Gazzetta Forense n. 2 del 2009

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Gazzetta Forense n. 2 del 2009
Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 3 – Marzo-Aprile 2009
direttore responsabile
Roberto Dante Cogliandro
comitato di direzione
Almerina bove
Corrado d'ambrosio
Alessandro jazzetti
redazione
capo redattore
Sergio Carlino
redazione gazzetta forense
Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo,
Imma Monteforte, Caterina VAlia
editore
Denaro Libri Srl Piazza dei Martiri, 58 – 80121 Napoli
proprietario
Associazione: Nemo plus iuris
comitato di redazione
Andrea Alberico
Antonio ArdituRO
Clelia Buccico
Carlo Buonauro
Sergio Carlino
Raffaele Cantone
Domenico De Carlo
Mario de Bellis
Andrea Dello Russo
Catello MARESCA
Daniele Marrama
Maria Pia Nastri
Donato PALMIERI
Patrizia Parisi
Giuseppe Pedersoli
Angelo Pignatelli
Ermanno Restucci
Francesco Romanelli
Raffaele Rossi
Angelo Scala
Mariano Valente
comitato scientifico
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Giuseppe Ferraro
Gennaro MARASCA
Aniello PALUMBO
Antonio Panico
Giuseppe Riccio
Giuseppe Tesauro
Renato Vuosi
n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
stampa
Cangiano Grafica – Napoli
so m m a r i o
editoriale
Il primo anno di vita della Gazzetta Forense
9
Roberto Dante Cogliandro
Avvocato
la previdenza forense
Diminuite le sanzioni per l’omesso invio del mod. 5
13
Immacolata Troianiello
Avvocato e Delegata Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Forense
diritto e procedura civile
Nuova (e più restrittiva) disciplina
in tema di rilevabilità del difetto di giurisdizione
17
Florindo Minichiello
Pres. agg. on. Corte di Cassazione
Il potere di azione, di intervento e di impugnazione
del p.m. in sede civile. Ambito di operatività e limiti
20
Antonella Serpico
Avvocato
L’amministrazione di sostegno
Luisa Errico
Avvocato e Presidente Ass.ne Centro Studi Diritto degli Affetti
– Coordinatrice Commissione Minori Tribunale di Napoli
23
diritto e procedura penale
Il ciclo dei rifiuti e la criminalità organizzata
33
Antonio Ardituro
Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli Direzione Distrettuale Antimafia
La rilevanza penale dell’attività sportiva: considerazioni
dommatiche per una corretta ricostruzione
nella sistematica delle scriminanti
49
Andrea Alberico
Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Coltivazione di stupefacenti e valutazione dell’offensività 63
concreta della condotta
Nota a Cass. Pen., Sez. IV, 14 gennaio 2009, n. 1222
Valeria Parlato
Dottore in giurisprudenza e specializzata
presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “Federico II”
Rassegna di legittimità
66
Andrea Alberico
Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
Rassegna di merito
Giuseppina Marotta
Avvocato
Alessandro Jazzetti
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
71
diritto amministrativo
Divieto di rinnovo tacito, nel codice dei contratti pubblici 79
Avv. Gaetana Marena
Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo
Il rilascio del permesso di costruire in mancanza
del prescritto piano attuativo
85
Filippo Cifarelli
Avvocato
Il codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 94
(D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania
diritto tributario
I nuovi strumenti deflattivi del contenzioso 101
e le conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso
Clelia Buccico
Ricercatore, Professore aggregato di Diritto Tributario
presso Seconda Università degli Studi di Napoli
L’impugnabilità del provvedimento di diniego
di autotutela alla luce delle più recenti pronunce
di legittimità
115
Fiorella Feola
Funzionario dell’Agenzia delle Entrate – Dottorando di ricerca in Diritto Tributario
– Facoltà di Economia – Seconda Università degli Studi di Napoli
La tutela del contribuente avverso i provvedimenti
emessi durante l’istruttoria fiscale: l’impugnabilità
degli ordini di verifica
A cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
121
diritto internazionale
La giurisprudenza delle Corti di Common law
133
in tema di cessazione dei trattamenti medici salvavita
in pazienti in stato vegetativo persistente
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea
Osservatorio di giurisprudenza internazionale
139
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea
questioni
A cura di Mariano Valente
Avvocato
DIRITTO CIVILE
Locazione
145
di Luca Bavoso
Avvocato
PROCEDURA PENALE
Esercizio dell’azione penale
146
di Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università di Napoli “Federico II”
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Autorizzazione commerciale e condono edilizio
di Alessandro Barbieri
Avvocato
148
recensioni
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti
Un nuovo procedimento concorsuale di Elena Frascaroli Santi,
Padova, 2009
155
A cura di Corrado d’Ambrosio
Giudice
novità legislative
Legge 28 gennaio 2009, n. 2
145
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●
La tanto attesa
riforma dell’avvocatura
● Roberto Dante Cogliandro
Avvocato
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9
La sempre e da più parti auspicata riforma organica
dell’avvocatura sembra ormai giunta in dirittura d’arrivo. Infatti, agli inizi di aprile un convegno organizzato
da più sigle associazionistiche che riuniscono l’avvocatura Italiana e dal Consiglio Nazionale Forense ha licenziato un nuovo testo organico e dai più condiviso di riorganizzazione della figura dell’avvocato.
In particolare, e sono questi i punti su cui ci si vuole
soffermare in queste brevi riflessioni, si prevede la reintroduzione dei minimi tariffari e la reimpostazione
dell’eccesso alle professioni.
Quanto a quest’ultimo punto si prevede l’inasprimento
dell’eccesso con esami annuali presso le rispettive Corti
d’Appello senza però più procedere al cosiddetto incrocio
delle correzioni, bensì con la nomina di commissioni e
commissari esterni presso ciascuna Corte d’Appello.
L’obiettivo è quello di evitare spese inutili nel trasporto dei compiti da una città all’altra ed invece l’utilizzo di
una parte di tali risorse per remunerare adeguatamente
il lavoro di commissari esterni che volontariamente impiegano mesi per la correzione degli elaborati.
In tal modo si raccolgono le istanze da più parti arrivate e dette circa l’inutilità (se non solo formale e di
facciata) di una correzione incrociata tra le varie Corti
d’Appello, che ha portato spesso a delle valutazioni improntate a mere ottiche di percentuali di politica dell’avvocatura e non invece ad una meritocratica ed attenta
correzione degli elaborati svolti dai candidati.
Questo prima impronta di unità dell’intera avvocatura su una questione cosi importante (l’accesso alla
professione) è certamente un segnale tangibile che il
comitato ristretto costituito al Senato dovrà in tempi
brevi accogliere e licenziare per la deliberazione finale
dell’aula di Palazzo Madama.
Quanto invece al ripristino dei minimi e dei massimi
tariffari sembra questo un punto su cui, dopo anni di
mortificazioni subite dai legali ad opera degli enti che
spesso in una mera contrattazione di mercato imponevano ed impongono le loro condizioni e le proprie tariffe a dir poco mortificanti, si torna indietro con una riforma che tutti auspicano.
L’effetto Bersani è stato negli anni dirompente e
squalificante, oltre a creare una massificazione e commercializzazione della professione forense priva di ogni
significato e finalità. E’ giusto ed è ora che si torni indietro e non si equiparino più le professioni ed in particolare quella legale ad una mera attività di bottegaio dove
spesso la parte forte la fa il cliente.
L’azzeramento dei minimi tariffari aveva, soprattutto
nei grossi distretti giudiziari, dove il numero degli avvocati è elevato, comportato una mortificazione della
professione legale, spesso relegata ad una mera prestazione materiale al servizio dell’ente o della società che
imponeva il prezzo della prestazione d’opera intellettuale che necessitavano.
Cosa assurda se si pensa al prestigio e al vanto acqui-
Gazzetta
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e d i t o r i a l e
sito nei secoli dall’avvocatura e dai suoi esempi per
l’intero paese.
E’ giunto il momento in cui le professioni riprendano
la loro dignità ed onorabilità, al cospetto di un mercato
10
il cui eccessivo liberismo non è poi sempre premiante.
La storia e la recente crisi americana ci hanno insegnato tante cose di cui non ci resta che trarne esempio
e porre in essere i giusti e dovuti rimedi.
l a PRE V IDE N ZA F ORE N S E
Diminuite le sanzioni per l’omesso invio del mod. 5
Immacolata Troianiello
Avvocato e Delegata Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Forense
13
Gazzetta
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●
Diminuite le sanzioni
per l’omesso invio
del modello 5
● Immacolata Troianiello
Avvocato e Delegata Cassa Nazionale Previdenza
ed Assistenza Forense
M a r z o • a p r i l e
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13
L’Avvocato, iscritto all’Albo, è obbligato, per ciò
stesso, ad inviare il MOD. 5 alla Cassa Nazionale di
previdenza ed Assistenza Avvocati.
L’ obbligo dell’invio sussiste per tutti gli avvocati
iscritti all’Albo ancor prima che gli stessi s’iscrivino alla
Cassa Avvocati.
Tale obbligo sussiste anche nel caso in cui non sia
stato prodotto reddito, ovvero nel caso in cui il reddito
professionale ammonti a zero per l’anno di riferimento.
La sanzione, per il mancato invio, è stabilita, nell’articolato, vigente ancora solo per l’anno in corso, in una
somma pari al contributo integrativo minimo previsto
per l’anno solare in cui la comunicazione doveva essere
inviata.
Ma la riforma previdenziale approvata nella seduta
del 17 marzo 2006, ha introdotto modifiche significative nel versamento dei contributi.
Necessitava svincolare la sanzione dall’importo del
contributo integrativo minimo, per ragioni di equità.
Preso atto di ciò, il Comitato ha ritenuto di procedere alla modifica della sanzione, apportando un sostanziale cambiamento alla stessa, ovvero predeterminandone l’importo tanto da renderla certa e non più soggetta
alle variazioni legate al volume d’affari.
L’importo della sanzione veniva determinato in euro
380,00 nell’ipotesi più gravosa.
La collega Anna Alberti, in primis, era promotrice
della modifica, riscuotendo il consenso di gran parte dei
delegati.
Il lasso di tempo intercorso per il ravvedimento, è
sempre stato utilizzato come criterio per determinare la
gradualità della sanzione comminata all’avvocato inadempiente.
Nella pregressa formulazione, per i primi trenta giorni di ritardo, era prevista una sanzione pecuniaria del
25%, per i successivi sessanta giorni di ritardo, una
sanzione al 50% dell’intero contributo integrativo; proponevo una modifica per ampliare il tempo in cui si può
verificare il c.d. ravvedimento operoso”.
Ho ritenuto che, qualora il professionista, ancorché
inadempiente alla data del 31 dicembre dell’ anno di
riferimento, rilevi tale stato prima della formale contestazione da parte della Cassa, ma, come detto, dopo lo
scadere dell’anno solare in cui è maturata l’omissione, la
sanzione debba essere applicata in misura ridotta rispetto al massimo previsto.
Insieme ai colleghi Lucia Taormina e Giulio Nevi,
rielaboravamo il testo definitivo della modifica alla norma, che il Comitato dei delegati approvava alla quasi
unanimità con un solo voto contrario.
L’emendamento ha così definitivamente modificato il
regime sanzionatorio:
L’omissione o l’invio di una comunicazione non conforme al vero, comporta per questo solo fatto l’obbligo
di versare alla Cassa a titolo di sanzione, una somma
pari ad euro 380,00.
Gazzetta
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PRE V IDE N ZA
La sanzione di cui al primo comma è ridotta a:
€ 95,00. se la comunicazione o la rettifica di quella non
conforme al vero, viene inviata con un ritardo non superiore a trenta giorni dalla scadenza nel termine previsto.
€ 190,00.se la comunicazione o la rettifica di quella non
conforme al vero, viene inviata entro il 31 dicembre dell’anno solare previsto per l’invio.
€ 250,00 se la comunicazione o la rettifica di quella non
conforme al vero viene inviata successivamente al 31 dicembre dell’anno solare previsto per l’invio e prima del ricevimento della formale contestazione da parte della Cassa.
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Resta la severa sanzione per chi effettua una comunicazione non conforme al vero oppure ometta sino alla formale sanzione della Cassa, l’invio del MOD, 5. In queste due
ipotesi la sanzione ammonta ad € 380,00.
Confermato il particolare favor previsto per i giovani
avvocati iscritti per il primo anno all’Albo: il professionista,
pur avendo l’obbligo dell’invio, qualora ometta, non incorre
per quel solo anno, nelle descritte sanzioni.
Pia ce sottolineare che l’elaborazione e la stesura
dell’emendamento proviene da tre (su cinque) delegatedonna presenti nel Comitato.
diritto e procedura
Civile
Nuova (e più restrittiva) disciplina
in tema di rilevabilità del difetto di giurisdizione
17
Florindo Minichiello
Pres. agg. on. Corte di Cassazione
Il potere di azione, di intervento e di impugnazione
del p.m. in sede civile. Ambito di operatività e limiti
20
Antonella Serpico
Avvocato
L’amministrazione di sostegno
23
Luisa Errico
Avvocato e Presidente Ass.ne Centro Studi Diritto degli Affetti
– Coordinatrice Commissione Minori Tribunale di Napoli
Il riconoscimento del diritto a non essere curati
Stefania Mauro
Dottore in giurisprudenza
28
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●
Nuova (e più restrittiva)
disciplina in tema
di rilevabilità del difetto
di giurisdizione
● Florindo Minichiello
Pres. agg. on. Corte di Cassazione
g e nn a i o • f e b b r a i o
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17
Il primo (ante abrogazione del secondo ad opera
dell’art. 73 della Legge 31 maggio 1995 n. 218) ed ora
unico comma dell’art. 37 c.p.c., il quale dispone che “il
difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali
è rilevato, anche d’ufficio, in qualunque stato e grado del
processo”, è stato costantemente interpretato – fino alla
pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione
n. 24883 del 9 ottobre 2008 (che ha spinto alla redazione di questa breve nota) – nel senso che:
a) il difetto di giurisdizione può essere fatto valere, o
rilevato d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo, e quindi pure in appello e in sede di legittimità (operando in tal caso la Corte, come in ogni ipotesi di verifica di un error in procedendo, quale giudice di fatto).
La possibilità di dedurre, o rilevare d’ufficio, tale
difetto trova il suo limite naturale nel giudicato, il quale
può formarsi, oltre che a seguito di statuizione delle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione in sede di regolamento preventivo di giurisdizione o di ricorso ordinario per motivi a questa attinenti, per effetto di mancata
impugnazione dell’espressa statuizione sulla potestas
iudicandi del giudice adìto oppure, nel caso di sentenza
contenente più statuizioni e priva di una espressa pronuncia sulla giurisdizione, per non essere stata impugnata anche una sola di tali statuizioni, questa necessariamente presupponendo (giudicato interno implicito) la
giurisdizione dello stesso giudice (v. Cass. 3 marzo 1961
n. 456, 21 aprile 1975 n. 1517, 23 giugno 1983 n. 4295,
3 febbraio 1995 n. 1311, 8 agosto 2001 n. 10961, 14
aprile 2003 n. 5903, 12 luglio 2005 n. 14546, 28 marzo
2006 n. 7039, 19 ottobre 2006 n. 22427);
b) essendo la determinazione della giurisdizione sottratta alla disponibilità delle parti, il relativo difetto può
essere fatto valere anche da quella che nelle precedenti
fasi abbia, invece, sostenuto la competenza giurisdizionale del giudice adìto (Cass. 18 luglio 1961 n. 1749, 17
febbraio 1964 n. 347);
c) la deducibilità o rilevabilità ex officio del citato
difetto è consentita persino in sede di giudizio di rinvio
disposto da una sezione semplice della Corte, ancorché
in tale sede siano precluse tutte le questioni che avrebbero dovuto o potuto essere dedotte al giudice di legittimità o da questo rilevate d’ufficio, giacché in tale ipotesi il
giudicato implicito sulla giurisdizione è configurabile
solo se l’annullamento sia stato disposto dalle Sezioni
Unite, essendo queste (e non anche perciò una sezione
semplice della Corte) l’organo investito della funzione di
regolare la giurisdizione (Cass. 4 maggio 1963 n. 1104;
14 aprile 2003 n. 5903).
Alla stregua di tali princìpi è accaduto (o sarebbe
potuto accadere) che la tardività del rilievo del difetto di
giurisdizione, non importa se dovuta alla trascuratezza
o, addirittura, alla malafede di qualcuno dei soggetti del
processo (determinato a porre la questione secundum
eventum litis e cioè solo in caso di sua soccombenza nel
Gazzetta
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
merito), abbia comportato la vanificazione di intere
fasi di giudizio, sia di merito che di legittimità, dopo
anni di penosa e costosa attesa, costringendo la parte
interessata ad intraprendere ex novo una via diversa per
il soddisfacimento della propria pretesa.
Ciononostante – a parte forse un eccesso di formalismo ascrivibile alla negazione di preclusioni alla rilevabilità del difetto in ipotesi di rinvio disposto da una
sezione semplice anziché dalle SS. UU. della Corte (si
noti per incidens che l’art. 374, primo comma c.p.c.,
come sostituito dall’art. 8 del D. Lgs. 2 febbraio 2006
n.40, prevede ora la possibilità che il ricorso per motivi
attinenti alla giurisdizione sia assegnato ad una sezione
semplice se sulla questione da esso proposta si siano già
pronunciate le Sezioni Unite) –, la richiamata giurisprudenza è stata coerente con il dettato legislativo, statuente (con formula che non avrebbe potuto essere più
chiara) la rilevabilità del difetto di giurisdizione, “anche
d’ufficio, in qualunque stato e grado del processo”.
Anzi, l’affermazione della configurabilità di un giudicato implicito sulla giurisdizione in ipotesi di sentenza
parziale (non espressamente pronunciatasi sulla questione) e di mancata impugnazione di una statuizione
di merito, è già apparsa come una sorta di temperamento dell’assolutezza del precetto del primo comma
dell’art. 37 c.p.c., rimanendo in definitiva una forzatura logica il desumere una in realtà mai compiuta verifica positiva della giurisdizione dalla considerazione che
questa (concernendo questione pregiudiziale di rito)
avrebbe dovuto essere compiuta prima del passaggio
alla decisione del merito, nel rispetto della progressione
risultante dagli artt. 187, commi secondo e terzo, e 279,
comma secondo, c.p.c..
Questa consolidata architettura giurisprudenziale
ha subìto una sorta di scossa tellurica ad opera della
sopra citata sentenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione n. 24883 del 2008 (Pres. Carbone, Est.
Merone, P.M. Nardi conf.), la quale, secondo la (in verità piuttosto ampia) massimazione offertane dall’Ufficio del Massimario e del Ruolo, ha affermato che:
«L’interpretazione dell’art. 37 c.p.c., secondo cui il difetto di giurisdizione “è rilevato, anche d’ufficio, in
qualunque stato e grado del processo”, deve tener conto
dei principi di economia processuale e di ragionevole
durata del processo (“asse portante della nuova lettura
della norma”), della progressiva forte assimilazione
delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza
e dell’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come
espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività,
per la realizzazione del diritto della parte ad una valida
decisione nel merito in tempi ragionevoli. All’esito della
nuova interpretazione della predetta disposizione, volta
a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e
residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione
può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza
c i v i l e
18
del termine previsto dall’art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non
sia stata decisa in primo grado; 2) la sentenza di primo
grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto
non si sia formato il giudicato esplicito o implicito,
operando la relativa preclusione anche per il giudice di
legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il
difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si
sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel
merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della
giurisdizione, come nel caso in cui l’unico tema dibattuto sia stato quello relativo all’ammissibilità della domanda o quando dalla motivazione della sentenza risulti che l’evidenza di una soluzione abbia assorbito ogni
altra valutazione (ad es., per manifesta infondatezza
della pretesa) ed abbia indotto il giudice a decidere il
merito per saltum, non rispettando la progressione logica stabilita dal legislatore per la trattazione delle
questioni di rito rispetto a quelle di merito. (Nella specie, le Sezioni Unite hanno giudicato inammissibile
l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata per la
prima volta in sede di legittimità dalla parte che, soccombente nel merito in primo grado, aveva appellato la
sentenza del giudice tributario senza formulare alcuna
eccezione sulla giurisdizione, così ponendo in essere un
comportamento incompatibile con la volontà di eccepire il difetto di giurisdizione e prestando acquiescenza al
capo implicito sulla giurisdizione della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.)».
La sentenza, che si pone nel solco segnato da SS.UU.
22 febbraio 2007 n. 4109 (affermativa dell’operatività
del principio della translatio iudicii in ipotesi di processo erroneamente iniziato avanti a giudice privo di giurisdizione) ed è ampiamente e dottamente motivata,
desta qualche perplessità e non sembra poter sfuggire
a qualche minima osservazione critica.
È indubbio che la disciplina risultante dai princìpi
sopra riassunti ai numeri 1), 2), 3) e 4) abbia il pregio
di evitare l’increscioso risultato che l’emersione del difetto di giurisdizione del giudice adìto possa verificarsi
dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due
gradi di giudizio, o addirittura in sede di rinvio o di
ricorso avverso sentenza emessa in sede di rinvio, con
conseguente azzeramento dell’attività processuale già
svolta ed ulteriore differimento della prospettiva di
definizione della controversia; il che si tradurrebbe in
una minore effettività, se non addirittura in una vanificazione, della tutela giurisdizionale assicurata dagli
artt. 24 e 111 Cost.. È però discutibile la correttezza
logico-giuridica della via seguita per giungere a simile,
pur auspicabile, approdo, ribadito (e, in verità, sarebbe
Gazzetta
F O R E N S E
g e nn a i o • f e b b r a i o
stato “diabolico” pensare ad un ulteriore, e questa volta
ravvicinato, revirement delle Sezioni Unite) da successivi pronunciati (v. Cass. 20 novembre 2008 n. 27531 e
18 dicembre 2008 n. 29523, nonché, anche per ulteriori approfondimenti, Cass. 30 ottobre 2008 n. 26019).
La Suprema Corte afferma di fondare tale innovativa
disciplina su una diversa interpretazione dell’art. 37
c.p.c., che ritiene di dover “leggere” alla stregua dei
princìpi di economia processuale e di ragionevole durata del processo nonché alla stregua dell’avvenuta assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza e della concezione della giurisdizione non più
come espressione della sovranità statale ma come servizio da rendere alla collettività in termini di effettività e
tempestività. All’estensore di questa modesta nota pare,
invece, che il fulcro ed il reale novum della sentenza in
questione, rispetto alla precedente ed ultradecennale
giurisprudenza – secondo la quale, in sostanza, la rilevabilità del difetto di giurisdizione in ogni stato e grado
trova(va) limite nel giudicato interno, esplicito o implicito, formatosi sul punto –, consistano essenzialmente
nell’ampliamento del concetto di giudicato implicito
(non più limitato all’ipotesi della mancata impugnazione
di una statuizione di merito non preceduta da una espressa verifica della giurisdizione ma configurato anche nel
caso d’impugnazione concernente solo il merito della
sentenza rimasta “muta” sulla giurisdizione), sulla base
dell’assunto che, poiché qualsiasi decisione di merito
implica la preventiva verifica della giurisdizione, tale
verifica è stata necessariamente compiuta, nonostante la
mancanza di un espresso esame della questione, dalla
sentenza che decide il merito, in quanto “il giudice che
decide il merito ha anche già deciso di poter decidere”.
Pertanto, poiché la riduzione della portata precettiva
dell’art. 37 (nel suo già primo ed ora unico comma) c.p.c.
deriva, in realtà, solo dalla creazione di una nuova ipotesi di giudicato implicito, non spingendosi la Suprema
Corte a “leggere” tale norma nel senso di ravvisarvi una
preclusione alla rilevabilità del difetto di giurisdizione
(in sede d’impugnazione) anche in mancanza di giudicato, il riferimento della sentenza annotata ad una interpretazione della stessa norma in senso restrittivo (plus
dixit quam voluit) sembra svelare, in definitiva, una
sorta di contraddizione inespressa o, almeno, un dubbio
sulla bontà dell’affermazione che la pronuncia di merito
implichi necessariamente la delibazione della giurisdizione. Affermazione, questa, che è suggestiva ma contraria alla logica ed alla comune esperienza, vero essendo, invece, che il giudice che decide il merito ha deciso
soltanto di decidere, attesa addirittura la configurabilità,
ancorché eccezionalmente, dell’ipotesi di un giudice che
decida il merito nonostante la consapevolezza della sua
carenza di giurisdizione.
Ed a tale riguardo si ribadisce che già il principio
affermato dalla “vecchia” giurisprudenza, che escludeva
la rilevabilità del difetto di giurisdizione per effetto del
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19
giudicato implicito nell’ipotesi di mancata impugnazione di una delle statuizioni di merito di una sentenza non
espressamente pronunciatasi sulla giurisdizione, appariva una sorta di forzatura logico-giuridica, ancorché
comprensibile siccome vòlta a temperare l’assolutezza
della norma sopra menzionata.
Né va taciuto che alquanto incerta e problematica, e
non scevra da rischi di valutazioni meramente soggettive, è l’identificazione in concreto – a fronte del caso
(considerato “normale”) di pronuncia di merito implicante la verifica della giurisdizione – dell’ipotesi della
motivazione tale da manifestare con evidenza che il
giudice abbia deciso il merito per saltum senza dare
precedenza alla questione della potestas iudicandi.
Infine, riposi il nuovo arresto giurisprudenziale su
una diversa interpretazione del citato art. 37 o degli
articoli 324 e 329 c.p.c., non può non osservarsi che – in
mancanza di interventi legislativi al riguardo – il principio della ragionevole durata del processo (art. 111,
secondo comma, Cost.), dalla sentenza in esame considerato quasi come una sorta di deus ex machina idoneo
a capovolgere una giurisprudenza pluridecennale ed
anche posteriore all’introduzione del principio stesso
(avvenuta con legge costituzionale n. 2 del 1999), avrebbe potuto essere utilizzato, più che come criterio interpretativo, come parametro per una verifica di legittimità costituzionale della disciplina processuale, da rimettere doverosamente al Giudice delle leggi, senza l’utilizzo della via interpretativa, certo più breve ma forse non
percorribile se non a rischio di una qualche confusione
di ruoli. Sotto questo profilo, anzi, non può non stupire
che le Sezioni Unite, ritenendo di poter pervenire ad una
radicale riduzione dell’area di operatività dell’art. 37
c.p.c. de iure condito, mediante l’ulteriore valorizzazione dei princìpi della ragionevole durata del processo e
dell’assimilazione delle questioni di giurisdizione a quelle di competenza, già posti a base della sentenza n.4109
del 22 febbraio 2007 in tema di translatio iudicii, e richiamando le considerazioni svolte in ordine agli artt.
24 e 111 Cost. nella sentenza della Corte Costituzionale n. 77 del 12 marzo 2007 (dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 30 della legge 6 maggio 1971
n. 1034 “nella parte in cui non prevede che gli effetti,
sostanziali e processuali, della domanda proposta a
giudice amministrativo privo di giurisdizione si conservino, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel
processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione”), abbiano invece ignorato il (non secondario)
passaggio in cui tale pronuncia afferma di non condividere la tesi, svolta nella citata sentenza della Cassazione
n. 4109 del 2007, circa la non necessità di interventi
costituzionali per pervenire all’ammissibilità della riassunzione del processo davanti al giudice (ordinario o
speciale) munito di giurisdizione anche nel caso di sentenza di giudice di merito che abbia declinato la giurisdizione.
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●
Il potere di azione,
di intervento
e di impugnazione
del p.m. in sede civile.
Ambito di operatività
e limiti
● Antonella Serpico
Avvocato
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Premessa
Con la sentenza del 11.11.2008, estensore Dott. Morelli, la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal Procuratore
Generale presso la Corte di Milano avverso il decreto
della Corte d’Appello di Milano, I civile, depositato il
09/07/2008.1
La Suprema Corte ha accolto l’eccezione pregiudiziale di carenza di legittimazione sollevata dalla controparte nei confronti del Procuratore Generale stabilendo infatti che “diversamente dal processo penale in cui al P.M.
è attribuita la titolarità della correlativa azione nell’interesse dello Stato – nel processo civile, che è processo
privato di parti, la presenza del P.M. ha carattere eccezionale, perché derogatoria del potere dispositivo delle
parti stesse, risultando normativamente prevista solo in
ipotesi peculiari di controversie coinvolgenti anche un
interesse pubblico”.
1. L’azione
“Il pubblico ministero esercita l’azione civile nei casi
stabiliti dalla legge”2. La legittimazione processuale del
pubblico ministero ha carattere straordinario e quindi
l’azione è esercitabile solo nei casi espressamente previsti
dalla legge. Tra questi è da segnalare il procedimento di
apposizione dei sigilli al patrimonio ereditario in determinati casi 3, la nomina del curatore dello scomparso4,
la denuncia al tribunale per le irregolarità in gestioni
sociali 5, l’istanza per la nomina di un curatore speciale6,
per l’interdizione o l’inabilitazione7, la dichiarazione di
fallimento e altre azioni tutte previste dalla legge. La
ratio della norma consiste nel sottrarre alla disponibilità
dei titolari la tutela di interessi di carattere generale. La
legge attribuisce, quindi, il potere di azione al P.M. in
casi in cui è particolarmente intenso l’interesse pubblico
verso la situazione sostanziale e la sua tutela, nel caso in
cui il titolare del diritto resti inerte o manchi del tutto.
Si tratta, quindi, di un compito istituzionale che se da
un lato è indipendente da ogni altro organo, resta comunque un adempimento di un tassativo obbligo che
l’ordinamento pone nei confronti del P.M. I poteri che
ha il P.M. nelle cause che può proporre sono identici a
quelli che spettano alle parti. L’unica differenza da segnalare sta nella circostanza che il P.M. non può essere
condannato al pagamento delle spese processuali in caso
1
2
3
4
5
6
7
Il provvedimento “accoglie il reclamo proposto dal Sig. B. E., quale
tutore di E.E. … e per l’effetto… accoglie l’istanza – conformemente
proposta da entrambi i legali rappresentanti di E. E. – di autorizzazione a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest’ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico”
Art. 69 c.p.c.
Art. 754 c.p.c.
Art. 48 c.c.
Art. 2409 c.c.
Art. 321 c.c.
Art. 417 c.c.
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di soccombenza, poiché agisce in adempimento di un
dovere imposto dalla legge, nell’interesse pubblico.
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4. La sentenza della Cassazione del 11 novembre 2008
Nella sentenza in commento il P.G. di Milano si è
qualificato come “interventore necessario”, con impli-
cito riferimento appunto alle cause sullo “stato e capacità delle persone” di cui al comma primo, n. 3, dell’art.
70 c.p.c.
Tale definizione è stata giustamente contestata dalla
difesa di B. E. sul presupposto che le questioni di stato e
capacità delle persone sono esclusivamente quelle riguardanti la “posizione soggettiva dell’individuo come cittadino o nell’ambito della comunità civile o familiare” e
non, invece, le questioni attinenti ad ulteriori diritti aventi a presupposto la “posizione soggettiva” stessa10. Il
Collegio, nel valutare la possibilità di un’interpretazione
estensiva che avrebbe consentito di includere la questione
nell’ambito delle cause concernenti lo status,
ha dovuto desistere considerato “che anche in siffatta
categoria di causa alla previsione dell’intervento “necessario” del P.M. non si accompagna, come detto, quella di
un suo potere di impugnazione, identificandosi le sue
funzioni in quelle che svolge il Procuratore generale presso il giudice ad quem eventualmente (e ritualmente) adito
(in questo caso il P.G. presso la Corte di Cassazione)”.
Sempre nel tentativo di includere la fattispecie in
esame nell’ambito del potere impugnatorio del P.M., la
Corte ritiene inutile anche il richiamo alla impugnazione “nell’interesse della legge”11 sul presupposto che il
correlativo potere:
- “spetta solo al Procuratore Generale presso la Corte
di Cassazione;
- è esercitabile unicamente al fine della enunciazione
del “principio di diritto cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi” (enunciazione che, nel caso che
riguarda, è però già intervenuta con la sentenza di
rinvio n. 21748 cit.);
- e non può comunque avere effetto alcuno sul provvedimento del giudice di merito, che resterebbe quindi fermo anche nel caso di accoglimento di una siffatta impugnazione (ex art. 363, comma quarto,
cit.).”
La Corte, infine, ha valutato anche la possibilità
che la questione in esame potesse dar luogo a questioni sulla legittimità costituzionale sul rilievo
della presunta mancata estensione ai principi di
uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3, commi primo e secondo, della Costituzione. Infatti, è
invece “ragionevole” non trattare in modo identico
fattispecie diverse nelle quali va protetto “un diritto personalissimo del soggetto di spessore costituzionale (come, nella specie, il diritto di autodeterminazione terapeutica in tutte le fasi della vita,
anche in quella terminale)”. L’esercizio di tale diritto è giustamente sottratto, quindi, al potere di
impugnazione da parte del P.M. che in tal caso,
diversamente argomentando, avrebbe potuto con-
8 Art. 70 c.p.c.
9 Cass. 24 febbraio 1997 n. 1664.
10 Cass. SS. UU., n. 20113/2005.
11 Art. 363 c.p.c.
2. L’intervento in causa
Il legislatore ha previsto diverse forme di intervento
da parte del P.M.8 Tra i casi di intervento obbligatorio
a pena di nullità rilevabile d’ufficio, vi sono le cause che
egli stesso potrebbe proporre, come ad esempio quelle
relative alla domanda di nullità del brevetto per marchio
d’impresa nelle quali ha anche la facoltà di proporre la
domanda ed impugnare la sentenza emessa sulla domanda proposta dal privato interessato. Seguono poi le
cause matrimoniali, ivi comprese le ipotesi di separazione personale tra i coniugi. L’obbligatorietà dell’intervento del Pubblico Ministero è strettamente riferita alla
fase del giudizio in cui è in discussione il vincolo matrimoniale e non anche al giudizio di appello che riguardi
i soli rapporti patrimoniali.9 Un altro caso di obbligatorietà dell’intervento del P.M. è quello delle cause in materia di stato e capacità delle persone come ad esempio
il giudizio avente ad oggetto il diritto del minore ad assumere il cognome del padre che lo ha riconosciuto. In
tali casi, l’intervento è sempre previsto a pena di nullità,
ma il P.M. non può esperire l’azione né proporre impugnazione, trattandosi di un potere a carattere eccezionale, esercitabile solo nei casi previsti dalla legge.
L’intervento è altresì obbligatorio nelle cause davanti alla Corte di Cassazione.
Infine, è prevista la possibilità di intervenire in ogni
causa in cui si ravvisi un pubblico interesse.
3. Il potere di impugnazione
La disciplina del potere di impugnazione del p.m. è
contenuta nell’art.72 c.p.c. che ne restringe l’ambito
alle cause matrimoniali e alle sentenze che dichiarino
l’efficacia o l’inefficacia di sentenze straniere relative a
cause matrimoniali; in entrambi i casi, il potere di impugnazione è escluso per le cause relative alla separazione personale dei coniugi. Il mezzo attraverso il quale si
dà inizio alla partecipazione nel giudizio da parte del
P.M. è quello della comunicazione degli atti al suo ufficio. Con la comunicazione e, quindi, con l’informazione
ufficiale dell’inizio di un procedimento, si dà la possibilità al P.M. di intervenire e di esercitare i corrispondenti poteri previsti dalla legge: la circostanza che il P.M. a
seguito della predetta comunicazione non intervenga in
giudizio non è causa di nullità in quanto è sufficiente
che abbia apposto il visto sugli atti trasmessigli.
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trapporsi fino al punto di impugnare la sentenza
che ha accolto tale tipo di domanda da parte del
legittimo titolare ad esercitarla. La Corte ha, quindi, valutato ogni aspetto, ma le considerazioni su
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esposte non potevano non portare alla declaratoria
di inammissibilità del ricorso, essendo la carenza di
legittimazione da parte del P.M. insuperabile sotto
ogni profilo esaminato.
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●
L’amministrazione
di sostegno
● Luisa Errico
Avvocato e Presidente Ass.ne Centro Studi Diritto
degli Affetti – Coordinatrice Commissione Minori
Tribunale di Napoli
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1. Legge Basaglia: il disagio
Il 13 maggio 1978 viene approvata la Legge n.180 – nota come Legge Basaglia – che prevedeva, tra l’altro, il
divieto di costruire nuovi ospedali psichiatrici nonché
dismettere gradualmente quelli esistenti. La legge segna
il passaggio dalla logica custodialistica del paziente
psichiatrico, sottesa all’intervento esclusivo della Pubblica sicurezza, indicato dalla previgente Legge Giolitti, la
n.36 del 1904, al concetto di assistenza e cura. Viene,
infatti, stabilito che gli interventi di prevenzione, cura e
riabilitazione relative alle malattie mentali devono essere attuati di norma dai servizi psichiatrici territoriali. La
legge istituisce il T.S.O., trattamento sanitario obbligatorio, che, come nel caso di trattamento obbligatorio per
altre patologie, deve essere attuato “nel rispetto della
dignità della persona dei suoi diritti civili e politici,
compreso per quanto possibile “il diritto alla libera
scelta del medico e del luogo di cura” e “deve essere
accompagnato da iniziative volte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi e’ obbligato”.
Nella pratica il T.S.O., azionato da un medico, viene
convalidato prima dal sanitario della ASL e poi sottoposto al controllo del Sindaco ed essendo un trattamento
di urgenza ha un termine di sette giorni prorogabile in
casi documentati.
La Legge n.180/1978 ha completamente modificato la
situazione precedente riconoscendo quindi il diritto alla
libertà del cittadino nei confronti del trattamento sanitario quale attuazione dell’art. 31 Cost., sostituendo il
concetto di pericolosità a quello di tutela ai fini della legittimazione dell’obbligatorietà del trattamento stesso.
La normativa viene interamente trasfusa nella L.
n.833/1978 istitutiva del SSN che recepisce gli artt. 33-35.
Viene affermato il diritto del disabile psichiatrico di essere curato ed assistito nel suo ambiente di origine anche e
soprattutto attraverso la rete sul territorio dei servizi sociali. Il doppio binario su cui si muove il dibattito sulla
disabilità in genere, in particolare quella mentale, é privato e/o collettivo. L’individualizzazione del problema porta
inevitabilmente a ipotesi segreganti, la socializzazione al
contrario tende a responsabilizzare la comunità della
sofferenza del singolo. Il percorso culturale e’ sostenuto
da interpretazioni giurisprudenziali che sembrano interiorizzare come dato certo quanto avviene.
Le sentenze della Corte Costituzionale nn. 139/1982
e 249/1983 dichiaravano l’incostituzionalità dell’automatica applicazione del provvedimento di ricovero in
O.P.G. nei confronti del prosciolto per infermità totale
o condannato a pena diminuita per vizio parziale di
mente, senza porre l’obbligo per il giudice della cognizione e per quello dell’esecuzione di procedere ad accertamento della persistente pericolosità sociale. La sentenza del 1982 parla di irragionevolezza della presunzione
assoluta della persistenza dell’infermità psichica.
La Legge n. 633/1986, c.d. Legge Gozzini, abrogando ogni fattispecie di pericolosità presunta, ha risolto
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definitivamente il problema del binomio pericolosità sociale-infermità mentale e consente di considerare quest’ul
tima non più come una categoria speciale di pericolosità
ma come un qualsiasi fattore che, interagendo con gli
altri può esercitare un’efficacia criminogena, si può,
quindi, escludere l’applicazione della misura non solo
quando l’infermità è venuta meno o è migliorata, ma
anche quando pur essendo rimasta immutata, risulta
improbabile che il soggetto ponga nuovamente in essere
comportamenti lesivi degli interessi della collettività. Ed
infatti il T.S.O. di cui alla Legge n.180 e’ ispirato all’art.
31 della Costituzione e fa riferimento al concetto di tutela della salute e non già della pericolosità.
I Dipartimenti di Salute mentale istituiti con la Legge
n. 833 si sono rivelati però insufficienti per la mancanza,
soprattutto, di sezioni ospedaliere e case famiglia idonee
per la riabilitazione e le tecniche di reinserimento sociale. Il disagio psichico non più contenuto né affrontato
secondo un piano di protezione che coinvolgesse anche
il welfare delle famiglie, fa riespandere una richiesta
culturale di controllo, attraverso l’ideazione di sistemi
meno aperti, ma più garantisti per la collettività.
La proposta Burani-Procaccini è del 2002 e fa riemergere il concetto di pericolosità sociale nonché risponde alla novellata richiesta di controllo e di protezione
della società “sana”: frontalizza secondo vecchie logiche, la normalità e il disagio.
L’assistenza psichiatrica dovrebbe uscire dalla Sanità
Pubblica facendo scomparire dalla procedura la figura
garantista del Sindaco nella sua funzione di Autorità
Sanitaria Locale. I provvedimenti di coazione della libertà dovrebbero essere assunti da una Commissione
per i diritti della persona affetta da disturbi mentali.
La legge assume nuovamente la presunzione di pericolosità come tratto fondante il disturbo mentale stesso
per individuare il quale vengono previsti screening anche
in età scolare e segnalazioni tempestive. La pericolosità
sociale quale stigma inevitabile della malattia mentale
era al contrario caduta con la Legge n.180, la quale deistituzionalizzando il malato mentale la sottopone,
inevitabilmente, a verifica. La persona malata di mente,
quindi, individuata il più precocemente possibile sarebbe inserita in un circuito di controllo prevalentemente a
gestione privatistica, non necessariamente da medici
psichiatri, ove sia possibile procedere a trattamento
anche in assenza del suo consenso. Questo il progetto.
Intanto con il Convegno di Trieste del 1986,“Un altro
diritto per il malato di mente”, ha inizio la fase preparlamentare che porta alla prima bozza Cendon. Inizia il
percorso di confronto che porterà alla nascita della L.
n. 6/2004 e a ri-scrivere con nuovi contenuti i concetti
di disagio, incapacitazione e sussidarietà.
Il punto è, quindi, individuare lo scrimine fra la malattia mentale classicamente definita e le situazioni, innumerevoli, di disagio psichico che appaiono contenute
farmacologicamente e/o con la psicoterapia e che riesco-
c i v i l e
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no a non sfociare in classificazioni stereotipate pur contenendo in embrione i tratti di una malattia tipizzata.
I progressi in sede psichiatrica hanno evidenziato,
infatti, l’eterogeneità delle situazioni di disagio e come
oggi non sia più possibile pensare che esse sfocino necessariamente in una malattia mentale mettendo in
crisi il tradizionale paradigma soggetto capace – soggetto incapace – sul quale si basava il precedente sistema di
protezione.
Il dibattito sul disagio in genere si amplia sfumando
in tutte quelle ipotesi in cui la persona non riesce a realizzare il proprio progetto di vita ad esprimere le proprie
attività realizzatrici, sia essa portatrice di handicap fisico o psichico.
Accanto al concetto di rimedio cambia, quindi, quello di disagio.
Si parla di diritto dei soggetti deboli.
La fragilità non è insita nella condizione del disabile,
ma è il portato di una cultura che ha concepito la disabilità come estranea alla normalità della vita, soprattutto, in quest’ottica, la disabilità si sposta sull’intero nucleo familiare proiettando sullo stesso il disagio del
singolo componente ancorché mentale o fisico o psicologico.
Spostare l’attenzione del legislatore al “fuori”,
all’“esterno” alla risposta del sistema alla fragilità significa partecipare ad un’evoluzione culturale e sociale
espressa in Italia con diversi interventi legislativi (L.
n. 118/1971 e 104/1992).
La Convenzione ONU sui diritti delle persone con
disabilità ha avuto il merito di collocare la disabilità
all’interno di una nuova visione che considera il disabile non più come cittadino invisibile ma come un soggetto titolare di diritti e come tale soggetto attivo nel processo decisionale relativo alle politiche di assistenza che
lo riguardano.
La Convenzione di Oviedo del 1997, ratificata in
Italia con legge n. 145/2001, stabilisce all’art.5 che ogni
intervento sanitario può essere effettuato solo con il
consenso informato dell’interessato, così come precisa
ai successivi artt. 6 e 7 deve accadere per soggetti incapaci a farlo e rappresentati da un tutore o curatore.
I nuovi diritti che si vanno affermando per la prima
volta creano una lettura orizzontale degli istituti assolutamente comunicanti e duttili perché pongono al
centro la persona come soggetto di diritto.
Sostenere l’amministrazione di sostegno significa
anche sostenere un’idea di inclusione sociale di soggetti
che, per motivi e cause diverse, non riescono a rispettare l’agenda del quotidiano, significa creare ponti di solidarietà privata che si ricollegano ad un sistema che
vuole garantire la partecipazione sociale.
2. La protezione dei soggetti deboli
La Legge n.6/2004 rivoluziona il sistema di protezione dei soggetti deboli ed esprime in maniera chiara e
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netta l’attenzione del legislatore verso la tutela della
dignità e della qualità di vita quotidiana delle persone
non autosufficienti.
Come si evince dai lavori preparatori e dalla stessa
legge, la finalità consiste nel tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire persone prive
in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle
funzioni quotidiane quando non c’è necessità di procedere ad una interdizione o inabilitazione: offre quindi
un’alternativa a misure totalizzanti.
La scelta di modificare gli istituti esistenti, affiancandone un altro dal contenuto così diverso da non poter
costituire una sostituzione semantica o una semplice
modifica né un capo di una legge lasciata poi alla volontà e capacità delle Regioni nella sua attuazione pratica,
risponde all’esigenza di far rientrare nell’ambito di applicazione tutte le situazioni temporanee o definitive in cui
il soggetto non riesce a curare il suo lato esistenziale,
eliminando categoricamente l’esigenza dell’amministratore solo a fronte di patrimoni da gestire.
Gli artt. n. 404-413 introducono i successivi e in
parte modificano: l’interdizione non più un provvedimento doveroso, ma solo quando risponda come unico
strumento di tutela della persona debole – non più istituto totalizzante, ma al contrario, ove possibile, coesiste
con la residuale capacità, la ottimizza e la orienta.
La legge tende a tutelare le persone prive in tutto o
in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni
della vita quotidiana senza comprimere la loro libertà
oltre la misura necessaria. La protezione attuata con la
minore limitazione possibile è discrezionale in capo al
giudice tutelare.
Vengono in primo piano gli spazi della quotidianità:
i rapporti familiari, affettivi, sociali, economici, o bancari, di scuola e cultura le relazioni di svago, di sport,
di partecipazione politica. L’applicazione dell’amministrazione di sostegno è duttile ed elastica, copre diversissime forme di disagio corrispondenti a diversissimi
compiti dell’amministratore di sostegno, laddove la tutela è unica.
L’amministratore non si sostituisce al beneficiario,
ma interagisce con questi e concorda le azioni da compiere; sullo sfondo vi è grande rispetto per le scelte altrui
per la diversità in genere: l’amministratore compie ciò
che il beneficiario non può ma vorrebbe. In ipotesi di
conflitto si va dal giudice tutelare.
La protezione è anche assicurata dalla snellezza e
agilità del procedimento (60 gg.) nonché dal sistema
delle sanzioni previste a carico della P.A. per omessa
segnalazione al giudice (responsabilità civile del dipendente per dolo e colpa grave e responsabilità della P.A.
anche per colpa lieve).
È quindi una misura di protezione per maggiorenni
privi in tutto o in parte di autonomia ma non è applicabile ai minori che si trovino in uno stato di incapacità
totale legale e sono protetti da genitori, che esercitano la
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potestà o in mancanza da un tutore, né al minore emancipato. La novità dell’istituto è nella individuazione dello
svantaggio: mentre l’interdizione è relativa ad una abituale infermità di mente, stabile e duratura, l’amministrazione di sostegno risponde anche a situazioni transitorie che non necessariamente si fondano su un dato
psichiatrico patologico – quindi anche per disagi fisici e
assolutamente di temporanea e parziale incapacità.
L’accertata temporaneità della incapacità determina
la transitorietà della durata dell’incarico.
L’accertata impossibilità parziale determina il contenuto del decreto di nomina: ciò che deve fare l’amministratore.
L’amministrazione di sostegno così delineata opera
anche in situazioni che prima non avevano protezione:
anziani non autosufficienti, disabili motori, malati gravi non psichici, lungodegenti, depressi.
Essa è essenzialmente rivolta a coloro che hanno
difficoltà effettive all’accesso alla vita organizzata.
Il beneficiario conserva, quindi, la capacità di agire
per tutti gli atti non indicati nel decreto, la perde per
quelli attribuiti all’amministratore di sostegno e la affianca per quelli da compiere con l’assistenza di
L’interdizione e l’inabilitazione risultano istituti residuali riservati ai casi in cui non si riesca nonostante la
possibilità di estensione, modulazione, integrazione e
revoca dei provvedimenti adottabili nel procedimento di
amministrazione di sostegno ad attuare una sufficiente
protezione attiva e passiva del soggetto non autonomo.
In definitiva anche ricorrendo alla previsione di cui
all’art. 411 c.c. l’intera protezione del soggetto debole è
attuabile con il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno: il coinvolgimento dei familiari,
delle strutture socio-assistenziali, garantisce infatti la
ricerca delle migliori condizioni esistenziali per il soggetto. Il progetto di sostegno, in cui il giudice tutelare. ha
funzioni di direzione, coordinamento e controllo, deve,
infatti, necessariamente, per raggiungere il fine della
protezione, contenere ed esaltare le risorse presenti sul
territorio; in tale progetto potranno essere valorizzati se
possibile, sempre nella misura più ampia possibile, la
volontà e l’indicazione delle scelte del beneficiario.
La sussidarietà degli istituti è poi confermata dalla
sentenza della Corte Costituzionale n.440/2005. Con
tale pronuncia la Corte ha esortato gli operatori ad applicare la misura dell’amministrazione di sostegno,
piuttosto che sottolineare differenziazioni tra gli istituti.
Sul piano degli effetti, infatti, la Corte evidenzia la duttilità e modulabilità dei poteri dell’amministratore di
sostegno, espressa all’art. 427 c.c., comma 1, che possono coincidere in alcuni casi con quelli dell’interdizione.
Il principio di diritto affermato nella legge è proteggere con la minore limitazione possibile sulla capacità
del soggetto, applicando interdizione o inabilitazione
“solo se non ravvisi interventi idonei ad assicurare all’incapace siffatta protezione.
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3. Applicazioni
Molte pronunce ormai consolidano l’applicazione
quasi totale dell’amministrazione di sostegno, andando
ad estendere sistemi di protezione anche a fattispecie
prima non tutelate.
La sentenza del 9 gennaio 2006 del Tribunale di
Venezia – G.T. dr. Trentanovi – chiarisce il concetto di
protezione attiva, intesa come “progetto di sostegno per
le funzioni della vita quotidiana e non solo sostituzione
necessaria di un rappresentante al non autonomo per
gli atti giuridico-economici di ogni categoria di persone
non autonome per malattia e/o infermità fisica o psichica tanto che si tratti di una situazione temporanea che
permanente; ogni esclusione pregiudiziale di categorie
di persone, anche i cosiddetti infermi di mente per patologie psichiche o psichiatriche, o le persone non più
in grado di relazionarsi in modo comprensibile con gli
altri – per es. le persone in coma – da tale possibilità di
protezione non solo violerebbe il principio costituzionale di eguaglianza, ma anche tutti i principi della
legge 6/2004; oltreché essere positivamente vietata
dall’art.414 stesso che rende ancora attualizzabile l’interdizione per gli infermi di mente, ma solo quando ciò
sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione (ritenuta nel caso concreto per le sue specifiche caratteristiche impossibile attraverso l’amministrazione di
sostegno… ogni persona che si trovi nelle condizioni di
impossibilità di provvedere ai suoi interessi ha diritto
ad essere inserita in un progetto solidaristico di sostegno nel cui ambito il decreto di cui all’art. 405 c.c.
prevederà i provvedimenti indispensabili per la cura
della persona interessata…”.
Al di là della vicenda (anziana ricoverata in casa di
cura e ricorso promosso dalla direttrice responsabile
della struttura) la pronuncia precisa l’ambito di tutela
dell’istituto affermando “al centro del provvedimento
del G.T. sono i diritti esistenziali della persona, e l’aiuto/
sostegno della stessa per superare le sue carenze di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita
quotidiana… in quanto parte dei suoi diritti esistenziali, i suoi diritti patrimoniali”.
Alla luce di quanto sopra e’ evidente che l’oggetto
dell’incarico in cui si sostanzia il nucleo essenziale del
decreto di nomina è riferito ai diritti esistenziali tutti
della persona.
Si parla di umanizzazione del diritto.
Il Tribunale di Bologna, con sentenza del 3 ottobre
2006 n.2288, rigettava la richiesta di interdizione avanzata dai genitori di una giovane donna in stato vegetativo persistente disponendo la nomina di un amministratore di sostegno affermando il diritto della stessa
alla cura intesa come l’insieme di rimedi medici nonché
il sollecito e costante interessamento finalizzato al rispetto della dignità della persona. L’attenzione nella
scelta della misura protettiva appare più forte nei confronti di quei soggetti che si trovano in stato di comple-
c i v i l e
26
ta dipendenza dagli altri. Muovendo dall’analisi dei
fatti, dalla considerazione che “le condizioni di salute
della beneficiaria incidendo sulla libertà di movimento
e sulla vita di relazione della persona, costituiscono già
una prima protezione rispetto a condotte intrusive…”,
il Tribunale recepisce la decisione della Corte di Cassazione che con sentenza n. 13584/2006 chiarisce “rispetto ai predetti istituti” (interdizione e inabilitazione)
“l’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno va individuato con riguardo non già al diverso, e
meno intenso, grado di infermità o di impossibilità ad
attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale
strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto,
in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità
della relativa procedura applicativa”.
L’attenzione verso la dignità della persona ed il rispetto della patologia come nuova e diversa condizione
di vita giustificano l’applicazione dell’amministrazione
di sostegno anche a soggetti affetti da morbo di Alzheimer (Tribunale di Trani n.503/2005, Tribunale di Bari
del 5 luglio 2007).
Una pronuncia particolare del Tribunale di Napoli
circa l’amministrazione di sostegno e la genitorialità (in
Persona e Danno) dispone l’istituto in favore di un uomo
giovane colpito da tetra paresi spastica. Il nuovo sistema
di protezione delle persone prive di autonomia tende
ugualmente a tutelare il diritto personale del beneficiario ad una concreta relazione con i figli nei limiti compatibili esclusivamente con il suo stato. La vicenda riguarda un uomo, padre di un bimbo appena conosciuto
prima dell’insorgenza della malattia. La richiesta di
interdizione viene rigettata perché poco rispettosa e
soprattutto poco tutelante in quanto avrebbe implicitamente comportato la decadenza dalla potestà genitoriale. In questo caso l’amministrazione di sostegno si presenta come uno strumento elastico, che si adegua alle
fasi successive della malattia: garantisce nel provvedimento finale la possibilità di incontro con il figlio fino
al verificarsi di un eventuale pregiudizio “l’amministratore provvisorio di sostegno dovrà tenere conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario informandolo
ove possibile in ordine agli atti da compiere. In particolare presterà assistenza al beneficiario, al fine di consentire che egli possa avere incontri periodici con il figlio…
secondo le modalità più opportune atte a favorire il
processo neuro riabilitativo in atto salvaguardando nel
contempo l’interesse del minore a che la ripresa degli
incontri con il padre non possa comportargli alcun
pregiudizio tenuto conto anche delle condizioni specifiche psicofisiche del minore. Di concerto con la madre
valuterà le iniziative opportune come ad esempio la richiesta di un sostegno psicologico presso le strutture
socio-assistenziali di base volte a creare le condizioni
per rendere possibili i suddetti incontri tra il padre e il
figlio…”.
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Una considerazione a parte merita la prestazione del
consenso informato per i trattamenti sanitari, quale
atto personalissimo.
Nei casi di maggiore gravità – anche in osservanza
all’art. 6 della Convenzione Oviedo – quando la persona sia affetta da disturbo mentale grave, la prestazione
del consenso può essere espressa dall’amministratore di
sostegno nel rispetto della sua volontà ma soprattutto
della funzione e natura di care dell’istituto.
Abbiamo in tal senso, una pronuncia del 2004 del
G.T. di Modena relativa ad un paziente psichiatrico, che
rifiutava cure necessarie per il diabete di cui soffriva ed
una pronuncia del Tribunale di Roma del 2005 relativa
ad un soggetto testimone di Geova, con rifiuto dichiarato alle trasfusioni, che si ritrova in pericolo di vita per
un incidente automobilistico. In entrambi i casi gli amministratori all’uopo nominati hanno prestato il consenso a trattamenti a prima vista rifiutati dai beneficiari privilegiando la cura della persona.
Nella stessa ottica vanno lette le pronunce del Tribunale di Modena circa il conferimento all’amministratore di sostegno delle direttive di fine vita “L’amministratore di sostegno può essere autorizzato a compiere
in nome e per conto del beneficiario, i seguenti atti:
negazione di consenso ai sanitari coinvolti a praticare
alla persona alcun trattamento terapeutico e, in specifico, rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusioni
di sangue, terapie antibiotiche, ventilazione, idratazione
e alimentazione forzate e artificiali; richiamo ai sanitari dell’obbligo di apprestare alla persona con le maggiori tempestività, sollecitudine e incidenza ai fini di lenimento delle sofferenze, le cure palliative più efficaci
compreso l’utilizzo di farmaci oppiacei. Ciò per l’ipotesi che il medesimo versi in malattia allo stato terminale,
malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e
invalidante, che lo costringa a trattamenti permanenti
con macchine o sistemi artificiali che impediscano una
normale vita di relazione, e a condizione che il benefi-
2 0 0 9
27
ciario stesso non abbia revocato con qualsivoglia modalità o rendendone edotto esso amministratore, le disposizioni contenute nell’atto di designazione dell’amministratore ex art. 408 c.c.” (in Famiglia e minori
n.11/08) Il provvedimento del giudice, dr. Stanziani,
richiama, in diritto, la “indefettibile regola per cui è
precluso al medico di eseguire trattamenti sanitari se
non acquisisca quel consenso libero ed informato del
paziente che è presupposto espressivo del suo diritto
primario di accettazione, rifiuto e interruzione della
terapia”. Viene, quindi, individuato l’amministratore di
sostegno per raccogliere le dichiarazioni anticipate
perché tale diritto venga rispettato anche nelle ipotesi
in cui il beneficiario non può personalmente esprimere
il proprio dissenso.
L’amministrazione di sostegno pone attenzione non
solo alle persone intrinsecamente fragili, ma, più ampiamente le persone indebolite, persone impossibilitate
a farcela da soli quanto alla gestione dei passaggi della
vita quotidiana per impedimenti fisici o psichici o logistici che devono continuare a trovare nella comunità
organizzata supporti idonei a consentire la realizzazione
del loro progetto di vita. In questo modo la nozione di
capacità di intendere e di volere risulta superata da
quella di inadeguatezza gestionale o fragilità negoziale
rendendo necessaria un’interpretazione estensiva dell’art.
404 c.c. rispetto ai riferimenti testuali all’infermità e
alla menomazione, a favore quindi di una lettura idonea
ad includere anche condizioni non patologiche sul piano
fisico-psichico, caratterizzate però da difficoltà organizzative di un certo peso. La categoria dei soggetti deboli
appare destinata a comprendere più in generale tutte le
persone che si trovino per ragioni di varia natura prive
di autonomia relazionale e della capacità di orientarsi
nel sociale per condurre appropriatamente la vita quotidiana, cui vanno riferiti gli effetti dei principi cardine
della legge: “non abbandonare” e “non mortificare la
dignità della persona fragile”.
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●
Il riconoscimento del diritto
a non essere curati
● Stefania Mauro
Dottore in giurisprudenza
28
* * * * * *
La recente attenzione dei media al caso Englaro ha
spinto la pubblica opinione a interrogarsi, oltre che
sull’esistenza di un diritto a lasciarsi morire, anche sulla
eventualità che il rifiuto al trattamento medico, possa
essere espresso dal legale rappresentante, nel caso in cui
il paziente non sia in grado di manifestare la propria
volontà.
La risposta a tali quesiti è giunta dalla Suprema Corte1 la quale ha affermato innanzitutto il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente, anche quando
da esso consegua il sacrificio al bene della vita. Costituisce, infatti, secondo il collegio, presupposto ineliminabile di qualsiasi trattamento sanitario, il principio del
consenso informato. In altri termini, al dovere del medico di fornire informazioni, corrisponde il diritto del
paziente non solo di scegliere tra le diverse possibilità di
terapie, ma anche di rifiutarle o di decidere consapevolmente di interromperle, in tutte le fasi della vita, anche
in quella terminale. In particolare, ha precisato la Corte,
il rifiuto delle terapie mediche, anche quando conduce
alla morte, non può essere scambiato per un’ipotesi di
eutanasia, esprimendo tale rifiuto piuttosto la scelta del
malato che la malattia segua il suo corso naturale.
Il principio del consenso informato, come si legge
nella sentenza, ha fondamento non solo nella Carta
Costituzionale, ma anche nella legislazione ordinaria e
sopranazionale.
A livello Costituzionale, l’art. 2, tutela e promuove i
diritti fondamentali della persona umana, della sua
identità e dignità, l’art.13 garantisce l’inviolabilità della
libertà personale e il successivo art.32, nel tutelare la
salute come fondamentale diritto dell’individuo, prevede
la possibilità di trattamenti sanitari obbligatori, ma li
assoggetta a una riserva di legge.
In particolare, nell’inviolabilità della libertà personale è postulata, secondo la Corte Costituzionale2 , “la
sfera di esplicazione del potere della persona di disporre
del proprio corpo.
Nella legislazione ordinaria ad attribuire valore alla
volontà del paziente vi sono numerosi leggi speciali, a
partire dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale3, il cui art.33 prevede che “gli accertamenti e trattamenti sanitari sono di norma volontari”.
A livello di fonti sopranazionali, lo stesso principio è
riconosciuto nella Convenzione del Consiglio d’Europa
sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, stipulato ad
Oviedo il 4 aprile 1997 e resa esecutiva con una legge di
autorizzazione alla ratifica4.
Dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea5, inoltre, si evince che il consenso libero ed infor-
1
2
3
4
5
Cass., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748
Corte Cost., sent. n. 471/1990
L. 23 dicembre1978, n. 833
Ratifica 28 Marzo-2001, n. 145
Nizza 7-Dicembre-2000.
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mato del paziente all’atto medico deve essere considerato, non solo come liceità del trattamento, ma come un
diritto fondamentale del cittadino europeo riguardante
il più generale diritto dell’integrità della persona.
In giurisprudenza, il principio del consenso informato si è affermato, in una lontana sentenza del 19676,
dove i giudici di legittimità stabilirono che “prima di
ogni trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e lì incolumità fisica” era
necessario acquisire il consenso, considerato valido se
preceduto dalle informazioni sulle potenziali cause
d’inefficacia della operazione chirurgica.
Più di recente7, si è precisato che per la sussistenza
della condotta omissiva dannosa del medico e la conseguente ingiustizia del danno, non rileva la correttezza o
meno del trattamento, configurandosi l’illecito per la
semplice ragione che il paziente, “a causa del deficit di
informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni”.
Anche la Cassazione penale8 ha ribadito quale presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico,
la manifestazione del consenso del paziente. Ne discende che non è attribuibile al medico un generale diritto
di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo
la volontà dell’ammalato che si troverebbe in una posizione di soggezione, per cui il medico potrebbe intervenire con il solo limite della propria coscienza.
Tuttavia la Corte di Cassazione, anche richiamando
numerosi precedenti giurisprudenziali, non si è limitata
ad affermare il diritto di ciascuno di rifiutare legittimamente qualsiasi trattamento medico, ma ha anche fissato alcuni doveri a carico del medico che si trovi di
fronte al rifiuto del paziente.
In primo luogo il medico, unito al malato da “un’alleanza terapeutica” nella ricerca di ciò che è bene, è tenuto a verificare che il rifiuto sia informato, autentico
ed attuale.
Egli, inoltre, non può limitarsi a prendere atto del
rifiuto del paziente, ma deve porre in essere una “strategia della persuasione”, tentando di convincere l’interessato a cambiare idea, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima
solidarietà nelle situazioni di debolezza e di sofferenza.
Con riferimento poi, al secondo interrogativo prospettatosi all’inizio della trattazione e riguardante l’incapacità del paziente di esprimere la propria volontà
perché, come nel caso in esame versi in una situazione
di stato vegetativo permanente e persistente, la Corte,
con la sentenza in esame, ha superato un suo precedente orientamento.
6 Cass., Sez. III, 25 luglio 1967, n. 1945.
7 Cass., Sez III, 14 marzo 2006, n.5444.
8 Cass., pen., Sez. IV, 11 luglio 2001- 03-ottobre 2001.
2 0 0 9
29
La Suprema Corte, in passato9, aveva ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal padre, tutore dell’interdetta, affinché le fosse sospesa l’alimentazione artificiale, perché “l’ordinamento non attribuisce al tutore un
generale potere di rappresentanza nei riguardi degli
atti personalissimi, per i quali occorre che sia nominato
un curatore speciale quale necessario contraddittore in
giudizio”.
Ritornando sui propri passo, i giudici, in base al
combinato disposto degli articoli 357 e 424 del codice
civile, hanno riconosciuto al tutore la cura della persona
incapace, investendolo della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare.
Il diritto del legale rappresentante di sostituirsi al
paziente in stato di incoscienza trova fondamento anzitutto negli art.404 e ss., introdotti dalla Legge n.6/2004,
secondo la quale, i poteri di cura del disabile, spettano
anche alla persona nominata amministratore di sostegno. In particolare il decreto di nomina deve contenere
l’indicazione degli atti che l’amministratore di sostegno
è legittimato a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario.
Ancora, l’art. 13 della legge sulla tutela sociale della
maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza10, nel disciplinare il caso della donna interdetta per
infermità di mente, dispone che la richiesta di interruzione volontaria della gravidanza può essere presentata
oltre che dalla donna personalmente, anche dal tutore.
A livello di fonti sovranazionali, particolare rilievo
assumono l’art. 6 della Convenzione di Oviedo e, soprattutto, l’art. 4 del D.Lgs. n. 211 del 2003, secondo il
quale la sperimentazione clinica degli adulti incapaci che
non hanno prestato o non hanno rifiutato il consenso
informato prima che insorgesse l’incapacità, è possibile
a condizione che “sia stato ottenuto il consenso informato del legale rappresentante”, il quale “deve rappresentare la presunta volontà del soggetto”.
In particolare, da quest’ultima disposizione, si evince che i doveri di cura del tutore si sostanziano nel
prestare il consenso informato al trattamento medico
avente come destinatario la persona in stato di incapacità.
Senza dubbio, tuttavia, il suo intervento incontra dei
limiti rappresentati dalla considerazione che la salute è
un diritto personalissimo e che la libertà di rifiutare le
cure presuppone valutazioni sulla vita e la morte, le
quali hanno fondamento in concezioni anche di natura
extragiuridica e, quindi, ”squisitamente soggettive”.
Da qui la conclusione che il tutore, nel consentire al
trattamento medico o nel dissentire alla prosecuzione
dello stesso sulla persona dell’incapace, non solo ha
9 Cass., sent. 8921/2005.
10 L. 22-Maggio-1978, n.194
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D i r i t t o
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l’obbligo di agire nel suo esclusivo interesse, ma nella
ricerca del “best interest” deve decidere non “al posto”
dell’incapace né “per” l’incapace, ma “con” l’incapace.
Egli, in altri termini, deve ricostruire la presunta volontà del paziente incosciente prima di cadere in tale stato,
tenendo conto “dei desideri da lui espressi prima della
perdita di coscienza”, ovvero, ricercando la sua volontà
dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue
convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
Certamente come affermato da Gaetano Nicastro,
primo Presidente di Sezione della Corte di Cassazione,
all’inaugurazione dell’anno giudiziario, non è semplice
stabilire quando può considerarsi “legittimo interrompere il trattamento sanitario”.
Da qui l’auspicio di una regolamentazione normativa
che riconosca a ciascuno il diritto all’autonomia delle
scelte nel malaugurato caso si dovesse perdere la capacità di intendere e volere e ci si trovasse nell’impossibilità di esprimere la propria volontà in merito all’accettazione o al rifiuto delle cure.
Sulla scorta dell’esempio di altri Paesi del nord Europa e degli Stati Uniti, all’ inizio del nuovo anno, il
prevalente orientamento politico parlamentare era favorevole a consentire la redazione di un testamento biolo-
c i v i l e
30
gico, ossia a fornire direttive per il caso di perdita della
capacità di comunicare le proprie decisioni.
Sul tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento, si è specificato11 che “non si tratta di una legge per
staccare la spina, ma per dare a ciascuno la possibilità
di scegliere cosa fare alla fine della propria esistenza,
quando non ci fosse più alcuna speranza di un ritorno
all’integrità intellettiva”.
A tale orientamento si è contrapposta l’ala politica
cattolica che teme il rischio di un’introduzione surrettizia dell’eutanasia nel nostro ordinamento, attribuendo
valore alle direttive anticipate.
Le divergenze politiche hanno comportato l’impossibilità dei disegni di legge presentati in Parlamento di
tradursi in un unico testo da proporre al voto dell’aula.
In attesa che il dibattito politico conduca ad una
definitiva risoluzione della delicata questione, va segnalata l’iniziativa dell’ex Ministro della Sanità Veronesi,
di diffondere on line un “modulo per il testamento biologico”, il quale consentirebbe ad ogni cittadino di
11 Opinione espressa dal Presidente della Commissione Sanità di Palazzo Madama, Ignazio Marino, intervenendo ad un convegno del
13-Febbraio-2009.
diritto e procedura
Penale
Il ciclo dei rifiuti e la criminalità organizzata
33
Antonio Ardituro
Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli Direzione Distrettuale Antimafia
La rilevanza penale dell’attività sportiva: considerazioni
dommatiche per una corretta ricostruzione
nella sistematica delle scriminanti
49
Andrea Alberico
Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Coltivazione di stupefacenti e valutazione dell’offensività
concreta della condotta
63
Nota a Cass. Pen., Sez. IV, 14 gennaio 2009, n. 1222
Valeria Parlato
Dottore in giurisprudenza e specializzata
presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “Federico II”
Rassegna di legittimità
66
Andrea Alberico
Dottorando di Ricerca in Diritto Penale Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
Rassegna di merito
Giuseppina Marotta
Avvocato
Alessandro Jazzetti
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
71
Gazzetta
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●
Il ciclo dei rifiuti
e la criminalità
organizzata
● Antonio Ardituro
Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Napoli
Direzione Distrettuale Antimafia
M a r z o • a p r i l e
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33
1. A munnezza è oro
– “Dotto’, ’a munnezza è oro!”1 – Con questa colorita espressione, un collaboratore di giustizia, riferendosi a fatti di fine anni ’80, con un sorriso beffardo, iniziava la sua narrazione ai magistrati napoletani sulle potenzialità economiche dell’affare rifiuti per la criminalità organizzata. Quella affermazione, all’epoca considerata folcloristica e suggestiva, si è rivelata, con il trascorrere degli anni ed il susseguirsi delle indagini, particolarmente veritiera e capace di dipingere con poche parole un quadro di inquietante commistione fra criminalità
organizzata, imprenditoria, politica, malaffare.
Indagini complesse nel settore sono state compiute
dalla Direzioni Distrettuali Antimafia del meridione, ma
il “caso napoletano” o meglio campano, appare quello
maggiormente in grado di rappresentare un paradigma
per affrontare le diverse angolazioni del tema proposto.
Infatti è in Campania che si è assistito, prima e più
che in altri luoghi, all’occupazione da parte delle organizzazioni criminali mafioso-camorristiche di interi
settori dell’economia, sia nella gestione del ciclo legale
dei rifiuti, sia nello smaltimento illecito dei rifiuti speciali e pericolosi.
Deve infatti premettersi che le organizzazioni criminali nella consapevolezza, acquisita molto prima di
quanto abbiano fatto le istituzioni legali dello Stato, che
la “munenzza è oro”, hanno investito sia nel ciclo legale
che in quello illegale dello smaltimento dei rifiuti, attraverso accordi corruttivi con pezzi delle istituzioni e
dell’imprenditoria nazionale, ed acquisendo nel tempo
professionalità in tutti i settori di smaltimento dei rifiuti: solidi urbani, speciali, tossici e pericolosi. Si è accertato che la camorra ha investito in ogni settore del
traffico di rifiuti, presentandosi pronta a fronteggiare
ogni esigenza del mercato, legale ed illegale:
• La raccolta, lo stoccaggio e lo smaltimento dei
rifiuti industriali, dei rifiuti speciali e dei rifiuti
tossici e nocivi;
• la gestione illegale di discariche abusive per lo
smaltimento di rifiuti di diverso genere, compreso quelli solidi urbani;
• il controllo del sistema degli appalti pubblici per
la raccolta dei rifiuti, per la costruzione delle
discariche, e degli impianti speciali di smaltimento;
• la predisposizione delle imprese “mafiose” necessarie a risolvere le situazioni di emergenza, per la
raccolta, il trasporto e lo smaltimento;
• l’offerta delle professionalità utili per la bonifica
di zone devastate dalle discariche abusive;
1
Il presente articolo è tratto dalla relazione che l’autore ha tenuto al
C.S.M. al corso – 3356 – per la formazione dei magistrati in data 26
marzo 2009.
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D i r i t t o
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l’attività illegale di estrazione di materiale
da cave o specchi di acqua e la successiva
riutilizzazione di tali zone con lo sversamento
illegale di rifiuti, così facendo sistema con l’altro
grande affare legato al ciclo del calcestruzzo.
Di converso miopia politica e affarismo clientelare
hanno caratterizzato l’arretramento degli enti territoriali di fronte al problema smaltimento, con la creazione di una voragine coperta dalla diretta partecipazione
della camorra a tali attività economiche.
Dunque, deve innanzitutto sfatarsi la diffusa convinzione che quando nel settore dei rifiuti si parla di
ingerenze e di interessi della criminalità organizzata, si
sta trattando esclusivamente degli sversamenti illeciti
in discariche non autorizzate. La mafia e la camorra
con i rifiuti hanno sempre da guadagnare e, se sono
certamente in grado di garantire gli sversamenti illeciti, con costi evidentemente concorrenziali rispetto alle
procedure legali (in particolare per rifiuti speciali e
pericolosi), esse hanno anche acquisito, per mezzo di
imprese-mafiose professionalità e disponibilità di mezzi, per infiltrare il ciclo legale dei rifiuti.
Nel settore degli sversamenti illeciti sono stati monitorati i trasporti di tonnellate di rifiuti speciali e
tossici provenienti per lo più dalle imprese industriali
del Centro Nord e destinati ad improvvisate discariche
della provincia di Napoli e di Caserta. Il territorio
cambiava, vecchie cave venivano riempite, e nuove
collinette spuntavano, colme di rifiuti e di fusti coperti da terreno ed erbacce2. Con conseguenti falde acquifere contaminate e prodotti della terra avvelenati. In un
sistema in cui tutti ricavano un guadagno: l’imprenditore industriale perché riesce a smaltire a prezzi dimezzati, con tanto di documentazione certificante lo smaltimento, l’imprenditore del trasporto perché si garantisce inimmaginabili volumi d’affari, il camorrista perché
ricava una fonte irripetibile di guadagno costante (i
rifiuti non finiscono mai), lontana dagli ordinari controlli delle forze dell’ordine, generalmente impegnate a
reprimere i reati “violenti” del clan (estorsioni e fatti
di sangue)3.
2 Con conseguente demitizzazione del tradizionale codice d’onore
propalato per decenni dalla stessa criminalità organizzata, che si è
costantemente vantata del consenso fondato sulla teoria della “difesa del propria gente e del proprio territorio”. Le indagini hanno dimostrato in maniera univoca che il clan dei casalesi, per es., formalmente legato alla sua purezza mafiosa, non ha esitato a farsi artefice,
mosso da intenti esclusivamente di speculazione e profitto economico, di uno dei più gravi disastri ambientali del nostro Paese, avvelenando i terreni dell’agro aversano, riversando rifuti tossici e pericolosi di provenienza industriale, smaltendo fanghi tossici capaci di
inquinare le falde acquifere di una terra fertilissima e fonte di prodotti di altissima qualità come la mozzarella di bufala o il pomodoro sammarzano.
3 In altre parole, se l’ingresso della camorra nel settore dei rifiuti è
determinato dalla ricerca di profitti illeciti, l’incontro con l’impresa
p e n a l e
34
Nel settore del ciclo legale dei rifiuti, la criminalità
organizzata ha infiltrato le procedure di aggiudicazione degli appalti, con imprese ad essa collegate o del
tutto controllate dai clan4. Come si vedrà, nel tempo il
sistema dell’ infiltrazione mafiosa nel ciclo dei rifiuti,
si è avvalso di diverse modalità operative, tutte finalizzate a medesimo obiettivo, ma sempre più raffinate.
Dallo schema classico dell’impresa amica “imposta”
nelle procedure di aggiudicazione o, preferibilmente,
nell’affidamento dei subappalti, si è passati alla tecnica
del “tavolino” a tre gambe (il politico o funzionario sua
espressione, l’imprenditore, il camorrista) quale luogo
parallelo e prevalente di determinazione delle scelte
dell’ente pubblico; fino a giungere all’impresa mafiosa
che oggi appare in grado, grazie alle notevoli disponibilità economiche ed al know-how acquisito di gareggiare e vincere le gare in tutta autonomia, da oligopolista del settore che non teme il confronto con gli altri
competitori economici ed imprenditoriali.
L’ impresa mafiosa, ormai di terza generazione, ha
allontanato completamente da sé, il legame visibile con
la sua provenienza criminale ed opera sul mercato forte della sua autonoma capacità imprenditoriale.
Intendiamoci: l’emergenza e la crisi sono sempre
benvenute, in qualsiasi settore di intervento, per la criminalità organizzata, poiché esse sono sintomo di disorganizzazione, di mancanza di regole, di provvedimenti
straordinari da adottare, di necessità imprenditoriali da
assolvere in poco tempo, tutte condizioni in cui chi esercita il controllo del territorio e dispone di immense liquidità economiche e finanziarie, riesce a presentarsi come
“l’unica soluzione al problema”, di fronte alle incapacità politiche, agli appetiti della burocrazia, ed alle necessità delle imprese produttive. La crisi poi, come puntualmente avvenuto in Campania, richiama interventi
avviene perché quell’offerta incontra una corrispondente domanda
di servizi illegali, tali da ridurre i costi e, quindi, massimizzare i
profitti. L’impresa chiede un servizio alla camorra e la camorra offre
tale servizio: essa si fa carico della domanda delle imprese italiane di
scaricare sulla collettività e sulle generazioni future il peso economico di una corretta gestione del ciclo dei rifiuti.
4Nell’ambito di indagini condotte dalle Direzioni Distrettuali Antimafia, si è puntualmente constatato, per esempio che nella documentazione contabile di noti esponenti mafiosi, sequestrata nell’ambito di
attività di diversa natura, si rinvenivano documenti da cui emergeva
l’incidenza della tangente tratta dal servizio di raccolta degli rsu. Si
rilevava da singole investigazioni poi, con significativa regolarità,
l’assunzione sistematica di familiari di esponenti di clan camorristici
nelle società affidatarie dei servizi; noli, da parte degli enti pubblici,
di veicoli di proprietà di persone legate ad affiliati; l’acquisizione
della gestione di siti – uso discarica o stoccaggio provvisorio – nella
titolarità di persone vicine ai clan. Si accertava la sorprendente identità soggettiva – nel tempo – degli intermediari operanti sul mercato
dei rifiuti, già arrestati o indagati, per le relazioni con le organizzazioni mafiose. Si tratta di un quadro talmente pregno di concordanti evidenze indiziarie da poter essere agevolmente sostenuta la tesi
che vede nel controllo del ciclo gestionale dei rifiuti uno degli scopi
tipici del programma delle organizzazioni mafiose, evidentemente
per la sua particolare redditività.
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m a r z o • a p r i l e
emergenziali dal punto di vista istituzionale ed economico: di qui il Commissariato per l’emergenza rifiuti ed
un fiume di denaro di volta in volta, per quindici anni,
riversato nella disponibilità di funzionari a volte corrotti e spesso incapaci. Soldi da impiegare nei consorzi, nel
nolo dei mezzi, nella costruzione delle discariche, tutti
settori nei quali la concorrenza fra gli imprenditori interessati è stata spiazzata dall’intervento criminale delle
imprese della camorra. Recentemente poi, l’emergenza
ha ispirato interventi normativi speciali ed eccezionali,
di discutibile compatibilità costituzionale, quali quelli
del D.L. 90 del 2008 (conv. in L. 123/08) che ha istituito la Procura regionale in materia di rifiuti e quello del
D.L. 6 novembre 2008, conv. in L. 210/2008 che ha
introdotto nuove fattispecie sanzionatorie vigenti solo
nei territori in cui vige lo stato di emergenza.
Questo dunque il quadro di riferimento della nostra
riflessione sul tema in trattazione.
Con l’ulteriore precisazione che l’attività di indagine
ha scontato per lungo tempo l’assenza di specifici strumenti normativi di contrasto. È mancato infatti fino al
2001 un delitto che sanzionasse le condotte principali;
l’inquadramento del caso giudiziario nel delitto associativo si presentava particolarmente difficile anche
perché i possibili reati-fine di natura ambientale avevano natura di contravvenzioni, residuando solo le ipotesi, assai difficili da provare, di falso e corruzione. Solo
grazie all’entrata in vigore del primo delitto ambientale, sanzionante il traffico illecito di rifiuti in forma
organizzata, che ha costituito il punto di riferimento
normativo per imbastire indagini che avessero fin
dall’inizio l’obiettivo di investigare i rapporti fra criminalità organizzata e violazione della normativa ambientale e sui rifiuti, si è assistito ad una vera svolta normativa e nel contrasto investigativo5.
I temi appena anticipati possono essere dal lettore
ulteriormente approfondito anche attraverso la consultazione di alcune fonti aperte, vale a dire gli studi e le
istruttorie che organismi istituzionali e scientifici hanno compiuto nel settore6.
5
Si tratta dell’art. 53/bis del D.Lgs n. 22/97, che è stato introdotto
dalla legge 23 marzo 2001, n. 93 e che oggi è riproposto nell’art. 260
D.Lgs. 152/06).
6In particolare hanno dato ampio spazio al tema:
1. La relazione del Procuratore nazionale antimafia sulle attività
dell’anno 2008, in cui fra l’altro si può leggere: … sicché oggi può
in generale affermarsi che la c.d. ECOMAFIA … veste i panni
della camorra … E può affermarsi che, mentre nei tempi passati
una buona fetta dell’economia napoletana si basava sul contrabbando, il cui indotto garantiva la sopravvivenza di larghi strati
della popolazione, nel presente è l’emergenza rifiuti che svolge lo
stesso ruolo. Il che spiega come spesso essa venga creata e mantenuta ad arte. Con la camorra sempre di sottofondo …
2. La relazione della Commissione Parlamentare Antimafia – 20
febbraio 2008: … è accaduto, infatti, che porzioni anche apicali della pubblica amministrazione e della stessa struttura commissariale, in questa condizione di opacità istituzionale e politica, abbiano concluso con imprese collegate alla criminalità or-
2 0 0 9
35
ganizzata campana vere e proprie joint ventures, consentendo a
queste ultime di sfruttare i canali dell’emergenza anche per i
traffici illeciti di rifiuti speciali … L’esito, paradossale ma non
inspiegabile, è quello di una camorra che – più che fomentare
rivolte di piazza contro l’apertura di discariche e siti di stoccaggio provvisorio – osserva interessata l’evoluzione dell’ennesima
emergenza; in attesa di poter approfittare di una fase in cui
l’esigenza di interventi rapidi non consente di condurre verifiche
approfondite sulla trasparenza delle imprese chiamate a cooperare; in attesa, soprattutto, di potersi presentare agli occhi delle
comunità locali come coloro che hanno difeso i territori dall’occupazione da rifiuti. E così rischia di svanire anche la memoria
dell’oltraggio compiuto dalla camorra su quegli stessi territori,
spesso trasformati in lucrose discariche da rifiuti tossici.
3. La relazione della Commissione Parlamentare di inchiesta sul
ciclo dei rifiuti – 13 giugno 2007: … l’esperienza di questi ultimi
anni della Campania ha mostrato, in particolare, un ulteriore
profilo di novità: la criminalità organizzata è passata, nel settore dei rifiuti, da soggetto esterno al circuito istituzionale e gestionale, interessato ad inserirsi nei canali di erogazione della spesa
pubblica, a soggetto sempre più presente negli snodi decisionali
… L’emergenza nell’emergenza – cioè la vera emergenza, quella
determinata dall’esaurimento delle discariche a disposizione – ha, sempre con maggiore frequenza, imposto soluzioni di
brevissimo periodo, ed è allora che, sia pure in taluni casi e
senza connotazioni di sistematicità, la criminalità organizzata si
è presentata come uno dei soggetti in grado di offrire risposte
immediate…La camorra, infatti, si è da sempre contraddistinta
per un controllo di alcune aree del territorio, non disgiunto
dalla capacità di influenzare il consenso delle realtà locali. Sicché,
nel momento in cui è stato necessario reperire nuovi siti da
adibire a discarica e, per giunta, si è scelta la strada di demandare al soggetto privato affidatario la scelta di tali siti, nell’ impossibilita` di attivare i fisiologici meccanismi di coinvolgimento
delle comunità, si è, in taluni frangenti, imboccata la scorciatoia
del rapporto con quei soggetti che di fatto hanno dato dimostrazione di essere in grado controllare il consenso.
4. Il rapporto ecomafia 2008 di Legambiente: La lotta tra clan e
magistratura – Continua, nel silenzio, la mattanza ambientale in
Campania. Tonnellate e tonnellate di veleni continuano ad essere smaltiti illegalmente in quella che una volta era la Campania
Felix. Una vera e propria guerra senza esclusioni di colpi tra clan
e forze dell’ordine e magistratura. Una guerra senza vincitori e
vinti. Da un lato, una magistratura che con abnegazione risponde agli ecocriminali con numerose inchieste ed operazioni. anche
con arresti eccellenti; dall’altro, un lavoro che viene spesso reso
inutile visto che i sequestri e i veleni smaltiti rimangono sul
territorio ad inquinare le falde acquifere in attesa di essere rimossi e le aree bonificate. Sullo sfondo sempre il clan dei casalesi, la camorra casertana del gruppo Schiavone, del controllo
militare e politico dei latitanti Michele Zagaria e Antonio lovine.
E se nel passato erano attivi nel trasporto e smaltimento dei rifiuti tossici, oggi come rileva la DDA si sono inflltrati, anche nel
settore della raccolta legale dei rifiuti solidi-urbani. Nel novembre del 2007, in un ‘inchiesta della DDA di Napoli durata due
anni circa, 20 persone vengono accusate a vario titolo di concorso esterno in associazione camorristica, estorsione, truffa e
corruzione aggravati dal favoreggiamento della camorra. Camorra, politica e rifiuti. Gestita dal clan la Torre. Una struttura
parallela, occulta ma non troppo, che controllava il comune di
Mondragone e che attraverso il Consorzio dei Rifiuti Ce4 gestiva il consenso elettorale ed il mercato del lavoro. Dalle attività
di indagini è emerso il rilascio sotto pressione del certificato
antimafia all’Ecoquattro dei Fratelli Orsi, la società che ha ottenuto l’appalto per la gestione dei rifiuti urbani all’interno del
consorzio Ce4; quest’ultimo, operante a Mondragone ed in altri
comuni del Litorale Domizio, veniva utilizzato in cambio di
appalti come pacchetto di voti per elezioni del consiglio comunale. Finiti in carcere, tra gli altri, Giuseppe Valente. ex presidente del Consorzio Ce4 e Aniello Pignataro affiliato del clan
La Torre. Clan che, con il contributo sostanziale dei politici
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2. La criminalità organizzata ed il traffico illegale di rifiuti
Come si è evidenziato, rilevanti interessi della criminalità organizzata sono stati riscontrati nel settore del
traffico illegale dei rifiuti. La camorra ha intercettato
la pressante domanda di imprenditori ed industriali di
procedere allo smaltimento dei rifiuti speciali o tossici
a basso costo, mettendo a disposizione un il classico
“pacchetto completo”: ricezione dei rifiuti, trasporto,
smaltimento, rendicontazione contabile e documentale attestante la legittimità delle procedure eseguite.
La notevole disponibilità di mezzi per il trasporto e di
ditte compiacenti, la consapevolezza di poter agire nel
territorio della provincia di Napoli e di Caserta senza
eccessivi controlli, e la concreta possibilità di sversare
in terreni abbandonati o di proprietari compiacenti,
in cave, o in discariche predisposte per il solo deposito dei rifiuti solidi urbani, la capacità di falsificare
fatture, bolle di accompagnamento e documenti, hanno consentito la predisposizione di un servizio assai
appetibile per gli imprenditori industriali7, interessati
avrebbe operato una “profonda infiltrazione -come ha rivelato
la Dda all’interno dell’amministrazione comunale di Mondragone, pressione e infiltrazione che hanno trovato un rilevantissimo ed indispensabile dato di sintesi e di collegamento tra
pubblica amministrazione e sodalizio criminale nella figura di
Giuseppe Valente”. Era lui il crocevia di politica, boss e imprese.
Soprattutto di rifiuti. Avrebbe imposto l’assunzione del figlio di
un boss, certo Giacomo Fragnoli, guarda caso come coordinatore della raccolta dei rifiuti, in modo da pilotare al momento
opportuno anche l’agitazione dei dipendenti. E nel febbraio 2008
arriva l’operazione “Eco boss”, un’espressione che evoca il
connubio tra reati ambientali e malavita organizzata. E il nome
adoperato per definire l’indagine dei carabinieri del Noe e del
Reparto territoriale di Aversa, che ha portato all’arresto di un
presunto boss del clan dei Casalesi, Giorgio Marano, di 48 anni,
nonché al sequestro di tre aziende attive nel settore rifiuti e di
alcuni terreni a destinazione agricola, dove per anni è stato
sversato illegalmente materiale proveniente soprattutto dal nord
Italia. I magistrati della Dda di Napoli sottolineano che per la
prima volta si sono raccolte le prove di una camorra che non si
limita più a infiltrarsi nel settore dello smaltimento ma si trasforma in protagonista dell’attività illecita gestendo in prima persona aziende e discariche abusive. Le indagini si sono basate su
intercettazioni risalenti a diversi anni fa e confluite in due importanti inchieste (Re Mida e Terra Bruciata) e nonché su recenti rivelazioni di un pentito, Domenico Bidognetti, cugino del boss
Francesco Bidognetti, conosciuto come Cicciotto ‘e Mezzanotte.
L’organizzazione, per non sostenere il costo del regolare smaltimento ha simulato nel tempo attività di compostaggio in realtà
mai effettuate, smaltendo invece abusivamente, su terreni agricoli rifiuti costituiti, tra l’altro, da fanghi di depurazione, per un
quantitativo di oltre 8 mila tonnellate ed un guadagno di circa
400 mila euro. Gran parte del materiale hanno sottolineato gli
inquirenti – proveniva da aziende della Lombardia. Sono stati
sequestrati anche tre vasti appezzamenti di terreno agricolo
nella provincia di Caserta, e locali in uso a una società di trasporti con tutti gli automezzi utilizzati. I reati ipotizzati sono di
concorso in traffico illecito di rifiuti e truffa aggravata ai danni
del Commissario di Governo per l’Emergenza Rifiuti, della
Regione Campania e degli Enti locali interessati alla raccolta e
allo smaltimento di rifiuti. … omissis…
7 È ormai acquisita al notorio giudiziario e di studio del fenomeno la
nozione di camorra come “una grande agenzia per la produzione di
servizi illegali” per i cittadini, gli imprenditori, i politici. Così nella
relazione della Procuratore Nazionale Antimafia del 2008: La prima:
p e n a l e
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a smaltire a basso costo e senza eccessive formalità
burocratiche.
Questo pacchetto completo, dunque, è stato fornito grazie a due modalità operative che qualificano la condotta
illecita: la c.d. declassificazione documentale dei rifiuti e
la emissione e utilizzazione di fatture false.
La declassificazione documentale consiste nel far perdere, solo dal punto di vista delle certificazioni (dei codici
CER), progressivamente al rifiuto la sua natura originaria, per farlo giungere a discarica con le caratteristiche,
fittiziamente documentate che ne consentono lo smaltimento. Attraverso il “giro bolla” o la “triangolazione”
i rifiuti transitano da uno stoccaggio all’altro o da un
impianti all’altro di più regioni, fino a giungere al sito
di smaltimento finale come idoneo al trattamento ed
alla ricezione. Il rifiuto naturalmente non cambia, non è
trattato e non subisce alcuna reale declassificazione; ciò
che cambia sono i documenti che lo accompagnano nel
lungo viaggio da una regione all’altra del Paese.
Alla fine lo smaltimento avviene in violazione della normativa. I reati configurati sono anche quelli di falso dei
certificati di analisi – FIR – (falsi materiali), dei documenti di trasporto, e delle bolle di accompagnamento.
In alcuni casi, invece, l’operazione è stata effettuata
con la complicità dei titolari degli impianti intermedi
di stoccaggio, che hanno provveduto ad emettere certificati di declassificazione, senza che il rifiuto fosse
transitato nell’impianto (falsi ideologici). L’operazione
insomma si è avvantaggiata di un nuovo complice, il titolare dell’impianto intermedio, il quale dovrà nel tempo, farsi autore di nuovi reati, volti a crearsi rilevanti
“costi” fittizi per giustificare le attività di trattamento
mai effettuate.
Si è dunque resa necessaria una costante emissione e
l’utilizzazione di fatture false, necessarie per la conduzione illecita degli impianti di trattamento rifiuti. In effetti le società operanti in maniera illecita acquisiscono
ogni visione del crimine organizzato campano sotto le insegne
dell’emergenza è il frutto di una evidente distorsione della realtà:
siamo in presenza di connotazioni strutturali dell’organizzazione
sociale ed economica di gran parte del territorio regionale. La seconda: la camorra non svolge semplicemente (né necessariamente) una
funzione vessatoria e parassitaria sull’impresa e l’economia legale.
Certo, tale dimensione (racket ed usura ne sono le più tipiche espressioni) non manca ed è, anzi, in molte aree presente oltre ogni soglia
di tollerabilità, ciò cui corrisponde un’obiettiva esigenza di aggiornata ricognizione del ruolo giocato da quelle tradizionali attività
delittuose nei processi di accumulazione finanziaria illegale e di
complessiva ristrutturazione della criminalità organizzata e di correlativa intensificazione dell’azione di prevenzione e repressione criminale. Si è in presenza di una gigantesca offerta di servizi criminali che
corrisponde e si nutre di una proporzionale domanda di abbattimento dei costi (e dunque di moltiplicazione delle opportunità di profitto) dell’impresa legale (e di una platea ancor più vasta di soggetti più
occasionalmente interessati a sfruttare le opportunità del ricorso a
pratiche delittuose: dalla partecipazione a truffe in danno di compagnie assicurative alla realizzazione di opere edilizie abusive, dal
procacciamento di merci di provenienza delittuosa alla “mediazione”
dei conflitti).
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un introito di molto superiore alle uscite e, comunque,
di molto superiore ai normali ricavi di mercato per le
aziende che operano lecitamente nello stesso settore. Ne
deriva pertanto la necessità di determinare un fittizio
aumento dei componenti negativi del reddito nel bilancio di esercizio, atto a ridurre l’enorme massa dell’utile
scaturente dall’attività realizzata8.
2.1 - Il traffico organizzato di rifiuti – art. 260 D.Lgs.
152/60 – il concorso con i reati associativi e con la
fattispecie di disastro ex art. 434 c.p.
L’introduzione, nel marzo 2001 di questo reato ha segnato una sicura svolta nel contrasto ai crimini ambientali ed all’ecomafia9. Innanzitutto perché si è teorizzato,
dal punto di vista normativo, il traffico organizzato di
rifiuti e poi perché si è qualificata la fattispecie come
delitto, a fronte del precedente catalogo di contravvenzioni che sanzionavano le condotte illecite in materia
ambientale.
Le ricadute sulle indagini sono state molteplici e di
grande rilievo:
• l’evidente maggiore capacità preventiva di una
norma sanzionata con la reclusione;
• l’allungamento dei termini di prescrizione a
fronte di indagini spesso complesse che possono essere attivate anche a distanza di tempo
dal fatto (es. a seguito delle propalazioni di un
collaboratore di giustizia);
• la possibilità di attivare intercettazioni di comunicazioni;
• la concreta applicabilità dell’aggravante mafiosa dell’art. 7 L. 203/91 (con conseguente utilizzazione dei vantaggi del “doppio binario”),
• la riconducibilità di tale delitto nel novero dei
reati fine di una associazione per delinquere,
semplice o di stampo mafioso. In effetti la norma prescinde dalla esistenza di un vincolo associativo, potendo configurarsi anche in capo al
singolo o a più soggetti in concorso occasionale
fra loro. Si comprende però come, nella generalità dei casi essa si pone invece come estrinsecazione concreta di un programma criminoso stabile e duraturo, spesso di natura mafiosa, che
comprende anche la commissione di altri reati,
quali quelli legati ai falsi documentali e quelli
di corruzione o turbativa degli incanti. Non a
caso è stata affermata, senza dubbio, la piena
compatibilità di tale delitto con le fattispecie
associative, con cui può concorrere, pur par-
8
Queste fittizie operazioni si realizzano, generalmente, per mezzo di
società cd. “cartiere”, o mediante il sistema delle operazioni “carosello”.
9 In effetti l’ originario art. 53 bis del Decreto Ronchi è rimasto sostanzialmente immutato anche nel nuovo Testo Unico dell’ Ambiente (art. 260)
2 0 0 9
37
tecipando essa stessa della natura di “delitto di
criminalità organizzata”. Del resto che i delitti
possano concorrere, pur denotando alcuni elementi della condotta in comune appare evidente anche dal confronto dei diversi beni giuridici
tutelati, quello dell’ambiente e della pubblica
incolumità, da un lato e quello dell’ordine pubblico dall’altro.
La caratteristica precipua di queste organizzazioni è
data dal fatto che esse si muovono in ambito illecito, in
quanto tutta l’attività del gruppo si contraddistingue per
il mostrare totale dispregio della normativa di settore,
fraudolento aggiramento dei dettami normativi, e nel
procurare un conseguente inestimabile danno ambientale. Il dato allarmante è infatti dato, oltre che dall’estensione dello sviluppo dell’attività criminale, anche dal
fatto che il risultato della condotta illecita non è solo
l’immediato consistente profitto personale degli indagati ma anche un danno ambientale di notevoli proporzioni. La norma, che dal punto di vista soggettivo richiede
il dolo specifico dell’agente, vale a dire il fine di conseguire un ingiusto profitto, patrimoniale o non, derivante dalla violazione delle regole amministrative che regolano l’attività di gestione dei rifiuti, sanziona, dal punto
di vista oggettivo una pluralità di condotte: cessione,
ricezione, trasporto, esportazione, importazione o, comunque, gestione di rifiuti svolte in modo abusivo, cioè
in violazione delle regole amministrative10.
Le caratteristiche qualificanti della condotta, che
deve in ogni caso sempre concretizzarsi “in più operazioni” e non uno actu, devono però individuarsi nell’
“allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate”.
Basta comunque leggere alcune sentenze della Suprema Corte per inquadrare la fattispecie:
“(…) Il delitto previsto dall’art. 53/bis del D.Lgs
n. 22/97 (introdotto dalla legge 23 marzo 2001, n.93)
riguarda chiunque, al fine di conseguire un ingiusto
profitto, abbia allestito una vera e propria organizzazione professionale con cui gestire continuamente, in
modo illegale, ingenti quantitativi di rifiuti. La gestione
dei rifiuti e le altre condotte previste come illecito devono concretizzarsi in più operazioni ed intervenire
attraverso allestimento di mezzi e attività continuative
organizzate ed entrambi gli aspetti devono configurar-
10 Tali condotte, fra l’altro, se non compite in forma organizzata, rilevano singolarmente nella forma contravvenzionale prevista dall’art.
256 D.Lgs. 152/06), con possibile concorso fra i due reati, essendo
gli stessi predisposti a tutela di beni giuridici distinti, e cioè la tutela
della pubblica incolumità per l’ipotesi di cui all’art. 260, e l’ambiente per il reato di cui all’art. 256.
Allo stesso modo sussisterà concorso con altri reati quali quelli
sanzionati dall’art. 258 comma 4 D.Lgs. 152/06 in relazione all’art.
483 c.p. nonché quelli di corruzione, danneggiamento, disastro
ambientale e di false fatturazioni.
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si cumulativamente” – (Cass. Sez. III, 17 gennaio 2002,
Paggi).
Le condotte sanzionate, a giudizio di questo Collegio, si riferiscono a qualsiasi “gestione” dei rifiuti
(anche attraverso attività di intermediazione e commercio) che sia svolta in violazione della normativa speciale disciplinante la materia, sicché esse non possono
intendersi ristrette dalla definizione di “gestione” delineata dall’art. 6, 1° comma – lett. D), del D.Lgs
n. 22/97, né limitare ai soli casi in cui l’attività venga
svolta al di fuori delle prescritte autorizzazioni. (…) 2.4
correttamente è stata ravvisata la sussistenza dell’elemento della gestione di “ingenti quantitativi” di rifiuti.
Il termine “ingente” ha un chiaro significato semantico
nel linguaggio comune e –a giudizio di questo collegio – deve riferirsi all’attività abusiva nel suo complesso, cioè al quantitativo di rifiuti complessivamente gestito attraverso la pluralità di operazioni (le quali, singolarmente considerate, potrebbero avere ad oggetto
anche quantità modeste) e non può essere desunto automaticamente dalla stessa organizzazione e continuità
dell’attività di gestione dei rifiuti (in senso conforme
vedi Cass., Sez. VI, 13.7.2004, n. 30373, P.M. in proc.
Ostuni). (…) 2.5 il reato ipotizzato è punibile a titolo
di dolo specifico, in quanto la norma richiede in capo
all’agente il fine di conseguire un “profitto ingiusto”.
Tale “profitto” non deve necessariamente assumere
natura di ricavo patrimoniale, ben potendo lo stesso
essere integrato dal mero risparmio di costi o dal perseguimento di vantaggi di altra natura. Non è affatto
necessario, però –ai fini della perfezione del reato- l’effettivo conseguimento di un vantaggio siffatto.
Nella fattispecie in esame –tenuto conto che l’impresa che conferisce i fanghi normalmente paga i propri
conferimenti –un’ipotesi di profitto può ragionevolmente ipotizzarsi non solo in un risparmio di costi
nell’effettuazione dei conferimenti ad una ditta riutilizzatrice piuttosto che ad un’altra, ovvero ad un’impresa
di gestione di una discarica, ma anche (e ciò, nella specie, assume valenza pregnante) nella stessa possibilità
di effettuare conferimenti che non sarebbero possibili,
ovvero richiederebbero costi maggiori, in considerazione dell’effettivo grado di pericolosità dei rifiuti che si
intende conferire (onde il vantaggio connesso al mascheramento dei componenti effettivi dei rifiuti medesimi)” – (Cass. Sez. III, sent. n. 1037 depositata in
data 10 novembre 2005).11
11 In effetti, quanto all’ingiusto profitto, esso può essere individuato
in diverse forme di guadagno o di acquisizione di utilità per effetto
della perpetrazione della condotta illecita: può trattarsi di un ricavo
in senso tecnico, per effetto della acquisizione di ingenti guadagni
per aver per esempio ricevuto grandi quantità di rifiuti da interrare,
o per avere compiuto il trasporto di rifiuti tossici o industriali; oppure può consistere in un risparmio di spesa, vantaggio per esempio
p e n a l e
38
“(…) La questione sollevata dell’art. 53 bis D.L.vo
n. 22/97 merita di essere attentamente esaminata anche
alla luce della genesi parlamentare della norma ma
soprattutto nel suo tenore letterale, logico e sistematico.
L’art. 53 bis del D.Lvo 05 febbraio 1997 n. 22 è
praticamente il primo delitto “ambientale” previsto nel
nostro ordinamento ed è stato introdotto riproducendo,
anche se con alcune modifiche, la fattispecie contenuta
nel progetto governativo che prevedeva l’introduzione
nel codice penale dell’art. 452 quater; questa disposizione si era resa necessaria perché la Commissione
Ecomafia del Ministero dell’Ambiente aveva ritenuto
che l’ipotesi contravvenzionale dell’art. 53 D.Lvo 22/97
si fosse dimostrata di scarsa efficacia general-preventiva rispetto alla invece notevole gravità dell’illecito che
si è inteso poi perseguire appunto con l’art. 53 bis citato. Detto delitto si sostanzia nella condotta di “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più
operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi ed attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta,
esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente
ingenti quantitativi di rifiuti..”.
Per la sussistenza del reato di cui all’art. 53 bis D.
Lvo 22/97 è quindi necessario:
a) l’autore del reato può essere “chiunque”: la pluralità
di agenti non è richiesta come elemento costitutivo
della fattispecie. Trattasi di una fattispecie monosoggettiva e non di concorso necessario, anche se nella
pratica può assumere di fatto carattere associativo e
di criminalità organizzata;
b) l’elemento soggettivo richiesto dalla norma è il dolo
specifico, ossia il fine di conseguire un ingiusto profitto (ricavi o risparmi nei costi);
c) l’elemento oggettivo consiste in una attività di gestione dei rifiuti “organizzata”, con allestimento dei
mezzi necessari, ossia in una attività “imprenditoriale”;
d) l’attività di gestione mira al traffico illecito, come si
ricava dal titolo della norma, e può riguardare una o
più delle diverse fasi in cui si concreta ordinariamente la gestione dei rifiuti nella fase dinamica (cessione;
ricezione, trasporto, esportazione ed importazione),
sia interna, che internazionale (le condotte non sono
tassative come emerge dall’avverbio “comunque”);
e) l’attività di gestione deve essere caratterizzata non
dalla episodicità, ma da una “pluralità di operazioni” e dalla “continuità” in senso temporale: il
“traffico illecito” ha senso se è caratterizzato da più
dell’imprenditore che risparmia, attraverso lo smaltimento illecito,
rispetto agli ingenti costi dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani o
di quelli speciali e tossici nei centri specializzati; inoltre deve calcolarsi l’omesso pagamento della cd. ecotassa.
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operazioni e se presenta un elemento temporale adeguato;
f) il quantitativo di rifiuti deve essere “ingente”: l’interprete dovrà valutare caso per caso questo requisito,
traendo elementi di comparazione anche dalle previsioni di reati contravvenzionali in tema di rifiuti (es.
art. 51, 2° comma D.L.vo 22/97; art. 51, 3° comma
stessa legge) e soprattutto considerando la specificità
ed autonomia delle singole figure (art. 51 bis, 52 e
53 D.L.vo 22/97);
g) l’attività di gestione deve essere “abusiva” (mancanza di autorizzazioni, iscrizioni o comunicazioni
previste dalla normativa od anche autorizzazioni
scadute o palesemente illegittime) con riferimento
ad attività organizzata clandestina od anche apparentemente legittime;
h) l’offensività della condotta non riguarda necessariamente la messa in pericolo della incolumità pubblica (questo requisito non è citato nella norma, anzi
–come si è detto – non è stato recepito nella forma di
un art. 452 quater cod. pen. Tra i delitti contro l’incolumità pubblica, che toccano la integrità fisica delle persone nel loro insieme e la sicurezza della vita),
ma certamente attiene –sia pure non ontologicamente ed in modo indiretto – al bene giuridico dell’ambiente (la minaccia grave di un danno ambientale
o lo stesso danno ambientale non sono presenti in
modo oggettivo ed assoluto, ma eventualmente possono accedere alla attività del colpevole, sicché non
costituiscono condizioni di punibilità, dovendo essere (come conseguenza eventuali del reato) accertati
caso per caso: il fatto che il legislatore preveda la
riduzione in pristino e la eliminazione del danno o
del pericolo per l’ambiente nell’art. 53 bis, 4° comma D.Lvo 22/97 non trasforma il reato in reato di
danno o pericolo concreto e non riduce le sanzioni amministrative in un obbligo automatico per il
giudice (opportunamente il legislatore introduce la
clausola “se possibile”).
Il traffico illecito di rifiuti, anche quando organizzato ed abituale, con ingenti quantità di rifiuti, ordinariamente produce un reale pericolo per l’ambiente o di
fatto un danno ambientale, tuttavia, si ripete, il reato
sussiste quando ne ricorrono i presupposti formali e
non è di per se un reato di danno o di pericolo concreto, pur dovendo questi aspetti essere valutati dal giudice quali conseguenze eventuali del reato.” ( Cass., Sez.
III, n. 1446 del 16 dicembre 200512).
12 Rilevano altresì la sentenza, Cass, Sez. II, Sentenza n. 19839 del 2006,
ud. 16 dicembre 2005, sub g, dove si chiarisce il significato di gestione “abusiva”, rilevandosi che ricorre il delitto nel caso di attività
effettuata senza le autorizzazioni, iscrizioni, comunicazioni previste
dalla normativa, o in presenza di autorizzazioni scadute o palesemente illegittime; la condotta abusiva richiesta per l’integrazione
della fattispecie contestata indubitabilmente comprende “oltre quel-
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39
Proprio in relazione al danno, deve evidenziarsi come
la giurisprudenza abbia più volte precisato le caratteristiche del danno ambientale che è una conseguenza
quasi fisiologica del traffico organizzato di rifiuti13. In
particolare la Suprema Corte ne ha evidenziato la triplice dimensione: personale, quale lesione del fondamentale diritto all’ambiente salubre da parte di ogni individuo; sociale, quale lesione del diritto all’ambiente nelle
articolazioni sociali nelle quali si sviluppa la personalità umana; pubblica, quale lesione del diritto-dovere
pubblico spettante alle Istituzioni centrali e periferiche14.
In concreto è evidente che il danno provocato dalla
violazione della normativa ambientale si realizza attraverso l’inquinamento dei terreni, la contaminazione
delle falde acquifere, l’alterazione della flora e delle
coltivazioni, la modifica finanche della linea paesaggistica, con conseguente affiancamento dell’emergenza
alimentare a quella ambientale. Il danno ambientale
diviene dunque disastro ambientale15, con diretta incidenza sulla salute delle persone ed con il danneggiamento irreversibile di luoghi e di cose16.
la effettuata senza alcuna autorizzazione, e quella avente per oggetto
una tipologia di rifiuti non rientranti nel titolo abilitativo, anche
tutte quelle attività che, per le modalità concrete con cui sono esplicate, risultano totalmente difformi da quanto autorizzato, sì da non
essere più giuridicamente riconducibili al titolo abilitativo rilasciato
dalla competente Autorità amministrativa” (cfr. anche Sez. III,
nn. 40828 e 40827 del 6 ottobre 2005; Sez. III, n. 12433 del 2006,
ud. 15 novembre 2005), ovvero risultino realizzate mediante “manipolazioni fraudolente dei codici tipologici” (cfr. Sez. III, n. 45598
del 06 ottobre 2005)
13 Una precisa nozione di danno ambientale è di particolare rilievo in
relazione alla ammissibilità della costituzione di parte civile da parte
delle associazioni e degli enti costituiti a tutela di diversi “interessi
ambientali”.
14 (cfr. Cass. Sez. III sent. n. 22539 del 10 giugno 2002, rel. Fiale,
imp. P.M. in proc. Kiss Gmunter in RV 221880 e Cass. Sez. III sent.
439 del 19 gennaio 1994, rel. Postiglione, imp. Mattiuzzi in RV
197044).
15 Pur non esistendo una norma specifica, il disastro ambientale è sicuramente sanzionato dall’art. 434 c.p. che punisce il pericolo di
crollo e “qualsiasi altro disastro” e rappresenta una sorta di “fattispecie di chiusura” del sistema. Si tratta di un reato che tutela la
“messa in pericolo” del bene “incolumità pubblica”, indipendentemente dal verificarsi in concreto del danno, il quale però si prefigurato come verosimile per effetto di condotte che mettono a rischio
l’incolumità di un numero indefinito di persone. Dunque un reato di
pericolo presunto, rientrante nella categoria dei reati di pura condotta, ovvero di quelli per i quali si prescinde dalla causazione di un
evento, in cui il legislatore anticipa al massimo il momento della
punibilità della condotta, in considerazione della estrema rilevanza
dei beni tutelati.
Si è correttamente fatto notare, dal punto di vista del pubblico ministero che coordina le indagini che l’iscrizione del delitto ha una sua
rilevanza pratica poiché, se congiunta con l’iscrizione del delitto di
cui all’art. 416 c.p., consente – per effetto del combinato disposto di
cui alle disposizioni ex art. 407 n. 7 c.p.p. – art. 380, lett. l)
c.p.p. – una durata dei termini di indagini preliminari prorogabili
fino a due anni, investigazioni inoltre segrete entro l’anno, ex art.
405/2 c.p.p.; e per la prossimità tra il delitto di traffico organizzato
di rifiuti con il delitto associativo comune e proprio con il disastro,
appare probabile l’iscrizione congiunta dei delitti richiamati.
16 Il legislatore ha esteso l’obbligo del ripristino ambientale anche al reato di cui all’art. 53 bis D.Lgs. 22/97, oggi 260 codice dell’ambiente.
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Secondo la Sez. III, Sentenza n. 9418 del 16 gennaio
2008 Cc. (dep. 29 febbraio 2008 ) Rv. 239160, “Requisito del reato di disastro di cui all’art. 434 c.p. è la potenza espansiva del nocumento unitamente all’attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero
indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane. (Fattispecie di disastro ambientale caratterizzata da una imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque
di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi)”.
Secondo la Corte di Cass., Sez. IV, Sentenza n. 19342
del 20 febbraio 2007 Ud. (dep. 18 maggio 2007) Rv.
236410, “Per la configurabilità del reato di disastro
innominato colposo di cui agli articoli 449 e 434 c.p. è
necessaria una concreta situazione di pericolo per la
pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un
giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo
fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non
individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l’effettività
della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione “ex ante”,
accertata in concreto, ma la qualificazione di grave
pericolosità non viene meno allorché, eventualmente,
l’evento dannoso non si è verificato: ciò perché si tratta
pur sempre di un delitto colposo di comune pericolo, il
quale richiede, per la sua sussistenza, soltanto la prova
che dal fatto derivi un pericolo per l’incolumità pubblica e non necessariamente anche la prova che derivi un
danno.” … “il delitto di disastro colposo innominato – di cui agli artt. 449 e 434 c.p., contestati agli
odierni ricorrenti al capo B) dell’imputazione – richiede
un avvenimento grave e complesso con conseguente
pericolo per la vita o l’incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria
una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di
probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a
ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie
determinate di soggetti; ed, inoltre, l’effettività della
capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere, con valutatone ex ante, accertata in
concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non
viene meno allorché, eventualmente, l’evento dannoso
non si è verificato”
…È dunque “corretta la logica conclusione che la
prova del pericolo non debba essere traslata da quella
dell’avvenuto danno cagionato dalla condotta colposa,
in quanto si andrebbe incontro inevitabilmente ad una
contraddizione in punto di diritto, quella cioè di travisare la vera natura del delitto di disastro innominato
(alias, altro disastro) colposo, di cui all’art. 449 c.p.,
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negandone l’appartenenza al genus dei delitti colposi di
comune pericolo, il quale richiede – per effetto del richiamo alla nozione di altro disastro preveduto dal
capo 1^ del titolo 6^ del libro 2^ del codice di rito, del
quale fa parte l’art. 434 c.p. – soltanto la prova che dal
fatto derivi un pericolo per la incolumità pubblica e non
necessariamente anche la prova che derivi un danno”.
La sufficienza dell’esposizione al pericolo di un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti, è esplicitamente
affermata dalla Corte di Cass. Sez. IV, Sentenza n. 5820
del 03 marzo 2000 Ud. (dep. 19 maggio 2000 ) Rv.
216602, secondo cui “Il delitto di disastro colposo di
cui all’art. 449 c.p. richiede un avvenimento grave e
complesso con conseguente pericolo per la vita o l’incolumità delle persone indeterminatamente considerate al riguardo; è necessaria una concreta situazione di
pericolo per la pubblica incolumità nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all’attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo
un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti; ed,
inoltre, l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (c.d. pericolo comune) deve essere accertata in
concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non
viene meno allorché, casualmente, l’evento dannoso
non si è verificato”.
La delimitazione dell’evento nella fattispecie incriminatrice era ben delineata dalla Sez. V, Sentenza n. 40330 del 11 ottobre 2006 Cc. (dep. 07 dicembre
2006) Rv. 236295, secondo cui “si identificano danno
ambientale e disastro qualora l’attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma
connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da
risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati
effetti lesivi sull’uomo”.
Da ultimo, con la sentenza n. 9418, la Corte di
Cassazione, Sez. III, 29 febbraio 2008 (conferma Ordinanza del 03 agosto 2007 Trib. Libertà di Napoli) ha
ulteriormente delimitato l’ambito applicativo dell’art.
434 c.p.:
“Per configurare il reato di “disastro” è sufficiente
che il nocumento metta in pericolo, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone. Infatti, il requisito che connota la nozione di ‘disastro”
ambientale, delitto previsto dall’art 434 c.p., è la “potenza espansiva del nocumento” anche se non irreversibile, e ì”’attitudine a mettere in pericolo la pubblica
incolumità”. Nella specie, i Giudici hanno evidenziato
una imponente contaminazione di siti realizzata dagli
indagati mediante l’accumulo sul territorio e lo sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi. Tali condotte hanno insita
una elevata portata distruttiva dello ambiente con
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conseguenze gravi, complesse ed estese ed hanno una
alta potenzialità lesiva tanto da provocare un effettivo
pericolo per la incolumità fisica di un numero indeterminato di persone idonee a confermare gli arrestati
domiciliari a un imprenditore per Io smaltimento illecito di rifiuti speciali pericolosi.
Il termine “disastro” (nella specie ambientale) implica che esso sia cagione di un evento di danno o di pericolo per la pubblica incolumità “straordinariamente
grave e complesso”, ma non “eccezionalmente immane”
(Cassazione Sez. V, n” 40330/2006). Pertanto, “è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo,
collettivamente, un numero indeterminato di persone”
<Cassazione Sezione 5 sentenza 11486/1989).”
Quando la durata in termini temporali e l’ampiezza
in termini spaziali delle attività di inquinamento (in
specie gestione illecita di rifiuti), giustificano la sussunzione della fattispecie concreta nella contestata ipotesi
di reato di disastro innominato; questo delitto comporta un danno, o un pericolo di danno, ambientale di
eccezionale gravità non necessariamente irreversibile,
ma certamente non riparabile con le normali opere di
bonifica”.
In definitiva può trarsi la conclusione che i reati a
fattispecie associativa (416 bis e 416 c.p.), il traffico
organizzato di rifiuti (art. 260 T.U. ambiente) ed il disastro ambientale (art. 434 c.p.), sono gli strumenti di
diritto sostanziale di più efficace contrasto del fenomeno, da utilizzare in concorso per attivare le indagini più
invasive ed utili per l’accertamento dei fatti. Si tornerà
poi sulla natura del delitto di cui all’art. 260, interpretato come reato di criminalità organizzata.
3. La criminalità organizzata ed il ciclo legale dei rifiuti
Si è premesso come la partecipazione della criminalità organizzata alle attività economiche connesse alla
gestione e smaltimento dei rifiuti non si manifesti solo
nel segmento illecito del ciclo dei rifiuti, ma anche in
quello legale, attraverso l’infiltrazione delle procedure
di appalto, subappalto, nolo, concessione a cui le diverse istituzioni competenti devono assolvere nei diversi
ambiti. Il ciclo legale si caratterizza per la necessità di
predisporre strutture e mezzi che consentano la raccolta, il trattamento, lo smaltimento dei rifiuti di diversa
categoria.
Si tratta dunque di affidare numerosi servizi (raccolta, trasporto, differenziazione) la costruzione di opere
complesse (discariche, inceneritori, termovalorizzatori),
l’effettuazione di lavori integrati (bonifica di aree, recupero di cave inquinate).
Nel tempo la presenza mafiosa in questo settore si è
rafforzata ed incrementata secondo una progressione
che può, in via esemplificativa, ricostruirsi in relazione
al passaggio per diverse tecniche di infiltrazione del sistema, dal più semplice al più complesso.
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• La prima, più tradizionale ed immediata condotta riscontrata è quella tipica dell’intimidazione mafiosa, e
cioè dell’utilizzo della minaccia per ottenere la concessione di servizi e lavori, attraverso la coartazione
della libera scelta dei soggetti deputati all’effettuazione delle procedure. Tecnica, questa, molto congeniale ad una certa mafia o camorra degli anni ’80,
ma anche molto rischiosa perché esposta comunque
all’accertamento attraverso gli ordinari strumenti investigativi (es. intercettazione ed anche, sebbene in
casi limite, denuncia della vittima).
• Nel tempo la mafia si è affinata ed ha compreso come
il gioco non valesse la candela, e che si presentava
molto più sicuro e tale da garantire vantaggi stabili
e duraturi, un accordo corruttivo con i funzionari
o politici locali, per imporre l’impresa vincente. In
una prima fase questa impresa si presentava essenzialmente estranea all’accordo, ed anche al gruppo
criminale, ed era assoldata per l’occasione. In cambio garantiva percentuali sugli utili, tangente fissa,
assunzione di manodopera, subappalti ad altre imprese individuate dal clan17.
Questo sistema si è poi evoluto con l’assunzione
dell’imprenditore all’interno dell’accordo corruttivo e
mafioso, e la sua partecipazione diretta al tavolino a tre
gambe, insieme con il mafioso/camorrista e con il politico/funzionario. L’ingresso nel tavolino, però, comporta che l’imprenditore non è più soggetto terzo, titolare
di una sua impresa, assoldata dal clan per l’occorrenza.
Egli è parte dell’ente mafioso. La sua impresa, se preesistente, viene di fatto acquisita dal clan, che indica le
direttive gestionali e procura gli appalti. Altrimenti
l’impresa viene creata ad hoc, inserita nel sistema e,
dunque, nasce già mafiosa. L’imprenditore è un prestanome e la compagine sociale è generalmente complessa
e costituita con altri soggetti, alcuni più direttamente
legati al clan (familiari o affini di affiliati).
• Infine, quasi in una sorta di terza generazione, l’impresa mafiosa si presenta oggi in grado di vincere gli
appalti ed acquisire le concessioni, presentandosi da
sé, come impresa leader del settore, che ha nel tempo, grazie anche alle tecniche sopra indicate, acquisito una esperienza, un curriculum, un know how di
primo livello, difficilmente paragonabile a quello di
altri competitori. Lunga strada è stata fatta; le società e gli enti economici di riferimento si sono moltiplicati, è scomparsa la presenza di soggetti anche
indirettamente riconducibili al clan, al quale sono
destinati solo i proventi in maniera difficilmente controllabile. L’impresa mafiosa è in grado poi di fare ricerca, di adeguare i macchinari ed i mezzi alle nuove
tecnologie, di investire, poiché ha disponibilità eco-
17 In questo ambito è apparsa appropriata l’introduzione della fattispecie di reato ex art. 513 bis c.p.
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nomiche senza limiti, che provengono dalle grandi
ricchezze del clan, e sfugge ai gangli dell’ordinario
sistema bancario e creditizio al quale, per altro, se
necessario, può fornire ogni tipo di garanzia18.
Considerata la schematizzazione operata come una
mera semplificazione utile alla comprensione, in un sistema fluido complesso, nell’esperienza investigativa è
chiaro che i clan si servono di figure imprenditoriali,
inizialmente non riferibili al contesto associativo, che
assumono il ruolo dell’ “imprenditore – mafioso”, cioè
di colui che, non geneticamente mafioso, viene selezionato dal clan per gestire la specifica attività economica,
essendo necessario il suo contributo per le specifiche
competenze professionali apportate e per offuscare il
fuoco investigavo degli inquirenti.
All’imprenditore vittima, dunque, si sostituisce l’imprenditore complice. Si esclude infatti la responsabilità
nel caso di imprenditori assoggettati alla organizzazione criminale attraverso un rapporto fondato sulla mera
intimidazione e sulla pura coercizione, e che in genere
garantiscono al sodalizio la utilità rappresentata dal
versamento della tangente o da altro beneficio limitato.
Essi restano vittime della organizzazione criminale, a
patto di non trarre essi stessi vantaggio dall’azione intimidatoria del clan, per esempio per spiazzare la concorrenza di altre imprese in gara (cfr. 513 bis c.p.). Diverso
è il caso in cui l’imprenditore sviluppi un rapporto paritario con il gruppo mafioso, così che l’imprenditore
colluso è indotto a cooperare dalla prospettiva di vantaggi economici reciproci e, dopo aver trovato con il
mafioso un accordo attivo dal quale derivano impegni
reciproci di collaborazione e di scambio, sviluppa
all’esterno un tipo di azione dinamica e intraprendente,
fino a manifestare una generalizzata disponibilità verso
l’organizzazione criminosa, che impone una verifica
dello schema entro il quale si colloca la sua responsabilità (416 bis c.p., o 110-416 bis c.p.).
È chiaro che proprio in un settore come quello dei
rifiuti, ove occorre professionalità specifiche, l’accordo
politico – mafioso – imprenditoriale rappresenta il fulcro
del sistema, ben oltre quanto accada nei tradizionali
settori di intervento della criminalità. Si comprende poi
come l’indagine si muova come indagini di criminalità
organizzata con le difficoltà legate alla necessità di
rompere il vincolo dell’omertà, nel caso di specie particolarmente stringente (rinvio alle conclusioni). In uno
dei casi giudiziari più volte citati dalle fonti aperte riportate, si è dimostrato come un clan mafioso relativamente modesto avesse pesantemente inquinato l’ammi-
18 È facilmente comprensibile come in periodo di profonda crisi economica, quale quello degli ultimi mesi, la forza dell’impresa mafiosa
risulti rinvigorita in via esponenziale, rispetto ai periodi di ordinario
sviluppo economico.
p e n a l e
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nistrazione e la politica – non solo locale – sfruttando il
potere derivatogli dal consuetudinario monopolio
nell’affidamento del servizio di raccolta degli RSU. L’infiltrazione mafiosa si realizzava per mezzo di uno degli
strumenti privilegiati, la società mista pubblico-privato,
a cui era affidato il servizio di raccolta dei rifiuti concesso da 18 comuni dell’alto casertano, all’interno della
quale trovavano sede i concorrenti interessi della politica, dell’imprenditoria e del clan, con l’aggiunta di un
ritorno elettorale verso gli sponsor politici garantita
dalla clientela che la società riusciva a garantire attraverso le assunzioni. Si assicurava così stabilità politica
agli organi locali di rappresentanza, una periodica consistente tangente al clan, e flussi di lavoro costanti per
l’impresa. Società miste, consorzi, noli, subappalti, sono
i luoghi della infiltrazione e della complicità fra politica,
mafia, impresa. Fino a giungere a situazioni territoriali
di monopolio, specie in situazioni di emergenza, allorquando il controllo del territorio e la facile disponibilità
di terreni da parte della camorra, ha presentato l’impresa mafiosa come l’unica in grado di risolvere la crisi
attraverso la rapida costruzione di discariche.
O situazioni di oligopolio, in cui si è registrato la
concorrenza fra due imprese mafiose, facenti capo a
famiglie criminali in concorrenza, il cui conflitto è stato risolto dall’accordo spartitorio fra i clan.
4. La legislazione dell’emergenza in Campania e l’istituzione della Procura regionale. Alcune considerazioni in tema
di coordinamento investigativo. Il ruolo della D.N.A. e della
banca dati Sidda-Sidna – Il traffico organizzato di rifiuti
come reato di criminalità organizzata
Nell’ultimo anno si è assistito all’approvazione di
una legislazione dell’emergenza in Campania nel settore
dei rifiuti. Pur non essendo questa la sede specifica per
trattare compiutamente la materia, deve però brevemente darsene conto, per i risvolti che in ogni caso, anche
indirettamente, tale legislazione ha avuto sulle indagini
di criminalità organizzata in materia di traffico di rifiuti in Campania.
È nota la previsione del co. 1 dell’art. 3 del D.L.
n. 90/08 secondo cui “nei procedimenti riferiti alla gestione dei rifiuti ed ai reati in materia ambientale nella
Regione Campania, nonché a quelli ad esse connessi a
norma dell’art. 12 c.p.p., … le funzioni di pubblico
ministero sono esercitate … dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, che dunque ha
acquisito una originale competenza regionale, unica nel
nostro ordinamento19, con efficacia retroattiva, in quanto se ne prevede espressamente l’efficacia anche sui
19 Competenza che non solo supera i limiti della ordinaria competenza
territoriale circondariale, ma “invade” anche quella del limitrofo
distretto di Corte d’Appello di Salerno.
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procedimenti in corso20. Altra norma di originale introduzione è stata quella che ha introdotto il corrispondente Gip/Gup collegiale presso il tribunale di Napoli 21. Il
provvedimento interferisce con il tema oggetto della
presente relazione innanzitutto quando esclude l’applicabilità dell’art. 321 co. 3-bis c.p.p., e dunque la possibilità del sequestro preventivo d’urgenza disposto dal
p.m. o eseguito d’iniziativa dalla polizia giudiziaria. Si
tratta di una evidente limitazione del campo operativo
dell’indagine, spesso legata indissolubilmente ai tempi
dell’azione reale, anche se, nelle more della valutazione
del Gip collegiale, resta al p.m. la possibilità di operare
il sequestro probatorio (dimenticanza del legislatore?).
Ma il decreto introduce anche delle condizioni aggiuntive per potersi operare il sequestro preventivo, in quanto non occorre più il semplice fumus commessi delicti,
ma espressamente si richiedono gravi indizi di reato.
Inoltre, con espressione di difficile interpretazione, il
sequestro è concedibile “semprechè il concreto pregiudizio alla salute e all’ambiente non sia altrimenti contenibile”. Devono poi segnalarsi i nuovi reati introdotti
dalla legislazione dell’emergenza: la contravvenzione
dell’introduzione abusiva in siti, aree, impianti, e sedi
degli uffici connessi alla gestione dei rifiuti, tutti definiti aree di interesse strategico nazionale (rinvio quoad
penam all’art. 682 c.p.); il delitto di cui all’art. 2 co. 9
20Le difficoltà interpretative in ordine alla genericità dell’attribuzione
di una simile competenza, in particolare con il richiamo ai “reati in
materia ambientale” sono state solo in parte superate dalla previsione, approvata in sede di conversione, che la competenza opera per
tali reati in quanto “attinenti alle attribuzioni del sottosegretario di
Stao, di cui all’art. 2 del presente decreto”. Tali attribuzioni possono
essere così riassunte:
a) provvedere, mediante procedure di affidamento coerenti
con la somma urgenza o con la specificità delle prestazioni
occorrenti, all’attivazione dei siti da destinare a discariche;
b) utilizzare procedure in materia di espropriazione per pubblica utilità per acquisizione di, impianti cave dimesse o
abbandonate ed altri siti per lo stoccaggio o lo smaltimento
dei rifiuti ;
c) porre in essere misure di recupero e riqualificazione ambientale;
d) acquisire ogni bene mobile funzionale al corretto espletamento della attività di propria competenza;
e) individuare le occorrenti misure, anche di carattere straordinario, di salvaguardia e tutela per assicurare l’assoluta protezione e l’efficace gestione di siti, aree e impianti
connessi alla attività di gestione dei rifiuti, aree definite di
interesse strategico nazionale;
f) disporre la precettazione dei lavoratori a qualsiasi titolo
impiegati nell’attività di gestione dei rifiuti;
g) richiedere l’ assistenza della forza pubblica e l’ impiego
delle forze armate per approntamento, vigilanza e protezione di cantieri e siti nonché per la raccolta e trasporto
dei rifiuti;
h) ricorrere ad interventi alternativi, anche attraverso il diretto
conferimento di incarichi ad altri soggetti idonei, nel caso
di indisponibilità, anche temporanea, del servizio di raccolta e di trasporto dei rifiuti derivante da qualsiasi causa
21 Notevole disagio organizzativo ha poi creato la previsione di inefficacia delle misure cautelari pendenti se non confermate entro venti
giorni dalla trasmissione degli atti, dal Gip collegiale partenopeo.
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del D.L. n. 90/08 che sanziona a norma dell’art. 340
c.p. colui che impedisce, ostacola o rende più difficoltosa l’azione di gestione (? n.d.r.) dei rifiuti.
Orbene il compendio di norme che qui si è brevemente riportato presentano un quadro di dubbia conformità costituzionale, tali da apparire, più che un diritto
speciale, un vero e proprio diritto eccezionale, vigente
solo in un territorio e per un limitato lasso di tempo,
connesso alla durata dell’emergenza rifiuti, il cui termine appare allo stato fissato al 31 dicembre 2009. Si
tratta innanzitutto di evidenziare la natura di giudice
straordinario, in violazione dell’art. 102 cost., per i
magistrati chiamati ad esercitare le citate funzioni regionali partenopee. Profili di tenuta costituzionale sono
stati rilevati anche rispetto all’art. 25 cost., ed al relativo principio del giudice naturale, con particolare riferimento alla applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso di trattazione. Anche dal punto di vista
del diritto sostanziale, la previsione di fattispecie di
reato applicabili nel solo territorio di una regione appare di difficile salvaguardia costituzionale, né a tale
obiezione sembra avere risposto adeguatamente il legislatore quando, con il D.L. n. 172/08, introducendo
ulteriori nuove fattispecie di reato, le ha ritenute applicabili non solo alla Regione Campania, ma tutti quei
territori nei quali dovesse essere dichiarato lo stato di
emergenza per lo smaltimento dei rifiuti 22.
Lo scrivente ha già avuto modo di rappresentare che
la legislazione sembra scontare anche una pregiudiziale valutazione negativa effettuata dal governo dell’operato della magistratura campana, ritenuta “poco affidabile” e, più o meno chiaramente, concausa del disastro ambientale in atto; una magistratura che, con i
suoi provvedimenti, ha bloccato le iniziative del commissariato in relazione alla apertura di impianti e discariche. In questo ambito deve ricordarsi anche la
norma che affida al Procuratore regionale la attribuzione diretta dei procedimenti e la gestione anche in
deroga alle regole di ordinamento giudiziario. Si tende
così a confondere il coordinamento, strumento sempre
più necessario ad una efficace azione della funzione
requirente, e che anche in tale contesto andava valorizzato e rinvigorito, con l’accentramento del potere che,
per quanto esercitato con sapienza e professionalità,
22 Si tratta del delitto di abbandono e deposito incontrollato di rifiuti
ad opera del privato (art. 6 co. 1 lett.a D.L. 172/08); della stesa
condotta operata da titolari di imprese e responsabili di enti (art. 6
co. 1 lett. b e c, rispettivamente in caso di dolo o colpa); la trasformazione in delitto, della contravvenzione già sanzionata dall’art. 256
co. 1 T.U. (art. 6 co. 1 lett. d) di attività di gestione di rifiuti non
autorizzata; la trasformazione in delitto della contravvenzione già
sanzionata dall’art. 256 co. 3 T.U. (art. 6 co. 1 lett. e) di apertura e
gestione di una discarica abusiva; la ulteriore trasformazione in delitto delle contravvenzioni residuali di cui agli artt. 256 co. 4, 5, 6 del
T.U. ambiente. Deve segnalarsi come la fattispecie di cui all’art. 6 co.
1 lett.a) sia attualmente al vaglio della Corte Costituzionale per effetto di ordinanza di rimessione del tribunale di Torre annunziata.
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stravolge il ruolo costituzionale del titolare dell’azione
penale. Una normativa che avesse rinforzato il potere
di coordinamento del Procuratore distrettuale nella
materia della gestione dei rifiuti e dei gravi reati che vi
sono connessi, da istituire senza limitazioni temporali
o geografiche, avrebbe rappresentato un miglioramento dell’azione di contrasto criminale, senza stravolgere
il sistema, ed avrebbe trovato il consenso della magistratura. Inoltre la normativa emergenziale ha ridotto
la soglia di tutela dei cittadini campani, laddove ha
consentito e consente un trattamento dei rifiuti sostanzialmente diverso rispetto a quello delle altre regioni
italiane. Del resto il legislatore si era posto il problema
del coordinamento con le attività di criminalità organizzata, attraverso la previsione dell’intervento del
Procuratore nazionale antimafia anche nei procedimenti per reati ambientali o concernenti rifiuti (e reati
connessi) ove emerga un «coinvolgimento della criminalità organizzata»23, nella chiara consapevolezza che
la materia trattata presenta profili di interferenza fisiologica con la criminalità organizzata 24.
La norma, dunque, pur nella sua specificità temporale e geografica, apre in maniera letterale, per la prima
volta, al coordinamento nazionale sui reati ambientali,
nell’ambito delle competenze del Procuratore Nazionale antimafia. L’importanza della previsione normativa è
stata inevitabilmente colta dalla D.N.A. nella sua relazione annuale25. Dalla relazione emergono alcuni spun-
23 Nel suo parere al parlamento, il C.S.M. ha chiarito che tale intervento deve intendersi con “il solo effetto di estendere la categoria dei
reati in relazione ai quali si esplicano i poteri del Procuratore nazionale antimafia, che restano esclusivamente quelli di coordinamento,
impulso e, nei limiti previsti dall’art. 371 bis del codice di procedura
penale, di avocazione”.
24 Nella relazione di presentazione del testo del decreto legge si evidenzia come si sia esplicitamente “Tenuto conto degli esiti dei molteplici procedimenti giudiziari che hanno evidenziato il coinvolgimento
della criminalita’ organizzata nelle attivita’ di gestione dei rifiuti
nella regione Campania” e la creazione di una competenza unificata
nel Procuratore di Napoli sia stata dettata dalla “necessita’ di fornire adeguate risposte, anche in termini di efficienza, nello svolgimento delle attivita’ di indagine in ordine ai reati commessi nell’ambito
delle predette attivita’ di gestione dei rifiuti”.
25 Il recente Decreto Legge 23 maggio 2008 n. 90, che ha previsto misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza rifiuti nella Regione
Campania, in realtà, nel prevedere la norma di cui all’art. 3, riferita
alla competenza della autorità giudiziaria nei procedimenti relativi
alla gestione rifiuti nel detto territorio, si è posto il problema della
esigenza del coordinamento e della importanza dello stesso. Trattasi
di norma senz’altro di rilievo nella misura in cui, per essere stata
introdotta e, quindi, apportare un quid novi nell’apparato legislativo
della Repubblica, deve necessariamente riferirsi a tutti quei procedimenti penali relativi a reati connessi alla “gestione dei rifiuti” diversi da quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p. e nei quali emerga il “coinvolgimento” della criminalità organizzata, senza che
questo determini lo scattare della competenza della Direzione Distrettuale Antimafia. Chè, altrimenti, la competenza dell’organo
nazionale ci sarebbe stata comunque e la nuova disposizione non
avrebbe avuto ragion d’essere. Appare evidente che il legislatore,
nell’utilizzare la terminologia “criminalità organizzata”, abbia,
pertanto, inteso riferirsi alla nozione di questa che ha trovato la sua
massima esplicazione nella sentenza della Corte di Cassazione a
p e n a l e
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ti di riflessione di particolare interesse. Deve innanzitutto cogliersi l’occasione per riflettere ancora una
volta sulla natura del delitto previsto dall’art. 260 t.u.
ambiente, che correttamente va inteso come “reato di
criminalità organizzata”, seguendo il ragionamento
della Suprema Corte nella nota Cass., Sezioni Unite
n. 17706 del 22 marzo 2005, depositata l’11 maggio
2005, (Est. Fiale A.), che pronunciandosi in tema di
applicabilità dell’art. 240 bis, comma secondo, disp. coord. c.p.p. (che prevede l’esclusione, operante anche per
i termini di impugnazione dei provvedimenti in materia
di cautela personale, della sospensione feriale dei termini delle indagini preliminari nei procedimenti per reati
di criminalità organizzata26), detta le coordinate per una
corretta definizione di reato di criminalità organizzata,
facendo riferimento oltre che ai delitti di criminalità
mafiosa elencati dall’art. 51 co. 3 bis c.p.p., anche all’associazione per delinquere (art. 416 c.p.), ed alle fattispecie associative previste da norme incriminatrici speciali,
nonché ai delitti a questi connessi; infine dal tenore
della decisione non può che evincersi un allargamento
Sezioni Unite n. 17706 del 22 marzo 2005, depositata l’11 maggio
2005, che tuttora fa testo nella giurisprudenza della Corte regolatrice (v. per ultima Sent. n. 776 del 28 novembre 2007, dep. 09 gennaio 2008, Sez. II). … Di pregio, pertanto, la scelta del legislatore (che
ha così introdotto una disposizione contenuta nella proposta di
legge di iniziativa parlamentare della scorsa legislatura in tema di
eco-reati di cui appresso si dirà), consapevole che senza il coordinamento in materia di azione di contrasto della criminalità organizzata nulla di concreto può realizzarsi. Sarebbe, peraltro, stato opportuno che alla detta norma se ne fosse aggiunta una ulteriore che
avesse previsto la necessaria conoscenza da parte della Direzione
Nazionale Antimafia dell’instaurarsi, su tutto il territorio nazionale,
di procedimenti penali in tema di traffico di rifiuti, quanto meno in
forma organizzata (art. 260 D.Lgs. 03 aprile 2006 n. 152). Ed, invero, le nuove funzioni di coordinamento assegnate alla Direzione
dall’art. 3, comma 3 del citato Decreto Legge non possono che riguardare gli eventuali collegamenti tra le indagini (non relative ai
delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p.) svolte dalla cosiddetta
Procura Regionale inserita all’interno della Procura della Repubblica di Napoli, in cui è ravvisabile il coinvolgimento della criminalità
organizzata, come sopra intesa, e quelle, della stessa natura, svolte
da altre Procure della Repubblica di tutto il territorio dello Stato…A
ben vedere, si tratterebbe, a questo punto, senza voler affrontare la
complessa tematica della introduzione nel codice penale dei reati
ambientali, di cui al disegno di legge bipartisan della scorsa legislatura che ha visto la luce per iniziativa dei senatori Barbieri + 19 e
comunicato al Presidente del Senato il 18.04.2007, di apportare una
lieve modifica alle disposizioni di attuazione del codice di procedura
penale prevedendo, così come proposto col detto disegno, la introduzione di un art. 118 ter che preveda la trasmissione al Procuratore Nazionale delle informative da parte dei Procuratori della Repubblica (distrettuali e non) relative ai procedimenti per i reati in materia di rifiuti ed ambientale consumati in forma organizzata.
Ne discenderebbe, conseguentemente, così come si osservava nella
relazione dello scorso anno, una implementazione della Banca Dati
DNA tale da consentire, finalmente, la completa conoscenza dei più
rilevanti fatti connessi agli eco-reati organizzati, tale da permettere
un reale coordinamento ed una conseguente migliore azione di contrasto in campo nazionale.
26Fattispecie riguardante numerosi indagati per associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei reati di ricettazione, truffa
e falso diretti all’approvvigionamento e alla cessione di farmaci ad
azione dopante.
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ai delitti a partecipazione plurisoggettiva mediante un
apparato organizzato stabile 27. L’interprete deve considerare che il legislatore ha voluto garantire una trattazione rapida per tutte le condotte criminali poste in
essere da una pluralità di soggetti che, al fine di commettere più reati, abbiano costituito un apparato organizzativo predominante rispetto all’apporto causale del
singolo partecipe; e ciò in considerazione del particolare allarme sociale che qualsiasi struttura organizzativa
criminale suscita nell’opinione pubblica.
Individuato dunque nell’ “organizzazione” il carattere fondamentale per individuare le fattispecie appartenenti al genus “criminalità organizzata”, non può che
apparire immediatamente riferibile a tale categoria il
delitto di cui all’art. 260 del T.U. ambiente. Con la conseguenza non trascurabile che tale connotazione consente di applicare le norme speciali in materia di intercettazione. Altra considerazione di rilievo è quella relativa alla opportunità, conseguente a tale qualificazione,
che le attività di indagine per il reato previsto dall’art.
260 T.U. ambiente, vadano ad implementare la banca
dati Sidda-Sidna istituita presso la Procura Nazionale
Antimafia, a cui hanno accesso tutte le Procure distrettuali. La natura, ormai chiara, transregionale o transnazionale del traffico illecito di rifiuti, la partecipazione alle attività illecite di soggetti di versa provenienza
criminale, politica, imprenditoriale, la partecipazione di
broker specializzati e gli accordi fra clan mafiosi di distinta origine territoriale, la necessità di superare la
dimensione circondariale delle strutture organizzative
giudiziarie ed investigative, impongono di utilizzare
quello che oggi viene considerato il più efficace degli
strumenti di indagine di cui dispone il pubblico ministero antimafia: la Banca Dati, appunto. Solo l’esatta
27 La Corte, nella sentenza a Sezioni Unite richiamava fra l’altro le
precedenti pronunce omologhe; fra queste il richiamo a Cass.:
SS.UU., 8 maggio 1996, n. 12, Giammaria e Sez. V, 26 aprile 2001,
n. 16866, Mussurici, in cui si evidenziava che il disposto del 2°
comma dell’art. 2 della legge n. 742 del 1969, era da intendersi riferibile non solo ai reati di criminalità mafiosa ed assimilata, ma anche
ai reati di criminalità organizzata di altra natura, come pure a quelli che ad essi risultano connessi, come il reato di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, sottolineando quale “ratio
essendi” di tale norma nella esigenza di imprimere la massima celerità possibile al corso dei procedimenti relativi a vicende valutate di
gravità eccezionale”. La V Sezione, successivamente – con la sentenza 26 aprile 2001, n. 16866, ric. Mussurici ed altro – giudicando
anche in questo caso in una fattispecie di associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, ha affermato che
il riferimento ai reati di “criminalità organizzata” deve intendersi
operato non soltanto ai reati di criminalità mafiosa o assimilata,
bensì anche ai reati di criminalità organizzata di altra natura, come
pure a quelli che ad essi risultino connessi.
Più di recente, invece, la VI Sezione – con la sentenza 28 luglio 2004,
n. 32838, ric. Sanasi – ha escluso dalla nozione di “criminalità organizzata” una associazione a delinquere finalizzata ad una serie di
reati di corruzione e truffa aggravata ai danni del Servizio sanitario
nazionale, legando tale nozione “imprescindibilmente”, all’”elencazione di cui all’art. 407 c.p.p., al più integrata da quelle di cui agli
artt. 51, comma 3 bis, e 372, comma 1 bis, del codice di rito”.
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percezione della banca dati quale strumento di indagine,
che può, anzi deve, fin dall’inizio condizionare l’indagine e perfino l’iscrizione della notitia criminis, con la
raccolta di informazioni di sistema di inimmaginabile
valore investigativo, consente di predisporre un apparato di contrasto ad un fenomeno così complesso che non
sia immediatamente perdente. Inoltre si tratta, unitamente alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia,
dello strumento di indagine che fa realmente del pubblico ministero il dominus dell’indagine, mettendogli a
disposizione notizie e fonti di prova di cui la polizia
giudiziaria non dispone se non ne viene messa a conoscenza da parte del magistrato. Si possono acquisire in
questo modo informazioni che travalicano il confine del
singolo ufficio giudiziario e consentono di incrociare
dati che consentono di svelare i legami occulti, frequenti nelle indagini di specie, fra colletti bianchi e mafiosi,
politici ed imprenditori, pubblici funzionari e società di
gestione, attraverso l’indagine dei legami di parentela,
dei rapporti societari, della frequentazione dei luoghi e
delle analogie fra le condotte. Fino all’utilizzazione
dell’ineliminabile strumento di contrasto costituito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tutte
presenti in banca dati e che consentono, anche a distanza di tempo, di ricostruire intricate vicende criminali.
5. Conclusioni. Un catalogo di strumenti investigativi
La prima conclusione da trarre, all’esito di questo
lungo excursus, è quella per cui l’indagine ambientale e
quella di criminalità organizzata appaiono sempre più
sovrapporsi ed essere caratterizzate da interrelazioni
inscindibili. La conseguenza è che l’indagine ambientale
quando assume, soprattutto in certi ambiti territoriali,
connotazioni di rilievo sistematico, finisce per essere
attratta nell’alveo dell’indagine mafiosa, con l’iscrizione
di ipotesi di reato associative o di reati aggravati dall’art.
7 l. 203/91. Anche la connotazione del traffico organizzato di rifiuti in termini di reato di criminalità organizzata orienta le investigazioni verso la trattazione della
D.D.A., in auspicabile collegamento, coordinamento o
co-delega con i magistrati addetti alle sezioni specializzate. Ne deriva l’applicazione del doppio binario, con
particolare riferimento alla durata delle indagini preliminari, ai presupposti per le intercettazioni ed alla
presunzione di pericolosità sociale degli indagati, con
indubbi vantaggi operativi per il titolare del procedimento. L’apporto delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia e delle informazioni investigative tratte dalla
banca dati Sidda-Sidna, sarà in questa ottica decisivo per
l’inizio delle indagine e per orientare le stesse operazioni
tecniche di intercettazione, poiché si è compreso come
nel settore dei rifiuti, ancor più che in altri l’omertà interna al gruppo criminale si presenta ulteriormente
rafforzata dalla peculiarità di composizione del gruppo
stesso, di cui fanno parte non solo i classici affiliati, ma
anche colletti bianchi, funzionari, politici, imprenditori.
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In tali situazioni, aumentando il livello qualitativo dei
partecipi, alcuni di essi per loro stessa natura “insospettabili”, il patto del silenzio appare difficilmente penetrabile, se non con l’apporto del collaboratore di giustizia.
Fra l’altro, la natura stessa di tale patto è tale per cui non
basterà l’apporto di un collaboratore “qualsiasi”, atteso
che i vincoli fra camorra (o mafia), politica e imprenditoria sono noti esclusivamente ai boss, ai capi delle organizzazioni mafiose, e non ai semplici affiliati. Occorrerà dunque un collaboratore di giustizia che abbia rivestito un ruolo di estremo rilievo nel clan e che non sia
stato deputato solo alle attività c.d. militari. Collaborazione questa che per esperienza intercorre in una fase
successiva rispetto alle prime collaborazioni di giustizia
relative ad un dato clan, in una sorta di secondo e terzo
livello che viene aggredito progressivamente.
Inoltre deve concludersi che l’indagine in materia
ambientale diventa contestualmente una indagine sul
riciclaggio dei proventi illeciti del clan, che investe i suoi
soldi nella impresa mafiosa e la favorisce per l’acquisizione di appalti e subappalti nel settore dei rifiuti, accumulando così nuove ed ingenti disponibilità patrimoniali e finanziarie. Fra gli strumenti investigativi di maggiore efficacia deve oggi segnalarsi, dunque, quanto
consentito dall’art. 9 L. 146/2006 in materia di operazioni sotto copertura, che sono previste in materia di
riciclaggio.
Allo stesso modo troverà applicazione il nuovo art.
648 quater c.p., introdotto dalla art. 63 D.Lvo n. 21
novembre 2007 n. 231, che consente il sequestro per
equivalente nelle ipotesi di riciclaggio28. Il D.Lvo che
recepisce la terza direttiva comunitaria sul riciclaggio,
introduce fra l’altro, sebbene solo a titolo di sanzione
amministrativa, anche la nozione dell’“autoriciclaggio”,
relativa alla condotta posta in essere dall’autore del
delitto generatore del profitto. Seguono, conseguenza
inevitabile, gli strumenti di contrasto patrimoniale. Se
il ciclo dei rifiuti è infatti appannaggio del crimine organizzato, per le sue rilevantissime implicazioni finanziarie, è anche sull’azione di contrasto all’accumulazione dei patrimoni che si deve dirigere l’intervento. Il
fronte del contrasto è conseguentemente quello del sequestro di prevenzione e quello del sequestro penale,
nella forma dell’art. 12 sexies L. 356/92, oltre alla pos-
28 Questo il testo della norma: Nel caso di condanna o di applicazione
della pena su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p. per
uno dei delitti previsti dagli artt. 648 bis e ter c.p. è sempre ordinata
la confisca dei beni che ne costituiscono il prodotto o il profitto,
salvo che appartengano a persone estranee al reato. Nel caso in cui
non sia possibile procedere alla confisca di cui al primo comma, il
Giudice ordina la confisca delle somme di denaro, di beni o delle
altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta
persona, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del
reato. In relazione ai reati di cui agli art. 648 bis e ter il P.M. può
compiere, nel termine ed ai fini di cui all’art. 430 c.p.p., ogni attività
d’indagine che si renda necessaria circa i beni, il denaro o le altre
utilità da sottoporre a confisca a norma dei commi precedenti.
p e n a l e
46
sibilità di applicare la responsabilità delle persone giuridiche. Sono note le capacità aggressive della normativa antimafia in materia di sequestro, in particolare a
seguito della pronuncia della Suprema Corte che ha
svincolato il sequestro dalla pertinenzialità rispetto al
reato. La natura del sequestro, e della conseguente confisca ex art. 12 sexies, va qualificata secondo quanto
elaborato dalla sentenza delle Sezioni Unite penali,
n. 920 del 19 gennaio 200429. La Suprema Corte ha
affermato che per disporre la confisca non è necessario
accertare l’esistenza di un rapporto di pertinenzialità del
bene da confiscare con uno dei reati indicati nell’art.12
sexies o, comunque, con un’attività delittuosa della
persona condannata, né la confisca deve riguardare
esclusivamente i beni acquistati in un determinato periodo di tempo prossimo alla commissione del reato.
Queste affermazioni si fondano proprio sulla radicale
differenza che sussiste fra queste ipotesi e quelle disciplinate dagli artt. 321 c.p.p. e 240 c.p. Il legislatore non
ha inteso prevedere alcun rapporto di pertinenzialità del
bene con il reato per cui si procede, perché altrimenti la
previsione sarebbe stata meramente ripetitiva dello
schema del sequestro preventivo, per la cui disposizione
occorre appunto accertare che il bene che si colpisce è
tale da impedire la reiterazione del reato o l’aggravamento dei suoi effetti. La pertinenzialità inoltre corrisponderebbe o alle cose utilizzate per il reato, o alla nozione
di prezzo, di prodotto o di profitto, la cui confiscabilità
è già prevista dall’art. 240 c.p.30”.
La giurisprudenza dunque, anche più recentemente
e con l’autorevolezza delle Sezioni Unite, distingue radicalmente i provvedimenti adottati ex art. 12 sexies da
quelli disciplinati dall’art. 321 c.p.p. (sequestro preventivo) e 240 co. 2 c.p. (confisca facoltativa), evidenziando
che i primi sono una misura di sicurezza atipica con
funzione anche dissuasiva, parallela all’affine misura di
prevenzione antimafia introdotta dalla legge 32 maggio1965, n. 575 31. Quindi nessun collegamento fra bene
29La questione è stata sottoposta alle sezioni unite, sussistendo un evidente contrasto giurisprudenziale sul tema del rapporto di pertinenzialità tra i beni confiscabili ed il reato per cui si procede. In particolare alcune sentenze escludevano la necessità di un nesso di questo
tipo (es. Cass., Sez. II 22 ottobre 2001, ric. Del Mistro), altre richiedevano un nesso di pertinenzialità quantomeno con riferimento alla
generica attività delittuosa del soggetto (es. Cass., Sez. V, 22 settembre
1998, ric. Sibio), altre ancora esigevano un preciso rapporto fra bene
e delitto (es. Cass., Sez. V, 21 giugno 2001, P.M. Capomasi)
30Sotto un profilo positivo, significa che, una volta intervenuta la
condanna, la confisca va sempre ordinata quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il
condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica e non risulti una giustificazione
credibile circa la provenienza delle cose … la confiscabilità dei singoli beni, derivante da una situazione di pericolosità presente, non è
certo esclusa per il fatto che i beni siano stati acquisiti in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto o che il loro valore
superi il provento del delitto per cui è intervenuta condanna.
31 Sul punto cfr. anche Cass. Sezioni Unite, 17 luglio 2001, Derouach.
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sequestrato (e poi confiscato) e reato; nessuna verifica
sul momento in cui il bene è stato acquistato rispetto al
tempo in cui è stato commesso il reato. Si tratta, come
è evidente di un’interpretazione di estremo favore, che
determina una sorta di inversione dell’onere della prova
in ordine alla liceità della provenienza del bene; come
tale occorre farne costante uso, accompagnando all’indagine tradizionale, quantomeno un semplice ed immediato monitoraggio sul patrimonio degli indagati e dei
soggetti ad essi più vicini. L’indagine potrà poi avvalersi dei tradizionali mezzi di prova per accertare la disponibilità di un bene in capo ad un soggetto, indipendentemente dalla titolarità formale. In questo senso merita
attenzione la fattispecie di reato prevista dall’art. 12
quinquies della stesa legge che sanziona l’attribuzione
fittizia di beni32. La giurisprudenza di legittimità, di
recente, contrariamente a quanto appare da una prima
lettura della norma, ne ha proposto una interpretazione
in termini plurisoggettivi, sanzionando anche colui che,
consapevolmente, riceve il bene e si presta alla sua fraudolenta intestazione33. Si è poi sostenuto anche in questo
caso che sussiste, a carico del titolare apparente di beni,
una presunzione di illecita accumulazione patrimoniale,
in forza della quale è sufficiente dimostrare che il titolare apparente non ha svolto un’attività tale da procurargli il bene, per invertire l’onere della prova ed imporre alla parte di dimostrare da quale reddito legittimo
proviene l’acquisto e la veritiera appartenenza del bene
medesimo34. Rilevantissima la recente pronuncia della
Suprema Corte35, investita dalla DDA di Napoli che, nel
32 “salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque attribuisce
fittiziamente ad altri la titolarità o disponibilità di denaro, beni o
altre utilità al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di
prevenzione patrimoniale o di contrabbando, ovvero di agevolare la
commissione di uno dei delitti di cui agli articoli 648, 648 bis, 648
ter del codice penale, è punito con la reclusione da due a sei anni”.
33 Cfr. Cass. Sez. VI, sentenza n. 15489 del 26.02.2004 – Presidente
Aquarone, secondo cui l’ipotesi di reato ex art. 12 quinquies L.
356/92 …integra una fattispecie a concorso necessario poiché il
soggetto agente in tanto può realizzare l’attribuzione fittizia di beni,
in quanto vi siano terzi che accettino di acquisirne la titolarità o la
disponibilità …
Di contro si è invece sostenuto che tale figura criminosa è strutturata
in termini monosoggettivi, essendo punito solo colui che attribuisce
fittiziamente la titolarità o la disponibilità del danaro, di beni o di
altre utilità. L’indefettibile presenza di un destinatario del trasferimento fittizio, il cui contributo sul piano oggettivo è decisivo, fa
propendere per la tesi della necessaria plurisoggettività della fattispecie, ma di per sé il destinatario dell’attribuzione fittizia non sarebbe
punibile. Il riconoscimento della responsabilità penale dell’attribuzione fittizia al solo soggetto che la effettua, e non al destinatario,
indica che l’incriminazione concerne il mero trasferimento, non la
situazione di fatto ad esso conseguente, altrimenti la norma avrebbe
posto in primo piano la figura del soggetto che riceve la titolarità o
la disponibilità del danaro, dei beni o di altre utilità. Trattasi, pertanto, di reato istantaneo con effetti permanenti, che si consuma nel
momento in cui è realizzata l’attribuzione fittizia, risultando irrilevante l’eventuale protrazione della situazione antigiuridica conseguente alla condotta criminosa (conf. Cass., SS.UU., 28 febbraio
2001 n. 8, Ferrarese, in Cass. Pen., 2002, p. 142, m. 10).
34 Cass., Sez. VI, 24 ottobre 2000, n. 3889.
35 Cass., Sez. VI, 11 dicembre 2008, n. 2821, dep. il 5 marzo 2009.
2 0 0 9
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confermare l’orientamento ormai radicato che individua
la natura del delitto nella categoria del reato istantaneo
ad effetti permanenti36, ha spiegato che occorre però
tenere in conto che ogni modificazione della compagine
sociale, ogni redistribuzione di utili ed ogni attività dispositiva successiva, costituiscono autonome fittizie
attribuzioni, per cui integrano autonome ipotesi di reato, da considerare in continuazione e che, evidentemente, incidono sul tempus commissi delicti ai fine del decorso del termine di prescrizione. Interpretazione preziosissima proprio alla luce del fisiologico ritardo che
sconta l’indagine antimafia, spesso attivata a distanza
di anni alla luce delle dichiarazioni dei collaboratori di
giustizia. Il sequestro, in ogni caso dovrà trovare un
reato presupposto al quale essere in qualche modo agganciato, in quanto dovrà pervenirsi alla condanna per
procedere alla confisca. Nell’ambito delle indagini sui
rifiuti risulta particolarmente utile procedere, ove sussistano i presupposti, per truffa aggravata, ex art. 640
cpv. c.p., oltre che per corruzione, che, specie se caratterizzati dall’ aggravante dell’art. 7 L. 203/91, consentono di applicare l’intero campionario delle ipotesi di
sequestro, ivi compreso il sequestro per equivalente37.
36 Cass., SS.UU., 24 maggio 2001, n. 8, Ferrarese.
37 La Corte di Cassazione ha esplicitato come non sia necessaria la
previa individuazione del bene oggetto di sequestro sulla base della
norma in esame, evincendosi che, secondo la Sez. I, Sentenza n. 30790
del 30 maggio 2006 Cc. (dep. 18 settembre 2006) Rv. 234886 sia
ben possibile sequestrare qualsiasi bene, “rimettendo” alla fase attuativa della confisca gli adempimenti estimatori atti a scomputare
l’eventuale valore eccedente del bene sequestrato rispetto a quanto
oggetto di sequestro (le Superma Corte è esplicita sullo specifico
punto : “in relazione alla fattispecie di cui all’art. 640 bis c.p., in
forza del combinato disposto degli artt. 322 ter e 640 quater c.p., il
sequestro preventivo può avere ad oggetto anche beni o valori equivalenti al profitto del reato. (Nel caso di specie, la Suprema Corte ha
ritenuto legittimo, in quanto “equivalente” del profitto, il sequestro
preventivo di due aziende nella disponibilità degli indagati, precisando peraltro che il valore delle stesse dovrà essere scomputato per
differenza dal totale del profitto, rappresentato dalle indebite percezioni a titolo di contribuzione pubblica, attraverso adempimenti
estimatori che non spettano al tribunale del riesame, ma sono rimessi alla fase esecutiva della confisca)”.
Posta poi la suscettibilità di confisca del profitto del delitto concussivo, secondo la Sez. VI, Sentenza n. 30966 del 14 giugno 2007
Cc. (dep. 30 luglio 2007 ) Rv. 236984, risulta legittimo l’intervento
ablativo sul denaro disponibile su un conto corrente (“Nel caso in
cui il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è
legittimamente operato in base alla prima parte dell’art.322 ter
comma primo cod. pen. il sequestro preventivo di disponibilità di
conto corrente dell’imputato”), senza che vi sia – ovviamente – alcuna necessità di provare il rapporto di pertinenzialità tra somma e
delitto (vedi Sez. VI, Sentenza n. 31692 del 05 giugno 2007
Cc. (dep. 02 agosto 2007) Rv. 237610 secondo cui “Qualora il
profitto tratto da taluno dei reati per i quali, ai sensi dell’art. 322 ter
c.p., è prevista la confisca per equivalente, sia costituito da denaro,
l’adozione del sequestro preventivo in vista dell’applicazione di
detta misura non può essere subordinata alla verifica che il denaro
sia confluito nella effettiva disponibilità dell’indagato giacché, altrimenti, si verrebbe a ristabilire la necessità di un nesso pertinenziale
tra la “res” ed il reato che la legge, con l’introduzione della confisca
“per equivalente, ha escluso”).
Nell’individuazione poi del titolare del bene confiscato, viene affermato chiaramente il principio solidaristico per la persona gravata
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dall’obbligo, qualora non sia immediatamente individuabile il profitto imputabile a ciascun concorrente (vedi Cass. Sez. II, Sentenza n. 9786 del 21 febbraio 2007 Cc. (dep. 08 marzo 2007) Rv.
235842 secondo cui “È legittimo il sequestro preventivo, funzionale
alla confisca di cui all’art. 322-ter cod. pen., eseguito in danno di un
concorrente del reato di cui all’art. 316-bis c.p., per l’intero importo
relativo al prezzo o profitto dello stesso reato, nonostante le somme
illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati,
in quanto, da un lato, il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l’imputazione
dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a
ciascun concorrente e comporta solidarietà nella pena; dall’altro, la
confisca per equivalente riveste preminente carattere sanzionatorio
e può interessare ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità
del prezzo o profitto accertato, salvo l’eventuale riparto tra i medesimi concorrenti che costituisce fatto interno a questi ultimi e che
non ha alcun rilievo penale”. vedi sul punto, Sez. VI, Sentenza n. 35120 del 09 luglio 2007 Cc. (dep. 20/09/2007) Rv. 237290
secondo cui “Nell’ipotesi di pluralità di indagati come concorrenti
in un medesimo reato compreso tra quelli per i quali, ai sensi dell’art.
322-ter c.p., può disporsi la confisca “per equivalente” di beni per
un importo corrispondente al prezzo o al profitto del reato, il sequestro preventivo funzionale alla futura adozione di detta misura non
può eccedere, per ciascuno dei concorrenti, la misura della quota di
prezzo o profitto a lui attribuibile, salvo che, in ragione dei rapporti
personali o economici esistenti tra i concorrenti o della natura della
fattispecie concreta, la quota di prezzo o profitto imputabile a ciascun
concorrente non sia immediatamente individuata o individuabile, ma
sia destinata a essere accertata solo in fase di giudizio, nel qual caso
il sequestro stesso può essere disposto per l’intero importo nei confronti di ciascuno dei concorrenti”).
In relazione poi ad eventuali alienazioni fittizie o fiduciarie a terzi,
la Corte di Cass. Sez. II, Sentenza n. 10838 del 20 dicembre 2006
p e n a l e
48
In definitiva appare corretto rimarcare che il contrasto
al traffico di rifiuti, sia per scelta di un legislatore che fa
fatica a predisporre strumenti efficaci nell’ambito della
normativa ambientale, sia per i primari interessi economici e criminali che hanno spinto clan camorristici e
mafiosi ad occupare il mercato dei rifiuti, deve essere
affrontato in sinergia coniugando le competenze professionali e gli strumenti normativi di contrasto propri della
normativa ambientale e di quella, del cd. doppio binario,
tipica delle indagini di criminalità organizzata. Presupposto è la reale comprensione della gravità ed entità del
fenomeno, dei suoi intrecci che travalicano l’aspetto puramente criminale, e l’auspicio che il tema sia realmente
al centro dell’agenda della politica e del dibattito della
società civile, per le implicazioni che comporta in termini di tutela della salute, dell’ambiente, dell’igiene alimentare e della violazione delle regole della concorrenza in
settori rilevanti della economia nazionale.
Cc. (dep. 14 marzo 2007) Rv. 235828 sostiene la naturale percorribilità dello strumento della confisca (“Ai fini dell’operatività della
confisca per equivalente prevista dall’art. 322 ter c.p., e, di riflesso,
della possibilità di adozione di un provvedimento di sequestro preventivo dei beni che possono formarne oggetto, il requisito costituito dalla disponibilità di tali beni da parte del reo non viene meno nel
caso di intervenuta cessione dei medesimi ad un terzo con patto fiduciario di retrovendita”.)
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M a r z o • a p r i l e
●
La rilevanza penale
dell’attività sportiva:
considerazioni dommatiche
per una corretta
ricostruzionenella sistematica
delle scriminanti
● Andrea Alberico
Dottorando di Ricerca in Diritto Penale – Università
degli Studi di Napoli “Federico II”
2 0 0 9
49
1. Brevi considerazioni in tema di rischio consentito
Si è soliti dire che, con l’incriminazione delle condotte colpose, l’ordinamento punisce i consociati per
inosservanza delle regole precauzionali di condotta che
devono orientare ogni agire umano. Infatti, ogni attività che potenzialmente varca i limiti di prudenza imposti dalle circostanze, espone l’agente alla sanzione
penale, se il fatto è previsto dalla legge come delitto
colposo.
Nonostante ciò, esistono delle situazioni, intrinsecamente pericolose, che l’ordinamento non può vietare,
poiché presentano un apprezzabile grado di utilità (o
adeguatezza) sociale1. Si tratta di attività che, se fossero
valutate alla stregua dei tradizionali canoni della prevedibilità ed evitabilità, presupporrebbero necessariamente l’astensione da parte dell’agente (si pensi alla circolazione stradale).
Il caso classico è quello dell’attività medico-chirurgica. È evidente, infatti, che l’operatore sanitario che si
trovi ad affrontare un intervento chirurgico è ben cosciente dei rischi connessi al suo operato, e ciononostante il suo agire non può essere considerato ex se illecito,
dal momento che la realizzazione dell’intervento è finalizzata alla tutela della salute del paziente.
Allo stesso modo, talune attività sportive presentano
un elevato rischio nel corso del loro svolgimento: si pensi ad un incontro di pugilato ovvero alle competizioni
automobilistiche.
Come è ovvio, in tali casi, per scelta stessa dell’ordinamento, non ci si potrà riferire ai normali parametri
della prevedibilità ed evitabilità dell’evento ai fini della
configurazione della responsabilità penale, ma dovrà
essere tenuto in debito conto l’interesse dei consociati
allo svolgimento dell’attività pericolosa.
Conseguentemente, in presenza di simili circostanze,
è necessario uno spostamento della soglia della pericolosità dell’agire umano, individuando una zona grigia di
rischio che si è soliti definire consentito, nel senso che
solo ove si valichi tale soglia, l’attività, in sé già pericolosa, sarà passibile di sanzione penale.
È bene però precisare, in ossequio a quanto puntualmente affermato dalla Suprema Corte2 , che l’agente che
stia intraprendendo un’attività rischiosa ma consentita,
non può ritenersi svincolato dall’osservanza di qualsivoglia regola precauzionale, e specificamente è sempre tenuto all’osservanza dei fondamentali criteri di prudenza
a tutela dell’incolumità individuale altrui, per il generale principio del neminem laedere.
1
Al riguardo, la dottrina ha di frequente parlato di “adeguatezza sociale” per caratterizzare queste attività: il riconoscimento dell’adeguatezza sociale dell’attività sarebbe un momento necessario per poter
poi acconsentire all’elevazione della normale soglia di tollerabilità dei
rischi connessi alla condotta. Si veda C. Fiore, L’azione socialmente
adeguata nel diritto penale, Napoli, 1966, pp. 169 e ss..
2 Cfr. Cass. Sez. IV, 29 gennaio 1988, n. 1021.
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e
p r o c e d u r a
Solo finché l’attività intrinsecamente pericolosa resta
all’interno di una determinata soglia di rischio potrà
dirsi che essa è socialmente adeguata. Diversamente,
non appena si oltrepassi tale soglia, l’attività in questione cessa di essere adeguata, tornando ad essere penalmente rilevante.
A margine di queste brevi considerazioni preliminari, va fatto cenno al dibattito dottrinale sulla collocazione sistematica e sulla valenza politico-criminale
della categoria del rischio consentito.
Tesi tradizionale era quella che ancorava la valutazione del rischio consentito al giudizio di antigiuridicità.
Conseguenza di questa impostazione, era che la funzione della categoria fosse quella di giustificare determinate condotte lesive, in presenza degli opportuni requisiti.
Questa teoria, presumibilmente, fondava sullo stesso
nomen dell’aggettivazione del rischio, che appunto perché consentito, non poteva che essere lecito, e dunque
non antigiuridico.
Contraria all’inquadramento del rischio consentito
nell’ambito dell’antigiuridicità è oggi, invece, la dottrina
che ritiene di collocare l’istituto all’interno della norma
cautelare, in rapporto col generale dovere di diligenza.
Per conseguenza, la sua funzione va ricercata nella
prevenzione degli eccessi che discenderebbero da una
troppo rigida applicazione del criterio della prevedibilità ed evitabilità in materia di delitti colposi3.
Sia consentito, in questa sede, non aggiungere altro
in merito a questo dibattito, se non per specificare che
non pare avere fondamentale rilevanza l’aderire all’una
o all’altra delle esposte teorie.
Pur apparendo preferibile l’orientamento più moderno che aggancia il rischio consentito alla norma cautelare, dilatandone i confini, non può essere disconosciuto che le conseguenze dommatiche e politico-criminali
delle due letture paiono le medesime.
Se è vero, infatti, che ancorare il rischio all’antigiuridicità presupporrebbe un’anticipazione della importanza dell’istituto, giacché l’irrilevanza penale risiederebbe già a livello di deliberazione della condotta4, è
altrettanto vero che il comportamento rimarrebbe non
antigiuridico se ed in quanto fossero rispettate le rinnovate esigenze di diligenza che pure questo comporta. Il
che è lo stesso che dire che nelle attività pericolose vige
un grado di diligenza peculiare, dettato dalla specifica
norma cautelare, superato il quale si riespande la responsabilità penale.
Allo stesso tempo, dal punto di vista politico-criminale, la conseguenza di entrambe le letture sarebbe che
se l’attività pericolosa è stata diligentemente intrapresa,
Si veda Militello, Rischio e responsabilità penale, Milano, 1988,
pp. 191 e ss..
4 Marini, Rischio consentito e tipicità della condotta. Riflessioni, in
Scritti in memoria di Renato Dell’Andro, II, Bari, 1994, p. 557
50
allora verrebbe a mancare il disvalore tipico dell’illecito
colposo5, non essendo determinante, infatti, distinguere
tra una funzione giustificante ed una funzione di prevenzione degli eccessi dell’incriminazione colposa, dal
momento che entrambe sono conseguenze proprie
dell’istituto.
2. Lo sport come attività riconosciuta e tutelata
dall’ordinamento giuridico
Fatta questa breve premessa in tema di rischio consentito, la cui utilità sarà meglio apprezzata nel prosieguo
della trattazione, è ora opportuno entrare più specificamente in medias res, e concentrarsi sulla rilevanza penale dell’attività sportiva, premettendo sinteticamente
quelli che sono i caratteri essenziali dell’ordinamento
sportivo ed il suo rapporto con l’ordinamento giuridico.
Il riconoscimento espresso dell’attività sportiva viene
tradizionalmente fatto risalire alla legge 16 febbraio 1942
n. 426, istitutiva del C.O.N.I.. Tale Ente, per espressa
volontà del legislatore, è deputato all’organizzazione,
promozione e disciplina delle attività sportive, tanto a
livello professionale, quanto a livello amatoriale.
Lo sport, ad avviso del legislatore del 1942, si connotava di una utilità sociale derivante dal benessere
psicofisico che poteva arrecare alla popolazione. Questa
impostazione ha assunto rinnovato vigore con l’emanazione della Costituzione repubblicana, che all’art. 32
tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo
e, conseguentemente, come interesse della collettività.
Senza volersi dilungare sulla importanza costituzionale della pratica dell’attività sportiva, può ragionevolmente concludersi nel senso che il legislatore, operando
un bilanciamento di interessi di livello comunque costituzionale, ha ammesso che in determinate pratiche
sportive si verifichi un rischio per l’incolumità degli
stessi partecipanti e di terzi. Naturalmente, alla luce dei
rischi connessi a tali pratiche, è del pari logico che l’ordinamento richieda una disciplina di secondo livello
molto puntuale nell’individuazione delle norme cautelari che i partecipanti alle attività sportive devono tenere.
Pur rimanendo nella prospettiva costituzionale dettata dall’art. 32, non è mancato chi, nella dottrina più
risalente, ha interpretato la disposizione appena richiamata in senso diametralmente opposto, proponendo,
attraverso di essa, una logica rigoristica diretta a vietare il compimento delle attività sportive pericolose6. Ad
avviso di tali Autori, infatti, appariva inconciliabile il
5
3
p e n a l e
Fiandaca – Musco, Diritto Penale, Parte Generale, Vª ed.,
p. 547.
6 In tal senso, si vedano: Prugnola, La violenza sportiva, in Riv. Dir.
Sport., 1960, p. 55; Noccioli, Le lesioni sportive nell’ordinamento
giuridico, in Riv. Dir. Sport., 1953, p. 252; Tomaselli, La violenza
sportiva e il diritto penale, in Riv. Dir. Sport., 1970, pp. 319 e ss.;
Bernaschi, Limiti della illiceità penale nella violenza sportiva, in
Riv. Dir. Sport., 1976, pp. 4 e ss..
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m a r z o • a p r i l e
dato testuale dell’art. 32 comma 1 della Cost., secondo
cui “la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale”, con la pratica di attività sportive pericolose o
già in sé violente, tali da attentare, dunque, all’integrità
fisica dei partecipanti.
Tale impostazione, evidentemente, era dettata da
un’interpretazione troppo ristretta e statica del concetto
di salute. Oggi, attraverso il riconoscimento del diritto
alla salute non solo come diritto all’integrità fisica, ma
come diritto alla libera esplicazione delle facoltà del
proprio organismo, la dottrina maggioritaria è orientata nel senso di ritenere ammissibile la pratica di attività
sportive pericolose o violente, purché la violenza o il
pericolo non eccedano il livello-base funzionale all’esercizio delle stesse7.
Per dirimere in modo soddisfacente la prospettata
controversia dottrinale, è opportuno fare ricorso all’ormai celebre teoria della pluralità degli ordinamenti
giuridici prospettata da Santi Romano8. Infatti, è innegabile che la pratica sortiva sia soggetta a regole ben
precise. Di queste, alcune disciplinano lo svolgimento
del gioco, prevedendo apposite sanzioni per chi le contravviene, altre si caratterizzano, invece, per avere una
funzione che potrebbe definirsi “burocratica”, nel senso
che istituiscono organi decisionali per ciascuna categoria di sport (le Federazioni), ovvero hanno una funzione
giurisdizionale, come quelle che fungono da norme
processuali nei reclami contro le sanzioni, oppure le
clausole compromissorie volute dalle Federazioni sportive per devolvere ad arbitri le controversie interne in cui
sono implicati i tesserati. Tali poteri delle Federazioni
discendono dall’autonomia che l’ordinamento giuridico
riconosce all’ordinamento sportivo, come confermato di
recente dall’art. 2 del D.L. 220/2003, secondo cui la
Repubblica “riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione
dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo
al Comitato Olimpico Internazionale”9.
Circa il carattere giuridico e la cogenza di queste
disposizioni normative, nonché il loro riconoscimento
da parte dell’ordinamento statale, potrebbe dirsi, con
ugual valore, che si tratta di norme consuetudinarie,
ormai vincolanti per la costante applicazione, ovvero
che si tratti di norme di secondo livello, che trovano la
loro fonte nella legge istituiva del CONI10. Un ulteriore
7 Così Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte Generale, ed.
Giuffrè, 1997, p. 311. Dello stesso avviso, Chiariotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, in Riv. Dir. Sport., 1959,
pp. 237 e ss.; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, ed. Utet,
Torino, 1985, vol. VIII, pp. 218 e ss..
8 S. Romano, L’ordinamento giuridico, ed. Sansoni, Firenze, 1945.
9 Cfr. M. Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, in
Riv. Diritto ed Economia dello Sport, vol. IV, n. 3 del 2008, p. 50.
10 In argomento, per una disamina approfondita, si veda Frattarolo,
L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, 2ª ed., Giuffrè, 2005,
Milano.
2 0 0 9
51
richiamo, poi, merita il valore anche internazionale che
queste norme assumono, dal momento che sia le norme
di ciascuna Federazione sportiva, sia le norme del CONI
devono risultare conformi a quanto stabilito dalle corrispettive organizzazioni internazionali11 (si pensi alla
FIFA e all’UEFA per il calcio e al C.I.O. per le discipline olimpiche: non sarebbe possibile, ad esempio, che la
Federazione Italiana Giuoco Calcio consentisse ai propri
tesserati l’uso delle mani nel corso delle partite, contravvenendo alle norme FIFA e UEFA, ovvero che il CONI
organizzasse le Olimpiadi in Italia senza l’assenso del
Comitato Internazionale Olimpico).
Questo panorama strutturato di disposizioni vincolanti per gli sportivi, che succintamente si è cercato di
presentare, contribuisce a rendere agevole il riconoscimento di un vero e proprio “ordinamento sportivo”,
per di più operativo sia a livello nazionale che internazionale.
Di tale strutturazione del mondo sportivo ha dovuto
prendere coscienza anche il legislatore statale, che ha
espressamente riconosciuto l’ordinamento sportivo in
due momenti e con due modalità differenti.
In un primo tempo, con la citata legge istitutiva del
CONI, lo Stato conferiva a tale organo natura pubblicistica, individuando come organi di questo le singole
Federazioni sportive.
Più di recente, fermo restando il riconoscimento
dell’ordinamento sportivo, il d.lgs. 23 luglio 1999,
n. 242 ha interamente riveduto la disciplina, abrogando
la legge n. 426 del 1942. Il CONI ha perso la sua natura di ente pubblico non economico, mantenendo però
personalità giuridica di diritto pubblico, e le Federazioni sono state inquadrate nell’ambito delle associazioni
con personalità giuridica di diritto privato. In definitiva,
l’ordinamento sportivo è organizzato in modo piramidale, con all’apice il CONI ed alla base le singole Federazioni sportive. Tale connotazione è mutuata dal livello internazionale, che pure si esprime con connotazione
verticistica, individuando nel CIO l’ente di governo.
Se dunque è un dato inconfutabile che l’attività sportiva, comunque pericolosa, possa svolgersi all’interno di
un’ampia cornice di liceità riconosciuta (anche) dall’ordinamento panale, ben più difficile e controverso risulta teorizzare la natura giuridica dell’istituto in base al
quale scriminare la violenza sportiva.
Sul punto, in dottrina, sono state proposte quattro
ricostruzioni. Una prima teoria ha inteso parlare di
“tolleranza dell’Autorità, che non trova (però) giustificazione nel nostro diritto positivo12”.
Una diversa ricostruzione fonda sulla supposta esistenza di “una vera e propria causa di giustificazione,
consuetudinaria e normativamente disciplinata, consi-
11 Ivi, p. 68 e ss..
12 Altavilla, La colpa, Torino, 1957, vol. II, p. 241.
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stente nel consenso dell’avente diritto, ovvero nell’esercizio di un diritto”, che renderebbe oggettivamente leciti i comportamenti in parola13.
Altri, invece, hanno parlato di “liceità soggettiva del
fatto per mancanza dell’elemento intenzionale”14.
Un’ultima ipotesi teorica è quella da ascrivere a chi
ha ancorato l’effetto di liceizzazione dell’attività sportiva
alla stessa legge 16 febbraio 1942 n. 426, istitutiva del
C.O.N.I., già citata. Da questa legge, o comunque dalla
autorizzazioni da parte degli organi di pubblica sicurezza allo svolgimento delle manifestazioni sportive, non
può che discendere la liceità dell’attività intrapresa15.
Come è stato bene e puntualmente spiegato in dottrina16, ciascuna delle prospettate teorie si espone inesorabilmente ad obiezioni che rendono necessario cercare
altrove la soluzione del problema.
Quanto alla tesi della liceizzazione ex lege, o a seguito di provvedimento autorizzativi dell’autorità di pubblica sicurezza, essa dimentica che l’autorizzazione legislativa allo svolgimento delle manifestazioni sportive
non implica automaticamente l’accettazione, e dunque
la liceità, delle conseguenze dannose prodottesi nel
corso di tali situazioni. Da escludersi radicalmente, poi,
l’ipotesi secondo cui la liceità del fatto dipenderebbe
dalla mancanza dell’elemento intenzionale: questo, al
contrario, sussiste per definizione stessa dell’attività
sportiva, che è attività volontaria ed orientata verso il
fine di prevalere sull’avversario.
Nemmeno merita apprezzamento l’idea secondo cui
l’attività sportiva sia solo tollerata dall’autorità: tale
presunta tolleranza, infatti, non escluderebbe la rilevanza penale del fatto.
Più interessanti sono le critiche, del pari mosse,
alla ricostruzione che fa leva sulla sussistenza di una
causa di giustificazione, normativa o consuetudinaria
che sia. Vi è da dire in linea di principio, che una causa di giustificazione consuetudinaria, se fosse realmente tale, e cioè costruita esclusivamente sulla diuturnitas
del comportamento, senza fondamento normativo alcuno, sarebbe, a parere di alcuno, inidonea a derogare
a norme sanzionatorie penali17. Quanto all’applicabilità tout court del consenso dell’avente diritto, ad essa
osta la fondamentale disposizione dell’art. 5 c.c., che
rende indisponibile il diritto all’integrità fisica18, e che
13 Sostenitori dell’applicabilità dell’art. 50 c.p. sono: Chiariotti,
op. cit., p. 237 e Manzini, op. cit., p. 218; propendono, invece, per
l’applicabilità dell’art. 51 c.p., Crugnola, op. cit., p. 53 e Caianello, L’attività sportiva nel diritto penale, p. 273.
14 Florian, Trattato di diritto penale. Parte generale, Milano, 1934,
vol. I, p. 656.
15 Di questo avviso, Antolisei, op. cit., p. 311, secondo cui, appunto,
la liceità dell’attività sportiva va ravvisata in considerazione del
fatto che essa è permessa dallo Stato.
16 Traversi, Diritto penale dello sport, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 4849.
17 Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 48.
18 Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 49.
p e n a l e
52
potrebbe trovare deroga solo in presenza della necessità di tutelare un diverso diritto fondamentale dell’individuo, e comunque previa autorizzazione espressa
dell’interessato.
Ben più condivisibile, invece, è la ricostruzione “integrata” prospettata in una interessante quanto equilibrata sentenza della Suprema Corte19. Ad avviso del
supremo collegio, infatti, esisterebbe una scriminante
qualificata, vale a dire l’esercizio dell’attività sportiva,
che, sebbene non codificata, trarrebbe la sua essenza
dalla disciplina dell’art. 50 c.p., superando il limite di
cui all’art. 5 c.c. attraverso l’applicazione del concetto,
già sviluppato sommariamente in precedenza, di rischio
consentito. In altre parole, ad avviso della Corte, la
scriminante del consenso si applicherebbe agli sportivi
che compiono atti lesivi dell’altrui integrità, purché tali
atti non eccedano il rischio consentito dal tipo di sport
in pratica e dalle condizioni della manifestazione e dei
suoi partecipanti (ad es. manifestazione amichevole con
principianti, oppure manifestazione agonistica con atleti professionisti). Su questo concetto si tornerà più
diffusamente nel prosieguo della trattazione.
3. Tipologie di sport ed astratta rilevanza penale
La dottrina penalistica, sebbene non sia riscontrabile un’abbondanza di produzione, ha offerto diverse catalogazioni delle attività sportive pericolose.
Esistono, infatti, tre teorie che classificano l’attività
sportiva in ragione della quantità di violenza in essa
ravvisabile.
Una prima classificazione, bipartita, fa capo a chi
ritiene di poter suddividere l’attività sportiva in sport
senza contatto fisico e sport a forma necessariamente o
eventualmente violenta 20.
Di diverso avviso è invece la dottrina maggiormente
seguita, che suddivide gli sport in tre categorie21: sport
necessariamente violenti, nei quali l’impiego di violenza
è connaturato alla pratica stessa (ad es. pugilato); sport
a violenza eventuale, nei quali l’impiego di violenza non
è un carattere tipico della disciplina, ma può divenire
estrinsecazione della pratica di gioco (ad es. il calcio ed
il rugby); infine, sport non violenti, nei quali è l’attività
stessa ad escludere l’impiego di alcuna violenza tra i
partecipanti.
Una diversa ricostruzione, invece, classifica gli sport
in quattro categorie22: sport in cui la violenza è necessa-
19 Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999 – 25 febbraio 2000, n. 2286, in
Guida al Diritto, n. 18 del 2000, con nota di Amato, Violazione
delle regole e condotta imprudente presupposti della responsabilità
penale, pp. 82 e ss..
20 Albeggiani, voce Sport (dir. Pen.), in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990,
pp. 550 e ss..
21 G. De Francesco, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti,
in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1983, pp. 607 e ss..
22 Rampioni, voce Delitto sportivo, in Enc. Giur., X, Roma, 1988,
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ria per avere la meglio sull’avversario (ad es. pugilato);
sport in cui la violenza va necessariamente utilizzata su
cose o persone (ad es. rugby); sport a violenza eventuale sulle persone (ad es. calcio); sport ad esclusiva violenza su cose (ad es. tennis).
Ad avviso di chi scrive è possibile ipotizzare una
classificazione parzialmente diversa da quelle sino ad
oggi prospettate dalla dottrina.
Infatti, pur sempre mantenendo dei riferimenti essenziali che si colgono in tutte e tre le citate teorie, è possibile distinguere tra: sport in cui l’uso della violenza è
necessario perché finalizzato ad avere la meglio sull’avversario (esempi sono il pugilato, la lotta greco-romana,
le arti marziali ecc.); sport a contatto fisico, in cui la
violenza, superata una certa soglia di tolleranza, è repressa dal regolamento della disciplina, ma non è escluso che si manifesti (esempi sono il calcio, il rugby, il
basket, la pallanuoto); sport privi di contatto fisico, in
cui il ricorso alla violenza non è proprio della disciplina,
ma potrebbe giovare ad uno dei concorrenti (esempi
sono l’automobilismo, il motociclismo, il tennis); sport
privi di contatto fisico, in cui il ricorso alla violenza non
è possibile (esempi sono il golf, l’atletica ecc.).
Se si analizza ciascuna delle categoria individuate, è
possibile notare che:
- nella prima, esempio il pugilato, il ricorso alla violenza è nella natura stessa della disciplina, e si caratterizza per il fatto che l’intero comportamento dell’atleta può assumere solo i connotati del dolo. È evidente, infatti, che il pugile volontariamente porrà in essere una condotta volta ad essere quanto più dannosa per il suo antagonista, al fine di prevalere nell’incontro. È del pari ovvio che astrattamente sia ipotizzabile un persistente stato di legittima difesa perché
i colpi sono sempre scagliati nella lotta con l’avversario. Quanto alla tecnica del duello, i regolamenti di
gara possono limitarsi ad individuare il rischio consentito esclusivamente attraverso l’indicazione di
colpi proibiti o zone del corpo da non attingere; non
potranno invece dire nulla circa l’intensità dei colpi e
dunque la potenzialità lesiva dei loro effetti. Se ad
esempio in un incontro di pugilato uno dei due contendenti sferri un colpo molto potente e ben assestato
sul volto dell’avversario, provocandogli un’emorragia
cerebrale e conseguentemente la morte, non potrebbe
esserci modo per individuare da parte dell’agente un
superamento dei limiti del rischio consentito, poiché
questi avrà agito in perfetta conformità al regolamento di gara. Si tratterebbe, astrattamente, almeno di
omicidio preterintenzionale, dal momento che la
morte non è evento voluto dall’agente, ma si verifica
in conseguenza delle lesioni da esso poste in essere.
Allo stesso modo, in tale categoria non sarebbe riscon-
pp. 1 e ss..
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trabile alcuna ipotesi di responsabilità colposa, visto
che negligenza, imprudenza e imperizia non rilevano,
essendo la violenza connaturata al risultato da perseguire, e non eventualmente dipesa da comportamento erroneo, ciò facendo venir meno anche la rilevanza del principio generale del neminem laedere.
Non pare nemmeno ipotizzabile un comportamento
imperito del pugile che cagioni la morte superando la
soglia del rischio consentito.
Del pari assenti, in tale categoria, sono i rischi di lesioni ai terzi spettatori.
- nella seconda categoria, esempio il calcio, il ricorso
alla violenza è possibile, stante il persistente contatto
fisico tra gli atleti23, ma non serve a raggiungere immediatamente il risultato, oltre al fatto che i comportamenti violenti sono banditi dal regolamento della
disciplina. Così, escluse quelle condotte eccedenti le
situazioni di gioco e volutamente lesive dell’avversario, che rientrano nelle ipotesi di lesioni dolose (ad
esempio, testate a gioco fermo, gomitate, risse a fine
partita), nulla avendo a che fare con la partita, che si
presenta come mera occasione di contatto tra i litiganti, i comportamenti violenti che si manifestano durante le situazioni di gioco (cd. falli), sono certamente
scriminati dall’ordinamento (benché sanzionati dal
regolamento della competizione). Eventuali lesioni
arrecate all’avversario, sia dolosamente (ad esempio
fallo volontario e mirato a fare male, tipo intervento
in scivolata da tergo) che colposamente (ad esempio
scontro involontario, testata involontaria, fallo volontario ma non diretto a fare male, tipo sgambetto),
rientrano necessariamente nella soglia del rischio
consentito, poiché sono ipotesi tipiche di contatto tra
gli atleti. In tali casi, pare sconsigliabile il ricorso al
diritto penale, essendo più opportuno tutelare la salute dell’atleta con idonei meccanismi assicurativi.
Eventuali eventi di violenza penalmente rilevanti
potrebbero essere solo comportamenti dolosi avulsi
dalla situazione di gioco, o rispetto ai quali il gioco è
mera occasione24, come nel caso di chi per liberarsi di
un avversario gli scagli volontariamente un pugno.
Ben più difficile sarebbe ipotizzare una responsabilità colposa dell’atleta, visto che in questi sport il contatto fisico è necessario e rientra in toto nel rischio
consentito. Non pare sostenibile, infatti, l’ipotesi di responsabilità colposa per il calciatore che, intervenendo
in ritardo, nel chiaro intento di colpire il pallone, colpisca l’avversario provocandogli la rottura di tibia e perone. Tale situazione, appunto, non può che rientrare
nel rischio consentito.
23 Si è soliti, infatti, proporre l’esempio della cd. spallata, tollerata dal
regolamento di gioco (art. 12, comma 4, n. 2 )
24 Come del resto chiarito dalla Cassazione penale, Sez. V, sentenza 6
marzo 1992, in Cass. Pen., 1995, p. 565, confermata dalla successiva Cass., Sez. V, 12 maggio 1993.
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Nemmeno in tale categoria sono ipotizzabili rischi
per i terzi spettatori.
- nella terza categoria, esempi l’automobilismo ed il
tennis, la violenza non è connaturata alla disciplina,
ma potrebbe giovare ad uno dei contendenti.
Nel caso del tennis, invero, l’ipotesi è piuttosto peregrina, ma non è da escludere che uno dei giocatori,
dolosamente o per mero accidente, colpisca l’avversario
a seguito di un colpo di gioco (ad esempio uno smash)
cagionandogli lesioni. A tal proposito, se il comportamento colposo pare del tutto tollerabile (esempio: uno
smash male indirizzato, con l’avversario che si era spostato malauguratamente nella stessa direzione del colpo), rientrando nel rischio consentito dallo sport in
esame (in cui appunto l’unica ipotesi di lesione è causata da un impatto della pallina sul corpo dell’atleta),
maggiori perplessità sono suscitate dall’ipotesi di comportamento doloso. In tale caso, per vero, l’evento di
danno non è affatto giustificato dalla situazione di gioco, ma fa divenire la partita mera occasione per un
comportamento violento, che fuoriesce del tutto dal
rischio consentito per la specifica disciplina. Nell’esempio del tennista che esploda il colpo contro l’avversario,
a distanza ravvicinata, nell’unico intento di colpirlo non
pare ravvisabile alcuna ipotesi di giustificazione.
Discorso a parte va fatto per eventuali lesioni a terzi.
Se è fuori di dubbio che sia penalmente perseguibile il
tennista che scagli volontariamente la pallina contro
uno spettatore, maggiori perplessità si devono avere
nella inconsueta e per vero difficile ipotesi in cui, a seguito di un colpo errato, la pallina, in forza di un impatto maldestro con la racchetta del giocatore (cd.
steccata), provochi lesioni ad uno spettatore.
Qui, al più, un vago spazio per una responsabilità
colposa da imperizia potrebbe residuare.
Per quanto riguarda l’automobilismo, il discorso da
fare è in parte analogo. Anche in tale sport, infatti, il
ricorso alla violenza non è proprio della disciplina, ma
non per questo è da escludersi, anche perché potrebbe
cagionare vantaggio ad alcuno dei concorrenti. Si pensi
al caso del pilota che volontariamente impatti contro
l’auto dell’avversario, facendogli perdere il controllo
della vettura e provocandogli lesioni nell’impatto contro
le protezioni del circuito. Tale ipotesi, non dipendendo
da situazione di gioco, non può rientrare nel rischio
consentito.
Per quanto riguarda le condotte colpose, bisogna
distinguere a seconda dell’entità dell’errore da cui scaturisce il danno. Se l’errore non eccede la diligenza richiesta per quel particolare sport, allora si rientra in
ipotesi di rischio consentito, non penalmente rilevante.
Si pensi al caso di impatto tra due vetture in cui il comportamento di uno dei piloti è dipeso dalla necessità di
evitare l’impatto con una terza vettura che compiva una
manovra azzardata. Se, invece, l’errore eccede la diligenza richiesta da tale disciplina sportiva, non può
p e n a l e
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dirsi esclusa la rilevanza penale. Le lesioni cagionate ad
altro concorrente rientreranno nella colpa da imperizia,
e segnatamente nella colpa da assunzione.
Per quanto riguarda, infine, le lesioni a terzi, in questo tipo di sport sono ben possibili. Non è infrequente,
nemmeno nella formula uno, di casi in cui restino coinvolti negli incidenti anche addetti alla pista o commissari di gara. In tali ipotesi, salva la ricorrenza del caso
fortuito o della forza maggiore, sulla scorta di quanto
detto precedentemente, la responsabilità colposa da
imperizia sussiste sicuramente.
- nella quarta ed ultima categoria rientrano quegli
sport in cui il ricorso alla violenza non è possibile.
Nel caso del golf, ad esempio, in nessuna situazione
di gioco è ipotizzabile il ricorso alla violenza contro
gli avversari. Non sono configurabili nemmeno ipotesi di responsabilità colposa, poiché non si tratta di
uno sport in cui si interagisce con l’avversario.
Unica, residuale, ipotesi problematica, potrebbe essere quella in cui, a seguito di un colpo sbagliato, si
colpisca uno spettatore. Si tratta di un’ipotesi invero
irreale, dato anche lo spazio su cui si svolgono le partite di golf, ma, nella malaugurata ipotesi in cui il golfista,
con un colpo assolutamente errato, invece di far proseguire la pallina sul campo da gioco, la faccia arrivare
sugli spettatori, ferendone alcuni, l’ipotesi di responsabilità colposa non è da escludere, poiché si tratterebbe
di imperizia grave, sicuramente tale da eccedere il rischio consentito.
4. La giurisprudenza della Suprema Corte (e non solo): il
caso del gioco del calcio
Per effetto della classificazione delle attività sportive
qui ipotizzata, è possibile altresì operare una sintesi
delle condotte penalmente rilevanti che possono prospettarsi nel corso di manifestazioni calcistiche.
È bene ricordare, dunque, che la distinzione principale e preliminare è quella relativa alle condotte violente avulse dalle situazioni di gioco e alle condotte violente tipiche ed immanenti alla situazione di gioco.
Ferma restando, nelle prime, la responsabilità penale a titolo di dolo, merita di essere riportato un passo
estremamente illuminante della sentenza n. 45210 del
21.09.2005 della Suprema Corte: “in tema di lesioni
personali cagionate durante una competizione sportiva,
non sussistono i presupposti di applicabilità della causa
di giustificazione del consenso dell’avente diritto con
riferimento al cosiddetto rischio consentito (art. 50
c.p.), né ricorrono quelli di una causa di giustificazione
non codificata ma immanente nell’ordinamento, in
considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport, nell’ipotesi in cui, durante una partita di calcio ma a gioco
fermo, un calciatore colpisca l’avversario – che aveva
realizzato una rete – con una gomitata al naso, in quanto imprescindibile presupposto della non punibilità
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della condotta riferibile ad attività agonistiche è che
essa non travalichi il dovere di lealtà sportiva, il quale
richiede il rispetto delle norme che regolamentano le
singole discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti ad un rischio superiore a quello consentito da quella
determinata pratica ed accettato dal partecipante medio; ne deriva che la condotta lesiva esente da sanzione
penale deve essere, anzitutto, finalisticamente inserita
nel contesto dell’attività sportiva, mentre ricorre, come
nella fattispecie, l’ipotesi di lesioni volontarie punibili
nel caso in cui la gara sia soltanto l’occasione dell’azione violenta mirata alla persona dell’antagonista”25.
Appare significativo, inoltre, che si sia ricorso ai
Tribunali e si sia addirittura pronunciata la Corte di
Cassazione solo in occasione di interventi di verificatesi a livello amatoriale (partite di calcetto, ovvero, in
quanto assimilabili, partite di pallacanestro).
In due sentenze analoghe26, dalle quali si è poi sviluppata una giurisprudenza sempre conforme27, la Suprema Corte ha ritenuto sussistente il reato di cui all’art.
582 c.p. (lesioni personali volontarie), poiché la condotta violenta a gioco fermo, esulando dal normale svolgimento del gioco, che finiva per divenire mera occasione
della stessa, si caratterizzava per il connotato del dolo,
essendo l’azione intenzionalmente diretta al solo scopo
di nuocere all’avversario.
Non si può negare che la ricostruzione, ormai pacifica, operata dalla Cassazione, sarebbe stata applicabile anche in casi celebri avvenuti tra i professionisti.
Forse il limite alla persecuzione di tali condotte, interno
al sistema penale stesso, sta nel fatto che, ai sensi del
comma 2 dell’art. 582, le lesioni non gravi, che provocano una malattia di durata non superiore a venti giorni sono punibili solo a querela dell’offeso.
Tra le condotte violente “di gioco”, invece, è possibile sostenere che siano consentite certamente solo
quelle che rientrano nelle “esigenze di svolgimento della
gara”28. Questa tipologia di condotte, assume una diversa rilevanza a seconda che ci si trovi nel corso di attività sportive ontologicamente violente, rispetto alle quali
si dovranno individuare i limiti per la rilevanza del fat-
25 Molto strano, invece, è che in una serie di casi del tutto analoghi, ma
occorsi durante una partita tra professionisti, non si sia apprezzata
alcuna conseguenza, se non il generale biasimo della critica e della
stampa.
26 Si tratta delle sentenze Cass., Sez. V, 12 maggio 1993, n. 5589 e Cass.,
Sez. V, 21 febbraio 2000, n. 1951, in Riv. Dir. Sport., 2000, 141 e
142, con nota di Chinè, Illecito sportivo e responsabilità penale, i
nuovi confini di una scriminante non codificata. In tale ultima pronuncia, la Corte Regolatrice ha ritenuto che “si ha superamento del
rischio, e dunque colpa, se il fallo doloso (volontario) sia di tale
durezza da comportare la prevedibilità del pericolo dell’evento lesivo
a carico dell’avversario”.
27 Tra le varie, Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999-25 febbraio 2000,
n. 2286; Cass., Sez. V, 8 agosto 2000, n. 8910.
28 Cfr. Cass., Sez. I, 20 novembre 1973, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1975,
p. 660, con nota di Rampioni, Sul cd. “delitto sportivo”: limiti di
applicazione.
2 0 0 9
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to a titolo di colpa, oppure che ci si trovi nel corso di
sport a contatto fisico, ma nei quali la violenza è espressamente vietata dal regolamento di gara.
Quanto alla prima delle prospettate ipotesi, può ben
proporsi l’esempio del pugilato. Nell’ambito di tale attività, infatti, gli incidenti non sono mancati, e si può
dire che dottrina e giurisprudenza abbiano individuato
in modo definitivo i limiti di rilevanza penale delle condotte lesive, finanche di quelle letali 29.
Può essere opportuno riportare un caso celebre, verificatosi negli anni ‘8030. Nel corso dell’incontro di
pugilato tra Lupino e Laserra, infatti, a seguito dei colpi inferti dal suo avversario nel corso del combattimento, il pugile Laserra era deceduto, e il Lupino era stato
incriminato per omicidio preterintenzionale, a seguito
di un’inchiesta della Procura di Milano. Nel corso del
processo, il pubblico ministero sosteneva la non applicabilità, nel caso di specie della scriminante del consenso dell’avente diritto, essendo il bene leso assolutamente indisponibile. Di diverso avviso, invece, fu il Tribunale di Milano, che con un ragionamento molto corretto sul piano della logica giuridica. Ad avviso del giudice
istruttore, infatti, ai fini della responsabilità per omicidio preterintenzionale, mancava il dato della volontarietà (anche) nel reato minore, dal momento che il pugile non intendeva cagionare lesioni all’avversario, ma
solo vincere l’incontro. Ma il giudice si spinse anche
oltre, ritenendo impossibile anche la derubricazione del
fatto a omicidio colposo, poiché il combattimento si era
svolto nel pieno rispetto delle norme regolamentari sugli
incontri di pugilato31.
È possibile, allora, concludere che egli sport a violenza necessaria, la scriminante dell’esercizio di attività
sportiva sussista sempre, a condizione che gli atleti in
gara rispettino tassativamente il regolamento di svolgimento della competizione. Il mancato rispetto del regolamento dovrà essere provato ai fini della responsabilità
penale, e dovrà essere accertato con accuratezza e precisione se lo sconfinamento dell’atleta oltre il rischio consentito sia avvenuto a titolo di dolo, ovvero per colpa32.
Di difficile apprezzamento, invece, sono le ipotesi di
atti lesivi dell’integrità fisica compiute nel corso di sport
che si è definito a contatto fisico, in cui la violenza è
repressa dal regolamento della disciplina, ma non è
escluso che si manifesti (esempi sono il calcio, il rugby,
il basket, la pallanuoto).
In questa sede, pare opportuna una prospettazione
29 Per una abbondante disamina della casistica, si veda Frattarolo,
L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, 1ª ed., Giuffrè, Milano,
1995.
30 Ampiamente, Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 53.
31 Nella sentenza il giudice sostenne che “non può essere mai illecito
un evento dannoso avvenuto nel corso di un’attività sportiva che si
sia estrinsecato nel rispetto dei regolamenti”. Così Uff. istr. Trib.
Milano, sentenza 14 gennaio 1985.
32 Così anche Traversi, Diritto penale dello sport, cit., p. 57.
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
di diverse ipotesi, nel giuoco del calcio, di “falli di gioco”
che hanno portato a conseguenze anche gravi sull’integrità di chi li ha subiti.
Un primo caso, forse l’unico ad avere un seguito
nelle aule giudiziarie, è quello dello scontro tra l’attaccante della Fiorentina, Antognoni, ed il portiere del
Genoa, Martina. Nel caso di specie, l’attaccante viola
ebbe a riportare gravi lesioni a seguito di un’uscita del
portiere genoano, che, saltando per afferrare il pallone,
lo aveva colpito con il ginocchio proteso in avanti. In
primo grado il Tribunale di Firenze ritenne il Martina
responsabile di lesioni colpose. La Corte d’Appello, invece, ritenne che il comportamento del portiere, perfettamente tipico di una situazione di gioco, fosse da
considerarsi attuato secondo le regole del gioco, e che la
proiezione in avanti della gamba non fosse motivata
dalla intenzione di arrecare danno all’avversario, ma
solo dall’esigenza di evitare conseguenze sfavorevoli per
la propria squadra, e che comunque il Martina non si
fosse rappresentata la possibilità di cagionare lesioni
all’avversario33.
Più vicino ai giorni nostri è un intervento in “scivolata” che ha destato notevole scalpore tra gli sportivi, per
la violenza e la spregiudicatezza dimostrate dall’autore e
per le terribili conseguenze riportate dalla vittima.
Il fallo in questione, rispetto al quale non a caso si è
parlato di entrata “da codice penale”, è avvenuto nel
campionato inglese, dove il giocatore dell’Arsenal, Eduardo da Silva, mentre si impossessava del pallone nella
metà campo avversaria, veniva raggiunto da una scivolata con piede “a martello” da un difensore del Birmingham
City, tale Martin Taylor. Risultato dell’intervento, frattura di tibia e perone, oltre, naturalmente, a un lungo stop
dall’attività agonistica. Anche in questo caso, le immagini evidenziano come l’entrata in scivolata del difensore
del Birmingham City, oltre ad essere pericolosa in sé,
stante appunto la posizione del piede, parallelo alle gambe dell’avversario, non avrebbe mai potuto raggiungere
il pallone, essendo essa “in ritardo”, vale a dire essendo
la sfera già nella disposizione di gioco dell’avversario.
In casi di tale specie, la sussistenza della scriminante
dell’esercizio dell’attività sportiva non può considerarsi
presupposta. Come peraltro ben chiarito dalla Suprema
Corte, negli sport cd. a contatto fisico necessario, l’area
del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole di gioco, ma la violazione di queste va valutata in concreto, “con riferimento all’elemento psicologico dell’agente, il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di tali regole – la colposa, involontaria evoluzione
dell’azione fisica legittimamente intrapresa, o al contrario,
la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario
approfittando della circostanza del gioco”34.
33 Così Corte App. Firenze, 17 gennaio 1983.
34 Cass., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473. Ad avviso della
p e n a l e
56
L’assunto della Suprema Corte è molto interessante,
almeno per due implicazioni che da esso conseguono.
In primo luogo, come ormai assodato, la violazione
del regolamento di gioco comporta, sempre, la riespansione dell’ordinamento penale rispetto a fatti che cadrebbero sotto il giudizio dell’ordinamento sportivo. In tal
senso, infatti, la Corte Regolatrice definisce il rischio
consentito come quell’area “delineata dal rispetto di
quest’ultime regole, che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria
(cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante
deve avere piena consapevolezza sin dal momento in
cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport. Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l’uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata – in forme corrette – al perseguimento di un determinato obiettivo,
conseguibile vincendo la resistenza dell’avversario”35.
In secondo luogo, l’incriminazione del fatto, e la sua
stessa procedibilità, si giocherebbero tutte sul piano
della prova, o meglio dell’evidenza probatoria.
In effetti, i due esempi sopra riportati, sono astrattamente sussumibili o nell’art. 582 comma 1 c.p. (lesioni
personali volontarie, procedibilità d’ufficio), ovvero
nell’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose, procedibilità a querela dell’offeso36).
La constatazione è di non poco momento, atteso che
la procedibilità d’ufficio potrebbe scattare anche per
ipotesi in cui si ha solo l’impressione che il fallo sia conseguenza di una ritorsione contro l’avversario per un
precedente torto subito. Allo stesso modo, però, la procedibilità ex officio, e con essa il reato doloso, potrebbero rimanere in disparte se il giocatore, pur agendo nel
chiaro intento di vendicarsi, riesca bene a mascherare le
sue intenzioni (ad esempio facendo passare del tempo
prima di scagliarsi contro l’avversario, ovvero non dando
impressione di essere rimasto turbato dal fallo subito, e
di non essere intenzionato ad un’imminente vendetta).
Questa conclusione non pare francamente condivisibile, poiché appunto darebbe adito a troppe discriminazioni, davvero inopportune.
È da ritenersi, infatti, che ancorare la distinzione tra
fatto doloso e fatto colposo realizzato nell’ambito di una
Suprema Corte l’approfittazione della circostanza di gioco si avrebbe non solo per i falli cd. a gioco fermo, ma anche per quei falli
originati da un esclusivo spirito di rivalsa nei confronti dell’avversario, ritorsione o reazione a falli precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso.
35 Cass., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473.
36 Questa è l’interpretazione più testuale del dato normativo, ove non
si intende, come pure parrebbe possibile, forzare il dato normativo
dell’art. 590, comma 5, che prevede la procedibilità d’ufficio per le
lesioni che abbiano determinato una malattia professionale, e ritenere che per gli sportivi professionisti le lesioni derivanti da falli di
gioco, che comportino impossibilità di partecipare a gare successive,
siano da considerarsi malattie professionali.
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competizione sportiva (per le conseguenze sanzionatorie, ma anche per la possibile procedibilità d’ufficio) ad
una stima dell’apparente volontà dell’agente sia oltremodo fuorviante.
Si condivide, certamente, che il fatto resterà doloso
se l’incontro sportivo è solo occasione per compiere atti
di violenza (ad esempio falli a gioco fermo, falli di reazione immediata, lesioni cagionate per motivi estranei
alla situazione di gioco). Si condivide del pari che il
fatto sarà colposo (pur se rilevante solo nel caso in cui
si ecceda il rischio consentito) quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un’ordinaria situazione di gioco, in quanto la violazione consapevole
è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all’avversario, ma al conseguimento – in forma illecita, e dunque
antisportiva – di un determinato obiettivo agonistico37.
Non si condivide la possibilità di rinvenire ipotesi di
reato doloso tra quelle che secondo quanto appena detto
sarebbero colpose, solo perché i motivi siano – presumibilmente – di rivalsa nei confronti dell’avversario. Qualora tali fatti fossero palesemente dolosi, infatti, si potrebbe ricorrere al criterio, già esposto in precedenza, per
cui la gara assumerebbe il ruolo di mera occasione. In tal
modo si riaprirebbe la strada della rilevanza penale.
Questo per una verità di fondo che si basa sull’abitualità degli interventi fallosi nella pratica sportiva. Il
fallo, infatti, il più delle volte è commesso perché uno
dei competitori si è visto superato dall’altro, e dunque,
per impedirgli di andare avanti nell’azione, decide di
optare per un comportamento scorretto. È evidente
come ci sia sempre in questa circostanza uno spirito di
rivalsa: tu mi hai superato, ma io ti butto a terra.
Queste considerazioni, unite a quelle precedentemente svolte, fanno propendere per l’inopportunità di considerare come astrattamente dolosi gli interventi di
gioco, anche quando siano giustificati da uno spirito di
rivalsa nei confronti dell’avversario, essendo più opportuno che tali azioni siano ricompresse esclusivamente
nel fatto colposo.
Come chiarito dalla Cassazione, infatti, negli sport
a contatto fisico necessario “è legittimo attendersi
dall’avversario un comportamento rude, ma non anche
la violazione del dovere di lealtà, che si risolva nel disprezzo dell’altrui integrità fisica”38.
Resta, in ultimo, da prendere atto che anche per la
giurisprudenza della Suprema Corte l’accertamento della
sussistenza della colpa vada compiuto caso per caso, non
essendo individuabili astrattamente dei criteri sicuri su cui
fondare una responsabilità che deriva sempre dalle diverse
modalità di manifestazione della fattispecie concreta39.
37 Cass., Sez. V, sentenza 23 maggio 2005, n. 19473.
38 Così Cass., Sez. IV, sentenza 20 giugno 2001, n. 24942; già conforme, Cass., Sez. V, sentenza 8 ottobre 1992, n. 9627. Da ultimo, in
senso affine, Trib. Udine, sentenza 7 febbraio 2008.
39 In argomento, S. Sica, Lesioni cagionate in attività e sistema delle
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57
Il criterio di riferimento, dunque, deve sempre essere
quello del rischio consentito, da valutare anch’esso in
concreto. In altre parole, se nelle manifestazioni sportive tra professionisti, per l’intensità del gioco e per le
attitudini fisiche dei partecipanti, i contatti possono
assumere di certo un vigore maggiore (aumentando la
soglia del rischio consentito), non è da escludere che
nelle manifestazioni amatoriali, per l’imperizia intrinseca dei partecipanti, per la loro scarsa preparazione
fisica, il rischio consentito sia del pari aumentato in
concreto.
Per quanto appena sostenuto, al contrario, è lecito
attendersi dai professionisti atteggiamenti rudi, ma
“controllati”, cioè posti in essere nella consapevolezza
della loro attitudine lesiva, mentre al contrario, non è
pensabile che dei semplici amatori siano in grado di
controllare la coordinazione dei loro movimenti, e dunque comprendere in anticipo le conseguenze dei loro
gesti.
La culpa dei professionisti, pertanto, dovrebbe essere ritenuta di grado più elevato perché relativa all’operato di soggetti esperti e nel pieno dominio della lex
artis. Di contro, per gli amatori non può che essersi in
presenza di una colpa lievissima, ai limiti della rilevanza penale, e non di certo adeguata sul piano della punibilità.
In ragione di quanto appena esposto, non si ritiene
di condividere la più recente giurisprudenza della Corte
Regolatrice40, che ha ritenuto colpevole di lesioni gravi
un calciatore che, nel corso di una partita tra amici,
aveva commesso un fallo in gioco pericoloso (rectius
uno sgambetto) contro un avversario. Nella fattispecie,
infatti, la Corte ha ritenuto sussistere la penale responsabilità dell’agente sulla scorta del fatto che la condotta
posta in essere dallo stesso fosse estranea al carattere
amichevole della partita, essendo in una simile occasione non preventivato né accettato il rischio di lesioni
così gravi.
Questa giurisprudenza, come è facile comprendere,
cerca di procedere attraverso l’esame di una serie di
circostanze di fatto per giungere alla verifica del travalicamento del limite del rischio consentito. A sommesso
avviso di chi scrive, però, la Corte compie un errore di
metodo nella disamina di queste circostanze di fatto.
Infatti, quanto alle partite di carattere amichevole, può
parimenti sostenersi che, in primo luogo, chi partecipa
ad una partita con gli amici è ben consapevole che l’inesperienza degli altri può portare a scontri fortuiti e
talvolta di seria entità. Secondariamente, i luoghi dove
vengono giocate tali sfide non sono abitualmente perfetti, e possono favorire perdite di equilibrio o comunque possono aggravare le conseguenze dei contrasti. In
responsabilità, in Corr. Giur., 2000, p. 743.
40 Cass., Sez. V, sentenza 4 luglio – 27 novembre 2008, n. 44306.
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ultimo, è assolutamente arbitrario distinguere tra partita amichevole e partita tra professionisti in ragione
della posta in palio: molto spesso, la partitella settimanale tra amici viene sentita con maggiore agonismo di
una partita del campionato di serie A.
La valutazione sul rischio consentito, si ritiene, deve
perciò prescindere dalla disamina di “regole generali”
che attengono al carattere della competizione, ovvero
alle aspettative degli atleti. I criteri che devono orientare i giudici vanno tratti esclusivamente dal fatto, ossia
dalla condotta concretamente posta in essere. Vanno
valutate in modo preciso le circostanze (ad esempio, il
terreno di gioco, le condizioni atmosferiche), le capacità
dell’agente (necessarie a valutare la misura soggettiva
della colpa), le modalità dell’azione, ed anche il contesto
specifico in cui si è verificato l’evento. Il ricorso alla
prova testimoniale sembra il metodo più opportuno per
apprendere tutti questi elementi. Solo in tal modo si
potrà rendere un giudizio che sia davvero conforme alle
esigenze del diritto penale del fatto.
E si badi, questo discorso vale allo stesso modo per
le partite tra professionisti. Il fatto che la partita abbia
un’importanza determinante per i competitori, ovvero
che il tenore fisico ed agonistico degli atleti sia notevolmente superiore, non esonera il giudice (se e quando
chiamato a decidere) dall’accertamento della responsabilità penale. Non è raro, infatti, che si vedano interventi di gioco di una tale violenza da andare ben oltre
quanto consentito dalla disciplina sportiva.
È opportuno segnalare che, lo scorso anno, è accaduto in Olanda che la Suprema Corte dell’Aja, giudicando di un intervento falloso accaduto durante una
partita di calcio della locale serie cadetta, ha ritenuto
sussistente la responsabilità penale in capo al giocatore
autore della condotta lesiva41. Per chi avesse modo di
41 Si riportano, di seguito due articoli de La Gazzetta dello Sport, a
firma di V. Clari, che hanno approfondito l’accaduto: “Tackle violento: 6 mesi di carcere con la condizionale” del 30-05-2006: “Un
tackle da sei mesi di prigione. Non è un’ esagerazione, non è una
protesta, ma una sentenza della Corte d’ Appello de L’ Aia. Sei mesi
di reclusione, con la condizionale, per il giocatore dello Sparta Rotterdam Rachid Bouaouzan, colpevole di un fallo di gioco che provocò una grave fattura a un avversario. La vicenda risale al dicembre
2004, la vittima era Niels Kokmeijer: l’ impatto fu tanto violento da
provocare una frattura con complicazioni, che mise fine alla sua
carriera. Bouaouzan si prese 12 giornate di squalifica, a Kokmeijer
non bastò, e lo portò in Tribunale. Ad agosto scorso la condanna in
primo grado, ora confermata dai giudici d’ appello, perché il giocatore «era consapevole di quello che poteva accadere all’ avversario”;
“Quando un brutto fallo vale 6 mesi di galera” del 25.04.2008:
“Avete presente il terribile infortunio di Eduardo, attaccante dell’
Arsenal a cui Taylor del Birmingham spezzò di netto tibia e perone
con un tackle? È una versione light di quanto accadde, nel dicembre
2004, in Olanda, fra Rachid Bouaouzan e Niels Kokmeijer. Il secondo stava rinviando quando l’ esterno marocchino partì con un tackle
volante che era un colpo di kung fu: impatto fortissimo, Kokmeijer
che vola per aria e gamba spezzata che si muove in direzione diversa.
Il video, su Youtube, è consigliato a un pubblico adulto: molto pulp,
molto tarantiniano. La vicenda è vecchia di quasi quattro anni, ma
ieri la Corte suprema de L’ Aia ha condannato Bouaouzan a 6 mesi
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valutare le immagini del fallo incriminato, non si può
fare a meno di constatare come il calcio sferrato dal
giocatore poi condannato sia un intervento posto in
essere in assoluto disprezzo dell’integrità fisica altrui,
con un fare più simile alle arti marziali che al gioco del
calcio.
Questa giurisprudenza della Suprema Corte olandese dovrebbe fare scuola anche nel resto del continente.
5. La scriminante dell’esercizio di attività sportiva tra le
cause di giustificazione codificate e l’emersione di una
scriminante non codificata
La ricostruzione della giurisprudenza che negli anni
ha affrontato il problema della rilevanza penale dell’attività sportiva, si inserisce nel solco dell’annosa e forse
mai sopita polemica circa l’ammissibilità delle cd. scriminanti non codificate42.
Come si è potuto apprezzare in alcuni passi delle
sentenze richiamate, la stessa Suprema Corte, talvolta,
per non ammettere l’esistenza della scriminante atipica
dell’esercizio di attività sportiva, ha preferito inquadrare il fenomeno dello sport, alternativamente, nell’ipotesi dell’esercizio del diritto, ovvero in quella del consenso
dell’avente diritto.
Le argomentazioni della Corte Regolatrice non erano affatto ignote alla dottrina più risalente, che anzi si
divideva proprio tra coloro che propendevano per l’una
piuttosto che per l’altra delle citate soluzioni.
È il caso di cominciare con l’analisi delle ragioni di
coloro che hanno ricostruito l’attività sportiva nell’ambito della causa di giustificazione dell’esercizio del
diritto 43.
di prigione: il fatto, oltre a suggerire che i tempi della Giustizia non
sono lenti solo in Italia, è quasi una prima assoluta. Una sentenza
definitiva di condanna per un fallo di gioco. La Corte ha stabilito
che si tratta di «un intervento sconsiderato che presuppone coscienza di poter recare danno all’ avversario». Kokmeijer, dopo anni di
interventi, ha chiuso la carriera, con 100 mila euro di risarcimento
(fuori processo) dallo Sparta, club di Bouaouzan. Il marocchino
oggi è al Wigan, e non andrà in galera, grazie alla condizionale. Ma
la sentenza resta, e farà giurisprudenza, almeno in Olanda. In Italia
una causa simile porterebbe alla stessa conclusione? L’ avvocato
Mattia Grassani, esperto di diritto sportivo, lo esclude: «Quella
sentenza secondo il nostro codice è praticamente impossibile. Un
fallo, con palla in movimento, gode dell’ “esimente sportiva”. Chi
compie un gesto lesivo, per quanto fuori tempo e duro, ma all’ interno di una dinamica del gioco, non può essere condannato penalmente». Lo conferma una sentenza di marzo: l’ attaccante Andrea Fregona è stato assolto a Feltre (Belluno). In una gara di Eccellenza
aveva rotto il naso a un difensore, sgomitando per liberarsi da una
trattenuta in contropiede. Nasi rotti, gambe spezzate, condanne
penali: un altro calcio è possibile. Si spera”.
42 Si confronti, approfonditamente, Marinucci, Fatto e scriminanti.
Note dommatiche e politico-criminali, in Riv. It. Dir. Proc. Pen.,
1983, p. 1190 e ss.; Miele, Cause di giustificazione, in Enc. Dir., VI,
p. 596.
43 Si vedano in particolare, Nuvolone, I limiti taciti del diritto penale,
1947; Bricola, Aspetti problematici del rischio consentito nei reati
colposi, in Bollettino dell’Istituto di diritto e procedura penale
dell’Università di Pavia, 1960-1961, p. 123; Zaganelli, L’illecito
penale nell’attività sportiva, in Riv. Dir. Sport., 1963, p. 222; De
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Secondo questa dottrina, le condotte sportive violente, in quanto previste dai regolamenti delle varie discipline riconosciute dallo Stato, possono essere ricomprese fra le attività autorizzate dall’ordinamento. In altre
parole, coloro che partecipano ad una competizione
sportiva sono autorizzati all’esercizio della violenza tipica di tale disciplina, atteso che una certa dose di fisicità è legittimata dall’ordinamento stesso44. Il riferimento all’esercizio del diritto consente di affermare che
colui che esercita un proprio diritto, non può essere ritenuto responsabile nell’ipotesi in cui leda un interesse
altrui, poiché si avvale di una posizione di vantaggio,
riconosciutagli dall’ordinamento, capace di prevalere
sugli altri interessi in conflitto45.
Le critiche che possono muoversi ad una simile ricostruzione sono diverse. In primo luogo, non è dato capire, ed è controverso tra gli stessi sostenitori di questa
teoria, se la scriminante operi solo nell’ambito delle
manifestazioni organizzate dal CONI, essendo la legge
istitutiva di tale organo la fonte del diritto, ovvero se il
diritto abbia un riconoscimento più generale da parte
dell’ordinamento, e dunque ricorra anche nel corso di
competizioni amatoriali, o comunque di carattere privato46.
Ben più complesso, invece, è il problema che si viene
a creare in presenza di condotte violente attuate in violazione di regole di gioco: queste condotte risulterebbero ex se necessariamente punibili. Il ragionamento è
evidentemente il seguente: se il diritto ricorre solo per
quella dose di violenza riconosciuta dalla disciplina di
gara, esso cessa di esistere non appena la condotta violenta ecceda tale disciplina. L’imbarazzo applicativo
sarebbe davvero enorme, poiché allora ogni violazione
del regolamento di gioco dovrebbe essere considerata
penalmente rilevante.
In ragione di tali difficoltà applicative, altra parte
della dottrina ha preferito cercare di rinvenire il fondamento dommatico della non punibilità dell’attività
sportiva nella scriminante del consenso dell’avente diritto47.
44
45
46
47
Francesco, La violenza sportiva ed i suoi limiti scriminanti, in Riv.
It. Dir. Proc. Pen., 1983, p. 597; Mantovani, Esercizio del diritto
(Diritto Penale), in Enciclopedia del Diritto, vol. XV, Milano, p. 647;
Crugnola, La violenza sportiva, in Riv. Dir. Sport., 1960, p. 73; De
Sanctis, Il problema della illiceità della violenza sportiva, in Arch.
Pen., 1967, I, p. 98; Caianello, L’attività sportiva nel diritto penale, p. 273.
Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, cit.,
p. 58.
Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, loc. ult.
cit.
Per il valore scriminante solo nell’ambito delle manifestazioni del
CONI, si veda Frattarolo, La responsabilità civile per le attività
sportive, Milano, 1984, p. 34; di diverso avviso, invece, Dellacasa,
Attività sportiva e criteri di selezione della condotta illecita tra antigiuridicità e colpevolezza, in Danno e Resp., 2003, p. 532.
Si tratta di una ricostruzione molto diffusa: si vedano, al riguardo
Delogu, La teoria del delitto sportivo, in Annali di Diritto e Proce-
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59
Secondo questa ricostruzione, la partecipazione a
competizioni sportive comporterebbe l’accettazione
implicita dei rischi ad essa connessi e, quindi, anche il
consenso alle condotte di violenza sportiva ed alle conseguenze lesive a queste riconducibili.
Anche tra gli Autori che propendono per questo inquadramento dommatico, tuttavia, si apprezzano delle
distinzioni, specie per quel che riguarda i limiti di applicazione della scriminante in parola.
Secondo alcuni, infatti, risulta comunque invalicabile il limite stabilito dall’art. 5 c.c.48, che sancisce il divieto di atti di disposizione del proprio corpo.
Altri, invece, ritengono non congrua, perché troppo
restrittiva, questa impostazione, e si avvalgono di limiti alla disponibilità del diritto di gran lunga più ampi,
rintracciati sulla base di norma consuetudinarie. Si segnala, in particolare, la posizione di chi ritiene che
l’ambito dei comportamenti giustificati vadano ricompresi tutti i comportamenti violenti che, pur non previsti dai regolamenti sportivi, sarebbero giustificati dal
consenso in quanto rientranti nella inevitabile e normale realtà della competizione 49 .
Più in generale, comunque, è il caso di ricordare che
la maggior parte dei sostenitori della teorica in questione, propende per una limitazione di operatività del
consenso ai soli casi in cui le lesioni siano conseguenza
di un comportamento comunque conforme alle regole
del gioco50.
Senza dilungarsi oltre circa le ragioni a sostegno
della ricostruzione in parola, è opportuno, invece, analizzare più dettagliatamente i motivi che portano ad
escludere radicalmente l’opportunità di ricomprendere
l’esercizio dell’attività sportiva nell’ipotesi scriminante
del consenso dell’offeso.
In primo luogo, seguendo un insegnamento tradizionale della dottrina penalistica51, si suole obiettare che la
48
49
50
51
dura Penale, 1932, p. 1034; Chiarotti, La responsabilità penale
nell’esercizio dello sport, in Riv. Dir. Spor., 1959, pp. 259 e ss.;
Carli, Le lesioni colpose nel gioco del calcio, in Riv. Dir. Sport.,
1963; Rampioni, Sul cosiddetto delitto sportivo: limiti di applicazione, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1975, pp. 661 e ss.; Riz, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979, pp. 250 e ss.; Marini, Violenza
sportiva, in Nss. D. I., XX, 1975, p. 987; Pedrazzi, Consenso
dell’avente diritto, in Enc. Dir., IX, p. 151.
Chiarotti, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, cit.,
p. 261; Marini, Violenza sportiva, cit.
Riz, Il consenso dell’avente diritto, cit., p. 246. Ampio riconoscimento a questa impostazione si rinviene nella dottrina tedesca: Stree,
in Schönke e Schröder, Strafgesezbuch Kommentar, Munchen,
1985, p. 1422.
Non a caso, chi si è interessato delle conseguenze civilistiche dei
danni riportati in occasione di simili lesioni ha provveduto a circoscrivere la sfera della irrisarcibilità (dovuta al ricorrere della scriminante) ai soli fatti rientranti nell’alea fisiologica dello sport praticato:
così Galligani – Piscini, Riflessioni per un quadro generale della
responsabilità civile nell’organizzazione di un evento sportivo, in Riv.
Dir. Ec. Sport., vol. III, n. 3, 2007, p. 119.
La dottrina, tradizionalmente, usa richiedere la necessaria sussistenza dei seguenti requisiti di validità del consenso: libertà o spontaneità, proveniente da un soggetto legittimato, avente ad oggetto diritti
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causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p. non possa
operare al fine di rendere lecite lesioni all’integrità fisica
del disponente. In altre parole, nessun individuo è legittimato a disporre validamente della propria sfera fisica
e pertanto nessun valore avrebbe l’atto con cui dovesse
acconsentire a subire lesioni da parte di terzi52.
L’argomento più solido per screditare la teorica del
consenso, comunque, resta quello collegato al requisito
della conformità alle regole del gioco, esposto appena
sopra. Si suole evidenziare, infatti, che per essere valido
un consenso di tal fatta, il disponente dovrebbe fare
espresso riferimento ai soli comportamenti conformi
alle regole del gioco. Infatti, la partecipazione all’evento
sportivo non implica, di per sé considerata, alcuna accettazione alla lesione dei propri diritti53.
Non si dimentichi inoltre che, per essere validamente prestato secondo i canoni del diritto penale, il consenso deve avere ad oggetto una specifica circostanza di
lesione, il che imporrebbe che lo sportivo, al momento
della partecipazione, possa prefigurarsi ogni possibile
ed eventuale conseguenza dannosa patibile durante il
gioco54.
In ultimo, va detto che nei casi di condotte violente
conformi alle regole del gioco, il consenso non verrebbe
affatto in rilievo, trattandosi di comportamenti già autorizzati dall’ordinamento giuridico.
Alla luce di quanto esposto sinora, sembra preferibile prospettare una diversa ricostruzione dommatica
dell’esercizio dell’attività sportiva.
La tesi che in questa sede si ritiene di condividere è
quella, peraltro già fatta propria dalla Suprema Corte in
diverse occasioni, secondo la quale l’esercizio dell’attività
sportiva configuri essa stessa una scriminante, non codificata ma immanente l’ordinamento, che si ricava da
un’interpretazione analogica del consenso dell’avente
diritto ex art. 50 c.p. e dell’esercizio del diritto ex art. 51
c.p., idonea a superare il limite dell’indisponibilità dell’integrità fisica attraverso l’applicazione del concetto di rischio consentito55. In altre parole, in ragione del principio
di non contraddizione, che informa l’intero ordinamento
penale quanto alle ipotesi di giustificazione, lì dove viene
riconosciuto ai consociati il diritto di praticare una de-
52
53
54
55
disponibili, specificità. Cfr. Fiore, Diritto Penale, Parte Generale,
vol. I, pp. 314-318; Fiandaca – Musco, Diritto Penale, Parte Generale, pp. 258 – 264.
Questa argomentazione fonda essenzialmente sul portato dell’art. 5
c.c. In argomento, Nuvolone, I limiti taciti del diritto penale, cit.,
p. 170; Cordero, Appunti in tema di violenza sportiva, in Giurisprudenza Italiana, 1950, p. 316; Perseo, Sport e responsabilità, in
Riv. Dir. Sport., 1962, p. 265; Zaganelli, L’illecito penale nell’attività sportiva, cit., p. 207; Tomaselli, La violenza sportiva e il diritto penale, cit., p. 319; Salazar, Consenso dell’avente diritto e indisponibilità dell’integrità fisica, in Cass. Pen., 1983, pp. 53-62.
Salazar, Consenso dell’avente diritto e indisponibilità dell’integrità
fisica, cit.
Così Dinacci, Violenza sportiva e liceità penale: un mito da superare, in Giur. Merito, 1984, II, p. 1210.
Così Cass., Sez. IV, 12 novembre 1999 – 25 febbraio 2000, cit.
terminata condotta, non può successivamente inserirsi la
sanzione penale, se non al ricorrere di ben determinate
circostanze eccezionali, che configurano una sorta di
eccesso nel ricorso alla giustificazione e fanno sconfinare la condotta oltre la soglia di rischio ammessa.
Per saggiare la validità della ricostruzione appena
prospettata, è il caso di fare riferimento alle critiche più
comuni che pure le sono state mosse.
Preliminare risulta una breve digressione circa la
vexata quaestio dell’ammissibilità di ipotesi di giustificazione non codificate e per di più ricavate in via analogica56.
È un dato incontrovertibile, infatti, quello secondo
cui il ricorso all’analogia in materia penale sia espressamente vietato. Esulano da tale divieto quelle norme che,
seppure ricomprese nel codice penale, non hanno natura penalistica, essendo anzi ontologicamente dirette
alla neutralizzazione degli effetti di altra norma penale57. È questo il caso, infatti, delle cause di giustificazione, rispetto alle quali, si dice, è sempre possibile il ricorso all’analogia in bonam partem, in senso cioè favorevole al reo. Purchè questa costruzione sia corretta, però,
la norma di favore suscettibile di interpretazione analogica deve essere espressione di un principio generale
dell’ordinamento.
Risolto, dunque, il quesito circa l’ammissibilità delle
cd. scriminanti non codificate, resta da definire il sistema di operatività della causa di giustificazione dell’esercizio di attività sportiva.
In primo luogo, va detto che esulano dall’applicabilità di alcuna forma di giustificazione quelle condotte
violente rispetto alle quali la competizione sportiva sia
mera occasione58. In tali circostanze, infatti, si è in presenza di condotte dolose che non vivono di alcun legame
con la competizione sportiva, se non, appunto, per il
dato che esse siano intervenute a margine della gara
stessa.
Le condotte per le quali, invece, è astrattamente
applicabile la scriminante in parola sono tutte le condotte “di gioco”, nelle quali, cioè, l’agente persegue una
finalità propria della disciplina praticata, cercando di
avere la meglio sull’avversario.
Per avere astratta rilevanza penale, inoltre, si deve
trattare di condotte che, in qualsiasi modo, eccedano i
56 Cfr. Nuvolone, I limiti taciti della norma penale, 1947; Marinucci, Fatto e scriminanti, cit., p. 1228; Miele, Cause di giustificazione,
cit., p. 597, il quale precisa che “le situazioni relative alle cause di
giustificazione non previste acquistano rilevanza o per via indiretta
da norme dell’ordinamento giuridico, o esclusivamente dai principi
che riguardano le altre cause di giustificazione”.
57 Cfr. Fiore, Diritto Penale, cit., p. 81, secondo cui “le norme che
˝tolgono˝ illiceità al fatto penalmente sanzionato, infatti, non sono
norme penale, ma autonome norme non penali, aventi effetto sull’intero ordinamento giuridico: ne segue senza strappi la loro possibile
estensione analogica”.
58 Cass. sentenza n. 45210 del 21.09.2005, cit.
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limiti posti dallo stesso regolamento dei gioco59, poiché
diversamente si rientrerebbe nella mera accidentalità.
Detto questo, occorre comprendere in che misura la
condotta fallosa debba eccedere la normale tollerabilità
per divenire penalmente rilevante.
Valgono, infatti, le considerazioni svolte all’inizio in
tema di rischio consentito.
Assumono di certo rilevanza penale tutte le condotte che dimostrano di essere poste in essere in assoluto
spregio dell’integrità fisica altrui60. In occasioni del genere, infatti, non ha alcun rilievo né il carattere della
competizione, né le abilità individuali dell’agente, poiché
la condotta posta in essere è di certo irragionevole, e
dunque non consentita, in quanto in aperto contrasto
con gli stessi valori che orientano l’attività sportiva. In
casi simili, non si può invocare alcun criterio di adeguatezza sociale, ovvero di meritevolezza di tutela dello
sport, poiché, al contrario, è socialmente riprovevole chi
pone in essere un comportamento caratterizzato da un
elevato grado di imprudenza.
Per fare un esempio, ci si può riferire a quagli interventi fallosi in cui l’agente si prefigura l’eventualità di
impattare con l’avversario come più probabile rispetto
all’impatto con il pallone e, nonostante ciò non si astiene dall’azione. È evidente come l’esempio appena prospettato rientri nella categoria della colpa cosciente,
poiché si deve presumere, fino a prova contraria, che la
risoluzione ad agire dell’agente non sia dovuta al desiderio di far male all’avversario, quanto invece a quello
di tentare un intervento disperato al fine di prevalere su
di esso.
Unitamente al dato della irragionevolezza dell’azione, poi, deve sussistere un evento di danno apprezzabile
in termini di lesioni. Non è decisiva (se non ai fini della
sanzione) l’entità delle conseguenze dannose, ma è necessario che l’azione abbia prodotto delle lesioni penalmente apprezzabili.
In ogni altra circostanza, al contrario, potrà ritenersi operante la scriminante dell’esercizio dell’attività
sportiva.
Ogni condotta fallosa, infatti, costituisce una violazione del regolamento di gara, e come tale assume rilevanza in termini di colpa. L’applicabilità della causa di
giustificazione dell’attività sportiva, però, esonera dalla
sanzione penale tutti i comportamenti che sono connaturati alla disciplina praticata. Non assumono, pertanto, alcuna rilevanza né il carattere della competizione,
né tantomeno l’abilità dei competitori: questi dati, semmai, potranno valutarsi ai fini del giudizio per il grado
della colpa in presenza di comportamenti irragionevoli.
Ed infatti, addirittura, nelle competizioni amichevoli, i
cui interpreti sono per lo più amatori, la capacità di
59 Fiore, L’azione socialmente adeguata, cit., p. 173.
60 Cass. Sez. IV, 29 gennaio 1988, n. 1021, cit..
2 0 0 9
61
controllo della vis sportiva risulta più difficile. Chi non
gode di una adeguata preparazione atletica, avrà maggiori difficoltà a controllare gli impulsi del proprio
corpo, ed avrà di conseguenza più probabilità di colpire
accidentalmente altri giocatori. In casi del genere, l’unico criterio per affermare la penale responsabilità
dell’agente attiene all’effettiva adeguatezza dell’intervento rispetto alla circostanza di gioco.
E si badi che quando ci si esprime in termini di adeguatezza, non si vuole individuare una generica categoria di difficile apprezzamento perché rapportata ad un
dato vago ed inafferrabile come la socialità61. L’adeguatezza deve consistere in un giudizio di conformità rispetto alla disciplina sportiva praticata. Un esempio potrà
forse essere utile per comprendere quel che si va dicendo:
il “placcaggio” è un comportamento tipico del rugby,
che consiste nell’afferrare con violenza l’avversario per
impedirgli ogni avanzamento. Può spingersi fino all’eventualità che l’agente si scagli con tutto il suo corpo contro
il proprio antagonista, fino ad atterrarlo. Un comportamento del genere, se praticato in una partita di calcio,
sarebbe del tutto irragionevole, poiché assolutamente
inconferente con quella disciplina sportiva. Infatti, nel
calcio l’uso delle braccia non solo è espressamente vietato, ma è anche illogico, visto che si tratta di uno sport
in cui il pallone viene giocato con i piedi. È ovvio, allora,
che usando le mani non sia affatto possibile prevalere
sull’avversario, poiché comunque la condotta configurerebbe una violazione del regolamento di gioco.
Discorso analogo vale, sempre nel gioco del calcio,
per gli interventi di piede in scivolata, in cui il pallone
sia irraggiungibile da parte dell’agente, ovvero ancora
nel gioco del calcio a cinque, in cui, ad esempio, le scivolate sono espressamente vietate.
In tutti questi casi, l’agente non avrebbe motivo
“sportivo”di porre in essere la condotta lesiva, e dunque,
con assoluta imprudenza, pone in essere un comportamento potenzialmente aggressivo dell’integrità fisica
altrui, senza che ricorrano più i requisiti di sussistenza
della scriminante62.
Anche le scriminanti non codificate, infatti, devono
sottostare agli stessi principi che governano il sistema
delle scriminanti, primi fra tutti quelli di necessità e di
proporzionalità.
Specialmente con riferimento alla proporzionalità, e
tenendo a mente la ricostruzione che si è proposta della
scriminante dell’esercizio dell’attività sportiva, è possibile concludere che in tutti i casi ora esposti la rilevanza
penale del fatto come delitto colposo è ascrivibile ad una
61 Sferrazza, La scriminante sportiva nel gioco del calcio, cit.,
p. 62.
62 Non deve dimenticarsi, inoltre, che la sussistenza di una causa di
giustificazione rende il fatto non antigiuridico, e come tale improduttivo di alcuna conseguenza sanzionatoria a carico dell’autore,
anche in ambito civilistico.
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fondamentale norma di parte generale: l’art. 55 c.p., che
sanziona l’eccesso colposo nella commissione di uno dei
fatti previsti dagli artt. 51-52-53-5463.
Tale norma spiega i motivi che portavano, in precedenza, ad escludere l’ammissibilità di un’imputazione
dolosa per i fatti di gioco, in quanto la sua applicazione comporta che qualora ricorrano i presupposti oggettivi di una causa di giustificazione, e l’autore, agendo
nella consapevolezza di realizzare una condotta conforme a quella prevista nella norma permissiva, cagioni una lesione di beni più grave di quella strettamente
63 Che l’elenco non abbia carattere tassativo pare un dato ormai acquisito in dottrina. In argomento, si veda Fiore, Diritto Penale, cit.,
p. 362.
p e n a l e
62
funzionale alla realizzazione del fine contemplato
nell’ipotesi giustificatrice, si applicano le disposizioni
concernenti i delitti colposi, se il fatto è previsto come
delitto colposo 64.
Più precisamente, si verserebbe in quella particolare
figura di eccesso costituita dall’uso improprio dei mezzi di azione.
64 Si badi che l’eccesso, per essere configurabile, deve seguire un comportamento colposo, e non volontariamente lesivo: cfr. Cass. Sez. I,
Sentenza n. 45425 del 25/10/2005, secondo cui “occorre poi procedere ad un’ulteriore differenziazione tra eccesso dovuto ad errore di
valutazione ed eccesso consapevole e volontario, dato che solo il
primo rientra nello schema dell’eccesso colposo delineato dall’art.
55 c.p., mentre il secondo consiste in una scelta volontaria, la quale
comporta il superamento doloso degli schemi della scriminante”.
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●
Coltivazione di
stupefacenti e valutazione
dell’offensività concreta
della condotta
Nota a Cass. Pen., Sez. IV,
14 gennaio 2009, n. 1222
● Valeria Parlato
Dottore in giurisprudenza e specializzata presso
la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali
“Federico II”
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63
STUPEFACENTI E TOSSICODIPENDENZA – ATTIVITÀ ILLECITE – COLTIVAZIONE – PIANTE NON
ANCORA GIUNTE A MATURAZIONE – INOFFENSIVITÀ DELLA CONDOTTA- FATTISPECIE.
(D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, Art. 73; Art. 49 c.p.)
Non è punibile la condotta di coltivazione di piante da
stupefacenti allorquando si tratti di piante non ancora
giunte a maturazione e che, quindi, non abbiano ancora
prodotto sostanza avente efficacia stupefacente o psicotropa. (Nella specie, trattavasi di 23 piantine di cannabis sativa, che, per il mancato completamento del ciclo produttivo, solo in via prognostica poteva prevedersi che avrebbero prodotto una notevole quantità di principio attivo).
Cass. Pen., Sez. IV, sent. 28 ottobre 2008 – 14 gennaio
2009, n. 1222
Presidente Mocali; Relatore Bevere
*** Nota a sentenza
In materia di stupefacenti la giurisprudenza ha avuto
più volte occasione di affrontare il tema dell’offensività
della condotta di coltivazione di piantine di cannabis,
sia in relazione alla tipologia dell’attività posta in essere
sia in relazione alla tipologia di sostanze oggetto di coltivazione.
Con la sentenza n. 1222 del 14 gennaio 2009 la Corte di Cassazione, passando in rassegna gli orientamenti
giurisprudenziali fino ad oggi seguiti dalla stessa Suprema Corte e dalla Corte Costituzionale, analizza il delicato tema del rispetto del principio di offensività nell’ambito dei reati di pericolo presunto e, più in particolare,
quello dell’individuazione del bene tutelato dal legislatore con la normativa in materia di stupefacenti1.
In primo luogo, va precisato che il principio di offensività – in forza del quale “nullum crimen sine iniuria” – trova riconoscimento, sia pure implicito, nella
Costituzione, dal momento che la sanzione penale, che
si sostanzia nella compressione di valori costituzionali
quali la libertà o la dignità personale, si giustifica solo
se volta a compensare l’offesa a beni-interessi di pari
rango costituzionale.
Si è attribuito a tale principio un duplice connotato,
in astratto ed in concreto: sotto il primo profilo, si impone al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano
in astratto un contenuto lesivo o comunque l’esposizione
a pericolo di un bene-interesse oggetto di tutela penale
(principio di offensività in astratto); sotto il profilo della concretezza, si richiede al giudice che, nel giudizio di
conformità al tipo, verifichi anche l’effettiva lesione o
esposizione a pericolo del bene-interesse protetto (principio di offensività in concreto)2.
1 cfr. D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, artt. 73 e 75
2 Corte Cost., 7 luglio 2005, n. 265, in Foro it., 2006, I, 18; Giur. Cost.,
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Per quanto il rispetto del principio di offensività sia
più agevolmente assicurato nella formulazione di reati
di danno o di pericolo concreto, i problemi rilevano
qualora il legislatore scelga di considerare la fattispecie
come reato di pericolo presunto.
In quest’ultimo caso, infatti, la descrizione del reato
è limitata alla condotta che di per sé è già considerata
pericolosa, al giudice è affidato solo il compito di accertare che il reo abbia posto in essere quella condotta,
essendo escluso, infatti, il potere di verificare che dalla
condotta sia effettivamente derivato un pericolo.
Sul tema, la Corte Costituzionale3 ha ritenuto che
“la condotta di coltivazione di piante da cui sono
estraibili i principi attivi di sostanza stupefacente integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato
dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa
astratta”.
Ad opinione della Suprema Corte, di conseguenza,
in ossequio al principio di offensività inteso nella sua
componente concreta, al giudice spetta solo di verificare se la condotta posta in essere dall’agente corrisponda
o meno a quella che la normativa in materia di stupefacenti considera idonea a mettere in pericolo il bene
giuridico tutelato.
Tant’è vero che la sussistenza del reato ex art. 73
D.P.R. 309/1990 è stata esclusa tutte le volte che la sostanza stupefacente o psicotropa oggetto di coltivazione,
pur essendo ricompresa nelle tabelle allegate alla legge,
fosse priva di qualsiasi efficacia farmacologica e, quindi,
inidonea a determinare l’effetto drogante; in definitiva,
il reato non sussiste ogni qualvolta la condotta sebbene
tipica sia inoffensiva.
Per verificare l’idoneità offensiva della condotta a
ledere o porre in pericolo il bene-interesse protetto, va
preliminarmente individuato il bene giuridico che il legislatore ha inteso tutelare attraverso il D.P.R.
309/1990.
La Corte di Cassazione nella sentenza in commento
individua nel diritto alla salute il bene tutelato dalla
disciplina sugli stupefacenti4, conformemente alle opinioni espresse dalla stessa Corte con sentenza 1679/19955
e dalla Corte Costituzionale con sentenza 360/19956;
più nel dettaglio, il Giudice delle leggi precisa che “il
bene della salute va inteso non come diritto soggettivo
individuale, ma come bene di cui l’individuo è portatore nell’interesse della collettività”.
3
4
5
6
2005, 2432; Cass. pen., 2005, 3320; Cass., Sez. II, 13 gennaio 1995,
n. 360, Massime ufficiali, Mass., 1995; Corte Cost., 11 luglio 2000,
n. 263, in Cons. Stato, 2000, II, 1181, Giust. pen., 2000, I, 263.
Cass., Sez. IV, 15 novembre 2005, in Ced Cass., rv. 232794 (m),
Foro Repertorio: 2006, Stupefacenti [6550], n. 39.
Cfr. D.P.R. 9 ottobre 1990 n.309 artt.73 e 75.
Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 13 novembre 1995, n. 1679, in Cass.
pen. 1997, 175 nota Gallucci, Giust. pen., 1997, II, 230 Dir. e giur.
agr. 1997, 522 nota Lamantea.
Cass., Sez. II, 13 gennaio 1995, n. 360, cit.
p e n a l e
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Risulta evidente, a questo proposito, la dissonanza
tra quest’affermazione e la recente sentenza della stessa
Corte che, sul medesimo tema, aveva affermato che
l’oggettività giuridica non si limitasse alla salute pubblica estendendosi altresì all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, nonché al normale sviluppo delle giovani
generazioni, di certo messi in pericolo da una qualsiasi
attività di diffusione di sostanze stupefacenti.
A tal proposito, la Corte ha precisato che questi ulteriori beni-interessi, per lo più strumentali alla tutela
del bene della salute, non sono contemplati dalla Carta
Costituzionale e non sono idonei, quindi, da soli a giustificare, sotto il profilo della ragionevolezza, quel sacrificio di valori costituzionali quali la libertà o la dignità personale derivanti dall’applicazione della sanzione penale; nel doveroso bilanciamento tra principi di
rango costituzionale, come il diritto alla salute ed il
diritto cardine alla libertà personale, questi beni potranno tuttavia ricorrere “come valori guida di scelte di
politica criminale, prevalentemente contingenti”.
In conformità a questi ragionamenti, la Corte ha
sancito che “dinanzi al paradosso di condotte tipiche
ma in concreto non pericolose per la salute individuale
e collettiva tutelata dalla Costituzione, il giudice, guidato dal combinato disposto dei principi di offensività
e ragionevolezza, deve chiedersi se possa esercitare il
potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per tutelare il bene della salute, dinanzi a una
offensività, non ravvisabile neanche in grado minimo,
nella singola condotta dell’agente”.
Già di recente le Sezioni Unite sono intervenute nel
riconoscere rilevanza penale alla condotta di coltivazione domestica di piantine di cannabis quale reato di pericolo presunto, a prescindere dalla destinazione del
prodotto ad uso personale; il pericolo che si intende
scongiurare è quello della diffusione del principio attivo
della sostanza stupefacente, che è insito nella mera condotta di coltivazione.
La messa a dimora di piantine, infatti, qualunque sia
il metodo utilizzato – sia esso imprenditoriale, sia esso
domestico – costituisce in ogni caso illecito penale,
poiché la coltivazione implica di per sé un incremento
del principio attivo della sostanza da cui deriva il pericolo di diffusione.
Tuttavia, la stessa Corte aveva previsto, in quella
sede, la possibilità che il giudice in concreto riscontrasse l’inoffensività del reato, qualora la coltivazione risultasse inidonea in concreto a produrre ulteriori piantine
o ad incrementarne il principio attivo, escludendone
così la rilevanza penale.
Nel caso esaminato con la sentenza in commento, la
Corte di Cassazione esclude proprio la rilevanza penale
della condotta tipica che, per essere meritevole di punizione, oltre ad avere ad oggetto sostanze stupefacenti
rientranti tra quelle di specifici elenchi e tabelle, deve
anche avere efficacia psicotropa o stupefacente.
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Nella fattispecie in esame i Supremi Giudici attestano l’assenza del requisito sostanziale della effettiva capacità o potenzialità lesiva della condotta concreta di
coltivazione poiché, se le piantine messe a dimora non
sono ancora giunte a maturazione, non è possibile accertare in concreto, ma solo in via prognostica, la possibilità di produrre una quantità di principio attivo
2 0 0 9
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idonea alla diffusione. Ne discende, dunque, che sebbene la coltivazione di piantine di cannabis costituisca,
secondo la giurisprudenza unanime, un reato di pericolo presunto, ciò non esclude che, in conformità al principio costituzionale di offensività, la sussistenza del
pericolo vada accertata in concreto in base ad elementi
certi e non meramente ipotetici.
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●
• SS.UU., Sentenza n. 6591 del 27 novembre 2008
Ud. (dep. 16 febbraio 2009) Rv. 242152
Presidente: Carbone V. Estensore: Rotella M. Relatore:
Rotella M. Imputato: Infanti. P.M. Palombarini G. (Conf.)
(Rigetta, App. Palermo, 2 Aprile 2007)
Rassegna di legittimità
DIFESA E DIFENSORI – PATROCINIO DEI NON ABBIENTI – Dichiarazioni sostitutive e altre comunicazioni o
indicazioni sul limite di reddito – Falsità e omissioni – Effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione – Reato di cui all’art. 95 D.P.R.
n. 115 del 2002 – Sussistenza.
Integrano il delitto di cui all’art. 95 D.P.R. n. 115 del
2002 le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei
dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di
certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per
l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di
reddito per l’ammissione al beneficio.
● Andrea Alberico
Dottorando di Ricerca in Diritto Penale
Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
• Sez. III, Sentenza n. 2872 del 11 dicembre 2008
Cc. (dep. 22 gennaio 2009) Rv. 242163
Presidente: Vitalone C. Estensore: Amoresano S. Relatore: Amoresano S. Imputato: P.M. in proc. Corimbi.
P.M. Passacantando G. (Diff.)
(Dichiara inammissibile, Trib. Nuoro, 25 Febbraio 2008)
EDILIZIA – COSTRUZIONE EDILIZIA – Reati edilizi – Ordine di demolizione – Estensione ad altri manufatti – Condizioni – Individuazione.
In tema di reati edilizi, a seguito dell’irrevocabilità
della sentenza di condanna è consentita l’estensione
dell’ordine di demolizione ad altri manufatti a condizione che gli stessi siano stati realizzati successivamente
all’opera abusiva originaria e, per la loro accessorietà a
quest’ultima, rendano ineseguibile l’ordine medesimo.
• Sez. III, Sentenza n. 3445 del 17 dicembre 2008
Cc. (dep. 26 gennaio 2009) Rv. 242168
Presidente: Altieri E. Estensore: Petti C. Relatore: Petti
C. Imputato: Criscuolo. P.M. Montagna A. (Parz. Diff.)
(Dichiara inammissibile, Trib. lib. Salerno, 29 Dicembre 2007)
EDILIZIA – IN GENERE – Reati edilizi – Mutamento di
destinazione d’uso – Immobili compresi in zone
omogenee A) – Interventi che modificano la sagoma
o il volume del preesistente manufatto – Permesso
di costruire – Necessità.
In tema di reati edilizi, integra il reato di costruzione
edilizia abusiva per assenza del permesso di costruire
l’esecuzione d’interventi edilizi comportanti un mutamento di destinazione d’uso in immobili compresi nelle
zone omogenee A) ovvero modificativi della sagoma o
del volume del preesistente manufatto. (Fattispecie rela-
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tiva a modifica della destinazione d’uso di un ripostiglio
in vano abitabile).
è deciso in camera di consiglio con le forme del rito non
partecipato di cui all’art. 611 c.p.p..
• Sez. III, Sentenza n. 2877 del 11 dicembre 2008
Cc. (dep. 22 gennaio 2009) Rv. 242165
Presidente: Vitalone C. Estensore: Amoresano S. Relatore: Amoresano S. Imputato: Zaccari. P.M. Passacantando G. (Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Latina, 11 Luglio 2008)
• SS.UU., Sentenza n. 8388 del 22 gennaio 2009
Cc. (dep. 24 febbraio 2009) Rv. 242292
Presidente: Gemelli T. Estensore: Canzio G. Relatore:
Canzio G. Imputato: Novi. P.M. Palombarini G. (Conf.)
(Rigetta, Trib. Genova, 25 Febbraio 2008)
EDILIZIA – IN GENERE – Reati edilizi – Mutamento di
destinazione d’uso – Realizzazione d’opere – Ristrutturazione edilizia – Permesso di costruire – Necessità.
In tema di reati edilizi, integra il reato di costruzione
edilizia in assenza di permesso di costruire il mutamento
di destinazione d’uso di un immobile mediante realizzazione d’opere edilizie, in quanto l’esecuzione dei lavori,
anche se di modesta entità, determina la creazione di un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. (Fattispecie relativa a modifica della destinazione
d’uso di una serra in un deposito adibito a rimessa di
velivoli).
• Sez. III, Sentenza n. 3445 del 17 dicembre 2008
Cc. (dep. 26 gennaio 2009) Rv. 242168
Presidente: Altieri E. Estensore: Petti C. Relatore: Petti
C. Imputato: Criscuolo. P.M. Montagna A. (Parz. Diff.)
(Dichiara inammissibile, Trib. lib. Salerno, 29 Dicembre 2007)
IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – COGNIZIONE DELLA CORTE
DI CASSAZIONE – Natura pertinenziale di un intervento edilizio – Deducibilità per la prima volta davanti
alla Corte di cassazione – Possibilità – Esclusione.
In tema d’impugnazioni, non è deducibile per la
prima volta davanti alla Corte di Cassazione la censura
tendente a dimostrare la natura pertinenziale di un intervento edilizio, in quanto la stessa comporta accertamenti di fatto sottratti alla cognizione di legittimità.
• SS.UU., Sentenza n. 9857 del 30 ottobre 2008 Cc. (dep. 04
marzo 2009) Rv. 242291
Presidente: Gemelli T. Estensore: Carmenini SL. Relatore: Carmenini SL. Imputato: Manesi. P.M. Monetti
V. (Conf.)
(Dichiara inammissibile, Gip Trib. Livorno, 20 giugno 2007)
IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – PROCEDIMENTO – CAMERA
DI CONSIGLIO – Ricorso avverso l’ordinanza ex art. 263,
comma quinto, c.p.p. – Rito camerale – Individuazione – È quello non partecipato di cui all’art. 611 c.p.p..
Il ricorso per cassazione contro l’ordinanza emessa
dal G.I.P. a norma dell’art. 263, comma quinto, c.p.p.,
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – IMPUGNAZIONI – IN
GENERE – Misura coercitiva – Custodia cautelare – Revoca nel corso del giudizio di impugnazione – Prospettazione di carenza di domanda cautelare – Interesse – Persistenza.
L’interesse all’impugnazione dell’ordinanza applicativa di una misura coercitiva (nella specie degli arresti
domiciliari) persiste, ai fini del giudizio di riparazione
per ingiusta detenzione, pur quando le censure contro
il provvedimento, che nelle more sia stato revocato con
la conseguente rimessione in libertà dell’interessato, non
attengano alla mancanza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., ma alla prospettata carenza di domanda cautelare.
• SS.UU., Sentenza n. 4932 del 18 dicembre 2008
Cc. (dep. 04 febbraio 2009) Rv. 242028
Presidente: Gemelli T. Estensore: Brusco CG. Relatore:
Brusco CG. Imputato: Giannone. P.M. Ciani G.
(Conf.)
(Rigetta, Trib. lib. Napoli, 11 Marzo 2008)
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – PROVVEDIMENTI – INTERROGATORIO – IN GENERE – Aggravamento del regime cautelare in seguito alla trasgressione delle
prescrizioni imposte – Interrogatorio di garanzia – Necessità – Esclusione.
Nell’ipotesi di aggravamento delle misure cautelari
personali a seguito della trasgressione alle prescrizioni
imposte, il giudice non deve procedere all’interrogatorio
di garanzia in alcuno dei casi contemplati dall’art. 276,
commi primo e primo-ter, c.p.p..
• SS.UU., Sentenza n. 8388 del 22 gennaio 2009
Cc. (dep. 24 febbraio 2009) Rv. 242292
Presidente: Gemelli T. Estensore: Canzio G. Relatore:
Canzio G. Imputato: Novi. P.M. Palombarini G.
(Conf.)
(Rigetta, Trib. Genova, 25 Febbraio 2008)
MISURE CAUTELARI – PERSONALI – PROVVEDIMENTI – RICHIESTA DEL PUBBLICO MINISTERO – Assenso scritto
del procuratore della Repubblica – Condizione di
ammissibilità – Esclusione – Condizione di validità
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della conseguente ordinanza cautelare – Esclusione.
L’ammissibilità della richiesta di applicazione di misure cautelari personali, presentata dal magistrato dell’ufficio del pubblico ministero, assegnatario del procedimento non implica l’assenso scritto del procuratore della
Repubblica, previsto dall’art. 3, comma secondo, D.Lgs.
n. 106 del 2006, che, pertanto, non è condizione di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice.
• Sez. III, Sentenza n. 2893 del 18 dicembre 2008
Cc. (dep. 22 gennaio 2009) Rv. 242171
Presidente: Altieri E. Estensore: Gazzara S. Relatore: Gazzara S. Imputato: Capasso. P.M. Salzano F. (Parz. Diff.)
(Rigetta, Trib. lib. Napoli, 1 Settembre 2008)
NOTIFICAZIONI – IN GENERE – Notificazioni d’atti urgenti – Negligenza del professionista – Rilevanza – Sussiste.
In tema di validità delle notificazioni al difensore,
rileva il comportamento negligente del professionista,
in quanto egli ha l’obbligo di assicurare con l’ordinaria
diligenza, in costanza di mandato difensivo, la ricevibilità delle notifiche a lui dirette. (Fattispecie in tema di
riesame di misura cautelare personale nella quale è stata ritenuta valida la notifica dell’avviso ex art. 309
c.p.p. con consegna al portiere dello stabile in cui era
allocato lo studio del difensore, trovato reiteratamente
chiuso dall’ufficiale giudiziario).
• Sez. IV, Sentenza n. 1866 del 02 dicembre 2008
Ud. (dep. 19 gennaio 2009) Rv. 242017
Presidente: Zecca G. Estensore: Licari C. Relatore:
Licari C. Imputato: Toccafondi e altri. P.M. Galati G.
(Parz. Diff.)
(Annulla in parte con rinvio, App. Genova, 4 febbraio 2008)
PROFESSIONISTI – MEDICI E CHIRURGHI – Colpa professionale medica – Istituzioni sanitarie complesse – Struttura sanitaria operante in ambito carcerario – Posizione di garanzia – Individuazione – Soggetto in posizione apicale.
In tema di colpa professionale, il medico che, all’interno di una struttura sanitaria complessa, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle
terapie praticate ai pazienti. (Fattispecie nella quale il
Dirigente di una struttura sanitaria operante all’interno
di una Casa circondariale è stato ritenuto responsabile,
a titolo di colpa omissiva, del decesso di una detenuta
affetta da tubercolosi, per non avere diagnosticato in
tempo la malattia, avendo omesso di assicurare l’esecuzione degli accertamenti diagnostici e della visita infettivologica prescritti da un medico consulente esterno)
p e n a l e
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PROFESSIONISTI – MEDICI E CHIRURGHI – Colpa professionale medica – Istituzioni sanitarie complesse – Struttura sanitaria operante in ambito carcerario – Posizione di garanzia – Individuazione – Medici non in
posizione apicale – Medici di guardia – Posizione di
garanzia derivante dall’instaurazione del rapporto terapeutico – Contenuto – Limiti.
In tema di colpa professionale medica, ai fini dell’affermazione di responsabilità penale, in relazione al decesso di una paziente, dei medici operanti – non in posizione apicale – all’interno di una struttura sanitaria
complessa, a titolo di colpa omissiva, è priva di rilievo
la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, occorrendo accertare la concreta organizzazione della
struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di
competenza ed ai poteri-doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda. (Fattispecie nella quale si contestava a due medici di guardia in servizio presso una struttura sanitaria operante all’interno di una Casa circondariale, succedutisi nel compimento di singoli atti diagnostici o terapeutici, di non avere diagnosticato per
tempo la tubercolosi dalla quale era affetta una detenuta, avendo omesso di eseguire gli accertamenti diagnostici e la visita infettivologica prescritti da un medico
consulente esterno).
• SS.UU., Sentenza n. 9857 del 30 ottobre 2008
Cc. (dep. 04 marzo 2009) Rv. 242291
Presidente: Gemelli T. Estensore: Carmenini SL. Relatore: Carmenini SL. Imputato: Manesi. P.M. Monetti
V. (Conf.)
(Dichiara inammissibile, Gip Trib. Livorno, 20 giugno
2007)
PROVE – MEZZI DI RICERCA DELLA PROVA – SEQUESTRI – RESTITUZIONE – PROCEDIMENTO – Fase delle indagini
preliminari – Richiesta di restituzione – Rigetto da
parte del pubblico ministero – Opposizione – Decisione del giudice per le indagini preliminari – Ricorso
per cassazione – Motivi deducibili – Individuazione.
L’ordinanza del G.I.P., che a norma dell’art. 263,
comma quinto, c.p.p., provvede sull’opposizione degli
interessati avverso il decreto del P.M. di rigetto della
richiesta di restituzione delle “cose” in sequestro o di
rilascio di copie autentiche di documenti, è ricorribile
per cassazione per tutti i motivi indicati dall’art. 606,
comma primo, c.p.p..
• Sez. VI, Sentenza n. 1122 del 07 gennaio 2009
Cc. (dep. 13 gennaio 2009) Rv. 242151
Presidente: Agro’ A. Estensore: Carcano D. Relatore:
Carcano D. Imputato: Hajdini. P.M. Stabile C.
(Conf.)
(Rigetta, App. Milano, 22 Ottobre 2008)
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RAPPORTI GIURISDIZIONALI CON AUTORITÀ STRANIERE – ESTRADIZIONE PER L’ESTERO – PROCEDIMENTO – DECISIONE – CONDIZIONI – Convenzione europea di estradizione – Necessità di valutare l’efficacia dei titoli
esecutivi in base ai quali viene richiesta l’estradizione – Esclusione – Fattispecie.
In tema di estradizione per l’estero, a fronte di una richiesta avanzata da uno Stato aderente alla Convenzione
europea di estradizione del 13 dicembre 1957, ratificata
dall’Italia con la L. 30 gennaio 1963, n. 300, l’autorità
giudiziaria italiana non è tenuta a verificare, ai sensi
dell’art. 12, comma secondo, lett. a), della predetta Convenzione, l’efficacia dei titoli esecutivi in base ai quali è
richiesta l’estradizione, non trattandosi di un requisito
menzionato nella disposizione sopra citata. (Fattispecie
relativa ad una domanda di estradizione proposta dal
Governo della Repubblica di Albania).
• SS.UU., Sentenza n. 2437 del 18 dicembre 2008
Ud. (dep. 21 gennaio 2009) Rv. 241752
Presidente: Gemelli T. Estensore: Macchia A. Relatore:
Macchia A. Imputato: Giulini e altro. P.M. Ciani G.
(Conf.)
(Annulla senza rinvio, App. Bologna, 5 Febbraio 2007)
REATI CONTRO LA PERSONA – IN GENERE – Trattamento
chirurgico – Mancata acquisizione del consenso informato del paziente – Intervento eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “leges artis” e con esito fausto – Rilevanza penale ex artt. 582 e 610
c.p. – Esclusione.
Non integra il reato di lesione personale, né quello di
violenza privata la condotta del medico che sottoponga il
paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in
relazione al quale era stato prestato il consenso informato,
nel caso in cui l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle “leges artis”, si sia concluso con esito fausto,
essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento
delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche
alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero
indicazioni contrarie da parte dello stesso.
• Sez. V, Sentenza n. 4404 del 18 novembre 2008
Ud. (dep. 02 febbraio 2009) Rv. 241887
Presidente: Pizzuti G. Estensore: Bruno PA. Relatore:
Bruno PA. Imputato: Ricci e altri. P.M. D’Angelo G.
(Conf.)
(Annulla con rinvio, App. Perugia, 21 Maggio 2007)
REATI FALLIMENTARI – BANCAROTTA FRAUDOLENTA – IN GENERE – Amministratore di società – Appropriazione indebita di beni sociali – Decisione irrevocabile di estinzione per prescrizione – Successiva dichiarazione di
fallimento della società – Bancarotta fraudolenta
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per distrazione dei medesimi beni – “Ne bis in idem” – Inesistenza – Ragioni.
La decisione irrevocabile d’estinzione per prescrizione del delitto d’appropriazione indebita imputato all’amministratore di una società non preclude, dopo l’intervento della dichiarazione di fallimento della società,
l’esercizio dell’azione penale nei confronti dello stesso
per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione
dei medesimi beni. La Corte ha precisato che le due
fattispecie sono strutturalmente diverse, integrando, se
consumate contestualmente, un reato complesso con
assorbimento del delitto d’appropriazione indebita in
quello di bancarotta fraudolenta, e, se realizzate in
tempi diversi, un reato progressivo, con conseguente
applicazione, nel caso di specie, dell’art. 170 c.p.).
• SS.UU., Sentenza n. 3286 del 27 novembre 2008
Ud. (dep. 23 gennaio 2009) Rv. 241755
Presidente: Carbone V. Estensore: Fiale A. Relatore: Fiale
A. Imputato: Chiodi. P.M. Palombarini G. (Conf.)
REATO – REATO CONTINUATO – CIRCOSTANZE – Riparazione
del danno ex art. 62 n. 6 c.p. – Risarcimento integrale
nei confronti di tutti i reati avvinti dal vincolo della
continuazione – Esclusione – Ragioni.
In tema di continuazione, la circostanza attenuante
dell’integrale riparazione del danno va valutata e applicata
in relazione a ogni singolo reato unificato nel medesimo
disegno criminoso.
• SS.UU., Sentenza n. 5941 del 22 gennaio 2009
Ud. (dep. 11 febbraio 2009) Rv. 242215
Presidente: Gemelli T. Estensore: Agro’ A. Relatore: Agro’
A. Imputato: Pagani e altro. P.M. Palombarini G. (Parz.
Diff.)
(Rigetta, App. Milano, 12 Giugno 2003)
REO – CONCORSO DI PERSONE NEL REATO – VALUTAZIONE
DELLE CIRCOSTANZE (ESTENSIONE AL CORREO) – AGGRAVANTI
O ATTENUANTI – Attenuante della riparazione del danno – Risarcimento effettuato da uno dei correi – Estensione agli altri concorrenti – Condizioni.
In tema di concorso di persone nel reato, ove un solo
concorrente abbia provveduto all’integrale risarcimento del
danno, la relativa circostanza attenuante non si estende ai
compartecipi, a meno che essi non manifestino una concreta e tempestiva volontà di riparazione del danno.
• Sez. III, Sentenza n. 833 del 04 dicembre 2008
Cc. (dep. 13 gennaio 2009) Rv. 242159
Presidente: Lupo E. Estensore: Petti C. Relatore: Petti
C. Imputato: P.M. in proc. Lettica. P.M. Passacantando
G. (Conf.)
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(Annulla con rinvio, Trib. lib. Napoli, 21 giugno 2008)
(Annulla con rinvio, Gip Trib. Latina, 30 Aprile 2008)
SANITÀ PUBBLICA – IN GENERE – Gestione dei rifiuti – Materia prima secondaria – Regime antecedente alle
modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 4 del 2008 – Esclusione dalla disciplina dei rifiuti – Condizioni.
In materia di rifiuti, prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4, le materie prime
secondarie, ancorché non provenienti da attività di recupero, dovevano considerarsi escluse dal campo d’applicazione della disciplina dei rifiuti a condizione che
avessero sin dall’origine le caratteristiche della materia
prima secondaria riportate nei decreti ministeriali sul
recupero agevolato.
SPORT – Misure volte a prevenire i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive – Ordinanza
di convalida del G.I.P. – Annullamento con o senza
rinvio – Casi – Individuazione.
In tema di misure volte a prevenire i fenomeni di
violenza in occasione di competizioni sportive, l’annullamento dell’ordinanza di convalida del G.I.P. deve essere disposto “con rinvio” nel caso di mancata concessione all’intimato del termine per l’esercizio del diritto di
difesa ed in quello di mancato rispetto del termine, concesso con il provvedimento del Questore, per la presentazione di memorie e deduzioni difensive, mentre deve
essere disposto “senza rinvio” nel caso di mancata osservanza da parte del P.M. del termine di 48 ore dalla
notifica per richiedere la convalida ed in quello di mancata osservanza da parte del G.I.P. del termine delle 48
ore successive per la pronuncia sulla convalida.
• Sez. III, Sentenza n. 3437 del 17 dicembre 2008
Cc. (dep. 26 gennaio 2009) Rv. 242167
Presidente: Altieri E. Estensore: Fiale A. Relatore: Fiale
A. Imputato: Arcifa e altro. P.M. Montagna A. (Diff.)
(Rigetta, Gip Trib. Genova, 24 Novembre 2007)
SPORT – Misure di prevenzione della violenza occasionata da manifestazioni sportive – Obbligo di
presentazione ad un ufficio o comando di polizia – Riferibilità agli incontri “amichevoli” – Legittimità – Condizioni.
In tema di misure di prevenzione della violenza occasionata da manifestazioni sportive, la prescrizione del
Questore impositiva dell’obbligo di presentazione ad un
ufficio o comando di polizia può legittimamente riferirsi agli incontri amichevoli, ad eccezione di quelli decisi
in rapporto ad esigenze peculiari del momento e senza
una preventiva programmazione.
• Sez. III, Sentenza n. 377 del 16 dicembre 2008
Cc. (dep. 09 gennaio 2009) Rv. 242166
Presidente: De Maio G. Estensore: Franco A. Relatore:
Franco A. Imputato: D’Onorio De Meo e altro. P.M.
Salzano F. (Diff.)
• Sez. III, Sentenza n. 837 del 10 dicembre 2008
Cc. (dep. 13 gennaio 2009) Rv. 242161
Presidente: Lupo E. Estensore: Squassoni C. Relatore:
Squassoni C. Imputato: Allkanjari. P.M. Izzo G.
(Diff.)
(Restituisce nel termine, App. Perugia, 13 Maggio 2008)
TERMINI PROCESSUALI – RESTITUZIONE NEL TERMINE – SENTENZA CONTUMACIALE – Requisiti previsti dall’art. 175
c.p.p. – Ostatività alla restituzione – Loro coesistenza – Necessità.
In tema di restituzione in termine, condizione ostativa alla restituzione è la coesistenza di tutte le condizioni
previste dalla legge, ovvero la conoscenza del procedimento, la rinuncia volontaria a comparire e la rinuncia
volontaria ad impugnare, sicché, in difetto di una sola
di esse, il giudice deve accogliere la richiesta. (Fattispecie
nella quale risultava solo la prova della conoscenza del
procedimento).
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• G.U.P. del Tribunale di Napoli dr.ssa Marzia Castaldi, sentenza n. 2300/08, pronunciata il 21 ottobre 2008
e dep. il 12 dicembre 2008
●
Rassegna di merito
● Giuseppina Marotta
Avvocato
Alessandro Jazzetti
Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
CONCORSO DI PERSONE NEL REATO – CONTRIBUTO APPREZZABILE – PRODUZIONE DELL’EVENTO – PRESUPPOSTI
Ai fini della configurabilità del concorso di persone
nel reato, il contributo concorsuale assume rilevanza
non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi
come condizione dell’evento lesivo, ma anche quando
assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè
quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è
sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti
in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un
contributo apprezzabile alla commissione del reato,
mediante il rafforzamento del proposito criminoso o
l’agevolazione dell’opera degli altri concorrenti, e che il
partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l’esecuzione, abbia aumentato la possibilità
della produzione del reato.
Le minacce reiteratamente rivolte all’Au., per le loro
modalità e per il contesto nel quale venivano rese, in
ultimo con la presentazione dei coimputati “in gruppo”
in occasione della riscossione, risultano idonee ed univocamente dirette a coartare la vittima e ad indurla ad
ottemperare alla richiesta estorsiva, conseguendone altrimenti la inibizione alla prosecuzione dei lavori di ristrutturazione già intrapresi. D’altronde l’immediata
comunicazione alla PG della richiesta estorsiva ricevuta
operata dall’Au., la cui qualità di agente di PS era evidentemente ignota agli imputati, consentiva l’organizzazione del servizio di osservazione venendo pertanto interrotto l’iter criminoso per cause del tutto indipendenti
dalla loro volontà.
• Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dott.
G. Vinciguerra, Sentenza n. 9972/08 Pronunciata il 04
novembe2008 e dep. il 10 dicembre 2008
CONCORSO DI REATI – TRUFFA E CONTRAFFAZIONE – CONFIGURABILITÀ
I reati di truffa e quelli di contraffazione ex art. 485,
possono concorrere tra loro, trattatasi infatti di reati
istantanei, consumatisi appunto il primo nell’aver ottenuto il finanziamento, il secondo nella contraffazione da
parte delle imputate della documentazione che doveva
comprovare il rapporto lavorativo alle dipendenze della
Ta. di Napoli. Va evidenziato che sul punto è pacifico
l’orientamento giurisprudenziale secondo cui i due reati,
posti a tutela di diversi bene giuridici, ben possono concorrere tra loro (cfr. Cass. Sez. II 81/150652 e Sez. II
81/151881).
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• Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli, dr.ssa
Maria Alaia, sentenza n. 10275/08 pronunciata il 11
novembre 2008 e depositata il 11 dicembre 2008
CONTINUAZIONE – PRESUPPOSTI OGGETTIVI E SOGGETTIVI
Secondo il consolidato orientamento della Suprema
Corte, per ritenere la sussistenza della continuazione tra
reati, occorre che “le diverse violazioni siano state previste, sia pure genericamente, sin dal primo momento,
nel senso che, sin da quando si commette la prima, già
siano deliberate, almeno nelle componenti essenziali,
tutte le altre, come facenti parte di un unico programma” ( Cass. 87/179325 ).
Nel caso di specie, il lasso temporale di sei mesi tra
i due fatti, in assenza di elementi dai quali desumere
l’esistenza, sin dalla commissione del primo reato, anche
della previsione, sia pure generica, del secondo, induce
a ritenere l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto della continuazione.
• G.U.P. del Tribunale di Napoli dr.ssa Marzia Castaldi, sentenza n. 2300/08, pronunciata il 21 ottobre 2008
e dep. il 12 dicembre 2008
CONTINUAZIONE: REITERATO TENTA- TIVO DI ESTORSIONE – MODALITÀ ESECUTIVA DELLA CONDOTTA – CONFIGURABILITÀ DELL’ISTITUTO IN PRESENZA DI DIVERSE CONDOTTE DOTATE DI UNA PROPRIA COMPLETA INDIVIDUALITÀ
PROTESE AD UN UNICO FINE.
Quanto alla contestata continuazione deve peraltro
rilevarsi che in tema di tentativo di estorsione, nell’ipotesi in cui il comportamento intimidatorio sia reiterato,
risulta necessario accertare se ci si trovi in presenza di
una azione unica o meno, e ciò alla stregua del duplice
criterio finalistico e temporale. Azione unica, infatti,
non equivale ad atto unico, ben potendo la stessa essere
composta da una molteplicità di “atti” che, in quanto
diretti al conseguimento di un unico risultato, altro non
sono che un frammento dell’azione, una modalità esecutiva della condotta delittuosa. L’unicità del fine a sua
volta non basta per imprimere all’azione un carattere
unitario essendo necessaria, la così detta contestualità,
vale a dire l’immediato succedersi dei singoli atti, sì da
rendere l’azione unica. Ne consegue che, in caso di
estorsione tentata, i diversi conati posti in essere per
procurarsi un ingiusto profitto costituiscono autonomi
tentativi di reato, unificabili con il vincolo della continuazione, quando singolarmente considerati in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare,
alle modalità di realizzazione e soprattutto all’elemento
temporale, appaiono dotati di una propria completa
individualità. Mentre si ha un solo tentativo di estorsione, pur in presenza di molteplici atti di minaccia, allorché gli stessi, alla stregua dei criteri sopra enunciati,
costituiscono singoli momenti di un’unica azione. Tali
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considerazioni inducono ad escludere nel caso di specie
la contestata continuazione, apparendo la condotta
tentata realizzata dagli imputati inequivocamente unitaria in quanto diretta al conseguimento di un unico
risultato e realizzata senza soluzioni di continuità
nell’arco della medesima giornata.
• G.U.P. del Tribunale di Nola dr.ssa Tamara De amicis sentenza n. 476/08 emessa in data 11 novembre
2008 e dep. il 1 novembre 2008
ESTORSIONE – MINACCIA –NOZIONE E REQUISITI
L’elemento costitutivo del delitto non richiede necessariamente che la coartazione avvenga mediante la
prospettazione di un male irreparabile alle persone o
alle cose, tale da non lasciare al soggetto passivo una
libertà di scelta, essendo sufficiente la prospettazione di
un male che in relazione alle circostanze che l’accompagnano sia tale da far insorgere nella vittima il timore di
un concreto pregiudizio. (vds. Cass. Pen., Sez. VI,
29.11.90, n. 15971). Nel caso di specie, dunque, appare
verosimile ed idonea al raggiungimento dello scopo la
minaccia di rivelare alla madre della ragazza l’esistenza
della relazione sentimentale, essendo ben prevedibili gli
effetti negativi di tale gesto sui rapporti familiari della
p.o. essendo l’imputato soggetto tossicodipendente.
• Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dr.ssa
Anna Maria Allagrande Sentenza n. 11149/08, pronunciata il 28 novembre 2008 e dep. il 10 dicembre 2008
EVASIONE – CONFIGURABILITÀ – PRESUPPOSTI.
Nel delitto di evasione per allontanamento dal luogo
degli arresti domiciliari, in vero, una volta accertato il
legittimo stato di arresto, provato con l’allegazione della documentazione sopra indicata, la violazione delle
prescrizioni previste per il regime della detenzione domiciliare a norma dell’art. 47 ter, c. VIII, Ordinamento
Penitenziario (L. 26.7.1975 n. 354: allontanamento dal
luogo ove trovasi ristretto) integra automaticamente il
reato di evasione di cui all’art. 385 c.p.
Bisogna pertanto concludere che l’imputato, che non
è comparso e non ha introdotto alcun elemento in sua
discolpa, non abbia risposto al suono del citofono in
quanto si era arbitrariamente allontanato dal domicilio
ove era ristretto
• G.U.P. del Tribunale di Nola dr. G. Sessa – sentenza
n. 16/09 emessa in data 20 gennaio 2009 e dep. Il 21
gennaio 2009
FALSO IN SCRITTURA PRIVATA – PROCEDIBILITÀ
In merito al reato di falso in scrittura privata ex art.
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485 c.p., mette conto evidenziare – in punto di diritto – che tale illecito è procedibile a querela della p.o.,
conformemente a quanto sancito dall’art. 493 bis c.p. introdotto dall’art. 89 L.689/81.
Ciò perchè il Legislatore, nel prevedere, con il citato
art. 493 bis c.p., la perseguibilità a querela delle ipotesi
di falso contemplate dagli artt. 485, 486, 488, 489 e 490
c.p., ha fatto riferimento a tutte le scritture private, menzionando, come unica eccezione, il testamento olografo.
Nel caso in disamina, tuttavia, non risulta presentata formale e tempestiva querela ad opera della parte
lesa, limitatasi a denunziare la vicenda alla Procura
della Repubblica senza avanzare al riguardo alcuna
istanza punitiva.
Discende da tale circostanza l’improcedibilità
dell’azione penale nei confronti degli imputati relativamente al contestato falso in scrittura privata.
• Giudice di Pace di Marigliano dr. Domenico Chianese sentenza emessa in data 24 settembre 2008
LESIONI COLPOSE – ATTRIBUZIONE DELLA COMPETENZA PER
MATERIA AL GIUDICE DI PACE ANCHE DOPO LA L.
102/06 – PROVA DI DURATA SUPERIORE DELLA MALATTIA
EMERSA NEL DIBATTIMENTO – ESCLUSIONE DEL POTERE DI
UFFICIO DEL GIUDICE DI PACE DI RIQUALIFICARE IL FATTO.
In subjecta materia, la novella dell’art.590 c.p. per
mezzo della L. 21.02.2006 n. 102, ha certamente aggravato la pena edittale delle fattispecie delittuose rappresentate dalle lesioni effetto della circolazione stradale ma non
ha sottratto la competenza di questo Giudice come per il
reato di cui all’art.187 CDS (cfr D.L. 117 del 03.08.2007,
pubblicato su G.U. n.180 del 04.08.2007 e di cui alla
L.160 del 02.10.2007, nonché D.L. 247/2007). Fermo
restando quindi il trattamento sanzionatorio più lieve,
trattandosi di commissione antecedente all’innalzamento,
anche la competenza è legittima. Tale deduzione è, per
altro, coerente con il principio già affrontato in giurisprudenza (cfr Cass. pen., Sez. I, 18/01/2007, n.1294).
Deve invece dirsi che l’allegazione di ulteriore certificazione medica (aumentante l’arco temporale della
malattia) non ha comportato alcuna modifica delle
contestazioni ex art.518 c.p.p. da parte dell’Accusa
impedendo quindi ogni applicazione di aggravanti e di
modifica del fatto contestato ope iudicis, non potendo
questi decidere ex art.521 n. 2 c.p.p., essendo egli investito della competenza in ogni caso, né applicando una
diversa qualificazione ex n. 1 norma citata, trattandosi
di stesso fatto e risolvendosi una eventuale riformulazione in una illegittima applicazione di aggravante in
violazione dell’art. 522 c.p.p..
• Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dr. G.
Vinciguerra, sentenza n. 9973/08, pronunciata il 04
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novembre 2008 e depositata il 10 dicembre 2008
LESIONI COLPOSE DA INFORTUNIO SUL LAVORO: COMPORTAMENTO IMPRUDENTE DEL LAVORATORE TALE DA INTERROMPERE IL NESSO DI CAUSALITÀ TRA LE VIOLAZIONI
CONTESTATE E L’EVENTO LESIVO – REQUISITI.
Indipendentemente dalla veridicità della presupposta
condotta da parte dell’operaio, la giurisprudenza che si
ritiene di dover seguire è assolutamente consolidata nel
non riconoscere tale valenza al concorrente comportamento imprudente del lavoratore (vedi Cass. Sez. IV
88/179373). Ed in un’affatto analoga fattispecie, in cui
l’operaio, spostandosi dal posto assegnatogli nell’ambito del cantiere, incorse in infortunio a causa della mancata realizzazione dì presidio ad un impalcato sul quale
si trovava a passare la S.C. ha statuito che: “Le norme
di prevenzione degli infortuni sul lavoro impongono
determinate cautele in funzione del cantiere nel suo
complesso e non delle specifiche mansioni di ogni singolo lavoratore, rientrando nell’id quod plerumque accidit la circostanza che i dipendenti (sia pure per imprudenza e negligenza) si muovano nell’ambito di esso,
anche al di fuori del posto predeterminato ed in maniera occasionale, e che estranei vengano a trovarsi in situazioni di pericolo causate dalla mancata adozione dei
presidi di sicurezza previsti dalla legge.” Vedi Cass. Pen.,
Sez. IV, 29.1.1990 n. 1031.
• Giudice di Pace di Marigliano dr. Domenico Chianese sentenza emessa in data 24 settembre 2008
MINACCIA: ESPRESSIONI INTIMIDA – TRICI ESPRESSE IN
FORMA CONDIZIONATA – ESCLUSIONE DEL REATO
La frase indicata in querela (ed acquisita agli atti ex
art.512 c.p.p.), “…se voglio ti rovino” e “sei mezzo
morto ma non sei morto”, sono ben lontane da quelle
riportate nel decreto di citazione. La prospettazione
della rovina, in particolare, è equivoca e interpretabile
in più sensi, non necessariamente di ingiustizia o di
danno illecito per il minacciato. La ritenuta ingiustizia
delle rivendicazioni economiche, o persino la qualificata sproporzione dei danni quantificati rispetto alla
personale stima, deve certamente essere tenute in considerazione poiché il Tizio x ha agito come reazione ad
una asserita speculazione. Si condivide sul punto che
“non integrano il delitto di minaccia le locuzioni intimidatrici espresse in forma condizionata quando siano
dirette, non già a restringere la libertà psichica del soggetto passivo, ma a prevenirne un’azione illecita o inopportuna e siano rappresentative della reazione legittima
determinata dall’eventuale realizzazione di dette azioni”
( cfr Cass. pen., Sez. V, 04/05/2007, n. 29390). Così la
seconda frase, sei mezzo morto ma non morto, è del
tutto silente su di un effettivo intendimento minatorio
atteso che l’evento morte non è prospettato o augurato,
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né soprattutto è legato all’azione del dichiarante. Semmai sembra più aderire alla consueta constatazione
nella prassi di un’esaltazione dell’esito del sinistro fortunoso per l’incolumità, sì da indurre il danneggiato ad
una migliore contezza dei fatti in relazione alla possibilità scongiurata di ben peggiori conseguenze.
• Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli dr.ssa
Anna Maria Allagrande, Sentenza n. 10478/08 pronunciata il 14 novembre 2008 e dep. il 10 dicembre 2008
RICETTAZIONE: ELEMENTO OGGETTIVO: ACCERTATA PROVENIENZA ILLECITA DEL BENE – ELEMENTO SOGGETTIVO:
CONSAPE- VOLEZZA DELL’ILLECITA PROVE- NIENZA DEL
BENE.
Alla stregua dell’esposto quadro probatorio risulta
pienamente verificata la ipotesi delittuosa ascritta
all’imputato al capo A) tanto nell’elemento oggettivo
quanto in quello soggettivo.
In merito all’elemento oggettivo del reato di ricettazione, basta rilevare che risulta accertata la provenienza
delittuosa degli assegni che, dopo essere stati indebitamente sottratti ai legittimi possessori, sono stati contraffatti, taluno con la cancellazione e sostituzione del
nome del beneficiario e la apposizione della firma di
girata a tergo e altri con la loro integrale falsa compilazione e, quindi, versato alla ditta dall’imputato che,
nella sua qualità di agente, riferiva di averli ricevuti in
pagamento delle forniture eseguite dai clienti.
Al riguardo, a fine di completezza, è opportuno
precisare che, in materia di ricettazione, per riaffermazione della responsabilità non è necessario l’accertamento giudiziale della commissione del delitto presupposto,
né dei suoi autori, né dell’esatta tipologia del reato, dato
che tale accertamento può essere dedotto attraverso
prove logiche e nello specifico la traccia della illecita
provenienza dei titoli è costituita dalle denunce di furto
e di smarrimento degli stessi da parte dei legittimi possessori, denunce tutte ritualmente acquisite e, sull’accordo delle parti, dichiarate utilizzabili ai fini della decisione, (arg. da Cass. Pen., Sez. IV, 7.11.1997 n. 11303).
Quanto all’elemento soggettivo del reato, inoltre, è
opportuno rilevare che nel delitto di ricettazione, ai fini
della verifica della sussistenza di tale componente del
reato ascritto è necessario verificare la consapevolezza,
da parte dell’imputato di tale illecita provenienza, e
tale consapevolezza può essere desunta anche dagli
elementi considerati dall’art. 712 c.p., allorquando i
sospetti siano così gravi ed univoci da generare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e secondo
la più comune esperienza la certezza che non possa
trattarsi di cose legittimamente possedute. Orbene rientra nella comune esperienza di ciascuno che i moduli per
assegno non costituiscono merce di scambio ma strumenti di pagamento per i quali il possesso legittimo
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viene giustificato attraverso la dimostrazione della lecita apprensione che deve essere confortata da una regolare serie di girate, in applicazione di un principio mutuato dal diritto civile. Nel caso in esame è accertato che
l’imputato ha versato i titoli in pagamento di merci apponendovi la falsa firma di girata o di traenza, e da ciò
si evince che sapesse perfettamente che i titoli erano di
illecita provenienza.
• Giudice Monocratico del Tribunale di Napoli sott.
G. Vinciguerra, Sentenza n. 10791/08, Pronunciata il
20 novembre 2008 e Depositata il 12 dicembre 2008
RISSA – PRESUPPOSTI OGGETTIVI E SOGGETTIVI – SUSSISTENZA DEL REATO.
Presupposto per la sussistenza del delitto di cui
all’art. 588 c.p. è l’accertamento di una “violenta contesa tra tre o più persone, che siano animate dalla volontà di recare offesa agli avversari e di difendersi dalla
violenza degli stessi” (Cass., Sez. V, 30/1/79 n. 1054).
Deve, inoltre, sussistere il duplice intento di recare offesa agli avversari e di difendersi dalla loro violenza.
Nel caso di specie, lo stato dei luoghi, così come
descritto dall’ufficiale di PG, fanno ragionevolmente
desumere al giudicante che vi sia stata una violenta
colluttazione tra più persone, essendosi i tre “azzuffati”
tra loro.
Orbene va ricordato che secondo la S.C. “è necessario che nella contesa violenta esistano più fronti di aggressione, con volontà vicendevole di attentare all’altrui
personale incolumità; il che può realizzarsi anche quando qualcuna delle “parti” protagoniste sia rappresentata da un solo soggetto, con l’unico limite che il numero
dei corrissanti non sia inferiore a quello di tre” (cfr.
Cass. Sez. V 88/179757).
• Corte di Appello di Napoli sez. VII, Sentenza n. 534
emessa in data 23 gennaio 2009
SOTTRAZIONE DI BENE SOTTOPOSTO A SEQUESTRO: USO
MOMENTANEO DEL VEICOLO SOTTOPOSTO A SEQUESTRO
AMMINISTRATIVO – ESCLUSIOJNE DEL REATO DI CUI ALL’ART.
334 CP
La condotta consistente nel circolare abusivamente
alla guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo integra l’illecito previsto dall’art. 213 del D.Lvo
30/04/1992 n. 285 e non il reato di cui all’art. 334
c.p. (Cass. Pen., Sez. III, sent. N. 25116 del 20/3/08
dep. 19/6/08). La Corte nell’enunciare il predetto principio, ha escluso che tali norme possano concorrere,
ostandovi il disposto dell’art. 9 L. 24/11/1981 n. 689;
ha ritenuto che nel caso di guida di un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo la sanzione penale sia
inoperante perché la regolamentazione amministrativa
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della materia presenta estremi specializzanti. Pertanto,
chiunque è sorpreso a circolare con mezzo sottoposto a
sequestro ai sensi dell’art. 213 CDS risponde solo dell’illecito amministrativo (in senso conforme sent. N. 40345
del 27/9/07, n. 17837 del 24/1/08).
Va rilevato altresì che con sentenza n. 3178 del
31/10/07 dep. il 21/1/08 la S.C. Sez. VI, ha affermato
che il custode sorpreso a circolare con veicolo, sottoposto a sequestro amministrativo, risponde sia dell’illecito
amministrativo di cui all’art. 213 co. IV CDS, sia del
reato ex art. 314 cp, solo se la circolazione è sintomatica della volontà di sottrarre il bene, al fine di eludere il
vincolo della indisponibilità del sequestro, ovvero comporti il deterioramento del bene; quindi anche secondo
questo diverso orientamento della S.C. il mero uso momentaneo del veicolo, occasionale e circoscritto nello
spazio, non integra il reato di cui all’art. 334.
• G.U.P. del Tribunale di Nola dr. G. R. Ulmo, sentenza n. 49/09 emessa in data 10 febbraio 2009 e dep. il
12 febbraio 2009
TRUFFA PROCESSUALE IN MATERIA DI SINISTRI STRADALI:
NON CONFIGURA- BILITÀ DEL REATO PER CARENZA DEL PRESUPPOSTO DELL’ATTO DI DISPOSIZIONE PATRIMONIALE.
TRUFFA COMMESSA AI DANNI DELLA CONSAP SPA (FONDO
GARANZIA VITTIME DELLA STRADA) – AGGRAVANTE DI CUI
AL CO. II DELL’ART. 640 CP – ESCLUSIONE.
Il maggior numero di imputazioni consiste in varie
ipotesi di truffa, consumate o tentate, ipotizzate come
commesse ai danni delle imprese assicuratrici attraverso
una serie di artifizi e raggiri, rivolti alle imprese assicuratrici stesse nonché al giudice di pace ed aventi lo
scopo di far apparire come avvenuti sinistri stradali in
realtà inesistenti.
Va subito detto che, rispetto all’ipotesi di induzione
in errore del giudice di pace, le contestazioni sono chiaramente riconducibili all’ambito della cosiddetta truffa
processuale, la quale, secondo la giurisprudenza assolutamente predominante della Suprema Corte (applicata
già più volte anche dallo scrivente giudice), non integra
gli estremi dell’illecito penale, non rientrando essa nella
previsione dell’art. 640 c.p. per mancanza del requisito
(implicito, ma pur tuttavia pacificamente ritenuto imprescindibile elemento costitutivo del reato di truffa) dell’atto di disposizione patrimoniale: invero, pur assumendosi
che il giudice possa essere tratto in inganno dagli artifizi
e raggiri posti in essere da una parte del giudizio, resta il
fatto che l’atto che il giudice compie come conseguenza
di tali artifizi e raggiri non è un atto di disposizione patrimoniale bensì è l’emissione di una sentenza (o, comunque, di un provvedimento giurisdizionale), la quale, pur
andando ad incidere sul patrimonio di una parte processuale, non è un atto di disposizione patrimoniale, ma è
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invece l’espressione di un potere, quale quello giurisdizionale, di natura eminentemente pubblicistica, la cui finalità è l’attuazione di norme giuridiche e la risoluzione dei
conflitti (vedi, in tal senso, tra le pronunce più recenti,
Cass., Sez. V, del 6.6.1996, n. 7346, Schiavone; Cass.,
Sez. VI, 6.11.1996, Ortis; Cass., Sez. VI, 2.12.1999,
n. 4026; Cass., Sez. II, n. 42333/07, quest’ultima pubblicata su Guida al diritto n. 48/07).
Tuttavia nei fatti nel caso di specie contestati è ricompresa anche l’attività rivolta a tentare di indurre in
errore le stesse imprese di assicurazione (che non possono ovviamente sapere, per conoscenza diretta, se nella
realtà gli incidenti denunciati si siano verificati o meno)
sull’effettivo verificarsi del sinistro: attività concretizzatasi nell’inoltro di mendaci denunce di sinistri e di messe in mora, ai sensi degli artt. 5 del D.L. n. 857/1976,
convertito in L. n. 39/77, e 22 della L. n. 990/69 (norme
vigenti all’epoca dei fatti), nonché nell’ulteriore artifizio
della presentazione di mendaci querele per lesioni ed
omissione di soccorso aventi lo scopo di rafforzare l’idea
dell’effettivo verificarsi del sinistro; il tutto al fine di
tentare di ottenere dalle imprese di assicurazione, già in
via stragiudiziale e spontanea, il risarcimento dei presunti danni.
Attualmente il denunciare all’impresa di assicurazione un sinistro non accaduto integra lo specifico delitto
previsto dal comma 2 dell’art. 642 c.p. nella formulazione risultante a seguito delle modifiche introdotte
dalla L. n. 273 del 12.12.2002; ma non appare discutibile che prima dell’introduzione di tale specifico reato il
comportamento sopra descritto avesse tutti i requisiti
per rientrare nel paradigma della truffa, consumata o
tentata a seconda dell’effettivo conseguimento o meno
dell’indennizzo, rispetto alla quale, infatti, la Suprema
Corte (cfr. Cass., Sez. VI, n. 2506 del 13.11.2003) non
dubita che la fattispecie di cui all’art. 642 c.p. costituisca
un’ipotesi speciale (punita con pena più grave).
Così puntualizzato il motivo per il quale non è possibile in relazione alle truffe in contestazione pervenire
ad una declaratoria di inconfigurabilità del reato, va
comunque per esse ritenuta la procedibilità a querela e
conseguentemente rilevata la mancanza della stessa.
Nei capi di imputazione tali truffe vengono contestate come aggravate ai sensi del comma 2 n. 1 dell’art. 640
c.p., il che renderebbe il reato procedibile d’ufficio ai
sensi dell’ultimo comma del medesimo articolo.
Va tuttavia rilevato che, pur essendo le richieste di
risarcimento destinate in ultima analisi a gravare (dopo
l’anticipazione delle somme ad opera dell’impresa designata ai sensi dell’art. 20 della L. n. 990/69, nella fattispecie le Generali S.p.A.) sulla Consap S.p.A. – gestione
autonoma del Fondo di garanzia per le vittime della
strada – ai sensi dell’art. 19 della L. n. 990/69 (vigente
all’epoca dei fatti), ciononostante la truffa non può essere qualificata come perpetrata ai danni dello Stato o
di un altro ente pubblico. Infatti, la Suprema Corte ha
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più volte ribadito il principio che, allorquando la truffa
è commessa ai danni di società aventi natura giuridica
di enti di diritto privato, quali sono le società per azioni
(e quindi la Consap S.p.A.), l’aggravante in esame non
è configurabile nonostante che tali società siano partecipate o costituite dallo Stato o da altri enti pubblici e
gestiscano un pubblico servizio (cfr. Cass., Sez. II,
n. 7226 del 7.2.2006; Cass., Sez. II, 28 gennaio 2005,
n. 8771; Cass., Sez. II, n. 8797 dell’11.2.2003, quest’ultima in relazione alle Poste Italiane S.p.A.; Cass., Sez.
II, n. 5028 del 17.3.1999, in relazione alle Ferrovie dello Stato; Cass., Sez. I, 23 marzo 1987, Lucarelli).
• G.U.P. del Tribunale di Nola dr.ssa Tamara De amicis sentenza n. 476/08 emessa in data 11 novembre
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VIOLENZA PRIVATA – BENE GIURIDICO TUTELATO – ELEMENTO OGGETTIVO.
Sussiste il reato di violenza privata costituito dalla
minaccia finalizzata a costringere la p.o. ad astenersi dal
denunciare il reato appena subito.
Il delitto di violenza privata tende a garantire non la
libertà fisica odi movimento, bensì la libertà psichica
dell’individuo e perciò si realizza quando l’agente, con suo
comportamento violento o intimidatorio, eserciti una
coartazione, diretto o indiretta, sulla libertà di volere o di
agire del soggetto passivo, così da costringerlo ad una
certa azione, tolleranza od omissione. Nel caso di specie,
dunque, sono stati integrati tutti i suddetti elementi, posto
che può considerarsi minaccia idonea nel senso indicato
quella di raggiungere la p.o. e “fargliela pagare”, essendo
tale espressione chiaramente allusiva ad un male futuro
ma imminente e concreto.
diritto
Amministrativo
Divieto di rinnovo tacito, nel codice dei contratti pubblici 79
Avv. Gaetana Marena
Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo
Il rilascio del permesso di costruire in mancanza
del prescritto piano attuativo
85
Filippo Cifarelli
Avvocato
Il codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 94
(D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania
Gazzetta
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●
Divieto
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tacito,
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nel
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pubblici
● Avv. Gaetana Marena
Dottoranda di ricerca in diritto amministrativo
M a r z o • a p r i l e
2 0 0 9
79
1. Questioni teoriche
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in tema di distinzione tra proroga e
Dal 1975
rinnovo
delilcontratto
regime patrimoniale che si instaura tra i
Kiuygag
La tematica
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dell’ammissibilità
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o meno
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del rinnovo
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contrattuale,
tacito o espresso, presenta attualmente
profili di rilevante problematicità, alla luce dei diversi
interventi legislativi, che si sono susseguiti negli anni e
che sono confluiti nel recentissimo Codice dei contratti
pubblici relativi a servizi, lavori e forniture1.
Anzitutto, per comprenderne i risvolti critici, bisogna
premettere che l’intera attività contrattuale della Pubblica Amministrazione è governata dal principio della gara
formale ad evidenza pubblica, canone imprescindibile,
per poter addivenire ad una corretta aggiudicazione del
contratto in capo al migliore offerente, vale a dire colui
che, secondo le condizioni del mercato, risulti essere più
idoneo a soddisfare l’interesse pubblicistico2 , alla luce
della prestazione concretamente offerta.
Nel settore dei contratti pubblici, infatti, sono previste procedure rigide ed inderogabili, affinché sia tutelata
la trasparenza e la correttezza della gestione del denaro
pubblico, nonché gli interessi di tutti gli aspiranti contraenti delle Pubbliche Amministrazioni.
Ma, se da un lato, l’esigenza tipicamente comunitaria
impone la predeterminazione di procedure selettive3,
dall’altro, si contrappone la sempre più avvertita esigenza di liberalizzare l’attività contrattuale amministrativa,
in un’ottica decisamente privatistica.
1 Approvato con D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (G.U.R.I. n. 100 del 2
maggio 2006 – Suppl. Ord. n. 107 – in vigore dal 1° luglio 2006) – Codice dei contratti pubblici dei lavori, servizi e forniture in attuazione
delle Direttive 2004 /17/CE e 2004 /18/CE
2 Sul punto F. Caringella, in Corso di Diritto Amministrativo, Milano, 2005, p. 2262, osserva che: “Ebbene, la normativa dell’evidenza
pubblica interna aveva una chiara finalità, evincibile dall’inserimento
della stessa nell’ambito della disciplina dei conti pubblici, di tutelare
l’interesse della Pubblica Amministrazione al conseguimento della
miscela ottimale tra qualità ed economicità. Era cioè tutta diretta ad
imporre una procedura pubblicistica capace di assicurare alla Pubblica Amministrazione la stipulazione del contratto e la scelta del contraente più idoneo a consentire il conseguimento della migliore prestazione alle condizioni economicamente più favorevoli. L’evidenza
pubblica nazionale non è allora diretta alla tutela dell’interesse dei
contraenti potenziali a partecipare ad una procedura che consenta
loro di giocare le proprie chances competitive e le proprie possibilità
di teorico successo, ma è tutta, invece, proiettata verso l’interesse
della Pubblica Amministrazione. Le coordinate cambiano quando
passiamo all’evidenza pubblica comunitaria. Con tale normativa si
vuole consentire a tutte le imprese della Comunità Europea di poter
avere secondo il principio della par condicio una chance concorrenziale di partecipazione e di procedure di gara e di stipulazione del
relativo contratto”.
3 La previsione di una procedura analitica ed inderogabile al tempo
stesso garantisce la Pubblica Amministrazione e l’aspirante contraente, assicurando la formazione di una volontà lecita e legittima del
potere pubblico, a seguito della quale nessun offerente possa ritenersi illegittimamente danneggiato. Si aderisce alla tesi espressa da A.
Carullo, il quale afferma che: “la procedimentalizzazione dell’attività amministrativa diviene in questo settore particolarmente puntuale, in quanto mira da un lato a rendere trasparente l’azione stessa,
dall’altro ad assicurare a tutti i concorrenti uguali possibilità di conoscenza della richiesta della stazione appaltante su cui basare l’offerta e sperare nel relativo contratto”. Cfr. A. Carullo, Lezioni di
diritto pubblico dell’economia, 3° edizione, Padova, p. 241.
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a mm i n i s t r a t i v o
Proprio la necessità di ampliare la discrezionalità
amministrativa in tale settore ha stimolato varie interpretazioni giuridiche su certe norme del sistema, piuttosto ambigue nella loro formulazione.
Dottrina e giurisprudenza, da sempre, si sono interrogate sull’ammissibilità di istituti, quali il rinnovo e la
proroga4 dei contratti stipulati dalla P.A. con i privati,
considerando la loro valenza essenzialmente derogatoria, data dal forte contrasto con i principi comunitari
della pubblicità, della trasparenza e della tutela della
concorrenza.
Senza contare poi che è stato considerato regola
cardine, orientativa della fase esecutiva degli appalti
pubblici, l’art. 2 del R.D. 2440/1923, che sancisce che i
contratti devono avere termini e durata certa, senza
possibilità di variazione in corso di esecuzione.
L’interesse interpretativo, pertanto, nel tentativo di
fornire una soluzione univoca al problema, si è incentrato sulla necessità di differenziare, sotto un profilo
tipicamente ontologico e strutturale, i due istituti della
proroga e del rinnovo, la cui definizione non è stata
sempre del tutto pacifica. Da un punto di vista pratico,
è innegabile che entrambi consentano una prosecuzione
del rapporto tra le stesse parti e ciò ha indotto una corrente giurisprudenziale a negare ogni forma di distinzione tra le due figure, pervenendo alla dubbia configurazione del rinnovo come una proroga5.
In realtà, la distinzione non è meramente terminologica, posto che la proroga si atteggia come una mera
modifica contrattuale, che incide sul medesimo rapporto contrattuale e che si sostanzia in un semplice spostamento in avanti del termine di durata; il rinnovo, invece, come un nuova negoziazione con il medesimo soggetto, e cioè in un rinnovato esercizio dell’autonomia
negoziale, mediante il quale le parti danno vita ad rap-
4
Il problema della differenziazione tra rinnovo e proroga è stato affrontato da A. Laino, Proroga e rinnovo tacito nei contratti d’appalto pubblici di forniture e di servizi, nella Rivista trimestrale degli
appalti, 2005, n. 1, p. 289, nonché da Olivieri, Differenze tra rinnovo e proroga dei contratti, nonché tra il rinnovo di cui alla legge
n. 537 del 1993 ed in nuovi servizi di cui al D.Lgs. n. 157 del 1995
in www.lexitalia. it. Anche la giurisprudenza è intervenuta a tal
proposito ribadendo che: “Osserva il Collegio che il rinnovo, consistente, come noto, in una nuova negoziazione tra le medesime parti
per l’instaurazione di un nuovo rapporto giuridico…” (T.A.R.-Lazio,
sez. I bis, 12 dicembre 2005, n. 13405, in Giur. it., 2006, p. 1310)
ed ancora: “Mentre la proroga del termine finale di un appalto
pubblico di servizi sposta in avanti la scadenza conclusiva del rapporto, il quale resta regolato dalla fonte originaria, il rinnovo del
contratto comporta, infatti, una nuova negoziazione con il medesimo
soggetto, ossia un rinnovato esercizio dell’autonomia contrattuale”
(T.A.R.-Lazio, sez. I bis, 31 marzo 2005, n. 2367; T.A.R.-Lazio, sez.
I bis, 13 febbraio 2006, n. 1064, in Giur.it, 2006, p. 1532).
5 Tale affinità è stata evidenziata nella nota sentenza del Consiglio di
Stato (Cons. St., sez. V, 19 febbraio 2003, n. 921, in Dir. e giust.,
2003, fasc. 18, p. 84), in cui si sottolinea che il rinnovo di cui all’art.
27, comma 6, L. n. 488 del 1999 (norma che in realtà conteneva una
limitazione al ricorso del rinnovo e non una figura particolare dello
stesso) è in effetti una proroga.
80
porto giuridicamente nuovo, ma con il medesimo contenuto.
Alla diversa natura dei due atti corrisponde una
differente legittimazione per la Pubblica Amministrazione, a seconda che si voglia utilizzare l’uno istituto,
anziché l’altro.
È infatti noto che la legittimazione a stipulare un
contratto d’appalto pubblico sorga in capo alla Pubblica
Amministrazione solo con un provvedimento che, di
solito, segue ad una procedura concorsuale in esito alla
quale si sceglie il contraente e si definisce l’oggetto del
contratto medesimo. La capacità per la Pubblica Amministrazione di attuare una proroga, quindi, non può che
derivare dall’originaria legittimazione sorta a seguito
del procedimento attuato e sfociato nel relativo provvedimento conclusivo, proprio perché, atteggiandosi come
mera modifica dell’esecuzione del contratto, si giustifica
sul medesimo titolo che aveva acconsentito la stipulazione del contratto. Alla luce di ciò, dunque, essendo
l’attività contrattuale della Pubblica Amministrazione
preordinata alla stipula di contratti di durata certa e
pertanto necessariamente preceduta dalla predeterminazione della durata stessa del contratto, anche la possibilità di proroga deve essere espressamente contemplata nel provvedimento amministrativo che legittima la
conclusione del contratto. In difetto di una tale clausola, l’esercizio della proroga contrattuale esorbiterebbe
dalla legittimazione a stipulare e si risolverebbe nell’adozione di un atto in carenza assoluta di potere.
Lo stesso discorso interpretativo si pone per il rinnovo contrattuale, rispetto al quale si avverte l’esigenza
di individuare il momento preciso in cui sorge la legittimazione a contrarre in capo alla Pubblica Amministrazione, considerando la diversità ontologica dei due
istituti. Se, dunque, la proroga è una continuazione
della stessa legittimazione giustificatrice del primo negozio, data la derivazione della capacità dell’organo
amministrativo di attuare una proroga dall’originaria
legittimazione contrattuale, il rinnovo, invece, non è una
reviviscenza di una legittimazione ormai esaurita, posto
che, comportando la costituzione di un nuovo rapporto
giuridico, non può essere legittimato dallo stesso atto,
che aveva giustificato la stipulazione del contratto6.
6
A tal punto pare che il rinnovo debba essere trattato al pari di una
qualsiasi prima aggiudicazione e difatti, tanto è vero che è stato necessario per il legislatore prevedere delle norme specifiche (quali l’art.
6, L. n. 537 del 1993 abrogato dall’ art. 23, L. n. 62 del 2005) attraverso le quali riconoscere una rilevanza giuridica ad un fatto (ossia
la conclusione e l’esecuzione di un primo contratto) perché in presenza di determinate circostanze (ossia un particolare interesse
pubblico) la Pubblica Amministrazione potesse essere legittimata
nuovamente ad esercitare un potere analogo a quello riferito al primo
contratto e stipularne uno nuovo avente medesimi contraenti ed
oggetto.
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g e nn a i o • f e b b r a i o
2. Evoluzione storico-legislativa dell’istituto del rinnovo
contrattuale
Fatte le dovute premesse teoriche d’inquadramento
dogmatico degli istituti afferenti al caso di specie, bisogna far riferimento all’evoluzione storica e legislativa,
che li ha caratterizzati, per poi illustrare il dibattito
giurisprudenziale e dottrinale che ne è seguito.
Il rinnovo contrattuale vantava un solo7 riconoscimento positivo nell’ordinamento, rinvenuto nel comma
2, dell’art. 6, L. 537/938, il quale, nel sancire un generale divieto di rinnovo tacito, pena la nullità del contratto,
riconosceva una particolare tipologia di rinnovo espresso, consentendo cioè alle Pubbliche Amministrazioni di
poter rinnovare un contratto di pubbliche forniture
entro tre mesi dalla scadenza originariamente prevista,
ove ne fossero preventivamente accertate ragioni di
convenienza e di pubblico interesse. In verità dottrina e
giurisprudenza si erano posti il problema della sopravvivenza di tale norma e quindi della possibilità di operare il rinnovo, a seguito dell’ emanazione del D.Lgs.
n. 157 del 1997, che prevedeva una serie di procedure
inderogabili, nelle quali non rientrava la possibilità di
rinnovare i contratti di pubbliche forniture, se non tramite l’utilizzo dell’istituto della trattativa privata.
Oltretutto il problema della sopravvivenza dell’art.
6, legge n. 537 del 1993, si era posto anche a seguito
dell’emanazione dell’art. 27 della legge 1999 n. 488
(legge finanziaria 2000), il cui sesto comma disponeva
che “i contratti per acquisti e forniture di beni e servizi
delle amministrazioni statali, stipulati a seguito di esperimento di gara, in scadenza nel triennio 2000-2002,
possono essere rinnovati per una sola volta e per un
periodo non superiore a due anni”.
In sostanza ci si chiedeva se, a seguito dell’intervento operato dalla legge finanziaria, fosse stato abrogato
7
In effetti vi sono altre fattispecie marginali che consentono un affidamento diretto di un contratto ad un soggetto che ha già rapporti
contrattuali con l’Amministrazione appaltante. Ci si riferisce, in
particolare, all’art. 10, comma 2, L. 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002), relativo alla concessione del servizio di accertamento e di riscossione dell’imposta comunale sulla pubblicità e dei
diritti sulle pubbliche affissioni e l’art. 26, L. 23 dicembre 1999,
n. 488 (legge finanziaria 2000), relativo alla possibilità che il Ministero del Tesoro potesse stipulare convenzioni con primarie società,
scelte con il sistema dell’evidenza pubblica, a seguito delle quali
poter richiedere, entro determinate quantità e previa relativa richiesta, l’erogazione di servizi e forniture. Cfr. A. Massari, Sistemi alternativi all’appalto ad evidenza pubblica nell’attività contrattuale
degli enti pubblici, Santarcangelo di Romagna, 2005.
8 Il testo originario dell’art. 6, comma 2, L. n. 537 del 1993, prima che
venisse abrogato dall’art. 23 della legge comunitaria 2004 era il seguente: “È vietato il rinnovo tacito dei contratti delle Pubbliche
Amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti
stipulati in violazione di tale divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla
scadenza dei contratti, le Amministrazioni accertano la sussistenza di
ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei
contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al
contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”.
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l’intero istituto del rinnovo oppure se si fossero previste
unicamente delle limitazioni al suo utilizzo. In realtà la
giurisprudenza ha sempre implicitamente riconosciuto
la sopravvivenza della norma in esame9, almeno fino al
successivo intervento abrogativo operato dall’art. 2310
della legge comunitaria del 2004, adottata a sua volta
all’esito di una particolare procedura d’infrazione avviata dalla Commissione Europea nei confronti dell’Italia. In sostanza la Comunità Europea ha sempre lamentato il contrasto della previsione del rinnovo contrattuale con i principi comunitari, dal momento che l’art. 6
della legge del 1993 consentiva alle Pubbliche Amministrazioni di stipulare contratti d’appalto, senza alcuna
procedura di messa in concorrenza, vulnerando dunque
i principi della trasparenza e della pubblicità.
Proprio per porre fine alla procedura d’infrazione
avviata nei confronti dell’Italia, volta ad accertare l’incompatibilità comunitaria della disciplina di cui all’art.
6, il legislatore è intervenuto con l’art. 23 della legge
62/2005 (legge comunitaria 2004), abrogando l’ultimo
periodo dell’art. 6, comma 2, della legge 573/93 e pertanto espungendo dall’ordinamento l’unica forma di
rinnovo espresso legislativamente tipizzata. Tale orientamento è stato recepito nell’art. 57, ultimo comma, del
Codice dei contratti pubblici, introdotto con D.Lgs.
163/06, il quale, nel tentativo di dare una compiuta sistemazione alla materia degli appalti pubblici, ha riordinato in un unico corpo tutte le leggi finora emanate,
ha semplificato l’intera materia di settore, armonizzandola con quella comunitaria ed ha introdotto nuovi
istituti, nell’ottica di favorire la concorrenza e la trasparenza negli appalti. Con riferimento agli istituti del
rinnovo e della proroga, l’art. 57 conferma il divieto del
rinnovo tacito, estendendolo anche ai lavori e sanzionandone la violazione con la nullità del contratto.
3. Orientamenti giurisprudenziali sulla portata applicativa
del divieto del rinnovo tacito
Proprio il susseguirsi degli interventi legislativi in
materia ha fatto sorgere il dubbio agli operatori del
settore se potesse ancora ammettersi una generica fattispecie di rinnovo contrattuale o se, invece, le norme
avessero per implicito sancito un divieto di rinnovo, non
solo tacito, ma anche espresso. Ciò ha generato un acceso dibattito giurisprudenziale in materia, che ha visto
molto spesso T.A.R. e Consiglio di Stato arroccarsi su
posizioni diversificate ed alquanto contraddittorie11.
9 Sul punto, M. Comba, Il rinnovo senza gara degli appalti di servizi
e forniture, in Urbanistica e Appalti, 2005, n. 2, p. 129.
10 Circa l’ambito applicativo dell’art. 23, L. 62 del 2005, cfr. M. G.
Roversi Monaco, Rapporti in corso e rinnovazione nei contratti della Pubblica Amministrazione, in www.giustizia–amministrativa.it.
11 Le prime decisioni amministrative sul punto appaiono alquanto discordanti; infatti da una parte: “la norma (art. 23, L. n. 62 del 2005)
non ha espressamente sancito un divieto assoluto generalizzato di
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d i r i t t o
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In senso contrario alla configurabilità dell’istituto del
rinnovo, alla luce delle modifiche legislative, si è espresso il T.A.R. Lazio nella Decisione n. 1786 del 2006, il
quale afferma che l’operazione attuata dall’art. 23 della
legge comunitaria 2004 conseguiva alla necessità di
eliminare dall’ordinamento italiano un istituto contrastante con i principi comunitari, in quanto derogatorio
rispetto alla regola della gara ad evidenza pubblica nella
scelta del contraente privato. Tale convinzione viene ribadita nella parte della decisione in cui si sostiene che
nella scelta del contraente la regola orientativa cardine
dell’operato della Pubblica Amministrazione è rappresentata dall’espletamento di procedure concorsuali12.
Da quanto affermato si traggono importanti conseguenze.
Per il T.A.R. Lazio, in altri termini, l’ordinamento
italiano e quello comunitario impongono l’utilizzazione
delle procedure ad evidenza pubblica nella scelta del
contraente privato, rispetto alle quali la trattativa privata si pone come strumento eccezionale, utilizzato
solo in presenza di particolari circostanze.
Arroccato su posizioni altrettanto contrarie all’ammissibilità dell’istituto del rinnovo contrattuale è il
Consiglio di Stato, con sentenza n. 2866/07, che sembra
aver posto un veto definitivo sulla possibilità di rinnovare i contratti scaduti, sancendo la ineludibile contrarietà dell’istituto con i principi comunitari e configurando il rinnovo contrattuale espresso come un’ipotesi di
trattativa privata senza bando, diversa da quelle tassativamente consentite dal diritto comunitario.
ricorrere all’istituto del rinnovo contrattuale…” (T.A.R.-Lazio, sez.
I bis, 12 dicembre 2005, n. 13405); dall’altra: “lo scopo della norma
del 2005 sembra essere quello di eliminare la fattispecie del rinnovo
contrattuale in sé considerato, sia esso tacito sia esso espresso, ritenendo comunque necessario, alla scadenza del contratto, l’espletamento delle gare ad evidenza pubblica in conformità con la disciplina comunitaria e con i principi generali dell’ordinamento (T.A.R.Napoli, sez. I, 20 dicembre 2005, n. 20502, con nota di D. Pantano,
Il rinnovo dei contratti della Pubblica Amministrazione: istituto
duro a morire, in www.lexitalia.it). Ad onor del vero, le sentenze
appena citate convergono sull’applicabilità dell’art. 7 D.Lgs.
157/1995 che consente a particolari condizioni, il ricorso alla trattativa privata senza pubblicazione del bando. In effetti l’incongruenza a cui esse sembrano giungere, potrebbe essere il frutto di una non
corretta individuazione della domanda che ci si dovrebbe porre
nell’affrontare la presente problematica; sia le tesi delle parti contro
le quali sono state pronunciate le sentenze, sia gli scritti intervenuti
sul punto, infatti, sposano direttamente la tesi dell’applicabilità o
meno del rinnovo da parte della Pubblica Amministrazione, senza
fornirne un’interpretazione autonoma dagli altri istituti presenti nel
nostro ordinamento e disciplinati dalle leggi di settore, i quali sono
qualcosa di diverso dal rinnovo. Di quanto detto si riscontra una
prova concreta nell’utilizzo dell’accezione di rinnovo in relazione
all’istituto della trattativa privata di cui all’art. 7, D.Lgs. cit.
12 Il testo della decisione del T.A.R.-Lazio a cui ci si riferisce è il seguente: “le procedure concorsuali per la scelta del contraente da parte
della Pubblica Amministrazione rappresentano la regola orientativa
cardine dell’operato della Pubblica Amministrazione nella scelta del
privato contraente; mentre la trattativa privata costituisce l’eccezione e quindi è suscettibile di essere legittimamente scelta laddove ricorrano le condizioni ed i presupposti di legge”.
82
In termini più dettagliati, il Consiglio di Stato ha
affermato che l’art. 23, comma 1, della legge n. 62 del
2005 che ha abrogato l’ultimo periodo dell’art. 6, comma 2, legge n. 537 del 1993, ha introdotto nell’ordinamento italiano il divieto di rinnovazione dei contratti di
servizi e forniture, fatte salve le limitate deroghe previste espressamente da disposizioni nazionali, attuative di
corrispondenti previsioni comunitarie, da interpretarsi
in modo rigoroso e restrittivo.
Tale divieto è stato recepito nell’art. 57 del Codice
dei contratti, non solo relativamente ai lavori (oltre che
come tradizione ai servizi ed alle forniture) ma anche
con riferimento al rinnovo espresso, atteso che dalla
collocazione sistematica delle norme si desume che è
vietata qualsiasi ipotesi di rinnovo al di fuori dei casi
espressamente sanciti dal medesimo art. 57. Pertanto il
Consiglio di Stato sostiene che un rinnovo espresso al
di fuori dei casi contemplati dall’ordinamento (oggi dal
Codice dei contratti, ieri dalla legge Merloni) darebbe
luogo ad una nuova figura di trattativa privata pura non
consentita dal diritto comunitario13.
In senso decisamente favorevole si è espresso il
T.A.R. Lazio, sez. I bis, con sentenza n. 1064/06, il
quale ha definito l’ambito applicativo dell’art. 23, L.
62/05, puntualizzando che tale previsione di legge non
ha inteso espungere dall’ordinamento la possibilità di
rinnovazione del rapporto negoziale oltre il termine per
esso originariamente fissato.
La ratio sottesa all’abrogazione operata dall’art. 23
va individuata, in coerenza con gli obblighi derivanti
dall’appartenenza dello Stato italiano all’Unione Europea, nell’esigenza di salvaguardia di una effettiva esplicazione della libera concorrenza del mercato, attraverso
l’eliminazione di un indiscriminato ricorso a procedure
derogatorie al principio della gara ad evidenza pubbli-
13 In realtà, alla luce dei recenti interventi legislativi, è possibile intravedere una deroga alla normativa dell’evidenza pubblica, in ambito
contrattuale, proprio nel nuovo dettato dell’art. 1, comma 1 bis, L.
n. 241 del 1990, per il quale “la Pubblica Amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di
diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Con l’introduzione del comma primo bis appena citato, infatti, si potrebbe
sostenere che la Pubblica Amministrazione possa utilizzare strumenti di tipo privatistico, quali il rinnovo, purché si rispettino, sotto il
profilo sostanziale, tutte le garanzia previste dalle norme di settore.
Seguendo cioè la tesi illustrata, si erigerebbe la norma citata a riconoscimento legislativo di un potere all’utilizzo del rinnovo secondo
il diritto privato. Non si può negare che da un punto di vista privatistico sia legittimo parlare di rinnovo contrattuale come strumento
voluto dai contraenti; il fatto è, però, che, fino a quando una norma
non preveda espressamente l’utilizzabilità del rinnovo contrattuale
da parte della Pubblica Amministrazione, lo stesso istituto non assume pari dignità rispetto alle procedure previste dalle leggi di settore.
D’altra parte, è lo stesso comma primo bis che esclude l’applicabilità del diritto privato quando vi siano delle norme che dispongano
altrimenti. Consegue, pertanto, dalle affermazioni sostenute che il
rinnovo contrattuale sia un istituto inapplicabile dalla Pubblica
Amministrazione e che quindi tale termine venga utilizzato secondo
un’accezione atecnica per definire il riaffidamento di un contratto a
seguito di trattativa privata.
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M ARZO • APRILE
ca14, onde scongiurare una prassi generalizzata di attribuzione di pubblici servizi in assenza di uniformità e
trasparenza.
Conseguentemente il T.A.R. Lazio esclude che nella
novella del 2005 possano essere rinvenute ragioni ostative all’esercizio del potere di procedere al rinnovo dei
contratti d’appalto, ribadendo pertanto la perdurante
vigenza, all’interno dell’ordinamento, del principio di
rinnovabilità dei rapporti contrattuali intrattenuti tra la
Pubblica Amministrazione ed i privati. Dello stesso
orientamento risulta la sentenza n. 13403/05, sempre
del T.A.R. Lazio, sez. I bis, la quale rileva che il rinnovo
contrattuale, consistente in una nuova negoziazione tra
le medesime parti per l’instaurazione di un nuovo rapporto giuridico, si atteggia quale trattativa privata,
ovvero quale rinnovato esercizio dell’autonomia negoziale tra gli originari contraenti. Pertanto, la stessa
trova piena praticabilità, sia pure nei limiti di un’eccezionale deroga all’esperimento di procedure selettive ad
evidenza pubblica, come indicati dalla norma comunitaria.
Il ricorso, dunque, a questo strumento contrattuale
non si pone in contrasto con i principi di concorrenza e
trasparenza tutte le volte che questa facoltà sia stata
espressamente considerata in sede di indizione della
prima gara e recepita nella conclusiva stipula contrattuale, e più precisamente ogniqualvolta detta facoltà sia
contemplata nel bando di gara prima e nel vincolo negoziale poi.
Ciò non pregiudica le regole comunitarie, dal momento che i partecipanti sono già previamente messi in
condizione di conoscere l’eventuale esercizio di tale diritto ed il tutto si pone in perfetta sintonia con il principio di legalità.
È noto infatti, seguendo le più ampie trattazioni
manualistiche15, che l’azione amministrativa sia condi-
14 Per sistema ad evidenza pubblica s’intende quel complesso di norme
disciplinanti le procedure che le Amministrazioni devono seguire per
selezionare le controparti nella stipula di contratti pubblici. Più
precisamente ci si riferisce ad un aspetto dell’evidenza pubblica, ossia
al procedimento di formazione dell’accordo tra le parti ed in particolare al procedimento d’individuazione del contraente privato; la
necessità di rispettare tale procedimento, infatti, costituisce una di
quelle deroghe al diritto privato alle quali sono soggetti i contratti
ad evidenza pubblica, definiti dal Virga nel suo manuale Diritto
Amministrativo (Virga, Diritto Amministrativo, 6° ed., Milano,
p. 315) come: “quei contratti che trovano nelle fonti del diritto
pubblico una disciplina sostanziale specifica, che differisce da quella
degli analoghi contratti di diritto privato. Fra tali contratti assumono rilievo il contratto d’appalto di lavori pubblici, il contratto d’appalto di servizi pubblici ed il contratto di fornitura pubblica”.
15 Cfr. tra le tante, L. Mazzarolli, Diritto Amministrativo, Bologna,
p. 1291 e ss.; V. Cerulli Irelli, Corso di Diritto Amministrativo,
Milano, 2001, p. 36 e ss.; G. Vignocchi e G. Ghetti, Corso di
Diritto Pubblico, 6 ° ed., Milano, p. 344 e ss.; G. Virga, il quale
rinvia al Giannini, Diritto Amministrativo, Milano, 1988, per una
più approfondita trattazione sul principio di tipicità degli atti amministrativi.
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zionata dal principio di legalità16 e debba agire, quantomeno nell’adozione di atti autoritativi, tramite poteri
tipici, ossia provvedimenti la cui causa ed i cui effetti
siano determinati dalla legge ed, in alcuni casi, per la
cui adozione siano previsti speciali procedimenti di
formazione.
Favorevole alla piena applicabilità dell’istituto del
rinnovo espresso è anche l’Autorità per la vigilanza sui
lavori pubblici, la quale, con deliberazione n. 183, emessa nel corso dell’adunanza del 13 giugno 2007, esclude
un’interpretazione estensiva dell’art. 23, volta a configurare un generale divieto di rinnovo, tacito ed espresso,
dei contratti pubblici, sulla base di una serie di argomentazioni, tra le quali il richiamo a due disposizioni
del Codice dei contratti pubblici, ex D.Lgs 163/2006,
che sembrano contemplare tale istituto.
Innanzitutto, l’art. 29, comma 1, che stabilisce che
per il calcolo del valore stimato degli appalti e delle
concessioni si deve tener conto di qualsiasi forma di
opzione o rinnovo del contratto e l’art. 57, comma 5,
che fa riferimento alla diversa ipotesi della ripetizione
di lavori e servizi analoghi, già affidati all’operatore
aggiudicatario del contratto iniziale, ammettendo per
questi la possibilità del ricorso alla procedura negoziata
senza bando. Quindi, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici giunge alle conclusioni sopra esposte, asserendo che se è ammessa la ripetizione dei servizi
analoghi, non si comprende perché debba escludersi il
semplice rinnovo, che è una fattispecie in qualche misura riconducibile alla prima.
4. L’opportunità di prevedere la nullità dei contratti rinnovati tacitamente
Nel cercare di fornire una corretta interpretazione
dell’intervento abrogativo attuato dalla legge comunitaria 2004 e confermato dall’art. 57 del Codice dei contratti pubblici, pare opportuno individuare il motivo per
cui il legislatore, pur prevedendo come inderogabili le
norme dell’evidenza pubblica per la selezione del contraente privato, con conseguente illegittimità dei con-
16 Sul punto, AA.VV., op. cit., p. 1219: “il principio di legalità si ricava
implicitamente dalla Costituzione ed esprime la soggezione dell’attività amministrativa alla legge o, come si usa dire con un’efficace
espressione dovuta a Crisafulli, la raffrontabilità dell’atto con la
previa normativa…In realtà il rapporto legge-Amministrazione (e
dunque il principio di legalità) richiede una distinzione tra legalità
formale e legalità sostanziale. La legalità sostanziale esprime il concetto per cui l’Amministrazione deve operare secondo legge; la legalità formale, invece, esprime l’obbligo di operare nei limiti della
legge o anche sulla base di semplici autorizzazioni formali legislative.
La legalità sostanziale investe il provvedimento; la legalità formale,
invece, le attività non autoritative; libero poi il legislatore di sottoporre quest’ultime a limiti più rigorosi e dunque alla legalità sostanziale…la legalità sostanziale…la legge determina le finalità, le procedure da seguire, l’oggetto, la forma, gli effetti del provvedimento
e, del resto, trattandosi di materie coperte da riserva di legge, il legislatore è tenuto ad indirizzare la Pubblica Amministrazione con
criteri obiettivi e non generici”.
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tratti stipulati in violazione di tali norme, si sia preoccupato di sanzionare espressamente con la nullità un
tale tipo di violazione.
Sotto il profilo storico, il divieto contenuto nell’art.
6, legge n. 537 del 1993 interveniva per limitare una
prassi diffusa nelle Pubbliche Amministrazioni di prevedere, anche nei contratti stipulati a seguito di pubbliche
procedure, clausole che permettessero rinnovi taciti.
Sotto un profilo giuridico, invece, una previsione
espressa di nullità evita dubbi interpretativi sulle sorti
del contratto rinnovato tacitamente; si pensi infatti alla
duplice opzione di qualificare il rinnovo tacitamente
intervenuto come atto adottato in carenza assoluta di
potere, quindi nullo, oppure in violazione di legge,
quindi semplicemente annullabile negli ordinari termini
di decadenza.
84
Laddove poi si fosse seguita la seconda tesi, pur a
seguito di una tempestiva impugnazione da parte di
terzi, sarebbe stata vanificata ogni forma di tutela risarcitoria in forma specifica, se il contratto fosse stato anche
parzialmente eseguito e se la prosecuzione del rapporto
illegittimamente instaurato potesse essere giustificato da
una valutazione discrezionale di perseguimento d’interesse pubblico, affidata alla stessa Amministrazione che
aveva provveduto a rinnovare il contratto.
Indubbiamente le norme dell’evidenza pubblica si
atteggiano a principi inderogabili, la cui violazione,
anche in difetto di una espressa previsione di legge,
avrebbe dovuto portare ad una qualificazione del contratto rinnovato tacitamente come nullo, anziché annullabile. Ad ogni modo, un’espressa previsione della nullità contribuisce alla esigenza del diritto.
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PARTE PRIMA
●
I PRINCIPI ISPIRATORI DELLA L.R. 16/2004 E LA PIANIFICAZIONE DI ATTUAZIONE
Il rilascio del permesso
di costruire in mancanza
del prescritto piano attuativo*
● Filippo Cifarelli
Avvocato
Avvocato
● Filippo Cifarelli
1. La legge reg. n.16/2004 ed i principi ispiratori in materia
di pianificazione urbanistica
1.1 Il ruolo dei comuni ed il rafforzamento della loro
autonomia pianificatoria
La ridefinizione delle potestà e delle competenze regionali determinate dalle modifiche al titolo V della Costituzione e dalla nuova formulazione dell’art. 117
Cost., ha dato spunto al Legislatore regionale di riorganizzare la materia urbanistica sulla base di valori e
obiettivi caratterizzanti quel “governo del territorio”
affidato alle autonomie locali. Difatti, già ad una prima
lettura, la legge urbanistica campana, evidenzia una
forte valorizzazione dei principi autonomistici. Ciò si
evince, innanzitutto, dalla disciplina dei procedimenti
di pianificazione urbanistica. In merito, si osserva che
dallo spirito della normativa in esame emerge una situazione di sostanziale pariordinazione degli enti preposti alla predisposizione dei vari livelli di pianificazione. è sicuramente emblematico - e pertanto va rimarcato - che i Comuni siano ora coinvolti anche nella
formazione dei piani sovraordinati e che addirittura
possano attraverso l’approvazione del PUC determinare variazioni dei PTR e dei PTCP (cfr. art. 24 n. 9 L.R.
16/2004). Tale punto è chiaramente emblematico di un
rapporto di “interferenza”, interazione e di consequenziale flessibilità che vi è tra i diversi livelli di pianificazione (PTR, PTCP e PUC), che consente, in sede di
adozione di un piano sott’ordinato, di proporre varianti al piano sovraordinato. Ciò comporta una evidente
inversione rispetto al modello tradizionale e induce a
classificare il sistema di pianificazione non più come
“modello a cascata”, ma come struttura che si caratterizza, invece, per il suo moto “ascensionale”, sia nel
rapporto tra Enti, sia in quello relativo ai diversi livelli
di pianificazione.
In tale contesto, il Comune non è più titolare di un
potere pianificatorio dall’ambito ristretto, dalla ridotta
discrezionalità e circoscritto da vincoli fissati dagli altri
livelli di pianificazione e dai paletti posti in sede di
controllo dagli altri Enti, ma diviene protagonista del
fenomeno pianificatorio locale, con ampia facoltà di
incidere sui piani sovraordinati. In altre parole, la legge
urbanistica sancisce la piena autonomia del Comune
nella pianificazione urbanistica locale (cosa che va ben
oltre la mera facoltà di occupazione di spazi residuali) e
allo stesso tempo attribuisce a tale Ente un ruolo propulsivo nella variazione, nell’adeguamento e nella evoluzione dinamica dei piani sovraordinati. Da ultimo
anello della catena e da ultimo stadio di un procedimento sequenziale il Comune (e conseguentemente la piani-
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ficazione urbanistica comunale), rapportandosi ora su
un piano paritario con gli altri Enti (e con gli altri livelli di pianificazione), diviene elemento centrale e costante “interfaccia” di collegamento reticolare con Regione
e Provincia.
1.2 Il ruolo riconosciuto ai privati nella pianificazione
urbanistica
Ma vi è un altro aspetto della legge urbanistica che
merita di essere evidenziato (e che costituisce logica
conseguenza di quanto sopra esposto), ossia la rilevanza riconosciuta al principio della partecipazione dei
privati, ora coinvolti a pieno titolo nel processo di formazione dello strumento urbanistico. La L.R. 16/2004,
infatti, invertendo lo schema tradizionale, faculta i privati ad intervenire già nella fase di formazione del Piano,
consentendo loro di fornire un prezioso contributo. Per
i portatori di interessi privati, quindi, la partecipazione
non si riduce alla mera facoltà di presentare osservazioni o opposizioni.
La Dottrina, in merito, ha osservato che il coinvolgimento degli interessati, nel procedimento di approvazione dei piani urbanistici, si configura come espressione
ed attuazione di quel principio di “sussidiarietà orizzontale”, che permea la legge urbanistica regionale.
Tale aspetto emerge in tutta la sua evidenza nella
predisposizione della pianificazione di tipo attuativo.
L’art 27 della L.R.URB. prevede, infatti, nell’ipotesi di
mancata adozione di un Piano urbanistico attuativo da
parte dei Comuni, che i privati possano presentare, in
via sostitutiva, una proposta di piano. All’uopo, inoltre,
una serie di istituti (accordi di programma, conferenza
dei servizi) vengono predisposti con il contemporaneo
intento di semplificare le procedure e di prediligere la
consensualità come modulo attuativo degli strumenti
urbanistici generali.
1.3 Il potere di pianificazione e la sindacabilità delle
scelte del Comune: orientamenti giurisprudenziali
Con indirizzi esegetici univoci, che nella sostanza
risultano anticipatori dei principi che, poi, sarebbero
stati consacrati dal T.U. edilzia (D.P.R. 380/01) e dalla
L.R. 16/04, la giurisprudenza amministrativa ha, in più
circostanze, evidenziato la ampia discrezionalità che
deve caratterizzare le scelte del comune nei procedimenti di pianificazione, circoscrivendo e preservando detto
potere da indebite intromissioni degli altri Enti locali o
di Altre Autorità e/o Poteri.
Il Consiglio di Stato, infatti, ha ripetutamente asserito che in materia urbanistica “le scelte effettuate dalla
Amministrazione costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non
siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità
… essendo ormai assodato che in occasione della formazione di un piano urbanistico le scelte discrezionali
della amministrazione non necessitano di apposita mo-
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tivazione, neppure se le stesse afferiscano all’aspetto
tecnico-discrezionale relativo alla scelta dei criteri seguiti nell’impostazione del piano stesso” (Cons. Stato,
20 settembre 2005, n. 4828). L’individuazione di precisi limiti cui vanno incontro Provincia e Regione negli
interventi modificatori sul piano predisposto dal Comune ha dato spunto al Consiglio di Stato di ribadire in più
di una circostanza l’illegittimità di “modifiche che integrino una sostanziale alterazione dell‘impostazione
iniziale della pianificazione secondo le scelte effettuate
in fase di adozione” (Cons. Stato, 20 settembre 2005,
n. 4819).
In sede di pianificazione urbanistica, quindi, la P.A.
gode di ampio potere discrezionale, da esercitare nel
rispetto dei limiti e dei vincoli derivanti dalle superiori
fonti normative e dei criteri di logicità e razionalità
delle scelte da effettuare. Ne consegue l’insindacabilità
delle scelte pianificatorie dell’Ente, salvo che non siano
inficiate da errori di fatto o siano evidentemente illogiche (Cons. Stato, sez. IV, 7 agosto 2003, n. 4568).
Il Consiglio di Stato ha altresì rimarcato la natura
eccezionale delle norme (statali e regionali) che pongono
dei limiti al potere discrezionale dei comuni in materia
di pianificazione.
Le recenti sopravvenienze normative ed il pregresso
indirizzo ermeneutico espresso dalla Giurisprudenza
consentono dunque di individuare un duplice ordine di
obiettivi, da un lato la necessità di salvaguardare il potere di pianificazione comunale da indebite intromissioni e dall’altro la volontà di valorizzare il ruolo dei privati anche in riferimento a quegli strumenti previsti
dalle norme antecedenti la L.R 16/2004.
2. La pianificazione attuativa nel T.U edil. E nella L. Urb. Reg.
Camp.
2.1 Gli strumenti urbanistici di attuazione previsti dal
T.U edil. e dalla normativa previdente
Con la funzione di dare attuazione alle scelte urbanistiche contenute nei piani regolatori generali, i piani
di attuazione -tra i quali spiccano per importanza i
piani particolareggiati ed i piani di lottizzazione- sono
finalizzati a disciplinare nel dettaglio l’edificazione
nelle varie parti del territorio.
Esplicativo della natura e delle funzioni dei piani
attuativi è l’art. 13 della L. 1150/42, norma in cui si
legge che: i piani regolatori generali dei comuni sono
attuati di regola attraverso i piani particolareggiati di
esecuzione, allorquando abbiano previsto soltanto un
assetto programmatico e contengano solo previsioni di
massima.
In buona sostanza, posiamo affermare, sulla scorta
dell’insegnamento fornito dalla Giurisprudenza, che la
pianificazione attuativa nasce dalla necessità di contemperare la potenzialità edificatoria delle zone omogenee con la salvaguardia dei bisogni dell’intera collettività. In altri termini, la concretizzazione dello ius
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aedificandi impone, attraverso le previsioni di un piano
attuativo, un adeguato bilanciamento degli interessi
individuali con quelli collettivi che talvolta esigono il
potenziamento delle infrastrutture a servizio della collettività.
Il dato normativo nazionale (D.P.R. 380/01) enuncia
il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale (già desumibile dalla
legge urbanistica n. 1150 del 1942, cfr. anche artt. 31 e
41 quinquies, ultimo comma, l. 17 agosto 1942 n. 1150,).
Infatti, per l’art. 9, comma 2, del testo unico in materia
edilizia (approvato col D.P.R. n. 380 del 2001), “nelle
aree nelle quali non siano stati approvati gli strumenti
urbanistici attuativi previsti dagli strumenti urbanistici
generali come presupposto dell’edificazione” sono tassativamente ammessi alcuni lavori edilizi, tra cui non
rientra la realizzazione di nuovi edifici, consentita solo
quando sia approvato lo strumento attuativo.
2.2 I piani attuativi previsti dalla Legge urb. Reg.
Analoghe per contenuto e finalità sono le norme
della Legge Urb. Regionale che agli artt. 26 e 31 e ss.
individua nel PUA lo strumento con cui “il comune
provvede a dare attuazione alle previsioni del PUC” (art.
26), a detto piano attuativo, inoltre, compete la ripartizione sia delle quote edificatorie, sia dei diritti edificatori e degli obblighi nei confronti del comune e/o degli
altri Enti pubblici.
PARTE SECONDA
IL RILASCIO DEL PERMESSO DI COSTRUIRE IN MANCANZA
DEL PRESCRITTO PIANO ATTUATIVO
3. La mancata approvazione dei piani di attuazione ed i
presupposti per il legittimo rilascio del titolo abilitativo:
(dis)orientamenti giurisprudenziali.
Compito primario della pianificazione urbanistica è
quello di coordinare l’attività edificatoria privata con la
predisposizione di un adeguato sistema infrastrutturale,
sicché la conformità urbanistica vale ad assicurare uno
sviluppo edilizio del territorio ordinato e razionale. Ai
sensi dell’art. 12 del d.p.r. 30 giugno 2001 n.380, il
permesso di costruire va rilasciato in conformità alle
previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti
edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente. è
tutt’altro che raro che i Comuni, abdicando dal ruolo
fondamentale loro assegnato dalla Legge urbanistica e
rinviando sistematicamente -benché urgenti- scelte ed
interventi di tipo pianificatorio, omettano di predisporre i prescritti strumenti attuativi e/o non collaborino con
i privati per l’approvazione dei piani attuativi che gli
stessi hanno facoltà di proporre. Tali situazioni spesso
culminano in contenziosi che hanno come Giudice naturale il Tribunale amministrativo.
2 0 0 9
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3.1 Il principio originariamente affermato
dalla Giurisprudenza amministrativa
Come si è detto, il secondo comma dell’art. 9, comma
2, d.P.R. n. 380 del 2001 prevede che “Nelle aree nelle
quali non siano stati approvati gli strumenti urbanistici
attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali
come presupposto per l’edificazione, oltre agli interventi indicati al comma 1, lettera a), sono consentiti gli
interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3 del presente testo unico che riguardino singole
unità immobiliari o parti di esse. Tali ultimi interventi
sono consentiti anche se riguardino globalmente uno o
più edifici e modifichino fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti, purché il titolare del permesso si
impegni, con atto trascritto a favore del comune e a
cura e spese dell’interessato, a praticare, limitatamente
alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi
di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione di cui
alla sezione II del capo II del presente titolo”. Il testo di
tale norma è nella sua sostanza riproduttivo dell’art. 27
L. 457/78 che recitava: “Ove gli strumenti urbanistici
generali subordinino il rilascio della concessione alla
formazione degli strumenti attuativi… sono consentiti
(solo) gli interventi previsti dalle lettere a-b-c-d dell’art
31…” (manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione).
In ordine al dato normativo da ultimo menzionato,
sin dai primi anni ’80, si era affermato un orientamento giurisprudenziale (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20 maggio
1980 n. 18) secondo il quale “L’esigenza di un piano
attuativo (di lottizzazione o particolareggiato), quale
presupposto per il rilascio della concessione di costruzione, si pone allorché si tratti di asservire per la prima
volta un’area non ancora urbanizzata ad un insediamento edilizio di carattere residenziale o produttivo, mediante la costruzione di uno o più fabbricati che obiettivamente esigano per il loro armonico raccordo col
preesistente aggregato abitativo la realizzazione o il
potenziamento delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria; pertanto, è illegittimo il diniego di concessione edilizia fondato sulla carenza di un piano attuativo, anche se richiesto dal piano regolatore, quando
l’area sia urbanizzata e difetti una rigorosa valutazione
del nuovo insediamento progettato in rapporto alla situazione generale del comprensorio, e cioè quando non
sia adeguatamente ponderato il grado di edificazione e
lo stato di urbanizzazione già presente nella zona interessata, né siano in modo congruo evidenziate le concrete, ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla
nuova costruzione” (cfr., C.d.S., Ad. Plen., 20 maggio
1980 n. 18 e 6 dicembre 1992 n. 12; sez. V, 13 novembre
1990 n. 776; 6 aprile 1991 n. 446 e 7 gennaio 1999 n. 1;
T.A.R. Campania, sez. IV, 2 marzo 2000 n. 596; C.d.S.,
sez. IV, 4 dicembre 2007, n. 6171 e da ultimo C.d.S.,
sez. IV, 29 luglio 2008 n. 3771; nello stesso senso anche
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alcune pronunce del T.A.R. Campania-Napoli tra cui
da ultimo spicca la sentenza n. 4854/2001).
Secondo il succitato consolidato indirizzo esegetico,
la necessità della previa approvazione di un piano attuativo sussisterebbe per quelle aree non urbanizzate, sulle
quali si edifica per la prima volta. Ricorrendo questi
presupposti ben “può prescindersi dalla previa predisposizione di un piano esecutivo” (piano di lottizzazione o piano particolareggiato). Precipitato logico
dell’enunciato principio è che non può considerasi legittimo il diniego di rilascio del titolo abilitativo, che sia
basato sul solo argomento formale della mancata attuazione della strumentazione urbanistica di dettaglio…
(cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 6 giugno 2000
n. 1819 e da ultimo T.A.R. Campania –Napoli, sez. II,
24 aprile 2008, n. 496).
Le successive puntualizzazioni della Giurisprudenza amministrativa sui presupposti per il rilascio in via diretta del
titolo abilitativo alla edificazione
Sul principio di diritto innanzi citato si sono innestate una serie di pronunce tese a precisarne i punti
fondanti ossia: grado di edificazione-urbanizzazione, e
reale necessarietà dello strumento attuativo.
Il primo nodo da sciogliere è se nella valutazione del
grado di urbanizzazione l’Amministrazione si debba
attenere a parametri rigorosi e predeterminati o se invece detta valutazione debba essere condotta di volta in
volta attraverso una verifica di fatto circa l’effettiva necessità dello strumento attuativo.
Il grado di edificazione e di urbanizzazione
Anche negli orientamenti improntatati ad un maggior favor verso il rilascio in via diretta del permesso
di costruire, si riscontrano significative differenze in
ordine al grado di edificazione e allo stato di urbanizzazione occorrente per poter prescindere dal piano attuativo.
Così, per quanto concerne il grado di urbanizzazione, si è parlato di volta in volta di un’area che deve risultare sufficientemente urbanizzata oppure adeguatamente urbanizzata, mentre in altre circostanze il G.A.
ha preteso che fosse riscontrabile “una sostanziale,
anche se non integrale urbanizzazione”, o addirittura
una totale urbanizzazione o quanto meno uno stato di
sviluppo delle urbanizzazioni tale da rendere assolutamente superflui gli strumenti attuativi.
Non dissimilmente è accaduto per la valutazione del
grado di edificazione, in ordine al quale, nelle sentenze
dei giudici di legittimità e di merito, si rinvengono i riferimenti di vario genere richiedendosi a volte una ampia
edificazione, o la sussistenza di “zone largamente edificate”, oppure totalmente edificate (il lotto intercluso).
A titolo esemplificativo si riportano di seguito i passaggi più significativi della recente giurisprudenza di
merito campana: “qualora si sia in presenza di un lotto
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intercluso o in altri analoghi casi in cui la zona risulti
adeguatamente urbanizzata attraverso la realizzazione
delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni connessi al realizzando insediamento edilizio -quali
strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del
gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole, etc.- lo
strumento urbanistico esecutivo non può ritenersi più
necessario e non può, pertanto, legittimarsi un rifiuto da
parte del Comune che sia basato sul solo argomento
formale della mancata attuazione della strumentazione
urbanistica di dettaglio” (cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 6 giugno 2000 n. 1819 e da ultimo T.A.R.
Campania-Napoli, sez. II, 24 aprile 2008, n. 4969); “nei
casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non integrale urbanizzazione, la mancanza ovvero l’incompleta
esecuzione dello strumento attuativo non può essere invocato ad esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia (cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 8
maggio 2003, n. 5330; sez. II, 1 marzo 2006, n. 2498).
In questa prospettiva, si ritiene che la reiezione possa
giustificarsi soltanto nel caso in cui l’Amministrazione
abbia adeguatamente ponderato lo stato di urbanizzazione già presente nella zona e abbia congruamente evidenziato le concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, 19885/08); “per la soluzione della
controversia, va richiamato l’orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, per cui nei casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non integrale urbanizzazione, la mancanza ovvero l’incompleta esecuzione
dello strumento attuativo non può essere invocato ad
esclusivo fondamento del diniego di concessione edilizia”
(cfr., per tutte, T.A.R. Campania, sez. IV, 8 maggio
2003, n. 5330; sez. II, 1 marzo 2006, n. 2498). “In questa prospettiva, si ritiene che la reiezione possa giustificarsi soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia
adeguatamente ponderato lo stato di urbanizzazione già
presente nella zona e abbia congruamente evidenziato le
concrete ed ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte
dalla nuova costruzione” (T.A.R. Campania-Napoli, sez.
II, 298/08). “In vista del rilascio del permesso di costruire è, dunque, necessario che esistano –ovvero se ne
preveda l’imminente realizzazione– almeno le opere di
urbanizzazione primaria stimate in concreto necessarie,
in modo che la zona possa dirsi sistemata per l’insediamento e per il soddisfacimento delle esigenze delle famiglie che debbono fissarvi la dimora in armonia con le
generali condizioni di igiene, di estetica e di viabilità che
le norme sull’urbanistica tendono ad assicurare alle comunità locali. A tal riguardo, vale poi aggiungere che le
opere di urbanizzazione primaria sono elencate dall’art.
4 della L. 29 settembre 1964 n. 847 e comprendono
strade residenziali, spazi di sosta o di parcheggio, fognature, rete idrica, rete di distribuzione dell’energia elettrica e del gas, pubblica illuminazione, spazi di verde attrezzato” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, 2944/08).
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Dall’esame degli orientamenti che precedono, si
comprende che la posizione della più recente giurisprudenza di legittimità e di merito non distingue più in
maniera netta le due contrapposte situazioni (area
inedificata e non urbanizzata per la quale occorre la
predisposizione dello strumento attuativo e area totalmente edificata e urbanizzata che da tale strumento
può invece prescindere), ma sofferma la sua attenzione
su quelle situazioni intermedie (nella prassi sicuramente molto frequenti) non necessariamente identificabili,
né sovrapponibili con le fattispecie di “lotto intercluso”
oppure con altre similari, nelle quali l’area interessata
dall’intervento può risultare anche solo in parte, edificata, e, parallelamente, può essere più o meno asservita da opere di urbanizzazione. In tali casi, dove si era
in presenza di una anche parziale edificazione e non
completa urbanizzazione, si è affermata una soluzione
interpretativa, ispirata alla esigenza di assicurare un
equilibrato contemperamento dei diversi interessi in
gioco, volta a valorizzare e rendere più pregnante l’onere motivazionale gravante a carico della amministrazione interessata. In tali casi, si ritiene che l’amministrazione non possa, né debba, invocare a fondamento
del diniego di permesso di costruire la sola mancanza
del piano attuativo, ma sia tenuta a verificare e valutare quale sia lo stato di urbanizzazione già presente
nella zona e debba congruamente evidenziare e motivare quali siano le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione (sic
T.A.R. Campania–Napoli, sez. II, 24 aprile 2008,
n. 4969; cfr. anche, C.d.S., Ad. Plen., 6 ottobre 1992,
n. 12; sez. V, 3 ottobre 1997 n. 1097; 25 ottobre 1997,
n. 1189 e 18 agosto 1998, n. 1273; T.A.R. Lazio, sez.
II, 29 settembre 2000, n. 7649; T.A.R. Campania, sez.
IV, 2 marzo 2000, n. 596 e 18 maggio 2000,
n. 1413).
In altre parole, secondo l’orientamento da ultimo
citato, non si può effettuare la valutazione della necessità del piano attuativo sulla base di schemi rigidi e attraverso la predeterminata individuazione di situazioni
tipo (quali ad es. quella del “lotto intercluso”) in presenza delle quali sarebbe possibile ritenere, in maniera
“automatica”, inutile la pianificazione di dettaglio, ma
occorre procedere caso per caso ad una analisi in concreto dello stato di fatto che accerti l’effettiva indispensabilità del piano esecutivo.
Tale indirizzo interpretativo appare sostanzialmente
condiviso e avvalorato dalla recentissima giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. C.d.S., sez IV, 29 luglio
2008, n. 3771) che, sul punto, ha ribadito che “la necessità del piano attuativo viene meno allorché l’intervento
costruttivo si collochi in aree nelle quali – per la configurazione acquisita a seguito della edificazione delle
aree circostanti e per la esistenza delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria ritenute necessarie – la
adozione di un qualsiasi strumento di dettaglio risulti
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priva di concreta utilità” (cfr. anche C.d.S., sez. IV, 4
dicembre 2007, n. 6171).
L’orientamento in questione appare permeato da una
visione estremamente pragmatica del problema e rifiuta
in partenza soluzioni ispirate ad un ossequio meramente formale della legge. In situazioni come quelle sopra
descritte (esistenza dalla rete elettrica, fognaria, idrica
e del metano ossia di tutte quelle opere indici di un
adeguato grado di urbanizzazione – cfr. C.d.S., sez IV,
29 luglio 2008, n. 3771) la pretesa della preventiva
approvazione dello strumento attuativo risulterebbe
volta a dare un ossequio meramente formale alla astratta previsione di piano, e non già a realizzare concretamente le specifiche finalità dello strumento, attinenti
proprio alla indicazione ed alla disciplina delle esigenze
di carattere urbanistico ancora da soddisfare.
Come si evince dalla citata sentenza (C.d.S., sez. IV,
sent. n. 3771/08) il Consiglio non fa più riferimento ai
presupposti predeterminati quali sono quelli del lotto
intercluso e dell’area interamente urbanizzata, ma si
limita a richiedere l’esistenza di una sufficiente urbanizzazione e di una larga edificazione. Nel caso di
specie il Collegio ha avallato la condotta del Comune,
che aveva rilasciato concessione diretta prescindendo
dalla prescritta approvazione del piano esecutivo, osservando “che la zona di cui si tratta è in realtà dotata
di tutte le infrastrutture necessarie, in quanto già largamente edificata e sufficientemente urbanizzata, risultando servita dalla rete elettrica, fognaria, idrica e del
metano, nonché dotata di idonea viabilità.
L’affermazione del principio in questione si rinviene
anche in alcune sentenze del Giudice amministrativo
campano secondo il quale: “il principio affermato dalla giurisprudenza prevalente secondo il quale, ai fini
del rilascio della concessione edilizia, nelle zone già
urbanizzate è consentito derogare all’obbligo dello
strumento attuativo (piano particolareggiato o piano
di lottizzazione convenzionata), può trovare applicazione solo nell’ipotesi, del tutto eccezionale, che si sia
già realizzata una situazione di fatto che da quegli
strumenti consenta con sicurezza di prescindere, in
quanto risultano oggettivamente non più necessari,
essendo stato pienamente raggiunto il risultato (id est:
l’adeguata dotazione di infrastrutture, primarie e secondarie previste dal piano regolatore) cui sono finalizzati” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II, n. 19813/08);
“per l’applicazione del principio, insomma, è necessario
che lo stato delle urbanizzazioni sia tale da rendere
assolutamente superflui gli strumenti attuativi. Tale
situazione, del tutto peculiare, deve essere ovviamente
accertata dall’amministrazione con una concreta e
puntuale verifica che deve riguardare l’intero contenuto previsto dal piano regolatore generale per tali strumenti attuativi. La stessa, cioè, deve concernere non
soltanto le urbanizzazioni primarie ma anche quelle
secondarie e l’assetto definitivo dell’intero ambito ter-
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d i r i t t o
a mm i n i s t r a t i v o
ritoriale di riferimento” (T.A.R. Campania-Napoli, sez.
II, n. 5542/08).
Sulla rilevanza dell’enunciato motivazionale (cfr.,
C.d.S., Ad. Plen., 6 ottobre 1992, n. 12; sez. V, 3 ottobre
1997, n. 1097; 25 ottobre 1997, n. 1189 e 18 agosto
1998, n. 1273; T.A.R. Lazio, sez. II, 29 settembre 2000,
n. 7649; T.A.R. Campania, sez. IV, 2 marzo 2000,
n. 596 e 18 maggio 2000, n. 1413 e da ultimo T.A.R.
Campania-Napoli, sez. II, n. 19364/08) “ciò che rileva,
sotto il profilo della legittimità dei permessi di costruire in oggetto, è la congruità della motivazione, che deve
rispecchiare la corretta rappresentazione e valutazione
della situazione di fatto, la coerenza e non contraddittorietà dell’operato della P.A. Invero, nel caso di zone
parzialmente urbanizzate il diniego può essere opposto
soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia adeguatamente valutato lo stato di urbanizzazione già
presente nella zona e abbia congruamente evidenziato
le concrete e ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione”. 3.2.2 L’onere probatorio e la natura giuridica degli
atti di valutazione della P.A in merito alla problematica in questione
In maniera costante e pressoché unanime la giurisprudenza amministrativa ha posto a carico del ricorrente l’onere della prova dello stato di edificazione e
della adeguatezza delle opere di urbanizzazione esistenti (prova da fornirsi attraverso una perizia tecnica giurata, descrittiva dello stato dei luoghi).
Ovviamente, le deduzioni in merito svolte dal soggetto che richiede il rilascio (in via diretta) del permesso
di costruire, può spesso non collimare con le valutazioni del competente Ufficio tecnico comunale, sicché si
pone il problema di qualificare la natura dell’atto di
accertamento svolto dall’ente per verificarne la correttezza e la legittimità. Va sul punto rimarcato che, secondo una consolidata e costante giurisprudenza amministrativa (di legittimità e di merito), “la valutazione
operata dalla Amministrazione, quanto alla compiuta
urbanizzazione della zona interessata costituisce espressione di una discrezionalità tecnica dell’Ente e si presta
ad essere sindacata esclusivamente ove risulti manifestamente erronea o illogica” (ex plurimis, T.A.R. Lazio–
Latina, n. 143/2006).
In merito, però, si segnalano posizioni in senso contrario, assunte dal T.A.R. Campania che a riguardo ha
osservato che l’Ente locale “avendo la disponibilità dei
dati tecnici attestanti la reale consistenza del reticolo
connettivo del suo territorio, sia per quanto concerne la
urbanizzazione primaria, sia per le opere di urbanizzazione secondaria, è senza dubbio in grado di stabilire se
e in che misura un eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell’assetto del territorio… Ed infatti la esistenza delle opere di urbanizzazione, rilevante ai
fini della necessità o meno della previa redazione di un
90
piano di lottizzazione o di altro strumento urbanistico
attuativo, prima del rilascio della concessione edilizia,
deve essere intesa nel significato di adeguatezza delle
opere ai bisogni collettivi; pertanto, la valutazione circa
la congruità del grado di urbanizzazione di un’area – va
rimessa all’apprezzamento di merito dell’amministrazione (cfr. T.A.R. Campania 4969/08, cit.). Tale valutazione, secondo l’insegnamento del Consiglio di Stato non
può che essere effettuata alla stregua della normativa
sugli standards urbanistici di cui al combinato disposto
del d.m. 2 aprile 1968 n. 1444 e art. 17 l. 6 agosto
1967 n. 765, onde l’equivalenza tra pianificazione esecutiva e stato di adeguata urbanizzazione non è configurabile quando non si riscontri l’esistenza di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria almeno nelle
quantità minime prescritte (così C.d.S., sez. V, 29 aprile 2000, n. 2562; v. anche T.A.R. Campania-Napoli,
sez. 8, sent. n. 9539/08).
Tale posizione appare ben coerente con l’articolazione delle competenze delineate dalla disciplina di settore,
che prevede, da un lato, una competenza pianificatoria
riservata all’organo consiliare e, dall’altro, un potere
autorizzatorio attribuito all’organo burocratico; tali
poteri e competenze vanno tenuti distinti sia sul piano
logico, che su quello cronologico. Si è pertanto affermato che “in tale contesto ordinamentale la definizione
dell’assetto urbanistico delle singole zone del territorio – pur nella anomala forma che impinge nella presa
d’atto delle intervenute trasformazioni del territorio – implica una visione di insieme che ontologicamente evoca una valutazione tipicamente politica. Dalla
mediazione di un intervento ricognitivo dell’organo
preposto alla pianificazione del territorio potrà allora
prescindersi nei soli eccezionali casi in cui essa si riveli
manifestamente superflua. Tanto in ragione di una rigorosa e coerente rappresentazione dello stato dei luoghi
che evidenzi, di per se stessa, la condizione di pieno ed
effettivo inserimento dell’area interessata dall’intervento in un contesto già totalmente urbanizzato in maniera
qualitativamente e quantitativamente conforme alle
esigenze recepite nella previsione di piano” (T.A.R.
Campania–Napoli, sez. II, n. 19813/08). Ne discende
che in mancanza della suddetta condizione (e cioè vale
a dire in una situazione di urbanizzazione parziale), “per
disattendere i vincoli rinvenienti dalla prescrizione di
piano, occorre allora una rituale e formale modifica
della previsione di P.R.G. ovvero una revisione al ribasso degli standard urbanistici programmati, apprezzamenti che dovrebbero rimanere riservati all’organo
(politico) dotato di competenze pianificatorie” (sent
19813/08 cit.).
3.2.3 L’edificazione e l’urbanizzazione di fatto: il fenomeno dell’abusivismo edilizio
Alla problematica in esame appare inevitabilmente
collegato il fenomeno dell’abusivismo edilizio. Diversa-
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mente sarebbe difficile configurare situazioni di larga
edificazione e adeguata urbanizzazione di lotti ricadenti in zone per le quali il Piano generale prescrive lo
strumento attuativo. Così, paradossalmente, questo
triste fenomeno assurge al rango di presupposto di fatto
affinché coloro che vogliono edificare in base a regolare
permesso, possano conseguire lo stesso. In realtà, però,
non sempre la condotta di coloro che edificano in assenza di titolo, rappresenta un “vantaggio” per chi in un
momento successivo avanza istanza di permesso. Talvolta, infatti, le condotte di coloro che hanno deliberatamente violato la normativa (amministrativa e penale)
edilizia finiscono per pregiudicare gravemente le facoltà
di quelli che, dopo aver inutilmente atteso l’approvazione dello strumento attuativo, per ultimi, richiedono il
titolo abilitativo alla edificazione invocando la sopravvenuta edificazione ed urbanizzazione di fatto della
zona interessata.
Sul problema si riportano di seguito alcune pronunce del Giudice amministrativo campano: “La sezione
non può che ribadire poi quanto già espresso in precedenza e riaffermare in termini generali che in una qualsiasi zona, fortemente urbanizzata, in cui la funzione
pianificatoria sia stata sinora completamente negletta,
si pone con maggiore urgenza la necessità di un intervento programmatorio dell’Amministrazione Comunale, onde procedere alla verifica della conformità delle
opere d’urbanizzazione primaria alle esigenze della
popolazione già residente, nonché di realizzare le opere
d’urbanizzazione secondaria ancora compatibili con la
già avvenuta edificazione spontanea, reperendo le aree
a ciò necessarie sia tra i lotti ancora inedificati, sia tra
quelli, abusivamente edificati, per i quali non sia stata
o non possa essere concessa la sanatoria delle opere
edilizie realizzate” (T.A.R. Campania-Napoli, sez. II,
n. 19364/08). Nell’area edificata di fatto abusivamente,
ma non correttamente urbanizzata, non potrebbe prescindersi dal preventivo varo di un piano attuativo in
vista del suo definitivo recupero (T.A.R. Campania,
n. 1875/08); l’esigenza di un piano attuativo, quale presupposto per il rilascio della concessione edilizia, s’impone anche al fine di un armonico raccordo con il preesistente aggregato abitativo, allo scopo di potenziare le
opere di urbanizzazione già esistenti e, quindi, anche
alla più limitata funzione di armonizzare aree già compromesse ed urbanizzate, che richiedono una necessaria
pianificazione della «maglia» (cfr. C.d.S., sez. IV, 01
ottobre 2007, n. 5043; T.A.R. Campania-Napoli, sez.
II, n. 19813/08). 3.3 Gli orientamenti giurisprudenziali particolarmente
“restrittivi”: puntualizzazione di un principio o negazione dello stesso?
Sovrapponendo ad ogni considerazione di ordine
pragmatico, l’esigenza di assicurare l’ossequio formale
alla lettera della Legge e alla prescrizione del Piano
2 0 0 9
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generale, il lento processo volto a puntualizzare i principi in origine espressi dall’Adunanza plenaria (cfr.,
C.d.S., Ad. Plen., 20 maggio 1980, n. 18) culmina in un
surrettizia negazione degli stessi.
3.3.1 Gli orientamenti di alcuni giudici di merito
Aderisce, talvolta, ad un siffatto indirizzo anche il
Giudice amministrativo campano (sez.II e VIII) che ha,
in diverse circostanze, preso le distanze dal descritto
orientamento esegetico “pragmatico”, sposando ex adverso la tesi che considera legittimo il diniego di titolo
abilitativo fondato sul mero rilievo formale della necessità di un piano attuativo per il rilascio in una determinata zona di concessioni edilizie:
“Il Tribunale ritiene, tuttavia, di doversi motivatamente discostare da tale orientamento, valorizzando altri
indici interpretativi, del pari rinvenibili nella giurisprudenza amministrativa. Secondo l’opinione che il Collegio
ritiene preferibile, se viene manifestata una volontà pianificatoria, attraverso la redazione di piani di esecuzione,
di iniziativa pubblica o privata, volti a realizzare concretamente le scelte urbanistiche delineate nello strumento
generale, anche con riferimento alle zone di completamento, la circostanza della loro più o meno completa
urbanizzazione ed edificazione (pur in assenza dell’approvazione del piano attuativo, e per effetto di fenomeni
d’abusivismo edilizio), non può valere, di per sé, a giustificare un giudizio di superfluità del piano attuativo medesimo, e a giudicare illegittimo il diniego di concessione,
motivato in base all’assenza, nella pianificazione del territorio, dello strumento di dettaglio” (T.A.R. CampaniaNapoli, sez. II, n. 19364/08);
e ancora che “La verifica (del grado di urbanizzazione), pertanto, non può essere limitata alle sole aree di
contorno dell’edificio progettato, ma deve riguardare
l’intero comprensorio che dagli strumenti attuativi dovrebbe essere pianificato. Ogni altra soluzione avrebbe
evidentemente il torto di trasformare lo strumento attuativo in un atto sostanzialmente facoltativo, non più
necessario ogniqualvolta, a causa di precedenti abusi
edilizi sanati, di preesistenti edificazioni ovvero del rilascio di singole concessioni edilizie illegittime, il comprensorio abbia già subito una qualche urbanizzazione,
anche se la stessa non soddisfa pienamente le indicazioni del piano regolatore” (cfr. T.A.R. Campania-Napoli,
II, sez. 15 marzo 2004, n. 2925 e da ultimo T.A.R.
Campania-Napoli, sez. II, n. 5542/08).
“È congruamente motivato il provvedimento di diniego di concessione edilizia che si richiama alla mancanza di un piano di lottizzazione convenzionato,
qualora tale piano costituisca il presupposto necessario
per il rilascio della concessione in forza della normativa
vigente” (T.A.R. Veneto-Venezia, sez. II, 7 marzo 1991,
n. 164; nello stesso senso C.d.S., sez. V, 27 gennaio
1986, n. 70).
Ed in ultimo: “Il principio secondo cui va esclusa la
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necessità di strumenti attuativi per il rilascio di concessioni in zone già urbanizzate è applicabile solo nei casi nei
quali la situazione di fatto, in presenza di una pressoché
completa edificazione della zona, sia addirittura incompatibile con un piano attuativo, ma non anche alle ipotesi in cui, per effetto di una edificazione disomogenea, ci
si trovi di fronte ad una situazione che assai più di altre
esige un piano attuativo idoneo a restituire efficienza
all’abitato, riordinando e talora addirittura definendo ex
novo un disegno urbanistico di completamento della
zona (T.A.R. Campania-Napoli, sez. VIII, n. 9539/08).
3.3.2 Gli orientamenti restrittivi espressi dal Consiglio
di Stato:
A) Il ritorno al principio di indefettibilità
A ben vedere anche la giurisprudenza del Consiglio di
Stato è apparsa ispirata ora ad impostazioni pragmatiche,
ora a logiche formalistiche. Appartengono sicuramente a
tale ultimo orientamento le sentenze in cui si afferma la
possibilità di prescindere dalla lottizzazione convenzionata prescritta dalle norme tecniche di p.r.g., ai fini del
rilascio della concessione edilizia in assenza del piano
attuativo richiesto dal piano regolatore generale, solo ove
nel comprensorio interessato sussista una situazione di
fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione
della lottizzazione stessa, ovvero la presenza di opere di
urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standard
urbanistici minimi prescritti (C.d.S., sez. V, 1 dicembre
2003, n. 7799). La decisione in esame chiarisce che il
principio non trova applicazione –riemergendo la regola
della necessità del previo strumento attuativo- non solo
nelle ipotesi estreme di zone assolutamente inedificate,
ma anche in quella intermedia di zone parzialmente urbanizzate, nelle quali viene per lo meno a configurarsi
una esigenza di raccordo col preesistente aggregato abitativo e di potenziamento delle opere di urbanizzazione
(sez. V, 8 ottobre 2002, n. 5321; 1 luglio 2002, n. 5387;
14 febbraio 2003, n. 802; 9 maggio 2003, n. 2449) e che
l’esonero dal piano di lottizzazione è da riferirsi ai casi
assimilabili a quello del “lotto intercluso”, nel quale, come
è evidente, nessuno spazio potrebbe rinvenirsi per una
ulteriore pianificazione. Non è così, invece, in caso di
zone solo parzialmente urbanizzate, esposte al rischio di
compromissione di valori urbanistici, nelle quali la pianificazione può ancora conseguire l’effetto di correggere
e compensare il disordine edificativo in atto (sez. V, 27
ottobre 2000, n. 5756; 17 maggio 2000, n. 2874). Si segnalano altresì quelle decisioni in cui il Consiglio di
Stato, ha ribadito il principio secondo cui “quando lo
strumento urbanistico generale preveda che il permesso
di costruire possa essere rilasciato solo dopo l’approvazione di un piano esecutivo, va senz’altro respinta, con
un diniego avente natura vincolata, l’istanza volta a costruire nuovi manufatti, ove non sia stato approvato il
medesimo piano attuativo” (C.d.S., sez. IV, n. 6625/2008).
Inoltre, secondo quanto si rinviene in talune recenti pro-
nunzie, “l’art. 9, comma 2, D.P.R. 380/01 ha previsto
che – “nelle aree nelle quali non siano stati approvati gli
strumenti urbanistici attuativi previsti dagli strumenti
urbanistici generali come presupposto dell’edificazione”sono tassativamente ammessi alcuni interventi, tra cui
non rientra la realizzazione di nuovi edifici. Con tale
disposizione, il legislatore avrebbe, secondo il Consiglio,
enunciato il principio della indefettibilità del piano attuativo prescritto dallo strumento generale (già desumibile
dalla legge urbanistica n. 1150 del 1942, come affermato
da C.d.S., sez. V, 23 marzo 2000, n. 1594; sez. V, 8 luglio
1997, n. 772; sez. V, 16 giugno 1997, n. 640; sez. V, 30
aprile 1997, n. 412; sez. V, 22 marzo 1995, n. 451).
B) L’indagine e la valutazione sulla situazione di fatto
In evidente contraddizione con altre coeve sentenze,
il Consiglio di Stato (sez. IV), nella citata sent. n. 6625/08,
giunge addirittura ad affermare l’irrilevanza delle indagini di fatto sulla sussistenza o meno “nei pressi” o
“nella zona” delle opere di urbanizzazione, anche se, in
precedenza, l’amministrazione abbia violato le previsioni dello strumento generale, rilasciando permessi di
costruire in assenza del prescritto piano attuativo, tranne il caso del piccolo lotto intercluso (cfr. anche sez. IV,
5 marzo 2008, n. 940). Anche in altre precedenti sentenze il Consiglio non ha ammesso equipollenti al piano
attuativo (sez. IV, 8 giugno 2007, n. 3007), nel senso
che in sede amministrativa – per l’esame di una istanza
di permesso – o in quella giurisdizionale non possono
essere effettuate le indagini spettanti all’autorità competente ad approvare il medesimo piano (sulla base del
relativo procedimento), in assenza delle quali il legislatore considera lesa l’assoluta esigenza che vi sia un razionale assetto del territorio.
Sotto tale profilo, va rimarcato che l’interessato può
stimolare con gli strumenti consentiti dal sistema l’approvazione del piano attuativo, considerato indefettibile
dallo strumento generale (di per sé non riconducibile
alla tematica dei vincoli di natura espropriativa: sez. IV,
8 giugno 2007, n. 3007; C.d.S., sez. IV, n. 6625/2008).
PARTE TERZA
4. Considerazioni conclusive
Il quadro che emerge dalla analisi dei vari orientamenti giurisprudenziali è sicuramente connotato da significative incertezze. è facile comprendere come agli
occhi del cittadino comune risulti incomprensibile una
situazione di totale incertezza del diritto.
4.1. Inerzia della P.A e supplenza giudiziale
Può il cittadino “inerme” comprendere come sia
possibile che lo stesso organo giudicante, a volte la medesima sezione o addirittura lo stesso collegio richiedano presupposti diversi per ritenere legittimo e doveroso
il rilascio del titolo abilitativo?
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Certamente l’uomo della strada (ma, talvolta, anche
il giurista) rimane sconcertato e non riesce a dare risposta ad alcuni concreti interrogativi, quali ad esempio:
- Perché, per il rilascio in via diretta del permesso di
costruzione in assenza di piano attuativo, a volte si
pretende che l’area sia edificata totalmente, oppure
che lo sia in buona parte o che, invece, addirittura
ricorra l’ipotesi (residuale) del lotto intercluso mentre, altre volte, si pretende l’approvazione del piano
attuativo solo per le aree da destinare per la prima
volta ad insediamenti residenziali o produttivi?
- Perché il grado di urbanizzazione deve risultare in
alcuni casi “adeguato” (limitatamente alle opere di
urbanizzazione primaria) in rapporto all’insediamento edilizio da realizzare e altre volte si richiede
la completa urbanizzazione dell’intero comparto?
- Perché se gli strumenti attuativi previsti dai piani
generali sono indispensabili per l’armonico sviluppo
del territorio, tanto da risultare indefettibili, il Comune non se ne dota con la dovuta tempestività?
- Perché l’Ente attende che le zone vengano gravemente
compromesse dal fenomeno dell’abusivismo, per poi
addossarne le conseguenze su quei cittadini che rispettosi delle prescrizioni di legge e di piano subiscono una
consequenziale inedificabilità di fatto dei loro lotti?
-Se la vigilanza sul territorio è un compito dello Stato,
prima ancora che un onere/facoltà del cittadino,
perché l’inerzia dello stato viene fatta ricadere sul
cittadino?
Sul punto si impone uno spunto di riflessione sull’atteggiamento dell’Amministrazione.
Il contenzioso in cui inevitabilmente viene coinvolto
il cittadino “inerme” il più delle volte riguarda ricorsi
avverso il diniego o (peggio) l’annullamento in autotutela del permesso di costruire, ciò avviene perché spesso
il Comune, sottraendosi alle proprie responsabilità,
trova comodo e facile risolvere ogni problema rispondendo “NO” ad ogni istanza, laddove, correttamente,
dovrebbe fornire le risposte e le soluzioni al problema
dello sviluppo ordinato del territorio. Risposte e soluzioni vengono così demandate, in palese violazione del
principio della separazione dei poteri, alla Autorità
giudiziaria che, di volta in volta, con la decisione dei
ricorsi avalla ricostruzioni e interpretazioni diverse.
Se ci soffermiamo sul ruolo svolto dalla Amministrazione, appare inspiegabile la diversa valutazione che assume il potere esercitato dagli Uffici burocratici. Ma se
quando il Comune diniega il permesso (in quanto valuta
insufficienti le opere di urbanizzazione ed incompleto il
grado di edificazione o, in quanto reputa indefettibile la
prescrizione di piano che impone lo strumento attuativo)
effettua una valutazione di tipo tecnico discrezionale – non
sindacabile salvo vizi logici e/o incongruenze nella motivazione – perché quando qualche (illuminato) Tecnico
comunale che non vuole abdicare al proprio ruolo e alla
2 0 0 9
93
propria funzione e sceglie la strada (pericolosa) della valutazione della effettiva necessarietà del piano attuativo e
motivando in merito rilascia il permesso di costruire, le
sue scelte – non sono più espressione di discrezionalità
tecnica, ma divengono valutazioni di merito (come tali
spettanti all’organo politico)? Perché in queste circostanze,
quei funzionari chi si assumono le responsabilità connesse
al loro ruolo e non ricorrono a facili tattiche elusive, si
ritrovano - inevitabilmente - davanti al Giudice penale per
difendersi dall’accusa di abuso di ufficio?
Perché nell’esercizio del medesimo potere chi dice
“NO” ha più credibilità di chi dice “SI” e perché su
quest’ultimo grava una sorta di presunzione di colpevolezza?
4.2. Il ruolo dell’avvocato e la difesa del cittadino
vittima della … legalità
Quante volte nei nostri studi ci troviamo a discutere
con clienti che ci prospettano situazioni paradossali e
quante volte noi stessi, ascoltando le domande sopra
formulate, ci siamo chiesti se è davvero un’antinomia
l’espressione “vittime della legalità”.
Ebbene, agli interrogativi che precedono – indubbiamente retorici e che appaiono forse mal posti agli occhi
di un giurista (ma sacrosanti a quelli del cittadino inerme) – non è facile rispondere.
Certo potremmo scomodare i romani invocando la
necessità dell’ossequio anche formale della legge (dura
lex sed lex), o ex adverso, citare Celso, che invita a
considerare la forza e la potestà della legge, o forse,
pensando al ruolo pilatesco a volte assunto dalle amministrazioni, potremmo, più semplicemente, citare Ennio
Flaiano secondo cui sulla bandiera italiana dovrebbe
campeggiare la scritta “tengo famiglia”.
Nessuna di queste risposte, però, tiene conto del
fatto che, il più delle volte, chi, sconcertato, pone i suddetti interrogativi, è proprio quel cittadino:
- che non ha costruito abusivamente confidando in un
condono;
- che, magari, ha inutilmente atteso che l’Amministrazione, esercitando le proprie prerogative, approvasse
un piano attuativo, compulsandola vanamente;
- che ha confidato nella validità di un permesso di
costruire, poi annullato, per l’affermarsi di un diverso orientamento giurisprudenziale;
- che ha confidato nella attenta vigilanza del territorio
da parte dello Stato, ritrovandosi, invece, vittima
dell’abusivismo;
- che, con fiducia, ha scelto la strada della legalità rifuggendo facili e redditizie scorciatoie.
Ebbene, proprio il cittadino è chiamato a pagare il
prezzo di una legalità che a volte sa essere cieca e implacabile contro coloro che la invocano ed inefficace e latitante verso coloro che ogni giorno in modo sprezzante
l’attaccano.
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d i r i t t o
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Osservatorio di giurisprudenza amministrativa
●
Il codice dei contratti
pubblici di lavori, servizi
e forniture
(D.Lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
● A cura di Almerina Bove
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Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura
Regionale della Campania
AVVALIMENTO – RATIO DELL’ISTITUTO – 2. RICORSO ALL’AVVALIMENTO PER IL REQUISITO RELATIVO AL FATTURATO IVA
PER LAVORI ANALOGHI – è CONSENTITO.
(Codice dei contratti, art. 49)
Consiglio di Stato, sez. V, 17 marzo 2009, n. 1589
1. La finalità dell’istituto dell’avvalimento non è
quella di arricchire la capacità tecnica o economica del
concorrente, ma quella di consentire ai soggetti che ne
siano privi di concorrere alla gara ricorrendo ai requisiti di altri soggetti, senza che rilevino per la stazione
appaltante -conformemente alla ratio dell’istituto quale
ricavabile dalla sua genesi comunitaria- i rapporti sottostanti esistenti fra il concorrente e il soggetto “avvalso”,
ed essendo invece indispensabile unicamente che il primo
dimostri di poter disporre dei mezzi del secondo, in
adesione all’attuale normativa comunitaria (artt. 47 e 48
Direttiva n. 118/2004/CE ed art. 54 Direttiva n. 17/2004/
CE), la quale espressamente prevede che “un operatore
economico può, se del caso e per un determinato appalto, fare affidamento sulle capacità di altri soggetti, a
prescindere dalla natura giuridica dei suoi legami con
quest’ultimi”.
2. Deve ritenersi consentito ricorrere all’avvalimento
per il requisito relativo al possesso di un determinato
fatturato IVA per lavori analoghi nel triennio antecedente, posto che il fatturato IVA non è altro che un requisito di carattere economico-finanziario ai sensi dell’art. 41
e che l’art. 49 D.Lgs. n. 163/2006 ricomprende, tra quelli che possono essere soddisfatti avvalendosi di altre
imprese, tutti i “requisiti di carattere economico, finanziario, tecnico organizzativo, ovvero di attestazione
della certificazione SOA”.
COLLEGAMENTO TRA IMPRESE – È CONFIGURABILE, IN GUISA
DA COMPORTARE UN DIVIETO DI PARTECIPAZIONE ALLE
GARE PUBBLICHE, NON SOLO QUANDO VI SIA RELAZIONE
TRA LE IMPRESE PARTECIPANTI, MA ANCHE QUANDO TALE
RELAZIONE SUSSISTA CON ALTRA IMPRESA, ESTRANEA ALLA
STESSA GARA, MA IN GRADO, TUTTAVIA, DI ESERCITARE QUEL
CONTROLLO O QUELL’INFLUENZA CHE COMPORTA, EX ART.
34, LA DIRETTA ESCLUSIONE DALLA GARA.
(Codice dei contratti, art. 34)
Consiglio di Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1459
Il fine perseguito dal legislatore del Codice dei contratti con la norma di cui all’art. 34, comma 2, del D.Lgs.
n. 163 del 2006 – secondo cui “Non possono partecipare alla medesima gara concorrenti che si trovino fra di
loro in una delle situazioni di controllo di cui all’art.
2359 c.c. Le stazioni appaltanti escludono altresì dalla
gara i concorrenti per i quali accertano che le relative
offerte sono imputabili ad un unico centro decisionale,
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sulla base di univoci elementi”- è stato quello di pervenire ad una completa ed efficace disciplina della materia
della partecipazione delle imprese alle gare, non soltanto rendendo diritto positivo quella che prima era solo
un’interpretazione giurisprudenziale, ma anche cumulando quest’ultima con la previsione dell’art. 10, comma
1 bis, della L. 109 del 1994 in un unico contesto, volto
ad esprimere un’unitaria regola sostanziale di protezione effettiva della concorrenza nel mercato degli appalti,
al fine di escludere ogni possibile falla nel disegnato
perimetro dell’apprestata garanzia attraverso l’introduzione di un concetto oggettivo di controllo che, prescindendo dalla forma diretta od indiretta con la quale si
manifesta, comunque sia idoneo a far emergere l’esistenza di un’influenza dominante di un soggetto su altri ai
fini dell’assegnazione di una gara pubblica.
L’art. 2359 c.c. svolge, in tale ottica, una funzione
complementare all’applicazione del citato art. 34 nel
senso che fornisce al microsistema di garanzia predisposto dal Legislatore – che opera avendo riguardo al dato
oggettivo esistente in concreto, avendo valenza di normativa di ordine pubblico – soltanto lo strumento necessario per tipizzare le situazioni nelle quali debba ritenersi, in via di presunzione juris et de jure, che si sia
verificata una delle ipotesi di controllo per le quali debba scattare, automaticamente, il divieto di partecipazione alle gare pubbliche di appalto e, quindi, l’altrettanto
automatica esclusione del soggetto imprenditoriale che
si trovi in una delle relative situazioni.
Tale essendo la ratio sottesa alle norme in questione,
merita condivisione, tra i diversi orientamenti interpretativi espressi anche in seno al Consiglio di Stato, quello secondo cui il divieto di partecipazione alle pubbliche
gare opera, senza bisogno di acquisire ulteriori elementi a tal fine, non solo nel caso in cui la relazione sussista
tra le imprese partecipanti alla gara, ma anche quando
detta relazione sia rinvenibile con altra impresa, ben
vero estranea alla stessa gara, ma in grado tuttavia,
come detentore di pacchetti di maggioranza delle diverse partecipanti, di esercitare quel controllo o quell’influenza che comporta, ex art. 34, la diretta esclusione.
(Riforma T.A.R. Lazio, sez. II, 23 aprile 2008,
n. 3418, secondo cui il controllo totale di più imprese
concorrenti in formazioni distinte ad una pubblica gara,
da parte di un’unica società non partecipante alla stessa
gara, non è di per sè sufficiente a compendiare la violazione della norma sopra riportata, se non accompagnato da indici concreti di collegamento sostanziale tali da
far emergere l’esistenza di un unico centro di interessi).
1. DICHIARAZIONE AI SENSI DELL’ART. 38 DEL CODICE DEI
CONTRATTI – DEVE CONTEMPLARE ANCHE LE CONDANNE
RELATIVE A REATI DEPENALIZZATI PER IMPOSSIBILITÀ DI
EQUIPARAZIONE CON LE IPOTESI DI ESTINZIONE E DI RIABILITAZIONE – DEVE CONTEMPLARE, ALTRESì, LE SENTENZE DI
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CONDANNA CON IL BENEFICIO DELLA NON MENZIONE (CHE,
PERTANTO, NON RISULTANO DAL CASELLARIO) – 2. CONSEGUENZE DELLA MANCATA DICHIARAZIONE – 3. GRAVE NEGLIGENZA O GRAVE ERRORE NELL’ESECUZIONE DI PRESTAZIONI PROFESSIONALI – PRESUPPOSTI DI RILEVANZA AI FINI
DELLA ESCLUSIONE DALLA GARA
(Codice dei contratti, art. 38)
T.A.R. Lazio – Roma, sez. III quater, 27 marzo 2009,
n. 3215
1. Dall’art. 38, comma 1, lettera c, e comma 2 del
D.Lgs. n. 163 del 2006, letti in combinato disposto con
l’art. 178 c.p. e con l’art. 445, comma 2, c.p.p. deriva
che solo le condanne penali oggetto di estinzione e di
riabilitazione non debbano essere dichiarate ai sensi di
detto art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 2006, mentre sussiste
l’obbligo di dichiarare tanto i reati depenalizzati quanto
le condanne con il beneficio della non menzione (quest’ultime, con apposita autodichiarazione).
2. La mancata dichiarazione costituisce una circostanza che ha valore autonomo e che incide sulla moralità professionale del soggetto, a prescindere da ogni
valutazione circa la rilevanza del reato non dichiarato,
così come la non veridicità della dichiarazione integra
una autonoma causa di esclusione dalla gara, a prescindere dalla valutazione in ordine all’idoneità della condanna riportata ad incidere sulla moralità professionale
dell’impresa.
3. La regola di cui all’art. 38, comma 1, lett. f, del
D.Lgs. 163 del 2006, secondo la quale va esclusa dalla
gara di appalto l’impresa che si sia resa responsabile di
errore professionale grave nella esecuzione di un contratto pubblico, non ha introdotto nell’ordinamento
una sorta di incapacità a contrattare con le Pubbliche
Amministrazioni, ma deve essere intesa nel senso che
essa vale unicamente se il grave errore sia stato commesso nei rapporti intercorsi con la stessa Amministrazione aggiudicatrice e non con una diversa stazione
appaltante. Ciò comporta che l’esclusione dalle gare
pubbliche per inaffidabilità delle imprese concorrenti
per grave negligenza e malafede commessa nel corso di
esecuzione di precedenti contratti pubblici può essere
pronunciata in termini di automaticità soltanto quando
il comportamento di deplorevole trascuratezza e slealtà
sia stato posto in essere in occasione di un pregresso
rapporto negoziale intercorso con la stessa stazione
appaltante che indice la gara; in caso contrario, invece,
il giudizio di inaffidabilità professionale su un’impresa
partecipante ad una gara pubblica è subordinato alla
preventiva motivata valutazione della stazione appaltante o della commissione giudicatrice, che è tenuta a
valorizzare i precedenti professionali delle imprese
concorrenti nel loro complesso, nonché a valutare gravità e rilevanza sul piano professionale di precedenti
risoluzioni contrattuali comminate da altre Amministrazioni.
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1. IMPUGNATIVA DEL BANDO DI GARA CHE PRECLUDA LA
PARTECIPAZIONE PREVEDENDO REQUISITI IRRAGIONEVOLI
O DISCRIMINATORI – È AMMISSIBILE ANCHE LADDOVE L’INTERESSATO NON ABBIA PRESENTATO DOMANDA DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA – 2. AVVALIMENTO – LE LIMITAZIONI
A TALE ISTITUTO GENERALE SONO IN CONTRASTO CON LE
DISPOSIZIONI DELLE DIRETTIVE APPALTI PUBBLICI.
(Codice dei contratti, art. 49)
Consiglio di Stato, sez. V, 19 marzo 2009, n. 1624
1. Merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, quando la partecipazione alla
procedura sia preclusa dallo stesso bando, sussiste l’interesse a gravare la relativa determinazione a prescindere
dalla mancata presentazione della domanda, posto che
la presentazione della stessa si risolverebbe in un adempimento formale inevitabilmente seguito da un atto di
esclusione, con un risultato analogo a quello di un’originaria preclusione e perciò privo di una effettiva utilità
pratica (C.d.S., sez. V, 8 agosto 2005, n. 4207 e 4208;
sez. V, 11 novembre 2004, n. 7341; sez. V, 11 febbraio
2005, n. 389; sez. IV, 30 maggio 2005, n. 2804). L’orientamento contrario, pur espresso in seno alla giurisprudenza, non appare più sostenibile, alla luce della decisione 12.2.2004 – C 230/02 della Corte di Giustizia C.E.,
la quale ha rilevato che nell’ipotesi in cui un’impresa non
abbia presentato un’offerta a causa della presenza di
specifiche che asserisce discriminatorie nei documenti
relativi al bando di gara o nel disciplinare, le quali le
avrebbero impedito di essere in grado di fornire l’insieme
delle prestazioni richieste, essa avrebbe tuttavia il diritto
di presentare un ricorso direttamente avverso tali specifiche e ciò prima ancora che si concluda il procedimento
di aggiudicazione dell’appalto pubblico interessato.
2. Il bando di gara che limiti eccessivamente l’istituto
dell’avvalimento, consentendolo solo per due requisiti di
ordine tecnico (che devono essere posseduti al 75% in
capo all’impresa che partecipa alla gara) ed escludendolo
totalmente per i restanti sei requisiti tecnici richiesti nonché per tutti i requisiti di carattere economico-finanziario,
è illegittimo in quanto si pone in violazione della normativa comunitaria di massima partecipazione alle gare
pubbliche creando una disparità di trattamento tra gli
operatori economici del settore circoscrivendo eccessivamente il ventaglio delle imprese partecipanti. È pur vero
che l’art. 49, comma 7, del codice degli appalti, (ora soppresso interamente dal D.Lgs. 152/2008 con il c.d. terzo
decreto correttivo) ammette che il bando di gara possa
prevedere, con riguardo ad appalti di particolare natura
o importo, che il ricorso all’avvalimento sia limitato solo
ai requisiti economici o a quelli tecnici, oppure all’integrazione di un preesistente requisito tecnico o economico
già in possesso dell’impresa avvalente in misura o percentuale indicata dal bando. La previsione tuttavia deve essere messa in relazione con la normativa comunitaria di
riferimento posta dagli artt. 47, par. 2, e 48, par. 3, della
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direttiva 2004/18/CE, nonché dall’art. 54, par. 5 e 6
della direttiva 2004/17/CE che riconoscono agli operatori economici il diritto di avvalersi della capacità di altri
soggetti, a prescindere dalla natura giuridica dei loro legami e senza alcuna limitazione. L’interpretazione fornita in sede comunitaria infatti è nel senso che poiché “la
sola condizione è quella di permettere all’amministrazione aggiudicatrice di verificare che il candidato/offerente
disporrà delle capacità richieste per l’esecuzione dell’appalto”, le limitazioni al diritto di avvalersi della capacità
di altri soggetti, previste dall’art. 49, commi 6 e 7, del
D.Lgs. n. 163/2006, “sono in contrasto con le citate disposizioni delle direttive appalti pubblici” (cfr. nota della
Commissione delle Comunità europee n. 2007/2309/C
-2208- 0108 in data 30 gennaio 2008, inviata al Ministro
degli affari esteri, con cui si è iniziata la procedura di
infrazione ai sensi dell’art. 226 del Trattato, richiamata
in C.d.S., sez. VI, 11 luglio 2008, n. 3499).
1. POSSESSO DI CERTIFICAZIONE DI QUALITÀ AI FINI DEL BENEFICIO DELLA RIDUZIONE DELLA CAUZIONE – PUò ESSERE
ATTESTATO MEDIANTE AUTOCERTIFICAZIONE – 2. È SOTTOPOSTO AD UN REGIME DI PIÙ ATTENUATO RIGORE FORMALE
RISPETTO AI REQUISITI DI CAPACITÀ TECNICA ED ECONOMICA,
NEL QUALE TROVA AMPIO SPAZIO IL POTERE-DOVERE
DELL’AMMINISTRAZIONE DI PROCEDERE A REGOLARIZZAZIONE O INTEGRAZIONE DELLA DOCUMENTAZIONE – 3. REGOLARIZZAZIONE DOCUMENTALE – RAPPORTI CON I L PRINCIpiO
DEL FAVOR PARTECIPATIONIS.
(Codice dei contratti, artt.46 e 75)
TAR Lazio-Roma, sez. I bis, 28 gennaio 2009, n. 871
1. L’art. 75, comma 7, del D.Lgs. n. 163 del 2006, nel
prevedere il beneficio della riduzione del 50% dell’importo della garanzia per gli operatori economici in possesso
della certificazione di qualità, precisa che: “l’operatore
economico segnala, in sede di offerta, il possesso del
requisito, e lo documenta nei modi prescritti dalle norme
vigenti”. Il rinvio alle norme vigenti consente di far ricadere la dimostrazione del possesso del suddetto requisito
nell’ambito di operatività della disciplina dettata dal
D.P.R. n. 445 del 2000, potendo conseguentemente il
possesso della certificazione di qualità essere documentato mediante dichiarazione sostitutiva di certificazione,
resa ai sensi dell’art. 46 del citato regolamento e salva
ogni successiva verifica, senza alcun ulteriore onere di
attestazione documentale circa la persistente validità
della stessa, essendo a tal fine sufficiente la produzione
di autocertificazione che espressamente rechi l’indicazione della confermata validità della certificazione di qualità per effetto del positivo esito della visita ispettiva.
2. Con riferimento al beneficio della riduzione della
cauzione vige un regime di più attenuato rigore formale
rispetto a quanto previsto per i requisiti di capacità tecnica ed economica, posto che per il primo trova spazio il
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potere-dovere dell’Amministrazione di interlocuzione
procedimentale finalizzata alla regolarizzazione o integrazione della documentazione nelle ipotesi in cui manchino previsioni espresse della disciplina di gara che
tanto precludano con espressa comminatoria dell’esclusione dalla gara per il caso di mancanza o irregolarità
della documentazione prodotta (salvo poi eventualmente
verificare, se impugnate, la legittimità in termini di ragionevolezza e di rispondenza all’interesse pubblico di
siffatte prescrizioni).
3. Il principio del cosiddetto “dovere di soccorso
istruttorio”, codificato normativamente ed ispirato ai
criteri della buona fede, come delineato dall’art, 6, comma 1, lett. b) della legge n. 241 del 1990, costituisce un
normale modus procedendi al quale le Amministrazioni
devono attenersi ammettendo il concorrente, nella fase di
valutazione dei requisiti di partecipazione, alla regolarizzazione del documento o del certificato affetto da vizi
formali, laddove manchi l’esplicitazione di una clausola
di esclusione volta a sanzionare l’inosservanza della formalità onde trattasi. La regolarizzazione, peraltro -non
traducendosi il principio del favor partecipationis in un
dovere assoluto ed incondizionato posto a carico della
commissione di gara- risulta preclusa con riferimento a
dichiarazioni o documenti espressamente richiesti a pena
di esclusione o con riguardo agli elementi essenziali
dell’offerta, ed incontra i limiti discendenti dall’inderogabile necessità del rispetto della parità di trattamento tra
i concorrenti. In virtù di tale principio, consacrato anche
nel codice dei contratti all’art. 46, consegue, conformemente ad un orientamento consolidato in giurisprudenza,
che non può farsi luogo all’esclusione di una ditta da una
gara d’appalto per irregolarità formali della documentazione presentata ove tali irregolarità non costituiscano,
per chiara ed espressa previsione della disciplina di gara,
causa di esclusione e siano suscettibili di regolarizzazione
senza pregiudizio per la par condicio.
1. REQUISITI DI MORALITÀ – PORTATA DELL’ART. 38 DEL CODICE DEI CONTRATTI RISPETTO ALLA DISCIPLINA PREVIGENTE E
NOZIONE DI “REATO IN DANNO DELLO STATO” – 2. VERIFICA
DELL’INCIDENZA DEI REATI NON TIPIZZATI SULLA MORALITÀ
PROFESSIONALE – ATTIENE ALL’ESERCIZIO DEL POTERE DISCREZIONALE DELLA STAZIONE APPALTANTE.
(Codice dei contratti, art.38)
Consiglio di Stato, sez. V, 23 marzo 2009, n. 1736
1. L’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 12 aprile
2006 n. 163 deve interpretarsi nel senso che con la dizione reato grave “in danno dello Stato o della Comunità”
il legislatore non ha inteso circoscrivere la facoltà di
esclusione in capo alle stazioni appaltanti a determinate
tipologie di reato qualificate dal soggetto passivo. Con la
disposizione in parola, invero, il legislatore nazionale non
ha inteso riscrivere in senso più restrittivo le norme di cui
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ai previgenti artt. 75 del D.P.R. n. 554 del 1999 e 17 del
D.P.R. n. 34 del 2000; ha, piuttosto, inteso, in linea con
la disciplina previgente, esercitare la facoltà, stabilita al
paragrafo 2 dell’art. 45 della menzionata direttiva
2004/18/CE, di prevedere cause preclusive ulteriori rispetto a quelle obbligatorie di cui al paragrafo 1 dello
stesso articolo, anche estendendo la sfera dei reati rilevanti a quelli che interessano altri Stati membri della
Comunità europea o la stessa Comunità. Nella dizione
“in danno dello Stato” il termine “Stato” va interpretato
come Stato-comunità e non come Stato-apparato o Statopersona, e la dizione stessa non va letta isolatamente, ma
nel contesto della più ampia formula “reati gravi in danno dello Stato (…) che incidono sulla moralità professionale”; contesto in cui appare evidente che quanto rileva
non è di certo il soggetto passivo (Stato o Comunità) del
reato, bensì l’idoneità di qualsiasi reato ad incidere sulla
moralità professionale del soggetto che intenda partecipare ad una gara – quindi la sua affidabilità – in ragione
della capacità offensiva dello stesso reato nei confronti di
tutti i consociati.
2. Eccettuati i reati indicati testualmente, circa i restanti, in assenza di parametri normativi fissi e predeterminati, la verifica della loro incidenza sulla moralità
professionale attiene all’esercizio del potere discrezionale
della p.a. e deve essere operata attraverso la disamina in
concreto delle caratteristiche dell’appalto, del tipo di condanna, della natura e delle concrete modalità di commissione del reato (cfr., tra le più recenti, C.d.S., sez. V, 12
aprile 2007, n. 1723), in guisa che tale valutazione è insindacabile laddove, valutati tutti gli elementi inerenti in
concreto al reato commesso, sulla scorta della specificità,
dell’epoca e delle circostanze del fatto concluda per la
gravità e l’incidenza della condanna sull’affidabilità contrattuale in relazione ai lavori da affidare, e quindi per
l’insussistenza del requisito in argomento. (Fattispecie
concernente un decreto penale di condanna divenuto irrevocabile per il delitto, ritenuto incidente sulla moralità
professionale, di cui all’art. 590, co. 3, c.p. a carico
dell’amministratore delegato con delega alla sicurezza – e
direttore tecnico – della società, avendo il medesimo, in
qualità di datore di lavoro, cagionato per colpa lesioni
personali gravi riportate dalla persona offesa in un incidente occorsole in cantiere. Tale decreto penale di condanna era stato menzionato ed allegato dalla concorrente
in sede di dichiarazione resa ai fini della partecipazione
alle gare, con l’indicazione “relativo a fattispecie ritenuta
non grave”).
REQUISITI DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA E REFERENZE – DIFFERENZA – INCOMMUTABILITÀ DEI REQUISITI, SALVA
L’UNICA ECCEZIONE, CONCERNENTE IL CASO DI INIZIO
DELL’ATTIVITÀ INFERIORE AL TRIENNIO
(Codice dei contratti, art. 41)
Consiglio di Stato, sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1132
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È illegittima per contrasto con l’art. 41 del Codice
dei contratti la clausola del bando di gara che, dopo
l’indicazione dei requisiti di fatturato (globale e per
forniture analoghe), disponga che il concorrente privo
dei predetti requisiti possa provare con altrimenti la
propria capacità economico finanziaria, in quanto tale
previsione si atteggia in modo tale vanificare la peculiare distinzione, ben presente nel testo di legge, tra requisiti e referenze in generale. Per requisito deve, invero,
intendersi la qualità, lo stato, la relazione, il modo di
essere di un soggetto o di una cosa come prescritti da
una disposizione che, dalla presenza di tali elementi
nella loro coerente integralità, ne faccia discendere conseguenze di solito legittimanti, e si iscrivono in fattispecie caratterizzate da una assoluta unidirezionalità ed
esclusività, deducibile dall’alternativa secca tra il possesso e la carenza del requisito stesso, in guisa che, se
l’individuazione del fatturato è conseguenza di una
specificazione ad opera dell’Amministrazione, non si
vede come il requisito così previsto possa essere commutato con una referenza obiettivamente diversa. La previsione del terzo comma dell’articolo 41 non può, dunque, essere interpretata quale clausola generale di
commutazione dei requisiti, tutte le volte che un soggetto non li possegga: ciò equivarrebbe a una legittimazione obliquo modo consentita dalla disposizione così da
completare la prova delle referenze attingendo ad altre
specie di documenti, ma intende, piuttosto, consentire
che chi vanti il possesso dei requisiti ai sensi della specifica previsione di gara (ad esempio: un determinato
fatturato nel triennio), ma non sia in grado di dimostrarli con i documenti indicati nella lex specialis della gara
possa essere facultato, ove sussistano giustificati motivi,
a produrre una documentazione alternativa. L’unica
eccezione che soffre la regola dell’obbligo del possesso
dei requisiti riguarda il caso, pure espressamente disciplinato, dell’inizio di attività inferiore al triennio la
quale mira ad impedire una incongrua e illecita barriera all’ingresso di nuove imprese nel mercato.
SOCIETÀ MISTE – OPERANO NEI LIMITI DELL’AFFIDAMENTO
INIZIALE E NON POSSONO OTTENERE, SENZA GARA, MISSIONI
NON PREVISTE DAL BANDO ORIGINARIO – INAMMISSIBILITÀ
DI SOCIETÀ MISTA “APERTA” O “GENERALISTA”
(Codice dei contratti, art. 32)
Consiglio di Stato, sez. V, 13 febbraio 2009, n. 824
La risposta alla questione se gli appalti pubblici possano essere affidati a società miste in via diretta, o se
occorra seguire procedure di evidenza pubblica, deve
98
essere differenziata, occorrendo distinguere l’ipotesi di
costituzione di una società mista per una specifica missione, sulla base di una gara che abbia per oggetto sia la
scelta del socio che l’affidamento della specifica missione,
e l’ipotesi in cui si intendano affidare ulteriori appalti ad
una società mista già costituita. Con riferimento al primo
caso, a seguito di una complessa evoluzione, la giurisprudenza nazionale (cfr. da ultimo C.d.S.ì, Ad.Plen., 3 marzo 2008, n. 1; sez. V, 23 ottobre 2007, n. 5587; sez. II, 18
aprile 2007, n. 456/07) e comunitaria (cfr. Corte giust.
CE, sez. I, 11 gennaio 2005, n. C-26/03) è pervenuta alla
conclusione che, nel rispetto di precisi paletti, è sufficiente una unica gara. Nel secondo caso, invece, occorre una
gara per l’affidamento degli appalti ulteriori e successivi
rispetto all’originaria missione.
Già prima del D.Lgs. n. 163 del 2006, invero, sembrava preferibile la soluzione secondo cui, limitatamente
ai lavori e servizi specifici e originari per i quali fosse
stata costituita la società, fosse sufficiente una sola procedura di evidenza pubblica, e dunque bastasse quella
utilizzata per la scelta dei soci privati, da intendersi come
finalizzata alla selezione dei soci più idonei anche in relazione ai lavori e servizi da affidare alla società. Tale
soluzione è stata sostanzialmente recepita dal D.Lgs.
n. 163 del 2006 c.d. codice dei contratti pubblici, il cui
art. 32, comma 3, del D.Lgs. n. 163 cit., stabilisce che le
società miste non sono tenute ad applicare le disposizioni del medesimo D.Lgs. (e dunque non sono tenute a seguire procedure di evidenza pubblica), limitatamente
alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del
servizio per le quali sono state specificamente costituite,
se ricorrono le condizioni specificamente indicate dalla
norma. Ne discende che la società mista opera nei limiti
dell’affidamento iniziale e non può ottenere senza gara
ulteriori missioni che non siano già previste nel bando
originario.
Con riferimento alla materia degli appalti e delle
concessioni in caso di partenariato pubblico–privato,
anche la Commissione europea, con la comunicazione 5
febbraio 2008, si è mossa lungo la medesima traiettoria
argomentativa, affermando che sia sufficiente una sola
procedura di gara se la scelta del partner oggetto di preventiva gara è limitata all’affidamento della missione
originaria, il che si verifica quando la scelta di quest’ultimo è accompagnata sia dalla costituzione del partenariato pubblico-privato istituzionale (id est attraverso la
costituzione di società mista), sia dall’affidamento della
missione al socio operativo. Non è dunque ammissibile
una società mista “aperta” o “generalista” cui affidare in
via diretta, dopo la sua costituzione, un numero indeterminato di appalti o di servizi pubblici.
diritto
Tributario
I nuovi strumenti deflattivi del contenzioso e le conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso 101
Clelia Buccico
Ricercatore, Professore aggregato di Diritto Tributario
presso Seconda Università degli Studi di Napoli
L’impugnabilità del provvedimento
di diniego di autotutela alla luce delle più recenti
pronunce di legittimità
115
Fiorella Feola
Funzionario dell’Agenzia delle Entrate – Dottorando di ricerca in Diritto Tributario
– Facoltà di Economia – Seconda Università degli Studi di Napoli
La tutela del contribuente avverso i provvedimenti
emessi durante l’istruttoria fiscale: l’impugnabilità
degli ordini di verifica
A cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
121
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M a r z o • a p r i l e
●
I nuovi strumenti
deflattivi del contenzioso
e le conseguenze sull’istituto
del ravvedimento operoso*
● Clelia Buccico
Ricercatore, Professore aggregato di Diritto Tributario
presso Seconda Università degli Studi di Napoli
* Intervento svolto al Convegno “La Manovra finanziaria –Programmazione triennale– in un contesto di crisi economico finanziaria”
organizzato dall’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti contabili del Tribunale di Napoli – Napoli 13 febbraio 2009.
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Premessa
Oggetto dell’intervento è da un lato il D.L. 25 giugno
2008, n. 112 dall’altro il D.L. 29 novembre 2008,
n. 185.
Il decreto 112/2008 è rubricato “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza e la perequazione tributaria” ed è entrato in vigore lo scorso 25
giugno. Tale Decreto facente parte della così detta “manovra d’estate 2008” (la cui legge di conversione è la
n. 133 del 6 agosto 2008) registra, come evidenziato
dalla relazione illustrativa al Disegno di legge della finanziaria 2009, l’anticipazione temporale dell’adozione
delle misure tese al miglioramento dei conti pubblici ed
al perseguimento degli obiettivi programmatici del Governo.
Il decreto 185/2008 è invece rubricato “Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e
impresa e per ridisegnare in funzione anti‑crisi il quadro
strategico nazionale”, (la cui legge di conversione è la
n. 2 del 28 gennaio 2009), è stato denominato decreto
“anti‑crisi”.
In entrambi questi provvedimenti sono stati previsti
nuovi strumenti deflattivi del contenzioso.
In particolare il procedimento dell’accertamento con
adesione ha subito importanti modifiche, prima con il
D.L. 25 giugno 2008, n. 112 con il quale è stata estesa
la particolare metodologia ai verbali di constatazione e,
successivamente, con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185
con il quale si è proceduto, in particolare, a integrare
l’art. 5 del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 introducendo
l’adesione anche per l’invito a comparire, nell’ottica, da
un lato, di incentivare ulteriormente l’adesione da parte
dei contribuenti; dall’altro, di accentuare le garanzie per
quest’ultimo e ridurre le sanzioni irrogabili. Proprio in
riferimento alla riduzione delle sanzioni queste sarebbero diventate notevolmente inferiori a quelle previgenti
azionabili con il ravvedimento operoso, a tal fine nella
fase di conversione del decreto anti‑crisi sono state modificate le riduzioni premiali di quest’ultimo.
1. Adesione ai verbali di constatazione
L’istituto dell’accertamento con adesione del contribuente contenuto nel D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 è
stato integrato dall’art. 83, comma 18/18 quater, del
D.L. 25 giugno 2008 n. 112, così come convertito dalla
L. 6 agosto 2008, n. 133 che ha introdotto l’art. 5 bis
intitolato «Adesione ai verbali di constatazione». La
previsione dell’ennesimo strumento “premiale” viene
giustificata, dall’incipit del citato comma 18, in quanto
avente lo scopo di semplificare la gestione dei rapporti
con l’Amministrazione fiscale, ispirandoli a principi di
reciproco affidamento e agevolando il contribuente mediante la compressione dei tempi di definizione.
Il nuovo istituto, ancorché rubricato come «adesione»
al verbale di constatazione, presenta caratteristiche ad
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un primo esame un po’ ambigue, che lo pongono a metà strada tra l’adesione e l’acquiescenza (con quest’ultima, in particolare, ha in comune l’accettazione necessariamente integrale dei rilievi di cui al verbale): e del resto
lo stesso legislatore, nel prevedere, al comma 2 dell’art. 5
bis, l’atto con cui l’Ufficio sancisce l’accettazione della
comunicazione inviata dal contribuente, lo definisce
atto di definizione dell’accertamento parziale: abbiamo
quindi un atto che avrà gli stessi contenuti dell’art. 7
(Atto di accertamento con adesione), ma che formalmente non sarà intestato come «atto di accertamento con
adesione» ma come «atto di definizione dell’accertamento parziale».
Questo rilievo, che può apparire formalistico, pone
invece la questione centrale intorno alla quale ruoterà
la corretta applicazione dell’istituto: stabilire l’effettiva
natura di questa forma di definizione, che certamente
presenta aspetti peculiari nei presupposti, nelle procedure e negli effetti, ed è regolata da un testo normativo
che sembra, per certi versi, procedere su di un percorso
autonomo, ma che tuttavia ha una collocazione sistematica ben precisa all’interno del decreto legislativo che
disciplina le altre forme di accertamento con adesione,
sicché sembra destinata ad essere interpretata favorendo
un coordinamento che crei una coerenza sistematica con
le altre regole base previste da quel decreto legislativo.
Il senso della norma, quale risulta appunto dalla
collocazione sequenziale come art. 5 bis (poteva forse
essere ancora più chiaro numerare la nuova disposizione
come art. 4 bis, dato che la definizione da essa contemplata precederà sia l’avviso a comparire – art. 5, sia
l’istanza del contribuente di accesso alla procedura di
adesione – art. 6), è evidentemente quello di rendere
possibile con estrema rapidità la definizione di un processo verbale di constatazione, redatto ai sensi della L. 7
gennaio 1929, n. 4 (art. 24), senza dover attendere l’invito a comparire, da parte dell’Ufficio accertatore
(art. 5), anticipando e rendendo inutile la presentazione
dell’istanza del contribuente, di cui all’art. 6, che tra
l’altro non garantisce l’effettivo avvio della procedura di
adesione. D’altra parte, il comma 18 dell’art. 83 del D.L.
n. 112/2008 esplicita il fine dell’intervento proprio nella
compressione, tra l’altro, dei tempi di definizione.
Il comma 18 prevede che il D.Lgs. 19 giugno 1997,
n. 218, “Disposizioni in materia di accertamento con
adesione e di conciliazione giudiziale”, venga integrato
dall’art. 5 bis, recante “Adesione ai verbali di constatazione”, secondo cui il contribuente può prestare adesione anche ai verbali di constatazione che consentano
l’emanazione di atti di accertamento parziale in materia
di imposte sui redditi e di imposta sul valore aggiunto
(art. 5 bis, comma 1).
Il nuovo art. 5 bis del D.Lgs. n. 218/1997, inoltre,
precisa che l’adesione di cui al comma 1 può avere ad
oggetto esclusivamente il contenuto integrale del processo verbale di constatazione e deve intervenire entro
t r i b u ta r i o
102
trenta giorni successivi a decorrere dalla data della consegna del verbale medesimo mediante comunicazione,
ad opera del contribuente, al competente Ufficio
dell’Agenzia delle Entrate e all’organo che ha redatto il
verbale (art. 5 bis, comma 2, primo capoverso).
L’ufficio, ricevuta la comunicazione di adesione del
contribuente, è, comunque, tenuto a verificare, nel dettaglio, se dalle violazioni formalizzate nel processo
verbale di constatazione può derivarne l’accertamento
parziale ai sensi degli artt. 41 bis del D.P.R. n. 600/1973
e 54, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972, eventualmente
comunicando al contribuente che, nonostante tutto –in
tutti i casi, cioè, in cui non ritenga possa essere applicato l’art. 5 bis–, i rilievi non danno la possibilità di poter
usufruire dell’adesione de qua.
Quello che di fatto rileva nell’“adesione ai verbali di
constatazione”, dunque, è la necessaria “accettazione
passiva” del contenuto integrale del processo verbale, da
parte del contribuente, in relazione al maggiore imponibile o alla maggiore imposta constatati nell’atto di indagine (più che “accettazione passiva” verrebbe da dire
“acquiescenza”, ma il termine potrebbe indurre in errore
poiché relativo all’istituto ex art. 15 del D.Lgs. n. 218/1997,
con il quale, tuttavia, l’“adesione ai verbali di constatazione” presenta l’importante tratto comune, giustappunto, dell’accettazione passiva della pretesa fiscale).
Se la comunicazione di adesione è vincolante per il
contribuente, lo è, però, anche per l’Amministrazione
finanziaria, alla quale compete un giudizio pur non
discrezionale sulla validità della richiesta. È il caso, ad
esempio, delle comunicazioni presentate in ritardo, di
quelle non effettuate utilizzando il modello approvato o
inoltrate senza allegare copia del documento di riconoscimento del sottoscrittore o di quelle presentate da
soggetti non legittimati ad effettuare l’adesione. Più in
generale, in tutti i casi in cui l’Agenzia ritenga non sussistenti i presupposti della definizione, dovrà darne
«tempestiva notizia al contribuente con apposita comunicazione». La quale non potrà non avere i crismi di un
atto definitivo di diniego da notificare al contribuente
«tempestivamente», e quindi, verosimilmente, entro lo
stesso termine previsto per la notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale. Il provvedimento
espresso di diniego sarà senz’altro impugnabile, ben
potendo rientrare tra gli atti di diniego esplicito di definizioni agevolate previsti dall’art. 19 del D.Lgs. 31
dicembre 1992, n. 546.
Il D.L. n. 112/2008, all’art. 83, comma 18 quater,
prevede che la disciplina delle modalità di effettuazione
della comunicazione dell’adesione è rinviata ad un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate, da
emanarsi entro trenta giorni dall’entrata in vigore della
legge di conversione (ossia entro trenta giorni a decorrere dal 22 agosto 2008).
Il provvedimento, che approva l’apposito Modello
delle citata comunicazione, con annesse istruzioni, è
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stato puntualmente firmato in data 10 settembre 2008,
in anticipo, dunque, rispetto al più ampio e previsto
margine di trenta giorni e diffuso, in pari data, sul sito
dell’Agenzia.
Detto provvedimento prevede che il Modello di comunicazione è presentato, a pena di nullità, all’Ufficio
dell’Agenzia delle Entrate territorialmente competente,
nonché all’organo che ha redatto il processo verbale di
constatazione (se quest’ultimo atto si riferisce a più periodi di imposta, in relazione ai quali risultano competenti
diversi uffici dell’Agenzia delle Entrate, la comunicazione
deve essere presentata a tutti gli uffici interessati).
Il Modello, che allo scopo deve essere sottoscritto
dal contribuente o da chi legalmente lo rappresenta, con
esclusione della rappresentanza tramite procuratore
speciale di cui all’art. 7, comma 1 bis, del D.Lgs.
n. 218/1997 (di disciplina dell’“Atto di accertamento
con adesione”), può essere presentato sia mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento (la presentazione si riterrà effettuata in coincidenza con la data
del timbro dell’ufficio postale accettante, che farà fede),
sia tramite consegna diretta agli uffici dell’Agenzia
delle Entrate ed all’organo redigente il processo verbale
di constatazione che, in tal caso, devono rilasciare attestazione dell’avvenuta consegna. Il provvedimento,
inoltre, prevede che, se anteriormente alla data di sua
pubblicazione, quindi fino a tutto il giorno 10 settembre
2008, la comunicazione di adesione è già stata presentata, quest’ultima deve essere nuovamente presentate
entro il 30 settembre 2008 attraverso la procedura ed il
Modello ivi previsti (a conferma, evidentemente, della
nullità che sanziona l’inutilizzo del modello).
Per quanto riguarda quest’ultima previsione, non
pare che la conclusione sia condivisibile. Si dice che le
comunicazioni devono essere nuovamente presentate.
Ma non è così. Non si può ipotizzare alcun obbligo a
carico del contribuente di «mantenere fede» ad una
manifestazione di volontà espressa in modo irrituale.
Meglio dire che le comunicazioni presentate «ante»
possono essere nuovamente presentate, ma sempre che
il contribuente ne ravvisi l’opportunità.
Al Modello deve essere allegata la fotocopia di uno
dei documenti d’identità, o di riconoscimento (ex art. 35
del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445), in corso di validità, del soggetto che provvede ad effettuare la comunicazione.
Esso si compone:
di un “quadro introduttivo”, in cui sono indicati
l’Ufficio dell’Agenzia competente in relazione dell’annualità oggetto di definizione e l’organo che ha redatto
il processo verbale di constatazione;
• di una “sezione”, dove vengono evidenziati i dati che
contraddistinguono il processo verbale di constatazione;
• di un’altra “sezione”, che racchiude i dati del dichiarante.
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Le istruzioni prevedono, inoltre, che in caso il processo verbale di constatazione si riferisca alle società di
persone ed assimilate, di cui all’art. 5 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), la comunicazione dell’adesione deve essere effettuata necessariamente dal legale
rappresentante della società, derivandone che ai singoli
partecipanti è del tutto preclusa l’autonoma definizione
della propria posizione alla luce del processo verbale di
constatazione (ciò perché l’atto de quo è consegnato
alla società e non ai singoli soci).
Analoga procedura vale per coloro che hanno optato per il regime della trasparenza fiscale ex artt. 115 e
116, Tuir.
Il principio viene applicato, altresì, per le società
consolidanti, nell’ambito del consolidato fiscale, le quali, dunque, non possono effettuare la comunicazione
dell’adesione per le violazioni constatate in capo alle
consolidate.
Tuttavia, se nei confronti:
• dei soggetti che partecipano alle società di persone,
• di coloro che partecipano a società che hanno optato per il regime di trasparenza fiscale,
• delle società consolidanti nell’ambito del consolidato
fiscale,
• l’Ufficio abbia già provveduto ad inviare l’atto di
definizione del reddito ad essi attribuibile, tali soggetti, solo in tal caso, possono autonomamente
presentare (tramite l’invio o la diretta consegna) il
più volte citato Modello di comunicazione.
In particolare le istruzioni per la compilazione del
modello di adesione al processo verbale di constatazione, rimediando alla lacuna normativa, stabiliscono che
i soci delle società di persone possono manifestare la
propria adesione «entro i trenta giorni successivi alla
data di ricezione dell’atto di definizione1».
Entro i sessanta giorni successivi alla comunicazione
dell’adesione (nei termini di cui sopra) l’Ufficio delle
Entrate deve notificare al contribuente l’atto di definizione dell’accertamento parziale, recante le medesime
indicazioni di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 218/1997 (“Atto di accertamento con adesione”) (art. 5 bis, comma 2,
secondo cpv., del D.Lgs. n. 218/1997).
L’atto di definizione conseguente all’adesione al processo verbale, deve quindi indicare, seguendo i dettami
del citato art. 7, “gli elementi e la motivazione su cui la
definizione si fonda nonché la liquidazione delle maggiori imposte, delle sanzioni e delle altre somme eventualmente dovute, anche in forma rateale”.
1Non è chiaro a quale atto si fa riferimento; se a quello destinato alla
società o se ne prevede uno destinato ai soci per la definizione dell’accertamento parziale. Non importa fermare ora l’attenzione su questo
punto. Una cosa è certa: anche i soci partecipanti alla società di
persone possono «chiudere» la partita accettando (ciascuno per la
propria parte) i rilievi contenuti nel processo verbale di constatazione e beneficiando, così, della particolare riduzione delle sanzioni.
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La motivazione è naturalmente rappresentata dalla
intervenuta adesione ai sensi dell’art. 5 bis, mentre gli
elementi sono quelli che formano oggetto delle violazioni “sostanziali” constatate, eventualmente emendati di
errori materiali e di calcolo, sulla base dei quali si provvede alla liquidazione delle imposte ed altre somme
dovute ai fini della definizione. Per quanto attiene alle
sanzioni che conseguono alla definizione, valgono le
precisazioni fornite dalla citata circolare n. 235/E del
1997 (par. 2.7, lettera a), le quali si riferiscono a tutte le
ipotesi di definizione dell’accertamento con adesione del
contribuente, compreso quello parziale.
Sono previsti dunque termini (trenta e sessanta giorni) entro i quali devono essere posti in essere gli adempimenti. Detti termini devono ritenersi perentori e perciò, se non rispettati, comportano la decadenza dal
compimento dell’obbligo. Quindi, se la comunicazione
di adesione non viene presentata entro i trenta giorni
successivi alla data di consegna del processo verbale di
constatazione, l’adesione al verbale di constatazione è
come se non fosse mai stata manifestata.
E se a non rispettare i termini fosse, per qualsiasi
ragione, l’Ufficio dell’Agenzia delle entrate? In concreto,
l’Ufficio potrebbe non notificare «l’atto di definizione
dell’accertamento parziale» nel termine previsto. Cosa
accade in questa ipotesi? Si forma una sorta di «silenzio‑rifiuto» che vanifica del tutto l’iniziativa del contribuente che – nei termini – ha già comunicato la propria
adesione al processo verbale di constatazione? Difficile
ipotizzare una risposta positiva. Ma, in questo momento, vale la pena di sottolineare che la mancanza della
notifica dell’atto di definizione rende impossibile il versamento delle somme dovute dal contribuente a seguito
della sua adesione al processo verbale e pone il problema
del diritto del contribuente ad avvalersi della definizione agevolata.
Quanto alle modalità di disciplina della fase transitoria per la prima applicazione della norma, il D.L.
n. 112/2008, all’art. 83, comma 18 ter prevede che:
• per i processi verbali consegnati dal 25 giugno (entrata in vigore del D.L. n. 112/2008) fino alla data
di entrata in vigore della legge di conversione del
decreto‑legge de quo, ossia fino al 22 agosto 2008,
il termine per la comunicazione dell’adesione, da
parte del contribuente, è comunque prorogato al 30
settembre 2008, [lettera a)];
il termine per la notifica dell’atto di definizione
dell’accertamento parziale e riguardante i processi
verbali consegnati al contribuente dal 25 giugno fino
al 31 dicembre 2008, è comunque prorogato al 30
giugno 2009 [lettera b)].
Con la notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale trova completamento il procedimento
previsto dall’art. 5 bis che determina, in fine, l’insorgere in capo al contribuente dell’obbligo di versare le
“somme dovute risultanti dall’atto di definizione” me-
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desimo, sancito dal comma 3 della nuova disposizione,
“nei termini e con le modalità di cui all’articolo 8, senza prestazione delle garanzie ivi previste in caso di
versamento rateale”.
Il rinvio all’art. 8 vale a stabilire che:
a) il versamento delle somme dovute deve essere eseguito entro venti giorni dalla notifica dell’atto di definizione dell’accertamento parziale;
b) è ammesso il versamento in un massimo di otto rate
trimestrali di pari importo ovvero di dodici rate
trimestrali se le somme dovute sono superiori a
51.645,69 euro, senza la prestazione di alcuna garanzia.
Il comma 3, secondo periodo, dell’art. 5 bis precisa
inoltre che, nella ipotesi sub b), sull’importo delle rate
successive alla prima sono dovuti gli interessi al saggio
legale calcolati dal giorno successivo.
“In caso di mancato pagamento delle somme dovute…, il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate
provvede all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo delle
predette somme a norma dell’articolo 14 del D.P.R. 29
settembre 1973, n. 602” (art. 5 bis, comma 4), con
l’aggiunta delle sanzioni del 30% (l’Agenzia, nella circ.
n. 55/E, paragrafo 5, motiva l’applicazione dell’art. 13
del D.L. 18 dicembre 1997, n. 471 – che prevede appunto, in caso di “Ritardi od omessi versamenti diretti”, la
sanzione del 30% –, poiché la fattispecie in esame è in
tutto analoga a quella dell’omesso versamento delle
rate successive alla prima, a seguito dell’ordinario “accertamento con adesione”).
L’atto di adesione ai verbali, dunque, è idoneo a costituire titolo esecutivo per la riscossione delle somme
definite. Ora, il completo richiamo che il comma 4
dell’art. 5 bis fa al comma 3 implica che l’iscrizione a
ruolo a titolo definitivo delle somme avvenga a seguito
di un generico riferimento al mancato pagamento delle
stesse, sia che si tratti dell’importo complessivo, sia di
una singola rata.
L’assenza di un richiamo all’iscrizione a ruolo delle
rate successive alla prima, in caso di mancato pagamento (anche di una sola) di queste, come, invece, si verifica
nell’“accertamento con adesione”, ex art. 8, comma 3
bis del D.Lgs. n. 218/1997, fa conseguire che l’istituto si
perfezioni non all’atto del pagamento della prima rata
o del complessivo importo, bensì antecedentemente, in
concomitanza con la notifica dell’atto di definizione
dell’accertamento parziale, da parte dell’Ufficio, in capo
al contribuente. In tale direzione ha chiarito la stessa
circ. n.55/E, paragrafo 5, dove è stato puntualizzato che
la definizione dell’accertamento parziale conseguente
all’adesione ai processi verbali, si perfeziona indipendentemente dal successivo pagamento delle somme dovute,
poiché ciò avviene con la sola notifica dell’atto di definizione specificatamente previsto dal nuovo art. 5 bis.
Coerentemente, in tal senso, sono volti i chiarimenti
delle Entrate nella circ. n. 55/E, paragrafo 5, in cui, per
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di più, è precisato che una volta che il contribuente
esterna la propria volontà a richiedere l’adesione, è “da
escludere che … possa essere dal medesimo revocata
nelle more della notifica dell’atto di definizione (salvo il
caso di vizi che consentano di ritenerla non validamente espressa)…”.
Nell’“adesione ai verbali di constatazione” al contribuente non è data la possibilità di ripensarci: effettuata
la comunicazione all’Ufficio competente ad emettere
l’atto di accertamento ed all’organo che ha redatto il
verbale, rimane vincolato definitivamente da tale scelta
che, da sola, è sufficiente a perfezionare l’iter.
Ne deriva che, se egli a seguito del rilascio del processo verbale di constatazione ricorre alla procedura di
cui all’art. 12, comma 72 , della L. n. 212/2000, presentando osservazioni e richieste e, successivamente, comunque entro i trenta giorni decorrenti dal rilascio del
verbale, esterna la propria volontà, attraverso la comunicazione da effettuarsi con il previsto Modello, di
aderire all’iter ex art. 5 bis, stando al dettame normativo, questa seconda scelta lo vincola, determinando,
ipso facto, l’inevitabile estinzione dell’iter, per così dire,
“ordinario”, di cui all’art. 12, comma 7. È evidente che,
in tale contesto, al competente Ufficio delle Entrate è
inibita l’emissione dell’avviso di accertamento a seguito
della decisione del contribuente di aderire al nuovo
istituto.
La circ. n. 55/E, paragrafo 2, precisa che possono
costituire oggetto di adesione solo i processi verbali
(anche se redatti dagli stessi uffici legittimati ad emettere l’avviso di accertamento parziale) “che contengono
la constatazione di violazioni – sostanziali –” e che
consentono l’emissione di un accertamento di natura
parziale in materia di Iva e di imposte sui redditi.
Si legge ancora, chiarendo i dubbi che sul punto il
silenzio della norma aveva generato, che l’istituto può
essere applicato, altresì, alle medesime tipologie di violazioni afferenti l’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), le addizionali regionali o comunali, le
imposte sostitutive sui redditi. Inoltre, l’adesione sortisce
effetti anche per i contributi previdenziali determinati
in base al reddito dichiarato, i quali sono definiti senza
l’applicazione di sanzioni ed interessi, in linea con il
disposto dell’art. 2, comma 5, del D.Lgs. n. 218/1997.
L’estensione è ampiamente giustificata dalla ratio
della norma e dalla sua collocazione sistemica, dal momento che i presupposti impositivi sono i medesimi per
tutti i tributi indicati, aventi la medesima base imponi-
bile, dal che sarebbe priva di coerenza una diversa interpretazione che li escludesse dalla definizione con
adesione al verbale3.
Il documento di prassi, inoltre, precisa che l’adesione
coinvolge il “contenuto integrale” del processo verbale,
e ribadisce che l’adesione si riferisce ad imponibili ed
imposte oggetto di sole violazioni sostanziali, con distinto e necessario riguardo a tutti i periodi d’imposta
interessati per i quali, all’atto della consegna del processo verbale di constatazione, siano già scaduti i termini
per la presentazione delle dichiarazioni.
In estrema sintesi, ne deriva che, pur se contenute nel
processo verbale di constatazione, non rientrano nell’oggetto dell’adesione le seguenti ipotesi:
• violazioni, anche sostanziali, ma riguardanti comparti impositivi diversi da quelli citati supra (ad
esempio, imposte di registro, imposta catastale, eccetera);
• violazioni formali riferibili alle imposte definibili,
ossia quelle violazioni che non determinano recupero
di materia imponibile o applicazione di sanzioni alla
maggiore imposta accertata ;
• violazioni che necessitano di ulteriore attività valutativa da parte dell’Ufficio e, eventualmente, istruttoria.
Attraverso un dinamico rinvio all’art. 7, comma 1,
del D.L. n. 218/1997, il documento di prassi puntualizza, come già ricordato, che l’atto di definizione deve
indicare “gli elementi e la motivazione su cui la definizione si fonda nonché la liquidazione delle maggiori
imposte, delle sanzioni e delle altre somme eventualmente dovute, anche in forma rateale”.
La circolare de qua, inoltre, alla luce del principio di
collaborazione e buona fede, ma anche nel rispetto del
principio di trasparenza amministrativa, ai quali deve
necessariamente, oggi, informarsi il rapporto tra Fisco
e contribuente, prevede che i processi verbali di constatazione devono riportare la precisazione che le violazioni possono essere definite attraverso il nuovo istituto e
con l’utilizzo dell’apposito Modello di comunicazione.
Al contribuente è precluso ogni dialogo con l’Ufficio
e l’atto conclusivo dell’indagine costituisce il rigido parametro di riferimento su cui applicare le sanzioni, ridotte ad un ottavo del minimo (art. 5 bis, comma 3,
primo cpv., prima parte).
Nell’“accertamento con adesione”, ex art. 6 del
D.Lgs. n. 218/1997, invece, anche precedentemente
all’emissione dell’avviso di accertamento non è data
2 “7. Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e
contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di
chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”.
3Se da un unico comportamento illecito del contribuente deriva sottrazione di materia imponibile, l’ammissione alla procedura definitoria non può che riguardare ogni tributo sul quale impattano i recuperi di imponibile, altrimenti si configurerebbe una situazione
discriminatoria e «zoppa», oltretutto di oggettivo ostacolo all’incentivo voluto dal legislatore, di facilitare la definizione dei rapporti
Fisco‑contribuente in tempi rapidi.
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alcuna preclusione a che le parti si accordino sui valori
in contestazione: qui il processo verbale di constatazione è, per così dire, “trattabile” attraverso il contraddittorio, che costituisce presupposto essenziale dell’istituto,
prefiggendosi lo scopo di consentire al contribuente
l’esposizione e la documentazione dei fatti e delle circostanze non presi in esame dagli Uffici e ritenuti idonei a
contestare le pretese fiscali avanzate.
L’“accertamento con adesione” è in sintonia con lo
spirito dello Statuto del contribuente che predilige, anzi,
pretende momenti colloquiali tra Fisco e contribuente.
Qui, in caso di accordo, di solito si giunge ad una variazione in diminuzione della maggiore imposta o del
maggiore imponibile pretesi dal Fisco, con l’applicazione
della sanzione nella misura di un quarto del minimo.
Dall’esame comparato dei due istituti l’aspetto
dell’“adesione ai verbali di constatazione” che dovrebbe
ritenersi maggiormente conveniente per il contribuente,
parrebbe essere la riduzione delle sanzioni ad un ottavo
del minimo, invece che ad un quarto, come previsto
nell’“accertamento con adesione”.
È stato posto in rilievo, tuttavia, che i dati statistici
afferenti il significativo “abbattimento” medio dei verbali di constatazione da parte degli uffici fiscali, ai fini
della definizione in “accertamento con adesione” (“abbattimento” censurato in varie sedi dalla magistratura
contabile, sia in sede deliberante che giudicante), dimostrano che il nuovo istituto difficilmente, allo stato attuale dei fatti, potrà ritenersi particolarmente appetibile per i contribuenti che, con buona possibilità, continueranno ad orientarsi verso il primo, “preferendolo”.
D’altro canto, l’“adesione ai verbali di constatazione”, a regime, dovrebbe consentire all’Amministrazione
di “liberare” molte risorse da destinare ad altre attività
di controllo; tanto emerge dalla relazione illustrativa di
accompagnamento al D.L. n. 112/2008, secondo cui,
potenzialmente, potrebbero essere interessati alla nuova
procedura circa settantacinquemila soggetti, con la
conseguente diminuzione di venticinquemila avvisi di
accertamento e la possibilità, per l’Amministrazione
finanziaria, di poter impiegare risorse atte a realizzare
almeno ulteriori altri quindicimila accertamenti, in diversi ambiti, su base annuale. Dati che, se confermati
nella realtà (ferme tutte le riserve poste in evidenza),
evidenzierebbero una palese propensione del nuovo
istituto finalizzata ad incrementare l’efficienza dell’Amministrazione finanziaria.
Altro vantaggio che si annovera per il contribuente
che dovesse ricorre all’“adesione ai verbali di constatazione”, in caso di pagamento rateale della definizione,
è la mancata previsione della fideiussoria a garanzia del
differimento del pagamento.
Inoltre, nel caso in corso di indagini fiscali gli investigatori abbiano inoltrato all’Autorità giudiziaria competente un’informativa di reato come conseguenza di un
ritenuto riscontrato illecito penale‑tributario, di cui al
t r i b u ta r i o
106
D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, a seguito dell’“adesione
ai verbali di constatazione” al contribuente dovrebbero
potersi applicare i benefici ex art. 13 di detto decreto.
Secondo l’art. 13, recante “Circostanza attenuante.
Pagamento del debito tributario”, le pene stabilite per i
delitti previsti dal D.Lgs. n. 74/2000, “sono diminuite
fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’art. 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari
relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati
estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie” (comma 1), con la
precisazione, al comma 2, che “A tale fine, il pagamento deve riguardare anche le sanzioni amministrative
previste per la violazione di norme tributarie …”.
Nonostante la questione non sia stata trattata dal
dato normativo di riferimento, né dalla circ. n. 55/E, si
è del parere che la nuova procedura, ex art. 5 bis, possa
rientrare nella previsione della norma penale‑tributaria
(alla stessa stregua dell’“accertamento con adesione”),
quindi, nel novero delle “speciali procedure conciliative
o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”, consentendo al contribuente di usufruire in
sede penale, in caso di rinvio a giudizio, dell’importante
beneficio.
Infatti, la genericità con cui il legislatore ha strutturato l’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000, riferito alle “speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento
previste dalle norme tributarie”, porta a ritenere che
l’“adesione ai verbali di constatazione” possa rientrare,
a pieno titolo, nell’ambito dell’operatività della “circostanza attenuante” ivi disciplinata, che dovrebbe ricomprendere “qualsiasi strumento che permette la definizione di una pretesa, fosse anche in fieri, tanto vigente
all’epoca di entrata in vigore del decreto quanto di futura, possibile introduzione”.
Un altro aspetto che potrebbe essere rilevante per il
contribuente che si trovi nella necessità di valutare se
scegliere o meno di aderire al nuovo istituto, riguarda
la preclusione per l’Ufficio delle Entrate, in caso di ricezione del processo verbale di constatazione, unitamente all’istanza del contribuente con cui questi formalizza la propria volontà di definire l’atto conclusivo di
indagine, di ogni valutazione sulla bontà dei rilievi indicati nello stesso atto e, quindi, la scongiura di ulteriori attività istruttorie.
L’assenza di ogni critica e l’asettico recepimento del
processo verbale di constatazione, infatti, preclude
all’Ufficio fiscale di appesantire le conclusioni alle quali pervengono gli investigatori a sfavore del contribuente: la posizione fiscale di quest’ultimo, in relazione
all’oggetto dell’atto definito e, naturalmente, in caso di
perfezionamento del procedimento, determina la sicura
chiusura della sua posizione fiscale.
Non che questo rappresenti un divieto per gli inve-
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stigatori per un’altra attività di controllo nei confronti
del medesimo soggetto (medesima osservazione vale in
relazione all’“accertamento con adesione”).
È noto, infatti, che l’oggetto dell’art. 5 bis comprende “i verbali di constatazione” in materia di imposte sui
redditi e di imposta sul valore aggiunto che consentono
l’emissione degli “accertamenti parziali” previsti
dall’art. 41 bis del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 54,
comma 4, del D.P.R. n. 633/1972.
Trattandosi, dunque, di “accertamenti parziali”, la
loro definizione non impedisce l’esercizio di ulteriore
attività accertativa che non risulta nemmeno vincolata
dalle condizioni previste dall’art. 43 del D.P.R. n. 600/1973
e dall’art. 57, comma 4, del D.P.R. n. 633/1972.
Nonostante la potenziale verificabilità della previsione di un nuovo controllo, anche poco dopo la definizione in adesione in ambito amministrativo (in specie in
relazione al processo verbale di constatazione, ma anche
all’avviso di accertamento), di fatto, nella realtà, questo
dovrebbe verificarsi raramente: lo impongono vincoli di
obiettiva scelta dei soggetti da sottoporre a controllo,
per cui i verificatori sono indirizzati, tendenzialmente,
a controllare i contribuenti che da più tempo non “subiscono” l’attenzione del Fisco: esigenza che rientra
nella previsione costituzionale, ex art. 97, dell’imparziale organizzazione dei pubblici uffici (imparzialità che,
in questo, si concretizza anche attraverso una corretta
turnazione temporale delle attività ispettive fiscali, in
relazione, naturalmente, anche ad altre priorità tese
alla tutela del credito erariale).
C’è chi si è chiesto se l’introduzione dell’istituto
dell’“adesione ai verbali di constatazione” nell’ordinamento tributario non trovi anche altre motivazioni, al
di là di quelle che emergono dal D.L. 25 giugno 2008,
n. 112, art. 83, comma 18 (individuate, nella semplificazione dei rapporti tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, nel reciproco affidamento e nella compressione dei tempi di definizione).
L’osservazione fa riflettere anche, tra l’altro, alla
luce delle considerazioni che si pongono in relazione
all’introduzione di un istituto che forse avrebbe richiesto
tempi maggiori per una sua più coerente e matura collocazione nell’ordinamento tributario.
Non è stato escluso, infatti, che la nuova procedura
sia stata (anche) dettata dall’esigenza di far fronte alle
recenti polemiche inerenti la distribuzione dei c.d. premi
di incentivazione, da destinare ai dipendenti dell’Amministrazione finanziaria e che non hanno interessato,
altresì, gli appartenenti alla Guardia di finanza, nonostante, come noto, il ruolo fondamentale che il Corpo
di polizia ha nell’avversare l’evasione fiscale.
In quest’ottica il nuovo istituto premiale dovrebbe
consentire, attraverso una procedura volta ad anticipare all’atto endoprocedimentale il momento in cui giuridicamente il Fisco incide sulla sfera giuridica del contribuente, di quantificare con certezza e direttamente i
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risultati ottenuti dalla Guardia di finanza in relazione
agli effettivi recuperi di imposta.
Potenzialmente, in questo modo, dovrebbe esser
dato di individuare un sorta di confine tra l’operato
dell’Agenzia delle Entrate e quello della Guardia di finanza in relazione all’efficacia delle relative attività.
In tale direzione, è stato osservato che se questo è lo
spirito della nuova norma, volta a monitorare le somme
riscosse, non è da escludere che nel tratto a venire potrebbe cambiare, da parte della Guardia di finanza,
l’approccio ispettivo e, dunque, l’attività diretta a constatare le violazioni.
Il diretto legame tra l’attività svolta e gli esiti ottenuti, è stato aggiunto, potrebbe indurre gli appartenenti al
Corpo di polizia a vagliare con spirito diverso il proprio
operato: la possibilità che il contribuente aderisca al
nuovo istituto premiale, infatti, è tanto maggiore quanto più sono ritenute inconfutabili le violazioni constatate e, dunque, difficilmente attaccabili dalla difesa del
contribuente nelle fasi successive del procedimento
amministrativo‑tributario o, “quanto meno, fondate a
tal punto da non poter prevedere, nonostante la discrezionalità dell’Ufficio nell’ambito del procedimento con
adesione, l’abbattimento della pretesa impositiva in una
misura superiore rispetto allo sconto sulle sanzioni che
invece si ottiene mediante l’adesione in toto al p.v.c.”.
Ciò che realmente verrà valutato, e premiato, sarà la
rapida definizione del contesto in relazione all’efficiente
impiego di risorse volto a realizzare l’obiettivo prefisso.
Quali sono le prevedibili sorti di questo nuovo istituto?
Il legislatore ha premesso che, attraverso la sua applicazione, il rapporto tra l’Amministrazione finanziaria
e il contribuente, addivenendo ad immediata definizione, gioverà al decongestionamento del contenzioso tributario, senza trascurare, anche se sul punto il testo
tace, i vantaggi realizzabili attraverso l’integrale e sollecito pagamento dell’imposta e, seppure in misura notevolmente ridotta, delle stesse sanzioni.
Posto che queste sono le finalità dell’intervento legislativo, in via di previsione si può ritenere che quei
contribuenti che sono consapevoli della non fruttuosità
dell’impugnazione dell’avviso di accertamento, possono
ritenersi stimolati a definire con questa nuova formula
la loro pendenza con l’Amministrazione finanziaria.
Anche perché l’esperimento della adesione attraverso
la formula tradizionale non dovrebbe sortire esiti migliorativi e non comporterebbe alcun vantaggio sensibile sul piano temporale.
Diverso sarà invece l’atteggiamento di chi confida
nel buon esito dell’impugnazione dell’avviso, nel qual
caso l’alternativa della definizione con l’attuale procedimento non consente di fare previsioni attendibili,
dipendendo dalle valutazioni che ciascuno farà nel caso
concreto, senza che si possano intuire orientamenti al
riguardo.
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2. Adesione sull’invito a comparire
L’art. 27 del Decreto legge cd. anti‑crisi n. 185 del 28
novembre 2008, convertito con L. 28 gennaio 2008, n.2,
ha modificato l’art. 5 del D.Lgs. n. 218/97, prevedendo
sostanzialmente un sistema simile a quello introdotto
con l’art. 5 bis, dall’art. 83, comma 18, D.L. 25 giugno
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6
agosto 2008, n. 133.
Verifichiamo le novità introdotte.
Il legislatore, dopo aver previsto la possibilità di
definire il pvc, con la riduzione delle sanzioni ad 1/8,
attraverso un particolare meccanismo teso a velocizzare la monetizzazione della pretesa, in cambio di una
adesione totale, sulla stessa falsariga ha introdotto, attraverso l’art. 27 del D.L. n. 185 del 28 novembre 2008,
l’adesione sull’invito a comparire di cui all’art. 5 del D.
Lgs. n. 218/97.
Aldilà del reistyling operato per aggiornare il testo
al nuovo contesto accertativo (superamento dei coefficienti presuntivi) e alla nuova struttura dell’Amministrazione finanziaria (gli uffici locali sono ormai presenti su
tutto il territorio da tanti anni, e anzi oggi sono superati dalle Direzioni provinciali), operato attraverso l’eliminazione dei commi 24 e 3 dell’art. 5 del D.Lgs.
n. 218/97, sono state inserite due lettere al comma 1 di
tale articolo.
Ne consegue che l’invito dell’ufficio deve ora specificare i seguenti elementi:
a) i periodi d’imposta suscettibili di accertamento;
b) il giorno e il luogo della comparizione;
c) le maggiori imposte, ritenute e obblighi, contributi e
sanzioni e interessi dovuti in caso di definizione
agevolata di cui al comma 1 bis;
d) i motivi che hanno dato luogo alla determinazione
delle maggiori imposte, ritenute e contributi di cui
alla lettera c).
Al riguardo, si evidenzia che, mentre i primi due
elementi sono stati previsti già con la formulazione originaria della norma giuridica, il terzo e il quarto sono
stati introdotti dall’indicato art. 27 e si applicano –come
previsto dal comma 3 di tale disposizione– “con riferimento agli inviti emessi dagli uffici dell’Agenzia delle
Entrate a decorrere dal 1° gennaio 2009”.
In esito a quest’ultima decorrenza non saranno sollevati i soliti interrogativi in ordine all’efficacia retroattiva della norma tributaria in quanto la stessa è dettata,
in modo inequivoco, nell’interesse del contribuente. Ne
4 Ai fini dell’accertamento per adesione, per conseguire evidenti economie procedimentali, l’art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 218/1997
aveva disposto che “la richiesta di chiarimenti inviata al contribuente ai sensi dell’articolo 12, comma 1, del decreto‑legge 2 marzo 1989,
n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 aprile 1989,
n. 154, riguardante la determinazione induttiva di ricavi, compensi
e volumi d’affari sulla base di coefficienti presuntivi, costituisce anche
invito al contribuente per l’eventuale definizione dell’accertamento
con adesione”.
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deriva che, ai fini della decorrenza, non rileva il periodo
d’imposta interessato bensì la data di notifica dell’invito
a comparire per cui continua a trovare applicazione la
previgente disciplina per i procedimenti già avviati dagli
uffici alla data del 31 dicembre 2008. Si aggiunga che
con la nuova procedura, lo schema giuridico utilizzato
è stato completamente riscritto per cui è da escludere
che l’invito possa continuare a rivestire carattere meramente informativo della possibilità di aderire.
Come sottolinea la Circolare 4/E del 16 febbraio
2009 l’introduzione del nuovo istituto richiede una
specifica attenzione da parte degli Uffici nel momento
in cui decidono di avviare il procedimento di accertamento con le modalità previste dall’art. 5 del decreto
legislativo n. 218 del 1997. “Posto, infatti, che l’invito a
comparire mantiene, comunque, finalità propedeutiche
alla instaurazione del contraddittorio, il procedimento
finalizzato all’adesione (compresa quella, preventiva,
all’invito) trova la sua più idonea applicazione in tutti i
casi in cui l’accertamento si basi essenzialmente su prove di natura presuntiva (iuris tantum) o su altri elementi comunque suscettibili di apprezzamento valutativo da
parte dell’Ufficio5”.
È stato poi inserito il comma 1 bis, attraverso il
quale il contribuente può prestare adesione ai contenuti
dell’invito a comparire di cui all’art. 5 del D.Lgs.
n. 218/97 mediante comunicazione al competente ufficio
da effettuare secondo le modalità previste dal provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate emanato in data 10 settembre 2008 e versamento delle somme
dovute entro il quindicesimo giorno antecedente la data
fissata per la comparizione.
Il modello di comunicazione per l’adesione è cioè lo
stesso dell’adesione al PVC. Tale modello però non
contiene alcuna indicazione del nuovo strumento ex
D.L. 185/08 sollevando così dubbi compilativi. Si aggiunga che con la R.M. 482/E/08 l’Agenzia delle Entrate ha istituito i codici tributo per il versamento delle
somme indicate nell’invito al contraddittorio, senza
nulla specificare in merito alle modalità di compilazione del modello. A tal proposito la Circolare 4/E del 16
febbraio 2009 afferma solo che il modello citato deve
essere “opportunamente adattato alle esigenze del nuovo istituto”.
5Situazioni del genere ricorrono, tipicamente, a titolo esemplificativo,
nelle seguenti ipotesi:
• accertamenti d’Ufficio, per i casi di omessa presentazione della dichiarazione, basati su presunzioni anche prive dei requisiti della gravità,
precisione e concordanza;
• rettifiche di cui all’art. 38, terzo comma, ed all’art. 39, primo comma,
lettera d) del D.P.R. n. 600 del 1973, nonché di cui all’art. 54, secondo
comma del D.P.R. n. 633 del 1972, basate su presunzioni semplici;
• accertamenti induttivi di cui all’art. 39, secondo comma, del D.P.R.
n. 600 del 1973 e all’art. 55 del D.P.R. n. 633 del 1972;
• accertamenti con metodo sintetico di cui all’art. 38, quarto comma del
D.P.R. n. 600 del 1973.
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A differenza di quanto previsto per l’adesione al
verbale di constatazione, nel caso in esame, quindi,
l’adempimento degli obblighi di versamento – sia pure
limitati alla prima rata in caso di rateizzazione del debito – si pone come presupposto essenziale per la validità del procedimento.
In caso di pagamento rateale, la comunicazione di
adesione deve contenere l’indicazione del numero delle
rate prescelte. Alla comunicazione, in ogni caso, deve
essere unita la quietanza dell’avvenuto pagamento della
prima o unica rata.
In presenza dell’adesione la misura delle sanzioni
applicabili indicata nell’art. 2, comma 5, è ridotta alla
metà (1/8).
Il legislatore subordina il beneficio sanzionatorio
all’accettazione integrale delle risultanze dell’attività
istruttoria interna, contenuta nell’invito a comparire. Il
procedimento ideato dal legislatore per incentivare la
definizione delle liti potenziali prima dell’emissione
dell’atto di accertamento precisa che la stessa deve intervenire «…entro il quindicesimo giorno antecedente
la data fissata per la comparizione».
La rilevata circostanza che il perfezionamento della
definizione determina in capo al contribuente l’obbligo
di versare quanto dovuto in base all’atto di definizione
porta a ritenere che il mancato versamento degli importi dovuti vada sanzionato ai sensi dell’art. 13 del D.Lgs.
n. 471/97, in quanto si tratta di fattispecie in tutto analoga a quella dell’omesso versamento delle rate successive alla prima, a seguito dell’ordinario accertamento
con adesione, per la quale già la circolare n. 65/E del 28
giugno 2001 (par. 4.4) ha a suo tempo ravvisato la ricorrenza della violazione di cui al citato art. 13 (omesso
versamento, anche parziale, entro il termine previsto).
È di tutta evidenza che il bonus sanzionatorio – seppure particolarmente consistente – non escluderà il ricorso all’adesione “tradizionale” (art. 5, 6, 1° e 2°
comma, del D. Lgs. 218/1997), per tutte quelle fattispecie che sono, come precisa la circ. n. 235/1997, “… interessate dall’applicazione di metodologie induttive di
accertamento (… che…) possono trovare il loro sbocco
fisiologico nel procedimento di adesione in contraddittorio con il contribuente, in ragione di una più fondata
e ragionevole misurazione del presupposto impositivo
che tenga conto degli elementi di valutazione offerti dal
contribuente”.
Pertanto, l’adesione agli inviti a comparire riguarderà piuttosto i rilievi in cui l’esistenza dell’obbligazione
tributaria è determinabile sulla base di elementi certi, in
quanto analiticamente determinati e provati, non suscettibili di ridimensionamento in occasione del contraddittorio.
Una regola rigida – ovviamente non modificabile in
sede interpretativa – impone che l’adesione può avere ad
oggetto esclusivamente il contenuto integrale e sostanziale dell’invito a comparire. In tali casi, il contribuente
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dovrà comparare la (sicura) perdita del beneficio della
riduzione delle sanzioni ad un ottavo con la (eventuale)
riduzione dell’imposta accertata, a seguito del contraddittorio con l’ufficio, con conseguente riduzione delle
sanzioni irrogabili nella misura di un quarto del minimo, come previsto dall’art. 2, co. 5, del D.Lgs.
218/1997.
Il comma 1 ter, del nuovo istituto sancisce poi la
possibilità di versare le somme dovute risultanti dall’atto di definizione nei termini e «… con le modalità di cui
all’articolo 8, senza prestazione delle garanzie ivi previste…».
Come già detto, tale norma prevede la possibilità di
rateizzare gli importi dovuti in forza dell’adesione, previo rilascio di idonea garanzia, nel numero massimo di
otto rate trimestrali di pari importo fra loro, ovvero di
dodici rate in caso di pagamenti di somme superiori a €
51.646,00, importo che tiene conto dell’intera somma
dovuta, comprensiva di imposte, interessi e sanzioni. In
caso di opzione per il pagamento rateale, il contribuente deve versare, entro venti giorni dalla data di redazione dell’atto di adesione, solo l’importo della prima rata
e presentare all’ufficio la polizza cauzionale: l’importo
delle rate successive, maggiorato degli interessi legali
calcolati dal giorno successivo a quello di perfezionamento dell’atto di adesione e fino alla scadenza di ciascuna rata, sarà versato con cadenza trimestrale. La
predetta disposizione è inscindibilmente connessa al
successivo art. 9, nel quale si precisa che «La definizione si perfeziona con il versamento di cui all’articolo 8,
comma 1, ovvero con il versamento della prima rata e
con la prestazione della garanzia, previsti dall’articolo
8, comma 2». Pertanto, l’efficacia dell’atto di adesione
“tradizionale” è subordinata all’esatto, integrale e tempestivo pagamento dell’obbligazione tributaria nascente
dall’accordo sottoscritto, o, in caso di pagamento rateale, con il versamento della prima rata e la presentazione della garanzia.
L’adesione – senza contraddittorio –, invece, omettendo il richiamo all’art. 9 del D.Lgs. n. 218/1997,
svincola l’efficacia dell’atto dal relativo pagamento,
subordinando la spettanza dei benefici esclusivamente
all’invio tempestivo della comunicazione e mantenendo
la spettanza dell’agevolazione sanzionatoria anche in
caso di omesso pagamento delle somme dovute. In altri
termini, considerata l’articolazione del procedimento
previsto, è da escludere che l’adesione prestata dal contribuente possa essere dal medesimo revocata (salvo
vizi tali da ritenerla non validamente espressa).
Il comma 1 quater aggiunge che in caso di mancato
pagamento delle somme dovute il competente ufficio
dell’Agenzia delle entrate provvede all’iscrizione a ruolo
a titolo definitivo delle predette somme a norma
dell’art. 14 del D.P.R. n. 602/73.
Tale norma non trova applicazione nei confronti
degli inviti preceduti da processi verbali di constatazio-
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ne definibili ai sensi del successivo art. 5 bis e ha vigore
con riferimento agli inviti emessi dagli uffici a decorrere dal 1° gennaio 2009.
Con le menzionate modifiche il legislatore sembra
muoversi nella logica del coordinamento e dell’unificazione delle procedure nell’evidente quanto apprezzabile
intento di agevolare la chiusura del rapporto del Fisco
con il contribuente prima ancora di arrivare alla fase
contenziosa.
Restano, tuttavia, alcuni punti da chiarire.
Innanzitutto, non sono state esplicitamente previste
le conseguenze a carico del contribuente qualora ometta di presentarsi nel luogo e nell’ora indicati nell’atto
dell’Ufficio né il valore giuridico dell’invito a comparire6. Trattasi, comunque, di un atto che, al di là della sua
denominazione, presenta, sotto l’aspetto sostanziale,
tutte le caratteristiche e i requisiti richiesti per l’avviso
di accertamento.
Di qui l’interrogativo in ordine alla sua eventuale
diretta impugnazione dinanzi al giudice tributario. La
risposta, tuttavia, deve essere negativa –pur essendo
innegabile che trattasi di atto con il quale l’Amministrazione finanziaria avanza, nella sostanza, una pretesa
creditoria – in considerazione della natura del provvedimento che, in quanto “invito” a pagare una determinata somma fruendo delle agevolazioni, non può essere
considerato sostitutivo dell’atto impositivo ordinario.
Ed è proprio tale considerazione che induce fondatamente a ritenere che il contribuente, laddove ritenga
di non aderire all’invito, potrebbe pur sempre recarsi
–nel luogo e nella data stabiliti– presso l’Ufficio per
avviare un contraddittorio di carattere formale.
In tal caso, però, oltre agli interessi, trovano applicazione i principi di carattere generale di cui all’art. 2,
comma 5, del D.Lgs n. 218/1997 per cui le sanzioni
saranno irrogate nella misura di un quarto del minimo.
Non è difficile prevedere, poi, che ove l’interessato si
orienti a non presentarsi, nella fase successiva possano
configurarsi ulteriori spazi per tentare di addivenire ad
una riduzione della pretesa erariale.
D’altra parte, laddove il contribuente disponga realmente di elementi idonei a provare l’infondatezza della
maggiore pretesa del Fisco, a meno che non sussistano
particolari motivazioni, è quantomeno opportuna l’adesione all’invito a presentarsi.
Sarà quella la sede per far valere le sue ragioni e, ove
necessario, chiedere anche una dilazione del contraddittorio qualora, per un compiuto esercizio dei diritti difensivi, necessiti di una proroga per acquisire, ad esem-
6La Circolare 4/E del 16 febbraio 2009 ribadisce però che l’invito a
comparire inviato dall’Ufficio, assume una valenza esclusivamente
informativa e non vincolante; pertanto, il contribuente può non
aderire all’invito a comparire e recarsi, nel luogo e nella data stabiliti, presso l’Ufficio per avviare un contraddittorio.
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pio, documentazione bancaria, documentazione non
immediatamente reperita e/o reperibile, eccetera.
2.1. Acquiescenza
In forza della disposizione dell’art. 15 del D.Lgs.
218/1997 il contribuente può ottenere una riduzione ad
un quarto delle sanzioni irrogate nell’avviso di accertamento a condizione che:
• rinunzi ad impugnare l’atto emesso dall’ufficio;
• rinunzi a presentare istanza di adesione di cui agli
artt. 6, comma 2, e 12, comma 1, del D.Lgs.
n. 218/1997;
• provveda al pagamento delle somme dovute, anche
in forma rateale, con la riduzione delle sanzioni entro
il termine della proposizione del ricorso.
Quindi, in seguito all’entrata in vigore della disposizione in oggetto, in calce agli avvisi di accertamento
compare la seguente dicitura “Ai sensi dell’art. 15 del
D.Lgs. n. 218/1997, le sanzioni irrogate sono ridotte ad
un quarto qualora il presente atto non venga impugnato, non sia presentata istanza di accertamento con
adesione e si provveda al pagamento, entro il termine
per la proposizione del ricorso, delle somme complessivamente dovute, tenendo conto della predetta riduzione.
Le somme dovute possono essere versate anche ratealmente secondo le disposizioni dell’art. 8, comma 2, del
citato decreto legislativo”.
Qualora nell’avviso di accertamento vengano irrogate sanzioni per le quali non compete la riduzione ad un
quarto in caso di mancata impugnazione, tale circostanza dovrà essere opportunamente evidenziata nell’atto.
Con l’art. 27, comma 4 bis del Decreto 185/2008
viene introdotto un nuovo comma all’articolo 15 del
D.Lgs. 218/1997.
Il comma 2 bis sancisce che fermo restando quanto
previsto dal comma 1, le sanzioni ivi indicate sono ridotte alla metà (si passa cioè da 1/4 a 1/8) se l’avviso di
accertamento e di liquidazione non è stato preceduto
dall’invito di cui all’articolo 5 o di cui all’articolo 11,
cioè non è preceduto dall’invito al contraddittorio.
La disposizione non si applica nei casi in cui il contribuente non abbia prestato adesione ai sensi dell’articolo 5 bis, se non ha prestato adesione al PVC.
3. Conseguenze sull’istituto del ravvedimento operoso
Con il D.L. 29 novembre 2008, n. 185 sono state
modificate le riduzioni «premiali» del ravvedimento
operoso.
La nuova misura si deve probabilmente al fatto che
sia lo stesso D.L. n. 185/2008 che il D.L. n. 112/2008
hanno provveduto ad inserire, rispettivamente, due
nuovi istituti «premiali»: la possibilità di adesione agli
inviti al contraddittorio da accertamento con adesione
(nuovo art. 5, comma 1 bis, del D.Lgs. 19 giugno 1997,
n. 218) e l’adesione ai processi verbali di constatazione
(nuovo art. 5 bis del D.Lgs. n. 218/1997). Entrambe le
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nuove forme di adesione prevedono la riduzione delle
sanzioni ad un ottavo del minimo, riduzioni che sarebbero risultate notevolmente inferiori a quelle previgenti
stabilite per il ravvedimento operoso.
L’istituto del ravvedimento operoso ha trovato una
organica collocazione con la riforma del sistema sanzionatorio non penale, ad opera del D.Lgs. 18 dicembre
1997, n. 472, e risulta disciplinato dall’art. 13 dello
stesso decreto legislativo.
La ratio dell’istituto risulta quella di consentire
all’autore di omissioni o di irregolarità di rimediare
spontaneamente alle violazioni commesse, usufruendo
di significative riduzioni delle sanzioni amministrative
applicabili, purché la regolarizzazione intervenga entro
precisi limiti temporali. Questo all’ulteriore condizione
che la violazione non sia stata constatata e non siano
iniziati accessi, ispezioni e verifiche ovvero altre attività
amministrative di accertamento.
Dalla data della loro entrata in vigore, le disposizioni dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 hanno già subito
numerosi ritocchi, di cui il più significativo è sicuramente quello derivante dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32,
conseguente alla delega contenuta nell’art. 16 della L.
27 luglio 2000, n. 212, cd. Statuto del contribuente.
A seguito di tale intervento normativo, è stata introdotta una nuova causa di non punibilità nell’art. 6 del
D.Lgs. n. 472/1997, mediante l’aggiunta di un nuovo
comma 5 bis, il quale dispone: «non sono inoltre punibili le violazioni che non arrecano pregiudizio all’esercizio delle azioni di controllo e non incidono sulla determinazione della base imponibile, dell’imposta e sul
versamento del tributo». Contestualmente, è stata disposta l’abrogazione del comma 4 dell’art. 13, il quale
stabiliva che, «nei casi di omissione o di errore che non
ostacolano un’attività di accertamento in corso e che
non incidono sulla determinazione o sul pagamento del
tributo, il ravvedimento esclude l’applicazione della
sanzione, se la regolarizzazione avviene entro tre mesi
dall’omissione o dall’errore».
Attualmente la possibilità di regolarizzazione delle
violazioni formali risulta disciplinata, di fatto, dalla lett.
b) dello stesso art. 13, di cui si dirà infra.
L’intervento effettuato dall’art.16, comma 5, del D.L.
n. 185/2008 riguarda l’entità delle riduzioni delle penalità stabilite dalle lettere a), b) e c) dell’art. 13 del D.Lgs.
n. 472/1997.
La norma ora dispone che le sanzioni edittali vengono ridotte, rispettivamente:
a) a un dodicesimo del minimo nei casi di mancato
pagamento del tributo o di un acconto, se esso viene
eseguito nel termine di trenta giorni dalla data della
sua commissione;
b) a un decimo del minimo, se la regolarizzazione degli
errori e delle omissioni, anche se incidenti sulla determinazione o sul pagamento del tributo, avviene
entro il termine per la presentazione della dichiara-
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zione relativa all’anno nel corso del quale è stata
commessa la violazione ovvero, quando non è prevista dichiarazione periodica, entro un anno dall’omissione o dall’errore;
c) a un dodicesimo del minimo di quella prevista per
l’omissione della presentazione della dichiarazione,
se questa viene presentata con ritardo non superiore
a novanta giorni ovvero a un dodicesimo del minimo
di quella prevista per l’omessa presentazione della
dichiarazione periodica prescritta in materia di imposta sul valore aggiunto, se questa viene presentata
con ritardo non superiore a trenta giorni».
La regolarizzazione degli omessi o insufficienti versamenti di un tributo o di un acconto
In relazione alla previsione di cui alla lett. a), la
stessa risulta riferita alla possibilità di effettuare la regolarizzazione dell’omesso o carente versamento di un
tributo entro trenta giorni dal termine di scadenza dello
stesso. In questo caso la sanzione «ordinaria» del 30%,
prevista dall’art. 13 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471,
si riduce a un dodicesimo, cioè risulta pari al 2,5%
dell’imposta non versata7.
Le violazioni di carattere sostanziale
La previsione di cui alla lett. b) contempla ulteriormente sia la possibilità di provvedere alla regolarizzazione di violazioni di carattere sostanziale che formale.
In relazione alle prime e con specifico riferimento
alle violazioni in materia di imposte sui redditi, va rilevato che la regolarizzazione può essere distinta a seconda che la stessa riguardi errori ed omissioni rilevabili in
sede di liquidazione delle imposte ai sensi degli artt. 36
bis e 36 ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 o
meno.
Nel primo caso – errori materiali o di calcolo nella
determinazione degli imponibili e delle imposte ovvero
indicazione in misura superiore a quella spettante di
detrazioni d’imposta, di oneri deducibili o detraibili, di
ritenute d’acconto, ecc. – il ravvedimento comporta il
pagamento della sanzione ridotta del 3% (un decimo
della sanzione edittale del 30%).
Nella seconda ipotesi rientrano, invece, tutte quelle
situazioni che non sono rilevabili in sede di liquidazione
delle imposte ai sensi dei citati artt. 36 bis e 36 ter del
D.P.R. n. 600/1973. Si tratta, a titolo esemplificativo,
di regolarizzazioni concernenti l’omessa o errata indicazione di redditi ovvero di indebite deduzioni dell’imponibile. In pratica, di errori od omissioni che determi-
7Si precisa che, ai fini del computo dei trenta giorni entro cui è possibile procedere alla regolarizzazione, il dies a quo deve essere considerato in ogni caso quello di scadenza del termine previsto per il
pagamento. Pertanto, se l’imposta è stata versata in misura insufficiente in data antecedente a quella di scadenza, i trenta giorni per la
regolarizzazione non decorrono dal giorno dell’inesatto inadempimento, ma da quello di scadenza del termine originario.
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d i r i t t o
nano la violazione di infedele dichiarazione, per la
quale l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471/1997 prevede
la sanzione dal 100 al 200% della maggiore imposta o
della differenza del credito. La regolarizzazione in questione comporta quindi il pagamento di una sanzione
ridotta al 10% (un decimo del 100%), oltre al pagamento della maggiore imposta o del minor credito e degli
interessi legali.
Le violazioni formali
La lett. b) dell’art. 13 disciplina anche la possibilità
di regolarizzare le violazioni di carattere formale con le
sanzioni ridotte ad un decimo del minimo. Questo in
ragione della previsione della norma, la quale sancisce
la riduzione delle sanzioni a un decimo del minimo in
relazione alla regolarizzazione degli errori o delle omissioni «anche se incidenti sulla determinazione e sul pagamento del tributo8».
L’omessa dichiarazione
In relazione alla violazione dell’omessa presentazione della dichiarazione, occorre rilevare che ora la sanzione edittale risulta ridotta «a un dodicesimo del minimo … se questa viene presentata con ritardo non superiore a novanta giorni9».
4. Limiti al potere di accertamento presuntivo in caso
di adesione
L’art. 27, comma 4, del D.L. 29 novembre 2008,
n. 185, ha aggiunto, dopo l’art. 10 bis della L. 8 maggio
1998, n. 146, l’art. 10 ter, ove viene previsto che per gli
inviti a comparire da studi di settore, relativi ai periodi
d’imposta in corso al 31 dicembre 2006 e successivi,
qualora il contribuente presti adesione integrale ex art. 5,
comma 1 bis, del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, gli ulteriori accertamenti basati su presunzioni semplici10 non
possono essere effettuati qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 euro, sia
pari o inferiore al 40% dei ricavi o compensi definiti.
8In proposito, va evidenziato che l’abrogazione del comma 4
dell’art. 13 del D.Lgs. n. 472/1997 e la contestuale introduzione
della nozione di «violazione meramente formale», individuata come
causa di non punibilità dal nuovo comma 5 bis dell’art. 6 dello
stesso decreto, ha creato una situazione di notevole incertezza interpretativa, in particolare sulla stessa nozione di violazioni «meramente formali». Queste ultime, vale a dire quelle che non incidono sulla
determinazione o sul versamento del tributo e nello stesso tempo non
arrecano pregiudizio all’attività di controllo, non sono punibili e non
richiedono in via di principio, quindi, alcuna regolarizzazione. Ovviamente, possono formare oggetto di correzione spontanea, senza
alcun limite temporale, e senza applicazione di alcuna sanzione.
9Tale previsione, circa i tempi della regolarizzazione, risulta in linea
con quanto disposto dall’art. 2, comma 7, del D.P.R. 22 luglio 1998,
n. 322, il quale considera valida la dichiarazione presentata entro
novanta giorni dal termine di scadenza.
10 Art. 39, comma 1, lettera d), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed art. 54, comma 2, ultimo periodo, del D.P.R.
26 ottobre 1972, n. 633.
t r i b u ta r i o
112
Il legislatore, quindi, lega il beneficio alla preventiva
adesione integrale all’invito a comparire appena introdotto sempre dall’art. 27 del D.L. n. 185/2008.
Lo strumento non si applica agli inviti preceduti da
processi verbali di constatazione definibili ai sensi del
successivo art. 5 bis11, per i quali non sia stata prestata
adesione e con riferimento alle maggiori imposte ed
altre somme relative alle violazioni indicate nei processi verbali stessi che consentono l’emissione di accertamenti parziali. La preclusione accertativa introdotta non
trova applicazione per i contribuenti nei cui confronti
sussistono le condizioni per l’irrogazione di sanzioni per
omessa o infedele comunicazione dei dati rilevanti per
gli studi di settore, previste dall’art. 1, comma 2 bis, e
dall’art. 5, comma 4 bis, del D.Lgs. 18 dicembre 1997,
n. 471, nonché dall’art. 32, comma 2 bis, del D.Lgs. 15
dicembre 1997, n. 446.
In pratica, la preclusione è sottoposta alla condizione che le informazioni indicate dal contribuente nei
modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai fini
dell’applicazione degli studi di settore non siano viziate
da irregolarità tali da rendere applicabili le ulteriori
sanzioni introdotte con la L. n. 296/2006, ai commi da
25 a 27 dell’art. 1 (aumento del 10% della sanzione
pecuniaria applicabile in sede di accertamento, ai fini
delle imposte sui redditi, dell’Iva e dell’Irap, per le violazioni di: omessa o infedele indicazione dei dati previsti nei modelli per la comunicazione dei dati rilevanti ai
fini dell’applicazione degli studi di settore; indicazione
di cause di esclusione o inapplicabilità degli studi di
settore non sussistenti).
Allora le Entrate –circ. n. 31/E del 2007– affermarono che “per superare la preclusione in sede di accertamento, non è necessario che sia intervenuta l’effettiva
irrogazione della sanzione, ma piuttosto che risultino
verificati i presupposti oggettivi posti a base della norma
sanzionatoria”.
La disposizione sembra orientata al raggiungimento
del seguente obiettivo: ridurre l’atteggiamento di ostilità
dei contribuenti nei confronti degli studi di settore, evitando che l’applicazione di tali strumenti sfoci nel contenzioso e determini, conseguentemente, l’insorgere del
rischio – concreto, a nostro avviso – di soccombenza.
Sono numerose, infatti, le sentenze delle commissioni di merito che dichiarano l’illegittimità degli avvisi di
accertamento incentrati sulle predeterminazioni di cui
all’art. 62 sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993,
n. 427. In quest’ottica, la scelta effettuata attraverso
l’art. 27 cit. sembra non rispondere ad esigenze di miglioramento della disciplina e di orientamento nel senso
11 Adesione su p.v.c. di cui all’art. 83, comma 18, del D.L. 25 giugno
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008,
n. 133.
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della «giusta imposizione», bensì a logiche di matrice
meramente opportunistica, dietro le quali fa capolino
– lo si capisce – anche l’idea di aggiustamento del gettito tributario.
In breve, il contribuente il quale, invitato all’adesione sulla base degli studi di settore, chini il capo e ne
accetti passivamente il verdetto, viene in qualche misura «premiato» attraverso la previsione di una paralisi
dell’attività di accertamento nei suoi confronti, secondo
le modalità previste dal più volte richiamato art. 27 del
D.L. n. 185/2008. Si tratta di una disposizione che rappresenta, a nostro modo di pensare, un corpo estraneo
nella disciplina dell’accertamento tributario, se solo si
considera che, attraverso questa particolare funzione,
l’Amministrazione finanziaria dovrebbe fare emergere
quella ricchezza che il contribuente non ha correttamente manifestato attraverso il riversato nel circuito dichiarativo. «Corpo estraneo», si è detto, perché, quale che
sia l’ammontare dei ricavi definiti in sede di adesione, il
principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. imporrebbe di non trascurare il prelievo dell’imposta sugli
ulteriori ricavi che dovessero emergere nell’ambito di
altre attività di controllo. Detto altrimenti, il bonus
previsto dall’art. 27 cit. si traduce in una preventiva rinuncia all’accertamento ed alla successiva riscossione di
imposte che potrebbero risultare dovute sulla base degli
ordinari schemi impositivi.
Non c’è dubbio che tale rinuncia non proviene da una
scelta degli Uffici amministrativi e che, conseguentemente, non si può parlare di un atto di disposizione di un
credito già accertato da parte del Fisco. Si tratta, invece,
di un atto dispositivo che connota il comparto della potestà impositiva, calata dal legislatore sull’attività di accertamento con adesione e deputata, quindi, a scontrarsi con
il principio di indisponibilità dell’obbligazione tributaria
al quale anche il suddetto legislatore deve sottostare.
Nessuno dubita del fatto che, soprattutto in una
fase storica dominata da una crisi finanziaria che si è
rapidamente trasferita al comparto dell’economia reale,
lo Stato abbia interesse a ridurre ai minimi termini le
posizioni di conflittualità e ad assicurare, allo stesso
tempo, stabilità di gettito. Si tratta di interessi che manifestano un’evidentissima connotazione pubblicistica,
ma che, a nostro modo di pensare, non possono porsi
in così evidente marcato contrasto con il principio di
uguaglianza. Detto altrimenti – e portando il ragionamento sulle fattispecie di evasione – a noi sembra difficile spiegare al contribuente estraneo alla disciplina
degli studi di settore come, nel suo caso, un’eventuale
definizione in adesione non produca alcun effetto di
stand‑by del potere accertativo. Paralisi che, invece,
opera nei confronti del soggetto il quale, rientrante
nello spettro applicativo della disciplina sugli studi di
settore, abbia accettato la definizione nei termini proposti dal Fisco.
L’art. 27 cit. presuppone, pertanto, che il contribuen-
2 0 0 9
113
te scelga un atteggiamento di non conflittualità nei
confronti del Fisco.
La disposizione è strutturalmente orientata nel senso
di collocare il destinatario dell’invito all’adesione nella
posizione di colui che è chiamato ad effettuare un vero
e proprio «arbitraggio»: da una parte, egli potrà assumere un atteggiamento remissivo, sottoscrivere l’atto di
adesione, acquisire il bonus ed evitare, così, l’avviso di
accertamento e le conseguenti sanzioni in misura piena;
dall’altra parte, il medesimo soggetto potrebbe assumere un atteggiamento non remissivo, di conflittualità e
sprezzo nei confronti di una strumentazione (quella
rappresentata dagli studi di settore, appunto) che fa
della «normalità» economica il proprio punto di forza.
A noi pare che la vera scelta non oscilli soltanto tra il
riconoscimento del bonus e l’accettazione del contenzioso fiscale. Si tratta di una scelta che va ad incastonarsi
nel quadro generale della giusta imposizione e che sottende l’accettazione o la rinuncia dei principi fondamentali del nostro sistema fiscale. Definire l’ammontare dei
ricavi risultanti dall’invito al contraddittorio equivale
ad un vero e proprio atto di fede circa la capacità degli
studi di settore di rappresentare la situazione economica non già del cluster, bensì del singolo imprenditore che
a tale adesione sia stato invitato. La disciplina in commento può apparire del tutto innocua ad un lettore
frettoloso. In realtà, è una disciplina che manifesta un
elevatissimo grado di devianza dai principi fondamentali che governano la nostra materia, dato che le sue
ricadute possono generare una situazione di disuguaglianza tra contribuenti «aderenti» alla proposta del
Fisco e contribuenti che, per contro, a tale proposta
abbiano fatto spallucce.
Il quadro della disciplina qui rapidamente descritto
sembra, ad un primo esame, assai netto. Il consenso
alla definizione concordata della pretesa fiscale viene
barattato con il riconoscimento di una posizione soggettiva di favor che impedisce al Fisco di procedere ad
ulteriori accertamenti. Quest’ultima posizione soggettiva, peraltro, non è priva di limitazioni ed è, anzi, sottoposta ad una serie di condizioni che la circoscrivono in
modo significativo. Si tratta di condizioni che incidono
ora sul quantum accertabile, ora sul metodo accertativo
utilizzabile, ora sulla veridicità dei dati dichiarati ai fini
dell’applicazione degli studi di settore. Non vogliamo
soffermarci sui profili tecnici o, se si vuole, di mero
funzionamento della disposizione, se non per rilevare
come essa veda nell’importo di 50.000 euro il limite
massimo all’interno del quale deve collocarsi il suddetto
bonus.
A codesta previsione di stampo oggettivo si affianca
l’ulteriore statuizione che individua nel 40% dei ricavi
definiti la soglia all’interno della quale opera la suddetta limitazione del potere di accertamento. È evidente
che, nel collegare tale soglia all’importo di ricavi definiti, il legislatore manda un messaggio assai chiaro:
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d i r i t t o
tanto più il contribuente è disposto a concedere in fase
di adesione, adeguandosi alla proposta che gli viene
inoltrata, tanto più l’Amministrazione è obbligata a
concedere in fase di accertamento, attraverso la paralisi dell’attività di rettifica della dichiarazione (ciò, ovviamente, entro i limiti dei quali si è detto più in alto).
Chi scrive si rende conto del fatto che un ammontare di ricavi pari a 50.000 euro, inserito nel corpo
dell’art. 27 cit. quale limite massimo di proventi non
accertabili, potrebbe considerarsi, in una valutazione
attenta al dato macroeconomico, cifra modesta, irrisoria
se non addirittura bagatellare. In fin dei conti, un’evasione di 50.000 euro riferita ad un soggetto che, sulla
base delle più recenti modifiche in tema di presupposti
soggettivi per l’applicazione degli studi, può presentarsi
con un fatturato di qualche milione di euro (7,5 è il limite massimo per ricadere nella disciplina de qua) potrebbe rappresentare un dato trascurabile. Nella nostra
materia, tuttavia, la giustizia distributiva, qui intesa nel
senso di equilibrata distribuzione dei pesi fiscali in ragione della capacità contributiva di ciascuno, passa attraverso la giusta tassazione del singolo. Tanto più si
riduce l’ammontare del fatturato dell’imprenditore di
riferimento, tanto più incisivo è l’impatto del bonus sul
modello costituzionale della giusta imposizione siccome
fissato dagli artt. 3 e 53 Cost. In altre parole, per un
imprenditore di piccole dimensioni, un’evasione di 20,
25 o 30 mila euro può incidere in modo significativo
sull’ammontare del fatturato. Ribadiamo, pertanto, il
concetto: la scelta di limitare il potere accertativo va
sicuramente nella direzione della tutela dell’interesse
fiscale. Non però in quella di salvaguardia dei meccanismi di giusta imposizione.
Poiché, come rilevato, l’art. 27 cit. invita, pur tra i
numerosi problemi di costituzionalità, allo svolgimento
di un vero e proprio calcolo di opportunità, è bene che
il contribuente sappia che la limitazione del potere accertativo prevede il rispetto di alcuni requisiti riferiti al
metodo della rettifica. In altre parole, non tutti gli accertamenti sono inibiti dalla definizione in adesione. La
disposizione, infatti, richiama testualmente soltanto gli
«ulteriori accertamenti basati sulle presunzioni semplici di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d), secondo periodo del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e
all’articolo 54, secondo comma, ultimo periodo del
D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633».
È facile osservare, sulla base di un così inequivocabile dato testuale, come, una volta esclusi gli accertamenti incentrati sull’impiego di presunzioni gravi, precise e concordanti, l’Ufficio rimanga legittimato alla
rettifica sulla base delle lettere a), b) c) e d) (quest’ultima,
limitatamente al primo periodo). Ciò significa che la
definizione di ricavi in sede di adesione non blocca gli
accertamenti basati su prove dirette o sulla ispezione
t r i b u ta r i o
114
delle scritture contabili. Non blocca gli accertamenti
presuntivi che scavalchino le soglie sopra indicate e
nemmeno sembra ostacolare gli accertamenti di tipo
sintetico, i quali, notoriamente, vengono effettuati sulla
base dell’art. 38, non già dell’art. 39 del D.P.R.
n. 600/1973. Pertanto, la consistenza del bonus si riduce fortemente in ragione di quanto sopra esposto, giacché sono molteplici i percorsi alternativi all’art. 39,
primo comma, lett. d), cit. che l’Ufficio può impiegare
per rettificare la dichiarazione.
Le osservazioni richiedono un approfondimento
anche sul fronte della compatibilità con i principi del
diritto comunitario.
È recente la sentenza con la quale la Corte di giustizia, occupandosi del condono IVA, ha stabilito che lo
Stato non può rinunciare preventivamente all’accertamento in quanto codesta rinuncia è lesiva del principio
di uguaglianza. Tale lesione si verifica in quanto la
paralisi del potere di controllo e di rettifica poneva i
soggetti che avessero aderito al condono in una posizione più favorevole rispetto a coloro che non vi abbiano aderito. La Corte comunitaria impiega argomentazioni incentrate sulla eguaglianza, i termini sono diversi, la sostanza non cambia e v’è ampio spazio per la
riflessione.
Conclusioni
In conclusione, l’ordinamento giuridico pone al contribuente differenti alternative che vanno dal ravvedimento operoso fino all’acquiescenza all’atto di accertamento passando per l’adesione semplificata e per quella
ordinaria.
Con il ravvedimento operoso, possibile fino all’inizio
dell’attività di accertamento, si ha la riduzione delle
sanzioni da un decimo ad un dodicesimo. Con la definizione del processo verbale di constatazione si avranno
sanzioni ridotte ad un ottavo del minimo entro trenta
giorni dal ricevimento del verbale utilizzando l’apposito
modello con la conseguenza che se non si accetta viene
preclusa l’adesione all’invito a comparire. Con l’invito a
comparire, se si aderisce entro quindici giorni si avrà
l’applicazione di sanzioni ridotte ad un ottavo del minimo, se non si aderisce si ha la possibilità di andare in
contraddittorio e aderendo si avranno sanzioni ridotte
ad un quarto del minimo. Se dopo il contraddittorio,
invece, non si aderisce e viene emesso l’atto di accertamento, ci potrà essere acquiescenza e vedersi irrogate le
sanzioni per un quarto o per un ottavo se non c’è stato
invito a comparire.
Esiste cioè sufficiente spazio per evitare il contenzioso a meno che una delle parti non si ostini nel ritenere
la giurisdizione tributaria l’unica sede idonea per far
valere le proprie ragioni con tutte le conseguenze che
tale scelta comporti, anche in termini di costi.
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M ARZO • APRILE
●
L’impugnabilità
del provvedimento
di diniego di autotutela
alla luce delle più recenti
pronunce di legittimità
● Fiorella Feola
Funzionario dell’Agenzia delle Entrate – Dottorando
di ricerca in Diritto Tributario – Facoltà di Economia –
Seconda Università degli Studi di Napoli
2 0 0 9
115
1. Premessa
Gli uffici possono procedere all’annullamento o alla
revoca di propri atti ritenuti illegittimi o infondati attraverso il c.d. istituto dell’autotutela.
L’istituto è stato legislativamente definito come il
“potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in
pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità,
degli atti illegittimi o infondati”, il cui esercizio è devoluto ai competenti organi dell’Amministrazione finanziaria.
Si tratta di una capacità riconosciuta dall’ordinamento
all’Amministrazione che si manifesta in un riesame critico
dell’attività svolta nell’intento di garantire l’interesse pubblico al buon andamento dell’Amministrazione.
Presupposto per l’esercizio dell’autotutela è la presenza di un vizio dell’atto e la sussistenza di un interesse
pubblico alla sua rimozione.
L’ambito normativo di questo istituto è stato inizialmente definito dall’art. 68 del D.P.R. n. 287 del 27
marzo 1992 secondo cui “salvo che sia intervenuto giudicato, gli uffici dell’Amministrazione finanziaria possono procedere all’annullamento, totale o parziale, dei
propri atti ritenuti illegittimi o infondati con provvedimento motivato comunicato al destinatario dell’atto”. A
completare la disciplina è intervenuto successivamente
l’art. 2 quater del D.L. n. 564/19941 (convertito in L.
n. 656/1994) e, infine, il D.M. n. 37 dell’11/2/1997 recante il Regolamento per l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Indagare su questo istituto, anche alla luce delle più
recenti pronunce di legittimità, richiede un preventivo
approfondimento delle finalità sottese alla sua definizione, già dalla originaria previsione del 1992.
Tali finalità vanno ricercate nell’esigenza di assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico
che, in ambito tributario, può ragionevolmente tradursi
nell’affermazione dei principi di trasparenza e di giustizia
sostanziale tesi a garantire che il contribuente sia tassato
in misura giusta e conforme alle previsioni normative.
L’autotutela esercitata dagli uffici finanziari presenta,
inoltre, caratteristiche proprie che la distinguono dal
generico potere di annullamento in autotutela previsto
dal diritto amministrativo e ciò in forza del carattere
tipico, peculiare, del potere amministrativo tributario.
Se nel diritto amministrativo l’annullamento di un
atto è espressione di una valutazione discrezionale volta
a contemperare esigenze di legalità, da un lato, ed interesse dell’Amministrazione dall’altro, nel diritto tributario
questo potere si inserisce, invece, nell’esercizio di un’attività vincolata in cui non si rinvengono elementi di discre-
1 Anche secondo l’art. 2 quater del D.L. 564/1994 rimangono fuori
dall’ambito applicativo dell’autotutela gli atti su cui sia intervenuto un
giudicato. Solo con il D.M. n. 37/1997 si prevede, all’art. 2, comma 2,
l’annullabilità di questi ultimi salvo che non sia intervenuta una sentenza passata in giudicato favorevole all’Amministrazione finanziaria.
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d i r i t t o
zionalità essendo i rimedi di annullamento o di revoca,
a cui conduce l’esercizio del potere in esame, giustificati
solo dal principio garantistico di ripristino della legalità
di cui all’art. 97 Cost. Questa distinzione come vedremo
più avanti non manca di determinare significative implicazioni sul concreto esercizio di tale potere.
Il potere di annullare gli atti illegittimi o infondati è
attribuito all’Ufficio che ha emanato l’atto, il quale può
procedere, valutatane i presupposti, all’eliminazione
dell’atto o al suo annullamento parziale, anche senza
istanza di parte.
Questa facoltà in caso di “grave inerzia” dell’Ufficio
impositore può essere esercitata, in via sostitutiva, dalla
Direzione Regionale o compartimentale da cui lo stesso
Ufficio dipende2.
L’autotutela non è esperibile solo d’ufficio essendo
legittimati ad attivarla anche i contribuenti, a norma
dell’art. 5 del D.M. n. 37/1997, con l’inoltro di un’apposita istanza all’Ufficio dell’Amministrazione finanziaria
che ha emanato l’atto con l’evidenza dei motivi che ne
giustificano la richiesta.
Lo Statuto del contribuente3 ha previsto, inoltre,
tale facoltà in capo al Garante del Contribuente il quale, su segnalazione del contribuente o di altri soggetti
interessati, può presentare istanza di autotutela4.
Gli atti annullabili sono tutti gli atti di emanazione
dell’Amministrazione idonei ad incidere negativamente
nella sfera giuridica del destinatario, si pensi ad un avviso di accertamento, ad un ruolo, ad un diniego di
rimborso di imposte indebitamente versate.
Il D.M. n. 37/1997 indica le ipotesi in cui il potere
di autotutela può essere esercitato, come anzi detto, riconducibili a tutte le circostanze in cui impropriamente
si sia lesa la sfera giuridica soggettiva del contribuente.
Si tratta di una elencazione dal carattere meramente
esemplificativo contenuta nell’art. 2, riferita alle diverse
ipotesi verificabili ictu oculi quali un errore di persona,
un evidente errore logico o di calcolo, un errore sul
presupposto dell’imposta, un’ipotesi di doppia imposizione, ecc.
Su tale istituto sono sorte numerose questioni controverse in dottrina e in giurisprudenza che, prendendo
spunto dalle più recenti pronunce di legittimità, saranno
analizzate nel presente articolo5.
2 In tal senso l’art. 1 del già citato D.M. n. 37/1997.
3 L. n. 212 del 27 luglio 2000.
4 Ci si è poi chiesto a tale riguardo se all’esercizio da parte del Garante di questa facoltà, prevista dall’articolo 13, comma 6, della L. 27
luglio 2000, n. 212, consegua il dovere per l’Ufficio di annullare o
ridurre la pretesa, oppure si tratti di un potere meramente sollecitatorio. L’Amministrazione finanziaria ha fornito chiarimenti in tal
senso precisando che la disposizione non ha carattere innovativo
della materia ma definisce semplicemente una facoltà di impulso in
capo a quest’organo con la conseguenza che tale previsione non incide sul contenuto sostanziale dell’istituto (Circolare dell’Agenzia
delle Entrate n. 59 del 18 giugno 2001).
5 Cass. SS.UU. n. 2870/2009.
t r i b u ta r i o
116
2. La sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione
n. 2870 del 6 febbraio 2009
In un quadro generalmente favorevole all’impugnabilità del diniego espresso o tacito di autotutela, si inserisce la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione n. 2870 del 6 febbraio 2009 con la fissazione di un significativo limite all’impugnabilità del rifiuto
di autotutela.
Secondo i Supremi giudici è inammissibile il ricorso
avverso il provvedimento di rigetto, espresso o tacito,
dell’istanza di autotutela promossa dal contribuente
volta ad ottenere l’annullamento di un atto divenuto
definitivo (nella specie, per l’intervenuto giudicato formatosi sulla decisione di reiezione del ricorso davanti
alla Commissione Tributaria Regionale), in conseguenza sia della discrezionalità nell’esercizio del potere di
autotutela quanto dell’inammissibilità di un nuovo sindacato giurisdizionale sull’atto di accertamento munito
del carattere di definitività.
Analizziamo il caso a base della sentenza.
Il contribuente impugnava dinanzi alla Commissione
Tributaria Provinciale di Milano due avvisi di accertamento contenenti un’induttiva determinazione del reddito d’impresa.
Il ricorso era dichiarato inammissibile e la sentenza,
non impugnata in appello, diveniva definitiva.
Il contribuente presentava, poi, all’Ufficio impositore istanza di annullamento in autotutela richiedendo che
fosse esteso al rapporto tributario l’esito favorevole nel
frattempo intervenuto in sede penale sugli stessi fatti
assoggettati ad accertamento.
L’istanza di autotutela veniva respinta dall’Ufficio e
impugnata dal contribuente.
L’impugnazione era stata ritenuta inammissibile dal
Giudice Tributario di primo grado ritenendosi non autonomamente impugnabile, a norma dell’art. 19 del
D.Lgs. n. 546/1992, il diniego di autotutela. Tale decisione veniva confermata dalla Commissione Tributaria
Regionale della Lombardia.
Avverso questa sentenza si proponeva ricorso in
Cassazione.
I giudici del Collegio nel riaffermare il carattere generale della giurisdizione tributaria6 -che si estende,
dunque, anche al rifiuto espresso o tacito di procedere
ad autotutela- decidono per la non impugnabilità del
diniego di autotutela relativo ad un atto divenuto inoppugnabile perché definitivo in quanto, osservano, “di-
6 “Secondo la giurisprudenza ormai consolidata di queste Sezioni
Unite, le cause aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito di procedere ad autotutela debbono essere proposte davanti alle Commissioni Tributarie, in quanto a seguito della riforma operata dall’art. 12
della L. n. 448/2001, la giurisdizione di queste ultime ha acquisito
carattere generale, nel senso che dipende dalla materia, per cui sussiste ogni qual volta si discuta di uno specifico rapporto tributario
(Cass. 16776/2005 e 7388/2007)”.
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versamente opinando si darebbe inammissibilmente
ingresso ad una controversia sulla legittimità di un atto
impositivo ormai definitivo.”
Da quanto sancito dai Supremi giudici se ne deduce
che, se si ammettesse una generale impugnabilità di un
atto di diniego di autotutela su un atto definitivo, si rimetterebbe impropriamente in termini il contribuente
per ricorrere contro l’atto stesso.
La sentenza in commento evidenzia come l’impugnabilità del diniego di autotutela non possa in alcun modo
tradursi in un’elusione dei termini perentori per l’impugnazione di un atto; ben potrebbe, altrimenti, attraverso il ricorso avverso un diniego di autotutela addursi
l’illegittimità dell’atto sottostante divenuto ormai definitivo per effetto del decorso del tempo.
Tale interpretazione appare apprezzabile poiché
permette di delineare un segno di confine alla seppur
legittima tutela del contribuente che sia stato destinatario di un diniego di autotutela. Dunque riconoscerne
l’autonoma impugnabilità non deve debordare in una
violazione del principio di certezza del diritto.
Se così non fosse, si è correttamente osservato, si
avrebbe la conseguenza di rimettere in discussione in
maniera indiscriminata il rapporto tributario in sede
giurisdizionale, anche se definitivo7.
Sebbene ampiamente condivisibile, non sembra,
tuttavia, che l’eco di tale pronuncia possa spingersi oltre
fino ad enunciare una generalizzata immodificabilità di
un atto definitivo e ciò poiché l’Amministrazione finanziaria, infatti, ha sempre la facoltà di modificare un
proprio atto anche se siano spirati i termini per la sua
impugnazione a norma dell’art. 2, comma 2, del D.M.
n. 37/1997, rimuovendolo o annullandolo se ingiusto o
illegittimo.
La pronuncia in commento costituisce l’ultima voce
in un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale che
ha coinvolto l’istituto dell’autotutela.
La decisone di inammissibilità del ricorso avverso un
diniego espresso o tacito di autotutela relativo ad un
atto sottostante definitivo rappresenta, invero, il punto
di arrivo di una ricostruzione interpretativa, peraltro
molto articolata, che ha riguardato diversi aspetti.
Questo istituto ha generato, infatti, sin dalla sua
originaria introduzione nell’ordinamento tributario,
risalente al 1992, numerose problematiche di carattere
dogmatico ed operativo -all’esame della posizione giuridica dei soggetti coinvolti nell’autotutela fino all’individuazione di quale sia l’autorità giurisdizionale competente a valutare la legittimità della decisione dell’Amministrazione- che saranno sinteticamente riassunte nei
paragrafi successivi.
7 In tal senso E. Cormio, Autotutela negata, inammissibile il ricorso
avverso il provvedimento, Fiscooggi del 18 febbraio 2009.
2 0 0 9
117
3. Le posizioni soggettive delle parti coinvolte nell’istituto
dell’autotutela
3.1. La posizione dell’Amministrazione finanziaria
In primo luogo si è a lungo dibattuto della posizione
dell’Amministrazione finanziaria, rispetto all’esercizio
dell’autotutela interrogandosi se essa vanti un potere o
sia vincolata ad un dovere di esercizio della stessa.
Si ritiene che essa sia investita di un potere ossia di
una facoltà, non di un obbligo giuridico di ritirare l’atto
viziato e, per contro, che il contribuente non vanti un
diritto soggettivo a che l’Ufficio eserciti tale potere.
L’esistenza di una facoltà, ovvero di un potere ma
non di un dovere di pronunciarsi, non significa però che
l’Ufficio a fronte di un atto illegittimo possa decidere in
via del tutto arbitraria se riesaminare criticamente il
proprio operato. E se è vero, a stretto rigore, che l’Ufficio ha il potere ma non il dovere giuridico di ritirare
l’atto viziato (mentre è certo che il contribuente, a sua
volta, non ha un diritto soggettivo a che l’Ufficio eserciti tale potere), è tuttavia indubbio che l’Ufficio stesso
non possieda un potere discrezionale di decidere a suo
piacimento se correggere o meno i propri errori8.
Facciamo poi opportunamente osservare che tale
discrezionalità, conformemente anche a quanto affermato dal T.A.R. Toscana9, è affievolita anche dall’obbligo
di comunicare espressamente l’esito del riesame compiuto in sede di autotutela susseguente ad istanza del contribuente poiché, sottolineano i giudici, se così non fosse
si avrebbe un’incoerenza sul piano ermeneutico ove
all’iniziativa non fosse associato un obbligo di risposta
da parte dell’interpellato. Un orientamento che trova del
resto conferma nella L. n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo la quale, all’art. 2, pone l’obbligo per
la Pubblica Amministrazione di concludere con l’adozione di un provvedimento espresso il procedimento che
consegue obbligatoriamente ad un’istanza.
In altri termini l’Amministrazione Finanziaria pur
essendo investita di discrezionalità nella concreta mani-
8 In tal senso anche l’Amministrazione finanziaria che con la Circolare n. 198/S del 5 agosto 1998 intitolata “Esercizio del potere di autotutela. Applicazione delle disposizioni di cui al Regolamento approvato con D.M. 11 febbraio 1997 n. 37” osserva come sia “indubbio che l’Ufficio stesso non possiede un potere discrezionale di
decidere a suo piacimento se correggere o meno i propri errori. Infatti da un lato il mancato esercizio dell’autotutela nei confronti di
un atto patentemente illegittimo, nel caso sia ancora aperto o comunque esperibile il giudizio, può portare alla condanna alle spese
dell’Amministrazione con conseguente danno erariale (la cui responsabilità potrebbe essere fatta ricadere sul dirigente responsabile del
mancato annullamento dell’atto); dall’altro, essendo previsto che in
caso di “grave inerzia” dell’Ufficio che ha emanato l’atto può intervenire, in via sostitutiva, l’organo sovraordinato, è evidente che
l’esercizio corretto e tempestivo dell’autotutela viene considerato
dall’Amministrazione non certo come una specie di “optional” che
si può attuare o non attuare a propria discrezione ma come una
componente del corretto comportamento dei dirigenti degli uffici e,
quindi, come un elemento di valutazione della loro attività dal punto di vista disciplinare e professionale”.
9 T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767.
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festazione del potere di autotutela, in relazione alla valutazione di ritirare o meno un atto viziato, è tenuta ad
un esercizio vincolato di tale potere ossia a riesaminare
l’atto controverso che sia sottoposto al suo vaglio da
parte del contribuente.
Nel formare il proprio convincimento sul se procedere ad autotutela spontanea -o accogliere/respingere
l’istanza in caso di iniziativa- l’Ufficio dovrà valutare la
prevalenza dell’interesse pubblico specifico, concreto ed
attuale ad una corretta ed equa imposizione rispetto
alla stabilità ed alla certezza delle situazioni giuridiche.
È questo quanto emerge dall’art. 3 del D.M.
n. 37/199710.
Il legislatore non pone limiti all’esercizio del potere
di autotutela sia per ciò che attiene agli atti annullabili
sia per i tempi entro i quali l’annullamento può essere
fatto valere.
Dal primo punto di vista, ossia quanto allo stato dei
provvedimenti oggetto di annullamento in autotutela, a
norma dell’art. 2, comma 1, del D.M. n. 37/1997, può
trattarsi di atti non definitivi, in pendenza di giudizio o
di atti definitivi. Dispone infatti la norma che “L’Amministrazione finanziaria può procedere, in tutto o in
parte, all’annullamento o alla rinuncia all’imposizione
in caso di autoaccertamento, senza necessità di istanza
di parte, anche in pendenza di giudizio o in caso di non
impugnabilità, nei casi in cui sussista illegittimità dell’atto o dell’imposizione…”.
Da ciò discende che possono essere senz’altro annullati in autotutela gli atti non ancora definitivi, cioè
quelli per cui non sia ancora spirato il termine di impugnazione.
La definitività dell’atto, non costituisce, ex se un
impedimento all’annullamento in autotutela essendo lo
stesso ammesso anche per i provvedimenti resi definitivi dal decorso, in assenza di valida contestazione, dei
termini decadenziali di impugnativa degli stessi11. Allo
10 Esso dispone infatti che “nell’attività di cui all’articolo 2 è data
priorità alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste
ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto
contenzioso”.
11 Osserva opportunamente la dottrina che “Di fronte ad un accertamento divenuto definitivo perché non impugnato nei termini, l’intervento dell’Amministrazione, diretto a rimuovere in via di autotutela l’atto illegittimo, ancorché inoppugnabile, risponde all’esigenza
di assicurare la corretta esazione del tributo effettivamente dovuto e
la correttezza dei comportamenti dell’Amministrazione finanziaria,
la quale deve evitare di penalizzare il contribuente che ha sostanzialmente ragione, ma ha omesso di impugnare tempestivamente l’atto.
Solo così, infatti, può mantenere inalterata quella fiducia reciproca
su cui si basa l’attuale sistema fiscale, sempre più ispirato allo spontaneo adempimento del contribuente. In tale logica, potrebbe condividersi l’idea che l’autotutela tributaria risponda non solo e non
tanto ad una funzione giustiziale o di mera imparzialità, quanto
all’obiettivo di assicurare il buon andamento e, dunque, l’efficienza
del sistema fiscale”. Cfr. Carugno e Gianandrea, in Lineamenti di
Diritto amministrativo, p. 151-153. In riferimento al concetto di
definitività degli atti tributari si vedano tra gli altri Tremonti, Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano 1977, p. 325 e
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stesso modo sono impugnabili le sentenze passate in
giudicato favorevoli all’Amministrazione finanziaria, a
condizione che l’annullamento non sia basato sugli stessi motivi sui quali sia già intervenuta la sentenza12.
Un precedente giudicato, dunque, non cristallizza un
atto nella sua efficacia se l’illegittimità scaturisce da
motivi diversi rispetto a quelli precedentemente valutati. Ne deriva che siano sempre annullabili in autotutela
gli atti in pendenza di giudizio non essendosi per essi
neppure verificata una causa di definitività dell’atto
impugnato.
La possibilità di annullare in autotutela un atto in
pendenza di ricorso ha la finalità di evitare un contenzioso destinato a chiudersi sfavorevolmente con l’ulteriore rischio di dovere rimborsare al contribuente le
spese di giudizio13.
Per ciò che attiene ai tempi entro cui può essere esercitata l’autotutela, non si rinviene nelle disposizioni legislative, alcun termine finale per l’esercizio di questo
potere tant’è che può essere trascorso anche un periodo
di tempo più o meno lungo tra l’emanazione dell’atto ed
il suo successivo annullamento non essendo presenti in
questo caso né termini di decadenza dell’azione amministrativa né termini di prescrizione per l’esercizio del
diritto da parte del contribuente. Unico limite è costituito dal passaggio in giudicato della sentenza favorevole
all’Amministrazione finanziaria. In questo caso, infatti,
non è ammissibile il ricorso all’autotutela se non per
motivi diversi da quelli precedentemente valutati dal
giudice. Si pensi ad una sentenza passata in giudicato
che accerti l’esistenza di cause pregiudiziali quali l’irri-
ss., Lupi, Definitività degli atti impositivi: il rigore scompare quando
il contribuente è in buona compagnia, in Riv. Dir. Trib., 1992, II,
p. 915 e ss., Stevanato, L’autotutela dell’Amministrazione finanziaria. L’annullamento d’Ufficio a favore del contribuente, Padova,
1996, p. 171 e ss.
12 L’annullabilità in autotutela dopo il passaggio in giudicato della
sentenza che si è pronunciata sul rapporto tributario era esclusa in
un primo tempo dalla formulazione dell’art. 68, comma 1, del D.P.R..
n. 287/1992, poi ammessa legislativamente dall’art. 2, comma 2, del
D.M. n. 37/1997 secondo cui “non si procede all’annullamento
d’Ufficio, o alla rinuncia all’imposizione in caso di autoaccertamento, per motivi sui quali sia intervenuta sentenza passata in giudicato
favorevole all’Amministrazione”. Si osserva a riguardo che tale
statuizione è stata intesa come superamento del principio processuale secondo cui la cosa giudicata copre il dedotto e il deducibile senza
distinzioni tra ragioni formali e sostanziali (…) giustificata dall’attuale “favor legis” per l’esercizio dell’autotutela in diritto tributario,
rinvenibile nella vigente normative.” V. G. S. Toto, Considerazioni
attuali sul giudicato tributario, www.judicium.it, p. 17.
13 Lo stesso D.M. n. 37/1997 afferma questo principio riferendosi al
criterio della “probabilità della soccombenza”, peraltro ripreso
dalla successiva circolare n. 195 dell’8 luglio 1997 su “Articolo 68,
comma 1, del D.P.R. 27 marzo 1992 n. 287 e relativo Regolamento
di attuazione – Annullamento totale o parziale di atti illegittimi in
via di autotutela”, ove si afferma che l’autotutela costituisce uno
strumento fondamentale per la realizzazione di quel particolare interesse che l’Amministrazione ha “a che sia assicurata equità e trasparenza alla propria azione e siano evitate, ovvero eliminate, controversie nelle quali appare certa, o quanto meno probabile, la soccombenza dell’Amministrazione stessa”.
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cevibilità del ricorso, il difetto di giurisdizione o l’incompetenza dell’organo giudicante: in tal caso essendo
mancato il giudizio sul merito del rapporto controverso
l’Amministrazione ne conserva il potere di riesame14.
Resta da precisare quale sia la posizione del contribuente e, conseguentemente, la giurisdizione competente a conoscere delle controversie concernenti il mancato
ritiro dell’atto ritenuto illegittimo.
3.2. La posizione del contribuente di fronte all’esercizio
del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione
finanziaria. Il giudice competente a conoscere in tema
di esercizio di autotutela
Un aspetto di rilievo del dibattito dottrinale e giurisprudenziale ha riguardato la posizione del contribuente di fronte all’esercizio del potere di autotutela da
parte dell’Amministrazione finanziaria.
Come si è già avuto modo di affermare al potere
dell’ente impositore non si contrappone un diritto soggettivo del contribuente, data la natura discrezionale
del potere amministrativo di autotutela. La soluzione
della questione non è stata di poco conto avendo determinato implicazioni ragguardevoli circa la posizione
giuridica soggettiva del contribuente a fronte del potere dell’Amministrazione e la conseguente possibilità di
adire un organo giurisdizionale per la tutela della propria posizione.
In altre parole ci si è chiesto, in primo luogo, se il
contribuente possa vantare un interesse a ricevere una
risposta e se, in caso di diniego di autotutela, egli possa richiedere l’intervento dell’autorità giurisdizionale
affinché sia verificata la legittimità della decisione.
Il problema della tutelabilità del contribuente trovava soluzione secondo una parte della dottrina15 nella
constatazione che l’istanza di autotutela manifesti
l’esercizio di un interesse legittimo cd. pretensivo. Posizione avallata anche dalla giurisprudenza amministrativa riassunta dalla nota sentenza del T.A.R. Toscana16 e dal Consiglio di Stato17, che, ravvisando nella
istanza di autotutela l’esercizio di “un interesse legittimo di tipo pretensivo e a contenuto procedimentale a
che l’istanza venga esaminata e decisa alla luce della
sussistenza di quei determinati presupposti che il legi-
14 Con la già citata circ. 195/1997 è, tra l’altro, venuto in rilievo un
ulteriore aspetto non di poco conto ossia il fatto che l’Ufficio pur di
fronte ad un atto del tutto legittimamente annullabile non proceda
all’annullamento perché ritenga prevalente l’interesse alla certezza
ed alla stabilità delle situazioni giuridiche: ben può accadere cioè che
gli effetti dell’atto si siano medio tempore esauriti e non possa procedersi al rimborso di quanto già pagato dal contribuente.
15 In tal senso gli autori, Stevanato, L’autotutela dell’Amministrazione finanziaria: l’annullamento d’Ufficio a favore del contribuente,
Padova, 1996 e Porcaro, Diniego di autotutela e giurisdizione
delle commissioni tributarie, in Dialoghi di diritto tributario, 2004,
p. 667 e ss.
16 T.A.R. Toscana, sez. I, 22 ottobre 1999, n. 767.
17 Cons. di Stato, sez. IV, 9 novembre 2005, n. 6269.
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slatore, sia pure non tassativamente, ha elencato nella
norma regolamentare”, portava a concludere che a
fronte della discrezionalità dell’Ufficio il contribuente
vantasse un interesse legittimo, su cui è giurisdizionalmente competente il giudice amministrativo.
Codesta soluzione mal si coniuga però con la competenza di carattere generale delle Commissioni tributarie in materia di tributi.
In materia tributaria, infatti, la ripartizione della
competenza giurisdizionale è basata sulla natura degli
atti impugnati piuttosto che sulla posizione giuridica del
soggetto ricorrente. L’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 non
lascia dubbi in tal senso affermando che “appartengono
alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi
ad oggetto i tributi di ogni genere e specie”. Da ciò discende che, indipendentemente dalla posizione del ricorrente, che sia cioè portatore di un interesse legittimo o
di un diritto soggettivo, la competenza debba essere
attribuita al giudice tributario per ragioni di materia18.
Da queste osservazioni si concludeva che sulle liti che
riguardano il diniego di autotutela in materia tributaria
dovesse conoscere il giudice tributario19.
La problematica risultava ben più ampia a causa
della delimitazione oggettiva del sindacato tributario.
L’art. 2 del citato decreto n. 546/1992 nell’affermare la
competenza generale delle Commissioni definisce i limiti esterni della giurisdizione cui vanno associati i
limiti interni relativi agli specifici atti tributari che
possono essere oggetto di impugnativa. Gli atti autonomamente impugnabili sono elencati all’art. 19 che
prevede l’impugnabilità di quelli non inclusi nel catalogo contenuto in detto articolo solo congiuntamente
all’atto successivo impugnabile.
Il rifiuto di autotutela espresso o tacito non è contemplato nell’art. 19 pertanto, prima facie, ciò sembrava ostativo alla sua autonoma impugnabilità dinanzi al
Giudice Tributario.
A ben vedere però la questione si presenta molto più
complessa.
Senza dubbio la riforma del 2001 ha evidenziato la
mancanza di coordinamento tra l’art. 2, riformato ed
ampliato nella sua generale accezione e l’art. 19 che, al
contrario, continua a mantenere una elencazione tassativa degli atti dotati di autonoma impugnabilità 20. Co-
18 L’ampliamento della competenza delle commissioni tributarie a
tutti i tributi di ogni genere e specie, come è noto, è stato previsto
dall’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, che,
con effetto dall’1 gennaio 2002, ha riformulato l’art. 2 del D.Lgs. 31
dicembre 1992, n. 546, che nella precedente versione la limitava
alle liti relative ad un elenco di tributi vedendo invece competente
per tutte le altre controversie il giudice ordinario.
19 Così anche autorevole dottrina tra cui F. Tesauro, Riesame degli
atti impositivi e tutela del contribuente, Giust. Tributaria,
n. 1/2008.
20 L’art. 19 del D.Lgs 546/92 rubricato “Atti impugnabili e oggetto del
ricorso” al comma 1 dispone che “Il ricorso può essere proposto
avverso:
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me osservato efficacemente dalla suprema Corte con la
sentenza n. 10958 del 2005 è ammessa l’impugnabilità
di quegli atti che, pur non rientrando nell’elencazione di
cui all’art. 19 svolgono di fatto la stessa funzione degli
atti elencati. Una soluzione peraltro non applicabile al
nostro caso dal momento che il diniego di autotutela
non assolve alla funzione di un atto impugnabile non
avendo una diretta funzione impositiva.
Le SS.UU. della Cassazione, aderendo a quanto già
in passato era stato affermato dalla Corte Costituzionale21, hanno, ad ogni buon conto, risolto la questione
in maniera positiva affermando che per effetto della
modifica dell’art. 2 del D.Lgs. 546/1992 “l’aver consentito l’accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi comporta infatti la
possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice
tributario ogni qualvolta l’Amministrazione manifesti
(anche attraverso la procedura del silenzio rigetto) la
convinzione che il rapporto tributario debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (…). Dunque sussiste nella materia in esame la giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni
proposte avverso il rifiuto espresso o tacito dell’Amministrazione a procedere ad autotutela 22”.
• l’avviso di accertamento del tributo;
• l’avviso di liquidazione del tributo;
• il provvedimento che irroga le sanzioni;
• il ruolo e la cartella di pagamento;
• l’avviso di mora;
• e-bis) l’iscrizione di ipoteca sugli immobili di cui all’art. 77 del D.P.R.
n. 602/1973, e succ. modificazioni;
• e-ter) il fermo di beni mobili registrati di cui all’art. 86 del
D.P.R.n. 602/1973, e succ. modificazioni;
• gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 3;
• il rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi, sanzioni pecuniarie ed interessi o altri accessori non dovuti;
• il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari;
• ogni altro atto per il quale la legge ne preveda l’autonoma impugnabilità davanti alle commissioni tributarie”.
21 Già con la risalente sentenza n. 313 del 1985 la Corte Costituzionale ha affermato che “non si può dubitare che tutti gli atti che hanno
la comune finalità dell’accertamento della sussistenza e dell’entità del
debito tributario siano equivalenti, qualunque sia la denominazione
data ad essi dal legislatore…”.
22 Cosi la sent. Cass., SS.UU., n. 16776 del 2005 e, da ultima, la sent.
7388/2007. L’attribuzione al giudice tributario di una controversia
che può concernere la lesione di interessi legittimi non incontra un
limite nell’art. 103 Cost.. Infatti, secondo una costante giurisprudenza costituzionale, non esiste una riserva assoluta di giurisdizione
sugli interessi legittimi a favore del giudice amministrativo, potendo
il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici (da ultime,
ordinanze 165 e 414 del 2001 e sentenza 240/2006).
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Secondo la citata sentenza delle Sezioni Unite, l’allargamento della giurisdizione tributaria comporta,
come conseguenza, un allargamento degli stretti confini dell’art. 19, necessario per evitare che il nuovo testo
dell’articolo 2 del D.Lgs. 546/92 resti lettera morta.
Dunque sul diniego di autotutela conosce il giudice
tributario23. E, inoltre, lo stesso è da ritenere atto autonomamente impugnabile come ulteriormente ribadito dalla Cassazione, sez. trib., con la Sentenza 20
febbraio 2006, n. 3608 e, da ultimo con la sentenza
n. 2870 del 2009. Il Collegio con la recente sentenza
n. 7388/2007 riconferma tale orientamento. Nel riaffermare la giurisdizione tributaria in materia di diniego di autotutela, la Suprema Corte inoltre limita il
sindacato del giudice tributario “al solo controllo della legittimità del rifiuto nel caso di giudizio instaurato
contro il mero ed espresso rifiuto di agire in autotutela, pena un’indebita sostituzione del giudice in attività
tipicamente amministrative”.
La sentenza delle SS.UU. del 6 febbraio 2009 n. 2870
costituisce il completamento di questo quadro ricostruttivo poiché fissa un limite alla tutela riconosciuta al
destinatario di un atto ritenuto viziato ma consolidatosi nella propria efficacia. In altre parole, il sindacato dei
giudici tributari nei ricorsi avverso atti di rifiuto di autotutela, si osserva, condivisibilmente, può sicuramente
avere ad oggetto il corretto esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria, ma
non dei vizi del rapporto tributario sottostante ove lo
stesso avesse consolidato i propri effetti perché divenuto
definitivo per effetto dello spirare dei termini d’impugnazione poiché se così non fosse si svuoterebbe di
contenuto il principio di certezza del diritto rendendo
l’atto modificabile anche se il decorso del tempo lo ha
23 Per completezza d’indagine va peraltro rilevato che la stessa Suprema Corte ha in alcune pronunce negato che si tratti di un atto impugnabile, in quanto discrezionale: Cass. civ., sez. I, n. 13412/2000;
Cass. civ., sez. trib. n. 1547/2002. In tal senso anche Patrizi – Marini – Patrizi, Accertamento con adesione, conciliazione e autotutela, p. 201. V., inoltre, F. Tesauro, op.cit., secondo cui se può ritenersi autonomamente impugnabile il provvedimento di diniego
espresso di autotutela, – se riconducibile ad una forma «di -rinnovazione- dell’atto precedente conseguente ad una uova istruttoria, e
se l’l’impugnazione è sorretta da motivi diversi da quelli che erano
proponibili contro l’atto confermato»-, deve concludersi, invece, per
la non autonoma impugnabilità del silenzio a causa della sua mancata natura impositiva che possa consentirne di ricondurlo ad alcuna fattispecie di cui all’art. 19. Il silenzio, secondo l’autore, sarebbe
pertanto impugnabile non di per sé bensì solo in via differita con
ricorso contro un atto successivo.
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M a r z o • a p r i l e
Osservatorio di giurisprudenza tributaria
●
La tutela del contribuente
avverso i provvedimenti
emessi durante l’istruttoria
fiscale: l’impugnabilità
degli ordini di verifica
● A cura di Raffaele Cantone
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Magistrato presso il Massimario della Cassazione
RIPARTO DI GIURISDIZIONE – OGGETTO DELLA GIURISDIZIONE TRIBUTARIA – ITER PROCEDIMENTALE PRECEDENTE
L’EMANAZIONE DEL PROVVEDIMENTO IMPOSITIVO – SINDACABILITÀ – IMPUGNAZIONE DI ATTI PRODROMICI DI CARATTERE ISTRUTTORIO – POSSIBILITÀ – MODALITÀ – LIMITI.
La giurisdizione del giudice tributario, fissata dall’art.
2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, non ha ad oggetto solo gli
atti finali del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (e cioè quelli definiti come “impugnabili” dall’art. 19 D.Lgs. citato) ma investe tutte le fasi del
procedimento che ha portato all’adozione ed alla formazione di quell’atto, tanto che l’eventuale giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o regolarità (formale o
sostanziale) su un qualche atto istruttorio prodromico
può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, di quello finale impugnato. Spetta, quindi, al giudice
tributario vagliare i vizi riguardanti gli atti istruttori
anche se, inserendosi gli atti in esame in una sequenza
procedimentale, i vizi medesimi potranno essere dedotti
soltanto in uno al provvedimento impositivo che conclude l’iter procedimentale di accertamento. Solo qualora
l’attività di accertamento, nel quale l’atto prodromico si
inserisce, si concluda negativamente, gli atti istruttori
medesimi che siano ipoteticamente lesivi di diritti soggettivi del contribuente a non subire, al di fuori dei casi
previsti dalla legge, verifiche fiscali e connesse compressioni dei propri diritti anche costituzionali (in particolare libertà di domicilio, di corrispondenza, di libertà di
iniziativa economica etc.) saranno autonomamente impugnabili rivolgendosi, in relazione alle posizioni soggettive lese, al giudice ordinario. (In applicazione del
principio, la S.C. ha confermato la sentenza del Consiglio
di Stato che aveva dichiarato l’inammissibilità, per difetto di giurisdizione, del ricorso del contribuente avverso
ordini di verifica, emessi da un Ufficio ispettivo Regionale dell’Agenzia delle Entrate, all’esito dei quali l’Ufficio
finanziario aveva espletato l’accertamento ed emesso un
provvedimento di natura impositiva).
Cass., SS.UU., sent. 16 marzo 2009, n. 6315
Presidente: S. Mattone – Estensore: M. D’Alonzo
…[Omissis]…
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso notificato il 17 gennaio 2007 alla Direzione Regionale per la Campania dell’Agenzia delle
Entrate ed al MINISTERO dell’ECONOMIA e delle
FINANZE (depositato il 6 febbraio 2007), la s.p.a.
A*** – premesso che con ricorso depositato il 18 settembre 2002 aveva chiesto al Tribunale Amministrativo
Regionale della Campania (cui riteneva spettare l’afferente “controllo di legittimità… sulla scorta, del disposto
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della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 4”) l’“annullamento” (1) “degli ordini di verifica” (“n. 1009 del
2 settembre 2002 e n. 1126 del 9 settembre 2002”)
della sua “contabilità aziendale per gli anni 1997-1998”,
“emessi dall’Ufficio Ispettivo Regionale dell’Agenzia
delle Entrate”, nonché (2) di “tutti gli atti dell’amministrazione relativi alle procedure indicate, coevi, precedenti o successivi” in quanto (a) “del tutto carenti sotto
il profilo del rispetto dell’obbligo di motivazione (L.
n. 241 del 1990, art. 3 e L. n. 212 del 2000, art. 7)” e
(b) “successivi alla verifica generale ai fini delle imposte
dirette e dell’IVA per gli anni ‘97 e ‘98, già conclusasi
in data 28 dicembre 2000…, cui erano seguiti avvisi di
rettifica dell’Ufficio IVA…, per le stesse annualità ‘97 e
‘98, notificati in data 11 marzo 2002 e divenuti definitivi a seguito di pagamento delle imposte richieste” -, in
forza di un solo, complesso motivo, chiedeva di cassare
(con “vittoria” delle spese processuali) la sentenza
n. 3199/06 depositata il 26 maggio 2006 con la quale il
Consiglio di Stato aveva rigettato il suo appello avverso
la decisione (n. 2806/04, depositata il 9 marzo 2004)
del giudice amministrativo di primo grado che aveva
dichiarato “l’inammissibilità del suo ricorso… per difetto di giurisdizione”.
Nel controricorso notificato il 21 febbraio 2007
(depositato il giorno 8 marzo 2007) il Ministero intimato e l’Agenzia delle Entrate instavano per il rigetto
dell’impugnazione, con “ogni consequenziale pronuncia, in ordine alle spese del … giudizio”.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Nella sentenza gravata, il Consiglio di Stato – premesso aver la spa A*** dedotto “da un lato che il provvedimento impugnato (…ordine di rinnovo della verifica) non rientra tra gli atti tributari devoluti ai sensi del
D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, alla giurisdizione del
giudice tributario; dall’altro che tale provvedimento,
costituendo esercizio di potestà amministrativa, esibisce
profili di autonomia rispetto alla determinazione finale
ed è dunque ex se ed immediatamente contestabile avanti al giudice amministrativo” -, confermando l’inammissibilità del ricorso (“per difetto di giurisdizione del
giudice amministrativo”) dichiarata dal TAR, ha disatteso l’appello della società (la quale aveva eccepito
“l’insussistenza dei presupposti legali in base ai quali
poteva essere ordinata la verifica e dunque aziona, in
sostanza, la pretesa a non essere sottoposta a tale forma
di controllo amministrativo”) osservando:
- “l’appellante non deduce il carattere lesivo delle
specifiche modalità con le quali è stata in concreto
espletata la verifica”: di conseguenza “non viene qui
in rilievo il dibattuto problema della tutela (specie
cautelare) del contribuente a fronte di indagine
istruttoria dell’amministrazione che si svolga in modo potenzialmente lesivo del diritto del professionista
o dell’imprenditore alla riservatezza o ad evitare in-
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tralci nell’esercizio dell’attività economica”; “tale
tutela”, comunque, “in quanto volta a proteggere
diritti soggettivi non degradabili”, “non potrebbe…
essere richiesta al giudice degli interessi”;
- essendosi “conclusa con l’adozione di un atto di accertamento”, la “verifica fiscale” contestata “costituisce espletamento di attività istruttoria finalizzata
alla determinazione autoritativa dell’imposta” per cui
“l’ordine di rinnovo della verifica e la verifica stessa
costituiscono momento strumentale e prodromico
rispetto alla esatta, determinazione del presupposto
di imposta, contenuta, nell’atto di accertamento eccesso corrige: emesso nei confronti del destinatario
del controllo, concretizzandosi perciò in attività giuridicamente infraprocedimentale e dunque non immediatamente lesiva”: conseguentemente (“dunque”)
“spiega… effetto il principio consolidato secondo cui
gli atti istruttori ancorché illegittimi non sono autonomamente impugnabili per difetto di concreta lesività, dovendo la relativa contestazione essere differita
al momento dell’impugnazione, per illegittimità derivata, del provvedimento finale” si che, “per quanto…
interessa”, “i vizi del procedimento tributario non
sono immediatamente contestabili ma, ridondando
in vizi del provvedimento finale e cioè dell’atto di
accertamento, vanno… dedotti nell’ambito dell’impugnazione di questo”; “nel caso in esame, dunque,
l’illegittimità della verifica o dell’ordine di rinnovo
della stessa non può essere fatta valere anticipatamente ed in via autonoma ma va invece dedotta mediante impugnazione del provvedimento finale avanti alla
commissione tributaria, rientrando pacificamente
l’atto di accertamento in questione fra quelli sui quali solo il giudice tributario è fornito di giurisdizione
(cfr. D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2)” (come “di fatto
avvenuto, avendo la società impugnato con successo
avanti al giudice tributario l’atto di accertamento”).
Il giudice a quo osserva, ancora:
- “in tal modo l’attività di verifica fiscale”, diversamente da quanto sostenuto dall’appellante, non risulta “sottratta al controllo giurisdizionale, con
violazione del precetto di cui all’art. 113 Cost., comma 2” perché “il differimento della impugnazione…
non incide sulla giustiziabilità dell’atto istruttorio ma
costituisce mera applicazione della regola processuale secondo la quale per agire in giudizio (ed ottenere
una pronuncia di merito) occorre avere quell’interesse concreto il quale, al cospetto della funzione amministrativa procedimentalizzata, si radica e diventa
attuale solo al momento dell’adozione del provvedimento finale”;
- “sulle conclusioni sin qui raggiunte non incide il disposto della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 4,
(Statuto del contribuente) secondo cui la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi
di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i
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presupposti” in quanto lo stesso “non attribuisce…
al giudice amministrativo nuovi ambiti di cognizione
in materia tributaria, ma si limita a confermare la
sussistenza della giurisdizione di amministrativa ove
la stessa discenda dal criterio di riparto ordinario,
come acquisito in giurisprudenza”: “la giurisdizione
generale di legittimità può tuttora essere adita solo
se la controversia non sia devoluta al giudice tributario e solo se la posizione giuridica che si pretende
lesa abbia consistenza di interesse legittimo (cfr. 6^
Sez. 30 settembre 2004 n. 6353)”. In definitiva, per
il Consiglio di Stato, “la controversia rientra nell’area,
riservata alla giurisdizione del giudice tributario
speciale e non sussiste quindi il presupposto per il
ricorso agli organi di giustizia amministrativa”.
3. La spa A*** – denunziando “violazione dei limiti
esterni della giurisdizione del giudice amministrativo”,
“violazione dell’art. 103 Cost., comma 1” nonché “violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma
4” – chiede di cassare tale decisione formulando (ex art.
366 bis c.p.c.) il seguente “quesito di diritto” “dichiarare la spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo ai sensi della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7,
comma 4, recante “Disposizioni in materia di statuto
dei diritti del contribuente”, in relazione all’impugnazione degli ordini di verifica con cui l’Agenzia delle
Entrate, in difetto dei presupposti che legittimano la
riapertura di una verifica e violando l’obbligo di motivazione prescritto per gli atti dell’Amministrazione finanziaria dallo Statuto del contribuente, ha autorizzato
il compimento di atti di indagine tributaria con riferimento ad un periodo di imposta per cui si era già svolta
ed era stata conclusa una verifica generale, in quanto
nella fattispecie ricorrono tutti i presupposti della giurisdizione amministrativa:
ovvero in senso negativo, la non spettanza della
controversia al giudice tributario, per la mancata
inclusione degli ordini di verifica nel novero degli
atti assoggettati a tale giurisdizione dal D.Lgs.
n. 546 del 1992, art. 19;
e, in senso positivo, la presenza di una situazione
giuridica che si pretende lesa, avente la consistenza
dell’interesse legittimo, ma anche di libertà costituzionalmente garantite, e l’interesse concreto ed attuale ad agire per la rimozione degli, atti impugnati.
A. A sostegno di tale richiesta la ricorrente – assumendo avere “entrambi i Collegi… posto a fondamento
della, propria decisione la negazione che possa darsi
un’incidenza immediata nella sfera giuridica del contribuente sottoposto a verifica prima che un atto di accertamento sia adottato, e… quindi negato che il medesimo
contribuente possa avere un interesse ad agire avverso
l’ordine di verifica che ritenga illegittimo” -, in primo
luogo, osserva:
- “il principio… in base al quale gli atti istruttori, in
quanto aventi carattere infraprocedimentale, non
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sono autonomamente impugnabili per inidoneità a
creare una lesione immediata nella sfera giuridica del
privato, non può ritenersi… applicabile nel caso
dell’attività di indagine fiscale della p.a., la quale si
connota per gli incisivi poteri riconosciuti all’amministrazione, i quali sono in grado di comprimere
fortemente, in modo da esigere una tutela immediata avverso i medesimi, le libertà (di domicilio, di
corrispondenza, di libertà di iniziativa economica,
ecc.) del soggetto che li subisce (talvolta imponendo
non solo un pati, ma anche un obbligo positivo, un
tacere), e che, proprio in considerazione di ciò, si
caratterizza altresì per la minuziosa regolamentazione dei presupposti e delle modalità di esercizio del
potere medesimo, in chiave prettamente garantistica
nei confronti del contribuente”;
- “in relazione alla situazione azionata (da essa)
A***… non vale obiettare l’esistenza di una dualità
di situazioni giuridiche in capo al contribuente”
(“diritti soggettivi/interessi legittimi, di cui i primi
tutelabili di fronte al giudice ordinario”) in quanto
“laddove egli si dolga di una verifica che ritiene illegittima, ad essere lesa non è solo la posizione complessiva del contribuente (…) a che la potestà amministrativa venga esercitata in conformità alle regole
poste dall’ordinamento per l’esercizio della stessa,
ovvero l’interesse legittimo, ma anche, inevitabilmente, le posizioni soggettive aventi rango costituzionale, per l’evidente ragione che le stesse possono
essere limitate solo nei casi e “nei modi indicati dalla legge (… TAR, a pag. 3)”, “l’indicazione di effettuare le verifiche presso i locali del contribuente solo
in presenza di effettive esigenze, durante l’orario di
lavoro e con modalità tali da arrecare la minore
turbativa possibile, così come quelle che inducono a
limitare la permanenza nei locali e che impongono
di esaminare i documenti in luoghi diversi da quelli
del contribuente, ove questi lo richieda”, infatti, “si
muovono nell’ottica di attuare il bilanciamento delle
contrapposte posizioni secondo i criteri della necessarietà e della proporzionalità, i quali discendono
direttamente dai precetti costituzionali racchiusi
negli artt. 2, 13, 14 e 15 Cost., che sovrintendono
alle libertà inviolabili”;
- “gli stessi criteri sono ritraibili dai principi di imparzialità e buon andamento dettati dall’art. 37 Cost.,
il quale… è menzionato dall’art. 1 dello Statuto (assieme agli artt. 3, 23 e 53 Cost.), come disposizione
alla cui attuazione è diretto lo Statuto medesimo”;
“ai medesimi principi rispondono, poi, le prescrizioni che concernono la motivazione di tutti gli atti
dell’amministrazione (secondo l’ampia formula utilizza dal legislatore all’art. 7, comma 1, dello Statuto
del contribuente), l’esposizione delle ragioni che
hanno giustificato la verifica, il divieto di richiedere
documenti e informazioni di cui l’amministrazione
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già dispone, e, non ultimo, l’obbligo di improntare il
rapporto con i contribuenti ai principi di buona fede
e collaborazione”.
Secondo la ricorrente, invero, “lo stesso Consiglio
di Stato” “richiamando l’orientamento sul punto di
questa… Corte (… Sez. Un. civ. 15 ottobre 1998
n. 10186 e… 28 ottobre 2005 n. 20994)” ha riconosciuto che “quando la vertenza ha ad oggetto la contestazione della legittimità dell’esercizio del potere amministrativo, ossia quando l’atto amministrativo sia assunto nel giudizio non come fatto materiale o come semplice espressione di una condotta illecita, ma sia considerato nel ricorso quale attuazione illegittima di un
potere amministrativo, di cui si chiede l’annullamento,
la posizione del cittadino si concreta come posizione di
interesse legittimo” (CdS, sez. 6^, n. 556/2006…), per
cui il fatto che l’azione sia proposta a tutela (anche) di
un diritto costituzionale non è discriminante ai fini
della giurisdizione, risultando invece decisiva la circostanza che l’azione sia diretta (o meno) contro un atto
che costituisce esercizio di un pubblico potere (… in tal
senso anche la sentenza delle Sezioni Unite Civili della
Corte di Cassazione dell’8 marzo 2006 n. 4908, che
afferma la giurisdizione del G.O. in relazione alla domanda di risarcimento dei danni alla salute, sulla base
del rilievo dato alla mancanza, nella fattispecie, “di
provvedimenti della pubblica amministrazione o di suoi
concessionari, che siano stati impugnati o dei quali si
chiede l’annullamento” e ivi ravvisando solo “comportamenti (…), che non possono incidere negativamente
sulle posizioni di diritto soggettivo fatte valere dagli
interessati”):
“nel caso di specie essa istante si doleva dell’illegittimità degli atti adottati dall’Amministrazione
nell’esercizio del proprio potere (discrezionale) di
autorizzare la verifica tributaria, per cui, anche sotto questo profilo, doveva ritenersi correttamente
incardinata la controversia dinanzi al giudice amministrativo”.
A conclusione del punto la società afferma che il giudice a quo (il quale ha ritenuto “la controversia rientrante nell’area riservata alla giurisdizione tributaria”) ha
“errato… nel considerare l’art. 7, comma 4, dello Statuto
non applicabile” perché nella fattispecie ricorrono “tutti
i presupposti della giurisdizione amministrativa”:
- “in senso negativo, la non spettanza della controversia al giudice tributario, per la mancata inclusione
degli ordini di verifica nel novero degli atti assoggettati a tale giurisdizione dall’art. 19 D.Lgs. n. 546 del
1992” peraltro “il carattere “residuale” del ricorso
al G.A. in caso di atti aventi natura tributaria, che i
due Collegi sembrano porre a presupposto delle decisioni prese, non si deduce dalla disposizione in
esame” (scilicet, quella dell’art. 7, comma 4) “che,
viceversa, costituisce applicazione dell’art. 103 Cost.,
comma 1, il quale espressamente dispone che il ples-
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so giurisdizionale costituito dai TAR e dal Consiglio
di Stato sia il giudice “naturale” degli interessi legittimi, principio cui si deroga nel caso della giurisdizione tributaria, ma solo nei casi previsti dalla legge
(e cioè per l’impugnazione degli atti elencati al D.
Lgs. n. 546 del 1992, art. 19), per cui a fronte
dell’esercizio illegittimo dell’attività di indagine fiscale, ed in presenza delle condizioni per agire in
giudizio, si riespande la regola (generale, non residuale) della giurisdizione del G.A.”;
- “in senso positivo, la presenza di una situazione
giuridica che si pretende lesa, avente la consistenza
dell’interesse legittimo, ma anche di libertà costituzionalmente garantite, e l’interesse concreto ed attuale ad agire per la rimozione degli atti impugnati”.
B. “In relazione”, poi, “all’interesse ad agire”, “la
ricorrente sostiene che “negare la tutela immediata
a fronte degli ordini di verifica che costituiscono
reitera di altre verifiche già effettuate, senza il rispetto dei requisiti di forma e di sostanza previsti dalla
legge, ed affermare l’esistenza di una tutela differita,
equivalga a negarla del tutto” atteso che “invece di
bloccare un’attività di indagine, di cui essa A***
contestava fondamento e modalità,… ha dovuto
subire per ben due volte le conseguenze negative dei
processi verbali di constatazione redatti in esito alla
verifica illegittima, vedendosi costretta ad adire la
commissione tributaria per ottenere l’annullamento
degli avvisi di rettifica adottati su quella base, con…
inutile dispendio anche delle risorse pubbliche”.
Secondo la società, invero, “non è fondato asserire
che il “differimento” della tutela non incida sulla giustiziabilità dell’atto, ai sensi dell’art. 113 Cost., (pag. 6
della sentenza del Consiglio di Stato)” perché, pur essendo “vero… che nell’ordinamento tributario (e solo in
questo) si conosce la figura del “differimento della tutela”, “questa risulterebbe (costituzionalmente) ammissibile non semplicemente per via della non lesività attuale dell’atto” (“condizione che… non ricorre nel caso di
specie, in cui sono immediatamente ed autonomamente
rilevabili i vizi della reitera della verifica”) ma “sulla
base della circostanza che le ragioni della lesione sono
esternate (o pienamente conoscibili) solo con il provvedimento finale”.
La ricorrente, infine (“conclusivamente”), osserva
che “ammettere la giurisdizione del giudice amministrativo nella fattispecie in esame non equivale” (come
“affermato dalle Amministrazioni resistenti”) “ad introdurre una giurisdizione concorrente a quella delle Commissioni tributarie” attesa “la diversità della tutela ottenibile, in quanto il giudizio (in sede di tutela differita)
davanti alle Commissioni avrebbe ad oggetto solo la
pretesa del singolo, quale contribuente, di pagare imposte e sanzioni in misura non superiore a quella dovuta,
ma detto giudizio non tutelerebbe quegli interessi di
natura patrimoniale e non patrimoniale direttamente
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pregiudicati dall’attività ispettiva, non aventi necessariamente riflesso sull’ammontare del debito d’ imposta,
quali, ad esempio, la libertà di domicilio o la riservatezza”: “quella ottenuta con l’impugnazione dell’atto di
accertamento”, infatti, secondo la spa A***, “sarebbe,
alla fine, una tutela incompleta, nel senso che le lesioni
alla sfera della riservatezza o del domicilio, rimarrebbero tali anche se il successivo atto di accertamento venisse annullato dai giudici di merito”.
C. In terzo (ed ultimo) luogo la ricorrente contesta il
“contrario avviso espresso dal giudice amministrativo…
sulla presenza dei presupposti per agire sulla base della
L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 4” affermando che
“né il TAR, né il Consiglio di Stato, pervengono ad una
chiara definizione dell’ambito di applicazione della
norma di cui all’art. 7, comma 4, dello Statuto del contribuente” e sostiene di non “comprende re, in particolare, che significato abbia l’affermazione in base alla
quale “tale disposizione non attribuisce (…) al giudice
amministrativo nuovi ambiti di cognizione in materia
tributaria, ma si limita a confermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa ove la stessa discenda
dal criterio di riparto ordinario, come acquisito in giurisprudenza” e ancora “dunque la giurisdizione generale di legittimità può tuttora essere adita solo se la controversia non sia devoluta al giudice tributario e solo se
la posizione giuridica che si pretende lesa abbia consistenza di interesse legittimo”:
secondo la società “questo modo di argomentare…
non solo non chiarisce realmente quale sia il concreto ambito applicativo della disposizione di cui si
tratta, in relazione ai confini della giurisdizione,
ma… giunge ad una conclusione che può dirsi ampiamente errata” perché, come “ricordato”, gli “stessi giudici di Palazzo Spada…, aderendo all’orientamento sul punto di questa… Corte, hanno affermato come, ai fini dell’individuazione della giurisdizione, non sia decisiva la natura della situazione fatta
valere, quanto piuttosto la circostanza che ad essere
impugnato sia un atto costituente esercizio di un
pubblico potere, per concludere come in tale ultimo
caso la giurisdizione appartenga sempre al giudice
amministrativo, anche quando vengano in questione
diritti fondamentali (v. CdS, sezione 6^, sentenza
n. 556/2006, cit.)” (“il TAR Napoli… aveva limitato
l’applicazione della disposizione di cui all’art. 7,
comma 4, ai casi in cui non consegue alcun atto
impositivo per intervenuta decadenza dell’azione
accertatrice ovvero la verifica tributaria illegittimamente condotta non conduca ad alcun rilievo…”).
“Su questo punto decisivo della controversia”, pertanto, secondo la ricorrente, “l’argomentazione del
giudice di seconde cure appare totalmente erronea con
riferimento alla determinazione della giurisdizione amministrativa”: “in considerazione del criterio di riparto
ordinario, come acquisito in giurisprudenza”, infatti,
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“nelle ipotesi richiamate dal TAR non si verterebbe in
materia di interessi legittimi, ma di diritti soggettivi,
sottoposti ad un comportamento fattuale della p.a. lesivo della loro consistenza per cui la loro violazione in
ipotesi siffatte dovrebbe rilevare davanti al giudice ordinario, non già davanti a quello amministrativo”. La
ricorrente, infine, non ritiene “logico il ragionamento
dell’Amministrazione procedente volto a contraddire il
principio della giurisdizione amministrativa, di cui
all’art. 7, comma 4, cit.,… attraverso le argomentazioni
espresse dal Consiglio di Stato in Adunanza Generale
nel parere del 22 gennaio 2001, in quanto il tentativo di
delimitare la giurisdizione del giudice amministrativo
contenuto in detto parere si basava su disposizioni formulate nella proposta di decreto legislativo di dubbia
costituzionalità, che non a caso non sono mai state
emanate e non risultano affatto accolte dal decreto legislativo n, 32 del 2001, adottato sulla base della delega
di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 16” per cui “resta…
valido che con l’espressione organi di giustizia amministrativa si intenda il complesso TAR – Consiglio di
Stato, come afferma non solo il parere citato, ma anche
il parere del 5 dicembre 2000 del Consiglio di presidenza della Giustizia tributaria”.
4. Il ricorso deve essere respinto perché infondato.
A. Sul primo profilo di doglianza va, innanzitutto,
ribadito (in carenza di qualsivoglia convincente argomentazione contraria) che Cass. Sez. Un., 29 aprile 2003
n. 6693 (ordinanza interlocutoria), da cui gli excerpta
testuali che seguono
(a) nella disciplina del contenzioso tributario quale risultante… dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (art.
2 sia nel testo originario, che in quello novellato
dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 12, comma
2) la tutela giurisdizionale dei contribuenti, con riguardo ai tributi cui le norme citate hanno riferimento, è affidata in esclusiva alla giurisdizione delle
commissioni tributarie, concepita comprensiva di
ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria (cfr. in terminis,
ex multis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 103 del
12/3/2001) e
(b) tale esclusività “non” è “suscettibile di venir meno
in presenza di situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile e, quindi, di impossibilità di
proporre contro tale provvedimento quel reclamo
che costituisce il veicolo di accesso, ineludibile, a
detta giurisdizione” perché siffatte “situazioni”
(“quando fattualmente riscontrate”) incidono “unicamente sull’accoglibilità della domanda (ossia sul
merito), valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza giurisdizionale sulla stessa, e non già
sulla giurisdizione di detto giudice (cfr. in proposito; ex aliis, Cass. SS.UU. civ., sent. n. 11217 del
13.11.1997).
La giurisdizione (piena ed esclusiva) del giudice tri-
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butario fissata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, poi,
non ha ad “oggetto” solo gli atti per così dire “finali”
del procedimento amministrativo di imposizione tributaria (ovverosia gli atti definiti, propriamente, come
“impugnabili” dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19) ma
investe – nei limiti, ovviamente, dei “motivi” sottoposti
dal contribuente all’esame di quel giudice ai sensi
dell’art. 18, comma 2, lett. e), stesso D.Lgs. – tutte le
fasi del procedimento che hanno portato alla adozione
ed alla formazione di quell’atto tanto che l’eventuale
giudizio negativo in ordine alla legittimità e/o alla regolarità (formale e/o sostanziale) su un qualche atto
“istruttorio” prodromico può determinare la caducazione, per illegittimità derivata, dell’atto “finale” impugnato: “la correttezza del procedimento di formazione
della pretesa tributaria”, infatti (Cass., SS. UU., 4 marzo 2008 n. 5791; ma già, Cass., SS.UU., 25 luglio 2007
n. 16412), “è assicurata mediante il rispetto di una sequenza ordinata secondo una progressione di determinati atti, con le relative notificazioni, destinati, con diversa e specifica funzione, a farla emergere e a portarla
nella sfera di conoscenza dei destinatati, allo scopo,
soprattutto, di rendere possibile per questi ultimi un
efficace esercizio del diritto di difesa”.
Siffatta latitudine della giurisdizione tributaria – estesa (come detto) anche al controllo della regolarità (formale e sostanziale) di tutte le fasi del procedimento di
imposizione fiscale – evidenzia l’applicabilità (vanamente, pertanto, contestata dalla ricorrente) anche agli
“atti istruttori” fiscali – nonostante la compressione
(“comprimere fortemente”, dice la ricorrente) delle “libertà” (“di domicilio, di corrispondenza, di libertà di
iniziativa economica, ecc.”) indicate dalla contribuente
posta in essere dagli stessi – del principio della non autonoma (ed immediata) impugnabilità proprio in quanto “aventi carattere infraprocedimentali”.
“Per quanto attiene”, inoltre, specificamente alla
problematica della riconducibilità dell’atto impugnato
alle categorie indicate dal D.Lgs. 31 dicembre 1992,
n. 546, art. 19, queste sezioni unite (sentenza 27 marzo
2007 n. 7388) – confermato che giusta “una consolidata giurisprudenza… (da ultima, Sez. Un., ord.
n. 22245/06)” “tale problematica… non attiene alla
giurisdizione, ma alla proponibilità della domanda” -,
pur rilevando (“non possono non rilevare”) che la mancata inclusione degli atti in contestazione nel catalogo
contenuto in detto articolo comporterebbe una lacuna
di tutela giurisdizionale, in violazione dei principi contenuti negli artt. 24 e 113 Cost.”, hanno specificato esser
compito della commissione tributaria verificare se l’atto
in contestazione possa ritenersi impugnabile nell’ambito
delle categorie individuate del D.Lgs. n. 546 del 1992,
art. 19, “carattere esclusivo della giurisdizione tributaria”, ancora (Cass. un., 27 marzo 2007 n. 7388), “non
consente che atti non impugnabili in tale sede siano
devoluti, in via residuale, ad altri giudici, secondo le
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ordinarie regole di riparto della giurisdizione (Sez. Un.,
ord. n. 13793/04)”:
“l’attribuzione al giudice tributario di una controversia che può concernere la lesione di interessi legittimi”,
infatti, come chiarito, “non incontra un limite nell’art.
103 Cost.” perché (“secondo una costante giurisprudenza costituzionale”: “da ultime, ordinanze n. 165 e 414
del 2001 e sentenza n. 240 del 2006”) “non esiste una
riserva assoluta di giurisdizione sugli interessi legittimi
a favore del giudice amministrativo, potendo il legislatore attribuire la relativa tutela ad altri giudici”.
In secondo luogo, poi, deve evidenziarsi che l’incidenza della specifica attività amministrativa contestata
su “posizioni soggettive aventi rango costituzionale” (in
particolare, come adduce la ricorrente, su “posizioni
soggettive” tutelate dai “precetti costituzionali racchiusi negli artt. 2, 13, 14 e 15 Cost., che sovraintendono
alle libertà inviolabili”), limitabili quindi “solo nei casi
e nei modi indicati dalla legge”, non consente affatto di
ravvisare nell’eventuale lesione di quelle “posizioni” (o
“situazione composita”) una “situazione giuridica…
avente la consistenza di interesse legittimo” perché le
condizioni fissate per la legale temporanea “violaibilità”
di quelle libertà lasciano integra la originaria consistenza di diritto soggettivo delle stesse attesa la loro mera,
temporalmente e funzionalmente limitata, compressione. Il preteso “difetto”, negli “ordini” qui impugnati,
dei presupposti di legge – lamentato dalla ricorrente,
quindi, non lede un mero interesse legittimo ma integra
(se sussistente) la lesione di un vero e proprio diritto
soggettivo del contribuente nei cui confronti viene eseguita la verifica ordinata perché solo l’esistenza di quei
“presupposti” (che nella specie si assumono, in ipotesi,
mancanti) rendono legittima l’azione accertativa e fa
sorgere, a carico del contribuente verificato, gli obblighi
di “pati” detta azione nonché di “facere” quanto eventualmente le afferenti norme gli impongano per consentire agli inquirenti di svolgere appieno la propria attività, il tutto sempre a prescindere dall’eventuale esito,
negativo per l’Ufficio, del controllo, stesso.
È appena il caso di evidenziare, di poi, che l’eventuale esito negativo per l’Ufficio dell’attività di accertamento (con conseguente non emissione di alcun provvedimento fiscale) compiuta in forza di ordini ritenuti illegittimi dal contribuente integra fattispecie del tutto diversa da quella in esame (conclusasi con l’emissione di
un provvedimento impositivo, come evidenziato dal
giudice a quo) e, comunque, porta la valutazione di quel
fatto nell’orbita giurisdizionale del giudice ordinario
(quindi, non del giudice amministrativo) siccome ipoteticamente lesiva di diritti squisitamente soggettivi del
contribuente a non subire, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, verifiche fiscali e, di conseguenza, le connesse compressioni legali ai suoi corrispondenti diritti (anche costituzionalmente garantiti,
come espone la stessa società ricorrente), al di fuori dei
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casi e delle ipotesi previste dalle afferenti leggi che attribuiscono e circoscrivono il sorgere e l’esercizio del potere fiscale di controllo.
B. In ordine alla legittimità del differimento al momento della impugnazione dell’atto impositivo della
tutela giurisdizionale per vizi e/o per irregolarità concernenti atti compiuti nel corso dell’iter amministrativo
conclusosi con l’adozione dell’atto impositivo notificato
è sufficiente ricordare il pensiero (“costantemente affermato”, come dice lo stesso giudice delle leggi) della
Corte Costituzionale (decisione 23 novembre 1993 n. 4
06, che ricorda “da ultimo le sentenze n. 154 del 1992;
n. 15 del 1991; n. 470 del 1990; n. 530 del 1989”) secondo cui “gli artt. 24 e 113 Cost., non impongono una
correlazione assoluta tra il sorgere del diritto e la sua
azionabilità, la quale può essere differita ad un momento successivo ove ricorrano esigenze di ordine generale e
superiori finalità di giustizia, sempre che il legislatore
osservi il limite imposto dell’esigenza di non rendere la
tutela giurisdizionale eccessivamente difficoltosa, in
conformità al principio della piena attuazione della garanzia stabilita dalle suddette norme costituzionali : nel
caso, non si ravvisano né sono state dedotte difficoltà
della “tutela giurisdizionale” relativa agli atti qui impugnati quali conseguenti al differimento di quella tutela
al momento della emissione dell’atto di imposizione fiscale. C. Il “corretto ambito applicativo” della disposizione dettata dal della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7,
comma 4, (secondo cui “la natura tributaria dell’atto
non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti” – di cui la
ricorrente lamenta la mancata delimitazione -, infine, è
stato già precisato nella sentenza 13 luglio 2005 n. 14692
di queste sezioni unite per la quale quella disposizione
riconferma il carattere esclusivo e pieno della giurisdizione ordinaria in materia tributaria, non fa che enfatizzare un principio già generalmente riconosciuto e “comporta”, salvo espresse previsioni di legge, “una naturale
competenza del giudice amministrativo” soltanto nell’impugnazione di atti amministrativi… a contenuto generale o normativo, come i regolamenti e le delibere tariffarie e di atti” (“aventi natura provvedimentale”) “che
costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà
impositiva e in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la
giurisdizione sul rapporto tributario”. Nella stessa sentenza, inoltre, si è precisato che “tale principio… non
può mai comportare una doppia tutela (dinanzi al giudice amministrativo e a quello ordinario o tributario) nei
confronti di atti impostivi o di atti del procedimento
impositivo”. Quest’ultimo corollario, nel caso, riveste
natura decisiva del punto in esame non essendo dubitabile (né essendo stato dubitato del) la sussistenza, in
capo al contribuente, del potere di contestare innanzi
agli organi di giustizia tributaria la legittimità anche
degli “ordini di verifica” de quibus in quanto atti pro-
2 0 0 9
127
dromici del provvedimento impositivo eventualmente
adottato all’esito di quanto emerso da quella verifica.
In ordine al punto concernente la “tutela”, innanzi
agli organi di giustizia tributaria, “nei confronti” di
tutti gli “atti del procedimento impositivo”, è sufficiente ricordare le decisioni di questa Corte nelle quali si è
ammessa la sindacabilità, da parte di detti organi:
(a) degli atti prodromici del “procedimento impositivo”
quali i provvedimenti emessi dal Procuratore della
Repubblica D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art.
33 e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma
2, di autorizzazione alla perquisizione domiciliare
e/o personale da parte degli organi fiscali inquirenti
(Cass. trib.:19 ottobre 2005 n. 20253; 12 ottobre
2005 n. 19837; 1 ottobre 2004 n. 19690; 3 dicembre
2001 n. 15230; 19 giugno 2001 n. 8344);
(b) del preventivo invito al pagamento (contenuto nel
D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 6), quale
adempimento necessario e prodromico alla iscrizione
a ruolo dell’imposta sul valore aggiunto (Cass. trib.:
18 aprile 2008 n. 10179 e 14 aprile 2006 n. 8859);
(e) dell’“invito al pagamento” notificato dal Comune al
contribuente quale atto prodromico all’iscrizione a
ruolo (Cass. trib., 6 dicembre 2004 n. 22869);
(d) dell’invito di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633,
art. 51, comma 2, n. 2, per fornire dati, notizie e
chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei
conti bancari (Cass. trib., 18 aprile 2003 n. 6232);
(c) dell’invito al pagamento menzionato nel D.P.R. 28
gennaio 1988, n. 43, art. 67, comma 2, lett.a), (Cass.
trib. 12 marzo 2002 n. 3540) e;
(f) più in generale, sulla scorta dei principi affermati da
queste sezioni unite (sentenza n. 16412 del 2007, cit.),
sulla mancata notifica di un atto prodromico quale
“vizio proprio” (D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19,
comma 3) dell’atto notificato al contribuente (Cass.
trib., 25 gennaio 2008 n. 1652).
5. Per la sua totale soccombenza la spa A***, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., deve essere condannata a rifondere
alle amministrazioni pubbliche le spese di questo giudizio di legittimità, liquidate, nella misura indicata in
dispositivo, in base al valore indeterminato della controversia ed all’attività difensiva espletata da dette amministrazioni. … [Omissis]…
••• Nota a sentenza
1. Con una sentenza ampia e particolarmente motivata le Sezioni Unite della Cassazione, pur non essendo state chiamate a dirimere contrasti o a risolvere
questioni di particolare rilevanza ma intervenendo su
un ricorso proposto per motivi attinenti la giurisdizione ex art. 362 c.p.p., affrontano in modo completo un
tema di grande interesse, sino a questo momento solo
sfiorato da altri arresti giurisprudenziali.
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In particolare, dovendo individuare modalità e limiti di impugnazione degli ordini di verifica emessi
dagli uffici fiscali, atti prodromici a quelli eventualmente impositivi, indicano regole generali di tutela del
contribuente (una sorta di vademecum) avverso gli
atti posti in essere dagli uffici fiscali durante l’attività
istruttoria, connessa all’accertamento di eventuali
obbligazioni tributarie.
2. Per comprendere a fondo la decisione bisogna
preliminarmente far cenno al caso concreto.
Una società veniva investita di un’attività ispettiva
da parte di Ufficio periferico dell’Agenzia delle entrate,
attività imposta da ordini di verifica emessi dall’Ispettorato regionale dell’Agenzia delle Entrate.
La ispezionanda società, ritenendo gli ordini in questione illegittimi (sia perché carenti sotto il profilo della
motivazione sia perché viziati da eccesso di potere in
quanto imponevano irragionevolmente un nuovo accertamento relativo ad annualità di imposta già oggetto di
precedente verifica, conclusasi con l’emissione di contestazioni) li impugnava con ricorso al TAR Campania.
Sosteneva, sulla scorta di vari argomenti, che fosse
compito della giustizia amministrativa il sindacato su
tali atti.
In primo luogo, evidenziava come gli ordini di verifica non fossero impugnabili dinanzi al giudice tributario in base al D.Lgs. n. 546/92, in quanto non esplicitamente indicati nell’elenco di atti contenuto nell’art.
19 del D.Lgs. citato.
Essi, però, erano espressione di potestà amministrativa che comprimeva diritti e libertà del contribuente,
affievolitisi al rango di interessi legittimi, la cui tutela
non poteva che essere richiesta all’articolazione
“Tar – Consiglio di Stato”.
Tale conclusione, già valida in astratto secondo i
principi generali, trovava poi ulteriore sostegno nell’ultimo comma dell’art. 7 della L. n. 212/2000 (legge
nota come Statuto del contribuente) che testualmente
stabilisce che “la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa,
quando ne ricorrano i presupposti”.
3. Il Tar prima ed il Consiglio di Stato poi dichiaravano l’inammissibilità del ricorso per difetto di
giurisdizione.
Entrambi gli organi di giustizia amministrativa
evidenziavano, in primis, come l’attività istruttoria
dell’amministrazione finanziaria fosse lesiva non di
posizioni di interesse legittimo ma di vero e proprio
diritto soggettivo.
Gli atti che compongono l’istruttoria, però, inserendosi in una sequenza procedimentale che si conclude
con il procedimento di accertamento, potevano essere
impugnati soltanto in uno a quest’ultimo.
Siccome l’atto di accertamento va censurato dinanzi la giurisdizione tributaria, era a questa che bisognava rivolgersi anche per poter ottenere il vaglio dei
t r i b u ta r i o
128
provvedimenti istruttori.
Il differimento al momento conclusivo del procedimento dell’impugnazione non incideva sulla giustiziabilità dell’atto ma costituiva esso stesso espressione del
principio secondo cui per agire in via giurisdizionale
c’è bisogno di un interesse.
Infine, l’art. 7 dello Statuto del contribuente non
appariva norma dirimente, non attribuendo nuovi
ambiti di cognizione alla giustizia amministrativa in
materia tributaria, ma confermando la giurisdizione
amministrativa in caso in cui fossero in gioco interessi legittimi.
4. Investite del ricorso da parte della società, che
chiedeva di annullare la declaratoria di difetto di giurisdizione del Consiglio di Stato ed ex adverso affermare l’impugnabilità immediata degli “ordini di verifica” dinanzi la giurisdizione amministrativa, le Sezioni Unite per decidere sul caso concreto, hanno operato
una completa disamina dell’impugnabilità degli atti
istruttori in generale.
Il punto di partenza non poteva che essere quello
dell’estensione della giurisdizione tributaria.
Di tale aspetto la Cassazione si era già occupata in
altre occasioni, sia pure per ragioni diverse; da uno di
quegli arresti1, le Sezioni Unite prendono spunto, in
particolare valorizzando due proposizioni:
nella disciplina del contenzioso tributario, quale
risultante dall’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 sia nel suo
testo originario che in quello successivo all’intervento
modificativo da parte dell’art. 12 L. 448/2001, la tutela giurisdizionale del contribuente è concepita comprensiva di ogni questione afferente l’esistenza e la
consistenza dell’obbligazione tributaria;
l’esclusività della giurisdizione tributaria non viene
meno qualora sia carente un provvedimento impugnabile, situazione questa che incide soltanto sul merito
della domanda (e cioè sulla sua accoglibilità).
Dall’affermato principio di esclusività della giurisdizione tributaria sull’obbligazione tributaria le Sezioni Unite fanno derivare quale corollario una prima
1 Ci si riferisce in particolare a Cass. SS. UU., 29 aprile 2003, n. 6693,
CED Cass. n. 562546 secondo cui “In tema di contenzioso tributario e nella disciplina risultante sia dall’art. 1 del D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 636 che dall’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, la
tutela giurisdizionale dei contribuenti è affidata in esclusiva alla
giurisdizione delle commissioni tributarie, concepita comprensiva di
ogni questione afferente all’esistenza ed alla consistenza dell’obbligazione tributaria e non suscettibile di venir meno in presenza di
situazioni di carenza di un provvedimento impugnabile e, quindi, di
impossibilità di proporre contro tale provvedimento quel reclamo
che costituisce veicolo di accesso, ineludibile, a detta giurisdizione.
In tal caso, dette situazioni, quando attualmente riscontrate, incidono unicamente sull’accoglibilità della domanda (ossia sul merito),
valutabile esclusivamente dal giudice avente competenza giurisdizionale sulla stessa, e non già sulla giurisdizione di detto giudice”; in
termini analoghi si v. pure Cass. SS. UU., 13 novembre 1997,
n. 11217, CED Cass. n. 509830 e Cass. SS. UU, 12 marzo 2001,
n. 103, CED Cass. n. 544676.
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fondamentale conclusione: la giurisdizione non ha ad
oggetto solo il provvedimento conclusivo con cui gli
Uffici finanziari accertano i tributi da pagare ed il
quantum degli stessi ma l’intera fase del procedimento
che ha portato alla formazione dell’atto conclusivo
perché i vizi avvenuti in quella si riverberano necessariamente sul provvedimento conclusivo2 .
Gli atti prodromici che si inseriscono nella sequenza istruttoria, quindi, sono certamente suscettibili di
sindacato.
Aggiunge, però, la Corte – mutuando l’argomento
dalle teorie sul procedimento amministrativo in generale – che gli atti istruttori, seppure possono comprimere o limitare da subito posizioni soggettive del
contribuente, restano funzionali alla conclusione di un
iter procedimentale (hanno natura “infraprocedimentale”) e, quindi, gli eventuali vizi degli stessi potranno
essere fatti valere soltanto impugnando il provvedimento conclusivo.
Il differimento del momento dell’impugnazione, del
resto, non appare in contrasto con i principi costituzionali (in particolare artt. 24 e 113 Cost.), in quanto non
è costituzionalmente necessaria la contemporaneità tra
il sorgere del diritto e la sua azionabilità, che, quindi,
può essere differita ad un momento successivo3.
Giungendo, infine, al caso concreto la Suprema
Nomofilichia afferma che gli ordini di verifica come
atti istruttori prodromici sono certamente suscettibili
di sindacato – così come già è stato riconosciuto in
altri casi per altre tipologie di atti inseriti nella sequenza procedimentale 4 – ma i vizi degli stessi potranno
essere dedotti soltanto in uno al provvedimento di
carattere impositivo.
5. Siccome nel caso di specie, all’ordine di verifica
era poi seguito un provvedimento impositivo, la Corte
avrebbe potuto fermarsi qui, avendo indicato la soluzione del caso concreto.
Ed invece, in funzione didascalica, va oltre, offrendo,
sia pure incidentalmente, la soluzione anche all’ipotesi
diversa in cui agli ordini di verifica non segua un prov-
2 . A conclusioni analoghe già Cass. SS.UU., 4 marzo 2008, n. 5791,
CED Cass. n. 602254 e Cass. SS.UU., 25 luglio 2007 n. 16412, CED
Cass. n. 598269.
3 . A queste conclusioni è più volte giunta anche la Corte Costituzionale, a titolo esemplificativo, C. Cost., 23 novembre 1993, n. 406,
citata dalla motivazione della sentenza in commento.
4 . In particolare era già stata ammessa la tutela giurisdizionale differita contro i seguenti atti istruttori: 1) provvedimenti emessi dal P.M.,
ex art. 33 D.P.R. n. 600/1973, di autorizzazione alla perquisizione
personale o domiciliare da parte degli organi fiscali (da ultimo Cass.,
Sez. Trib., 19 ottobre 2005, n. 20253, CED Cass. n. 584644); 2)
preventivo invito al pagamento ex art. 60 D.P.R. n. 633/1972 (Cass.,
Sez. Trib. 18 aprile 2008, n. 10179); 3) invito al pagamento notificato dal Comune al contribuente quale atto prodromico all’iscrizione a ruolo (Cass., Sez. Trib., 6 dicembre 2004, n. 22869, CED Cass.
n.579395); 4 invito al pagamento menzionato dall’art. 67, comma
2, D.P.R. n. 43/1988 (Cass., Sez. Trib., 12 marzo 2002, n. 3540, CED
Cass. n. 552992).
2 0 0 9
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vedimento impositivo, per non avere l’attività istruttoria
individuato contestazioni da muovere al contribuente
ma quest’ultimo, comunque, si ritiene leso, nelle sue
posizioni soggettive, dall’atto prodromico.
È un caso in cui va certamente esclusa la possibilità
di ricorrere alla giurisdizione tributaria; non essendo
stato emesso un provvedimento di natura fiscale, non è
in gioco l’obbligazione tributaria e manca quindi il presupposto per rivolgersi alle Commissioni tributarie.
Secondo la Corte, il giudice da adire va individuato
ricorrendo al criterio generale di riparto fra giurisdizione amministrativa ed ordinaria e quindi giudice
amministrativo per gli interessi legittimi, giudice ordinario per i diritti soggettivi.
Nel caso di specie, la corretta qualificazione delle
posizioni soggettive in gioco è quello di “diritti soggettivi”, in particolare il diritto del contribuente a non
subire, al di fuori dei casi previsti dalla legge, verifiche
fiscali e di conseguenze le connesse compressioni legali ai suoi corrispondenti diritti anche costituzionalmente garantiti, quali ad esempio, la libertà di domicilio,
di corrispondenza, di iniziativa economica etc.
Al giudice ordinario, quindi, bisognerà rivolgersi
per contestare ordini di verifica non sfociati in un
provvedimento impositivo.
Nulla la Cassazione dice sul tipo di azione esperibile; dovendosi escludere, però, in base ai principi generali, la possibilità che il giudice ordinario disponga
l’annullamento di un atto, comunque, amministrativo,
il contribuente potrà limitarsi a richiedere soltanto il
risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c..
6. L’iter argomentativo della Corte si chiude con un
breve cenno su quale dovesse essere la lettura corretta
del quarto comma dell’art. 7 dello Statuto del contribuente, disposizione evocata dal ricorrente per sostenere la tesi della sindacabilità davanti al TAR degli
ordini di verifica. Le Sezioni Unite sul punto si limitano
a ribadire quanto già evidenziato in altra recente sentenza della Cassazione (5).
5 Ci si riferisce a Cass, Sez. Trib., 13 luglio 2005, n. 14692, CED Cass.
n. 581753 secondo cui “La giurisdizione del giudice ordinario in
ordine ai tributi non devoluti alla giurisdizione tributaria prima
della riforma introdotta dall’art. 12, comma secondo, della legge 28
dicembre 2001, n. 448, ha carattere pieno ed esclusivo, estendendosi la cognizione di tale giudice, non al solo rapporto tributario, ma
anche alla legittimità, sostanziale e procedimentale, degli atti del
procedimento impositivo, tanto di accertamento che di riscossione
(ivi compresa la tutela cautelare). Nè può farsi leva – al fine di ritenere devolute al giudice amministrativo le controversie relative alla
legittimità dei predetti atti, in quanto concernenti, in assunto, posizioni di interesse legittimo – sull’art. 7, comma quarto, della legge
27 luglio 2000, n. 212, in materia di statuto dei diritti del contribuente: stabilendo, infatti, che “la natura tributaria dell’atto non
preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne
ricorrano i presupposti”, tale disposizione si limita a confermare il
principio, già generalmente riconosciuto, per cui il carattere esclusivo e pieno della giurisdizione ordinaria in materia tributaria non
impedisce che, ove la legge attribuisca ad organi amministrativi una
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La norma altro non fa che confermare un principio
generale già riconosciuto, e cioè l’attribuzione al giudice
amministrativo di una naturale competenza sull’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o
normativo, come i regolamenti e le delibere tariffarie e
di atti aventi natura provvedimentale che costituiscano
un presupposto dell’esercizio dell’attività impositiva ed
in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la giurisdizione sul
rapporto tributario.
7. Tirando le fila del discorso, la Corte, con la sentenza in commento, segna con precisione gli ambiti di
intervento delle varie articolazioni della giurisdizione ed
potestà discrezionale di incidere su situazioni di diritto, possa sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo secondo i normali
criteri di riparto (come avviene per l’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativo, ovvero di atti di natura
provvedimentale che costituiscano un presupposto dell’esercizio
della potestà impositiva). Ne consegue che, in difetto di speciale disciplina normativa, non può ritenersi sottratta alla giurisdizione
ordinaria, in materia di accise, la cognizione di atti del procedimento impositivo e l’esercizio della tutela cautelare spettante al giudice
competente per il merito (nella specie, si trattava di impugnazione
avverso il rigetto dell’istanza di sospensione della riscossione dell’accisa liquidata su quantitativi di alcool irregolarmente svincolati dal
regime di sospensione – imposta della quale il soggetto obbligato
aveva chiesto l’abbuono a norma dell’art. 4 del D.Lgs. 26 ottobre
1995, n. 504 – nonché di ripristino della garanzia fideiussoria prestata a garanzia della circolazione del prodotto in sospensione
d’accisa)”.
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130
indirettamente individua un vero e proprio reticolo di
tutele a favore del contribuente.
Il giudice tributario è competente esclusivo per il
rapporto tributario ed a lui sarà demandato il controllo
dell’intero procedimento che si conclude con l’emanazione del provvedimento impositivo.
I vizi degli atti istruttori che si riverberano sull’atto
conclusivo dell’iter saranno sindacabili dalle Commissioni tributarie.
La tutela riservata da questa articolazione giurisdizionale avrà ad oggetto la verifica della legittimità o
meno della pretesa fiscale dell’Amministrazione, attraverso l’annullamento o la rettifica degli atti attraverso
cui quella pretesa si manifesta. Al giudice ordinario il
contribuente potrà rivolgersi quando in seguito all’adozione di atti prodromici di natura istruttoria non venga
emesso alcun provvedimento impositivo: l’azione esperibile sarà di tipo risarcitorio.
Il giudice amministrativo, infine, potrà essere chiamato a sindacare atti a contenuto generale o normativo
che costituiscono il presupposto giuridico della potestà
impositiva.
Il TAR potrà annullare questa tipologia di atti per
vizi di legittimità ma il contribuente, qualora non intenda rivolgersi al giudice amministrativo, potrà, comunque, richiedere a quello tributario, che di quegli atti è
chiamato a fare applicazione, una tutela limitata al caso
concreto e cioè la c.d. disapplicazione del provvedimento generale e normativo.
diritto
Internazionale
La giurisprudenza delle Corti di Common law
in tema di cessazione dei trattamenti medici salvavita
in pazienti in stato vegetativo persistente
133
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea
Osservatorio di giurisprudenza internazionale
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato, specialista in diritto ed economia della Comunità europea
139
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●
La giurisprudenza
delle Corti di Common law
in tema di cessazione
dei trattamenti medici
salvavita
in pazienti in stato
vegetativo persistente
● Francesco Romanelli
Avvocato, Specialista in diritto ed economia
dell’Unione Europea
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Il triste caso di E. Englaro ha suscitato nel nostro
Paese un acceso dibattito con la ormai usuale divisione
dell’opinione pubblica e dei suoi rappresentanti politici
in opposte fazioni che, agli occhi di un osservatore distaccato, sembra non abbiano alcun punto condiviso tra
loro.
Al di là di quanto riportato dalla stampa, sia quotidiana che periodica, e dalle altre fonti informative, generalmente di non elevato livello e prive di precise cognizioni su ciò di cui si tratta, e di quanto affermato da
numerosi esponenti istituzionali, sia civili, sia religiosi,
è opportuno verificare come la questione sia stata affrontata, e risolta, dalle autorità giudiziarie di altri Paesi, così da poter ascoltare anche opinioni diverse, rispetto a quelle sinora sentite.
“La questione non è relativa a terminare una vita ma
solo a permettere alla natura di fare il proprio corso,
come sarebbe accaduto fino a pochi anni fa o nei luoghi
dove la scienza medica non è ancora avanzata come in
questo paese. Ma i progressi della scienza medica possono comportare che il paziente sia trasformato in un
prigioniero in una gabbia dalla quale non potrà uscire
per molti anni e senza vantaggi o qualità della vita: una
vita, quindi, senza nessuno di quei significati accettabili che il concetto di vita contiene; solo che attraverso
meccanismi vari la vita è tenuta in un corpo”1.
Le tematiche del trattamento dei pazienti in fine vita
sorgono, ovviamente, in quelle realtà che offrano assistenza sanitaria ai massimi standard, sia tecnologici che
scientifici, ai propri cittadini: è inutile negare, infatti,
che questi sono temi che involgono solo i Paesi del primo
mondo, lasciando del tutto fuori le economie dei Paesi
in via di sviluppo nelle quali la morte rimane una questione naturale.
Una prima questione che pare opportuno affrontare
è la definizione data a quello che è stato definito “stato
vegetativo persistente”2 che è la condizione clinica di
inconsapevolezza di sé e dell’ambiente circostante nella
quale il paziente respira spontaneamente, ha una circolazione stabile e mostra cicli di chiusura ed apertura
degli occhi che possono sembrare sonno e veglia.
Nella sentenza resa dal Queensland Guardianship
and Administration Tribunal il 13.9.20033, il giudice
tutelare australiano ha affermato che, sulla base delle
evidenze scientifiche disponibili, non vi sia alcuna differenza tra lo stato vegetativo persistente e lo stato vegetativo permanente.
1
Supreme Court of Arizona, in Rasmussen v. Fleming (1987) 154 Ariz.
207.
2 B Jennett, F Plum, ‘Persistent vegetative state after brain damage’
(1972) 1 Lancet 734; D T.Wade, C.Johnston, British Medical Journal,
1999; 319:841-844: “a clinical condition of unawareness of self and
environment in which the patient breathes spontaneously, has a
stable circulation, and shows cycles of eye closure and opening which
may simulate sleep and waking”.
3 MC, Re [2003] QGAAT13, 19, in www.auslii.edu.au
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D i r i t t o
In t e r n a z i o n a l e
La sentenza pronunciata dalla Cout of Appeal (England and Wales) nel caso Bland, definisce il P.V.S. come
“quella condizione medica chiaramente distinta da altre
condizioni conosciute talvolta come “coma irreversibile”, “sindrome di Guillan‑Barre”, “sindrome del chiavistello o locked‑in syndrome”4, e morte celebrale. Le sue
caratteristiche distintive sono che il tronco encefalico
rimane vivo e funzionante mentre la corteccia cerebrale
perde le sue funzioni e la sua attività. Ma sebbene gli
occhi del paziente siano aperti egli non può vedere. Egli
non può udire. Sebbene capace di riflessi, soprattutto in
risposta a stimoli dolorosi, il paziente è incapace di
movimenti volontari e non può sentire dolore. Egli non
può assaporare o odorare. Non può parlare o comunicare in alcun modo. Egli non ha funzioni cognitive e non
può perciò provare alcuna emozione né piacevole né
spiacevole”.
Il problema del quale si tratta è stato mirabilmente
riassunto dalla sentenza della Camera dei Lords nel
caso Airedale N.H.S. Trust v. Bland 5 dove si legge:
“Non c’è dubbio che sia compito del Parlamento, non
dei Tribunali, decidere le vaste questioni che il caso
solleva. Fino a pochi anni fa non vi erano dubbi su cosa
fosse la vita e cosa fosse la morte. Un uomo era morto
se cessava di respirare ed il suo cuore smetteva di battere. Non c’erano mezzi artificiali in grado di sostenere
tali indicatori di vitalità per poco tempo in più. La morte, nel senso tradizionale, era al di là dell’umano controllo. A parte i casi di omicidio, la morte occorreva
naturalmente quanto le funzioni naturali del corpo non
erano più in grado di sostenere i polmoni ed il cuore. I
recenti sviluppi della scienza medica hanno intaccato
alla base le antiche certezze. In medicina, la cessazione
del respiro o del battito cardiaco non comporta più la
morte. Attraverso l’uso di un ventilatore, i polmoni che,
senza interventi sul corso naturale avrebbero cessato di
respirare, possono essere fatti funzionare, sostenendo
4 La sindrome del chiavistello o Locked‑in syndrome è una rara patologia neurologica caratterizzata dalla completa paralisi dei muscoli
volontari di tutto il corpo tranne quelli che controllano il movimento degli occhi. Può essere provocata da traumi al cervello, malattie
del sistema circolatorio, malattie che distruggono la mielina posta
sulle cellule nervose o sovradosaggi di medicinali. Gli individui affetti dalla sindrome del chiavistello sono coscienti e possono pensare
e ragionare ma non possono parlare o muoversi. La patologia lascia
il paziente completamente muto e paralizzato. Comunicazioni possono essere possibili attraverso il movimento degli occhi. Definizione
data dal National Institute of Neurological Disorders and
Stroke – struttura del National Health Institute americano.
Cfr. www.ninds.nih.gov/disorders/lockedinsyndrome/lockedinsyndrome.htm.
5 in [1993] A.C. 789, p. 878. Così si legge nella sentenza: Anthony
David Bland, all’epoca dei fatti diciassettenne, andò allo stadio di
Liverpool per tifare la propria squadra. Nel corso degli incidenti che
si verificarono in quel giorno, i suoi polmoni furono compressi e
perforati con la conseguente interruzione nell’ossigenazione del
cervello. Come risultato egli soffrì un catastrofico ed irreversibile
danno ai centri superiori del cervello. La condizione in cui egli versa
sin dall’aprile 1989 è conosciuta come stato vegetativo persistente.
134
in tal modo il battito cardiaco. Coloro come Anthony
Bland che in precedenza sarebbero morti per incapacità
di ingerire cibo possono essere tenuti in vita attraverso
l’alimentazione artificiale. Ciò ha portato la professione
medica a ridefinire la morte in termini di morte del
tronco encefalico, cioè la morte di quella parte del cervello senza il quale il corpo non può funzionare del
tutto senza assistenza. In alcuni casi ciò è ora possibile
in apparenza, con l’uso di ventilatori per sostenere il
battito cardiaco anche prescindendo dal tronco encefalico e perciò, in termini medici, il paziente è morto: “un
cadavere ventilato”.
Una seconda questione che è opportuno trattare in
questa sede, così come fatto dai Giudici che si sono
occupati delle tanti vicende simili a quella della povera
E. Englaro, è quella dell’alimentazione artificiale del
paziente in P.V.S.
Scrive la Corte Suprema irlandese6: “Il sondino naso
gastrico fu sviluppato all’inizio del secolo XX. È fastidioso e molti pazienti hanno grande difficoltà a tollerarlo. La gastrostomia è stata sviluppata nei primi anni ’80.
È molto meno spiacevole per il paziente ed è adesso largamente usata nei casi in cui l’alimentazione artificiale
sia necessaria per un lungo termine. Il sondino non permette al paziente di provare piacere nel mangiare e bere:
il gusto e il profumo del cibo sono eliminati. Non può
ritenersi, comunque, che un metodo di nutrizione che è
chiaramente artificiale e perciò anomalo in conclusione,
possa cambiare la propria essenziale natura ed essere
considerato e divenire normale o comune, semplicemente perché esso si prolunghi per lungo tempo. Può essere
che il paziente si abitui all’anomalo ed artificiale metodo
di nutrizione e non lo consideri più come un peso, ma ciò
non rende l’alimentazione attraverso un sondino normale. Nel caso che ci occupa è anche chiaro che la paziente
non si sia mai abituata al sondino naso-gastrico. La
paziente ha reagito espellendolo un gran numero di volte, probabilmente più di mille volte anche a causa di un
riflesso a uno stimolo spiacevole e, se ci fosse un qualche
elemento di cognizione nel suo rifiuto del sondino nasogastrico, ciò renderebbe tutto più doloroso. La sua reinserzione, prima della sua sostituzione con una sonda
attraverso la gastrostomia nell’aprile del 1992 provocava
grande sofferenza nella paziente.
La sonda attraverso un gastrostoma è utilizzata sulla paziente da tre anni. È un modo molto più semplice
e molto più soddisfacente di somministrare nutrimento
alla paziente ed è molto meno pesante per lei. Ciò non
lo rende in alcun senso un modo normale di ricevere
nutrimento. Le prove fornite evidenziano che ci sono
6 [1995] IESC 1, [1995] 2 ILRM 401, [1996] 2 IR 73. In tale caso la
paziente, una ragazza di 22 anni all’epoca dei fatti si sottopose ad
un intervento ginecologico minore. A causa di una reazione all’anestesia, la paziente subì tre arresti cardiaci che provocarono gravissimi danni cerebrali per anossia.
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pazienti in grado di nutrirsi da soli attraverso la sonda
gastrica. Tali pazienti, naturalmente, perdono il piacere
della tavola ma hanno molto altro per cui vivere. Anche
nel caso di questi pazienti, comunque, l’alimentazione
attraverso una sonda gastrica è un modo anomalo ed
artificiale di ricevere nutrimento ed è un trattamento
medico. Nel loro caso, il beneficio del prolungamento
della vita sopravanza di molto il peso dell’auto-trattamento di nutrizione attraverso il sondino gastrico, così
come per i pazienti diabetici il beneficio del prolungare
la vita attraverso un medicinale auto-iniettato supera il
peso dell’iniezione stessa. Devo dire che non vedo differenze di principio tra fornire artificialmente aria attraverso un ventilatore e fornire artificialmente nutrizione
attraverso una sonda”.
Scrive la Camera dei Lords7: “La somministrazione
di nutrizione attraverso i mezzi adottati (l’alimentazione
artificiale – ndt) comporta l’adozione di tecniche mediche”. Prosegue: “l’introduzione del sondino naso-gastrico è di per sé un compito delicato anche in un paziente
privo di coscienza. Esso deve quindi essere monitorato
per assicurarsi che non muti la propria posizione e per
controllare le infiammazioni, irritazioni ed infezioni che
possono insorgere. Il catetere deve essere monitorato:
può causare infezioni (e ripetutamente ciò è avvenuto);
deve essere rimesso in sede, con un’operazione eseguita
senza anestesia. La bocca ed altre parti del corpo devono essere costantemente curate. Il paziente deve essere
continuamente mosso per evitare danni pressori. Senza
un’assistenza infermieristica adeguata e cure mediche
attente un paziente in stato vegetativo persistente soccombe rapidamente alle infezioni. Con tali cure, un
paziente giovane e, per altri versi, sano può vivere per
molti anni”.
Una ulteriore questione che si pone è quella della
straordinarietà o ordinarietà del trattamento medico8.
Il Giudice Denham della Corte Suprema irlandese ha
affermato9 che non sia pertinente discutere se il trattamento medico cui sottoporre il paziente o da interrompere sia straordinario o ordinario, poiché è sempre necessario il consenso dell’adulto capace in entrambi i
casi. “Ma – continua – la natura del trattamento è in
questo caso pertinente in ragione delle condizioni della
paziente10. Il trattamento medico è invasivo. Ciò comporta la perdita dell’integrità del corpo e della dignità.
Esso rimuove il controllo di sé e delle funzioni corporali. Quando il trattamento è amministrato attraverso una
sonda o un ago, l’elemento di cooperazione del paziente
è perduto. Mentre un paziente in stato di incoscienza in
emergenza deve ricevere tutti i trattamenti secondo il
suo miglior interesse, la terapia invasiva non deve essere
continuata in modo casuale o sbagliato”.
Una prima conclusione che può trarsi dall’esame
delle sentenze soprariportate, costituenti quelli che vengono definiti leading-case ovvero precedenti per le
successive pronunce delle Corti di common law, è dunque che lo stato vegetativo persistente o permanente è
uno stato irreversibile di perdita di coscienza derivante
dai danni gravissimi riportati alle funzioni superiori
cerebrali. Stato da tener distinto da altre gravi patologie
neurologiche.
Una seconda preliminare conclusione cui giungono
concordemente le sentenze riportate è che l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono trattamenti medici, al
pari della ventilazione forzata, particolarmente invasivi
e che necessitano di particolari capacità e competenze
tecniche per evitare l’insorgere di altre patologie ad esse
conseguenti che potrebbero portare alla morte del paziente.
Un terzo punto da esaminare è se sia lecito rifiutare
i trattamenti medici.
Secondo la Camera dei Lords stabilito che il principio
di autodeterminazione impone che sia rispettato il desiderio del paziente, così che se un adulto pienamente
capace rifiuti, anche se irragionevolmente, di consentire
il trattamento o la terapia attraverso la quale la sua vita
può essere prolungata, il medico responsabile deve comportarsi di conseguenza11.
Ma in molti casi non solo il paziente non è in condizione di dire se consente o no al trattamento in parola,
ma potrebbe non aver dato in anticipo alcuna indicazione circa la propria volontà. In tali casi, Lord Goff of
Chieveley afferma12: “Sono dell’opinione che non vi sia
alcun obbligo per il medico che abbia un paziente in
cura prolungare la sua vita senza riguardo per le circostanze. Sarebbe, infatti, stupefacente e potrebbe portare ai più negativi e crudeli effetti sul paziente, se una
tale regola assoluta dovesse esistere. Sarebbe poco compatibile con la rilevanza primaria data al principio di
autodeterminazione in quei casi nei quali il paziente
capace abbia rifiutato di dare il proprio consenso, che
la legge non dovesse fornire gli strumenti per sospendere i trattamenti, quando le circostanze lo richiedano,
qualora il paziente non sia in grado di indicare quale sia
la sua volontà e che egli non intende prestare il proprio
consenso”13.
7 Airedale N.H.S. Trust v. Bland cit., p. 4
8 Ad essa fa riferimento l’insegnamento della Chiesa Cattolica: v.
Nutrition and Hydration: Moral and Pastoral Reflections (1992),
documento della Conferenza episcopale statunitense, in www.usccb.
org/prolife/issues/euthanas/nutindex.shtm.l
9 [1995] IESC 1, [1995] 2 ILRM 401, [1996] 2 IR 73, p. 323.
10 Sottoposta a tutela su istanza dei familiari nel 1972.
11 Schloendorff v. Society of New York Hospital 105 N.E. 92, 93, per
Cardozo J. (1914); S. v. McC. (Orse S.) and M (D.S. Intervene); W
v. W [1972] A.C. 24, 43, per Lord Reid; and Sidaway v. Board of
Governors of the Bethlem Royal Hospital and the Maudsley Hospital [1985] AC 871, 882, per Lord Scarman
12 Airedale N.H.S. Trust v. Bland cit., p. 10
13 La Supreme Judicial Court of Massachusetts in Superintendent of
Belchertown State School v. Saikewicz (1977) 370 N.E. 2d. 417, 428,
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D i r i t t o
In t e r n a z i o n a l e
Ciò posto, la successiva questione che si pone è se
cessare tali trattamenti possa essere considerato un atto
di eutanasia o meno14.
La Corte Suprema degli Stati Uniti15 ha affermato:
“Noi riteniamo che la distinzione tra il suicidio assistito
e la cessazione del trattamento di sostegno vitale, una
distinzione ampiamente riconosciuta e sostenuta dalla
professione medica16 e nella nostra tradizione giuridica,
sia importante e logica; essa è certamente razionale.
Primo, quando un paziente rifiuti un trattamento medico di sostegno vitale, egli muore a causa della malattia
fatale o della patologia di cui soffre; ma se un paziente
ingerisce farmaci letali prescritti dal medico, egli è ucciso dal medicinale17. Inoltre, un medico che interrompa,
o rispetti il rifiuto del paziente di iniziare un trattamento medico di sostegno vitale, intende rispettare il desiderio del paziente e cessare inutili, infruttuosi o degradanti cure al paziente quando questi non ne tragga più
beneficio”18 .
14
15
16
17
18
ha affermato: “Presumere che la persona incapace debba essere
sempre soggetta a ciò che molte persone razionali ed capaci possono
rifiutare significa degradare lo status della persona incapace riconoscendogli una vitalità e un intrinseco valore umano inferiore”
La Corte irlandese distingue tra eutanasia, che deriva dal compimento di un atto positive che determina la cessazione della vita, dall’interruzione di trattamenti medici invasive per permettere alla natura
di seguire il proprio corso
Vacco, Attorney General of New York v. Quill, 117 S.Ct. 2293, 138
L.Ed.2d (1997) – relatore Chief Justice Renhquist
L’American Medical Association sottolinea la fondamentale differenza tra il rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale e la richiesta di
eutanasia (life ending treatment) American Medical Association,
Council on Ethical and Judicial Affairs, Physician Assisted Suicide,
10 Issues in Law & Medicine 91, 93 (1994). Vedi anche American
Medical Association, Council on Ethical and Judicial Affairs, Decisions Near the End of Life, 267 JAMA 2229, 2230-2231, 2233
(1992) (“La cessazione o il ritiro del trattamento di sostegno vitale
non è di per sè contrario ai principi di beneficio e non danneggiamento ma il suicidio assistito è contrario alla proibizione di uso degli
strumenti della medicina per causare la morte del paziente); New
York State Task Force on Life and the Law, When Death is Sought:
Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context 108 (1994)
(“[Le associazioni professionali] distinguono costantemente il suicidio assistito e l’eutanasia dal ritiro o dalla cessazione di trattamenti
di sostegno vitale e dalla previsioni di trattamenti palliativi o altri
cure mediche con possibili effetti collaterali letali”); Brief for the
American Medical Association et al. as Amici Curiae 18-25. New
York Task Force, When Death is Sought, supra, at 104-109. Council
on Ethical and Judicial Affairs, Physician Assisted Suicide, 10 Issues
in Law & Medicine 91, 92 (1994) (“Quando un trattamento di sostegno vitale viene meo, il paziente muore innanzitutto per la patologia sottostante”)
People v. Kevorkian, 447 Mich. 436, 470-472, 527 N. W. 2d 714,
728 (1994), cert. denied, 514 U.S. 1083 (1995); Matter of Conroy,
98 N. J. 321, 355, 486 A. 2d 1209, 1226 (1985) (quando un sondino di alimentazione è rimosso, la morte è provocata dalle sottostanti condizioni mediche del paziente); In re Colyer, 99 Wash. 2d 114,
123, 660 P. 2d 738, 743 (1983) (“La morte che si verifica dopo la
rimozione dei sistemi di sostegno vitale è per cause naturali”)
I diversi Stati, negli Stati Uniti, hanno regolamentato la questione,
vietando l’eutanasia ma riconoscendo al paziente il diritto di rifiutare le terapie. In caso di paziente in stato di incoscienza sono riconosciuti i poteri ad un suo rappresentante, generalmente, i parenti più
stretti. Act of Aug. 7, 1987, ch. 818, §1, 1987 N. Y. Laws 3140 (“Do
Not Resuscitate Orders”) (codificato come emendamento al N. Y.
136
La Camera dei Lords sul punto ha affermato: “I
trattamenti medici possono essere forniti per molti differenti scopi. Possono essere forniti, per esempio, come
ausilio alla diagnosi; per il trattamento di ferite fisiche
o psichiche o malattie; per alleviare dolore o pene; o per
rendere le condizioni del paziente più tollerabili. Tali
scopi possono comportare il prolungamento della vita
del paziente, per esempio per farlo sopravvivere nel
periodo della diagnosi e del trattamento. Ma a mio
avviso, non ritengo che il trattamento medico sia appropriato o dovuto solo per prolungare la vita del paziente,
quando tale trattamento non abbia alcuna utilità terapeutica o sia infruttuoso come quando il paziente sia
incosciente e non ci sia alcuna prospettiva di miglioramento nelle sue condizioni. È ragionevole anche che sia
necessario tener conto dell'invasività del trattamento e
dell'indegnità alla quale, come nel presente caso, una
persona sia assoggettata se la sua vita è prolungata attraverso mezzi artificiali, che deve causare un grave
disagio alla sua famiglia un disagio che riflette non
Pub. Health Law §§2960-2979 (McKinney 1994 and Supp. 1997));
Act of July 22, 1990, ch. 752, §2, 1990 N. Y. Laws 3547 (“Health
Care Agents and Proxies”) (codificato come emendamento al N. Y.
Pub. Health Law §§2980-2994 (McKinney 1994 and Supp. 1997)).
Ciò facendo, comunque, lo Stato non ha sostenuto il diritto alla
“morte rapida” né approvato i medici che assistano al suicidio.
Anzi l’opposto: lo Stato ha riaffermato la distinzione tra “uccidere”
e “lasciar morire” Cfr. N. Y. Pub. Health Law §2989(3) (McKinney
1994) (“Questo articolo non intende permettere o promuovere il
suicidio, il suicidio assistito o l’eutanasia”); New York State Task
Force on Life and the Law, Life Sustaining Treatment: Making Decisions and Appointing a Health Care Agent 36-42 (July 1987); Do
Not Resuscitate Orders: The Proposed Legislation and Report of the
New York State Task Force on Life and the Law 15 (Apr. 1986). Più
di recetnte la New York State Task Force on Life and the Law ha
studiato il suicidio assistito e l’eutanasia e nel 1994 si è unanimemente raccomandata contro la loro legalizzazione.. When Death is
Sought: Assisted Suicide and Euthanasia in the Medical Context vii
(1994). Secondo la Task Force, “consentire la decisione di interrompre i trattamenti di sostegno vitale o consentire il suicidio assistito o
l’eutanasia ha conseguenze e significato completamente diverso
nella politica pubblica” Id., at 146. La Corte Suprema degli SS.UU.
ha anche riconosciuto la distinzione tra il lasciar morire un paziente
ed il far morire un paziente. In Cruzan v. Director, Mo. Dept. of
Health, 497 U.S. 261, 278 (1990), la Corte concluse che “il principio
che una persona capace ha il diritto costituzionalmente protetto di
rifiutare un trattamento medico non voluto può essere rilevato dai
precedenti di questa stessa Corte”. L’affermazione della Corte di
basa non sul presupposto che il paziente abbia diritto ad una morte
rapida, come ritenuto dalla Corte d’Appello, 80 F. 3d, at 727-728,
ma sulla base del consolidato e tradizionale diritto all’integrità del
proprio corpo ed alla libertà di non essere toccati. Cruzan, 497 U.
S., at 278-279; id., at 287-288 (O’ Connor, J., concurring). Infatti,
la Corte ha osservato che “la maggioranza degli Stati in questo Paese ha leggi che sanzionano penalmente chi assista un altro mentre
si suicida.” Id., at 280. Cruzan quindi non dà conforto all’idea che
il rifiuto del trattamento di sostegno vitale sia né più né meno che un
suicidio. Per tutte queste ragioni la Corte non è d’accordo con la
pretesa dell’appellato che la distinzione tra il rifiutare i trattamenti
medici di sostegno vitale ed il suicidio assistito sia “arbitraria” ed
“irrazionale”. Il disegno di legge in discussione in queste settimane
nel Parlamento italiano appare muoversi in direzione del tutto opposta rispetto a quella delle normative in materia già in approvate
negli altri Paesi.
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soltanto i loro sentimenti ma la loro percezione della
situazione del loro parente che è tenuto in vita. Ma in
conclusione, in un caso come quello presente, è l'infruttuosità del trattamento che giustifica la sua cessazione.
Io non considero che, in circostanze come queste, un
medico sia tenuto ad iniziare o continuare un trattamento di sostegno vitale nel miglior interesse19 del suo
paziente… le cui condizioni sono quelle di una morte
vivente, e per la quale tali trattamenti sarebbero, in
termini medici, infruttuosi. Nel presente caso, si è proposto che i medici siano abilitati a non continuare sia
l'alimentazione artificiale di Anthony, sia l'uso di antibiotici. E' evidente dalle prove che Anthony, nella sua
attuale condizione, è incline alle infezioni e che, entro
un periodo di tempo incerto ma non molto lungo, egli
soccomberà all'infezione che, se incontrollata, si diffonderà causando la sua morte. Ma l'effetto di non continuare l'alimentazione artificiale sarà quello che egli
inevitabilmente morirà entro una o due settimane. Obiezioni possono essere sollevate su quest'ultima fase,
sulla base del fatto che Anthony morirà quindi di fame
e ciò costituirebbe un violazione dell'obbligo di nutrirlo
che forma parte essenziale dei doveri di cura e assistenza che ogni persona ha nei confronti di colui che sta
assistendo. Ma qui di nuovo è necessario analizzare
precisamente cosa significa ciò nel caso di Anthony.
Anthony non è soltanto incapace di nutrire se stesso.
Egli è incapace di ingoiare e quindi di mangiare o bere
nel senso normale delle parole. Vi sono abbondanti
prove che, secondo la professione medica, l'alimentazione artificiale è una forma di trattamento medico; e anche
se non fosse un trattamento strettamente medico, esso
fa parte della cura medica di un paziente. Infatti, la
funzione dell'alimentazione artificiale nel caso di Anthony, attraverso un sondino naso-gastrico, è di fornire
una forma di supporto vitale analogo a quello fornito
da un ventilatore che artificialmente immette e emette
aria dai polmoni di un paziente incapace di respirare
normalmente, così da consentire all'ossigeno di raggiungere il flusso sanguigno. Gli stessi principi devono applicarsi in entrambi i casi quando la questione sia se il
medico curante possa legittimamente sospendere il
trattamento di sostegno vitale o le cure: e se in entrambi i casi il trattamento è infruttuoso nel senso sopra
descritto, può propriamente concludersi che non sia più
nel miglior interesse del paziente continuare. E' vero che,
19 Suzanne Ost, Blinking Subjects; Blinking Justice? – Law, Medicine
and the PVS Patient, in Liverpool Law Review Vo. 23, 1, 2001:
L’applicazione del best interests test nei casi PVS comporta l’adozione di un approccio paternalistico ed oggettivo che manca di rispetto
nei confronti dell’individuo capace che una volta era il paziente in
PVS. Se invece fosse adottato il test del giudizio sostitutivo, il principio dell’autonomia dell’individuo diventerebbe centrale nel decidere se il trattamento debba essere interrotto o meno. L’applicazione
di tale test, inoltre, permetterebbe di continuare a considerare il
paziente in PVS come persona.
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137
nel caso di interruzione dell'alimentazione artificiale,
può essere detto che il paziente morirà, in conseguenza,
di fame; e ciò può portare ai nostri occhi la visione di
una comune persona che lentamente muoia di fame,
soffrendo tutte le pene e i disagi associati con quella
morte. Ma qui l'istruttoria ha chiarito che tali pene o
disagi non saranno sofferti da Anthony, che non può
sentire nulla. Inoltre, ci è stato detto che i sintomi esterni di tale tipo di morte, che possono essere fonte di disagio per le infermiere che si prendono cura di lui o per
i membri della sua famiglia che lo visitino, possono essere eliminati attraverso l’uso di sedativi.
In presenza di tali circostanze, non vedo motivi, nel
presente caso, per modificare quanto disposto solo perché il corso delle azioni proposte comporti l'interruzione dell'alimentazione artificiale”.
La Corte Suprema irlandese20 ha affermato che i
benefici per il paziente di sostenere la sua vita attraverso i mezzi di nutrizione artificiale siano di gran lunga
superato dal peso che una vita così sostenuta senza assolutamente alcuna prospettiva di miglioramento delle
condizioni del paziente e che, per tale motivo, fosse nel
miglior interesse del paziente che l’alimentazione artificiale, sia attraverso un sondino naso-gastrico, sia attraverso un sondino gastrostomico, fosse interrotta, così
cessando il prolungamento artificiale senza scopo della
vita permettendo alla paziente di morire secondo natura con tutte le cure ed i farmaci palliativi necessari per
assicurare una morte pacifica e senza dolore.
La sentenza della Corte Suprema irlandese è di particolare interesse comparativistico giacché l’Irlanda è
una repubblica con una costituzione scritta e di estremo
fervore religioso21.
Affermano i giudici irlandesi che il diritto alla vita
sia uno dei diritti fondamentali che sotto la Costituzione lo Stato garantisce di rispettare nelle sue leggi e,
così come possibile, difendere, sostenere e proteggere al
meglio da ogni attacco ingiusto.
La santità della vita umana è riconosciuta in tutti gli
ordinamenti civili ed è fondata sulla natura dell’uomo22.
La Costituzione irlandese, proseguono i supremi giudici di Dublino, riconosce questo diritto e ne garantisce la
protezione. La Corte ha affermato che il diritto alla
vita sprigiona dal diritto di ciascun individuo a vivere.
20 Cit.
21 È noto che in Irlanda i cattolici praticanti siano oltre il 90% della
popolazione e che, ad esempio, l’aborto sia vietato. Quinn’s Supermarket v. Attorney General [1972] I.R. 1, at p. 23, the Constitution
reflects a firm conviction that we are religious people.
22 House of Lords cit.: il principio fondamentale è il principio della
santità della vita umana. Un principio riconosciuto non solo nella
nostra società ma anche nella maggior parte, se non in tutte le società civilizzate del mondo moderno, come evidenziato dal suo riconoscimento sia nell’art. 2 della Convenzione Europea dei diritti umani,
sia nell’art. 6 della Convenzione internazionale dei diritti civili e
politici – adottata dall’Assemblea Generale della Nazioni Unite il
16.12.1966 ed entrata in vigore il 23.3.1976.
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D i r i t t o
In t e r n a z i o n a l e
La natura del diritto alla vita e la sua importanza
impongono una forte presunzione in favore di tutte
quelle misure in grado di preservarla, salvo casi eccezionali. Il problema, dunque, è definire tali circostanze. La
loro definizione – secondo la Suprema Corte irlandese – deve necessariamente involgere la determinazione
della natura del diritto alla vita riconosciuto dalla Costituzione23. Il diritto alla vita necessariamente implica
il diritto a nascere, il diritto a preservare e difendere
quella vita, e il diritto di mantenere quella vita a livelli
propri di umanità in materia di cibo, di vestiario e di
abitazione.
Deve riconoscersi che il diritto alla vita necessariamente implica una serie di diritti ancillari che non sono
individualmente o specificamente dichiarati nella Costituzione, ma questi diritti naturali trovano la loro fonte
nel diritto naturale di ciascun individuo alla vita. Questi diritti includono il diritto di vivere una vita nel suo
senso più pieno, di godere del sostegno e del conforto
della famiglia, di contatti sociali, di educazione, di praticare la propria religione, di lavorare, di sposarsi e diventare genitore. Includono il diritto alla riservatezza,
all’integrità del corpo e all’autodeterminazione.
Come il morire è parte e ultima, inevitabile, conseguenza della vita, il diritto alla vita necessariamente
implica il diritto che la natura segua il suo corso e di
morire una morte naturale e, se questo è il desiderio
dell’individuo, implica il diritto che la vita non sia mantenuta artificialmente dal nutrimento attraverso strumenti artificiali, che non abbiano effetto terapeutico e
che siano intesi meramente a prolungare la vita. La
23 G. v. An Bord Uchtála [1980] I.R. 32
138
Costituzione irlandese riconosce il diritto all’integrità
personale ed alla riservatezza 24.
Un interessante passaggio della sentenza tratta del
credo religioso della paziente e dei suoi familiari. Ma
afferma la Corte: “Questa è una corte di giustizia e la
Costituzione e le leggi devono essere applicate, non le
norme morali”.
È possibile trarre dalle pronunce sopra riportate i
principi comuni che le hanno ispirate.
Tutti i giudici che sono stati chiamati a decidere casi
così delicati hanno ritenuto, allo stato delle conoscenze
mediche, che lo stato vegetativo permanente fosse uno
stato senza possibilità di recupero per il paziente; che la
nutrizione e l’idratazione artificiale fosse un trattamento medico invasivo; che i pazienti capaci di intendere
possano rifiutare i trattamenti medici; che uguale diritto spetta a coloro che non sono coscienti. In questo
caso, a seconda delle differenti norme applicabili, i giudici hanno affermato che l’onere di esprimere la volontà
del paziente spetti alla Corte, quale parens patriae25
ovvero dal tutore26.
In buona sostanza, le conclusioni cui sono giunti la
Corte d’Appello di Milano e la S. Corte di Cassazione si
allineano alla giurisprudenza internazionale in materia.
24 Art. 40, c. 3 della Costituzione irlandese: Ryan v. A.G. [1965] I.R.
294, p. 313.; Kennedy v. Ireland [1987] I.R. 587, p.592: Benché non
espressamente garantito dalla costituzione, il diritto di riservatezza
è uno dei fondamentali diritti del cittadino che deriva dalla natura
Cristiana e democratica dello Stato. Il suo esercizio può essere ridotto solo dal diritto costituzionale di terzi, dalle necessità del bene
comune ed è soggetto ai principi di ordine pubblico e della morale
25 [1995] IESC 1, [1995] 2 ILRM 401, [1996] 2 IR 73, p. 29
26 MC, Re [2003] QGAAT13, 49 cit.
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SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITÀ
EUROPEE
(Terza Sezione) – 26 marzo 2009 Osservatorio
di giurisprudenza
internazionale
● A cura di Francesco Romanelli
M a r z o • a p r i l e
Avvocato e Specialista in Diritto ed Economia
dell’Unione Europea
«Inadempimento di uno Stato – Artt. 43 CE e
56 CE – Statuti di imprese privatizzate – Criteri di esercizio di taluni poteri speciali detenuti dallo Stato»
Nella causa C‑326/07, avente ad oggetto il ricorso per
inadempimento, ai sensi dell’art. 226 CE, Commissione
delle Comunità europee contro Repubblica italiana,
Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara e
statuisce:
1) La Repubblica italiana, avendo adottato le disposizioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 10 giugno 2004, recante definizione dei criteri di esercizio dei poteri speciali,
di cui all’art. 2 del decreto legge 31 maggio 1994, n. 332,
convertito, con modifiche, dalla legge 30 luglio 1994,
n. 474, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti:
– in forza degli artt. 43 CE e 56 CE, nella misura in cui
dette disposizioni si applicano ai poteri speciali previsti
dall’art. 2, comma 1, lett. a) e b), del predetto decreto
legge, come modificato dalla legge 24 dicembre 2003,
n. 350, recante disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2004), e – in forza dell’art. 43 CE, nella misura in cui
dette disposizioni si applicano al potere speciale previsto
dal citato art. 2, comma 1, lett. c). 2) La Repubblica
italiana è condannata alle spese.
La Corte si è pronunciata sulla legittimità della cosiddetta “golden share” che il governo italiano si era
riservato in occasione della privatizzazione delle imprese già a partecipazione o controllo pubblico operanti nel
settore della difesa, dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle fonti di energia, e degli altri pubblici servizi. In
particolare il governo italiano aveva riservato a sé i seguenti poteri: opposizione all’assunzione da parte di
investitori di partecipazioni rilevanti che rappresentino
almeno il 5% dei diritti di voto o la percentuale minore
fissata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con
decreto. b) opposizione alla conclusione di patti o accordi tra azionisti che rappresentino almeno il 5% dei
diritti di voto o la percentuale minore fissata dal Ministro dell’Economia e delle Finanze con decreto. c) veto
all’adozione delle delibere di scioglimento delle società,
di trasferimento dell’azienda, di fusione, di scissione, di
trasferimento della sede sociale all’estero, di cambiamento dell’oggetto sociale, di modifica dello statuto che
sopprimono o modificano i poteri speciali. d) nomina
di un amministratore senza diritto di voto.
Tali poteri potevano essere esercitati esclusivamente
ove fossero ricorsi rilevanti e imprescindibili motivi di
interesse generale, in particolare con riferimento all’ordine pubblico, alla sicurezza pubblica, alla sanità pubblica e alla difesa, in forma e misura idonee e proporzionali alla tutela di detti interessi, anche mediante
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D i r i t t o
In t e r n a z i o n a l e
l’eventuale previsione di opportuni limiti temporali,
fermo restando il rispetto dei principi dell’ordinamento interno e comunitario, e tra questi in primo luogo
del principio di non discriminazione. Si prevedeva,
inoltre, che detti poteri speciali fossero esercitati in
relazione al verificarsi delle seguenti circostanze: a)
grave ed effettivo pericolo di una carenza di approvvigionamento nazionale minimo di prodotti petroliferi
ed energetici, nonché di erogazione dei servizi connessi e conseguenti e, in generale, di materie prime e di
beni essenziali alla collettività, nonché di un livello
minimo di servizi di telecomunicazione e di trasporto;
b) grave ed effettivo pericolo in merito alla continuità
di svolgimento degli obblighi verso la collettività
nell’ambito dell’esercizio di un servizio pubblico, nonché al perseguimento della missione affidata alla società nel campo delle finalità di interesse pubblico; c) grave ed effettivo pericolo per la sicurezza degli impianti
e delle reti nei pubblici servizi essenziali; d) grave ed
effettivo pericolo per la difesa nazionale, la sicurezza
militare, l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica;
e) emergenze sanitarie».
La Corte ha rilevato che, sebbene i criteri in esame
riguardino diversi tipi di interessi generali, essi sono
formulati in modo generico ed impreciso. Inoltre, l’assenza di un nesso tra tali criteri e i poteri speciali ai
quali si riferiscono accentua l’incertezza in ordine alle
circostanze in cui i medesimi possono essere esercitati
e conferisce un carattere discrezionale a detti poteri
tenuto conto del potere discrezionale di cui dispongono
le autorità nazionali per il loro esercizio. Un siffatto
potere discrezionale è sproporzionato rispetto agli
obiettivi perseguiti.
SENTENZA DELLA CORTE
(Quarta Sezione) – 2 aprile 2009
«Direttiva 89/105/CEE – Trasparenza delle misure
che regolano la fissazione dei prezzi delle specialità per
uso umano – Art. 4 – Blocco dei prezzi – Riduzione dei
prezzi»
Nei procedimenti riuniti da C‑352/07 a C‑356/07,
da C‑365/07 a C‑367/07 e C‑400/07, aventi ad oggetto
le domande di pronuncia pregiudiziale proposte alla
Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con decisioni 14 febbraio,
28 marzo e 26 aprile 2007, pervenute alla Corte il 31
luglio, il 2 e il 29 agosto 2007, nella cause A. Menarini
Industrie Farmaceutiche Riunite Srl e altri (C‑352/07)
contro Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), e nei confronti di: Sanofi Aventis SpA,
Sanofi Aventis SpA (C‑353/07) contro Agenzia Italiana
del Farmaco (AIFA), IFB Stroder Srl (C‑354/07) contro
Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), Schering Plough
SpA (C‑355/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco
140
(AIFA), e nei confronti di: Baxter SpA, Bayer SpA
(C‑356/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA),
Ministero della Salute, Simesa SpA (C‑365/07) contro
Ministero della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco
(AIFA), e nei confronti di: Merck Sharp & Dohme (Italia) SpA, Abbott SpA (C‑366/07) contro Ministero
della Salute, Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), Baxter SpA (C‑367/07) contro Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), e nei confronti di: Merck Sharp & Dohme
(Italia) SpA, e SALF SpA (C‑400/07) contro Agenzia
Italiana del Farmaco (AIFA), Ministero della Salute,
LA CORTE (Quarta Sezione),
Per questi motivi, la Corte (Quarta Sezione) dichiara:
1) L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/105/CEE, riguardante la trasparenza
delle misure che regolano la fissazione dei prezzi delle
specialità per uso umano e la loro inclusione nei regimi
nazionali di assicurazione malattia, deve essere interpretato nel senso che, sempreché le condizioni poste da
tale disposizione siano rispettate, le autorità competenti di uno Stato membro possono adottare misure di
portata generale consistenti nella riduzione dei prezzi di
tutte le specialità medicinali o di certe loro categorie,
anche qualora l’adozione di simili misure non sia preceduta da un blocco di tali prezzi.
2) L’art. 4, n. 1, della direttiva 89/105 deve essere
interpretato nel senso che, sempreché le condizioni poste
da tale disposizione siano rispettate, possono essere
adottate misure di riduzione dei prezzi di tutte le specialità medicinali o di certe loro categorie più volte nel
corso di un unico anno e nel ripetersi di molti anni.
3) L’art. 4, n. 1, della direttiva 89/105 deve essere
interpretato nel senso che non osta a che misure di controllo dei prezzi di tutte le specialità medicinali o di
certe loro categorie siano adottate sulla base di stime di
spesa, sempreché le condizioni poste da tale disposizione siano rispettate e tali stime si fondino su elementi
obiettivi e verificabili.
4) L’art. 4, n. 1, della direttiva 89/105 deve essere
interpretato nel senso che spetta agli Stati membri determinare, nel rispetto dell’obiettivo di trasparenza
perseguito da tale direttiva nonché delle prescrizioni
della suddetta disposizione, i criteri in base ai quali
deve essere effettuata la verifica delle condizioni macroeconomiche di cui alla disposizione stessa e che tali
criteri possono consistere nella spesa farmaceutica esclusivamente, nel complesso delle spese sanitarie ovvero in
altri tipi di spesa.
5) L’art. 4, n. 2, della direttiva 89/105 deve essere
interpretato nel senso che:
• gli Stati membri devono prevedere comunque la possibilità, per un’impresa interessata da una misura di
blocco o di riduzione dei prezzi di tutte le specialità
medicinali o di certe loro categorie, di chiedere una
deroga al prezzo imposto in forza di tali misure;
• essi sono tenuti ad assicurare che sia adottata una
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M ARZO • APRILE
decisione motivata in merito ad un ogni richiesta di
questo tipo, e
• la partecipazione concreta dell’impresa interessata
consiste, da un lato, nella presentazione di un esposto sufficiente dei motivi particolari che giustificano
la sua richiesta di deroga e, dall’altro, nella trasmissione di informazioni particolareggiate supplementari nel caso in cui le informazioni fornite a sostegno
di tale richiesta siano insufficienti.
Le ricorrenti nelle cause principali commercializzano specialità medicinali i cui costi sono interamente a
carico del SSN. Nel corso degli anni 2005 e 2006 l’AIFA, sul fondamento dell’art. 48, primo e quinto comma,
del decreto legge n. 269/2003, ha adottato misure di
riduzione dei prezzi delle specialità medicinali a carico
del SSN allo scopo di garantire il rispetto del tetto di
spesa fissato al predetto primo comma. Dalle decisioni
di rinvio emerge che le misure di cui è causa sono state
adottate in base ad uno sforamento prevedibile e non
effettivo di tale tetto. Il giudice a quo, nutrendo dubbi
in merito alla conformità del sistema di fissazione dei
prezzi delle specialità medicinali quale risulta dalla
normativa oggetto delle cause principali con le prescrizioni della direttiva 89/105, ha deciso di sospendere il
procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti
questioni pregiudiziali:
«1) Se l’interpretazione dell’[art. 4, n. 1, della direttiva 89/105], nella parte che si riferisce alle “eventuali
diminuzioni di prezzo”, [sia] da ritenere nel senso che,
oltre al rimedio generale costituito dal blocco dei prezzi di tutte o di certe categorie di specialità medicinali,
sia previsto, o meno, anche un altro rimedio generale,
costituito dalla possibilità di una riduzione dei prezzi
di tutte [o] di certe categorie di specialità medicinali,
ovvero se l’inciso “eventuali diminuzioni” [debba] essere riferito esclusivamente alle specialità medicinali già
sottoposte al blocco dei prezzi.
2) Se l’art. 4, n. 1, della direttiva [89/105] – nella
parte in cui impone alle autorità competenti di uno
Stato membro di verificare, almeno una volta all’anno,
nel caso di blocco dei prezzi, se le condizioni macroeconomiche giustizi[chino] la prosecuzione del blocco
medesimo – [possa] essere interpretato nel senso che,
ammessa la riduzione dei prezzi come risposta al quesito numero 1, [sia] possibile il ricorso a tale misura
anche più volte nel corso di un unico anno e nel ripetersi di molti anni (a partire dal 2002 e fino al 2010).
3) Se, ai sensi di (…) [tale art.] 4 (…) – da leggere
alla luce [dei ‘considerando’ della direttiva 89/105] che
si soffermano sullo scopo principale delle misure di
controllo dei prezzi delle specialità medicinali
individuat[o] nella “promozione della salute pubblica
attraverso un’adeguata disponibilità di specialità medicinali a prezzi ragionevoli e [ne]ll’esigenza di evitare
disparità di misure che possano ostacolare o falsare il
2 0 0 9
141
commercio intracomunitario di dette specialità” – possa ritenersi compatibile con la disciplina comunitaria
l’adozione di misure che facciano riferimento ai valori
economici della spesa solo “stimati” anziché “accertati” (il quesito riguarda entrambe le fattispecie).
4) Se le esigenze connesse al rispetto dei tetti di spesa farmaceutica che ogni Stato membro è competente
a determinarsi debbano essere collegat[e] puntualmente alla sola spesa farmaceutica, oppure se possa ritenersi rientrante nella sfera di potestà degli Stati nazionali
la facoltà discrezionale di tener comunque conto anche
dei dati relativi alle altre spese sanitarie.
5) Se i principi di trasparenza e partecipazione delle
imprese interessate ai provvedimenti di blocco o riduzione generalizzata dei prezzi dei farmaci, desumibili
dalla direttiva [89/105], debbano essere interpretati nel
senso che sia necessario prevedere sempre e comunque
una possibilità di deroga al prezzo imposto (art. 4,
[n. 2], della direttiva [89/105]) ed una partecipazione
concreta dell’impresa richiedente, con conseguente
necessità per l’amministrazione di motivare l’eventuale
diniego».
La Corte ha statuito circa la legittimità della normativa nazionale con la precisazione che è necessario
prevedere la possibilità di chiedere una deroga alla
fissazione dei prezzi da parte delle imprese che documentino l’esistenza di particolari motivi che giustifichino l’adozione di un provvedimento in relazione ad un
determinato prodotto.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
(V sezione) – Sentenza del 5.3.2009 nella causa BARRACO – France (No 31684/05)
Presunta violazione dell’art. 11 della Convenzione – Libertà di pacifica riunione – Blocco della circolazione su un’autostrada provocata da veicoli pesanti
nell’ambito dell’operazione “lumaca”
In fatto: il ricorrente esercita la professione di camionista. Nel 2002, diciassette automobilisti, tra cui il ricorrente, organizzarono un’operazione chiamata “lumaca” su un’autostrada. L’operazione consisteva nel circolare su un tratto determinato in corteo, a velocità ridotta e occupando più corsie in modo da rallentare la circolazione degli altri autoveicoli. Alcuni poliziotti constatarono che tre veicoli in testa al corteo erano stati
fermati e impedivano completamente l’uso della strada
e provvidero ad interrogarne i conducenti, tra cui il ricorrente. Gli interessati furono citati a comparire davanti al Tribunale, per aver, al fine di bloccare la circolazione, parcheggiato o tentato di parcheggiare su una
strada aperta alla circolazione, un mezzo costituente
ostacolo al passaggio di veicoli, o impiegato o tentato
di impiegare un mezzo qualunque per creare ostacolo e
nella specie per essersi arrestato più volte con il proprio
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D i r i t t o
In t e r n a z i o n a l e
veicolo. Il Tribunale li assolse ma, sull’appello del pubblico ministero, la Corte d’Appello modificando la decisione, dichiarò gli imputati colpevoli dei reati ascritti,
condannando ciascuno a tre mesi di prigione ed al pagamento di 1.500 euro di multa. La Corte di Cassazione rigettò il ricorso.
La Corte Europea rigetta il ricorso.
La Corte ha ritenuto che la condanna del ricorrente
non abbia riguardato la sua partecipazione ad una mani-
142
festazione in quanto tale ma in ragione dello specifico
comportamento tenuto nel corso della manifestazione
stessa, cioè il blocco dell’autostrada. Ha ritenuto la Corte
che l’ostruzione totale del traffico vada al di là del mero
disagio causato da ogni manifestazione sulla pubblica
strada. Il ricorrente ha potuto esercitare, per svariate ore,
il proprio diritto alla libertà di riunione pacifica e le autorità hanno tenuto la tolleranza necessaria che conviene
adottare durante tali raduni. In conseguenza, la condanna
penale non appare sproporzionata ai fini perseguiti.
questioni
A cura di Corrado d’Ambrosio
DIRITTO CIVILE
Locazione
145
di Luca Bavoso
Avvocato
PROCEDURA PENALE
Esercizio dell’azione penale
146
di Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università di Napoli “Federico II”
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Autorizzazione commerciale e condono edilizio
di Alessandro Barbieri
Avvocato
148
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F O R E N S E
●
DIRITTO CIVILE
Locazione
Se il contratto di locazione
non registrato sia radicalmente
nullo o inefficace sino
alla registrazione
● Luca Bavoso
Avvocato
La legge n. 311 del 30.12.2004,
meglio nota come Finanziaria 2005,
ha introdotto importanti modifiche
alla disciplina delle locazioni, dirette principalmente a limitare il fenomeno dell’evasione fiscale relativa ai
redditi percepiti “in nero” dalla locazione di immobili. In particolare
l’articolo 1, comma 346, della Finanziaria 2005 dispone che “I contratti di locazione, o che comunque
costituiscono diritti relativi di godimento, di unità immobiliari ovvero
di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati”.
Secondo la norma in esame, l’obbligo di registrazione riguarda i
contratti diretti alla locazione di
unità immobiliari o di loro porzioni,
stipulati in qualsiasi forma (per atto
pubblico, per scrittura privata, autenticata o meno, o verbali) ed i
contratti di comodato di unità immobiliari o di loro porzioni, prescindendo dalla locuzione nominalistica
attribuita al contratto dalle parti ed
avendo riguardo agli effetti giuridici
che dai medesimi scaturiscono.
Dovrebbero, invece, essere esclusi dalla disciplina in parola, i contratti costitutivi di diritti reali di
godimento (la norma non menziona
diritti reali, bensì relativi), i contratti aventi ad oggetto terreni, posto
c he l’a r t . 1 c om m a 3 4 6 L .
n. 311/2004 parla di “unità immobiliare”, nonché i contratti di affit-
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2 0 0 9
to, infatti difficilmente si potrebbe
conciliare detta nozione con quella
di “cosa produttiva”, a norma
dell’articolo 1615 c.c..
Occorre poi evidenziare che,
analizzando la formulazione del
comma in esame, emerge che la
sanzione della nullità è prevista
qualora il relativo contratto non
venga registrato, ricorrendone i presupposti. Appare utile, pertanto,
stabilire quando ricorrano tali presupposti.
Sul punto, l’art. 2 , D.P.R.
26.04.1986 n. 131, rubricato “Atti
soggetti a registrazione”, prevede la
registrazione per:
- i contratti indicati nella tariffa
allegata al medesimo D.P.R.
26.04.1986 n. 131, se formati per
iscritto nel territorio dello Stato
Italiano;
- i contratti verbali indicati nell’articolo 3 comma 1 (contratti di
locazione o affitto di beni immobili esistenti nel territorio dello
Stato e relative cessioni, risoluzioni e proroghe anche tacite);
- gli atti formati all’estero che hanno per oggetto la locazione di
beni immobili.
Dalla disciplina sulla nullità introdotta con la “Finanziaria 2005”, vanno
pertanto esclusi anche quei contratti di
locazione di durata annua non superiore ai 30 giorni, non essendo soggetti a
registrazione ai sensi dell’art. 2 bis,
parte 2, della tariffa allegata al D.P.R.
26.04.1986 n. 131.
Per comprendere appieno la portata della previsione contenuta nel comma 346 dell’articolo 1, L. 30.12.2004,
n. 311, occorre analizzare preliminarmente il quadro normativo e l’orientamento giurisprudenziale ad essa previgente.
La legge 09.12.1998, n. 431, oltre a
rendere obbligatoria, all’art. 1, la forma
scritta per i contratti di locazione, pena
la loro nullità, elevava, al fine di limitare il fenomeno dell’evasione fiscale,
l’adempimento della registrazione a
requisito necessario per la piena validità del relativo contratto. Infatti la
citata legge all’art. 13, dispone che “è
nulla ogni pattuizione volta a determi-
145
nare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal
contratto scritto e registrato”, aggiungendo, all’art. 7, che “condizione per la
messa in esecuzione del provvedimento di rilascio dell’immobile locato è la
dimostrazione che il contratto di locazione è stato registrato”.
Tali gravi conseguenze, derivanti
dalla mancata registrazione del contratto, sono state gradualmente limitate ed annullate dalla giurisprudenza.
In particolare, da un lato la Corte Costituzionale, esprimendosi sull’articolo
7 della legge 9.12.1998, n. 431 (cfr.
sent. n. 333 del 5. 10.2001), ne dichiarava l’illegittimità costituzionale nella
misura in cui un onere di tipo tributario condizionava l’esercizio di un diritto fondamentale, quale quello di difesa
ex art. 24 Cost. Parimenti la Cassazione ebbe modo di specificare come il
contratto di locazione validamente
posto in essere e non registrato fosse
un contratto vincolante per le parti, che
poteva essere fatto valere in giudizio
(cfr. ex plurimis Cassazione Civile,
Sez. III, sent. n. 16089/2003).
L’omessa registrazione dei contratti
di locazione, pertanto, non comportava
sul piano civilistico, ai sensi della previgente disciplina, alcuna inefficacia.
Alla luce di tali considerazioni,
appare evidente come l’introduzione
dell’articolo 1, comma 346, della Finanziaria 2005, abbia immediatamente suscitato un vivace dibattito in dottrina ed in giurisprudenza, in relazione
alla qualifica di nullità del contratto di
locazione per omessa registrazione ed
ai possibili effetti giuridici da essa
scaturenti.
Secondo l’interpretazione della
norma più rigorosa (Scarpa, Finanziaria 2005, la nullità delle locazioni non
registrate, in Immobili & Dir., 2005),
la perentorietà del tenore letterario e la
specificità del termine utilizzato non
lascerebbe spazio alcuno a dubbi, si
tratterebbe di nullità in senso stretto,
con quello che giuridicamente ne consegue. In particolare il contratto di locazione non registrato, secondo la normativa vigente, non produrrebbe effetti giuridici (quod nullum est, nullum
producit effectum): il locatore ed il
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conduttore non potrebbero pretendere
alcuna prestazione inerente al contratto
in questione. Per le prestazioni già effettuate, il conduttore potrebbe chiedere la restituzione di quanto indebitamente versato ed il locatore potrebbe
tentare di ottenere la corresponsione di
una somma a titolo di indennità, in
base all’istituto dell’arricchimento senza causa, essendosi comunque attuata
un’occupazione, sia pure sine titulo.
Infine, nell’ottica di una nullità radicale, sarebbe altresì preclusa la possibilità di una sanatoria attraverso la registrazione tardiva del contratto.
Altra parte della giurisprudenza
(Trib. di Modena, 12.06.2006, in Giust.
Civ. 2007; Trib. di Arezzo, 30.01.2007,
in Redazione Giuffrè, 2007), considerando il suindicato orientamento della
giurisprudenza costituzionale e di legittimità, circa l’art. 13 della legge
9.12.1998, n. 431, ed estendendolo alla
norma in esame, ritiene che il contratto di locazione non registrato rimarrebbe valido, ma soggetto ad una sorta
di condizione sospensiva che lo renderebbe inefficace fino all’avvenuta registrazione, con valenza retroattiva
(art. 1360 c.c.). Ciò consentirebbe di
conservare parzialmente le ragioni
delle parti, in virtù dell’ordinaria disciplina connessa alla condizione sospensiva, e di attutire la portata della norma
che, diversamente interpretata, a molti
apparirebbe “abnorme” (cfr. Cassazione Civile, Sez. III, sent. n. 16089/2003
nonché Corte Costituzionale ord. 19
luglio 2004, n. 242). A sostegno di tale
interpretazione l’articolo 10, comma 3
ultima parte, L. 27.07.2000, n. 212
(meglio nota come Statuto del Contribuente) prevede testualmente che “Le
violazioni di disposizioni di rilievo
esclusivamente tributario non possono
essere causa di nullità del contratto”.
Tali dubbi interpretativi hanno indotto per ben due volte i giudici di merito a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma in oggetto
di valutazione, in riferimento agli articoli 3, 24 e 41 della Costituzione.
La Corte Costituzionale, con ordinanze di rigetto n. 420/2007 e 398/2008,
ha, in primo luogo, chiarito come la
norma esaminata, sancendo una nulli-
146
q u e s t i o n i
tà non prevista dal codice civile, venga
elevata dal rango di norma tributaria a
quello di norma imperativa, la cui
violazione determina la nullità del
negozio ai sensi dell’art. 1418, comma
1 (“il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la
legge disponga altrimenti”). Viene
pertanto ribadito il carattere sostanziale della norma denunciata, che non
attenendo alla materia delle garanzie
di tutela giurisdizionale, non introduce
alcun ostacolo all’esercizio del diritto
di difesa. Né viene leso il principio
contenuto nell’art. 212 dello Statuto del
Contribuente, il quale fa riferimento
alle disposizioni di rilievo esclusivamente tributario, mentre la disposizione de qua, come si è visto, è da considerarsi norma sostanziale a carattere
imperativo.
Va infine segnalata una recente
sentenza del Tribunale di Torre Annunziata (n. 1344/2008) la quale ha
contribuito a portare chiarezza su alcune questioni non adeguatamente
affrontate dal “Giudice delle Leggi”.
In primo luogo il Giudice di merito
chiarisce che l’orientamento giurisprudenziale formatosi intorno all’art. 13
legge 9.12.1998, n. 431, non è applicabile alla norma in questione, in quanto
cozza chiaramente con il dato letterale
della stessa, disattendendo la principale regola ermeneutica posta dal legislatore all’art. 12 delle preleggi al codice
civile, ai sensi del quale “nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese
dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse e dalla
intenzione del legislatore”. Più specificamente, in relazione al caso di specie, non può travisarsi il dato legislativo al fine di ricavare in via interpretativa proprio ciò che il legislatore ha
inteso senza alcun dubbio escludere: la
mera inefficacia del contratto, sanabile ex tunc. L’esegesi, pertanto, non può
porre nel nulla il dato letterale ed è
doveroso ritenere che il legislatore sia
ricorso con coscienza e volontà alla
categoria della nullità, ed abbia voluto
ricollegare le relative conseguenze ad
una situazione estranea all’accordo
contrattuale, quale è la registrazione.
In secondo luogo, il Tribunale di
Torre Annunziata pone l’attenzione
sull’ipotesi che si realizza qualora, in
sede di stipulazione del contratto, interviene un accordo tra le parti al fine
di pattuire un canone di importo superiore a quello risultante dal contratto
registrato. In siffatta ipotesi va esclusa
l’applicabilità dell’istituto della simulazione, come sostenuto da una parte
della giurisprudenza (cfr. Cassazione
Civile, Sez. III, sent. n. 16089/2003).
Infatti, a seguito di quanto recentemente affermato dalla Corte Costituzionale, essendo la registrazione stata
elevata al rango di norma imperativa,
non è possibile ricorrere all’istituto de
quo, giacché ex art. 1414, comma 2,
c.c., il contratto dissimulato, per avere
effetto, deve possedere i requisiti di
sostanza e di forma del contratto diverso, id est della locazione.
●
PROCEDURA PENALE
Esercizio dell’azione penale
Se il comma 1-bis dell’art. 405
c.p.p. comporti una sanzione
di nullità ovvero
di improcedibilità nel caso
in cui il P.M. si risolva comunque
ad esercitare l’azione penale
anche dopo una pronuncia
della Corte di Cassazione circa
la insussistenza dei gravi indizi
di colpevolezza
● Andrea Alberico
Dottorando di ricerca
in Diritto Penale,
Università di Napoli “Federico II”
Com’è noto, la Legge 20 febbraio
2006, n. 46, all’art. 3, ha introdotto
nell’art. 405 c.p.p. un nuovo comma
1-bis, a norma del quale “Il pubblico
ministero, al termine delle indagini,
formula richiesta di archiviazione quan-
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F O R E N S E
do la Corte di Cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza, ai sensi dell’art.
273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico
della persona sottoposta alle indagini”.
Come si vede, la norma introduce
una nuova ipotesi con cui il P.M. può
richiedere l’archiviazione, ulteriore
rispetto a quanto già previsto dall’art.
408 c.p.p., vincolando tale scelta
dell’inquirente alla sussistenza di due
requisiti necessariamente coesistenti:
una pronuncia della Suprema Corte in
merito all’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza che la legge (art. 273
c.p.p.) richiede come presupposto
dell’applicazione delle misure cautelari personali e l’assenza di nuovi elementi a carico dell’indagato, emersi
evidentemente in un momento in cui
fossero impossibili da valutare in sede
di giudizio di legittimità.
La formulazione della norma, però,
è solo apparentemente semplice e scevra da implicazioni problematiche.
Infatti, in primo luogo, viene da
chiedersi cosa si intenda per pronuncia
della Corte di Cassazione in ordine
all’insussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza.
Né è del pari chiaro se la norma
postuli un obbligo in capo al Pubblico
Ministero, ovvero una mera facoltà.
Inoltre, ammettendo che la norma
imponga un obbligo in capo al P.M.,
risulta oscura l’eventuale sanzione da
applicare nel caso in cui si contravvenga tale obbligo.
Come si vede, si tratta di problemi
di non immediata soluzione, e rispetto
ai quali è connessa una vicenda procedurale fondamentale come l’esercizio
stesso dell’azione penale.
In ordine alla prima delle prospettate questioni, si possono presentare
nella pratica almeno due ipotesi incerte. Si consideri, in primo luogo, la
circostanza in cui, dopo il rigetto, da
parte del Tribunale del Riesame, della
richiesta di irrogazione della misura
cautelare, per insussistenza dei gravi
indizi, il P.M. ometta di impugnare
tale pronuncia, di fatto impedendo alcun sindacato da parte della Suprema
Corte. Ovvero, diversamente, si consi-
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deri il caso in cui la Cassazione venga
sì adita, ma dichiari inammissibile il
ricorso, senza dunque pronunciarsi
sulla sussistenza dei gravi indizi.
Per risolvere tali quesiti preliminari, possono essere ragionevolmente
addotti i seguenti argomenti. Quanto
alla declaratoria di inammissibilità del
ricorso, un’interpretazione testuale e
sistematica della norma, che sia conforme alla sua ratio, impone di interpretare l’inciso “in ordine” nel senso
di “in merito”. Solo in tale modo acquisterebbe significato la verifica da
parte del Supremo Collegio, che diversamente finirebbe per essere un vincolo più simile ad un termine che ad un
requisito di ordine sostanziale.
Di questa lettura sembra consapevole la stessa Corte Regolatrice, che
pronunciandosi recentemente in merito alla prima delle prospettate ipotesi
ha stabilito che: “il dovere del pubblico
ministero di richiedere l’archiviazione
in seguito alla pronuncia della Corte di
cassazione sull’insussistenza dei gravi
indizi di colpevolezza, e sempre che
non vi siano ulteriori acquisizioni di
elementi a carico, non opera nel caso
di omessa impugnazione da parte del
pubblico ministero dell’ordinanza di
riesame che abbia annullato il provvedimento cautelare per carenza di gravi
indizi di colpevolezza” (così Cass. Sez.
II, sent. n. 45825 del 11.11.2008).
È ovvio, allora, che se il dovere non
opera in caso di omessa impugnazione
(perché la Corte non ha sindacato in
merito alla sussistenza dei gravi indizi), non opererà nemmeno nel caso in
cui la Corte è stata adita, ma in modo
non idoneo a provocare il suo giudizio,
essendo stato il ricorso dichiarato
inammissibile.
Del pari problematico risulta fornire una risposta quanto al secondo ordine di quesiti presentati in precedenza, vale a dire in merito alla obbligatorietà della richiesta di archiviazione in
seguito alla pronuncia della Corte di
Cassazione.
Il problema è strettamente interpretativo, e nasce dal fatto che l’interpretazione testuale non pare dare adito a
dubbi. La norma, infatti, sancisce che
“il pubblico ministero … formula la
147
richiesta di archiviazione”. Una dicitura siffatta, evidentemente, sembrerebbe
confermare all’interprete che in capo al
P.M. insiste un vero e proprio obbligo.
Di diverso avviso, invece, è la giurisprudenza della Suprema Corte, che,
in molteplici sentenze, ha optato per
una diversa interpretazione, che qui si
riporta: “la determinazione del P.M. di
non richiedere l’archiviazione, nonostante la Corte di cassazione si sia
pronunciata in ordine alla insussistenza
di gravi indizi di colpevolezza ai sensi
dell’art. 273 c.p.p. e non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico dell’indagato, non preclude la valida instaurazione del giudizio, perché la norma di
cui all’art. 405 comma primo bis, c.p.p.,
inserito dall’art. 3 L. n. 46 del 2006, ha
natura processuale e, trovando applicazione nella fase delle indagini preliminari, non obbliga comunque il G.i.p. a
disporre l’archiviazione” (così Cass.,
Sez. II, sent n. 19578 del 21/04/2006).
In questa pronuncia, la Corte Regolatrice propende per una qualificazione
meramente processuale della norma, si
potrebbe dire addirittura ordinatoria,
volendo intendere, in tal modo, una
norma con esclusiva funzione di disciplina. In altri termini, il pubblico ministero deve semplicemente operare una
scelta circa l’esercizio dell’azione penale, dal momento che la legge gli
fornisce solo un’ulteriore ipotesi in cui
può legittimamente chiedere l’archiviazione. Di conseguenza, il verbo “formula” contenuto nella norma va interpretato nel senso di “può formulare”.
Impostata in questi termini la soluzione del problema in parola, non resta
che servirsi dei risultati fin qui acquisiti per risolvere l’ultimo dei prospettati quesiti, vale a dire quello circa la
sanzione applicabile nel caso in cui il
P.M. provveda all’esercizio dell’azione
penale nonostante una pronuncia della
Cassazione circa l’insussistenza dei
gravi indizi.
Come il lettore può ormai prevedere, l’interpretazione fornita dalla
Cassazione non può che comportare, come risposta all’ultimo quesito,
l’assoluta assenza di qualsivoglia
sanzione processuale. Si tratta, infatti, di una conseguenza logica: se
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il pubblico ministero ha facoltà di
archiviare, l’azione penale non potrà subire alcun pregiudizio nel caso
in cui egli si risolva comunque ad
esercitarla.
Questo concetto è stato comunque esplicitato dalla Suprema Corte
in un’ulteriore pronuncia, in cui
viene osservato che: “nell’ipotesi in
cui la Corte di cassazione si sia pronunciata in sede cautelare in ordine
alla insussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza e non siano stati acquisiti ulteriori elementi a carico dell’indagato, la disposizione di cui all’art.
405, comma primo-bis, cod. proc.
pen. non vincola il P.M. nelle determinazioni relative all’esercizio
dell’azione penale, né la sua inosservanza comporta la nullità prevista
dagli artt. 178 lett. b) e 179, comma
primo, cod. proc. pen., quanto
all’iniziativa del P.M.. (Fattispecie in
cui, dopo l’annullamento della ordinanza di custodia cautelare da parte
del Tribunale del riesame, confermato dalla Corte di cassazione, il P.M.
aveva tuttavia formulato l’imputazione esercitando l’azione penale)”
(Così Cass., Sez. VI, sent. n. 27032
del 06.02.2008).
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Autorizzazione commerciale
e condono edilizio
Se è legittimo o meno il rilascio
di un’autorizzazione commerciale
ai sensi del D. Lgs. n.114/1998,
ovvero alla somministrazione
di alimenti e bevande ai sensi
della Legge 287/91, relativamente
ad immobili per i quali
pende domanda di condono
edilizio non ancora esitata
dall’Amministrazione
● Alessandro Barbieri
Avvocato
La disamina della presente questione si risolve nello stabilire se sia
legittimo o meno il rilascio di un’autorizzazione commerciale, ovvero
alla somministrazione di alimenti e
bevande, in pendenza di una domanda di condono non ancora esitata da parte dell’Amministrazione
comunale.
Giova premettere, al riguardo,
che l’analisi delle disposizioni normative di settore (quella commerciale, da un lato, e quella condonistica,
dall’altro) hanno alimentato la querelle che, solo di recente, ha trovato
soluzione nelle, non sempre univoche, pronunce dei Tribunali amministrativi territoriali.
Tale incertezza, peraltro, è stata
alimentata dal fatto che il massimo
Consesso di Giustizia amministrativa, a tutt’oggi, non ha preso una
posizione netta sulla questione.
In maggior dettaglio, la normativa commerciale (D. Lgs. n. 114/1998
e Legge n. 287/1991) prescrive, quanto ai requisiti oggettivi che devono
sussistere per il rilascio delle relative
autorizzazioni, che le attività devono
essere esercitate nel rispetto delle
148
vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienica-sanitaria, nonché di
quelle sulla destinazione d’uso dei
locali e degli edifici.
Precedentemente all’entrata in
vigore della suddetta disciplina normativa (e nel vigore dell’art. 24, comma 3, Legge 426/1971), la giurisprudenza amministrativa era pervenuta
alla conclusione che non competesse
all’amministrazione verificare, in
sede di rilascio dell’autorizzazione,
la compatibilità dell’esercizio commerciale con la disciplina urbanistica
o con la normativa edilizia, in quanto gli interessi diversi da quelli commerciali, indicati nell’abrogato art.
24 della Legge 426/1971, dovevano
essere tutelati con altre modalità ed
in diverse sedi (cfr. Tar Lazio, Roma,
Sez. III, 30 settembre 1986, n. 1957;
Tar Veneto, 4 dicembre 1985, n. 942;
Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 6
giugno 1988, n. 177; Tar Lazio, Latina, 27 gennaio 1990, n. 41; Tar
Toscana, Sez. II, 20 marzo 1996,
n. 155; Tar Sardegna, 23 agosto
1996, n. 1971).
Tale orientamento giurisprudenziale, rinvenibile oggi solo in alcune
isolate pronunce (cfr. Cons. Stato,
sez. III, 02 dicembre 2003, n. 1879),
muoveva dalla considerazione per
cui la disciplina dettata in materia
di commercio non subordinava
esplicitamente il rilascio o il mantenimento dell’efficacia dell’autorizzazione all’accertamento della compatibilità del pubblico esercizio da
autorizzare con le norme e prescrizioni urbanistiche, ma si limitava a
stabilire che l’esercizio dell’attività
non esclude il rispetto delle norme e
prescrizioni suddette, restando salva l’irrogazione delle sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate
(cfr. Tar Lombardia, Brescia, 2 agosto 1993, n. 659).
Con l’entrata in vigore della Legge 287/1991, prima, e del D. Lgs.
114/98, poi, è maturata la consapevolezza che le disposizioni in materia
di commercio stabiliscono un stretto
collegamento tra la programmazione
delle rete commerciale e la pianifica-
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zione urbanistica, sicché l’apertura e
degli esercizi commerciale e di quelli di somministrazione di alimenti e
bevande, è subordinata alle previsioni di quest’ultima, trattandosi di un
rapporto tra attività di gestione e
attività programmatoria (cfr. Tar
Lombardia, Milano, Sez. IV, 3 febbraio 2006, n. 160; Tar, Lombardia,
17 ottobre 2008, n. 5154), anche in
considerazione della circostanza per
cui l’amministrazione comunale non
potrebbe tollerare una situazione
che, per altri versi, dovrebbe reprimere (cfr. Tar Campania, Napoli,
Sez. III, 08 agosto 2007, n. 7409;
TRGA, Bolzano, Sez. I, 1 ottobre
2003, n. 427).
Con la conseguenza che l’apertura di esercizi commerciali e di somministrazione presuppongono la
conformità dei relativi locali alle
prescrizioni urbanistiche (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 23 gennaio 2001; Cons.
Stato, Sez. IV, 27 aprile 2004,
n. 2521; Tar Campania, Napoli, Sez.
III. 23 febbraio 2003, n. 1250).
Tale orientamento, peraltro, è
stato di recente ribadito dal Supremo
Consesso di giustizia amministrativa
il quale ha avuto modo di chiarire
che “in ordine alla necessaria relazione di conformità tra autorizzazione commerciale e disciplina urbanistica, del resto, dispongono norme
ancora più puntuali. Così, il già citato art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426,
al terzo comma, prevede che l’autorizzazione al commercio “fermo il
rispetto dei regolamenti locali di
polizia urbana, annonaria, igienicosanitaria e delle norme relative alla
destinazione ed all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo
quando il nuovo esercizio o l’ampliamento o il trasferimento dell’esercizio esistente risultino in contrasto
con le disposizioni del piano e della
presente legge”. Un’applicazione specifica del principio – in termini letterali indubbiamente più chiari – si
rinviene, per gli esercizi di somministrazione al pubblico di alimenti e
bevande, nell’art. 3 L. 25 agosto
1991 n. 287, il quale dispone che le
attività relative devono essere eserci-
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tate “nel rispetto delle vigenti norme,
prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica e igienicosanitaria, nonché di quelle sulla destinazione d’uso dei locali e degli
edifici, fatta salva l’irrogazione delle
sanzioni relative alle norme e prescrizioni violate” (settimo comma). Dal
confronto tra i due testi, per altro, si
evince agevolmente come, se non
vuol considerarsi del tutto pleonastica nel primo, la salvezza delle norme
in questione ha il valore, fatto palese
nel secondo, di elemento costitutivo
della fattispecie normativa…..Senza
in alcun modo disconoscere, quindi,
che nelle materie del commercio e
dell’edilizia poteri diversi sono posti
a tutela di interessi di diversa natura
e che ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica,
deve ammettersi che la stretta connessione tra di esse ha indotto il legislatore ad indicare lo stesso fatto,
rappresentato dalla conformità alle
disposizioni più volte citate, quale
presupposto per l’esercizio di poteri
propri sia della materia urbanistica
che di quella del commercio. A chiusura del sistema, del resto, va notato
che tra le norme di cui il menzionato
art. 24 L. 11 giugno 1971 n. 426 richiede l’osservanza vi sono quelle
della stessa legge n. 426 e, quindi,
anche quelle più sopra considerate
che istituiscono tra i due ambiti, urbanistico-edilizio e commerciale, la
relazione che si è detta. Si ritiene, in
conclusione, di poter affermare che
alla stregua della normativa vigente
l’indagine sulla conformità dell’immobile alla disciplina urbanisticoedilizia…..rappresenta un momento
istruttorio necessario, in quanto diretto ad accertare l’esistenza di un
presupposto espressamente previsto
dalla legge e che, pertanto, sia inibito all’autorità amministrativa il rilascio degli atti autorizzativi quando
detta conformità faccia difetto” (cfr.
in terminis Cons. Stato, sez. V,
n. 3639/2000; Cons. Stato, sez. IV,
3027/2007).
Con la conseguenza per cui “l’attività commerciale non può essere
autorizzata in immobili difformi
149
dalla disciplina urbanistica” (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 5 aprile 2005,
n. 1543; Cons. Stato, sez. V, 8 luglio
2008, n. 3398).
Nonostante l’approdo ermeneutico cui è giunta la giurisprudenza
amministrativa in merito alla normativa dettata in subiecta materia,
rimaneva irrisolta la questione relativa alla legittimità o meno del rilascio di un titolo autorizzatorio per
immobili coperti da domanda di
condono senza che la stessa fosse
ancora esitata: questione, quest’ultima, alimentata dalle incertezze determinate dalla normativa condonistica di cui alla legge 47/1985.
Partitamente, la disposizione a
carattere generale di cui all’art. 44,
primo comma della legge 47/1985
stabilisce espressamente che “dalla
data di entrata in vigore della presente legge e fino alla scadenza dei termini fissati dall’art. 35, sono sospesi
i procedimenti amministrativi e giurisdizionali e la loro esecuzione,
quelli penali nonché quelli connessi
all’applicazione dell’articolo 15 della
legge 6 agosto 1967, n. 765, attinenti al presente capo”.
Sospensione questa che comporta, quale conseguenza concreta, che
la situazione dell’immobile e di ogni
rapporto sussistente con il proprietario deve restare immutata rispetto
alla situazione dell’immobile stesso
alla data di entrata in vigore della
legge, in condizioni di reciprocità,
nel senso che la menzionata situazione di fatto non può né regredire,
mediante iniziative della P.A. che
riducono le facoltà di utilizzazione
già in atto, né tantomeno può essere
fatta avanzare, attraverso delle attività del privato che aumentino le
facoltà già in atto.
E ciò con la ulteriore conseguenza
che l’Amministrazione sarebbe tenuta a garantire al titolare dell’istanza
di sanatoria, il mantenimento della
destinazione commerciale e dell’uso
dell’immobile in atto a quella data,
con l’obbligo corrispettivo per esso
“titolare” di non introdurre modificazioni rispetto a quella condizione
di fatto innanzi indicate.
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Pertanto, ove l’immobile oggetto
di domanda di condono ha destinazione commerciale, l’Amministrazione, al momento del rilascio dell’autorizzazione, non è tenuta a verificare
la conformità del menzionato locale
alla normativa edilizio-urbanistica,
bensì esclusivamente a garantire al
privato la continuazione nell’utilizzazione dell’immobile secondo la
propria destinazione.
Tali conclusioni, peraltro, sarebbero avallate dal regime transitorio
di utilizzazione dei beni, nella condizione fissata alla data di entrata in
vigore della legge 47/1985, laddove
si consideri che la disposizione di cui
all’art. 40 della L. 47/1985, fino a
quando l’Amministrazione non abbia espresso un provvedimento di
diniego alla istanza di sanatoria,
ammette sia la commerciabilità per
atto tra vivi, sia la possibilità di cederli in locazione.
Peraltro, con riferimento ad edifici destinati ad impianti produttivi, – esercizi commerciali, attività
alberghiere – il combinato disposto
dell’art. 34, ultimo comma e dell’art.
35, comma 3, lett. d), ha stabilito
un’oblazione pari al 50% di quella
per le “residenze”, con parametri di
riduzione o maggiorazione, connessi
a classi di ampiezza delle opere abusive, perché venisse prodotto un certificato di iscrizione alla C.C.I.A.A.,
“da cui risulti che la sede dell’impresa” alla data di entrata in vigore
della legge “è situata nei locali per i
quali si chiede la concessione in sanatoria”; sede dell’impresa questa costituente quindi conditio sine qua non
per poter beneficiare delle riduzioni
per le destinazioni produttive, ai
sensi dell’ultimo comma dell’art. 34.
Con la conseguenza che, con
l’entrata in vigore della legislazione
sul “condono edilizio”, sarebbe legittimata la facoltà del proprietario di
poter utilizzare l’immobile per la
medesima destinazione d’uso consolidatasi nell’immobile e comunque in
atto alla data di presentazione della
istanza di condono.
Con la conseguenza che “l’abusività del fabbricato attiene soltanto al
q u e s t i o n i
momento genetico non potendosi
escludere, nel quadro della normativa introdotta dalla legge n. 47/85, la
sua postuma legittimazione e la titolarità, in capo al proprietario che di
quel bene ha chiesto il condono, di
una aspettativa giuridica alla citata
legittimazione tramite appunto condono. Da quanto precede discende
che l’abusività del fabbricato in questione (del quale è stato chiesto il
condono) è condizionata al diniego
del beneficio e perciò deve ritenersi
sospesa in pendenza della relativa
determinazione dell’Amministrazione. Orbene prima che intervenga
tale diniego (che consoliderebbe
l’abusività dell’edificio), appare conforme a logica e a principi di tutela
della proprietà privata che il titolare
dell’aspettativa possa, in pendenza
della domanda di condono, compiere atti conservativi del bene e mantenere integre le sue ragioni” (cfr. Tar
Campania, Napoli, Sez. III, 2 febbraio 2001, n. 546/2001)
In ragione di tanto, da più parti,
si era ipotizzata la possibilità di rilasciare autorizzazioni commerciali
relativamente ad immobili per i quali pendeva domanda di condono non
ancora esitata dall’amministrazione
comunale stante l’obbligo – discendente ex lege – di garantire la continuazione nella utilizzazione del locale per la destinazione commerciale.
Per converso, dalla lettura della
normativa di riferimento (D.Lgs.
114/1998 e Legge 287/1991) discende, in positivo, che l’esistenza di un
valido titolo concessorio costituisce
indispensabile presupposto per il rilascio dell’autorizzazione commerciale e alla somministrazione di alimenti e bevande e, in negativo, che
la stessa preclude all’amministrazione di assentire autorizzazioni in locali privi delle necessarie autorizzazioni edilizie.
Ed invero, l’autorità preposta
deve verificare la sussistenza, oltre
che dei requisiti di carattere soggettivo e oggettivo previsti dalla normativa di riferimento, anche degli ulteriori parametri indicati dalla legge,
quali, in particolare, la conformità
150
della destinazione d’uso dell’immobile da destinare ad attività commerciale ed il rispetto delle norme, prescrizioni, autorizzazioni in materia
edilizia ed urbanistica.
In linea, dunque, con la granitica
giurisprudenza secondo cui è “illegittima l’autorizzazione di somministrazione a causa della inidoneità dei
locali, privi di concessione edilizia”
(cfr. Tar Campania Napoli, sez. III,
n. 4493/01; Tar Campania, 16 novembre 2000, n. 4285; Tar Campania Napoli, Sez. III, 19 luglio 2001,
n. 3442; Tar Campania Napoli, Sez.
IV, n. 164/1996; Tar Lazio Roma,
Sez. II, 12 novembre 2003, n. 9894;
Cons. Stato, Sez. V, n. 5854/04;
Cons. Stato, Sez. V, 28 giugno 2000,
n. 3639; Cons. Stato, Sez. V, 17 ottobre 2000, n. 5656) si è attestata la
successiva giurisprudenza che ha
avuto modo di chiarire come la mera
presentazione dell’istanza di condono non risulta sufficiente a confortare del rispetto delle norme, prescrizioni vigenti in materia edilizia, atteso che “la domanda di sanatoria
conferma l’abusività dei locali e non
sostituisce certo la concessione”(cfr.
sul punto Tar Campania, Napoli,
sez. III, n. 7324/2005; Tar Campania, Napoli, sez. III, n. 4493/01).
E ciò in quanto, le attività commerciali e di somministrazione “devono essere esercitate nel rispetto
delle vigenti norme, prescrizioni ed
autorizzazioni in materia edilizia,
urbanistica ed igienico-sanitaria,
nonché di quelle sulla destinazione
d’uso dei locali e degli edifici”. Come
appare pacifico già dalla mera lettura della disposizione in esame, il legislatore ha inteso affermare che, ai
fini del rilascio delle autorizzazioni
per l’attività di somministrazione di
alimenti e bevande, l’autorità amministrativa competente deve verificare
non solo la ricorrenza di presupposti
e requisiti previsti…………. e, più in
generale, dalle disposizioni volte alla
disciplina delle attività commerciali,
ma anche quelle più specificamente
relative alla legittima utilizzabilità
dei locali ai fini dello svolgimento
dell’attività autorizzanda, sia sotto il
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profilo edilizio-urbanistico sia sotto
il profilo igienico-sanitario. Ne consegue che l’accertamento della conformità del locale alla disciplina
edilizia ed urbanistica, in primis asseverata attraverso la verifica della
realizzazione del locale stesso sulla
base di idonei e legittimi titoli autorizzatori, nonché alla disciplina igienico-sanitaria, asseverata attraverso
idonea verifica, costituiscono presupposti indefettibili per il rilascio
dell’autorizzazione. Di modo che,
laddove il locale indicato come luogo
di svolgimento dell’attività non risulti conforme alle citate prescrizioni,
l’autorizzazione…. Nel caso di specie, il locale indicato ai fini dello
svolgimento dell’attività da autorizzarsi è oggetto di istanza di condono
edilizio … sulla quale l’amministrazione comunale non si è pronunciata,
come si evince sia dal certificato di
agibilità provvisoria…. Orbene, tale
circostanza rende illegittima l’autorizzazione rilasciata in quanto essa
riguarda una attività da svolgersi in
locale che risulta, per un verso, non
conforme alla disciplina edilizia e
urbanistica, né “ricondotto a conformità”, per effetto dell’istanza di condono presentata. …Né conduce a
diversa conclusione quanto dedotto
sia dal Comune sia dalla controinteressata, in ordine alla commerciabilità del bene, in pendenza di decisione sulla istanza di condono, poiché,
nel caso di specie, non si discute
della trasferibilità di un bene, o dei
diritti sul medesimo, bensì della assentibilità di un provvedimento di
natura commerciale, subordinata
alla positiva verifica della conformità dei locali di svolgimento dell’attività alla normativa edilizio-urbanistica; conformità, come si è detto,
assente al momento del rilascio
dell’autorizzazione impugnata”.(cfr.
Tar Campania, Napoli, Sez. II, 3
novembre 2005, n. 9711/06)
È evidente, dunque, che le enunciazioni giuridiche dei Giudici amministrativi ribadiscono, correttamente interpretando la normativa di
riferimento, orientamenti giurisprudenziali assolutamente pacifici che
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precludono il rilascio di un’autorizzazione alla somministrazione in
pendenza di una domanda di condono non ancora esitata.
La preclusione al rilascio di idoneo titolo commerciale in pendenza
di domanda di condono non ancora
esitata rileva, peraltro, sotto altro e
diverso profilo.
Segnatamente, come noto, il rilascio dell’autorizzazione commerciale presuppone il previo rilascio
del certificato di agibilità ai sensi
dell’art. 24 e ss. D.P.R. 380/2001.
La normativa richiamata, così
come affermato da granitica giurisprudenza, chiarisce che il certificato de quo non ha più solo finalità
igienico-sanitarie – proprie della licenza di abitabilità e agibilità previste dalla legislazione previgente – ma può essere rilasciata solo ed
esclusivamente allorché siano stati
accertati dall’amministrazione idonei requisiti di sicurezza degli edifici, degli impianti installati nonché
la conformità dello stesso alle prescrizioni urbanistiche ed edilizie.
Con la conseguenza che la pendenza della domanda di condono,
rimarcando l’abusività dell’immobile, preclude all’amministrazione il
rilascio anche del certificato di agibilità.
In giurisprudenza è stato ripetutamente affermato che “se i locali
sono abusivi l’agibilità non può essere rilasciata, non avendo alcun
significato dichiarare agibile un locale non conforme alla disciplina
urbanistico –edilizia o del quale non
è stata o è stata falsamente attestata
la conformità al progetto approvato, perché il progetto non è stato
approvato o l’opera è stata realizzata in difformità da esso”(cfr. Tar
Veneto, Venezia, Sez. III, n. 4702/03;
Tar Veneto, Sez. II, 17 novembre
1997, n. 1569; Cons. Stato. Sez. VI,
15 luglio 1993, n. 535; Tar Puglia
Bari, Sez. II, 15 giugno 1995, n. 467;
Cass. Pen., Sez. III, 18 novembre
1997, n. 3905; Cass.Pen., Sez. III,
10 gennaio 1994, n. 72).
Ed ancora “L’esercizio dissociato
dei poteri che fanno capo allo stesso
151
ente per la realizzazione di più interessi pubblici, specie ove tra di essi
sussista un obiettivo collegamento,
contrasta con il basilare criterio di
ragionevolezza e, pertanto, è in evidente contrasto con il principio di
buona amministrazione esplicitato
anche dalla l. n. 241 del 1990: pertanto, pur non disconoscendosi che
poteri diversi sono posti a tutela di
interessi di diversa natura e che
ciascun provvedimento è caratterizzato da una funzione tipica, la stretta connessione tra diversi tipi di
provvedimento può legittimamente
indurre ad indicare il medesimo
fatto quale presupposto per l’esercizio di poteri diversi e dunque, nella
specie, è legittimo il diniego dell’agibilità dei locali per ragioni paesistico – urbanistiche”(cfr. Consiglio
Stato, sez. V, 05 aprile 2005,
n. 1543).
Dello stesso avviso, la dottrina
prevalente che subordina “il rilascio
del certificato di agibilità alla accertata conformità del manufatto alla
normativa edilizia ed urbanistica”(N.
Assini-P.Mantini, Manuale di
diritto urbanistico, Giuffrè edizione, 2007, pag. 835ss.; M. Baroni, I
presupposti per la licenza di abitabilità: non è vero che occorrono
solo requisiti igienico-sanitari,
TAR, 1987, II, 89 ss; V.Vincenzi,
Abitazioni (igiene delle), EGI, I,
Roma, 1988; C. De Caro Bonella, La licenza di abitabilità, Napoli, 1978, pag. 30 ss; V. Domenichelli, Alcune (tristi) riflessioni
sulla nuova disciplina del certificato di abitabilità, D. REG (Veneto),
1986, pag. 445 ss; M.S.Giannini,
In tema di licenza di abitabilità, FA,
1956, I, 2, 517 ss; F. Gaualandi,
La disciplina del certificato di abitabilità: nuove problematiche alla
luce del D.P.R. 22 aprile 1994, RG
ED, 1995, II, pag. 53 ss; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico,
Milano, 2002, pag. 351 ss.).
E ciò in quanto “il procedimento
di rilascio come un momento riepilogativo del controllo sull’attività
edilizia, “data la stretta connessione
fra norme previste dalla leggi sanita-
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F O R E N S E
rie e quelle sancite dalla legge urbanistica in materia di costruzioni, che
non consente una distinzione tra
tutela di fini esclusivamente igienicosanitari e tutela di fini esclusivamente urbanistico-edilizi”(cfr. De Caro
Bonella, op. cit., pag. 30 ss.).
Appare evidente, anche per tale
ulteriore considerazione, che in ogni
caso il certificato di agibilità non può
q u e s t i o n i
essere rilasciato laddove l’immobile
risulta abusivo, e dunque realizzato
in assenza dei necessari titoli abilitativi che ne certifichino la conformità
alle prescrizioni e di carattere squisitamente urbanistico, sebbene pendente una domanda di condono.
Conclusivamente, relativamente
ad immobili per i quali pende domanda di condono è precluso all’am-
152
ministrazione il rilascio di idoneo
titolo commerciale sia per conclamato contrasto con le prescrizioni
edilizie ed urbanistiche – come detto non ricondotte a conformità dalla pendenza della istanza di sanatoria – sia per la preclusione che incontra la P.A. nel rilasciare il certificato
di agibilità ai sensi degli artt. 24 e
ss. del D.P.R. 380/2001.
RECE N S IO N I
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti
Un nuovo procedimento concorsuale di Elena Frascaroli Santi,
Padova, 2009
A cura di Corrado d’Ambrosio
Giudice
155
Gazzetta
F O R E N S E
●
Gli accordi
di ristrutturazione
dei debiti
Un nuovo procedimento
concorsuale
di Elena Frascaroli Santi
Padova, 2009
● Corrado d’Ambrosio
Giudice
Nella realtà economica e nel dibattito dottrinale, si è fatta strada la
tesi della necessità di individuare
strumenti alternativi per la gestione
della crisi di impresa, che, in qualche modo, potessero superare le
“strettoie” delle procedure concorsuali giudiziali, e valorizzassero la
stessa autonomia contrattuale.
Il quadro di riferimento teorico
muta in relazione ad una progressiva valutazione positiva, in merito
alla meritevolezza degli interessi
sottesi agli accordi stragiudiziali,
delineati nella prevalente esigenza di
conservazione del valore economico
del patrimonio aziendale, e nelle
possibilità di ristrutturazione complessiva delle esposizioni debitorie,
finalizzate ad un recupero nel mercato dell’impresa in crisi.
Non solo, ma l’affermazione di
uno spazio rilevante per gli accordi
tra debitore ed (alcuni ) creditori
finalizzati a consentire il superamento della crisi seguiva alla progressiva abrasione dei profili pubblicistici ed officiosi della procedura
fallimentare, con la conseguente
valorizzazione dell’autonomia privata, ritenuta funzionale proprio alla
riallocazione dei valori aziendali.
Di fronte a tali esigenze, imposte
dalla dinamica economica, le preclusioni rinvenienti nella legge fallimentare, conseguenti al richiamo
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2 0 0 9
della disciplina sulla revocatoria e
sulla bancarotta preferenziale, non
sono state ritenute piu’ compatibili
con le esigenze del sistema, tanto
che, nelle recenti formulazioni della
riforma della normativa concorsuale, gli accordi finalizzati alla sistemazione della crisi – anche in ragione di un confronto con modelli
stranieri, come efficacemente sottolineato dall’Autore – ha finito per
rappresentare uno snodo significativo della diversa funzione delle
procedure di insolvenza, e finanche
di superamento di un’insolvenza
attuale.
In questa prospettiva evolutiva,
nel nuovo contesto della legge fallimentare ( d. lgs n. 5/06 e d.lgs n.
169/07 ), lo spazio per l’operatività
dell’autonomia in un contesto di
progressiva “degiurisdizionalizzazione” del diritto concorsuale è
evidente, e, in questo caso, si realizza nell’ambito di accordi che si inseriscono nel quadro di procedimenti
( o sub procedimenti ) concorsuali.
In questa prospettiva, si inserisce
la formulazione dell’art. 182 bis
l.fall., introdotto nel nostro ordinamento dal d.lgs n. 35/05, convertito
in l. n. 80/05, e corretto dal d.lgs n.
169/07, che ha disciplinato l’accordo
di ristrutturazione dei debiti.
Quest’ultimo può assumere – dal
punto di vista negoziale – un contenuto assai vario, potendo tradursi in
un pactum de non petendo, in una
remissione parziale del debito, in
una costituzione di garanzia, in una
concessione di nuova finanza, in
una conversione di credito in capitale della società debitrice, ovvero
in altri negozi, la cui caratteristica
può dirsi risiedere nella finalità di
superamento della crisi dell’impresa
attraverso la ristrutturazione dei
debiti, cosi’ che, non facendosi riferimento alla necessaria continuazione dell’impresa, il contenuto dell’accordo potrebbe essere anche di natura meramente liquidatoria.
Per quanto concerne i presupposti per poter accedere agli accordi,
la formulazione dell’art. 182 bis l.
fall., come risultante dal d.lgs n.
155
169/07, fa riferimento all’imprenditore in stato di crisi, e non semplicemente al debitore.
In tal modo, vengono superate
quelle impostazioni che – a dispetto
della stessa collocazione della norma – ritenevano che gli accordi potessero essere utilizzati da tutti i
debitori ( anche quelli civili ) - ovvero da quegli imprenditori non soggetti – per attività o dimensioni –
alla dichiarazione di fallimento.
A questo punto, l’Autore si sofferma in particolar modo sui profili
penalistici degli accordi, sottolineando come nessuna norma fissi una
scriminante a fronte della eventuale
ipotizzabilità di una fattispecie di
bancarotta, anche se in piu’ tentativi si è cercato di “temperare” in via
interpretativa l’area dell’intervento
penale.
Eppure, la necessità di un intervento chiarificatore, almeno in sede
penale, era stata sottolineata dai
piu’ autorevoli commentatori già
all’indomani della introduzione
dell’art. 182 bis L.F., e sarebbe certamente valsa a garantire un piu’
deciso e convinto ricorso all’istituto.
In piu’ tentativi si è cercato di
“temperare” in via interpretativa
l’area dell’intervento penale; da un
lato, ad esempio, si è fatto notare
che il fatto che l’accordo sia stato
ritenuto idoneo da un esperto valga,
in linea di principio, ad escludere il
dolo; dall’altro lato, si è ritenuto,
proprio con riferimento agli accordi
ex art. 182 bis, che questi ultimi
sfuggano ad una valutazione penale,
poiché “ la lesione della par condicio è giustificata dal contesto di
tutti i creditori sacrificati “( sempreché, si aggiunge, vi sia stata una leale informazione dei creditori).
In realtà, si può ribadire, anche
riguardo agli accordi privatistici
non omologati, che non si rientra
nell’ambito dell’art. 1344 c.c., che
considera illecita la causa del contratto concluso in frode alla legge,
in quanto costituente il mezzo per
eludere l’applicazione di una norma
imperativa.
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F O R E N S E
Solo nel caso in cui le parti mirino a realizzare un risultato vietato
dalla legge, pur utilizzando uno o
piu’ contratti in sé leciti, si può realizzare in concreto un risultato equivalente a quello vietato.
Come in precedenza, anche la
novella nulla dice in merito alla
eventuale prededuzione da riservarsi ai crediti concessi in funzione
della ristrutturazione medesima:
l’art. 111 comma 2° L.F. considera
infatti prededucibili i crediti cosi’
specificamente qualificati da una
legge, o quelli sorti “in occasione o
in funzione delle procedure concorsuali di cui alla presente legge”.
La consapevolezza della banca
circa la fattibilità del piano di ristrutturazione dipende, a questo
punto, soprattutto dall’efficacia degli strumenti di controllo in suo
possesso.
Nei rapporti con i creditori bancari, il finanziamento si realizza o
con l’apertura di nuove linee di credito, o con il ripristino delle vecchie
linee di credito.
Operazione, quest’ultima, che,
se relativa a linee di credito autoliquidanti, non presenta solitamente
problemi di sorta, posto che si tratta di operazioni salvo buon fine su
titoli bancabili che si liquidano con
l’incasso dell’effetto da parte della
banca. Nell’85% dei casi sono state
aperte linee auto-liquidanti.
In quest’ambito, le operazioni di
nuova finanza rappresentano uno
snodo delicato per i creditori bancari, posto che il finanziamento va ad
ingrossare posizioni debitorie già in
sofferenza o addirittura incagliate.
Operazioni che sono spesso collegate alla ricapitalizzazione dell’impresa in stato di crisi, mediante la
quale le banche creditrici o talune di
esse convertono i crediti in partecipazioni.
Per tale ragione, gli interventi di
nuova finanza e di ricapitalizzazione sono solitamente accompagnati
dalla previsione di efficaci e penetranti strumenti di controllo sulla
gestione dell’impresa, che condizionino ed imbriglino l’autonomia ge-
r e c e ns i o n i
stionale dei vecchi amministratori a
tutela del ceto creditorio.
Controlli che si concretizzano
solitamente con l’attribuzione ai
creditori ( rectius ad un ristretto
gruppo di essi) di un potere di orientamento e controllo dell’attività
degli amministratori, che si estrinseca in varie forme, quali, ad esempio, il potere di autorizzare, di porre il veto, di ratificare determinate
scelte gestionali, ecc.
Nel volume in questione viene
rilevato anche che, allo stato attuale, e nel tentativo di prospettare,
alla luce del nostro sistema fallimentare, possibili vie per affrontare i
problemi di crisi in rete ( associazioni temporanee di imprese, GEIE,
gruppi ), non si può non ribadire che
molti sono gli argomenti a favore
della soluzione concordataria.
Nel 2° capitolo, si affronta il
discorso relativo alla natura giuridica ed alla struttura degli accordi.
L’Autore sostiene che che tali
accordi, benché raggiunti stragiudizialmente, si inquadrano in un procedimento che ha le caratteristiche
formali delle procedure concorsuali:
da un lato, infatti, le modalità di
presentazione dell’accordo richiamano quelle del concordato preventivo, e che la competenza dell’autorità che ne decreta l’omologazione è
quella del Tribunale fallimentare;
dall’altro, detti accordi si attuano
nel rispetto del principio del concorso dei creditori.
Per quanto concerne la natura
giuridica degli accordi , la Relazione
illustrativa al D.L. n.35/05 non
chiarisce se la fattispecie in esame
abbia una sua autonomia, o sia
piuttosto una particolare ipotesi di
concordato preventivo.
A favore della tesi autonomista
militano alcuni dati testuali: per
esempio, l’art. 1 l.fall. ci dice chiaramente che le soglie dimensionali
si applicano ai fini del fallimento e
del concordato preventivo, non fa
parola degli accordi di ristrutturazione.
Un ulteriore elemento a supporto
dell’autonomia dei due istituti si ri-
156
cava, a contrario, dal fatto che il
legislatore ha operato alcuni specifici rinvii alla disciplina del concordato: si pensi all’art. 161 l.fall., in tema
di modalità per la presentazione
della dichiarazione e della documentazione, all’art. 168, co. 2°, e, per gli
effetti su prescrizioni e decadenze
del divieto di azioni esecutive, all’art.
183 l.fall. , che disciplina il reclamo
avverso il decreto di omologazione.
Richiami superflui e immotivati
ove il legislatore avesse voluto individuare negli accordi una species del
genus concordato preventivo, dato
che, in questo caso, tutte le disposizioni dettate dal Titolo III sarebbero
generalmente applicabili all’istituto
de quo, senza la necessità di alcun
specifico richiamo a questo o a
quell’articolo.
Inoltre- si sottolinea- la riforma
del 2007 ha espunto dal 182 bis l.
fall., con riferimento al rinvio all’art.
161 l.fall., il termine “ dichiarazione” , in questo modo eliminando un
altro elemento di possibile assimilazione al concordato preventivo, posto che il richiamo della sola “documentazione” indicata nell’art. 161
l.fall. assume il valore di indicazione
degli elementi documentali che il
professionista incaricato ha esaminato per poter formulare un giudizio sull’attuabilità dell’accordo, e
sulla sua idoneità ad assicurare il
regolare pagamento dei creditori
estranei.
Dal punto di vista strutturale, ad
avviso dell’Autore, con il termine
accordi, il legislatore abbia inteso
prefigurare una serie indistinta di
contratti che l’imprenditore stipula
separatamente con ciascuno dei
propri creditori, negozi che dappoi
vengono fatti confluire, siccome
conformati allo scopo, in un unico
patto che viene poi confezionato nel
piano.
L’interesse comune sarebbe rappresentato, quindi, dall’eliminazione dello stato di crisi, che si consegue solo in quanto tutti acconsentano a ridurre o a dilazionare le proprie pretese nelle forme e secondo le
modalità concordate, sul presuppo-
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sto, altresi’, che, qualora non tutti i
creditori partecipino all’accordo,
risulti dall’accordo stesso la possibilità di un regolare soddisfacimento
dei creditori estranei.
Vengono, altresi’, sottolineate le
differenze tra gli accordi in questione ed i cd. piani di risanamento, ex
art .67 . comma 3°, lett. d) l. fall.
I due istituti hanno fra loro un
coordinamento ed una coerenza
rinvenibile, appunto, nella diversa
fase in cui do­vrebbero essere utilizzati, potendo rappresentare l’uno (il
piano di risanamento in un momento di tensione finanziaria reversibile) l’antecedente dell’altro (l’accordo
di ristrutturazione in un mo­mento
di insolvenza o di grave crisi con
manifestazioni esteriori).
A questa diversità di presupposti
dei due istituti consegue la diversa
disciplina degli stessi.
Così, nell’ipotesi del piano di
risanamento di cui all’art. 67, 3° co.,
lett. d), 1. fall., non è necessaria la
partecipazione dei credito­r i né è
prevista alcuna forma di pubblicità
proprio perché gli stes­si creditori,
che dovranno essere pagati integralmente, non po­tranno - almeno teoricamente - essere pregiudicati nei
propri di­ritti.
Al contrario, l’accordo di cui
all’art. 182 bis 1. fall., oltre al con­
senso di almeno il 60% del ceto
creditorio, prevede un sistema di
pubblicità legale che consente l’eventuale opposizione da parte dei creditori rimasti estranei all’accordo stesso; ciò perché la cri­si d’impresa è
così grave che rischia di pregiudicare
le ragioni dei terzi creditori e, dunque, deve essere a questi ultimi consentito di interloquire ed, eventualmente, di proporre opposizione.
Nel caso dell’art. 67, 3° co., lett.
d), 1. fall., non essendovi una manifestazione esteriore della crisi che
attenti alle ragioni dei terzi, e segnatamente dei creditori, il legislatore
non ha ritenuto di individuare una
procedura di controllo giudiziario,
mentre, nel­l’ipotesi dell’art. 182 bis
1. fall., l’esigenza sociale che deriva
dalla manifestazione esteriore della
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gravita della crisi, e, dunque, l’esi­
genza di tutela dei creditori dell’imprenditore insolvente, necessi­ta di
una verifica attraverso il giudizio di
omologa.
Il 3° capitolo del volume de quo
analizza il procedimento ex art. 182
bis l. fall.
Si sottolinea il fatto che un ruolo
chiave viene svolto dalla figura
dell’esperto, il quale deve attestare
l’attuabilità dell’accordo.
Con il decreto correttivo n.
169/07 si è deciso di uniformare i
requisiti previsti dall’art. 182 bis,
dall’art. 67 comma 3°, lett.d), e
dall’art. 161, prevedendo, in considerazione del fatto che si tratta di
una attività avente un contenuto
marcatamente tecnico-contabile,
che il professionista incaricato debba possedere, anche in questo caso,
oltre le caratteristiche contemplate
dall’art. 28, lett.a) e b) del R.D.,
anche l’iscrizione nel Registro dei
revisori contabili.
L’incarico può essere, quindi,
espletato anche da uno studio professionale associato o da una società tra professionisti, purchè sia specificatamente indicata quale sia la
persona fisica appartenente allo
studio o alla società da ritenersi responsabile della relazione sull’attuabilità dell’accordo.
Sul tema della responsabilità del
professionista, nel silenzio della legge, viene pressoché unanimemente
ritenuto che nei confronti dell’imprenditore mandante trova applicazione la responsabilità contrattuale
(art. 1218 c.c.), ma solo in caso di
dolo (per esempio, per collusione con
uno dei soci o con un ter­zo) o colpa
grave (per esempio, per grave imperizia o mancanza di diligenza), dovendosi riconoscere che la relazione
sugli accor­di di ristrutturazione, sui
piani di risanamento e sul piano del
concordato preventivo, quale elaborato incentrato prevalente­mente su
elementi congetturali, «implica la
soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà» (art. 2236 c.c.).
L’azione di responsa­b ilità, in
caso di fallimento dell’imprenditore
157
successivo all’omo­loga, può essere
esercitata dal curatore, per far valere il risarci­mento del danno patito
dalla massa dei creditori, ove egli
dimo­strasse la colpa grave o il dolo
del professionista e il fatto che, at­
traverso il ricorso alla procedura
degli accordi di ristrutturazione e la
successiva omologa, è stata ritardata la dichiarazione di falli­mento e,
medio tempore, si è aggravato il
dissesto.
I singoli creditori potranno ricorrere solo all’azione residua­le di
cui all’art. 2043 c.c., dimostrando il
danno patito e il suo insorgere a
causa dell’affidamento fatto sulla
relazione del profes­sionista, affetta
da dolo o colpa grave; tale azione
potrà essere esperita singolarmente
dai creditori anche in pendenza di
falli­mento dell’impresa, ma con rilevanti difficoltà probatorie.
Il legislatore, peraltro, pur risolvendo il problema della identificazione dell’esperto, non prende posizione sul contenuto della relazione,
in particolare non specifica, come
pure invece la dottrina ha ritenuto,
che il contenuto, oltre a doversi riferire alla attuabilità dell’accordo,
non possa prescindere da una valutazione di “ attendibilità “ dei dati
aziendali.
I creditori ed ogni altro interessato possono proporre opposizione
entro trenta giorni dalla pubblicazione dell’accordo nel Registro delle
imprese.
Pur nel silenzio della legge, deve
ritenersi che la forma sia quella del
ricorso.
Un punto delicato è quello della
delimitazione dell’ambito dei soggetti legittimati ad agire, giacchè il
comma 4° dell’art. 182 bis menziona “ i creditori ed ogni altro interessato”.
Legittimati all’impugnazione sono sicuramente i creditori dissenzienti estranei all’accordo: costoro,
infatti, possono non essere persuasi
dell’effettiva idoneità dell’accordo
ad assicurare il loro integrale e puntuale pagamento, o possono voler
evitare che, per effetto dell’omolo-
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gazione, si produca l’esenzione da
revocatoria nell’eventuale successivo fallimento, con conseguente riduzione della massa attiva.
Il profilo dell’attuabilità dell’accordo potrebbe includere, tra i legittimati all’opposizione, anche i creditori aderenti, poiché, ad esempio,
convinti del contrario da successivi
riscontri.
Nel caso in cui l’accordo si componga di piu’ atti , e gli stessi prevedano differenti condizioni riservate
ai singoli aderenti, questi ultimi sarebbero sicuramente legittimati
all’impugnazione ove non fossero
stati informati delle migliori condizioni riservate ad altri creditori.
Il riferimento generico ad “ ogni
altro interessato” presuppone comunque una preventiva verifica,
caso per caso, dell’interesse giuridico prospettato dall’opponente.
Ai sensi del 4° comma dell’art.
182 bis l. fall., il tribunale, decise le
opposizioni, procede all’omologazione in camera di consiglio con
decreto motivato.
La forma della domanda è quella del ricorso, da depositarsi presso
la cancelleria del tribunale.
Un profilo cruciale concerne il
contenuto del giudizio di omologazione.
L’omologazione, come oramai
unanimemente attestato, è sempre
necessaria, essendo consustanziale
all’istituto in esame per come esso è
positivamente disciplinato, per cui è
da ritenersi che essa debba comunque aver luogo, indipendentemente
dalla proposizione di opposizioni,
ed il precetto non è derogabile da
una difforme volontà delle parti.
In ogni caso ( sia, cioè, in assenza, sia in presenza di opposizioni),
si è ritenuto che il giudizio di omologazione non debba consistere in
una semplice presa d’atto del deposito dell’accordo, ma in una verifica
di legalità sostanziale, limitata ad
una valutazione sulla completezza,
coerenza e ragionevolezza della relazione dell’esperto sull’attuabilità
dell’accordo e sulla sua idoneità a
garantire il pagamento dei creditori
r e c e ns i o n i
estranei.
Ai sensi dell’art. 67 comma 3°,
lett. e), gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse, quindi i negozi
posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato, non sono soggetti alla revocatoria fallimentare.
L’inassoggettabilità è oggettiva,
nel senso che non dipende dalla
conoscenza o ignoranza dell’esistenza dell’accordo omologato da parte
del terzo contraente col debitore.
Non vi è dubbio che lo scenario
previsto dal legislatore è carat­
terizzato dallo stato d’insolvenza del
debitore. Infatti, se non vi fosse lo
stato d’insolvenza, non sarebbe necessario prevedere l’e­simente da revocatoria, giacché comunque il negozio non sareb­be soggetto alla revocatoria fallimentare per inesistenza del pre­supposto oggettivo (ed
evidentemente di quello soggettivo,
dato dalla conoscenza presunta o
provanda di tale stato).
L’accordo, in mancanza di una
specificazione o discriminazio­ne
legislativa, impedisce l’esercizio della revocatoria con riferi­mento agli
atti anormali (art. 67, 1° co.) e a
quelli normali (art. 67, 2° co.). Pertanto, l’anormalità dell’accordo o
dell’atto compiuto in sua esecuzione
è irrilevante.
Non sono revocabili anche i negozi non esplicitamente previsti
dall’accordo, ma resisi strettamente
necessari per la sua esecuzione; occorre, quindi, che sussista un evidente nesso causale tra accor­do ed atto
posto in essere in sua esecuzione, e,
di norma, tale nes­so dovrebbe essere
indicato nel piano o nella relazione
del pro­fessionista; infatti è impensabile che il piano di ristrutturazione,
nel quale si inseriscono gli accordi,
conferisca «in bianco» l’im­munità
dalla revocatoria fallimentare a tutti gli atti posti in essere dall’imprenditore dopo l’omologa, ancorché con
i creditori ade­renti.
In buona sostanza, le esenzioni
da revocatoria hanno la funzione di
consentire il risanamento; non tutti i tentativi possono andare a buon
fine, quindi l’esenzione gioca soltan-
158
to sul fatto che siano rispettate le
regole del gioco.
Successivamente all’omologa,
l’accordo potrebbe rivelarsi non piu’
attuabile: ci si chiede, allora, quale
sia la sorte degli atti esecutivi posti
in essere dopo tale momento.
In effetti, l’esistenza di un giudizio di omologa, deve far ritenere che
i terzi non siano successivamente
onerati dall’obbligo di una verifica
sulla persistenza dei requisiti di attuabilità dell’accordo.
Ne deriva che, nel successivo
giudizio revocatorio, il convenuto
potrà paralizzare la pretesa attorea
semplicemente eccependo che il pagamento ricevuto costituisce un atto
esecutivo dell’accordo omologato.
Un’ulteriore problematica è quella relativa all’ampiezza di tale esenzione, se, cioè, essa riguardi anche
l’azione revocatoria ordinaria o meno, e ciò dato il generico richiamo,
al 2° co del 182 bis, all’” azione revocatoria”.
La previsione di preclusione
all’esercizio dell’azione revocato­ria,
contenuta solo nell’art. 67, fa sì che
la preclusione stessa non si estenda
anche alla revocatoria ordinaria, a
meno che il curatore o il creditore
procedente dimostrino la machinatio, ovvero l’esistenza di un piano
ordito dal debitore o dal ter­zo di
porre in atto il negozio revocando
con l’intento di eludere i controlli
del professionista (o, peggio, giovandosi della connivenza di questi)
e di frodare i creditori.
Il discorso, ricco di rilievi critici,
prosegue, poi, con il 4° capitolo,
incentrato sugli effetti degli accordi
omologati per coobbligati e fideiussori.
Inquadrato l’accordo come un
istituto autonomo, introdotto per la
prima volta nel sistema concorsuale,
il punto di partenza dell’indagine, a
cui ci si riferisce, è quello di stabilire se la regola contenuta nell’art.
184 l. fall., secondo cui, in caso di
concordato preventivo, i creditori
conservano impregiudicati i diritti
contro i coobbligati, i fideiussori del
debitore e gli obbligati in via di re-
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gresso, sia parimenti applicabile
anche all’ipotesi di accordo di ristrutturazione stipulato a norma
dell’art. 182 bis l. fall.
Ad avviso dell’Autore, pur propendendosi per il riconoscimento di
un’autonomia dell’istituto degli accordi di ristrutturazione, di cui
all’art. 182 bis, rispetto al concordato preventivo, la presenza, nella
disciplina degli accordi, di norme
processuali previste per il concordato preventivo alle quali si deve fare
riferimento, consentirebbe di individuare una omogeneità nelle fattispecie considerate.
Di conseguenza, non pare infondato ritenere ammissibile, in via
mediata, l’estensione analogica
dell’art. 184 l. fall. anche a tale fattispecie.
Nel 5° capitolo del volume de
quo si discute di mancata omologazione degli accordi. In tal caso – si
sottolinea- il tribunale non può di
certo dichiarare contestualmente il
fallimento, stante la non necessaria
coincidenza del presupposto oggettivo tra le due procedure.
Sarà comunque necessario un
nuovo accertamento sulla sussistenza o meno dello stato di insolvenza;
in tal caso, sarà necessario trasmettere gli atti d’ufficio al PM, cui è
affidata l’iniziativa quando, come
nel caso in esame, lo stato di insolvenza risulti dalla segnalazione proveniente da un giudice che l’abbia
rilevata nel corso di un procedimento civile.
Il pubblico ministero potrebbe
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richiedere il fallimento del debitore
ad un tribunale diverso da quello
che ha rigettato l’omologa dell’accordo, competente per territorio ai
sensi dell’art. 9 l. fall., nel caso in cui
la società abbia trasferito la propria
sede nell’anno anteriore all’esercizio
per l’iniziativa per la dichiarazione
di fallimento.
Il fallimento potrà essere dichiarato soltanto in esito ad un autonomo procedimento che si svolga nelle
forme di cui all’art. 15 l. fall., promosso da un creditore o dal PM.
Un problema estremamente rilevante concerne il fatto che non è
espressamente sancita la prededuzione in caso di successivo fallimento, ed è un po’ arduo costruirla in
sede interpretativa.
In effetti, in caso di successivo
fallimento, qualora si privilegi la
natura contrattuale dell’istituto de
quo, non pare possibile riconoscere
un collocazione in prededuzione
alle obbligazioni assunte nel corso
degli accordi di ristrutturazione dei
debiti.
In primo luogo, infatti, nell’accordo introdotto dall’art. 182 bis l.
fall. manca un’espressa finalizzazione della procedura alla prosecuzione dell’attività.
Tale riconoscimento va, inoltre
negato, perché il procedimento non
prevede alcuna forma di sorveglianza di un organo terzo sull’attività di impresa, e quindi anche
sull’assunzione di obbligazioni in
epoca successiva all’omologazione
dell’accordo.
159
Il differente presupposto oggettivo tra l’accordo ex art. 182 bis l.
fall. ed il fallimento non rende piu’
possibile l’automatica retrodatazione al deposito o all’omologa dell’accordo del periodo sospetto ai fini
della revocatoria in caso di successivo fallimento.
Infine, l’Autore si occupa degli
effetti degli accordi non omologati
per coobbligati e fideiussori.
In tali casi, il coobbligato ed il
garante “non possono essere tenuti
ad effettuare una prestazione maggiore ed ulteriore rispetto a quella
cui è tenuto il debitore principale,
perché, se cosi’ non fosse, qualora il
coobbligato o il fideiussore potessero avvalersi del diritto di rivalsa,
la prestazione maggiore o ulteriore
finirebbe comunque con il gravare
sul debitore principale, con vanificazione, quindi, della avvenuta
estinzione del credito, e con perpetuazione della obbligazione principale, mentre, se al garante non fosse
consentito rivalersi sul garantito,
resterebbe gravato lui stesso direttamente ed esclusivamente dell’obbligazione, divenendo, quindi, debitore
principale.
Va, infine, rilevato che nel volume de quo si fa cenno all’orientamento, secondo cui, nella composizione negoziale dell’insolvenza ex
art. 182 bis l. fall., può avere un
ruolo di grande rilevanza anche
l’istituto del trust, che, secondo
questa impostazione, può costituire
un fattore di controllo sui modi e sui
tempi di esecuzione dell’accordo.
n o v i t à l e g i s l at i v e
Legge 28 gennaio 2009, n. 2
163
Gazzetta
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Legge 28 gennaio 2009, n. 2
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“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 novembre
2008, n. 185, recante misure urgenti
per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare
in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale”
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
n. 22 del 28 gennaio 2009 – Supplemento Ordinario n. 14.
Legge di conversione
ART. 1.
1. Il decreto-legge29 novembre
2008, n. 185, recante misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro,
occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale, è convertito in legge con le modificazioni riportate in allegato alla presente
legge.
2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello
della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
Testo del decreto-legge coordinato con la legge di conversione
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 22 del 28 gennaio 2009- Supplemento Ordinario n. 14
(*) Le modifiche apportate dalla
legge di conversione sono stampate
con caratteri corsivi
Art 1.
Bonus straordinario per famiglie,
lavoratori pensionati
e non autosufficienza
1. È attribuito un bonus straordinario, per il solo anno 2009, ai
soggetti residenti, componenti di un
nucleo familiare a basso reddito nel
M a r z o • a p r i l e
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quale concorrono, nell’anno 2008,
esclusivamente i seguenti redditi
indicati nel Testo Unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917:
a) lavoro dipendente di cui all’articolo 49, comma 1;
b) pensione di cui all’articolo 49,
comma 2;
c) assimilati a quelli di lavoro
dipendente di cui all’articolo 50,
comma 1, lettere a), c-bis), d), l) e i)
limitatamente agli assegni periodici
indicati nell’articolo 10, comma 1,
lettera c);
d) diversi di cui all’articolo 67, comma 1, lettere i) e l), limitatamente
ai redditi derivanti da attività di
lavoro autonomo non esercitate
abitualmente, qualora percepiti
dai soggetti a carico del richiedente, ovvero dal coniuge non a
carico;
e) fondiari di cui all’articolo 25,
esclusivamente in coacervo con i
redditi indicati alle lettere precedenti, per un ammontare non
superiore a duemilacinquecento
euro.
2. Ai fini delle disposizioni di cui
al presente articolo:
a) nel computo del numero dei
componenti del nucleo familiare
si assumono il richiedente, il
coniuge non legalmente ed effettivamente separato anche se non
a carico nonché i figli e gli altri
familiari di cui all’articolo 12 del
citato testo unico alle condizioni
ivi previste;
b) nel computo del reddito complessivo familiare si assume il reddito complessivo di cui all’articolo
8 del predetto testo unico, con
riferimento a ciascun componente del nucleo familiare.
3. Il beneficio di cui al comma 1
è attribuito per gli importi di seguito indicati, in dipendenza del numero di componenti del nucleo familiare, degli eventuali componenti portatori di handicap e del reddito
complessivo familiare riferiti al periodo d’imposta 2007 per il quale
sussistano i requisiti di cui al com-
163
ma 1, salvo, in alternativa, la facoltà prevista al comma 12:
a) euro duecento nei confronti dei
soggetti titolari di reddito di
pensione ed unici componenti
del nucleo familiare, qualora il
reddito complessivo non sia superiore ad euro quindicimila; b)
euro trecento per il nucleo familiare di due componenti, qualora
il reddito complessivo familiare
non sia superiore ad euro diciassettemila;
c) euro quattrocentocinquanta per
il nucleo familiare di tre componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro diciassettemila;
d) euro cinquecento per il nucleo
familiare di quattro componenti,
qualora il reddito complessivo
familiare non sia superiore ad
euro ventimila;
e) euro seicento per il nucleo familiare di cinque componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro
ventimila;
f) euro mille per il nucleo familiare
di oltre cinque componenti, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro
ventiduemila;
g) euro mille per il nucleo familiare
con componenti portatori di
handicap per i quali ricorrano le
condizioni previste dall’articolo
12, comma 1, del citato testo
unico, qualora il reddito complessivo familiare non sia superiore ad euro trentacinquemila.
4. Il beneficio di cui al comma 1
è attribuito ad un solo componente
del nucleo familiare e non costituisce reddito né ai fini fiscali né ai
fini della corresponsione di prestazioni previdenziali e assistenziali ivi
inclusa la carta acquisti di cui all’articolo 81, comma 32, del decretolegge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla
legge 6 agosto 2008, n. 133.
5. Il beneficio spettante ai sensi
del comma 3 è erogato dai sostituti
d’imposta di cui agli articoli 23 e 29
del decreto del Presidente della Re-
Gazzetta
F O R E N S E
pubblica 29 settembre 1973, n. 600
presso i quali i soggetti beneficiari
di cui al comma 1 lettere a), b) e c)
prestano l’attività lavorativa ovvero
sono titolari di trattamento pensionistico o di altri trattamenti, sulla
base dei dati risultanti da apposita
richiesta prodotta dai soggetti interessati. Nella domanda il richiedente autocertifica, ai sensi dell’articolo
47 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 2000,
n. 445, e successive modificazioni, i
seguenti elementi informativi:
a) il coniuge non a carico ed il relativo codice fiscale;
b) i figli e gli altri familiari a carico,
indicando i relativi codici fiscali
nonché la relazione di parentela;
c) di essere in possesso dei requisiti
previsti ai commi l e 3 in relazione al reddito complessivo familiare di cui al comma 2, lettera b), con indicazione del relativo
periodo d’imposta.
6. La richiesta è presentata entro
il 28 febbraio 2009 utilizzando l’apposito modello approvato con provvedimento del direttore dell’Agenzia
delle entrate entro dieci giorni dalla
data di entrata in vigore del presente decreto. La richiesta può essere
effettuata anche mediante i soggetti
di cui all’articolo 3, comma 3, del
decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e successive modificazioni, ai quali non
spetta alcun compenso.
7. Il sostituto d’imposta e gli enti
pensionistici ai quali è stata presentata la richiesta erogano il beneficio
spettante, rispettivamente entro il
mese di febbraio e marzo 2009, in
relazione ai dati autocertificati ai
sensi del comma 5, in applicazione
delle disposizioni del comma 3.
8. Il sostituto d’imposta eroga il
beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nei limiti
del monte ritenute e contributi disponibili nel mese di febbraio 2009.
Le amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e
gli enti pensionistici erogano il be-
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LEGI S LATI V E
neficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nel limite del
monte delle ritenute disponibile.
9. L’importo erogato ai sensi dei
commi 8 e 14 è recuperato dai sostituti d’imposta attraverso la compensazione di cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241
a partire dal primo giorno successivo a quello di erogazione, deve essere indicato nel modello 770 e non
concorre alla formazione del limite
di cui all’articolo 25 dello stesso
decreto legislativo. L’utilizzo del sistema del versamento unificato di
cui all’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 da parte
degli enti pubblici di cui alle tabelle
A e B allegate alla legge 29 ottobre
1984, n. 720 è limitato ai soli importi da compensare; le altre amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sottoposte ai vincoli della tesoreria unica di
cui alla legge 29 ottobre 1984,
n. 720, recuperano l’importo erogato dal monte delle ritenute disponibile e comunicano al Dipartimento
della Ragioneria generale dello Stato
l’ammontare complessivo dei benefici corrisposti.
10. I soggetti di cui al comma
precedente trasmettono all’Agenzia
delle entrate, entro il 30 aprile del
2009 in via telematica, anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3,
comma 3, del decreto del Presidente
della Repubblica 22 luglio 1998,
n. 322, le richieste ricevute ai sensi
del comma 6, fornendo comunicazione dell’importo erogato in relazione a ciascuna richiesta di attribuzione.
11. In tutti i casi in cui il beneficio non è erogato dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e 29 del
citato decreto del Presidente della
Repubblica n. 600 del 1973, la richiesta di cui al comma 6, può essere presentata telematicamente
all’Agenzia delle entrate, entro il 31
marzo 2009, anche mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3,
del decreto del Presidente della Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, e
164
successive modificazioni, ai quali
non spetta alcun compenso, indicando le modalità prescelte per
l’erogazione dell’importo.
12. Il beneficio di cui al comma
1 può essere richiesto, in dipendenza del numero di componenti del
nucleo familiare e del reddito complessivo familiare riferiti al periodo
d’imposta 2008.
13. Il beneficio richiesto ai sensi
del comma 12 è erogato dai sostituti d’imposta di cui agli articoli 23 e
29 del decreto del Presidente della
Repubblica n. 600 del 1973 presso
i quali i soggetti beneficiari indicati
al comma 1, lettere a), b) e c) prestano l’attività lavorativa ovvero sono
titolari di trattamento pensionistico
o di altri trattamenti, sulla base
della richiesta prodotta dai soggetti
interessati ai sensi del comma 5,
entro il 31 marzo 2009, con le modalità di cui al comma 6.
14. Il sostituto d’imposta e gli
enti pensionistici ai quali è stata
presentata la richiesta erogano il
beneficio spettante, rispettivamente
entro il mese di aprile e maggio 2009,
in relazione ai dati autocertificati ai
sensi del comma 5, in applicazione
delle disposizioni del comma 3.
15. Il sostituto d’imposta eroga
il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nei limiti
del monte ritenute e contributi disponibili nel mese di aprile 2009. Le
amministrazioni pubbliche di cui
all’articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e
gli enti pensionistici erogano il beneficio, secondo l’ordine di presentazione delle richieste, nel limite del
monte delle ritenute disponibile.
16. I soggetti di cui al comma
precedente trasmettono all’Agenzia
delle entrate, entro il 30 giugno 2009
in via telematica, anche mediante i
soggetti di cui all’articolo 3, comma
3, del decreto del Presidente della
Repubblica 22 luglio 1998, n. 322, le
richieste ricevute ai sensi del comma
12, fornendo comunicazione dell’importo erogato in relazione a ciascuna
richiesta di attribuzione, secondo le
modalità di cui al comma 10.
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F O R E N S E
17. In tutti i casi in cui il beneficio ai sensi del comma 12 non è
erogato dai sostituti d’imposta di
cui agli articoli 23 e 29 del citato
decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, la richiesta
può essere presentata:
a) entro il 30 giugno 2009 da parte
dei soggetti esonerati dall’obbligo alla presentazione della dichiarazione, telematicamente
all’Agenzia delle entrate, anche
mediante i soggetti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto
del Presidente della Repubblica
22 luglio 1998, n. 322, e successive modificazioni, ai quali non
spetta compenso, indicando le
modalità prescelte per l’erogazione dell’importo;
b) con la dichiarazione dei redditi
relativa al periodo d’imposta
2008.
18. L’Agenzia delle entrate eroga
il beneficio richiesto ai sensi dei
commi 11 e 17 lettera a) con le modalità previste dal decreto del direttore generale del Dipartimento delle entrate 29 dicembre 2000, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 42 del 20 febbraio 2001.
19. I soggetti che hanno percepito il beneficio non spettante, in
tutto o in parte, sono tenuti ad effettuare la restituzione entro il termine di presentazione della prima
dichiarazione dei redditi successivo
alla erogazione. I contribuenti esonerati dall’obbligo di presentazione
della dichiarazione dei redditi effettuano la restituzione del beneficio
non spettante, in tutto o in parte,
mediante versamento con il modello
F24 entro i medesimi termini.
20. L’Agenzia delle entrate effettua i controlli relativamente:
a) ai benefici erogati eseguendo il
recupero di quelli non spettanti
e non restituiti spontaneamente;
b) alle compensazioni effettuate
dai sostituti ai sensi del comma
9, eseguendo il recupero degli
importi indebitamente compensati.
21. I sostituti d’imposta di cui agli
articoli 23 e 29 del decreto del Presi-
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dente della Repubblica n. 600 del
1973 e gli intermediari di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del
Presidente della Repubblica 22 luglio
1998, n. 322, sono tenuti a conservare per tre anni le autocertificazioni
ricevute dai richiedenti ai sensi del
comma 5, da esibire a richiesta
dell’amministrazione finanziaria.
22. Per l’erogazione del beneficio
previsto dalle presenti disposizioni,
nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle Finanze è
istituito un Fondo, per l’anno 2009,
con una dotazione pari a due miliardi e quattrocentomilioni di euro cui
si provvede con le maggiori entrate
derivanti dal presente decreto.
23. Gli Enti previdenziali e
l’Agenzia delle entrate provvedono
al monitoraggio degli effetti derivanti dalle disposizioni di cui al
presente articolo, comunicando i
risultati al Ministero del lavoro,
della salute e delle politiche sociali
ed al Ministero dell’economia e
delle finanze, anche ai fini dell’adozione dei provvedimenti correttivi di
cui all’articolo-11-ter), comma 7,
della legge 5 agosto 1978, n. 468, e
successive modificazioni.
Art. 2.
Mutui prima casa: per i mutui
in corso le rate variabili 2009
non possono superare il 4
per cento grazie all’accollo
da parte dello Stato dell’eventuale
eccedenza; per i nuovi mutui,
il saggio di base su cui si calcolano
gli spread è costituito
dal saggio BCE
1. L’importo delle rate, a carico
del mutuatario, dei mutui a tasso
non fisso da corrispondere nel corso del 2009 è calcolato applicando
il tasso maggiore tra il 4 per cento
senza spread, spese varie o altro
tipo di maggiorazione e il tasso
contrattuale alla data di sottoscrizione del contratto. Tale criterio di
calcolo non si applica nel caso in
cui le condizioni contrattuali determinano una rata di importo
inferiore.
165
1-bis. Anche al fine di escludere
a carico del mutuatario qualunque
costo relativo alla surrogazione, gli
atti di consenso alla surrogazione,
ai sensi dell’articolo 1202 del codice civile, relativi a mutui accesi per
l’acquisto, la ristrutturazione o la
costruzione dell’abitazione principale, contratti entro la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto da soggetti in favore dei quali è prevista la
rinegoziazione obbligatoria, sono
autenticati dal notaio senza applicazione di alcun onorario e con il
solo rimborso delle spese. A tal fine,
la quietanza rilasciata dalla prima
banca e il contratto di mutuo stipulato dalla seconda banca devono
essere forniti al notaio per essere
prodotti unitamente all’atto di surrogazione. Per eventuali attività
aggiuntive non necessarie all’operazione, espressamente richieste dalle
parti, gli onorari di legge restano a
carico della parte richiedente. In
ogni caso, le banche e gli intermediari finanziari, per l’esecuzione
delle formalità connesse alle operazioni di cui all’articolo 8 del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla
legge 2 aprile 2007, n. 40, e successive modificazioni, non applicano
costi di alcun genere, anche in forma
indiretta, nei riguardi dei clienti.
2. Il comma 1 si applica esclusivamente ai mutui garantiti da ipoteca per l’acquisto la costruzione e
la ristrutturazione dell’abitazione
principale, ad eccezione di quelle di
categoria A1, A8 e A9, sottoscritti o
accollati anche a seguito di frazionamento da persone fisiche fino al
31 ottobre 2008. Il comma 1 si applica anche ai mutui rinegoziati in
applicazione dell’articolo 3 del decreto-legge 27 maggio 2008, n. 93,
convertito, con modificazioni, dalla
legge 24 luglio 2008, n. 126, con
effetto sul conto di finanziamento
accessorio, ovvero, a partire dal
momento in cui il conto di finanziamento accessorio ha un saldo pari a
zero, sulle rate da corrispondere nel
corso del 2009.
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3. La differenza tra gli importi,
a carico del mutuatario, delle rate
determinati secondo il comma 1 e
quelli derivanti dall’applicazione
delle condizioni contrattuali dei
mutui è assunta a carico dello Stato.
Con provvedimento del direttore
dell’Agenzia delle entrate sono stabilite le modalità per la comunicazione alle banche e agli intermediari finanziari dei contribuenti per i
quali, sulla base delle informazioni
disponibili presso l’Anagrafe tributaria, possono ricorrere le condizioni per l’applicabilità delle disposizioni di cui al presente comma e le
modalità tecniche per garantire ai
medesimi operatori l’attribuzione
di un credito d’imposta, utilizzabile
esclusivamente in compensazione ai
sensi dell’articolo 17 del decreto
legislativo 9 luglio 1997, n. 241, e
successivemodificazioni, pari allaparte di rata a carico dello Stato ai
sensi del comma 2 e per il monitoraggio dei relativi flussi finanziari,
anche ai fini dell’eventuale adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 12, comma 9, del presente
decreto.
4. Gli oneri derivanti dal comma
3, pari a 350 milioni di euro per
l’anno 2009, sono coperti con le
maggiori entrate derivanti dal presente decreto.
5. A partire dal 1 gennaio 2009,
le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui agli
articoli 106 e 107 del testo unico
delle leggi in materia bancaria e
creditizia, di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, e
successive modificazioni, che offrono alla clientela mutui garantiti da
ipoteca per l’acquisto dell’abitazione principale devono assicurare ai
medesimi clienti la possibilità di
stipulare tali contratti a tasso variabile indicizzato al tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale
della Banca centrale europea. Il
tasso complessivo applicato in tali
contratti è in linea con quello praticato per le altre forme di indicizzazione offerte. Le banche e gli intermediari finanziari iscritti negli
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elenchi di cui ai citati articoli 106
e 107 del testo unico dicui al decreto legislativo n. 385 del 1993, e
successive modificazioni, sono tenuti a osservare le disposizioni
emanate dalla Banca d’Italia per
assicurare adeguata pubblicità e
trasparenza all’offerta di tali contratti e alle relative condizioni. Le
banche e gli intermediari finanziari iscritti negli elenchi di cui ai citati articoli 106 e 107 del testo
unico di cui al decreto legislativo
n. 385 del 1993, e successive modificazioni, trasmettono alla Banca
d’Italia, con le modalità e nei termini da questa indicate, segnalazioni
statistiche periodiche sulle condizioni offerte e su numero e ammontare dei mutui stipulati. Per l’inosservanza delle disposizioni di cui al
presente comma e delle relative
istruzioni applicative emanate dalla
Banca d’Italia, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria prevista all’articolo 144, comma 3, del
citato testo unico di cui al decreto
legislativo n. 385 del 1993. Si applicano altresì le disposizioni di cui
all’articolo 145 del citato testo unico di cui al decreto legislativo
n. 385 del 1993.
5-bis. Le eventuali minori spese
a carico dello Stato per l’anno 2009,
rispetto all’importo di 350 milioni
di euro di cui al comma 4, registrate all’esito del monitoraggio di cui
al comma 3, sono destinate, con
decreto del Ministro dell’economia
e delle finanze, di concerto con il
Ministro del lavoro, della salute e
delle politiche sociali, all’ulteriore
finanziamento degli assegni familiari. Con lo stesso decreto sono
ridefiniti i livelli di reddito e gli
importi degli assegni per i nuclei
familiari in maniera da valorizzare
le esigenze delle famiglie più numerose o con componenti portatori di
handicap, nonché al fine di una
tendenziale assimilazione tra le
posizioni dei titolari di reddito di
lavoro dipendente o assimilati e i
titolari di reddito di lavoro autonomo che si siano adeguati agli studi
di settore.
166
5-ter. Al fine di incrementare la
dotazione del Fondo nazionale per
il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione, di cui all’articolo
11, comma 1, della legge 9 dicembre
1998, n. 431, è autorizzata per l’anno 2009 la spesa di 20 milioni di
euro.
5-quater. A decorrere dal 1°
gennaio 2009, per l’inosservanza
delle disposizioni di cui all’articolo
8 del decreto-legge 31 gennaio
2007, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 2007,
n. 40, come modificato dal comma
450 dell’articolo 2 della legge 24
dicembre 2007, n. 244, si applicano
le sanzioni pecuniarie di cui all’articolo 144, comma 4, del testo unico delle leggi in materia bancaria e
creditizia, di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385.
5-quinquies. Le sanzioni irrogate ai sensi del comma 5-quater sono
destinate ad incrementare il Fondo
di solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, di cui
all’articolo 2, comma 475, della
legge 24 dicembre 2007, n. 244.
5-sexies. Entro sessanta giorni
dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente
decreto, il Ministro dell’economia e
delle finanze, con proprio decreto,
previo parere delle Commissioni
parlamentari competenti, emana il
regolamento attuativo del Fondo di
solidarietà per i mutui per l’acquisto della prima casa, di cui all’articolo 2, comma 475, della legge 24
dicembre 2007, n. 244.
Art. 2-bis
Ulteriori disposizioni concernenti
contratti bancari
1. Sono nulle le clausole contrattuali aventi ad oggetto la commissione di massimo scoperto se il
saldo del cliente risulti a debito per
un periodo continuativo inferiore a
trenta giorni ovvero a fronte di
utilizzi in assenza di fido. Sono altresì nulle le clausole, comunque
denominate, che prevedono una
remunerazione accordata alla ban-
Gazzetta
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ca per la messa a disposizione di
fondi a favore del cliente titolare di
conto corrente indipendentemente
dall’effettivo prelevamento della
somma, ovvero che prevedono una
remunerazione accordata alla banca indipendentemente dall’effettiva
durata dell’utilizzazione dei fondi
da parte del cliente, salvo che il
corrispettivo per il servizio di messa
a disposizione delle somme sia predeterminato, unitamente al tasso
debitore per le somme effettivamente utilizzate, con patto scritto non
rinnovabile tacitamente, in misura
onnicomprensiva e proporzionale
all’importo e alla durata dell’affidamento richiesto dal cliente e sia
specificatamente evidenziato e rendicontato al cliente con cadenza
massima annuale con l’indicazione
dell’effettivo utilizzo avvenuto nello
stesso periodo, fatta salva comunque la facoltà di recesso del cliente
in ogni momento.
2. Gli interessi, le commissioni
e le provvigioni derivanti dalle
clausole, comunque denominate,
che prevedono una remunerazione,
a favore della banca, dipendente
dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente,
dalla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente
decreto, sono comunque rilevanti
ai fini dell’applicazione dell’articolo 1815 del codice civile, dell’articolo 644 del codice penale e degli
articoli 2 e 3 della legge 7 marzo
1996, n. 108. Il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la
Banca d’Italia, emana disposizioni
transitorie in relazione all’applicazione dell’articolo 2 della legge 7
marzo 1996, n. 108, per stabilire
che il limite previsto dal terzo comma dell’articolo 644 del codice
penale, oltre il quale gli interessi
sono usurari, resta regolato dalla
disciplina vigente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto fino
a che la rilevazione del tasso effettivo globale medio non verrà effettuata tenendo conto delle nuove
disposizioni.
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3. I contratti in corso alla data
di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto
sono adeguati alle disposizioni del
presente articolo entro centocinquanta giorni dalla medesima data.
Tale obbligo di adeguamento costituisce giustificato motivo agli effetti dell’articolo 118, comma 1, del
testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993,
n. 385, e successive modificazioni.
Art. 4.
Fondo per il credito per i nuovi
nati e disposizione per i volontari
del servizio civile nazionale
1. Per la realizzazione di iniziative a carattere nazionale volte a
favorire l’accesso al credito delle
famiglie con un figlio nato o adottato nell’anno di riferimento è istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri un apposito fondo
rotativo, dotato di personalità giuridica, denominato: «Fondo di credito per i nuovi nati», con una dotazione di 25 milioni di euro per ciascuno degli anni 2009, 2010, 2011,
finalizzato al rilascio di garanzie
dirette, anche fidejussorie, alle banche e agli intermediari finanziari. Al
relativo onere si provvede a valere
sulle risorse del Fondo per le politiche della famiglia di cui all’articolo
19, comma 1, del decreto-legge 4
luglio 2006, n. 223, convertito con
modificazioni, dalla legge 4 agosto
2006, n. 248, come integrato dall’articolo 1, comma 1250, della legge
27 dicembre 2006, n. 296. Con
decreto di natura non regolamentare del Presidente del Consiglio dei
Ministri di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, sono
stabiliti i criteri e le modalità di organizzazione e di funzionamento
del Fondo, di rilascio e di operatività delle garanzie.
1-bis. Il Fondo di credito per i
nuovi nati di cui al comma 1 è altresì integrato di ulteriori 10 milioni di euro per l’anno 2009 per la
corresponsione di contributi in con-
167
to interessi in favore delle famiglie
di nuovi nati o bambini adottati nel
medesimo anno che siano portatori
di malattie rare, appositamente individuate dall’elenco di cui all’articolo 5, comma 1, lettera b), del
decreto legislativo 29 aprile 1998,
n. 124. In ogni caso, l’ammontare
complessivo dei contributi non può
eccedere il predetto limite di 10
milioni di euro per l’anno 2009.
2. Il comma 4 dell’articolo 9 del
decreto legislativo 5 aprile 2002,
n. 77 e successive modificazioni è
sostituito dai seguenti:
«4. Per i soggetti iscritti al Fondo
pensioni lavoratori dipendenti e alle
gestioni speciali dei lavoratori autonomi, agli iscritti ai fondi sostitutivi
ed esclusivi dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la
vecchiaia ed i superstiti ed alla gestione di cui all’articolo 2, comma
26, della legge 8 agosto 1995, n. 335,
i periodi corrispondenti al servizio
civile su base volontaria successivi al
1o gennaio 2009 sono riscattabili, in
tutto o in parte, a domanda dell’assicurato, e senza oneri a carico del
Fondo Nazionale del Servizio civile,
con le modalità di cui all’articolo 13
della legge 12 agosto 1962, n. 1338
e successive modificazioni ed integrazioni, e sempreché gli stessi non
siano già coperti da contribuzione in
alcuno dei regimi stessi.
4-bis. Gli oneri da riscatto possono essere versati ai regimi previdenziali di appartenenza in unica
soluzione ovvero in centoventi rate
mensili senza l’applicazione di interessi per la rateizzazione.
4-ter. Dal 1° gennaio 2009, cessa
a carico del Fondo Nazionale del
Servizio Civile qualsiasi obbligo
contributivo ai fini di cui al comma
4 per il periodo di servizio civile
prestato dai volontari avviati dal 1°
gennaio 2009».
3. Nell’anno 2009, nel limite
complessivo di spesa di 60 milioni di
euro, al personale del comparto sicurezza, difesa e soccorso pubblico, in
ragione della specificità dei compiti
e delle condizioni di stato e di impiego del comparto, titolare di reddito
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F O R E N S E
complessivo di lavoro dipendente
non superiore, nell’anno 2008, a
35.000 euro, è riconosciuta, in via
sperimentale, sul trattamento economico accessorio, una riduzione
dell’imposta sul reddito delle persone
fisiche e delle addizionali regionali e
comunali. La misura della riduzione
e le modalità applicative della stessa
saranno individuate con decreto del
Presidente del Consiglio dei Ministri,
su proposta dei Ministri interessati,
di concerto con il Ministro per la
pubblica amministrazione e l’innovazione e con il Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
3-bis. Le risorse del fondo istituito dall’articolo 1, comma 1328,
secondo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, alimentato
dalle società aeroportuali in proporzione al traffico generato, destinate al Dipartimento dei vigili del
fuoco, del soccorso pubblico e della
difesa civile del Ministero dell’interno, sono utilizzate, a decorrere dal
1 gennaio 2009, per il 40 per cento
al fine dell’attuazione di patti per il
soccorso pubblico da stipulare, di
anno in anno, tra il Governo e le
organizzazioni sindacali del Corpo
nazionale dei vigili del fuoco per
assicurare il miglioramento della
qualità del servizio di soccorso prestato dal personale del medesimo
Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e per il 60 per cento al fine di
assicurare la valorizzazione di una
più efficace attività di soccorso
pubblico del Corpo nazionale dei
vigili del fuoco, prevedendo particolari emolumenti da destinare
all’istituzione di una speciale indennità operativa per il servizio di soccorso tecnico urgente espletato
all’esterno.
3-ter. Le modalità di utilizzo
delle risorse di cui al comma 3-bis
sono stabilite nell’ambito dei procedimenti negoziali di cui agli articoli
37 e 83 del decreto legislativo 13
ottobre 2005, n. 217.
3-quater. Il Ministro dell’econo-
N O V IT à
LEGI S LATI V E
mia e delle finanze è autorizzato ad
apportare, con propri decreti, le
occorrenti variazioni di bilancio.
4. All’articolo 7, comma 3, della
legge 8 marzo 2000, n. 53, la parola
«definite» è sostituita dalle seguenti:
«definiti i requisiti, i criteri e».
5. Il decreto ministeriale di cui
all’articolo 7, comma 3, della legge
8 marzo 2000, n. 53, è emanato
entro trenta giorni dall’entrata in
vigore del presente decreto-legge.
Art. 9.
Rimborsi fiscali ultradecennali
e velocizzazione, anche attraverso
garanzie della Sace s.p.a.,
dei pagamenti da parte della p.a.
1. All’articolo 15-bis, comma
12, del decreto legge 2 luglio 2007,
n. 81, convertito, con modificazioni,
dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, è
aggiunto, in fine, il seguente periodo: Relativamente agli anni 2008 e
2009 le risorse disponibili sono
iscritte sul fondo di cui all’articolo
1, comma 50, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, rispettivamente,
per provvedere all’estinzione dei
crediti, maturati nei confronti dei
Ministeri alla data del 31 dicembre
2007, il cui pagamento rientri, secondo i criteri di contabilità nazionale, tra le regolazioni debitorie
pregresse e il cui ammontare è accertato con decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze, anche
sulla base delle risultanze emerse a
seguito della emanazione della propria circolare n. 7 del 5 febbraio
2008, nonché per essere trasferite
alla contabilità speciale n. 1778
«Agenzia delle entrate – Fondi di
Bilancio» per i rimborsi richiesti da
più di dieci anni, per la successiva
erogazione ai contribuenti.
2. Per effetto della previsione di
cui al comma 1, i commi 139, 140
e 140-bis dell’articolo 1 della legge
24 dicembre 2007, n. 244, sono
abrogati.
3. Con decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze, da
emanare entro 60 giorni dalla data
di entrata in vigore del presente
168
decreto, sono stabilite le modalità
per favorire l’intervento delle imprese di assicurazione e della SACE
s.p.a. nella prestazione di garanzie
finalizzate ad agevolare la riscossione dei crediti vantati dai fornitori di
beni e servizi nei confronti delle
amministrazioni pubbliche con
priorità per le ipotesi nelle quali sia
contestualmente offerta una riduzione dell’ammontare del credito
originario.
3-bis. Per l’anno 2009, su istanza del creditore di somme dovute
per somministrazioni, forniture e
appalti, le regioni e gli enti locali,
nel rispetto dei limiti di cui agli articoli 77-bise 77-terdel decretolegge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla
legge 6 agosto 2008, n. 133, possono certificare, entro il termine di
venti giorni dalla data di ricezione
dell’istanza, se il relativo credito sia
certo, liquido ed esigibile, al fine di
consentire al creditore la cessione
pro soluto a favore di banche o intermediari finanziari riconosciuti
dalla legislazione vigente. Tale cessione ha effetto nei confronti del
debitore ceduto, a far data dalla
predetta certificazione, che può
essere a tal fine rilasciata anche nel
caso in cui il contratto di fornitura
o di servizio in essere alla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto escluda la cedibilità del credito medesimo. Con decreto del Ministro
dell’economia e delle finanze, da
adottare entro trenta giorni dalla
data di entrata in vigore della legge
di conversione del presente decreto,
sono disciplinate le modalità di attuazione del presente comma.
Art. 12.
Finanziamento dell’economia
attraverso la sottoscrizione
pubblica di obbligazioni bancarie
speciali e relativi controlli
parlamentari e territoriali 1. Al fine di assicurare un adeguato f lusso di finanziamenti
all’economia e un adeguato livello
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di patrimonializzazione del sistema
bancario, il Ministero dell’economia e delle finanze è autorizzato,
fino al 31 dicembre 2009, anche in
deroga alle norme di contabilità di
Stato, a sottoscrivere, su specifica
richiesta delle banche interessate,
strumenti finanziari privi dei diritti
indicati nell’articolo 2351 del codice
civile, computabili nel patrimonio di
vigilanza ed emessi da banche italiane le cui azioni sono negoziate su
mercati regolamentati o da società
capogruppo di gruppi bancari italiani le azioni delle quali sono negoziate su mercati regolamentati.
2. Gli strumenti finanziari di cui
al comma 1 possono essere strumenti convertibili in azioni ordinarie su richiesta dell’emittente. Può
essere inoltre prevista, a favore
dell’emittente, la facoltà di rimborso
o riscatto, a condizione che la Banca
d’Italia attesti che l’operazione non
pregiudica le condizioni finanziarie
o di solvibilità della banca né del
gruppo bancario di appartenenza.
In ogni caso, il programma di intervento di cui al presente articolo ha
l’obiettivo di terminare entro dieci
anni dalla data di entrata in vigore
della legge di conversione del presente decreto.
3. La remunerazione degli strumenti finanziari di cui al comma 1
può dipendere, in tutto o in parte,
dalla disponibilità di utili distribuibili ai sensi dell’articolo 2433 del codice
civile. In tal caso la delibera con la
quale l’assemblea decide sulla destinazione degli utili è vincolata al rispetto
delle condizioni di remunerazione
degli strumenti finanziari stessi.
4. Il Ministero dell’economia e
delle finanze sottoscrive gli strumenti finanziari di cui al comma 1
a condizione che l’operazione risulti
economica nel suo complesso, tenga
conto delle condizioni di mercato e
sia funzionale al perseguimento
delle finalità indicate al comma 1.
5. La sottoscrizione è, altresì,
condizionata:
a) all’assunzione da parte dell’emittente degli impegni definiti in un
apposito protocollo d’intenti con
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2 0 0 9
il Ministero dell’economia e delle
finanze, in ordine al livello e alle
condizioni del credito da assicurare alle piccole e medie imprese
e alle famiglie, alle modalità con
le quali garantire adeguati livelli
di liquidità ai creditori delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, anche attraverso lo sconto di crediti certi,
senza nuovi o maggiori oneri per
la finanza pubblica, e a politiche
dei dividendi coerenti con l’esigenza di mantenere adeguati livelli di
patrimonializzazione;
b) all’adozione, da parte degli emittenti, di un codice etico contenente, tra l’altro, previsioni in
materia di politiche di remunerazione dei vertici aziendali.
5-bis. Gli schemi dei protocolli
di cui alla lettera a) e gli schemi dei
codici di cui alla lettera b) del comma 5 sono trasmessi alle Camere.
6. Sul finanziamento all’economia il Ministro dell’economia e
delle finanze riferisce periodicamente al Parlamento fornendo dati
disaggregati per regione e categoria
economica; a tale fine presso le
Prefetture è istituito uno speciale
osservatorio con la partecipazione
dei soggetti interessati. Dall’istituzione degli osservatori di cui al
presente comma non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico
del bilancio dello Stato; al funzionamento degli stessi si provvede
nell’ambito delle risorse umane,
strumentali e finanziarie già previste, a legislazione vigente, per le
Prefetture.
7. La sottoscrizione degli strumenti finanziari è effettuata sulla
base di una valutazione da parte
della Banca d’Italia delle condizioni economiche dell’operazione e
della computabilità degli strumenti finanziari nel patrimonio di vigilanza.
8. L’organo competente per
l’emissione di obbligazioni subordinate delibera anche in merito
all’emissione degli strumenti finanziari previsti dal presente articolo.
L’esercizio della facoltà di conversio-
169
ne è sospensivamente condizionato
alla deliberazione in ordine al relativo aumento di capitale.
9. Con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri, su proposta
del Ministro dell’economia e delle
finanze, sono individuate le risorse
necessarie per finanziare le operazioni stesse. Le predette risorse, da
iscrivere in apposito capitolo dello
stato di previsione del Ministero
dell’economia e delle finanze, sono
individuate in relazione a ciascuna
operazione mediante:
a) riduzione lineare delle dotazioni
finanziarie, a legislazione vigente, delle missioni di spesa di ciascun Ministero, con esclusione
delle dotazioni di spesa di ciascuna missione connesse a stipendi,
assegni, pensioni e altre spese
fisse; alle spese per interessi; alle
poste correttive e compensative
delle entrate, comprese le regolazioni contabili con le regioni; ai
trasferimenti a favore degli enti
territoriali aventi natura obbligatoria; del fondo ordinario delle
università; delle risorse destinate
alla ricerca; delle risorse destinate al finanziamento del 5 per
mille delle imposte sui redditi
delle persone fisiche; nonché
quelle dipendenti da parametri
stabiliti dalla legge o derivanti da
accordi internazionali;
b) riduzione di singole autorizzazioni legislative di spesa;
c) utilizzo temporaneo mediante
versamento in entrata di disponibilità esistenti sulle contabilità
speciali nonché sui conti di tesoreria intestati ad amministrazioni pubbliche ed enti pubblici nazionali con esclusione di quelli
intestati alle Amministrazioni
territoriali, nonché di quelli riguardanti i flussi finanziari intercorrenti con l’Unione europea ed
i connessi cofinanziamenti nazionali, con corrispondente riduzione delle relative autorizzazioni di
spesa e contestuale riassegnazione al predetto capitolo;
d) emissione di titoli del debito
pubblico.
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9-bis. Gli schemi di decreto di
cui al comma 9, corredati di relazione tecnica, sono trasmessi alle Camere per l’espressione del parere
delle Commissioni competenti per i
profili di carattere finanziario. I
pareri sono espressi entro quindici
giorni dalla data di trasmissione. Il
Governo, ove non intenda conformarsi alle condizioni formulate con
riferimento ai profili finanziari,
trasmette nuovamente alle Camere
gli schemi di decreto, corredati dei
necessari elementi integrativi di informazione, per i pareri definitivi
delle Commissioni competenti per i
profili finanziari, da esprimere entro dieci giorni dalla data di trasmissione. Decorsi inutilmente i termini
per l’espressione dei pareri, i decreti
possono essere comunque adottati.
10. I decreti di cui al comma 9 e
i correlati decreti di variazione di
bilancio sono trasmessi con immediatezza al Parlamento e comunicati alla Corte dei conti.
11. Ai fini delle operazioni di cui
al presente articolo e all’articolo 1
del decreto-legge 9 ottobre 2008,
n. 155, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 2008,
n. 190, le deliberazioni previste
dall’articolo 2441, quinto comma, e
dall’articolo 2443, secondo comma,
del codice civile sono assunte con le
stesse maggioranze previste per le
deliberazioni di aumento di capitale
dagli articoli 2368 e 2369 del codice civile. I termini stabiliti per le
operazioni della specie ai sensi del
codice civile e del testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998,
n. 58, sono ridotti della metà.
12. Con decreto di natura non
regolamentare del Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la
Banca d’Italia, da adottarsi entro 30
giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono stabiliti criteri, condizioni e modalità di
sottoscrizione degli strumenti finanziari di cui al presente articolo.
12-bis. Il Ministro dell’economia e delle finanze riferisce alle
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Camere in merito all’evoluzione
degli interventi effettuati ai sensi
del presente articolo nell’ambito
della relazione trimestrale di cui
all’articolo 5, comma 1-ter, del decreto-legge 9 ottobre 2008, n. 155,
convertito, con modificazioni, dalla
legge 4 dicembre 2008, n. 190.
Art. 14.
Attuazione della direttiva
2007/44/CE sulla partecipazione
dell’industria nelle banche;
disposizioni in materia
di amministrazione straordinaria
e di fondi comuni di investimento
speculativi (cd. hedge fund)
1. Sono abrogati i commi 6 e 7
dell’articolo 19 del testo unico delle
leggi in materia bancaria e creditizia, di cui al decreto legislativo 1°
settembre 1993, n. 385. Al comma
8-bis del medesimo articolo 19 del
testo unico di cui al decreto legislativo n. 385 del 1993, le parole: «e il
divieto previsto dal comma 6» sono
soppresse. Ai soggetti che, anche
attraverso società controllate, svolgono in misura rilevante attività
d’impresa in settori non bancari né
finanziari l’autorizzazione prevista
dall’articolo 19 del medesimo decreto legislativo è rilasciata dalla Banca
d’Italia ove ricorrano le condizioni
previste dallo stesso articolo e, in
quanto compatibili, dalle relative
disposizioni di attuazione. Con riferimento a tali soggetti deve essere
inoltre accertata la competenza professionale generale nella gestione di
partecipazioni ovvero, considerata
l’influenza sulla gestione che la partecipazione da acquisire consente di
esercitare, la competenza professionale specifica nel settore finanziario.
La Banca d’Italia può chiedere ai
medesimi soggetti ogni informazione
utile per condurre tale valutazione.
2. Il primo periodo del comma l
dell’articolo 12, del decreto legislativo 22 giugno 2007, n. 109, è sostituito dal seguente: «Fatta eccezione
per quanto previsto dal comma 18bis del presente articolo e salvo che
il Comitato, senza oneri aggiuntivi
170
per la finanza pubblica, non individui modalità operative alternative
per attuare il congelamento delle
risorse economiche in applicazione
dei principi di efficienza, efficacia
ed economicità, l’Agenzia del demanio provvede alla custodia, all’amministrazione ed alla gestione delle
risorse economiche oggetto di congelamento.».
3. All’articolo 12 del decreto legislativo 22 giugno 2007, n. 109, dopo
il comma 18 è aggiunto il seguente
comma: «18-bis. Nel caso in cui i
soggetti designati siano sottoposti
alla vigilanza della Banca d’Italia si
applicano, sentito il Comitato di sicurezza finanziaria, gli articoli 70 e seguenti, 98 e 100 del decreto legislativo
1° settembre 1993, n. 385, recante il
testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, o l’articolo 56 del
decreto legislativo 24 febbraio 1998,
n. 58, recante il testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria. Il comitato di sorveglianza può essere composto da un
numero di componenti inferiore a tre.
L’amministrazione straordinaria dura
per il periodo del congelamento e il
tempo necessario al compimento degli adempimenti successivi alla cessazione degli effetti dello stesso, salvo
che la Banca d’Italia, sentito il Comitato di sicurezza finanziaria, ne autorizzi la chiusura anticipata. Resta
ferma la possibilità di adottare in
ogni momento i provvedimenti previsti nei medesimi decreti legislativi. Si
applicano, in quanto compatibili, le
seguenti disposizioni del presente articolo, intendendosi comunque esclusa ogni competenza dell’Agenzia del
demanio: comma 2, ultimo periodo,
comma 7, commi da 11 a 17, ad eccezione del comma 13 lettera a). Quanto precede si applica anche agli intermediari sottoposti alla vigilanza di
altre Autorità, secondo la rispettiva
disciplina di settore».
4. All’articolo 5, comma 2, del
decreto legislativo 22 giugno 2007,
n. 109, le parole «fatte salve le attribuzioni conferite all’Agenzia del
demanio ai sensi dell’articolo 12»
sono sostituite dalle seguenti paro-
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le: «fatto salvo quanto previsto
dall’articolo 12».
5. All’articolo 56 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, dopo
il comma 3 è aggiunto il seguente
comma:
«3-bis. Le operazioni di cui ai
commi 1 e 2 effettuate in attuazione
dell’articolo 27, comma 2, lettere a)
e b-bis), in vista della liquidazione
dei beni del cedente, non costituiscono comunque trasferimento di
azienda, di ramo o di parti dell’azienda agli effetti previsti dall’articolo
2112 del codice civile.».
6. Al fine di salvaguardare l’interesse e la parità di trattamento dei
partecipanti, il regolamento dei fondi comuni di investimento speculativi può prevedere che, sino al 31
dicembre 2009:
a) nel caso di richieste di rimborso
complessivamente superiori in
un dato giorno o periodo al 15
per cento del valore complessivo
netto del fondo, la SGR può sospendere il rimborso delle quote
eccedente tale ammontare in
misura proporzionale alle quote
per le quali ciascun sottoscrittore ha richiesto il rimborso. Le
quote non rimborsate sono trattate come una nuova domanda
di rimborso presentata il primo
giorno successivo all’effettuazione dei rimborsi parziali.
b) nei casi eccezionali in cui la cessione di attività illiquide del fondo, necessaria per far fronte alle
richieste di rimborso, può pregiudicare l’interesse dei partecipanti, la SGR può deliberare la
scissione parziale del fondo, trasferendo le attività illiquide in un
nuovo fondo di tipo chiuso. Ciascun partecipante riceve un numero di quote del nuovo fondo
uguale a quello che detiene nel
vecchio fondo. Il nuovo fondo
non può emettere nuove quote; le
quote del nuovo fondo vengono
rimborsate via via che le attività
dello stesso sono liquidate.
7. Le modifiche al regolamento
dei fondi per l’inserzione delle clausole di cui al comma 6 entrano in
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vigore il giorno stesso dell’approvazione da parte della Banca d’Italia e
sono applicabili anche alle domande
di rimborso già presentate ma non
ancora regolate.
8. Sono abrogati i limiti massimi
al numero dei partecipanti a un
fondo speculativo previsti da norme
di legge o dai relativi regolamenti di
attuazione.
9. La Banca d’Italia definisce con
proprio regolamento le norme attuative dei commi 6, 7 e 8 del presente articolo, con particolare riferimento alla definizione di attività
illiquide, alle caratteristiche dei fondi chiusi di cui al comma 6, lettera
b), alle procedure per l’approvazione
delle modifiche dei regolamenti di
gestione dei fondi e all’ipotesi in cui
a seguito dell’applicazione delle misure di cui al comma 6, siano detenute quote di valore inferiore al
minimo previsto per l’investimento
in quote di fondi speculativi.
Art. 16.
Riduzione dei costi amministrativi
a carico delle imprese
(N.B. v. co.12bis e ss.
per modifiche al C.C.) 1. All’articolo 21 della legge 30
dicembre 1991, n. 413, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) alla fine del comma 9 è aggiunto
il seguente periodo: «La mancata comunicazione del parere da
parte dell’Agenzia delle entrate
entro 120 giorni e dopo ulteriori
60 giorni dalla diffida ad adempiere da parte del contribuente
equivale a silenzio assenso.»;
b) il comma 10 è soppresso.
2. All’articolo 37, del decreto
legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge
4 agosto 2006, n. 248 i commi da
33 a 37-ter sono abrogati.
3. All’articolo 1, della legge 27
dicembre 2006, n. 296 i commi da
30 a 32 sono abrogati.
4. All’articolo 1, della legge
24.12.2007, n 244, i commi da 363
a 366 sono abrogati.
5. Nell’articolo 13 del decreto
171
legislativo 18 dicembre 1997, n. 472
sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al comma 1, lettera a), le parole
«un ottavo» sono sostituite dalle
seguenti: «un dodicesimo»;
b) al comma 1, lettera b), le parole
«un quinto» sono sostituite dalle
seguenti: «un decimo»;
c) al comma 1, lettera c), le parole:
«un ottavo», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti: «un dodicesimo».
5-bis. La lettera h)del comma 4
dell’articolo 50-bisdel decreto-legge
30 agosto 1993, n. 331, convertito,
con modificazioni, dalla legge 29
ottobre 1993, n. 427, si interpreta
nel senso che le prestazioni di servizi ivi indicate, relative a beni consegnati al depositario, costituiscono
ad ogni effetto introduzione nel
deposito IVA.
6. Le imprese costituite in forma
societaria sono tenute a indicare il
proprio indirizzo di posta elettronica certificata nella domanda di iscrizione al registro delle imprese o
analogo indirizzo di posta elettronica basato su tecnologie che certifichino data e ora dell’invio e della
ricezione delle comunicazioni e l’integrità del contenuto delle stesse,
garantendo l’interoperabilità con
analoghi sistemi internazionali. Entro tre anni dalla data di entrata in
vigore del presente decreto tutte le
imprese, già costituite in forma societaria alla medesima data di entrata in vigore, comunicano al registro
delle imprese l’indirizzo di posta
elettronica certificata. L’iscrizione
dell’indirizzo di posta elettronica
certificata nel registro delle imprese
e le sue successive eventuali variazioni sono esenti dall’imposta di bollo
e dai diritti di segreteria.
7. I professionisti iscritti in albi
ed elenchi istituiti con legge dello
Stato comunicano ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di
posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica
di cui al comma 6 entro un anno
dalla data di entrata in vigore del
presente decreto. Gli ordini e i col-
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legi pubblicano in un elenco riservato, consultabile in via telematica
esclusivamente dalle pubbliche amministrazioni, i dati identificativi
degli iscritti con il relativo indirizzo
di posta elettronica certificata.
8. Le amministrazioni pubbliche
di cui all’articolo 1, comma 2, del
decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165, e successive modificazioni,
qualora non abbiano provveduto ai
sensi dell’articolo 47, comma 3, lettera a), del Codice dell’Amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, istituiscono una casella di posta certificata o analogo indirizzo di posta elettronica di cui al comma 6 per ciascun
registro di protocollo e ne danno
comunicazione al Centro nazionale
per l’informatica nella pubblica amministrazione, che provvede alla
pubblicazione di tali caselle in un
elenco consultabile per via telematica. Dall’attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o
maggiori oneri a carico della finanza
pubblica e si deve provvedere nell’ambito delle risorse disponibili.
9. Salvo quanto stabilito dall’articolo 47, commi 1 e 2, del codice
dell’amministrazione digitale di cui
al decreto legislativo 7 marzo 2005,
n. 82, le comunicazioni tra i soggetti di cui ai commi 6, 7 e 8 del presente articolo, che abbiano provveduto agli adempimenti ivi previsti,
possono essere inviate attraverso la
posta elettronica certificata o analogo indirizzo di posta elettronica
di cui al comma 6, senza che il destinatario debba dichiarare la propria disponibilità ad accettarne
l’utilizzo.
10. La consultazione per via telematica dei singoli indirizzi di posta elettronica certificata o analoghi
indirizzi di posta elettronica di cui
al comma 6, nel registro delle imprese o negli albi o elenchi costituiti ai sensi del presente articolo avviene liberamente e senza oneri.
L’estrazione di elenchi di indirizzi è
consentita alle sole pubbliche amministrazioni per le comunicazioni
relative agli adempimenti ammini-
N O V IT à
LEGI S LATI V E
strativi di loro competenza.
10-bis. Gli intermediari abilitati ai sensi dell’articolo 31, comma
2-quater, della legge 24 novembre
2000, n. 340, sono obbligati a richiedere per via telematica la registrazione degli atti di trasferimento
delle partecipazioni di cui all’articolo 36, comma 1-bis, del decretolegge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla
legge 6 agosto 2008, n. 133, nonché
al contestuale pagamento telematico dell’imposta dagli stessi liquidata e sono altresì responsabili ai
sensi dell’articolo 57, commi 1 e 2,
del testo unico delle disposizioni
concernenti l’imposta di registro, di
cui al decreto del Presidente della
Repubblica 26 aprile 1986, n. 131.
In materia di imposta di bollo si
applicano le disposizioni previste
dall’articolo 1, comma 1-bis.1, numero 3), della tariffa, parte prima,
del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642,
come sostituita dal decreto del Ministro delle finanze 20 agosto 1992,
pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficialen. 196 del
21 agosto 1992, e successive modificazioni.
10-ter. Con provvedimento del
Direttore dell’Agenzia delle entrate
sono stabiliti i termini e le modalità
di esecuzione per via telematica
degli adempimenti di cui al comma
10-bis.
11. Il comma 4 dell’articolo 4
del regolamento di cui aldecreto del
Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, è abrogato.
12. I commi 4 e 5 dell’articolo 23
del decreto legislativo 7 marzo 2005,
n. 82, recante «Codice dell’amministrazione digitale», sono sostituiti
dai seguenti:
«4. Le copie su supporto informatico di qualsiasi tipologia di documenti analogici originali, formati
in origine su supporto cartaceo o su
altro supporto non informatico,
sostituiscono ad ogni effetto di legge gli originali da cui sono tratte se
la loro conformità all’originale è
assicurata da chi lo detiene median-
172
te l’utilizzo della propria firma digitale e nel rispetto delle regole tecniche di cui all’articolo 71.
5. Con decreto del Presidente del
Consiglio dei Ministri possono essere individuate particolari tipologie
di documenti analogici originali
unici per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica, permane l’obbligo della conservazione
dell’originale analogico oppure, in
caso di conservazione ottica sostitutiva, la loro conformità all’originale
deve essere autenticata da un notaio
o da altro pubblico ufficiale a ciò
autorizzato con dichiarazione da
questi firmata digitalmente ed allegata al documento informatico.».
12-bis. Dopo l’articolo 2215 del
codice civile è inserito il seguente:
«Art. 2215-bis. (Documentazione informatica). – I libri, i repertori,
le scritture e la documentazione la
cui tenuta è obbligatoria per disposizione di legge o di regolamento o
che sono richiesti dalla natura o
dalle dimensioni dell’impresa possono essere formati e tenuti con strumenti informatici. Le registrazioni
contenute nei documenti di cui al
primo comma debbono essere rese
consultabili in ogni momento con i
mezzi messi a disposizione dal soggetto tenutario e costituiscono informazione primaria e originale da
cui è possibile effettuare, su diversi
tipi di supporto, riproduzioni e copie per gli usi consentiti dalla legge.
Gli obblighi di numerazione progressiva, vidimazione e gli altri obblighi previsti dalle disposizioni di
legge o di regolamento per la tenuta
dei libri, repertori e scritture, ivi
compreso quello di regolare tenuta
dei medesimi, sono assolti, in caso
di tenuta con strumenti informatici,
mediante apposizione, ogni tre mesi
a far data dalla messa in opera, della marcatura temporale e della firma
digitale dell’imprenditore, o di altro
soggetto dal medesimo delegato,
inerenti al documento contenente le
registrazioni relative ai tre mesi precedenti. Qualora per tre mesi non
siano state eseguite registrazioni, la
firma digitale e la marcatura tempo-
Gazzetta
F O R E N S E
rale devono essere apposte all’atto
di una nuova registrazione, e da
tale apposizione decorre il periodo
trimestrale di cui al terzo comma. I
libri, i repertori e le scritture tenuti
con strumenti informatici, secondo
quanto previsto dal presente articolo, hanno l’efficacia probatoria di
cui agli articoli 2709 e 2710 del
codice civile».
12-ter. L’obbligo di bollatura dei
documenti di cui all’articolo 2215bis del codice civile, introdotto dal
comma 12-bisdel presente articolo,
in caso di tenuta con strumenti informatici, è assolto in base a quanto previsto all’articolo 7 del decreto
del Ministero dell’economia e delle
finanze 23 gennaio 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficialen. 27 del
3 febbraio 2004.
12-quater. All’articolo 2470 del
codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole:
«dell’iscrizione nel libro dei soci
secondo quanto previsto nel»
sono sostituite dalle seguenti:
«del deposito di cui al»;
b) al secondo comma, il secondo
periodo è soppresso e, al terzo
periodo, le parole: «e l’iscrizione
sono effettuati» sono sostituite
dalle seguenti: «è effettuato»;
c) il settimo comma è sostituito dal
seguente: «Le dichiarazioni degli amministratori previste dai
commi quarto e quinto devono
essere depositate entro trenta
giorni dall’avvenuta variazione
della compagine sociale».
12-quinquies. Al primo comma
dell’articolo 2471 del codice civile,
le parole: «Gli amministratori procedono senza indugio all’annotazione nel libro dei soci» sono soppresse.
12-sexies. Al primo comma
dell’articolo 2472 del codice civile,
le parole: «libro dei soci» sono sostituite dalle seguenti: «registro
delle imprese».
12-septies. All’articolo 2478 del
codice civile sono apportate le seguenti modificazioni:
a) il numero 1) del primo comma è
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abrogato;
b) al secondo comma, le parole: «I
primi tre libri» sono sostituite
dalle seguenti: «I libri indicati
nei numeri 2) e 3) del primo
comma» e le parole: «e il quarto» sono sostituite dalle seguenti: «; il libro indicato nel numero
4) del primo comma deve essere
tenuto».
12-octies. Al secondo comma
dell’articolo 2478-bisdel codice civile, le parole: «devono essere depositati» sono sostituite dalle seguenti: «deve essere depositata» e le
parole: «e l’elenco dei soci e degli
altri titolari di diritti sulle partecipazioni sociali» sono soppresse.
12-novies. All’articolo 2479bis, primo comma, secondo periodo, del codice civile, le parole: «libro dei soci» sono sostituite dalle
seguenti: «registro delle imprese».
12-decies. Al comma 1-bis
dell’articolo 36 del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112, convertito,
con modificazioni, dalla legge 6
agosto 2008, n. 133, il secondo
periodo è soppresso.
12-undecies. Le disposizioni di
cui ai commi da 12-quatera 12-deciesentrano in vigore il sessantesimo
giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Entro tale
termine, gli amministratori delle
società a responsabilità limitata
depositano, con esenzione da ogni
imposta e tassa, apposita dichiarazione per integrare le risultanze del
registro delle imprese con quelle del
libro dei soci».
Art. 16-bis
Misure di semplificazione
per le famiglie e per le imprese 1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto di cui al
comma 3 e secondo le modalità ivi
previste, i cittadini comunicano il
trasferimento della propria residenza e gli altri eventi anagrafici e di
stato civile all’ufficio competente.
Entro ventiquattro ore dalla conclusione del procedimento ammini-
173
strativo anagrafico, l’ufficio di anagrafe trasmette le variazioni all’indice nazionale delle anagrafi, di cui
all’articolo 1, quarto comma, della
legge 24 dicembre 1954, n. 1228, e
successive modificazioni, che provvede a renderle accessibili alle altre
amministrazioni pubbliche.
2. La richiesta al cittadino di
produrre dichiarazioni o documenti al di fuori di quelli indispensabili
per la formazione e le annotazioni
degli atti di stato civile e di anagrafe costituisce violazione dei doveri
d’ufficio, ai fini della responsabilità
disciplinare.
3. Con uno o più decreti del
Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione e del Ministro dell’interno, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo
8 del decreto legislativo 28 agosto
1997, n. 281, e successive modificazioni, sono stabilite le modalità per
l’attuazione del comma 1.
4. Dall’attuazione del comma 1
non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
5. Per favorire la realizzazione
degli obiettivi di massima diffusione delle tecnologie telematiche nelle comunicazioni, previsti dal codice dell’amministrazione digitale, di
cui al decreto legislativo 7 marzo
2005, n. 82, ai cittadini che ne fanno richiesta è attribuita una casella
di posta elettronica certificata.
L’utilizzo della posta elettronica
certificata avviene ai sensi degli
articoli 6 e 48 del citato codice di
cui al decreto legislativo n. 82 del
2005, con effetto equivalente, ove
necessario, alla notificazione per
mezzo della posta. Le comunicazioni che transitano per la predetta
casella di posta elettronica certificata sono senza oneri.
6. Per i medesimi fini di cui al
comma 5, ogni amministrazione
pubblica utilizza unicamente la
posta elettronica certificata, ai sensi dei citati articoli 6 e 48 del codice
di cui al decreto legislativo n. 82 del
2005, con effetto equivalente, ove
necessario, alla notificazione per
mezzo della posta, per le comunica-
Gazzetta
F O R E N S E
zioni e le notificazioni aventi come
destinatari dipendenti della stessa o
di altra amministrazione pubblica.
7. Con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, su proposta
del Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, da emanare entro novanta giorni dalla
data di entrata in vigore della legge
di conversione del presente decreto,
previa intesa in sede di Conferenza
unificata di cui all’articolo 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281, e successive modificazioni,
sono definite le modalità di rilascio
e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini ai sensi del comma 5 del
presente articolo, con particolare
riguardo alle categorie a rischio di
esclusione ai sensi dell’articolo 8 del
citato codice di cui al decreto legislativo n. 82 del 2005, nonché le
modalità di attivazione del servizio
mediante procedure di evidenza
pubblica, anche utilizzando strumenti di finanza di progetto. Con il
medesimo decreto sono stabilite le
modalità di attuazione di quanto
previsto nel comma 6, cui le amministrazioni pubbliche provvedono
nell’ambito degli ordinari stanziamenti di bilancio.
8. Agli oneri derivanti dall’attuazione del comma 5 si provvede
mediante l’utilizzo delle risorse finanziarie assegnate, ai sensi dell’articolo 27 della legge 16 gennaio
2003, n. 3, al progetto «Fondo di
garanzia per le piccole e medie imprese» con decreto dei Ministri
delle attività produttive e per l’innovazione e le tecnologie 15 giugno
2004, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale n. 150 del 29 giugno 2004,
non impegnate alla data di entrata
in vigore della legge di conversione
del presente decreto.
9. All’articolo 1, comma 213,
della legge 24 dicembre 2007,
n. 244, sono apportate le seguenti
modificazioni:
a) all’alinea sono aggiunte, in fine,
le seguenti parole: «, in conformità a quanto previsto dagli
standard del Sistema pubblico di
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174
LEGI S LATI V E
connettività (SPC)»;
b) dopo la lettera g) è aggiunta la
seguente:
«g-bis) le regole tecniche idonee
a garantire l’attestazione della data,
l’autenticità dell’origine e l’integrità
del contenuto della fattura elettronica, di cui all’articolo 21, comma
3, del decreto del Presidente della
Repubblic a 26 ot tobre 1972 ,
n. 633, e successive modificazioni,
per ogni fine di legge».
10. In attuazione dei principi
stabiliti dall’articolo 18, comma 2,
della legge 7 agosto 1990, n. 241, e
successive modificazioni, e dall’articolo 43, comma 5, del testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, le
stazioni appaltanti pubbliche acquisiscono d’ufficio, anche attraverso
strumenti informatici, il documento unico di regolarità contributiva
(DURC) dagli istituti o dagli enti
abilitati al rilascio in tutti i casi in
cui è richiesto dalla legge.
11. In deroga alla normativa
vigente, per i datori di lavoro domestico gli obblighi di cui all’articolo
9-bis del decreto-legge 1 ottobre
1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre
1996, n. 608, e successive modificazioni, si intendono assolti con la
presentazione all’Istituto nazionale
della previdenza sociale (INPS),
attraverso modalità semplificate,
della comunicazione di assunzione,
cessazione, trasformazione e proroga del rapporto di lavoro.
12. L’INPS trasmette, in via informatica, le comunicazioni semplificate di cui al comma 11 ai servizi
competenti, al Ministero del lavoro,
della salute e delle politiche sociali,
all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro
(INAIL), nonché alla prefetturaufficio territoriale del Governo,
nell’ambito del Sistema pubblico di
connettività (SPC) e nel rispetto
delle regole tecniche di sicurezza, di
cui all’articolo 71, comma 1-bis, del
codice di cui al decreto legislativo 7
marzo 2005, n. 82, anche ai fini di
quanto previsto dall’articolo 4-bis,
comma 6, del decreto legislativo 21
aprile 2000, n. 181, e successive
modificazioni».
TITOLO III
RIDISEGNO IN FUNZIONE
ANTICRISI DEL QUADRO
STRATEGICO NAZIONALE:
PROTEZIONE DEL CAPITALE
UMANO E DOMANDA
PUBBLICA ACCELERATA
PER GRANDI E PICCOLE
INFRASTRUTTURE,
CON PRIORITÀ
PER L’EDILIZIA SCOLASTICA
Art. 19.
Potenziamento ed estensione
degli strumenti di tutela
del reddito in caso di sospensione
dal lavoro o di disoccupazione,
nonché disciplina
per la concessione
degli ammortizzatori in deroga 1. Nell’ambito del Fondo per
l’occupazione di cui all’articolo 1,
comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con
modificazioni, dalla legge 19 luglio
1993, n. 236, fermo restando quanto previsto dal comma 8 del presente articolo, sono preordinate le somme di 289 milioni di euro per l’anno
2009, di 304 milioni di euro per
ciascuno degli anni 2010 e 2011 e di
54 milioni di euro a decorrere
dall’anno 2012, nei limiti delle quali
è riconosciuto l’accesso, secondo le
modalità e i criteri di priorità stabiliti con il decreto di cui al comma 3,
ai seguenti istituti di tutela del reddito in caso di sospensione dal lavoro,
ivi includendo il riconoscimento della contribuzione figurativa e degli
assegni al nucleo familiare, nonché
all’istituto sperimentale di tutela del
reddito di cui al comma 2:
a) l’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali di cui all’articolo 19,
primo comma, del regio decreto-
Gazzetta
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legge 14 aprile 1939, n. 636,
convertito, con modificazioni,
dalla legge 6 luglio 1939, n. 1272,
e successive modificazioni per i
lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali e che siano
in possesso dei requisiti di cui al
predetto articolo 19, primo comma e subordinatamente ad un
intervento integrativo pari almeno alla misura del venti per cento dell’indennità stessa a carico
degli enti bilaterali previsti dalla
contrattazione collettiva compresi quelli di cui all’articolo 12
del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive
modificazioni. La durata massima del trattamento non può superare novanta giornate annue
di indennità. Quanto previsto
dalla presente lettera non si applica ai lavoratori dipendenti da
aziende destinatarie di trattamenti di integrazione salariale,
nonché nei casi di contratti di
lavoro a tempo indeterminato
con previsione di sospensioni
lavorative programmate e di
contratti di lavoro a tempo parziale verticale. L’indennità di
disoccupazione non spetta nelle
ipotesi di perdita e sospensione
dello stato di disoccupazione
disciplinate dalla normativa in
materia di incontro tra domanda
e offerta di lavoro. Tale indennità, fino alla data di entrata in
vigore del decreto di cui al comma 3 del presente articolo, può
essere concessa anche senza necessità dell’intervento integrativo degli enti bilaterali;
b) l’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti ridotti di cui all’articolo 7,
comma 3, del decreto-legge 21
marzo 1988, n. 86, convertito,
con modificazioni, dalla legge
20 maggio 1988, n. 160, per i
lavoratori sospesi per crisi aziendali o occupazionali che siano in
possesso dei requisiti di cui al
predetto articolo 7, comma 3, e
subordinatamente ad un intervento integrativo pari almeno
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alla misura del venti per cento
dell’indennità stessa a carico
degli enti bilaterali previsti dalla
contrattazione collettiva compresi quelli di cui all’articolo 12
del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive
modificazioni. La durata massima del trattamento non può superare novanta giornate annue
di indennità. Quanto previsto
dalla presente lettera non si applica ai lavoratori dipendenti da
aziende destinatarie di trattamenti di integrazione salariale,
nonché nei casi di contratti di
lavoro a tempo indeterminato
con previsione di sospensioni
lavorative programmate e di
contratti di lavoro a tempo parziale verticale. L’indennità di
disoccupazione non spetta nelle
ipotesi di perdita e sospensione
dello stato di disoccupazione
disciplinate dalla normativa in
materia di incontro tra domanda
e offerta di lavoro. Tale indennità, fino alla data di entrata in
vigore del decreto di cui al comma 3 del presente articolo, può
essere concessa anche senza necessità dell’intervento integrativo degli enti bilaterali;
c) in via sperimentale per il triennio
2009-2011 e subordinatamente a
un intervento integrativo pari
almeno alla misura del venti per
cento dell’indennità stessa a carico degli enti bilaterali previsti
dalla contrattazione collettiva un
trattamento, in caso di sospensione per crisi aziendali o occupazionali ovvero in caso di licenziamento, pari all’indennità ordinaria di disoccupazione con requisiti normali per i lavoratori assunti con la qualifica di apprendista
alla data di entrata in vigore del
presente decreto e con almeno tre
mesi di servizio presso l’azienda
interessata da trattamento, per la
durata massima di novanta giornate nell’intero periodo di vigenza del contratto di apprendista.
1-bis. Con riferimento ai lavoratori di cui alle lettere da a) a c) del
175
comma 1 il datore di lavoro è tenuto
a comunicare, con apposita dichiarazione da inviare ai servizi competenti di cui all’articolo 1 del decreto
legislativo 21 aprile 2000, n. 181,
come modificato e integrato dal
decreto legislativo 19 dicembre
2002, n. 297, e alla sede dell’Istituto
nazionale della previdenza sociale
(INPS) territorialmente competente, la sospensione della attività lavorativa e le relative motivazioni, nonché i nominativi dei lavoratori interessati, che, per beneficiare del trattamento, devono rendere dichiarazione di immediata disponibilità al
lavoro o a un percorso di riqualificazione professionale all’atto della
presentazione della domanda per
l’indennità di disoccupazione secondo quanto precisato dal decreto
di cui al comma 3 del presente articolo. Con riferimento ai lavoratori
di cui alle lettere da a) a c) del comma 1, l’eventuale ricorso all’utilizzo
di trattamenti di cassa integrazione
guadagni straordinaria o di mobilità in deroga alla normativa vigente
è in ogni caso subordinato all’esaurimento dei periodi di tutela di cui
alle stesse lettere da a) a c) del comma 1 secondo quanto precisato dal
decreto di cui al comma 3 del presente articolo.
2. In via sperimentale per il
triennio 2009-2011, nei limiti delle
risorse di cui al comma 1, e nei soli
casi di fine lavoro, fermo restando
quanto previsto dai commi 8, secondo periodo, e 10, è riconosciuta
una somma liquidata in un’unica
soluzione pari al 10 per cento del
reddito percepito l’anno precedente,
ai collaboratori coordinati e continuativi di cui all’articolo 61, comma
1, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 e successive modificazioni, iscritti in via esclusiva
alla gestione separata presso l’INPS
di cui all’articolo 2, comma 26,
della legge 8 agosto 1995, n. 335
con esclusione dei soggetti individuati dall’articolo 1, comma 212,
della legge 23 dicembre 1996,
n. 662, i quali soddisfino in via
congiunta le seguenti condizioni:
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a) operino in regime di monocommittenza;
b) abbiano conseguito l’anno precedente un reddito superiore a
5.000 euro e pari o inferiore al
minimale di reddito di cui all’articolo 1, comma 3, della legge 2
agosto 1990, n. 233 e siano stati
accreditati presso la predetta gestione separata di cui all’articolo
2, comma 26, della legge 8 agosto
1995, n. 335, un numero di mensilità non inferiore a tre;
c) con riferimento all’anno di riferimento siano accreditati presso
la predetta gestione separata di
cui all’articolo 2, comma 26,
della legge 8 agosto 1995, n. 335,
un numero di mensilità non inferiore a tre;
d) (soppressa);
e) non risultino accreditati nell’anno precedente almeno due mesi
presso la predetta gestione separata di cui all’articolo 2, comma
26, della legge 8 agosto 1995,
n. 335.
3. Con decreto del Ministro del
lavoro, della salute e delle politiche
sociali, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, da
adottarsi entro sessanta giorni dalla
data di entrata in vigore del presente decreto, sono definite le modalità
di applicazione dei commi 1, 1-bis,
2, 4 e 10, nonché le procedure di
comunicazione all’INPS anche ai
fini del tempestivo monitoraggio da
parte del medesimo Istituto di cui al
comma 4. Lo stesso decreto può
altresì effettuare la ripartizione del
limite di spesa di cui al comma 1 del
presente articolo in limiti di spesa
specifici per ciascuna tipologia di
intervento di cui alle lettere da a) a
c) del comma 1 e del comma 2 del
presente articolo.
4. L’INPS stipula con gli enti
bilaterali di cui ai commi precedenti, secondo le linee guida definite
nel decreto di cui al comma 3, apposite convenzioni per la gestione
dei trattamenti e lo scambio di informazioni, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche tramite la costituzione
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di un’apposita banca dati alla quale
possono accedere anche i servizi
competenti di cui all’articolo 1,
comma 2, lettera g), del decreto
legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e
successive modificazioni, e provvede al monitoraggio dei provvedimenti autorizzativi dei benefici di
cui al presente articolo, consentendo l’erogazione dei medesimi nei limiti dei complessivi oneri indicati al
comma 1, ovvero, se determinati,
nei limiti di spesa specifici stabiliti
con il decreto di cui al comma 3,
comunicandone le risultanze al Ministero del lavoro, della salute e
delle politiche sociali e al Ministero
dell’economia e delle finanze.
5. Con effetto dal 1 gennaio
2009 sono soppressi i commi da 7 a
12 dell’articolo 13 del decreto-legge
14 marzo 2005, n. 35, convertito
con modificazioni dalla legge 14
maggio 2005, n. 80.
5-bis. Al fine di assicurare il
mantenimento dei livelli occupazionali e dei collegamenti internazionali occorrenti allo sviluppo del sistema produttivo e sociale delle aree
interessate, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto
con il Ministro degli affari esteri,
entro trenta giorni dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, promuove la definizione di nuovi accordi bilaterali nel settore del trasporto aereo, nonché la modifica di
quelli vigenti, al fine di ampliare il
numero dei vettori ammessi a operare sulle rotte nazionali, internazionali e intercontinentali, nonché
ad ampliare il numero delle frequenze e destinazioni su cui è consentito operare a ciascuna parte,
dando priorità ai vettori che si impegnino a mantenere i predetti livelli occupazionali. Nelle more del
perfezionamento dei nuovi accordi
bilaterali o della modifica di quelli
vigenti, l’Ente nazionale per l’aviazione civile, al fine di garantire al
Paese la massima accessibilità internazionale e intercontinentale diretta, rilascia ai vettori che ne fanno
richiesta autorizzazioni tempora-
176
nee, la cui validità non può essere
inferiore a diciotto mesi.
6. Per le finalità di cui al presente
articolo si provvede per 35 milioni di
euro per l’anno 2009 a carico delle
disponibilità del Fondo per l’occupazione di cui all’articolo 1, comma 7,
del decreto-legge 20 maggio 1993,
n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236,
il quale, per le medesime finalità, è
altresì integrato di 254 milioni di
euro per l’anno 2009, di 304 milioni
di euro per ciascuno degli anni 2010
e 2011 e di 54 milioni di euro a decorrere dall’anno 2012. Al relativo
onere si provvede:
a) mediante versamento in entrata al bilancio dello Stato da parte
dell’INPS di una quota pari a 100
milioni di euro per l’anno 2009 e a
150 milioni di euro per ciascuno
degli anni 2010 e 2011 delle entrate
derivanti dall’aumento contributivo
di cui all’articolo 25 della legge 21
dicembre 1978, n. 845, con esclusione delle somme destinate al finanziamento dei fondi paritetici interprofessionali per la formazione di
cui all’articolo 118 della legge 23
dicembre 2000, n. 388, a valere in
via prioritaria sulle somme residue
non destinate alle finalità di cui
all’articolo 1, comma 72, della legge
28 dicembre 1995, n. 549 e con
conseguente adeguamento, per ciascuno degli anni considerati, delle
erogazioni relative agli interventi a
valere sulla predetta quota;
b) mediante le economie derivanti dalla disposizione di cui al comma
5, pari a 54 milioni di euro a decorrere dall’anno 2009;
c) mediante utilizzo per 100 milioni di euro per ciascuno degli anni
2009, 2010 e 2011 delle maggiori
entrate di cui al presente decreto.
7. Fermo restando che il riconoscimento del trattamento è subordinato all’intervento integrativo, il
sistema degli enti bilaterali eroga la
quota di cui al comma 1 fino a concorrenza delle risorse disponibili. I
contratti e gli accordi interconfederali collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei
Gazzetta
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datori di lavoro comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale stabiliscono le risorse minime
a valere sul territorio nazionale,
nonché i criteri di gestione e di rendicontazione, secondo le linee guida stabilite con il decreto di cui al
comma 3. I fondi interprofessionali per la formazione continua di cui
all’articolo 118 della legge 23 dicembre2000, n. 388, e successive
modificazioni, e i fondi di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 10
settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, possono destinare
interventi, anche in deroga alle disposizioni vigenti, per misure temporanee ed eccezionalianche di sostegno al reddito perl’anno 2009,
volte alla tutela dei lavoratori, anche con contratti di apprendistato
o a progetto, a rischio di perdita del
posto di lavoro ai sensi del regolamento (CE) n. 800/2008 della
Commissione, del 6 agosto 2008.
7-bis. Nel caso di mobilità tra i
fondi interprofessionali per la formazione continua di cui all’articolo
118 della legge 23 dicembre 2000,
n. 388, e successive modificazioni,
da parte dei datori di lavoro aderenti, la quota di adesione versata dal
datore di lavoro interessato presso
il fondo di provenienza deve essere
trasferita al nuovo fondo di adesione nella misura del 70 per cento del
totale, al netto dell’ammontare
eventualmente già utilizzato dal
datore di lavoro interessato per finanziare propri piani formativi, a
condizione che l’importo da trasferire per tutte le posizioni contributive del datore di lavoro interessato
sia almeno pari a 3.000 euro. Il
fondo di provenienza esegue il trasferimento delle risorse al nuovo
fondo entro novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte
del datore di lavoro, senza l’addebito di oneri o costi. Il fondo di provenienza è altresì tenuto a versare al
nuovo fondo, entro novanta giorni
dal loro ricevimento, eventuali arretrati successivamente pervenuti
dall’INPS per versamenti di competenza del datore di lavoro interessa-
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2 0 0 9
to. Entro novanta giorni dalla data
di entrata in vigore della legge di
conversione del presente decreto,
l’INPS rende disponibile, senza
nuovi o maggiori oneri a carico
della finanza pubblica, la procedura
che consente ai datori di lavoro di
effettuare il trasferimento della propria quota di adesione a un nuovo
fondo e che assicura la trasmissione
al nuovo fondo, a decorrere dal
terzo mese successivo a quello in cui
è avvenuto il trasferimento, dei
versamenti effettuati dal datore di
lavoro interessato.
8. Le risorse finanziarie destinate agli ammortizzatori sociali in
deroga alla vigente normativa, anche integrate ai sensi del procedimento di cui all’articolo 18 nonché
con le risorse di cui al comma 1
eventualmente residuate, possono
essere utilizzate con riferimento a
tutte le tipologie di lavoro subordinato, compresi i contratti di apprendistato e di somministrazione.
Fermo restando il limite del tetto
m assimo nonché l’unifor mit à
dell’ammontare complessivo di ciascuna misura di tutela del reddito di
cui al comma 1, i decreti di concessione delle misure in deroga possono modulare e differenziare le misure medesime anche in funzione
della compartecipazione finanziaria a livello regionale o locale ovvero in ragione della armonizzazione
delle misure medesime rispetto ai
regimi di tutela del reddito previsti
dal comma 1.
9. Nell’ambito delle risorse finanziarie destinate per l’anno 2009
alla concessione in deroga alla vigente normativa, anche senza soluzione di continuità, di trattamenti
di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale, nel caso di programmi finalizzati alla gestione di
crisi occupazionali, anche con riferimento a settori produttivi e ad
aree regionali, definiti in specifiche
intese stipulate in sede istituzionale
territoriale entro il 20 maggio 2009
e recepite in accordi in sede governativa entro il 15 giugno 2009, i
177
trattamenti concessi ai sensi dell’articolo 2, comma 521, della legge 24
dicembre 2007, n. 244, e successive
modificazioni, possono essere prorogati con decreto del Ministro del
lavoro, della salute e delle politiche
sociali, di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, qualora i piani di gestione delle eccedenze abbiano comportato una riduzione nella misura almeno del 10
per cento del numero dei destinatari dei trattamenti scaduti il 31 dicembre 2008. La misura dei trattamenti di cui al presente comma è
ridotta del 10 per cento nel caso di
prima proroga, del 30 per cento nel
caso di seconda proroga e del 40 per
cento nel caso di proroghe successive. I trattamenti di sostegno del
reddito, nel caso di proroghe successive alla seconda, possono essere
erogati esclusivamente nel caso di
frequenza di specifici programmi di
reimpiego, anche miranti alla riqualificazione professionale, organizzati dalla regione.
9-bis. In sede di prima assegnazione delle risorse destinate per
l’anno 2009, di cui al comma 9 del
presente articolo, nelle more della
definizione degli accordi con le regioni e al fine di assicurare la continuità di trattamenti e prestazioni, il
Ministero del lavoro, della salute e
delle politiche sociali assegna quota
parte dei fondi disponibili direttamente alle regioni ed eventualmente alle province.
10. Il diritto a percepire qualsiasi trattamento di sostegno al reddito, ai sensi della legislazione vigente
in materia di ammortizzatori sociali, è subordinato alla dichiarazione
di immediata disponibilità al lavoro
o a un percorso di riqualificazione
professionale, secondo quanto precisato dal decreto di cui al comma
3. In caso di rifiuto di sottoscrivere
la dichiarazione di immediata disponibilità ovvero, una volta sottoscritta la dichiarazione, in caso di
rifiuto di un percorso di riqualificazione professionale o di un lavoro
congruo ai sensi dell’articolo 1-quinquies del decreto-legge 5 ottobre
Gazzetta
F O R E N S E
2004, n. 249, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 dicembre
2004, n. 291, e successive modificazioni, il lavoratore destinatario
dei trattamenti di sostegno del reddito perde il diritto a qualsiasi erogazione di carattere retributivo e
previdenziale, anche a carico del
datore di lavoro, fatti salvi i diritti
già maturati.
10-bis. Ai lavoratori non destinatari dei trattamenti di cui all’articolo 7 della legge 23 luglio 1991,
n. 223, in caso di licenziamento,
può essere erogato un trattamento
di ammontare equivalente all’indennità di mobilità nell’ambito delle risorse finanziarie destinate per
l’anno 2009 agli ammortizzatori
sociali in deroga alla vigente normativa. Ai medesimi lavoratori la
normativa in materia di disoccupazione di cui all’articolo 19, primo
comma, del regio decreto 14 aprile
1939, n. 636, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 luglio 1939,
n. 1272, si applica con esclusivo
riferimento alla contribuzione figurativa per i periodi previsti dall’articolo 1, comma 25, della legge 24
dicembre 2007, n. 247.
11. In attesa della riforma degli
ammortizzatori sociali e comunque
non oltre il 31 dicembre 2009, possono essere concessi trattamenti di
cassa integrazione guadagni straordinaria e di mobilità ai dipendenti
delle imprese esercenti attività commerciali con più di cinquanta dipendenti, delle agenzie di viaggio e turismo, compresi gli operatori turistici, con più di cinquanta dipendenti, delle imprese di vigilanza con più
di quindici dipendenti, nel limite di
spesa di 45 milioni di euro per l’anno 2009, a carico del Fondo per
l’occupazione.
12. Nell’ambito delle risorse
indicate al comma 9, sono destinati 12 milioni di euro a carico del
Fondo per l’occupazione di cui
all’articolo 1, comma 7, del decretolegge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla
legge 19 luglio 1993, n. 236, alla
concessione, per l’anno 2009, ai
N O V IT à
LEGI S LATI V E
lavoratori addetti alle prestazioni di
lavoro temporaneo occupati con
contratto di lavoro a tempo indeterminato nelle imprese e agenzie di
cui all’articolo 17, commi 2 e 5,
della legge 28 gennaio 1994, n. 84,
e successive modificazioni, e ai lavoratori delle società derivate dalla
trasformazione delle compagnie
portuali ai sensi dell’articolo 21,
comma 1, lettera b), della medesima
legge n. 84 del 1994, e successive
modificazioni, diun’indennità pari
a unventiseiesimo del trattamento
massimo mensile di integrazione
salariale straordinaria previsto dalle vigenti disposizioni, nonché della
relativa contribuzione figurativa e
degli assegni per il nucleo familiare,
per ogni giornata di mancato avviamento al lavoro, nonché per le giornate di mancato avviamento al lavoro che coincidano, in base al
programma, con le giornate definite festive, durante le quali il lavoratore sia risultato disponibile. L’indennità è riconosciuta per un numero di giornate di mancato avviamento al lavoro pari alla differenza
tra il numero massimo di ventisei
giornate mensili erogabili e il numero delle giornate effettivamente lavorate in ciascun mese, incrementato del numero delle giornate di ferie, malattia, infortunio, permesso
e indisponibilità. L’erogazione dei
trattamenti di cui al presente comma da parte dell’INPS è subordinata all’acquisizione degli elenchi recanti il numero, distinto per ciascuna impresa o agenzia, delle giornate di mancato avviamento al lavoro,
predisposti dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in base
agli accertamenti effettuati in sede
locale dalle competenti autorità
portuali o, laddove non istituite,
dalle autorità marittime.
13. Per l’iscrizione nelle liste di
mobilità dei lavoratori licenziati per
giustificato motivo oggettivo da
aziende che occupano fino a quindici dipendenti, all’articolo 1, comma
1, primo periodo, del decreto-legge
20 gennaio 1998, n. 4, convertito,
con modificazioni, dalla legge 20
178
marzo 1998, n. 52, e successive
modificazioni, le parole: «31 dicembre 2008» sono sostituite dalle seguenti: «31 dicembre 2009» e le
parole: «e di 45 milioni di euro per
il 2008» sono sostituite dalle seguenti: «e di 45 milioni di euro per
ciascuno degli anni 2008 e 2009».
14. All’articolo 1, comma 2,
primo periodo, del decreto-legge 20
gennaio 1998, n. 4, convertito, con
modificazioni, dalla legge 20 marzo
1998, n. 52, e successive modificazioni, le parole: «31 dicembre 2008»
sono sostituite dalle seguenti: «31
dicembre 2009». Ai fini dell’attuazione del presente comma, è autorizzata, per l’anno 2009, la spesa di 5
milioni di euro a valere sul Fondo
per l’occupazione.
15. Per il rifinanziamento delle
proroghe a ventiquattro mesi della
cassa integrazione guadagni straordinaria per cessazione di attività, di
cui all’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 5 ottobre 2004, n. 249,
convertito, con modificazioni, dalla
legge 3 dicembre 2004, n. 291, e
successive modificazioni, sono destinati 30 milioni di euro, per l’anno
2009, a carico del Fondo per l’occupazione.
16. Per l’anno 2009, il Ministero
del lavoro, della salute e delle politiche sociali assegna alla società Italia
Lavoro Spa 13 milioni di euro quale
contributo agli oneri di funzionamento e ai costi generali di struttura.
A tale onere si provvede a carico del
Fondo per l’occupazione.
17. All’articolo 118, comma 16,
della legge 23 dicembre 2000,
n. 388, e successive modificazioni,
le parole: «e di 80 milioni di euro
per l’anno 2008» sono sostituite
dalle seguenti: «e di 80 milioni di
euro per ciascuno degli anni 2008 e
2009».
18. Nel limite di spesa di 2 milioni di euro per l’anno 2009, ai soggetti beneficiari delle provvidenze del
Fondo di cui all’articolo 81, comma
29, del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008,
n. 133, è altresì riconosciuto il rim-
Gazzetta
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borso delle spese occorrenti per l’acquisto di latte artificiale e pannolini
per i neonati di età fino a tre mesi.
Con decreto del Ministro del lavoro,
della salute e delle politiche sociali,
di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare
entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, sono
stabilite le modalità di attuazione
del presente comma.
18-bis. In considerazione del
rilievo nazionale e internazionale
nella sperimentazione sanitaria di
elevata specializzazione e nella cura
delle patologie nel campo dell’oftalmologia, per l’anno 2009 è autorizzata la concessione di un contributo di 1 milione di euro in favore
della Fondazione «G.B. Bietti» per
lo studio e la ricerca in oftalmologia, con sede in Roma. All’onere
derivante dal presente comma si
provvede a carico del Fondo per
l’occupazione di cui all’articolo 1,
comma 7, del decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con
modificazioni, dalla legge 19 luglio
1993, n. 236.
18-ter. Alla legge 5 agosto 1981,
n. 416, e successive modificazioni,
sono apportate le seguenti modificazioni:
a) all’articolo 37:
1) al comma 1, lettera b), le parole: «Ministero del lavoro e della
previdenza sociale» sono sostituite
dalle seguenti: «Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, di concerto con il Ministero
dell’economia e delle finanze, sulla
base delle risorse finanziarie disponibili»; 2) dopo il comma 1 è inserito il seguente:
«1-bis. L’onere annuale sostenuto dall’INPGI per i trattamenti di
pensione anticipata di cui al comma
1, lettera b), pari a 10 milioni di
euro annui a decorrere dall’anno
2009, è posto a carico del bilancio
dello Stato. L’INPGI presenta annualmente al Ministero del lavoro,
della salute e delle politiche sociali
la documentazione necessaria al
fine di ottenere il rimborso degli
M ARZO • APRILE
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2 0 0 9
oneri fiscalizzati. Al compimento
dell’età prevista per l’accesso al
trattamento di pensione di vecchiaia ordinaria da parte dei beneficiari
dei trattamenti di cui al primo periodo, l’onere conseguente è posto
a carico del bilancio dell’INPGI,
fatta eccezione per la quota di pensione connessa agli scivoli contributivi, riconosciuti fino ad un massimo di cinque annualità, che rimane
a carico del bilancio dello Stato».
b) all’articolo 38, comma 2, la lettera b) è abrogata.
18-quater. Gli oneri derivanti
dalle prestazioni di vecchiaia anticipate per i giornalisti dipendenti
da aziende in ristrutturazione o riorganizzazione per crisi aziendale,
di cui all’articolo 37 della legge 5
agosto 1981, n. 416, come da ultimo modificato dal comma 18-ter
del presente articolo, pari a 10 milioni di euro annui a decorrere
dall’anno 2009, sono posti a carico
delle disponibilità del fondo di cui
all’articolo 18, comma 1, lettera a),
del presente decreto.
Art. 19-ter
Indennizzi per le aziende
commerciali in crisi 1. L’indennizzo di cui all’articolo
1 del decreto legislativo 28 marzo
1996, n. 207, è concesso, con le
medesime modalità ivi previste, a
tutti i soggetti che si trovano in possesso dei requisiti di cui all’articolo
2 del medesimo decreto legislativo
nel periodo compreso tra il 1 gennaio 2009 e il 31 dicembre 2011.
2. L’aliquota contributiva di cui
all’articolo 5 del decreto legislativo
28 marzo 1996, n. 207, dovuta
dagli iscritti alla gestione dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli esercenti attività commerciali presso l’Istituto nazionale
della previdenza sociale, è prorogata, con le medesime modalità, fino
al 31 dicembre 2013.
3. Le domande di cui all’articolo
7 del decreto legislativo 28 marzo
1996, n. 207, possono essere presentate dai soggetti di cui al comma
1 entro il 31 gennaio 2012.
4. L’indennizzo di cui al decreto
legislativo 28 marzo 1996, n. 207, è
erogato agli aventi diritto fino al
momento della decorrenza del trattamento pensionistico di vecchiaia. TITOLO V
DISPOSIZIONI FINANZIARIE
Art. 30.
Controlli sui circoli privati
1. I corrispettivi, le quote e i
contributi di cui all’articolo 148 del
testo unico delle imposte sui redditi,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre
1986, n. 917, e all’articolo 4 del
decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 non
sono imponibili a condizione che gli
enti associativi siano in possesso dei
requisiti qualificanti previsti dalla
normativa tributaria e, ad esclusione delle organizzazioni di volontariato iscritte nei registri regionali di
cui all’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, in possesso dei
requisiti di cui al comma 5 del presente articolo, trasmettano per via
telematica all’Agenzia delle entrate,
al fine di consentire gli opportuni
controlli, i dati e le notizie rilevanti
ai fini fiscali mediante un apposito
modello da approvare entro il 31
gennaio 2009 con provvedimento
del Direttore dell’Agenzia delle entrate.
2. Con il medesimo provvedimento del Direttore dell’Agenzia
delle entrate sono stabiliti i tempi e
le modalità di trasmissione del modello di cui al comma 1, anche da
parte delle associazioni già costituite alla data di entrata in vigore del
presente decreto, ad esclusione delle organizzazioni di volontariato
iscritte nei registri regionali di cui
all’articolo 6 della legge 11 agosto
1991, n. 266, in possesso dei requisiti di cui al comma 5 del presente
articolo, nonché le modalità di comunicazione da parte dell’Agenzia
delle entrate in merito alla completezza dei dati e delle notizie tra-
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smessi ai sensi del comma 1.
3. L’onere della trasmissione di
cui al comma 1 è assolto anche dalle società sportive dilettantistiche di
cui all’articolo 90 della legge 27
dicembre 2002, n. 289.
3-bis. Le disposizioni di cui al
comma 1 non si applicano alle associazioni pro loco che optano per
l’applicazione delle norme di cui
alla legge 16 dicembre 1991, n. 398,
e agli enti associativi dilettantistici
iscritti nel registro del Comitato
olimpico nazionale italiano che non
svolgono attività commerciale.
4. All’articolo 10 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460,
dopo il comma 2 è inserito il
seguente:«2-bis. Si considera attività
di beneficenza, ai sensi del comma 1,
lettera a), numero 3), anche la con-
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cessione di erogazioni gratuite in
denaro con utilizzo di somme provenienti dalla gestione patrimoniale o
da donazioni appositamente raccolte, a favore di enti senza scopo di
lucro che operano prevalentemente
nei settori di cui al medesimo comma
1, lettera a), per la realizzazione diretta di progetti di utilità sociale».
5. La disposizione di cui all’articolo 10, comma 8, del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, si
applica alle associazioni e alle altre
organizzazioni di volontariato di
cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266
che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali individuate con decreto del Ministro
delle finanze 25 maggio 1995, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
n. 134 del 10 giugno 1995.
180
5-bis. Al comma 2 dell’articolo
10 del testo unico delle disposizioni
concernenti le imposte ipotecaria e
catastale, di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347, e successive modificazioni, le parole:
«quarto e quinto periodo» sono
sostituite dalle seguenti: «quarto,
quinto e nono periodo».
5-ter. Le norme di cui al comma
5-bis si applicano fino al 31 dicembre 2009.
5-quater. Agli oneri derivanti
dall’attuazione dei commi 5-bis e
5-ter, pari a 3 milioni di euro per
l’anno 2009, si provvede mediante
riduzione lineare degli stanziamenti di partecorrente relativi alle autorizzazioni di spesa come determinate dalla Tabella C allegata alla legge
22 dicembre 2008, n. 203.
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