratura dedicata, con
particolare enfasi sugli abusi e le dipendenze della diva.
Capitolo presente in Bombshell, naturalmente, con la messa
in scena del brano “Let’s be bad” nell’episodio omonimo 1x5.
Inviso al personaggio di Rebecca è invece il naturale senso di
attrazione che Marilyn suscitava nello spettatore, immortalato
sulla prima pagina di “Life” del 22 giugno 1962, che la ritrae a
bordo piscina proprio sul set di Something’s got to give,
evento che fece arretrare dalle copertine perfino Elizabeth
Taylor durante la promozione del kolossal disastroso che fu
Cleopatra (Joseph L. Mankiewicz, 1963).
In termini di evocazione e citazione talvolta didascalica del
modello-Marilyn, Smash risulta dunque satura sia di
immagini sia di racconto, attraverso indizi condensati e
attualizzati. A partire dai ricordi confusi di Marilyn secondo
Hecht nella citata autobiografia, tema ripreso nell’episodio
2x14 "The Phenomenon" in cui il giovane autore Kyle
suggerisce opportune modifiche strutturali alla storia di
Marilyn messa in scena in Bombshell, poiché talvolta
possiamo concedere ai ricordi di essere perfettibili,
ipotizzando che Marilyn stessa volesse in tale senso ripensare
al suo passato.
Il titolo dello show, Bombshell, sarebbe dunque una doppia
allusione, all’esplosione di irruente carnalità del corpo di
Marilyn cristallizzato in icona, ma anche alla bomba che
implode: è il danneggiamento di cui ciascun personaggio della
serie deve farsi carico, è l’implosione di Marilyn stessa che si
infliggeva la condanna dell’autodistruzione, quando finì non
tanto con l’identificarsi, bensì con il bisogno di rendersi
riconoscibile con il personaggio che di lei Hollywood e il
pubblico avevano creato.
Già nel 1952, un articolo pubblicato su “Life” e intitolato “The
Monroe Doctrine”, sollevava qualche dubbio:
Because her movie role is always that of a dumb blonde,
Hollywood generally supposes she is pretty dumb herself.
This is a delusion. Marilyn is naive and guileless. But she is
smart enough to have known how to make a success in the
cutthroat world of glamour. She does it by being as wholly
natural as the world will allow [16].
Tuttavia il mondo non le concesse molto, se non di edificare in
se stessa un’industria fiorente di cui ben poco riuscì a
beneficiare. La sua esibita vacuità l’aveva resa innocente, la
seduttvità colpevole. L’intelligenza l’avrebbe resa pericolosa. A
dieci anni di distanza, quando il fatto che leggesse Rilke o
Whitman aveva già suscitato il doveroso sarcasmo, rilasciò la
sua ultima intervista a Richard Meryman al quale annunciò
una specifica richiesta: «End the interview with what I
believe. I don't mind making jokes, but I don't want to look
like one»[17]. L’ultima collisione, di Marilyn contro Marilyn.
67
Note
[1] Richard Dyer, Star, (1979) it. Kaplan Edizioni, Torino,
2003, pp. 45-46.
[2] Michael Conway, Mark Ricci, Enrico Magrelli, Marilyn
Monroe, Gremese, Roma, 1981, p. 8.
[3] Donald Spoto, Marilyn Monroe, (1993) it.
Sperling&Kupfer, Milano, 1994, pp. 222, 223.
[4] Marilyn Monroe, Ben Hecht, La mia storia, (1974) it.
Donzelli, Roma, 2010.
[5] Enrico Giacovelli, Tutto quello che avreste voluto sapere
su... Marilyn Monroe, Lindau, Torino, 2000, p. 10.
[6] Marilyn Monroe, Ben Hecht cit. p. 54.
[7] Marilyn Monroe, My Story, Cooper Square Press, 1974. Il
nome di Ben Hecht compare nella riedizione del 2000.
[8] Anthony Summers, Marilyn Monroe. Le vite segrete di
una diva, (1985) it. Bompiani, Milano, 1986, p. 19.
[9] Tra i biopic: Blonde (2001), Norma Jeane and Marilyn
(1996), Marilyn & Me (1991) This Year’s Blonde e Marilyn:
The Untold Story (1981), più il filone Kennedy’s (Marilyn and
Bobby, 1993); tra le serie: Dark Skies in “The Warren
Omission” (1x13, 1997), Red Dwarf in “Better than Life” (2x2,
1988) e “Meltdown” (4x6, 1991), Quantum Leap in “Goodbye
Norma Jean” (5x18, 1993), Mad Men in “Maidenform” (2x6,
2008), Gossip Girl in “G.G.” (5x13, 2012).
[10] Si veda Richard Dyer, Heavenly Bodies, Film, Stars and
Society, St. Martin's Press, New York, 1987, pp. 27-28 circa le
osservazioni di Molly Haskell.
[11] Marilyn Monroe, Ben Hecht cit. p. 88.
[12] Donald Spoto, cit. p. 119.
[13] «Eager young hustlers» in Carl Rollyson, Marilyn
Monroe: a life of the actress, Umi Research Press, London,
1986, p. 33.
[14] Natalia Aspesi, “A Hollywood la gloria comincia sul sofà”,
recensione al libro Selwin Ford, Il sofà del produttore. Il rito
del pedaggio sessuale nella storia di Hollywood, Mondadori,
Milano, 1991, in La Repubblica, 21 luglio 1991.
[15] Derek pagherà caro il prezzo della sua particolare
attitudine. Nella seconda stagione dovrà cedere al ricatto di
Daisy, ennesima attrice da lui sedotta, che otterrà così il ruolo
della diva nel musical off-Broadway Hit List di cui Derek,
naturalmente, è il regista.
[16] Life 7 aprile 1952, p. 104.
[17] La frase è riprodotta solo nella registrazione
dell’intervista di Meryman, poi pubblicata in Life, 3 agosto
1962, pp. 31-38.
68
ALBERTO BELTRAME
Una leggenda d'artista, un
divismo autorialista. Il
paradigma Rossellini nella
critica francese degli anni
Cinquanta
Roberto Rossellini: nome imprescindibile per un'indagine sul
regista cinematografico come star. In particolare la creazione,
nel contesto della critica francese degli anni Cinquanta, di una
vera e propria parabola autorialista nei suoi confronti. Non è
un regista come gli altri, ma un divo a tutti gli effetti. Sia
quando viene posto ad emblema del cinema moderno, sia
quando è bersaglio delle critiche più accese. Sia in un contesto
puramente estetico (il suo cinema) che in uno umano e sociale
(la sua visione del mondo, la sua vita privata). Proprio nella
B ISOGNA COMINCIARE AD ABBATTERE I MITI PERCHÉ SE NON SI
COMINCIA A VEDERE QUEL CHE È UN MITO E QUELLO CHE NON LO
È , NON AVREMO MAI IDEE ABBASTANZA CHIARE SU QUESTO
ARGOMENTO .
P RENDIAMO COME ESEMPIO IL MITO DEI DIVI . N ON
HO NIENTE NÉ PRO NÉ CONTRO I DIVI MA È UN MITO REALE : SI
CREANO DIVI E , POICHÉ BISOGNA CONTINUARE A SFRUTTARLI , SI
È NELL ' IMPOSSIBILITÀ DI CREARNE DI NUOVI .
NELL ' ASSURDO , NELLA FOLLIA COMPLETA .
CARATTERISTICO ?
C OSÌ SI CADE
N ON È UN ESEMPIO
(R OBERTO R OSSELLINI ) [1]
frantumazione della linea che separa l’artista dall'uomo
sociale, nasce la sua mitizzazione: non solo un regista, mai
solo un personaggio pubblico. Rossellini vive di peculiarità
che vanno ben oltre il suo cinema, s'impone come divo a tutto
tondo: personaggio dal fascino innato, tra mondanità e
scandali. Emblematico il matrimonio con la superstar
hollywoodiana Ingrid Bergman e successivo divorzio, ben al di
là della critica specializzata: materia per rotocalchi e riviste
scandalistiche [2]. Scrive Dileep Padgaonkar: «Insieme alle
69
notizie sul lancio del satellite russo e alle celebrazioni per il
quarantennale della Rivoluzione d'Ottobre, la separazione
Bergman-Rossellini tenne banco sulle prime pagine dei
giornali» [3]. Arrivando ad aneddotica che probabilmente ben
pochi registi cinematografici dell’epoca potevano vantare: a
Parigi, dove si era trasferito con la nuova compagna indiana
Sonali, «erano così a corto di
denaro che Rossellini
cambiava ristorante ogni volta
che raggiungeva il limite del
credito ma, poiché era così
spesso sui giornali, i
proprietari dei locali
accoglievano di buon grado
una celebrità. Un ristorante di
Rue Marbeuf aveva
addirittura le “lasagne
Rossellini” nel menu» [4].
All'alba dell’affermazione
della modernità
cinematografica, il divismo
rosselliniano in un contesto
critico non può che assumere, invece, un carattere di
militanza estetico-politica. Nel caso dei Cahiers du cinéma in
chiave di auto-legittimazione: fare del regista un artistacreatore infallibile, star della mise en scène, in prospettiva del
celebre passaggio dietro la macchina da presa di alcuni critici
della rivista («Voilà notre cinéma, à nous qui nous apprêtons
à notre tour à faire des films. Vous l'ai-je dit, c'est pour bientôt
peut-être» [5]). In Positif il rossellinismo è l’anti-modello utile
per proporre un'alternativa, affermazione della propria
distinzione (opposizione alla stessa pratica dei Cahiers). Per
contrasto, si rende ancora più evidente la creazione del
regista-autore Rossellini, punto d'incontro e scontro della
critica francese degli anni
Cinquanta (a differenza
dell'Italia, dove
l'“antirossellinismo” era la pratica
critica più diffusa [6]).
Consapevolezza d'artista-divo di
cui l'eco sembra sentirsi anche
nelle riviste più piccole e in quelle
non specializzate. Si allargano i
confini cinefili, oltre il cinema,
oltre la critica stessa: «Rossellini
– avant et plus qu'un artiste – est
un personnage» [7].
Politique de l'auteur
Rossellini: nel “mito” il
fondamento di un divismo
La storia dei jeunes turcs la conoscono tutti: un paio di
giovani scatenati che vogliono imporre un nuovo modello di
cinema per legittimare quello che, pochi anni dopo, sarà la
loro pratica. Fin troppo si è parlato anche della politique des
auteurs e della parossistica tendenza all'encomio
incondizionato. Ma la questione è più complessa, perché più
70
complessi sembrano essere i meccanismi alla base della
creazione dell’“autore”. Ovvero una spregiudicatezza
autorialista porta con sé una (in)coscienza mitologica e una
propensione al culto (non a caso i jeunes turcs erano tanto
affascinanti dai divi americani e da quello che Hollywood
rappresentava). Rossellini non solo diventa una delle chiavi di
lettura predilette per quello che il cinema dovrebbe essere, ma
gli viene riservato un amore senza limiti. Si crea un
particolare rapporto nei confronti di questo regista, spesso
interrogato sulla sua visione del mondo, sfociando
(in)direttamente sulla vita fuori dai set e sul privato: creazione
e affermazione del regista come genio, superiore alla media
per intelligenza, simpatia e capacità. Rossellini eletto a
“maestro” non solo di cinema ma anche di vita: il divismo si
rende culto, diviene leggenda dell'artista. Un regista
cinematografico che è «l'homme le plus intelligent que j'aie
connu» [8] e che «il a été un oracle» [9].
sue opere era profondamente radicata già nell’antichità
classica» [12]. La celebrazione dell’artista come personalità
carismatica e di fascino non può che rispecchiarsi nella sua
opera. Applicandolo al cinema, tutti i film di questo regista
dovranno così rispecchiare la natura dello stesso. Rossellini è
prima di ogni altra cosa un “grande artista” e la sua opera una
diretta conseguenza. André Bazin scrive: «forse Rossellini è
davvero più disegnatore che pittore, più narratore che
romanziere, ma la gerarchia dei valori non sta nei “generi” sta
negli artisti!» [13]. Anche il fondatore dei Cahiers, che di certo
non aveva la radicalità autorialista dei giovani turchi, nel
difendere il regista italiano pone la questione del “valore” di
Rossellini come artista prima dei meccanismi interni alle sue
opere. Una figura di prestigio quella del cineasta,
caratterizzato da una peculiare indipendenza che lo rende più
che ammirabile. Infatti, sempre secondo Bazin, ha saputo
dare alla sua opera «una integrità di stile, una unità morale
Ernst Kris e Otto Kunz nel loro piccolo manuale sulle
biografie (e di conseguenza sugli aneddoti) d’artista,
sottolineano come una retorica dei biografi consiste proprio
nell'attribuire «risposta pronta e motto di spirito» che
«rivelano un genio tutto speciale» [10]. E le due idee centrali
intorno alle quali sembrano raggrupparsi i temi delle biografie
sono «l’assimilazione del processo della creazione artistica ad
analoghe esperienze di vita» e «l’indissolubile comunanza di
destino tra l’artista e l’opera d'arte» [11]. Margot e Rudolf
Wittkower ci dicono che questa è una costante: «l’idea
dell'interdipendenza fra il carattere d’un uomo e quello delle
71
che sono molto rare
nel cinema e che
stimolano, ancor
prima
dell'ammirazione, la
stima» [14].
Talmente grande sarà
la stima nei confronti
di Rossellini che gli
allievi (critici) di
Bazin diventeranno
ben presto gli allievi
(registici) privilegiati
del cineasta italiano.
Rossellini darà ai
giovani critici dei Cahiers la definitiva energia per fare del
cinema, non solo consigli utili ma anche quell'aiuto umano
necessario per affrontare le sfide: «in questo egli spendeva
tutto il suo fascino: era un parlatore brillante, ma anche un
ascoltatore attento; da Maestro sapeva farsi amico, da padre
spirituale fratello maggiore, da “madre, padre e balia” un
compagno di strada generoso» [15]. Sarà in particolare con
François Truffaut che instaurerà una vera amicizia e un
rapporto quasi tra padre e figlio. Prima gli innumerevoli
articoli elogiativi da parte del giovane critico, poi le continue
visite al Raphael (l'hotel dove alloggiava il cineasta) fino alla
richiesta d'aiuto per il progetto del film da girare in India:
«incaricò Truffaut di procurargli tutta la letteratura sul tema
che riusciva a trovare: quotidiani, riviste, libri, studi
specialistici» [16]. Riferimento primario e compagno
d'avventura, rappresentava l’emblema di quello che questi
giovani critici ambivano a diventare. Ancora prima che da un
punto di vista cinematografico, rappresentava per loro un
modello di vita. Stregati dalla persona, non potevano che
entusiasmarsi per la sua opera. Costruendo spesso paragoni,
tanto spontanei quanto impegnativi, con i lavori di grandi
pittori come Braque o Matisse [17]. Nel caso di India (1959),
al quale ha collaborato anche un critico dei Cahiers du cinéma
(Fereydoun Hoveyda), Godard arriverà a scrivere: «India
prend le contre-pied de tout le cinéma habituel: l'image n'est
que le complément de l'idée qui la provoque. India est un film
d'une logique absolue, plus socratique que Socrate». In
quanto «Rossellini part de la vérité. Là où les autres
n’arriveront que dans vingt ans peut-être, lui en est déjà parti.
India englobe le cinéma mondial, comme les théories de
Riemann et Planck, la géométrie et la physique classique.
India c’est la création du monde» [18]. Il regista italiano non è
paragonabile a nessun altro cineasta: avanti almeno di
vent’anni su chiunque e capace di riprodurre la “creazione del
mondo”. Ed anche questa sembra essere una costante nel
descrivere l’artista: «Pittori e scultori sono gli eredi degli eroi
mitici. Esperti in molte arti, padroni di molti segreti della
natura, questi eroi gareggiavano con gli dèi» [19]. Più che con
un regista abbiamo a che fare con l'incarnazione di un eroe:
nel mito troviamo il fondamento del fascino di Rossellini.
72
Dal momento che sono nato: (auto)celebrazione
d’artista
Scrive giustamente Andrea Martini: «Dal caloroso
riconoscimento non nascono tuttavia per il regista stimoli
suppletivi né arricchimenti; semmai, più tardi, un’apertura di
credito per realizzare alcuni progetti» [20]. Ma non c’è solo
l’aspetto creativo in senso stretto.
Rossellini trova, in questi ragazzi
che lo ammirano, una conferma a
molte idee sul cinema e sulla vita.
Trova conferme anche e soprattutto
su se stesso: « “C’è da una parte
Rossellini; dall’altra il cinema
italiano”. Ecco cosa ha scritto un
giorno un critico al mio riguardo, ed
è terribilmente vero» [21]. Il culto
rosselliniano, visto chi abbiamo di
fronte, deve per forza di cose passare
per le parole del diretto interessato.
Due sembrano le direzioni
discorsive attraverso le quali il
regista giunge alla sua, consapevole
o meno, auto-mitizzazione. Da un
lato l'insistenza sul fraintendimento
continuo, sia nel bene che nel male,
che viene fatto della sua opera. Non
riferendosi di certo ai critici dei
Cahiers, Rossellini dichiara: «mi
insultano da tutte le parti. Non è una posizione comoda, ma io
le dico, con la stessa franchezza con cui lo penso: le lodi mi
offendono e mi feriscono spesso più degli insulti, perché nella
maggior parte dei casi si tratta di complimenti a
rovescio» [22]. È lui il primo a rendersi conto di essere
circondato da una serie di luoghi comuni: «Sono un uomo
semplice e navigo in una marea di
miti che mi costruiscono attorno
senza la minima ragione» [23]. Ma
la consapevolezza di tutto questo
non sembra aver mai assopito un
desiderio d’indipendenza d’artista,
la voglia d’essere unico e di sapersi
distinguere. Infatti, dall’altro lato,
c’è in Rossellini la decisa
convinzione che il cinema sia una
“creazione solitaria”, dove il regista
è colui che da solo esprime la sua
arte. A una domanda di Mario
Verdone sull’apporto dei
collaboratori nel film, il cineasta ha
risposto: «I collaboratori
rappresentano il mezzo per
raggiungere il fine. Il regista li ha a
disposizione come una biblioteca.
Spetta a lui comprendere ciò che
serve e ciò che non serve. E anche
questa scelta fa parte della sua
espressione. Quando conosce alla
73
perfezione i suoi collaboratori, e sa che cosa si può ottenere da
loro, è come se si esprimesse attraverso di essi» [24].
Sicuramente alcuni collaboratori possono aiutare più di altri
ed alcuni sono essenziali per raggiungere lo scopo finale, ma
l’“autore” è uno e uno solo. Su questo non ci sono dubbi da
parte di Rossellini, è lui l’artista e il cinema è un’arte
individuale: «Ho ben
venticinque anni di
esperienza in questo
mestiere. Hanno sempre
cercato di convincermi
che il cinema è un'arte
collettiva. Non sono mai
riuscito a capire che cosa
volesse dire. Quelli che
me lo dicevano non lo
sapevano neppure loro.
Esiste un’industria, fatta
da un mucchio di
specialisti, e io non ho
nulla in contrario. Ma
forse c’è anche un
angolino per gli artisti» [25].
Rossellini si considera vittima di un sistema che tende ad
emarginarlo, dove nessuno capisce davvero quello che è il suo
lavoro, la sua arte. La solitudine e la disperazione che da
questo derivano, uniti al dover e voler essere creatore solitario
ed indipendente, rientrano perfettamente nella descrizione
che Margot e Rudolf Wittkower fanno dell’artista a partire da
Le vite di Giorgio Vasari: la figura del predestinato, tra
isolamento intellettuale e talento naturale [26]. Significative
in questo senso le dichiarazioni del cineasta in un’intervista di
Dacia Maraini [27]: «Non sono mai riuscito a fare fino in
fondo quello che avrei voluto. Nel cinema la speculazione è
sempre stata più forte del desiderio di sopravvivenza» e
aggiunge: «I miei film una volta fatti, non posso rivederli, non
mi interessano. […] Sì, sono sempre stato proiettato in avanti.
Le cose nuove mi incuriosiscono. Il passato mi annoia».
Roberto Rossellini non è solo un uomo di cinema, è
l’incarnazione di un eroe mitico. Non è solo un personaggio
carismatico e affascinante, ha tutte le carte in regola per
essere un eletto. Nella stessa intervista di Dacia Maraini, alla
domanda: «Quando ha cominciato ad avere i primi scontri
con il mondo?» non può che rispondere, senza alcuna
esitazione, in questo modo: «Dal momento che sono nato».
Note
[1] Roberto Rossellini in Adriano Aprà (a cura di), Roberto
Rossellini. Il mio metodo. Scritti e interviste, Marsilio,
Venezia, 1987, p. 208.
[2] La bibliografia sugli “scandali” provocati prima dal
matrimonio e poi dal divorzio con la Bergman è molto ampia.
Negli ultimi anni si sono occupati della questione: Alberto
Anile e Gabriella M.Giannice, La guerra dei vulcani, Le mani,
Recco, 2010 e Marcello Sorgi, Le amanti del Vulcano, Rizzoli,
Milano, 2010. Invece, nel contesto dell'avventura indiana di
Rossellini che sancisce la fine del matrimonio con la star
74
hollywoodiana: Dileep Padgaonkar,
Stregato dal suo fascino. Roberto
Rossellini in India, Einaudi, Torino,
2011; ed. or. Under Her Spell,
Penguin Viking, 2008.
[3] Dileep Padgaonkar, op. cit., p.
184.
[4] Ivi, p. 187.
[5] Jacques Rivette, Lettre sur
Rossellini, in Cahiers du cinéma, n.
46, aprile 1955, p. 24.
[6] “Antirossellinismo” che spesso si
esprime con l'indifferenza nei
confronti del suo cinema, come spiegato nel dettaglio in
Andrea Martini (a cura di), L’antirossellinismo, Kaplan,
Torino, 2010.
[7] Mario Verdone, Roberto Rossellini, Seghers, Paris, 1963,
p. 10
[8] François Truffaut, Le plaisir des yeux, in Cahiers du
cinéma, Paris, 1987, p. 102.
[9] Claude Beylie, Le plaisir du film – ou d’une approche
affective du cinéma comme système d’exploration filmique,
Papiers, Paris, 1986, p. 29.
[10] Ernst Kris, Otto Kurz, La leggenda dell’artista, Bollati
Boringhieri, Torino, 1989, p. 97; ed. or. Die Legende vom
Künstler: Ein historischer Versuch, Krystall Verlag, Wien,
1934.
[11] Ivi, p. 111.
[12] Rudolf e Margot Wittkower,
Nati sotto Saturno. La figura
dell’artista dall’Antichità alla
Rivoluzione francese, Einaudi,
Torino, 1968, p. 305; ed. or. Born
Under Saturn, Weidenfeld and
Nicolson, London, 1963.
[13] André Bazin, Difesa di
Rossellini, in Cinema Nuovo, n.65,
25 agosto 1955, p. 149.
[14] Ibidem.
[15] Maurizio Giammusso, Vita di
Rossellini, Elleu multimedia, Roma,
2004, p. 226.
[16] Dileep Padgaonkar, op. cit., p. 26.
[17] Soprattutto l'associazione con Matisse è ricorrente. A
partire da Bazin nella sua Difesa di Rossellini, fino alla celebre
Lettre sur Rossellini di Rivette. Ma anche Claude Mauriac
pone questo paragone in L’amour du cinéma, Michel, Paris,
1954.
[18] Jean-Luc Godard, India, in Charles Bitsch, Jacques
Doniol-Valcroze, Jean-Luc Godard, René Guyonnet, Louis
Marcorelles et Georges Sadoul, Cannes 1959, in Cahiers du
cinéma, n. 96, giugno 1959, p. 38.
[19] Ernst Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte, Einaudi,
Torino, 1988, p. 40; ed. or. Psychoanalytic Explorations in
Art, International Universities Press, London, 1952.
[20] Andrea Martini, Introduzione. Il cinema tra microscopio
e telescopio, in Martini (a cura di), op. cit., p. 11.
75
[21] Roberto Rossellini, “Je ne suis pas le père du néoréalisme, je travaille dans une solitude morale absolue, je
souffre d'être méprisé et insulté de tous côtés, je suis obligé de
payer moi-même mes films”, in Arts, 16 giugno 1954, p. 3;
traduzione italiana riportata in Adriano Aprà (a cura di), op.
cit., p. 108.
[22] Ivi, p. 109.
[23] Ibidem.
[24] Roberto Rossellini intervistato da Mario Verdone,
“Colloquio sul neorealismo”, in Bianco e Nero, n. 2, febbraio
1952, p. 12.
[25] Roberto Rossellini in André Bazin e Jacques Rivette (a
cura di), “Comment sauver le cinéma”, in FranceObservateur, n. 413, 10 aprile 1958, pp. 13-14; traduzione
italiana riportata in Adriano Aprà (a cura di), op. cit., pp.
152-153.
[26] Rudolf e Margot Wittkower, op. cit.
[27] Dacia Maraini, E tu chi eri? Interviste sull'infanzia,
Bompiani, Milano, 1973, pp. 95-103.
76
J EFF BUSH
The face of Marilyn
M UCH RESEARCH ON STARDOM HAS EMPHASISED THE
REPRESENTATIONAL
IT .
[1] AND THE COMMODIFIED [2] NATURE OF
T HIS ESSAY ARGUES , HOWEVER , THAT IT IS LARGELY DEFINED
BY THE UNIVERSAL PARTICULARITIES OF HUMAN FACES WHICH
TRANSCEND , AS WELL AS REPRESENT , RECOGNISABLE AND
COMMODIFIABLE HUMAN TYPES . I T SEES STARDOM AS THE
MOMENT WHEN A PARTICULAR FACE BECOMES UNIVERSAL
SIGNIFICATION .
The twentieth century saw a shift in the representation of the
human face as faces became signifiers. We see the
culmination of this in the social media phenomenon that is
Facebook which, on the one hand, holds out the false promise
that every face can become the face of a “star” while, on the
other hand, reduces the face to mere signifier. Marilyn
Monroe’s face, as
depicted in Andy
Warhol’s famous
portrait, can be seen to
challenge anodyne,
pseudo-consumerist
Facebook faces and
anticipate the aggressive
counter-culture and
phallic drag faces of the
twenty-first century.
However, this essay
argues that her face is
significant not because it
signifies the phallus but
because it presents a
public face always on the
verge of dissolution.
Beneath the painted veil, we glimpse a delicate and wounded
face that evokes the uncertain, tremulous and invidious face
of the Muselman, as defined by Žižek in his critique of
Levinas, which is a visage marked by a dehumanised and
monstrous beyond.
77
Face as Signifier
Although it is still a remarkable fact that everyone in the
world has a different face, we live in an era when faces are
becoming less differentiated. This is
why Levinas’ thought is becoming
even more prevalent. For him, the
face is a universal particular and is
the very foundation of human
interconnectedness: ‘the first word of
the face is … “thou shalt not kill”. It is
an order … however, at the same
time, the face of the Other is
destitute. It is the poor for whom I
can do all and to whom I owe all’ [3].
Levinas argues that we cannot
objectify the face because there is
mutual a priori responsibility
underlying face-to-face interactions:
‘an infinite resistance to murder …
firm and insurmountable, gleams in
the face of the Other, the total nudity
of his defenceless eyes, in the nudity
of the absolute openness of the
Transcendent’ [4]. As the face, for
him, is immediately disclosive of
humanity, he would have hated the era of Facebook which,
even more than cinema before it, reduces the face to signifier.
In the last century, we have seen the gradual objectification of
the face: firstly, via twenty foot cinema screens, then
televisions and media advertising. Now, in the era of Imax,
Blu-ray and Facebook, which we access on high-definition
tablets and smartphones, the face is objectified more than
ever. There has been a perceptual
shift in our view of the face in the last
century whereby the perception of
faces becomes governed by rules
rather than ethics. Barthes hints at
this shift in his essay “The Face of
Garbo” where he cleverly notices that
Greta Garbo’s face captures a
moment in cinematic history:
“cinema is about to draw an
existential from an essential
beauty” [5]. So, according to him, we
move from an essentialist to an
existentialist face: from Garbo’s face
partially concealed by the cinematic
mask of make-up and lighting that
only serves to enhance her charisma
to Audrey Hepburn whose cinematic
face literally becomes a signifier with
its lucid definition that diminishes
charisma.
In contrast to Garbo’s face, which is essential and has a
transcendental appeal, Audrey Hepburn’s face is not only doeeyed and coquettish but is clearly defined, symmetrical,
78
knowing. Barthes does not mention it but it is significant that
Hepburn’s face became prominent in an era of technological
revolution in cinema that included the invention of
widescreen, VistaVision, drive-ins and 3-D. The cinematic
face in this era becomes no longer an ephemeral outline but
foreshadows digitalisation. We are experiencing a similar
perceptual shift in our digital age. High-definition and Blu-ray
means that we can view the face of a star like never before. We
can now see the freckles on Judy Garland’s nose, Ava
Gardner’s lip gloss, Liza Minnelli’s false eyelashes and
Elizabeth Taylor’s violet irises. The partial opacity of the face,
which Levinas articulates, disappears in our democratised
Facebook era where every Facebook page displays the face of a
star and digital “faces” connect via networking rather than
empathy. In an age when the face becomes a particularised
universal, every face becomes a tool for consumerism.
glimpsed through half-open, heavy-lidded eyes. A perfect,
upturned nose is in symmetrical relation to an appropriately
proportioned chin (both enhanced by plastic surgery – some
have argued). It is the pursed lips, however, full, red and
fleshy that relax easily into a wide, wraparound smile
revealing gleaming, pearly white teeth that transfix the
viewer. In her visage, there is none of Garbo’s mystique nor
Audrey Hepburn’s proto-digital clarity. She has none of
Garbo’s androgynous regality nor Hepburn’s boyish charm.
Instead, she appears the phallus which, in Lacanian thought,
is the unattainable object of desire that can be signified by any
signifier, or body part, including the face. Lacan’s view that
the Other is the phallus challenges the Levinasian idea that
Marilyn as phallus
The face of Marilyn Monroe anticipates but, also, challenges
this new era of digitalised facialisation. Indeed, we view the
female face differently after Marilyn who committed suicide in
1962. Her face was, of course, made even more iconic by
Warhol’s painting where it becomes symptomatic of the
modern obsession with celebrity and consumerism. Fifty
years after her death, Marilyn’s image is still everywhere and
provokes adoration and scorn in equal measures. She appears
on screen like a grotesque Venus. Peroxide ringlets sweep
back from a face that always appears as though it has engaged,
or is about to engage, in a sex act. Crystal blue irises can be
79
the face of the Other is a call to empathy. According to him,
we engage in a masquerade of being and having the phallus:
‘[sexual] relations revolve around a being and a having which,
since they refer to a signifier, the phallus, have contradictory
effects: they give the subject reality in this signifier, on the one
hand, but render unreal the relations to be signified, on the
other’ [6]. In his thought, men have the phallus and women
are the phallus and sexual relationships are characterised by
an asymmetrical, and sometimes sado-masochistic, game of
being and having.
It is Marilyn’s performance in Gentlemen Prefer Blondes
(1953) that establishes her as a phallic
archetype. One finds oneself blushing,
even in a darkened cinema, at the
appearance of her face during the
“Diamonds are a Girl’s Best Friend”
routine. The camera zooms in on a face
that is perfect in its plasticity. Copious
layers of make-up and lip gloss make it
appear coated in jelly. Her half-closed
eyes and full lips suggests she is in
ecstasy and on the cusp of orgasm. It is
interesting, however, that, although
born and raised in L.A., her father
(whom she never knew) was a
Norwegian sailor and, in spite of the
layers of make-up, one can still see the
Scandinavian physiognomic heritage
in Marilyn’s face. Furthermore, in the film, Marilyn’s
quivering lips, her nervousness, her breathy, ethereal voice
show how she cannot sustain being the phallus, she cannot
sustain being a tableau. This is particularly apparent in the
scene where she is surrounded by a bevy of male admirers on
the ship to Paris. In it, Marilyn appears to be on the verge of
losing control of the pace of her dialogue. Interestingly, one of
Marilyn’s dancers George Chakiris (who later played Bernardo
in West Side Story (1961) noticed a twitching nerve beneath
the shoulder blade of Marilyn before the performance of the
“Diamonds are a Girl’s Best Friend” routine. This gives us a
greater insight into the artifice of the whole scene. It is a sign
of the body’s resistance to signification
which marks Marilyn’s performances
and, indeed, the concept of the
phallus.
Marilyn’s face becomes the template
for a cynical consumerism that is
premised on the notion that “sex sells”.
So, in our era, the most famous stars
are those whose faces most
approximate the phallus like Angelina
Jolie or Cameron Diaz or Megan Fox.
However, we also see the trace of
Marilyn’s face in the faces of Debbie
Harry, Madonna and Lady Gaga as
well as in the faces of the “club kids”
and the aggressive drag artists of the
80
late twentieth and early twenty first century such as Rupaul or
Lady Bunny who all recognise the revolutionary potential of
Marilyn’s face and celebrate her exaggeratedly sexual face in
all of its perverted glory. This essay, however, will argue that
the face of Marilyn is revolutionary in a way that is neither
affirmation nor critique of the phallus.
Beneath the phallus
Perhaps because of the profound sexual potency of her face,
Marilyn always wanted to disappear, she wanted to become a
signifier like Hepburn perhaps. In the years following her
death, feminists, such as Gloria Steinem, expressed guilt over
how they had, during her relatively short life, dismissed
Marilyn as merely a symptom of female objectification in an
oppressively patriarchal society. In her private life, Marilyn
was an intellectual – or at least aspired to be. She was, rather
ironically, an avid reader of Freud and there are numerous
photographs of her with her head buried in The
Interpretation of Dreams. The film Insignificance (1985)
depicts an alleged meeting with Einstein in a hotel room in
the 1950’s. In it, Marilyn is portrayed as someone with an
insatiable appetite for philosophical ideas. However, the film
does not present any evidence of her understanding these
ideas which may have been true. She tried to make artistic
decisions in the latter part of her career. She made a film with
Laurence Olivier. She enrolled in acting classes at Lee
Strasberg’s “method” Acting Studio in New York. She tried to
select her scripts on their literary merit. And, she married the
great American playwright Arthur Miller. It was almost as if,
half-way through her career, she saw who she was, or who she
was represented as, and didn’t want to be it. There were also
personal ghosts that haunted Norma Jean. Her mother
worked in Hollywood in a lowly job helping to edit film reels
and suffered severe mental health problems which Marilyn
feared she too would develop.
It was because of her face, and what it signified, that she often
received unwanted, and sexualised, attention. The studios
cynically promoted this appeal and it has to be said that
Marilyn played along, for a while. Miller communicated an
anecdote that speaks volumes about the pervasiveness of her
overtly sexualised image in the mid-twentieth century.
Hounded by photographers, Marilyn and Miller had sought
81
refuge in a bookshop. In one of the aisles, Miller glimpsed a
man openly masturbating in front of the couple. One would
think that Miller was the right person to save Marilyn from
this brutal reification. Unfortunately, he treated her as
another object – using her for literary inspiration and keeping
a cruelly honest diary about her which she eventually read.
The recent film My Week with Marilyn (2011) presents her in
a similar way – magical but difficult. This seems a very male
way of interpreting her – as product, object, as phallic face
rather than ethical face. It is genuinely upsetting to see images
of her, from the 1950’s, leaving psychiatric hospitals after
breakdowns, or leaving hospitals after miscarriages and
herded into corners,
trying to hide her face
from an explosion of
photographers’
flashbulbs all
desperate to get the
picture which will
show her face as
phallus in all its
nakedness.
There was a significant
shift in the
representation of
Marilyn from 1956
onwards. After some
re-training at the
Actor’s Studio and marrying Arthur Miller, Marilyn agreed to
make Some Like It Hot (1959). Initially, she resented filming
another comedy and agreed to do it mainly to help pay Arthur
Miller’s legal fees which he had incrued in his battle against
McCarthyism which had blighted, and sometimes ruined, the
careers of many intellectuals and artists with left-wing
sympathies in the 1950’s. This political and personal context
gives Marilyn’s performance in the film an edge that is always
implied in her other films but never directly expressed. In this
film, we see the real face of Marilyn, of Norma Jean, come to
the fore. Some Like It Hot is a film about the masquerade of
male and female relationships. Two male musicians (Lemmon
and Curtis), on the run from the mob after witnessing a
murder in the Chicago 1929 St.Valentine’s day massacre, drag
up as female musicians and are accepted in an all-female
music troupe. On their way to Florida, they befriend a fellow
musician, Sugar Cane played by Marilyn, who immediately
wiggles her way into Curtis’ affections by dodging a sudden
ejaculation of steam from a train in his line of vision.
The film does appear, on the surface, a satire of the phallus. It
is a cross-dressing masquerade in which men are shown to
want to “be” the phallus rather than “having” it. The draggedup Lemmon and Curtis comically represent Marilyn in early
pictures where she was ‘trimmer and slimmer’ [7]. What is
most striking about the film, however, is Marilyn’s
performance which falls apart in the film. Ironically, this
becomes more apparent in the ultra-clarity of HD. She looks a
mess – her hair is like straw, her lipstick is smudged, she is
82
overweight and her skin is deathly pale. She was, in fact,
pregnant with Arthur Miller’s child during the making of this
film and suffered a miscarriage during it. They also divorced
after it. Nevertheless, the fact that Marilyn appears on screen
as messy, clumsy and scruffy is riveting and deeply moving.
She is always on the verge of dissolution in Some Like It Hot.
Indeed, at some points, she can be seen to be visibly trembling
and twitching. We could argue that, in this film, something
asserts itself in Marilyn’s face and sheds itself of all that is
plastic, artificial, phallic, product, false. Her face appears to
undergo a metaphorical detoxification in the film and, as a
result, the weight of being such a potent signifier causes the
face of Marilyn to resemble Žižek’s view of the Muselman
rather than Lacan’s concept of the phallus.
Marilyn as Muselman
“face” all its monstrosity: face is not a harmonious Whole of
the dazzling epiphany of a ‘human face,’ face is something the
glimpse of which we get when we stumble upon a grotesquely
distorted face, a face in the grip of a disgusting tic or grimace,
a face which, precisely, confronts us when the neighbor “loses
his face”?’ [8]. For Žižek, the Muselman is irreducible and
indicates a beyond which is not empathic. The face of the later
Marilyn can be seen as the face of the Muselman not least
because, in her films, she frequently lives an intense existence
as an objectified neighbour. In The Seven Year Itch (1955), for
example, Marilyn plays a nameless neighbour (referred to as
“the girl” throughout the film) who is publisher Richard
Sherman’s object of desire. The film implicitly suggests that
there is a thin line between the neighbour as object of desire
and the neighbour as object of anxiety and fear whom you
may report to the police if you are in any way suspicious as
Unlike the face of Garbo which, with its blurred gossamer
lines, harks back to the essential faces of antiquity, or the face
of Hepburn’s which anticipates the digitalised faces of the
Facebook generation, the face of Marilyn – caught between
supreme confidence and intense vulnerability – is a postholocaust face. It projects forward to Žižek’s critique of
Levinas who, in his critique of the centrality of the face in
Western thought, draws attention to the Muselman – the
condemned prisoners in the concentration camps who lost
their will to live because of the horrors of their existence:
“what if it is precisely in the guise of the ‘faceless’ face of a
Muselman that we encounter the Other’s call at its purest and
most radical? . . . . What if . . . we restore to the Levinasian
83
happened in Nazi Germany. It is the combination of girl-nextdoor and sexbomb, intimacy and ex-timacy, that defines her
films and her stardom. We see the symptoms of this on her
body in her films in both the painted visage and the
uncontrollable ticks that characterise her performances and
give the audience a glimpse of the beyond, or the ‘night of the
world’ as Hegel called it, that her mother knew all too well.
Marilyn’s face exposes the totalitarianism of facial
representation that began in the twentieth century. We see a
woman engaging with representation and questioning this
representation on screen before our very eyes. This is her
appeal. There is a longing for another way in Marilyn’s face.
And, there is a desperation that nothing can be done. Marilyn
is the daughter of George Eliot’s Gwendolen Harleth – who
desperately wants to be appreciated for her mind rather than
her body. And, she is the sister of Tennessee Williams’
Blanche Dubois whose nervous ticks and fragility are no
longer charming and indicate the (im)possibility of a
connection between freedom and determinism. Today, we live
in a world where faces are really signifiers. The internet is a
facility to engage in digital masquerades where we hide
behind signifiers. The social media phenomenon Facebook is
symptomatic of this where users adopt online visages to
promote their lifestyles. It is essentially a collection of
digitized ‘faces’ in which users engage in idle chatter,
competitive egoism and cyber bullying. The face of the
Muselman reveals a lack of reciprocity between signifier and
face which is forgotten in the era of Facebook but Marilyn’s
janus-face looks forward to Facebook and backwards to the
Muselman. There is something harrowing about her face and
the way it is exposed on screen. In her later films, in
particular, we see, in her face, the exhausted, undignified face
of the Muselman – the face that knows where it is going, that
has glimpsed a monstrous beyond. This beyond is glimpsed by
each star when their time in the spotlight has passed; or when
an indiscretion or crime is committed; or when a past event
comes back to haunt them; or when the intense pressure of
their visage as a universal particular becomes too great. This
is the other face of stardom which Marilyn’s memorable face
ultimately epitomises.
Notes
[1] Richard Dyer & Paul McDonald, Stars, BFI, London, 1998,
p. 50.
[2] Richard Maltby, Hollywood Cinema, Blackwell, Oxford,
2003, p.14.
[3] Emmanuel Levinas, Ethics and Infinity: Conversations
with Phillipe Nemo, Duquesne University Press, Duquesne,
1985, p.89.
[4] Emmanuel Levinas, Totality and Infinity, Springer, New
York, 1980, p.199.
[5] Roland Barthes, “The Face of Garbo” in Mythologies,
Fontana, London, 1993, p.57.
[6] Jacques Lacan, Ecrits: The First Complete Edition in
English (Trans.) Fink, B., Norton, London & New York, 2006,
p.582.
84
[7] “Cinema, The New Pictures”, in Time Magazine, Monday
Mar. 23 1959.
[8] Slavoj Žižek, The Neighbor: Three Inquiries in Political
Theology, Chicago University Press, Chicago, 2006, p.162.
Bibliography
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Angeles, 1955.
Billy Wilder, Some Like It Hot, The Mirisch Company, New
York City, 1959.
Slavoj Žižek, The Neighbor: Three Inquiries in Political
Theology, Chicago University Press, Chicago, 2006.
Roland Barthes, “The Face of Garbo” in Mythologies,
Fontana, London, 1993
Simon Curtis, My Week with Marilyn, New York City, The
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Richard Dyer & Paul McDonald, Stars, BFI, London, 1998.
Sigmund Freud, On Metapsychology: The Theory of
Psychoanalysis, Penguin, London, 1991.
Howard Hawks, Gentlemen Prefer Blondes, Twentieth
Century Fox, Los Angeles, 1953.
Jacques Lacan, Ecrits: The First Complete Edition in English,
(Trans.) B.Fink, Norton, London & New York, 2006.
Emmanuel Levinas, Totality and Infinity, Springer, New
York, 1980.
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Phillipe Nemo, Duquesne University Press, Duquesne, 1985.
Richard Maltby, Hollywood Cinema, Blackwell, Oxford, 2003
Jerome Robbins & Robert Wise, West Side Story, The Mirisch
Corporation, New York City, 1961.
Nicolas Roeg, Insignificance, Palace Pictures, London, 1985.
“Cinema: The New Pictures” in Time Magazine, Monday Mar.
23 1959.
85
CHIARA CHECCAGLINI
«Created by». L’autore-star
nella serialità televisiva
contemporanea
U NA DELLE CARATTERISTICHE PRINCIPALI DELLA SERIALITÀ
TELEVISIVA È CHE PER QUANTO LE VARIABILI ARTISTICHE SIANO
SIGNIFICATIVE , LA DIMENSIONE COMMERCIALE RIMANE IL
Come è noto, nella storia del cinema e della critica
cinematografica l’attribuzione specialmente europea di una
“competenza espressiva e comunicativa” [1] al regista-metteur
en scène ha portato alla diffusa corrispondenza tra nome e
garanzia di qualità: il film d’autore si impossessa così di una
veste intellettuale che lo separa nell’immaginario dai
meccanismi di vendita di un prodotto per rivestirlo di valore
puramente estetico. L’esistenza di una “volontà autoriale” [2]
è presto messa in discussione, e la questione
dell’intenzionalità ampiamente ridimensionata e
problematizzata, mentre entra in campo il ruolo dello
spettatore nella negoziazione dei significati.
Sebbene la serie televisiva si configuri come produzione
collettiva, il predominio della scrittura su altri aspetti della
messinscena fa sì che colui che è considerato l’ideatore della
serie si riappropri di una nuova versione del marchio
autoriale: in certi casi si tratta di un’etichetta non veritiera,
attribuita indipendentemente da quanti episodi vengono
effettivamente scritti dal creatore; ma spesso si tratta di
ideatori o showrunner che hanno effettivamente il controllo
sull'intero processo di scrittura e dunque sul risultato finale,
emanazione della propria idea.
CRITERIO ULTIMO CHE STABILISCE IL DESTINO DELLE SINGOLE
SERIE TV : LA PERFORMATIVITÀ IN TERMINI DI ASCOLTI , IL
RATING , LA CORRISPONDENZA ALLE POLITICHE DELLE RETI E AL
TARGET DI RIFERIMENTO NON SONO TRASCURABILI . I N QUESTO
UNIVERSO DI SCOMMESSE COL SUCCESSO , IL CONCETTO DI
AUTORIALITÀ È QUANTOMENO SCEVRO DI OGNI SACRALITÀ .
Oltretutto le serie tv contemporanee fondano il proprio valore
sulla costruzione di universi complessi, sia dal punto di vista
intertestuale, mutuabili su diversi media e fruibili in
molteplici modi, sia da quello narrativo/testuale: il pubblico
degli ultimi due decenni di tv si è così potuto abituare alla
fruizione di storie molteplici e personaggi controversi,
86
significati stratificati e intricate narrazioni orizzontali.
Parallelamente, Internet ha esponenzialmente incrementato
circolazione e visibilità di notizie, contenuti, personalità
coinvolte: lo stardom hollywoodiano comprende ora sempre
più star televisive, altrettanto celebri e fotografate, e anche gli
ideatori hanno guadagnato attenzione mediatica, mentre gli
appassionati di serie tv hanno molta più consapevolezza del
processo creativo della serie.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, quando le serie iniziano a
cambiare i connotati della tv [3], a Steven Bochco, creatore di
Hill Street Blues, viene riconosciuto il merito di innovazioni
che saranno influentissime sulle serie a venire; subito dopo
appare Twin Peaks, con l'ingombrante firma di David Lynch,
che al cinema è già autore di culto riconosciuto. Innescando
un corto circuito tra autorialità cinematografica e televisiva,
sebbene sia un caso atipico, Twin Peaks è il primo caso di
culto seriale legato a doppio filo alla firma dell'ideatore.
Nonostante il nome di Lynch sia usato come selling point al
momento del
lancio della serie
[4], l’andamento
narrativo della
serie subirà
diverse modifiche
rispetto al progetto
originario, fino a
uno snaturamento
che Lynch stesso
disconoscerà (esemplificazione del fatto che qualunque sia il
nome dietro una serie, l’ultima parola spetta alla rete e agli
ascolti) [5].
In Tv di culto, Massimo Scaglioni afferma che l’autore ha
sempre avuto il ruolo di garante della qualità da quando esiste
la cult-testualità televisiva [6]: riprendendo Matt Hills,
Scaglioni stabilisce che l’autorialità è uno dei tre aspetti delle
“somiglianze familiari” che caratterizzano il culto mediale. A
differenza del cult cinematografico, il testo seriale di culto ha
la possibilità di raggiungere contemporaneamente nicchie di
pubblico generalista oltre che gli appassionati; l’autore è da
un lato “una garanzia e un ancoraggio indispensabili” [7],
dall'altro “la presenza extratestuale di un autore è in parte
generata dagli stessi fan” [8]. Con la crescente fortuna delle
serie tv e dell’“ideologia della qualità” l’autore riconoscibile è
diventato quello in grado di scrivere grandi drammi, grandi
storie, non necessariamente focalizzate su un genere
particolare (il fantasy, il mistero, il poliziesco, la sci-fi) ma più
in generale predisposte a scandagliare aspetti della vita
tramite un punto di vista riconoscibile: sembra tornare in
auge un’accezione dell'autore più élitaria, che contrappone
originalità, esclusività, qualità alle caratteristiche di genere e
al successo. Da un lato quindi dalla specificità seriale torna in
primo piano un’individualità autoriale cui collegare la qualità
del testo, prendendo le distanze da forme istituzionalizzate
come il genere e il successo commerciale; dall’altro appunto
non esiste serialità senza risposta del pubblico, che sia estesa e
87
inclusiva o che si manifesti in attaccamento di piccoli ma
agguerriti manipoli di fan.
Riassumendo, se è facile mutuare all’occorrenza dalla cinefilia
il concetto di autore come definizione che racchiuda un
insieme di fattori tematici ed estetici riconoscibili e ricorrenti,
la serie tv resta il risultato di una produzione collettiva,
all'interno della quale il ruolo del creator e quello dello
showrunner variano la propria influenza di caso in caso.
Mentre la serie tv si è assestata come prodotto di punta della
programmazione televisiva nordamericana nonché dispositivo
d'eccellenza nella narrazione per immagini, di pari passo al
culto per le serie stesse è emerso quello per alcune personalità
creatrici ad esse connesse. Come vedremo [9], alcuni nomi
sono più ingombranti di altri, per motivi diversi: alcuni per
l’oggettiva capacità di inventare storie di successo, altri per la
loro prolificità, altri ancora per la riconoscibilità tematica,
altri per il loro anticonformismo; alcuni dunque forti della
straordinarietà degli ascolti, altri del riconoscimento critico,
altri ancora di un fandom affezionatissimo.
Aaron Sorkin, star da Oscar
Aaron Sorkin è lo sceneggiatore in cui sono più rintracciabili
caratteristiche autoriali riconscibili, motivi e temi che
ricorrono in tutte le sue creazioni: nell’immaginario collettivo
è spesso identificato con il drama di qualità tout court, perché
le sue creazioni si basano quasi interamente sul dialogo e sui
personaggi, e dunque sulla pura scrittura; sul piano visivo il
“walk and talk”, il tipico parlare camminando dei personaggi
sorkiniani, ha il proprio
corrispettivo in tortuosi
pianisequenza in interni, dal
momento che le location delle
serie di Sorkin sono composte
quasi esclusivamente dai
luoghi di lavoro dei propri
protagonisti. Questi elementi
ricorrenti hanno fatto sì che si
possa parlare di uno stile
Sorkin, che per gli estimatori
è il massimo grado
dell'espressività seriale
televisiva, e per i detrattori un
esercizio manierista di ricalco
dei propri leitmotiv. Ma è Sorkin stesso ad essere altamente
consapevole. È significativo ed ironico che la consacrazione
cinematografica [10] si arrivata con lo script di The Social
Network (2010) di David Fincher, dal momento che Sorkin è
dichiaratamente restio alle nuove tecnologie e non manca di
ribadirlo per bocca dei suoi personaggi nelle sue serie.
Formatosi in teatro, Sorkin esordisce sul piccolo schermo con
Sports Night (1998-2000), in cui sono già presenti gli
elementi stilistici di cui sopra, l'interesse per i media,
l’intreccio tra storie d’amore e di lavoro, la scelta quotidiana
tra giusto e sbagliato, bene e male. Dopo la sua creazione più
famosa, The West Wing, andato in onda per sette stagioni
(1999-2006), ultrapremiata e amatissima, la prima serie
incompresa: Studio 60 On the Sunset Strip (2006-2007),
88
backstage series su un programma comico, è cancellata dopo
una stagione. Forse troppo settoriale per suscitare l'interesse
del pubblico, a Studio 60 viene imputato anche di essere poco
credibile nella rappresentazione di un programma comico di
tale successo, dal momento che ciò che vediamo on screen,
semplicemente, non fa ridere. The Newsroom (2012- )
rappresenta il ritorno di Sorkin dopo l’Oscar per The Social
Network, e la prima partnership dello sceneggiatore con una
rete cable, la HBO: oltre al cast (con Jeff Daniels protagonista
assoluto, Emily Mortimer, Alison Pill, Jane Fonda tra i
comprimari) e all'argomento (i retroscena di un programma
di notizie in diretta) serpeggia l'attesa per vedere Sorkin
all’opera con l'inedita libertà espressiva del via cavo. Ma
l’accoglienza critica è freddissima: la serie è considerata
troppo retorica, poco attuale nonostante le tematiche scottanti
del presente siano il nucleo di molti episodi, viziata da un
sessismo strisciante (i personaggi femminili di Sorkin sono
sempre piuttosto deboli e incapaci, indipendentemente dal
ruolo di responsabilità che ricoprono); si contesta la
sensazione che si tratti di una serie “a tesi”, che non è
interessata ad approfondire il mestiere del giornalismo
quanto a sciorinare le opinioni (manichee, filoamericane,
buoniste) di Sorkin sul mondo [11]. Gli elementi che
compongono lo stile Sorkin sono talmente riconoscibili che la
loro riproposizione semplicistica risulta inaccettabile, e The
Newsroom diventa addirittura un caso di hate-watching.
Difficile che questo possa intaccare la reputazione di Sorkin,
tuttavia l'autore stesso deve aver accusato il colpo se è vero
che nella seconda stagione il tono e la struttura degli episodi
sono leggermente cambiati; per il momento i rating ne hanno
giovato; e The Newsroom rimane uno dei casi più interessanti
di monitoraggio dei rapporti tra il pubblico e una delle
autorialità seriali maggiormante riconosciute.
Matthew Weiner, pretese da star
La proliferazione di serie e il crescente interesse per la
produzione di testi seriali confezionati su standard altissimi
che ha caratterizzato gli anni Duemila ha provocato
un’accelerazione del manifestarsi di certi fenomeni, come
l’improvvisa fama di un ideatore. Lo status di autore-star
viene assunto così anche dopo una sola serie: è il caso di Vince
Gilligan, la mente che ha prodotto Breaking Bad, e Matthew
Weiner, inventore di Mad Men. Sebbene la meritata fama di
Weiner sia interamente riconducibile a Mad Men, non
bisogna dimentricare che a scoprirlo e ad avviarlo verso la
carriera di sceneggiatore di serie tv fu David Chase, che lo
reclutò tra gli autori de I Soprano proprio dopo aver letto lo
89
script del pilot di
Mad Men nel
lontano 2000. Dal
canto suo Weiner
impara da Chase il
controllo su ogni
dettaglio della
propria creatura.
Uno dei punti di
forza di Mad Men è la
precisione maniacale tanto nella ricostruzione storica, nella
ragnatela di riferimenti culturali e popolari quanto nella
scrittura dei personaggi, nel legare le storie personali alla
Storia turbolenta dell'America degli anni Sessanta. Mad Men
è culto perché si presta ad essere sezionata e assimilata come
catalogo di ispirazioni, dalla moda, all’arte, alla cutura e
all’arredamento, ma è difficile non attribuire parte del suo
successo alla raffinatezza con cui è sceneggiata. L’idea di
fondo mai tradita e la meticolosità sono gli aspetti che fanno
sì che il nome di Weiner e quello di Mad Men siano
inscindibili; come ha dichiarato in varie interviste, Weiner
controlla personalmente l’intero processo di scrittura di ogni
singolo episodio, arrivando, se necessario, a riscriverne interi
stralci [12]. Si evince che per Weiner l’ultima parola sui
contenuti di Mad Men è una priorità assoluta: il successo di
critica e pubblico, la pioggia di premi sulla serie dall’esordio in
avanti sono elementi che hanno permesso a Weiner di
pretendere, oltre ad un potere decisionale pressoché
illimitato, lo stipendio più alto mai percepito da un creatore di
serie tv. Proprio il compenso di Weiner è al centro dei conflitti
contrattuali emersi per due volte, nel 2009 e nel 2010, tra
l'autore e i vertici produttivi di Mad Men, la Lionsgat e la
AMC (qui una ricognizione della vicenda). A fronte dei 10
milioni a stagione accordati a Weiner, rete e casa di
produzione vorrebbero un aumento della pubblicità durante
la messa in onda, un ridimensionamento del cast e più
product placement mirato (parte integrante della serie per
quanto riguarda i marchi realmente esistenti tra i clienti delle
agenzie pubblicitarie rappresentate). L'accordo viene
raggiunto nel 2011, e oltre ad appianare le questioni
economiche conferma soprattutto le ulteriori tre stagioni di
Mad Men necessarie, nel progetto dell’autore, a portare a
termine la serie. Oggi è da poco terminata la sesta, e gli
sviluppi della carriera post-Mad Men di Weiner saranno
certamente scandagliati dagli esperti del settore: comunque
vadano le due
rimanenti
stagioni,
l'autore si è
guadagnato
un posto
nell'olimpo
degli
sceneggiatori
televisivi più
talentuosi e
influenti.
90
Joss Whedon,
“one of us”
Joss Whedon
rappresenta
perfettamente
l'idea di
showrunner che
conosce e rispetta il
proprio pubblico,e
soprattutto sa come creare un prodotto di culto perché ha
dimestichezza con le pratiche del fandom, essendo a sua volta
uno spettatore appassionato e fan. La serie che gli ha dato la
fama è Buffy The Vampire Slayer; o meglio, è la costruzione
di un mondo complesso come il Buffyverse che l’ha fatto
diventare amato e riconoscibile: guadagnandosi la fiducia dei
fan e l’interesse degli studiosi per la sua capacità di lavorare
all'interno di stilemi e codici, ribaltandone sensi e significati,
per l’ideazione di personaggi femminili forti e opposti agli
stereotipi di genere. L’affetto incondizionato dei fan e il
riconoscimento dello status di autore ha fatto sì che la serie
abortita Firefly e il passo falso Dollhouse non abbiano
impedito a Whedon di mantenere intatta la propria
reputazione: da un lato all'interno della produzione
mainstream, con il progetto The Avengers, sia
cinematografico, con l’omonimo blockbuster, che seriale, con
l’imminente Agents of S.H.I.E.L.D.; dall’altro attraverso
creazioni più sperimentali, come Quella casa nel bosco,
diretto assieme a Drew Goddard e Much Ado About Nothing,
girato nella pausa tra le riprese e la post-produzione di The
Avengers. Joss Whedon è il classico caso di un’inventiva e di
un’irriverenza fuori dal comune, non tanto nella forma (non
ha mai bisogno di scandalizzare o di puntare sul
sensazionalismo per raccontare punti di vista inediti) quanto
nei contenuti, difficilmente incasellabile e dunque destinata a
scontrarsi a più riprese con i vertici produttivi. La Fox non
comprende e dunque ostracizza i lavori di Whedon in due
occasioni: recentemente con Dollhouse (2009-2010),
ambizioso progetto semi sci-fi con protagonista Eliza Dushku,
che differisce dal rassicurante procedurale che la Fox esige;
ma soprattutto, con Firefly (2002-2003), sfortunata e amata
serie che il canale manda in onda senza seguire l'ordine degli
episodi prima di cancellarla dopo una stagione. Firefly ha
beneficiato di un fandom attivo e sostanzioso, che Whedon ha
reso felice riuscendo a dare una conclusione alla serie con il
film Serenity (2005). Da questi eventi sfortunati la
personalità pubblica di Whedon è sempre uscita rafforzata,
anche per la sincerità con cui nelle interviste parla dei propri
errori e delle difficoltà a
mantenere intatta la propria
idea, per la convinzione nei
propri interessi, per il sincero
affetto che dimostra verso i
propri attori. Sempre diviso tra
produzioni ad alta visibilità e
progetti più di nicchia (Dr.
Horrible Sing-Along Blog), il
recente coinvolgimento con la
91
Marvel appare la consacrazione definitiva all'interno
dell’universo geek più mainstream, e d’altro canto i fan sanno
che il successo commerciale del connubio permetterà a
Whedon di perseguire progetti più personali.
J. J. Abrams, il brand
Il nome di J.J. Abrams è principalmente associato al successo
più rilevante e influente del nuovo corso della serialità
televisiva, Lost (2006-2010): è interessante che di Lost
Abrams abbia scritto solo il pilot e poco più, e che le redini
dello show siano presto passate interamente ai co-creator
Damon Lindelof e Carlton Cuse. Se Abrams sembra il meno
profondamente coerente tra gli autori seriali, al tempo stesso
è una delle personalità più versatili e degli showrunner più
prolifici. Il nome di Abrams è in qualche modo riuscito a
sganciarsi dall'effettivo materiale narrativo letteralmente
ideato per diventare una sorta di brand capace di evocare
immediatamente il dipanarsi di enigmi, colpi di scena,
fenomeni misteriosi sospesi tra scienza e misticismo,
personaggi che si inoltrano in selve di domande senza
risposta. Il modello Lost stesso è stato creduto erroneamente
replicabile, e il pacchetto mistero-cospirazione-(fanta)scienza
ha portato all'apparizione di epigoni per lo più fallimentari
(Flashforward, The Event tra gli altri). Come quando
Tarantino era posto a nume tutelare delle pellicole più
disparate, pur che comprendessero action postmoderno e
violenza pop, durante e dopo la messa in onda di Lost il nome
di J.J. Abrams ricorre come produttore in molti show e film:
da Fringe (la serie in cui il contributo di Abrams è più ingente,
dopo Felicity e Alias) a Person of Interest, da Revolution alle
presto cancellate Alcatraz e Undercovers; e sulla scia dei
mostri misteriosi e invisibili che infestavano l’isola di Lost, la
frase di lancio del film horror Cloverfield (2008), prodotto da
Abrams e diretto da Matt Reeves, è “Something has found us”;
nel lancio della serie Alcatraz, di cui Abrams è esclusivamente
produttore, si insiste sull’associazione tra il carcere-isola e
l’altra Isola, complice anche la presenza di Jorge Garcìa/
Hurley. Tuttavia, se da un lato Abrams si dimostra
consapevolmente in grado di gestire la vendibilità del suo
nome, dall’altro deve fare i conti con un certo discredito
dovuto al frequente insuccesso critico, prima che di pubblico,
di molti dei suoi ultimi prodotti seriali. Abrams continua
comunque a sfornare una serie dopo l'altra, e
contemporaneamente si sposta con sempre più frequenzae dal
piccolo al grande schermo: anche in questo settore coinvolge
il suo nome in progetti di vario tipo tra cui molti franchise di
successo: dopo Mission Impossible, Star Trek e ora, senza
timore di inimicarsi entrambi i fandom più famosi della
storia, Star Wars, di cui dirigerà l’Episodio VII, il primo
capitolo dopo la criticatissima acquisizione Disney della
Lucasfilm.
La figura di Abrams appare antitetica a quella di Joss
Whedon: se il creatore di Buffy è amato dal pubblico e
osteggiato dalle reti, Abrams sembra una miniera
economicamente inesauribile ma più controversa dal punto di
vista della propria poetica; se Whedon è l'emblema dell’idea
brillante e delle mille sfumature del compromesso, la
92
personalità di Abrams si inabissa nella miriade di progetti
diversi per riemergere sporadicamente. Ed è paradossale che
ultimamente la specificità dello showrunner seriale per
eccellenza emerga più nei film da lui scritti e diretti (si veda
Super8) che nelle serie.
Conclusioni
Se Twin Peaks rappresenta uno snodo fondamentale nel
legame tra la creazione di un prodotto seriale e la
riconoscibilità del suo autore, ci troviamo oggi, 13 anni dopo,
ad assistere ad un altro momento diversamente tempestato di
cambiamenti, che i più incauti definiscono rivoluzionari e i
prudenti semplicemente il naturale evolversi delle cose.
Netflix, piattaforma distributiva di dvd e streaming che negli
ultimi anni ha visto aumentare esponenzialmente il proprio
numero di abbonati e dunque i propri introiti, ha prodotto
quest'anno la sua prima serie, contraddistinta da credits di
altissimo livello e budget da capogiro: House of Cards, ideata
da Beau Willimon a partire dall'omonima miniserie della BBC,
prodotta da David Fincher e interpretata (e prodotta) da
Kevin Spacey. Un regista di culto e un attore molto amato,
affiancato da Robin Wright, per un prodotto
ambiziosissimo,ad alto budget, costruito alla perfezione
attorno al carismatico protagonista. Su Salon Andrew
Leonard afferma, dati alla mano, che Netflix ha prodotto a
tavolino una serie d’autore sulla base dei risultati di indagini
tra gli abbonati e gli spettatori (che comprendono ad esempio
l’analisi di quante volte e dove l'episodio viene messo in
pausa). L’evoluzione della dittatura del rating è dunque lo
studio capillare di ogni aspetto delle abitudini di consumo
seriale? In uno scenario estremo, potrebbe cambiare anche la
percezione del processo creativo alla base di una serie tv, e
con essa la rilevanza effettiva dell’autore; al tempo stesso, se è
vero che ci si baserebbe prevalentemente sulle preferenze
degli spettatori, si potrebbe arrivare a chiedere il
coinvolgimento di soli autori-star affermati.
Note
[1] Cfr. Guglielmo Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e
storia dell’autore cinematografico, Carocci, Roma, 2006, p.
23.
[2] Ivi, p. 27.
[3] Cfr. R.J. Thompson, Television's Second Golden Age.
From Hill Street Blues to E.R., New York, Continuum, 1996.
[4] Cfr. Matt Hills, Fan Cultures, Routledge, Oxon-New York,
2002, p. 133.
[5] Sulle reti via cavo l'autore ha certamente più libertà: David
Chase non avrebbe potuto rendere I Soprano lo straordinario
affresco drammatico è su un canale generalista.
[6] Cfr. Massimo Scaglioni, Tv di culto. La serialità televisiva
americana e il suo fandom, Vita e Pensiero, Milano, 2006.
[7] Ivi, p. 51.
[8] Matt Hills riportato da Scaglioni, ivi, p. 52.
[9] Questo scritto si propone di offrire degli spunti sul
successo dell'autorialità seriale, ed è evidentemente tutt'altro
che esaustivo. Molti autori importanti che sarebbero potuti
rientrare nella nozione di autore-star sono stati lasciati da
93
parte (Alan Ball, Ryan Murphy, Shonda Rhimes, Tina Fey) sia
per motivi di spazio, sia perché si è cercato di scegliere un
ventaglio di personalità rappresentative del fenomeno ma
diverse tra loro.
[10] Sorkin è attivo anche al cinema, sue le sceneggiature di
Codice d'onore, Il presidente – Una storia d'amore, La
guerra di Charlie Wilson, L'arte di vincere.
[11] Si vedano ad esempio Howard Kurtz, Aaron Sorkin’s
Cable Crackup: Why His HBO Series Is a Snooze o Brice
Ezell, Aaron Sorkin’s Millennial Problem in The Newsroom
[12] Cfr. David Itzkoff, The Top Man at Mad Men Isn't Mad
Anymore
94
B ARBARA M AIO
Sam Neill: un attore alla fine
del mondo
V I SONO ATTORI NELLA STORIA DEL CINEMA , CHE SONO ENTRATI
A FAR PARTE DELL ’ IMMAGINARIO COLLETTIVO , VERI E PROPRI
MITI , FIGURE ICONICHE CHE HANNO SAPUTO INCARNARE
PERSONAGGI CHE FANNO ORMAI PARTE DELLA NOSTRA VITA .
A TTORI COME R OBERT D E N IRO , R OBERT R EDFORD , J ACK
N ICHOLSON , H ARRISON F ORD O , PIÙ RECENTEMENTE , B RAD
P ITT , G EORGE C LOONEY O L EONARDO D I C APRIO , SOLO PER
NOMINARNE ALCUNI , SONO ORMAI VOLTI A NOI FAMILIARI ,
SPESSO LEGATI AD UNA CERTA TIPOLOGIA DI PERSONAGGI , BUONI
O CATTIVI , EROI E ANTIEROI , PRINCIPI AZZURRI O SPIETATI
KILLER .
S ONO POCHI , PERÒ , GLI ATTORI CHE POSSONO ESSERE
PRESI COME FIL ROUGE PER TENTARE UNA STORIA DEL CINEMA
TRASVERSALE .
Infatti, se gli attori prima citati hanno raggiunto un successo
mondiale grazie, soprattutto, a film di produzione
statunitense, Sam Neill ha espanso la sua carriera in
cinematografie spesso lontane tra loro, divenendo nel corso di
una ormai quarantennale carriera, un attore capace di
rappresentare la cinematografia mondiale grazie a film
Europei, Statunitensi e dell’area dell’Australasia,
partecipando a blockbuster così come a piccoli film
indipendenti e invisibili, incarnando la figura del santo e del
demonio, dell’eroe romantico e del folle maniaco, mettendosi
alla prova in tutti i generi, tra cinema e televisione, tra grandi
successi e altrettanto grandi flop. Il tutto, mantenendo un
basso profilo, così da non incorrere in tutti quei lati negativi
dell’esposizione mediatica che spesso colpiscono le celebrities.
S AM N EILL È UNO DI QUESTI .
95
L’inizio della carriera - Gli anni Settanta
Nato nel 1947 in Irlanda del Nord, Sam Neill si trasferisce
presto con la sua famiglia in Nuova Zelanda, Isola del Sud,
terra di origine del padre, militare di professione che, dopo il
ritiro dall’esercito, entra nel commercio degli alcolici gestendo
una delle aziende più rigogliose della terra dalle lunghe nuvole
bianche. Il giovane Sam, dopo la laurea in Letteratura, inizia
la sua carriera nel mondo del cinema come regista per la Film
Commission locale realizzando diversi documentari e
esordendo come attore nel cortometraggio Ashes del 1975 e
poi nello stesso anno nel lungometraggio Landfall che
racconta la storia di due coppie che fuggono dalla città per
organizzarsi in una sorta di comune in campagna ma, le ansie
e le contraddizioni della civiltà non lasceranno loro scampo. Il
film resta a margine della distribuzione neozelandese e viene
visto dall’attore solo come un divertimento e non come il
possibile inizio di una carriera. Infatti, Sam Neill dichiara più
volte di vedersi in questa fase della sua vita solo come regista
e non anche come attore. Ma la svolta avviene solo due anni
dopo, nel 1977, una data importantissima per la
cinematografia Neozelandese, per la realizzazione del film
Sleeping Dogs di Roger Donaldson. Questo è, infatti, il primo
film in tanti anni, esclusivamente di produzione Nazionale,
anche se viene scelto un regista Australiano e l’attore più
famoso è il leggendario attore Americano Warren Oates. Sam
Neill viene scelto come protagonista di questa storia distopica
che segue le avventure di un uomo coinvolto suo malgrado
nella lotta tra guerriglieri e forze destrorse in una Nuova
Nel distopico Sleeping Dogs del 1977
Zelanda ai limiti della guerra civile. Il film ottiene una grande
attenzione anche al di là dei suoi meriti artistici proprio per la
sua importanza culturale, economica e sociale. Proprio
durante la promozione in Australia di questo film, a Sam Neill
viene offerta la parte del protagonista nel film La mia
brillante carriera del 1979, tratto dal libro di Miles Franklin
sull’emancipazione di una giovane donna che sceglie di
seguire i suoi sogni letterari invece di avere un ottimo
matrimonio nell’Australia all’inizio del Ventesimo Secolo. Al
fianco di una giovane esordiente Judy Davis, Neill ottiene un
grande successo diretto da una donna, Gillian Armstrong,
tratto caratteristico da sempre rivendicato dall’attore, cioè
quello di trovarsi meglio a lavorare con molte donne, dietro e
davanti alla macchina da presa. Il personaggio di Neill è
quello del giovane e affascinante Harry, amante della
protagonista e che viene lasciato alla fine del film. Un ruolo
96
romantico e originale che permette a Neill di mettersi in
evidenza non solo per il suo bel volto che, comunque, presenta
un fascino fuori dai canoni classici della bellezza maschile. La
coppia Neill-Davis diviene in Australia, e poi nel resto del
mondo, l’ideale romantico di un amore moderno, anche se il
film non ha un lieto fine, ed è lontano dai canoni della
commedia romantica hollywoodiana. In questa fase Sam Neill
è identificato come una sorta di “principe azzurro”, bello,
giovane, con un fascino già maturo e lineamenti particolari
che propongono una bellezza originale, profondi occhi azzurri
e una carriera tutta da costruire, rischiando quindi di
rimanere intrappolato in ruoli altrettanto romantici. Ma le
cose andarono - per sua fortuna - differentemente.
Harry Becham in La mia brillante carriera
L’affermazione - Gli anni Ottanta
Questo successo convince Neill ad affrontare la carriera con
convinzione ma, necessariamente, lo porta lontano dalla
Nuova Zelanda dove veniva indicato specialmente adatto a
ruoli da omosessuale, non molto frequenti nel suo paese. Si
trasferisce in Australia, paese che gli offre un margine
maggiore di visibilità ed opportunità. Dopo alcune
partecipazioni a serie televisive, arriva una altra svolta:
Clarissa Kaye, la moglie Australiana del famoso attore James
Mason, lo nota nel film della Armstrong e lo fa conoscere al
marito che lo invita a sue spese in Europa e lo suggerisce per il
ruolo da protagonista nel terzo capitolo della saga horror The
Omen. Abbandonando, quindi, il personaggio del bel
pretendente, Neill è qui l’Anticristo in persona, affascinante
sì, ma letale. Pur se questo film non è un capolavoro, il ruolo
consente a Neill di affermarsi anche in Europa e di essere
Nei panni dell’anticristo Damien Thorn in The Omen III
97
scelto come
protagonista nel
cult-horror
Possession di
Andrzej Zulawski e
nel film Da un
paese lontano,
ovvero la storia del
giovane futuro
Papa Giovanni Paolo II. Nel primo film, accanto alla
bellissima Isabelle Adjani, Neill si trova ad interpretare il
ruolo del marito che pensa che la moglie lo stia tradendo ma,
in realtà ha una relazione con un mostro partorito dalla sua
stessa nevrosi. Un film oscuro, poco comprensibile, con scene
memorabili. Il ruolo non è dei più facili e Neill deve spaziare
in una vasta gamma espressiva, prevalentemente tendente al
folle. In uno solo anno, il 1981, e con questi tre film, Neill si
dimostra una attore versatile e pronto a qualsiasi ruolo. Dal
1982 al 1989 è protagonista di ben diciassette titoli. Tra questi
è la spia Sidney Reilly nella serie britannica Reilly Ace of
Spies, un grande
successo per il quale
l’attore ottiene diversi
premi e menzioni. Il
ruolo lo fa affermare
soprattutto nel Regno
Unito, dove la serie è
un grandissimo
successo, e Neill
Capitan Starlight in Robbery under arms del 1985
propone ancora una volta un personaggio molto affascinante e
suadente ma, al contempo, con moltissimi lati oscuri. Poi,
ancora, lavora al fianco di Jodie Foster (Il sangue degli altri),
Meryl Streep (Plenty e Un grido nella notte), Nicole Kidman
(Ore 10: calma piatta), si cimenta con il western (Robbery
Under Arms), il film storico (Ivanhoe al fianco del suo
pigmalione James Mason), il thriller fanta-politico (Amerika).
Ciò che emerge da questo decennio è l’estrema versatilità dei
ruoli conquistati, non rimanendo intrappolato nello stereotipo
romantico del bel tenebroso ma, anzi, andando spesso a
interpretare personaggi controversi, di difficile catalogazione,
lavorando molto sulla voce ed interpretando spesso
personaggi Sovietici, dimostrando una notevole versatilità.
98
Il grande
successo - Gli
anni Novanta
Il decennio
successivo parte
con i migliori
auspici e Neill è
scelto per
affiancare Sean
Connery nel
blockbuster Caccia a Ottobre Rosso. Nello stesso anno è
protagonista nella black comedy Death in Brunswick e poi,
l’anno successivo, il 1991, è co-protagonista di Fino alla fine
del mondo di Wim Wenders nel quale accompagna il film
anche come voce narrante. La sua interpretazione del
compagno della protagonista è, però, apprezzabile solo nella
versione completa del film, dove il ruolo di Neill assume tutta
una altra rilevanza in confronto alla versione tagliata che si è
vista troppo spesso sugli schermi. In questa versione
completa, il suo personaggio è il conduttore della storia, la
voce narrante
sempre presente
che guida lo
spettatore in
questa vicenda
sospesa tra la sci-fi
e la poesia. Dopo
aver ritrovato Judy
Davis in One Against the Wind e aver lavorato con il grande
John Carpenter in Avventure di un uomo invisibile, arriva il
suo anno d’oro, il 1993. In questo anno escono ben cinque film
che lo vedono protagonista: Affondate il Rainbow Warrior, tv
movie sull’affondamento del veliero di Greenpeace, Sirene,
film sulla controversa figura dell’artista Australiano Norman
Lindsay, il bellissimo tv movie Foto di famiglia, nel quale al
fianco di Anjelica Huston interpreta il padre di un bambino
autistico, e poi The Piano di Jane Campion, vincitore di tre
Oscar e della Palma d’Oro a Cannes (ritirata proprio dallo
stesso Neill) e Jurassic Park di Steven Spielberg. Una
cinquina notevole che mescola generi e forme diverse,
portando Sam Neill alla notorietà mondiale grazie,
soprattutto, ai dinosauri di Spielberg.
Nel film della Campion, affronta nuovamente un ruolo
complicato, con un uomo che - come dichiara la regista - non
è il classico cattivo a tutto tondo. Neill deve interpretare il non
In The Piano del 1993
99
facile ruolo di un uomo represso e insicuro in una società
estremamente maschilista, deve affrontare la forza e la
determinazione della moglie (Holly Hunter) che lo tradisce
con il selvaggio Baines (Harvey Keitel). La sua recitazione qui
è estremamente misurata e controllata fino alla sequenza più
famosa del film, il taglio del dito della moglie, una scena che
esplode con una violenza assurda e devastante. La scena - ha
dichiarato Neill - è costata una fatica immensa alla coppia con
la Hunter, piccola anche di costituzione rispetto a Neill stesso,
che lascia impressionati per la sua forza, e che ha costretto i
due attori ad arrivare stremati alla fine della scena. Il suo
personaggio finirà folle e sconfitto, lasciando alla moglie la
libertà di una nuova vita.
In Jurassic Park il ruolo è più semplice anche se essere
all’interno di un blockbuster simile non è mai cosa facile. Neill
qui propone il personaggio dell’eroe per caso, lo studioso
abituato a scavare fossili nel deserto che, suo malgrado, si
trova faccia a faccia con veri dinosauri; un sogno e un incubo
allo stesso tempo. La sua interpretazione è convincente poiché
rifugge dall’eroe macho e maschilista per proporre una
versione paterna - per la maggior parte del film è sullo
schermo con i due bambini della storia - dell’uomo in lotta
contro la natura. Gli anni Novanta sono solo agli inizi e
chiunque avrebbe approfittato di questi successi per
incanalarsi su un percorso fatto di facili successi. Eppure
Neill, non amante della fama e dell’invasione della privacy che
ne segue, effettua scelte molto poco mainstream, come la
versione Australiana di Zio Vanya di Anton Čechov (Vita di
campagna), ancora Carpenter ma questa volta da assoluto
protagonista in uno dei film più suggestivi del maestro
dell’horror (Il seme della follia), di nuovo in Australia e per la
terza volta accanto a Judy Davis (Figli della rivoluzione), poi
per la prima volta nello spazio (Punto di non ritorno), Mago
Merlino nell’omonima serie di grande successo, per ben due
volte partner di Kristin Scott Thomas (L’uomo che
sussurrava ai cavalli e Amori e vendette) ma, a
100
dimostrazione del suo rapporto con la notorietà, quello che
indica come punto massimo della sua carriera è l’aver
doppiato un personaggio de I Simpsons.
Nel film di Carpenter regge quasi solo sulle sue spalle la storia
metariflessiva di un investigatore privato che deve scovare
uno scrittore horror di successo sparito alla vigilia dell’uscita
del suo nuovo libro. Inizia una discesa all’inferno dove la
finzione del libro si mescola alla realtà, dove il protagonista,
inizialmente scettico, dovrà ricredersi sull’esistenza di mostri
e fantasmi che scaturiscono dalla nostra stessa mente. Anche
in questo caso il suo personaggio finirà per giungere alla follia,
un tratto che sta diventando caratteristico delle sue
interpretazioni poiché anche in Punto di non ritorno il suo
personaggio perderà presto la sanità mentale. Molto diversi,
invece, i ruoli accanto alla Thomas, dove in entrambi i casi si
presenta come amante romantico e gentile, così come sarà
anche nel ruolo del dottor Askey in Vita di Campagna dove
tenta di sedurre la bella Greta Scacchi. Originale il ruolo in
Figli della Rivoluzione dove, ancora una volta al fianco di
Judy Davis, viene raccontata la morte di Stalin da un punto di
vista inusuale. Qui è una spia pronta a cambiare bandiera ad
ogni svolta politica ma che vacilla nelle sue certezze quando il
personaggio della Davis uccide per caso Stalin dopo aver fatto
sesso con lui, finisce a letto anche con il personaggio di Neill e
resta incinta, lasciando il dubbio su chi sia il vero padre del
figlio. Il film è una divertente commedia e rientra nella
categoria “film invisibili” che invece meriterebbero maggiore
distribuzione.
Questo decennio rappresenta l’apice della sua carriera, con
l’anno 1993 difficilmente superabile e, in generale, una
carriera fin qui sviluppata in maniera ineccepibile,
mescolando qualità e quantità.
Una carriera lunga e tranquilla - Gli anni Duemila
Ormai Sam
Neill è un
nome
affermato,
conosciuto
dal pubblico e
amato dalla
critica. Anche
se in più
occasioni l’attore ha dichiarato di non avere una strategia
precisa nelle scelte professionali effettuate, il risultato è un
volto che non rimane intrappolato in un personaggio o in una
caratterizzazione ben definita. Nel nuovo decennio si segnala
l’originale commedia Australiana The Dish, che narra lo
sbarco sulla Luna da una prospettiva originale, un film
divertente e malinconico dove Sam interpreta la parte di uno
scienziato al comando di una grande parabola, l’unica in
grado di trasmettere il segnale dello sbarco lunare. Nel 2001
riprende il personaggio di Alan Grant in Jurassic Park III ma,
nello stesso anno, è anche in The Zookeeper, struggente
racconto della nell’Europa dell’Est. Qui è un uomo solo e
ferito che trova una nuova prospettiva di vita al fianco di una
donna e di suo figlio in fuga dagli orrori della Guerra. Anche
101
qui la sua
interpretazione
è estremamente
moderata e
controllata, in
linea con la
costruzione del
personaggio
abituato alla
solitudine e che, nel momento in cui decide di aprirsi alla
speranza, va inevitabilmente incontro al dolore. Nel 2003
torna a lavorare in Nuova Zelanda con Perfect Stranger dove
è nuovamente un folle seduttore che prima conquista una
donna per poi segregarla in una casa su un’isola disabitata.
Anche qui tra follia, seduzione e romanticismo, il suo
personaggio non passa inosservato. L’anno successivo, torna
anche alla regia con il film The Brush Off, nove anni dopo il
documentario sul cinema della Nuova Zelanda Cinema of
Unease. Nel 2004 è diretto ancora da una donna, Sally Potter,
in Yes, mentre nel 2006 recita accanto a Susan Sarandon nel
thriller Le verità
negate. Nel
2007 è nella
serie tv I Tudors
dove nella prima
stagione
interpreta la
controversa
figura del
Cardinale Thomas Wosley, e nel 2008 in Dean Spanley
accanto alla leggenda Peter O’Toole che aveva già incrociato in
diversi film senza averne condiviso alcuna scena. Questo
bellissimo e quasi invisibile film, è una malinconica riflessione
sulla vecchiaia, con Sam Neill nei panni di un uomo che ha
ricordi di una vita precedente nella quale era un cane. Nel
2009 è un vampiro senza scrupoli in Daybreakers dove recita
accanto al suo amico Willem Defoe.
Vampiro spietato in The Daybreakers
La migrazione verso il piccolo schermo - Gli anni
contemporanei
In questi ultimi anni, come molti suoi colleghi, Sam Neill si
muove con più convinzione verso il piccolo schermo che ha
ormai raggiunto livelli qualitativi elevati e offre opportunità
spesso assenti nel cinema. A cavallo del decennio è tra i
protagonisti della serie Crusoe della NBC, poi in Happy Town
della ABC e in Alcatraz della Fox creata dal golden boy
J.J.Abrams. Il cinema non è, ovviamente, abbandonato e lo
vediamo ancora accanto a Defoe in The Hunter ambientato in
102
Gerard Depardieu. Il tutto in attesa di sapere chi farà parte del
cast di Jurassic Park IV annunciato da Spielberg per il 2014.
Analisi di una carriera
Tasmania e nel successo commerciale La memoria del cuore.
In questi ultimi mesi è co-protagonista di due miniserie nelle
quali interpreta due poliziotti piuttosto lontani tra loro: la
miniserie Neozelandese Harry e la britannica Peaky Blinders.
In arrivo a breve il tv-movie
Statunitense The Ordained
della CBS e la serie Australiana
Old School. Per il cinema sarà
invece in Escape Plan accanto a
Sylvester Stallone e Arnold
Schwarzenegger, nel fantasy
The Adventurer: The Curse of
the Midas Box e in A long way
down tratto dal romanzo di
Nick Horby ed è di questi giorni
la notizia che sarà João
Havelange sul film sulla FIFA
F2014 al fianco di Tim Roth e
Questa lunga carrellata ricca di nomi e titoli mostra solo in
parte la complessità di una carriera che si è mantenuta
sempre ai limiti della celebrità, riuscendo a sfuggire alla parte
più decadente dello showbusiness. Infatti, in tutti questi anni,
Sam Neill pur non nascondendosi e senza tirarsi indietro in
eventi pubblici e festival, non è mai stato oggetto di gossip di
alcun tipo. Nella vita privata, dopo una relazione con la
collega Neozelandese Lisa Harrow conosciuta sul set di The
Omen III e dalla quale ha un figlio, si sposa nel 1989 con la
make up artist Giapponese Noriko Watanabe, conosciuta sul
set Ore 10: calma piatta e insieme hanno una figlia. Inoltre, la
moglie ha già una altra figlia nata da una precedente
103
relazione. Questa famiglia allargata non viene mai tenuta
nascosta ma nemmeno ostentata per puro spirito di
esibizionismo. Il web è pieno di informazioni su Sam Neill e la
sua vita anche perché l’attore è molto attivo su Twitter e ha un
blog continuamente aggiornato e legato alla sua altra grande
passione, il vino. Infatti, l’attore è il fondatore della Two
Paddocks, azienda vinicola specializzata in Pinot Nero e
situata nella zona dell’Otago in Nuova Zelanda, Isola del Sud.
Attraverso il suo blog, i suoi tweets e i post su Facebook dalla
pagina dell’azienda, i fans possono seguire la sua vita privata e
pubblica, aggiornandosi su vita di set e cene con gli amici.
Una scelta intelligente dell’uso dei social network, che
consente all’attore di concedersi al pubblico ma, al contempo,
di non essere esposto in maniera voyeristica nelle sue uscite
pubbliche e private. Certo molto del merito è anche nella
scelta di avere una vita “normale” che rifugge da feste
all’ultima moda e frequentazioni ambigue per dedicarsi ad
una ristretta cerchia di amici e parenti. Infatti, spesso le news
che emergono trattano di cene con amici come Willem Dafoe,
Hugo Weaving o Bryan Brown, colleghi di set e di vita. E
comunque, questa esposizione controllata è fatta anche con
una grande dose di ironia: basti vedere i divertentissimi
Microdoodles presenti sul sito, dei mini film di pochi minuti
in cui l’attore espone se stesso nel privato, nella sua vigna con
il suo personale, per realizzare piccole storie tra il surreale e il
comico, come il Doodle Natalizio #9 con il casting per
interpretare un Presepe vivente. Tra questi brevi filmati e gli
interventi nel blog - tutti scritti da Sam Neill in persona emerge un attore che non vuole prendersi troppo sul serio,
che apprezza la sua vita professionale e personale, quella di un
attore che è stato ad un passo dall’essere James Bond, e non
ha mai rimpianto il fatto di non essere stato scelto per il ruolo.
Sam Neill nel provino per il ruolo di James Bond.
Curious Facts
Il vero nome di Sam Neill è Nigel. L’attore ha cambiato il
nome ai tempi della scuola in Nuova Zelanda poiché Nigel
suonava troppo britannico.
Anche se non è accreditato nelle filmografie più diffuse, Sam
Neill appare brevemente nel film per la tv Neozelandese The
city of No, nel 1971.
Sam Neill ha una voce particolarmente riconoscibile e
suadente. Spesso è stato impegnato in lavori di doppiaggio (Il
regno di Ga’Hoole, Il budino magico). Il suo accento a tratti è
104
fortemente britannico eppure in più occasioni gli sono state
assegnate parti di personaggi sovietici.
Proprio Il budino magico,
è tratto da un libro
dell’artista Norman
Lindsay che sarà
impersonato da Neill nel
film Sirene.
Nel film Punto di non
ritorno, ogni membro
dell’equipaggio ha la bandiera della propria Nazione così
come si immagina sia nel futuro. Sam Neill ha sulla sua divisa
la bandiera degli Aborigeni Australiani.
Il personaggio di Sidney Reilly, il protagonista della serie
Reilly: Ace of Spies del quale Neill è protagonista, si dice
abbia ispirato Ian Fleming nella creazione di James Bond,
personaggio per il quale Sam Neill è stato preso in
considerazione nel 1987 per The Living Daylight. La parte è
poi andata a Timothy Dalton.
Appassionato di arte e architettura, agli inizi della carriera
Sam Neill ha diretto un documentario sull’architetto
Neozelandese Ian Athfield.
Altra passione è la musica e nel 1993 è la voce narrante del
documentario Split Enz - Spellbound sul gruppo musicale
Split Enz.
Sam Neill è uno dei protagonisti del mockumentary di Peter
Jackson Forgotten Silver sulla figura del mitico regista
Neozelandese Colin McKenzie. Che non esiste.
Sam Neill è narratore, regista e produttore del documentario
sul cinema Neozelandese Cinema of Unease. Il film fa parte di
una più vasta produzione della BFI relativa alle
cinematografie internazionali. L’approccio di Neill è quello del
viaggio personale sui luoghi della sua infanzia. Il suo
documentario è stato quello che ha ottenuto maggiori
consensi, è stato proiettato al Festival del Cinema di Cannes e
nel 1996 ha visto il premio come miglior documentario ai Tv
Awards.
Suona l’ukulele.
L’unica sua regia, a parte
cortometraggi e
documentari, è nel 2004
per il tv movie The BrushOff in cui dirige il suo
amico David Wenham, con
in quale ha lavorato in diverse occasioni.
È soprannominato l’Harrison Ford del Pacifico.
Anche se agli inizi della carriera era stato suggerito per ruoli
principalmente di omosessuale, ha interpretato un
personaggio gay solo in Victory e poi un bisessuale in Little
Fish.
105
Possiede un locale a Sidney nella zona di Neutral Bay, The
Local Bar.
Vive a Queenstown, Nuova Zelanda, South Island.
Risorse
http://www.twopaddocks.com
http://www.samneillonline.com
http://wonderfulsamneill.freewebspace.com
http://www.imdb.com/name/nm0000554/
http://www.nzonscreen.com/person/sam-neill
http://aso.gov.au/people/Sam_Neill/
106
L IBRI
Cult Film Stardom. Offbeat Attractions and Processes of
Cultification a cura di Kate Egan e Sarah Thomas
Palgrave McMillan - London
2013 - Sito Ufficiale
Il recente volume a cura di
Kate Egan e Sarah Thomas
rappresenta una ampia
ricognizione sul tema della
celebrità dal punto di vista
dell’idea del cult.
La serie di saggi copre
argomenti apparentemente
molto lontani tra loro che,
però, sono accomunati con
l’idea della celebrità e del
suo utilizzo nella
costruzione del cult.
Il libro si apre con la connessione tra “cult” e “stardom” con
due saggi di Matt Hills e Sarah Thomas. Si prosegue con il
concetto di mainstream analizzando le figure di Bill Murray
(saggio di Jim Whalley) e Chloë Sevigny (saggio di Jamie
Sexton), due attori molto lontani tra loro per filmografia e
approccio alla notorietà. La seconda parte si chiude con un
saggio di Jason Scott che affronta il tema originale delle costars del franchise di Guerre Stellari.
107
Nella terza parte viene presa in considerazione la relazione tra
stardom, registi e recitazione. Justin Smith affronta un
mostro sacro come Vincent Price, Steve Rawle quella del
regista, produttore e sceneggiatore Hal Hartley, Ernest
Mathijs si confronta con una altra grande star come David
Cronenberg mentre James Lyons analizza il tema della
celebrità nell’ambito delle produzioni indipendenti.
Nella quarta parte il tema è dedicato all’identità con analisi su
Montgomery Clift (saggio di Karen McNally), Sylvia Kristel
(analisi di Leila Wimmer), Ingrid Pitt (analisi di Kate Egan) e
sulla star da Guinness Weng Weng (analisi di Iain Robert
Smith).
Il volume si chiude con due saggi scritti a quattro mani: Mark
Jancovich e Shane Brown analizzano la celebrità di Boris
Karloff e Bela Lugosi mentre Cynthia Baron e Mark Bernard
chiudono con una accurata analisi della celebrità delle star
femminile negli anni Sessanta.
Insomma ci troviamo tra le mani un volume vario che spazia
anche cronologicamente tra le star del cinema, mettendo
l’accento sulla costruzione dell’idea del cult tra identità e
identificazione. Contrapporre stardom e cult può anche
apparire rischioso poiché spesso i due termini non vanno di
pari passo, ma le scelte effettuate dalle curatrici del volume ci
propongono una ampia scelta di esempi che ci portano dentro
l’argomento in maniera accurata e originale.
Stardom Italian Style. Screen Performance and Personality
in Italian Cinema di Marcia Landy
Indiana University Press Bloomington &
Indianapolis 2008 - Sito
Ufficiale
Il volume di Marcia Landy,
Professore di Inglese e
Film Studies presso
l’università di Pittsburgh,
affronta il tema della
celebrità nel cinema
italiano.
Già in apertura, l’autrice
evidenzia uno dei problemi
della cinematografia in
Italia rispetto al tema della
celebrità: la televisione. Il piccolo schermo ha, infatti,
modificato il modo in cui la star viene percepita dal pubblico.
Se nel cinema del passato l’idea della star e la sua percezione
era più o meno simile in tutte le industrie occidentali, con il
passare del tempo, e dopo il cinema degli anni Sessanta così
ricco di volti e nomi (non a caso la cover è dedicata al volto di
Monica Vitti in L’Avventura), in Italia si è andati sempre più
decadendo a favore del cinema Hollywoodiano in una crisi
ormai infinita.
108
Nel cinema contemporaneo, anche se non mancano esempi di
star davanti e dietro la mdp, vedi il caso di Nanni Moretti o
Roberto Benigni, pochi volti hanno un appeal internazionale e
quasi nessuno è slegato dalla tv, intesa come produttore o
come mezzo per mettersi in mostra ed ottenere pubblicità.
Landy mette anche molto in risalto, nella seconda parte del
libro, il caso “Berlusconi” e la sua influenza sul sistema
mediatico italiano con tutti i problemi conseguenti.
Il volume segue un andamento cronologico e affronta tutti i
nomi di maggiore e minore rilievo nel cinema italiano.
Essendo il volume del 2008 sarebbe interessante avere un
aggiornamento a breve ma, comunque, le conclusioni della
Landy sono tuttora valide.
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Autori
Barbara Maio
è Dottore di Ricerca in Cinema e Televisione (Università Roma 3, 2006). Ha pubblicato ampiamente sul cinema di genere, le serie tv (specialmente
statunitensi e britanniche), il design nel cinema, l’estetica dei nuovi media. Fondatore e caporedattore della rivista Ol3Media. La sua ultima
pubblicazione è Cult Tv (Rigel Edizioni 2013) disponibile free-online qui. È curatrice del progetto Osservatorio Tv, il cui primo volume è disponibile
free-online qui.
Alberto Beltrame
è un dottorando dell'Università degli Studi di Udine: Studi audiovisivi, cinema, musica e comunicazione. Presso la stessa Università (in partnership
con l'Université Paris III), nel 2012 ha conseguito la laurea magistrale internazionale con una tesi dal titolo “Politique de l'auteur-peuple. Il cinema
(popolare) italiano e la critica francese degli anni Cinquanta”. Redattore della rivista di studi accademici Cinergie. Il cinema e le altre arti, si occupa
in particolare di critica cinematografica, teoria dell'autore e sociologia del cinema.
Patricia Boyd
is an Associate Professor of Rhetoric and Composition in the English Department at Arizona State University, Tempe, Arizona. Her research
interests include feminism and writing, new media studies, and rhetorical studies. Some of her recent publications include articles such as “Talking
Books, Talking Identity: Analysis of a Book Discussion Board at www.weightwatchers.com,” and “Pulling the Difference: Re-envisioning Journals’
Negotiations of New Media Scholarship.”
Jeff Bush
is a recent PhD graduate from the University of Liverpool where he was the John Lennon Memorial Scholar in 2007 and 2008. He has presented at
conferences at the Universities of Liverpool, Odense and St. Andrews. His research interests are interdisciplinary and are specifically concerned with
the areas where phenomenology, psychoanalysis and literature meet. He has further interests in film and queer theory and has recently published on
the film Brokeback Mountain and E.M. Forster’s seminal novel Maurice.
Chiara Checcaglini
è dottoranda in Sociologia della Comunicazione e Scienze dello Spettacolo presso l’Università di Urbino, con un progetto sulla critica della serialità
televisiva in Italia. Laureata in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale a Bologna, è responsabile della sezione Serie Tv sui siti Cinema
Errante e Mediacritica, sui quali scrive anche di cinema, fumetti e new media. Collabora inoltre con Serialmente, sito di articoli e recensioni di serie
televisive.
cx
Clara Garavelli
is a research scholar at Universidad Autónoma de Madrid (Spain), where she finished her PhD on Contemporary Argentine Experimental Video. She
received her BA at Birkbeck College (London, UK) and her MPhil at the University of Cambridge (UK). Her research interests include Latin American
cinema and video, the limits of the moving image and issues related to Visual Culture and Cultural Studies. Since 2007, she has been working as a
lecturer, researcher and editorial board member of the Spanish Film Journal Secuencias. Revista de Historia del Cine (UAM-Maia Ediciones).
Caterina Rossi
nata a Brescia nel 1983, laureata in Scienze della Comunicazione e Giornalismo ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in storia e critica del
cinema presso l’Università degli Studi di Verona, dove ora è cultore della materia. Nel 2011 ha pubblicato il volume monografico Nicole Kidman
(editore L’Epos, Palermo). Attualmente è docente di storia del cinema presso la Libera Accademia di Belle Arti (LABA) di Brescia. Il suo ambito di
ricerca riguarda lo studio dell’attore cinematografico e il rapporto tra cinema e arti visive.
Michael Angelo Tata
PhD, is the Executive Editor of the Sydney-based electronic journal of literature, art and new media nebu[lab] and a member of the editorial
collectives of the journals Kritikos and rhizomes. His Andy Warhol: Sublime Superficiality arrived to critical acclaim from Intertheory Press in
2010. His lyric essays on poetics, psychoanalysis and philosophy appear most recently in the collections The Salt Companion to Charles Bernstein
and Neurology and Modernity: A Cultural History of Nervous Systems, 1800-1950 as well as the British journal Parallax (Routledge). His poetry
and graffiti are featured in the British journal Rattle and in the American journal Xanadu. He also writes reviews of contemporary Aesthetics titles
for Temple University’s and Mount Holyoke College’s Journal of Aesthetics and Art Criticism.
Miriam Visalli
è Dottore di Ricerca in Discipline del Cinema (Università di Torino, 2006). Durante il post doc ha svolto attività didattica nell'ambito dei corsi di
"Semiotica del Racconto Audiovisivo" e "Forme e Generi dello Spettacolo Radiotelevisivo". Svolge attualmente attività di ricerca nell'ambito degli
studi culturali e visuali applicati al cinema e all'audiovisivo. Collabora alla didattica del corso di "Semiologia del Film" presso il corso di laurea
magistrale in Cinema e Nuovi Media dell'Università di Torino. Recentemente ha scritto di police procedural, Once Upon a Time e Person of Interest.
cxi